CRISTO REGNI (1)

CRISTO REGNI (1)

 P. MATHEO CRAWLEY

(dei Sacri Cuori)

TRIPLICE ATTENTATO AL RE DIVINO

[II Edizione – SOC. EDIT. VITA E PENSIERO – MILANO]

Nihil obstat quominus imprimatur Mediolani, die 4 febr. 1926

Sac. C. Ricogliosi, Cens. Eccles.

IMPRIMATUR

In Curia Arch. Mediolani die 5 febr. 1926 – Can. M. Cavezzali, Provic. Gener.

PREM. TIP. PONT. ED ARCIV. S., GIUSEPPE – MILANO

—————————————

1° L’autorità del Re dei re diminuita.

2.° La santità del Re d’Amore oltraggiata.

Crisi di pudore, di modestia, di morale.

3.° L’onore del Re della gloria disdegnato.

Crisi di vocazioni sacerdotali e religiose.

PREFAZIONE

Salve Regina

A te, Regina dei cuori dedico queste pagine scritte col sangue del mio povero cuore, in difesa dei diritti del Re d’Amore, tuo Figlio.

Salve Regina!… Tu, che nella notte del primo Natale, vegliasti tra le sofferenze, senza poter trovare né un tetto che ti ricoprisse, né una porta aperta che ti ricevesse… Tu, la grande Riparatrice, aiutami a restaurare la sovranità di Gesù nelle famiglie e nella società, batti Tu stessa alle porte dei cuori e delle famiglie cristiane, chiedendo un trono di gloria per il Cristo-Re!

Salve Regina !… Tu la sola bella, santa, immacolata, aiuta la nostra impotenza nelle lotte contro le iniquità di un mondo senza Dio; aiutaci a distruggere il vituperio di un Cristianesimo falsato; aiutaci a far risplendere nei focolari che ti sono devoti l’antica austerità dei costumi ed il sole del tuo purissimo Cuore tra i fanciulli, le vergini, le spose, le madri cristiane; oh! Madre senza macchia! Che il Cuore di Gesù troneggi nel tabernacolo delle famiglie, adornato del giglio della purezza e della modestia. – Che il Vangelo, in tutta la sua integrità sia l’unica legge di dignità sociale e di virtù cristiana. Dissipa, o Regina di purezza, le nubi dei pregiudizi pagani, delle convenienze assurde e vigliacche per le quali Gesù vien flagellato. Oh! fa ch’Egli diventi nuovamente, nelle famiglie e nella società, il Cristo-Re!

Salve Regina !… Tu sei la Regina del Cenacolo della Chiesa, Tu la dolce Sovrana del clero e dei chiostri, Tu comunichi ai preti ed alle spose consacrate una parte della tua divina maternità, moltiplicando per mezzo di essi i Gesù che daranno Gesù alle anime ed al mondo. Grazie!… ma, ohimè! Tu sai, o Maria, che il mondo che odia Gesù, vorrebbe anche spegnerne la discendenza più che nobile, inaridendo la sorgente degli apostoli, distruggendo gli altari e spogliando i giardini fioriti dei chiostri. Sii, o Regina del Cuore di Gesù, più forte di una armata schierata in battaglia, dà Tu stessa il grande assalto e noi avremo certamente la vittoria. – Oh! per assicurarla alla Chiesa dacci dei sacerdoti, dei sacerdoti-apostoli, e degli apostoli-ostie!… Maria, Mediatrice, esaudiscici, non tardare più, la Chiesa piangendo ti tende le braccia… Ritorna sulla terra, benedici le famiglie, spargi tra di esse una semenza divina, fa che in esse fioriscano i germi di santità sacerdotale, fiori di santità verginale per gli altari, fiori benedetti per i chiostri… Dà, o Regina d’amore, subito la vittoria al Cristo-Re!…

Salve Regina!

P. MATHEO CRAWLEY

Braine-le-Comte, 22-12-1922.

INTRODUZIONE

Nisi Dominus ædificaverit domum, invanum laboraverunt qui ædificant eam.

(P. CXXVI, 1).

[Se il Signore non edifica la casa, invano lavorano coloro che la edificano.]

V’è un male morale, vera cancrena della vita privata e sociale, l’estensione ed i danni del quale, palesatisi attraverso gli avvenimenti, ci spaventano. – Dopo il conflitto armato, dopo le epidemie, mortifere più ancora della stessa guerra, questo flagello, terribile come una epidemia morale, angoscioso come una malattia mortale, triste come una lotta interiore, implacabile come un’offensiva vittoriosa che distrugge ed abbatte qualunque barriera, questo flagello, dico, ci opprime e sembra spingerci nell’abisso. – Non intendo far qui allusione all’effervescenza rivoluzionaria, né allo squilibrio politico delle nazioni, né all’incoerenza delle folle che si sollevano, desiderose di far nascere e stabilire una comunanza universale. – Limito invece le mie osservazioni esclusivamente al piccolo, ma nello stesso tempo grande regno che è la famiglia, a questa sorgente di vita e d’azione sociale, — il focolare — così profondamente sminuito e pervertito da questo male. – Ohimè! La morale sociale e privata, messa dalla guerra a sì dura prova, non ne è uscita né purificata né rinnovellata. E tuttavia, questo male, o meglio, questo groviglio di mali sì gravi, che alcuni immaginano nuovi, e di cui anche i più noncuranti si lamentano, è proprio un frutto della guerra? Sì, in una certa misura. Per la sua stessa natura, la guerra, che è un disordine, non ha potuto che contribuire al disordine generale ed al rilassamento dei principî. E se alcuni sono stati veramente rigenerati dalle sofferenze, quanti altri invece ne sono stati sfiorati soltanto superficialmente! La guerra ha aperto degli abissi nella società! Ma noi crediamo tuttavia che la maggior parte di tali mali, di cui un giorno potremo dolerci, non sono stati che svelati e caratterizzati dalla guerra. Questa è stata come una bomba caduta in un giardino pubblico; la cui esplosione ha messo allo scoperto dei cadaveri in putrefazione e delle ossa disseccate. Non si sapeva più ciò che quel terreno fiorito ricoprisse; e si danzava su quel tappeto di terra verdeggiante: la dinamite ha messo in luce il vecchio cimitero che vi giaceva sotto. – Un triplice male, estremamente grave, male mortale, rodeva intanto nascostamente le viscere della società moderna, senza che essa volesse rendersene conto. Aveva paura di constatarlo? La sua noncuranza, in ogni modo, non faceva che accentuarlo.

1° Era un male di raffinato orgoglio, ossia una corruzione dello spirito. Due manifestazioni tipiche e tormentose ce ne rivelarono l’esistenza: una profonda ignoranza religiosa sempre più sistematica, in certe categorie apparentemente intellettuali e dirigenti; quindi, come logica conseguenza, un disprezzo orgoglioso del divino; e infine, l’odio, crescente come un’onda di rabbia settaria, e che minacciava di sommergere le istituzioni del diritto pubblico, cristiano ed ecclesiastico.

2° Era un male d’apatia rapidamente trasformatosi in un male di indifferenza e di disgusto per l’idea e le cose religiose, perché la corruzione della coscienza cristiana segue da vicino la corruzione dello spirito. Com’è grande, tra la gente onesta, il numero di coloro che sono completamente indifferenti ad un regime, qualunque esso sia, religioso o laico!  L’agitarsi dei problemi dell’educazione dell’infanzia, del matrimonio o della legislazione cristiana, tutto quello insomma che non tocca da vicino l’interesse ed il piacere, non riesce a smuovere la loro calma e beata indifferenza…

3.° Era soprattutto un male di voluttà, una febbre spaventosa, un delirio intenso dei piaceri sensuali. Questa corruzione dei sensi già esisteva adunque, ed era un orribile tumore che il coltello della guerra ha aperto, rivelando agli occhi attoniti degli stessi grandi Maestri di sociologia, nuovi abissi d’infamia. – Allorché scoppiò la guerra, questi grandi mali, e tutti gli altri che, come dal loro naturale focolaio, sono da essi scaturiti, erano molto più profondamente radicati di quello che la società nostra, così fiera della sua cultura e della sua civiltà, non credesse. Precisamente questa società, che si crede cristiana, che si vanta di esserlo, e soprattutto di sembrarlo era contaminata dai suoi vizi mortali, anche più di quanto si pensasse. – Soltanto quando il sangue ha zampillato, si è constatato con sorpresa ch’esso era già corrotto. La crudele e spaventosa amputazione fatta dalla guerra. non è stata soltanto una provocazione nefasta ma anche una rivelazione benefica di tanti mali. E la Provvidenza che tutto guida, l’ha permessa perché si facesse la luce. luce; e con la luce, la guarigione delle famiglie e della società. – È ovvio che alcuni istinti perversi, alcune malattie morali e profonde, non potevano essere facilmente guarite; anzi, la guerra, nel rivelarle, le ha acutizzate. Essa ha fatto conoscere il punto debole e gli abissi latenti della nostra società, più cristiana all’epidermide che nello spirito, e piuttosto pagana nei costumi. – Ascoltate S. S. Pio XI: « Molto prima che la guerra incendiasse l’Europa, la principale causa di queste grandi calamità già si agitava » (Enciclica Ubi arcano Dei).  Si dormiva, ed anche più, si danzava sull’orlo di un abisso. Veder oggi tutto questo sì da vicino, ci spaventa; esaminarlo a due passi, ci irrita, perché esso suona accusa per molte persone intelligenti e colpevoli, e per tanti malfattori che eran creduti gente onesta. Ma questa visione d’orrore, questo risveglio di soprassalto al rombo del cannone, sarà per molti la tavola di salvezza.  Parliamo francamente e cristianamente. È meglio certo fare, anche contro la volontà del malato, la diagnosi della malattia, per portare il necessario rimedio, che far l’autopsia del cadavere, per constatare il male che ne causò la morte. Che i mali immensi, del resto, di cui ci lamentiamo, siano o non siano frutto nefasto della guerra, non importa; quel che ci preme è che essi son là, come una voragine aperta, che minaccia d’inghiottire quello che non è stato ancora distrutto dal conflitto mondiale. Noi attraversiamo una crisi morale e sociale, eccezionalmente acuta; tuttavia io sono e resto ottimista, perché credo. Questa crisi, per quanto formidabile essa sia, non è la più grave della storia. L’umanità, prima della venuta di Nostro Signore, ne ha conosciute delle altre e ancora più gravi, per il fatto istesso che Gesù Cristo, nostro Liberatore, non era ancora venuto. Io credo in Lui ch’è venuto. Credo in Lui, che è e sarà sempre la origine della vita immortale, la forza redentrice, la sorgente della virtù, la resurrezione dei morti. Questo Maestro, questo Legislatore, questo Re, questo Liberatore, non è passato già come un bagliore che lascia soltanto una scia luminosa e brillante dietro a sè. No, Egli non è passato; Egli è venuto ed è restato con noi, Sole e Luce delle anime e della società. E non ci ha lasciato soltanto il suo mantello, ma il suo. Cuore palpitante che batte all’unisono coi nostri cuori, a due passi degli infermi, a portata di mano di tutti gli uomini, suoi fratelli. – Quegli che disse: «Io sono la Risurrezione » non è solamente il Verbo, estatico nella visione del Padre celeste, ma è l’uomo Dio, il Figlio di Maria: Egli si chiama Gesù. Risiede in mezzo a noi colla sua presenza reale nella Santa Eucaristia, e governa la Chiesa, sotto le vesti del Pontefice di Roma. Noi non siamo ancora perduti, perché Egli è il Re, e il Centro della terra che ha bevuto il suo sangue, e che gli vuole riscattare col suo amore. – Dal Tabernacolo e dalla Chiesa, come un tempo sul lago di Genezareth, Egli domina le tempeste, le placa, ed i flutti tumultuosi sono ove la sua mano li dirige. Per rassicurare la Chiesa, e i credenti, Egli non ha che a dire queste parole: « Sono io… Venite, non temete… Io ho vinto il mondo! » – Noi possiamo e dobbiamo vincerlo con Lui. Più forte della più forte tempesta, è la pentecoste della carità del Cuore di Gesù; più potente dell’inferno la onnipotenza misericordiosa del Dio d’Amore che è Gesù, il Verbo, il Figlio di Dio e Figlio di Maria. Ricordiamoci la sua parola: « Il Figlio dell’Uomo è venuto a salvare ciò che era perduto » (Matteo XVII, I).

L’unico Liberatore, sei Tu, o Gesù!

Ma per questo: Oportet: è necessario ed urgente ch’Egli sia di fatto un Re.

CRISTO REGNI (2)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (8)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (8)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO OTTAVO

ARGOMENTO

Pratico frutto di questi discorsi. Mezzo alla conversione del Paganesimo non potea essere la sapienza: fu la stoltezza. Testo di san Paolo. Il Mistero della Croce e suo trionfo. Incoerenza apparente di quel testo. Il mondo ed i Credenti. Quello paganeggia col suo Cristianesimo civile. Caratteri di questo. Epilogo: si conchiude col Mistero della Croce.

1. Nel compiere questo piccolo servigio, che io con non piccolo affetto vi ho reso, miei dilettissimi uditori, non posso dissimularvi di rimanere con qualche timore, e quasi che non dissi con qualche rimorso; il quale mi riesce tanto più pungente, quanto esso riguarda la utilità di voi, che siete stati inverso me tanto benevoli e cortesi. Io temo forte che, sedotto dalla vastità e nobiltà del soggetto trattatovi, l’antico cioè ed il nuovo Paganesimo, non abbia forse mirato abbastanza alla pratica e spirituale vostra utilità. Tuttavolta, mi conforto al pensare che, avendo io, con questi discorsi, investito direttamente la tendenza capitale del nostro tempo e delle nostre contrade, la quale è, come più volte vi ho detto, il piegare ad un Naturalismo universale, da cui non può venire altro che il ritorno, più o meno esplicito, alle idee ed agli amori pagani; mi conforto, dico, a pensare che, avendo investita così di proposito questa malaugurata tendenza, voi, accorti siccome siete ed ingegnosi, non avrete mancato di farne da voi medesimi tutte quelle pratiche applicazioni, di cui la predicata parola poteva essere feconda. Che se pure ve ne fosse ancora qualche bisogno, io sono qui a farvene una, che sarà come il midollo e la corona di tutte le altre, e la quale io stimo di tanta rilevanza, che beato me se saprò ben dichiararlavi questo giorno! beati voi se saprete penetrarla intrinsecamente col pensiero, ed imprimerla a caratteri indelebili nei vostri cuori! E sapete qual è questa verità cotanto salutare, la quale, io intendo proporvi? Essa riguarda il mezzo tutto impensato, nuovo, incredibile direi, se il fatto non lo mostrasse avverato, onde Iddio disfece, come d’un soffio, l’opera di quaranta secoli, chiamando il Paganesimo alla Fede, e tramutandolo, come per incanto, in questo Cristianesimo, di cui noi siamo figli e nel cui centro, la Dio mercè, ci troviamo. Signori sì! Fu così inopinato quel mezzo, fu sì stupendo, fu così, fuori d’ogni umano consiglio od accorgimento, che quand’anche qualunque altro argomento mancasse, basterebbe quello solo a mostrare divina la nostra Religione santissima. E notate: io non parlo già della conversione delle Genti o del Gentilesimo; ché già quell’argomento è antichissimo e quasi vulgare nei nostri apologisti ; parlo sì veramente del mezzo, onde la Provvidenza si valse per convertire le Genti. · Il qual mezzo come servì a convertire i Gentili alla Fede, così è sovranamente necessario a mantenere nella Fede le generazioni già convertite; essendo manifesto quello che insegna san Tommaso: le istituzioni, ed in generale qualunque cosa soggetta a mutazione, come sono tutte le umane, mantenersi e restaurarsi per quei principii medesimi, onde ebbero vita e cominciamento. Veggo che voi, invaghiti della rilevanza del soggetto, mi esortate col desiderio a troncare gl’indugi di un più lungo esordire; ed io pure voglioso di fare il piacer vostro, vi vengo tosto, e comincio.

II. Non vi sia grave tuttavia tornare un tratto col pensiero sopra i suggetti, ragionati nei passati giorni, per farvi un concetto possibilmente adeguato delle condizioni misere, in che Cristo Redentore, venendo al mondo, trovò il genere umano. Voi non potreste mai sentire quanto valga e che sia la libertà, la luce e la salute per lui donateci, senza prima intendere la schiavitudine, le tenebre e la morte, in che noi ci aggiravamo. Oltre a ciò la soprammirabile efficacia del mezzo adoperato da Dio a compiere quella trasformazione, allora solamente potrà essere in qualche modo intesa, quando si sia ponderata l’assoluta opposizione dei due termini, dall’uno dei quali il mondo fu tramutato nell’altro. E però quella opposizione io mi studiai di farvi non solo intendere, ma sentire coi passati discorsi, dei quali vorrei ora che abbracciaste, come in iscorcio, tutta d’un guardo, la contenenza. – Per farlo poi bene, ci è uopo smettere un poco quei pregiudizii fanciulleschi, onde uomini anche adulti sogliono mirare ed ammirare la grandezza pagana. Che ché sia della eccellenza, che il mondo antico poté raggiungere nelle arti dello Stato e della immaginativa, il fatto è che tutte quelle prerogative nulla non aveano che fare colla dignità morale dell’uomo ragionevole, col suo costume privato e pubblico, ed aggiungo ancora colla sua contentezza, e con quella misurata felicità, che pure può godersi nella presente vita; la quale, a volerla ordinata debitamente, non può prescindere dalle sue relazioni colla futura. Quanto a tutto questo  il genere umano era dechinato sì basso, era venuto a tal termini di mostruosa libidine, di smisurato orgoglio, di bestiale abbiellezza, e di stupida e codarda schiavitudine, che appena bastano a darne un’idea tutte le immagini, onde sono piene le Scritture, di prigioni, di catene, di tenebre, di piaghe ulcerose e fetide, di regnante peccato , di morte trionfante, di demonio prevalente. A non dire del popolo giudaico, piccolissima eccezione a tanto pervertimento, e che pel meglio, onde superbiva, non si levava sopra la condizione dell’infante, il resto dell’uman genere, che vuol dire quasi tutto, separatosi da Dio, come già il figliuol prodigo, avea colto da quella malaugurata radice ignoranza e sconoscimento di sé medesimo e delle provvidenziali armonie, che lo legavano all’universo. Ristretto l’uomo in sé medesimo volle essere indipendente da tutto, e fu mancipio di tutto: servì alle forze cieche della natura, servi ai propri istinti sensuali, servì alla prepotenza sociale, personificata nell’idolo di tutti più vorace, che chiamavasi patria. Così mi pare, che quell’alta parola di Paolo ai Galati, intorno all’infanzia del popolo giudaico , si può applicare eziandio a tutta la umana famiglia; stantechè la dipendenza è il carattere più proprio dei bambini. E tale, dice egli, innanzi a Cristo, tutti, Giudei e Gentili, eravamo infanti; ed in questa condizione ci trovavamo fatti schiavi agli elementi del mondo: Cum essemus parvuli, sub elementis mundi eramus servientes (Gal. IV, 3). Ed elementi del mondo erano la cupidità, il disordine, le forze della natura, le propensioni sensuali, la prepotenza della società e degli Stati. Tant’è! eramus servientes sub elementis mundi. Ora, trattandosi di dovere disfare quella universale servitudine, rischiarare la terra da quelle tenebre, sciogliere quei ceppi, vendicare in libertà quelle generazioni depresse ed avvilite; qual mezzo avreste voi creduto opportuno a tanto scopo? E voi penserete tosto a quei mezzi, che, secondo natura, si offrono spontanei al pensiero di ognuno: l’ignoranza si sarebbe dovuta cacciare via del mondo per mezzo della scienza; la licenza dei costumi col decoro e colla dignità della vita civile; la schiavitudine universale coll’innamorare i cuori della libertà individuale, civile e politica, facendone sentire i pregi e gli emolumenti. Questo pensate voi, questo penserebbe ogni savia e prudente persona; né la natura e la ragione saprebbono suggerire mezzi più opportuni di questi. Ma al tutto diverso fu l’alto consiglio della Provvidenza; ed appunto perché la natura e la ragione erano traviate ed offuscate, i mezzi ad esse, secondo le naturali analogie, proporzionati non poteano fare buona prova; e però vi era uopo di ricorrere a qualche cosa fuori la cerchia della natura stessa e della stessa ragione. E questo appunto fece Dio col Mistero meraviglioso della Croce, cosa ripugnante a natura, cosa pazza per la ragione; e scelta nondimeno da Lui, come lo strumento di tutti più appropriato alla rigenerazione del mondo, la quale importava il guarire la inferma natura, ed il fare rinsavire la ragione ottenebrata e quasi spenta. Questo ineffabile ed augusto Mistero della Croce, sopra la quale la Vita sostenne la morte, e colla morte diè al mondo la vita: Qua Vita mortem pertulit, et morte vitam protulit; questo Mistero, ripeto, io giudico nella presente materia rilevantissimo il dichiararvi. E per farlo, il meglio che per me si possa, prenderò a guida un luogo profondissimo di san Paolo, nella prima sua Epistola ai Corinti; il quale testo intendo esporvi posatamente, pregandovi a recarvi speciale attenzione. Ecco dunque come ragiona, in sentenza, l’Apostolo.

III. Se il corrompimento, a che era divenuto il genere umano, massime nelle nefande ed empie abbominazioni della idolatria, fosse nato da ragionamento o da discorso, benché erroneo, dell’intelletto, sarebbe certo stato opportuno disfare quell’opera, per mezzo della scienza o sapienza umana, come volete dirla. Ma la cosa era andata tutt’altrimenti: quell’universale corrompimento era originato dall’orgoglio e dalla sensualità, senza che la ragione vi pigliasse alcuna parte, salvo quella di farsi dominare da captiva, di ammutolire e, per colmo d’ignominia, di farsi complice delle cupidigie sensuali e superbe. Così l’ordine primitivo, stabilito dalla Provvidenza, andò fallito per colpa dell’uomo. Secondo quell’ordine primitivo di Dio, che qui l’Apostolo esprime colla frase: In Dei sapientia, il genere umano dalle creature sarebbe dovuto assorgere alla cognizione ed all’amore del Creatore: il che sarebbe stato, secondo la medesima frase di Paolo, cognoscere Deum per sapientiam. Ma non ne fu nulla! ed il mondo non conobbe per iscienza Iddio, secondo la via daLui ordinata. In Dei sapientia non cognovit mundus per sapientiam Deum (1a Cor. I, 21).Stando dunque così le cose, quale vantaggio potea aspettarsi il mondo da una sapienza secondo le sueidee, quando esso se ne avea manomesso, e poco menoche annientato lo strumento? Anzi non pure lo avea annientato, ma colla superbia lo avea reso restio; e lasapienza naturale o lo avrebbe trovato ripugnante, o neavrebbe gonfiato l’orgoglio. Pertanto, non potendo allaguarigione servire più la sapienza, e questa ripugnando anzi a quella, era uopo ricorrere a ciò che è contrario alla sapienza. Ora qual cosa è più diametralmente opposta alla sapienza, se non la stoltezza? Bene dunque! la stoltezza, signori sì! signori sì! la stoltezza proprio prenderà Dio a strumento, per rigenerare il mondo, guasto e folleggiante pei traviamenti di una ottenebrata sapienza. Né a ciò dovea servire lastoltezza in qualunque modo; ma la stoltezza professata, proclamata, predicata; ché il per stultitiam prædicationis è uno degli ebraismi frequentissimi a Paolo, benché egli scrivesse in greco, ed equivale a per stultitiam prædicatam. Eccovi colle proprie sue parole ildiscorso dell’Apostolo: « Non avendo il mondo conosciuto Dio per via di sapienza, secondo il primitivo consiglio divino; piacque a Dio salvare i credenti pervia di predicata stoltezza ». Quia in Dei sapientia non cognovit mundus per sapientiam Deum, placuit Deo per stultitiam prædicationis salvos facere credentes. E sapete che significa propriamente stultitia prædicata? Significa il proclamare una dottrina, innanzi a cui tutta la sapienza umana saria restata sconcertata e confusa; una dottrina, che avrebbe messo alla cima ciò, che la sapienza umana metteva sempre al fondo: e viceversa messo al fondo ciò, che questa metteva sempre in cima; una dottrina, che avrebbe detto bene e beatitudine dell’uomo ciò, che quaranta secoli si erano accordati nel riconoscere per sua suprema miseria: e per converso avrebbe detto miseria suprema dell’uomo ciò, che quaranta secoli si erano accordati nel dire suo bene e sua beatitudine. Questa fu propriamente la stultitia prædicata, pel cui mezzo volle Iddio salvare l’uomo,il quale non avea saputo trovare salute nella sapienza.E fate di rendervi ben chiaro questo punto. Che direste se un qualunque saltasse qui in mezzo a pensare ed adire a rovescio di quello che dicono e pensano tutti? come altro potreste qualificarlo, che per istolto? Ed è egli forse altro la stoltezza, che pensare e parlare a rovescio di ciò che pensa e parla l’universale, non pur dei savi, ma degli uomini? Pure questo appunto fecero gli Apostoli, e segnatamente Paolo, in mezzo ai Gentili: cominciarono solennemente a gridare cose del tutto opposte ai pensieri e dagli affetti del Gentilesimo. Dissero beati i poveri, gli umili, i sofferenti; e ciò in un mondo, che non conosceva cose più abbominevoli della povertà, della demissione, della sofferenza: dissero miseri e di compianto degnissimi i doviziosi, i rinomati, i gaudenti; e ciò in un mondo, che si struggea della rabbiosa fame di dovizie, di gaudii, di rinomanze. Deh! che vi poteva intendere quel mondo in questa non più udita dottrina? Dovette poi crescere a dismisura la sua confusione ed il suo stordimento, quando si udì contare che Iddio, quasi personificando in sé medesimo quella stoltezza, era nato bambino, era stato perseguito in fasce, avea conversato in mezzo agli uomini, patendo fame e sete, e rimbrotti, e calunnie; era stato accusato, trascinato pei tribunali, coperto di scherni, abbeverato di dolori, fino a lasciare la vita sopra di un infame patibolo tra due malfattori, quasi peggiore di ambedue. Or chieggo a voi un’altra volta: che vi potea intendere il mondo pagano nella sfoggiata stoltezza di quelle dottrine e di questo maestro? E vi è di più: se vi ebbe mai tempo meno opportuno a predicare tale stoltezza, fu quello appunto, in cui essa fu predicata. Lo stesso Paolo Apostolo ci fa sapere che, per quei giorni, i Giudei aspettavano portenti strepitosi, e meraviglie non più vedute: i Gentili, distinti da lui col nome speciale di Greci, che erano i più colti, volevano arti, letteratura, scienza, filosofia: Iudæi signa petunt, et Græci sapientiam quærunt. Or bene: a quel Giudaismo, così avido di portenti, gli Apostoli presentarono niente altro, che un Giusto oppresso, che vuol dire la cosa più ovvia, più comune, più vulgare di questo mondo; a quel Gentilesimo, cotanto assetato di scienza, gli Apostoli si presentarono con quella stoltizia della Croce, presumendo con questo mezzo conquidere il mondo, quando era umanamente indubitato, che quello, riuscendo pure a farsi considerare dal mondo, appena avrebbe potuto altro, che esserne esecrato o deriso. Fu quasi volere conquidere la sapienza colla stoltizia, la forza colla debolezza, il godimento col dolore, la nobiltà coll’avvilimento, l’esistente col nulla, il vigoroso col meno di nulla. E pure questo appunto fu il consiglio di Dio. Sed et quæ stulta sunt mundi elegit Deus, ut confun dat sapientes; et infirma mundi elegit Deus, ut confundat fortia, et ignobilia mundi et contemptibilia elegit Deus et ea quæ non sunt, ut ea quæ sunt destrueret (1 Cor. I, 24). Il quale concetto, mentre da una parte era il solo possibile a recarsi in pratica, siccome quello, che avrebbe, colla umiltà e col dolore, guarita la universale malattia nella sua radice, che era l’orgoglio e la sensualità; si presentava dall’altra parte all’intelletto, come la più matta pretensione, come il più bizzarro sogno, che potesse mai cadere in cervello di febbricitante.

IV. Tuttavia quella pretensione che al povero nostro intelletto saria paruta follia, quel sogno così bizzarro, sono oggimai diciotto secoli e mezzo, è un fatto compiuto; e non già come i fatti compiuti del nostro tempo: parola nuova a mantellarne la laidezza della nequizia, vecchia al mondo quanto Caino; ma come il fatto capitalissimo ed unico che informa tutte le tradizioni, che domina tutta la storia, che è improntato in tutti i monumenti, e che è attestato da una sperienza, innanzi alla cui luce non vi è pipistrello, che possa serrare le pupille. Ed i nostri progressisti umanitari possono bene, a loro grand’agio, storpiare le tradizioni, falsare o mutilare la storia, stiracchiare i monumenti e rinnegare la stessa esperienza! Ma fin che vi resta al mondo riverita una Croce, vi resterà un’irrepugnabile testimonianza di quel trionfo, che la stoltezza, predicata dagli Apostoli, ha portato sopra la ventosissima ed elatissima sapienza del Paganesimo. – Ma che parlo io di una sola Croce superstite? e dove possiamo noi volgere lo sguardo, che non la veggiamo sfolgorante di luce, come il sole nel meriggio: Fulget Crucis Mysterium; ed attestante in sua favella questo gran fatto del mondo vinto e trionfato da lei? Lei voi vedete, campata nelle regioni del tuono e delle nubi sopra gli augusti templi di Dio, narrare ai popoli le benedizioni, che colà piovono dal cielo per lei amicato; lei voi scorgete sui giganteschi obelischi, orgoglio che furono del mondo pagano, e servono oggi di degni piedistalli a quel trofeo di perenne vittoria; lei voi osservate tenere il primo posto sugli altari di Dio, ed ivi, tra lo splendore delle faci e tra la nube misteriosa degl’incensi benedetti, essere il precipuo obbietto del culto cristiano; lei voi mirate, ricca di gemme, pendere sul petto dei sacri Pastori, come indice di potestà spirituale: lei sormontare le cristiane corone dei Re, come simbolo di temporale potere; lei voi guardate sulle porte delle città come scudo di sicurezza, lei sui merli delle fortezze come propugnacolo di difesa, lei sulle prore delle navi come schermo dalle tempeste, lei tra i guerrieri vessilli come pegno di vittoria, lei in petto ai cavalieri come distinzione di onore. E forse che a voi Cristiani dovrò io rammemorare le benedizioni che, per la Croce e colla Croce, associata alla invocazione augusta della Trinità sacrosanta, vi furono impartite dal cielo? Essa Croce vi santificò, ancor fantolini, nel santo Battesimo; fatti più grandicelli, vi fu col sacro Crisma segnata in mezzo alla fronte, sede nobilissima del pudore, perché non ne aveste a vergognare giammai; essa acquetò tante volte le agitazioni ed i rimorsi della sbattuta vostra coscienza, schiudendole, colla fiducia del perdono, i sentieri fioriti della speranza;essa benedisse alle vostre nozze, consacrando così il casto amore, onde, al cospetto degli Angeli, stringente una mano diletta, che forse tremò nella vostra; essa vi accompagna per tutta la vita nel segno che o voi ne fate,o vi scende sul capo pel ministero dei vostri Sacerdoti e del vostro Pontefice; essa sarà stretta tra le già incadaverite vostre mani negli estremi aneliti, raccoglierà dalle fredde vostre labbra il supremo bacio dell’agonia; e, spenti che sarete, essa si poserà pietosa sulla vostra tomba, pegno di sicura, e (speratelo! miei devoti uditori, speratelo! ché ne avete bene onde) pegno altresì d’immortale risurrezione e gloriosa. Insomma Fulget Crucis Mysterium, quanto sono lunghi i secoli, quanto è larga la terra; e per lei ha avuto pienissimo compimento la fatidica parola d’Isaia; che cioè il deserto dirupato del Gentilesimo sariasi abbellito come i più aprichi e fioriti giardini, e che quella solitudine sconsolata sariaşi allietata di non più vista allegrezza. Lætabitur deserta et invia et exultabit solitudo (Isai. XXXV, 1). Qui pertanto, con innanzi agli occhi questo così portentoso trionfo, riportato dalla predicata stoltezza della Croce, voi potete sentire in tutta la sua forza l’alta parola di Paolo, che ci rivela un consiglio, il quale solo dalla Sapienza divina potea essere concepito, e solo dalla divina Onnipotenza compiuto. Udite un’altra volta quel contesto ora, che, dalle cose ragionate, siete in grado di tutta intenderne la verità profondissima. « Posciacchè il mondo non avea conosciuto Dio, per via di sapienza, secondo che la primitiva ordinazione divina avrebbe portato; piacque a Dio fare salvi i credenti,per via di predicata stoltezza. » Quia in Dei sapientia non cognovit mundus per sapientiam Deum, placuit Deo per stultitiam prædicationis salvos facere credentes.

V. Nel quale luogo così dichiarato dell’Apostolo io non so se voi, miei amatissimi, abbiate posto mente ad un’apparente incoerenza, che vi si potrebbe notare. E l’incoerenza sembra acchiudersi in questo, che, avendo detto l’Apostolo, che il mondo non conobbe Dio per la via della scienza, mundus non cognovit; pare che nel seguito del discorso si sarebbe dovuto ritenere il soggetto medesimo, e conchiudere, che, per la nuova via della stoltezza, Iddio volle salvare il mondo. Ma no! In questo secondo comma del periodo san Paolo cangia il soggetto, e non dice che Dio volle salvum facere mundum, ma dice che volle salvos facere credentes. Or come va egli cotesto? Eh! no! signori miei; qui non è ombra d’incoerenza: qui è anzi un’assai profonda morale dottrina; e fate di rendervene molto bene capaci. – A non conoscere Dio fu il mondo: a trovare salute per la stoltezza predicata non è il mondo, sono solo i Credenti; e se voi, come vi trovate, così vi volete conservare nel costoro numero avventurato, benché viviate nel mondo, vi dovete, nei pensieri, negli affetti, nelle inclinazioni, nei desideri e nei parlari medesimi, mantenere separati al tutto dal mondo. Questo non pure non capì il Mistero della Croce, ma se ne dichiarò, se ne professa, a viso scoperto, nemico acerrimo; e senza partirsi d’un capello dai pensieri e dagli amori del Paganesimo, sèguita a dire follia ciò che quello disse follia, beatitudine ciò che quello chiamò beatitudine . E così l’aderire a cotesto mondo, nemico della Croce di Cristo, che altro sarebbe, che rendere vano per la nostra salute quell’alto Mistero? che altro, se non evacuare in noi Crucem Christi, secondo la vigorosa espressione dello stesso Paolo? Né credeste che il caso sia molto difficile: io anzi lo reputo molto facile e più comune, che voi per avventura non pensereste; e ciò grazie a quel Naturalismo, fattosi oggimai così universale nel nostro tempo e nelle nostre contrade. E che ci vuole, signori miei, per rinnegare in certa guisa praticamente il Mistero della Croce, ed annullarne in sé medesimo i salutari effetti? Egli basta, che nei vostri giudizi prendiate a norma, non la follia della Croce, la quale professate di venerare; ma la sapienza del mondo, al quale nel santo Battesimo rinunciaste. Con ciò solo voi avete in voi reso vano il Mistero della Croce: Evacuastis Crucem Christi. Che sarebbe poi se, invece di giudicare le cose umane coi dettami della Fede, si volessero giudicare le cose della Fede coi pensieri umani? Ora non è questo il vezzo consueto della nostra società, che pregiasi di progresso? E che altro da tale progresso possiamo attendere, se non un ridivenire praticamente pagani, rimettendo in onore, come unica norma dei nostri giudizi speculativi e pratici, quella umana sapienza, che fu già confusa e trionfata dalla predicata stoltezza della Croce? Il Magno Leone volea che il Cristiano, nello appressarsi a contemplare gli alti Misteri della sua Fede, tenesse lungi da sé la caligine degli umani argomenti: Cum ad intelligendum Sacramentum …. Christi accedimus, abigatur procul terrenarum caligo rationum; volea che dall’occhio casto di una Fede divina si rimovesse al tutto il fumo dell’umana sapienza: Ab illuminatae Fidei oculo mundanæ sapientiæ fumus abscedat (Serm. I De Circumc.). Affatto opposto a queste prescrizioni è lo stile della età moderna, soprattutto tra quelli, che diconsi e sono tenuti sapienti al livello del secolo. Lungi dallo allontanare da loro la caligine degli umani argomenti, questa caligine appunto tolgono a norma dei loro giudizi, intorno ai Misteri della Fede; lungi dal rimuovere il fumo della umana sapienza, quando si tratta di prescrizioni e di consigli evangelici; appunto quel fumo di umana sapienza prendono a misura, per fare stima delle opere e delle parole divine. E qual meraviglia che, volendosi rischiarare colla caligine ed illuminare col fumo, la società moderna si trova oggimai ravvolta in tante tenebre, da farci temere, almeno per una parte di essa, imminente la notte del Paganesimo?

