QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
Si tratta di una brevissima lettera Enciclica che il Santo Padre scriveva all’indomani di editti governativi francesi altamente lesivi degli interessi non solo materiali, ma soprattutto spirituali della Chiesa Cattolica tutta, dei religiosi e dei fedeli laici. La persecuzione contro la Chiesa Cattolica è stata sempre una costante della lotta del demonio per riprendere il suo potere (la cabalistica Corona) sull’umanità, onde poterla trascinare nell’eterna dannazione, ora frontalmente con le armi e le macchinazioni belliche, ora dottrinalmente, con eresie, scismi ed errori dottrinali, il demonio non ha risparmiato mezzi ed escogitato inganni per affossare la Chiesa fondata da Cristo a salvezza e redenzione dell’umanità. Qui toccava alla Francia, infettata già di gallicanesimo, giansenismo, umanesimo ateo, razionalismo gnostico-filosofico cartesiano, sperimentare la persecuzione fisica, violenta dei sostenitori del demonio operante dalla e con la massoneria allora costituita già in numerosissime logge, il cui unico “pallino”, come oggi, era minare alle fondamenta il Cristianesimo per sostituirlo con un paganesimo sfrenato ed un culto satanico più o meno mascherato. Non era ancora giunta l’ora della resa dei conti che preludeva ai tempi ultimi dell’Apocalisse, ma se ne sperimentavano già i prodromi funesti che sfociarono poi nel giacobinismo, la rivoluzione e la ribellione alle autorità legittime, a Dio ed alla sua Chiesa. La Chiesa dopo aver subito numerose e dolorose ferite riuscì a salvarsi dalla minaccia mortale, con l’azione di santi e sante martiri, dal cui sangue si riedificò il monumento ecclesiastico, come già successo nei millenni precedenti e nei secoli successivi (ad esempio, Messico, Polonia, Ucraina e via di seguito) . Ma il serpente maledetto trasse una lezione ancor più profonda che lo ha portato non ad affrontare “de visu” la Chiesa, ma a corromperla dall’interno infiltrandola con i suoi adepti [i massoni delle logge ecclesiastiche, oggi numerose e frastagliate nelle diverse obbedienze] che, fingendo santità e devozione, hanno servito e servono esclusivamente la “bestia della terra” e la causa di lucifero che hanno da tempo posto sugli altari col nome ingannevole di “signore dell’universo”, l’abominio della desolazione da cui metteva in guardia, prima ancor del divin Maestro, già il Profeta Daniele. Ci aspetta quindi l’undicesima persecuzione, la più terribile fra tutte anche se secondo le profezie sarà breve. Chiediamo quindi la grazia della perseveranza finale che ci porti in particolare a rigettare il marchio della bestia e l’adorazione della sua statua, oltre che l’osservanza della legge antica mosaica che sarà a breve imposta su tutto il pianeta, come S. Giovanni vide nelle sue visioni di Patmos. Prendiamo esempio dai fedeli francesi che si fecero ghigliottinare piuttosto che adorare i falsi culti satanici della dea ragione, o il falso culto imposto da leggi statali inique. Ricordiamo che lo scopo principale dell’uomo è la salvezza dell’anima. Il resto non conta.
Clemente XIII Quam graviter
1. Quanto gravemente siamo stati
colpiti, allorché abbiamo letto i tre Decreti (Arrêts, come li chiamano)
dello scorso 24 maggio, pubblicati dal Regio Consiglio del Re Cristianissimo,
vi sarà facile comprendere; come li ricevemmo, fummo al contempo colpiti e
sconcertati. Infatti, che sarà in seguito del divino potere della Chiesa se,
quando le occorrerà praticare e valersi del suo diritto, e vorrà richiamare i
fedeli all’obbedienza, dovrà soggiacere totalmente al cenno della laica potestà
e non potrà esigere dai fedeli obbedienza maggiore di quella che torna a
vantaggio del potere secolare? Quale linea di demarcazione stabiliremo, al fine
di riconoscere i limiti di entrambi i poteri, se è nelle mani e nell’arbitrio
del potere laico la facoltà di annullare qualunque decreto della Chiesa circa
la Fede o la disciplina o le norme di comportamento? Voi vedete, Venerabili
Fratelli, quanto la Chiesa sia oppressa in questa sorta di servaggio, e da
quale grave iattura finirà per essere funestata la vigna del Signore.
Inoltre non sfuggirà alla vostra
perspicacia quale flagello si debba paventare, posto che il potere secolare
rivendica a sé il diritto di riesaminare le Costituzioni degli Ordini Regolari
e di affrontarne la riforma, senza consultare questa Santa Sede del beato
Pietro, alla quale nessuno nega che occorra rivolgersi, trattandosi di siffatte
questioni, come testimoniano gli esempi, non così rari, in codesto Regno.
2. Per altro siamo convintissimi che al Re Cristianissimo non è stato prospettato quanti gravi abusi possono aver origine da quegli editti contro la Chiesa; e non dubitiamo che la sua grande rettitudine e il suo singolare rispetto verso la Chiesa provano ripugnanza per tali abusi. Pertanto a voi compete il dovere di sottoporre alla vista di quella Maestà Regia la prova evidente di quegli abusi, descritta a vivaci colori, e voi dovete compiere tale atto con particolare sollecitudine in quanto lo stesso Re Cristianissimo ha espressamente dichiarato di voler porgere benevolo e indulgente ascolto alle vostre eventuali recriminazioni, se vorrete rivolgervi a lui. Affinché Voi possiate più agevolmente essere ammessi al suo cospetto, Venerabili Fratelli, Noi scriviamo a quella Maestà Reale rivelandogli il profondo dolore che Ci provenne da quegli editti e Lo richiamiamo al suo sentimento religioso perché Vi ascolti con animo sereno, quando solleciterete il suo reale soccorso in modo che si rivelino alla Chiesa la sua forza operante e il potere che egli ebbe da Cristo Signore. E a Voi, Venerabili Fratelli, di cui non loderemo mai abbastanza l’ardentissimo zelo e l’amore verso Dio e la Sposa di Gesù Cristo, impartiamo l’Apostolica Benedizione con tutto l’affetto del Nostro animo.
Dato
a Roma, il 25 giugno 1766, ottavo anno nel Nostro Pontificato.
In questa lettera enciclica, il Santo Padre Benedetto XIV ricorda alcune norme che si devono applicare nella celebrazioni della Messa quotidiana “pro populo” da parte dei parroci e l’applicazione della messa conventuale per tutti i benefattori; inoltre ricorda come l’ufficio delle ore debba essere cantato a chiara voce e con viva partecipazione anche da parte di dignitari e di canonici. Si tratta di norme ben precise definite per la maggior parte nel Sacro Concilio Tridentino e che ancora oggi sono in vigore nella Chiesa Cattolica pena anatema e “sub gravi”. Non poteva mancare la raccomandazione accorata circa l’istruzione dei fedeli – in particolare della gioventù – nei giorni festivi e di precetto. Ovviamente tali raccomandazioni sono totalmente oggi disattese nella parrocchie moderniste e nelle istituzioni un tempo cattoliche, ove si preferisce intrattenere i giovani o i pochi adulti “sfaccendati” in amene conversazioni e spettacoli “laici” o incontri di carattere sportivo e gare gastronomiche, con il risultato palese e dichiarato della totale scristianizzazione della società urbana e rurale. Questa è l’azione della “bestia della terra” di apocalittica memoria, quella “bestia” che, secondo il Commentario di Beato de Liebana (P. L. 96), è la falsa chiesa di vescovi apostati e sacerdoti ipocriti e marrani adoranti satana (il signore dell’universo della sinagoga conciliare), fingendo a parole e con ostentata millantata santità, di venerare Cristo – la bestia immolata con la spada la cui ferita era guarita – e portando “acqua al mulino” del loro referente e padre spirituale: lucifero. Questa consapevolezza quindi, che la sottostante enciclica mostra chiaramente, di trovarci in piena epoca apocalittica (Apocalisse spirituale – mille volte peggiore delle fantasie cosmiche terrorizzanti di falsi profeti cinematografici o vignettisti di fumettoni pseudoreligiosi – foriera di eterna dannazione dell’anima), ci dice che questa nostra epoca, interamente intrisa di paganesimo pragmatico sfacciato, è propedeutica alla resa dei conti con il Giudice divino che spegnerà con il soffio della sua bocca l’anticristo, i suoi adepti – massoni laici o finti prelati – con la bestia del mare e quella della terra, il drago maledetto, il serpente antico e tutto il corpo magico di satana. Veni, Jesu Domine!
Benedetto XIV
Cum semper
oblatas
Noi approfittiamo sempre e volentieri di
ogni occasione che Ci viene offerta di indirizzarci a Voi, Venerabili Fratelli,
affinché risplenda sempre più la prova del Nostro sincero amore per Voi; e ora
con maggiore alacrità d’animo lo facciamo, per eccitare lo zelo della Vostra
Fraternità, per la conservazione della retta disciplina nel governo del Clero a
Voi affidato in queste particolari condizioni di tempo e di necessità. – Noi
non potremmo confidare di riuscire a sostenere il grave onere della
sollecitudine di tutte le Chiese, imposto alla nostra debolezza, senza
raccomandare e inculcare l’aumento del Culto Divino, l’osservanza delle
Sanzioni Ecclesiastiche nelle singole Diocesi, e la particolare e vigilante
cura dei Pastori. –
1. In primis Ci offre l’occasione di
rivolgerci a Voi con questa Lettera l’argomento sull’onere che si assumono tutti coloro che hanno cura
d’anime, cioè di applicare la Messa Parrocchiale per il popolo affidato alle
loro cure; come pure l’applicazione della Messa Conventuale a pro dei Benefattori in generale,
che deve essere fatta da coloro che cantano la Messa nelle Chiese Patriarcali,
Metropolitane, nelle Cattedrali e Collegiate; e per ultimo l’obbligo di
salmodiare a cui sono tenuti i Canonici che assistono dal Coro nelle dette
Chiese. La nostra dissertazione è su quest’ultimo argomento, non nuovo, anzi
sempre trattato dagli Scrittori. Questo dovere fu molte volte discusso e
definito nella Congregazione dei Nostri Venerabili Fratelli, i Cardinali di
Santa Romana Chiesa Interpreti del Concilio Tridentino, fin da quando Noi stessi,
costituiti negli Ordini Minori, per molti anni fungevamo da Segretario della
stessa Congregazione. E sebbene i Decreti di questa Sacra Congregazione quasi
sempre siano usciti uniformi, ricevendo sempre l’approvazione dei Pontefici
Nostri Predecessori, non c’è da meravigliarsi che non ne sia ancora giunta notizia
a tutti Voi e ai singoli. – Per questo abbiamo stimato non solo opportuno, ma
necessario scrivere a Voi questa Lettera Enciclica, affinché sia nota la
costante opinione e direttiva di questa Sede Apostolica su tali argomenti,
ponendo fine alla varietà delle opinioni e delle sentenze nelle quali si
divisero gli Scrittori. Ciò pertanto servirà alle Vostre Fraternità come norma,
affinché possiate dirigere secondo questa regola tutte le Vostre Costituzioni
Sinodali e i vostri Rescritti, dei quali Noi Vi ordiniamo la pubblicazione. Vi
preoccuperete pertanto di far eseguire – e non lo dubitiamo – con ogni
sollecitudine e vigilanza quelle prescrizioni che nella presente Lettera sono
da conservare e osservare. Dipenderà da Voi che i probabili ricorsi ai
Tribunali della Nostra Curia contro i Vostri Rescritti, non costituiscano
ostacolo o remora, poiché abbiamo prescritto e ordinato che debbano essere
tutti respinti. Per questo vogliamo che questa Nostra Lettera sia conservata
nelle Raccolte e Archivi dei Nostri Tribunali, e ordiniamo che sia le risoluzioni
dei Tribunali, sia i Vostri Rescritti che emanerete in conformità con essa
siano osservati.
2. Quello che abbiamo detto ora, ossia
che il santo Sacrificio della Messa deve essere applicato dai Pastori di anime
a favore del popolo affidato alle loro cure, il Santo Concilio di Trento lo
enuncia chiaramente con queste importanti parole, come conseguenza del comando
divino: “Poiché è di precetto divino la prescrizione fatta a tutti coloro
che hanno cura di anime, di distinguere bene le loro pecore, e di offrire per
esse il Sacrificio” (Conc. Trid., sess. 23, cap. 1), e quantunque non
siano mancati coloro che, con interpretazioni ridicole o prive di fondamento
hanno cercato di eliminare quest’obbligo ricordato dal Santo Sinodo o almeno di
attenuarlo; tuttavia, siccome le parole sopracitate del Concilio sono
abbastanza chiare e precise, ed inoltre, siccome la Congregazione summenzionata
particolarmente preposta all’interpretazione dello stesso Concilio, ha
costantemente notificato che coloro cui è stata affidata la cura di anime, devono non solo celebrare il
Sacrifizio della Messa, ma devono anche applicarne il frutto “medio”
a favore del popolo ad essi affidato, e non possono applicarlo a favore di
altri, né possono ricevere per tale applicazione l’elemosina; e siccome infine
– ciò che è più importante – questa volontà è stata approvata e confermata dai
Pontefici Romani Nostri Predecessori, a nessuno di Voi rimane da desiderare se
non di abbracciarla, di eseguirla, e di procurare con ogni zelo che venga
prontamente eseguita nelle Vostre rispettive Diocesi.
3. Anche Noi, che, come abbiamo già
accennato, quando eravamo ancora occupati in impieghi minori, per molti anni
abbiamo svolto l’Incarico di Segretario della predetta Congregazione per
l’Interpretazione del Concilio di Trento e, per i non pochi anni che abbiamo
trascorso nel governo della Diocesi di Ancona e parte della Metropolitana di
Bologna, Nostra diletta patria, che ancora amiamo, Noi, diciamo, non siamo
all’oscuro di tutte le vie di sfuggita, di ogni genere, per le quali molti
cercano di evadere l’adempimento di questo obbligo, per la cui esecuzione Noi
appositamente dobbiamo provvedere.
4. Il Sacro Concilio di Trento ordina
sovente ai Vescovi che, ovunque sia necessario, affinché non venga trascurata
la cura delle Anime, scelgano Vicari idonei ad esercitare questa cura d’Anime,
assegnando loro un congruo frutto o beneficio, come si può leggere nella sess.
6, c. 2; sess. 7 e c. 5-7; sess. 21, c. 6; sess. 25, c. 16. Non raramente
succede che, durante la sede vacante di qualche parrocchia, debba essere
incaricato dal Vescovo un Vicario (economo spirituale) per adempiere gli oneri
di questa Chiesa fino all’elezione del nuovo Rettore, sempre per disposizione
dello stesso Concilio Tridentino (De Reformatione, sess. 24, cap. 18). Allora
molti di questi Vicari cercano di sottrarsi a tale obbligazione, sia per il
fatto che hanno già una cura pastorale abituale presso altri ed esercitano
questa provvisoriamente; sia perché sono amovibili ad nutum Episcopi, ed
esercitano quel ministero parrocchiale per breve tempo; per non parlare poi dei
Parroci Regolari, i quali spesso dichiarano di non essere tenuti ad applicare
la Messa festiva pro populo. Invece la Nostra volontà, e comando, è che, come
già altre volte fu stabilito dalle predette Congregazioni, tutti coloro che
esercitano cura d’Anime, e non soltanto i Parroci o i Vicari Secolari, ma anche
i Parroci o Vicari Regolari, in una parola tutti quelli su nominati, tutti
quelli che sono stati ritenuti degni di questa specifica menzione, tutti
ugualmente sono tenuti ad applicare la Messa Parrocchiale per il popolo
affidato alle loro cure.
5. Alcuni, per evitare l’adempimento di
quest’obbligo, sono soliti obiettare che le rendite della propria parrocchia
non sono sufficienti; altri si trincerano dietro un’inveterata consuetudine,
affermando che quest’onere non fu mai in uso né presso di sé, né presso i loro
predecessori per lungo tempo, anzi ab immemorabili. – Noi invece estendiamo la
nostra conferma alle predette prescrizioni dettate dalla Congregazione del
Concilio, e per quanto è necessario, con la Nostra Apostolica Autorità, a
tenore della presente Lettera decretiamo e dichiariamo che questa disposizione
debba avere esecuzione, anche se i Parroci o altri, come abbiamo visto sopra,
che hanno cura d’Anime siano sprovvisti dei convenienti redditi stabiliti e
nonostante che per consuetudine ab immemorabili nelle loro Diocesi o Parrocchie
fosse stato praticato il contrario; tutti sono ugualmente tenuti ad applicare la
Messa Parrocchiale per l’avvenire.
6. Quando abbiamo affermato che tutti
coloro che hanno cura d’Anime devono applicare il Santo Sacrificio della Messa
per il popolo ad essi affidato, non per questo abbiamo inteso stabilire che
quotidianamente, o qualunque volta essi celebrano, siano tenuti a questa
applicazione. E infatti il Santo Concilio Tridentino (sess. 23, cap. 14) ordina
ai Vescovi di prendersi cura che i Sacerdoti celebrino la Santa Messa almeno
alla domenica e nelle feste solenni; se poi sono in cura d’Anime, celebrino la
Santa Messa così frequentemente da soddisfare le esigenze del loro popolo. Ma
già in molte Costituzioni Sinodali sono stati provvidamente stabiliti dai
Vescovi – come ben sappiamo – i giorni nei quali i Pastori d’Anime devono celebrare
la Santa Messa pro populo. –
Noi ci siamo presi l’impegno di decretare soltanto quando, senza alcun dubbio,
si debba celebrare la Messa per il popolo. Sappiamo anzi quello che d’altronde
era stato disposto dalla Santa Congregazione del Concilio, che cioè il Parroco
dotato di pingue beneficio dovrebbe ogni giorno celebrare e applicare la Santa
Messa per il popolo e che chi non gode di questi abbondanti redditi è tenuto a
farlo soltanto nei giorni festivi. Ma Noi, ben sapendo quali controversie sono
sorte su questo punto, cioè a quale somma dovrebbero giungere i proventi della
Chiesa parrocchiale, per essere stimati pingui e abbondanti, e poiché non
possono essere dichiarati pingui quei redditi, anche copiosi, ai quali però
sono annessi molteplici e gravi oneri, e poiché conosciamo quante querele sono
sorte contro questo decreto, ritenuto troppo rigido, Noi crediamo opportuno
dichiarare alle Vostre Fraternità che per Noi è già soddisfacente e per Voi
sufficiente che coloro che esercitano la cura d’Anime, celebrino il Sacrificio
della Messa tutte le domeniche e le Feste di precetto applicando per il popolo.
– Le domeniche e gli altri giorni festivi sono quelli nei quali, secondo il
precetto del Concilio di Trento (sess. 5, cap. 2; sess. 24, cap. 4), tutti i preposti
alla cura delle Anime devono nutrire il popolo loro affidato con salutari
parole, insegnando quelle verità che tutti devono conoscere per la loro
salvezza: e sono quelli i giorni dei quali il Sacro Concilio decretò: “Il
Vescovo ammonisca il popolo con molta cura e ciascuno deve essere presente alla
sua Parrocchia, quando ciò è comodo, per ascoltare la Parola di Dio”. In questi giorni i Parroci
devono istruire i loro parrocchiani nella dottrina cristiana, secondo quel che
prescrive lo stesso Concilio: “Abbiano cura i Vescovi che i
fanciulli nelle domeniche e negli altri giorni di festa siano istruiti nelle
singole Parrocchie su i Rudimenti della Fede e l’obbedienza a Dio e ai
genitori” (Conc. Trid., sess. 24, cap. 4).
7. E poiché in alcune Diocesi il numero
delle Feste di precetto, per Nostra Autorità, è stato diminuito, cosicché in
alcune Feste i fedeli cristiani devono ascoltare la Santa Messa e astenersi
dalle opere servili, mentre in altre feste sono permesse le opere servili, pur
restando fermo l’obbligo di ascoltare la Messa, Noi, per eliminare i già sorti
dubbi sull’obbligo di applicare la Messa Parrocchiale in questi ultimi giorni
festivi, stabiliamo e dichiariamo che tutti i curatori d’Anime sono tenuti a
celebrare e ad applicare la Messa pro populo anche nei giorni predetti nei
quali il popolo deve assistere alla Messa e può applicarsi alle opere servili.
8. Sappiamo però abbastanza bene, per
averne fatto qualche volta Noi stessi esperienza, che ci sono dei Parroci così
poveri da essere quasi costretti a vivere delle elemosine che ricevono dai
fedeli per la celebrazione delle Messe. Altri invece, incaricati sotto il nome
di Vicari o Economi di esercitare, durante la mancanza del Parroco, la cura
d’Anime, in certi luoghi sono trattati così miseramente che le esigue entrate
loro concesse e gli scarsi ed incerti guadagni che essi fanno, bastano appena
alla necessità della loro vita. Questo avviene sovente anche a quei Sacerdoti
che, in certe Chiese, esercitano solo interinalmente un ministero che stabilmente
viene affidato ad altri; per conseguenza sembreremmo dare prova di troppo
rigore, se proibissimo loro di ricevere l’elemosina per l’applicazione della
Messa proprio nei giorni festivi in cui si presenta più facilmente l’occasione
di averla. – Per questo Noi, mossi da una grandissima compassione per
l’indigenza sia degli uni, sia degli altri, e allo scopo di venire loro
incontro nel limite delle Nostre facoltà; quantunque, come abbiamo detto sopra,
tutti e ciascuno dei Sacerdoti suddetti siano obbligati nei giorni festivi a
celebrare ed applicare la Messa pro populo; tuttavia a beneficio dei predetti
Parroci bisognosi, concediamo a ciascuno di Voi la facoltà di opportunamente
dispensare coloro che avrete constatato essere nelle condizioni richieste,
affinché possano ricevere liberamente e lecitamente l’elemosina, anche nei
giorni festivi, da qualche pio offerente, ed applicare per lui il Sacrificio,
se costui lo richiede: purché per la necessaria comodità del popolo, ed alla
condizione che, nel corso della settimana, essi applichino tante Messe a favore
del popolo, quante ne avranno celebrate, nei giorni festivi ricorrenti in
quella settimana, secondo l’intenzione particolare di un altro pio benefattore.
9. Per quello che riguarda i Vicari, ossia Economi, delle Chiese vacanti, essendo concessa facoltà ad ogni Vescovo, dal Concilio Tridentino (sess. 24, cap. 18), di incaricarli e costituirli “con una congrua assegnazione dei frutti del beneficio a suo proprio giudizio”, spetta a Voi, Venerabili Fratelli, agire con quelli che esigono i frutti di quella Chiesa vacante, così da dare un certo congruo aumento per l’onere di celebrare e applicare la Messa per il popolo nei giorni festivi a quell’Economo in stato di bisogno che gode di un’esigua assegnazione dei beni e di pochi e incerti altri proventi. Inoltre in quei luoghi dove i frutti
delle Chiese vacanti vengono riscossi a favore della Nostra Camera Apostolica,
abbiamo inviato al nostro Tesoriere Generale opportuni ordini, che egli non
tralascerà di trasmettere ai Collettori particolari di questi luoghi: “I
Vescovi della Nostra giurisdizione e regione ecclesiastica e degli altri
luoghi, dove i frutti delle Chiese vacanti appartengono alla predetta Camera
Apostolica, dovranno devolvere parte di questi stessi frutti al fine di cui
abbiamo parlato sopra”.
10. Infine, riguardo a quei costituiti
Vicari perpetui o ad tempus, che hanno la cura d’Anime che abitualmente
appartiene ad altri, cioè di ragione di qualche Chiesa parrocchiale unita alle
loro Chiese o Monasteri, Collegi e Pii Luoghi, sebbene dal Nostro Predecessore
di venerata memoria San Pio V Papa sia stata stabilita una certa porzione da
assegnare a questi Vicari, come viene chiaramente indicato nella sua
Costituzione che comincia con le parole Ad exequendum, datata il primo novembre
1567, tuttavia, qualora non si trovi assegnata a questi Vicari una prestabilita
porzione di frutti – o in nessun modo o non integralmente –, o anche qualora
quella porzione loro attribuita dalla predetta Costituzione sia ritenuta da Voi
insufficiente nella circostanza dei tempi e specialmente per l’adempimento
dell’onere di celebrare e applicare la Messa pro populo nei giorni festivi di
precetto; Voi potrete usare di questo potere che dà il Concilio di Trento ai
Vescovi secondo il loro prudente giudizio (Conc. Trid., sess. 7, cap. 7),
tenuto conto delle necessità dei tempi e della ragione dell’onere imposto, e
assegnare a questi Vicari una congrua porzione di frutti. Per la qual causa Noi
impartiamo alle Vostre Fraternità, per quanto è d’uopo, le necessarie e
opportune facoltà, abolendo qualsiasi privilegio, appello o esecuzione – come
viene sancito nel medesimo Concilio – che venissero opposti alle salutari
disposizioni da Voi emanate.
11. Abbiamo dunque indicato alle Vostre
Fraternità quelle norme che devono essere stabilite circa la Messa
Parrocchiale. Facendo un altro passo, le norme che regolano la Messa
Conventuale sono così note e chiare che non è possibile far sorgere alcun
dubbio: che cioè, secondo le sanzioni dei Sacri Canoni, è prescritto che ogni
giorno nelle Chiese Patriarcali, Metropolitane, Collegiali, siano recitate le
Ore Canoniche nel debito modo e forma; non solo, ma venga celebrata la Messa
Conventuale. Anche su questi obblighi esistono risoluzioni emanate molte volte
da questa Congregazione dei Nostri Venerabili Fratelli interpreti del Concilio
Tridentino, che Noi con la nostra Apostolica Autorità approviamo e confermiamo,
inculcandone particolarmente la loro esecuzione. Pertanto la Messa Conventuale
che viene celebrata ogni giorno dal Clero delle predette Chiese, sia applicata
ogni giorno per i loro benefattori in genere, allo stesso modo in cui viene
applicata pro populo da coloro che sono in cura d’Anime ogni domenica e festa
di precetto, come abbiamo dichiarato superiormente.
12. Adoperatevi dunque ad eliminare la
falsa opinione di alcuni, che sappiamo essere accettata in alcune di queste
Chiese o per errore o dolosamente; l’opinione è questa: che cioè quando la
Messa Conventuale è celebrata e applicata per qualche particolare benefattore
della Chiesa, sia per gratitudine, sia per un onere accettato o imposto, con
questo deve ritenersi soddisfatto l’onere della celebrazione. Invece questo
dovere e onere non riguardano alcuni benefattori particolari, ma tutti i
benefattori in generale di qualsiasi Chiesa al cui servizio sono addetti i
Dignitari, i Canonici, i Mansionari, coloro che ricevono i benefici corali e
celebrano la Messa Conventuale secondo i loro turni.
13. Voi comprendete che non è meno da
riprovare l’affermazione di altri che dicono che questo obbligo viene
sufficientemente soddisfatto quando nelle loro Chiese ogni tanto si fanno
preghiere per i benefattori, oppure si celebra per loro il Santo Sacrificio in
determinati giorni o negli anniversari. – Nessuno si arroghi il diritto di
poter soddisfare un obbligo in altro modo da quello che è stato prescritto
sovente dalle leggi ecclesiastiche: che cioè si deve celebrare la santa Messa
Conventuale ogni giorno per i benefattori, applicandola per tutti loro in
genere.
14. Nei primi secoli della Chiesa, ma
anche in tempi da noi non molto remoti, – non dubitiamo che anche Voi l’avete
appreso dalla Storia della Chiesa – si conservava nelle singole Chiese un
elenco accurato di tutti e dei singoli per la liberalità dei quali era stata
costruita la Chiesa; e i loro nomi erano scritti nei “Sacri Dittici”
(così allora si chiamavano) perché non venisse mai meno il loro ricordo e
perché per essi si facessero preghiere e si celebrasse il Santo Sacrificio
della Messa. Per questa ragione si era soliti in molte Chiese porre quel
catalogo davanti agli occhi del Sacerdote Celebrante, sebbene molti pii
Benefattori nelle loro donazioni avessero dichiarato che non avevano posto
alcuna condizione di Sante Messe, ma che offrivano i loro beni a Dio soltanto
per la remissione dei loro peccati; ma i Presuli delle Chiese stabilirono che
si facessero preghiere e impetrazioni per essi, sebbene costoro, offrendo i
loro beni, non avessero fatto parola di questo. – Ma pian piano questo uso dei
Sacri Dittici venne meno, e per questo sono caduti in oblio in tanti luoghi i
nomi di molti Benefattori. – Ma non per questo si devono tralasciare l’uso e la
disciplina di pregare per essi, e offrire in suffragio il Santo Sacrificio
della Messa. Da questi fatti poi ha avuto origine (ed ha la sua ragione
d’essere) il precetto di applicare la Messa Conventuale per tutti i
Benefattori.
15. Come si portano varie scuse – come è
stato detto sopra – per evitare di applicare pro populo la Messa Parrocchiale
nei giorni di festa di precetto, così avviene per l’applicazione della Messa
Conventuale quotidiana a pro dei Benefattori. – E come le prime scuse, così le
seconde sono state tolte di mezzo provvidamente con le opportune risoluzioni
della Congregazione del Concilio Tridentino, che Noi ancora una volta approviamo
e confermiamo.
16. Alcuni tuttavia, in ragione della
contraria consuetudine anche “ab immemorabili”, che vige nella loro
Chiesa, si persuasero di potersi esimere da un tale onere. – Ma già molte volte
è stato risposto che una tale consuetudine, anche se “ab
immemorabili”, deve essere chiamata più propriamente abuso e vizio, e non
può in alcun modo né da alcuno essere difesa e accettata.
