LETTURE CATTIVE

LETTURE CATTIVE.

[G. Dalla Vecchia: “Albe primaverili”, G. Galla ed. Vicenza, 1911]

 Ne comedas…. morte morieris.

Non mangiarne, altrimenti morrai.

(Gen. II, 17).

ESORDIO. — Nel Paradiso terrestre sorgeva una pianta dai frutti bellissimi… Ma ai suoi piedi si aggirava insidioso il serpente…, mentre nel leggero fruscio delle sue foglie risuonava l’eco del divino comando, che ingiungeva ad Adamo di non gustare di quei frutti, sotto pena di morte… Ne comedas…; morte morieris… — E non aveva forse l’uomo l’albero della vita, che gli avrebbe assicurata L’immortalità? Ma, un dì, la mano della donna si stese ai rami vietati… Adamo ed Eva gustarono…, commisero la colpa…; la sentenza piombò tosto…: morte morieris… Oggi pure, sorge in mezzo all’umanità una pianta, che si può chiamare l’albero della scienza del bene e del male… I suoi frutti hanno un fascino alla nostra mente…, attirano a stendervi la mano… Ma su di essi vi è un divieto divino… Non li toccare; ne comedas… Guai all’incauto, specialmente se in giovane età, che avesse a gustarne il nettare avvelenato! Quel giorno sarebbe funesto all’innocenza, al candore, alla vita dell’anima sua: Morte morieris. – Già mi avete compreso. Io voglio parlarvi dei libri e dei giornali cattivi, che sono la causa principale della rovina di tante anime, di tanta gioventù. Seguitemi con riflessione, con buona volontà, e sarà tutto vantaggio per voi, per le vostre famiglie, per la società intera.

PARTE PRIMA

1° — Ai nostri giorni si sente un prepotente bisogno dell’istruzione; si moltiplicano le scuole, si aprono biblioteche, per soddisfare 1’ansia sempre crescente del sapere… — L’ istruzione, se diretta e condotta con sani criteri, è ottima cosa; è anche un dovere, perché tutti siamo tenuti a sviluppare i doni ricevuti da Dio, fra i quali bellissimo è quello dell’ intelligenza. — Ma pur troppo questa istruzione moderna, tanto decantata, è leggera, e superficiale… ; rifugge dalle cose serie… ; anzi in molti casi riesce un veleno all’innocenza, alla moralità, alla fede…

2° — Se volete istruirvi, si va dicendo, leggete, leggete molto… — È vero, che il leggere giova tanto, anzi è un fattore importante dell’educazione… ; ma può riuscire, e riesce di fatto, una sorgente funesta di dissolutezza e di miscredenza. Infatti: Ben pochi leggono libri veramente seri ed istruttivi; i più si danno a letture frivole, leggere, che danno alla mente un belletto di idee fantastiche e vane; e vi lasciano un vuoto…, un’ignoranza fenomenale delle cose più necessarie a sapersi da un uomo, e molto più da un cristiano… Il peggio si è, che questi poveri ignoranti si spacciano per dotti…, per sapienti… ; pretendono di criticare tutti, e tutto… anche i misteri e le verità della fede… — Questa loro ignorante superbia dà ad essi un’impronta di leggerezza, di nullità, che si trasfonde nei loro atti e discorsi…, nella loro condotta… —- I cattivi si gonfiano con le loro adulazioni, trascinandoli in un abisso di contradizioni e di errori… ; i buoni li compatiscono…, ma ne stanno lontani…

3° — Vi è di più. — I libri, che oggi si danno in mano anche a giovanetti di tenera età, i giornali che si vedono nelle case di certe famiglie anche cristiane, non solo sono frivoli e leggeri, ma di più sono cattivi, atei, osceni… – Chi può misurarne le funeste conseguenze? — Scritti con incredibile svenevolezza, con uno stile piccante, seminati di immagini seducenti, accendono le passioni, svelano orridi abissi, spingono agli eccessi più fatali. Quando un giovane ha letto uno di questi libri e giornali, quasi sempre perde l’innocenza, l’amore al lavoro, l’energia necessaria per diventare virtuoso cristiano e cittadino utile a sé ed alla patria. Talora sarà un sepolcro imbiancato…, ma sempre un sepolcro, in cui regnerà una tenebrosa corruzione… — Non esagero; i fatti parlano chiaro. — Ai nostri giorni una colluvie di libri e giornali cattivi inonda la nostra patria, e che cosa vedete? Pochissimi conservano la fede dei nostri avi, quella fede generosa ed ardente, capace di vere e sode virtù domestiche e sociali… I più hanno una fede all’acqua di rose, per certe circostanze, quando la esige 1’etichetta, l’opportunismo… Molti la sconfessano apertamente, e stupidamente si vantano di non credere affatto. — La corruzione dei costumi giunge ad un eccesso sì pauroso, da scusare, e talora elogiare i delitti più enormi e ripugnanti… — Lo spirito di orgoglio e di ribellione nelle famiglie, nelle nazioni… ; i suicidi così frequenti, vera viltà del nostro secolo… ; la cancrena di marciume che rode la vita dell’odierna società… Cercatene pure, dove volete, le cause… ; ma, se siete sinceri, dovete convenire con me… ; lo si deve in massima parte ai romanzi, ai libri, ai giornali irreligiosi, empi, osceni…

4° — La Chiesa di Gesù Cristo alza la voce per ritrarre i suoi figli da questi frutti avvelenati. Ella ripete ed intima: Ne comedas; non gustarne, morrai! morte morieris…

Ma chi l’ascolta?

— Si grida superbi: Con che diritto la Chiesa proibisce di leggere certi libri e giornali?

— Col diritto, che ha la madre di proibire ai propri figli di mangiare cibi avvelenati. — Col diritto, che hanno le autorità civili di sequestrare e condannare gli scritti pericolosi all’ordine pubblico… Ogni società bene ordinata deve farlo; quindi molto più la Chiesa…

— In tutti i secoli la Chiesa vigila su questo punto così delicato; condanna i libri empi ed immorali; costituisce la Congregazione dell’Indice per esaminare e proibire le pubblicazioni contrarie alla fede… Quindi ogni vero figlio della Chiesa deve obbedire ed astenersi da quello, che Ella ha proibito…

5° — Ma dirà qualcuno: Ma leggere i giornali ed i romanzi, anche cattivi, a me non reca alcun danno… Ti rispondo: O non capisci quello che leggi, ed allora obbedisci, perché sei cristiano e suddito della Chiesa… Oppure comprendi, ed allora vuol dire che sei già bello e rovinato, fino a non distinguere più il male dal bene. — Ed anche, se fossi ancora innocente, però non lo credo, temi, perché il veleno, sebbene lentamente, apporta sempre la morte. – La Harpe legge un libro di Voltaire… ; eccolo schierarsi fra i nemici della Chiesa… e finisce in prigione, dove però si converte…

— Napoleone il grande, diceva: « Io non mi sento abbastanza forte per reggere un popolo che legge libri osceni… »; ed aveva a sua disposizione circa un milione di soldati.

— Ippolito Pindemonte scrive: “l’assassino di strada mi sembra innocente al confronto di chi detta un libro cattivo…”

Dunque; ne comedas; non gustare di questi frutti vietati; altrimenti morte morieris.

PARTE SECONDA

Chi si espone volontariamente e senza giusto motivo al pericolo prossimo di peccare, pecca; e non vi è pericolo maggiore dei libri e giornali cattivi… Allettano, lusingano…, ma poi danno la morte.

6° — Genitori, attenti: non lasciate entrare in casa vostra libri, romanzi, giornali, che possano, anche pur di lontano, costituire un pericolo o per la fede, o per la moralità dei vostri figli… — Non temete di vigilare troppo… ; la severità su questo punto non sarà mai eccessiva… Basta una riga per offuscare l’innocenza di un fanciullo, di una giovanetta… — Non dimenticate mai del conto strettissimo che dovrete dare al Signore per le anime dei vostri figliuoli… Quel foglio, quel romanzo, potrebbe essere un assassino per queste anime candide a voi affidate… E lo ammetterete in vostra casa?… E con il vostro denaro vorrete farvi suoi complici?

7° — Voi, o giovani, se volete vivere onesti e felici, non leggete né libri, né giornali pericolosi… Prima di leggere un libro, domandate il parere del confessore, o del parroco… — Quella lettura può compromettere l’educazione e la vostra fede; può sviarvi dall’amore allo studio; può inaridire in voi 1’affetto alla famiglia, può condurre nella vostra anima il peccato, il rimorso, la disperazione. Lungi i sotterfugi; quel libro, che ascondete alla pupilla materna, è un serpente velenoso… Gettatelo lungi da voi.

8° — Tutti poi ricordatevi, che chi compera, o si associa ad un foglio cattivo, licenzioso, liberale, concorre all’opera nefasta della Massoneria e del demonio… Fogli di questo genere, in casa vostra, mai. Invece, associatevi ad un giornale seriamente cattolico; datelo tranquilli ai vostri figli; fatelo penetrare nelle famiglie, nelle officine, nei ritrovi, nelle osterie, nei caffè… Favorite sempre, con le parole e con l’opera, la stampa cattolica, la quale, al giorno d’oggi, è il mezzo potente per combattere i nemici di Dio e della Chiesa.

— Così avrete concorso all’esecuzione di un’opera veramente utile, cristiana, tanto necessaria al bene della società… Avrete compiuto un’azione eminentemente virtuosa, e Dio certo non vi lascerà senza una grande ricompensa.

SCUDO DELLA FEDE -III- : LA DIVINA RIVELAZIONE

III.

LA DIVINA RIVELAZIONE.

[Da: A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede” S.E.I. Ed. Torino, 1927 -impr.]

La divina rivelazione è possibile. — Fu per noi necessaria. — Esiste.

— È possibile che Iddio abbia parlato agli uomini per rivelar loro delle verità da credere?

Non solo è possibile, ma indubitato. Forse che tu non possa, ogni qual volta lo voglia, parlare con gli altri uomini per rivelar loro i pensieri della tua mente? E se ciò puoi farlo tu, perché non avrà potuto farlo Iddio, che è onnipotente?

— Ma Iddio nel parlare agli uomini non si sarebbe abbassato, avvilito?

Si sarebbe abbassato, avvilito, se avesse fatto cosa indegna di Lui. Ma si può dire forse che il parlar, che egli fece agli uomini, sia stato indegno della sua divina bontà? Tutt’altro. Se fosse così si dovrebbe dire che si è pure abbassato nel creare gli uomini e che continuamente si abbassa nel conservarli. No, la divina rivelazione non è un avvilimento della divina maestà: essa anzi è la cosa più conforme alla stessa, la cosa più degna e conveniente. E non ti pare che se Iddio, dopo aver creati gli uomini, non si fosse loro rivelato, fatto conoscere, la sua Provvidenza verso di noi apparirebbe monca ed imperfetta? Non dovremmo dire che Egli si è curato poco di noi, che poco gli preme il nostro culto e la nostra felicità.

— Ciò è verissimo. Ma gli uomini avranno potuto intendere Iddio a parlare?

Perché no? Se Iddio si è espresso in modo da farsi intendere (e dal momento che

egli voleva rivelare agli uomini delle verità da credere, non poteva far diversamente), era più che naturale che gli uomini, benché con una intelligenza finita, lo abbiamo potuto intendere.

— Ma non capisco, perché Iddio avendoci data la intelligenza, con la quale possiamo noi conoscere le cose, abbia poi ancora voluto Egli parlare agli uomini per apprendere loro le verità da credere.

Caro mio, non bisogna dimenticare che vi sono due sorta di verità: di quelle che con la nostra intelligenza possiamo comprendere e di quelle alla nostra intelligenza affatto incomprensibili, ossia misteri. Ora poiché Iddio volle che noi, ad essere salvi, credessimo non solo alle prime verità, ma eziandio alle seconde, non era assolutamente necessario, che ce le manifestasse? Anzi era pur necessario, non assolutamente, ma moralmente, la manifestazione o rivelazione di quelle stesse verità che con la nostra intelligenza possiamo comprendere. Dimmi, se tu vuoi imparar bene una scienza od arte, hai bisogno, sì o no del maestro?

— Senza dubbio, perché capisco bene che assolutamente parlando potrei imparare una scienza od un’arte anche da me, come han fatto taluni, ma ordinariamente no, perché allora mi ci vorrebbe chi sa quanto tempo.

Benissimo. Così le verità, che la nostra stessa intelligenza può comprendere, assolutamente parlando, dagli uomini si potevano venir a conoscere, come ad esempio che Dio esiste, che Egli è giusto, che l’anima è spirituale ed immortale, che vi ha. una vita futura, che i buoni han da essere premiati e i cattivi castigati: che perciò bisogna onorare quel Dio che esiste, fare il bene, evitare il male, combattere le nostre cattive inclinazioni, amare il nostro prossimo, essere giusti con tutti, fedeli ai propri doveri, prudenti nelle difficoltà, forti in mezzo ai pericoli, e simili. Ma a questa cognizione potevano pervenire tosto, di per sé, con sicurezza e in modo chiaro tutti quanti gli uomini?

— Eh! si sa, gli uomini dotati di bell’ingegno e di facile intendimento sono pochi.

Aggiungi che tra gli stessi uomini di grandi forze intellettuali ve ne sono moltissimi che per la loro bassa condizione, per il lavoro manuale, cui devono continuamente attendere affine di guadagnarsi il pane, non avrebbero potuto applicarsi a tale studio. E posto pure che un gran numero di uomini avessero avuto tale agiatezza da potervisi applicare, l’esperienza non dimostra forse che costoro, in parte abbastanza grande, avrebbero avuto ben poca voglia di farlo? Epperò che cosa sarebbe stato dei più?

— Non avrebbero neppure conosciute quelle verità, che pure, assolutamente parlando, sono all’umana intelligenza accessibili.

Certamente. E così solamente alcuni filosofi privilegiati sarebbero pervenuti al conoscimento di dette verità, e ben s’intende dopo un lungo e non facile studio.

— Ebbene, non avrebbero poi potuto questi filosofi insegnare essi tali verità agli uomini?

L’esperienza dimostra chiaramente che no. Siccome anche, i grandi sapienti hanno le loro passioni, e se ne lasciano pur troppo dominare, perciò o dalla loro superbia, o dalla loro invidia, o dall’amore ai malvagi piaceri, o da altra simile causa si lasciano traviare assai facilmente, sia nella ricerca delle verità, sia nel dedurne delle applicazioni pratiche. Difatti se tu getti lo sguardo sugli stessi più celebri filosofi antichi, ne troverai forse uno solo che non sia caduto in vari e gravissimi errori? – Per citarti qualche esempio, il famoso Socrate, benché ammettesse un Dio supremo, non negava la pluralità degli dei, e in quanto all’immortalità dell’anima la riteneva solo probabile. Il celebre Platone, che per la sua scienza fu chiamato addirittura divino, non ostante l’altezza dei suoi concetti, e il soffio poetico, e la dolce eloquenza, con cui li esprime, ribocca ancor esso di errori. Egli insegna fra le altre cose, che Dio e la materia hanno un’esistenza esattamente parallela ed infinita, e che quello si è giovato di questa per formare il mondo; che l’uomo ha tre anime diverse, una ragionevole, che è esistita prima di lui, un’altra virile, che è il principio del volere, dell’avere coraggio e forza, l’altra femminile, che è la fonte delle passioni sensuali; che il matrimonio deve essere abolito come istituzione costante; che gli schiavi non sono uomini ma cosa. – Così pure errò gravissimamente Aristotile, che arrivò al punto da negare la Provvidenza e da asserire che solamente gli uomini liberi hanno diritti, mentre gli schiavi sono naturalmente animali bipedi destinati a servire gli altri. Or ti pare che questi filosofi sarebbero stati buoni maestri degli altri uomini?

— No certamente. Ma i filosofi moderni però …

I filosofi moderni, che non han voluto prestar fede alla rivelazione, sono caduti in errori anche più grossolani. Figurati che hanno rigettata la creazione e l’esistenza di Dio, che hanno detto, che la virtù e il vizio sono nomi inventati dagli uomini, ma che in realtà non v’è distinzione di sorta tra il bene e il male. Ora ti sembra che i filosofi moderni potrebbero essere per l’umanità maestri migliori dei filosofi antichi? E poi, dimmi, la verità è, sì o no, una sola?

— Non vi può essere alcun dubbio.

E dunque da quale di questi maestri, vuoi antichi, vuoi moderni, gli uomini avrebbero appresa la verità, se quasi nessuno fra di loro è andato d’accordo con un altro nelle sue dottrine? Se anzi, come ha detto lo stesso Giangiacomo Rousseau, tutti per ragione del loro egoismo hanno messo il massimo studio per pensare diversamente dagli altri, preferendo ognuno la menzogna trovata da lui alla verità scoperta per altri?

— Capisco; questi maestri per difetto di unità dottrinale non avrebbero autorità di sorta.

E supponiamo pure per un momento che l’avessero, forse che la più parte degli uomini avrebbe la comodità e la voglia di andarli a sentire? Ti pare, a te, che i poveri, gli operai i contadini, le donne i fanciulli andrebbero alla loro scuola? Eh! caro mio, questa gente ha ben altro a fare per guadagnarsi il necessario sostentamento. Vedi adunque come la ragione stessa dimostra, che anche per la conoscenza sicura, pronta ed universale delle verità di ordine naturale era necessaria la rivelazione divina, che cioè Dio manifestasse Egli agli uomini tali verità. E questa necessità fu riconosciuta dagli stessi filosofi antichi e moderni, ancorché miscredenti.

— Dunque in realtà gli uomini tutti senza la rivelazione divina non possono conoscere nessuna verità, neppure d’ordine naturale.

Adagio a dir ciò. Questo pure è un errore, e grave; errore nel quale sono caduti ultimamente certi filosofi, che si chiamano tradizionalisti, i quali asserirono che senza la rivelazione, senza la tradizione primitiva, che ci viene con la parola, noi non possiamo conoscere nulla; il che come potrai riconoscere da quanto fu detto di sopra, è falso perché distrugge le forze della ragione e sconvolge ogni ordine

— In conclusione adunque la rivelazione divina è possibile ed è necessaria.

Sì nel senso che ti ho spiegato.

— Ora sarei curioso di sapere quando, dove e a chi Iddio ha fatto tale rivelazione.