VI. E sapete in che dimora propriamente e fuori metafora cotesto vezzo? Eccolo in due parole. Consiste nel prendere dai dommi, dalle credenze e dalle prescrizioni della morale evangelica tutto quello, che si accomoda coi poveri nostri cervelli e coi nostri cuori corrotti; e questo ritenere come vero, come buono, come utile all’uomo individuo ed allo stesso consorzio civile; magnificarlo, se fia uopo, eziandio siccome bello, per le armonie che ha colla immaginativa e coi delicati sentimenti del cuore: ed il resto? oh! il resto gettarlo via superbamente, come superstizioso ed inutile, o interpretarlo per mito, o intenderlo a rovescio, o, senza molte cerimonie, sfatarlo come favole e fanatismi. La mortificazione cristiana? Ma si capisce che bisogna astenersi da quei diletti che guastano la sanità, che vuotano la borsa e che denigrano la fama: cose che potrebbero dire ed hanno detto Epitteto, Seneca e Plutarco, come le dicono i nostri umanitari, senza sapersi nondimeno che questi le osservino meglio di quelli. Ma quanto a mortificare davvero la carne per espiazione delle proprie colpe, per domarne l’albagia, per averne merito; oh! i nostri barbassori ci riderebbero sotto i baffi a solo sentirne a parlare; ed appena al medio evo sono generosi di perdonare quegli ascetismi. L’amore della povertà? Sarebbe certo la gran bella cosa, quando ne fossero persuase le turbe cenciose ed affamate, che ci assediano coi lamenti, ed in qualche parte del mondo cominciano ancora ad atterrire colle minacce. Se vi riesce con un po’ di Crocefisso persuadere quella marmaglia a contentarsi dei suoi cenci e della sua fame; tanto meglio! essi i sapienti filantropi vi sapranno grado di avere loro agevolato il traffico su quei cenci e su quella fame. Ma venire a contare a loro, che beati i poveri e guai ai ricchi, sono cose, da neppur si credere possibili nel secolo della Economia sociale, del Credito mobiliare, dei Capitali riuniti e del Libero scambio. La Rivelazione indispensabile all’uomo individuo, la Religione elemento essenziale d’ogni umano consorzio? Ma chi ne dubita? tanto solo, che per Rivelazione intendiate il lume della ragione colle verità immediate che essa intuisce, e colle mediate che essa ne trae per fil di logica, senza rifiutare la scorta dei Grandi Uomini, tra i quali si degnano di noverare anche Cristo; tanto solo che per Religione intendiate la civiltà, ossia l’arte di starne molto bene in questo mondo, senza escluderne la voglia di starne anche meglio nell’altro, purché l’altro non ci scemi e non ci turbi tutti i godimenti di questo. – In breve: cotesto è quel Cristianesimo civile, che seconda tutte le cupidità, che si acconcia a tutti i gusti, che si accorda con tutte le sette, che non esclude nessuna Religione, tranne solo la cattolica, apostolica, romana, la quale, perché lo conosce ottimamente per quel che è, lo condanna e lo maledice. Standone ai dettami di questa Chiesa, nel preteso Cristianesimo civile, non possiamo riconoscere, che un Paganesimo redivivo, il quale dell’antico ha le abbominazioni, senza la grandezza; che ha, sopra l’antico, il marchio dell’apostata e del rinnegato; che ha, meno dell’antico, le speranze e le promesse, che pure a quello sorridevano; laddove questo secondo, nato per corrompimento di Cristianesimo sconosciuto, mutilato e storpiato, non può sperare altro in questo mondo, che la barbarie, sequela indeclinabile di una civiltà corrotta ed inverminita, e l’inferno nel l’altro. È parola dura, lo so: io nondimeno ho dovuto dirvi non il molle, ma il vero; ed il vero, nella presente materia, non ha altro nome, che inferno. Riposiamo.

VII. Io vi dissi fin da principio, che le istituzioni si conservano e crescono coi mezzi medesimi, che loro diedero cominciamento. E così, essendo stato il Mistero augusto della Croce il mezzo, di che si valse la Provvidenza, a tramutare il deserto del Paganesimo in questo orto fecondissimo ed in questo giardino di celesti delizie, che è la Chiesa; quel Mistero medesimo è il mezzo più appropriato a conservarci nella Chiesa, come membri vivi di lei, vigorosi contro le seduzioni del senso e le fallacie del mondo, e fidenti di quella beata eternità, che dovrà coronare i dolori e le lotte del nostro pellegrinaggio terreno. Oh! sì! l’alto concetto della Croce, l’amore tenero ed operoso della Croce è il faro più sicuro, che ai nostri occhi può rilucere, nelle tenebre di questo mondo! è la stella polare, che sola, può guidarci e sostenerci nei timori e nei travagli di questa procellosa nostra vita! Ed oh! Come sarei contento! come mi crederei largamente compensato della povera mia fatica, se, nel separarmi da voi, miei desideratissimi uditori, vi potessi lasciare altamente scolpito nella mente e nel cuore il concetto e l’amore della Croce! di quella Croce, la quale Iddio riputò trono unicamente degno di Lui, quando, da Re supremo dell’universo, volle alle nazioni mostrarsi assiso in trono: In nationibus regnavit a ligno Deus. Tenendovi a lei fedelmente uniti, essa vi sarebbe sicurissima difesa contro gli scaltrimenti e gli scandali della società, in mezzo a cui dovete vivere, la quale, come mi sono studiato mostrarlovi in questi giorni, piega manifestamente ai pensieri ed agli amori pagani. E non ricordale a quanti indizi io vi feci accorti di così fatto lamentevole regresso? regresso che è danno suo, ma che all’ora stessa è vostro pericolo presentissimo. Io ve la mostrai separata da Dio, pel Razionalismo che la domina; disordinata riguardo all’Universo, pel cercarvi che fa una felicità, che Dio non vi pose; ignorante dell’uomo, perché ne rinnega o trasanda i destini ultramondiali; fatta schiava delle forze naturali, cui solo riverisce e adora; dedita alle propensioni sensuali, cui, non che giustificare, si studia di annobilire; da ultimo folleggiante in fanatici di amor patrio, i quali, senza riguardo a diritti od a giustizia, ci vorrebbero tutti venduti anima e corpo per le glorie e per la felicità di una patria, della quale essi sono la vergogna maggiore ed il peggiore flagello. Contro tutti questi o errori d’intelletto o traviamenti di cuore, voi sarete premuniti abbastanza, se, a farne giudizio, non vi consiglierete con quello solo, che ve ne dice la natura; ma attenderete precipuamente a ciò, che ve ne insegna la Fede, nei principii speculativi e pratici consacrati dalla Croce. E però ogni qual volta vi avvenga di leggere o di udire cotesti insipienti e perfidi nemici della Croce di Cristo; e voi, levando le pietose pupille al cielo, dite in cuor vostro: o Signor mio! gl’iniqui mi contarono tante cose! nuove, strane, inaudite! Ma io le tenni per favole, non tanto perché mi parvero riprovate dalla mia ragione; non tanto perché le sentii, nel fondo del cuore, condannate dalla voce della mia coscienza, quanto perché le trovai ripugnanti alla santa vostra legge. Narravernt mihi iniqui fabulationes, sed non ut lex tua (Psalm. CXVIII, 85). Così sia.

FINE

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (7)

 IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (7)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO SETTIMO

ARGOMENTO

Amore patrio alla pagana. Quell’amore si fonda nella natura, e pei Cristiani è carità del prossimo. Sacrifizio pel bene comune. Veri patrioti. Come il Paganesimo formasse della patria un idolo. Tirannide di questo e schiavitudine universale. Cristo ne francò il mondo. Solo Signore dei Cristiani è Cristo. Amor patrio e sudditanza nel concetto evangelico. Diritto divino. Politica erodiana.

I. Se non il più giusto, certo il più splendido orgoglio dell’antichità pagana fu quel caldissimo amore di patria, onde gli uomini alla grandezza di lei ogni loro cosa e sé medesimi, alacri, volenti ed in tanto numero, sacrificarono. E pari allo splendore di quella gloria furono le ammirazioni, colle quali i secoli appresso la celebrarono, per opera soprattutto dei retori e degli umanisti. E chi è di noi, signori miei, che alle rimembranze della sua fanciullezza non associi gli stupori e la riverenza pei Temistocli e per gli Epaminondi, pei trecento Spartani e pei diecimila di Senofonte, per Maratona e per Salamina? Chi di noi non ha celebrato, per esercitazione di scuola, gli Orazii e i Curiazii , i Camilli e gli Scevoli, gli Scipioni, i Pompei ed i Cesari, senza che vi mancasse, quando il pedante pizzicasse un poco del libertino, qualche fiore poetico, aggiunto dalla nostra musa balbettante alle civiche corone dei Gracchi, o dell’uno e dell’altro Bruto? Io non cercherò se e quanto siano ben consigliate quelle ammirazioni; questo dico solamente, che quando a quelle ammirazioni poco meno che puerili, vengano dietro insegnamenti, foggiati sulla stampa del Segretario fiorentino, non consolati da un alito di Cristianesimo o da un fiato di Fede, allora non ne può venire altro che lo spettacolo che abbiamo visto noi, che ne stan vedendo i popoli europei da un paio di generazioni, e ne vedranno, chi sa per quante altre! i nostri nipoti. Non ne può venire altro che una storpiata parodia del vecchio fanatismo pagano, tra il goffo e l’atroce non sapreste qual più, ma goffo ed atroce in supremo grado: parodia, per la quale popoli, che anelavano ad una felicità portentosa, si videro travolti in un mare di guai, e che in vece di diventarne gloriosi, furono fortunati, quando ne divennero solamente ridicoli. Né voi, o Romani, per esserne persuasi, avete uopo di risalire alle storie di Pierleone, di Cola da Rienzo o di Arnaldo da Brescia. A voi basta recarvi alla memoria ciò, di che, già poc’oltre a due lustri, voi medesimi foste parte e testimoni. Deh! che era divenuta a quei di questa vostra alma città, Capo dell’Orbe, centro del Cattolicismo, patria spirituale di quanti sono credenti, e gloria e stupore dell’universo mondo? Abbandonata alla balia d’una falange di forsennati, che, come paese di conquista, la correvano qual cosa loro; perduta ogni sicurezza della vita, ogni tutela delle sustanze, ogni riguardo ai diritti, vedea ogni pace, ogni decoro, ogni tranquillità cittadina tolta via; e dolorava intanto allo scorgere esule il suo Pontefice, disertati i suoi templi, perseguiti e manomessi i suoi Sacerdoti, e la pubblica cosa a tali termini divenuta, che essa dovette salutare con gaudio il fulminare delle artiglierie, che, battendola in breccia e squarciandole un fianco, venivano a liberarla da tanti dolori e da tante vergogne. E pure vi è chi vorrebbe cominciare da capo! E che altro chiedereste per convincervi, che sono pur troppo superstiti alla sconfitta quei fanatismi, dai quali eziandio le anime buone sogliono talora sentire qualche offesa? Nondimeno quanto non ci sarebbe agevole lo schermircene, se ci tenessimo saldi alle norme del santo Vangelo! Né credeste già che il santo Vangelo togliesse un pregio al mondo sterpandone quel fanatismo; esso anzi lo liberò dalle esorbitanze di un orgoglio feroce e dall’avvilimento di una schiavitudine codarda. Signori sì! Signori sì! non è a prenderne meraviglia: il tanto vantato amor patrio dei Pagani, salvo i rari casi in cui poté avere qualche naturale rettitudine, come era socialmente professato, era un indistinto di orgoglio e di schiavitudine, in cui solo non può definirsi chi fosse più misero, se chi opprimeva o chi era oppresso. Ma Cristo Redentore, chiamando il Paganesimo alla luce della sua verità, lo sciolse da quel fascino, e ritenendone il naturale fondamento, raddrizzò, ridusse alla sua vera misura, nobilitò e consacrò il medesimo amore della patria, come fece di tutti i legittimi amori. Questo mi studierò di mostrarvi nel presente discorso; e, senza più, prendo le mosse e comincio.

II. Come dunque io vi diceva testè, il fanatismo patrio dei Pagani, con tutte le sue forsennate esorbitanze, avea un fondamento legittimo nella natura. E qual cosa più naturale all’uomo, che amare di tenerissimo affetto il luogo natio? quel luogo natio, a cui si associano tante rimembranze della inconsapevole infanzia e della vaga puerizia; che accoglie tanti nostri beneamati o per vincolo di sangue, o per lunga consuetudine di dolci ami che in ogni via, in ogni piazza, in ogni tempio, starei per dire in ogni zolla ed in ogni sasso ha legata una qualche memoria degli anni che furono, e sembra ripeterci in sua favella i favori onde fummo lieti, le allegrezze e i dolori che partecipammo coi nostri o domestici o concittadini, e fino i lieti sogni della spensierata giovinezza e le speranze! Di questo poi soavissimo sentimento, se di altro mai, si avvera quello che a rispetto di tutti gli altri beni della vita suole avvenire; che cioè si cominciano ad apprezzare, quando si perdono. E voi che ora neppure avvertite gli agi, il decoro, le affezioni che vi circondano in questa nobilissima patria vostra; oh! voi li avvertireste davvero e con ismisurato desiderio li sospirereste, quando (che il cielo non voglia!), esuli da lei, vi aggiraste stranieri tra stranieri sembianti, visitando città, castella e borgate, che, poco dicendo al pensier vostro, affatto nulla non direbbero al vostro cuore; quando sorpresi in luogo solingo dal declinare del giorno, vi avvenisse di ascoltare una squilla da lungi: oh! allora, al rimembrare il nido natio e i cari lontani, sentireste serrarvisi il cuore e gli occhi vi si gonfierebbon di lagrime. Ed ora che questa Roma, sempre ospitale, accoglie tante vittime onorate delle ire civili, chi sa in quanti cuori avranno trovata un’eco affettuosa queste mie parole! – Che se alcuni per divino servigio abbandonano la patria loro, non credeste per questo che essi l’abbiano in poco pregio, o ne siano disamorati e indifferenti, come alcuni odiatori della pietà ne li hanno calunniati. NO! davvero! E quale sacrifizio farebbero essi a Dio, se per niente l’amassero? il sacrifizio consiste appunto nel lasciare per suo amore, e forse per sempre, cosa tanto caramente diletta. – O cielo ammantato d’azzurro! o fulgidi soli e dorati! o tranquille marine! o pendici fiorite, che sorrideste benigne alla mia culla, e forse alle stanche mie ossa non vi farete pietose! oh! Patria mia! Quanto non me li fece più cara la tua sventura! Tu, per ignavia e perfidia di pochi tuoi, di donna, che fosti e reina di province, sei fatta serva; e del servaggio stai cogliendo frutto amarissimo, nelle insidie che si tendono alla gemma dei pregi, che ti fanno cara ai presenti e dai lontani ammirata, alla Fede santissima dei padri tuoi! Sicché vedete che l’amore della patria è cosa legittima, naturale, che nulla non può avere di riprovevole, e che anzi può essere degno di molta commendazione, quando si mantiene nei limiti a lui segnati dalla ragione. Ma deh! questi limiti in quale amore seppe conoscerli e mantenerli la ragione umana, come giacque abbandonata a sé stessa nel Paganesimo? Neppure li sospettò quei limiti: tanto fu lungi dal non preferirli! Ma noi nati alla grazia, noi formati alla scuola dell’amore, noi sappiamo bene onde si origina quell’amore della patria, quanto largo si stende, quai doveri c’impone; ed insomma, illustrati la mente dalla Fede, lo possiamo quasi notomizzare, come colla scorta di san Tommaso ci è agevole a fare di tutte le altre umane affezioni. Ora, come insegna l’Angelico, l’amore della patria non si origina da altra fonte, che dalla carità verso del prossimo; la quale carità, benché nessuno non escluda dal suo affetto, deve nondimeno, per essere ordinata, pigliare la sua norma, appunto dalla prossimità; ed i più vicini amare più e prima, che i più lontani. Così il luogo, ove nascemmo e fummo educati, e gli uomini che lo abitano dobbiamo amare più, che non quelli della nostra Provincia, e questi più di quelli del nostro Stato, e questi più di quelli della nostra Nazione; e così via via, senza che una ragione di amare non manchi mai, quanlunque quell’attinenza, coll’allontanarsi dal centro, si vada facendo sempre più rimessa: appunto come avviene nel simbolo più espressivo dell’amore, che è il fuoco, dal quale quanto più vi allontanate, e tanto meno vi viene di calore. Di che si vede che l’amore della patria non è altro finalmente, che un’ampliazione dell’amore di famiglia, in quanto sono appunto le famiglie, le quali raggruppandosi fanno i Comuni, e questi, congiungendosi tra loro, costituiscono le Province, dalla cui riunione con altre, sotto l’Autorità medesima, è formato lo Stato. E quinci apparisce quanto sia insipiente il nostro secolo, il quale predica tanto l’amore della patria, e poi, col debilitare per tutti i modi l’amore della famiglia, ne scalza e ruina il primo fondamento e forse l’unico. Anzi è così naturale quella genesi dell’amor patrio, che le condizioni di questo si debbono ragionare, appunto per analogia all’amore della famiglia.

III. Ed il primo sentimento cristiano, che in questa materia ci si offre al pensiero, è questo: non essere cioè ordinato l’individuo al bene della famiglia, o della società civile, ma essere la famiglia e la società civile ordinata al bene dell’individuo; e ciò consuona perfettamente con quell’alta dignità, che la nostra Fede riconosce nella umana persona. Che se tutta questa gran macchina del mondo sensibile è costituita ed ordinata a servigio dell’uomo; crederemo poi che l’uomo sia come morto strumento, e mezzo quasi inanimato, pel bene di un essere collettizio, poniamo pure che voluto dalla stessa natura? E perché altro volle natura, che l’uomo nascesse in famiglia, vivesse in società, se non perché gli fossero assicurati i mezzi di ogni suo bene religioso e naturale, morale e fisico? Vero è che il bene della famiglia e della società rifluisce nei particolari soggetti, che compongono l’una e l’altra; ed in questo modo chi fa servigio a quelle lo fa a questi, e tanto più ampio lo fa, quanto la comunanza è più vasta. In tal caso è manifestissimo il principio, che il bene comune deve prevalere al privato, essendo certo che il bene di mille o di diecimila è cosa assai più rilevante, che non è di uno o di dieci. Ma quando si trattasse di vantaggi, i quali o veri beni non sono, o fossero tenuissimi e di pochi, il sacrificare a quelli l’individuo sarebbe uno sconoscere la dignità umana; sarebbe una tirannide in chi lo pretendesse da altri; sarebbe una pazza fantasia, scusabile appena per l’ignoranza, in chi si contentasse di patirlo per sé medesimo. E che direste di un uomo, il quale, per aggiungere un vano titolo alla sua casa, o per crescerne di alquanti scudi il patrimonio, vi rimettesse di sanità, di onore, e quasi che non dissi, vi sacrificasse la vita temporale e l’eterna? Ora ragionate alla stessa maniera della patria, la quale è appunto una grandissima famiglia, di cui siamo membri. Il vero bene di questa consiste nella pace, nell’ordine, e specialmente nella giustizia in tutto e per tutti, senza la quale l’ordine sarebbe fittizio, e la pace saria bugiarda. Ed è naturale che a procurare quei beni alla patria ogni sacrifizio dalla nostra parte saria ben collocato; stantechè se è bello trasandare le proprie utilità, per assicurare quei beni al fratello, al congiunto, all’amico; quanto sarà più il trasandarle per la patria, che vuol dire per l’accolta vastissima di tutti i parenti, di tutti gli amici, di tutti i congiunti, e di quegli altri innumerevoli, che, quantunque sconosciuti, ci sono pure legati col vincolo del medesimo consorzio civile? E quindi si origina la giusta ammirazione, che circonda quei generosi, i quali per assicurare alla patria loro qualche grande e vero bene, e più per liberarla da qualche grande e vera calamità, non dubitarono di esporre ad ogni sbaraglio la propria vita. Questo è propriamente il ponere animam pro fratribus, del quale Cristo insegnò non vi essere atto di carità più eccelso. Di che vedete che, per noi Cristiani, l’amore della patria appena è altro dalla carità verso il prossimo; e se non fosse prostituita la significazione di questa voce, come la voce stessa non è italiana, vorrei dire che i più grandi patrioti furono gli uomini apostolici, i quali spesero tutta la loro vita pel bene morale e spirituale dei popoli, nel cui mezzo vissero ed operarono. Furono, per figura di esempio, per questa Roma il vostro Filippo Neri, per Firenze il suo Antonino, il suo Carlo per Milano, per la mia Napoli il suo Francesco di Girolamo, e così di altri per altre città e regioni diverse. A questa stregua veri patrioti sono, esempli di grazia, que’ benemeriti professori che, decorando la patria della loro scienza, coll’insegnamento e coll’esempio, le apparecchiano, in una gioventù istruita e cristianamente morigerata, ottimi cittadini; sono quei pubblici ufficiali che, col pieno ed accurato adempi mento dei propri doveri, mantengono la buona contentezza nell’universale, guardando il proprio ufficio, non come un beneficio semplice, ma come un vero carico di servire al pubblico: della quale tutto cristiana parola meno d’ogni altro dovrebbero adontarsi gli uffiziali di uno Stato, il cui Sovrano non disdegna intitolarsi Servo dei Servi del Signore. Così, per la ragione dei contrari, non patrioti, ma parricidi sono quegli scellerati che, alle proprie cupidità ed ambizioni pretendendo non so che gloria e prosperità della patria, apparecchiano a questa giorni procellosi, ne contaminano il costume, ne insidiano la Religione, spogliando, perseguitando, proscrivendo e perfino trucidando i più specchiati e zelanti suoi Ministri.

IV. Ora, chieggo io a voi: questo verace amore di patria come poté aver luogo nel Paganesimo, il quale della carità, non che esercitare i doveri, non conobbe neppure il nome? E quando pure si volesse lasciare da banda la carità, come avrebbe potuto il Paganesimo coll’amore della patria ordinare il civile consorzio, quando esso ignorava di questo le condizioni essenziali e la natura? come già Minucio Felice avea notato: Non potest pulchre gerere rem civilem, quia non cognovit hanc communem mundi civitatem (OCTAVIUS, Cap. XVII). Conviene dunquedire, che nel fondo di questo patrio amore si trovassequell’orgoglio smisurato, che era come l’anima e la vitadel Gentilesimo, il quale per questa via, anelando dislargarsi ad obbietto più grande, riusciva a fabbricarsicolle proprie mani un nuovo idelo, a cui servire e percui sacrificarsi. Mi dichiaro; e voi fate di penetrareintrinsecamente in questo mio pensiero; ché forse ragionandovi del mondo antico, vi rivelerò una piaga bendolorosa del moderno.L’uomo, abbandonato a se stesso e perduta, non cheogni conoscenza, ma ogni rimembranza del suo principio, cercò in sé solo l’appagamento compiuto di ogni sua aspirazione. Ma ristretto alla cerchia del proprio individuo, sentì tosto che era vano cercarvi l’adempimento di desiderii che, lui inconsapevole, lo portavano all’infinito. Pertanto, uscito in certa guisa di sé medesimo, cercò nel mondo esteriore qualche cosa più ampia e più permanente, che non fosse l’individuo, angusto sempre, meschino e labile, come il fumo nell’aria o la spuma sull’acqua. Quest’obbietto credette avere trovato nella patria, nella nazione, nello Stato. Quindi si strinse ad esso; e tanto più ad esso si strinse, quanto sperò che, afferrato, in un modo o in un altro, se non il timone di quella gran nave, almeno un remo, avrebbe esso partecipato la potenza, le ricchezze, la gloria, di che sarebbe la patria depositaria e custode. Così quell’autolatria o adorazione di sé medesimo, la quale era il carattere più espressivo dell’uomo pagano, si amplificava, in certa guisa, e si distendeva in uno smisurato ente collettivo, nel quale tutti, adorando sé stessi, adoravano tutti; ed oltre a ciò se ne acquistava qualche sicurezza contro le invasioni degli altri popoli, i quali, però solo che erano forestieri, erano riputati, secondo le idee di quel mondo, non pure barbari, ma nemici. Eccovi dunque della Patria fatto un verissimo idolo, che s’impadroniva di tutto, che assorbiva tutto, che trasformava tutto in sé medesimo; ed eccovi i popoli trascinati ad immolarsi, a vendersi anima e corpo, per la prevalenza e per gl’incrementi di lei .. Né già, vedete, per gl’incrementi della contentezza privata, del costume, della pace, dell’ordine, della giustizia, la quale della pace e dell’ordine è unica norma e sicura custode; ma sì veramente a fare che la patria allargasse, quanto più si potesse, i suoi confini, annettendosi Stati e Province, quante più potesse (vedete come le annessioni sono cose stravecchie nel mondo); a fare che la patria fosse riverita servilmente dalle vicine nazioni e temuta dalle longinque; che potesse disporre dei destini dei popoli e, se fosse possibile, togliesse e donasse corone ai Regi; senza che in tutto questo entrasse altro motivo che l’orgoglio, altro movente che l’interesse, altro strumento che la forza, altro titolo che il diritto del più forte e la prepotenza. Qual parte si promettesse ciascuno di quella potenza, di quelle dovizie, di quello splendore è inutile a dire, quando è manifesto che tutti i liberi cioè i non mancipii, doveano prometterlasi grandissima, benché quasi tutti ne restassero a denti asciutti; come anche a’ dì nostri si è visto in più di un caso e si vede. Nè altro potea essere, stanteché, dovendosi pure innalzare quella smisurata mole (e tutti vi agognavano i popoli, benché un solo vi riuscisse), fu naturale, che a quella mole si dovesse dare per appoggio, per alimento e per sostegno, tutta la immensa turba dei cittadini, i quali, con isnaturato pervertimento, non più pensarono, la patria essere per bene loro; ma si giudicarono, sé essere per bene della patria, ed a quel mostruoso Moloc tutti doversi immolare i più santi affetti, tutte le più legittime propensioni, tutti gl’interessi, tutti i respiri, tutte le vite. Quindi quelle massime, contro cui la natura freme, e che nondimeno lasciarono eco prolissa infino a noi, i cittadini essere proprietà dello Stato; nulla possedersi in proprio da quelli, che dallo Stato non si possa occupare come cosa sua; i figli appartenere, non tanto ai propri genitori, quanto allo Stato, il quale ne può commettere a cui meglio gli sia in grado l’allevamento: per poco non si aggiungerebbe, i cittadini portare la testa sul collo, per graziosa degnazione dello Stato , il quale per ora non vede ancora nessuna sua utilità nel separarnela; ma se la vedesse, non penserebbe un quarto d’ora a fare loro la festa. Ed una società, a questa maniera costituita, che era dunque, se non un immenso branco di pecore, chiamate cittadini, i quali o le quali, perduta ogni coscienza, non che della propria dignità, ma della personale loro indipendenza, viveano atterrati e conquisi dal dominio assoluto di un essere misterioso e inesorabile, che impinguava di oppressioni, vivea di servaggio e si abbeverava, senza mai dissetarsene, di lagrime e di sangue? che altro era, se non un popolo che assassinava stupidamente sé stesso, perché lo Stato fosse abilitato ad assassinare altri popoli? Leggete con occhio cristiano le storie antiche, e voi non vi troverete altro. Erano popoli che si scannavano l’un l’altro per l’ingrandimento della patria rispettiva; e, finito o piuttosto sospeso il macello, trionfava la patria che più aveane uccisi degli altri, e meno ne trovava uccisi dei suoi; ma sempre uccisi. Direte che quella patria aveanla fabbricata essi: direte che volenti a lei e per lei s’immolavano. Ma che per ciò? forse che gl’idolatri non adorarono e non adorano un fantoccio fabbricato dalle loro mani? forse che il forsennato non si getta nel precipizio menando carole? Dite dunque forsennati quegl’idolatri, ed avrete spiegato il mistero. Nel resto quella medesima illusione di vedere nella patria un essere collettizio e quasi un corpaccio immenso, nella cui smisurata ventraia ognuno potea immaginarsi di carpire un siterello, per fruire potenza e ricchezza, quella medesima illusione sparì col decadere della Repubblica romana, concentratane l’autorità nelle mani di Ottaviano Augusto, il quale, col nome di principale, si prese il tutto. Personificatasi la patria in un uomo, quell’uomo fu Imperatore, fu despota, fu idolo, fu Divo, ed ebbe templi, ed are, ed incensi, e sagrifizii; quantunque i pretoriani si avessero arrogato il diritto di mandare all’altro mondo quelle vituperose divinità, quando diventavano intollerabili, e loro, senza più, sostituirne delle altre, che sarebbero spacciate al modo stesso. E si vide così lo spettacolo, prolungato per alquanti secoli, di quasi tutto il genere umano, almeno per la parte fino allora conosciuta ed esplorata, che, incatenato e pavido, allibiva o fremeva ai piedi di un uomo bestialmente mostruoso, spesso sarmata, talora trace, la cui volontà consideravasi come il fato, e la cui persona era adorata come divina. Oh! non vi pare che l’uomo fosse stato così ripagato con larga usura dell’alterigia, ond’erasi sottratto superbamente al dominio del vero Iddio? Da quaranta secoli il genere umano non era mai dechinato sì basso! e ben si dice, nei Fasti cristiani, che nell’anno quarantaduesimo di Augusto tutto il mondo era in pace: era la pace universale della universale schiavitudine! Ora fu proprio quello l’anno, in cui apparve al mondo il Salvatore, il Liberatore per antonomasia, il grande e vero Sospitatore!

V. Rientrata un’altra volta l’umana famiglia, mercè la grazia del Salvatore, sotto il dominio di Dio, se ne ristorò tosto la dignità, non già, vedete, rifiutando obbedienza a quei tiranni: tutt’altro. Mentre i Cristiani erano così perseguiti e manomessi, in tutte le cospirazioni, che si ordivano contro quegli esosi Imperatori, non si trovò che pigliasse mai parte un Cristiano; e Tertulliano sfidava a fronte alta i Gentili a nominarne un solo che l’avesse fatto! Ma sì veramente fu ristorata, per tale rispetto, la dignità umana, facendo che dalle generazioni redente s’intendessero le intime ragioni dell’ordinamento sociale, e la tanta parte, che il Re supremo ha nell’autorità civile, per quanto sia vero, che i depositarii di essa possano abusarne e talora ne abusino. Non più dunque l’uomo fu tenuto proprietà della patria, schiavo della Repubblica, mancipio del Principe o dello Stato. Oh! no! un’anima ragionevole ed immortale è cosa troppo sublime, sicché possa tributare le sue adorazioni ad altri, che a quel Re sempiterno, di cui sa di essere immagine espressiva; e quasi si sente spiracolo vivo. Il carattere del sacrosanto Battesimo, onde abbiamo insignita la fronte, ci onora assai più, che qualunque corona di Monarca non potrebbe; e l’ambizioso Civis romanus , di cui i padri vostri, o Romani, erano cotanto altieri, spari dai loro occhi, al pensiero di essere rinati per Cristo, come il Magno Leone con esso loro se ne gratulava: Nec tam gloriantur quod in Imperio geniti, quam gloriantur quod in Baptismate sunt renati (S. Leon. Serm. XXXVII). Noi amiamo la patria, riveriamo la legittima autorità civile; ma riveriamo questa ed amiamo quella di riverenza di amore ben diversi da ciò, che ne seppe e ne praticò il Paganesimo. Noi amiamo la patria, non come nostro fine ultimo: a questo modo, la nostra vera città, la vera nostra patria è il Paradiso. Noi amiamo altresì la terrena; ma l’amiamo come uno dei tanti mezzi fornitici dalla Provvidenza ad asseguire l’ultimo nostro fine; e perché questa destinazione si avveri, desideriamo che in essa patria fiorisca la Religione, la giustizia, la pace, l’ordine, senza aggiungere grande importanza al timore che essa possa incutere altrui colle sue forze di terra e di mare; e piangeremmo se vedessimo sperperate le sue ricchezze e versato a torrenti il suo sangue in guerre, di cui non si sapesse neppure il perchè, o si sapesse che sono a sostegno della nequizia; ed arrossiremmo quando sapessimo, che la nostra patria avesse perduta ogni fede nel mondo per le sue menzogne diplomatiche, o fosse da tutti guardata in cagnesco per le sue perfidie. Il prosperare materiale della patria piace anche a noi; ma non possiamo volerlo mai come bene assoluto, quale non è nessun bene creato; e così dobbiamo volerlo, e lo vogliamo subordinato ai beni morali ed agli eterni; e non sarebbe così subordinato, quando, per ragione di esempio, quella prosperità materiale, fattasi squisitamente voluttuosa e sibaritica in alquanti gaudenti del secolo, lasciasse ai più la fame, i dolori, le privazioni, una vita di pene incessanti e di fatiche. Per ciò che si attiene all’autorità legittima, il Cristiano non obbedisce all’uomo: no! il concetto dell’uomo, soggetto all’uomo, in quanto tale, è concetto altamente oltraggioso alla dignità di uomo, e più ancora alla professione di Cristiano. No! il Cristiano non ha altro Re o padrone che Dio, e precisamente il Dio Incarnato, e non obbedisce che a Lui solo. Noi coll’Apostolo Giuda professiamo di credere, a Gesù Cristo essere il solo Signore nostro: » Iesum Christum nostrum (Ephes. VI, 5, 6). E se Egli è Solo, non ve n’è, non ve ne può essere altro fuori di Lui. Qui, nei templi santi di Dio, sotto queste auguste volte, tra i solenni concenti dell’organo armonioso, in mezzo alla maestà dei riti cristiani, la nostra plebe, anche scalza, anche cenciosa, fa coro coi suoi Sacerdoti, che cantano altamente e proclamano uno, uno solo essere il Signore, il solo Altissimo Cristo Gesù: Tu solus Dominus, Tu solus altissimus, lesu Christe. E non vi pare, che questi scalzi, questi cenciosi siano al quanto dappiù di quel dorato servidorame, che, tenendo per unico Dio il suo padrone terreno, è dannato a imputridire nelle anticamere, aspettandone l’insigne onore di un comando, o il favore miracoloso di uno scherno? – Che se il Cristiano, com’è suo dovere, riverisce ed osserva eziandio le autorità terrene, ciò è solo, perché Iddio, nell’ordinamento della società e della famiglia, avendo conferita parte della sua autorità a chi alla famiglia od alla società fu preposto, egli il Cristiano in costui non paventa la forza, non teme l’astuzia, molto meno invidia la potenza; ma con semplice cuore riconosce un Luogotenente di Dio, un investito dell’autorità di Lui. Ed oh! che grande! che sublime parola è quella di Paolo là, dove conforta, non che i sudditi, ma gli schiavi medesimi ad obbedire ai loro preposti: “Servi obedite præpositis vestris sicul Deo …. non ad oculum servientes. Avete udito? Non bisogna fermarsi a quello che ce ne dice il senso; non dobbiamo mirarvi l’ambizione, l’ingiustizia, la prepotenza, la cupidità che spesso vi si trova, e più spesso vi si suppone; ma l’essere essi strumenti di Dio. Che se vi paresse strano, che Iddio pigli talora a strumento uomini inetti od anche malvagi, non ci è uopo di prenderne scandalo, e neppure meraviglia. Forse che Dio non castiga cogli scarsi raccolti, colle inondazioni, colle pestilenze, coi tremuoti? E perché dunque non ha potuto pigliare talora a strumento dell’ira sua, eziandio il mal governo di Reggitori incapaci o tristi, valendosene come il padre si vale della verga? Ché egli con questa corregge il figlio, e poscia al figlio riserba la eredità, e la verga getta ad ardere nel fuoco, secondo la viva immagine che ne dà Agostino. Or vedete fonte perenne di dignità, di pace, di contentezza rassegnata per qualunque sia sommesso a superiore potestà, eziandio quando questa o per incapacità tentenni e sbagli, o per malvolere, o per capricci trasmodi! soprattutto quando, riconosciuto da tutti il Potere come dato da Cristo, il suo Vicario in terra possa stendere la mano paterna, a rattento e correzione dei trascorsi di quello. Ma questa dottrina, che in sostanza è il tanto calunniato Diritto divino, e che mantenne il mondo, a tal riguardo, tranquillo per otto secoli, questo sistema, putiva troppo di sagrestia; ed i razionalisti umanitarii vollero rifare essi a modo loro la società. E che riuscirono a fare? scardinata la società europea dall’imo fondo, col sottrarle il fondamento cristiano, fecero una cotal pazza cosa, che né cristiana non è né pagana, ma va barcheggiando sciancata tra l’uno e l’altro, senza avere i vantaggi di alcuna: non la dignità della prima, non la stabilità e la forza della seconda. Dall’assoluta indipendenza individuale passarono a riconoscere l’autorità nelle moltitudini; nella impossibilità di ritrovare in queste il principio di autorità una ed operante, si gettarono alle maggioranze, ossia alla prevalenza del numero; ma essendo in questo troppi capi, si passò alle elezioni ed all’eletto. Talmente che, in ultima conchiusione, per non prestare obbedienza a Dio, si venne a prestare idolatria alla marmaglia; per iscuotersi da qualche dipendenza dalla Chiesa, si restò alla discrezione della piazza; per non riconoscere gli eletti di Dio, si riuscì ad accettare gli eletti del popolo, che significa, con rarissime eccezioni, i più furbi, i quali sanno meglio abbindolare le moltitudini passionate ed imperite. Voi non avete uopo che io vi dichiari gl’insigni guadagni, che con questi nuovi processi ha fatto la società, soprattutto nel costume e nella pubblica quiete, quando vedete le carceri e le galere sempre più amplificarsi, e le rivoluzioni essersi rese cotanto frequenti, che se il loro ricorrere fosse costante, noi potremmo misurare con esse il nostro tempo, come già i Greci facevano colle loro Olimpiadi. Riposiamo.

