UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI APOSTATI E SCISMATICI DI TORNO: AD APOSTOLORUM PRINCIPIS [S.S. Pio XII]

A pochi mesi dalla morte di Papa Pacelli, Pio XII, l’ultimo Pontefice canonicamente eletto a potersi esprimere liberamente da vero successore di S. Pietro e Vicario di Cristo, prima dell’usurpazione massonica del 26 ottobre dell’anno 1958, il Santo Padre scriveva ai fedeli della Cina questa provvidenziale lettera Enciclica che rappresenta la pietra tombale di tutti i falsi vescovi mai-consacrati, o consacrati illegittimamente, e quindi sacrilegamente, come è ben specificato nella stessa enciclica. Sappiamo infatti che tutto il movimento pseudo-tradizionalista odierno è fondato sulle sabbie mobili delle consacrazioni false [come quelle di Lefebvre], o illegittime e sacrileghe [come quelle di Thuc e Lienart], semplicemente perché, oltre alle altre numerose anomalie condannate da anatemi vari, non sono mai state autorizzate dalla Sede Apostolica, come da elementare norma canonica. Tutto il castello di sabbia degli eretici e scismatici sedevacantisti, o dei sedeplenisti fallibilisti e disobbedienti “fai da te”, frana miseramente, investito da questa placida onda marina che lo riduce infallibilmente ad un cumulo di fandonie teologiche. La situazione dei lefebvriani [apriamo una piccola doverosa parentesi] e dei loro sostenitori a vario titolo [tra i quali spiccano alcuni sapientoni sedicenti “canonisti”, ai quali piace giocare al “piccolo teologo deficiente”, dandosi aria da gran “saputi” e tirandosi dietro un nugolo di ammiratori fanatici ed irragionevoli]  è addirittura comica, diremmo fantozziana. Essi infatti sanno molto bene che il loro “santino” … o santone, Marcel è stato non-ordinato prete da un massone 30° cavaliere kadosh, un pluriscomunicato da bolle ed encicliche varie – almeno una decina -,  ma per ingannare i predetti fanatici, spostano l’obiettivo sulla sua invalida consacrazione vescovile. Sono talmente insensati da dire tra l’altro  che anche se, ammesso e non concesso [ma è evidente!], che Lienart fosse un massone scomunicato che non poteva trasmettere Sacramenti nè tantomeno Ordini lecitamente, c’erano però altri due vescovi co-concelebranti, di cui uno era sicuramente Vescovo [mentre l’altro sappiamo già che discendeva dalla stessa linea di Lienart]. Ora noi chiediamo a questi soloni: ma la Chiesa ha deciso che fosse necessaria la presenza di tre Vescovi ad una consacrazione vescovile, solo per un criterio probabilistico … su tre ce ne sarà uno sicuramente valido, cioè secondo una probabilità matematica! … o non abbia imposto in quel momento la partecipazione “attiva” di tre veri Vescovi per motivi dottrinali e teologici? Il Codice Canonico [C.J.C. 1917] recita ai cann. 953 e 954: “La consacrazione episcopale è riservata al Santo Pontefice e un Vescovo non può farla senza mandato apostolico. Il consacrante sarà assistito da altri due Vescovi eccetto dispensa”. Da questo si evince la mala fede totale di squallidi personaggi autoreferenziali e pieni di inganno! Ma sorvolando su questa “imbecillità teologica”, teniamo a sottolineare che il signor Lefebvre non solo non è mai stato vescovo, ma non è mai stato prete, per cui non aveva le credenziali per poter essere consacrato Vescovo validamente, anche se al posto dei probabili “compagni di loggia” ci fossero stati veri Vescovi canonicamente validi! [Lienart era cavaliere kadosh fin dal 1924, la non-ordinazione di Lefebvre avvenne il 21-9-1929]. Tutti gli altri “figliocci” del Marcel sono ovviamente preti da carnevale  e squallidi vescovi, anche se molti di loro si sono riciclati imboscandosi in parrocchiette, istituti e chiesiuole varie, o fantastici monasteri disneyani, tutti rigorosamente senza missione canonica, ed infischiandosi allegramente della giurisdizione e del mandato Apostolico, quindi felicemente scomunicati e pronti per “l’arrosto eterno”. Chiusa la doverosa parentesi, passiamo a leggere con grande attenzione l’enciclica …  “non si provvede ai bisogni spirituali dei fedeli con la violazione delle leggi della Chiesa” … questo vale soprattutto per coloro che si appellano ad un fantasioso “stato di necessità” da loro dichiarato tale ma senza averne alcuna autorità; attenzione pure a questa espressione profetica della “Chiesa eclissata” e della Gerarchia in esilio: “Ed è veramente doloroso che, mentre zelanti pastori soffrono tante tribolazioni, si prenda proprio occasione dai loro dolori per insediare ai loro posti dei pastori falsi, per sovvertire l’organizzazione gerarchica della Chiesa, per ribellarsi all’autorità del Romano Pontefice”… pensiamo al Santo Padre GREGORIO XVIII ed alla Gerarchia Cattolica sparsa sui cinque continenti come ai tempi delle catacombe romane! Ma come allora, le catacombe attuali testimonieranno della fede eroica dei pochi Cristiani [pusillus grex], fedeli al messaggio evangelico ed alle leggi ecclesiastiche, sparuti agnelli al seguito dell’unico “vero” Pastore, il Vicario di Cristo in terra … et non prævalebunt!

LETTERA ENCICLICA

AD APOSTOLORUM PRINCIPIS

ESORTAZIONI E NORME
PER LA CHIESA CATTOLICA IN CINA (1)

Quando, presso il venerato e glorioso sepolcro del principe degli apostoli, sotto le volte maestose della Basilica Vaticana, il Nostro immediato predecessore di s.m., il sommo pontefice Pio XI, or sono trentadue anni, conferiva la pienezza del sacerdozio «alle primizie e ai germogli novelli dell’episcopato cinese»,(2) così effondeva i sentimenti di intima gioia di cui in quel solenne momento era pervaso il suo cuore: «Siete venuti, venerabili fratelli, a vedere Pietro; che anzi da lui avete ricevuto il pastorale, del quale farete uso per intraprendere viaggi apostolici e radunare le pecorelle. E Pietro con amore ha abbracciato voi, che fornite non piccola speranza di portare ai vostri concittadini la verità evangelica».(3) – L’eco di queste parole ritorna alla mente e al cuore Nostri, venerabili fratelli e diletti figli, in quest’ora di afflizione per la chiesa nella vostra patria. Non fu certo riposta invano, allora, la speranza del grande pontefice, se una schiera di nuovi pastori e di araldi dell’evangelo, se un rigoglioso fiorire di sempre nuove opere di apostolato – pur in mezzo a molteplici difficoltà – tennero dietro a quel primo manipolo di vescovi che Pietro, vivente nel suo successore, aveva inviato a reggere quelle elette porzioni del gregge di Cristo. E Noi, quando avemmo più tardi la gioia di erigere la sacra gerarchia nella Cina, facemmo Nostra e aumentammo quella speranza e vedemmo dischiudersi ancor più larghe prospettive per il dilatarsi del regno divino di Gesù Cristo.

La persecuzione – Due precedente lettere

Ma pochi anni dopo, purtroppo, oscuri nembi si addensarono nel cielo, e per queste comunità cristiane, alcune delle quali già di antica evangelizzazione, ebbero inizio giorni funesti e dolorosi. Vedemmo i missionari, tra i quali era un gran numero di zelanti arcivescovi e vescovi, e lo stesso Nostro rappresentante, costretti ad abbandonare il suolo della Cina; e il carcere o privazioni o sofferenze d’ogni genere riservate a vescovi, a sacerdoti, a religiosi e a religiose e a molti fedeli. – Allora fummo costretti a levare la voce accorata per esprimere il Nostro dolore per l’ingiusta persecuzione, e, con la lettera enciclica Cupimus imprimis(4) del 18 gennaio 1952, avemmo cura di ricordare, per amore della verità e nella consapevolezza del Nostro dovere, che la chiesa cattolica non può considerarsi estranea, e tanto meno ostile, ad alcun popolo della terra; che essa, nella sua materna sollecitudine, abbraccia in un solo amplesso tutti i popoli; e non cerca potere o influenza terreni, ma, con tutte le sue forze, dirige gli animi di tutti al conseguimento del cielo. Soggiungevamo che i missionari non curano gli interessi di un particolare paese, ma, venendo da ogni parte del mondo e uniti come sono da un unico divino amore, hanno di mira solo la diffusione del regno di Dio; la loro opera, quindi, lungi dall’essere superflua o nociva, è benefica e necessaria per aiutare lo zelante clero cinese nell’apostolato cristiano.

Nella successiva enciclica Ad Sinarum gentem (5) del 7 ottobre 1954, di fronte a nuove accuse rivolte contro gli stessi cattolici cinesi, proclamavamo che il cristiano non è, né può essere, secondo a nessuno nel vero amore e nella vera fedeltà alla sua patria terrena. E poiché si era diffusa nel vostro paese l’ingannevole dottrina detta delle «tre autonomie», Noi in virtù del Nostro universale magistero, ammonimmo che essa, sia nel significato teorico, sia nelle applicazioni pratiche, che i suoi fautori sostenevano, era inaccettabile per i cattolici, in quanto mirava alla separazione dall’unità della chiesa.

Testimonianze di fedeltà

Ed ora dobbiamo rilevare che presso di voi, in questi ultimi anni, le condizioni della chiesa sono venute peggiorando. È vero e questo Ci è motivo di grande conforto nella presente tristezza che di fronte al prolungarsi della persecuzione non sono venuti meno in voi l’intrepida fermezza nella fede e l’ardente amore verso Gesù Cristo e la sua chiesa; fermezza e amore che avete dimostrato in numerosissime maniere, di cui – anche se solo una piccola parte è nota al mondo – riceverete un giorno il premio eterno da Dio.

L’«Associazione patriottica»

Ma nello stesso tempo è Nostro dovere denunciare apertamente – e lo facciamo con profonda pena – il nuovo e più insidioso tentativo di sviluppare e di portare alle estreme conseguenze il funesto errore che Noi così chiaramente avevamo riprovato. Infatti, con un piano che si rivela accuratamente disposto, è stata fondata presso di voi una «associazione patriottica», alla quale i cattolici con pressioni di ogni genere sono costretti ad aderire. Questa – come è stato detto più volte – avrebbe lo scopo di unire il clero e i fedeli nel nome dell’amore della patria e della religione per propagare lo spirito patriottico, difendere la pace tra i popoli e al tempo stesso cooperare alla «costruzione del socialismo» già stabilito nel paese, nonché aiutare le autorità civili ad applicare la cosiddetta politica di libertà religiosa. Ma è ormai anche troppo chiaro che, sotto queste espressioni di pace e di patriottismo che potrebbero trarre in inganno gli ingenui, il movimento che si dice patriottico propugna tesi e promuove iniziative che mirano a ben precisi scopi perniciosi.

Gli scopi dell’«Associazione patriottica»

Sotto il falso pretesto di patriottismo, infatti, l’associazione vuole gradualmente condurre i cattolici a dare l’adesione e l’appoggio ai principi del materialismo ateo, negatore di Dio e di tutti i principi soprannaturali. – Sotto il pretesto di difendere la pace, la stessa organizzazione fa propri e diffonde falsi sospetti e accuse contro molti ecclesiastici, contro venerandi pastori, contro la stessa sede apostolica, attribuendo loro insani propositi di imperialismo, di acquiescenza e complicità nello sfruttamento dei popoli, di preconcetta ostilità verso la nazione cinese. – Mentre da una parte si afferma che è necessaria una assoluta libertà religiosa, e si proclama di voler facilitare le relazioni tra l’autorità ecclesiastica e la civile, di fatto l’associazione pretende che la chiesa, posposti e trascurati i suoi diritti, rimanga del tutto sottoposta alle autorità civili. I membri sono quindi spinti ad accettare e giustificare ingiusti provvedimenti come l’espulsione dei missionari, l’incarceramento dei vescovi, di sacerdoti; di religiosi e religiose, di fedeli; sono parimenti costretti ad acconsentire alle misure prese per impedire pertinacemente la giurisdizione di tanti legittimi pastori; sono indotti a sostenere principi che ripugnano all’unità e all’universalità della chiesa e alla sua costituzione gerarchica, nonché ad ammettere iniziative intese a sovvertire l’obbedienza del clero e dei fedeli ai legittimi ordinari, e a staccare le varie comunità cattoliche dall’unione con la sede apostolica.

Metodi di violenza e di oppressione

Per diffondere e imporre più facilmente i principi di tale «associazione patriottica», si ricorre ai più differenti mezzi di oppressione e di violenza: una propaganda rumorosa e tenace con la stampa; una serie di convegni e di congressi, ai quali si costringono a intervenire – con lusinghe, con minacce e con inganni – anche coloro che non avrebbero intenzione di parteciparvi, mentre quanti coraggiosamente si levano nelle discussioni a difendere la verità sono soverchiati e anzi addirittura tacciati di nemici della patria e del nuovo ordine. Sono inoltre da ricordare quei fallaci «corsi di indottrinamento» a cui sono costretti sacerdoti, religiosi e religiose, alunni di seminari, fedeli di ogni ceto e di ogni età, e che, per mezzo di interminabili lezioni ed estenuanti dibattiti, rinnovantisi talora per settimane e per mesi, esercitano una violenza di ordine psicologico, che mira a strappare una adesione la quale molte volte quasi nulla più ha in sé di umano. Senza dire della tattica intimidatoria, esercitata con ogni mezzo, subdolo o palese, in ogni ambiente privato o pubblico; delle confessioni forzate e dei campi di «rieducazione»; delle umilianti sessioni di «giudizio popolare», dinanzi alle quali si è osato trascinare perfino vescovi venerandi.  Contro tali metodi che violano i più fondamentali diritti della persona umana e conculcano la sacra libertà di ogni figlio di Dio, non possono non levarsi, insieme con la Nostra, le proteste dei fratelli di fede e di tutte le persone oneste del mondo intero per l’offesa arrecata alla stessa coscienza civile.

Il cristiano e l’amore per la patria

Poiché, come dicevamo, è nel nome del patriottismo che tali misfatti si compiono, è Nostro dovere qui ricordare a tutti, ancora una volta, che è proprio la dottrina della chiesa che esorta e spinge i cattolici a nutrire un sincero e profondo amore verso la loro patria terrena, a prestare l’ossequio dovuto, salvo il diritto divino naturale e positivo, alle pubbliche autorità, a dare il loro contributo generoso e fattivo ad ogni intrapresa che conduca ad un vero, pacifico e ordinato progresso, ad un genuino bene della patria comunità. La chiesa mai si è stancata di inculcare ai suoi figli l’aurea norma ricevuta dal suo divin Fondatore: «Date dunque a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio» (Lc 20,25); massima che si fonda sul presupposto che nessun contrasto può esistere tra i postulati della vera religione e i veri interessi della patria. – Ma bisogna subito aggiungere che se il cristiano, per dovere di coscienza, deve rendere alle autorità umane quello che loro spetta, non può l’autorità umana reclamare dai cittadini un ossequio nelle cose in cui esso è dovuto a Dio e non a lei stessa; tanto meno può esigere una loro obbedienza incondizionata quando intende usurpare i sovrani diritti di Dio, ovvero costringe i fedeli ad agire in contrasto con i loro doveri religiosi, o a staccarsi dall’unità della chiesa e dalla sua legittima gerarchia. Allora il cristiano non può che rispondere, serenamente ma fermamente, come già san Pietro e gli apostoli ai primi persecutori della chiesa: «Bisogna obbedire a Dio, più che agli uomini» (At 5,29).

La sede apostolica romana e il popolo cinese

Con enfatica insistenza, i fautori del movimento pseudo­patriottico parlano ognora di pace e proclamano che i cattolici devono militare in favore di essa. Parole, per sé, apparentemente ineccepibili: chi infatti non dovrebbe esser lodato se non colui che prepara il cammino della pace? Ma la pace, voi ben lo sapete, venerabili fratelli e diletti figli, non è fatta di espressioni verbali, non è una formalità esteriore, suggerita magari da tattica occasionale e contraddetta da gesti o iniziative che, anziché ispirarsi a sentimenti pacifici, dispongono gli animi a risentimenti, odi o avversioni. La vera pace deve fondarsi sui principi di giustizia e di carità insegnati da Colui che della pace si fregia come di un titolo regale «Principe della pace» (Is 9,6); la vera pace è quella auspicata dalla chiesa, pace stabile, giusta, equa e ordinata – tra gli individui, tra le famiglie, tra i popoli – che, nel rispetto dei diritti di ciascuno e specialmente di quelli di Dio, congiunga tutti col vincolo di una reciproca e fraterna collaborazione. – E in tale pacifica prospettiva di armoniosa convivenza di tutte le nazioni, la Chiesa desidera che ogni popolo abbia il proprio posto di dignità; la chiesa che, seguendo sempre con simpatia le vicende storiche della vostra patria, non da oggi sinceramente auspicava – con le parole auguste del Nostro predecessore – «che siano pienamente riconosciute le legittime aspirazioni e i diritti di un popolo che è il più numeroso della terra, popolo di antica cultura, che conobbe periodi di grandezza e di splendore, e al quale, ove si mantenga nelle vie della giustizia e dell’onore, un grande avvenire non può mancare».(6)

Arbitrarie limitazioni del magistero pontificio

Al contrario, secondo le notizie trasmesse dalla radio e dalla stampa, non mancherebbero taluni, purtroppo anche tra il clero, che osano insinuare il sospetto e l’accusa di una malevolenza che sarebbe nutrita dalla Santa Sede verso il vostro paese.  – E partendo da questo falso e offensivo presupposto, ardiscono anzitutto limitare di loro arbitrio l’autorità del supremo magistero della chiesa, asserendo che vi sarebbero questioni ­ come quelle sociali e economiche – nelle quali ai cattolici sarebbe lecito di non tener in alcun conto gli insegnamenti dottrinali e le norme impartite da questa sede apostolica. Opinione, è appena il caso di dirlo, assolutamente falsa ed erronea, perché – come avemmo occasione di esporre qualche anno fa a un’eletta accolta di venerabili fratelli nell’episcopato – «la potestà della Chiesa non è affatto circoscritta al dominio delle “cose strettamente religiose”, come si suol dire, ma ad essa appartiene tutto il campo della legge naturale, come pure l’insegnamento, l’interpretazione e l’applicazione di questa, in quanto ne viene considerato il fondamento morale. Infatti, per disposizione divina, l’osservanza della legge naturale si riferisce a quella via, seguendo la quale l’uomo deve tendere al suo fine soprannaturale. In questa via la chiesa è, pertanto, guida e custode degli uomini, per quanto riguarda il fine soprannaturale».(7) È la stessa verità già sapientemente illustrata dal santo Nostro predecessore Pio X, nell’enciclica Singulari quadam del 24 settembre 1912, quando osservava che «tutte le azioni del cristiano sottostanno al giudizio e alla giurisdizione della Chiesa, in quanto sono buone o cattive dal punto di vista morale, cioè in quanto concordano o contrastano col diritto naturale e divino».(8)  – Inoltre, dopo aver proclamato tale arbitraria limitazione, costoro, mentre a parole dichiarano di voler obbedire al romano pontefice nelle verità da credere e – così usano esprimersi ­ nelle norme ecclesiastiche da osservare, giungono poi a tale audacia da ricusare obbedienza a chiari e precisi provvedimenti e disposizioni della Santa Sede, ai quali attribuiscono immaginari secondi fini di ordine politico, quasi tenebrosi complotti rivolti contro il loro paese.

Un grave atto di ribellione

Una prova di tale spirito di ribellione alla chiesa, un fatto gravissimo che è causa di indicibile e profonda amarezza per il Nostro cuore di padre e di Pastore universale delle anime, è quanto dobbiamo menzionare qui appresso. Da qualche tempo, con insistente propaganda, il movimento cosiddetto patriottico va proclamando un preteso diritto dei cattolici di eleggere di propria iniziativa i vescovi, asserendo che tale elezione sarebbe indispensabile per provvedere con la dovuta sollecitudine al bene delle anime, e per affidare il governo delle diocesi a pastori graditi alle autorità civili in quanto non si oppongono agli orientamenti ideologici e politici propri del comunismo. – Anzi, abbiamo appreso che già si è proceduto a non poche di tali abusive elezioni e che, inoltre, contro un esplicito e severo monito diretto agli interessati da questa sede apostolica si è perfino osato di conferire ad alcuni ecclesiastici la consacrazione episcopale.

Dottrina circa l’elezione e consacrazione dei vescovi

Di fronte a così gravi attentati contro la disciplina e l’unità della chiesa, è Nostro preciso dovere di ricordare a tutti che ben altri sono la dottrina e i principi che reggono la costituzione della società divinamente fondata da Gesù Cristo nostro Signore.  – I sacri canoni infatti chiaramente ed esplicitamente sanciscono che spetta unicamente alla Sede Apostolica giudicare circa l’idoneità di un ecclesiastico per la dignità e la missione episcopale(9) e che spetta al romano pontefice nominare liberamente i vescovi.(10) E anche quando, come in certi casi, nella scelta di un candidato all’episcopato, è ammesso il concorso di altre persone o enti, ciò avviene legittimamente solo in virtù di una concessione – espressa e particolare – fatta dalla sede apostolica a persone o a corpi morali ben determinati, con condizioni e in circostanze ben definite. Ciò premesso, ne consegue che vescovi non nominati né confermati dalla Santa Sede, e anzi scelti e consacrati contro le esplicite disposizioni di essa, non possono godere di alcun potere né di magistero né di giurisdizione; perché la giurisdizione viene ai vescovi unicamente attraverso il romano pontefice, come già avemmo occasione di ricordare nella lettera enciclica Mystici corporis: «I Vescovi … in quanto riguarda la loro diocesi, sono veri pastori che guidano e reggono in nome di Cristo il gregge assegnato a ciascuno. Mentre fanno ciò, non sono del tutto indipendenti, perché sono sottoposti alla debita autorità del romano pontefice, pur fruendo dell’ordinaria potestà di giurisdizione che è comunicata loro direttamente dallo stesso Sommo Pontefice».(11) Dottrina che avemmo occasione di richiamare ancora nella lettera Ad Sinarum gentem a voi successivamente diretta: «La potestà di giurisdizione, che al Sommo Pontefice viene conferita direttamente per diritto divino, proviene ai vescovi dal medesimo diritto, ma soltanto mediante il successore di san Pietro, al quale non solamente i semplici fedeli, ma anche tutti i vescovi devono costantemente essere soggetti e legati con l’ossequio dell’obbedienza e con il vincolo dell’unità».(12)  – E gli atti della potestà di ordine, posti da tali ecclesiastici , anche se validi – supposto che sia stata valida la consacrazione loro conferita – sono gravemente illeciti, cioè peccaminosi e sacrileghi. Tornano al proposito quanto mai ammonitrici le parole del divino Maestro: «Chi non entra nell’ovile per la porta, ma vi sale per altra parte, è ladro e brigante» (Gv 10,1); le pecorelle riconoscono la voce del loro vero pastore, e lo seguono docilmente, «ma non vanno dietro a un estraneo, anzi fuggono da lui: perché non conoscono la voce degli estranei» (Gv 10,5). – Sappiamo bene che, purtroppo, per legittimare le loro usurpazioni, i ribelli si richiamano alla prassi seguita in altri secoli; ma tutti vedono che cosa mai diverrebbe la disciplina ecclesiastica se, in una questione o nell’altra, fosse lecito a chiunque di rifarsi a disposizioni che non sono più in vigore, in quanto la suprema autorità ha, da diverso tempo, disposto altrimenti. Anzi, proprio il fatto di appellarsi a una diversa disciplina, lungi dallo scusare l’operato di costoro, è prova della loro intenzione di sottrarsi deliberatamente alla disciplina che vige e che debbono seguire: disciplina che vale non solo per la Cina e per i territori di recente evangelizzazione, ma per tutta la chiesa; disciplina che è stata sancita in virtù di quella universale e suprema potestà di pascere, di reggere e di governare, che fu conferita da nostro Signore ai successori dell’apostolo Pietro. È ben nota, infatti, la solenne definizione del concilio Vaticano: «Fondandoci sulle chiare testimonianze della sacra Scrittura, e in piena armonia con i precisi ed espliciti decreti sia dei Nostri predecessori, i romani pontefici, sia dei concili generali; rinnoviamo la definizione del concilio ecumenico di Firenze, secondo la quale tutti i fedeli debbono credere, che “la santa sede apostolica e il romano pontefice esercitano il primato in tutto il mondo; che il medesimo pontefice è il successore di san Pietro, principe degli apostoli, è il vero vicario di Cristo, il capo di tutta la chiesa, il padre e il dottore dei cristiani; che a lui, nella persona di san Pietro, è stata affidata da nostro Signore Gesù Cristo la piena potestà di pascere, reggere e governare la chiesa universale “. Pertanto insegniamo e dichiariamo che la chiesa romana, per divina disposizione, ha la potestà ordinaria di primato su tutte le altre, e che tale potere di giurisdizione del Romano Pontefice, di carattere veramente episcopale, è immediato; e che i pastori e i fedeli, di qualunque rito e dignità, sia singolarmente presi, sia tutti insieme, sono tenuti al dovere di subordinazione gerarchica e di vera obbedienza verso di essa, non soltanto nelle cose della fede e della morale, ma anche in quelle che si riferiscono alla disciplina e al governo della chiesa, diffusa nel mondo intero; talché, conservata così l’unità della comunione e della fede col romano pontefice, la chiesa di Cristo sia un unico gregge sotto un unico sommo pastore. Questo è l’insegnamento della verità cattolica, dal quale nessuno può scostarsi senza perdere la fede e la salvezza».(13)  – Da quanto vi abbiamo esposto consegue che nessun’altra autorità, che non sia quella del supremo pastore, può revocare l’istituzione canonica data a un vescovo; nessuna persona o assemblea, sia di sacerdoti sia di laici, può arrogarsi il diritto di nominare vescovi; nessuno può conferire legittimamente la consacrazione episcopale se prima non sia certa l’esistenza dell’apposito mandato apostolico.(14) Sicché, per una siffatta consacrazione abusiva, la quale è un gravissimo attentato alla stessa unità della chiesa, è stabilita la scomunica riservata in modo specialissimo alla sede apostolica, in cui automaticamente incorre non solo chi riceve l’arbitraria consacrazione, ma anche chi la conferisce.(15)

Insussistente pretesto

Che dire infine del pretesto addotto dagli esponenti dell’Associazione pseudo-patriottica, quando vorrebbero giustificarsi invocando la necessità di provvedere alla cura delle anime nelle diocesi prive della presenza del loro vescovo? – È evidente, anzitutto, che non si provvede ai bisogni spirituali dei fedeli con la violazione delle leggi della Chiesa. In secondo luogo, non si tratta – come si vorrebbe far credere – di diocesi vacanti, ma spesso di sedi episcopali, i cui legittimi titolari o sono stati espulsi, o languono in prigione, oppure sono impediti, in vari modi, di esercitare liberamente la loro giurisdizione; dove inoltre sono stati ugualmente imprigionati o espulsi o comunque estromessi quegli ecclesiastici che i legittimi pastori – in conformità con le prescrizioni dei diritto canonico e con speciali istruzioni ricevute dalla Santa Sede – avevano designato a sostituirli nel governo diocesano. – Ed è veramente doloroso che, mentre zelanti pastori soffrono tante tribolazioni, si prenda proprio occasione dai loro dolori per insediare ai loro posti dei pastori falsi, per sovvertire l’organizzazione gerarchica della Chiesa, per ribellarsi all’autorità del Romano Pontefice.  – E si arriva a tal punto di arroganza da voler imputare uno stato di cose così lacrimevole e miserando, che è provocato da un preciso disegno dei persecutori della Chiesa, alla stessa Sede Apostolica; mentre tutti sanno che questa, per gli ostacoli frapposti alla libera e sicura comunicazione con le diocesi della Cina, si è trovata e si trova nell’impossibilità di procurarsi – ogni volta che occorra – le appropriate informazioni che sono indispensabili, per il vostro paese come per qualunque altro alla scelta di candidati idonei per la dignità episcopale.

Invito a conservarsi intrepidi nella fede

Venerabili fratelli e diletti figli, vi abbiamo manifestato fin qui le Nostre preoccupazioni per gli errori che si tenta di insinuare in mezzo a voi, e per le divisioni che si creano, affinché. illuminati e sostenuti dall’insegnamento del Padre comune, vi possiate conservare intrepidi e incontaminati nelln fede che tutti ci unisce e ci salva. – Ma ora, con tutta l’effusione dell’affetto, vogliamo dirvi quanto Ci sentiamo vicina a voi. Le vostre sofferenze fisiche e morali, specialmente quelle sopportate dagli eroici testimoni di Cristo – tra cui sono alcuni venerandi fratelli Nostri nell’episcopato – Noi le portiamo nel cuore e, giorno per giorno, le offriamo, con le preghiere e le sofferenze di tutta la chiesa, sull’altare del nostro divin Redentore.  – State saldi e riponete la vostra fiducia in lui: «gettando in lui ogni vostra sollecitudine, poiché egli ha cura di voi!» (1 Pt 5,7). Egli vede i vostri affanni e le vostre pene; egli soprattutto accoglie l’intima sofferenza e le lacrime segrete che tanti di voi – pastori, sacerdoti, persone religiose e semplici fedeli – versano al vedere lo scempio che si vorrebbe fare delle vostre comunità cristiane. Queste lacrime e queste pene, insieme col sangue e le sofferenze dei martiri di ieri e di oggi, saranno il pegno prezioso del fiorire della chiesa nella vostra patria, quando grazie alla potente intercessione della Vergine santa, regina della Cina, giorni più seren torneranno a risplendere sul vostro cielo. – In questa fiducia, con molto affetto nel Signore, a voi e al gregge affidato alle vostre cure, in auspicio di celesti grazie e a testimonianza della Nostra speciale benevolenza, impartiamo la benedizione apostolica.

Roma, presso San Pietro, 29 giugno, nella festa dei santi apostoli Pietro e Paolo, dell’anno 1958, XX del Nostro pontificato.

PIO PP. XII

(1) Pius PP. XII, epist. enc. Ad Apostolorum Principis [Esortazioni e norme alla chiesa cattolica in Cina nelle presenti angustie; La persecuzione e due precedenti lettere pontificie; Testimonianze di fedeltà alla chiesa; L’«Associazione patriottica»: suoi scopi; Metodi di violenza e di oppressione; Il cristiano e l’amore di patria; La Santa Sede e il popolo cinese; Arbitrarie limitazioni dei magistero pontifício; Un grave atto di ribellione; Dottrina della chiesa circa l’elezione e la consacrazione dei vescovi; Insussistente pretesto; Invito a conservarsi intrepidi e saldi nella fede.]

(2) AAS 18(1926), p. 432.

(3) Ibidem.

(4) AAS 44(1952), p. 153ss.; EE 6/1977ss.

(5) AAS 47(1955), p. 5ss; EE 6/1098.

(6) Cf. Pius XI, Nuntium ad Delegatum Apostolicum in Sinis, 1 aug. 1928: AAS 20(1928), p. 245.

(7) Sermo ad Patrum Cardinalium Collegium et Episcopatum, 2 nov. 1954: cf. AAS 46(1954): pp. 671-672.

(8) AAS 4(1912), p. 658; EE 4/364.

(9) Can. 331 § 3.

(10) Can. 329 § 2.

(11) Litt. enc. Mystici corporis, 29 iun. 1943: AAS 35(1943), pp. 211-212; EE 6/191.

(12) Epist. enc. Ad Sinarum gentem, 7 oct. 1954: AAS 47(1955), p. 9; EE 6/1106.

(13) Conc. Vat. I, sess.IV, c. 3: Coll. Lac. VII, p. 484; COD 814.

(14) Can. 953.

(15) cf. S.S. Congregatio S. Officii, Decretum, 9 apr. 1951: AAS 43 (1951), 217-218.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: “SINGULARI NOS”

In questa breve ma “micidiale” [per i neo- e post- modernisti] enciclica, il Santo Padre Cappellari, S. S. Gregorio XVI, condanna inappellabilmente un libello di Lamennais [un cosiddetto cattolico-liberale, cioè un masso-marrano finto cattolico] nel quale venivano esaltati tanti errori già denunciati per il passato dalla Santa Madre Chiesa, condanne ribadite con forza dallo stesso Pontefice Gregorio XVI. Gli errori denunciati come “deliramento”, sono in pratica gli stessi “deliramenti” neomodernisti che attualmente la setta vatican-massonica del “novus ordo”, oramai sinagoga di satana infiltrata nei sacri palazzi, propina ai ciechi, colpevolmente ignoranti, (in)fedeli pseudo cattolici, proni nell’accettare senza batter ciglio anche le posizioni in evidente contrasto con la fede apostolica di sempre e con i più ovvi e banali dettami evangelici. I “deliramenti”, come giustamente li definisce il Santo Padre, sono in particolare: “il sottrarsi alla dovuta sottomissione alle autorità, … il dannoso contagio dell’”indifferentismo” da tener lontano dai popoli, … le limitazioni da porre alla libertà di pensiero e di parola che si diffonde, … la completa libertà di coscienza da condannarsi,  …la scelleratissima cospirazione delle società eccitate anche dai cultori di qualunque falsa religione in danno dell’ordine religioso e civile … lo spregevole e sfrenato desiderio di novità, per cui la verità non viene cercata dove si trova con certezza e, trascurate le sante e apostoliche tradizioni, si accettano altre dottrine inutili, futili, incerte e non approvate dalla Chiesa, dalle quali uomini stoltissimi credono a torto che la stessa verità sia sorretta e sostenuta … i … tanti malvagi deliramenti, per cui con maggior fiducia, come diceva San Bernardo, “al posto della luce possa diffondere le tenebre, e al posto del miele, o meglio nel miele, propinare il veleno, inventando per i popoli un nuovo vangelo e ponendo un altro fondamento contro quello che è stato posto“. Ora queste proposizioni definite sempre dal Santo Padre, “ … proposizioni rispettivamente false, calunniose, temerarie, che inducono all’anarchia, contrarie alla parola di Dio, empie, scandalose, erronee, già condannate dalla Chiesa … , sono esattamente quelle oggi propagate dalla setta vaticana, il “novus ordo” di quelli che osannano al “signore dell’universo”, cioè al baphomet-lucifero, appiattita sulle posizioni della massoneria, di cui è divenuta “serva sciocca”, schiava da eliminare con violenza e senza pietà una volta raggiunto l’obiettivo prefissato dalle conventicole, non quelle .. terra terra del G. O., del R. S. A. o simili, ma quelle degli “Illuminati” e degli “sconosciuti superiori”! Il tutto sarebbe confinato nell’ambito del complottismo vero o falso che sia, se non ci fossero di mezzo milioni e milioni di anime che finirebbero, anzi finiscono, senza nemmeno rendersene conto, diritto all’inferno … come tutti gli acattolici, gli infedeli, gli atei, i settari adoratori del baphomet, gli eretici, gli scismatici …  ah .. se solo leggessero un po’ di catechismo di San Pio X, o una pagina di Vangelo (dico UNA!) o di Magistero infallibile! Ma l’orgoglio ha assunto proporzioni tali da aver raggiunto oramai il livello toccato dal primo angelo del Paradiso, il più superbo, poi sprofondato … come ci racconta Isaia nel XIV capitolo del suo libro. Oggi abbiamo un Lamennais in ogni sede diocesana, in ogni abbazia, in ogni parrocchia, in ogni congregazione, e purtroppo di Mauro Cappellari non ce ne sono più; in vero c’è un altro Gregorio, XVIII, che però è in esilio, imbavagliato e costretto all’inoperosità, isolato, nella sofferenza del Getsemani, nel vedere il suo gregge dato in pasto a lupi voraci e gaudenti, guidato dal servo dell’anticristo opportunamente mascherato da agnello-clown – Certamente Gregorio XVI sarebbe oggi considerato un complottista dai soloni del “vatic/massonicamente” corretto … ma a noi questo complottismo piace, è lo stesso di Gesù-Cristo e della Santa Madre Chiesa, Luce dei popoli e Maestra di verità … che Dio la conservi in eterno, splendente e rifulgente di gloria … come d’altra parte il divin Maestro ci ha infallibilmente promesso! Et Ipsa conteret

Gregorio XVI

“Singulari Nos”

Ci avevano particolarmente rallegrato le illustri testimonianze di fede, di obbedienza e di religiosità riferite alla Nostra lettera enciclica del 15 agosto 1832, ovunque ricevuta gioiosamente, con la quale, secondo il dovere del Nostro ufficio, annunciammo a tutto il popolo cattolico la dottrina sana e unica che va seguita in ordine ai punti ivi proposti. Accrebbero questa Nostra gioia le dichiarazioni pubblicate su quell’argomento da alcuni di coloro che avevano approvato quelle idee e quei commenti dei quali Ci lagnavamo, e si erano fatti incautamente fautori e difensori di essi. Sapevamo però che non era ancora eliminato quel male che impudentissimi libelli divulgati fra il popolo e alcune macchinazioni tenebrose chiaramente facevano presagire: si sarebbe ancora eccitato contro l’ordine religioso e civile, perciò disapprovammo gravemente tali manovre con la lettera mandata il mese di ottobre al Venerabile Fratello Vescovo di Rennes. Ma a Noi, ansiosi e solleciti in massimo grado per questa vicenda, tornò graditissimo e consolante che proprio colui dal quale soprattutto Ci veniva dato tale dolore, Ci confermasse esplicitamente – con una dichiarazione inviataci l’11 dicembre dello scorso anno – che egli seguiva “unicamente e assolutamente” la dottrina espressa nella Nostra enciclica, e che non avrebbe scritto né approvato niente di difforme da essa. Immediatamente dilatammo le viscere della carità paterna a quel figlio che, spinto dai Nostri ammonimenti, confidavamo che avrebbe dato per l’avvenire più chiari segni dai quali si vedesse con maggior certezza che obbediva alla Nostra decisione, sia a parole sia con le opere. – Invece, cosa che a stento sembrava credibile, proprio colui che avevamo accolto con l’affetto di tanta benevolenza, immemore della Nostra indulgenza, subito mancò alla sua promessa, e quella buona speranza che avevamo nutrito sul “frutto del Nostro ammonimento” riuscì vana, non appena abbiamo conosciuto un libello scritto in francese, col nome in verità celato ma manifestato da pubblici documenti, edito a stampa poco tempo fa dallo stesso e divulgato dovunque: piccolo invero per dimensioni, ma grande per la perversità, che si intitola Paroles d’un croyant. – Inorridimmo davvero, Venerabili Fratelli, già alla prima scorsa, e commiserando la cecità dell’autore comprendemmo dove mai si spinga la sapienza che non sia secondo Dio, ma secondo gli elementi del mondo. Infatti, contro la promessa fatta solennemente in quella sua dichiarazione, egli, per lo più con capziosissimi giri di parole e di finzioni, cominciò a controbattere e a demolire la dottrina cattolica che nella ricordata Nostra lettera definimmo, con il potere affidato alla Nostra umile persona, sia riguardo alla dovuta sottomissione alle autorità, sia sul dannoso contagio dell’”indifferentismo” da tener lontano dai popoli, sia sulle limitazioni da porre alla libertà di pensiero e di parola che si diffonde, sia infine sulla completa libertà di coscienza da condannarsi, e sulla scelleratissima cospirazione delle società eccitate anche dai cultori di qualunque falsa religione in danno dell’ordine religioso e civile. – Davvero l’animo si ribella nel leggere quelle proposizioni con cui nel medesimo scritto l’autore tenta di infrangere qualunque vincolo di fedeltà e di sottomissione verso i sovrani, avendo appiccato da ogni parte il fuoco della ribellione affinché si scatenino il sovvertimento dell’ordine pubblico, il disprezzo delle magistrature, l’infrazione delle leggi e siano sradicati tutti gli elementi del potere tanto sacro che civile. Poi, con una nuova e iniqua interpretazione, definisce il potere dei sovrani come contrario alla legge divina, e, con calunnia mostruosa, addirittura “frutto del peccato e potere di Satana“. Applica le medesime parole infamanti alla sacra gerarchia e ai sovrani a causa del patto di crimini e di macchinazioni che, secondo il suo vaneggiamento, li vede uniti contro i diritti dei popoli. – E non contento di questo ardire tanto grande, va inoltre predicando una completa libertà di pensiero, di parola e di coscienza; augura ogni successo e felicità ai lottatori che combatteranno per riscattarla dalla tirannide, come dice; chiama palesemente da tutto il mondo con furibondo ardore adunate e conventicole e, spingendo e insistendo in propositi così nefasti, fa in modo che Noi possiamo vedere che anche per quell’articolo i Nostri ammonimenti e le Nostre prescrizioni sono da lui stesso calpestati. – Rincresce enumerare qui tutte le cose che con questo pessimo comportamento di empietà e di audacia vengono accumulate per sconvolgere tutte le realtà divine e umane. Ma soprattutto eccita l’indignazione ed è apertamente intollerabile per la Religione che le prescrizioni divine siano riportate dall’autore per affermare tanti errori e siano spacciate agl’incauti, e che egli le citi dovunque per liberare i popoli dalla legge dell’obbedienza come se fosse mandato e ispirato da Dio, dopo aver premesso il sacratissimo nome dell’augusta Trinità, e che distorca con furberia e audacia le parole delle sacre Scritture (che sono parola di Dio) per inculcare tanti malvagi deliramenti, per cui con maggior fiducia, come diceva San Bernardo, “al posto della luce possa diffondere le tenebre, e al posto del miele, o meglio nel miele, propinare il veleno, inventando per i popoli un nuovo vangelo e ponendo un altro fondamento contro quello che è stato posto“. – In verità, il passar sotto silenzio questo tanto grave danno inferto alla sana dottrina Ci è vietato da Colui che pose Noi sentinelle in Israele perché ammoniamo del loro errore coloro che l’autore e Perfezionatore della Fede, Gesù, affidò alla Nostra cura. – Perciò, ascoltati alcuni dei Nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa, di Nostra iniziativa, per conoscenza certa e con la pienezza del potere apostolico, riproviamo e condanniamo e vogliamo e decretiamo che sia considerato in perpetuo come riprovato e condannato il libro intitolato Paroles d’un croyant, con il quale – con empio abuso della parola di Dio – si traviano i popoli a dissolvere i vincoli di ogni ordine pubblico, a far crollare l’una e l’altra autorità, ad eccitare, fomentare e sostenere sedizioni, tumulti e ribellioni nei regni: un libro che contiene perciò proposizioni rispettivamente false, calunniose, temerarie, che inducono all’anarchia, contrarie alla parola di Dio, empie, scandalose, erronee, già condannate dalla Chiesa specialmente nei Valdesi, Wicleffiti, Hussiti e in altri eretici di tal genere. – Sarà ora vostro compito, Venerabili Fratelli, assecondare con ogni sforzo queste Nostre disposizioni che la salute e l’incolumità dell’ordine, sia religioso, sia civile richiedono con urgenza, affinché un tale scritto, uscito dalla tana per spargere distruzione, non sia dannoso al punto da condiscendere al gusto di una più pazza novità e da diffondersi più in largo fra i popoli come un cancro. In una questione di tanta importanza, è vostro compito sostenere la sana dottrina, smascherare l’astuzia dei Novatori e vigilare con maggiore attenzione per la custodia del gregge cristiano, affinché fioriscano e aumentino felicemente l’impegno della religione, la pietà delle azioni e la pace pubblica. Questo davvero Ci aspettiamo con fiducia dalla vostra fede o dal vostro totale zelo per il bene comune, perché, con l’aiuto di Colui che è padre della luce, possiamo rallegrarci, e dire con San Cipriano “che l’errore sia stato capito e rintuzzato e perciò distrutto in quanto riconosciuto e scoperto“. – Del resto, dev’essere molto deplorato dove vadano a finire i delirii dell’umana ragione quando qualcuno si applichi alle nuove cose, e contro l’ammonimento dell’Apostolo si sforzi di “sapere più di quello che occorre sapere” e confidando troppo in se stesso creda che la verità sia da ricercarsi fuori della Chiesa cattolica, nella quale invece essa si trova senza la più piccola traccia di errore e che perciò è chiamata ed è “colonna e firmamento della verità“. Voi poi capite bene, Venerabili Fratelli, che Noi qui parliamo anche di quel fallace sistema filosofico diffuso da non molto tempo e del tutto riprovevole, per cui, per spregevole e sfrenato desiderio di novità, la verità non viene cercata dove si trova con certezza e, trascurate le sante e apostoliche tradizioni, si accettano altre dottrine inutili, futili, incerte e non approvate dalla Chiesa, dalle quali uomini stoltissimi credono a torto che la stessa verità sia sorretta e sostenuta. – E mentre scriviamo queste cose per la cura e la sollecitudine a Noi affidate da Dio di riconoscere, stabilire e custodire la sana dottrina, soffriamo per la dolorosissima ferita inferta al Nostro cuore dall’errore del figlio; nel grandissimo dolore dal quale siamo per questo tormentati non c’è nessuna speranza di consolazione a meno che egli ritorni sulle vie della giustizia. Innalziamo perciò insieme gli occhi e le mani a Colui che è “guida della sapienza e correttore dei sapienti“. InvochiamoLo con molte preghiere affinché dia a lui un cuore docile e un animo grande, sì che ascolti la voce del Padre amantissimo e afflittissimo, vengano presto per opera sua lieti eventi per la Chiesa, per il vostro Ordine, per questa Santa Sede e per la Nostra umile persona. Noi di certo considereremo fausto e felice quel giorno in cui potremo stringere al seno paterno questo figlio, tornato in sé, dietro l’esempio del quale speriamo fortemente che si ravvedano gli altri che poterono essere tratti in inganno dalle sue teorie, cosicché ci sia presso tutti una sola unità di dottrine per la sicurezza dell’ordine civile e religioso, un solo genere di pareri, una sola concordia di azioni e di intenti. Chiediamo ed aspettiamo dalla vostra sollecitudine pastorale che imploriate con supplici richieste dal Signore, insieme con Noi, un così grande bene. – Invocando l’aiuto divino in quest’opera, con tutto il cuore impartiamo a voi e ai vostri greggi la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 giugno 1834, anno quarto del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: CARITATE CHRISTI COMPULSI [Pio XI]

La “Critate Christi compulsi”, se ci fosse il Santo Padre liberamente operante, sembra una enciclica scritta quest’oggi. La prima parte è praticamente copiabile da tutti i cosiddetti “complottisti” del nostro tempo [… anche da quelli falsi e prezzolati dal sistema], in quanto ne anticipa le rivelazioni più o meno attendibili, circa gli aspetti economici, finanziari, sociali del nostro mondo-fiction, sul monopolio mondiale dei pochi soggetti che gestiscono la vita dell’intero pianeta [quasi tutti settari e appartenenti alle conventicole della “sinagoga di satana”], con mente lucida e veritiera. Quanto però manca ai nostri Don Chisciotte complottisti, veri o fasulli che siano, è la ricerca di una soluzione valida agli aspetti che adombrano in vista di una ineluttabile drammatica fine dell’umanità. E qui il Santo Padre propone l’unica via di soluzione a tutti i problemi dell’epoca, ed ancor più oggi che sono moltiplicati per mille, con lo spettro ventilato di crisi economiche, guerre planetarie e sciagure nucleari. La soluzione è, come tutte le cose di Dio, semplice ed alla portata di ogni uomo di buona volontà che è chiamato a fare la sua parte senza defilarsi. È la stessa ricetta che la Vergine ha già da tempo presentato ai fedeli, ultimamente a Fatima: 1°- ritorno a Dio e alla sua “vera” unica Chiesa, in particolare con la devozione ai Sacratissimi Cuori di Gesù e della Vergine Maria; 2°- la preghiera, e la penitenza. Ed è proprio su quest’ultima che il Pontefice pone un accento più marcato. Ancora oggi si può accennare con cautela alla preghiera come mezzo di pratica religiosa, ma a parlare di “penitenza”, tutti fanno orecchie da mercante. Ognuno vuol godere, darsi alla bella vita, al benessere, ai piaceri dei sensi … nessuno vuol sentir parlare di “penitenza”! Eppure è proprio questo il messaggio che Gesù ci ha proposto fin dall’inizio della sua missione terrena per giungere alla salvezza eterna ed alla pace dell’anima in questa valle di lacrime della quale siamo ospiti passeggeri.  Non c’è salvezza senza penitenza, non c’è resurrezione senza croce! Bando quindi agli sterili complottismi, ascoltiamo ed obbediamo al Santo Padre Pio XI che, come un gran medico, dopo una buona diagnosi ed una prognosi infausta senza ricorrere alla giusta terapia, ci offre una ricetta sicura e sperimentata da millenni per uscir fuori indenni dalla lebbra del mondo, malattia infinitamente più grave di quella del corpo, perché falcia un numero immenso ed incalcolabile di anime per portarle all’eterna dannazione: “Caritate Christi compulsi, Catholicæ Ecclesiæ filios atque adeo cordatos nomine universos … “

LETTERA ENCICLICA

“CARITATE CHRISTI COMPULSI”
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
e agli altri Ordinari locali che hanno pace e comunione con la Sede Apostolica
SUL CUORE DI GESÙ

 

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

La carità di Cristo Ci spinse ad invitare, con l’Enciclica Nova impendet del 2 ottobre dell’anno scorso, tutti i figli della Chiesa Cattolica, anzi tutti gli uomini di cuore, a stringersi in una santa crociata di amore e di soccorso, onde alleviare un poco le terribili conseguenze della crisi economica in cui si dibatte il genere umano. E veramente con mirabile e concorde slancio risposero al Nostro appello la generosità e l’operosità di tutti. Ma il disagio è andato crescendo, il numero dei disoccupati in quasi tutte le regioni è salito, e di ciò profittano i partiti sovversivi per la loro propaganda; conseguentemente l’ordine pubblico è sempre più minacciato, e il pericolo del terrore e dell’anarchia incombe sempre più gravemente sulla società. In tale stato di cose la stessa carità di Cristo Ci stimola a rivolgerCi di nuovo a voi, Venerabili Fratelli, ai vostri fedeli, a tutto il mondo per esortare tutti ad unirsi e ad opporsi con tutte le forze ai mali che opprimono l’intera umanità e a quelli ancora peggiori che la minacciano.

I

Se riandiamo con la mente alla lunga e dolorosa serie di mali che, triste retaggio del peccato, hanno segnato all’uomo decaduto le tappe del pellegrinaggio terreno, dal diluvio in poi, difficilmente c’incontriamo in un disagio spirituale e materiale così profondo, così universale, come quello che ora attraversiamo: anche i più grandi flagelli, che pure lasciarono tracce indelebili nella vita e nella memoria dei popoli, si abbattevano ora sopra una nazione, ora sopra l’altra. Ora invece l’umanità intera è stretta dalla crisi finanziaria ed economica così tenacemente, che quanto più si agita, tanto più insolubili ne sembrano i lacci; non vi è popolo, non vi è Stato, non società o famiglia che, in un modo o in un altro, direttamente o indirettamente, più o meno, non ne senta il contraccolpo. Quegli stessi, assai pochi di numero, che sembrano avere nelle loro mani, insieme con le ricchezze più ingenti, le sorti del mondo; quegli stessi pochissimi uomini che, con le loro speculazioni, sono stati e sono in gran parte la causa di tanto male, ne sono essi stessi ben sovente le prime e più clamorose vittime, trascinando con sé nell’abisso le fortune di innumerevoli altri; verificandosi in modo terribile e per tutto il mondo quanto lo Spirito Santo aveva già proclamato per i singoli peccatori: « Per quelle cose per le quali uno pecca, per le medesime è tormentato » [1]. – Lacrimevole condizione di cose, Venerabili Fratelli, che fa gemere il Nostro cuore paterno e Ci fa sentire sempre più intimamente il bisogno di imitare, secondo la Nostra pochezza, il sublime sentimento del Cuore SS. di Gesù: « Ho compassione di questa folla » [2]. Ma ancor più lacrimevole è la radice da cui nasce questa condizione di cose: poiché, se è sempre vero quello che afferma lo Spirito Santo per bocca di San Paolo: « Radice di tutti i mali è la cupidigia » [3], molto più ciò è vero nel caso presente.  – E non è forse quella cupidigia dei beni terreni, che il Poeta pagano chiamava già con giusto sdegno « esecranda fame dell’oro »; non è forse quel sordido egoismo, che troppo spesso presiede alle mutue relazioni individuali e sociali; non è insomma la cupidigia, qualunque ne sia la specie e la forma, quella che ha trascinato il mondo all’estremo che tutti vediamo e tutti deploriamo? Dalla cupidigia, infatti, proviene la mutua diffidenza, che inaridisce ogni commercio umano; dalla cupidigia, l’esosa invidia che fa considerare come proprio danno ogni vantaggio altrui; dalla cupidigia, il gretto individualismo che tutto ordina e subordina al proprio vantaggio, senza badare agli altri, anzi conculcando crudelmente ogni diritto altrui. Di qui il disordine e lo squilibrio ingiusto, per cui si vedono le ricchezze delle nazioni accumulate nelle mani di pochissimi privati, che regolano a loro capriccio il mercato mondiale, con danno immenso delle masse, come abbiamo esposto l’anno scorso nella Nostra Lettera Enciclica Quadragesimo anno.