Ottima curiosità, che subito ti soddisfo. Iddio ha cominciato la divina rivelazione delle verità, che si hanno a credere per essere salvi, al principio del mondo al nostro primo padre Adamo nel paradiso terrestre; in seguito continuò a far tale rivelazione ai patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe nelle pianure della Caldea; di poi al grande legislatore ebraico, Mosè, sulla vetta del Sinai, al re Davide, a Salomone, ai profeti, e per essi a tutto il popolo ebreo sia nella sua patria come nelle terre di esilio e di schiavitù. E da ultimo Egli la compì per mezzo del suo Divin Figlio, che mandò sulla terra nella Palestina, e che ammaestrò dodici uomini, che si chiamano Apostoli, ossia ambasciatori suoi all’umanità, e per essi la sua Chiesa, ora e sempre suo gran testimonio ed organo infallibile.

— Ma tutti costoro, come Adamo, Abramo Mosè, Davide, eccetera, i quali asserirono di aver inteso Iddio a parlare e manifestare loro delle verità da credersi da tutti, non potrebb’essere che siano stati furbi impostori, che abbiano detto ciò per ingannare gli uomini a seconda di qualche loro interesse, oppure poveri imbecilli, che si siano creduto nelle loro allucinazioni e nei loro sogni da matto, che Dio abbia loro parlato, mentre non era vero?

Questa obbiezione è giustissima. Ma io ti rispondo subito, che la nostra ragione nel

ricercare il fatto della divina rivelazione non solo trova per mezzo della storia i luoghi, i tempi e le persone, cui la divina rivelazione fu fatta, ma trova pure della medesima prove evidentissime e di tale forza, per cui, a meno di voler essere irragionevoli, bisogna ammettere assolutamente la verità di essa, e cioè la verità della fede cristiana, ossia di quel complesso di verità, che la Chiesa Cattolica insegna e che noi dobbiamo credere.

— E quali sono queste prove?

Sono due principali: le profezie e i miracoli. Ed una volta che tu abbia riconosciuto,

come realmente Iddio si sia servito di questi due mezzi per rendere certa presso di noi la fede che ci ha rivelato, avrai riconosciuto altresì, che per credere vi sono dei motivi, e motivi assoluti.

SCUDO DELLA FEDE: II. I MISTERI

II.- I MISTERI.

[Da: A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede” S.E.I. Ed. Torino, 1927]

Si deve credere anche a ciò che non si vede. — Si devono credere anche i misteri, — A che cosa essi servono.

— Se la Chiesa si contentasse di farci credere a certe verità più ovvie! Ma quel volerci far credere a tanti misteri…

La Chiesa non vuole altro se non quello che vuole Iddio e la proprietà essenziale di

Lui, che è l’essere Egli incomprensibile, perché infinito.

— Ma io ho inteso dire che non bisogna credere se non a quello che si vede.

Se è così dovresti uscire dalla società, rifugiarti in un deserto e là solo con la tua intelligenza, isolato da Dio, da tutti gli uomini, scavarti una tomba e badar bene che sia ben profonda, perché non vengano a scoperchiarla i demoni, che anch’essi credono e tremano.

— E per qual ragione?

Perché volendo credere soltanto a quello che vedi, tutta la vita di società è distrutta.

— Non capisco.

Ascoltami: Tu siedi a mensa e mangi del pane, e mangiandolo fai un atto di fede, cioè credi senza vedere, perché non potrebb’essere, che in quel pane, da cui credi di avere il sostentamento, il panettiere abbia mescolato un veleno, che ti dia la morte? Tu sei ammalato e il medico ti prescrive una medicina e il farmacista te la prepara. E tu pigliandola fai un atto di fede, perché senza vedere credi che il medico ti ha prescritto e il farmacista ti ha preparato ciò che ti farà guarire, mentre potrebbe anche essere il contrario. Tu dici padre ad un uomo e madre ad una donna, e sai tu che quell’uomo è tuo padre e quella donna è tua madre? Te lo dicono essi, te lo dicono altri, e tu credi sulla loro parola. Ma non potrebb’essere anche diversamente? Potrei moltiplicarti gli esempi all’infinito e per loro mezzo farti conoscere, che la tua vita pratica nella società è contraria a quello che tu asserisci, di credere soltanto a quello che vedi.

— Sì, è vero, ma in tutti questi fatti, sebbene non veda tutto chiaro, qualche cosa posso vedere.

E sia pure che tu veda qualche cosa, ma come tu stesso affermi tutto chiaro non puoi vedere. E poi non ci sarebbero millanta altre cose, che co’ tuoi occhi materiali non potresti vedere affatto? Stando tu qui in Italia vedi Calcutta nelle Indie e Pechino nella Cina? E vivendo tu adesso sul principio del secolo XX, hai tu visto Napoleone I, l’imperatore Cesare Augusto, il celebre Alessandro Magno?

— No, certamente.

Dunque secondo te, che non vuoi credere se non a quello che vedi, Calcutta e Pechino non esisterebbero sulla faccia della terra, e Napoleone, e Cesare Augusto, e Alessandro Magno sarebbero personaggi immaginari.

— Ma io credo benissimo e a Calcutta e a Pechino, e a Napoleone, e a Cesare Augusto, e ad Alessandro Magno, perché se non ho veduto proprio io tali città e tali personaggi, li han veduti altri, e questi altri, che li han veduti, mi attestano naturalmente, che vi è Calcutta nelle Indie, Pechino in Cina, e che esistettero Napoleone, Cesare Augusto ed Alessandro Magno.

Va bene. Dunque, anche senza vedere, sulla testimonianza di altri uomini tu credi alle cose sovradette. E così devi fare, se con la tua intelligenza vuoi vedere qualche cosa di più del tuo paese, della tua città e di ciò che ti cade sotto gli occhi durante quel breve spazio di tempo, che corre dal tuo nascere fino al tuo morire. E così fanno praticamente tutti gli uomini, senza eccezione di sorta, i quali credono a mille, a centomila cose, che non hanno vedute mai; e le credono sulla testimonianza di coloro, che avendole vedute hanno poi asserito o a voce o per iscritto, che sono esistite e che esistettero in questo o in quell’altro modo, e via dicendo. Or bene quello che fai con gli uomini, perché non vuoi farlo con Dio? Dio nella sua sapienza vede tutto, conosce, sa tutto, ed Egli ti dice per mezzo della sua Chiesa, che le cose a suo riguardo stanno così e così, e tu perché non vedi con i tuoi occhi materiali, non gli vuoi credere? Ti par giusto? Ti par ragionevole?

— Capisco ora, che chi dice di non voler credere se non a quello che vede, dice una grande buaggine.

Ascolta in proposito questo fatto. Una donna celebre non meno per politiche peripezie, che per malvagi, intrighi, Anna Gonzaga, ebbe un sogno. Le pareva di camminare in una selva e imbattersi in una capanna, ov’era ricoverato un cieco. Interrogatolo se era tale dalla nascita o lo era divenuto poscia, si intese a rispondere: « Dalla nascita ». « Dunque non conosci quanto sia fulgido il sole, quanto smaglianti i fiori, quanto bella la natura tutta! » – « Ahimè! no, nulla conosco. Non posso neppure farmene un’idea. Tuttavia credo agli splendori, che mi narrate; e la mia cecità può far intendere, che vi hanno cose bellissime, che occhio umano mai non mirò, e sebbene non si vedano, però sono desiderabili assai ». Commossa, sorpresa, Anna abbracciò il cieco, che aveva mostrato a lei luce pia bella di quella, ond’egli era privo; pianse e si convertì.

— Ma io non voglio saperne di misteri.

Ciò che dici non è vero. Ammetti tu la parola, il suono, il colore, l’odore, la riproduzione delle piante e degli animali, la forza di attrazione, che vi ha nei corpi celesti, e cose simili?

— Senza dubbio, perché sono cose che vedo, sento e provo con i miei sensi.

Ma vedendole, sentendole o provandole altrimenti con i tuoi sensi, le capisci tu? Capisci in qual maniera il mio pensiero, che è cosa spirituale diventa parola sugli organi materiali della bocca? Capisci come la parola di uno che parla ad una grande moltitudine che l’ascolta, passa per le orecchie materiali e diventa di nuovo spirituale nella mente di quella moltitudine? Capisci come si producano le ondulazione sonore e come penetrino anche attraverso i muri? Capisci come da un piccolo seme possano venir fuori migliaia e migliaia di piante, di fiori e di frutti? Capisci che cosa è quella forza, che tiene in equilibrio gli astri del firmamento e impedisce che gli uni si precipitino sopra gli altri?

— Certamente tutte queste cose non le capisco. Di tutte si possono sino ad un certo punto dare delle spiegazioni. Ma poi si arriva ad un punto tale, in cui non è più possibile.

Il che vuol dire che anche in tutte queste cose vi è del mistero. E se pure tu queste cose le ammetti tutte, come osi dire di non volerne sapere di misteri?

— Ma non è di questi misteri che non voglio saperne: si è di quelli di religione.

E ciò ti par giusto? ammettere i misteri della natura e non volerne sapere di quelli di religione?

— Ma per accettare i misteri di religione bisogna sacrificare la propria ragione, ammettendo delle cose incredibili e assurde.

Sai tu quali siano le cose assurde, epperò incredibili?

— Quelle che sono contrarie alla ragione ed al buon senso, perché contengono una contraddizione nei loro termini, come ad esempio che due più due facciano tre, che il sole non risplenda, che un circolo sia quadrato.

Ottimamente. E si potrà dire che i misteri della fede siano contrari alla ragione ed abbiano contraddizioni nei loro termini?

— Dal momento che la ragione non li capisce

Ciò vorrà dire che siano superiori alla ragione ma non contrari. Ciò vuol dire che la ragione colle sole sue forze non arriva a capire le verità, che essi esprimono, ma non ne vede affatto la impossibilità. Ad esempio nel mistero dell’Unità e Trinità di Dio vi sarebbe assurdo, se si dicesse che tre persone fanno una sola persona; ma in quella vece quale assurdo vi è mai nel dire che tre persone distinte hanno la medesima unica natura divina, epperò non sono che un solo Dio? La ragione non comprende bene ciò, ma non vede assolutamente che ciò sia impossibile. E del resto se tu volessi chiamare assurdi i misteri della fede solo perché la ragione non li capisce, non dovresti chiamare assurdi anche i misteri della natura?

— Ma i misteri della natura me li attestano i testimoni irrefragabili dei miei sensi e del senso comune.

* E i misteri della fede sono attestati da un testimonio mille volte più irrefragabile che non siano i nostri sensi e il senso comune.

— E chi è questo testimonio.

È Iddio stesso.

— Come?

Come? Forse che i misteri che la Chiesa ci propone a credere sono stati inventati dagli uomini? o non è invece Iddio medesimo che si è degnato di rivelarceli? Ascolta:

Quando S. Romano, vicino a ricevere la corona del martirio, se ne stava davanti al tiranno Asclepiade: « Se non credi a me, gli disse, interroga quel bambino, che vedi là fra le braccia di sua madre, e udrai confermato dalla sua innocente bocca quanto ti ho predicato intorno alle verità della fede ». Era ivi presente una madre cristiana con in grembo il suo figlioletto ancor lattante. – Il prefetto rimirò il bambino e persuaso che per l’età sua fosse incapace di articolar parola, dissegli per ischerzo: « Sai tu dirmi chi sia il Cristo, che i Cristiani adorano? » Allora il bambino snodata miracolosamente la lingua ed alzata francamente la voce, forte gridò: « Gesù Cristo adorato dai Cristiani è il vero Dio ». « Chi ti disse questo? » ripigliò Asclepiade. Il bambino soggiunse: « Me lo ha detto mia madre, la Chiesa ». « E alla Chiesa chi l’ha detto? » – « Alla Chiesa lo ha detto Iddio ». Lo ha detto Iddio! Ecco il motivo, su cui si appoggia la nostra fede ai misteri della religione: la parola infallibile di Dio. Non occorre altro senonchè per mezzo della stessa ragione noi ci accertiamo di questo, che Dio abbia veramente parlato agli uomini, che Egli abbia realmente rivelate loro delle verità da credere. Constatata la rivelazione divina sarebbe veramente da uomo irragionevole il non voler credere.

— Non capisco perché Iddio abbia voluto rivelarci dei misteri. Non poteva fare a meno?

Senza dubbio che lo poteva, giacché Egli non era punto tenuto a rivelarceli. L a rivelazione delle verità soprannaturali, che Iddio fece agli uomini, è un dono affatto gratuito della sua bontà e generosità.

— Ma non ha recato in tal guisa un aggravio a noi, che così dobbiamo credere a ciò che non si capisce?

Tutt’altro. Egli ci ha fatto in tal guisa uno dei più segnalati benefizi. Se Dio non ci avesse fatto la rivelazione dei misteri, arriveremmo noi a conoscere con la sola nostra ragione le sue infinite grandezze e perfezioni? Certo anche senza rivelazione tu conosceresti che vi è un Dio e che questo Dio è grande è perfetto. Ma per mezzo della rivelazione sapendo tu e credendo che in Dio vi sono tre Persone realmente distinte, che la seconda di queste Persone si è incarnata e fatta uomo per salvare gli uomini, che perciò come uomo andò incontro alla morte e morte di croce, e simili verità, dimmi, Iddio non ti appare immensamente più grande, più giusto, più buono, più perfetto? Senza dubbio. E se così Dio ti ha fatto la grazia di poterlo conoscere assai meglio che con la sola ragione, non ti ha fatto un gran benefizio, non ti ha sollevato ad un grande onore?

— Ciò è vero. Ma a che serve la fede nei misteri?

Serve appunto a riconoscere che Iddio è infinitamente grande e che tu in suo paragone sei veramente piccolo. Serve a dimostrarti che la tua ragione è assai debole e limitata e che perciò devi umiliarti e tenerla soggetta a Dio. Serve a farti rendere a lui il primo degli omaggi che da te richiede, quale è appunto la fede nella sua divina parola, perché in sostanza col credere che tu dici a Dio: Io non capisco ora questi misteri, ma li tengo verissimi, perché lo dite Voi: ciò mi basta. Serve a farti acquistare dei meriti presso lo stesso Dio. Se tu dovessi ritenere soltanto delle cose che tutte capisci, la fede sarebbe ancor fede? e tu ne potresti cogliere merito alcuno? Per credere ai misteri si esige una determinazione energica della nostra volontà di inchinarsi ad abbracciare le verità proposteci a credere, benché incomprensibili, ed è così appunto che ci facciamo un grandissimo merito.

— Ho inteso. In conclusione dobbiamo dire per i misteri quel che dicevano certi antichi discepoli per le dottrine dei loro maestri: Magister dixit!

Noi dobbiamo dire Deus dixit: L’ha detto Iddio; e ritenere che quegli antichi discepoli nel fidarsi tanto dei loro maestri da dire a qualsiasi obbiezione o difficoltà mossa contro i loro insegnamenti : « L’ha detto il maestro, » potevano sbagliarsi e molte volte si sbagliavano davvero; ma noi invece nel dire « L’ha detto Iddio » non corriamo affatto questo rischio, perché Dio è di una scienza infallibile e di una veracità suprema, non può ingannarsi né ingannare.

— Così adunque nel credere ai misteri noi dobbiamo soggiacere alla divina autorità?

* E non ti par questa la cosa per noi più bella, più giusta e più nobile? Non è mille volte meglio soggiacere alla divina autorità che a quella dei falsi dottori del mondo, che pongono in dileggio i misteri della fede? Ah! Se c’è una servitù che ci onori, è certamente quella, per cui leghiamo a Dio tutto il nostro essere, epperò anche la nostra intelligenza; e se ce n’è una che ci avvilisca, è quella di legarci alle sciocchezze, che predicano i maestri dell’errore. Dunque…

— Ho inteso: e sempre preferirò l’autorità del magistero di Dio a quella del magistero degli uomini!

QUARESIMALE: LA MORTE, con una breve Meditazione di p. UK.

– LA MORTE.

[G. Dalla Vecchia: Albe primaverili: QUARESIMALE–Libr. Ed. Ecclesiast. Vicenza, 1911]

 Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reveteris.- Genesi III, 19.

ESORDIO. — Oggi, la Chiesa con mesto rito asperge le nostre fronti di cenere, mentre intuona solenne: O mortale, ricorda che sei polvere, ed in polvere ritornerai.

— In altre parole: ricorda, che rapida fugge la scena del mondo e, quasi incalzata da forza ignota, declina la vita; sulla soglia dell’eternità ti attende la morte. È un avviso amoroso di questa tenera madre; vi rammenta la fredda cenere della tomba, non per attristarvi, ma bensì per tenervi lontani dalla colpa e dalla morte eterna dell’anima.

— La Chiesa è sicura che, col memore pensiero della morte, 1’anima vivrà alla grazia di Dio. e produrrà, arboscello gentile, fiori di virtù e di sacrifici al cospetto del Signore. — Già lo insegna anche lo Spirito Santo: — Memorare novissima tua, et in æternum non peccabis. (Eccl. VII). Questa sera, vieni, o cristiano, alla scuola della morte. Ottima maestra, rammentando la polvere in cui ritornerai, ti darà Lezioni e Consigli… ; allora non più peccati, ma una vita pura e santa.

I . LEZIONI. — La morte ti dice:

(a) Verrò: morrai anche tu. — È di Fede, — Statutum est hominibus semel morì (Hebr. IX, 27) Dio aveva creato la vita …; aveva donato ad Adamo 1’immortalità …; e perché con la disobbedienza non avesse a meritare la morte, gli diceva: Non toccare di questo frutto, che ti ho proibito; se ne mangi, morrai. — In quacumque die comederis ex eo, morte morieris (Genesi II).Ma Adamo pecca; e la sentenza di morte piomba sul primo ribelle ai comandi divini. Da quel punto tutti hanno dovuto morire. — Anche Gesù è morto…, la Madonna …, i Santi …. — Morrai anche tu. — Il battito del tuo polso è il martello che mina la tua vita, ed a colpi sordi, lenti, continui, ti scavala fossa.

— Te Io dice l’Esperienza – Funerali, cimiteri, vesti a lutto, gemiti, pianto …. Tu pure lascierai la tua casa, verrai portato al cimitero, calato in una fossa… : e non si parlerà più di te.

(b) — Verrò presto – In dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi (Cant. Ezechia). — Che cosa è la tua vita? — Un fiore — un’ombra — un lampo; non torna più. — Il demonio sussurra: Sei giovane, robusto; per ora non muori …, c’è tempo a pensarvi …; nequaquam moriemini. — Sei avanti con l’età, m a per adesso non vi è pericolo… Sei debole…, malato …, mai più sono guariti …; spera, vivi tranquillo …; nequaquam moriemini… — Non dargli retta, che t’inganna … Nel cimitero vi è una selva di croci piantate sulle tombe di giovani fiori, recisi dalla morte: cedri, che parevano inconcussi, rovinarono di un tratto nella fossa… Non gli badare; morrai, quando meno il pensi … In che giorno?… in quale luogo ? — Non lo so. —La morte ti verrà come un ladro notturno… sarai felice per tutta 1’eternità… Ma se ti raggiungessi dopo quella colpa …, in quel luogo, dove pecchi sì spesso?