VI. Mi guarderei bene dal dire, che tutti i politici del nostro tempo esemplano in loro medesimi il perfido ed empio Erode, persecutore del Redentore fino dalla culla. Ma se l’asserzione, scendendo da quell’ampiezza, si restringesse a quei soli politici, i quali o non mai hanno avuto il dono della Fede, o ne fecero miseramente getto, sicchè appena hanno altra norma del loro pubblico operare, che l’ingrandirsi a tutti i patti ed il prepotere, alla maniera gentilesca; ahimè! che sarebbe purtroppo vero il paragone! E che fece finalmente Erode? volle conservarsi un Regno, a cui pare che avesse un qualche diritto, e volle conservarlosi ad ogni costo. E così, sentendo parlare di non so che nuovo nato Re dei Giudei, si dié a giocare di astuzia per saperne prima per minuto, e poscia per disfarsene in tutti i modi. Pertanto un po’ di politica machiavellica coi Magi, fingendo di volerlo adorare, quando avea in animo di sterminarlo; un po’ di acceso risentimento, quando si vide schernito dai Magi stessi, i quali più dell’Angelo si fidarono che non di lui; da ultimo un po’ di sangue infantile versato, un po’ di scipito guaire di madri piangolose, non erano cose da fare dietreggiare la ragione di Stato, la quale volea salvo il diadema, e segua che può. Or chieggo io: se si tolga quel troppo strepitoso macello d’infanti, cui la mitezza dei tempi moderni non vorrebbe tollerare, e quale è parte della politica erodiana, cui non abbiamo vista adoperata sotto i nostri occhi? colla sola differenza, che Erode lo fece per conservare il suo: noi l’abbiamo veduto fare per prendere l’altrui. Fingere ossequio, quando in cuore si cova odio; promettere amicizia, quando si stanno tendendo agguati; perseguitare qualche innocente , schiacciare qualche ardito, non si curare delle lagrime, delle sventure dei deboli, lasciar correre come acqua il sangue dei popoli, oh! e non sono cotesti i primi elementi della politica anticristiana, e peggio che gentilesca, tenuta in onore nel mondo? Ma Iddio che schernì gli scaltrimenti volpini dell’antico Erode, schernirà, siatene certi, anche quelli dei nuovi: Dominus irridebit eos. E valga a sostenere la nostra fiducia il saggio stupendo, che ci sta dando della protezione, onde Egli copre la Chiesa in maniera così analoga a quella, onde già protesse il divino Autore di lei fino dalla culla; massime chi consideri la qualità dei mezzi di cui si vale. Oh! guardate! Tanta strage d’innocenti dovea servire per ravvolgere in quella il temuto Re neonato; e pure il temuto Re neonato fu il solo, che non fosse ravvolto in quella strage. Ora non sapete come, nei disegni dei nemici di Dio e della sua Chiesa, la tempesta scatenata, in questi due ultimi anni, sopra i troni italiani era ordinata principalmente ad abbattere il trono del Vicario di Cristo? E non dimeno (voi lo state vedendo!) il trono del Vicario di Cristo è il solo, che non sia stato abbattuto da quella tempesta: Unus tot inter funera Impune Christus tollitur (Ecclesia in Officio SS . Innoc. Hymn. ad Matut.)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (8)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (6)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (6)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G. NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO SESTO

ARGOMENTO

Illusione lagrimevole. L’istinto e la ragione riguardo alla sensualità. Tre gradi di corruttela. Il Paganesimo servì alla concupiscenza e l’adorò. Cristo francò il mondo da quella tirannide. La Vergine, la Sposa, la Madre: dignità conferita alla donna nel Cristianesimo. V’è onestà nel mondo, ma non è del mondo. Questo paganeggia nelle cose di costume. Segni che se ne hanno: un orrendo che se n’ebbe.

1. Una delle più compassionevoli nostre illusioni è il crederci non rade volte liberi, indipendenti, padroni assoluti di noi medesimi, quando gemiamo anzi in ischiavitudine tanto più lacrimabile, quanto meno avvertita. Mi pare di averlovi accennato altra volta; ma non vi gravi che vel ripeta, parendomi questa opportunissima somiglianza al mio proposito. Noi rendiamo allora immagine di un disgraziato, il quale, rinchiuso in prigione, costretto di ceppi, per farnetico che gli abbia preso il cervello, si creda essere un qualche gran fatto, un Principe, un Re, un Imperatore. Voi non sapreste dire se quel poveretto sia più a compassionare per la perdita della libertà, o del senno. Anzi vi dovrebbe parere questa seconda tanto più deplorabile dell’altra, quanto che per essa la persona perde l’uso della miglior parte di sé; laddove per la prima, gli si possono bene impedire alcune azioni esteriori, ma l’uso delle interne facoltà dell’anima gli resta sciolto ed intero: e può restargli nei ceppi più sciolto e più intero, che molti Re ed Imperatori sui medesimi loro troni non hanno. Or questa fu appunto la condizione dell’uomo pagano, il quale, separatosi da Dio e sconosciuto sé stesso, s’avvisò di essere signore assoluto di sé medesimo; ma ne fu punito, secondo la legge universale che fa servo il ribelle, coll’essere fatto schiavo. Né intendo già parlare della schiavitù propriamente detta, snaturata vergogna, da cui Cristo solo poté tergere la terra : quella fu condizione del massimo numero dei mortali nel Paganesimo, non fu di tutti. Parlo della schiavitù agli oggetti corporei, in cui gemea universalmente il Paganesimo: e più forse in esso quei pretesi Grandi, che si credevano padroni del mondo, in quella appunto, che servivano miseramente ad una voglia impura, ad un capriccio di orgoglio, ad una cupidità insensata e crudele. Voi lo vedeste nello alterarsene le relazioni dell’uomo colla sensibile natura, di cui divenne l’uman genere mancipio, quando pure era stato ordinato ad esserne signore. – Fia pregio dell’opera considerare quella servile condizione del Paganesimo a rispetto di due maniere di forze, che incatenarono ed oppressero l’uomo nella sua doppia qualità di persona individua, e di membro di consorzio civile, di popolo o nazione che vogliate chiamarla. E nel primo modo l’uomo servì alle forze sensuali; nel secondo servì alle forze sociali: ma nell’uno e nell’altro caso fu sempre servo della forza, colla pretensione per soprassetto di essere libero, quando si ravvolgeva come immondo animale nelle proprie sozzure, ovvero se medesimo immolava all’idolo vorace ed ampolloso, in cui il Paganesimo avea fatto degenerare l’amore della patria. Due subbietti sono questi, i quali per la loro ampiezza e rilevanza, vogliono essere trattati in due distinti discorsi; ed io, serbando a domani il secondo, mi tratterrò oggi nel primo. Pel quale intendo mostrarvi, come vergognosamente il mondo pagano servisse alla sensualità, e come Cristo lo līberasse da quel servaggio, recando ai mortali lume e forza bastevole a dominare regalmente, coi santi pensieri e coi casti affetti, quelle propensioni gagliardissime, le quali, inserite nell’uomo dall’Autore medesimo della natura, sono per la libera creatura il campo forse più fecondo di trionfi nobilissimi e d’ignominiose sconfitte. Intendo che di questo maledetto vizio, soprattutto quale fu in voga presso gli antichi, non si vorrebbe ascoltare neppure il nome in adunanza cristiana, essendo tal pece, che eziandio chi voglia tergerne altrui corre rischio di restarne imbrattato. Tuttavolta essendo non pure utile, ma necessario, che se ne favelli alcuna volta, io mi studierò di farlo per guisa, che eziandio i più schivi orecchi non ne abbiano a portare offesa, quanto che piccolissima. Incomincio.

II. E notate innanzi tratto onde si origini nell’uomo quella contraddizione con sé medesimo, per cui da una parte esso è sospinto con prepotente gagliardia alle opere del senso; da un’altra n’è ritratto con più tranquilla e riposata forza, la quale per questo appunto riesce molto spesso meno efficace. Io non farò, che esporvi in breve la dottrina di san Tommaso sopra questo punto. – Essendo la conservazione della specie un bene senza comparazione più rilevante, che non è quella degl’individui; a quella mira sempre la natura direttamente e per sé, ed a questi non mira che indirettamente e quasi per accidente. Pertanto se alla conservazione degl’individui fu provveduto colla propensione al cibo, pensate con quanto maggiore dovess’essere provveduto alla con servazione della specie, dovea essere tanto più gagliarda, quanto era più rilevante il bene, che per essa si voleva assicurato. Quindi in tutti gli animali furono inseriti gl’istinti che conducono alle opere richieste pel mantenimento dell’individuo e delle specie. Ma, oltre alla diversa loro intensità, è altresì diversa la maniera, onde quegl’istinti trovansi negli uomini e nei bruti animali. – In questi l’istinto è governato da una intelligenza, di cui essi non hanno né conoscenza né coscienza; e così senza poterne avere merito di sorta, in loro quegl’istinti non trasmodano mai fuori le norme, onde sono condotti, le quali finalmente sono le norme stabilite dalla Provvidenza. Il perché voi non vedete mai, che le bestie colgano, pel troppo bere o mangiare, ubriachezze, indigestioni ed altre cotali infermità che da quelle şi derivano; se non fossero di quelle bestie, le quali, introdotte in certa guisa nel consorzio civile, sogliono partecipare, come molti pregi, così alcune incomodità ed alcuni difetti della nostra cultura. Ma in generale i bruti animali non disordinano mai nel seguitare i proprii istinti. – Tutto diversamente fu ordinato per l’uomo. Anch’esso dovea avere norma e regola per gl’istinti animaleschi; ma perché questa norma potesse farsi radice di merito e di guiderdone, dovette essere liberamente assentita dall’operante ragionevole; ed alla libertà dell’assenso dovette di necessità prelucere la cognizione intellettiva della norma stessa. In somma gl’istinti hanno sempre uopo di regola: nei bruti l’hanno dalla ragione universale, che la imprime in essi necessaria; negli uomini debbono averla dalla ragione individuale, che la vede coll’intelletto, e vi aderisce colla libertà dell’arbitrio. Ora chi dice regola, dice per necessità limitazione, costringimento, disciplinata direzione di forze, le quali per sé medesime esorbiterebbero all’impazzata con proprio danno ed altrui. Né in altra maniera potreste dare regola ad un fiume, che arginandone la piena, costringendola a scorrere stretta tra limiti; senza i quali strariperebbe, dilagherebbe, perdendo perfino l’essere, il nome e la sembianza di fiume. Un tale costringimento poi negli esseri irragionevoli non reca ripugnanza o contraddizione di sorta; in quanto in essi l’istinto e la sua regola sono radicati nella medesima necessità naturale, e procedono dallo stesso principio. Di qualità che una fiera selvaggia, come è sospinta all’esca, quand’è affamata; così ne è ritratta indeliberatamente quand’è satolla: ed il sopraccaricarsi di cibo le è ugualmente ripugnante, che l’astenersene. – Per converso nell’uomo l’istinto e la regola, procedendo da diversi principii, quali sono la sensualità e la ragione, si trovano bene spesso in contraddizione tra loro; e lo scapestrare sbrigliato del senso non può avere costringimento e direzione, che dal rifrenarlo che dee fare la ragione. Dalla quale teorica di san Tommaso è spiegata ottimamente quella doppia legge, che san Paolo scorgeva e lamentava in sé medesimo, chiamando l’una legge delle membra, e legge della mente o della ragione l’altra, aggiungendo di sperimentarle in perenne ripugnanza fra loro. Video aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meæ (Rom. VII, 23). La legge delle membra è appunto l’istinto, il quale in noi è sgovernato, sconfinato, cieco, violento, smisurato, in quanto non ha altro motivo di gettarsi sul proprio obbietto, se non il trovare soddisfazione in quell’obbietto stesso. La legge della mente è la ragione, è la sinderesi, è il dettame della coscienza, che vede, sente o prescrive, senza alcuna nostra deliberazione, quell’istinto non si potere lecitamente secondare al di là di certi limiti, o fuori di alcune determinate condizioni. E tra questi due elementi siede arbitra la libertà; la quale si dice libertà di arbitrio, appunto perché tocca a lei l’arbitrare tra quei due contendenti. Ma tra questi è manifesto non potervi essere, che ripugnanza e contraddizione; almeno fino a tanto che la legge della mente non abbia preso il sopravvento sopra quella delle membra, imbrigliandola per forma, da non sentirne più alcuno contrasto; ed allora l’uomo si fa quasi Angelo: ovveramente fino a tanto che la legge delle membra non abbia soffocata la legge della mente; ed allora l’uomo si fa quasi bestia caso forse meno infrequente, che non è il primo. Ma nelle consuete condizioni dell’uomo quella lotta è accesa sempre, e se lascia respirare alcun poco, quel respiro ha piuttosto sembianza di tregua passeggera, che non di pace stabile e diuturna. Ora in questa condizione della nostra natura sapete voi per quali gradi si declina a poco a poco, fino ad un’abbiettezza ed avvilimento da fare scendere l’uomo bene al di sotto della bestialità animalesca, alla quale non può mai mancare la regola, perché è identificata coll’istinto stesso? Oh! miei amatissimi! così vi dia il Signore grazia da intendere questo gran vero! di quanto salutare vergogna non brucerebbe più di una fronte cristiana, da cui è forse scomparsa da un pezzo, nonché ogni dignità di Fede, ma ogni pudore di ragionevole creatura! Il primo grado adunque di cadimento è quando la libertà, benché non giunga a reggere e contenere il senso, scorge almeno il male, e lo riprova, lo condanna, lo deplora. Il secondo è quando, oscuratosi a poco a poco il lume della ragione, come il sole per fetidi e grossi vapori di sottostante palude, quella legge della mente resta mutola, inoperosa, svigorita d’ogni efficacia, non dirò a rifrenare l’istinto, che non trascorra ad opere di colpa, ma neppure a riconoscere e rimproverare, quando il trascorso è seguìto. Ma perciocchè la ragione non può rimanere lungamente inoperosa nell’ uomo; quando essa non si esercita a dirigere e governare la sensualità, o almeno a combatterla in buona guerra, avviene quasi sempre che si precipiti nel terzo ed infimo grado, nel quale la legge della mente si fa come complice della legge delle membra, ed in luogo di raffrenarla la sospinge, invece di rifrenarla la istiga. E condotta la cosa a questi termini, chi potrebbe immaginare profondo di abbominazioni e pazzi eccessi e mostruosi, a cui si arriva? Questo è precisamente il caso del proverbio, che corruptio optimi pessima; del quale san Tommaso avea assegnata la ragione in questo, che l’uomo, gettatosi alla sensualità, vi si deprava coll’aiuto di una facoltà ottima; si che quanto questa è più eccellente, e tanto la depravazione ne dee riuscire più squisita, più enorme, più sfoggiatamente abbominevole: fit malus per corruptionem optimæ facultatis.

III. E tale fu appunto la condizione del genere umano separatosi ed allontanatosi dal suo Creatore. La sensualità cominciò fin dagl’inizii a dominarlo e soggiogarlo per forma, che bene ebbe Iddio ragione di ritirare da lui il suo Spirito, come è scritto nel Genesi. Ciò importava che il lume della ragione e della rivelazione primitiva quasi più non servisse a rischiararlo; in quanto le propensioni carnali erano tanto in lui prevalute, che l’uomo oggimai non era altro, che carne. Non permanebit Spiritus meus in homine, quia caro est (Gen. VI, 3). E già sapete che le sozzure di quel mondo antinoetico andarono sì oltre, che appena poterono essere lavate colle acque di un diluvio, che, tranne otto anime, spense la vita in quante creature umane in quel tempo, ci vivevano. Al quale memorando castigo se accoppiate le fiamme piovute, per gran miracolo, dal cielo irato sopra la impura Pentapoli, voi avrete approvato dal fatto questo terribile documento: nessun umano eccesso avere Iddio punito mai con flagelli così universali e così strepitosi, come questo della concupiscenza sensuale. E ciò, credo io, per questo, che nessun altro eccesso ottenebra ed attuta e spegne così il lume della ragione, come questo fa, sospingendo. l’uomo a tutti gli altri vizi, ed alla medesima empietà contro Dio, come notò Lattanzio: ex luxuria ut vitia omnia , sic impietas adversus Deum nascitur (Div. Instit . II, 1). Tuttavolta in quel primo stadio della idolatria orientale, diciamo così, ed arcaica, la lussuria ebbe moltissima parte nel farla nascere; ma, quanto sappia io, non ne fu l’oggetto, e non ebbe culto speciale, se non fosse qualche simbolo, ordinato ad idoleggiare la fecondità della natura, ovvero in qualche piccolo popolo, come il fenicio ed il cananeo, dannato per questo da Dio allo sterminio. Ma in generale la ragione si contentava a tacersi, vinta dalla prepotenza della regnante concupiscibile, e, non che riprovare quegli eccessi, neppure avea forze da gemerne e vergognarne. Era proprio come se più non si trovasse la ragione nell’uomo, dominato, come questo era, dagli appetiti bestiali e sfrenati; ma almeno non se ne era dichiarata complice, avvocata, apologista ed adoratrice. Un privilegio cotanto obbrobrioso era serbato alla raffinata cultura del Paganesimo posteriore, e specialmente del forbitissimo mondo grecoromano. Questo, non pago ad avere la ragione mutola ed inerte per questa parte, la volle aiutatrice all’opera nefanda di corruzione; e l’ebbe per forma, da farne vergognare per lunghi secoli qualunque fronte non sia di bronzo. E qual cosa più ignominiosa di questa, che recare alla piena luce quelle turpitudini, di cui il cinismo più sfrontato arrossirebbe? Né recarle solamente alla luce, ma personificandole in questo o quell’essere fantastico o reale, costituirle in dignità di numi, e innalzare a loro onore are e delubri, e offerire sacrifizii e celebrare feste solenni e solenni riti. Dio immortale! e quale dovea essere una società, il cui supremo Nume, il Nεφεληγερέτα Zεύς [= Nefeleghereta Zeus]  di Omero, il Pater hominumque Deumque di Virgilio, il sommo Giove, era tale cima di sozze furfanterie, di ratti incestuosi e di snaturate libidini, che nessun galantuomo tollererebbe a dì nostri, che gliene fosse appiccata addosso la centesima parte? Ed intendo galantuomo nell’antico significato della parola; chè nel nuovo sarebbe un altro discorso. Certo Arnobio chiedea ai sapienti del Gentilesimo del suo tempo, qual mai colpa avessero essi trovata nel loro Giove, sicchè volessero condensato sul capo di lui una così sformata congerie d’ignominie mostruose? Quid tantum quæso de vobis Iuppiter iste, quicumque est, meruit, quod genus est nullum probri infame, quod in eius non caput, velut in aliquam congeratis vilem luteamque personam? (ARNOB. V, 22). Ma all’Apologista cristiano non sarà certo sfuggita larisposta a quel suo dubbio. Il mondo pagano s’era fabbricato un così turpe Nume supremo, per onestarne, giustificarne, ed all’uopo ancora magnificarne tutte le proprie più abbominevoli turpitudini.Sarebbe lungo troppo e poco dicevole alla santità di questo luogo, ed alla onestà delle vostre orecchie svolgere alquanto la tela di quegl’inverecondi misteri, di quei sozzi arcani, di quegli osceni amori, onde la mitologia antica formicolava; ma voi certo ne saprete giàtanto, che vi basti per inorridire al pensiero di una società , di cui quella mitologia era la religione, il culto,la teologia, la teogonia, la morale, ogni cosa; sicché sacro presso quei miseri dovea suonare poco altro, che lascivo. Basti dire che, secondo ricorda Minucio Felice, vi avea delle sacre solennità, per cui celebrare era più acconcia la donna, che potesse mostrare di avere più spesso violata la fede coniugale; sì che le cosiffatte cercavansi a grande studio: Magna religione conqueritur quæ plura possit adulteria numerare . Basti ricordare dallo stesso Minucio, non avere avuto il Gentilesimo architetti più industri di nefandezze, di quello che fossero i pretesi suoi sacerdoti; né luogo avevano a ciò più acconcio dei loro templi: Ubi aulem magis a sacerdotibus conduntur stupra, tractantur lenocinia , adulteria meditantur, nisi in templis? Sicché,com’egli medesimo osserva, ed io ricordai altra volta,a quelle oscene abbominazioni meglio servivano i templi che non i medesimi lupanari: Frequentius in ædituorum cellulis, quam in ipsis lupanaribus flagrans libido defungitur? (OCTAVIUS, Cap . XXV).Via! nondimeno. E che serve dimorarci a rimestare cotesto lezzo, da cui altro non possono venire, che impuri miasmi e fetide esalazioni? Il pochissimo, che ne ho toccato, vi può ben condurre a formarvi un concetto abbastanza adeguato di quello che fosse il Paganesimo per questo capo. Poco sarebbe il qualificarlo per un immenso postribolo, da cui era sequestrata ogni più languida idea di verecondia o di pudore; bisognerebbe definirlo una smisurata accozzaglia di sozzi animali, a cui la ragione serviva solamente per adorare codardi quelle infami propensioni, ond’erano dominati; senza che vi avesse filosofo, o sapiente, o moralista, il quale non dirò condannasse quegli eccessi, ma che solo ne recasse in dubbio la lecitezza, e che anzi non li credesse legittimissimi. Che se il Senato fece alcune leggi per questo rispetto, ciò fu per attenuare in qualche modo i disastrosi effetti della scostumatezza, non per ombra di riverenza che si avesse alla onestà del costume. Leggete il primo capo di san Paolo ai Romani (Rom. I, 14-19); e da ciò che l’Apostolo gettava in viso ai Gentili, senza che questi potessero, non che giustificarsi, neppur zittire, voi intenderete che lo schizzo, da me delineatone, non è poi condotto con tratti troppo severi.

IV. Dalla quale tirannide, che pesava così ignominiosa sopra il mondo pagano, come Cristo affrancasse le generazioni redente, voi potrete intendere di leggieri, se ripeterete colla memoria ciò, che ieri discorremmo intorno al dominio, che cella grazia può acquistarsi dal Cristiano sopra tutte le cieche propensioni dell’istinto. Ciò che dicemmo della generalità di queste, deve applicarsi con tutta ragione alla particolarità di quella, da cui è sospinta la natura animata alle opere di senso; ed è manifesto che alla sua gagliardia dev’essere ammisurato un aiutorio divino, il quale, a trionfarlo pienamente, non ha bisogno che della cooperazione della nostra volontà. Ma quando questa vi è, la vittoria è più facile e più frequente di quello, che gli uomini carnali non mostrano di voler credere; i quali, col negare perfino la possibilità della continenza, pensano di avere apparecchiata una scusa valevole alla propria vita in viziata ed oscena. E pure ciò che si legge, ciò che si sa, ciò che si vede nella società cristiana ci dovrebbe convincere della verità, che si acchiude in questa parola di un filosofo cristiano, nessuna propensione essere così difficile a dominare, quanto questa del senso, chi non lo voglia davvero: nessuna essere così facile, chi davvero lo voglia; perché, supposta questa risolutezza del volere, la grazia aiutatrice non può mancare; e la grazia è onnipotente. È poi notevolissimo che, a rispetto delle cupidità sensuali, il medesimo principio, onde si deriva la prepotente loro forza, ne rende possibile un pieno ed assoluto trionfo, quale negli altri istinti indarno si cercherebbe. – Io vi dissi fin da principio, quella gagliardia originarsi da questo, che una tate propensione è ordinata alla conservazione della specie, bene sommo e direttamente e per sé voluto dalla natura. Or quinci appunto nasce, che quel bene, non essendo commesso a veruno particolare individuo, ma alla specie, alcuni di questa possono non pigliarvi parte nessuna, non pure senza riprensione, ma con laude nobilissima di serbata purezza. Da questa fortunata radice germinò quel giglio intatto di verginale candore, che è l’ornamento, il decoro, quasi la gemma della Chiesa, e del quale il Giudaismo ebbe quasi dispregio, il Paganesimo non giunse neppure a formarsi il concetto, se non fosse nella microscopica, temporanea e molto problematica continenza delle Vestali. Né solo lo stato della verginità ebbe merito e decoro uguale nel Cristianesimo, ma nel sesso minore la condizione medesima di sposa e di madre furono nobilitate e direi quasi consecrate: quella nella indissolubilità del matrimonio fatto grande Sacramento ed onorabile in tutto, come parlò san Paolo: questa nel sublime uffizio di allevare ed educare cittadini pel Paradiso. Ma quando fu rivelato ai mortali quel tramirabile fra i portenti, operato dalla divina Onnipotenza, la quale in Maria da Nazaret volle riuniti i caratteri nobilissimi di Vergine, di Sposa e di Madre, e ciò a rispetto del Verbo Incarnato; allora il sesso, che diciamo minore, ne acquistò onore tanto e tanto decoro, che nulla non ebbe più quasi ad invidiare al più forte. Oh! sì! Non è a dubitarne! La persona più nobile, che sia nell’universo, a comprendervi gli stessi Angeli; la creatura più eccelsa, che sia uscita dalle mani dell’Onnipotente (e notate che Cristo, benché abbia una creata umana natura individua, né persona umana non è, né creatura); quella persona, dico, di tutte la più nobile, e quella creatura di tutte la più eccelsa, è una donna. Tant’é! – Quando Iddio volle riversare in certa guisa fuori di Sé tutti i tesori delle ineffabili sue ricchezze, togliendo quasi a sé stesso la possibilità d’innalzare a maggiore altezza una creatura, non ne trovò più degno ricettacolo, che il seno castissimo d’una fanciulla giudea. Cosi quello Spirito di Dio, che dall’uomo fatto carne fu ri tirato: non permanebit Spiritus meus in homine, quia caro est; quello Spirito fu ridonato al mondo, in maniera ben altrimenti amplissima, quando venne a riposare nel grembo immacolato di Colei, in cui fu il Verbo fatto carne: Spiritus Domini superveniet in te ….. et Verbum caro factum est. La quale meravigliosa dignità, conferita alla donna nel Cristianesimo, apparisce tanto più preziosa, quanto era più depressa ed avvilita la sua condizione nel mondo pagano. Questo, essendo la tirannide assoluta della forza dovea per conseguenza conculcare spietatamente quella metà dell’uman genere, la quale per antonomasia è detta debole. Deh! che era la femmina presso i Pagani? Devo dirlo? era strumento morto di vili servigi, era animale da razza, era materia abbietta di voluttà più abbiette. Che è essa divenuta nel Cristianesimo? È divenuta donna, cioè domina, cioè signora: nome che io non so se le sia stato attribuito da alcuna lingua antica; e mi pare difficile, perchè mancando esse del concetto, non ne poteano avere la parola. Certo i Giudei la dissero נּשּׁהּ (=nascha), cioè dimenticata, perché di lei non si tenea ricordo nelle genealogie; i Greci la chiamarono γυνή [=gune], forse da γίνομαι [=ghinomai], genero, i Latini l’appellarono mulier, quasi mollior, come pensa sant’Isidoro. Noi, nella nostra lingua cristiana, la chiamiamo domina, perché il Cristianesimo fu il primo ad introdurre nel mondo il nuovissimo, e mai più non udito sentimento del rispetto alla debolezza; ed esso che pelprimo alle infinite turbe degli schiavi avea fatta udirela dolce appellazione di fratelli, fu altresì esso il primo,che fece sentire alla porzione più gentile della umana famiglia quella di signora. Ed è davvero signora la donna, chi consideri il soave impero, che essa nelle famiglie cristiane può esercitare, ed esercita molto spesso col mite ingegno, colle pietose virtù, colla tenerezza del cuore nelle care relazioni dei domestici affetti; chi consideri come la donna, chiamata ad essere anima e perno della famiglia, compagna di amore dell’uomo, e quasi necessario suo lenimento nei bisogni e nelle tempeste della vita, è stata sortita a simboleggiare niente meno, che la Chiesa nella mistica esacramentale significazione del cristiano connubio. E dove è più dunque la tirannide della concupiscenza,quando quella, che n’è il precipuo obbietto, trovasinel Cristianesimo innalzata a tanto eccelsa e tutto spirituale altezza?

V. Piuttosto vi potrebbe parere difficile a dimostrare siccome la società moderna, eziandio per questo capo, rinverté miseramente e di buon passo alle idee pagane. – Oh! che? in un mondo così forbito e che ha in tanto pregio la onestà, la morigeratezza, il buon costume pubblico e privato, diremo riprodotti i mostruosi concetti e le turpi abitudini del Paganesimo? Io, signori miei, riverisco ed inchino tutto quello che la moderna società ha di bene: me ne rallegro, e fo voti che ne divenga ognora più ricca. Tuttavolta, a non torre abbaglio, converrebbe nelle nostre città e nelle nostre famiglie accuratamente sceverare ciò che è cristiano, da ciò che non è, e professa apertamente di non essere. Se questa cernita si facesse, lo so ben io che in ogni condizione si troverebbero uomini di vita morigeratissima nel connubio, od anche fuori di quello; si troverebbero matrone specchiatissime, che sono ornamento o decoro delle famiglie; si troverebbero caste ed innocenti fanciulle che, pur vivendo nel mondo, sanno tenersi separate dal mondo, e, come la mammola nascosa sotto il cespuglio, imbalsamano l’aria della loro fragranza; si troverebbero giovani, pieni di rigoglio e di vita, intemerati e puri, mostrare col loro intatto candore di neanche sentire le fiamme sordide e cocenti della seduzione e dello scandalo. Non fosse altro, si troverebbero a mille a mille quei fortunati di ambi i sessi, i quali, avendo pure alcun poco aleggiato sovresso le sozzure di questo mondo, e non trovato ove posare il piede senza lordarsi, come già la colomba noetica ritornò all’Arca, ed essi, di lei non meno schivi, ripararono nei claustri solitari; ed ivi in quelle caste dimore, alternando la loro vita tra gli scarsi riposi ed il salmeggiare prolisso, attendono di essere fatti consorti dell’immacolato Agnello. Ma tutta questa purezza, che, la Dio mercé, pure alberga nel mondo, non ha nulla che fare col mondo: è cosa tutta cristiana e celeste, e per serbarsi intatta, dee separarsi dal mondo; deve aiutarsi di mezzi sconosciuti, derisi, calunniati dal mondo; deve perfino rassegnarsi a vedersi conculcata, spogliata, proscritta, assassinata dal mondo. E l’Italia, se non lo sapesse , sta avendo tutto l’agio d’impararlo. Che se a siffatto mondo ci restringiamo, ahimè! quanto è vero! alla foga, onde lo vediamo precipitare nei pensieri e negli amori, esso cammina a gran passi, per ridivenire pagano. Né già, vedete, innalzando templi ai Giovi adulteri ed alle Veneri lascive: questo, lo capisco anch’io, non si usa più; ma questo non era propriamente la sostanza, il midollo e, come a dire, la parte formale del Paganesimo, per ciò che riguarda le propensioni del senso. Quella dimorava propriamente nel tacere che facea la ragione, a guida e corregimento di quelle propensioni stesse; dimorava più ancora nell’abuso che faceasi della ragione, per giustificare, per onestare, per irritare, e fino per divinizzare le cupidità sensuali. Ora tutto questo pur troppo si vede avverato nella società moderna; la quale, avendoci, per mezzo dei suoi sapienti umanitari, insegnato l’unico supremo bene dell’uomo essere posto nel soddisfacimento delle proprie propensioni, a satisfare e blandire questa, che è la più prepotente, pensate se non si dovesse mettere a giocare di mani e di piedi! E chi non conosce la indifferenza, onde sono oggimai guardate queste faccende attenentisi a costume, dagli uomini che si pregiano di progresso? E voi lo avrete sentito da loro le cento volte; che quelle soddisfazioni sono finalmente debolezze, a cui si vuol compatire: sono peccatuzzi, a cui si vuol perdonare, e per cui non si vede, come mai la giustizia divina debba tanto inseverire. E questo, signori miei, non è avere condannata al silenzio la ragione? la quale, quando ve ne potesse parlare alto e chiaro, ve ne direbbe ben tutt’altro nel rossore onde, voi quasi inconsapevoli, vi tinge la fronte; nei rimorsi onde, voi ancora renitenti, vi agita la coscienza; nei danni privati e pubblici, che non potete non iscorgere negli effetti della regnante scostumatezza. Ma se, oltre a ciò, volete vedere, come a’ di nostri si abusa altresì la ragione ad aizzare le fiamme impure, quando anzi essa ci fu data per temperarle, voi non dovete che portare attorno lo sguardo per le città nostre, e per quelle segnatamente, dove i nuovi padroni intrusi, ai miseri popoli, estenuati dalle gravezze, scompigliati dalle ire civili, insidiati nella Religione dei padri loro, non sanno dare altro lenimento o compenso di tante calamità, che la licenza degli scandali, e gli scandali della licenza. Girate, dico, per le città nostre: scorrete coll’occhio le poesie, le novelle, i romanzi che più vi sono in voga; osservate, non che negli studii degli artisti, ma nelle private case e nei pubblici ritrovi, le opere di scalpello, di pennello o di bulino che più vi sono celebrate; assidetevi ai teatri o ascoltandone i drammi, o godendone le armonie, o mirandone le danze artificiose e seducenti. In questa rassegna voi vedrete la letteratura, le arti belle e le meccaniche a loro modo, direi quasi le scienze medesime congiuratesi a soffiare in un fuoco, che già per sé medesimo avvampa abbastanza, senza che siavi bisogno di attizzarlo, perché infellonisca più furibondo e più vorace. Ma quello, che propriamente costituisce il carattere speciale del nostro secolo, razionalista ed utilitario, è l’abbandono, lo spregio, la calunnia stessa di tutti quei presidi, onde la pietà cristiana avea assiepata la onestà, appunto perché la conosceva somigliante a specchio tersissimo, cui ogni fiato men che puro può appannare; somigliante a canna fragilissima, cui ogni aura benché leggiera può inchinare. Questi presidii (nessun Cristiano può ignorarlo) sono la purità del cuore, l’uso dei Sacramenti e della preghiera, la devozione filiale alla Beata Vergine, la fuga delle occasioni, la mortificazione della carne: ecco i mezzi che la Chiesa ci fornisce, per trapiantare in terra questo giglio di paradiso, per educarlo all’aura della Fede, e quinci tramutarlo un’altra volta al natio suo luogo, che è il cielo. Ora io non dico che in tempi e paesi credenti tutti adoperavano siffatti mezzi; ma tutti certo li riverivano almeno nella teorica, ed anche nella pratica che altri ne facea per sé; laddove quale è di questi mezzi, cui il nostro secolo miscredente ed orgoglioso non screditi cogli scherni; non vilipenda col disprezzo, non denigri colle calunnie? – Preghiere, Sacramenti, pratiche pietose, e soprattutto mortificazione, sono parole poco meno che barbare pei nostri sapienti: sono cose da idioti, da vecchiarelle scimunite, da fanciulle superstiziose. Per essi oh! Per essi, ne hanno d’avvanzo dalla filosofia e dalla ragione! La filosofia e la ragione, avete detto? Or bene: sostenetemi un istante, fin che respiri, e poscia vi farò un cenno del quanto meravigliosamente la filosoſia e la ragione sogliano, in opera di costume, servire bene i loro cultori.

VI. Se vi è qualità di colpa, che più studiosamente gli uomini si argomentano di coprire, è appunto questa della disonestà, forse per la speciale ignominia che essa racchiude. E nondimeno se vi ha qualità di colpa  che meno si possa coprire, è appunto questa, che ammorba ed appesta, quasi carogna imputridita, un miglio da lungi. Non è dunque ridicolo venirci innanzi con coteste superbie di onestà naturale, quando appena ci è carità cristiana, che basti a coprirne in parte o dissimularne le turpitudini? Ma se io, smessi un poco siffatti riguardi, a questi presuntuosi barbassori del progresso umanitario volessi tastare il polso, od anche solo osservare la lingua, vi mostrerei davvero le febbri ignominiose, onde bollono le vene, ed i sintomi della gangrena che li divora fino nelle midolla delle ossa. Vi mostrerei i connubi male assortiti, peggio trattati e pessimamente conchiusi farsi seminario di cupi rancori, di prolungati dissidi, di gelosie smaniose, per riuscire alle separazioni scandalose, ed ai pubblici svergognamenti. Vi mostrerei un celibato, alla maniera musulmana, essersi fatto di moda tra uomini, che, portando tutti i pesi del matrimonio, le sante e caste delizie ne ignorano, e che avendo pure femmina e nati, né sposa né figli non hanno; ma dopo avere imbizzarrito, lascivi puledri tra vagabonde cavalle, si partono da una terra per essi contaminata, lasciando ad esseri inconsapevoli ed infelici, in perpetuo retaggio, la propria infamia. Vi mostrerei a cento a cento le sventurate fanciulle che, porgendo orecchio inconsulto a fallaci promesse, restarono, come madreperle abbandonate sull’arena spoglie della loro gemma, e piangono e trambasciano e si pentono, ma di tardo, d’inutile pentimento, e resterà inesaudito il loro pianto, come il lamento di tortora solinga sopra ramo vedovato di foglie: intanto che il perfido seduttore le disonesta colle calunnie, e più non le conosce, che per beffarle. Vi mostrerei una mano di fiorente gioventù; speranza che potrebb’essere della società e della Chiesa, gettatasi a disfreno al mal costume, rendersi zimbello e ludibrio di venali amanze, avvicendare la neghittosa loro vita tra la bisca ed il bordello, ed ivi disperdere le paterne sostanze, contaminare la sanità nel suo germoglio, manomettere la riputazione, e finire forse giorni vituperosi e tempestati nello squallore di uno spedale, nelle disperazioni incompiante di una prigione, e forse ancora nella infamia di un patibolo. E non vi basta questo, per convincervi, che l’uomo non ha alcun bisogno del timor di Dio per serbarsi onesto, e che la sola ragione e la filosofia sola a tant’uopo gli possono bastare? E non vi pare che la filosofia e la ragione abbiano serviti bene, e rimeritati meglio questi adoratori non tanto loro, quanto delle proprie animalesche propensioni? E adoratori veramente! ché se fossero essi soli al mondo, non dubito che, Pagani redivivi, innalzerebbero templi ed altari alla concupiscenza. E forse che non fu fatto a memoria dei nostri padri? forse che non ne corse un fremito immenso dall’un capo all’altro dell’Europa? fremito che nelle anime cristiane ancora non posa. Oh! che avranno detto i Santi del Paradiso! come gli Angeli della pace non si saranno velate delle eterne loro penne le lagrimose pupille! quando, nel maggior tempio che segga sulla Senna, sopra l’altare.augusto del Dio vivente, rimossane la effigie benedetta della purissima tra le creature, da mostri sbucati d’inferno, fu collocata (inorridisco a dirlo, e in petto mi trema il cuore! ma il pur dirò!) fu collocata la nudità nefanda d’una prostituta! E i successori di quei mostri, o certo i parteggiani delle coloro dottrine dovranno rigenerare le patrie nostre cristiane e credenti? — Oh! Dio grande! abbiate pietà di questa povera e conquassata Italia! Essa vi offese, è vero, vi oltraggið! ma la dolorosa non ha cessato mai di confessarvi; ed ora vi confessa e v’invoca forse con maggiore affetto, che non fece giammai. No! no! non la vogliate abbandonare, né tutta né lungamente, alla balia dei vostri e dei suoi nemici. Ne tradas bestiis animas confitentes tibi (Psalm. LXXIII, 19).

