Un’Enciclica al giorno, toglie il modernista-apostata di torno: SAPIENTIÆ CHRISTIANÆ

Proponiamo una delle più belle e “scuotenti” encicliche di Leone XIII, datata 10. 1. 1890, zeppa di contenuti importantissimi per la fede cattolica, dedicata ai principali doveri del cristiano, doveri che la setta modernista attuale elude accuratamente, protesa demagogicamente solo a soddisfare i bisogni ed i “pruriti” dei suoi adepti che, pur nel peccato, nei sacrilegi, nelle scomuniche, nelle innumerevoli censure, continuano a reputarsi cattolici. Qui abbiamo un elenco di doveri dei cristiani, in particolare nei confronti delle autorità civili che imponessero leggi o costumi contrari alla morale cristiana ed agli insegnamenti religiosi, ricordando l’obbligo che si ha di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, specie se corrotti e guidati da intenti loschi e malvagi … notevole e perentorio è il passaggio che recita: “… però se le leggi dello Stato dovessero essere apertamente in contraddizione con il diritto divino; se dovessero essere ingiuriose verso la Chiesa, o contraddire i doveri della religione o violare l’autorità di Gesù Cristo nella persona del Papa, allora è doveroso resistere ed è colpa [sottolineiamo: colpa!] ubbidire”. C’è inoltre un’aperta condanna del laicismo e della pluralità religiosa, considerata come libertà di propugnare l’errore… figuriamoci poi l’ecumenismo attuale propagato dalla setta modernista-mondialista del “Novus Ordo”, costola attiva del progettato governo mondiale e delle religioni unite sotto l’egida giudeo-massonica. – Eccezionalmente illuminanti sono poi le espressioni sul dovere dei fedeli di conoscere e tutelare la dottrina cristiana, il pericolo dell’inerzia colpevole, l’impegno a professare e divulgare la fede cattolica, [ … ciascun fedele deve propagare agli altri la propria fede, sia per l’istruzione degli altri fedeli, sia per confermarli, o per reprimere gli assalti degli infedeli …],  le modalità di partecipazione alla vita politica senza falsa prudenza e falso zelo, per finire in brillantezza con l’educazione dei giovani, oggi totalmente disattesa e deviata opportunamente con ogni mezzo e da tutte le istituzioni, soprattutto in seno alla famiglia, [i padri … si sforzino di respingere in questo campo ogni intromissione ingiuriosa e rivendichino il diritto di educare come conviene i figli nel costume cristiano], famiglia che è germe della società divina, e richiamando alfine alla gravità dei doveri di ogni cristiano. – Ma non roviniamo queste pagine del Sacro Magistero che, lo ricordiamo a beneficio di coloro che sono oramai protestantizzati e massonizzati da mass media “teleguidati”, nonché da falsi prelati mai validamente ordinati, quindi laici in maschera di carnevale, è la voce del Vicario di Cristo in terra, e quindi è parola vivente di Gesù-Cristo-Dio:

“Sapientiæ Christianæ revocari præcepta, eisque vitam, mores, instituta populorum penitua conformati …”

S. S. Leone XIII

“Sapientiae christianae”

[De præcipuis civium chriastianorum officiis]

Lettera Enciclica

Richiamarsi ai precetti della sapienza cristiana e conformare profondamente ad essi la vita, i costumi e le istituzioni dei popoli è cosa che ogni giorno appare sempre più necessaria. Avendoli messi da parte, ne sono derivati mali così grandi che nessun uomo saggio può sopportare la presente situazione senza una grave preoccupazione, né guardare al futuro senza timore. – Si è realizzato un non comune progresso dei beni che riguardano il corpo e le cose materiali, ma tutta la natura sensibile, il possesso dell’energia e dell’agiatezza, se possono generare comodità e aumentare la dolcezza della vita, non possono soddisfare l’anima che è nata per destini più grandi e più alti. Contemplare Dio e tendere a Lui è la suprema legge della vita degli uomini, i quali, creati a immagine e somiglianza divina, sono fortemente invitati a possedere il loro Creatore. – Ma non si va a Dio con le tendenze e le esigenze del corpo, bensì con la conoscenza e l’affetto che sono atti dell’anima. È Dio, infatti, la prima e suprema verità, e la nostra mente non si pasce che di verità: alla santità perfetta e al sommo bene può aspirare e accedere soltanto la nostra volontà sotto la guida della virtù.- Quanto si dice dei singoli uomini, deve essere riferito anche alla società, sia domestica, sia civile. La natura infatti non ha creato la società perché l’uomo la seguisse come un fine, ma affinché in essa e per essa trovasse gli aiuti adatti alla propria perfezione. Se la società civile persegue unicamente le comodità esteriori e il culto della vita nel lusso e nell’abbondanza; se ignora Dio nella vita amministrativa e non si cura delle leggi morali, essa devìa terribilmente dal suo scopo e da quanto la natura prescrive, e non può essere considerata società e comunità di uomini ma una falsa imitazione e parodia di società. – Quei beni spirituali che – come abbiamo già detto – si ritrovano soprattutto nel culto della vera religione e nella costante osservanza dei precetti cristiani, li vediamo oscurarsi ogni giorno per dimenticanza o per fastidio degli uomini, cosicché quanto più grandi sono i progressi che riguardano la vita corporale, tanto maggiore è il tramonto dei valori che riguardano l’anima. Indizio significativo della diminuita e indebolita fede cristiana si trova nelle stesse ingiurie che vengono rivolte troppo spesso contro il nome cristiano, in piena luce e sotto gli occhi di tutti; in altri tempi, una società rispettosa della religione non l’avrebbe mai tollerato. Per queste cause è incredibile a dirsi quale grande numero di uomini si trovi in pericolo di perdere l’eterna salvezza. Ma le stesse città e gli Stati non possono restarne indenni a lungo, perché crollando gli ordinamenti e i costumi cristiani, inevitabilmente crollano anche le fondamenta della società umana. – Per difendere la pubblica tranquillità e l’ordine resta soltanto la forza: ma anche la forza pubblica diventa molto debole se scompare l’aiuto della religione: risulta più atta a creare schiavitù che obbedienza; raccoglie già in se stessa i semi di gravi disordini. – Il nostro secolo ha provato gravi, memorabili vicende, e non si sa se dobbiamo paventarne altre uguali. Pertanto il momento storico ci ammonisce da che parte bisogna cercare i rimedi, cioè ripristinare in tutte le componenti della vita sociale il modo cristiano di pensare e di agire della vita privata: questo è l’unico sicuro mezzo per eliminare i mali che ci affliggono e impedire i pericoli che ci sovrastano. – A questo, Venerabili Fratelli, è necessario che ci dedichiamo; a questo dobbiamo portare ogni nostro sforzo con il massimo impegno: per questa ragione, sebbene abbiamo già altrove trattato queste cose, quando Ci fu data la possibilità, Ci sembra tuttavia molto utile descrivere i doveri dei cattolici più chiaramente in questa Lettera: questi doveri, se osservati con ogni cura, saranno di grande utilità per la salvezza dei beni sociali. – Incorriamo quasi ogni giorno in grandi contrasti sui massimi problemi: ed è molto difficile non restare vittime di inganni, di errori e di vedere molti perdersi d’animo e soccombere. È nostro dovere, Venerabili Fratelli, ammonire, insegnare, esortare a suo tempo affinché nessuno abbandoni la via della verità. – Non si può dubitare che siamo molti e maggiori i doveri dei cattolici che non di coloro che sono appena consapevoli della loro fede cattolica o ne sono completamente privi. Allorché Cristo, procurata la salvezza al genere umano, comandò agli Apostoli di predicare il Vangelo ad ogni creatura, impose pure questo dovere a tutti gli uomini: che imparassero e credessero alle cose che venivano loro insegnate; a questo dovere è congiunto il raggiungimento dell’eterna salvezza. “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo: chi non crederà sarà condannato” (Mc XVI,16). Ma l’uomo quando ha abbracciato la fede cristiana – come è suo dovere – deve perciò stesso sottomettersi alla Chiesa come figlio suo, e diventa partecipe di questa grandissima e santissima società, sulla quale spetta esercitare il sommo potere al romano Pontefice, sottoposto al capo invisibile Gesù Cristo. – Ora, pertanto, se siamo obbligati per legge di natura ad amare e difendere particolarmente quella città nella quale siamo nati e cresciuti in questa luce, fino al punto che un buon cittadino non può dubitare di dover dare anche la vita per la patria, è molto più doveroso per i cristiani amare sempre la Chiesa. La Chiesa è infatti la città santa del Dio vivente, nata da Dio stesso e costituita dallo stesso Autore: è pellegrina qui sulla terra, ma sempre intenta a chiamare gli uomini per istruirli e condurli all’eterna felicità del cielo. Pertanto si deve amare la patria dalla quale abbiamo ricevuto il dono di una vita mortale: ma è necessario anteporle nell’amore la Chiesa, alla quale dobbiamo una vita che durerà in perpetuo: perché bisogna anteporre i beni dell’anima a quelli del corpo; i nostri doveri verso Dio sono molto più santi che non quelli verso gli uomini. – D’altra parte, se si vuole giudicare rettamente, l’amore soprannaturale per la Chiesa e l’amore naturale per la patria sono entrambi figli della stessa sempiterna fonte, poiché hanno come causa e autore Dio stesso, dal che consegue che un dovere non può essere in contraddizione con l’altro. Possiamo e dobbiamo dunque amare l’una e l’altra: amare noi stessi; essere benevoli con il prossimo; amare lo Stato e il potere che vi presiede, e nello stesso tempo venerare la Chiesa come nostra madre, e con il massimo amore possibile tendere a Dio. Tuttavia questo ordine di precetti talora viene pervertito, sia per la calamità dei tempi, sia per la cattiva volontà degli uomini. Accadono anche circostanze in cui sembra che lo Stato richieda dai cittadini cose del tutto contrarie a quelle richieste dalla religione ai cristiani, per il fatto che le autorità dello Stato non tengono in nessun conto il potere sacro della Chiesa, oppure la vogliono soggetta a sé. Da qui sorgono il contrasto e l’occasione per mettere alla prova la virtù. Incalzano due poteri, per cui non si può obbedire contemporaneamente a coloro che comandano cose contrarie: “Nessuno può servire a due padroni” (Mt 6,24), per cui se si segue uno, diventa inevitabile lasciare l’altro. Nessuno può dubitare quale dei due sia da anteporre. – È un atto di empietà abbandonare l’ossequio a Dio per soddisfare gli uomini: come pure trasgredire le leggi di Gesù Cristo per obbedire alle autorità dello Stato, o violare i diritti della Chiesa col pretesto di osservare il diritto civile. “È necessario obbedire più a Dio che agli uomini” (At V,29). È ciò che Pietro e gli altri Apostoli risposero alle autorità che imponevano cose ingiuste; è ciò che si deve sempre ripetere senza esitazioni in casi simili. Nessun cittadino, sia in pace sia in guerra, è migliore di un vero cristiano, memore del proprio dovere; ma questi deve essere pronto a sopportare tutto, anche la morte piuttosto che abbandonare la causa di Dio e della Chiesa. Perciò non hanno considerato adeguatamente la forza e la natura delle leggi coloro che riprovano questa decisione nella scelta dei doveri, e affermano che questa è sedizione. Parliamo di cose note al popolo e da Noi altre volte spiegate. La legge non è che un comando della retta ragione, promulgata per il bene comune da colui che ha un legittimo potere. – Ma non c’è nessun vero e legittimo potere se non parte da Dio, sommo sovrano e padrone di tutte le cose, che solo può concedere ad un uomo il potere su altri uomini; e non deve essere ritenuta retta una ragione che dissenta dalla verità e dalla ragione divina: né vi è un vero bene se è contrario al sommo e immutabile bene o che allontani e svii dall’amore a Dio le volontà degli uomini. Sacro è per i cristiani il nome dell’autorità pubblica, nella quale essi riconoscono una certa immagine e un simbolo della maestà divina, persino quando è gestita da persone indegne. Alla legge è dovuto un giusto rispetto, non per la forza o le minacce, ma per la consapevolezza di un dovere: “Dio non ci ha dato uno spirito di timore” (2Tm 1,7). Però se le leggi dello Stato dovessero essere apertamente in contraddizione con il diritto divino; se dovessero essere ingiuriose verso la Chiesa, o contraddire i doveri della religione o violare l’autorità di Gesù Cristo nella persona del Papa, allora è doveroso resistere ed è colpa ubbidire; e questo si collega al disprezzo verso lo Stato, perché si pecca anche contro lo Stato quando si va contro la religione. – Nuovamente si chiarisce quanto sia ingiusta l’accusa di sedizione: infatti, non si ricusa la dovuta obbedienza al capo dello Stato e agli autori delle leggi, ma ci si oppone solamente alla loro volontà in quei precetti che essi non hanno alcun potere di imporre perché vengono emanati offendendo Dio, perciò mancano di giustizia e sono tutto fuorché leggi. – Voi sapete, Venerabili Fratelli, che questa è la stessa dottrina del beato Paolo Apostolo, che dopo aver scritto a Tito che si dovevano ammonire “i cristiani di stare soggetti ai principi e ai governanti e obbedire ai loro ordini”, aggiunse subito che “dovevano essere preparati per ogni opera buona” (Tt 3,1). Dal che appare chiaramente che se le leggi umane dovessero stabilire qualcosa di contrario all’eterna legge di Dio, sarebbe giusto non obbedire. Con simile argomentazione il Principe degli Apostoli rispondeva con forte ed eccelsa nobiltà d’animo a coloro che gli volevano togliere la libertà di predicare il Vangelo: “Se è giusto al cospetto di Dio ascoltare voi piuttosto che Dio, giudicatelo voi stessi: non possiamo infatti non parlare di quelle cose che abbiamo visto e udito” (At 4,19-20). È dunque grande dovere dei cristiani amare le due patrie, quella di natura e l’altra della città celeste, purché sia prevalente l’amore di quest’ultima sulla prima, e non si antepongano mai i diritti umani a quelli divini, e si consideri la città celeste come fonte dalla quale sgorgano tutti gli altri doveri. Il Salvatore del genere umano ha detto di se stesso “Io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza della verità” (Gv 18,37). Come pure “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e che cosa voglio se non che si accenda?” (Lc 12,49). Tutta la vita e la libertà del cristiano stanno nella conoscenza di questa verità, che è il massimo della perfezione della mente, e nell’amore a Dio che pure rende perfetta la volontà. E la Chiesa conserva e difende con continuo impegno e vigilanza questo nobilissimo patrimonio – cioè della verità e della carità – affidatole da Gesù Cristo. – Ma non vale la pena parlare qui della guerra accanita e multiforme scatenata contro la Chiesa. Tutto quello che capita alla ragione umana di scoprire con l’investigazione scientifica su realtà finora sconosciute e gelosamente nascoste dalla natura, e di convertire le scoperte in uso per la vita, dà agli uomini l’ardire di sentirsi dei e di poter allontanare dalla vita comune l’autorità di Dio. Ingannati da questo errore, trasferiscono alla natura umana il dominio strappato a Dio, e sostengono che si deve ricercare nella natura il principio e la norma di ogni verità: da essa emanano e ad essa dovrebbero essere ricondotti tutti i doveri religiosi. Pertanto, niente è stato rivelato da Dio: non si deve obbedire alla Chiesa e alla disciplina dei costumi cristiani; la Chiesa non ha nessun potere e nessun diritto di legiferare; anzi, è necessario non lasciare alla Chiesa spazio alcuno nelle istituzioni dello Stato. Esigono, e con ogni sforzo operano per giungere al potere e al governo negli Stati per potere più agevolmente indirizzare le leggi secondo queste dottrine, e creare nuovi costumi fra i popoli. E così si aggredisce ovunque la cattolicità, o apertamente o la si combatte occultamente: permettendo la libertà ad ogni perverso errore, viene spesso limitata e ristretta con molti vincoli la professione della verità cristiana. In questa triste condizione, ciascuno prima di tutto deve rientrare in se stesso per custodire e difendere la fede altamente radicata nell’animo, evitando i pericoli, sempre armato contro le varie insidie dei sofismi. A tutela di questa virtù è molto utile, e consentaneo ai nostri tempi, lo studio diligente, secondo le personali capacità, della dottrina cristiana e di quelle cose che riguardano la religione e che possono essere comprese col lume della ragione, e di esse arricchirsi la mente. E poiché non basta conservare incorrotta la fede nell’anima, ma è necessario aumentarla con assiduo studio, si deve ricorrere a Dio con la reiterata e umile preghiera degli Apostoli: “Aumenta i noi la fede!” (Lc 18,5). Per la verità in questa materia che riguarda la fede cristiana ci sono altri doveri che, se fu sempre importante osservare accuratamente e religiosamente per la salvezza, è più che mai necessario osservare ai nostri tempi.- In tanta pazza confusione di ideologie così vastamente diffuse, è certamente compito della Chiesa assumersi la difesa delle verità e sradicare dagli animi gli errori: questo in ogni tempo e religiosamente, poiché essa deve tutelare l’amore di Dio e la salvezza degli uomini. Ma quando lo richieda la necessità, non solo devono difendere la fede i prelati, ma “ciascun fedele deve propagare agli altri la propria fede, sia per l’istruzione degli altri fedeli, sia per confermarli, o per reprimere gli assalti degli infedeli” . Cedere all’avversario o tacere, mentre dovunque si alza tanto clamore per opprimere la verità, è proprio dell’inetto oppure di chi dubita che sia vero quello che professa. L’uno e l’altro atteggiamento sono ignobili e ingiuriosi a Dio; l’una cosa e l’altra contrastanti con la salvezza individuale e collettiva: sono soltanto giovevoli ai nemici della fede, perché l’arrendevolezza dei buoni aumenta l’audacia dei malvagi. Per questo è ancor più da condannare l’inerzia dei cristiani perché il più delle volte si possono confutare gli errori e le malvagie affermazioni facendolo spesso con poco sforzo; ma farlo sempre occorre un impegno molto più grande. Per ultimo, nessuno è dispensato dall’usare quella forza che è propria dei cristiani, perché con essa si spezzano spesso le macchinazioni e i piani degli avversari. Ci sono poi dei cristiani nati per la disputa: quanto più grande è il loro coraggio, tanto più certa è la vittoria con l’aiuto di Dio. “Confidate: io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). E nessuno può opporre l’obiezione che il custode e il garante della Chiesa, Gesù Cristo, non ha bisogno certamente dell’opera degli uomini. Ma non è per mancanza di potenza, bensì per la grandezza della sua bontà che egli vuole che qualcosa si faccia pure da noi per l’opera della salvezza che egli ci ha procurato, e per ottenerne frutti sempre maggiori. – Gl’impegni più importanti di questo dovere sono di professare la dottrina cattolica a viso aperto e con costanza, e di propagarla come ciascuno può. Infatti, come è stato affermato tante volte e con verità, niente è così dannoso per la dottrina cristiana che il non essere conosciuta. Basta da sola a dissipare gli errori quando è appresa rettamente; se la mente con semplicità e non vincolata da falsi pregiudizi la comprende, la ragione dichiara di dovere assentire. Per vero, la virtù della fede è un grande dono della grazia e della bontà divina. Ma i mezzi con i quali si raggiunge la fede non sono generalmente altri che l’ascolto: “Come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?.. La fede dipende dunque dalla predicazione, e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm IX,14-17). – Poiché dunque la fede è necessaria per la salvezza, ne consegue che si deve assolutamente predicare la parola di Cristo. Certamente il ministero di predicare, cioè di insegnare, per diritto divino spetta a quei maestri che lo “Spirito Santo ha costituito Vescovi per reggere la Chiesa di Cristo” (At XX,28) e specialmente al Pontefice romano, Vicario di Gesù Cristo, messo a capo di tutta la Chiesa con il supremo potere, maestro di quanto si deve credere e praticare. Ma nessuno creda che sia proibito ai privati di dare la propria attività in questo compito, specialmente per coloro ai quali Dio ha dato profondità di ingegno, e il desiderio di rendersi meritevoli per il bene comune. Costoro, quando sia necessario, possono convenientemente assumersi non la parte del dottore della Chiesa, ma quella di trasmettere agli altri ciò che essi hanno appreso, facendo risuonare la voce dei maestri come fossero la loro immagine. L’opera dei privati è apparsa anzi così opportuna e utile ai Padri del Concilio Vaticano da richiederla espressamente. “Per le viscere di Gesù Cristo noi supplichiamo tutti i fedeli, specialmente coloro che sono costituiti in autorità o che hanno il compito d’insegnare, e ordiniamo loro in nome di Dio e del nostro Salvatore affinché impegnino la loro opera e le loro forze nel respingere ed eliminare dalla Santa Chiesa tutti questi errori e nel diffondere la luce della purissima fede” . – Del resto ognuno ricordi che può e deve diffondere la fede cattolica con l’autorità dell’esempio, e predicarla con la costante professione. Fra i doveri che ci uniscono a Dio e alla Chiesa questo più di tutti bisogna ricordare, che cioè ciascuno, con tutte le capacità possibili, lavori per propagare la verità cristiana e per confutare gli errori. – Certamente non potranno compiere utilmente e sufficientemente questi compiti se scenderanno in campo divisi gli uni dagli altri. Gesù Cristo predisse che come Egli stesso per primo dovette sostenere l’offesa e l’avversione degli uomini, certamente anche l’opera da Lui istituita avrebbe incontrato eguale trattamento; in modo che a molti sarebbe stato vietato di giungere alla salvezza da Lui recata con il suo sacrificio. Per questo non volle soltanto avere seguaci della sua dottrina, ma unirli strettamente in una comunità e in un solo corpo, “che è la Chiesa” (Col 1,24), di cui Egli fosse il capo. La vita di Gesù Cristo permea e si diffonde in tutto il corpo nella sua compagine; alimenta e sostiene le singole membra, e così unite e composte le dirige allo stesso fine, anche se l’azione di ciascun membro non è la stessa. Per questa ragione la Chiesa non solo è una società perfetta e molto superiore ad ogni altra società, ma è stato ordinato dal suo Autore che essa debba combattere per la salvezza del genere umano “come esercito schierato sul campo” (Ct VI,9). – Codesto ordinamento e codesta conformazione della società cristiana non possono essere cambiati in nessun modo: a nessuno è lecito vivere secondo il proprio arbitrio, né seguire nella lotta la tattica che gli pare, perché non raccoglie ma disperde chi non raccoglie con Cristo e con la Chiesa, e certamente combattono contro Dio coloro che non combattono con Lui e con la Chiesa. – Prima di tutto, dunque, sono necessarie una piena concordia e uniformità di sentimenti per unire tutti gli animi nell’azione motivata contro i nemici del nome cattolico. A questa stessa unione Paolo Apostolo esortava con grande ardore e con gravi parole i Corinzi: “Pertanto vi scongiuro, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a dire tutti la stessa cosa, e che non esistano divisioni fra voi: siate uniti nello stesso spirito e nello stesso sentimento” (1Cor 1,10). Facilmente si percepisce la sapienza di questo precetto. Infatti, principio dell’azione è la mente; pertanto non possono essere concordi le volontà né simili le azioni se le menti hanno pensieri diversi. Coloro che seguono soltanto la ragione poco facilmente possono avere, anzi neppur possono avere, una sola dottrina; l’arte di conoscere bene le cose è molto difficile: la nostra mente è inferma per natura e deviata dalla varietà delle opinioni: spesso erra per l’impulso offertole esternamente dalle cose: si aggiungono poi le passioni, che spesso tolgono la facoltà di scorgere il vero o la diminuiscono certamente molto. Per questa ragione nel governo degli Stati si opera spesso per tenere unite con la forza persone che fra loro sono discordi. Ben diversamente avviene fra i cristiani che ricevono dalla Chiesa ciò che bisogna credere: dalla sua autorità e dalla sua guida sanno per certo di attingere alla verità. Poiché dunque una è la Chiesa, uno Gesù Cristo, una deve essere la dottrina di tutti i cristiani in tutto il mondo. “Un solo Signore, una sola fede” (Ef 4,5). “Avendo tutti lo stesso spirito di fede” (2Cor 4,13), ottengono effetti salutari, dai quali derivano spontaneamente in tutti la stessa volontà e lo stesso modo di agire. – Ma, come comanda l’Apostolo Paolo, bisogna che l’unanimità sia perfetta. Poiché la fede cristiana non si basa sulla ragione umana ma sull’autorità della mente divina, noi crediamo che le cose che abbiamo ricevuto da Dio siano “vere non per l’intrinseca verità delle cose viste con il naturale lume della ragione, ma per l’autorità dello stesso Dio rivelante che non può ingannarsi né può ingannare” . Ne consegue che qualunque cosa certamente rivelata da Dio deve essere accettata con pieno ed uguale assenso: negare fede ad una sola di queste, significa rifiutarle tutte. Sovvertono il fondamento stesso della fede coloro che negano che Dio abbia parlato agli uomini, o che dubitano della sua infinita verità e sapienza. Spetta alla Chiesa docente stabilire quali sono le verità divinamente affidate alla Chiesa stessa, alla quale Dio demandò anche la custodia e l’interpretazione della propria parola. Il sommo maestro nella Chiesa è il Pontefice romano. E come la concordia degli animi richiede un perfetto consenso in una stessa fede, così richiede che le volontà siano perfettamente soggette e obbedienti alla Chiesa e al romano Pontefice, come a Dio. L’obbedienza deve essere perfetta perché è richiesta dalla fede stessa, ed ha in comune con la fede che non può essere separata da essa; anzi, se non è assoluta pur avendone tutti gli aspetti le resta soltanto un’apparenza di obbedienza, ma di fatto scompare. La tradizione cristiana attribuisce a tale perfezione tanto valore, che essa è sempre stata ed è ritenuta la nota caratteristica per riconoscere i cattolici. Questa asserzione è mirabilmente spiegata da Tommaso d’Aquino: “L’oggetto formale della fede è la prima verità, come ci viene rivelato nella Sacra Scrittura e nella dottrina della Chiesa, che procede dalla prima verità. Perciò chiunque non aderisce alla dottrina della Chiesa come a regola infallibile e divina che promana dalla verità prima manifestata nelle Sacre Scritture, non ha la proprietà della fede, ma considera le verità della fede in modo diverso dalla fede. È pertanto manifesto che chi aderisce alla dottrina della Chiesa come a regola infallibile, accetta tutto ciò che la Chiesa insegna; invece, se dei suoi insegnamenti egli ritiene quello che vuole e rigetta quello che non vuole, egli non aderisce come norma infallibile alla dottrina della Chiesa, ma unicamente alla propria volontà . Una sola deve essere la fede di tutta la Chiesa secondo le parole dell’Apostolo Paolo (cf. 1Cor 1). Siate unanimi nel parlare, e non vi siano divisioni fra voi: e quest’unanimità non si potrebbe conservare se, sorta una questione intorno alla fede, non venisse decisa da colui che presiede a tutta la Chiesa, in modo che la sua dichiarazione sia accolta fermamente da tutta la Chiesa. Quindi alla sola autorità del Sommo Pontefice spetta approvare una nuova edizione del Simbolo, come pure tutte le altre cose che riguardano la Chiesa” . – Nel determinare i limiti dell’obbedienza nessuno creda di dover obbedire all’autorità dei sacri Pastori, e specialmente del romano Pontefice, solamente in ciò che riguarda il dogma, il cui ostinato ripudio non può essere disgiunto dal peccato di eresia. Anzi, non basta neppure accettare con sincera e ferma approvazione quelle dottrine che, quantunque non definite da un solenne giudizio, vengono tuttavia proposte dalla Chiesa alla credenza dei fedeli come divinamente rivelate al magistero ordinario ed universale, e si devono credere come “di fede cattolica e divina” secondo il decreto del Concilio Vaticano. Ma resta ancora l’obbligo dei cristiani, che devono lasciarsi guidare e governare dal potere e dal consiglio dei Vescovi, e in primo luogo dalla Sede Apostolica. Quanto ciò sia ragionevole è evidente. Infatti, delle verità contenute nella Rivelazione, alcune riguardano Dio, altre l’uomo stesso e le cose necessarie alla salvezza eterna dell’uomo. Ora, questo doppio ordine di verità, cioè quello che si deve credere e quello che si deve operare, appartiene per diritto divino, come abbiamo detto, alla Chiesa e al Sommo Pontefice. Per tali motivi il Pontefice deve poter giudicare con la sua autorità quali siano le cose contenute nella parola di Dio, quali dottrine sono ad esse conformi, e quali no. Allo stesso modo deve indicare ciò che è onesto o turpe; ciò che si deve fare e cosa fuggire per raggiungere la salvezza; altrimenti non sarebbe più il sicuro interprete della parola di Dio, né guida sicura all’uomo nell’agire. – Addentrandoci ancor più profondamente nella natura della Chiesa, vediamo che essa non è una fortuita comunità di cristiani, ma una società costituita con eccellente ordinamento di Dio stesso, con il fine diretto e naturale di portare la pace e la santità nelle anime; e poiché essa sola ha da Dio i mezzi a ciò necessari, ha le sue leggi ben determinate, determinati doveri, e segue nel governo dei popoli cristiani metodi e vie conformi alla sua natura. Ma l’esercizio di questo governo è difficile e con frequenti contrasti. La Chiesa guida popoli sparsi su tutta la terra, differenti per razze e costumi, i quali, vivendo nei singoli Stati secondo le proprie leggi, devono obbedire contemporaneamente al potere civile e a quello ecclesiastico. Questi due doveri sono congiunti nella stessa persona, ma non contrastanti fra loro – come abbiamo detto – e neppure confusi, perché l’uno riguarda la potestà dello Stato, l’altro il bene proprio della Chiesa: ambedue istituiti per il perfezionamento dell’uomo. – Posta questa delimitazione di diritti e di doveri, è evidente che i governanti sono liberi nell’amministrazione dei loro Stati, e questo non certamente con l’ostilità della Chiesa, ma anzi con il suo pieno aiuto, poiché inculcando l’osservanza della pietà religiosa, che è un atto di giustizia verso Dio, essa promuove con ciò stesso l’ossequio verso il principe. Ma con intendimento molto più nobile il potere della Chiesa tende a governare gli uomini tutelando “il regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6,33), dedicandosi totalmente a realizzarlo. Nessuno può dubitare, salva la fede, che alla sola Chiesa sia stato assegnato questo particolare governo delle anime in modo che non è rimasto spazio alcuno alla potestà civile; infatti Gesù Cristo ha affidato le chiavi del regno dei cieli non a Cesare ma a Pietro. Con questa dottrina politico-religiosa sono connesse alcune altre questioni di non lieve importanza, delle quali in questo documento non vogliamo tacere. – La società cristiana dista moltissimo da ogni tipo di governo politico. Anche se ha somiglianza e forma di regno, senza dubbio ha un’origine, una ragion d’essere e una natura molto diversa dai regni terreni. Pertanto è diritto della Chiesa vivere e conservarsi con leggi e istituzioni conformi alla sua natura. Essa, essendo non soltanto una società perfetta, ma superiore a qualunque altra società umana, si rifiuta di seguire, per suo diritto e per il suo fine, le vicende dei partiti e di adeguarsi alle esigenze mutabili della vita civile. Per la stessa ragione, custode del proprio diritto, rispettosissima dell’altrui, afferma che non appartiene alla Chiesa esprimere preferenze sulla forma di governo e con quali istituzioni la società civile dei popoli cristiani debba reggersi: fra le varie forme di governo non ne condanna nessuna, purché siano rispettate la religione e la morale dei costumi. A questo contegno devono essere indirizzati i pensieri e le azioni dei singoli cristiani. Non v’ha dubbio che sia lecita in politica una giusta lotta, naturalmente quando si combatte secondo verità e giustizia, affinché prevalgano quelle opinioni che appaiono più conformi delle altre al bene comune. Ma trascinare la Chiesa a partecipare all’attività di qualche partito, oppure pretendere di averla come aiuto per superare gli avversari è di coloro che vogliono abusare smoderatamente della religione. Al contrario la religione deve essere santa e inviolata per tutti. Nella politica stessa, che non può prescindere dalle leggi morali e dai doveri della religione, si deve precipuamente e sempre cercare ciò che è più conforme al nome cristiano. Se talora appare che questo è in pericolo ad opera degli avversari, allora deve cessare ogni divergenza, e con intendimento concorde degli animi si deve prendere la difesa della religione, che è il massimo bene comune a cui devono rapportarsi tutti gli altri. Il che conviene che sia da Noi esposto più diffusamente. – Certamente sia la Chiesa, sia lo Stato, hanno una loro sovranità: pertanto nessuno dei due, nella propria sfera e nei propri limiti costituiti dai singoli fini, ubbidisce all’altro. Ma da questo non si deve tuttavia concludere che i due poteri siano fra loro separati e tanto meno in lotta l’uno contro l’altro. La natura non ci ha dato soltanto un’esistenza fisica, ma anche una morale. Per questo l’uomo chiede alla tranquillità dell’ordine pubblico, che la società civile si propone come fine prossimo, di poter vivere bene, ma soprattutto chiede sempre maggior aiuto per perfezionare i costumi; e questa perfezione non consiste altro che nel conoscere e praticare la virtù. Contemporaneamente l’uomo vuole doverosamente trovare nella Chiesa gli aiuti dei quali possa fruire per la sua perfezione religiosa, la quale si trova nella conoscenza e nella pratica della vera religione che è la regina delle virtù, appunto perché, ordinandole a Dio, le compie e le perfeziona tutte. – Nel sancire le leggi e le istituzioni si deve aver riguardo alla natura morale e religiosa dell’uomo, e si deve curare la sua perfezione, ma rettamente e con ordine: non si deve comandare o vietare alcunché, senza tener conto di quello che spetta alla società civile e di quello che spetta alla società religiosa. Per questa ragione la Chiesa non può disinteressarsi delle leggi che hanno valore nello Stato, non in quanto tali, ma perché, uscendo dai limiti del proprio ambito, talvolta invadono il diritto della Chiesa. Anzi, per essa è un dovere impostole da Dio di resistere ogni volta in cui la legislazione dello Stato danneggi la religione, e di impegnarsi attivamente affinché lo spirito del Vangelo arrivi a permeare le leggi e le istituzioni dei popoli. – Poiché le sorti degli Stati per lo più dipendono dall’indole dei governanti, la Chiesa non può favorire e appoggiare coloro dai quali si sente contestata: cioè coloro che apertamente ricusano di rispettare i suoi diritti e che vogliono separare due cose connesse per la loro natura, la religione e la vita civile. Al contrario essa favorisce, come è suo dovere, coloro che avendo un giusto concetto dello Stato e della società cristiana, vogliono operare concordi per il bene comune. In questi precetti è contenuta la norma che ogni cattolico deve seguire nell’esercizio della vita pubblica. Pertanto, è permesso ovunque militare per la Chiesa nella politica, favorendo uomini di specchiata probità morale che diano buona speranza di onorare il nome cristiano, e non c’è nessuna ragione per cui si debba dare la preferenza a uomini ostili alla religione. – Da questo appare chiaramente quanto sia importante il dovere di conservare l’unità degli animi specialmente in questi tempi, in cui con tanta astuzia viene impugnato il cristianesimo. Tutti coloro che vogliono restare fedeli alla Chiesa che è “colonna e fondamento della verità” (1Tm 3,15) eviteranno facilmente i maestri menzogneri “che promettono agli altri la libertà, mentre essi stessi sono schiavi della corruzione” (2Pt 1,19). Anzi, resi forti della potenza spirituale della Chiesa, sapranno vincere con la saggezza le insidie, e con il coraggio la violenza. – Non è questo i luogo per indagare se e quanto abbiano contribuito a creare questo nuovo stato di cose l’opera troppo debole e l’interna discordia dei cattolici: ma certamente gli uomini malvagi sarebbero stati meno audaci e non avrebbero provocato tante rovine se ci fosse stata negli animi di molti una fede più vigorosa: quella fede che “opera per mezzo della carità” (Gal V,6), e non sarebbe tanto scaduta nel costume quella morale cristiana che ci è stata divinamente affidata. Voglia Dio che il passato, attraverso il ricordo, procuri maggiore saggezza nell’avvenire. – Quanto poi a coloro che parteciperanno alla politica dovranno evitare due difetti, dei quali uno usurpa il falso nome di prudenza, l’altro è la temerarietà. Alcuni affermano che non conviene opporsi apertamente alla potente e imperante iniquità, perché la lotta non esasperi l’animo degli avversari. Non si sa se costoro stiano pro o contro la Chiesa, in quanto affermano di professare la dottrina cattolica ma poi vorrebbero che la Chiesa permettesse di propagare impunemente le teorie che le sono contrarie. Si lamentano dello scadimento della fede e anche della corruzione dei costumi, ma non fanno nulla per rimediarvi, anzi talvolta con l’eccessiva indulgenza o con una dannosa simulazione aggravano il male. Costoro vogliono che nessuno abbia dubbi sulla loro devozione alla Sede Apostolica, ma hanno sempre qualcosa da rimproverare al Papa. La prudenza di queste persone è di quel genere che l’Apostolo Paolo chiama “sapienza della carne e morte dell’anima”, dato che non è né può essere subordinata alla legge divina . Nulla è meno utile per chi voglia diminuire questi mali. I nemici lo dichiarano apertamente, e se ne gloriano: hanno il fermo proposito di abbattere fin dalle fondamenta, se fosse possibile, l’unica vera religione, quella cattolica. Con tale obiettivo tutto osano: comprendono infatti che quanto più si indebolirà il coraggio degli altri, tanto maggiore libertà avranno per compiere le loro malefatte. Pertanto coloro che seguono la “prudenza della carne” e fingono di ignorare che ognuno deve essere un buon soldato di Cristo, coloro che vogliono conseguire il premio dovuto ai vincitori attraverso una via addolcita e senza combattere, invece di troncare la via dei malvagi arrivano a favorirla. – Alcuni, mossi da intenti fallaci o, quel che è peggio, un po’ agendo e un po’ dissimulando, non si assumono le loro responsabilità. Vorrebbero che la Chiesa si reggesse secondo il loro giudizio e parere, fino ad accettare di malavoglia o con ripugnanza ciò che si fa altrimenti. Costoro contestano con vane parole e sono da rimproverare non meno degli altri. Questo significa non voler seguire la legittima potestà, ma prevenirla; è un voler trasferire ai privati l’ufficio dei magistrati, con grande sconvolgimento di quell’ordine che Dio ha stabilito nella sua Chiesa, da osservarsi in perpetuo, e che non permette sia violato impunemente da chicchessia. – Agiscono veramente bene coloro che non rifiutano di scendere in campo ogni volta che è necessario, nella ferma persuasione che un’ingiusta persecuzione contro la santità del diritto e della religione avrà certamente fine. Questi si presentano come coloro che riprendono ancora l’antico valore, quando si sforzano di difendere la religione, specialmente contro quella setta audacissima, nata per far guerra al cristianesimo, che non cessa di perseguitare il Sommo Pontefice nei suoi poteri, pur conservando diligentemente la tattica dell’obbedienza e di non intraprendere nulla senza permesso. – Ma siccome questa volontà di obbedienza congiunta a forza e carattere e a costanza è necessaria a tutti i cristiani, affinché in qualsiasi circostanza “non siano carenti in nessuna cosa” (Gc 1,4), Noi vorremmo che nell’animo di tutti fosse radicata quella che Paolo chiama “la prudenza dello spirito” (Rm VIII,6). Questa, nel moderare le azioni umane, segue l’aurea regola del giusto mezzo, facendo sì che l’uomo non si disperi per paura, o troppo presuma per temerarietà. C’è anche differenza tra la prudenza politica, che riguarda il bene comune, e quella che riguarda il bene personale di ciascuno. Quest’ultima è propria di ogni privato, che nel governo di se stesso segue i dettami della retta ragione. L’altra è quella dei governanti, soprattutto dei sovrani, il cui compito è di governare validamente; così come la politica dei privati è tutta impostata sulla prudenza, quella del potere legittimo è di eseguire fedelmente i decreti . Questa disposizione e quest’ordine tanto più devono valere nella società cristiana, in quanto la prudenza politica del Pontefice abbraccia tanti settori. Infatti egli non solo deve reggere la Chiesa, ma dirigere dovunque le azioni dei cittadini cristiani, affinché si conformino alla speranza di ottenere la vita eterna. Da questo risulta chiaramente che oltre una somma concordia di pensieri e di opere, essi devono conformarsi nell’agire alla sapiente politica del potere ecclesiastico. Il governo della società cristiana, dopo il romano Pontefice e secondo le sue direttive, spetta ai Vescovi, i quali anche se non hanno la pienezza del potere pontificio, tuttavia nella gerarchia ecclesiastica sono autentici principi e nell’amministrazione della propria Chiesa sono “per così dire i principali costruttori… dell’edificio spirituale” , ed hanno come coadiutori nel loro ufficio ed esecutori dei loro ordini i sacerdoti. A questa struttura della Chiesa che nessun mortale può cambiare, bisogna adattare l’azione della vita. E come è necessaria per i Vescovi l’unione con la Sede Apostolica, così i chierici e i laici devono vivere e operare in perfetta unione con i Vescovi. Può accadere di trovare qualcosa di poco lodevole in qualche Vescovo, sia nei costumi, sia nelle opinioni: ma nessun privato deve arrogarsi la funzione di giudice, perché questo potere Cristo Signore lo diede soltanto a colui cui affidò gli agnelli e le pecore. Tenga ben presente ciascuno le sapientissime parole di Gregorio Magno: “I sudditi devono essere ammoniti a non giudicare temerariamente la vita dei loro superiori, anche se forse vedono in loro qualcosa di riprovevole, affinché mentre giustamente riprovano il male, essi per orgoglio non cadano più in basso di loro. Devono essere ammoniti che, considerando le colpe dei loro superiori, non diventino arroganti contro di essi, ma se le loro colpe sono molto grandi, le giudichino entro se stessi, in modo che per l’impulso del timore di Dio non ricusino il dovere della obbedienza… Le azioni dei superiori non devono essere ferite con la spada della lingua, anche quando sono giustamente da condannare” . – Ma tutti questi sforzi giovano poco se non viene intrapresa una condotta di vita conforme alla morale cristiana. È della Sacra Scrittura quella sentenza sul popolo ebreo: “Finché non peccarono al cospetto del loro Dio avevano molti beni, perché Dio odia la loro iniquità. Quando abbandonarono la strada che Dio aveva loro insegnato perché in essa camminassero, furono sterminati in battaglia da molti popoli” (Gdt 5,21-22). La nazione Giudaica portava in sé la figura del popolo cristiano: nelle sue antiche vicende c’era il preannuncio di realtà future; sennonché avendoci la bontà divina arricchiti e ornati di molti e maggiori benefici, la colpa dell’ingratitudine rende ancor più gravi le colpe dei cristiani. – La Chiesa in nessun tempo e in nessun modo viene abbandonata da Dio: per questo non ha nulla da temere dalla malvagità degli uomini; ma le nazioni, degenerando dalla virtù cristiana, non possono avere la stessa sicurezza. “Infatti il peccato rende miseri i popoli” (Pr 14,34). E se ogni età anteriore ha sperimentato la forza e la verità di questa sentenza, per quale motivo non dovrebbe sperimentarla la nostra? Anzi, molti già affermano che il castigo è imminente e la condizione stessa degli Stati moderni lo conferma: infatti ne vediamo parecchi per nulla sicuri e tranquilli a causa delle discordie intestine. E se le fazioni dei malvagi continueranno spavaldamente per questa strada: se accadrà che coloro che già procedono sulla via del malaffare e dei peggiori proponimenti aumentino di potere e di mezzi, c’è da temere che demoliscano tutto l’edificio sociale fin dalle fondamenta poste dalla natura. E non è possibile che tanti pericoli possano essere allontanati con la sola opera degli uomini, soprattutto perché molta gente, abbandonata la fede cristiana, giustamente paga il fio della propria superbia; accecata dalle passioni, inutilmente cerca la verità; abbraccia come vero ciò che è falso, e crede di essere saggia “quando chiama bene il male e male il bene” e chiama “luce le tenebre e tenebre la luce” (Is 5,20). È necessario che Dio intervenga e, memore della sua benignità, rivolga uno sguardo pietoso sulla società civile. Per questo, come abbiamo altre volte esortato, è necessario adoperarsi con particolare zelo e costanza affinché la divina clemenza venga implorata con umile preghiera e siano richiamate quelle virtù che costituiscono l’essenza della vita cristiana. – Prima di tutto bisogna far risorgere e poi difendere la carità, che è il fondamento della vita cristiana, senza la quale le altre virtù sono vane e senza alcun frutto. San Paolo, esortando i Colossesi a fuggire qualsiasi vizio ed a conseguire la lode per le altre virtù, aggiunge “soprattutto conservate la carità, che è il vincolo della perfezione” (Col III,14). La carità è certamente il vincolo della perfezione, perché congiunge intimamente con Dio coloro che la praticano, per cui ottengono da Dio la vita dell’anima, agiscono in unione con Dio e tutto riferiscono a Dio. L’amore per Dio deve però essere unito all’amore per il prossimo, perché gli uomini partecipano della infinita bontà di Dio e portano espressa in se stessi la sua immagine e somiglianza. “Noi abbiamo da Dio questo comandamento: chi ama Dio deve amare il fratello” (1Gv IV,21). “Se qualcuno dirà che ama Dio e odia il fratello, è bugiardo” (1Gv IV,20). Il divino legislatore di questo comandamento della carità lo chiamò “nuovo” non perché qualche altra legge o la stessa natura non avessero già comandato di amare il prossimo, ma perché questo modo cristiano di amare era affatto nuovo, e a memoria d’uomo inaudito. Infatti Gesù Cristo domandò ai suoi discepoli e seguaci quell’amore con il quale Egli è amato dal Padre ed Egli stesso ama gli uomini, affinché essi potessero essere in Lui un cuore solo e un’anima sola, come Egli e il Padre sono per natura una cosa sola. Nessuno ignora come la potenza di questo precetto sia profondamente penetrata fin dall’inizio nel cuore dei cristiani, e quali frutti di concordia, di benevolenza reciproca, di pietà e di pazienza abbia procurato. Perché non ci si adopera ad imitare gli esempi dei primi cristiani? I nostri tempi ci stimolano vivamente alla carità. Mentre gli empi rinfocolano il loro odio contro Gesù Cristo, i cristiani devono rinvigorire la loro pietà e rinnovare quella carità che è fonte di grandi imprese. Cessino dunque gli eventuali dissensi; tacciano quelle contese che diminuiscono le forze dei combattenti e in nessun modo giovano alla religione: con l’unione delle menti nella stessa fede, con la carità sollecitatrice delle volontà, vivano tutti, come è giusto, nell’amore di Dio e dell’umanità. – L’occasione Ci porta ad ammonire specialmente i padri di famiglia affinché sappiano governare la loro casa con questi precetti ed educare bene i figli. La famiglia è il germe della società civile, e le sorti della società si formano in gran parte fra le pareti domestiche. Pertanto, coloro che vogliono strappare la società dal cristianesimo, partono dalle radici e si affrettano a corrompere la famiglia. Da questa decisione e da questo crimine non li trattiene il pensiero di non poterlo fare senza recare una gravissima ingiuria ai genitori: infatti i genitori hanno dalla natura il diritto di educare coloro che hanno procreato, con il conseguente dovere che la loro educazione corrisponda alla grazia di avere avuto dei figli in dono da Dio. È dunque necessario che i genitori, reagendo, si sforzino di respingere in questo campo ogni intromissione ingiuriosa e rivendichino il diritto di educare come conviene i figli nel costume cristiano, specialmente tenendoli lontani da quelle scuole nelle quali corrono il pericolo di assorbire il veleno dell’empietà. Quando si tratta di formare rettamente la gioventù, nessun’opera e fatica sono tanto rilevanti che non se ne possano compiere delle maggiori. In questo sono veramente degni di ogni ammirazione quei cattolici di varie nazioni, che per l’educazione dei loro figli hanno organizzato scuole con grandi spese e maggiore costanza. Bisogna che questi salutari esempi siano imitati dovunque i tempi lo esigono: ma si convinca ognuno che prima di tutto nell’anima dei fanciulli molto può l’educazione domestica. Se l’adolescenza avrà trovato in casa una retta regola di vita, come una palestra di cristiane virtù, la salvezza della società sarà in gran parte assicurata. – Ci sembra avere trattato delle cose principali che i cattolici oggi devono seguire oppure evitare. Il resto, Venerabili Fratelli, tocca a voi: che la Nostra voce si diffonda in ogni parte e che tutti comprendano quanto è importante mettere in pratica le cose delle quali abbiamo trattato in questa lettera. L’osservanza di questi doveri non può essere né molesta né grave, perché il giogo di Gesù Cristo è lieve e il suo carico leggero. Se qualche cosa sembrerà difficile da eseguire, con la vostra autorità e con il vostro esempio farete sì che ognuno, con la maggior forza d’animo, vi si applichi e dimostri coraggio contro ogni difficoltà. Spiegate a tutti che sono in pericolo, come spesso abbiamo ammonito, i beni più grandi e più desiderabili, per la difesa dei quali ogni fatica deve essere considerata sopportabile; a tale sforzo è unita una grandissima ricompensa, quanta ne produce una vita cristianamente vissuta. Altrimenti, rifiutarsi di combattere per Cristo significa combattere contro di Lui. Egli stesso proclama (Lc 9,26) che rinnegherà davanti al Padre suo che è nei cieli chiunque avrà ricusato di confessarlo davanti agli uomini sulla terra. – Per quanto riguarda Noi e tutti voi, certamente, finché siamo in vita faremo sì che non vengano mai meno in questo combattimento la Nostra autorità, il Nostro consiglio e la Nostra opera. E non c’è dubbio che sia al gregge, sia ai pastori, non mancherà il particolare aiuto di Dio, finché il nemico non sarà vinto. – Sostenuti da tale fiducia, auspice dei celesti favori, con tutto il cuore impartiamo nel Signore a voi, Venerabili Fratelli, al Clero e a tutto il popolo al quale singolarmente presiedete, come pegno della Nostra benevolenza l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 10 gennaio 1890, anno dodicesimo del Nostro Pontificato.