17. Altri vorrebbero essere esentati
dall’applicare la Messa per i Benefattori, o perché soggetti ad un altro onere di
Messe, o in ragione del loro Canonicato o altro Beneficio Ecclesiastico, che
hanno ottenuto con la Prebenda Canonicale; o perché – oltre l’Ufficio di
Canonico o Beneficiario o Mansionario nella Chiesa Cattedrale o Collegiata –
quando cantano la Messa Conventuale nei giorni festivi di precetto, devono
contemporaneamente applicare pro populo e quindi non possono offrire nello
stesso tempo il Santo Sacrificio anche per i Benefattori. Ma si è provveduto
anche a costoro, ordinando loro di applicare la Messa Conventuale per i
Benefattori; per gli altri, per i quali fossero tenuti ad applicare
peculiarmente la Messa, si facciano sostituire da un altro Sacerdote, che al
loro posto celebri quella Messa da applicare pro populo.
18. Altri fanno l’osservazione che non
sempre la Messa Conventuale viene celebrata da Canonici o Dignitari, ma
talvolta da Beneficiati o Mansionari. Non è giusto che non ci sia alcuna
elemosina per quella Messa e non sanno donde si debba prelevare
quell’elemosina. Anche a questo si è provveduto, ordinando che deve essere
detratta dalla “Massa di Distribuzione”.
19. Altri ancora hanno dimostrato
l’esiguità di tali distribuzioni, che detraendo infatti l’elemosina quotidiana
per la Messa Conventuale, si ridurrebbero quasi a nulla. Allora non si
troverebbe più nessuno che se ne occupasse, con grave detrimento delle
prestazioni di servizio alla Chiesa. Il Concilio di Trento (sess. 24, cap. 15)
espone le opportune ragioni per provvedere alla mancanza di mezzi e alla
povertà di certe Prebende Canonicali. Se poi non si può seguire la via indicata
dal Concilio, come spesso accade, allora non resta che inoltrare ricorso presso
la Congregazione del Concilio, alla quale spetta ridurre l’applicazione
quotidiana della Messa Conventuale ai soli giorni festivi. E questo dopo aver
esaminato opportunamente la vostra particolare situazione in base alla Vostra
relazione, e con l’autorità Apostolica ad essa concessa dai Nostri
Predecessori, e da Noi confermata con la presente Lettera.
20. Sappiamo che è stato imposto ogni
giorno il canto della Messa Conventuale nelle Chiese Patriarcali, Metropolitane
e Collegiate, come è prescritto nelle Rubriche generali, la cui custodia e
osservanza vivamente raccomandiamo alle Vostre Fraternità. Ma in certi giorni
si devono celebrare anche due o tre Messe Conventuali. Allora, come è stato
superiormente ordinato, la prima Messa deve essere celebrata senz’altro per i
Benefattori; ma resta da decidere se si deve obbligare i Capitoli delle Chiese
rispettivamente soggetti alla Vostra giurisdizione, che anche le altre Messe –
se occorre celebrarle – siano ugualmente applicate a suffragio dei Benefattori.
21. Tale questione è stata prospettata
alla Sacra Congregazione da alcuni di Voi, ardenti di zelo per la Chiesa. Ma
già prima di tale domanda, si trovò che altre volte fu risposto dalla medesima
Congregazione dei Nostri Venerabili Fratelli Interpreti del Concilio di Trento
che si doveva concedere l’esenzione dall’applicazione della seconda o terza
Messa Conventuale a pro dei Benefattori, quando lo esigeva la piccola dote dei
Canonicati o dei Benefici. Da questo si poteva desumere l’obbligo
dell’applicazione dove non si trattava di Chiese povere.
22. Noi però, conoscendo bene la regola
tenuta dalla Sacra Congregazione per la definizione di questa questione; di
rimandare cioè nel dubbio la soluzione di questa questione al Nostro giudizio,
Noi allora giudichiamo – e vogliamo sia da Voi osservato – quanto segue: sono
da lodare e incoraggiare tutti quelli che spontaneamente applicano la seconda o
terza Messa Conventuale per i Benefattori in generale: coloro che lo fanno in
forza della consuetudine vigente nella loro Chiesa devono perseverare in questa
consuetudine; dove invece non si trova tale consuetudine, si deve lasciare ai
celebranti la libertà dell’applicazione della seconda e terza Messa
Conventuale, purché siano sempre ricordati i Benefattori della Chiesa nella
commemorazione dei Defunti.
23. Terminando questa Nostra Lettera,
esortiamo vivamente le Vostre Fraternità ad esercitare la massima attenzione e
vigilanza affinché nei cori delle Vostre Chiese, oltre alla devota celebrazione
e alla giusta applicazione della Messa Conventuale, anche le Ore Canoniche non siano cantate in
fretta, ma bensì con diligenza, facendo sempre le pause richieste, e con tutto
il rispetto e la devozione convenienti.
24. Sappiamo bene che in certe Chiese Metropolitane e Cattedrali si è fatta strada tra i Canonici l’opinione secondo la quale essi pretendono di soddisfare sufficientemente al loro dovere con la sola presenza in Coro, anche se vi rimangono silenziosi, né si uniscono al canto dei Beneficiati e dei Mansionari. Per avvalorare questa opinione essi sogliono addurre antiche consuetudini, particolari statuti e anche pretesi privilegi delle loro Chiese. – Ma poiché il Sinodo Tridentino, parlando dei Dignitari e dei Canonici che devono essere presenti al Coro, enuncia i loro doveri in questi termini: “Lodate con Inni e Cantici il Nome di Dio, con riverenza, con chiara voce e con devozione nel Coro a ciò istituito per salmodiare” (Conc. Trid., sess. 84, cap. 12); e poiché sono pochi attualmente i Capitoli nei quali i Canonici partecipano al Coro nel modo da Noi deprecato; e perciò sono pochi quelli che avversano la disciplina della Chiesa – per quanto Noi sappiamo –; poiché inoltre questa opinione (che mai fu proposta alla discussione nella Congregazione del Concilio di Trento) appena venne esaminata fu subito riprovata e respinta – ancorché ne venissero addotte a suo sostegno le presunte consuetudini ed altri motivi e ragioni – e nonostante l’istanza che ne facevano i Canonici delle Chiese Patriarcali di questa Nostra Città; siccome, infine, un giudizio fu emesso in questo stesso senso da molti Sinodi Provinciali, anche approvati e confermati da questa Sede Apostolica, non sembra rimanere null’altro che impedisca a questi pochi di uniformarsi alla Legge universale. – In verità Noi non vediamo su quale titolo particolare possano appoggiarsi i Canonici di questa o di quell’altra Chiesa, per persuadersi di soddisfare al loro obbligo con la semplice presenza in Coro, senza il canto della Divina Salmodia. – Pertanto, se costoro non possiedono un Privilegio o Indulto Apostolico – non presunto né abrogato, ma legittimo e ancora in vigore – giustamente e meritatamente si deve temere che finché essi agiscono in questo modo, non possono fare propri i frutti delle Prebende e delle distribuzioni, e che sono tenuti alla loro restituzione. – Pertanto è vostro dovere, Venerabili Fratelli, spiegare loro tutte queste responsabilità, se non vogliamo, Noi con Voi, con la nostra dissimulazione e col nostro silenzio favorire e confermare abusi e corruttele che dovevamo togliere, riprendendo coraggiosamente e scongiurando, per non essere trovati colpevoli davanti al Divin Giudice in una cosa di così grande importanza, riguardante così da vicino il culto di Dio. Frattanto, alle Vostre Fraternità, che
con tutto il cuore abbracciamo, con tanto affetto impartiamo la Benedizione
Apostolica.
Dato a Roma, presso Santa Maria
Maggiore, il 19 agosto 1744, anno quinto del Nostro Pontificato.
ATTO DI
CONSACRAZIONE E DI RIPARAZIONE AL SANTISSIMO CUORE DI GESÙ
ACTUS
REPARATIONIS ET CONSECRATIONIS
Iesu dulcissime, cuius effusa in homines caritas, tanta oblivione, negligentia, contemptione, ingratissime rependitur, en nos, ante altaria [an: conspectum tuum] tua provoluti, tam nefariam hominum socordiam iniuriasque, quibus undique amantissimum Cor tuum afficitur, peculiari honore resarcire contendimus. Attamen, memores tantæ nos quoque indignitatis non expertes aliquando fuisse, indeque vehementissimo dolore commoti, tuam in primis misericordiam nobis imploramus, paratis, voluntaria expiatione compensare flagitia non modo quæ ipsi patravimus, sed etiam illorum, qui, longe a salutis via aberrantes, vel te pastorem ducemque sectari detrectant, in sua infìdelitate obstinati, vel, baptismatis promissa conculcantes, suavissimum tuæ legis iugum excusserunt. Quæ deploranda crimina, cum universa expiare contendimus, tum nobis singula resarcienda proponimus: vitæ cultusque immodestiam atque turpitudines, tot corruptelæ pedicas innocentium animis instructas, dies festos violatos, exsecranda in te tuosque Sanctos iactata maledicta àtque in tuum Vicarium ordinemque sacerdotalem convicia irrogata, ipsum denique amoris divini Sacramentum vel neglectum vel horrendis sacrilegiis profanatum, publica postremo nationum delicta, quæ Ecclesiæ a te institutæ iuribus magisterioque reluctantur. Quæ utinam crimina sanguine ipsi nostro eluere possemus! Interea ad violatum divinum honorem resarciendum, quam Tu olim Patri in Cruce satisfactionem obtulisti quamque cotidie in altaribus renovare pergis, hanc eamdem nos tibi præstamus, cum Virginis Matris, omnium Sanctorum, piorum quoque fìdelium expiationibus coniunctam, ex animo spondentes, cum præterita nostra aliorumque peccata ac tanti amoris incuriam firma fide, candidis vitæ moribus, perfecta legis evangelicæ, caritatis potissimum, observantia, quantum in nobis erit, gratia tua favente, nos esse compensaturos, tum iniurias tibi inferendas prò viribus prohibituros, et quam plurimos potuerimus ad tui sequelam convocaturos. Excipias, quæsumus, benignissime Iesu, beata Virgine Maria Reparatrice intercedente, voluntarium huius expiationis obsequium nosque in officio tuique servitio fidissimos ad mortem usque velis, magno ilio perseverantiæ munere, continere, ut ad illam tandem patriam perveniamus omnes, ubi Tu cum Patre et Spiritu Sancto vivis et regnas in sæcula sæculorum.
Amen.
[Gesù dolcissimo, il cui immenso amore per gli uomini viene con tanta ingratitudine ripagato di oblio, di trascuratezza, di disprezzo, ecco che noi, prostrati dinanzi ai vostri altari, intendiamo riparare con particolari attestazioni di onore una così indegna freddezza e le ingiurie con le quali da ogni parte viene ferito dagli uomini l’amantissimo vostro Cuore. Ricordevoli però che noi pure altre volte ci macchiammo di tanta indegnità, e provandone vivissimo dolore, imploriamo anzitutto per noi la vostra misericordia, pronti a riparare con volontaria espiazione, non solo i peccati commessi da noi, ma anche quelli di coloro che, errando lontano dalla via della salute, o ricusano di seguire Voi come pastore e guida ostinandosi nella loro infedeltà, o calpestando le promesse del Battesimo hanno scosso il soavissimo giogo della vostra legge. E mentre intendiamo espiare tutto il cumulo di sì deplorevoli delitti, ci proponiamo di ripararli ciascuno in particolare: l’immodestia e le brutture della vita e dell’abbigliamento, le tante insidie tese dalla corruttela alle anime innocenti, la profanazione dei giorni festivi, le ingiurie esecrande scagliate contro di Voi e i vostri Santi, gl’insulti lanciati contro il vostro Vicario e l’ordine sacerdotale, le negligenze e gli orribili sacrilegi ond’è profanato lo stesso Sacramento dell’amore divino, e infine le colpe pubbliche delle nazioni che osteggiano i diritti ed il Magistero della Chiesa da Voi fondata. Ed oh, potessimo noi lavare col nostro sangue questi affronti! Intanto, come riparazione dell’onore divino conculcato, noi Vi presentiamo – accompagnandola con le espiazioni della vergine vostra Madre, di tutti i Santi e delle anime pie – quella soddisfazione che Voi stesso un giorno offriste sulla croce al Padre e che ogni giorno rinnovate sugli altari; promettendo con tutto il cuore di voler riparare, per quanto sarà in noi e con l’aiuto della vostra grazia, i peccati commessi da noi e dagli altri, e l’indifferenza verso sì grande amore, con la fermezza della fede, l’innocenza della vita, l’osservanza perfetta della legge evangelica, specialmente della carità, e d’impedire inoltre, con tutte le nostre forze, le ingiurie contro di Voi, e di attrarre quanti più potremo alla vostra sequela. Accogliete, ve ne preghiamo, o benignissimo Gesù, per intercessione della B. V. Maria Riparatrice, questo volontario ossequio di riparazione e vogliate conservarci fedelissimi nella vostra ubbidienza e nel vostro servizio fino alla morte col gran dono della perseveranza, mercé il quale possiamo tutti un giorno pervenire a quella patria, dove Voi col Padre e con lo Spirito vivete e regnate Dio per tutti i secoli dei secoli. Così sia].
Indulgentia quinque annorum.
Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione,
sacra Communione et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitatione, si
quotidie per integrum mensem reparationis actus devote recitatus fuerit.
Fidelibus vero, qui die festo sacratissimi Cordis Iesu in qualibet ecclesia aut oratorio etiam (prò legitime utentibus) semipublico, adstiterint eidem reparationis actui cum Litaniis sacratissimi Cordis, coram Ss.mo Sacramento sollemniter exposito, conceditur:
Indulgentia septem annorum;
Indulgentia plenaria, dummodo peccata sua sacramentali
pænitentia expiaverint et eucharisticam Mensam participaverint (S. Pæn. Ap., 1
iun. 1928 et 18 mart. 1932).
[Indulg. 5 anni; Plenaria se recitata per un mese con Confessione, Comunione, Preghiera per le intenzioni del Sommo Pontefice, visita di una chiesa od oratorio pubblico. – Nel giorno della festa del Sacratissimo Cuore di Gesù, 7 anni, se confessati e comunicati, recitata con le litanie de Sacratissimo Cuore, davanti al SS. Sacramento solennemente esposto: Indulgenza plenaria].
LITANIA SACRATISSIMI CORDIS IESU
Tit.
XI, cap. II
Indulg.
septem annorum; plenaria suetis condicionibus, dummodo cotidie per integrum
mensem litania, cum versiculo et oratione pia mente repetita fuerint.
Pius Pp. XI, 10 martii 1933
KYRIE, eléison.
Christe, eléison.
Kyrie, eléison.
Christe, audi nos.
Christe, exàudi nos.
Pater de cælis, Deus, miserére nobis.
Fili, Redémptor mundi, Deus, miserére.
Spiritus Sancte, Deus, miserére.
Sancta Trinitas, unus Deus, miserére nobis.
Cor Iesu, Filii Patris ætèrni, miserére.
Cor Iesu, in sinu Virginis Matris a Spiritu Sancto formàtum, miserére …
Cor Iesu, Verbo Dei
substantiàliter unitum, miserére.
Cor Iesu, maiestàtis infinitæ, miserére
nobis.
Cor Iesu, templum Dei sanctum,
miserére.
Cor Iesu, tabernàculum Altissimi,
miserére.
Cor Iesu, domus Dei et porta cæli,
miserére.
Cor Iesu, fornax ardens caritàtis, miserére.
Cor Iesu, iustitiæ et amóris receptàculum, miserére.
Cor Iesu, bonitàte et amóre plenum, miserére.
Cor Iesu, virtùtum omnium abyssus, miserére.
Cor Iesu, omni laude dignissimum,
miserére.
Cor Iesu, rex et centrum omnium córdium, miserére.
Cor Iesu, in quo sunt omnes thesàuri sapiéntiæ et sciéntias, miserére.
Cor Iesu, in quo habitat omnis plenitùdo divinitàtis, miserére.
Cor Iesu, in quo Pater sibi bene complàcuit, miserére.
Cor Iesu, de cuius plenitudine omnes nos accépimus, miserére.
Cor Iesu, desidérium cóllium æternórum, miserére.
Cor Iesu, pàtiens et multæ misericórdiæ, miserére.
Cor Iesu, dives in omnes qui invocant te, miserére.
Cor Iesu, fons vitæ et sanctitàtis, miserére nobis.
Cor Iesu, attritum propter scelera
nostra, miserére.
Cor Iesu, usque ad mortem obédiens factum, miserére.
Cor Iesu, làncea perforàtum, miserére.
Cor Iesu, fons totius consolatiónis, miserére.
Cor Iesu, vita et resurréctio nostra,
miserére.
Cor Iesu, pax et reconciliàtio nostra,
miserére.
Cor Iesu, victima peccatórum, miserére.
Cor Iesu, salus in te speràntium,
miserére.
Cor Iesu, spes in te moriéntium, miserére.
Cor Iesu, deliciæ Sanctórum omnium,
miserére.
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, parce nobis, Dòmine.
Agnus Dei, qui tollis peccata
mundi, exàudi nos, Dòmine,
Agnus Dei, qui tollis peccata
mundi, miserére nobis.
V. Iesu, mitis et hùmilis Corde.
R. Fac cor nostrum secùndum Cor tuum.
Orèmus.
Ominipotens sempitèrne Deus,
réspice in Cor dilectissimi Filii tui, et in laudes et satisfactiónes, quas in
nòmine peccatórum tibi persólvit, iisque misericórdiam tuam peténtibus tu
véniam concede placàtus, in nòmine eiùsdem Filii tui Iesu Christi:Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculórum.
R. Amen.
[Litanie del S. Cuore di Gesù:
(Signore,
abbi pietà di noi
Cristo,
abbi pietà di noi.
Signore,
abbi pietà di no:
Cristo,
ascoltaci
Cristo,
esaudiscici.
Dio,
Padre celeste, abbi
pietà di noi (ogni volta)
Dio,
Figlio Redentore del mondo, abbi …
Dio,
Spirito Santo, ….
Santa
Trinità, unico Dio
…
Cuore
di Gesù, Figlio dell’Eterno Padre, abbi pietà di noi (ogni volta)
Cuore
di Gesù, formato dallo Spirito Santo nel seno della Vergine Madre …
Cuore
di Gesù, sostanzialmente unito al Verbo di Dio …
Cuore
di Gesù, di maestà infinita …
Cuore
di Gesù, tempio santo di Dio …
Cuore
di Gesù, tabernacolo dell’Altissimo, …
Cuore
di Gesù, casa di Dio e porta del Cielo, …
Cuore
di Gesù, fornace ardente di carità, …
Cuore
di Gesù, ricettacolo di giustizia e di amore, …
Cuore
di Gesù, pieno di bontà e di amore, …
Cuore
di Gesù, abisso di ogni virtù, …
Cuore
di Gesù, degnissimo di ogni lode, …
Cuore
di Gesù, Re e centro di tutti i cuori, …
Cuore
di Gesù, in cui sono tutti i tesori di sapienza e di scienza, …
Cuore
di Gesù, in cui abita la pienezza della divinità, …
Cuore
di Gesù, in cui il Padre ha posto le sue compiacenze, …
Cuore
di Gesù, dalla cui abbondanza noi tutti ricevemmo, …
Cuore
di Gesù, desiderio dei colli eterni, …
Cuore
di Gesù, paziente e misericordiosissimo,
…
Cuore
di Gesù, ricco con tutti coloro che ti
invocano, …
Cuore
di Gesù, fonte di vita e di santità, …
Cuore
di Gesù, propiziazione pei peccati nostri. …
Cuore
di Gesù, satollato di obbrobrii, …
Cuore
di Gesù, spezzato per le nostre scelleratezze, …
Cuore di
Gesù, fatto obbediente sino alla morte, …
Cuore
di Gesù, trapassato dalla lancia, …
Cuore
di Gesù, fonte d’ogni consolazione,
Cuore
di Gesù, vita e risurrezione nostra, …
Cuore
di Gesù, pace e riconciliazione nostra. …
Cuore
di Gesù, vittima dei peccati, …
Cuore
di Gesù, salute di chi in Te spera, …
Cuore
di Gesù, speranza di chi in Te muore, …
Cuore
di Gesù, delizia di tutti i Santi, …
Agnello
di Dio che togli peccati del mondo, perdonaci o Signore.
Agnello
di Dio che togli peccati del mondo, esaudiscici, o Signore
Agnello
di Dio che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi.
V.
Gesù, mansueto e umile di cuore,
R.
Rendi il nostro cuore simile al tuo.
Preghiamo
O Dio onnipotente ed eterno, guarda al Cuore del tuo dilettissimo Figlio,
alle lodi ed alle soddisfazioni che Esso ti ha innalzato, e perdona clemente a
tutti coloro che ti chiedono misericordia nel nome dello stesso tuo Figlio Gesù
Cristo, che vive e regna con te, Dio, in unità con lo Spirito Santo per tutti i
secoli dei secoli.
La Decet quam maxime è una lunga lettera enciclica, nella quale il Sommo Pontefice Clemente XIV, pone dei limiti ben precisi a richieste economiche di prelati riguardo alle funzioni loro affidate dalla Santa Chiesa Cattolica: « … È assolutamente opportuno che i ministri della Chiesa ed i dispensatori dei misteri di Dio si mantengano completamente estranei anche al più piccolo sospetto d’avarizia e altrettanto ne tengano lontano il loro ministero, al quale sono stati chiamati da Dio; in tal modo potranno gloriarsi a buon diritto e con merito di aver tenuto le loro mani monde da ogni vantaggio ». Tale è l’inizio della lettera che poi enumera e regola i possibili abusi che tutti vengono condannati secondo norme ecclesiali. Questa è la vera Chiesa Cattolica, nella quale vanno evitate tutte le occasioni di accaparramento di beni e denaro, o di avarizia sotto qualsiasi forma, a fronte di una carità sempre sollecita verso l’indigenza e la povertà materiale. I veri servi del Signore non cercano per sé o per i propri familiari prebende o compensi oltre quelli lecitamente concessi dai sacri canoni ecclesiastici che assicurano la sussistenza minima del prelato. Guadagni illeciti o truffaldini sono stati compiuti da individui che hanno tradito il mandato evangelico mettendo in cattiva luce la Chiesa di Cristo, fondata sulla povertà evangelica materiale, e sulla Provvidenza divina circa la soddisfazione dei bisogni minimi leciti e necessari alla sussistenza. Qui non è neppure il caso di sottolineare quanto la voracità di falsi “principi” della sinagoga di satana usurpante i sacri palazzi vaticani in particolare, getti fango e discredito sul Cristianesimo tutto con l’istituzione addirittura di strutture di credito colluse con operazioni economiche illecite e gestite da trafficanti ed “esperti” di mercato con immunità diplomatica. Ma sono cose sotto gli occhi di tutti e che non meritano se non il disprezzo ed il discredito riservato a strutture a conduzione massonico-luciferina. A noi, piccolo gregge cattolico, l’azione di lode a Dio e di preghiera perché il Signore liberi quanto prima la vera Chiesa ed il Santo Padre dagli impedimenti attuali ai quali è relegata nella eclissi della sua passione e a seguire, nella morte (apparente) e nel sepolcro, e le dia la resurrezione attesa dai veri Cristiani e da tutte le creature dell’universo, perché possano rendere culto e lode al loro Creatore, Redentore, e Santificatore, al Dio uno e Trino.
Clemente XIV Decet quam maxime
1. È assolutamente opportuno che i ministri della Chiesa ed i dispensatori dei misteri di Dio si mantengano completamente estranei anche al più piccolo sospetto d’avarizia e altrettanto ne tengano lontano il loro ministero, al quale sono stati chiamati da Dio; in tal modo potranno gloriarsi a buon diritto e con merito di aver tenuto le loro mani monde da ogni vantaggio. Questo per primo raccomandò Gesù Cristo ai suoi discepoli quando li avviò a predicare il Vangelo con queste parole: “Gratis avete ricevuto e gratis donate” (Mt XVIII, 8). In più occasioni (1Tm III, 8; Tt 1,7)Paolo l’ha specificamente raccomandato come carattere distintivo di coloro che dovevano essere chiamati al ministero dell’altare. Questo, infine, inculcò Pietro in coloro che furono preposti alla cura delle anime, dicendo: “Pascolate il gregge di Dio che vi è stato affidato, non per l’aspettativa di un turpe lucro, ma volontariamente” (1Pt V, 2). A questo divino mandato si debbono uniformare per primi, con diligenza e con cura, i pastori delle chiese, che debbono essere d’esempio ai fedeli nella predicazione, nella conversazione, nella carità, nella fede: impegno invero minimo se si mostreranno irreprensibili in prima persona. Compete loro inoltre di darsi da fare attivamente affinché nessuno dei ministri ai quali comandano, in nessun modo si permetta di condurre a termine azioni contrarie a tale dettame, tenendo sempre presente l’insigne frase di Ambrogio: “Non basta che tu non cerchi il vantaggio economico; anche le mani dei tuoi familiari devono essere tenute a freno. Dai dunque istruzioni alla tua famiglia, ammoniscila, custodiscila; e se un servitorello ti avrà ingannato, una volta scoperto dovrà essere ripudiato a titolo d’esempio” (S. Ambrogio, In Lucam, lib. IV, n. 52). Partendo da queste ottime, saggissime leggi, sia i santissimi Concili sia i Romani Pontefici Nostri predecessori hanno ritenuto di dover rendere sempre più stretto il passaggio, affinché malvagi abusi in materia non s’introducano mai nella Chiesa di Dio, o – se per caso vi si fossero già introdotti – vengano radicalmente tolti di mezzo. C’è tuttavia da lamentare che presso alcune diocesi queste decisioni delle Costituzioni apostoliche e dei sacri Canoni (così opportune e così ricche di dignità religiosa) rimasero prive del loro effetto e risultarono senza forza e senza valore, impossibilitate a svellere dalle radici ogni comportamento ad esse contrario. Dunque venimmo a conoscere che ciò accadeva perché coloro cui competeva occuparsene con il massimo impegno mettevano avanti varie scuse, invocando antiche, inveterate consuetudini oppure la necessità di versare qualche ricompensa ai ministri della curia ecclesiastica, oppure persino la mancanza del denaro necessario per condurre una vita decente, onesta e dignitosa. – Rendendosi conto di tutto ciò, il Nostro predecessore Innocenzo XI, di venerabile memoria, per apportare un rimedio costruttivo e rendere vane e fuori di luogo tutte le scusanti di qualunque natura, nel 1678 comandò che venisse redatto un tariffario nel quale fossero raccolti tutti i tributi indicati qua e là nei sacri Canoni e opportunamente sanciti dal Concilio Tridentino, secondo l’interpretazione data dalle sacre Congregazioni del predetto Concilio, nonché secondo i pareri espressi dai Vescovi. Ordinò inoltre che tutti gli interessi ecclesiastici fossero chiaramente individuati ed elencati analiticamente; in nome di essi non doveva assolutamente essere consentito ad alcuno, né nel foro ecclesiastico né nelle curie vescovili, percepire emolumenti, eccezion fatta per quel che va versato al banco del cancelliere e quel che va pagato per la necessaria mercede. Contemporaneamente fu assicurato che in questa materia la regola fosse uguale in tutte le curie ecclesiastiche ed identica, com’è giusto, fosse la disciplina, annullata ogni diversa consuetudine. Lo stesso sommo Pontefice Innocenzo XI il primo ottobre dello stesso anno approvò con la Sua autorità questo tariffario, lo controfirmò e ne dispose la promulgazione e l’osservanza. – Tuttavia neppure questo bastò a rinsaldare ovunque la disciplina ecclesiastica, ormai abbandonata, e a metter freno alle cattive usanze che già da tempo avevano preso piede in varie diocesi. Subito venne avanzata l’obiezione perché la citata tariffa non dovesse venire osservata anche dalle curie ecclesiastiche esistenti fuori d’Italia. Per altro non si poteva fingere di ignorare che tutti i decreti in essa contenuti derivavano dai sacri canoni ed in particolare dal Concilio Tridentino; di conseguenza era assolutamente necessario che tutte le diocesi li rispettassero con la massima religiosità.
2. Questi dunque furono i motivi,
Venerabili Fratelli, per cui – non senza grave dolore ed afflizione dell’animo
Nostro – Ci rendemmo conto che nelle vostre curie avevano trovato spazio molti
abusi contro l’esercizio della potestà spirituale; abusi che sconvolgono
profondamente la disciplina ecclesiastica, la snervano e recano sommo disdoro
alla grandissima dignità della quale risplendete ed all’autorità che vi è stata
trasmessa per realizzare la perfezione dei santi e i compiti del ministero per
l’edificazione del Corpo di Cristo. Noi abbiamo ben presenti la vostra
religiosità, la vostra santa pratica, la premura nei confronti delle Vostre
chiese; sappiamo anche che gli abusi in materia di pagamenti individuati nel
tribunale ecclesiastico delle vostre diocesi, introdotti in tempi passati da
qualche ministro di secondaria importanza, per l’esempio di questi si sono poi
propagati gradatamente di diocesi in diocesi, forse all’insaputa degli stessi
Vescovi, ed in qualche caso si sono sviluppati persino in funzione di una più
marcata dignità della Chiesa. O perché al problema veniva attribuita pochissima
rilevanza, o perché i successori nel ministero seguirono incautamente la strada
tracciata dai predecessori, si arrivò al punto che questi stessi abusi, ormai
rafforzati dalla continua pratica, sembrarono meritevoli di essere convalidati
da costituzioni sinodali su proposta degli stessi ministri. In nessun modo,
assolutamente, queste colpe possono essere addebitate a voi, che anzi siete
soprattutto degni di lode, in quanto abbiamo visto che voi siete colpiti dal
più grande dolore per queste iniquità e più che mai desiderosi di estirparle.