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (7)

IL SEGNO DELLA CROCE (12)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (12)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA UNDECIMA

6 dicembre.

Il segno della croce è un tesoro che ci arricchisce, comecché preghiera. — Prove. — Preghiera potente: prove. — Universale: prove. —Desso provvede a tutti i nostri bisogni. — Per l’anima l’uomo bisogno di lume. — Il legno della croce li ottiene: prove. — Di farti, il legno della croce li procura: prove.— Esempio dei Martiri.

II segno della croce è un tesoro che ci arricchisce: é questa una delle ragioni di sua esistenza. Ci arricchisce, perché desso è una eccellente preghiera. Ecco, mio caro amico, tu non l’hai dimenticato, il punto di dottrina che stabiliamo in questo momento. La prova è a metà già svolta; chedessa toglie la sua evidenza dall’antichità, universalità, e perpetuità del segno adorando. Nel mezzo dell’universale naufragio in che il mondo, idolatrandosi, lascia perire tante rivelazioni primitive, si vede sfuggire alla devastazione quella del segno della croce. Questo fatto ben chiaro e ragionevole per lo spirito cristiano, che riflette, ma forse per te e per gran numero di uomini incomprensibile, di quali verità è rivelatore? Desso afferma e rivela quanto sia utile all’uomo questo segno; avvegnaché ne mostra tutta la efficacia sul cuor di Dio. Dai ragionamenti passiamo ai fatti! – Il segno della croce è una preghiera, una preghiera potente, una preghiera universale!  È una preghiera. Che cosa è l’uomo che prega? È un uomo che confessa dinanzi a Dio la sua indigenza, indigenza intellettuale, morale, materiale. È il povero alla porta del ricco. Ora il povero dimanda con la voce, ma più eloquentemente col magro e smorto viso, con le infermità, i cenci e l’attitudine, come pregava sulla croce l’adorabile Povero del Calvario! In questo stato il figlio di Dio, più che in altro mai era l’oggetto delle compiacenze infinite del Padre, ed Egli stesso ci dice, che questa preghiera più eloquente, per l’azione che per la parola, fu la leva che innalzò tutto a lui (1 di Joan. XII, 32. Cum exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum. Joan. XII, 32. Humiliavit semetipsum etc. propter quod et Deus exaitavit ilium etc. (Ad Philip. II, 8). – Che cosa fa l’uomo facendo il segno della croce, sia con la mano, che con le braccia? Egli imprime sovra se stesso l’immagine del divino Povero; s’identifica con Lui, è Giacobbe che si copre delle vestimenta di Esaù per ottenere la paterna benedizione. In questa attitudine, espressione di fede, di umiltà e di oblazione, che cosa dic’egli? Egli dice: Vedete in me il vostro Cristo, respice in faciem Christi tui. Preghiera è questa più eloquente di tutte le parole : dessa ascende, dice santo Agostino, ed il soccorso discende: ascendit deprecatiti et descendit Dei miseratio. (August. Serm. 226 De temp.). Tal è il segno della croce, non parla e dice tutto; eloquente silenzio della croce!  È una preghiera potente. Quando l’agente dell’autorità, un delegato di polizia, un sindaco, un gendarme, mette la mano sul delinquente, gli dice: In nome della legge vi arresto. In questa parola in nome, il colpevole vede l’autorità della sua patria, la forza armata, i giudici, il re stesso, e preso da paura e riverenza, si lascia arrestare. Quando l’uomo trovasi in un pericolo, in preda alla sofferenza ed alle infermità, e pronunzia queste parole solenni, in nome del Padre etc, e, pronunziandole, fa il segno redentore del mondo, e trionfatore dell’inferno, il male non può opporre resistenza alcuna. L’uomo non ha forse eseguite tutte le condizioni necessarie al successo? Dio non è, in certo modo, obbligato d’intervenire, e di glorificare il suo nome e la potenza del suo Cristo? Ecco ragione che dell’efficacia particolare del segno della croce, né la Chiesa, né i secoli cristiani hanno dubitato; e teologi venuti in gran fama di profondo sapere insegnano che la croce opera per virtù propria indipendentemente dalle disposizioni di colui, che la esegue. Ne danno varie ragioni; io non ne citerò che due. La prima è l’uso incessantemente ripetuto del segno della croce. Se non producesse, dicono, i suoi effetti di per sé stesso, i Cristiani non avrebbero ragione facendone sì frequente uso. Perché usarne se un movimento dell’anima bastasse ad ottenere e realizzare quanto sperano ottenere e realizzare col segno della croce?  (Dicimus signum sanctissimæ crucis producere suos effectus exopere operato. – Gretzer loc. cit. lib. IV, c 62, p. 703 – Ita etiam doctissimi quique theologi sentiunt, ut Gregorius de Valentia, Franciscus Suarez, Bellarminus, Tyrsus,et alii. – Ibid. – Etcerte nisi ex opere operato crux eflectus suos ederet, non esset cur iam sedulo a ildetibus usurparetur; quia bono animi motu etactu omne iiiud perflcere seque certo possent, quod adhibito crucis signáculo peragunt et sese peracturos sperant. – Ibid.). La seconda riposa su de’ fatti celebri nella storia, e di tale una autenticità da non poter di essi in verun modo dubitare. Il primo è quello di Giuliano Apostata. Quando ruppe a Dio la sua fede, com’è inevitabile, divenne adoratore di satana. Per conoscere l’avvenire, mandò per tutti gli uomini, che in Grecia erano in rapporto con i cattivi spiriti. Un evocatore si presenta, e promettegli piena soddisfazione. Eccoli in un tempio d’idoli: si eseguono le evocazioni, e detto fatto, l’imperatore è circondato di demoni, il cui aspetto gli mette paura. Per sentimento di timore, e senza alcuna riflessione si segna, ed eccoti i demoni disparire. Il mago ne lo rimprovera, e ricomincia le sue evocazioni. Di nuovo le istesse apparizioni. Giuliano si segna nuovamente, e gli spiriti dispariscono. Questo fatto è riferito da San Gregorio di Nazianzo, da Teodoreto ed altri Padri (Ad crucem confugit, eaque se adversus terrores consignat, «unique quem persequabatur in auxilium adsciscit. Valuit signæulum, caedunt doemones, pelluntur timorés. Quid deinde? reviviscit malum, rursus ad audaciam redit; rursus aggreditur; rursusiidem terrores urgent, sursus obiecto signáculo daemones conquiescunt, perplexusque hoeret discipulus. – S. Gregor. Nazianz. Orot. I contra Julian.).  Il secondo è più noto nell’Occidente. La conoscenza di esso noi la dobbiamo al Pontefice San Gregorio, che siffattamente ce ne parla. « Quanto narro non può essere che certo, avvegnaché quanti sono gli abitanti di Fondi ne sono testimoni » (Nec res est dubia quam narro, quia pæne tanti in ea testes sunt, quanti et eiusdem loci habitatores existant. (S. Greg. Dialog. lib. III, c. 7). Un Giudeo dalla Campania si conduceva a Roma per la via Appia. Annottatosi verso Fondi, né potendo trovare ove passar la notte, si cacciò in un diruto tempio di Apollo. Quest’antica dimora di demoni gl’inspirava paura; però, tuttavolta non fosse Cristiano, si muni del segno della croce. Ma che! era già scorsa la metà della notte, ed il timore non gli consentiva dormire, quando una moltitudine di demoni entrò nel tempio, e pareva vi si recassero a rendere omaggio al loro capo, assiso nel fondo del tempio. Questo domandava aciascun di loro quel tanto che avesse fatto per indurre le anime a peccare, e ciascuno gli discopriva le male arti all’uopo usate. Nel mezzo di tali racconti, uno si avanza per narrare come avesse saputo tentare il Vescovo della città. Fino al presente, diceva, tutto avuoto: ma ieri, verso sera ho potuto instigarlo a dare un piccolo colpo sulla spalla della santa donna, che ha in cura l’azienda di lui. Continua, gli rispose l’antico inimico del genere umano, continua e compisci l’opera cominciata; da si grande vittoria ti verrà eccezionale compenso. A siffatto spettacolo il Giudeo respirava a pena: a farlo morir di paura, il presidente dell’infernale convegno ordinò che si prendessero indagini sul temerario, che ardiva rifugiarsi nel suo tempio. La folla degli spiriti si avvicina curiosa al Giudeo, e vedendolo segnato della croce esclama: Malore! malore! un vaso vuoto e segnato. Vae, Væ, vas vacuum et signatum. E cosi detto disparvero! Parimente il Giudeo si affrettò di sortire dal tempio, e si portò alla Chiesa, dimora del Vescovo, e gli narrò come sapesse del colpo dato il giorno innanzi, e lo scopo che il demonio si proponesse. Il Vescovo sorpreso il più che immaginar si possa, commiatò la santa donna ed inibì ad ogni femmina entrare nella sua dimora; sacrò a Sant’Andrea il vecchio tempio di Apollo, ed il Giudeo si rese cristiano (S. Greg. Dial. lib. III, cap. 7).  Citiamo un altro fatto. Le storie di Niceforo ci raccontano come Maurizio Cosro, secondo re di Persia inviasse a Costantinopoli de’ Persiani in ambasciata, i quali aveano nella fronte il segno della croce. L’imperatore domandò loro perché portassero quel segno, cui non credevano. Questo che vedi, risposero, è segno di un benefizio in altri tempi ricevuto; poiché la peste disertava il nostro paese, ed alcuni Cristiani ci consigliarono di segnarci siffattamente come preservativo contro del male. E didatti noi lo credemmo, ed eccoci salvi nel mezzo di migliaia di famiglie distrutte dalla peste (Hist. lib. XVIII, c. 20).  – A questi fatti naturalmente si unisce la riflessione del gran Vescovo d’Ippona, che pare decisiva in favore dell’insegnamento cattolico. « Non è da meravigliare, dice egli, se il segno della croce abbia gran potere quando è eseguito dai buoni Cristiani; poiché dessa è potente ancora quando è messa in uso da quelli che non credono, e ciò solo in onore del gran Re » (S. August. Lib. 83. De quæst. 79). – Ma per restare fra i limiti dell’ortodossia, è da aggiungere, che il segno della croce non opera da sé puramente e semplicemente, ma secondo che è utile alla nostra salute, o a quella degli altri, come di altre pratiche ha luogo, a mo’ d’esempio, gli esorcismi, a cui nessuna promessa divina assicura un effetto infallibile, e senza condizione alcuna. Aggiungasi ancora che la pietà di colui che fa il segno della croce contribuisce alla efficacia di esso. II segno della croce è una invocazione tacita di Gesù crocifisso, epperò la efficacia si proporziona al fervore con cui è invocato. Di maniera, che la invocazione del cuore, o della bocca è tanto più propria ad ottenere il suo effetto, quanto il fedele è più virtuoso e caro a Dio (Gretzer, ubi supra).È una preghiera universale. In un senso il segno della croce può dire come il Salvatore istesso: Ogni potere mi è stato dato nel Cielo e nella terra. Qui ancora più che altrove è da ragionare con i fatti, i quali sono sì numerosi da tornar solo difficile la scelta di essi. Tutti e ciascuno di essi, a sua maniera, proclama, da una parte la fede de’ nostri avi, e dall’altra l’impero del segno della croce sul mondo visibile ed invisibile, e come desso provveda a’ bisogni dell’anima e del corpo.  – Per l’anima l’uomo ha bisogno di lumi, ed il segno della croce li ottiene. S. Porfirio Vescovo di Gaza deve disputare con una femmina manichea. Per dissipare con la chiarezza del ragionamento le tenebre in che era inviluppata la infelice, fa il segno della croce, e la luce brilla in questa intelligenza traviata. – Giuliano, il sofista coronato provoca a disputa Cesario fratello di san Gregorio di Nazianzo. Il generoso atleta scende nell’arena munito del segno della croce, ed appone ad un nemico peritissimo nell’arte della guerra, e della dialettica lo stendardo del Verbo, e lo spirito di menzogna si trovò arreticato nella propria rete (S. Greg. Nazianz. In laud. Caesar). – San Cirillo di Gerusalemme, sì potente in opere ed in parole, comanda si ricorra a questo segno tutte le volte che si debbono combattere i pagani, ed egli afferma che saranno ridotti al silenzio (Accipe arma contra adversarios hujuscrucis; cum enim de Domino cruceque contra infideles quæstio tibi erit, prius statue manu tua Signum, et obmutescet contradicens. -).Nell’ordine temporale non meno che nell’ordine spirituale i lumi divini sono necessari all’uomo: il segno della croce li ottiene. Per la qual cosa gl’imperatori di Oriente, successori di Costantino, costumarono, parlando al Senato di cominciare dal segno della croce (Catech. Illum. IV). – Come di già vedemmo, san Luigi innanzi discutesse in consiglio gli affari del regno, si conformava a questa religiosa ed antica pratica.  Se al pari de’ principi, i più grandi che abbiano governato il mondo, i re e gl’imperatori del secolo decimonono ricorressero a questo segno, pensi che gli affari anserebbero sì male? Per me son convinto, come della mia esistenza, che andrebbero molto meglio. I governi nostri contemporanei hanno minor bisogno di lumi, che quelli d’altri tempi? Hanno essi la pretensione di trovarli altrove che in Colui che ne è la sorgente, lux mundi? Conoscono eglino un mezzo più efficace del segno della croce per invocarlo con successo? Tutti i secoli non depongono per la sua efficacia con ogni maniera di testimonianze? La Chiesa, che dovrebbe essere loro oracolo, non rifinisce dal proclamarlo. V’ha un concilio, un conclave, un’assemblea religiosa che non cominci dal segno della croce? Fedeli ereditieri della tradizione, i preti cattolici parlano essi dall’alto della cattedra senza armarsi di questo segno? Con ciò eseguiscono la prescrizione degli antichi Padri : « Fate il segno della croce, scrive san Cirillo di Gerusalemme e, voi parlerete. Fac hoc signum, et loqueris » (S. Cyrill. Hieros. Catech. XIII).  Quanto dissi de’ re, èda dire di quelli cui è commesso l’insegnamento altrui. Il Verbo incarnato, non è forse il Signore di tutte le scienze, il professore de’professori, il maestro de’ maestri? se il segno della croce presiedesse all’insegnamento moderno, a’ libri che si stampano, credi tu che sarebbero inondati di errori, di sofismi, d’idee false, di sistemi incoerenti, il cui effetto certo è di far discendere il mondo moderno nelle tenebre intellettuali, dalle quali il Cristianesimo l’aveva tratto? Per l’anima l’uomo ha bisogno di forza: ilsegno della croce n’è sorgente feconda. Guarda i tuoi illustri avi, i martiri. A chi questi domandano il coraggio pel trionfo nelle loro battaglie? Alla croce! Generali, centurioni, soldati, magistrati, senatori, patrizi o plebei, giovani e vecchi, matrone e candide vergini, tutti dimandano scendere nell’arena, muniti di questa invincibile armatura, insuperabilis christianorum armatura. Vieni, te ne mostrerò qualcuno. A Cesarea il generoso martire che cammina al supplizio èil centurione Gordio. Lo vedi ? calmo ed in sé raccolto, egli arma della croce lasua fronte (S. Basil. Orat. In S. Gord.).Qual è questa città dell’Armenia assisa nel mezzo delle nevi, e sulle sponde del lago di ghiaccio? È Sebaste. Eccoti verso sera quaranta uomini fra i ceppi, e nudi trasportati nel mezzo del lago condannati a passarvi la notte. Chi sono? Quaranta veterani dell’armata di Licinio. Una forza sovraumana è loro altrettanto più necessaria per resistere, che sulla riva son disposti de’bagni caldi per quelli che rinunziassero alla fede. Fanno il segno della croce, ed una morte eroica corona il loro coraggio (S. Ephrem, Encom. in 40 SS. Martyr.). – Abbiamo di già veduta Agnese segno di croce vivente nel mezzo delle fiamme. Ecco altre vergini nate all’epoca d’oro de’ martiri. La prima è Tecla d’illustre prosapia e più illustre ancora per la fede. I carnefici padroni di essa la conducono al rogo, e dessa coraggiosa l’ascende, e fatto il segno della croce tranquilla resta nel mezzo delle fiamme, ma una pioggia caduta a torrenti estingue le fiamme senza che un capello solo della giovane eroina venisse bruciato (Ado in Martir. 23 Sett.). -La seconda è Eufemia non meno celebre della prima. Il giudice la condanna alla ruota ed in un batter d’occhio il fatale strumento è allestito, per ricevere le delicate membra della giovane vergine. Questa si segna, e tutta sola s’avanza contro la spaventevole macchina armata di punte di ferro, la guarda senza neppure impallidire, ed al suo sguardo lo strumento va in pezzi e schegge (Apud. Sur. T.v., et Baron. Martirol. 16 Sett). Guarda ancora: noi siamo in uno de’ pretori romani che spesso rosseggiò del sangue de’ nostri padri, e fu testimone delle sublimi loro risposte, e della eroica costanza di essi. La persecuzione di Decio è nel suo bollore, e tu conosci questo sanguinario imperatore, che Lattanzio chiama esecrabile animale, execrabile animal Decius. Una folla di Cristiani è dinanzi al giudice incolpata dall’accusatore di mille delitti. I Cristiani sono condannati avanti il giudizio, ed eglino sel sanno. Che cosa fanno? elevano gli occhi al cielo, fanno il segno della croce e rivoltisi al proconsole, gli dicono: Vedrai non esser noi uomini timidi, e di nessun coraggio (Apud sur., 13 April.). Se volessi continuar siffatta storia dovrei fare defilare dinanzi agli occhi tuoi tutta 1’armata de’ martiri non v’ha un solo valoroso soldato del Crocifisso, che non abbia innalzato lo stendardo del suo re. Basti nominarne alcuni: san Giuliano, san Ponziano, i santi Costante e Crescenzio, santo Isidoro, san Nazario, san Celso, san Massimo, santo Alessandro, santa Sofia con le sue tre figlie, san Paolo e santa Giuliana, san Cipriano e san Giustino. Questi di tutti i paesi e di tutte le condizioni rendono testimonianza al costume de’ martiri di armarsi del segno della forza avanti entrassero in battaglia sia con gli uomini, che con le bestie e gli elementi. – V’ha ancor di più : temendo che il peso delle catene impedisse loro di formare il segno della croce, eglino pregavano i loro fratelli, i preti, loro padri spirituali di armarli del segno della vittoria. Corobo, convertito alla fede dal martire Eleuterio, corre nell’anfiteatro per ottenere la corona di martire: « Prega, per me, dice al suo padre in Gesù Cristo, ed armami col segno della croce, con che armasti Felice il condottiere dell’esercito » (Apud. Sur. 18 Aprile). Gliceria, nobile figlia di un padre per tre volte console, è messa nel fondo di una oscura prigione. Vedendosi alle prese con l’inimico, la prima cosa che opera è di pregare il prete Filocrate onde le segni la fronte col segno della croce. Filocrate esegue i suoi desideri dicendole: Il segno di Cristo compisca i tuoi voti (Ibid. III et Baron. T. II).Di fatti la giovane eroina discende nell’anfiteatro, e sul punto di raccogliere la palma della vittoria, rivolta a’ Cristiani confusi tra la folla degli spettatori, cosi dice loro: Fratelli, sorelle, figli e padri, e voi che potete essermi madre, vedete, e considerate, quale sia l’imperatore, di cui abbiamo il carattere, e quale sia il segno che onora la nostra fronte! (Ibid.). – Tu lo vedi; tutti i martiri hanno cercata la loro forza nel segno della croce. Avrebbero eglino cercato un sostegno nel niente? E questo grande Imperatore, per cui morivano, li avrebbe lasciati in siffatta incurabile illusione? Se qualcuno lo crede, ne apporti le prove.

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (5)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (5)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G. NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO QUINTO

ARGOMENTO

Lo spettacolo della natura soggiogó il Paganesimo, invece di rivelargliene l’Autore. Culto tribuito dal Paganesimo alle forze della natura; abbiettezza ridevole di quello. Cristo riordinò l’uomo verso la natura sensibile. Amore ed anche culto del Cristiano per questa. Esso ne domina le lusinghe, ne accetta i dolori, perché gl’intende, e vince la morte.

I. La singolare spensieratezza, onde noi mortali ci aggiriamo continuo in mezzo ad un mondo ricco di tante forze ed adorno di tante bellezze, senza talora degnarle, non che d’un’ammirazione, neppure d’uno sguardo, quella spensieratezza, io dico, non può ad altro attribuirsi, che alla lunga abitudine, la quale toglie alle cose eziandio più meravigliose la meraviglia. Ma io vado pensando tra me, che se un uomo sano ed adulto, col vigoroso esercizio di tutte le sue facoltà, sorgesse, come per incantesimo, di sotterra o piovesse dal cielo, tutt’un tratto, ed abbracciasse la prima volta d’un’occhiata il mondo; oh! questi davvero, al subito spettacolo di tanti portenti d’ordine, di vigore e di bellezza, sarebbe trasportato quasi fuori di sé in un’estasi di stupore. Vedere questa terra vestita di biade, adorna di fruttifere piante ed ammantata di fiori, sustentar tante vite, provvedere a tanti bisogni, fornirci tanti diletti e tante ricchezze, chiudersi in grembo di vaghissime pietre, di preziosi metalli e di gemme pellegrine. Osservare questa sterminata e svariatissima famiglia di bruti animali, e quali vigorosi e pazienti alla fatica per nostro servigio, quali sustanziosi e dilicati al gusto per nostro sustentamento, ed altri vaghissimi in vista e nel gorgheggiare canori, per nostro diletto. Mirare queste acque, dove raccolte in immensi fortunosi Oceani, non preterire i confini loro segnati dal dito di Dio; dove ristrette in maestosi fiumi favorire i commerzi di nazioni tra loro lontane; dove in limpidi ruscelli, dechinando da freschi e verdi poggi, fecondare innaffiando le sottostanti pianure: e queste acque medesime, assottigliate in vapori e librate nel liquido aere, ora condensarsi in piogge, ora indurarsi in grandine, ora spiumacciarsi in candidissime nevi. Ammirare questo cielo, che quasi padiglione maestoso ci si stende sul capo: bello quando versa a torrenti la vita, il calore e la luce nella chiarezza del giorno; ma più bello forse quando, nei sereni silenzii di tranquilla notte, muovono in loro danza i folgoranti astri, mentre veleggia solinga in quel suo mare d’azzurro l’argentea luna, e perle ruggiadose piovono dal manto stellato dell’antica notte. – Ora chi crederebbe che in mezzo di una natura così inestimabilmente splendida e feconda, l’uomo, creato ad esserne il re, abbandonato a sé stesso, lungi dal farsene conoscitore ed ammiratore intelligente, ne fu anzi stupido spettatore, timido schiavo e cultore superstizioso ed abbietto? E pure proprio questa fu la condizione lamentevole dell’uomo pagano, nelle sue attenenze coll’universo sensibile. Esso, separatosi da Dio e se stesso ignorando, non volle conoscere la sensata natura, la quale era stata appunto costituita, per essere come scala, o via mediana tra l’uomo e Dio: due termini a lui ugualmente oscuri ed ignoti. Pertanto la universalità delle cose esteriori, restando pel Paganesimo un libro chiuso, esso non vi lesse nulla di quello che il Creatore vi avea scritto; e sentendo la natura seducente, se ne lasciò sedurre; scorgendola inesplicabile, la disse fatale; sperimentandola prepotente, si abbassò ad adorarla, struggendo incensi ed offerendo sacrifizii a quegli obbietti ed a quelle forze naturali, da cui avrebbe dovuto essere servito come re e signore. Della quale mostruosa perversione credo io, che le medesime insensate creature vergognassero e gemessero e fremessero a loro modo; e così forse può intendersi quella profonda parola di Paolo ai Romani, laddove disse di sapere, che la creatura, fino ai tempi di Cristo, gemebonda dolorava, per partorire una volta quella cognizione del Creatore, alla quale produrre era stata ordinata. Scimus enim quod omnis creatura ingemiscit et parturit usque adhuc (Rom. VIII, 22). E questo appunto ho divisato móstrarvi nell’odierno discorso: come cioè il Paganesimo si rendesse mancipio della natura; come Cristo ce ne restituisse in certa guisa il dominio, abilitandoci colla sua grazia a superarne le seduzioni, a portarne con rassegnata tranquillità le molestie, ed a trionfare perfino la stessa morte. Incomincio.

II. Il dominare la natura sensibile o corporea non importa già, come alcuni maleavvisati potrebbero credere, il valersene ai proprii usi, alimentandoci del regno vegetale e dell’animale, respirando l’aria, rinfrescandoci dell’acqua, riscaldandoci col fuoco. A questa maniera se ne valgono eziandio i bruti animali, e non per questo si dice che essi dominano la natura corporea. Che se noi ne caviamo servigi ed emolumenti assai maggiori, che non fanno i bruti, perché nel valercene ci aiutiamo dell’intelletto; ciò significa che noi per natura siamo da più delle cose irragionevoli ed insensate, ma non ci conferisce alcuna perfezione morale o preminenza sopra di esse. Il trovarci dunque in questa natura sensata colla dignità propria dell’uomo e colla indipendenza da cose tanto minori di noi, suppone primamente l’intenderle per quello che sono; val quanto dire conoscerle come procedenti dall’Autore supremo dell’universo. Suppone secondamente il sapere perché sono, cioè a qual fine prossimo ed immediato furono ordinate, ed il saperlo non già di questa o quella cosa particolare, a che giunge spesso la scienza dei naturali; ma conoscerlo di tutto il complesso di questa gran macchina dell’universo. Il quale doppio conoscimento del che è, e del perché è, appartiene così propriamente alla nostra natura razionale ed intellettiva, che forse è il primo desiderio che si schiude nelle anime giovinette coi primi albori della ragione. E voi, o genitori, che assistete, senza avvedervene, a quel successivo svolgersi della ragione, che va a mano a mano aggiornando nelle care animucce dei vostri figliuoletti, voi avete potuto osservarlo le cento volte in quel richiedervi che essi vi fanno appunto di questo; ed in ogni tempo, in ogni luogo, qualunque cosa nuova si offra al loro occhio o qualunque nuova voce giunga loro all’orecchio, ed essi, afferrandovi pel braccio o tirandovi pel gherone, vi richieggono con molta istanza: babbo, mamma, che è egli codesto? e perché è codest’altro. Anzi se vi ponete mente, vi accorgerete che la domanda: perché è? viene alquanto più tardi dell’altra: che è? in quanto il concetto di causa, inchiuso nella prima, è posteriore al concetto dell’essere espresso nella seconda. Saputo poi che sono e perché sono le cose, cioè saputo che le sono creature di Dio, e sono state fatte ed ordinate da Lui a solo nostro servigio, noi acquistiamo tosto coscienza della nostra dignità, acquistiamo sentimento della nostra stragrande preminenza sopra tutta la natura corporea, della quale sentiamo di essere il fine immediato e lo scopo. O non sapete voi, più degno essere l’oggetto, per cui si fa alcuna cosa, che non la cosa che si fa? come più degno è il vostro figliuolo, che non la vesticciuola od il ninnolo, che gli comperaste in questi giorni per la Befana. Anzi le creature medesime irragionevoli ed insensate starei per dire, che sono, alla loro maniera, liete e gloriose di essere conosciute a questo modo; ché incapaci esse di conoscere Dio, in questo pongono ogni loro vanto, come acutamente osservò Agostino, nel rivelarlo a noi colle loro bellezze è nel farlo conoscere ed amare da noi: Cum noscere non possint, quasi innotescere velle videntur (August. Conf. XI). In questa economia poi tutte le forze della natura, non essendo che ministre di Dio, qualunque benefizio da esse ci venga, e dico ancora qualunque incomodo o danno, si guarda come venuto da Dio medesimo. Dirò più innanzi quanta dignità, quanta pace, quanta contentezza viene al Cristiano dal conoscere ed intendere la natura a questa maniera. Per ora mi è uopo venire all’antico Paganesimo, il quale dal non conoscere le creature a quel modo, trasse appunto gli effetti contrarii a quelli, che ne traggono i Cristiani. – In quel tempo di universale cecità l’uomo, considerandosi come balestrato guaggiù a caso, senza sapere da cui e perché, si vedea abbandonato alla balia della pazza fortuna o del cieco fato, che è tutto lo stesso. L’universale sensibile natura era per lui affatto mutola e diserta; le cose esteriori gli facéano solamente sentire il bisogno che esso ne avea, la dipendenza assoluta da loro, nella quale esso versava; e non trovando schermo che bastasse contro le prepotenti forze di quelle, se ne vedeva spesso vittima e zimbello, senza aver modo, non che di attenuarne gli effetti, neppure d’intenderne il perché. Noi nati alla Fede, noi allevati e cresciuti nel Cristianesimo non possiamo mai interamente svestire i concetti bevuti col latte; e però mal ci potremmo formare un’idea di quello, che dovea essere un uomo ed una società aggirantesi tra quelle tenebre. Generazioni incalzate da tanti dolori privati e pubblici, oppresse da tante sventure naturali ed artificiale, con innanzi agli occhi una morte indeclinabile, di cui s’ignorava al tutto che fosse o a che menasse; e frattanto senza un lenimento al mondo, senza una consolazione, senza una speranza, senza neppure una spiegazione che valesse, proprio come quelli, qui spem non habent (1 Thessal. IV, 12). Quando io vi penso, mi sento compreso e vinto da tanta pietà, che non so quale sia maggiore la mia, o la compassione per tanti milioni di creature umane passate per la vita cosi sconsolate ed afflitte, o la riconoscenza a Cristo Redentore che, per sola sua grazia, a quella misera e svilente condizione ci ha tolti. Ed aggiunsi a vero studio alla qualificazione di misera quella altresì di svilente. Perciocchè qual cosa più vergognosa per un essere intelligente, che il divenire giuoco e ludibrio di creature vilissime, di forze cieche, di un inesorabile fato? Il quale sembra per dileggio detto fato, dall’antico for faris, parlare o dire, perché addirittura il fato non parlava mai e non diceva mai nulla. Ma l’avvilimento del genere umano toccò il suo colmo, quando esso, abusando l’idea di Divinità, che pure ritenea confusamente, l’attribuì, per somma empietà, a quelle creature medesime, che erano state ordinate a servirlo, e se ne fece altrettanti dei, atterrandosi innanzi ad esse con maggiore riverenza , che molti Cristiani non farebbero al presente innanzi alla Croce, od alla medesima santissima Eucaristia. E pure questa fu la più compatibile delle idolatrie, la quale dichiarava dio tutto ciò di cui avesse bisogno o paura, come disse Minucio Felice: Sacra facta sunt, quae fuerant assumpta solatia (OCTAVIUS, cap. XX). E così in Apollo si adorò il Sole, perché fonte di luce e di calore; in Cerere si venerarono le biade, in Vulcano il fuoco, in Eolo il vento, in Bacco avea culto il vino, e così di altri innumerevoli. Anzi non pure le forze cieche della natura e gli oggetti necessarii o minacciosi alla vita erano, senza più, dichiarati divinità ed aveano templi, are e sacrifizii; ma erano divinizzate le azioni .più volgari della vita, da farsene una falange di numi, che si contavano a migliaia, con una stranezza e bizzarria di nomenclature, da imbrogliarvisi dentro i più consummati antiquarii. Certo da Varrone, che ne sapea a menadito, ricorda Arnobio, che una lupa, immemore dei proprii nati, diè nome a Luperca ed ai Lupercali; quod, abiectis infantibus, pepercit Lupa non mitis, Luperca est auctore appellata Varrone; e poscia ricorda di Præstana da præstare, di Pandica o Panda da pandere, di Pellona da pellere; e fino vi avea il genio o dio Lateranus, che presiedeva al focolare, perché questo era costrutto di mattoni, latinamente lateres. Che dirò poi della pavida e ridevole superstizione, onde dipendeano così ciecamente dagli augurii e dagli aruspici, dei quali riderebbero i nostri putti tant’alti, e che erano nondimeno la quintessenza della sapienza sacra di quei grandi uomini dell’antichità pagana. Signori si! io non conto favole! I Fabii ed i Camilli, i Cincinnati e gli Scipioni, anzi i Duci, i Consoli, il Senato, l’esercito ed il popolo allibivano dalla paura e soprassedevano le deliberazioni e le battaglie, se un uccello fosse volato di sbieco, se un maiale avesse grugnito in mal punto, se nelle interiora di un pollo si fosse scoperta una benché lieve magagna, la quale non impedirebbe il vostro cuoco dall’apprestarvene un intingolo alla mensa. Tant’è! la cosa è qui! a tale codarda abbiettezza, a tale vergognosa sommissione alla natura insensata era dechinato il Paganesimo, che un suo sapiente avrebbe temuto più la dea Tosse o la deessa Febbre di quello, che i più vili mancipii non temano la verga del loro padrone.

III . Come Cristo Redentore, colla pietosissima sua venuta e colla celeste sua dottrina, cangiasse in tutt’altra questa scena obbrobriosa e lagrimevole, sottraendo il genere umano alla servitù professata per gli elementi del mondo, e ricollocandolo sopra di quelli, voi potreste intenderlo con niente altro, che col volgere lo sguardo alla società cristiana; anzi con solo consultare i vostri pensieri ed i vostri affetti. Ma badate! io dissi la società cristiana, quale la fece la Chiesa, non quale la vorrebbero rifatta i nostri ammodernatori umanitari, ed in gran parte vi sono riusciti: io intendo i vostri pensieri ed i vostri affetti, quali ve li formò una madre pietosa, e ve li educò un pio maestro od una famiglia cristiana, non quali avete potuto voi storpiarlivi con conversazioni da scredenti o con letture mezzo atee. Se dunque voi in quella società cristiana guardate ed in voi medesimi, vedrete immensa distanza, smisurata differenza che dispaia l’uomo gentile dal Cristiano, nelle sue relazioni colle forze cieche della natura sensata e corporea. Questa pel Cristiano è una vasta orma della Bontà divina; è un raggio quasi sfolgorato fuori da quell’Oceano lucidissimo della ineffabile sua bellezza; e le forze e le operazioni della natura non gli appariscono altrimenti, che come altrettanti benefizii venutigli da un Padre affettuoso, che lo ama e lo provvede non pure del necessario e dell’utile, ma eziandio del dilettevole. Così la rivelazione, nel domma della creazione, non solamente ci ha svelata la verità fondamentale, che chiarisce, purifica, feconda e coordina in una immensa sintesi tutto il caos delle umane conoscenze; ma essa ci ha dischiusa nella medesima natura corporea una sorgente inesauribile di bellezze e di letizie, le quali, nel mondo del tirocinio, sono il saggio e l’apparecchio delle letizie e delle bellezze celestiali della patria. – Sapete pertanto perché noi Cristiani, e noi solamente intendiamo bene la creatura? Perché noi crediamo nel Creatore; e la inestimabile svariatezza degli oggetti che ne circondano, sotto quella luce riflessa della Fede, si abbellano, s’ingemmano, si avvivano in certa guisa e ci parlano in loro favella le glorie del loro Fattore. E i pesci che guizzano silenziosi nelle limpide onde, e i cari augelletti che dei loro canti rallegrano le foreste, e i fiori variopinti, e le erbe odorate, e le placide marine vestite di azzurro espresso dal cielo, e l’aurora inghirlandata di rose, e i dorati zaffiri di un sereno tramonto, e le tremolanti stelle mattutine, e l’iride che coi sette suoi colori s’accorda sì bene coi sette toni della musica; tutto in somma che è venusto, che è bello in questo mondo, lungi dallo sviarci da Dio e farcene dimenticare le ineffabili bellezze, ce ne è anzi testimonio eloquente, e ci conduce soavemente ad ammirarle, a sapergliene grado: dall’ammirazione poi e dalla riconoscenza è piccolo il varco all’amore. Che più? fino questo vuoto aere che ne circonda per tutto e che respiriamo, al nostro occhio cristiano si avviva quasi, si anima, si popola d’intelligenze separate o di spiriti angelici, che vogliamo dirli, mandati da Dio a nostro servigio ed a nostra custodia: concetto sì caro alle moltitudini credenti, che l’arte cristiana non seppe quasi mai istoriare un quadro, senza camparvi per aria alquanti angeletti, od anche solo delle testine alate, simbolo espressivo di esseri, tutta la cui vita è l’intendere, e che vincono di celerità gli stessi venti. Di qui voi vedete che pel Cristiano l’amore, e se volete, ditelo pure senza sospetto, il culto della natura è amore e culto di Dio; stante che, riguardata la natura come immagine del suo Autore, lo stesso alto, che si porta all’immagine, uopo è che si porti e si termini aļl’immaginato, come notò il Filosofo: eodem actu fertur intellectus in imaginem  el in id cuius est imago (Aristot. Phys. VIII). Appunto come voi   mirando con tanto affetto il ritratto del figlio, della sposa o dell’amico lontano, nel ritratto amate propriamente gli originali. Di questo santo e castissimo amore diligevano la natura un Filippo Neri, un Francesco di Sales, un Ignazio di Loiola, e soprattutto quel Serafino di Francesco d’Assisi, che, in tempi di feroci ire e di fraterne stragi, fu mandato dal cielo per ischiudere al mondo tesori di tenerezza e di amore: tesori che, dopo sei secoli, sono ricchi ancora. Per quell’anima innamorata suo caro fratello era il Sole, suora sua diletta gli era la Luna; e fratelli gli erano i fiori ed i passerini, sorelle le semplicette colombe e le modeste viole. Oh! che? non erano forse tutti figli dello stesso Padre? Ed era una delizia a sentirlo inneggiare a Dio dallo spettacolo della natura! udirlo conversare alla dimestica cogli astri lucenti, colle tranquille rugiade, colle rose vermiglie, coi candidi gelsomini e colle innocenti agnellette! Ti parea di essere trasportato, quasi per miracolo, nel giardino di Eden ad ammirarvi l’uomo, quale lo avea fatto e nobilitato Iddio, non quale esso si era ridotto per propria colpa. E vi è più oltre. L’uomo in questa guisa, rigenerato e rimesso quasi sull’antico suo seggio per la grazia del Salvatore, ci mostra qualche cosa di più stupendo, che non fosse lo stesso Adamo innocente. Perciocchè in Adamo innocente quello stato era in piena armonia colla natura; laddove nell’uomo rigenerato è proprio la natura estenuata e guasta, la quale così, trionfata dalla grazia, trionfa.

