IL PAPA

Il Papa

[Giacomo Bertetti: “Il Sacerdote Predicatore”- S.E.I. ED. Torino, 1919)

.1. Chi è il Papa. — 2. Il nostro dovere.

1.- CHI È IL PAPA. — Il Papa non è un angelo:… è un uomo composto come noi d’anima e di corpo;… nato come noi col peccato originale,… sottoposto come noi alle conseguenze del peccato originale,… può come noi peccare, e peccare anche gravemente;… è Pietro … Ma quel Dio che elegge le cose stolte del mondo per confondere i sapienti, e le cose deboli del mondo per confondere le forti, e le ignobili cose del mondo e le spregevoli e quelle che non sono per distruggere quelle che sono, affinché nessuna carne si dia vanto innanzi a lui » (la Cor., 1, 27 – 29) , ha fatto di Pietro la pietra fondamentale della Chiesa; .., «.Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei; e a te darò le chiavi del regno dei cieli; e qualunque cosa avrai legato sopra la terra sarà legata anche nei cieli, e qualunque cosa avrai sciolto sopra la terra, sarà sciolta anche nei cieli » (MATTH. , 16, 18, 19) Una casa non può sussistere senza fondamenta:… e così per volontà di Dio non potrebbe sussistere la Chiesa senza il Papa, che n’è la pietra fondamentale… Tutt’i fedeli sono parti di quella Chiesa ch’è fondata su Pietro, finché rimangono uniti col Papa; … ove se ne scostassero, cesserebbero di far parte della Chiesa… Lontani dal Papa, s’è lontani dai Sacramenti, lontani dalla grazia santificante, lontani dalla verità, lontani dalla salvezza eterna… A Pietro soltanto Gesù diede il potere supremo di pascere gli agnelli e le pecorelle del mistico ovile (JOAN. , XII, 15-17,);… e chiunque ci si presentasse a parlarci di Dio e delle cose celesti, senza essere mandato dal Papa, lo dovremmo riguardare come un ladro e come un assassino dell’anima; … « In verità, in verità vi dico: chi non entra nell’ovile per la porta, ma vi sale per altra parte, è ladro e assassino » ( JOAN., X, 1). Nel mistero dell’Incarnazione la natura divina e la natura umana furono riunite in una sola persona;… nell’opera della santificazione la persona umana e le persone divine si uniscono in una sola natura, poiché Dio per mezzo di Gesù Cristo « fece a noi dono di grandissime e preziose promesse, affinchè per queste diventaste partecipi nella divina natura » (2a PETR., 1, 4 ) … E questa partecipazione della divina natura proviene in noi dalla spirituale unione con Cristo (la Cor., VI, 15; Ephes., III, 17; V, 30);… dall’adozione in figli di Dio (JOAN., 1, 12; 1a JOAN., IV, 7); … dall’abitazione dello Spirito Santo in noi (la Cor., III, 16, 17);… dall’imitazione della bontà e della santità di Dio (Ephes., V, 8)… — Ma al Papa, e al Papa soltanto, è stata concessa una partecipazione tutta speciale della divina natura, a beneficio di tutt’i fedeli;… la partecipazione dell’eterna verità, per cui, quando in materia di fede e di costumi ammaestra tutta la Chiesa, qual supremo suo pastore e dottore, dandone un giudizio definitivo, gode di quella medesima infallibilità, di cui Cristo volle adorna la Chiesa… Pietra fondamentale della Chiesa, principio d’unità e di fermezza del mistico edificio e pastore supremo dell’ovile di Cristo, deve sostenere quel regno ch’è anzitutto regno di verità e congregazione di credenti; deve somministrare il pascolo d’eterna salute al gregge; deve con sicura mano esercitare il potere delle somme chiavi, mettendo la terra in diretta comunicazione col cielo… Dell’infallibile magistero di Pietro abbiamo l’esplicita, formale e assoluta promessa di Gesù Cristo: « Simone, Simone, ecco che satana va in cerca di voi per vagliarvi, come si fa del grano; ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno: e tu una volta ravveduto conferma i tuoi fratelli» (Luc., XXII, 31, 32).

2.- IL NOSTRO DOVERE. -— Se il Papa è la pietra fondamentale della Chiesa, se è il Pastore dei Pastori, se è il Vicario di Gesù Cristo, se è il Maestro infallibile, se fuori di lui non si può aver salute, dobbiamo starcene con lui strettamente uniti, per la vita e per la morte… Dobbiamo dirgli con le opere ciò che Pietro disse a Gesù, quando Gesù disse ai dodici apostoli: « Volete forse andarvene anche voi? » — « Signore, a chi andremo noi? tu hai parole di vita eterna» (JOAN. ,VII, 68, 69)… Consideriamo qual sarebbe la nostra angustia, se il Signore ci avesse lasciati in questo mondo pieno d’errori e d’iniquità senza un Capo visibile della Chiesa, il quale fa conservare intemerato il deposito della fede?… come faremmo ad accertarci d’essere sulla via della salute? … come faremmo ad accertarci se siano veramente pastori quei che ci predicano Dio e la sua legge, e se per essi debbonsi veramente applicare quelle parole: « Chi ascolta voi ascolta me; e chi disprezza voi disprezza me; e chi disprezza me, disprezza chi m’ha mandato »? (Luc,, X, 16) –

Dobbiamo al Papa il più grande rispetto, come la più grande autorità dopo Dio … Se i semplici sacerdoti « debbono essere per noi a ragione non solo più formidabili dei potenti e dei sovrani, ma ancora più venerandi dei nostri padri, perché questi ci hanno generato dal sangue e dalla volontà della carne, mentre quelli sono per noi autori del nascimento da Dio, della beata rigenerazione, della vera libertà e dell’adozione secondo la grazia» (S. Giov. CRIS., De sacerd., 3), che sarà del Sommo Pontefice, da cui unicamente deriva la potestà dell’ordine e della giurisdizione sovra gli altri sacerdoti?… — Rispettiamo il Santo Padre, … il Padre della nostra vita spirituale … Non tocca ai figli il giudicare i difetti e le mancanze del padre, anche quando paressero evidenti e inescusabili … tocca ai figli stendere sul padre quel velo di carità che pur siamo obbligati a stendere su qualsiasi nostro fratello:… facendo altrimenti saremmo maledetti da Dio (Gen.., IX, 25)… Che dire poi di coloro che prestano cieca fede alle maligne dicerie sparse intorno ai Papi da uomini senza timor di Dio, da uomini venduti ai nemici della Chiesa?… Che dire di coloro che sono soliti a leggere senza alcun rimorso di coscienza libri e giornali spiranti odio e disprezzo contro il Papa?

Dobbiamo obbedire al Papa... È la più grande autorità di questa terra;., gli stessi sovrani sono soggetti alla sua spirituale giurisdizione;… e chiunque non obbedisce al Papa, non obbedisce a Gesù Cristo, non obbedisce a Dio … Se l’Apostolo, parlandoci dell’ubbidienza che dobbiamo prestare alle autorità secolari, ebbe a scrivere: « Ogni anima sia soggetta alle podestà superiori; poiché non c’è podestà se non da Dio, e quelle che ci sono, son da Dio ordinate: e perciò chi s’oppone alla podestà, resiste all’ordinazione di Dio; e quei che resistono, si comprano la dannazione » (Rom., XIII, 1, 2), quanto maggior obbedienza non dobbiamo noi prestare al Vicario di Gesù Cristo! … — Ubbidiamo al Papa, non solo nelle cose di fede, ma anche nelle cose di semplice disciplina;… chi non gli ubbidisce nelle cose di fede è un eretico, uno scomunicato;… ma chi non gli ubbidisce nelle cose disciplinari, è pur sempre un ribelle, un figlio indocile e cattivo; … e all’inferno si può andare non solo per i peccati commessi contro la fede, ma anche per i peccati commessi contro qualsiasi altra virtù… —- Ubbidiamo al Papa, accettando con filiale sottomissione gli ordini ch’ei ci comunica mediante i Vescovi, i parroci, i sacerdoti;… pretendere che il Papa parli singolarmente a ciascuno di noi sarebbe stoltezza, e superbia inaudita l’interpretare la volontà del Papa dalle ciance degl’increduli e dei cattivi  cristiani, piuttosto che dalla voce dei legittimi pastori… — Ubbidiamo al Papa non solo con l’ubbidienza dell’opera, facendo ciò che ci viene comandato;… non solo con l’ubbidienza della volontà, conformandola a quella del Papa; … ma anche con l’ubbidienza dell’intelletto, conformando il nostro giudizio con quello del Papa, in modo da ritenere come cosa migliore di qualsiasi altra ciò che il Papa ci comanda… Basta un po’ d’umiltà e un po’ di fede per raggiungere quest’ubbidienza intera e perfetta, … considerando che il Papa si trova in un luogo molto più elevato di quello in cui ci troviamo noi, per giudicare quello che meglio si convenga alla gloria di Dio e alla salute delle anime.

Dobbiamo amare il PapaAnzitutto con la nostra perfetta ubbidienza: … un padre sa d’essere amato sinceramente dai figli, quando li vede docili ai suoi voleri; … allora spariscono per lui le difficoltà e le amarezze, e nell’obbedienza dei figli trova il più caro compenso e la più forte spinta nel continuare a sacrificarsi per loro:… « Siate ubbidienti ai vostri superiori e siate loro soggetti (poiché essi vigilano, come dovendo rendere conto delle anime vostre), affinché ciò facciano con gaudio e non sospirando » (Hebr., XIII, 17)… Quanto deve il Papa sospirare non solo per la guerra mossagli dai nemici, ma ancora per la pervicacia di molti figli, i quali fìngono di non udire e di non comprendere ciò ch’egli prescrive per il loro vantaggio!… —- Amiamo il Papa, pregando per lui e secondo le sue sante intenzioni; … soccorrendo la sua augusta povertà;… favorendo le opere buone da lui raccomandate;… difendendolo contro le ingiurie e le calunnie dei tristi … — Amiamo il Papa, prendendo viva parte alle sue gioie e a’ suoi dolori;… le gioie e i dolori del Papa son gioie e dolori di tutta la Chiesa;… chi ne rimanesse insensibile, chi ne facesse conto come di cosa estranea, chi non considerasse come suoi gl’interessi del Papa, denoterebbe d’essere indegno del nome cristiano, della grazia di Dio e della gloria eterna… «Se un membro soffre, soffrono insieme tutt’i membri; e se un membro gode, godono insieme tutti gli altri: ora voi siete corpo di Cristo e membri uniti a membro » (la Cor., XII, 26, 27); … un membro che non gode o non Soffre quando gode o soffre il capo, non è più un membro vivo, ma è un membro morto …

[Oggi ancor di più, abbiamo il dovere di amare il Santo Padre, ben visibile ma esiliato ed impedito nel suo legittimo ufficio pastorale e magisteriale, perseguitato insieme alla gerarchia apostolica della Chiesa “eclissata”, anch’essa in esilio e sparsa sui 5 continenti, irriso da apostati, eretici, scismatici di ogni risma aderenti a ridicole ed illegittime chiesuole e ad immaginari monasteri, da atei e settari di ogni razza ed obbedienza, da idolatri ed adoratori del baphomet-lucifero. Terribile deve essere il suo Getsemani, abbandonato e sofferente in ogni attimo della sua vita, in costante pericolo ma fiducioso sempre perché assistito dalla grazia divina che giammai permetterà che le porte dell’inferno prevalgano sulla Chiesa di Cristo e sulla sua “Pietra”, pietra sulla quale è fondato l’intero edificio divino voluto dal Padre ed eretto dal Figlio Gesù-Cristo sul Golgota. A noi “pusillus grex” il compito arduo ma ineludibile di pregare e sostenere, come ognuno può, secondo i propri mezzi e possibilità, il Vicario di Cristo in questo momento cruciale per la storia della Chiesa e dell’umanità intera – ndr.-].

  Successori di San Pietro:

San Pietro m. 67
San Lino 67-76
San Anacleto I 76-88
San Clemente I 88-97
San Evaristo 97-105
San Alessandro I 105-115
San Sisto I 115-125
San Telesforo 125-136
San Igino 136-140
San Pio I 140-155
San Aniceto 155-166
San Sotero 166-175
San Eleuterio 175-189
San Vittore I 189-199
San Zefirino 199-217
San Callisto I 217-222
San Urbano I 222-230
San Ponziano 230-235
San Antero 235-236
San Fabiano 236-250
San Cornelio 251-253
San Lucio I 253-254
San Stefano I 254-257
San Sisto II 257-258
San Dionisio 260-268
San Felice I 269-274
San Eutichiano 275-283
San Caio 283-296
San Marcellino 296-304
San Marcello I 308-309
San Eusebio 309(310)
San Milziade 311-314
San Silvestro I 314-335
San Marco 336
San Giulio I 337-352
Liberio 352-366
San Damaso I 366-383
San Siricio384-399
San Anastasio I 399-401
San Innocenzo I 401-417
San Zosimo 417-418
San Bonifacio I 418-422

San Celestino I 422-432
San Sisto III 432-440
San Leone Magno  440-461
San Ilario 461-468
San Simplicio 468-483
San Felice III 483-492
San Gelasio I 492-496
Anastasio II 496-498
San Simmaco 498-514
San Ormisda 514-523
San Giovanni I 523-526
San Felice IV 526-530
Bonifacio II 530-532
Giovanni II 533-535
San Agapito I 535-536
San Silverio 536-537
Vigilio 537-555
Pelagio I 556-561
Giovanni III 561-574
Benedetto I 575-579
Pelagio II 579-590
San Gregorio Magno 590-604
Sabiniano 604-606
Bonifacio III 607
San Bonifacio IV 608-615
San Deusdedit(Adeodato I) 615-618
Bonifacio V 619-625
Onorio I 625-638
Severino 640
Giovanni IV 640-642
Teodoro I 642-649
San Martino I 649-655
San Eugenio I 655-657
San Vitaliano 657-672
Adeodato (II) 672-676
Dono 676-678
San Agato 678-681
San Leone II 682-683
San Benedetto II 684-685
Giovanni V 685-686
Conone 686-687
San Sergio I 687-701
Giovanni VI 701-705
Giovanni VII 705-707
Sisinnio 708

Constantino 708-715
San Gregorio II 715-731
San Gregorio III 731-741
San Zaccaria 741-752
Stefano II 752
Stefano III 752-757
San Paolo I 757-767
Stefano IV 767-772
Adriano I 772-795
San Leone III 795-816
Stefano V 816-817
San Pasquale I 817-824
Eugenio II 824-827
Valentino 827
Gregorio IV 827-844
Sergio II 844-847
San Leone IV 847-855
Benedetto III 855-858
San Niccolò Magno 858-867
Adriano II 867-872
Giovanni VIII 872-882
Marino I 882-884
San Adriano III 884-885
Stefano VI 885-891
Formoso 891-896
Bonifacio VI 896
Stefano VII 896-897
Romano 897
Teodoro II 897
Giovanni IX 898-900
Benedetto IV 900-903
Leone V 903
Sergio III 904-911
Anastasio III 911-913
Lando 913-914
Giovanni X 914-928
Leone VI 928
Stefano VIII 929-931
Giovanni XI 931-935
Leone VII 936-939
Stefano IX 939-942
Marino II 942-946
Agapito II 946-955
Giovanni XII 955-963
Leone VIII 963-964
Benedetto V 964
Giovanni XIII 965-972
BenedettoVI 973-974
Benedetto VII 974-983
Giovanni XIV 983-984
Giovanni XV 985-996
Gregorio V 996-999
Silvestro II 999-1003
Giovanni XVII 1003
Giovanni XVIII 1003-1009
Sergio IV 1009-1012
Benedetto VIII 1012-1024
Giovanni XIX 1024-1032
Benedetto IX 1032-1045
Silvestro III 1045
Benedetto IX 1045
Gregorio VI 1045-1046
Clemente II 1046-1047
Benedetto IX 1047-1048
Damaso II 1048
San Leone IX 1049-1054
Vittorio II 1055-1057
Stefano X 1057-1058
Niccolò II 1058-1061
Alessandro II 1061-1073
San Gregorio VII 1073-1085
Beato Vittore III 1086-1087
Beato Urbano II 1088-1099
Pasquale II 1099-1118
Gelasio II 1118-1119
Callisto II 1119-1124
Onorio II 1124-1130
Innocenzo II 1130-1143
Celestino II 1143-1144
Lucio II 1144-1145
Beato Eugenio III 1145-1153
Anastasio IV 1153-1154
Adriano IV 1154-1159
Alessandro III 1159-1181
Lucio III 1181-1185
Urbano III 1185-1187
Gregorio VIII 1187

Clemente III 1187-1191
Celestino III 1191-1198
Innocenzo III 1198-1216
Onorio III 1216-1227
Gregorio IX 1227-1241
Celestino IV 1241
Innocenzo IV 1243-1254
Alessandro IV 1254-1261
Urbano IV 1261-1264
Clemente IV 1265-1268
Beato Gregorio X 1271-1276
Beato Innocenzo V 1276
Adriano V 1276
Giovanni XXI 1276-1277
Niccolò III 1277-1280
Martino IV 1281-1285
Onorio IV 1285-1287
Niccolò IV 1288-1292
San Celestino V 1294
Bonifacio VIII 1294-1303
Beato Benedetto XI 1303-1304
Clemente V 1305-1314
Giovanni XXII 1316-1334
Benedetto XII 1334-1342
Clemente VI 1342-1352
Innocenzo VI 1352-1362
Beato Urbano V 1362-1370
Gregorio XI 1370-1378
Urbano VI 1378-1389
Bonifacio IX 1389-1404
Innocenzo VII 1406-1406
Gregorio XII 1406-1415
Martino V 1417-1431
Eugenio IV 1431-1447
Niccolò V 1447-1455
Callisto III 1445-1458
Pio II 1458-1464
Paolo II 1464-1471
Sisto IV 1471-1484
Innocenzo VIII 1484-1492
Alessandro VI 1492-1503
Pio III 1503

Giulio II 1503-1513
Leone X 1513-1521
Adriano VI 1522-1523
Clemente VII 1523-1534
Paolo III 1534-1549
Giulio III 1550-1555
Marcello II 1555
Paolo IV 1555-1559
Pio IV 1559-1565
San Pio V 1566-1572
Gregorio XIII 1572-1585
Sisto V 1585-1590
Urbano VII 1590
Gregorio XIV 1590-1591
Innocenzo IX 1591
Clemente VIII 1592-1605
Leone XI 1605
Paolo V 1605-1621
Gregorio XV 1621-1623
Urbano VIII 1623-1644
Innocenzo X 1644-1655
Alessandro VII 1655-1667
Clemente IX 1667-1669
Clemente X 1670-1676
Beato  Innocenzo XI 1676-1689
Alessandro VIII 1689-1691
Innocenzo XII 1691-1700
Clemente XI 1700-1721
Innocenzo XIII 1721-1724
Benedetto XIII 1724-1730
Clemente XII 1730-1740
Benedetto XIV 1740-1758
Clemente XIII 1758-1769
Clemente XIV 1769-1774
Pio VI 1775-1799
Pio VII 1800-1823
Leone XII 1823-1829
Pio VIII 1829-1830
Gregorio XVI 1831-1846
Venerabile Pio IX 1846-1878
Leone XIII 1878-1903
San Pio X 1903-1914
Benedetto XV 1914-1922
Pio XI 1922-1939
Pio XII 1939-1958
Gregorio XVII 1958-1989
Gregorio XVIII 1991-Vivente

(Nota sul Papato in Esilio):

Il Cardinal Camerlengo di Gregorio XVII annunciò il Conclave il 3 giugno 1990: legalmente convocato questo si svolse a Roma il 2 Maggio del 1991 – Gregorio XVIII fu eletto il 3 Maggio del 1991.

Preghiere per il Santo Padre

-652-

Oremus prò Pontifice nostro (Gregorio).

R.. Dominus conservet eum, et vivificet eum, et beatum faciat eum in terra, et non tradat eum in animam inimicorum eius  [Ps. XL] (ex Brev. Rom.).

Pater, Ave.

Indulgentia trium annorum [tre anni]. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, precibus quotidie per integrum mensem devote recitatis  (S. C. Indulg., 26 nov. 1876; S. Pæn. Ap., 12 oct. 1931).

-653-

Oratio

O Signore, noi siamo milioni di credenti, che ci prostriamo ai tuoi piedi e ti preghiamo che Tu salvi, protegga e conservi lungamente il Sommo Pontefice, padre della grande società delle anime e pure padre nostro. In questo giorno, come in tutti gli altri, anche per noi egli prega, offrendo a te con fervore santo l’Ostia d’amore e di pace. Ebbene, volgiti, o Signore, con occhio pietoso anche a noi, che quasi dimentichi di noi stessi preghiamo ora soprattutto per lui. Unisci le nostre orazioni con le sue e ricevile nel seno della tua infinita misericordia, come profumo soavissimo della carità viva ed efficace, onde i figliuoli sono nella Chiesa uniti al padre. Tutto ciò ch’egli ti chiede oggi, anche noi te lo chiediamo con lui. – Se egli piange o si rallegra o spera o si offre vittima di carità per il suo popolo, noi vogliamo essere con lui; desideriamo anzi che la voce delle anime nostre si confonda con la sua. Deh! per pietà fa’ Tu, o Signore, che neppure uno solo di noi sia lontano dalla sua mente e dal suo cuore nell’ora in cui egli prega e offre a te il Sacrificio del tuo benedetto Figliuolo. E nel momento in cui il nostro veneratissimo Pontefice, tenendo tra le sue mani il Corpo stesso di Gesù Cristo, dirà al popolo sul Calice di benedizioni queste parole: « La pace del Signore sia sempre con voi», Tu fa’, o Signore, che la pace tua dolcissima discenda con una efficacia nuova e visibile nel cuore nostro ed in tutte le nazioni. Amen.

Indulgentia quingentorum (500 giorni) dierum semel in die (Leo XIII, Audientia 8 maii 1896; S. Pæn. Ap., 18 ian. 1934).

654

Oratio

Deus omnium fidelium pastor et rector, famulum tuum (Gregorium)., quem pastorem Ecclesiæ tuæ praeesse voluisti, propitius respice; da ei, quæsumus, verbo et exemplo, quibus præest, proficere; ut ad vitam, una cum grege sibi credito, perveniat sempiternam. Per Christum Dominum nostrum. Amen (ex Mìssali Rom.):

Indulgentia trìum annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo devota orationis recitatio, quotidie peracta, in integrum mensem producta fuerit (S. Pæn. Ap., 22 nov. 1934).

655

Oratio

Omnipotens sempiterne Deus, miserere famulo tuo Pontifici nostro (Gregorio)., et dirige eum secundum tuam clementiam in viam salutis æternæ: ut, te donante, tibi placita cupiat et tota virtute perficiat. Per Christum Dominum nostrum. Amen. (ex Rit. Rom.).

Indulgentia trium annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem oratio pia mente recitata fuerit (S. Pæn. Ap., 10 mart. 1935).

 

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (4), capp. V e VI

CAPITOLO V.

LA FLAGELLAZIONE.

Pena che s’infliggeva ai condannati a morte.— Particolarità circa i fasci ed i littori. — Numero e funzioni dei littori. — Diversi strumenti per la flagellazione. — Come venivano in diverse maniere impiegati secondo la qualità delle persone. — Episodio di S. Paolo e di Sila. Crudeltà romana nella flagellazione. — Uso regolato dalla legge presso gli Ebrei. — Il buon Ladrone flagellato secondo la legge dei Romani.

Gli alti magistrati romani erano sempre preceduti dai littori che portavano i fasci. Così si appellavano certi mazzi di verghe di pioppo, di frassino o salice lunghi circa un metro, legati insieme e sormontati da una scure. La composizione di questi fasci indica le due specie di pena, che nelle esecuzioni capitali erano inflitte al condannato: la flagellazione cioè, e la morte. Dal numero dei fasci conoscevasi la dignità del magistrato. I consoli ne avevano dodici; sei i Pretori, e ventiquattro il Dittatore. I littori erano mercenari addetti al servizio dei grandi magistrati. Diremo più innanzi d’onde erano tratti. Loro ufficio era 1.° di precedere i magistrati coi fasci, e di aprir loro il passo nella folla. Andavano essi non già alla rinfusa, o più insieme, ma ad uno ad uno in una sola linea: 2.° di flagellare i colpevoli: I, Lictor, adde plagas reo, et in eum lege age: « Va, o littore, flagella il colpevole, e su di lui esegui la legge, » Eraquesta la formula della sentenza: e appena che il magistrato 1’avea proferita, i Littori s’impadronivano del condannato, lo flagellavano, e se occorreva lo mettevano a morte colla scure. Il nome loro di Littori viene dal latino ligare, perché essi legavano le mani ed i piedi del condannato prima del supplizio. Come tutti i condannati a morte, Dima ebbe dapprima a subire la flagellazione. Cinque diversi istrumenti servivano all’uopo. Le verghe, virgæ, erano, come abbiamo già detto, dei rami flessibili della grossezza di un dito, e lunghi pressoché un metro. Noi le vediamo in uso ancor oggi nel Knout dei Russi, nella Schlague degli Alemanni, nel Rotin dei Cochincinesi. In Francia la flagellazione sotto il nome di frusta, fu in uso fino al cadere dello scorso secolo, e tuttavia si pratica nell’esercito Inglese. Per lungo tempo sui vascelli francesi quell’arnese che chiamasi la garcette ne ha conservata la tradizione. Le Cureggie, Loræ, erano strisce di cuoio tagliate in mezzo, e talvolta armate di piombo. La frusta, o staffile, Flagra, o il suo diminutivo Flagello, era composto di sottili corde annodate all’estremità. Era questo, sebbene di più forme, l’istrumento di correzione del padre nella sua famiglia, del maestro nella sua scuola, e del Littore nei tribunali. Le Mazze, o bastoni, Fustes: queste prendevano il nome di Scorpiones scorpioni, quando erano bastoni nodosi, perchè illividivano e laceravano al tempo stesso. Li vediamo spesso adoperati sulla persona dei Martiri. – I Nervi: erano essi nervi di bue, comunemente armati di piombo all’estremità. Si vede bene che per torturare i colpevoli, e troppo spesso anche gli innocenti, gli antichi, e segnatamente i Romani, avevano un copioso arsenale. Questi svariati strumenti di supplizio non erano già sempre messi tutti in uso. Variavano secondo la condizione del condannato, o secondo la disposizione del magistrato. Il meno ignobile erano le verghe, e si adoperavano con gli uomini liberi. Legalmente non potevasi in verun caso battere con esse un cittadino romano. Parecchie leggi, e segnatamente la legge Porcia e la Sempronia, espressamente il vietavano, e guai a chi avesse osato violarle. Da ciò lo spavento dei Magistrati di Filippi, quando seppero che S. Paolo, fatto da essi flagellare, era cittadino romano. Ricordiamo di passaggio questo episodio della vita del grande Apostolo, per mostrare anche una volta la concordanza della storia sacra con la profana. Nelle loro corse apostoliche, Paolo e Sila erano giunti a Filippi. Questa città della Macedonia, celebre per la decisiva battaglia, nella quale da Ottavio furon vinti e disfatti Bruto e Cassio repubblicani, contava tra i suoi abitanti un certo numero di Ebrei. Andando i due apostoli alla Sinagoga, una giovane Pitonessa li seguiva gridando: « Costoro son i servi dell’altissimo Dio, e vi annunziano la via della salute. » Paolo impietosito a lei si volge, e ne caccia lo spirito maligno. Ma i padroni di quella giovane, perdendo così la speranza del loro guadagno, prendono Paolo e Sila, o li conducono innanzi ai Magistrati, accusandoli come perturbatori della pubblica quiete. I Magistrati senza altro esame li fan battere con le verghe, e gettare in prigione. Sul far della mezzanotte, Paolo e Sila oravano; quando ad un tratto tremò la terra, e spontanee si schiusero le porte della prigione. Il carceriere spaventato e convertito, pregava i due apostoli a profittare della loro libertà; e condottili nella sua abitazione, si recò a render conto dell’avvenuto ai magistrati. Costoro avendo insieme deliberato, mandarono un littore a dirgli che desse pure la libertà ai due prigionieri. Il carceriere ne fa avvisato Paolo; ma il grande Apostolo, « E che? rispose; costoro han fatto pubblicamente flagellare noi cittadini romani senza pure ascoltarci, e ci han messi ai ferri; ed ora vogliono farci evadere segretamente? Ciò non sarà mai. Che eglino stessi vengano qua e ci rendano liberi. » Recatasi dal littore una tale risposta, i Magistrati furono altamente commossi nell’udire che eglino avevano fatto flagellare dei Cittadini romani ; e tremanti e confusi si recarono a chieder loro perdono dell’offesa; essi medesimi li trassero dalla prigione, pregandoli ad abbandonare la città. Il che fecero i due apostoli, non senza aver prima pubblicamente usato della libertà visitando i fratelli. [Act., XVI, 12-39]. – La più ignominiosa delle flagellazioni era quella dello staffile o frusta. Questa era la pena propria degli schiavi, e dei rei più insigni per gravità di delitti, onde eransi resi indegni d’ogni dritto dell’uomo libero. E qui siamo portati a fare una riflessione, la cui luminosa chiarezza pone in evidenza la missione del Salvatore, e la dismisura dell’amor suo per l’umana creatura. Per redimere l’uomo schiavo, il Figlio di Dio, rivestitosi della forma di schiavo, subir volle la flagellazione propria degli schiavi. [Baron., an. 34, n- 38-84. Corn. a Lap., in Maith., XXVII, 26]. La durezza che caratterizza i Romani, si appalesa nella loro legislazione, come nei loro costumi. Presso questo popolo, troppo ammirato, il numero delle battiture nella flagellazione non era determinato dalla legge. Rimettevasi all’arbitrio del magistrato, ed anche spesso al capriccio crudele degli esecutori della giustizia. Quindi è che uno dei grandi loro giureconsulti, Ulpiano, altamente si duole, che buon numero di rei, benché non condannati a morte, soccombevano alla flagellazione. Non avveniva Io stesso presso i Giudei. Nella loro legislazione penale la misericordia non era disgiunta dalla severità. Col dimostrarsi Giudice, il Signore non dimentica mai che è Padre. La flagellazione non doveva mai oltrepassare il numero di quaranta colpi. Ecco il testo del sacro Codice, che ci mostra la differenza che passa tra una legislazione divina, e le leggi uscite dal cervello di umani legislatori. « Se vedranno che colui che ha peccato sia degno di essere battuto, lo faranno distendere per terra, e lo faranno battere in loro presenza. La quantità delle battiture sarà secondo la misura del peccato: con questo però, che non passino il numero di quaranta, affinchè non abbia a ritirarsi il tuo fratello lacerato sconciamente sotto i tuoi occhi. » [Deuter., xxv, 2, 3].  Per non esporsi a violare la legge, i Giudei si arrestavano al trigesimo nono colpo. Questa religiosa precisione ci spiega le parole di S. Paolo: « Cinque volte dai Giudei ricevei quaranta colpi meno uno: [Iudeis quinquies quadragenas, una minus accepi. – II. Cor.24.]. – Si sa che Nostro Signor Gesù Cristo condannato non dai Giudei, che avevan perduto il diritto di morte, ma da Pilato, depositario della sovrana potenza, fu flagellato secondo la legge romana, vale a dire che ricevé un numero indeterminato di percosse [« Divit ergo eis Pilatus: Accipite eum vos, et secundum legem vestram judicate eum. Dixerunt ergo ludaei: Nobis non licet interfìcere quemquam. » Joan., XVIII, 31]. – Rivelazioni particolari le fanno ascendere a più centinaia. Giudicati dalla medesima autorità, Dima ed il suo compagno subir dovettero il supplizio medesimo. Tuttavolta tra essi ed il Figlio di Dio vi fu probabilmente un divario, che ci proponiamo di spiegare nel seguente capitolo.

CAPITOLO VI.

LA FLAGELLAZIONE.

(Continuazione)

Momento della flagellazione; prima di condurre il condannato al supplizio, o nell’atto che ve lo conducevano. — Testimonianze degli antichi.— Come la flagellazione si eseguiva.— Flagellazione durante il tragitto dalla prigione al luogo del supplizio, la più usitata. — Numerosi esempi degli autori pagani.— Ministri della flagellazione. — Particolarità storiche sugli abitanti del Piceno e della Calabria. — Essi sposano il partito di Annibale .— Sono condannati dai Romani ad essere i corrieri ed i frustatori pubblici.— Testimonianze di Strabone, di Aulo Gellio e di Festo. — Da chi fu flagellato il buon Ladrone.

La flagellazione aveva luogo o prima che il condannato fosse condotto al supplizio, o mentre vi si conduceva: « aut ante deductionem, aut in ipsa deductione. » Nel primo caso subiva quella pena o nella prigione o nel pretorio, vale a dire nella sala, ove era stato giudicato il reo. Alle parole di rito: Fa, o littore, e flagella il colpevole, era questi spogliato delle sue vesti, gli venian legate le mani dietro al dorso, e le braccia e i piedi attaccavano ad un palo, o ad una colonna. In questa posizione, le percosse cadevano su tutte le parti del di lui corpo, facevano scorrere il sangue, e cadere a brani le carni. Tranne la colonna, rimpiazzata da quattro pali, l’orribile supplizio è ancora usato in Oriente; ed oh! quante volte, nei pretori della Concincina e del Tonchino lo ebbero a subire i nostri eroici missionari! L’uso di flagellare prima di avviarsi al supplizio era il più antico, ma al tempo di Nostro Signore, il meno praticato. Se ne incontrano parecchi esempi presso i Pagani. Per una o per altra ragione, l’antico uso della flagellazione venne preferito riguardo al Figliuolo di Dio. La colonna che servì al crudele supplizio conservasi a Roma nella Chiesa di Santa Prassede, eterno monumento dell’infinito amore del Redentore, e della gravità del vergognoso peccato. Non v’ha testo alcuno dal quale possiamo rilevare che i due ladroni fossero flagellati prima di andare al Calvario. Poiché la flagellazione era di rito nelle condanne a morte, e segnatamente nelle crocifissioni, pare che per essi avesse luogo nel tragitto. Del rimanente, come già si è detto, era questa la pratica più usata. Or ecco in qual modo, secondo gli autori pagani, eseguivasi questo supplizio, la cui ignominia uguagliava la crudeltà. Spogliavasi il reo di tutte le vesti, specialmente se trattavasi di uno schiavo, mille volte talora meno colpevole del suo padrone, la cui crudeltà lo condannava a simili torture: gli si attaccava la croce sulle spalle, e alcuni carnefici andando innanzi lo tiravano con corde, mentre altri lo seguivano armati di staffile, con cui lo percuotevano senza cessa fino al luogo del supplizio. Noteremo qui la perfetta concordanza dell’Evangelio con la storia profana. « Gesù, dice il sacro testo, s ‘incamminava al Calvario portando la sua croce, bajulans sibi crucem; » e tal era infatti l’uso generale. « Ogni condannato, ci assicurano gli autori pagani, dovea portar la sua croce. » I buoni Romani talora si compiacevano di allungare il tragitto, e dei compagni del povero schiavo servirsi come di strumenti della loro atroce barbarie. « Un illustre Romano, racconta Dionigi di Alicamasso, avendo condannato a morte uno dei suoi schiavi, ordinò ai compagni della schiavitù di lui di esserne eglino stessi i carnefici trascinandolo al supplizio; e perché più desse negli occhi il castigo, caricandolo di percosse, gli facessero traversare non solo il Fòro, ma tutte le vie più frequentate della città. Quei che Io conducevano, gli ebbero distese e attaccate ambo le mani alla croce, legandogliela al petto ed alle spalle, in guisa che i bracci della croce si stendessero fino alle palme delle mani di lui. Gli altri schiavi che lo seguivano a colpi di staffile intanto gli laceravano il corpo completamente nudo. » [Antiq. Rom., lib VII]. –  Tito Livio e Cicerone raccontano fatti consimili senza una parola che esprima la pietà o il ribrezzo. « Roma, dice il primo, era al Circo; ed ecco che un padre di famiglia, prima che incominciassero i giuochi, fa traversare l’arena ad uno dei suoi schiavi col peso della croce sulle spalle, mentre in quell’atto subiva la flagellazione. » Pare che questo spettacolo doloroso fosse per i Romani un passatempo, perché essi volentieri ne facevano mostra al popolo. « Si conduceva, dice Cicerone, lo schiavo pel Circo, caricato della sua croce e lacerato dalle battiture. Arnobio aggiunge, che tal era l’uso comune. Bell’uso veramente, e ben degno di un popolo, veduto dal Profeta sotto la figura di bestia coi denti di acciaio! Se vogliamo adunque avere un’ idea della flagellazione dei due ladroni del Calvario, rappresentiamoci il sinistro corteggio avviato al luogo del supplizio. In mezzo a il una folla immensa di popolo che faceva ala a destra ed a sinistra della Via dolorosa, ecco venire innanzi le trombe che annunziavano l’arrivo dei condannati; e dopo quelle un araldo che proclamava i nomi e i delitti di essi; dietro a lui due uomini uno dei quali era Dima già vecchio, entrambi spogliati delle loro vesti, e carichi entrambi della loro croce attaccata alle spalle, colle mani stese fino air estremità delle braccia di essa croce, l’uno e l’ altro preceduti dai carnefici, che con funi li trascinavano, e dai manigoldi che senza tregua li flagellavano dal Pretorio di Pilato fino al Calvario, che è quanto dire per lo spazio di mille e trecento passi. Chi sa che un sì orribile supplizio, subito a fianco di Nostro Signore, non fosse per Dima il principio di un ritorno salutare sopra se stesso, e forse quel germe prezioso che era per svolgersi mirabilmente sulla vetta del Calvario! Checché ne sia, dobbiamo aggiungere che la condotta del nobile romano, che fece giustiziare il suo schiavo da altri schiavi, era un fatto eccezionale. Questo tristo ministero apparteneva ad altri. I romani avevano esecutori e frusta tori pubblici. Ma chi erano mai codesti uomini? e furono essi, rispetto a Nostro Signore e al Buon Ladrone, gli strumenti della giustizia romana? Sotto tre punti di vista, ci par degna di esame una tal questione. Dal punto di vista della storia generale, essa accenna a costumanze poco note dei popoli antichi. Dal punto di vista della storia particolare, ci svela una speciale circostanza del supplizio di Dima. E dal punto di vista religioso, tutto ciò che spetta al gran dramma del Calvario, è l’oggetto di una viva e nobile curiosità. Tutti conoscono la storia dei Gabaoniti. Questo piccolo popolo della terra di Canaan, vedendo come Giosuè per ordine di Dio trattava le vicine nazioni, pensò di sottrarsi a quella dura sorte. Riuniti in consiglio i seniori si appigliarono al seguente stratagemma. Presero dei commestibili, e caricarono sui loro asini dei sacelli vecchi, e degli otri di vino rotti e ricuciti, e dei calzari molto vecchi e rappezzati in segno di vecchiezza, e si vestirono di abiti molto usati: i pani eziandio ch’essi portavano pel viatico erano duri e sbriciolati. Si presentarono al generale degli Ebrei che era negli alloggiamenti a Galgala: e « Noi veniamo, gli dissero, da lontani paesi, attirati dalla fama delle tue imprese e bramosi di fare alleanza con te. Vedi: quando partimmo, i nostri pani erano caldi, e nuovi gli otri. Lo stesso era dei nostri calzari e dei nostri abiti, che ora sono rifiniti a causa del lungo e penoso viaggio. » Furono creduti, e si fece alleanza con essi. Ma tre giorni dopo la loro partenza, Giosuè venne a conoscere, che quei pretesi stranieri erano abitanti di un vicino paese: marciò contro essi, e prese di assalto la loro capitale Gabaon. Ma per rispetto alla fede giurata, risparmiò gli abitanti: e solamente per punirli dell’inganno condannò i Gabaoniti e tutti i loro discendenti a tagliare le legna, e portare l’acqua per servizio del popolo d’Israele [Gios. IX, 21]. – Questa tal condotta, che i diritti della guerra giustificano, fu dai romani imitata, quando Annibale vittorioso al Ticino, alla Trebbia e al Trasimeno, invece di correre direttamente su Roma per la valle dell’Umbria, impadronir si volle delle contrade prossime al mare. Il suo fine era quello di essere a portata di ricevere prontamente e senza ostacolo, soccorsi da Cartagine. Gli abitanti del Piceno e delle Calabrie Picentini e Brutii furono i primi ad arrendersi ed a sposare la sua fortuna: ma cacciato che fu Annibale dall’Italia, i Romani con esemplare castigo punirono quei due popoli, che avevan dato l’esempio della defezione. Lasciamo la parola agli autori pagani. « Picenzia, dice Strabone, era la città capitale dei Picentini; ma questi ora son sparsi per la campagna. Cacciati della loro città dai Romani per punirli della loro alleanza con Annibale, furono esclusi dal servizio militare, e insieme coi loro discendenti condannati ad essere i cursori e i tabellari della repubblica » Più umiliante fu la punizione del Bruzii [ora sono gli abitanti della Calabria]. Essi furono condannati ad essere i littori dei grandi magistrati della repubblica, ed erano loro assegnate parecchie funzioni che erano proprie degli schiavi. La più ignominiosa era quella di essere i pubblici frustatori. « Catone, dice Aulo Gellio, biasimando Quinto Termo, lo rimproverava per aver detto: I Decemviri hanno mal preparato il mio desinar; il perché li fece spogliare dei loro vestimenti, e flagellare. I Bruzii flagellarono i Decemviri, ed il popolo ne fu testimonio. E chi può sopportare una simile ingiuria, un simile affronto, un tale marchio di schiavitù? » – Come gli abitanti del Piceno, i Bruzii furono esclusi dalla milizia romana, e per giunta di pena obbligati a provvedere di littori la repubblica. Giunti che erano dal loro paese, venivano messi a disposizione dei magistrati, che s’inviavano nelle provincie. Essi li seguivano come quei servi che nelle commedie eran chiamati Lorarii, o frustatori, perché legavano e flagellavano quelli che eran dati loro in mano per esser puniti. Appartenevano forse a questo popolo di flagellatori ufficiali coloro che flagellarono Nostro Signore, Dima, e il suo compagno? Il Baronio non osa affermarlo, e noi non saremo più di quel dotto cardinale facili ad asserirlo. Diremo solo, che un simile insulto già da gran tempo si getta in faccia ai Calabresi. Secondo il testo di Aulo Geliio, certo è che fino a qualche anno avanti Nostro Signore, i Bruzìi eseguivano quel vergognoso officio: ed è certo egualmente che Pilato aveva i suoi littori, e che questi si reclutavano nel paese dei Bruzii. Tal era la regola generale. Che poi più tardi ed in molti casi, i soldati ed anche altre persone fossero addetti a quell’odioso ministero, la testimonianza di Tertulliano non ce ne fa dubitare. Ma siccome nella storia della Passione, noi vediamo da un canto che Nostro Signore fu flagellato, come lo furono i due ladroni; e dall’altro che non si parla punto di soldati, che prendessero parte alla flagellazione propriamente detta, parrebbe che si potesse conchiudere, che di quella ignominiosa pena i Bruzii fossero gli esecutori. [Vedi Baron. An. 34. n. 83.-84].