Un’ENCICLICA AL GIORNO, toglie il modernista apostata di torno: INTER CÆTERA

Benedetto XIV

INTER CÆTERA

Tra le molte cose che Ci conturbano, quando Ci conviene tollerare nel Nostro Stato temporale il divertimento del Carnevale, due se ne ritrovano, sopra le quali alcuni zelanti Vescovi del predetto Stato si sono lamentati con Noi, esprimendo le loro giuste querele o a voce o per iscritto. Una consiste nel fatto che per lo più tanto si inoltrano le veglie, i balli, i giochi nell’ultima notte di Carnevale che s’intacca anche l’inizio del primo giorno di Quaresima; in tal maniera accade alle volte di vedere che le persone, partendo dal ballo, dal gioco e dalla veglia, vanno, benché senza maschera ma con gli abiti con i quali si sono mascherati, alla Chiesa a sentire la Messa e prendere le Ceneri portandosi poscia alle loro case, dormendo nei loro letti per lo meno tutta la mattina del primo dì di Quaresima; né si lascia di addossare al Vescovo l’accusa di indiscreto, se si lamenta e molto più se vuol punire l’eccesso. – La seconda: che in alcune Città dello Stato Ecclesiastico o si va introducendo o si pretende di mantenere un abuso pochi anni prima introdotto, che le persone vadano mascherate anche nei giorni di Festa, e che molto più nelle Feste che nei giorni feriali i saltimbanchi, i ciarlatani ed altra simile razza di persone facciano nelle piazze le loro faccende con gran concorso di popolo, e che finalmente negli stessi giorni di Festa siano più frequenti i balli per le strade, che nei giorni feriali. – Quanto alla prima cosa non vi è assolutamente bisogno di farvi sopra gran raziocinio; basta averla riferita, perché ognuno ne concepisca orrore. E poiché l’ordinaria difesa di chi sostiene le parti del vizio e dell’eccesso suole consistere nel dire che tanti altri Vescovi predecessori, che erano uomini dabbene, l’hanno saputo e non ne hanno parlato (lasciando da parte la verità del fatto che per lo più si asserisce e non si trova), dovrà bastare a ciascheduno la risposta di una delle celebri Università Cattoliche che, interrogata a dare il suo parere sopra una certa Festa scandalosa che si chiamava la Festa de’ Pazzi, introdotta in alcune Diocesi e sostenuta coll’esempio che era stata tollerata da tanti Vescovi predecessori, non solo proferì censura condannatoria d’essa, ma rispondendo alla esposta opposizione, così soggiunse: “Non ascoltate le subdole parole degli uomini che dicono che i nostri Predecessori, che erano considerati persone notevoli, permettevano ciò: a noi basta vivere come quelli. Senza dubbio tale argomentazione è diabolica, tale persuasione infernale: voi ignorate se la fine della loro vita è stata buona o cattiva“.

La censura di questa Università è portata per esteso, come suol dirsi, nell’Appendice delle Opere di Pietro di Blois (p. 782), e nel trattato scritto in lingua francese da Giovanni Savaron contro le maschere (pp. 32 e segg). E però inculchiamo con tutto lo spirito a ciascheduno di voi, o Venerabili Fratelli, nelle Diocesi dei quali o si tenta di introdurre o è vigente l’eccesso, di non risparmiare veruna parte del vostro zelo, acciò non si introduca ove non è introdotto ed introdotto si sradichi, castigando severamente e senza rispetto umano gli inventori o mantenitori dello stesso: non essendo questo il modo di incominciare la Quaresima, come esclamava San Basilio nell’Omelia 2 sul Digiuno, pubblicata a Parigi nel 1722: “Delle cose di cui si respinge l’inizio, senza dubbio deve essere anche respinto completamente il tutto” (tomo II, p. 13); e: “Questo giorno è il vestibolo del digiuno. Chi è contaminato nel vestibolo, non è degno di entrare nel Sacrario” (p. 15). È troppo contrario al rispetto che si deve alle Chiese ed alla Sacra Funzione di prendere le Ceneri, entrare nelle Case di Dio con gli abiti da maschera, benché senza maschera, ed accostarsi al Sacro Altare nello stesso modo per ricevere dalle mani del Sacerdote la sacra polvere, con l’intimazione di dover pensare a morire. – Passando poscia alla seconda delle predette cose sopra esposte, Noi qui non intendiamo di esclamare o di predicare contro il Carnevale o di fare contro di esso qualche storica dissertazione. Se lo volessimo lo potremmo fare facilmente, trascrivendo quanto in questo proposito fu santamente composto da San Carlo Borromeo nel suo Libro Memoriale stampato nella Parte settima degli Atti della Chiesa di Milano, allora che in ringraziamento di essere stata liberata la detta città dalla peste, con zelo e con dottrina esortò il popolo a non far più Carnevale; ed inserendo in questa Nostra lettera quanto fu eruditamente radunato dal monaco De L’Isle nel suo nuovo Trattato del Digiuno al libro VI, cap. 6, ove, trattando dei Baccanali dei Pagani, dimostra quanti disordini nel nostro Carnevale sono contrari alle massime del Cristianesimo. Ci contenteremo di dire che, benché di malavoglia e per evitare mali maggiori, dalla Chiesa viene semplicemente permesso e tollerato il divertimento carnevalesco come, dopo un ben fondato ragionamento, conclude il celebre e pio Teologo Tommaso Stapletone nella sua Orazione ottava Contra Bacchanalia, tomo 2 delle sue opere, alla pagina 556: esservi inoltre una bella differenza fra le cose che si comandano e le cose che si tollerano. “Altro è quello che insegniamo, altro quello che sosteniamo; altro quello che siamo costretti a punire, e mentre puniamo siamo spinti a tollerare” (Sant’Agostino, Contro Fausto, libro 20, cap. 21); dal che poi deriva non esser luogo nelle cose semplicemente tollerate di fare estensione, e di giocare d’arbitrio. – Abbiamo ritrovato in questa Nostra città di Roma, instaurato dai Nostri degni Predecessori, un sistema che nonostante il breve tempo prefisso al Carnevale, non si facciano in verun modo le maschere nei giorni di Festa e nel giorno di Venerdì. Lo stesso vogliamo che si pratichi nel rimanente del Nostro Stato. Né lasceremo di far palese questa Nostra determinazione ai Cardinali Legati delle Province e ai Prelati e Governatori locali. Sarebbe pure nostro desiderio che nei giorni di Festa non vi fossero nelle piazze Ciarlatani e Saltimbanchi; avendo sempre avanti gli occhi le parole del Profeta Isaia al capitolo I: “La mia anima odia le vostre Calende e le vostre solennità; mi sono diventate moleste; a fatica le ho sopportate” (Is 1,14), e le altre del Profeta Malachia, al cap. II: “Spargerò sul vostro volto lo sterco delle vostre solennità” (Ml II,3). Ma perché non si può sempre ottenere in un subito dagli uomini quello che si vorrebbe, e che sarebbe giusto che si ottenesse, notifichiamo non volersi da Noi nei giorni di Festa, Ciarlatani o Saltimbanchi nelle piazze, né in altri luoghi delle Città e Castelli, né nella mattina, né nel dopopranzo. Ché se in qualche Città o luogo ritrovasi qualche cattivo abuso da tollerarsi anche nelle Feste, ciò mai si permetta la mattina; si procuri ancora che non vi siano nel dopopranzo; e non potendosi ciò ottenere senza grave disturbo, non si permetta però mai, che i predetti, o simili divertimenti si facciano, se non dopo l’ora del Vespro e della Dottrina Cristiana, sopra di che non lasceremo di dare gli ordini opportuni ai Cardinali Legati ed ai Governatori. – Questo è nel predetto stato delle cose il sistema di San Carlo Borromeo nel suo primo Concilio Provinciale alla parte I, titolo “Sull’osservanza dei Giorni Festivi“, unendolo con quanto da lui fu disposto nel 3° Concilio Provinciale nello stesso titolo; e questo pure è quello che la santa memoria di Clemente XI inculcò in due sue Lettere Circolari, l’una dell’11 gennaio del 1719, l’altra del 4 gennaio del 1721 e che sono l’undecima e la duodecima nel suo Bollario alla pagina 533. E nello stesso tempo in cui Ci protestiamo di ben volentieri battere le orme impresse da San Carlo, e contrassegnate dal predetto Nostro degno Predecessore, Ci protestiamo altresì, che dall’avere Noi finora parlato della proibizione di alcune cose, non abbiamo inteso, né intendiamo di levare la proibizione di tante altre, che sono nei Canoni, nelle Apostoliche Costituzioni, e nei Concili o Provinciali o Diocesani, in ordine ai divertimenti carnevaleschi, e particolarmente rispetto alle persone Ecclesiastiche; avendo avanti gli occhi la disposizione del Concilio di Trento (sess. XXII, cap. 1), dopo avere parlato delle Canoniche disposizioni che proibiscono agli Ecclesiastici il lusso, i conviti, le danze, i giuochi di carte, così parla coi Vescovi: “Se siano venuti a sapere che alcune di queste disposizioni sono cadute in desuetudine, cerchino di richiamarle in uso al più presto e che siano ben custodite da tutti, nonostante qualunque consuetudine, affinché essi stessi non paghino degna pena della trascurata correzione dei sudditi, per vendetta di Dio” (Conc Trid., sess. XXII, cap, 1). – Ciascheduno mediocremente versato nell’Ecclesiastica disciplina sarà facilmente informato che v’erano alcune antiche infami superstizioni dei Gentili, che nel primo giorno di gennaio si facevano in onore di Giano e della Dea Strena, nelle quali talvolta si andavano mischiando i Cristiani, frequentando la crapula e il giuoco, e mascherandosi gli uomini da donne, e le donne da uomini: né lasciarono i Santi Padri nei loro Sermoni, ed anche in Concili della Chiesa, di inveire contro quest’intollerabile abuso, e di stabilire rispettivamente gravi pene contro i trasgressori, del che da Noi si è diffusamente ragionato nella Nostra opera “Delle Feste del Signore“, quando trattammo di quella della Circoncisione di Gesù Cristo Nostro Redentore. – Schiantata questa prava usanza, se n’è purtroppo introdotta un’altra, che è quella di certe pubbliche rilassazioni nelle settimane per lo più di Settuagesima, Sessagesima e Quinquagesima, nelle quali la Santa Chiesa ci rappresenta i principali Misteri della nostra Redenzione, per ben disporci alla penitenza nel tempo di Quaresima, come pure da Noi fu dimostrato nella Nostra Notificazione decimaquarta al tomo I fra quelle che pubblicammo, quando eravamo in Bologna governando quella Chiesa; e questo per l’appunto è il Carnevale, che così viene descritto da un rinomato Vescovo, Monsignor Graziani, nel suo Sinodo di Amelia, tenuto l’anno 1595, alla pagina 150: “Di qui derivò (tanto ci corruppe la mala consuetudine) che i giorni che intercorrono tra Settuagesima e Quaresima, che la Santa Madre Chiesa considera con grande venerazione, come lugubri e funesti, da un’invadente ilarità improntata a lascivia, dall’amore dell’allegria, non solo sono stati volti in gaio e scomposto godimento, ma quasi sono stati consacrati a una specie di pazzia collettiva, e la sfrenatezza fu portata al punto da trascinare le leggi stesse, i Magistrati stessi, e ciò che nessun Governo ben costumato non concedeva neppure a nessun privato, si appoggia ora interamente alla pubblica autorità, e i popoli, quasi dimentichi del nome pel quale sono lodati, hanno degenerato fino ai riti e ai costumi delle genti profane“; per lo che il celebre Ghislain Busbecq, che fu ambasciatore verso la metà del secolo decimosesto dell’Imperatore Ferdinando I a Solimano II, lasciò scritto, che essendo stato un Ambasciatore Turco in un Paese Cristiano in tempo del Carnevale, ritornato in Turchia riferì che in un certo tempo dell’anno, che è quello del Carnevale, i Cristiani impazzivano, ed in virtù di una certa polvere, che si metteva sopra la loro testa, ritornavano in sé: “È stato dato come cosa certa che un Turco, che in quel tempo era venuto da noi come Ambasciatore per affari di Stato, tornato a casa riferì che i Cristiani in certi giorni erano pazzi furiosi, finché, cosparsi nel Tempio di una speciale qualità di polvere, tornavano in sé e guarivano“.

Non è stata neghittosa la Chiesa nell’opporsi, per quanto ha potuto, a questo pubblico disordine; ed è sempre ricorsa alle orazioni e alle opere di pietà, pregando Dio di sospendere i flagelli contro i peccatori, e di somministrare col suo potente aiuto il modo per riparare ad un sì gran male; e fra le altre devozioni indirizzate a questo fine, vi fu quella intrapresa da alcune Famiglie Religiose d’astenersi dal mangiar carne e cibarsi di soli latticini o dalla domenica di Settuagesima, o da quella di Sessagesima, o da quella di Quinquagesima, fino al giorno delle Ceneri; pertanto il Carnevale viene chiamato privo di carne, e nella Messa Mozaraba la domenica di Sessagesima è denominata domenica nella quale bisogna eliminare le carni. Altre devozioni sono state introdotte nel tempo del Carnevale per lo stesso effetto da uomini dabbene, ed oltre tante altre, fra le quali solenne e pubblica è quella introdotta da San Filippo Neri in questa città di Roma, della visita delle sette Chiese, della qual cosa parla il Bacci nella di lui vita; i Nostri Predecessori, per accendere in questi giorni i Fedeli alla frequenza dei Sacramenti, hanno fatto distribuzione del Tesoro delle Sante Indulgenze: “Con nuovo ma molto salutare espediente i Pontefici Sommi, tratte elargizioni dal Tesoro della Chiesa, hanno stimolato i Fedeli a frequentare con grande devozione i Sacramenti in quei tre giorni (parlasi di quelli del Carnevale) e, dal modo con cui vanno gli inizi, vi è speranza che il diavolo, cacciato via di là, dovrà essere costretto a cercare altre scelleratezze” (Teofilo Raynaudo, Opere, tomo 16, p. 412, n. 41). – Battasi dunque, o Venerabili Fratelli, da Voi questa strada, e col vostro esempio si invitino gli altri a fare lo stesso. Non si tralascino, particolarmente in questi giorni di Carnevale, da Voi l’interesse ai Divini Offizi, la celebrazione in pubblico della Messa, la visita delle Chiese e quella degli ospedali, e fate invito degli Ecclesiastici, ed anche di Laici timorati di Dio; ché questo è corteggio buono ed approvato. Si procuri che in una o più Chiese si esponga per un triduo il Venerabile, dando ogni sera la Benedizione, o dentro la settimana di Settuagesima, o in quella di Sessagesima, o in quella di Quinquagesima, o in tutte e tre; concedendo Noi con questa Nostra presente Lettera Circolare una Plenaria Indulgenza, che dovrà pubblicarsi da Voi nelle solite forme, e che essendo diretta a uno scopo pio, non resta impedita da altra Indulgenza Plenaria, che per altri titoli avesse la Chiesa in cui si espone il Venerabile, a chiunque, confessato e comunicato, visiterà in ciaschedun giorno dei detti tridui il Santissimo Sacramento, come sopra esposto, pregando di vivo cuore Sua Divina Maestà secondo l’intenzione di Santa Chiesa, che è quella di sopra esposta. – Il Nostro Apostolico Ministero esigeva che vi scrivessimo questa Lettera. L’esempio vostro, che siete tanto vicini a Noi, moverà i più lontani a far ricorso a Noi medesimi; e Noi non mancheremo di porgere a ciascun ricorrente ogni Nostro aiuto, estendendo anche a pro di lui e della sua Diocesi le Indulgenze a Voi concesse. Infine, con pienezza di cuore abbracciandovi, diamo a ciascuno di Voi, Venerabili Fratelli, ed al Gregge a ciascuno di Voi commesso, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 1° gennaio 1748, anno ottavo del Nostro Pontificato.

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Oggi il carnevale delle nostre contrade mostra orrori ben peggiori di quelli passati, per cui l’opera di riparazione spirituale è veramente insufficiente a contrastare le turpitudini alle quali si assiste, anche sostenute spesso da falsi prelati, che carnevalescamente indossano talari ed abiti clericali senza averne alcun titolo canonico … Ai pochi superstiti cattolici in unione col Santo Padre in esilio, non resta allora che mettere in pratica i propositi suggeriti dalla Santa Madre Chiesa per bocca di Sua Santità, il Vicario di Cristo di felice memoria, Benedetto XIV, già cardinal P. Lambertini, onde acquisire le indulgenze accordate in questi giorni, per l’adorazione del Santissimo, cosa invero sempre più difficile nelle chiese e cappelle oramai occupate nella quasi totale maggioranza dagli apostati falsi preti della setta del Novus Ordo, o dagli eretici scismatici, gli altrettanto falsi preti delle fraternità paramassoniche o da sacrileghi cani sciolti senza “arte né parte” che falcidiano le anime di tanti poveri ingannati e purtroppo così estromessi, per ignoranza però spesso vincibile, dalla Chiesa Cattolica. Preghiamo perché il Signore possa concedere un novello trionfo alla Chiesa Cattolica “vera” sui suoi nemici, su coloro che odiano Cristo-Dio e tutti gli uomini: i marrani infiltrati, gli aderenti alle logge della sinagoga di satana, e gli irriducibili cabalisti-talmudisti. Che il Signore Dio, con l’intercessione della Beata Vergine Maria, ce lo conceda!

 

Giurisdizione episcopale e la sede romana

Giurisdizione episcopale e la sede romana

di p. Fenton

Immagine di Pio XII il cui magistero infallibile viene disprezzato dal N.O., dalla setta FSSPX e dalle sette Sedevacantiste

“… egli [Papa Pio XII] insegnò che il Vicario di Cristo sulla terra è l’unico da cui tutti gli altri pastori nella Chiesa cattolica ricevono immediatamente la loro competenza e la loro missione .'”

“Monsignor Alfredo Ottaviani dichiara che questo insegnamento… deve essere tenuto come certissimo a motivo di quello che ha detto il Papa Pio XII.” (P. Joseph C. Fenton, un vero teologo cattolico, 1949)

“Da ciò che abbiamo detto, consegue che nessuna qualsiasi autorità, può cambiare ciò che è definito dal il Supremo pastore, o può invalidare la giurisdizione canonica concessa a qualunque Vescovo; che nessuna persona o gruppo di sacerdoti o di laici, possono rivendicare il diritto di nominare vescovi; che nessuno può legittimamente conferire la consacrazione episcopale a meno che non abbia ricevuto il mandato della sede apostolica (Canone 953).” (Pio XII, dalla sua enciclica, “Principe degli Apostoli”, 29 giugno 1958).