IV. Né è ch’io non vegga ciò che voi potreste opporre. Voi potreste dire, che anche i Cristiani dopo il Vangelo sono lusingati dalle bellezze seducenti della natura; si veggono tribolati e spesso ancora stritolati dalle prepotenti sue forze, né più né meno di quel che fossero i Pagani; ed in ogni caso vi è la morte, colla quale il mondo cristiano non ha potuto venire a patti più di quello, che potesse già il gentilesco. Voi dite verissimo, signori miei, ed io non potrei certo recare in forse le vostre asserzioni. È indubitato: un oggetto lascivo, un cumulo d’oro, un rinomo glorioso esercitano, per quello che materialmente è in loro, lo stesso fascino sopra un’anima cristiana, che già facesse sopra una pagana: ed i nostri credenti ed i nostri Santi patiscono fame e sete, caldo e freddo, dolori, agonie e morte proprio come le patirono i ciechi ed empi Gentili: questo è certissimo. Ma che perciò? Pretendo io forse che la Redenzione abbia cangiata la natura? Neppure per ombra! La natura è restata la stessa, e lo stomaco digiuno latra, e le folgori incendiano, e le stagioni si stemperano, e i dolori affliggono, e la morte uccide ora, siccome prima, e forse, da che la medicina ha fatto tanti progressi, più presto di prima. Quello che sostengo io è, che per la Redenzione si sono cangiate le relazioni dell’uomo verso la natura corporea; sicché la dipendenza si è fatta libertà, ed il servaggio si è fatto dominio, e le privazioni violente si sono fatte volenterosa rassegnazione, ed il patimento si è mutato in gaudio, e la morte medesima si è cangiata in ferma speranza di eterna vita. Ora vi pare egli poco tatto cotesto? E che è finalmente la schiavitudine, che è il servaggio, se non il perdere la padronanza di sé medesimo, ed essere la persona da forza estrinseca costretta a fare quello che non vorrebbe, od impedita dal fare quello che vorrebbe? Pertanto se un obbietto sensibile mi lusinga a quello, che il mio intelletto ripudia, che la mia coscienza condanna e che la mia ragionevole volontà non vorrebbe; ed io nondimeno mi ci piego, è manifesto che io non fo quel che voglio, ma fo piuttosto quello che non vorrei, e che sento di non dover volere. È proprio la parola di san Paolo, il quale, in persona dell’uomo debilitato per la colpa, dice appunto: Non quod volo bonum hoc facio, sed quod nolo malum hoc ago (Rom . VII , 15 .). Avete notato? Non fo quello che vorrei; ma fo quello che non vorrei. Ora questo appunto è la schiavitudine: fare ciò che l’uomo non vorrebbe fare: ed è schiavitudine tanto più abbietta, quanto è più abbietta la cosa che così ci domina. Il Paganesimo per questa parte, io già vel mostrai, era un popolo di schiavi, perchè tutti a questa maniera servivano agli oggetti sensibili, e non sospettàvano neppure la possibilità del dominarli. Questo fu dono prezioso di Cristo e dell’Evangelio; in quanto che noi, illuminati dalla Fede e confortati dalla grazia, facciamo propriamente quello che vogliamo colla parte migliore di noi, senza che vi abbia, non che cosa terrena, ma potenza creata, che valga ad imporci quello che non vogliamo od a rivolgerci da quello che vogliamo. Eh! questa sì! che è vera signoria di sè, vera libertà ed indipendenza vera! Ma quando noi dalle prescrizioni di Cristo ci dipartiamo, per attaccarci a qualche oggetto illecito, che ci captiva, allora, in quell’atto almeno, diventiamo dipendenti e schiavi di quell’obbietto stesso.- Ed oh! miei cari! fossero meno frequenti quegli atti! ma troppo spesso veggiamo persone anche gravi, anche addottrinate ed autorevoli servire ed obbedire, non dirò ad un paio d’occhi cerulei, o ad una bocchina rosata, ma all’odore di un pollo arrosto in venerdì. Quasi mi vergogno, che siami sfuggita di bocca una così vulgare parola: e ve ne chieggo scusa; ma la sconvenienza che forse vi è stata nel dirlo, vi ammonisca della sconvenienza tanto maggiore che vi sarebbe nel farlo. Ed il peggio si è, che i poveretti si credono di esercitare proprio allora il loro libero arbitrio, quando proprio allora la fanno da schiavi, di cui meno dovrebbero; e se interrogano bene la propria coscienza, si accorgeranno di servire ancora a cui meno vorrebbero. Per converso il Cristiano allora propriamente si fa padrone di tutti gli oggetti sensibili ed allora li domina tutti, quando quelli accetta che vuole, quelli rifiuta che non vuole, e, secondo la bella parola di Minucio Felice, allora propriamente li possiede tutti, quando contro i dettami della ragione e della Fede non ne agogna nessuno. Quæ omnia, si non concupiscimus, possidemus (OCTAVIUS ,. cap . XXXVI).

V. Che se tanta è la differenza dell’uomo pagano dal Cristiano, quanto alle lusinghe della natura, non credeste che sia minore, quanto alle forze della natura stessa, ed agli scomodi, ed ai dolori, ed alle distruzioni che ce ne derivano, compresavi ancora la suprema. Perciocché credete voi che sia piccolo il divario tra il soffrire alcun travaglio coll’assenso della volontà, o colla ripugnanza di essa? Io anzi vi so dire che questo è il tutto; stante che il patire dell’uomo non dimora tanto nella fisica reazione ad esteriori impressioni sgradevoli, quanto nella violenta opposizione della volontà, che a quelle ripugna. Ove questa ripugnanza si togliesse, ove in suo luogo vi succedesse la conformità della volontà stessa, non solo sarebbe tolto ciò che ci ha di più cocente nel patire, ma questo si convertirebbe in rassegnazione e quasi che non dissi in soddisfazione ed in gusto. Oh! che? non sapete con quanta soddisfazione una madre affettuosa si priva del sonno, si priva del cibo, non cura i divertimenti, per assistere le lunghe notti un figliuoletto infermuccio? E quella soddisfazione non si volgerebbe in vera contentezza, in verissimo gaudio, quando essa fosse certa che, con quei suoi disagi, giungerà ad assicurare la vita e la sanità a quel caro sofferente? Ditemi ora voi: Forse che il digiuno, le lunghe vigilie, la solitudine, l’aere putido e graveolente che empie la stanza e circonda il letto di un infermo, non sono incomodi? non sono disag ? Sono, qual dubbio c’è? ma se la volontà, non che accettarli, li desidera, se ne compiace, se ne dice beata; che cosa vorreste più innanzi, perché tutta la persona se ne debba tenere contenta? Supposto dunque che gl’incomodi ed i mali, originati dalle forze necessarie della natura, siano indeclinabili, il vero segreto di attenuarli consisterebbe nel trovar modo, che la volontà non vi ripugnasse, ne fosse anzi non solo rassegnata, ma soddisfatta. – Ora di questo modo il Paganesimo non conobbe, non sospettò un’acca; e chi ne avesse parlato saria stato tenuto poco meno che mentecatto: chi avesse professato di desiderare e di cercare il patimento, saria stato accolto colle fischiate, come sarebbe a’ dì nostri, esempligrazia , un Cappuccino nelle vie di Londra. Come! vi avrebbono detto: accettare, amare, procurare fino il dolore! ma cotesto ripugna al senso comune! come se altri dicesse, che si odii il bene e si ami il male. Ne potea altro essere in una società, la quale appena conosceva altro bene ed altro male che il fisico, e ristretto all’individuo, di cui era bene o male. So che vi avea una setta nominata degli Stoici, che faceano professione di non turbarsi ai mali della vita; e ciò per la sola ragione, che il turbarsene non valeva a medicarli. Ma io non basto ad intendere che razza di conforto dovea essere questo! La impossibilità di schivarlo, lungi dall’attenuare il dolore, spesso lo aggrava; e quella stupida ed orgogliosa insensataggine se vietava i femminili lamenti a sfogo dell’ambascia, traboccava l’uomo nei cupi dispetti e nella sterile rabbia dell’impotenza! Tutto al contrario il Cristianesimo! Esso, rivelandoci da cui ci vengono i mali fisici, i fini perché ci vengono, i frutti di necessaria espiazione e di virtù preziose, che se ne possono cogliere in questa vita, ed i guiderdoni immortali, che ne possiamo sperare nell’altra, ci ha spiegato il dolore, lo ha lenito, lo ha confortato, lo ha reso, non che accettabile, desiderevole. Né ciò il Cristianesimo ha fatto colla sola dottrina (che pure sarebbe molto); ma di questa dottrina ci tiene perpetuamente sotto degli occhi l’attuazione parlante, prima in Cristo, per antonomasia « l’Uomo dei dolori »: Vir dolorum (Isai. LIII , 3), poscia in tutta l’agiografia e nella vivente santità, soprattutto nei claustri religiosi; in quanto quella e questa, esemplando in loro il divino modello, appena sono altro, che la professione delle privazioni e delle sofferenze. Che se l’abbracciarle volontariamente è di pochi, il rassegnarvisi con molta pace può e deve essere di tutti; ed è in fatto di moltissimi, fino a parerci divenuta la cosa tanto comune, che più non vi si bada. E chi è che badi alla risposta dell’infermo o del comunque altro tribolato, che richiesto del come stia, vi risponde: Come Dio vuole? Ed ha ragione! sta come Dio vuole; e stando così, qual cosa più facile, che il conchiuderne di stare ottimamente? E se tutte le forze della natura sono ministre di Dio; se questo Dio è mio Padre amoroso, che vuole la mia eterna felicità più di quello che non possa desiderarla io medesimo; deh! quale calamità privata o pubblica, qual mio infortunio, o dolore, o scomodo, o traversia mi dovrà parere soverchia? lo penso di essere un infermo, e volentieri accetto dal medico i tagli benché dolorosi, i farmaci benché amari, perché so che quei tagli e quei farmaci saranno la mia salute. Io sono un figlio, e lungi dal gravarmene, mi rallegro, quando mi veggo corretto e castigato dal Padre affettuoso, che con ciò mi dà nuovo pegno del suo amore. Dove è dunque la ripugnanza ai mali, se io anzi li accetto, li amo, me ne rallegro? E se io non ripugno, non io servo ad essi, ma essi servono a me per la mia eterna salute; e così io domino, io signoreggio quei mali, perché in sostanza il dominare, il signoreggiare alcuna cosa non è altro, che il potersene valere liberamente a proprio profitto. – E benché questa non sia cosa, che si attenga necessariamente al nostro discorso, non voglio nondimeno preterire di osservare, come questo può applicarsi eziandio a quei mali che ci vengono, non dalle forze della natura irragionevole, ma dalla malizia degli uomini. Alla quale ragione di mali, appunto per quell’ intervento della rea altrui volontà, noi ci sogliamo porgere più impazienti assai e più restii, che non ai naturali. E pure se vi è cosa esploratissima nelle Scritture, nei Padri e nei Dottori, ella è questa; che cioè la malizia stessa degli uomini, in maniera più assai arcana, ma nulla meno vera, è strumento nelle mani di Dio altrettanto docile, che le forze cieche della natura. E benché del morale disordine, che è nella colpa, Iddio non abbia altra volontà che permissiva, cioè quella di lasciare operare le cause seconde alla loro maniera; l’effetto nondimeno, che procede dalla colpa a detrimento degli eletti di Dio , è voluto positivamente da Lui a loro correggimento, a loro santificazione ed ammaestrevole disciplina: proprio come vuole, all’intento medesimo, le mortalità, le grandini ed i tremuoti. Così noi possiamo benissimo in questo modo patire ingiustizie, come purtroppo ne patiamo; ma per noi Cristiani non è mai vero, che ci debba parere ingiusto il patire quelle ingiustizie, secondo la bella parola del Crisostomo: iniusta patimur, sed non iniuste (Homil . XVII ad populum Antiochenum); essendovi una mano segreta e giustissima, la quale, a nostro verace vantaggio, adopera, come le forze cieche della natura, così la de liberata malizia degli uomini e le sapienti loro nequizie.

VI. Ma sopratutto la morte! come non ha cangiato aspetto nel mondo cristiano la morte! E che è finalmente questo spauracchio della povera nostra natura? che è esso mai divenuto, dopo che Cristo è nato, è morto ed è risorto per noi? Niente altro che un riposare, requiescit; niente altro che una migrazione, obitus; niente altro che un sonno, dormitio: ecco come la chiamiamo noi Cristiani; ed i sepolcri sono appunto dormitorii, come suona la greca voce κοιμητήριον [=koimeterion). Talmente che, quando voi vi trovate in uno di questi, dovete fare ragione di trovarvi come, di ferma notte, in un gran corridoio di Religiosi, che dormono quinci e quindi, ciascuno nella sua cella, ed aspettano la sveglia del domani. Oh! sì! anche i nostri trapassati, riposando in questo gran dormitorio che è il cimitero, aspettano una sveglia, che fia più sicura di quella, che desterà i Religiosi. Anzi qualche cosa meno del sonno è la morte, come notò il Crisostomo; in quanto nel dormente sono impedite le migliori facoltà dell’uomo: nel trapassato queste sono speditissime, e solo le minori e le infime restano sospese. – Ora non è questo un averci liberati dalla schiavitudine della morte, la quale pesò già così inesorabile e ferrea sul mondo pagano? Ed oh! che conforto pel passaggio nostro e dei nostri cari! E che hanno gli uomini scredenti del nostro tempo, per confortarsi in questa tremenda necessità della natura? Infelici! essi colla Fede hanno ripudiato ogni dignità, ogni blandimento, ogni consolazione, di che essa si fa madre e ministra! Hanno un bel multiplicare di fiori, di poesie, di necrologie e di bugiarde iscrizioni! Hanno un bello innalzare di monumenti più bugiardi delle iscrizioni, i quali la giusta posterità coprirà di fango, se non si vorrà pigliare il fastidio di ridurli in polvere! Ad essi, Pagani redivivi, la tomba non ha altra risposta a dare, che la già data agli antichi: o un dubbio desolante se sono scettici, od uno stupido nulla se sono materialisti. E per converso quante cose non dice a noi la tomba di un nostro diletto estinto, che dormì nel bacio del Signore! Quanto non ci conforta la fiducia, che esso sappia di noi, preghi per noi, e che noi possiamo stendergli la mano soccorrevole e pietosa, fino in quella regione di pene espiatrici e di speranze! E se morte vi ghermì un fantolino, come fiore appena sbocciato sullo stelo e reciso, deh! qual balsamo alla piaga del vostro cuore non è il dolce pensiero, che esso sia al presente un angioletto di più nel Paradiso! Oh! che? non lo vedete da quei seggi inzaffirati e splendenti invitarvi festoso e farvi cenno, coi cari occhietti e colle innocenti manine, d’andarlo a raggiungere, nella patria comune, in seno a Dio? Riposiamo.

VII. A renderci preziosa la chiamata, che di noi fece il Redentore dalla cecità gentilesca alla luce dell’Evangelio, quand’anche non vi fosse altro, che il ragionatovene quest’oggi, mi pare che noi dovremmo stare continuo colla fronte nella polvere, a professare la nostra gratitudine a tanta rivelata salute. E questa chiamata, come sapete, s’iniziò nel Mistero della Epifania. Dio immortale! qual grazia, qual favore, qual dignità acquistata all’uomo per quella chiamata! Di servi abbietti delle più vili creature, quasi tornati ad essere re e signori della universa natura sensata, intendendone per Fede e ragione lo scopo, dominandone regalmente le seduzioni, sostenendone con rassegnata tranquillità le punture, usufruttuandole a vita eterna, e guardando sicuri in viso la stessa morte; la quale in fin dei conti non potrà fare, che tramutarci da una vita tenebrosa e caduca, ad una infinitamente splendida ed immortale. Talmente che la Chiesa, rammemorando nel Martirologio il giorno della morte dei suoi Santi, lo chiama loro giorno natale o natalizio. Ma ad acquistare tanta dignità, non fanno nulla, miei amatissimi, i ricchi patrimonii, i titoli pomposi, la scienza profana, la potenza del comando, e quanti sono mai altri fallaci beni, di che la umana superbia si gonfia e l’umana cupidità si abbevera. Tutti questi obbietti riescono anzi a difficultarci gravemente quella eccelsa dignità; e quasi sempre signoreggiano essi ed opprimono di vera tirannide gli sciagurati, che troppo li agognano quando non li hanno, o li amano troppo quando, per loro sventura, li ottennero. Quello che ci acquista una tanta dignità è la semplicità del cuore, l’umile sentire di noi medesimi, la partecipazione alla povertà,ai dolori, agli obbrobrii del Redentore. Or queste doti non si trovano comunemente, che nei poveri, nei pusilli, negli spregiati dal mondo, i quali sono per questo appunto i prediletti di Dio e la sua più cara porzione. La quale predilezione Cristo dichiarò fino dal suo nascere, come notò il Magno Gregorio, in quanto che egli prima si manifestò a semplici e poveri pastori, che non ai ricchi ed ai saputi Principi di Oriente. Il mondo avrebbe fatto tutto a rovescio: prima i grandi e poscia i piccoli; ma Cristo sapea bene quel che si fare. Dove siete adunque, o diseredati dalla fortuna, oppressi dagli uomini, perseguitati dalla ingiustizia, schiacciati dalla prepotenza, e che vi divorate, nel segreto del vostro cuore straziato, tante privazioni, tante, lagrime, tanti dolori? oh! dove siete? Venite qua! ché io vi voglio mettere in capo stasera quella corona, che vi compete sopra tutto il creato. Se voi siete fedeli a Dio, non vi è lusinga che vi seduca, non vi è male che vi sgomenti, non dolore che vi vinca, non forza che sopra di voi prevalga. Voi avete tutto quel che volete, perché altro non volete avere da quello che Dio vuole; e se Dio vuole in voi passeggero abbassamento e sofferenze passeggere, vorrà (statene certi!) e molto presto gaudii ineffabili e gloria sempiterna.

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (6)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (4)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (4)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO QUARTO

ARGOMENTO

L’uomo innocente, re delle cose sensibili; scadde da quello stato; esso, come parte dell’universo, non può essere indipendente dalle leggi di questo. Il Paganesimo se ne francò e fu servo. La creatura importa dipendenza, il Creatore sovranità. Legge universale che fa schiavi i ribelli, avveratasi nell’antico Paganesimo, ed in parte nel nuovo. Suggezione cristiana. Cristo ne diede esempio e ne sarà guiderdone.

1 . Nobilissima parte aveva Iddio assegnata all’uomo nel creare e disporre questa grande opera del sensato universo.- Non dirò che tutte le creature corporali, eziandio le dotate di vita sensibile, non ebbero altro scopo immediato, che di giovargli comunque: questa vi parrà forse necessaria condizione di esseri, i quali poteano concorrere alla manifestazione di Dio, solamente col farsene occasione ed invito alle ragionevoli creature. Ma, oltre a questa preminenza naturale, ve ne ebbe un’altra moļto più splendida, e solo per grazioso favore conferita all’uomo. E questa fu l’averlo Iddio « coronato di gloria e di onore », giusta quella eccelsa parola del Salmista: Gloria et honore coronasti eum; in quanto che (come suona ebraicamente la congiunzione et) « lo costituì sopra tutte le opere delle sue mani: » Et constituit eum super opera manuum suarum (Psalm . VIII, 6). L’immensa e svariata schiera dei bruti animali, dei quali al presente tanti o ci sgomentano colla loro ferocia, o ci attossicano coi loro veleni, o ci molestano colle loro infestazioni, sarebbe stata tutta docile ed obbediente al nostro cenno; e noi ci saremmo dilettati al ruggito del leone ed al fischio del basilisco, come fa ora la innocente fanciulla al melodioso lamento dell’usignuolo romito nella foresta. Questa terra che coll’innaffio di tanti nostri sudori ci fornisce ora scarso alimento e misurata bevanda, e talora col negarci scortese or l’uno or l’altra, ci getta nella desolazione delle carestie; questa terra ci sarebbe stata spontaneamente larga dei doni suoi, e noi avremmo visto spuntare, crescere, granire e indorarsi le biade, come oggi veggiamo rigogliosi nelle terre incolte il maligno l’oglio, l’inutile ortica e la selvaggia ginestra. Questa folgore tremenda che, accendendo l’aria di bieca e subita luce, scoscende fragorosa dalla nube squarciata, e sgomenta i cuori, e porta ove meno è aspettata crollamenti, incendii, bizzarre distruzioni ed istantanee morti, questa folgore, dalla felice progenie dell’innocente Adamo saria stata mirata ed accolta con quel diletto, onde voi, o Romani, plaudite ai fuochi artificiosamente disciplinati ed alle maestose esplosioni delle vostre girandole. Che più? questa morte medesima, che al presente ci attrista tanto coi dolori che l’apparecchiano, col taglio che arreca e colla corruzione che le vien dietro, non sarebbe stata neppur conosciuta dall’uomo, qual Dio per grazia lo avea fatto; e lo avea fatto inesterminabile, come parla l’alto scrittore della Sapienza: Creavit hominem inesterminabilem (Sapient. II, 23). Ma ahimè! ché la colpa di origine cangiò la scena! e quale sia divenuto l’uomo dopo quella ed in pena di quella, non è alcuno che possa ignorarlo, se non fosse chi ha perduto perfino il sentimento dei proprii mali. – Ora sapete voi in che dimorò propriamente la rea indole di quella colpa, e l’indole lamentabile della pena, che le corrispose? Quella regale preminenza, onde l’uomo fu costituito sovrano di tutte le creature e soggetto a nessuna di loro, avea per condizione, che esso si fosse mantenuto, per libera soggezione, sommesso a Dio. Rotto quel vincolo di dipendenza soave, fu naturale e giustissimo, che l’uomo fosse fatto dipendente da tutte le creature e soggetto ad esse: ai bruti che lo infestano e talvolta lo sbranano o l’avvelenano; alla terra, che ne logora le forze e ne tradisce le speranze; alle folgori che se non l’uccidono sempre, lo spaventano; alla morte che dalla culla comincia a roderci, e non si cessa, che non ci abbia sospinti nel sepolcro. E tutti i superbi vantamenti e tutte le insulse borie, intorno al dominio acquistato dal nostro secolo sopra la natura, sono fiabe da parabolani. Questo vantato dominio sulla natura appena si riduce ad altro, che ad avere, in piccolissima parte ed in rarissimi casi, attenuati gli effetti disastrosi delle prepotenti sue forze. Nel resto io non so che siasi trovato finora qualche macchina a vapore, potente a rifrenare le eruzioni del Vesuvio, o i tremuoti ruinosi, come quelli di Melfi o di Norcia; né pare che i troppo affezionati alla vita nutriscano grande speranza, che un giorno od un altro si abbia ad inventare qualche nuovo apparato elettrico, che faccia risuscitare i morti, o almeno non morire i vivi. Una cosiffatta penale condizione di dipendenza e soggezione all’universo sensibile si esplicò in tutta la sua forza nel Paganesimo, il quale fu il genere umano separato da Dio, lasciato a sé stesso. In questa condizione la Gentilità non pure ignorò l’uomo, ma radicalmente ignorò l’universo; e sotto l’impero di lei il genere umano, disordinato riguardo al mondo, come in tutto il resto, fu dominato dagli elementi del mondo stesso, come parlò S. Paolo, i quali pure esso avrebbe dovuto dominare: Eratis elementis mundi huius servientes (Galat. IV, 3). Di questo secondo effetto della malaugurata separazione dell’uomo da Dio, debbo ragionarvi quest’oggi; e spero che il soggetto vi riuscirà di pratico frutto fecondo più di quello che forse a prima vista non pare. Incomincio.

II. L’indipendenza! Ecco, signori miei, la gran parola, che sta facendo girare le menti degli uomini ed agitandone i petti da sessanta secoli, quanti, un presso a poco, ne novera la nostra stirpe. Vero è che Iddio ce ne avea conferita quanto n’era compatibile colla nostra natura, la cui libertà d’arbitrio può esercitarsi e spaziare a talento, quanto è lungo e largo il campo del lecito e dell’onesto. Ma volere che l’uomo, parte del l’universo, sia indipendente dall’ordine prefinito all’universo dal Creatore, è un distruggere l’essere ed il concetto di parte e di ordine. Sarebbe ciò, quanto pretendere che nella costruzione, esempli grazia, di un orologio, un perno, una ruota, una molla avessero esercizio e funzione indipendente dalle altre parti e dall’artefice che costruì l’orologio. Non altrimenti nell’universo, nella società civile e nella domestica: la creatura umana individua essendone parte, deve di necessità avere azioni e funzioni sue proprie, da armonizzare con quelle delle altre parti, per tendere e giungere allo scopo prefinito al tutto dall’Autore di questo. Come dunque vorreste dare a questa parte un’assoluta indipendenza dagli ordinamenti di colui che costituì il tutto, e ne volle parte costitutiva la natura umana, attuata negli individui ed assembrata in consorzio di società civile o di famiglia? Ora non potendo l’uomo, parte dell’universo, essere indipendente dall’ordine dell’universo, non può neppure essere dalla legge, la quale finalmente non è altro, come insegna san Tommaso, che « ordine della ragione » Ordinatio rationis (2, q. 61, a. 1). Il quale concetto nobilissimo abbiamo noi improntato nei nostri linguaggi cristiani, in quanto presso di noi ordinare ed ordine suona il medesimo, che prescrivere o comandare, prescrizione o comando: riscontro che non so se si avverasse in alcuna delle lingue antiche. – Di tutto cotesto il mondo pagano non conobbe, non poté forse conoscere mai nulla! L’universalità delle cose era ai suoi occhi un libro chiuso, o certo tale, che esso ne ignorava l’alfa e l’omega, il principio ed il fine, Dio e l’uomo; tra i quali l’universo trammezza, come estrinsecazione di Dio per manifestarsi all’uomo, e come scala all’uomo per levarsi a Dio. Della quale meravigliosa armonia la scienza antica non capì, non seppe, non sospettò un iota, come Minucio Felice osservava: Quod ipsum (cioè la condizione della creatura ragione vole nell’universo), explorare et eruere sine universitalis inquisitione non possunt; quum ita cohærentiæ connexa, concatenata sint, ut nisi divinitatis rationem diligenter excusseris, nescias humanitatis (Octav.). Or pensate se e come si sarebbe potuto divinitatis ratio diligenter excuti, quando neppure sapeasi se la vi fosse!A questi termini condotto l’uomo pagano; perduto, anzi non avendo mai posseduto il bandolo di questa matassa arruffata, che dovea parergli la sua natura e l’universo,il dentro di sé ed il fuori di sé; esso si restrinse, si rigirò e si ripiegò in sé medesimo, si raggomitolò incerta guisa, cercando nei suoi istinti, nelle sue propensioni, se volete pure nella sua ragione ogni bene,ogni bello, ogni vero; e credendosi di essersi fatto indipendente da tutto, si trovò, come già il figliuol prodigo nel deserto, nella solitudine, condannato a cercare da sé solo ed in sé solo la dignità, la scienza, la felicità, ogni cosa. Or questo era propriamente uno sconoscere, un rinnegare il suo essere di parte armonizzata coll’universo; era un costituire sé medesimo fine dell’universo, il quale tutto, all’uopo, si saria potuto immolare a lui; e l’uomo pagano non dietreggiò innanzi a così mostruoso pervertimento, perché questo era la sola uscita, che egli erasi lasciata aperta nel tenebroso caos, in cui per redata colpa e più ancora per proprie colpe si ravvolgeva. Sconobbe dunque e rinnegò il suo essere di parte nell’ordine fisico; e prefinitosi come bene supremo, il proprio soddisfacimento, a questo sacrificò ogni cosa sensibile, compresivi i propri simili, ó certo non dubitò per menoma guisa, che fosse lecito il sacrificarla. E così, supposto che egli trovasse gradevole soddisfacimento a vedere trucidarsi tra loro gli uomini, mentre gozzovigliava, sicché il costoro sangue spicciando dalle squarciate vene maculasse quelle infande mense, dove forse si gustavano murene, ingrassate di umane carni ancor palpitanti, perché avrebbe dovuto disdirsi quella soddisfazione? Lo fecero passim del miglior grado del mondo, senza che si trovasse un sapiente abbastanza severo, che almeno ne recasse in forse la licitezza. – Sconobbe l’uomo pagano il suo essere di parte nell’ordine morale, e rinnegò praticamente quella legge che, rannodandolo di sacri vincoli con altri esseri ragionevoli, ne avrebbe governato i disorbitanti appetiti; o piuttosto di quella legge prese quel solo, che potesse secondare e satisfare i suoi propri interessi, i quali tutti riducevansi al satisfacimento di quegli stessi appetiti. E così, supposto, e sempligrazia, che ci nascesse un figliuolo storpiato o deforme, il quale ai parenti dovesse essere di molto peso, ed alla patria non dovesse recare alcun servigio; la Legge delle dodici tavole, con tutta la solennità del linguaggio arcaico, non pure dava al padre facoltà di strozzarlo in culla, ma gliene faceva precetto, aggiungendo la raccomandazione di far presto. – Pater (Signori sì! proprio al padre era fatto questo comando; ché certo alle madri sariasi fatto indarno!). Pater insignem ad deformitatem filium cito necato. Avesse almeno detto puerum! ma no! filium cito necato. Sconobbe da ultimo l’uomo pagano e rinnegò il suo essere di parte nell’ordine razionale, e rigettando tutto, che le vetuste tradizioni gli avrebbero pure potuto tramandar di sicuro, volle fabbricare la scienza da capo a fondo col suo cervello; e ricusando di conoscere la maestà di Dio nel circostante universo, apparecchiato appunto per fargliela conoscere, andò a cercare la divinità, di cui pure non poté smettere o soffocare in sé stesso l’istinto, nei proprii sogni e negli altrui, meritando così di vaneggiare peggio che i bollenti di molta febbre non farebbero, rifluendo per rimbalzo quei vaneggiamenti ad oscurare viappiù i cuori d’insipienti e di orgoliosi: ché proprio cosi parla san Paolo dei pretesi sapienti del Gentilesimo. Evanuerunt in cogitationibus suis et obscuratum est insipiens cor eorum. (Rom. I, 21).

III. Voi crederete per avventura che il Paganesimo, straniandosi così dalle armonie dell’universo, e rinnegando tutte le leggi, onde la creatura ragionevole, siccome parte dell’universo stesso è circondata nel triplice ordine fisico, morale e razionale, che acchiudono rispettivamente il bello, il buono, il vero della natura, crederete, dico, che così l’uomo ne ottenesse almeno quel grande suo intento di essere indipendente. Nulla meno!, fu precisamente quella la via, per la quale precipitò in una servitudine abbiettissima a tutto ciò che era meno di lui! Ed oh! miei amatissimi! quanto vorrei che vi s’imprimesse altamente nell’animo la verità che sono per dirvi! sarebbe il farmaco più efficace a curare il famelico della indipendenza, che è la propria malattia del nostro tempo, e la quale io mi credeva da prima che fosse d’indole acuta e passeggera; ma oggimai mi vado persuadendo, che la è malattia cronica e poco meno che incurabile. Dio mio! qual vaneggiamento è mai codesto! La creatura indipendente dal Creatore? ma non vi accorgete che vi è contraddizione nei termini, come appunto dicesse altri di volervi mostrare nella geometria un cerchio quadrato, o di farvi trovare nell’aritmetica un sei che sia uguale al quattro. Creatura, come suona la stessa voce, significa un ente o sostanza qualunque, che abbia l’essere, non per propria virtù, ma comunicatole dall’Essere sussistente ed assoluto, che è Iddio. Quest’essere poi, partecipato alla creatura, non può rimanere indipendente dal suo principio più di quello, che possa rimanere nell’aria il raggio di luce, poi che ne fu rimosso il corpo luminoso. Se rimanesse il raggio, sarebbe corpo luminoso, come appunto la creatura se permanesse separata nell’essere dalla influenza del Creatore, sarebbe anch’essa essere sussistente, per sé ed assoluto, cioè sarebbe Dio: il che manifestamente ripugna. Trovandosi dunque la creatura dipendente dal Creatore nell’essere, non può supporsi che sia indipendente da lui nell’operare; stanteché la operazione non è in sostanza, che una emanazione dell’essere stesso; come appunto il calore, che procede dall’azione del fuoco, è quasi l’essere stesso del fuoco, che si diffonde nei circostanti obbietti: talmente che chi avesse in sua balia l’essere del fuoco, ne dovrebbe avere altresì la operazione del riscaldare. Le creature adunque sono necessariamente, assolutamente, essenzialmente dipendenti dal Creatore, e questa loro dipendenza si attua e si esercita nell’adempimento delle leggi, onde il Creatore medesimo le ha circondate nel triplice ordine fisico, razionale e morale. Questi differiscono solo, che nei due primi, cioè nel fisico e nel razionale, le leggi inducono necessità: nell’ultimo, cioè nel morale, sono commesse alla libertà dell’arbitrio; e chi vuole esimersi dalle prime, si dice pazzo, e si manda al manicomio: chi trasgredisce le seconde, si chiama malvagio, e, quando ne vien grave danno al comune, si manda, o certo si dovrebbe mandare in prigione. Ma sempre è irragionevole e ripugnante, è impossibile, che la creatura sia indipendente da quelle leggi. E così chi cerca la contentezza e la felicità nel la colpa; che vuol dire chi cerca perfezionarsi, facendo a rovescio di quelle leggi, che il Creatore ha stabilite per la sua perfezione, costui è tanto ragionevole, quanto chi volesse riscaldare col ghiaccio o rinfrescare col fuoco; quanto chi pretendesse che il quadrato sia rotondo, o che due e due sommino cinque. In questi casi la irragionevolezza salta agli occhi, perché si tratta di leggi fisiche e razionali, che necessitano l’assonso; ma nel primo, trattandosi di leggi morali imposte all’arbitrio, queste non sono meno autorevoli di quelle, e la facoltà che ha l’uomo di violarle non vi aggiunge altro, che la ragione di demerito, ogni qualvolta le trasgredisce, o di merito quando le osserva. La quale naturale e necessaria dipendenza inferita dalla parte della creatura, se si considera dalla parte del Creatore, piglia qualità e carattere di verissima sudditanza per questo appunto, che la creatura essendo opera di Dio, Egli deve avere sopra di lei autorità proporzionata all’essere che le ha conferito. Ora io non so se vi abbiate mai posto mente; ma l’osservazione è pianissima. Egli è tanto naturale, che chi fu operatore di alcuna cosa abbia preminenza e potestà sopra la cosa per lui fatta, che la parola stessa di Autorità si deriva proprio da Autore: Auctoritas, ab Auctore. Che se voi discorrete col pensiero per tutte le maniere di Autorità che sono a vostra notizia, alcuna non ne troverete, la quale non sia o preceduta od accompagnata da qual che maniera di essere Autore. Ed il padre è Autore della vita nei figli, ed il Principe dell’unità civile nella società, ed il maestro della scienza nello scolaro, e lo scultore della forma di statua nel marmo, ed il padrone del sostentamento nei servi, o famigliari e domestici, come con più cristiana parola sogliamo chiamarli, e così di cento altre somiglianti maniere di preminenze; nelle quali tutte, siccome non vi è Autorità, senza una qualche ragione di Autore, così non vi ha ragione di Autore, la quale non si faccia principio di una qualche Autorità. Ora perché non dovrebbe lo stesso avverarsi di Dio a rispetto delle sue creature? La sola differenza, che corre tra le Autorità umane e la divina, è posta in questo, che le umane sono sempre esili, circoscritte, secondarie, com’è l’essere che gli uomini possono altrui comunicare; laddove la divina dalla qualità appunto dell’essere che impartisce, si dimostra suprema e pienissima. E fate di entrare bene in questo pensiero. Qualunque operatore, non pure umano, ma creato, dà bensì un essere, ma non dà l’essere; in quanto alla sua azione deve sempre supporre un soggetto preesistente, che la riceva, il quale per conseguenza dee avere già l’essere. Così il Principe suppone il popolo, il maestro lo scolaro, lo statuario il marmo e così degli altri: perfino nelle opere d’ingegno, per le quali pure la denominazione di Autore si toglie per antonomasia, e sopra le quali si ha Autorità massima, pure in quelle medesime si suppongono molte cose, che non dipendono dall’Autore: non foss’altro, vi sono i principii razionali, le cose esteriori, da cui provengono i fantasmi e gli amminicoli materiali, senza cui le opere d’ingegno non hanno essere e vita nel mondo, e non potrebbero essere oggetto di autorità o di dominio. Solo Dio dà non pure un essere, ma l’essere; dà l’essere primo, l’essere, innanzi a cui della cosa fatta non ci è proprio nulla, e di lui solo può dirsi, che fa dal Ņulla, ex nihilo, non come da materia preesistente, ma come da termine affatto negativo. E però solo Dio ha sopra le opere delle sue mani Autorità piena, vera, totale, assoluta, siccome quegli che solo n’è pieno, vero, totale, assoluto Autore. E dopo ciò, non vi pare che io abbia ragione di esclamare un’altra volta: Dio mio! Qual vaneggiamento è mai cotesto! la creatura indipendente dal Creatore! quando il concetto stesso di creatura importa dipendenza, e quello di Creatore è il solo, che possa fondare Autorità piena ed assoluta!