— Semel periisse æternum est.

— (d) — Ti porterò via tutto. — Ricchezze, – onori – piaceri – creature – quell’oggetto,… quella persona … Oh! distacca il tuo cuore da queste povere cose terrene …, lo dona tutto al tuo Dio… Beati quelli che sanno staccarsi da quanto li circonda, anche dalla vita …, mettendo la loro salute, il loro avvenire nelle mani di Dio! — Al punto di morte la loro anima volerà al Creatore cantando l’inno dell’amore; come 1’augelletto sfuggito al laccio, che lo teneva prigioniero, ritorna al suo nido gorgheggiando la canzone natia … Beati mortui qui in Domino moriuntur! Apocalisse XIV, 28).

— (e) — Se sarai caro al Signore, ti riuscirò gioconda.

— Allora ricorderai con gioia le privazioni, le lotte, le tribolazioni, – le preghiere, le virtù, i sacrifìci. — lam hiems transiit, imber abiit et recessii; surge, amica mea, et veni. (Cantic.) — È giunto il tempo di riposare, — di godere il frutto, … 1’alloro della vittoria. — Come ti sentirai felice di avere sprezzato le massime e gli errori del mondo, — di avere portato il giogo soave della legge del Signore, — di avere faticato e patito per amor suo! Gesù, come viatico, entrerà nella tua stanza …; discenderà, un’ultima volta, nel tuo cuore…, e nell’ebbrezza del gaudio esclamerai: Signore, ti affretta; schiudimi il tuo regno… Cupio dissolvi et esse cum Christo – (S. Paolo). — Giungeranno a te gli inni degli angeli: Veni coronaberis; vieni a ricevere la tua corona. — Qualis vita, finis ita.

Consigli della morte. — Ella ti dice: Vuoi morire contento? … Allora:

— 1° — Ricordati sempre che devi morire. — Daniele copre di uno strato di cenere il pavimento del tempio di Belo e così scopre la malizia dei sacerdoti di quell’idolo deforme. — E tu pure scoprirai le insidie del demonio, meditando spesso, che fra breve ti attende l a cenere del sepolcro. — Domine, illumina oculos meos, ne unquam obdormiam in morte (Salmo XII).

Questo pensiero, che devi morire, è la spada santa, per vincere l’orgoglio,… causa principale dei nostri peccati. — Fissa il tuo sepolcro, 1’oblìo, in cui verrai lasciato…, e saprai disprezzare il mondo, le sue vanità, i suoi vizi …, Uno a ripetere con Gesù: Ego non sum de hoc mundo. —

— 2° — Lavora: nel tuo dovere…, con diligenza …, per amore di Dio … — Lavora per acquistare tesori di virtù, di pazienza, di carità…, di conformità ai voleri del Signore…

— Ed in questo lavoro ti affretta …; perché non ti sorprenda la morte, ed il tuo lavoro non sia ancora compiuto. Qua hora non putatis, filius hominis veniet. (Luca XII, 40).

— 3° —’ Veglia: e quindi, ogni sera, esamina la tua coscienza, per vedere i falli commessi lungo la giornata …; per conoscerne le cause, le occasioni …; per studiarne i rimedi … Poi chiedi umilmente perdono… ; prometti di emendarti …, disponi così 1’anima tua da essere sempre pronta alla partenza per l’eternità. — Dispone domui tuæ, quia morieris tu, et non vives. (Isaia XXXVIII).

— 4° — Ama Gesù Crocefisso – la Vergine: benedetta…  solo Gesù e Maria, nelle estreme agonie, sapranno tergere le tue lacrime, consolare il tuo spirito desolato, infondere coraggio alla trepidante anima tua … Fra le loro braccia darai sorridendo 1′ estremo anelito…; e sulla tua salma gelida si vedrà soffuso un raggio della calma imperitura del cielo. — Pretiosa in conspectu Domini mors sanctorum eius. (salmo CXV).

CHIUSA. — Memento homo! sì, ricordati che sei polvere, e fra breve, quando meno lo pensi, in polvere ritornerai. — I giorni, che tramontano con fuga vertiginosa; le immagini delle persone care, che pendono dalle pareti bianche della tua casa; i fanciulletti che scherzano intorno a te, quasi per dirti di cedere loro il tuo posto; tutto, quanto ti circonda, ha per te una voce sola: Memento! ricordati; devi morire. — Memor esto quoniam mors non tardat (Eocli. XIV, 12). Fuggi quindi la colpa; prega – lavora – veglia – ama il tuo Signore …; ed allora il pensiero della morte ti darà pace e gioia; la pace e la gioia di chi vive in grazia di Dio … La morte, così, sarà per te una compagna fedele, che col suo ricordo, con le sue lezioni, ti additerà il sentiero alla vita che mai tramonta, preparando anche al tuo corpo una gloriosa risurrezione per il giorno del finale Giudizio.

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“Mercoledì delle ceneri: la profezia di Dio e la guerra cristiana”

[Una meditazione di p. UK, sacerdote una cum Gregorio XVIII]

Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reveteris.

 [Ricorda, o uomo, che tu sei polvere e polvere tornerai]

Questo testo profetico del libro della Genesi, III:19, è ciò che dice un sacerdote, mentre segna con  cenere benedetta, la propria testa e le quelle del clero e della gente.

Durante la cerimonia del Mercoledì delle Ceneri, la gente prega così insieme al sacerdote:

Concede nos Domine, præsidia militiæ christianæ sanctis inchoare jejiunis: ut contra spiritales nequitias pugnaturi, continentiæ muniamur auxiliis. Per Christum Dominum nostrum. [“Concedi a noi, o Signore, di affrontare la nostra guerra cristiana con santi digiuni, di modo che, preparandoci a combattere contro gli spiriti maligni, possiamo essere fortificati con l’aiuto della rinuncia.  Per Cristo nostro Signore. . Amen. ]

Quanto sono semplici le parole della Chiesa, dal momento che ci insegna che lo scopo della Quaresima è una guerra cristiana contro gli spiriti della malvagità. – Molto spesso le persone combattono contro gli spiriti della malvagità che li circondano, e questo è davvero un dovere cristiano, ma quanto spesso esse devono combattere contro i medesimi spiriti, dentro di loro? Noi tutti combattiamo contro l’orgoglio e l’ingiustizia del nostro prossimo , contro il cinismo e la crudeltà del mondo odierno, ma quante volte combattiamo contro le nostre stesse inclinazioni peccaminose? – Ci stiamo tutti interrogando sul futuro delle cose, cercando di capire quando si verificherà l’uno o l’altro evento e cercando di prepararci a quegli eventi. Ma quante volte pensiamo a Dio, che può prendere le nostre anime molto prima, per il giusto giudizio particolare? E che potrebbe accadere domani o anche stasera, come fu per il ricco dalla parabola del Signore?

Trascorriamo molto tempo, sprechiamo energia spirituale e fisica, cercando di capire quando il globo terrestre diventerà polvere. Ma quanto spesso pensiamo invece seriamente al giorno in cui i nostri corpi diventeranno polvere?

Non dimentichiamo mai questa severa profezia di Dio: “tu sei polvere e polvere tornerai”, e questo  potrebbe accadere a ciascuno di noi molto prima di ogni futuro evento cataclismico. In effetti, la fine potrebbe arrivare nel momento stesso in cui siamo così impegnati a meditare sui destini delle nazioni e del mondo intero. ”

-fr. UK

(Mercoledì delle ceneri, 14 febbraio 2018 d.C.)

IL CARNEVALE

IL CARNEVALE

[G. Colombo:  Pensieri sui Vangeli, vol. I – Milano Soc. Ed. “Vita e pensiero”, 1939 – impr.]

Erano in cammino verso Gerusalemme ove avrebbero celebrato le feste di Pasqua: l’ultima Pasqua di Gesù sulla terra. Triste e misterioso Egli camminava davanti: dietro silenziosa e timorosa veniva la piccola compagnia dei suoi amici. – Forse già vedeva nell’ombra del tempio il Sinedrio radunato per congiurare contro di Lui; forse già si sentiva avvolto dall’urlo della plebaglia che domandava il suo sangue; forse già udiva le risate e lo scherno che avrebbero lanciato contro il suo patibolo. E non ne poté più. Si volse indietro a confidare il suo cuore ai dodici: « Ecco: noi andiamo a Gerusalemme, ma tutto quello che i profeti hanno scritto del Figliuolo dell’uomo sta per accadere: mi consegneranno al tribunale dei Romani, mi prenderanno a gioco, mi sputeranno in faccia, mi uccideranno in croce ». E tanta era la malinconia del suo sguardo e della sua voce che quelli protestarono udendo le parole dolorose, senza neppure capirle. – In quel momento si levò un grido: « Gesù, figliuolo di Davide, un po’ di pietà anche per me! ». Era un cieco che mendicava da quelle parti. E nel cuore del Maestro, ci fu un po’ di pietà anche per lui.

« Che vuoi da me? ».

« Da te, voglio vedere ».

« E sia! ». Dagli occhi caddero come due veli oscuri e vide il mondo e chi l’aveva creato. Lontano, sopra il verde della campagna, apparivano le mura di Gerico arrossate dal sole. Questo commovente brano di Vangelo, come è adatto per la settimana del Carnevale! In questo tempo al Figliuolo dell’uomo si rinnova la sanguinosa passione; perciò in questa domenica, egli può ripetere ancora con tutta verità, le sue parole strazianti: « Mi prenderanno a gioco, mi sputeranno in faccia, mi uccideranno in croce ». Tutti i peccati di gola non sono forse il calice amaro per lui rinnovato? – Tutte le immodestie del vestire, gli sguardi impuri, le azioni oscene non gli ripetono forse la spartizione dei suoi abiti e la barbara flagellazione? E le maschere che nascondono il volto per non sentire il rossore di certe bassezze, non sono simili alle bende entro cui i soldati nascosero il capo maestoso di Dio, per essere più liberi d’ingiuriarlo? E ogni bestemmia, e ogni grido immondo, e ogni riso incomposto non somiglia agli sputi con cui fu lordata la guancia del Signore? – Sì! per Gesù la settimana grassa è una nuova settimana di passione; e i peccati del carnevale gravano le sue spalle, come un giorno la croce su cui doveva morire. Per fortuna a questo mondo non ci sono appena giudei; né appena brutali soldatacci a cui gode il triste cuore nel martoriare un’innocente; né tutti sono come Pilato, né tutti sono come Erode o Caifa: ci sono anche delle anime buone, come la Veronica, che detergono il volto del Salvatore dalle lagrime e dal sangue; ci sono anche degli uomini generosi, come il Cireneo, che lo aiutano a portare la croce. – Mai come nella settimana di carnevale, Gesù è fatto segno di contradizione: da una parte la sfrenata follia, dall’altra l’amore fedele.

1.  SETTIMANA DI SFRENATA FOLLÌA

Nelle leggende dei re di Roma, il nome di Tullia è il più detestabile. Questa perfida donna aveva fatto pugnalare il re suo padre e poi salita sul cocchio dorato comandò che la trasportassero rapidamente al Campidoglio ove si sarebbe incoronata regina. Ma, lungo la strada, il cocchiere rallenta il corso e, volgendosi a Tullia, dice: « Non si può proseguire; il cadavere insanguinato di vostro padre è disteso attraverso la via ». Quella spietata, per niente sbigottita, urlò: « Perge! Perge, regium calca sanguinem, dummodo imperem ». E agitando le briglie e sferzando i cavalli adombrati, trascorse sul cadavere del re suo padre, ucciso. Per lungo tratto le ruote del cocchio segnarono due strisce rosse nel selciato. Da allora quella via fu detta la via scellerata. – Via scellerata è pure la settimana del Carnevale. In essa le anime, — come su un cocchio — volano bramose ai piaceri peccaminosi. Dal profondo una voce si leva e protesta: « Fermati: sulla strada di questi divertimenti c’è disteso il Corpo di Cristo, tuo Re e tuo Padre, morto in croce». «Non importa! — rispondono esse. — Purché io possa godere, avanti !… ». Perge, dummodo imperem. E passano oltre e col calcagno calpestano le mani piagate, i piedi piagati, il cuore piagato del Crocefisso.

a) Ma è un bisogno divertirci un po’ prima di entrare nei giorni severi della quaresima! Quelli che ragionano così, son poi coloro che trasgrediscono tutti i digiuni, le penitenze, le preghiere del tempo quaresimale. Ed inoltre, come si possono chiamare divertimenti le ubriachezze, i veglioni, i balli, e tutte le svariate disonestà, con e senza maschera? – « Non divertimenti, — grida S. Giovanni Crisostomo — ma questi sono peccati e delitti ». – Hanno colpito giusto i Padri antichi quando dissero che la baraonda del carnevale è un’invenzione del diavolo. E quelli che ci guazzano dentro sono tutti cristiani che si vogliono, in pratica almeno, sbattezzare. Quando furono portati al sacro fonte il ministro di Dio ha detto loro: « Rinunci al demonio e alle sue pompe? ». « Rinuncio » fu risposto. Ma ecco che in questi giorni moltissimi si strappano dal cuore le rinuncia e il battesimo, e tornati pagani si gettano al culto dei sensi, e alle pompe demoniache.

b) Ci sono altri che ragionano così: « Io non ci trovo niente di male ad andare a certe rappresentazioni, alle veglie danzanti o cantanti, alle maschere… ».

Povera gente! bisogna proprio dire che ha perso anche il senso del bene e del male. Ricorderò allora un episodio raccontato da Tertulliano, ma che può insegnare moltissimo anche ai nostri giorni. Una matrona, appena entrata in un certo teatro, fu invasata dal demonio. Trascinata davanti al Vescovo, costui, esorcizzandola, costrinse lo Spirito maligno a dire perché avesse osato molestare quella donna che era pur buona e religiosa. « Se questo ho fatto — ripose il demonio — ne avevo diritto. L’ho invasata perché l’ho colta sul mio » (De Spect., cap. 26). – Pensate allora, cristiani, quale sacrilegio commettono quegl’indegni genitori che ai ritrovi carnascialeschi conducono i loro bambini, o lasciano andare le loro figliuole! Quelle madri di Siria che gettavano le loro creature nella bocca infocata del dio Baal, nel giorno del giudizio avranno più misericordia di queste donne cristiane che gettano i loro figli nella bocca ardente del fuoco eterno. – Non hanno tempo né voglia per condurli ai Sacramenti di Dio, e permettono che vadano — o peggio li accompagnano — ai sacramenti del demonio. Così S. Agostino chiamava i divertimenti carnevaleschi, perché invece di farci amici di Dio ci fanno amici del demonio; invece di darci la grazia ci danno la disgrazia; invece di schiuderci la porta del paradiso ci spalancano quella dell’inferno. Quanto poi alle maschere dirò solo una cosa: il primo, in questo mondo, a mascherarsi fu Satana quando si travestì sotto la forma di biscia per rovinare Eva e tutti noi venuti dopo.

2. SETTIMANA D’AMORE FEDELE

Era appunto la domenica di quinquagesima quando a Santa Gertrude apparve Gesù dolorante. Stava in mezzo a due littori ed aveva la testa coronata di spine ed aveva le spalle striate di lividure lunghe e di piaghe rosse come se avessero appena terminato di flagellarlo. La santa ruppe in lagrime a quella visione e domandò se un qualche modo ci fosse per mitigare tanto dolore. E nostro Signor Gesù Cristo le rispose di pregare per i peccatori che nella settimana di carnevale l’avrebbero oltraggiato, ed aggiunse che, dopo morte, quella sua carità sarebbe stata ricompensata con misura buona e soprabbondante. – Anche S. Caterina da Siena, in questi tempi di follie e di peccati, aveva sempre nel cuore l’immagine di Gesù sofferente. Passava la maggior parte della notte in preghiera ed in penitenza, perché in quelle ore in cui il mondo s’abbandona alle orge sfrenate, qualche cuore almeno palpitasse accanto al Dio dei nostri altari. Solo quando la campana del mattutino svegliava le altre suore, ella si concedeva un po’ di sonno contenta perché altre anime avrebbero preso il suo posto. Ricorderò ancora l’esempio di un’altra santa: Santa Ludovina. Da molti anni ammalata e spasimante nel suo letto, una notte udì venir su dalla via un gran rumore di risa e di canti. Domandò che fosse. « E’ il carnevale » le fu risposto. Ed ella pensando a tutte le offese che in quelle ore gli uomini avrebbero commesso contro Dio, esclamò: « Come sono contenta di patire in riparazione! Signore, se una grazia mi vuoi concedere, non è la salute, ma altre malattie ed altri dolori perché io possa riparare di più ». Non crediate che la generazione di queste anime sia esaurita. Pensate alle centinaia di povere suore che queste notti di peccato non dormiranno, e gemeranno genuflesse davanti all’altare, e imploreranno pietà per gli uomini. Pensate a quanti giovani, operai, impiegati, studenti, nelle nostre città passeranno lunghe ore in adorazione e in riparazione. Pensate a quanti ammalati negli ospedali che non potendo dormire offriranno volentieri il loro male e ripeteranno dolci invocazioni d’amore verso Dio. Pensate a quante madri di famiglia, a quante fanciulle, che magari stanche dal lavoro della giornata, vorranno passare qualche ora in preghiera tra le mura della loro casa. Pensate a tutte le anime delicate che in questa settimana moltiplicheranno i digiuni, le mortificazioni, le comunioni per significare a Gesù tutta la forza del loro amore. – E noi, Cristiani, non faremo nulla per consolare il Sacro Cuore?

CONCLUSIONE

Ripeterò a tutti voi, l’esempio e l’esortazione che già S. Ambrogio diede, in principio del carnevale, ai cristiani del suo tempo. L’eroe Ulisse, tornando da Troia conquistata, doveva passare dall’isola delle sirene: di là si levava sempre una canzone affascinante, allettatrice, irresistibile. Ma ogni nocchiero che cedeva alla lusinga di quella musica andava alla rovina; e già la scogliera era tutta bianca di ossa umane. L’astuto eroe per superare la tentazione si fece legare all’albero della nave, e pregò i compagni a non staccarle se non oltrepassato il pericolo. Solo così poté salvarsi e rivedere i fumanti comignoli di Itaca, suo regno e sua dimora. – Cristiani, il carnevale può avere per noi una voce di sirena, irresistibilmente allettatrice: chi cede, va incontro alla bianca scogliera dell’eterna rovina. Leghiamo l’anima nostra all’albero della Croce da cui pende Iddio che muore per la nostra salute; meditiamo il suo gemito, e scamperemo anche noi da ogni pericolo.