GIURISDIZIONE EPISCOPALE E LA SEDE ROMANA

da

American Ecclesiastical Review

Vol. CXX, gennaio-giugno 1949

 Uno dei contributi più importanti alla sacra teologia negli ultimi anni è stato l’insegnamento del Santo Padre sull’origine immediata della giurisdizione episcopale nella Chiesa cattolica. Nella sua grande enciclica Mystici corporis, data il 29 giugno 1943, Papa Pio XII ha parlato del potere ordinario della giurisdizione dei Vescovi cattolici come qualcosa di “conferito a loro immediatamente” dal sovrano Pontefice. [Cfr. l’edizione di NCWC, n. 42]. Più di un anno prima della pubblicazione della Mystici corporis il Santo Padre aveva enunciato la stessa verità nella sua allocuzione pastorale ai parroci ed ai predicatori quaresimali di Roma. In questo documento egli ha insegnato che il Vicario di Cristo sulla terra è colui da cui tutti gli altri pastori nella Chiesa cattolica “ricevono immediatamente la loro giurisdizione e la loro missione.” [Cfr. Osservatore Romano, 18 febbraio 1942]. –  Nell’ultima edizione della sua classica opera, “Institutiones iuris publici ecclesiastici”, Monsignor Alfredo Ottaviani dichiara che questo insegnamento, che in precedenza era stato considerato come “probabilior” o anche come “communis,” ora debba essere ritenuto come interamente certo a motivo di ciò che Papa Pio XII ha detto. [Cfr Institutiones iuris publici ecclesiastici, 3a edizione (Typis Polyglottis Vaticanis, 1948), I, 413]. La tesi che deve essere accettata e insegnata come certa è un elemento estremamente importante nell’insegnamento cristiano circa la natura della vera Chiesa. La negazione o anche la negligenza di questa tesi inevitabilmente impedirà l’accurata e l’adeguata comprensione teologica della funzione di nostro Signore come capo della Chiesa e dell’unità visibile del Regno di Dio sulla terra. Così, nel dare questa dottrina, come lo status di una sicuramente certa istruzione, il Santo Padre ha completato il lavoro della sacra teologia. – La tesi che i vescovi derivino il loro potere di giurisdizione immediatamente dal Sommo Pontefice non è affatto un insegnamento nuovo. Nel suo breve Super soliditate, rilasciato il 28 novembre 1786 e diretto contro gli insegnamenti del canonista Joseph Valentine Tony, Papa Pio VI aveva aspramente censurato Tony per gli attacchi insolenti di questo scrittore verso gli autori che insegnavano che il romano Pontefice è colui “da cui i Vescovi stessi derivano la loro autorità.” [Cfr. DB, 1500]. Papa Leone XIII, nella sua enciclica Satis cognitum, datata 29 giugno 1896, ha messo in evidenza un punto fondamentale di questo insegnamento quando ha ribadito, con riferimento a quei poteri che gli altri governanti della Chiesa tenevano in comune con San Pietro, l’insegnamento del Papa San Leone I che tutto ciò che Dio aveva dato a questi altri, lo aveva dato attraverso il principe degli Apostoli. [Cfr Codicis iuris canonici fontes, modificato dal cardinale Pietro Gasparri (Typis Polyglottis Vaticanis, 1933), III, 489 f. La dichiarazione del Papa San Leone si trova nel suo sermone sia nel quarto, che nel secondo anniversario della sua elevazione all’ufficio papale]. – L’insegnamento è enunciato esplicitamente in una comunicazione di Papa s. Innocenzo I della Chiesa Romana, nella sua lettera ai Vescovi africani, rilasciata il 27 gennaio 417. Questo grande Pontefice ha dichiarato che “l’episcopato stesso e tutta la potenza di questo nome” provengono da San Pietro. [DB, 100]. La dottrina proposta da Papa San Innocenzo era abbastanza familiare alla gerarchia africana. Era stata sviluppata e insegnata dai predecessori degli uomini ai quali egli scriveva, e costituiva la prima spiegazione sistematica ed estesa dell’Episcopato della Chiesa cattolica. Verso la metà del terzo secolo S. Cipriano, il martire vescovo di Cartagine, aveva elaborato il suo insegnamento sulle funzioni di San Pietro e della sua “cattedra” come base dell’unità della Chiesa. [Cfr Adhemar D’Ales, La theologie de Saint Cyprien (Paris: Beauchesne, 1922), pp. 130 ff.]. S. Optato, vescovo di Milevi, che era un eccezionale difensore della Chiesa contro gli attacchi dei Donatisti, aveva scritto, intorno all’anno 370, che la “cattedra” di Pietro è la sede intorno alla quale “l’unità è mantenuta da tutti,” [Cfr. Libri contra Parmenianum Donatistam, II, 2], e che, dopo la sua caduta, Pietro “da solo ha ricevuto le chiavi del Regno dei cieli, che dovevano essere consegnate anche (communicandas) agli altri.” [Cfr ibid., VII, 3]. – Durante gli ultimi anni del quarto secolo Papa San Siricio aveva asserito l’origine Pietrina dell’Episcopato nella sua lettera, Cum in unum, quando ha designato il Principe degli Apostoli come colui “Da cui è derivata la loro origine: l’apostolato e l’episcopato in Cristo” [Cfr EP. V], ed ha introdotto questo concetto nella sua scrittura come qualcosa di cui coloro ai quali essa era stata indirizzata avevano perfetta familiarità. Questo era ed è rimasto l’insegnamento tradizionale e comune della Chiesa cattolica. – La tesi che vescovi derivano il loro potere di giurisdizione immediatamente dal romano Pontefice, anziché immediatamente da nostro Signore stesso ha avuto una storia lunga, tremendamente interessante nel campo della teologia scolastica. San Tommaso d’Aquino l’aveva proposta nei suoi scritti, senza, tuttavia, dilungarsi particolarmente. [S. Tommaso ha insegnato nella sua Summa contra gentiles, lib. IV, cap. 76, che, per preservare l’unità della Chiesa, il potere delle chiavi deve essere consegnato, per mezzo di Pietro, agli altri pastori della Chiesa. Gli scrittori successivi fanno anche appello al suo insegnamento della Summa Theologiæ, in IIa-IIæ, q. 39, art. 3, nel suo commento sulle sentenze di Pietro Lombardo, IV, Dist. 20, art. 4 e nel suo commento al Vangelo secondo Matteo, in cap. XVI, n. 2, a sostegno della tesi che i vescovi derivano il loro potere di giurisdizione immediatamente dal Sovrano Pontefice]. Due altri scolastici medievali eccezionali, Richard di Middleton [cfr Richard commento sulle condanne, lib. IV, Dist. 24], e Durandus [Cfr D. annulipes a Sancto Porciano Ord. Praed. et Meldensis Episcopi nei libri di Petri Lombardi sententias theologicas IIII (Venezia, 1586), lib. IV, Dist. 20, d. 5, n. 5, p. 354], seguirono il suo esempio. Il trattato teologico pre-tridentino di eccezionale importanza sulla Chiesa di Cristo, la Summa de ecclesia del Cardinale John de Turrecremata è andato ad esaminare la questione nei minimi dettagli. [Cfr Summa de ecclesia (Venezia, 1561), lib. II, capitoli 54-64, pp. 169-188. Le tesi di Turrecremata sono identiche a quelle stabilite dal Papa Pio XII, anche se la sua terminologia è diverso. Il Santo Padre parla dei Vescovi che ricevono il loro potere di giurisdizione “immediatamente” dalla Santa Sede, cioè da nostro Signore attraverso il sovrano Pontefice. Turrecremata, d’altra parte, parla dei Vescovi che ricevono il loro potere di giurisdizione “mediatamente” o “immediatamente” dal Santo Padre, cioè, da lui direttamente o da un altro con il potere di agire nel suo nome]. Turrecremata ha elaborato la maggior parte degli argomenti che i teologi hanno utilizzato successivamente per dimostrare la tesi. Tommaso de Vio, il cardinale Cajetano, ha contribuito molto allo sviluppo dell’insegnamento nel periodo immediatamente precedente il Concilio di Trento. [Cf. Cajetan de comparatione auctoritatis Papae et concilii, cap. 3, nella edizione di p. Vincent Pollet della sua Scripta theologica (Roma: The Angelicum, 1935), I, 26 f.].

“Di gran lunga la più decisa presentazione della dottrina impostata ultimamente da Papa Pio XII, è stata effettuata nel Concilio di Trento…” – Durante il Concilio di Trento, la tesi è stata discussa dagli stessi padri. [Cfr Sforza Pallavincini Histoire de concile de Trente (Montrouge: Migne, 1844), lib. XVIII, capitoli 14 ff; Lib. XXI, capitoli 11 e 13, II, 1347 ff; III, 363 ff; Hefele-Leclercq, Histoire des conciles (Parigi: Letouzey et Ane, 1907 ff), IX, 747 ff; 776 ff.]. Di gran lunga la più solida presentazione della dottrina ultimamente ribadita dal Papa Pio XII è stata fatta nel Concilio di Trento dal grande teologo gesuita, James Laynez [nell’edizione di Hartmann Grisar di Laynez’ Disputationes Sebastian (Innsbruck, 1886), I, 97-318]. Per molti aspetti le “Quaestiones, De origine jurisdictionis episcopo rum” e “De modo quo compete un summo pontifice in episcopos derivi”, rimangono le migliori fonti di informazione teologiche sulle relazioni degli altri Vescovi della Chiesa cattolica al Romano Pontefice fino ad oggi. – Durante il secolo dopo il Concilio di Trento, tre dei teologi scolastici classici hanno scritto magnifiche spiegazioni e le prove della tesi che l’autorità episcopale nella Chiesa di Dio derivi immediatamente dal Vicario di Cristo sulla terra. S. Roberto Bellarmino ha trattato la questione con la sua abituale chiarezza ed autorità [Cfr. De Romano Pontifice, lib. IV, capitoli 24 e 25], utilizzando un approccio un po’ diverso da quello impiegato da Turrecremata e Laynez e più vicino a quella di Gaetano. Francis Suarez ha trattate della tesi “in extenso” nel suo “Tractatus de legibus” reimpostando certe spiegazioni che completano l’insegnamento del Laynez stesso. [Cfr. Lib IV, cap. 4, in Theologiae cursus completus (MTCC) XII di Migne, tocchi di Suarez FF. 596 su questa materia nel suo trattato De Summo Pontifice nel suo Opus de triplici virtute theologica, De fide, tratto. X, sezione I]. Francis Sylvius, nei suoi “polemiche”, riassunti i risultati dei suoi grandi predecessori in questo campo e ha lascito ciò che rimane fino ad oggi probabilmente come la più efficace e breve presentazione dell’insegnamento di tutta la letteratura scolastica. [Cfr. lib. IV, q. 2, art. 5, Opera omnia (Anversa, 1698), V, 302 ff.]. Durante lo stesso periodo un trattamento molto breve ma teologicamente all’unisono sullo stesso argomento è stato dato dal portoghese francescano Francis Macedo nel suo “Clavibus De Petri”. [Cfr. Clavibus De Petri (Roma, 1560), Lib. I, cap 3, 36 pp. ff.]. Due dei principali teologi del sedicesimo secolo, il tomista, Domenico Soto [Cfr. In quartam sententiarum (Venezia, 1569), Dist. 20, d. 1, art. 2, 4, I, 991 conclusio]. e Domenico Bannez, [Cf. Scholastica commentaria in secundam secundæ Angelici Doctoris D. Thomæ (Venezia, 1587), in d. 1, art. 10, dub. 5, concl. 5, colonne 497 ff.]. Allo stesso modo hanno incluso questo insegnamento nei loro “commentari.” – Il Papa Benedetto XIV ha incluso un trattamento eccellente di questa tesi nella sua grande opera “De synodo diocesana”. [Cfr. In Lib. I, cap. 4, n. 2 ff, in MTCC, XXV, 816 ff.]. Tra le autorità più recenti che hanno affrontato la questione in un modo degno di nota sono i due teologi gesuiti Domenico Palmieri [Cfr Tractatus de Romano Pontifice (Roma, 1878), 373 ff.], ed il cardinale Louis Billot [Cfr Tractatus de ecclesia Christi, 5a edizione (Roma: l’Università Gregoriana, 1927) I, 563 ff.]. Pure il cardinale Joseph Hergenroether ha trattato l’argomento in modo efficace e preciso nella sua grande opera “Chiesa cattolica e stato cristiano.” [Cf. Chiesa cattolica e stato cristiano (Londra, 1876), I, 168 ff.]. – L’opposizione più importante alla tesi, come era prevedibile, è venuta dai teologi Gallicani. Bossuet [Cfr. Defensio declarationis cleri Gallicani, lib. VIII, capitoli 11-15, nelle Oeuvres complètes (Paris, 1828), XLII, 182-202], e Regnier [Cfr Tractatus de ecclesia Christi, pars. II, sez. I, nel MTCC, IV, 1043 ff.], hanno difeso la causa gallicana su questo argomento. Altri, invece, non infettati dal “virus” Gallicano, si sono opposti a questo insegnamento nei tempi passati. Degno di nota tra questi avversari erano Francis de Victoria e Gabriel Vasquez. Victoria, sebbene fosse un insigne teologo, sembra avere male interpretato la questione in esame e ha immaginato che, in qualche modo l’insegnamento tradizionale abbia coinvolto l’implicazione che tutti i vescovi fossero stati collocati nel loro sede su disposizione di Roma. [Cfr. Relectiones undecim, in rel. II, De potestate ecclesiæ (Salamanca, 1565), pp 63 ff.]. Vasquez, d’altra parte, è stato attratto da una teoria ora desueta, che cioè tale giurisdizione episcopale era assolutamente inseparabile dal carattere episcopale, e che l’autorità del Santo Padre sui suoi compagni vescovi nella Chiesa di Cristo deve essere spiegata dal suo potere di rimuovere o alterare le condizioni o i soggetti sui quali tale competenza è esercitata. [3 [31] Cfr. In primam secundæ Sancti Thomæ (Lyons, 1631), II, 311].

 [Nota redaz.: i falsi traditionalisti/sedevacantisti sono sordi al fatto che il Papa Pio XII abbia condannato le “consacrazioni” senza mandato papale – anche per una “invocata grave emergenza”. Pio XII in “Ad Apostolorum Principis” ha riconosciuto che i mandati per le consacrazioni non papali erano avvenuti in caso di emergenza, dicendo che era “lecito nei secoli precedenti”, mentre, “la suprema autorità della Chiesa ha da tempo DECRETATO diversamente.” (vedere l’enciclica di Pio XII vincolante in eterno sul crimine delle consacrazioni senza mandato papale promulgata il 29 giugno 1958). Tentare di consacrare un vescovo senza il mandato pontificio fa incorrere nella scomunica automatica [“ipso facto”]. Sotto la pena di scomunica, l’individuo non può partecipare al culto pubblico né ricevere il corpo di Cristo o uno qualsiasi dei Sacramenti. Inoltre, se è un chierico, gli è proibito di officiare un rito sacro o di esercitare un atto di autorità spirituale. Questa condanna si riferisce pure a tutti coloro che appartengono o sostengono, o approvano tali atti/sette scismatiche antipapali.]-

L’insegnamento del Papa Pio XII sull’origine della giurisdizione episcopale, sicuramente non definisce che San Pietro e i suoi successori alla romana Sede abbiano sempre nominato direttamente ogni altro vescovo all’interno della Chiesa di Gesù Cristo. Significa, tuttavia, che ogni vescovo che è l’ordinario di una diocesi, ottiene la sua posizione con il consenso o almeno la tacita approvazione della Santa Sede. Inoltre, significa che il vescovo di Roma può, secondo la costituzione divina della Chiesa stessa, rimuovere in casi particolari la giurisdizione dei Vescovi e trasferirli ad altra giurisdizione. Finalmente sta a significare che ogni vescovo che non è in Unione con il Santo Padre, non ha alcuna autorità sui fedeli. – Questo insegnamento non nega in alcun modo il fatto che la Chiesa cattolica sia essenzialmente gerarchica e monarchica nella sua costruzione. Non è in conflitto con la verità che i Vescovi residenziali hanno giurisdizione ordinaria, piuttosto che semplicemente una giurisdizione delegata nelle loro chiese. In realtà è certamente una vera spiegazione dell’origine di tale giurisdizione ordinaria nei consacrati che governano le singole comunità dei fedeli, come successori degli Apostoli e come soggetti al capo del Collegio apostolico. Vuol dire che il potere di giurisdizione di questi uomini viene a loro sì da nostro Signore, ma attraverso il suo Vicario sulla terra, nel quale soltanto la Chiesa trova il suo centro visibile di unità in questo mondo.

Joseph Clifford Fenton L’Università Cattolica d’America Washington, D.C.

 

“Cum ex apostolatus officio” – UNA BOLLA DI PAOLO IV E LA TIRANNIA PONTIFICALE

[Mgr. Fevre, in Abbé Rohrbacher, Histoire universale de l’Eglise Catholic, tome II- Paris Libraire Louis Vivès, 1904.]

S.S. Paolo IV

Nel corso della sua polemica contro l’infallibilità, il padre Gratry, invocò una bolla di Paolo IV, perfettamente estranea alla questione. Per mostrare che non si poteva riconoscere l’infallibilità del Vicario di Cristo, il povero accademico, con una ispirazione che non si può né spiegare né assolvere, attaccò il Primato di giurisdizione; non che egli negasse il sovrano potere della Cattedra apostolica; egli non lo poteva senza contravvenire il decreto di Firenze; ma egli prese lo spunto per discreditare questo potere come eccesso di abuso che egli pretendeva di rimproverare. “Ciò che volevo citare, egli sostiene, non è che un esempio. E ce ne sarebbero altri da far conoscere, ma nella bolla di Paolo IV si trova tutto, tentando nel XVI secolo, di spiegare infine senza dubbio, la sua estensione e tutte le conseguenze di questo potere pontificale supremo, come scuola di vertigine e di errore, fantasia ancora oggi. “Ecco l’analisi di questa bolla, della quale do nel contempo l’intero testo. Il Papa Paolo IV ha voluto che quella bolla fosse affissa e letta da tutto il popolo. Egli ha voluto che il mondo intero se ne ricordasse per sempre. Io non faccio dunque che conformarmi a ciò che ordina il documento stesso, pubblicando questo testo. Che edificante sentimento di sottomissione e di obbedienza!

In questa bolla, [Cum ex apostolatus officio, del XVe delle calende di marzo, 1559] Paolo IV rinnova tutte le sentenze, censure e pene inflitte agli eretici dai suoi predecessori e dai Concili. Egli dichiara inoltre le pene spirituali nelle quali, coloro che tra essi, fossero vescovi, cardinali o investiti di qualche altra dignità ecclesiastica, principi, re, imperatori, o in possesso di qualche altra signoria temporale incorrerebbero per il fatto stesso (ipso facto) e senza altra procedura giuridica, con la perdita del loro potere ed autorità, dei loro principati, reami ed imperi, potere che non saranno mai più in grado di riprendere. Inoltre saranno considerati apostati ed affidati al braccio secolare per essere puniti con le pene previste dal diritto. Coloro che oseranno prestare aiuto ed appoggio e condividere le loro dottrine, incorreranno essi stessi nella sentenza di scomunica “ipso facto”, e saranno privati di qualsiasi diritto di testimonianza, di prova, etc. e qualora fossero vescovi, principi o re, i loro beni, i loro principati, i loro reami diventeranno di ambito pubblico e affidati al primo occupante che sia provvisto di fede, unità ed obbedienza alla Chiesa Romana. Infine se si dovesse scoprire che prima della loro promozione, un vescovo, un arcivescovo, cardinale o finanche il Papa, si fossero allontanati dalla fede cattolica, cadendo in qualsiasi eresia, la loro promozione o elevazione sarebbero nulle, senza valore, non avvenute, così che i loro atti, fatti in virtù di loro documenti, debbano ritenersi illegittimi. – Il padre Gratry non discute se questa bolla sia o meno ex cathedra, poiché, egli dice, nessuno sa ciò cosa voglia dire: ma egli aggiunge: è un atto di grandissima solennità, un atto deliberato maturato in concistoro, firmato all’unanimità da tutti i cardinali, indirizzata alla Chiesa intera ed anche a tutto il genere umano. È difficile non vedere qui l’espressione più alta dell’autorità sovrana del Pontefice, almeno in materia di diritto e costume … “Ecco il potere così forte, illimitato, assoluto, personale, separato dal tutto, al di sopra di tutto, che bisogna ora coronare, esaltare, con una corona di infallibilità! “Siamo uomini dotati di ragione, o abbiamo perso la ragione? Abbiamo conservato il senso morale o vi abbiamo abdicato? Pretendiamo volontariamente calpestare sotto i piedi la verità visibile, la giustizia manifesta e disprezzare Dio stesso, il Padre della giustizia e della verità? Calpestare tutto il Vangelo di Gesù-Cristo? Un potere con tali antecedenti e che potrebbe di rigore rinnovare qualche cosa oggi o nell’avvenire, questo potere non chiede di essere aumentato né esaltato. Ma domanda di essere ricondotto nei giusti limiti. Con quale mezzo? Con l’obbedienza ai canoni, cioè alle leggi della Chiesa”. – Per rispondere a queste ridicole esagerazioni, bisogna riportarsi al pontificato di Paolo IV. Correva l’anno 1559. L’Europa, lacerata dallo scisma degli eretici si trovava in una situazione molto triste. Avevano luogo disordini incresciosi, c’erano dei terribili massacri in Germania; i cattolici erano stati crudelmente perseguitati in Inghilterra, e in Irlanda, gli eretici avevano commesso in Francia delle crudeltà atroci; quasi dappertutto c’erano principi, signorotti, vescovi colpevoli, che avevano dato il segnale della defezione ed imposto ai popoli la loro apostasia. Ciononostante la costituzione legale dell’Europa era ancora cattolica; l’unità di fede era ancora la legge generale, e secondo il diritto pubblico riconosciuto, accettato da secoli, il Papa era il capo della grande repubblica cristiana. I re, i principi, i magistrati dovevano, sotto pena di perdere la loro dignità, fare professione di fede cattolica; era l’articolo fondamentale di tutte le carte e costituzioni del tempo, come attestavano i giuramenti imposti agli imperatori ed ai re nei loro insediamenti, ed anche a tutte le persone costituite in dignità. Paolo IV, incaricato di governare la Chiesa, di salvare la fede e, mantenendo l’unità di religione, di risparmiare all’Europa delle lotte fratricida e guerre sanguinose, tentò un ultimo sforzo prendendo in mano le armi che gli offrivano la sua carica apostolica ed il diritto pubblico della cristianità. Il Concilio di Trento era stato convocato, ma, disperso nel 1552 all’avvicinarsi dei luterani comandati da Maurizio di Sassonia, non poté riprendere che nel 1562: il male era grande, stava per divenire incurabile; occorreva intervenire prontamente con un rimedio energico. Paolo IV assieme ai cardinali, tra i quali si trovava colui che sarebbe divenuto Pio V [che confermerà questa bolla con una sua successiva bolla –ndr.-], delibera con essi, e dopo aver studiato attentamente il male ed i rimedi, promulga questa bolla “Cum ex apostolatus officio”, che inizia così nobilmente: “Poiché, a causa della carica d’Apostolato affidataci da Dio, benché con meriti non condicevoli, incombe su di noi il dovere d’avere cura generale del gregge del Signore. E siccome per questo motivo, siamo tenuti a vigilare assiduamente per la custodia fedele e per la sua salvifica direzione e diligentemente provvedere come vigilante Pastore, a che siano respinti dall’ovile di Cristo coloro i quali, in questi nostri tempi, indottivi dai loro peccati, poggiandosi oltre il lecito nella propria prudenza, insorgono contro la disciplina della vera ortodossia e pervertendo il modo di comprendere le Sacre Scritture, per mezzo di fittizie invenzioni, tentano di scindere l’unità della Chiesa Cattolica e la tunica inconsutile del Signore, ed affinché non possano continuare nel magistero dell’errore coloro che hanno sdegnato di essere discepoli della verità…” – Dopo questo preambolo vengono gli articoli che p. Gratry analizza.

1- Allontanare i lupi dal gregge di Cristo.

Noi, riteniamo che una siffatta materia sia talmente grave e pericolosa che lo stesso Romano Pontefice, il quale agisce in terra quale Vicario di Dio e di Nostro Signore Gesù Cristo ed ha avuto piena potestà su tutti i popoli ed i regni, e tutti giudica senza che da nessuno possa essere giudicato, qualora sia riconosciuto deviato dalla fede possa essere redarguito (possit a fide devius, redargui), e che quanto maggiore è il pericolo, tanto più diligentemente ed in modo completo si deve provvedere, con lo scopo d’impedire che dei falsi profeti o altre persone investite di giurisdizione secolare possano miserevolmente irretire le anime semplici e trascinare con sé alla perdizione ed alla morte eterna innumerevoli popoli, affidati alle loro cure e governo per le necessità spirituali o temporali; né accada in alcun tempo di vedere nel luogo santo l’abominio della desolazione predetta dal Profeta Daniele, desiderosi come siamo, per quanto ci è possibile con l’aiuto di Dio e come c’impone il nostro dovere di Pastore, di catturare le volpi indaffarate a distruggere la vigna del Signore e di tener lontani i lupi dagli ovili, per non apparire come cani muti che non hanno voglia di abbaiare, per non subire la condanna dei cattivi agricoltori o essere assimilati al mercenario.

2-Approvazione e rinnovo delle pene precedenti contro gli eretici

Dopo approfondito esame di tale questione con i nostri venerabili fratelli i Cardinali di Santa Romana Chiesa, con il loro parere ed unanime consenso, Noi, con Apostolica autorità, approviamo e rinnoviamo tutte e ciascuna, le sentenze, censure e pene di scomunica, sospensione, interdizione e privazione, in qualsiasi modo proferite e promulgate contro gli eretici e gli scismatici da qualsiasi dei Romani Pontefici, nostri predecessori o esistenti in nome loro, comprese le loro lettere non collezionate, ovvero dai sacri Concili ricevute dalla Chiesa di Dio, o dai decreti dei Santi Padri, o dei sacri canoni, o dalle Costituzioni ed Ordinamenti Apostolici, e vogliamo e decretiamo che essi siano in perpetuo osservati e che si torni alla loro vigente osservanza ove essa sia per caso in disuso, ma doveva essere vigenti; inoltre che incorrano nelle predette sentenze, censure e pene tutti coloro che siano stati, fino ad ora, sorpresi sul fatto o abbiano confessato o siano stati convinti o di aver deviato dalla fede, o di essere caduti in qualche eresia, od incorsi in uno scisma, per averli promossi o commessi, di qualunque stato (uniuscuiusque status), grado, ordine, condizione e preminenza essi godano, anche se episcopale (etiam episcopali), arciepiscopale, primaziale o di altra maggiore dignità (aut alia maiori dignitate ecclesiastica) quale l’onore del cardinalato o l’incarico (munus) della legazione della Sede Apostolica in qualsiasi luogo, sia perpetua che temporanea; quanto che risplenda con l’autorità e l’eccellenza mondana quale la comitale, la baronale, la marchesale, la ducale, la regia o imperiale.

3 – Sulle pene da imporre alla gerarchia deviata dalla fede. Legge e definizione dottrinale: privazione «ipso facto» delle cariche ecclesiastiche.

Considerando non di meno che, coloro i quali non si astengono dal male per amore della virtù, meritano di essere distolti per timore delle pene e che i vescovi, arcivescovi, patriarchi, primati, cardinali, legati, conti, baroni, marchesi, duchi, re ed imperatori, i quali debbono istruire gli altri e dare loro il buon esempio per conservarli nella fede cattolica, prevaricando peccano più gravemente degli altri in quanto dannano non solo se stessi, ma trascinano con sé alla perdizione nell’abisso della morte altri innumerevoli popoli affidati alla loro cura o governo, o in altro modo a loro sottomessi; Noi, su simile avviso ed assenso (dei cardinali) con questa nostra Costituzione valida in perpetuo (perpetuum valitura), in odio a così grave crimine, in rapporto al quale nessun altro può essere più grave e pernicioso nella Chiesa di Dio, nella pienezza della Apostolica potestà (de Apostolica potestatis plenitudine), sanzioniamo, stabiliamo, decretiamo e definiamo (et definimus), che permangano nella loro forza ed efficacia le predette sentenze, censure e pene e producano i loro effetti, per tutti e ciascuno (omnes et singuli) dei vescovi, arcivescovi, patriarchi, primati, cardinali, legati, conti, baroni, marchesi, duchi, re ed imperatori i quali, come prima è stato stabilito fino ad oggi, siano stati colti sul fatto, o abbiano confessato o ne siano stati convinti per aver deviato dalla fede o siano caduti in eresia o siano incorsi in uno scisma per averlo promosso o commesso, oppure quelli che nel futuro, siano colti sul fatto per aver deviato dalla fede o per esser caduti in eresia o incorsi in uno scisma, per averlo suscitato o commesso, tanto se lo confesseranno come se ne saranno stati convinti, poiché tali crimini li rendono più inescusabili degli altri, oltre le sentenze, censure e pene suddette, essi siano anche (sint etiam), per il fatto stesso (eo ipso) e senza bisogno di alcuna altra procedura di diritto o di fatto, (absque aliquo iuris aut facti ministerio) interamente e totalmente privati in perpetuo (penitus et in totum perpetuo privati) dei loro Ordini, delle loro chiese cattedrali, anche metropolitane, patriarcali e primaziali, della loro dignità cardinalizia e di ogni incarico di Legato, come pure di ogni voce attiva e passiva e di ogni autorità, nonché‚ di monasteri, benefici ed uffici ecclesiastici (et officiis ecclesiasticis) con o senza cura di anime, siano essi secolari o regolari di qualunque ordine che avessero ottenuto per qualsiasi concessione o dispensa Apostolica, o altre come titolari, commendatari, amministratori od in qualunque altra maniera e nei quali beneficiassero di qualche diritto, benché saranno parimenti privati di tutti i frutti, rendite e proventi annuali a loro riservati ed assegnati, anche contee, baronie, marchesati, ducati, regni ed imperi; inoltre, tutti costoro saranno considerati come inabili ed incapaci (inhabiles et incapaces) a tali funzioni come dei relapsi e dei sovversivi in tutto e per tutto (in omnibus et per omnia), per cui, anche se prima abiurassero in pubblico giudizio tali eresie, mai ed in nessun momento potranno essere restituiti, rimessi, reintegrati e riabilitati nel loro primitivo stato nelle chiese cattedrali, metropolitane, patriarcali e primaziali o nella dignità del Cardinalato od in qualsiasi altra dignità maggiore o minore, (aut quamvis aliam maiorem vel minorem dignitatem) nella loro voce attiva o passiva, nella loro autorità, nei loro monasteri e benefici ossia nella loro contea, baronia, marchesato, ducato, regno ed impero; al contrario, siano abbandonati all’arbitrio del potere secolare che rivendichi il diritto di punirli, a meno che mostrando i segni di un vero pentimento ed i frutti di una dovuta penitenza, per la benignità e la clemenza della stessa Sede, non siano relegati in qualche monastero od altro luogo soggetto a regola per darsi a perpetua penitenza con il pane del dolore e l’acqua dell’afflizione. – Essi saranno considerati come tali (relapsi et sovversivi) da tutti, di qualunque stato, grado, condizione e preminenza siano e di qualunque dignità anche episcopale, arciepiscopale, patriarcale, primaziale o altra maggiore ecclesiastica anche cardinalizia, ovvero che siano rivestiti di qualsiasi autorità ed eccellenza secolare, come la comitale, la baronale, la marchesale, la ducale, la regale e l’imperiale, e come persone di tale specie dovranno essere evitate (evitari) ed escluse da ogni umana consolazione.

4 – Estinzione della vacanza delle cariche ecclesiastiche

Coloro i quali pretendono di avere un diritto di patronato (ius patronatus) e di nomina delle persone idonee a reggere le chiese cattedrali, comprese le metropolitane, patriarcali, primaziali o anche monasteri ed altri benefici ecclesiastici resisi vacanti a seguito di tali privazioni (per privationem huiusmodi vacantia), affinché non siano esposti agli inconvenienti di una diuturna vacanza (vacationis), ma dopo averli strappati alla servitù degli eretici, siano affidati a persone idonee a dirigere fedelmente i popoli nella via della giustizia, dovranno presentare a Noi o al Romano Pontefice allora regnante, queste persone idonee alle necessità di queste chiese, monasteri ed altri benefici, nei limiti di tempo fissati dal diritto o stabiliti da particolari accordi con la Sede, altrimenti, trascorso il termine come sopra prescritto, la libera disposizione, delle chiese e monasteri, o anche dei benefici predetti, sia devoluto di pieno diritto a Noi od al Romano Pontefice suddetto.

5-Pene per il delitto di favoreggiamento delle eresie

Inoltre, incorreranno nella sentenza di scomunica «ipso facto», tutti quelli che scientemente (scienter) si assumeranno la responsabilità d’accogliere (receptare) e difendere, o favorire (eis favere) coloro che, come già detto, siano colti sul fatto, o confessino o siano convinti in giudizio, oppure diano loro attendibilità (credere) o insegnino i loro dogmi (eorum dogmata dogmatizare); e siano tenuti come infami; né siano ammessi, né possano esserlo (nec admitti possint) con voce, sia di persona, sia per iscritto o a mezzo delegato o di procuratore per cariche pubbliche o private, consigli, o sinodi o concilio generale o provinciale, né conclave di cardinali, né alcuna congregazione di fedeli od elezione di qualcuno, né potranno testimoniare; non saranno intestabili, né chiamati a successione ereditaria, e nessuno sarà tenuto a rispondere ad essi in alcun affare; se poi abbiano la funzione di giudici, le loro sentenze non avranno alcun valore e nessuna causa andrà portata alle loro udienze; se avvocati il loro patrocinio sia totalmente rifiutato; se notai, i rogiti da loro redatti siano senza forza o validità. – Oltre a ciò, siano i chierici privati di tutte e ciascuna delle loro chiese, anche cattedrali, metropolitane, patriarcali e primaziali, delle loro dignità, monasteri, benefici e cariche ecclesiastiche (et officiis ecclesiasticis) in qualsivoglia modo, come sopra riferito, dalle qualifiche ottenute anche regolarmente, da loro come dai laici, anche se rivestiti, come si è detto, regolarmente delle suddette dignità, siano privati «ipso facto», anche se in possesso regolare, di ogni regno, ducato, dominio, feudo e di ogni bene temporale posseduto; i loro regni, ducati, domini, feudi e gli altri beni di questo tipo, diverranno per diritto, di pubblica proprietà o anche proprietà di quei primi occupanti che siano nella sincerità della fede e nell’unità con la Santa Romana Chiesa sotto la nostra obbedienza o quella dei nostri successori, i Romani Pontefici canonicamente eletti.

6 – Nullità della giurisdizione ordinaria e pontificale in tutti gli eretici.

Aggiungiamo che, se mai dovesse accadere in qualche tempo che un vescovo, anche se agisce in qualità di arcivescovo o di patriarca o primate od un cardinale di Romana Chiesa, come detto, od un legato, oppure lo stesso Romano Pontefice, che prima della sua promozione a cardinale od alla sua elevazione a Romano Pontefice, avesse deviato dalla fede cattolica o fosse caduto in qualche eresia (o fosse incorso in uno scisma o abbia questo suscitato), sia nulla, non valida e senza alcun valore (nulla, irrita et inanis existat), la sua promozione od elevazione, anche se avvenuta con la concordanza e l’unanime consenso di tutti i cardinali; neppure si potrà dire che essa è convalidata col ricevimento della carica, della consacrazione o del possesso o quasi possesso susseguente del governo e dell’amministrazione, ovvero per l’intronizzazione o adorazione (adoratio) dello stesso Romano Pontefice o per l’obbedienza lui prestata da tutti e per il decorso di qualsiasi durata di tempo nel detto esercizio della sua carica, né essa potrebbe in alcuna sua parte essere ritenuta legittima, e si giudichi aver attribuito od attribuire una facoltà nulla, per amministrare (nullam … facultatem) a tali persone promosse come vescovi od arcivescovi o patriarchi o primati od assunte come cardinali o come Romano Pontefice, in cose spirituali o temporali; ma difettino di qualsiasi forza (viribus careant) tutte e ciascuna (omnia et singula) di qualsivoglia loro parola, azione, opera di amministrazione o ad esse conseguenti, non possano conferire nessuna fermezza di diritto (nullam prorsus firmitatem nec ius), e le persone stesse che fossero state così promosse od elevate, siano per il fatto stesso (eo ipso) e senza bisogno di una ulteriore dichiarazione (absque aliqua desuper facienda declaratione), private (sint privati) di ogni dignità, posto, onore, titolo, autorità, carica e potere (auctoritate, officio et potestate).

7 – La liceità delle persone subordinate di recedere impunemente dall’obbedienza e devozione alle autorità deviate dalla Fede.

E sia lecito a tutte ed a ciascuna delle persone subordinate a coloro che siano stati in tal modo promossi od elevati, ove non abbiano precedentemente deviato dalla fede, né siano state eretiche e non siano incorse in uno scisma o questo abbiano provocato o commesso, e tanto ai chierici secolari e regolari così come ai laici (quam etiam laicis) come pure ai cardinali, compresi quelli che avessero partecipato all’elezione di un Pontefice che in precedenza aveva deviato dalla fede o fosse eretico o scismatico o avesse aderito ad altre dottrine, anche se gli avessero prestato obbedienza e lo avessero adorato e così pure ai castellani, ai prefetti, ai capitani e funzionari, compresi quelli della nostra alma Urbe e di tutto lo Stato Ecclesiastico, anche quelli obbligati e vincolati a coloro così promossi od elevati per vassallaggio o giuramento o per cauzione, sia lecito (liceat) ritenersi in qualsiasi tempo ed impunemente liberati dalla obbedienza e devozione (ab ipsorum obedientia et devotione, impune quamdocumque cedere) verso quelli in tal modo promossi ed elevati, evitandoli (evitare eos) quali maghi, pagani, pubblicani ed eresiarchi, fermo tuttavia da parte di queste medesime persone sottoposte, l’obbligo di fedeltà e di obbedienza da prestarsi ai futuri vescovi, arcivescovi, patriarchi, primati, cardinali e Romano Pontefice canonicamente subentranti [ai deviati]. – Ed a maggior confusione di quelli in tale modo promossi ed elevati, ove pretendano di continuare l’amministrazione, sia lecito richiedere l’aiuto del braccio secolare, né per questo, coloro che si sottraggono alla fedeltà ed all’obbedienza verso quelli che fossero stati nel modo già detto promossi ed elevati, siano soggetti ad alcuna di quelle censure e punizioni comminate a quanti vorrebbero scindere la tunica del Signore.