 

 

GLI ULTIMI GIORNI DI PIO VI

I PAPI IN ESILIO

[cioè i “veri” Papi, quelli che, secondo i demenziali tesisti ed i sedevacantisti acefali, sono … Papi “occulti” e che quindi … non hanno neppure l’ombra della cattolicità!]

GLI ULTIMI GIORNI DI PIO VI

[J.-J. Gaume, Catechismo di perseveranza, vol. III – Torino 1881]

Ma non bastava all’empietà di aver scemato la santa tribù; per annientare il sacerdozio, s’accinse a farne perire il Capo supremo. Possenti armate marciano per l’Italia, entrano a Roma, e s’impadroniscono ben tosto del venerabile Pontefice Pio VI. Uno scellerato entra nel palazzo del Papa, ritenuto in camera da una grave indisposizione, gli significa che non è più Re di Roma, ma che però la repubblica francese vuole assegnargli una pensione: « Io non ho mestieri di pensione, gli risponde dignitosamente il vicario di Gesù Cristo, un semplice bastone invece del pastorale basta alla mia qualità di pontefice: e basta un rozzo saio a chi deve spirare sulla cenere e sotto povere lane. Io adoro la mano dell’Onnipossente che punisce il pastore per le colpe del suo gregge; voi potete tutto sul mio corpo, ma l’anima mia è superiore ai vostri attacchi; voi potete distruggere le abitazioni dei vivi, ed anche le tombe dei trapassati, ma non distrarrete già la nostra santa Religione; essa sussisterà dopo di voi, dopo di me, siccome ha sussistito prima di noi, e si perpetuerà sino alla fine dei secoli ». Quegli a cui il Pontefice volgeva queste parole cosi nobili era un calvinista: nell’uscire, comanda al prelato che si trovava nell’anticamera del Papa, di andargli dire di preparasi a partire da Roma e che èra mestieri che l’indomani alle sei del mattino il Papa fosse in viaggio. Ma vedendo che il Prelato esitava ad incaricarsi della crudele ambasciata, entra egli stesso e notifica il fiero ordine a  Pio VI, che non poté frenarsi dal rispondere: « Io sono vecchio di ottantun anno, e sono stato cosi male questi due ultimi mesi, che mi credevo giunto agli estremi, ed ora appena comincio a riavermi. Del restò, io non posso abbandonare il mio popolo, né i miei doveri; lo voglio morir qui », a che il repubblicano rispose aspramente: «Voi morrete egualmente bene altrove: e se non posso determinarvi a partire, si adopreranno del mezzi di rigore per costringervi ». Quando fu uscito, il Papa si affrettò di andare a rianimare le sue forze ai piedi del crocifisso in una camera vicina, e ritornò poscia dicendo a coloro che lo servivano: « Dio lo vuole; prepariamoci a soffrire tutto ciò che ci destina la Provvidenza». – La notte dal 19 al 20 febbraio del 1798 vennero per toglierlo dal Vaticano. Pio VI volle prima ascoltare la santa Messa, che fu celebrata nella sua camera. Ma i soldati impazienti si sdegnano delle lentézze del sacerdote che offre il santo Sacrificio; e temendo che il popolò si sollevi contro di loro vogliono che Sua Santità sia fuori di Roma prima del crepuscolo; e con nuove bestemmie minacciano di trascinar fuori il Pontefice prima che la Messa sia terminata. Era infatti appena finita, due ore prima del giorno, che lo strappano dalla sua abitazione; ma siccome, a motivo della grave sua età, della sua debolezza e della paralisi che faceva notevoli progressi, non poteva camminare che a lenti passi, soprattutto nel discendere la scala del Vaticano, i satelliti furono arditi di sollecitarlo con parole, ed anche più brutalmente per affrettare il suo passo. – Finalmente, chiuso il Pontefice in una carrozza dei suoi domestici, io si trascinò precipitosamente. Già il 22 febbraio, giunto presso il lago di Bolsena, s’incontra in alcuni preti francesi che là si trovavano errando travestiti per la loro sicurezza chi da mendicante, e chi da soldato, con abiti che alcuni pietosi militari francesi loro avevano prestato. Allora più non ascoltando che il sentimento della riconoscenza e della fede, uno di loro si avvicina al momento della fermata. Pio VI, che lo conosceva, e conservava anche in mezzo ai suoi dolori la santa gioia rdi un’anima pura gli disse sorridendo. «Vi siete voi dunque fatto soldato?—Santo Padre, gli rispose, noi lo siamo tutti, e lo saremo sempre di Gesù Cristo, e di Pio VI. — Ma a quale stato siete voi ridotti? — È nostra gloria di essere al vostro séguito. — Ma dove andate voi? — Che volete, santo Padre, la pecorella segue le tracce del pastore; e se non possiamo sempre seguirvi, voi sarete sempre accompagnato dai nostri voti per la vostra conservazione. — Ebbene conservate là vostra forza ed il vostro coraggio. — Si, beatissimo Padre, noi ne abbiamo un sì grande esempio dinanzi agli occhi, che saremmo ben colpevoli, se non l’imitassimo ». La carrozza parte, ed il Papa è tolto ai loro omaggi; essa lo depone il 29 febbraio a Siena nel convento degli Agostiniani, dove dimora fino al 25 maggio. – Quivi può respirare alquanto, e l’uno dei sacerdoti ch’egli aveva lasciato a Bolsena, quegli che aveva avuto la fortuna di parlargli, è ammesso alla sua presenza. E siccome si mostrava inquieto pei suoi patimenti: « Io soffro, gli rispose il Padre con le parole di san Paolo, ma non sono però abbattuto: — Patiar, sed non confundor ». Questo sacerdote invidiata la sorte di monsignor Marotti, che in qualità di segretario per le lettere latine, non si separava più dal santo Padre; e lo paragonava a san  uhGerolamo incaricato già di somigliante uffizio presso del Papa  Damaso, perseguitate anch’esso per la fede: « Si, rispose Pio VI con la più commovente umiltà, ma il Papa Damaso era veramente un santo, ed io non sono che un povero peccatore. » – La facoltà che aveva il Papa di comunicare con i suoi sudditi, e soprattutto il timore che si volesse da alcuni approfittare della vicinanza del mare per procurargli l’evasione, più ancora che non un terremoto successo, decisero i sospettosi persecutori a trasportarlo in un convento di Certosini a poca distanza da Firenze. Siccome le persone pie sapevano ch’egli era sfornito di sussidi pecuniari, e che i suoi tiranni esigevano inoltre che pagasse le spese del suo viaggio, gli offrirono gualche somma. Il suo cuore fu sommamente commosso di queste offerte di cui la Religione aveva destato la genèrosità; ma egli godeva del pari di poterne far senza, attesoché la munificenza dei sovrani d’Europa aveva creduto esser dovuto alla sua dignità di sovrano il provvedere a tutti i suoi bisogni. Fra gli omaggi di questo genere che ricevette allora, uno ve n’ebbe il quale sta a riguardo del donatore, come dell’oggetto, formava un contrasto troppo forte colla barbara condotta dei nostri rivoluzionari per non arrecargli qualche consolazione. Questo dono consisteva in un calice d’argento colla sua patena; il quale aveva sul piede le armi della Francia da un lato, e dall’altro una piccola croce. Esso gli era mandato dal bey di Tunisi con queste parole: « Santissimo Padre, questi malvagi francesi che vi hanno tutto rapito, non vi lasciarono senza dubbio un calice, ed io vi prego di gradire quello che io mi reco a dovere e ad onore di offrirvi ». Chi non direbbe che le ceneri di san Cipriano esalassero allora un prodigioso profumo di cattolicità, sulle coste di Cartagine, e che gli Arabi più non venivano che dalle rive della Senna? Il Direttorio allarmato dall’affetto che ispirava Pio VI e dall’irruzione delle truppe austriache in Italia, mandò ordine di tradurlo in Francia. Ma intanto già la Sua paralisi faceva spaventosi progressi, ed egli soffriva moltissimo specialmente a motivo dei vescicanti richiesti dalla malattia, allorché, senza punto badare ai suoi mali, gli agenti francesi io tolsero bruscamente dalla Certosa per condurlo a dormire di là da Firenze in un albergo, d’Onde l’indomani lo si fece partire prima dei giorno. Qual nuovo supplizio pel Santo Pontefice di traversare, durante i quattro mesi che gli rimanevano di viaggio, tante città e villaggi agitati dalla febbre rivoluzionaria, ove s’innalza da ogni, parte l’albero infame della rivolta e dell’empietà; ove quasi ogni fronte ne porta il triplice colore, e quasi ogni voce ne profferisce furibonda le orrende bestemmie. Che cibi e che riposi sono mai quelli che gli si lascerà prendere nelle cattive fermate, che si fanno per riposare i trenta dragoni col loro comandante, alla cui guardia è affidatone doloroso tragitto? – Confessiamo nullameno che arrivando a Parma fu alquanto confortato dai rispettosi riguardi del comandante francese di quella città, il quale non ascoltando che il suo cuore, meritò dai Sommo Pontefice un ben lusinghiero contrassegno di riconoscenza. Intanto la salute del papa peggiorava ogni giorno più: e pareva che non si avesse potuto aver la barbarie di trascinarlo più oltre: allorché, a metà della notte, il capitano della sua scorta venne ad intimargli l’ordine di partire fra quattr’ore. Quest’ordine concepito nei termini più minacciosi, non era che l’effetto di un falso allarme dell’avvicinarsi degli Austriaci, da cui si temeva venisse liberato. – Il Santo Padre, che punto non se lo aspettava, oppose la deplorabile sua situazione all’obbligo di partire. Si chiamano i medici per dirne il loro parere, ed obbligati dal capitano repubblicano di alzare le coperte da letto per mostrargli ignudo quel corpo venerabile ammaccato e lacero dai vescicanti, dichiarano che il Pontefice corre rischio di spirar per istrada se viene di bel nuovo esposto alle fatiche del viaggio. L’ufficiale esce allora per pochi istanti e ritorna dicendo tirannicamente: « Bisogna che il Papa parta. vivo o morto ». – Difatti al mattino per tempissimo il santo vecchio fu messo in viaggio per Torino: sperava esso che quivi almeno sarebbe finito il suo viaggio, e che vi troverebbe convenevole albergo; ma quando si vide rilegato in cittadella, alzando gli occhi e le mani al cielo: « io andrò, disse, adorando i divini voleri, ovunque vorranno condurmi ». – Il posdomani a tre ore dopo mezzanotte lo fecero partire per Susa, e per trasportare di là delle Alpi l’augusto vegliardo che fino allora non si era potuto mettere in carrozza o farnelo discendere se non coll’aiuto di una seggiola pieghevole fatta di cuoio e di cinghie, lo si mette sopra di una specie di portantina, che non era altro che una grossolana barella. Ai prelati, siccome alle altre persone del suo seguito, vennero destinati dei muli per salire su per quei greppi. La comitiva viene diretta verso il terribile passaggio del Monginevra, ed il Santo Padre è portato sulla montagna. Per lo spazio di quattr’ore egli cammina sospeso sopra stretti sentieri tra un muro di undici piedi di neve e fra spaventevoli precipizi. Alcuni ussari piemontesi gli fanno offrire le loro pellicce per ripararlo dal freddo insopportabile che regna ancora in quella elevata regione; ma i mali della terra ornai non potevano più nulla su quell’anima celeste: esso li ringrazia dicendo: « Io non soffro punto, e punto non temo: la mano del Signore mi protegge sensibilmente tra tanti pericoli. Su via, miei figli, miei amici, coraggio! mettiamo la nostra fiducia in Dio ». – Con questi sentimenti egli già aveva messo il piede sulla terra francese. Dopo oltre sett’ore di sì penoso tragitto, arrivava finalmente a Brianzone dopo il mezzodì del 30 aprile, giorno di martedì. – Oh come questo grande Pontefice, insensibile al dolore, non fu sorpreso del pari che confortato al vedersi venire incontro tanti cittadini, che guidati dalla fede, in mezzo al più santo entusiasmo gli davano i più splendidi contrassegni di una sincera pietà! Essi meritarono di sentire per i primi questa esclamazione del Pontefice: In verità, io vi dico, che non ho trovato tanta fede in Israello! – Venne alloggiato all’ospedale, in una stretta ed incomoda stanza, vietandogli di affacciarsi alla sola finestra che avesse, e dichiarandogli ch’egli è in ostaggio per la repubblica. Ben tosto gli si fanno sentire altri crepacuori col togliergli la maggior parte dei suoi e mandarli come ostaggi a Grenoble. Presso il Santo Padre più non resta che il suo confessore il P. Fantini, col suo fedele aiutante di camera, chiamato Morelli: ma la sua rassegnazione è sempre uguale. Senonché le vittorie degli Austriaci in Italia ispirando al Direttorio il timore che venissero a rapire il Papa anche a Brianzone, ordinano che egli venga pure trasportato a Grenoble. Ed il Vicario di Gesù Cristo vi viene condotto in un modesto calesse a due posti, avendo ai suoi fianchi i due soli consolatori che gli furono lasciati. – Gli omaggi resigli dalla pietà dei Grenoblesi durante i tre giorni ch’ebbero la sorte di possederlo sono superiori ad ogni espressione; vollero tutti accompagnarlo allorché lo si fece partire per Valenza, dove giunse il 14 di luglio. All’avvicinarsi a guasta città, il Santo Padre vide, siccome aveva ariste lunghesso tutto il cammino, una moltitudine di fedeli accalcati e bramosi di domandargli la sua benedizione: ammirabile e confortevole contrasto con quei feroci repubblicani, che un anno prima in questo giorno anniversario del primo funesto trionfo della rivoluzione, avevano arso con molti altri ritratti, anche quello di Pio VI nella stessa Valenza! Il Pontefice fu alloggiato in casa del Governatore, il cui giardino sovrasta alle rive del Rodano, ma questa casa, chiusa essendo nella cittadella, l’amministrazione centrale del dipartimento della Dròme, che sedeva nella città dichiarò con atto solenne che il Papa si trovava in arresto. Quindi impose alle persone del suo seguito di nulla fare e di nulla dire al di fuori che potesse avere sembiante di pietà; venne interdetta ogni comunicazione tra il terrazzo del castello e quel del convento dei Francescani, ov’erano racchiusi trentadue sacerdoti fedeli, molti dei quali avevano provato la beneficenza del Papa durante il loro soggiorno di carcerazione in Italia. Da parte loro, essi ricevettero la più rigorosa proibizione di farsi avanti per procurar di vedere il loro augusto e santo benefattore, a cui fu perfino vietato di uscire dal ricinto del giardino per timore, come si diceva, che non eccitasse dei tumulti e degli attruppamenti. Nessuno poté giungere sino a lui senza un permesso in iscritto, di cui l’amministrazione si mostrò molto avara. – Intanto il Direttorio della repubblica francese era divenuto più moderato, dacché dei cinque suoi membri i tre singolarmente accaniti contro il Papa erano stati costretti a cedere il loro posto ad uomini più umani. Non si vedeva dunque più dominare nè Treilhard, nè Merlin (de Donai), né specialmente quel Laréveillère Lépaux, il quale con mezzi violenti e con salariare adepti tra i più abbietti rivoluzionari pretendeva stabilire l’assurda sua religione, col nome di Teofilantropia e che consisteva solamente nel far vista di amare Dio e gli uomini. Il Direttorio ricomposto in tal modo non inviava a ciascuno dei Commissari, che aveva in tutte le amministrazioni, se non se ordini e istruzioni pacifiche. Quegli, che apparteneva all’amministrazione della Dròme, giubilò di non riceverne delle contrarie ai sentimenti di rispetto, di cui lo avevano penetrato le virtù, l’età e la triste situazione del Pontefice; ma tutti gli altri amministratori, tranne un solo, conservando lo spirito e l’odio anticattolico di Laréveillère prevalsero sul Commissario di Parigi e continuarono a tormentare progressivamente Pio VI, fino a che egli discese nel sepolcro. – I rapidi progressi delle armate austriache e russe in Italia le avevano condotte quasi alla sommità della catena meridionale delle Alpi; il Direttorio spaventato credeva vederle calare sopra Valenza, onde la paura insinuandogli idee crudeli, comandò che il Papa fosse trasferito a Dijon; « ben inteso però, aggiunse egli, che il viaggio sia fatto a sue spese ». Proibiva anche espressamente di fermarsi a Lione, città rinomata per la sua zelante devozione alla santa Sede; ma quando l’ordine arrivò, l’ostacolo che le infermità del Santo Padre opponevano a tale traslazione si faceva insormontabile, ed egli stesso non più dubitò di esser giunto al suo fine. Alla vista del sepolcro, che si schiudeva davanti a lui, quella pastorale sollecitudine per tutte le Chiese, dalla quale era stato sempre animato, si spiegò più viva ed intensa. – In quel momento stesso in cui i suoi molti dolori lo avvertivano della morte vicina: « I miei patimenti fisici, ei disse, nulla sono in confronto delle angustie del mio cuore… i Cardinali, i Vescovi dispersi…! Roma, il mio popolo…! la Chiesa, ah! la Chiesa… ecco ciò che giorno e notte mi tormenta. In quale stato sono io per lasciarla! » Ei passa quasi le intere giornate a pregare; e nella notte si ode recitare dei salmi e farne fervorose applicazioni allo stato in cui si trova. Il 2° agosto incomincia a soffrire vomiti strazianti e altri accessi non meno violenti, che annunziano aver la paralisi attaccati gl’intestini. Ei fa chiamare il suo confessore, ed il giorno seguente è destinato ad amministrargli il santo viatico. Pio VI volendo riceverlo con tutte le prove di rispetto e di adorazione di cui si sente capace, chiede di essere aiutato ad uscire dal letto, e di esser vestito della sua sottana, del rocchetto , della mantellina e della stola. Rammaricandosi amaramente di non potersi inginocchiare, acconsente a comunicarsi seduto sopra una poltrona. La santa Eucaristia essendogli recata dall’Arcivescovo di Corinto, questo Prelato crede di dover domandargli prima di tutto nel presentargli il corpo di Gesù Cristo, s’ei perdona ai propri nemici: « Oh, si, con tutto il cuore, con tutto il cuore » risponde il Pontefice alzando gli occhi al cielo, e riportandoli sopra un crocifisso che ha in mano. Il suo maestro di cappella legge ad alta voce la professione di fede segnata nel Pontificato, e Pio VI, come se ricevesse dalla medesima forza novella, manifesta la propria adesione anche meglio che con le parole, poiché pone una mano sopra i santi Evangeli, e l’altra sul petto. Finalmente si comunica in maniera angelica, e tutti gli assistenti vivamente commossi si struggono in lacrime. Il giorno di poi alle otto di mattina l’Arcivescovo di Corinto giudica di non differire più oltre ad amministrargli il sacramento dei moribondi, e il Santo Padre accompagna la preghiera di ciascun’unzione con una pietà commovente. Dopo un’ora di raccoglimento, egli detta e forma un codicillo, col quale dà alcune disposizioni particolari a favore di quei che lo servono, e ne affida l’esecuzione al medesimo Arcivescovo, cui egli incarica inoltre di presiedere alle clausole del suo testamento, riguardanti il luogo e le circostanze della sua sepoltura. – Sciolto da ogni cura estranea alla salute dell’anima sua, più non si occupa che di offrire a Dio il sacrificio della sua vita, e le sue frequentissime aspirazioni non esprimono fuorché la impazienza di trovarsi unito a Gesù Cristo; Nell’intervallo ei recita i salmi Miserare mei e De profundis clamavi ad te, Domine. Spesso ripete quei versetti dell’inno Ambrosiano, sì efficace per mantenere la sua fiducia in Dio: Te ergo, quæsumus, tuis famulis subveni, quos pretioso sanguine redimisti; « Noi dunque, ve ne preghiamo, o Signore, accorrete in aiuto dei vostri servi, che avete comprati col vostro prezioso sangue ». –  In te, Domine, speravi, non confundat in æternum; « O mio Dio, poiché ho in Voi riposta la mia speranza, io non andrò confuso nell’eternità ». Sono sì ardenti e si continue le sue preghiere in tutto il restante della giornata, che si crede necessario raccomandargli di moderare il suo fervore, per tema che la sua malattia s’inacerbisca; e realmente ha terminato di estenuare le sue forze, ma gli lascia la testa libera e tutta la sua cognizione. Ei ne profitta per porgere affettuosamente una mano paterna a tutti quelli del suo seguito, che attorniano il suo letto, e prendendo loro la mano la stringe teneramente per esprimere quanto è sensibile al loro attaccamento e grato alle loro premure. Verso mezza notte più certi sintomi annunziano a lui non meno che agli astanti, esser egli prossimo ad esalare l’estremo fiato. L’arcivescovo si mette a recitare le preci degli agonizzanti, e Pio VI, che vuol tenergli dietro con una devozione affettuosa e unirsi a lui di proposito deliberato, gli accenna di pronunziare adagio. Ripetendo interiormente ciascuna parola, ei ne aspira in certo modo i pensieri. Le preci proseguivano quando il santo Pontefice depose tranquillamente l’anima sua nel seno di Dio, ad un’ora e venticinque minuti dopo la mezza notte del 29 agosto 1799, in età di ottantun anni, otto mesi e due giorni. – Non mai la morte di un Pontefice destò negli animi si forte perturbazione, e forse giammai nessun Papa nell’abbandonare questa terra di esilio non ricevé altrettanti tributi di dolore, di amore e di venerazione. In Italia, in Spagna, in Germania, in Francia stessa, da per tutto infine, Pio VI fu benedetto e magnificato come un martire; in Pietroburgo ed in Londra si udirono gli elogi di quel sommo; e inoltre, fra i protestanti, strepitose conversioni furono il frutto di questa morte gloriosa. La stessa città di Ginevra rimase commossa, e uno dei suoi cittadini più illustri scriveva queste notevoli parole: « Il cattolico romano si vanterà della vittoria memorabile, che il suo Capo ha riportato sopra l’empietà, e il cristiano delle altre comunioni vedrà chiaramente ove la vera Chiesa risiede. Tante tribolazioni riserbate ai soli pastori della Chiesa romana gli mostreranno, che le altre Religioni, i cui ministri non ingenerano sospetto negli apostoli dell’empietà e della incredulità, non sono sicure, e che l’errore, quando il vizio fraternizza palesemente con lei, non deve punto sedurre. Ecco quali saranno, io spero, i frutti degli attentati commessi contro il Papa in vita e dopo la sua morte! » – La grande vittima era immolata; i flutti dell’empietà, che fino allora avevano traboccato dilatando le loro devastazioni, erano, come quei dell’Oceano, pervenuti al limite segnato dalla mano divina. Già si preparava il trionfo della Chiesa per mezzo della elezione miracolosa di un nuovo Pontefice, e la giustificazione della Provvidenza incominciava dal castigo dei colpevoli. – La Francia ha osato dire all’Agnello dominatore: Non vogliamo che tu regni sopra di noi; gli uomini si sono abbeverati del sangue dei martiri; ora la mano di Dio si aggrava sopra la Francia e sopra i persecutori. – È sorto uno spaventevole uragano; la Francia ne è commossa fino dai fondamenti; monumenti, ricchezze, città, cittadini, tutto perisce: per dieci anni la storia del regno, già cristianissimo e ora ribelle a Gesù Cristo, è scritta colla punta di una spada intinta nel sangue. Non mai le generazioni furono spettatrici di avvenimenti cosi funesti. I grandi malvagi, che avevano spinta la Francia alla rivolta, non sfuggirono ai colpi della divina vendetta; l’uno è divorato dai cani; l’altro muore di miseria; quasi tutti periscono sul patibolo [Dei Presidenti della Convenzione nazionale in numero di sessanta tre, sedici furono ghigliottinati, tre si uccisero, otto furono deportati, sei condannati a perpetuo carcere, quattro impazzirono e morirono a Bicétre, due soli scansarono ogni condanna]. –  Colui che alla crudeltà aveva unita la sacrilega derisione, Collot d’Herbois, atterrisce gli stessi negri per la spaventevole sua morte. Eccone in succinto la storia; ecco un avviso ai persecutori! Collot d’Herbois, empio forsennato e rivoluzionario esaltato, era intimamente collegato con Robespierre, che secondò negli abominevoli suoi progetti. Fu esso il principale autore dei massacri di Lione; e spedito in quella sventurata città nel 1793, vi fece perire per mano del carnefice, colla fucilazione o colla mitraglia, mille seicento vittime, il cui solo delitto era di aver voluto scuotere il giogo della tirannia. Ma il braccio del Signore non indugiò ad aggravarsi sopra di lui; la Convenzione temendo di opporsi alta pubblica opinione, che si era fortemente pronunziata contro quell’empio, ordinò il suo arresto il 2 marzo 1795, e quindi la sua deportazione alla Cayenne, ove era aborrito non solo dai bianchi ma anche dai negri, che nel loro linguaggio lo chiamavano il carnefice della Religione degli uomini. – « Confinato colà, cosi narra di lui un testimone oculare, egli gridava talvolta: lo sono punito, l’abbandono in cui io vivo è un inferno. Frattanto è assalito da una febbre infiammatoria che lo divora, sicché chiama in suo soccorso Dio e la Santa Vergine. Un soldato, al quale egli aveva predicato l’ateismo, gli domanda perché se ne facesse beffe pochi mesi prima: Oh! amico mio, ei rispose, la mia bocca ingannava il mio cuorl Poi soggiungeva : Dio mio, poss’io àncora sperar perdono? Mandatemi un consolatore, mandatemi qualcuno che distolga il mio sguardo dal braciere che mi consuma; mio Dio, concedetemi la calma! Era cosi tremendo lo spettacolo degli ultimi suoi momenti, che dovettero collocarlo separato da tutti; e mentre cercavano un sacerdote, egli spirò il 7 giugno 1797 con gli occhi semiapertì, con le membra stravolte, e vomitando in copia sangue e bava. I Negri, che avevano fretta di andare ad un ballo, non lo seppellirono che a fior di terra, a tal che il suo cadavere servi di pasto ai porci ed ai corvi! » [Simile in terra sarà la fine di coloro che costringono l’attuale Santo Padre all’esilio: i falsi pontefici marrani, i falsi prelati ingannatori delle anime riscattate da Gesù Cristo con il proprio sangue, il codazzo di sostenitori, imbonitori, inculcatori dell’errore e dell’apostasia, i servi della sinagoga di satana e del mundialismo nachita … ma cosa sarà questo in confronto al castigo eterno che li aspetta, se non si pentono?  Miserere Domine, miserere –ndr.-]

 

 

 

Padroni (I due) – Dio e il demonio.

Padroni (I due) – Dio e il demonio.

[G. Bertetti: Il sacerdote predicatore; S.E.I. Torino, 1920]

1.- Come si presentano a noi. — 2. I patti che ci propongono. — 3.  La mercede. – 4. Bisogna scegliere fra i due padroni.

1.- COME SI PRESENTANO A NOI. Son due padroni secondo il nostro modo di parlare; … ma in realtà si tratta d’un solo padrone vero, assoluto, Creatore e Signore del cielo e della terra; … Creatore e Signore; anche di colui che nella, sua stolta superbia sognò di sedersi al suo fianco … Dio solo può far tutto ciò che Egli vuole …, il diavolo può unicamente fare ciò che Dio gli permette, e non più là.,. Dio permette al diavolo di tentarci al male, ma lo lascia incatenare da un fanciullo e da una vecchierella con un segno di croce, … Dio permeate al diavolo che a’accompagni con lui alla conquista delle anime, ma a patto che se n’esca « innanzi ai piedi di lui » [Habac. III, 5], come un cane,… come una scimmia che cerca d’imitare le opere di Dio, facendo per il male ciò che Dio, fa per il bene.., Dio non si lascia vedere quaggiù faccia a faccia per non opprimerci, con lo splendore della sua maestà:… non si lascia vedere il demonio per non mettere schifo ed orrore con la sua bruttezza… Dio ci si presenta con le sue celesti inspirazioni; il demonio con le sue infernali suggestioni… Dio ci si presenta fatto uomo nella Persona adorabile di Gesù Cristo, il demonio, non potendo farsi uomo, perché Dio solo può creare un corpo e un’anima, ci si presenta con le seduzioni delle ricchezze e dei falsi godimenti della vita lui che in lingua siriaca si chiama mammona, ci si presenta in forma di mammona, che nella stessa lingua vuol dire ricchezza …

2.- I PATTI CHE CI PROPONGONO. – Gesù invita con la persuasione col più grande rispetto della libertà umana a seguirlo, dicendo: chi vuole venire dietro di me venga per amore, non per, forza; chi non vuole è libero di lasciarmi e di passare dalla parte del nemico, troverà però sempre aperte le braccia dalla mia misericordia, finché egli sarà in vita …  Il diavolo adopera la più odiosa delle prepotenze, cercando di conquistare anime o per amore o per forza, e perseguitando ferocemente chi non gli porge ascolto….. – Gesù dice»: Chi vuol venire dietro di me, rinneghi stesso; rinunci alla sua volontà, per fare quella di Dio; rinunci alla sua matura corrotta, per rigenerarsi, alla vita della grazia.. Il demonio eccita l’uomo a scapricciarsi in tutto quel che, gli piace, irretendolo; col pretesto d’un’apparente libertà nella più obbrobriosa delle schiavitù, nella schiavitù del vizio… – Gesù disse: chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce … non la croce pesantissima portata da Gesù, da Maria, dagli eroi della Santità, la croce assegnata da Dio secondo le forze d’ognuno, la croce sopportata con l’aiuto di Dio e in unione con Gesù Cristo… Il demonio non ci parla di croci, ci parla solo di godimenti; ma la croce, se non si porta spontaneamente sulle spalle, si trascina legata ai piedi dalla catena della nostra misera condizione di mortali … – Gesù dice: Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua » (MATTH., XVI, 24);… seguirlo in tutto e per tutto, amando il Signore-Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua e con tutto il tuo spirito e con tutto il tuo potere (MATTH., XII, 30)… Il demonio si contenta di un posticino nel nostro cuore, come si contenta di un posticino nel nostro sangue, quel veleno che ci dovrà portar la morte…..

3.- LA RICOMPENSA: — Gesù non s’impegna, di dare quaggiù come ricompensa né ricchezze, né onori, né salute, che si riserva di dare o non dare come gli piace e a chi gli piace … Ma neppure il demonio s’impegna a tanto, perché ricchezze, onori e salute non sono in sua balia, sicché possa disporre a suo talento oltre la permissione di Dio … Ricchezze, onori e salute possono esser possedute da uomini buoni e d’uomini cattivi, come di uomini buoni e d’uomini cattivi possono esser retaggio la povertà, l’abiezione, le infermità… – Gesù ci dà per ricompensa in questa vita la fede, cioè il possesso di verità sovrannaturali e consolantissime, che ci rischiarano fra il buio che circonda … il demonio da il dubbio, l’incertezza, l’errore, le tenebre … Gesù ci dà la speranza, ossia la possibilità di riguardarci non solò come ospiti e forestieri, ma come concittadini dei santi é della stessa famiglia di Dio;… il demonio dà lo sconforto e la disperazione… Gesù ci dà il suo santo amore che ci trasforma e ci fa partecipi della stessa natura divitaa;… il demonio da l’odio, lo spirito di distruzione, la morte di ogni nobile affetto. Gesù ci da la preghiera, il demonio, la bestemmia … “Gesù ci dà se stesso in corpo, anima e divinità nell’Eucaristia; …. il demonio si pasce delle sue vittime … – Le consolazioni che Gesù dona agli eletti in questa vita sono un saggio delle consolazioni ineffabili che prepara per loro nell’eternità;… i tormenti che il demonio già infligge qui ai reprobi dovrebbe a costoro fare aprire gli occhi sull’eterno castigo che li attende; se il demonio non avesse attutito la mente ed il cuore per non falciar loro comprendere in quale sciagurata condizione si trovino…..

4. – BISOGNA SCEGLIERE TRA I DUE PADRONI. – Bisogna scegliere tre Dio e il demonio … o l’uno o l’altro … questo è l’invito che ci fa il Signore … invece il demonio ci lascia nell’illusione che si possa servire a lui e a Dio nello stesso tempo, poiché sa benissimo che Dio è “geloso” e non vuole altri dei (Es. XX, 3-5) al suo fianco … o tutto o niente … perciò gli omaggi a Dio da un cuore che vuole dividersi tra Lui ed il demonio, non sono da Lui accettati , ma respinti con sdegno….!  – Il demonio c’inganna, ma Dio ci parla chiaro: « Nessuno può servire a due padroni: poiché o odierà l’uno e amerà l’altro; o sarà affezionato all’uno e disprezzerà l’altro » (MATTH., VI, 24);… «non si può servire nel medesimo tempo alla virtù e al vizio; alle cose celesti e alle cose mondane, allo spirito e alla carne, a Dio e al diavolo,perchè ci tirano a sentimenti che esigono cose contrarie; che se all’uno s’obbedisce, è giocoforza che si disobbedisca all’altro» (S. Giov. CRIS . , hom. 12 in Matth.)…. –  Ma chi di noi vorrebbe anche in minima parte servire il diavolo? Chi di noi s’indurrebbe a prostrarsi innanzi a quell’immondo, foss’anche per avere tutt’i regni della terra?… Ebbene, Dio non si contenta che ci asteniamo dal servire direttamente il diavolo, ci proibisce di servirlo anche indirettamente… Serve al diavolo, chi serve alle ricchezze di cui si giova il diavolo per tentarci e per sedurci; si prostra innanzi al diavolo chi si prostra innanzi alle ricchézze (Matth. VI24)… Amar pertanto le ricchezze e amar Dio per se stesso, amar quelle o Questo come fine ultimo, di modo che si serva fedelmente nel tempo stesso all’uno e alle altre, è cosa inconciliabile e assolutamente impossibile  … O Dio o le ricchezze, scegliamo, o far servire a Dio le ricchezze e tutti gli altri beni terreni ricevendone da Dio in cambio il possesso dei beni sovrannaturali ed eterni …  o ridurci schiavi delle ricchezze fugaci e degli altri miserabili godimenti mondani, ricevendone in cambio dal demonio il rimorso della coscienza, l’indurimento del cuore, l’impenitenza finale, la dannazione eterna.

 

 

 

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (3), capp. III e IV

 

CAPITOLO III.

NASCITA E NOME DEL BUON LADRONE.

Pagano di nascita.— Egiziano di origine. — Particolarità sulle ruine presenti del Latroun nella Giudea. — Citazioni di Quaresime e di Monsignor Mislin. — Testimonianze del Vescovo di Equilium, di S. Agostino, del Vescovo Eusebio, di S. Giovanni Damasceno, di Pietro de Natalibus, del P. Orilia. — Secondo le tradizioni più antiche e più comuni, il nome del buon Ladrone era Dima. — Prove di questa tradizione: l’Evangelio di Nicodemo, il Vescovo di Equilium, Salmerone, Masino, Quaresimo, Pipino, Ravisio, Mauralico, i Bollandisti, Godoffredo di Vandume, Tcofilo de Raynaud, Silveira, il P. Orlila, il B. Simone da Cassia. — Particolarità del Martirologio Romano e decisione della Congregazione dei riti. — In qual modo si ò potuto conoscere il nome proprio del buon Ladrone. — L’araldo della giustizia e lo scritto. — Particolarità storiche.