IV. Vi chieggo scusa se forse per la rilevanza e nobilità della materia mi sono lasciato discorrere a troppo lunga digressione. Ma io queste cose ho voluto alquanto accuratamente ragionarvi, perché, assodato bene quel punto della nostra dipendenza da Dio, restano assicurate tutte le altre legittime dipendenze, le quali, per noi Cristiani, sono naturali derivazioni dalla divina; e singolarmente ne restano assicurate quelle due, che di tutte sono più splendide: volli dire la domestica dal padre nella famiglia, e la civile dal Sovrano nella società. Oltre a ciò volli dichiarare questo punto, perché, come vi accennai più innanzi, la faccenda della indipendenza è un gran malanno del nostro tempo, e non è uno degli ultimi modi, onde la società moderna torņa improvvidamente colle sue inclinazioni al Paganesimo. Ma io, tornandovi col mio discorso, dico, seguitando, che l’essersi l’uomo pagano rifiutato a riconoscersi parte dell’universo nell’ordine fisico colla iattura del vero bello, nell’ordine morale colla perdita del vero bene e nell’ordine razionale col privarsi della verità sincera; questo ripudio, dico, ed incentramento in sé medesimo, lungi dal fruttargli indipendenza, gli cangiò piuttosto la dipendenza; e di naturale che era la fece saturata, di spontanea che potea essere divenne violenta, e di dignitosa e di filiale, fu fatta tirannesca, abbietta, servile. Ella è legge costante della Provvidenza, attestata dalla storia di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che chiunque si ricusa a soggezione debita e legittima, ed esso in pena viene sommesso a potere arbitrario, illegittimo, violento. Della qual legge nelle memorie antiche e moderne potete trovare frequentissime applicazioni, cominciando da Cham, il quale, per avere schernita la dignità paterna, si udi dinunziare che saria stato servo; ed è notevole che proprio in quel caso fu adoperata la prima volta la voce servo, la quale non si scontra prima di quel luogo nell’antichissimo dei libri che è il Pentateuco. Ne abbiamo altresì l’applicazione sotto i nostri occhi, quanto all’ordine domestico, nel giovinotto scapato, il quale per un po’ di stentati baffetti che gli spuntan sul labbro, si crede in diritto di più non ascoltare i comandi paterni, e di spregiare le affettuose ammonizioni della madre. Ma intanto esso medesimo è ludibrio e zimbello di quattro giovinastri scapati come lụi ed inviziati più di lui, i quali egli conobbe alla bisca od al caffè, e dei quali per avventura ignora perfino il nome. Quanto all’ordine civile, quella legge si avvera in quasi tutte le pubbliche rivolture; e noi al presente ne vediamo l’applicazione in tanta parte della nostra Italia, che sottratta, lei o consenziente o non ripugnante, alle legittime autorità, obbedisce ora, più o meno fremente, ad un pugno di faziosi oscuri, che le fanno sentire per prova che sia vero servaggio, rendendole desiderabile quel servaggio immaginario, contro cui aveva forse troppo improvvidamente brontolato. Ora, in forza appunto di questa legge, il Paganesimo, il quale, separatosi da Dio, avea preteso di farsi indipendente da ogni cosa, e di non servire ad alcuno, fu condannato a dipendere da ogni cosa, ed a servire ad ogni cosa, meno quel Dio Ottimo Massimo, che solo avea titoli al servigio ed alla dipendenza dell’uomo. Lo so! vi parrà strana, quasi incredibile questa parola, grazie alle sperticate iperboli che, intorno alla sapienza ed alla grandezza pagana, si sono messe in voga. Ma che volete che io vi faccia? É forse colpa mia, che, a furia di sfringuellare a sproposito, si è giunto a rendere quasi incredibile il vero, come pur troppo si è reso più che verosimile il falso? Il vero adunque è, che la società pagana, tra tante borie di libertà e d’indipendenza, era un’accozzaglia di stupidi schiavi, era un assembramento di codardi mancipii, i quali tutti dal sommo all’imo, colla fronte per terra riverivano, veneravano, adoravano tutte le cose, animate od inanimate che fossero, dal sole fino ai lupi, ai cani ed agli scarafaggi: e dite voi tra quale di queste specie si debbano noverare certi mostri d’Imperatori, cui il Senato, nella coscienza della propria indipendenza, dichiarava divi; ma che i lupi, i cani e gli scarafaggi avrebbono riggettato dal loro consorzio, se avessero senno. Quei miseri riverivano, veneravano, adoravano tutte le passioni e tutti i vizii proprii, dalla frenesia dell’orgoglio, e dai furori della vendetta, fino alle abbominazioni della lascivia; tutte le fantasie dei poeti, dal Giove tonante, che si ruba un bel donzello, per sollazzare di lui un cotal poco i suoi ozii olimpici, fino alla dea Cloaca o Cloacina, che presiedeva alla nettezza delle case e delle contrade, senza dispensarli per questo dalla noia di scopare le une e le altre. Torno a dire, perché è punto capitalissimo: quei miseri tutto riverivano, servivano, adoravano, meno solo Colui, che unicamente avea diritto di essere riverito, servito ed adorato, come non finiva di ammirarsene Lattanzio: Admirari soleo maiestatem Dei singularis in tantam venisse oblivionem, ut quæ sola coli debeat sola potissimum negligatur (Div. Inst. II, 1). – Né ad altro che a questa universale ed abbiettissima schiavitudine, in che gemeva l’uman genere prima di Cristo, credo io che mirasse Isaia, quando celebrò, come ufficio del promesso Messia, non pure il dar luce agli occhi e stenebrare le intelligenze, ma é lo sciogliere dai ceppi incatenati, ed il trarre dalle carceri e dagli ergastoli i prigionieri. Dedi te (dice Dio pel profeta al suo Cristo) Dedi te in lucem Gentium ut aperires oculos cœcorum, ut educeres de conclusione vinclum, de domo carceris sedentem in tenebris (Isai. XLII, 7). Signorisì! non ci è a farne gli stupori! tale era il mondo pagano prima del Redentore. Un immenso ergastolo, una tetra e smisurata prigione, che non avea altri confini da quelli della terra; e, recatevi rarissime eccezioni, tutti schiavi, tutti prigionieri, tutti tra ceppi. La sola differenza, che si vedesse tra schiavi e schiavi, era, che alcuni,per la troppa superbia, n’erano usciti del sentimento, sì che si credeano di essere liberi, perché appartenevano all’ordine equestre o si chiamavano Senatori, Consoli, Re e Imperatori; ma in sustanza eran schiavi come gli altri, e più degli altri, in quanto trovavansi più sciolti degli altri a dare libera carriera alle propensioni nefande, da cui erano dominati. Che se vi prendesse vaghezza d’intendere quanto largo si stendesse quella schiavitudine, io ve la partirò in tre capi precipui, che saranno i soggetti di altrettanti seguenti discorsi. Il Paganesimo fu schiavo in generale della forza, non conobbe altro movente che la forza, e sopra di questa sola fabbricò tutta la immane mole della sua bugiarda grandezza. Fu schiavo delle forze naturali, e questa fu la schiavitudine più scusabile; fu schiavo delle forze sensuali, è questa fu la schiavitudine più ignominiosa; fu schiavo delle forze sociali, e questa fu la schiavitudine più codarda; ma sempre schiavo, e sempre schiavo della forza. Di ciascuna di queste schiavitudini diremo alcuna cosa nei seguenti giorni, senza preterire quello che, pei loro clienti, vorranno recare in mezzo gli avvocati passionati dei Temistocli, dei Muzii, delle caste Lucrezie o dei Catoni in Utica. Per ora dal Paganesimo antico e morto debbo far trapasso al nuovo e vivo; affine di aggiungere qualche pratica osservazione, eziandio per questo capo.

IV. E l’applicazione pratica mi si offre spontanea ed opportunissima in quello spirito d’indipendenza, il quale ha penetrato fino nelle midolla la società moderna, ne ha occupate tutte le inclinazioni, ne domina tutti gli amori, quasi dissi ne schizza per tutti i pori. Spirito d’indipendenza, per la quale i popoli miseramente sedotti dalle apparenze fallaci di libertà, sono sottratti al giogo soave di Cristo, che ci emancipò davvero dall’antico servaggio, e sono travolti nella via di un Naturalismo, dal quale, come l’antica Gentilità, si veggono poscia precipitati in una verissima schiavitudine. E forse che non si veggono ad ogni passo gli effetti di questo spirito d’indipendenza , dal quale è quasi infetta l’atmosfera stessa che respiriamo? Quasi mi par vederne un vestigio in famiglie anche cristiane e morigeratissime, nelle quali si tiene oggimai per assioma, che dai figliuoli non si debba esigere obbedienza, se non in ciò, di cui essi veggano la ragione e siano persuasi. Ma e non è la ragione dei genitori il naturale supplemento al difetto, che ne patiscono i nati? E quando il figliuolo opera, perché ne ha vista la ragione e n’è persuaso, a chi altro obbedisce, se non a sé medesimo, e quale ossequio porge all’autorità dei genitori? Che quella persuasione si cerchi alcune volte, non è riprensibile, e può giovare talora a rendere più soave l’obbedire. Ma che a questo si richiegga, come condizione indispensabile, quella previa persuasione, ciò è distruggere dalla radice il principio stesso dell’autorità, la quale non si appoggia ad altra ragione, che al diritto di chi comanda ed al dovere di chi obbedisce. Ma vi è qualche cosa di più universale. Che s’infrangano le leggi di Dio e della Chiesa eziandio da molti, non è certo cosa nuova nel mondo; ma che quell’infrangimento si voglia giustificare dal non dovere l’uomo dipendere, che da sé stesso; che non si voglia ammettere per vero, se non quello che sembra tale al losco nostro intelletto; che non si conosca distinzione di male e di bene, se non secondo i dettami di una coscienza illusa, malata e spesso ancora ingancrenita; che in somma quell’assoluta indipendenza dell’intelletto e della volontà s’innalzi a principio, sicché, fuori di quelli, non ci siano per noi altri regolatori del vero e del bene; tutto cotesto è cosa nuova tra i popoli cristiani, è privilegio del nostro secolo: privilegio che basta a chiarirlo mezzo cristiano, mezzo pagano, senza che sia davvero né l’uno né l’altro. E forse che non ne portiamo noi altresì il castigo della schiavitudine, come quegli antichi ne portarono? Non sarà la schiavitudine agl’idoli d’oro e d’argento, come nella idolatria grossiera dei vecchi Gentili si soleva; ma è schiavitudine del lasciarci menare pel naso da miseri rispetti umani, dove meno vorremmo; è schiavitudine del pensare e del parlare, fatta comune nel regno tutto moderno del Giornalismo, pel quale pensano coll’altrui testa e parlano coll’altrui lingua innumerevoli, a cui parve troppo grave uniformare i loro coi pensieri della Chiesa e le loro colle sue parole; è schiavitudine di passioni vergognose, cui andiamo blandendo, e inorpellando con mille sofismi non creduti neppur da noi, ed alle quali sacrifichiamo il danaro, la sanità, il decoro, la vita stessa temporale, e faccia Dio che non anche l’eterna; è schiavitudine all’idolo tutto pagano della patria, quale se la foggiano i fanatici e gli scredenti: idolo che addusse sul mondo tanti dolori e tante vergone, che spreme tante lagrime e tanto sangue dagli occhi e dalle vene dei miseri popoli, che divorò tante vittime: e ancora non è sazia l’ingorda sua fame! Tant’è! e siatene, miei cari, persuasi: l’indipendenza assoluta delle creature è un sogno! A noi esseri ragionevoli non è data, che la scelta tra la dipendenza legittima e l’illegittima, tra la filiale e la servile, tra la volenterosa e la forzata: in una parola, tra il dipendere da Dio o dalle creature. Quella è propria dei Cristiani,questa fu dei Pagani, ed è dei Cristiani che paganeggiano. Cristo nella Epifania chiamò le Nazioni dall’una all’altra; ed in quel Mistero medesimo non pure diede esempio della più umile e sommessa dipendenza, ma volle darlo eziandio del guiderdone, onde questa nobilissima virtù sarà da Dio meritata, come vi mostrerò dopo breve respiro.

V. Guardate, miei cari uditori, singolarissima coincidenza, la quale potrebbe dirsi casuale, se non sapessimo, che nessuna cosa non isfugge alla divina Provvidenza, e che da questa fu ordinato con peculiarissimo amore tutto ciò che si atteneva alla vita terrena del Verbo Incarnato. La benedetta Vergine si trova ad esporre alla luce il divino suo portato lungi dal natio suo ostello, in terra per lei straniera ed inospitale, con tutti i disagi della povertà, delle privazioni, del crudo verno, della fredda notte, dai cui rigori né a sé né al caro Infante facea schermo che bastasse il mal custodito ricetto. Ora tutto questo perché? Perché essa col casto suo sposo vollero ottemperare al comando di Augusto, che prescriveva si recasse ciascuno alla terra degli avi suoi per allistąrsi nel censo: ut describeretur universus orbis (Luc . II, 1). Ma Dio immortale! e quale avvilimento è mai cotesto dell’Unigenito Figlio vostro! come non ne dovrebbero sbalordire, non che queste fiacche nostre menti, ma le medesime angeliche intelligenze! E fia dunque vero che, per obbedire ai capricci di un orgoglioso tiranno, dovransi esporre a tanti disagi quel giglio d’intemerata purezza che fu Maria, e quel delicato fior nazzareno che fu Cristo, fino dal primo suo mostrarsi al mondo? E poi, per quante ragioni e tutte giustissime, quella beata coppia non avrebbe potuto giudicare di non esser tenuta all’adempimento di un comando, il quale, oltre al disagio, recava altresì qualche cosa di men conveniente alla sovrana dignità del Re dei Regi, che la Vergine Santa dovea partorire? – Ma che stiamo a cercare più innanzi? Tutta la nostra difficoltà si origina dal pensare noi, che Maria, Giuseppe, Gesù obbedissero propriamente a Cesare; quando anzi essi obbedivano al celeste Padre, le cui amorøse ordinazioni riconoscevano e riverivano nel comando stesso di Cesare. E qui dimora propriamente il gran segreto della dignità augusta acquistata alla soggezione, alla dipendenza, alla obbedienza del Cristiano. Essa dimora nel nuovo ed eccelso motivo, che il Cristianesimo ne ha rivelato. Né vi credeste che ciò sia poco. Tutt’altro! Negli atti morali il motivo è tutto, è ogni cosa; e non vi è bisogno di essere teologo per intendere che la medesima largizione di danari, la quale in un pietoso è carità insigne, in un laido può essere nefanda seduzione, ed in un micidiale rischia di diventare prezzo di assassinio. Cangiato pertanto il motivo, se n’è cangiato sostanzialmente l’atto; e la soggezione cristiana da quelļ’eccelso motivo n’è divenuta essa medesima cotanto eccelsa, che poté averne ad esemplare l’Uomo-Dio ed a guiderdone il Paradiso. E forse appunto per rivelarcene questa dignità sovrana e per darci pegno di quel celeste guiderdone, ordinò Iddio, come osserva il Crisostomo (Homil. VII in Matth), che innanzi a quell’Infante, che era nato tra tanti disagi, per obbedire in apparenza al comando di un Re orgoglioso, innanzi a quell’Infante proprio si prostrassero tre umili Re ad offrire i loro doni misteriosi e le loro suppliche. Di qui imparate, o Cristiani, qual gloria sarà serbata a voi, se saprete obbedire a cui dovete; ma obbedire da Cristiani; cioè con nobile sentimento di obbedire solo a Dio, dal quale ogni ordinata potestà si deriva. Allora, foste voi poveri, ignoranti, dispregiati, quella sola così eccelsa obbedienza vi acquisterà tanta gloria, che più non ne avreste cinti il capo di regale diadema. E non certo in questo mondo; oh! no! Chè i Cristiani, rispettano bensì, ma non invidiano, e paventano anzi le preminenze; ma fuori di dubbio nell’altro, dove, a premio della vittoria che avrete portata, come sopra le altre, così sopra questa naturale propensione al sovrastare, Cristo vi darà nientemeno, che assidervi con lui sopra il medesimo suo trono. Qui vicerit, dabo ei sedere mecum in throno meo (Apoc. III, 21).

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (5)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (3)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (1)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO TERZO

ARGOMENTO 

L’eccellenza del Paganesimo grecoromano nelle arti dello Stato e della immaginativa non riguarda l’uomo, in quanto tale. Che sia questo pei Cristiani. Ignoranza del Paganesimo intorno a ciò. Ragioni di quella eccellenza. La schiavitudine. Riscontro nella età moderna quanto alla filosofia, ai progressi materiali, al Comunismo. La scienza di Dio ha riempiuto il mondo cristiano.

I. L’avervi ieri, miei riveriti uditori, colla scorta di san Girolamo, adombrato l’antico Paganesimo nel figliuol prodigo, il quale, partitosi dalla casa paterna, ne sperperò malamente il retaggio, e fu travolto nel fondo di ogni miseria, quel paragone, dico, avrà fatto inarcare le ciglia a più d’un lettore assiduo di Cornelio Nipote o di Plutarco, ed ammiratore passionato dei costoro eroi. Come! avran questi certo pensato e detto: come! Non è l’uomo grecoromano il tipo ideale d’ogni grandezza civile? E non fu sommo l’antico mondo romano nelle arti della guerra e della pace, esso che da un pugno raccogliticcio di malviventi e di banditi, seppe costituire il più grande Impero, che fiorisse mai sotto le stelle? E quei senatori, quei giureconsulti, quei consoli, quei tribuni, quei duci, quegli oratori, che furono e sono tuttavia l’ammirazione d’ogni gente colta, ci si vorrà dipingere come un’accolta di malcreati e di mezzo barbari, non degni di altro, che della nostra compassione? Che se la Grecia fu meno audace nelle imprese guerresche, perché turbata troppo da intestine discordie, ed in Alessandro il Macedone mostrò appena quello, che avrebbe potuto con maggiore unità e con ordinamenti più fermi, chi vorrà negarle il primato in ogni arte bella ed in ogni nobile disciplina? Primato non contrastatole da nessun popolo, anche dopo nata la coltura cristiana, la quale, se giunse ad emulare nobilmente quell’antica, pare che sia sfidata al tutto del superarla. E cui mai imiterebbero con maggior laude i nostri pittori e statuari, se non i Greci? E quando un’nostro storico, un oratore, un poeta, un satirico, udisse dirsi di avere raggiunta la venustà greca, il greco tepore o i Sali attici, non si crederebbe di aver proprio tocco il cielo col dito? O non è la polizia e la letteratura del mondo grecoromano…. Ma deh! che serve, signori miei, andare più oltre? voi mi state dicendo quello che tutti sappiamo, quello che è stato dello e ridetto anche troppo, quello che nessuno ed io meno di qualunque altro, non ha mai negato o recato in forse; nel Paganesimo colto cioè, qual fu certo il grecoromano, essersi in maniera squisita possedute le arti del bello, e se volete eziandio essersi non men conosciuta l’arte di soggiogare i popoli, per ingrandire il proprio Impero, e l’arte ancor più difficile di mantenerlo. Ma che vorreste voi conchiudere da tutto questo? Che forse gli uomini, anche più cospicui e più ammirati di quel tempo, non fossero ciechi in quello che loro più caleva di vedere? che non fossero stolidi, bestiali, snaturati, maledetti e reprobi? che insomma non fossero il vivo ritratto del figliuol prodigo, il quale dissipavit substantiam, e morivasi della fame, e disputava agl’immondi animali le ghiande, onde essi, di lui meglio forniti, pur si sfamavano? Oh! perdonatemi se vel dico chiaro: voi discorrereste molto male, quando così pensaste. Poniamo pure che i Pagani avessero potuto, per effetto della loro condizione, conoscere il vero naturale e praticare qualche naturale virtù  il fatto è, che ciò si avverò in casi estremamente rari, non fu mai cosa del popolo, e quel medesimo barlume si ecclissò nell’apice appunto della forbitezza e della potenza; cioè negli ultimi tempi del romano Impero. E se il ciel mi assista, io vi mostrerò che la cecità dei Pagani, nello ignorare ciò che più loro rilevava di sapere, si mostrò tanto più lacrimevole e più sfoggiata, quanto che trovavasi in un mondo così forbito e che sapeva fare e dire con sovrana eccellenza tante altre cose. Da quella malaugurata radice, dell’essersi il genere umano separato da Dio, il primo infelice frutto che germinasse, fu l’avere l’uomo ignorato al tutto sé medesimo. Né sarà questa una sterile speculazione intorno ad una società defunta e della cui vita abbiamo soli testimoni i libri e gli avvanzi ancor maestosi della sua grandezza: no! vi sarà pratica utilità ancora per noi. Che se la società moderna, col separarsi sempre più da Dio, fa rivivere il Paganesimo, voi vedrete altresì, a vostro profitto, che da quella radice è cominciato nel nostro tempo a germogliare pur troppo lo stesso frutto di avere sconosciuto l’uomo in ciò che intrinsecamente lo costituisce. Un soggetto cotanto grave si raccomanda abbastanza di per sé stesso alla vostra attenzione; ed io, senza più, mi vi accosto e comincio.

I . Noi non siamo propriamente uomini, perchè fabbrichiamo, perchè cantiamo, perché scolpiamo, ricamiamo, dipingiamo e facciamo di cento altre cotal belle cose, nel giro della immaginativa e del senso. Tutte quelle belle cose la natura animale, e dico ancora la natura insensata, le fa come noi e meglio di noi, senza che per questo si sia mai sognato nessuno diassociarle alla grandezza e dignità umana. Le api ed i castori fabbricano le loro dimore con tale disciplina e simmetria di arte, che i più valenti architetti vi potrebbero imparare qualche cosa; e per giunta, senza rischio che alle api ed ai castori ruinino in capo le volte, per falliti precetti di statica, come non rade volte interviene a noi. Un canarino, dal corpicciuolo più esile di questo pollice, senza aver mai imparato di crome o di semicrome, e senza alcuno esercizio di solfeggio, vi sfodera trilli e gorgheggi da sbalordirne i più valorosi professori di flauto; e va sì franco, che neppure apprende il rischio di mettere in fallo un diesis od un bémolle. La semplice attrazione moleculare, esplicata nella materia dal principio attivo che la informa, v’impasta, vi simmetrizza ed affaccetta e forbisce un cristallo ancor minutissimo con tanta maestria, che nėssun gioielliere, per isperto ed esercitato che fosse, ne vorrebbe sostenere il paragone; e chi sa quanti di voi, nel levarsi questa mattina, avran trovato l’interno delle loro finestre arabescate tanto leggiadramente dal ghiaccio, che non vi è ago industre di valentissima ricamatrice capace a farne, con tanta perfezione ed in sì piccolo tempo, una millesima parte. Che più? ora che madre natura, vinta alle nostre industrie, non disdegna di copiare sé medesima, e che la luce in persona si piglia spasso di rubare il mestiere ai paesisti ed ai ritrattisti, voi state vedendo solenne maestra che questa si mostra all’opera! Vedute e paesaggi intrigatissimi, ritratti oltre ogni credere malagevoli, e che farebbero l’ambizione e la fama di un pittore, la luce ve li stampa con quant’è volgere il guar do agli originali; e può, multiplicarli a centinaia ed a migliaia, tanto solo che le forniate i semplicissimi appárati fotografici richiesti all’uopo. Sicchè vedete che tutte quelle belle cose ricordate di sopra, benchè riechieggano le facoltà dell’uomo per essere fatte dall’uomo, nondimeno per sè medesime non hanno nulla che fare colla dignità, colla elevatezza, col decoro proprio dell’uomo in quanto tale, potendosi quelle belle cose compiere da esseri che si digradano di smisurato intervallo dall’altezza e nobiltà della nostra natura. E forse che questo medesimo concetto non è suggerito a voi dal senso comune? forse che non lo dite voi nei consueti parlari, senza che per avventura vi abbiate posto ancor mente? Voi del tale o del tale altro dite che è un eccellente poeta, è un eccellente oratore, è un eccellente pittore; ma non per questo solo li qualifichereste altresì per eccellenti uomini: in quanto intendete benissimo, che tutte quelle eccellenze, e qualche altra ancora più splendida e più lucrosa, possonsi trovare in uomini, non pure cattivi, ma pessimi. Per converso, voi intendete ugualmente benissimo, che ad essere eccellente uomo si richiede qualche altra cosa che non è l’essere poeta, oratore o pittore; anzi vi pare evidente che quello possa trovarsi bene senza di questo, essendovi pure degli uomini davvero eccellenti, i quali nondimeno non sanno neppure ove stia di casa la poesia, la retorica o la pittura. Non dite, per vita vostra, miei amatissimi, che io ho dimenticato il mio assunto! Io vi sto anzi, navigando a vele gonfie, e per poco non sono in porto. E non vi accorgete? Quel po’ di discorso dal senso comune basta a gettare per terra tutto il superstizioso pregiudizio che, a favore dell’antico Paganesimo, è prevalso, al vedere l’eccellenza, onde esso primeggiò nelle arti dello Stato, della guerra, della immaginativa e del senso. Laddove Iddio permise, ovvero ordinò forse quella eccellenza, appunto perché apparisse più cospicuo, più solenne, più ignominioso l’avvilimento, in che giacque in essa la dignità umana, proprio in quello, che intrinsecamente la costituisce. Grandi capitani, grandi politici, grandi artisti ed oratori e storici e poeti: sia pure! Ma grandi uomini? oh! cotesto poi no! il Paganesimo non poté formarne né grandi né piccoli, per questa semplicissima ragione, che cioè esso ignorò radicalmente quello che fosse l’uomo: appunto come non è possibile che uno scultore vi foggi un cavallo, né grande né piccolo, se non conosca quello che sia cavallo. – Ed intendetelo bene! Conoscere l’uomo significa sapere che sia questo accoppiamento portentoso ed unico d’inerte materia e di spirito intelligente, che l’informa, dandole l’essere, la vita ed il senso; significa sapere da chi ed a quale scopo quella intelligenza fu imprigionata in questo ingombro materiale; significa sapere a che fare, con quali leggi, con quali temperamenti sia stato quel composto messo a pellegrinare sulla terra, in mezzo a tante seduzioni che l’allusingano, ed a tanti dolori che lo martellano; significa sapere come e perché, essendo pure sulla terra l’uomo l’essere più nobile di tutti, sia poi di tutti il più misero, tormentato sempre da tanti dolori, abbeverato da tante amarezze; e da questa, che più d’ogni altra è cocente, che assetati, come siamo, di giustizia ci scorgiamo condannati a vedere, il più spesso, misera la virtù, il vizio fortunato, la giustizia umana poco altro che uno scherno per chi la implora, ed un mantello d’ipocrisia per chi la promette. Conoscere l’uomo significa sapere se, separatisi per la morte questi due principii, anima e corpo, e gettato questo nel sepolcro ad imputridire della più schifosa tra le putredini, la parte intelligente e volitiva resti o no, superstite al sepolcro; e se sì, quali destini l’attendano in quella regione oscura, misteriosa, inesplorata, la quale tutti guardiamo con raccapriccio, e che tutti dovremo, presto o tardi, visitare. Questo importa, se nol sapete, conoscere l’uomo; e senza questo, si potrà bene saltare come un cavriolo, cantare come un usignuolo, pugnare, come un leone, giocare di astuzia come una volpe; ma non mai pensare e vivere e sentire ed operare, come alla dignità dell’uomo si addice. Ora di tutto questo il Paganesimo antico non ebbe, non che scienza, neppure sospetto; non si brigò neppure di cercarne, forse perché presentiva affatto impossibile la piena soluzione di quei problemi. Ebbero i sapienti di Grecia un bello imporre e raccomandare ai loro discepoli il famoso γνῶθι σέαυτον [=gnoti seauton], nosce teipsum! tutto essi studiarono, tutto seppero, meno questo solo, che pure per essi saria stato il tutto. Ed era una cosifatta ignoranza così universalmente accettata e riconosciuta nel mondo pagano, che il grande apologista Arnobio sfidava pubblicamente i Gentili del suo tempo a dare a quei quesiti una risposta, la quale non fosse nulla od assurda. E così gl’incalzava, prendendo le mosse nientemeno, che da Socrate: Potest quispiam explicare mortalium id quod Socrates ille explicare nequit in Phoedone? homo quid sit? unde sit? …. in quos usus prolatus sit? cuius sit excogitatus ingenio? quid in mundo faciat? cur malorum tanta experiatur examina (ARNOB . II, 7)? A queste domande tutta la sapienza pagana non avea una, quanto che piccolissima, risposta a dare: si restava mutola come il deserto: e se pure avesse voluto tentare una soluzione, questa non era altro, che o il sogghigno beffardo del cinico, o il dubbio straziante dello scettico, o la stupida impassibilità del fatalista e dello stoico, ch’eran tutt’uno. La sola verità che sapessero intorno a quel grande soggetto, come notò Lattanzio, era il non saperne nulla, quando pure avessero avuto il coraggio di confessarlo a sé stessi e ad altrui. Numquam illi tam veridici fuerunt, quam cum sententiam de sua ignoratione dederunt (Lactan. Div . Inst . II, 2). Presto vedremo a qual termini fosse condotto il Paganesimo da questa profonda ed assoluta ignoranza riguardo all’ uomo. Per ora bastici osservare che, tra le folte caligini di quelle tenebre, le intere generazioni, succedentisi sulla faccia della terra, furono costrette a scegliere tra questi estremi: o una bestialità di lascivia, da vergognarne le stesse bestie, se ne fossero capaci; od una ferocia di orgoglio, che si pasceva di calpestare e straziare quanti più si potesse esseri umani; o la desolata tristezza di una vita senza dignità, senza guiderdone, senza scopo. Mestizia sconsolata e inconsolabile, che quasi velo funereo coperse quella bugiarda grandezza, e sembra tuttavia protendersi sulle sue ruine: mestizia sconsolata ed inconsolabile, che dovett’essere la porzione delle anime di miglior tempera, e che il nostro antico poeta meravigliosamente ci dipinse in Virgilio; il quale, là nei regni bui, alla menzione del Salvatore ignorato da lui, come dagli altri sapienti del Gentilesimo, « Chinò la fronte, e più non disse e rimase turbato. »

III. La quale assoluta ignoranza, in che versò il Paganesimo riguardo all’uomo, tanto è lungi che possa trovare scusa o compenso in quell’ammirata eccellenza, nelle arti della politica, della guerra, della immaginazione e del senso, che anzi, a riscontro di questa, apparisce più notevole e più stupenda quella ignoranza; la quale, oltre a ciò, fu forse cagione, almeno parziale, di quella medesima eccellenza: perciocché se quella stupida ignoranza si fosse trovata in uomini incolti e selvaggi, che non si curano di quel che sono, del perché sono, di quel che saranno, tanto, la cosa si capirebbe e si spiegherebbe. Ma che quella stupida ignoranza si trovasse in un mondo di tanto sopraffino e forbito incivilimento; che non sapessero di avere o no un’anima in corpo, né fossero meglio informati del se la loro morte si dovesse differenziare dalla morte del cane, del cavallo e del gatto, chi? quei magni viri dell’antichità, che stringeano in pugno i destini dei popoli; che aveano toccato il non plus ultra della eleganza nella pa rola sciolta o legata da numeri; che col pennello e collo scalpello aveano creati miracoli di arte, che restano tuttavia modelli stupendi ed inarrivabili dalle seguenti generazioni; cotesto, signori miei, appena si crederebbe, se non ne avessimo sotto degli occhi la evidenza dei fatti. Cotesto ci deve far pensare che Iddio permettesse ed ordinasse appunto quella incredibile e mostruosa cecità, in cose di tanta rilevanza, in uomini per altri rispetti cotanto colti, affine appunto di fare intendere al nostro mondo, quanto poco ci sia a fare assegnamento sopra questa cultura, chi voglia sapere qualche cosa di ciò, che più importa all’uomo di sapere. – Dall’altra parte quella eccellenza, raggiunta dal Paganesimo nella estetica naturale, nei maneggi politici e nell’arte militare, si spiega abbastanza appunto da quella cecità ed ignoranza lacrimevole, iņ che esso versava intorno alla parte più intima e razionale dell’uomo. Né vi sembri strana questa osservazione, perché forse vi giunge nuova. La nostra naturale limitatezza fa sì che, sparpagliando le forze dello spirito in molti oggetti, ne resta debilitata la considerazione che rechiamo in ciascuno di essi: è ciò, in altri termini, il detto vulgatissimo: Pluribus intentus minor est ad singula sensus. L’azione esterna poi ed i frutti, che se ne derivano, dovendo di necessità essere misurati dalla maggiore o minore considerazione portatavi dallo spirito; è indubitato che quei frutti od effetti saranno tanto più insigni, quanto la considerazione stessa sarà più ristretta e raccolta in una sola ragione di obbietti. Ora supposto che nel mondo pagano tutto l’ordine degli spiriti e la economiă ultramondiale fosse affatto ignorata; supposto che tante dispute di sapienti, intorno a quel subbietto, efficaci solo a scalzare per vicenda gli uni i pronunziati degli altri, non avessero fruttato altro di certo, che la certezza di non potersene saper nulla, come ai Gentili rimproverò Arnobio: Qui cum alter alterius labe factant decreta, cuncta incerta fecerunt, nec posse aliquid sciri ex ipsa dissensione monstrarunt (Arnob. I, 10); supposto, dico, che le cose fossero a questi estremi, fu naturale che quelle generazioni infelici restringessero ogni loro considerazione al mondo presente; concentrassero ogni loro amore nella vita sensata; condensassero in certa guisa ogni loro conato nel bello materiale, quale è altresì il fantastico o l’immaginativo, perché nel senso si fonda e di esso si avviva. E con questo incentramento di considerazioni, di amori, di conati in una sola qualità di obbietti, e per giunta dei meno nobili, qual meraviglia che intorno a questi quel mondo antico ottenesse una eccellenza, né prima né poi non potutasi mai più raggiungere, appunto perché quelle speciali condizioni non si sono potute mai più riprodurre? Tra le quali condizioni non è ultima l’essersi quelle generazioni trovate vergini, diciamo così, dalla mistura di elementi derivati da straniere culture, e l’avere esse operato, siccome meno lontane dalle origini, col vigore di una natura fresca, ardente, e che spiegava lussureggiante tutto il rigoglio di forze novelle ed intatte. – Di che voi vedete che se queste considerazioni ci spiegano l’ordine provvidenziale e la genesi naturale di quella eccellenza, nelle arti del reggimento e della immaginativa, tanto ammirate nell’antico Paganesimo; male assai si conchiuderebbe, che quella eccellenza stessa gli conferisse pure l’ombra di quella bontà morale, di quella dignità, di quella contentezza che è solamente propria dell’uomo ragionevole . Nulla meno! anzi vi è il contrario; e tra i tanti ne ricordo un fatto solo. Quella eccellenza, effetto in parte della sconosciuta condizione dell’uomo, ed ordinata a farne vieppiù cospicuo, dal contrapposto, lo scadimento, per colpa di questo non potea comperarsi, che al prezzo nefando di calpestata, tradita, assassinata natura in milioni di creature umane; ed a questo prezzo fu comperata. Ogni qualvolta voi, dallo avere sconosciuta la destinazione ultramondiale dell’uomo, stabilite per principio, per lui non vi essere altra beatitudine, che godere i beni di questa vita; e voi v’imbattete in uno scoglio, innanzi a cui tutta la umana sapienza non può altro, che rompere e naufragare. E lo scoglio è, che avendo pure tutti uguale tendenza e, pella ipotesi fatta, anche uguale diritto a quel godimento; tuttavolta non vi sono nel mondo beni sufficienti a farne godere tutti gli uomini, quanto potrebbero e quanto vorrebbero in questa vita. Signori sì! non è a dubitarne! Nel convito apparecchiato dalla natura, i posti o, come voi francescamente solete chiamarli, le coperte sono più poche assai dei convitati. Al che se aggiungete che tra questi ci ha parecchi, i quali, non che mangiare a doppia ganascia vogliono altresì impinzarsi le tasche pel domani e pel posdomani, voi capite bene che, oltre agli esclusi dal convito, molti di quei medesimi, che vi sono ammessi debbono, avervi molto magra la loro pietanza. Come i moderni nostri paganeggianti potranno cavarsi da cotesto imbroglio, sel veggano essi, che l’hanno rimesso al mondo, quando Cristo colla sua dottrina ne lo avea, quasi al tutto, fatto sparire. E fatevi certi: l’imbroglio è grosso, più grosso di quel che si crede, e forse acchiude esso solo la grande e terribile quistione, che agita il mondo moderno, la quale, più che civile o politica, è sociale. Di questa il cardine è che i famelici sono smisuratamente più che i satollo; e quando si venisse alle mani, i pochi sarebbero, senza fallo, accoppati dai moltissimi. Il vecchio Paganesimo non pare che s’impensierisse gran fatto di questo scoglio; e, senza più, diede al problema la soluzione unicamente possibile alla sola natura; tanto che il Filosofo (ARIST.: lib. II. Oecon.) insegnò essere necessaria e naturale la schiavitudine; e qualche popolo, separatosi dall’unità cattolica, pur troppo col fatto proprio gli sta dando ragione. Esso Paganesimo dichiarò, che uomini erano solamente quel pugno di prepotenti e di astuti, i quali aveano saputo soggiogare tutto il resto; e tutto il resto, che vuol dire i nove decimi e forse più, furono dichiarati mancipii, quasi bestie, non persone; ma cose, e delle meno pregevoli, condannati così a formare, colla propria sventura ed abbiettezza, come la base della piramide, come l’opera morta ed il substrato al meraviglioso edifizio della eleganza e della grandezza pagana. Così le nazioni gentilesche innanzi a Cristo, e segnatamente il mondo grecoromano, che idoleggia in sé stesso la forbitezza delle arti pel primo e la potenza dell’Impero pel secondo, ignorò radicalmente quel che più gli rilevava sapere, cioè l’uomo; possedette una eccellenza che parte fu effetto di quella ignoranza, e parte servì a renderla più sfoggiata e lacrimevole; da ultimo quella ignoranza stessa lo condusse e sospinse alla più snaturata delle istituzioni, per la quale, ogni bene della vita confiscato a profitto di pochi scaltri o violenti, il più dell’uman genere era dechinato alla condizione del bruto, e più sotto.

