QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
« …Nel mondo sarete angustiati; ma abbiate fiducia: io ho vinto il mondo” (Gv XVI, 33); Beati coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia (Mt V,10), siamo preparati a seguire le illustri vestigia dei Nostri Predecessori, ad emularne gli esempi, e a patire ogni cosa sopra ed acerba, ed anche a dare la vita, anziché disertare in alcun modo la causa di Dio, della Chiesa e della giustizia. » Questo è ancora il motto che deve animare un “vero” Cattolico a resistere all’azione delle forze del male che si abbattono costantemente sulla Chiesa Cattolica, come del resto nel santo Vangelo è ampiamente preannunziato citando le feroci persecuzioni che i “congregati delle nazioni” scateneranno sulla Chiesa, sui credenti laici e chierici, sulle società e popoli cristiani. Qui il Santo Pontefice rivendica per sé e su tutti Cattolici del mondo i diritti della Santa Sede a cui veniva “consigliato” da un Imperatore francese di cedere i territori ribelli, ubbidendo ai “suggerimenti” delle logge massoniche che lo sostenevano nel suo dominio, prima poi di rovesciarlo rovinosamente sostituendo il suo traballante impero con una repubblica chiaramente di ideologia massonica che tuttora angaria quel popolo un tempo cristiano. La persecuzione è continuata in maniera subdola, fino alle vicende attuali, in cui è divenuta la più terribile di ogni tempo, molto più delle celebri dieci della Chiesa nascente. Molti penseranno che la persecuzione non ci sia ancora ma … ciechi che non comprendono che le persecuzioni materiali, fanno soffrire, e possono perfino uccidere il corpo, procurando nel contempo un merito straordinario al martire consapevole di affrontare anche la morte nell’attesa della eterna beatitudine. Come molti dottori della Chiesa hanno sapientemente rilevato, alle dieci persecuzioni degli imperatori romani, sono susseguite le persecuzioni ben più insidiose per l’anima: quelle delle eresie succedutesi dal IV secolo in poi … arianesimo, ebionismo, monofisismo, monotelismo, pelagianesimo, semipelagianesimo, macedonianesimo …. luteranesimo, e diverse altre fino al giansenismo, all’americanismo, al fineysmo … in successione e tutte in condizione di uccidere, come hanno fatto, un’infinità di anime. Ma, oggi che viviamo il modernismo anticristiano della sinagoga del demonio infiltrata nei palazzi vaticani, e che come sapientemente affermava il Santo Pontefice Pio X, è la somma di tutte le eresie, noi abbiamo la persecuzione contemporanea e concentrata di tutte le eresie, persecuzione più dannosa che mai, perché non percepita come tale dalla quasi pressoché maggioranza degli esseri umani che, pertanto, andando incontro alla morte certa dell’anima – pur restando il corpo indenne da lesioni – è votata all’eterna dannazione. È questa veramente la persecuzione di gran lunga la peggiore – anche senza aspettare il marchio della bestia ed il tatuaggio-chip sottopelle – perché occulta, inconsapevole e che dà la morte elargendo apparentemente salvezza, come la morte di un malato che, credendo oltretutto di assumere un rimedio salutare alla sua malattia, ingerisce un veleno dolce, ma mortale, e qual morte …. quella eterna dell’anima! Ancora una volta le profezie bibliche sono state esatte fino all’ultima virgola, trattino, apex… Almeno noi del pusillus grex cerchiamo di farci trovare nell’osservanza operosa della fede quando il Signore Gesù nostro Giudice verrà a giudicarci per poter essere incoronati, dopo le feroci persecuzioni, dalla eterna gloria.
Pio IX Nullis certe
Noi non possiamo certamente spiegarvi a parole, Venerabili Fratelli, quanto gaudio e quanta letizia, fra le Nostre gravissime amarezze, Ci abbiano recato sia da parte di Voi tutti, sia dei Fedeli affidati alle vostre cure, la singolare e meravigliosa fede, la pietà e l’osservanza verso Noi e questa Sede Apostolica, e l’egregio consenso, l’alacrità, il fervore e la costanza nel difendere i diritti della medesima Sede e nel patrocinare la causa della giustizia. Infatti, allorché prima della Nostra Lettera Enciclica a Voi spedita il 18 giugno dell’anno scorso, e poi dalle Nostre due Allocuzioni concistoriali, con sommo dolore del vostro animo conosceste i gravissimi mali da cui erano miseramente colpite le cose sacre e civili in Italia. Voi comprendeste gli iniqui e temerari moti di ribellione contro i legittimi Principi della stessa Italia, e contro il sacro e legittimo Principato Nostro e di questa Santa Sede; Voi, secondando tosto i Nostri voti e le Nostre cure, non frapponendo alcun indugio, vi affrettaste con ogni zelo ad ordinare nelle vostre diocesi pubbliche preghiere. Quindi non solo con le vostre lettere, piene di profondo ossequio e carità a Noi inviate, ma anche con le lettere pastorali e con altri scritti dotti e religiosi, diffusi nel popolo, alzaste l’episcopale vostra voce – con lode insigne del vostro Ordine e del vostro nome – a propugnare strenuamente la causa della santissima nostra Religione e della giustizia, e a condannare con ogni vigore i sacrileghi attentati commessi contro il civile Principato della Chiesa Romana. Difendendo costantemente questo Principato, vi siete compiaciuti di professare e di insegnare che esso fu dato al Romano Pontefice per singolare disegno di quella divina Provvidenza che regge e governa ogni cosa, affinché Egli, per il fatto di non essere mai soggetto a nessun potere civile, possa esercitare sopra tutto il mondo, con pienissima libertà e senza alcun impedimento, il supremo ufficio del ministero apostolico a Lui divinamente affidato dallo stesso Nostro Signore Gesù Cristo. – Ammaestrati dalle vostre istruzioni e trascinati dal vostro egregio esempio, i figliuoli a Noi carissimi della Chiesa Cattolica con sommo impegno gareggiarono e gareggiano per esprimerci da parte loro i medesimi sentimenti. Infatti da tutte le regioni dell’intero orbe cattolico ricevemmo innumerevoli lettere, sia di ecclesiastici, sia di laici, d’ogni dignità, ordine, grado e condizione, e perfino lettere sottoscritte da centinaia di migliaia di Cattolici, con le quali essi manifestano e confermano la loro venerazione e devozione filiale verso di Noi, e verso la Cattedra di Pietro; detestando fortemente la ribellione e gli attentati commessi in alcune Nostre province, sostengono che il patrimonio del beato Pietro debba assolutamente conservarsi integro ed inviolato, e si debba difenderlo da ogni offesa; ciò non pochi, tra loro, dimostrarono con dottrina e sapienza in libri appositamente dati alla luce. Ora, queste preclare manifestazioni sia Vostre, sia dei Fedeli, meritevoli certamente di ogni lode ed encomio, e degne di venire iscritte nei fasti della Chiesa Cattolica a caratteri d’oro, Ci commossero talmente che non Ci potemmo astenere dall’esclamare lietamente: “Benedetto sia Dio e il Padre del Signor nostro Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione, che così ci consola in sì travaglio“. Perciò in mezzo alle gravissime angustie dalle quali veniamo oppressi, nulla poteva riuscirci più gradito, nulla più giocondo, nulla più desiderato, che il vedere di quale concorde ed ammirabile premura Voi tutti, Venerabili Fratelli, siete animati ed accesi per difendere i diritti di questa Santa Sede, e con quale egregia volontà i Fedeli affidati alle vostre cure in ciò vi secondano. Quindi, Voi assai agevolmente potete pensare quanto la paterna Nostra benevolenza verso Voi e verso gli stessi Cattolici si accresca ogni giorno a buon diritto e meritatamente. – Ma, mentre il Nostro dolore veniva alleggerito da un così stupendo impegno ed amore sia Vostro, sia dei Fedeli verso Noi e questa Santa Sede, una nuova cagione di tristezza Ci venne da altra parte. Perciò Noi vi scriviamo questa Lettera, affinché in cosa di tanta importanza siano noti soprattutto a Voi i sentimenti del Nostro animo. Non molto tempo fa, come la maggior parte di Voi già conoscerà, venne dal giornale di Parigi, intitolato Moniteur, divulgata una lettera dell’Imperatore dei Francesi, con la quale egli rispondeva a una Nostra epistola, in cui con ogni calore pregavamo la Maestà sua imperiale a volere, col validissimo suo patrocinio nel Congresso di Parigi, mantenere integro ed inviolabile il dominio temporale Nostro e di questa Santa Sede, e rivendicarlo dalla iniqua ribellione. Ora, nell’anzidetta sua risposta quel supremo Imperatore, ricordando un certo suo consiglio propostoci poco tempo innanzi intorno alle province ribelli del Nostro dominio pontificio, Ci esorta a volere rinunziare al possedimento di quelle province, ritenendo che solo così possa ora rimediarsi al presente turbamento delle cose. – Ciascuno di Voi, Venerabili Fratelli, intende benissimo che Noi, memori del gravissimo Nostro dovere, non abbiamo potuto tacere dopo aver ricevuto una tale lettera. Perciò, senza frapporre indugio, Ci affrettammo a rispondere allo stesso Imperatore dichiarando limpidamente e apertamente, con apostolica libertà dell’animo Nostro, che in nessun modo affatto Noi potevamo annuire al suo consiglio, “perché esso presenta insuperabili difficoltà, tenuto conto della dignità Nostra e di questa Santa Sede e del Nostro Sacro carattere e dei diritti della stessa Sede, i quali non appartengono alla successione di qualche reale famiglia, ma bensì a tutti i Cattolici“. Contemporaneamente abbiamo manifestato “non potersi da Noi cedere ciò che non è Nostro, e che comprendiamo che la vittoria, che si vorrebbe fosse concessa ai ribelli dell’Emilia, sarebbe di stimolo agl’indigeni ed ai forestieri perturbatori delle altre province a fare la stessa cosa, vedendo la prospera fortuna toccata a quei primi“. Fra le altre cose, allo stesso Imperatore dichiarammo “non potere Noi rinunziare alle dette Province dell’Emilia, appartenenti al Nostro Pontificio dominio senza violare i solenni giuramenti dai quali siamo legati senza suscitare querele e moti nelle altre Nostre Province, senza recare ingiuria a tutti i Cattolici; infine, senza debilitare i diritti non solo dei Principi d’Italia, che furono ingiustamente spogliati dei loro domini, ma ancora di tutti i Principi del mondo cristiano, i quali non potrebbero con indifferenza vedere introdotti certi principii“. – Né abbiamo tralasciato di notare che “la Maestà Sua non ignorava con qualiuomini, con quale danaro e con quali aiuti i recenti attentati di rivolte a Bologna, a Ravenna ed in altre città erano stati provocati e compiuti, mentre la massima parte di quei popoli, quasi attonita, si guardò dal partecipare a quegli scompigli inaspettati, e si mostrò del tutto aliena dal volerli seguire“. E poiché il serenissimo Imperatore credeva che Noi dovessimo cedere quelle Province pei moti di ribellione ivi di quando in quando suscitati, abbiamo risposto opportunamente che un argomento di tal fatta, come quello che prova troppo, non prova nulla. Infatti, moti non dissimili accaddero spessissimo sia negli Stati d’Europa, sia altrove; e nessuno pensa che da ciò si possa trarre motivo per diminuire il civile dominio di un legittimo Principe. – Non abbiamo omesso di esporre al medesimo Imperatore che l’ultima sua lettera era molto diversa dalla precedente, scritta a Noi prima della guerra d’Italia e che Ci recava non afflizione ma consolazione. Avendo poi giudicato, da certe parole della lettera imperiale pubblicata nel menzionato giornale, di dover temere che le predette Nostre Province dell’Emilia dovessero già considerarsi come separate dal pontificio Nostro dominio, perciò abbiamo pregato, in nome della Chiesa, la Maestà Sua di fare in modo, anche per il suo proprio bene e vantaggio, che tale Nostro timore fosse pienamente dileguato. E con quella paterna carità con cui dobbiamo provvedere alla eterna salute di tutti, gli abbiamo richiamato alla mente che da ciascuno si dovrà un giorno dare stretta ragione di sé al tribunale di Cristo, ed incontrare un giudizio severissimo; perciò ciascuno deve sforzarsi di pensare come sperimentare gli effetti della misericordia anziché quelli della giustizia. – Queste sono le cose principali che fra le altre abbiamo risposto al sommo Imperatore dei Francesi; le stesse cose abbiamo giudicato di dover completamente manifestare a Voi, Venerabili Fratelli, affinché Voi in prima, ed anche tutto l’Orbe cattolico, sempre più sappiate che Noi, aiutandoci Dio, pel gravissimo debito dell’ufficio Nostro, senza timore alcuno facciamo ogni sforzo, e non tralasciamo nessun tentativo per difendere con forza la causa della Religione e della giustizia, ed il civile Principato della Chiesa Romana. Noi facciamo ogni sforzo per mantenere costantemente integre ed inviolate le possessioni temporali della Chiesa e i suoi diritti, i quali spettano a tutto l’Orbe cattolico; con ciò provvediamo altresì alla giusta causa degli altri Principi. – Confidando nel divino aiuto di Colui che disse: “Nel mondo sarete angustiati; ma abbiate fiducia: io ho vinto il mondo” (Gv XVI, 33); “Beati coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia” (Mt V,10), siamo preparati a seguire le illustri vestigia dei Nostri Predecessori, ad emularne gli esempi, e a patire ogni cosa sopra ed acerba, ed anche a dare la vita, anziché disertare in alcun modo la causa di Dio, della Chiesa e della giustizia. Ma ben facilmente potete arguire, Venerabili Fratelli, da quanto dolore siamo trafitti vedendo da quale atrocissima guerra la santissima Nostra Religione, con grandissimo detrimento delle anime, è combattuta, e da quali turbini veementissimi è sconquassata la Chiesa, e questa Santa Sede. Facilmente ancora comprendete come gravissima sia la Nostra angoscia ben sapendo quanto è grande il pericolo delle anime in quelle sconvolte Nostre Province, dove, per opera specialmente di pestiferi scritti diffusi nel pubblico, la pietà, la Religione, la fede e l’onestà dei costumi di giorno in giorno vengono scosse. – Voi dunque, Venerabili Fratelli, che siete chiamati a partecipare della Nostra sollecitudine, e che con tanta fede, costanza e virtù vi accendeste a propugnare la causa della Religione, della Chiesa e di questa Sede Apostolica, continuate con maggior animo ed impegno a difendere la medesima causa, ed ogni giorno infiammate maggiormente i Fedeli affidati alle vostre cure, affinché essi, sotto il vostro indirizzo, non cessino mai di porre ogni opera, ogni impegno ed ogni consiglio per la difesa della Chiesa Cattolica e di questa Santa Sede, e per la conservazione del civile Principato della medesima e del Patrimonio del Beato Pietro, la tutela del quale appartiene a tutti i Cattolici. – Quello però che massimamente, per quanto sappiamo e possiamo, chiediamo da Voi, Venerabili Fratelli, che insieme con Noi, e unitamente ai Fedeli affidati alle vostre cure, porgiate senza interruzione fervidissime preghiere a Dio Ottimo Massimo affinché Egli comandi ai venti ed al mare, e col suo potentissimo aiuto assista Noi, assista la Sua Chiesa, sorga e giudichi la causa Sua; ed oltre a ciò con la celeste Sua grazia voglia, propizio, illuminare tutti i nemici della Chiesa e di questa Apostolica Sede, e con la onnipotente Sua virtù si degni di ridurli nelle vie della verità, della giustizia e della salute. – Affinché Iddio, supplicato da Noi, più facilmente porga l’orecchio alle preghiere Nostre e Vostre e di tutti i Fedeli, domandiamo soprattutto, Venerabili Fratelli, l’intercessione dell’Immacolata e Santissima Madre di Dio, Maria Vergine, la quale è di tutti noi amantissima Madre, speranza certissima e potente tutela e sostegno della Chiesa, e del cui patrocinio niente è più valido presso Dio. Imploriamo altresì il suffragio del Beatissimo Pietro, Principe degli Apostoli, che Cristo Signor Nostro stabilì quale pietra fondamentale della sua Chiesa, contro cui le porte dell’inferno non potranno mai prevalere; e chiediamo ancora il suffragio del suo coapostolo Paolo e di tutti i Santi, che con Cristo regnano in cielo. Non dubitiamo, Venerabili Fratelli, che Voi, per la vostra esimia religione e per il vostro zelo sacerdotale, nei quali siete sommamente prestanti, vorrete secondare solertissimamente questi Nostri voti e queste Nostre richieste. E frattanto, come pegno dell’ardentissima Nostra carità verso Voi, impartiamo l’Apostolica Benedizione, che muove dall’intimo del Nostro cuore, a Voi, Venerabili Fratelli, come a tutto il Clero, ed ai Fedeli laici affidati alla vigilanza di ciascuno di Voi.
Dato in Roma, presso San Pietro, il 19 gennaio 1860, anno decimoquarto del Nostro Pontificato.
Questa breve lettera Enciclica del S. Padre Leone XII, venne scritta in occasione del restauro in Roma della gloriosa chiesa basilica dedicata a S. Paolo. Lo zelo del Pontefice si adopera santamente onde riparare ai danni subiti dal tempio – gravemente danneggiato da un incendio – tanto caro ai Cristiani del mondo intero. Vedere oggi una moltitudine di templi, chiese, basiliche, cattedrali spogliate delle strutture e suppellettili sacre, sacrilegamente offerte come luoghi profani e contenitori impropri di eventi paganeggianti, musicali, teatrali, pseudoculturali, o addirittura adibiti a strutture sanitarie per la somministrazione di farmaci sperimentali ottenuti con materiale biologico satanizzato, [vere e proprie “fatture” dei maghi-stregoni “pseudo-medici” ], proveniente da feti (cioè essere umani) appositamente abortiti ed uccisi sadicamente da macellai sedicenti scienziati, provoca una stretta al cuore e richiama la vendetta divina su di una società che ha oltrepassato ogni limite, anche quella della bestialità demoniaca. Ma quegli pseudo religiosi o finti-apostati prelati, si ritengano ben sicuri del “premio” che il loro padre (il diavolo) ha già per essi preparato, premio dettagliatamente descritto nelle pagine dell’Apocalisse, libro divinamente ispirato del quale si realizzerà ogni trattino ed apex – come diceva Gesù Cristo Figlio di Dio e seconda Persona della SS. Trinità -. Temano pure la stessa sorte – lo stagno di fuoco eterno – tutti coloro che supportano a vario titolo le diverse numerose conventicole della “sinagoga di satana” gestite dai falsi profeti dell’anticristo che occupano le sedi usurpate della modernista falsa chiesa dell’uomo di istituzione luciferin-massonica, o che ne fanno da contrappunto come le cappelline-chiesuole degli eretici sedevacantisti pseudotradizionalisti o dei “non-preti” discendenti del cavaliere kadosh di Lille e della loggia svizzera di Sion-Econe. Preghiamo allora – il residuo pusillus grex “vero-cattolico” in unione col Santo Padre impedito – perché ci siano abbreviati i tempi degli eventi apocalittici nella Chiesa e nella società corrotta e blasfema dell’anticristo. La testa del drago maledetto sarà schiacciata ed il Cuore di Maria trionferà insieme alla vera Chiesa di Cristo e al suo capo Vicario visibile, rinnovata nello splendore e nel culto a gloria di Dio … il tempo è vicino, non prævalebunt! Il demonio lo sa bene … sta agendo nel mondo freneticamente ma … la sua sorte non cambierà: l’inferno lo attende a porte spalancate! Et IPSA CONTERET capita vestra …
S. S. Leone XII
Ad plurimas
Lettera Enciclica
Roma, 25 gennaio 1825
Ai Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi.
Il Papa Leone XII. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.