Sul buon Ladrone, e la sua nascita, il suo nome e la sua vita, come su molti altri personaggi che vi figurano, il Vangelo serba un misterioso silenzio. Ma se non ci illumina il sole, non siamo perciò condannati a camminar nelle tenebre. Alla luce della rivelazione, almeno in parte, supplisce la fiaccola della tradizione. – Prestiamole orecchio. – Sulla Croce, dice S. Giovanni Crisostomo, Nostro Signore parlava ad un uomo digiuno delle sublimi verità della Religione; ad un uomo che non aveva conoscenza alcuna dei Profeti; che aveva passata tutta la vita net deserto a far opere di sangue; che mai, neppur di passaggio, aveva intesa un’istruzione religiosa; ad un uomo che mai aveva letto un brano qualunque della sacra Scrittura. – Come il Crisostomo parla S. Agostino: « Prima della sua crocifissione il Ladrone non conosceva punto il Cristo: se l’avesse conosciuto, forse non sarebbe stato l’ultimo degli apostoli, egli che fu il primo a salire al Cielo. » Lo stesso linguaggio trovasi nella bocca del Vescovo Eusebio: « Prima di montare al Calvario Quest’uomo (egli dice) non conosceva né religione né Cristo. » – Esser nell’ignoranza completa della verità della fede, non conoscer nulla né dei profeti né delle scritture, e non sapere neppure se esistesse una religione ed un Messia; ad un Giudeo di nascita, per abbandonato che voglia supporsi, non pare che possa convenir un somigliante ritratto. – Un altro motivo da crederlo pagano si è che sul Calvario egli era il rappresentante e la figura dei Gentili, come il cattivo Ladrone lo era dei Giudei. « Sulla croce, dice il Crisostomo, i due ladroni furono immagine dei Giudei e dei Gentili. Il ladrone penitente è 1’immagine del gentilismo, che dapprima camminava nelle vie dell’errore, e viene poi alla verità: il ladrone che rimane ladrone fino alla morte, è la immagine dei Giudei. – Fino all’ora della crocifissione eglino batterono di conserva la via dell’iniquità. La croce li separò. » — Da tutti questi indizi possiamo conchiudere che il buon ladrone fosse pagano; né ci pare una tal conclusione forzata. Oltre poi i tratti distintivi del buon ladrone, che si applicano perfettamente ad un idolatra, tutti sanno che la Palestina era circondata da popolazioni pagane. Rimane a sapersi però qual fosse il luogo della sua nascita. Nacque egli nel deserto, in una caverna di masnadieri, o vide la luce in paese abitato? A siffatte domande la tradizione non dà una risposta certa, e solo ci dà notizia dei luoghi in cui dimorava, e che erano il teatro delle sue imprese. Il dotto Quaresmio commissario apostolico in Terra Santa, che ci lasciò due volumi in folio sulla Palestina, descrive in questi termini il viaggio da Jaffa a Gerusalemme. – « Da Rama, ove prendono riposo i pellegrini di Gerusalemme, si dirigano all’oriente verso la santa città. « Da Rama a Gerusalemme si contano pressoché trenta miglia. Tranne la valle di Rama che è fertile, deliziosa e dell’estensione di circa otto miglia, il rimanente della via è di accesso difficile, e non vi si incontrano che montagne e rupi. – « A circa dieci miglia da Rama, a dritta e ad un mezzo miglio dalla strada maestra, si scorge un diruto villaggio sulla cima di un colle. Lassù esisteva già una gran Chiesa, che oggi è quasi interamente distrutta. Quell’ammasso di rovine porta nel paese il nome di Villaggio del Buon Ladrone. Ma non è certo però che ivi egli nascesse. La tradizione ci fa solo sapere che in suo onore fu edificata la Chiesa, della quale ora non si scorgono che le rovine. » – Ecco quanto lasciava scritto al principio del secolo decimosettimo uno dei più accurati storici della Palestina. Ai tempi nostri un viaggiatore non meno autorevole ci prova anche una volta, che nell’Oriente tutto sembra immortale, così le tradizioni, come le rovine.  Al di là di Rama, dice Monsignor Mislin, la strada prosegue per due ore di cammino sopra un terreno sassoso ed ineguale fino alle prime gole delle montagne della Giudea. Là si incontra qualche tugurio abitato, e sulla collina si scorgono le rovine di Latroun luogo della abitazione presunta del Buon Ladrone. Latroun al pari dei castelli di Plans e di Maé, dei quali si vedono appena gli avanzi sulle vicine eminenze, fu distrutto da Saladino dopo la demolizione di Ioppe, di Rama, e di Àscalon. Quelle rovine, il cui aspetto è sinistro come le loro memorie, erano anche pia terribili alcuni anni addietro, poiché servivano di ricovero a banditi, che del Buon Ladrone avevan soltanto seguito la tradizione della vita e non quella del suo pentimento; ma Ibrahim aveva distrutto quei ridotti del brigantaggio, e sotto il suo governo tornata era la sicurezza. Se non che caduta nuovamente quella regione sotto il dominio dei Pascià di Costantinopoli, vi tornarono anche i ladroni di Latroun, e pare anche in buon numero. » [Luoghi Santi, t. I, c. XVII, p. 408]. – A qual razza apparteneva il Buon Ladrone? Era egli Arabo, Sirio, o Fenicio ? La più comune sentenza lo fa Egiziano. « Gli autori che io citava, dice Quaresimo, mi persuadono che egli fosse Egiziano di nascita. Egli dunque non nacque nella Giudea, nel luogo il cui nome richiama la sua memoria. Certo è soltanto che in quel luogo la pietà de fedeli edificò una Chiesa in di lui onore. » – Che Disma fosse Egiziano, uno dei dotti collettori delle nostre antiche tradizioni, il vescovo di Equilio, l’afferma decisamente sulla testimonianza di S. Giovanni Damasceno. « Questo ladro era Egiziano, come vedesi in S. Giovanni Damasceno; e quando Nostro Signore fu costretto a fuggire in Egitto, esso esercitava colà il mestiere di brigante, e coi suoi compagni spogliava i viandanti. » Questa opinione, aggiunge il P. Orilia, pare assai ben fondata per dare la certezza morale che il buon Ladrone fosse Egiziano di nascita. Se egli è così, il ladro del deserto era immerso nella più profonda e crassa idolatria del mondo antico. Adoratore del serpente vivo, del serpente familiare, del serpente dio e re, del dragone di Meteli, del Capro di Mendès, del coccodrillo del Nilo, del gatto, del bue, della cipolla, in una parola adoratore del demonio nelle sue svariate manifestazioni, le une più degradanti e più abominevoli delle altre, ecco qual era il buon ladrone. Dal fondo di questo abisso alla sommità del Calvario, misurate qual è l’intervallo, e conoscerete la grandezza e potenza del miracolo, che in un batter d’occhio fece di un idolatra brigante del deserto un santo. E qual’ era il nome di questo privilegiato della grazia? A siffatta domanda non abbiamo trovata risposta né monumenti anteriori alla fine del secondo secolo. A partir da quell’epoca, la tradizione più comune in Oriente e nell’Occidente, sicuramente fondata su testimonianze oggi non più conosciute, afferma che il buon Ladrone chiamavasi Dima, e Gesta il cattivo. – « Pilato, dice il vangelo di Nicodemo, ordinò che a seconda dell’accusa fatta dagli Ebrei, si scrivesse in una tabella in lettere ebraiche, greche, e latine: Questi è il re dei Giudei Uno dei ladroni ch’era pur crocifìsso, chiamato Gesta, disse a Gesù: « Se tu sei il Cristo salva te stesso e noi. » Dima parlando alla sua volta, lo rimproverò dicendo: « E non hai punto timor di Dio, tu che sei di quelli contro i quali la condanna fu meritamente pronunziata? » [Evang. Apocr. c. ix, p. 243, edit. Brunet.]. – Pietro de Natali, nel suo Catalogo dei Santi ci dà i medesimi nomi. « Al tempo della morte di Nostro Signore – furono arrestati i due masnadieri Dima e Gesta. Condannati a morte, essi furono crocifìssi insieme con Gesù Cristo. » Il dotto arcivescovo di Genova, Giacomo di Voragine, predicando al suo popolo, si espresse così: « Il giovane ladro che persuase i suoi compagni a lasciar passare incolume la sacra famiglia, è il ladrone Dima. » Il sommo teologo Salmerone parla come quegli antichi. Secondo Nicodemo i due ladri si chiamavano Dima e Gesta: erano essi i due più famosi ladroni del loro tempo. » Nella sua Bologna illustrata il Masino scrive. «San Dima, il buon Ladrone, è onorato nella Chiesa dei santi Vitale ed Agricola nella quale si conserva un frammento della sua croce. – Quaresimo è l’eco della medesima tradizione. Egli dice: « Quanto al nome del Buon Ladrone, che è nella memoria del Signore, gli antichi martirologi lo chiamano Dima. Lo stesso nome gli è dato da Guglielmo Pipino e dal Ravisio, i quali lo han pure per Egiziano di origine. » Uno dei predecessori del Baronio nella relazione del Martirologio, il celebre Maurolico, la cui parola è di grande autorità, pone senza alcuna riserva il nome di S. Dima nel suo Martirologio, ed i Bollandisti lo citano senza fare alcuna osservazione in contrario. Il medesimo nome si trova in Teofilo Rainaldo, in Gotofredo di Vendòme, nel Maionio, nel P. Orilia, nel B. Simone da Cassia, nel dotto teologo spognuolo Sylveira ed in molti altri autori. Al 25 marzo, il Martirologio romano, riveduto dall’immortale Baronio, fa menzione del Buon Ladrone in questi termini. « A Gerusalemme, commemorazione del Buon Ladrone che confessò Gesù Cristo sulla croce e meritò di sentirsi dire: Oggi sarai meco in paradiso. » [« Hierosolymis commemoratio sancti latronis, qui in cruce Christum cunfessus ab eo meruit audire: Hodie meeum eris in paradiso. »] – Sulla qual cosa il prudente cardinale fa questa nota, la cui riserva si spiega per la natura di un’opera, come il Martirologio, redatta nel secolo decimosesto. « I più lo chiamano Dima. Ciò nondimeno, siccome un tal nome è tratto dagli apocrifi, pare che avvenentemente e per questa ragione fosse omesso nel Martirologio. Malgrado ciò, sappiamo trovarsi un certo numero di santuari e di altari eretti sotto il nome di s. Dima » Egli è certamente nel medesimo spirito (cioè per prevenire il gracchiare dei protestanti e degli Ipercritici moderni) che Sisto V alla fine del medesimo secolo, e la congregazione dei riti nel 1724, soppressero il nome di Dima, accordando all’ordine della mercede, ed a quello dei Pii Operai la facoltà di recitare l’officio del Buon Ladrone [Vedi Bened. XlV, De canonizat. SS., lib. IV, p. II, c. XII, n. 10]. La medesima concessione fu fatta alle stesse condizioni ai Chierici Regolari di s. Gaetano Tiene. La prudente riserva della Chiesa Romana distrugge forse la tradizione della quale abbiamo ragionato? Non dubitiamo punto di ciò. Ammettendo che il nome proprio del buon Ladrone unicamente siasi tratto dagli apocrifi, tutti convengono che quei libri posseggono un qualche fondo di verità, e ne abbiamo già date le prove. Sul punto poi di cui si tratta presentemente, la verità è molto ben raffermata dall’aver ottenuto dall’un canto, il consenso del più gran numero degli organi della tradizione (plerique dice il Baronio), e per avere dall’altro, senza osservazione o richiamo della Chiesa, dato luogo in diversi paesi della Cristianità, e segnatamente in Italia, alla erezione di sacri edifici sotto il nome di s. Dima, nome proprio del buon Ladrone. E siccome a noi parrebbe temeraria cosa tacciar di leggerezza tanti uomini rispettabili, che di secolo in secolo hanno a noi trasmesso il nome di Dima, questo nome conserveremo nel corso di quest’opera, al glorioso crocifisso del Calvario. D’altronde se riflettiamo agli usi dell’antichità, comprenderemo facilmente essersi potuto sapere con certezza il nome dei due ladroni. Ai nostri giorni, almeno in Francia, si mettono a morte i rei condannati senza pubblicare i loro nomi al momento dell’esecuzione della condanna, e senza affiggerli in appositi cartelli; e nondimeno tutti li conoscono. Anticamente, oltre i dibattimenti giudiziaria v’era un’altra specie di pubblicità più immediata e più solenne. Presso gli Ebrei come presso i Romani, quando il momento dell’esecuzione era giunto, costumavasi di far proclamare il nome del condannato da un araldo che lo precedeva, o di scriverlo a grossi caratteri su di una tavoletta sospesa al di lui collo durante la funebre marcia, ed appesa poi all’istromento del supplizio sul capo del condannato: e questo appunto ebbe luogo a riguardo di Nostro Signore. L’adorabile nome suo fu scritto in tre lingue su di una tabella, la quale o venne fissata sulla croce nell’uscire dal Pretorio di Pilato, e così appesa fu portata da Nostro Signore; o innanzi a lui la portò un ministro della giustizia, nel percorrere ch’Ei fece la via dolorosa. Certo è che giunto il corteggio sulla cima del Calvario, lo scritto fu collocato sulla Croce al di sopra del capo del divino Condannato. Fra i moltissimi spettatori, venuti di fresco a Gerusalemme da ogni parte per le solennità della Pasqua, quanti solamente per quella tabella vennero forse a sapere il nome e le qualità della Vittima augusta? Nella stessa guisa tutta Gerusalemme e tutti gli stranieri accorsi poterono sapere il nome del buon Ladrone, e saperlo con certezza. Quello che ebbe luogo a riguardo di Nostro Signore non era già una singolarità, nè un’eccezione. Come l’abbiamo fatto rilevare, nelle esecuzioni capitali la proclamazione dei nome del condannato o la tabella, o l’una o l’altra cosa, era d’uso comune. L’erudito Giusto Lipsio parlando della crocifissione in particolare ci dice: « Sospeso che fosse il condannato alla croce, si appendeva la iscrizione. E che diceva essa? La causa del supplizio, il delitto commesso… e usavasi portare questa iscrizione avanti al condannato, o obbligare lui stesso a portarla. »  L’asserto di Giusto Lipsio ha per fondamento la storia. Ecco ciò che narra Svetonio di Caligola. « Uno schiavo a Roma in un pubblico banchetto avendo tolta da un letto una bandella dì argento, Caio lo diede sul momento in mano al carnefice con ordine di tagliargli le mani, e appendergliele al collo innanzi al petto, e di condurlo cosi attorno ai convitati, preceduto da una tavoletta che significasse la causa del suo supplizio. » Domiziano imita Caligola, o per dir meglio si uniforma all’uso. Dava quel barbaro imperatore dei giuochi al popolo nel Colosseo. Fra i cento mila spettatori, eravi un padre di famiglia, un veterano appartenente al Corpo dei Parmularii. Codesti erano soldati che prendevano il nome dal loro scudo, chiamato parma. Facendo uso della libertà di cui godevano i soldati romani, egli si permise una facezia nel vedere un gladiatore della Tracia di meschina apparenza, e disse: « Questo Trace è un gladiatore poco degno di chi dà questo spettacolo. » Domiziano prese per fatto a lui lo scherzo, vi trovò un offesa alla sua divinità, e senza indugio lo fece uscire dalla folla, e gli fece appendere al collo un’iscrizione che diceva : Questo Parmulario ha parlato empiamente. Condotto in mezzo al circo fu sbranato dai cani. – I fatti qui narrati non sono già eccezioni da attribuirsi alla personale crudeltà dei due coronati tiranni. Essi erano, lo ripetiamo, conformi all’uso. Non solamente si proclamava il nome del condannato, ma si suonavano campanelli e trombe innanzi ad esso, per avvisarne il popolo. Ascoltiamo Tacito e Seneca. « Allorquando i Consoli, dice il primo, ebbero condotto Publio Marzio fuori della porta Esquilina fecero suonare la tromba, e mettere a morte il colpevole secondo l’uso dei nostri maggiori. » Descrivendo un supplizio, il secondo si esprime così: « Il Pretore sale sul suo tribunale, tutti sono rivolti a lui. Si legano al reo le mani dietro le spalle: gli occhi di tutti sono aperti a mirarlo, su tutti i volti è dipinta la tristezza. L’araldo impone silenzio, pronunzia la formula della legge, e la tromba suona di nuovo. » Cosi praticavasi in tutto l’impero. Giammai un reo condannato conducevasi ai supplizio senza lo scritto, o l’araldo che proclamasse la causa della sua condanna. Di là quel detto volgare. « Il tale ò comparso innanzi al giudice colla tabella. Citiamone ancora alcuni esempi. Sparziano riferisce che Settimio Severo prima di essere imperatore, fu nominato governatore della provincia proconsolare di Africa. Uno dei suoi antichi compagni di studio, del municipio di Lepli, gli uscì incontro accompagnato da fiaccole; e benché plebeo, credé di poterlo abbracciare. L’orgoglioso Proconsole lo fece battere con verghe, nell’atto che un araldo gridava: Plebeo non essere temerario a tal segno da osare di stringere fra le tue braccia un Delegato del popolo Romano. Nella vita di Alessandro Severo troviamo un fatto consimile. Era tra i cortigiani di questo Principe un tal Vetronio Turino, che confidavasi di aver molta influenza sull’imperatore e di ottener da lui ogni cosa che dimandasse. Chiunque aveva da impetrar grazia, o chiedere un impiego, si raccomandava a Turino. Questi prometteva di parlarne all’imperatore, ma non ne faceva nulla. Ciò nondimeno accettava di nascosto larghi compensi per quel supposti suoi buoni uffici. Sotto una forma un po’ diversa, quelle largizioni erano ciò che sono le mance nel secolo decimonono. Alessandro venne in cognizione della frode, e sul momento fece arrestare Turino. Per suo comando il venditore di fumo fu condotto sulla pubblica piazza chiamata Foro Transitorio, e sospeso ad un trave o croce semplice, a pie della quale si dà fuoco a della paglia o legna umide. Nell’atto ch’egli era così soffocato, un araldo gridava: « Si punisce col fumo chi ha fatto mercato di fumo. » Un rescritto imperiale di Severo e di Antonino si esprime così: « Chiunque avrà spergiurato pel genio del principe, sarà battuto colle verghe, e gli sarà gridato: Impara a non spergiurare. » Tertulliano fa parola dell’uso medesimo praticato a riguardo dei Cristiani; e numerosi fatti confermano la testimonianza dell’illustre Apologista. Eccone soltanto due fra tanti. Nel racconto del martirio di S. Agnese, S. Ambrogio dice: « Il Giudice ordinò che la fosse condotta al lupanare accompagnata dall’araldo della giustizia che gridava: Agnese, vergine sacrilega, colpevole di bestemmie contro gli Dei, condannata al lupanare. » La città di Lione, in quella fiera persecuzione che la inondò di sangue cristiano, fu testimone di somiglianti spettacoli. Uno dei suoi più gloriosi martiri, Attalo, fu fatto passeggiare per tutto l’anfiteatro preceduto da una tabella nella quale leggevasi: « Costui è Attalo Cristiano. » La iscrizione dei nostri Padri generalmente era questa: « Nemici degli imperatori e degli Dei: Imperatorum et Deorum inimici. » – L’immobile o tenace Oriente nulla ha cambiato all’antico uso. Preceduti tuttavia da una tabella scritta vanno al martirio i nostri Missionari del Tonchino, della Concincina, o della Corea. Nel Seminario delle Missioni straniere a Parigi, possono vedersi alcune di siffatte tabelle, su cui sono impressi i nomi, e la cagione della loro condanna. Citeremo quella di Schaoftler martirizzato il 1 maggio 1851. Pochi passi innanzi al confessore della fede un soldato portava in alto, a guisa di stendardo, una tavoletta, nella quale leggevasi scritto a grossi caratteri: « Non ostante la severa proibizione emanata contro la religione di Gesù, il signor Agostino, prete europeo, ha osato venir qui clandestinamente a predicarla e sedurre il popolo. Arrestato egli confessò tutto, e il suo delitto è patente. Il signor Agostino abbia reciso il capo, e sia questo gettato nel fiume. » Nel 1806 noi troviamo l’ uso medesimo in Corea. Il giovedì 8 marzo, i quattro martiri Monsignor Berneux, i signori de Bretenieres, Beaulieu e Dorie, furono tratti dalla prigione, e posti a sedere sopra una lunga sedia portata da due uomini; avevano mani e piedi legati ai pioli della detta sedia, e la testa elevata perché anche i capelli erano attaccati. Andavano essi alla morte guardando il cielo, ove tra poco erano per essere coronati. Al di sopra del loro capo era fissa una tabella, sulle cui due facce leggevasi questa sentenza: « Ribelli e contumaci, condannati a morte dopo di aver sofferto molte torture. » Due giorni appresso, il 10 marzo, si ebbe altro simile spettacolo. Un carro sul quale è innalzata una croce, si ferma innanzi alla prigione dei martiri. Se ne fa venir fuori il venerabile Pietro Tjoi, e viene attaccato alla croce. I suoi piedi posano sopra uno sgabello, le sue gambe sono legate all’albero della croce, le sue braccia distese su quella, ed i suoi capelli annodati ad un travicello che sormonta lo strumento del supplizio. Al di sopra il capo, si legge la sentenza di morte. Quanto praticavasi presso i romani, e si pratica tuttavia presso i differenti popoli di Oriente, invariabilmente era in uso presso gli Ebrei. L’iscrizione era una lezione data al popolo, affinché tutti fossero ammaestrati dall’altrui sventura. Al pari di Nostro Signore ebbero anche i due ladroni nel Calvario la loro iscrizione? Tutto ci porta a crederlo; ma checché ne sia, le particolari notizie di quest’uso che abbiamo raccolte, mostrano per qual via si poté conoscere il nome proprio del buon Ladrone, e danno un buon fondamento alla tradizione, che ce lo ha trasmesso.

CAPITOLO IV.

VITA DEL BUON LADRONE.

Suo padre era un capo di masnada.— Il buon Ladrone nacque in mezzo ai ladri. — Crebbe in mezzo ad essi. — Commise tutti i delitti soliti a commettersi dai briganti. — Testimonianze di Feste, di S. Ambrogio, di S. Crisostomo, di S. Leone e del Vescovo Eusebio. — Fu omicida del proprio fratello.—Passi di S. Eulogio e di S. Gregorio Magno. — La crocifissione, prova della sua estrema colpabilità. — Uso della crocifissione presso i pagani; esempi citati dagli storici dell’Oriente e dell’Occidente. — Dima ladro di strada per trenta o quarant’anni.— Giudicato, dicesi, a Gerico, e condotto a Gerusalemme per dare maggior pubblicità al suo supplizio. — Particolarità  sulla sua prigione.

L’acqua che scaturisce da sorgente fangosa potrà ella esser mai limpida? L’albero, la cui radice è guasta potrà egli dare frutti sani e saporosi? Se la prima divien chiara e cristallina, ed il secondo senza punto risentire della natia infezione, darà frutti eccellenti, sarà questo un miracolo della natura. Nell’ordine morale avviene il medesimo. Quale è il padre, tale è il figlio: e nella sua generalità il proverbio è vero. Il contrario non è che l’eccezione; e l’eccezione conferma la regola. Vogliamo noi sapere qual si fosse il Buon Ladrone? Vediamo qual ne fosse il padre. Era costui un capo brigante: Princeps latronum. Nei diversi stati sociali, nel militare a cagion d’esempio, si giunge ai gradi superiori per il sangue freddo, il coraggio e le generose azioni, non che per provata scienza dell’arte della guerra. Come lotta di banditi contro la società, il mestiere di brigante non fa eccezione. Per divenire capo brigante, le qualità richieste sono l’astuzia e l’abilità nel concertare il delitto, l’audacia e la forza che non esitano di venire alla scalata delle mura e all’atterramento delle porte: la cupidigia e la crudeltà che ha per cose da nulla 1’omicidio, il saccheggio e l’incendio. – Un capo di briganti deve essere un eroe del misfatto. La ragione lo dice, e la storia lo conferma. Tal era il padre di Dima; ed il figlio fu degno del padre. Le notizie che la storia profana ci ha tramandate intorno ai briganti della Palestina al tempo di Gesù Nazareno, ci permettono di asserire come cosa verosimile che Dima nascesse in una spelonca di ladri. Dall’un canto noi vedemmo il capo di masnada Eleazaro, sfidare i gendarmi di quel tempo, ed anche interi corpi di truppe romane, e tenere per venti anni in un continuo allarme il paese. Ben si comprende ch’egli ebbe il tempo di ammogliarsi e di aver figli. Dall’altro pare che s. Giovanni Crisostomo senza ambagi asserisca che la culla del buon Ladrone fu una caverna di ladri. « Quest’uomo, egli dice, non aveva mai conosciuto che le lande del deserto: Omne tempus in desertis loci transegerat » Checche ne sia della nascita di Dima, il testo da noi citato ci fa sapere che fu educato in mezzo ai ladri, e da ladri. Lo sciagurato giovane non conobbe gli altri uomini, se non pel male che vide far ad essi, o ch’egli stesso fece loro; ed ebbe certamente occasione di farne. Tale è la testimonianza della tradizione, della quale si fecero interpreti i Padri della Chiesa. Da principio la sua professione lo forzava a mal fare. – Por vivere faceva d’uopo rubare, e per conseguenza assaltare, ferire, ed al bisogno, uccidere. Per propria difesa bisognava commettere i medesimi attentati. Per fare delle rappresaglie, nel caso di un colpo fallito, era necessario ricorrere agli stessi, ed anche a più odiosi mezzi. Si può aggiungere anche il desiderio di mostrarsi degno figlio del padre; un certo stimolo dì amor proprio onde distinguersi tra i suoi compagni; in fine, il bisogno di ispirare un gran terrore per meglio riuscire. Siffatte condizioni, la cui realtà è facile a comprendersi, erano per Dima altrettanti incentivi a perfezionarsi nella scelleratezza: senza di che non si è un buon Ladro, e soprattutto ladro di professione e di pubblica strada. – Dima era stato educato a troppo buona scuola per non comprendere tutto questo. Al dire di s. Ambrogio, egli visse ed invecchiò nell’abitudine dei più gravi delitti. Lo confessò egli stesso, o su di se attirò la spada della giustizia. E quali erano i suoi delitti? S. Leone e s. Giovanni Crisostomo ne riferiscono alcuni. Assalti a mano armata sui viandanti; invasioni con rottura di porte; omicidi, e tutto ciò che la perversità può ispirare di più iniquo contro la vita e le sostanze altrui. Come lo star nella tomba conduco i corpi alla putrefazione, così la lunga abitudine del delitto aveva tutte guaste e corrotte le facoltà dell’anima sua. A tanti misfatti s. Gregorio Magno e s. Eulogio ne aggiungono un altro che li sorpassa tutti; ed è il fratricidio. « Dolce cosa ella è, dice il primo, fermare lo sguardo su questo ladrone, che dall’abisso del delitto ascende sulla croce, e dalla croce al paradiso. Vediamo qual egli arriva al patibolo, e quale ne parte. Egli viene reo del fraterno sangue, e tutto cosperso di altro sangue; ma sulla croce la grazia interiore lo trasforma. – Colui che aveva dato la morie al fratello, esalta e glorifica la vita del Signore moribondo con queste fiduciose parole: Sovvengati di me quando sarai nel tuo regno » – E S. Eulogio dice : « Quale ostacolo fu mai per il ladrone del Calvario l’esser asceso sulla croce macchiato del sangue di suo fratello? Per quali miracoli poté segnalarsi nelle angosce della morte? Questo uomo aveva, per così dire, consumata la sua vita in azioni da brigante, in furti e rapine. Ciò nondimeno un solo istante di pentimento non solamente lo giustifica da quel gran misfatto, ma lo rende pur degno di accompagnare il Redentere, e di entrar per il primo nel cielo, giusta la promessa dello stesso Signore: Oggi sarai meco in paradiso » Quest’ultimo delitto del fratricidio, dico più che qualunque altro discorso. Colui che, misconoscendo i più sacri legami, non dubitò di bagnarsi le mani nel sangue di suo fratello, di che mai non fu capace? Laonde per caratterizzare d’un solo tratto il novello Caino, il vescovo Eusebio lo chiama insigne scellerato, uomo tutto ravvolto nelle iniquità. – Infine, le testimonianze de’ Padri sono solennemente confermate dal supplizio, al quale Dima fu condannato. La crocifissione era il più crudele ed il più ignominioso di tutti i generi di morte. « È delitto, dice Cicerone, legare un cittadino romano; scellerata cosa il batterlo colle verghe; quasi parricidio il metterlo a morte. E che dirò io del crocifiggerlo? Supplizio crudele, il più atroce d’ogni altro: io non trovo parole per qualificare una simile iniquità » – S. Giovanni Crisostomo fa osservare che per disonorare Nostro Signore, gli Ebrei lo vollero condannato al supplizio della croce, « In vero, egli dice, la morte sulla croce è una morte obbrobriosa, infamante; morte crudele, e la più crudele di tutte le altre; maledizione presso gli Ebrei, e abominazione pei Gentili. » Per tal motivo in tutta l’antichità questo genere di morte era riservato a ciò che v’era di più vile, e di più criminoso. Tacito lo chiama « il supplizio degli schiavi » servile supplicium. Ora nessuno può ignorare che presso gli antichi nulla v’era di più vile di uno schiavo. Ed anche meno che vile, esso non era nulla: Non tam vilis, quam nullus. « Asiatico che era uno schiavo reso libero, dice quello storico, espiò col supplizio degli schiavi l’abuso che aveva fatto del suo potere. » In Giovenale noi vediamo una donna romana che dice: « È uno schiavo, crocifiggilo. » All’occorrenza di una congiura di schiavi, così narra Dionigi di Alicarnasso: « Tosto gli uni furono strappati dalle case, gli altri arrestati nelle pubbliche piazze, e tutti crocifissi. » Capitolino ci narra di Macrono che, per far onta ai soldati si permetteva di farli mettere in croce, siccome schiavi. – Nella vita di colui che si volle chiamare il Divino Augusto, e del quale parecchi scrittori lodano ancor la clemenza, si trova un tratto che mostra qual peso delibasi dare agli elogi resi a certuni: ed il fatto storico del quale ci occupiamo lo prova. Dopo la guerra di Sicilia, il dementissimo Ottavio fece ricerca degli schiavi che in quella avevano combattuto. Quelli, dei quali si trovarono i padroni, furono ad essi restituiti; gli altri furono crocifìssi; ed erano sei mila. – Tito all’assedio di Gerusalemme, Tito la delizia dell’uman genere, nello stesso modo diè prova della bontà dell’animo suo e del conto che faceva degli Ebrei. Giuseppe, testimonio oculare, lasciò scritto: « Durante l’assedio, Tito in ciascun giorno fece crocifiggere cinquecento Ebrei e più: e per la gran moltitudine, mancava lo spazio alle croci, e le croci a tanti corpi. » – Dopo gli schiavi, nulla v’era di più vile dei ladri di pubblica strada. Si aggiungeva al disprezzo l’orrore, ed il supplizio della croce esprimeva questi due sentimenti. « Parve conveniente, dice il codice penale dei Romani, che i masnadieri famosi fossero crocifìssi sui luoghi stessi ne’ quali avevano esercitato il loro brigantaggio. » Riassumendo tutta la legislazione criminale degli antichi, il dottissimo P. Lamy si esprime così: « Il supplizio degli schiavi, dei briganti, degli assassini, dei sediziosi, era la croce. Eglino vi rimanevan appesi fino a che morissero di fame, di sete, e di dolore; e dopo la morte, eran fatti pasto dei cani, e dei corvi. – Così presso i Romani non v’era supplizio più crudele e più infame. » Qui faremo notare un miracolo non abbastanza rivelato, ed un uso tuttavia praticato, del quale pochi sicuramente sanno il significato. Quanto la croce era una cosa ignominiosa, o mal compresa nell’antichità pagana, altrettanto, dopo l’avvenimento del Calvario, è essa un simbolo sacro, eloquente e glorioso presso i popoli cristiani. Fra mille altri segui di rispetto, gli antichi imperatori nei pubblici atti apponevano sempre una croce innanzi alla loro firma. Questa era l’autentica sacra di ciò che intendevano dire. In prova della verità di loro parole, i vescovi han ritenuto quest’uso. Sempre, ed anche oggigiorno, coloro che non sanno scrivere, si sottoscrivono con una croce. Egli è questo un atto di fede nelle scritture pubbliche. – Né soltanto per punire i famosi malfattori si usava il supplizio della croce; ma altresì per dare un gran risalto alla loro punizione, e per produrre sulle moltitudini una durevole e profonda impressione. Per tal ragione Dima, uno dei più famigerati briganti del suo tempo, aveva diritto alla crocifissione. Noi dicemmo un’impressione durevole, perché tranne presso gli Ebrei, era uso comune di lasciar sulla croce i corpi dei giustiziati fino a che fossero divorati dagli uccelli di rapina, o putrefatti cadessero a brani. Col medesimo intendimento di vilipendere il condannato e d’ispirar terrore, vediamo la crocifissione praticata in alcune solenni occasioni, le quali ci fan risovvenire un avvenimento di data recente. Il mondo civilizzato dai Cristianesimo fu compreso di orrore alla notizia del tragico fine dell’imperatore Massimiliano. – Facendo fucilare quello sventurato principe, il selvaggio Juarez fece di bel nuovo ciò che solevano fare i Pagani a riguardo delle teste coronate. Quando essi volevano sfogare il maltalento e l’odio loro, atterrire le moltitudini e coprire di vergogna un re, o un qualche illustre personaggio, lo crocifiggevano. Tal fu l’intendimento del barbaro Messicano. Per mezzo del suo luogotenente Escobedo, non dubitò egli di notificare al mondo intero l’iniquo attentato. « Con l’uccisione di quei capi dei traditori, ho posto il terrore all’ordine del giorno. » Non altrimenti la pensavano gli antichi pagani. Sul conto degli Egiziani, Tucidide narra che avendo essi, come Juarez, arrestato a tradimento il re Inaro, lo crocifissero. Altrove noi vediamo Àgatocle condannato a morte, e talune matrone crocifisse per vendicare Euridice. Presso i Cartaginesi, i più illustri personaggi della repubblica, i generali dell’esercito, colpevoli di aver riportato anche vittoria operando in contrario alle istruzioni del senato, erano senza pietà condannati al supplizio della croce. Finalmente Plutarco e Quinto Curzio ci fan sapere che Alessandro non si mostrò men crudele di Augusto, di Tito, e degli altri, poiché fece crocifiggere il medico Glauco, e buon numero di bravi soldati, colpevoli di aver valorosamente protetta e difesa la città che ad essi era stata confidata. Riserbato egli stesso al supplizio della croce, e come brigante di professione, e come masnadiere famoso, Dima aveva colmata la misura dei suoi misfatti. Àmmettendo, secondo la tradizione, ch’egli fosse nel primo fiore degli anni, quando incontrò la sacra Famiglia, avrebbe egli passato trenta o quarant’anni della sua vita nel brigantaggio. Quindi è che all’ epoca del supplizio era tra i 50 e i 60 anni di età. Istrumento della divina giustizia doveva pure la giustizia umana aver la sua parte. È questa una legge invariabile, senza la quale non potrebbe la società umana sussistere. Se in questo mondo ancora il delitto andasse sempre impunito, la terra diverrebbe un teatro di sangue, ed il genere umano una mandria di lupi, che si sgozzerebbero fra loro. Egli è vero che, per un altro motivo, spesse volte la giustizia divina è lenta a punire; ma ben sovente compensa l’indugio colla severità della pena. Dima ne fece la prova. Fortunatamente per lui, che alla giustizia tenne dietro la misericordia. La tradizione non ci ha fatto conoscere come e dove cadesse nelle mani della giustizia. Si crede che l’arresto di lui avesse luogo nelle vicinanze di Gerico, e ch’egli ed i suoi compagni fossero giudicati in quella città. Ma certamente per disposizione di Pilato, furono condotti a Gerusalemme, per darvi lo spettacolo del loro supplizio nella ricorrenza della Pasqua. Questo era il mezzo di dare la più gran pubblicità alla loro punizione, e di rassicurare così le popolazioni, facendole assistere alla morte di quelli, che per lungo tempo erano stati per loro di tanto terrore. Non occorre dire che i due masnadieri furono caricati di catene e gettati nelle tenebre di un’orrenda prigione. – In Gerusalemme erano le carceri nei sotterranei del palazzo di Erode, poco lungi dal pretorio di Pilato. In esse erano custoditi i grandi malfattori rei di delitti capitali; per attendervi il loro supplizio. Noi dicemmo orrenda la prigione, nella quale Dima fu rinchiuso, perché tali erano tutte le prigioni degli antichi: ergastoli oscuri, umidi sotterranei, con porte di ferro, nei quali gli sciagurati con catene ai piedi, e la persona attaccata pel collo al muro con un anello, soffrivano torture non meno crudeli della morte. Se voglia aversene un saggio, non si ha che a visitare in Roma il carcere Mamertino. – Quel che le prigioni erano allora, Io sono ancora oggidì presso i Turchi, i Cinesi, n gli Annamiti, insomma ovunque non è tollerato il Cristianesimo. La sola legge di carità ha mitigato il rigore della carcere, e addolcita la sorte dei prigionieri. Quanto tempo rimase Dima nel carcere? La tradizione non lo dice: essa soltanto ci lascia presumere quanto egli ci abbia sofferto.

UN MEZZO DI SALVEZZA SUGGERITO DA FATIMA

UN MEZZO DI SALVEZZA

SUGGERITO DA FATIMA

[Attualità di Fatima, Città della Pieve, 1953]

  Chi legge la storia delle Apparizioni di Fatima non può non restare colpito dall’insistenza, con la quale la Beata Vergine raccomanda ai tre Pastorelli, e per essi a tutti i cristiani, la recita quotidiana del Santo Rosario. La Madre di Dio sei volte si mostra a Lucia, Giacinta e Francesco e tutte e sei le volte termina il suo colloquio con i fortunati Fanciulli con la raccomandazione della recita del Rosario, come di cosa graditissima al Suo Cuore Immacolato e come strumento adatto a ottenere la conversione dei peccatori, la pace del mondo e il trionfo della Chiesa. – Sinceramente, non potremmo attenderci una più alta autorevole ratifica di questa devozione, che la tradizione fa risalire a S. Domenico.

TESTIMONIANZA DELLA STORIA

Documenti diretti e precisi, in base ai quali si possa incontestabilmente provare che S. Domenico sia l’autore del Rosario, non ce ne sono. Tuttavia la tradizione non è priva di fondamento e può vantare il consenso di molti Pontefici, cioè di:

Alessandro VI (« lllius qui» del 13 giugno 1495),

Leone X (« Pastoris Æterni» del 6 ottobre 1520),

Pio V (« Consueverunt » del 17 settembre 1569),

Gregorio XIII (« Monet Apostolus » del 1° aprile 1573)„

Sisto V (« Dum ineffabilia » del 30 gennaio 1586),

Gregorio XIV (« Apostolicæ, servitutis » del 25 settembre 1591),

Clemente VIII (« Cura Beatus Dominicus » del 22 novembre 1592) ,

Alessandro VII (« Cum sicut accepimus » del 15 novembre 1657, e dell’ll maggio 1663. ),

Clemente IX (« Cum sicut accepimus » dell’ll marzo 1669),

Clemente X (« Cum sicut accepimus» del 7 febbraio 1676),

Innocenzo XI (« Cum sicut accepimus» del 17 febbraio 1683),

Benedetto XIII (« Cum sicut accepimus» del 19 gennaio 1726

                e « Pretiosus » del 26 maggio 1727),

Benedetto XIV (« Cum sicut accepimus» del 17 dicembre 1753),

Clemente XIII (« Cum sicut accepimus » del 21 agosto 1767),

Clemente XIV (« Ex poni Nobis » del 9 novembre 1770 e «Cum

                 sicut accepimus » del 4 settembre 1774),

Pio VI (« Cum sicut accepimus» del 26 aprile 1786),

Pio VII (« Ad augendam fidelium » del 16 febbraio 1808),

Pio IX ( « Postquam Deo manente» del 12 aprile 1867;

             « Egregiis sui Ordinis » del 3 dicembre 1869 e

             « Proditum est » dell’8 febbraio 1875),

Leone XIII (In quasi tutti i documenti dedicati al Rosario),

Benedetto XV (Lettera «In cœtu sodalium » del 29 ottobre 1916 ed

                 Enciclica «Fausto appetente» del 29 giugno 1921) e

Pio XI (Lettera « Inclytam ac perillustrem » del 6 marzo 1934 ed

               Enciclica « Ingravescentibus » del 15 settembre 1937).

Papa Sisto IV (Ea quæ ex fidelium » del 12 maggio 1479) afferma che la pratica del Rosario anticamente era diffusa nelle diverse parti del mondo, e che, caduta in disuso, era stata da qualche tempo ripristinata. Era stato un domenicano, Alano de la Roche, a risuscitare la devozione del Rosario, e dotato come era di una grande facondia e di una eminente santità di vita, aveva saputo suscitare un immenso entusiasmo nelle Fiandre, nella Bretagna e nell’Olanda. Tanto era l’affollamento nelle Chiese domenicane per la recita del Rosario, che i Parroci se ne allarmarono, vedendo non più frequentare le loro Chiese. I Pontefici tuttavia dichiararono il Rosario « rito di pregare pio e devoto » (Sisto IV, ibid.), « metodo di preghiera facile e accessibile a tutti » (Pio V: « Consueverunt » del 17 settembre 1569), « piissimo modo di pregare » (Gregorio XIII: «Monet Apostolus » del 1° giugno 1573), che S. Domenico istituì per ispirazione del Signore (Alessandro VI: « Illìus qui» del 13 giugno 1495: Sisto V: «Dum ineffabilia » del 30 gennaio 1586: Clemente VIII: « Cum Beatus Dominicus » del 22 novembre 1593 e Pio IX: « Postquam Deo manente » del 12 aprile 1867). Non solo; ma molti Papi hanno dichiarato il Rosario potente arma contro le eresie e i vizi (Pio V: «Consueverunt» del 17 settembre 1569: Pio IX: « Postquam Deo manente » del 12 aprile 1867; « Egregiis sui Ordinis » del 3 dicembre 1869; Leone XIII: in quasi tutte le Encicliche e i documenti sul Rosario); presidio e difesa contro tutti i nemici; mezzo efficace di santificazione (Pio IX: «Præsidium opportunissimum praesentibus malis » (Lettera « Proditum est » dell’8 febbraio 1875). Clemente VII (« Etsi temporalium » dell’8 maggio 1534) non esita ad asserire che per il Rosario tanto i chierici che i laici, come gli uomini così le donne sono giunti a tanto fervore che Dio e la Beata Vergine li hanno voluti ricompensare non solo con grazie abbondanti, ma anche con moltissimi miracoli e portenti. S. Pio V proclama che i fedeli accesi dalle meditazioni e infiammati dalle preghiere del Rosario si sono sentiti spiritualmente trasformati (« Consueverunt » del 17 settembre 1569). E’ bello notare che non solo i Papi dei secoli passati, ma anche i Pontefici dei nuovi tempi hanno solennemente attestato l’efficacia soprannaturale del Rosario per la santificazione delle anime, per la repressione delle eresie e dei vizi, e per la pacificazione del mondo. Non possiamo non tener conto di queste testimonianze, che vengono dai supremi Maestri della fede e con gioia constatiamo la perfetta concordanza del pensiero tradizionale dei Vicari di Cristo con il Messaggio rosariano di Fatima.Certamente la parola dei Pontefici Romani non ha bisogno di essere confermata da interventi soprannaturali, almeno per i cattolici, ai qual i basta la promessa che Gesù un giorno fece a Pietro: « Qualunque cosa tu avrai legato in terra, sarà legato anche nel cielo; e qualunque cosa tu avrai sciolto in terra, sarà sciolto anche in cielo » (Matt. XVI, 19); nondimeno un intervento soprannaturale varrà sempre a rinforzare la fede dei deboli e dissipare le dubbiezze degli incerti. Così a Lourdes la Beata Vergine, proclamandosi l’Immacolata Concezione, confermò non il dogma, che era stato definito quattro anni prima, ma la fede soggettiva dei cristiani. Non altrimenti a Fatima per la devozione del Santo Rosario e per la sua potenzialità in ordine al bene delle anime e della società. Chi vorrà fare il sordo alla voce del Papa, ascolti almeno il monito e l’esortazione della Madre Celeste.La storia del Rosario, confusa e frammentaria fino a metà del secolo XV, può vantare una documentazione certa e solida da quando il Beato Alano si fece ripristinatore di questa devozione e da quando il grande Papa francescano, Sisto IV, con bolla del 30 maggio 1478 « Pastoris æterni », approvando la confraternita « de Rosario Beatæ Virginis Mariæ nuncupata », eretta nella Chiesa dei Domenicani di Colonia, lo introdusse ufficialmente nella Chiesa.La Divina Provvidenza aveva riservato all’Ordine Domenicano il privilegio singolare di suscitare una simile devozione e di propagandarla con incredibile zelo nel mondo; ma aveva anche riservato all’Ordine di S. Francesco il privilegio grande di presentarlo alla Chiesa con l’autorità di un Papa, tratto dal suo seno. Da allora il Rosario, come dirà in seguito Leone XIII («Octobri mense» del 22 settembre 1891), è divenuto la tessera della fede. Il vero cristiano lo si riconosce più facilmente dalla corona del Rosario, che porta in tasca, che da qualsiasi altra manifestazione esterna.

SALTERIO MARIANO

La più completa ed esatta definizione del Rosario ce la dà il Breviario, nella quinta lezione della festa della Madonna del Rosario. « II Rosario o Salterio è una sacra formula di pregare Iddio in onore della Beata Maria; mediante la quale, in quindici decadi di Salutazione angelica, intermezzate da un Pater, si contemplano con pie meditazioni i quindici principali misteri della Redenzione umana » (« Est autem Rosarium sive Psalterium, sacra quædam formula precandi Deum in honorem Beatæ Mariæ: qua per quindecim salutationis angelicæ decades interiecta singulis Oratione Dominica, quindecim præcipua Redemptionis humanæ mysteria piis meditationihus percensentur »).Orazione vocale e orazione mentale insieme: qui è l’essenza del Rosario. Per la verità, benché sia assodato che la meditazione dei misteri fosse in uso fin dai tempi almeno del Beato Alano, tuttavia, salvo errore, nei documenti pontifici la prima volta ne è fatta menzione nella bolla di S. Pio V, « Consueverunt » del 17 Settembre 1569. Il contesto fa comprendere che essa fosse già praticata dai Rosarianti; ma è la prima volta, ripeto, che l’autorità suprema della Chiesa dichiara che la meditazione dei misteri fa parte integrante del Rosario. Si dovrà giungere nondimeno a Benedetto XIII (Decr. della S. C. delle Indulgenze del 13 agosto 1726) per sapere che la meditazione dei misteri è necessaria per lucrare le indulgenze annesse a questa devozione, benché lo stesso Pontefice dichiari (Ibid. e Costituzione Apostolica « Pretiosus » del 26 maggio 1727) anche che i fedeli, che per la loro ignoranza non sapessero meditare i misteri della vita del Redentore, possano egualmente guadagnare le sante indulgenze, meditando i Novissimi od altre pie cose. L a S. C. delle Indulgenze confermò la disposizione di Benedetto XIII in un Rescritto del 1 Luglio 1839. Leone XIII nella Costituzione Apostolica « Ubi primum » del 2 Ottobre 1898, dice che agli Ascritti alla Confraternita del Rosario è imposto l’obbligo di recitare nel corso della settimana il Rosario « cum quindecim mysteriorum meditatione». E’ chiaro dunque che per aversi il vero Rosario debbono concorrere questi due elementi: la recita delle Ave Maria e dei Pater e la meditazione dei misteri. – L’uso della corona è necessario perché si abbia il Rosario? Rispondiamo subito di no! La corona è semplicemente uno strumento adottato per rendere più ordinata e regolare la recita del Rosario. Essa oggi è divenuta il simbolo di questa devozione mariana e la Vergine Santa tanto a Lourdes che a Fatima è apparsa tenendo in mano la corona. L’uso di contare i Pater e le Ave con dei grani infilati nello spago è antecedente all’istituzione del Rosario. I Rosarianti lo adottarono fin dagli inizi, tanto è vero che, come rileviamo da una Bolla di Innocenzo VIII del 26 Febbraio 1491 e da un’altra di Alessandro VI del 13 giugno 1495, la Confraternita del Rosario era chiamata anche « de Capelleto », dal francese « chapelet », corrispondente all’italiano « corona ». Più tardi fu annessa l’indulgenza alla corona stessa; onde oggi dobbiamo distinguere le indulgenze, di cui è arricchito il Rosario come tale, dalle indulgenze legate alla corona. Per lucrare le prime non occorre l’uso della corona, benedetta o no; mentre usandosi la corona benedetta da cui ne abbia facoltà, si guadagneranno in più le indulgenze che i Sommi Pontefici hanno voluto annettere al pio strumento.