Se questo stesso egoismo (abusando del legittimo amor di patria e spingendo all’esagerazione quel sentimento di giusto nazionalismo, che il retto ordine della carità cristiana non solo non disapprova, ma con proprie regole santifica e vivifica) si insinua nelle relazioni tra popolo e popolo, non vi è eccesso che non sembri giustificato; e quello che tra individui sarebbe da tutti giudicato riprovevole, viene considerato ormai come lecito e degno d’encomio se si compie in nome di tale esagerato nazionalismo. Alla grande legge dell’amore e della fraternità umana, che abbraccia tutte le genti e tutti i popoli in una sola famiglia con un solo Padre che sta nei cieli, subentra l’odio che spinge tutti alla rovina. Nella vita pubblica si calpestano i sacri princìpi che erano la guida di ogni convivenza sociale; vengono manomessi i solidi fondamenti del diritto e della fedeltà su cui dovrebbe basarsi lo Stato; sono violate e chiuse le sorgenti di quelle antiche tradizioni che nella fede in Dio e nella fedeltà alla sua legge vedevano le basi più sicure del vero progresso dei popoli.  – Approfittando di tanto disagio economico e di tanto disordine morale i nemici di ogni ordine sociale, si chiamino essi « comunisti » o con qualunque altro nome — ed è questo il male più tremendo dei nostri tempi — audacemente si adoperano a rompere ogni freno, a spezzare ogni vincolo di legge divina o umana, ad ingaggiare apertamente o in segreto la lotta più accanita contro la religione, contro Dio stesso, svolgendo il diabolico programma di schiantare dal cuore di tutti, perfino dei bambini, ogni sentimento religioso, poiché sanno molto bene che, tolta dal cuore dell’umanità la fede in Dio, essi potranno fare tutto quello che vorranno. E così vediamo oggi quello che mai si vide nella storia, spiegate cioè al vento senza ritegno le sataniche bandiere della guerra contro Dio e contro la religione in mezzo a tutti i popoli e in tutte le parti della terra.  – Non mancarono mai gli empi, non mancarono mai neppure i negatori di Dio; ma erano relativamente pochi, singoli e solitari, e non osavano o non credevano opportuno svelare troppo apertamente il loro empio pensiero, come pare voglia insinuare lo stesso ispirato Cantore dei Salmi, quando esclama: « Disse lo stolto in cuor suo: Dio non c’è » [4]. L’empio, l’ateo, uno fra la moltitudine, nega Dio, suo Creatore, ma ciò nel segreto del suo cuore. Oggi invece l’ateismo ha già pervaso larghe masse di popolo; con le sue organizzazioni si insinua anche nelle scuole popolari, si manifesta nei teatri, e per diffondersi si vale di proprie pellicole cinematografiche, del grammofono, della radio; con tipografie proprie stampa opuscoli in tutte le lingue; promuove speciali esposizioni e pubblici cortei. Ha costituito propri partiti politici, proprie formazioni economiche e militari. Questo ateismo organizzato e militante lavora instancabilmente per mezzo dei suoi agitatori con conferenze e illustrazioni, con tutti i mezzi di propaganda occulta e manifesta in tutte le classi, in tutte le strade, in ogni sala, dando a questa sua nefasta operosità l’appoggio morale delle proprie Università e stringendo gl’incauti tra i vincoli potenti della sua forza organizzatrice. Al vedere tanta operosità posta al servizio di una causa così iniqua, Ci viene davvero spontaneo alla mente e al labbro il mesto lamento di Cristo: « I figli di questo mondo sono nel loro genere più scaltri dei figli della luce » [5].  – I capi e gli autori di tutta questa campagna di ateismo, traendo partito dalla crisi economica attuale, con dialettica infernale cercano di far credere alle masse affamate che Dio e la Religione sono la causa di questa universale miseria. La santa Croce del Signore, simbolo di umiltà e povertà, viene posta insieme con i simboli del moderno imperialismo, come se la Religione fosse alleata con quelle forze tenebrose che producono tanti mali in mezzo agli uomini. Così tentano, e non senza effetto, di congiungere la guerra contro Dio con la lotta per il pane quotidiano, con il desiderio di possedere un terreno proprio, di avere salari convenienti, abitazioni decorose, una condizione di vita insomma che convenga all’uomo. I più legittimi e necessari desideri nonché gl’istinti più brutali, tutto serve al loro programma antireligioso, come se l’ordine divino stesse in contraddizione col bene dell’umanità e non né fosse al contrario l’unica sicura tutela; come se le forze umane con i mezzi della moderna tecnica potessero combattere le forze divine per introdurre un nuovo e migliore ordinamento di cose. Orbene, tanti milioni di uomini, credendo di lottare per l’esistenza, si aggrappano purtroppo a tali teorie con un totale capovolgimento della verità, e schiamazzano contro Dio e la Religione. Né questi assalti sono solamente diretti contro la Religione cattolica, ma contro quanti riconoscono ancora Dio come Creatore del cielo e della terra e come assoluto Signore di tutte le cose.  – E le società segrete, che sono sempre pronte ad appoggiare la lotta contro Dio e contro la Chiesa da qualunque parte venga, non mancano di rinfocolare sempre più questo odio insano che non può dare né la pace, né la felicità ad alcuna classe sociale, ma condurrà certamente tutte le nazioni alla rovina.  – Così questa nuova forma di ateismo, mentre scatena i più violenti istinti dell’uomo, con cinica impudenza proclama che non ci sarà né pace né benessere sulla terra, finché non sia sradicato l’ultimo avanzo di religione e non sia soppresso l’ultimo suo rappresentante. Come se con ciò potesse venir soffocato il mirabile concento, nel quale il creato « canta la gloria di Dio » [6].

II

Sappiamo molto bene, Venerabili Fratelli, che vani sono tutti questi sforzi, e che nell’ora da Lui stabilita « si leverà Iddio e si disperderanno i suoi nemici» [7]; sappiamo che « non prevarranno le porte dell’inferno » [8]; sappiamo che il nostro Divin Redentore, come fu di lui predetto, « con la verga della sua bocca percuoterà la terra e col soffio delle sue labbra darà morte all’empio » [9] e terribile soprattutto sarà per quegli infelici l’ora in cui cadranno « nelle mani del Dio vivo» [10]. E questa fiducia inconcussa nel finale trionfo di Dio e della Chiesa Ci viene, per l’infinita bontà del Signore, ogni giorno confermata dalla vista consolante dello slancio generoso di innumerevoli anime verso Dio in tutte le parti del mondo e in tutte le classi sociali. È davvero un soffio potente dello Spirito Santo quello che ora passa su tutta la terra, attirando specialmente le anime giovanili ai più alti ideali cristiani, elevandole al di sopra di ogni rispetto umano, rendendole pronte ad ogni anche più eroico sacrificio; un soffio divino, che scuote tutte le anime, anche loro malgrado, e fa sentire un interno travaglio, una vera sete di Dio, anche a quelle che non osano confessarlo. Anche il Nostro invito ai laici di partecipare all’apostolato gerarchico nelle file dell’Azione Cattolica è stato dappertutto docilmente e generosamente accolto; va crescendo continuamente nelle città e nelle campagne il numero di coloro che con tutte le forze si adoperano alla propaganda dei princìpi cristiani e alla loro attuazione pratica anche nella vita pubblica, mentre essi stessi si studiano di confermare le loro parole con gli esempi della loro vita intemerata.  – Ma nondimeno davanti a tanta empietà, a tanta rovina di tutte le più sante tradizioni, a tanta strage di anime immortali, a tanta offesa della Divina Maestà, non possiamo, Venerabili Fratelli, non esprimere tutto l’acerbo dolore che ne proviamo; non possiamo non alzare la Nostra voce, e con tutta l’energia dell’animo apostolico prendere le difese dei conculcati diritti di Dio e dei più sacri sentimenti del cuore umano che di Dio ha assoluto bisogno. Tanto più che queste squadre pervase da spirito diabolico non si contentano di schiamazzare, ma uniscono tutte le loro forze per eseguire quanto prima i loro nefasti disegni. Guai all’umanità se Dio, così vilipeso dalle sue creature, lasciasse, nella sua giustizia, libero corso a questa fiumana devastatrice e si servisse di essa come di flagello per castigare il mondo! – È dunque necessario, Venerabili Fratelli, che instancabilmente ci opponiamo « quale muro per la casa d’Israele »[11], unendo anche noi tutte le forze nostre in un’unica e solida schiera compatta contro le malvage falangi, nemiche di Dio non meno che del genere umano. Infatti in questa lotta si discute veramente il problema fondamentale dell’universo e si tratta la più importante decisione proposta alla libertà umana: per Dio o contro Dio. È questa di nuovo la scelta che deve decidere le sorti di tutta l’umanità: nella politica, nella finanza, nella moralità, nelle scienze, nelle arti, nello Stato, nella società civile e domestica, in Oriente e in Occidente, dappertutto si affaccia questo problema come decisivo per le conseguenze che ne derivano. Così gli stessi rappresentanti di una concezione del tutto materialistica del mondo vedono sempre ricomparire davanti a sé la questione dell’esistenza di Dio che credevano già soppressa per sempre, e sono sempre costretti a riprenderne la discussione. Noi quindi scongiuriamo nel Signore, tanto i singoli che le nazioni, a voler deporre, davanti a tali problemi e in tempo di così accanite lotte vitali per l’umanità, quel gretto individualismo e basso egoismo che accecano anche le menti più perspicaci e fanno inaridire anche ogni più nobile iniziativa, per poco che questa esca dai limiti del ristrettissimo cerchio di piccoli e particolari interessi: si uniscano tutti anche con gravi sacrifici per salvare se stessi e l’intera umanità. In tale unione di animi e di forze devono naturalmente essere i primi coloro che si gloriano del nome cristiano, memori della gloriosa tradizione dei tempi apostolici, quando « la moltitudine dei credenti formava un sol cuore e un’anima sola » [12]; ma vi concorrano lealmente e cordialmente anche tutti gli altri che ancora ammettono un Dio e lo adorano, per allontanare dall’umanità il grande pericolo che minaccia tutti. Infatti il credere in Dio è il fondamento incrollabile di ogni ordinamento sociale e di ogni responsabilità sulla terra; perciò tutti coloro che non vogliono l’anarchia e il terrore devono energicamente adoperarsi perché i nemici della religione non raggiungano lo scopo da loro così apertamente proclamato.  – Sappiamo, Venerabili Fratelli, che in questa lotta per la difesa della religione si devono usare anche tutti i legittimi mezzi umani che sono a nostra disposizione. Perciò Noi, seguendo le orme luminose del Nostro Predecessore Leone XIII di s. m., con la Nostra Enciclica Quadragesimo anno abbiamo con tanta energia sostenuto una più equa ripartizione dei beni della terra e abbiamo indicato i mezzi più efficaci che dovrebbero ridonare la salute e la forza all’ammalato corpo sociale e ridare la tranquillità e la pace ai suoi membri doloranti. Infatti l’irresistibile aspirazione a raggiungere una conveniente felicità anche sulla terra è posta nel cuore dell’uomo dal Creatore di tutte le cose, e il Cristianesimo ha sempre riconosciuto e promosso con ogni impegno i giusti sforzi della vera cultura e del sano progresso per il perfezionamento e lo sviluppo dell’umanità. – Ma di fronte a questo odio satanico contro la religione, che ricorda il « mistero d’iniquità » di cui parla San Paolo [13], i soli mezzi umani e le provvidenze degli uomini non bastano; e Noi crederemmo, Venerabili Fratelli, di venir meno al Nostro apostolico ministero se non volessimo additare all’umanità quei meravigliosi misteri di luce, che soli nascondono in sé la forza di soggiogare le scatenate potenze delle tenebre. Quando il Signore, scendendo dagli splendori del Tabor, risanò il giovinetto malmenato dal demonio, che i discepoli non avevano potuto guarire, all’umile domanda di essi: « Per qual motivo non lo abbiamo potuto scacciare noi? », rispose con le memorande parole: «Questo genere non si scaccia se non con l’orazione e il digiuno »[14]. Ci pare, Venerabili Fratelli, che queste divine parole si debbano appunto applicare ai mali dei nostri tempi, che solo « per mezzo della preghiera e della penitenza » possono essere scongiurati.  – Memori dunque della nostra condizione di esseri essenzialmente limitati e assolutamente dipendenti dall’Essere supremo, ricorriamo innanzi tutto alla preghiera. Sappiamo per fede quanta sia la potenza dell’umile, confidente, perseverante preghiera; a nessuna altra pia opera furono mai annesse dall’Onnipotente Signore così ampie, così universali, così solenni promesse come alla preghiera: « Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto, perché chiunque chiede, riceve; chi cerca, trova; e a chi bussa sarà aperto » [15]. In verità, in verità vi dico: quanto domanderete al Padre in nome mio, egli ve lo concederà » [16].  – E quale oggetto più degno della nostra preghiera e più corrispondente alla persona adorabile di Colui che è l’unico «Mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù »[17], che l’implorare la conservazione in terra della fede nel solo Dio, vivo e vero? Una tale preghiera porta già in sé una parte del suo esaudimento: infatti, dove un uomo prega, là egli si unisce con Dio, e per così dire mantiene già sulla terra l’idea di Dio. L’uomo che prega, con la sua stessa umile posizione professa davanti al mondo la sua fede nel Creatore e Signore di tutte le cose; unendosi poi con gli altri in preghiera comune, con ciò stesso riconosce che non solamente l’individuo, ma anche l’umana società ha un supremo Signore assoluto sopra di sé.  – Quale spettacolo non è mai per il cielo e per la terra la Chiesa che prega! Da secoli, ininterrottamente, da una mezzanotte all’altra si ripete sulla terra la divina salmodia dei canti ispirati; non c’è ora del giorno che non sia santificata dalla sua liturgia speciale; non c’è alcun periodo grande o piccolo della vita che non abbia un posto nel ringraziamento, nella lode, nella orazione, nella riparazione della preghiera comune del corpo mistico di Cristo che è la Chiesa. Così la preghiera stessa assicura la presenza di Dio tra gli uomini, come lo promise il Divin Redentore: «Dove sono due o tre persone riunite nel mio nome, io sono in mezzo a loro »[18]. – La preghiera toglierà di mezzo, inoltre, la causa stessa delle odierne difficoltà da Noi sopra accennate, cioè l’insaziabile cupidigia dei beni terreni. L’uomo che prega guarda in alto, ai beni cioè del cielo che egli medita e desidera; tutto il suo essere s’immerge nella contemplazione del mirabile ordine posto da Dio, che non conosce la smania dei successi e non si perde in futili gare di sempre maggiore velocità; e così quasi da sé si ristabilirà quell’equilibrio tra il lavoro e il riposo che con grave danno della vita fisica, economica e morale, manca del tutto all’odierna società. Se coloro che, per la sovrabbondante produzione industriale, sono caduti nella disoccupazione e nella povertà, volessero dare il tempo conveniente alla preghiera, il lavoro e la produzione rientrerebbero ben presto entro i limiti ragionevoli, e la lotta che ora divide l’umanità in due grandi campi di combattenti per gl’interessi passeggeri, resterebbe assorbita nella nobile, pacifica, lotta per l’acquisto dei beni celesti ed eterni.  – In tal modo si aprirebbe la via anche alla tanto sospirata pace, come egregiamente accenna San Paolo là dove congiunge appunto il precetto della preghiera con i santi desideri della pace e della salute di tutti gli uomini: « Raccomando dunque prima di tutto che si facciano suppliche, orazioni, voti, ringraziamenti, per tutti gli uomini; per i re e per tutti coloro che sono al potere, affinché possiamo trascorrere una vita quieta e tranquilla con tutta pietà e dignità. Infatti, questa è una cosa bella e gradita al cospetto del Salvatore Dio nostro, il quale vuole che tutti gli uomini si salvino ed arrivino alla conoscenza della verità » [19]. Per tutti gli uomini si implori la pace, ma specialmente per coloro che nell’umana società hanno le gravi responsabilità del governo; come potrebbero essi dare la pace ai loro popoli, se non l’hanno in se stessi? Ed è precisamente la preghiera quella che, secondo l’Apostolo, deve apportare il dono della pace: la preghiera che si rivolge al Padre celeste, che è Padre di tutti gli uomini; la preghiera, che è l’espressione comune dei sentimenti di famiglia, di quella grande famiglia che si estende al di là dei confini di qualunque paese e di qualunque continente.  – Uomini che in ogni nazione pregano lo stesso Dio per la pace sulla terra non possono essere insieme i portatori della discordia tra i popoli; uomini che si rivolgono nella preghiera alla Divina Maestà, non possono fomentare quell’imperialismo nazionalistico che di ciascun popolo fa il proprio Dio; uomini che guardano al « Dio della pace e della carità » [20], che a Lui si rivolgono per mezzo di Cristo, che è « nostra pace » [21], non si acquieteranno finché finalmente la pace, che il mondo non può dare, discenda dal Datore di ogni bene sopra « gli uomini di buona volontà » [22]. « Pace a voi » [23] fu il saluto pasquale del Signore ai suoi Apostoli e primi discepoli; e questo benedetto saluto da quei primi tempi sino a noi non è mai venuto meno nella sacra Liturgia della Chiesa, ed oggi più che mai esso deve confortare e risollevare gli esulcerati ed oppressi cuori umani.

III

Ma alla preghiera bisogna aggiungere anche la penitenza: cioè lo spirito di penitenza, e la pratica della penitenza cristiana. Così ci insegna il Divin Maestro, la cui prima predicazione fu appunto la penitenza: «Cominciò Gesù a predicare e a dire: Fate penitenza » [24]. Così ci insegna pure tutta la tradizione cristiana, tutta la storia della Chiesa: nelle grandi calamità, nelle grandi tribolazioni della Cristianità, quando era più urgente la necessità dell’aiuto di Dio, i fedeli, o spontaneamente o più spesso dietro l’esempio e le esortazioni dei sacri Pastori, hanno sempre impugnato tutte e due le validissime armi della vita spirituale: l’orazione e la penitenza. – Per quel sacro istinto da cui quasi inconsapevolmente si lascia guidare il popolo cristiano, quando non è traviato dai seminatori di zizzania, e che non è poi altro se non quel « senso di Cristo » [25] di cui parla l’Apostolo, i fedeli hanno sempre sentito subito in tali casi il bisogno di purificare le loro anime dal peccato con la contrizione del cuore, col sacramento della riconciliazione, e di placare la divina Giustizia anche con esterne opere di penitenza.  – Sappiamo certo e con voi, Venerabili Fratelli, deploriamo che ai nostri giorni l’idea e il nome di espiazione e di penitenza hanno perduto presso molti la virtù di suscitare quegli slanci di cuore e quegli eroismi di sacrificio, che in altri tempi sapevano infondere, presentandosi agli occhi degli uomini di fede come sigillati di un carattere divino ad imitazione di Cristo e dei Santi suoi; né mancano alcuni che vorrebbero mettere da parte le mortificazioni esterne come cose di tempi passati; senza parlare poi del moderno « uomo autonomo » che disprezza la penitenza come espressione di indole servile. Ed è ovvio infatti che quanto più si affievolisce la fede in Dio, tanto più si confonda e svanisca l’idea di un peccato originale e di una primitiva ribellione dell’uomo contro Dio, e quindi ancor più si perda il concetto della necessità della penitenza e dell’espiazione. – Ma noi invece, Venerabili Fratelli, dobbiamo per obbligo dell’ufficio pastorale tenere in alto questi nomi e questi concetti, e conservarli nel loro vero significato, nella loro genuina nobiltà e ancor più nella loro pratica e necessaria applicazione alla vita cristiana.  – A questo Ci spinge la stessa difesa di Dio e della Religione, che stiamo propugnando, poiché la penitenza è di natura sua un riconoscimento e ristabilimento dell’ordine morale nel mondo, che si fonda nella legge eterna, cioè nel Dio vivente. Chi dà soddisfazione a Dio per il peccato, riconosce con ciò stesso la santità dei supremi princìpi della moralità, la loro interna forza di obbligazione, la necessità di una sanzione contro la loro violazione. Ed è certo uno dei più pericolosi errori dell’età nostra l’aver preteso di separare la moralità dalla religione, togliendo così ogni solida base a qualunque legislazione. Questo errore intellettuale poteva forse passare inosservato ed apparire meno pericoloso quando si limitava a pochi, e la fede in Dio era ancora un patrimonio comune dell’umanità e tacitamente si presupponeva anche di quelli che più non ne facevano aperta professione. Ma oggi, quando l’ateismo si diffonde nelle masse popolari, le conseguenze pratiche di quell’errore diventano terribilmente tangibili ed entrano nel mondo delle tristissime realtà. Invece delle leggi morali, che svaniscono insieme con la perdita della fede in Dio, si impone la forza violenta che conculca ogni diritto. L’antica fedeltà e correttezza nell’agire e nel mutuo commercio, tanto decantate perfino dai retori e poeti del paganesimo, ora cedono il posto a speculazioni senza coscienza, tanto nei propri come negli affari altrui. E difatti come può sostenersi un contratto qualsiasi, e quale valore può avere un trattato, se manca ogni garanzia di coscienza? E come si può parlare di garanzia di coscienza, dove è venuta meno ogni fede in Dio, ogni timor di Dio? Tolta questa base, ogni legge morale cade con essa; e non vi è più nessun rimedio che possa impedire la graduale ma inevitabile rovina dei popoli, delle famiglie, dello Stato, della stessa umana civiltà.  – La penitenza dunque è come un’arma salutare posta in mano dei prodi soldati di Cristo, che vogliono combattere per la difesa e il ristabilimento dell’ordine morale dell’universo. È un’arma che giunge proprio alla radice di tutti i mali: alla concupiscenza, cioè, delle materiali ricchezze e dei dissoluti piaceri della vita. Per mezzo di volontari sacrifìci, per mezzo di rinunce pratiche, anche dolorose, per mezzo delle varie opere di penitenza, il cristiano generoso reprime le basse passioni che tendono a trascinarlo alla violazione dell’ordine morale. Ma se lo zelo della divina legge e la carità fraterna sono in lui tanto grandi quanto devono esserlo, allora non solo si dà all’esercizio della penitenza per sé e per i suoi peccati, ma si addossa anche l’espiazione dei peccati altrui, ad imitazione dei Santi che spesso eroicamente si facevano vittime di riparazione per i peccati di intere generazioni; anzi ad imitazione del Redentore divino, che si è fatto « Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo »[26].  – Non c’è forse, Venerabili Fratelli, in questo spirito di penitenza anche un dolce mistero di pace? «Non c’è pace per gli empi » [27], dice lo Spirito Santo, perché vivono in continua lotta ed opposizione con l’ordine stabilito dalla natura e dal suo Creatore. Solamente quando questo ordine verrà ristabilito, quando tutti i popoli fedelmente e spontaneamente lo riconosceranno e lo professeranno, quando le interne condizioni dei popoli e le esterne relazioni con le altre nazioni si fonderanno sopra questa base, allora soltanto sarà possibile una pace stabile sopra la terra. Ma non basteranno a creare quest’atmosfera di pace duratura né i trattati di pace, né i patti più solenni, né i convegni o le conferenze internazionali, né gli sforzi anche più nobili e disinteressati di qualunque uomo di Stato, se prima non siano riconosciuti i sacri diritti della legge naturale e divina. Nessun dirigente della economia pubblica, nessuna forza organizzatrice potrà mai condurre le condizioni sociali a pacifica soluzione, se prima nel campo stesso dell’economia non trionfi la legge morale basata su Dio e sulla coscienza. Questo è il valore fondamentale di ogni valore, tanto nella vita politica quanto in quella economica delle nazioni; questa è la moneta più sicura, tenuta ben salda la quale, anche tutte le altre saranno stabili, essendo garantite dall’immutabile ed eterna legge di Dio. – Ed anche ai singoli uomini la penitenza è apportatrice di vera pace, distaccandoli dai beni terreni e caduchi e sollevandoli ai beni eterni, donando loro anche in mezzo alle privazioni ed alle avversità una pace che il mondo con tutte le sue ricchezze e i suoi piaceri non può dare. Uno dei cantici più sereni e più lieti che mai si siano uditi in questa valle di lacrime non è forse il celebre «Cantico del sole e delle creature » di San Francesco? Ebbene, chi lo compose, chi lo scrisse, chi lo cantò era uno dei più grandi penitenti, il Poverello di Assisi, che non possedeva assolutamente nulla sulla terra e portava nel suo corpo estenuato le dolorose stimmate del suo Signore Crocifisso.  – La preghiera, dunque, e la penitenza sono i due potenti spiriti che in questo tempo ci sono dati da Dio perché riconduciamo a Lui la smarrita umanità che gira qua e là senza guida: sono gli spiriti che devono dissipare e riparare la prima e principale causa di ogni ribellione e di ogni rivoluzione, la ribellione cioè dell’uomo contro Dio. Ma i popoli stessi sono chiamati a decidersi per una scelta definitiva: o essi si affidano a questi benevoli e benèfici spiriti e si convertono, umili e pentiti, al loro Signore e Padre delle misericordie, oppure abbandonano se stessi e il poco che ancora resta di felicità sulla terra in balìa del nemico di Dio, cioè allo spirito di vendetta e di distruzione. – Non Ci resta quindi altro che invitare questo povero mondo che ha sparso tanto sangue, che ha aperto tanti sepolcri, che ha distrutto tante opere, che ha privato di pane e di lavoro tanti uomini, non Ci resta, diciamo, che invitarlo con le tenere parole della sacra Liturgia: « Convèrtiti al Signore Dio tuo! ».

IV

E quale più opportuna occasione possiamo Noi indicarvi, Venerabili Fratelli, per tale unione di preghiere e di riparazioni, se non la prossima festa del Sacro Cuore di Gesù? Lo spirito proprio di tale solennità — come abbiamo quattro anni or sono ampiamente dimostrato nella Nostra Lettera Enciclica Miserentissimus — è appunto spirito di amorosa riparazione, e perciò abbiamo voluto che in tal giorno ogni anno in perpetuo si faccia, in tutte le chiese dell’orbe, pubblico atto di ammenda per le tante offese che feriscono quel Cuore divino.  – Sia dunque quest’anno la festa del Sacro Cuore per tutta la Chiesa una santa gara di riparazione e di impetrazione. Accorrano numerosi i fedeli alla mensa Eucaristica; accorrano ai piedi degli altari ad adorare il Salvatore del mondo sotto i veli del Sacramento, che voi, Venerabili Fratelli, procurerete sia in tal giorno solennemente esposto in tutte le chiese; effondano in quel Cuore Misericordioso, che ha conosciuto tutte le pene del cuore umano, la piena del loro dolore, la fermezza della loro fede, la fiducia della loro speranza, l’ardore della loro carità. Lo preghino, interponendo anche il potente patrocinio di Maria Santissima, Mediatrice di tutte le grazie, per sé e per le loro famiglie, per la loro patria, per la Chiesa; lo preghino per il Vicario di Cristo in terra e per gli altri Pastori, che con  lui dividono il formidabile peso del governo spirituale delle anime; lo preghino per i fratelli credenti, per i fratelli erranti, per gl’increduli, per gl’infedeli; e infine per gli stessi nemici di Dio e della Chiesa, affinché si convertano.  – E questo spirito di preghiera e di riparazione si mantenga poi intensamente vivo ed operoso in tutti i fedeli anche per l’intera Ottava, del qual privilegio liturgico Noi abbiamo voluto fosse insignita questa Festa. Durante tali giorni si facciano, nel modo che ciascuno di voi, Venerabili Fratelli (secondo le circostanze locali) crederà opportuno prescrivere o suggerire, pubbliche preghiere ed altri devoti esercizi di pietà secondo le intenzioni da Noi brevemente sopra accennate: « al fine di ottenere misericordia e trovare grazia per essere aiutati al momento opportuno » [28]. – Sia quella, davvero, per tutto il popolo cristiano un’Ottava di riparazione e di santa mestizia; siano giorni di mortificazione e di preghiera. Si astengano i fedeli dagli spettacoli e dai divertimenti anche leciti; i più agiati sottraggano anche volontariamente, in spirito di cristiana austerità, qualche cosa dalla sia pure moderata misura del consueto modo di vita, largheggiando piuttosto coi poveri il frutto di tale sottrazione, essendo anche l’elemosina un ottimo mezzo per soddisfare alla divina Giustizia e attirare le divine misericordie. I poveri, e tutti coloro che in questo tempo sono sotto la dura prova dello scarso lavoro e dello scarso pane, offrano con eguale spirito di penitenza, con maggiore rassegnazione le privazioni loro imposte dai tempi difficili e dalla condizione sociale che la Divina Provvidenza, con imperscrutabile ma pur sempre amoroso disegno, ha loro assegnato: accettino con animo umile e confidente dalla mano di Dio gli effetti della povertà, resi più duri dalle strettezze in cui si dibatte attualmente l’umanità; si elevino più generosamente fino alla divina sublimità della Croce di Cristo, ripensando che, se il lavoro è tra i maggiori valori della vita, è però stato l’amore di un Dio paziente quello che ha salvato il mondo; si confortino nella certezza che i loro sacrifici e le loro pene, cristianamente sopportati, concorreranno efficacemente ad affrettare l’ora della misericordia e della pace. – Il Cuore divino di Gesù non potrà non commuoversi alle preghiere ed ai sacrifici della sua Chiesa e finirà col dire alla sua Sposa che geme ai suoi piedi sotto il peso di tante pene e di tanti mali: «Grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri »[29]. – Con questa fiducia, avvalorata dal ricordo della Croce, sacro segno e prezioso strumento della nostra santa redenzione, di cui oggi celebriamo la gloriosa Invenzione, a Voi, Venerabili Fratelli, al vostro clero e popolo, a tutto l’orbe cattolico impartiamo con paterno affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, nella festa dell’Invenzione della Santa Croce, 3 maggio 1932, undecimo del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

 

[1] Sap., XI, 17.

[2] Marc., VIII, 2.

[3] I Tim., VI, 10.

[4] Ps. XIII, 1, et LII, 1.

[5] Luc., XVI, 8.

[6] Ps. XVIII, 2.

[7] Ps. LXVII, 2.

[8] Matth., XVI, 18.

[9] Is., XI, 4.

[10] Hebr., X, 31.

[11] Ezech., XIII, 5.

[12] Act., IV, 32.

[13] II Thess., II, 7.

[14] Matth., XVII, 18-20.

[15] Matth., VII, 7-8.

[16] Ioann., XVI, 23.

[17] I Tim., II, 5.

[18] Matth., XVIII, 20.

[19] I Tim., II, 1-4.

[20] II Cor., XIII, 11.

[21] Ephes., II, 14.

[22] Luc., II, 14.

[23] Ioann., XX, 19, 26.

[24] Matth. IV, 17.

[25] I Cor., II, 16.

[26] Ioann., I, 29.

[27] Is., XLVIII, 22.

[28] Hebr., IV, 16.

[29] Matth., XV, 28.

 

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI APOSTATI, “ERETICI ACEFALI” DI TORNO: “Il Trionfo” di Pio VII

I Papi in esilio


Pio VII
“Il trionfo”

Prima di leggere e gustare la breve enciclica di S. S. Pio VII, riportiamo una nota storica che di questa è l’antefatto. Ecco la vicenda di uno dei tanti Papi della storia della Chiesa ad essere esiliato ed impedito nelle sue funzioni Pontificali. Questo soprattutto a beneficio di tutti gli “acefali”, tesisti, sedevacantisti, finti-sedeplenisti o scismatici “cani sciolti”, che ritengono che un Papa impedito, che essi chiamano stoltamente “occulto”, non abbia “nota di Cattolicità”. C’è veramente da compiangere certi personaggi che si ritengono … udite, udite … canonisti, senza averne oltretutto alcun titolo! Sembrano piuttosto bambini imbecilli ed in mala fede che giocano al “piccolo teologo” eretico-scismatico. Consideriamo piuttosto le pene e le torture, spesso materiali, o quantomeno spirituali, che questi valorosi Nocchieri della “barca di Pietro” hanno dovuto sopportare per condurre in porto il loro divino Mandato e la “barca” loro affidata tra flutti e tempeste di ogni tipo, e lasciamo che gli “acefali” coltivino i loro deliri fanta-teologici. – “Il trionfo” è scritta in italiano dal legittimo Papa, che trionfante torna ad occupare il Soglio che gli compete; da questa enciclica, noi Cattolici “pausillus grex”, possiamo trarre fiducia che una analoga situazione si ripeta presto, quando i fasulli impostori, i clown-marrani, verranno bruciati dal soffio della bocca di Cristo: … et non prævalebunt!  

Il Papa prigioniero di Napoleone.

[C. Castiglioni: Storia dei Papi, 2^ ediz. vol. II; Torino, 1957- imprim.-]

Pio VII e Napoleone, i due uomini più opposti di carattere, di genio, d’indole, di costumi e di sentimenti, l’agnello e il leone, si trovarono di fronte una seconda volta sul territorio francese. La prima volta il pontefice era accorso in Francia a consacrare l’autorità, la seconda vi fu trascinato vittima di quella autorità che egli stesso aveva consacrata. Il 27 maggio 1809 da Vienna, ove era entrato trionfatore per la seconda volta, Bonaparte, per punire il Pontefice, che non aveva voluto chiudere il porto di Civitavecchia alle navi inglesi ed assecondare in tutto e per tutto le voglie imperiali, con un semplice decreto annetteva all’Impero francese lo Stato pontificio; dichiarava Roma città imperiale e libera, assegnata per residenza al Papa come capo della Chiesa, con la dote annua di due milioni e l’immunità dei Palazzi Apostolici. Mascherava poi l’usurpazione con ragioni storiche e religiose abbastanza speciose. Carlo Magno aveva concesso ai vescovi di Roma quei territori in feudo, perciò Roma e il suo Stato non avevano mai cessato di appartenere all’imperatore francese; il successore di Carlo Magno non faceva che richiamare in vigore i suoi diritti, revocando le donazioni feudali di Pipino e di Carlo. D’altra parte l’unione dell’autorità spirituale e temporale nella stessa persona non poteva essere che sorgente di disordini. Protestò energicamente il pontefice contro il generale Miollis, incaricato dell’esecuzione dell’ordine imperiale, e fece affiggere alle porte delle basiliche la bolla di scomunica (10 giugno), stesa dal padre barnabita Francesco Fontana, contro gli spogliatori della Santa Sede. In Roma serpeggiava grave malcontento contro i Francesi, e il Miollis, temendo un’aperta rivolta, interpretando il pensiero del suo imperatore, ordinò al generale Radet di impadronirsi della persona del Pontefice e del suo segretario, il cardinale Pacca. La notte dal 5 al 6 luglio si diede l’assalto al palazzo del Quirinale, dove viveva ritirato il pontefice, dacché la città era stata occupata militarmente dai Francesi, il 2 febbraio 1808. Scalato il muro del giardino e aperto il portone dall’interno, Radet fece irruzione. Di appartamento in appartamento, abbattendo le porte a colpi di scure, penetrò fino alla camera, ove il Pontefice, in fretta e furia alzatosi da letto, attendeva coi suoi familiari. – La Guardia svizzera, composta di quaranta uomini, s’era schierata nell’anticamera: alla intimazione di resa depose le armi, giacché così aveva ordinato il Pontefice per evitare spargimento di sangue. Il Santo Padre stava ritto nel mezzo della stanza coi cardinali Pacca e Despuig, l’uno alla destra, l’altro alla sinistra; i familiari e i prelati facevano ala. Entra il Radet, che si pone a fronte del pontefice, mentre gli ufficiali gli si allineano ai lati. Momenti solenni di silenzio; i due gruppi di persone si guardano immobili, attoniti. Finalmente il generale, pallido in volto, con voce tremante, annunciava gli ordini di cui egli si diceva esecutore irresponsabile. Il Papa, senza scomporsi, dignitoso e fermo, rispose: « Se ella ha creduto di dover eseguire tali ordini dell’imperatore pel giuramento fattogli di fedeltà e d’obbedienza, s’immagini in qual modo dobbiamo sostenere i diritti della Santa Sede, alla quale siamo legati con tanti giuramenti ». « In questo caso — concluse il generale — io ho l’ordine di condurvi fuori di Roma ». Il Papa, senza prendere altra cosa che il breviario, col cardinale Bartolomeo Pacca si avanza verso la porta. In istrada stava pronta una vettura, sulla quale sono fatti montare. Gli sportelli si chiudono a chiave; Radet balza in serpe col postiglione e via verso Porta Salaria, scortati da gendarmi. Albeggiava appena: alle finestre delle case vicine, che si aprivano all’insolito trambusto, s’intimava dai militi la chiusura irnmediata. – Fuori porta erano pronti i cavalli di posta, e si prese l a via di Toscana. – Il Sovrano di Roma e il suo primo ministro intraprendevano il loro viaggio veramente all’apostolica: non portavano seco non peram in via, neque duas tunicas (Matt. X, 10). In tasca tra tutti e due non contavano che 35 baiocchi! Pio VII aveva già superati i 67 anni, ed era molto sofferente in salute: ma lungo la via dolorosa dell’esilio si consolava pensando al Martire del Golgota: «Noi stiamo bene. Nostro Signore ha sofferto più di quello che noi soffriamo ». La triste notizia del rapimento del Pontefice precorreva lo stesso Rad: le popolazioni si commovevano, e il generale accelerava il viaggio oltre il ragionevole. Dopo Poggibonsi la vettura ribaltò spezzando una ruota; il generale veniva balzato in un pantano, il Papa e il Cardinale sballottati entro la cassa chiusa e rovesciata. Il popolo accorso gemeva ed invocava: «Santo Padre! Santo Padre! »  Schiavato lo sportello, ne uscì il Pontefice, sollevato sulle braccia del popolo, che si affannava a baciargli le vesti e a chiederne la benedizione. Dalla Certosa di Firenze si ripartiva tosto alla volta di Francia: il Cardinale però, veniva separato e per altra via inoltrato in Piemonte. A Sarzana si prese i l mare per San Pier d’Arena; indi per Alessandria e Torino al Cenisio, sostando solo quando era necessario per serbare in vita l’augusto prigioniero. Gli strapazzi del viaggio causarono non pochi svenimenti al povero infermo, tanto che se ne risentì presso il colonnello Brissard, che aveva preso il posto di Radet: «Avete voi ordine di condurmi morto o vivo? Se il vostro ordine è di farmi morire, continuiamo il viaggio; se non è tale, voglio fermarmi ».All’Ospizio del Cenisio sosta di due giorni. Il Pacca raggiunse il Santo Padre e si accompagnò di nuovo con lui fino a Grenoble. Quivi nuova e definitiva separazione, poiché il Cardinale fu tradotto prigioniero nella fortezza di Finestrelle, ove rimase con altri personaggi fino al 5 febbraio 1815. Il Santo Padre per Valenza, Avignone, Nizza, raggiungeva Savona, sempre « fra le persecuzioni della terra e le consolazioni del cielo ».Il giorno del rapimento del Pontefice fu quello della vittoria di Wagram, dopo la quale l’imperatore dettava la pace nel castello di Schönbrunn il 14 ottobre (1809), e di essa approfittava per trattare la questione religiosa. In verità Napoleone cominciava a tremare nell’animo suo: l’inerme prigioniero di Savona gli faceva paura più di un esercito in assetto di guerra. L’uomo straordinario, che reggeva l’Impero con lo scettro di ferro, conservava in fondo all’animo un briciolo di fede: l’animo suo era un groviglio di misteri; aveva un doppio carattere: era l’Attila e il Carlo Magno dell’età moderna; il persecutore e il sostegno del popolo di Dio, il cieco strumento della giustizia divina. – Ritornato a Fontainebleau, Napoleone volle che gli si compilasse l’elenco di tutte le scomuniche pronunciate dalla Santa Sede, incominciando dai tempi più remoti, contro i sovrani. L’elenco, per quanto incompleto ne enumerava 85 a partire dal 398, e accortamente ometteva l’ultima del 10 giugno 1809. Napoleone faceva tuttavia dello spirito, e parlando col cardinale Caprara sorrideva della scomunica papale, che non « faceva cader le armi dalle mani dei suoi soldati! ». Era il gesto di sfida di Capanèo contro il Cielo! Ma sulle gelide steppe di Russia, racconta il conte di SÉGUR, che ne fu testimonio, « le armi dei soldati parvero insopportabile peso alle loro braccia assiderate. Nelle loro frequenti cadute sfuggivano ad essi dalle mani, infrangevansi e perdevansi nella neve. Se si rialzavano, se ne trovavano privi, poiché non le gettavano, ma venivano loro strappate dalla fame e dal freddo ». – Il superbo imperatore voleva indurre il Pontefice a porre la sua residenza a Parigi per averlo a sua discrezione, come puntello alla sua tirannia e come strumento del suo dominio. Le lusinghe imperiali a nulla approdavano sull’animo dell’intrepido vegliardo. Per ridurlo ai suoi voleri il persecutore allontanò dal pontefice tutti i prelati a lui non ligi; gli fece sequestrare tutta la corrispondenza e togliere persino penna e calamaio. Il Papa sopportò con eroica fermezza quelle vessazioni. « Io voglio — diceva — deporre le minacce ai piedi del Crocifisso e lasciare a Dio il vendicare la mia causa, perché è tutta sua ». L’imperatore decise quindi di convocare a Parigi un concilio nazionale. Ma i 95 tra vescovi e cardinali intervenuti, non ostante le mene del clero cortigiano, si dichiararono incompetenti a supplire alle bolle pontificie, per cui Bonaparte, montato sulle furie, li disperse il 6 ottobre 1811, dopo tre mesi di vane discussioni. – La stella imperiale precipitava verso l’occaso. L’armata delle 20 nazioni mare: nelle pianure della Russia misteriosa. Perchè l’Inghilterra non tentasse nel frattempo un colpo di mano in favore del Pontefice, Napoleone, partendo con la Grande Armata ordinava il trasferimento del prigioniero a Fontainebleau. Nuova andata al Calvario. – Nel rivalicare il Cenisio il Pontefice patì tanto che giunse agli estremi di vita. I buoni religiosi dell’Ospizio dovettero amministrargli gli ultimi Sacramenti. Ma non era ancora la fine: altre lotte ed altri trionfi l’attendevano. Secondo le disposizioni imperiali, il pontefice a Fontainebleau non poteva essere avvicinato che da prelati francesi devoti al despota, i quali lavoravano per piegare l’animo di Pio VII or con le lusinghe or con le minacce di uno scisma. Scorsi appena, cinque mesi dacché il Santo Padre soggiornava a Fontainebleau, Napoleone tornava inatteso a Parigi dalla disastrosa campagna di Russia. In quelle strettezze estreme la riconciliazione col Pontefice poteva molto conferire alla fortuna dello sconquassato trono imperiale. – La sera del 19 gennaio 1813 Napoleone, con la seconda imperatrice Maria Luigia, recavasi improvvisamente a Fontainebleau. Si presentava al Papa, e con grande effusione l’abbracciò e lo baciò in volto. Pio VII ne fu profondamente commosso, e quella commozione seppe sfruttare Napoleone per indurlo a firmare i preliminari di un nuovo concordato. Per riuscire nell’intento ricorse anche ad intimidazioni ed a villanie; si disse anzi che in un eccesso di collera Napoleone acciuffasse il Papa pei capelli. Pio VII però smentì recisamente quella diceria. Appena ebbe carpita la firma (25 gennaio), l’imperatore s’affrettò a pubblicare il nuovo concordato, prima che i cardinali potessero abboccarsi con l’ingannato Pontefice. E per gettare polvere negli occhi del popolo, mise in libertà 13 cardinali, che trovavansi a domicilio coatto, e permise ai medesimi di visitare il Pontefice. Profonda mestizia prese l’animo della povera vittima, appena si accorse di aver troppo accondisceso: lo presero gli scrupoli e per parecchi giorni si astenne persino dal celebrare la Santa Messa. – L’energia e la prudenza del cardinale Pacca valsero alfine a rimettere la pace in quel cuore angustiato, giacché si poteva ancora rimediare. Anche Pasquale II aveva concesso il diritto d’investitura episcopale all’imperatore Enrico V, che, impadronitosi della sua persona, con tratti di corda l’aveva costretto a sottoscrivere! Ma appena libero Pasquale II, nel Concilio di Laterano, aveva annullato le fatte concessioni (1111). – Altrettanto faceva Pio VII con la celebre lettera del 14 marzo (1813) a Napoleone. E la volle scrivere tutta di proprio pugno per non esporre altra persona alla collera imperiale. In previsione di un simile gesto, il Pontefice era sorvegliato di continuo, e quando usciva di camera per andare a celebrare, si frugava nelle sue carte. Impiegò vari giorni a stendere quel documento, perché non poteva, per l’infermità fisica, scrivere a lungo. Scriveva alla presenza del Pacca e del Consalvi: i quali, accomiatandosi dopo l’udienza quotidiana, trafugavano il foglio che la notte era custodito dal Cardinale Pignatelli, e al mattino veniva di nuovo riportato al Pontefice, perché proseguisse a vergarlo. – I cortigiani sollecitarono l’imperatore a romperla definitivamente col Papato, proclamandosi capo della religione, come aveva già fatto Enrico VIII in Inghilterra; ma l’ardire di Napoleone non giunse a tanto. Inviò egli messi d’ogni sorta al Pontefice, esaurì tutti i ripieghi per fargli mutare proposito: tutto fu vano. Le vicende militari intanto volgevano di male in peggio: il 16 ottobre sui campi di Lipsia, con la battaglia dei popoli, gli oppressi di tutta Europa scuotevano il giogo e lo infrangevano. Percosso dalla giustizia di Dio, il tiranno riconobbe d’aver abusato troppo della sua potenza e che il prigioniero di Fontainebleau attirava sopra di lui i fulmini del cielo. Il 23 gennaio 1814 inaspettatamente arrivava l’ordine di liberazione di Pio VII. – Commenta CHATEAUBRIAND: « La mano che gli aveva messo le catene si vide obbligata a rompere i ceppi che gli aveva posto. La Provvidenza aveva invertite le fortune, e il vento, che soffiava contrario a Napoleone, spingeva gli Alleati a Parigi » (Mem. d’Outretombe, pag. 272). – A Napoleone i suoi satelliti, coi loro tradimenti, strappavano l a corona dal capo: Pio VII la riaveva dal suo carceriere. L e armi e gli eserciti non bastano a Napoleone per assicurarsi l’Impero, e Pio VII lo riacquista con la mansuetudine e la dolcezza; i popoli esasperati maledicono al mostro sanguinario, al gigante Golia abbattuto, e si prostrano ai piedi dell’innocente Davide. – La mattina del 20 aprile (1814) Napoleone, con lo strazio nel cuore, con le lacrime agli occhi, salutava la Guardia Imperiale nel castello di Fontainebleau, baciava l’aquila che aveva volteggiato sinistra e vittoriosa su tutti i campi d’Europa, e si avviava verso l’isola d’Elba, ove era deportato, il 4 maggio, da una nave inglese. – Venti giorni dopo, Pio VII era accolto trionfalmente in Roma, fra le lacrime di giubilo del popolo fedele; e sotto il manto paterno di Pio VII trovavano asilo sicuro la madre di Napoleone e gli altri membri della dispersa famiglia imperiale. – Sul trono di Francia venivano restaurati i Borboni. Il Pontefice da Roma inviava a Parigi il celebre Canova per trattare la restituzione dei cimeli preziosi e delle opere d’arte, che i rivoluzionari avevano requisito negli Stati pontifici. L’impresa non era ancora facile e per agevolarla il Pontefice dovette far dono alla Francia di non pochi capolavori. – Durante l’ultima raffica della bufera napoleonica, i Cento giorni, Pio VII lasciava Roma per portarsi a Genova, ove re Vittorio Emanuele I lo circondò di ogni cura. – Rientrava in Roma definitivamente il 7 giugno 1815, ed inviava il Consalvi al Congresso di Vienna a reclamare dalle Potenze la restituzione dei suoi Stati. L’Austria si riteneva tuttavia la parte del Ferrarese, posta sulla sinistra del Po, col diritto di presidiare Ferrara e Comacchio, onde il Consalvi si rifiutò di sottoscrivere l’Atto finale del Congresso del 9 giugno 1815. Il Pontefice non volle neppure aderire al famoso trattato della Santa Alleanza, varato da Alessandro I di Russia, da Federico Guglielmo III di Prussia e da Francesco I d’Austria, perché, a parte le buone intenzioni dei tre firmatari, era basato su d’un cristianesimo interconfessionale, che la Chiesa Cattolica non poteva accettare. – L a Santa Alleanza fu dagli uni schernita e vilipesa come lo strumento di schiavitù dei popoli; e dagli altri esaltata come la panacea politico-sociale-religiosa per tutti i mali prodotti dalla Rivoluzione francese. Nella realtà e gli uni e gli altri esagerarono nei loro apprezzamenti. – Negli ultimi anni di pontificato Pio VII, sempre con l’assistenza del Consalvi, attese alla restaurazione religiosa e civile dei suoi Stati. Furono ristabilite le Congregazioni religiose, a cominciare dai Gesuiti; furono promulgati nuovi codici, abolita la leva militare obbligatoria, ma furono anche conservate molte delle istituzioni francesi, che apparivano buone e rispondenti ai bisogni dei tempi mutati. Nel programma di restaurazione il Consalvi non si accordava completamente col delegato apostolico Agostino Rivarola, il quale voleva ristabilire gli antichi ordinamenti nella loro integrità. – I movimenti rivoluzionari del 1820 – 21, che ebbero grande sviluppo nella Spagna, nel Napoletano, in Piemonte e nella Lombardia, non scoppiarono affatto nello Stato pontificio, per quanto quivi pure fosse molto attiva la propaganda della Carboneria. Contro di questa associazione segreta e contro tutte le altre sètte religioso-politiche Pio VII pubblicava una bolla di condanna il 21 settembre. – Il Thorwaldsen, sul monumento funerario in S. Pietro, rappresentò Pio VII in mezzo a due figure allegoriche: la fortezza e la moderazione, le virtù che ne caratterizzano il Pontificato.

Pio VII
“Il trionfo”

1. Il trionfo della misericordia Divina è ormai compiuto su di Noi. Strappati con violenza inaudita dalla Nostra Sede pacifica, dal seno dei Nostri amatissimi sudditi, e trascinati dall’una all’altra contrada, siamo stati condannati e forzati a gemere per quasi cinque anni. Noi abbiamo versato nella Nostra prigionia lacrime di dolore innanzitutto per la Chiesa, affidata alla Nostra cura, perché ne conoscevamo i bisogni, senza poterle apprestare un soccorso, poi per i popoli a Noi soggetti, perché il grido delle loro tribolazioni giungeva fino a Noi, senza che fosse in Nostro potere di arrecare loro un conforto. Temperava però l’affanno acerbissimo del Nostro cuore la viva fiducia che, placato finalmente il pietosissimo Iddio giustamente irritato dai Nostri peccati, avrebbe alzato l’onnipotente sua destra per infrangere l’arco nemico, e spezzare le catene che cingevano il Vicario suo sulla terra. La Nostra fiducia non è stata delusa. L’umana alterigia, che stoltamente pretese di uguagliarsi all’Altissimo, è stata umiliata, e la Nostra liberazione, cui anche miravano gli sforzi generosi dell’augusta Alleanza, è giunta per prodigio inaspettato. Debitori a quella mano onnipotente che stringe le sorti dell’uomo, non Ci stancheremo giammai di benedirla e di cantare le sue glorie.

2. Noi non abbiamo trascurato di consacrare le primizie della Nostra libertà al bene della Chiesa, la quale, costando al suo divino Fondatore il prezzo di tutto il Suo Sangue, deve essere l’oggetto primario delle Nostre apostoliche sollecitudini. Avremmo a tal fine desiderato di accelerare il Nostro ritorno alla Capitale, sia come Sede del Romano Pontefice, per ivi occuparci dei molti e gravi interessi della Religione Cattolica, sia come residenza della Nostra sovranità per ivi soddisfare quanto prima all’ardente brama che abbiamo di migliorare il destino dei buoni sudditi Nostri; ma plausibili ragioni Ce lo hanno finora impedito. Ci disponiamo peraltro ad eseguire ciò, ansiosi di stringerli al seno, come un tenero padre stringe con trasporto i suoi figli amorosi dopo un lungo ed amaro pellegrinaggio. Intanto facciamo precedere un Nostro delegato, il quale, in virtù di Nostro speciale chirografo riprenderà per Noi, e rispettivamente per la Santa Sede Apostolica, tanto in Roma quanto nelle province, col mezzo di altri subalterni delegati già prescelti da Noi, l’esercizio della Nostra sovranità temporale legata con vincoli tanto essenziali con la Nostra spirituale indipendente supremazia. Egli procederà di concerto con una Commissione di Stato da Noi nominata alla formazione di un governo interino, e darà tutte quelle disposizioni che potranno condurre, per quanto le circostanze lo permettano, alla felicità dei Nostri fedelissimi sudditi.

3. Se per un risultato delle decisioni militari non possiamo tornare ora all’esercizio della sovranità anche in tutte le altre antichissime terre possedute della Chiesa, non dubitiamo di tornarvi al più presto, affidati non meno alla inviolabilità dei Nostri sacri diritti (ai quali non intendiamo recare con questo atto il minimo pregiudizio) che alla luminosa giustizia degl’invitti Monarchi alleati, da parte dei quali abbiamo anzi ricevuto particolari consolanti assicurazioni.