Alle molteplici e terribili calamità che hanno angustiato il memorabile Pontificato del gloriosissimo Nostro Predecessore, Noi abbiamo veduto, con il più grande dolore di questa città e di tutti i popoli cattolici, aggiungersi l’incendio per il quale una Basilica così antica, portento di valore, di solennità, d’arte, eretta ad onore dell’Apostolo dottore delle genti, monumento insigne della pietà e della magnificenza di Costantino il Grande, dal quale era stata fondata, degli imperatori Valentiniano, Teodosio, Arcadio ed Onorio dai quali era stata ampliata ed ornata con nuove opere, infine dei Pontefici Romani, dai quali era stata restaurata, bruciò in poche ore, una notte, per un improvviso incendio. Lo stesso Nostro Predecessore [Pio VII] aveva mostrato la sua pietà verso il santo Apostolo, comandando che si facessero le riparazioni necessarie alla Basilica, ma si vide che occorrevano grandi mezzi in quanto l’incredibile violenza delle fiamme aveva distrutto quasi tutto. – Pochi giorni dopo seguì per Noi e per tutta la Chiesa un altro acerbissimo dolore: la morte dello stesso Pontefice. Per volontà di Dio, Noi fummo messi al suo posto, sebbene con meriti tanto ineguali. Dolenti per quel funesto sinistro che privò Roma di un sì magnifico ornamento, venerando gli augusti misteri della divina Provvidenza, in mezzo alle altre onerose cure del Nostro ministero, Noi abbiamo rivolto il pensiero a quelle rovine, e abbiamo invocato tutti i soccorsi dell’arte e dell’industria affinché potesse rimanere in piedi quel poco che era sfuggito alle fiamme. Così, mediante il Nostro zelo, speravamo di far aprire nel prossimo Anno Santo la porta d’oro di quella Basilica, come al solito. Questa speranza Ci ha fatto nominare la Basilica Ostiense nella Nostra lettera di indizione del Giubileo universale insieme alle altre Basiliche patriarcali che si dovevano visitare per ottenere l’indulgenza. Se non che, dopo le prime rovine, se ne scopersero tante altre e così grandi che abbiamo chiaramente riconosciuto che non vi si potevano celebrare le sacre cerimonie del Giubileo, com’era Nostro desiderio, senza grave pericolo. Abbiamo pertanto dovuto abbandonare il Nostro pensiero, ed ordinare che la Chiesa venisse completamente riedificata. Ma trovammo un ostacolo nella tenuità delle Nostre rendite; il che a nessuno parrà strano dopo tante perdite sofferte da questo Stato. Ciò nondimeno, Noi non Ci siamo perduti d’animo ed abbiamo intrapreso l’opera, non dubitando punto che i fedeli non solo avrebbero lodato il Nostro proposito, ma anzi Ci avrebbero aiutato a gara con i loro mezzi per portare a compimento l’opera. – Infatti, chi sarà colui che non vorrà fare tutto quello che potrà per assecondare i Nostri voti, se soltanto considera che Noi li abbiamo formulati per la gloria e per il culto di un uomo di cui lo stesso Cristo disse: “Codesto è il mio vaso d’elezione, destinato a portare il mio nome alle nazioni ed ai Re”? Di lui, che da quell’istante, infiammato dalla forza della divina carità, “essendosi fatto tutto a tutti, per guadagnare tutti a Cristo”, percorse tanti paesi in viaggi asperrimi, si espose a tutti i pericoli di terra e di mare, sostenne con coraggio indicibile la povertà, le veglie, la fame, i naufragi, le piaghe, le lapidazioni, i tradimenti, le miserie d’ogni genere, tanto che, a dispetto della sua modestia, fu, dall’ispirazione dello Spirito Santo, costretto a dire che egli “aveva faticato più di qualunque altro discepolo di Cristo”? Di lui, infine, che, donando il suo sangue e la sua vita, confermò con un glorioso martirio quella verità che aveva insegnato con le parole e con l’esempio, e che Ci permette di affermare che, particolarmente per opera sua, i nostri padri furono chiamati da Cristo “dalle tenebre all’ammirabile sua luce”? Paolo respira e vive ancora nelle sue lettere che, quand’anche mancassero altri argomenti, basterebbero esse sole a convincere gli uomini al Vangelo, tanto è presente in esse la parola di Dio, “viva ed efficace, più penetrante di qualunque lama a due tagli, che giunge fino alla divisione del cuore e dello spirito”. – E dopo che noi gli dobbiamo tanto, che di più non potremmo, ci sarà un uomo così ingrato che non si ritenga obbligato a contribuire, per quanto può, alla gloria dell’Apostolo? – L’Apostolo è stato animato da un amore tanto grande per Cristo, tanto ha sofferto per Lui e con tanto frutto, che dovremmo stimare grandissima l’efficacia della sua protezione presso Dio e grandissimi il merito e la venerazione di cui gode presso tutti. Egli ha il suo posto presso quel supremo Principe a cui sono state consegnate le chiavi del Paradiso. Ora si trova davanti a Dio, intercessore per la Chiesa; ed alla fine del mondo giudicherà con Cristo le “dodici tribù d’Israele”. E come quelle due luci della Chiesa, uguali l’una all’altra, avendo ambedue ricevuto “le primizie dello Spirito”, hanno i primi seggi nel cielo, egualmente ad ambedue sulla terra si sono sempre resi i primi onori. Dio ha concesso a ciascuno la sua ricompensa, in modo che in coloro che particolarmente si sforzarono di diffondere la gloria divina, si compie l’oracolo di Dio: “Chiunque mi glorifica, sarà da me glorificato”. Così è accaduto che per le esortazioni dei Nostri Predecessori Bonifacio IX, Martino V, Eugenio IV, molti cittadini e stranieri contribuirono abbondantemente al restauro di ambedue le Basiliche; così per i doni generosi di Giulio II e dei suoi Successori, congiunti alle spontanee offerte di altre persone, sorse la Chiesa del Vaticano, una delle più ampie e più belle di tutto l’universo. Così per gli stessi motivi Noi abbiamo fiducia che si mostreranno pii e liberali tutti quelli che sono fedeli a Cristo e a questa Santa Sede mentre, nel nome di Paolo, chiediamo loro un aiuto per le Nostre necessità. Noi dobbiamo aspettarci questo soccorso dal popolo devoto, tanto più che Ci sembra essere pervenuto a Noi, da Dio stesso, questo pensiero, questo desiderio di mantenere viva fra noi la gloria dell’Apostolo, in quanto, in mezzo all’orrore della volta crollata sulle rovine delle grandi colonne di marmo ridotte in cenere, intera si è conservata la tomba dell’Apostolo, così come, in Babilonia, i tre giovinetti restarono illesi nell’ardente fornace. – Si ergerà dunque sullo stesso suolo, non lungi dal luogo in cui ha dato la vita per Cristo; si ergerà di nuovo una Chiesa a Paolo, al compagno dei meriti e della gloria di Pietro. Se non avrà più quelle colonne e quegli altri ornamenti d’inestimabile valore che un giorno aveva, la chiesa sarà costruita con quella magnificenza che le offerte raccolte permetteranno; di nuovo si onorerà doverosamente quella tomba alla quale secondo la testimonianza del grande Crisostomo (che per essa desiderava principalmente vedere Roma) accorrevano ossequiosi gli imperatori, i consoli, i condottieri, ed a cui non cessavano di portarsi in folla, come ad una fonte perenne di celesti beneficenze, uomini d’ogni età e ordine, che a tale scopo intraprendevano lunghi pellegrinaggi. – Dio volesse, Venerabili Fratelli, che la forza e la nobiltà delle parole che uscivano dalla bocca di Crisostomo nel parlare dei meriti di San Paolo, fossero possedute anche da Noi per eccitare il cuore dei fedeli. Voi, investendovi del suo spirito, saprete trarre dai suoi meravigliosi sermoni gli argomenti più validi a far sì che i vostri fedeli si infiammino di venerazione e di amore per l’Apostolo delle genti, per il loro Apostolo, e facciano tutto il possibile per cooperare con i Nostri sforzi. Noi sappiamo ciò che San Paolo ha fatto per i fedeli; non esitiamo a farlo per lui. Egli raccolse ovunque elemosine e le portò a Gerusalemme per alleviare la povertà materiale dei fedeli. Voi raccoglierete elemosine per mezzo delle quali davanti a Dio, con l’intercessione dell’Apostolo, potrete soccorrere ai bisogni spirituali dei fedeli. In una parola, Noi vi eleggiamo Nostri coadiutori in un’impresa così religiosa. Tutto quello che avrete ricevuto dalla pietà dei fedeli, procurate che sia inviato a Noi. Noi vi scriviamo con tanta fiducia nella vostra pietà e nel vostro buon volere, che speriamo vedere persino superata la Nostra attesa. Vi sarà un numero considerevole di imitatori di quella felicissima vedova che fu degna di un particolare encomio da parte di Cristo Signore: “Ella era povera, e, malgrado la sua povertà, depose nel tesoro più di quello che vi deposero coloro che nuotavano nell’abbondanza”. Noi speriamo pertanto che la Basilica risorga dalle macerie con quella magnificenza che conviene al nome e alla memoria del Dottore delle genti. Pervasi da questa speranza, Ci sentiamo consolati nel Nostro dolore; vi auguriamo i beni più salutari, Venerabili Fratelli, e vi impartiamo con sincero affetto la Benedizione Apostolica.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 gennaio 1825, anno secondo del Nostro Pontificato.
(*) A seguito dell’incendio che nel 1823 ha distrutto la Basilica di San Paolo, il Pontefice Leone XII invita tutti i fedeli ad offrire secondo le proprie possibilità, al fine di ricostruire il Tempio dedicato all’Apostolo delle genti.
Questa breve lettera, come già nella precedente Inter omnigenas, il S. Padre Benedetto XIV, ricorda ai Cristiani residenti in paesi infestati dalla barbarie musulmana e turca, nello specifico l’Albania e le regioni balcaniche, di non assumere nomi musulmani per evitare le tassazioni ed immunità ivi vigenti o i commerci liberi, imitando all’inverso i costumi che i marrani iberici avevano già tenuto in altri tempi nei confronti dei Cristiani, poiché «… questa simulazione comporta una menzogna in materia gravissima, e comprende una virtuale negazione della Fede con grandissima offesa a Dio e scandalo al prossimo: per cui si offre ai Turchi stessi l’occasione propizia di considerare tutti i Cristiani ipocriti e ingannatori, tali che vanno a buon diritto e giustamente perseguitati… » Naturalmente oggi, la questione dei nomi non si pone solo nei confronti dei musulmani, ai quali è stato permesso libero accesso nelle Nazioni un tempo cristiane, ed oggi apostate dalla fede in Cristo, ma pure nei confronti degli “idoli” comunisti, atei, dei buffoni dello spettacolo d’oltreoceano, e senza che ci sia nessun pretesto se non il gusto di essere anticristiani, perché moderni, progressisti e “tolleranti”, il tutto favorito da conniventi giullari in talare che si atteggiano a “santoni” e guide spirituali … certo, ma guide per il fuoco eterno. Oramai i nomi imposti ai Cristiani in onore dei grandi santi, dei martiri della fede, delle vergini cristiane o della Santa Vergine nei suoi attributi, sono praticamente spariti dalla circolazione, conservandosene l’oso solo in famiglie o comunità tradizionali, sostituiti da nomignoli spesso ridicoli od impronunciabili, solo perché alla moda e secondo i modelli falso culturali attuali. E molti vengono pure battezzati accompagnando ipocritamente questi obbrobri con nomi di Santi che hanno più che altro un sapore di sacrilegio, e che gli interessati spesso non conoscono neppure.
Benedetto XIV Quod provinciale
Il Concilio Provinciale della vostra Provincia di Albania, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, celebrato l’anno 1703 sotto il Papa Clemente XI di felice memoria, nostro Predecessore, aveva santissimamente stabilito, fra le altre cose, al canone terzo, che nel Battesimo non fossero imposti né ai bambini né agli adulti nomi Turchi o Maomettani, e che i Cristiani non tollerassero di essere chiamati con nomi Turchi o Maomettani che mai erano stati loro imposti, per qualunque esenzione da tributi o immunità, o per facilitazioni nel commerciare liberamente, o per evitare pene. Raccomandando anche Noi le stesse cose, le confermammo, e comandammo di osservarle nella nostra Lettera Enciclica che inizia con le parole Inter omnigenas, edita per il Regno di Serbia e regioni vicine, su diversi punti di Religione e di disciplina, il giorno 11 febbraio 1744, anno quarto del Nostro Pontificato.
Quanto fu stabilito con sapienza e religione dai vostri Predecessori fu veramente provvidenziale e salutare, esempio luminoso della Fede Cattolica e della Vostra sincera pietà Cristiana, da essere indicato ad esempio agli altri e da Noi prescritto perché sia rigorosamente osservato, a maggior gloria e prestigio della Vostra Provincia e a maggiore utilità per conseguire l’eterna salvezza delle anime: tanto che se per caso capitasse che venisse trascurato, ridonderebbe a maggior disonore della vostra stessa Provincia e ad aperto danno delle anime.
1. Quindi Noi, che nella predetta nostra Lettera proclamammo quell’abuso una turpe occultazione della Fede cristiana, somigliante all’infedeltà, abbiamo appreso, col più grande dolore del nostro animo Pontificale, che moltissimi di codesta Provincia, trascurato il pensiero dell’eterna salvezza, continuano ad adoperare i medesimi nomi Turchi o Maomettani, non solo per essere considerati immuni e liberi da quei tributi e oneri che furono imposti ai Cristiani, ma anche con lo scopo che non si creda che essi stessi o i loro parenti abbiano apostatato dalla religione Maomettana, e non siano puniti con le pene inflitte in questi casi. Infatti tutte queste cose, anche se la Fede di Cristo viene conservata nel cuore, non si possono fare, senza la simulazione degli errori di Maometto, contraria alla sincerità Cristiana; questa simulazione comporta una menzogna in materia gravissima, e comprende una virtuale negazione della Fede con grandissima offesa a Dio e scandalo al prossimo: per cui si offre ai Turchi stessi l’occasione propizia di considerare tutti i Cristiani ipocriti e ingannatori, tali che vanno a buon diritto e giustamente perseguitati.
2. Si aggiunge inoltre ad aumentare sempre più il nostro dispiacere e dolore, che alcuni di Voi stessi, Venerabili Fratelli, e anche alcuni di Voi, diletti figli Parroci e Missionari, non badando affatto ad una simulazione tanto malvagia e detestabile, ma anzi conniventi, e spinti da motivazioni che non sono sufficienti a scusare i peccati, non hanno timore di ammettere alla partecipazione ai Sacramenti, senza nessun travaglio di coscienza e con pubblica offesa dei buoni Cristiani, quei fedeli affidati alle vostre cure che assumono i suddetti nomi Turchi o Maomettani e procurano di farsi chiamare così.
3. Ne consegue che Noi, che (per la sollecitudine di tutte le Chiese a Noi imposta, e per la soprintendenza suprema del Sacrosanto Apostolato), siamo obbligati a ricondurre tutti i Cristiani sulla via della salvezza e a presentarli a Dio puri, sinceri, procedenti in spirito e verità e senza macchia, dopo avere ascoltato su questo argomento i nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa Inquisitori generali contro la malvagità eretica, col loro consiglio, rinnovando dapprima il lodato Canone del Concilio Albanese della vostra Provincia, colla nostra Apostolica autorità, a tenore della presente Lettera lo confermiamo, e comandiamo che sia osservato rigorosamente. Colla stessa autorità e tenore estendiamo anche alla Vostra Provincia, e comandiamo che siano ugualmente osservati, i decreti della ricordata nostra Lettera. Quindi proibiamo rigorosamente che qualunque Cristiano, per qualunque motivo o pretesto o in qualsivoglia immaginabile circostanza, osi assumere i medesimi nomi Turchi o Maomettani per farsi credere Maomettano.
4. Inoltre, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, vi preghiamo ed esortiamo nel Signore affinché, considerando seriamente il vostro ministero e i conti severi che dovrete rendere al Supremo Principe dei Pastori ed Eterno Giudice Gesù Cristo sulle pecore affidate a ciascuno di Voi, Voi stessi curiate di assicurare la vostra elezione colle vostre buone opere, e non omettiate (la qual cosa non può avvenire senza gravissima Vostra colpa di incuria e negligenza) di rimproverare, scongiurare e sgridare con ogni pazienza e dottrina i medesimi Cristiani della vostra Provincia affinché, tenendo un buon comportamento fra i Pagani, in ogni cosa si mostrino esempio di buone opere, perché coloro che sono avversari, si vergognino, non avendo niente di male da dire su di loro, quasi fossero malfattori: essi, che per turpe guadagno parlano diversamente da come pensano. Se alcuni poi non ubbidiscono alle vostre esortazioni e ai nostri ordini, secondo la norma della disciplina Apostolica, devono essere obbligati con le maniere forti: su di loro devono essere applicate interamente le sanzioni e le pene del vostro Sinodo Albanese e della suddetta nostra Lettera, e sia loro dichiarato che non potranno ricevere, in vita, i Sacramenti, e dopo la morte, se saranno deceduti senza ravvedersi, i suffragi. Quelle pene Noi rinnoviamo e infliggiamo di nuovo, per quanto ce n’è bisogno, e vogliamo e ordiniamo che siano mandate a debita esecuzione da Voi. Questo poi non deve sembrare odioso a nessuno di voi, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, poiché se la Vostra giustizia non supererà quella degli Scismatici ed Eretici, nessuno dei quali osa prendere un nome Maomettano, non entrerete nel Regno dei Cieli.
5. Infine, coloro che si sono fatti Cristiani dal Maomettanesimo, o che sono figli di convertiti, nel caso in cui diffidino della propria costanza nella Fede e abbiano timore di incorrere nelle pene dei loro Governanti se lasciano i nomi Turchi, e abbiano paura di subirle, esortateli seriamente ad abbandonare di nascosto quelle regioni e a venire a rifugiarsi nelle terre dei Cristiani, nelle quali non mancheranno ad essi né Dio che dà il cibo ad ogni vivente, né la carità dei fedeli, specialmente se saranno muniti di lettere di raccomandazione dei Vescovi.
Frattanto a Voi, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, doniamo affettuosamente la Benedizione Apostolica, la quale vogliamo che sia data a Nostro nome ai Cristiani di retta fede da ogni Venerabile Fratello Vescovo nella sua Diocesi.
Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 1° agosto 1754, anno quattordicesimo del Nostro Pontificato.