SCUOLA DI SAPIENZA

Abbiamo riportato sopra la testimonianza altissima di alcuni Papi circa gli effetti di santità, che la devozione del Rosario produce nelle anime. Addentrarsi in una profonda analisi sul valore spirituale di questa regina delle devozioni mariane è compito del teologo. Noi, senza la pretesa di fare una trattazione esauriente, ci sentiamo in dovere di esaminare questo lato, d’altronde importantissimo, del Rosario. Affermiamo innanzi tutto che il Rosario è una scuola, in cui è Maestra Maria, la Madre di Dio. Maria insegna che punto di arrivo di ognuno che tende alla perfezione è l’amore di Dio. Amare Dio con tutte le nostre forze, ecco il termine di ogni nostra attività interiore ed esteriore. Il punto di partenza è la fuga del peccato, la repressione delle passioni disordinate, la mortificazione dei sensi. Man mano che l’anima si scosta dalle cose terrene, avanzerà nella conoscenza e nel desiderio di possedere le cose celesti, fino a raggiungere quella perfetta unione con Dio, in cui solo l’uomo può trovare la sua pace e il suo riposo. S. Tommaso ha scritto: « Hoc præcipue in oratione petendum est, ut Deo uniamur » (Summ. Theol. II II. q. 83, a. 1, ad 2). Pregando col Rosario è Maria che ci guida, quasi tenendoci per mano, a Dio, e c’insegna come dobbiamo unirci a Lui e con la sua intercessione ci ottiene la grazia dell’unione. L’a nima si unisce a Dio mediante la carità, da cui sgorgano i doni dello Spirito Santo. Tra i doni dello Spirito Santo quello che più direttamente unisce l’anima a Dio è, secondo S. Tommaso (Ib. q. 45, a. 3. ad 1), l a Sapienza, che, secondo lo stesso Dottore (Ib. q. 9, a. 2) è « cognitio divinarum rerum ». Questo altissimo dono innanzi tutto eleva l’anima alla contemplazione delle verità della fede e poi muove gli affetti del cuore. « Per sapientiam dirigitur et hominis intellectus et hominis affectus » (Ib. I II, q. 68, a. 4, ad. 5); onde essa è insieme speculativa e pratica (Ib. II II, q. 45, a. 3).Ho creduto necessario premettere questi brevissimi elementi sul dono della Sapienza, per poter affermare che intanto la recita del Rosario ha così potente influenza in ordine alla santificazione delle anime e, conseguentemente, alla loro unione con Dio, in quanto è nel Rosario che il dono della Sapienza esercita la sua dolce e penetrante azione.Per spiegare questa mia asserzione, debbo rifarmi ancora una volta alla dottrina dell’Angelico Dottore. Sappiamo da S. Luca come la Beata Vergine conservasse nel suo cuore il ricordo degli avvenimenti, che distinsero la nascita di Gesù e la Sua infanzia. Due volte S. Luca rende a Maria questa preziosa testimonianza. Difatti l’Evangelista, dopo di aver narrato l’adorazione dei pastori a Betlemme, soggiunge: « Maria autem conservabat omnia verba hæc, conferens in corde suo » (II, 19). Più sotto, raccontato lo smarrimento di Gesù e il suo ritrovamento nel tempio, chiude : « Et Mater eius conservabat omnia verba hæc in corde suo » (II, 51) . Nella prima testimonianza, c’è quel « conferens in corde suo », che è di un valore incalcolabile. Esso ci dice come Maria dei misteri dell’Infanzia del Suo Figlio Divino facesse continua meditazione. E’ il Rosario in embrione! Da questo particolare S. Tommaso deduce che nella S. Vergine ci fu in modo eminente il dono della Sapienza. Scrive il S. Dottore: « Non c’è alcun dubbio che la Beata Vergine abbia ricevuto in modo eccellente il dono della sapienza, di cui ebbe l’uso nella contemplazione, secondo che scrive Luca: « Maria autem conservabat omnia verba hæc conferens in corde suo » ( Ib. III, q. 27, a. 5, ad 3). E’ evidente che, secondo S. Tommaso, la Vergine Santissima esercitò il dono della sapienza, meditando e contemplando i misteri della vita di Gesù. Possiamo ragionevolmente ritenere che Maria per tutta la sua vita abbia concentrato le sue meditazioni su questi soggetti, a Lei carissimi, sia perché riguardavano Gesù, sia perché in molti di essi. Ella medesima aveva avuto una parte non trascurabile. Alla luce della fede e della teologia noi crediamo alla decisiva importanza dei doni dello Spirito Santo in ordine alla elevazione e alla santificazione delle anime. Riteniamo che questi divini doni — e sopratutto il primo — hanno modo di svolgere la loro azione segreta, lenta e costante nelle anime che, alla scuola di Maria, contemplano i misteri della nostra Redenzione. L’esperienza del mistero sacerdotale spesso ci ha dato la consolazione di trovarci di fronte ad anime dotate di grandi virtù cristiane; anime che in mezzo al turbinìo delle passioni giovanili, hanno saputo conservare pura e intatta la loro fede, o che, dopo un più o meno lungo periodo di sbandamento, hanno ritrovato la « diritta via » e si sono avviate verso la santità. Con gioia abbiamo constatato sempre che due elementi sono stati decisivi per queste anime: la Comunione frequente e la recita quotidiana del Rosario. Abbiamo conosciuto anche anime semplici, illetterate, eppure dotate di un profondo senso di penetrazione nelle cose della Religione. Nel Rosario avevano trovato la fonte della loro sapienza! – Acutamente Leone XIII ha avvicinato il Rosario alla Somma Teologica, lodando i Domenicani che con queste due istituzioni hanno operato grandi cose « ad salutem et doctrìnam chrìstiani populi » (Lettera al maestro Gen. O. P. del 20 sett. 1892).

SEGRETO DI VITTORIA

Mi viene alla mente la profonda sentenza di S. Agostino: – Qui recte novit orare, recte novit vìvere – (In Ps. CXVIII.). Di qui inferisco che colui che prega col Rosario, prega bene; onde è impossibile che non viva bene. D’altronde il dono della Sapienza, che, sulle orme dell’Angelico Dottore, ho ammesso pure prevalentemente operante nell’anima di chi recita il Rosario, secondo lo stesso Dottore — l’ho citato sopra — è insieme speculativo e pratico e dirige non solo l’intelletto, ma anche l’affetto dell’uomo. – E come potrà vivere nel peccato, chi assiduamente medita sulla vita di Gesù Cristo e della Sua Madre Santissima? I misteri gaudiosi susciteranno nel cuore del cristiano il disprezzo dei beni terreni e accenderanno il desiderio dei celesti; i misteri dolorosi indurranno alla nausea e alla fuga dei più vili piaceri, infondendo la gioia del più delicato rispetto al proprio corpo, in quanto è, come dice S. Paolo, « tempio dello Spirito Santo » (1 Cor. III, 16-17; VI, 19); in ultimo, i misteri gloriosi, sollevando la mente alla visione dei trionfi immortali di Gesù e Maria, faranno comprendere il beneficio del dolore e delle lacrime e l’inanità di quella gloria mondana, che è come « eco di tromba, che si perde a valle » (Carducci, La Chiesa di Polenta).Si sa come l’uomo è continuamente insidiato dalle tre tentazioni, che lo stesso Figlio di Dio volle sperimentare nel deserto, benché senza il minimo pericolo per Lui e che l’apostolo S. Giovanni ha indicato e identificato nella concupiscenza degli occhi, nella concupiscenza della carne e nella superbia della vita (1 Giov. II, 16). E simili tentazioni se vincono gli individui assaliranno anche le collettività, perché la collettività non è altro che la raccolta di più individui, i quali, se saranno buoni, costituiranno una collettività buona, se cattivi, cattiva.Geneticamente abbiamo prima l’individuo, poi la famiglia, poi la nazione, poi l’umanità tutta. Risanare l’individuo è il primo passo verso quel rinnovamento della società, che tutti invocano, perché a tutti appare necessario e urgente, se si vuole ancora salvare il nostro patrimonio di millenaria civiltà.Il Rosario, come abbiamo visto, potrà giovare molto al risanamento e al rinnovamento degli individui, attraverso i quali farà giungere i suoi benefici effetti alla collettività. Per questa ragione i Papi di oggi, come quelli del 400 o 500, fanno appello al Rosario come a mezzo di salute, e la Vergine Maria, come a Lourdes così a Fatima, indica nel Rosario l’arma per vincere i nemici della Chiesa e dell’umanità. I profani, i cristiani deboli, i nemici, forse ci accuseranno di semplicismo, se in tanto sfoggio di erudizione moderna, in tanto apparato di potenza, in tanto tramestio di politici, diplomatici, giuristi e studiosi di problemi atomici, noi, con serenità di spirito, docili alle esortazioni dei Pontefici e accogliendo il Messaggio Mariano di Fatima, ci appigliamo a quell’umile e fragile tavola di salvezza, che è il Rosario. « Questa è la vittoria sul mondo, la nostra fede » (1 Giov. V, 4), ammonisce l’Apostolo S. Giovanni e noi crediamo a questa parola, perché viene da Dio, e perché è stata collaudata da venti secoli di storia. La fede viene alimentata stupendamente dal Rosario; onde non può mancare la vittoria a chi sa sgranare questa benedetta corona, col cuore sollevato a Dio e lo sguardo fisso in Colei, che è l’aiuto dei cristiani. Nella storia del Rosario leggo che si attribuiscono a questa devozione ben ventotto grandi vittorie contro i nemici armati della fede e della civiltà cristiana, tra cui le più famose sono quelladi Muret contro gli Aìbigesi nel 1212 e quella di Lepanto contro i Turchi nel 1571. Ma chi potrà contare le vittorie riportate dal Rosario contro i nemici dottrinali della Chiesa? Quante eresie compresse, quanti scismi sanati, quanta miscredenza eliminata! – Contro l’invadenza del neo paganesimo, si chiami nazismo o si chiami comunismo, i due ultimi Papi ripetutamente hanno indicato nel Rosario l’arma di vittoria e la rocca di salvezza. Pio XI emanò una enciclica il 29 settembre 1937, e Pio XII, felicemente regnante, ne emanò un’altra il 15 Settembre 1951, senza ricordare tutte le esortazioni, che questo grande Pontefice, a voce, nei Suoi sapienti discorsi, indirizza alle varie categorie di fedeli, che si recano a venerarlo da tutte le parti del mondo. – Come rispondono i cattolici alla voce dei Papi e al Messaggio di Maria?

LA CONFRATERNITA DEL ROSARIO E LE SUE PROPAGGINI

Il Rosario ha una particolare organizzazione che ha giovato molto alla sua diffusione e al suo incremento. –  Prima, in ordine di tempo e in ordine d’importanza, è la CONFRATERNITA. Essa è antichissima. La bolla di Sisto IV del 1478, che sopra abbiamo citata, ha lo scopo di confermare e arricchire di favori spirituali la Confraternita del Rosario, stabilita nella Chiesa dei Domenicani di Colonia. Da Sisto IV a Leone XIII non c’è Pontefice che non abbia largito nuove indulgenze alle Confraternite, o non ne abbia confermate le già concesse. – A ridare vita e spirito a questa Confraternita Leone XIII dedicò la sua enciclica Rosariana « Lætitiæ sanctæ » del 1893 e le diede nuova sistemazione con la Costituzione Apostolica « Ubi primum » del 2 Ottobre 1898. – L’erezione canonica di questa Confraternita, fin dai tempi di Pio V, è riservata al Generale dei Domenicani. I Confratelli assumono l’obbligo particolare di recitare il Rosario intero ogni settimana. Quanti degli odierni Ascritti alle Confraternite del Rosario conoscono questo dovere e quanti, conoscendolo, lo adempiano? Non credo di esagerare, asserendo che la Confraternita del Rosario è la più ricca d’indulgenze e di favori spirituali. Perché e stata sempre la più favorita dai Vicari di Gesù Cristo (L’elenco delle Indulgenze e dei favori spirituali concessi dalla S. Sede alla Confraternita del Rosario è stato recentemente (2 gennaio 1953) aggiornato e approvato dalla S. C. dei Riti (Cfr. Analecta S.O.P., vol. XXXI, 1953, pag. 39 ss.). E’ da augurarsi che sacerdoti e laici veramente cattolici vogliano adoperarsi a ricondurre le Confraternite del Rosario al loro vero spirito, che non è certamente quello di organizzare accompagnamenti funebri e commerciare in loculi cimiteriali. Tornando alle origini, le Confraternite risponderanno in pieno agli appelli dei Romani Pontefici e attueranno il pio desiderio della Madre celeste. Appendice nobile e veramente operante della Confraternita è il cosiddetto ROSARIO PERPETUO, chiamato da Leone XIII « pulcherrima in Sanctissimam Matrem pietatis manifestatio » (Encicl. « Augustissimæ Virginis » del 12 settembre 1897).Istitutore del Rosario Perpetuo, secondo le maggiori probabilità storiche, sarebbe stato il ven. Timoteo Ricci (+1643), domenicano fiorentino. Questa pia pratica consiste nella recita ininterrotta del Rosario, fatta dagli Ascritti ad un’ora per ciascuno determinata, di giorno e di notte, in modo che non vi sia mai un istante nella Chiesa, in cui non si elevi al trono di Maria il profumo di queste mistiche rose, fiorenti nel cuore dei suoi figli migliori. – Nato nel 1635, il Rosario Perpetuo si diffuse con prodigiosa rapidità e Papa Alessandro VII nel 1656 concesse l’indigenza plenaria ai fedeli, che praticassero l’Ora del Rosario Perpetuo, indulgenza in seguito rinnovata e confermata dai Pontefici Clemente X (« Ad augendam » del 17 febbraio 1676), Innocenzo XI (Lettera del 17 febbraio 1683), Clemente XI: ((53) Lettera del 14 novembre 1710), Innocenzo XIII (Lettera del 3 agosto 1723.), Clemente XII (Lettera del 20 maggio 1737) , Pio VI (Lettera del 17 dicembre 1779, e del 13 maggio 1786) , e Pio VII (Lettera del 16 febbrai.. I808).Con la Rivoluzione Francese e con i sovvertimenti sociali e politici, che ne seguirono, il Rosario Perpetuo decadde, ma Pio IX, con breve apostolico del 12 Aprile 1867 « Postquam monente Deo », lo ripristinò, arricchendolo di nuove Indulgenze. Per quanto mi risulta, il titolo di Rosario Perpetuo ufficialmente in un documento pontificio viene usato la prima volta da Pio IX, nel Breve or ora citato.Dal 1867 la pratica del Rosario Perpetuo ha reclutato milioni di fedeli, che in tutto il mondo, senza interruzione, sgranano ai piedi di Maria la loro corona. Leone XIII volle onorare del Suo grande nome l’Associazione del Rosario Perpetuo, obbligandosi a tenere la Sua Ora di Guardia dalle 10 alle 11 di sera in ciascun primo giorno del mese. Un’altra appendice della Confraternita del Rosario è il così detto ROSARIO VIVENTE. Ne fu Autrice, verso l’anno 1826, la signorina Paolina Maria Jaricot, di Lione. Il Rosario Vivente è un’Associazione in cui gli Ascritti vengono divisi in gruppi di quindici; ogni gruppo è presieduto da uno Zelatore o Zelatrice. che ha il compito di assegnare, al principio del mese, uno dei quindici misteri a ciascun Ascritto. Questi si obbliga a recitare ogni giorno una posta di Rosario, meditando il mistero assegnatogli. In tal modo la recita quotidiana del Rosario intero diviene un atto della collettività, cioè del Gruppo. Il Rosario Vivente ebbe una diffusione rapidissima, diremmo prodigiosa. Dopo appena sei anni di vita, fu approvato e raccomandato da Papa Gregorio XVI (Costit. Ap. « Benedicentes Domino» del 27 gennaio 1832), che lo arricchì di sante indulgenze e che dopo quel primo atto, onorò l’istituzione di ben altri quattro importanti documenti (Lettera ai RR. Betemps di Lione e Marduel di Parigi , del 2 febbraio 1832; Lettera al R. Betemps, del 13 aprile 1833; Lettera a Paolina Maria Jaricot, Fondatrice del Rosario Vivente, del 13 aprile 1833; Lettera alla medesima, del 21 febbraio 1835), volti a esaltare e incoraggiare la nuova forma di questa devozione mariana. Pio IX, seguendo le orme del Suo venerabile Predecessore, accordò anche lui la sua alta protezione a questo nuovo germoglio del Rosario, confermando le indulgenze di Gregorio XVI (Lettera Apost. del 12 agosto 1862) e mettendo l’Associazione sotto la giurisdizione dell’Ordine Domenicano (Cost. Apost. « Quod iure hereditario » del 17 agosto 1877), a cui per diritto ereditario, riconosciutogli dai Sommi Pontefici, spetta regolare e dirigere la propaganda del Rosario, sotto qualunque forma. Una pagina simpatica nella storia del Rosario Vivente l’ha scritta e la scrive tuttora la bianca Legione dei Piccoli Rosarianti, sorta nel 1904 in Francia, trapiantata nel 1909 in Italia e ormai diffusa i n tutto il mondo cattolico. Questa « puerile decus », che graziosamente circonda il trono della Regina degli Angeli, ha avuto il suo particolare altissimo riconoscimento dalla Sede Apostolica, quando Benedetto X V , con decreto della Suprema Sacra Congregazione del S. Ufficio – Sezione Indulgenze – del 18 Marzo 1915, concedeva ai Fanciulli della Bianca Legione indulgenze particolari, oltre quelle di cui gode il Rosario Vivente (Analeeta S. O. Fratrum Prædicatorum, 1915. pag. 61).

PRATICHE ROSARIANE

In connessione con la devozione del Rosario accenneremo a qualche pia pratica, sorta nella Chiesa. Innanzi tutto ricordiamo la preparazione che i fedeli sogliono fare alla festa del Rosario con i così detti QUINDICI SABATI. Quindici, perché tale è il numero dei misteri rosariani, e Sabati, perché si sa che fin dal medio evo questo giorno fu dedicato in modo particolare al culto della Beata Vergine, poiché, tra le altre ragioni addotte da Umberto de Romanis ( De Vita Regulari, voi. II, pag. 72, a cura del P. Berthier, 1888), « in sabbato completum est opus creationis sive naturæ: in ipsa (Maria) vero completum est opus recreationis, sive gratiæ ». – L’origine dei XV Sabati risale al secolo XVII, cioè alla vittoria riportata dal re di Francia Luigi XIII a La Rochelle, contro gli Ugonotti. I primi a praticare questo pio Esercizio, stando alle più accreditate notizie giunte fino a noi, furono i Domenicani di Tolosa, imitati ben presto dai Domenicani di tutto il mondo e quindi dal Clero secolare e regolare indistintamente. Ha dato molto incremento a questa devozione la propaganda del Servo di Dio Bartolo Longo. L a S. Sede accordò subito il suo favore ai XV Sabati, concedento molte indulgenze. Allo stato attuale, è concessa l’indulgenza plenaria per ciascun Sabato, purché il fedele si confessi, si comunichi e reciti almeno una terza parte del Rosario. Inoltre, per comodità dei cristiani, al posto dei XV Sabati si possono fare altrettante Domeniche, alle stesse condizioni e con gli stessi benefici spirituali; in ultimo il pio Esercizio dei XV Sabati lo si può fare in qualunque tempo dell’anno, e perciò non esclusivamente in preparazione alla festa del Rosario (Cfr. Preces et Pia Opera inlulgentiis ditata, edita dalla S. Penitenzieria Apostolica, al n. 362). Un’altra pia pratica, tanto raccomandata dai Sommi Pontefici, è quella del mese di OTTOBRE DEDICATO ALLA MADONNA DEL ROSARIO. Ad iniziare questo pio Esercizio furono i domenicani, in ricordo della battaglia di Lepanto, che avvenne il 7 Ottobre 1571. Fino a Pio IX nessuna speciale indulgenza era stata concessa ai fedeli che lo praticassero. Questo Pontefice, accogliendo una supplica del P. Giuseppe Moran, domenicano spagnolo, nel 1868 concesse l’indulgenza di sette anni e sette quarantene ai fedeli, per ogni volta che assistessero alla funzione del mese di Ottobre in onore della Madonna del Rosario, e plenaria alla fine del mese per quanti avessero seguito la pia pratica per l’intero mese. Leone XIII, con l’enciclica « Supremi Apostolatus » del 1° Settembre 1883, estese l’obbligo del mese di Ottobre alle chiese parrocchiali della Cristianità, obbligo che confermò l’anno seguente con l’enciclica « Superiore Anno » del 30 Agosto 1884. Un decreto della S. C. delle Indulgenze, del 31 Agosto 1885, fissa le norme del mese di Ottobre e ne determina i favori spirituali, che sono tuttora vigenti, per quanto l’obbligo delle funzioni da tenersi nelle Parrocchie sia cessato dopo la conclusione dei Patti Lateranensi, essendo venuto a mancare il motivo principale, che aveva indotto Papa Leone XIII a ordinare la pratica del mese di Ottobre. Un’altra pia pratica del Rosario è la solenne Processione, che le Confraternite dovrebbero fare nella prima domenica di Ottobre, a ricordo della vittoria di Lepanto. I Domenicani, per privilegio apostolico (Benedetto XIII « In supremo» del 1° aprile 1725 e « Pretiosus » del 26 maggio 1727; Clemente XII « Cum sicut accepimus » del 10 aprile 1733), possono fare la processione in detto giorno « ingrediendo limites cuiuscumque parochiæ, ordinarli licentia minime requisita et absque licentia Parochi » (Benedetto XIII. ibid). Papa Leone XIII annette molta importanza a questa « Processione » e nelle Sue encicliche « Supremi Apostolatus » e « Superiore Anno », più volte ricordate, esorta i fedeli a intervenire a un simile atto di pietà mariana, con spirito di preghiera e di penitenza. Abbiamo brevemente ricordato le Istituzioni Rosariane, che sono sorte nella Chiesa, da  quando il Rosario si è diffuso tra i fedeli (Per più ampie notizie, vedere l’eccellente opera del P. Ludovico Fanfani O.P. « De Rosario B. M. Virginis » (Marietti, 1930). Anche oggi, possiamo ammetterlo con certezza, sono milioni di anime, sparse in ogni parte della terra, che quotidianamente recitano il Rosario, per il trionfo della Chiesa, per la conversione dei peccatori, per la pace del mondo, per il benessere di tutta l’umanità. – Né i tempi nuovi, pur essendo saturi di miscredenza e di scetticismo, hanno affievolito l’ardore della preghiera rosariana, che anzi potremmo affermare, l’hanno incrementata, suggerendo forme nuove, più adatte all’indole e alle esigenze del secolo XX, e aumentandone, per conseguenza, l’efficacia spirituale e sociale.

TROVATE ROSARIANE

Anche la pietà ha le sue industrie, cioè quei ritrovati ingegnosi, che servono a far penetrare in un ambiente meno preparato o in un cuore refrattario, un raggio di fede, un alito di speranza e una scintilla di carità. La Sapienza di Dio che, secondo l’affermazione della Scrittura (Prov. VIII, 31), si diverte nel mondo — ludens in orbe terrarum — ispira Essa stessa queste industrie, che spesso ottengono degli effetti strabilianti. Pio IX (Bolla « Ineffabilis » dell’8 dicembre 1854) asserisce che molto opportunamente i Santi Padri applicano a Maria quanto dai Libri Santi viene detto della Sapienza. Onde le parole sopra riportate — « ludens in orbe terrarum » — le possiamo anche intendere, sia pure con senso accomodatizio, come riferentisi alla Madre di Dio. Anche Maria « si diverte nel mondo », mettendo in azione l’intelligenza e il cuore dei Suoi devoti.  Assistiamo a un consolante spettacolo, cioè a una ripresa rosariana generale nel mondo cattolico in conseguenza della diffusione del Messaggio recato da Maria a Fatima. Ovunque sorgono anime generose — anche in ambienti che ci sembrano negati e chiusi ermeticamente al soffio divino — che si dedicano alla propaganda di questa devozione mariana e collaborano attivamente con la Gerarchia della Chiesa.Parlerò in ultimo della Crociata del Rosario; ora voglio segnalare alcune « specialità » rosariane, che dimostrano lo spirito di adattamento alle esigenze dei nostri tempi, che distingue la devozione del Rosario. Quasi tutte queste « specialità » rappresentano un meraviglioso effetto della Crociata del Rosario, la quale ha infervorato tanti cuori di amore per la Madonna e sappiamo che l’amore ha una genialità tutta sua nell’escogitare mezzi e forme, intesi ad appagare i bisogni del cuore. Accenno a qualche iniziativa, che mi sembra più meritevole di rilievo. – Il Rosario radiofonico o radiotrasmesso è iniziativa dell’americano P. Patrizio Peyton. Ha avuto uno straordinario successo e ora ha acquistato un carattere internazionale. In parecchi paesi del mondo il Rosario ogni giorno viene radiotrasmesso. Gli Stati Uniti sono al primo posto, la Spagna al secondo. Diamo il posto d’onore all’America del Nord, perché in quella grande nazione sono ben 230 le Stazioni Radio che trasmettono il Rosario e di esse 100 lo trasmettono quotidianamente. E’ significativo che il P. Peyton i primi e i migliori collaboratori per questa Sua Crociata li abbia cercati e trovati a Hollywood, nell’ambiente più mondano che si possa immaginare. Scherzi della Madonna! Quanto al Rosario radiotrasmesso l’Italia forse occupa uno degli ultimi posti; ma già è in azione un’armata azzurra, che promuove petizioni e raccoglie firme per ottenere dalla R. A. I. la trasmissione quotidiana e sistematica del Rosario. Il P. Peyton ha inviato in Italia un’Ambasciatrice di Maria, la grande artista Miss Kety, per preparare i nostri artisti alle trasmissioni mariane radiofoniche. Auguriamo a Miss Kety il più lusinghiero successo della sua missione. – Come auguriamo ai promotori della iniziativa di riuscire nel bel tentativo di dotare il Santuario di Pompei di una Radio mariana, di una Radio che funzioni solo per lanciare alle quattro parti del mondo messaggi mariani, cioè messaggi di carità e di pace. C’è anche un Rosario telefonico, in vigore nella cattolica Spagna fin dal 1935. Quando fu lanciata l’idea del Rosario per telefono nella Patria di S. Domenico, ben 60 Centri telefonici aderirono. I telefonisti spagnoli s’impegnarono alla recita del Rosario per linea, quotidianamente, di buon mattino, alle ore 4,45, per non essere di disturbo agli utenti. In America, sempre feconda di trovate curiose, anche nel campo della pietà, è stato inventato in questi ultimi tempi nientemeno che il Rosario a orologeria. Se c’è un ordigno di morte a orologeria, perché non ci dev’essere con lo stesso sistema un congegno di vita e di salute, quale è il Rosario? così avrà ragionato il Sig. Damon M. Doherty di St. Cloud nel Minnesota. Non solo la necessità, ma anche l’amore aguzza l’ingegno! E d ecco il Sig. Doherty prendere un disco e sopra annotarci i quindici misteri del Rosario e disporvi in giro una corona autentica, piantare al centro due lancette, una delle quali segna i misteri e l’altra i grani della corona. C’è una suoneria, che dà il segnale alla fine di ogni decade. Tutto funziona… come un orologio. Nel centro del disco si possono leggere queste parole: « prega per la pace ». Un simile congegno è stato approvato dall’Autorità Ecclesiastica e può essere utile a chi vuol recitare il Rosario durante il lavoro. Tuttavia perché chi usasse questo sistema — e penso che esso potrebbe riuscire comodo, per es.: agli autisti — possa lucrare le indulgenze annesse alla corona, deve tenere indosso, in qualunque modo, la stessa corona, giusta il Decreto della S. Penitenzieria del 9 Novembre 1933. – Un buon autista ogni giorno in macchina recita il suo Rosario, assegnando una posta per ogni sosta e meditando sui misteri. E pare che gli affari gli vadano bene. E’ il Rosario in macchina o in veicolo! Quanti autisti e quanti vetturini possono imitare l’esempio di questo loro collega, attirando su di sé le benedizioni e lo sguardo compiacente della celeste Madre! Una curiosità rosariana? Eccola! A Birmingham in Inghilterra, durante la recente Crociata del Rosario, predicata dal celebre P. Peyton, fu benedetta una corona di 15 poste, lunga 6 metri. Essa era destinata alla Famiglia Poole, composta di padre, madre e 12 figli. In tal modo la numerosa famiglia potrà recitare il Rosario insieme con una sola corona, della quale ciascun membro reggerà una parte. Potrei continuare nella narrazione di simili spigolature, come potrei aggiungere episodi altamente significativi di quel fervore e di quell’entusiasmo, con cui i buoni cristiani hanno accolto il pressante invito della Vergine di Fatima a recitare ogni giorno il santo Rosario. Per suscitare tanto entusiastico fervore la Madonna ha dato vita alla cosi detta CROCIATA DEL ROSARIO.

LA CROCIATA DEL ROSARIO

E ‘ ora che diciamo una parola di questa bellissima e utilissima iniziativa. L’ideatore e l’iniziatore della Crociata del Rosario fu il domenicano belga P. Luca Hellemans, che organizzò la prima Crociata nel 1939, proprio alla vigilia della seconda grande guerra. In seguito il P. Hellemans, rimasto minorato a causa di un incidente automobilistico, fu sostituto nella direzione della Crociata per il Belgio dal P. Giacinto Berghmans, che ha saputo dare all’opera del suo confratello sviluppi meravigliosi. La Crociata ben presto valicò i confini del piccolo Belgio e si estese prima alla Francia, poi al restante delle nazioni europee, quindi passò l’oceano e negli Stati Uniti, nel Canada, nelle Repubbliche dell’America Latina, nelle Filippine, nell’Australia, finanche in alcune regioni dell’Estremo Oriente, essa oggi è in atto, accolta con immenso favore dall’Episcopato, dal Clero, dalle popolazioni cattoliche e anche dalle non cattoliche. Quasi ovunque la Crociata del Rosario è diretta dai Domenicani, i quali però hanno trovato dei collaboratori preziosi in sacerdoti del Clero Secolare e Regolare, tutti affratellati nell’amore e nello zelo della gloria di Colei, che è la Madre e la Regina di tutti i sacerdoti. In America il più grande, fervente e geniale collaboratore della Crociata del Rosario è il famoso P. Peyton, che non è un domenicano, ma un Religioso della Congregazione della S. Croce, che ha creato il Rosario alla radio. In Italia a capo della Crociata c’è il P. Marcello Vanni O. P., il quale dirige tutto il lavoro dei suoi trenta Confratelli Domenicani e lo organizza nelle varie diocesi secondo le richieste dei Vescovi Nel 1952 ha fatto rumore la Crociata del Rosario in Inghilterra, voluta da S. E m . il Card. Griffin, predicata dal P. Peyton e onorata da una lettera del Sommo Pontefice. L’augusto documento è di importanza eccezionale, perché con esso la Crociata del Rosario riceve il crisma dell’ufficialità, se così posso esprimermi. Il Santo Padre, dopo di aver ricordato quanto bisogno vi sia di pregare « nel presente momento, in cui una pericolosa forma di materialismo tende a minare i rapporti degli uomini col loro Creatore, e con i loro simili, e a distruggere la santità della famiglia », proclama che nessuna preghiera è più efficace di quella che si fa in comune, e tra le preghiere collettive, nessuna è più semplice e più fruttuosa del Rosario in famiglia. La Crociata dell’Inghi1terra ha avuto vasta eco nel mondo cattolico, per la forma spettacolare che ha assunto, dato l’entusiasmo con cui l’accolsero i cattolici inglesi. E non solo i cattolici; finanche gli anglicani furono presi dal fuoco. A Birmingham fu lo stesso Rettore della Chiesa Anglicana che esortò i suoi fedeli ad andare a sentire le prediche del P. Peyton. Si calcolano a 400.000 i cattolici inglesi che hanno risposto all’appello del P. Peyton. La definizione della Crociata del Rosario ce la dà il P. Vanni : « E’ un Movimento spirituale di preghiere, penitenze e predicazioni, che si propone di contribuire alla restaurazione in senso cristiano della nostra società, attraverso il ristabilimento del Rosario nelle famiglie e in tutte le comunità (Istituti, Ospedali, Prigioni, ecc.) (P. Marcello Vanni, 0. P., La Crociata del Rosario.). Essa ha lo scopo precipuo di propagare la recita quotidiana del Rosario non tanto come forma privata e personale di devozione mariana, ma sopratutto come preghiera collettiva, e non solamente nelle Chiese e nelle Comunità Religiose, ma anche ovunque si trovi una collettività, sia pure embrionale, cioè nelle famiglie, negli ospedali, nelle carceri ecc. Se la preghiera del Rosario ha per se stessa un’efficacia tutta sua, aumenterà questa sua efficacia, quando sarà fatta in comune, perché Nostro Signore Gesù Cristo ha detto: « Io vi dico: che se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo nel domandarmi una qualsiasi cosa, sarà loro accordata dal Padre mio che è nei cieli. Di fatti dove saranno raccolti due o tre ne1 mio Nome, ivi sono Io, in mezzo ad essi » (Matth. XVIII, 19-20). San Tommaso commenta e spiega: « Impossibile est enim preces multorum non exaudiri, si ex multis orationibus fìat quasi una » (In. Matth., XIX). E io penso che quando la famiglia o la comunità si raccoglie per recitare il Rosario, Maria, invisibile, ma reale sia lì, come uno della famiglia o del1a comunità a recitare il Rosario, come lo recitò a Lourdes con Bernardetta, come nel Cenacolo pregò con gli Apostoli (Atti, 1, 14). E potrà non essere esaudita la preghiera, che Maria fa sua e presenta al Suo Figlio Divino? La Crociata proponendosi come suo fine principe quello di riportare la recita quotidiana del Rosario nelle famiglie e nelle comunità, innanzi tutto asseconda una volontà precisa dei Sommi Pontefici. Leone XIII (Enciclica « Fidentem piumque » del 20 settembre 1896 e vari altri Documenti), PioXI (Lettera al Maestro Gen. O. P. « Inclytam ac perillustrem » del 6 marzo 1934 ed Enc. «Ingravescentibus » del 29 settembre 1937.) e Pio XII (Discorso agli Sposi dell’8 ottobre 1941, Encicl. « Ingruentium » del 15 settembre 1951 e vari altri Documenti), per ricordare solo gli ultimi Pontefici, che maggiormente lo hanno raccomandato, hanno ripetutamente e caldamente propugnato il ritorno del Rosario in seno alla famiglia. Poi la Crociata dà compimento al desiderio della Vergine SS. a Fatima, ove, come abbiamo ricordato al principio, Essa ha così vivamente raccomandato la recita del Rosario. In ultimo la Crociata varrà a riportare i costumi dei cristiani sulla scia del Vangelo, eleverà il livello morale e spirituale della Società e salverà il mondo dai tremendi castighi, che si merita per la sua apostasia da Dio (Ricordiamo qui, almeno in una nota, la magnifica  iniziativa di Mons. Fulton J. Sheen, che va sotto il nome di « Crociata mondiale del Rosario Missionario ». Inaugurata nel 1950, essa ha l’intento di far pregare per la pace del mondo e per la conversione di tutti gli uomini, in particolare degli infedeli. Il Rosario si compone di cinque decine di colore diverso, rappresentanti i cinque Continenti: la decina verde l’Africa, la rossa il Continente americano, la bianca l’Europa (in questa decina si prega anche per il Sommo Pontefice, il Bianco Padre, che da Roma veglia sul mondo …), l’azzurra l’Oceania, la gialla l’Asia. – Tre Ave Marie finali vengono dette per i Missionari del mondo. « Quando il Rosario è finito — osserva graziosamente Mons. Fulton Sheen — si è circumnavigato il globo, abbracciando tutti i continenti, tutto il popolo in preghiera». Il Card. Fumasoni Biondi aggiunge: « è una ingegnosa maniera di dare alle persone una coscienza missionaria »). – In America e altrove è stato lanciato questo slogan: il Rosario è più potente della bomba atomica! Così è e così sarà. La modesta fionda del giovinetto Davide non fu più forte della spada, della lancia e dello scudo del gigante Golia (I Reg. 17, 39)? La fionda del pastorello era dotata di una forza divina. Il Rosario è munito anch’esso della forza di Dio, di cui dispone Maria, la Donna Forte per eccellenza (Cant. VI, 3, e 9), terribile come un esercito schierato (Cant. VI, 3, e 9). E noi ci appiglieremo a questa forza e l’useremo per salvare le anime nostre, per salvare la società e il mondo. Non dubitiamo della vittoria. Dio è con noi, e con noi è Maria!

+ fr. Reginaldo G. M. Addazi O. P.

[Arcivescovo di Trani, Nazareth e Barletta]

 

ACCECAMENTO SPIRITUALE

È questo il male che più colpisce la società moderna e soprattutto, oggi, coloro che si pretendono religiosi o spiritualmente “evoluti”, come gli eretici scismatici del “novus ordo”, quelli della sinagoga dei nani e dei buffoni, o i  sedicenti tradizionalisti, e cioè: 1° i sedevacantisti apocalittici [per l’apocalisse nel loro cervello], 2° gli spocchiosi sedeprivazionisti, sostenitori di una “tesi” antitomistica assurda e addirittura ridicola per tanti aspetti; 3° i gallicani fallibilisti acefali disobbedienti, i non-preti eredi di Achille, il “cavaliere kadosh” ; 4° i vari “cani sciolti” senza missione e senza giurisdizione, “ladri e briganti” dello spirito, secondo l’insegnamento evangelico.

ACCECAMENTO SPIRITUALE

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, Vol. I – S.E.I. Torino, 1930]

1. Che cosa sia l’accecamento spirituale. — 2. L’accecamento spirituale è un delitto. — 3. Quest’accecamento è volontario. — 4. Quanto cieco sia il peccatore. 5. Il mondo vive nella cecità spirituale. — 6. Cause della cecità spirituale. — 7. Il Demonio è la causa principale della cecità di spirito. — 8. Danni e disordini prodotti dalla cecità spirituale. — 9. Quanto sventurati siano i ciechi spirituali. — 10. Castighi dell’accecamento spirituale. — 11. Rimorso dei ciechi spirituali. — 12. Mezzi con cui si guarisce della cecità spirituale.

1. Che cosa sia l’accecamento spirituale. — L’accecamento spirituale non è altro se non una certa stupidità o, diremo, abbrutimento dello spirito, che impedisce di scorgere e gustare le cose divine. L’accecamento spirituale è proprio dell’intelletto, l’indurimento, della volontà: l’uno e l’altro sono un peccato, castigo del peccato, e un principio di peccato. « L’accecamento spirituale, che solo Dio può guarire, perché Egli solo è la vera luce, è un peccato, scrive S. Agostino, per il quale si cessa di credere in Dio; è castigo del peccato, perché punisce il cuore superbo tirandogli contro il giusto sdegno ed odio di Dio; è causa di peccato, quando il cuore ingannato dalla passione viene a commettere qualche cosa di male ». Così i Giudei, accecati dall’errore e dall’indurimento del cuore, perseguitarono Gesù Cristo e lo misero a morte.

2. L’accecamento spirituale è un delitto. — Chi è cieco dello spirito si fa un dio della sua passione nella quale pone il suo fine ultimo… Miserabile! egli non ha la fede… L’accecamento spirituale è il principio d’innumerevoli colpe; ora, non si deve chiamare un delitto, un male gravissimo in se stesso, quello che dà origine a molti peccati, ben spesso gravi? Quest’accecamento proviene dalla volontà indurita nel male, e mena seco per conseguenza il non vedere, né sentire, né temere più nulla; non si pratica più la virtù, si cade anzi nell’indifferenza, nell’incredulità, nell’empietà… « Come il cieco corporale, dice S. Agostino, non vede la luce del sole, ancorché l’investa coi luminosi suoi raggi; così il cieco spirituale non comprende la luce di Dio ». Lo stolido non apprende le opere meravigliose del Creatore, canta il Salmista, e l’insensato non le intende (Psalm. XCI, 6). Ma chi non chiamerà un delitto enorme questa follia volontaria? Gesù Cristo, il Vangelo, la Chiesa, i dogmi, la morale, i Sacramenti, la grazia, la santità, i novissimi non sono che tenebre per il cieco dello spirito: ora nessuno oserà scusare da colpa chi non vede o non intende tali fatti e verità, così necessarie alla salvezza e la cui esistenza riposa su dimostrazioni innegabili. Ai ciechi spirituali le cose della Religione sono come caratteri d’un libro sigillato, dice Isaia (Isai. XXIX, 11).