4. Per debito del Nostro ministero di pace esortiamo tutti i sudditi Nostri a conservare gelosamente la tranquillità, la quale, d’altronde, è anche il voto prezioso del Nostro cuore. Se taluno ardisse turbarla sotto qualunque pretesto sarà irremissibilmente punito con tutto il rigore delle leggi. Noi dichiariamo ai Nostri popoli che, se vi sarà fra loro chi si sia reso colpevole di qualche traviamento, alla sola Nostra sovrana autorità appartiene il compito di esaminare se sussiste il reato, giudicare della qualità del medesimo, e proporzionargli la pena. Siano dunque ubbidienti i figli, come debbono essere: nessuno di loro osi arrogarsi sull’altro la patria potestà, perché sono tutti subordinati alle leggi e al volere del comune genitore. Nella fiducia che i buoni sudditi Nostri saranno per uniformarsi esattamente a queste sovrane paterne intenzioni, diamo loro con tutto l’affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Cesena questo dì 4 maggio 1814, anno quindicesimo del Nostro Pontificato.

 

UN’ENCICLICA al giorno, TOGLIE GLI APOSTATI ED ERETICI DI TORNO: “E SUPREMI APOSTOLATUS”

Scegliamo oggi, 3 settembre, una lettera Enciclica dell’Ultimo Papa canonizzato validamente, San Pio X, Giuseppe Sarto, la prima enciclica del Santo, nella quale già si delineavano perfettamente le caratteristiche del suo Pontificato, per la custodia gelosa del deposito della fede Apostolica nel Magistero Cattolico di sempre. E la sua visione del mondo di allora, oggi ancor più drammatica di quella dell’epoca, è molto  reale, pragmatica, lucida. Il rimedio che propone per risolvere i mali denunciati è il “rinnovare tutte le cose in Cristo”, come già si esprimeva l’Apostolo delle genti nella lettera indirizzata ai fedeli di Efeso. È una ricetta semplicissima che, se messa in pratica, [allora non lo fu … con le conseguenze che ben sappiamo dalla storia] risolverebbe i mali ancor più decuplicati di oggi. Tutti i presunti nemici della Chiesa, della società, dell’uomo, di volta in volta indicati da dotti analisti attenti, letterati, uomini di cultura o di fede, e finanche dai cosiddetti complottisti “lucidi”, di qualunque appartenenza, etnica, politica, settaria, etc. non avrebbero più spazio se si tornasse a Dio, ad onorare il Figlio suo Gesù-Cristo, la sua Santa Chiesa Cattolica. Il male non parte allora dai “castigatori” che il Signore lascia operare apparentemente indisturbati e dilaganti, ma da noi tutti falsi cristiani che abbiamo pensato, e tuttora pensiamo, di poter fare a meno di Dio e dei suoi Strumenti per abbandonarci nelle mani di scienziati, filosofi, tecnocrati, pedagoghi, sociologi, finanzieri, pensatori, politici, neo-teologi del nulla, professori universitari, ciarlatani vari, illudendoci che potevamo risolvere ogni problema da soli! Pazzi illusi, come illusi sono tutti coloro che, pur  analizzando inappuntabilmente e con dotte argomentazioni, i vari mali dell’umanità, non vedono o chiudono poi gli occhi davanti alla loro unica e vera causa, rimossa la quale, sarebbero presto risolti i nostri guai: materiali, sociali e spirituali. Non diceva forse già il Re-Profeta, o per lui Asaf, in uno dei suoi Salmi più eloquenti e profondi: “Exsultate Deo”: “Si populus meus audisset me, Israel si in viis meis ambulasset, pro nihilo forsitan inimicos eorum humiliassem, et super tribulantes eos misissem manum meam. Inimici Domini mentiti sunt ei, et erit tempus eorum in sæcula. Et cibavit eos ex adipe frumenti, et de petra melle saturavit eos.” [Ps. LXXX] “… se il mio popolo mi ascoltasse, se [i cristiani] camminassero per le mie vie! Subito piegherei i suoi nemici e contro i suoi avversari porterei la mia mano. I nemici del Signore gli sarebbero sottomessi e la loro sorte sarebbe segnata per sempre; li nutrirei con fiore di frumento, li sazierei con miele di roccia”. È inutile puntare il dito verso questi o quelli, settari, atei, eretici, finanzieri, banchieri, famiglie di kazari ed altro, … se ascoltassimo il Signore, se praticassimo la sua giustizia, le sue leggi ed i dettami della Santa Madre Chiesa di Cristo, la sorte dei nemici, sarebbe segnata per sempre. In fondo è quanto dice il Santo Pontefice in questa stupenda Enciclica scritta all’inizio del suo santo Pontificato come manifesto programmatico. Leggiamola attentamente e facciamola nostra in tutte le sue parti, cacciando via tutti gli azzeccagarbugli atei, i mondialisti, i marrani del novus ordo e degli scismatici pseudo chierici da strapazzo. Solo il ritorno sincero, contrito e penitente a Dio, potrà salvarci dalla inevitabile rovina che già aleggia tenebrosamente sull’umanità tutta: “E supremi Apostolatus Cathedra, ad quam, consilio Dei inscrutabili, …”

LETTERA ENCICLICA
E SUPREMI

DEL SOMMO PONTEFICE
PIO X
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA,
SUL PROGRAMMA DI PONTIFICATO
 

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

1. Nel momento in cui vi rivolgiamo la parola per la prima volta dall’alto di questa cattedra apostolica alla quale, per imperscrutabile volontà di Dio, Noi siamo stati elevati, non è il caso di ricordare con quali lacrime e con quali ardenti preghiere Noi abbiamo tentato di allontanare da Noi questo tremendo peso del Pontificato. Infatti, malgrado l’assoluta disparità dei meriti, Ci sembra di poter fare Nostro il lamento di Sant’Anselmo, uomo santissimo, quando, malgrado la sua energica opposizione, fu costretto ad accettare l’onore dell’episcopato. Gli stessi segni d’afflizione che egli manifestò allora, sono anche in Noi, e rivelano con quale animo e con quale volontà Noi abbiamo accolto il gravosissimo mandato di pascere il gregge di Cristo. “Sono qui a testimoniarlo — sono parole sue [1] — le mie lacrime e le voci e i ruggiti del mio cuore afflitto, quali non ricordo di avere mai espresso per nessun dolore prima di quel giorno in cui parve si abbattesse su di me la grave sventura dell’arcivescovado di Canterbury. Coloro che in quel giorno fissarono il loro sguardo sul mio volto non poterono ignorare tale fatto… Più simile a un cadavere che a persona viva, ero pallido di stupore e di costernazione. A questa mia elezione, o piuttosto a questa violenza, mi sono finora opposto, in verità, per quanto ho potuto. Ma ora, volente o nolente, sono costretto ad ammettere ogni momento che la volontà di Dio sempre più resiste ai miei tentativi, sicché in nessun modo posso sottrarmi ad essa. Pertanto, non già vinto dalla violenza degli uomini quanto piuttosto da quella di Dio, contro la quale non esiste riparo, dopo avere pregato quanto ho potuto ed essermi adoperato per allontanare da me, se possibile, questo calice senza che ne bevessi, … posponendo il mio sentimento e la mia volontà, mi sono rimesso interamente alla decisione e alla volontà di Dio”.

2. Certamente non mancavano molte e serie ragioni per sottrarCi all’incarico. Infatti, tenuto conto che per la Nostra fragilità in nessun caso eravamo degni dell’onore del Pontificato, chi non si sarebbe turbato per essere designato a succedere a colui che, avendo governato la Chiesa con grande sapienza per quasi ventisei anni, si segnalò per tanta vivacità d’ingegno, per tanto splendore d’ogni virtù da farsi ammirare anche dagli avversari e da consacrare la memoria del suo nome con nobilissime opere?

3. Inoltre, tralasciando il resto, eravamo terrorizzati dall’attuale, deplorevole condizione del genere umano. Chi può ignorare, infatti, che la società umana è ora afflitta, più ancora che nelle età trascorse, da un gravissimo, intimo morbo che, aggravandosi di giorno in giorno, e corrompendola in ogni fibra, la conduce allo sfacelo? Voi comprendete, Venerabili Fratelli, quale sia tale malattia: l’abbandono e il rifiuto di Dio, ai quali è inesorabilmente associata la rovina, secondo le parole del Profeta: “Ecco, coloro che si allontanano da te periranno” [2]. Pertanto Noi comprendevamo che, nel nome della missione pontificale che si voleva affidarCi, occorreva che contrastassimo tanto male. Ritenevamo infatti come rivolto a Noi il precetto di Dio: “Ecco, oggi ti ho posto sopra le nazioni e sopra i regni, affinché tu sradichi e distrugga e disperda e dissolva ed edifichi e pianti” [3]. Ma, consapevoli della Nostra debolezza, temevamo d’intraprendere un’impresa della quale nulla è più urgente e più difficile.

4. Tuttavia, poiché a Dio piacque innalzare l’umiltà Nostra a questa pienezza di potere, rivolgemmo l’animo a “Colui che ci conforta”, e sorretti dalla virtù divina mentre mettiamo mano all’impresa, dichiariamo che nell’esercizio del Pontificato Noi abbiamo un solo proposito: “Rinnovare tutte le cose in Cristo” [4], affinché sia “Tutto e in tutti Cristo” [5]. Vi saranno certamente taluni che, applicando alle cose divine una misura umana, tenteranno di spiare le Nostre riposte intenzioni e di volgerle a scopi terreni e ad interessi di parte. Per togliere a costoro ogni vana speranza, Noi affermiamo con grande determinazione che Noi altro non vogliamo essere — e con l’aiuto di Dio lo saremo nella società umana — che ministri di Dio, il quale Ci ha investito della sua autorità. Le ragioni di Dio sono le ragioni Nostre; è stabilito che ad esse saranno votate tutte le Nostre forze e la vita stessa. Perciò se qualcuno chiederà quale motto sia l’espressione della Nostra volontà, risponderemo che esso sarà sempre uno solo: “Rinnovare tutte le cose in Cristo”. Nell’intraprendere e perseguire questa magnifica opera, Venerabili Fratelli, infonde in Noi un grande ardore la certezza di avere in voi tutti degli strenui collaboratori nel realizzare tale impresa. Se ne dubitassimo, dovremmo giudicarvi, a torto, come ignari o indifferenti verso questa nefasta guerra che ora e dovunque è dichiarata e condotta contro Dio. Infatti contro il loro Creatore “le nazioni ebbero fremiti di ribellione e i popoli concepirono idee insensate” [6], e quasi unanime è il grido dei nemici di Dio: “Allontànati da noi” [7]. Perciò si è estinta del tutto nei più la riverenza verso l’eterno Dio, e nella condotta della vita, sia pubblica sia privata, non si tiene in alcun conto il principio della Sua suprema volontà; ché anzi con tutte le forze e con ogni artificio si tende a sopprimere completamente addirittura il ricordo e la nozione di Dio.

5. Chi considera ciò, deve pur temere che questa perversione degli animi sia una specie di assaggio e quasi un anticipo dei mali che sono previsti per la fine dei tempi; e che “il figlio della perdizione”, di cui parla l’Apostolo [8], non calchi già queste terre. Con somma audacia, con tanto furore è ovunque aggredita la pietà religiosa, sono contestati i dogmi della fede rivelata, si tenta ostinatamente di sopprimere e cancellare ogni rapporto che intercorre tra l’uomo e Dio! E invero, con un atteggiamento che secondo lo stesso Apostolo è proprio dell’“Anticristo”, l’uomo, con inaudita temerità, prese il posto di Dio, elevandosi “al di sopra di tutto ciò che porta il nome di Dio”; fino al punto che, pur non potendo estinguere completamente in sé la nozione di Dio, rifiuta tuttavia la Sua maestà, e dedica a se stesso, come un tempio, questo mondo visibile e si offre all’adorazione degli altri. “Siede nel tempio di Dio ostentando se stesso come se fosse Dio” [9].

6. Ma nessuno sano di mente può mettere in dubbio l’esito della battaglia condotta dai mortali contro Dio. È concesso infatti all’uomo, che abusa della propria libertà, di violare il diritto e l’autorità del Creatore dell’universo; tuttavia è da Dio che dipende sempre la vittoria: ché anzi è tanto più prossima la sconfitta, quanto più l’uomo, sperando nel trionfo, si ribella con maggiore audacia. Dio stesso ci ammonisce nelle sacre Scritture: “Chiude gli occhi sui peccati degli uomini” [10] come fosse immemore della propria potenza e della propria maestà [11], ma poi, dopo questo apparente ripiegamento, “risvegliandosi come un potente inebriato dal vino, spezzerà le teste dei suoi nemici” [12] affinché tutti sappiano “che Dio è re di tutta la terra” [13] e “perché le genti comprendano che sono soltanto uomini” [14].

7. Tutto ciò, Venerabili Fratelli, fa parte della nostra salda fede e delle nostre attese. Tuttavia tale fiducia non ci dispensa, per quanto dipende da noi, di propiziare il compimento dell’opera di Dio, e ciò non solo insistendo nella preghiera: “Sorgi, o Signore, perché l’uomo non prevalga” [15]. In verità, ciò che più interessa è che nelle opere e nelle parole, in piena luce, sostenendo e rivendicando il supremo dominio di Dio sugli uomini e su tutte le altre creature, siano santamente onorati e rispettati da tutti il Suo diritto e il Suo potere di comandare. E ciò non è soltanto richiesto dal dovere imposto dalla natura, ma anche dal comune interesse del genere umano. Chi mai, infatti, Venerabili Fratelli, non si sentirà turbato dalla trepidazione e dall’angoscia nel vedere che gli uomini — mentre si esaltano giustamente i progressi umani — si combattono atrocemente la maggior parte fra loro, così che quasi vi è guerra di tutti contro tutti? Il desiderio di pace è certamente un sentimento comune a tutti, e non vi è alcuno che non la invochi ardentemente. La pace, tuttavia, una volta che si rinneghi la Divinità è assurdamente invocata: dove è assente Dio, la giustizia è esiliata; e tolta di mezzo la giustizia, invano si nutre la speranza della pace. “La pace è opera della giustizia” [16]. Noi sappiamo infatti che non sono pochi coloro che, sospinti dall’amore di pace e anche di “tranquillità” e di “ordine”, si raggruppano in associazioni e fazioni che definiscono “d’ordine”. Ahi, quali vane speranze e fatiche! Di partiti “dell’ordine”, che possano portare una pace reale nelle perturbazioni, ce n’è uno solo: il partito dei partigiani di Dio. Pertanto è necessario incoraggiarlo e condurre ad esso quante più persone si può, se ci sollecita l’amore per la sicurezza.

8. Invero, Venerabili Fratelli, questo stesso richiamo delle genti alla maestà e alla sovranità di Dio, per quanto ci impegniamo non potrà mai compiersi se non per intercessione di Gesù Cristo. Ci insegna infatti l’Apostolo: “Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già si trova, e che è Cristo Gesù” [17]. È Lui solo “che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo [18]; irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” [19] in quanto Dio vero e vero uomo: senza di Lui nessuno potrebbe conoscere Dio come si deve. Infatti, “nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” [20]. Ne consegue che vi è perfetta concordanza fra il “ristabilire tutte le cose in Cristo” e il ricondurre gli uomini all’obbedienza a Dio. Dobbiamo dunque rivolgere il nostro impegno a questo, al fine di ricondurre il genere umano sotto l’impero di Cristo; raggiunto tale fine, l’uomo ritornerà a Dio medesimo. A un Dio, diciamo, non inerte e indifferente verso gli uomini, come lo ritrassero, delirando, i materialisti; ma un Dio vivo e vero, uno di natura, in tre persone, creatore dell’universo, onnisciente, e infine giustissimo legislatore che punisce i colpevoli e assicura premi alle virtù.

9. Pertanto è ovvio quale sia il cammino che ci porta a Cristo: passa attraverso la Chiesa. Perciò dice giustamente Crisostomo: “La tua speranza è la Chiesa, la tua salvezza è la Chiesa, il tuo rifugio è la Chiesa” [21]. Per questo Cristo l’ha fondata, conquistandola a prezzo del suo sangue; ad essa affidò la sua dottrina e i precetti delle sue leggi, prodigandole ad un tempo i sovrabbondanti doni della divina grazia per 1a santificazione e la salvezza degli uomini. Voi vedete dunque, Venerabili Fratelli, quale missione sia parimenti affidata a Noi e a voi: richiamare la società umana, che ripudia la sapienza di Cristo, alla disciplina della Chiesa; la Chiesa a sua volta la sottoporrà a Cristo, e Cristo a Dio. Se, con l’aiuto di Dio, giungeremo a questa meta, Ci rallegreremo che l’iniquità abbia ceduto alla giustizia, e allora udiremo con gioia “una gran voce che in cielo annuncia: ora sono fatti compiuti la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio, e la potenza del suo Cristo” [22]. Ma perché questo esito corrisponda ai voti, è necessario che con ogni mezzo e con ogni azione estirpiamo del tutto quell’immane e detestabile crimine (tipico di questa età) per cui l’uomo si è sostituito a Dio; perciò dobbiamo ricondurre all’antica dignità le santissime leggi e gl’insegnamenti del Vangelo; dobbiamo proclamare a gran voce le verità tramandate dalla Chiesa, tutti i suoi documenti sulla santità del matrimonio, sulla educazione e l’istruzione dei fanciulli, sul possesso e sull’uso dei beni, sui doveri dei pubblici amministratori; occorre ristabilire infine un certo equilibrio tra le varie classi sociali secondo le leggi e le istituzioni cristiane. In verità, Noi Ci proponiamo, durante il Nostro Pontificato, ubbidendo alla divina volontà, di raggiungere questi obiettivi, e li perseguiremo con ogni energia. Spetta a Voi, Venerabili Fratelli, assecondare i Nostri sforzi con la santità, con la dottrina, con l’azione e soprattutto con l’ossequio alla divina gloria; a nient’altro intesi se non a “formare Cristo in tutti” [23].

10. Ora, di quali mezzi dobbiamo far uso in un’impresa così grande, è appena il caso di dirlo, tanto sono ovvi di per sé. Il primo impegno sarà quello di formare Cristo in coloro che sono destinati per vocazione a formare Cristo negli altri. Il pensiero, Venerabili Fratelli, è diretto ai sacerdoti. Infatti, tutti coloro che sono stati iniziati al sacerdozio devono sapere che fra le genti con cui vivono hanno il compito che Paolo testimoniava di aver ricevuto con queste affettuosissime parole: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco finché Cristo non sia formato in voi” [24]. Ma chi potrebbe esercitare tale missione se non coloro che per primi si sono rivestiti di Cristo? Rivestiti in tal modo, essi possono fare proprie le parole dello stesso Apostolo: “Sono vivo, ma non sono io: in me vive veramente Cristo [25]. Per me la vita è Cristo” [26]. Pertanto, sebbene sia rivolta a tutti i fedeli l’esortazione affinché “arriviamo… allo stato di uomo perfetto nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” [27], tuttavia ciò riguarda soprattutto colui che esercita il sacerdozio; egli è quindi chiamato un “altro Cristo” non certo per la sola trasmissione del potere, ma anche per l’imitazione delle opere, attraverso le quali mostra in sé la chiara immagine di Cristo.

11. Stando così le cose, Venerabili Fratelli, quale e quanto impegno dovrete porre nel formare il clero alla santità! A questo fine, qualunque cosa accada, è necessario che cedano il passo tutte le occupazioni mondane. Perciò la maggior parte delle vostre cure sia rivolta ad ordinare e a governare come si conviene i sacri seminari, perché fioriscano parimenti nella integrità della dottrina e nella santità dei costumi. Fate del seminario la delizia del vostro cuore, e per il suo giovamento non omettete nulla di ciò che è stato provvidenzialmente stabilito dal Concilio Tridentino. Quando poi verrà il tempo di iniziare i candidati agli ordini sacri, di grazia non si dimentichi ciò che Paolo scrisse a Timoteo: “Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno” [28], riflettendo con somma attenzione che spesso i fedeli saranno come coloro che destinerete al sacerdozio. Perciò non abbiate alcun riguardo verso qualsivoglia interesse privato, ma volgete lo sguardo soltanto a Dio e alla Chiesa e all’eterna felicità delle anime, in modo da evitare, come l’Apostolo ammonisce, di partecipare “ai peccati altrui” [29]. Inoltre, i sacerdoti recentemente ordinati ed usciti dal seminario non abbiano a sentire la mancanza della vostra sollecitudine. Dal profondo dell’animo vi esortiamo ad avvicinarli il più spesso possibile al vostro petto, che deve ardere di fuoco celeste: accendeteli, infiammateli, in modo che si impegnino per l’unico Dio, a vantaggio delle anime. Noi pure, Venerabili Fratelli, Ci adopreremo con tutto il Nostro zelo in modo che i membri del sacro clero non siano catturati dalle insidie di una certa nuova, fallace scienza, che non ha sentore di Cristo e che, con artificiosi ed astuti argomenti, si industria di introdurre gli errori del razionalismo o del semirazionalismo: errori che l’Apostolo invitava già Timoteo ad evitare, scrivendogli: “Custodisci il deposito, evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta scienza, professando la quale taluni hanno deviato dalla fede” [30]. Tuttavia nulla Ci indurrà a considerare meno degni di lode quei giovani sacerdoti che si dedicano allo studio di utili discipline in tutti i rami del sapere, in modo che poi saranno più idonei a difendere la verità e a respingere le calunnie dei nemici della fede. Nondimeno non possiamo nascondere, ma anzi apertamente dichiariamo, che Noi saremo sempre portati verso coloro che, pur senza trascurare le discipline sacre e umanistiche, si dedicano in particolare al bene delle anime, procurando loro quei doni che sono propri di un sacerdote che s’impegna per la gloria di Dio. Abbiamo “nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua” [31] quando constatiamo che si adatta anche all’età nostra il pianto di Geremia: “I fanciulli hanno chiesto il pane e non v’era chi lo spezzasse per loro” [32]. Infatti non mancano tra il clero coloro che, seguendo le proprie inclinazioni, si dedicano ad attività più apparenti che di concreta utilità: ma forse non sono molti coloro che, sull’esempio di Cristo, fanno proprio il detto del Profeta: “Lo spirito del Signore… mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato ad evangelizzare i poveri, a sanare gli afflitti, ad annunciare la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi” [33].

12. A chi può sfuggire, Venerabili Fratelli, che quando gli uomini siano guidati dalla ragione e dalla libertà, la formazione religiosa è il mezzo più efficace per ristabilire negli animi l’impero di Dio? Quanti sono coloro che odiano Cristo, che detestano la Chiesa e il Vangelo più per ignoranza che per malvagità d’animo! Di essi si potrebbe dire giustamente: “Bestemmiano tutto ciò che ignorano” [34]. Questo atteggiamento non si riscontra soltanto tra la plebe o tra l’infima moltitudine che può essere tratta facilmente in errore; ma anche nelle classi colte e perfino tra coloro che emergono per non comune erudizione. Ne deriva, in molti, il venir meno della fede. Non si deve ammettere che la fede possa essere spenta dai progressi della scienza, ma piuttosto dalla ignoranza; infatti ove maggiore è l’insipienza, ivi più ampiamente si manifesta il tracollo della fede. Perciò agli Apostoli fu ordinato da Cristo: “Andate e insegnate a tutte le genti” [35].

13. Ora, affinché dal dovere e dall’impegno dell’insegnamento si traggano i frutti sperati e in tutti “si formi Cristo”, si imprima con forza nella memoria, Venerabili Fratelli, la convinzione che nulla è più efficace della carità. Infatti “il Signore non si trova in una emozione” [36]. Invano si spera di attrarre le anime a Dio con uno zelo troppo aspro; ché anzi rinfacciare troppo severamente gli errori, biasimare con troppa foga i vizi, procura spesso più danno che utile. L’Apostolo pertanto rivolgeva a Timoteo questo monito: “Ammonisci, rimprovera, esorta”, ma tuttavia aggiungeva: “con molta pazienza” [37]. Invero, Cristo ci ha offerto esempi di tal genere. Leggiamo infatti che Egli si è così espresso: “Venite, venite a me, voi tutti che siete infermi ed oppressi, ed Io vi ristorerò” [38]. Gli infermi e gli oppressi non erano altri, per Lui, che gli schiavi del peccato e dell’errore. Quanta mansuetudine in quel divino Maestro! Quale soavità, quale compassione verso tutti gli infelici! Con queste parole Isaia descrisse il suo cuore: “Posi il mio spirito sopra di lui; … non alzerà la voce; … non spezzerà la canna già scossa, e non spegnerà il tessuto che fumiga” [39]. La carità, dunque, “paziente” e “benigna” [40] dovrà essere esercitata anche verso coloro che sono a noi ostili o che ci perseguitano. “Siamo maledetti e benediciamo; — così Paolo diceva di se stesso — siamo perseguitati e sopportiamo; siamo calunniati e noi preghiamo” [41]. Forse sembrano peggiori di quello che sono. Infatti, la consuetudine con gli altri, i pregiudizi, i consigli e gli esempi altrui, e infine un malinteso rispetto umano li hanno sospinti nel partito degli empi, ma la loro volontà non è così depravata come essi stessi cercano di far credere. Perché dunque non sperare che la fiamma della carità cristiana possa fugare le tenebre dagli animi e contemporaneamente recare la luce e la pace di Dio? Talora sarà forse tardivo il frutto della nostra missione; ma la carità non si stanca mai di soccorrere, memore che Dio non assegna ricompense per i frutti delle fatiche ma per la volontà con la quale ci si impegna.

14. Tuttavia, Venerabili Fratelli, non intendiamo che — in tutta questa opera tanto ardua di restituzione del genere umano a Cristo — voi e il vostro clero non abbiate collaboratori. Sappiamo che Dio ha raccomandato a ciascuno la cura del suo prossimo [42]. È dunque necessario che non solo coloro che si dedicarono al sacerdozio ma che tutti i fedeli si votino alla causa di Dio e delle anime: non che ciascuno debba adoperarsi arbitrariamente secondo il proprio punto di vista, ma sempre sotto la guida e il comando dei Vescovi. Infatti nella Chiesa a nessuno è concesso presiedere, insegnare e governare se non a voi, che “lo Spirito Santo pose a reggere la Chiesa di Dio” [43]. I Nostri Predecessori già da tempo approvarono e benedissero i cattolici che si uniscono in associazioni con intendimenti diversi, ma sempre per il bene della religione. Anche Noi non abbiamo alcun dubbio nell’ornare con la Nostra lode un proposito così nobile, e desideriamo ardentemente che esso si diffonda largamente nelle città e nelle campagne. Tuttavia vogliamo che tali associazioni in primo luogo e soprattutto mirino a che tutti coloro che vengono accolti in esse vivano costantemente secondo l’etica cristiana. Invero, ben poco interessa discutere sottilmente su molti problemi, e dissertare con eloquenza su leggi e doveri qualora tutto ciò sia separato dalla pratica. I tempi infatti esigono l’azione; ma questa deve essere tutta rivolta a rispettare integralmente e santamente le leggi divine e le prescrizioni della Chiesa, a professare liberamente e apertamente la religione, e infine a compiere opere di carità di ogni genere, senza alcun riguardo per sé o per gl’interessi terreni. I luminosi esempi di tanti soldati di Cristo varranno assai più a scuotere e a trascinare gli animi che non le parole e le ricercate disquisizioni; e facilmente accadrà che, rimosso ogni timore, deposti i pregiudizi e le titubanze, moltissimi saranno ricondotti a Cristo, e quindi recheranno ovunque la conoscenza e l’amore di Lui: questa è la via della fraterna e durevole felicità. Certamente, se nelle città e in ogni villaggio saranno fedelmente seguiti gl’insegnamenti divini, se si onoreranno le cose sacre, se sarà frequente l’uso dei sacramenti, se verranno osservati tutti i princìpi che informano la vita cristiana, allora, Venerabili Fratelli, non vi sarà più alcuna ragione di affaticamento ulteriore perché tutto si risolva in Cristo. E non si creda che tutto questo miri soltanto al conseguimento dei beni celesti: gioverà moltissimo anche al nostro tempo e alla pubblica convivenza. Ottenuti infatti questi risultati, i notabili e i ricchi, con senso di giustizia e di carità, saranno accanto ai più poveri, e questi sopporteranno con tranquillità e pazienza le angustie di una condizione più sfortunata; i cittadini non ubbidiranno alla loro passione ma alle leggi; sarà giusto rispettare ed amare i prìncipi e i governanti, i quali “non hanno potere se non da Dio” [44]. Che dire ancora? Allora, finalmente, tutti saranno persuasi che la Chiesa, quale fu fondata da Cristo, deve godere di piena e integra libertà e non sottostare ad estraneo potere; e Noi, nel rivendicare questa stessa libertà, non solo proteggiamo i sacrosanti diritti della religione, ma provvediamo anche al bene comune e alla sicurezza dei popoli. “La pietà è utile a tutte le cose” [45], e là dove essa è integra e regna “il popolo riposerà nella bellezza della pace” [46].

15. Dio, “che è ricco di misericordia” [47], acceleri benigno questa restaurazione delle umane genti in Cristo Gesù; infatti “questa non è l’opera né di chi vuole, né di chi corre, ma di Dio misericordioso” [48]. In verità, Venerabili Fratelli, Noi “in spirito di umiltà” [49] con quotidiana e insistente preghiera chiediamo questa grazia a Dio per i meriti di Gesù Cristo. Ricorriamo inoltre alla potentissima intercessione della Madre di Dio; e perché sia a Noi propizia, in quanto questa Lettera porta la data del giorno destinato a celebrare il Rosario Mariano, Noi disponiamo e confermiamo quanto il Nostro Predecessore ha ordinato, dedicando il mese di ottobre all’augusta Vergine con la pubblica recita dello stesso Rosario in tutte le chiese. Inoltre esortiamo a considerare come intercessori anche il castissimo Sposo della Madre di Dio, patrono della Chiesa cattolica, e i santi Pietro e Paolo, prìncipi degli Apostoli.

16. Affinché tutto questo avvenga, e tutto abbia un esito conforme ai vostri desideri, invochiamo il copioso soccorso delle grazie divine. Quale testimonianza della dolcissima carità con la quale abbracciamo voi e tutti i fedeli che la provvidenza di Dio volle affidarCi, a voi, Venerabili Fratelli, al clero e al vostro popolo impartiamo con tanto affetto nel Signore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 ottobre 1903, nel primo anno del Nostro Pontificato.

PIUS X

 

 

[1] Eph. 1. III, ep.1

[2] Ps. LXXII, 27.

[3] Jerem. I, 10.

[4] Ephes. I, 10.

[5] Coloss. III, 11.

[6] Ps. II, 1.

[7] Job XXI, 14.

[8] II Thess. II, 3.

[9] II Thess. II, 2.

[10] Sap. XI, 24.

[11] Ps. LXXVII, 65.

[12] Ib. LXVII, 22.

[13] Ps. XLVI, 8.

[14] Ib. IX, 20.

[15] Ib. IX, 19.

[16] Is. XXXII, 17.

[17] I Cor. III, 11.

[18] Job X, 36.

[19] Hebr. I, 3.

[20] Matth. XI, 27.

[21] Hom. “de capto Eutropio”, n. 6.

[22] Apoc. XII, 10.

[23] Gal. IV, 19.

[24] Gal. IV.

[25] Gal. II, 20.

[26] Philipp. I, 21.

[27] Ephes. IV, 3.

[28] I Tim. V, 22.

[29] Ibid.

[30] Ib., VI, 20 et seq.

[31] Rom. IX, 2.

[32] Thren. IV. 4.

[33] Luc. IV, 18-19.

[34] Jud. II, 10.

[35] Matth. XXVIII, 19.

[36] III Reg. XIX, 11.

[37] II Tim. IV, 2.

[38] Matth. XI, 28.

[39] Is. XLII, 1 et seq.

[40] I Cor. XIII, 4.

[41] Ibid., IV, 12.

[42] Eccli. XVII, 12.

[43] Act. XX, 28.

[44] Rom. XIII, 1.

[45] I Tim. IV, 8.

[46] Is. XXXII, 18.

[47] Ephes. II, 4.

[48] Rom. IX, 16.

[49] Dan. III, 39.

 

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: ANNUS QUI HUNC

Questa lettera enciclica mette in rilievo la cura che il Santo Padre voleva fosse posta sia nella decorosa decenza dei luoghi santi, in particolare ove si celebravano i Santi Misteri, sia nella devozione della recita del Santo Ufficio da parte dei chierici. Ma la parte più straordinaria si rileva nella accurata analisi della musica sacra e del canto sacro, analisi compiuta con somma perizia e maestria degna di un colto maestro di cappella. Infatti questo documento resta poi la base di tutti i riferimenti magisteriali successivi inerenti l’argomento della musica sacra, come ad esempio la “Musicæ sacræ” del 1955 di S. S. Pio XII. I modernisti attuali della setta del “novus ordo” dovrebbero impallidire e vergognarsi del neopaganesimo musicale introdotto nei sacri luoghi [sacri … un tempo, in verità], al ritmo di rockettari chiassosi e strampalati, che suonano [si fa per dire, naturalmente …] di strumenti elettrici, percussioni sciamaniche e tribali, dei più sofisticati karaoke ed elucubrazioni vocali degne di messe nere o consimili [ma tanto la messa del baphomet lucifero è proprio tale, e quindi essi giustamente non si meravigliano … anzi vi partecipano sull’onda di danze suadenti e lascive … il trionfo del kitch oltretutto!]. Se qualcuno avesse ancora qualche dubbio sulla satanità del “novus ordo”, lo fugherebbe immediatamente entrando in queste moderne “discoteche-sale da ballo” costruite da avveniristici architetti, approvati con entusiasmo dalle finte autorità religiose, ove al ritmo frenetico di chitarroni elettrici [il più delle volte male accordati da approssimativi Jimmy Hendrix in erba], o di batteristi alla Tony Esposito [mi perdoni il percussionista partenopeo se lo tiro in ballo, ma è giusto per far comprendere meglio l’andazzo del novus ordo!] si accompagnano, nelle sfacciataggine più macabra dei finti chierici, dei riti che di sacro non hanno più nemmeno le candele, adulterate anch’esse, non più di cera d’api ma di sintetica paraffina! – Leggere la lettera di S. S. Benedetto XIV serve a farsi un’idea di cosa era e di cosa dovrà essere nuovamente la musica sacra, sconosciuta alla stragrande maggioranza non solo dei giovani, ma anche di quelli che si avvicinano oramai all’età vetusta, quando la falsa chiesa dell’uomo, parodia della Chiesa Cattolica e tragica anticamera del noachismo talmudico, sarà dal Nostro Signore Gesù Cristo distrutta con il soffio della sua bocca, secondo la profezia di San Paolo ai Cristiani di Tessalonica. Cominciamo allora a ripulire i condotti uditivi dalle orribili immondezze vocali e sonore accumulate nelle pseudo-celebrazioni sacrileghe e blasfeme del novus ordo con la lettura delle parole di Papa Lambertini, augurandoci quanto prima di innalzare a Dio il nostro spirito con canti liturgici gregoriani e con il suono maestoso dell’organo a canne suonato da un maestro vero dell’arte musicale sacra, magari un redivivo C. Frank o un novello Camille Saint Saens, o un emulo di Max Reger! Chissà?! … nel Vangelo il divin Maestro ci ha promesso: chiedete e vi sarà concesso …. E torneremo ai tempi felici del: “Confitemini Domino in cithara; in psalterio decem chordarum psallite illi. Cantate ei canticum novum; bene psallite ei in vociferazione…” [Ps XXXII].

Benedetto XIV

Costituzione Apostolica

Annus qui hunc

vertentem annum insequitur, ut  Fræternitas Tua cognitum …

Terminato l’anno in corso, quello che verrà – come Ella ben sa – sarà l’anno del Giubileo, detto Anno Santo. Essendo – per somma misericordia di Dio – terminata la guerra e fatta la pace fra i Principi belligeranti, si può sperare che sarà grande il concorso dei forestieri e dei pellegrini di tutte le nazioni, anche delle più lontane, a questa nostra Città di Roma. Noi di vero cuore preghiamo e facciamo pregare Iddio, affinché tutti coloro che verranno conseguano il frutto spirituale delle sante Indulgenze, e Noi faremo tutto ciò che è in Nostro potere perché ciò si verifichi. Desideriamo inoltre che tutti coloro che vengono a Roma, ne ripartano non scandalizzati, ma pieni di edificazione per quanto avranno veduto non solo in Roma, ma anche in tutte le Città dello Stato Pontificio attraverso le quali sarà loro convenuto passare, sia nel venire come nel ritornare alle loro patrie. – Per quanto si riferisce a Roma, Noi abbiamo già preso alcune misure, né si tralascerà di prenderne altre. Abbiamo bisogno del Suo zelo e della Sua sperimentata attenzione per ciò che appartiene alla Città e Diocesi da Lei lodevolmente governate. Se Ella Ci darà, come speriamo, l’aiuto necessario, non solo si conseguirà il fine da Noi desiderato, cioè che i forestieri partano edificati e non scandalizzati di Noi, ma ne deriverà un altro buon effetto, cioè che le cose da Noi ordinate e da Lei eseguite, determineranno una buona disciplina non solo nell’Anno Santo, ma per molto tempo avvenire. Si ripeterà ciò che appunto accade nelle Sue Visite Pastorali; l’esperienza dimostra che i visitati, essendo imminente la Visita, fanno alcune cose, correggono alcuni difetti per non essere ripresi da Lei, e per non restare esposti alle dovute pene; il bene fatto in occasione della visita dura anche nel tempo successivo.

1. Ma venendo al particolare, la prima cosa che Le raccomandiamo è che le Chiese si presentino in buono stato, pulite, monde e provviste di sacri arredi; ci vuole poco a capire che se i forestieri vedessero le Chiese delle Città e Diocesi dello Stato Ecclesiastico in cattive condizioni, sporche o sprovviste di sacri arredi, o provviste di arredi laceri e degni d’essere sospesi, ritornerebbero ai loro paesi pieni di orrore e indignati. Teniamo a sottolineare che non parliamo della sontuosità e della magnificenza dei sacri Templi, né della preziosità delle sacre suppellettili, sapendo anche Noi che non si possono avere dappertutto. Abbiamo parlato della decenza e della pulizia che a nessuno è lecito trascurare, essendo la decenza e la pulizia compatibili con la povertà. Tra gli altri mali da cui è afflitta la Chiesa di Dio, anche di questo si doleva il Venerabile Cardinale Bellarmino, quando diceva: “Passo sotto silenzio ciò che si vede in certi luoghi: i vasi sacri ed i paramenti che si adoperano nella celebrazione dei Misteri sono spregevoli e sporchi, e del tutto indegni di essere adoperati nei tremendi Misteri. Può darsi che coloro che adoperano questi oggetti siano poveri; ciò è possibile, ma se non è possibile avere arredi preziosi, si abbia almeno cura che tali arredi siano puliti e decorosi“. Benedetto XIII, di santa memoria e Nostro benefattore, che tanto ha travagliato nel corso della sua vita per la retta disciplina e per la decenza nelle Chiese, era solito portare come esempio le Chiese dei Padri Cappuccini, povere di somma povertà e pulite di grandissima pulizia. Il Dresselio al tomo 17 delle sue opere stampate a Monaco, nel trattato intitolato Gazophylacium Christi (§ 2, cap. 2, p. 153), così scrive: “La prima e più importante cosa che si deve curare nelle Chiese è la pulizia. Non solo vi debbono essere gli arredi necessari al culto, ma bisogna anche che essi, per quanto è possibile, siano estremamente puliti“. Con tutta ragione egli inveisce contro coloro che hanno le loro case ben fornite e lasciano le Chiese e gli Altari nello stato miserabile in cui si vedono: “Vi sono alcuni che hanno case assolutamente infruttuose e adorne di tutto, ma nelle loro Chiese e nelle loro Cappelle tutto è squallido; gli Altari sono disadorni e ricoperti da tovaglie cenciose e luride; in tutto il resto regnano confusione e squallore” (Dresselio, Gazophylacium Christi, § 2, cap. 2). – Il grande dottore della Chiesa San Girolamo, nella sua lettera a Demetriade si mostrò assai indifferente sul fatto che le Chiese fossero povere o ricche: “Che altri edifichino Chiese, ne rivestano le pareti con lastre di marmo, vi elevino delle colonne maestose, indorino i loro capitelli, non sentenzio su tali preziosi ornamenti; che ornino le porte con avorio ed argento e rivestano di pietre preziose gli Altari dorati io non biasimo e non impedisco. Ciascuno abbondi nel proprio sentimento: è meglio fare così che custodire con avarizia le ricchezze accumulate“. Invece dichiarò apertamente di stimare la pulizia delle Chiese quando con somme lodi celebrò Nepoziano che era sempre stato attento a tener pulite le Chiese e gli Altari, come si legge nell’epitaffio dello stesso Nepoziano che il Santo scrisse ad Eliodoro: “Egli si adoperava con grande sollecitudine affinché l’Altare fosse nitido, le pareti non fossero ricoperte di fuliggine, i pavimenti fossero tersi, il portinaio fosse sempre presente all’ingresso; le porte fossero sempre provviste di tende, la sagrestia fosse pulita, i vasi sacri lucenti e in tutte le cerimonie non mancasse nulla. Non trascurava nessun dovere, né piccolo né grande“. Certamente si deve provvedere con grande cura e diligenza che non succeda, con disonore dell’Ordine Ecclesiastico, ciò che il suddetto cardinale Bellarmino racconta essere accaduto a lui: “Io – dice – trovandomi una volta in viaggio fui ospitato presso un nobile Vescovo assai ricco; vidi il suo palazzo risplendente di vasi d’argento e la mensa ricoperta dei cibi più squisiti. Anche tutto il resto era nitido e le tovaglie erano soavemente profumate. Ma il giorno dopo, essendo disceso di buon mattino nella Chiesa attigua al palazzo per celebrare le sacre funzioni, trovai un assoluto contrasto: tutto era spregevole e ripugnante, tanto che dovetti farmi violenza per arrischiarmi a celebrare i divini Misteri in un simile luogo e con simile apparato“.

2. La seconda cosa sulla quale richiamiamo la Sua attenzione riguarda le Ore Canoniche, siano esse cantate o recitate nel Coro secondo la pratica di ciascuna Chiesa, con la dovuta diligenza, da parte di coloro che ad esse sono obbligati. Infatti non c’è niente di più avvilente e pernicioso per la disciplina Ecclesiastica che entrare nelle Chiese e vedere e sentire le Ore Canoniche cantate o recitate nel Coro con strapazzo. Ella ben conosce l’obbligo che hanno i Canonici e gli addetti al servizio delle Chiese Metropolitane, Cattedrali o Collegiate, di cantare ogni giorno le Ore Canoniche nel Coro, e che a quest’obbligo non si soddisfa se non si adempie al tutto con assoluta devozione. – Il Sommo Pontefice Innocenzo III nel Concilio Lateranense (riferito nel capitolo Dolentes, de celebratione Missarum) parla del suddetto obbligo nei seguenti termini: “Noi ordiniamo rigorosamente, in virtù di obbedienza, di celebrare l’Ufficio Divino, tanto di notte quanto di giorno, per quanto sarà possibile, con diligenza e devozione. (La Chiesa, spiegando la parola studiose – con diligenza – soggiunge che essa si riferisce alla esatta e completa pronuncia delle parole; e quanto al termine devote – con devozione – annota che esso si riferisce al fervore dell’animo). – Il Nostro Predecessore Clemente V durante il Concilio Viennese, nella sua Costituzione che si trova tra le Clementine e che comincia con la parola Gravi, sotto il titolo De celebratione Missarum parla con lo stesso linguaggio: “Nelle Chiese Cattedrali, Regolari e Collegiate si tenga la salmodia alle ore stabilite, e con devozione“. – Il Concilio di Trento, trattando degli obblighi dei Canonici Secolari, dice: “Si faccia a tutti obbligo d’intervenire agli Uffici, di persona e non per mezzo di sostituti; di assistere e di servire il Vescovo quando celebra o compie qualche altra funzione pontificale; e infine di lodare il nome di Dio con inni e cantici, con riverenza, chiarezza e devozione, e ciò nel Coro istituito per la salmodia” (Conc. Trid., sess. 24, cap. 12, De reformatione). Dal che deriva che si deve vigilare con molta attenzione affinché il canto non sia precipitoso: o più affrettato del conveniente; le pause siano fatte nei punti indicati; una parte del Coro non incominci il versetto del Salmo se l’altra parte non ha terminato il proprio. Ecco le precise parole del Concilio di Saumur dell’anno 1253: “Nec prius Psalmi una pars Chori versiculum incipiat, quam ex altera praecedentes Psalmi, et versiculi finiantur“. – Infine, il canto deve essere eseguito con voci unisone ed il Coro deve essere diretto da persona esperta nel canto Ecclesiastico (chiamato canto piano o fermo). Questo è quel canto per regolare il quale e disporlo secondo i canoni dell’arte musicale tanto faticò San Gregorio il Grande, Nostro Predecessore, come attesta Giovanni Diacono nella Vita di lui (libro 2, cap. 7). Al che non sarebbe difficile aggiungere molte belle notizie ricavate dalla erudizione Ecclesiastica sull’origine del canto Ecclesiastico, sulla Scuola dei Cantori e sul Primicerio che ad essa presiedeva; ma lasciando da parte ciò che sembra meno utile, ritorniamo al punto da cui Ci siamo un poco allontanati, per proseguire l’argomento iniziato. Questo canto è quello che eccita le anime dei fedeli alla devozione e alla pietà; è pure quello che, se eseguito nelle Chiese di Dio secondo le regole ed il decoro, è ascoltato più volentieri dagli uomini devoti e, a ragione, è preferito al canto detto figurato. I Monaci appresero questo canto dai Preti Secolari come ben riferisce Giacomo Eveillon: “Il virtuosismo di ogni armonia musicale diventa ridicolo alle devote orecchie, se paragonato al canto piano e della semplice salmodia, qualora questa sia bene eseguita. Perciò oggi il popolo fedele diserta le Chiese Collegiate e Parrocchiali e corre volentieri e avidamente alle Chiese dei Monaci, i quali, avendo la pietà come maestra del culto divino, salmodiano santamente con moderazione e – come già disse il Principe dei Salmisti – con sapienza; servono al loro Signore, come a Signore e come a Dio, con somma riverenza. Ciò deve certamente tornare a vergogna delle Chiese più importanti e maggiori, dalle quali i Monaci hanno appreso l’arte e la regola di cantare e di salmodiare” (G. Eveillon, De recta ratione psallendi, cap. 9, art. 9). È per questo che il sacro Concilio di Trento, che non trascurò nulla di quanto poteva contribuire alla riforma del Clero, dove tratta della fondazione dei seminari, fra le altre cose che si devono insegnare ai seminaristi include anche il canto: “Perché siano meglio formati nella disciplina Ecclesiastica, portino sempre la tonsura e l’abito Ecclesiastico appena li abbiano ricevuti; studino le regole della grammatica, del canto, del computo Ecclesiastico e delle altre buone arti” (Conc. Trid., sess. 23, ca. 18, De Reformatione).

3. La terza cosa di cui Noi dobbiamo avvertire Lei, è che il canto musicale, che oggi si è introdotto nelle chiese e che, comunemente, è accompagnato dall’armonia dell’organo e di altri strumenti, sia eseguito in modo tale da non apparire profano, mondano o teatrale. L’uso dell’organo e degli altri strumenti musicali, non è ancora accolto in tutto il mondo cristiano. Infatti (senza parlare dei Ruteni di Rito Greco, che, secondo la testimonianza del Padre Le Brun, in Explication Miss. (tomo 2, p. 215 pubblicato nel 1749), non hanno nelle loro chiese né l’organo, né altri strumenti musicali), la Nostra Cappella Pontificia, come tutti sanno, pur ammettendo il canto musicale, a condizione che sia grave, decente e devoto, non ha mai ammesso però l’organo, come fa notare anche il Padre Mabillon, dicendo: “Nella domenica della Trinità abbiamo assistito alla Cappella Pontificia, come è chiamata, ecc. In queste cerimonie non si fa uso alcuno di organi musicali, ma soltanto la musica vocale, di ritmo grave, è ammessa col canto piano” (Mabillon, Museo Italico, tomo 1, p. 47, § 17). – Il Grancolas riferisce che anche ai nostri giorni vi sono in Francia delle Chiese insigni che non adoperano nelle funzioni sacre né l’organo, né il canto figurato: “Vi sono tuttavia anche oggi insigni Chiese della Gallia che ignorano l’uso degli organi e della musica” (Grancolas, Commentario storico del Breviario Romano, cap. 17). – L’illustre Chiesa di Lione, sempre contraria alle novità, seguendo fino ai nostri giorni l’esempio della Cappella Pontificia, non ha mai voluto introdurre l’uso dell’organo: “Da ciò che si è detto, consta che gli strumenti musicali non furono ammessi né fin dal principio né in tutti i luoghi. Infatti, anche ora, a Roma, nella Cappella del Sommo Pontefice, gli Uffici solenni si celebrano sempre senza strumenti, e la Chiesa di Lione, che ignora le innovazioni, ha sempre rifiutato l’organo, ed al presente ancora non lo ha accolto“. Queste sono parole del Cardinale Bona nel suo trattato De Divina Psalmodia (cap. 17, § 2, n. 5). – Stando così le cose, ciascuno può facilmente immaginare quale opinione si faranno di noi i pellegrini appartenenti a regioni dove non si adoperano gli strumenti musicali, e che, venendo da noi e nelle nostre città, ne udranno nelle chiese il suono, come si fa nei teatri ed in altri luoghi profani. Certamente vi verranno anche degli stranieri appartenenti a regioni ove, nelle chiese, si usano il canto e gli strumenti musicali, come avviene in alcune nostre regioni; ma, se questi uomini sono persone sagge ed animate da vera pietà, certamente si sentiranno delusi di non trovare nel canto e nella musica delle nostre Chiese il rimedio che desideravano applicare per guarire il male che imperversa a casa loro. Infatti, lasciando da parte la disputa che vede gli avversari divisi in due campi (quelli che condannano e detestano nelle Chiese l’uso del canto e degli strumenti musicali, e, dall’altra parte, quelli che lo approvano e lo lodano), non vi è certamente nessuno che non desideri una certa differenziazione tra il canto Ecclesiastico e le teatrali melodie, e che non riconosca che l’uso del canto teatrale e profano non deve tollerarsi nelle Chiese.

4. Abbiamo detto che vi sono alcuni che hanno riprovato ed altri che riprovano l’uso nelle Chiese del canto armonico con strumenti musicali. Il principe di costoro può in qualche modo essere considerato l’Abate Elredo, coetaneo e discepolo di San Bernardo, che nel libro 2 della sua opera intitolata Speculum Charitatis, così scrive: “Da dove provengono, malgrado siano cessati i tipi e le figure, donde vengono nelle Chiese tanti organi, tanti cembali? A che, di grazia, quel soffio terribile che esce dai mantici e che esprime piuttosto il fragore del tuono che non la soavità del canto? A che quella contrazione e spezzettamento della voce? Questi canta con accompagnamento, quell’altro canta da solo, un terzo canta in tono più alto, un quarto infine divide qualche nota media e la tronca” (cap. 23, tomo 23, della Biblioteca dei Padri, a p. 118). – Noi non Ci impegneremo ad affermare che, al tempo di S. Tommaso d’Aquino, non vi fosse in qualche Chiesa l’uso del canto musicale accompagnato dai musicali strumenti. Si può però affermare che tale usanza non esisteva nelle Chiese conosciute dal Santo Dottore; e perciò sembra che egli non fosse favorevole a questo genere di canto. Trattando infatti la questione nella Somma teologica (2, 2, quest. 91, art. 2) “se nelle lodi divine si debba usare il canto“, risponde di sì. Ma alla quarta obiezione, da lui formulata, che la Chiesa non suole usare nelle lodi divine strumenti musicali, come la cetra e l’arpa, per non sembrare voler giudaizzare – in base a quanto si legge nel Salmo: “Confitemini Domino in cythara, in psalterio decem chordarum psallite illi; Celebrate il Signore sulla cetra, a lui salmeggiate con arpa da dieci corde” – egli risponde: “Questi strumenti musicali eccitano il piacere piuttosto che disporre interiormente alla pietà; nell’Antico Testamento sono stati adoperati perché il popolo era più grossolano e carnale, ed occorreva allettarlo per mezzo di questi strumenti, come con promesse terrene“. Aggiunge inoltre che gli strumenti, nell’Antico Testamento, avevano valore di tipi o prefigurazioni di certe realtà: “Anche perché questi strumenti materiali raffiguravano altre cose“. – Del Sommo Pontefice Marcello II, ci è stato tramandato dalla storia che aveva deciso di abolire la musica nelle Chiese, riducendo il canto Ecclesiastico al canto fermo. Questo si può vedere leggendo la Vita di detto Pontefice, scritta da Pietro Polidori, testé defunto, e già Beneficiato della Basilica di San Pietro, e uomo noto fra i letterati. – Ai nostri giorni, abbiamo veduto che il Cardinale Tomasi, uomo di grande virtù, insigne liturgista, non volle il suono musicale, nella sua Chiesa titolare di San Martino ai Monti, il giorno della festa di questo Santo, in onore del quale quella Chiesa è dedicata. Non volle musica né alla Messa né ai Vespri, ma ordinò che nelle funzioni sacre si usasse il canto piano, come si costuma fare dai Religiosi.