8 – Permanenza dei documenti precedenti e deroga dei contrari

Non ostano all’applicabilità di queste disposizioni, le costituzioni ed ordinamenti apostolici, né i privilegi, gli indulti e le lettere apostoliche dirette ai vescovi, arcivescovi, patriarchi, primati e cardinali, né qualsiasi altro disposto di qualunque tenore e forma e con qualsivoglia clausola e neppure i decreti anche se emanati «motu proprio» (etiam motu proprio) e con scienza certa nella pienezza della potestà Apostolica, o promulgati concistorialmente od in qualsiasi altro modo e reiteratamente approvati e rinnovati od inseriti nel «corpus iuris», né qualsivoglia capitolo di conclave, anche se corroborati da giuramento o dalla conferma apostolica o rinforzate in qualsiasi altro modo, compreso il giuramento da parte del medesimo. – Tenute presenti tutte le risoluzioni sopra precisate, esse debbono aversi come inserite, parola per parola, in quelle che dovranno restare in vigore (alias in suo robore permansuris), mentre per la presente deroghiamo tutte le altre disposizioni ad esse contrarie, soltanto in modo speciale ed espresso (dum taxat specialiter et espresse).

9-Mandato di pubblicazione solenne

Affinché‚ pervenga notizia delle presenti lettere a coloro che ne hanno interesse, vogliamo che esse, od una loro copia (che dovrà essere autenticata mediante sottoscrizione di un pubblico notaio e l’apposizione del sigillo di persona investita di dignità ecclesiastica), siano pubblicate ed affisse sulle porte della Basilica del Principe degli Apostoli in Roma e della Cancelleria Apostolica e messe all’angolo del Campo dei Fiori da uno dei nostri corrieri; e che copia di esse sia lasciata affissa nello stesso luogo, e che l’ordine di pubblicazione, di affissione e di lasciare affisse le copie sia sufficiente allo scopo e sia pertanto solenne e legittima la pubblicazione, senza che si debba richiedere o aspettare altra.

10 – Illiceità degli Atti contrari e sanzioni penali e divine.

Pertanto, a nessun uomo sia lecito (liceat) infrangere questo foglio di nostra approvazione, innovazione, sanzione, statuto, derogazione, volontà e decreto, né contraddirlo con temeraria audacia. – Che se qualcuno avesse la presunzione d’attentarvisi, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio Onnipotente e dei suoi Beati Apostoli Pietro e Paolo. – Data a Roma, in San Pietro, nell’anno 1559 dall’Incarnazione del Signore, il giorno 15 marzo, IV anno del Nostro Pontificato”.

Ecco dunque l’espressione più alta della tirannia pontificale, e se vogliamo credere a p. Gratry “l’analisi è più dolce del testo”, salvo in un punto, in cui A. de Margerie rimprovera a p. Gratry di aver attribuito a Paolo IV una eresia ed un’assurdità interpolando nella traduzione francese una parola che non esiste nell’originale. Lo stesso controversista rimprovera all’oratoriano di essere diventato da farfalla, una zanzara. 1) per aver fatto una cattiva guerra alla causa che egli combatte servendosi di un atto di governo evidentemente fuori dalle condizioni di infallibilità per scagliarsi contro l’infallibilità del Papa, un documento per aumentare i folli terrori di molti uomini del nostro tempo: 2) di aver fornito delle armi ai nemici della Chiesa invocando contro l’infallibilità del Papa un documento il cui equivalente completo, consegnato lungo il quarto concilio ecumenico Laterano, può essere invocato con egual diritto contro l’infallibilità dei Concili generali. Dal canto suo Veuillot si esprime in questi termini: “Quanto al p. Gratry, egli si è reso nello stesso tempo, ridicolo ed odioso. Ridicolo per le sue scoperte, odioso per l’uso che ne ha fatto. – Se veniamo agli esami degli articoli, il primo afferma la pienezza della potenza pontificale, derivante da ciò che il Papa esercita sulla terra le funzioni di Gesù-Cristo, di cui è il vicario. Questa pienezza di potenza è una verità riconosciuta nella Chiesa, lo è sempre stato, e la cristianità la riconosce ancora nel sedicesimo secolo. Occorre dire al padre Gratry che questa pienezza di potenza esiste sempre, ma nel modo in cui è sempre esistita, cioè per il governo della Chiesa, per il governo della società spirituale e tutto ciò che tocca la coscienza. Quando l’Europa era costituita cattolicamente, questa costituzione estendeva la giurisdizione pontificale anche alle materie civili, nei loro rapporti con le materie religiose, e ne derivavano degli effetti civili. Così l’eresia era un crimine agli occhi della legge: una volta che la Chiesa si era pronunciata, l’eretico cadeva sotto il colpo non solo delle pene spirituali, ma pure delle pene civili inflitte per questo crimine. Così il capo dello Stato, per costituzione doveva essere cattolico e, dichiarato eretico, cessava di essere re. Ancora una volta tale era la costituzione della società cristiana, che stimava la fede il più grande dei beni, e che, per conservare questo bene, metteva al servizio della Chiesa, tutta la potenza civile. – L’articolo 2 non può offrire difficoltà poiché Paolo IV non fa che rinnovarvi le sentenze di scomunica portate contro gli eretici dai Pontefici precedenti, dai Concili e dai sacri Canoni, sacris conciliis et sacris canonibus. – ma alle pene spirituali l’articolo 3 aggiunge le pene temporali. Di principio il padre Gratry non può condannare queste pene, perché egli sa che esse sono state imposte in tutti tempi dalla Chiesa: la penitenza pubblica, i digiuni, etc. erano certamente delle pene temporali. Ci sembra così che egli non possa rimproverare il Papa di privare di ogni autorità i vescovi o cardinali colpevoli di eresia. Ma Paolo IV dichiara privi di ogni autorità, principato, reame, impero, etc., anche i principi, re, imperatori, etc., che sono eretici. Lo ripetiamo, erano le legge del tempo, era una legge che preservava la fede, era una legge che soprintendeva ai diritti della coscienza dei popoli, che erano tutti cattolici e che volevano continuare ad esserlo, era tale la legge che il Concilio di Costanza non aveva agito altrimenti di come faceva Paolo IV. Dite allora che i tempi sono cambiati, che le costituzioni civili attuali non facciano più della professione di fede cattolica la “condicio sine qua non” per l’esercizio del potere civile, e che la bolla di Paolo IV non sia più applicabile, ma ancora una volta non vedete un atto di tirannia in un atto legittimo che ha come scopo il proteggere i deboli contro i forti. Il padre Gratry fa notare che, per i relapsi, il castigo era la pena del fuoco senza remissione: egli esagera, ma è obbligato a confessare che Paolo IV raddolciva le pene previste dalle leggi civili in ciò che concernevano gli eretici colpiti dalla sua bolla; non è dunque al sovrano Pontefice che va rimproverato il rigore. L’articolo 4 si occupa dei benefici ecclesiastici, ed il padre Gratry non pretende certamente che sia ingiusto spogliarne coloro che sono eretici o che non appartengono più alla Chiesa, e passiamo quindi all’articolo 5. Questo articolo 5 condanna alle stesse pene degli eretici coloro che li accolgono e li difendono. È chiaro che questi fautori e difensori, procurino alla cattolica società lo stesso male degli eretici confessi; occorreva mostrarsi assai severi nei loro riguardi. Inutile, pensiamo, sia tornare su quanto abbiamo detto sulla costituzione degli stati cristiani ai tempi di Paolo IV e del diritto pubblico allora universalmente vigente. – Ma l’articolo 6 scandalizza il padre Gratry più degli altri. Noi abbiamo riprodotto la nota che egli ha aggiunto alla sua analisi, e veramente siamo umiliati nel dover a lui ricordare quanto si insegna al catechismo. Il Papa colpisce di nullità gli atti di ogni Papa, patriarca, arcivescovo, vescovo che sarà stato scoperto esser caduto in eresia o essersi allontanato dalla fede prima della sua promozione, e dichiara che di fatto questi personaggi sono privati della loro dignità. « Da questo segue, dice il padre Gratry, che se si scopre che un vescovo, o finanche un Papa, prima della sua promozione abbia in qualche modo deviato dalla fede cattolica, questi non sarebbe né prete, né vescovo; i preti che essi avrebbero ordinato non sarebbero più preti, le ostie che questi ultimi, credendosi preti, avrebbero consacrato, non sarebbero state consacrate, e le assoluzioni che questi preti fantasmi avrebbero date, non sarebbero state delle assoluzioni. » Ma il padre Gratry ignora assolutamente la distinzione tra il potere d’ordine ed il potere di giurisdizione, egli ignora questo principio fondamentale che le pene pubbliche non seguono che le colpe pubbliche, e che di conseguenza:

– 1° gli atti colpiti da nullità dal Papa nell’articolo 6 non sono che atti di giurisdizione;

– 2° i procedenti dal potere d’ordine colpiti da illegittimità, non sono per questo colpiti da nullità, le ordinazioni sono valide, le consacrazioni, le assoluzioni sono valide.

3° In questo ultimo caso, particolarmente, le assoluzioni hanno tutto il loro valore per i fedeli che ignorano l’irregolarità del prete che le assolve. Il testo della bolla porta “promotio et assumptio, cioè promozione, elevazione, padre Gratry traduce “Ordinazione” e promozione, è inavvertenza? È ignoranza? È falsificazione volontaria? Veramente non si sa cosa pensare, in ogni caso è sicuro che il padre Gratry manipoli singolarmente i testi. Gli articoli 8, 9 e 10 non fanno che ripetere le clausole ordinarie che concludono le bolle, della cui natura non è il caso di occuparci qui ed è inutile soffermarvisi. Ecco dunque questo atto di tirannia pontificale che spaventa il padre Gratry, per cui egli chiede che il potere pontificale sia ricondotto nei giusti limiti, e che si badi bene di non aumentare e non esaltare questo potere con una corona di infallibilità! Questa costituzione, valida per sempre: “in perpetuum valitura”, portata nella pienezza dell’autorità apostolica: “de apostolicæ potestatis plenitudine”, con la minaccia dell’indignazione di Dio Onnipotente contro chi osasse opporvisi, è indirizzata alla Chiesa intera che l’accetta, da Paolo, vescovo della Chiesa cattolica, assistito dal Sacro-Collegio. È questa la costituzione che attaccava padre Gratry; Dio doveva ben presto chiederne conto. Noi non vogliamo citare all’avversario né il terzo Concilio del Laterano, contro gli Albigesi, né il quarto, in cui si ritrovano le medesime espressioni della bolla di Paolo IV, né il primo Concilio di Lione che depose Federico II (Concil. III. Lateranen. c.xxvi), De haereticis. — Concil. collect., t. X, col. 1522-1523. – Concil. IV Lateran., cap. III, Excommunicamus,t. XI, col. 148 ; Concïl.Lugd. t.XI, col. 630 et 640.), sarebbe capace di dirci che c’è Concilio e Concilio; ma noi crediamo di poterlo indirizzare al Concilio di Costanza, di cui tutto il gallicanesimo esalta la saggezza e l’autorità. Egli vi troverà: -1° quindicesima sessione, un “decretum silentii” che “diffida dal “fare nessun brusio di voce, piedi e mani, sotto pena di scomunica e due mesi di prigione, “sub poena carceris duorum mensium”, in cui incorrerà il contravvenente “etiamsi imperiali, regali, cardinalatus archiepiscopali aut episcopali proefulgeat dignitate” (Labbe, t. XII, col.122); il regolamento del Concilio Vaticano è si dice, meno severo.

2° Stessa sessione: vien posto l’interdetto su chiunque attacchi od impedisca a coloro che vengono al Concilio o ne tornino: “Etiamsi pontificali, imperiali, regali vel alia quacumque ecclesiastica vel mundana proe-fulgeant dignitate”, ed il Concilio minaccia di procedere contro coloro che disprezzino i suoi ordini, in modo ancora più severo, spiritualmente e temporalmente “insinuantes transgressoribus et contemptoribus in proedictis quod spiritualiter et temporaliter gravius procedetur [Consiitutio concilii, Col 144]. È forse per rispetto per questa decisione del Concilio di Costanza che i nostri governanti gallicani non hanno cercato di impedire ai vescovi di recarsi al Concilio.

3° Diciassettesima sessione. Decreto contro chiunque, re, cardinale, patriarca, arcivescovo, duce, principe o marchese, etc., impedirà, turberà o molesterà l’Imperatore Sigismondo o qualcuno dei suoi durante il loro viaggio intrapreso per trattare della pace della Chiesa con il re d’Aragona: “omni honore et dignitate, officio erclesiastico vel soeculari sit ipso facto privatus[Col. 160].

4° Ventottesima sessione. Il Concilio dichiara il duca d’Austria privato di ogni onore e dignità ed inabile a possederne alcuna, egli ed i suoi discendenti fini alla seconda generazione.

5° Trentunesima sessione. Atteso che i soggetti non hanno alcuna giurisdizione sui loro prelati, né i laici sugli ecclesiastici: Attendentes quod subditi in eorum proelatos et laïci in clericos nullam habent jurisdictionem et potestatem il Concilio ingiunge, sotto pena di scomunica, al conte di Verue, che aveva fatto arrestare un vescovo, di mettere questo prelato in libertà, e invita i vescovi di Pavia e Novara di procedere contro di lui se rifiuta di obbedire, e di infliggergli tutte le altre pene sia spirituali che temporali: “Ad omnes alias poenas spirituales ac temporales auctoritate proesentium procedere valeant(6).

6° Trentasettesima sessione. – Diffida a tutti i fedeli di prestare aiuto ed assistenza a Pietro de Luna detto Benedetto XIII sotto pena di essere trattato come fautore di scisma e di eresia, e di conseguenza di essere privato di ogni beneficio, onore e dignità, sia ecclesiastica, sia mondana (omnium beneficiorum, dignitatem et honorum ecclesîasticorum et mundanorum), fossero anche vescovi o patriarchi, re o imperatori “Etiamsi regalis sit dignitatis aut imperialis”. Se essi contravvengono a questa diffida, essi ne saranno privati “ipso facto” in virtù di questo decreto conciliare, fatto salvo ogni altro diritto (quibus sint auctoritate hujus decreti ac sententiam ipso facto privati).

7° Trentanovesima sessione. – il Concilio decreta quanto segue: « Se qualcuno incute timore o fa pressione o violenza agli elettori o ad uno di essi nell’elezione del Papa, o se uno procura che venga fatto, o approva quanto è stato fatto, o ha dato il suo consiglio in ciò, o ha prestato il suo favore, o consapevolmente ricetta colui che lo facesse, o lo difende, o si mostra negligente nell’infliggere le pene specificate più sotto, di qualunque stato, grado o autorità egli sia, anche imperiale, regale, vescovile, o di qualsiasi dignità ecclesiastica o secolare egli sia ornato, (etiamsi imperiali, regali, pontificali, vel alia quavis ecclesiastica aut seculari proefulgeat dignitate ipso facto incorra nelle pene contenute nella costituzione di Papa Bonifacio VIII, di felice memoria, che inizia con “Felicis”; e sia punito con esse. (illisque effectualiter puniatur). Le pene inflitte da questa costituzione di Bonifacio VIII sono tra le altre: l’infamia, l’incapacità di conservare o raccogliere successioni, la comparsa in giudizio, etc. la confisca dei beni, l’interdizione da ogni carica e dignità, sia ecclesiastica che temporale, non solo per il colpevole, ma pure per i suoi figli e discendenti.

8° Ultima sessione. — Nella bolla “Inter cunctas”, il Papa Martino V decreta: “Sacro Contanziensi Concilio approbante, dice Bossuet, che i Vescovi e gli inquisitori dovranno procedere contro i settari e difensori di Wiclef e di Hus, “qualunque sia la loro dignità, che siano patriarchi, arcivescovi, vescovi, re o regine, duchi, etc., «Quacumque que dignitate præfulgeant, etiamsi patriarchali, archiepiscopali, episcopali, regali, reginali, ducali… » essi saranno colpiti da scomunica, sospensione, spogliati delle loro dignità, cariche ed uffici, di tutti i benefici che essi potessero detenere, di chiese, monasteri o altri insediamenti ecclesiastici, ed anche dei loro beni temporali, delle loro dignità secolari etc. (Col. 271). Si sa la fine di Giovanni Hus. Il Concilio lo ha consegnato al braccio secolare e questo eseriarca subì la pena prevista dal codice penale allora in vigore in tutte le società cattoliche. Gli atti del Concilio di Costanza riempiono circa 300 colonne in folio; non c’è una parola che offra anche l’apparenza di una contraddizione con i decreti qui sopra indicati. Sempre e dappertutto il Concilio suppone come una verità costante, certa, indiscutibile, che esso ha il diritto di giudicare, di condannare, di punire gli eretici, gli scismatici ed i loro fautori fossero pure principi, re o imperatori; di togliere i loro beni, carichi, onori e dignità, le loro baronie, contee, marchesati, principati, ducati, reami ed imperi, se rifiutano di obbedire a questi decreti se essi mettono ostacoli alla pace della Chiesa. In questo concilio l’imperatore è presente: la maggior parte dei re e dei principi sovrani dell’Europa vi sono rappresentati dai loro ambasciatori. E principi, re ed imperatori trovano la condotta del Concilio naturale e non si sognano affatto di reclamare. Ci sono discussioni sulla questione del sapere se il Concilio è superiore al Papa, ma tutti sono d’accordo che il Papa ed il Concilio sono superiori, l’uno e l’altro ai re ed agli imperatori: che la potenza spirituale è superiore alle potenze temporali ed al diritto di giudicarli, di condannarli, di punirli, che il primo dovere di questi potenti è di obbedire alla Chiesa, e di sottomettersi alle sue sentenze e di procurarne l’esecuzione. – Un uomo che al Concilio di Costanza avesse chiesto l’impunità per il crimine di eresia, non sarebbe stato ascoltato più di colui che oggi chiederebbe l’impunità del furto o dell’omicidio, e chiunque avesse preteso di proclamare l’indipendenza assoluta dei re, sarebbe parso almeno così stravagante come ai nostri giorni un deputato che prendesse la fantasia di proclamare alla tribuna l’indipendenza assoluta del suo dipartimento. Tutti gli stati d’Europa erano uniti nel seno della repubblica cristiana e in questa epoca tentare di rompere questa unità, separarsene, sottrarsi con lo scisma e l’eresia all’autorità centrale e sovrana, che ne era la chiave di volta che solo la formava e la manteneva, era un crimine così grave, un’aberrazione così mostruosa come ai tempi d’oggi sarebbe un crimine la follia di una nostra provincia che volesse sottrarsi all’unità nazionale, separarsi dalla Francia, sottrarsi alle sue leggi. Noi, diceva Leibnitz, consideriamo la Chiesa universale come formante una specie di repubblica governata dal Papa. Le cose erano ancora così all’epoca del Concilio di Costanza; solo che non essendoci un Papa certo, il Concilio si poneva al suo luogo ed al suo posto. Leggete i suoi decreti: li motiva sui diritti riconosciuti in tutti i tempi dai romani Pontefici, la cui sede, egli dice, è al momento presente in seno al Concilio generale: “Generale concilium, ubi nunc romana curia existit” (col. 144). Nulla di piacevole come i tours de force ai quali si dedicano i dottori gallicani per dimostrare che questi atti e decreti del Concilio di Costanza non sono in contraddizione con il primo articolo della dichiarazione del 1682. Essi dicono ad esempio che il Concilio non ha voluto parlare che dei principi feudatari della Chiesa romana; ma le espressioni del concilio sono generali, e non fanno parte di questa distinzione – essendo presente l’imperatore, avrebbe egli sopportato che lo si trattasse da vassallo? Altri hanno poi sostenuto che il Concilio si fosse probabilmente riferito agli ambasciatori e che i decreti in questione traevano la loro forza dal consenso dei re. Ma essi sono sempre resi e dichiarati esecutori in virtù dell’autorità del concilio, auctoritate Concilii, senza che si sia mai parlato di alcun altro, e non si incontra traccia di questo preteso trattato tra il concilio ed i re. Il concilio dispone per l’avvenire; i re avrebbero dunque alienato la loro indipendenza in perpetuo. Molti di questi decreti sono stati approntati in un’epoca in cui molti re, principi e signori, parteggiavano per Pietro de Luna, e non avevano rappresentanti al Concilio e rifiutavano di riconoscerlo; gli altri re potevano mai conferire a questi principati e reami un diritto che non avevano da se stessi? Per tutti gli uomini di buona fede è manifesto che il Concilio di Costanza agisce in queste occasioni in virtù di un potere universalmente riconosciuto e sulla legittimità del quale non era da temere alcuna contestazione. Se era possibile il dubbio, nello stato di divisione in cui si trovava la Chiesa, il Concilio non avrebbe evitato con la maggior cura fino all’ultima parola, di offendere le orecchie reali. Il concilio del Vaticano poteva aver solo il pensiero di rendere dei decreti simili a quelli che stiamo per citare? Il Concilio di Costanza li pubblicò senza che alcune voce in Europa si levasse per reclamare. Questo fatto è sufficiente a dimostrare che in quest’epoca l’Europa considerava l’eresia come un crimine, gli eretici ed i loro fautori come colpevoli degni di pene, che determinava il codice penale in vigore presso tutte le nazioni cristiane, le potenze temporali, come subordinate di diritto e di fatto alla potenza spirituale. – Al Concilio di Costanza potremo aggiungere il Concilio di Basilea; il terzo e quarto concilio del Laterano ed il primo concilio di Lione, il Concilio di Trento. Ma bisogna limitarsi. Che l’abate Gratry consulti i quattro patriarchi del gallicanesimo: Pierre d’Ail, soprannominato il Martello degli eretici, Gerson, Almain e Major. Ecco quale era la loro dottrina:

1° il diritto canonico ha legittimamente definito, che esiste un crimine di eresia;

2° il mantenere la purezza della fede cristiana è presso un popolo il primo dei beni temporali;

3° La cura nel mantenere la purezza e l’integrità della fede non è soltanto un diritto del sovrano, ma un dovere d’onore;

4° in Francia i diritti della dinastia regnante sono legati al possesso della fede cattolica: “I re di Francia, tra tutti gli altri principi cristiani, sono sempre stati i difensori speciali ed i campioni della fede cattolica, la cui principale cura e sollecitudine è stata di estirpare e pulire la loro signoria, da tutte le eresie, errori indecorosi nella nostra fede”.

5° Il crimine di eresia rompe tutti i legami sociali e distoglie i soggetti dal dovere dell’obbedienza ai princìpi.

6° il crimine di eresia è un crimine di lesa maestà divina, al quale non si può applicare che una sola pena: la morte!

7° L’eresia è più pericolosa per l’ordine sociale che il tiranno.

8° Tutti gli uomini, i principi come gli altri, sono sottomessi al Papa e se volessero abusare della loro giurisdizione, della loro temporalità, della loro potenza contro la legge divina e naturale, questa superiorità può essere chiamata una potenza direttiva ed ordinativa, piuttosto che civile. – Vi sono delle occasioni in cui il Papato confisca i beni dei laici, ad esempio in caso di eresia [Pierre d’Ailly, Traita de la puissance ecclésiastique, lu au Concile de sonstance, dans les oeuvres de Gerson, t. ll, p. 917].Il Cristo non ha mai dato a Pietro l’autorità di disporre della sua giurisdizione su un re temporale, non gli ha dato il potere di spogliare i laici delle loro proprietà e della loro potenza se non nel caso un principe secolare abusasse del suo potere a detrimento della cristianità e della fede, in modo da nuocere grandemente alla salvezza delle anime [Almain, De Potestate ecclesiast, et laic.] per una giusta causa “pro rationabili causa”, la Chiesa può in tutta la cristianità trasferirne il potere “dominium transferre”. [Juan. Major in 4 sent. Dist., 24 ad 4 argument.]. Gli stessi re ammettono questi princìpi. Bossuet lo confessa quando dice nella sua “Defense de la Déclaration: “voi mi chiedete forse perché i principi stessi, negli ultimi tempi sembrano possano convenire a loro pieno grado che la Chiesa possa deporre i principi cristiani quanto meno per causa di eresia o di apostasia? È facile rispondere, questo non viene dal fatto che riconoscano al Sovrano Pontefice alcun diritto temporale, ma perché detestando l’eresia, essi permettono volentieri tutto contro se stessi se si lasciano infettare da tale peste. Del resto, avendo in orrore a tal punto l’eresia, essi sapevano bene che non cedevano a nessuno alcun diritto contro di essi, non dando il diritto se non a causa di eresia”. [Dèfense, lib. iv, t . XVlll, § 73]. I re, in una parola, sapevano che essi non sarebbero mai diventati eretici. Sapevano essi che i loro fratelli, gli altri re, sapevano che i loro successori non lo diventassero mai? Ma non discutiamo di questa ingegnosa spiegazione, e contentiamoci di tenere il dubbio fatto che constata : il diritto dato al Papa da tutti i re in caso di eresia ed il loro orrore per questa peste. Da quanto precede segue che la bolla di Paolo IV proverebbe che i Papi non sono infallibili né sovrani nella Chiesa, come pretende M. Gratry, e quindi egli deve egualmente rifiutare l’infallibilità e la sovranità ai Concili ecumenici che, sui rapporti delle due potenze e sull’eresia e gli eretici, hanno proclamato ed applicato i principi di questa bolla. Egli deve in più negare l’infallibilità della Chiesa che, tutta intera, durante i secoli ha accettato e praticato la stessa dottrina. La Bolla stessa constata questa complicità secolare della Chiesa. – Cosa fa essa dopotutto? Essa rinnova le misure prese contro gli eretici e contro i principi che li sostengono, dai predecessori di Paolo IV e dai Concili, essa dichiara che saranno affidati al braccio secolare per subire le pene determinate dal diritto. Se la Bolla è mostruosa, il diritto al quale rinvia, non lo è altrettanto, e se la potenza spirituale che comanda è criminale, la potenza secolare è forse innocente? È dunque la Chiesa stessa e tutta la cristianità che l’abate Gratry accusa di aver calpestato la verità, la giustizia, il Vangelo di Gesù-Cristo. Ecco a quale blasfema condotta conduce l’ebbrezza delle idee liberali, e per sostenerle non si esita a condannare i princìpi e la dottrina da tutti i tempi insegnata e messa in pratica nella Chiesa. La si condanna e la si stigmatizza con la stessa violenza che potrebbe attuare un nemico ed un apostata. Non c’è imparzialità per tener conto della differenza dei tempi e delle diverse necessità che ne derivano. Si giudica la Chiesa ed il suo passato per partito preso secondo le opinioni regnanti. Non si vede o non si vuol vedere che l’ordine sociale nel quale viviamo differisce dall’ordine sociale dei tempi cattolici come la notte differisce dal giorno, ed è così assurdo domandare ai secoli della fede e di unità delle leggi ed i costumi dei tempi di dubbi e divisioni che si vorrebbe ristabilire? Oggi le leggi dell’ordine antico, ai tempi di Paolo IV, l’ordine stabilito nella cristianità aveva già subito dei rudi attentati, ed il dovere del Capo della Cristianità era difenderlo, impiegare per mantenerlo tutti i mezzi che gli offrivano ancora la fede dei popoli e la legislazione universalmente in vigore negli Stati cristiani. Oggi questa legislazione non esiste più, l’unità europea è distrutta, l’eresia e l’incredulità regnano dappertutto; e da esse, non dalla Chiesa che il braccio secolare riceve le sue direttive. E M. Gratry si leva e riesuma la Bolla di Paolo IV e la getta in pasto al pubblico così incapace di comprendere qualcosa delle cose del passato, imbevuto di pregiudizi contro la religione ed egli fa questo per salvare i popoli che il Papa infallibile farebbe ripiombare nelle tenebre; per salvare la Chiesa che si perderebbe rinserrando i legami della sua unità; per salvare i re che il papato minaccia! Egli lo fa anche per salvare il cattolicesimo liberale ed affinché i governi comprendano quanto loro convenga appoggiare questo partito contro il Concilio e contro il Papa!

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Questa Bolla di Paolo IV, confermata tra l’altro da S. Pio V in una successiva bolla [Inter multiplices curas del 21 XII 1566] è stata quindi da tempo oggetto di discussioni e divisioni, ed ancora oggi è contestata da alcuni, come i gallicani alla Gratry, o gli attuali seguaci del Cavaliere kadosh 30° livello [A. Lienart con il figlioccio spirituale Lefebvre e derivati delle fraternità non-sacerdotali e delle cappellucce varie, oltre che da liberi “cani sciolti” scismatici], mentre altri ne fanno una bandiera per giustificare i loro deliri sedevacantisti. Per noi Cattolici, essa ha un’importanza storica, sia come documento del tempo, sia come elemento del Magistero della Chiesa, ma in realtà essa non è applicabile per quanto concerne la questione dei Papi “pretesi” eretici che darebbe spazio alle eresie sedevacantiste ed ai suoi scismi. I Papi “veri” infatti non sono mai incorsi nell’eresia, essendo Vicari di Cristo in terra e luce di verità infallibile per la fede e la morale. Quelli che vengono giustamente additati come eretici manifesti ed ostinati, fondatori della falsa chiesa dell’uomo, con l’intronizzazione di satana in Vaticano il 29 giugno 1963, sono gli antipapi che si sono susseguiti da Roncalli in poi [dal 28 ottobre del 1958, dopo la cacciata del legittimo Papa eletto, Gregorio XVII cardinal Siri] che, come tali, possono parlare ed agire “a vanvera”, come effettivamente è stato ed è, perché in essi opera ben altro spirito … che quello Santo! La Bolla quindi è applicabile a tutti gli ecclesiastici che sono stati e sono eretici, ma non ai “veri” Papi, che hanno tenuto sempre fede al loro impegno di Vicari perché assistiti dallo Spirito Santo in questione di fede e di morale! Gli scismatici sedevacantisti, non riconoscendo i veri Papi, sono ricorsi anch’essi alla Bolla di Paolo IV per tirare acqua al loro mulino senza voler distinguere i Papi dagli antipapi, procurando così per sé ed i loro seguaci, una messa al bando dalla Chiesa Cattolica, condizione primaria per passare poi al “calore” del fuoco eterno. – Interessante è il passaggio in cui si accenna alla 39^ sessione del Concilio di Costanza ove sono ricordate le pene inflitte a coloro che cercano di inficiare l’elezione del Papa, pene già specificate nella bolla “Felicis” di Bonifacio VIII, così come è avvenuto appunto nel Conclave del 1958, ove hanno operato gli agenti della quinta colonna, i marrani ed i massoni che hanno impedito la presa di possesso dell’Ufficio Pontificale da parte del Cardinale Siri, che aveva accettato la sua elezione all’unanimità, assumendo il nome di Gregorio XVII.

I SACRAMENTALI

SACRAMENTALI

[Enciclopedia Cattolica, C. d. V. 1953 – vol X , col 1555-1558]

Sono cose o azioni, di cui Chiesa, imitando in qualche modo i Sacramenti, si serve per raggiungere, in virtù della sua impetrazione, effetti soprattutto spirituali (CIC, can. 1144). – Il termine, come sostantivo, non si trova nell’uso teologico prima del sec. XII. Fino allora, ciò che ora si designa come sacramentale (s.), era indicato dal termine sacramento, usato per significare qualunque rito sensibile, che avesse rapporto con realtà spirituali e soprannaturali. Nel sec. XII gli scolastici incominciarono a distinguere fra Sacramenta salutis (Ugo di S. Vittore), o necessitatis (Algero di Liegi), o maiora (Abelardo), cioè quelli che oggi si chiamano Sacramenti in senso stretto, e i sacramenta ministratoria, veneratoria, preparatoria; sacramenta minora, sacramenta dignitatis, cioè le semplici cerimonie e pratiche religiose compiute sia durante, sia fuori dell’amministrazione dei Sacramenti.

I . NATURA DEI s. – Come i Sacramenti, i s. consistono in qualche cosa di sensibile, sono dotati di una efficacia superiore a quella delle opere buone dei privati, e infine ottengono effetti spirituali. A differenza, però, dei Sacramenti, non sembra si richieda che il rito sensibile significhi l’effetto a cui è ordinato; sotto questo aspetto, perciò, nulla vieta che si pongano fra i s. l’invocazione del nome di Gesù e le opere di misericordia. – Inoltre, l’efficacia dei Sacramenti è ex opere operato, derivante dai meriti di Gesù Cristo, mentre i s. ottengono 1 loro effetti per l’efficacia impetratoria della Chiesa. I Sacramenti inoltre producono la Grazia santificante, non così i s.; finalmente quelli sono d’istituzione divina, questi di istituzione ecclesiastica. – Dalla definizione del CIC risulta anche i l rapporto che i s. hanno con le cerimonie in genere. Con queste si intendono tutte le azioni che si riferiscono al culto pubblico. Perciò, dal numero delle cerimonie vengono esclusi gli atti di culto privato, e in esse viene sottolineato il valore di omaggio reso a Dio, prescindendo dalla efficacia pratica in ordine agli effetti spirituali. Invece i s. sono cose o azioni, di uso pubblico o privato, che posseggono una efficacia pratica, in quanto la Chiesa vi ha aannesso la sua impetrazione per ottenere particolari effetti.

ENUMERAZIONE DEI s. – I teologi antichi li raggrupparono in sei classi, designate dal noto verso: « Orans, tinctus, edens, confessus, dans, benedicens ». Orans: allude alla orazione domenicale e alle altre preghiere della Chiesa, specialmente pubbliche; tinctus, indica l’aspersione con l’acqua benedetta e le unzioni sacre: edens la manducazione dei cibi benedetti; confessus, la recita del Confiteor e altri atti di umiliazione; dans, l’elemosina e in genere le opere di misericordia; benedicens, le molteplici benedizioni impartite su persone e cose. Seguendo le indicazioni del CIC, gli autori moderni enumerano i s. secondo un altro criterio. Prima distinguono fra cose ed azioni, poi dividono le cose in benedette, consacrare, esorcizzate, e le azioni in benedizioni, consacrazioni ed esorcismi. Va precisato (cf. E. Doronzo, De Sacramentis in genere, Milwaukee 1947, p. 544) che le benedizioni e le consacrazioni non verificano esattamente i l concetto fissato dal CIC quando implicano soltanto une separazione delle cose dall’uso profano e pertanto una certa santità legale, ma quando importano pure l’impetrazione di qualche effetto spirituale. Gli esorcismi rientrano nella definizione del CIC solo in quanto l’espulsione o la repressione del demonio è oggetto di impetrazione della Chiesa, non in quanto dalla Chiesa è operata con l’esercizio di quel potere di comando sui demoni che Cristo le conferì. Quelle stesse opere buone a cui la Chiesa ha annesso l’acquisto di indulgenze per i vivi, non verificano la definizione del CIC, per la ragione che il beneficio dell’indulgenza ai vivi non è effetto dell’impetrazione della Chiesa, ma dalla Chiesa è conferito con l’esercizio di quel potere di giurisdizione, per il quale fu costituita depositaria dei meriti e delle soddisfazioni di Cristo e dei santi. – Precisato questo, si può affermare che la divisione moderna è più scientifica, perché fondata sulle diverse specie di impetrazione, nota essenziale del s.; è inoltre esauriente, perché tutti i s. possono farsi rientrare nei vari membri della medesima; infatti, o l’impetrazione è legata all’uso di una cosa permanente (s.-cose) o consiste in un’azione transitoria (s.-azione). Inoltre, l’impetrazione o riguarda beni positivi (benedizioni o consacrazioni, o riguarda l’allontanamento dei mali (esorcismi). La differenza fra consacrazioni e benedizioni consiste nel fatto che le consacrazioni hanno sempre per effetto di separare in modo stabile un oggetto o una persona dall’uso profano (pertanto in esse le unzioni accompagnano le parole), nelle benedizioni, invece, si usano solo le parole e soltanto le benedizioni costitutive, a differenze di quelle semplicemente invocative, comportano una separazione stabile dall’uso profano.