PENSIERO DI PASSIONE IN CARNEVALE

Nella Storia sacra si racconta di una città dove le acque erano diventate melmose e imbevibili. Gli abitanti ricorsero al profeta Eliseo, il quale fattosi portare un vaso colmo di sale, lo versò nelle fonti inquinate. Da quel momento le acque rifluirono limpide e potabili (IV Re, II, 19-21). Nel tempo del carnevale le acque del mondo davvero si fanno melmose ed esalano miasmi pestiferi di corruzione. I buoni Cristiani costretti a viverci in mezzo sono in un grave pericolo di contagio, se non ricorrono alla disinfezione. Ed ecco la santa Chiesa imitare il gesto del profeta Eliseo, e con materna preoccupazione versare nelle anime il sale che purifica e preserva. Questo sale è la memoria della Passione di nostro Signore. Essa infatti, proprio in questa domenica [di quinquagesima], ci fa meditare quelle righe di Vangelo in cui Gesù predice agli apostoli la sua crocifissione imminente. Il Maestro andava per la Pasqua a Gerusalemme, e sapeva di fare un viaggio senza ritorno nella sua vita mortale. Lungo la strada prese a parte i Dodici e sollevò a loro il velo che nascondeva la sua prossima fine. « E’ arrivato il momento — diceva — in cui le profezie intorno al Figliuolo dell’uomo debbono avverarsi. Tra poco sarà dato in potere dei Romani: ecco già io vedo che lo scherniscono, gli sputano in faccia, lo flagellano a sangue; dopo averlo flagellato, lo conducono alla morte. Però, non passeranno tre giorni, ed Egli risorgerà ». Di queste misteriose e dolorose previsioni, gli Apostoli non capivano nulla; se qualcosa ne capivano, non volevano crederci, tanto pareva loro orribile. Erano ciechi nell’anima, come lo era nel corpo l’infelice che incontrarono nelle vicinanze di Gerico, a cui Gesù diede la vista con un miracolo. Anche agli Apostoli si sarebbero poi aperti gli occhi a intendere il mistero della croce. Anche i nostri occhi sono stati aperti alla luce della fede. Perciò, in questa domenica che il mondo chiama « grassa » per i piaceri sensuali e le folli allegrie a cui molti s’abbandonano, ripensando alle parole del Signore sulla sua passione, dobbiamo sentirci commossi. Ci deve sgorgare dal cuore la preghiera di S. Agostino: « Signore, fammi sentire tutto il dolore e tutto l’amore che provasti nella tua passione: tutto il dolore per accettare ogni mio dolore quaggiù; tutto l’amore per rifiutare ogni amore mondano ».

.. SENTIRE IL DOLORE DELLA PASSIONE DI GESÙ PER ACCETTARE OGNI NOSTRO DOLORE

a) Sei forse povero?

E’ duro arrabattarsi da mane a sera nella miseria: sempre con l’acqua dei debiti alla gola; assillati dall’affitto da pagare, dalle vesti e dal cibo da provvedere; tremanti per la paura di possibili umiliazioni. Più duro ancora quando tu, o povero, volgendo intorno gli occhi offuscati da tante preoccupazioni, e privazioni, vedi che in una notte sola si può sperperare ciò che a te assicurerebbe un anno di pigione e di riscaldamento: in una veste da ballo o da maschera si può. Impiegare ciò che a te basterebbe per ricoprire decentemente il corpo intirizzito di tutti i tuoi figliuoli; in liquori, dolci e profumi si può irritare uno stomaco già sazio, mentre tu non hai neppure il sufficiente per te e per i tuoi. – Ebbene, bisogna che tu o povero, sappia oltrepassare l’ingiuriosa baldoria del carnevale, e senta di là da essa la sofferenza di Gesù. Il Figlio di Dio, pur essendo padrone dell’universo, ha voluto vivere quaggiù nella povertà: nacque in una stalla; visse lavorando manualmente per trent’anni; durante la vita pubblica, più povero dell’uccello che ha un nido, più povero della volpe che ha una tana, egli non aveva dove posare la testa stanca; sulla croce patì perfino la sete. Col suo esempio volle insegnarti che il valore dell’uomo non è nelle cose che possiede, ma nelle virtù dell’anima; ed in mezzo alla povertà è più facile all’uomo essere ricco di virtù che non in mezzo alle ricchezze.

b) Sei forse malato? o è malato qualcuno dei tuoi cari?

E’ penoso trascinare una vita tra letto e lettuccio, penoso anche aver qualche persona cara malata in casa, o all’ospedale, o al sanatorio. – Risuonano intorno le risa, i canti, i suoni dei gaudenti. Questi hanno salute da sprecare, nei peccati; altri dopo tante preghiere non ottengono neppure quel minimo d’energie che è necessario per non essere di peso al prossimo e a sé nella vita. Ebbene, bisogna che gli ammalati o i loro parenti sappiano oltrepassare la disfrenata allegria carnevalesca, e sentano di là da essa la sofferenza di Gesù. Il Figlio di Dio, pur essendo innocente, ha voluto subire nella sua carne atroci tormenti: i tormenti della flagellazione, della coronazione di spine, della crocifissione. Non aveva membro che non fosse una piaga. Egli scontava per noi i nostri peccati di sensualità. – Noi invece abbiamo sempre qualche cosa di nostro da scontare; e poi sollevando lo sguardo a Lui, sentiamo che ogni nostro dolore non solo ci purifica, ma ci rende più simili a Lui, e quindi partecipi in maniera più grande del suo merito e del suo premio. Qualunque pena sia la nostra, nella passione del Signore trova il suo perché e la sua consolazione.

c) Siamo decaduti dalla nostra dignità, dalla nostra condizione sociale? E’ veramente doloroso; ma pensiamo a Lui disceso dalle altezze del cielo su questa bassa terra piena d’affanni.

d) Gli uomini ci deridono, ci calunniano, ci perseguitano ingiustamente? – E’ dolorosissimo; ma pensiamo a Lui accusato d’aver, in corpo il demonio, di aver sobillato il popolo alla rivolta, d’aver bestemmiato.

e) Ci troviamo soli al mondo, ingannati dagli amici, abbandonati dai parenti, incompresi da tutti? Pensiamo a Lui tradito con un bacio da Giuda, lasciato solo dagli Apostoli che nell’ora della prova, prima dormirono, poi fuggirono, a Lui che gemendo disse questa misteriosa invocazione: « Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

2. SENTIRE NELLA PASSIONE L’AMORE DI GESU PER RIFIUTARE OGNI AMORE MONDANO

Quando S. Agnese fu richiesta in nozze dal figlio del governatore di Roma, si trovò nella drammatica alternativa di rinunciare all’amor di Gesù Cristo o di rinunziare alla vita. Ed ella a tutto rinunziò, anche alla vita, ma non all’amore di Gesù. « Sono già stata promessa — rispose — ad un altro amante ben più eccellente di te. La sua generosità è incomparabile, la sua potenza non conosce limiti, il suo amore non teme sacrifici. Suo padre è Dio, sua Madre è una Vergine; i suoi servi sono gli Angeli; il sole e la luna sono gli ornamenti della sua casa; il suo profumo risuscita i morti, il suo contatto guarisce i malati. A lui solo io conservo la fede. E tu vattene, o sorgente di peccato, o lusinga di morte ». – Se l’anima nostra comprendesse di che amore immenso è stata prevenuta, e quale testimonianza le fu data dal Signore nella sua passione, dovrebbe ripetere le risolute parole di S. Agnese ad ogni profferta peccaminosa di qualsiasi creatura. Nessuna creatura è grande e dolce come Gesù. Nessuno ci può far felici come Gesù. Nessuna ci amò fino alla morte, e alla morte di croce, come Gesù. Perciò quando il mondo coi suoi affetti sensibili, coll’attacco al danaro e alla roba, con i barbagli dell’onore, vorrà affascinarci, noi gli risponderemo con S. Agostino: « Perché tante lusinghe? ciò che io amo è più dolce di ciò che prometti. Mi prometti piaceri carnali? è più piacevole Dio. Mi prometti onori e innalzamenti? è più alto il regno di Dio. Mi prometti inutili e dannose curiosità? solo Dio è verità. Mi prometti amore e felicità? solo Gesù è morto per mio amore ». Vattene dunque, o sorgente di peccato, o lusinga di morte.

CONCLUSIONE

Come è possibile amar Dio, che non si vede? se lo si vedesse!… C’è forse bisogno di veder Dio con gli occhi del corpo per poterlo amare? Non basta sapere che egli esiste, che siamo visti da Lui che non vediamo, che ci è vicino, ci sente, ci ama infinitamente. L’esule relegato in un isola remota in mezzo all’oceano pensa alla sua famiglia lontana, lavora, ed ama. Il pellegrino lontano dalla sua patria, dalla sua casa, cammina ed ama. Il prigioniero, nell’oscura carcere, non vede i suoi cari, eppure ad ogni istante sospira ed ama. – Anche noi pur essendo esuli relegati su questa terra, pellegrini in mezzo alle fugaci illusioni del mondo, prigionieri nella carcere delle cose sensibili, possiamo e dobbiamo amare Dio che adesso non vediamo, che un giorno vedremo a faccia a faccia. Il nostro cuore sia dunque un santuario: arda sempre in esso la lampada del divino amore.

MEDITAZIONI: II settimana dopo l’EPIFANIA

Nella seconda settimana dopo l’Epifania

[A. Carmagnola: “Meditazioni”, vol. I, SEI ed. Torino, 1942]

MEDITAZIONE PER IL LUNEDI.

Sopra la santificazione delle nostre azioni.

Mediteremo sopra la santificazione delle nostre ordinarie occupazioni, e riconosceremo come da essa specialmente dipenda la nostra santificazione, essendo questa la volontà di Dio, avendo a ciò l’esempio di Gesù Cristo e dei Santi, e così insegnandoci la stessa ragione. C’immagineremo il benedetto Gesù, che adempie così perfettamente ognuna delle sue ordinarie azioni da attirare le compiacenze del suo Padre celeste. Lo adoreremo pregandolo di concederci la grazia che possiamo compiere anche noi così perfettamente le nostre consuete occupazioni da meritare la compiacenza sua.

PUNTO 1°.

Volontà di Dio per la nostra santificazione.

Il Signore, chiamandoci a vivere una vita in modo speciale consacrata a Lui e somministrandoci perciò specialissimi aiuti, non l’ha fatto per altro fine se non perché ci facciamo santi. – E per farci santi dobbiamo fare le opere buone. Ma queste buone opere non sono già principalmente le straordinarie e grandi, ma bensì le ordinarie e comuni; poiché, volendo Iddio la santificazione di tutti e non essendo da tutti il compiere opere straordinarie e grandi, nelle buone opere ordinarie e comuni deve star riposta anzitutto la santificazione nostra. È dunque volontà di Dio che noi ci santifichiamo santificando le nostre consuete occupazioni. Potrebbe Egli renderci più facile l’opera della nostra perfezione, dal momento che per essa Egli non vuole altro se non che facciamo bene ciò che abbiamo da fare tutti i giorni? Ricordiamoci bene essere scritto che si chiederà di più da chi ha ricevuto di più. Avendo noi ricevuto la vocazione ed elezione ad una vita perfetta, ed essendo forniti da Dio di tanti aiuti per conseguirla, saremmo ben ingrati se non eseguissimo la volontà di Dio, attendendo seriamente a farci santi col santificare le nostre ordinarie occupazioni.

PUNTO 2°.

Esempio di Gesù Cristo e dei santi.

Gesù Cristo e i santi in generale hanno messo la loro santità nella santificazione delle occupazioni ordinarie convenienti al loro stato e alla loro condizione. Gesù Cristo durante i trent’anni della sua vita privata non fece niente di straordinario agli occhi del mondo; ma dal mattino alla sera attendeva a lavori e ad occupazioni assegnatigli da Maria e da Giuseppe, e il tutto Egli compiva perfettissimamente, mostrando sempre così negli atti esteriori, come nelle disposizioni interiori, quella sublime santità, che era l’oggetto della compiacenza del suo Padre celeste. – Dopo Gesù Cristo non vi furono santi maggiori di Maria e di Giuseppe; ma la loro santità attese massimamente a far bene le azioni comuni e semplici del loro stato. Tutti gli altri santi in generale si sono studiati di santificare le opere consuete della loro vita, facendole in modo che fossero veramente grate a Dio. In ogni occupazione, in ogni atto, in ogni pratica di pietà mettevano la massima cura, come se non avessero mai avuto da compiere e non avessero più da compiere altra azione fuori di quella che compivano. Se adunque Gesù Cristo e i santi col loro esempio c’insegnano a mettere la santità nella perfezione delle nostre consuete azioni, come non ne seguiremo noi l’insegnamento e l’esempio?

PUNTO 3°.

Insegnamento della stessa ragione.

Alla voce della fede, che ci mostra la nostra santità dipendere massimamente dal santificare le ordinarie occupazioni, si aggiunge la voce stessa della ragione. Difatti la ragione ci mostra che a mantenere l’ordine, l’armonia, la pace, in una comunanza di persone è necessario che ciascun membro adempia fedelmente i doveri ordinari del suo stato. Come un orologio non può servire al suo scopo di segnare con precisione il tempo, se ciascuna delle sue ruote non agisce perfettamente, così la vita comune non procede regolata, prospera e soddisfacente se si tralascia anche da pochi di compiere con esattezza i propri ordinari uffici. Il far bene adunque le consuete azioni e i giornalieri esercizi, il compiere nel miglior modo possibile le ordinarie occupazioni e i soliti doveri del proprio stato mantiene l’ordine e la regola, serve efficacemente alla prosperità della vita comune, e giova nel tempo stesso alla propria santificazione, perché chi pratica fedelmente il proprio dovere si fa santo. Persuadiamoci adunque, che la nostra santificazione, come dice S. Bernardo, consiste nel fare le cose comuni, ma non comunemente: communio facere, sed non communiter.

 

MEDITAZIONE PER IL MARTEDÌ.

Sopra le qualità delle nostre azioni.

Mediteremo sopra le qualità, che devono avere le nostre ordinarie e comuni azioni, perchè siano santificate e abbiano merito, e cioè siano tali che piacciano a Dio, rassomiglino a quelle di Gesù Cristo, edifichino il prossimo. C’immagineremo che Gesù c’inviti a farci santi col dirci: Siate santi, perché Io sono santo: Sancti estote, quia ego sanctus sum (Lev., XI, 44). – Prostrandoci in ispirito ai suoi piedi e adorandolo gli prometteremo di seguire il suo invito col cominciare a fare santamente tutte quante le nostre azioni. Preghiamolo di benedire la nostra promessa.

PUNTO 1°.

Le nostre azioni piacciano a Dio.

A santificare le nostre ordinarie occupazioni è necessario anzitutto attendere ad esse per piacere a Dio, non già per piacere a noi o agli uomini, non hominibus placentes, sed in simplicitate cordis… ex animo… sicut Domino (Col., IIII, 22), vale a dire con la massima semplicità e rettitudine d’intenzione. Gesù Cristo dice: Se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà lucido; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso (MATTH., VI, 22, 23). Quest’occhio è la nostra intenzione nelle occupazioni cui attendiamo. Se essa è semplice, pura, diritta, ha di mira cioè di far piacere a Dio e glorificarlo, tutte le occupazioni nostre saranno lucide, vale a dire, belle e buone e sante; ma se al contrario la intenzione nostra è cattiva, ha di mira cioè o la soddisfazione del nostro amor proprio, o il guadagno della stima altrui, o l’acquisto della riputazione e della lode dei nostri superiori, o qualche altro fine umano, tutte le nostre occupazioni saranno tenebrose, vale a dire prive affatto del carattere della santità e senza alcun merito. E ciò anche allora che le nostre occupazioni fossero le più grandi e le più nobili per sé. Oh quanto importa adunque che nelle nostre occupazioni non abbiamo mai altro di mira che fare il gusto di Dio e ottenere la sua glorificazione, giacche da ciò anzitutto dipende la santificazione delle opere nostre!

PUNTO 2°.

Le nostre azioni siano simili a quelle di Gesù Cristo.

Volendo noi santificare davvero le nostre azioni, oltre al compierle con retta intenzione, dobbiamo modellarle sul nostro divino Maestro Gesù. Egli si pose davanti a noi come l’esemplare da riprodurre. Ha voluto perciò compiere tutte le azioni più ordinarie e comuni per mostrarci come in tutto e per ogni dove si può essere santi. Ha lavorato, ha pregato, ha conversato, ha riposato; si è recato nel tempio, è andato per le strade e per le piazze, è stato nella solitudine e nella società, ha insegnato, ha predicato, si è occupato dei gravi affari che riguardavano il suo Padre celeste, si è assoggettato persino a mangiare, a bere, a dormire, a starsene in famiglia, a obbedire a Maria e a Giuseppe, e di poi a convivere con i suoi discepoli e servirli ben anche. Quindi sembra dirci: Guardate le mie azioni, fatele con quello spirito, con cui le ho fatte io, e le santificherete tutte. E lo spirito era di compiere in tutto e per tutto la volontà del mio Divin Padre. Questo invito di Gesù Cristo come fu bene seguito dai Santi! S. Vincenzo de’ Paoli, fra gli altri, in ogni sua occupazione si domandava: Come si comportava Gesù in quest’opera? Come farebbe in vece mia? Ah! caro Maestro, quanto purtroppo mi sono allontanato finora dai vostri insegnamenti e dai vostri esempi! Quante volte anziché operare per fare la volontà di Dio, ho operato per impulsi istintivi, mosso unicamente dall’utile o dal piacere, intento solo a fare la mia volontà! Fate, o mio amato Gesù, che d’ora innanzi io non abbia più a perdere così malamente il frutto delle mie fatiche.

PUNTO 3°.

Le nostre azioni edifichino il prossimo.

Per santificare le nostre ordinarie azioni dobbiamo compierle in modo che riescano di edificazione al prossimo. Gesù Cristo ha detto chiaro che la luce nostra deve risplendere dinanzi agli uomini, affinché vedano esser le nostre opere buone e glorifichino il Padre nostro che sta nei cieli (MATTH., V, 16). Con le quali parole il nostro divino Maestro ci impone l’obbligo di dare in tutto buon esempio, epperò anche nelle nostre ordinarie e consuete occupazioni, affinché anche questo buon esempio stimoli i nostri prossimi a seguirlo e li spinga a onorare anch’essi il Signore. Che se questo buon esempio nelle proprie occupazioni è obbligatorio per tutti i cristiani, quanto più si impone a coloro che si sono consacrati a Dio nella professione religiosa! Essi non solo devono nelle loro ordinarie azioni edificare i loro fratelli, ma altresì gli uomini del mondo, e massimamente i loro discepoli e alunni che tengono continuamente gli occhi aperti sulle loro opere e sul modo con cui le compiono. Consideriamo pertanto se a tutto questo badiamo nelle nostre azioni. Indarno pretenderemmo dai nostri discepoli e dipendenti l’adempimento fedele dei loro doveri, qualora noi non li animassimo con l’esempio, adempiendo bene i doveri nostri. Essi per lo meno in segreto ci direbbero che altro comandiamo ed altro facciamo, e che non è giusto volere dagli altri quello che non facciamo prima noi.