Il Santo Padre Pio IX scrive questa lettera in favore dei fedeli di Irlanda provati da luttuose avversità e da una feroce carestia… « Noi concediamo un’indulgenza di sette anni a coloro che in qualsiasi modo interverranno con quelle preghiere; a coloro poi che parteciperanno a tutto il triduo recitando le stesse preci, e durante la settimana del triduo, dopo essersi purificati col sacramento della penitenza, si accosteranno al Santissimo sacramento dell’Eucaristia, con la Nostra autorità apostolica concediamo l’Indulgenza plenaria. » Questo è il modo in cui la Chiesa cattolica ha sempre affrontato le difficoltà di ogni genere che hanno afflitto popoli fedeli, nazioni cristiane e non in ogni tempo, chiedendo prima l’aiuto di Dio con preghiere e suppliche fervorose, e poi sovvenendo ai bisogni spirituali con elemosine ed interventi atti ad alleviare le necessità corporali. Qui addirittura ci sono le indulgenze plenarie per chi collabora all’azione spirituale con preghiere, suppliche, tridui. Inutile sottolineare le differenze tra l’operato dei veri Pontefici e prelati cattolici, ed i buffoni finti religiosi apostati e falsi rintanati negli edifici usurpati che temono raffreddori e febbricole impedendo anche le più elementari pratiche religiose, per quanto già di per sé sacrileghe ed invalide, fino a cancellare nella mente delle gente ignara ed ingannata anche il ricordo dei principi e pratiche cristiane, come i sacramenti, il culto divino, finanche le preghiere più popolari … ma si deve obbedire al padrone e padre loro … al diavolo! Attenti raccoglierete quel che seminate, è un assioma banale … la zizzania verrà legata …e bruciata nel fuoco eterno … et Ipsa conteret caput tuum …
Pio IX
Praedecessores Nostros
Voi che avete studiato e approfondito la storia della Chiesa, certamente sapete che i Romani Pontefici Nostri Predecessori hanno sempre dedicato ogni assidua e coscienziosa cura alle Genti Cristiane, al fine di recar loro giovamento in qualunque modo. E neppure ignorate che quell’impegno salutare e nobilissimo non ha compreso soltanto i vantaggi spirituali nei confronti del Popolo Cristiano, ma fu indirizzato anche ad alleviare le pubbliche calamità che talvolta percossero la Gente Cristiana. Tale asserto trova conferma nei documenti di antichi e più recenti tempi, e nella memoria nostra e dei nostri padri. Infatti, a chi poteva o doveva meglio convenire l’esercizio di questa paterna sollecitudine dell’animo, diretta a risollevare tutti i Cristiani, se non a coloro ai quali la fede cattolica insegna “ad essere Padri e Maestri di tutti i Cristiani“? Presso chi era più logico che gli sventurati si rifugiassero, se non presso coloro che, posti al vertice della Chiesa, dimostrarono da lungo tempo e alla prova dei fatti “di essere sospinti dall’amore di Cristo“? – Commossi da codesto luminoso esempio dei Nostri Predecessori e dalla propensione della Nostra volontà, non appena venimmo a sapere che il Regno d’Irlanda soffriva di una gravissima carestia di cereali e si affidava alla carità per quanto riguarda il rifornimento di altri alimenti, e che quella gente era afflitta da una terribile pestilenza provocata dalla penuria di cibo, dedicammo subito ogni sforzo – per quanto era a Noi concesso – per soccorrere quel popolo in pericolo. Pertanto, in questa Nostra Urbe abbiamo indetto pubbliche preghiere da innalzare a Dio e abbiamo esortato il Clero, il Popolo Romano e tutti gli altri residenti a Roma a recare aiuto all’Irlanda. Conseguentemente, la parte del denaro da Noi volentieri offerta e la parte raccolta a Roma, compatibilmente con le ristrettezze dei tempi, sono state mandate quale aiuto, ai Nostri Venerabili Fratelli Arcivescovi d’Irlanda perché le distribuissero secondo la condizione dei luoghi e dei loro cittadini indigenti. – In verità, finora Ci giungono dall’Irlanda preoccupanti lettere con le quali vengono riferite notizie sulle calamità sopra ricordate: calamità che in quell’isola perdurano tuttora ed anzi si aggravano ulteriormente; tali informazioni affliggono il Nostro animo con incredibile dolore e Ci spingono ad accorrere nuovamente in soccorso di quella gente. Che cosa infatti non dobbiamo tentare per rianimare quella popolazione che si dibatte fra tanti pericoli, dal momento che conosciamo quanta sia sempre stata la devozione del Clero e del Popolo d’Irlanda verso la Sede Apostolica; quanto in tempi difficilissimi sia rifulsa la tenacia di quella gente nel professare la religione cattolica; con quante fatiche il Clero d’Irlanda si sia adoperato per la diffusione della Religione Cattolica anche in remotissime regioni della terra, e infine con quanta devozione e zelo religioso, presso la gente irlandese, nella Nostra umile persona “sia onorato e compreso San Pietro, la cui dignità (per usare le parole di Leone Magno) non viene a mancare in un indegno erede“? – Pertanto, dopo aver seriamente riflettuto su così grave questione ed aver ascoltato il parere di non pochi Venerabili Fratelli Nostri Cardinali di Santa Romana Chiesa, abbiamo deciso di scrivervi, Venerabili Fratelli, questa lettera per esaminare insieme con voi le urgenti necessità del popolo d’Irlanda. Naturalmente, a voi tutti suggeriamo che nelle diocesi o nelle regioni sottoposte alla vostra giurisdizione prescriviate (come è stato fatto in passato nell’Urbe Roma) per tre giorni pubbliche preci da recitare nelle chiese, e in altri luoghi sacri determinati, per pregare Dio, Padre di misericordia, di liberare la gente d’Irlanda da così grande calamità e di allontanare una tale e così grande sventura anche dagli altri Regni e Regioni d’Europa. E perché questo avvenga più celermente e più vantaggiosamente, Noi concediamo un’indulgenza di sette anni a coloro che in qualsiasi modo interverranno con quelle preghiere; a coloro poi che parteciperanno a tutto il triduo recitando le stesse preci, e durante la settimana del triduo, dopo essersi purificati col sacramento della penitenza, si accosteranno al Santissimo sacramento dell’Eucaristia, con la Nostra autorità apostolica concediamo l’Indulgenza plenaria. Peraltro, Venerabili Fratelli, raccomandiamo soprattutto al vostro amore di sollecitare con le vostre esortazioni il popolo soggetto alla vostra giurisdizione ad alleviare con l’elargizione di elemosine la gente irlandese. Sappiamo anche che non avete bisogno che si spieghino a voi il valore dell’elemosina e i copiosi frutti che da essa derivano al fine di ottenere la clemenza di Dio Ottimo Massimo. Conoscete le lodi tributate all’elemosina, dottamente e sapientemente, dai Santissimi Padri della Chiesa e particolarmente da San Leone Magno in parecchi suoi sermoni. Avete anche a disposizione la famosa lettera scritta da San Cipriano Martire, Vescovo di Cartagine, ai Vescovi della Numidia: essa contiene una perspicua testimonianza del singolare impegno con cui il popolo affidato alla sua cura pastorale venne in soccorso dei Cristiani bisognosi d’aiuto, con copiosa elargizione di elemosine. Potete inoltre ricordare le parole di Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano: “La nobiltà delle ricchezze non sta nella vita mondana dei ricchi, ma nel cibo dato ai poveri; in questi, infermi e bisognosi, la ricchezza splende meglio; i Cristiani devono imparare a procurarsi, col denaro, non beni propri, ma quelli che sono di Cristo, affinché anche Cristo cerchi di loro“. Ricordando queste ed altre cose per accrescere la vostra benignità, speriamo che in futuro ai poveri, di cui stiamo parlando, possiate essere di grande aiuto. – Potremmo a questo punto porre fine al presente scritto. Ma poiché, assecondando la Nostra volontà, Venerabili Fratelli, state per indire pubbliche preghiere, non vogliamo tralasciare ciò che giorno e notte sollecita “la nostra quotidiana perseveranza, l’amore per tutte le Chiese” (2 Cor XI, 28). Certamente sta davanti ai Nostri occhi l’atroce e crudele tempesta che già da tempo si è scatenata contro la Chiesa universale; atterrisce l’animo ricordare “con quanta malvagità abbia agito il nemico nel Santo” (Sal LXXIV, 3) e quanto disonesta sia la congiura “contro il Signore e contro Cristo suo Figlio” (Sal II, 2). Perciò caldamente vi raccomandiamo che, colta l’occasione di indire pubbliche preghiere per l’Irlanda, esortiate contemporaneamente il popolo affidato al vostro governo a pregare Dio per la Chiesa universale.
Frattanto a Voi, Venerabili Fratelli, affettuosamente impartiamo l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 25 marzo 1847, anno primo del Nostro Pontificato.
… È assolutamente opportuno che i ministri della Chiesa ed i dispensatori dei misteri di Dio si mantengano completamente estranei anche al più piccolo sospetto d’avarizia e altrettanto ne tengano lontano il loro ministero, al quale sono stati chiamati da Dio; in tal modo potranno gloriarsi a buon diritto e con merito di aver tenuto le loro mani monde da ogni vantaggio … Così inizia questa lettera enciclica tutte dedicata ai prelati perché non abbiano a esercitare il loro ministero per lucro, ma solo animati dal desiderio di piacere a Dio e salvare le anime dei fedeli loro affidati. Ancora più oggi che in una finta apostatica chiesa, i mercenari in essa operante a dannazione dei fedeli, pensano a nutrire il loro ventre, come Gesù stesso li ha descritti, avvertendoci per tempo, nel capitolo X del Vangelo di S. Giovanni … « … mercenarius autem, et qui non est pastor, cujus non sunt oves propriæ, videt lupum venientem, et dimittit oves, et fugit : et lupus rapit, et dispergit oves; mercenarius autem fugit, quia mercenarius est, et non pertinet ad eum de ovibus… ». Il richiamo del Santo Padre è poi seguito da una serie di indicazioni che pongono il clero in condizione di non approfittare della posizione raggiunta in seno alla Chiesa per fini economici, tradendo così il loro mandato. È quest’ultimo, infatti, uno di quei frutti dai quali siamo chiamati a giudicare la bontà dell’albero da cui provengono, o il suo marcire … apparentemente occulto. Quando la Chiesa Cattolica, in esilio nel deserto, nelle catacombe, nelle caverne, sarà nuovamente libera di operare, liberata dall’azione della sinagoga demoniaca spacciata per angelo di luce, rimetterà ben in vista questo documento infallibile che darà nuovo grande impulso all’azione vivificante e santificante dei prelati al servizio del divin Pastore, quello celeste, e quello “Vicario” in terra, il Santo Padre, Pontefice massimo. Così, nella preghiera, in attesa che il Signore foglia abbreviare questo periodo funesto di dominio del demonio e degli adepti dell’anticristo travestiti da buffoni in talare, leggiamo e meditiamo questa lunga ma utilissima lettera.
Decet quam maxime
1. È assolutamente opportuno che i ministri della Chiesa ed i dispensatori dei misteri di Dio si mantengano completamente estranei anche al più piccolo sospetto d’avarizia e altrettanto ne tengano lontano il loro ministero, al quale sono stati chiamati da Dio; in tal modo potranno gloriarsi a buon diritto e con merito di aver tenuto le loro mani monde da ogni vantaggio. Questo per primo raccomandò Gesù Cristo ai suoi discepoli quando li avviò a predicare il Vangelo con queste parole: “Gratis avete ricevuto e gratis donate” (Mt XVIII,8). In più occasioni (1Tm 3,8; Tt 1,7) Paolo l’ha specificamente raccomandato come carattere distintivo di coloro che dovevano essere chiamati al ministero dell’altare. Questo, infine, inculcò Pietro in coloro che furono preposti alla cura delle anime, dicendo: “Pascolate il gregge di Dio che vi è stato affidato, non per l’aspettativa di un turpe lucro, ma volontariamente” (1Pt V,2).
A questo divino mandato si debbono uniformare per primi, con diligenza e con cura, i pastori delle chiese, che debbono essere d’esempio ai fedeli nella predicazione, nella conversazione, nella carità, nella fede: impegno invero minimo se si mostreranno irreprensibili in prima persona. Compete loro inoltre di darsi da fare attivamente affinché nessuno dei ministri ai quali comandano, in nessun modo si permetta di condurre a termine azioni contrarie a tale dettame, tenendo sempre presente l’insigne frase di Ambrogio: “Non basta che tu non cerchi il vantaggio economico; anche le mani dei tuoi familiari devono essere tenute a freno. Dai dunque istruzioni alla tua famiglia, ammoniscila, custodiscila; e se un servitorello ti avrà ingannato, una volta scoperto dovrà essere ripudiato a titolo d’esempio” (S. Ambrogio, In Lucam, lib. IV, n. 52). – Partendo da queste ottime, saggissime leggi, sia i santissimi Concili sia i Romani Pontefici Nostri predecessori hanno ritenuto di dover rendere sempre più stretto il passaggio, affinché malvagi abusi in materia non s’introducano mai nella Chiesa di Dio, o – se per caso vi si fossero già introdotti – vengano radicalmente tolti di mezzo. C’è tuttavia da lamentare che presso alcune diocesi queste decisioni delle Costituzioni apostoliche e dei sacri Canoni (così opportune e così ricche di dignità religiosa) rimasero prive del loro effetto e risultarono senza forza e senza valore, impossibilitate a svellere dalle radici ogni comportamento ad esse contrario. Dunque venimmo a conoscere che ciò accadeva perché coloro cui competeva occuparsene con il massimo impegno mettevano avanti varie scuse, invocando antiche, inveterate consuetudini oppure la necessità di versare qualche ricompensa ai ministri della curia ecclesiastica, oppure persino la mancanza del denaro necessario per condurre una vita decente, onesta e dignitosa. – Rendendosi conto di tutto ciò, il Nostro predecessore Innocenzo XI, di venerabile memoria, per apportare un rimedio costruttivo e rendere vane e fuori di luogo tutte le scusanti di qualunque natura, nel 1678 comandò che venisse redatto un tariffario nel quale fossero raccolti tutti i tributi indicati qua e là nei sacri Canoni e opportunamente sanciti dal Concilio Tridentino, secondo l’interpretazione data dalle sacre Congregazioni del predetto Concilio, nonché secondo i pareri espressi dai Vescovi. – Ordinò inoltre che tutti gli interessi ecclesiastici fossero chiaramente individuati ed elencati analiticamente; in nome di essi non doveva assolutamente essere consentito ad alcuno, né nel foro ecclesiastico né nelle curie vescovili, percepire emolumenti, eccezion fatta per quel che va versato al banco del cancelliere e quel che va pagato per la necessaria mercede. Contemporaneamente fu assicurato che in questa materia la regola fosse uguale in tutte le curie ecclesiastiche ed identica, com’è giusto, fosse la disciplina, annullata ogni diversa consuetudine. Lo stesso sommo Pontefice Innocenzo XI il primo ottobre dello stesso anno approvò con la Sua autorità questo tariffario, lo controfirmò e ne dispose la promulgazione e l’osservanza. – Tuttavia neppure questo bastò a rinsaldare ovunque la disciplina ecclesiastica, ormai abbandonata, e a metter freno alle cattive usanze che già da tempo avevano preso piede in varie diocesi. Subito venne avanzata l’obiezione perché la citata tariffa non dovesse venire osservata anche dalle curie ecclesiastiche esistenti fuori d’Italia. Per altro non si poteva fingere di ignorare che tutti i decreti in essa contenuti derivavano dai sacri canoni ed in particolare dal Concilio Tridentino; di conseguenza era assolutamente necessario che tutte le diocesi li rispettassero con la massima religiosità.
2. Questi dunque furono i motivi, Venerabili Fratelli, per cui – non senza grave dolore ed afflizione dell’animo Nostro – Ci rendemmo conto che nelle vostre curie avevano trovato spazio molti abusi contro l’esercizio della potestà spirituale; abusi che sconvolgono profondamente la disciplina ecclesiastica, la snervano e recano sommo disdoro alla grandissima dignità della quale risplendete ed all’autorità che vi è stata trasmessa per realizzare la perfezione dei santi e i compiti del ministero per l’edificazione del Corpo di Cristo. Noi abbiamo ben presenti la vostra religiosità, la vostra santa pratica, la premura nei confronti delle Vostre chiese; sappiamo anche che gli abusi in materia di pagamenti individuati nel tribunale ecclesiastico delle vostre diocesi, introdotti in tempi passati da qualche ministro di secondaria importanza, per l’esempio di questi si sono poi propagati gradatamente di diocesi in diocesi, forse all’insaputa degli stessi Vescovi, ed in qualche caso si sono sviluppati persino in funzione di una più marcata dignità della Chiesa. O perché al problema veniva attribuita pochissima rilevanza, o perché i successori nel ministero seguirono incautamente la strada tracciata dai predecessori, si arrivò al punto che questi stessi abusi, ormai rafforzati dalla continua pratica, sembrarono meritevoli di essere convalidati da costituzioni sinodali su proposta degli stessi ministri. In nessun modo, assolutamente, queste colpe possono essere addebitate a voi, che anzi siete soprattutto degni di lode, in quanto abbiamo visto che voi siete colpiti dal più grande dolore per queste iniquità e più che mai desiderosi di estirparle. Tuttavia, rendendoci conto che perseguendo questo scopo vi sareste attirati contro l’odio più forte, e che ostacoli enormi sarebbero stati frapposti alla realizzazione dell’obiettivo, se la stessa autorità apostolica non si fosse affiancata, per questo motivo interveniamo; in particolare a proposito della diversità delle tariffe e dei diversi comportamenti vigenti nelle diverse diocesi, affinché non solo siano tutti riportati ad un’equa e giusta misura, ma perché assumano tutti una lodevole uniformità procedurale. Perciò confidiamo in Voi, nel nome del Signore, affinché osserviate con la massima cura i decreti che vi mandiamo con la Nostra autorità apostolica, su richiesta del Nostro carissimo figlio in Cristo Carlo Emanuele, illustre Re di Sardegna, di cui rilucono continuamente il singolare rispetto per Noi e per questa santa Sede apostolica, l’affetto e l’impegno religioso: provvedete che da tutti e da coloro cui compete essi siano osservati con grandissima diligenza.
3. In primo luogo per quanto riguarda le ordinazioni sacre, non vi possono assolutamente sfuggire le numerosissime ed altrettanto sante leggi della Chiesa, con le quali in qualunque tempo è stato vietato che i vescovi e gli altri collaboratori nel conferimento delle sacre ordinazioni, o comunque rappresentanti ufficiali trattenessero alcunché dai donativi degli ordini. Questo è stato chiaramente sancito nel sinodo ecumenico di Calcedonia nel 451 (canone 2); in quello di Roma sotto san Gregorio Magno nel 600 o nel 604 (canone 5, ovvero epist. 44, lib. 4, indiz. 13); nel secondo sinodo ecumenico Niceno dell’anno 787 (canone 5); in quello di Salegunstadt dell’anno 1022 (can. 3); nel quarto Lateranense, sotto Innocenzo III, nel 1215; in quelli di Tours, di Bracara, di Barcellona e di altri luoghi riferiti da Cristiano Lupo (dissert. 2, proemio De simonia cap. 9, tomo 4) e da Gonzalez (capitolo Antequam 1, De simonia, n. 9), e più recentemente dal Concilio di Trento (sess. 21, cap. 1, De reformatione), dal quale sono stati perfezionati gli antichi canoni, che permettevano che si potesse ricevere un’offerta spontanea, ed è stata ricondotta all’antica ed originaria purezza la disciplina ecclesiastica sulle sacre ordinazioni. – Il decreto del Concilio così recita: “Poiché ogni sospetto d’avarizia dev’essere lontano dall’ordine ecclesiastico, i vescovi, gli altri collaboratori nell’impartire gli ordini o i loro ministri non debbono per alcun motivo accettare alcunché – anche se spontaneamente offerto – in occasione dell’attribuzione di qualunque ordine: né per la tonsura clericale, né per lettere dimissorie o testimoniali, né per il sigillo, né in qualunque altra circostanza. I notai, per altro, soltanto in quei luoghi nei quali non vige la lodevole abitudine di non accettare compensi, a fronte di ciascuna lettera dimissoria o testimoniale, possono accettare soltanto la decima parte di un aureo, a patto che non sia fissata per loro alcuna ricompensa per il lavoro svolto. Al vescovo non può essere trasferito – direttamente o indirettamente – alcun emolumento proveniente dalle rendite che competono ai notai per il conferimento degli ordini; infatti egli sa di essere tenuto a prestar loro la propria opera assolutamente gratis. Le tariffe contrarie a questa norma, gli statuti e le consuetudini locali, per quanto d’immemorabile origine (che a buona ragione possono essere ritenuti piuttosto abusi e fonti di corruzione e colpa simoniaca)debbono essere assolutamente abolite e vietate; coloro che si comporteranno diversamente, sia dando sia ricevendo, oltre che nel castigo divino incorreranno immediatamente nelle pene fissate per legge“.
4. In linea con questi argomenti, vi ordiniamo e notifichiamo, Venerabili Fratelli, di non accettare alcuna offerta – nemmeno se spontaneamente donata – per il conferimento di qualunque ordine, nemmeno per la tonsura ecclesiastica; né per la lettera dimissoria o testimoniale o per il sigillo, o per qualunque altra ragione o causa o pretesto, eccezion fatta soltanto per l’offerta della candela di cera che suole esser fatta sulla base del pontificale romano; e tuttavia in modo tale che la qualità ed il peso della candela siano assolutamente lasciati all’arbitrio ed alla libera volontà di coloro che debbono ricevere gli ordini. Alla vostra disposizione dovranno uniformarsi anche i vicari generali o foranei, i cancellieri e gli altri ministri, i familiari e i servi, ai quali venne già specificamente vietato dal Sacro Concilio Tridentino di accettare o esigere qualunque remunerazione, offerta o regalo in occasione delle sacre ordinazioni.
5. Se però in codeste diocesi non è fissato per il cancelliere o per i notai della curia ecclesiastica alcuno stipendio o salario per le mansioni svolte, ad essi soltanto consentiamo che – per ogni lettera testimoniale di un ordine conferito, compresa la tonsura ecclesiastica, o per la lettera dimissoria relativa alla stessa tonsura, o per gli ordini da ricevere da un vescovo estraneo – possano esigere al massimo la decima parte di un aureo, ovvero dieci oboli di moneta romana, e se lo trattengano, purché non siano Regolari legati da uno strettissimo voto di povertà, ai quali non è assolutamente consentito maneggiare denaro. – Ordiniamo che sia osservata la stessa entità di remunerazione anche se la predetta lettera testimoniale o dimissoria riguarda una pluralità di ordini, e fa riferimento ad ordini già attribuiti o in via di attribuzione da parte di un altro vescovo; di conseguenza in nessun modo sarà consentito aumentare la predetta remunerazione di dieci oboli o moltiplicarla in funzione dei singoli ordini contenuti nella lettera testimoniale o dimissoria. Con queste norme non intendiamo certo indurre i cancellieri o i notai ad indicare in uno stesso documento testimoniale ordini diversi, conferiti in momenti distinti e con distinti dispositivi; in verità in passato abbiamo ordinato che ciò avvenisse; limitatamente a quegli ordini – cioè i minori – conferiti con una sola ordinazione. Quanto alla lettera dimissoria relativa a più ordini da conferirsi da un altro vescovo, vietiamo che vengano moltiplicate le scritture e che si richieda qualunque sovrapprezzo o donativo per la rogazione dell’atto di conferimento degli ordini o per l’accesso al luogo dell’ordinazione o per qualsiasi altro motivo.