III. EFFICACIA DEI s. – La questione presenta due aspetti: quale sia la natura di tale efficacia, ossia il modo secondo cui operano i s., e quali siano in particolare gli effetti ottenuti. – I s. si possono considerare anzitutto cerimonie, e come tali posseggono, di loro natura la virtù di suscitare nell’animo conoscenze e sentimenti religiosi. – Inoltre, come atti buoni, hanno un valore meritorio per chi li compie. Finalmente, sono dotati di una speciale efficacia in quanto informati dalla impetrazione della Chiesa. È appunto questa l’efficacia propria dei s., la cui natura è precisata dai seguenti rilievi: a) i s. non sono strumenti di cui Dio si serva per santificare le anime, ma azioni con le quali la Chiesa sollecita da Dio il conferimento di Grazie; b) l’efficacia dei s.. in quanto deriva dall’impetrazione della Chiesa, non dipende, come da causa, dalle disposizioni morali del ministro o del soggetto. Pertanto si dice che i s. non agiscono « ex opere operantis ministri vel subiecti », e in ciò convengono con i Sacramenti; da essi però differiscono perché l’efficacia di questi è « ex opere operato ». Si può porre la questione se, oltre a questa efficacia, fondata sull’intercessione della Chiesa, i s. non ne posseggano un’altra « ex opere operato». Il CIC non ne fa menzione. Parecchi autori (p. es., Michel) l’affermano a proposito di quei s. che hanno per effetto di dedicare cose o persone al servizio divino; infatti, il rito esterno, obiettivamente preso e compiuto secondo le norme prescritte, quando il soggetto non oppone impedimento, produce l’effetto di consacrare la cosa o la persona al servizio divino. Altrettanto si può affermare di quei s. a cui la Chiesa ha annesso una qualche indulgenza. Questi effetti non sono dovuti alla intercessione e ai meriti né del ministro o del soggetto, né della Chiesa, ma alla semplice posizione del rito esterno, il quale, tuttavia, possiede tale virtù per istituzione della Chiesa. Si può pertanto ritenere che alcuni s. producono l’effetto della deputazione al culto divino o della remissione della pena temporale « ex opere operato, vi institutionis ipsius Ecclesiae ». Però non si deve dimenticare che, stando alla definizione del CIC, la deputazione al culto divino e l’indulgenza concessa ai viventi non rientrano negli effetti specifici dei s., perché non si conseguono per impetrazione della Chiesa; c) va osservato, infine, che posto il rito, secondo le norme prescritte, ne consegue infallibilmente l’impetrazione della Chiesa, ma il conseguimento degli effetti impetrati è condizionato a tutti i requisiti da cui dipende l’efficacia della preghiera in genere. – Nel caso, trattandosi di una impetrazione fatta dalla Chiesa, sposa di Cristo, le condizioni da parte del soggetto che prega si verificano sempre; ma potrebbero mancare i requisiti da parte della cosa impetrata o della persona, per la quale si prega.

2) Il CIC parla in genere di effetti specialmente spirituali. La maggior parte degli autori li distribuisce nelle seguenti categorie: a) grazie attuali che eccitano a compiere atti di fede, di speranza, di carità, di penitenza, ecc.; b) allontanamento o repressione del demonio; c) beni temporali, come la salute, il tempo buono, ecc. sempre però nella misura in cui conducono alla salvezza eterna e rientrano nel piano della Provvidenza ordinaria di Dio. – Incertezze e divergenze esistono fra gli autori riguardo alla questione se ed in qual senso l’efficacia dei s. si estenda alla Grazia santificante, alla remissione dei peccati veniali e della pena temporale. Sembra evidente che la questione proposta si debba risolvere nei termini seguenti: a) come ogni preghiera, così anche quella ecclesiastica incorporata nei s., può avere per oggetto qualunque beneficio, quindi anche la conversione dei peccatori, il conferimento o la conservazione della Grazia santificante, il perdono dei peccati mortali e veniali, la remissione della pena temporale; b) qualora si chieda se questi benefici, dalla Chiesa intesi, possano essere direttamente conferiti da Dio, in modo che il conferimento consegua immediatamente nell’ordine della realtà l’impetrazione della Chiesa, si deve rispondere che, secondo il comune parere dei teologi, l’infusione della Grazia santificante e quindi anche il perdono dei peccati mortali non si possono conseguire che per la via dei Sacramenti « ex opere operato » e per quella della carità perfetta o delle opere meritorie « ex opere operantis… ». Quando, perciò, si chiede al Signore la santificazione delle anime, direttamente si ottengono solo le Grazie attuali che dispongono l’individuo all’uso dei Sacramenti o al compimento di quelle opere buone a cui Dio ha connesso la santificazione. Pertanto, l’infusione della Grazia santificante e il perdono dei peccati mortali non possono costituire un effetto immediato dei s. Riguardo ai peccati veniali, per la loro analogia con le colpe gravi, si deve pensare che i s. non ottengono immediatamente il perdono di essi, ma che direttamente ottengono solo quelle Grazie che sono particolarmente indicate a suscitare sentimenti di penitenza, con cui vengono cancellati i peccati veniali. – La questione intorno alla remissione della pena temporale, può riassumersi in tre punti: a) la Chiesa ha il potere di istituire s. che abbiano l’efficacia di condonare immediatamente la pena temporale; b) anzi, un simile s. esiste di fatto, a vantaggio delle anime purganti, ed è tutta la liturgia dei defunti. Pertanto, se le preghiere della Chiesa possono ottenere immediatamente la remissione della pena temporale per i defunti, non si vede perché non la possano ottenere anche per i viventi; e) ma è probabile che non esista nessun s. ordinato a questo scopo specifico riguardo ai viventi.

L’ISTITUZIONE DEI S. – Che la Chiesa, ed essa sola, abbia i l potere di istituire i s., risulta dalla sua prassi costante, dalla decisione del CIC (can. 1145) e dalla natura stessa delle cose. E evidente, infatti, che il potere sacerdotale di santificazione di cui essa è dotata comporta anche il diritto e il dovere, come di regolare il culto in genere così anche di istituire riti e cerimonie con valore impetratorio. È altrettanto evidente che un rito avente il valore di esprimere i voti e le aspirazioni della Chiesa non possa provenire che da essa. Nella tradizione ecclesiastica, mentre si trova inculcato, con insistenza, il principio che la Chiesa non può mutare la sostanza dei Sacramenti perché di origine divina, si è sempre riconosciuto, e dal Concilio di Trento definito, che la Chiesa può mutare a piacimento le cerimonie del culto; il CIC esplicitamente attribuisce alla S. Sede il diritto di istituire nuovi s. e di mutare, abrogare, autenticamente interpretare quelli vecchi (can. 1145); ciò equivale ad ammettere che tutti i s. sono d’istituzione ecclesiastica.

AMMINISTRAZIONE DEI S. – 1) Il rito esterno. – ci si deve attenere scrupolosamente alle norme liturgiche (can. 1148 §1); le benedizioni e le consacrazioni sono invalide se non si usa la formula prescritta (ibid. § 2). In genere i s. vanno trattati con riverenza; in particolare, poi, le cose consacrate o benedette, con benedizione costitutiva, non possono essere volte ad uso profano o diverso dal loro, nemmeno se si trovano in possesso di persone private (can. 1150); così, p. es., non è lecito servirsi dell’acqua benedetta per dissetarsi. 2) Il ministro. – Fissato il principio generale che legittimo ministro è soltanto il chierico, il quale ne abbia ricevuto il potere e non sia impedito di esercitarlo dalla competente autorità (can. 1146), il CIC scende ai casi particolari. Per le consacrazioni, ministro valido è solo i l vescovo e chi ne ha l’autorizzazione per diritto (come i cardinali) o per indulto apostolico (can. 1147 § 1). Le benedizioni che non siano riservate al romano pontefice, o ai vescovi, o ad altri possono essere date da qualunque sacerdote (ibid. § 2); ma anche le benedizioni riservate, quando sono impartite da un semplice sacerdote senza la necessaria autorizzazione, restano valide sebbene illecite, a meno che la S. Sede, promulgandone la riserva, non abbia deciso diversamente (ibid. § 3). I diaconi e i lettori possono dare validamente e lecitamente soltanto le benedizioni che a loro sono espressamente concesse dal diritto (ibid. § 4). Per gli esorcismi v. la voce relativa. 3) Il soggetto. – Le benedizioni devono essere impartite dapprima ai cattolici, per ottenere loro il lume della fede o, con esso, la salute del corpo (can. 1149). Gli esorcismi possono essere fatti anche sui non cattolici e sugli scomunicati (can. 1152).

[Antonio Gaboardi].

Un’ENCICLICA AL GIORNO, toglie il modernista apostata di torno: ARCANUM DIVINAE SAPIENTIAE,

Il Papa ha sempre amato le sue pecorelle, proteggendole non solo con tutte le sue possibilità materiali, ma soprattutto tenendole lontane dagli errori spirituali, apparentemente innocui, ma che pongono le anime fuori della Chiesa Cattolica, alla cui appartenenza è legata la salvezza dell’anima. Il Santo Padre, Vicario di Cristo, si è sempre adoperato, senza rispetti falsi, codardie ed indietreggiamenti davanti all’errore, esalta il valore del matrimonio, elevato da Gesù alla dignità di Sacramento, e conseguentemente condanna con veemenza il diorzio. La codardia di oggi, vogliamo porre un tema di riflessione per gli ostinati aderenti alla falsa chiesa dell’uomo, si trincera dietro ridicole e clawnesche dichiarazioni … chi sono io per giudicare, etc. etc. … Non vale la pena polemizzare circa l’acqua calda, ma leggiamo in questa grandissima Enciclica di Papa Pecci, LEONE XIII, le sue puntualizzazioni teologicamente millimetriche e senza speranza di confutazione da parte di imbecilli e faziosi impregnati da massonismo e liberalismo anticlericale. Alla seconda enciclica, era già così evidente lo spirito combattivo del Vicario di Cristo, pronto a tutto pur di difendere i suoi agnelli dai lupi rapaci pronti a penetrare nell’ovile per farvi strage di anime. Ma non togliamo ulteriore spazio alla voce della verità: Arcanum divinae sapientiae consilium, quod Salvator hominum Iesus Christus ….

ARCANUM DIVINAE

LETTERA ENCICLICA

DI SUA SANTITÀ

LEONE PP. XIII

leone-xiii

 

A tutti i Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi del mondo cattolico che hanno grazia e comunione con la Sede Apostolica.

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

L’arcano consiglio della sapienza divina, che il Salvatore degli uomini Gesù Cristo doveva compiere sulla terra, mirava appunto a questo: che Egli, per sé ed in sé, rinnovasse prodigiosamente il mondo, quasi consunto della vecchiaia. Il che espresse in una splendida e magnifica frase l’Apostolo Paolo quando scrisse agli Efesini: “Averci Iddio fatto noto il mistero della sua volontà… di riunire in Cristo tutte le cose, sia quelle che sono nei cieli, sia quelle che sono in terra” (Ef 1,9-10). Infatti, allorché Cristo Signore cominciò ad eseguire il mandato che gli aveva dato il Padre, subito comunicò a tutte le cose una nuova forma e bellezza, dileguandone ogni squallore. Infatti, Egli sanò le ferite che il peccato del primo padre aveva cagionato alla natura umana; riconciliò con Dio tutti gli uomini, per natura figli dell’ira; ricondusse alla luce della verità coloro che erano oppressi dagli errori; riportò ad ogni virtù coloro che erano soggiogati da ogni impudicizia; ed avendo ridonato tutti alla eredità della beatitudine eterna, diede loro la sicura speranza che lo stesso loro corpo mortale e caduco sarebbe stato un giorno partecipe dell’immortalità e della gloria celeste. Affinché poi benefìci tanto singolari durassero sulla terra fintantoché vi fossero uomini, costituì la Chiesa vicaria di ogni sua potestà, e, guardando all’avvenire, volle che essa, se qualche turbamento si verificasse nella società umana, vi riportasse l’ordine e riparasse eventuali guasti. – Benché questo divino rinnovamento che abbiamo detto riguardasse principalmente e direttamente gli uomini costituiti nell’ordine della grazia soprannaturale, tuttavia i suoi preziosi e salutari frutti ridondarono largamente anche nell’ordine naturale, così che ne conseguirono una non mediocre perfezione tanto i singoli mortali, quanto l’intiera famiglia del genere umano. Infatti, appena stabilita nel mondo la religione cristiana, a tutti e singoli gli uomini fu offerta la felice sorte di conoscere la paterna provvidenza di Dio, di avvezzarsi a porre in essa ogni loro fiducia, ed a nutrire quella speranza che non confonde, cioè la speranza dei celesti aiuti, dai quali derivano la fortezza, la moderazione, la costanza, l’equilibrio dello spirito e, infine, molte belle virtù e fatti egregi. È davvero meraviglioso quanta dignità, quanta stabilità e quanto decoro ne siano derivati alla comunità familiare e a quella civile. L’autorità dei Principi si è resa più ragionevole e più santa; l’obbedienza dei popoli più devota e più pronta; i vincoli di fratellanza fra i cittadini più stretti, i diritti di proprietà più garantiti. La religione cristiana provvide a tutte le cose che sono ritenute utili nello Stato, tanto che, come dice Sant’Agostino, non pare che essa avrebbe potuto apportare maggior soccorso al tranquillo e beato vivere, se fosse nata unicamente per apprestare od accrescere i comodi ed i beni della vita mortale. – Ma non è ora Nostro intendimento enumerare tutti i particolari intorno a questo argomento; solo Ci proponiamo di ragionare della comunità domestica, il cui principio o fondamento si trova nel matrimonio. – Tutti sanno, Venerabili Fratelli, quale sia l’origine vera del matrimonio. Poiché, sebbene i detrattori della fede cristiana rifuggano dal conoscere la dottrina perpetua della Chiesa intorno a questa materia, e si sforzino da gran tempo di cancellare la memoria di tutte le genti e di tutti i secoli, tuttavia non hanno potuto né estinguere, né diminuire la luce della verità. Rammentiamo a tutti cose note e non dubbie: dopo che Iddio, nel sesto giorno della creazione, formò l’uomo dalla polvere della terra, e gli soffiò nel volto l’alito della vita, volle dargli una compagna che trasse prodigiosamente da un fianco dello stesso uomo addormentato. Con questo il provvidentissimo Iddio intese che quella coppia di coniugi fosse il principio naturale di tutti gli uomini, dal quale cioè dovesse propagarsi il genere umano e, attraverso generazioni mai interrotte, conservarsi nel tempo. Quella congiunzione dell’uomo e della donna, affinché meglio rispondesse ai sapientissimi consigli di Dio, fin da allora mostrò in sé, come altamente impresse e scolpite, due proprietà principali ed oltremodo nobilissime, cioè l’unità e la perpetuità. Ciò vediamo dichiarato e solennemente ratificato dal Vangelo con la divina autorità di Gesù Cristo, il quale proclamò ai Giudei ed agli Apostoli che il matrimonio, per la sua stessa istituzione, deve essere solamente tra due, ossia tra un uomo e una donna; che dei due si forma come una sola carne, e che il vincolo nuziale, per volere di Dio, è così intimamente e fortemente unito che nessuno tra gli uomini può romperlo o scioglierlo. “Starà congiunto [l’uomo] con la moglie sua, e i due saranno una sola carne. Pertanto non sono più due, ma una carne sola. Dunque ciò che Iddio ha congiunto l’uomo non separi” (Mt XIX,5-6). – Peraltro questa forma di connubio, tanto nobile e sublime, a poco a poco cominciò a corrompersi e a venir meno presso i popoli pagani; e presso la stessa nazione degli Ebrei parve quasi annebbiarsi e oscurarsi. Infatti, presso questi, a proposito delle mogli era comune consuetudine che ad ogni uomo fosse lecito averne più d’una. Successivamente, avendo Mosè, “a cagione della durezza del loro cuore” (Mt XIX,8), dato benignamente la facoltà dei ripudi, fu aperta la strada al divorzio. Presso i pagani, poi, sembra cosa appena credibile quanta corruzione e depravazione si concentrassero nelle nozze, soggette al fluttuare degli errori e delle turpissime cupidigie di ciascun popolo. Tutte le genti, più o meno, parvero disimparare la nozione e l’origine vera del matrimonio; e intorno ai connubi dappertutto si promulgavano leggi le quali parevano secondare l’indole dei governi, non quelle richieste dalla natura. I riti solenni, introdotti ad arbitrio dei legislatori, facevano sì che le donne ottenessero il nome onesto di moglie o quello infame di concubina, anzi, si giunse a un punto tale che secondo la volontà dei capi della repubblica si disponeva a chi fosse permesso di contrarre le nozze, e a chi no, dato che le leggi richiedevano molte cose contrarie all’equità e molte a favore dell’ingiustizia. Oltre a ciò, la poligamia, la poliandria, il divorzio furono cagione che il vincolo nuziale si rallentasse di molto. Esisteva una grandissima confusione nei vicendevoli diritti e doveri dei coniugi, dato che il marito acquistava la proprietà della moglie, e sovente senza nessuna giusta causa ordinava a lei che, ripigliate le cose sue, se ne andasse; egli poi, spinto da una sfrenata ed indomabile libidine, poteva impunemente “scorrazzare per i lupanari in cerca di schiave, come se dalla dignità non dalla volontà dipendesse la colpa”. In così strabocchevole licenza del marito, nulla vi era di più miserando della moglie, abbassata a tanta viltà che quasi veniva considerata soltanto come uno strumento destinato a soddisfare alla libidine od a procreare figli. Né arrossì per il fatto che quelle che erano da collocare per mogli fossero comprate e vendute a somiglianza delle cose corporali, essendo stata data talvolta facoltà al padre o al marito di condannarle all’estremo supplizio di moglie. Una famiglia nata da siffatti connubi era giocoforza considerata come proprietà dello Stato, o come schiava del padre di famiglia, al quale le leggi avevano concesso il potere non solo di effettuare o di sciogliere a suo arbitrio il matrimonio dei figli, ma di esercitare altresì sopra di essi l’immane potere della vita e della morte. – Ma a tanti vizi e a così grandi ignominie, da cui erano inquinati i connubi, vennero infine approntati dal cielo il soccorso e la medicina, in quanto Gesù Cristo, riparatore dell’umana dignità e perfezionatore delle leggi mosaiche, si prese non piccola né ultima cura del matrimonio. Egli infatti nobilitò con la sua presenza le nozze in Cana di Galilea, e con il primo dei suoi prodigi le rese memorabili (Gv II,1-11), e da quel giorno pare che cominciasse a risplendere una nuova santità nei connubi degli uomini. Poscia richiamò il matrimonio alla nobiltà della prima origine, sia col riprovare i costumi degli Ebrei, che abusavano e del numero delle mogli e della facoltà del ripudio, sia massimamente col prescrivere che nessuno osasse sciogliere ciò che Iddio con perpetuo vincolo di congiunzione aveva legato. Pertanto, avendo confutato le difficoltà che derivavano dalle istituzioni mosaiche, assunta la persona di supremo legislatore, decretò queste cose intorno ai coniugi: “Ora io vi dico che chiunque rimanderà la propria moglie, salvo che per cagione d’adulterio, e ne sposerà un’altra, commette adulterio; e chi sposerà colei che fu ripudiata commette adulterio” (Mt XIX,9), cioè che Cristo Signore ha innalzato il matrimonio alla dignità di Sacramento, ed ha contemporaneamente fatto sì che i coniugi, rivestiti e fortificati dalla celeste grazia che i meriti di Lui apportarono, ottenessero la santità nello stesso matrimonio. In questo, conformato mirabilmente all’esempio del suo mistico connubio con la Chiesa, ha perfezionato l’amore naturale, e stretto più fortemente col vincolo della carità divina l’unione, indivisibile per sua stessa natura, del marito e della moglie. “O uomini, – dice Paolo agli Efesini – amate le vostre mogli come anche Cristo amò la Chiesa e diede se stesso per lei, al fine di santificarla… I mariti debbono amare le loro mogli come i loro propri corpi… dato che nessuno ebbe mai in odio la propria carne; anzi la nutre e la cura, come fa pure Cristo della Chiesa: perché noi siamo membra del suo corpo, della sua carne e delle sue ossa. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre sua, e starà congiunto con sua moglie; e i due saranno una carne sola. Questo Sacramento è grande: io però lo dico riguardo a Cristo e alla Chiesa” (Ef V,25-33). Similmente apprendemmo dagli Apostoli che Cristo ha decretato che l’unione e la perpetua stabilità – che si richiedevano fino dalla stessa origine delle nozze – fossero sacre e inviolabili in tutte le età. “Ai coniugati, dice lo stesso Paolo, ordino, non io, ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito, e qualora si sia separata, rimanga senza rimaritarsi, o si ricongiunga con suo marito” (1Cor VII,10-11), e di nuovo: “La moglie è legata alla legge per tutto il tempo che suo marito vive; se il marito muore, ella è libera” (1Cor VII,39). Per questi motivi dunque il matrimonio divenne “Sacramento grande” (Ef V,32), “onorabile in tutto” (Eb XIII,4), pio, casto, venerando per la figura ed il significato d’altissime cose. – Né la sua cristiana e somma perfezione è contenuta soltanto nelle prerogative che si sono ricordate. Infatti, in primo luogo alla società coniugale fu prestabilito uno scopo più nobile e più alto che mai fosse stato in precedenza, in quanto si volle che essa mirasse non solo a propagare il genere umano, ma a generare figli alla Chiesa, “concittadini dei Santi e domestici di Dio” (Ef 2,19), cioè “che fosse creato ed educato un popolo al culto e alla religione di Cristo, vero Dio e nostro Salvatore” . In secondo luogo, all’uno ed all’altro dei coniugi furono stabiliti i loro propri doveri, e interamente descritti i loro diritti. È necessario cioè che essi abbiano sempre l’animo talmente disposto da comprendere l’uno dovere all’altro un amore grandissimo, una fede costante, un sollecito e continuo aiuto. Il marito è il principe della famiglia e il capo della moglie; la quale, non pertanto, dato che è carne della carne di lui ed osso delle sue ossa, deve essere soggetta ed obbediente al marito, non a guisa di ancella, ma di compagna; cioè in modo tale che la soggezione che ella rende a lui non sia disgiunta dal decoro né dalla dignità. In lui che governa, ed in lei che obbedisce, dato che entrambi rendono l’immagine l’uno di Cristo, l’altra della Chiesa, sia la carità divina la perpetua moderatrice dei loro doveri. Infatti “l’uomo è capo della donna, come Cristo è capo della Chiesa… Quindi, come la Chiesa è soggetta a Cristo, così le mogli debbono essere soggette ai loro mariti in ogni cosa” (Ef 5,23-24); furono pareggiati i diritti del marito e della moglie; infatti, come diceva San Girolamo , “presso di noi ciò che non è lecito alle donne, altrettanto non è lecito agli uomini, e la stessa servitù viene considerata a pari condizione”; furono stabilmente consolidati i medesimi diritti per mezzo della reciproca benevolenza e dei vicendevoli compiti; fu garantita e tutelata la dignità delle donne; fu vietato al marito di punire l’adulterio con la pena di morte , e di violare per libidine e impudicizia la fede giurata. È altresì di grande importanza che la Chiesa abbia posto un limite, nella misura necessaria, alla patria potestà, affinché nulla venisse tolto alla ragionevole libertà dei figli e delle figlie che desiderassero sposarsi ; che abbia decretato nulle le nozze tra i consanguinei e gli affini in certi gradi , affinché l’amore soprannaturale dei coniugi potesse diffondersi in più vasto campo; che abbia avuto cura di rimuovere dalle nozze, per quanto le fu possibile, l’errore, la violenza e la frode ; che abbia voluto si conservassero intere ed intatte la pudicizia santa del talamo, la sicurezza delle persone , la dignità dei connubii , la integrità della religione . Da ultimo, con tanto vigore, con tanta provvidenza di leggi fortificò codesta divina istituzione, tanto che non v’è alcuno, giusto estimatore delle cose, il quale non comprenda che anche per quanto si riferisce ai connubi, la Chiesa è ottima conservatrice e protettrice del genere umano; la sua sapienza trionfò nel corso dei tempi contro le ingiurie degli uomini e le innumerevoli vicende degli Stati. – Ma ad opera del nemico del genere umano non mancano coloro che, come rigettano ingratamente gli altri benefici della redenzione, così disprezzano o non riconoscono affatto la riabilitazione e il perfezionamento del matrimonio. Fu malvagità di alcuni antichi l’essere stati nemici delle nozze in qualche loro prerogativa, ma con danno molto più grave peccano all’età nostra coloro che vogliono completamente corromperne la natura, così perfetta e completa in tutte le sue parti e qualità. La causa di tale guerra consiste massimamente in questo, che imbevuti delle opinioni di una falsa filosofia e di prave abitudini, gli animi di molti soffrono soprattutto nello stare soggetti e nell’obbedire; pertanto operano a più non posso perché non solo ciascun uomo, ma le famiglie e tutta l’umana società disprezzino i comandi di Dio. Siccome però la fonte e l’origine della famiglia e della società umana sono riposte nel matrimonio, non possono in alcun modo sopportare che esso sia sottoposto alla giurisdizione della Chiesa; anzi si sforzano di spogliarlo d’ogni santità e di circoscriverlo entro la cerchia veramente angusta delle cose che furono istituite dal senno umano, e che cadono sotto l’autorità e il governo del diritto civile. Dal che doveva derivare per necessaria conseguenza che essi attribuissero ogni diritto sopra i connubi ai capi dello Stato, e che non ne avesse alcuno la Chiesa; la quale, se talvolta esercitò un siffatto potere, ciò avvenne o per condiscendenza dei Principi, o per sopruso. Ma essi dicono che ormai è giunto il tempo nel quale coloro che reggono lo Stato devono difendere gagliardamente i loro diritti, e cominciare a regolare a loro discrezione ogni cosa che appartiene ai connubi. Quindi sono nati i cosiddetti matrimoni civili; sono state stabilite le leggi intorno alle cause che possano impedire le nozze; da qui le sentenze del foro intorno ai contratti matrimoniali eseguiti illegalmente o con difetto. Infine vediamo che ogni facoltà di far leggi e pronunciare sentenze in questa materia è stata sottratta alla Chiesa cattolica con studiata abilità, al punto che non si tiene alcun conto né della sua potestà divina, né delle sue provvide leggi, con le quali così a lungo vissero beatamente i popoli, ai quali con la cristiana sapienza pervenne la luce della civiltà. – Con tutto ciò i Naturalisti e tutti coloro che, professandosi altamente devoti alla onnipotenza dello Stato, si sforzano di sconvolgere con queste malvagie dottrine tutta la società, non possono sfuggire all’accusa di falsità. Infatti, poiché il matrimonio ha Dio come autore, ed essendo stato fin da principio quasi una figura della Incarnazione del Verbo di Dio, perciò in esso si trova qualcosa di sacro e religioso, non avventizio, ma congenito, non ricevuto dagli uomini, ma innestato da natura. Pertanto, Innocenzo III e Onorio III, Nostri Predecessori, non a torto né senza ragione poterono affermare che “il Sacramento del matrimonio esiste presso i fedeli e gl’infedeli”. Chiamiamo in testimonio i monumenti dell’antichità, ed i costumi e le usanze dei popoli che meglio si erano avvicinati all’umanità, e che avevano progredito in una più esatta cognizione del diritto e della equità; nelle loro menti era impressa, come preconcetta ed innata, questa nozione, cioè che quando pensavano al matrimonio sorgeva in essi spontaneamente l’idea di una cosa congiunta con la religione e la santità. Per questo motivo le nozze presso di loro non venivano sovente celebrate senza i riti delle religioni, l’autorità dei pontefici, il ministero dei sacerdoti. – Tanta meravigliosa efficacia ebbero in quegli animi, pur digiuni della celeste dottrina, la natura delle cose, la memoria delle origini, la coscienza del genere umano! Pertanto, mostrandosi il matrimonio per la sua stessa natura come cosa del tutto sacra, è giusto che venga regolato e moderato non dal potere dei Principi, ma dall’autorità divina della Chiesa, la quale sola ha il magistero delle cose sacre. Inoltre si deve por mente alla dignità del Sacramento, prerogativa per la quale divennero oltre ogni dire nobilissimi i matrimoni dei cristiani. Il dar leggi, poi, e disposizioni intorno ai Sacramenti, lo può e deve, per volontà di Cristo, soltanto la Chiesa, sicché ripugna assolutamente il volere che una minima parte di tale potestà sia trasferita nei reggitori delle cose civili. – Da ultimo, grande è il peso, grande l’autorità della storia, la quale solennemente attesta che la Chiesa liberamente e costantemente fu solita esercitare il potere legislativo e giudiziario, di cui ragioniamo, anche in quei tempi nei quali sarebbe somma stoltezza supporre che i moderatori dello Stato in tal fatto prestassero il loro consenso o fingessero di non vedere. È certamente tanto incredibile quanto assurdo che Cristo Signore condannasse l’inveterata consuetudine della poligamia e del ripudio per una facoltà a lui delegata dal governatore della provincia o dal principe dei Giudei; analogamente che l’Apostolo Paolo proclamasse illeciti i divorzi e le nozze incestuose per condiscendenza o per tacito mandato di un Tiberio, di un Caligola, di un Nerone! E neppure potrà mai farsi credere ad un uomo di sano intelletto, che intorno alla santità e alla stabilità dei connubi , intorno alle nozze tra gli schiavi e le donne libere, fossero promulgate dalla Chiesa tante leggi con licenza impetrata dagli Imperatori romani, assolutamente nemici del nome cristiano, i quali non avevano altro più deciso proposito che di opprimere con la violenza e con le stragi la crescente religione di Cristo, soprattutto per la ragione che il diritto stabilito dalla Chiesa era alle volte talmente discordante dal diritto civile, che Ignazio Martire, Giustino, Atenagora e Tertulliano riprovavano pubblicamente come ingiuste od illegittime le nozze di alcuni alle quali, nondimeno, erano favorevoli le leggi imperiali. – Dopo che ogni potere passò agli Imperatori cristiani, i Sommi Pontefici ed i Vescovi adunati nei Concili, con la stessa libertà e coscienza del loro diritto continuarono sempre a prescrivere o ad inibire intorno ai matrimoni quanto ritenevano utile, quanto conforme ai tempi, ancorché sembrasse contrario alle consuetudini civili. Nessuno ignora quante grandi cose, spesso contrarie ai decreti sanciti dal diritto cesareo, siano state stabilite dai Prelati della Chiesa nei Concili Illiberitano, Arelatese, Calcedonese, Milevitano II ed in altri, intorno agli impedimenti del vincolo, del voto, della diversità di culto, della consanguineità, del delitto e della pubblica onestà. Anzi, fu così lontana l’ipotesi che i Principi si arrogassero la giurisdizione nei matrimoni cristiani, che riconobbero invece e dichiararono che essa era tutta e soltanto nella Chiesa. Infatti Onorio, Teodosio il giovine, Giustiniano non esitarono a dichiarare che, nelle cose che riguardano le nozze, non era loro lecito di esser altro che custodi e difensori dei sacri canoni. E se sancirono qualche cosa con i loro editti sopra gl’impedimenti dei connubi, ne fecero spontaneamente conoscere il motivo, cioè che essi si erano presa tale libertà con il permesso e l’autorizzazione della Chiesa, della quale furono soliti ricercare e seguire con ossequio la decisione nelle questioni riguardanti l’onestà dei natali , i divorzi , e in definitiva tutte le cose che hanno una relazione con il vincolo coniugale . Pertanto fu con buona ragione definito nel Tridentino essere in potestà della Chiesa “determinare gl’impedimenti che rompono il matrimonio, ed essere di competenza dei giudici ecclesiastici le cause matrimoniali”. – Né deve impressionare qualcuno la separazione tanto sostenuta dai Regalisti, che distinguono il contratto nuziale dal Sacramento, con l’intenzione di lasciare il contratto in balìa ed in arbitrio dei capi dello Stato, riservando alla Chiesa le ragioni del Sacramento. Infatti non si può approvare tale distinzione, o più esattamente separazione, essendo manifesto che nel matrimonio cristiano il contratto non può essere separato dal Sacramento, e perciò non può sussistere un vero e legittimo contratto che non sia al tempo stesso Sacramento. Poiché il matrimonio fu arricchito da Cristo Signore della dignità di Sacramento, il matrimonio si identifica con lo stesso contratto, quando sia fatto secondo le norme volute. Si aggiunga che il matrimonio è Sacramento proprio per questo: che è un segno sacro, che produce la grazia e rende immagine delle mistiche nozze di Cristo con la Chiesa. La forma poi e la figura di queste vengono espresse da quello stesso vincolo di perfetta unione con il quale l’uomo e la donna si congiungono tra loro, e che non è altro se non il matrimonio medesimo. È dunque chiaro che ogni giusto connubio tra cristiani è in sé e per sé Sacramento: e niente è più contrario alla verità di questo, che il Sacramento sia un certo ornamento aggiunto, od una proprietà estrinseca, che si possa ad arbitrio degli uomini disgiungere e separare dal contratto. Quindi né con la ragione, né con la storia, testimone dei tempi, si arriva a provare che il potere sui matrimoni dei Cristiani sia a buon diritto trasferito nei capi dello Stato. Se in questa materia fu violato l’altrui diritto, nessuno certamente potrà dire che sia stato violato dalla Chiesa. – Dio volesse poi che le dottrine dei Naturalisti, piene come sono di falsità e d’ingiustizia, così non fossero anche portatrici di danni e di calamità! Ma è facile conoscere quanta rovina abbiano arrecato i connubi celebrati profanamente, quanta siano per arrecarne alla generale comunità degli uomini. Innanzi tutto è legge divinamente sancita che le cose istituite da Dio e dalla natura risultano sperimentalmente tanto più utili e salutari quanto più rimangono integre ed immutabili nel loro stato originale, dato che Dio, creatore di tutte le cose, ben conobbe ciò che alla istituzione e al mantenimento di ciascuna sia conveniente, e con la volontà e con la mente sua le ha tutte ordinate in modo che ognuna debba opportunamente raggiungere il suo fine. Ma se la temerità e la malvagità degli uomini vogliono mutare e sconvolgere l’ordine delle cose provvidamente stabilito, allora anche le cose istituite con somma sapienza ed altrettanta utilità cominciano a nuocere o cessano di giovare, sia perché col mutare abbiano perduto la virtù di far bene, sia perché Iddio stesso voglia piuttosto castigare siffatte manifestazioni dell’orgoglio e dell’audacia dei mortali. Ora, coloro che negano che il matrimonio è sacro e, spogliatolo d’ogni santità, lo relegano nel novero delle cose profane, rovesciano le fondamenta della natura, e come si oppongono ai consigli della provvidenza divina, così ne abbattono, per quanto sta in loro, le istituzioni. Pertanto non deve suscitare meraviglia che da tali sforzi forsennati ed empi si generi quella moltitudine di mali, di cui niente è più pernicioso alla salute delle anime ed alla incolumità degli Stati. – Se si ricerca a qual fine fosse ordinata la divina istituzione dei matrimoni, apparirà evidentissimo che Dio volle in essi racchiudere fonti ricchissime di pubblica utilità e salvezza. E in verità, oltre che provvedere alla propagazione del genere umano, essi hanno anche lo scopo di rendere migliore e più facile la vita dei coniugati, e ciò per più ragioni, quali gli scambievoli aiuti nell’alleviare le loro necessità, l’amore costante e fedele, la comunanza di tutti i beni, la grazia celeste che proviene dal Sacramento. I matrimoni poi contribuiscono assai alla salvezza delle famiglie, giacché essi, finché saranno conformi alla natura e risponderanno pienamente ai consigli di Dio, potranno senza dubbio rafforzare la concordia degli animi fra i genitori, garantire la retta educazione dei figli, moderare la patria potestà sull’esempio della potestà divina, rendere obbedienti i figli ai genitori, i servi ai padroni. Da tali connubi poi le comunità possono ragionevolmente aspettarsi una stirpe ed una successione di cittadini che siano ottimamente animati e che, assuefatti all’ossequio e all’amore verso Dio, reputino stretto dovere prestare obbedienza a coloro che giustamente e legittimamente esercitano il comando, portare a tutti benevolenza, non recare offesa ad alcuno. – Il matrimonio produsse veramente tutti questi frutti copiosi e salutari finché mantenne le prerogative della santità, dell’unità e della perpetuità, dalle quali esso riceve ogni virtù feconda di beni e di salute; né si può dubitare che ne avrebbe sempre prodotto di simili ed eguali se fosse stato continuamente ed in ogni luogo sotto il potere e la protezione della Chiesa, la quale è conservatrice e vindice di quelle prerogative. Ma poiché al presente piacque dappertutto sostituire il diritto umano al naturale e al divino, cominciò non solo a cancellarsi l’immagine e la nozione nobilissima del matrimonio che la natura aveva impressa e quasi scritta negli animi dei mortali, ma nei medesimi connubi dei cristiani, per colpa degli uomini, fu molto affievolita quella virtù generatrice di grandi beni. Infatti, che cosa di buono possono mai apportare quelle unioni coniugali dalle quali è costretta ad allontanarsi la religione, madre feconda di ogni bene, che alimenta le più grandi virtù, promovendo ed avvalorando ogni eccelsa qualità d’animo generoso e sublime? Quando essa sia allontanata e sia rigettata è inevitabile che le nozze siano fatte schiave della viziosa natura degli uomini e di quelle pessime cupidigie che signoreggiano gli animi, senza che questi trovino altra difesa che quella ben poco efficace della onestà naturale. La molteplice rovina che derivò da questa fonte si diffuse non solo nelle famiglie private, ma nelle intiere comunità. Infatti, rimosso il timore salutare di Dio, e tolto ai miseri il conforto che si trova nella religione cristiana, del quale non esiste uno maggiore, avviene sovente ciò che è troppo facile che accada, cioè che sembrino quasi insopportabili gli obblighi e gli altri pesi del matrimonio. Conseguentemente molti desiderano che sia sciolto quel vincolo che credono dipendere dal diritto umano e dal loro libero arbitrio, nell’ipotesi in cui la diversità dei caratteri, la discordia o la violata fedeltà da parte dell’uno o dell’altro, o il consenso di entrambi, od altri motivi li persuadano che sia necessario scioglierlo. E se per avventura la legge vieta loro di soddisfare alla protervia delle loro voglie, allora gridano che le leggi sono ingiuste, disumane, in piena contraddizione con il diritto di liberi cittadini, e perciò si deve ad ogni modo far sì che, rigettate ed abrogate quelle, si stabilisca con una legge più umana che sono leciti i divorzi. – I legislatori poi dei tempi nostri, professandosi fedeli ed ardenti seguaci degli stessi principi di diritto, non possono schermirsi, quand’anche lo volessero, dalla protervia degli uomini che abbiamo detto: quindi è giocoforza cedere ai tempi ed accordare la facoltà dei divorzi. Questo ci viene dimostrato dalla storia. Infatti, per tralasciare altri esempi, sul declinare del secolo scorso, in quello, più che perturbamento, orribile sconvolgimento delle Gallie, quando l’intera società, allontanato da sé Iddio, si rese profana, volle infine che fossero ratificati per legge i divorzi dei coniugi. Queste stesse leggi, poi, molti ai giorni nostri desiderano che siano richiamate in vigore, in quanto vogliono che Dio e la Chiesa siano tolti di mezzo e allontanati dalla umana società, dandosi stoltamente a credere che in siffatte leggi si debba ricercare il supremo rimedio alla rovinosa corruttela dei costumi. – Ora, quanta occasione di mali contengano in sé stessi i divorzi, è appena il caso di ricordarlo. Per essi infatti si rendono mutabili le nozze; si diminuisce la mutua benevolenza; si danno pericolosi eccitamenti alla infedeltà; si reca pregiudizio al benessere e all’educazione dei figli; si offre occasione allo scioglimento delle comunità domestiche; si diffondono i semi delle discordie tra le famiglie; si diminuisce e si abbassa la dignità delle donne, le quali, dopo aver servito alla libidine degli uomini, corrono il rischio di rimanere abbandonate. E poiché per distruggere le famiglie e abbattere la potenza dei regni niente ha maggior forza che la corruzione dei costumi, è opportuno conoscere che contro la prosperità delle famiglie e delle nazioni sono funestissimi i divorzi, i quali nascono da depravate consuetudini e, come attesta l’esperienza, aprono l’adito ad una sempre maggiore corruzione del costume pubblico e privato. E questi mali appariranno anche più gravi se si considera che non vi sarà mai alcun freno tanto potente che valga a contenere la licenza entro certi e prestabiliti confini, una volta che sia stata concessa la facoltà dei divorzi. È grande la forza degli esempi; maggiore quella delle passioni. Per tali eccitamenti avverrà certamente che la sfrenata voglia dei divorzi, serpeggiando ogni dì più largamente, invaderà l’animo di moltissimi, simile a morbo che si sparge per contagio, o come torrente che, rotti gli argini, trabocca. – Queste cose senz’altro sono per se stesse evidenti, ma, rinfrescando la memoria di quanto è accaduto, diventano più evidenti ancora. Non appena si cominciò a rendere sicura la via dei divorzi attraverso la legge, crebbero assai le discordie, le inimicizie, le separazioni; e ne conseguì tanta turpitudine di vita che quegli stessi che si erano fatti difensori di tali separazioni ne furono pentiti; e se non avessero tempestivamente apprestato il rimedio con legge contraria, si poteva temere che ben presto la repubblica stessa sarebbe caduta in rovina. È fama che gli antichi romani inorridissero davanti ai primi esempi di divorzio; ma dopo non lungo tempo cominciò ad assopirsi negli animi il sentimento dell’onestà, a spegnersi il pudore che modera gli appetiti, e a rompersi con tanta licenza la fede coniugale, che sembra abbia grande verosimiglianza ciò che alcuni lasciarono scritto, cioè che le donne usavano computare gli anni non con la successione dei consoli, ma dei mariti. Parimenti presso i Protestanti, le leggi da principio avevano disposto che fosse lecito fare divorzio per cause determinate, e a dir vero non molte; tuttavia queste, per l’affinità con cose simili, giunsero a tal numero presso i Tedeschi, gli Americani ed altri popoli, che coloro i quali non avevano perduto il senno ritennero doversi deplorare sommamente l’infinita depravazione dei costumi e la intollerabile avventatezza delle leggi. Né altrimenti andò la cosa presso le nazioni cattoliche, nelle quali, se fu concessa la separazione dei connubi, la moltitudine degli inconvenienti che ne seguirono superò di gran lunga la previsione dei legislatori. Perciò molti giunsero a tanta malizia da escogitare ogni malignità e frode per mezzo di crudeltà da essi stessi usate, d’ingiurie, di adulterii, di finte cause al fine di sciogliere impunemente il vincolo dell’unione coniugale che era loro venuto a noia: e ciò con così grave pregiudizio della pubblica onestà, che tutti ritennero necessario intervenire senza indugio per emendare le leggi. E vi sarà qualcuno che dubiti che esiti egualmente tristi e calamitosi non debbano avere le leggi favorevoli ai divorzi, qualora in qualche luogo, in questa nostra epoca, si richiamassero in vigore? I progetti o i decreti degli uomini non hanno certamente tanta forza da poter mutare l’indole naturale e l’ordine delle cose. Pertanto hanno ben poca saggezza coloro che ritengono che la pubblica felicità possa giungere pervertendo impunemente la vera natura del matrimonio. Accantonata qualsiasi santità di religione e di Sacramento, sembra che essi vogliano deformare e disonorare i connubi più turpemente di quanto non usassero gli stessi Gentili. Quindi, qualora non si muti consiglio, le famiglie e la società umana dovranno stare in perpetuo timore di essere travolte in quella lotta e in quello scompiglio di tutte le cose a cui da gran tempo anelano le pericolose sette dei Socialisti e dei Comunisti. Dal che si rende palese essere vanità e follia attendere la salvezza pubblica dai divorzi, i quali anzi condurranno a sicura rovina la società. – Si deve pertanto riconoscere che la Chiesa cattolica è stata sommamente benemerita del bene comune di tutti i popoli, essa che fu sempre intenta a tutelare la santità e la perpetuità dei connubii; né piccola gratitudine le si deve per avere apertamente protestato contro le riprovevoli leggi civili che ormai da cento anni in questa materia si vanno promulgando; per avere fulminato l’anatema contro la pessima eresia dei Protestanti sui divorzi e i ripudi ; per avere in molti modi riprovato la separazione dei matrimoni praticata presso i Greci così frequentemente ; per avere decretato la nullità delle nozze celebrate con la condizione che una volta possano sciogliersi ; infine per avere fino dai primi tempi rigettato le leggi imperiali che erano favorevoli in modo esiziale ai divorzi e ai ripudi. Quante volte poi i Sommi Pontefici fecero resistenza a Principi potentissimi i quali chiedevano con minacce che i divorzi da loro fatti venissero ratificati dalla Chiesa, altrettante volte si deve ritenere che essi abbiano combattuto non solo per la salvezza della religione, ma anche per la civiltà dei popoli. Al qual proposito tutti i posteri ammireranno gli esempi di animo invitto mostrati da Niccolò I contro Lotario; da Urbano II e da Pasquale II contro Filippo I, re delle Gallie; da Celestino III e Innocenzo III contro Filippo II, re delle Gallie; da Clemente VII e Paolo III contro Enrico VIII; infine dal santissimo e fortissimo Pontefice Pio VII contro Napoleone I, baldanzoso per la fortuna che lo assecondava e per la grandezza del proprio impero. – Quindi, se tutti i governatori e amministratori degli Stati avessero voluto seguire la ragione, la sapienza e lo stesso interesse dei sudditi, avrebbero dovuto desiderare che le sacre leggi intorno al matrimonio rimanessero intatte, e valersi dell’aiuto offerto dalla Chiesa a tutela dei costumi e a prosperità delle famiglie, piuttosto che mettere in sospetto quale nemica la stessa Chiesa, ed attribuirle la falsa ed iniqua accusa di avere violato il diritto civile. – Ciò tanto più in quanto la Chiesa cattolica, come in nessuna cosa può mancare alla fedeltà del suo ufficio e alla difesa dei suoi diritti, così suole essere sommamente inclinata a benignità e indulgenza in tutte quelle cose che possono insieme conciliarsi con la saldezza delle sue ragioni e con la santità dei suoi doveri. Infatti non stabilì mai intorno ai connubi senza tener conto dello stato della società e della condizione dei popoli. Più volte ella medesima, per quanto poté mitigò le proprie leggi, quando fu indotta a mitigarle da giusti e gravi motivi. Analogamente ella non ignora, né sconfessa che il Sacramento del matrimonio, essendo indirizzato anche alla conservazione e all’incremento dell’umana società, ha una stretta relazione con le stesse cose umane, le quali derivano bensì dal matrimonio, ma appartengono all’ordine civile, e sulle quali, a ragione, giudicano e dispongono i reggitori dello Stato. – Nessuno poi mette in dubbio che il fondatore della Chiesa, Gesù Cristo, volesse che la potestà sacra fosse distinta da quella civile, e che l’una e l’altra avessero, nell’ordine proprio, libero e sciolto l’esercizio del proprio potere, tuttavia alla condizione, che conviene all’una e all’altra e che è vantaggiosa per tutti gli uomini, che intercorressero tra loro unione e concordia, e che nelle cose le quali sono, quantunque per diversa ragione, di comune diritto e competenza, quella cui furono raccomandate le cose umane dipendesse in modo opportuno e conveniente dall’altra, alla quale furono affidate le cose celesti. In siffatto accordo poi, quasi un’armonia, è riposto non solo il benessere dell’una e dell’altra potestà, ma anche il più opportuno e più efficace mezzo di giovare al genere umano in ciò che appartiene al modo di vivere ed alla speranza della salute eterna. Infatti, poiché l’intelletto umano, come Noi dimostrammo nella precedente Enciclica, se si accorda con la fede cristiana diviene molto più nobile ed acquista maggior forza per schivare e combattere gli errori, e vicendevolmente la fede ottiene non piccolo aiuto dalla stessa ragione, così nello stesso modo, ove l’autorità civile proceda in pieno accordo con la sacra potestà della Chiesa, non può non derivarne grande utilità all’una e all’altra. Conseguentemente, a questa viene aggiunta maggiore dignità: ispirandosi alla religione, essa dominerà sempre secondo giustizia; a quella vengono forniti aiuti di tutela e di difesa a comune vantaggio dei fedeli. – Noi dunque, mossi dalla considerazione di tali cose, come altre volte con la maggior cura, così al presente esortiamo di nuovo caldamente i Principi ad unirsi in buon accordo e in amicizia. Ad essi, con paterna benevolenza Noi per primi porgiamo la destra, offrendo loro il soccorso del Nostro supremo potere, il quale è tanto più necessario in questo tempo in quanto l’autorità sovrana nella opinione degli uomini, come per ferite ricevute, è resa più debole. Essendo gli animi già accesi di licenziosa libertà, e rifiutando con empio ardire il dominio di qualsivoglia autorità, anche la più legittima, la salvezza pubblica richiede che le forze dell’una e dell’altra potestà si uniscano al fine di allontanare i danni che sovrastano non solo sulla Chiesa, ma sulla stessa società civile. – Però, mentre consigliamo caldamente l’amichevole unione delle volontà, e supplichiamo Dio, principe della pace, che infonda negli animi di tutti gli uomini l’amore della concordia, non possiamo Noi stessi astenerci, Venerabili Fratelli, dall’eccitare con le esortazioni sempre meglio il Vostro zelo, la Vostra operosità e la vigilanza che sappiamo in Voi essere grandissima. Per quanto si possano estendere i Vostri sforzi, per quanto possa la Vostra autorità, adoperatevi perché presso i popoli affidati alla Vostra fede si mantenga integra ed incorrotta la dottrina che Cristo Signore e gli Apostoli, interpreti dei voleri del cielo, insegnarono, e che la stessa Chiesa cattolica conservò gelosamente, e comandò che fosse custodita dai cristiani in tutti i tempi. – Adoperatevi al massimo che i popoli conoscano in abbondanza i precetti della sapienza cristiana, ed abbiano sempre fisso nella mente che il matrimonio fu dal principio stabilito non per volontà degli uomini, ma per autorità e volere di Dio, e con questa legge: che sia di uno solo con una sola. Cristo poi, autore della nuova Legge, da ufficio di natura lo ha collocato fra i Sacramenti, e per quel che riguarda il vincolo, ne ha dato alla Chiesa il potere legislativo e giudiziario. In questa materia conviene vigilare diligentemente affinché le menti non siano tratte in errore dalle fallaci argomentazioni degli avversari, i quali vorrebbero che fosse tolto alla Chiesa tale potere. Similmente deve essere chiaro a tutti che se tra i cristiani si contrae l’unione dell’uomo e della donna indipendentemente dal Sacramento, essa manca della natura e dell’efficacia del legittimo matrimonio, e quantunque essa sia stata fatta in modo conforme alle leggi dello Stato, tuttavia non può essere considerata più che un rito od un’usanza introdotta dal diritto civile. Inoltre, dal diritto civile non possono essere ordinate e amministrate se non quelle cose che i matrimoni producono nell’ordine civile, e che ovviamente non possono essere prodotte se non ne esiste la vera e legittima causa, cioè il vincolo nuziale. – Certo importa moltissimo che gli sposi conoscano appieno queste cose, le quali debbono essere approvate anche da loro e impresse nei loro animi affinché sia loro consentito in questo caso di uniformarsi alle leggi. La Chiesa non vieta ciò, anzi vuole e desidera che siano completamente salvi gli effetti dei matrimoni, e che non venga cagionato alcun danno ai figli. In tanta confusione poi di giudizi, che vanno crescendo ogni giorno di più, è necessario che sia anche ben conosciuto che lo sciogliere il vincolo del connubio rato e consumato tra cristiani, non è in facoltà di nessuno, e che conseguentemente sono rei di manifesto delitto quei coniugi – se per avventura ve ne fossero alcuni – i quali per qualunque motivo addotto vogliano stringersi in un nuovo vincolo matrimoniale innanzi che per morte resti sciolto il primo. Se le cose giungessero a tal punto che il convivere insieme non sembri più a lungo sopportabile, allora la Chiesa permette che l’uno conduca i suoi giorni separato dall’altro, e cerca con cure e rimedi, da apprestarsi secondo la condizione dei coniugi, di alleggerire i danni della separazione, né avviene mai che ella non s’adoperi o che disperi di ridurre gli animi alla concordia. Questi, per altro, sono i partiti estremi ai quali sarebbe facile non addivenire se gli sposi, non trasportati dalla passione, ma riflettendo in precedenza sia i doveri dei coniugi, sia i motivi nobilissimi dei connubi, si accostassero al matrimonio con ponderata intenzione e non anticipassero le nozze con una serie continuata di turpitudini, sotto lo sdegno di Dio. Per concludere, allora i matrimoni potranno avere una dolce e sicura stabilità, quando attingano lo spirito e la vita dalla virtù della religione, la quale dà grazia d’animo forte ed invitto; e fa sì che si sopportino non solo con rassegnazione, ma con lieto animo, i difetti che possono avere le persone, la diversità dei costumi e delle indoli, il peso delle cure materne, la grave sollecitudine dell’educazione dei figli, i travagli, compagni della vita. – Di un’altra cosa si deve ancora avere cura, che cioè non si desiderino con facilità le nozze con persone che non appartengono alla Chiesa cattolica. Infatti si possono nutrire poche speranze che gli animi dissidenti in materia religiosa riescano ad andare d’accordo nel resto. Anzi, che si debba rifuggire da siffatti connubi, si comprende soprattutto per il fatto che essi porgono occasione alla vietata comunanza e partecipazione delle cose sacre, mettono a rischio la religione del coniuge cattolico, sono d’impedimento alla buona istruzione della prole, e troppo spesso inducono gli animi ad assuefarsi a tenere in pari stima tutte le religioni, eliminando ogni differenza tra il vero ed il falso. Infine, ben sapendo che alla Nostra carità nessuno deve rimanere estraneo, raccomandiamo all’autorità, alla tutela e alla pietà Vostra, Venerabili Fratelli, coloro, veramente molto miseri, i quali trascinati dall’ardore delle passioni ed assolutamente dimentichi della propria salute, conducono una vita licenziosa, congiunti in vincolo di nozze non legittime. A richiamare a dovere tali uomini sia rivolta la Vostra sagace solerzia; Voi stessi, direttamente o mediante l’opera di persone dabbene, cercate in tutti i modi che essi sentano di avere operato scandalosamente, si pentano di tanta vergogna e s’inducano a celebrare le vere nozze secondo il rito cattolico. – Voi vedete facilmente, Venerabili Fratelli, che questi ammaestramenti e precetti intorno al matrimonio cristiano, che con questa Nostra lettera ritenemmo doveroso comunicarVi, sono di grande utilità non solo per la conservazione della civile comunanza, ma anche per l’eterna salute degli uomini. Voglia dunque Iddio che, quanto più essi hanno d’importanza e di autorità, tanto più trovino in ogni parte animi docili e pronti ad obbedire. Per la qual cosa, con supplici ed umili preghiere tutti uniti imploriamo l’aiuto della Beata Maria Vergine Immacolata che, rafforzate le menti alla obbedienza della fede, si mostri madre e soccorritrice degli uomini. Né con minore calore supplichiamo i Principi degli Apostoli Pietro e Paolo, vincitori della superstizione, seminatori della verità, affinché proteggano con il più costante patrocinio il genere umano insidiato dall’inondazione dei rinascenti errori. – Intanto, auspice dei celesti favori e testimonio della singolare Nostra benevolenza, a Voi tutti, Venerabili Fratelli, ed ai popoli affidati alla Vostra vigilanza, impartiamo di cuore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 10 febbraio 1880, anno secondo del Nostro Pontificato.