3. Quest’accecamento è volontario. — L’accecamento dello spirito proviene dalla volontà, ed è ciò che lo rende più colpevole. Non vogliono intendere, dice particolarmente di questa sorta di ciechi il Profeta, per timore di dover fare bene (Psalm. XXXV, 3). Lo splendore delle opere di Gesù Cristo, osserva S. Cirillo, era tanto, che non lasciava luogo a dubbio a chi non fosse corrotto di mente, ma siccome la più parte dei Giudei si trovava in tale condizione, perciò non voleva vedere. Quando Gesù arrivò in vista di Gerusalemme, nota S. Luca che pianse sovr’essa esclamando: « Ah! se tu conoscessi almeno almeno in questo punto quello che ti può portare la pace, ma, ohimè! ora gli occhi tuoi stanno chiusi su tutto, perché non hai voluto conoscere quand’eri in tempo, la grazia della mia visita » (Luc. XIX, 42-44). Come se volesse dire: O figlia di Sionne cotanto da me amata, onorata, arricchita, istruita, come va che non mi conosci? Per qual motivo mi rigetti, mi perseguiti e ti prepari a condannarmi a morte, a crocifiggermi? Per tuo amore e vantaggio sono disceso dal Cielo e mi sono incarnato; per te ho passato i miei giorni in continui travagli, nella povertà, nel dolore; io t’ho visitata e ammaestrata; ho guarito i tuoi lebbrosi, risanato i tuoi malati, liberato i tuoi indemoniati, risuscitato i tuoi morti; e tu di ricambio mi fuggi, mi disprezzi, mi calpesti, mi odii. Ma nemmeno questo tu conosci e vedi, poiché non hai voluto accogliermi né credere in me. L’incarnazione, la predicazione, la passione, la risurrezione di Gesù Cristo furono dunque celate ai Giudei induriti; questo popolo deicida non conobbe nemmeno la sua perfidia; come non s’accorse del suo accecamento e dell’ingratitudine sua. Ma una strepitosa vendetta si versò sopra Gerusalemme presa e distrutta da Tito. Io ho incontrato in una delle vostre piazze, predicava S. Paolo agli Ateniesi, un’ara dedicata al Dio ignoto (Act. XVII, 23); su queste parole dice Tertulliano: « Ecco il sommo delitto di coloro che non vogliono riconoscere Colui che pure non possono ignorare ». « E dove siamo noi? esclama S. Pier Crisologo? Che è questa stupidità che ci smemora? Che è questo sonno che ci opprime? Quest’oblio mortale che c’incatena? Perché non cambiare la terra col Cielo? non comprar i beni imperituri a prezzo dei beni caduchi? non arricchirci col mezzo delle ricchezze temporali de’ tesori eterni? ». Udite come si lagna Iddio per bocca del Profeta: « E fino a quando, o figliuoli degli uomini, avrete stupido il cuore? perché amate voi la vanità e andate dietro alla menzogna? » (Psalm. IV, 2). «Ah! il mio popolo non ha udito la mia voce, Israele non m’ha prestato attenzione » (Psalm. LXXX, 10), «anzi, ha rigettato e disprezzato e allontanato da sé il Cristo ». (Psalm. LXXXVIII, 37); — « e ha detto: Il Signore non vedrà, il Dio di Giacobbe non ne saprà nulla… Deh! intendetela, o i più stupidi del popolo, e voi, stolti, imparate una volta. Colui che piantò l’orecchia, non udirà? e quei che lavorò l’occhio, sarà senza vista? Non vi condannerà forse colui che castiga le genti? che all’uomo insegna la scienza? ». Sta scritto nel primo libro dei Re, che gli empi si taceranno nelle tenebre (II, 9); si taceranno, perché non avranno scusa d’essere ciechi. E quegli è cieco, dice S. Gregorio, che vuole ignorare la luce della contemplazione celeste; che sprofondato nelle tenebre della vita presente, e non volgendo mai con amoroso desiderio l’occhio alla vera luce, non sa a qual mèta dirigere le sue azioni. « Va, intimò il Signore ad Isaia, e dirai a questo popolo: Ascoltate voi che avete orecchi e non vogliate capire; e vedete e non vogliate intenderla » (Isai. VI, 9); che vuol dire, voi vedrete e voi udirete, ma non vorrete né intendere, né conoscere… perché il cuore di questo popolo è accecato, le sue orecchie sono turate, le sue palpebre incollate per timore che ha di vedere co’ suoi occhi, d’udire colle sue orecchie la verità, d’avere l’intelligenza, di convertirsi e d’essere guarito (Ib. VI, 10). Due cose formano l’accecamento spirituale : 1° Un attaccamento perverso alla propria volontà, che impedisce di ricevere la vera luce, con la quale Dio propone, spiega, e sufficientemente prova, sia per se medesimo, sia per mezzo de’ Profeti, degli Apostoli, o della Chiesa insegnante, le verità necessarie alla salvezza. Allora si imita colui che chiude ben bene e tura ogni, fessura dell’impannata, perché non penetri raggio di sole nella sua camera. 2° La mancanza della luce divina, mancanza provocata dalla volontà perversa; e da ciò ne segue l’impotenza morale di conoscere il vero. Un esempio parlante ce ne offrono i Giudei, i quali vedendo Gesù operare tanti miracoli, dovevano conchiuderne ch’Egli era il Messia ed erano quindi tenuti a credergli; ma essi vi si rifiutarono, ed in questo modo s accecarono: la cagione poi di questo loro rifiuto era l’avarizia, l’ambizione, l’invidia, l’orgoglio, ecc. che Gesù loro rimproverava. E se Isaia dice: « Accecate, o Signore, il cuore di questo popolo » (VI, 10), queste parole significano: Permettete che sia accecato: perché, propriamente parlando, è l’uomo che s’acceca e s’indura di per se stesso secondo che s’esprime in termini precisi la Sapienza: « La loro malizia li ha accecati » (Sap. II, 21). La causa positiva dell’accecamento spirituale è dunque la malizia di colui che sottosta a questo castigo. Iddio poi non acceca se non indirettamente, sottraendo a poco a poco agli empi la luce della verità e della grazia e permettendo, in punizione dei loro peccati, che le occasioni li trascinino nell’errore e nell’accecamento : e s’avvera di loro quel che dice Geremia: « Per costoro il sole è già tramontato in pieno giorno » — (IEREM. XV, 9). – Tutti i ciechi dello spirito, scrive S. Cipriano (Epist.), sono, come i Giudei, privi d’intelligenza e di saviezza; indegni della vita della grazia, essi l’hanno sotto gli occhi e non la scorgono. « Lasciandosi vedere a quelli che in Lui credono, soggiunge S. Leone, Gesù si nasconde a coloro che lo perseguitano coi peccati. Ed essi vengono colpiti da cecità spirituale, perché non comprendano la gravità dei loro misfatti, né s’inducano a pentirsene ». Volete vedere fin dove si spinge questo volontario accecamento di spirito? osservate, dice S. Agostino (Homil. in Evang.), il contegno dei Giudei in faccia a Lazzaro risuscitato: non potendo né celare, né mettere in dubbio il fatto, che cosa inventano? Nientemeno che d’ucciderlo. O insensato pensiero, o crudeltà avventata! Non vediamo noi tuttodì dei ciechi spirituali che volontariamente fuggono la luce? O non volesse Dio che fosse pur troppo così sovente! poiché tali sono coloro che schivano le chiese, le sacre funzioni, l’insegnamento della parola di Dio; tali, quei giovani che si rifiutano d’accogliere i buoni consigli d’un padre, d’una madre, d’un amico, di un pastore; tali coloro che s’allontanano dalla confessione, che s’espongono temerari alle occasioni prossime del peccato; tali quei genitori deboli e negligenti i quali o non mai, o di rado e rimessamente, correggono i loro figli, ecc.

4. Quanto cieco sia il peccatore. — 1° Il peccatore non vede perfettamente la malizia del peccato, perché se lo vedesse così deforme, così crudele, ecc. non gli basterebbe mai l’animo di abbandonarvisi. Il peccato l’inganna accecandolo. 2° Egli non comprende quel che fa peccando, giacché opera contro i lumi della sua intelligenza. « Una volta non eravate che tenebre » cioè peccatori, scriveva San Paolo agli Efesini (Eph. V, 8). Osservate che l’Apostolo chiama tenebre i peccati: 1° perché i peccatori non vedono volentieri la luce, ma desiderano le tenebre, perché il peccato è quanto v’ha di più vergognoso, e vile e degradante; 2° perché i peccati accecano la ragione… Il peccato trae sempre sua origine o dall’errore, o dall’imprudenza, o dal difetto d’esame, o dall’inavvertenza della ragione e dell’intelletto; allorché poi è commesso, istupidisce, acceca, falsifica la coscienza; e con ciò s’addensano ognor più le tenebre in mezzo alle quali il peccatore s’è inoltrato secondo la sentenza di S. Gregorio , « che nei peccati v’è densa caligine, e che quegli che li commette, è trascinato in fondo a fitte tenebre ». « Non peccate, scrive S. Agostino, e Dio che è il vero sole non cesserà di risplendere ai vostri occhi; se al contrario cadete in colpa, Dio tramonterà al vostro sguardo. Se vi piace godere della luce, siate voi medesimi puri e splendidi come la luce; ma se vi piacciono le tenebre e le tenebrose passioni, state certi che sarete da esse non solo oscurati, ma accecati ». I peccati hanno il nome di tenebre perché ne hanno tutta la somiglianza; infatti : 1° Le tenebre son la privazione della luce, e i peccati la privazione della grazia, la quale è alla nostr’anima e al nostro cuore ciò che è il sole alla terra. 2° Quegli che cammina fra le tenebre, non vede nulla e spesso mette il piede in fallo e cade; così pure per la strada della salute quelli che peccano non vedono nulla, cadono e si imbrattano. 3° Gli uccelli notturni fuggono la luce perché li abbaglia; i peccatori temono la luce di Dio e degli uomini, secondo le parole di Gesù Cristo : « Chi fa male, odia la luce » « affinché le azioni sue non siano riprese, corrette, castigate » (Ioann. Ili, 20). 4° I peccati sono anche chiamati tenebre, in quanto che sono opere del Demonio, principe delle tenebre. 5° Perché i più dei peccati si commettono nelle tenebre. 6° Perché nascono dalle tenebre, che vuol dire da un errore pratico, il quale porta il peccatore a credere che egli può carezzare la sua passione, per quanto vile ella sia ed anche a costo di perdere Dio, l’anima e i beni eterni: il che è senza contrasto il sommo della cecità, l’eccesso della follia. 7° Perché il peccato immerge sempre più lo spirito nelle tenebre., 8° Perché il peccato mortale conduce alle ultime ed eterne tenebre, che son quelle dell’Inferno. La luce è cosa salutare, anzi necessaria per la vita degli uomini e d’ogni creatura, mentre nocive e mortifere sono le tenebre: cosi pure la fede e la grazia di Gesù Cristo sono la sorgente della salvezza e procurano la vita eterna, mentre i peccati indeboliscono l’anima e le danno la morte. « Andranno brancolando come ciechi, dice Sofonia, perché peccarono contro Dio » (Sophon. I, 17). « Il cammino che battono gli empii è ingombro di tenebre, leggiamo ne’ Proverbi: essi non sanno né quando, né dove cadranno » (Prov. IV, 19).

5. Il mondo vive nella cecità spirituale. — «Gesù Cristo, scrive S. Giovanni, era la luce vera, la quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Egli era nel mondo e il mondo per Lui fu fatto, ma il mondo non lo conobbe. Egli venne in casa sua, e i suoi non lo ricevettero » (Ioann. I, 9-11). E Gesù Cristo anch’Egli diceva al Padre: « Padre santo, il mondo non vi ha conosciuto » (Ioann. XVII, 25). « Il mondo, scrive S. Bernardo, ha pur esso le sue notti, e non brevi e non poche. Ma che dico? il mondo ha le sue notti! mentre, ahimè! è egli medesimo una notte continua, e non vive se non nelle più cupe tenebre. E non è forse oscurissima notte la perfidia dei Giudei; notte l’ignoranza dei pagani; notte la depravazione degli eretici; notte la vita animalesca e sensuale dei non cattolici? non è il regno delle tenebre, là ove non si comprendono le cose divine? ». Leggiamo nella Scrittura che le tenebre coprivano la superficie dell’abisso (Gen. I, 2). Ora, il mondo è la superficie degli abissi infernali: esso è involto nel tetro fumo che si sprigiona copioso dalle fiamme eterne. « Le tenebre avvilupperanno il mondo, tenebrosa notte piomberà sui popoli. », possiamo dire con Isaia (Isai. LX, 2). Sta scritto che alla morte di Gesù « spesse tenebre si sparsero su tutta la terra » (Matth. XXVII, 45). Per i peccatori queste tenebre non sono ancora scomparse: le massime del mondo, la sua morale corrotta, i suoi scandali, la sua incredulità provano che esso sta sepolto nelle più orrende e pericolose tenebre. Quindi il real Profeta lo chiama « terra d’oblio » (Psalm. LXXXYII, 13).

6. Cause della cecità spirituale. — La prima cagione dell’accecamento spirituale sono le passioni: « L’occhio tuo, dice Gesù Cristo, è la luce del tuo corpo » (Matth. VI, 22). Quel che l’occhio è per il corpo, è l’intelligenza per l’anima; ma l’anima caduta sotto il giogo delle passioni non ha più intelligenza: ella è abbrutita… « A colui sul quale discende il fuoco della concupiscenza, dice S. Gregorio, è tolto di vedere il sole dell’intelligenza »; egli può ripetere a tutta ragione col Salmista, che le sue passioni l’hanno precipitato in una fossa profonda, tenebrosa, dove regna l’orrore della morte (Psalm. LXXXVII, 6). La seconda cagione della cecità spirituale sta nelle ricchezze. E che l’abbondanza dei beni materiali accechi l’anima, lo conobbero perfino i poeti pagani, i quali facevan Plutone, il Dio della mammona, cieco dalla nascita… – La terza proviene dalla tiepidezza, dall’accidia spirituale… La quarta è la corruzione del cuore. « L’insensato ha detto nel suo cuore: Non v’ha Dio» (Psalm. XIII, 1); e « quei che son corrotti, non vedono la luce » (Iob. IlI, 16). Quanto più si cade e si dorme nella colpa, tanto più lungi si parte da Dio, luce increata e sola origine d’ogni chiarezza. Altre cause dell’accecamento spirituale possono essere l’imprevidenza…, l’imprudenza…, l’orgoglio…, ma principalmente il Demonio.

7. Il demonio è la causa principale della cecità di spirito. — « Il Dio di questo secolo, scriveva S. Paolo ai Corinzi, ha accecato le menti degl’infedeli » (II Cor. IV, 4). Ora, il Dio del secolo è il Demonio che è il Dio di coloro che vivono a genio del secolo, non già che esso li abbia creati, ma perché coi funesti suoi suggerimenti per via di cattivi esempi li guida, e perché impera sopra di loro sovranamente. Egli è il padre della bugia, della superbia, dell’errore. Cominciò dall’accecare Adamo ed Eva, poi non ha cessato mai, nel corso dei secoli, d’accecare, per quanto gli venne potuto fare, gl’individui e le nazioni. Tutti coloro che obbediscono a satana, che a lui si dedicano, operano spinti dal più lacrimevole accecamento, perché dal demonio non è da aspettar altro che disgrazie, e in questa e soprattutto nell’altra vita. Non è una cecità che confina colla pazzia, che tocca alla frenesia, il gettarsi alla mercé d’un nemico crudele ed implacabile, di colui che fu omicida fin dal principio? esporsi alle zanne d’un leone furioso, d’un lupo arrabbiato? Ebbene, il demonio è tutto questo. Fate conto della quantità dei ciechi spirituali, della moltitudine di coloro che fanno la volontà del diavolo, che sono sue vittime…

8. Danni e disordini prodotti dalla cecità spirituale. — 1° L’accecamento spirituale uccide la fede… 2° Rende stupido l’uomo: ché il cieco dello spirito non gusta più nulla delle cose di Dio. Egli non si dà un pensiero al mondo per sapere donde viene, dove si trova, dove va… 3° Allontana la sapienza: essendosi il Signore protestato, per bocca d’Isaia, che tolto avrebbe la sapienza dai sapienti e sottratto da loro l’intelligenza (Isai. XXIX, 14). 4° Rende talmente indocili, che non s’obbedisce nemmeno più alla verità; che è appunto quanto rimprovera S. Paolo ai Galati, là dove dice loro: « O Galati mentecatti, che v’ha affascinati cosi che non obbedite più alla verità? » (Gal. III, 1). 5° Distrugge la vita divina, secondo quel detto dell’Apostolo agli Efesini: « Hanno l’intelletto ottenebrato, sono alieni dal vivere secondo Dio… a causa dell’accecamento del loro cuore » (Eph. IV, 18). « Se noi diciamo che siamo uniti a Dio, e frattanto camminiamo tra le tenebre, noi mentiamo », scrive l’Apostolo S. Giovanni (I Ep. I, 6): poiché, soggiunge S. Paolo, « qual comunanza vi può essere tra la luce e le tenebre? » (II Cor. VI, 14). 6° Fomenta tutte le tentazioni; ed a questo proposito si riferiscono le parole del Salmista: « Avete condotto con voi le tenebre, ed ecco che s’è fatta notte densa, e col favore di esse le belve del deserto scorrazzeranno alla preda » (Psalm. CIII, 20). I ladri cercano il buio; il demonio, che spoglia d’ogni virtù, gira del continuo in cerca di ciechi spirituali, e toglie a loro tutto ciò che possono avere. 7° I ciechi dello spirito precipitano d’abisso in abisso; s’inoltrano di delitto in delitto; si sprofondano nel male, e sono immersi in ogni sorta di brutture finché vi periscono soffocati. Come cadaveri nel sepolcro finiscono nella putrefazione. 8° L’accecamento spirituale termina finalmente nell’induramento.

9. Quanto sventurati siano i ciechi spirituali. — Siccome il cieco spirituale non conosce il suo stato, non procura di uscirne: egli si crede di non aver bisogno di nulla, e non s’avvede che è povero, miserabile e nudo. – In mezzo alla, sua grandezza, dice il Salmista, l’uomo non ha compreso il suo destino: s’è uguagliato agli animali senza ragione, e la strada che tiene lo mena all’accecamento (Psalm. XLVII1, 13-14). E di lui può ripetersi col medesimo re Profeta « che va errando pel deserto del vizio e non trova il cammino alla volta della città delle virtù» (Psalm. CVI, 4); simile a quei simulacri che hanno bocca, e non parlano; occhi, e non vedono; orecchie, e non odono; narici, e non odorano; mani, e non toccano; piedi, e non si muovono; gola, e non profferiscono suono (Psalm. CX1II, 13-10). Considerate, scriveva S. Paolino a Severo, la condotta dei ciechi spirituali, e voi li rassomiglierete ad un giumento cieco, che gira del continuo movendo una mola. Dopo essersi rotti di fatica ogni giorno, arriveranno alla morte senza aver dato un passo verso il Cielo (Epl. IV). O ciechi figli d’Adamo! perché preferite le cose caduche alle imperiture, l’esilio alla patria, la terra al Cielo, la creatura al Creatore, il vizio alla virtù, uno straniero a Gesù Cristo, il demonio a Dio, il tempo all’eternità, la morte alla vita? Perché avventurarvi, per un abbietto e breve piacere, alle angosce, ai dolori, ad una morte disgraziata, e al fuoco dell’Inferno?

10. Castighi dell’accecamento spirituale. — 1° L’accecamento spirituale provoca la collera di Dio. « S’oscurino gli occhi loro, così impreca il Salmista, affinché non vedano, e portino sempre curvo il dorso sotto il peso della schiavitù. Versate su loro, o Signore, la vostra ira, e il furore della vostra collera li investa » (Psalm. LXVIII, 24-25). 2° Dio abbandona il cieco spirituale, secondo la minaccia fattane già dal Signore per bocca di Davide : «Il mio popolo non ha udito la mia voce, Israele non ha prestato orecchio alle mie parole, ed io l’ho abbandonato ai desideri dei suo cuore, per ciò camminerà secondo i suoi vani consigli » (Psulm. LXXX, 10-11). « Si, io mi ritirerò dà lui, gli nasconderò la mia faccia, ed egli cadrà preda di ogni genere di mali, sarà bersaglio di tutte le afflizioni » (Isai. LVII, 17). 5° Il cieco spirituale si castiga da se stesso, ripetendosi su di lui, quello che S. Paolo disse già al mago Elimas : « Ecco che la mano del Signore cade sopra di te, e sarai cieco, sì da non iscorgere nemmeno più il sole » (Act. XIII, 11). Il cieco nello spirito si rifiuta di vedere; ebbene la mano di Dio si aggrava sopra di lui, e l’accecamento diventa la sua pena, il suo più terribile castigo. E quei che è più, questa pena è un male non temperato da nessun bene, per quanto piccolo: egli soffre, ma senza merito; i patimenti che prova, e che sono essi medesimi uno spaventoso castigo, diventano delitto, di guisa che egli si trova punito non solamente per aver chiuso gli occhi alla luce, ma ancora per quel che patisce, non patendolo se non perché l’ha voluto. 4° Il Cielo è chiuso per sempre al cieco spirituale: «Non hanno voluto conoscere le mie vie, dice il Signore per bocca del Salmista, ed io ho giurato nel mio sdegno che non entreranno mai nel luogo del mio riposo » (Psalm. XC’IV, 11). – Si racconta nel Genesi che gli Angeli colpirono di cecità gl’infami abitanti di Sodoma, per modo che non poterono più trovare la porta dell’abitazione di Loth (Gen. XIX, 11). Questo appunto è il castigo che Iddio infligge ai ciechi spirituali: essi non trovano più la via, né la porta del Cielo… 5° Il cieco spirituale discende all’Inferno e dalle tenebre della cecità piomba in quelle dell’eternità infernale. (Matth. VIII, 12). « Dandosi in braccio ai colpevoli piaceri di questa vita, che altro fa l’anima peccatrice, dice S. Gregorio, se non gettarsi a occhi chiusi nel fuoco eterno? ».

11. Rimorso dei ciechi spirituali. — Udite quello che v’annunzia la Sapienza: « Gli empi, gli accecati dello spirito, andranno vergognosamente per terra, e tra i morti saranno in eterna ignominia: perché Dio li renderà muti e li prenderà e li scuoterà dai fondamenti, e li ridurrà in estrema desolazione, ed essi saranno in gemiti, e andrà in fumo la loro memoria. Entreranno tutti sbigottiti nel pensiero dei loro peccati, e le loro iniquità stando incontro di essi li convinceranno » (Sap. IV, 13-20). « Allora i giusti si leveranno con grande fermezza contro quelli che li vessarono, e depredarono le lor fatiche. A questa vista gli empi saranno colti da spavento orrendo; e resteranno stupefatti della inaspettata repentina salvezza di quelli e, tocchi da rimorso, e gemendo affannosi, diranno dentro di sé: Questi son coloro che noi un dì avemmo come oggetto di scherno ed esempio d’obbrobrio! Noi insensati! la vita loro tenemmo per una pazzia, e come disonorato il loro fine; ed ecco ch’eglino son contati tra i figliuoli di Dio, ed hanno parte con i Santi. Noi dunque smarrimmo la via del vero, e non rifulse per noi la luce della giustizia, e non si levò per noi il sole dell’intelligenza. Ci stancammo nella via dell’iniquità e della perdizione, battemmo strade disastrose e non conoscemmo la via del Signore » (Sap. V, 1-7). Da queste parole si rileva che un triplice errore ed una triplice follia si rimproverano i ciechi spirituali. 1° D’essere stati raminghi fuori della strada del vero 2° D’aver operato in guisa che la luce della giustizia, cioè della ragione e della prudenza, non risplendette per loro: avendola essi volontariamente negletta e preferito le tenebre 3° D’essersi meritato che il sole, cioè Dio, e Gesù Cristo, il quale illumina ogni uomo che viene al mondo, non sorgesse per loro: perché essi rifiutarono d’aprire a Lui il loro cuore. « Questa è vera pazzia, scriveva S. Cipriano, non conoscere che le ingannatrici passioni non ingannano a lungo. La notte dura finché non compare sull’orizzonte l’astro del giorno, ma levato ch’ei sia, bisogna pure che le tenebre si dissipino, e cessino i latrocini che col favor delle medesime si commettevano ». O ciechi dello spirito! verrà giorno in cui vi pentirete, ma tardi e senza pro. Aprite gli occhi e comprendete mentre v’è dato farlo: lavorate fino a tanto che splende il giorno; accettate la grazia quando vi viene offerta, per timore che imitando le vergini stolte, non abbiate anche da partecipare della loro misera sorte, e avendo al par di loro lasciato spegnere la luce della vostra intelligenza, la cerchiate poi tra il pianto, e non riusciate poi a trovarla. Deh! temete che, esclusi dalle nozze celesti, non vi sentiate rivolgere dal sovrano giudice, Gesù Cristo, quelle tremende parole: «Vi affermo che non vi conosco» (Matth. XXX, 12).

12. Mezzi con cui si guarisce della cecità spirituale. — Per guarire della cecità spirituale bisogna: 1° Vivere della verità…, dell’immortalità…, dell’eternità… 2° Pregare. « Dio mio, gridava il Salmista, dissipate le tenebre che m’ingombrano l’intelletto…, illuminate del vostro chiarore i miei occhi, affinché non mi aggravi il sonno della morte, e l’avversario mio non possa una qualche volta dire: Ecco ch’io l’ho vinto » (Psalm. XVII, 28) (Psalm. XII, 4-5). 3° Appressarci a Dio e tenerci accanto a Lui, perché Egli c’illuminerà, secondo la parola di Davide (Psalm. XXXIII, 5). 4° Aprire le orecchie e gli occhi alla fede (Isai. XLII, 18).
5° Scuotere la pigrizia spirituale, sorgere dall’accidia. « Lèvati su, Gerusalemme, gridava Isaia, e sii illuminata perché la, tua luce è spuntata e la gloria del Signore è a te venuta » (Isai. LX, 1). 6° Non tardare a mettersi all’opera, approfittando dell’avviso del Salvatore: « Camminate mentre avete la luce, e affrettatevi che la notte non vi sorprenda » (Ioann. XII, 35). 7° Andare a Gesù che è la via, la verità, la vita: e chi lo segue, non cammina, nelle tenebre, ma avrà la luce della vita. (Ib. XIV, 6).

STORIA DEL BUON LADRONE di mons. J.- J. GAUME (2)

 

CAPITOLO PRIMO

I LADRI NELLA GIUDEA.

Etimologia della parola ladro. — Ladri o briganti molto numerosi nella Giudea ai tempi di Nostro Signore Gesù Cristo. — Testimonianza dello storico Giuseppe. — Caccia data ai ladri da Erode, e dai governatori Romani Pilalo, Felice, e Festo.

Perché questo gran numero di briganti nella Giudea.

« Insieme con Gesù eran condotti anche due altri, che erano malfattori, per esser fatti morire, E giunti che furono al luogo detto Calvario, quivi crocifissero lui, e i ladroni uno a destra, l’altro a sinistra. E Gesù diceva: Padre perdona loro: conciossiachè non sanno quel che si fanno. E spartendo le vesti di lui, le tirarono a sorte …E uno dei ladroni pendenti lo bestemmiava dicendo: se tu sei il Cristo salva te stesso e noi. – E l’altro rispondeva sgridandolo, e dicendo: nemmeno tu temi Iddio, trovandoti nello stesso supplizio? E quanto a noi certo che con giustizia, perché riceviamo quel che era dovuto alle nostre azioni; ma questi nulla ha fatto di male. E diceva a Gesù: Signore, ricordati di me, giunto che Tu sia nel tuo regno. E Gesù gli disse: oggi sarai meco nel paradiso1.» – I due malfattori, che salivano il Calvario col fìgliuol di Dio erano ladri, latrones. Questa parola latina esprime non già un truffatore o un mariuolo, ma un vero ladro di strada, un brigante. « Gli antichi, dice Festo, chiamavano ladri, latrones i soldati mercenarii. Oggidì si dà questo nome ai ladri di strada, sia perché essi attaccano i viandanti di fianco, qaod a latere adoriantur, sia perché si nascondono per tendere loro insidie, vel quod latenter insidiantur 2. » – La legislazione di tutti i popoli li puniva di morte. Presso i Romani il più crudele ed il più ignominioso dei supplizi, la crocifissione, era loro riserbata. « La ragione di ciò è, dice s. Gregorio Nisseno, perché il brigante, per ottenere il suo intento, non rifugge dal ricorrere anche all’omicidio. Egli è armato, si associa altri compagni, sceglie i luoghi più favorevoli al delitto, e perciò le leggi lo condannano alla pena degli assassini » Così i malandrini, facevano allora quello che fanno ancora ovunque i loro successori. Armali insino ai denti, errando per le montagne, nascosti nelle caverne, appostati in imboscate sulle pubbliche vie, in luoghi appartati, essi attaccavano i passeggeri, e li percuotevano; e se non li uccidevano, li lasciavano semivivi e coperti di ferite. Senza dipartirci dal Vangelo, ne abbiamo la prova nella storia o parabola del viaggiatore da Gerusalemme a Gerico. Ne è questa la sola volta che il testo sacro parla dei ladri di strada. Nel giorno della passione, noi troviamo Barabba ladro insigne, sedizioso ed assassino. Finalmente due ladri sono i compagni di supplizio del Figliuol di Dio. – Si può domandare, perchè l’Evangelio, cosi parco nell’accennare le particolarità, constata a più riprese l’esistenza dei briganti nella Giudea. Soprattutto si può domandare, perché nostro Signore prende a soggetto di una delle sue più belle parabole il fatto di un viandante assalito dai ladri. La storia sacra e la storia profana insieme ce ne danno la risposta. La prima ci dice: che per essere compreso dalle moltitudini l’ammirabile Divin Maestro traeva le sue istruzioni dalle cose che erano da tutti conosciute. La seconda aggiunge, che all’epoca in che Egli viveva, e sino allo sterminio della nazione, la Giudea era infestata dai briganti. D’onde proveniva questa strana situazione? Da una parte i Giudei nella loro qualità di popolo di Dio, si credevano affrancati da ogni dominazione straniera. Dall’altra essi avevano dovuto soffrir crudelmente dai re di Siria ed anche dai Romani. L’odio per lo straniero, che bolliva nel cuore della nazione, si manifestava con ribellioni e sommosse incessantemente rinascenti. Dispersi dalla forza pubblica, i ribelli si ritiravano nelle montagne, e non tardavano, come abbiamo visto anche ai giorni nostri, a divenire terribili briganti. Vuolsi sapere la causa che produsse la riputazione di Erode, e gli spianò la via al trono? Ascoltiamo lo storico Giuseppe Ebreo: « Antipatro, egli dice, avendo acquistato un gran potere, confidò il governo della Galilea al suo figliuolo Erode ancora giovanissimo, mentre non aveva che quindici anni: ma la giovinezza non toglieva nulla alla di lui capacità. D’un carattere ardente e risoluto, non tardò a trovare l’occasione di mostrare il suo coraggio. Avendo incontrato Ezechia, capo di briganti, il quale alla testa di una numerosa banda infestava le frontiere della Siria, si precipitò su di lui e l’uccise insieme a gran numero di ladri suoi compagni. Quest’impresa gli meritò al più alto grado l’affezione dei Siri, poiché ne aveva appagati i voti liberando il paese dal brigantaggio. Per la qual cosa essi pubblicavano da per tutto nelle città e nei villaggi che egli era il loro liberatore, e che a lui erano debitori del tranquillo godimento dei loro beni. Questi elogi lo fecero conoscere a Sesto Cesare, parente del gran Cesare, e governatore allora della Siria. Una delle grandi occupazioni di Pilato durante i dieci anni del suo governo, e dei suoi successori Felice, Sesto ed altri, nel tempo della loro presidenza, fu di dare la caccia ai briganti. – Il paese ne era pieno, quando l’ anno 51 di Gesù Cristo, nono anno del regno di Claudio, Felice prese possesso del suo governo. – Il temuto capo dei briganti era Eleazaro figlio di Dineo. Già da venti anni questo vecchio malandrino era il terrore della provincia. Spesso le truppe romane lo avevano perseguitato nelle montagne, che gli servivano di ricovero. Molti della sua compagnia erano stati presi, ed all’istante giustiziati per ordine di Felice; ma Eleazaro era sempre sfuggito. Or essendo inutile la forza, Felice ricorse all’astuzia. Fece domandare ad Eleazaro un abboccamento, con giuramento che non gli sarebbe fatto nessun male. Avendo Eleazaro a ciò condisceso, appena entrò nella tenda di Felice, fu caricato di catene, ed inviato a Roma per subire nel carcere Mametino il supplizio riserbato ai più grandi malfattori. – La morte di Eleazaro non pose fine al brigantaggio; anzi tutto al contrario, si manifestò questo con nuova recrudescenza, e fini coill’infestare tutta la Giudea. Non udivasi parlare che di villaggi saccheggiati ed incendiati, di viandanti arrestati, di abitatori sgozzati. In questa trista condizione Festo successore di Felice trovò la Giudea, allorché ne venne a prendere 1’amministrazione. L’anno 58 di Gesù Cristo decimo di Nerone. Una delle cause di questa recrudescenza fu il malcontento dei Giudei di Cesarea. Questa città era abitata da Giudei e da Siri, che godevano dei medesimi privilegi, e vivevano sul piede di un’intera eguaglianza. I Siri, gelosi dei Giudei, vollero togliere a questi il diritto di cittadinanza, ed a questo intento, i principali fra essi scrissero a Berillo antico professore di Nerone, corrompendolo per via di doni, affinché ottenesse dall’imperatore il consenso alla loro domanda. Presto se ne vide il successo. Appena fu conosciuto il rescritto imperiale che i Giudei entrarono in piena ribellione; [Joseph., Antiq., Jud., lib. XX, c. VII.]; si formarono in tutto il paese delle bande di briganti, alla cui testa si pose un Mago impostore che attirava la folla nel deserto, la lusingava con vane speranze, e prometteva di renderla invulnerabile. Al fine di mettere un termine a questo stato di cose reso intollerabile, Festo spedì un corpo d’armata, cavalleria e fanteria che diede la caccia ai briganti, e massacrò l’impostore con tutta la sua truppa. – Per una ben meritata disposizione della divina giustizia, quegli orgogliosi Giudei i quali ricusavano di riconoscere un Messia pacifico, e che crocifiggevano la Verità in persona, accettavano tutte le chimere; e sempre in guerra, per sostenerle arrischiavano anche la loro vita. E sarà sempre così fino alla fine dei secoli. Datemi una nazione, una società, un’epoca che scuota il giogo del Principe della pace, che insorga contro la Verità vivente, e la vedrete infallibilmente cadere sotto la tirannia del principe della guerra e del padre della menzogna; e se Dio non interviene con un’azione diretta e sovrana, questo mondo affascinato camminerà d’errori in errori, di rivoluzioni in rivoluzioni, fino a che si sbrani di propria mano, o qualche capo di barbari venga a metter fine alla sua colpevole esistenza. – Non era difficile adunque trovare dei ladri nella Giudea, e possiamo credere che i due ladri del Calvario abbiano fatto parte delle tante numerose bande sparse nel paese. Queste particolarità storiche non solo servono a spiegare la menzione, che più volte si fa nel Vangelo, dei ladri nella Palestina, ma autorizzano altresì la tradizione di cui ora parleremo.

CAPITOLO II,

IL BUON LADRONE.

Fuga della sacra famiglia in Egitto. — Incontro dei ladri nel deserto. — Questo fatto molto verosimile in se stesso è attestato dalla tradizione. — Autorità di questa tradizione: essa è notata in vari monumenti del secondo e terzo secolo. — Che si deve pensare dei vangeli apocrifi. — Testimonianze dei secoli posteriori; Eusebio Alessandrino, Gregorio di Tours, S. Anseimo, Vincenzio di Beauvais. — Il grande istoriografo di Gesù Cristo, Laudolfo di Sassonia, il sapiente P. Orilia, e molti altri.— Quello che accadde in questo incontro. — Previdenza dell’infinita misericordia del Signore.