6. Nel conferimento del suddiaconato, quando il cancelliere o il notaio siano costretti ad un maggior lavoro per comprovare la verità e l’idoneità del patrimonio e del beneficio al cui titolo l’ordinando aspira, occorre premettere necessariamente altre procedure per gli atti di conferimento del predetto ordine. In questo caso consentiamo loro di poter percepire una mercede proporzionata alla loro fatica, da stabilirsi dal vescovo a suo coscienzioso giudizio. Tuttavia, tenuto conto della redazione dell’atto, del sigillo e di tutto il resto, non si può superare la somma di un aureo, ovvero di sedici giulii e mezzo. Vogliamo inoltre che gli ordinandi e i loro parenti siano liberi di ricorrere a qualunque notaio abilitato alla sottoscrizione ed alla rogazione dell’atto, senza che possano essere costretti verso qualcuno; così pure per i testimoni necessari a presenziare nelle predette curie alla costituzione ed alla stipulazione del patrimonio ed al perfezionamento degli altri atti consueti. Il notaio della curia, cui venga affidata una pratica di questo tipo, non potrà a nessun titolo esigere alcuna altra somma oltre la mercede definita dal Vescovo – come sopra specificato – o la somma di un aureo o di sedici giulii e mezzo, sia per la stesura dell’atto, sia per qualunque altra incombenza; né potrà ricevere altro denaro per la pubblicazione del decreto o per la lettera pubblicatoria o per qualunque altra ragione, sotto qualunque pretesto, come si legge chiaramente nel citato decreto del Concilio di Trento e come venne dichiarato apertamente nella sacra Congregazione del Concilio a Vicenza il 7 febbraio 1602, nella sacra Congregazione dei Vescovi a Gerona il 25 ottobre 1588, come si legge nel Fagnani (De simonia, cap. sulle Ordinazioni, n. 32 ss.).
7. Tuttavia, consentiamo che dai notai o dal cancelliere possa essere richiesto un compenso, sempre nell’ambito della legge, purché sia sempre dichiarato, qualora non sia stato fissato per il loro lavoro alcun salario o stipendio; comunque, assolutamente, nulla dei loro emolumenti può pervenire, direttamente o indirettamente, a voi o a chiunque altro, ufficiale o ministro, che conferisce gli ordini, così come venne sancito dal Concilio Tridentino. Queste due disposizioni, che con questa nostra lettera stiamo fissando, vogliamo che siano sempre rispettate in ogni occasione.
8. Riteniamo che difficilmente possa sfuggire all’accusa di lucro turpe e al sospetto d’avarizia l’iniqua consuetudine, che abbiamo saputo aver preso piede in alcune di codeste curie, di esigere denaro per l’autorizzazione (che deve provenire da voi o dai vicari generali) affinché coloro che sono stati recentemente ordinati sacerdoti celebrino la prima Messa, ovvero per altra simile autorizzazione, come quella di ammettere agli uffici divini i sacerdoti stranieri, per quanto muniti di lettera commendatizia dei rispettivi Ordinarii. Disponiamo pertanto che sia assolutamente eliminata codesta consuetudine, per quanto mantenuta fin qui e conservata a titolo di stipendio o di mercede da garantire a chi è incaricato di verificare l’idoneità dei sacerdoti nelle cerimonie e nei sacri riti; essa infatti è contraria ai sacri canoni ed è stata più volte riprovata.
9. Quel che abbiamo detto precedentemente a proposito delle sacre ordinazioni dev’essere applicato con pari diritto nel conferimento, o assegnazione, dei benefici ecclesiastici; ciò vi apparirà chiaro ed evidente se terrete davanti ai vostri occhi i canoni della Chiesa, fissati proprio per svellere dalle radici gli abusi instauratisi in diversi tempi in questa materia (cap. Si quis, q. 3; cap. Non satis; 8 cap. Cum in ecclesiae; 9 cap. Jacobus; 44 cap. De simonia; Cristiano Lupo, dissert. De simonia, cap. 10). E sebbene il santo Concilio Tridentino non abbia stabilito niente di preciso a questo proposito, tuttavia la sacra congregazione del Concilio, con l’approvazione del sommo Pontefice Gregorio XIII, dichiarò che il decreto cap. 1, sess. 21 De ref., avesse un ruolo anche nel conferimento dei benefici, in particolare degli amministratori, e che non si dovesse ricevere alcunché in cambio del sigillo, nonostante qualunque antica consuetudine (Garz., De benef. part. 8, cap. 1, n. 76 e seg.; Fagnani nel cap. In ordinando de simonia, n. 31; Gallemart, nel cap. 1, sess. 21, De reform.). – Questa stessa sacra Congregazione, nella lettera inviata al vescovo di Melfi, con il parere favorevole del sommo Pontefice, giudicò, dichiarò e dispose che i conferitori di benefici – qualunque sia la loro dignità – non possano accettare od esigere alcunché per il conferimento o per qualunque altra pratica inerente i benefici, sotto qualunque forma o aspetto, direttamente o indirettamente, anche se il donativo sia presentato come frutto dell’annata o di qualunque altro frazionamento, nemmeno se dato spontaneamente come offerta. A queste norme debbono assolutamente attenersi anche i notai dei conferitori e tutti gli altri impiegati, per i quali tuttavia è previsto in altra parte un salario garantito; altrimenti, sia chi dona sia chi riceve sarà ritenuto colpevole ipso facto ed incorrerà nelle pene previste dai sacri canoni per i simoniaci; i notai, inoltre, e gli altri impiegati saranno sospesi dai loro incarichi (Garz., loc. cit.).
10. Abbiamo ritenuto di comunicarvi tutto ciò, Venerabili Fratelli, perché comprendiate quanto siano lontane dalla disciplina ecclesiastica le abitudini nel conferimento dei benefici che qua e là hanno preso piede nelle vostre diocesi, e con quanto impegno dobbiate sforzarvi affinché siano radicalmente rimosse. Sarà dunque vostro compito di ribadire per primi questa regola e di rispettarla santissimamente, affinché nei benefici ecclesiastici – di cura d’anime o residenziali, semplici o manuali, o di cappellania –che conferirete con procedura ordinaria non richiediate od accettiate alcun compenso, a qualunque titolo o forma, nemmeno di dono augurale, beneficenza o contribuzione volontaria, in particolare per l’approvazione, la preselezione del più degno nel concorso per le chiese parrocchiali ed il possesso dei benefici. Saranno vincolati alla stessa sanzione canonica anche tutti gli altri conferitori, vicari generali, cancellieri, vostri consanguinei, parenti e servi, ai quali vietiamo comunque di percepire alcunché.
11. A questa regola generale fanno eccezione soltanto i cancellieri o i notai per i quali – come altrove abbiamo accennato – non è fissato alcuno stipendio a fronte del loro lavoro. In questo caso il cancelliere, se l’atto sia per benefici con cura d’anime, per un editto o per la lettera con cui viene indetto un concorso pubblico potrà esigere dieci oboli, e cinque per ciascuna copia ed altri cinque per le affissioni di rito. Se la lettera dovrà essere affissa fuori città, le spese di viaggio e le altre derivanti saranno ripagate sulla base dei rimborsi giornalieri vigenti nelle rispettive diocesi. Per la spedizione della lettera di conferimento, sia dei predetti benefici con cura d’anime, sia di quelli semplici, il cancelliere riceverà per il suo lavoro una remunerazione adeguata, fissata a giudizio del vescovo: remunerazione che comunque, tenuto conto della scrittura, del sigillo e di tutto il resto, non potrà superare un aureo, ovvero dieci giulii di moneta romana, come più volte è stato fissato dalla sacra congregazione del Concilio, ed in particolare il 15 gennaio 1594 (Gallemart., loc. cit.) e a Vicenza l’8 marzo 1602 (Fagnani, loc. cit., n. 32) e dalla sacra congregazione dei Vescovi il 25 ottobre 1588 (Fagnani, ibid., n. 35). Infine per quanto si riferisce agli atti di possesso degli stessi benefici, riceverà tre giulii per la sottoscrizione del documento, se i benefici saranno dentro la città, quattro se nel suburbio; se più lontani ancora, saranno osservati i tariffari vigenti nelle rispettive diocesi per le diarie, come abbiamo spiegato sopra. Ma se nel luogo in cui è situato il beneficio risulterà operante un cancelliere del vicario foraneo, o un suo notaio, colui che sta per entrare in possesso del beneficio può avvalersi liberamente degli uffici di questi e per rogare l’atto di possesso non potrà in alcun modo essere obbligato a rivolgersi al cancelliere della curia vescovile. Per una lettera che testimoni l’esito favorevole in un concorso, secondo la relazione degli esaminatori, e della quale sono soliti valersi coloro che l’hanno richiesta per dimostrare la propria idoneità, permettiamo che il notaio riceva come compenso massimo due giulii.
12. Non ci sfugge certo che al cancelliere, o notaio, tocca una fatica tutt’altro che lieve nello svolgimento dei concorsi per le chiese parrocchiali, sia quando comincia l’esame dei testimoni che i concorrenti presentano per dimostrare le loro qualità, i meriti e le lodevoli azioni compiute al servizio della chiesa; sia quando inserisce negli atti del concorso i cosiddetti requisiti presentati dai concorrenti, e poi li riassume per iscritto e li trascrive in più copie per il vescovo, o per il vicario generale che interviene in sua vece, e per ciascuno degli esaminatori esterni del concorso, affinché possano formulare un giudizio sulla cultura, le abitudini, i comportamenti e le altre doti necessarie a reggere la Chiesa; quando risponde inoltre ai quesiti morali posti dagli stessi esaminatori, riporta il giudizio degli esaminatori stessi; stende l’atto di preselezione; rimane a custodia dei concorrenti per due e talora tre giorni ed in qualche caso presenzia anche allo scrutinio delle predette questioni morali. Abbiamo considerazione di quale possa essere la mole di tale impegno, affidando al giudizio ed alla coscienza del vescovo la determinazione della remunerazione, purché essa corrisponda soltanto all’entità della fatica.
13. Per quanto poi riguarda i benefici che vengono conferiti dalla Sede apostolica, poiché ad essa riservati: per i benefici “curati” per i quali è consuetudine presentare alla Dataria Apostolica una lettera testimoniale di approvazione e di preselezione nel concorso svolto secondo le norme fissate dal Concilio di Trento, ed ancora per i benefici non “curati”, in particolare quelli residenziali, per i quali parimenti è d’uso presentare alla Dataria Apostolica una lettera testimoniale sulla vita, le abitudini e l’idoneità di coloro che richiedono il beneficio, i cancellieri si guardino bene dall’esigere, per queste lettere, alcun emolumento o mercede, nemmeno un donativo spontaneo, eccetto che due giulii per la scrittura, la carta e il sigillo della lettera di idoneità e due giulii per la lettera testimoniale sullo stile di vita e sui costumi.
14. Per l’esecuzione delle lettere apostoliche, quando queste siano spedite in forma – come si dice – graziosa, né il vescovo, né gli altri prelati Ordinarii dei luoghi, né i loro vicari, i cancellieri e gli impiegati ritengano di poter rivendicare a sé l’incarico di esecutori; dipenderà completamente dalla volontà di coloro che saranno stati dotati del beneficio la scelta dell’esecutore o del notaio cui affidare l’atto per l’entrata in possesso del beneficio stesso. Se il provvisto di un beneficio sceglierà l’Ordinario e il suo cancelliere, ovvero se la lettera apostolica sarà stata mandata nella cosiddetta forma dignum, indirizzata all’Ordinario, o al suo cancelliere o vicario, al quale compete l’obbligo di eseguirla; in entrambi i casi, se mancherà un legittimo contraddittore, in modo che l’esecutore sia uno solo, il cancelliere (esclusi comunque da qualunque emolumento, dono e volontaria offerta il vescovo o altro prelato, il suo vicario, l’impiegato, i familiari e i servi, come abbiamo disposto sopra a proposito dei benefici di libero conferimento), per la stesura di questa lettera apostolica e per la sua trascrizione negli atti, così come per tutti gli adempimenti consueti inerenti la pratica, potrà ricevere la remunerazione che il vescovo, a proprio giudizio e secondo coscienza, riterrà congrua: essa non potrà comunque superare la somma di uno scudo d’oro o di sedici giulii e mezzo. Se invece fosse presente un contraddittore, in modo che si debba istituire un processo giudiziario, parimenti lasciamo all’arbitrio ed alla coscienza del vescovo, che graviamo anche di questo peso, di fissare la mercede che corrisponda all’impegno ed alla fatica del notaio o del cancelliere addetto; purché niente di quanto riscuote il cancelliere o il notaio sia trasferito al vescovo o agli altri, come abbiamo detto prima, direttamente o indirettamente. Per l’atto di presa di possesso del beneficio, debbono osservarsi le stesse norme che abbiamo indicato sopra.
15. Per i benefici di giuspatronato, se sorge il dubbio – con il promotore fiscale o con colui che avrà richiesto il beneficio – sull’esistenza del predetto giuspatronato e qualcuno si oppone al conferimento gratuito, dovranno essere rispettate tutte le norme che abbiamo fissato in precedenza a proposito dei benefici di libero conferimento con contraddittore favorevole. Per un editto contro il contraddittore – o i contraddittori – il cancelliere riceverà due giulii; per ogni copia dieci oboli; per la pubblicazione di detto editto si dovrà osservare quanto abbiamo disposto per i benefici con cura d’anime; inoltre, per una lettera d’istituzione, un aureo ovvero sedici giulii e mezzo. Se invece non vi sia alcun dubbio sull’esistenza del giuspatronato, e tuttavia nasca una lite sulla competenza fra gli avvocati o fra coloro che da questi sono rappresentati, allora s’instaurerà una causa profana e per essa potranno essere pretesi emolumenti che corrispondano alle tariffe vigenti in ciascuna curia.
16. Procedendo analiticamente, del pari vietiamo che i vescovi, o gli altri prelati, o i loro vicari o comunque incaricati possano esigere alcunché sia in quelle che chiamano “cappellanie mobili”, sia nelle nuove fondazioni e nelle istituzioni di benefici, cappellanie, confraternite e congregazioni, ovvero nelle fondazioni, benedizioni, consacrazioni, visite ed approvazioni di chiese e di oratori derivanti da autorità apostolica o vescovile. Il cancelliere potrà ricevere soltanto una paga commisurata all’impegno, fissata dal vescovo a suo giudizio e coscienza, purché non superi i sedici giulii e mezzo.
17. Per quel che riguardai matrimoni o comunque le attività propedeutiche alle nozze, vi suggeriamo di osservare ciò che hanno disposto i sacri canoni (cap. Cum in ecclesia 9; cap. Suam nobis 29, De simonia), San Gregorio Magno nella lettera a Gennaro, vescovo di codesta sede cagliaritana (lib. 4, indict. 12, epist. 27), ed altri ancora, come riferisce lo spesso lodato Cristiano Lupo nella citata dissertazione (cap. 7) e, da ultimo, il Concilio Tridentino (sess. 22, cap. 5, De reformat. matrimon.). I vescovi, naturalmente, i loro vicari, tutti gli incaricati, i loro familiari e gli addetti devono prestare gratuitamente la loro attività in questa materia e non pensare di ricevere alcuna remunerazione o premio od offerta volontaria, né per il decreto di dispensa matrimoniale ottenuto dalla Sede Apostolica, né per l’impegno ad esaminare i testi in merito o per il completamento delle certificazioni connesse, sia per la lettera di attestazione di stato libero e di mancanza di qualunque impedimento canonico, sia per la dispensa dalle pubblicazioni previste dal Concilio di Trento (in chiesa, per tre giorni festivi consecutivi, fra le messe solenni), da effettuarsi dal parroco dei contraenti, sia per la facoltà di celebrare il matrimonio a casa, o altrove, o in tempo non consueto e vietato, oppure di fronte ad un sacerdote diverso dal parroco, sia infine per qualunque atto che di necessità o d’abitudine si deve compiere, come è stato disposto dalla sacra Congregazione del Concilio, con l’approvazione del sommo Pontefice, nonostante qualunque precedente consuetudine, anche antichissima, come riferiscono Garzonio (De benefic. part. 8, cap. primo, n. 102 seg.) e Fagnani (cap. Quoniam ne proelati vices suas, n. 30).
18. Questo atteggiamento va mantenuto soprattutto in relazione alle deroghe che i vescovi sogliono concedere ai parroci, sia in relazione alla pubblica comunicazione, in chiesa, in tre giorni festivi, dei matrimoni imminenti, sia per presenziare alla celebrazione degli stessi matrimoni, quando sappiano che non vi sono impedimenti. D’ora in avanti sarà necessario non solo che le licenze di questo tipo siano concesse gratuitamente; ma anche che si controlli che, prima della celebrazione dei matrimoni, non venga reso più complicato il contratto nuziale con la richiesta indiscriminata della predetta deroga, sulla base di una presunta necessità; cosa questa che sarebbe fonte di parecchi disagi. La sacra Congregazione dei Vescovi riunita a Gerona il 25 aprile 1588 (cf. Fagnani, cap. In ordinando de simonia, n. 41) ritenne necessario opporsi ad entrambi i mali. Quando infatti i canonici e il capitolo di Gerona posero la questione in merito all’editto con il quale il vescovo aveva proibito ai parroci di unire gli sposi in matrimonio – pur avendo espletato tutte le norme solenni imposte dal Concilio di Trento – se non avessero la deroga scritta, che veniva concessa solo dopo il pagamento di mezzo giulio, la stessa sacra Congregazione rispose così: “Il vescovo non deve emettere alcun provvedimento scritto, se per qualche ragione proibisce che i parroci possano congiungere le persone in matrimonio secondo gli usi fissati da detto Concilio. Infatti, rispettata assolutamente la sostanza della norma conciliare, quel che riguarda le cerimonie è affidato soltanto alla coscienza del vescovo ed al suo stile. Allo stesso modo, infatti, in qualche villaggio o città è opportuno proibire ciò che tuttavia, sulla base di qualche urgente necessità, si dovrebbe fare. Così il vescovo deve impegnarsi a fondo perché non si celebrino matrimoni senza le predette procedure, ma deve anche stare attento affinché non siano resi più complicati i contratti di matrimonio, con l’aggiunta di nuove esigenze infondate. Se vi sarà bisogno di qualche licenza, il notaio non sarà pagato per questo. Ma se, per antica – forse anche scritta – consuetudine, quasi in segno di letizia, ci sia l’abitudine di fare un regalo al vescovo, non ci pare affatto che questo sia da contestare“.
19. Soltanto al cancelliere per il quale non sia fissato uno stipendio garantito, sarà lecito ricevere, a titolo di pagamento del suo impegno e per il necessario sostentamento, un emolumento calcolato con questo parametro: per l’esecuzione della lettera apostolica sulla dispensa matrimoniale, se egli compia in prima persona l’escussione dei testi per accertare la veridicità delle affermazioni esposte nel libello di supplica, potrà esser pagato più o meno, in funzione del numero dei testimoni e della gravosità dell’impegno, ma comunque non più di cinque giulii. Se invece questo esame sarà affidato ad un’altra persona, avrà soltanto due giulii per la lettera di delega e assolutamente null’altro per il decreto, per il sigillo o a qualunque altro titolo. Per la lettera testimoniale di stato libero, tenuto conto della stesura, della carta, del sigillo e del resto, avrà due giulii. Per l’esame dei testimoni per l’accertamento dello stesso stato libero e per dimostrare la mancanza di qualunque impedimento canonico, dieci oboli per ogni testimone; per il riconoscimento della lettera testimoniale di stato libero di persone nate altrove, dieci oboli se non ci sia bisogno dell’esame di un secondo testimone per eliminare tutti i dubbi. Se per caso ciò occorresse, ed infine per la dispensa dalle pubblicazioni, ogni volta che occorra l’escussione di testimoni, dieci oboli soltanto per tale escussione.
20. A buon diritto è sempre stata ritenuta detestabile – e figlia dell’avarizia e della cupidigia – l’esazione di denaro o di qualunque altro bene a fronte della distribuzione dei sacramenti. Perciò i sacri canoni bollarono spesso questa azione come intrisa di malvagità simoniaca e si preoccuparono di eliminarla con le dovute pene e con le censure ecclesiastiche (cf. Cum in ecclesiae corpore, 9, cap. Ad apostolicam, 42, De simonia)e in numerosi decreti conciliari riferiti da Cristiano Lupo (loc. cit., cap. 7 e 8). Confermando con ogni fermezza questa convinzione, la sacra congregazione del Concilio non ha mai tollerato che per l’amministrazione dei sacramenti venisse preteso alcunché. Per tacere di tutti gli altri, il 20 febbraio 1723, nel giorno dei funerali del Vescovo di Albano, quando fu sottoposto ad esame se si dovesse permettere che i parroco accettasse la patena, cioè il disco del quale egli si serviva nell’amministrare l’estrema unzione, al quesito: “Potrà essere accettata l’offerta del disco?“, la stessa sacra Congregazione rispose che “non si dovesse permettere di accettare tale offerta” (Thes. resolut. tomo 2, p. 280). Allo stesso modo, quando il Vescovo di Vaison, nel sinodo del 1729, aveva stabilito una tassa da rispettare nella sua diocesi, in base alla quale, oltre ad altre procedure relative al battesimo, veniva stabilito che: “Il padrino o la madrina, per la cerimonia del battesimo forniranno almeno un cero ed un telo di lino candido e brillante, a meno che non preferiscano per tutto ciò e per la registrazione negli atti pubblici dei battezzati pagare cumulativamente cinque assi“, fu allora proposto il dubbio se la tassa prescritta in questo sinodo dovesse essere rispettata. La sacra Congregazione, nella riunione di Vaison del 6 febbraio 1734 rispose di no. (per maggiori informazioni cf. Thes. resolut., tomo 6, p. 209).