 

I SACRAMENTI AGLI ADULTERI sono tassativamente vietati dalla CHIESA CATTOLICA “VERA”

Un’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL  MODERNISTA APOSTATA DI TORNO!

BENEDETTO XIV

benedetto-xiv

“INTER OMNIGENAS”

Studieremo oggi un’Enciclica di S.S. Benedetto XIV, P. Lambertini, per capire cosa la Chiesa Cattolica pensi su come comportarsi nei rapporti con la setta dei maomettani che invadono, al tempo la Serbia, ed oggi, gestiti dalla setta di coloro che “odiano Dio e tutti gli uomini”, i territori una volta cristiani. Importante è in particolare osservare cosa la Chiesa cattolica abbia sempre pensato, vietandoli nel modo più assoluto, dei Sacramenti amministrati a coloro che violino, a qualunque titolo ed in forme diverse, le leggi sul matrimonio cattolico, che non sono affatto difformi dai dettami del divino Maestro. Questo per renderci conto delle sataniche idiozie inventate oggi dalla setta degli apostati modernisti, i vati-cani-muti, che cercano di gettare quante più anime all’inferno, dal loro padre che “le” attende e “li” attende a braccia aperte per conservarli bene al caldo del fuoco eterno! Il Magistero della Chiesa è infallibile ed assolutamente irreformabile, se non da chi è una “patacca”, “agente di lucifero”! E allora cominciamo:

“Inter omnigenas calamitates,  quibus Ecclesiæ Filii sub infidelium dominazione degentes …”

“Fra le calamità di ogni specie dalle quali i figli della Chiesa che abitano sotto il dominio degli infedeli sono oppressi da ogni parte, e delle quali, tutte, sentiamo compassione con paterna carità, quelle che più sollecitano e premono il nostro animo sono quelle da cui temiamo che nasca occasione di perdizione per le anime redente dal Sangue di Cristo, con la conseguenza che possa essere causato un danno alla integrità della Fede cattolica e della disciplina. Fra tali calamità che Voi, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, sostenete da tempo nel Regno di Serbia sotto il durissimo giogo dei Turchi, e che altre volte giunsero alle Nostre orecchie da molte parti, Ci colpirono con incredibile dolore le ultimissime che Ci furono spiegate con maggiori particolari e quasi mostrate ai Nostri occhi dal Venerabile Fratello Giovanni Battista, da Noi eletto e costituito Arcivescovo di Skopje. Infatti, anche se abbiamo dovuto lodare e anzi ammirare l’assidua vigilanza e sollecitudine per il proprio gregge dei Pastori di codesto Regno e la ferma costanza dei popoli nella Fede e nella pietà, fra le gravissime vessazioni e persecuzioni inferte dalla crudeltà degli infedeli e dall’odio degli scismatici, tuttavia Ci causarono molto dolore sia il comportamento non lineare e fluttuante o anche arbitrario, in cose della massima importanza, di alcuni di loro, sia la corruzione dei costumi e della disciplina portata nella maggior parte dei fedeli dalla compagnia degli stranieri, ma soprattutto la turpe occultazione della professione cristiana, somigliante all’infedeltà, che molti in codeste regioni mostrano di usare, per timore di danni materiali. – 1. In verità, quelle cose che si dice si siano introdotte fra i fedeli di codeste Chiese contro la purezza della fede e dei costumi dovevano, per la maggior parte, essere prevenute o corrette ed emendate in forza delle sanzioni sufficientemente conosciute del diritto pontificio e canonico, dei decreti della Sede Apostolica emanati più spesso attraverso l’organo dei Venerabili Nostri Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa preposti agli affari di “Propaganda fide”, ma specialmente a motivo di ciò che fu stabilito nel Concilio Albanese che fu indetto e celebrato, sotto il Nostro predecessore di felice memoria Clemente XI, dal Primate di codesto Regno, per tutto il clero e il popolo di Albania e Serbia. Perciò, richiamando alla memoria a tutti voi tutte le predette leggi del Diritto Ecclesiastico e della Sede Apostolica e raccomandando molto di studiarle e osservarle, comandiamo che il predetto Concilio Albanese, adattato specialmente alla vostra situazione e all’opportunità dei tempi, sia in tutto mantenuto e dappertutto osservato, volendo che tutti gli Arcivescovi, Vescovi, Parroci e Missionari e gli altri che sono in cura d’anime in codesto Regno, abbiano presso di sé qualche copia di quel Concilio e cerchino di regolare e di conformare il loro comportamento e quello dei loro fedeli secondo quelle norme. – 2. Tuttavia, affinché siano tolti del tutto ed eliminati per sempre i più gravi abusi riguardanti l’integrità della Fede, dei costumi e dei riti, che sono giunti a Nostra conoscenza da codeste regioni, dopo averli Noi stessi considerati ed esaminati con attenzione e diligenza, abbiamo stabilito, col consiglio dei Nostri Venerabili Fratelli, di riferirvi e di annunciarvi quei Decreti che seguono, le cui disposizioni confidiamo nel Signore che debbano essere abbracciate volentieri da tutti voi, a cui spetta, come utili e necessarie, e nondimeno ordiniamo con autorità Apostolica che siano esattissimamente compiute e custodite. – 3. Cominciando perciò dalle cose della Fede, senza la quale è impossibile piacere a Dio, ordiniamo e comandiamo rigorosamente a tutti e singoli i fedeli di codesto Regno che vogliono mantenere la comunione con la Chiesa cattolica, che si guardino dal fare o dall’ammettere alcunché contro i precetti e le norme Evangeliche, al fine di occultare il possesso della Religione cristiana, per quanto talvolta sia lecito e necessario; specialmente quelle cose che implicano una affermazione della setta Maomettana. Perciò, se avranno ricevuto la circoncisione, sappiano che Cristo non gioverà ad essi per nulla, secondo la parola dell’Apostolo. Evitino del tutto di assumere nomi turchi, che non dovrebbero nemmeno ricordare con le labbra; di frequentare gli abominevoli templi degli infedeli, chiamati Mosche e; di profanare, mangiando carne, i giorni dei digiuni Ecclesiastici: ciò, al fine di essere creduti Maomettani. Tutte queste cose infatti, anche se la Fede di Cristo è mantenuta nel cuore, non si possono fare senza la simulazione degli errori di Maometto, contraria alla sincerità cristiana; tale simulazione contiene una menzogna in materia gravissima e comporta una virtuale negazione della Fede, con gravissima offesa di Dio e scandalo del prossimo. – 4. Ma molto più, nel caso che siano interrogati dalle pubbliche autorità, sappiano che non è loro lecito professarsi seguaci della setta Maomettana, ma ricordino che quello è il tempo in cui – brandendo lo scudo della Fede – debbono non solo credere col cuore alla giustizia, ma anche confessare Cristo con la bocca per la salvezza, altrimenti, se avranno osato rinnegarlo davanti agli uomini, anche Lui li rinnegherà davanti al Padre Suo. – 5. Ugualmente empio ed illecito è l’abuso di quei Cristiani di Serbia che, prossimi a morire, permettono o dispongono che i loro cadaveri siano consegnati alle sepolture dei Turchi, con l’assistenza di costoro e con l’uso dei riti Maomettani; infatti, se non devono affatto vergognarsi di Cristo in vita, quanto meno lo devono nel momento in cui stanno per comparire al Suo tremendo giudizio, affinché Egli non si vergogni di loro davanti al Suo Eterno Padre. – 6. Sarà dunque compito dei Vescovi, dei Parroci e dei Missionari, ammaestrare ed ammonire seriamente quei Cristiani che empiamente osano fare le cose suddette, con grande offesa della Fede; invano si vantano della custodia, dello zelo nella legge cristiana e della educazione dei figli nella medesima legge, poiché se mancano anche in uno solo di questi punti, si rendono colpevoli di tutti. Perciò dichiarino ad essi apertamente che chiunque, per timore di qualsivoglia potestà o per paura di perdere i beni materiali, tradisce la sua Fede, provoca l’ira di Dio su di sé e si esclude da ogni speranza di salvezza, a meno che se ne penta, poiché teme più l’uomo che Dio e preferisce conservare le cose effimere di questa terra piuttosto che acquistare le realtà eterne. Se poi alcuni vorranno continuare ostinati in questa via di empietà, saranno privati dei Sacramenti in vita e, se morranno impenitenti, dei suffragi dopo la morte; a questi nessun Ministro della Chiesa osi ammetterli, altrimenti dovrà essere punito dal proprio Vescovo con le pene canoniche, secondo quanto è prescritto anche dal suddetto Concilio Albanese. – 7. Sono ugualmente da tener lontane dai Sacramenti della Chiesa quelle donne che, introdotte nel padiglione dei Turchi col titolo di mogli, celando la professione della religione cristiana, là conducono una vita lontana da ogni esercizio della religione; ad esse dev’essere dichiarato dai Pastori che non ripongano fiducia per l’eterna salvezza in quella fede che, morta senza le opere, si convincono di poter conservare utilmente soltanto nel cuore. – 8. Quanto ai figli di queste donne, che vengono presentati ai Parroci per essere battezzati, se la loro vita sembra in pericolo, i predetti Parroci non esitino a battezzarli, ammonendo le madri che, se guariranno, dovranno educarli con impegno nella religione cristiana. Riguardo a quelli di sana e robusta costituzione, che sono presentati al Battesimo dalle suddette madri senza fini superstiziosi, ma con l’unico scopo di ottenere la salvezza, poiché è impossibile esaminare le singole circostanze che possono convincere se essi persevereranno nel culto della legge Evangelica e della Fede, o se, privati dell’educazione Cristiana da madri di quel genere, seguiranno l’empietà del padre Maomettano, considerati anche i pericoli dell’età infantile per i quali dicono che, per lo più, un terzo degli uomini muore prima di compiere i 10 anni, pensiamo di non dover comandare nulla espressamente. Solamente esortiamo i Ministri Ecclesiastici che, dopo aver invocato con gemiti la luce dello Spirito Santo, si comportino secondo la sua guida e le indicazioni della sua prudenza. Se poi crederanno di poterli ammettere al Battesimo, non omettano di inculcare nelle madri l’obbligo rigoroso a cui sono tenute, di far conoscere la verità di Dio a questi figli della Chiesa, se arriveranno all’uso di ragione, e di educarli nella disciplina e nella legge del Signore. – 9. Giunge alle Nostre orecchie anche la notizia grave e molto incresciosa che i Decreti del Concilio Tridentino sul Sacramento del Matrimonio da alcuni non sono osservati in codeste regioni nelle quali – come comprova lo stesso Concilio Albanese – essi furono a suo tempo debitamente pubblicati. Perciò, dichiarando che tutti i fedeli di codeste parti sono tenuti ai suddetti Decreti, definiamo completamente invalidi e nulli quei pretesi matrimoni che sono contratti davanti al solo giudice dei Turchi, detto “cadì”, o anche senza di lui, dai soli sposi, e non secondo le prescrizioni del predetto Concilio Tridentino. Coloro che contrassero nozze nulle e clandestine di tal genere e, dopo averle contratte, convivono, comandiamo che, come persone che vivono in illecito concubinato, a meno che facciano penitenza del passato e siano congiunti con matrimonio valido riguardo alla Chiesa, siano tenuti lontani dalla partecipazione ai Sacramenti. – 10. Ma quando il matrimonio è stato contratto secondo il rito dai fedeli, non permettiamo affatto a loro, neppure per salvaguardare le mogli dal rapimento dei Turchi, di rinnovarlo davanti al Cadì per mezzo di procuratori secondo il rito turco, salvo che il rito maomettano delle nozze sia puramente civile e non contenga nessuna invocazione a Maometto o qualunque altra specie di superstizione. Infatti, benché facciano questo non di persona, ma per mezzo di procuratori, tuttavia non devono mai essere considerati innocenti di quel crimine che viene commesso per loro autorità o mandato. – 11. Per quanto riguarda le pubblicazioni stabilite dal Concilio Tridentino, benché si dica che in Serbia non sono affatto confermate dall’uso, in quanto tuttavia sono prescritte ai Parroci anche di Serbia nel prelodato Concilio Albanese, tolta la facoltà di dispensarne tranne che per motivo di necessità urgente, comandiamo che ciò sia osservato in tutto, per quanto si possa fare. – 12. Se poi la moglie di qualche fedele fugge fra i Turchi e osa contrarre nozze scellerate con qualcuno di loro, non è lecito al marito sposarne un’altra al posto di quella, in quanto il Matrimonio, indissolubile per diritto divino finché vivono i coniugi, non viene affatto dissolto dal misfatto di una donna di tal fatta. Quindi se uno in tale situazione ne sposa un’altra, commette adulterio e, se non si separa completamente da lei, dev’essere tenuto lontano dai Sacramenti. – 13. E pure a tutti è chiaro che cosa si debba dire sulla salvezza di simili donne, a meno che facciano penitenza. Riguardo alle donne cristiane rapite con la forza dai Turchi e sposate a forza o nell’infanzia che, senza essere congiunte da nessun diritto di fede sacramentale, perseverano in illecito concubinato con gli infedeli, stabiliamo in tutto la medesima cosa che fu decretata nel predetto Concilio Albanese: siano loro negati i Sacramenti della Chiesa, non tenendo in nessun conto né la loro pretesa perseveranza nella fede cristiana, né la violenza usata loro dai Turchi in età infantile, e nemmeno il fatto che siano considerate dai Turchi come moglie unica o migliore o giusta. Queste cose non danno nessun diritto, a chi vive in concubinato o fornicazione, a ricevere i Sacramenti, e non offrono ai Sacerdoti nessuna facoltà ad amministrarli a chi ne è indegno. – 14. Circa le dispense matrimoniali, i Vescovi e i Missionari di Serbia stiano attenti a non servirsi senza giudizio o verso gli immeritevoli delle facoltà loro comunicate da questa Santa Sede, e a non oltrepassare i limiti della loro autorità. Abbiamo perciò stabilito che non si debba concedere nessuna dispensa a quei cristiani occulti, di cui si è detto, che fingono di seguire i riti maomettani; infatti costoro, poiché si vergognano di Cristo, si rendono indegni delle grazie della Chiesa, che di Cristo è la sposa. Inoltre non concedano nessuna dispensa nei casi in cui prevedano che i matrimoni non saranno celebrati validamente e santamente secondo il rito della Chiesa Cattolica, come detto sopra; in tal caso infatti non sarebbero dispense, ma dissipazioni e incitamenti all’incontinenza, dalle quali il fedele e prudente ministro di Cristo deve tenersi lontano in ogni modo. – 15. Specialmente poi considerino che, fra le altre facoltà loro comunicate, non si trova quella di dispensare dall’impedimento di giustizia di pubblica onestà, proveniente dal matrimonio rato che sia intercorso altra volta fra l’una o l’altra delle parti e il consanguineo in primo grado dell’altra parte, ma che sia stato sciolto prima della consumazione o per morte o per altra legittima causa. Infatti questo impedimento è più forte di quello che nasce dagli sponsali: perciò dovranno evitare di concedere una dispensa di tal genere. – 16. Nel celebrare le nozze si osservino i tempi prescritti dalla Chiesa Cattolica. Se poi i Maomettani, celebrando le loro nozze nei tempi proibiti, avranno invitato qualche fedele a motivo del suo ufficio, poiché i precetti della Chiesa non riguardano minimamente coloro che ne sono fuori, non si proibisce ai cattolici di Serbia di parteciparvi, comportandosi con cristiana modestia, purché lo si possa fare senza offendere il Creatore, né i fedeli, né la Chiesa di Dio, e non ci sia nessuna invocazione a Maometto nelle nozze dei Turchi e nessun rito superstizioso, ai quali i cristiani invitati debbano partecipare o consentire con la bocca o con le azioni. Tuttavia, se cercheranno, per quanto potranno, di scansare quelle adunanze di infedeli e quei conviti profani, eviteranno molti pericoli per le loro anime. – 17. Per quanto riguarda la cognazione spirituale, comandiamo che in Serbia siano osservati in tutto i sapientissimi Decreti del Concilio Tridentino, nonostante qualsiasi consuetudine contraria. Perciò non permettiamo che sia estesa oltre le persone e i gradi definiti dallo stesso Concilio quella cognazione che nasce dai Sacramenti del Battesimo e della Confermazione, ed espressamente dichiariamo che nessuna cognazione spirituale nasce da altra causa e specialmente dall’assistenza prestata al matrimonio, anche su invito dei contraenti; come neppure fra coloro dai quali vengono tagliati i capelli ai bambini per la prima volta. Infatti è importante il motivo del predetto Decreto conciliare che, a causa delle troppe proibizioni, non avvenga più spesso che si contraggano matrimoni in casi proibiti senza saperlo, o si perseveri nel peccato, o che debbano essere sciolti con scandalo. Ciò che fu stabilito sapientemente circa quei casi di cognazione spirituale che erano già stati accolti nella Chiesa, a molto maggior ragione deve valere in altre specie di tal genere che, ignote nella Chiesa Cattolica, hanno un’origine infetta dagli scismatici, dei quali è tipico imporre agli uomini pesi gravi e impossibili a portarsi, senza muoverli nemmeno con un dito. Perciò è sicuramente da disprezzarsi lo scandalo di costoro, se avranno saputo dell’osservanza di questo decreto fra i fedeli. – 18. Riguardo poi ai sacri riti, in cui le Chiese di codeste regioni, mettendosi davanti come specchio ed esempio questa Chiesa Romana, Madre e Maestra di tutte le altre, mostrano di usare non altro che il Messale, il Rituale ed il Cerimoniale Romano, esortiamo i Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi a non cambiare niente in questa consuetudine sicura e lodevole; tanto nella celebrazione dei Santi Misteri e nella amministrazione dei Sacramenti, quanto nelle Benedizioni e negli Esorcismi, non permettano che sia aperto l’ingresso, sotto qualunque pretesto, a qualsivogliano altri riti, cerimonie e preghiere, presi da altre parti. – 19. Badino poi che le cause di timore che talvolta sono addotte per omettere nell’amministrazione del Battesimo le cerimonie prescritte dal Rituale Romano, non siano inutili o leggere; e, qualora capiti che siano trascurate per veri e gravi motivi, cureranno anche che, appena possibile, siano compiute. Infatti riti di così grande importanza e di tanta antichità e sommamente necessari a procurare riverenza al Sacramento, non si trascurano senza peccato grave. – 20. È da curare altresì che, tolto il caso di necessità e di giusto timore ispirato dagli infedeli, non si usi nell’amministrazione del Battesimo l’acqua comune e naturale e nemmeno quella che viene benedetta per le purificazioni; né temerariamente si ometta di usare l’acqua benedetta a questo preciso scopo secondo la prescrizione del Rituale Romano. Infatti può difficilmente accadere senza massima incuria e vano timore (anche secondo il senso del Concilio Albanese), che nelle Chiese Parrocchiali, dove esistono, non siano benedetti i fonti battesimali nei tempi stabiliti e secondo i riti, o che non ci sia una sufficiente quantità di Sacri Oli per questo. – 21. Per compiere il loro dovere pastorale, vigilino anche che ai fedeli dimoranti in qualunque luogo, non manchino Sacerdoti Cattolici che possano amministrare loro la Sacrosanta Eucaristia nella solennità di Pasqua, sia perché sia osservato il Decreto del Concilio Laterano per tutti i fedeli di ambo i sessi, sia perché, nella comune letizia di tutta la Chiesa per la Risurrezione del Signore, i figli della Chiesa siano nutriti e irrobustiti da questo vivificante pascolo che è anche simbolo dell’unità. E se capitasse che, a causa della infelicità dei luoghi e dei tempi, questo non si possa in alcun modo fare entro le due settimane che intercorrono dalla domenica delle Palme alla domenica in Albis, in tal caso, a tenore di questa Lettera, concediamo e permettiamo che i popoli di codeste regioni della Serbia possano soddisfare quel precetto o in Quaresima o nella solennità di Pentecoste e nei giorni precedenti, secondo il consiglio del proprio Sacerdote. – 22. Con troppo dolore abbiamo poi saputo che le Chiese di codeste regioni sono talmente abbandonate e rovinose e che il furore degl’infedeli è così insolente che non è possibile conservare la Santissima Eucaristia in modo decente e sicuro, come si conviene. Da ciò deriva che la maggior parte dei fedeli infermi paga il debito alla natura senza il Viatico della salvezza. Per l’avvenire si deve ovviare e provvedere, per quanto possibile, a questo gravissimo male; perciò i Parroci devono cercare con ansiosa diligenza di aver notizia degli infermi, non solo per purificarli col Sacramento della Penitenza, e per aiutarli e sollevarli con esortazioni cristiane e conforti spirituali, ma anche perché siano ristorati col santissimo Corpo di Cristo e fortificati per affrontare l’ultima battaglia. Perciò, quando vedano che il pericolo di morte sovrasta qualche fedele, al più presto gli somministrino il predetto Sacramento dell’Eucaristia e, se possono farlo senza pericolo, presolo dalla Chiesa, se ce n’è qualcuna, lo devono portare a casa dell’infermo, dal momento che non è lecito celebrare la Messa presso gli infermi, in luogo non consacrato, eccetto il caso gravissimo di necessità. – 23. Mentre poi il Sacerdote porta agli infermi un così grande Sacramento, osservi con esattezza i decreti promulgati nel Concilio Albanese, con i quali si comanda che, indossata la cotta e posta la stola sulle spalle, con davanti almeno un cero, recitando a bassa voce inni e salmi, porti devotamente il Sacramento entro la Sacra Pisside o in un Calice pulito, tenendolo davanti al petto con le due mani. Ma quando la prepotenza e l’iniquità dei Turchi è più forte (come si aggiunge nello stesso luogo), il Sacerdote porti sempre la stola coperta dalle proprie vesti, nasconda la Pisside in un sacchetto o in una borsa che, appesa al collo con cordicelle, tenga sul seno, e non vada mai solo, ma si faccia accompagnare almeno da un fedele, in mancanza del chierico. – 24. Infine, riguardo alla sepoltura dei cadaveri dei fedeli, si evitino tutte le vane credenze dei Turchi, dalle quali in verità traggono un’impura origine alcuni riti superstiziosi, come lavature che vengono eseguite con incenso e con la recita di certe preghiere che sono disapprovate dalla Chiesa Cattolica. Pertanto, astenendosi, per quanto potranno, da ogni apparenza negativa e dalla imitazione degli infedeli, i popoli di codeste regioni imparino che in tali riti non c’è nulla che sia necessario alla salvezza e al suffragio dei defunti, e non diano importanza né alle dicerie e alle derisioni dei Turchi, né ai vani discorsi degli scismatici. – 25. Nel giudicare poi i pericoli in presenza dei quali abbiamo dichiarato che può essere addolcito il rigore della disciplina Ecclesiastica nelle circostanze sopra enunciate, ammoniamo e preghiamo tutti i fedeli di codeste regioni, e specialmente i Pastori delle Anime, affinché, innalzando con cristiana fortezza gli animi abbattuti, considerino che cosa sia davvero da temere e che cosa da disprezzare; osservino i precetti di Dio e della Chiesa non con angustia e timore delle autorità terrene, ma con la larghezza della carità e l’ardore dell’amore che scaccia il timore; amministrino la cura delle Anime. E se giudicheranno giusto motivo per trasgredire i precetti della Religione Cristiana o per trascurare la cura delle Anime loro affidate, la sola paura degli insulti dei Turchi o il pericolo di lievi incomodi, veramente di loro si potrà dire: “Trepidarono di timore laddove non c’era da temere“. Perciò esortiamo nel Signore e scongiuriamo i Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, che lo Spirito Santo pose a reggere codeste Chiese oppresse da un cumulo di gravissime calamità, a scacciare questi vani timori dal petto dei Ministri inferiori della Chiesa e di tutti i fedeli, e a sollevarli e a stimolarli affinché, calpestati ugualmente le lusinghe e i terrori del mondo, per il sentiero arduo e angusto, seguano con costanza Cristo, Capo della Chiesa, che li chiama alla vetta della santificazione. – 26. Riconoscano infine la singolare misericordia nei loro confronti del nostro Dio, il quale, mentre con terribile giudizio permise che in altre regioni sottoposte alla dominazione degli infedeli la Religione Cristiana fosse completamente calpestata ed estinta, volle invece che in codesto Regno di Serbia splendesse la luce della sua verità, guardando la quale gli uomini che si trovano nelle angustie e nelle tribolazioni potessero ricevere consolazione in questa vita, e fossero condotti a conseguire l’altra migliore e più beata. – 27. Perciò, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, meditate ancora, e ancora guardate che, per il vizio di un animo ingrato, non si inaridisca il flusso della divina pietà verso di voi e sia tolto a voi il Regno di Dio, dal momento che avrete sdegnato di ottemperare alle sue leggi e di conservare i costumi rettamente stabiliti. – 28. Se poi i sopraesposti decreti, ai quali amiamo richiamare il vostro modo di fare per la purezza delle santissime leggi della Chiesa, e che con Apostolica autorità con questa nostra Lettera vi dichiariamo che devono essere in tutto eseguiti da voi, vi sembreranno pesanti e impossibili da portarsi, badate di non attribuire per vostra opinione al leggero peso di Cristo e al giogo soave della sua legge quella pesantezza e molestia che traggono principio o dalla eccessiva sollecitudine di conservare i beni temporali, o dalla cupidigia di acquistarli. Se rigetterete queste cose e riterrete che non si può conciliare la servitù del mondo con quella che avete dichiarato a Cristo, tutto vi sembrerà davvero leggero e spedito nell’osservanza della legge cristiana. E poi Dio è fedele e non permetterà che voi siate perseguitati dagli infedeli né che siate tentati oltre le vostre forze, ma anzi dalla tentazione ricaverà un guadagno e ripagherà abbondantemente i pochi momenti delle vostre tribolazioni con un eterno cumulo di gloria. La qual cosa augurandovi di cuore dallo stesso Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione, impartiamo a voi tutti affettuosamente la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 2 febbraio 1744, quarto anno del Nostro Pontificato.