La strage degli innocenti era imminente, e fra tante vittime Erode ne cercava una sola. Iddio che si ride dei proponimenti degli uomini, salvò questa sola vittima, ed il regale assassino non altro vantaggio riportò dalla sua barbarie, che l’orrore della posterità. Giuseppe avvertito da un Angelo, prende il Bambino e la di lui Madre, lascia la sua dimora nel silenzio della notte, ed in tutta fretta si dirige verso l’Egitto. [Matt. II, 13-14] – Due vie potevano condurvici; la via di mare, e quella di terra. Prendendo la prima bisognava venire fino a Ioppe (Giaffa) o ai dintorni di essa, ed attraversare venti leghe di un paese popolatissimo; il che per i fuggitivi sarebbe stato lo stesso che correre quasi certissimo pericolo di essere riconosciuti; ed arrestati. – Di più arrivati al luogo d’imbarco potevano vedersi costretti ad attender anche più giorni 1’occasione della partenza, ed in tal caso ogni ora di dilazione sarebbe stata un ora di nuovo pericolo. Finalmente era necessario aver mezzi di pagare il viaggio, e la sacra famiglia era povera; ed è anzi molto probabile che lo fosse più ancora in questa circostanza, in cui l’ordine di partenza essendo venuto inaspettatamente e nel mezzo della notte, non si era potuto fare alcun preparativo. Quest’ordine pressante come un grido di allarmi, rispettato come un ordine del cielo, non permetteva né titubanza, né dilazione. Queste ragioni ed altre ancora sono sì gravi da non poter supporre che la sacra famiglia abbia scelta la via di mare. – Restava la via di terra; la quale aveva anch’essa i suoi pericoli. Da una parte, tra le frontiere meridionali della Giudea, e la terra di Egitto, stendevasi un deserto di quaranta leghe, che bisognava necessariamente attraversare. D’altra parte abbiamo veduto che la Palestina e i dintorni erano da molto tempo infestati da briganti, i quali, naturalmente, e diremmo anche quasi infallibilmente, dovevano incontrarsi, più che altrove, in questi luoghi appartati, lontani dalle abitazioni, e sopratutto nel mezzo di una vasta solitudine, che era la via obbligata delle carovane; in questi luoghi, essi potevano, senza timore di esser visti o conosciuti, esercitare la loro colpevole e troppo spesso sanguinaria professione. – Questa fu la strada che scelsero gli illustri fuggitivi: e l’arte, interprete della tradizione, rappresenta costantemente la sacra famiglia fuggitiva verso l’Egitto per la via di terra; e dipinge S. Giuseppe, che con una mano appoggiata ad un bastone, conduce con l’altra la modesta cavalcatura, sulla quale è assisa la SS. Vergine col bambino Gesù in braccio. Un’altra tradizione, della quale il terzo secolo offre già alcuni monumenti scritti nelle lingue orientali, ci fa conoscere che la sacra famiglia non iscampò al pericolo comune, e fu incontrata dai briganti del deserto. Prima di riportare i particolari di questo incontro, ci sembra utile di addurre qualche prova in appoggio di un avvenimento, che secondo la medesima tradizione occupa un vasto campo nella vita di S. Disma. – Nel fatto che la sacra famiglia come tanti altri viaggiatori, sia stata sorpresa dai ladri nella sua fuga in Egitto, non v’ha nulla d’impossibile; e si può anzi aggiungere che le nozioni storiche rammentate precedentemente lo rendono verisimile. È vero che non trovasi di un tal fatto parola nel Vangelo: ma il silenzio dei sacri scrittori non ne distrugge l’autenticità; poiché non tutto è stato scritto nel nuovo Testamento, e lo stesso Apostolo S. Giovanni dice, che il Libro divino contiene appena la minima parte dei fatti relativi a N. S. Gesù Cristo. [« Sunt autem et alia multa quæ fecit Jesus; quæ si scribantur per singula, nec ipsum arbitror mundum capere posse eos, qui scribendi sunt, libros. » XXI, 25]. – Vi sono anzi dei punti essenziali, di cui non vi si trova alcun vestigio, come sono fra gli altri, la sostituzione della Domenica al Sabato, e la validità del Battesimo per infusione. Qui come altrove la tradizione supplisce al silenzio dell’Evangelo; poiché questa tradizione di buon ora si fissò nei monumenti scritti. S. Luca ci dichiara, che sin dai primi giorni del Cristianesimo apparve un gran numero di opere sulla vita di Gesù Cristo. Ciò si comprende facilmente; poiché, al dir di Eusebio, folle innumerevoli di persone, attirate dal rumore dei miracoli dell’Uomo-Dio, accorrevano in Palestina dalle estremità più lontane della terra per vederlo e domandargli grazie e favori. [Hist, lib. I c. XIII.]. – Or l’uomo è così fatto che sempre e dapertutto, anche nei secoli d’incredulità e di materialismo, si mostra avido del meraviglioso. Questi pellegrini, Giudei o stranieri, che avevano avuto la sorte di vedere Gesù di Nazaret, o che avevano conversato con coloro che lo avevano veduto, facevano a gara in pubblicare le minime particolarità della sua vita e de’suoi miracoli. – Fu questa l’origine moralmente certa dei numerosi scritti, ai quali fa allusione l’Evangelista. – Quali erano queste prime opere delle quali dobbiamo deplorare la perdita? Nessuno lo sa. Possiamo affermare almeno che esse servirono di base ad un gran numero di raccolte di tradizioni evangeliche sparse più tardi in Oriente ed in Occidente. Le une furono redatte con più pietà che critica; l’altre composte o falsificate dagli eretici, racchiudevano il veleno dei loro errori: alcuna di esse non apparteneva con certezza all’autore, di cui portava il nome; e la Chiesa nella sua infallibile saggezza le rigettò tutte dal canone delle S. Scritture. – Ma col dichiararle apocrife essa non ebbe intenzione di denunziarle per false e menzognere affatto: alla zizzania dell’errore si trova in esse mescolato il buon grano della verità. La verità si riconosce facilmente, allorché il racconto di questi apocrifi è conforme a quello degli autori canonici, o all’insegnamento tradizionale della Chiesa; ed i casi ne sono assai frequenti. Se a cagion d’esempio, riportano essi alcune particolarità relative a Gesù Cristo, alla S. Vergine, o agli Apostoli; qualora simili particolarità non abbiano nulla di puerile o di inverisimile, ed a più forte ragione nulla di contrario alla fede; se anzi appariscano conformi agli usi ed ai costumi dell’antichità; esse costituiscono come una tradizione di second’ordine, che non è affatto riprovata né riprovevole; tradizione che gode anche di un’autorità relativa, sulla quale riposano un certo numero di fatti entrati senza opposizione per parte della Chiesa nel dominio del pubblico. La Chiesa medesima si è servita contro gli iconoclasti della lettera di Abgaro, comunque fosse stata messa tra gli apocrifi da S. Gelasio Papa. [Ved. Baron. an. 31. n. 50]. –  Nell’ottavo secolo, Papa Gregorio II, che doveva conoscere il decreto del suo predecessore, non teme di scrivere all’Imperatore iconoclasta Leone Isaurico in questi termini: « Trovandosi nostro Signore nei dintorni di Gerusalemme, Abgaro re d’Edessa, che aveva inteso parlare dei miracoli di Lui, gli scrisse una lettera, alla quale degnossi nostro Signore rispondere, e mandargli il suo adorabile ritratto. A vedere questa santa Immagine, non fatta per mano di uomo, accorri tu pure, o manda altri. Là accorrono e pregano molti dall’Oriente. » [Epist. I ad Leon. Isaur.]. –  Alcuni anni dopo un altro sommo Pontefice, Adriano I informa Carlo Magno di quanto si era fatto nel Concilio tenuto a Roma sotto Stefano IV e gli dice: « Il nostro predecessore di santa memoria, il Signore Stefano, presedendo al sopradetto Concilio, riporta un gran numero di testimonianze degne di fede, che egli stesso conferma; indi soggiunge: ma non è da omettersi quello che per relazione dei fedeli, i quali vengono dalle parti di Oriente, abbiamo appreso noi stessi. Per verità il vangelo non parla di quanto essi riferiscono; pure non è cosa incredibile, affermando lo stesso evangelista, come molti altri prodigi operò Gesù, che non sono stati scritti in questo libro. Asseriscono essi dunque che il Redentore del genere umano, avvicinandosi il tempo di sua passione rispondesse a una lettera del re di Edessa, il quale desiderava di vederlo, ed offrirgli un asilo contro le persecuzioni dei Giudei. »  [Apud Bar., an. 769, n. 8. Vedi ibid, an. 809, n. 17; an. 114, n. 17, etc.]. Segue poi la lettera di nostro Signore. Osservisi che S. Gregorio e Adriano scrivono lettere officiali ad imperatori, uno dei quali era nemico giurato delle sante immagini. Se le lettere di nostro Signore e di Abgaro, benché non ammesse nel canone delle scritture, non avessero avuto un’autorità molto rispettabile, come mai i sommi Pontefici avrebbero osato produrle con tale asseveranza in favore del culto tradizionale delle sante immagini? – I protestanti poi si mostrano talvolta meno disdegnosi di certi cattolici relativamente agli apocrifi. Quanto alle lettere di Abgaro conservateci da Eusebio, il dotto Pearson mostra una tal confidenza nelle primitive nostre tradizioni, che fa onore e alla sua imparzialità e alla sua erudizione.1 [Not. Ad Euseb. lib. I, c. XIII]. – Il dotto e saggio annalista della Chiesa Baronio non trova difficoltà alcuna di appoggiarsi agli apocrifi per stabilire, contro S. Girolamo, che quel Zaccaria ucciso dai Giudei fra il tempio e l’ altare è Zaccaria padre di S. Giovanni Battista. La regola da seguirsi, citando 1’autorità degli apocrifi, è quella indicataci dal gran cardinale: ammetterla cioè con prudenza, caute admittenda, e non sostenerla pertinacemente, mordicus defendi non deberi. [Ann. 48, n. 14. ann. 55. n. 5. et Iudex, t. I, p. 265, et 304]. – È inutile aggiungere essere nostra intenzione conformarvici in tutto il corso di questa storia. – « Le circostanze particolari contenute negli apocrifi, aggiunge Brunet, lungi dall’essere rimaste sterili, hanno avuto per una lunga serie di secoli razione la più potente e la più feconda sullo sviluppo della poesia e delle arti. L’epopea, il dramma, la pittura, la scultura del medio evo non hanno mancato di avervi ricorso. Trascurare lo studio dei vangeli apocrifi è lo stesso che rinunziare a scoprir le origini dell’arte cristiana. Essi sono stati la sorgente, alla quale gli artisti dopo l’estinzione del paganesimo hanno attinto tutto il loro vasto simbolismo: diverse circostanze rapportate da queste leggende, e consacrate dal pennello dei grandi maestri della scuola italiana, hanno dato luogo a tipi ed attributi che sono giornalmente riprodotti dalle arti del disegno.11. [Evang. apocryph. p. V. et VI; v. anche Bergier, Diz. artic. apocrifi, e vangeli.]. – Fra tutte queste opere noi ne citeremo due soltanto. L’una riferisce con qualche particolarità l’incontro della sacra famiglia coi ladri del deserto: l’altra dà il nome divenuto tradizionale dei due ladroni del Calvario. Il primo è l‘Evangelo della Infanzia, [Brunet, Evang. apocr., p. 54]. il quale risale almeno alla fine del secondo secolo. Scritto prima in siriaco, o in greco, fu tradotto poi nelle diverse lingue dell’Oriente e dell’ Occidente. Se ne trovaron copie in Egitto presso i Copti, nelle Indie presso i cristiani stanziati sulle coste del Malabar, presso gli Armeni ed anche presso i Musulmani; senza parlare dei popoli dell’Europa, ove le edizioni moltiplicate lo avevano reso popolare. [Brunet, Ibid., p. 53 et seg.]. – Questo scritto, chiunque siane l’autore, contiene fatti perfettamente avverati: tali sono le circostanze dell’adorazione dei Magi, e la causa della partenza della sacra famiglia per la terra di Egitto. « Ecco, dice il capo VII, ecco quello che avvenne. Mentre il Signore Gesù era nato a Betlelemme, città della Giudea, ai tempi del re Erode alcuni Magi vennero dal paese dell’Oriente a Gerusalemme, come l’aveva predetto Zorodascht (Zoroastro). Ed essi portarono seco alcuni doni, oro, incenso e mirra, ed adorarono il Bambino, e gli fecero omaggio dei loro doni. » Ed il capo IX: « Erode vedendo che i Magi non ritornavano da lui… cominciò a meditare nel suo spirito l’uccisione del Signore Gesù. Allora un angelo apparve a Giuseppe in sogno, e gli disse: Levati, prendi il bambino e la sua Madre, e rifugiati in Egitto. Ed al canto del gallo, Giuseppe si levò e partì. » Vi si trovano altri fatti che appartengono alla tra dizione di second’ordine, di cui abbiamo parlato, come l’incontro dei ladri e della sacra famiglia, che il capo XXIII descrive in questi termini. « Essi arrivarono quindi all’entrata del deserto, e saputo che questo era infestato dai ladri, si preparavano ad attraversarlo durante la notte. Ed ecco che nel medesimo istante vedono due ladri che erano addormentati, e vicino ad essi videro un gran numero di altri ladri, i quali erano i compagni di questa gente, e che erano pure immersi nel sonno. Questi due ladri si chiamavano Tito e Dumaco. [La tradizione meglio accertala dà differenti nomi a costoro, e nulla impedisce di ammettere che eglino avessero più e diversi nomi. Che forse la storia profana, e pur essa la storia evangelica, non fanno menzione di personaggi conosciuti sotto svariati nomi? Oggi stesso è forse rara cosa il vedere in ogni paese le relazioni giudiziarie, dar notizia al pubblico dei nomi che, oltre il lor proprio, moltissimi malfattori si ebbero per falsi delle loro audaci imprese?]. – II primo disse al secondo: ti prego dì lasciare andare in pace questi viaggiatori, per timore che i nostri compagni non li vedano. Ricusandosi Dumaco di ciò fare, Tito gli disse: Ricevi da me quaranta dramme, e prendi per pegno la mia cintura; e gliela presentava, pregandolo di non chiamare gli altri e di non gridare allarme.« Maria scorgendo la buona disposizione di quel ladro ad usarle riguardo, gli disse: Iddio ti sorregga con la sua destra, e ti accordi la remissione dei tuoi peccati. Ed il Signore Gesù disse alla Madre: Madre mia, passeranno trent’anni, e i Giudei mi crocifìggeranno, e questi due ladroni saranno crocifissi con me, Tito alla mia destra e Dumaco alla sinistra; ed in quel giorno Tito sarà con me in paradiso. E poiché ebbe così parlato, la Madre gli replicò: che Iddio tenga lontano da te, figlio mio, avveramento di siffatto presagio: e proseguirono il viaggio verso una città idolatra. ». – II secondo e il più celebre di tutti è l’Evangelo di Nicodemo. Esso non ha quasi una frase che, quanto al sentimento, non si trovi in parecchi scrittori dei primi secoli, come s. Cirillo di Gerusalemme, Finnico Materno, s. Crisostomo, s. Ippolito. Quindi la sostanza del racconto non è da porsi in dubbio. Redatto nella sua forma attuale verso il quarto o quinto secolo, questo e vangelo fu ben presto diffuso e letto in tutto l’Occidente. Gregorio di Tours, Vincenzio di Beauvais, ed un gran numero di scrittori del Medio Evo ebbero spesso ricorso a quest’opera, la cui autorità non fu punto sospetta ai loro occhi. In Egitto Eusebio di Alessandria la commenta ed analizza con energica confidenza. In epoche non molto remote, l’Evangelo di Nicodemo leggevasi nelle Chiese Greche, non come parte della s. Scrittura, ma come opera edificante e di rispettabile autore. Quindi è che innumerevoli ne sono le edizioni fatte in tutte le lingue. [Brunet, Evang. apocr,, p. 215. 220.].- Al pari di quello dell’Infanzia, il Vangelo di Nicodemo riferisce, oltre i fatti divinamente certi, le particolarità tralasciate dal racconto, tanto rapido e conciso, del sacro testo. Eccone, fra gli altri, un esempio : « Gesù, dice il capitolo X, uscì dal Pretorio; e quando ebbe raggiunto il luogo chiamato Golgota, i soldati lo spogliarono delle sue vesti e il recinsero di un saio, e coronatone il capo di spine, e messagli nelle mani una canna, lo crocifissero insieme coi due ladroni ai suoi fianchi, Dima a destra e Gesta a manca. » Fondati su questi evangeli, o su monumenti ora perduti, numerosi testimoni, sulla scienza e buona fede dei quali non cade sospetto, tramandarono alla posterità così la memoria di questo memorabile incidente, come i nomi dei due ladroni. Fra le opere dì s. Agostino, una ve n’è una che porta il titolo De vita eremìtica; la quale per lunga serie di anni fu attribuita al gran Vescovo d’Ippona, ma che col dottissimo P. Raynaud crediamo piuttosto di s. Anseimo, Arcivescovo di Cantorbery. [Metamorpìios. latr. inter Op. t. IX, p. 457, ediz. in fol. Lugd. 1665]. Chiunque ne sia per altro l’autore, molto antico è un tale scritto, e sul punto che trattiamo, esso conferma la tradizione dell’Oriente e dell’Occidente. – Or ecco in quali termini la riassume. « Abbiate per vero quanto si dice della sacra famiglia, che arrestata dai masnadieri, dovette la sua salvezza al buon volere di un giovane di quella banda. La tradizione vuole che ei fosse figlio del capo di quei ladri. Arrestati gli augusti viaggiatori, esso vide il bambino in grembo della madre. La maestà, che splendeva sul volto ammirabile di quel figliuolo, lo colpì talmente, che punto non dubitò esser desso più che un uomo, e col cuore intenerito abbracciatolo: « O benedetto fanciullo, esclamò, se mai l’occasione ti si offra di aver pietà di me, sovvengati di me, né dimenticare l’incontro di questo giorno. » – « La tradizione ritiene che questo giovane fosse poi il ladrone crocifisso alla destra di Gesù Cristo. Rivoltosi dalla sua Croce al Signore, miracolosamente riconobbe in esso il maestoso fanciullo che aveva veduto nella sua gioventù, e tornandogli a mente il suo patto: Sovvengati di me, gli disse, quando sarai nel tuo regno. – Come incentivo di amore, non credo inutile servirsi di questa tradizione, senza alcuna temeraria affermazione del fatto » – Il dottissimo Cardinale s. Pier Damiano, morto nel 1072: attribuisce la conversione del Buon Ladrone alle preghiere della beatissima Vergine lieta di riconoscere in esso lui il masnadiere, che nel deserto aveva protetta e salvata la sacra famiglia. — Il giovane ladrone volle compiere la sua buona azione. Non solamente esso impedì lo spoglio degli augusti viaggiatori, ma offrì loro la sua capanna per riposare e passarvi la notte, somministrò ad essi quanto era necessario, e l’indomani diede loro una scorta sicura per accompagnarli. – Lunga in vero sarebbe la lista degli autori, commendevoli per scienza e per pietà, che si fecero campioni di questa medesima tradizione, e l’accettarono senza riserva. Tali sono particolarmente il Beato Giacomo de Voragine Arcivescovo di Genova, il dotto Vescovo d’Equilio, Pietro de Natalibus, il P. Orilia dei Pii Operai, ed il grande storiografo di nostro Signor Gesù Cristo, Landolfo di Sassonia. II primo di essi, in un suo discorso, si esprime così: « La sacra famiglia allorché fuggiva in Egitto cadde nelle mani dei ladri. Uno di essi preso dalla bellezza del bambino: Io dico in verità, così parlò rivolto ai suoi compagni, che se Iddio potesse rivestirsi della nostra carne, giurerei che questo bambino è Dio. » Queste parole commossero quei banditi, e la Madre ed il pargoletto furono lasciati proseguire il viaggio senza far loro alcun danno ». – Al fatto principale il secondo aggiunge le seguenti circostanze: Il giovane ladrone, sorpreso dalla bellezza del Bambino, e dalla dolcezza di sua Madre, non solo si astenne dallo svaligiarli, ma li condusse nella sua caverna per passarvi la notte, somministrò loro quello che era ad essi necessario, e li fornì di una scorta per accompagnarli [Catatog. SS. lib. IlI, c.ccxxviii.]. – Landolfo di Sassonia non si allontana per nulla dalla tradizione, di cui sembra aver copiato la testimonianza in S. Anselmo [Oltre a ciò si deve notare che Maria fa presa insieme col fanciullo dai ladroni ec. Come in s. Anselmo, De vita eremitica, citato più sopra. Vita di Gesti Cristo, c. XIII, fol. 37, edizione di Venezia, 1531. in fol.]. –  A siffatte autorità il P. Orilia aggiunge il peso della sua erudizione e della sua pietà, al pari degli accennati scrittori, egli non dubita punto dell’incontro della Sacra Famiglia coi masnadieri del deserto, e della influenza che esso ebbe sulla conversione del buon Ladrone. « Io potrei, egli dice, fare un non breve elenco degli autori che narrano il medesimo fatto, ma sarebbe cosa noiosa citarli tutti. [P. Orilia, Riflessioni, ec. c. II, pag. 10]. – Egli avrebbe potuto aggiungere che in Oriente è volgarissima questa tradizione, la quale egli tiene con quella fermezza, e diremo anche con la immobilità che lo caratterizza. Quanto poi alle varianti che si notano nei racconti dei nostri autori, sono esse forse tali da toglier fede al fatto principale? No certamente, secondo il nostro giudizio. La critica stessa la più severa non si ricusa di ammettere come veri nella sostanza un gran numero di fatti in vario modo narrati dagli storici. Tali sono, per citarne alcuni dei più celebri e dei meno revocati in dubbio, l’assassinio di Cesare, le conquiste del re Clodoveo, e puranco talune delle battaglie di Napoleone. – Una prova d’ordine morale può confermare le testimonianze della tradizione. La Provvidenza non opera mai a caso. La sua infinita sapienza abbraccia il presente, il passato ed il futuro, e la bontà ne uguaglia la sapienza. Chi sa che per far risaltar l’una e l’altra, non fosse disposta l’avventura dell’incontro nel deserto? Quante altre non meno misteriose combinazioni non troviamo noi nel Vangelo! Fu egli forse per caso che il lebbroso della montagna, la Samaritana, Zaccheo, Matteo si trovassero sul passaggio di Nostro Signore? Cieco chi in questi fatti non scorge la misericordia correre in cerca della miseria, ed il medico andare incontro al malato! – Così pure chiamando sul suo passaggio il giovane ladro, ed ispirandogli un vivo senso di umanità, Colui che disse: « Io era viaggiatore e mi deste l’ospitalità: » Colui che non lascia senza premio un semplice bicchier d’acqua fresca dato in suo nome all’assetato, avrà voluto deporre nell’anima di quel malfattore il germe prezioso che un giorno doveva così magnificamente manifestarsi sulla croce. Se così è, e nulla prova che sia altrimenti, abbiamo sin dal principio, di che ammirare la divina misericordia, della quale la conversione del buon ladrone è senza dubbio uno dei più consolanti miracoli.

Nostra Signora di Fatima e la Russia

 

[Attualità di Fatima, Città della Pieve – 1953, impr. ]

Il nostro mondo si è così abituato a giudicare gli eventi temporali in termini di altri eventi, che sta perdendo di vista un altro e più grande sistema di giudizio, cioè l’Eterno, che irrompe nella storia per annullare i valori meschini e triviali dello spazio e del tempo. Poiché da coloro che vivono in un universo bidimensionale, costituito soltanto dalla destra e dalla sinistra, non si può pretendere che conoscano queste manifestazioni celesti, sarà bene ricordare che le due più importanti si verificarono quando il mondo ne aveva più bisogno e quando ne era meno consapevole. Una di queste rivelazioni ebbe luogo nell’anno in cui nacquero le idee che crearono il nostro mondo decristianizzato, l’altra ebbe luogo nell’anno in cui tali idee furono tradotte in pratica. Se c’è un anno cui possiamo fare risalire la nascita del mondo moderno — e dicendo « mondo moderno » intendiamo contrapporlo al mondo cristiano — dovrebbe essere all’incirca l’anno 1858. Proprio in quell’anno John Stuart Mill scrisse l’Essay on Liberty ( « Saggio sulla Libertà » ) in cui la libertà veniva identificata nella licenza e nell’assenza di responsabilità sociale; in quello stesso anno Darwin aveva terminato la sua Origin of the Species ( « Origine della Specie» ) con la quale distoglieva l’uomo dalla visione del fine eterno e lo induceva a guardare indietro, al passato animale. Nell’anno 1858 Karl Marx, fondatore del comunismo, scrisse l’introduzione alla Critica dell’Economia Politica, nella quale glorificava l’economia come base della vita e della cultura. Da questi uomini sono venute le idee che hanno dominato il mondo per quasi un secolo — ossia, che l’uomo ha origine non già divina, bensì animale; che la sua libertà è licenza ed evasione dall’autorità e dalla legge; che, svuotato dello spirito, l’uomo è una parte integrale della materia del cosmo e perciò non ha bisogno della religione. – In quello stesso 1858, anno indubbiamente importante, l’11 febbraio, ai piedi dei Pirenei in Francia, nel piccolo villaggio di Lourdes, la Vergine Benedetta cominciò la prima di 18 apparizioni a una contadinella la cui famiglia si chiamava Soubirous. Costei è ora conosciuta come Santa Bernadette. Quattro anni dopo che la Chiesa aveva definito la dottrina dell’Immacolata Concezione, il cielo si aprì e la Signora, così bella, disse Bernadette, che certamente non poteva essere di questa terra, parlò a Bernadette in questi termini: « Io sono l’Immacolata Concezione ». Nello stesso momento in cui il mondo negava il peccato originale e, senza saperlo, diceva che ogni creatura era concepita immacolatamente, la Nostra Madre Benedetta affermava che tale prerogativa era unicamente Sua : « Io sono l’Immacolata Concezione». Ella non disse: « Io sono stata concepita immacolatamente ». C’era come un’identificazione analoga tra Lei e l’Immacolata Concezione che Dio aveva fatta sul Monte Sinai quando aveva detto: « Io sono Colui che è » . Come l’esistere è proprio di Dio, così l’Immacolata Concezione è propria della Vergine Benedetta. Se solo e unicamente Lei fu concepita immacolatamente, ne segue che chiunque altro è nato in stato di peccato originale; se non c’è peccato originale, allora tutti sono stati concepiti immacolatamente. L’attribuire alla Vergine l’unicità del privilegio contraddiceva a tutte le idee che il mondo decristianizzato cominciava allora a generare. A coloro che credono che l’uomo appartenga esclusivamente alla terra, il cielo oppone che la Madre invita gli uomini a recarsi in pellegrinaggio al suo santuario in testimonianza dello spirito; per rispondere a coloro che riducono l’uomo ad animale, e l’animale a natura, la Bella Signora esorta gli uomini ad elevarsi al di sopra dell’animale alla loro suprema vocazione nel Suo Figlio Divino; a coloro che degenerano la libertà in licenza, l’Eterno riafferma che solo la Divina Verità può donarci la gloriosa libertà dei figli di Dio; quelli che dicono che la religione è l’oppio del popolo, Ella desta dell’oppio della menzogna alla realtà della gloriosa possibilità dell’uomo di diventare un erede del cielo.

COINCIDENZA DI EVENTI

Ma il mondo non ascoltò il richiamo celeste ai valori dello spirito. Le idee pagane del 1858, che l’uomo è un animale, che la libertà è isolamento dalla legge, che la religione è antiumana, varcarono ben presto l a copertina di un libro e le quattro mura di un’aula scolastica per concretarsi infine nella violenza della Prima Guerra Mondiale 1914-1918. Questa guerra fu l’attuazione delle false idee del 1858. Il mondo laico diventò carne da cannone. A considerare un solo anno di quella Guerra Mondiale, l’anno 1917 appare come il più significativo per gli eventi che si verificarono in tre parti del mondo. Il 13 maggio di quell’anno Benedetto XV impose le mani su Monsignor Pacelli, facendone un successore degli Apostoli. Mentre le campane di Roma suonavano l’Angelus di mezzogiorno, la Chiesa riceveva un nuovo vescovo che un giorno, per i remoti disegni della provvidenza, sarebbe asceso al trono di Pietro e avrebbe governato la Chiesa Universale come nostro Santo Padre, col nome di Pio XII. In Russia il 13 maggio 1917, Maria Alexandrowna stava insegnando catechismo in una delle chiese di Mosca. Sui banchi della chiesa stavano davanti a lei 200 fanciulli. Improvvisamente si udì un terribile rumore in direzione della porta principale: entrarono alcuni uomini a cavallo, caricarono fino in fondo alla navata della grande chiesa, rovesciarono la balaustrata della Comunione, distrussero l’altare, ritornarono quindi indietro distruggendo le statue e infine caricarono i fanciulli uccidendone alcuni. Maria Alexandrowna si precipitò urlando fuori dalla chiesa. Fu quella la prima di quelle violenze sporadiche che presagivano l’imminente rivoluzione comunista. Maria Alexandrowna corse da un rivoluzionario che doveva poi diventare famoso, e quando gli gridò: « E’ avvenuta una cosa terribile! Stavo insegnando il catechismo in chiesa quando sono entrati alcuni uomini a cavallo, hanno distrutto la chiesa, hanno travolto i ragazzi e ne hanno ucciso alcuni ». Lenin, il rivoluzionario, rispose : « Lo so li ho mandati io » . – In Portogallo, il 13 maggio 1917, tre fanciulli della Parrocchia di Fatima, Giacinta. Francesco e Lucia erano intenti a sorvegliare il gregge quando la campana della chiesa parrocchiale suonò l’Angelus. I tre pastorelli s’inginocchiarono e, com’era loro costume quotidiano, recitarono insieme il rosario. Quando ebbero terminato, decisero di costruire una « casetta » dove rifugiarsi nei giorni di tempesta. Ma i piccoli architetti furono improvvisamente interrotti da un lampo accecante e guardarono ansiosamente il cielo. – Nessuna nuvola velava la radiosità del sole di mezzogiorno. Impauriti, i fanciulli cominciarono a correre quando, proprio due passi innanzi, in mezzo al fogliame di un alce verdissimo, videro una « bella signora » più splendente del sole. Con un gesto di gentilezza materna la signora disse: « Non abbiate paura, non vi farò del male ». La signora era bellissima: dimostrava dai 15 ai 18 anni di età. La sua veste, bianca come la neve e trattenuta al collo da un cordone d’oro scendeva giù fino ai piedi che erano appena visibili, sfiorando i rami dell’albero. Un velo bianco ricamato d’orò le copriva la testa e le spalle, e ricadeva anche esso fino ai piedi come un manto. Le sue mani erano unite all’altezza del petto in atteggiamento di preghiera; un rosario di lucide perle con una croce d’argento le pendeva dalla mano destra. Il suo volto d’incomparabile bellezza scintillava in un alone brillante come il sole, ma appariva come velato da uno sguardo di leggera tristezza. Lucia fu la prima a parlare: « Donde vieni ? ». – « Vengo dal Cielo », rispose la signora. « Dal Cielo! E perché sei venuta sin qui? » domandò Lucia. – « Son venuta a chiedervi di trovarvi qui il tredicesimo giorno di ogni mese a quest’ora per sei mesi di seguito. Nel mese di ottobre vi dirò chi sono e che cosa voglio ». In quello stesso momento, mentre nell’estremità orientale dell’Europa l’Anticristo si scatenava contro l’idea stessa di Dio e contro la società in uno dei più terribili spargimenti di sangue della storia, nell’estremità occidentale dell’Europa appariva radioso quel grande ed eterno nemico del serpente infernale.

IL SEGRETO DI FATIMA E LA RUSSIA

Delle sei apparizioni della Madre Benedetta a quei fanciulli, la più importante fu l’apparizione del 13 luglio 1917. Bisogna ricordare che quello che era il terzo anno della prima guerra mondiale, a proposito de’la quale Ella disse: « Questa guerra sta per finire. Se la gente farà quello che io ho detto, molte anime si salveranno e troveranno pace ». « Ma » aggiunse, « se l a gente non cessa di offendere Dio, non passerà molto tempo, e precisamente durante il prossimo Pontificato, che un’altra e più terribile guerra avrà inizio » . Infatti fu durante il Pontificato di Pio XI che cominciò la terribile guerra spagnola, preludio alla Seconda Guerra Mondiale. Durante quel periodo i Rossi, nel loro odio per la religione, massacrarono 13 prelati, 14.000 preti e religiosi, e distrussero 22.000 tra chiese e cappelle. La Madre Benedetta diede poi un segno indicatore dell’inizio effettivo della seconda guerra mondiale. « Quando vedrete una notte illuminata da una luce ignota, saprete che quello è il segno che Dio vi dà per avvertirvi che è vicino il castigo del mondo per le sue tante trasgressioni, mediante la guerra, la carestia e la persecuzione della Chiesa e del Santo Padre » . Più tardi, a Lucia venne domandato quando era realmente apparso il segno, ed ella rispose che era stato quella straordinarissima aurora boreale che aveva illuminato una gran parte dell’Europa nella notte sul 26 gennaio 1938. Parlando della guerra a venire, Lucia disse: «Sarà orribile, orribile » . Tutti i castighi di Dio sono condizionali e possono essère evitati con la penitenza. La Madre Benedetta, va rilevato, aveva detto che la seconda guerra mondiale poteva essere evitata, poiché aveva aggiunto : « Per evitarla, chiederò la Consacrazione del mondo al mio Cuore Immacolato, e la Comunione in riparazione il primo sabato di ogni mese. Se le mie richieste saranno esaudite, la Russia si convertirà: ci sarà la pace. Altrimenti la Russia spargerà il terrore in tutto il mondo causando guerre e persecuzioni contro la Chiesa. I buoni soffriranno il martirio, e il Santo Padre avrà molto da soffrire. Molte nazioni saranno distrutte » . Il Vescovo di Fatima non ha creduto opportuno informarci di una parte di quel messaggio. Che conteneva quella parte del messaggio, non lo sappiamo. Evidentemente non doveva contenere buone notizie, e sembra pure che si riferisse ai nostri tempi. In ogni modo, ci è stata detta la conclusione del messaggio, piena di speranza e di letizia: « Ma alla fine il mio Cuore Immacolato trionferà. Il Santo Padre consacrerà la Russia al Cuore Immacolato, e la Russia sarà convertita e una nuova èra di pace sarà concessa al mondo ». La rivelazione finale ebbe luogo il 13 ottobre, giorno i n cui la Madre Benedetta promise di operare un miracolo in modo che tutti i presenti potessero credere nelle Sue apparizioni. La sera del 12 ottobre tutte le strade di Fatima erano ingombre di veicoli e pellegrini che si recavano al luogo dell’apparizione. Testimone fu una folla di 60.000 persone le quali erano convenute a mezzogiorno del 13 e di cui molte erano miscredenti e irridevano alla religione.

LA DONNA VESTITA DI SOLE E L’ORA DELLE TENEBRE

Qui non ci curiamo di provare l’autenticità dei fenomeni di Fatima, poiché coloro che credono nel regno dello Spirito e nella Madre di Dio sono disposti ad accettarli, e coloro che respingono lo Spirito non li accetteranno mai, a nessuna condizione. Quale significato dobbiamo dare all’apparente caduta del sole attestata dal popolo che si trovava a Fatima in quel giorni di ottobre del 1917? Non abbiamo alcun modo di conoscenza diretta, ma poiché il suo effetto generale fu così sconcertante, possiamo argomentare. Quel fenomeno poteva costituire il presagio del giorno in cui gli uomini avrebbero sottratto al sole una parte dell’energia atomica e l’avrebbero usata non per illuminare il mondo, ma come una bomba da lanciare dal cielo sulle popolazioni inermi. In passato, quando 1a carestia guastava la terra, quando la guerra devastava l’eredità accumulata nel corso dei secoli, quando gli uomini si sbranavano tra loro e grandi campi di concentramento simili a Moloch inghiottivano milioni di esseri, gli uomini potevano pur sempre rivolgere al cielo il loro sguardo di speranza. Se questa terra era crudele, almeno il cielo sarebbe stato benigno. Questo l’apparizione presagiva che adesso per un certi tempo persino il cielo si sarebbe rivolto contro l’uomo e che i suoi fuochi si sarebbero scatenati sugli inermi figli di Dio. Se sia stato o non un preavviso della bomba atomica, non sappiamo: una cosa è certa, e cioè che non era la fine della speranza, poiché i n mezzo a tutte le nuvole c’è pur sempre nei cieli la visione della Signora, come la Luna sotto i Piedi, una corona de stelle intorno alla Testa, ed il Sole sopra. Il Cielo non è contro di noi e non ci distruggerà finché Ella regnerà Signora dei Cieli. – Potrebbe essere tuttavia interessante domandarsi perché Dio Onnipotente nei Suoi provvidenziali rapporti con l’Universo abbia ritenuti opportuno di darci in quel giorno una rivelazione della Sua Madre Benedetta allo scopo di riportarci alla preghiera e alla penitenza. Una ragione che si presenta subito alla mente è questa: poiché il mondo ha perduto Cristo, può darsi che lo riconquisti per mezzo di Maria. Quando, a 12 anni, Nostro Signore Benedetto si perdette, fu la Madre Benedetta a rirovarLo. Ora che Egli è stato nuovamente perduto, può darsi che per mezzo di Maria il mondo riconquisti Cristo suo Salvatore. Un’altra ragione è che la Divina Provvidenza ha affidato a una donna il potere di domare il male. In quell’abominevole giorno in cui il male s’introdusse nel mondo, Dio parlò al serpente nel Giardino dell’Eden e gli disse: « I o metterò inimicizia tra te e la donna, tra il tuo seme e il suo seme: questo ti schiaccerà la testa e tu gli ferirai il tallone » (Gen. III, 15). In altre parole, il male avrà una progenie ed un seme. Anche la bontà avrà una progenie ed un seme. Sarà mediante il potere della donna che il male verrà schiacciato. Noi viviamo adesso in un’ora di male, perché, sebbene la bontà abbia il suo giorno, il male ha la sua ora. Ciò disse chiaramente Nostro Signore Benedetto la notte che Giuda penetrò nell’Orto di Getsemani: « Ma questa è l’ora vostra, e la podestà delle tenebre » (Luca XXII, 53). Tutto ciò che il male può fare in quell’ora è di spengere le luci del mondo; ma può farlo. Se allora noi viviamo in un’ora di male, come possiamo debellare lo spirito di Satana se non con il potere di quella Donna alla quale Dio Onnipotente ha dato il mandato di schiacciare la testa del serpente? Non si ode più la menzogna secondo la quale la Chiesa Cattolica adorerebbe Maria o La porrebbe sullo stesso piano di Dio, o Maria prenderebbe il posto di Dio. Gli uomini stanno invece cominciando a riconoscere la verità della tradizione cristiana, ossia che, come per colpa di Eva il peccato s’introdusse nel mondo, così per opera di una nuova Eva, Maria, la Redenzione dal peccato penetrerà nel mondo. Il Vescovo metodista G. Bromley Oxnam, nel suo Behold thy Mother (« Guarda la Madre Tua »), commentario delle parole di Nostro Signore a Giovanni che stava ai piedi della Croce, scrive: «Lo scopo morale è scritto nella natura delle cose? L’universo fu concepito per i pazzi? Aspettano la condanna i dittatori che si pavoneggiano sul palcoscenico per una breve ora, rifiutandosi di ripetere le rime del Dramma Eterno, negligendo le istruzioni del Divino Direttore? Ci sarà un sipario finale, e udranno essi : « Tu hai pesato nelle bilance ed hai trovato mancanze? ». In una parola, c’è qualcosa in ciò che Gesù volle rivelare, questo qualcosa che è rivelato nella vita di una vera madre? E’ questo qualcosa che abbiamo definito la realizzazione dell’essere nel dono assoluto di sé per gli altri, è questo qualcosa la legge che deve governare?… L a pace attende una revisione fondamentale dei concetti contemporanei di sovranità? Il diritto di proprietà è da connettersi con l’uso che il proprietario fa della proprietà? Ecco dei problemi che rendono perplessi, ma che dobbiamo affrontare se vogliamo avere la pace permanente e che d’altra parte non possiamo affrontare se non nel giusto spirito. « E stava là con Lui ai piedi della Croce la Madre Sua… » . L’uomo necessita di una nuova impresa unificatrice, tanto grande da unire tutti gli uomini. La classe sociale, la razza e la nazione sono concetti troppo piccoli. Questa impresa va ricercata nella dottrina cristiana della solidarietà della famiglia umana, nell’ideale di fratellanza? E qual è lo spirito, onde è maggiormente permeata? « E stava là con Lui ai piedi della Croce la Madre Sua… » . Lo spirito che Ella ha rivelato nel servire il Figlio Suo non era altro che lo spirito che Egli capì che bisognava rivelare se Egli voleva essere il Salvatore universale. Ed Ella andò con Lui. Portò un cuore infranto al Calvario, ma in quel cuore infranto rive1a ciò che Egli aveva rivelato nel Suo corpo infranto, ossia lo spirito che deve pur sempre governare il genere umano. Occorre un grande atto di fede per credere, come si è creduto da tanto tempo, che Gesù Cristo diventerà il Sovrano dei re della terra. Prima che Egli regni, gli uomini devono mirare lo spirito incarnato in Lui, ampiamente rivelato nei cuori delle madri di ogni dove. E’ lo spirito che deve governare il genere umano. Quando gli uomini lo sapranno e lo metteranno in pratica, quando intenderanno il vero significato di una madre che sta ai piedi di una croce, allora Egli diventerà il Sovrano dei re della terra. L’essere si realizza nel dono assoluto di sé agli altri, e tutti gli uomini diventano liberi nello spirito e nel1a pratica di questa legge. « E stava là con Lui ai piedi della Croce I Madre Sua » .

LA PREMESSA DELLA PACE INDICATA DA FATIMA

L a rivelazione di Fatima ci fa ricordare che viviamo in un universo morale, che il male ci distrugge, che il bene ci conserva; che i mali principali del mondo non stanno nella politica, nell’economia, ma nei nostri cuori e nelle nostre anime, e che la rigenerazione spirituale è la sola condizione per il miglioramento sociale. La Russia Sovietica non è il solo pericolo per il mondo occidentale; il pericolo è piuttosto la de spiritualizzazione del mondo occidentale cui la Russia ha dato forma e sostanza sociale. La seconda guerra mondiale è avvenuta perché, secondo quanto aveva detto Nostra Signora di Fatima, non c’era emendamento nei cuori e nelle anime degli uomini. Il pericolo di una terza guerra mondiale sta precisamente in questo, e non propriamente nell’Internazionale Comunista. Il mondo occidentale è scandalizzato del sistema sovietico, ma soprattutto perché vede che il proprio ateismo individuale è socializzato e attuato su una scala quasi cosmica. Il grande problema da affrontare non è né l’individualismo né il collettivismo, perché né questo né quello sono di primaria importanza; non è, sul piano economico, tra la libera iniziativa e il socialismo, perché nessuno di questi due sistemi è della massima importanza; la lotta ha invece per oggetto l’anima umana. Questo è un altro modo per dire che la crisi investe la libertà nel senso spirituale della parola. La guerra non acquisterà l’atmosfera del mondo, ma risulterà solo nell’atomizzazione dell’uomo, una realtà di cui la bomba atomica non è che un simbolo. Visto che il male non è interamente esterno, una guerra non potrà eliminarlo. Qualsiasi guerra mondiale non è che la oggettivazione del male che sta nelle singole vite degli uomini. Una guerra macrocosmica è il riflesso della guerra microcosmica che si combatte entro i cuori degli individui. E siccome il Cristiano lo sa meglio di chiunque altro, sua al massimo grado è la responsabilità dell’attuale situazione mondiale. Il mondo è quel che è perché ognuno di noi è quel che è. Il compito proprio del Cristiano è di discernere nelle due guerre mondiali avvenute nello spazio di 21 anni il giudizio di Dio sul nostro modo di vivere. Finché il Cristiano riterrà di non poter prendere che due direzioni, « Destra » o « Sinistra », non solo non porterà alcun contributo al mondo, ma renderà il mondo ancora peggiore, in quanto non intenderà che oltre al piano orizzontale della vita c’è anche quello vertica1e che porta a Dio e dove si trovano le due direzioni più importanti: quella « verso l’interno » e quella « verso l’alto » . Non trovando capri espiatori, siano essi i partiti politici o il comunismo, potremo sfuggire alla responsabilità di portare, come Cristo nell’Orto di Getsemani, il fardello della colpa del mondo. La rivelazione di Fatima ammonì i Cristiani che il cosiddetto problema della Russia è il problema dei Cristiani: che mediante la preghiera, la penitenza e la riparazione, e non mediante la guerra, l’abuso e la aggressione, la Russia potrà riunirsi alla società del’e nazioni amanti della libertà. – Non c’è « cortina di ferro » per questa visione del mondo, perché le preghiere non passano attraverso una cortina di ferro ma al di sopra di essa, come le particelle radioattive lasciate libere nell’atmosfera vengono trasportate su monti e continenti. La conversione della Russia è l a condizione essenziale per la pace del mondo, ma la conversione della Russia è condizionata dalla nostra stessa riconversione. Può darsi benissimo che proprio l’odio che la Russia mostra oggi verso il Cristianesimo provi che essa vi è più vicina che non l’uomo « spregiudicato » del mondo occidentale il quale non dice mai le sue preghiere. La Russia deve pensare a Cristo per poterLo odiare, ma l’uomo indifferente non vi pensa affatto.

OTTIMISMO CRISTIANO DI FRONTE AL PERICOLO RUSSO

Gli atteggiamenti che possiamo assumere verso la vita e la storia non sono che tre: 1°) L’ottimismo fatuo, che crede che la vita si muova necessariamente verso una meta prospera, grazie all’educazione, alla scienza e alle leggi dell’evoluzione.

2°) Il pessimismo del totalitarismo, che crede che la natura umana sia intrisecamente bacata e che occorra il potere dittatoriale dello Stato per controllare gli impulsi anarchici degli individui, i quali non sono degni di fiducia. In questo schema di cose la libertà deve essere tolta ai singoli e immessa ne1la collettività. Anche questa visione della vita si è dimostrata insoddisfacente in quanto ripone l a speranza in un futuro remoto senza pertanto garantire che possa mai realizzarsi.