21. Fra le altre materie, che più di frequente o con maggior rigore sono state riprovate dai sacri canoni e dai concilii, una delle principali riguarda l’abitudine – qua e là invalsa in passato – di riscuotere denaro per il ricevimento del crisma e dell’olio santo, che i vescovi cercavano invano di giustificare presentandola sotto vari nomi: a titolo cattedratico, quale prestazione pasquale, quale consuetudine episcopale (cap. Non satis, 8 cap. Eaquae, 16 cap. Ad nostram, 21 cap. In tantum, 36 De simonia, ed altri ancora come indicato da Cristiano Lupo, loc. cit., cap. 7, paragrafo Secundum sacramentum). Di conseguenza, quando il patriarca dei Maroniti di Antiochia prese l’abitudine, quando distribuiva gli olii sacri, di esigere un’offerta in denaro, sebbene fosse evidente che il denaro non veniva certo dato e ricevuto con lo spirito di mercanteggiare gli olii sacri, ma per sostentamento del patriarca e per far fronte agli oneri che incombono all’ufficio e alla dignità patriarcali, tuttavia, per cacciare ogni sospetto di simonia, tale consuetudine fu disapprovata dalla particolare Congregazione alla quale è demandata la competenza per gli affari dei Maroniti. Benedetto XIV confermò tale sentenza (Constit. Apostolica 43, Bullar. tomo 1).
22. Ci pare che questo basti ed avanzi, Venerabili Fratelli, perché comprendiate a perfezione quali sono i vostri compiti nell’amministrare i sacramenti e li perseguiate con ogni cura, applicandovi totalmente affinché sia eliminata ovunque la malvagia consuetudine, vigente in alcune diocesi, in base alla quale per la distribuzione degli olii viene richiesto denaro o da parte del vescovo o dal prefetto della sagrestia. Già in precedenza la sacra Congregazione del Concilio lo aveva prescritto spesso, in particolare nella riunione di Amalfi del 18 luglio 1699, ribadendolo il 6 febbraio 1700, a proposito del quesito 12: “Se l’arcivescovo sia obbligato a garantire che l’olio santo sia consegnato gratuitamente dalla cattedrale alle chiese parrocchiali“. Ad esso fu risposto affermativamente. Identico orientamento prese la sacra Congregazione dei vescovi nella riunione di Acerenza, cioè di Matera, il 18 marzo 1706 (Ad. 2 apud Petram, Comment. ad constitut. 5 Innocentii IV, n. 38).
23. Per quanto riguarda poi l’offerta della candela, che abbiamo sentito viene fatta, in diverse diocesi di codesto regno, al vescovo che amministra la Confermazione, in primo luogo non va taciuto che a tal proposito nel libro pontificale non c’è nemmeno una parola. Inoltre, la sacra funzione del sacerdozio vincola tutti i ministri, i quali, nell’accettare le offerte, si devono regolare con moderazione e senso della misura, per evitare che, incorrendo nell’accusa di avarizia e di turpe negozio, il ministero stesso non finisca vituperato e si svilisca la riverenza dovuta ad un così grande sacramento. C’è da guardarsi bene che l’offerta della candela non degeneri in un’esazione sospetta, dalla quale derivi che i fedeli, specialmente i poveri, si ritraggano dal ricevere il sacramento, o ne rinviino più del giusto la somministrazione. Perciò c’è soprattutto da augurarsi che questa consuetudine sia completamente abolita e che si mantenga soltanto in quei casi in cui dipenda esclusivamente dalla decisione dell’offerente.
24. Le stesse norme impongono che tanto i vescovi quanto i loro cancellieri o notai debbano esercitare gratuitamente il loro ministero, sia quando – previo esame ed approvazione – concedono a qualcuno la facoltà di raccogliere le confessioni sacramentali, di amministrare i sacramenti e di esercitare ogni ministero ecclesiastico, sia quando giudicano l’idoneità dei vicari – sia perpetui, sia rimovibili ad nutum –, degli economi e dei coadiutori, come si legge nel capitolo Ad nostrum de simonia e come fu disposto nelle spesso citate assise di Vicenza (7 febbraio e 8 marzo 1602) e di Gerona (25 ottobre 1588, Ad. 7), in cui comunque si rigetta anche la remunerazione per la lettera che formalizza la concessione dei predetti ministeri e l’esercizio degli incarichi.
25. Riteniamo che nessuno di voi ignori quanto frequenti e quanto severe leggi vietino di esigere denaro per le sepolture e per le esequie funebri (cf. Cristiano Lupo, loc. cit., cap. 12 e Van Espen in Jus eccles. univ., par. 2, tit. 38, cap. 4). Basterà comunque citarvi San Gregorio Magno, che, scrivendo a Gennaro, vescovo di Cagliari (lib. 9, indict. 2, epist. 3, e lib. 7, indict. 2, epist. 56), così si duole: “La famosissima signora Nereida si è lamentata con noi del fatto che vostra fraternità non si è vergognato di chiederle cento solidi per la sepoltura della figlia. Se è vero, è davvero troppo grave e distante dalla dignità sacerdotale chiedere un prezzo per la terra concessa alla putrefazione e voler trarre un utile dal lutto altrui. Nella nostra chiesa noi l’abbiamo vietato, e non abbiamo mai consentito che la malvagia consuetudine si ripristinasse. Attenzione, a non ricadere in questo vizio dell’avarizia o in altri!“.
Nessuna legge mai ha vietato la lodevole e pia abitudine, invalsa nella Chiesa fin dai primi secoli, di fare offerte a favore dei morti durante i funerali; né nell’accettarle, veniva meno la libertà dei sacerdoti. Perciò il sommo Pontefice Gregorio aggiunse tosto: “Se qualche parente del morto, congiunto o erede desidera offrire spontaneamente qualcosa per l’illuminazione, non vietiamo di accettare. Proibiamo invece che venga chiesto o preteso alcunché” (Pontificale Romanum). Analogo ordine impartì, con parole chiare, Innocenzo III nel concilio Lateranense (cap. Ad Apostolicam, 42 De simonia).
26. In verità, venendo a mancare le decime personali e quelle, sia reali sia miste, a favore dei monasteri e dei capitoli dei canonici, fu in un certo senso necessario che i laici venissero quasi costretti alle pie offerte, fin qui consuete, con le quali si provvedeva alle necessità dei parroci e delle chiese parrocchiali. Tuttavia si tenne sempre presente la santità della disciplina ecclesiastica per garantire che non ci si allontanasse troppo da queste lodevoli consuetudini: i chierici per eccesso, i laici per difetto. Tra l’altro fu sancito in particolare che esequie, funerali e sepolture di defunti – sia cittadini sia stranieri – non dovessero essere impediti o ritardati per poter ottenere il denaro derivante da questa pia consuetudine; inoltre, che non si dovesse pretendere niente per il permesso di trasferire i cadaveri e seppellirli in un luogo piuttosto che in un altro.
27. Da ciò dunque avrete compreso, Venerabili Fratelli, che è intollerabile che nelle vostre diocesi si accetti denaro, al di là delle consuete offerte collegate alle pietose incombenze che si prestano al cadavere ed in suffragio dell’anima. Né il parroco – attuale o abituale – dev’essere pagato in funzione della condizione del morto, della distinzione del grado, ovvero in relazione alla posizione favorevole ed al decoro dei luoghi nei quali i cadaveri devono essere inumati, sia in chiesa, sia in luogo più prestigioso della chiesa. È inoltre aberrante per i sacri canoni che il Vescovo pretenda o riceva denaro per seppellire qualcuno, sia adulto, sia bambino, in qualsiasi chiesa diocesana o anche delle comunità religiose. La sacra Congregazione del Concilio, intervenendo contro il Vescovo vicentino e la sacra Congregazione dei Vescovi riunita a Gerona (Ad. 10, Fagnani., cap. In ordinando de simonia, n. 32 ss.) hanno espresso chiara condanna nonostante qualunque consuetudine contraria, anche antichissima.
28. Nella visita pastorale alla diocesi, eviterete con poca fatica qualunque sospetto di avarizia e sarà chiaro a tutti facilmente che voi chiedete non nel vostro interesse ma in quello di Gesù Cristo, se vi atterrete scrupolosamente a quanto raccomandarono in materia i Padri del Concilio Tridentino: “Si curino i vescovi in visita di non essere onerosi per nessuno con inutili spese; né personalmente né attraverso qualcuno del seguito, accettino alcunché: né per aver in qualche modo propiziato la visita, né per le pietose abitudini dei testamenti, eccetto quel che deriva per legge dai lasciti pii. Non accettino, dunque, né denaro né doni di qualunque tipo né a qualunque titolo offerti, nemmeno se in tal senso esistano abitudini, anche antichissime. Restano esclusi soltanto gli alimenti, che verranno forniti al vescovo ed al suo seguito in misura frugale, e soltanto per il tempo necessario alla visita e non oltre. Coloro che ricevono la visita possono decidere se preferiscono consegnare una somma di denaro predeterminata, come solevano fare in precedenza, oppure fornire le citate vettovaglie (Sess. 24, cap. 3, De ref.).
29. Su questo decreto vennero prodotte diverse dichiarazioni e decisioni della sacra Congregazione del Concilio, alcune delle quali è qui opportuno riportare. Il primo argomento del quale si discusse più volte fu se il vescovo potesse esigere le cosiddette “provvigioni” in occasione della visita alla cattedrale ed al clero della città – o altro luogo – in cui risiede abitualmente. Quando fu chiaro che la “provvigione” era stata istituita dal Concilio di Trento per la visita alla diocesi, e che non si faceva alcuna menzione della città; inoltre che lo stesso Concilio aveva imposto la somministrazione di vettovaglie “soltanto per il tempo necessario“, e che pareva pertanto non ce ne fosse alcuna necessità quando il vescovo visita luoghi nei quali è tenuto a risiedere ovvero nei quali trascorre parte dell’anno; la sacra Congregazione stabilì che gli antichi canoni di diverso avviso ed ogni usanza contraria erano stati rimossi dal decreto del citato Concilio di Trento, e pertanto rispose costantemente in modo negativo al dubbio proposto (in particolare per la “provvigione” nel caso di Castres del 17 novembre 1685, per quella di Alife del 18 luglio 1705, per quella di Policastro del 1 giugno 1737 e recentemente per quella di Valenza del 30 gennaio 1768). Di identico parere era stata la Congregazione dei Vescovi, come emerge dalla lettera al Patriarca di Venezia datata 26 maggio 1592, nonostante gli usi e qualunque motivazione contraria.
30. Oltre a ciò che è sancito nel citato decreto del Concilio di Trento (in relazione alla materia trattata anche nel cap. Si episcopus de off. Ordinarii, 6) si presti specifica attenzione affinché né il vescovo né chiunque del suo seguito, invocando la “provvigione”, accetti denaro o doni di qualunque natura, anche se spontaneamente offerti, eccezion fatta soltanto per le vettovaglie, o per l’offerta corrispondente ad esse, se coloro che vengono visitati avranno preferito questa forma di contribuzione. Nondimeno, alcuni ritennero che fosse loro lecito ricevere, oltre che il denaro delle vettovaglie o le vettovaglie stesse, anche vetture a cavalli per sé e per il proprio seguito ed anche qualcos’altro, con qualche motivazione non religiosa. Essi tuttavia furono sempre condannati dalla sacra Congregazione del Concilio ed il loro comportamento costantemente contestato, in quanto contrario sia ai sacri canoni sia al Concilio Tridentino. Nella visita pastorale di San Marco, tra gli altri vennero proposti questi due quesiti: “V) Se il clero sia obbligato a pagare qualcosa ai ministri ed agli altri rappresentanti del vescovo in visita; VI) Se lo stesso clero sia tenuto a pagare al vescovo in visita la vettura a cavalli“. Il 7 luglio 1708 questa fu la risposta: “Si doveva tener conto dei decreti già precedentemente pubblicati ed in particolare, per il V quesito, della sessione Amalfitana del 18 luglio 1699 (lib. 3, Decr. 49, p. 252); per il VI, di quella Abruzzese del dicembre 1784 (lib. 4, Decr. p. 10)”. Il senso che derivava dalla risposta e che si desume anche dagli altri decreti citati è chiaramente questo: per il quesito V, l’obbligo riguarda soltanto le vettovaglie, secondo la norma conciliare; per il quesito VI, la risposta è negativa.
Si ritornò in argomento in un’altra causa di San Marco il 16 gennaio 1723, al III quesito: “Se la predetta “provvigione“ abituale sia da pagare per intero, nella solita quantità di denaro, secondo gli usi di ciascun luogo che viene visitato, quando al vescovo ed al suo seguito vengono offerti anche tre pranzi, le vetture, l’alloggio e tutto il resto necessario, secondo l’invocata, antichissima consuetudine“. Il IV quesito proponeva: “Se al vescovo ed al suo seguito debbano essere assicurati i cibi e tutto il necessario per tutto il tempo della visita“. Al III quesito la sacra Congregazione rispose che “dipendeva da coloro che ricevevano la visita pagare la “provvigione“ in natura o in denaro, esclusi comunque i tre pranzi nel caso che si sia scelto il denaro; quanto alle vetture con cavalli si facesse riferimento al decreto del 7 luglio 1708, in sancti Marci ad VI“.Per il IV quesito valeva quanto risposto al terzo. Analogamente, per la “provvigione” di Policastro, quando fu presentato il II dubbio “se il predetto vescovo possa pretendere dallo stesso arciprete e dai chierici, oltre alla “provvigione“ di 15 ducati, pagati in moneta, anche le vettovaglie e le carrozze per sé e per il suo seguito, nel caso che, ecc.“, il giorno 1 giugno 1737 giunse il responso al II dubbio: “Negativo“”.
31. Si discusse anche se il vescovo e i suoi ufficiali potessero pretendere ed esigere qualche emolumento qualora, durante la visita pastorale, convalidassero testamenti per cause pie e legati pii, e curassero di avviarne l’esecuzione. In questa materia la sacra Congregazione del Concilio deliberò nella seduta di Maiorca del 7 agosto 1638, asserendo che il vescovo e i suoi ufficiali non possono ricevere pagamenti per i decreti emessi durante la visita, e nemmeno per le delibere di esecuzione dei legati pii, anche se in tal senso esistano consuetudini antichissime. Questione non dissimile sorse nel 1645 fra il vescovo di Vicenza da una parte ed i giurati del re della città di Minorissa Pratorum dall’altra. Sottoposta la materia alla stessa santa Congregazione, la risposta giunse sotto la data del 18 marzo dello stesso 1645 e fu del seguente tenore: “La sacra Congregazione ha stabilito che il vescovo in visita e i suoi incaricati non possono ricevere alcunché per i decreti o per le delibere di esecuzione dei testamenti o dei legati, ma debbono compiere il tutto gratuitamente, nonostante qualunque precedente consuetudine, anche antichissima. Al di fuori della visita, il vescovo ed i suoi incaricati possono ricevere denaro per decreti di questo tipo e per le delibere, ma solo quel tanto che verrebbe pagato – senza sprechi – al notaio per la stesura e per l’impegno, così come affidato alla coscienza del vescovo, nonostante qualunque consuetudine, anche antichissima“. Ciò fu deliberato anche ad Elnen il 28 marzo 1648, al quesito VIII.
A questo non sarà superfluo aggiungere quel che leggiamo essere stato sapientemente fissato nel consiglio provinciale di Milano V: “Il notaio o il cancelliere non esiga alcunché durante la visita pastorale da parte di coloro che sono visitati e non accetti doni di alcun tipo, nemmeno piccolissimi, offerti in qualunque modo; niente neppure per la emanazione dei decreti e delle ordinazioni effettuata durante la visita, per la scritturazione o per la riproduzione delle copie, né da singoli, né da chiese, né da sacerdoti, né dagli altri che ricevono la visita, come dispone l’editto di visita. È invece consentito che sia pagato (secondo il tariffario vigente o da fissare nel tribunale ecclesiastico) per la fatica e l’impegno profusi nel trascrivere le copie di cui – in tempo successivo – qualcuno interessato avrà fatto domanda“.
32. Queste norme debbono essere rispettate anche nella ricognizione dei libri che contengono i legati pii e il loro adempimento, nonché nella resa dei conti delle amministrazioni ecclesiastiche, delle confraternite, dei monti di pietà, e delle altre istituzioni pie, per il cui sviluppo sia il vescovo sia i suoi rappresentanti debbono impegnarsi gratuitamente, come si evince da quanto detto precedentemente e come ha dichiarato la sacra congregazione nel concilio di Vicenza del 27 giugno 1637, affermando: “Né al vescovo né ai suoi rappresentanti è lecito accettare alcunché per l’amministrazione delle opere pie o per l’esecuzione dei testamenti e delle volontà pie, ma tutto dev’essere fatto gratuitamente, nonostante qualunque consuetudine, anche contraria“. Il 20 settembre 1710, durante la confraternita di Lanciano, al X dubbio, nel quale si chiedeva “Se l’arcivescovo debba valersi, per la stesura dei bilanci, di sindaci ovvero di persone esperte elette dai confratelli, oppure possa rivolgersi a chi gli pare meglio“, la sacra Congregazione rispose “negativo“al primo quesito ed “affermativo” al secondo, ma gratuitamente (tomo 6, Thes. resolut., p. 164). Nonostante il vescovo debba darsi da fare affinché la revisione dei libri sia effettuata gratuitamente e la relazione sia stesa dal suo notaio o da un economo di casa o da chiunque altro addetto al suo servizio; tuttavia può accadere talvolta che per gravi ed urgenti motivi sia opportuno designare a pagamento un estraneo che non abbia alcun obbligo. Ogni volta che ciò accada, il vescovo stabilirà secondo giudizio e coscienza la congrua remunerazione per il revisore, commisurata al puro e semplice impegno, come sancì la sacra Congregazione a Veroli il 30 gennaio 1682 (lib. 35, Decret. f. 283), a Benevento il 7 giugno 1683 ed a Pesaro l’11 dicembre dello stesso anno.
33. A fronte di queste affermazioni della sacra Congregazione, solidamente basate sui sacri canoni, e dei decreti del Concilio Tridentino, non possono assolutamente essere accettate alcune consuetudini, che hanno più l’aspetto di corruzione, in forza delle quali alcuni vescovi e loro rappresentanti, mentre effettuano le sacre visite, ricevono qualche pagamento per l’esame di alcuni testamenti, oppure per la relazione contabile che esigono dagli amministratori di chiese o luoghi pii; oppure approfittano per tutto il tempo della visita della carrozza a cavalli o di qualche pranzo; oppure cercano di ottenere i lumini o le candele collocate sull’altare principale del tempio o anche su altri altari. Tutte queste abitudini, e le analoghe che sussistano, contrarie alle predette sanzioni, debbono essere assolutamente abolite: lo disponiamo ed ordiniamo!
34. Sebbene, sulla base della citata decisione della sacra Congregazione, adottata in Vicenza il 18 marzo 1645, il vescovo o il suo rappresentante, sia durante la visita sia al di fuori, non possa accettare alcunché per i decreti o le deliberazioni di esecuzione testamentaria di legati, ma debba svolgere ogni incarico gratuitamente, tuttavia durante le sacre visite può accettare la parte dovuta dei legati pii, delle offerte e delle altre beneficenze che vengono fatti alla chiesa in occasione dei funerali; tale quota parte viene popolarmente definita come “quarta canonica“, come fu risposto dalla stessa sacra Congregazione nelle riunioni di Urgel il 25 gennaio 1676 ed il 14 febbraio 1693 all’ottavo dubbio. I vescovi traggono questo diritto dai sacri canoni (cap. Officii 14, e Requisiti 5 de testamentis) che il Concilio Tridentino volle mantenere in vigore, come dimostra il fatto che proibì severamente ai vescovi di accettare alcunché per la visita, nemmeno in funzione dei pii usi dei testamenti, “eccetto ciò che per diritto è dovuto per i legati pii” (cit. sess. 24, cap. 3 De ref.). Ovviamente i vescovi devono mantenersi moderati nell’esigere questa parte, ossia la “quarta canonica“, e osservare i limiti fissati dagli stessi sacri canoni nel capitolo finale De testamentis, dove così si legge: “La parte canonica non deve essere dedotta da quelle offerte che vengono fatte alla chiesa, o alle altre strutture ecclesiastiche, per ornamenti, per l’edificio, per le luminarie, o in occasione di un anniversario, di un settimo giorno, di un vigesimo o di un trigesimo, o in modi diversi per la prosecuzione del culto divino“. Analoghi concetti si leggono nel capitolo “Ex parte de verb. signif.“. Inoltre non si deve operare alcuna deduzione dai legati per il matrimonio delle fanciulle – come dispose la sacra Congregazione dei Vescovi nella riunione di Nocera dei Pagani il 14 Settembre 1592 – né da quelli per la celebrazione delle messe (come stabilì la Sacra Congregazione del Concilio in un’altra seduta a Nocera dei Pagani, con il decreto Quartae canonicae, 13 gennaio 1714, lib. 64), sebbene a tempo immemorabile al vescovo venisse versata la quarta parte da tutti i legati pii.