MEDITAZIONE PER IL MERCOLEDÌ.

Sopra il modo delle nostre azioni.

Mediteremo sopra il modo di compiere le nostre ordinarie azioni perché siano santificate, che è di farle con diligenza, con sacrificio, con allegrezza. C’immagineremo che Gesù, ci rivolga questa parola: È mia volontà che vi facciate santi: Hæc est voluntas mea, sanctificatio vestra. Questa parola riconosceremo che non è semplice invito, ma formale comando; epperò prometteremo a Gesù di fare d’ora in avanti tutto il possibile per ottemperarvi col santificare le nostre ordinarie occupazioni.

PUNTO 1°.

Le nostre azioni devono farsi con diligenza.

A santificare le nostre ordinarie e comuni azioni è necessario farle con diligenza. Il Signore dichiara maledetto colui che fa le opere di Lui con fraudolenza: maledictus qui facit opus Domini fraudulenter (Jer., XLVIII, 10), e per opere di Dio non dobbiamo intendere soltanto le opere del culto e gli esercizi di pietà, ma tutte quante le nostre occupazioni, perché tutte devono aver di mira la gloria di Dio. Dunque è benedetto solamente colui, che compie le sue occupazioni senza frodare il Signore, senza omettere cioè alcunché della diligenza necessaria a compierle bene. Infatti non possono essere gradite al Signore, epperò santificate, quelle occupazioni cui si attende con svogliatezza, con pigrizia, con noia, oppure in tutta fretta, con precipitazione, fuori del tempo e del luogo assegnato per esse. Eppure quanto è facile cadere in questo mancamento di compiere con negligenza le ordinarie occupazioni! Si metterà forse tutta la diligenza possibile in un’opera particolare, di nostro gusto, ma le occupazioni ordinarie facilmente o si trascurano, o si compiono comunque. Sì, è vero purtroppo, mio Dio; io talora ometto le mie pratiche di pietà e le opere del mio uffizio, o le compio con tanti difetti perché sono pigro, indolente, privo di buona volontà di farmi santo. Aiutatemi voi a scuotermi da questa accidia.

PUNTO 2°.

Le nostre azioni devono farsi con sacrifizio.

A santificare le nostre ordinarie azioni è necessario alla diligenza aggiungere lo spirito di sacrifizio. Il regno de’ cieli, dice Gesù Cristo, si acquista con la forza: regnum cœlorum vim patitur (MATTH., XI, 12); il che significa che solo con lo spirito di sacrificio nelle occupazioni ordinarie potremo santificarci e meritare il paradiso. Vi sono occupazioni che piacciono e occupazioni che dispiacciono. Il compiere le prime con gusto non toglie loro la bontà e il merito se le indirizziamo alla gloria di Dio, anzi quel gusto può essere un soave eccitamento datoci dal Signore a operare il bene. Se però noi le compiessimo unicamente per nostro gusto senza riferirle a Dio, queste occupazioni ancorché gravi, sarebbero puramente umane, epperò  sprecate in riguardo alla vita eterna. Le altre poi che ci dispiacciono, anziché cercare di esserne esonerati, si devono compiere altresì con animo generoso e con abnegazione, ricordando che si lavora per il Signore, il quale premia la buona volontà quando non può premiare la buona riuscita, e per il quale deve tornar leggiera ogni pena,, avendone Egli sofferte tante per noi. È questo lo spirito con cui operi? Forse a certe occupazioni attendi di buon animo, perché soddisfano il tuo amor proprio, e altre ne tralasci o le fai forzatamente, perché gravose o poco appariscenti. Umiliati davanti a Dio e chiedigli maggior generosità.

PUNTO 3°.

Le nostre azioni devono farsi con allegrezza.

A santificare le nostre occupazioni è pur necessario compierle con allegrezza. S. Paolo dice che Iddio ama l’allegro donatore: Hilarem enim datorem diligit Deus (II Cor., I X , 7): e il santo re David ci raccomanda di servire al Signore lietamente: Servite Domino in lætitia (Ps., 99, 2). E come non servire al Signore lietamente, se servire a lui è regnare: Servire Deo regnare est? Sì, il servizio di Dio è regnare, perché chi serve a Dio si unisce con Lui, identifica la sua volontà con la sua, e regna così sopra le sue passioni, sopra il mondo, sopra il demonio. Or ecco ciò che fa chi compie allegramente le sue occupazioni. In esse vede il volere di Dio e vi si sottomette con amore e con gioia, e non già per forza, per timore di rimproveri o castighi, per paura di danno materiale o morale. O anima mia, con questo spirito di santa allegrezza hai sempre compiuto le occupazioni del tuo stato? o non le hai compiute molte volte per sola necessità, per viste umane, come per non avere osservazioni e biasimi, per conservare posto, onori e comodità, per non scapitare nella stima? Se finora hai avuto tali sentimenti nelle tue occupazioni rigettali tosto e lavora soltanto per Iddio.

MEDITAZIONE PER IL GIOVEDÌ.

Sopra la regola delle nostre azioni.

Mediteremo sopra la regola da seguire nelle nostre ordinarie azioni affine di santificarle, che è compiere ciascuna di esse come se fosse l’unica, l’ultima, la più importante da compiere. C’immagineremo che Gesù, sommamente sollecito della nostra perfezione, ci dica quella parola dell’Imitazione: In ogni tua azione e in ogni tuo pensiero dovresti comportati come se subito fossi per morire: Sic te in omni facto et cogitatu deberes tenere quasi statini esses moriturus (7 Imit., XXIII, 1). Benedicendolo e ringraziandolo della sua immensa bontà per noi studieremo il modo di seguirne costantemente il grande avvertimento.

PUNTO 1°.

Fare ogni azione come se fosse l’unica.

Lo Spirito Santo dice che ogni cosa ha il suo tempo: Omnia tempus habent (Eccle., III, 1), e Gesù Cristo ci raccomanda di non darci pensiero per quello che faremo domani, bastando a ogni giorno il suo affanno: Nolite sollieiti esse in crastinum… sufficit diei malitia sua (MATTH., VI, 14). Ora, ottimo mezzo per santificare le ordinarie azioni è mettere in ciascuna di esse tutta la diligenza e l’attenzione, come se quella fosse l’unica azione da compiere. È tempo di pregare? preghiamo come se non avessimo più altro a fare. Attendiamo alla meditazione? Meditiamo come se a questo solo dovessimo attendere. Si lavora, s’insegna, si assiste, si studia? vi si metta tutta la sollecitudine, come se prima non fossimo stati altrimenti preoccupati e come se dopo ogni nostro compito fosse esaurito. A che serve pensare ad altro nel corso di un’occupazione? Che giova richiamare alla mente le occupazioni passate? O bene o male che siano state compiute, non si possono più cangiare. Che vale darsi affanno per le occupazioni, che avremo da compiere in seguito? Non sappiamo neppure se le potremo ancora compiere. Lo spirito così distratto non si applica abbastanza a quello che ora deve fare, e le nostre azioni, mancando la dovuta diligenza, non restano neppure santificate e grate al Signore. Dio ama l’ordine, e quindi gradisce e benedice soltanto ciò che si fa ordinatamente.

PUNTO 2°.

Fare ogni azione come se fosse l’ultima.

Gesù Cristo dice che la morte verrà a noi come un ladro di nottetempo; nulla perciò di più incerto che il momento della morte: dunque essa ci può cogliere non appena terminata l’azione che stiamo compiendo. La prudenza vuole che ci comportiamo in ogni azione come se fosse l’ultima della nostra vita. Beato quel servo del Signore, che Egli, chiamandolo a sé repentinamente, troverà aver compiuta bene l’opera sua: Beatum ille servus quem, cum venerit Dominus eius, invenerit sic facientem (MATTH., XXVI, 46). S. Francesco Borgia raccomandava a’ suoi religiosi di mettersi ventiquattro volte al giorno nella condizione di un uomo che sta per morire e di fare ogni cosa come se subito dopo si dovesse renderne conto a Dio. Il pensiero che la morte ci può cogliere da un momento all’altro, è mezzo efficacissimo a farci rettamente operare in ogni nostra occupazione. Con quanta divozione pregheremmo, se sapessimo essere questa l’ultima nostra preghiera! Con quale fervore faremmo la Comunione, se dopo di essa dovessimo rendere l’anima a Dio! Con quale diligenza attenderemmo a quell’insegnamento, a quell’assistenza, a quel lavoro, se dopo avessimo a presentarci al divin tribunale! Se al mattino un Angelo ci avvertisse che in sulla sera moriremo, come santificheremmo tutta la giornata! come riuscirebbero sante tutte le nostre azioni! – Ebbene, a questo pensate ogni mattino, dice l’Imitazione, che forse non vedrete la sera, ed ogni sera che non arriverete al mattino, e vi regolerete in tutto da santi.

PUNTO 3°.

Fare ogni azione come se fosse la più importante.

A conseguire il paradiso, a sfuggire o a renderci più breve e meno penoso il purgatorio servono tutte quante le nostre azioni, non solo le più appariscenti e straordinarie, ma anche le più piccole e comuni. Ciascuna di esse sarà vagliata da Dio nel suo giudizio, e vagliata in se stessa, nelle sue intenzioni, nelle sue circostanze, nella sua maniera di adempimento, giacche Gesù Cristo c’insegna che anche solo di una parola oziosa da noi profferita dovremo rendere conto nel dì del giudizio: omne verbum otiosum, quod locuti fuerint homines, reddent rationem de eo in die iudicii (MATTH., XII, 36). È dunque sommamente importante ogni nostra azione; bisogna dunque compierla come se da essa dipendesse la nostra eternità felice o infelice, o per lo meno lo stare maggiore o minor tempo in purgatorio a soffrirvi maggiori o minori pene. È dunque sapiente regola di condotta la seguente: agire in ogni nostra opera come se con questa avessimo a stabilire la nostra eternità felice o infelice; come se con essa avessimo a darci tanti anni più o tanti anni meno di purgatorio. Questi gravi pensieri accompagnino ciascuna delle tue azioni. Ogni tua occupazione sarà compiuta con perfezione, e tutte insieme formeranno la tua santificazione quaggiù, la tua felicità eterna in cielo.

MEDITAZIONE PER IL VENERDÌ.

Sopra la vita di lede nelle nostre azioni.

Mediteremo sopra un gran mezzo per santificare le nostre ordinarie occupazioni sia rispetto a Dio, sia rispetto al prossimo, sia rispetto a noi: la vita, di fede. C’immagineremo che Gesù dica anche a noi: In verità vi dico: Se avrete fede quanto un granello di senapa, potrete dire a questo monte: passa da questo a quel luogo e passerà, e nessuna cosa sarà a voi impossibile (MATTH., XVII, 19); come per dirci: se un po’ di vera fede fa compiere dei miracoli, quanto più il vivere di fede vi aiuterà a santificare le vostre ordinarie occupazioni! Ringrazieremo Gesù della bontà che ci mostra con questo ammaestramento, e gli prometteremo di seguirlo fedelmente.

PUNTO 1°.

La vita di fede ci aiuta rispetto a Dio.

L’apostolo dice che l’uomo giusto vive di fede. Se l’uomo vizioso vive vita brutale, se l’uomo naturalmente onesto vive vita umana, l’uomo giusto vive vita divina, perché in tutto ciò che pensa, dice, opera, egli segue i dettami della fede soprannaturale. Così visse il patriarca Abramo, di cui S. Giacomo dice che la fede serviva mirabilmente alla santificazione delle sue operazioni: fides cooperabatur operibus illius (Jac, II, 22). Giova anzitutto prendere la fede come regola di quelle occupazioni che si compiono rispetto a Dio. Mercé la fede, nel pregare crederemo che Dio è presente, che ascolta con piacere le nostre preghiere, che fedele alle sue promesse certamente le esaudirà nel modo per noi più vantaggioso; nel fare la meditazione saremo persuasi che Dio ci guarda amorosamente, che si degna farci da maestro, che ci parla al cuore; nella lettura spirituale ci parrà che Dio stesso dall’alto de’ cieli ci invii le sue lettere per farci conoscere i suoi voleri. Mediante la fede, nella confessione vedremo il sangue preziosissimo del Redentore, che discende a lavare le anime nostre, e nel confessore chi tiene le veci di Gesù Cristo e ci dirige a suo nome nella via della virtù e della santità; nella Comunione gusteremo l’unione intima di Gesù con noi; nelle visite al SS. Sacramento scorgeremo Dio presente con le mani piene di grazie per distribuircele. Insomma la fede c’infonderà raccoglimento, divozione, fervore, tutto ciò che è necessario per fare santamente ogni pratica di pietà.

PUNTO 2°.

La vita di fede ci aiuta rispetto al prossimo.

La vita di fede serve a farci compiere santamente le azioni, che riguardano il prossimo, siano i nostri superiori, i nostri eguali, i nostri inferiori. Nei rapporti coi superiori, la vita di fede ci farà pensare a quelle parole di Gesù Cristo: Qui vos audit, me audit: chi ascolta i superiori, ascolta me ( Luc., X, 16); e nella volontà dell’uomo ci farà riconoscere il volere espresso di Dio. Nei rapporti con i fratelli, la vita di fede ci metterà innanzi l’esempio di Gesù Cristo, che per tre anni soffre con pazienza i difetti degli apostoli, trattandoli sempre con la massima carità. Nei rapporti con inferiori, la vita di fede ci ridurrà alla mente l’asserzione del divin Redentore: Quod uni ex minimis meis fecistis, mihi fecistis, ciò che avrete fatto ad uno dei miei meschini, lo avrete fatto a me (MATTH, XXV, 40), e ci farà usare dolcezza, carità, compassione vera. Se abbiamo una missione educatrice, la vita di fede ci farà ricordare come Gesù Cristo abbia assicurato che chiunque riceverà un fanciullo in suo nome e ne avrà cura, sarà lo stesso come se avesse ricevuto Lui e di Lui si fosse preso cura, e facendoci vedere in quell’anima lo stesso Gesù ci indurrà a trattarla con tutto l’affetto e con tutto il rispetto che Gesù stesso si merita. Così la vita di fede, nel trattar col prossimo per fargli del bene, sempre c’insegnerà che la carità, ancorché esercitata verso gli uomini, è tuttavia virtù teologale, che riguarda lo stesso Iddio. Come santamente adunque noi adempiremo i nostri uffici vivendo vita di fede!

PUNTO 3°.

La vita di fede ci aiuta rispetto a noi.

La vita di fede giova mirabilmente a rendere sante tutte quante le altre operazioni, fatte per noi stessi, fuori delle pratiche di pietà e delle relazioni coi prossimo. Sia che ci applichiamo agli studi o al lavoro, sia che attendiamo ad una lettura o ad uno svago, sia che stiamo da soli nella nostra stanza o usciamo al passeggio, sia che mangiamo, beviamo, dormiamo o facciamo qualsiasi altra cosa, la vita di fede santificherà sempre queste nostre operazioni, ancorché indifferenti, basse e vili, e le renderà meritorie e degne di premio eterno. Perciocché la vita di fede ci mostrerà sempre Iddio presente al nostro operare e ci farà indirizzare sempre a Lui ogni nostra azione e ci darà animo a compierla nel debito modo. E non sarà mai che le nostre operazioni si compiano solo per umani riguardi, per cattivarci la stima degli uomini, o per sola educazione, e neppure per onestà naturale. La vita di fede ci farà compiere ogni nostra più ordinaria azione con la mente fissa in Dio, per suo amore e per la sua gloria. Risolviamoci adunque per questa vita, che è mezzo così potente a santificarci, sicché ciascuno di noi possa essere davvero il giusto del Signore, che vive di fede: Justus autem meus ex fide vivit (Hebr., XIX, 38).

MEDITAZIONE PER IL SABATO.

Sopra l’eccellenza della vita interiore.

Mediteremo sopra tre grandi vantaggi delle nostre azioni santificate dalla vita di fede e dall’amor di Dio, che sono l’acquisto di grandi meriti, l’unione con Dio, la ricompensa eterna. C’immagineremo che Gesù nel dì della nostra morte venga incontro a noi per dirci quella dolcissima parola: Bene sta, servo buono e fedele! Perché sei stato fedele nel poco, io ti costituirò sopra il molto: entra nel gaudio del tuo Signore: Euge. serve bone et fidelis, quia in pauca fuisti fidelis super multa te constituam: intra in gaudium Domini tui (MATTH., XXV, 21, 23). In questo consolante pensiero adoreremo il nostro Divin Salvatore e Giudice e ci conforteremo nella pratica di santificare tutte quante le nostre azioni.

PUNTO 1°.

Primo vantaggio: acquisto di grandi meriti.

Anche le opere nostre più grandi, quali sarebbero convertire molte anime o sacrificare la vita, di loro propria natura non avrebbero alcun valore, se non fossero fatte con spirito di fede e per amor di Dio; solo in tal modo si arricchiscono dei meriti infiniti di Gesù Cristo e si rendono degne del paradiso. Ma per acquistare tali meriti non è necessario compiere opere straordinarie: basta fare bene le azioni ordinarie e comuni, poiché le nostre azioni diventano meritorie non per la grandezza loro, ma per la grandezza della carità con cui si fanno. La povera vedova mise nel gazofilaccio due piccole monete, mentre molti ricchi vi gettavano denaro in copia; eppure Gesù disse che quella donna aveva dato più di tutti (MARC., XII, 41, 43); e ciò perché la sua piccola offerta era accompagnata dalla carità, il che non era delle offerte vistose degli altri. Gesù ha detto ancora che chiunque avrà dato un bicchier d’acqua fresca ad un poverello per suo amore non resterà senza ricompensa (MATTH., X, 42). Ecco dunque che, pur passando la vita in occupazioni ordinarie e comuni, noi possiamo farci grandi meriti. Se non ti vedi o non sei ritenuto capace di fare cose grandi, tu, compiendo per amor di Dio il tuo umile ufficio, compiendolo anche per anni interi senza crescere di onore e di grado, potrai nella tua ordinaria occupazione farti meriti senza numero per la beata eternità e forse di gran lunga maggiori che se ti fossi applicato a opere più ammirande. Opera per Iddio e conforme al suo volere, e i tuoi giorni saran pieni di tesori celesti.

PUNTO 2°.

Secondo vantaggio: unione con Dio.