3°) Il Cristianesimo, che giunge all’ottimismo attraverso il pessimismo; a una resurrezione attraverso una passione e a una corona di gloria attraverso una corona di spine; alla gloria della Domenica di Pasqua attraverso l’ignominia del Venerdì Santo. Il Cristianesimo, proclama che il seme caduto sulla terra, se non muore, rimane infecondo; se invece muore, germoglierà in una nuova vita. Questo ottimismo del Cristianesimo si verifica non già mediante un potere proveniente da noi stessi o dalla natura, bensì mediante e attraverso il potere di Dio; non attraverso l’addomesticamento di impulsi erranti da parte di uno Stato, né mediante lo spargimento del sangue altrui, bensì mediante la legge di sacrificio in cui si rivela l’amore. – A coloro che sono momentaneamente scoraggiati per la persecuzione di cui è oggetto la Chiesa, bisogna ricordare che la Chiesa è meno una cosa continua che una vita che muore e risorge. Il Signore Risorto disse alla Maddalena: « Non mi toccare » (Giov. XX, 17). « Non mi tenere entro il sepolcro, né pensare che Io debba sempre essere come ero prima della mia Resurrezione ». La Maddalena aveva dimenticato che ora Egli era nel giardino e non nel sepolcro, che Egli era una Sorgente vivente di Vita e non un corpo morto da essere ricoperto d’unguenti. Anche noi siamo pronti a credere che la Chiesa debba essere sempre la stessa in ogni età, dimenticando che il Suo Dio è Uno che sapeva come uscire dal sepolcro. Un’accusa che è stata spesso rivolta alla Chiesa è che essa non si adegua al mondo moderno. Il che è assolutamente vero. L a Chiesa non si è mai adeguata ai tempi in cui è esistita, poiché se si fosse adeguata ai tempi sarebbe perita con essi e non sarebbe sopravissuta. Nella Chiesa c’è qualche cosa che è sempre la stessa, e tuttavia qualche cosa che è molto diversa. – Quello che è lo stesso è che « Gesù Cristo è lo stesso di ieri, di oggi e di sempre ». Quello che è diverso è il fatto che la Chiesa riesce sempre a convertire ogni nuova èra, non come una vecchia religione, ma come una nuova religione. Gli alberi che germogliano in primavera sono gli stessi alberi che l’anno prima affondavano saldamente nel suolo, e c’è in loro qualcosa di nuovo, in quantoché se non fossero morti non potrebbero rivivere. La Chiesa non è una sopravvissuta. E’ più volte ritornata in questo mondo occidentale cosi rapidamente mutevole, allo scopo di riconvertire il mondo. Di volta in volta la vecchia pietra veniva scartata dai muratori, ma entro un secolo è stata ripresa dal mucchio dei detriti ed è diventata la pietra angolare del tempio della pace. Qui sta la grande differenza tra la Chiesa e le civiltà laiche: la Chiesa ha il potere di rinnovarsi, le civiltà no. Le civiltà si esauriscono e periscono, ma senza mai rinnovarsi. Quando una civiltà come Babilonia, Sparta e Atene adempie alla sua missione e si esaurisce, scompare per sempre dalla faccia della terra. Non si sa di alcuna civiltà che sia perita e sia risorta. La Chiesa è diversa: ha il potere di sorgere dal sepolcro, di essere apparentemente sconfitta da un’epoca, e di riuscire poi improvvisamente vittoriosa, « poiché le porte dell’Inferno non prevarranno su di essa ». – La Chiesa è stata spesso « uccisa », una volta dall’eresia di Ario, un’altra volta dall’eresia degli Albigesi, poi da Voltaire, indi da Darwin, e ora dalle tre forme di totalitarismo, rossa, bruna e nera, ma per una ragione o per l’altra, mentre ogni epoca successiva suonava la campana per annunciarne la condanna, era la Chiesa che finiva per sotterrare l’epoca. In questo momento specifico c’è di quelli che pensano che perché viviamo in giorni di persecuzione e perché in Europa la Chiesa è scesa un’altra volta nelle catacombe, essi debbano versare pie e reverenti lacrime sul suo sepolcro, e non capiscono che se volessero attraversare le loro lacrime, come avvenne alla Maddalena, vedrebbero il Figlio di Dio camminare ancora una volta vittorioso sulle colline del mattino. Si è creduto che dopo 1900 anni di esperienza il mondo rinunciasse a portare unguenti per la sepoltura della Chiesa. Si è supposto che la Chiesa fosse stata uccisa durante le prime dieci persecuzioni; si è supposto che fosse avvizzita sotto la luce dell’età della ragione; si è supposto che fosse stata ingoiata dalla terra nell’età della rivoluzione; si è supposto che fosse stata superata dal progresso della scienza e dell’evoluzione; e ora si suppone che sia stata sepolta nei giorni delle rivoluzioni antireligiose dei nostri tempi. Ma la realtà è che la Chiesa viene sepolta proprio nelle viscere della terra, là dove si scavano le catacombe e donde un giorno essa riemergerà per riconquistare la terra. Se in questo momento noi scendiamo nelle catacombe, è solo perché Cristo scese nel sepolcro. Il mondo ha un bell’aspettarsi di vedervelo giacere per sempre nella tomba, come ha un bell’aspettarsi l’assideramento di una stella, poiché « il cielo e la terra passeranno, ma la Mia Parola non passerà ». – All’inizio di questo secolo Francis Thompson rappresentò l’imminente persecuzione della Chiesa come Lilium Regis, e ne cantò quindi la vittoria finale:

“O Giglio del Re! bassa giace la tua ala d’argento.

E lunga è stata l’ora della tua detronizzazione;

E il tuo profumo di Paradiso sparge nel vento notturno i suoi sospiri,

Né alcuno carpirà i segreti del suo significato.

O Giglio del Re! Io penso ad una cosa grave.

O pazienza, dolentissima tra le figlie!

Attenta, l’ora è vicina del tremor della terra,

E rossa sarà la rottura delle acque.

Mantieniti forte sopra il tuo stelo, quando la tempesta parlerà con te,

Sotto la tenda delle misericordie del Re;

Ed il giusto saprà che vicina è la tua ora.

Vicina la tua ora possente nell’alba.

Quando le nazioni giaceranno nel sangue, e i loro re saranno una razza decaduta,

Guarda su, o dolentissima tra le figlie!

Alza la testa e ascolta quali suoni stanno nelle tenebre,

Che i Suoi piedi stanno arrivando a te sulle acque!

O Giglio del Re! Io non ti vedrò cantare,

Io non vedrò l’ora della tua incoronazione!

Ma il mio Canto vedrà, e si sveglierà come un fiore smosso dai venti dell’alba,

e aspirerà con gioia i profumi del suo significato.

O Giglio del Re, ricorda allora la cosa.

Che questa bocca morta cantò; e le tue figlie,

Mentre danzano innanzi al Suo cammino, cantano là nel Giorno

Ciò che io cantai quando la Notte copriva le acque”

[The Poema of Francis Thompson – London, Oxford University Press, 1937,

p. 122.].  –

La catastrofe è la condizione della grandezza. La Chiesa è come un agnello tosato ad ogni primavera, ma che seguita a vivere. La speciale stagione in cui viviamo sarà allora il tempo per la tosatura dell’agnello di Cristo, quando forse persino i pastori non avranno che bastoni di ferro. Sta alla Chiesa utilizzare la sconfitta. – Toynbee ci dice che ci sono state tre filosofie circa il rapporto tra Cristianesimo e civiltà. – La prima è che il Cristianesimo è nemico della civiltà. Questo punto di vista fu sviluppato nei giorni dell’Impero Romano da Marco Aurelio, poi da Giuliano l’Apostata, nel secolo scorso da Gibbon e poi da Marx e dai suoi seguaci. – Il secondo punto di vista è quello del liberalismo storico, che ritiene il Cristianesimo la maniglia della civiltà, una specie di ponte di transizione sulla lacuna che passa tra una civiltà e un’altra. La religione ha la capacità utile e subordinata di portare alla luce una nuova civiltà laica dopo la morte di quella precedente. La Chiesa è, perciò, una specie di costruzione morale, un’ambulanza, un’introduzione a un ordine nuovo, una levatrice per una civiltà più progressiva. – Il terzo punto di vista, quello giusto, è che le civiltà prosperano e decadono per facilitare lo sviluppo del regno di Dio in questo mondo. E’ il crollo delle civiltà laiche che costituisce l’introduzione a qualcosa di più alto. Quanto aveva affermato Eschilo, ossia che il sapore viene attraverso la sofferenza, fu riaffermato a Emmaus in questi termini: che la gloria viene attraverso le tribolazioni e la catastrofe. Può darsi che, come disse Toynbee, « tutte le sofferenze delle civiltà sono le stazioni della Croce lungo la strada della Crocifissione e che la religione è un carro. Sembra che le ruote sulle quali ascende al cielo siano le cadute periodiche delle civiltà terrene » (Arnold Toynbee, Burg Memorial Lectur, p. 22). Le civiltà sono cicliche, sono ricorrenti. Passano attraverso i medesimi fenomeni della nascita e della morte e non ritornano mai in vita. La  religione, invece, è un continuo movimento lineare verso l’alto, ascendente a nuove altezze dopo il decadere di ogni singola civiltà. Come la civiltà cristiana nacque dalla decadenza del mondo greco-romano, così un nuovo ordine cristiano sorgerà dalla decadenza del liberalismo storico e del comunismo. Ciò cui stiamo assistendo attualmente non è il declino della Chiesa, sebbene la morte di una civiltà che è stata egocentrica e che ha tentato di far trionfare l’egoismo e di bilanciare le forze opposte mediante la tolleranza intesa come indifferenza per il vero, o ricorrendo a organizzazioni esteriori per compensare la perdita della vitalità e della virtù personali. Da questa tirannia in cui gli uomini marciano in processione pensando di essere originali, e dalla morte di cui soffre la Chiesa, sorgerà una rinascita di fede per cui una nuova generazione apprenderà che l a Chiesa non è al mondo per migliorare la natura umana, ma per redimerla: non per migliorare gli uomini, ma per salvarli. Ciò cui noi attualmente assistiamo è quindi l a morte di una era di civiltà, ma non la morte di Colui che è il Signore dell’Universo. – Ogni civiltà che muore perseguita, e nel mezzo di tale persecuzione il Cristo ci dice ciò che disse ai discepoli di Emmaus: « Non deve il Figlio dell’Uomo soffrire per poter entrare nella Sua Gloria? ». E’ proprio nel colmo di un apparente indebolimento che Dio si rivela nel modo più chiaro. Allorché più disperata è la condizione del mondo, un nuovo fattore irrompe dall’esterno e muta completamente la situazione. Quando il caos e la paura e la potenza delle tenebre sembrano invincibili, lo scopo di Dio avanza poiché Egli fa la Sua apparizione in quei momenti della storia in cui le cose sono quanto mai oscure. Come ci fu un’invasione divina a Betlemme, così ora c’è un’invasione divina dopo il Calvario. Come nell’antichità gli Ebrei furono salvati dalla schiavitù per volere del Signore che sparti per essi le acque del mar Rosso e dalle stesse acque fece inghiottire i loro inseguitori, così anche ora, quando gli uomini si accalcano nella paura, il potere di Dio si manifesta. Il regno di Dio non si sviluppa fuori della storia, ma si manifesta attraverso la storia. La resurrezione fu la scoperta del significato della storia, poiché se la Crocifissione fosse stata la fine, il potere che si nascondeva dietro Nostro Signore non sarebbe stato commesso a difendere l’innocenza. – Oggi, al colmo della nostra paura, oggi che per difenderci dal nemico abbiamo barricato ogni porta, Cristo appare in mezzo a noi e ci ricorda di stare in pace. Ciò che di peggio può succedere alla Chiesa è di essere tollerata. In quanto oggi vive nella paura e viene perseguitata, la Chiesa si trova in una condizione psicologica quanto mai favorevole per conservare la sua vera natura. Se Cristo fosse stato un successo terreno, allora sarebbe potuto essere imitato soltanto nelle cose di questa terra. Se Egli fosse stato un fallimento e non fosse mai risorto, allora saremmo vendicativi, e noi che siamo i Suoi seguaci odieremmo gli Ebrei, i Romani e i Greci. Se Egli avesse scritto un libro, noi saremmo tutti professori, ma se Egli venne in questo mondo per portarci alla vittoria attraverso la sconfitta, allora chi sarà mai senza speranza? Quantunque noi di questa generazione abbiamo visto due guerre mondiali in 21 anni, quantunque la prima guerra sia stata combattuta per assicurare al mondo una democrazia senza Dio, e la seconda per realizzare un imperialismo senza Dio, e la minaccia della terza sia che la democrazia senza Dio possa lottare con l’imperialismo senza Dio, noi dobbiamo ancora credere, sebbene le porte siano chiuse alla Divinità e i brividi della paura ci percorrano, nella possibilità di un’altra Invasione Divina di quel potere extrastorico in quest’ora buia. Noi che abbiamo fede nella gloria e nella certezza della Sua resurrezione, sappiamo che abbiamo già vinto, solo la notizia non è ancora trapelata!

AMERICA E RUSSIA NELLA LUCE DI MARIA

Gli Americani in quanto tali non possono dimenticare la relazione tra l’America e la Donna alla quale Dio diede il potere di schiacciare la testa del serpente. Il Concilio di Baltimora dell’8 dicembre 1846 consacrò gli Stati Uniti all’Immacolata Concezione della Nostra Madre Benedetta. Solo dopo 8 anni la Chiesa definiva il dogma dell’Immacolata Concezione. L’8 dicembre 1941,festa dell’Immacolata Concezione, gli Stati Uniti dichiararono guerra al Giappone. Il 13 maggio 1945, Giorno della Madre, quando tutta la Chiesa celebrò il Giorno Sodalizio di Nostra Signora, il Governo degli Stati Uniti proclamò un Risorgimento Nazionale per il Giorno della Vittoria in Europa. Il 15 agosto 1945, Festa dell’Assunzione della nostra Madre Benedetta, gli Stati Uniti conseguirono la vittoria nella guerra contro il Giappone. Il 19 agosto 1945 fu dal Governo degli Stati Uniti dichiarato Giorno ufficiale della Vittoria sul Giappone e si diede il caso che fosse l’anniversario di una della apparizioni di Nostra Signora di Fatima. Il 1° settembre 1945, primo sabato del mese che Nostra Signora di Fatima volle fosse a Lei consacrato, il generale Mac Arthur accettò la resa del Giappone a bordo della Missouri. L’8 settembre 1945, Natalità di Nostra Signora, la prima bandiera americana sventolò a Tokio, e mentre veniva spiegata al vento il generale Mac Arthur disse : « Fatela sventolare in tutta la sua gloria come un simbolo di vittoria per la giustizia ». – Sotto l’ispirazione e suggerimenti della Signora di Fatima, possa un giorno l’America vedere la grande solidarietà spirituale che esiste tra il 97 per cento del popolo russo che non fa parte del partito comunista, e l’idealismo, l’amore di pace, la generosità e l’amicizia del popolo americano. Sopra la tomba di Dostojevskij, Pushkin pronunciò un elogio che esprimeva l’alto destino del popolo russo : « Il nostro destino è un’universalità conquistata non dalla spada, ma dalla forza di fratellanza e dal nostro desiderio di vedere la restaurazione della concordia tra gli uomini » – Questo è stato sempre l’ideale dell’America. Ora che una minoranza vuole guastare le pacifiche ablazioni tra il popolo russo e il popolo americano, non solo l’America, ma la coscienza dell’occidente deve addossarsi il dolce fardello di restaurare le relazioni tra l’America e Dio, tra 1’America e la Madre di Cristo « sul cui corpo, come su una torre di avorio, Egli si arrampicò per baciare sulle labbra di lei una mistica rosa ».

Tu sei più tenera con i nostri sogni, Madre Nostra,

Del savio che c i tesse i sogni per ombra.

Dio è più buono con gli dèi che Lo derisero

Che non gli uomini con gli dèi che hanno creato…

Cos’è la casa del cuore prosciolto,

E dov’è il nido della libertà,

E dove dal mondo il mondo si rifugerà.

E l’uomo sarà padrone, se non con Te?

L a saggezza è assisa sul suo trono di tuono.

Lo Specchio della Giustizia acceca il giorno —

Dove sono le torri che non son quelle della Città,

E i trofei e le fanfare, dove sono?

Là dove oltre il labirinto del mondo che si gira

Le vie remote che volgono alla strada del Re.

[G. K . Chesterton, Queen or Seven Sicords – London: Sheed and Ward, 1926), p. 23.]

Mons. Fulton J. Sheen. Vescovo ausiliare di New York.

Mons. Fulton [quando era ancora cattolico] con S. S. Pio XII

 

LE TRE VERITA’

LE TRE VERITA’ CHE DISTRUGGONO 

I FALLACI INGANNI DEL “nemico” INFERNALE [e cioè:

1° L’ECUMENISMO MASSONICO,

2° L’INDIFFERENTISMO RELIGIOSO MONDIALISTA,

3° IL NOACHISMO TALMUDICO!]

[da: “IL CRISTIANO RAGIONEVOLE” – Discorso preliminare sopra la verità della Religione Cristiana, il quale servir deve di fondamento a tutte le istruzioni. – Mons. Billot: “Discorsi parrocchiali per le Domeniche”; S. Cioffi ed. Napoli, 1840]

Dopo lo stabilimento della religione cristiana i ministri del Vangelo credevano soddisfare al loro dovere, applicandosi solamente a ben stabilire la verità della sua morale, e ad ispirare ai popoli la pratica delle virtù, che ella insegna. Ma da che nel seno medesimo del Cristianesimo si è formata una fazione di spiriti increduli che, per abbattere sin dai fondamenti la morale della religione, si sollevano sfacciatamente contro i dogmi, e, non contenti di scuoter essi il giogo della fede, si sforzano di distruggerla negli altri, è dovere di un ministro del Vangelo 1’affaticarsi, quanto mai può e sa, a stabilire la verità della religione, sia per confondere l’empietà di quelli che non vogliono credere, sia per assodare ed animar la credenza dei fedeli, che è esposta al naufragio tra le tempeste da cui è agitala, e che non è sterile in un gran numero di cristiani se non perché non si fa da essi attenzione sufficiente ai motivi di credibilità che muover debbono ogni spirito ragionevole a sottomettersi alle verità della fede. Prima di entrare nella materia, si richiede una ragione esente da ogni pregiudizio e libera dalla schiavitù delle passioni, le quali sono gli ostacoli ordinari alle buone impressioni che questi motivi far possono sopra lo spirito: una ragione ben purificata deve arruolarsi sotto lo stendardo di una religione che se la presenta in tutta la sua maestà e con tutto lo splendore delle verità che l’accompagnano. – Vi è tanta armonia tra la religione e la ragione che basta esser ragionevole per diventar ben presto cristiano. Questo soggetto per altro è tanto più importante quanto che si tratta di combattere i nemici domestici della religione, più a temersi da essa che i nemici stranieri, i quali l’hanno attaccata a forza aperta, e le cui guerre non hanno servito che a darle un nuovo lustro; laddove a combattere, le porta colpi tanto più pericolosi quanto che assale l’uomo per il suo debole, servendosi delle sue passioni per sottrarlo all’impero della fede. Potessimo noi dissipare le nebbie che lo spirito delle tenebre ha di già sparso in qualche spirito tra noi! Potessimo noi svellere la zizzania che l’uomo nemico ha sopra seminato nel campo del padre di famiglia! Per riuscire in questo disegno facciamo vedere:

1.° che vi è una Religione rivelata da Dio;

2.°che questa è la Religione Cristiana;

3.° che la vera religione non si trova che nella CHIESA Cattolica, Apostolica Romana.

PRIMA VERITÀ

Necessità di una Religione rivelata

da Dio.

Vi è un Dio Creatore di tutte le cose, il quale si manifesta in una maniera si sensibile nelle sue opere che bisogna chiudere gli occhi alla luce per dubitare della sua esistenza. Questo bel mondo che noi vediamo non si è fatto da sé stesso; incapace di agire, non ha potuto darsi l’esistenza; egli è dunque 1’effetto di una cagione superiore, che era prima di lui. Il bell’ordine che noi ammiriamo nell’universo, che vi regna da tanti secoli con una maniera si costante, non può essere altresì che l’effetto di un’intelligenza infinita, la quale il tutto col suo potere sostiene, e colla sua sapienza governa. Queste idee di un primo principio di tutte le cose son nate con noi; non vi ha alcun uomo ragionevole che possa cancellarle dalla sua mente e che non senta la sua dipendenza da un Essere supremo. Sarebbe essere tanto cieco quanto il caso l’attribuirgli un’opera così perfetta come l’universo. Ora la più perfetta, la più eccellente delle opere di Dio è fuori di dubbio l’uomo » che racchiude in sé le perfezioni delle altre e ne è, per così dire, il compendio. Ma per qual fine ha Dio formato questa creatura così perfetta? Ciò non poteva essere che per venire da essa servito e glorificato: e per questo appunto le ha dato un’anima capace di conoscerlo e di amarlo. Infatti un essere intelligente e buono nulla fa invano, neppur agisce se non per fini buoni: or siccome Dio è un agente infinitamente perfetto, Egli si propone sempre nelle sue operazioni il fine più perfetto, che è Egli stesso. Per essere dunque conosciuto, amato e glorificato dall’uomo, Dio gli ha dato l’essere: altrimenti converrebbe dire che Dio non ha fatto l’uomo che per l’uomo stesso; il che non si può supporre in un artefice così eccellente, in un’intelligenza così perfetta, come Dio. Giacché Dio nulla fa invano, avrebbe Egli dato all’uomo delle facoltà che lo portano a Lui per via di conoscenza, affinché l’uomo non ne facesse alcun uso? E se 1’uomo deve far uso delle facoltà che Dio gli ha date, se egli deve conoscere, amare e glorificare l’Autor del suo essere, deve sperarne delle ricompense, perché Dio è un padrone infinitamente buono, il quale non può lasciar senza ricompensa i servigi che l’uomo può e deve rendergli; se l’uomo ricusa a Dio il culto che gli è dovuto, deve temere i suoi castighi, perché Dio è un padrone infinitamente giusto, il quale non può lasciare impunita l’ingiustizia che 1’uomo farebbe alla sua gloria, ricusandogli il culto che è obbligato di rendergli. – Supposti questi principi, conviene dunque accordare che v’è una religione rivelata da Dio, che deve insegnare all’uomo la maniera di glorificare il suo Creatore, i mezzi di cui deve servirsi per meritare le sue ricompense e per evitare i suoi castighi. Imperciocché, se la gloria di Dio esigeva che l’uomo riconoscesse con alcuni omaggi la sovranità del suo essere, esigeva la sua sapienza ch’egli insegnasse all’uomo il genere di culto che praticar doveva per dimostrare a Dio la sua dipendenza. Ora si è la religione che all’uomo tutto questo insegna; poiché la religione altro non è che un commercio tra Dio e l’uomo pel quale Iddio manifesta i suoi voleri all’uomo, insegnandogli gli omaggi che da lui esige, e l’uomo adempie verso Dio quanto gli deve. Ed esigeva pure la grandezza ed autorità di Dio che intimasse egli stesso i voleri all’uomo, e l’uomo non poteva apprendere che da Dio medesimo quel che far doveva per glorificarlo. – Ed in vero, non è forse cosa giusta che il servo sia sottomesso al suo padrone, il suddito al suo re, la creatura a Dio? Non è forse convenevole che questa creatura riconosca con qualche omaggio la sua dipendenza dal Creatore? Ma da chi il servo ed il suddito apprender devono i servigi al loro padrone dovuti, se non dal padrone medesimo? Qual sarebbe l’autorità di un padrone che avessi servi i quali far non volessero se non se ciò che loro piacesse e disponessero di sé medesimi e delle loro azioni senza consultare il loro padrone e senza aver altra regola che la propria fantasia ed il proprio capriccio? Non tocca forse al padrone piuttosto che al servo il regolare e prescrivere i servigi che gli sono dovuti? Vi sarebbe forse subordinazione o piuttosto non sarebbe un disordine nella società se un suddito non rendesse al suo padrone, al suo re, che un servizio arbitrario? E che? L’autorità di Dio sopra le sue creature è forse minore, o piuttosto non è ella superiore a quella di tutti i padroni sopra i loro servi, di tutti i re sopra i loro sudditi? Non è cosa giusta per lo meno di accordare a Dio il medesimo privilegio che i padroni e i re della terra hanno, in virtù della loro autorità, di far delle leggi? Tocca dunque a Dio, che ha ogni autorità sopra l’uomo, a prescrivergli, e non già all’uomo a prescrivere a sé stesso il culto e i servigi che dovuti sono all’Essere supremo: in conseguenza Dio ha dovuto comunicarsi all’ uomo per mezzo d’una religione rivelata, nella quale l’uomo imparasse il genere di servigio ch’egli deve rendere all’Autore del suo essere. Voleva la gloria dì Dio ch’egli si servisse di questa via per far sentire all’uomo la sua autorità; voleva altresì la sua sapienza ch’ ei gli desse questa regola di condotta per guidarlo. Imperciochè il dire, come gl’increduli, che Dio ha dato all’uomo la ragione per condurlo o che tocca ad essi insegnargli il culto ch’egli deve al suo sovrano egli è un cadere nei più grandi assurdi. La ragione stessa ci fornisce 1’armi per combattere questo sistema: poiché in primo luogo sarebbe sempre vero in questa supposizione che Iddio avrebbe abbandonato la sua autorità alla volontà dell’uomo, il quale diverrebbe il solo arbitro del culto e dell’omaggio che vorrebbe rendere al suo Creatore: il che è contrario ai principi che abbiamo pur ora stabiliti. Ma l’ammettere questo mostruoso sistema egli è esporre l’uomo ai più grandi eccessi ed aprir la porta alla sfrenatezza di tutte le passioni. Non deve forse la sapienza di Dio ovviare a tutti questi inconvenienti, dando all’uomo tutt’altra guida che la sua ragione? Infatti di che non è capace l’uomo abbandonato a se stesso? In quali errori non può egli cadere con la sola sua ragione? Chiaramente ce lo insegna l’esperienza di tanti secoli. Non si sono forse veduti uomini, che si vantano di averne assai, offrire incensi ai loro simili, ad uomini soggetti alle loro passioni medesime, prostrarsi ancora avanti statue di legno o di pietra, e per fino render gli onori divini ai più vili animali, alle piante più comuni?Ah! se non fossimo rischiarati dal lume della fede, noi stessi forse caduti saremmo in simili mancamenti. Ma voglio che, facendo noi un miglior uso di nostra ragione, riconosciamo un Essere supremo Creatore di tutte le cose, cui noi dobbiamo servire e glorificare; sin là giunger può la ragione: tra qual genere di culto c’insegnerà ella a rendergli questa ragione? Sa ella il trae a cui Iddio creandoci ci ha destinati? Può ella da sé stessa scoprire le ricompense che dobbiamo sperarne, i castighi che dobbiamo temerne, i mezzi di cui dobbiamo servirci per meritare le une ed evitare gli altri? questo è ciò ch’ella non potrà decidere giammai. Essa riconoscerà sempre l’insufficienza delle sue cognizioni ed il bisogno che ha di un lume superiore per guidarla nella strada che tener deve. Perciocché finalmente non si può negare che questa è limitata nelle sue cognizioni, variabile nelle sue idee, incerta nei giudizi che forma sopra le cose che non le sono evidenti, incapace per conseguenza a fissarci a qualche cosa di certo. Sono forse necessarie altre prove che i diversi pareri, i quali diviso hanno i più grandi ingegni del mondo intorno alla religione? Tra tutte le sette opposte che regnano nel mondo non vediamo noi forse che ciascuno pretende di aver la ragione della sua parte, che ciascuno abbonda nei suoi sentimenti? Donde procede dunque tanta diversità di opinioni tra coloro che pretendono di seguire la ragione? Prova certissima che ella non è una regola infallibile e che ha bisogno di una regola superiore per determinarsi. Ah! se noi avessimo altra guida che questa guida cieca in materia di credere, cadremmo ben presto nel precipizio dell’errore; il nostro spirito, dice l’Apostolo, sarebbe qua e là fluttuante, come un fanciullo, trasportato da ogni vento di dottrina, senza sapere a che attenersi. Ora è egli credibile che la previdenza di Dio, che il tutto governa con tanta sapienza; che ha stabilito un sì bell’ordine dell’universo tra le creature anche inanimate, che ha provveduto con tanta bontà a tutti i bisogni dell’uomo, 1’abbia abbandonato in un punto cosi essenziale e lasciato nelle sue incertezze in continua perplessità sopra ciò che far deve per glorificare il suo Creatore, meritar te sue ricompense, evitare i suoi castighi? Il dire che Dio ha lasciato all’uomo la libertà di condursi con i suoi lumi e di seguire la religione che gli piacerebbe val quanto dire che Dio approva il capriccio e la menzogna; poiché è impossibile che la verità, la quale è una sola, si trovi in diversi sentimenti contrari gli uni agli altri; val quanto dire che Dio, indifferente sulla condotta degli uomini, soffrirebbe tranquillamente negli uni l’idolatria, la superstizione; negli altri il vizio, 1’empietà. Queste idee sono elleno compatibili con quella di una provvidenza in finitamente saggia? Richiedeva dunque la sapienza di Dio ch’Egli non abbandonasse 1’uomo a sé stesso, ma che gli fissasse in una religione rivelata troverebbe la maniera d’adempier agli omaggi ch’ egli deve al suo Creatore. Questa religione era necessaria all’uomo non solo per preservare il suo spirito dagli errori in cui poteva cadere, ma ancora per servire di freno alle sue passioni e rattenerlo dai disordini ai quali abbandonar si poteva. – Ed invero, se non vi fosse religione alcuna che servisse di riparo alle passioni dell’uomo, non vi sarebbe alcun vizio che non innalzasse lo stendardo: si vedrebbe l’ingiustizia, la vendetta, l’impurità regnar baldanzoso; il mondo non sarebbe più che un teatro spaventevole di disordine, di libertinaggio, di ogni sorta di dissolutezza. Imperciocché, se non vi è religione alcuna, chi terrà in freno le passioni ? Forse i castighi di un Dio? Ma, rigettata la religione, più non si temono i castighi che Dio minaccia ai peccatori. E che temer non si deve da un uomo che nulla teme, che nulla spera? Forse la giustizia degli uomini? Ma la giustizia umana non punisce che i delitti pubblici: tutto ciò dunque che si facesse in segreto resterebbe impunito. La ragione potrebbe ella servir di ritegno alle passioni? Ma questa ragione non è forse spesse fiate talmente accecata dalla passione che confuse restano l’una con l’altra? Quanti pretesti oppone questa ragione per giustificar i propri sregolamenti? Non riguardasi forse come giusto e ragionevole, dice S. Agostino, tutto ciò ch’è conforme alle inclinazioni? Perciò se la religione non viene in aiuto della ragione sedotta dalla passione, 1’uomo si crederà lecito di accordar alle sue passioni tutto quello ch’esse gli domanderanno: non vi sarà alcuno eccesso cui 1’uomo non si abbandoni per soddisfare ai suoi desideri; i piaceri del senso saranno riguardati come inclinazioni e diritti della natura; i beni dei privati non saranno più sicuri dalle invasioni di un ingiusto usurpatore, né la vita stessa contro le persecuzioni di un vendicativo. Non vi sarà più subordinazione tra gli uomini, perché ogni uomo, riguardandosi uguale ad un altro, si crederà libero da ogni dipendenza. Non vi saranno più amici in cui altri confidare si possa, non promessa su cui riposare, non fedeltà nei matrimoni, non integrità nel commercio; la società umana non sarà più che un orribile composto di traditori, di perfidi, contro cui converrà sempre star in guardia; i più astuti e i più forti daranno sempre la legge ai più semplici e ai più deboli. Imperciocché, torno a dirvi, se non vi è religione alcuna che proponga all’uomo delle ricompense per la virtù e che riserbi dei castighi ai vizi; se non vi è alcun’eternità avvenire, qual ce l’insegna la religione, che incoraggiamento vi sarà per la virtù, e qual argine si potrebbe opporre al vizio? Se tutto perir deve col corpo, 1’uomo si riguarderà in questa vita come suo ultimo fine, riferirà ogni cosa ai suoi piaceri, ai suoi interessi; pretenderà aver diritto di tutto loro sacrificare « nulla risparmierà per rendersi felice quanto potrà in questo mondo; e su questo principio, ch’egli crederà fondato sulla ragione, non vi sarà disordine alcuno cui non si abbandoni, allorché vi troverà un qualche piacere; sacrificherà insomma alla sua passione la giustizia, la buona fede, le promesse eziandio più sacre. Tali sono le conseguenze a cui conduce l’irreligione: tale è altresì la condotta ordinaria dei nemici della religione, i quali non la rigettano, se non perché essa contraria le loro passioni e li molesta nel godimento dei loro piaceri: essi crederebbero volentieri quanto ella insegna, se viver li lasciasse a loro genio. Ma in vano pretendono di sottrarsi al suo impero: all’ora della morte saranno anch’essi giudicati secondo la verità e le massime del santo Vangelo. – Inoltre, se questi increduli di cui il mondo è inondato seguitassero i lumi di una retta ragione, accorderebbero senza difficoltà che la religione era necessaria per contener le passioni dentro i limiti del dovere, per assicurare la pace e la tranquillità tra gli uomini: se non s’accecano a sostenere che la provvidenza di Dio abbia loro anche in questo punto mancato e che la sua divina sapienza, la quale regola con tanta armonia l’universo, abbia abbandonato il genere umano alla con incredibile, né si può senza bestemmia asserire. Ah! riconosciamo piuttosto nella religione uno dei più amabili effetti della provvidenza sopra gli uomini, giacché questa religione serve di freno alle loro passioni, le allontana dal vizio e le anima alla virtù; essa è che mantiene il buon ordine nella società, che produce ed assicura 1’unione nelle famiglie; essa è che fa render giustizia a chi e dovuta e ispira l’ubbidienza ai superiori, essa è il fondamento di tutte le virtù, il carattere dell’uomo dabbene, il principio e la cagione dei buoni uffici che gli uomini ricevono gli uni dagli altri. La sola differenza tra un uomo che ha religione, e colui che non ne ha, basta per far decidere in suo favore e farne riconoscere la necessità. Ma qual è la vera religione? questo è ciò che conviene dimostrare.

SECONDA VERITÀ

La Religione Cristiana è la sola vera.

Siccome non havvi che un Dio solo così non può esservi che una sola religione, perciocché la religione è la strada per andare a Dio. Non si può andare a Dio che per la strada della verità: or la verità, la quale non è che una sola, non può trovarsi in differenti religioni opposte le une alle altre. Ma qual è questa sola religione vera che si dee seguire a preferenza di tutte le altre? Ella è senza dubbio la religione cristiana, perché essa sola è munita dei caratteri di divinità, i quali non si trovano in alcun’altra, e che devono farla riguardare come una religione rivelata da Dio. Questi caratteri noi li troveremo nell’ adempimento delle profezie che hanno annunziato i misteri di lei, nei miracoli che Dio ha fatto per confermarla, e nella santità della dottrina e della morale ch’ella insegna. Questi sono i segni da cui dobbiamo riconoscerla per una religione divina, con quest’arme deve essa convincere ogni spirito ragionevole.

Le profezie. A Dio solo spetta il predire l’avvenire, le cui circostanze non dipendono dalla concatenazione delle cause naturali, ma dalla pura determinazione delle cause libere. L’umano intendimento è troppo limitato per poter penetrare in questa sorta di avvenimenti. – Or la religione cristiana è stata annunciata prima del suo stabilimento da profezie di cui ricusare non si può l’autenticità, poiché ci sono state trasmesse dai Giudei medesimi, nemici della nostra religione: profezie sì chiare e sì circostanziate che, a confrontarle con tutti i misteri della religione da esse predetti, si direbbe che sono piuttosto storie di cose passate che predizioni di fatti futuri. Vi si vede chiaramente il luogo della nascita del Messia, la sua missione, i suoi prodigi, le circostanze della sua vita e della sua morte, la sua risurrezione, la sua sepoltura, la sua ascensione al cielo, lo stabilimento della Chiesa su le rovine della sinagoga, la desolazione, la dispersione del popolo ebreo, che non ha voluto riconoscere il Messia. Tutti questi avvenimenti predetti sono accaduti in una maniera si conforme alle predizioni fatte che i pagani medesimi col solo lume della ragione ne hanno riconosciuto il compimento; e questa conformità di fatti colle profezie faceva tanta impressione sul loro spirito che si determinavano ad abbracciare la religione cristiana. Su di che S. Agostino fa questo ragionamento, capacissimo a convincere qualunque spirito in favore della religione cristiana: una religione che è stata predetta da tanti oracoli verificati in tutte le loro circostanze, deve senza dubbio essere riguardata come una religione divina. Or tale è la religione cristiana: basta confrontare i fatti colle profezie. Ma donde sapete voi, dicono i pagani, che gli oracoli sopra la religione hanno un carattere di divinità? Non alla nostra testimonianza dovete voi rapportarvene, rispondiamo loro; ella vi potrebbe essere sospetta: ma sono i Giudei nostri nemici che ci hanno trasmessi questi oracoli nei libri che li contengono e che essi ci assicurano esser divini. Voi dovete tanto più loro prestar fede quanto che han conservato questi libri di generazione in generazione come il loro più prezioso tesoro, come la storia della loro nazione, che i padri avevano cura di far leggere ai propri figliuoli, che i re e i sudditi avevano tra le mani e che conteneva la religione di un popolo intero. Lo stesso s. Agostino, indirizzandosi ai Giudei per convincerli della verità della nostra religione, “voi ci avete trasmessi, lor dice, i libri contenenti le profezie che annunziano i nostri misteri; voi ciò non ostante non volete riconoscere l’adempimento di questi misteri, che noi vi riconosciamo. Ma se non volete creder a noi, ascoltate su questo soggetto la testimonianza dei pagani, i quali, guidati dal solo lume della ragione, trovano tanto di conformità tra le profezie e i fatti da esse annunziati, che se questi libri sono divini, non può alcuno non riconoscerla per una religione rivelata da Dio. Voi ci dite che questi libri sono divini: i pagani riconoscono la connessione tra le profezie ch’essi contengono e gli avvenimenti che sono venuti dopo. E perché dunque ricusare di abbracciar una religione la cui verità è appoggiata sopra i vostri oracoli e sopra la ragion medesima dei pagani?”. – Cosi è, conchiude S. Agostino, i nostri nemici ci somministrano l’armi contro sé medesimi a favore della nostra religione, ed il loro proprio consenso ridonda in nostro vantaggio: “Salutem ex inimicis”. Sarebbe questo il luogo di riferire alcune di queste profezie, il cui adempimento prova la verità della religione cristiana: ma tra il gran numero che potrebbe citarsene fermiamoci a quella il cui avvenimento si fa sentire nel modo più palpabile, nella situazione in cui si trova oggi giorno il popolo ebreo. Questo popolo, che di sua propria confessione, e per testimonianza delle altre nazioni, era un popolo assai florido, che possedeva una delle più ricche porzioni della terra, che aveva i suoi re, il suo tempio, i suoi sacrifici, si trova al giorno d’oggi in un’intera desolazione, senza forma di governo, senza sacerdoti, senza tempio, senza sacrifici, errante, vagabondo nelle diverse parti del mondo, odiato, aborrito da tutte le nazioni della terra, senza speranza di mai più ricuperare il suo primiero splendore. Sì può qui non riconoscere la famosa profezia di Daniele, il quale lungo tempo aranti aveva predetto che, venuto il Messia e messo a morte dal suo popolo, questo popolo sarebbe disperso, desolato, che sarebbe distrutto il suo tempio, aboliti i suoi sacrifici, e che la sua desolazione durerebbe sino alla consumazione dei secoli? Dallo stesso popolo ebreo abbiamo noi ricevuta questa profezia, dunque non è supposta: essa si è verificata in tutte le sue circostanze; noi ne vediamo sotto i nostri occhi l’adempimento; questo popolo sarà un monumento eterno della verità della nostra religione. Si sono veduti sparire i più grandi imperi del mondo; quello degli Assiri, dei Babilonesi, dei Medi, dei Persiani, dei Greci, quello anche dei Romani, che ha distrutti gli altri imperi e quello dei Giudei non sussistono più: nulla di meno questa nazione sussiste sempre senza capo, senz’appoggio, carica dell’odio delle altre nazioni. Iddio ciò permette per far vedere in essa la verità della nostra religione, di cui ne sono, per cosi dire, i predicatori muti e forzati; perciocché la loro situazione fa vedere in una maniera sensibile la missione del Legislatore divino, che essi non han voluto riconoscere, che è venuto a compire ciò che la loro religione aveva predetto, e che, sostituendo la realtà del Nuovo Testamento alle figure del Vecchio, ci ha dato una religione egualmente antica che il mondo; perché la sostanza di questa religione era rinchiusa nella religione giudaica, e questa non era vera avanti del Messia che per la unione e la relazione che aveva colla religione cristiana. – Veniamo ora alle prove dei miracoli.