35. Per quanto riguarda i monasteri delle monache o le case religiose nelle quali le donne vivono come monache, solitarie e lontane dagli impegni del mondo, è stato spesso ribadito dalle Costituzioni apostoliche e dalla sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari (con il parere favorevole e l’autorevole approvazione dei sommi Pontefici) che né i vescovi, né altri prelati o loro vicari generali, delegati speciali, rappresentanti, ministri, consanguinei o addetti possano assolutamente esigere o accettare emolumenti in denaro o in altra natura per l’ammissione delle fanciulle all’abito monastico; per l’approvazione del deposito della dote; per la verifica della volontà e della disposizione d’animo ad assumere l’impegno della vita regolare; per la pronuncia della professione; per l’accesso delle fanciulle al beneficio dell’educazione; per la rinuncia prima dell’ammissione alla professione; per l’elezione della badessa o di altra superiora; per l’autorizzazione a far entrare in monastero il medico, il chirurgo od altri operatori; per la facoltà di parlare alle monache o alle altre persone che vivono entro i chiostri del monastero; per la delega dei confessori, dei cappellani, dei procuratori, degli amministratori dei beni temporali e degli altri ministri, ed in generale per ogni atto necessario al regime monastico.
36. Da questa regola generale fanno eccezione soltanto le vettovaglie, che possono essere offerte al vescovo o ad altro prelato, in occasione di alcuni dei predetti atti; purché ciò sia l’unico introito e donativo e non ecceda quel che può loro servire per il tempo di tre giorni. Il cancelliere, per il documento delle rinunzie e per l’atto di deposito della dote, riceverà un onorario adeguato al lavoro e comunque non superiore a dieci giulii.
37. Oltre a queste, in molte altre situazioni che appartengono all’esercizio della potestà spirituale (dalla quale dev’essere assolutamente assente ogni retribuzione umana) e che competono al vescovo (per il cui sostentamento e per la cui gestione sono destinati gli introiti della mensa), ai vescovi non è consentito accettare nessun ulteriore emolumento, diretto o indiretto, a qualunque titolo e proposto con qualunque motivazione, nemmeno se spontaneamente donato; analogamente, ciò non è consentito ai loro vicari, né a qualunque rappresentante o impiegato.
Qui elenchiamo, Venerabili Fratelli, le voci principali, desunte dai sacri canoni, dalle Costituzioni apostoliche e dai decreti delle sacre Congregazioni, delle quali più frequente e nota è la menzione presso i dottori.
38. Per le cosiddette lettere patenti, cioè per il permesso di predicare in quaresima e in avvento, o in altro tempo e luogo (Conc. Trid., sess. 5, cap. 2, De reform.).
Per la licenza di dedicarsi a lavori servili, per gravi motivi, nei giorni festivi (Urbano VIII, Constit. Universa e numerose sacre Congregazioni del Concilio e dei vescovi, apud Ferrar. verb. festa, n. 31 seg.), anche se il denaro derivante dall’autorizzazione venga destinato a scopi pii.
Per la resa dei conti dell’amministrazione delle chiese e dei luoghi pii e per la revisione dei libri della stessa amministrazione, sia che sia fatta dal vescovo, sia da un altro incaricato del vescovo con delega generale o speciale, con l’eccezione, tuttavia, indicata precedentemente. – Per il riconoscimento, l’approvazione e la promulgazione delle reliquie, delle indulgenze e degli altari privilegiati.
Per l’autorizzazione a chiedere elemosine ed altro, anche se concessa a forestieri.
Per la nomina dei custodi delle chiese, i cosiddetti eremiti.
Per la lettera testimoniale di povertà o di qualche altro requisito. Il cancelliere tuttavia potrà percepire complessivamente dieci oboli.
Per la lettera con la quale si attesta che uno non ha ricevuto alcun ordine, nemmeno la tonsura clericale. Al cancelliere tuttavia potranno essere dati al massimo dieci oboli.
Per l’atto di rinuncia allo stato clericale, e per la sua ammissione, o anche per la lettera o attestazione della rinuncia stessa. Per questa lettera tuttavia il cancelliere potrà esigere dieci oboli.
Per la consultazione dei libri parrocchiali già trasferiti nell’archivio vescovile: libri nei quali sono indicati i battezzati, i cresimati, gli sposati e i morti. Per ciascuna consultazione su domanda, il cancelliere potrà ricevere al massimo venti oboli ed altrettanti per l’autenticazione del dato richiesto, a meno che la dignità della persona richiedente oppure l’uso della lettera testimoniale oltre i confini della diocesi o del regno non consentano un onorario maggiore.
Nel caso in cui la certificazione richiesta non risulti dai libri parrocchiali, e per ricavarla sia necessario mettere a confronto dei testimoni, oltre la mercede nella misura stabilita per l’escussione dei testi e per la redazione dell’atto, al cancelliere sarà consentito ricevere altri quindici oboli per la pubblicazione della lettera testimoniale; al vicario generale saranno pagati trenta oboli per i decreti con i quali avrà disposto la raccolta di informazioni e – dopo averle assunte e verificate personalmente – avrà ordinato la spedizione della lettera testimoniale.
Per l’autorizzazione a lasciare la chiesa o il beneficio (Conc. Trid. sess. 23, cap. 1 De ref.). Inoltre per le lettere commendatizie che vengono consegnate ai sacerdoti, ai chierici e a coloro che sono in partenza per altre diocesi.
Per le lettere ammonitorie di scomunica che palesino segreti, autorizzate dalla curia vescovile e dall’Ordinario, o quando si tratti di pubblicare lettere ammonitorie apostoliche. Il cancelliere riceverà dieci oboli per l’impegno della stesura. Lo stesso cancelliere sarà gratificato di un ulteriore compenso da parte del vescovo, che ne fisserà anche l’importo, per completare la trascrizione delle notizie che vengono rivelate, previo decreto del vicario.
Per la trascrizione di un’ammonizione, di una sentenza o della dichiarazione di censure nelle quali sia incorso qualcuno per avere percosso degli ecclesiastici o per qualsiasi altra causa, anche nel caso di sentenza assolutoria e della stessa assoluzione dalle censure (cap. Ad aures de simonia). Il cancelliere potrà ricevere al massimo venti oboli in pagamento della stesura, purché non si tratti di lettere provenienti dalla sacra Penitenzieria apostolica; per quelle che si riferiscono alla predetta assoluzione, il cancelliere non potrà ricevere alcun compenso. Venti oboli spetteranno al cancelliere anche per le schede di censura – i cosiddetti “cedoloni” – e per la loro affissione come d’abitudine. Analoga norma sarà applicata per la liberazione da un giuramento, con l’avvertenza che se essa sarà concessa nella curia ecclesiastica il cancelliere potrà ricevere per l’attestazione soltanto venti oboli; se essa verrà concessa fuori curia, per la lettera di delega allo stesso cancelliere verranno pagati altrettanti oboli.
Per l’autorizzazione a tenere pontificali.
Per dar corso alle lettere apostoliche che impartiscono benedizioni o assoluzioni; per le lettere con le quali la stessa facoltà viene attribuita ai parroci o ad altri, con l’inserimento di dette lettere apostoliche, al cancelliere saranno pagati, tutto compreso, soltanto trenta oboli. – Per l’esecuzione delle lettere apostoliche relative all’autorizzazione impetrata presso la sacra Congregazione ad alienare o permutare i beni delle chiese e dei luoghi religiosi, oppure ad imporre censi, il cancelliere riceverà un compenso proporzionato alla fatica compiuta per completare la pratica e le scritture. Comunque esso non supererà i dieci giulii. Se la Santa Sede avrà incaricato l’Ordinario di accertare la veridicità di quanto esposto nella supplica, allora al cancelliere toccheranno dieci oboli per ogni teste sottoposto ad esame. Tenuto conto della mole del lavoro, gli si potrà anche assegnare un certo compenso, secondo il giudizio e la coscienza del vescovo, per gli editti, ogni volta che siano prescritti; per l’esame dei testimoni teso ad accertare l’utilità dell’alienazione; e per tutti gli altri adempimenti che – come di consueto occorre portare a termine in questa materia. – Per il decreto d’alienazione che, in base al cap. Terrulas 12, q. 2, viene emesso solo dall’autorità ordinaria.
39. Infine le multe o le pene pecuniarie – quando saranno rese necessarie dalla natura del reato o dalle caratteristiche di chi lo commette – saranno devolute a scopi pii e per l’attuazione della giustizia, in modo che nulla torni a vantaggio personale del vescovo o dei suoi vicari o di chiunque dei suoi rappresentanti, né direttamente né indirettamente. Per eliminare ogni dubbio o sospetto di non corretta applicazione delle multe, sarà meglio – e perciò lo riteniamo necessario – che nelle sentenze stesse siano designate le istituzioni religiose o le chiese a favore delle quali devono essere destinate le predette pene pecuniarie, tenendo sempre conto, in ciò, di quelle che hanno maggior bisogno ed anche del domicilio di coloro che hanno commesso il reato.
40. Bisognerebbe aggiungere a questo punto alcune note sul foro del contenzioso, affinché la disciplina ecclesiastica anche sotto questo profilo riconquisti la dignità e lo splendore originari. Di questo, tuttavia, converrà deliberare dopo un giudizio più approfondito e una volta assunte informazioni complete sulle consuetudini in uso in codeste diocesi. Vi è un principio, per ora, sulla quale non possiamo mantenere il silenzio e che anzi vogliamo trasmettervi ed inculcarvi con forza: gli ecclesiastici impegnati nell’emettere sentenze nelle cause spirituali svolgano il loro compito santamente, pietosamente e religiosamente, in modo che in loro non appaia nulla che offuschi con la minima ombra il candore della purezza ecclesiastica. Ne discenderà in primo luogo che i giudici ecclesiastici delle vostre diocesi non richiederanno o accetteranno alcun pagamento né per gli atti né per le sentenze pronunciate nelle cause spirituali; in particolare in quelle che riguardano la religione (come quelle contro i sospetti di eresia e i colpevoli di superstizione) o i fidanzamenti, i matrimoni, le censure, eccetera. Per questo motivo, “Ricordatevi (sono parole di Innocenzo III ai prelati e ai sacerdoti della Lombardia, nel cap. Cum ab omni, sui comportamenti e l’onestà dei religiosi) che le entrate ecclesiastiche sono destinate a favore vostro e degli altri chierici, perché con esse dobbiate vivere onestamente e non vi sia necessario stendere la mano verso turpe lucro, oppure abbassare gli occhi verso impegni non corretti. Poiché le vostre opere debbono essere di luminoso esempio ai laici, non vi sia lecito cogliere l’occasione di fare turpe commercio del diritto, come fanno i civili. Perciò ordiniamo e disponiamo che – astenendovi per il futuro da esazioni di questo tipo – individuiate come trasmettere gratuitamente ai litiganti il vigore della decisione giudiziaria, nonostante ciò che viene proposto fraudolentemente da alcuni, secondo i quali la stessa cifra venga pretesa a favore degli assistenti, poiché al giudice non è lecito commerciare un giudizio equo, e le sentenze a pagamento sono vietate anche dalle leggi civili“.
41. Questi sono, Venerabili Fratelli, gli obiettivi che abbiamo ritenuto giusto sottoporvi, in favore della causa apostolica, per la quale siamo impegnati, e per gli obblighi assunti. Se, come è giusto e come speriamo in Dio, voi li realizzerete, tutto ciò gioverà allo splendore della disciplina ecclesiastica, alla tranquillità delle vostre coscienze e soprattutto al benessere del gregge a voi affidato. – Riteniamo che questi adempimenti non vi risulteranno né onerosi né molesti, quantunque vediamo che con queste norme verrà meno una parte dei vostri consueti emolumenti. Un sospetto di questo tipo nei vostri confronti ci è comunque impedito dalla vostra attenta devozione, dalla vostra ben nota religiosità e dall’impegno per mantenere la disciplina ecclesiastica, sulla base dei quali giudicherete certamente un danno per Cristo ciò che finora rappresentava per voi un vantaggio economico. Individuerete come autentico motivo di guadagno esclusivamente il fatto che nelle vostre diocesi cresca sempre più l’adorazione per Dio ottimo e massimo, e che i popoli affidati alla vostra fede e alla religione si nutrano più facilmente e più felicemente della vostra parola e del vostro esempio.
Inoltre siamo stati pienamente informati da coloro che ben conoscono le vicende ecclesiastiche di codesta isola, ed in particolare a nome del re, che per voi rappresentano un vantaggio coloro che, ritagliandosi piccoli compensi (che non vi sarà consentito d’ora in avanti esigere), si curano del decoro e della dignità del vescovo e provvedono alle necessità delle chiese. Per non sperare di ricevere alcun aiuto da coloro ai quali vi siete appoggiati fin qui per antichissima consuetudine, converrà che vi ricordiate la famosa frase di Alessandro III (cap. Cum in ecclesia, de simonia)con la quale quel sommo Pontefice rimproverava coloro che inopportunamente si tenevano attaccati alle loro abitudini: “Molti ritengono che ciò sia loro lecito, poiché pensano che la legge della mortesi sia rafforzata per la lunga consuetudine, non riflettendo a sufficienza – accecati come sono dalla cupidigia – che quanto più gravi sono i peccati tanto più a lungo le loro anime saranno incatenate“.
Dunque rigettiamo e condanniamo queste abitudini, anche se antichissime e persino immemorabili; anche se corroborate e confermate da costituzioni sinodali o da qualunque altra autorità, anche apostolica. Dichiariamo, stabiliamo ed ordiniamo che debbano essere considerate come abusi e fonte di corruzione. Animati da sollecitudine per le vostre chiese, come questa lettera ampiamente dimostra, abbiamo in Noi saldissima la speranza che voi non lesinerete impegno, diligenza ed attenzione.
Frattanto, in pegno del Nostro amore paterno nei vostri confronti e della Nostra benevolenza, vi impartiamo la Benedizione Apostolica.
Dato a Roma, in Santa Maria Maggiore, il 21 settembre 1769, nel primo anno del Nostro Pontificato.
In tempi funestissimi per la Chiesa francese, il S. Padre Pio VI, dà facoltà straordinarie a Vescovi e amministratori di Diocesi, onde concedere dispense, assolvere da censure riservate, in atti vari compiuti in forza di indulti, etc. etc. La situazione per quella Chiesa primogenita era allora particolarmente complicata ed aveva dovuto registrare numerose defezioni, alle quali si voleva rimediare procedendo in tal modo. Oggi siamo in una situazione per certi versi analoga, anche se più grave, perché le defezioni e lo scisma dalla vera Chiesa, sono praticamente totali, vista la adesione, cosciente (Dio non voglia) o meno alla falsa eretica antichiesa dell’uomo, parto distocico della sinagoga di satanasso, operante in modo sempre più violento ed oramai occupante usurpandoli, tutti i posti dell’orbe cattolico, in particolare il colle Vaticano. Quando il vero Pontefice tornerà – liberato per intervento del Cristo (2 Tess. II) dall’oppressione della setta di perdizione che lo tiene occultato ed impedito come all’epoca lo fu l’eroico Pio VI – ad occupare il posto al quale ha diritto per mandato divino, si troverà a gestire una situazione analoga, naturalmente centuplicata e planetaria, e dovrà servirsi dei pochi prelati rimasti a lui fedeli che ne hanno seguito tutte le disposizioni nonché i canoni della Sede Apostolica contenuti nel Codice di Diritto Canonico (quello vero cattolico del 1917) e che detengono legittimamente il proprio mandato e la giurisdizione validamente ottenuta dal Santo Padre regnante. Questa lettera, quindi, potrebbe costituire un precedente da prendere come modello, anche se probabilmente la situazione sarà molto diversa, come le Sacre Scritture ci profetizzano in Daniele, San Paolo, nel Vangelo e nell’Apocalisse. Ma noi del pusillus grex ci contenteremo per il momento di leggere e studiare questa breve lettera pregustando il momento gioioso in cui il nostro giusto Giudice, come baleno dall’Oriente, farà trionfare la vera Giustizia, anche se sappiamo di dovere attraversare momenti terribili di fughe, persecuzioni, martirio. Ma una certezza ci spinge a tutto sopportare con pazienza: la nostra fede in Gesù, il Cristo, vero Dio e vero Uomo, il trionfo certo della Chiesa Cattolica, del Corpo mistico di Cristo e del Cuore immacolato di Maria … et Ipsa conteret caput tuum
S. S. PIO VI
In gravissimis
Roma, 19 marzo 1792
1. Nelle gravissime e molteplici preoccupazioni che dobbiamo continuamente sostenere, per quella sollecitudine a favore di tutte le Chiese che Ci è stata affidata dal supremo Principe dei Pastori, Gesù Cristo, in questi tempi pericolosi, nei quali molti, anzi troppi, figurano nel numero di coloro di cui parla profeticamente l’Apostolo, di coloro cioè che “non sopportano più la sana dottrina e si circondano di maestri che corrispondano ai loro desideri, rifiutando di dare ascolto alla verità“, Noi non troviamo maggiore e più dolce conforto che comunicare con i Nostri Fratelli Vescovi che, chiamati a far parte della Nostra stessa sollecitudine, si dedicano con animo alacre e coraggioso ad eseguire i doveri del loro ufficio e a provvedere alla salvezza del gregge loro affidato con grande diligenza e nel migliore modo possibile.
2. Abbiamo provato recentemente una grande consolazione quando abbiamo letto e riletto la lettera piena di zelo che Ci avete inviato il 16 dicembre dello scorso anno voi che vi trovate a Parigi, e quella che Ci hanno scritto l’8 gennaio del corrente anno i vostri Fratelli Vescovi che risiedono a Roma. Da queste lettere abbiamo appreso che Ci chiedevate di investire con un indulto generale tutti i singoli Vescovi del Regno di Francia e gli amministratori delle Diocesi (per il tempo in cui sono vacanti le Sedi Episcopali) di alcune più ampie facoltà, onde possano pascere e governare più facilmente il gregge affidato.
3. Non abbiamo trovato alcuna difficoltà a riconoscere quanto giusta fosse questa richiesta, così corrispondente alla malvagità dei nostri tempi e così degna dei sacri Presuli che riconoscono i doveri del loro ufficio e intendono compierli con tutte le loro forze.
Alla fine delle lettere di cui abbiamo parlato, essi testimoniano l’ossequio che le Chiese Gallicane professano verso l’autorità della Sede Apostolica mediante alcune dichiarazioni, due delle quali vogliamo riportare.
La prima dichiarazione è: “Non si deve esercitare nessuna facoltà proveniente dalla Santa Sede o in proprio o da usare attraverso delegati subalterni senza una previa dichiarazione da iscriversi nello stesso corpo dell’atto, cioè che si proceda in virtù del potere delegato dalla Sede Apostolica, annotando anche la data della concessione“.
La seconda dichiarazione è: “Si osserveranno rigorosamente i decreti e le disposizioni dei Sommi Pontefici, dei Concilii, nonché le consuetudini della Chiesa di Roma verso la Chiesa Gallicana nel concedere dispense, nell’assolvere da censure e in tutti gli altri atti compiuti in forza di indulti“.
4. Pertanto su consiglio di una speciale Congregazione di Venerabili Nostri Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa tenuta in Nostra presenza il 19 gennaio scorso, concediamo alle vostre Fraternità e a voi diletti Figli amministratori delle Diocesi, per mezzo della presente lettera, per il tempo e nel modo precisati nel presente indulto, le facoltà qui descritte e delle quali devono valersi alcune Sedi Episcopali più di altre.
5. Pertanto confortatevi, Venerabili Fratelli nel Signore, e per la potenza del suo braccio, indossando l’armatura di Dio contro i dominatori di questo mondo di tenebre, combattete come già avete fatto, quali valorosi militi di Cristo. Più che mai in tempo di tribolazione è necessario che i sacri Presuli mostrino quella solida virtù cristiana e quella sacerdotale costanza della quale devono essere dotati, secondo le parole dell’Apostolo, “al fine di essere in grado di esortare i potenti nella sana dottrina e di richiamare coloro che la combattono“.
Vi assicuriamo pertanto, sempre, ogni miglior difesa da parte della Nostra autorità pontificia, e la testimonianza della Nostra paterna benevolenza. Come pegno di entrambe impartiamo a voi, diletti Figli, Venerabili Fratelli, con tanto affetto la Benedizione Apostolica.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 19 marzo 1792, anno diciottesimo del Nostro Pontificato.
* * *
FACOLTÀ CONCESSE DALLA SEDE APOSTOLICA
Ai singoli Arcivescovi e Vescovi e Amministratori delle Diocesi del Regno di Francia, che hanno comunione e grazia con la Sede Apostolica.