IV. L’avervi così dichiarate le qualità e le cagioni della grandezza pagana, e l’averla posta a rincontro coll’assoluta cecità, in che versava quell’antico mondo, in tutto ciò che si attiene all’uomo, può servire al disinganno di molti illusi, e può farvi accorti di quel Paganesimo redivivo, il quale pur troppo, nel nostro tempo e nei nostri paesi, mostra che pigli il sopravvento. Io non vo cercare se e quanto lo studio dei classici greci e latini, che dai nostri giovanetti si usa nelle scuole, abbia potuto contribuire a quell’ammirazione sperticata del Paganesimo, la quale nel mondo moderno è venuta in moda. Dico così di passata, che quello studio, accoppiato col catechismo e col santo timore di Dio, è stato universale a secoli di molta fede, fu celebrato da uomini, non che Cristiani, ma santi, senza che se ne avesse a lamentare alcuno sconcio per questo riguardo. E così se quel medesimo studio conducesse la nostra gioventù a paganeggiare, un tale effetto si dovrebbe attribuire piuttosto al modo, onde si usa, che non alla sustanza. Ma siane questa od altra la cagione, il fatto è innegabile: le ammirazioni della grandezza pagana sono comuni, sono sfoggiate, non si restringono alla teorica, ma scendono al pratico; e per poco non ci farebbero vergognare di quella vocazione alla Fede, la quale pure, com’è il principio di ogni nostro bene, così dovrebb’essere il nostro amore, la nostra contentezza, il santo nostro orgoglio. Ed eccovi come, col passare d’uno in altro sofisma, la ragionano quei valent’uomini. Tanta vigoria, tanta stabilità, tanto splendore di bellezza e di eleganza nella forma, quanto all’ordinamento sociale e quanto alle opere di arte, suppone un ricco tesoro di verità nel fondo. Di qui fu piccolo il varco a conchiudere, che dunque l’antichità era il più splendido modello di verità filosofica e di perfezione civile. Dal che non vi restava, che un solo passo per inferire, che dunque la Religione cristiana, facendoci pensare più al cielo, che alla terra, avea fatto di noi dei mezzo barbari ed ispidi ed incivili, nemici della vera libertà e della bella natura. Ora questo discorso, o piuttosto, come dalle cose dette voi medesimi potete raccogliere, questo miserabile tessuto di paralogismi, che saltano d’uno in altro ordine, trapassando dalla forza politica e dal bello estetico alla bontà morale, non è certo di molti, soprattutto chi lo volesse udire espresso così esplicito e così reciso come testè l’ho io esposto. Ma la pratica? oh! la pratica, miei amatissimi, è pur troppo prevaluta tra noi, e più certo, che voi a prima vista non vi pensate. Né potea altro essere, chi mira attento. Posta la medesima radice, che altro potevamo noi attenderne, che i medesimi malaugurati germogli? Ora voi già lo vedeste: radice dell’antico Paganesimo fu la separazione da Dio, separazione nella età nostra già iniziata e molto innanzi proceduta. Fu dunque naturale che noi altresì il primo infelice frutto ne cogliessimo nell’ignorar l’uomo, nel rinnegarne, o certo nel dimenticare nella pratica quello che il Cristianesimo ce ne insegna, per volerne essere addottrinati dalla filosofia solitaria ed indipendente. Eccoci pertanto ridivenuti giuoco miserabile di altrettanti sistemi, quanti sono i cervelli; tra i quali quelli si credono di essere più autorevoli, i quali ardirono sputarle più esorbitanti. A quali termini sia condotta la filosofia, separatasi dal Cristianesimo, prima per ire eterodosse, poscia per metodi scientifici, e da ultimo per superbiole puerili e per inconsulto andazzo di moda, non è chi non sappia. Ma un’accolta d’intelligenze malate, delle quali ciascuna si crede avere, non pure il diritto, ma l’obbligo di fabbricare da capo la scienza, tutto traendo dal proprio fondo, come il ragno trae la tela dalle proprie viscere, sembra più fatta a divertire gli oziosi, che ad istruire gl’ignoranti. Se in altri tempi si dubitava qual parte avesse l’uomo in questo mondo; oggi si cerca se ci sia proprio questo mondo fuori del proprio lo; se siavi davvero oggetto oltre il soggetto: e già sapete spreco terribile che da questi filosofi suol farsi di oggettivo e di soggettivo. Se in altri tempi non si sapeva dove trovare la verità, oggi si reca in forse se una verità ci sia di fatto, o non sia piuttosto una illusione della nostra mente il supporla anche solo possibile. Se in altri tempi si cercava se fosse o no immortale la nostra anima, oggi non si vede ragione, perché si abbia a pensare di avere un’anima ragionevole in corpo, parendo che, ancor senza quella, si mangerebbe, si digerirebbe e si dormirebbe dall’uomo alla stessa maniera, e si farebbe qualche altra cosa. Talmente che se io a questi nostri filosofi scredenti movessi le medesime interrogazioni intorno all’uomo, le quali già movea Arnobio ai Gentili, questi filosofi, dopo sedici secoli di progresso, si mostrerebbero alla stessa maniera ignoranti; e solo si divarierebbero dai Gentili nel non volere riconoscere e confessare la propria ignoranza: cosa che pure quegli antichi facevano alcuna volta. E bene a ragione con più crassa ignoranza è punito un orgoglio più smisurato; ché dove quegli antichi ignorarono per manco di una verità che non li avea ancora visitati, i moderni in un mondo, già arricchito di quella verità per Cristo, la ignorano, per averla superbamente ripudiata. Né il nostro paganeggiare è minore nell’interno ordinarci al fine supremo coi soli dettami del Giure naturale e della Morale. Separate queste dal concetto cristiano, esse tornano alle vecchie abberrazioni, alle eterne storie di voler contentare le aspirazioni sconfinate di un’anima ragionevole ed immortale a furia di pitture, di musiche, di danze, di buoni pranzi e di migliori vini; di agi in somma materiali e di delizie, che sono finalmente quasi l’unico pensiero, l’unica ambizione di progresso della età moderna. E vi si progredisce, vi si trotta, vi si galoppa, lo veggo anch’io: né può essere altrimenti, quando da un mezzo secolo tanti ingegni eletti non istudiano che la materia o le affezioni della materia; tanto che oggimai non vi è via più spedita da acquistare rinomo e ricchezze, che il trovare qualche nuovo mezzo da deliziarne i beati sonni dei godenti del mondo! Ma se san Tommaso e l’Alighieri si fossero messi a studiare e manipolare l’elaterio del vapore compresso, l’azione chimica della luce e l’elettrodinamica, credete voi che avrebbero lasciato al nostro secolo la possibilità d’inventare le strade ferrate, la fotografia ed i telegrafi elettrici? Ma quei sovràni intelletti spaziarono in campi, dei quali noi abbiamo perduta perfino la memoria, quando abbiamo voluto ogni nostro pensiero circoscrivere nella materia. Se poi questi siano progressi da inorgoglirne un secolo o da vergognarne, quando siano soli, lo lascio pensare agli uomini che sentono tuttavia di aver in sé qualche cosa, che levasi sulla sfera dei sensi ignobili. Dall’avere noi, sotto il ducato di una filosofja naturalistica, sconosciuto l’uomo; dallo avergli assegnato per unico fine il godimento di questa vita, ne dovea seguire di necessità altresì per noi, quell’ altra piaga nelle turbe, che vogliono godere anch’esse il convito della natura, quando la natura non ha apparecchiato posti sufficienti per tutti; e n’è seguita. Il Cristianesimo, abolì la schiavitudine, non come si pretende abolirla oggi al di là dell’Atlantico con guerre sterminatrici. Esso la distrusse soavemente, radicalmente, spegnendone il principio, in quanto riuscì esso solo a torre di mezzo la radice prima di quel dissidio tra i gaudenti ed i sofferenti. E lo fece rivelando e impromettendo ai diseredati dalla fortuna una felicità avvenire , la cui speranza lenisse, compensasse e guiderdonasse i dolori e le privazioni della vita presente; e così le facesse non pure accettabili, ma degne di essere desiderate. Esso poi mostrava viva ed operante nel mondo quella speranza, nella perfezione evangelica, professata peculiarmente dai Claustrali. Questa dottrina sublimissima e capace essa sola a far vivere il mondo come famiglia di fratelli, fu ripudiata, quando la società volle separarsi da Dio. Allora il convito della natura fu assediato un’altra volta dai milioni di famelici, i quali, persuasi, ad essi non competere altra felicità, che il fruire di questo mondo, vogliono a tutti i patti assidersi a quel convito; ed il men male che possano volere, è rimuoverne i ricchi e gli agiati, che vi stanno assisi da tanto tempo, ed i quali troppo spesso furono i primi ad irritare, colle loro superbie provocanti, le passioni invidiose dei sofferenti, ed a debilitarne, coi loro scandali, quella pietà cristiana, che era il solo balsamo, onde quelli potessero lenire le proprie sofferenze. Questo è il moderno Comunismo o Socialismo, composto informe della idea tutta cristiana della fratellanza universale, e del concetto tutto pagano, non vi essere altra felicità, che di questo mondo. Sistema mostruoso, il quale, se pei nostri peccati prevalesse, mostrerebbe in pratica un’altra volta, con memorando ed atroce fatto, quel gran vero che io vi vengo dichiarando in teorica: per la umana famiglia non avervi oggimai che questi due estremi: o il Cristianesimo colla libertà dei figliuoli di Dio e colla dolce partecipazione dei suoi dolori e delle sue speranze; o il Paganesimo coi ceppi della schiavitudine e con tutti gli orrori dei suoi delitti e delle sue vergogne. Riposiamo.

V. Avea vaticinato Isaia che colla preziosa venuta del Salvatore la scienza delle cose divine, necessario prerequisito a bene intendere le umane, avrebbe riempita la terra: Repleta est terra scientia Domini (Isa. X, 9). Ora questo vaticinio, non che osservarsi comunque, si tocca con mano avverato nel Cristianesimo, mercé la grazia del Salvatore; e siate contenti che io ne faccia un cenno, perché questo dono della scienza, messo a paragone colla cecità del Gentilesimo, vi faccia, miei cari, tenere sempre in maggior pregio la divina chiamata, per cui fummo tramutati dalle tenebre a questa luce beatissima di verità, che nella Chiesa c’illustra. Bene, dunque! quelle interrogazioni intorno all’uomo, al suo essere, al suo Autore, al suo scopo nel mon do ed ai suoi destini al di là di questo, che furono mosse già da Arnobio ai Gentili, ed innanzi alle quali i filosofi antichi restavano mutoli, ed i moderni gareggiano a chi più sproposita, perché non hanno la discrezione di starsi zitti; quelle interrogazioni, dico io, movetele al più rozzo, al più zotico dei nostri Cristiani, tanto solo che abbia apparato il Catechismo. Signori si! rivolgete quelle interrogazioni al fanciullo ottenne che scalzo e cencioso si striscia nel fango dei nostri trivii, al pastorello incolto e solitario di aspre montagne, alla fantesca lurida ed arruffata, alla vecchierella analfabeta, a qualsivoglia insomma dei più zotici ed ignoranti della nostra plebe. Essi non esiteranno un istante a rispondervi con chiarezza, con precisione tanta, con tanta sicurezza della verità, che con più non potrebbe un matematico dei suoi teoremi. Né sanno quello solo; ma e di Dio, e degli spiriti buoni e dei rei, e della vita futura e dell’eterna sua durata, e dei Santi e della benedetta Vergine che per loro pregano e li attendono colassù, sanno così per filo e per segno, che meglio non ne parlerebbero se si trattasse di cose avute per esperienza. – Paragonate ora quest’ampiezza di cognizioni, questa sicurezza direi quasi d’intuito, feconda di tanta pace all’anima, di tanto decoro alla vita, di tanta tranquillità e contentezza; paragonatela, dico, alla ignoranza presuntuosa ed allo scetticismo desolante dei superbi sapienti del secolo, i quali sfatano la superstizione del volgo, ed essi si rodono della sete insoddisfatta del vero; deridono la credulità della plebe, ed essi non hanno altro in capo che le tenebre dell’ignoranza, non altro in cuore che le agitazioni del dubbio e la solitudine della negazione e del nulla; fate, ripeto, questo paragone, e poi sappiatemi dire, se non è grande, se non è inestimabile la dignità e la grazia a noi conferita dalla Fede, per virtù della quale la nostra terra cristiana è ripiena di quella scienza, di cui neppure un raggio rischiarò le menti dei più rinomati savii del Gentilesimo. Repleta est terra scientia Domini. E quando debbono gli uni e gli altri sloggiare dal mondo, chi non preferirebbe la condizione del cencioso, dello scalzo, dell’arruffato, ma Cristiano, alle torture supreme dell’ateo, dell’indifferentista e dello scettico (e fosse pure grande Statista, grande Ministro e grande Scienziato), il quale si sentirà trascinato suo malgrado ad una immortalità che non credette, che non vorrebbe, ma che pure gli sarà data eternamente per tutto!

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (4)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (2)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (2)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO SECONDO

ARGOMENTO 

La venuta del Redentore fu indugiata e perché. Quindi se ne costituì il Paganesimo antico che separò interamente l’uomo privato e pubblico da Dio. La società moderna tende a quella stessa separazione e comincia a coglierne gli stessi frutti.

I. Uno dei divini consigli, a prima vista, men penetrabile dalla nostra inferma pupilla, è la lunga espettazione, in che l’uman genere dovette stancarsi e languire, innanzi di vedere in effetto mandato al mondo il promesso Riparatore. Sarebbe certo paruto convenientissimo, che al veleno fosse venuto appresso, senza indugio, l’antidoto, ed alla ferita fosse stato tosto applicato il balsamo. E nondimeno, voi lo sapete! Per ben quaranta secoli, di quel Riparatore aspettatissimo si ebbero le promesse, i tipi, i vaticinii, le immagini, più o meno espressive e le speranze; ma quanto alla realtà, oh ! questa non si ebbe da forse un centinaio e mezzo di generazioni che, nell’ampiezza dello spazio e nella lunghezza del tempo, si succedettero. E frattanto le tenebre si addensavano sulle tenebre; le nefandezze si aggiungevano alle nefandezze; l’idolatria, senz’alcun rallento, infelloniva; il lume naturale della ragione si offuscava ognora peggio con una proporzionata per versione delle volontà; e, salvo una piccola gente poco conosciuta e meno pregiata, sarebbesi detto che tutta la umana famiglia, abbandonata a cieco e ferreo destino, non avesse per sua eredità che nequizia e dolori al di qua della tomba: al di là condanna e perdizione . Perché dunque indugiare tanti secoli a mandare sulla terra un rimedio, il quale pure Iddio, per sua pietà, avea decretato e promesso, fino dall’ora stessa del gran peccato, pei nostri danni famoso? Io non so, miei riveriti uditori, se questo dubbio siasi affaccialo mai alla vostra mente; ma pare che, fino dai primi secoli della Chiesa, i Gentili lo proponessero ai Cristiani, trovando noi espressamente in Arnobio quel dubbio; come mosso da loro :l Cur tam sero missús est Sospitator? (ARNOB., II, DISCORSO SECONDO 23). Né vi deve far meraviglia, che il grande Apologista rispondesse schiettamente di non lo sapere: Non imus inficias nescire nos; e nessun uomo d’intelletto può vedere in questa ignoranza ona ragione, perché se ne debba scemar punto nulla la dignità o la fermezza della nostra credenza . Che se Iddio avria potuto, senza ombra d’ingiustizia, non mandarlo mái quel Salvatore; chi sarà ardito chiedergli ragione del non averlo mandato più presto? soprattutto che, in quei lunghi secoli, diciamo così, di aspettativa, la Fede in quel Salvatore venturo potea valere e valse di fatto alla giustificazione di non pochi, come al presente vale tra noi la Fede nel Salvatore veņuto. Dall’altra parte, essendo i divini consigli giustificati in loro stessi da quella infinita sapienza, onde sono misurati, il sol vedere che Iddio fe’ apparire il Verbo Umanato in un tempo piuttosto che in un altro, ci dee bastare, senza più, a giudicare, quello propriamente essere stato il tempo più opportuno a quella venuta; e la opportunità in questo caso non dee prendersi altronde, che dalla salute degli eletti. Tuttavolta l’Angelico san Tommaso, con quell’acume d’ingegno e con quella umiltà di Fede, onde interrogò tanti Misteri e ne trovò congruenze o ragioni vere alla stess’ora ed istruttive, l’Angelico, io dico, propose nella sua Somma quel dubbio intorno al perché tardasse tanto il Salvatore a venire al mondo; e ne rese una ragione soprammodo acconcissima a farvi intendere quella radice intima del Paganesimo, la quale io vi promisi di mostrarvi in questo Discorso, essere stata la separazione dell’uomo da Dio. Da quella ragione adunque dell’indugio prendendo le mosse, io vi dichiarerò questa radice del Paganesimo antico, per poscia mostrarlavi, a non dubbii segni ripullulante, per nostro inestimabile danno, nel nuovo. Incomincio.

II. Propostosi dunque san Tommaso quel dubbio, (3. p . q . 2 , a. 5.) risponde chiaro e reciso, avere Iddio lasciata la umana famiglia, i lunghi secoli, colla sola legge naturale impressale nella mente e colla libertà dell’arbitrio, che è facoltà inseparabile dal volere intelligente, affine che gli uomini prendessero un saggio delle proprie forze, e conoscessero quello di che era capace la loro natura di per sè sola, e senz’alcuno aiutorio che le venisse dall’alto. Reliquit Deus prius hominem in libertate arbitrii, ut sic vires naturæ cognosceret. Quasi volesse dire: se dopo il veleno fosse tosto venuto l’antidoto; se dopo la ferita fosse stato tosto applicato il balsamo, l’uomo sconoscente ed orgoglioso avria potuto pensare che alla fin fine, anche senza quei rimedii, avrebbe potuto da sé fare qualche cosa (e perché non anche tutto?) a sua salvezza. Ma supposto che il morbo fosse dichiarato dalla sperienza, non che grave, insanabile, e ciò non per difetto della legge naturale o della scritta, ma propriamente per imbecillità della natura estenuata ed inferma; allora l’aiuto arrivava desiderato, invocato, sospirato, riconosciuto indispensabile; e così veniva condito da quel sentimento di umiltà, il quale Iddio richiede e pregia sopra ogni altra cosa in questa povera e superba nostra argilla. Invaluit morbus non legis, sed naturæ vitio, ut ita (homo), cognita sua infirmitate, clamaret ad medicum et gratiæ quæreret auxilium (Ibid..) E di quei clamori sono piene le Scritture; le quali ad una voce ci dicono, che nel Messia spererebbero le Nazioni: In eum Gentes sperabunt (Rom . XV: 12). Dovea insomma essere tanto desiderato dalle Nazioni quel Salvatore, che per antonomasia ne fosse detto la ESPETTAZIONE: Expectatio Gentium (Gen. XLIX , X. 26). Che se quello sperimento di quaranta secoli, compiuto al prezzo di tanti delitti, di tanta corruzione, di tanti dolori e di tante dannazioni, vi paresse per avventura troppo lungo, io vi dirò in primo luogo, che l’opera d’imprimere altamente nell’uman genere un sentimento, ed un sentimento così ripugnante al natio suo orgoglio, non era faccenda da compiersi in anni ed in lustri, ma a dirittura avea uopo di secoli noverati per lo meno a decine. Appresso vi pregherò di osservare, che se quei quaranta secoli di così doloroso sperimento quasi non sono bastati a fare universalmente intendere e sentire la debolezza della umana natura; se neppure è bastata la giunta degli altri diciotto secoli e mezzo che per noi Cristiani vi si sono accumulati; e noi dopo cinque mila ottocensessant’un anno di sperimento, non siamo ancora fatti capaci di quella debolezza della nostra natura: tanto che a mezzo il secolo decimonono, baldi e pettoruti, andiamo fantasticando non so che progressi umanitarii, non so che perfettibilità indefinite e non so che altre pazze utopie, fondate tutte sul ripudio d’ogni rivelazione divina e sulla presunzione che la natura debba bastare a sé stessa; stando, dico, le cose a questi termini, chi vorrà dire che sia stato troppo lungo quello sperimento? Anzi, a dirvi proprio il mio pensiero, io lo vorrei quasi dire troppo breve; e certo fu più breve di quello che sarebbe potuto essere, parendomi di aver trovato nelle Scritture, che Iddio accorciò quegl’indugi; in riguardo degli accesi prieghi che venivangli dagli umili servi suoi, impazienti di pure vedere partorita al mondo quella tanta salute. Nel resto, se dalla superbia degli uomini carnali si fosse dovuto aspettare quell’ umile riconoscimento del quanto poco valga questa scaduta nostra natura, io vi so dire che né i quaranta, né i quattrocento secoli non sariano bastati; perché l’umano orgoglio è irretrattabile, è incorreggibile, è eterno, come eterno dovrà essere lo svilimento ed il castigo che lo fiacchi finalmente e lo conquida. Ma, escluso questo eccesso di cieca superbia dalle mire pietose della Provvidenza, pel comune dei mortali era richiesto che la umana natura sperimentasse le proprie forze; e le età che corsero da Adamo al diluvio, da questo ad Abramo, da questo a Mosè e da Mosè a Cristo furono appunto deputate a questo grande e salutare sperimento A voi nondimeno potrebbe parere strano che di cosa tanto, ovvia, quanta è la nostra naturale debolezza, fosse uopo convincerci per via così proliss , così umiliante e così dolorosa. Eh! Signori miei! che giova illuderci? Che che sia del concetto più o men favore vole, che ciascun di noi può portare di sé medesimo come di uomo individuo, il certo è che noi mortali abbiamo comunemente una matta presunzione, una inestimabile albagia, un’arroganza intollerabile, quanto alle forze che attribuiamo alla nostra natura. E somigliamo in ciò certi nobili decaduti, i quali, nella loro minore fortuna, tollererebbero rassegnati non poche onte anche gravi; ma guai chi poco poco si attentasse a recarne in dubbio i titoli, che ne attestano la chiarezza del sangue e lo splendore del casato! E tale noi altresì: benché conscii a noi medesimi di non poche debolezze e non lievi, noi ci compiacciamo a pensare che in noi medesimi, nel fondo della propria natura abbiamo quanto basta ad ogni gran cosa, e se non la facciamo, ciò è solamente, perché non la vogliamo fare. – Così nelle cose morali la nostra superbia ci traduce spesso il non posso in non voglio; come per contrario nel sovvenire il prossimo la nostra pigrizia od avarizia ci fa tradurre il vero non voglio in un finto non posso. Ora se vi ha concetto che dirittamente ripugni a tutta la economia della Redenzione, è appunto questo. Quella consiste sostanzialmente e si compendia in un aiuto venutoci dal di fuori, venutoci graziosamente, venutoci per indispensabile supplemento e conforto della inferma e debilitata nostra natura. Anzi, atteso la ragionevole e libera condizione di questa medesima natura, è irremovibile divino decreto, che quell’aiuto non porgasi, e non si applichi quel conforto, se non a chi umile riconosca il suo bisogno e volente lo implori: supposto, s’intende, che abbia abilità di farlo. Di qui voi potete intendere di quanta rilevanza fosse quello sperimento, che Iddio ordinò si prendesse dall’uman genere, quando lo lasciò tanti secoli governarsi in tutto e per tutto da sé, coi soli naturali suoi presidii. Si trattava nientemeno che d’ingenerare nel mondo il primo e più necessario sentimento, che lo apparecchiasse alla venuta del Redentore, e lo disponesse a fruirne i favori celesti. Né era rilevante per quei soli che lo precessero: è eziandio per noi che venimmo appresso; ai quali non è possibile che siano conferiti i suoi doni, applicati i suoi meriti, donati i suoi carismi, senza quel riconoscimento umile del bisogno che ne abbiamo, per la infermità e debolezza della nostra natura. Che se Iddio ordinò quella condizione misera dell’uman genere a fruttare quell’umile riconoscimento; noi, ad ottenere questo, non possiamo far meglio, che affissarci a considerare quella misera condizione; ed a considerarla appunto nella sua radice, la quale dimorò nel trovarsi la umana natura lasciata a sé stessa, acciocché avesse l’agio, siccome udiste, di far prova delle proprie forze.

III. Signori, sì! Lo sperimento di quello che possa e sappia il genere umano coi soli presidii fornitigli dalla natura, e senza intervento speciale di Dio, quello sperimento, dico, è fatto, è strafatto e fu più prolisso, che voi non avreste creduto necessario; ed è riuscito più umiliante e più doloroso, che gli uomini per avventura non avrebbero voluto. Questo sperimento fu appunto l’antico Paganesimo, condizione comune ed universale di tutto il genere umano per quattro migliaia di anni, fattavi solo (come più volte dissi) una piccola eccezione di alquanti pietosi, costituitisi prima in famiglia e poscia cresciuti in popolo, eletto a custodire il deposito della rivelazione primitiva. Che ci state dunque a contare delle mirabilia che potrebbe e saprebbe fare l’umanità, se facesse da sè? quasi non lo avessimo veduto, ed anche troppo per nostra sventura ed ignominia, quello che l’umanità sa e può fare, facendo da sè!! – È lepida la storia del cervello balzano d’un Inglese mezzo ateo, ricco più di quattrini che di giudizio, il quale, raggruppatosi attorno un mezzo migliaio tra di uomini e di donne, tutti spiantati, senza pane e senza fede, se ne andò in America, a sperimentare in un apposita regione, comperata da lui a quest’uopo, quel che sapesse fare l’umanità da sé sola in opera di fondare e felicitare una società civile . Ma che volete? Monna umanità si trovò così male in gambe per quel negozio, che, in capo ad alquanti mesi di babilonia in miniatura, l’Inglese milionario vi andò fallito, e fu il miglior castigo che gli potesse incogliere; della turba umanitaria quelli che non si erano scannati fraternamente tra loro, furono distribuiti nei Depositi di mendicità, nelle prigioni, e contano che i più ingegnosi tra loro fossero allogati nei manicomii. Eh! miei amatissimi! Io già vel dissi: lo sperimento è fatto, ed in forma bene più splendida e solenne, che non sono coteste parodie di apostoli scomunicati, le quali tra ridicole e sacrileghe, non sapreste definire che siano più. – Sarà di altri discorsi il ragionarvi particolarmente i frutti dquello sperimento, che delle forze naturali fece il Gentilesimo: per ora debbo fermarmi alla radice di questo; e la radice ne fu la natura sola, separata e divulsa da Dio. Né già, vedete, che Iddio in quella natura non avesse inserito il lume della ragione: lo avevano quel lume, quanto qualunque altro di noi; e vi è chi giunge a sostenere, che lo avessero più acuto e più svegliato, che non lo abbiamo noi! Neppur mancavano di elementi tradizionali, che se erano meno copiosi e meno precisi, di quello che sieno i nostri, erano tuttavolta, per la prossimità alle origini, almeno naturalmente parlando, più autorevoli e più riveriti. E nondimeno che valse quel lume? quegli elementi che valsero? Il genere umano, salvato frescamente dalle acque sterminatrici del diluvio per mano dell’Onnipotente, lo dimenticò, lo sconobbe, lo rinnegò: le tradizioni più sante, che dai Patriarchi, quasi prezioso retaggio, alle genti novelle che dispergevansi erano state commesse, furono obliate in parte, in parte alterate per forma, da divenirne una tutt’altra cosa da quello, che erano state. Spoglio così l’uomo di soprannaturali presidii, dovette fabbricare la scienza da sé, dovette costituire la giustizia da sè, dovette trovare la felicità in sé medesimo, come se un Dio creatore ed ordinatore dell’universo, addirittura non esistesse. E questo fu propriamente la radice del Paganesimo: val quanto dire la separazione totale della creatura dal Creatore negli ordini speculativi e nei pratici; e quindi il genere umano ridotto a cercare nel proprio fondo, o nel proprio fondo solamente, quanto faceva uopo pel suo sapere, per la sua virtù, per ogni suo bene individuale, domestico e civile. – Ne andrebbe guari lungi dal vero chi pensasse, che quello stato d’isolamento, voluto a vero studio e per orgoglio, fu, come a dire, la riproduzione o piuttosto la continuazione della grande ribellione di Adamo contro Dio; colla sola differenza che in Adamo fu colpa, nel Paganesimo fu pena, fattasi malaugurata radice di nuove colpe. Tant’è! …il protoparente volle una scienza indipendente da Dio, trovata per propria industria, affine di usufruttuarla a suo senno; per diventarne un altro Dio, senza avere più nulla a fare col suo Autore: Eritis scientes …. eritis sicut dii (Gen. III , 5). Per ottenere questa scienza indipendente, non si curò Adamo del divino divieto, e nell’infrangimento di questo credette pazzamente di poter trovare felicità e contentezza. Quasi vorrei dire essere stata quella ribellione una specie di Razionalismo e di Egoismo, i quali cercavano la scienza e la felicità fuori di Dio, estranea a Dio, a dispetto di Dio. Or bene, questo Razionalismo oltracotante, questo superbo Egoismo, che fu il gran peccato del primo uomo, fu giustamente la grande pena di tutti gli uomini, lasciati per sì lungo volgere di secoli a loro medesimi, perché cercassero la scienza nella sola rągione, e la felicità al di dentro di loro. Ora, ditelo voi che siete saggi: quale scienza, quale felicità trovò il Paganesimo per questa via? Lo vedrete altra volta. Per ora basti considerarne la condizione generale, giovandoci del nobilissimo pensiero del Dottor Massimo, il quale riconosce appunto il Paganesimo nel figliuol prodigo di S. Luca, come ravvisa nel fratello di lui maggiore il popolo giudaico; ed aggiunge, che in quella parabola dei due figli è adombrata la vocazione dei due popoli, della quale sono piene le Scritture. Quod autem ait duos filios, omnes paene Scripturæ de duorum vocatione populorum plenæ sunt Sacramentis (Herons YM. Ep. 21 ad Damas. De duobus filiis). Oh! sì! tutte le nazioni erano figlie del gran Padre celeste niente meno, di quel che fosse la posterità di Abramo e di Giacobbe; quantunque a questa si appartenesse la primogenitura, siccome a quella, la cui Religione era nata quasi ad un parto stesso col mondo. Ma che? Le Nazioni si vollero emancipare dalla soggezione paterna, e nel dipartirsi chiesero superbamente al padre la porzione di eredità, che loro spettava: da mihi portionem quæ me contingit (Luc . XV , 12). Né il padre la dinegò, dando loro, siccome udiste, il lume della ragione, la legge naturale, impressa in questa, e gli elementi della tradizione primitiva. Come già quel figlio abiit in regionem longinquam (Ibid. V. 14) , tale altresì le nazioni gentili si allontanarono da Dio, per far da sé, per governarsi a talento, per essere indipendenti da ogni altra norma, che non fosse il proprio intelletto e la propria naturale propensione. Ora che ne seguisse al genere umano non è un mistero, e neppure è un problema: ne avvenne né più né meno di quello, che incontrò al figliuol prodigo, il quale dissipavit substantiam vivendo luxuriose. Sì! sì! il genere umano, dipartitosi dalla casa paterna, gettossi a disfreno dietro a tutte le inclinazioni animalesche, ed in questo modo sperperò malamente il patrimonio, che pure seco aveva portato; e voi vedrete miserabile stremo di abbandono e di abbiettezza a cui divenne. Dissipavit il lume della ragione ed i principii razionali, che ne sono spontaneo rampollo, fabbricando, per tutto che si attiene alla vita ultramondiale, al mondo degli spiriti ed alla divinità, una mole indigesta di mostruosi errori, cui diè nome di scienza, nella quale il meglio che fosse era la negazione ed il dubbio. Dissipavit i principii morali, attestati imperiosamente dalla sinderesi, o ne ritenne solo qualche rimembranza, che cresceva la colpa del conculcarli; e con quei principii mandò a male le più sante idee della giustizia e del diritto, costituendo, praticando e propagando il regno bestiale della violenza e della forza. Dissipavit i casti affetti, le soavi ispirazioni, le pietose virtù, ravvolgendosi, come porco in brago, nelle più schifose lordure, e facendo propria contentezza gli altrui dolori. Dissipavit gli elementi tradizionali, solo faro che poteano essere tra quelle tenebre, contessendo un garbuglio di stupide favole e d’insulsi miti, tra cui il più sagace ingegno stenterebbe a trovare vestigio di quelle tradizioni stesse, che pure n’erano il fondamento. Che più? dissipavit fino la memoria della casa paterna, ond’era uscito; più misero in questo del medesimo figliuol prodigo, il quale pure poté dire alla fine: surgam et ibo ad patrem (Luc, XV, 18), laddove il Paganesimo né sarebbe potuto sorgere né andare al padre, se questi non gli fosse pietosamente venuto incontro, e non gli avesse porta la mano. Talmente che incapace a cercare la luce, appena poté vederla, quando questa gli si fu offerta allo sguardo : Habitantibus in regione umbræ mortis, lux orta est eis (Isa.IX, 2). Avete udito? Non furono essi che cercarono la luce, fu la luce che spontanea si offerse adessi: orta est eis.

IV. La quale miserissima condizione dell’antico Paganesimo io temo forte non sia per divenire altresì, sotto molti rispetti, la condizione dei nostri tempi e dei nostri paesi, quando avessero effetto i voti insensati ed i conati sacrileghi di alcuni pretesi sapienti, i quali purtroppo hanno governata l’opinione di molti Italiani, ed al presente ne governano o piuttosto ne manomettono i popoli. Voi vedeste, radice prima di quella immensa vergogna e sventura dell’uman genere, che fu l’antico Paganesimo, essere stata l’abbandono della casa paterna, l’aver esso cercato scienza e felicità fuori di Dio: in breve, l‘abiit in regionem longinquam del figliuol prodigo. Ora chi crederebbe che quella separazione da Dio, la quale fu la piaga fetida e verminosa, che dovea rivelare all’antico mondo la necessità che esso avea di un Riparatore; chi crederebbe, dico io, che quella separazione stessa dovea diventare pel nostro mondo la cima di ogni perfezione; e che per questo si sarebbe praticamente ripudiato il Riparatore? E non vedete voi, non udite come nel moderno mondo, da oltre a mezzo secolo, ed in Italia segnatamente, dai suoi protettori e rigeneratori non si raccomanda, non si predica altro, che separazione della terra dal Cielo e dell’uomo da Dio? E non sapete come il Principato civile dei Pontefici è stato dai nemici della Chiesa dichiarato impossibile a mantenersi, per questa sola ragione, che, a rispetto di lui, è impossibile quella separazione, che già si è compiuta nel più dei Principati laicali, ed in tutti almeno è possibile? Ma nel Vicario di Cristo! oh! si appongono a meraviglia nel reputare impossibile quella scissione malaugurata del consorzio civile dai principii cristiani, la quale è il voto, il sospiro, direi quasi la rabbia dei nostri naturaleggianti umanitarii. E chi di noi non l’ha ascoltato o letto le cento volte? Separazione dello Stato dalla Chiesa; separazione della letteratura e delle arti dai concetti cristiani; separazione della storia dall’intervento della Provvidenza; separazione della morale e della probità naturale dalle prescrizioni dell’Evangelio; separazione della politica o delle scienze sociali ed economiche dai dettati della rivelazione; separazione della filosofia dalla teologia; separazione della ragione dalla fede, della terra dal cielo, dell’uomo da Dio. E quando tutte coteste separazioni fossero compiute, allora la terra potrebbe addirittura dimenticarsi del cielo, la ragione non saprebbe più che farsi della Fede, e l’uomo potrebbe starsene senza Dio; o, che torna al medesimo  potrebb’essere a sé medesimo il suo Dio, il suo fine, il suo ogni cosa. Or bene! questa espressione laconica dell’umano orgoglio, la quale fu la radice dell’antico Paganesimo, questa espressione proprio si sta da molto tempo mettendo in voga tra noi, per opera di uomini non so dire se scellerati od insensati, ma certo al consorzio civile ed al domestico perniciosissimi. Oh! quante volte sono io venuto meco medesimo considerando e rimpiangendo gli effetti di quel malaugurato principio di separazione, il quale si stà tacitamente infiltrando, eziandio in paesi cattolici ed in famiglie cristiane, in tutte le appartenenze domestiche e civili; e voi medesimi avete potuto notarli nei comuni discorsi e nelle cangiate usanze pubbliche e private! Per tutto voi vedete che la Religione si ritira a poco a poco dalle nostre consuetudini, dalle nostre pratiche, dai nostri divisamenti, dai nostri parlari; e chi sa che a voi eziandio, nel centro medesimo del Cristianesimo, non avvenga di pensare, di sentire, di parlare in parecchie congiunture, e senza quasi avvedervene, poco meno che da Pagani. Quanto è potente, quanto è prosperoso quello Stato! e pure o non si cura della Chiesa, o l’osteggia! quasi che per gli Stati cristiani vi possa essere prosperità sincera e potenza che metta a bene, quando si rompe guerra a Cristo medesimo nella sua Chiesa. Quel tal gentiluomo, quella tal dama, quel tale artigiano son cime di probità e di onoratezza; solo di Religione non hanno briciolo, né si saprebbe se sono atei, maomettani o giudei, e molto probabilmente non sono nulla di tutto questo, in quanto vivono da atei! quasi che possa trovarsi probità vera e vera onoratezza in chi calpesta una Religione, che giurò e pur dice di professare. E colpo meraviglioso fu quello del tale grande statista, per fare ricco e potente sè, più che la sua nazione; che poi si mettesse sotto i piedi l’Evangelio, cotesto non ci entra; perché, si sa, la politica non ha che fare colla sagrestia! quasi che la politica sia altro, che un’applicazione della morale, e la morale sia diventata degna dell’uomo per altra via, che entrando in sagrestia. E quel sistema filosofico, germinato tra le nebbie aquilonari e raffazzonato alla italiana da qualche esorbitante cervello nostrano, che neppure lo avea bene capito, è pure la gran cosa quel sistema! Che poi faccia a calci con tutta la economia della Rivelazione, ciò che rileva? eh! che la filosofia non è più privativa di preti e di frati; e può bene essere verissimo in filosofia tale pronunziato, che in teologia è manifestamente erroneo e forse ancora ereticale. E potrebbero moltiplicarsi senza fine questi esempi, che vi convincono essersi, non che iniziata, ma bene avviata tra noi quella separazione orgogliosa, che fu la radice del vecchio Paganesimo, e che è altresì la radice del nuovo. – Né voi preterire di osservare, come, nella nostra Penisola, sono alcuni improvvidi a ciò confortati da quella segreta inclinazione, pur troppo viva nel cuore di parecchi verso del Protestantesimo, come verso l’affrancamento della ragione. Dite bene: il Protestantesimo affrancò la ragione, separandola affatto da ogni attinenza col Creatore. Il suo principio fondamentale: non credere, non obbedire che alla Bibbia, interpretata dalla tua ragione, si tradusse presto nell’altro: non credere, non obbedire che a te stesso; e questo non suona altro alla fine, che un’autolatria, un’adorazione cieca di sé medesimo, un non riconoscere altro Dio, che il proprio io. – Matto delirio di orgoglio, di cui nell’antico Paganesimo non trovate riscontro, e forse neppure lo trovereste cercandolo nelle bolge infernali tra i demoni e tra i dannati; i quali, anche bestemmiando, credono e tremano: credunt et contremiscunt (JACOB . II, 19). Riposiamo.