Tuttavia, rendendoci conto che perseguendo questo scopo vi sareste attirati
contro l’odio più forte, e che ostacoli enormi sarebbero stati frapposti alla
realizzazione dell’obiettivo, se la stessa autorità apostolica non si fosse
affiancata, per questo motivo interveniamo; in particolare a proposito della
diversità delle tariffe e dei diversi comportamenti vigenti nelle diverse
diocesi, affinché non solo siano tutti riportati ad un’equa e giusta misura, ma
perché assumano tutti una lodevole uniformità procedurale. Perciò confidiamo in
Voi, nel nome del Signore, affinché osserviate con la massima cura i decreti
che vi mandiamo con la Nostra autorità apostolica, su richiesta del Nostro
carissimo figlio in Cristo Carlo Emanuele, illustre Re di Sardegna, di cui
rilucono continuamente il singolare rispetto per Noi e per questa santa Sede
apostolica, l’affetto e l’impegno religioso: provvedete che da tutti e da
coloro cui compete essi siano osservati con grandissima diligenza.
3. In primo luogo per quanto riguarda le
ordinazioni sacre, non vi possono assolutamente sfuggire le numerosissime ed
altrettanto sante leggi della Chiesa, con le quali in qualunque tempo è stato
vietato che i Vescovi e gli altri collaboratori nel conferimento delle sacre
ordinazioni, o comunque rappresentanti ufficiali trattenessero alcunché dai
donativi degli ordini. Questo è stato chiaramente sancito nel sinodo ecumenico
di Calcedonia nel 451 (canone 2); in quello di Roma sotto san Gregorio Magno
nel 600 o nel 604 (canone 5, ovvero epist. 44, lib. 4, indiz. 13); nel secondo
sinodo ecumenico Niceno dell’anno 787 (canone 5); in quello di Salegunstadt
dell’anno 1022 (can. 3); nel quarto Lateranense, sotto Innocenzo III, nel 1215;
in quelli di Tours, di Bracara, di Barcellona e di altri luoghi riferiti da
Cristiano Lupo (dissert. 2, proemio De simonia cap. 9, tomo 4) e da
Gonzalez (capitolo Antequam 1, De simonia, n. 9), e più recentemente dal
Concilio di Trento (sess. 21, cap. 1, De reformatione), dal quale sono
stati perfezionati gli antichi canoni, che permettevano che si potesse ricevere
un’offerta spontanea, ed è stata ricondotta all’antica ed originaria purezza la
disciplina ecclesiastica sulle sacre ordinazioni. – Il decreto del Concilio
così recita: “Poiché ogni sospetto d’avarizia dev’essere lontano
dall’ordine ecclesiastico, i vescovi, gli altri collaboratori nell’impartire
gli ordini o i loro ministri non debbono per alcun motivo accettare alcunché –
anche se spontaneamente offerto – in occasione dell’attribuzione di qualunque
ordine: né per la tonsura clericale, né per lettere dimissorie o testimoniali,
né per il sigillo, né in qualunque altra circostanza. I notai, per altro,
soltanto in quei luoghi nei quali non vige la lodevole abitudine di non
accettare compensi, a fronte di ciascuna lettera dimissoria o testimoniale,
possono accettare soltanto la decima parte di un aureo, a patto che non sia
fissata per loro alcuna ricompensa per il lavoro svolto. Al vescovo non può
essere trasferito – direttamente o indirettamente – alcun emolumento
proveniente dalle rendite che competono ai notai per il conferimento degli
ordini; infatti egli sa di essere tenuto a prestar loro la propria opera
assolutamente gratis. Le tariffe contrarie a questa norma, gli statuti e le
consuetudini locali, per quanto d’immemorabile origine (che a buona ragione possono
essere ritenuti piuttosto abusi e fonti di corruzione e colpa simoniaca)debbono
essere assolutamente abolite e vietate; coloro che si comporteranno
diversamente, sia dando sia ricevendo, oltre che nel castigo divino
incorreranno immediatamente nelle pene fissate per legge“.
4. In linea con questi argomenti, vi
ordiniamo e notifichiamo, Venerabili Fratelli, di non accettare alcuna offerta
– nemmeno se spontaneamente donata – per il conferimento di qualunque ordine, nemmeno per la tonsura
ecclesiastica; né per la lettera dimissoria o testimoniale o per il
sigillo, o per qualunque altra ragione o causa o pretesto, eccezion fatta
soltanto per l’offerta
della candela di cera che suole esser fatta sulla base del pontificale
romano; e tuttavia in modo tale che la qualità ed il peso della candela siano
assolutamente lasciati all’arbitrio ed alla libera volontà di coloro che
debbono ricevere gli ordini. Alla vostra disposizione dovranno uniformarsi
anche i vicari generali o foranei, i cancellieri e gli altri ministri, i
familiari e i servi, ai quali venne già specificamente vietato dal Sacro
Concilio Tridentino di accettare o esigere qualunque remunerazione, offerta o
regalo in occasione delle sacre ordinazioni.
5. Se però in codeste diocesi non è fissato per il cancelliere o per i notai della curia ecclesiastica alcuno stipendio o salario per le mansioni svolte, ad essi soltanto consentiamo che – per ogni lettera testimoniale di un ordine conferito, compresa la tonsura ecclesiastica, o per la lettera dimissoria relativa alla stessa tonsura, o per gli ordini da ricevere da un Vescovo estraneo – possano esigere al massimo la decima parte di un aureo, ovvero dieci oboli di moneta romana, e se lo trattengano, purché non siano Regolari legati da uno strettissimo voto di povertà, ai quali non è assolutamente consentito maneggiare denaro. – Ordiniamo che sia osservata la stessa entità di remunerazione anche se la predetta lettera testimoniale o dimissoria riguarda una pluralità di ordini, e fa riferimento ad ordini già attribuiti o in via di attribuzione da parte di un altro Vescovo; di conseguenza in nessun modo sarà consentito aumentare la predetta remunerazione di dieci oboli o moltiplicarla in funzione dei singoli ordini contenuti nella lettera testimoniale o dimissoria. Con queste norme non intendiamo certo indurre i cancellieri o i notai ad indicare in uno stesso documento testimoniale ordini diversi, conferiti in momenti distinti e con distinti dispositivi; in verità in passato abbiamo ordinato che ciò avvenisse; limitatamente a quegli ordini – cioè i minori – conferiti con una sola ordinazione. Quanto alla lettera dimissoria relativa a più ordini da conferirsi da un altro vescovo, vietiamo che vengano moltiplicate le scritture e che si richieda qualunque sovrapprezzo o donativo per la rogazione dell’atto di conferimento degli ordini o per l’accesso al luogo dell’ordinazione o per qualsiasi altro motivo.
6. Nel conferimento del suddiaconato,
quando il cancelliere o il notaio siano costretti ad un maggior lavoro per comprovare
la verità e l’idoneità del patrimonio e del beneficio al cui titolo l’ordinando
aspira, occorre premettere necessariamente altre procedure per gli atti di
conferimento del predetto ordine. In questo caso consentiamo loro di poter
percepire una mercede proporzionata alla loro fatica, da stabilirsi dal Vescovo
a suo coscienzioso giudizio. Tuttavia, tenuto conto della redazione dell’atto,
del sigillo e di tutto il resto, non si può superare la somma di un aureo,
ovvero di sedici giulii e mezzo. Vogliamo inoltre che gli ordinandi e i loro
parenti siano liberi di ricorrere a qualunque notaio abilitato alla
sottoscrizione ed alla rogazione dell’atto, senza che possano essere costretti
verso qualcuno; così pure per i testimoni necessari a presenziare nelle predette
curie alla costituzione ed alla stipulazione del patrimonio ed al
perfezionamento degli altri atti consueti. Il notaio della curia, cui venga
affidata una pratica di questo tipo, non potrà a nessun titolo esigere alcuna
altra somma oltre la mercede definita dal Vescovo – come sopra specificato – o
la somma di un aureo o di sedici giulii e mezzo, sia per la stesura dell’atto,
sia per qualunque altra incombenza; né potrà ricevere altro denaro per la
pubblicazione del decreto o per la lettera pubblicatoria o per qualunque altra
ragione, sotto qualunque pretesto, come si legge chiaramente nel citato decreto
del Concilio di Trento e come venne dichiarato apertamente nella sacra
Congregazione del Concilio a Vicenza il 7 febbraio 1602, nella sacra Congregazione
dei Vescovi a Gerona il 25 ottobre 1588, come si legge nel Fagnani (De
simonia, cap. sulle Ordinazioni, n. 32 ss.).
7. Tuttavia, consentiamo che dai notai o
dal cancelliere possa essere richiesto un compenso, sempre nell’ambito della
legge, purché sia sempre dichiarato, qualora non sia stato fissato per il loro
lavoro alcun salario o stipendio; comunque, assolutamente, nulla dei loro
emolumenti può pervenire, direttamente o indirettamente, a voi o a chiunque
altro, ufficiale o ministro, che conferisce gli ordini, così come venne sancito
dal Concilio Tridentino. Queste due disposizioni, che con questa nostra lettera
stiamo fissando, vogliamo che siano sempre rispettate in ogni occasione.
8. Riteniamo che difficilmente possa
sfuggire all’accusa di lucro turpe e al sospetto d’avarizia l’iniqua
consuetudine, che abbiamo saputo aver preso piede in alcune di codeste curie,
di esigere denaro per l’autorizzazione (che deve provenire da voi o dai vicari
generali) affinché coloro che sono stati recentemente ordinati sacerdoti
celebrino la prima Messa, ovvero per altra simile autorizzazione, come quella
di ammettere agli uffici divini i sacerdoti stranieri, per quanto muniti di
lettera commendatizia dei rispettivi Ordinarii. Disponiamo pertanto che sia
assolutamente eliminata codesta consuetudine, per quanto mantenuta fin qui e
conservata a titolo di stipendio o di mercede da garantire a chi è incaricato
di verificare l’idoneità dei sacerdoti nelle cerimonie e nei sacri riti; essa
infatti è contraria ai sacri canoni ed è stata più volte riprovata.
9. Quel che abbiamo detto
precedentemente a proposito delle sacre ordinazioni dev’essere applicato con
pari diritto nel conferimento, o assegnazione, dei benefici ecclesiastici; ciò
vi apparirà chiaro ed evidente se terrete davanti ai vostri occhi i canoni
della Chiesa, fissati proprio per svellere dalle radici gli abusi instauratisi
in diversi tempi in questa materia (cap. Si quis, q. 3; cap. Non
satis; 8 cap. Cum in ecclesiae; 9 cap. Jacobus; 44 cap. De
simonia; Cristiano Lupo, dissert. De simonia, cap. 10). E sebbene il
santo Concilio Tridentino non abbia stabilito niente di preciso a questo
proposito, tuttavia la sacra congregazione del Concilio, con l’approvazione del
sommo Pontefice Gregorio XIII, dichiarò che il decreto cap. 1, sess. 21 De
ref., avesse un ruolo anche nel conferimento dei benefici, in particolare
degli amministratori, e che non si dovesse ricevere alcunché in cambio del
sigillo, nonostante qualunque antica consuetudine (Garz., De benef.
part. 8, cap. 1, n. 76 e seg.; Fagnani nel cap. In ordinando de simonia,
n. 31; Gallemart, nel cap. 1, sess. 21, De reform.). – Questa stessa
sacra Congregazione, nella lettera inviata al Vescovo di Melfi, con il parere
favorevole del sommo Pontefice, giudicò, dichiarò e dispose che i conferitori
di benefici – qualunque sia la loro dignità – non possano accettare od esigere
alcunché per il conferimento o per qualunque altra pratica inerente i benefici,
sotto qualunque forma o aspetto, direttamente o indirettamente, anche se il
donativo sia presentato come frutto dell’annata o di qualunque altro
frazionamento, nemmeno se dato spontaneamente come offerta. A queste norme
debbono assolutamente attenersi anche i notai dei conferitori e tutti gli altri
impiegati, per i quali tuttavia è previsto in altra parte un salario garantito;
altrimenti, sia chi dona sia chi riceve sarà ritenuto colpevole ipso facto ed
incorrerà nelle pene previste dai sacri canoni per i simoniaci; i notai,
inoltre, e gli altri impiegati saranno sospesi dai loro incarichi (Garz., loc.
cit.).
10. Abbiamo ritenuto di comunicarvi
tutto ciò, Venerabili Fratelli, perché comprendiate quanto siano lontane dalla
disciplina ecclesiastica le abitudini nel conferimento dei benefici che qua e
là hanno preso piede nelle vostre diocesi, e con quanto impegno dobbiate
sforzarvi affinché siano radicalmente rimosse. Sarà dunque vostro compito di
ribadire per primi questa regola e di rispettarla santissimamente, affinché nei
benefici ecclesiastici – di cura d’anime o residenziali, semplici o manuali, o
di cappellania –che conferirete con procedura ordinaria non richiediate od
accettiate alcun compenso, a qualunque titolo o forma, nemmeno di dono
augurale, beneficenza o contribuzione volontaria, in particolare per
l’approvazione, la preselezione del più degno nel concorso per le chiese
parrocchiali ed il possesso dei benefici. – Saranno vincolati alla stessa
sanzione canonica anche tutti gli altri conferitori, vicari generali,
cancellieri, vostri consanguinei, parenti e servi, ai quali vietiamo comunque
di percepire alcunché.
11. A questa regola generale fanno
eccezione soltanto i cancellieri o i notai per i quali – come altrove abbiamo
accennato – non è fissato alcuno stipendio a fronte del loro lavoro. In questo
caso il cancelliere, se l’atto sia per benefici con cura d’anime, per un editto
o per la lettera con cui viene indetto un concorso pubblico potrà esigere dieci
oboli, e cinque per ciascuna copia ed altri cinque per le affissioni di rito.
Se la lettera dovrà essere affissa fuori città, le spese di viaggio e le altre
derivanti saranno ripagate sulla base dei rimborsi giornalieri vigenti nelle
rispettive diocesi. Per la spedizione della lettera di conferimento, sia dei
predetti benefici con cura d’anime, sia di quelli semplici, il cancelliere
riceverà per il suo lavoro una remunerazione adeguata, fissata a giudizio del
vescovo: remunerazione che comunque, tenuto conto della scrittura, del sigillo
e di tutto il resto, non potrà superare un aureo, ovvero dieci giulii di moneta
romana, come più volte è stato fissato dalla sacra congregazione del Concilio,
ed in particolare il 15 gennaio 1594 (Gallemart., loc. cit.) e a Vicenza
l’8 marzo 1602 (Fagnani, loc. cit., n. 32) e dalla sacra congregazione
dei Vescovi il 25 ottobre 1588 (Fagnani, ibid., n. 35). Infine per
quanto si riferisce agli atti di possesso degli stessi benefici, riceverà tre
giulii per la sottoscrizione del documento, se i benefici saranno dentro la
città, quattro se nel suburbio; se più lontani ancora, saranno osservati i tariffari
vigenti nelle rispettive diocesi per le diarie, come abbiamo spiegato sopra. Ma
se nel luogo in cui è situato il beneficio risulterà operante un cancelliere
del vicario foraneo, o un suo notaio, colui che sta per entrare in possesso del
beneficio può avvalersi liberamente degli uffici di questi e per rogare l’atto
di possesso non potrà in alcun modo essere obbligato a rivolgersi al
cancelliere della curia vescovile. Per una lettera che testimoni l’esito
favorevole in un concorso, secondo la relazione degli esaminatori, e della
quale sono soliti valersi coloro che l’hanno richiesta per dimostrare la
propria idoneità, permettiamo che il notaio riceva come compenso massimo due
giulii.
12. Non ci sfugge certo che al
cancelliere, o notaio, tocca una fatica tutt’altro che lieve nello svolgimento
dei concorsi per le chiese parrocchiali, sia quando comincia l’esame dei
testimoni che i concorrenti presentano per dimostrare le loro qualità, i meriti
e le lodevoli azioni compiute al servizio della Chiesa; sia quando inserisce
negli atti del concorso i cosiddetti requisiti presentati dai concorrenti, e
poi li riassume per iscritto e li trascrive in più copie per il vescovo, o per
il vicario generale che interviene in sua vece, e per ciascuno degli
esaminatori esterni del concorso, affinché possano formulare un giudizio sulla
cultura, le abitudini, i comportamenti e le altre doti necessarie a reggere la
Chiesa; quando risponde inoltre ai quesiti morali posti dagli stessi
esaminatori, riporta il giudizio degli esaminatori stessi; stende l’atto di
preselezione; rimane a custodia dei concorrenti per due e talora tre giorni ed
in qualche caso presenzia anche allo scrutinio delle predette questioni morali.
Abbiamo considerazione di quale possa essere la mole di tale impegno, affidando
al giudizio ed alla coscienza del vescovo la determinazione della
remunerazione, purché essa corrisponda soltanto all’entità della fatica.
13. Per quanto poi riguarda i benefici
che vengono conferiti dalla Sede apostolica, poiché ad essa riservati: per i
benefici “curati” per i quali è consuetudine presentare alla Dataria
Apostolica una lettera testimoniale di approvazione e di preselezione nel
concorso svolto secondo le norme fissate dal Concilio di Trento, ed ancora per
i benefici non “curati”, in particolare quelli residenziali, per i
quali parimenti è d’uso presentare alla Dataria Apostolica una lettera
testimoniale sulla vita, le abitudini e l’idoneità di coloro che richiedono il
beneficio, i cancellieri si guardino bene dall’esigere, per queste lettere,
alcun emolumento o mercede, nemmeno un donativo spontaneo, eccetto che due
giulii per la scrittura, la carta e il sigillo della lettera di idoneità e due
giulii per la lettera testimoniale sullo stile di vita e sui costumi.
14. Per l’esecuzione delle lettere apostoliche, quando queste siano spedite in forma – come si dice – graziosa, né il Vescovo, né gli altri prelati Ordinarii dei luoghi, né i loro vicari, i cancellieri e gli impiegati ritengano di poter rivendicare a sé l’incarico di esecutori; dipenderà completamente dalla volontà di coloro che saranno stati dotati del beneficio la scelta dell’esecutore o del notaio cui affidare l’atto per l’entrata in possesso del beneficio stesso. Se il provvisto di un beneficio sceglierà l’Ordinario e il suo cancelliere, ovvero se la lettera apostolica sarà stata mandata nella cosiddetta forma dignum, indirizzata all’Ordinario, o al suo cancelliere o vicario, al quale compete l’obbligo di eseguirla; in entrambi i casi, se mancherà un legittimo contraddittore, in modo che l’esecutore sia uno solo, il cancelliere (esclusi comunque da qualunque emolumento, dono e volontaria offerta il vescovo o altro prelato, il suo vicario, l’impiegato, i familiari e i servi, come abbiamo disposto sopra a proposito dei benefici di libero conferimento), per la stesura di questa lettera apostolica e per la sua trascrizione negli atti, così come per tutti gli adempimenti consueti inerenti la pratica, potrà ricevere la remunerazione che il Vescovo, a proprio giudizio e secondo coscienza, riterrà congrua: essa non potrà comunque superare la somma di uno scudo d’oro o di sedici giulii e mezzo. Se invece fosse presente un contraddittore, in modo che si debba istituire un processo giudiziario, parimenti lasciamo all’arbitrio ed alla coscienza del Vescovo, che graviamo anche di questo peso, di fissare la mercede che corrisponda all’impegno ed alla fatica del notaio o del cancelliere addetto; purché niente di quanto riscuote il cancelliere o il notaio sia trasferito al vescovo o agli altri, come abbiamo detto prima, direttamente o indirettamente. Per l’atto di presa di possesso del beneficio, debbono osservarsi le stesse norme che abbiamo indicato sopra.
15. Per i benefici di giuspatronato, se
sorge il dubbio – con il promotore fiscale o con colui che avrà richiesto il
beneficio – sull’esistenza del predetto giuspatronato e qualcuno si oppone al
conferimento gratuito, dovranno essere rispettate tutte le norme che abbiamo
fissato in precedenza a proposito dei benefici di libero conferimento con
contraddittore favorevole. Per un editto contro il contraddittore – o i
contraddittori – il cancelliere riceverà due giulii; per ogni copia dieci
oboli; per la pubblicazione di detto editto si dovrà osservare quanto abbiamo
disposto per i benefici con cura d’anime; inoltre, per una lettera
d’istituzione, un aureo ovvero sedici giulii e mezzo. Se invece non vi sia
alcun dubbio sull’esistenza del giuspatronato, e tuttavia nasca una lite sulla
competenza fra gli avvocati o fra coloro che da questi sono rappresentati,
allora s’instaurerà una causa profana e per essa potranno essere pretesi
emolumenti che corrispondano alle tariffe vigenti in ciascuna curia.
16. Procedendo analiticamente, del pari
vietiamo che i vescovi, o gli altri prelati, o i loro vicari o comunque
incaricati possano esigere alcunché sia in quelle che chiamano
“cappellanie mobili”, sia nelle nuove fondazioni e nelle istituzioni
di benefici, cappellanie, confraternite e congregazioni, ovvero nelle
fondazioni, benedizioni, consacrazioni, visite ed approvazioni di chiese e di
oratori derivanti da autorità apostolica o vescovile. Il cancelliere potrà
ricevere soltanto una paga commisurata all’impegno, fissata dal vescovo a suo
giudizio e coscienza, purché non superi i sedici giulii e mezzo.
17. Per quel che riguardai matrimoni o
comunque le attività propedeutiche alle nozze, vi suggeriamo di osservare ciò
che hanno disposto i sacri canoni (cap. Cum in ecclesia 9; cap. Suam
nobis 29, De simonia), San Gregorio Magno nella lettera a Gennaro, Vescovo
di codesta sede cagliaritana (lib. 4, indict. 12, epist. 27), ed altri ancora,
come riferisce lo spesso lodato Cristiano Lupo nella citata dissertazione (cap.
7) e, da ultimo, il Concilio Tridentino (sess. 22, cap. 5, De reformat.
matrimon.). I vescovi, naturalmente, i loro vicari, tutti gli incaricati, i
loro familiari e gli addetti devono prestare gratuitamente la loro attività in
questa materia e non pensare di ricevere alcuna remunerazione o premio od
offerta volontaria, né per il decreto di dispensa matrimoniale ottenuto dalla
Sede Apostolica, né per l’impegno ad esaminare i testi in merito o per il
completamento delle certificazioni connesse, sia per la lettera di attestazione
di stato libero e di mancanza di qualunque impedimento canonico, sia per la
dispensa dalle pubblicazioni previste dal Concilio di Trento (in chiesa, per
tre giorni festivi consecutivi, fra le messe solenni), da effettuarsi dal
parroco dei contraenti, sia per la facoltà di celebrare il matrimonio a casa, o
altrove, o in tempo non consueto e vietato, oppure di fronte ad un sacerdote
diverso dal parroco, sia infine per qualunque atto che di necessità o
d’abitudine si deve compiere, come è stato disposto dalla sacra Congregazione
del Concilio, con l’approvazione del sommo Pontefice, nonostante qualunque
precedente consuetudine, anche antichissima, come riferiscono Garzonio (De
benefic. part. 8, cap. primo, n. 102 seg.) e Fagnani (cap. Quoniam ne
proelati vices suas, n. 30).
18. Questo atteggiamento va mantenuto
soprattutto in relazione alle deroghe che i Vescovi sogliono concedere ai
parroci, sia in relazione alla pubblica comunicazione, in chiesa, in tre giorni
festivi, dei matrimoni imminenti, sia per presenziare alla celebrazione degli
stessi matrimoni, quando sappiano che non vi sono impedimenti. D’ora in avanti
sarà necessario non solo che le licenze di questo tipo siano concesse
gratuitamente; ma anche che si controlli che, prima della celebrazione dei
matrimoni, non venga reso più complicato il contratto nuziale con la richiesta
indiscriminata della predetta deroga, sulla base di una presunta necessità;
cosa questa che sarebbe fonte di parecchi disagi. La sacra Congregazione dei
Vescovi riunita a Gerona il 25 aprile 1588 (cf. Fagnani, cap. In ordinando
de simonia, n. 41) ritenne necessario opporsi ad entrambi i mali. Quando
infatti i canonici e il capitolo di Gerona posero la questione in merito
all’editto con il quale il Vescovo aveva proibito ai parroci di unire gli sposi
in matrimonio – pur avendo espletato tutte le norme solenni imposte dal
Concilio di Trento – se non avessero la deroga scritta, che veniva concessa
solo dopo il pagamento di mezzo giulio, la stessa sacra Congregazione rispose
così: “Il Vescovo non deve emettere alcun provvedimento scritto, se per
qualche ragione proibisce che i parroci possano congiungere le persone in
matrimonio secondo gli usi fissati da detto Concilio. Infatti, rispettata
assolutamente la sostanza della norma conciliare, quel che riguarda le
cerimonie è affidato soltanto alla coscienza del Vescovo ed al suo stile. Allo
stesso modo, infatti, in qualche villaggio o città è opportuno proibire ciò che
tuttavia, sulla base di qualche urgente necessità, si dovrebbe fare. Così il
vescovo deve impegnarsi a fondo perché non si celebrino matrimoni senza le
predette procedure, ma deve anche stare attento affinché non siano resi più
complicati i contratti di matrimonio, con l’aggiunta di nuove esigenze
infondate. Se vi sarà bisogno di qualche licenza, il notaio non sarà pagato per
questo. Ma se, per antica – forse anche scritta – consuetudine, quasi in segno
di letizia, ci sia l’abitudine di fare un regalo al Vescovo, non ci pare
affatto che questo sia da contestare“.
19. Soltanto al cancelliere per il quale
non sia fissato uno stipendio garantito, sarà lecito ricevere, a titolo di
pagamento del suo impegno e per il necessario sostentamento, un emolumento
calcolato con questo parametro: per l’esecuzione della lettera apostolica sulla
dispensa matrimoniale, se egli compia in prima persona l’escussione dei testi
per accertare la veridicità delle affermazioni esposte nel libello di supplica,
potrà esser pagato più o meno, in funzione del numero dei testimoni e della
gravosità dell’impegno, ma comunque non più di cinque giulii. Se invece questo
esame sarà affidato ad un’altra persona, avrà soltanto due giulii per la
lettera di delega e assolutamente null’altro per il decreto, per il sigillo o a
qualunque altro titolo. Per la lettera testimoniale di stato libero, tenuto
conto della stesura, della carta, del sigillo e del resto, avrà due giulii. Per
l’esame dei testimoni per l’accertamento dello stesso stato libero e per
dimostrare la mancanza di qualunque impedimento canonico, dieci oboli per ogni
testimone; per il riconoscimento della lettera testimoniale di stato libero di
persone nate altrove, dieci oboli se non ci sia bisogno dell’esame di un
secondo testimone per eliminare tutti i dubbi. Se per caso ciò occorresse, ed
infine per la dispensa dalle pubblicazioni, ogni volta che occorra l’escussione
di testimoni, dieci oboli soltanto per tale escussione.
20. A buon diritto è sempre stata
ritenuta detestabile – e figlia dell’avarizia e della cupidigia – l’esazione di
denaro o di qualunque altro bene a fronte della distribuzione dei Sacramenti.
Perciò i sacri canoni bollarono spesso questa azione come intrisa di malvagità
simoniaca e si preoccuparono di eliminarla con le dovute pene e con le censure
ecclesiastiche (cf. Cum in ecclesiae corpore, 9, cap. Ad apostolicam,
42, De simonia)e in numerosi decreti conciliari riferiti da
Cristiano Lupo (loc. cit., cap. 7 e 8). Confermando con ogni fermezza
questa convinzione, la sacra congregazione del Concilio non ha mai tollerato
che per l’amministrazione dei Sacramenti venisse preteso alcunché. Per tacere
di tutti gli altri, il 20 febbraio 1723, nel giorno dei funerali del Vescovo di
Albano, quando fu sottoposto ad esame se si dovesse permettere che i parroco
accettasse la patena, cioè il disco del quale egli si serviva nell’amministrare
l’estrema unzione, al quesito: “Potrà essere accettata l’offerta del
disco?“, la stessa sacra Congregazione rispose che “non si
dovesse permettere di accettare tale offerta” (Thes. resolut.
tomo 2, p. 280). Allo stesso modo, quando il Vescovo di Vaison, nel sinodo del
1729, aveva stabilito una tassa da rispettare nella sua diocesi, in base alla
quale, oltre ad altre procedure relative al battesimo, veniva stabilito che:
“Il padrino o la madrina, per la cerimonia del battesimo forniranno
almeno un cero ed un telo di lino candido e brillante, a meno che non
preferiscano per tutto ciò e per la registrazione negli atti pubblici dei
battezzati pagare cumulativamente cinque assi“, fu allora proposto il
dubbio se la tassa prescritta in questo sinodo dovesse essere rispettata. La
sacra Congregazione, nella riunione di Vaison del 6 febbraio 1734 rispose di
no. (per maggiori informazioni cf. Thes. resolut., tomo 6, p. 209).
21. Fra le altre materie, che più di
frequente o con maggior rigore sono state riprovate dai sacri canoni e dai
concilii, una delle principali riguarda l’abitudine – qua e là invalsa in
passato – di riscuotere denaro per il ricevimento del crisma e dell’olio santo,
che i Vescovi cercavano invano di giustificare presentandola sotto vari nomi: a
titolo cattedratico, quale prestazione pasquale, quale consuetudine episcopale
(cap. Non satis, 8 cap. Eaquœ, 16 cap. Ad nostram, 21 cap.
In tantum, 36 De simonia, ed altri ancora come indicato da
Cristiano Lupo, loc. cit., cap. 7, paragrafo Secundum sacramentum).
Di conseguenza, quando il Patriarca dei Maroniti di Antiochia prese
l’abitudine, quando distribuiva gli olii sacri, di esigere un’offerta in
denaro, sebbene fosse evidente che il denaro non veniva certo dato e ricevuto
con lo spirito di mercanteggiare gli olii sacri, ma per sostentamento del Patriarca
e per far fronte agli oneri che incombono all’ufficio e alla dignità
patriarcali, tuttavia, per cacciare ogni sospetto di simonia, tale consuetudine
fu disapprovata dalla particolare Congregazione alla quale è demandata la
competenza per gli affari dei Maroniti. Benedetto XIV confermò tale sentenza (Constit.