6. I. Facoltà di assolvere da tutti i casi in qualsiasi modo riservati alla Santa Sede, e particolarmente di assolvere da tutte le censure ecclesiastiche qualsiasi laico ed ecclesiastico, sia secolare, sia regolare, di ambedue i sessi; e anche coloro che aderirono allo scisma e prestarono giuramento civile e perseverarono in esso oltre i quaranta giorni stabiliti nella lettera apostolica del 13 aprile dello scorso anno per la sospensione a divinis, purché tuttavia abbiano ritrattato pubblicamente e palesemente tale giuramento, e abbiano riparato nel miglior modo possibile allo scandalo dato ai fedeli.
7. II. Facoltà di dispensare coloro che, già iniziati allo stato ecclesiastico, devono essere promossi agli Ordini minori o anche agli Ordini sacri, dalle irregolarità contratte in qualsiasi modo; anche da quella che hanno contratto i violatori della sospensione latae sententiae comminata con la stessa lettera del 13 aprile, purché essi, prima di essere dispensati, ritrattino il giuramento civile, prestato in modo puro e semplice, con una ritrattazione pubblica e palese. Si eccettuano tuttavia quelle irregolarità che provengono da bigamia accertata o da omicidio volontario: ma anche in questi due casi si concede la facoltà di dispensare se ci fu una precisa necessità o costrizione di lavoratori buoni e probi, purché, riguardo all’omicidio volontario, non sorga scandalo da una tale dispensa.
8. III. Facoltà di dispensare e commutare anche i voti semplici di castità, per una causa ragionevole, in altre pie opere; e questo per quelle Congregazioni di uomini e donne che sono stretti da questi vincoli, ma non dal voto (solenne e perpetuo) di religione.
9. IV. Facoltà di dispensare nei matrimoni già contratti o da celebrare sull’impedimento di pubblica onestà derivante da legittimi sponsali.
Di dispensare sull’impedimentum criminis se nessuno dei due coniugi ha collaborato, e di restituire il diritto di risarcimento del debito perduto in conseguenza dell’impedimento.
Di dispensare negli impedimenti di cognazione spirituale fuorché tra il padrino e il figlioccio.
Di dispensare nel terzo e quarto grado di consanguineità e di affinità semplice e anche mista, tanto nei matrimoni già contratti quanto in quelli da contrarsi, e non solo tra i poveri, ma anche tra i ricchi.
Di dispensare anche nel secondo grado di consanguineità semplice e mista, purché in nessun modo si tocchi il primo grado, sia nei matrimoni già contratti, sia in quelli da contrarsi, e non solo tra i poveri, ma anche tra i ricchi.
Tutte queste dispense matrimoniali non devono essere concesse se non con la clausola: “Purché la donna non sia stata rapita, e, qualora fosse stata rapita, finché resta in potere del suo rapitore“.
Inoltre gli Arcivescovi, i Vescovi e anche gli Amministratori delle Diocesi (onerata con somma gravità la loro coscienza) sono tenuti a trascrivere tutte e singole le dispense matrimoniali concesse o da concedersi in un registro autenticato, che deve essere conservato presso di loro accuratamente e occultamente, con i nomi di tutti coloro che hanno ottenuto la dispensa.
10. V. La facoltà di dispensare, in caso di minore età, di tre mesi per ricevere gli Ordini sacri, salvi gli indulti di dispensare di tredici mesi, in caso di minore età, già concessi dalla Sede Apostolica ad alcuni Vescovi e Amministratori di Diocesi.
11. VI. La facoltà di conferire gli Ordini al di fuori dei tempi stabiliti in caso di utilità o di necessità, se si tratta di Vescovi; e di dispensare a favore di chi deve ricevere gli Ordini fuori dei tempi stabiliti, se si tratta di Amministratori delle Diocesi vacanti.
12. VII. Facoltà di disporre dei benefici parrocchiali e di altri titoli ecclesiastici ai quali è connessa la cura d’anime, in favore di sacerdoti secolari oppure di regolari, di qualsiasi Istituto, senza tener conto della secolarità o della appartenenza religiosa di tali titoli, in mancanza di sacerdoti secolari ai quali conferire i predetti benefici secolari, o in mancanza di sacerdoti religiosi ai quali conferire i benefici degli Ordini religiosi. Si concede pure facoltà di conferire questi benefici, nonostante la regola dei mesi e l’usanza di alternare, per quelle Diocesi nelle quali si osservano la predetta regola dei mesi e l’usanza di alternare.
13. VIII. Facoltà di concedere ai religiosi di qualsiasi Ordine o Congregazione la possibilità di passare in altro Istituto, anche se la regola vigente in quest’ultimo fosse meno austera di quella dell’Istituto nel quale fecero la loro prima professione.
14. IX. La facoltà di concedere ai religiosi regolari esenti e anche non esenti, di qualsiasi Ordine o Istituto, che furono costretti a vivere fuori del convento e a deporre l’abito religioso, di indossare abiti secolari, purché convenienti ad un ecclesiastico; e di continuare a vestire tali abiti sotto l’obbedienza del Vescovo, qualora manchino i relativi Superiori regolari oppure non siano in grado di esercitare qualsiasi giurisdizione sui loro sussidi, fermo sempre restando l’obbligo di osservare i voti solenni.
15. X. La facoltà di presiedere alle elezioni e di confermarle e di dare le obbedienze e di esercitare tutti gli uffici dei superiori immediati nelle case delle fanciulle soggette alla direzione di religiosi, ogni qualvolta questi siano assenti o impediti o negligenti nell’esercizio del loro ufficio. I Vescovi possono procedere come delegati della Sede Apostolica, salvo tuttavia i diritti notoriamente esistenti per qualsiasi titolo nei confronti delle stesse case e delle persone, a norma di speciali clausole canoniche. Parimenti ai medesimi, come delegati della Sede Apostolica, è data facoltà di concedere ai religiosi di ambedue i sessi, anche esenti, sia a tutti collettivamente, sia in particolare ai singoli, la dispensa dall’osservare quella parte di regole e costituzioni che nella presente situazione non può essere osservata senza grave pregiudizio.
16. XI. Facoltà di impartire l’indulgenza plenaria in articulo mortis nella forma prescritta dal Sommo Pontefice Pio VI nella sua costituzione del 7 aprile 1747.
17. XII. Facoltà di rinnovare e prorogare le indulgenze concesse ad tempus dai Sommi Pontefici alle case religiose e alle congregazioni, secondo che sarà richiesto dalle necessità dei tempi e delle circostanze. Inoltre, la facoltà di trasferire tutte le indulgenze (concesse e assegnate per qualsiasi titolo alle Chiese cattedrali o parrocchiali che sono state invase e occupate da pseudo-pastori) a quelle Chiese nelle quali i cattolici possono convenire per celebrare i divini misteri.
18. XIII. Facoltà di estendere e comunicare tali facoltà – eccetto quelle che richiedono l’Ordine episcopale – in toto o in parte, come la loro coscienza avrà suggerito, anche ai sacerdoti idonei, sia per tutti i luoghi, sia per alcuni delle loro Diocesi, per il tempo che riterranno più opportuno, come meglio giudicheranno in Domino; non solo, ma anche facoltà di revocare tali concessioni e anche di moderarne l’uso, sia in relazione al luogo, sia al tempo di esercitarle.
19. XIV. Concediamo il potere di subdelegare ai singoli presbiteri quelle facoltà che non richiedono la consacrazione episcopale e che furono concesse agli Arcivescovi e ai Vescovi di Francia in forza dell’indulto generale del 10 maggio dello scorso anno. Agli Arcivescovi e Vescovi di Parigi e di Lione, e ai Vescovi delle Diocesi più antiche di ogni provincia del regno di Francia, concediamo il potere di subdelegare anche quelle facoltà che in forza delle risoluzioni del 18 agosto furono concesse loro in modo speciale in data 26 settembre dello scorso anno. Queste facoltà vengono prorogate per tutto il tempo di questo indulto.
20. Tutte le predette facoltà vengono concesse per un anno, cominciando da questo giorno, se così a lungo durerà la calamità di questi tempi. Vengono concesse pertanto a condizione che per nessuna ragione si possa usarne fuori delle Diocesi di competenza e neppure nei luoghi non soggetti al Re cristianissimo.
Infine, vengono concesse sotto la precisa condizione che gli Arcivescovi, i Vescovi e gli Amministratori delle Diocesi, nell’esercizio di tali facoltà, espressamente dichiarino che le stesse vengono concesse da loro come delegati dalla Sede Apostolica; tale dichiarazione deve essere inserita nel corpo stesso dell’Atto.
«… Per spiegare come sia avvenuto improvvisamente tale cambiamento, [per mezzo dell’armistizio], potrebbero essere addotte certamente molteplici e svariate cause, ma se si vuole cercare veramente la ragione suprema bisogna risalire assolutamente a Colui che governa tutti gli eventi e che, mosso a misericordia dalle perseveranti preghiere dei buoni, ha concesso all’umanità di riaversi alfine da tanti lutti ed angosce …» Ecco il punto centrale di questa brevissima lettera di SS, Benedetto XV, scritta per ringraziare Nostro Signore pere la fine della Grande Guerra, con le tre paroline che dovrebbero essere sempre stampate nella mente di ogni uomo di buona volontà: risalire assolutamente a Colui .. che è l’Autore di ogni pace sulla terra, di ogni avvenimento pur minimo, come il movimento di una fogliolina d’erba, e che permette a volte anche cose umanamente terrificanti o dolorose a nostro castigo o correzione, mirando sempre però a farci raggiungere l’obiettivo della eterna salvezza dell’anima, l’unico “affare” per noi indispensabile. Queste paroline dovrebbero essere oggi continuamente ripetute nella mente di popoli frastornati da eventi poco chiari, per certi aspetti sconcertanti o francamente dubbi, il cui unico pensiero è tornare alla “normalità” di una vita peccaminosa, lontana da Dio e dalla sua retta dottrina salvifica, ribelle alla volontà del Creatore manifestata e professata dalla Santa Chiesa di Cristo e disposta ad ogni sacrificio pur di riaverla fino a tollerare schiavitù morale, spirituale, economica, persino fisica. Ecco perché il “signore dell’universo”, il baphomet-lucifero, la Corona, il primo dei sephiroth cabalistici [cioè ancora e sempre lo steso lucifero], per attuare i suoi piani mondialisti e di governo totalitario unico, ha dovuto invadere la Chiesa e sostituirsi ad essa, dal 26 ottobre del 1958, spacciandosi falsamente come tale ed imponendo una serie di ridicoli fantocci compiacenti, veri servi del prossimo venturo falso “messia” della antichiesa universale ecumenico-satanica. Tornare a Dio e al suo vero Messia Gesù-Cristo attraverso il suo Corpo mistico, che in terra è unicamente la sua “vera” Chiesa Cattolica, la Chiesa militante di sempre, scaturita dal costato aperto del Cristo in croce, è l’unico vero rimedio a questi assurdi avvenimenti che stanno coinvolgendo tutti i popoli del pianeta, soprattutto gli apostati ex-Cristiani. Facciamo allora nostre queste poche “paroline”, mettiamole in pratica con il culto divino della vera Chiesa, ed il Signore “che governa tutti gli eventi” brucerà rapidamente i suoi ed i nostri nemici.
Benedetto XV
Quod iam diu
Lettera Enciclica
Ai Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi ed agli altri Ordinari locali che hanno pace e comunione con la Sede Apostolica.
Venerabili Fratelli, salute ed Apostolica Benedizione.
Il giorno che il mondo intero aspettava ansiosamente da tanto tempo e che tutta la cristianità implorava con tante fervide preghiere, e che Noi, interpreti del comune dolore, andavamo incessantemente invocando per il bene di tutti, ecco, in un momento è arrivato: tacciono finalmente le armi. Per la verità, la pace non ha ancora posto solennemente la parola fine alla crudelissima guerra, tuttavia quell’armistizio che intanto ha sospeso le stragi e le devastazioni compiute in terra, nel mare e nell’aria, ha felicemente aperto la porta e la via alla pace.
Per spiegare come sia avvenuto improvvisamente tale cambiamento, potrebbero essere addotte certamente molteplici e svariate cause, ma se si vuole cercare veramente la ragione suprema bisogna risalire assolutamente a Colui che governa tutti gli eventi e che, mosso a misericordia dalle perseveranti preghiere dei buoni, ha concesso all’umanità di riaversi alfine da tanti lutti ed angosce. Mentre dunque dell’insigne beneficio vanno rese somme grazie alla bontà di Dio, Ci rallegriamo che a tale scopo molte ed imponenti dimostrazioni di pietà abbiano avuto luogo nel mondo cattolico. Resta ora da impetrare dalla divina clemenza che il gran dono elargitoci abbia il suo coronamento. Fra poco i delegati delle varie nazioni si aduneranno a solenne congresso per dare al mondo una pace giusta e duratura. Dovranno pertanto prendere deliberazioni così gravi e complesse, quali non furono mai prese da un’umana assemblea.
Non è possibile dire quanto abbiano bisogno di essere illuminati dalla luce divina per potere assolvere il loro mandato. E poiché si tratta di decisioni che interessano sommamente il bene di tutta l’umanità, senza dubbio i Cattolici, che debbono per coscienza favorire ordine e progresso civile, hanno il dovere di invocare su coloro che parteciperanno alla Conferenza della pace ” la sapiente assistenza del Signore “. Noi vogliamo che tale dovere sia ricordato a tutti i cattolici. Pertanto, Venerabili Fratelli, affinché frutto dell’imminente Congresso sia quel gran dono di Dio che è una vera pace fondata sui principî cristiani della giustizia, allo scopo di implorare su di esso i lumi del Padre celeste, sarà premura vostra indire in ciascuna parrocchia delle vostre diocesi pubbliche preghiere nella forma che stimerete opportuna.
Quanto a Noi, che quantunque indegnamente rappresentiamo Gesù Cristo, Re della Pace, Ci adopreremo con tutta la forza e l’autorità del Nostro apostolico ministero affinché le decisioni che saranno adottate per perpetuare in tutto il mondo la tranquillità dell’ordine e la concordia siano ovunque accettate volentieri dai cattolici, e fedelmente osservate. Auspice dei celesti favori e pegno della Nostra benevolenza, a voi, al clero e al vostro popolo impartiamo di cuore nel Signore l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 1 dicembre 1918, anno quinto del Nostro Pontificato.
« Si è calmata la tempesta … » scriveva il Sommo Pontefice SS. Gregorio XVI, che si era abbattuta – come sempre – sulla santa Madre Chiesa, pensando che ne seguisse un periodo di pace e stabilità… Ma per la Chiesa non c’è stata e ci sarà mai una vera calma se non nella Gerusalemme discesa dal cielo dopo feroci persecuzioni, di cui l’ultima sarà scatenata dall’anticristo in persona, persecuzione con cui il serpente maledetto, cercherà di trascinare nello stagno di fuoco gli uomini ingannati dai suoi falsi prodigi operati nella Chiesa medesima da lui invasa, trasformata lentamente e scaltramente in tempio del demonio – il baphomet signore dell’universo – con la fedele collaborazione degli adepti delle logge di perdizione, in particolare di quelle costituite da finti chierici usurpanti ed apostati, operanti ai massimi livelli, come la Vergine di Fatima ci aveva rivelato in uno dei suoi segreti che la “sinagoga di satana” si era ovviamente ben guardata dal rendere noto. Quella pace durò infatti pochi brevi anni che prelusero allo spogliamento dei territori della Chiesa da parte di una stirpe regale caduta nella trappola di uomini infidi e perversi che la vulgata storica ateo-laicista ha poi onorato con statue e monumenti infami tuttora presenti nelle nostre piazze a testimonianza di una genia ribelle e pagana che ha dato l’assalto alla Chiesa, al suo Vicario, alla legge di Dio, e a Dio stesso. È stato un po’ come una domenica delle Palme, trionfo momentaneo al quale doveva presto seguire la Passione e la morte di Nostro Signore Gesù Cristo, nello specifico il colpo di mano del 26 ottobre del 1958, ed il ribaltone del conciliabolo Vaticano II... pluet super peccatores laqueos; ignis et sulphur, et spiritus procellarum, pars calicis eorum …
ENCICLICA DEL SOMMO PONTEFICE GREGORIO XVI
QUEL DIO
A tutti i sudditi dello Stato Pontificio.
Il Papa Gregorio XVI. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.
Quel Dio, che nei suoi impenetrabili consigli non disdegnò chiamare la Nostra debolezza al Sommo Pontificato, non ci dimenticò fra le angustie che fin dai primi momenti del medesimo si moltiplicarono rapidamente, e con un tratto della sua sempre amabile provvidenza, non permettendo che esse fossero superiori alle forze, fornì sollecitamente a Noi con la tribolazione stessa il mezzo di superarla, affinché non fossimo confusi nelle speranze di sicura protezione divina, le quali già esternammo vivissime nell’indirizzare per la prima volta la voce ai Nostri popoli. Perciò, mentre annunciamo lieti che si è calmata la tempesta e resa la tranquillità nelle province (che persone nemiche della Religione e del trono desolarono con gli orrori della fellonia), esultiamo nel poter proclamare, a gloria del vero, che, se si conserva incontaminata nel Nostro popolo Romano la purità di quella fede, che con divina testimonianza asserì l’Apostolo Paolo essere annunziata in tutto l’universo, costante del pari e celebrata in tutta l’Europa è la sua fedeltà a chi ne è costituito Padre e Sovrano. – Dolce è per Noi rendere così un pubblico elogio ad un popolo tanto fedele, da cui perciò anche nei momenti più torbidi non Ci saremmo mai allontanati, risoluti di dividere con esso quella sorte con la quale fosse piaciuto a Dio umiliarci sotto la potente sua mano. L’attaccamento sincero, la filiale obbedienza, la docile sommissione dello stesso popolo verso la Nostra persona, come ispiravano a Noi una illimitata fiducia nel medesimo, così Ci renderanno sempre cara la memoria delle commoventi dimostrazioni che esso cercò di fornire con i modi più luminosi. – Passarono, mercé il divino soccorso che nel fervore di pubbliche e private preghiere affrettarono i Nostri figli, passarono i giorni di tristezza, e in un con l’arco si spezzarono le armi, che mani sacrileghe imbrandirono per portare nell’agro Levitico devastazione e pianto. La Sede del Cristianesimo, che per singolare predilezione Dio volle che si reggesse da chi fosse principe e pontefice, affinché l’essere egli principe lo rendesse più libero nell’esercizio della sua spirituale autorità, trionfò anche questa volta, difesa contro le macchine dell’empietà da chi la pose quasi torre inespugnabile da cui pendono a mille e mille gli scudi ed ogni armatura dei forti. – Ma se con la sincerità di riconoscenza più viva ravvisiamo nell’imperiale reale esercito Austriaco quelle elette schiere di prodi, alle quali Dio volle riservato il trionfo sopra la perversità dei rivoltosi, e con esso l’onore di restituire i suoi Stati alla Santa Sede, coronando con sì felice successo gl’impulsi incessanti di quella religione purissima che forma il più bell’elogio dell’augusto e potente loro signore Francesco I (al quale indelebile gratitudine Ci legherà perpetuamente), siano pure gloria e lode a quegli onorati cittadini che, riunitisi premurosi in milizia civica, vegliarono indefessi sotto le armi, e fra i travagli di servizio più stretto, alla salvezza della Nostra persona ed alla quiete di questa città. Noi osservammo con tenerezza gareggiare in questo, generosamente e indistintamente col popolo, persone tratte dalla nobiltà più illustre, e da quanto vi è in tutti gli ordini di scelto e di attivo. Il nostro spirito ne fu commosso sommamente; e caro quindi Ci è il dichiarare che a prove sì belle di tanta devozione corrisponderà sempre la pienezza del Nostro affetto, che non sarà pago se non con la sicurezza della compiuta felicità di figli così fedeli: è per Noi un vero conforto dedicare ad essa le cure più industriose. – Ma in così decisa fedeltà e in così nobile intendimento il popolo Romano ebbe emule le convicine province che, dopo essersi disposte alla difesa dei loro territori, ebbero a gloria d’inviare dei volontari i quali, lasciati i propri focolari, concorsero ad aumentare quella parte preziosa delle Nostre truppe che, sotto esperti ed onorati condottieri, sentì la forza dei giuramenti a Noi prestati, e seppe difendere e far rispettare un suolo sacro alla fedeltà: e qui abbiano tutti l’assicurazione del Nostro pieno gradimento e la promessa che ciò non rimarrà sterile, troppo interessandoci di procurare effettivamente il loro maggiore vantaggio, per quanto le infauste circostanze lo permetteranno. – Vorremmo pur dilatare il cuore con eguali espressioni anche sopra tutti gli altri popoli che Dio affidò al Nostro temporale governo. Ma se essi furono trascinati nelle disavventure della rivolta, Ci è ben noto che non furono, nella massima parte, che vittime della coazione o del timore, come ben dimostrarono l’esultanza e la gioia con cui, appena apparve un raggio di prossima liberazione, scosso il giogo umiliante loro imposto dai sediziosi, e sostituito alle insegne della fellonia il pacifico vessillo del governo Pontificio, si proclamò il ritorno a quel Padre e Sovrano dal cui seno li aveva strappati miseramente il delitto di pochi. – Fermi nel gran pensiero di dare provvidenze che migliorino felicemente lo stato dei Nostri sudditi, volgemmo a questo, anche fra le affliggenti passate calamità, le Nostre sollecitudini: pronti sempre ad ascoltarne i voti che siano figli di autentici bisogni, ed atti ad operare i desiderati vantaggi, manifesteremo premurosi quelle disposizioni che la considerazione del passato e l’esame delle circostanze Ci additano essere le più utili. – Ma tante cure paterne rimarrebbero purtroppo deluse, né potrebbero farci pervenire al bramato intento, e quand’anche Ci si presentasse il più lusinghiero apparato di un felice avvenire, momentanea ne sarebbe la durata se con energiche misure non si prevenisse il ritorno dei disordini, che lasceranno a lungo le tracce dei mali che ne ridondarono. – Memori, perciò, che sarà sempre soffocato il grano eletto se non ne sia divelta fin dalle radici la zizzania che l’uomo nemico vi disseminò, non potemmo che vedere con rincrescimento un atto dato in Ancona il giorno 26 dello scorso marzo, il quale, lasciando illesi gli elementi della ribellione, non ne sospendeva che momentaneamente gli effetti, che tanto più ruinosi si sarebbero risentiti appena fosse mancato quel che ne arrestava il vorticoso torrente. Ma grazie a quel Dio che immenso nella sua provvidenza trae dal male veri beni, ove così giudichi convenire per la causa della maggiore sua gloria, Egli permise nei capi dei faziosi nuove penali cecità. Avverandosi nei medesimi che essi fallirono nei loro vaneggiamenti nello scrutare follemente nuovi mezzi alla loro reità, essi decisero di riparare al bisogno dell’istante col carpire in presenza della forza e con fallaci prospetti d’imminenti sciagure, non senza simulare anche menzogneri pentimenti, un atto del dilettissimo Nostro figlio il cardinale Benvenuti, il quale senza alcun riguardo alla sublime sua dignità ingiuriato poco prima, assalito, arrestato e caduto per siffatti trattamenti in grave malattia, né ancor reso alla necessaria libertà, era tuttora trattenuto da quegli stessi che con pubblici editti calunniosissimi avevano tentato di formarne un oggetto di popolare indignazione. – Ma chiara evidentemente e troppo conosciuta da tutti era la nullità intrinseca di un atto di tale natura emesso in istato di coazione da chi, con l’essere trascinato prigioniero del nemico, aveva già perduto sull’istante le facoltà di essere interprete della Nostra mente, ed aveva per conseguenza cessato di essere depositario di quei poteri che gli avevano affidato. I buoni se ne rattristarono senza fine, e comune fu il sentimento di dolore per la sorpresa nella quale si vide caduto l’uomo giusto in momenti di trepidazione, e fra i tortuosi sforzi degli implacabili nemici dell’ordine pubblico. Noi, appena ne fummo a conoscenza, riprovammo tale atto, e ne dichiarammo altamente la nullità, che risultava manifestissima per tanti titoli. In linea con questa massima, che ogni sacro e profano diritto garantiva, furono le istruzioni che Ci affrettammo ad ordinare, al solo scopo di allontanare dai Nostri popoli reiterate disgrazie. – Ministri pertanto di quel Signore il quale vuole che si recida ciò che dà causa a scandalo e che sia tolto il fermento guasto che corromperebbe la massa, non dimenticheremo di dovere un giorno render conto a Dio dell’uso che avremo fatto della clemenza come della giustizia. Penetrati dai doveri, che Ci impone la qualità di Principe, avremo sempre presente al pensiero, anche nell’insistere sulle vie della pace, che a questa si deve accompagnare in dolce amplesso la giustizia, la quale da Noi esige severamente di porre nel caso di non poter nuocere coloro che alle reiterate profusioni di pietà e di mansuetudine non corrisposero che con nuovi attentati contro la Religione, contro il Principato, contro la pubblica tranquillità. Debitori ai Nostri sudditi di procurare loro la sicurezza nelle persone, nell’ordine morale e nelle sostanze, non regoleremo che con questo scopo salutare le Nostre provvidenze, tenendoci nei limiti che debbono avere la clemenza e la giustizia. Sia quindi del comune impegno implorare su Noi dalla divina misericordia lume ed aiuto, onde le Nostre determinazioni siano secondo il suo volere, affinché protette da essa rendano quei risultati di soda e costante felicità, che nata, fomentata, accresciuta nel retto e nel vero, può sola rendere soddisfatti i voti che, nell’impartire sui Nostri sudditi l’Apostolica Benedizione, per essi indirizziamo al cielo fervorosissimi.
Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 5 aprile 1831, anno primo del Nostro Pontificato.
Continua l’opera di depredazione e di appropriazione indebita dei beni ecclesiastici usurpati a conventi ed istituzioni della Chiesa, ed avidamente incamerati da organismi statali e privati, opera avviata ed incentivata dalle conventicole di perdizione – le pseudo-filantropiche logge muratorie dei satanisti anticristiani mascherati da agnelli liberatori – prima in Europa e poi in America e in tutto il mondo cristiano debitamente paganizzato. Il Pontefice si rammarica in questa lettera, degli avvenimenti compiutisi in Svizzera con la partecipazione di sedicenti Cattolici, evidentemente ipocriti liberal-modernisti che non si preoccupavano di scomuniche o anatemi, accumulati con tali partecipazioni sacrileghe, che tagliano la via dell’eterna beatitudine: « … anche uomini cattolici, senza tenere in alcun conto i diritti dell’autorità ecclesiastica e di questa Santa Sede e disdegnando le pene e le censure che le Costituzioni Apostoliche e i Concili Ecumenici, soprattutto il Concilio Tridentino infliggono ipso facto a coloro che non si peritano di compiere tali azioni … ». Simile disdegno si profila per gli apostati novusordisti delle logge vaticane e dei loro adepti pseudo-fedeli, oggi tutti intenti a smantellare le strutture cattoliche per consegnarle alla nuova religione universale di ispirazione giudaico-massonica, monoteista luciferina. Si tratta di un tradimento ben più grave della partecipazione alle ruberie svizzere, ma non essendoci più fede nella vita ultraterrena e nella eterna beatitudine, è facile confluire nell’idea gnostica del “tutto universale” che assorbe le anime inutilmente (secondo i teologi modernisti anticristiani) redente dal Sacrificio di Cristo. Ma Dio si riderà di loro e li distruggerà in un attimo rendendo loro l’obolo meritato dall’apostasia, dallo scisma, dalle mille ipocrisie perpetrate nei templi cristiani. Altro che mercati nel tempio, qui abbiamo a che fare con potestà e principati decaduti che invasano saldamente falsi chierici in talari multicolori e cappelloni bicornuti luccicanti con le insegne del loro padre, il diavolo. A noi, piccolo gregge residuo, tocca pregare anche per loro come nostri nemici, ma tocca pure urlare sui tetti il grido di allarme contro i nemici di Dio, folli candidati allo stagno di fuoco … clama ne cesse …
ENCICLICA DEL SOMMO PONTEFICE GREGORIO XVI
INTER EA
Ai Vescovi della Svizzera, diletti figli Nostri in Cristo.
Il Papa Gregorio XVI. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica benedizione.
Tra i motivi che da tempo Ci rendono ansiosi e solleciti (mentre incombono i doveri del supremo apostolato) non occupano certamente l’ultimo posto i decreti promulgati da diversi governi di codeste regioni a danno dei conventi, di cui alcuni sono stati addirittura aboliti, dopo aver aggiudicato alla Repubblica i beni ad essi appartenenti o averli svenduti all’asta o averli temerariamente destinati ad altri usi. E accadde un fatto ancor più penoso per il nostro cuore: nel compiere, o piuttosto nel perpetrare, tali abusi, ebbero parte anche uomini cattolici, senza tenere in alcun conto i diritti dell’autorità ecclesiastica e di questa Santa Sede e disdegnando le pene e le censure che le Costituzioni Apostoliche e i Concili Ecumenici, soprattutto il Concilio Tridentino infliggono ipso facto a coloro che non si peritano di compiere tali azioni. Inoltre non è necessario spiegare a molti quanto gravemente si sia peccato contro la Religione e contro lo stesso interesse temporale dei popoli procedendo in tal modo. Nessuno infatti ignora quanto ovunque, e quanto soprattutto in Svizzera, siano grandi i meriti monastici, fondati sia sulla promozione del culto divino, sia sulla cura delle anime, sia sulla educazione della gioventù alla pietà e alle buone opere, sia infine sull’instancabile soccorso dei poveri con ogni genere di aiuto. Invero, Noi, non appena conoscemmo il fatto con grande sofferenza dell’animo, non indugiammo affatto nel protestare, attraverso il Nunzio Nostro e di questa Sede Apostolica, sostenendo l’inviolabilità dei monasteri, dei diritti e dei beni dei quali essi godono: inviolabilità peraltro sancita con pubblico patto. – Tuttavia non poco sollievo al Nostro dolore recò il comportamento adottato da numerose amministrazioni di codesti villaggi che, ottimamente disposti verso la Religione, la Chiesa e le istituzioni monastiche, non solo si opposero tosto ad ogni funesta decisione, ma per di più, collegandosi nello zelo, non mancarono di resistere apertamente alla vendita dei beni spettanti a quelle istituzioni. Perciò non tralasciamo di compensare con meritate lodi la loro virtù, esortandole contemporaneamente a che, nel nome dell’avita devozione e fedeltà alla Chiesa e a questa Apostolica Sede, siano tenacemente coerenti col santo proposito e insistano con il più ardente zelo a favorire e a patrocinare la sacra causa. – Per la verità le richieste avanzate a Nostro nome non conseguirono lo stesso risultato presso le amministrazioni di altri villaggi, assiduamente impegnate (come è stato riferito) a condurre a termine l’intrapresa, scellerata azione contro le dimore religiose, i loro diritti e le loro proprietà. – Questa è stata la causa, Venerabili Fratelli, per la quale vorremmo rivolgerci a Voi con questa lettera. Pur non dubitando affatto, e anzi avendo appurato che Voi, in tale affare, non siete mai venuti meno ai doveri del vostro ministero, tuttavia, memori del compito che per ispirazione divina Ci induce a dirigere e ad infiammare i fratelli, perché siano tutelati i beni che sono di Dio e della Chiesa, manifestiamo più apertamente a Voi il Nostro pensiero circa la stessa gravissima questione. Pertanto, di nuovo riprovando e vivamente deplorando i predetti decreti promulgati dal potere laico per sopprimere costà non pochi monasteri e relative comunità religiose, richiamiamo alla memoria di ciascuno che le alienazioni di beni e di diritti ad essi pertinenti (sia avvenute finora, sia che avverranno in futuro) senza il consenso della Nostra autorità e della Santa Sede, sono da considerare nulle e vane al cospetto della Chiesa in base alle sanzioni canoniche; pertanto decretiamo che tali debbano essere tassativamente considerate. Di conseguenza sarà vostro compito rifiutare ad essi ogni aiuto o condiscendenza e insieme, con quella singolare prudenza per la quale siete tanto accreditati, avvertire sollecitamente coloro ai quali, in forza delle illegittime alienazioni suddette, siano pervenuti o stiano per pervenire quegli stessi beni, che nessuno di essi può con tranquilla coscienza conservare la proprietà ricevuta, né riceverla in seguito. D’altra parte viviamo nella ferma speranza che soprattutto i cattolici che hanno cooperato a proporre e ad applicare i decreti più volte ricordati, esaminata attentamente la questione al cospetto di Dio, tosto recedano (come giova crederlo) dalla via temeraria che hanno imboccato. E più e più Ci affidiamo al Signore affinché voi, Venerabili Fratelli, vi dedichiate per parte vostra a questo scopo con tutto l’impegno di pazienza e di carità pastorale.
Infine, invocando dal Signore gran copia di aiuto celeste per voi tutti, e che Egli sia auspice del desiderato evento e testimone della Nostra paterna benevolenza, impartiamo amorosamente l’Apostolica Benedizione a ciascuno di voi, da trasmettere al gregge affidatovi.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 1 aprile 1842, anno dodicesimo del Nostro Pontificato.
Ancora una volta il Santo Padre è costretto ad occuparsi della setta massonica (tentacolo della piovra demoniaca), infiltrata nelle fila di pii cattolici di alcune comunità brasiliane. La sinagoga di satana massonica aveva già da tempo iniziata l’opera di infiltrazione nella Chiesa onde abbattere i principali pilastri: la Dottrina soprannaturale e la Gerarchia divinamente costituita, mirando soprattutto al Sommo Pontefice romano. I risultati apparentemente sembrano aver dato loro ragione, dal momento che hanno estromesso ed impedito il Vicario di Cristo dalla sua Cattedra inserendovi una serie di usurpanti antipapi-burattini che hanno devastato e devastano tuttora la vigna di Dio. Ma l’uomo-Dio non si è lasciato distruggere la sua Chiesa, generata dal suo costato aperto sulla croce, e proprio quando sembrerà essere morta e chiusa nel sepolcro – come apparirà dopo la prossima imminente proclamazione della Religione unica mondiale, monoteista-luciferina governata dall’anticristo, il falso Messia della tribù di Dan – la ricostituira’ più gloriosa e regale che mai. Si tratterà di resistere alla feroce persecuzione dei nemici di Dio, mascherata da ignobile farsa sanitaria, ed attendere l’arrivo improvviso (non per il piccolo gregge) del Signore Giudice universale che brucerà con il soffio della sua bocca tutti gli adepti del “drago infame e maledetto” e dei falsi profeti modernisti del colle romano… E là sarà pianto e stridor di denti in eterno.
EXORTÆ IN ISTA
LETTERA
Ai Vescovi del Brasile riguardo alla Massoneria.
1. I disordini originati in questa giurisdizione negli anni passati da persone che, pur essendo seguaci della setta massonica, si sono infiltrate nelle comunità di pii Cristiani, hanno portato a voi, venerabili fratelli, soprattutto nelle diocesi di Olinda e Belém do Pará, grave tormento, oltre che grande inquietudine per noi. – Del resto, non si poteva rimanere indifferenti al fatto che la peste letale di quella setta si fosse diffusa fino a riuscire a corrompere le suddette comunità, e, di conseguenza, le istituzioni disposte a rafforzare il sincero spirito di fede e di pietà che, dopo la diffusione della funesta zizzania, precipitarono in una condizione miserabile. Noi, dunque, tenendo presente il nostro dovere apostolico e sotto l’impulso della carità paterna con cui seguiamo questa parte del gregge di Dio, considerammo nostro dovere affrontare questo male senza esitazione e con la lettera del 29 maggio 1873 facemmo sentire la nostra voce a te, venerabile fratello di Olinda, contro questa deplorevole perversione infiltrata nelle comunità cristiane, osservando tuttavia, un criterio di indulgenza e clemenza verso coloro che avevano aderito alla setta massonica perché ingannati o illusi, sospendendo temporaneamente le restrizioni delle censure in cui erano incorsi, volendo che si avvalessero così della nostra benignità per esecrare i loro errori e abbandonare – condannandole – le associazioni alle quali avevano aderito. – Ti abbiamo incaricato, venerabile fratello di Olinda, di sopprimere e dichiarare soppresse quelle comunità se, dopo quel periodo di tempo, non fossero state ricomposte e di ricostituirle integralmente con le modalità che avevano in origine, inserendo cioè nuovi membri immuni da ogni contaminazione con la massoneria. Noi, invece, volendo mettere in guardia – come è nostro dovere – tutti i fedeli contro l’astuzia e l’inganno dei membri delle sette, nella Lettera Enciclica del 21 novembre 1873, indirizzata ai Vescovi di tutta la Cattolicità, richiamammo chiaramente alla memoria dei fedeli in quella occasione, le disposizioni pontificie emanate contro le società corrotte di coloro che aderiscono alle sette, e proclamammo che nelle costituzioni erano colpite non solo le associazioni massoniche stabilite in Europa, ma anche tutte quelle in America e nelle altre regioni del mondo.
2. Non possiamo, poi, non meravigliarci grandemente del fatto, che, essendo stati sospesi, sulla nostra autorità e con decisioni che puntavano alla salvezza dei peccatori, gli interdetti ai quali in queste regioni erano state sottoposte alcune Chiese e comunità, composte per la maggior parte da seguaci della massoneria, si è preso lo spunto per diffondere tra il popolo la convinzione che la società massonica presente in queste regioni era esclusa dalle condanne delle regioni apostoliche, e, quindi, che le persone che aderivano alla setta potevano tranquillamente prendere parte alla comunità dei pii Cristiani. Tuttavia, quanto queste opinioni siano lontane dalla verità e dal nostro modo di sentire è chiaramente dimostrato sia dagli atti che abbiamo appena ricordato, sia dalla lettera scritta al serenissimo imperatore di queste regioni il 9 febbraio 1875, nella quale, pur assicurando che l’interdetto imposto ad alcune delle chiese di queste diocesi sarebbe stato revocato se voi, venerabili fratelli, ingiustamente tenuti in prigione a Para e Olinda, fosse stati liberati; abbiamo aggiunto, però, una riserva ed una condizione precisa, cioè che i seguaci della massoneria fossero rimossi dalle cariche che occupavano nelle comunità. E questa condotta suggerita dalla nostra prudenza non aveva e non poteva avere altro scopo che quello di offrire al governatore imperiale l’opportunità, una volta che i desideri dell’imperatore fossero stati esauditi da parte nostra e la pace degli animi fosse stata ristabilita, di riportare le pie comunità alla loro precedente condizione rimuovendo la confusione causata dalla massoneria, e allo stesso tempo di far sì che gli uomini della setta condannata, mossi dalla nostra clemenza nei loro confronti, cercassero di sottrarsi alla via della perdizione. – Affinché in una questione così grave come questa non ci sia alcun dubbio, né alcuna possibilità di inganno, non trascuriamo di dichiarare ancora una volta in questa occasione che tutte le società massoniche – sia di queste regioni, sia di altre che, per parte di molti, hanno ingannato o indotto all’inganno, dicendosi interessati solo all’utilità ed al progresso sociale, nonché alla pratica del mutuo soccorso – sono proscritte e colpite dalle costituzioni e dalle condanne apostoliche, e che coloro che si sono infelicemente iscritti alle stesse sette incorrono per questo nella più grave scomunica – specialissimamente riservata al Romano Pontefice. – Con non minore sollecitudine raccomandiamo al vostro zelo che in queste regioni la dottrina religiosa sia diligentemente trasmessa al popolo cristiano con la proclamazione della parola di Dio e con insegnamenti appropriati. Sapete, dopo tutto, quanta utilità deriva al gregge di Cristo se il ministero è ben esercitato, e quanto danno viene fatto se viene trascurato.
3. Ma oltre agli argomenti qui trattati, siamo costretti a deplorare l’abuso di potere da parte di coloro che presiedono le suddette comunità, i quali, come abbiamo già detto, annullando tutto a loro discrezione, pretendono di attribuirsi la legittima autorità sui beni e sulle persone sacre e sulle cose spirituali, cosicché gli stessi ecclesiastici e parroci sono completamente soggetti ai loro poteri nello svolgimento dei compiti del loro ministero. Tale comportamento è contrario non solo alla legge ecclesiastica, ma anche all’ordine costituito da Cristo Signore nella sua Chiesa. Dopo tutto, i laici non sono stati posti a capo del governo ecclesiastico, ma per la loro utilità e salvezza devono essere soggetti ai legittimi pastori, la loro funzione è quella di offrirsi come assistenti del clero in situazioni particolari, e non devono interferire in quelle cose affidate da Cristo ai sacri pastori. Per questo motivo riteniamo urgente che gli statuti delle suddette comunità siano redatti secondo il giusto ordine, e che quanto è fuori ordine e incoerente in qualsiasi aspetto sia perfettamente conforme alle regole della Chiesa e della disciplina canonica. Per raggiungere questo scopo, Venerabili Fratelli, in vista degli scambi che avvengono tra le comunità e il potere civile in ciò che riguarda la loro costituzione e ordinamento nelle cose temporali, abbiamo già concesso al nostro Cardinale Segretario di Stato i dovuti mandati per agire con il governo imperiale, cercando di unire con lui gli sforzi utili per ottenere i risultati desiderati. Confidiamo che l’autorità civile unisca il suo sollecito interesse al nostro; perciò chiediamo a Dio, da cui viene ogni bene, con tutte le nostre forze, di degnarsi di accompagnare e sostenere con la sua grazia questa iniziativa di tranquillizzazione della religione e della società civile. Anche voi, Venerabili Fratelli, unite le vostre preghiere alle nostre, affinché questi desideri si realizzino, e come pegno del nostro sincero amore, ricevete la benedizione apostolica, che impartiamo, con il cuore nel Signore, a voi, al clero e ai fedeli affidati alla cura di ciascuno di voi.
Roma, dato a San Pietro, il 20 aprile 1876, XXX del Nostro Pontificato.