L a santificazione delle nostre ordinarie occupazioni ci procaccia la più bella felicità della vita presente, che è di unirci a Dio. L’anima che vuole davvero sante le sue azioni, nutre di Dio la mente, perché offre a Lui tutto quello che fa; ha pieno di Dio il cuore, perché opera per suo amore e per la sua gloria; ha gli stessi suoi sensi compenetrati di Dio, perché li immola nella mortificazione a Lui; vive in Dio e per Iddio e con Dio, perché vive nella sua carità. Oh paradiso anticipato! L’anima intenta a santificare le sue azioni comuni e consuete può dire continuamente a se stessa: Sono in compagnia di Dio, sotto la protezione di Dio, tra le braccia di Dio. Anche nelle occupazioni, che richiedono fatica e sacrificio, il pensiero e l’affetto di questa anima essendo tutto in Dio, da Dio riceve forza, consolazione e gaudio. Ella si ripete allora le parole di Davide: Il Signore è alla mia destra perché io non mi turbi, epperò il mio cuore gode una grande allegrezza: A dextris est mihi, ne commovear, propter hoc lætatum est cor meum, (Ps., XV, 8, 9). O mio caro Gesù, datemi di esperimentare questa felicità coll’aiutarmi a santificare tutte le mie ordinarie occupazioni.

PUNTO 3°.

Terzo guadagno: la ricompensa eterna.

Il Signore promette la ricompensa alle nostre ordinarie occupazioni, che avremo santificate facendole per lui. Nel libro della Sapienza è detto che il Signore rende ai giusti la mercede delle loro fatiche (Sap., X, 17). S. Paolo ci assicura che Iddio renderà a ciascuno secondo le opere sue (Rom., II, 6), e lo stesso Gesù Cristo nel Vangelo ci fa sapere con la parabola dei talenti, dati da un padrone a trafficare a’ suoi servi, che ci ricompenserà di quanto di bene avremo fatto secondo la nostra attitudine, la quale è quella riconosciuta dai nostri superiori nelle occupazioni da loro assegnateci. Chi promette, qui, è Iddio, vale a dire, Colui che non vien meno mai alla sua parola e che premia sempre, non in conformità alla pochezza delle nostre azioni, ma secondo la sua infinità bontà e magnificenza. E la ricompensa che ci darà, sarà la gloria e la beatitudine eterna! Oh mio Dio! per qualche po’ di attenzione nel pregare, nel meditare, nell’udire una lettura, una predica, per un po’ di fervore nel fare la Comunione e la visita al SS. Sacramento, per un po’ di umiltà nel sottomettermi all’ufficio assegnatomi dall’obbedienza e per un po’ di diligenza nel compierlo, per un po’ di fatica, di sacrificio, di abnegazione nel fare lavori difficili e di poca apparenza avrò un onore immortale e un gaudio senza fine! Oh, ripeterò dunque spesso le parole di S. Francesco d’Assisi: Tanto è il bene che m’aspetto, che ogni pena mi è diletto.

ALLEANZA DI CRISTO E DELLA CHIESA

ALLEANZA DI CRISTO E DELLA CHIESA

[Dom P. Guéranger: l’Anno Liturgico, vol. I, Ed. Paoline, 1957 – impr.]

Il grande Mistero dell’Alleanza del Figlio di Dio con la sua Chiesa universale, rappresentata nell’Epifania dai tre Magi, fu intravisto in tutti i secoli che precedettero la venuta dell’Emmanuele. Dapprima lo fece risuonare la voce dei Patriarchi e dei Profeti, e la stessa Gentilità vi rispose spesso con un’eco fedele. – Fin dal giardino delle delizie, Adamo innocente esclamava, alla vista della Madre dei viventi uscita dal suo costato: « Ecco l’osso delle mie ossa, la carne della mia carne: l’uomo lascerà il padre e la madre, e si unirà alla propria sposa: e saranno due in una sola carne ». La luce dello Spirito Santo penetrava allora l’anima del nostro progenitore; e – secondo i più profondi interpreti dei misteri della Scrittura, Tertulliano, sant’Agostino, san Girolamo – celebrava l’Alleanza del Figlio di Dio con la Chiesa, uscita attraverso l’acqua e il sangue dal suo costato squarciato sulla croce; con la Chiesa, per il cui amore egli discese dalla destra del Padre, e umiliandosi fino alla forma di servo, sembrava aver lasciato la Gerusalemme celeste per abitare in mezzo a noi in questa dimora terrena. – Il secondo padre del genere umano, Noè, dopo aver visto l’arcobaleno che annunciava nel cielo il ritorno dei favori di Dio, profetizzò sui suoi tre figli l’avvenire del mondo. Cam aveva meritato la disgrazia del padre; Sem sembrò per un momento il preferito: era destinato all’onore di veder uscire dalla sua stirpe il Salvatore della terra; tuttavia il Patriarca, leggendo nell’avvenire, esclamò: « Dio allargherà l’eredità di Jafet, ed abiterà sotto le tende di Sem ». E così vediamo a poco a poco nel corso dei secoli l’antica Alleanza con il popolo d’Israele indebolirsi e quindi rompersi; le stirpi semitiche vacillare e presto cadere nell’infedeltà, e infine il Signore abbracciare sempre più strettamente la famiglia di Jafet, la gentilità occidentale, così a lungo abbandonata, porre per sempre nel suo seno la Sede della religione, e costituirla a capo di tutta la specie umana. – Più tardi, è Dio stesso che si rivolge ad Abramo, e gli predice l’innumerevole generazione che deve uscire da lui. « Guarda il cielo – gli dice – conta le stelle, se puoi: così sarà il numero dei tuoi figli ». Infatti – come ci insegna l’Apostolo – la famiglia uscita dalla fede del Padre dei credenti doveva essere più numerosa di quella ch’egli aveva generata attraverso Sarà; e tutti quelli che hanno ricevuto la fede del Mediatore, tutti quelli che, avvertiti dalla Stella, sono venuti a lui come al loro Signore, tutti questi sono figli di Abramo. – Il mistero compare ancora nel seno stesso della sposa di Isacco. Essa sente intimorita due figli combattersi nelle sue viscere. Rebecca allora si rivolge al Signore, e si sente rispondere: « Due popoli sono nel tuo seno: essi si attaccheranno l’un l’altro; il secondo sopraffarrà il primo, e il maggiore servirà il minore ». Orbene, il minore, questo figlio indomito, chi è – secondo l’insegnamento di san Leone e del Vescovo d’Ippona – se non quel popolo gentile che lotta con Giuda per avere la luce, e che, semplice figlio della promessa, finisce con l’avere la meglio sul figlio secondo la carne? – Ora è Giacobbe che, sul letto di morte, circondato dai suoi dodici figli, padri delle dodici tribù d’Israele, affida in maniera profetica a ciascuno il suo compito nell’avvenire. Il preferito è Giuda, perché egli sarà il re dei fratelli, e dal suo sangue glorioso uscirà il Messia. Ma l’oracolo finisce per essere tanto terribile per Israele quanto consolante per tutto il genere umano. « Giuda, tu reggerai lo scettro; la tua stirpe sarà una stirpe di re ma soltanto fino al giorno in cui verrà Colui che deve essere mandato, Colui che sarà l’atteso delle genti ». – Dopo l’uscita dall’Egitto, quando il popolo d’Israele entrò in possesso della terra promessa, Balaam esclamava, con lo sguardo rivolto verso il deserto popolato delle tende e dei padiglioni di Giacobbe: « Io lo vedrò, ma non ancora; lo contemplerò, ma più tardi. Una Stella uscirà da Giacobbe; un reame si leverà in mezzo a Israele ». Interrogato ancora dal re infedele, Balaam aggiunse: « Oh, chi vivrà ancora quando Dio farà queste cose? Verranno dall’Italia su delle galee, sottometteranno gli Assiri, devasteranno gli Ebrei, e infine essi stessi periranno ». Ma quale impero costituirà questo impero di ferro e di carneficine? Quello di Cristo che è la Stella, e che è il solo Re per sempre. – David è pregno dei presentimenti di quel giorno. Ad ogni pagina celebra la regalità del suo figlio secondo la carne; ce lo mostra armato di scettro e cinto di spada, consacrato al padre dei secoli e nell’atto di estendere il suo dominio dall’uno all’altro mare; quindi conduce ai suoi piedi i Re di Tarsi e delle isole lontane, i Re d’Arabia e di Saba, i Principi d’Etiopia. E celebra le loro offerte d’oro e le loro adorazioni. – Nel suo meraviglioso epitalamio, l’autore del Cantico dei Cantici passa quindi a descrivere le delizie dell’unione celeste dello Sposo divino con la Chiesa; e questa Sposa fortunata non è la Sinagoga. Cristo la chiama per incoronarla; ma la sua voce si rivolge a colei che era al di là dei confini della terra del popolo di Dio. « Vieni – egli dice – mia sposa, vieni dal Libano; scendi dalle vette di Amana, dalle alture di Samir e d’Ermon; esci dagli impuri rifugi dei draghi, lascia le montagne abitate da leopardi ». E la figlia del Faraone non teme di dire: « Sono nera», perché può aggiungere che è stata resa bella dalla grazia del suo Sposo. – Si leva quindi il Profeta Osea, e dice in nome del Signore: « Ho scelto un uomo, e d’ora in poi non mi chiamerà più Baal. Toglierà dalla sua bocca il nome di Baal, e non se ne ricorderà più. Mi unirò a te per sempre, o uomo nuovo! Seminerò la tua stirpe per tutta la terra; avrò pietà di colui che non aveva conosciuto la misericordia; a quello che non era il mio popolo dirò: Popolo mio! E mi risponderà: Dio mio! ». – Anche Tobia a sua volta profetizzò eloquentemente, dal seno della cattività, ma la Gerusalemme che deve ricevere i Giudei liberati da Ciro scompare ai suoi occhi, alla visione d’un’altra Gerusalemme più splendente e più bella. « I nostri fratelli che sono dispersi – egli dice – ritorneranno nella terra d’Israele; la casa di Dio sarà ricostruita. Tutti quelli che temono Dio verranno a rifugiarvisi; anche i Gentili lasceranno i loro idoli, e verranno a Gerusalemme, e vi abiteranno, e tutti i re della terra accorsi per adorare il Re di Israele vi fisseranno contenti la loro dimora ». E se le genti debbono essere frantumate nella giustizia di Dio per i loro delitti, è solo per arrivare quindi alla felicità d’una alleanza eterna con Dio. Perché ecco quanto Egli stesso dice per bocca del suo Profeta Sofonia: « La mia giustizia sta nel radunare le genti e riunire in fascio i regni; ed affonderò su di esse la mia indignazione e il fuoco della mia ira; e tutta la terra ne sarà divorata. Ma poi darò ai popoli una lingua eletta, affinché invochino tutti il Nome del Signore, e portino tutti insieme il mio giogo. Fino al di là dei fiumi dell’Etiopia essi m’invocheranno, e i figli delle mie stirpi disperse verranno a portarmi degli splendidi doni ». – Il Signore aveva già proclamato i suoi oracoli di misericordia per bocca di Ezechiele: « Un solo Re comanderà a tutti, dice Dio, non vi saranno più due nazioni nè due regni. Essi non si contamineranno più coi loro idoli; nei luoghi stessi dove hanno peccato, Io li salverò; e saranno il mio popolo, e io sarò il loro Dio. Non vi sarà più che un solo Pastore per tutti loro. Farò con essi un’alleanza di pace, un patto eterno; li moltiplicherò, e il mio santuario sarà per sempre in mezzo ad essi ». – Per questo Daniele, dopo aver predetto gli Imperi che l’Impero Romano doveva sostituire, aggiunge: « Ma il Dio del cielo susciterà a sua volta un Impero che non sarà mai distrutto, e il cui scettro non passerà a nessun altro popolo. Questo impero sorpasserà tutti quelli che l’hanno preceduto, e durerà in eterno ». – Quanto ai perturbamenti che devono precedere l’avvento del Pastore unico e di quel santuario eterno che deve sorgere nel centro stesso della Gentilità, Aggeo li predice in questi termini: « Ancora un poco, e scuoterò il cielo, la terra e il mare; mescolerò tutte le genti; e allora verrà il Desiderato di tutte le genti ». Bisognerebbe citare qui tutti i Profeti per dare la rappresentazione completa del grande spettacolo promesso al mondo dal Signore il giorno in cui, ricordandosi dei popoli, doveva chiamarli ai piedi del suo Emmanuele. – La Chiesa ci fa ascoltare Isaia nell’Epistola della Festa e il figlio di Amos ha superato i suoi fratelli. Se ora prestiamo l’orecchio alle voci che salgono verso di noi dal seno della Gentilità, sentiamo quel grido d’attesa, l’espressione di quel desiderio universale che avevano annunciato i Profeti ebrei. La voce delle Sibille ridestò la speranza nel cuore dei popoli, e perfino nel cuore della stessa Roma il Cigno di Mantova (P. Virgilio M.) consacra i suoi versi più belli a riprodurre i loro consolanti oracoli: « È giunta – egli dice – l’ultima era, l’era predetta dalla Vergine di Cuma; sta per aprirsi una nuova serie di anni, e una nuova stirpe scende dal cielo. Alla nascita di questo Bambino, l’età del ferro finisce, e un popolo d’oro si appresta a scoprire la terra. Saranno cancellate le tracce dei nostri delitti, e svaniranno le paure che opprimono il mondo ». – E come per rispondere con sant’Agostino e tanti altri santi Dottori ai vani scrupoli di coloro che esitano a riconoscere la voce delle tradizioni antiche che si manifesta per bocca delle Sibille, Cicerone, Tacito, Svetonio, filosofi e storici gentili vengono ad attestarci che il genere umano, ai loro tempi, aspettava un Liberatore; che questo Liberatore doveva uscire non soltanto dall’Oriente, ma dalla Giudea; che erano sul punto di avverarsi i destini d’un Impero che doveva contenere il mondo intero.

NOME DI GESU’

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, vol. II; S.E.I. Torino, 1930]

1. Che cosa significa il nome di Gesù. — 2. Il nome di Gesù annunziato dai profeti. — 3. Grandezza del nome di Gesù. — 4. Il nome di Gesù è prezioso. — 5. Bisogna invocare sovente il santo nome di Gesù.

– 1. CHE COSA SIGNIFICA IL NOME DI GESÙ. — Il nome di Gesù vuol dire Salvatore e Redentore. « Nella lingua ebraica, scrive Sant’Epifanio, Gesù significa colui che guarisce, ovvero medico e salvatore ». L ‘ Angelo Gabriele dà egli medesimo questo senso al nome di Gesù, quando dice a Giuseppe che non tema di prendere in sposa Maria: poiché quello che è nato in Lei le viene dallo Spirito Santo. « Essa partorirà un figlio e lo chiamerai Gesù, perché libererà il suo popolo dai suoi peccati » — Vocabis nomen eius Iesum ipse enim salvum faciet populum suum a peccatis eorum ( MATTH. 1, 20-21). « Non si dà salute in nessun altro, predicava S. Pietro, se non in Gesù di Nazareth, e non è dato in terra agli uomini altro nome, in virtù del quale possano essere salvi » — Non est in alio aliquo salus. Nec enim aliud nomen est sub cœlo datum hominibus in quo oporteat nos salvos fieri (Act. IV, 12). « Il mio nome, è nuovo », dice il Signore nell’Apocalisse: — Nomen meum novum (III, 12). Il nome al quale qui si accenna è quello di Gesù; nome da lui ricevuto nella circoncisione.

– 2. IL NOME DI GESÙ ANNUNZIATO DAI PROFETI. — « Io aspetterò, o Signore, la vostra salute » — Salutare tuum expectabo, Domine (Gen. XLIX, 18), diceva Giacobbe vicino a morire; più esplicito il profeta Abacuc chiamava questa salute col proprio nome, esclamando: « Io mi rallegrerò nel Signore, e tripudierò di gioia in Gesù Dio della mia salute » — Ego autem in Domino gaudebo, et exultabo in Deo Iesu meo ( HABAC. III, 18). « Stillate, o cieli, la vostra rugiada, pioveteci, o nubi, il giusto; si apra la terra e produca il Salvatore » — E orate cœli desuper et nubes pluant Iustum: aperiatur terra et germinet Salvatorem ( ISAI. XLV, 8) andava sospirando Isaia.