5. Abbiamo detto che vi sono alcuni che approvano l’impiego del canto musicale ed il suono degli strumenti negli Uffici Divini. Infatti nello stesso secolo in cui visse il lodato Abate Elredo, fu celebre anche Giovanni Sariberiense, Vescovo di Chartres, il quale nel suo Policratius (libro 1, cap. 6) fa l’elogio della musica strumentale, e del canto vocale accompagnato da strumenti: “Per elevare i costumi e trascinare gli animi verso il culto del Signore, in una sana giocondità, i Santi Padri stimarono bene doversi ricorrere non soltanto al concento di uomini, ma anche all’armonia degli strumenti: purché ciò si facesse in modo che servisse ad unire di più al Signore e ad accrescere il rispetto per la Chiesa. Sant’Antonino nella sua Somma non rigetta l’impiego del canto figurato nei Divini Uffici: “Il canto fermo, nei Divini Uffici, è stato stabilito dai Santi Dottori, da Gregorio il Grande, da Ambrogio, e da altri. Chi abbia introdotto il canto a più voci negli Uffici Ecclesiastici, io lo ignoro. Questo canto sembra piuttosto fatto per solleticare le orecchie che per alimentare la devozione, ancorché una mente devota possa ricavare frutto anche ascoltando questo canto” (parte 3, tit. 8, cap. 4, par. 12). Ed un poco più avanti, ammette nei Divini Uffici non solamente l’organo, ma anche altri strumenti musicali: “Il suono degli organi e degli altri strumenti cominciò ad essere usato con frutto, nella lode di Dio, dal Profeta Davide“. – Il Pontefice Marcello II aveva certamente deciso di bandire dalle Chiese il canto in musica e gli strumenti musicali, ma Giovanni Pier Luigi da Palestrina, Maestro di Cappella della Basilica Vaticana, compose un canto musicale, da usarsi nelle sante Messe solenni, con un’arte così eccellente da muovere gli uomini alla devozione ed al raccoglimento. Il Sommo Pontefice udì questo canto ad una Messa, alla quale presenziava, e mutò parere, recedendo da quanto aveva già divisato di fare. Ne fanno fede antichi documenti citati da Andrea Adami nella Prefazione storica delle Osservazioni sulla Cappella Pontificia (p. 11). – Nel Concilio di Trento si era stabilito di eliminare la musica dalle Chiese, ma l’imperatore Ferdinando avendo, per mezzo dei suoi legati, annunziato che il canto musicale, o figurato, serviva di incitamento alla devozione per i fedeli e favoriva la pietà, si mitigò il Decreto già preparato; ed ora questo decreto si trova nella sessione 22, al titolo: De observandis et evitandis in celebratione Missae. Con esso sono state escluse dai sacri Templi solo quelle musiche in cui, “sia nel suono sia nel canto, si mescola alcunché di lascivo o di impuro“. – Il fatto è riferito da Grancolas nel suo lodato Commentario (p. 56), e dal Cardinale Pallavicino nella Storia del Concilio (libro 22, cap. 5, n. 14). – Certamente Scrittori Ecclesiastici di gran nome seguono di buon grado la stessa sentenza. Il venerabile Cardinale Bellarmino nel tomo 4 delle sue Controversie, al libro 1 De bonis operibus in particulari, 17, in fine, insegna che deve essere mantenuto nelle Chiese l’uso degli organi, ma che non devono essere facilmente ammessi altri strumenti musicali: “Da ciò ne viene che, come l’organo si deve conservare nelle Chiese per riguardo ai deboli, così non devono essere introdotti alla leggera altri strumenti“. – Anche il Cardinale Gaetano è di questo parere, e nella sua Somma, alla voce organum, così scrive: “L’uso dell’organo, sebbene per la Chiesa costituisca una novità – perciò la Chiesa Romana fino ad ora non ne fa uso alla presenza del Pontefice –, è però lecito avuto riguardo ai fedeli ancora carnali ed imperfetti“. – Il venerabile Cardinale Baronio, all’anno 60 di Cristo [dei suoi Annali], così scrive: ” In verità nessuno potrà con ragione disapprovare che dopo molti secoli si sia introdotto l’uso nella Chiesa degli organi, strumenti formati da canne di diversa grandezza assieme unite“.- Cardinale Bona, nel De Divina Psalmodia, cap. 17, trattando degli organi suonati nelle Chiese, dice: “Non bisogna condannare un uso moderato di essi, ecc. Il suono dell’organo reca letizia agli animi tristi degli uomini, e richiama alla giocondità della celeste Città, scuote i pigri, ricrea i diligenti, provoca i giusti all’amore, richiama i peccatori a penitenza“. – Il Suarez (tomo 2 De Religione, al libro 4 De Horis Canonicis, cap. 8, n. 5) fa rilevare che la parola organo non indica soltanto quel particolare strumento musicale che oggi si suole ordinariamente chiamare organo – il che prima di lui fu avvertito da Sant’Isidoro nel libro 2 Originum, cap. 20: “La parola organo indica in generale tutti gli strumenti musicali” –; dicendo che l’organo può essere usato nelle Chiese, s’intende che possono essere usati altri strumenti musicali. – Silvio (tomo 3 delle sue Opere sulla 2, 2 di San Tommaso, quest. 91, art. 2) non rigetta dalle Chiese il canto armonico o figurato: “Perciò deve essere grandemente curato il canto Ecclesiastico, sia quello detto piano, o gregoriano, che è propriamente canto Ecclesiastico, sia quello introdotto dopo nella Chiesa, e che si chiama canto figurato o armonico. E poco più avanti dice ancora: “Tuttavia, essendosi, dopo molti secoli, accolto l’uso di accompagnare gli Uffici Ecclesiastici con strumenti musicali, ciò non deve essere disapprovato“. – Il Bellotte, nel libro De Ritibus Ecclesiae Laudunensis (p. 209, n. 8), dopo aver a lungo e minuziosamente parlato degli strumenti musicali, che si suonano alle volte nei Divini Offici; e, dopo aver dimostrato che anticamente questi strumenti non si usavano nelle Chiese, ritiene che la cagione di tale antica usanza e diversa consuetudine, debba riporsi nella necessità che spingeva allora i Cristiani a stare lontani, il più possibile, dai riti profani dei pagani, i quali, nei teatri, nei festini, nei sacrifizi, usavano strumenti musicali. – “Perciò, dice il Bellotte, non si deve vedere una sconvenienza negli strumenti musicali stessi, se la Chiesa ha fatto uso di cantori in musica e di musicali strumenti soltanto negli ultimi secoli. Il motivo sta solo nel fatto che i pagani usavano simili strumenti musicali per scopi turpi e immorali, appunto nei teatri, nei conviti e nei sacrifizi“. – Il Persico, nel suo trattato De Divino et Ecclesiastico Officio (al dubbio 5, n. 7) così scrive del canto figurato nelle Chiese: “In secondo luogo dico: ancorché nel canto organico, o figurato, possano introdursi molti abusi – come suole d’altronde avvenire in tutte le altre cerimonie Ecclesiastiche – , esso tuttavia è di per sé lecito, e per nessun motivo vietato, quando viene eseguito in maniera regolata, devota e decente. – Al dubbio 6, numero 3, sostiene che “l’uso ormai universale di suonare l’organo e altri strumenti musicali, durante i Divini Uffici, è un uso lodevole, e molto utile per elevare alla contemplazione di Dio gli animi delle persone imperfette“. – L’uso del canto armonico, o figurato, e degli strumenti musicali, sia nelle Messe, come nei Vespri e in altre funzioni di Chiesa, è ora talmente esteso, da essere giunto anche nel Paraguay. – Essendo quei novelli fedeli americani dotati di straordinaria propensione ed abilità al canto musicale ed al suono dei musicali strumenti, tanto da imparare con tutta facilità ciò che riguarda l’arte musicale, i Missionari si servono di questa tendenza per avvicinarli alla Fede Cristiana, mediante pie e devote canzoni. Così che, al presente, non vi è più quasi nessun divario, sia nel canto come nel suono, tra le Messe ed i Vespri di casa nostra con quelle delle suddette regioni. Ciò riferisce l’Abate Muratori, riportando relazioni degne di fede, nella sua opera: Descrizione delle Missioni del Paraguay (cap. 12).

6. Abbiamo pure detto che non c’è alcuno che non condanni il canto teatrale nelle Chiese, e che non desideri una differenziazione tra il canto sacro della Chiesa e il canto profano delle scene. Celebre è il testo di S. Girolamo, riferito nel Canone Cantantes: “Cantando e salmeggiando nei vostri cuori al Signore. Ascoltino questo gli adolescenti; lo ascoltino coloro che hanno nella Chiesa il dovere di salmeggiare. Non basta cantare ad onore di Dio con il suono della voce, ma bensì è necessario unirvi il cuore. Né alla moda degli attori teatrali occorre spalmare la gola e le labbra di soave unguento affinché nella Chiesa si sentano melodie e canti teatrali” (distinzione 92). – L’autorità di S. Girolamo fu abusivamente invocata da coloro che, con troppa audacia, volevano rimuovere dalle Chiese ogni sorta di canto. Ma S. Tommaso, nel luogo già citato, così risponde, alla seconda obiezione ricavata dal detto testo di S. Girolamo: “Riguardo alla seconda obiezione, occorre notare che S. Girolamo non condanna il canto, ma riprende coloro che nelle Chiese cantano come canterebbero in un teatro. – San Nicezio, nel libro De Psalmodiae bono (cap. 3, nel tomo 1 dello Spicilegio), così descrive il canto che deve adoperarsi nelle Chiese: “Si usi un suono ed un canto di salmodia che siano conformi alla santità della Religione, e non piuttosto espressioni del canto tragico; che vi faccia apparire veri cristiani, e non piuttosto riecheggi suoni teatrali; che vi induca alla compunzione dei peccati“. – I Padri del Concilio di Toledo (riuniti nell’anno 1566, nell’azione 3, al cap. 11 del tomo 10 della Collezione dei Concilii dell’Arduino), dopo aver molto parlato della qualità del canto da usarsi nelle Chiese, così concludono: “ Bisogna assolutamente evitare che il suono musicale porti nel canto delle divine lodi qualche cosa di teatrale; o che evochi profani amori, e gesta guerresche, come suole fare la musica classica.– Non mancano numerosi e dotti scrittori, che severamente condannano la paziente tolleranza, nelle Chiese, del suono e del canto teatrali, e domandano che simile abuso venga tolto dalle Chiese. – Si consultino il Casadio (De veteribus sacris Christianorum ritibus, cap. 34) e l’Abate Lodovico Antonio Muratori (Antiqua Romana Liturgia tomo I; dissertazione De rebus liturgicis, cap. 22, in fine). – E per terminare il Nostro dire su questo argomento, ossia dell’abuso dei teatrali concerti nelle Chiese (che è cosa per sé evidente e che non richiede parole per dimostrarla), basterà accennare che tutti quelli che Noi abbiamo sopra citati, come favorevoli al canto figurato ed all’uso degli strumenti musicali nelle Chiese, chiaramente dicono ed attestano di aver sempre nei loro scritti inteso e voluto escludere quel canto e quel suono propri i dei palcoscenici e dei teatri. Canto e suono che essi, come gli altri, condannano e deprecano. Quando si professavano favorevoli al canto ed al suono, sempre intesero un canto ed un suono adatto alle Chiese, e che eccita il popolo a devozione. Questa loro intenzione ognuno può conoscere leggendo i loro scritti.

7. Stabilito che, essendo già introdotta la consuetudine del canto armonico o figurato e degli strumenti musicali negli Uffici Ecclesiastici, se ne condanna soltanto l’abuso; il Bingamo (Delle Origini Ecclesiastiche, tomo 6, libro 14, par. 16), benché sia autore eterodosso, concorda; ne consegue che bisogna diligentemente studiare quale sia il retto uso e quale l’abuso. – Riconosciamo che per fare Noi bene quanto Ci siamo proposto, avremmo bisogno della perizia musicale di cui erano adorni alcuni dei Nostri santi e illustri Predecessori, quali Gregorio il Grande, Leone II, Leone IX e Vittore III. Noi però non abbiamo avuto né il tempo e né l’occasione di imparare la musica. Tuttavia Ci accontenteremo di dire alcune cose ricavate dalle Costituzioni dei Nostri Predecessori, e dagli scritti di uomini virtuosi e dotti. – Per procedere però con ordine, parleremo prima di tutto ciò che si deve cantare nelle Chiese. Poi parleremo del modo e del metodo che si deve tenere nel canto. Infine parleremo degli strumenti musicali adatti alle Chiese, e che devono essere suonati nei sacri Templi.

8. Guglielmo Durando, che visse sotto il Pontificato di Nicolò III, nel suo trattato De modo Generalis Concili i celebrandi (cap. 19), apertamente riprova l’uso, allora frequente, di quelle cantilene dette mottetti: “Sembra assai opportuno togliere dalla Chiesa quel canto non devoto e disordinato dei mottetti e di altre cose simili. In seguito il Pontefice Giovanni XXII, Nostro Predecessore, promulgò la sua Decretale, che comincia con le parole Docta Sanctorum e che si trova tra le Extravaganti comuni, al titolo De vita et honestate Clericorum. In questa sua Decretale, il Papa si mostra contrario al canto dei mottetti in lingua volgare: “Talora v’inseriscono mottetti in lingua volgare. – I Teologi hanno fatto oggetto d’indagine siffatto genere di cantilene o mottetti che solitamente si cantano nelle Chiese. Uno di essi, il Paludano (Sentenze, libro IV, dist. 15, q. 5, art. 2), ritenne il canto dei mottetti una specie di canto teatrale, e riprende coloro che ne fanno uso: “coloro, cioè, che nelle solennità cantano i mottetti, poiché il canto (nelle Chiese) non deve essere simile a quello delle tragedie. – Il Suarez (De Religione, tomo 2, libro 4; De Horis Canonicis, cap. 13, n. 16) sembra favorevole al canto dei mottetti, ancorché essi siano stati scritti in lingua volgare, purché siano seri e devoti. A provare quanto asserisce adduce il costume e l’uso di alcune Chiese governate da sapienti prelati, che non condannano queste cantilene o modulati carmi. Aggiunge inoltre che, nei primi tempi della Chiesa, ogni fedele cantava nel tempio quei pii e devoti inni che egli stesso aveva composti; e che tale antica consuetudine serve, in certo modo, ad approvare l’uso dei mottetti. – Prevedendo l’obiezione che gli si può muovere, che da simili canti modulati, chiamati mottetti, rimane interrotta la salmodia ecclesiastica, ad essa così risponde: “Questa interruzione, o pausa, che per questo fatto viene a stabilirsi tra le parti di un’Ora (canonica), non è da condannarsi. Questa parte dell’ufficiatura rimane moralmente non interrotta, a causa della devozione che questo canto stesso si propone di eccitare. Così questo canto può essere considerato come una preparazione all’ufficiatura che segue, e come una solenne e degna conclusione dell’ufficiatura precedente, e come un ornamento di tutta l’Ora. – Il Sommo Pontefice Alessandro VII, nell’anno 1657, emanò una Costituzione, che comincia con le parole Piae sollicitudinis, e che è la trentaseiesima tra le Costituzioni di questo Pontefice. In tale documento il Papa comanda di non cantare, nel tempo dei Divini Uffici, e nel tempo in cui nelle Chiese è esposto il Sacramento dell’Eucaristia alla pubblica venerazione dei fedeli, nessun canto che non sia formato da parole desunte dal Breviario o dal Messale Romano. Questi canti possono essere desunti dall’ufficiatura propria o comune della solennità di ciascun giorno, o della festa del Santo; questi brani possono pure essere tolti dalla Sacra Scrittura o dalle opere dei Santi Padri, ma prima devono essere sottoposti alla revisione ed all’approvazione della Sacra Congregazione dei Riti. – Da questa Costituzione pontificia appare, senza alcun dubbio, che il canto dei mottetti, composti seguendo le norme prescritte dallo stesso Alessandro VII, Nostro Predecessore, e riveduti ed approvati dalla Sacra Congregazione dei Riti, fu dichiarato legittimo. Questa Costituzione di Alessandro VII fu confermata dal Venerabile Servo di Dio Innocenzo XI, in un suo Decreto del 3 dicembre 1678. – Essendo però sorto qualche dubbio sul significato e sulla interpretazione della Costituzione di Alessandro e del Decreto di Innocenzo XI, il Nostro Predecessore di felice memoria Innocenzo XII, emise, in data 20 agosto 1692, un nuovo Decreto, che è il settantaseiesimo del suo Bollario. Questo decreto, dissipando la confusione causata dalle diversità di interpretazioni, e illuminando tutta la questione, proibì in genere il canto di ogni cantilena o mottetto. Nelle sante Messe solenni permise soltanto, oltre al canto del Gloria e del Simbolo, di poter cantare l’Introito, il Graduale e l’Offertorio. Nei Vespri non ammise nessun cambiamento, neppure minimo, nelle Antifone che si dicono all’inizio e alla fine di ogni Salmo. – Inoltre volle e comandò che i cantori musici seguissero in tutto le regole del Coro e che con esso si conformassero perfettamente. E siccome nel Coro non è permesso aggiungere qualche cosa all’Ufficio o alla Messa, così proibì pure questo ai musici, e soltanto permise di prendere dall’Ufficio e dalla Messa della solennità del Santissimo Sacramento del Corpo del Signore – ossia dagli inni di San Tommaso o dalle antifone, o da altri brani passati nel Breviario dal Messale Romano – qualche strofa o mottetto, senza cambiarne le parole, e di poterli cantare, al fine di eccitare la devozione nei fedeli, durante l’elevazione della sacra Ostia, o quando è esposta alla venerazione ed all’adorazione del pubblico.

9. Dopo avere con una legge regolato l’uso delle canzoncine, o delle strofe cantate o mottetti, bisogna ammettere che si era già fatto molto per rimuovere dalle Chiese i canti teatrali, ma occorre pure confessare che ciò non era sufficiente per raggiungere lo scopo desiderato. – Era ancora possibile, e troppo ancora ciò si fa con Nostro dispiacere, cantare tutte le parti che è lecito e che si sogliono cantare nelle Messe e nei Vespri, come è stato su riferito (ossia il Gloria, il Simbolo, l’Introito, il Graduale, l’Offertorio e tutto il resto), ma cantarle alla maniera teatrale e con strepito da palcoscenico. – Il grande vescovo Guglielmo Lindano, nella sua Panoplia Evangelica, al libro 4, cap. 78, non è contrario al canto musicale nelle Chiese, ma disapprova le molte ripetizioni, e le confusioni delle voci, e propone che nelle Chiese si adoperi una musica adatta alle cose che si cantano: “So bene, dice egli, che alcuni giudicano più conveniente conservare la musica, con strumenti e musici. Darei volentieri il mio consenso a costoro, qualora avvenisse, nello stesso tempo, la sostituzione del metodo, attualmente in vigore ovunque nelle Chiese, con un metodo più serio, più aderente alle cose, e, se non più vicino alla pronunzia che alla melodia, almeno sia più adattato alle cose che si cantano e più in armonia con esse“. – Il Dresselio, nella sua opera Rhetorica caelestis (libro I, cap. 5), scrive opportunamente in proposito: “Qui, o musicisti, sia detto con vostra pace, prevale ora nelle Chiese un genere di cantare che è nuovo, ma eccentrico, spezzettato, ballabile, e certamente poco religioso; più adatto al teatro ed al ballo che non al Tempio. Si cerca l’artifizio e si perde il primiero desiderio di pregare e di cantare. Abbiamo cura di destare la curiosità, ma in realtà trascuriamo la pietà. Che è infatti questo nuovo e danzante modo di cantare se non una commedia, in cui i cantori si mutano in attori? Essi si esibiscono: ora uno da solo, ora in due, ora tutti assieme, e dialogano tra di loro col canto; poi nuovamente uno domina solo, e poco dopo gli altri lo seguono. – Uno scrittore moderno, Benedetto Girolamo Feijo o, Maestro Generale dell’Ordine di San Benedetto in Spagna, nel Theatrum criticum universale, discorso 14, basandosi sulla perizia e sulla conoscenza delle note musicali, indica il metodo da seguirsi per ottenere composizioni musicali per le Chiese, del tutto diverse dai concerti musicali dei teatri. – Ma Noi qui Ci contenteremo di ricordare – tenendo presenti le prescrizioni dei Sacri Concili e le sentenze di Scrittori autorevoli – che il canto musicale dei teatri viene fatto in modo (come Ci fu riferito) che il pubblico presente, ascoltando i canti musicali ne riporti diletto, e goda degli artifizi della musica, si esalti per la melodia, per la musica in se stessa; provi piacere per la soavità delle varie voci, senza percepire, il più delle volte, l’esatto significato delle parole. Non cosi invece deve essere nel canto Ecclesiastico; anzi in questo si deve avere di mira l’opposto. – Nel canto Ecclesiastico si deve badare innanzi tutto ad ottenere una audizione perfetta e facile delle parole. Nelle Chiese, infatti, la musica è accolta per elevare le menti degli uomini a Dio, come insegna Sant’Isidoro nel libro I del De Ecclesiasticis Officiis, al cap. 5: “Si usa dalla Chiesa salmeggiare e cantare soavi melodie per indurre più facilmente gli animi alla compunzione“; ciò non può ottenersi se non s’intendono le parole. – Il Concilio di Cambrai (tenuto nel 1565, al titolo 6, cap. 4, tomo 10, p. 582 della Collezione di Arduino) così prescrive: “Del resto ciò che si deve cantare in coro è destinato ad istruire; lo si canti perciò in modo da essere capito dalla mente. – Nel Concilio di Colonia (riunito nel 1536, al cap. 12 del De officiis privatis) si legge quanto segue: “In alcune Chiese si giunse a commettere l’abuso di omettere o di abbreviare, per favorire l’armonia del canto e del suono, quello che era più importante. E la parte più importante è costituita appunto dalla recita delle parole dei Profeti, degli Apostoli, od Epistola, del Simbolo della fede, del Prefazio o azione di ringraziamento e dell’Orazione del Signore. Per la loro importanza, questi testi devono essere, come tutti gli altri, cantati in modo chiarissimo e intelligibile. – Nel primo Concilio di Milano (tenuto nell’anno 1565, nella parte 2, n. 51 della Collezione di Arduino, p. 687) si legge: “Negli Uffici Divini, e in generale nelle Chiese, non si devono cantare o suonare cose profane; le cose sacre poi devono essere cantate senza languide flessioni di voce, senza suoni più gutturali che labiali; mai si deve usare un tono di canto passionale. Il canto ed il suono siano seri, devoti, chiari, adatti alla casa di Dio e confacenti con le divine lodi; fatti in modo che coloro che ascoltano capiscano le parole e siano mossi a devozione“. – Sulla materia qui trattata esistono parole assai gravi dei Padri convenuti nell’anno 1566 al Concilio di Toledo (Azione 3, cap. 2, p. 1164 della Collezione di Arduino): “Siccome tutto ciò che si canta nelle Chiese per lodare Dio, deve essere cantato in modo da favorire, per quanto è possibile, l’istruzione dei fedeli, e deve essere un mezzo per regolare la pietà e la devozione e per spronare le menti degli uditori fedeli a prestare a Dio il culto, e a desiderare le cose celesti; stiano in guardia i Vescovi, che mentre ammettono nel coro musicale la pratica di variazioni melodiche in cui le voci si mescolano secondo ordini diversi, le parole dei salmi e delle altre parti che sogliono cantarsi, non rimangano incomprese e soffocate da uno strepito disordinato. I Vescovi coltivino invece una musica così detta organica, che permetta di capire le parole di quelle parti che si cantano, e gli animi degli uditori siano portati a lodare Dio più dalla pronunzia delle parole che da curiosi gorgheggi. – Ciò giustifica i lamenti espressi dal Vescovo Lindano nel testo citato (Panoplia Evangelica): “Ai nostri giorni, il canto dei musici è piuttosto fatto per distogliere, sviare, allontanare gli animi degli uditori, che non per eccitarli a pietà e a desideri celesti. Ricordo infatti di aver partecipato qualche volta alle divine lodi, di aver prestato grande attenzione mentre si cantava per riuscire a capire le parole, ma non riuscì ad intenderne neppure una sola. Tutto era un groviglio di sillabe ripetute, di voci confuse; il senso rimaneva sommerso da ciò che, più che canto, era un clamore assordante, un boato scomposto. – Ciò dimostra quanto saggio fosse il desiderio, e quanto prudente sia l’esortazione con la quale Dresselio, pure nell’opera citata (Rethorica caelestis) esorta i musici alla devozione: “Fate rivivere, ve ne supplico, qualche cosa almeno del primiero fervore religioso nella musica sacra. Se voi avete a cuore, se desiderate l’onore divino, adoperatevi per questo, faticate per questo scopo: affinché cioè le parole che si cantano siano pure comprese. Che mi giova sentire nel Tempio varietà di suoni, profusione di voci, se a tutto ciò manca un’anima, se non riesco a comprendere il significato e le parole, che il canto dovrebbe invece instillarmi?” – Ciò finalmente giustifica la risposta data dal Cardinale Domenico Capranica al Sommo Pontefice Nicolò V, dopo aver assistito ad una sacra funzione ed alla Divina Ufficiatura, eseguite in canto musicale, in modo però che non si poterono udire le parole. Il Pontefice chiese al Cardinale che cosa ne pensasse di simile musica; la risposta che il Cardinale diede si può leggere presso Poggio, nella Vita di questo Cardinale edita dal Baluzio, nella Miscellanea (libro 3, § 18, p. 289). – Il grande Padre Agostino racconta di se stesso che sentendo cantare soavemente gli inni nella Chiesa, piangeva dirottamente: “Quanto piansi tra gl’inni ed i cantici tuoi, vivamente commosso alle voci della tua Chiesa soavemente echeggiante! Quelle voci si riversavano nei miei orecchi, stillava la verità tua nel mio cuore, e da essa mi veniva fervore. Di qui provenivano sentimenti di devozione, e scorrevano lacrime, e mi facevano del bene!” (Confessioni, libro 9, cap. 6). Ma poi essendogli venuto lo scrupolo del gran diletto che provava sentendo cantare gli inni nelle Chiese, quasi fosse un’offesa a Dio, e portandolo la severità a disapprovare il detto canto, ritornò però al primo pensiero di approvarlo, perché il suo animo si commuoveva, non per l’armonia solamente, ma per le parole che l’armonia accompagnava, come apertamente egli dichiarò (Confessioni, libro 10, cap. 33). – Piangeva perciò Agostino di devota tenerezza, sentendo cantare nelle Chiese le sacre lodi, e ben intendendo le parole accompagnate dal canto. Piangerebbe forse ancora oggi, se sentisse qualcheduna delle musiche delle Chiese, ma non piangerebbe per devozione, ma per dolore di sentire bensì il canto, ma di non intenderne le parole.

10. Fin qui abbiamo parlato del canto musicale; ora dobbiamo parlare del suono dell’organo musicale, e degli altri strumenti, il cui uso, come abbiamo detto sopra, è ammesso in alcune Chiese. È pure necessario trattare del suono, perché se il canto non deve essere teatrale, altrettanto deve dirsi del suono. Gli Ebrei non avevano bisogno di questa indagine, ossia di stabilire differenze fra il canto nel Tempio e il canto profano nei teatri. Infatti dalle Sacre Scritture si desume che il canto ed il suono degli strumenti musicali erano in uso nel Tempio, ma non nei teatri, come fa notare ottimamente il Calmet nella sua dissertazione sopra la musica degli Ebrei. – Noi abbiamo bisogno di fissare dei limiti tra il canto ed il suono di Chiesa, e quelli dei teatri. Noi dobbiamo definire la diversità tra i due, perché oggi il canto figurato, o armonico, con il suono degli strumenti, si adopera tanto nei teatri come nelle Chiese. – Avendo già a lungo parlato del canto, rimane ora da parlare anche del suono. E per discorrere con ordine, tratteremo prima degli strumenti musicali, che possono essere tollerati nelle Chiese; in secondo luogo parleremo del suono di quegli strumenti che si suole accompagnare al canto; in terzo luogo parleremo del suono separato dal canto, ossia della sinfonia strumentale.

11. Quanto agli strumenti, che possono tollerarsi nelle Chiese, il sopra citato Benedetto Girolamo Feijo o, nel citato discorso (Theatrum criticum universale, discorso 14, par. 11, n. 43) ammette gli organi e altri strumenti, ma vorrebbe escludere le lire tetracorde (violini), perché l’archetto fa emettere alle corde suoni armoniosi, ma troppo acuti, che eccitano in noi piuttosto ilarità puerile, che non composta venerazione per i sacri misteri, e raccoglimento. – Il Bauldry (Manuale nelle sacre cerimonie, § I, cap. 8, n. 14) non vorrebbe nelle Chiese, con l’organo pneumatico, che le trombe o gli strumenti a fiato o pneumatici: “Non si suonino, con l’organo, altri strumenti musicali all’infuori delle trombe, flauti o cornette. Al contrario, i Padri del Primo Concilio Provinciale di Milano, tenuto sotto San Carlo Borromeo, nel titolo De Musica et Cantoribus, bandiscono dalle Chiese gli strumenti a fiato: “Nella Chiesa vi sia solo l’organo; si escludano i flauti, le cornette e ogni altro strumento musicale. – Noi non abbiamo omesso di richiedere il consiglio di uomini prudenti e di insigni Maestri di musica. In conformità del loro parere, Ella, venerabile Fratello procurerà che nelle sue Chiese, se in esse vi è l’uso di suonare gli strumenti musicali, con l’organo, siano ammessi soltanto quegli strumenti che hanno il compito di rafforzare e sostenere la voce dei cantori, come sono la cetra, il tetracordo maggiore e minore, il fagotto, la viola, il violino. Escluderà invece i timpani, i corni da caccia, le trombe, gli oboe, i flauti, i flautini, le arpe, i mandolini e simili strumenti, che rendono la musica teatrale.

12. Sul modo poi di usare quegli strumenti che si possono ammettere nella musica sacra, ammoniamo soltanto che essi vengano usati esclusivamente per sostenere il canto delle parole, affinché vieppiù il senso di esse si imprima nella mente degli uditori, e gli animi dei fedeli vengano eccitati alla contemplazione delle cose spirituali, e siano spronati ad amare di più Dio e le cose divine. Il Valenza, parlando dell’utilità della musica e degli strumenti musicali, giustamente dice: “Servono a ravvivare il proprio e l’altrui fervore, specialmente dei rozzi, che spesso sono deboli, e devono essere portati al gusto delle realtà spirituali, non solo a mezzo del canto vocale, ma anche con il suono dell’organo, e di musicali strumenti” (nel tomo 3 sulla 2, 2 di San Tommaso, disp. 6, quest. 9). – Se però gli strumenti suonano in continuazione, e solo qualche volta si chetano, come si usa oggi, per lasciare tempo agli uditori di sentire le armoniche modulazioni, le vibranti puntate delle voci, volgarmente chiamati i trilli; se, per il rimanente, non fanno altro che opprimere e seppellire le voci del coro, e il senso delle parole, allora l’uso degli strumenti non raggiunge lo scopo voluto, diventa inutile, anzi rimane proibito ed interdetto. – Il Pontefice Giovanni XXII, nella citata sua Extravagante Docta Sanctorum, fra gli abusi della musica mette il seguente, che esprime con queste parole: “Spezzettare la melodia con rantoli” ossia con singulti, come spiega Carlo Dufresne nel suo Glossario: questo nome indica quelle concise modulazioni, volgarmente dette trilli. – Il grande Vescovo Lindano, nel luogo citato, inveisce contro l’abuso di coprire, con il suono degli strumenti, le parole dei cantori: “Il clamore delle trombe, lo stridore dei corni, e altro vario fracasso, nulla viene omesso di ciò che può rendere incomprese le parole che si cantano, oscurarle, seppellirne il significato. – Il pio e dotto Cardinale Bona, nel più volte lodato trattato De Divina Psalmodia (cap. 17, § 2, n. 5), così scrive in proposito: “Prima di terminare, darò un avvertimento ai cantori di Chiesa: non facciano servire ad una illecita passione ciò che i Santi Padri hanno ordinato ad aiutare la devozione. Il suono deve essere eseguito in modo grave e moderato, da non assorbire tutte le facoltà dell’anima, ma da lasciare la maggior parte dell’attenzione per comprendere il significato di quello che si canta, e per i sentimenti di pietà“.

13. Infine, per ciò che riguarda le sinfonie, dove il loro uso è già introdotto, potranno tollerarsi, purché siano serie, e non rechino, a causa della loro lunghezza, noia o grave incomodo a quelli che sono nel Coro, o che funzionano all’Altare, nei Vespri e nelle Messe. Di queste sinfonie parla il Suarez: “Da ciò si comprende che, di per sé, non è da condannarsi l’uso di intercalare agli Uffici Divini il suono dell’organo senza canto, adoperando solo con soavità la musica degli strumenti, come succede qualche volta durante la Messa solenne, o nelle Ore Canoniche, tra i Salmi. In questi casi tale suono non è parte dell’Ufficio, e ridonda a solennità ed a venerazione dell’Ufficio stesso ed a elevazione degli spiriti dei fedeli, affinché più facilmente si muovano a devozione o vi si dispongano. Ancorché però nessun canto vocale si associ a questo suono, occorre che detto suono sia grave e adatto a eccitare la devozione” (Suarez, De Religione, libro 4, cap. 13, n. 7). – Non si deve però qui tacere essere cosa assai sconveniente e da non più tollerarsi, che in alcuni giorni dell’anno si tengano sinfonie sontuose e rumorose, si tengano canti musicali nei Templi, del tutto sconvenienti ai Sacri Misteri che la Chiesa in quel dato tempo propone alla venerazione dei fedeli. – Lo zelo di cui era animato, spinse il più volte nominato Maestro Generale dell’Ordine di San Benedetto in Spagna a protestare nel citato discorso (Theatrum criticum universale, discorso 14, § 9) contro le arie ed i recitativi, ohimè!, troppo usati nel cantare le Lamentazioni del Profeta Geremia, la cui recita è dalla Chiesa prescritta nei giorni della Settimana Santa, e nelle quali ora si piange la distruzione della Città di Gerusalemme ad opera dei Caldei, ora la desolazione del mondo ad opera dei peccati, ora l’afflizione della Chiesa militante nelle persecuzioni, ora le angustie del nostro Redentore nei suoi dolori. – Mentre sedeva sulla Cattedra Apostolica il Nostro santo Predecessore Pio V, la Chiesa di Lucca era governata da Alessandro, Vescovo zelantissimo della disciplina Ecclesiastica. Egli aveva osservato che, durante la Settimana Santa, si facevano nelle Chiese dei concerti solennissimi con numerosi cantori e suono di strumenti svariati. Ciò non era per nulla intonato al clima di mestizia delle sacre funzioni che si celebrano in quei giorni. Ad udire tali concerti accorreva una numerosissima avida folla di uomini e di donne, e succedevano peccati e scandali gravi. Il Vescovo con un suo editto proibì questi concerti nella Settimana Santa e nei tre giorni seguenti la Pasqua. Siccome alcuni, esenti dalla giurisdizione episcopale, pretendevano di non essere tenuti ad obbedire al Vescovo, costui deferì la questione al Sommo Pontefice Pio V, il quale rispose con un Breve, in data 4 aprile 1571. – Il Papa deplora la cecità delle menti umane e degli uomini carnali, che non solo nei giorni sacri, ma specialmente in quelli stabiliti dalla Chiesa in modo speciale per venerare la memoria della passione di Cristo Signore, messa da parte la pietà, e la sincera purità della mente, si lascino trasportare dai piaceri del mondo, e si abbandonino in balìa e si lascino dominare dalle passioni. “Questo – dice poi – deve essere sempre evitato, in ogni periodo sacro, ma deve essere evitato in modo tutto speciale in quel periodo di tempo fissato dalla Chiesa per commemorare la passione del Signore. In tale tempo invece massimamente conviene che tutti i Cristiani rivolgano la loro mente alla contemplazione di così grande ed eccelso beneficio fatto a noi dal Nostro Redentore, e che si tengano liberi ed immuni da ogni impurità di cuore e di sensi. – Riferisce poi l’abuso introdotto nella Chiesa di Lucca di fare scelta nella Settimana Santa di bravi musici, e di radunare ogni sorta di strumenti per tenere solenni concerti musicali. Dice al Vescovo: “Recentemente, con grande Nostro dispiacere, abbiamo saputo che in codesta Città, ove eserciti l’ufficio di Vescovo, vi è un abuso assai detestabile, di tenere cioè concerti nelle Chiese, durante la Settimana Santa, con la riunione di scelti cantori e di ogni genere di strumenti. A questi concerti, più che non ai Divini Uffici, accorre una folla di giovani di ambo i sessi, attrattavi da una vera passione, e l’esperienza ha dimostrato che si commettono gravi peccati e che avvengono dei non meno gravi scandali“. – Infine loda l’ordine del Vescovo, e, basandosi sui decreti del sacrosanto Concilio di Trento, dichiara che questo ordine si estende ed obbliga anche le Chiese che si dicono esenti dall’autorità dell’Ordinario, per privilegio apostolico o per qualsiasi altra ragione. – Nel Concilio Romano (tenutosi da poco tempo a Roma, nell’anno 1726, al titolo 15, n. 6) si leggono vari decreti sopra l’uso del canto musicale e degli strumenti, durante l’Avvento, nelle Domeniche di Quaresima, e durante le esequie dei defunti. Ci basti avervi accennato. –

14. Ci ricordiamo aver letto che l’Imperatore Carlo Magno, essendosi proposto di ridurre a regole di arte il canto Ecclesiastico, che nelle Chiese della Gallia era allora eseguito in maniera disordinata e rozza, chiedesse al Pontefice Adriano I l’invio da Roma di persone istruite nella musica di chiesa. Questi inviati facilmente introdussero nel Regno delle Gallie il Canto Romano, come ognuno può venire a sapere leggendo la notizia presso Paolo Diacono (Vita di San Gregorio, libro 2, cap. 9); presso Rodolfo de Tongres (De Canonum observantia, prop. 12); presso Sant’Antonino (Summa Historica, parte 2, tit. 12, cap. 3). Il Monaco d’Angoulême (Vita di Carlo Magno, cap. 8), racconta inoltre che i cantori giunti da Roma insegnarono nelle Gallie anche l’arte di suonare l’organo musicale, che era stato introdotto nel regno delle Gallie sotto il re Pipino. – Essendo costume e regola generale che la città di Roma debba precedere, con l’esempio e l’insegnamento, tutte le altre Città, in ciò che concerne i Riti Sacri e le altre cose Ecclesiastiche: anche la storia lo conferma, così come lo conferma quanto Noi ora abbiamo narrato di Carlo Magno, che volendo introdurre il canto Ecclesiastico nel suo Regno, lo fece venire da Roma come dalla sua propria sede. – Questo fatto Ci spinge pressantemente e Ci stimola a fare sparire del tutto e tutti gli abusi che si fossero introdotti nel canto Ecclesiastico, e che Noi sopra abbiamo condannati; a farli sparire da ogni Chiesa, se fosse possibile, ma in modo speciale dalle Chiese della Città di Roma. – E come Noi non lasciamo di dare gli ordini necessari ed opportuni al Nostro Cardinale Vicario in Roma, cosi lei, Venerabile Fratello, non lasci di pubblicare, se è necessario, editti e leggi, che siano in armonia con questa Nostra Lettera circolare, e che regolino il canto Ecclesiastico in base alle disposizioni prescritte e stabilite nella presente Nostra Lettera, affinché si dia finalmente inizio alla riforma della musica ecclesiastica. – Questa riforma fu già ardentemente desiderata e sospirata da moltissimi, tanto che, già cento anni fa Giovanni Battista Doni, patrizio fiorentino, scriveva in un suo trattato, De Praestantia Musicae veteris (libro I, p. 49): “Le cose stanno ora a questo punto, che non si trova nessuno che stabilisca una legge severa che proibisca questo canto quasi effeminato e molle, che si è introdotto ovunque; nessuno che veda la necessità di imporre una disciplina a queste melodie affettate, prolisse e spesso aride; nessuno infine che non sia convinto che i giorni di festa solenni, e gli edifici sacri perderebbero celebrità e non sarebbero più frequentati se non rimbombassero per canti molli e spesso poco decorosi, e per la gran confusione di voci e di suoni in gara tra di loro“.

15. Abbiamo detto “se ve ne sia bisogno“, sapendo Noi molto bene che, nello Stato Ecclesiastico, vi sono alcune Città nelle quali vi è bisogno di riformare la musica delle Chiese; e vi sono invece altre Città che non hanno questo bisogno. – Temiamo però, e ne siamo vivamente preoccupati, che in alcune Città, le Chiese e i sacri Altari abbiano bisogno di una necessaria pulizia e del necessario addobbo. In molte Chiese cattedrali e collegiate il canto corale avrà bisogno di essere riformato, e bene, secondo le regole che Noi abbiamo più sopra date. -Se nella Sua Diocesi è necessario, bisogna che Ella metta tutta la diligenza e sollecitudine possibili, per correggere tali abusi. – Volesse il Cielo che in tutte le Diocesi del Nostro Stato i Sacerdoti celebrassero il sacrosanto Sacrifizio della Messa con quel devoto estrinseco decoro, che è dovuto! Che ogni Sacerdote si presentasse in pubblico vestito con l’abito da prete; e, nel decente vestito del corpo, anche con quei modi di fare, con quella modestia e con tutto quel decoro proprio di un Ecclesiastico! – Su questo argomento Noi non aggiungeremo qui altro, avendone già trattato diffusamente nella Nostra Notificazione XIV (§ 4 e 6, libro 2 edizione italiana, che è la XXXIV nella edizione latina), e nella Notificazione IV (tomo 4, edizione italiana, che è la LXXI nella edizione latina): ad esse rimandiamo quanti sono solleciti della disciplina Ecclesiastica. – Terminiamo spronando il Suo zelo sacerdotale ricordandole che non vi è cosa che si manifesti di più agli uomini se le Chiese sono mal guidate e mal governate dai Vescovi, quanto il vedere i Sacerdoti celebrare le sacre funzioni facendo male od omettendo le cerimonie Ecclesiastiche, portando vestiti indecenti, o non adatti assolutamente alla sacerdotale dignità, eseguendo ogni cosa con precipitazione e negligenza. – Queste cose cadono sotto gli sguardi di tutti, si offrono al giudizio sia degli abitanti del luogo come a quello dei forestieri. Scandalizzano specialmente coloro che provengono da regioni dove i Sacerdoti portano abiti convenienti, e celebrano la Messa con la dovuta devozione. – Il pio e dotto Cardinale Bellarmino, non senza lacrime si lamentava: “È pure causa di grande pianto che i sacrosanti Misteri siano trattati in modo così indecoroso, per l’incuria e l’empietà di alcuni Sacerdoti. Costoro che così fanno dimostrano di non credere che la Maestà del Signore è presente. Così alcuni celebrano Messa senza spirito, senza affetto, senza timore e tremore, con una precipitazione incredibile! Agiscono come se non credessero alla presenza di Cristo Signore, e come se non credessero che Cristo Signore li vede. – Dopo alcune altre considerazioni, il Cardinale Bellarmino prosegue: “So che vi sono, nella Chiesa di Dio, molti ottimi e religiosissimi Sacerdoti, che celebrano i Divini Misteri con cuore puro, e con paramenti pulitissimi. Per questo tutti devono render grazie a Dio. Ma anche ve ne sono che muovono al pianto, e non sono pochi, il cui esteriore sordido manifesta le turpitudini e l’impurità della loro anima“. – Noi intanto L’abbracciamo, o Venerabile Fratello, nella carità di Cristo, ed impartiamo, di gran cuore, a Lei ed al Gregge alle Sue cure affidato, la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 19 febbraio 1749, anno nono del Nostro Pontificato.

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: DOCTOR MELLIFLUUS

Questa stupenda lettera Enciclica di S. S. Pio XII è interamente dedicata alla figura di uno dei più grandi Cattolici di ogni tempo: San Bernardo di Chiaravalle. Strenuo difensore della Santa Chiesa Cattolica e del ruolo essenziale del Santo Padre, ha portato immenso lustro alla teologia speculativa e pratica ed alla dottrina mariana. Certo è stato un gigante, specie se paragonato ai “nani” ed ai “buffoni” attuali che operano nel baraccone del modernismo postconciliare foriero di una totale apostasia, che dal confronto esce “nudo”, coperto dal lurido e consunto abito del nemico-ingannatore, con tanto di corna, zoccoli e coda caprina. Chiediamo tra lacrime ed invocazioni a Dio Trino: Padre, Figlio e Spirito Santo, di suscitare tanti nuovi San Bernardo, amanti della Chiesa, del Papa, e della Vergine Maria, per distruggere ed annientare la sinagoga infernale che occupa usurpandola la Santa Sede ed i palazzi sacri, perché possano questi tornare quanto prima sotto il dominio di Cristo, del suo Vicario, e dei credenti rimasti fedeli e senza deviazione alcuna alla dottrina del Salvatore ed alla sua “vera” Chiesa, unica arca di salvezza che conduce alla vita eterna.