Apostolica 43, Bullar. tomo 1).
22. Ci pare che questo basti ed avanzi, Venerabili Fratelli, perché comprendiate a perfezione quali sono i vostri compiti nell’amministrare i sacramenti e li perseguiate con ogni cura, applicandovi totalmente affinché sia eliminata ovunque la malvagia consuetudine, vigente in alcune diocesi, in base alla quale per la distribuzione degli olii viene richiesto denaro o da parte del v Vescovo o dal prefetto della sagrestia. Già in precedenza la sacra Congregazione del Concilio lo aveva prescritto spesso, in particolare nella riunione di Amalfi del 18 luglio 1699, ribadendolo il 6 febbraio 1700, a proposito del quesito 12: “Se l’arcivescovo sia obbligato a garantire che l’olio santo sia consegnato gratuitamente dalla cattedrale alle chiese parrocchiali“. Ad esso fu risposto affermativamente. Identico orientamento prese la sacra Congregazione dei vescovi nella riunione di Acerenza, cioè di Matera, il 18 marzo 1706 (Ad. 2 apud Petram, Comment. ad constitut. 5 Innocentii IV, n. 38).
23. Per quanto riguarda poi l’offerta
della candela, che abbiamo sentito viene fatta, in diverse diocesi di codesto
regno, al vescovo che amministra la Confermazione, in primo luogo non va taciuto
che a tal proposito nel libro pontificale non c’è nemmeno una parola. Inoltre,
la sacra funzione del sacerdozio vincola tutti i ministri, i quali,
nell’accettare le offerte, si devono regolare con moderazione e senso della
misura, per evitare che, incorrendo nell’accusa di avarizia e di turpe negozio,
il ministero stesso non finisca vituperato e si svilisca la riverenza dovuta ad
un così grande sacramento. C’è da guardarsi bene che l’offerta della candela
non degeneri in un’esazione sospetta, dalla quale derivi che i fedeli,
specialmente i poveri, si ritraggano dal ricevere il sacramento, o ne rinviino
più del giusto la somministrazione. Perciò c’è soprattutto da augurarsi che
questa consuetudine sia completamente abolita e che si mantenga soltanto in
quei casi in cui dipenda esclusivamente dalla decisione dell’offerente.
24. Le stesse norme impongono che tanto
i vescovi quanto i loro cancellieri o notai debbano esercitare gratuitamente il
loro ministero, sia quando – previo esame ed approvazione – concedono a
qualcuno la facoltà di raccogliere le confessioni sacramentali, di amministrare
i sacramenti e di esercitare ogni ministero ecclesiastico, sia quando giudicano
l’idoneità dei vicari – sia perpetui, sia rimovibili ad nutum –, degli
economi e dei coadiutori, come si legge nel capitolo Ad nostrum de simonia e
come fu disposto nelle spesso citate assise di Vicenza (7 febbraio e 8 marzo
1602) e di Gerona (25 ottobre 1588, Ad. 7), in cui comunque si rigetta anche la
remunerazione per la lettera che formalizza la concessione dei predetti
ministeri e l’esercizio degli incarichi.
25. Riteniamo che nessuno di voi ignori quanto frequenti e quanto severe leggi vietino di esigere denaro per le sepolture e per le esequie funebri (cf. Cristiano Lupo, loc. cit., cap. 12 e Van Espen in Jus eccles. univ., par. 2, tit. 38, cap. 4). Basterà comunque citarvi San Gregorio Magno, che, scrivendo a Gennaro, vescovo di Cagliari (lib. 9, indict. 2, epist. 3, e lib. 7, indict. 2, epist. 56), così si duole: “La famosissima signora Nereida si è lamentata con noi del fatto che vostra fraternità non si è vergognato di chiederle cento solidi per la sepoltura della figlia. Se è vero, è davvero troppo grave e distante dalla dignità sacerdotale chiedere un prezzo per la terra concessa alla putrefazione e voler trarre un utile dal lutto altrui. Nella nostra chiesa noi l’abbiamo vietato, e non abbiamo mai consentito che la malvagia consuetudine si ripristinasse. Attenzione, a non ricadere in questo vizio dell’avarizia o in altri!“. – Nessuna legge mai ha vietato la lodevole e pia abitudine, invalsa nella Chiesa fin dai primi secoli, di fare offerte a favore dei morti durante i funerali; né nell’accettarle, veniva meno la libertà dei sacerdoti. Perciò il sommo Pontefice Gregorio aggiunse tosto: “Se qualche parente del morto, congiunto o erede desidera offrire spontaneamente qualcosa per l’illuminazione, non vietiamo di accettare. Proibiamo invece che venga chiesto o preteso alcunché” (Pontificale Romanum). Analogo ordine impartì, con parole chiare, Innocenzo III nel concilio Lateranense (cap. Ad Apostolicam, 42 De simonia).
26. In verità, venendo a mancare le
decime personali e quelle, sia reali sia miste, a favore dei monasteri e dei
capitoli dei canonici, fu in un certo senso necessario che i laici venissero
quasi costretti alle pie offerte, fin qui consuete, con le quali si provvedeva
alle necessità dei parroci e delle chiese parrocchiali. Tuttavia si tenne
sempre presente la santità della disciplina ecclesiastica per garantire che non
ci si allontanasse troppo da queste lodevoli consuetudini: i chierici per
eccesso, i laici per difetto. Tra l’altro fu sancito in particolare che
esequie, funerali e sepolture di defunti – sia cittadini sia stranieri – non
dovessero essere impediti o ritardati per poter ottenere il denaro derivante da
questa pia consuetudine; inoltre, che non si dovesse pretendere niente per il
permesso di trasferire i cadaveri e seppellirli in un luogo piuttosto che in un
altro.
27. Da ciò dunque avrete compreso,
Venerabili Fratelli, che è intollerabile che nelle vostre diocesi si accetti
denaro, al di là delle consuete offerte collegate alle pietose incombenze che
si prestano al cadavere ed in suffragio dell’anima. Né il parroco – attuale o
abituale – dev’essere pagato in funzione della condizione del morto, della
distinzione del grado, ovvero in relazione alla posizione favorevole ed al
decoro dei luoghi nei quali i cadaveri devono essere inumati, sia in chiesa,
sia in luogo più prestigioso della chiesa. È inoltre aberrante per i sacri
canoni che il Vescovo pretenda o riceva denaro per seppellire qualcuno, sia
adulto, sia bambino, in qualsiasi chiesa diocesana o anche delle comunità
religiose. La sacra Congregazione del Concilio, intervenendo contro il Vescovo
vicentino e la sacra Congregazione dei Vescovi riunita a Gerona (Ad. 10,
Fagnani., cap. In ordinando de simonia, n. 32 ss.) hanno espresso chiara
condanna nonostante qualunque consuetudine contraria, anche antichissima.
28. Nella visita pastorale alla diocesi,
eviterete con poca fatica qualunque sospetto di avarizia e sarà chiaro a tutti
facilmente che voi chiedete non nel vostro interesse ma in quello di Gesù
Cristo, se vi atterrete scrupolosamente a quanto raccomandarono in materia i
Padri del Concilio Tridentino: “Si curino i Vescovi in visita di non
essere onerosi per nessuno con inutili spese; né personalmente né attraverso
qualcuno del seguito, accettino alcunché: né per aver in qualche modo
propiziato la visita, né per le pietose abitudini dei testamenti, eccetto quel
che deriva per legge dai lasciti pii. Non accettino, dunque, né denaro né doni
di qualunque tipo né a qualunque titolo offerti, nemmeno se in tal senso
esistano abitudini, anche antichissime. Restano esclusi soltanto gli alimenti,
che verranno forniti al vescovo ed al suo seguito in misura frugale, e soltanto
per il tempo necessario alla visita e non oltre. Coloro che ricevono la visita
possono decidere se preferiscono consegnare una somma di denaro predeterminata,
come solevano fare in precedenza, oppure fornire le citate vettovaglie (Sess.
24, cap. 3, De ref.).
29. Su questo decreto vennero prodotte diverse dichiarazioni e decisioni della sacra Congregazione del Concilio, alcune delle quali è qui opportuno riportare. Il primo argomento del quale si discusse più volte fu se il vescovo potesse esigere le cosiddette “provvigioni” in occasione della visita alla cattedrale ed al clero della città – o altro luogo – in cui risiede abitualmente. Quando fu chiaro che la “provvigione” era stata istituita dal Concilio di Trento per la visita alla diocesi, e che non si faceva alcuna menzione della città; inoltre che lo stesso Concilio aveva imposto la somministrazione di vettovaglie “soltanto per il tempo necessario“, e che pareva pertanto non ce ne fosse alcuna necessità quando il Vescovo visita luoghi nei quali è tenuto a risiedere ovvero nei quali trascorre parte dell’anno; la sacra Congregazione stabilì che gli antichi canoni di diverso avviso ed ogni usanza contraria erano stati rimossi dal decreto del citato Concilio di Trento, e pertanto rispose costantemente in modo negativo al dubbio proposto (in particolare per la “provvigione” nel caso di Castres del 17 novembre 1685, per quella di Alife del 18 luglio 1705, per quella di Policastro del 1 giugno 1737 e recentemente per quella di Valenza del 30 gennaio 1768). Di identico parere era stata la Congregazione dei Vescovi, come emerge dalla lettera al Patriarca di Venezia datata 26 maggio 1592, nonostante gli usi e qualunque motivazione contraria.
30. Oltre a ciò che è sancito nel citato decreto del Concilio di Trento (in relazione alla materia trattata anche nel cap. Si episcopus de off. Ordinarii, 6) si presti specifica attenzione affinché né il Vescovo né chiunque del suo seguito, invocando la “provvigione”, accetti denaro o doni di qualunque natura, anche se spontaneamente offerti, eccezion fatta soltanto per le vettovaglie, o per l’offerta corrispondente ad esse, se coloro che vengono visitati avranno preferito questa forma di contribuzione. Nondimeno, alcuni ritennero che fosse loro lecito ricevere, oltre che il denaro delle vettovaglie o le vettovaglie stesse, anche vetture a cavalli per sé e per il proprio seguito ed anche qualcos’altro, con qualche motivazione non religiosa. Essi tuttavia furono sempre condannati dalla sacra Congregazione del Concilio ed il loro comportamento costantemente contestato, in quanto contrario sia ai sacri canoni sia al Concilio Tridentino. Nella visita pastorale di San Marco, tra gli altri vennero proposti questi due quesiti: “V) Se il clero sia obbligato a pagare qualcosa ai ministri ed agli altri rappresentanti del vescovo in visita; VI) Se lo stesso clero sia tenuto a pagare al vescovo in visita la vettura a cavalli“. Il 7 luglio 1708 questa fu la risposta: “Si doveva tener conto dei decreti già precedentemente pubblicati ed in particolare, per il V quesito, della sessione Amalfitana del 18 luglio 1699 (lib. 3, Decr. 49, p. 252); per il VI, di quella Abruzzese del dicembre 1784 (lib. 4, Decr. p. 10)”. Il senso che derivava dalla risposta e che si desume anche dagli altri decreti citati è chiaramente questo: per il quesito V, l’obbligo riguarda soltanto le vettovaglie, secondo la norma conciliare; per il quesito VI, la risposta è negativa. – Si ritornò in argomento in un’altra causa di San Marco il 16 gennaio 1723, al III quesito: “Se la predetta “provvigione“ abituale sia da pagare per intero, nella solita quantità di denaro, secondo gli usi di ciascun luogo che viene visitato, quando al vescovo ed al suo seguito vengono offerti anche tre pranzi, le vetture, l’alloggio e tutto il resto necessario, secondo l’invocata, antichissima consuetudine“. Il IV quesito proponeva: “Se al Vescovo ed al suo seguito debbano essere assicurati i cibi e tutto il necessario per tutto il tempo della visita“. Al III quesito la sacra Congregazione rispose che “dipendeva da coloro che ricevevano la visita pagare la “provvigione“ in natura o in denaro, esclusi comunque i tre pranzi nel caso che si sia scelto il denaro; quanto alle vetture con cavalli si facesse riferimento al decreto del 7 luglio 1708, in sancti Marci ad VI“.Per il IV quesito valeva quanto risposto al terzo. Analogamente, per la “provvigione” di Policastro, quando fu presentato il II dubbio “se il predetto Vescovo possa pretendere dallo stesso arciprete e dai chierici, oltre alla “provvigione“ di 15 ducati, pagati in moneta, anche le vettovaglie e le carrozze per sé e per il suo seguito, nel caso che, ecc.“, il giorno 1 giugno 1737 giunse il responso al II dubbio: “Negativo“”.
31. Si discusse anche se il vescovo e i suoi ufficiali potessero pretendere ed esigere qualche emolumento qualora, durante la visita pastorale, convalidassero testamenti per cause pie e legati pii, e curassero di avviarne l’esecuzione. In questa materia la sacra Congregazione del Concilio deliberò nella seduta di Maiorca del 7 agosto 1638, asserendo che il vescovo e i suoi ufficiali non possono ricevere pagamenti per i decreti emessi durante la visita, e nemmeno per le delibere di esecuzione dei legati pii, anche se in tal senso esistano consuetudini antichissime. Questione non dissimile sorse nel 1645 fra il vescovo di Vicenza da una parte ed i giurati del re della città di Minorissa Pratorum dall’altra. Sottoposta la materia alla stessa santa Congregazione, la risposta giunse sotto la data del 18 marzo dello stesso 1645 e fu del seguente tenore: “La sacra Congregazione ha stabilito che il vescovo in visita e i suoi incaricati non possono ricevere alcunché per i decreti o per le delibere di esecuzione dei testamenti o dei legati, ma debbono compiere il tutto gratuitamente, nonostante qualunque precedente consuetudine, anche antichissima. Al di fuori della visita, il Vescovo ed i suoi incaricati possono ricevere denaro per decreti di questo tipo e per le delibere, ma solo quel tanto che verrebbe pagato – senza sprechi – al notaio per la stesura e per l’impegno, così come affidato alla coscienza del vescovo, nonostante qualunque consuetudine, anche antichissima“. Ciò fu deliberato anche ad Elnen il 28 marzo 1648, al quesito VIII. – A questo non sarà superfluo aggiungere quel che leggiamo essere stato sapientemente fissato nel consiglio provinciale di Milano V: “Il notaio o il cancelliere non esiga alcunché durante la visita pastorale da parte di coloro che sono visitati e non accetti doni di alcun tipo, nemmeno piccolissimi, offerti in qualunque modo; niente neppure per la emanazione dei decreti e delle ordinazioni effettuata durante la visita, per la scritturazione o per la riproduzione delle copie, né da singoli, né da chiese, né da sacerdoti, né dagli altri che ricevono la visita, come dispone l’editto di visita. È invece consentito che sia pagato (secondo il tariffario vigente o da fissare nel tribunale ecclesiastico) per la fatica e l’impegno profusi nel trascrivere le copie di cui – in tempo successivo – qualcuno interessato avrà fatto domanda“.
32. Queste norme debbono essere
rispettate anche nella ricognizione dei libri che contengono i legati pii e il
loro adempimento, nonché nella resa dei conti delle amministrazioni
ecclesiastiche, delle confraternite, dei monti di pietà, e delle altre
istituzioni pie, per il cui sviluppo sia il vescovo sia i suoi rappresentanti
debbono impegnarsi gratuitamente, come si evince da quanto detto
precedentemente e come ha dichiarato la sacra congregazione nel concilio di
Vicenza del 27 giugno 1637, affermando: “Né al vescovo né ai suoi
rappresentanti è lecito accettare alcunché per l’amministrazione delle opere
pie o per l’esecuzione dei testamenti e delle volontà pie, ma tutto dev’essere
fatto gratuitamente, nonostante qualunque consuetudine, anche contraria“.
Il 20 settembre 1710, durante la confraternita di Lanciano, al X dubbio,
nel quale si chiedeva “Se l’Arcivescovo debba valersi, per la stesura
dei bilanci, di sindaci ovvero di persone esperte elette dai confratelli,
oppure possa rivolgersi a chi gli pare meglio“, la sacra
Congregazione rispose “negativo“al primo quesito ed
“affermativo” al secondo, ma gratuitamente (tomo 6, Thes.
resolut., p. 164). Nonostante il Vescovo debba darsi da fare affinché la
revisione dei libri sia effettuata gratuitamente e la relazione sia stesa dal
suo notaio o da un economo di casa o da chiunque altro addetto al suo servizio;
tuttavia può accadere talvolta che per gravi ed urgenti motivi sia opportuno
designare a pagamento un estraneo che non abbia alcun obbligo. Ogni volta che
ciò accada, il vescovo stabilirà secondo giudizio e coscienza la congrua
remunerazione per il revisore, commisurata al puro e semplice impegno, come
sancì la sacra Congregazione a Veroli il 30 gennaio 1682 (lib. 35, Decret.
f. 283), a Benevento il 7 giugno 1683 ed a Pesaro l’11 dicembre dello stesso
anno.
33. A fronte di queste affermazioni
della sacra Congregazione, solidamente basate sui sacri canoni, e dei decreti
del Concilio Tridentino, non possono assolutamente essere accettate alcune
consuetudini, che hanno più l’aspetto di corruzione, in forza delle quali
alcuni vescovi e loro rappresentanti, mentre effettuano le sacre visite,
ricevono qualche pagamento per l’esame di alcuni testamenti, oppure per la
relazione contabile che esigono dagli amministratori di chiese o luoghi pii;
oppure approfittano per tutto il tempo della visita della carrozza a cavalli o
di qualche pranzo; oppure cercano di ottenere i lumini o le candele collocate
sull’altare principale del tempio o anche su altri altari. Tutte queste
abitudini, e le analoghe che sussistano, contrarie alle predette sanzioni,
debbono essere assolutamente abolite: lo disponiamo ed ordiniamo!
34. Sebbene, sulla base della citata decisione della sacra Congregazione, adottata in Vicenza il 18 marzo 1645, il vescovo o il suo rappresentante, sia durante la visita sia al di fuori, non possa accettare alcunché per i decreti o le deliberazioni di esecuzione testamentaria di legati, ma debba svolgere ogni incarico gratuitamente, tuttavia durante le sacre visite può accettare la parte dovuta dei legati pii, delle offerte e delle altre beneficenze che vengono fatti alla chiesa in occasione dei funerali; tale quota parte viene popolarmente definita come “quarta canonica“, come fu risposto dalla stessa sacra Congregazione nelle riunioni di Urgel il 25 gennaio 1676 ed il 14 febbraio 1693 all’ottavo dubbio. I vescovi traggono questo diritto dai sacri canoni (cap. Officii 14, e Requisiti 5 de testamentis) che il Concilio Tridentino volle mantenere in vigore, come dimostra il fatto che proibì severamente ai vescovi di accettare alcunché per la visita, nemmeno in funzione dei pii usi dei testamenti, “eccetto ciò che per diritto è dovuto per i legati pii” (cit. sess. 24, cap. 3 De ref.). Ovviamente i vescovi devono mantenersi moderati nell’esigere questa parte, ossia la “quarta canonica“, e osservare i limiti fissati dagli stessi sacri canoni nel capitolo finale De testamentis, dove così si legge: “La parte canonica non deve essere dedotta da quelle offerte che vengono fatte alla chiesa, o alle altre strutture ecclesiastiche, per ornamenti, per l’edificio, per le luminarie, o in occasione di un anniversario, di un settimo giorno, di un vigesimo o di un trigesimo, o in modi diversi per la prosecuzione del culto divino“. Analoghi concetti si leggono nel capitolo “Ex parte de verb. signif.“. Inoltre non si deve operare alcuna deduzione dai legati per il matrimonio delle fanciulle – come dispose la sacra Congregazione dei Vescovi nella riunione di Nocera dei Pagani il 14 Settembre 1592 – né da quelli per la celebrazione delle messe (come stabilì la Sacra Congregazione del Concilio in un’altra seduta a Nocera dei Pagani, con il decreto Quartae canonicœ, 13 gennaio 1714, lib. 64), sebbene a tempo immemorabile al Vescovo venisse versata la quarta parte da tutti i legati pii.
35. Per quanto riguarda i monasteri
delle monache o le case religiose nelle quali le donne vivono come monache,
solitarie e lontane dagli impegni del mondo, è stato spesso ribadito dalle
Costituzioni apostoliche e dalla sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari
(con il parere favorevole e l’autorevole approvazione dei sommi Pontefici) che
né i vescovi, né altri prelati o loro vicari generali, delegati speciali,
rappresentanti, ministri, consanguinei o addetti possano assolutamente esigere
o accettare emolumenti in denaro o in altra natura per l’ammissione delle
fanciulle all’abito monastico; per l’approvazione del deposito della dote; per
la verifica della volontà e della disposizione d’animo ad assumere l’impegno
della vita regolare; per la pronuncia della professione; per l’accesso delle
fanciulle al beneficio dell’educazione; per la rinuncia prima dell’ammissione
alla professione; per l’elezione della badessa o di altra superiora; per
l’autorizzazione a far entrare in monastero il medico, il chirurgo od altri
operatori; per la facoltà di parlare alle monache o alle altre persone che
vivono entro i chiostri del monastero; per la delega dei confessori, dei
cappellani, dei procuratori, degli amministratori dei beni temporali e degli
altri ministri, ed in generale per ogni atto necessario al regime monastico.
36. Da questa regola generale fanno eccezione soltanto le vettovaglie, che possono essere offerte al Vescovo o ad altro prelato, in occasione di alcuni dei predetti atti; purché ciò sia l’unico introito e donativo e non ecceda quel che può loro servire per il tempo di tre giorni. Il cancelliere, per il documento delle rinunzie e per l’atto di deposito della dote, riceverà un onorario adeguato al lavoro e comunque non superiore a dieci giulii.
37. Oltre a queste, in molte altre situazioni che appartengono all’esercizio della potestà spirituale (dalla quale dev’essere assolutamente assente ogni retribuzione umana) e che competono al vescovo (per il cui sostentamento e per la cui gestione sono destinati gli introiti della mensa), ai vescovi non è consentito accettare nessun ulteriore emolumento, diretto o indiretto, a qualunque titolo e proposto con qualunque motivazione, nemmeno se spontaneamente donato; analogamente, ciò non è consentito ai loro vicari, né a qualunque rappresentante o impiegato. – Qui elenchiamo, Venerabili Fratelli, le
voci principali, desunte dai sacri canoni, dalle Costituzioni apostoliche e dai
decreti delle sacre Congregazioni, delle quali più frequente e nota è la
menzione presso i dottori.
38. Per le cosiddette lettere patenti, cioè per il permesso di predicare in quaresima e in avvento, o in altro tempo e luogo (Conc. Trid., sess. 5, cap. 2, De reform.). – Per la licenza di dedicarsi a lavori servili, per gravi motivi, nei giorni festivi (Urbano VIII, Constit. Universa e numerose sacre Congregazioni del Concilio e dei vescovi, apud Ferrar. verb. festa, n. 31 seg.), anche se il denaro derivante dall’autorizzazione venga destinato a scopi pii. – Per la resa dei conti dell’amministrazione delle chiese e dei luoghi pii e per la revisione dei libri della stessa amministrazione, sia che sia fatta dal vescovo, sia da un altro incaricato del vescovo con delega generale o speciale, con l’eccezione, tuttavia, indicata precedentemente. – Per il riconoscimento, l’approvazione e la promulgazione delle reliquie, delle indulgenze e degli altari privilegiati. – Per l’autorizzazione a chiedere elemosine ed altro, anche se concessa a forestieri. – Per la nomina dei custodi delle chiese, i cosiddetti eremiti. – Per la lettera testimoniale di povertà o di qualche altro requisito. Il cancelliere tuttavia potrà percepire complessivamente dieci oboli. – Per la lettera con la quale si attesta che uno non ha ricevuto alcun ordine, nemmeno la tonsura clericale. Al cancelliere tuttavia potranno essere dati al massimo dieci oboli. – Per l’atto di rinuncia allo stato clericale, e per la sua ammissione, o anche per la lettera o attestazione della rinuncia stessa. Per questa lettera tuttavia il cancelliere potrà esigere dieci oboli. – Per la consultazione dei libri parrocchiali già trasferiti nell’archivio vescovile: libri nei quali sono indicati i battezzati, i cresimati, gli sposati e i morti. Per ciascuna consultazione su domanda, il cancelliere potrà ricevere al massimo venti oboli ed altrettanti per l’autenticazione del dato richiesto, a meno che la dignità della persona richiedente oppure l’uso della lettera testimoniale oltre i confini della diocesi o del regno non consentano un onorario maggiore. – Nel caso in cui la certificazione richiesta non risulti dai libri parrocchiali, e per ricavarla sia necessario mettere a confronto dei testimoni, oltre la mercede nella misura stabilita per l’escussione dei testi e per la redazione dell’atto, al cancelliere sarà consentito ricevere altri quindici oboli per la pubblicazione della lettera testimoniale; al vicario generale saranno pagati trenta oboli per i decreti con i quali avrà disposto la raccolta di informazioni e – dopo averle assunte e verificate personalmente – avrà ordinato la spedizione della lettera testimoniale. – Per l’autorizzazione a lasciare la
chiesa o il beneficio (Conc. Trid. sess. 23,
cap. 1 De ref.). Inoltre
per le lettere commendatizie che vengono consegnate ai sacerdoti, ai chierici e
a coloro che sono in partenza per altre diocesi. – Per le lettere ammonitorie
di scomunica che palesino segreti, autorizzate dalla curia vescovile e
dall’Ordinario, o quando si tratti di pubblicare lettere ammonitorie
apostoliche. Il cancelliere riceverà dieci oboli per l’impegno della stesura.
Lo stesso cancelliere sarà gratificato di un ulteriore compenso da parte del
vescovo, che ne fisserà anche l’importo, per completare la trascrizione delle
notizie che vengono rivelate, previo decreto del vicario. – Per la trascrizione
di un’ammonizione, di una sentenza o della dichiarazione di censure nelle quali
sia incorso qualcuno per avere percosso degli ecclesiastici o per qualsiasi
altra causa, anche nel caso di sentenza assolutoria e della stessa assoluzione
dalle censure (cap. Ad aures de simonia). Il cancelliere potrà ricevere
al massimo venti oboli in pagamento della stesura, purché non si tratti di
lettere provenienti dalla sacra Penitenzieria apostolica; per quelle che si
riferiscono alla predetta assoluzione, il cancelliere non potrà ricevere alcun
compenso. Venti oboli spetteranno al cancelliere anche per le schede di censura
– i cosiddetti “cedoloni” – e per la loro affissione come d’abitudine.
Analoga norma sarà applicata per la liberazione da un giuramento, con
l’avvertenza che se essa sarà concessa nella curia ecclesiastica il cancelliere
potrà ricevere per l’attestazione soltanto venti oboli; se essa verrà concessa
fuori curia, per la lettera di delega allo stesso cancelliere verranno pagati
altrettanti oboli.
Per l’autorizzazione a tenere
pontificali.
Per dar corso alle lettere apostoliche che impartiscono benedizioni o assoluzioni; per le lettere con le quali la stessa facoltà viene attribuita ai parroci o ad altri, con l’inserimento di dette lettere apostoliche, al cancelliere saranno pagati, tutto compreso, soltanto trenta oboli. – Per l’esecuzione delle lettere apostoliche relative all’autorizzazione impetrata presso la sacra Congregazione ad alienare o permutare i beni delle chiese e dei luoghi religiosi, oppure ad imporre censi, il cancelliere riceverà un compenso proporzionato alla fatica compiuta per completare la pratica e le scritture. Comunque esso non supererà i dieci giulii. Se la Santa Sede avrà incaricato l’Ordinario di accertare la veridicità di quanto esposto nella supplica, allora al cancelliere toccheranno dieci oboli per ogni teste sottoposto ad esame. Tenuto conto della mole del lavoro, gli si potrà anche assegnare un certo compenso, secondo il giudizio e la coscienza del vescovo, per gli editti, ogni volta che siano prescritti; per l’esame dei testimoni teso ad accertare l’utilità dell’alienazione; e per tutti gli altri adempimenti che – come di consueto occorre portare a termine in questa materia. – Per il decreto d’alienazione che, in
base al cap. Terrulas 12, q. 2, viene emesso solo dall’autorità
ordinaria.
39. Infine le multe o le pene pecuniarie
– quando saranno rese necessarie dalla natura del reato o dalle caratteristiche
di chi lo commette – saranno devolute a scopi pii e per l’attuazione della
giustizia, in modo che nulla torni a vantaggio personale del vescovo o dei suoi
vicari o di chiunque dei suoi rappresentanti, né direttamente né
indirettamente. Per eliminare ogni dubbio o sospetto di non corretta
applicazione delle multe, sarà meglio – e perciò lo riteniamo necessario – che
nelle sentenze stesse siano designate le istituzioni religiose o le chiese a
favore delle quali devono essere destinate le predette pene pecuniarie, tenendo
sempre conto, in ciò, di quelle che hanno maggior bisogno ed anche del
domicilio di coloro che hanno commesso il reato.