-3. GRANDEZZA DEL NOME DI GESÙ. — « Dio ha esaltato il Cristo, scrive il grande Apostolo egli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome: così che al nome di Gesù si piega ogni ginocchio in cielo, in terra, e nell’inferno » — Exaltavit illum et donavit illi nomen quod ut super omne nomen: ut in nomine Iesu omne genu flectatur coelestium, terrestrium et infernorum (Philipp. II, 9-10). Il Padre eterno ha dato al Cristo 1° il nome di Dio e di Figlio di Dio ; ora, i l nome si prende per la cosa che significa; il nome di Dio è dunque Dio stesso, è la divinità. 2° Dio Padre ha dato al Cristo il nome di Gesù, cioè la celebrità e la glorificazione di questo nome, affinché in qualità di Messia e Salvatore, Gesù fosse conosciuto e rinomato e celebrato in tutti i luoghi e per sempre sulla terra, in cielo e nell’inferno. 3° Per la sua umiltà ed obbedienza fino alla morte, Cristo si è meritato il nome di Gesù che è il titolo di Salvatore e di Redentore, e per la morte di croce egli è infatti divenuto il Salvatore e Redentore del mondo. – Il nome di Gesù è al disopra di ogni altro nome, e non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale possano essere salvi; perché il nome di Gesù è il nome proprio del Verbo incarnato. Quindi il nome di Gesù rappresenta tutta l’economia della Incarnazione del Verbo e della Redenzione, nelle quali più che in tutte le altre opere divine spiccano unite la sapienza e la potenza, la bontà e la maestà di Dio, con tutti gli altri suoi attributi. Chi è infatti Gesù Cristo, se non la suprema maestà, il sommo amore, per mezzo del quale ci vengono e ci sono date la salute, la gloria, tutti i beni del corpo e dell’anima, tanto in questa che nella futura e beata vita, per tutta l’eternità! Da ciò ne segue che il nome di Gesù è in modo assoluto più grande, più santo, più venerabile che non il nome stesso di Jehovah. E la ragione fondamentale sta in ciò, che Jehovah significa Dio, in qualità di Signore e Creatore, mentre Gesù indica Dio, in qualità di Salvatore e Redentore. – Ora, siccome il benefizio e l’opera della redenzione stanno molto al di sopra, per ciò che è di eccellenza intrinseca e di vantaggio all’umanità, all’opera e al benefizio della creazione, così il nome di Gesù o Salvatore vince in grandezza e santità e venerabilità il nome sacro di Iehovah, ossia Creatore. – Perciò la Chiesa canta nella sua liturgia, che la nascita dell’uomo a nulla avrebbe giovato senza la redenzione: — Nil nasci profuit, nisi redemi profuisset (In benedici. Cerei pasch.). Inoltre il nome di Dio Redentore racchiude il nome di Dio Creatore, mentre questo non contiene quello; essendo evidente che la redenzione presuppone la creazione, e la creazione non porta con sé di necessità, la redenzione. Il nome di Jehovah dice: Colui che è, ed è il nome appunto con cui Dio chiamò se stesso quando volle manifestarsi a Mose: « Io sono colui che sono » — Ego sum qui sum (Exod. III, 14). Il nome di Gesù dice Colui che crea e salva quelli che sono perduti, che li giustifica,  vivifica, beatifica, e divinizza. Jehovah è il principio e la sorgente dell’essere; Gesù è il principio e la sorgente della grazia, della salute, della gloria. Jehovah è il vincitore, il soggiogatore di Faraone e dell’Egitto; Gesù è il trionfatore del demonio e dell’inferno. Jehovah è il legislatore dei Giudei, l’autore dell’antico Patto; Gesù è il legislatore di tutti i cristiani, l’autore del nuovo Testamento. Jehovah guida gli Ebrei nel paese di Canaan a traverso del mar Rosso; Gesù ci conduce al cielo a traverso i flutti del suo sangue, nel quale siamo battezzati e lavati. Ecco perché i pii fedeli chinano il capo o genuflettono pronunziando il nome di Gesù, il che non fanno a l proferirsi il nome di Jehovah. Chi oltraggia o bestemmia il nome di Gesù, pecca più gravemente che chi insulta e strapazza il nome di Dio. Difatti il nome di Gesù è il nome proprio del Verbo incarnato e contiene e sopravanza tutti gli altri nomi del Cristo; di modo che è un nome superiore a tutti gli altri nomi: — Nomen quod est super omne nomen. — Bisogna dunque che al nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio, in cielo, in terra e nell’inferno: — In nomine Iesu omne genuflectatur. cœlestium, terrestrium et infernorum. — Ogni ginocchio deve piegarsi al nome di Gesù, cioè tutti gli esseri dotati, d’intelligenza devono adorare questo santo nome… Il cielo riverisce e adora il nome di Gesù, perché in virtù di questo nome gli Angeli furono confermati in grazia e in gloria. La terra lo riverisce e adora, perché a questo nome essa deve il suo riscatto e la sua salute. L’inferno freme udendolo pronunziare e lo rispetta, perché chi lo porta è il vendicatore delle leggi divine, il giudice ed il padrone dei demoni e dei reprobi. « Ogni lingua confessi, continua S. Paolo, che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre » — Omnis lingua confìteatur quia Dominus Iesus Christus in gloria est Dei Patris (Loc. cit. 12). Queste parole denotano che, come Dio, Gesù ha l’essenza, la gloria, la maestà, la potenza del Padre e che, come uomo, fu collocato alla destra di Dio Padre ed elevato al di sopra di tutti gli uomini e di tutti gli Angeli; che partecipa così da vicino ed in sì alta misura alla gloria del Padre, che si può dire con tutta ragione che Egli è nella medesima gloria, ed infinitamente meglio di tutti gli Angeli e di tutti i santi che, ciascuno a suo modo, si trovano pure nella gloria di Dio Padre. – Non dimentichiamo mai l’esortazione di S. Paolo ai Tessalonicesi: « Il nome di Gesù Cristo sia reso chiaro e glorioso in voi e voi in esso, mediante la grazia del nostro Dio, e del Signore Gesù Cristo » — Clarifìcetur nomen Domini nostri Iesu Christi in vobis, et vos in ilio secundum gratiam Dei nostri, et Domini Iesu Christi ( I I Thess. I , 12).

– 4. IL NOME DI GESÙ È PREZIOSO. — O nome benedetto, esclama S. Bernardo, olio prezioso sparso in tutti i luoghi! È già da gran tempo che questo nome è venerato in cielo, nella Giudea, e di là in tutta la terra! La Chiesa innalza la voce da un capo all’altro del mondo e dice: Il vostro nome, o Gesù, è olio dolce e soave, sparso dappertutto e largamente sparso; esso non si dilata solamente per il cielo e per la terra, ma penetra perfino negli inferni; tanto che al nome di Gesù si piega ogni ginocchio in cielo, in terra, e nell’inferno. Ah sì! ogni lingua confessi e dica che il vostro nome è olio delizioso largamente sparso in ogni luogo (Serm. XV in Cant.). L’olio, continua il medesimo Padre, splende, nutrisce, conforta. E esca al fuoco, cibo al corpo, lenimento al dolore; serve di luce, di alimento, di rimedio. Vedete ora come simili effetti produce il nome di Gesù. Annunziato, illumina; meditato, nutrisce; invocato, solleva e guarisce. Studiamo ad una ad una queste meraviglie: donde credete che abbia potuto uscire, per spandersi sull’universo, così improvvisa e così splendida la luce della fede, se non da Gesù rivelato, annunziato, predicato? Non è forse per mezzo dello splendore di questo nome, che Dio ci ha chiamati all’ammirabile sua luce? Illuminandoci, ha fatto splendere ai nostri occhi la sua luce, nella luce che spandeva il nome di Gesù. Con ragione dice S. Paolo: Altre volte voi eravate tenebre, al presente siete luce nel Signore. Il nome di Gesù non è solamente luce, ma anche cibo. E infatti non vi sentite voi rinvigorire quando richiamate alla mente questo prezioso nome? Quale pensiero mi sostiene più di questo? quale ricordo rinfranca di più i sensi, affranti dall’esercizio e dal lavoro? che cosa vi è che più rassodi le virtù, mantenga i casti affetti, rinsaldi i buoni e onesti costumi? Arido e insipido è ogni cibo dell’anima, che non sia ammollito di questo dolcissimo olio; esso è insulso, se non è condito di questo sale celeste. Non gusto gli scritti, se non vitrovo il nome di Gesù; a noia mi vengono i ragionamenti, e discorsi, quando non sento il nome di Gesù. Gesù è miele alla mia bocca, melodia al mio orecchio, giubilo al mio cuore. Finalmente, il nome di Gesù è rimedio. Vi è tra di voi chi sia triste, afflitto, tormentato? si getti costui sul petto di Gesù, penetri nel sacro Cuore di lui, ne proferisca con la lingua il santo nome; e tosto al comparire di questo splendido, potente nome, si dileguerà ogni nebbia e il cielo dell’anima ridiverrà sereno. Cade alcuno nella colpa, e corre rischio di dare nella disperazione! il soffio della vita lo rianimerà non appena avrà invocato questo vivifico nome. Sarà forse la durezza del cuore, il torpore nato dall’indolenza e figlio della viltà, la corruzione dell’anima, la languidezza dell’accidia, che possa resistere alla potenza di questo nome salutare? Nessun rimedio calma più prontamente la violenza della collera e dissipa l’enfiagione dell’orgoglio, quanto questo nome divino. Guarisce la piaga dell’invidia, arresta la lussuria, spegne il fuoco della passione infame, estingue la sete dell’avarizia, doma il fremito di tutti i cattivi istinti che potrebbero togliere l’onore. Infatti quando nomino Gesù, il mio pensiero corre e si ferma sopra un essere dolce e umile di cuore, buono, sobrio, casto, misericordioso, in somma notevole per purità e santità: io nomino il medesimo Dio onnipotente che col suo aiuto ed esempio, medica, guarisce, e rinforza. Tutte queste meraviglie suonano al mio orecchio, quando sento il nome di Gesù. Sia questo sempre nel vostro cuore, suoni del continuo sulle vostre labbra; perché in virtù di questo prezioso nome, tutti i vostri sentimenti e tutte le vostre azioni si dirigono verso Gesù Cristo, che loro serve di principio e di termine. Non è forse egli in persona che v’invita a fare così, quando vi dice nel Cantico dei Cantici (VIII, 6): « Mettetemi come un sigillo sul vostro cuore, come un’impronta sul vostro braccio » — Pone me ut signaculum super cor tuum, ut signaculum super brachium tuum (Serm. XV in Cant.)! Eipetiamo anche noi con S. Pietro: Non da altri abbiamo salute se non da Gesù di Nazareth; perché non vi è sotto il cielo altro nome nel quale dobbiamo essere salvati: — Non est in alio aliquo salus. Nec enim aliud nomen est sub cœlo datum hominibus, in quo oporteat nos salvos fieri (Act. IV, 12); ma per questo nome augusto tutti possono avere salvezza… Due soli nomi vi sono nel mondo, portatori di pace, di ordine, di armonia, di virtù e di felicità e sono i dolci, potenti nomi di Gesù e di Maria. – Il santissimo nome di Gesù, 1° seda le tempeste e calma gli uragani di qualunque passione: 2° sparge la grazia e la misericordia; 3° nutrisce l’anima e l’infiamma di amore celeste; 4° porta conforti ineffabili e divini; 5° procura una buona fama; 6° bandisce la tristezza e rallegra il cuore; 7° dà vigore ai martiri e a tutti i fedeli che combattono per la fede; fa che trionfino generosamente di tutti gli ostacoli, di tutti i patimenti, di tutte le prove, di tutte le persecuzioni e della morte stessa; questo sacro nome corona i vincitori; 8° medica tutte le piaghe, cura tutte le infermità dell’anima e del corpo: 9° incatena il demonio, il mondo e la concupiscenza della carne. Tutti i Padri della Chiesa ci dicono che il demonio nessuna cosa teme tanto, quanto l’invocazione del Nome di Gesù. « I demoni, dice S. Giustino, impauriscono di questo nome che li fa tremare; e anche ora ci obbediscono, se nel nome di Gesù Cristo crocefisso li scongiuriamo… In qualunque luogo suoni il nome del Signore, quivi tutte le cose riescono a bene (Eius nominis potentiam dæmones tremunt et reformidant: hodie quoque illi per nomen Iesu Christi crucifixi adiurati nobis parent… Ubicumque fuerit nomen Domini, ibi prospera erunt omnia – Hom. VIII) ». Origene avverte che vi è nel nome di Gesù sì grande forza per vincere i demoni, che pronunziandolo si ottiene quanto si desidera, come insegnava il divin Maestro quando diceva: Molti nel giorno del giudizio mi diranno: Nel tuo nome, abbiamo cacciato i demoni. « Basta la sola invocazione del nome di Gesù, soggiunge Teodoreto, per far sì che l’avversario nostro ci rispetti e ci tema grandemente ». Racconta un gravissimo autore, che è severamente proibito ai fattucchieri e a quanti si consacrano di proposito al demonio, d’invocare o ricordare in qualunque modo nei loro notturni convegni, il nome di Gesù, ancorché avessero rinnegato il divin Salvatore. Noi sappiamo che il diavolo e tutta la sua corte scompare immediatamente, quando alcuno della setta pronunzia, anche senza averne intenzione, il nome di Gesù (TYREUS, de Dæmon. c. XLII, n. 22). – S. Giovanni Crisostomo diceva che: « il nome di Gesù, e la potenza della croce tengono per noi cristiani il luogo d’incantesimi spirituali. Questo incanto, non solamente caccia il dragone dalla sua caverna e lo precipita nel fuoco, ma rimedia ancora alle ferite da esso fatte all’anima nostra. Il nome di Gesù suona terribile ai demoni i quali appena uditolo menzionare si dileguano; riesce salutare a guarirci delle nostre infermità e agitazioni. Divenga esso dunque il nostro ornamento, e sia per noi un muro di difesa (Hom. VIII ad pop.) ». – S. Ignazio di Loyola non volle che la sua congregazione prendesse nome da lui, ma da Gesù, affinché questo nome le fosse d’incentivo ad operare sempre con energia, e ad affrontare i supplizi e la morte. – Al nome di Gesù conviene in modo speciale quel detto dei Proverbi: « Torre munitissima è il nome del Signore; a Lui avrà ricorso il giusto e sarà esaltato » — Turris fortissima nomen Domini; ad ipsum currit iustus et exaltabitur (Prov. XVIII, 10). « Gesù si è fatto nostra fortezza in faccia al nemico, dice qui a proposito S. Agostino; guardate che il demonio non vi ferisca e per ciò rifugiatevi nella torre. Colà i dardi di satana non vi potranno mai colpire e voi ci starete i n tutta sicurezza e pace (In Psalm.) » . – Con l’invocazione del nome di Gesù, si ottiene tutta la sua protezione ed ogni desiderabile aiuto. « Chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvo », dice Gioele: — Omnia qui invocaverit nomen Domini, salvus erit (IOEL. II, 32). Perciò dice il Salmista: « Io loderò e invocherò il Signore, e sarò liberato di tutti i miei nemici » — Laudans invocabo Dominum, et ab inimicis meis salvus ero (Psalm. XVII, 4), e il profeta Abacuc esclamava: « Io mi rallegrerò nel Signore, ed esulterò di gioia in Gesù, Dio, mia salute » — Ego in Domino gaudebo; et exultabo in Deo Iesu meo (III, 18). Questi profeti c’insegnano quanto sia amabile e prezioso il nome di Gesù, affinché ci rallegriamo e lo prendiamo per protettore e guida. Il nome di Gesù significa, 1° che tutti i beni ci vengono da Lui, poiché la salvezza, portataci dal Redentore, comprende tutti i doni di Dio e tutti i beni. Come le acque che si dividono in molti rivi, zampillano da una sola sorgente; come tutti i raggi vengono dal sole e tutti i bracci di mare appartengono all’oceano, così ogni virtù e grazia e santità nel loro principio, nel mezzo, nel fine, vengono da Gesù Cristo. È Gesù che scancella col suo sangue le macchie dei nostri peccati; è Lui che tempra gli ardori della concupiscenza, che rompe i ceppi delle cattive consuetudini, che doma il furore delle passioni, che ci sottrae al giogo del demonio; è Lui che rende la libertà allo spirito, che orna l’anima della grazia e ne fa la sposa, la figlia, il tempio di Dio; è Lui che quieta e rasserena la coscienza, dà vita ai nostri sensi e al nostro spirito, illumina il nostro intelletto mediante la cognizione delle cose divine, eccita la nostra volontà a ricercarle, fortifica la nostra debolezza, ci dà vittoria nelle tentazioni e ci ottiene il trionfo nel combattimento. Se gemete nella desolazione, invocate Gesù e non tarderete a provare il potente soccorso di questo consolatore. Sei timori, le ansietà, gli scrupoli vi mettono nelle angustie, invocate Gesù, egli vi aprirà e allargherà il cuore, lo libererà e renderà lieto ed allegro. Se la febbre dei patimenti corporali e delle passioni vi abbrucia e vi consuma, invocate Gesù; il fiele della sua passione e il miele della sua mansuetudine misericordiosa, la calmeranno e troncheranno dalle radici. Se la povertà, le malattie, le tribolazioni, i nemici della salute si scagneranno e rovesceranno su di voi per atterrarvi, invocate Gesù con fiducia e perseveranza e voi supererete tutte le prove, trionferete di tutto e sarete coronati per mano di Gesù medesimo… Ecco perché le persone pie portano incessantemente nel cuore ed hanno del continuo su le labbra i dolci nomi di Gesù e di Maria e vi ricorrono in tutte le occasioni. – Essi sanno per prova la verità di quel detto di S. Bernardo: che di tutti coloro i quali, in ogni tempo, hanno invocato i nomi di Gesù e di Maria, neppure uno si è perduto (Serm. XV in Cant.). – 2° Il nome di Gesù non indica soltanto il Salvatore e la salute che ci è venuta da Lui, ma anche l’eccellente e mirabile maniera con cui ci ha salvati. – Egli infatti non ci ha salvati con una parola, come con una parola ha creato il mondo, ma ha preso sopra di sé le nostre infermità per guarircene; si è preso sopra di sé i nostri peccati e li espiò con durissime pene nel corpo e nell’anima, per distruggerli in noi. Egli ha accettato la morte alla quale noi eravamo condannati per uccidere la nostra morte e restituirci alla vita della grazia e della gloria. Quando pertanto pronunziamo il nome di Gesù, noi esprimiamo che il Verbo si è fatto carne, che Dio si è incarnato per noi, che nacque in una stalla e fu deposto in una greppia, e circonciso; che ha lavorato e sudato e pianto; che ha sofferto la fame, la sete, il caldo, il freddo; che per noi fu preso, legato, sputacchiato, flagellato, oltraggiato, coronato di spine, abbeverato di fiele, crocefisso. Tutto questo ricorda il nome di Gesù Cristo, ed è per ciò che suona infinitamente venerabile e adorabile agli uomini ed agli Angeli, ed infinitamente terribile ai demoni che all’udirlo fremono, tremano e fuggono.

– 5. BISOGNA INVOCARE SOVENTE IL SANTO NOME DI GESÙ. — S. Bernardo dice: « Abbi sempre Gesù nel cuore, e l’immagino del Crocefisso non si allontani mai dalla tua mente. Sia Gesù tuo cibo e tua bevanda, tua dolcezza o tua consolazione, tuo miele e tuo desiderio, tua lettura e tua meditazione, tua preghiera e tua contemplazione, vita, morte e risurrezione tua. Gesù è miele alla bocca, melodia all’orecchio, letizia al cuore ». – Sia Gesù il nostro amore e il centro dei nostri affetti; sia il soffio del nostro respiro, l’oggetto dei nostri discorsi; sia l’anima e la vita nostra, di modo che siccome noi siamo, noi viviamo, noi operiamo in lui e per lui, così pure non serviamo che lui, non ci studiamo di piacere ad altri che a lui, non parliamo che di lui solo; ci stia incessantemente sotto gli occhi; camminiamo sempre alla sua presenza, lavoriamo e soffriamo per lui; siamo pronti a fare per lui ogni sacrificio, ancorché difficile e penoso; moriamo finalmente per lui,  in lui e di lui, affinché regniamo eternamente con lui nel soggiorno della felicità e della gloria.

MEDITAZIONI SULLA NATIVITA’ di N.S. GESU’ CRISTO

MEDITAZIONI …

[A. Carmagnola: Meditazioni, vol. I; S.E.I. ed. Torino, 1942]

… Sopra alcune parole di S. Paolo.

Mediteremo sopra queste parole di S. Paolo: Benignitas et humanitas apparuit Salvatoris nostri Dei: è apparsa la benignità e l’umanità del Salvator nostro Iddio (Tit., III, 4). C’immagineremo di vedere dinanzi a noi il Bambino Gesù, che nella grotta di Betlemme, adagiato sopra la paglia del presepio, in vita alla fiducia, al pentimento e all’amor suo, dicendo a ciascuno di noi: Præbe, fili mi, cor tuum mihi: Dammi, o figlio, dammi il tuo cuore. E adorandolo con i santi pastori, nell’atto che essi gli offrono i loro doni, noi gli daremo risoluti tutto ciò che egli ci chiede.