[Le sottolineature, il grassetto ed il colore, sono redazionali]

 

Un’ENCICLICA AL GIORNO, toglie il modernista apostata di torno … e pure il tradizionalista sedevacantista! : “PASTOR ÆTERNUS”

 

Questa Costituzione apostolica è un documento “chiave” della dottrina della Chiesa, uno scoglio contro il quale si infrangono i flutti eretico-demoniaci di protestanti, di modernisti ecumenismi vati-cani-muti, dei pseudo-tradizionalisti sedevacantisti di nome e di fatto, ed oggi pure dei fautori dell’ultima eresia in voga: il “sedevacantismo doppio”! Questo documento fu voluto con caparbia ostinazione da S. S. Pio IX, al Concilio Vaticano, prima che si abbattesse il flagello dei “buzzurri” piemontesi violatori della Porta pia, approfittando con codardia dell’assenza della guarnigione francese richiamata nella guerra franco-prussiana … ecco gli eroi di porta pia, … codardi buzzurri servi dei satanici cabalisti … ma cominciamo a leggere, studiare e meditare con calma.

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 COSTITUZIONE APOSTOLICA

“PASTOR ÆTERNUS”

DEL SOMMO PONTEFICE PIO IX

“SULL’INFALLIBILITÀ DEL ROMANO PONTEFICE ”

AI VENERABILI FRATELLI, PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI E AGLI ALTRI ORDINARI AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE PACE E COMUNIONE

PIO PP. IX, SERVO DEI SERVI DI DIO

 

VENERABILI FRATELLI, SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

Il Pastore eterno e Vescovo delle nostre anime, per rendere perenne la salutare opera della Redenzione, decise di istituire la santa Chiesa, nella quale, come nella casa del Dio vivente, tutti i fedeli si ritrovassero uniti nel vincolo di una sola fede e della carità. Per questo, prima di essere glorificato, pregò il Padre non solo per gli Apostoli, ma anche per tutti coloro che avrebbero creduto in Lui attraverso la loro parola, affinché fossero tutti una cosa sola, come lo stesso Figlio e il Padre sono una cosa sola. Così dunque inviò gli Apostoli, che aveva scelto dal mondo, nello stesso modo in cui Egli stesso era stato inviato dal Padre: volle quindi che nella sua Chiesa i Pastori e i Dottori fossero presenti fino alla fine dei secoli. – Perché poi lo stesso Episcopato fosse uno ed indiviso e l’intera moltitudine dei credenti, per mezzo dei sacerdoti strettamente uniti fra di loro, si conservasse nell’unità della fede e della comunione, anteponendo agli altri Apostoli il Beato Pietro, in lui volle fondato l’intramontabile principio e il visibile fondamento della duplice unità: sulla sua forza doveva essere innalzato il tempio eterno, e la grandezza della Chiesa, nell’immutabilità della fede, avrebbe potuto ergersi fino al cielo [S. LEO M., Serm. IV al. III, cap. 2 in diem Natalis sui]. E poiché le porte dell’inferno si accaniscono sempre più contro il suo fondamento, voluto da Dio, quasi volessero, se fosse possibile, distruggere la Chiesa, Noi riteniamo necessario, per la custodia, l’incolumità e la crescita del gregge cattolico, con l’approvazione del Sacro Concilio, proporre la dottrina relativa all’istituzione, alla perennità e alla natura del sacro Primato Apostolico, sul quale si fondano la forza e la solidità di tutta la Chiesa, come verità di fede da abbracciare e da difendere da parte di tutti i fedeli, secondo l’antica e costante credenza della Chiesa universale, e respingere e condannare gli errori contrari, tanto pericolosi per il gregge del Signore.

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Capitolo I – Istituzione del Primato Apostolico nel Beato Pietro

Proclamiamo dunque ed affermiamo, sulla scorta delle testimonianze del Vangelo, che il primato di giurisdizione sull’intera Chiesa di Dio è stato promesso e conferito al beato Apostolo Pietro da Cristo Signore in modo immediato e diretto. Solamente a Simone, infatti, al quale già si era rivolto: “Tu sarai chiamato Cefa” (Gv 1,42), dopo che ebbe pronunciata quella sua confessione: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivo“, il Signore indirizzò queste solenni parole: “Beato sei tu, Simone Bariona; perché non la carne e il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli: e Io ti dico che tu sei Pietro, e su questa pietra Io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: qualunque cosa avrai legato sulla terra, sarà legata anche nei cieli, e qualunque cosa avrai sciolto sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli” (Mt XVI, 16-19). E al solo Simon Pietro, dopo la sua risurrezione, Gesù conferì la giurisdizione di sommo pastore e di guida su tutto il suo ovile con le parole: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore” (Gv XXI,15-17). A questa chiara dottrina delle sacre Scritture, come è sempre stata interpretata dalla Chiesa cattolica, si oppongono senza mezzi termini le malvagie opinioni di coloro che, stravolgendo la forma di governo decisa da Cristo Signore nella sua Chiesa, negano che Cristo abbia investito il solo Pietro del vero e proprio primato di giurisdizione che lo antepone agli altri Apostoli, sia presi individualmente, sia nel loro insieme, o di coloro che sostengono un primato non affidato in modo diretto e immediato al beato Pietro, ma alla Chiesa e, tramite questa, all’Apostolo come ministro della stessa Chiesa.

Se qualcuno dunque affermerà che il beato Pietro Apostolo non è stato costituito da Cristo Signore Principe di tutti gli Apostoli e capo visibile di tutta la Chiesa militante, o che non abbia ricevuto dallo stesso Signore Nostro Gesù Cristo un vero e proprio primato di giurisdizione, ma soltanto di onore: sia anatema.

Capitolo II – Perpetuità del Primato del Beato Pietro nei Romani Pontefici

Ciò che dunque il Principe dei pastori, e grande pastore di tutte le pecore, il Signore Gesù Cristo, ha istituito nel beato Apostolo Pietro per rendere continua la salvezza e perenne il bene della Chiesa, è necessario, per volere di chi l’ha istituita, che duri per sempre nella Chiesa la quale, fondata sulla pietra, si manterrà salda fino alla fine dei secoli. Nessuno può nutrire dubbi, anzi è cosa risaputa in tutte le epoche, che il santo e beatissimo Pietro, Principe e capo degli Apostoli, colonna della fede e fondamento della Chiesa cattolica, ricevette le chiavi del regno da Nostro Signore Gesù Cristo, Salvatore e Redentore del genere umano: Egli, fino al presente e sempre, vive, presiede e giudica nei suoi successori, i vescovi della santa Sede Romana, da lui fondata e consacrata con il suo sangue [Cf. EPHESINI CONCILII, Act. III]. Ne consegue che chiunque succede a Pietro in questa Cattedra, in forza dell’istituzione dello stesso Cristo, ottiene il Primato di Pietro su tutta la Chiesa. Non tramonta dunque ciò che la verità ha disposto, e il beato Pietro, perseverando nella forza che ha ricevuto, di pietra inoppugnabile, non ha mai distolto la sua mano dal timone della Chiesa [S. LEO M., Serm. III al. II, cap. 3]. È questo dunque il motivo per cui le altre Chiese, cioè tutti i fedeli di ogni parte del mondo, dovevano far capo alla Chiesa di Roma, per la sua posizione di autorevole preminenza, affinché in tale Sede, dalla quale si riversano su tutti i diritti della divina comunione, si articolassero, come membra raccordate alla testa, in un unico corpo [S. IREN., Adv. haer., I, III, c. 3 et CONC. AQUILEI. a. 381 inter epp. S. Ambros., ep. XI] . – Se qualcuno dunque affermerà che non è per disposizione dello stesso Cristo Signore, cioè per diritto divino, che il beato Pietro abbia per sempre successori nel Primato sulla Chiesa universale, o che il Romano Pontefice non sia il successore del beato Pietro nello stesso Primato: sia anatema.

Capitolo III – Della Forza e della Natura del Primato del Romano Pontefice

Sostenuti dunque dalle inequivocabili testimonianze delle sacre lettere e in piena sintonia con i decreti, chiari ed esaurienti, sia dei Romani Pontefici Nostri Predecessori, sia dei Concili generali, ribadiamo la definizione del Concilio Ecumenico Fiorentino che impone a tutti i credenti in Cristo, come verità di fede, che la Santa Sede Apostolica e il Romano Pontefice detengono il Primato su tutta la terra, e che lo stesso Romano Pontefice è il successore del beato Pietro, Principe degli Apostoli, il vero Vicario di Cristo, il capo di tutta la Chiesa, il padre e il maestro di tutti i cristiani; a lui, nella persona del beato Pietro, è stato affidato, da nostro Signore Gesù Cristo, il pieno potere di guidare, reggere e governare la Chiesa universale. Tutto questo è contenuto anche negli atti dei Concili ecumenici e nei sacri canoni. Proclamiamo quindi e dichiariamo che la Chiesa Romana, per disposizione del Signore, detiene il primato del potere ordinario su tutte le altre, e che questo potere di giurisdizione del Romano Pontefice, vero potere episcopale, è immediato: tutti, pastori e fedeli, di qualsivoglia rito e dignità, sono vincolati, nei suoi confronti, dall’obbligo della subordinazione gerarchica e della vera obbedienza, non solo nelle cose che appartengono alla fede e ai costumi, ma anche in quelle relative alla disciplina e al governo della Chiesa, in tutto il mondo. In questo modo, avendo salvaguardato l’unità della comunione e della professione della stessa fede con il Romano Pontefice, la Chiesa di Cristo sarà un solo gregge sotto un solo sommo pastore. Questa è la dottrina della verità cattolica, dalla quale nessuno può allontanarsi senza perdita della fede e pericolo della salvezza. Questo potere del Sommo Pontefice non pregiudica in alcun modo quello episcopale di giurisdizione, ordinario e immediato, con il quale i Vescovi, insediati dallo Spirito Santo al posto degli Apostoli, come loro successori, guidano e reggono, da veri pastori, il gregge assegnato a ciascuno di loro, anzi viene confermato, rafforzato e difeso dal Pastore supremo ed universale, come afferma solennemente San Gregorio Magno: “Il mio onore è quello della Chiesa universale. Il mio onore è la solida forza dei miei fratelli. Io mi sento veramente onorato, quando a ciascuno di loro non viene negato il dovuto onore” [Ep. ad Eulog. Alexandrin., I, VIII, ep. XXX]. Dal supremo potere del Romano Pontefice di governare tutta la Chiesa, deriva allo stesso anche il diritto di comunicare liberamente, nell’esercizio di questo suo ufficio, con i pastori e con i greggi della Chiesa intera, per poterli ammaestrare e indirizzare nella via della salvezza. Condanniamo quindi e respingiamo le affermazioni di coloro che ritengono lecito impedire questo rapporto di comunicazione del capo supremo con i pastori e con i greggi, o lo vogliono asservire al potere civile, poiché sostengono che le decisioni prese dalla Sede Apostolica, o per suo volere, per il governo della Chiesa, non possono avere forza e valore se non vengono confermate dal potere civile. – E poiché per il diritto divino del Primato Apostolico il Romano Pontefice è posto a capo di tutta la Chiesa, proclamiamo anche ed affermiamo che egli è il supremo giudice dei fedeli [PII VI, Breve Super soliditate, d. 28 Nov. 1786] e che in ogni controversia spettante all’esame della Chiesa, si può ricorrere al suo giudizio [CONC. OECUM. LUGDUN. II]. È evidente che il giudizio della Sede Apostolica, che detiene la più alta autorità, non può essere rimesso in questione da alcuno né sottoposto ad esame da parte di chicchessia [Ep. Nicolai I ad Michaelem Imperatorem]. Si discosta quindi dal retto sentiero della verità chi afferma che è possibile fare ricorso al Concilio Ecumenico, come se fosse investito di un potere superiore, contro le sentenze dei Romani Pontefici. – Dunque se qualcuno affermerà che il Romano Pontefice ha semplicemente un compito ispettivo o direttivo, e non il pieno e supremo potere di giurisdizione su tutta la Chiesa, non solo per quanto riguarda la fede e i costumi, ma anche per ciò che concerne la disciplina e il governo della Chiesa diffusa su tutta la terra; o che è investito soltanto del ruolo principale e non di tutta la pienezza di questo supremo potere; o che questo suo potere non è ordinario e diretto sia su tutte e singole le Chiese, sia su tutti e su ciascun fedele e pastore: sia anatema.

Capitolo IV – Del Magistero Infallibile del Romano Pontefice

Questa Santa Sede ha sempre ritenuto che nello stesso Primato Apostolico, posseduto dal Romano Pontefice come successore del beato Pietro Principe degli Apostoli, è contenuto anche il supremo potere di magistero. Lo conferma la costante tradizione della Chiesa; lo dichiararono gli stessi Concili Ecumenici e, in modo particolare, quelli nei quali l’Oriente si accordava con l’Occidente nel vincolo della fede e della carità. Proprio i Padri del quarto Concilio di Costantinopoli, ricalcando le orme dei loro antenati, emanarono questa solenne professione: “La salvezza consiste anzitutto nel custodire le norme della retta fede. E poiché non è possibile ignorare la volontà di nostro Signore Gesù Cristo che proclama: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”, queste parole trovano conferma nella realtà delle cose, perché nella Sede Apostolica è sempre stata conservata pura la religione cattolica, e professata la santa dottrina. Non volendo quindi, in alcun modo, essere separati da questa fede e da questa dottrina, nutriamo la speranza di poterci mantenere nell’unica comunione predicata dalla Sede Apostolica, perché in lei si trova tutta la vera solidità della religione cristiana” [Ex formula S. Hormisdae Papae, prout ab Hadriano II Patribus Concilii Oecumenici VIII, Constantinopolitani IV, proposita et ab iisdem subscripta est]. Nel momento in cui si approvava il secondo Concilio di Lione, i Greci dichiararono: “La Santa Chiesa Romana è insignita del pieno e sommo Primato e Principato sull’intera Chiesa Cattolica e, con tutta sincerità ed umiltà, si riconosce che lo ha ricevuto, con la pienezza del potere, dallo stesso Signore nella persona del beato Pietro, Principe e capo degli Apostoli, di cui il Romano Pontefice è successore, e poiché spetta a lei, prima di ogni altra, il compito di difendere la verità della fede, qualora sorgessero questioni in materia di fede, tocca a lei definirle con una sua sentenza”. Da ultimo il Concilio Fiorentino emanò questa definizione: “Il Pontefice Romano, vero Vicario di Cristo, è il capo di tutta la Chiesa, il padre e il maestro di tutti i Cristiani: a lui, nella persona del beato Pietro, è stato affidato, da nostro Signore Gesù Cristo, il supremo potere di reggere e di governare tutta la Chiesa“. Allo scopo di adempiere questo compito pastorale, i Nostri Predecessori rivolsero sempre ogni loro preoccupazione a diffondere la salutare dottrina di Cristo fra tutti i popoli della terra, e con pari dedizione vigilarono perché si mantenesse genuina e pura come era stata loro affidata. È per questo che i Vescovi di tutto il mondo, ora singolarmente ora riuniti in Sinodo, tenendo fede alla lunga consuetudine delle Chiese e salvaguardando l’iter dell’antica regola, specie quando si affacciavano pericoli in ordine alla fede, ricorrevano a questa Sede Apostolica, dove la fede non può venir meno, perché procedesse in prima persona a riparare i danni [Cf. S. BERN. Epist. CXC]. Gli stessi Romani Pontefici, come richiedeva la situazione del momento, ora con la convocazione di Concili Ecumenici o con un sondaggio per accertarsi del pensiero della Chiesa sparsa nel mondo, ora con Sinodi particolari o con altri mezzi messi a disposizione dalla divina Provvidenza, definirono che doveva essere mantenuto ciò che, con l’aiuto di Dio, avevano riconosciuto conforme alle sacre Scritture e alle tradizioni Apostoliche. Lo Spirito Santo infatti, non è stato promesso ai successori di Pietro per rivelare, con la sua ispirazione, una nuova dottrina, ma per custodire con scrupolo e per far conoscere con fedeltà, con la sua assistenza, la rivelazione trasmessa dagli Apostoli, cioè il deposito della fede. Fu proprio questa dottrina apostolica che tutti i venerabili Padri abbracciarono e i santi Dottori ortodossi venerarono e seguirono, ben sapendo che questa Sede di San Pietro si mantiene sempre immune da ogni errore in forza della divina promessa fatta dal Signore, nostro Salvatore, al Principe dei suoi discepoli: “Io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede, e tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli“.Questo indefettibile carisma di verità e di fede fu dunque divinamente conferito a Pietro e ai suoi successori in questa Cattedra, perché esercitassero il loro eccelso ufficio per la salvezza di tutti, perché l’intero gregge di Cristo, distolto dai velenosi pascoli dell’errore, si alimentasse con il cibo della celeste dottrina e perché, dopo aver eliminato ciò che porta allo scisma, tutta la Chiesa si mantenesse una e, appoggiata sul suo fondamento, resistesse incrollabile contro le porte dell’inferno.Ma poiché proprio in questo tempo, nel quale si sente particolarmente il bisogno della salutare presenza del ministero Apostolico, si trovano parecchie persone che si oppongono al suo potere, riteniamo veramente necessario proclamare, in modo solenne, la prerogativa che l’unigenito Figlio di Dio si è degnato di legare al supremo ufficio pastorale.Perciò Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa. Se qualcuno quindi avrà la presunzione di opporsi a questa Nostra definizione, Dio non voglia!: sia anatema.

Dato a Roma, nella pubblica sessione celebrata solennemente nella Basilica Vaticana, nell’anno 1870

dell’Incarnazione del Signore, il 18 luglio, venticinquesimo anno del Nostro Pontificato.

PIO PP. IX

[grassetto, sottolineature e colore sono redazionali].

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Pastor Æternus condanna la setta nuova di zecca dei “doppi sedevacantisti”!

La NUOVA SETTA DEL “DOPPIO SEDEVACANTISMO”

  Si sta affermando ai nostri tempi un nuovo mostro teologico: il “doppio sedevacantismo”, che si aggiunge così al variegato e pittoresco panorama di sette protestanti, eretiche e scismatiche, molte autodefinite finanche tradizionaliste! Di cosa si tratta? Ci sono diversi soggetti che, pur ritenendo i clown vaticani dei veri Papi, li bollano definendoli massoni, marrani, eretici, apostati, quanto meno a-cattolici, etc. etc., negando loro di conseguenza ogni obbedienza dottrinale, disciplinare, liturgica e di giurisdizione. In realtà essi li ritengono “ipso facto” decaduti dal ruolo di Pontefice, come da elementari leggi canoniche: come può un non cattolico, un illuminato di Baviera satanista, un accusato di crimini contro l’umanità, un pederasta notorio ed ostinato fin sul letto di morte … etc. etc., essere il capo della Chiesa cattolica? Pertanto si sarebbe in piena Sede vacante già da decenni [dal 1958]. Nel contempo però essi ritengono che nel Conclave del 26-X-58 sia stato eletto legittimamente Papa il cardinal Siri, col nome di Gregorio XVII, e che, essendo stato egli impedito, tutti i successivi “impostori” eletti siano stati e siano degli anti-papi al servizio della giudeo-massoneria. E qui abbiamo il secondo obbrobrio teologico e magisteriale: il “vero” Santo Padre Gregorio XVII, una volta deceduto [2 maggio del 1989), non avrebbe lasciato il suo incarico ad un successore, designato dai Cardinali legittimi e canonicamente nominati dallo stesso Gregorio XVII, venendosi così, anche questa volta, a determinare una condizione di sedevacantismo, o meglio di doppio-sedevacantismo dal 1989! In pratica l’inizio della Sede vacante è stata spostata di circa una trentina di anni. Ora questo pensiero corrotto e distorto, oltretutto patologicamente schizoide, per non dire da idiozia pura, contraddice in modo aberrante, temerario e “novatorio” il mandato pietrino del divin Fondatore, che ha promesso la perpetuità della “Sua” presenza in Pietro e nei suoi successori fino alla fine del mondo. Questi neo-eretici sono pure in condizione di scomunica “latae sententiae” per non accettare, rifiutando con sofismi sottili ma incongrui, il dogma definito nel Concilio Vaticano della perpetuità della serie ininterrotta dei successori di Pietro [come abbiamo per l’appunto appena letto nella Pastor Æternus]. –  Complimenti quindi a questi nuovi e doppiamente eretici, carichi di anatemi a “ripetizione” ed in serie, dei quali non si accorgono, o di cui non vogliono tener conto, non essendo giustamente più parte, da scomunicati “ipso facto”, della Chiesa Cattolica, e quindi candidati “di diritto” al fuoco eterno! E molti si dicono addirittura tradizionalisti ed osservanti il Magistero … ma ci facciano il piacere … lo vadano a raccontare a tanti loro ciechi seguaci doppiamente ingannati, e doppiamente colpevolmente ignoranti.

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Che la Vergine Maria, debellatrice di tutte le eresie, sia ancora una volta trionfante anche su questi nuovi servi del serpente nemico!

Un’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA-APOSTATA DI TORNO … e pure il falso tradizionalista: “GRAVES AC DIUTURNAE

Oggi ci occupiamo di una lettera enciclica di Pio IX poco conosciuta dal pubblico, accuratamente occultata, o quantomeno poco citata, perché dal contenuto scomodo, non solo per i falsi cattolici del N.O., ma ancor più dai sedicenti “tradizionalisti[la seconda ganascia della tenaglia stritola-cattolico], che si arrogano il diritto di “consacrare” Vescovi e sacerdoti, di istituire seminari, amministrare sacramenti in modo quantomeno illecito, cioè sacrilego e gravemente peccaminoso, in nome di una presunta necessità di operare nella sedicente tradizione cattolica, pur eludendo totalmente dai canoni della Chiesa Cattolica. Come allora, oggi ancor più, in Svizzera e un po’ dappertutto nel mondo oramai, imperversano i falsi“veri cattolici” della tradizione, i falsi profeti in veste di agnello, travestiti con talari nere o rosse, dai volti e dai modi rassicuranti, appartenenti a “scuole di pensiero” diverse, ma tutte facenti capo, in un modo o nell’altro, ad uno stato scismatico ed autogestito, slegato totalmente dalla gerarchia, governato da autorità auto-create ad hoc, senza giurisdizione o missione di alcun genere, investiti direttamente dall’ “Autorità divina”, circondati da aloni mistici, o di santità autoproclamata  ed accettata come ordinaria ed autentica dai poveri “brocchi” che vi aderiscono con nocumento gravissimo delle loro anime. Ma iniziamo: “Graves ac diuturnæ insidiæ et conatus quos in dies magis neohæretici … etc. ….