40. Bisognerebbe aggiungere a questo
punto alcune note sul foro del contenzioso, affinché la disciplina ecclesiastica
anche sotto questo profilo riconquisti la dignità e lo splendore originari. Di
questo tuttavia converrà deliberare dopo un giudizio più approfondito e una
volta assunte informazioni complete sulle consuetudini in uso in codeste
diocesi. Vi è un principio, per ora, sulla quale non possiamo mantenere il
silenzio e che anzi vogliamo trasmettervi ed inculcarvi con forza: gli
ecclesiastici impegnati nell’emettere sentenze nelle cause spirituali svolgano
il loro compito santamente, pietosamente e religiosamente, in modo che in loro
non appaia nulla che offuschi con la minima ombra il candore della purezza
ecclesiastica. Ne discenderà in primo luogo che i giudici ecclesiastici delle
vostre diocesi non richiederanno o accetteranno alcun pagamento né per gli atti
né per le sentenze pronunciate nelle cause spirituali; in particolare in quelle
che riguardano la religione (come quelle contro i sospetti di eresia e i
colpevoli di superstizione) o i fidanzamenti, i matrimoni, le censure,
eccetera. Per questo motivo, “Ricordatevi (sono parole di Innocenzo
III ai prelati e ai sacerdoti della Lombardia, nel cap. Cum ab omni, sui
comportamenti e l’onestà dei religiosi) che le entrate ecclesiastiche sono
destinate a favore vostro e degli altri chierici, perché con esse dobbiate
vivere onestamente e non vi sia necessario stendere la mano verso turpe lucro,
oppure abbassare gli occhi verso impegni non corretti. Poiché le vostre opere
debbono essere di luminoso esempio ai laici, non vi sia lecito cogliere
l’occasione di fare turpe commercio del diritto, come fanno i civili. Perciò
ordiniamo e disponiamo che – astenendovi per il futuro da esazioni di questo
tipo – individuiate come trasmettere gratuitamente ai litiganti il vigore della
decisione giudiziaria, nonostante ciò che viene proposto fraudolentemente da
alcuni, secondo i quali la stessa cifra venga pretesa a favore degli
assistenti, poiché al giudice non è lecito commerciare un giudizio equo, e le
sentenze a pagamento sono vietate anche dalle leggi civili“.
41. Questi sono, Venerabili Fratelli, gli obiettivi che abbiamo ritenuto giusto sottoporvi, in favore della causa apostolica, per la quale siamo impegnati, e per gli obblighi assunti. Se, come è giusto e come speriamo in Dio, voi li realizzerete, tutto ciò gioverà allo splendore della disciplina ecclesiastica, alla tranquillità delle vostre coscienze e soprattutto al benessere del gregge a voi affidato. – Riteniamo che questi adempimenti non vi risulteranno né onerosi né molesti, quantunque vediamo che con queste norme verrà meno una parte dei vostri consueti emolumenti. Un sospetto di questo tipo nei vostri confronti ci è comunque impedito dalla vostra attenta devozione, dalla vostra ben nota religiosità e dall’impegno per mantenere la disciplina ecclesiastica, sulla base dei quali giudicherete certamente un danno per Cristo ciò che finora rappresentava per voi un vantaggio economico. Individuerete come autentico motivo di guadagno esclusivamente il fatto che nelle vostre diocesi cresca sempre più l’adorazione per Dio ottimo e massimo, e che i popoli affidati alla vostra fede e alla religione si nutrano più facilmente e più felicemente della vostra parola e del vostro esempio. – Inoltre siamo stati pienamente informati da coloro che ben conoscono le vicende ecclesiastiche di codesta isola, ed in particolare a nome del re, che per voi rappresentano un vantaggio coloro che, ritagliandosi piccoli compensi (che non vi sarà consentito d’ora in avanti esigere), si curano del decoro e della dignità del loro Vescovo e provvedono alle necessità delle chiese. Per non sperare di ricevere alcun aiuto da coloro ai quali vi siete appoggiati fin qui per antichissima consuetudine, converrà che vi ricordiate la famosa frase di Alessandro III (cap. Cum in ecclesia, de simonia)con la quale quel sommo Pontefice rimproverava coloro che inopportunamente si tenevano attaccati alle loro abitudini: “Molti ritengono che ciò sia loro lecito, poiché pensano che la legge della morte si sia rafforzata per la lunga consuetudine, non riflettendo a sufficienza – accecati come sono dalla cupidigia – che quanto più gravi sono i peccati tanto più a lungo le loro anime saranno incatenate“. –Dunque rigettiamo e condanniamo queste abitudini, anche se antichissime e persino immemorabili; anche se corroborate e confermate da costituzioni sinodali o da qualunque altra autorità, anche apostolica. Dichiariamo, stabiliamo ed ordiniamo che debbano essere considerate come abusi e fonte di corruzione. Animati da sollecitudine per le vostre chiese. come questa lettera ampiamente dimostra, abbiamo in Noi saldissima la speranza che voi non lesinerete impegno, diligenza ed attenzione. – Frattanto, in pegno del Nostro amore paterno nei vostri confronti e della Nostra benevolenza, vi impartiamo la Benedizione Apostolica.
Dato a Roma, in Santa Maria
Maggiore, il 21 settembre 1769, nel primo anno del Nostro Pontificato.
In questa breve lettera, il Santo Padre Gregorio XVI, elogia tutti coloro che con forza e coraggio, si prodigarono in soccorso della Santa Sede, attaccata da sediziosi e turpi figuri, nemici della Chiesa di Cristo e soggetti all’impero del serpente antico. Questa determinazione, che spinse all’epoca quegli uomini valorosi ad impegnarsi in difesa dei diritti della Sede Apostolica perché potesse indipendentemente da qualsiasi potere temporale, esercitare le proprie funzioni apostoliche su tutto l’orbe terrestre, è solo un vago ricordo ed un sogno d’altri tempi oggi che la mollezza e l’indifferenza effeminata anima una società falsamente cristiana in balia del serpente maledetto e dei suoi adepti settari e non guidata che da falsi ed invalidi sacrileghi pastori, dediti a nutrire i propri appetiti, senza curarsi delle anime di fedeli sbandati e lasciati nelle fauci di lupi rabbiosi e leoni voraci e che essi stessi sbranano senza pietà. Qui si può costatare la distanza abissale che corre tra le persone dell’epoca dedite alla salvaguardia della propria fede, anche a rischio della propria vita, e gli abitanti attuali delle stesse terre, ridotti a fantasmi ebbri di piaceri e dediti a vizi vergognosi dai quali traggono una fellonia – come si esprime qui Sua Santità – che li conduce a tradire anche i più elementari doveri verso la patria e la Religione di Cristo. C’è veramente da rifugiarsi in caverne ed invocare che le montagne crollino e seppelliscano questi già morti, come i sepolcri imbiancati dei nostri governanti, nonché degli ipocriti – falsi chierici e falsi fedeli della sinagoga di satana – apparentemente vivi, ma morti nell’anima, sepolti e condannati all’eterna dannazione.
Gregorio XVI
Quel Dio
Quel Dio, che nei suoi impenetrabili
consigli non disdegnò chiamare la Nostra debolezza al Sommo Pontificato, non ci
dimenticò fra le angustie che fin dai primi momenti del medesimo si
moltiplicarono rapidamente, e con un tratto della sua sempre amabile
provvidenza, non permettendo che esse fossero superiori alle forze, fornì
sollecitamente a Noi con la tribolazione stessa il mezzo di superarla, affinché
non fossimo confusi nelle speranze di sicura protezione divina, le quali già
esternammo vivissime nell’indirizzare per la prima volta la voce ai Nostri
popoli. Perciò, mentre annunciamo lieti che si è calmata la tempesta e resa la
tranquillità nelle province (che persone nemiche della religione e del trono
desolarono con gli orrori della fellonia), esultiamo nel poter proclamare, a
gloria del vero, che, se si conserva incontaminata nel Nostro popolo Romano la purità di quella fede,
che con divina testimonianza asserì l’Apostolo Paolo essere annunziata in tutto
l’universo, costante del pari e celebrata in tutta l’Europa è la sua fedeltà a
chi ne è costituito Padre e Sovrano. – Dolce è per Noi rendere così un pubblico
elogio ad un popolo tanto fedele, da cui perciò anche nei momenti più torbidi
non Ci saremmo mai allontanati, risoluti di dividere con esso quella sorte con
la quale fosse piaciuto a Dio umiliarci sotto la potente sua mano.
L’attaccamento sincero, la filiale obbedienza, la docile sommissione dello
stesso popolo verso la Nostra persona, come ispiravano a Noi una illimitata
fiducia nel medesimo, così Ci renderanno sempre cara la memoria delle
commoventi dimostrazioni che esso cercò di fornire con i modi più luminosi. – Passarono,
mercé il divino soccorso che nel fervore di pubbliche e private preghiere
affrettarono i Nostri figli, passarono i giorni di tristezza, e in un con
l’arco si spezzarono le armi, che mani sacrileghe imbrandirono per portare
nell’agro Levitico devastazione e pianto. La Sede del Cristianesimo, che per singolare predilezione
Dio volle che si reggesse da chi fosse Principe e Pontefice, affinché l’essere
egli principe lo rendesse più libero nell’esercizio della sua spirituale
autorità, trionfò anche questa volta, difesa contro le macchine dell’empietà da
chi la pose quasi torre inespugnabile da cui pendono a mille e mille gli scudi
ed ogni armatura dei forti. – Ma se con la sincerità di riconoscenza più
viva ravvisiamo nell’imperiale reale esercito Austriaco quelle elette schiere
di prodi, alle quali Dio volle riservato il trionfo sopra la perversità dei
rivoltosi, e con esso l’onore di restituire i suoi Stati alla Santa Sede,
coronando con sì felice successo gl’impulsi incessanti di quella Religione
purissima che forma il più bell’elogio dell’augusto e potente loro signore
Francesco I (al quale indelebile gratitudine Ci legherà perpetuamente), siano
pure gloria e lode a quegli onorati cittadini che, riunitisi premurosi in
milizia civica, vegliarono indefessi sotto le armi, e fra i travagli di
servizio più stretto, alla salvezza della Nostra persona ed alla quiete di
questa città. Noi osservammo con tenerezza gareggiare in questo, generosamente
e indistintamente col popolo, persone tratte dalla nobiltà più illustre, e da
quanto vi è in tutti gli ordini di scelto e di attivo. Il nostro spirito ne fu
commosso sommamente; e caro quindi Ci è il dichiarare che a prove sì belle di
tanta devozione corrisponderà sempre la pienezza del Nostro affetto, che non
sarà pago se non con la sicurezza della compiuta felicità di figli così fedeli:
è per Noi un vero conforto dedicare ad essa le cure più industriose. – Ma in
così decisa fedeltà e in così nobile intendimento il popolo Romano ebbe emule
le convicine province che, dopo essersi disposte alla difesa dei loro
territori, ebbero a gloria d’inviare dei volontari i quali, lasciati i propri
focolari, concorsero ad aumentare quella parte preziosa delle Nostre truppe
che, sotto esperti ed onorati condottieri, sentì la forza dei giuramenti a Noi
prestati, e seppe difendere e far rispettare un suolo sacro alla fedeltà: e qui
abbiano tutti l’assicurazione del Nostro pieno gradimento e la promessa che ciò
non rimarrà sterile, troppo interessandoci di procurare effettivamente il loro
maggiore vantaggio, per quanto le infauste circostanze lo permetteranno. – Vorremmo
pur dilatare il cuore con eguali espressioni anche sopra tutti gli altri popoli
che Dio affidò al Nostro temporale governo. Ma se essi furono trascinati nelle
disavventure della rivolta, Ci è ben noto che non furono, nella massima parte,
che vittime della coazione o del timore, come ben dimostrarono l’esultanza e la
gioia con cui, appena apparve un raggio di prossima liberazione, scosso il
giogo umiliante loro imposto dai sediziosi, e sostituito alle insegne della
fellonia il pacifico vessillo del governo Pontificio, si proclamò il ritorno a
quel Padre e Sovrano dal cui seno li aveva strappati miseramente il delitto di
pochi. – Fermi nel gran pensiero di dare provvidenze che migliorino felicemente
lo stato dei Nostri sudditi, volgemmo a questo, anche fra le affliggenti
passate calamità, le Nostre sollecitudini: pronti sempre ad ascoltarne i voti
che siano figli di autentici bisogni, ed atti ad operare i desiderati vantaggi,
manifesteremo premurosi quelle disposizioni che la considerazione del passato e
l’esame delle circostanze Ci additano essere le più utili. – Ma tante cure
paterne rimarrebbero purtroppo deluse, né potrebbero farci pervenire al bramato
intento, e quand’anche Ci si presentasse il più lusinghiero apparato di un
felice avvenire, momentanea ne sarebbe la durata se con energiche misure non si
prevenisse il ritorno dei disordini, che lasceranno a lungo le tracce dei mali
che ne ridondarono. – Memori, perciò, che sarà sempre soffocato il grano eletto
se non ne sia divelta fin dalle radici la zizzania che l’uomo nemico vi
disseminò, non potemmo che vedere con rincrescimento un atto dato in Ancona il
giorno 26 dello scorso marzo, il quale, lasciando illesi gli elementi della
ribellione, non ne sospendeva che momentaneamente gli effetti, che tanto più
ruinosi si sarebbero risentiti appena fosse mancato quel che ne arrestava il
vorticoso torrente. Ma grazie a quel Dio che immenso nella sua provvidenza trae
dal male veri beni, ove così giudichi convenire per la causa della maggiore sua
gloria, Egli permise nei capi dei faziosi nuove penali cecità. Avverandosi nei
medesimi che essi fallirono nei loro vaneggiamenti nello scrutare follemente
nuovi mezzi alla loro reità, essi decisero di riparare al bisogno dell’istante
col carpire in presenza della forza e con fallaci prospetti d’imminenti
sciagure, non senza simulare anche menzogneri pentimenti, un atto del
dilettissimo Nostro figlio il Cardinale Benvenuti, il quale senza alcun
riguardo alla sublime sua dignità ingiuriato poco prima, assalito, arrestato e
caduto per siffatti trattamenti in grave malattia, né ancor reso alla
necessaria libertà, era tuttora trattenuto da quegli stessi che con pubblici
editti calunniosissimi avevano tentato di formarne un oggetto di popolare
indignazione. – Ma chiara evidentemente e troppo conosciuta da tutti era la
nullità intrinseca di un atto di tale natura emesso in istato di coazione da
chi, con l’essere trascinato prigioniero del nemico, aveva già perduto
sull’istante le facoltà di essere interprete della Nostra mente, ed aveva per
conseguenza cessato di essere depositario di quei poteri che gli avevano
affidato. I buoni se ne rattristarono senza fine, e comune fu il sentimento di
dolore per la sorpresa nella quale si vide caduto l’uomo giusto in momenti di
trepidazione, e fra i tortuosi sforzi degli implacabili nemici dell’ordine
pubblico. Noi, appena ne fummo a conoscenza, riprovammo tale atto, e ne
dichiarammo altamente la nullità, che risultava manifestissima per tanti
titoli. In linea con questa massima, che ogni sacro e profano diritto
garantiva, furono le istruzioni che Ci affrettammo ad ordinare, al solo scopo
di allontanare dai Nostri popoli reiterate disgrazie. – Ministri pertanto di
quel Signore il quale vuole che si recida ciò che dà causa a scandalo e che sia
tolto il fermento guasto che corromperebbe la massa, non dimenticheremo di
dovere un giorno render conto a Dio dell’uso che avremo fatto della clemenza
come della giustizia. Penetrati dai doveri, che Ci impone la qualità di Principe,
avremo sempre presente al pensiero, anche nell’insistere sulle vie della pace,
che a questa si deve accompagnare in dolce amplesso la giustizia, la quale da
Noi esige severamente di porre nel caso di non poter nuocere coloro che alle
reiterate profusioni di pietà e di mansuetudine non corrisposero che con nuovi
attentati contro la Religione, contro il Principato, contro la pubblica
tranquillità. Debitori ai Nostri sudditi di procurare loro la sicurezza nelle
persone, nell’ordine morale e nelle sostanze, non regoleremo che con questo
scopo salutare le Nostre provvidenze, tenendoci nei limiti che debbono avere la
clemenza e la giustizia. Sia quindi del comune impegno implorare su Noi dalla
divina misericordia lume ed aiuto, onde le Nostre determinazioni siano secondo
il suo volere, affinché protette da essa rendano quei risultati di soda e
costante felicità, che nata, fomentata, accresciuta nel retto e nel vero, può
sola rendere soddisfatti i voti che, nell’impartire sui Nostri sudditi
l’Apostolica Benedizione, per essi indirizziamo al cielo fervorosissimi.
Dato a Roma, presso Santa Maria
Maggiore, il 5 aprile 1831, anno primo del Nostro Pontificato.
« Siamo angosciati dalla visione di tanti gravi mali, specialmente di quelli che mettono in pericolo la salvezza eterna del Nostro popolo: in questa amarezza la cosa per Noi più dolorosa è il non potere, a causa della Nostra libertà conculcata, adoperare i rimedi necessari contro tanti mali … » Questa era le preoccupazione principale del Sommo Pontefice, il grande paladino e custode della fede cristiana Pio IX: la salvezza delle anime dei fedeli, come è giusto che sia, per un Pontefice al quale il Capo della Chiesa ha affidato la cura dei suoi agnelli e delle sue pecore. Questa breve lettera fu scritta dal Santo Padre con inchiostro amaro dopo gli avvenimenti funesti che ne determinarono la perdita della libertà territoriale confinandola tra le strette mura del colle Vaticano « … l’avidità di un Potente vicino desiderò ardentemente le regioni del Nostro potere temporale, antepose ostinatamente i consigli delle sette della perdizione alle Nostre paterne e ripetute ammonizioni e ai Nostri richiami; ultimamente… espugnò con la forza delle armi anche questa Nostra città, che voleva per sé, e la tiene adesso in suo potere, contro ogni diritto, come cosa che gli appartenga »; si, è la nostra Italia ad essere accusata – perché soggiogata dalle sette della perdizione, cioè le logge massoniche che già tenevano saldamente in pugno i regnanti e gli amministratori del Regno dell’epoca – di un misfatto così grave e deleterio per la sua vita sociale, materiale ed infine spirituale. Tutto questo la nostra patria lo ha pagato con guerre, carestie, rivolte sociali, dittatura, stragi e con la perdita di una reale libertà giunta fine all’attuale quadro politico in cui si è instaurata una feroce dittatura mediatica che contraddice a tutte le regole ancorché naturali e biologiche, oltre che costituzionali, e che tutto lascia presumere essere solo l’inizio di ulteriori e più atroci sofferenze fisiche, morali e soprattutto spirituali perché orchestrate da servi più o meno occulti di lucifero, capo del corpo mistico massonico. Questi castighi che i nostri antenati ci hanno procurato e che i loro discendenti hanno pagato e stanno ancor più pagando oggi e pagheranno domani, oltre ad essere accompagnati da costumi abominevoli, quali l’irreligiosità, la sodomia spudorata, gli adulteri e gli aborti che gridano vendetta agli occhi di Dio, hanno il loro apice nell’abbandono della fede cristiana e nella totale scristianizzazione di una società sprofondata in un paganesimo pratico ed una idolatria senza precedenti, nella sovversione totale nel corpo ecclesiastico costituito oggi da invalidi e sacrileghi chierici “muti”, canonicamente senza alcun titolo valido – senza cioè giurisdizione né missione canonica – e che stanno trascinando nella voragine infernale un numero incalcolabile di anime. Aveva ragione allora il Sommo Pontefice Mastai-Ferretti ad essere angosciato, non per la situazione dovuta alle restrizioni della sua libertà personale e di quella di tutta la Chiesa Cattolica ma – facile profeta – per la perdita irreparabile di anime che ne sarebbe seguita per lungo tempo, anime che si sarebbero dannate e si danneranno in eterno.
S. S. Pio IX
Beneficia Dei
I benefici di Dio Ci chiamano a
celebrare la sua benignità, mentre manifestano una nuova grazia della sua
protezione verso di Noi e la gloria della sua maestà. Infatti già volge al
termine il venticinquesimo anno da quando, per disposizione divina, assumemmo
l’incarico di questo Nostro Apostolato, le cui travagliate circostanze sono
talmente conosciute da Voi da non aver bisogno di un più lungo ricordo da parte
Nostra. È evidentissimo, Venerabili Fratelli, per una serie di tanti
avvenimenti, che la Chiesa
militante seguita il suo cammino fra frequenti lotte e vittorie; davvero Dio
guida lo svolgimento delle cose e domina sul mondo, che è lo sgabello dei suoi
piedi; davvero si serve spesso di strumenti deboli e spregevoli per compiere
con essi i disegni della sua sapienza. – Nostro Signore Gesù Cristo,
fondatore e supremo reggitore della Chiesa, che acquistò col suo sangue, con
l’ausilio dei meriti del Beatissimo Pietro, Principe degli Apostoli, che sempre
vive e presiede in questa Sede Romana, si è degnato di sorreggere e di
sostenere, in questo lungo periodo del Nostro Apostolico servizio, la Nostra
debolezza e pochezza, con la sua grazia e la sua forza, a maggior gloria del
suo nome e per l’utilità del suo popolo. Così Noi, sostenuti dal suo divino
aiuto e servendoci costantemente dei consigli dei Nostri Venerabili Fratelli
Cardinali di Santa Romana Chiesa, e più volte anche dei vostri, Venerabili
Fratelli, che insieme foste presenti con Noi qui a Roma in gran numero,
adornando questa Cattedra della verità con lo splendore della vostra virtù e
dell’unanime pietà, abbiamo potuto nel corso di questo Pontificato, seguendo i
desideri Nostri e di tutto il mondo cattolico, proclamare con definizione
dogmatica l’Immacolata Concezione della Vergine Genitrice di Dio e decretare
gli onori celesti a molti eroi della nostra Religione, l’aiuto dei quali, e
soprattutto della divina Madre, non dubitiamo che sarà pronto per la Chiesa Cattolica
in tempi tanto avversi. Fu anche in virtù della forza e della gloria divina che
potemmo portare la luce della vera fede in regioni lontane e inospitali,
mandandovi gli operai evangelici; potemmo costituire l’ordine della Gerarchia
ecclesiastica in molti luoghi e bollare con solenne condanna gli errori (forti specialmente in questo
tempo), contrari all’umana ragione, ai buoni costumi e alla società tanto
cristiana che civile. Sempre con l’aiuto di Dio, procurammo, per quanto
potevamo, che la potestà ecclesiastica e la civile, sia in Europa, sia in
America, fossero congiunte con un fermo e solido vincolo di concordia; cercammo
di provvedere alle molteplici necessità della Chiesa Orientale, che sempre
guardammo con paterno affetto fin dall’inizio del Nostro Apostolico ministero;
recentemente Ci fu concesso di promuovere ed iniziare il Concilio Ecumenico
Vaticano, di cui tuttavia, per le notissime vicende, dovemmo decretare la
sospensione, quando i frutti maggiori in parte erano stati raccolti e in parte erano
attesi dalla Chiesa. – E neppure, Venerabili Fratelli, mai tralasciammo di
eseguire, con l’aiuto di Dio, ciò che richiedevano il diritto e il dovere della
Nostra potestà civile. Le congratulazioni e gli applausi, come ricordate, che
accolsero gli inizi del Nostro Pontificato, si trasformarono in breve tempo in
ingiurie e assalti, così da costringerci a fuggire da questa Nostra
dilettissima Città. Ma quando, ad opera degli sforzi comuni dei popoli
cattolici e dei Principi, fummo restituiti a questa Sede Pontificia, mettemmo
continuamente tutte le Nostre forze e il Nostro impegno per promuovere e
assicurare ai Nostri fedeli sudditi quella prosperità solida e non fallace che
sempre riconoscemmo come fondamentale compito del Nostro Principato civile. Ma poi, l’avidità di un Potente
vicino desiderò ardentemente le regioni del Nostro potere temporale, antepose
ostinatamente i consigli delle sette
della perdizione alle Nostre paterne e ripetute ammonizioni e ai Nostri
richiami; ultimamente, come vi è noto, superata di gran lunga l’impudenza di
quel Figliol Prodigo di cui leggiamo nel Vangelo, espugnò con la forza delle
armi anche questa Nostra città, che voleva per sé, e la tiene adesso in suo
potere, contro ogni diritto, come cosa che gli appartenga. Non può accadere,
Venerabili Fratelli, che non siamo molto scossi per questa usurpazione tanto
empia che subiamo. Siamo completamente angosciati per l’enorme iniquità di un
disegno che mira, distrutto il Nostro potere temporale, a che siano distrutti,
con la medesima operazione, la Nostra potestà spirituale e il Regno di Cristo
in terra, se ciò potesse avvenire. Siamo angosciati dalla visione di tanti
gravi mali, specialmente di quelli che mettono in pericolo la salvezza eterna
del Nostro popolo: in questa amarezza la cosa per Noi più dolorosa è il non potere, a causa
della Nostra libertà conculcata, adoperare i rimedi necessari contro tanti mali.
A queste cause della Nostra afflizione, Venerabili Fratelli, si aggiunge anche
quella lunga e miserevole serie di calamità e di mali che per tanto tempo
percossero e afflissero la nobilissima Nazione Francese; serie di mali
aumentata smisuratamente in questi giorni per i tanti inauditi eccessi commessi
da una efferata e sfrenata moltitudine, come l’atroce delitto dell’empio parricidio
consumato con l’esecuzione del Venerabile Fratello Vescovo di Parigi; ben
capite quali sentimenti devono suscitare in Noi tali delitti, che hanno
riempito il mondo intero di paura e di orrore. Infine, Venerabili Fratelli,
abbiamo anche un’altra amarezza, perfino superiore alle altre, nel vedere tanti
figli ribelli, sottoposti a tante e tanto gravi censure, che, non
preoccupandosi affatto della Nostra voce paterna, né della loro salvezza,
continuano tuttora a disprezzare il tempo della penitenza offerto da Dio, e
preferiscono superbamente sperimentare l’ira della divina vendetta piuttosto
che il frutto della misericordia, fin che sono in tempo. – Ma ormai, attraverso
tante vicissitudini, con la protezione di Dio clementissimo, vediamo giunto il
giorno anniversario della Nostra esaltazione al Soglio pontificio nel quale –
come succedemmo nella Sede di San Pietro, benché infinitamente inferiori ai
suoi meriti – risultiamo essergli uguali nella durata del servizio Apostolico.
Questo è davvero un nuovo, singolare e grande dono della divina bontà, concesso
dalla volontà di Dio solo a Noi, in un così lungo elenco di santissimi Nostri
Predecessori per il lungo periodo di diciannove secoli. Anche in questo
riconosciamo una più ammirabile benevolenza divina verso di Noi, quando vediamo
che in questo tempo Noi siamo stati considerati degni di patire persecuzione
per la giustizia, e quando osserviamo quel meraviglioso affetto di devozione e
di amore che anima potentemente il popolo cristiano su tutta la terra, e lo spinge
con unanime sentimento a questa Santa Sede. Poiché questi doni furono conferiti
a Noi così immeritevoli, impegniamo tutte le Nostre deboli forze per esprimere
il Nostro ringraziamento nel debito modo. Perciò, mentre chiediamo
all’Immacolata Vergine Madre di Dio che ci insegni, con il suo medesimo
spirito, a rendere gloria all’Altissimo con quelle sublimi parole “Grandi
cose fece in me l’Onnipotente“, preghiamo istantemente anche Voi,
Venerabili Fratelli, ad elevare con Noi a Dio, insieme alle greggi a Voi
affidate, cantici ed inni di lode e di ringraziamento. “Magnificate il
Signore con me“, diciamo con le parole di Leone Magno, ed esaltiamo il
suo nome a vicenda, affinché tutte le grazie e le misericordie che ricevemmo,
tornino a lode del loro Autore. Comunicate poi ai vostri popoli il Nostro
ardente amore e i gratissimi sentimenti del Nostro animo per le loro bellissime
testimonianze di pietà filiale verso di Noi e per i doveri compiuti così a
lungo e con tanta perseveranza. Noi infatti, per quanto Ci riguarda, potendo
usurpare a buon diritto le parole del Vate del Re “Il mio abitare è
stato prolungato“, con l’aiuto delle vostre preghiere ormai
desideriamo questo, cioè conseguire la forza e la fiducia di rendere la Nostra
anima al Principe dei Pastori, nel cui seno sono il refrigerio ai mali di
questa vita turbolenta e travagliata e il beato porto dell’eterna tranquillità
e della pace. – Perché poi torni a maggior gloria di Dio quanto per sua
benevolenza si aggiunse ai benefici del Nostro Pontificato, aprendo in questa
occasione il tesoro delle grazie spirituali, diamo a Voi, Venerabili Fratelli,
la potestà, ciascuno nella propria Diocesi, d’impartire la Benedizione Papale
con annessa indulgenza plenaria, come usa fare la Chiesa, con la consueta
Nostra autorità Apostolica, il sedici o il ventuno di questo mese o in altro
giorno a vostra scelta. Desiderando poi provvedere al bene spirituale dei
fedeli, con la presente lettera concediamo nel Signore che tutti i Cristiani,
tanto secolari che regolari di entrambi i sessi, in qualunque luogo della
vostra Diocesi si trovino, i quali, purificati dalla confessione sacramentale e
nutriti della santa comunione, eleveranno a Dio devote preghiere per la
concordia dei Principi cristiani, l’estirpazione delle eresie e l’esaltazione
della Santa Madre Chiesa nel giorno che voi avrete designato o scelto per
impartire la predetta Benedizione per Nostra autorità (oppure, nelle Diocesi in
cui sia vacante la Sede Episcopale, i Vicari Capitolari del tempo avranno
scelto o designato) possano ottenere l’indulgenza plenaria di tutti i loro
peccati. Non dubitiamo affatto che in questa occasione il popolo cristiano sia
stimolato con maggiore efficacia a pregare, e così per le preghiere
moltiplicate meritiamo di ottenere quella misericordia che la visione di tanti
mali presenti non Ci permette d’invocare celermente. – Per Voi nel frattempo, Venerabili Fratelli,
chiediamo a Dio Onnipotente costanza, speranza celeste e ogni consolazione, e
di queste cose vogliamo che sia auspicio e testimonianza della Nostra
particolare benevolenza la Benedizione Apostolica, che impartiamo con tutto il
Nostro cuore a Voi, al Clero e al popolo affidato a ciascuno di Voi.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 giugno, giorno sacro alla Santissima Trinità, dell’anno 1871, venticinquesimo del Nostro Pontificato.