PUNTO 1°.

Da benignità del Bambino Gesù ispira fiducia.

Il Salvatore, venendo nel mondo, vi entrò non nella natura angelica, m a nella natura umana: Nusquam angelos apprehendit, sed semen Abrahæ (Hebr., II, 16). E pur prendendo la carne, la forma e la vita degli uomini, non volle venire nel mondo con statura perfetta e piena di maestà, ma come tenero bambino, pieno di benignità e piacevolezza, sicché per la sua nascita è apparsa al mondo, dice S. Paolo, la benignità e l’umanità del Salvatore nostro Iddio. Questo Bambino che viene a salvare il mondo è Dio: come angelo non ci avrebbe ispirata sufficiente fiducia, come Dio ci avrebbe atterriti. Perciò, oltre al non prendere la natura angelica, si spoglia ancora di ogni divina ed umana maestà e rivestendo la nostra misera carne si presenta a noi come la benignità e l’umanità per eccellenza. Sì, dice San Bernardo, perché tutto il mondo sa, avendolo la natura stessa insegnato a tutto il mondo, quanto sia grande la forza, quanto dolce l’attrattiva, che esercita sul cuore umano la vista di un delicato e caro bambino. Se Gesù Cristo non fosse nato così, alla semplice notizia dell’apparizione di Dio sulla terra gli uomini sarebbero fuggiti come Adamo colpevole, quando sentì la voce di Dio e presentì la sua presenza, e avrebbero tremato e disperato pensando alle offese fattegli e all’ingratitudine usatagli. Ma come fuggire, come tremare, come disperare dinanzi ad un debole e amabilissimo bambinello?

PUNTO 2°.

La benignità del Bambino Gesù adduce a penitenza.

L o stesso S. Paolo, il quale ci dice che per la nascita di Gesù è apparsa la benignità e l’umanità del Salvatore nostro Dio, ci insegna che la benignità di Dio ci alletta, ci spinge e ci vuol condurre alla penitenza dei nostri peccati: Ignoras quoniam benigniias Dei ad pœnitentiam te adducivi (Rom., II, 4). Gesù è nato bambino, perché noi, presentandoci a chiedergli perdono delle nostre colpe, non temiamo severi rimbrotti e una penitenza troppo grave; giacché, dice S. Bernardo, un tenero pargoletto senza più si placa e ci concede la sua grazia: Parvulus est, leviter placari potest; quis enim nesciat quia puer facile donat? (I Epiph.). D’altronde, anche cresciuto negli anni ed entrato nella sua vita pubblica, ha sempre fatto spiccare la sua benignità nell’accogliere i poveri peccatori e nel non esigere da essi altra penitenza che una vita scevra di peccato e feconda di buone opere. E nell’invitarci a seguirlo col prendere sulle nostre spalle il suo giogo ci ha assicurato che esso è lieve e soave. L’amore per Lui rende leggiere e dolcissime anche le penitenze più dure. Gesù Bambino dalla sua culla ci mostra la sua penitenza, perché uniamo la nostra alla sua. Non facciamogli più oltre ripetere quel vagito: ah! ah! hoc est: anima, anima, te quæro (S. Bern.): anima, anima peccatrice, te io cerco.

PUNTO 3°.

La benignità del Bambino Gesù domanda amore.

Gesù si è abbassato fino a nascere tenero Bambino sopra tutto per dimostrarci il suo amore immenso per ciascuno di noi, benché peccatore, benché iniquo, benché disertore, benché superbo. Filius Dei, dice S. Agostino, caro factus est propter te peccatorem, propter te iniustum, propter te desertorem, propter te superbum. No, non vi è altra cagione maggiore della sua venuta fra di noi sotto le sembianze di maschino bambinello all’infuori della manifestazione del suo amore: quæ maior est causa adventus Domini, nisi ut ostenderet dilectionem in nobis? La Chiesa, volgendosi a Gesù stesso, così canta: O autore beato del mondo, o Cristo di tutti Redentore, fu il tuo amore che ti indusse a prendere un corpo mortale: Amor coëgit te tuus — Mortale corpus sumere. Per questo ancora Egli volle nascere bambino, per essere più sicuro di acquistare l’amor nostro. Cosi, dice S. Bernardo, ha voluto nascere Colui che volle essere amato e non temuto: Sic nasci voluit, qui amari voluit, non timerì. Ah! Se sgraziatamente non l’abbiamo amato sin qui. diamoci ora ad amarlo come merita di essere amato. Amiamolo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutta la volontà, con tutte le forze; amiamolo di un amore generoso e costante. Chi non ama il Bambino Gesù sia da noi segregato, dice S. Paolo: si quis non amat Dominum nostrum Jesum Christum, anatema sit (I Cor., XVI, 22).

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… Sopra alcune parole di Isaia.

Prostrati in ispirito dinanzi al Santo Bambino Gesù nella grotta di Betlemme e adorandolo insieme con Maria, con Giuseppe e coi pastori ci diremo, per ben meditarle, quelle parole così consolanti del profeta Isaia: Questo Bambino è nato per noi; questo Figlio di Dio e di Maria è stato dato a noi; e porta sulle spalle il suo principato: Parvulus natus est nobis, filius datus est nobis, et factus est principatus eius super humerum eius (Is., IX, 1). C’immagineremo che Gesù Bambino dal suo presepio ci volga i suoi occhi misericordiosi, come per confermarci questa verità, che Egli è tutto per noi e vuol essere il re dei nostri cuori; e noi risponderemo dicendogli con tutto l’affetto: Diligam te, Domine, foriitudo mea: ti amerò, o Signore, mia forza (Ps., XVII, 1).

PUNTO 1°.

Il Santo Bambino è nato per noi.

Il Figlio di Dio è nato pargoletto per noi, per nostro spirituale vantaggio, per nostro salutare ammaestramento. Egli volle dirci nel modo più efficace: Se non vi farete anche voi bambini come me, non entrerete nel regno dei cieli. Nei bambini vi sono due doti: innocenza e semplicità. Così in Gesù Bambino. Si è dato dunque a noi Piccolino per apprenderci queste due condizioni necessarie alla nostra salute: innocenza e semplicità, virtù sommamente importanti per trattare come si deve con Dio e col prossimo. L’innocenza attira sopra di noi la compiacenza di Dio e la sua benedizione. Se sgraziatamente l’abbiamo perduta, dobbiamo riacquistarla con le lagrime della penitenza, ossia coll’essere sinceramente pentiti delle nostre passate colpe e col fare volontaria penitenza, o con l’accettare almeno per penitenza le tribolazioni che il Signore ci manda. – La semplicità poi, nelle nostre parole, nelle nostre azioni, in tutta la nostra condotta ci faccia procedere candidamente, con schiettezza e col cuore alla mano. Dinanzi a Gesù Bambino, bando alla prudenza umana e secolaresca, ingannatrice del prossimo e detestabile agli occhi di Dio.

PUNTO 2°.

Il Figlio di Dio e di Maria è stato dato a noi.

Il Bambino Gesù giacente nel santo presepio è il Figlio di Dio, che lo genera da tutta l’eternità nello splendore dei santi, ed è il Figlio di Maria, che lo ha generato nel tempo, nella povera capanna di Betlemme. L’Eterno Padre e Maria SS. Ci hanno dato questo Bambino, perché sia veramente nostro e lo abbiamo a possedere sempre, in questa vita e nell’eternità. – Bambino di valore infinito, perché Dio Egli stesso e donatoci dall’Eterno Padre e da Maria unicamente per amore. Oh immensa liberalità del nostro Padre celeste e della nostra SS. Madre! Eppure vi sono uomini, che non vogliono ricevere questo gran dono; sono coloro che chiudono il cuore all’amore di Dio per aprirlo all’amore delle creature. Che è di me, o caro Gesù? Vi costringerò ancora per tanto tempo a stare alla porta del mio cuore e a battervi per entrare ? Vi obbligherò ancora a ripetere: Aprimi, aprimi: aperi mihi? No, o caro Bambinello: libererò una buona volta il mio cuore dall’affetto alle creature, che non mi appaga, che anzi mi è di affanno e di tormento: Ho trovato in voi chi l’anima mia vuol amare con tutte le sue forze, vi terrò a me unito e non vi lascerò mai più allontanar da me: Inveni quem diligit anima mea, tenui eum, nec dimittam (Con., III, 4).

PUNTO 3°.

Il Santo Bambino ha sulle spalle il suo principato.

Il principato, che il Bambino Gesù ha sulle sue spalle, è primieramente l’anima di ciascuno di noi. Egli è venuto dal cielo in terra come un re a riacquistare il suo regno perduto, il regno delle anime, che a cagione del peccato di Adamo e dei peccati nostri era sfuggito dalle sue mani per cadere in quelle di satana. Che gran conto adunque ha fatto Gesù dell’anima nostra! Qua! conto ne facciamo noi? Deh! riflettendo che l’anima nostra è portata amorosamente in sulle sue spalle da Gesù e la riguarda come il suo principato, preghiamolo che in essa regni veramente da sovrano. Altro principato che sta sulle spalle del Santo Bambino è il fascio enorme dei peccati di tutti gli uomini. – E in questo peso così grave e ripugnante per Gesù ci sono anche i peccati miei! E sarò io così crudele da accrescerglielo ancora con nuovi peccati? Non cercherò anzi di alleggerirglielo col portare volentieri il giogo della sua santa legge e dei santi voti? Infine altro principato che sta sulle spalle a Gesù è la croce, che appena nato abbraccia con affetto per mezzo de’ suoi patimenti, affinché, nel vederlo noi ancora sì piccolo soffrire già cotanto per amor nostro, non ci rincresca di portare anche noi la croce delle tribolazioni per amor suo.

NASCITA DI GESU’

Nascita di Gesù Cristo.

[G. Bertetti: I TESORI DI S. TOMMASO D’AQUINO; S.E.I. Torino, 1918]

1. Il grande avvenimento (S. Th., 3*, q. 35, art. 6, 7, 8). — 2. Come la nascita di Gesù fu manifestata agli uomini (ibid., q. 36, art. 1-6).

1. Il grande avvenimento. — Gli altri uomini nascono soggetti alla necessità del tempo; Gesù Cristo invece, signore e dominatore di tutti i tempi, si elesse il tempo della nascita, come si elesse la Madre e il luogo: « Venuta la pienezza del tempo, ha mandato Dio il Figliuol suo, fatto di donna, fatto sotto la legge » (Gal., IV, 4). – Gesù Cristo veniva a ricondurci dallo stato di servitù a quello di libertà; e, siccome prese la mortalità nostra per darci la vita, così « si degnò d’incarnarsi quando appena nato sarebbe stato iscritto nel censo di Cesare e annoverato come suddito per la nostra liberazione » (S. BEDA, in Luc., 5). Tutto il mondo viveva allora sotto un solo sovrano: « se leggiamo la storia, troveremo che fino al 28° anno di Cesare Augusto ci fu discordia in tutta la terra, ma alla nascita del Signore cessò ogni guerra » (S. GEROLAMO, super Isa., 2) secondo la profezia (ISA., II, 4); nel tempo in cui un solo principe dominava nel mondo, nasceva Gesù Cristo, che « è la nostra pace » (Eph., II, 14) e che veniva a congregare i suoi in modo da formarne « un solo ovile e un solo pastore » (JOAN., X, 16). Volle nascere sotto un re straniero, perché s’adempisse la profezia di Giacobbe: « Non sarà tolto lo scettro di Giuda e il condottiero dalla sua coscia fin quando venga chi dev’essere mandato » (Gen., XLIX, 10); perché, come dice il Crisostomo, « finché il popolo giudaico era sotto il comando di re giudaici, quantunque peccatori, erano mandati dei profeti per suo rimedio: ora che la legge di Dio era tenuta sotto la potestà d’un re iniquo, nasce Gesù Cristo, perché quella grande e disperata infermità richiedeva un medico più valente. – Volle nascere nella stagione fredda per cominciar fin d’allora a patire per noi; e nel principio dell’inverno, quando il giorno comincia ad allungarsi, per dimostrare ch’Egli era venuto a far progredire gli uomini nella luce divina (Luc., 1, 79). – Volle nascere in Betlemme, dov’era nato Davide, perché dallo stesso luogo della nascita si dimostrasse adempiuta la promessa speciale fatta a Davide intorno a Cristo (2° Reg., 23, 1). Il nome di Betlemme significa « casa del pane », ed è lo stesso Gesù Cristo che disse: « Io sono il pane vivo disceso dal cielo » (JOAN., VI, 35, 51). Davide, nato in Betlemme, scelse Gerusalemme per costituirvi la sede del regno e per edificarvi il tempio di Dio, per farne insomma una città regale e sacerdotale nello stesso tempo. Così Gesù Cristo scelse Betlemme per la nascita e Gerusalemme per la passione, in cui principalmente si compì il suo sacerdozio e il suo regno. E anche a confutar la gloria degli uomini, che si vantano d’aver tratta la loro origine da illustri città e da esse vogliono esser massimamente onorati, Gesù Cristo volle invece nascere in una città oscura e soffrire l’ignominia i n una nobile città. La nascita di Gesù non ebbe alcun dolore, come non ebbe alcuna corruzione per la Madre: le recò anzi somma giocondità, perché nasceva l’uomo Dio nel mondo (ISA., XXXV, 2). Dalla sentenza che colpisce tutte le altre madri (Gen., III) « è eccettuata la Vergine madre di Dio, la quale senza macchia e senza danno concepì Cristo, senza dolore lo generò, senza violazione d’integrità rimase col verginal pudore intatto » (S. AGOST., in serm. de Assumpt.). – L a stessa Vergine, senza aiuto d’altra donna, ravvolse in panni il bambino e lo collocò nel presepio (Luc., II, 7).

  1. Come la nascita di Gesù fu manifestata agli uomini. — Non a tutti gli uomini in genere conveniva che fosse manifestata la nascita di Gesù: — 1 ° perché ne sarebbe stata impedita l’umana redenzione, che se gli uomini l’avessero conosciuto, « giammai avrebbero crocifisso il Signore della gloria» (la Cor., II, 8 ); — 2 ° sarebbe stato diminuito il merito della fede per mezzo della quale era venuto a giustificare gli uomini (Rom., III, 22), che se per manifesti indizi fosse stata conosciuta da tutti la nascita di Gesù, non ci sarebbe più stata ragion di fede, che è « dimostrazione delle cose che non si vedono » (Hebr., XI, 1); — 3 ° ne sarebbe venuta in dubbio la sua reale umanità: « se avesse fatto tutto in modo meraviglioso, avrebbe tolto ciò che fece in modo misericordioso » (S. AGOSTINO, ad Volusianum). Ma a nessuno sarebbe stata proficua la nascita di Gesù, se a tutti fosse rimasta occulta: a qualcuno dunque doveva esser manifestata. Appartiene poi all’ordine della divina sapienza il far pervenire i suoi doni e i suoi segreti non egualmente a tutti, ma ad alcuni in modo immediato, e per mezzo di questi agli altri (Act., X, 40). Maria e Giuseppe dovevano essere istruiti intorno alla nascita di Gesù, prima ch’Egli nascesse: perché spettava loro dimostrar riverenza e ossequio al Bambino: ma la loro testimonianza domestica intorno alla grandezza di Gesù sarebbe stata accolta con sospetto; ad altre persone estranee, la cui testimonianza non avrebbe potuto essere sospetta, doveva esser manifestato il grande avvenimento. – Da Gesù doveva venir la salvezza a tutti gli uomini senza distinzione (Coloss., III, 11): e a tutte le condizioni degli uomini fu manifestata la nascita di Gesù, affinché prefigurasse l’universalità della salvezza. « Israeliti furono i pastori, gentili i Magi, gli uni vicini, gli altri lontani, gli uni e gli altri ÙÙconcorrono tuttavia verso la medesima pietra angolare » (S. AGOSTINO, serm. de Epiph., 32); i magi furono sapienti e potenti, i pastori semplici e di vile condizione. Fu manifestato ai giusti, Simeone e Anna; fu manifestato ai magi peccatori. Fu manifestato a uomini e a donne, per farci intendere che nessuna condizione d’uomini è esclusa dalla salvezza cristiana. Essendo la nascita di Gesù ordinata all’umana salvezza mediante la fede, doveva esser manifestata in modo che la dimostrazione della sua divinità non pregiudicasse la fede nella sua umanità. Perciò Gesù Cristo manifestò la sua nascita non per se stesso ma per mezzo d’alcune altre creature: « i magi trovarono e adorarono il bambino Gesù per nulla dissimile da tutti gli altri bambini » (S. LEONE, serm. 4 de Epiph.,); ma questo bambino mostrava in sé la virtù della Divinità per mezzo delle creature di Dio. La manifestazione si fa per mezzo di cose famigliari a quelli cui si vuol fare la manifestazione. Or è evidente che per gli uomini giusti è cosa famigliare e consueta l’essere ammaestrati da interiore istinto dello Spirito Santo, senz’alcuna dimostrazione di segni sensibili, cioè con lo spirito di profezia. – Altri poi, dediti alle cose corporali, sono spinti alle cose intelligibili per mezzo di cose sensibili. I Giudei erano avvezzi a ricevere i divini responsi per mezzo d’Angeli, e per mezzo d’Angeli avevano ricevuto la legge (Act., VII, 53): invece i Gentili, e massime gli astrologhi, erano avvezzi a considerar il corso delle stelle. Perciò ai giusti, Simeone e Anna, la nascita di Gesù fu manifestata da interno istinto di Spirito Santo (Luc., II, 26); ai pastori e ai magi, come dediti a cose corporali, fu manifestata con visibili apparizioni. E poiché la nascita di Gesù non era puramente terrena ma in certo qual modo celeste, per mezzo di segni celesti agli uni e agli altri si rivela. Ai pastori, ch’erano giudei, si rivela per mezzo d’Angeli; ai magi, avvezzi alla considerazione dei corpi celesti, si rivela per mezzo d’una stella. I pastori ebbero la manifestazione nello stesso giorno della nascita (Luc.,II, 8); i magi giunsero presso Gesù il 13° giorno della nascita; i giusti Simeone e Anna ebbero la manifestazione i l 40° giorno della nascita (Luc., II, 22). Quest’ordine ha una ragione: i pastori significano gli apostoli e gli altri credenti fra i Giudei che ebbero la prima manifestazione della legge di Cristo e che non annoverarono fra loro « né molti potenti né molti nobili » (la Cor., 1, 26); poi la fede giunse alla moltitudine dei gentili, prefigurata nei magi, per giungere poi alla pienezza de’ Giudei prefigurata in Simeone e Anna.