I miracoli. Si può dire dei miracoli riguardo alla religione ciò che il reale Profeta diceva dell’opere di Dio, le quali annunziano la sua gloria, che è un linguaggio chiaro ed intelligibile che si fa intendere a tutto il mondo, essendo adattato alla capacità sì del savio che dell’ignorante: “Non sunt loquelæ neque sermones quorum non audiamur voces eorum”. È una luce viva e penetrante che rischiara le menti più grossolane. Non avvi intelletto sì ottuso che non debba arrendersi ad una evidenza così convincente. Infatti non si ricerca gran raziocinio per convenire che Dio, fare un miracolo per confermare una menzogna: se dunque ha fatto miracoli per autorizzare la religione cristiana, conviene conchiudere ch’essa è vera. Or, che Dio abbia manifestate con prodigi le verità della nostra religione, non si può negare senza contraddire i principi della certezza e i lumi del buon senso. Leggansi le storie dell’antico e del nuovo Testamento, gli annali della Chiesa, gli scritti di tanti eruditi: si osservi nei monumenti di quei miracoli, che ancora sussistono, e si vedranno miracoli d’ogni genere operati in favore della religione: malattie d’ogni sorta in un subito risanate, ciechi illuminati, ossessi liberati, morti risuscitati, tempeste calmate, elementi che hanno sospeso la loro attività, leggi della natura interamente cangiate in mille occasioni in cui si trattava della gloria e della verità della religione: miracoli operati non in un sol luogo né avanti a qualche testimonio, ma in un’infinità di luoghi, innanzi a migliaia di testimoni, che li hanno esaminati con l’ultima esattezza, che gli hanno attestati per tutto ciò che eravi di più sacro, che li han sostenuti col sacrificio di quanto avevano di più caro, coll’effusione medesima del loro sangue; il che non avrebbero fatto, se non ne fossero stati ben convinti e ben persuasi: miracoli che han convertito alla religione i suoi più crudeli nemici, non solo il basso popolo, ma eziandio i grandi e i dotti, i quali non l’avrebbero certamente abbracciata, se non avessero conosciuta 1’evidenza dei miracoli: miracoli di cui si vedono ancora in molti luoghi monumenti autentici, che non avrebbero innalzati, se i fatti non fossero stati ben provati: miracoli per altro che riguardar non si potevano come effetti del caso, poiché si sono operati in circostanze di elezione, alle preghiere di quelli che domandavano qualche favore dal cielo o che volevano confermare qualche dogma della fede: miracoli per conseguenza che non potevano riguardarsi come l’effetto di qualche causa naturale ed incognita; ma che potevano sicuramente attribuirsi all’onnipotenza di Dio, che operava contro le leggi fisiche della natura in favore della religione. Imperciocché egli è certo che Dio ha dato all’uomo lumi per giudicar delle cose secondo 1’esperienza che ne ha; conseguentemente, quando in materia di credere vede un fatto che sorpassa le forze della natura, può giudicare che Dio n’è l’autore: poiché, se fosse l’effetto d’una causa naturale, né gli desse Iddio alcun mezzo per scoprirne l’illusione, sopra Dio medesimo ricadrebbe il suo errore: conseguenza che non si può ammettere senza far ingiuria alla somma veracità e alla provvidenza di Dio. Perciocché bisogna o negar la provvidenza o dire che non ha potuto permettere fatti straordinari che ci avrebbero indotti in errore in materia di religione; molto meno ancora dar all’uomo cognizioni che lo porterebbero a credere cose che non sono. Vedano gl’increduli il partito che prender vogliono. Negheranno che questi miracoli siano accaduti? Ma conviene per questo accusare di falsità tutta la rispettabile antichità, le storie di più secoli e di molti paesi del mondo, gli scritti di tanti uomini sapienti, di tanti santi personaggi, da cui sono stati raccontati appunto come li avevano appresi da testimoni oculari, e a cui avrebbero data certamente la mentita, se le cose non erano in tal modo accadute come le han pubblicate. Come mai questi santi e dotti personaggi avrebbero spacciato come tante verità fatti i quali non sarebbero stati che favole e chimere, essi che nessun interesse avevano a spacciarli, e all’opposto sarebbe stato di loro vantaggio il rigettarli? Come questi fatti avrebbero ottenuta la credenza non solo del semplice popolo, ma eziandio dei più grandi ingegni del mondo? É forse credibile che tante nazioni, di diversi paesi e di secoli differenti, abbiano tutte insieme dato nel delirio e nell’illusione sopra cose che contrariavano le loro passioni e che conseguentemente loro importava di non credere? Le persone illuminate avrebbero prese tante favole come verità per sì lungo tempo e sì costantemente come han fatto? Forse non dobbiamo almeno prestar tanta fede alle storie dei miracoli della religione, quanta alle storie profane degli imperatori, dei re, dei popoli della terra? Non abbiamo maggior fondamento di ricusarla alle une che alle altre. Se si vuol mettere in dubbio tutto quello che si è fatto nei secoli scorsi. nulla più vi è di certo nel mondo; i secoli avvenire saranno in diritto di non credere ciò che ai giorni nostri succede: tali sono gli assurdi a cui l’irreligione conduce. Quando gli increduli volessero contrastare qualche fatto miracoloso che si cita in favore della religione, possono essi ragionevolmente dubitare di quelli, che Gesù Cristo e gli Apostoli hanno operato? L’universo che li ha veduti, non ha potuto resistervi; strascinato dalla forza di questi miracoli l’universo ha cangiato di credenza ed è divenuto cristiano. Possono dubitare di quelli che sono approvati dalla Chiesa dopo un esame il più esatto e che reggono alla prova della critica più severa? E se a tutti questi fatti se ne aggiunge un’infinità d’altri riferiti da autori degni di fede, può negarsi che non ne sia almen accaduto qualcheduno? E non sarebbe una follia il metterli tutti in dubbio? Come poter resistere ad un’infinità di testimoni, ad un cumulo di prove cavate da tante storie, dalla morte di tanti migliaia di martiri, da tanti monumenti che ancora sussistono? E ciò tutto insieme non fa un peso di ragioni, sotto cui ogni mente deve piegare? Se noi non abbiamo qui un’evidenza appoggiata sopra la testimonianza dei sensi, abbiamo almeno una morale evidenza, ch’equivale alla più grande certezza e che non si può prudentemente rigettare. E quante cose non credono gl’increduli di cui non hanno tanta certezza, quanta loro se ne fa vedere nei fatti della religione? Appunto perché questa religione non si accomoda alle loro perverse inclinazioni, perciò loro piace di contrastare la verità dei suoi miracoli. Ma almeno contrastare non possono un prodigio, che hanno a vanti gli occhi, il quale suppone e sorpassa anche tutti gli altri, ed è la religione medesima. SI, la religione cristiana deve comparire a qualunque pensi dirittamente il più grande dei prodigi, ossia che la consideri nel suo stabilimento, ossia che la esamini nel suo progresso e nella sua durata. Ch’era la religione cristiana nel suo cominciamento, e come si è ella stabilita? Noi tutti lo sappiamo, e i suoi nemici negare non possono. Simile al piccolo grano della senapa, per servirmi delle parole del Vangelo e nello stesso tempo giustificarlo, questa religione non fu da principio conosciuta che in un piccolo angolo del mondo dove fu annunziata da un uomo povero ed abbietto nel suo esteriore, che non aveva alcun soccorso umano per attirar gli uomini al suo partito, che fu scacciato, disprezzato da quei medesimi tra i quali era nato. Quali uomini si associò Egli per lo stabilimento di questa religione? Non furono né conquistatori che con lo strepito delle loro armi abbiano portato il terrore tra le nazioni della terra, né sapienti che colla loro eloquenza abbiano trionfato degl’intelletti: se questo fosse stato, la religione si sarebbe riguardata come opera degli uomini. Si valse al contrario di ciò che vi era di più debole e di più abbietto per confondere e ridurre quanto vi era di più forte e di più grande. Furono dodici poveri, ignoranti, rozzi, deboli ed imperfetti, che non avevano né talenti né eloquenza né ricchezze. E che cosa insegnare dovevan agli altri questi uomini sì poco capaci d’istruirli? Una religione ripiena di oscurità, che propone misteri impenetrabili allo spirito umano, massime del tutto opposte alle inclinazioni più naturali, l’odio di sé  medesimo, l’amore dei nemici, la mortificazione dei sensi, il crocifiggimento della carne. E a chi questi uomini insegnar dovevano questi misteri impenetrabili, queste massime ripugnanti? Non al semplice popolo soltanto, ma ai più grandi ingegni del mondo, ai re, ai potentati della terra, che avevano in orrore e la dottrina che loro si predicava e gli uomini che l’annunziavano; che il minacciavano dei supplizi più orribili, della morte più crudele. Ciò non pertanto, oh prodigio dell’ onnipotenza e della sapienza di Dio! Questa religione, benché impenetrabile alla mente umana, benché tutta spiacevole alle inclinazioni del cuore, è stata non solo annunziata ma persuasa al popolo e, quel che è più, ai sapienti, ai più dotti filosofi, che non erano capaci di lasciarsi sorprendere e che non l’avrebbero certamente abbracciata, se non avessero avute ragioni bastanti che li convincessero. Essa è stata annunziata, persuasa ai re, ai potentati più formidabili: essa ha fatto piegare sotto il suo giogo le teste coronate: essa è stata seguita, abbracciata da un’infinità di nazioni, le quali tutte varie di costumi, di carattere, di lingua, riunite si sono sotto i suoi stendardi, e questo non ostanti tutti gli ostacoli che formati si sono contro il suo stabilimento, malgrado tutte le persecuzioni che suscitate le hanno contro, alla vista dei supplizi orribili di cui si minacciavano i seguaci di lei, e a cui molti sono stati condannati. Il sangue stesso dei discepoli era come una semente che ne produceva un’infinità d’altri. E non bisogna dunque convenire ch’eravi in ciò del miracoloso, e che un tale cambiamento nell’universo non poteva essere che opera dell’onnipotenza di Dio? “A Domino factum est istud”. Imperciocché, per ragionare quivi con S. Agostino, o la conversione del mondo alla religione cristiana è stata la conseguenza e l’effetto dei miracoli, o si è fatta senza miracoli. Se questa conversione fu l’effetto dei miracoli, dunque Dio ne fu l’autore: se si è fatta senza miracoli, egli è il più grande dei miracoli che il mondo siasi convertito senza miracoli; e chi non vuol credere deve esser riguardato come un prodigio di incredulità. Ora è certo 1.° che la Religione non si è stabilita senza miracoli, perché la conversione dell’universo è un miracolo il quale suppone tutti gli altri. Infatti, come mai schiere innumerevoli di persone d’ogni stato, d’ogni sesso, d’ogni paese avrebbero abbracciato una religione sì impenetrabile nei suoi misteri, sì ripugnante nelle sue massime, non avessero avuto prove convincenti della sua verità? Negar non si può che gli Apostoli non abbiano convertito un gran numero di Giudei loro contemporanei. Ad essi primieramente fu annunziato il Vangelo; ne furono essi le prime conquiste, principalmente allorché alla festa della Pentecoste i giudei radunati da diversi paesi del mondo udirono predicar gli Apostoli e se ne convertirono più migliaia. Ora una conversione sì pronta e sì generale si sarebbe ella operata, se Gesù Cristo e gli Apostoli non avessero fatto alcun miracolo per persuadere la religione che predicavano? Poiché, se gli Apostoli avessero annunziato miracoli che Gesù Cristo non avesse operati, non avrebbero data loro la mentita quelli che, avendolo veduto, potevano rendere testimonianza del contrario? o se gli Apostoli stessi non avessero operati miracoli, li avrebbero creduti? li avrebbero seguiti? Giudichiamone da quanto sono per supporre: se qualche uomo della feccia del popolo dicendosi inviato da Dio, intraprendesse al giorno d’oggi a promulgare una nuova religione; che si associasse a quest’effetto dodici persone della sua medesima condizione, senza talenti, senza ricchezze, senza credito, che quest’uomo in odio della sua religione fosse messo a morte con un supplizio infame, e che né egli né i suoi seguaci avessero data altra prova della Religione che predicherebbero se non la loro semplice testimonianza, chi è che seguir vorrebbe questa religione, quand’anche fosse meno severa di quella che noi professiamo? Come dunque Gesù Cristo e gli apostoli avrebbero stabilita una religione sì austera sopra le rovine dell’idolatria, la quale favoriva tutte le passioni, se non avessero date altre prove che la loro semplice testimonianza, e se la forza della loro parola non fosse stata sostenuta, come dice s. Paolo, da quella dei prodigi? Non sono gli uomini sì facili a rinunziare ai loro primi pregiudizi; non si abbandona così facilmente e senza motivi tutto ciò che lusinga le naturali inclinazioni per abbracciare tutto ciò che vi è di più austero e di più malagevole. Giudichiamone da noi medesimi, i quali, benché istruiti e convinti delle verità di nostra religione, proviamo tanta fatica a seguirne le massime. I predicatori del Vangelo avrebbero avuto bel dire che predicavano la pura verità e che dovevasi loro prestar fede: ciascuno si sarebbe beffato di essi, nè li avrebbe alcuno seguiti giammai, se non avessero dati segni evidenti di una missione divina. Inoltre, come mai questi predicatori del Vangelo, come gli Apostoli intrapreso avrebbero di stabilire la loro dottrina a costo di quanto avevano di più caro della loro vita medesima? Come si sarebbero essi offerti a soffrire tutto il furor dei tiranni, il rigor dei supplizi più orrendi per sostenere una religione di cui avrebbero conosciuta la falsità? – Se Gesù Cristo che aveva dato per prova della sua missione il miracolo del suo risorgimento non fosse, siccome disse loro, risuscitato, come continuato avrebbero a seguir il partito di un uomo, il quale ingannati li avesse, non avendo essi alcun interesse di seguirlo, essendo all’opposto di loro grande vantaggio l’abbandonarlo, giacché si trattava della loro fortuna, della loro vita? Non sarebbe stato in essi un eccesso di follia e di stravaganza il sostenere, a sì gran costo un’insigne falsità? È egli credibile che gli Apostoli e tanti altri abbiano preso piacere a lasciarsi imprigionare, tormentare, crocifiggere per render testimonianza alla risurrezione di Gesù Cristo e alla verità della religione, se non ne avessero avute prove certe ed evidenti? Una testimonianza che tanto ha costato non deve essere per noi una prova invincibile che la religione cristiana si è stabilita per via di miracoli? – Se questa religione si è stabilita senza miracoli, ho detto in secondo luogo, ch’era il più grande dei miracoli, che ciò si sia fatto senza miracolo. E una più grande meraviglia, dice S. Giovanni Grisostomo, che dodici poveri pescatori, come erano gli Apostoli, abbiano convertito il mondo intero, che non se dodici uomini della feccia del popolo senza forze, senza danaro, senz’armi, senza equipaggi militari avessero intrapreso di far la conquista dell’impero romano, che dava la legge a tutta la terra, e ne fossero venuti a capo. Questa meraviglia è accaduta, noi la vediamo coi nostri occhi; non cerchiamo più altri miracoli. Infatti al vedere che, malgrado le guerre più sanguinose e crudeli che suscitate si sono contro la religione, ella si è stabilita con tanta rapidità e sostenuta con tanto successo, come se ciò accaduto fosse a forza d’eloquenza e d’armi; ch’ella ha estese le sue conquiste con la povertà della croce più lungi che i Cesari non hanno estesi i confini del loro impero con armate formidabili e milioni di soldati, si può egli non riconoscervi l’opera dell’onnipotenza di Dio? Al vedere che questa religione è stata abbracciata cosi universalmente, che ha durato sì lungo tempo, malgrado la severità delle sue massime cotanto ripugnanti alla natura, dobbiamo conchiudere che Dio solo poteva assoggettare in tal modo lo spirito ed il cuore dell’ uomo. – Se questa religione era opera d’uomini, sarebbe ben presto caduta da sé stessa; ben presto il mondo se ne sarebbe annoiato. Questo è il ragionamento che faceva un famoso dottor della legge tra i Giudei radunati per condannare a morte gli Apostoli. “Se questa impresa, diceva loro, è opera d’uomini; essa cadrà da sé stessa, siccome abbiamo veduto cadere altre sette; ma se è opera di Dio, invano tentate distruggerla; essa sussisterà vostro mal grado. Ora se, per testimonianza di un nemico dichiarato della religione cristiana, potevasi riguardare come opera di Dio ove si fosse sostenuta anche senza contraddizione, tanto più deve ella esser riguardata per tale dopo di aver sostenuto tutto il fuoco delle persecuzioni e sofferta tutta la violenza delle tempeste. Io domando ad ogni men ragionevole se questo non è portare un carattere di divinità e se tutt’altra autorità, fuorché quella di Dio, poteva in tal modo sottoporre i cuori degli uomini alle più severe leggi, alle massime più ripugnanti: “A Domino factum est istud”. – No, non possiamo ricusare di seguire una religione che mostrasi con tanto splendore sia dell’adempimento delle sue profezie, sia nell’evidenza dei suoi miracoli, sia nel suo prodigioso stabilimento. Se noi restiamo ingannati seguitandola, sopra Dio ricadrebbe il nostro errore, poiché la sua verità è stabilita sopra tante prove capaci ad appagar la ragione, che Dio ci ha dato per condurci. O non vi è in Dio provvidenza alcuna, e ci ha dato lumi fallaci per giudicar delle cose; o se vi è una provvidenza ed una retta ragione nell’uomo, bisogna necessariamente convenire della verità della religione cristiana.

Santità della religione. Aggiungiamo ancora un tratto di verità, che il carattere di santità di cui è munita la religione nostra, che riguardar si deve come un carattere di divinità. Vi fu mai infatti religione sì santa nel suo Autore, nella sua dottrina, nei suoi seguaci? Vediamolo partitamente, e ne resteremo ben presto convinti. L’autore della religione cristiana è Gesù Cristo, l’uomo più santo che sia stato giammai. Uno sguardo sulla storia della sua vita ci fa vedere l’innocenza più pura, lo staccamento più universale, 1’umiltà più profonda, la mansuetudine più inalterabile, la purità più esatta, la mortificazione più austera, la condotta più irreprensibile, in una parola, le virtù più eroiche. Si diportò durante tutta sua vita mortale in un modo sì santo e sì edificante che non temeva di sfidare i suoi nemici a fargli il minimo rimprovero: Quis ex vobis arguet me de peccato? non sono solamente i suoi storici, i suoi discepoli, ma ancora i suoi nemici hanno reso testimonianza alla sua santità. Quantunque 1’abbiano accusato avanti ai giudici per farlo condannare, l’esame più critico non trovò giammai motivo di condanna sopra le sue azioni ; Pilato stesso non poté tenersi dal riconoscere la innocenza dì Lui; “Nullam Invenio in eo causam”. La fama ed il grido della santità di Lui aveva fatta tanta impressione sopra lo spirito dei pagani medesimi, i quali lo conoscevano, che un imperatore romano propose in senato di metterlo nel numero degli Dei, Giuseppe ebreo, storico non sospetto, lo riguarda carne uomo divino. Maometto stesso gli dà la qualità di gran profeta. Ma lasciamo questi elogi stranieri per venire a quello che merita la santità della dottrina di Lui. Qual dottrina ci ha Egli insagnata nel suo Vangelo! Che purità nella sua morale! Che perfezione nelle massime che la compongono! Questa dottrina non solo condanna tutti i vizi, ma abbraccia ancora la pratica di tutte le virtù. Non solo condanna i vizi più gravi e che da sè stessi fanno orrore alla natura, come l’omicidio, il furto, l’adulterio; ma ancora i mancamenti più leggieri, così i vizi che si formano nel cuore come quelli che si manifestano al di fuori. Essa proibisce sino i cattivi desideri, sino lo stesso pensar male. – Vuole questa santa religione che il cuore dell’uomo sia talmente regolato che soffochi sino i primi principi, sino i primi sentimenti del male, Non vuole che si conservi il minimo risentimento e neppure l’indifferenza contro del suo prossimo; che alcuno si fermi anche ad un solo pensiero contrario alla modestia. Si può portar più lungi l’odio e l’orrore del peccato? Essa abbraccia la pratica di tutte le virtù e di tutti i doveri riguardo a Dio, al prossimo è a sé stesso. Riguardo a Dio, ella prescrive il culto più perfetto, i sacrifici più grandi, le cerimonie più maestose nel divino servizio. Riguardo al prossimo, l’amore più sincero e più efficace; amore che deve portarsi sino ad amare i suoi più crudeli nemici, sino a fare del bene a quelli che ci fan del male, sino a pregare pei propri persecutori. Vi è forse un’altra religione, fuorché quella rivelata da Dia, che possa portare l’uomo ad atti sì eroici? Riguardo a noi medesimi, quali sono mai i doveri che questa santa religione ci prescrive? Un intero staccamento dai beni del mondo; una rinunzia perfetta ai piaceri del senso, un generoso dispregio degli onori, e della gloria del secolo, la pazienza nelle afflizioni, l’amore delle umiliazioni e dei patimenti, 1’abnegazione di sé stesso, una mortificazione continua dei sensi e delle passioni. Un altra religione, ripeto, fuorché quella rivelata da Dio poteva portar l’uomo ad una perfezione sì alta? Possiamo, leggendo il Vangelo, non convenire che la dottrina in essa contenuta è venuta dal cielo ed è stata dettata da una sovrana sapienza? Sente ciascuno, anche suo malgrado, che la morale di essa viene da Dio ed a Dio conduce, che non possiamo temere d’ingannarci seguitandola e che dobbiamo tutto sperare osservando i suoi precetti. – Lo splendore della sua santità fu quello ancora che le attirò un si gran numero di discepoli, e la santità dei suoi discepoli non ebbe minor forza per propagarla di quel che abbia avuto l’autenticità dei suoi miracoli. E nel vero qual sono stati i discepoli della religione? Qual vita santa non hanno essi menata? Leggiamo le vite dei santi che hanno edificato il mondo coi loro esempi. Voi vi vedrete uomini sì staccati dai beni del mondo che rinunziavano a tutto e vendevano tutto quel che avevano per darlo ai poveri, che amavano il loro prossimo sino a perdonare le ingiurie più atroci ed abbracciare i carnefici che li facevano morire; che si davano interamente a tutti i rigori della penitenza; che ancor vivi si seppellivano nelle solitudini per non occuparsi che di Dio e della speranza di un’eterna felicità. E quante ancora ne vediamo di queste anime generose che fanno simili sacrifici! Quante anime sante che rinunziano a tutte le speranze del secolo per prendere il partito del ritiro, dove menano una vita più angelica che umana! Quanti in mezzo al mondo medesimo si vedono ancora fedeli cristiani che seguitando i sentimenti della loro religione, adempiono con edificazione tutti i doveri che loro impone; che sono poveri nell’abbondanza, umili negli onori, pazienti nelle afflizioni, sobri, casti, temperanti, e che perdonano le ingiurie e gli affronti più atroci. Se tutti i discepoli della religione non sono tali non bisogna ad essa imputarlo, ma bensì alle malvagie disposizioni di coloro che non vogliono seguirne le massime. Se tutti seguissero queste massime sante e salutevoli, la società dei cristiani sarebbe la più perfetta e la più felice: sarebbe una società di santi i quali non avrebbero che un cuore ed un’anima sola; dove non vi sarebbero né dispute né contese sopra i beni e gli onori del mondo, dove i ricchi non si solleverebbero con orgoglio sopra i poveri; dove i poveri riceverebbero dai ricchi tutti gli aiuti necessari alle loro miserie; dove ciascuno, in una parola, sarebbe a gara premuroso di prevenirsi, di rendersi servigio gli uni agli altri. Tali furono i primi discepoli che la religione formò, e fu il loro esempio che attirò al seno di lei un sì gran numero d’idolatri, i quali non potevano persuadersi che una religione che regolava sì bene la società e portava gli uomini a sì gran virtù non fosse una religione inspirata od emanata dal cielo. I nemici che l’attaccano le renderebbero al giorno d’oggi la medesima testimonianza, se non fossero accecati dalle loro sregolate passioni, che molestate si trovano dalla severità del Vangelo, del quale non per altro motivo si sforzano di scuotere il giogo che per vivere a loro capriccio. Ma in ciò ancora rendono essi, senza volerlo, testimonianza alle verità della fede; poiché non rigettano la religione se non perché si oppone alle loro inclinazioni perverse, prova certissima ch’ella è santa e che viene da Dio, il quale è il principio di ogni santità. Siamo santi, siamo ragionevoli, e persuasi saremo facilmente della verità della religione. Questo è il migliore ed il più sicuro partito che l’uomo possa prendere per esser tranquillo, felice e contento anche in questa vita, lo non chiedo all’incredulo che una seria riflessione su questo punto per determinarlo a sottoporsi al giogo della religione. Vedrà egli senza fatica che il cristiano è più prudente e più ragionevole di lui, e che gli torna più conto il seguir il partito della religione che il combatterla e rigettarla. – Infatti ragioni l’incredulo, l’empio, il libertino quanto gli piacerà sopra la religione; metta in dubbio, neghi pure le verità più sodamente stabilite, inventi sistemi a suo grado per combattere i misteri delle fede: oltreché egli cade in assurdi più incomprensibili che i misteri medesimi ch’ei vuole combattere, qualunque sistema possa egli immaginare per mettere al coperto le sue passioni, non potrà giammai assicurarsi contro i terrori che una religione conforme al buon senso deve ispirargli. Derida pure la credenza del fedele; cerchi pure qualche apparenza di ragione per accecarsi e far illusione a se stesso sopra le terribili verità che non vuol credere; ardisco sfidarlo che, con tutte le sue sottigliezze, i suoi raggiri, le sue critiche maligne sopra la religione arrivi a persuadersi ch’ella non è vera. Tutto quel che può fare si è di negare, di dubitare, di combattere con qualche sofisma le verità sante che noi crediamo; ma potrà egli mai avanzare qualche cosa di positivo e di certo che le distrugge? Imperciocché, per persuadersi che la religione è falsa, converrebbe far vedere ad evidenza che tutto ciò che si dice della sua propagazione miracolosa, dei prodigi operati da Gesù Cristo, dagli Apostoli e dai suoi seguaci non è vero. E come mai il proverebbe l’incredulo? È egli forse stato in tutti i luoghi ed in tutti i tempi in cui le cose sono accadute, per scoprire l’inganno, se stato vi fosse, e per rigettare come falsi tutti quei fatti? Non vi è per lo meno altrettanto fondamento di credere tutto ciò che ne vien riferito che di non crederlo? Quanto dunque potrebbe guadagnare di più l’incredulo sarebbe di dubitare e di un dubbio assai malfondato. Non andrà mai più lungi, qualunque sforzo possa fare la sua mente e qualunque sistema possa egli immaginare. Già in questo dubbio, io domando, chi dei due è il più tranquillo? il cristiano, che ha la fede, o l’incredulo, che non l’ha? Egli è facile il provare che il cristiano; perciocché o la nostra religione è vera, o tale non è. Se essa non è vera, se quanto ci si dice delle ricompense e dei castighi di un’altra vita è falso, se non v’è né paradiso né inferno, il cristiano nulla arrischia nel crederlo poiché, se non ve n’è alcuno, non arrischia punto di essere eternamente infelice. Ma se la religione cristiana è vera, come è dimostrato da tutte le prove che si sono date e che sono capaci di appagare qualunque spirito ragionevole, voi, o empi, voi, o increduli, aspettar vi dovete di essere un giorno rinchiusi in quel luogo d’orrore e di disperazione che sarà il soggiorno dei peccatori, voi attender dovete di provare a vostro danno ciò che la religione mi obbliga di credere su questo soggetto. Qualunque ragione allegar possiate per giustificare la vostra condotta, dubitare per lo meno dovete di correr ogni rischio di una eterna disgrazia col non prendere il partito migliore per evitarla. Ora, in un dubbio ed in un rischio si grande come questo, può alcuno essere felice e tranquillo? E il cristiano che crede ed opera conformemente alla sua credenza non è egli più saggio e più tranquillo che colui che non crede? Si priva, è vero, il cristiano di qualche piacere che trova il libertino nell’appagar le sue passioni, ma non è forse meglio privarsi di qualche piacere passeggero per assicurarsi una felicità eterna, che mettersi al pericolo di uno stato eternamente infelice, per goder d’un piacere che a guisa d’un baleno svanisce ? Per poco che voglia l’incredulo rientrar in se stesso lo sfido a poter calmare i rimorsi della sua coscienza ed esser tranquillo sopra il timore d’una eternità infelice. Imperciocché, cosi deve dir tra sé stesso, se la religione cristiana è vera, ed io non la seguito, l’inferno sarà dopo questa vita la mia sorte; almeno corro rischio di precipitarmivi. Or questo pensiero, quest’agitazione, questo timore, che è sì ben fondato, non è egli capace d’intorbidare tutti i piaceri? Non ha forse qualche cosa di più amaro che i piaceri non hanno di dolce? Qualunque cosa l’empio possa fare, dire o pensare, l’infelicità avvenire non dipende dalle sue idee: sebbene non la creda, non è perciò men vera, e deve per lo meno temere di cadervi. Invano vorrebbe assicurarsi contro se stesso, la fede metterà sempre il terrore nel suo cuore. Or vi è piacere al mondo che possa uguagliare questo timore, o si può godere di qualche tranquillità in questo stato? Laddove il cristiano privo dei piaceri vietati, oppresso, se il volete, dai mali della vita, se ne sta tranquillo sopra la sua eterna sorte e può dire a se stesso: i mali di questa vita passeranno; ma se la religione che professo è vera, come ho tutto il fondamento di credere, io sarò ben ricompensato con un bene eterno, che mi è serbato nel cielo. Il cristiano dunque non arrischia che di soffrire per qualche tempo e non per un’eternità, egli sacrifica poco per aver molto, ed anche non sacrifica che piaceri che Dio gli proibisce; anzi gode egli, mentre vive di qualche soddisfazione permessa: laddove l’incredulo, 1’empio sacrifica tutto per aver poco, si espone ad una miseria eterna per alcuni piaceri d’un momento, di cui non gli resta altro che una trista rimembranza. Or io domando: chi dei due è il più saggio ed il più contento? Ah! per poco che l’incredulo abbia a cuore i suoi veri interessi, sarà ben tosto il discepolo di una religione che tutti rende beati i suoi seguaci, All’ora della morte soprattutto noi l’aspettiamo per sapere che cosa penserà. Potrà egli allora esser tranquillo sopra i sistemi che ha avuto durante sua vita? Potrà persuadersi che la sua anima morrà insieme col corpo e che non debba essa comparire avanti ad un Giudice supremo che deciderà della sua eterna sorte? Persisterà egli a credere che la religione non è che un pregiudizio della nascita e della educazione? O piuttosto non riconoscerà egli forse che questo preteso pregiudizio era appoggiato con giudizio sopra un sodo fondamento? Oh allora si che le passioni ammorzate daranno luogo alla religione, che si risveglierà e si mostrerà in tutta la sua forza ed in tutto lo splendore della sua verità! Oh allora si che questi pretesi spiriti forti diverranno deboli in faccia allo spavento di un giudizio terribile che li minaccia e li aspetta! Vorrebbe allora l’incredulo aver creduto e vissuto da buon cristiano. Ve ne ha ben pochi che non chiamino allora la religione in loro soccorso e non cerchino nei rimedi ch’ella offre al peccatore di che assicurarsi contro un avvenire infelice. – Ma è troppo tardi aprir gli occhi quando le tenebre son venute, e farsi a viaggiare quando il sole è tramontato, lo non domando ai nemici della religione che di essere ragionevoli e di aver a cuore i loro veri interessi per seguir il partito.

TERZA VERITÀ’.

La vera religione non si trova che nella

Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana.

Dimostrata la necessità d’una religione rivelata e la verità della religione cristiana, è cosa facile provare che nella sola Chiesa Romana si trova la vera religione. E che sia la verità, gl’increduli medesimi, che irresoluti sono sul partito della religione, convengono non esser d’ uopo di seguirne alcuna; ma che, se devesi seguirne una, alla sola religione romana bisogna attaccarsi, perché nelle altre tante falsità e varietà s’incontrano che riguardar non si possono come religioni da Dio rivelate. – Non tratteremo noi questo punto in tutta l’estensione con che trattar si potrebbe: ne daremo soltanto alcune prove principali, capaci di convincere ogni spirito ragionevole. La Religione è la strada che dee condurci a Dio ed il mezzo di cui Iddio vuol servirsi per salvare gli uomini. In conseguenza questa religione non ha potuto esser nascosta, ma ha dovuto e deve ancora essere conosciuta e manifestata da segni che visibile la rendano a coloro che vogliono e debbono abbracciarla per esser salvi. Imperciocché come mai si potrebbe seguire, se non si conoscesse? É dunque necessario che vi sia una società d’uomini che ne facciano professione pubblica e che insegnar la possano a quelli che l’ignorano. In questa società esser vi debbono capi rivestiti dell’autorità di Dio, i quali possano condurla, ossia per istruire gl’ignoranti e i semplici che fanno il maggior numero e che capaci non sono di giudicare né di determinarsi da sé stessi sopra i punti della loro credenza, ossia per finire le dispute tra le persone dotte che pensano differentemente sopra la Religione, che spesse volte si ostinano nelle opinioni le più contrario alla fede e al buon senso e che hanno bisogno, come il semplice popolo, di un’autorità suprema ed infallibile la quale corregga i loro pregiudizi, fissi la loro incertezza e la riduca all’unità della fede. Se Dio non avesse stabilito nella Religione un tribunale infallibile per decider le differenze tutte che ad ogni momento insorgono tra gli uomini, la sua provvidenza avrebbe loro mancato in un punto essenziale; vi sarebbero state altrettante religioni, quanti spiriti privati, che a loro talento ne avrebbero spiegato i dogmi: assurdità che non si può ammettere in modo alcuno. – Or questa società d’uomini condotti da capi rivestiti dell’ autorità di Dio o, per meglio dire, questi capi medesimi che conducono la società dei fedeli son ciò che noi chiamiamo la Chiesa. Essa è che conserva il deposito della Religione, colonna della verità e regola di nostra fede; essa è, secondo l’oracolo di Gesù Cristo, quella città posta sul monte alla vista di tutto il mondo, in cui le nazioni tutte della terra possono radunarsi. Essa è la fiaccola collocata sul candeliere per illuminar tutti i popoli; e coll’aiuto di questa fiaccola possiamo noi camminare con sicurezza negli oscuri sentieri della fede. Ma tra tutte le società che si vantano al giorno d’oggi di seguitare la religione cristiana, dove troveremo noi questa vera Chiesa depositaria degli oracoli di Gesù Cristo ed appoggio della verità? Non ne cerchiamo altra fuorché la Chiesa Romana, di cui noi siamo i figliuoli. Essa sola, ad esclusione di tutte le altre sette, può gloriarsi di essere la vera Chiesa di Gesù Cristo. Ed invero qual è la Chiesa di Gesù Cristo? È quella ch’Egli stesso ha fondata, di cui ha dato il governo ai suoi Apostoli e stabilito per capo s. Pietro principe degli Apostoli, allorché gli disse: Tu sei Pietro, e sopra questa pietra io edificherò la mia chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno giammai contro di essa: “Tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo ecclesiam meam; et portæ inferi non prævalebunt adversus eam. Questa Chiesa non è stabilita per un qualche tempo; essa deve durare sino alla consumazione dei tempi, professando sempre la medesima fede. Dunque bisogna che, non essendo sulla terra s. Pietro e gli Apostoli per governare la Chiesa, i loro successori abbiano la stessa autorità per conservare il sacro deposito della fede; altrimenti Gesù Cristo avrebbe abbandonata la sua Chiesa all’errore e alla menzogna. Ma chi sono i successori di s. Pietro e degli Apostoli? Sono i Sommi Pontefici e i Vescovi. Dunque hanno ricevuto nella loro persona la giurisdizione e l’autorità infallibile per governare la chiesa di Roma. Qual altra società, fuorché la chiesa di Roma, può vantarsi di avere la successione degli Apostoli e dei primi pastori? La tradizione e la Storia di tutti i secoli ne sono una prova convincente. Sappiamo l’origine di tutte le sette, il tempo in cui hanno incominciato senz’avere alcuna missione; nel loro stabilimento mostrano esse un carattere di divisione e di falsità. Avanti la nascita di queste sette dunque sussisteva la Chiesa Romana; essa era la vera Chiesa: altrimenti converrebbe dire che pel corso di più secoli non v’è stata alcuna Chiesa visibile; il che è contro l’oracolo di Gesù Cristo, che ha stabilita la sua durata sino alla consumazione dei secoli. – Non è forse la Chiesa di Roma quella che fu sempre vittoriosa di tutte le eresie che insorte sono nel mondo dopo lo stabilimento della Religione Cristiana? Quanti di questi mostri non ha Ella atterrati, di cui più non si vede vestigio alcuno? Per confessione dei suoi nemici medesimi, Ella è stata nei primi secoli riconosciuta per vera. Ora, se essa è stata tale nel suo cominciamento, deve sempre esserlo; perché, secondo l’oracolo di Gesù Cristo, le porte dell’inferno prevaler non possono contro la vera Chiesa: il che sarebbe nulladimeno avvenuto; se la Chiesa di Roma fosse caduta nell’errore. Ma no: 1’oracolo di Gesù Cristo sussisterà sempre, sarà egli sempre colla sua Chiesa come ha promesso, sino alla consumazione dei secoli. Dobbiamo noi dunque ascoltare la voce dei pastori i quali governano questa Chiesa come la voce di Gesù Cristo medesimo; disprezzar questa voce si è disprezzare quella di Gesù Cristo, come Egli stesso ce ne assicura: “Qui vos spernit, me spernit”. Se i Pastori della Chiesa ci ingannassero, sopra Gesù Cristo medesimo ricadrebbe questo errore, poiché sono stati da Lui stesso destinati a condurci: “Posuit episcopos regere ecclexiam Dei”. Ora Gesù Cristo non può ingannarci, né per conseguenza la Chiesa, che è suo oracolo. Tale si è la regola che i grandi uomini han sempre seguita, come un S. Agostino, un S. Girolamo. Il primo aveva tanto rispetto per l’autorità della Chiesa che protestavasi che senza di essa non presterebbe fede alcuna allo stesso Vangelo: “Ego Evangelio non crederem, nisi me moveret Ecclcsiæ auctoritas”; poiché, a dir vero, si è per l’autorità della Chiesa che noi siamo assicurati essere il Vangelo la parola di Dio. Più cose, diceva questo santo dottore, mi ritengono nel seno della Chiesa: la successione dei pastori non interrotta, l’autorità confermata dai miracoli, la conformità di dottrina dei secoli presenti con quella dei secoli primitivi, lo mi unisco, diceva S. Girolamo, colla cattedra di S.Pietro: chiunque non è nella sua nave, è sicuro di naufragare. Tralascio per brevità molte e molte altre autorità di egual peso. – Finalmente, per ristringere in poche parole quanto sin qui abbiamo detto, la santa Chiesa Romana possiede sola i caratteri della vera Chiesa, i quali non si trovano in verun’altra società, e sono l’antichità, l’infallibilità, la santità. Carattere di antichità: ella sussiste da Gesù Cristo in poi per una successione di pastori che ha durato sino a noi. Carattere d’infallibilità, che Gesù Cristo le ha dato e che le conserverà sino al fine dei secoli: dal suo tribunale tutti gli errori che sono comparsi nel Cristianesimo hanno ricevuta la loro condanna. Carattere di santità: egli è in questa Chiesa che s’insegna la morale più perfetta e che si trovano i mezzi più sicuri per giungere alla più alta santità. Dal suo seno sono uscite quelle schiere innumerabili di martiri che han sigillato col loro sangue le verità della fede; quel gran numero di dottori che hanno illuminato il mondo col loro sapere ed i cui scritti vengono dai nemici medesimi della Chiesa ammirati ed adottati. E non appartiene finalmente a questa Chiesa quella prodigiosa moltitudine di santi d’ogni stato, i quali dai primi secoli sino a noi hanno edificato il mondo colla loro virtù, e la cui memoria è in venerazione in tutto il mondo cristiano? Questi santi sono stati della comunione della Chiesa Romana, sono stati suoi allievi, suoi figliuoli. Si può a questi tratti non riconoscerla per la vera Chiesa? E se è la vera Chiesa, dunque essa sola è depositaria della vera Religione e la regola di nostra fede, regola infallibile che deve terminar tutte le differenze sopra gli articoli della Religione. E però non prima la Chiesa ci propone qualche verità a credere ovvero condanna alcun errore, noi dobbiamo sottometterci, credere senza esitare ed interdirci ogni, disputa: l’umiltà cristiana c’insegnerà questa sommissione di spirito e di cuore; il solo orgoglio negli uni e il diletto di carità negli altri rendono perpetue tra di noi queste dispute. Convinti che obbedire alla Chiesa è lo stesso che obbedire a Dio, temiamo di porre limiti alla nostra obbedienza per voler troppo accordare al nostro proprio sapere. – Quando la Chiesa ha parlato, tutto è finito; altro partito a prendere non ci resta che una intera sommissione: ora noi dobbiamo questa sommissione alla Chiesa, ossia che Ella c’istruisca con la voce dei pastori radunati in Concilio, oppure dispersi nelle loro sedi, perciocché fanno sempre un corpo medesimo con Gesù Cristo, che è il Capo invisibile della Chiesa, ed essi sono si nell’uno che nell’altro caso la voce di Dio. Di più Gesù Cristo ha promesso di esser sempre colla sua Chiesa sino alla consumazione dei secoli: ora i pastori non sono sempre radunati insieme; dunque hanno la medesima autorità essendo dispersi. Un’altra prova: la Chiesa radunata non ha autorità se non in quanto che rappresenta la Chiesa dispersa: ma chi rappresenta un altro non può avere maggiore autorità di lui: dunque la Chiesa dispersa è un giudice infallibile, come la Chiesa radunata. – Eccovi prove bastanti per soddisfare qualunque spirito ragionevole, il quale altro non cerca che la verità. Quantunque la fede ci presenti misteri impenetrabili allo spirito umano, Iddio li ha resi credibili questi misteri con l’evidenza della rivelazione e con l’autorità, ch’Egli ha dato alla sua Chiesa per assicurarci della sua divina parola. – L’oscurità dei misteri la il merito della fede, l’evidenza della rivelazione rende ragionevole il nostro ossequio. Non si lamenti dunque l’incredulo che Dio esiga da lui una sommissione cieca e tirannica, poiché egli nulla chiede di contrario alla ragione e ci permette di valerci della nostra ragione per sottometterci al giogo della fede. Conveniva forse, per credere i misteri, che Dio li mettesse in tale evidenza che tolto ci avesse il merito della fede? Perciocché qual merito vi è a credere ciò che comparisce evidente e facilmente si comprende? Bastava dunque che la rivelazione di questi misteri fosse posta in tale evidenza da non potere essere rigettati senza colpa. Ecco quanto poteva l’uomo domandare da Dio. Ha egli forse diritto di non credere misteri impenetrabili alla mente umana, perché non li comprende? Ma quanti segreti nella natura in cui siamo astretti a confessare la nostra ignoranza! Sarebbe alcuno ben fondato a non crederli perché non li comprende? Teniamoci dunque entro i limiti del nostro corto intendimento, camminiamo con la semplicità della fede per le strade in cui ella ci conduce; poiché non possiamo trovare felicità se non nella sommissione ad una Religione che è si conforme al buon senso: “Beati qui non viderunt et crediderunt”. Invano l’incredulo cercar vorrebbe questa soda felicità negli oggetti creati, nei piaceri dei sensi; non vi troverà mai onde soddisfare pienamente i suoi desideri, e mancherà sempre qualche cosa nel suo cuore che gli impedirà di essere interamente felice. Questo cuore, che è infinito nei suoi desideri, sospirerà sempre per tutt’altra felicità che quella di quaggiù, ne troverà giammai una stabile assicuranza che nella sommissione alle verità della fede e nella pratica delle sue massime, il che fa la vera pace dell’anima; egli è impossibile trovarne una più pura e più vera. Invitiamo gl’increduli a farne l’esperienza; non potranno tenersi dal rendere giustizia ala verità, si risparmieranno il timore di un’eterna miseria, e troveranno nella fede la consolazione più soda contro le amarezze della vita presente ed un pegno sicuro della felicità della vita avvenire. Cosi sia.

… et IPSA conteret caput tuum!