In questa lettera Enciclica dell’inizio del Pontificato di S. S. Pio IX,, c’è un esempio perfetto del vero ecumenismo Cattolico, quello cioè che accoglie tutti i fedeli e gli uomini di ogni Nazione, lingua e cultura nell’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa Cattolica, l’Arca fuori dalla quale non c’è assolutamente alcuna possibilità di salvezza dell’anima, secondo la parola evangelica di Cristo. Il grande Pontefice voleva accogliere, come altri Sommi Pontefici già nel passato, così come pure in Concili Ecumenici (es. il Concilio di Firenze), i fedeli Cristiani d’Oriente per riportarli nell’unico ovile del gregge guidato da un solo Pastore, il Vicario di Cristo. Assistiamo qui ad un atto di amore paterno, al desiderio di un padre misericordioso di accogliere tanti figli e fratelli erranti come pecore allo sbando, prede facili di lupi e leoni ruggenti, come di ladri e di briganti, nell’unica arca di salvezza scaturita dal costato di Cristo aperto sulla croce. Anche in quell’occasione però la perfidia e l’empietà di orgogliosi e ribelli uomini ebbe la meglio come già nel passato. E così come lo scisma di Firenze fu punito pochi anni dopo con l’invasione dei musulmani nei Paesi d’Oriente che compirono un terrificante eccidio con la distruzioni di intere città e deportazioni in massa di prigionieri ridotti alla più dura schiavitù, così questo rifiuto altezzoso fu seguito, pochi decenni dopo, dall’instaurazione di una ferocissima dittatura comunista nei Paesi scismatici d’Oriente che procurò morte e distruzione, lacrime e sangue senza misura, eccidi e sterminio di interi popoli e nazioni. Così diverso è invece l’ecumenismo massonico oggi praticato nella falsa chiesa dell’uomo, la “sinagoga di satana” insediata in Vaticano e nella città un tempo santa a perdizione di un infinito numero di anime, ove si pratica un indifferentismo religioso ed un modernismo gnostico mutuato dalle logge più spietate e criminali, quelle adoranti il baphomet-lucifero, il “signore dell’universo” già posto sugli altari come abominio della desolazione già annunciato dal profeta Daniele e ribadito dal Cristo stesso. Ed allora fuggiamo verso i monti, cioè verso la dottrina pura cattolica, rifuggiamoci nelle grotte e negli anfratti della santità, lontani dalla corruzione dottrinale il cui apice è appunto l’indifferentismo religioso, l’ecumenismo satanico che equipara i culti di Baal, di satana, del cabalismo talmudico, dell’idolatria e della stregoneria diabolica, dell’adorazione luciferina, al culto del vero unico Dio trino e del suo unico Figlio-Dio Gesù Cristo nella sua “vera” Chiesa, una, santa, cattolica ed apostolica romana, a perdizione di gran parte dell’intera umanità.
S. S. PIO IX
Suprema Petri
L’unità della
chiesa
Pressante invito alte chiese separate d’Oriente perché tornino all’unità della Chiesa cattolica.
Posti per volontà del Signore, nonostante i pochi meriti, sulla cattedra eccelsa dell’apostolo Pietro e assunta la cura di tutte le chiese, abbiamo rivolto l’attenzione fin dall’inizio delnostro pontificato alle diverse nazioni cristiane dell’oriente e delle regioni limitrofe di qualunque rito che sembravano esigere da Noi un impegno particolare per più di un motivo di rilevanteimportanza. In oriente infatti si manifestò l’unigenito Figlio di Dio fattosi uomo per noi uomini e attraverso la sua vita,morte e risurrezione si degnò di portare a compimento l’opera della redenzione umana. In oriente fu diffuso inizialmente dallo stesso divino Redentore e subito dopo dai suoi discepoli l’Evangelodella luce e della pace; e risplendettero numerosissimele chiese degli apostoli che le avevano fondate, insigni per fama. Ma anche nel periodo successivo, e dopo più secoli, fiorirononelle nazioni orientali i vescovi, i martiri e altri uomini eccellentiper santità e dottrina, tra i quali sono celebrati conencomio univoco di tutto l’oriente Ignazio d’Antiochia, Policarpo di Smirne, Gregorio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo, Atanasio di Alessandria, Basilio di Cerea,Giovanni Crisostomo, i due Cirillo, di Gerusalemme e di Alessandria, Gregorio Armeno, Efrem Siro, Giovanni Damasceno,nonché gli apostoli degli slavi Cirillo e Metodio; per tacere poi dì tutti gli altri pressoché innumerevoli, i quali pure affidarono il loro nome al ricordo perenne dei posteri, avendoanch’essi versato il loro sangue per Cristo o scritto cose sapienti ed attuato opere di esimia virtù. Tornano anche a merito dell’oriente i frequentissimi congressi dei vescovi, e soprattutto ipiù antichi concili ecumenici celebrati proprio in quella regione e nei quali sotto la guida del vescovo di Roma fu tutelata lafede cattolica contro quanti in quel tempo cercavano di introdurvi mutamenti, e fu fortificata con solenne giudizio. Infine anche in età successiva, benché una parte non piccola di cristiani d’orientesi fosse staccata dalla comunione con questa santa Sede e perfino dall’unione con la Chiesa Cattolica, e proprio inoriente abbiano preso il potere genti lontane dalla religione cristiana, tuttavia non vi mancò mai un nutrito numero di uomini i quali, fidando nell’aiuto della grazia divina, confermarono la loro saldezza nella professione della vera unica fede cattolica fra molteplici calamità e lunghi pericoli propri soprattutto di quei tempi. A questo punto però non possiamo astenerci dal ricordare con un elogio particolare i loro patriarchi, ì primati, gli arcivescovi e i vescovi, che custodirono con diligenza ilproprio gregge nella professione della verità cattolica; e certo fu per le loro cure, unite alla benedizione di Dio, che. Mitigatasi in seguito la crudeltà dei tempi, si trovò ivi un così gran nume di persone rimaste nell’unità cattolica. – Pertanto Ci rivolgiamo innanzitutto a voi, venerabili fratelli, diletti figli, vescovi cattolici, e chierici e laici di qualsiasi ordine, che siete rimasti saldi nella fedele comunione con questa Santa Sede, o che successivamente, riconosciuto l’errore, vi siete rivolti ad essa con virtù degna di non minor elogio. Benché infatti abbiamo già scritto a molti di voi. dai quali avevamo avuto lettere di congratulazione per la nostra elezione al Sommo Pontificato, e poi dal 9 novembre 1846 ci siamo rivolti per per mezzo di una lettera enciclica a tutti i vescovi dell’intero mondo cattolico, tuttavia è nostra intenzione di farvi consapevoli con questo altro specifico discorso dell’ardentissimo amore con cui Ci prendiamo cura di voi e della vostra situazione. Veramente l’opportunità di scrivere di questi argomenti ci è stata fornita dalla missione del venerabile fratello Innocenzo arcivescovo di Side, il quale è stato inviato da Noi a Costantinopoli presso la Sublime Porta [= nobile corte] ottomana, per incontrarsi in nostro nome col potentissimo Imperatore delle popolazioni turche e per ringraziarlo vivamente per Noi, da oratore qual è, per aver inviato lui per primo ambasciatori a salutarci. Ma abbiamo altresì incaricato scrupolosamente il venerabile fratello di raccomandare con le Nostre parole, con molta cura, allo stesso Imperatore voi e tutto ciò che riguarda la vostra causa e quella della Chiesa Cattolica all’interno del vastissimo Impero ottomano. E non dubitiamo che l’Imperatore stesso, già di per sé ben disposto nei vostri confronti, verrà incontro anche con maggior benevolenza ai vostri bisogni e non permetterà che nessuno dei suoi sudditi subisca dei torti a causa della Religione Cattolica. Poi il già ricordato arcivescovo di Side manifesterà assai eloquentemente l’impegno del nostro amore per voi a quelli tra i sacri presuli e tra i maggiorenti delle vostre nazioni che si troveranno presenti a Costantinopoli; e successivamente, quando vorrà ritornare, si dirigerà, così come lo permetteranno le circostanze del momento, verso alcune altre località dell’Oriente per visitare in nostro nome, con le modalità del mandato avuto da Noi, le chiese dei cattolici di qualsiasi rito che ivi si trovano e per rivolgersi con le nostre parole in modo affettuosissimo – e per confortarli – ai nostri venerandi fratelli e diletti figli che incontrerà in quei luoghi. Egli inoltre consegnerà loro personalmente e farà trasmettere agli altri di voi questa lettera, testimone, come abbiamo detto, del nostro sollecito amore per le vostre nazioni cattoliche; con essa rendiamo noto a voi tutti, e lo garantiamo, che nulla ci sarà più caro che acquisire benemerenza ogni giorno di più da voi stessi e dalla situazione della Religione Cattolica presso di voi. Perciò, poiché tra le altre cose ci è stato riferito che nella normativa ecclesiastica delle vostre nazioni alcuni punti restano ancora incerti per la situazione sfavorevole del passato o sono stati fissati in modo non organico, ben volentieri saremo presenti con la nostra Autorità apostolica affinché tutte le cose vengano ordinatamente composte e fissate secondo la norma dei sacri canoni e osservando le disposizioni dei santi padri. Salvaguarderemo però integralmente le vostre proprie liturgie cattoliche; le teniamo in massimo conto, benché in alcunipunti si discostino dalla liturgia delle chiese latine. Infatti le stessevostre liturgie furono tenute in altrettanta considera dai nostri predecessori; furono invero apprezzate per la veneranda antichità della loro origine, per essere state scritte nelle lingue degli Apostoli e dei Padri, e inoltre perché i loro riti si avvalgono di celebrazioni davvero splendide e magnifiche, adatte a rinvigorire la devota pietà dei fedeli per i divini misteri. – Aquesto criterio di comportamento della Sede Apostolica nei confronti delle liturgie cattoliche degli orientali fanno riferimento parecchi decreti e costituzioni dei Pontefici Romani, promulgati per la loro conservazione; fra questi documenti sarà sufficiente lodare le lettere apostoliche di Benedetto XIV, nostropredecessore, in particolare quella scritta il 26 luglio 1755, il cui inizio è Allatæ sunt. Tende al medesimo scopo il fattoche ai sacerdoti orientali che vengono in occidente non soloè data libertà di celebrare negli edifici consacrati dei latini,ma sono disponibili chiese edificate proprio per l’utilizzo esclusivo da parte loro. Oltre a ciò non sono mancati monasteri di rito orientale, né altre dimore destinate ad accogliere gli orientali, eneppure collegi fondati allo scopo di educare i figli degli orientali, sia da soli sia con altri giovinetti, alle Scritture e alle scienze e altresì alla dottrina propria del clero, e di renderli idonei in seguito ad affrontare, ciascuno nella propria nazione,i doveri ecclesiastici. E benché alcune di queste istituzioni siano andate perdute per calamità abbastanza recenti, altre restano ancora e sono floride; e in esse, venerabili fratelli,diletti figli, avete una prova davvero evidente del particolareaffetto con cui la Sede Apostolica segue voi e le vostre necessità. – D’altra parte sapete già, venerabili fratelli, diletti figli, che Noi, nella cura delle vostre attività religiose ci avvaliamo dell’operadi promozione della nostra Congregazione di cui fanno parte parecchi cardinali della santa chiesa di Roma, detta «di Propaganda fide». Ma lo sforzo per ben meritare di voi è comune anche a moltissimi altri, sia romani sia stranieri, che dimorano in questa alma città. Tra questi, alcuni presuli di rito latino e anche dei vostri riti orientali, e altri uomini pii, poco tempo fa hanno progettato di costituire una pia società per sostenere con un impegno comune – sotto l’autorità della già ricordata nostra Congregazione – il culto della Religione Cattolica presso di voi, e un suo più fecondo sviluppo, con pie preghiere quotidiane, raccogliendo offerte e con ogni loro risorsa e attività. Per parte nostra, quando quel pio progetto ci fu riferito, lo elogiammo e approvammo e consigliammo loro di por mano all’opera senza indugio. – Ed ora indirizziamo le nostre parole in modo particolare a Voi, venerabili fratelli presuli cattolici degli orientali, di qualsiasi grado, affinché, lodando di nuovo il vostro zelo e quello del vostro clero nel compiere i doveri sacri, accresciamo ancora con questa esortazione il vostro coraggioso slancio verso la virtù. Pertanto vi supplichiamo nel Signore Dio nostro, affinché confidando nel suo celeste aiuto attendiate con sempre maggior sollecitudine alla custodia del diletto gregge e non desistiate dal fargli luce con la parola e l’esempio, affinché si muova degnamente in modo gradito a Dio in tutto, fruttificando in ogni opera buona. Si impegnino attivamente nella medesima cura i Sacerdoti, che sono sotto di voi, in primo luogo curatori di anime, accogliendo l’invito ad amare il decoro della casa di Dio, a rinvigorire la pietà del popolo, ad amministrare con santità le cose sante e, senza trascurare gli altri aspetti del loro ministero, ad avere particolare diligenza nell’indirizzare i fanciulli ai rudimenti della dottrina cristiana e nel nutrire il restante popolo dei fedeli con eloquio semplice, adatto alla sua capacità di intendere. Dai Sacerdoti e da voi stessi deve essere profuso ogni sforzo affinché tutti i fedeli siano solleciti nel conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace, rendendo grazie a Dio padre dei lumi e delle misericordie, perché in momenti così pericolosi sono rimasti saldi, in virtù della sua grazia, nella comunione cattolica dell’unica Chiesa di Cristo, o sono ritornati in seguito ad essa, mentre altri del loro popolo vagano ancora fuori dall’unico autentico ovile di Cristo, dal quale già da tempo i loro padri erano usciti miseramente. – Non possiamo ora non indirizzare parole di carità e di pace anche a quegli orientali che venerano Cristo, ma non sono nella comunione con questa sede di Pietro. L’amore di Cristo infatti ci sprona a non lesinare sforzi nel seguire, conformemente aisuoi moniti e al suo esempio, le pecore disperse nei luoghi più impervi e aspri e a soccorrere la loro debolezza, affinché un giorno finalmente, ritornino nei recinti del gregge del Signore.
Ascoltate perciò la nostra parola, voi tutti che nei territori d’Oriente e in quelli limitrofi vi gloriate, sì, del nome di cristianima non avete comunione con la santa chiesa di Roma; e soprattutto voi. che presso di loro siete addetti ai sacri ministeri, o che, insigniti di un grado ecclesiastico anche più elevato, esercitate la vostra autorità sugli altri. Riflettete e richiamatealla memoria l’antica condizione delle vostre chiese,quando di comune accordo si tenevano unite tra di loro e con le altre chiese del mondo cattolico nel vincolo dell’unità: pensatequindi se siano state per voi fonte di qualche vantaggio le divisioni che successivamente sono subentrate e a causa delle quali non siete stati in grado di conservare non solo con le chiese occidentali, ma neppure tra voi stessi l’antica unità sia della dottrina sia del sacro governo. Ricordate il simbolo della fede, nel quale insieme con noi confessate di credere «la Chiesa una santa cattolica e apostolica»; e valutate quindi se davvero possa ritrovarsi questa unità cattolica della Chiesa santa e apostolica nella divisione così profonda delle vostre chiese, mentre proprio voi vi rifiutate di riconoscere l’unità nella comunione della Chiesa romana, sotto la quale altre numerosissime chiese in tutto il mondo sono cresciute sempre insieme in un sol corpo, e ancora crescono insieme. E per comprendere più a fondo la ragione di quella unità, per la quale deve risplendere la Chiesa Cattolica, richiamate alla memoria quell’orazione scritta nel Vangelo di Giovanni, nella quale Cristo Figlio unigenito di Dio così pregò per i suoi discepoli: «Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi»; e subito dopo aggiunse: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come Padre, sei in me e Io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv XVII, 20 ss). In verità lo stesso Artefice della salvezza degli uomini, il Cristo Signore, pose il fondamento della sua Chiesa – l’unica contro la quale le porte dell’inferno non prevarranno – in Pietro primo degli Apostoli; a lui consegnò le chiavi del regno dei cieli (Mt XVI, 18-19); per lui pregò, perché non gli venisse mai meno la fede, dandogli anche mandato di confermare in essa i fratelli (Lc. XXII, 31-32); a lui infine affidò i suoi agnelli e le sue pecore (Gv XXI, 15 ss), e anzi tutta la Chiesa, che è formata dai veri agnelli e dalle vere pecore di Cristo. Queste prerogative sono state conferite anche ai Vescovi Romani successori di Pietro; infatti la Chiesa, che è destinata a durare fino alla fine dei secoli, non può essere privata, dopo la morte di Pietro, del fondamento sopra il quale fu edificata da Cristo. Perciò sant’Ireneo, discepolo di Policarpo – che aveva ascoltato personalmente l’apostolo Giovanni – e poi Vescovo di Lione, considerato dagli orientali non meno che dagli occidentali uno fra i più illustri lumi dell’antichità cristiana, volendo riportare contro gli eretici del suo tempo la dottrina tramandata dagli Apostoli, ritenne inutile elencare le successioni di tutte le chiese di origine apostolica, affermando che per lui era sufficiente allegare contro quelli la dottrina della Chiesa romana, perché «è necessario che ogni chiesa, cioè i fedeli di ogni luogo, si volga, in forza della sua origine superiore, a questa Chiesa, nella quale è stata conservata sempre dai fedeli di ogni luogo la dottrina tramandata dagli apostoli». – Sappiamo che voi tutti desiderate rimanere fedeli alla dottrina custodita dai vostri avi. Seguite dunque gli antichi Vescovi e gli antichi fedeli di Cristo di tutte le regioni orientali, a proposito dei quali moltissimi documenti dimostrano che essi concordarono con gli occidentali nel riconoscere l’autorità dei Pontefici Romani. Tra i più significativi esempi di tale comportamento provenienti dall’Oriente stesso (oltre al passo di Ireneo che ho appena lodato) piace qui ricordare ciò che fu fatto nel IV secolo della Chiesa nella causa di Atanasio vescovo di Alessandria, illustrissimo per santità non meno che per dottrina e zelo pastorale, il quale, condannato senza alcun fondamento da certi presuli orientali nel concilio che si tenne prevalentemente a Tiro, e cacciato dalla sua chiesa, venne a Roma; qui giunsero anche altri Vescovi provenienti dall’Oriente, allontanati pure essi ingiustamente dalle loro sedi. «Allora il Vescovo Romano» (che era il nostro predecessore Giulio), «dopo aver conosciuto le cause dei singoli e averli trovati tutti credenti nella dottrina della fede nicena, li accolse nella comunione. E poiché per la dignità della sede spettava solo a lui la cura di tutti, restituì a ciascuno la sua chiesa. Scrisse anche ai Vescovi orientali, rimproverandoli perché nelle cause sopra ricordate non avevano giudicato rettamente e turbavano lo stato delle chiese». Anche all’inizio del V secolo Giovanni Crisostomo Vescovo di Costantinopoli, di altrettanta chiarissima fama, che nel sinodo di Calcedonia [tenuto nell’agosto del 403 da alcuni vescovi] in località La Quercia era stato condannato con sommo oltraggio, fece ricorso lui pure per mezzo di lettere e di messaggeri a questa Sede Apostolica e fu dichiarato innocente dal nostro predecessore sant’Innocenzo I.Della venerazione che i vostri avi ebbero per l’autorità dei Pontefici Romani resta un esempio insigne nel sinodo di Calcedonia del 451. Infatti i Vescovi, che erano convenuti lì in numero di circa seicento, e provenivano quasi tutti (con poche eccezioni) dall’Oriente, dopo che fu letta ad alta voce nella seconda sessione del Concilio la lettera del Romano Pontefice s. Leone Magno, esclamarono: «Così ha parlato Pietro per bocca di Leone». Subito dopo, portato a termine quel sinodo sotto la guida dei legati pontifici, gli stessi Padri conciliari nella relazione mandata a Leone sui lavori svolti affermarono che lui tramite i legati già ricordati aveva presieduto l’assemblea dei Vescovi «così come il capo presiede le membra». D’altronde non solo dagli atti del concilio di Calcedonia, ma anche dalla storia degli altri antichi sinodi orientali sarebbe possibile produrre altri numerosi documenti, dai quali risulta che i Pontefici Romani ebbero il primo posto principalmente nei sinodi ecumenici, e che la loro autorità era invocata sia prima della celebrazione dei Concili, sia inoltre al momento della conclusione. E anche al di fuori dell’argomento dei Concili, potremmo addurre moltissimi altri scritti e fatti di Padri e di antichi orientali dai quali pure si evince con chiarezza che la suprema autorità dei Romani Pontefici ebbe vigore sempre presso i vostri avi nell’intero Oriente. Ma poiché sarebbe troppo lungo considerare qui tutti quegli esempi, e quello che abbiamo già riferito è sufficiente per dimostrare la verità dell’assunto, ricorderemo soltanto, a questo punto, a guisa di Coronide, come si comportarono in età antichissima, proprio al tempo stesso degli Apostoli, i fedeli di Corinto nelle discordie dalle quali la loro chiesa era stata turbata in modo molto grave. I corinzi appunto con lettere portate da Fortunato, venuto qui a questo scopo, presentarono quelle loro discordie a s. Clemente, il quale pochi anni dopo la morte di Pietro era stato fatto Pontefice della Chiesa di Roma. Allora Clemente, ponderata con attenzione la cosa, rispose per mezzo dello stesso Fortunato e dei suoi addetti e messaggeri Claudio Efebo e Valerio Vitone: da loro fu portata a Corinto quella celebratissima epistola del santo pontefice e della Chiesa Romana, che fu tenuta in tanta considerazione sia presso gli stessi corinzi sia presso gli altri orientali da essere letta pubblicamente in parecchie chiese anche in epoca successiva. Conformemente a questi esempi, vi esortiamo e vi supplichiamo a ritornare senza ulteriore indugio nella comunione di questa santa Sede di Pietro, nella quale è il fondamento della vera Chiesa di Cristo, come dimostrano sia la tradizione dei vostri avi e degli altri antichi Padri, sia le parole di Cristo Signore riportate nei santi Vangeli, che abbiamo ricordato prima. E non potrà mai accadere che siano nella comunione della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica quelli che abbiano voluto restare lontani dalla solidità della pietra, sopra la quale la Chiesa stessa fu edificata per volere di Dio. In più, non c’è davvero nessuna ragione per la quale possiate sottrarvi a questo ritorno alla vera Chiesa e alla comunione con questa Santa Sede. Sapete infatti che nei doveri inerenti alla professione della fede in Dio non c’è niente di così gravoso che non debba essere sopportato per la gloria di Cristo e per il premio della vita eterna. In verità, per quanto ci riguarda, attestiamo e garantiamo che nulla Ci sta più a cuore che, lungi dall’affliggervi con qualche imposizione che possa sembrare troppo dura, accogliervi invece, secondo l’uso costante di questa Santa Sede, con molto affetto e con benevolenza davvero paterna. Pertanto non vi imponiamo altri oneri fuorché questi necessari: che dopo essere ritornati all’unità, consentiate con noi nella professione della vera fede custodita e insegnata dalla Chiesa Cattolica e conserviate la comunione con la Chiesa stessa e con questa suprema Sede di Pietro. Conseguentemente, per ciò che attiene ai vostri sacri riti, sarà da respingere solo quanto vi si sia insinuato nei tempi della separazione, in contrasto con la stessa fede e unità cattolica: eccetto questo, conserverete perfettamente integre le vostre liturgie orientali; abbiamo già espresso nella prima parte di questa lettera l’apprezzamento di cui esse godettero presso i nostri predecessori e la grandissima stima che Noi ugualmente nutriamo per la loro venerabile antichità e per le cerimonie adatte ad alimentare la pietà. Inoltre siamo risoluti a tenere nei confronti dei sacri ministri, sacerdoti e presuli, che da queste nazioni tornino all’unità cattolica, lo stesso comportamento dei Nostri predecessori, sia quelli più vicini nel tempo, sia quelli vissuti in età più lontane: a mantenere cioè a quelli, inalterati, gradi e cariche e quindi ad avvalerci della loro opera non meno di quella del resto del clero cattolico orientale per conservare e diffondere il culto della Religione Cattolica fra i loro connazionali. Infine accoglieremo sia loro sia i laici che torneranno nella nostra comunione con lo stesso affetto riservato agli altri Cattolici d’oriente; anzi Ci sarà caro adoperarci in ogni modo per renderci benemeriti ogni giorno di più degli uni così come degli altri. Voglia Dio clementissimo degnarsi di dare a questo Nostro discorso la voce della virtù; benedire lo zelo dei Nostri fratelli e figli, che insieme con Noi si danno pena della salvezza delle vostre anime; allietare la Nostra umiltà col conforto di vedere ripristinata l’unità cattolica fra i Cristiani d’Oriente e di avere nell’unità stessa il sostegno per diffondere sempre di più la vera fede di Cristo tra i popoli che gli sono ancora lontani. Noi certamente non desistiamo dall’implorare ciò in ogni Nostra preghiera e supplica da Dio, Padre dei lumi e delle misericordie, per mezzo del suo Unigenito, il nostro Redentore; e di invocare al medesimo scopo il patrocinio della beatissima Vergine Madre di Dio, e dei santi Apostoli, Martiri, Padri dai quali con la predicazione, il sangue, le virtù e gli scritti fu diffusa ai primordi nell’Oriente, e poi conservata, la vera religione di Cristo. Mentre attendiamo con vivo desiderio di congratularci per il vostro tanto atteso ritorno nel seno della Chiesa Cattolica e di benedirvi come Nostri fratelli e figli, salutiamo frattanto tutti i Cattolici, Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi, chierici, laici che si trovano ora in Oriente e nei luoghi ad esso vicini e impartiamo di vivo cuore a tutti loro l’apostolica benedizione.
Roma, presso Santa Maria Maggiore, 6 gennaio 1848, anno II del Nostro pontificato.
Questa stupenda lettera Enciclica di S. S. Leone XIII, che porta la data del giorno del Corpus Domini del 1902, è una catechesi sul Culto eucaristico, centro di tutta la Religione di Cristo, della Chiesa Cattolica, e principio di salute per i singoli Cristiani e per i popoli del mondo. Ben sapeva questo la “sinagoga di satana” infiltrata da tempo nella Chiesa sotto le sembianze di pia devozione e di una falsa santità da marrani, che giorno dopo giorno, ha lavorato incessantemente fino all’abolizione pressoché totale, almeno di quello apparente e libero, del Sacramento eucaristico, oggi praticato in gran segreto in anfratti e sottoscala, vere moderne catacombe, dai pochi Sacerdoti cattolici, validamente consacrati da Vescovi “veramente” cattolici, cioè consacrati nella pienezza dell’Ordine secondo la formula canonicamente valida del 1947, ed “una cum” il vero Santo Padre da cui hanno ricevuto Giurisdizione e missione. Oggi, è verità di fede ecclesiastica e divina, il culto eucaristico è sparito dalla comune visibilità e validità, secondo la profezia del profeta Daniele, e con modalità analoga alla scomparsa del fuoco sacro del Tempio di Gerusalemme al tempi dei Maccabei, e che gli ingannati e forse in buona fede presunti cattolici, prendono in modo sacrilego, semplice pane mai consacrato da falsi chierici, o il cui ordine è totalmente invalido (quelli ordinati dopo il 18 giugno del 1968, senza tonsura, né ordini minori), o che appartengono al modernismo eretico ed apostatico del c. d. Vaticano II, oppure, come ladri e briganti, appartengono a sette pseudo-tradizionaliste, come i “figliocci” del cavaliere kadosh di Lille, o ai tesisti eretico-scismatici, o a gruppuscoli sedevacantisti eretici, scismatici che mai hanno ricevuto né missione, né tantomeno giurisdizione da chicchessia. Come la Venerabile A. K. Emmerich vide profeticamente, è distribuito pane, pane e soltanto pane senza alcuna forma sacramentale. C’è poi un passaggio attualissimo nell’Enciclica – che fa pure menzione di S. Pasquale Baylon designato come protettore celeste dei congressi eucaristici – « … una gran parte del genere umano sembra proprio volere attirarsi sul capo l’ira celeste, sebbene i mali stessi che ci premono, ci mostrano chiaramente che il giusto castigo è già maturato … »: e cos’è questa se non la profezia dei tempi attuali, tempi di castighi maturati per l’empietà crescente di popoli, di chierici e fedeli, e della apostasia da essi attuata ed accettata ed in atto dal 28 ottobre del 1958?