V. Comincerò domani a divisarvi quanto fosse doloroso e svilente pel genere umano quello sperpero, che esso fece del retaggio paterno, come prima se ne fu ito in regionem longinquam . Per oggi siate contenti che io, a vostra pratica utilità, faccia notarvi quanto sia lamentabile, per le nazioni cattoliche altresì, la iattura che fecero di vantaggi insigni, anche nel giro della natura, come prima diedero adito al funesto principio di separazione da Dio. Oh! anche le nazioni cattoliche dissipaverunt substantiam, nel miserabile gettito che fecero di tante soavi consuetudini, di tanta scienza, di tanto decoro, di tante salutari istituzioni, di tanti celesti conforti! E che sono divenuti in molti paesi quei tesori, cui la cristiana carità dei nostri antichi avea ammassati da tanti anni, a sovvenimento di tutti i bisogni, a lenimento di tutti i dolori, a presidio di tutte le calamità? Dove pure dallo sperpero generale n’è restata una parte, questa parte è divenuta stipendio, cupidità, pascolo, latrocinio d’una falange burocratica senza viscere, la quale con freddo sprezzo ne getta gli avanzi all’indigenza, non per sovvenirla bisognosa, ma per cavarlasi d’attorno importuna; e faccia Dio che non anche per sedurne la schiva onestà, o per corromperne la cristiana credenza! Che sono ora quei tanti e maestosi edifizii, cui la religione degli avi nostri avea innalzati, per tranquillo ricovero della verginità illibata, degli amạri disinganni, della penitenza consolata, deisalmeggiamenti notturni, della fervente preghiera, delle aspirazioni celesti? Che sono ora? mi chiedete. Girate per la Italia e lo vedrete. Ove pur restano in piedi, sono oggi caserme stivate di baionette, per contenere i popoli che fremono, rugumando in segreto i loro mal dissimulati rancori; sono case di matti, che chiudono in copia cervelli, che dier la volta pel turbinio, in che folleggiarono, di politiche passioni e di corrotto incivilimento; sono prigioni ed ergastoli, pieni zeppi di malfattori, che sotto a volte, già echeggianti dalle caste preci di sante anime, fanno oggi risuonare la sacrilega bestemmia e la imprecazione disperata: intanto che il tempio vicino è quasi lieto di sentirsi scalpitato dall’unghia del cavallo guerriero, perché così risparmia la più grave onta di vedersi fatto ricettacolo infame di compre sgualdrine. E quelle Università, creazione unica della Chiesa Cattolica, le quali tacitamente attestavano al mondo e vi mantenevano vivo lo stupendo connubio della scienza colla Rivelazione, della ragione colla Fede? Consumata la separazione, le Università divennero ostello di tutte le nequizie, fucine di tutti gli errori, focolare di tutte le rivolture; talmente che delle esorbitanze scientifiche che sconvolsero le menti, e delle pubbliche commozioni che scombuiarono i popoli, voi potete porre ogni cosa che le novantanove sopra le cento, se da quelle Università non ebbero gl’inizii, ne trassero certamente i parteggiani per età più ardenti, e più maneggevoli per inesperienza. E non vi basta questo a convincervi, che i popoli, come gl’individui, non si possono separare da Dio, senza sperperare ogni loro più caro tesoro? dissipavit substantiam . Deh! Chi potrebbe noverare, chi deplorare degnamente le inestimabili calamità, che da quella separazione e da questo sperpero, a ruina temporale ed eterna dei miseri popoli, si derivarono? Oh! le due e le tre volte fortunate queste contrade! le quali, poste dalla Provvidenza sotto il reggimento del Capo visibile della Chiesa, sono nella felice impossibilità di vedersi mai civilmente separate da Dio! sono nella necessità ancor più felice di non essere mai governate altrimenti, che da cristiane! Che se questa condizione è il maggior torto che, agli occhi dei Pagani redivivi, ha il vostro Sovrano; questa stessa dev’essere per voi, o Romani, ed è di fatto quella che v’impreziosisce e rende più cara la sorte di essere sudditi di tal Sovrano, dalle cui mani si può bene, per somma empietà, strappare parzialmente o temporaneamente lo scettro; non si potrà ottenere in eterno, che quello sia trattato altrimenti, che come a Principe cristiano si addice.

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (3)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (1)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (1)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

AL LETTORE

La opportunità, che il soggetto, trattato in questi discorsi, parve avere alle condizioni del nostro tempo e della presente Italia, ha fatto giudicare, che potrebbe riuscire di qualche comune utilità il metterli a stampa. E per questa ragione medesima si è altresì passato per sopra a quella probabilità, che pure vi è non mediocre, che essi, essendo letti, non siano per trovare tutta quella indulgenza, colla quale furono ascoltati. Che poi quel soggetto sia singolarmente appropri alle nostre contrade, potrà intenderlo chiunque conoscendo le condizioni di queste (e chi può ignorarle sotto il peso della terribile lezione, che Iddio sta dando all’Italia?), corra coll’occhio gli argomenti posti in capo a ciascun discorso. Da essi si rileverà leggermente, tutti essere indirizzati a combattere quella non tanto dottrina che pratica, la quale è la radice segreta delle gravi calamità, che affliggono la patria nostra, e sarebbe delle più gravi che la minacciano. Quella fu chiamata Cristianesimo civile, Naturalismo, Razionalismo sociale o individuale, e non si sa come altro. Ma è sempre la super pretensione di ordinare l’uomo privato ed il pubblico coi soli elementi fornitici dalla natura. Ora questa fu proprio la condizione dell’antico Paganesimo; e comincia ad essere ancora del Paganesimo moderno: il quale è tanto più reo ed abbominevole dell’altro, quanto che l’antico pur camminava al Riparatore venturo, laddove il moderno ripudia il Riparatore venuto. Soggetto, come ognun vede, vastissimo, siccome quello che abbraccia tutto l’uomo, come particolare persona e come membro del consorzio domestico e civile; e ciò nel doppio ordine naturale e sovrannaturale. Ma di tanta amplissima svariatezza non si essendo potuto che toccare alcuni capi precipui, si sono scelti quelli che meglio rispondevano al bisogno del tempo moderno ed all’indole sacra di discorsi dovuti dire, non in adunanza accademica, ma nel tempio di Dio. – Questi discorsi sono ora pubblicati in forma forse meno incompiuta, ma certo più piena di quella, onde, nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle, furono detti. Essendosi chi li diceva prefissa la legge di non oltrepassare, parlando, lo spazio di un’ora, ogni qualvolta gli avveniva di aggiungere, nel calore del dire, qualche tratto non compreso nella tela divisata, era costretto ad omettere qualche altro presso che uguale. Ma dallo spazio nello stampare non si avendo quel costringimento, che pure si volle avere dal tempo nel favellare, i discorsi si sono potuti dare alla luce nella loro integrità; tanto che, comprendendo fedelmente tutto quello che fu detto. Contengono altresì qualche parte, e non breve, la quale, per la ragione sopra indicata, nel dirli fu preterita. – Da ultimo si vuole notare, che, nel concepire questo piccolo lavoro, non si ebbe alcuna idea che esso dovesse mai essere dato alla stampa. E così nelle varie autorità che vi si citano, bastò che fossero sicure, senza che si vedesse alcune necessità di cercare i luoghi precisi, ove quelle si tenevano; ed il più spesso alcuna necessità di cercare i luoghi precisi, ove quelle si trovano; ed il più spesso furono appuntati dalla memoria. Ora che va sotto degli occhi, sarebbe certo stato uopo di riscontrare e verificare le singole appellazioni. Ma essendo mancato il tempo e l’agio di farlo, se alcuna inesattezza per questo rispetto sarà occorsa, si lascia alla gentilezza del lettore il condonarla; ed egli si accorgerà forse, nel leggere, che quella non è né la sola, né la precipua occasione, che avrà di mostrarsi gentile.

Roma, 5 Febbraio 1862.

DISCORSO PRIMO

ARGOMENTO

La considerazione della Epifania è opportunissima alla Cristianità raccolta dal Paganesimo, alla moderna società che piega ai pensieri ed agli amori pagani, e soprattutto, a Roma che fu il centro dell’antico Paganesimo.

Un drappello di Re, o sapienti che fossero i Magi, i quali, con tutto lo sfoggio della pompa orientale, con salmerie di servi, di cammelli e di dromedari, muovono alla ricerca di un Re neonato; una stella fulgidissima che, di nuovi splendori rallegrando il firmamento, scorge a quelli il cammino; una città regale che all’annunzio di quel nato Re si conturba, ed un altro Re che, punto di sospetti ed agitato da gelosie di Stato, si volge, a fine di assicurarsi in capo la corona, alle più scaltrite arti di volpina politica, e vi resta deluso; sono questi, miei riveriti uditori, altrettanti obbietti degnissimi della vostra considerazione, ed i quali certo potrebbero non mediocremente allettarvi colle attrattive del grandioso, dello straordinario, dell’inaspettato. Ma nei Misteri della nostra Fede, più che le apparenze della corteccia, si debbono considerare le realità del midollo; più che il seguito di fatti, spesso non dissomiglianti dai naturali, si deve tenere l’occhio ai sensi misteriosi, onde quei fatti stessi sono l’indumento e l’involucro; sicché ben meritano il nome di Misteri, in quanto che recano nascosa in grembo alcuna cosa di segreto, di arcano e da sensibili apparenze velato. Certo di questo Mistero appunto della Epifania disse il Magno Leone, non potere essere vuoto di profonde significazioni ciò che accadeva così fuori d’ogni uso naturale ed umano: ut confestim advertatur, non esse otiosum, quod tam in solitum videbatur (Serm . I. in Epiphan.). Non tanto dunque la Epifania per sé medesima, quanto l’arcana significazione, ond’è fecondo quell’alto.

I. Mistero, rende insigne questa splendida solennità, renderà a voi di segnalata utilità spirituale lo assistervi, e rende a me singolarmente caro il potervi, col ministerio della mia voce, in qualche modo contribuire. Né questa utilità spirituale per le vostre anime, la quale io mi prometto dalla considerazione della Epifania, è quella utilità generale, che più o meno può cogliersi da tutti e singoli i Misteri della nostra fede. Questa della Epifania ha un’opportunità tutta speciale al nostro Cristianesimo raccolto dalla Gentilità; ha opportunità più speciale ancora alla condizione della moderna società, nelle cui inclinazioni poco dissimulate ad un assoluto Naturalismo molti lamentano un ritorno ai pensieri ed agli affetti del Gentilesimo; da ultimo ha una opportunità specialissima a questa vostra Roma, la quale di quella Gentilità stessa fu il centro e, per così dire, l’acropoli e il propugnacolo. E questa singolare opportunità credo io essere stata la ragione, perché un tale Mistero volle specialmente prescelto ad essere solennizzato ogni anno, con pompa unica in quest’Ottavario, quell’apostolico e piissimo Sacerdote, che vive ancora nella vostra memoria, o Romani, e che, morendo, vi lasciò, dolcissima eredità di affetto, una famiglia a sé nello zelo e nella pietà somigliante. (L’ab. Vincenzo Pallotti, di pia e venerata memoria, morto nel 1850, fu l’istitutore dell’Ottavario solenne in onore dell’Epifania, nel quale sono stati detti questi Discorsi; e la Congregazione di Sacerdoti, da lui fondata, ne ha ora tutto il pensiero.). Tant’è, Signori miei! Tra tutti i Misteri del Redentore, io mi avviso non esservene alcuno più appropriato ai bisogni presentissimi dei nostri tempi e delle città nostre, di quello che sia il Mistero della Epifania; e se questo fu la cagione precipua dell’essersi istituita in Roma la presente splendidissima solennità, questo può essere altresì la cagione per voi di assistervi con frequenza, con raccoglimento, con verace desiderio del vostro spirituale profitto. Siate pertanto contenti che io mi fermi quest’oggi a mostrarvi appunto la singolare opportunità della Epifania al nostro tempo, ai nostri uomini ed alla vostra città, per quindi alla fine divisarvi il modo, onde intendo ragionarne nei seguenti Discorsi. Non facendo io professione, né avendo esercizio di predicare, e distratto in cure molto lontane da tal ministero, sento pur troppo, e me ne duole, che potrò ben poveramente rispondere allo splendore di tanta solennità ed alla gentilezza della vostra espettazione. Tuttavolta mi conforto al pensare, che quel poco di franchezza nel ragionarvi e quel non poco desiderio del vostro bene, che altre volte vi fè non ingrato al tutto questo mio dire, possa, eziandio nella presente congiuntura, tenervi vece di altri pregi, che sento di non avere. Incomincio.

II. Epifania è greca voce che suona propriamente manifestazione; ed indica e rammemora e solennizza quella pietosa dispensazione, onde il Verbo Incarnato, fino dai primordii della sua infanzia, degnò manifestarsi ai Gentili. Chiamansi poi col nome di Gentili, di Gentes o di Nationes quei popoli che gli Ebrei appellavano גוים (goim) ed i Greci ebraizzanti dicevano Ethnici da Ἐθνῆ [etne]; i quali poscia furono detti ancora Pagani, quando, scacciata dalle città, la idolatria riparò nei luoghi appartati, com’erano i villaggi, detti latinamente Pagi: onde, Pagani, Paganesimo ed altre voci affini si derivarono. Col nome, pertanto, di Pagani o di Gentili intendevansi tutti i popoli diversi dal giudaico; il che vuol dire tutto quasi il genere umano, di cui il popolo giudaico era piccolissima parte, poco conosciuta e meno apprezzata nel mondo, soprattutto dall’Occidente e nel tempo, in cui apparve il Redentore. Ma se la famiglia di Giacobbe era poco considerata dagli altri popoli, gli altri popoli erano spregiati, vilipesi, quasi abbominati dalla famiglia di Giacobbe; la quale avea in conto di barbari i Gentili, e li riputava esclusi dalle promesse divine, come vedeali infatti da se separati nel culto di Dio. Vero è che la vocazione dei Gentili alla Fede era stata in cento luoghi vaticinata nelle Scritture, e specialmente Isaia l’aveva altamente prenunziata e nelle sue più piccole circostanze descritta. Vero è che Noè medesimo, nel maledire alla irriverente petulanza del figliuolo Cham, non pure avea predetto che la stirpe di Giafet saria stata coerede con quella di Sem, che volea dire la Gentilità col popolo giudaico; ma avea di più adombrata la riprovazione di questo e la elezione di quella nella parola simbolica, che Giafet sarebbesi dilatato ed avrebbe abitato nei tabernacoli o nelle tende di Sem: Dilatet Dominus Iaphet et habitet in tabernaculis Sem (Gen IX, 27). Ma non fu questo il solo caso, che la protervia del popolo giudaico o non intese od intese a rovescio gli oracoli divini; e quando esso era stato per grazia eletto ad essere il primo, si arrogò superbamente il privilegio di esser il solo, meritando con questo di non esser neppure l’ultimo, almeno finora e siccome popolo. Intanto quel dilatet noetico si cominciò ad avverare; e le nazioni coprirono la faccia della terra, furono quasi il tutto del genere umano, senza che né esse sospettassero, né altri attribuisse loro quella salute, che pur dovea essere universale, e che con tanti vaticinii era loro stata promessa nelle Scritture. – Ora sapreste voi dirmi quali e dove sono gli eredi legittimi di quella salute manifestata alle genti? Sapreste dirmi qual fu il principio di quella fortunata manifestazione? O signori miei, io non posso pensarvi, senza sentire alta commozione nel cuore, e senza che gli occhi misi gonfino di lacrime! E voi che siete Cristiani e pietosi, se vi porrete mente, sono sicuro ne sentirete simigliantissimi effetti. O si! Gli eredi del Gentilesimo siamo noi; noi popoli giapetici che copriamo la colta Europa, e che travalicando le colonne erculee ed il vasto Atlantico, mandammo insieme col sole tante migrazioni alle plaghe occidue di ambedue le Americhe; noi siamo la stirpe di Giafet, noi i tardi nipoti delle generazioni cieche ed idolatre. Che se da esse non ereditammo la cecità della mente e l’idolatria, lo dobbiamo alla pietosissima vocazione di Cristo. Udirono, sì, udirono gli ave nostri la grande parola di San Leone: « Oh, entri tra i Patriarchi la pienezza delle genti; ed i figliuoli della promessa accolgano quella benedizione nel seno di Abramo, la quale i figli della carne ripudiarono. » Intret, intret in Patriarcharum familiam, gentium plenitudo, et benedictionem in semine Abrahæ, qua se filii carnis abdicant, filii promissionis accipiant (Serm. 33). Signori sì! Signori sì! ed intendetelo bene; chè questo è punto capitalissimo. Se noi, in luogo di adorare stupidamente divinità spietate od impure, conosciamo ed adoriamo in ispirito e verità la Triade sacrosanta in un solo Iddio; se in luogo dell’orgoglio feroce, della lascivia sfrenata e della forza prepotente, noi conosciamo e pratichiamo la serena umiltà, la casta temperanza e il santo impero della ragione e del dritto, noi lo dobbiamo alla graziosa vocazione di Dio, qui eripuit nos de potestate tenebrarum, et transtulit in regnum fili dilectionis suæ (Coloss. I,  12). E disse bene l’Apostolo : eripuit « strappò; » perché davvero non fummo noi, no! che ci separammo da quella sozza e sanguinosa orgia di quaranta secoli, che era oggimai il Paganesimo: fu Dio che ce ne trasse di viva forza: eripuit nos. Non fummo noi che, per propria elezione, ci aggiungemmo a questo regno beato di dilezione, di decoro, di pace e di speranza, che è il Cristianesimo: fu Dio che vi ci trasportò, noi neppur consapevoli, e, quasi che non dissi, noi renitenti: transtulit nos. E l’Epifania del Redentore fu appunto il felice istante, in cui quella nostra vocazione ed elezione venne iniziata. Già il Crisostomo aveva detto che Cristo, fin dagli inizi aveva dischiusa la porta ai Gentili, ab ipsi statim initiis ostrium gentibus aperuit (Hom. VI in Matth.); ma San Tommaso, notò appresso, che i Magi furono le vere primizie del Gentilesimo, e che quella manifestazione fatta ad essi fu come un saggio della più piena che dovea venire appresso: quædam praelibatio plenae manifestationis, quæ erat futura (S. Th. III p. q, 36 a 4). Anzi in quel fatto san Leone vede raccolta, come in compendio, tutta la economia della conversione del Gentilesimo, senza che vi mancassero le vestigia della illuminante grazia nella stella, e delle persecuzioni dalla parte dei Pagani nell’empio Erode, del martirio negli uccisi innocenti. Eccovi le espresse sue parole: In stellæ fulgore Dei gratia , et in rege impio crudelitas paganorum, et in occisione infantium cunctorum martyrum forma præcessit (Hom. VIII in Epiph.). Pertanto se noi siamo il Cristianesimo raccolto dalle Genti, ossia dalle nazioni pagane; se ogni nostro bene temporale ed eterno si deriva fontalmente dall’essere noi stati così eletti e chiamati; se di questa elezione e di questa chiamata l’inizio, l’attuazione e l’adombramento si compì nella Epifania; deh! miei amatissimi, con quanta riverenza non dovremmo noi proseguire questa festa di quanto amore prediligerla! con quanto studio non dovremmo applicarci a penetrarne le arcane significazioni, a ponderarne le promesse ineffabili e le speranze immortali che essa ne inspira!

III. E pure (che giova dissimularlo?) mi vien forte a temere, non forse alcuni pretesi sapienti del nostro tempo stentino a capire, come io pregi tanto questa vocazione del Gentilesimo all’Evangelio, e neppure saprebbero intendere, come e perché i Santi Padri l’abbiano tanto magnificata. Usi dalla fanciullezza ad una improvvida ed esagerata ammirazione della grandezza pagana; studiata da giovani una storia, che è cospirazione faziosa contro del vero, ed una filosofia che ripudia ogni autorità ed ogni tradizione; gonfi, non so bene se il capo o il cuore, di superbie smisurate intorno alle forze della umanità ( è questa la propria loro parola), essi non bastano a vedere qual bisogno vi fosse di quella trasformazione del Paganesimo; pare loro che la perfettibilità naturale dell’uomo avrebbe di per sé sola raggiunte le parti accettabili dell’Evangelio; e per poco non dicono, bestemmiando, che Cristo avrebbe fatto miglior senno a lasciare le cose come trovolle, venendo al mondo. Dall’altra parte giudici pregiudicati ed ingiusti della grandezza cristiana, essi non vi trovano nulla che li satisfaccia; e per loro l’eroe pagano sovrasta di gran lunga all’Evangelo, senza che sappiano scorgere, in tutti i fasti Cristiani, cui paragonare al buffone attico, come Arnobio chiamò Socrate, o al soggiogato dal Re di Bitinia, come dalla soldatesca licenziosa fu salutato Giulio Cesare. In somma se per cotesti traviati è molto problematico il benefizio della vocazione della Gentilità alla Fede, essi non debbono avere in gran capitale il Mistero dell’Epifania, il quale appunto quel beneficio rammemora ai Fedeli, per eccitarne in essi la riconoscenza. – Ora tutto questo dimostra appunto, quanto sia appropriata al nostro tempo, la considerazione dell’Epifania e dal significato onde fu essa il simbolo alla stess’ora ed inizio. Perchiocché tutto quel discorso fatto oggimai comune a moltissimi, se non nella teorica, nella pratica, dimostra che la società moderna ritorna a gran passi al Paganesimo; e senza suscitarne la grossiera idolatria, vi torna coi pensieri, cogli amori, colle inclinazioni, colle opere, colle parole, talmente che di sotto a questo immenso sepolcro, che è il suolo romano, si levasse redivivo il popolo il popolo coetaneo già agli Scipioni e ai Coriolani, e senza guardare ai nostri templi ed al nostro culto, attendesse solo ai pensieri, alle aspirazioni, ai parlari di non pochi, ahimè, io non credo io non credo che si accorgerebbe essi devariare gran fatto da loro se non fosse dalla prostrazione degli animi e nella fiacchezza dei propositi. Pertanto, essendosi nel tempo nostro da molti sconosciuto radicalmente l’insigne beneficio della vocazione del Paganesimo alla Fede, fino quasi ad agognare al ritorno di quella bugiarda grandezza defunta; deh, quale migliore opera potrebbe oggi farsi che mostrare e far sentire quello che fosse in realtà il Paganesino, in cui languiva l’antico mondo; quello che sia in realtà il Cristianesimo, e che fu tramutato, per quindi fare giusta stima della vocazione di quello a questo ? Ed a ciò fare donde potremo trarre più opportuna occasione, che dal Mistero della Epifania, il quale appunto di quella vocazione fu l’inizio e, diciamo così, l’inaugurazione fortunata? Oh sì, pur troppo è vero! E per quanto sia doloroso il dirlo bob sarebbe rimedio sufficiente a guarire il male il tacerlo. Il nostro mondo, ed al presente, più di qualunque parte del mondo, la nostra Italia, per la fede debilitata, e pel mal costume ringarglialdito, comincia pur troppo ad avere pensieri, affetti, desideri, poco dissomiglianti dai gentileschi, né vi credereste che a questo sia uopo adorare gli idoli: oh! Niente affatto! Il Paganesimo nella sua parte costitutiva, o vogliamo dire nella sua ragione formale di essere, non importava altro che Naturalismo, come io nei seguenti giorni vi verrò mostrando. Ora se voi mirate la cosa pubblica e la privata, se attendete ai discorsi che si intrecciano, se leggete i libri e le effemeridi  che si stampano, se ponete mente alle inclinazioni che si manifestano, voi in quelli ed in queste appena troverete altro, che la natura e la natura sola e la natura sempre. E  nella società che professa le idee nuove del secolo, quale è ramo della letteratura e della filosofia, qual parte delle scienze economiche o delle sociali, quale tratto di storia o quale estetica di arti belle, quale appartenenza domestica o civile o politica vi ha oggimai, che serbi un vincolo di attinenza colle Rivelazione? Anzi quale non ha fatto pieno ed assoluto divorzio della Rivelazione stessa, presumendo di tutto trarre da questo povero fondo dell’intelletto umano, il quale allora solo può essere buono a qualche cosa, quando è conscio della sua debolezza ed ha la modestia di confessarlo a sé e ad altrui? Che se alcuna cosa pur si ritiene dalla Fede o nella teorica o nella pratica; ciò è solo quel poco che si acconcia alle nostre disordinate abitudini, che non iscomoda, che favorisce anzi le nostre passioni ed i nostri interessi, e soprattutto che non si leva sopra quello, che alla losca nostra ragione piace tenere per vero. Il qual bisticcio di alcuni pensieri ed affetti tolti dall’Evangelio, commisti e manipolati coi pensieri e cogli affetti. della guasta natura, è propriamente quel Cristianesimo civile, messo in voga, già sono tre lustri, il quale molti dicono di professare, e del quale io non so se e quanto sia civile, ma so di certo che non è cristiano. La mercè di questo nuovo trovato, noi, incapaci e svogliati di levarci alle altezze limpidissime della Fede, pensiamo di aver ottenuto gran cosa, quando abbiamo fatto declinare la Fede alla nostra bassezza, snaturandola e stremandola del più splendido suo carattere, di essere cioè qualche cosa più alta, che noi omicciattoli non possiamo immaginare. Ora cotesto Naturalismo introdotto e dominante nel moderno mondo, è puro e pretto Paganesimo; ma Paganesimo tanto più reo e condannevole, che non era l’antico, quanto che questo moderno è effetto di una pratica apostasia da quella Fede, a cui l’antico era ordinato, e la quale esso abbracciò con tanta alacrità e devozione. Paganesimo redivivo che dello spento ha tutte le servilità e tutte le abbominazioni, senza la originalità e la grandezza; non essendo la grandezza pagana cosa possibile; a risuscitare, e chi lo ha tentato, non è riuscito che a scimmiature sguaiate, che sarebbon ridicole, se troppo spesso non fossero state atroci. Paganesimo disperato, perché nessun Balaam gli ha promessa una stella di Giacobbe, come all’antico, il quale pure aspettava una chiamata; laddove il nostro, nato dalla corruzione del Cristianesimo, o piuttosto da una civiltà decrepita ed ingancrenita, non aspetta altra chiamata, che quella dell’eterno Giudice, che lo condanni di tante abusate misericordie. Di questo Paganesimo se qualche alito, miei dilettissimi, vi avesse mai offeso, e permettete all’amor che vi porto, il dubitarne od anche solo il temerne, voi non potrete trovarvi migliore rimedio, che la considerazione devota e ragionata dell’Epifania.

IV. Ma oltre a quella ragione generale e comune a tutta la Gentilità convertita, che vuol dire a tutto il Cristianesimo; oltre a questo meno comune ed attenentesi alle inclinazioni della moderna società, egli vi ha nelle condizioni speciali delle città, in cui vi parlo, una peculiarissima ragione di tributare ossequio tutto singolare a questo Mistero della Epifania. E chi siete voi, o ascoltatori? Voi, sì! Voi siete gli eredi ed i discendenti di quei prischi Romani, i quali avendo incentrata in loro tutta la grandezza e la potenza pagana, parve che tutto il Paganesimo fosse trionfato dalla Croce, quando quei vostri maggiori furono conquisi alla Croce. Noi ci troviamo sopra le ruine di quella Roma che, fatta rocca e propugnacolo della Idolatria, come parlò il Magno Leone, s’immaginava di possedere una splendida Religione, perché nessuna superstiziosa insania avea rifiutata: Magnam sibi videbatur assumpsisse religionem, quia nullam respuerat falsitatem (Serm . I. in Nat. App . Petri et Pauli.). Sopra quella Roma che a tutte le più nefande deità innalzò are e delubri, sgozzò vittime e bruciò incenso, meno a quel Dio Ottimo, Massimo, che solo n’era degno, come Arnobio le gettò in viso. – Ora come foste voi cangiati in un’altra cosa da quel che furono i vostri antichi? Come per questa Roma fu fatale l’essere, non capitale di di non so che regno sgangherato e fallito prima di nascere, ma reina e reina sempre del mondo; sì che non dovendo più imperiare sui popoli per la prepotenza delle armi, cominciasse a reggere l’orbe tanto più nobilmente per la santità augusta della Religione! Quisquid non possidet armis religione tenet (Prudenzio, Carmina). Chi non ravvisa il dito di Dio in questa portentosa trasformazione d’una in altra grandezza, per forma nondimeno che la profana grandezza, dovendo pur essere per sé medesima ostacolo insormontabile alla sacra, riuscì tuttavolta ad esserne fondamento provvidenziale ed apparecchio? Chi non vede come l’unità del mondo romano, opera di otto secoli e tra le umane la più stupenda, fu ordinata a fare da substrato alla unità più vasta e più duratura del mondo cristiano? O miei fratelli! fate di entrar bene in questo pensiero; ché nessun altro per avventura al pari di questo può farvi intendere gran cosa che per voi è, o Romani, l’Epifania: nessun altro meglio di questo può premunirvi contro certe scaltre seduzioni, che vorrebbero passare per italiane, e sono pagane. – Guardate! Noi ci aggiriamo per questi fori, dove assembravano i figliuoli di Quirino, a sentirvi arringare dai vostri magni oratori, ed a deliberarvi gli assassini dei popoli, che si chiamavano, e dai pagani redivivi si chiamano tuttavia conquiste. Noi calpestiamo le zolle di quei circhi ed anfiteatri che rimbombavano altra volta da inverecondi e tempestosi tripudi di una plebe ubriaca di sangue, che era beata di bere gli cogli occhi le agonie e gli spasimi di uomini, perciò, solo devoti alla morte. Noi camminiamo accanto alla ruine di queste terme, di questi templi, di questi fornici; e templi e fornici, in opera di prepotente libidine, erano tutt’uno; tanto che , se ogninume pagano dai nostri tribunali avrebbe meritato per lo meno la galea, pgni tempio non poteva guardarsi altrimenti, che come un pubblico lupanare avendo detto per Minucio Felice, che frequentius in ædituorum cellulis, quam in ipsis lupanaribus, flagrans libido defungitur (Octavius, cap. XXV). E sopra questo indistinto osceno di prepotenza calpestatrice di ogni diritto, di derocia gavazzante nel sangue, di mostruosa lascivia che fa a fidanza con divinità prostitute,; sopra questo indistinto, io dico, che fu come la torre munita di tutto il Paganesimo nell’antica Roma, che vedete voi al presente? Voi non vedete oggimai trionfare altro sopra quelle ruine che la Croce,; e la Croce coi casti suoi pensieri, e la Croce colla sua umiltà rassegnata e con le sue speranze. Sulle arene silenziose dell’anfiteatro Flavio, inzuppate già del sangue di tanti mancipii, e di tanti martiri, grave e devoto incede al presente ai posti giorni un pio drappello; e quale velato il capo, quale scalzo il piede, tutti col cuore compunto, con innanzi inalberata la Croce. Riandano i dolori dell’Uomo-Dio ivi medesimo, ove tanti dolori incompianti furono divorati dalle generazioni che passarono, ove sedeva già il Campidoglio, smisurata e superstiziosa ambizione di un popolo padrone della terra, siede oggi numerosa famiglia del poverello d’Assisi, che, nell’umile povertà della Croce, seppe e sa educare pel cielo la terra i serafini, sul palazzo dei Cesari, ricetto infame che fu d’ogni più impura nequizia, un coro eletto di vergini sacre a Dio fa oggi fiorire come in giardino di paradiso, i gigli della illibatezza più pura; e mentre il mondo assonnato riposa, deste esse alla nota squilla, levansi notturne a mattinare il celeste loro sposo, perché le ami. Che più? Quel tempio, cui Agrippa dicava a tutti le infami divinità del Paganesimo, eccovelo già espiato dai riti cristiani, già sacro alla Reina del cielo e a tutti i Santi: anzi, quasi ciò fosse poco, quel tempio medesimo, riprodotto nelle vaste sue proporzioni, voi scorgete dall’audacia dell’arte cristiana, fatto sol parte d’immenso tutto, e campato nella regione delle tempeste, servire di coperchio alla tomba dello scalzo e spregiato Pescator galileo. Né queste trasformazioni ricordai quasi fossero sole; le ricordai più veramente, come ad esempio, perché sono precipue. Nel resto in questa vostra città non vi è sasso per avventura, non vi è zolla, non vi è rudero di vetusto monumento, che non vi narri in sua favella la smisurata ambizione e la bugiarda grandezza del popolo che foste un tempo; è narrandovi questo, vi deve far sentire l’immenso benefizio del Redentore, che chiamovvi ad essere quel tutt’altro popolo che al presente voi siete. – E (sia detto ad onor del vero) voi, o Romani, deste in questi ultimi tempi, e state dando tuttavia segni risplendidissimi di averlo inteso! Voi, a confusione di chi aveva interesse a supporvi e dipingervi tutt’altro da quello che siete, mostraste al mondo ammirato, e dico ancora alla Cattolicità rinfrancata, come qui la fedeltà dei sudditi, accoppiata in bell’accordo alla pietà dei cattolici, vi facea non che satisfatti, ma lieti, ma nobilmente alteri di sapere i vostri destini civili immedesimati ai destini della Roma Cristiana, in quanto avete a vostro Principe il Vicario stesso di Cristo. Io non so se altra età vi sia stata, in cui fossero i Romani più devoti ai loro Pontefici; ma è indubitato, che in nessun’altra età ne diedero, mai prove così affettuose, così splendide, così universali, come sono quelle che voi, da oggimai due anni ne state dando. E ne avete ragione! Per una Roma, sotto ai cui piedi Iddio volle poste, quasi sgabello, le ruine maestose del massimo Imperio che vedessero le stelle, ogni altra corona saria minore della sua grandezza! Sul capo augusto di lei solo sta bene e si addice quella che sta portando da dodici secoli, lungo i quali tanti troni crollarono, sparirono tante dinastie e tanti scettri fur fatti polvere! quella corona per cui, guardata Roma siccome patria spirituale di quanti sono credenti, è salutata Capo dell’Orbe, Reina, madre, maestra ed altrice dell’universo mondo! Riposiamo.

V. Vedete dunque per quali e quanți titoli la solennità e la considerazione dell’Epifania è opportunissima a noi tutti Cristiani, i quali fummo, nelle generazioni che ci precedettero, chiamati e raccolti dalla Gentilità; è opportunissima alla condizione presente della società che, in mezzo a tante superbie di progresso, rinverte miseramente ai pensieri, agli amori, alle tendenze del Paganesimo, già trionfato dalla Croce; è opportunissima da ultimo a voi, o Romani, i quali, dall’essere il centro e la viva espressione del Paganesimo dominante, passaste a vedere locato nel vostro mezzo il centro e come il cuore di questo gran corpo, che è la Chiesa universale. – Dissi poi solennità e considerazione della Epifania, parendomi che in queste due parti possa dividersi tutto ciò, che è per farsi in questo splendido ottavario. E la solennità, che attesta la riconoscenza, è raccomandata agli zelanti che coll’opera o colle largizioni vi prendono parte. Quanto alla considerazione, ordinata ad eccitare la riconoscenza, essa sarà frutto della divina parola, che sì copiosa ed in tante svariate forme, sarà amministrata nei correnti giorni in questo tempio. E, nella piccola parte, che ne è a me raccomandata, io non mi dipartirò dal soggetto indicatovi oggi; e vi discorrerò l’antico ed il moderno Paganesimo: quello da cui Dio ci trasse per sua misericordia; questo a cui il mondo presente è incamminato per sua colpa e per sua sventura. – Ora né questa colpa, né questa sventura  potrà intendersi , né la grazia della vocazione dei Gentili, se non si fa giusta stima di quello che fosse veramente la Gentilità. Oh, sì! A quella società così ammirata pei suoi poeti, pei suoi oratori, pei suoi artisti, e più ancora per i suoi uomini di stato in pace ed in guerra, a quella società, io dico, conviene strappare d’attorno lo splendido velo che l’ammanta, per tutta vedernel’orribile abbominazione e la schifosità snaturata. Senza ciò, non è possibile intendere abbastanza bene l’immensa trasformazione compiuta dall’Evangelo; e noi, senza il concetto di quello che fummo, non intenderemo mai la grazia ed il pregio di essere stati fatti quello che siamo. – Ed a farlovi intendere, secondo la mia piccola facoltà, io vi discorrerò domani la radice del Paganesimo, la quale mi pare di ravvisare principalmente nell’assoluta separazione dell’uomo da Dio. Da questa málaugurata radice pullularono due funesti germogli: l’avere cioè l’uomo sconosciuto sé medesimo, e l’essersi alterato nelle sue relazioni coll’universo esteriore; e questi saranno i suggetti del terzo e del quarto discorso. Quell’alterazione poi, che nella intenzione di chi la volle dovea fruttare all’uomo piena indipendenza da tutto che non fosse lui; per contrario importò nell’uomo pagano una triplice schiavitudine: schiavitudine alle forze della natura, schiavitudine alle seduzioni del senso, schiavitudine alla prepotenza dello Stato; e questi tre saranno gli altrettanti suggetti dei seguenti. L’ultimo o l’ottavo sarà una conchiusione pratica di tutti gli altri, tolta dal mezzo stupendo, di che si valse la Provvidenza per compiere quella trasformazione; quantunque in tutti mi studierò di non farvi desiderare applicazioni morali ai nostri tempi ed alle nostre condizioni.