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

DOCTOR MELLIFLUUS

NEL VIII CENTENARIO DELLA MORTE
DI SAN BERNARDO

Il dottore mellifluo «ultimo dei padri, ma non certo inferiore ai primi», si segnalò per tali doti di mente e di animo, cui Dio aggiunse abbondanza di doni celesti, da apparire dominatore sovrano nelle molteplici e troppo spesso turbolente vicende della sua epoca, per santità, saggezza e somma prudenza, consiglio nell’agire. Perciò grandi lodi gli vengono tributate non solo dai sommi pontefici e dagli scrittori della chiesa cattolica, ma non di rado persino dagli eretici. Il Nostro predecessore di f.m. Alessandro III, nell’atto di iscriverlo tra l’universale giubilo nell’albo dei santi, così scrisse con riverenza di lui: «Abbiamo rievocato alla nostra memoria la santa e venerabile vita di questo spirito eletto: come egli, sostenuto da una non comune prerogativa di grazia, non solo risplendesse per la sua vita pia e santa, ma anche irradiasse dappertutto nella chiesa di Dio la luce della sua fede e della sua dottrina. Quali frutti egli abbia recato nella casa di Dio con la sua parola e il suo esempio non c’è nessuno, si può dire, in tutta l’estensione della cristianità che lo ignori, avendo egli diffuso le istituzioni della nostra santa religione fino nelle terre straniere e barbare … e avendo revocato alla retta pratica della vita religiosa … una moltitudine infinita di peccatori». «Egli fu infatti – scrive C. Baronio – uomo davvero apostolico, anzi vero apostolo inviato da Dio, potente per l’opera e per la parola, che ha reso illustre in ogni dove e fra tutti il suo apostolato con i prodigi che lo accompagnavano, sì da doversi dire che nulla ebbe in meno dei grandi apostoli … ornamento e sostegno a un tempo di tutta la chiesa cattolica».  – A queste testimonianze di somma lode, cui altre senza numero si potrebbero aggiungere, si rivolge il Nostro pensiero, mentre si compiono otto secoli dal giorno in cui il restauratore e propagatore del sacro ordine cistercense piamente passò da questa vita mortale, che egli aveva illustrata con tanto lume di dottrina e fulgore di santità, alla suprema vita. Ci è cosa assai grata meditare e scrivere sui suoi grandi meriti in modo che, non solo i suoi seguaci, ma altresì tutti coloro che pongono il loro diletto in ciò che è vero, bello, santo, ne traggano incitamento a seguire i suoi preclari esempi di virtù. – La sua dottrina fu attinta quasi interamente dalle pagine della sacra Scrittura e dei santi Padri, che giorno e notte aveva tra mano e meditava a fondo; non già dalle sottili dispute dei dialettici e filosofi, che più di una volta mostra di stimar meno. Si noti però che egli non rigetta l’umana filosofia che sia genuina filosofia, che conduca cioè a Dio, alla vita onesta e alla cristiana sapienza; ma quella che con vuota verbosità e col fallace prestigio dei cavilli presume con temeraria audacia di assurgere alle cose divine e penetrare interamente i misteri divini, sì da violare – come spesso accadeva anche allora – l’integrità della fede e miseramente sdrucciolare nell’eresia. – «Vedi … – egli scrive – come [san Paolo apostolo [cf. 1Cor 8,2]] fa dipendere il frutto e l’utilità della scienza dal modo di sapere? Ma che vuol dire modo di sapere, se non che tu sappia con quale ordine, con quale animo, a qual fine, che cosa si debba sapere? Con quale ordine: anzitutto, ciò che è più opportuno per la salvezza; con quale animo: più appassionatamente ciò che più accende l’amore; a qual fine: non per vana gloria o per curiosità o per qualcosa di simile, ma solo per tua edificazione o del prossimo. Vi sono infatti alcuni che amano di sapere solo per sapere; ed è turpe curiosità. Altri che desiderano di conoscere perché essi stessi siano conosciuti; ed è turpe vanità. Ci sono alcuni che desiderano di sapere per vendere la loro scienza, ad esempio, per denaro, per gli onori; ed è turpe mercimonio. Ma ci sono anche di quelli che vogliono sapere per edificare; ed è carità. Ci sono poi coloro che desiderano sapere per esser edificati; ed è prudenza». – Qual sia la dottrina, o meglio la sapienza che egli segue ed intensamente ama, felicemente esprime con queste parole: «C’è lo spirito di sapienza e d’intelletto, il quale come un’ape che reca cera e miele, ben ha donde accendere il lume della scienza e infondere il sapore della grazia. Non speri dunque di ricevere il bacio, né colui che afferra la verità ma non ama, né colui che ama, ma non comprende». – «Che cosa produrrebbe la scienza senza l’amore? Gonfierebbe. Che cosa l’amore senza la scienza? Errerebbe». – «Risplendere soltanto è vano; ardere soltanto è poco; ardere e risplendere è perfetto». – Da dove abbia origine la vera e genuina dottrina e come debba essere congiunta con la carità, egli spiega con queste parole: «Dio è sapienza, e vuol essere amato non solo dolcemente, ma anche sapientemente. … Altrimenti assai facilmente lo spirito dell’errore si farà giuoco del tuo zelo, se trascurerai la scienza; e l’astuto nemico non ha strumento più efficace per strappar dal cuore l’amore, che se riesce a far sì che si cammini in esso incautamente e non sotto la guida della ragione». – Da queste parole appare ben chiaro che Bernardo con lo studio e la contemplazione ha unicamente inteso di dirigere, stimolato dall’amore più che dalla sottigliezza delle opinioni umane, verso il Sommo Vero i raggi di verità da qualsiasi parte raccolti; da lui impetrando la luce alle menti, la fiamma della carità agli animi, le rette norme per la condotta morale. È questa la vera sapienza, che supera ogni umana realtà e tutto riconduce alla propria fonte, cioè a Dio, per convertire a lui gli uomini. Il dottore mellifluo, dunque, non si fonda sull’acutezza del suo ingegno per procedere con piede di piombo fra gli incerti e malsicuri anfratti del ragionamento, non si fonda sugli artificiosi e ingegnosi sillogismi, di cui tanto abusavano sovente al suo tempo i dialettici; ma come aquila, con lo sguardo fisso al sole, con rapidissimo volo mira al vertice della verità. Infatti, quella carità che lo stimolava non conosce impedimenti e mette ali, per così dire, all’intelligenza. A lui, insomma, la dottrina non è ultima meta, ma è piuttosto via che conduce a Dio; non è cosa fredda, in cui vanamente indugi l’animo, come gingillandosi affascinato da fulgori evanescenti, ma dall’amore è mosso, stimolato, governato. Perciò Bernardo, sostenuto da tale sapienza, meditando, contemplando e amando si eleva alle supreme vette della scienza mistica e si congiunge con Dio stesso, quasi fruendo già in questa vita mortale della beatitudine infinita. – Il suo stile poi, vivace, fiorito, abbondante e sentenzioso, è così dolce e soave da attirare l’animo del lettore, dilettarlo, elevarlo alle cose di lassù; da eccitare, alimentare, dirigere la pietà; da indurre infine l’animo a perseguire quei beni che non sono caduchi e passeggeri, ma veri, certi, eterni. Perciò i suoi scritti furono sempre in grande onore; da essi la chiesa stessa ha tratte non poche pagine celestiali e calde di pietà per la sacra liturgia. – Sembrano quasi vivificate dal soffio dello Spirito Santo e vivide di tal luce, che mai può estinguersi nel corso dei secoli, perché nasce dall’animo di colui che scrive, assetato di verità e carità, e desideroso di nutrirne gli altri conformandoli a propria immagine. – Ci piace, venerabili fratelli, riferire circa questa mistica dottrina dai suoi libri, a comune utilità, alcune bellissime sentenze: «Abbiamo insegnato che ogni anima, benché piena di peccati, irretita nei vizi, schiava delle passioni, prigioniera dell’esilio, incarcerata nel corpo, benché, dico, a tal punto condannata e priva di speranza; abbiamo insegnato che essa tuttavia può scorgere in sé tanto, da poter non solo dilatare l’animo alla speranza del perdono, della misericordia, ma perfino da osar aspirare alle nozze del Verbo, da non temere di stringere patto d’alleanza con Dio, da non dubitare di stringere soave giogo d’amore con il Re degli angeli: Che cosa non può osare con sicurezza presso Colui di cui essa scorge in sé la nobile immagine, conosce la splendida somiglianza?». – «Tale conformità marita l’anima col Verbo, poiché così essa si rende simile per mezzo della volontà a Colui cui è simile per natura e Lo ama come ne è amata. Se dunque ama perfettamente; ha contratto le nozze. Che cosa vi è di più giocondo di tale conformità? Qual cosa più desiderabile di quella carità da cui proviene che tu, o anima, non contenta degli insegnamenti degli uomini, da te stessa con fiducia ti avvicini al Verbo, sia sempre unita al Verbo, interroghi familiarmente il Verbo e lo consulti su ogni cosa, fatta tanto capace di comprendere, quanto sei audace nel desiderio? È questo veramente un contratto di connubio spirituale e santo. Ho detto poco, contratto: è un amplesso. Amplesso, in verità, in cui volere e non volere le stesse cose fa di due uno spirito solo. E non c’è da temere che la disparità delle persone renda in qualche modo imperfetto l’accordo delle volontà, perché l’amore non sente soggezione reverenziale. Infatti amore viene da amare, non da riverire. … L’amore abbonda nel proprio senso, l’amore quando giunge assimila e sottomette tutte le altre affezioni. Perciò chi ama, ama ed altro non sa». – Dopo aver notato che Dio vuole dagli uomini esser amato, ancor più che temuto e onorato, aggiunge queste acute e sottili osservazioni: «Esso (l’amore) basta da sé, piace in sé e per sé. Esso è merito, è premio a se stesso. L’amore non ricerca motivo, non frutto fuori di sé. Il suo frutto è l’uso di sé. Amo perché amo; amo per amore. Grande cosa è l’amore, purché ricorra al suo principio, ritorni alla sua origine, rifluisca alla sua fonte, sempre vi attinga di che perennemente scorrere. È solo l’amore, fra tutti i moti, sentimenti e affetti dell’animo, quello in cui la creatura può, anche se non a parità, corrispondere al suo Autore, ovvero restituire vicendevolmente in cosa simile». – Poiché egli stesso ha sovente sperimentato nella contemplazione e nella preghiera questo divino amore che ci permette di congiungerci strettamente con Dio, dal suo animo prorompono queste parole infocate: «O felice (anima), resa degna di esser prevenuta con la benedizione di tanta dolcezza! Felice, poiché le è stato dato di sperimentare un abbraccio così beatificante! Ciò non è altro che amore santo e casto, soave e dolce; amore tanto sereno, quanto sincero; amore scambievole, intimo e forte, che congiunge due non in una sola carne, ma in un solo spirito, fa sì che due non sian più due, ma uno solo, come dice Paolo (cf.1 Cor 6,17): “Chi aderisce a Dio, è un solo spirito con Lui”». – Questa sublime dottrina mistica del Dottore di Chiaravalle, che supera e può saziare ogni umano desiderio, sembra al giorno d’oggi talora negletta, o messa da parte, o dimenticata da molti; costoro, presi dalle sollecitudini e dalle faccende quotidiane, non cercano e desiderano altro se non ciò che è utile e redditizio per questa vita mortale; e quasi mai elevano l’occhio e la mente al cielo; quasi mai aspirano alle cose di lassù, ai beni non perituri. – Eppure, anche se non tutti possono attingere le vette di tale contemplazione divina, di cui Bernardo discorre con sublimi pensieri e parole, anche se non tutti possono congiungersi così intimamente con Dio, da sentirsi uniti col Sommo Bene con i vincoli come di un arcano celeste connubio; tutti possono e debbono però elevare di tanto in tanto l’animo da queste cose terrene alle celesti e amare con attiva volontà il Supremo Datore di ogni bene. – Pertanto, mentre oggi in molti animi l’amore verso Dio o insensibilmente si raffredda, o anche non raramente si spegne del tutto, stimiamo che siano da meditarsi attentamente questi scritti del dottore mellifluo; dalla loro dottrina, che del resto scaturisce dal Vangelo, tanto nella vita privata di ciascuno, quanto nell’umano civile consorzio può diffondersi una nuova soprannaturale energia che regga il pubblico costume, lo renda conforme ai precetti della morale cristiana e possa in tal modo offrire gli opportuni rimedi ai tanti e così gravi mali che turbano e travagliano la società. Quando infatti gli uomini non amano come si deve il loro Creatore, donde viene tutto ciò che essi hanno, allora non si amano neppure tra loro; anzi – come troppo spesso accade – nell’odio e nella contesa si separano vicendevolmente con asprezza si avversano. Dio è padre amorosissimo di noi tutti; noi siamo fratelli in Cristo, che egli ha redento versando il suo sacro sangue. Ogni qualvolta, dunque, non riamiamo quel Dio che ci ama e non riconosciamo con riverenza la sua divina paternità, anche i vincoli dell’amore fraterno sono disgraziatamente lacerati; e sventuratamente spuntano fuori – come purtroppo talora si vede – le discordie, le contese, le inimicizie; e queste possono arrivare a tal punto da sconvolgere e scalzare i fondamenti stessi dell’umana convivenza. – È dunque necessario restituire a tutti gli animi questa divina carità che infiammò così ardentemente il Dottore di Chiaravalle, se vogliamo che i costumi cristiani rifioriscano dappertutto, che la religione cattolica possa efficacemente compiere la sua missione e che, sedati i dissidi e restaurato l’ordine nella giustizia e nell’equità, al genere umano affaticato e travagliato rifulga serena la pace. – Di questa carità, per mezzo della quale dobbiamo sempre e con gran fervore essere uniti con Dio, siano infiammati in primo luogo coloro che hanno abbracciato l’ordine del dottore mellifluo, e parimenti tutti i sacerdoti ai quali spetta particolarmente l’obbligo di esortare ed eccitare gli altri a riaccendere il divino amore. Di questo divino amore – come abbiamo detto – se altre volte nel passato, in questi nostri tempi hanno immenso bisogno i cittadini, la domestica convivenza, l’umanità intera. Se esso arde e porta gli animi a Dio, fine ultimo dei mortali, si corroborano le altre virtù; se invece si affievolisce o si estingue, anche la tranquillità, la pace, la gioia e tutti gli altri veri beni a poco a poco si affievoliscono o si estinguono del tutto, come quelli che vengono da colui che «è carità» (1Gv 4,8). – Di questa divina carità nessuno forse ha parlato così bene, con tanta profondità, con tanta forza come Bernardo. «Il motivo per amare Dio, è Dio stesso; la misura, amarlo senza misura». – «Dove c’è amore, non c’è fatica, ma gusto». –  Egli stesso confessa di averlo sperimentato, quando scrive: «O amore santo e casto! O dolce e soave affetto, tanto più soave e dolce, perché è tutto divino il sentimento che se ne prova. Sperimentarlo è divinizzarsi». –  E altrove: «È cosa buona per me, o Signore, piuttosto stringermi a te nella tribolazione, averti con me nella fornace, che essere senza di te fosse pure in cielo». – Quando poi è giunto a quella somma e perfetta carità che lo unisce in intimo connubio con Dio stesso, gode di tanta gioia, di tanta pace, da non potervene essere di più grande: «O luogo della vera quiete, in cui non si vede Dio come turbato da ira o occupato in sollecitudini, ma si sperimenta in lui la sua volontà buona, benevola e perfetta! Questa visione non spaventa, ma accarezza; non eccita inquieta curiosità, ma mette in calma; non stanca i sensi, ma dà pace. Ivi veramente si riposa. Dio tranquillo dà tranquillità in tutto; vederlo pacifico è stare in pace». – Questa perfetta quiete non è già morte dell’animo, ma vera vita: «Tale sopore vitale e vigilante illumina piuttosto il senso interiore e, scacciata la morte, dona la vita eterna. È veramente un sonno, che per altro non assopisce, ma è evasione. È anche morte – non temo di dirlo – poiché l’apostolo elogiando alcuni ancor vivi nella carne, dice così (Col 3,3]: “Siete morti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio”». – Questa perfetta quiete dell’animo, di cui godiamo nel riamare Dio che ci ama, e fa sì che a lui volgiamo e dirigiamo noi e ogni nostra cosa, non ci porta alla pigrizia, non all’ignavia, non all’inerzia, ma ad un’alacre, solerte, operosa diligenza, con la quale cerchiamo di procurare, con l’aiuto di Dio, la nostra salvezza e anche quella degli altri. Infatti, tale sublime meditazione e contemplazione, incitata e stimolata dall’amore divino, «governa gli affetti, dirige le azioni, corregge gli eccessi, regola i costumi, adorna la vita e vi fa regnare l’ordine, dona infine la scienza delle cose divine e umane. È essa che distingue ciò che è confuso, unisce ciò che è diviso, raccoglie ciò che è disperso, investiga ciò che è nascosto, ricerca il vero, pondera ciò che è verosimile, scopre la finzione e l’artificio. Essa preordina ciò che è da farsi, riflette su ciò che è stato fatto, di modo che nulla rimanga nell’animo di poco corretto o bisognoso di correzione. Nella prosperità essa presente l’avversità, nelle avversità quasi non le sente; l’una è fortezza, l’altra prudenza». – E infatti, benché aneli a restar immerso in sì alta meditazione e soave contemplazione, alimentata dal divino spirito, tuttavia il dottore mellifluo non rimane chiuso tra le pareti della sua cella, che pur «custodita è dolce», ma dovunque sia in questione la causa di Dio e della chiesa, è subito presente col consiglio, con la parola, con l’azione. Asseriva infatti che non «deve ognuno vivere per sé, ma per tutti». –  Di se stesso, poi, e dei suoi così scriveva: «In tal modo anche ai nostri fratelli tra cui viviamo, siamo debitori, per diritto di fraternità e umano consorzio, di consiglio e di aiuto». – Quando con dolore vedeva minacciata o perseguitata la nostra santa Religione, non risparmiava fatiche, non viaggi, non premure per difenderla strenuamente e porgerle aiuto secondo le sue possibilità. «Nulla mi è estraneo – diceva – di ciò che si riveli interesse di Dio». –  E al re Ludovico di Francia scrive queste coraggiose parole: «Noi figli della Chiesa, non possiamo in alcun modo dissimulare le ingiurie recate alla nostra Madre, il disprezzo verso di lei, i suoi diritti conculcati… Per certo staremo saldi e combatteremo fino alla morte, se sarà necessario, per la nostra madre, con le armi che ci si addicono; non con gli scudi e le spade, ma con le preghiere e le lacrime al cospetto di Dio». A Pietro, abate di Cluny: «Mi glorio nelle mie tribolazioni, se sono stato ritenuto degno di soffrirne alcuna per la Chiesa. Questa è la mia gloria che esalta il mio capo, il trionfo della Chiesa. Se infatti siamo stati compagni nella fatica, lo saremo anche nella consolazione. È stato doveroso collaborare con la nostra Madre, unirci alla sua passione …». – Quando poi il corpo mistico di Gesù Cristo fu conturbato da scisma così grave che anche i buoni rimanevano dubbiosi tra le due parti, egli si consacrò interamente per comporre i dissidi e per la felice riconciliazione e unione degli animi. Poiché i prìncipi, per ambizione di dominio terreno, erano separati da spaventose discordie, dalle quali potevano derivare gravi danni per i popoli, egli si fece artefice di pace e riconciliatore per una mutua concordia. Infine, poiché i luoghi santi della Palestina consacrati al divino Redentore col proprio sangue erano in gravissima condizione ed esposti all’ostile pressione di eserciti stranieri, per mandato del Sommo Pontefice incoraggiò con alte parole e più alta carità i prìncipi e i popoli cristiani ad una nuova crociata; se questa non sortì felice esito, non fu certo per sua colpa. – Trovandosi poi soprattutto esposta a gravissimi pericoli l’integrità, trasmessa dagli avi quale sacra eredità, della fede cattolica e dei costumi, per opera soprattutto di Abelardo, di Arnaldo da Brescia e di Gilberto della Porretta, egli, sia con la pubblicazione di scritti colmi di dottrina, sia con faticosi viaggi, tentò, sorretto dalla divina grazia, tutto ciò che gli fu possibile, per debellare e far condannare gli errori, e perché gli erranti, per quanto era in suo potere, ritornassero sulla retta via e a miglior consiglio. – Egli, consapevole che in questa cosa non importava tanto la sapienza dei dottori, quanto l’autorità soprattutto del romano pontefice, si diede cura d’interporre tale autorità, da lui riconosciuta, nel dirimere tali questioni, come suprema e del tutto infallibile. Pertanto al Nostro predecessore di f.m. Eugenio III, già suo discepolo, scrive queste parole, che rivelano il suo amore e la profonda riverenza verso di lui, unita con quella libertà d’animo che si addice ai santi: «L’amore non conosce il padrone, conosce il figlio anche sotto la tiara. … Ti ammonirò dunque non come maestro, ma come madre; certamente come uno che ti vuol bene». Lo interpella in seguito con queste ardenti parole: «Chi sei? Il gran sacerdote, il Sommo Pontefice. Tu sei il principe dei vescovi, l’erede degli apostoli … Pietro per potestà, per unzione Cristo. Sei colui al quale sono state consegnate le chiavi, affidate le pecorelle. Vi sono anche altri portinai del Cielo e pastori di greggi; ma tu sei tanto più glorioso, quanto più grande è la differenza con cui hai ereditato al disopra degli altri entrambi questi nomi. Quelli hanno assegnati i loro greggi, a ciascuno il proprio: a te sono stati affidati tutti, a te solo nell’unità. E non soltanto tu sei pastore dei greggi, ma unico pastore di tutti i pastori». E ancora: «Deve uscir al di fuori di questo mondo chi volesse ricercare ciò che non appartiene alla tua cura». – Riconosce poi apertamente e pienamente l’infallibilità del magistero del romano pontefice, per quanto riguarda la fede e i costumi. Infatti, quando combatte gli errori di Abelardo, il quale «allorché parla della Trinità, risente di Ario; quando della grazia, sa di Pelagio; quando della persona di Cristo, sa di Nestorio»; «egli che pone dei gradi nella Trinità, delle modalità nella maestà, successione numerica nell’eternità»; e in lui «l’umana ragione usurpa tutto per sé e nulla lascia alla fede»; egli non discute le sottili, contorte e ingannevoli fallacie e cavilli, li dissolve e li confuta, ma scrive altresì al Nostro predecessore d’immortale memoria Innocenzo II per simile motivo queste gravi parole: «Occorre riferire alla vostra autorità apostolica ogni pericolo… quelli soprattutto che riguardano la fede. Penso esser giusto che ivi soprattutto si riparino i danni della fede, dove la fede non può venir meno. E questa è la prerogativa di tale sede… È tempo, Padre amatissimo, che voi riconosciate la vostra potestà… In questo fate veramente le veci di Pietro, del quale occupate la sede, se con i vostri moniti confermate gli animi incerti nella fede, se con la vostra autorità sterminate i corruttori della fede». – Ma da dove questo umile monaco, quasi senza alcun mezzo umano, abbia potuto attingere la forza per vincere anche le più ardue difficoltà, per risolvere intricatissimi problemi e dirimere le questioni più imbarazzanti, solamente si può capire se si pensa all’esimia santità di vita che lo adornava, congiunta con un grande amore della verità. Era infiammato soprattutto, come abbiamo detto, della più accesa carità verso Dio e verso il prossimo, che è, come ben sapete, venerabili fratelli, il principale precetto e quasi il compendio di tutto il Vangelo; di modo che non solo era sempre misticamente unito col Padre celeste, ma ancora niente più desiderava che guadagnare gli uomini a Cristo, sostenere i sacrosanti diritti della Chiesa e difendere con invitto coraggio l’integrità della Fede Cattolica. -In mezzo ai tanti favori e alla stima di cui godeva presso i Sommi Pontefici, presso i prìncipi e presso i popoli, non si insuperbiva, non andava in cerca della mutevole e vana gloria umana, ma risplendeva in lui sempre quella cristiana umiltà che «raccoglie le altre virtù … dopo averle raccolte le custodisce … e conservandole le perfeziona»; sicché «non sembrano nemmeno virtù … senza di quella». – Perciò non agitarono la sua anima gli onori che gli furono offerti, e il suo piede non fu mosso per dirigersi verso la gloria; e non lo attirava «più la tiara o il sacro anello, che il rastrello e il sarchio». – Mentre poi si sobbarcava a tali e tante fatiche per la gloria di Dio e l’incremento del nome cristiano, si professava «inutile servo dei servi di Dio», «vile vermiciattolo», «albero sterile», «peccatore, cenere …». – Alimentava quest’umiltà cristiana e le altre virtù con l’assidua contemplazione delle realtà celesti; le alimentava con le infiammate preci rivolte a Dio, con le quali attirava la grazia celeste su di sé e sulle opere da lui intraprese. – In modo specialissimo era preso da così ardente amore per Gesù Cristo, divino redentore, che sotto la sua mozione e il suo stimolo scriveva pagine bellissime e nobilissime, che ancor oggi destano l’ammirazione universale e infiammano la pietà del lettore. «Quale altra cosa arricchisce l’anima che vi medita sopra … irrobustisce le virtù, fa fiorire i buoni e onesti costumi, suscita casti affetti? È arido ogni cibo dell’anima, se non vi si infonde questo olio; è insipido, se non è condito con questo sale. Se scrivi qualcosa, non lo gusto se non vi leggo Gesù. Se fai una disputa o un ragionamento, non mi piace se non vi risuona Gesù. Gesù è miele nella bocca, dolce concerto all’orecchio, giubilo al cuore. Ma è anche medicina. C’è tra voi qualcuno triste? Gesù scenda nel cuore, salga poi al labbro; ed ecco, alla luce di questo nome ogni nube si dissolve, torna il sereno. Qualcuno ha commesso una colpa? corre disperato al laccio di morte? Ma se invocherà questo nome di vita, non sentirà subito speranza di vita?… C’è qualcuno che, angustiato e trepido tra i pericoli, invocando questo nome di forza non senta subito la fiducia e fugato il timore?… Nulla meglio infrange l’impeto dell’ira, reprime il tumore della superbia, sana la ferita dell’invidia…». – A questo infiammato amore per Gesù Cristo si univa una tenerissima e soave devozione verso la sua eccelsa Madre, che egli, come propria amorosissima Madre, ricambiava di amore nutrendo per lei un culto profondo. Aveva tanta fiducia nel suo potente patrocinio, da usare queste espressioni: «Dio ha voluto che noi nulla ottenessimo, che non passi per le mani di Maria». Così pure: «Tale è la volontà di Colui, che ha voluto che noi avessimo tutto per mezzo di Maria». – A questo punto ci è grato, venerabili fratelli, proporre a tutti da meditare quella pagina che è forse la più bella per le lodi della santa vergine Madre di Dio, la più ardente, la più atta a suscitare in noi l’amore verso di lei, la più utile per infiammare la pietà e a imitare i suoi esempi di virtù: «… È detta Stella del mare e la denominazione ben si addice alla Vergine Madre. Ella con la massima convenienza è paragonata ad una stella; perché come la stella sprigiona il suo raggio senza corrompersi, così la Vergine partorisce il Figlio senza lesione della propria integrità. Il raggio non menoma alla stella la sua chiarità, né il Figlio alla Vergine la sua integrità. Ella è dunque quella nobile stella nata da Giacobbe, il cui raggio illumina tutto il mondo, il cui splendore rifulge in cielo e penetra gli inferi… Ella è, dico, la preclara ed esimia stella, che è necessariamente al di sopra di questo grande e spazioso mare, fulgente di meriti, chiara dei suoi esempi. O tu, chiunque sia, che ti avvedi di essere in balìa dei flutti di questo mondo, tra le procelle e le tempeste, invece di camminare sulla terra, non distogliere gli occhi dal fulgore di questa stella, se non vuoi essere travolto dalle tempeste. Se insorgono i venti delle tentazioni, se incappi negli scogli delle tribolazioni, guarda la stella, invoca Maria. Se sei sballottato dalle onde della superbia, della detrazione, dell’invidia: guarda la stella, invoca Maria. Se l’ira, o l’avarizia, o l’allettamento della carne scuotono la navicella dell’anima: guarda a Maria. Se tu, conturbato per l’enormità del peccato, pieno di confusione per la laidezza della coscienza, intimorito per il tenore del giudizio, incominci ad essere inghiottito dall’abisso della tristezza, dalla voragine della disperazione: pensa a Maria. Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. Ella non si parta mai dal tuo labbro, non si parta mai dal tuo cuore; e perché tu abbia ad ottenere l’aiuto della sua preghiera, non dimenticare mai l’esempio della sua vita. Se tu la segui, non puoi deviare; se tu la preghi, non puoi disperare; se tu pensi a lei, non puoi sbagliare. Se ella ti sorregge, non cadi; se ella ti protegge, non hai da temere; se ella ti guida, non ti stanchi; se ella ti è propizia, giungerai alla meta…». – Ci sembra che meglio Noi non potremmo terminare questa lettera enciclica, che invitandovi tutti con le parole del dottore mellifluo ad accrescere ogni giorno più la devozione verso l’alta Madre di Dio, e parimenti a imitare col più grande impegno le sue eccelse virtù, ciascuno secondo le peculiari condizioni della propria vita. Se nel secolo XII gravi pericoli minacciavano la chiesa e l’umanità, altri non meno gravi, senza dubbio, minacciano la nostra età. La fede cattolica, che dà all’uomo le più grandi consolazioni, non di rado è indebolita negli animi, e perfino in alcuni paesi e nazioni è aspramente combattuta in pubblico. E quando la religione cristiana è negletta e combattuta dai suoi nemici, si vede purtroppo che i costumi privati e pubblici tralignano dalla retta via e anche talora attraverso i meandri dell’errore si scende infelicemente nel fondo dei vizi. – Al posto della carità, che è vincolo di perfezione, di concordia e di pace, si fanno strada gli odi, le contese, le discordie. Un che d’inquieto, d’angustioso e di trepido penetra nell’animo umano: c’è proprio da temere che, se la luce del Vangelo a poco a poco diminuisce e languisce in molti, o – peggio ancora – se viene respinta del tutto, verranno a crollare i fondamenti stessi della civiltà e della vita domestica; e in tal modo verranno tempi anche peggiori e più infelici. – Come, dunque, il dottore di Chiaravalle chiese l’aiuto della vergine Madre di Dio Maria e lo ebbe per l’età sua turbolenta, così noi tutti, con la medesima costante pietà e preghiera dobbiamo ottenere dalla divina madre nostra che a questi gravi mali, sovrastanti o temuti, essa impetri da Dio gli opportuni rimedi; e benigna e potente conceda che, con l’aiuto divino, arrida finalmente una sincera, solida e fruttuosa pace alla chiesa, ai popoli, alle nazioni. – Siano questi i pingui e salutari frutti, mercè la protezione di Bernardo, delle celebrazioni centenarie della sua pia morte; tutti si uniscano a Noi in queste preci e suppliche, e ad un tempo, osservando e meditando gli esempi del dottore mellifluo, si sforzino di seguire volenterosamente e con zelo le sue sante tracce. – Di questi salutari frutti sia propiziatrice l’apostolica benedizione che a voi, venerabili fratelli, ai vostri greggi e particolarmente a coloro che appartengono all’istituto di san Bernardo, impartiamo con effusione di cuore.

Roma, presso San Pietro, nella festa di pentecoste, il 24 maggio 1953, anno XV del Nostro pontificato.

 

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI APOSTATI DI TORNO: AD CÆLI REGINAM

Benché questa lettera enciclica di S. S. Pio XII sia stata scritta per istituire la festa di Maria Regina, pure vogliamo proporla in vista della grandiosa festività dell’Assunta in cielo, dogma di fede promulgato dallo stesso Sommo Pontefice. In realtà le due feste sono intimamente collegate e compongono una inscindibile unità devozionale, così evidente tra l’altro nei Misteri Gloriosi del Santo Rosario. È alla Vergine Maria che devono rivolgersi i pochi residui Cattolici attuali, il “piccolo gregge” unito al Santo Padre in esilio, per affrontare questi infausti tempi di apostasia in cui la sinagoga di satana si è rivestita come “angelo di luce” e, tragica parodia della Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica ed Apostolica, sta sprofondando una infinità di anime la dove “ci sarà pianto e stridor di denti”. Affidiamoci dunque con gioia, riconoscenza e gratitudine alla Madre nostra e Regina dell’universo, la Quale ci ricorda che proprio in tali circostanze, profetizzate evangelicamente da millenni, il Figlio suo rivolge a noi, come all’epoca ai suoi Apostoli, l’incoraggiamento: “… confidite, ego vici mundum!”, e ci sostiene con la certezza della biblica parola divina: “ … et IPSA conteret caput tuum”. Prepariamoci alla straordinaria Festa della nostra Madre e Regina meditando questa enciclica breve, ma densissima dello spirito mariano del Papa di Fatima!

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

AD CÆLI REGINAM

“DIGNITÀ REGALE DELLA SANTA VERGINE MARIA”

Fin dai primi secoli della Chiesa Cattolica il popolo cristiano ha elevato supplici preghiere e inni di lode e di devozione alla Regina del cielo, sia nelle circostanze liete, sia, e molto più, nei periodi di gravi angustie e pericoli; né vennero meno le speranze riposte nella Madre del Re divino, Gesù Cristo, mai s’illanguidì la fede, dalla quale abbiamo imparato che la Vergine Maria, Madre di Dio, presiede all’universo con cuore materno, come è coronata di gloria nella beatitudine celeste. – Ora, dopo le grandi rovine che, anche sotto i Nostri occhi, hanno distrutto fiorenti città, paesi e villaggi; davanti al doloroso spettacolo di tali e tanti mali morali, che si avanzano paurosamente in limacciose ondate, mentre vediamo scalzare le basi stesse della giustizia e trionfare la corruzione, in questo incerto e spaventoso stato di cose, Noi siamo presi da sommo dispiacere e perciò ricorriamo fiduciosi alla Nostra Regina Maria, mettendo ai piedi di Lei, insieme col Nostro, i sentimenti di devozione di tutti i fedeli, che si gloriano del nome di cristiani. – È gradito e utile ricordare che Noi stessi, il 1° novembre dell’anno santo 1950, abbiamo decretato, dinanzi a una grande moltitudine di em.mi cardinali, di venerandi vescovi, di sacerdoti e di cristiani, venuti da ogni parte del mondo, il dogma dell’assunzione della beatissima vergine Maria in cielo, dove, presente in anima e corpo, regna tra i cori degli angeli e dei santi, insieme al suo unigenito Figlio. Inoltre, ricorrendo il centenario della definizione dogmatica fatta dal Nostro predecessore, Pio IX, di imm. mem., sulla Madre di Dio concepita senza alcuna macchia di peccato originale, abbiamo indetto l’anno mariano, nel quale con gran gioia vediamo che non solo in questa alma città – specialmente nella Basilica Liberiana, dove innumerevoli folle continuano a professare apertamente la loro fede e il loro ardente amore alla Madre celeste – ma anche in tutte le parti del mondo la devozione verso la Vergine, Madre di Dio, rifiorisce sempre più; mentre i principali santuari di Maria hanno accolto e accolgono ancora pellegrinaggi imponenti di fedeli devoti. – Tutti poi sanno che Noi, ogni qualvolta Ce n’è stata offerta la possibilità, cioè quando abbiamo potuto rivolgere la parola ai Nostri figli, venuti a trovarci, e quando abbiamo indirizzato messaggi anche ai popoli lontani per mezzo delle onde radiofoniche, non abbiamo cessato di esortare tutti coloro, ai quali abbiamo potuto rivolgerCi, ad amare la nostra benignissima e potentissima Madre di un amore tenero e vivo, come conviene a figli. In proposito, ricordiamo particolarmente il radiomessaggio, che abbiamo indirizzato al popolo portoghese, nell’incoronazione della taumaturga Madonna di Fatima, da Noi stessi chiamato radiomessaggio della «regalità» di Maria. – Pertanto, quasi a coronamento di tutte queste testimonianze della Nostra pietà mariana, cui il popolo cristiano ha risposto con tanta passione, per concludere utilmente e felicemente l’anno mariano che volge al termine e per venire incontro alle insistenti richieste, che Ci sono pervenute da ogni parte, abbiamo stabilito di istituire la festa liturgica della «beata Maria vergine regina». – Non si tratta certo di una nuova verità proposta al popolo cristiano, perché il fondamento e le ragioni della dignità regale di Maria, abbondantemente espresse in ogni età, si trovano nei documenti antichi della chiesa e nei libri della sacra liturgia. – Ora vogliamo richiamarle nella presente enciclica per rinnovare le lodi della nostra Madre celeste e per renderne più viva la devozione nelle anime, con vantaggio spirituale.

I

Il popolo cristiano ha sempre creduto a ragione, anche nei secoli passati, che colei, dalla quale nacque il Figlio dell’Altissimo, che «regnerà eternamente nella casa di Giacobbe» (Lc 1, 32), (sarà) «Principe della pace» (Is 9, 6), «Re dei re e Signore dei signori» (Ap XIX, 16), al di sopra di tutte le altre creature di Dio ricevette singolarissimi privilegi di grazia. Considerando poi gli intimi legami che uniscono la madre al figlio, attribuì facilmente alla Madre di Dio una regale preminenza su tutte le cose. – Si comprende quindi facilmente come già gli antichi scrittori della chiesa, avvalendosi delle parole dell’arcangelo san Gabriele, che predisse il regno eterno del Figlio di Maria (cf. Lc 1, 32-33), e di quelle di Elisabetta, che s’inchinò davanti a lei, chiamandola «madre del mio Signore» (Lc 1, 43), abbiano, denominando Maria «madre del Re» e «madre del Signore», voluto significare che dalla regalità del Figlio dovesse derivare alla Madre una certa elevatezza e preminenza. – Pertanto sant’Efrem, con fervida ispirazione poetica, così fa parlare Maria: «Il cielo mi sorregga con il suo braccio, perché io sono più onorata di esso. Il cielo, infatti, fu soltanto tuo trono, non tua madre. Ora quanto è più da onorarsi e da venerarsi la madre del Re del suo trono!». E altrove così egli prega Maria: «… Vergine augusta e Padrona, Regina, Signora, proteggimi sotto le tue ali, custodiscimi, affinché non esulti contro di me satana, che semina rovine, né trionfi contro di me l’iniquo avversario». – San Gregorio di Nazianzo chiama Maria Madre del Re di tutto l’universo», «Madre vergine, [che] ha partorito il Re di tutto il mondo», mentre Prudenzio ci parla della Madre, che si meraviglia «di aver generato Dio come uomo sì, ma anche come sommo re». – La dignità regale di Maria è poi chiaramente asserita da coloro che la chiamano «Signora», «Dominatrice», «Regina». Secondo un’omelia attribuita a Origene, Elisabetta apostrofa Maria «Madre del mio Signore», e anche: «Tu sei la mia signora». – Lo stesso concetto si può dedurre da un testo di san Girolamo, nel quale espone il suo pensiero circa le varie interpretazioni del nome di Maria: «Si deve sapere che Maria, nella lingua siriaca, significa Signora». – Ugualmente si esprime, dopo di lui, san Pietro Crisologo: «Il nome ebraico Maria si traduce “Domina” in latino: l’angelo dunque la saluta “Signora” perché sia esente da timore servile la Madre del Dominatore; che per volontà del Figlio nasce e si chiama Signora». – Sant’Epifanio, vescovo di Costantinopoli, scrive al sommo pontefice Ormisda, che si deve implorare l’unità della Chiesa «per la grazia della santa e consostanziale Trinità e per l’intercessione della nostra santa Signora, gloriosa Vergine e Madre di Dio, Maria». – Un autore di questo stesso tempo si rivolge con solennità alla beata Vergine seduta alla destra di Dio, invocandone il patrocinio, con queste parole: «Signora dei mortali, santissima Madre di Dio». – Sant’Andrea di Creta attribuisce spesso la dignità regale alla Vergine; ne sono prova i seguenti passi: «(Gesù Cristo) portò in questo giorno come regina del genere umano dalla dimora terrena (ai cieli) la sua Madre sempre Vergine, nel cui seno, pur rimanendo Dio, prese l’umana carne». E altrove: «Regina di tutti gli uomini, perché fedele di fatto al significato del suo nome, eccettuato soltanto Dio, si trova al di sopra di tutte le cose». – San Germano poi così si rivolge all’umile Vergine: «Siedi, o signora: essendo tu regina e più eminente di tutti i re ti spetta sedere nel posto più alto»; e la chiama. «Signora di tutti coloro che abitano la terra». – San Giovanni Damasceno la proclama «Regina, Padrona, Signora» e anche «Signora di tutte le creature»; e un antico scrittore della Chiesa occidentale la chiama «Regina felice», «Regina eterna, presso il Figlio Re», della quale «il bianco capo è ornato di aurea corona». – Sant’Ildefonso di Toledo riassume tutti i titoli di onore in questo saluto: «O mia Signora, o mia Dominatrice: tu sei mia Signora, o Madre del mio Signore… Signora tra le ancelle, Regina tra le sorelle». – I teologi della Chiesa, raccogliendo l’insegnamento di queste e di molte altre testimonianze antiche, hanno chiamato la beatissima Vergine Regina di tutte le cose create, Regina del mondo; signora dell’universo. – I sommi Pastori della Chiesa non mancarono di approvare e incoraggiare la devozione del popolo cristiano verso la celeste Madre e Regina con esortazioni e lodi. Lasciando da parte i documenti dei Papi recenti, ricorderemo che già nel secolo settimo il Nostro predecessore san Martino I, chiamò Maria «Nostra Signora gloriosa, sempre Vergine»; sant’Agatone, nella lettera sinodale, inviata ai Padri del sesto Concilio ecumenico, la chiamò «Nostra Signora, veramente e propriamente Madre di Dio»; e nel secolo VIII, Gregorio II, in una lettera inviata al patriarca san Germano, letta tra le acclamazioni dei Padri del settimo Concilio ecumenico, proclamava Maria «Signora di tutti e vera Madre di Dio» e «Signora di tutti i cristiani». – Ricorderemo parimenti che il Nostro predecessore di immortale memoria Sisto IV, nella lettera apostolica Cum præexcelsa, in cui accenna con favore alla dottrina dell’Immacolata Concezione della beata Vergine, comincia proprio con le parole che dicono Maria «Regina, che sempre vigile intercede presso il Re, che ha generato». Parimenti Benedetto XIV, nella lettera apostolica Gloriosæ Dominæ, chiama Maria «Regina del cielo e della terra», affermando che il sommo Re ha, in qualche modo, affidato a lei il suo proprio impero. – Onde sant’Alfonso, tenendo presente tutta la tradizione dei secoli che lo hanno preceduto, poté scrivere con somma devozione: «Poiché la Vergine Maria fu esaltata ad essere la Madre del Re dei re, con giusta ragione la Chiesa l’onora col titolo di Regina».

II

La sacra liturgia, che è lo specchio fedele dell’insegnamento tramandato dai Padri e affidato al popolo cristiano, ha cantato nel corso dei secoli e canta continuamente sia in Oriente che in Occidente le glorie della celeste Regina. – Fervidi accenti risuonano dall’Oriente: «O Madre di Dio, oggi sei trasferita al cielo sui carri dei Cherubini, i Serafini si onorano di essere ai tuoi ordini, mentre le schiere dei celesti Eserciti si prostrano dinanzi a te». – E ancora: «O giusto, beatissimo (Giuseppe), per la tua origine regale sei stato fra tutti prescelto a essere lo sposo della Regina Immacolata, la quale darà alla luce in modo ineffabile il re Gesù». E inoltre: «Scioglierò un inno alla Madre Regina, alla quale mi rivolgo con gioia, per cantare lietamente le sue glorie. … O Signora, la nostra lingua non ti può celebrare degnamente, perché tu, che hai dato alla luce Cristo, nostro Re, sei stata esaltata al di sopra dei Serafini. … Salve, o Regina del mondo, salve, o Maria, Signora di tutti noi». – Nel «Messale» etiopico si legge: « O Maria, centro di tutto il mondo … tu sei più grande dei Cherubini pluriveggenti e dei Serafini dalle molte ali. … Il cielo e la terra sono ricolmi della santità della tua gloria». – Fa eco la liturgia della Chiesa latina con l’antica e dolcissima preghiera «Salve, Regina», le gioconde antifone «Ave, o Regina dei cieli», «Regina del cielo, rallégrati, alleluia» e altri testi, che si recitano in varie feste della Beata Vergine Maria: «Come Regina stette alla tua destra con un abito dorato, rivestita di vari ornamenti»; «La terra e il popolo cantano la tua potenza, o Regina»; «Oggi la Vergine Maria sale al cielo: godete, perché regna con Cristo in eterno». – A tali canti si devono aggiungere le Litanie lauretane, che richiamano i devoti a invocare ripetutamente Maria Regina; e nel quinto mistero glorioso del santo rosario, la mistica corona della celeste regina, i fedeli contemplano in pia meditazione già da molti secoli, il regno di Maria, che abbraccia il cielo e la terra. – Infine l’arte ispirata ai principi della fede cristiana e perciò fedele interprete della spontanea e schietta devozione popolare, fin dal Concilio di Efeso, è solita rappresentare Maria come Regina e Imperatrice, seduta in trono e ornata delle insegne regali, cinta il capo di corona e circondata dalle schiere degli Angeli e dei Santi, come Colei che domina non soltanto sulle forze della natura, ma anche sui malvagi assalti di satana. L’iconografia, anche per quel che riguarda la dignità regale della Beata Vergine Maria, si è arricchita in ogni secolo di opere di grandissimo valore artistico, arrivando fino a raffigurare il divin Redentore nell’atto di cingere il capo della Madre sua con fulgida corona. – I Pontefici Romani non hanno mancato di favorire questa devozione del popolo, decorando spesso di diadema, con le proprie mani o per mezzo di legati pontifici, le immagini della Vergine Madre di Dio, già distinte per singolare venerazione.

III

Come abbiamo sopra accennato, venerabili fratelli, l’argomento principale, su cui si fonda la dignità regale di Maria, già evidente nei testi della tradizione antica e nella sacra liturgia, è senza alcun dubbio la sua divina maternità. Nelle sacre Scritture infatti, del Figlio, che sarà partorito dalla Vergine, si afferma: «Sarà chiamato Figlio dell’Altissimo e il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre; e regnerà nella casa di Giacobbe eternamente e il suo regno non avrà fine» (Lc 1, 32-33); e inoltre Maria è proclamata «Madre del Signore» (Lc 1, 43). Ne segue logicamente che ella stessa è Regina, avendo dato la vita a un Figlio; che nel medesimo istante del concepimento, anche come uomo, era Re e Signore di tutte le cose, per l’unione ipostatica della natura umana col Verbo. San Giovanni Damasceno scrive dunque a buon diritto: «È veramente diventata la Signora di tutta la creazione, nel momento in cui divenne Madre del Creatore» e lo stesso arcangelo Gabriele può dirsi il primo araldo della dignità regale di Maria. – Tuttavia la beatissima Vergine si deve proclamare regina non soltanto per la maternità divina, ma anche per la parte singolare che, per volontà di Dio, ebbe nell’opera della nostra salvezza eterna. «Quale pensiero – scrive il Nostro predecessore di felice memoria Pio XI – potremmo avere più dolce e soave di questo, che Cristo è nostro Re non solo per diritto nativo, ma anche per diritto acquisito e cioè per la redenzione? Ripensino tutti gli uomini dimentichi quanto costammo al nostro Salvatore: “Non siete stati redenti con oro o argento, beni corruttibili, … ma col sangue prezioso di Cristo, agnello immacolato e incontaminato” (1 Pt 1;18-19). Non apparteniamo dunque a noi stessi, perché “Cristo a caro prezzo” (1 Cor VI, 20) ci ha comprati». – Ora nel compimento dell’opera di redenzione Maria santissima fu certo strettamente associata a Cristo, onde giustamente si canta nella sacra liturgia: «Santa Maria, regina del cielo e signora del mondo, affranta dal dolore, se ne stava in piedi presso la croce del Signore nostro Gesù Cristo». E un piissimo discepolo di sant’Anselmo poteva scrivere nel medioevo: «Come … Dio, creando tutte le cose nella sua potenza, è padre e signore di tutto, così Maria, riparando tutte le cose con i suoi meriti, è la Madre e la Signora di tutto: Dio è signore di tutte le cose, perché le ha costituite nella loro propria natura con il suo comando, e Maria è signora di tutte le cose, riportandole alla loro originale dignità con la grazia che ella meritò». Infatti: «Come Cristo per il titolo particolare della redenzione è nostro signore e nostro re, così anche la Vergine beata (è nostra Signora) per il singolare concorso prestato alla nostra redenzione, somministrando la sua sostanza e offrendola volontariamente per noi, desiderando, chiedendo e procurando in modo singolare la nostra salvezza». – Da queste premesse si può così argomentare: se Maria, nell’opera della salute spirituale, per volontà di Dio, fu associata a Cristo Gesù, principio di salvezza, e in maniera simile a quella con cui Eva fu associata ad Adamo, principio di morte, sicché si può affermare che la nostra redenzione si compì se­condo una certa «ricapitolazione», per cui il genere umano, assoggettato alla morte, per causa di una vergine, si salva anche per mezzo di una Vergine; se inoltre si può dire che questa gloriosissima Signora venne scelta a Madre di Cristo proprio «per essere a lui associata nella redenzione del genere umano» e se realmente «fu lei, che esente da ogni colpa personale o ereditaria, strettissimamente sempre unita al suo Figlio, lo ha offerto sul Golgota all’eterno Padre sacrificando insieme l’amore e i diritti materni, quale nuova Eva, per tutta la posterità di Adamo, macchiata dalla sua caduta miseranda»; se ne potrà legittimamente concludere che, come Cristo, il nuovo Adamo, è nostro Re non solo perché Figlio di Dio, ma anche perché nostro redentore, così, secondo una certa analogia, si può affermare parimenti che la beatissima Vergine è Regina, non solo perché Madre di Dio, ma anche perché quale nuova Eva è stata associata al nuovo Adamo. – È certo che in senso pieno, proprio e assoluto, soltanto Gesù Cristo, Dio e uomo, è Re; tuttavia, anche Maria, sia come Madre di Cristo Dio, sia come socia nell’opera del divin Redentore, e nella lotta con i nemici e nel trionfo ottenuto su tutti, ne partecipa la dignità regale, sia pure in maniera limitata e analogica. Infatti da questa unione con Cristo Re deriva a lei tale splendida sublimità, da superare l’eccellenza di tutte le cose create: da questa stessa unione con Cristo nasce quella regale potenza, per cui Ella può dispensare i tesori del regno del divin Redentore; infine dalla stessa unione con Cristo ha origine l’inesauribile efficacia della sua materna intercessione presso il Figlio e presso il Padre. – Nessun dubbio pertanto che Maria santissima sopravanzi in dignità tutta la creazione e abbia su tutti il primato, dopo il suo Figliuolo. «Tu infine – canta san Sofronio – hai di gran lunga sopravanzato ogni creatura. … Che cosa può esistere di più sublime di tale gioia, o Vergine Madre? Che cosa può esistere di più elevato di tale grazia, che per volontà divina tu sola hai avuto in sorte?». E va ancora più oltre nella lode san Germano: «La tua onorifica dignità ti pone al di sopra di tutta la creazione: la tua sublimità ti fa superiore agli angeli». San Giovanni Damasceno poi giunge a scrivere la seguente espressione: «È infinita la differenza tra i servi di Dio e la sua Madre». – Per aiutarci a comprendere la sublime dignità che la Madre di Dio ha raggiunto al di sopra di tutte le creature, possiamo ripensare che la santissima Vergine, fin dal primo istante del suo concepimento, fu ricolma di tale abbondanza di grazie da superare la grazia di tutti i santi. Onde – come scrisse il Nostro predecessore Pio XI di fel. mem. nella lettera apostolica Ineffabilis Deus – «ha con tanta munificenza arricchito Maria con l’abbondanza di doni celesti, tratti dal tesoro della divinità, di gran lunga al di sopra degli Angeli e di tutti i Santi, che Ella, del tutto immune da ogni macchia di peccato, in tutta la sua bellezza e perfezione, avesse tale pienezza d’innocenza e di santità che non se ne può pensare una più grande al di sotto di Dio e che all’infuori di Dio nessuno riuscirà mai a comprendere». – Inoltre la beata Vergine non ha avuto soltanto il supremo grado, dopo Cristo, dell’eccellenza e della perfezione, ma anche una partecipazione di quell’influsso, con cui il suo Figlio e Redentore nostro giustamente si dice che regna sulla mente e sulla volontà degli uomini. Se infatti il Verbo opera i miracoli e infonde la grazia per mezzo dell’umanità che ha assunto, se si serve dei Sacramenti dei suoi Santi come di strumenti per la salvezza delle anime, perché non può servirsi dell’ufficio e dell’opera della Madre sua Santissima per distribuire a noi i frutti della redenzione? «Con animo veramente materno – così dice lo stesso predecessore Nostro Pio IX di imm. mem. – trattando l’affare della nostra salute Ella è sollecita di tutto il genere umano, essendo costituita dal Signore Regina del cielo e della terra ed esaltata sopra tutti i cori degli Angeli e sopra tutti i gradi dei Santi in cielo, stando alla destra del suo unigenito Figlio; Gesù Cristo, Signore nostro, con le sue materne suppliche impetra efficacissimamente, ottiene quanto chiede, né può rimanere inesaudita». A questo proposito l’altro predecessore Nostro di fel. mem., Leone XIII, dichiarò che alla beata vergine Maria è stato concesso un potere «quasi immenso» nell’elargizione delle grazie; e san Pio X aggiunge che Maria compie questo suo ufficio «come per diritto materno». – Godano dunque tutti i fedeli cristiani di sottomettersi all’impero della Vergine Madre di Dio, la quale, mentre dispone di un potere regale, arde di materno amore. – Però in queste e altre questioni, che riguardano la Beata Vergine, i teologi e i predicatori della divina parola abbiano cura di evitare certe deviazioni per non cadere in un doppio errore; si guardino cioè da opinioni prive di fondamento e che con espressioni esagerate oltrepassano i limiti del vero; e dall’altra parte si guardino pure da un’eccessiva ristrettezza di mente nel considerare quella singolare, sublime, anzi quasi divina dignità della Madre di Dio, che il dottore angelico ci insegna ad attribuirle «per ragione del bene infinito, che è Dio». – Del resto, in questo, come in altri campi della dottrina cristiana, «la norma prossima e universale» è per tutti il magistero vivo della chiesa, che Cristo ha costituito «anche per illustrare e spiegare quelle cose, che nel deposito della fede sono contenute solo oscuramente e quasi implicitamente».

IV

Dai monumenti dell’antichità cristiana, dalle preghiere della liturgia, dall’innata devozione del popolo cristiano, dalle opere d’arte, da ogni parte abbiamo raccolto espressioni e accenti; secondo i quali la Vergine Madre di Dio primeggia per la sua dignità regale; e abbiamo anche mostrato che le ragioni, che la sacra teologia ha dedotto dal tesoro della fede divina, confermano pienamente questa verità. Di tante testimonianze riportate si forma un concerto, la cui eco risuona larghissimamente, per celebrare il sommo fastigio della dignità regale della Madre di Dio e degli uomini, la quale è stata «esaltata ai regni celesti, al di sopra dei cori angelici ». – EssendoCi poi fatta la convinzione dopo mature ponderate riflessioni, che ne verranno grandi vantaggi alla Chiesa se questa verità solidamente dimostrata risplenda più evidente davanti a tutti, quasi lucerna più luminosa sul suo candelabro, con la Nostra Autorità Apostolica, decretiamo e istituiamo la Festa di Maria Regina, da celebrarsi ogni anno in tutto il mondo il giorno 31 maggio. Ordiniamo ugualmente che indetto giorno sia rinnovata la Consacrazione del genere umano al Cuore Immacolato della Beata Vergine Maria. In questo gesto infatti è riposta grande speranza che possa sorgere una nuova era, allietata dalla pace cristiana e dal trionfo della Religione. – Procurino dunque tutti di avvicinarsi ora con maggior fiducia di prima, quanti ricorrono al trono di grazia e di misericordia della Regina e Madre nostra, per chiedere soccorso nelle avversità, luce nelle tenebre, conforto nel dolore e nel pianto, e, ciò che conta più di tutto, si sforzino di liberarsi dalla schiavitù del peccato, per poter presentare un ossequio immutabile, penetrato dalla fragrante devozione di figli, allo scettro regale di sì grande Madre. I suoi templi siano frequentati dalle folle dei fedeli, per celebrarne le feste; la pia corona del Rosario sia nelle mani di tutti per riunire insieme, nelle chiese, nelle case, negli ospedali, nelle carceri, sia i piccoli gruppi, sia le grandi adunanze di fedeli, a cantare le sue glorie. Sia in sommo onore il nome di Maria, più dolce del nettare, più prezioso di qualunque gemma; e nessuno osi pronunciare empie bestemmie, indice di animo corrotto, contro questo nome ornato di tanta maestà e venerando per la grazia materna; e neppure si osi mancare in qualche modo di rispetto ad esso. – Tutti si sforzino di imitare, con vigile e diligente cura, nei propri costumi e nella propria anima, le grandi virtù della Regina celeste e nostra Madre amantissima. Ne deriverà di conseguenza che i cristiani, venerando e imitando sì grande Regina e Madre, si sentano infine veramente fratelli, e, sprezzanti dell’invidia e degli smodati desideri delle ricchezze, promuovano l’amore sociale, rispettino i diritti dei poveri e amino la pace, Nessuno dunque si reputi figlio di Maria, degno di essere accolto sotto la sua potentissima tutela, se sull’esempio di Lei non si dimostrerà mite, giusto e casto, contribuendo con amore alla vera fraternità, non ledendo e nuocendo, ma aiutando e confortando. – In molti paesi della terra vi sono persone ingiustamente perseguitate per la loro professione cristiana e private dei diritti umani e divini della libertà: per allontanare questi mali nulla valgono finora le giustificate richieste e le ripetute proteste. A questi figli innocenti e tormentati rivolga i suoi occhi di misericordia, che con la loro luce portano il sereno allontanando i nembi e le tempeste, la potente Signora delle cose e dei tempi, che sa placare le violenze con il suo piede verginale; e conceda anche a loro di poter presto godere della dovuta libertà per la pratica aperta dei doveri religiosi, sicché servendo la causa dell’evangelo, con opera concorde e con egregie virtù, che nelle asprezze rifulgono ad esempio, giovino anche alla solidità e al progresso della città terrena. – Pensiamo anche che la festa istituita con questa lettera enciclica, affinché tutti più chiaramente riconoscano e con più cura onorino il clemente e materno impero della Madre di Dio, possa contribuire assai a che si conservi, si consolidi e si renda perenne la pace dei popoli, minacciata quasi ogni giorno da avvenimenti pieni di ansietà. Non è ella l’arcobaleno posto sulle nubi verso Dio, come segno di pacifica alleanza? (cf. Gn 9, 13). «Mira l’arcobaleno e benedici colui che l’ha fatto; esso è molto bello nel suo splendore, abbraccia il cielo nel suo cerchio radioso e le mani dell’Altissimo lo hanno teso» (Eccli XLIII, 12-13). Chiunque pertanto onora la Signora dei celesti e dei mortali – e nessuno si creda esente da questo tributo di riconoscenza e di amore – la invochi come Regina potentissima, Mediatrice di pace; rispetti e difenda la pace, che non è ingiustizia impunita né sfrenata licenza, ma è invece concordia bene ordinata sotto il segno e il comando della volontà di Dio: a fomentare e accrescere tale concordia spingono le materne esortazioni e gli ordini di Maria Vergine. – Desiderando moltissimo che la Regina e Madre del popolo cristiano accolga questi Nostri voti e rallegri della sua pace le terre scosse dall’odio, e a noi tutti mostri, dopo questo esilio, Gesù, che sarà la nostra pace e la nostra gioia in eterno, a voi, venerabili fratelli, e ai vostri fedeli, impartiamo di cuore l’Apostolica Benedizione, come auspicio dell’aiuto di Dio onnipotente e in testimonianza del Nostro amore.

Roma, presso San Pietro, nella festività della maternità di Maria Vergine, l’11 ottobre 1954, XVI del Nostro pontificato.

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA-APOSTATA DI TORNO: “CASTI CONNUBI”

Basta leggere anche sommariamente questa lettera Enciclica di S.S. Pio XI, per capire qual è il chiarissimo pensiero cattolico su di una materia così delicata e fondante dell’esistenza spirituale del cristiano. In epoca in cui si parla, nella totale apostasia, tracimata addirittura nel cosiddetto “divorzio breve cattolico” [che, sia ben chiaro, di cattolico non ha assolutamente nulla, se non per gli stolti ciechi che si ostinano a non voler aprire gli occhi!], che rende la dissoluzione del matrimonio più rapido e semplice fin’anche delle leggi degli stati laico-massonici … in attesa di vederci propinare, da menti di invertiti maniaco-demenziali, schifose, luride e stercoracee iniziative, come quella delle bestiali nozze sodomitiche … una volta “peccato che grida vendetta agli occhi di Dio”, ed oggi “vizietto impuro dei falsi chierici” da sdoganare agli stolti acclamanti ed ossequienti. Una vergogna inaudita, che suona scandalo agli uomini e grida vendetta agli occhi di Dio. I servi del baphomet-lucifero, che usurpano dal 1958 tutti i templi, i palazzi sacri, gli uffici e la giurisdizione della Gerarchia cattolica, hanno oramai perso ogni timore di mostrare i loro attributi [corna, coda, artigli, etc.] ai loro adepti della setta ecumenico-mondialista del “novus ordo” da essi capeggiata, sostenuti dalle stampelle dei sedevacantisti eretico-scismatici e dai tradizionalisti disobbedienti fallibilisti, acefali “fai da te”, nel contempo tutti ben fieri di viaggiare spediti verso il fuoco eterno guidando come mercenari [finti chierici mai tonsurati e mai validamente ordinati, senza missione né giurisdizione] i loro agnelli ignari, ma colpevoli di ignoranza volontaria, verso lo stesso luogo di dannazione eterna. Chi vuole almeno avere una pallida idea di cosa sia il matrimonio cattolico e la vita coniugale per la Chiesa di Cristo, non ha che da sgranare gli occhi davanti a tanta sapienza di dottrina cristiana. È vero che senza Grazia, non si comprende comunque nulla, ma il Signore potrebbe, nella sua infinita bontà, risvegliare qualche sopito spirito immemore della dottrina Cattolica. Per questo preghiamo in particolare e, per l’intercessione della Vergine Maria Assunta in cielo, invochiamo il potente intervento dello Spirito Santo! Che Dio ci conceda! L’Enciclica è indubbiamente lunga, ma si legge tutta d’un fiato, venendo pervasi dalla gioia della verità che scende dritta nell’animo del cristiano verace. Successivamente occorrerà fissarne i punti essenziali per poterne godere i frutti personalmente e in famiglia!