Leone XIII
Miræ caritatis
Lettera
EnciclicaÆ
La santa eucaristia
28 maggio 1902
È nostro altissimo dovere tenere sempre
presenti e diligentemente imitare i luminosi esempi della carità ammirabile di
Gesù Cristo per la salvezza degli uomini. Abbiamo cercato fino ad oggi di fare
questo, col suo divino aiuto, e Ci studieremo di continuare a farlo, fino alla
fine della Nostra vita, Costretti a vivere in tempi assai avversi alla verità e
alla giustizia, per quanto dipendeva da Noi, con gli insegnamenti, con le
ammonizioni, con gli atti, come ne fa fede anche l’ultima lettera apostolica a
voi indirizzata, non abbiamo mai tralasciato nulla di quello che poteva servire
meglio sia a dissipare il molteplice contagio degli errori, sia a rinvigorire
la pratica della vita cristiana. Fra questi atti, ve ne sono due più recenti,
fra loro strettamente connessi, la memoria dei quali Ci torna di opportuna
consolazione, in mezzo a tante cause di amarezza. L’uno ebbe luogo quando stimammo bene che tutta la
famiglia umana si consacrasse al Cuore augustissimo di Cristo redentore;
l’altro quando esortammo seriamente tutti coloro che si professano cristiani ad
unirsi a lui stesso, il quale è in modo divino “via, verità, vita”
non soltanto per i singoli individui, ma anche per l’intera società. – Ora poi
da questa medesima carità apostolica, che veglia sui bisogni della Chiesa, Ci
sentiamo mossi e come spinti ad aggiungere a quei due atti già compiuti,
qualche altra cosa, come a loro coronamento: a raccomandare cioè, quanto più
possiamo, al popolo cristiano la santissima eucaristia, come quel divinissimo
dono uscito dal fondo del Cuore del medesimo Redentore, ardentemente bramoso di
unirsi con questo mezzo agli uomini, mezzo escogitato specialmente per elargire
i salutari frutti della sua redenzione. Anche in questo campo Noi abbiamo già
promosse e raccomandate diverse opere. Ricordiamo con gioia specialmente di
avere approvato e arricchito di privilegi molti istituti e sodalizi, che sono
addetti all’adorazione perpetua della Vittima divina; di aver curato che i
congressi eucaristici fossero numerosi e fruttuosi come conviene; di avere ad
essi e ad altre opere simili assegnato
per protettore celeste san Pasquale Baylon, che si segnalò nella devozione e
nel culto verso il mistero eucaristico. – Perciò, venerabili fratelli, di questo
stesso mistero – nella difesa e illustrazione del quale si adoperò
costantemente sia la solerzia della chiesa, non senza preclare palme di
martiri, sia lo zelo di uomini dottissimi ed eloquentissimi, sia anche il
magistero delle nobili arti -, Ci piace ora rilevare alcuni aspetti, affinché
in modo più vivo risplenda la sua efficacia, specialmente per recare in maniera
notevolissima rimedio ai bisogni dei nostri tempi. In verità, poiché Cristo
Signore, la vigilia della sua morte, ci lasciò questo attestato d’immensa
carità verso gli uomini, e questo presidio massimo « per la vita del mondo »
(Gv 6,52), Noi, cui resta poco da vivere, nulla possiamo desiderare di meglio,
di quello che Ci sia dato d’eccitare negli animi di tutti e coltivare il dovuto
affetto di gratitudine e di devozione verso quell’ammirabile sacramento nel
quale giudichiamo basarsi in modo speciale la speranza e l’efficienza di quella
salvezza e di quella pace che è il sospiro di tutti i cuori. – Questo Nostro
pensiero, che al mondo, da ogni parte turbato e ridotto in così misera
condizione, convenga provvedere principalmente con simili aiuti e rimedi, ad
alcuni certamente farà meraviglia, e da altri sarà forse accolto con superbo
disprezzo. Ma ciò viene soprattutto dalla superbia, vizio che, quando alligna
negli animi, vi snerva necessariamente la fede cristiana, la quale esige un
ossequio religiosissimo della mente, e vi addensa più scura la caligine intorno
alle cose divine, così che a molti si addice quel detto: « Bestemmiano tutto
ciò che non conoscono » (Gd 10). Noi però, invece di desistere per questo dal
Nostro proposito, continuiamo, con più vivo ardore, ad illuminare i ben
disposti e ad impetrare da Dio perdono, interponendovi la fraterna implorazione
dei giusti, ai bestemmiatori delle cose sante. Il conoscere con perfetta fede quale sia
l’efficacia della santissima eucaristia, vale quanto conoscere quale sia
l’opera che, a beneficio del genere umano, Dio fatto uomo compì con la sua
potente misericordia, come e infatti ufficio della fede retta professare e
adorare Cristo quale sommo
fattore della nostra salute, che, con la sapienza, con le leggi, con le
istituzioni, con gli esempi, con l’effusione del sangue, restaurò ogni cosa;
così ad essa appartiene professarlo e adorarlo realmente presente nell’Eucaristia
in modo che, verissimamente egli rimane tra gli uomini sino alla fine del
mondo, e da maestro e pastore buono e intercessore accettissimo verso il Padre,
dà personalmente agli uomini, in continua abbondanza, i benefici della
redenzione operata. – Fra questi benefici poi provenienti dall’Eucaristia, chi
attentamente e religiosamente considera, vedrà primeggiare e risplendere quello
che tutti gli altri contiene: dall’Eucaristia cioè proviene agli uomini quella
vita che è la vera vita; « Il pane che io darò è la mia carne per la vita del
mondo » (Gv 6,52). In più maniere, come abbiamo detto altra volta, Cristo è
“vita”. Egli diede per motivo della sua venuta fra gli uomini il
voler loro portare una sicura abbondanza di vita più che umana: “Io sono
venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in sovrabbondanza” (Gv 10,10). E
infatti appena sulla terra « apparve la benignità e l’amore del Salvatore Dio
nostro » (Tt 3,4), nessuno
ignora che subito eruppe una certa forza creatrice di un ordine affatto nuovo
di cose, e s’infiltrò in tutte le vene della società domestica e civile.
Di là nuovi vincoli tra uomo e uomo; nuovi diritti privati e pubblici; nuovi
doveri; nuova direzione alle istituzioni, alle discipline, alle arti; e, ciò
che più importa, gli animi e le cure degli uomini furono volti alla verità
della religione e alla santità dei costumi, e anzi fu comunicata agli uomini
una vita del tutto celeste e divina. A ciò infatti si riferiscono quelle espressioni
così frequenti nelle divine Scritture: « legno di vita, verbo di vita, libro di
vita, corona di vita”, e soprattutto “pane di vita ». – Ma poiché
questa medesima vita, di cui parliamo, ha una evidente somiglianza con la vita
naturale dell’uomo, come l’una si alimenta e vegeta col cibo, così bisogna che
anche l’altra, con cibo suo proprio, si sostenti e si accresca. E qui cade a
proposito il rammentare in qual tempo e in qual modo abbia Gesù Cristo mosso e
indotto gli animi degli uomini a ricevere convenientemente e degnamente il pane
vivo che stava per dare. Perché quando si sparse la fama dì quel prodigio che
egli aveva operato sulla spiaggia di Tiberiade, moltiplicando i pani per
saziare la moltitudine, subito molti accorsero a lui, per vedere se per avventura
potesse a loro toccare un ugual beneficio. E Gesù, colta l’occasione, come
quando, dall’attingere che fece la Samaritana l’acqua del pozzo, prese lo
spunto per mettere in lei la sete dell’acqua « che zampillerà in vita eterna »
(Gv 4,14), così allora sollevò le menti avide delle moltitudini a bramare anche
più avidamente un altro pane « che dura per la vita eterna » (Gv 6, 27). Né già
questo pane, insiste ammonendo Gesù, è quella manna celeste che fu apprestata
ai padri vostri pellegrinanti per il deserto; e neppure è quello che voi stessi
testé avete ricevuto da me con tanta meraviglia; ma io medesimo sono questo
pane: « Io sono il pane di vita » (Gv 6,48). E la stessa cosa va sempre più
insinuando a tutti, ora con gli inviti, ora coi precetti: « Chi mangerà di un
tal pane, vivrà eternamente; e il pane che io darò è la mia carne per la salute
del mondo » (Gv 6,52). Dimostra poi la gravità del precetto asserendo: « In
verità, in verità vi dico: Se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo, e
non berrete il mio sangue, non avrete in voi la vita » (Gv 6,54). – Si corregga
perciò quel dannosissimo errore comune, che fa credere che l’uso
dell’eucaristia si debba lasciare a quelle persone che, libere da impegni e di
animo gretto, amano dedicarsi alla vita devota. Quella cosa, che fra tutte è la
più eccellente e salutare, appartiene a tutti, qualunque sia il loro grado e il
loro ufficio; appartiene a tutti quelli cioè che vogliono (e ognuno deve
volerlo) alimentare in loro la vita della grazia divina, che conduce al conseguimento
della vita beata in Dio. – E Dio volesse che della sempiterna vita rettamente
pensassero e si prendessero cura principalmente coloro, i quali, o per ingegno
o per industria o per autorità, tanto possono nella direzione delle cose
temporali e terrene, Ma invece siamo costretti a vedere e a deplorare che molti
fastosamente spacciano d’aver essi dato al mondo vita nuova e felice, perché lo spingono a correre
ardentemente all’acquisto di tutte le comodità e di tutte le meraviglie.
Ma intanto, ovunque si guardi, si vede la società umana, che, se è lontana da
Dio, invece di godere l’agognata tranquillità, soffre e trepida come chi è
agitato da smaniosa febbre; mentre cerca ansiosamente la prosperità e confida
solo in essa, se la vede sfuggire dinanzi, e corre dietro ad un’ombra che si
dilegua. Perché gli uomini e la società, come necessariamente provengono da
Dio, così in nessun altro possono vivere, muoversi e fare qualche bene, se non
in Dio, per mezzo di Gesù Cristo; dal quale derivò sempre e deriva quanto vi è
di buono e di eletto. Ma la sorgente e il coronamento di tutti questi beni è
soprattutto l’augusta eucaristia, la quale, come nutre e sostenta quella vita,
che tanto ci sta a cuore, così accresce immensamente quella dignità umana, che
oggi sembra tenersi in gran pregio. Qual cosa infatti è maggiore o più
desiderabile che l’essere reso, per quanto è possibile, partecipe e consorte
della divina natura? Or questo ci fa Gesù Cristo specialmente nell’eucaristia,
nella quale, prendendo l’uomo già innalzato dalla grazia alle cose divine, più
strettamente lo unisce e stringe a sé. La differenza tra il cibo del corpo e
quello dell’anima, sta in questo, che il primo in noi si converte, il secondo
ci converte in lui; perciò Agostino fa dire a Cristo medesimo: « Non tu muterai
me in te, come il cibo della tua carne, ma tu stesso sarai mutato in me ». – Il
grande progresso, che gli uomini fanno in ogni virtù soprannaturale, deriva da
questo eccellentissimo Sacramento, nel quale specialmente appare come gli
uomini vengono inseriti nella divina natura. E prima nella fede. In ogni tempo
la fede ebbe avversari perché, sebbene con la cognizione di importantissime
cose elevi le menti umane, tuttavia sembra deprimere le menti umane, perché
nasconde l’intima qualità di quelle cose che mostrò essere di soprannaturale.
Una volta si combatteva ora questo ora quell’articolo di fede; nei tempi
moderni invece la guerra divampò in campo assai più vasto, e siamo ora al punto
che assolutamente nulla si ammette di soprannaturale. Orbene a ristorare negli
animi il vigore e il fervore della fede nulla è più atto che il mistero
eucaristico, detto per eccellenza il “mistero di fede”; come quello
nel quale tutte le cose soprannaturali, con una singolare abbondanza e varietà
di miracoli, sono comprese: « Ha lasciato un ricordo delle sue meraviglie il
Signore clemente e misericordioso; ha dato un cibo a quelli che lo temono »
(Sal CX, 4-5). Perché, se tutto quello che Dio fece di soprannaturale, lo
riferì all’incarnazione del Verbo, in virtù del quale si doveva riparare la
salute del genere umano, secondo quel detto dell’apostolo: « Ha stabilito… di
riunire in Cristo tutte le cose, e quelle che sono nei cieli, e quelle che sono
in terra » (Ef 1, 9-10); l’eucarestia, per testimonianza dei santi padri, deve
considerarsi come una continuazione e un ampliamento dell’incarnazione. Per
essa infatti la sostanza del Verbo incarnato si unisce coi singoli uomini, e si
rinnova mirabilmente il supremo sacrificio del Golgota, come preannunziò
Malachia: « In ogni luogo si sacrifica e si offre al mio nome un’oblazione pura
» (Mal 1,11). Questo miracolo, massimo nel suo genere, è accompagnato da
innumerevoli altri, perché qui tutte le leggi della natura sono sospese; tutta
la sostanza del pane e del vino si converte nel corpo e nel sangue di Cristo,
le specie del pane e del vino, senza appoggio alcuno, sono sostenute dalla
potenza divina; il corpo di Cristo si trova contemporaneamente in tutti quei
luoghi nei quali si compie simultaneamente il sacramento. Affinché poi si
faccia più intenso l’ossequio dell’umana ragione verso così grande mistero,
vengono, come in aiuto, i prodigi fatti a gloria di esso, in antico, e anche a
nostra memoria; dei quali in più luoghi vi sono pubblici e insigni monumenti. In questo Sacramento dunque
vediamo alimentarsi la fede, nutrirsi la mente, sfatarsi le fisime dei
razionalisti, e illustrarsi grandemente l’ordine soprannaturale. – Allo
snervamento della fede nelle cose divine molto contribuisce non solo la
superbia, come abbiamo detto, ma anche la depravazione dell’animo. Perciò, se
avviene ordinariamente che quanto più uno è morigerato, tanto più è sveglio di
mente, e che i piaceri sensuali annebbiano la mente; come riconobbe la stessa
prudenza pagana, e la sapienza divina ci aveva già prima ammoniti (cf. Sap
1,4); assai più ciò si verifica nelle cose divine, perché le voluttà corporali
oscurano il lume della fede, ed anche, per giusto castigo di Dio, totalmente
l’estinguono. Di questi piaceri oggi arde una insaziabile cupidigia, che quasi
morbo contagioso infetta tutti fin dalla più tenera età. Ma un eccellente
rimedio a questo gravissimo male a nostra disposizione sempre nella divina
eucaristia. Perché, prima di tutto, aumentando la carità, raffrena la libidine,
secondo quanto dice Agostino: “II nutrimento di essa (della carità) è lo
smorzamento della passione, e la sua perfezione è il freno della
passione”. Inoltre la carne castissima di Gesù reprime l’insolenza della
nostra carne, come ammonì Cirillo di Alessandria: « Cristo venendo in noi sopisce
la legge che infuria nelle nostre membra ». È anche un singolare e
giocondissimo frutto dell’eucaristia quello che è significato da quel detto
profetico: « Qual è il buono di lui (Cristo), qual è il bello di lui, se non il
frumento degli eletti e il vino che fa germogliare le vergini? » (Zc 9,17),
cioè il forte e costante proposito della sacra verginità, il quale, anche in
mezzo a un mondo che si stempera nella mollezza, di giorno in giorno più
largamente nella chiesa cattolica fiorisce rigoglioso: e con grande vantaggio e
decoro della religione e della stessa convivenza umana, come ognuno può
constatare. – Si aggiunge che con questo sacramento mirabilmente si rinforza la
speranza dei beni immortali e la fiducia nei divini aiuti, Aumenta infatti
sempre più il desiderio della beatitudine, che in tutti gli animi è insito e
innato, constatando la fallacia dei beni terrestri, la ingiusta violenza dei
malvagi, e tutte le altre molestie dell’anima e del corpo. Ora l’augusto
sacramento dell’Eucaristia è causa insieme e pegno della beatitudine e della
gloria, e ciò non solo per l’anima, ma anche per il corpo. Perché nel tempo
stesso che arricchisce gli animi con l’abbondanza dei beni celesti, li sparge
anche di soavissime gioie, che di molto sorpassano ogni umana estimazione e
speranza; sostenta nelle cose avverse, fortifica nella lotta della virtù,
custodisce per la vita sempiterna, e ad essa conduce quasi apprestando il
viatico. Similmente nel corpo caduco e labile ingenera la futura risurrezione,
perché il corpo immortale di Cristo vi inserisce un seme d’immortalità, che un
giorno dovrà germogliare. La chiesa ha sempre insegnato che questi due beni,
uno per l’anima e l’altro per il corpo, provengono dall’eucaristia; lo ha
sempre insegnato in ossequio alla parola di Cristo: « Chi mangia la mia carne e
beve il mio sangue ha la vita eterna; ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno »
(Gv 6,55). – Torna qui opportuno e molto importa il considerare che
l’eucaristia, essendo stata da Cristo istituita quasi “memoriale perenne
della sua passione”, manifesti al cristiano la necessità della penitenza
salutare. Gesù infatti a quei primi suoi sacerdoti disse: « Fate questo in
memoria di me » (Lc. XXII, 19), cioè fate questo per commemorare i dolori, le
amarezze, le angosce mie, la mia morte di croce. Perciò questo sacramento e
insieme sacrificio è per tutti i tempi un’esortazione alla penitenza e ad ogni
maggiore mortificazione, e insieme è una grave e severa condanna di quei
piaceri, che uomini impudentissimi vanno tanto magnificando: « Tutte le volte
che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del
Signore, nell’attesa della sua venuta » (1Cor XI, 26). – Oltre a ciò, se si
cercano le cause dei mali presenti, si troverà Che esse procedono dal fatto
che, raffreddandosi la carità verso Dio, anche la carità fra gli uomini venne a
languire. Si sono essi dimenticati di essere figli di Dio e fratelli in Gesù
Cristo; non curano se non ciascuno le cose proprie; le cose altrui non solo le
trascurano, ma spesso le combattono e invadono. Quindi sorgono, fra le diverse
classi di cittadini, frequenti turbolenze e contese: arroganza, durezza, frodi
nei potenti; miserie, odi, scioperi nei sottomessi. A questi mali si aspetta
invano il rimedio dalla provvidenza delle leggi, dal timore delle pene, dai
consigli dell’umana prudenza. Bisogna procurare, con ogni sforzo, ciò che più
volte Noi stessi abbiamo particolarmente inculcato, che cioè le classi dei
cittadini si concilino tra di loro mediante uno scambio di buone opere che,
derivate da Dio, siano informate al vero spirito e alla carità di Gesù Cristo.
Cristo portò la carità sulla terra, di questa volle infiammata ogni cosa,
perché essa sola potrebbe fin d’ora far gustare qualche saggio della
beatitudine non solo all’anima, ma anche al corpo. La carità infatti reprime
nell’uomo lo smodato amore di se stesso e frena l’avidità delle ricchezze, che
“è la radice di tutti i mali” (1Tm 6,10). Sebbene poi sia giusto che
tra le classi dei cittadini tutte le parti della giustizia siano convenientemente
tutelate; pure, con gli aiuti e moderazioni suggeriti dalla carità, sarà dato
di ottenere che nell’umana società “si faccia quell’uguaglianza”
(2Cor VIII, 14), che raccomandava san Paolo, e che, una volta realizzata, la si
conservi. Ecco ciò che intese Cristo nell’istituire questo augusto sacramento:
eccitando l’amor di Dio, volle fomentare il mutuo amore fra gli uomini. Perché
questo da quello, com’è chiaro, naturalmente deriva e spontaneamente si
effonde: né potrà mai mancare in parte alcuna, anzi sarà necessario che cresca
e divampi, quando si consideri la carità di Cristo verso gli uomini, in questo
sacramento; nel quale, come magnificamente spiegò la sua potenza e sapienza,
cosi « effuse le ricchezze del suo amore divino verso gli uomini ». Dopo questo
insigne esempio di Cristo, che ci dona tutte le cose sue, quanto dobbiamo noi
amarci e soccorrerci a vicenda, ogni giorno sempre più uniti da un legame
fraterno! E si noti come anche i segni esteriori di questo sacramento sono
opportunissimi incitamenti all’unione. A questo proposito san Cipriano dice: « Infine
anche il sacrificio del Signore dichiara l’universale unione dei Cristiani fra
di loro, e, con ferma e inseparabile carità, uniti a lui. Perché quando il
Signore chiama suo corpo il pane, fatto con l’unione di molti grani, significa
che il popolo nostro da lui condotto è un popolo riunito insieme, e quando suo
sangue chiama il vino, che è spremuto da grappoli e acini moltissimi e fuso in
uno, significa similmente che il nostro gregge è composto di una mista
moltitudine raccolta insieme ». Così l’angelico dottore, ripetendo un pensiero
di Agostino,dice: « II Signore nostro ci lasciò rappresentato il
corpo e il sangue suo in quelle cose che da più si raccolgono in uno; perché
l’una di esse, cioè il pane, è un tutto formato da più grani, l’altra, cioè il
vino, è un tutto composto di più acini: perciò Agostino dice altrove; O
sacramento di pietà, o segno di unità, o vincolo di carità! ». Tutte queste
cose si confermano con la sentenza del Concilio Tridentino, che insegna « avere
Cristo lasciato alla Chiesa l’Eucaristia come simbolo di quella unità e carità,
con la quale volle che i cristiani fossero congiunti e uniti fra loro, …
simbolo di quel corpo uno, di cui egli è il capo, e al quale volle che noi,
come membra, fossimo uniti con strettissimo vincolo di fede, di speranza e di
carità ». E questo aveva detto Paolo: “Siccome vi è un unico pane, noi,
pur essendo molti, formiamo un sol corpo, comunicandoci col medesimo pane”
(1Cor X, 17), Ed è davvero un bellissimo e festosissimo spettacolo di cristiana
fratellanza e uguaglianza sociale, l’accorrere che fanno assieme, ai sacri
altari, il patrizio e il popolano, il ricco e il povero, il dotto e
l’ignorante, partecipando ugualmente al medesimo convito celeste. – Che se giustamente
nei fasti della chiesa nascente si attribuisce a lode sua propria che « la
moltitudine dei credenti formava un solo cuore e un’anima sola » (At IV, 32),
certamente appare che questo gran bene essi dovevano alla frequenza della
comunione eucaristica, perché leggiamo di loro; « Erano assidui alla istruzione
degli apostoli, nell’unione, nello spezzare il pane » (At 2,42), – Inoltre la
grazia della mutua carità fra i viventi, che tanta forza e incremento riceve
dal Sacramento eucaristico, in virtù specialmente del sacrificio, si partecipa
a tutti quelli che sono nella Comunione dei Santi. Poiché, come tutti sanno, la
Comunione dei santi non è altro che una scambievole partecipazione di aiuto, di
espiazione, di preghiere, di benefici, tra i fedeli, o trionfanti nella celeste
patria, o penanti nel fuoco del purgatorio. o ancora pellegrinanti in terra,
dai quali risulta una sola città, che ha Cristo per capo, e la carità per
forma, Sappiamo poi dalla fede che, sebbene l’augusto sacrificio solo a Dio
possa offrirsi, si può pure celebrare in onore dei santi che regnano in cielo
con Dio, “che li ha coronati”, al fine di ottenere il loro
patrocinio, e anche, come sappiamo dalla tradizione apostolica, per cancellare
le macchie dei fratelli, che già morti nel Signore, non siano ancora
interamente purificati.
Dunque quella sincera canta, che a salute e vantaggio di tutti, tutto suole
fare e patire, scaturisce e divampa operosa dalla santissima Eucaristia, dov’è
lo stesso Cristo vivente, dove allenta il freno al suo amore per noi, e spinto
da un impeto di carità divina rinnova perpetuamente il suo sacrificio. Così
facilmente appare donde abbiano avuto origine le ardue fatiche degli uomini
apostolici, e donde tanti e sì svariati istituti di beneficenza, insieme con
l’origine, traggono le forze, la costanza e i felici successi. – Queste poche
cose in materia sì ampia non dubitiamo che torneranno utilissime al gregge
cristiano, se per opera vostra, venerabili fratelli, saranno opportunamente
esposte e raccomandate, Ma un Sacramento così grande ed efficace da ogni punto
di vista non si potrà mai da nessuno né lodare, né venerare secondo il merito.
Sia che esso si mediti, sia che devotamente si adori, sia ancora che con
purezza e santamente si riceva, dev’essere considerato quale centro in cui
tutta la vita cristiana si raccoglie: gli altri modi di pietà, quali che siano,
tutti a questo conducono e in questo finiscono. E quel benigno invito e quella
più benigna promessa di Cristo: “Venite a me, voi tutti che siete
affaticati e oppressi, ed io vi ristorerò” (Mt XI, 28), si compie
specialmente in questo mistero e in esso si avvera ogni giorno. – Infine esso è
ancora come l’anima della Chiesa, e ad esso la stessa ampiezza della grazia
sacerdotale si dirige per i vari gradi degli ordini, La Chiesa di là attinge ed
ha tutta la virtù e gloria sua, tutti gli ornamenti dei divini carismi, infine
ogni bene: ed essa perciò pone ogni cura nel preparare e condurre gli animi dei
fedeli ad una intima unione con Cristo mediante il Sacramento del corpo e
sangue suo: e, con l’ornamento di cerimonie santissime, gli accresce la
venerazione. La perpetua provvidenza di santa madre Chiesa, in questa parte,
emerge chiarissima, principalmente da quella esortazione, che fu fatta nel
sacro Concilio di Trento, spirante una certa carità e pietà mirabile, davvero
degna di essere qui da Noi tutta intera ripresentata al popolo cristiano:
“Con paterno affetto, ammonisce il santo sinodo, esorta, prega e
scongiura, per la bontà misericordiosa del nostro Dio, che, tutti e Singoli,
quelli che appartengono alla professione cristiana, in questo segno d’unità, in
questo vincolo di carità, in questo simbolo di concordia finalmente una buona
volta si uniscano e si accordino; e memori di tanta maestà e di tanto esimio
amore di Gesù Cristo Signore nostro, che diede la diletta anima sua a prezzo
della nostra salute, e la sua carne ci porse a mangiare: con tanta costanza e
fermezza di fede, con tanta devozione e pietà e culto, di cuore credano e
adorino questi sacri misteri del corpo e sangue di lui, affinché possano
frequentemente ricevere questo pane soprasostanziale, ed esso sia veramente la
vita dell’anima loro, e la perpetua sanità della mente, e confortati dal suo
vigore, possano giungere, dalla via di questo misero pellegrinaggio, alla
patria celeste, dove mangeranno senza alcun velo questo medesimo Pane degli
angeli, che ora ricevono velatamente”. – La storia poi ci mostra che la vita
cristiana allora fiorì più rigogliosa, quando fu più in uso l’accostarsi spesso
a questo divin sacramento. Invece è manifesto che quando gli uomini avevano
questo pane celeste in noncuranza e come in fastidio, a poco a poco veniva
languendo il vigore della professione cristiana. Il quale affinché un giorno
non si estinguesse del tutto, opportunamente provvide, nel Concilio
Lateranense, Innocenzo III, gravissimamente ordinando che ogni cristiano
dovesse comunicarsi almeno per Pasqua. È chiaro poi che questo precetto fu dato
a malincuore, e come rimedio estremo; perché il desiderio della Chiesa fu
sempre questo, che ad ogni Messa vi fossero alcuni partecipanti a questa divina
mensa. « Bramerebbe il sacrosanto sinodo che, nelle singole Messe, i fedeli
assistenti si comunicassero non solo spiritualmente ma anche col ricevere
sacramentalmente l’Eucaristia, affinché potessero percepire in maggior
abbondanza il frutto di questo santissimo sacrificio ». – Certamente una ricca
abbondanza di salvezza, non solo per i singoli, ma per gli uomini tutti, ha in
sé questo augustissimo mistero, in quanto è sacrificio; perciò dalla Chiesa
suole assiduamente offrirsi “per la salute di tutto il mondo”, del
quale sacrificio è conveniente che tutti i buoni si uniscano per diffondere la
devozione e il culto, anzi questo è, ai giorni nostri, assolutamente
necessario, E perciò vorremmo che le sue molteplici virtù fossero più
largamente conosciute e più attentamente valutate. – Sono princìpi chiari, al
solo lume naturale, che Dio creatore e conservatore ha un supremo e assoluto
dominio sugli uomini, in privato e in pubblico; che quanto siamo e quanto
abbiamo di bene, in privato e in pubblico, tutto ci viene dalla divina bontà; e
che per conseguenza noi dobbiamo somma riverenza a Dio, come Signore, e massima
gratitudine, come munifico benefattore. Ma quanti sono oggi coloro che apprezzano
e osservano come e quanto dovrebbero questi doveri? Più di ogni altra, l’età
nostra riottosa s’inalbera contro Dio, e fa risuonare di nuovo contro Cristo
quella nefanda parola: « Non vogliamo che costui regni su di noi » (Lc. XIX, 14),
e quel nefando proposito: « Facciamolo sparire! » (Ger XI, 19); né altro con
maggior forza molti cercano, se non che Dio venga allontanato dalla società
civile. E, sebbene non si giunga ovunque a tale eccesso di scellerata demenza,
è però cosa lacrimevole vedere quanti vivono affatto dimentichi della divina
Maestà e dei suoi benefìci, e specialmente della salvezza portataci da Gesù
Cristo, Orbene questa sì grande nequizia, o infingardaggine che dir si voglia,
bisogna che sia riparata con un aumento di ardore nella comune pietà del culto
del sacrificio eucaristico, del quale nulla può tornare a Dio più onorevole,
nulla più gradito. Poiché la Vittima che si immola è divina, ne consegue che
tanto di onore all’augusta Trinità per lei si rende, quanto l’immensa dignità
di questa ne esige; offriamo altresì al Padre un dono e per prezzo e per
soavità infinito, quale è il suo Unigenito; e così non solo alla sua benignità
porgiamo grazie, ma veniamo ad offrirle un vero ricambio, – E un altro doppio insigne frutto si può e si
deve ricavare da tanto Sacrificio. Si stringe il cuore al pensare quanta
colluvie di peccati dappertutto dilaga, una volta trascurata, come dicemmo, e
disprezzata l’autorità di Dio. Una gran parte del genere umano sembra proprio volere attirarsi sul
capo l’ira celeste, sebbene i mali stessi che ci premono, ci mostrano
chiaramente che il giusto castigo è già maturato. Bisogna dunque
eccitare i fedeli anche a questo; che piamente gareggino nel placare Dio,
giusto giudice, e nell’implorarne gli opportuni aiuti al mondo pieno di
calamità. Or queste cose, s’intenda bene, si devono ottenere principalmente per
mezzo di questo sacrificio. – Ché il soddisfare abbondantemente alla giustizia
di Dio e l’impetrare largamente i doni della sua clemenza, non può altrimenti
farsi dagli uomini se non in virtù della morte sofferta da Gesù Cristo. Ma
questa stessa virtù, sia d’espiare sia d’impetrare, volle Cristo che tutta
intera restasse nell’Eucaristia, la quale non è una vuota e semplice memoria
della sua morte, ma ne è una vera e mirabile, sebbene incruenta e mistica,
rinnovazione. Per altro, non poco Ci rallegra, e lo palesiamo volentieri, che
in questi ultimi anni si noti nei fedeli un certo risveglio dell’amore e
dell’ossequio verso il Sacramento eucaristico; donde prendiamo augurio e speranza
di tempi e cose migliori, Molte infatti e varie cose di questo genere, come da
principio dicemmo, furono dalla solerte pietà introdotte, specialmente
sodalizi, sia per accrescere lo splendore del culto eucaristico, sia per
l’adorazione perpetua dell’augustissimo sacramento, sia per la riparazione
delle ingiurie e contumelie che gli si fanno. In queste cose però, venerabili
fratelli, non dobbiamo fermarci, né Noi, né voi; perché troppe altre ne restano
da promuovere o da intraprendere, affinché questo divinissimo dono, presso quei
medesimi che adempiono i doveri della Religione cristiana, sia posto in quella
luce e in quell’onore che merita, e un mistero così grande sia venerato il più
degnamente possibile.