GRAVES AC DIUTURNAE

S. S. Pio IX

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Le gravi e diuturne insidie, e gli sforzi che ogni giorno più compiono in codesta regione i neo-eretici, che si dicono vecchi cattolici, per ingannare e strappare dall’avita fede il popolo fedele, Ci muovono, per dovere del supremo Nostro Apostolato, a portare con ogni zelo le cure e le sollecitudini paterne in difesa della salute spirituale dei Nostri Figli. Ci è noto infatti, Venerabili Fratelli, e con dolore lo deploriamo, che i predetti scismatici ed eretici, nel territorio della diocesi di Basilea, ed in altri luoghi di codesta regione, mentre la libertà religiosa dei cattolici è pubblicamente oppressa dalle leggi scismatiche, essi, col favore dell’autorità civile, esercitano il ministero della condannata loro setta, e, occupate violentemente le parrocchie e le chiese da preti apostati, non tralasciano alcun genere di frode e di artificio per attirare miseramente nello scisma i Figli della Chiesa cattolica. Siccome poi fu sempre proprio e peculiare degli eretici e degli scismatici l’usare simulazione ed inganni; così questi Figli delle tenebre (che debbono annoverarsi fra coloro ai quali fu detto dal Profeta: “Guai a voi, figli disertori, che nutrite fiducia nella Protezione dell’Egitto: avete respinto il Verbo e avete confidato nella calunnia e nel disordine“) nulla hanno maggiormente a cuore che d’ingannare gl’incauti e gl’ignoranti, e trarli negli errori con la simulazione e l’ipocrisia, ripetendo pubblicamente che non respingono la Chiesa cattolica e il suo Capo visibile, ma anzi desiderano la purezza della dottrina cattolica, e sono essi soli cattolici ed eredi dell’antica fede. Di fatto essi non vogliono riconoscere tutte le prerogative del Vicario di Cristo in terra, né sono ossequienti al supremo magistero di Lui. – Per diffondere poi ampiamente le loro dottrine eretiche, sappiamo pure che alcuni di essi hanno assunto l’ufficio d’insegnare la sacra teologia nell’Università di Berna, sperando in tale modo di potere guadagnare fra la gioventù cattolica nuovi seguaci della loro condannata fazione. Noi abbiamo già riprovato e condannato questa deplorabile setta. Con la Nostra lettera pubblicata il 21 novembre dell’anno 1873, abbiamo detto e dichiarato che quegli infelici, i quali a tale setta appartengono e ad essa danno adesione e favore, sono segregati dalla comunione della Chiesa e devono ritenersi scismatici. Dichiarando ora di nuovo e pubblicamente questa stessa cosa, crediamo Nostro dovere, Venerabili Fratelli, di rivolgerci a voi affinché, con quello specchiato vostro zelo e con quella egregia vostra virtù, di cui avete dato splendidi esempi nel sostenere tribolazioni per la causa dl Dio, in ogni modo possibile difendiate l’unità della fede nei vostri fedeli, e richiamiate alla loro memoria che si guardino con ogni attenzione da quegl’insidiosi nemici del gregge di Cristo e dai loro pascoli velenosi; rifuggano assolutamente dai loro riti religiosi, dalle istruzioni, dalle cattedre di pestilenza, erette per insegnare impunemente le sacre dottrine; dai loro scritti e da qualunque contatto; non sopportino alcuna convivenza e relazione coi preti intrusi ed apostati dalla fede, i quali osano esercitare gli uffici del ministero ecclesiastico, e sono privi di legittima missione e di qualsiasi giurisdizione; aborriscano dai medesimi come da estranei e da ladri, i quali vengono solo per rubare, per uccidere, per rovinare. Infatti i Figli della Chiesa debbono pensare che si tratta di custodire il preziosissimo tesoro della fede, senza la quale è impossibile piacere a Dio, ed insieme di conseguire il fine della fede, la salvezza delle anime proprie, seguendo la retta via della giustizia. – E poiché conosciamo che costì, oltre alle altre leggi ostili alla divina costituzione ed all’autorità della Chiesa, ne sono state emanate altre dall’autorità civile, assolutamente contrarie alle prescrizioni canoniche relative al matrimonio cristiano, e che con queste leggi sono del tutto conculcate l’autorità e la giurisdizione ecclesiastica, non possiamo fare a meno, Venerabili Fratelli, di esortarvi nel Signore affinché con opportune istruzioni spieghiate ai vostri fedeli la dottrina cattolica sul matrimonio cristiano, e ricordiate loro ciò che molte volte nelle Nostre Lettere Apostoliche o nelle Allocuzioni, specialmente in quelle del 9 e 27 settembre 1852, abbiamo inculcato intorno a questo Sacramento, ond’essi conoscano pienamente la santità e la forza di questo Sacramento, e in ciò conformandosi piamente alle leggi canoniche, possano evitare quei mali che derivano nelle famiglie e nella umana società dalla dispregiata santità del matrimonio. – Confidiamo poi moltissimo nel Signore che voi, diletti Figli Parroci ed ecclesiastici (che vi trovate, non solo per la vostra ma anche per l’altrui santificazione e salvezza, in così grande cospirazione degli empi e in mezzo a tanti pericoli di seduzioni) secondo la vostra pietà e il vostro zelo, di cui abbiamo avuto splendide prove, sarete di efficace conforto ed aiuto ai vostri Vescovi, e sotto la loro guida vi adoprerete con coraggio ed alacrità per difendere diligentemente la causa di Dio, della Chiesa e della salvezza delle anime, per confermare la virtù dei fedeli che resistono alle prove, per soccorrere la debolezza dei vacillanti, e per accrescere ogni giorno più quei meriti presso Dio, che avete acquistato con la pazienza, con la costanza, con la forza sacerdotale. Sono pur gravi le fatiche che in questo tempo debbono sostenere coloro che rappresentano le veci di Gesù Cristo; ma la Nostra fiducia dev’essere riposta in Colui che vinse il mondo e che aiuta chi fatica nel suo nome, e lo ricompensa nei cieli con immarcescibile corona di gloria. – Voi poi, fedeli tutti, Nostri Figli diletti dimoranti nella Svizzera, cui, solleciti come siamo della vostra salute, con paterno affetto dirigiamo la parola, voi, che ben comprendete quanto sia prezioso il dono della fede cattolica che Dio vi ha elargito, non risparmiate cura e fatica, al fine di custodire fedelmente tale dono e conservare incolume ed integra la gloria della religione che riceveste dai vostri maggiori. Perciò vi raccomandiamo vivamente di stare con fermezza e costanza uniti ai vostri legittimi Pastori, i quali da questa Sede Apostolica ricevettero la loro missione e vegliano per le anime vostre, dovendo renderne conto a Dio; vi raccomandiamo di ascoltare obbedienti la loro voce, avendo sempre dinnanzi agli occhi queste parole dell’eterna Verità, “chi non è con me è contro di me; chi non raccoglie con me, disperde” Siate ossequienti alle dottrine di essa, ed amanti del soave suo giogo, respingendo lontano da voi con energia coloro dei quali il Redentore nostro disse: “Guardatevi dai falsi Profeti che vengono a voi in veste di agnelli, in verità nell’intimo sono lupi rapaci“. Forti della fede, resistete adunque all’antico nemico del genere umano, “finché la destra di Dio onnipotente annienti tutte le armi del diavolo, al quale per questo viene concesso di osare qualunque cosa affinché derivi dalla vittoria maggior gloria ai fedeli di Cristo… poiché dove la verità è maestra, non mancano mai le consolazioni divine” (San Leo, in Epistola ad Martinum Presbyterum). – Scrivervi queste cose, Venerabili Fratelli e diletti Figli, stimammo che fosse dovere del Nostro ministero, in forza del quale siamo tenuti a salvare tutto il gregge di Cristo da qualsivoglia pericolo di frode, ed a tutelare la sua salute nonché l’unità della fede e della Chiesa. Siccome pertanto ogni ottima concessione ed ogni dono perfetto emanano diretta mente dal Padre dei lumi, dal profondo del cuore invochiamo Lui a confortare nella lotta le vostre forze, a sostenervi con la sua protezione e col suo presidio, ed a guardare con occhio propizio codesta regione, affinché, sgominati gli errori e i consigli degli empi, essa possa godere tranquilla la pace della verità e della giustizia. Né tralasciamo di implorare il supremo Lume anche per i miseri traviati, affinché desistano dall’accumulare a loro danno lo sdegno divino, per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, ma, finché sono in tempo, si convertano con una sincera penitenza dalla via dell’errore. – Voi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, unite le vostre alle fervide Nostre preci, acciocché otteniamo misericordia e grazia nell’aiuto opportuno, e ricevete l’Apostolica Benedizione che dal profondo del cuore, quale pegno di singolare Nostra carità, a tutti e ai singoli affettuosamente impartiamo nel Signore.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 23 marzo 1875, anno ventinovesimo del Nostro Pontificato.

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Attenzione dunque ai figli delle tenebre, ai lupi in cuor loro rapaci, a coloro che, 140 anni or sono come oggi, si proclamano i veri cattolici legati alla tradizione, magari solo perché celebrano la Messa di sempre (in vero sacrilegamente, perché pseudo-preti laici mai consacrati validamente da pseudo-vescovi mai nominati dalla Sede Apostolica), ma che aderiscono comunque all’apostasia della setta conciliare-modernista del N.O., riconoscendone il capo “usurpante” come vero Papa, al quale però si dicono in diritto di disobbedire, contraddicendo il Magistero alla sua base, Magistero che essi dicono di osservare, ma evidentemente solo per quello che fa loro comodo, eludendo allegramente ciò che riguarda il potere di giurisdizione, la nomina autonoma ed incontrollata di falsi vescovi e la missione canonica di falsi sacerdoti che celebrano in modo invalido ed illecito, la fondazione di scuole e seminari mai autorizzati dalla Sede apostolica, nemmeno da quella fasulla! … senza contare le radici massoniche del falso-cardinale e cavaliere Kadosh “adonai nokem” A. LIENART , che da buon 30° grado, cioè scomunicato abbondantemente “ipso facto” e pertanto senza mai aver ricevuto il sigillo sacerdotale né di conseguenza alcuna ordinazione valida, non ha mai a sua volta consacrato validamente alcun sacerdote e tantomeno alcun Vescovo! Da questa radice massonica, altro tentacolo della piovra giudaica, derivano le cosiddette “fraternità” [già il nome ha un vago sapore di loggia giacobina!!!], ma pure Istituti spaccianti para-teologie e con maschera mariana … ed aumentano sempre, più onde alimentare la confusione dei malcapitati pluri-ingannati. Attenzione quindi ai lupi sedevacantisti o ai subdoli sedeprivazionisti, tutti invalidamente consacrati spesso da ridicoli e pittoreschi vescovi auto referenziati, anch’essi senza alcuna giurisdizione. Essi ritengono Gesù Cristo un bugiardo quando ha asserito che Egli sarebbe stato con noi fino all’ultimo giorno del mondo, e ritengono falsi i santi Padri conciliari presieduti da S.S. Pio IX al concilio Vaticano, quando nella “Pastor Aeternus” hanno ribadito infallibilmente che:Se qualcuno dunque affermerà che non è per disposizione dello stesso Cristo Signore, cioè per diritto divino, che il beato Pietro abbia per sempre successori nel Primato sulla Chiesa universale […]: sia anatema” [Cap. II]. – Ascoltiamo allora la voce della Chiesa attraverso il Magistero autentico, e lasciamo le suggestioni sentimentali, le affezioni amicali, il rispetto umano, la millantata autenticità ed il falso tradizionalismo, le auto-rivelazioni mariane taroccate, etc. Il Magistero è chiaro, bisogna solo leggerlo, ma … nella sua interezza, e possibilmente senza gli occhiali da sole o … le travi negli occhi!

Un’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA-APOSTATA DI TORNO: “MORTALIUM ANIMOS”

Proponiamo oggi la lettura e lo studio di una enciclica “chiave” nella storia della Chiesa del secolo XX, la Mortalium animos, di S. S. Pio XI. Essa fa ben comprendere ai sedicenti cattolici attuali, in realtà modernisti fin nelle midolla, come il “pan-cristianesimo” sia una eresia manifesta, anzi “una bestemmia”, come S. S. la definisce in un passaggio della lettera. Questo per chi avesse ancora dubbi sulla buona fede o sulla cattolicità di certe istituzioni, chiaramente false ed ingannatrici, sia moderniste che finte-tradizionaliste, e quindi fuori dalla Chiesa Cattolica, che non può insegnare, per dogma di fede, falsità, eresie, o avvelenare lo spirito dei fedeli. A chi inneggia ancora alle false autorità che “celebrano” [si fa per dire] in modo sacrilego riti in unione con prelati e “sacerdotesse” di chiese eretiche e scismatiche, diciamo: ragazzi, svegliatevi, non sentite puzza di inganno da miglia di lontananza, o vi si sono completamente otturate le narici? Certo quel che diciamo noi, da privati Cattolici non allineati al modernismo, non conta nulla, ma la dottrina di un “vero” Papa, Vicario di Cristo in terra e voce stessa di Cristo, non può essere infangata, profanata e calpestata senza che sorga almeno un dubbio e ci faccia riflettere, non per motivi ideologici o culturali, ma per il bene della nostra anima che rischia seriamente il fuoco eterno senza nemmeno poterci affidare alle “attenuanti generiche”, vista la chiarezza luminosa [ … o tenebrosa] della situazione attuale. Raccogliamo poi l’ultima raccomandazione del Pontefice, quella di invocare la Vergine Maria, che sola ha distrutto tutte le eresie … certo oggi esse sono infinite e gli eresiarchi sono all’interno della chiesa un tempo cattolica, ma chi, se non Lei può riuscire nell’impresa titanica?

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LETTERA ENCICLICA

MORTALIUM ANIMOS

DI SUA SANTITÀ

PIO XI

AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI ED AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI CHE HANNO PACE E COMUNIONE CON LA SEDE APOSTOLICA

SULLA DIFESA DELLA VERITÀ RIVELATA DA GESÙ

 

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Forse in passato non è mai accaduto che il cuore delle creature umane fosse preso come oggi da un così vivo desiderio di fraternità — nel nome della stessa origine e della stessa natura — al fine di rafforzare ed allargare i rapporti nell’interesse della società umana. Infatti, quantunque le nazioni non godano ancora pienamente i doni della pace, ed anzi in talune località vecchi e nuovi rancori esplodano in sedizioni e lotte civili, né d’altra parte è possibile dirimere le numerosissime controversie che riguardano la tranquillità e la prosperità dei popoli, ove non intervengano l’azione e l’opera concorde di coloro che governano gli Stati e ne reggono e promuovono gli interessi, facilmente si comprende — tanto più che convengono ormai tutti intorno all’unità del genere umano — come siano molti coloro che bramano vedere sempre più unite tra di loro le varie nazioni, a ciò portate da questa fratellanza universale. – Un obiettivo non dissimile cercano di ottenere alcuni per quanto riguarda l’ordinamento della Nuova Legge, promulgata da Cristo Signore. Persuasi che rarissimamente si trovano uomini privi di qualsiasi sentimento religioso, sembrano trarne motivo a sperare che i popoli, per quanto dissenzienti gli uni dagli altri in materia di religione, pure siano per convenire senza difficoltà nella professione di alcune dottrine, come su un comune fondamento di vita spirituale. Perciò sono soliti indire congressi, riunioni, conferenze, con largo intervento di pubblico, ai quali sono invitati promiscuamente tutti a discutere: infedeli di ogni gradazione, cristiani, e persino coloro che miseramente apostatarono da Cristo o che con ostinata pertinacia negano la divinità della sua Persona e della sua missione. Non possono certo ottenere l’approvazione dei cattolici tali tentativi fondati sulla falsa teoria che suppone buone e lodevoli tutte le religioni, in quanto tutte, sebbene in maniera diversa, manifestano e significano egualmente quel sentimento a tutti congenito per il quale ci sentiamo portati a Dio e all’ossequente riconoscimento del suo dominio. Orbene, i seguaci di siffatta teoria, non soltanto sono nell’inganno e nell’errore, ma ripudiano la vera religione depravandone il concetto e svoltano passo passo verso il naturalismo e l’ateismo; donde chiaramente consegue che quanti aderiscono ai fautori di tali teorie e tentativi si allontanano del tutto dalla religione rivelata da Dio. – Ma dove, sotto l’apparenza di bene, si cela più facilmente l’inganno, è quando si tratta di promuovere l’unità fra tutti i cristiani. Non è forse giusto — si va ripetendo — anzi non è forse conforme al dovere che quanti invocano il nome di Cristo si astengano dalle reciproche recriminazioni e si stringano una buona volta con i vincoli della vicendevole carità? E chi oserebbe dire che ama Cristo se non si adopera con tutte le forze ad eseguire il desiderio di Lui, che pregò il Padre perché i suoi discepoli « fossero una cosa sola »? [1]. E lo stesso Gesù Cristo non volle forse che i suoi discepoli si contrassegnassero e si distinguessero dagli altri per questa nota dell’amore vicendevole: « In ciò conosceranno tutti che siete miei discepoli se vi amerete l’un l’altro»? [2]. E volesse il Cielo, soggiungono, che tutti quanti i cristiani fossero « una cosa sola »; sarebbero assai più forti nell’allontanare la peste dell’empietà, la quale, serpeggiando e diffondendosi ogni giorno più, minaccia di travolgere il Vangelo. – Questi ed altri simili argomenti esaltano ed eccitano coloro che si chiamano pancristiani, i quali, anziché restringersi in piccoli e rari gruppi, sono invece cresciuti, per così dire, a schiere compatte, riunendosi in società largamente diffuse, per lo più sotto la direzione di uomini acattolici, pur fra di loro dissenzienti in materia di fede. E intanto si promuove l’impresa con tale operosità, da conciliarsi qua e là numerose adesioni e da cattivarsi perfino l’animo di molti cattolici con l’allettante speranza di riuscire ad un’unione che sembra rispondere ai desideri di Santa Madre Chiesa, alla quale certo nulla sta maggiormente a cuore che il richiamo e il ritorno dei figli erranti al suo grembo. Ma sotto queste insinuanti blandizie di parole si nasconde un errore assai grave che varrebbe a scalzare totalmente i fondamenti della fede cattolica. Pertanto, poiché la coscienza del Nostro Apostolico ufficio ci impone di non permettere che il gregge del Signore venga sedotto da dannose illusioni, richiamiamo, Venerabili Fratelli, il vostro zelo contro così grave pericolo, sicuri come siamo che per mezzo dei vostri scritti e della vostra parola giungeranno più facilmente al popolo (e dal popolo saranno meglio intesi) i princìpi e gli argomenti che siamo per esporre. Così i cattolici sapranno come giudicare e regolarsi di fronte ad iniziative intese a procurare in qualsivoglia maniera l’unione in un corpo solo di quanti si dicono cristiani. – Dio, Fattore dell’Universo, Ci creò perché Lo conoscessimo e Lo servissimo; ne segue che Egli ha pieno diritto di essere da noi servito. Egli avrebbe bensì potuto, per il governo dell’uomo, prescrivere soltanto la pura legge naturale, da Lui scolpitagli nel cuore nella stessa creazione, e con ordinaria sua provvidenza regolare i progressi di questa medesima legge. Invece preferì imporre dei precetti ai quali ubbidissimo e nel corso dei secoli, ossia dalle origini del genere umano alla venuta e alla predicazione di Gesù Cristo, Egli stesso volle insegnare all’uomo i doveri che legano gli esseri ragionevoli al loro Creatore: « Iddio, che molte volte e in diversi modi aveva parlato un tempo ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del figlio » [3]. Dal che consegue non potersi dare vera religione fuori di quella che si fonda sulla parola rivelata da Dio, la quale rivelazione, cominciata da principio e continuata nell’Antico Testamento, fu compiuta poi nel Nuovo dallo stesso Gesù Cristo. Orbene, se Dio ha parlato, e che abbia veramente parlato è storicamente certo, tutti comprendono che è dovere dell’uomo credere assolutamente alla rivelazione di Dio e ubbidire in tutto ai suoi comandi: e appunto perché rettamente l’una cosa e l’altra noi adempissimo, per la gloria divina e la salvezza nostra, l’Unigenito Figlio di Dio fondò sulla terra la sua Chiesa. Quanti perciò si professano cristiani non possono non credere alla istituzione di una Chiesa, e di una Chiesa sola, per opera di Cristo; ma se s’indaga quale essa debba essere secondo la volontà del suo Fondatore, allora non tutti sono consenzienti. Fra essi, infatti, un buon numero nega, per esempio, che la Chiesa di Cristo debba essere visibile, almeno nel senso che debba apparire come un solo corpo di fedeli, concordi in una sola e identica dottrina, sotto un unico magistero e governo, intendendo per Chiesa visibile nient’altro che una Confederazione formata dalle varie comunità cristiane, benché aderiscano chi ad una chi ad altra dottrina, anche se dottrine fra loro opposte. Invece Cristo nostro Signore fondò la sua Chiesa come società perfetta, per sua natura esterna e sensibile, affinché proseguisse nel tempo avvenire l’opera della salvezza del genere umano, sotto la guida di un solo capo [4], con l’insegnamento a viva voce [7], con l’amministrazione dei sacramenti, fonti della grazia celeste [6]; perciò Egli la dichiarò simile ad un regno [7], a una casa [8], ad un ovile [9], ad un gregge [10]. Tale Chiesa così meravigliosamente costituita, morti il suo Fondatore e gli Apostoli, che primi la propagarono, non poteva assolutamente cessare ed estinguersi, poiché ad essa era stato affidato il compito di condurre alla salvezza eterna tutti gli uomini, senza distinzione di tempo e di luogo: « Andate adunque e insegnate a tutte le genti » [11]. Ora, nel continuo adempimento di questo ufficio, potranno forse venir meno alla Chiesa il valore e l’efficacia, se è continuamente assistita dallo stesso Cristo, secondo la solenne promessa: « Ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo »? [12].- Necessariamente, quindi, non solo la Chiesa di Cristo deve sussistere oggi e in ogni tempo, ma anzi deve sussistere quale fu al tempo apostolico, se non vogliamo dire — il che è assurdo — che Cristo Signore o sia venuto meno al suo intento, o abbia errato quando affermò che le porte dell’inferno non sarebbero mai prevalse contro la Chiesa [13]. – E qui si presenta l’opportunità di chiarire e confutare una falsa opinione, da cui sembra dipenda tutta la presente questione e tragga origine la molteplice azione degli acattolici, operante, come abbiamo detto, alla riunione delle Chiese cristiane. – I fautori di questa iniziativa quasi non finiscono di citare le parole di Cristo: « Che tutti siano una cosa sola … Si farà un solo ovile e un solo pastore » [14], nel senso però che quelle parole esprimano un desiderio e una preghiera di Gesù Cristo ancora inappagati. Essi sostengono infatti che l’unità della fede e del governo — nota distintiva della vera e unica Chiesa di Cristo — non sia quasi mai esistita prima d’ora, e neppure oggi esista; essa può essere sì desiderata e forse in futuro potrebbe anche essere raggiunta mediante la buona volontà dei fedeli, ma rimarrebbe, intanto, un puro ideale. Dicono inoltre che la Chiesa, per sé o di natura sua, è divisa in parti, ossia consta di moltissime chiese o comunità particolari, le quali, separate sinora, pur avendo comuni alcuni punti di dottrina, differiscono tuttavia in altri; a ciascuna competono gli stessi diritti; la Chiesa al più fu unica ed una dall’età apostolica sino ai primi Concili Ecumenici. Quindi soggiungono che, messe totalmente da parte le controversie e le vecchie differenze di opinioni che sino ai giorni nostri tennero divisa la famiglia cristiana, con le rimanenti dottrine si dovrebbe formare e proporre una norma comune di fede, nella cui professione tutti si possano non solo riconoscere, ma sentire fratelli; e che soltanto se unite da un patto universale, le molte chiese o comunità saranno in grado di resistere validamente con frutto ai progressi dell’incredulità. – Così, Venerabili Fratelli, si va dicendo comunemente. Vi sono però taluni che affermano e ammettono che troppo sconsigliatamente il protestantesimo rigettò alcuni punti di fede e qualche rito del culto esterno, certamente accettabili ed utili, che la Chiesa Romana invece conserva. Ma tosto soggiungono che questa stessa Chiesa corruppe l’antico cristianesimo aggiungendo e proponendo a credere parecchie dottrine non solo estranee, ma contrarie al Vangelo, tra le quali annoverano, come principale, quella del Primato di giurisdizione, concesso a Pietro e ai suoi successori nella Sede Romana. Tra costoro ci sono anche alcuni, benché pochi in verità, i quali concedono al Romano Pontefice un primato di onore o una certa giurisdizione e potestà, facendola però derivare non dal diritto divino, ma in certo qual modo dal consenso dei fedeli; altri giungono perfino a volere lo stesso Pontefice a capo di quelle loro, diciamo così, variopinte riunioni. Che se è facile trovare molti acattolici che predicano con belle parole la fraterna comunione in Gesù Cristo, non se ne rinviene uno solo a cui cada in mente di sottomettersi al governo del Vicario di Gesù Cristo o di ubbidire al suo magistero. E intanto affermano di voler ben volentieri trattare con la Chiesa Romana, ma con eguaglianza di diritti, cioè da pari a pari; e certamente se potessero così trattare, lo farebbero con l’intento di giungere a una convenzione la quale permettesse loro di conservare quelle opinioni che li tengono finora vaganti ed erranti fuori dell’unico ovile di Cristo. – A tali condizioni è chiaro che la Sede Apostolica non può in nessun modo partecipare alle loro riunioni e che in nessun modo i cattolici possono aderire o prestare aiuto a siffatti tentativi; se ciò facessero, darebbero autorità ad una falsa religione cristiana, assai lontana dall’unica Chiesa di Cristo. Ma potremo Noi tollerare l’iniquissimo tentativo di vedere trascinata a patteggiamenti la verità, la verità divinamente rivelata? Ché qui appunto si tratta di difendere la verità rivelata. Gesù Cristo inviò per l’intero mondo gli Apostoli a predicare il Vangelo a tutte le nazioni; e perché in nulla avessero ad errare volle che anzitutto essi fossero ammaestrati in ogni verità, dallo Spirito Santo [15]; forse che questa dottrina degli Apostoli venne del tutto a meno o si offuscò talvolta nella Chiesa, diretta e custodita da Dio stesso? E se il nostro Redentore apertamente disse che il suo Vangelo riguardava non solo il periodo apostolico, ma anche le future età, poté forse l’oggetto della fede, col trascorrere del tempo, divenire tanto oscuro e incerto da doversi tollerare oggi opinioni fra loro contrarie? Se ciò fosse vero, si dovrebbe parimenti dire che la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli e la perpetua permanenza nella Chiesa dello stesso Spirito e persino la predicazione di Gesù Cristo da molti secoli hanno perduto ogni efficacia e utilità: affermare ciò sarebbe bestemmia. Inoltre, l’Unigenito Figlio di Dio non solo comandò ai suoi inviati di ammaestrare tutti i popoli, ma anche obbligò tutti gli uomini a prestar fede alle verità che loro fossero annunziate « dai testimoni preordinati da Dio » [16], e al suo precetto aggiunse la sanzione « Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo; ma chi non crederà, sarà condannato » [17]. – Ma questo doppio comando di Cristo, da osservarsi necessariamente, d’insegnare cioè e di credere per avere l’eterna salvezza, neppure si potrebbe comprendere se la Chiesa non proponesse intera e chiara la dottrina evangelica e non fosse immune da ogni pericolo di errore nell’insegnarla. Perciò è lontano dal vero chi ammette sì l’esistenza in terra di un deposito di verità, ma pensa poi che sia da cercarsi con tanto faticoso lavoro, con tanto diuturno studio e dispute, che a mala pena possa bastare la vita di un uomo per trovarlo e goderne; quasi che il benignissimo Iddio avesse parlato per mezzo dei Profeti e del suo Unigenito perché pochi soltanto, e già molto avanzati negli anni, imparassero le verità rivelate, e non per imporre una dottrina morale che dovesse reggere l’uomo in tutto il corso della sua vita. – Potrà sembrare che questi pancristiani, tutti occupati nell’unire le chiese, tendano al fine nobilissimo di fomentare la carità fra tutti i cristiani; ma come mai potrebbe la carità riuscire in danno della fede? Nessuno certamente ignora che lo stesso apostolo della carità, San Giovanni (il quale nel suo Vangelo pare abbia svelato i segreti del Cuore sacratissimo di Gesù che sempre soleva inculcare ai discepoli il nuovo comandamento: « Amatevi l’un l’altro »), ha vietato assolutamente di avere rapporti con coloro i quali non professano intera ed incorrotta la dottrina di Cristo: « Se qualcuno viene da voi e non porta questa dottrina, non ricevetelo in casa e non salutatelo nemmeno » [18]. Quindi, appoggiandosi la carità, come su fondamento, sulla fede integra e sincera, è necessario che i discepoli di Cristo siano principalmente uniti dal vincolo dell’unità della fede. – Come dunque si potrebbe concepire una Confederazione cristiana, i cui membri, anche quando si trattasse dell’oggetto della fede, potessero mantenere ciascuno il proprio modo di pensare e giudicare, benché contrario alle opinioni degli altri? E in che modo, di grazia, uomini che seguono opinioni contrarie potrebbero far parte di una sola ed eguale Confederazione di fedeli? Come, per esempio, chi afferma che la sacra Tradizione è fonte genuina della divina Rivelazione e chi lo nega? Chi tiene per divinamente costituita la gerarchia ecclesiastica, formata di vescovi, sacerdoti e ministri, e chi asserisce che è stata a poco a poco introdotta dalla condizione dei tempi e delle cose? Chi adora Cristo realmente presente nella santissima Eucaristia per quella mirabile conversione del pane e del vino, che viene detta transustanziazione, e chi afferma che il Corpo di Cristo è ivi presente solo per la fede o per il segno e la virtù del Sacramento? Chi riconosce nella stessa Eucaristia la natura di sacrificio e di Sacramento, e chi sostiene che è soltanto una memoria o commemorazione della Cena del Signore? Chi Stima buona e utile la supplice invocazione dei Santi che regnano con Cristo, soprattutto della Vergine Madre di Dio, e la venerazione delle loro immagini, e chi pretende che tale culto sia illecito, perché contrario all’onore « dell’unico mediatore di Dio e degli uomini » [19], Gesù Cristo? Da così grande diversità d’opinioni non sappiamo come si prepari la via per formare l’unità della Chiesa, mentre questa non può sorgere che da un solo magistero, da una sola legge del credere e da una sola fede nei cristiani; sappiamo invece benissimo che da quella diversità è facile il passo alla noncuranza della religione, cioè all’indifferentismo e al cosiddetto modernismo, il quale fa ritenere, da chi ne è miseramente infetto, che la verità dogmatica non è assoluta, ma relativa, cioè proporzionata alle diverse necessità dei tempi e dei luoghi e alle varie tendenze degli spiriti, non essendo essa basata sulla rivelazione immutabile, ma sull’adattabilità della vita. Inoltre in materia di fede, non è lecito ricorrere a quella differenza che si volle introdurre tra articoli fondamentali e non fondamentali, quasi che i primi si debbano da tutti ammettere e i secondi invece siano lasciati liberi all’accettazione dei fedeli. La virtù soprannaturale della fede, avendo per causa formale l’autorità di Dio rivelante, non permette tale distinzione. Sicché tutti i cristiani prestano, per esempio, al dogma della Immacolata Concezione la stessa fede che al mistero dell’Augusta Trinità, e credono all’Incarnazione del Verbo non altrimenti che al magistero infallibile del Romano Pontefice, nel senso, naturalmente, determinato dal Concilio Ecumenico Vaticano. Né per essere state queste verità con solenne decreto della Chiesa definitivamente determinate, quali in un tempo quali in un altro, anche se a noi vicino, sono perciò meno certe e meno credibili? Non le ha tutte rivelate Iddio? Il magistero della Chiesa — che per divina Provvidenza fu stabilito nel mondo affinché le verità rivelate si conservassero sempre incolumi, e facilmente e con sicurezza giungessero a conoscenza degli uomini, — benché quotidianamente si eserciti dal Romano Pontefice e dai Vescovi in comunione con lui, ha però l’ufficio di procedere opportunamente alla definizione di qualche punto con riti e decreti solenni, se accada di doversi opporre più efficacemente agli errori e agli assalti degli eretici, oppure d’imprimere nelle menti dei fedeli punti di sacra dottrina più chiaramente e profondamente spiegati. Però con questo uso straordinario del magistero non si introducono invenzioni né si aggiunge alcunché di nuovo al complesso delle dottrine che, almeno implicitamente, sono contenute nel deposito della Rivelazione divinamente affidato alla Chiesa, ma si dichiarano i punti che a parecchi forse ancora potrebbero sembrare oscuri, o si stabiliscono come materia di fede verità che prima da taluno si reputavano controverse. – Pertanto, Venerabili Fratelli, facilmente si comprende come questa Sede Apostolica non abbia mai permesso ai suoi fedeli d’intervenire ai congressi degli acattolici; infatti non si può altrimenti favorire l’unità dei cristiani che procurando il ritorno dei dissidenti all’unica vera Chiesa di Cristo, dalla quale essi un giorno infelicemente s’allontanarono: a quella sola vera Chiesa di Cristo che a tutti certamente è manifesta e che, per volontà del suo Fondatore, deve restare sempre quale Egli stesso la istituì per la salvezza di tutti. Poiché la mistica Sposa di Cristo nel corso dei secoli non fu mai contaminata né giammai potrà contaminarsi, secondo le parole di Cipriano: «Non può adulterarsi la Sposa di Cristo: è incorrotta e pudica. Conosce una casa sola, custodisce con casto pudore la santità di un solo talamo » [20] Pertanto lo stesso santo Martire a buon diritto grandemente si meravigliava come qualcuno potesse credere « che questa unità la quale procede dalla divina stabilità ed è saldata per mezzo di sacramenti celesti, possa scindersi nella Chiesa e separarsi per dissenso di volontà discordanti » [21]. Essendo il corpo mistico di Cristo, cioè la Chiesa [22] uno, ben connesso [23]; e solidamente collegato, come il suo corpo fisico, sarebbe grande stoltezza dire che il corpo mistico possa essere il risultato di componenti disgiunti e separati. Chiunque perciò non è con esso unito, non è suo membro né comunica con il capo che è Cristo [24]. – Orbene, in quest’unica Chiesa di Cristo nessuno si trova, nessuno vi resta senza riconoscere e accettare, con l’ubbidienza, la suprema autorità di Pietro e dei suoi legittimi successori. E al Vescovo Romano, come a Sommo Pastore delle anime, non ubbidirono forse gli antenati di coloro che sono annebbiati dagli errori di Fozio e dei riformatori? Purtroppo i figli abbandonarono la casa paterna, ma non per questo essa andò in rovina, sostenuta come era dal continuo aiuto di Dio. Ritornino dunque al Padre comune; e questi, dimenticando le ingiurie già scagliate contro la Sede Apostolica, li riceverà con tutto l’affetto del cuore. Che se, come dicono, desiderano unirsi con Noi e con i Nostri, perché non si affrettano ad entrare nella Chiesa, «madre e maestra di tutti i seguaci di Cristo » [25]?Ascoltino le affermazioni di Lattanzio: a « Soltanto … la Chiesa cattolica conserva il culto vero. Essa è la fonte della verità; questo è il domicilio della fede, questo il tempio di Dio; se qualcuno non vi entrerà, o da esso uscirà, resterà lontano dalla speranza della vita e della salvezza. E non conviene cercare d’ingannare se stesso con dispute pertinaci. Qui si tratta della vita e della salvezza: se a ciò non si provvede con diligente cautela, esse saranno perdute e si estingueranno » [26]. Dunque alla Sede Apostolica, collocata in questa città che i Prìncipi degli Apostoli Pietro e Paolo consacrarono con il loro sangue; alla Sede « radice e matrice della Chiesa cattolica » [27], ritornino i figli dissidenti, non già con l’idea e la speranza che la « Chiesa del Dio vivo, colonna e sostegno della verità » [28] faccia getto dell’integrità della fede e tolleri i loro errori, ma per sottomettersi al magistero e al governo di lei. Volesse il cielo che toccasse a Noi quanto sinora non toccò ai nostri predecessori, di poter abbracciare con animo di padre i figli che piangiamo separati da Noi per funesta divisione; oh! se il nostro divin Salvatore « il quale vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità » [29], ascoltando le Nostre ardenti preghiere si degnasse richiamare all’unità della Chiesa tutti gli erranti! Per tale obiettivo, senza dubbio importantissimo, disponiamo e vogliamo che si invochi l’intercessione della Beata Vergine Maria, Madre della divina grazia, debellatrice di tutte le eresie, aiuto dei Cristiani, affinché quanto prima ottenga il sorgere di quel desideratissimo giorno, quando gli uomini udiranno la voce del Suo divin Figlio « conservando l’unità dello Spirito nel vincolo della pace » [30]. Voi ben comprendete, Venerabili Fratelli, quanto desideriamo questo ritorno; e bramiamo che ciò sappiano tutti i figli Nostri, non soltanto i cattolici, ma anche i dissidenti da Noi: i quali, se imploreranno con umile preghiera i lumi celesti, senza dubbio riconosceranno la vera Chiesa di Cristo e in essa finalmente entreranno, uniti con Noi in perfetta carità. Nell’attesa di tale avvenimento, auspice dei divini favori e testimone della paterna nostra benevolenza, a Voi, Venerabili Fratelli, al clero e al popolo vostro impartiamo di tutto cuore l’Apostolica Benedizione.

 Dato a Roma, presso San Pietro, il 6 gennaio, festa della Epifania di N.S. Gesù Cristo, l’anno 1928, sesto del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

[1] Ioann., XVII, 21.

[2] Ioann., XIII, 35.

[3] Hebr., I, 1 seq.

[4] Matth., XVI, 18 seq.: Luc., XXII, 32; Ioann., XXI, 15-17.

[5] Marc., XVI, 15.

[6] Ioann., III, 5; VI,48-59; XX, 22 seq.; cf. Matth., XVIII, 18; etc.

[7] Matth., XIII

[8] Cf. Matth., XVI, 18.

[9] Ioann., X, 16.

[10] Ioann., XXI, 15-17.

[11] Matth., XXVIII, 19.

[12] Matth., XXVIII, 20.

[13] Matth., XVI, 18.

[14] Ioann., XVII, 21; X, 16.

[15] Ioann., XVI, 13. 1

[16] Act., X, 41.

[17] Marc., XVI, 16.

[18] II Ioann., 10.

[19] Cf. I Tim., II, 5.

[20] De cath. Ecclesiae unitate, 6.

[21] Ibidem.

[22] I Cor., XII, 12.

[23] Eph., IV, 15.

[24] Cf. Eph., V, 30; I, 22.

[25] Conc. Lateran. IV, c. 5.

[26] Divin instit., IV, 30, 11-12.

[27] S. Cypr., Ep. 48 ad Cornelium, 3.

[28] I Tim., 111, 15.

[29] I Tim., II, 4.

[30] Eph., IV, 3.