LETTERA ENCICLICA
CASTI CONNUBII*
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI
PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI
AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE
PACE E COMUNIONE:
SUL MATRIMONIO CRISTIANO.
PIO PP. XI
VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

 Quanto grande sia la dignità del casto connubio, si può principalmente riconoscere, Venerabili Fratelli, da ciò che Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio dell’Eterno Padre, quando assunse la natura dell’uomo decaduto, in quella amorosissima economia con la quale compì la totale riparazione del nostro genere umano, non solo volle comprendere in maniera particolare anche questo principio e fondamento della società domestica e quindi del consorzio umano, ma richiamandolo inoltre alla primitiva purità dell’istituzione divina, lo elevò a vero e « grande » Sacramento della Nuova Legge, affidandone perciò tutta la disciplina e la cura alla Chiesa sua Sposa. – Ma perché da questo rinnovamento del matrimonio si possano raccogliere i frutti desiderati presso i popoli di ogni regione e di ogni età, si debbono anzitutto illuminare le menti degli uomini con la vera dottrina di Cristo intorno al matrimonio; inoltre occorre che i coniugi cristiani, con la grazia divina che internamente ne corrobora la debole volontà, conformino in tutto pensieri e condotta a quella purissima legge di Cristo, al fine di ottenerne per sé e per la propria famiglia la vera pace e felicità. – Purtroppo tuttavia, non solamente Noi che da questa Apostolica Sede come da una specola guardiamo con occhi paterni tutto il mondo, ma voi pure, Venerabili Fratelli, certamente vedete e insieme con Noi amaramente lamentate come tanti uomini, dimentichi di quell’opera divina di restaurazione, o ignorino del tutto la grande santità del matrimonio cristiano o sfrontatamente la neghino, o persino qua e là vadano conculcandola, seguendo i falsi princìpi di una certa nuova e del tutto perversa moralità. E poiché si sono cominciati a diffondere anche tra i fedeli questi perniciosissimi errori e questi depravati costumi, che tentano d’insinuarsi insensibilmente ma sempre più profondamente, abbiamo creduto essere dovere del Nostro ufficio di Vicario di Gesù Cristo in terra di supremo Pastore e Maestro, alzare la Nostra voce apostolica per allontanare le pecorelle a Noi affidate dai pascoli avvelenati e, per quanto dipende da Noi, custodirle immuni. – Abbiamo perciò deciso, Venerabili Fratelli, di parlare a voi e per mezzo vostro a tutta la Chiesa di Cristo e a tutto il genere umano, della natura del matrimonio cristiano, della sua dignità, dei vantaggi e benefìci che ne derivano alla famiglia e alla stessa umana società, degli errori contrari a questo gravissimo punto della dottrina evangelica, dei vizi che si oppongono alla stessa vita coniugale, e infine dei principali rimedi da apportarvi. E in ciò intendiamo seguire le orme del Nostro predecessore Leone XIII, di s. m., la cui Enciclica « Arcanum » scritta or sono cinquant’anni intorno al matrimonio cristiano, con questa Nostra Enciclica facciamo Nostra e confermiamo e, mentre esponiamo alquanto più diffusamente alcuni punti per riguardo alle condizioni e ai bisogni del tempo nostro, dichiariamo che essa non solo non è andata in disuso ma conserva tutto il suo vigore. – E per esordire da quella stessa Enciclica, che quasi unicamente mira a rivendicare la divina istituzione, la dignità sacramentale e la perpetua indissolubilità del matrimonio, resti anzitutto stabilito questo inconcusso inviolabile fondamento: che il matrimonio non fu istituito né restaurato dagli uomini, ma da Dio; non dagli uomini ma da Dio, autore della natura, e da Gesù Cristo, Redentore della medesima natura, fu presidiato di leggi e confermato e nobilitato. Tali leggi perciò non possono andar soggette ad alcun giudizio umano e ad alcuna contraria convenzione, nemmeno degli stessi coniugi. Questa è la dottrina della Sacra Scrittura, questa la costante ed universale tradizione della Chiesa; questa la solenne definizione del Concilio Tridentino che proclama e conferma con le parole stesse della Sacra Scrittura l’origine da Dio Creatore della perpetuità e indissolubilità del vincolo del matrimonio, e la sua stabilità ed unità. – Benché però il matrimonio di sua natura sia d’istituzione divina, anche l’umana volontà arreca in esso il suo contributo, e questo nobilissimo. Infatti ogni particolare matrimonio, in quanto unione coniugale fra quest’uomo e questa donna, non può cominciare ad esistere se non dal libero consenso di ambedue gli sposi; e questo atto libero della volontà, col quale ambedue le parti danno e accettano il diritto proprio del connubio, è talmente necessario perché esista vero matrimonio, che non può venire supplito da nessuna autorità umana. Senonché tale libertà a questo soltanto si riferisce: che i contraenti vogliano realmente contrarre matrimonio e contrarlo con questa determinata persona; ma la natura del matrimonio è assolutamente sottratta alla libertà umana, in modo che una volta che uno abbia contratto matrimonio, resta soggetto alle sue leggi e alle sue proprietà essenziali. Infatti il Dottore Angelico, trattando della fede e della prole, dice «Questo è causato dallo stesso patto coniugale, così che se nel consenso, che fa il matrimonio, si esprimesse qualche cosa di contrario a ciò, non esisterebbe vero matrimonio ». – Mediante il connubio, dunque, si congiungono e si stringono intimamente gli animi, e questi prima e più fortemente che non i corpi, né già per un passeggero affetto dei sensi o dell’animo, ma per un decreto fermo e deliberato di volontà; e da questa fusione di anime, così avendo Dio stabilito, sorge un vincolo sacro ed inviolabile. – Tale natura, affatto propria e speciale di questo contratto, lo rende totalmente diverso, non solo dagli accoppiamenti fatti per cieco istinto naturale fra gli animali, in cui non può esservi ragione o volontà deliberata, ma altresì da quegli instabili connubii umani, che sono disgiunti da qualsivoglia vero ed onesto vincolo di volontà e destituiti di qualsiasi diritto di domestica convivenza. – Da qui già appare manifesto che la legittima autorità ha diritto e dovere di frenare, impedire e punire questi turpi connubii, contrari a ragione e a natura; ma trattandosi qui di cosa che consegue alla stessa natura umana, non è meno certo quello che apertamente ammoniva il Nostro predecessore Leone XIII di f. m. «Nella scelta del genere di vita, non è dubbio che è in potere ed arbitrio dei singoli il preferire l’una delle due: o seguire il consiglio di Gesù Cristo intorno alla verginità, oppure obbligarsi col vincolo matrimoniale. Nessuna legge umana può togliere all’uomo il diritto naturale e primitivo del coniugio; o in qualsivoglia modo circoscrivere la cagione principale delle nozze, stabilita da principio per autorità di Dio: Crescete e moltiplicatevi ». Pertanto il sacro consorzio del vero connubio viene costituito e dalla divina e dall’umana volontà; da Dio provengono l’istituzione, le leggi, i fini, i beni del matrimonio; dall’uomo, con l’aiuto e la cooperazione di Dio, dipende l’esistenza di qualsivoglia matrimonio particolare coi doveri e coi beni stabiliti da Dio, mediante la donazione generosa della propria persona ad altra persona per tutta la vita.

I

Ma mentre Ci accingiamo ad esporre quali e quanto grandi siano questi beni divinamente concessi al vero matrimonio, Ci vengono alla mente, Venerabili Fratelli, le parole di quel preclarissimo Dottore della Chiesa che, non molto tempo addietro, commemorammo con l’Enciclica « Ad salutem » nel XV centenario dalla sua morte ; «Tutti questi — dice Sant’Agostino — sono i beni per i quali le nozze sono buone: la prole, la fede, il sacramento ». Che poi a buon diritto si possa dire che questi tre punti contengono uno splendido compendio di tutta la dottrina sul matrimonio cristiano, ci viene eloquentemente dichiarato dallo stesso Santo quando dice: «Nella fede si provvede che fuor del vincolo coniugale non ci sia unione con un altro o con un’altra; nella prole che questa si accolga amorevolmente, si nutra benignamente, si educhi religiosamente; nel sacramento poi che non si sciolga il coniugio, e che il rimandato o la rimandata nemmeno per ragione di prole si congiunga con altri. Questa è come la regola delle nozze, dalla quale ed è nobilitata la fecondità della natura ed è regolata la pravità dell’incontinenza ». – Pertanto fra i beni del matrimonio occupa il primo posto la prole. E veramente lo stesso Creatore del genere umano, che nella sua bontà volle servirsi degli uomini come ministri per la propagazione della vita, questo insegnò quando nel paradiso, istituendo il matrimonio, disse ai progenitori e in essi a tutti i coniugi futuri: «Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra » . Questa stessa verità deduce elegantemente Sant’Agostino dalle parole dell’Apostolo San Paolo a Timoteo, dicendo: « Che le nozze si contraggano per ragione della prole, così ne fa fede l’Apostolo: Voglio che i giovani si sposino. E come se gli dicesse: E perché? subito soggiunge: A procreare figliuoli, ad essere madri di famiglia ». – Quanto poi questo sia un grande beneficio di Dio e un gran bene del matrimonio appare dalla dignità e dal nobilissimo fine dell’uomo. Infatti l’uomo, anche solo per l’eccellenza della natura ragionevole, sovrasta a tutte le altre creature visibili. Si aggiunga che Iddio vuole la generazione degli uomini, non solo perché esistano e riempiano la terra, ma assai più perché ci siano cultori di Dio, lo conoscano e lo amino e lo abbiano poi infine a godere perennemente nel cielo; il qual fine, per l’ammirabile elevazione, compiuta da Dio, dell’uomo all’ordine soprannaturale, supera tutto quello che « occhio vide, ed orecchio intese e poté entrare nel cuore dell’uomo » . Da ciò appare facilmente quanto gran dono della bontà divina e quanto egregio frutto del matrimonio sia la prole, germogliata per onnipotente virtù divina e con la cooperazione dei coniugi. – I genitori cristiani intendano inoltre che solo destinati non solo a propagare e conservare in terra il genere umano; anzi non solo ad educare comunque dei cultori del vero Dio, ma a procurare prole alla Chiesa di Cristo, a procreare concittadini dei Santi e familiari di Dio, perché cresca ogni giorno più il popolo dedicato al culto del nostro Dio e Salvatore. E quantunque i coniugi cristiani, per quanto siano essi santificati, non possono trasfondere nella prole la santificazione, ché anzi la naturale generazione della vita è divenuta via di morte, per la quale passa alla prole il peccato originale, tuttavia essi partecipano in qualche modo alcunché di quel primitivo coniugio del paradiso terrestre, essendo loro ufficio offrire la propria prole alla Chiesa, perché da questa fecondissima madre di figli di Dio la prole venga rigenerata per mezzo del lavacro del battesimo alla giustizia soprannaturale, e perché diventi membro vivo di Cristo, partecipe della vita immortale e infine erede della gloria eterna, alla quale tutti aneliamo dall’intimo del cuore. – Se una madre veramente cristiana a ciò riflette, comprenderà certamente che a lei, e in senso più alto e pieno di consolazione, vanno applicate quelle parole del nostro Redentore: « La donna … quando ha dato alla luce un bambino, non ricorda più le sue angustie per il gaudio che prova, perché un uomo è venuto al mondo » ; e rendendosi superiore a tutti i dolori, alle cure, ai pesi della maternità, molto più giustamente e santamente di quella matrona romana, madre dei Gracchi, si glorierà nel Signore di una floridissima corona di figli. Ambedue i coniugi, poi, riguarderanno questi figli, ricevuti con animo pronto e grato dalla mano di Dio, quale un talento loro affidato da Dio, non già per impiegarlo solamente a vantaggio proprio o della patria terrena, ma per restituirlo poi col suo frutto nel giorno del conto finale. – Il bene però della prole non si esaurisce nel beneficio della procreazione, ma occorre che se ne aggiunga un secondo, che consiste nella debita educazione di essa. Troppo scarsamente, invero, Dio sapientissimo avrebbe provveduto alla prole venuta alla luce, e quindi a tutto il genere umano, se a coloro a cui ha dato il potere e il diritto di generare, non avesse altresì dato il dovere e il diritto di educare. Nessuno infatti può ignorare che la prole non può bastare né provvedere a se stessa nemmeno in ciò che riguarda la vita naturale, e molto meno in ciò che concerne la vita soprannaturale, ma abbisogna per molti anni dell’altrui aiuto per la formazione e l’educazione. È noto poi come, per disposizione naturale e divina, questo dovere e diritto all’educazione della prole appartengono anzitutto a coloro che con la generazione iniziarono l’opera della natura, e ai quali è vietato di esporre al rischio della perdita l’opera incominciata, lasciandola imperfetta. Ora a questa tanto necessaria educazione dei figli si è provveduto nel miglior modo possibile col matrimonio, in cui, essendo i genitori stretti tra loro con vincolo indissolubile, prestano sempre ambedue l’opera loro e il loro vicendevole aiuto. – Ma avendo già trattato altra volta a lungo dell’educazione cristiana della gioventù, possiamo riassumere tutte queste cose ripetendo le parole di Sant’Agostino: «Quanto alla prole, si richiede che sia accolta con amore e religiosamente educata », il che ci viene pure espresso stringatamente nel Codice di diritto canonico: « Il fine primario del matrimonio è la procreazione e l’educazione della prole » . – Né si deve tacere che, essendo di tanta dignità e tanta importanza l’uno e l’altro compito affidato ai genitori per il bene della prole, qualsiasi onesto uso della facoltà data da Dio per la generazione di una nuova vita, secondo l’ordine del Creatore e della stessa legge di natura, è diritto e prerogativa del solo matrimonio e deve essere assolutamente contenuto dentro i limiti sacri del matrimonio.  Il secondo bene del matrimonio menzionato da Sant’Agostino, come abbiamo detto, è il bene della fede, che è la vicendevole fedeltà dei coniugi nell’adempimento del contratto matrimoniale; sicché quanto compete per questo contratto sancito secondo la legge divina al solo coniuge, né a lui sia negato, né permesso ad una terza persona; e neppure al coniuge stesso sia concesso ciò che non si può concedere in quanto contrario alle leggi divine e del tutto alieno dalla fede matrimoniale. – Questa fede pertanto richiede in primo luogo l’unità assoluta del matrimonio, che il Creatore stesso adombrò nel matrimonio dei primi genitori, volendo che esso non fosse se non fra un uomo solo e una sola donna. E sebbene poi il supremo Legislatore, Iddio, allargò alquanto questa legge primitiva per qualche tempo, non vi è tuttavia dubbio alcuno che la legge evangelica abbia ristabilito pienamente l’antica e perfetta unità, abrogando ogni dispensa, come dimostrano chiaramente le parole di Cristo e la dottrina e la prassi costante della Chiesa. A buon diritto perciò il Sacro Concilio Tridentino dichiarò solennemente: «Cristo Signore insegnò più apertamente che con questo vincolo due sole persone si vengono strettamente a congiungere, quando disse: Non sono dunque più due, ma una sola carne » . – E Nostro Signore Gesù Cristo non volle solamente proibire qualsiasi forma, sia successiva sia simultanea, come dicono, di poligamia e di poliandria o qualsiasi altra azione esterna disonesta; ma di più ancora, perché si custodisse inviolato il santuario sacro della famiglia, proibì gli stessi pensieri volontari e desideri su tali cose: «Ma io vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso in cuor suo adulterio con lei ». Queste parole di Cristo non possono andare annullate, neppure per consenso del coniuge, giacché esse rappresentano la legge medesima di Dio e della natura, che nessuna volontà umana può distruggere o modificare.  – Anzi, perché il bene della fede splenda nella debita purezza, le stesse vicendevoli manifestazioni di familiarità tra i coniugi debbono essere caratterizzate dal pregio della castità, in modo tale che i coniugi si comportino in tutte le cose secondo la norma di Dio e delle leggi di natura, e si studino di seguire sempre, con grande riverenza verso l’opera di Dio, la volontà sapientissima e santissima del Creatore. – Questa fede della castità, come da Sant’Agostino è giustamente chiamata, risulterà più facile, anzi molto più piacevole non meno che nobile per un altro pregio importantissimo: per l’amore coniugale, cioè, che pervade i doveri tutti della vita coniugale e nel matrimonio cristiano tiene come il primato della nobiltà. « Richiede inoltre la fede del matrimonio che il marito e la moglie siano fra loro congiunti di un amore singolare, santo e puro, e non si amino fra di loro come gli adulteri ma in quel modo che Cristo amò la Chiesa; perché questa regola prescrisse l’Apostolo quando disse: Uomini amate le vostre mogli, come anche Cristo amò la Chiesa, e certo Egli l’amò con quella sua carità infinita, non per un vantaggio suo, ma solo proponendosi l’utilità della Sposa ». Parliamo dunque di un amore non già fondato nella inclinazione sola del senso che in breve svanisce, né solo nelle parole carezzevoli, ma nell’intimo affetto dell’anima e ancora — giacché la prova dell’amore è l’esibizione dell’opera — dimostrato con l’azione esterna Questa azione, poi, nella società domestica non comprende solo il vicendevole aiuto, ma deve estendersi altresì, anzi mirare soprattutto a questo: che i coniugi si aiutino fra di loro per una sempre migliore formazione e perfezione interiore, in modo che nella loro vicendevole unione di vita crescano sempre più nelle virtù, massimamente nella sincera carità verso Dio e verso il prossimo, da cui alfine « dipendono tutta la legge e i Profeti » . Possono insomma, e debbono tutti, di qualunque condizione siano e qualunque onesta maniera di vita abbiano eletto, imitare l’esemplare perfettissimo di ogni santità, proposta da Dio agli uomini, che è N. S. Gesù Cristo, e con l’aiuto di Dio giungere anche all’altezza somma della perfezione cristiana, come gli esempi di molti santi ci dimostrano. – Una tale vicendevole formazione interna dei coniugi, con l’assiduo impegno di perfezionarsi a vicenda, in un certo senso verissimo, come insegna il Catechismo romano, si può dire anche primaria causa e motivo del matrimonio, purché s’intenda per matrimonio, non già nel senso più stretto, l’istituzione ordinata alla retta procreazione ed educazione della prole, ma in senso più largo, la comunanza, l’uso e la società di tutta la vita. – Con questo stesso amore si debbono conciliare tanto gli altri diritti quanto gli altri doveri del matrimonio, in modo tale che non solo sia legge di giustizia ma anche norma di carità quella dell’Apostolo: « Alla moglie renda il marito quello che le deve, e parimenti la moglie al marito » . – Rassodata finalmente col vincolo di questa carità la società domestica, in essa fiorirà necessariamente quello che è chiamato da Sant’Agostino ordine dell’amore. Il quale ordine richiede da una parte la superiorità del marito sopra la moglie e i figli, e dall’altra la pronta soggezione e ubbidienza della moglie, non per forza, ma quale è raccomandata dall’Apostolo in queste parole: « Le donne siano soggette ai loro mariti, come al Signore, perché l’uomo è capo della donna, come Cristo è capo della Chiesa ».

Una tale soggezione però non nega né toglie la libertà che compete di pieno diritto alla donna, sia per la nobiltà della personalità umana, sia per il compito nobilissimo di sposa, di madre e di compagna; né l’obbliga ad accondiscendere a tutti i capricci dell’uomo, se poco conformi alla ragione stessa o alla dignità della sposa; né vuole infine che la moglie sia equiparata alle persone che nel diritto si chiamano minorenni, alle quali per mancanza della maturità di giudizio o per inesperienza delle cose umane non si suole concedere il libero esercizio dei loro diritti; ma vieta quella licenza esagerata che non cura il bene della famiglia, vieta che nel corpo di questa famiglia sia separato il cuore dal capo, con danno sommo del corpo intiero e con pericolo prossimo di rovina. Se l’uomo infatti è il capo, la donna è il cuore; e come l’uno tiene il primato del governo, così l’altra può e deve attribuirsi come suo proprio il primato dell’amore. – Quanto poi al grado ed al modo di questa soggezione della moglie al marito, essa può essere diversa secondo la varietà delle persone, dei luoghi e dei tempi; anzi, se l’uomo viene meno al suo dovere, appartiene alla moglie supplirvi nella direzione della famiglia. Ma in nessun tempo e luogo è lecito sovvertire o ledere la struttura essenziale della famiglia stessa e la sua legge da Dio fermamente stabilita. – Dell’osservanza di questo ordine tra marito e moglie così parlò già con molta sapienza il predecessore Nostro Leone XIII di f. m. nell’Enciclica, che abbiamo ricordato, del matrimonio cristiano: « Il marito è il principe della famiglia e il capo della moglie la quale pertanto, perché è carne della carne di lui ed ossa delle sue ossa, non dev’essere soggetta ed obbediente al marito a guisa di ancella, bensì di compagna; cioè in tal modo che la soggezione che ella rende a lui non sia disgiunta dal decoro né dalla dignità. In lui poi che governa ed in lei che ubbidisce, rendendo entrambi l’immagine l’uno di Cristo, l’altro della Chiesa, sia la carità divina la perpetua moderatrice dei loro doveri » . – Queste sono dunque le virtù che vanno comprese nel bene della fede: unità, castità, carità, nobile e dignitosa ubbidienza; le quali riescono poi altrettanti vantaggi dei coniugi e del loro coniugio, in quanto, assicurano o promuovono la pace, la dignità e la felicità del matrimonio. Non fa quindi meraviglia che questa fede sia stata sempre annoverata tra i benefìci insigni e proprî del matrimonio. – Senonché a tutto il cumulo di benefìci così grandi, il compimento e la corona ultima vengono da quell’altro bene proprio del matrimonio cristiano, che abbiamo chiamato con la parola di Agostino Sacramento, e che designa l’indissolubilità del vincolo ed insieme la elevazione e consacrazione, fatta da Cristo, del contratto in segno efficace della grazia. – E anzitutto, quanto all’indissolubile fermezza del patto coniugale, Cristo medesimo vi insiste dicendo: «Ciò che Iddio ha congiunto, l’uomo non separi »; e: « Chiunque ripudia la propria moglie e ne prende un’altra, commette adulterio; e chiunque, prende quella che è stata ripudiata dal marito, commette adulterio ». – In questa indissolubilità ripone appunto Sant’Agostino il bene che egli chiama del sacramento, con queste chiare parole: «Nel sacramento, poi si esige che il matrimonio non sia disciolto e il ripudiato o la ripudiata non si unisca ad altri, neppure a causa della prole » . -Ora questa inviolabile fermezza, quantunque non competa ad ogni matrimonio con la stessa misura di perfezione, compete nondimeno a tutti i veri matrimoni; perché il detto del Signore: «Ciò che Iddio ha congiunto, l’uomo non separi » essendo stato pronunciato a proposito del matrimonio dei primi progenitori, prototipo di qualsiasi altro matrimonio futuro, deve di necessità comprendere tutti assolutamente i veri matrimoni. Che se prima di Cristo la sublimità e la severità della legge primitiva andarono tanto attenuate, che Mosè permise ai cittadini dello stesso popolo di Dio, per la durezza del loro cuore, di dare per motivi determinati la lettera del ripudio, Cristo invece, giusta il suo potere di legislatore supremo, revocò questo permesso di una maggiore libertà, e rimise pienamente in vigore la legge primitiva con quelle parole assolutamente indimenticabili: «Ciò che Dio ha congiunto, l’uomo non separi ». Molto saggiamente perciò Pio VI, Nostro predecessore di f. m., così rispondeva al Vescovo di Agra: « Per questo è evidente che il matrimonio, nel medesimo stato di natura e certo assai prima che fosse sollevato alla dignità di Sacramento propriamente detto, è stato divinamente istituito in maniera da portare seco la perpetuità e la indissolubilità del nodo, tale perciò che da nessuna legge civile possa essere disciolto. Quindi, sebbene la ragione di sacramento possa andare disgiunta dal matrimonio, come tra gli infedeli, anche in tale matrimonio tuttavia, se è vero matrimonio, deve restare e certamente resta in perpetuo quel nodo che fino dalla prima origine è così inerente al matrimonio che non va soggetto a nessun potere civile. Così qualsiasi matrimonio si dica contratto, o venga contratto in modo da essere un vero matrimonio, avrà insieme quel nodo perpetuo che per diritto divino va connesso con ogni vero matrimonio; ovvero si suppone contratto senza tale nodo perpetuo, e allora non è vero matrimonio, ma una illecita unione contraria per il suo oggetto alla legge divina, e che perciò non si può lecitamente né iniziare né mantenere ». – Se questa fermezza sembra patire qualche eccezione, sebbene rarissima, come in certi matrimoni naturali che siano contratti tra infedeli solamente o, se tra fedeli, che siano sì ratificati ma non ancora consumati, una siffatta eccezione non dipende da volontà di uomini né di qualsiasi potere meramente umano, ma dal diritto divino, di cui unica custode e interprete è la Chiesa di Cristo. Ma una tale occasione non potrà mai verificarsi per nessun motivo nel matrimonio cristiano rato e consumato. In questo infatti, come il nodo coniugale ottiene la piena perfezione, così risplendono per volontà di Dio la massima fermezza e indissolubilità, tali da non potersi rallentare per nessuna autorità umana. – Se vogliamo investigare con riverenza l’intima ragione di questa volontà divina, facilmente la troveremo, Venerabili Fratelli, in quella mistica significazione del matrimonio cristiano, che si verifica con piena perfezione nel matrimonio consumato tra fedeli. Il matrimonio dei cristiani, infatti, secondo la testimonianza dell’Apostolo nella sua lettera (in principio accennata) agli Efesini [37], rappresenta quell’unione perfettissima che corre fra Cristo e la Chiesa: «Questo Sacramento è grande, io però parlo riguardo a Cristo e alla Chiesa »: la quale unione per nessuna separazione potrà mai sciogliersi, finché vivrà Cristo, e la Chiesa per Lui. Il che pure Sant’Agostino chiaramente insegna in quelle parole: «Questo infatti viene custodito in Cristo e nella Chiesa; e per nessun divorzio sia separato il vivente col vivente in eterno. Del quale Sacramento è tanto gelosa l’osservanza nella città del Dio Nostro … cioè nella Chiesa di Cristo … che quando per avere figli o le donne prendano marito o gli uomini prendano moglie, non è lecito abbandonare la moglie sterile per prenderne un’altra feconda. Se qualcuno fa questo, è reo di adulterio, non per la legge di questo secolo (dove, intervenendo il ripudio, si concede, senza farne colpa, di contrarre matrimoni con altri; ciò che il Signore testifica avere  anche il santo Mosè permesso agli Israeliti per la durezza del loro cuore) ma per la legge del Vangelo; così pure è rea di adulterio la donna se si sposerà ad un altro ».

Quanti poi e quanto grandi vantaggi derivino dall’indissolubilità del matrimonio, lo intende senz’altro chiunque rifletta un istante sia al bene dei coniugi stessi e della prole, come alla salute di tutta l’umana società. Anzitutto i coniugi, nella fermezza assoluta del vincolo, hanno quel contrassegno certo di perennità, quale di natura sua è voluto dalla generosa donazione di tutta la persona e  dall’intima unione dei cuori, poiché la carità vera non viene meno mai. Ivi inoltre è un saldo baluardo a difesa della castità fedele, contro gl’interni ed esterni eccitamenti all’infedeltà, se mai sopravvengano; esclusa ogni ansietà o timore che o per qualche disgrazia o per la vecchiaia l’altro coniuge non si abbia ad allontanare, sottentra invece una tranquilla sicurezza. Ad assicurare similmente la dignità dei coniugi ed il vicendevole aiuto, soccorre nel modo più opportuno il pensiero del vincolo indissolubile, ricordando loro che non all’intento di caduchi interessi, né a soddisfazione di piacere, ma per cooperare insieme al conseguimento di beni più eccelsi ed eterni, essi strinsero il patto nuziale, infrangibile se non dalla morte. Egregiamente, ancora, la fermezza del matrimonio provvede alla cura e alla educazione dei figli, opera di lunghi anni, piena di gravi doveri e di fatiche, quali più agevolmente le forze unite dei genitori possono sostenere. Né minori sono i vantaggi che ne provengono a tutta la società umana. L’esperienza insegna infatti come all’onestà della vita in genere ed all’integrità dei costumi immensamente conferisce la fermezza inconcussa dei matrimoni; e come dalla severa osservanza di tale ordinamento vengano assicurate la felicità e la salvezza della cosa pubblica; infatti tale sarà lo Stato, quali sono le famiglie, quali gli uomini, di cui esso è composto, come il corpo delle membra. Ond’è che quanti difendono strenuamente l’inviolabile saldezza del matrimonio, si rendono grandemente benemeriti sia del bene privato dei coniugi e della prole, sia del bene pubblico dell’umana società. – Ma in questo beneficio del Sacramento, oltre i vantaggi della inviolabile stabilità, sono contenuti, più eccellenti ancora, altri vantaggi designati esattamente dal vocabolo stesso di Sacramento, giacché per i cristiani questo non è nome vano e vuoto di senso, sapendo essi che Cristo, « istitutore e perfezionatore di venerabili Sacramenti », con l’elevare alla dignità di vero e proprio Sacramento della Nuova Legge il matrimonio dei suoi fedeli, lo rese in effetto segno e fonte di quella speciale grazia interna, con la quale « portava l’amore naturale a maggior perfezione, ne confermava l’indissolubile unità, e i coniugi stessi santificava » [41]. E poiché Cristo stabilì che lo stesso valido consenso matrimoniale tra fedeli fosse il segno della grazia, quindi la ragione di Sacramento va col coniugio cristiano così strettamente connessa, che tra battezzati non può darsi matrimonio « che non sia con ciò stesso anche Sacramento » .

Con ciò stesso dunque i fedeli che danno con animo sincero un tale consenso, aprono a sé il tesoro della grazia sacramentale, ove attingere le forze soprannaturali occorrenti ad adempiere le proprie parti ed i propri doveri fedelmente, santamente, con perseveranza fino alla morte. – Questo Sacramento, in coloro che non vi oppongono positivo ostacolo, non solo accresce il principio di vita soprannaturale, cioè la grazia santificante, ma vi aggiunge ancora altri doni speciali, disposizioni e germi di grazia, come novello vigore e perfezione alle forze della natura, affinché i coniugi possano non solo bene intendere, ma intimamente sentire, con ferma convinzione e risoluta volontà stimare e adempiere quanto appartiene allo stato coniugale e ai suoi fini e doveri; ed a tale effetto infine conferisce il diritto all’aiuto attuale della grazia, ogniqualvolta ne abbisognino per adempire agli obblighi di questo stato. – Siccome, nondimeno, è legge di provvidenza divina nell’ordine soprannaturale che, dai Sacramenti ricevuti dopo l’uso di ragione, l’uomo non tragga tutto intero il frutto loro quando non cooperi alla grazia, così anche la grazia propria del matrimonio rimarrebbe in gran parte come talento inutile sepolto sotto terra qualora i coniugi non adoprassero le forze soprannaturali, trascurando di coltivare e far fruttificare i preziosi semi della grazia. Se all’incontro si studiano, quant’è in loro, di bene cooperare, potranno della loro condizione sopportare i pesi, adempiere i doveri, e dalla potenza di tanto Sacramento si sentiranno ravvalorati, santificati e come consacrati. Poiché, secondo quanto insegna Sant’Agostino, come per i sacramenti del Battesimo e dell’Ordine l’uomo viene rispettivamente designato ed aiutato o a condurre vita cristiana o ad esercitare l’Ufficio sacerdotale, né l’aiuto sacramentale di quelli sarà mai per mancargli, così in modo simile (ancorché senza il carattere sacramentale), i fedeli, uniti una volta col vincolo del matrimonio, non potranno esser privati mai né dell’aiuto, né del legame sacramentale. – Anzi, soggiunge il medesimo Santo Dottore, quel vincolo sacro, qualora cadessero in adulterio, se lo porterebbero seco, quantunque non più alla gloria della grazia, ma nella pena della colpa, « a quella maniera che l’anima dell’apostata, quasi separandosi dal coniugio di Cristo, anche dopo perduta la fede, non perde il Sacramento della fede, ricevuto nel lavacro della rigenerazione » .- Gli stessi coniugi poi, dall’aureo vincolo del sacramento non incatenati ma adorni, non impacciati ma rinvigoriti, si adopreranno con tutte le forze a far sì che il loro connubio, non solamente per la proprietà e il significato del sacramento, ma anche per lo spirito loro e la condotta della loro vita, sia sempre e rimanga immagine viva di quell’unione fecondissima di Cristo con la sua Chiesa, che è certamente mistero venerando di perfettissimo amore. – Se tutte queste verità, Venerabili Fratelli, si considerano con ponderatezza e fede viva, se questi preziosi beni del matrimonio, la prole, la fede e il Sacramento, sono messi nella debita luce, è impossibile non restare ammirati della sapienza, santità e bontà divina, le quali con tanta larghezza provvidero insieme a mantenere la dignità e la felicità dei coniugi, e ad ottenere la conservazione e propagazione dell’uman genere mediante la sola casta e sacra unione del vincolo nuziale.

II

Nel ponderare, Venerabili Fratelli, il pregio così grande delle caste nozze, tanto più Ci appare doloroso il vedere come questa divina istituzione, in questi nostri tempi soprattutto, sia spesso e facilmente dispregiata e vilipesa. – È un fatto, in verità, che non più di nascosto e nelle tenebre, ma apertamente, messo da parte ogni senso di pudore, così a parole come in iscritto, con rappresentazioni teatrali d’ogni specie, con romanzi, con novelle e racconti ameni, con proiezioni cinematografiche, con discorsi radiofonici, infine con tutti i trovati più recenti della scienza, è conculcata e messa in derisione la santità del matrimonio, e invece o si lodano divorzi, adultèri e i vizi più turpi, o se non altro si dipingono con tali colori che sembra si vogliano far comparire scevri d’ogni macchia ed infamia. Né mancano libri, che si decantano come scientifici, ma che, in verità, della scienza sovente altro non hanno che una certa qual tintura, con l’intento di potersi più agevolmente insinuare negli animi. E le dottrine in essi difese si spacciano quali meraviglie dell’ingegno moderno, cioè di quell’ingegno che si vanta come amante solo della verità, di essersi emancipato da tutti i vecchi pregiudizi, fra i quali annovera e bandisce anche la dottrina tradizionale cristiana del matrimonio. – Anzi, tali massime si fanno penetrare fra ogni condizione di persone, ricchi e poveri, operai e padroni, dotti e ignoranti, liberi e coniugati, credenti e nemici di Dio, adulti e giovani; a questi soprattutto, come a più facile preda, si tendono i lacci più pericolosi. – Certo, non tutti i fautori di siffatte nuove massime giungono alle ultime conseguenze della sfrenata libidine; vi sono taluni che, sforzandosi di arrestarsi come a mezzo della china, vorrebbero far qualche concessione ai tempi nostri, solamente su alcuni precetti della legge divina e naturale. Ma questi non sono altro che mandatari, consapevoli più o meno, di quell’insidiosissimo nemico che sempre si adopera a soprasseminare zizzania in mezzo al frumento. Noi pertanto, che il Padre di famiglia ha posto a custodia del proprio campo, e perciò siamo tenuti dall’obbligo sacrosanto a vigilare che il buon seme non sia soffocato dalle male erbe, stimiamo a Noi rivolte dallo Spirito Santo quelle gravissime parole, con le quali l’Apostolo Paolo esortava il suo diletto Timoteo: «Ma tu, veglia, adempi il tuo ministero … predica la parola, insisti a tempo, fuori di tempo: riprendi, supplica, esorta con ogni pazienza e dottrina » .  – E poiché, ad evitare le frodi del nemico, è anzitutto necessario scoprirle, e giova molto avvisare gl’incauti degl’inganni suoi, non possiamo del tutto tacerne, per il bene e la salute delle anime, sebbene preferiremmo nemmeno nominare simili malvagità, « come conviene ai Santi » . – E per incominciare dalle fonti stesse di tanti mali, la loro principale radice sta nel blaterare che il matrimonio non ha origine da divina istituzione, né è stato dal Signor Nostro Gesù Cristo sollevato alla dignità di Sacramento, ma è un’umana invenzione. Altri sostengono di non averne riconosciuto indizio alcuno nella stessa natura e nelle leggi da cui è retto, ma di avervi trovato soltanto la facoltà generativa, e ad essa congiunto un forte impulso ad adempierla, come che sia; vi sono, nondimeno, alcuni che riconoscono nella natura umana alcuni princìpi, come germi di un vero connubio, nel senso che se gli uomini non si congiungessero con qualche fermezza di vincolo, non si sarebbe provveduto a sufficienza alle dignità dei coniugi al fine naturale della propagazione e della educazione della prole. Nondimeno anche costoro insegnano che lo stesso matrimonio, come istituto che è al disopra di quei germi, col concorso di varie cause è stato escogitato dalla sola umana mente, ed istituito dalla sola volontà degli uomini. – Ma quanto grave sia l’errore di tutti costoro, e come essi vergognosamente deviino dalle norme dell’onestà, già si comprende da quanto, in questa Nostra lettera, abbiamo esposto intorno alla origine e alla natura del matrimonio, e dei fini e dei beni ad esso proprii. E che queste invenzioni siano dannosissime, appare anche dalle conseguenze che gli stessi loro propugnatori ne deducono: essendo le leggi, le istituzioni, le consuetudini dalle quali è regolato il matrimonio, nate solo dalla volontà degli uomini, a questa soltanto soggiacciono; quindi esse si potranno e dovranno stabilire, modificare, abrogare a piacere degli uomini e secondo le esigenze delle condizioni umane; e quanto alla virtù generativa, come quella che si fonda nella stessa natura, insegnano che è più sacra e più ampia dello stesso matrimonio: potersi quindi adoperare così dentro come fuori dei cancelli della vita matrimoniale, anche senza tener conto dei fini del matrimonio, come se il libertinaggio di una immonda meretrice godesse quasi gli stessi diritti della casta maternità della legittima consorte. – Movendo da tali princìpi, alcuni giunsero al punto di inventare altre forme di unione, adatte, come essi credono, alle presenti condizioni degli uomini e dei tempi, e propongono quasi nuove forme di matrimonio: l’uno « temporaneo », l’altro « a esperimento », un terzo che dicono « amichevole », e che si attribuisce la piena libertà e tutti i diritti del matrimonio, eccettuato il vincolo indissolubile; escludono la prole, se non nel caso in cui le parti vengano poscia a trasformare quella comunione di vita e di consuetudine in matrimonio di pieno diritto. – E ciò che è peggio, non mancano coloro i quali pretendono e si adoperano perché simili abominazioni siano coonestate dall’intervento delle leggi o, se non altro, vengano giustificate in forza delle pubbliche consuetudini di popoli e delle loro istituzioni; e sembra non sospettino nemmeno che simili cose, lungi dal potersi esaltare quali conquiste della « cultura » moderna, di cui menano sì gran vanto, sono invece aberrazioni nefande, che ridurrebbero senza dubbio anche le nazioni civili ai costumi barbarici di alcuni popoli selvaggi. – Ma per venire ormai, Venerabili Fratelli, a trattare dei singoli punti che si oppongono ai diversi beni del matrimonio, il primo riguarda la prole, che molti osano chiamare molesto peso del connubio e affermano doversi studiosamente evitare dai coniugi, non già con l’onesta continenza, permessa anche nel matrimonio, quando l’uno e l’altro coniuge vi consentano, ma viziando l’atto naturale. E questa delittuosa licenza alcuni si arrogano perché, aborrendo dalle cure della prole, bramano soltanto soddisfare le loro voglie, senza alcun onere; altri allegano a propria scusa la incapacità di osservare la continenza, e la impossibilità di ammettere la prole a cagione delle difficoltà proprie, o di quelle della madre, o di quelle economiche della famiglia. – Senonché, non vi può esser ragione alcuna, sia pur gravissima, che valga a rendere conforme a natura ed onesto ciò che è intrinsecamente contro natura. E poiché l’atto del coniugio è, di sua propria natura, diretto alla generazione della prole, coloro che nell’usarne lo rendono studiosamente incapace di questo effetto, operano contro natura, e compiono un’azione turpe e intrinsecamente disonesta. – Quindi non meraviglia se la Maestà divina, come attestano le stesse Sacre Scritture, abbia in sommo odio tale delitto nefando, e l’abbia talvolta castigato con la pena di morte, come ricorda Sant’Agostino: « Perché illecitamente e disonestamente si sta anche con la legittima sposa, quando si impedisce il frutto della prole. Così operava Onan, figlio di Giuda, e per tal motivo Dio lo tolse di vita » . – Pertanto, essendovi alcuni che, abbandonando manifestamente la cristiana dottrina, insegnata fin dalle origini, né mai modificata, hanno ai giorni nostri, in questa materia, preteso pubblicamente proclamarne un’altra, la Chiesa Cattolica, cui lo stesso Dio affidò il mandato di insegnare e difendere la purità e la onestà dei costumi, considerando l’esistenza di tanta corruttela di costumi, al fine di preservare la castità del consorzio nuziale da tanta turpitudine, proclama altamente, per mezzo della Nostra parola, in segno della sua divina missione, e nuovamente sentenzia che qualsivoglia uso del matrimonio, in cui per la umana malizia l’atto sia destituito della sua naturale virtù procreatrice, va contro la legge di Dio e della natura, e che coloro che osino commettere tali azioni, si rendono rei di colpa grave. – Perciò, come vuole la suprema autorità Nostra e la cura commessaCi della salute di tutte le anime, ammoniamo i sacerdoti che sono impegnati ad ascoltare le confessioni e gli altri tutti che hanno cura d’anime, che non lascino errare i fedeli loro affidati, in un punto tanto grave della legge di Dio, e molto più che custodiscano se stessi immuni da queste perniciose dottrine, e ad esse, in qualsiasi maniera, non si rendano conniventi. Se qualche confessore o pastore delle anime, che Dio non lo permetta, inducesse egli stesso in simili errori i fedeli a lui commessi, o, se non altro, ve li confermasse, sia con approvarli, sia colpevolmente tacendo, sappia di dovere rendere severo conto a Dio, Giudice Supremo, del tradito suo ufficio, e stimi a sé rivolte le parole di Cristo: « Sono ciechi, e guide di ciechi: e se il cieco al cieco fa da guida, l’uno e l’altro cadranno nella fossa ».  Quanto, poi, ai motivi che li inducono a difendere l’uso perverso del matrimonio, questi non di rado — per tacere di coloro che ridondano a loro vergogna — sono immaginari o esagerati. Nondimeno la Chiesa, pia Madre, intende benissimo e apprende al vivo le difficoltà che si ripetono intorno alla salute della madre e al suo pericolo per la vita stessa. E chi mai potrebbe, se non con viva commiserazione, ponderarle? Chi non sarebbe preso da ammirazione somma nel vedere una madre offrirsi, con forza eroica, a morte quasi certa, pur di risparmiare la vita alla prole già concepita? Tutto ciò che ella avrà sofferto per adempiere perfettamente l’ufficio che la natura le affidò, solo Dio ricchissimo e misericordiosissimo potrà a lei retribuirlo, e, senza dubbio, darà non solo la misura colma, ma anche sovrabbondante. E ben sa altresì la santa Chiesa che non di rado uno dei coniugi soffre piuttosto il peccato, che esserne causa, quando, per ragione veramente grave, permette la perversione dell’ordine dovuto, alla quale pure non consente, e di cui quindi non è colpevole, purché memore, anche in tal caso, delle leggi della carità, non trascuri di dissuadere il coniuge dal peccato e allontanarlo da esso. Né si può dire che operino contro l’ordine di natura quei coniugi che usano del loro diritto nel modo debito e naturale, anche se per cause naturali, sia di tempo, sia di altre difettose circostanze, non ne possa nascere una nuova vita. Infatti, sia nello stesso matrimonio, sia nell’uso del diritto matrimoniale, sono contenuti anche fini secondari, come il mutuo aiuto e l’affetto vicendevole da fomentare e la quiete della concupiscenza, fini che ai coniugi non è proibito di volere, purché sia sempre rispettata la natura intrinseca dell’atto e, per conseguenza, la sua subordinazione al fine principale. – Penetrano pure nell’intimo Nostro i gemiti di quei coniugi che, oppressi duramente da mancanza di mezzi, provano difficoltà gravissima a mantenere la loro prole. – Con tutto ciò bisogna attentamente vigilare, perché le deplorevoli condizioni delle cose materiali non siano occasione a un errore ben più deplorevole. Infatti non possono mai darsi difficoltà di tanta gravità che valgano a dispensare dai comandamenti di Dio, che proibiscono ogni atto che sia cattivo di sua natura; e, in qualsivoglia condizione di cose, possano sempre i coniugi, sostenuti dalla grazia di Dio, fedelmente compiere l’ufficio loro e conservare nel matrimonio, pura da macchia tanto abominevole, la castità, perché resta inconcussa la verità della fede cristiana, proposta dal magistero del Concilio di Trento: «Nessuno ardisca pronunciare quel detto temerario, condannato dai Padri sotto la minaccia di anatema, che per l’uomo giustificato i comandamenti di Dio siano impossibili ad osservarsi. Dio non comanda cose impossibili, ma nel comandare ammonisce di fare ciò che puoi e di chiedere ciò che non puoi, e aiuta perché tu possa ». E la dottrina medesima fu dalla Chiesa solennemente ripetuta e confermata nella condanna della eresia giansenistica, che aveva osato bestemmiare contro la bontà di Dio affermando che « alcuni precetti di Dio agli uomini giusti, che pur vogliono e procurano di osservarli, sono impossibili secondo le forze che hanno al presente: e loro manca la grazia, che li renda possibili ». Ma dobbiamo ricordare pure, Venerabili Fratelli, l’altro gravissimo delitto, col quale si attenta alla vita della prole, chiusa ancora nel seno materno. Per alcuni la cosa è lecita, e lasciata al beneplacito della madre e del padre; per altri è invece proibita, salvo il caso in cui esistano gravissimi motivi, che chiamano col nome di « indicazione » medica, sociale, eugenica. Costoro richiedono che, quanto alle pene, con cui le leggi dello Stato sancirono la proibizione di uccidere la prole generata, ma non venuta ancora alla luce, le pubbliche leggi riconoscano la « indicazione », secondo che ciascuno a modo suo la difende, e la dichiarino libera da qualsiasi pena. Anzi, non mancano coloro i quali domandano che le pubbliche autorità prestino il loro aiuto in simili mortifere operazioni; enormità che, purtroppo, in qualche luogo, si commette frequentissimamente, come è noto. – Per quanto riguarda la « indicazione medica e terapeutica » — per adoperare le loro stesse parole — già abbiamo detto, Venerabili Fratelli, quanta compassione Noi sentiamo per la madre, la quale, per ufficio di natura, si trova esposta a gravi pericoli, sia della salute, sia della stessa vita: ma quale ragione potrà mai aver forza da rendere scusabile, in qualsiasi modo, la diretta uccisione dell’innocente? Perché qui si tratta appunto di questa. Sia che essa si infligga alla madre, sia che si cagioni alla prole, è sempre contro il comando di Dio e la voce stessa della natura: «Non ammazzare ! » . È infatti egualmente sacra la vita dell’una e dell’altra persona, a distruggere la quale non potrà mai concedersi potere alcuno, nemmeno all’autorità pubblica. E, con somma leggerezza, questo potere si fa derivare, contro innocenti, dal diritto di spada, che vale solo contro i rei; né ha qui luogo il diritto di difesa, fino al sangue, contro l’ingiusto aggressore (chi, infatti, chiamerebbe ingiusto aggressore una innocente creaturina?); né può essere, in alcun modo, il diritto che dicono « diritto di estrema necessità », e che possa giungere fino all’uccisione diretta dell’innocente. Pertanto i medici probi e capaci si adoperano lodevolmente a difendere e conservare sia la vita della madre, sia quella della prole; per contro si farebbero conoscere indegnissimi del nobile titolo di medici coloro che, sotto il pretesto di usare l’arte medica, o per malintesa pietà, insidiassero alla vita della madre o della prole. – Tutto ciò pienamente s’accorda con le severe parole del Vescovo d’Ippona, il quale inveisce contro quei coniugi depravati che s’industriano di evitare la prole; ed ove non ottengano l’intento, non temono di ucciderla. «Talvolta — dice — questa crudeltà impura o impurità crudele giunge fino al punto di ricorrere ai veleni atti a procurare la sterilità e, se non vi riesce, a estinguere con qualche mezzo il frutto concepito e a liberarsene, bramando che la propria prole muoia prima di vivere, o se già viveva nel materno seno, sia uccisa prima di nascere. Per certo, se ambedue sono tali, non sono coniugi: e se tali furono fin da principio, non si congiunsero per connubio, ma piuttosto per turpitudine; se tali non sono tutti e due, oso dire: o che ella, in qualche modo, si prostituisce al marito, o che egli si rende adultero verso di lei ». – Quanto poi alla « indicazione » sociale ed eugenica, le cose che si propongono, con mezzi leciti e onesti, e dentro i dovuti confini possono, sì, e devono esser prese in considerazione; ma quanto al voler provvedere alla necessità, a cui si appoggiano, con la uccisione degli innocenti, ripugna alla ragione ed è contrario al precetto divino, promulgato pure dalla sentenza apostolica: «Non si deve fare del male per conseguire beni » . – A coloro, infine, che tengono il supremo governo delle nazioni, e ne sono legislatori, non è lecito dimenticare che è dovere dell’autorità pubblica di difendere con opportune leggi e con la sanzione di pene la vita degli innocenti; e ciò tanto maggiormente, quanto meno valgono a difendersi coloro la cui vita è in pericolo, e alla quale si attenta; e fra essi, certo, sono da annoverare anzitutto i bambini nascosti ancora nel seno materno. Se i pubblici governanti non solo non prendono la difesa di quelle creature, ma anzi con leggi e con pubblici decreti le lasciano, o piuttosto le mettono in mano dei medici o d’altri, perché le uccidano, si rammentino che Dio è giudice e vindice del sangue innocente, il quale dalla terra grida verso il cielo.  – Si deve infine riprovare quella prassi dannosa, che riguarda il diritto naturale dell’uomo a contrarre matrimonio, ma che appartiene pure, con qualche vera ragione, al bene della prole. Vi sono, infatti, alcuni, che dei fini eugenici troppo solleciti, non si contentano di dare alcuni consigli igienici atti a procurare più sicuramente la salute e il vigore della futura prole — il che, certo, non è contrario alla retta ragione — ma vanno così innanzi da anteporre l’« eugenico » a qualsiasi altro fine, anche di ordine più alto, e pretendono che l’autorità pubblica vieti il matrimonio a tutti coloro che, secondo i procedimenti della propria scienza e le proprie congetture, credono che, per via di trasmissione ereditaria, saranno per generare prole difettosa, anche se siano, per sé, capaci di contrarre matrimonio. Anzi, vogliono perfino che essi, per legge, anche se riluttanti, siano, con l’intervento dei medici, privati di quella naturale facoltà; né ciò come pena cruenta da infliggersi dalla pubblica autorità per delitto commesso, né a prevenire futuri delitti dei rei, ma contro il giusto e l’onesto attribuendo ai magistrati civili un potere che mai ebbero, né mai possono legittimamente avere. – Tutti coloro che operano in tal guisa, malamente dimenticano che la famiglia è più sacra dello Stato, e che gli uomini, anzitutto, sono procreati non per la terra e per il tempo, ma per il cielo e per l’eternità. E non è giusto, certamente, accusare di grave colpa uomini d’altra parte atti al matrimonio, i quali, anche adoperando ogni cura e diligenza, si prevede che avranno una prole difettosa, se contraggono nozze, sebbene da esse spesso convenga dissuaderli. – Le pubbliche autorità, poi, non hanno alcuna potestà diretta sulle membra dei sudditi; quindi, se non sia intervenuta colpa alcuna, né vi sia motivo alcuno di infliggere una pena cruenta, non possono mai, in alcun modo, ledere direttamente o toccare l’integrità del corpo, né per ragioni « eugeniche », né per qualsiasi altra ragione. Questo insegna pure San Tommaso d’Aquino quando, proponendo la questione se i giudici umani per prevenire mali futuri possano recar qualche danno al suddito, lo concede quanto a certi altri mali, ma a ragione lo nega per quanto riguarda la lesione corporale: «Mai, secondo il giudizio umano, alcuno deve essere punito, senza colpa, con pena di battiture, per essere ucciso, o per essere mutilato o flagellato ». – Del resto, la dottrina cristiana insegna, e la cosa è certissima anche al lume naturale della ragione, che gli stessi uomini privati non hanno altro dominio sulle membra del proprio corpo se non quello che spetta al loro fine naturale, e non possono distruggerle o mutilarle o per altro modo rendersi inetti alle funzioni naturali, se non nel caso in cui non si può provvedere per altra via al bene di tutto il corpo. – Ed ora, per venire all’altro capo di errori che riguardano la fede coniugale, ogni peccato che si commetta in danno della prole è di conseguenza peccato in qualche modo anche contro la fede coniugale, perché i beni del matrimonio vanno connessi l’uno con l’altro. Ma inoltre sono da annoverare partitamente altrettanti capi di errori e di corruttele contro la fede coniugale, quante sono le virtù domestiche che questa fede abbraccia: la casta fedeltà dell’uno e dell’altro coniuge; l’onesta soggezione della moglie al marito, e infine il saldo e sincero amore tra i due. – Corrompono dunque anzitutto la fedeltà coloro che stimano doversi essere indulgenti verso le idee e i costumi del nostro tempo, intorno alla falsa e dannosa amicizia con terze persone, e sostengono doversi in queste relazioni estranee consentire ai coniugi una certa maggior licenza di pensare e di operare, e ciò tanto più che (come vanno dicendo) non pochi hanno una congenita costituzione sessuale, a cui non possono soddisfare tra gli angusti confini del matrimonio monogamico. Quindi quella disposizione d’animo, per la quale gli onesti coniugi condannano e ricusano ogni affetto ed atto libidinoso con terza persona, essi la stimano un’antiquata debolezza di mente e di cuore o un’abbietta e vile gelosia; perciò dicono nulle o da annullare le leggi penali dello Stato intorno all’obbligo della fede coniugale. L’animo nobile dei casti coniugi, anche solo per lume naturale respinge e disprezza certamente simili errori, come vanità e brutture; e siffatta voce della natura è approvata e confermata dal comandamento di Dio «Non fornicare », e da quello di Cristo: « Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso in cuor suo adulterio con lei » . E nessuna consuetudine o pravo esempio e nessuna parvenza di progresso umano potranno mai indebolire la forza di questo divino precetto. Perché come è sempre il medesimo «Gesù Cristo ieri e oggi e nei secoli », così è sempre identica la dottrina di Cristo, della quale non cadrà un punto solo, sino a tanto che tutto sia adempito. I citati maestri di errori che offuscano il candore della fede e della castità coniugale, facilmente scalzano altresì la fedele ed onesta soggezione della moglie al marito. E anche più audacemente molti di essi affermano con leggerezza essere quella una indegna servitù di un coniuge all’altro; i diritti tra i coniugi devono essere tutti uguali, ed essendo essi violati con la servitù di una parte, tali maestri bandiscono superbamente come già fatta o da procurarsi una certa « emancipazione » della donna. Questa emancipazione dicono dovere essere triplice: nella direzione della società domestica, nell’amministrazione del patrimonio, nell’esclusione e soppressione della prole. La chiamano emancipazione sociale, economica, fisiologica; fisiologica in quanto vogliono che la donna, a seconda della sua libera volontà, sia o debba essere sciolta dai pesi coniugali, sia di moglie, sia di madre (e che questa, più che emancipazione, debba dirsi nefanda scelleratezza, già abbiamo sufficientemente dichiarato); emancipazione economica, in forza della quale la moglie, all’insaputa e contro il volere del marito, possa liberamente avere, trattare e amministrare affari suoi privati, trascurando figli, marito e famiglia; emancipazione sociale, in quanto si rimuovono dalla moglie le cure domestiche sia dei figli come della famiglia, perché, mettendo queste da parte, possa assecondare il proprio genio e dedicarsi agli affari e agli uffici anche pubblici. – Ma neppure questa è vera emancipazione della donna, né la ragionevole e dignitosa libertà che si deve al cristiano e nobile ufficio di donna e di moglie; ma piuttosto è corruzione dell’indole muliebre e della dignità materna, e perversione di tutta la famiglia, in quanto il marito resta privo della moglie, i figli della madre, la casa e tutta la famiglia della sempre vigile custode. Anzi, questa falsa libertà e innaturale eguaglianza con l’uomo tornano a danno della stessa donna; giacché se la donna scende dalla sede veramente regale, a cui, tra le domestiche pareti, fu dal Vangelo innalzata, presto ricadrà nella vecchia servitù (se non di apparenza, certo di fatto) e ridiventerà, come nel paganesimo, un mero strumento dell’uomo. – Quell’eguaglianza poi di diritti, che tanto si esagera e si mette innanzi, deve riconoscersi in tutto quello che è proprio della persona e della dignità umana, che consegue dal patto nuziale ed è insito nel matrimonio. In questo, certo, l’uno e l’altro coniuge godono perfettamente dello stesso diritto e sono legati da uno stesso dovere; nel resto devono esservi una certa ineguaglianza e proporzione, richieste dal bene stesso della famiglia e dalla doverosa unità e fermezza dell’ordine e della società domestica. – Tuttavia se in qualche luogo le condizioni sociali ed economiche della donna maritata debbono mutarsi alquanto per le mutate consuetudini ed i mutati usi della umana convivenza, spetta al pubblico magistrato adattare alle odierne necessità ed esigenze i diritti civili della moglie, tenuto conto di ciò che è richiesto dalla diversa indole naturale del sesso femminile, dall’onestà dei costumi e dal comune bene della famiglia, purché l’ordine essenziale della società domestica rimanga intatto, come quello che fu istituito da un’autorità e da una sapienza più alte della umana, cioè divina, e non può essere cambiata per leggi pubbliche o per gusti privati. – Ma vanno ancor più oltre i recenti sovvertitori del matrimonio, sostituendo al sincero e solido amore, che è il fondamento dell’intima dolcezza e felicità coniugale, una certa cieca convenienza di carattere e concordia di gusti, che chiamano simpatia, al cessar della quale sostengono che si rallenta e si scioglie l’unico vincolo con il quale gli animi si uniscono. Che altro mai sarà questo, se non un edificare la casa sopra l’arena? Della quale Cristo dice che appena venga assalita dai flutti dell’avversità subito vacillerà e ruinerà: « E soffiarono i venti e imperversarono contro quella casa, ed essa andò giù, e fu grande la sua ruina » [61]. Al contrario, la casa che sia stata eretta sulla pietra, cioè sul mutuo amore tra i coniugi, e rassodata da una consapevole e costante unione di animi, non sarà mai scossa né abbattuta da nessuna avversità.