Questo perché le Opere già avviate si hanno da condurre sempre più innanzi; le
antiche istituzioni, se in qualche luogo andarono in disuso, si devono
richiamare in vigore, come sono ad esempio i sodalizi eucaristici, le preghiere
delle Quarantore, le solenni processioni, le visite al Santissimo Sacramento
nel tabernacolo, e altre simili pratiche molto salutari; e di più s’ha da
intraprendere tutto quello che la prudenza e la pietà potranno suggerire a
questo proposito. Ma soprattutto bisogna adoperarsi perché rifiorisca, in ogni
parte del mondo cattolico, la frequenza alla mensa eucaristica. Questo ci
dicono i sopra allegati esempi della Chiesa nascente; questo i decreti dei
condii, questo l’autorità dei padri e dei santi di tutti i secoli: perché come
il corpo, così l’anima spesso abbisogna del proprio cibo, or l’alimento più
vitale è fornito appunto dal Sacramento dell’Eucarestia. Perciò bisogna
togliere del tutto certi pregiudizi degli avversari, certi vani timori di
molti, certi pretesti per astenersene: si tratta di cosa della quale
nessun’altra è più vantaggiosa ai fedeli, sia per redimere il tempo dalle
troppe sollecitudini terrene, sia per risvegliare lo spirito cristiano e
costantemente mantenerlo, Ad ottenere questo saranno di grande aiuto le
esortazioni e gli esempi delle classi più ragguardevoli, e soprattutto la
solerzia e l’industria del clero. Poiché i Sacerdoti, ai quali Cristo redentore
affidò l’ufficio di celebrare e dispensare i misteri del corpo e sangue suo,
non possono meglio ripagarlo del sommo onore ricevuto, che col promuovere con
ogni diligenza, la sua eucaristica gloria, e con l’invitare e condurre,
secondando cosi i desideri del suo sacratissimo Cuore, tutte le anime alle
salutari sorgenti di un cosi grande sacramento e sacrificio. – In tale modo
avverrà, ciò che grandemente bramiamo, che gli eccellenti frutti dell’Eucaristia
si percepiscano sempre più abbondanti ogni giorno, mediante il felice aumento
della fede, della speranza, della carità e d’ogni cristiana virtù, Ciò tornerà
pure a vantaggio dello Stato: sempre più si manifesteranno i disegni della
provvidentissima carità del Signore, che un tale mistero stabilì in perpetuo
“per la vita del mondo”.
Con questa speranza, venerabili
fratelli, a pegno dei doni divini e a testimonianza della Nostra carità, a
tutti voi, al vostro clero, e al popolo, impartiamo con grande affetto la
benedizione apostolica.
Roma, presso San Pietro, il
giorno 28 maggio, vigilia della solennità del Corpo di Cristo, dell’anno 1902,
anno XXV del nostro pontificato.
La Nova Impendet
è una lettera enciclica che il Sommo Pontefice Pio XI, scrisse in un momento
tragico per la storia dell’Europa e dell’umanità in generale, per le condizioni
economiche che si erano deteriorate in modo estremo per le note vicende della
cosiddetta crisi economica del ’29. In particolare il Santo Padre ha a cuore le
condizioni di grande difficoltà vissute dai soggetti più deboli della
popolazione, soprattutto i bambini. Il Pontefice deplora tra l’altro la corsa
agli armamenti di Nazioni che vivevano in grandi ristrettezze economiche, ove
non c’erano soldi per il pane, ma ce n’erano in abbondanza quando si trattava
di acquistare o produrre armi ed ordigni da guerra « … e quindi non
ultimo coefficiente della straordinaria crisi presente è senza dubbio la corsa
sfrenata agli armamenti, … ». Passa poi alle esortazioni ad agire per i suoi
Vescovi e per i Cristiani animandoli ad una carità ardente. Arriva poi il
decisivo invito alla preghiera ed all’azione spirituale « … ma poiché tutti gli
sforzi umani non bastano all’intento senza l’aiuto divino, innalziamo tutti
fervide preci al Datore di ogni bene perché nella Sua infinita misericordia
abbrevi il periodo della tribolazione, e anche a nome dei fratelli che soffrono
ripetiamo più che mai intensa la preghiera che Gesù stesso Ci ha insegnato: Dacci
oggi il nostro pane quotidiano ».
Oggi che viviamo per altri versi condizioni di vita ancor più drammatiche con
imposizioni restrittive di ogni libertà, seppure la più elementare, e
sicuramente prodromiche a crisi economiche di analoga o forse maggior portata,
le parole del Pontefice, Papa Ratti, quasi un secolo dopo, sono più che mai
attuali e da rimeditare con attenzione visto che le Autorità spirituali legittime
sono impedite nelle loro funzioni usurpate da una accozzaglia di loschi falsi
prelati, marrani, apostati e sodomiti, diretti emissari dell’anticristo e dei
poteri infernali che hanno oggi assunto il controllo di tutte le attività
umane, imponendo la “corona” luciferina a dominio delle genti sottomesse con il
terrore, la violenza mediatica e militare. È vero che tutto questo, per i veri
Cattolici è un periodo di grazia immensa nell’acquisizione di meriti per l’eterna
gloria: per la pazienza, l’ubbidienza a personaggi ignoranti, protervi, animati
da una volontà a compiere il male per il solo gusto del male, la preghiera più
intensa e la meditazione dottrinale e spirituale, ma ancora una volta, quello che
più fa male è vedere la sofferenza di tante creature inermi, soprattutto i bambini,
sacrificati al moloch dei satanisti di stato, dei media, dei poteri finanziari
occulti (ma non troppo) avidi e senza scrupoli … ma prima o poi moriranno anch’essi,
senza portare con sé un solo centesimo di quanto rubato, nessun trofeo
onorifico, nessun oggetto d’oro o tecnologico o da guerra e … si troveranno come
Giudice inflessibile quel Cristo che essi hanno combattuto, offeso, vilipeso,
schernito, perseguitato nei suoi fedeli … e là sarà pianto e stridor di denti
nei secoli dei secoli, senza potersi rifugiare in logge, contrologge, conventicole,
presso amici potenti, nei palazzi del potere politico o nei templi usurpati ai
Cristiani.
NOVA IMPENDET
LETTERA
ENCICLICA
DEL SOMMO
PONTEFICE PIO XI AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA, SULLA CRISI ECONOMICA DEL 1929
Venerabili Fratelli, salute e Apostolica
Benedizione.
Un nuovo flagello minaccia e in gran
parte già colpisce il gregge a Noi affidato, e più duramente la porzione più
tenera e più affettuosamente amata, cioè l’infanzia, gli umili, i lavoratori
meno abbienti e i proletari. Parliamo della grave angustia e della crisi
finanziaria che incombe sui popoli e porta in tutti i paesi ad un continuo e
pauroso incremento della disoccupazione. Vediamo infatti costretti alla inerzia
e poi ridotti all’indigenza anche estrema, con le loro famiglie, tanta
moltitudine di onesti e volenterosi operai, di null’altro più desiderosi che di
guadagnare onoratamente col sudore della fronte, giusta il mandato divino, il
pane quotidiano che invocano ogni giorno dal Signore. I loro gemiti commuovono
il Nostro cuore paterno e Ci fanno ripetere, con la medesima tenerezza di
commiserazione, la parola uscita già dal Cuore amatissimo del Divino Maestro
sopra la folla languente di fame: «Ho compassione di questa folla »[1]. Ma più appassionata si rivolge
la Nostra commiserazione alla immensa moltitudine di bambini, le vittime
più innocenti di queste tristissime condizioni di cose; implorano pane, « ma
non c’era chi ne desse loro »[2], e nello
squallore della miseria sono condannati a vedere sfiorire quella gioia e quel
sorriso che la loro anima ingenua cerca inconsciamente intorno a sé. – Ed ora si avvicina l’inverno, e con esso
tutto il seguito delle sofferenze e privazioni che la gelida stagione porta ai
poveri ed alla tenera infanzia specialmente, per cui è da temersi che venga
aggravandosi la piaga della disoccupazione che sopra abbiamo deprecato; in modo
che non provvedendosi alla indigenza di tante misere famiglie e dei loro bimbi
abbandonati, esse siano — che Dio non voglia! — sospinte all’esasperazione. – A
tutto ciò pensa con trepidazione il Nostro cuore di Padre, e pertanto come già
fecero in simili occasioni i Nostri predecessori ed ancora ultimamente il
Nostro immediato Predecessore Benedetto XV di s.m., alziamo la nostra voce e
indirizziamo il Nostro appello a quanti hanno sensi di fede e di amore
cristiano: l‘appello quasi
ad una crociata di carità e di soccorso. La quale, mentre provvederà a
sfamare i corpi, darà insieme conforto ed aiuto alle anime; farà in esse rinascere
la serena fiducia, allontanandone quei tristi pensieri che la miseria suole
infondere negli animi. Spegnerà le fiamme degli odi e delle passioni che
dividono, per suscitarvi e mantenervi quelle dell’amore e della concordia, e il
più stretto e più nobile vincolo della pace e prosperità individuale e sociale.
– È dunque una crociata di pietà e di
amore e senza dubbio anche di sacrificio quella a cui tutti richiamiamo, quali
figli di uno stesso Padre, membri di una medesima grande famiglia che è la
famiglia stessa di Dio, tutti partecipi quindi, come i fratelli di una stessa
famiglia, sia della prosperità e della gioia, come dell’avversità e del dolore
che colpiscono i nostri fratelli. A
questa crociata richiamiamo tutti come ad un sacro dovere inerente a quel
precetto tutto proprio della legge evangelica e da Gesù proclamato come
precetto suo massimo e primo fra tutti i precetti, anzi compendio e sintesi di
tutti gli altri, il precetto della carità che tanto inculcò a simile proposito
e ripetutamente, quasi tessera del suo pontificato in quei giorni di odi e di
guerra implacabili il Nostro carissimo Predecessore. Ora Noi additiamo questo soavissimo precetto,
non solo come dovere supremo e comprensivo di tutta la legge cristiana, ma
altresì quale atto e sublime ideale, proposto in modo più speciale alle anime
più generose e più aperte ai sensi della gentilezza e della perfezione
evangelica. Né crediamo dovervi
insistere con molte parole, tanto appare evidente che questa sola generosità di
cuori, questo solo fervore di anime cristiane col loro impeto santo di
dedizione e di sacrificio per la salvezza dei fratelli e segnatamente dei più
compassionevoli e bisognosi, com’è lo stuolo innocente dei bambini, riusciranno
a superare, nello sforzo della concordia unanime, le più gravi difficoltà
dell’ora presente. E poiché da una parte effetto della rivalità dei popoli,
dall’altra causa di enormi dispendi, sottratti alla pubblica agiatezza, e
quindi non ultimo coefficiente della straordinaria crisi presente è senza dubbio
la corsa sfrenata agli armamenti, non possiamo astenerCi dal rinnovare la
provvida ammonizione Nostra [3] e dello stesso
Nostro Predecessore, dolenti che non sia stata finora ascoltata ed esortiamo
insieme Voi tutti, Venerabili Fratelli, perché con tutti i mezzi a vostra
disposizione di predicazione e di stampa vi adoperiate a illuminare le menti e
ad aprire i cuori secondo i più sicuri dettami della retta ragione, e molto più
ancora della legge cristiana. – Ci
arride la speranza che ciascuno di Voi possa essere il punto di riferimento
della carità e della generosità dei propri fedeli, ed insieme il centro delle
distribuzioni dei soccorsi da loro offerti. Se in qualche diocesi si trovasse
più opportuno, non vediamo difficoltà che facciate capo ai rispettivi
Metropoliti oppure a qualche Istituzione caritativa di provata efficienza e di
vostra fiducia. – Già vi abbiamo
esortato ad usare tutti i mezzi per voi disponibili, la preghiera, la
predicazione, la stampa, ma vogliamo essere i primi a rivolgerCi anche ai
vostri fedeli, per pregarli « in visceribus Christi », a rispondere con
generosa carità al vostro appello, fin d’ora facendo tutto quello che voi
verrete mettendo nei cuori, dopo averli portati a conoscenza di questa Nostra
lettera enciclica. – Ma poiché tutti gli sforzi umani
non bastano all’intento senza l’aiuto divino, innalziamo tutti fervide preci al
Datore di ogni bene perché nella Sua infinita misericordia abbrevi il periodo
della tribolazione, e anche a nome dei fratelli che soffrono ripetiamo più che
mai intensa la preghiera che Gesù stesso Ci ha insegnato: «Dacci oggi il
nostro pane quotidiano ». – Ricordino
tutti, a loro incitamento e conforto, che il Redentore riterrà come fatto a se
stesso quel che noi avremo fatto per i suoi poveri, e che, secondo un’altra sua
consolante parola, aver cura dei bambini per amor suo è come aver cura della sua
stessa persona. – La festa infine che
oggi la Chiesa celebra Ci fa ricordare, quasi a conclusione delle Nostre esortazioni,
le commoventi parole di Gesù che dopo aver, secondo la frase di San Giovanni
Crisostomo, innalzato mura inespugnabili a tutela delle anime dei bambini,
soggiungeva: «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli poiché
vi dico che i loro Angeli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli
» . – E saranno questi Angeli che nel
Cielo presenteranno al Signore gli atti di carità compiuti da cuori generosi
verso i bambini, ed essi pure otterranno, a tutti coloro che avranno preso a
cuore una causa così santa, le più copiose benedizioni. – Inoltre, avvicinandosi ormai l’annuale festa
di Gesù Cristo Re, il cui regno e la cui pace abbiamo auspicato fin dagli inizi
del Nostro Pontificato, Ci sembra grandemente opportuno che in preparazione di
essa si tengano nelle varie chiese parrocchiali solenni tridui per implorare da
Dio pensieri di pace e i suoi doni. In auspicio dei quali impartiamo a voi,
Venerabili Fratelli, e a tutti coloro che corrisponderanno al Nostro paterno
appello l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma,
presso San Pietro, il 2 ottobre, festa dei Santi Angeli Custodi, dell’anno
1931, decimo del Nostro Pontificato.
Anche in questo breve del 1841, S. S. Gregorio XVI ribadisce la Dottrina Cattolica circa i matrimoni misti tra coniugi Cattolici ed acattolici – che venivano celebrati all’epoca nelle terre in cui convivevano l’eresia ed il Cattolicesimo – unioni nelle quali a ragione si ravvisano pericoli spiritualmente mortali per il coniuge cattolico e per la futura prole. Nel mondo scristianizzato odierno, il problema non si pone, visto che una falsa chiesa dell’uomo – che si spaccia come cattolica – permette tranquillamente matrimoni (o meglio delle unioni religiosamente illegittime) non solo tra Cattolici (i pochissimi rimasti almeno di desiderio) ed eretici acattolici (la maggioranza di novusordisti, protestanti o scismatici vari), ma pure tra cattolici ed aderenti alle religioni del demonio, maomettani, buddisti, scintoisti, induisti, perfino animisti. Queste ovviamente sono perversioni sataniche condannate infallibilmente in tutti tempi dalla Chiesa Cattolica, tranne casi in cui la Sede Apostolica ravvisava gli estremi per ottenere, sia pure a malincuore, la dispensa canonica. Nella assoluta confusione attuale, si parla anche di matrimoni tra “risposati” un neologismo blasfemo mai udito nella Chiesa e nella bimillenaria dottrina ecclesiastica, con una strizzatina d’occhio pure ad unioni omosessuali, in contraddizione palese con definizioni dottrinali e dogmatiche irreformabili e di eterna validità. Qui è chiaro che c’è il “dito di satana”, all’opposto del “dito di Dio” di cui ebbero sentore i maghi egiziani al cospetto delle piaghe mediate da Mosè. Ma oramai i tempi dell’Apocalisse sono maturi, tutto appare chiaro ed ineluttabile, per cui al pusillus grex cattolico, non resta che resistere impavido – senza nulla temere se non la morte dell’anima e le suggestioni infernali della “bestia” – nel conservare la fede fino all’ultimo respiro, o fino alla venuta del Cristo Giudice che con il soffio della sua bocca giungerà improvviso ed inatteso a bruciare l’anticristo con i suoi adepti oggi insediati abusivamente e sacrilegamente nel sacri palazzi da essi vergognosamente imbrattati con eresie, scismi, innominabili passioni, pratiche esoteriche. Che la Vergine Madre di Dio, schiacci quanto prima il capo del serpente infernale, e ci liberi dagli ipocriti apostati intenti a sprofondare anime nell’inferno.
S. S. Gregorio
XVI
Quas vestro
30 aprile 1841
Le devotissime lettere che, a nome vostro e dei Vescovi di codesto Regno, Ci avete fatto pervenire tramite il Venerabile Fratello Vescovo canadese Giuseppe, pervase di sentimenti di sincera devozione, sono state per Noi motivo di gioia e di tristezza ad un tempo. A buon diritto perché, dovendo salvaguardare con ogni cura, in forza del Nostro dovere apostolico, l’integrità della sacra dottrina e del diritto, non possiamo tollerare il sopraggiungere di qualsiasi cosa che possa metterla in pericolo. È perfettamente noto il pensiero della Chiesa circa i matrimoni fra cattolici ed acattolici. Essa considerò sempre illecite e deleterie tali nozze, sia per la degradante comunione nelle cose divine, sia per l’incombente pericolo di perversione del coniuge cattolico e la scorretta educazione della prole. Trattano proprio di questo problema le più antiche disposizioni canoniche che le riprovano con tutta severità, nonché le più recenti norme adottate dai Sommi Pontefici, di cui non sembra necessaria una lunga e particolareggiata elencazione, essendo più che sufficiente ciò che precisò al riguardo il Nostro predecessore Benedetto XIV, di felice memoria, nella lettera enciclica indirizzata ai Vescovi di Polonia e ciò che si trova nel famosissimo scritto noto con il titolo De Synodo Dioecesana. – Se in qualche luogo, per le gravi difficoltà del momento e per la pesante situazione sociale, siffatti matrimoni vengono tollerati, ciò deve essere ricondotto ad una prassi di profonda ed accorta valutazione che non può in alcun modo essere presa come indizio di approvazione e di consenso, ma di semplice tolleranza, che scaturisce non da un atto di volontà ma dalla necessità di evitare mali maggiori, come sapientemente annotò Pio VII, di venerata memoria, nella lettera inviata il 9 ottobre 1803 all’Arcivescovo di Magonza, riproponendo le risposte del proprio predecessore indirizzate ai Vescovi di Bratislava, di Roznava e di Spisskà Belà. – Se, allentando in qualche modo la severità delle disposizioni canoniche, questa Sede Apostolica permise qualche volta siffatti matrimoni misti, lo fece assai a malincuore, in forza delle summenzionate considerazioni e per gravi e seri motivi, ma sempre con l’espressa ingiunzione di definire le debite precauzioni, non solo per evitare che il coniuge cattolico potesse essere fuorviato da quello acattolico, ma anche perché tenesse sempre presente l’obbligo, nei limiti del possibile, di far recedere la comparte dall’errore e si provvedesse inoltre ad educare nella santa Religione cattolica i figli di entrambi i sessi eventualmente procreati. – Si tratta di precauzioni che fondano la loro ragion d’essere nella stessa legge divina e naturale: certamente pecca contro di essa chiunque espone temerariamente se stesso e i futuri figli al pericolo della perversione. – Dalle vostre predette lettere abbiamo avuto la certezza di un abuso assai diffuso nelle diocesi di codesto Regno: matrimoni fra cattolici e acattolici senza la dovuta dispensa della Chiesa e senza le necessarie precauzioni vengono legittimati con la benedizione e con i riti sacri dai parroci cattolici. – Potete ben comprendere, Venerabili Fratelli, come non potessimo non essere gravemente colpiti da tutto questo, soprattutto perché ci siamo resi conto di quanto ampiamente abbia preso piede la pratica di tali matrimoni misti, e come si sia inoltre profondamente radicata l’indifferenza verso i contenuti della Religione in vastissime regioni di un Regno che era per l’addietro un vero vanto della Fede cattolica. – Non è Nostra intenzione sorvolare sul fatto che, in forza del Nostro santissimo compito, non avremmo tralasciato di prendere le opportune misure se fossimo stati da tempo a conoscenza della situazione. – Potete facilmente intuire il motivo del Nostro silenzio: negli ultimi tempi non è stata concessa alcuna dispensa apostolica per matrimoni misti da celebrare presso di voi se non con l’ingiunzione delle prescritte precauzioni e l’aggiunta delle norme che, per disposizione di questa Santa Sede, si debbono osservare. – Tuttavia, tra le notizie riportate, Ci è stato di non poca consolazione il fatto che, mentre venivamo edotti del male incombente, apprendevamo anche che da parte vostra e dei vostri colleghi venivano messe in atto le strategie per porvi rimedio. – Ancor più sovrabbondò di gioia il Nostro cuore constatando con quanto zelo operate in comune per salvaguardare l’integrità della fede, con quale unanime, deferente ossequio vi rivolgete a questa Sede Apostolica, maestra autorevole di verità, sempre attenti al suo cenno per orientare il vostro impegno pastorale. – Dopo aver conosciuto le Nostre disposizioni emanate in materia per altri paesi, non appena avete appurato che la prassi invalsa nei vostri territori era in aperto contrasto con i principi e le indicazioni della Chiesa, e pertanto non poteva più a lungo essere tollerata senza gravi conseguenze, non avete minimamente dubitato, in unità di intenti e di azione, che si dovesse eliminarla e, come era logico, a non demordere, pronti anche ad affrontare con fermezza eventuali gravi pericoli per garantire la salvezza eterna vostra e del gregge a voi affidato. – A rendere piena la Nostra gioia sopravvennero i copiosi frutti che scaturirono dalle vostre solerti iniziative. – Sappiamo bene infatti come i parroci, e l’altro clero, abbiano obbedito alle vostre ammonizioni e alle vostre istruzioni in proposito, tanto che – rimossa in lungo e in largo l’illegittima consuetudine – è stata ripristinata l’antica disciplina dei sacri canoni. – Esprimiamo dunque a voi, Venerabili Fratelli, la Nostra viva soddisfazione, e mentre ringraziamo Dio che vi ha rafforzato dall’alto per la tutela della fede e della dottrina, non smettiamo di esortarvi e di stimolarvi vigorosamente perché con pari decisione e costanza vi sforziate di difendere la causa della Chiesa cattolica affinché non abbia più a risorgere la malvagia consuetudine: se ancora ne persistesse qualche vestigia, ne possa essere totalmente sradicato il germe. – Nel frattempo non abbiamo potuto non soppesare con oculata attenzione tutte le cose che vi premuravate di riferirci nelle vostre lettere documentando le gravissime difficoltà contingenti che vi hanno indotti, e quasi costretti, a optare per la tolleranza qualora un cattolico o una cattolica, nonostante gli ammonimenti e le debite esortazioni dei sacri pastori, persistesse nel proposito di contrarre nozze miste in assenza delle necessarie precauzioni. – In questa situazione, non potendo altrimenti ovviare a un male maggiore per la Religione cattolica, avete deciso che i parroci potessero assistere alle nozze passivamente, senza intervenire in alcun modo nel rito religioso e senza assumere atteggiamenti che potessero essere intesi come approvazione. – Mentre rendevate operativi questi provvedimenti, con l’intento di far fronte con assennatezza al problema del momento, avevate già deciso di sottoporre al più presto a Noi un simile arduo dilemma, per ottenere in proposito il Nostro assenso, che presumevate di potere in qualche modo avere in presenza delle pressanti necessità. – Per la verità Noi, pur operando con estrema decisione al fine di mantenere integri i sacrosanti principii della Chiesa cattolica, non abbiamo mai smesso, in forza del potere a Noi conferito, di portare rimedio alle funeste situazioni di codeste regioni e alle angustie a voi sopravvenute. – Pertanto, non disapproviamo le ragioni della vostra decisione, e riteniamo che si debba accondiscendere alla vostra richiesta. – Decidiamo ciò in piena sintonia con quanto Noi stessi, sull’esempio dei Nostri predecessori, abbiamo per l’addietro permesso a fatica a favore di altre regioni. – Allo stesso modo si era espresso a più riprese Pio VI, di venerata memoria, nei confronti di qualche diocesi dello stesso Regno di Ungheria. – Infatti nella risposta che già nel 1782, mentre dimorava a Vienna, e poi nell’anno successivo, dopo il suo ritorno a Roma, inoltrò al vescovo di Spisskà Belà (e la stessa risposta ordinò fosse inviata al successore di questi nel 1795), così palesò il proprio pensiero a proposito dei matrimoni misti in quelle particolari circostanze: “Pur in presenza di precise disposizioni al riguardo, è necessario che il vescovo e i parroci si adoperino con prudente sollecitudine perché simili matrimoni non abbiano luogo e, nel caso vengano celebrati, pretendano che tutti i figli siano educati nella Religione cattolica. – Tuttavia ogni qualvolta si verifichi, contro la loro volontà, ciò che non può essere approvato, si astengano sempre dalla benedizione nuziale e la loro presenza, se lo richiedono le circostanze, sia puramente fisica e non si permettano atti o dichiarazioni che autorizzino o approvino che la prole possa essere educata in un’altra religione che non sia quella cattolica”. – Se dunque, Venerabili Fratelli, per particolari circostanze locali e situazioni personali si verifichi nelle diocesi di codesto Regno l’eventualità di un matrimonio fra un acattolico e una donna cattolica, o viceversa, anche in assenza delle prescritte precauzioni della Chiesa e non sia possibile in alcun modo evitare altrimenti il danno per la Religione senza il pericolo di un danno maggiore e di uno scandalo e nello stesso tempo ( per usare le parole del Nostro predecessore Pio VII di venerata memoria nella succitata lettera al vescovo di Magonza) si arguisca di poter contribuire al bene della Chiesa, simili nozze, pur vietate ed illecite, siano celebrate in presenza di un parroco cattolico piuttosto che di un ministro eretico a cui facilmente potrebbero rivolgersi. – In questo caso il parroco cattolico, o un altro sacerdote da lui delegato, potrà assistere al matrimonio con una presenza assolutamente passiva, con l’esclusione di qualsivoglia rito religioso, come se assolvesse al compito di semplice testimone, per così dire, qualificato o autorizzato che, dopo aver raccolto il consenso di ambedue i coniugi, avrà la possibilità, in forza del suo ufficio, di riportare nel libro dei matrimoni la validità dell’atto compiuto. – In queste circostanze, come specificamente raccomandava lo stesso Nostro predecessore, i vescovi e i parroci devono, con ancora maggiori cura e preoccupazione, provvedere che sia rimosso il pericolo di perversione per il coniuge cattolico; che si provveda nel migliore dei modi all’educazione dei figli di entrambi i sessi nella Religione cattolica e che il coniuge di fede cattolica, secondo l’obbligo che gli incombe, s’impegni con le proprie forze alla conversione del coniuge acattolico: ciò gli sarà assai utile per ottenere più facilmente da Dio il perdono dei peccati commessi. – Intimamente addolorati che si debbano introdurre simili criteri di tolleranza in un Regno che si segnalava per la professione della Religione cattolica, confessiamo con tutta sincerità di fronte a Dio di esservi stati indotti, o meglio trascinati, unicamente per evitare il sopraggiungere di più gravi danni per la Chiesa cattolica. – Con tutto il cuore esortiamo dunque voi, Venerabili Fratelli, e tutti i vostri colleghi, per l’immenso amore di Gesù Cristo che immeritatamente rappresentiamo sulla terra, a mettere in atto, dopo aver implorato la luce dello Spirito Santo, ciò che in un affare di così grande rilievo può validamente rispondere allo scopo. – Cercate anche di perseguire unanimemente l’obiettivo prefisso, perché a tale tolleranza nei confronti delle persone che si accingono a contrarre illecitamente matrimoni misti non tenga dietro, nel popolo cattolico, l’affievolimento del rispetto dei canoni che condannano tali nozze e della incessante cura con la quale la Santa Madre Chiesa si preoccupa di dissuadere i suoi figli dal contrarre tali matrimoni che recano danno alle loro anime. – Sarà dunque compito vostro, degli altri Vescovi solidali con voi e dei parroci, di ammaestrare i fedeli sia privatamente, sia in pubblico, e ricordare l’insegnamento e le disposizioni che riguardano questi matrimoni e pretenderne la scrupolosa osservanza. – Non mancherete certo di provvedere a tutto ciò in forza della vostra provata devozione, della fede e del rispettoso ossequio verso questa Cattedra del Beato Pietro, e Noi, con grande affetto impartiamo a voi e a tutti i vostri colleghi l’Apostolica Benedizione, propiziatrice dell’aiuto celeste e testimonianza del Nostro amore: Benedizione che ciascuno estenderà al proprio gregge.
Dato a Roma, presso San Pietro, sotto
l’anello del Pescatore, il 30 aprile 1841, undicesimo anno del Nostro
Pontificato.