Abbiamo fin qui rivendicato, Venerabili Fratelli, i due primi eccellentissimi beni del matrimonio cristiano, insidiati dai sovvertitori della società odierna. Ma siccome a questi va innanzi di gran lunga un terzo bene, quello del « sacramento », così non ci stupisce vedere che anzitutto questa bontà ed eccellenza siano da costoro molto più aspramente impugnate. Dapprima insegnano che il matrimonio è cosa affatto profana e meramente civile, e in nessun modo da affidare alla società religiosa, cioè alla Chiesa di Cristo, ma soltanto alla società civile. Soggiungono inoltre che il nodo nuziale dev’essere affrancato da ogni legame d’indissolubilità, non solo tollerando ma sancendo con la legge le separazioni ossia i divorzi dei coniugi; dal che infine nascerà che il matrimonio, spogliato di ogni santità, rimarrà nel novero delle cose profane e civili. – Come prima cosa stabiliscono che l’atto civile sia da ritenere quale vero contratto nuziale (e lo chiamano comunemente « matrimonio civile »); l’atto religioso poi sia una mera aggiunta, o al più da permettere al volgo superstizioso. Inoltre vogliono che senza rimprovero d’alcuno sia lecito il matrimonio tra cattolici ed acattolici, non avendo riguardo alla religione e senza chiedere il consenso dell’autorità religiosa. Un’altra cosa, che viene di conseguenza, consiste nello scusare i divorzi effettuati e nel lodare e propugnare quelle leggi civili, che favoriscono la dissoluzione del vincolo stesso. – Per quanto riguarda la natura religiosa di qualsivoglia matrimonio, e molto più del matrimonio cristiano che è altresì sacramento, avendo Leone XIII largamente trattato e appoggiato con gravi argomenti ciò che in questa materia è da notare, rimandiamo all’Enciclica che Noi più volte abbiamo citata e apertamente dichiarata Nostra. Qui stimiamo dover ripetere soltanto alcuni pochi punti. – Anche col solo lume della ragione, massime chi voglia investigare gli antichi monumenti della storia e interrogare la costante coscienza dei popoli e consultare le istituzioni e i costumi di tutte le genti, si può dedurre chiaramente essere inerente allo stesso matrimonio naturale qualche cosa di sacro e di religioso, « non sopravvenuto ma congenito; non ricevuto dagli uomini, ma inserito dalla natura », avendo il matrimonio « Dio per autore, ed essendo stato, fin da principio, una tal quale figura della Incarnazione del Verbo di Dio ». La ragione sacra del coniugio, che va intimamente connessa con la religione e con l’ordine delle cose sacre, risulta sia dall’origine sua divina, che abbiamo ricordato, sia dal suo fine, che è generare ed educare a Dio la prole e condurre parimenti a Dio i coniugi mediante l’amore cristiano e il vicendevole aiuto; sia infine dall’ufficio stesso naturale del matrimonio, voluto dalla provvida mente di Dio Creatore, perché sia come un tramite onde si trasmette la vita, facendo in ciò i genitori quasi da ministri dell’onnipotenza divina. A tutto questo si aggiunge la nuova ragione di dignità, derivante dal Sacramento, in grazia del quale il matrimonio cristiano è divenuto di gran lunga più nobile ed è stato elevato a tanta eccellenza, da apparire all’Apostolo « un grande mistero, in tutto onorabile » . – La natura religiosa del matrimonio e la sublime sua significazione della grazia e dell’unione fra Gesù Cristo e la Chiesa, richiedono dai futuri sposi una santa riverenza per le nozze cristiane e un santo amore e zelo perché il matrimonio, che stanno per contrarre, si avvicini il più possibile al modello di Cristo e della Chiesa.- Molto mancano su questo punto, e talora mettono in pericolo la loro salvezza eterna, coloro che, senza gravi motivi, contraggono matrimonio misto. Da siffatti matrimoni misti il provvido amore materno della Chiesa distoglie i fedeli per gravissime ragioni, come risulta da molti documenti compresi in quel canone del Codice di diritto canonico, dove si legge: « La Chiesa con ogni severità vieta dappertutto, che si contragga matrimonio tra due persone battezzate, delle quali una sia cattolica, l’altra appartenente a setta eretica o scismatica; se poi vi è pericolo di perversione del coniuge cattolico e della prole, il matrimonio è vietato dalla stessa legge divina ». Ed anche quando la Chiesa si induce, attese le circostanze dei tempi, delle cose e delle persone, a concedere la dispensa da queste severe disposizioni (salvo il diritto divino e rimosso con opportune guarentigie, quanto è possibile, il pericolo di perversione), non può non avvenire, se non difficilmente, che il coniuge cattolico abbia a risentire qualche danno da siffatto matrimonio. Da esso infatti non raramente deriva nei discendenti una luttuosa defezione dalla religione, o almeno il cadere facilmente nell’indifferenza religiosa, vicinissima alla incredulità ed alla empietà. Inoltre, in questi matrimoni misti, è resa molto più difficile quella viva unione degli animi, la quale deve imitare il mistero dianzi ricordato, cioè l’arcana unione della Chiesa con Cristo. – Verrà a mancare facilmente la stretta unione degli animi, la quale, com’è segno e nota distintiva della Chiesa di Cristo, così dev’essere distintivo, decoro ed ornamento del coniugio cristiano. Infatti suole sciogliersi o almeno rallentarsi il vincolo dei cuori, dove è diversità di pensiero e di affetto circa le cose più alte e supreme dall’uomo venerate, cioè nelle verità e nei sentimenti religiosi. Quindi viene il pericolo che languisca l’amore tra i coniugi e ne vadano in rovina la pace e la felicità della famiglia, la quale fiorisce principalmente dall’unità dei cuori. E così, già da tanti secoli, l’antico diritto romano aveva definito: « Il matrimonio è la congiunzione dell’uomo e della donna nel consorzio di tutta la vita e nella comunicazione del diritto divino ed umano » . – Ma ciò che soprattutto impedisce la restaurazione e la perfezione del matrimonio stabilito da Cristo Redentore, è, come avvertimmo, Venerabili Fratelli, la sempre crescente facilità dei divorzi. Anzi, gli odierni fautori del neopaganesimo, per nulla fatti saggi dall’esperienza, vanno sempre più acremente contestando la sacra indissolubilità del coniugio e le leggi che la sostengono, e affermano doversi dichiarare lecito il divorzio, e che una legge nuova e più umana venga a sostituire leggi antiquate e sorpassate. – Essi presentano molte e varie ragioni per il divorzio; alcune provenienti da vizio o colpa delle persone, altre inerenti alle cose stesse (le une dicono soggettive, le altre oggettive); in una parola, tutto ciò che rende più aspra ed ingrata la indivisibile convivenza. Pretendono di dimostrare siffatte ragioni per molti capi: dapprima, per il bene di ambedue i coniugi, sia dell’innocente, il quale ha perciò il diritto di separarsi dal coniuge reo, sia del colpevole di delitti, che per questo appunto deve essere separato da una unione ingrata e coatta; poi, per il bene della prole, la quale resta priva della retta educazione, essendo troppo facilmente scandalizzata e allontanata dalla via della virtù per le discordie e altre colpe dei genitori; infine, per il bene comune della società, il quale richiede che anzitutto si sciolgano quei matrimoni che non valgono più ad ottenere il fine inteso dalla natura. Inoltre si permettano dalla legge i divorzi sia per prevenire quei delitti che si possono facilmente temere dalla convivenza di tali coniugi, sia per evitare che cadano sempre più in ludibrio i tribunali e l’autorità delle leggi, quando i coniugi, per ottenere la bramata sentenza di divorzio, o commettono a bella posta quei delitti per i quali il giudice può sciogliere il vincolo a norma di legge, o sfacciatamente mentiscono e spergiurano di averli commessi, nonostante il giudice veda chiaramente lo stato delle cose. Pertanto, essi dicono, le leggi devono in ogni modo conformarsi a tutte queste necessità, alle mutate condizioni dei tempi, alle opinioni degli uomini, alle istituzioni e ai costumi delle nazioni: tali motivi per sé soli, e massimamente se tutti insieme considerati, dimostrerebbero con evidenza che per determinate cause deve assolutamente concedersi la facoltà di divorzio. – Altri, con più audacia, opinano che il matrimonio, come contratto meramente privato, deve essere lasciato al consenso e all’arbitrio privato dei due contraenti, come avviene negli altri contratti privati; e perciò sostengono che può essere sciolto per qualsiasi motivo. – Senonché, contro tutte queste demenze, sta immobile, Venerabili Fratelli, la legge di Dio, da Cristo amplissimamente confermata, e che non può venire smossa da nessun decreto degli uomini, opinione di popoli o volontà di legislatori: «Quello che Dio ha congiunto, l’uomo non separi » . E se l’uomo ingiuriosamente tenta separarlo, il suo atto sarà del tutto nullo, e resta immutabile quanto Cristo apertamente affermò: « Chiunque rimanda la moglie e ne sposa un’altra, è adultero; e chi sposa la rimandata dal suo marito, è adultero ». E queste parole di Cristo riguardano qualsiasi matrimonio, anche quello soltanto naturale e legittimo, giacché ad ogni vero matrimonio spetta quella indissolubilità, per la quale esso è sottratto, quanto alla soluzione del vincolo, all’arbitrio delle parti e ad ogni potestà laicale. – E qui deve pur essere ricordato il solenne giudizio con il quale il Concilio Tridentino condannò tali insanie di anatema: « Chiunque dice che il vincolo del matrimonio può essere sciolto dal coniuge, a causa di eresia o di molesta coabitazione o di pretesa assenza, sia anatema » ; e inoltre « Chiunque dice che la Chiesa erra quando ha insegnato e insegna che, secondo la dottrina evangelica ed apostolica, non può essere disciolto il vincolo del matrimonio per l’adulterio di uno dei coniugi, e che nessuno dei due, neanche l’innocente che non diede motivo all’adulterio, può contrarre altro matrimonio, vivente l’altro coniuge, e che commette adulterio tanto colui il quale, ripudiata l’adultera, sposa un’altra, quanto colei che, abbandonato il marito, ne sposa un altro, sia anatema » . – Se la Chiesa non errò né erra in questa sua dottrina, e perciò è del tutto certo che il vincolo del matrimonio non può essere sciolto neppure per l’adulterio, ne segue con evidenza che molto minor valore hanno tutti gli altri motivi di divorzio, di molto più deboli, che sogliono o possono allegarsi, e quindi non è da farne alcun conto. – Del resto, le obiezioni che vengono mosse contro la saldezza del vincolo da quel triplice capo, sono di facile soluzione. Infatti, i danni ricordati vengono impediti e i pericoli rimossi, se in quelle estreme circostanze si permette la separazione imperfetta dei coniugi, rimanendo cioè intatto il vincolo; la quale separazione è consentita chiaramente dalla legge della Chiesa nelle chiare parole dei canoni che trattano della separazione del talamo, della mensa e dell’abitazione. Lo stabilire poi le cause di tale separazione, le condizioni, il modo e le cautele onde si provveda all’educazione dei figli e all’incolumità della famiglia, e si rimuovano quanto è possibile i danni tutti derivanti ai coniugi, alla prole e alla stessa comunità civile, spetta alle leggi sacre e, almeno in parte, anche alle leggi civili, in quanto si attiene alle cose e agli effetti civili. – Tutti gli argomenti, poi, che sogliono apportarsi e sopra abbiamo toccati, a dimostrare la indissolubilità del matrimonio, valgono chiaramente con uguale forza ad escludere non solamente la necessità ma anche ogni facoltà o concessione di divorzio. Inoltre quanti sono gli eccellenti vantaggi che militano per la indissolubilità, altrettanti all’opposto appaiono i danni del divorzio, e questi perniciosissimi sia agli individui sia a tutta l’umana convivenza. – E, per valerCi di nuovo della dottrina del Nostro predecessore, è appena necessario osservare che quanta copia di beni in sé contiene la fermezza indissolubile del matrimonio, altrettanta messe di mali portano con sé i divorzi. Da una parte, con la fermezza del vincolo, i matrimoni sono pienamente sicuri; dall’altra invece, con la possibilità e anzi probabilità del divorzio, il legame nuziale diventa mutabile o almeno soggetto ad ansietà e sospetti. Da una parte vengono mirabilmente consolidate la mutua benevolenza e comunione di beni; dall’altra deplorevolmente indebolito il legame, per l’offerta facoltà di separarsi. Da una parte validi presidii alla fedeltà dei coniugi; dall’altra perniciosi incitamenti all’infedeltà. Dall’una la procreazione, protezione ed educazione dei figli efficacemente promosse; dall’altra la prole esposta ai più gravi danni. Da una parte chiuso l’adito molteplice alle discordie tra le famiglie e i parenti; dall’altra se ne presenta più frequente l’occasione. Dall’una più facilmente sopiti i germi di dissenso; dall’altra più copiosamente e largamente diffusi. Dall’una massimamente reintegrati e felicemente restaurati la dignità e l’ufficio della donna nella famiglia e nella società; dall’altra indegnamente depressa, esposta com’è la sposa al pericolo di « venire abbandonata dopo aver servito alla passione dell’uomo » . E poiché a distruggere le famiglie — per concludere con le gravissime parole di Leone XIII — « e ad abbattere la potenza dei regni niente ha maggior forza che la corruzione dei costumi, è agevole conoscere che alla prosperità delle famiglie e delle nazioni sono funestissimi i divorzi, i quali nascono da depravate consuetudini, e come ne attesta l’esperienza, aprono l’adito ad una sempre maggiore corruttela del pubblico e privato costume. E questi mali appariranno anche più gravi se si considera che non vi sarà mai alcun freno così potente che valga a contenere entro certi e prestabiliti confini la licenza una volta concessa ai divorzi. È grande la forza degli esempi, maggiore quella delle passioni; per tali eccitamenti avverrà certo che la sfrenata voglia dei divorzi, serpeggiando ogni dì più largamente, invada l’animo di moltissimi, a guisa di morbo che si sparge per contagio, o come torrente che, rotti i ripari, trabocca » . – Perciò, come nell’Enciclica stessa si legge, « ove non si muti consiglio, le famiglie e la società umana dovranno stare in perpetuo timore di essere travolte nel rivolgimento e nello scompiglio di tutte le cose » . Orbene, la corruzione ogni giorno crescente e l’incredibile depravazione della famiglia nelle regioni pienamente dominate dal comunismo, ben dimostrano con quanta verità tutto ciò sia stato preannunciato cinquant’anni addietro.

III

Finora, Venerabili Fratelli, abbiamo con venerazione ammirato le disposizioni date dal sapientissimo Creatore e Redentore del genere umano in ordine al matrimonio, addolorati in pari tempo di vedere così spesso rese vane e conculcate tali sante intenzioni della divina Bontà dalle passioni, dagli errori e dai vizi degli uomini. È quindi naturale che Noi rivolgiamo la sollecitudine paterna dell’animo Nostro a trovare rimedi opportuni ad estirpare interamente i perniciosissimi abusi già ricordati, e a rendere dappertutto il dovuto rispetto al matrimonio. – Aiuterà a ciò principalmente il ricordare quella massima certissima, che è comunemente ammessa dalla sana filosofia e dalla sacra teologia: che per ricondurre al loro pristino stato, secondo la loro natura, le cose che hanno deviato dalla rettitudine, non vi è altra via che di riportarle a conformità della ragione divina, la quale (come insegna l’Angelico) è l’esemplare della perfetta rettitudine. Per questo il Nostro predecessore di f. m. Leone XIII, ben a ragione, incalzava i naturalisti con queste gravissime parole: « È legge divinamente sancita che le cose istituite dalla natura e da Dio, si sperimentino da noi tanto più utili e salutari, quanto più rimangono intere ed immutabili nel loro stato naturale; Iddio, creatore di tutte le cose, ben conobbe ciò che alla istituzione e al mantenimento di ciascuna sia espediente, e tutte con la volontà e mente sua le ha in guisa ordinate, che ognuna debba convenientemente raggiungere il suo fine. Ma se la temerità e malvagità degli uomini volessero mutare e sconvolgere l’ordine delle cose provvidissimamente stabilito, allora anche le cose con somma sapienza ed altrettanta utilità istituite o cominciano a nuocere, o cessano di giovare, sia perché col mutare abbiano perduto la virtù di far bene, sia perché Iddio stesso voglia piuttosto adottare siffatti castighi dell’orgoglio e dell’audacia dei mortali ». – È dunque necessario, per ricondurre il retto ordine nella materia matrimoniale, che tutti considerino il disegno divino intorno al matrimonio e cerchino di conformarsi ad esso. – E poiché tale studio è soprattutto contrastato dalla forza della concupiscenza, che è senza dubbio la cagione principale per cui si pecca contro le sante leggi coniugali, e non potendo l’uomo tenere a sé soggette le passioni se prima non sottomette sé a Dio, a ciò bisogna anzitutto rivolgere le cure secondo l’ordine divinamente stabilito. È legge inderogabile che chi vive soggetto a Dio veda con l’aiuto della divina grazia assoggettare a sé le passioni e la concupiscenza, ed al contrario, chi è ribelle a Dio esperimenti con dolore l’interna lotta delle passioni violente. Né ciò avviene senza una sapiente disposizione, come dimostra Sant’Agostino: « Infatti è giusto che l’inferiore si assoggetti al superiore; in modo che chi vuole a sé soggetto chi è sotto di sé, debba a sua volta star soggetto a chi è sopra di sé. Riconosci l’ordine, cerca la pace! Tu a Dio: e la carne a te. Che di più giusto? che di più bello? Tu al maggiore, a te il minore: servi tu a Colui che creò te, perché a te serva ciò che è stato creato per te. Bada però, l’ordine non l’intendiamo, non lo proponiamo così: A te la carne, e tu a Dio, sibbene Tu a Dio, e la carne a te! E se trascuri il Tu a Dio, non raggiungerai mai l’A te la carne. Tu che non ubbidisci al Signore, sei tormentato dal servo » . – Tale ordinamento della divina Sapienza è pure attestato, per ispirazione dello Spirito Santo, dal Santo Dottore delle Genti, dove, a proposito dei sapienti antichi i quali ricusavano di prestare culto e venerazione al Creatore dell’universo da essi ben conosciuto, si esprime così: « Per questo, Iddio li abbandonò ai desideri del loro cuore, all’immondezza, talché disonorassero in se stessi i corpi loro »; e di nuovo « Per questo, Iddio li diede in balìa di ignominiose passioni », perché « Iddio resiste ai superbi e largisce la grazia agli umili », senza la quale, come insegna lo stesso Dottore delle Genti, l’uomo non può soggiogare la ribelle concupiscenza. – Poiché dunque non è possibile frenare, come si deve, le indomite brame, senza che prima l’anima presti l’umile ossequio della pietà e della riverenza al Creatore, questo soprattutto è necessario: che coloro che stringono il sacro vincolo matrimoniale siano bene compenetrati da una profonda pietà verso Dio, la quale informi tutta la loro vita, e riempia la mente e la volontà di somma venerazione verso la suprema Maestà di Dio. – Ben dunque si comportano, conformemente al più sano e perfetto senso cristiano, quei Pastori di anime i quali, per impedire che gli sposi non abbiano nel matrimonio a deviare dalla legge di Dio, anzitutto li esortano agli esercizi di pietà e di religione, ad unirsi totalmente a Dio, ad invocarne costantemente l’aiuto, a frequentare i sacramenti, a fomentare e custodire, sempre e in tutto, sentimenti di devozione e pietà verso Dio. – Grandemente invece si ingannano coloro i quali, lasciati da parte questi mezzi che trascendono la natura, credono di potere, per mezzo dei soli ritrovati delle scienze naturali (come la biologia, lo studio delle trasmissioni ereditarie, e simili), persuadere gli uomini a frenare le concupiscenze carnali. Né con ciò intendiamo dire che non si debba tener conto anche di questi aiuti naturali quando non siano illeciti: perché è lo stesso Dio, unico autore della natura e della grazia, il quale ha disposto che i beni sì dell’uno come dell’altro ordine servano ad uso ed utilità degli uomini. I fedeli, dunque, possono e debbono giovarsi anche degli aiuti naturali. Ma sbagliano coloro che credono bastare questi a garantire la castità dell’unione matrimoniale, o che stimano trovarsi in essi una maggiore efficacia che non nell’aiuto soprannaturale della grazia. – Ma tale conformità della convivenza e dei costumi matrimoniali alle leggi di Dio, senza la quale non si potrebbe avere un’efficace restaurazione di essa, suppone che da tutti si possa conoscere facilmente, con ferma certezza e senza mescolanza di errore, quali siano queste leggi. A nessuno può sfuggire a quanti inganni si aprirebbe l’adito, quanti errori si mischierebbero alla verità, se tale indagine fosse lasciata alla ragione individuale munita del solo lume naturale, ovvero se tale investigazione fosse affidata alla privata interpretazione della verità rivelata. Il che se vale per tante altre verità di ordine morale, soprattutto si deve dire per quelle che spettano al matrimonio, dato che tanto facilmente la passione della voluttà può sopraffare la debolezza umana, ingannarla e sedurla; tanto più che l’osservanza della legge di Dio richiede talvolta dai coniugi dei sacrifici ardui e diuturni; e l’esperienza dimostra che di questi appunto si serve l’umana fragilità come di pretesti per esimersi dall’osservanza della legge divina. – Affinché pertanto la conoscenza vera e sincera della legge divina, e non una simulazione ed una corrotta immagine di essa, sia di luce e guida alle menti e alla condotta degli uomini, si richiede che alla pietà verso Dio e alla brama di ubbidire a Lui, vada unita pure una filiale ed umile ubbidienza verso la Chiesa. Infatti è stato il medesimo Cristo Signor Nostro colui che costituì la Chiesa Maestra di verità anche in queste cose spettanti alla direzione e alla regola dei costumi, quantunque tra esse molte non siano per se stesse inaccessibili all’umano intelletto. E come il Signore, quanto alle verità naturali riguardanti la fede e i costumi, volle aggiungere al semplice lume della ragione quello della rivelazione, sicché queste cose giuste e vere « anche nelle condizioni presenti dell’umana natura, da tutti possano conoscersi facilmente e con certezza assoluta e senza ombra di errore », così, per lo stesso fine, volle costituire la Chiesa custode e maestra delle verità tutte che riguardano la religione e i costumi: ad essa quindi i fedeli, se vogliono serbarsi immuni da errori di intelletto e da corruzione morale, debbono ubbidire e assoggettare la mente ed il cuore. E per non privarsi da se stessi di un aiuto apprestato con sì larga benignità dal Signore, essi debbono prestare doverosa obbedienza non solo alle definizioni più solenni della Chiesa, ma altresì, osservata la debita proporzione, alle altre Costituzioni o Decreti, coi quali certe opinioni vengono proscritte come perverse e pericolose. – I cristiani debbono quindi tenersi lontani da una smodata indipendenza di giudizio e da una falsa « autonomia » della ragione, anche rispetto a certe questioni che sul matrimonio si dibattono ai giorni nostri. – È infatti disdicevole, per un cristiano degno di tal nome, fidarsi tanto della propria intelligenza da voler prestar fede soltanto a quelle verità di cui apprende da sé l’intrinseca natura; il ritenere che la Chiesa, da Dio destinata a maestra e reggitrice dei popoli, non sia abbastanza illuminata intorno alle cose e circostanze moderne; ovvero il non prestarle assenso ed obbedienza se non in ciò che essa impone per via di definizioni più solenni, quasi che le altre sue decisioni si potessero presumere o false, o non fornite di sufficienti motivi di verità e di onestà. È proprio invece di tutti i veri seguaci di Cristo, sia dotti, sia ignoranti, lasciarsi reggere e guidare dalla santa Chiesa di Dio in tutte le cose spettanti alla fede e ai costumi, per mezzo del suo Supremo Pastore, il Pontefice Romano, il quale è retto a sua volta da Gesù Cristo Signor Nostro. – Siccome tutto si deve riportare alla legge e alle idee di Dio, perché si ottenga una generale e stabile restaurazione del matrimonio dobbiamo considerare di primaria importanza che i fedeli siano bene istruiti circa il matrimonio, a voce e in iscritto, non una volta sola e superficialmente, ma spesso e ampiamente, con argomenti chiari e solidi, in modo che queste verità s’imprimano bene nell’intelletto e penetrino fino in fondo al cuore. Sappiano e considerino assiduamente quanta sapienza, santità, bontà abbia dimostrato il Signore verso il genere umano, sia con l’istituzione del matrimonio, sia presidiandolo di sante leggi, e più ancora elevandolo alla mirabile dignità di Sacramento, per cui si apre agli sposi cristiani una sì copiosa fonte di grazie da poter corrispondere, in castità e fedeltà, agli alti fini del matrimonio, al bene e alla salute propria e dei figli, di tutta la società civile e dell’umanità intera. – E certo se i moderni distruttori del matrimonio si danno tanto da fare con discorsi, con libri ed opuscoli e con infiniti altri mezzi, a pervertire le menti, a corrompere i cuori, a mettere in derisione la castità matrimoniale, e ad esaltare i vizi più vergognosi, molto più Voi, Venerabili Fratelli, che « lo Spirito Santo ha costituiti Vescovi per reggere la Chiesa di Dio da Lui conquistata col Sangue suo », non dovrete lasciare alcun mezzo intentato, o per Voi stessi, o per mezzo dei sacerdoti a Voi soggetti, come pure mediante i laici opportunamente scelti fra gli iscritti all’« Azione Cattolica » tanto da Noi bramata e raccomandata in aiuto dell’apostolato gerarchico, in modo da contrapporre la verità all’errore, alla turpitudine del vizio lo splendore della castità, alla servitù delle passioni la libertà dei figli di Dio, alla iniqua facilità dei divorzi la perenne stabilità del vero amore coniugale e dell’inviolabilità fino alla morte del prestato giuramento di fedeltà. – In tal modo i cristiani ringrazieranno Dio, di tutto cuore, di essere vincolati dal precetto e di essere con soave violenza costretti a tenersi lontani il più possibile da ogni idolatria della carne e dall’ignobile schiavitù della libidine. E sentiranno profondo orrore, e fuggiranno con ogni diligenza quelle nefande opinioni che oggi appunto, a disonore della verace dignità umana, si vanno diffondendo a voce e in iscritto, col nome di « perfetto matrimonio » e che fanno di tal perfetto matrimonio un « matrimonio depravato », come giustamente e meritamente è stato detto. – Ma questa sana istruzione ed educazione religiosa circa il matrimonio cristiano starà ben lontana da quella esagerata educazione fisiologica, con la quale ai dì nostri certi riformatori della vita coniugale presumono di venire in aiuto agli sposi, spendendo moltissime parole su tali questioni fisiologiche, dalle quali tuttavia più che la virtù di una vita casta si apprende l’arte di peccare abilmente. – Perciò ben di cuore facciamo nostre, Venerabili Fratelli, le parole che il Nostro predecessore di f. m. Leone XIII rivolgeva ai Vescovi di tutto il mondo nell’Enciclica sul matrimonio cristiano: «Per quanto si possono estendere i vostri sforzi è l’autorità vostra, fate opera perché presso i popoli affidati alla vostra tutela si mantenga intera e incorrotta la dottrina che Cristo Signore e gli Apostoli, interpreti dei voleri del Cielo, insegnarono, e che la Chiesa cattolica conservò gelosamente e comandò che fosse dai cristiani per tutte le età custodita » . – Ma anche la migliore educazione impartita per mezzo della Chiesa, da sola non basta ad ottenere la conformità del matrimonio alla legge di Dio: all’istruzione della mente, negli sposi deve andar congiunta la ferma volontà di osservare le sante leggi di Dio e della natura intorno al matrimonio. Qualunque teoria altri voglia, o con discorsi o con scritti, affermare e diffondere, i coniugi stabiliscano e propongano con fermezza e costanza di volere, senza alcuna esitazione, attenersi ai comandamenti di Dio in tutto ciò che riguarda il matrimonio: nel prestarsi cioè mutuamente l’aiuto della carità, nel serbare la fedeltà della castità, nel non attentare mai alla stabilità del vincolo, nell’usare dei diritti matrimoniali sempre conforme alla moderazione e pietà cristiana, specialmente nel primo periodo dell’unione, in modo che se, in appresso, le circostanze imponessero la continenza, ad ambedue per l’abitudine contratta riesca più facile osservarla. – Servirà loro di grande aiuto a concepire, mantenere ed attuare una sì ferma volontà, il considerare spesso lo stato loro, e la memoria attiva del Sacramento ricevuto. Si ricordino assiduamente che sono stati santificati e fortificati nei doveri e nella dignità dello stato loro per mezzo di uno speciale Sacramento, la cui efficace virtù, sebbene non imprima carattere, è tuttavia permanente. Riflettano perciò a queste parole, veramente feconde di soda consolazione, del santo Cardinale Roberto Bellarmino, il quale, con altri autorevoli teologi, così piamente sente e scrive: « Il Sacramento del matrimonio si può riguardare in due modi; il primo mentre si celebra; il secondo mentre perdura dopo che è stato celebrato. Infatti è un sacramento simile all’Eucarestia, la quale è Sacramento non solo mentre si fa, ma anche mentre perdura: perché, fin quando vivono i coniugi, la loro unione è sempre il Sacramento di Cristo e della Chiesa » . – Ma perché la grazia di questo Sacramento eserciti tutta la sua efficacia, si richiede altresì, come abbiamo già accennato, il concorso dei coniugi: e questo consiste in ciò che con l’opera ed industria propria si sforzino seriamente di compiere per quanto dipende da loro nell’adempimento dei doveri. Come nell’ordine naturale, perché le forze date da Dio manifestino tutto il loro vigore, bisogna che siano applicate dall’opera e dall’industria umana, e ove questa si trascuri non se ne può trarre alcun profitto, così anche nell’ordine della grazia, le forze che nel ricevere il Sacramento vengono depositate nell’anima, debbono essere esercitate dagli uomini con la propria opera ed industria. Badino dunque gli sposi di non trascurare la grazia propria del Sacramento che sta in loro, ma dandosi alla diligente osservanza dei propri doveri, siano pure difficili, di giorno in giorno sperimenteranno in sé più efficace la virtù della grazia. Se talora si sentiranno alquanto più oppressi dai travagli dello stato e della vita loro, non si lascino abbattere, ma stimino come dette a sé le parole che, circa il sacramento dell’Ordine, San Paolo scriveva al suo dilettissimo discepolo Timoteo, per sollevarlo dalle fatiche e dagli strapazzi ond’era quasi oppresso: «Ti raccomando di ravvivare in te la grazia di Dio che è in te mediante l’imposizione delle mie mani, poiché Iddio non ci ha dato spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza ». – Ma quanto detto finora, Venerabili Fratelli, in gran parte dipende dall’accurata preparazione, sia remota, sia prossima, degli sposi al matrimonio. Non si può infatti negare che tanto il saldo fondamento dell’unione felice, come le rovine delle unioni disgraziate, si vanno preparando e disponendo nel cuore dei fanciulli e delle fanciulle sin dalla loro puerizia e giovinezza. È da temere che coloro che nel tempo precedente alle nozze, dappertutto non cercavano che se stessi e le proprie comodità, e solevano accondiscendere ai propri desideri, anche se turpi, giunti poi al matrimonio, siano poi tali quali erano prima, e che abbiano poi a mietere ciò che hanno seminato: vale a dire che abbiano a ritrovare tra le mura domestiche tristezza, pianto, disprezzo scambievole, litigi, avversione di animo, noia della vita coniugale, e, ciò che è peggio, abbiano a trovare se stessi con le proprie sfrenate passioni. – I futuri sposi dunque si presentino al matrimonio ben disposti e ben preparati, perché possano a vicenda porgersi il dovuto conforto nelle vicende tristi e liete della vita, e molto più nel procurarsi la salute eterna e nel formare l’uomo interiore nella misura dell’età piena di Cristo. Ciò servirà loro di aiuto a dimostrarsi veramente tali verso la loro diletta prole, quali Iddio vuole che siano i genitori verso i loro figli: cioè un padre che sia veramente padre, una madre che sia veramente madre; sicché, grazie al loro pio amore e alle loro cure assidue, la casa paterna diventi per i figli, anche nella povertà più dura, in questa valle di lacrime, quasi un’immagine di quel paradiso di letizia, dove il Creatore dell’uman genere aveva collocato i nostri progenitori. Anche per questo avverrà che dei figli sapranno fare degli uomini perfetti e dei perfetti cristiani, imbevuti dello schietto sentimento della Chiesa cattolica, e infonderanno loro quel nobile amore e sentimento di patria ch’è richiesto dalla pietà e dalla riconoscenza. – Pertanto, sia coloro che pensano di contrarre un giorno questo santo connubio, sia coloro che hanno cura dell’educazione della cristiana gioventù, facciano grandissimo conto di questo avvenire, lo preparino lieto e impediscano che sia triste, tenendo in mente gli ammonimenti da Noi dati nell’Enciclica sopra l’educazione: « Sono dunque da correggere le inclinazioni disordinate, da promuovere e ordinare le buone sin dalla più tenera infanzia, e soprattutto si deve illuminare l’intelletto e fortificare la volontà con le verità soprannaturali e i mezzi della grazia, senza i quali non si può né dominare le perverse inclinazioni né raggiungere la debita perfezione educativa della Chiesa, compiutamente dotata da Cristo della dottrina divina e dei Sacramenti, mezzi efficaci della grazia » . – Rispetto poi alla preparazione prossima di un buon matrimonio è di somma importanza la diligenza nella scelta del coniuge; da essa infatti dipende molto la felicità o l’infelicità futura del matrimonio, potendo l’un coniuge essere all’altro di grande aiuto a condurre nello stato coniugale una vita cristiana, oppure di grande pericolo ed impedimento. Affinché dunque non abbia per tutta la loro vita da scontare la pena di una scelta inconsiderata, chi desidera sposarsi sottoponga a matura deliberazione la scelta della persona con la quale dovrà poi sempre vivere; ed in siffatta decisione abbia anzitutto riguardo a Dio ed alla vera religione di Cristo, indi a se medesimo, al coniuge, alla futura prole, come pure alla umana e civile società, la quale dal matrimonio nasce come da propria fonte. Implori con fervore il divino aiuto, perché possa scegliere secondo la cristiana prudenza, e non già spinto dal cieco e indomito impeto della passione, o dal mero desiderio di lucro, o da altro men nobile impulso, bensì da vero e ordinato amore, e da sincero affetto verso il futuro coniuge, cercando nel matrimonio quei fini appunto per i quali esso fu da Dio istituito. Non tralasci infine di richiedere il prudente consiglio dei genitori sulla scelta da fare; anzi, di questo faccia gran conto, affinché mediante le loro maggiore esperienza e matura conoscenza delle cose umane, abbia ad evitare dannosi errori, e ottenga pure più copiosamente, nel contrarre il matrimonio, la divina benedizione del quarto comandamento: «Onora il padre e la madre tua (che è il primo comandamento della promessa): affinché tu sia felice e viva lungamente sopra la terra ». E poiché non di rado l’esatta osservanza della legge divina e l’onestà del matrimonio sono esposte a gravi difficoltà, quando i conıugi sono oppressi dalla scarsezza dei mezzi e dalla grande penuria di beni temporali, bisognerà certamente, nel miglior modo possibile, venire in aiuto delle loro necessità.- Ed in primo luogo dovrà con ogni sforzo procurarsi quanto fu già sapientissimamente decretato dal nostro predecessore Leone XIII, cioè che nella civile società le condizioni economiche e sociali siano così ordinate, che ogni padre di famiglia possa meritare e lucrare quanto è necessario al sostentamento proprio, della moglie e dei figli, secondo le diverse condizioni sociali e locali, « poiché è dovuta all’operaio la sua mercede », e il negarla o il non darla in equa misura è commettere una grande ingiustizia, che dalla Sacra Scrittura viene annoverata tra i massimi peccati. Così pure non è lecito pattuire salari tanto esigui, che non siano sufficienti per le condizioni dei tempi e le circostanze in cui si trova la famiglia da sostenere. – Occorrerà tuttavia provvedere che gli stessi coniugi, già molto tempo prima di contrarre matrimonio, rimuovano gli ostacoli materiali, o procurino almeno di diminuirli, lasciandosi istruire da persone esperte sul modo di riuscirvi efficacemente, nonché onestamente. Se essi da soli non bastano, si provveda con l’unione degli sforzi delle persone di simili condizioni, e mediante associazioni private e pubbliche, ai modi di soccorrere alle necessità della vita. – Allorché poi i mezzi fin qui indicati non riescano a pareggiare le spese, soprattutto se la famiglia è piuttosto numerosa o meno capace, l’amore cristiano per il prossimo richiede assolutamente che la carità cristiana supplisca a quanto manca agli indigenti, che i ricchi anzitutto assistano i più poveri, e quelli che hanno beni superflui, anziché impiegarli in vane spese o addirittura dissiparli, li impieghino per la vita e la sanità di coloro che mancano del necessario. Quelli che nei poveri daranno a Cristo delle proprie sostanze, riceveranno dal Signore abbondantissima mercede, allorché Egli verrà a giudicare il mondo; coloro invece che faranno il contrario saranno puniti. Infatti non invano avverte l’Apostolo: « Chi avrà dei beni di questo mondo, e vedrà il suo fratello in necessità, e gli chiuderà le sue viscere, come la carità di Dio dimora in lui? » . – Qualora poi i privati sussidi non bastassero, compete alla pubblica autorità supplire alle forze insufficienti dei privati, specialmente in una cosa di tanta importanza per il bene comune, quanto è la condizione delle famiglie e dei coniugi che sia degna di uomini. Se infatti alle famiglie, a quelle specialmente che hanno una numerosa figliolanza, mancano convenienti abitazioni; se l’uomo non riesce a trovare l’opportunità di procacciarsi lavoro e vitto; se le cose occorrenti agli usi quotidiani non possono comprarsi che a prezzi esagerati; se perfino le madri di famiglia, con non piccolo danno dell’economia domestica, sono gravate dalla necessità e dal peso di guadagnar denaro col proprio lavoro; se esse, negli ordinari o anche straordinari travagli della maternità, mancano del conveniente vitto, delle medicine, dell’aiuto di un medico esperto, e di altre simili cose: non è chi non vegga quanto grande pericolo ne possa nascere per la pubblica sicurezza, la salvezza e la vita stessa della società civile, se tali uomini, non avendo più nulla da temere che sia loro tolto, siano spinti a tanta disperazione, che osino ripromettersi di poter forse conseguire molto dallo sconvolgimento dello Stato e di ogni cosa. – Quanti dunque hanno cura della cosa pubblica e del bene comune, non possono trascurare queste materiali necessità dei coniugi e delle famiglie, senza arrecare grave danno alla cittadinanza ed al bene comune; ed è perciò necessario che, nel fare le leggi e nell’ordinare le pubbliche spese, tengano in massimo conto la cura di venire in aiuto alla penuria delle famiglie povere, stimando ciò tra i precipui doveri della loro carica. – Con dolore poi avvertiamo non essere oggi raro il caso in cui, contrariamente al retto ordine, molto facilmente si provvede di pronto e copioso sussidio la madre e la prole illegittima (sebbene a questa pure si debba soccorrere, anche per impedire mali maggiori), mentre alla legittima o è negato il soccorso, o concesso grettamente e quasi strappato a forza. – Sennonché, non soltanto per quello che spetta ai beni temporali, Venerabili Fratelli, importa moltissimo alla pubblica autorità che il matrimonio e la famiglia siano bene costituiti, ma anche per quanto concerne i beni propri delle anime: il sancire cioè giuste leggi, che riguardino la fedeltà della castità e il mutuo aiuto dei coniugi e cose simili, e la loro fedele osservanza, giacché, come insegna la storia, la salvezza dello Stato e la prosperità della vita temporale dei cittadini non possono restare salde e sicure, ove vacilli il fondamento su cui si appoggiano, che è il retto ordine morale, e ove per i vizi dei cittadini si costruisca la fonte donde nasce la comunità, cioè il matrimonio e la famiglia. – Ma alla tutela dell’ordine morale non bastano le forze esterne della comunità e le pene, e nemmeno il proporre agli uomini la bellezza stessa della virtù e la sua necessità; è necessario che vi si aggiunga l’autorità religiosa, che illumini la mente con la verità, diriga la volontà e valga a fortificare l’umana fragilità con gli aiuti della divina grazia. Tale autorità è soltanto la Chiesa, istituita da nostro Signore Gesù Cristo. – Pertanto, vivamente esortiamo nel Signore quanti hanno la suprema potestà civile ad entrare in concorde amicizia, e sempre più rafforzarla, con questa Chiesa di Cristo, affinché mediante la collaborazione e la solerte opera della duplice potestà si allontanino i danni enormi che, per le irruenti e procaci libertà contro il matrimonio e la famiglia, minacciano non solo la Chiesa, ma la stessa civile società. – A questo gravissimo compito della Chiesa possono infatti giovare assai le leggi civili, se nei loro ordinamenti terranno conto di ciò che prescrive la legge divina ed ecclesiastica, e stabiliranno pene contro i violatori. Non mancano infatti persone che stimano essere loro lecito, anche secondo la legge morale, quanto dalle leggi dello Stato è permesso o almeno non è punito; oppure, anche contro la voce della coscienza, compiono queste azioni poiché né temono Dio, né vedono esservi alcunché da temere dalle umane leggi; donde non di rado e a se stessi e a moltissimi altri sono causa di rovina. – Né poi è da temere alcun pericolo o menomazione dei diritti e dell’integrità della società civile da questo accordo con la Chiesa. Sono insussistenti e del tutto vani siffatti sospetti e timori, come ebbe già a mostrare eloquentemente Leone XIII: «Non v’è dubbio — egli dice — che Gesù Cristo, fondatore della Chiesa, abbia voluto la potestà sacra distinta dalla civile, e che l’una e l’altra avessero nell’ordine proprio libero e spedito l’esercizio del proprio potere, ma con questa condizione tuttavia, che torna bene all’una ed all’altra e che è di molta importanza per tutti gli uomini, che cioè fossero tra loro unione e concordia … Se l’autorità civile va in pieno accordo con la sacra potestà della Chiesa, non può non derivarne grande utilità ad entrambe. Dell’una infatti si accresce la dignità, e sotto la guida della religione il suo governo non riuscirà mai ingiusto; all’altra poi si offrono aiuti di tutela e di difesa per il comune vantaggio dei fedeli » . – E, per portare un esempio recente e illustre, così appunto è avvenuto, secondo il retto ordine e del tutto secondo la legge di Cristo, che nelle solenni convenzioni felicemente stipulate tra la Santa Sede e il Regno d’Italia, anche rispetto ai matrimoni fossero stabiliti un pacifico accordo ed una amichevole cooperazione, quali si addiceva alla gloriosa storia ed alle vetuste memorie sacre del popolo italiano. Così infatti si legge decretato nei Patti Lateranensi: « Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto del matrimonio, ch’è base della famiglia, la dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al Sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili » . A tale norma fondamentale sono aggiunte ulteriori determinazioni del mutuo accordo. – Questo può a tutti essere di esempio e di argomento, onde anche nella nostra età nella quale, purtroppo, così di frequente si va predicando una assoluta separazione dell’autorità civile dalla Chiesa, anzi da qualsiasi religione, possano le due supreme potestà, senza alcuno scambievole detrimento dei propri diritti e poteri sovrani, congiungersi ed associarsi con mutua concordia e patti amichevoli, per il bene comune dell’una e dell’altra società, e possa aversi dalle due potestà una comune cura per ciò che spetta al matrimonio, in modo che siano rimossi dalle unioni coniugali cristiane pericoli perniciosi, anzi la già imminente rovina. – Tutti questi argomenti, Venerabili Fratelli, che con Voi abbiamo attentamente ponderato, mossi dalla pastorale sollecitudine, vorremmo che fossero largamente diffusi, secondo le norme della cristiana prudenza, tra tutti i Nostri diletti figli, alle vostre cure immediatamente commessi, tra quanti sono membri della grande famiglia cristiana, affinché tutti pienamente conoscano la sana dottrina intorno al matrimonio, si guardino diligentemente dai pericoli tesi dai divulgatori di errori, e soprattutto, « rinnegata l’empietà e i desideri del secolo, vivano in questo secolo, con temperanza, con giustizia e con pietà, aspettando la beata speranza, e l’apparizione della gloria del grande Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo ». – Ci conceda il Padre onnipotente « da cui ogni paternità in cielo e in terra prende nome », il quale corrobora i deboli e dà coraggio ai pusillanimi e ai timidi; Ci conceda Cristo Signore e Redentore, « istitutore e perfezionatore dei venerabili Sacramenti », il quale volle e fece del matrimonio una mistica immagine della sua ineffabile unione con la Chiesa; Ci conceda lo Spirito Santo, Dio Carità, lume dei cuori e vigore delle menti, che le cose da Noi esposte nella presente Nostra lettera intorno al santo sacramento del matrimonio, alla mirabile legge e volontà divina rispetto ad esso, agli errori e pericoli che sovrastano, ai rimedi con cui ad essi si può ovviare, tutti valgano a bene intenderle, ad accettarle con pronta volontà e, con l’aiuto della grazia divina, a metterle in opera; sicché rifioriscano e prosperino nei matrimoni cristiani la fecondità a Dio dedicata, la fedeltà illibata, l’inconcussa stabilità, la sublimità del sacramento e la pienezza delle grazie. – Ed affinché Iddio, che delle grazie tutte è autore e dal quale è tutto il « volere e l’eseguire », si degni di compiere e concederci tutto ciò, secondo la grandezza della sua benignità ed onnipotenza, mentre Noi con ogni umiltà alziamo fervide preghiere al Trono della sua grazia, come pegno della copiosa benedizione dello stesso Onnipotente Iddio, a voi, Venerabili Fratelli, al clero e al popolo commesso alle vostre assidue e vigilanti cure, impartiamo con ogni affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 31 dicembre 1930, nell’anno nono del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

UN’ENCICLICA al giorno toglie il MODERNISTA-APOSTATA di torno: “ UBI ARCANO DEI CONSILIO”

– UBI ARCANO DEI CONSILIO – 

DEL SOMMO PONTEFICE PIO XI

  “Pax Christi in regno Christi: è questo il sottotitolo vero di questa prima enciclica del Santo Padre Ambrogio Achille Ratti, S. S. Pio XI, appena insediatosi nella Sede Apostolica. Dopo una lucida analisi dei mali della società dell’epoca, in primis la lotta di classe, il nazionalismo esasperato, l’allontanamento da Dio, la famiglia e la scuola senza Dio, mali che coinvolgono stati, famiglie, e singoli, compresi i chierici in piena crisi morale e spirituale deputati alla guida dei fedeli, dà opportune indicazioni sul modo di restaurare la pace, la cui prima cura è la pacificazione degli animi, premessa indispensabile che può condurre agli effetti morali e materiali della vera pace. Il Pontefice indica, come già i suoi predecessori, il “Regno di Cristo”, ordinato secondo i principi evangelici e le direttive magisteriali della Chiesa Cattolica, come unica vera e duratura soluzione delle crisi evidenti in ogni ambito. L’invito è ancor più valido oggi, tempi in cui il marcio è arrivato a livello del naso, e non si intravedono soluzioni dopo averne tentate diverse, politiche, economiche, sociali in modo inconcludente, anzi con una caduta a capofitto nell’inferno materiale di cui già tutti sperimentiamo le conseguenze. Non ci illudiamo, non esistono altre soluzioni, e chi le dovesse proporre, sotto ogni bandiera e a qualsiasi titolo, è semplicemente un falso ingannatore. La pace, di cui tanto si parla al punto da giustificare assurde guerre per “imporre” una pace ingiusta, umiliante ed unilaterale utile a tenere buoni gli oppressi incatenati ai piedi degli oppressori, si può avere solo “restaurando tutto in Cristo”, secondo le parole di S. Pio X, ed “instaurando la pace di Cristo nel Regno di Cristo”, secondo il pensiero analogo di Pio XI. La lettera è impegnativa nella lettura, ma letta con attenzione e meditata, offre svariati punti di riflessione nei quali ritrovare l’anima cattolica, ormai oscurata dall’indifferentismo e dall’ecumenismo satanico-massonico, imposto da “quelli che odiano Dio e tutti gli uomini” che, dopo aver eclissato la Chiesa di Cristo ed averla sostituita con la brutta copia finanche della “sinagoga di satana”, per mezzo di burattini decrepiti, logori, demenziali e facilmente smascherabili da chi possiede ancora qualche bastoncello nella retina, o qualche neurone vitale nella corteccia cerebrale. Ma bando alle considerazioni e godiamoci finalmente uno scritto cattolico di un Santo Padre “vero”, liberamente operante … almeno negli scritti.

AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI ED AGLI ALTRI ORDINARI AVENTI PACE E COMUNIONE CON LA SEDE APOSTOLICA: SULLA QUESTIONE ROMANA

Ubi arcano Dei consilio ac nutu Nos, qui nullia sane meritis commendaremur, ad … ”

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Fin dal primo momento in cui, per gli imperscrutabili disegni di Dio, Ci vedemmo elevati, sebbene indegni, a questa cattedra di verità e di carità, abbiamo vivamente desiderato di rivolgere la parola del cuore a voi tutti, Venerabili Fratelli, e a tutti i diletti vostri figli dei quali voi avete il governo e la cura immediata. A questo desiderio si ispirava la solenne benedizione che, urbi et orbi, dall’alto della Basilica Vaticana, appena eletti, impartimmo ad un’immensa moltitudine di popolo: benedizione che voi tutti, da tutte le parti del mondo, unendovi al Sacro Collegio Cardinalizio, accoglieste con manifestazione di grata letizia: il che fu per Noi, nell’accingerci ad assumere d’improvviso il gravissimo officio, il più soave conforto dopo quello che Ci proveniva dalla fiducia nell’aiuto divino. Ora « la Nostra parola viene a voi » nell’imminenza del giorno natalizio di Nostro Signor Gesù Cristo ed all’inizio del nuovo anno, e viene come strenna festiva ed augurale, che il Padre manda a tutti i suoi figli. – Di più presto soddisfare il Nostro desiderio Ci impedirono finora molteplici ragioni. Fu dapprima la gara di filiale pietà, con la quale da tutte le parti del mondo, in lettere senza numero, Ci giungeva il saluto dei fratelli e dei figli, che davano il benvenuto e presentavano i loro primi devoti ossequi al novello Successore di S. Pietro. Si aggiungeva poi subito la prima personale esperienza di quella che S. Paolo chiamava « il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese ». E con le cure ordinarie vennero pure le straordinarie: quelle dei gravissimi negozi, che trovammo già avviati e che dovemmo proseguire, riguardanti i Luoghi Santi e le condizioni di cristianità e chiese fra le più cospicue dell’orbe cattolico; convegni e trattative che toccavano le sorti di popoli e nazioni, dove, fedeli al ministero di conciliazione e di pace da Dio affidatoci, cercammo di far risonare la parola della carità insieme con quella della giustizia, e di procurare la dovuta considerazione a quei valori e a quegli interessi, che, per essere spirituali, non sono i meno grandi né i meno importanti, anzi lo sono più e sopra tutti gli altri; le sofferenze inenarrabili di popoli lontani, falciati dalla fame e da ogni genere di calamità, per i quali, mentre Ci affrettavamo a inviare il maggior aiuto a Noi possibile nelle Nostre presenti angustie, invocavamo insieme l’aiuto del mondo intero: e infine le competizioni e le violenze scoppiate in seno allo stesso popolo diletto, dal quale avemmo i natali ed in mezzo al quale la mano di Dio collocò la Cattedra di Pietro: competizioni e violenze che parvero mettere in forse le stesse sorti del Nostro paese e che Noi non tralasciammo con ogni mezzo di sedare. – Non mancarono tuttavia straordinari avvenimenti che Ci portarono nell’animo la nota più lieta: il XXVI Congresso Eucaristico internazionale e le solennità trecentenarie della Sacra Congregazione di Propaganda. Furono quelle inesprimibili consolazioni e gioie spirituali, che mai avremmo immaginato potessero in tanta copia riversarsi sui primi inizi del Nostro Pontificato. Vedemmo allora quasi tutti i Porporati del Sacro Collegio e potemmo anche intrattenerci a privati colloqui con centinaia di Vescovi accorsi da tutte le parti della terra, quanti, nelle condizioni ordinarie, appena avremmo veduto in parecchi anni; a migliaia e migliaia vedemmo pure e paternamente benedicemmo larghe ed insigni rappresentanze dell’immensa famiglia che Iddio Ci ha affidata, proprio come dice la sacra pagina apocalittica, « di ogni tribù, lingua, popolo e nazione ». E con loro assistemmo a spettacoli veramente divini: vedemmo il divin Redentore sotto i veli eucaristici, quasi a riprendere il suo posto di Re degli uomini, delle città e dei popoli, venir portato in grandioso e veramente regale trionfo di fede, di adorazione e di amore, nel centro di questa Nostra Roma, in un immenso corteo, nel quale popoli e nazioni di tutte le parti del mondo erano rappresentati. Vedemmo lo Spirito di Dio ridiscendere nelle anime dei sacerdoti e dei fedeli e riaccendere in esse lo spirito di preghiera e di apostolato, come nella prima Pentecoste; e la fede vivace dei Romani di nuovo annunciarsi nell’universo mondo, con magnifica glorificazione di Dio ed edificazione delle anime. Ed intanto la Vergine santa, Madre di Dio e Madre nostra benignissima, Maria, Ella che già amorevolmente Ci aveva sorriso dai santuari di Częstochowa e di Ostrabrama, dalla taumaturgica grotta di Lourdes e dall’aerea cuspide della Nostra Milano, nonché dal piissimo santuario di Rho, degnavasi anche gradire l’omaggio del Nostro amore e della Nostra devozione, allorquando, riparati i gravissimi danni dell’incendio, restituivamo al venerabile santuario di Loreto la devota effige già prima presso di Noi preparata, da Noi benedetta ed incoronata. Fu quello uno splendidissimo trionfo di Maria, cui parteciparono in nobile gara, da Roma a Loreto, dovunque passò la sacra icona, le fedeli popolazioni, accorrendo da tutte le vicinanze, con una spontanea e luminosa affermazione di profonda religiosità, nella quale rifulsero il tenero affetto alla Santissima Vergine e il devoto attaccamento al Vicario di Gesù Cristo. – Per l’eloquenza di svariati avvenimenti, che Noi tramandiamo alla edificazione dei posteri, veniva sempre più chiarendosi alla Nostra mente quello che sembra rivendicare a sé le prime e più sollecite cure del Nostro apostolico ministero, e, per ciò stesso, quello che dovessimo dire con la prima solenne parola a voi rivolta.

Gli uomini, le classi sociali, i popoli, non hanno ancora ritrovato la vera pace dopo la tremenda guerra, e perciò ancora non godono di quell’operosa e feconda tranquillità nell’ordine che è il sospiro ed il bisogno di tutti: ecco la triste verità che da tutte le parti si presenta. Riconoscere la realtà e la gravità di tanto male ed indagarne le cause è la prima cosa e più necessaria a farsi da chi, come Noi, voglia con frutto studiare ed applicare i mezzi per combattere il male stesso efficacemente. È questo l’obbligo che la coscienza dell’apostolico officio Ci fa sentire imperioso e che Ci proponiamo di adempiere, sia ora con questa prima lettera enciclica, sia in appresso con tutta la sollecitudine del pontificale ministero. Purtroppo continuano nel mondo le stesse tristissime condizioni che formarono la costante ed angosciosa cura di tutto il pontificato del venerato Nostro antecessore Benedetto XV; e perciò Noi, come è naturale, facciamo Nostri gli stessi pensieri e propositi suoi a questo riguardo. Così possano essi divenire i pensieri ed i propositi di tutti, sì che, con l’aiuto di Dio e con la generosa cooperazione di tutti i buoni, se ne veggano presto copiosi i frutti nella riconciliazione degli animi. – Sembrano scritte per i nostri giorni le ispirate parole dei grandi Profeti: « Aspettammo la pace, ma non c’è alcun bene; il tempo della salvezza, ed ecco il terrore, l’ora del rimedio, ed ecco il timore. Aspettammo la luce, ed ecco le tenebre;  … aspettammo la giustizia, e non c’è; la salvezza, ma essa è ancora lontana da noi ». Si sono infatti deposte le armi fra i belligeranti di ieri, ma ecco nuovi orrori e nuovi timori di guerre nel vicino oriente: condizioni terribilmente aggravate in una grandissima parte di quelle sterminate regioni, dalla fame, dalle epidemie, dalle devastazioni che mietono innumerevoli vittime, massime fra i vecchi, le donne ed i bambini innocenti. Su tutto quanto, si può ben dire, l’immenso teatro della guerra mondiale le vecchie rivalità continuano, dissimulate nei maneggi della politica, palliate nella fluttuazione della finanza, ostentate nella stampa, in giornali e periodici di ogni fatta, penetrando ben anche nelle regioni, naturalmente serene e pacifiche, degli studi, delle scienze e dell’arte. – Quindi la vita pubblica ancora avvolta in una fosca nebbia di odî e di mutue offese, che non dà respiro ai popoli. Che se più gravemente soffrono le nazioni vinte, non mancano guai gravissimi alle vincitrici; le minori si dolgono di essere sopraffatte o sfruttate dalle maggiori; le maggiori si adontano e si lagnano di trovarsi malviste o insidiate dalle minori: tutte risentono i tristi effetti della passata guerra. Né quelle stesse nazioni che andarono esenti dall’immane flagello ne scansarono i mali, né ancora vanno libere dal risentirne gli effetti, come e più li risentono le antiche belligeranti. I danni del passato, tuttora persistenti, vanno sempre più aggravandosi per l’impossibilità di pronti rimedi, dopo che i ripetuti tentativi di statisti e politici, per curare i mali della società, a nulla hanno approdato, se pure non li hanno coi loro medesimi fallimenti aggravati. Tanto più perciò si rincrudisce l’angoscia delle genti per la minaccia sempre più forte di nuove guerre le quali non potrebbero essere che più spaventose e desolatrici delle passate; donde il vivere in una perpetua condizione di pace armata, che è quasi un assetto di guerra, il quale dissangua le finanze dei popoli, ne sciupa il fiore della gioventù e ne avvelena e intorbida le migliori fonti di vita fisica, intellettuale, religiosa e morale. – Altro, anche più deplorevole male, si aggiunge alle inimicizie esterne dei popoli per le discordie interne, che minacciano la compagine degli Stati e della stessa civile società. Primeggia la lotta di classe divenuta ormai il morbo più inveterato e mortale della società, quasi verme roditore, che ne insidia tutte le forze vitali: lavoro, industria, arte, commercio, agricoltura, tutto ciò insomma che conferisce al benessere e alla prosperità pubblica e privata. E la lotta appare sempre più irreconciliabile, mentre si combatte tra gli uni insaziabilmente avidi di beni materiali, e gli altri degli stessi beni egoisticamente tenaci: nonché fra i soggetti e le classi dirigenti, per la comune brama di godere e di comandare. Quindi le frequenti sospensioni del lavoro da una parte e dall’altra provocate; le rivoluzioni e sommosse, le reazioni e repressioni; il malcontento di tutti e il danno comune. – Si aggiungano le lotte dei partiti, non sempre ingaggiate per una serena divergenza di opinioni circa il pubblico bene e per la sincera e disinteressata ricerca di esso, ma per bramosia di prevalere ed in servigio di particolari interessi a danno degli altri. Onde il trascendere sovente alla congiura, all’insidia, alle depredazioni contro i cittadini e contro la stessa autorità e i suoi ministri; eccedere con minacce di pubblici moti o anche con aperte sommosse ed altri disordini, tanto più deplorabili e dannosi per un popolo chiamato a partecipare, in qualche maggior grado, alla vita pubblica ed al governo, come avviene nei moderni ordini rappresentativi, i quali, pur non essendo per sé in opposizione alla dottrina cattolica, sempre conciliabile con ogni forma ragionevole e giusta di regime, sono tuttavia i più esposti al sovvertimento delle fazioni. – Ed è ancor più doloroso notare come ormai il sovvertimento sia penetrato anche nel mite e pacifico santuario della famiglia, che forma il primo nucleo della società, dove i mali germi della disgregazione, già da tempo sparsi, sono stati più che mai fomentati nel tempo della guerra dall’allontanamento dei padri e dei figli dal tetto familiare e dalla tanto aumentata licenza di costumi. Così vedonsi bene spesso i figli alienarsi dal padre, i fratelli inimicarsi coi fratelli, i padroni coi servi e i servi coi padroni: troppo spesso dimenticata la stessa santità del vincolo coniugale e dimenticati i doveri che esso impone davanti a Dio e davanti alla società. – E come del malessere generale di un organismo, o di una sua notevole parte, si risentono anche le parti minime, così anche agli individui si propagano i mali che affliggono la società e la famiglia. Lamentiamo infatti il diffondersi di un’irrequietezza morbosa in ogni età e condizione; il disprezzo dell’ubbidienza e l’intolleranza della fatica passare in costume; il pudore delle donne e delle fanciulle conculcato nella licenza del vestire, del conversare, delle danze invereconde, con l’insulto aperto all’altrui miseria, reso più provocante dall’ostentazione del lusso. Di qui l’aumentarsi del numero degli spostati, che finiscono quasi sempre con ingrossare le file dei sovvertitori dei pubblici e privati ordinamenti. – Quindi non più fiduciosa sicurezza, ma trepida incertezza e sempre nuovi timori; non operosa laboriosità, ma indolenza e disoccupazione; non più la serena tranquillità dell’ordine, nel che consiste la pace, ma dappertutto un irrequieto spirito di rivolta. Ond’è che, illanguidite le industrie, diminuiti e ritardati i commerci, reso sempre più difficile il culto delle scienze, delle lettere e delle arti, e, ciò ch’è molto più grave, danneggiata la stessa civiltà cristiana, per inevitabile conseguenza, invece del tanto vantato progresso, si aggrava sempre più un regresso doloroso verso l’imbarbarimento della società. – A tutti i mali ricordati voglionsi aggiungere e porre in cima quelli che sfuggono all’osservatore superficiale, all’uomo del senso, il quale, come dice l’Apostolo, non comprende « le cose dello spirito di Dio », ma che pur costituiscono quanto hanno di più grave e profondo le odierne piaghe sociali. Vogliamo dire quei mali che trascendono la materia e la natura, toccando l’ordine più propriamente spirituale e religioso, cioè la vita soprannaturale della anime; e sono mali tanto più deplorabili quanto più lo spirito sovrasta alla materia. Infatti, oltre il rilassamento troppo diffuso dei cristiani doveri, che abbiamo accennato, Noi lamentiamo con voi, Venerabili Fratelli, che non siano tuttora restituite alla preghiera ed al culto non poche delle moltissime chiese cui la guerra volse ad usi profani; che restino ancora chiusi molti seminari, dove unicamente alla vita religiosa dei popoli si preparano e formano idonei duci e maestri; decimate quasi in tutti i paesi le file del clero, parte del quale o cadde vittima della guerra nell’esercizio del sacro ministero, o n’ebbe più o meno turbata la disciplina e lo spirito per le troppo violente e contrastanti condizioni di vita; ridotta in troppi luoghi al silenzio la predicazione della divina parola coi suoi necessari ed inestimabili benefici « per l’edificazione del corpo mistico di Cristo ». – I danni spirituali della terribile guerra si fecero sentire fino agli estremi confini del mondo e fin nelle più interne ed appartate regioni dei lontani continenti, perché anche i missionari dovettero abbandonare i campi delle loro apostoliche fatiche e purtroppo molti non poterono più tornarvi, interrompendo ed abbandonando magnifiche conquiste di elevazione morale e materiale, di religione e di civiltà. Vero è che queste grandi iatture spirituali non furono senza qualche prezioso compenso, mentre più chiaramente apparve, smentendo viete calunnie, quanto alta e pura e generosa ardesse nei cuori consacrati a Dio la fiamma della carità di patria e la coscienza di tutti i doveri; mentre più larghi si profusero i supremi benefìci del sacro ministero sui campi cruenti dove la morte mieteva a migliaia le vittime; mentre moltissime anime, deposti, in presenza di mirabili esempi d’abnegazione, gli antichi pregiudizi, si riaccostarono al sacerdozio ed alla Chiesa. Ma di questo andiamo unicamente debitori all’infinita bontà e sapienza di Dio, che anche dal male sa trarre il bene. – Fin qui abbiamo esposto i mali che affliggono la società ai nostri giorni; è tempo ormai di ricercarne le cause con tutto lo studio che Ci sarà possibile, pure avendone già toccate alcune.

E fin dall’inizio, Venerabili Fratelli, Ci sembra di udire il divino consolatore e medico delle umane infermità ripetere le grandi parole: «Tutti questi mali provengono dall’intimo ». Fu bensì firmata la pace fra i belligeranti con tutte le esteriori solennità; ma questa restò scritta nei pubblici istrumenti, non fu già accolta nei cuori, che ancora nutrono il desiderio della lotta e minacciano sempre più gravemente la tranquillità del civile consorzio. Troppo a lungo il diritto della violenza ebbe fra gli uomini l’impero, attutendo e quasi annientando i sensi naturali della misericordia e della compassione, che la legge della carità cristiana aveva sublimati; né  la pace fittizia, fissata sulla carta, ha risvegliato ancora tali nobili sentimenti. Di qui l’abito della violenza e dell’odio troppo lungamente intrattenuto e fattosi quasi natura in molti, anzi in troppi; di qui il facile sopravvento dei ciechi elementi inferiori, di quella legge delle membra, « repugnante alla legge dello spirito », che faceva gemere l’apostolo Paolo. – Gli uomini non più fratelli agli uomini, come detta la legge cristiana, ma quasi stranieri e nemici; smarrito il senso della dignità personale e del valore della stessa umana persona nel brutale prevalere della forza e del numero; gli uni intesi a sfruttare gli altri per questo sol fine di meglio e più largamente godere dei beni di questa vita; tutti erranti, perché rivolti unicamente ai beni materiali e temporali, e dimentichi dei beni spirituali ed eterni al cui acquisto Gesù Redentore, mediante il perenne magistero della Chiesa, ci invita. Ora, è nella natura stessa dei beni materiali che la loro disordinata ricerca diventi radice di ogni male e segnatamente di abbassamento morale e di discordie. Infatti da una parte non possono quei beni, in se stessi vili e finiti, appagare le nobili aspirazioni del cuore umano, che, creato da Dio per Iddio, è necessariamente inquieto, finché in Dio non riposi. Dall’altra parte (al contrario dei beni dello spirito, che quanto più si comunicano tanto più arricchiscono senza mai diminuire) i beni materiali quanto più si spartiscono fra molti, più scemano nei singoli, dovendosi di necessità sottrarre agli uni quello che agli altri è dato; onde non possono mai né contentare tutti egualmente, né appagare alcuno interamente, e con ciò diventano fonte di divisione ed insieme afflizione di spirito, come li sperimentò il sapiente Salomone: « vanità delle vanità … e un inseguire il vento ». E ciò avviene nella società non meno che negli individui. «Donde mai le guerre e le contese tra voi ? — domanda l’apostolo San Giacomo — Non forse dalle vostre concupiscenze? ». – Così la cupidigia del godere, la « concupiscenza della carne », si fa incentivo, il più esiziale, di scissioni non solo nelle famiglie, ma anche nelle città; la cupidigia dell’avere, la « concupiscenza degli occhi », diviene lotta di classe ed egoismo sociale; la cupidigia del comandare e del sovrastare, la « superbia della vita » si converte in concorrenze, in competizioni di partiti, in perpetua gara di ambizioni, fino all’aperta ribellione all’autorità, al delitto di lesa maestà, al parricidio stesso della patria. – Ed è questa esorbitanza di desideri, questa cupidigia di beni materiali, che diviene pure fonte di lotte e di rivalità internazionali, quando si presenta palliata e quasi giustificata da più alte ragioni di Stato o di pubblico bene, dall’amore cioè di patria e di nazione. Poiché anche questo amore, che è per sé incitamento di molte virtù ed anche di mirabili eroismi, quando sia regolato dalla legge cristiana, diviene occasione ed incentivo di gravi ingiustizie, quando, da giusto amor di patria, diventa immoderato nazionalismo; quando dimentica che tutti i popoli sono fratelli nella grande famiglia dell’umanità, che anche le altre nazioni hanno diritto a vivere e prosperare, che non è mai né lecito né savio disgiungere l’utile dall’onesto, e che infine, « la giustizia è quella che solleva le nazione, laddove il peccato fa miseri i popoli ». Onde il vantaggio ottenuto in questo modo alla propria famiglia, città o nazione, può ben sembrare (il pensiero è di Sant’Agostino) lieto e splendido successo, ma è fragile cosa e tale da ispirare i più paurosi timori di repentina rovina: « gioia cristallina, splendida, ma fragile, sulla quale sovrasta ancora più terribile il timore che improvvisamente si spezzi ». – Senonché della mancata pace e dei mali che conseguono dall’accennata mancanza, vi è una causa più alta insieme e più profonda; una causa che già prima della grande guerra era venuta largamente preparandosi; una causa alla quale l’immane calamità avrebbe dovuto essere rimedio, se tutti avessero capito l’alto linguaggio dei grandi avvenimenti. Sta scritto nel libro di Dio: « quelli che abbandonarono il Signore andranno consunti »; e non meno noto è ciò che Gesù Redentore, Maestro degli uomini, ha detto: « senza di me nulla potete fare »; ed ancora: « chi non raccoglie meco, disperde ». – Queste divine parole si sono avverate, ed ancora oggi vanno avverandosi sotto i nostri occhi. Gli uomini si sono allontanati da Dio e da Gesù Cristo e per questo sono caduti al fondo di tanti mali; per questo stesso si logorano e si consumano in vani e sterili tentativi di porvi rimedio, senza neppure riuscire a raccogliere gli avanzi di tante rovine. Si è voluto che fossero senza Dio e senza Gesù Cristo le leggi e i governi, derivando ogni autorità non da Dio, ma dagli uomini; e con ciò stesso venivano meno alle leggi, non soltanto le sole vere ed inevitabili sanzioni, ma anche gli stessi supremi criteri del giusto, che anche il filosofo pagano Cicerone intuirà potersi derivare soltanto dalla legge divina. E veniva pure meno all’autorità ogni solida base, ogni vera ed indiscutibile ragione di supremazia e di comando da una parte, di soggezione e di ubbidienza dall’altra; e così la stessa compagine sociale, per logica necessità, doveva andarne scossa e compromessa, non rimanendole ormai alcun sicuro fulcro, ma tutto riducendosi a contrasti ed a prevalenze di numero e di interessi particolari. – Si volle che non più Dio, non più Gesù Cristo presiedesse al primo formarsi della famiglia, riducendo a mero contratto civile il matrimonio, del quale Gesù Cristo ha fatto un « Sacramento grande », con erigerlo a santo e santificante simbolo dell’indissolubile vincolo che a Lui stesso lega la sua Chiesa. Ne rimase abbassata, oscurata e confusa nei popoli tutta quella elevatezza e santità di idee e di sentimenti, di cui la Chiesa aveva circondato fin dal suo primo formarsi questo germe della società civile, che è la famiglia: la gerarchia domestica, e con essa la domestica pace, andò sovvertita; sempre più minacciata e scossa la stabilità ed unità della famiglia; il santuario domestico sempre più frequentemente profanato da basse passioni e da micidiali egoismi, che tendono ad avvelenare ed inaridire le sorgenti stesse della vita, non soltanto della famiglia, ma anche dei popoli. – Non si volle più Dio, né Gesù Cristo, né la dottrina sua nella scuola, e la scuola, per triste ma ineluttabile necessità, divenne non soltanto laica e areligiosa, ma anche apertamente atea e antireligiosa, dovendo l’ignaro fanciullo presto persuadersi che nessuna importanza hanno per la vita Dio e la Religione, di cui mai sente parlare, se non forse con parole di vilipendio. Così, ed anche solo per questo, la scuola cessava di guidare al bene, ossia di educare, privata di Dio e della sua legge, e della stessa possibilità di formare le coscienze e le volontà alla fuga dal male, alla pratica del bene. Così veniva pur meno ogni possibilità di preparare alla famiglia ed alla società elementi di ordine, di pace e di prosperità. – Spente così od oscurate le luci dello spiritualismo cristiano, l’invadente materialismo non fece che preparare il terreno alla vasta propaganda di anarchia e di odio sociale degli ultimi tempi: donde, infine sfrenata, la guerra mondiale gettava nazioni e popoli gli uni contro gli altri, a sfogo di discordie e di odi lungamente covati, abituando gli uomini alla violenza ed al sangue, e col sangue suggellando gli odi e le discordie di prima. – La constatazione però di tanti e si gravi mali non deve toglierci, Venerabili Fratelli, la speranza e la cura di trovarne i rimedi, tanto più che i mali stessi già ne danno qualche indicazione e suggerimento. – Prima di ogni altra cosa, infatti, occorre ed urge pacificare gli animi. Una pace occorre, che non sia soltanto nell’esteriorità di cortesie reciproche, ma scenda nei cuori, ed i cuori riavvicini, rassereni e riapra a mutuo affetto di fraterna benevolenza. – Ma tale non è se non la pace di Cristo; « e la pace di Cristo regni nei vostri cuori », né altra potrebbe essere la pace sua che Egli dà, mentre Dio, com’Egli è, intuisce i cuori, e nei cuori ha il suo regno. D’altra parte Gesù Cristo ha ben diritto di chiamare sua questa vera pace dei cuori, Egli che per primo disse agli uomini « voi siete tutti fratelli » e loro promulgava, suggellandola nel suo sangue, la legge di universale mutua dilezione e tolleranza: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate a vicenda come io vi ho amati »; « Sopportate gli uni i pesi degli altri, e così adempirete alla legge di Cristo ». – Ne consegue immediatamente che la pace di Cristo dovrà bensì essere una pace giusta (come il suo profeta l’annuncia: « la pace, opera di giustizia »), essendo Egli quel Dio che giudica la giustizia stessa; non potrà però constare soltanto di dura ed inflessibile giustizia, ma dovrà essere fatta dolce e soave da una almeno uguale misura di carità con effetto di sincera riconciliazione. Tale è la pace che Gesù Cristo conquistava a noi ed al mondo intero e che l’Apostolo, con tanto energica espressione, in Gesù Cristo stesso impersona, dicendo: « Egli è la nostra pace »; perché, soddisfacendo alla divina giustizia, col supplizio della crocifissa carne sua, in se stesso uccideva ogni inimicizia, facendo la pace e riconciliando tutti e tutto in se stesso. Così è che nell’opera redentrice di Cristo, che pure è opera di divina giustizia, l’Apostolo stesso non vede che una divina opera di riconciliazione e di carità: « Dio riconciliava a sé il mondo in Cristo »; « a tal segno Iddio ha amato il modo, che ha dato il suo Figliuolo unigenito ». Il Dottore Angelico ha trovato la formula ed il conio per l’oro di questa dottrina, dicendo che la pace, la vera pace, è cosa piuttosto di carità che di giustizia; perché alla giustizia spetta solo rimuovere gli impedimenti della pace: l’offesa e il danno; ma la pace stessa è atto proprio e specifico di carità. – Della pace di Cristo, cosa del cuore e tutta di carità, si può e si deve ripetere quello che l’Apostolo dice del regno di Dio, che appunto per la carità signoreggia nei cuori: « Il regno di Dio non è questione di cibo e di bevanda », cioè la pace di Cristo « non si pasce di beni materiali e terreni », ma di spirituali e celesti. Né potrebbe essere altrimenti, dato che proprio Gesù ha rivelato al mondo i valori spirituali e rivendicato loro il dovuto apprezzamento. Egli ha detto: « Che cosa giova all’uomo guadagnare tutto il mondo, se poi danneggia l’anima sua? O che cosa darà l’uomo in cambio dell’anima sua? ». Egli è colui che diede quella divina lezione di carattere: «Non temete coloro che uccidono il corpo, e non possono uccidere l’anima, ma piuttosto temete colui che può mandare in perdizione e l’anima e il corpo »!. – Non che la pace di Cristo, la pace vera, debba rinunciare ai beni materiali e terreni: al contrario, tutti le sono da Cristo stesso formalmente promessi: « Cercate prima il regno di Dio, … e tutto ciò vi sarà dato in più ». Ma essa sovrasta al senso e lo domina: « La pace di Dio sorpassa ogni intelligenza », ed appunto  per questo domina le cieche cupidigie ed evita le divisioni, le lotte e le discordie alle quali l’ingordigia dei beni materiali necessariamente dà origine. – Infrenata la cupidigia dei beni materiali, rimessi nell’onore che loro compete i valori dello spirito, alla pace di Cristo, per naturale felicissimo accordo, si accompagna, con la illibatezza e dignità della vita, l’elevazione dell’umana persona, nobilitata nel Sangue di Cristo, nella figliuolanza divina, nella santità e nel vincolo fraterno che ci unisce allo stesso Cristo, nella preghiera e nei Sacramenti, mezzi infallibilmente efficaci di elevazione e partecipazione divina, nell’aspirazione all’eterno possesso della gloria e beatitudine di Dio stesso, a tutti proposto come meta e premio. – Abbiamo visto e considerato che precipua causa dello scompiglio, delle inquietudini e dei pericoli che accompagnano la falsa pace è l’essere venuto meno l’impero della legge, il rispetto dell’autorità, dopo che era venuta meno all’una ed all’altra la stessa ragion d’essere, una volta negata la loro origine da Dio, creatore e ordinatore universale. Orbene, il rimedio è nella pace di Cristo, giacché pace di Cristo è pace di Dio, né questa può essere senza il rispetto dell’ordine, della legge e dell’autorità. Nel Libro di Dio infatti sta Scritto: « Conservate la Pace nell’ordine »; «Gran pace avrà chi amerà la tua legge, o Signore »; « Chi osserva il precetto si troverà in pace ». E Gesù stesso più espressamente insegna: « Rendete a Cesare quel ch’è di Cesare », e perfino in Pilato Egli riconosce l’autorità sociale che viene dall’alto, come aveva riconosciuto l’autorità addirittura nei degeneri successori di Mosè, e riconosciuto in Maria e Giuseppe l’autorità domestica, loro assoggettandosi per tanta parte della sua vita. E dagli Apostoli suoi faceva proclamare quella solenne dottrina che, come insegna « doversi da tutti riverenza ed ossequio ad ogni potestà legittima », così proclama pure « potestà legittima non esservi se non da Dio ». – Se si riflette che i pensieri e gli insegnamenti di Gesù Cristo, sui valori interni spirituali, sulla dignità e santità della vita, sul dovere dell’ubbidienza, sull’ordinamento divino della società, sulla santità sacramentale del matrimonio e la conseguente santità vera e propria della famiglia; se si riflette, diciamo, che questi pensieri ed insegnamenti di Cristo (insieme con tutto quel tesoro di verità da lui recato all’umanità), furono da Lui stesso unicamente affidati alla sua Chiesa, con solenne promessa di indefettibile assistenza, affinché in tutti i secoli ed in tutte le genti ne fosse la maestra infallibile, non si può non vedere quale e quanta parte può e deve avere la Chiesa Cattolica nel portare rimedio ai mali del mondo e nel condurre alla sincera pacificazione. – Appunto perché per divina istituzione è l’unica depositaria ed interprete di quei pensieri e insegnamenti, la Chiesa sola possiede, vera ed inesauribile, la capacità di efficacemente combattere quel materialismo, che tante ruine ha già accumulate e tante altre ne minaccia alla società domestica e civile, e di introdurvi e mantenervi il vero e sano spiritualismo, lo spiritualismo cristiano, che di tanto supera in verità e praticità quello puramente filosofico, di quanto la rivelazione divina sovrasta alla pura ragione: la capacità ancora di farsi maestra e conciliatrice di sincera benevolenza, insegnando ed infondendo alle collettività ed alle moltitudini lo spirito di vera fraternità, e nobilitando il valore e la dignità individuale con l’elevarla fino a Dio; la capacità, infine, di correggere veramente ed efficacemente tutta la vita privata e pubblica, tutto e tutti assoggettando a Dio, che vede i cuori, alle sue ordinazioni, alle sue leggi, alle sue sanzioni; penetrando così nel santuario delle coscienze, tanto dei cittadini quanto di coloro che comandano, e formandole a tutti i doveri ed a tutte le responsabilità, anche nei pubblici ordinamenti della società civile, perché « sia tutto e in tutti Cristo ». – Per questo, per essere cioè la Chiesa, ed essa sola, formatrice sicura e perfetta di coscienze, mercé gli insegnamenti e gli aiuti a lei sola da Gesù Cristo affidati, non soltanto essa può conferire nel presente alla pace tutto ciò che le manca per essere la vera pace di Cristo, ma può ancora, più di ogni altro fattore, contribuire ad assicurare questa pace anche per l’avvenire, allontanando il pericolo di nuove guerre. Insegna infatti la Chiesa (ed essa sola ha da Dio il mandato, e col mandato il diritto di autorevolmente insegnarlo) che non soltanto gli atti umani privati e personali, ma anche i pubblici e collettivi devono conformarsi alla legge eterna di Dio; anzi assai più dei primi i secondi, come quelli sui quali incombono le responsabilità più gravi e terribili. – Quando dunque governi e popoli seguiranno negli atti loro collettivi, sia all’interno sia nei rapporti internazionali, quei dettami di coscienza che gli insegnamenti, i precetti, gli esempi di Gesù Cristo propongono ed impongono ad ogni uomo; allora soltanto potranno fidarsi gli uni degli altri, ed aver anche fede nella pacifica risoluzione delle difficoltà e controversie che, per differenza di vedute e opposizione d’interessi, possono insorgere. – Qualche tentativo si è fatto e si fa in questo senso, ma con ben esigui risultati, massime nelle questioni più importanti, che più dividono ed accendono i popoli. E non vi è istituto umano che possa dare alle nazioni un codice internazionale, rispondente alle condizioni moderne, quale ebbe, nell’età di mezzo, quella vera società di nazioni che fu la cristianità; codice troppo spesso violato in pratica, ma che pur rimaneva come un richiamo e come una norma, secondo la quale giudicare gli atti delle nazioni. – Ma v’è un istituto divino atto a custodire la santità del diritto delle genti; un istituto che appartiene a tutte le nazioni, che a tutte è superiore, e di più dotato di massima autorità, e venerando per pienezza di magistero, la Chiesa di Cristo: la quale sola appare adatta a tanto ufficio, sia per mandato divino, sia per la sua medesima natura e costituzione, per le tradizioni sue e per il prestigio, che dalla stessa guerra mondiale usciva, non soltanto non diminuito, ma piuttosto di molto aumentato. – Appare, da quanto siamo venuti considerando, che la vera pace, la pace di Cristo, non può esistere se non sono ammessi i princìpi, osservate le leggi, ubbiditi i precetti di Cristo nella vita pubblica e nella privata; sicché, bene ordinata la società umana, vi possa la Chiesa esercitare il suo magistero, al quale appunto fu affidato l’insegnamento di quei princìpi, di quelle leggi, di quei precetti. – Ora tutto questo si esprime con una sola parola: « il regno di Cristo ». Poiché regna Gesù Cristo nella mente degli « individui » con la sua dottrina, nel cuore con la sua carità, nella vita di ciascuno con l’osservanza della sua legge e l’imitazione dei suoi esempi. Regna Gesù Cristo « nella famiglia » quando, formatasi nella santità del vero e proprio Sacramento del matrimonio da Gesù Cristo istituito, conserva inviolato il carattere di santuario, dove l’autorità dei parenti si modella sulla paternità divina, dalla quale discende e si denomina; l’ubbidienza dei figli su quella del fanciullo Gesù in Nazareth; la vita tutta quanta s’ispira alla santità della Sacra Famiglia. Regna infine Gesù Cristo « nella società civile » quando vi è riconosciuta e riverita la suprema ed universale sovranità di Dio, con la divina origine ed ordinazione dei poteri sociali, donde in alto la norma del comandare, in basso il dovere e la nobiltà dell’ubbidire. Regna quando è riconosciuto alla Chiesa di Gesù Cristo il posto che Egli stesso le assegnava nella società umana, dandole forma e costituzione di società, e, in ragione del suo fine, perfetta, suprema nell’ordine suo; costituendola depositaria ed interprete del suo pensiero divino, e perciò stesso maestra e guida delle altre società tutte quante: non per menomare l’autorità loro, nel proprio ordine competente, ma per perfezionarle, come la grazia perfeziona la natura, e per farne valido aiuto agli uomini nel conseguimento del fine ultimo, ossia della eterna felicità, e con ciò renderle anche più benemerite e più sicure promotrici della stessa prosperità temporale. – È dunque evidente che la vera pace di Cristo non può essere che nel regno di Cristo: « La pace di Cristo nel regno di Cristo »; ed è del pari evidente che, procurando la restaurazione del regno di Cristo, faremo il lavoro più necessario insieme e più efficace per una stabile pacificazione. – Così Pio X, proponendosi di « restaurare tutto in Cristo », quasi per un divino istinto preparava la prima e più necessaria base a quella « opera di pacificazione », che doveva essere il programma e l’occupazione di Benedetto XV. E questi due programmi dei Nostri Antecessori Noi congiungiamo in uno solo: la restaurazione del regno di Cristo per la pacificazione in Cristo: « La pace di Cristo nel regno di Cristo »; e con ogni sforzo Ci studieremo di attuarlo, unicamente confidando in quel Dio, che nell’affidarCi questo sommo potere, Ci prometteva la sua indefettibile assistenza. – Per quest’opera a tutti Noi chiediamo aiuto e cooperazione, ma la chiediamo e l’aspettiamo innanzi tutto da voi, Venerabili Fratelli, cui il nostro duce e capo Gesù Cristo, che affidava a Noi la cura e responsabilità di pascere tutto l’ovile, chiamava a parte della Nostra universale sollecitudine; voi che « lo Spirito Santo ha posto a reggere la Chiesa », voi che fra i primi, insigniti del « ministero della riconciliazione, fate le veci di ambasciatori per Cristo », partecipi del suo magistero divino, « dispensatori dei misteri di Dio » e perciò chiamati « sale della terra e luce del mondo », maestri e padri dei popoli cristiani, « fatti sinceramente esemplari del gregge » per essere poi chiamati « grandi nel regno dei cieli », voi — diciamo — che siete come gli anelli d’oro per i quali « compaginato e connesso » tutto il corpo di Cristo, che è la Chiesa, sulla solidità della pietra sorge e si regge. – E dell’esimia operosità vostra Noi avemmo nuovo e recente argomento quando, per l’occasione già ricordata del Congresso Eucaristico internazionale di Roma e per le solennità centenarie della Congregazione di Propaganda, parecchie centinaia di Vescovi da tutte le parti del mondo si trovarono intorno a Noi riuniti sulla tomba dei Santi Apostoli. – E quell’incontro fraterno fra tanti pastori Ci fece pensare alla possibilità di un convegno almeno virtualmente generale dell’episcopato cattolico in questo centro della cattolica unità, per il vantaggio che potrebbe provenirne opportunamente al riassetto sociale, dopo così profondo scompiglio. La vicinanza dell’Anno Santo Ci infonde una dolce speranza di vedere effettuato il Nostro pensiero. – Che, se non osiamo espressamente includere nel Nostro programma la ripresa e la continuazione del Concilio Ecumenico che Pio IX, il Pontefice della Nostra giovinezza, poté bensì largamente preparare, ma di cui poté attuare solo una parte sebbene importante, è pur vero che anche Noi, come il pio condottiero del popolo eletto, attendiamo, pregando che il Signore, buono e misericordioso, voglia darCi qualche più chiaro segno del suo volere. Intanto, benché consapevoli che al vostro zelo non dobbiamo aggiungere stimoli, ma piuttosto tributare ben meritati encomî, tuttavia la coscienza dell’apostolico ufficio e dell’universale paternità Ci impone di chiedervi sempre più tenere e sollecite cure verso quelle parti della grande famiglia delle quali a ciascuno di voi è affidata l’immediata provvidenza. – Per le informazioni da voi dateCi e per la stessa pubblica fama, confermata anche dalla stampa e da altre prove, Noi sappiamo quanto dobbiamo con voi ringraziare il buon Dio per il gran bene che, secondo l’opportunità dei tempi, con l’opera vostra e dei vostri antecessori, si è venuto, in mezzo al clero e a tutto il vostro popolo fedele, saggiamente maturando e poi, giusta le circostanze, lodevolmente effettuando e moltiplicando largamente. – Intendiamo dire le svariate iniziative per la sempre più accurata cultura religiosa e santificazione degli ecclesiastici e dei laici; le unioni del clero e del laicato in aiuto delle missioni cattoliche nella loro molteplice attività di redenzione fisica e morale, naturale e soprannaturale, mercé la dilatazione del regno di Cristo; le opere giovanili con quella loro così ardente e salda pietà eucaristica e con la tenera devozione alla Beata Vergine, garanzia sicura di fede, di purezza, di unione; le solenni celebrazioni eucaristiche, che al divino Principe della pace procurano trionfali cortei veramente regali, ed intorno all’Ostia di pace e d’amore raccolgono le moltitudini dei diversi luoghi e le rappresentanze di tutte le genti e nazioni del mondo, mirabilmente unite in una stessa fede, adorazione, preghiera e fruizione dei beni celesti. – Intendiamo dire — frutto di questa pietà — il sempre più diffuso ed operoso spirito di apostolato che, con la preghiera, con la parola, con la buona stampa, con l’esempio di tutta la vita, con tutte le industrie della carità, cerca con ogni via di condurre anime al Cuore divino e di ridare al Cuore stesso di Cristo Re il trono e lo scettro nella famiglia e nella società; la « santa battaglia » su tanti fronti ingaggiata, per rivendicare alla famiglia ed alla Chiesa i diritti che da natura e da Dio loro competono nell’insegnamento e nella scuola; infine quel complesso di iniziative, di istituzioni e di opere presentate sotto il nome di «Azione Cattolica », a Noi tanto cara, e a cui abbiamo già rivolto sollecite cure. – Tutte queste forme ed opere di bene devono non solamente mantenersi, ma anche rafforzarsi e svilupparsi sempre più, secondo la condizione delle persone e delle cose. Senza dubbio esse sono ardue e vogliono da tutti, pastori e fedeli, sempre nuove prestazioni di opera ed abnegazione; ma, siccome certamente necessarie, esse appartengono ormai innegabilmente all’ufficio pastorale ed alla vita cristiana; giacché, per le stesse ragioni, ad esse si riconnette indissolubilmente la restaurazione del regno di Cristo e lo stabilimento di quella vera pace che a questo regno unicamente appartiene: « La pace di Cristo nel regno di Cristo ».

Dite dunque, Venerabili Fratelli, ai vostri cleri che conosciamo le loro generose fatiche su questi diversi campi, e che anche per averle da vicino vedute e condivise altissimamente le apprezziamo; dite che quando essi danno la loro cooperazione a voi uniti come a Cristo e da voi come da Cristo guidati, allora più che mai essi sono con Noi, e Noi siamo con essi benedicendoli paternamente. – Non occorre poi che vi diciamo, Venerabili Fratelli, quale e quanto assegnamento, per l’esecuzione del programma propostoci, Noi facciamo pure sul clero regolare. Voi sapete, al pari di Noi, quale contributo esso rechi allo splendore interno ed all’esterna dilatazione del regno di Cristo; esso, che di Cristo attua non soltanto i precetti ma anche i consigli; esso che, nel silenzio meditativo dei chiostri come nel fervore dell’operosità esteriore, attua in frutti di vita i più alti ideali della perfezione cristiana, tenendo vivo nel popolo cristiano il richiamo all’alto, con l’esempio continuo della rinuncia magnanima a tutto quello che è terreno e di privato comodo, per l’acquisto dei tesori spirituali e per la consacrazione intera al bene comune, con l’opera benefica, che arriva a tutte le miserie corporali e spirituali e per tutte trova un soccorso ed un rimedio. E in ciò, come ci attestano i documenti della storia ecclesiastica, i religiosi, per l’impulso della divina carità, avanzarono bene spesso a tal segno che, nella predicazione del Vangelo, diedero anche la vita per la salute delle anime e, con la propria morte propagando l’unità della fede e della cristiana fratellanza, sempre più dilatarono i confini del regno di Cristo. – Dite ai vostri fedeli del laicato che quando essi, uniti ai loro sacerdoti ed ai loro Vescovi, partecipano alle opere di apostolato individuale e sociale, per far conoscere e amare Gesù Cristo, allora più che mai essi sono « la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato » [55]. Allora più che mai sono essi pure con Noi e con Cristo, benemeriti essi pure della pace del mondo, perché benemeriti della restaurazione e dilatazione del regno di Cristo. Poiché solo in questo regno di Cristo si dà quella vera uguaglianza di diritti per la quale tutti sono nobili e grandi della stessa nobiltà e grandezza, nobilitati dal medesimo prezioso Sangue di Cristo; e quelli che presiedono non sono che ministri del bene comune, servi dei servi di Dio, degli infermi specialmente e dei più bisognosi, sull’esempio di Gesù Cristo Signor Nostro. – Senonché quelle stesse vicende sociali che crearono ed accrebbero la necessità della accennata cooperazione del clero e del laicato, hanno pure creato pericoli nuovi e più gravi. Sono idee non rette e non sani sentimenti, dei quali, dopo l’uragano della guerra mondiale e degli avvenimenti politici e sociali che le tennero dietro, l’atmosfera stessa si direbbe infetta, così frequenti sono i casi di contagio, tanto più pericoloso quanto meno prontamente avvertito, grazie alle apparenze ingannevoli che lo dissimulano, sicché gli stessi alunni del santuario non ne vanno immuni. – Molti sono, infatti, quelli che credono o dicono di tenere le dottrine cattoliche sull’autorità sociale, sul diritto di proprietà, sui rapporti fra capitale e lavoro, sui diritti degli operai, sulle relazioni fra Chiesa e Stato, fra religione e patria, fra classe e classe, fra nazione e nazione, sui diritti della Santa Sede e le prerogative del Romano Pontefice e dell’episcopato, sui diritti sociali di Gesù Cristo stesso, Creatore, Redentore, Signore degli individui e dei popoli. Ma poi parlano, scrivono e, quel che è peggio, operano come non fossero più da seguire, o non col rigore di prima, le dottrine e le prescrizioni solennemente ed invariabilmente richiamate ed inculcate in tanti documenti pontifici, nominatamente di Leone XIII, Pio X e Benedetto XV. – Contro questa specie di modernismo morale, giuridico, sociale, non meno condannevole del noto modernismo dogmatico, occorre pertanto richiamare quelle dottrine e quelle prescrizioni che abbiamo detto; occorre risvegliare in tutti quello spirito di fede, di carità soprannaturale e di cristiana disciplina, che solo può dare la loro retta intelligenza ed imporre la loro osservanza. Tutto questo occorre più che mai fare con la gioventù, massime poi con quella che si avvia al sacerdozio, perché nella generale confusione non sia, come dice l’Apostolo, « portata qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, per quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore ». Da questo apostolico centro dell’ovile di Cristo, il Nostro sguardo e il Nostro cuore, Venerabili Fratelli, si volgono anche a coloro che, purtroppo in gran numero, ignorando Cristo e la sua redenzione, o non integralmente seguendo le sue dottrine, non appieno mantenendo l’unità da Lui prescritta, ancora stanno fuori dell’ovile quantunque ad esso da Dio destinati e chiamati. Il Vicario del divin Pastore, vedendo le tante pecorelle sbandate, non può non ripetere e non far sua la parola, che nell’energica semplicità dice tutto l’ardore del desiderio divino: « bisogna che io le conduca »; non può non allietarsi nella soave profezia nella quale esultava il Cuore divino: « e udranno la mia voce e si farà un solo ovile e un solo pastore ». Voglia Iddio, come Noi con voi tutti e con tutti i credenti intensamente lo preghiamo, presto compiere la sua profezia e ridurre presto in atto la consolante visione. – Ecco intanto di questa religiosa unità brillarci innanzi un felice auspicio in quel mirabile fatto che voi non ignorate, Venerabili Fratelli, inaspettato a tutti, ad alcuni forse sgradito, a Noi certo ed a voi graditissimo: che cioè, in questi ultimi tempi i rappresentanti e reggitori di quasi tutti gli Stati del mondo, quasi ubbidendo ad un comune istinto e desiderio di unione e di pace, si sono rivolti a questa Sede Apostolica per stringere o rinnovare con essa concordia ed amicizia. Della quale cosa Noi andiamo lieti, non tanto per il cresciuto prestigio della santa Chiesa, quanto perché sempre più chiaramente appare, e da tutti si sperimenta, quale e quanta benefica virtù essa possiede per la felicità, anche civile e terrena, della società umana. Sebbene infatti la Chiesa, per divina volontà, intenda direttamente ai beni spirituali e sempiterni, tuttavia per una certa connessione di cose, tanto giova anche alla prosperità terrena degli individui e della società, che più non potrebbe se ad essa dovesse direttamente servire. – Non vuole dunque né deve la Chiesa, senza giusta causa, ingerirsi nella direzione delle cose puramente umane; ma neanche permettere e tollerare che il potere politico ne prenda pretesto, con leggi o disposizioni ingiuste, a ledere i beni di ordine superiore, ad offendere la divina costituzione di lei o a violare i diritti di Dio stesso nella civile società. – Facciamo dunque Nostre, Venerabili Fratelli, le parole che Benedetto XV, di f. m., pronunciava nell’ultima sua allocuzione tenuta nel Concistoro del 21 novembre dell’anno andato, a proposito dei patti chiesti ed offerti dai diversi Stati: «Non consentiremo mai che in questi Concordati si insinui alcunché di contrario alla dignità e alla libertà della Chiesa, poiché importa altamente alla stessa prosperità del civile consorzio, specialmente ai giorni nostri, che tali libertà e dignità rimangano salve e intatte ». – Appena occorre dire a questo proposito, con quanta pena all’amichevole convegno di tanti Stati vediamo mancare l’Italia, la carissima patria Nostra, il paese nel quale la mano di Dio, che regge il corso della storia, poneva e fissava la sede del suo Vicario in terra, in questa Roma, che da capitale del meraviglioso ma pur ristretto romano impero, veniva fatta da Lui la capitale del mondo intero, perché sede di una sovranità divina che, sorpassando ogni confine di Nazioni e di Stati, tutti gli uomini e tutti i popoli abbraccia. Richiedono però l’origine e la natura divina di tale sovranità, richiede l’inviolabile diritto delle coscienze di milioni di fedeli di tutto il mondo, che questa stessa sovranità sacra sia ed appaia manifestamente indipendente e libera da ogni umana autorità o legge, sia pure una legge che annunci guarentigie. – La guarentigia di libertà onde la Provvidenza divina, governatrice e arbitra delle umane vicende, senza danno, anzi con inestimabili benefìci per l’Italia stessa, aveva presidiato la sovranità del Vicario di Cristo in terra; quella guarentigia che per tanti secoli aveva opportunamente corrisposto al disegno divino di tutelare la libertà del Pontefice stesso, e al cui posto né la Provvidenza divina ha finora indicato, né i consigli degli uomini hanno finora trovato altro mezzo consimile, che convenientemente la compensi, quella guarentigia venne e rimane tuttora violata; onde si è creata una condizione di cose anormale, con grave e permanente turbamento della coscienza dei cattolici in Italia e nel mondo intero. – Noi dunque, eredi e depositari del pensiero e dei doveri dei Nostri venerati Antecessori, com’essi investiti dell’unica autorità competente nella gravissima materia e responsabili davanti a Dio, Noi protestiamo, com’essi hanno protestato, contro una tale condizione di cose, a difesa dei diritti e della dignità dell’Apostolica Sede, non già per vana e terrena ambizione, della quale arrossiremmo, ma per puro debito di coscienza, memori di dover morire e del severissimo conto che dovremo rendere al divino Giudice.  – Del resto l’Italia nulla ha o avrà da temere dalla Santa Sede: il Papa, chiunque egli sia, ripeterà sempre: «Ho pensieri di pace, non di afflizione: pensieri di pace vera, e perciò stesso non disgiunta da giustizia, sicché possa dirsi: la giustizia e la pace si sono baciate ». A Dio spetta addurre quest’ora e farla suonare; agli uomini savi e di buona volontà non lasciarla suonare invano: essa sarà tra le ore più solenni e feconde per la restaurazione del Regno di Cristo e per la pacificazione d’Italia e del mondo. – Per questa universale pacificazione più fervidamente Noi preghiamo ed a pregare tutti invitiamo, mentre ritornano, dopo venti secoli, il giorno e l’ora, in tutto il mondo così soavemente solenni, nei quali il dolce Principe della pace faceva l’umile e mansueto suo ingresso nel mondo e le « milizie celesti » cantavano: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà ».

E di questa pace sia a tutti caparra la Benedizione Apostolica, che vogliamo scenda sopra di voi e sul vostro gregge, sul vostro clero e sui vostri popoli, sulle loro famiglie e sulle loro case, e rechi felicità ai vivi, pace e beatitudine eterna ai defunti. La quale Benedizione a voi, al vostro clero e al vostro popolo in attestato della nostra paterna benevolenza, con tutto il cuore impartiamo.

Dato a Roma, presso San Pietro il giorno 23 dicembre 1922, anno primo del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI