QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
Ancora una volta, il Santo Padre torna a levare la sua voce, che è quella del Vicario di Cristo in terra, per deplorare e condannare gli eventi sanguinosi abbattutisi sulla nazione ungherese a causa della barbarie comunista dei soldati e vertici sovietici e delle locali autorità complici e compiacenti. Poche ma significative parole rivolte agli occupanti fratricidi impostori … « La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra »! Come pure le parole di conforto al popolo cattolico martoriato ed oppresso dalla furia satanica dei “rossi”. Oggi lo stesso sangue grida vendetta: – dai sacrifici rituali di sette infami, – dalle sale operatorie dei reparti nei quali si praticano aberranti interventi di omicidio in utero di innocenti vittime alle quali è negata l’esistenza terrena ed il godimento di Dio in Paradiso, – dagli ospedali e dagli studi medici ove si pratica l’inoculazione di sieri micidiali e supertecnologici che uccidono o schiavizzano gli ignari malcapitati, convinti di prevenire una malattia immaginaria senza sintomi. Ma Dio non dimentica, ascolta il grido di chi lo invoca e improvvisamente fa scattare la sua ira sugli omicidi oppressori e sui loro complici, senza pietà né misericordia, ripagandoli, fino all’ultimo spicciolo, per lo scempio e l’ignominia dei loro delitti. Et conteret Illa caput tuum…
S. S. PIO XII
DATIS NUPERRIME
LETTERA ENCICLICA
CONDANNA DEI LUTTUOSI AVVENIMENTI IN UNGHERIA
Con la recentissima Lettera Enciclica rivolta all’episcopato cattolico, avevamo espresso la speranza che anche per il nobilissimo popolo dell’Ungheria albeggiasse finalmente una nuova aurora di pace fondata sulla giustizia e sulla libertà, poiché sembrava che in quella nazione le cose prendessero uno sviluppo favorevole. Se non che le notizie che in un secondo tempo sono giunte hanno riempito l’animo Nostro di una penosissima amarezza: si è saputo cioè che per le città e i villaggi dell’Ungheria scorre di nuovo il sangue generoso dei cittadini che anelano dal profondo dell’animo alla giusta libertà, che le patrie istituzioni, non appena costituite, sono state rovesciate e distrutte, che i diritti umani sono stati violati e che al popolo sanguinante è stata imposta con armi straniere una nuova servitù. Orbene, come il sentimento del Nostro dovere Ci comanda, non possiamo fare a meno di protestare deplorando questi dolorosi fatti, che non solo provocano l’amara tristezza e l’indignazione del mondo cattolico, ma anche di tutti i popoli liberi. Coloro, sui quali ricade la responsabilità di questi luttuosi avvenimenti, dovrebbero finalmente considerare che la giusta libertà dei popoli non può essere soffocata nel sangue. – Noi, che con animo paterno guardiamo a tutti i popoli, dobbiamo asserire solennemente che ogni violenza, ogni ingiusto spargimento di sangue, da qualsiasi parte vengano, sono sempre illeciti; e dobbiamo ancora esortare tutti i popoli e le classi sociali a quella pace che deve avere i suoi fondamenti nella giustizia e nella libertà e che trova nella carità il suo alimento vitale. Le parole che Dio rivolse a Caino: «La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra» (Gn IV, 10), hanno anche oggi il loro valore; e quindi il sangue del popolo ungherese grida al Signore, il quale, come giusto Giudice, se punisce spesso i peccati dei privati soltanto dopo la morte, tuttavia colpisce talora i governanti e le nazioni stesse anche in questa vita, per le loro ingiustizie, come la storia ci insegna. – Voglia il misericordioso Dio toccare il cuore dei responsabili, di maniera che finalmente l’ingiustizia abbia termine, ogni violenza si calmi e tutte le nazioni, pacificate fra loro, ritrovino in un’atmosfera di serena tranquillità il retto ordine. – Frattanto Noi innalziamo al Signore le Nostre suppliche affinché, specialmente coloro che hanno trovato la morte in questi dolorosi frangenti, possano godere l’eterna luce e la pace nel Cielo; e desideriamo pure che tutti i Cristiani uniscano anche per questa ragione le loro suppliche alle Nostre. Mentre a tutti voi esprimiamo questi Nostri sentimenti, impartiamo di gran cuore a voi, venerabili fratelli, e ai vostri fedeli, e, in modo tutto particolare, al diletto popolo ungherese, l’apostolica benedizione, che sia pegno delle celesti grazie e testimonianza della Nostra paterna benevolenza.
Roma, presso San Pietro, il 5 novembre, l’anno 1956, XVIII del Nostro pontificato.
Il Pontefice S.S. Pio XII, con questa nuova breve Enciclica, promuove ancora una crociata di preghiere per arginare il dilagare della violenza presso il popolo ungherese e polacco minacciati dalla follia satanica dei comunisti invasori, il cui obiettivo principale era quello di abbattere, se possibile, l’impalcatura della Chiesa Cattolica e del Cristianesimo tutto nell’Europa dell’est. Queste preghiere effettivamente ottennero, anche se tra lacrime e sangue, il risultato di veder decadere il drago rosso sovietico dopo alcuni anni, riportando una pace traballante in questi popoli angariati da regimi totalitari. Ma il dragone rosso ha avuto solo un rallentamento nella sua corsa espansionistica, trasformandosi in un mondialismo fondato sul terrore e sul dominio oppressivo dell’intero pianeta sotto le mentite spoglie del filantropismo di miliardari corrotti e votati a Lucifero. È quello che vediamo anche in questi giorni e vedremo nei prossimi anni nei quali si preannunziano, più o meno provocate a bella posta, da menti deliranti, crisi di ogni tipo: sanitarie, economiche, energetiche, produttive, socio-culturali, ecologiche, etc. Mentre però all’epoca dei fatti di Ungheria c’era la Chiesa Cattolica ed il Santo Padre che si ergeva a baluardo in difesa dei popoli del mondo, oggi la totale apostasia dal Cristianesimo e l’indifferenza dei popoli neopaganizzati, l’ipocrisia infernale di chierici veri o falsi che siano, l’insediamento ai vertici della chiesa modernista – impostura blasfema della Chiesa Cattolica – di una serie di antipapi di discendenza kazara (il popolo dell’Aquilone di Magog, figlio di Iaphet), prepara il posto che a breve occuperà l’anticristo, l’uomo del peccato, il cui intento è quello di trascinare quante più anime all’inferno e strapparle al Cristo redentore. Leggiamo allora, a conforto del pusillus grex cattolico, questa breve lettera facendo nostri i salutari consigli e la dottrina del Vicario di Cristo.
LETTERA ENCICLICA
LÆTAMUR ADMODUM
DEL SOMMO PONTEFICE PIO XII AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI CHE HANNO PACE E COMUNIONE CON LA SEDE APOSTOLICA: PREGHIERE PER LA PACE FRA I POPOLI
È per Noi motivo di grande letizia il sapere che non solo l’episcopato del mondo cattolico, ma anche gli altri ecclesiastici e i fedeli con spontaneo slancio hanno corrisposto al Nostro invito, rivolto loro con recente lettera enciclica, innalzando al Cielo pubbliche suppliche per renderlo propizio. Vogliamo, pertanto, con effusione e dall’intimo del cuore ringraziare Dio perché, mosso da tante preghiere, specialmente da quelle dei fanciulli e delle fanciulle innocenti, sembra finalmente spuntare per i popoli della Polonia e dell’Ungheria una nuova aurora di pace fondata sulla giustizia. Né con minore gioia abbiamo appreso che i diletti figli Nostri, i signori cardinali Stefano Wyszyński arcivescovo di Gniezno e Varsavia, e Giuseppe Mindszenty, arcivescovo di Esztergom, allontanati dalle loro rispettive sedi, sono stati rimessi nei loro posti di onore e di responsabilità, e trionfalmente accolti da una moltitudine di popolo festante, dopo essere stati riconosciuti innocenti e ingiustamente accusati. Nutriamo quindi speranza che ciò sia un buon auspicio per il riordinamento e la pacificazione di ambedue gli stati, in base a principi più sani e a una legislazione migliore, ma specialmente in base al rispetto dei diritti di Dio e della chiesa. Perciò Ci rivolgiamo di nuovo a tutti i cattolici di quelle nazioni perché, unendo concordemente le loro forze e stringendo le file intorno ai loro legittimi pastori, vogliano con ogni diligenza adoperarsi che questa santa causa abbia a progredire e a consolidarsi; ché se tale causa venisse messa in disparte o trascurata, non si potrebbe ottenere una vera pace. – Ma, mentre il Nostro animo è ancora in trepidazione, un’altra situazione paurosa Ci si presenta innanzi. Come voi sapete, venerabili fratelli, la fiaccola di una nuova azione bellica si è accesa minacciosa nel Medio Oriente, non lontano dalla Terra Santa, dove gli angeli, discesi dal Cielo e volando sopra la culla del divino Infante, annunziarono la pace agli uomini di buona volontà (cf. Lc II, 14). Che altro potremmo fare Noi, che con paterno amore abbracciamo i popoli tutti, se non innalzare suppliche al Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione (cf. 2 Cor 1,3), ed esortare voi tutti a unire le vostre preghiere alle Nostre? Infatti, « le armi della nostra milizia non sono carnali, ma potenti in Dio» (2 Cor X, 4). La Nostra speranza poggia unicamente su Colui il quale con la sua luce celeste può illuminare la mente degli uomini e piegare la loro esasperata volontà a consigli più moderati, in maniera che tra le nazioni si possa stabilire il retto ordine, con maggiori vantaggi reciproci, salvi sempre i legittimi diritti di tutti coloro, che sono in causa. Tengano presente tutti, specialmente coloro nelle cui mani è posta la sorte dei popoli, che dalla guerra nessun bene durevole giammai potrà nascere, ma bensì un ingente numero di sventure e di calamità. Non con le armi, non con la strage, non con le rovine si risolvono le questioni tra gli uomini; ma con la ragione, il diritto, la prudenza, l’equità. – Quando uomini avveduti, spinti dal desiderio di una vera pace, si riuniscono per trattare di così gravi problemi, dovranno senza dubbio sentirsi portati a scegliere la via della giustizia e non ad avventurarsi sulla china scoscesa della violenza, qualora considerino i grandi pericoli di una guerra, la quale, divampando da piccola scintilla, può diventare un enorme incendio. – Su ciò vogliamo richiamare, in questo pericoloso frangente, l’attenzione dei governanti, né possiamo dubitare che essi saranno convinti che altro interesse non Ci spinge se non quello del bene comune di tutti e di quella comune prosperità che mai potrà sbocciare dallo spargimento del sangue dei fratelli. – E poiché, come abbiamo detto, poniamo la Nostra speranza particolarmente nella provvidenza e misericordia di Dio, vi esortiamo insistentemente, venerabili fratelli, a non desistere dall’incoraggiare e promuovere quella crociata di preghiere, per la quale, con l’intercessione di Maria vergine, il Signore benignamente voglia concedere che i pericoli delle guerre scompaiano, che gli interessi contrastanti delle nazioni trovino una felice soluzione, che dappertutto siano interamente salvaguardati, a profitto di tutti, i sacrosanti diritti della Chiesa, sanciti dal suo divino Fondatore, e che «la grande famiglia umana, disgregata dal peccato, si sottometta al suo dolcissimo imperio». – Intanto a Voi tutti, venerabili fratelli, e ai greggi alle vostre cure affidati, i quali certamente, come voi, saranno sensibili a queste Nostre rinnovate esortazioni, impartiamo di tutto cuore l’apostolica benedizione, apportatrice delle celesti grazie e testimonianza della nostra paterna benevolenza.
Roma, presso S. Pietro, 1° novembre, festa di tutti i Santi, l’anno 1956, XVIII del Nostro pontificato.
«… Noi attingiamo grande speranza specialmente dalle preghiere di questi piccoli, che di questo mondo macchiato di tanti crimini e peccati possono in certa guisa essere chiamati Angeli ». Questo commovente auspicio è rivolto dal Santo Padre SS. Pio XII, ai bambini Cristiani del mondo perché aggiungano le loro alle preghiere cattoliche supplicanti la pace e la prosperità per il popolo ungherese colpito dalla violenza degli eventi oppressivi della peste comunista giunta fin là per spegnere il fuoco della carità e della fede in Gesù Cristo Nostro Signore e trascinare anime nel fuoco eterno secondo i desideri del loro padrone e padre: il demone luciferino. Lo stesso demone oggi, trasformatosi da mentore del comunismo ateo, al timoniere del mondialismo non solo ateo, ma infernale, sta portando gli ultimi colpi alle “immagini viventi e somiglianti” di Dio, da lui tanto odiate, cioè agli uomini, ed in particolari ai Cristiani tutti, compresi i modernisti postconciliari, inconsapevoli complici di tanto sfascio e del paganesimo pratico amorale imperante in ogni angolo del pianeta e da essi – in unione con gli usurpanti antipapi – sbandierato come Cattolicesimo civile “progressista”. La sorte degli ungheresi dell’epoca si è allargata a macchia d’olio in Europa e negli altri continenti, soprattutto per la sonnolenza colpevole e l’infingardia dei religiosi e dei prelati ipocriti e falsi Cristiani … se ancora si possono definire Cristiani… La ricetta che allora consigliava Papa Pacelli vale ancora e sempre: pazienza, invocazioni di aiuto alla SS. Vergine e alla SS. Trinità ed una preghiera incessante che coinvolga soprattutto i piccini tanto cari al Signore Iddio.
PIO XII
LETTERA ENCICLICA
LUCTUOSISSIMI EVENTUS
PUBBLICHE PREGHIERE PER IL POPOLO UNGHERESE
Gli eventi luttuosissimi, da cui sono colpiti i popoli dell’Europa orientale, e soprattutto l’Ungheria a Noi carissima, insanguinata al presente da una terribile strage, profondamente commuovono il Nostro animo paterno; e non solamente il Nostro, ma certamente anche quello di tutti coloro a cui stanno a cuore i diritti della civiltà, la dignità umana, e la libertà dovuta ai singoli e alle nazioni. – Perciò la coscienza del Nostro apostolico mandato Ci spinge a rivolgere un fervido appello a voi tutti, venerabili fratelli, e ai greggi affidati a ciascuno di voi, affinché, animati da carità fraterna, innalziate insieme con Noi suppliche a Dio, per ottenere da Lui – nelle cui mani è posta la sorte dei popoli e non solo il potere, ma anche la vita dei loro governanti – che si ponga fine a tanto spargimento di sangue e affinché finalmente risplenda quella vera pace, che è fondata sulla giustizia, sulla carità e sulla giusta libertà. Sia chiaro a tutti, che l’ordine dei popoli sconvolto non può essere ristabilito né con la potenza delle armi, apportatrici di morte, né con la violenza inflitta ai cittadini, di cui non può soffocare l’intimo sentimento, né con le fallaci teorie, che corrompono gli animi e che violano i diritti della chiesa e della coscienza civile e cristiana; e neppure può essere mai soffocato con la forza esterna l’anelito verso una giusta libertà. – In queste gravissime circostanze, che tanto angustiano una parte diletta dell’ovile cristiano, un grato ricordo si affaccia al Nostro animo. Quando appunto molti anni fa Ci recammo a Budapest in qualità di legato a latere del Nostro predecessore di f. m. Pio XI, per prendere parte al Congresso Eucaristico Internazionale ivi celebrato, avemmo la gioia e la consolazione di vedere i diletti Cattolici dell’Ungheria seguire con ardente pietà e somma venerazione l’augusto Sacramento dell’altare portato trionfalmente per le vie della città. Siamo certi che la medesima fede e il medesimo amore verso il divin Redentore infiammerà ancora gli animi di quel popolo, quantunque i fautori del comunismo ateo si siano sforzati con ogni mezzo per strappare dalle menti la Religione dei padri. Perciò nutriamo piena fiducia che questo nobilissimo popolo, anche nel grave frangente in cui ora si trova, innalzerà suppliche a Dio per impetrare la desiderata pace, poggiata sul retto ordine. E abbiamo pure piena speranza che tutti i veri Cristiani, in qualsiasi parte del mondo si trovino, intrecceranno le loro preghiere a quelle dei loro fratelli oppressi da tante calamità e ingiustizie, quale testimonianza dei comuni vincoli di carità. In modo speciale Noi esortiamo a questa crociata di preghiere tutti coloro ai quali, come il divin Redentore, così Noi pure, che siamo il suo rappresentante in terra, guardiamo con particolare tenerezza, coloro cioè che nel primo fiore degli anni rifulgono per l’innocenza, la soavità e la grazia. Noi attingiamo grande speranza specialmente dalle preghiere di questi piccoli, che di questo mondo macchiato di tanti crimini e peccati possono in certa guisa essere chiamati angeli. Insieme con essi tutti i Cristiani invochino il potentissimo patrocinio della Beata Vergine Maria, patrocinio che tanto valore ha presso Dio per noi, essendo essa la Genitrice del divin Redentore e la nostra Madre amorosissima. – Non abbiamo alcun dubbio che presso tutte le genti, nelle città, nei paesi e anche nei più remoti villaggi, ovunque rifulge la luce dell’Evangelo, tutti i Cristiani, e in primo luogo i fanciulli e le fanciulle, corrisponderanno con trasporto a queste Nostre paterne esortazioni, a cui si aggiungeranno le vostre; di maniera che, con l’influsso e con l’aiuto della grazia di Dio, invocato da tante voci supplichevoli, e con l’intercessione di Maria Vergine, il carissimo popolo ungherese, afflitto da tanti dolori e bagnato da tanto sangue, come pure gli altri popoli dell’Europa orientale, privati della loro libertà religiosa e civile, possano felicemente e pacificamente dare un retto ordine alla loro cosa pubblica, salvaguardando i diritti di Dio e di Gesù Cristo Re divino, il cui regno «è regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace». – Animati da questa dolcissima speranza, sia a voi tutti, venerabili fratelli, e ai greggi alle vostre cure affidati, sia specialmente a coloro che in Ungheria e nelle altre Nazioni dell’Europa orientale si trovano in condizioni tanto difficili e sono oppressi da tante calamità, impartiamo di tutto cuore l’apostolica benedizione, auspicio delle celesti grazie e pegno della Nostra benevolenza; benedizione che estendiamo in modo tutto particolare ai sacri pastori delle suddette nazioni che languiscono in carcere o si trovano in relegazione o in esilio.
Roma, presso San Pietro, 28 ottobre, festa di Cristo re, l’anno 1956, XVIII del Nostro pontificato.
Continua lo svolgersi maestoso e stupendo di questa prima Enciclica di Papa Pacelli in un serrare denso di contenuti e ricco di spunti per meditazioni spirituali. Tra gli altri ammonimenti ce n’è uno che risuona oggi di particolare importanza « … non meno dannoso al benessere delle nazioni e alla prosperità della grande società umana, che raccoglie e abbraccia entro i suoi confini tutte le genti, si dimostra l’errore contenuto in quelle concezioni, le quali non dubitano di sciogliere l’autorità civile da qualsiasi dipendenza dall’Ente supremo, causa prima e Signore assoluto sia dell’uomo che della società, e da ogni legame di legge trascendente, che da Dio deriva come da fonte primaria, e le concedono una facoltà illimitata di azione, abbandonata all’onda mutevole dell’arbitrio o ai soli dettami di esigenze storiche contingenti e di interessi relativi… » – Sciogliere l’autorità civile da qualsiasi dipendenza all’Ente supremo: ecco l’origine di ogni male sociale e politico così diffusi oggi nel mondo ateo e neopagano, truccato maldestramente da una maschera di falso Cristianesimo stantio ed ipocrita, intriso di massonismo liberista che incatena asservendoli ad un mondialismo luciferino, popoli e Nazioni incapaci per questo di uscire da una serie infinita di crisi insanabili, politiche, sociali, economiche, ambientali, filosofofico-ideologiche, ed ora pure sanitarie. Ma il Santo Padre, lungi dal perdere la fiducia cieca nell’azione salvifica divina, ci incoraggia con ardore … « … Chi vive dello spirito di Cristo non si lascia abbattere dalle difficoltà che si oppongono, anzi si sente spinto a lavorare con tutte le sue forze e con piena fiducia in Dio; non si sottrae alle strettezze e necessità dell’ora, ma ne affronta le durezze pronto al soccorso, con quell’amore che non rifugge dal sacrificio, è più forte della morte, e non si lascia spegnere dalle impetuose acque della tribolazione… » Parole che danno forza e coraggio soprattutto quando poi si accoppiano al ricorso alla preghiera ed ai mezzi della grazia … «All’ombra delle tue ali mi rifugio, finché passi la calamità» (Sal LVI, 2)… « Dio può tutto: al pari della felicità e delle sorti dei popoli, tiene nelle sue mani anche gli umani consigli e, in qualsiasi parte Egli voglia, dolcemente li inclina: anche gli ostacoli per la sua onnipotenza sono mezzi a plasmare le cose e gli eventi e a volgere le menti e i liberi voleri ai suoi altissimi fini. – Pregate, quindi, venerabili fratelli, pregate senza interruzione, pregate, soprattutto, quando offrite il divino Sacrificio d’amore …» Rifugiamoci dunque, pusillus grex, sotto le ali di Dio non come pulcini impauriti ma come aquilotti pronti ad affrontare ogni lotta che il maligno ci muove mediante le frecce che provengono da ogni lato, specie da dove meno le attenderemmo, cioè dalla falsa chiesa satanista vaticana, dai filantropi ed imbonitori delle logge e dei parlamenti, dagli ipocriti pseudocristiani che come “fuoco amico” ci colpiscono alle spalle.
PIO XII
LETTERA ENCICLICA
SUMMI PONTIFICATUS (2)
PROGRAMMA DEL PONTIFICATO
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Venerabili fratelli, se la dimenticanza della legge di carità universale, che sola può consolidare la pace, spegnendo gli odi e attenuando i rancori e i contrasti, è fonte di gravissimi mali per la convivenza pacifica dei popoli, non meno dannoso al benessere delle nazioni e alla prosperità della grande società umana, che raccoglie e abbraccia entro i suoi confini tutte le genti, si dimostra l’errore contenuto in quelle concezioni, le quali non dubitano di sciogliere l’autorità civile da qualsiasi dipendenza dall’Ente supremo, causa prima e Signore assoluto sia dell’uomo che della società, e da ogni legame di legge trascendente, che da Dio deriva come da fonte primaria, e le concedono una facoltà illimitata di azione, abbandonata all’onda mutevole dell’arbitrio o ai soli dettami di esigenze storiche contingenti e di interessi relativi. – Rinnegata, in tal modo, l’autorità di Dio e l’impero della sua legge, il potere civile, per conseguenza ineluttabile, tende ad attribuirsi quell’assoluta autonomia, che solo compete al Supremo Fattore, e a sostituirsi all’Onnipotente, elevando lo stato o la collettività a fine ultimo della vita, a criterio sommo dell’ordine morale e giuridico, e interdicendo, perciò, ogni appello ai princìpi della ragione naturale e della coscienza cristiana. – Non disconosciamo, invero, che princìpi errati, fortunatamente, non sempre esercitano intero il loro influsso, principalmente quando le tradizioni cristiane, più volte secolari, di cui si sono nutriti i popoli, rimangono ancora profondamente, anche se inconsciamente, radicate nei cuori. Tuttavia, non bisogna dimenticare l’essenziale insufficienza e fragilità di ogni norma di vita sociale che riposi su un fondamento esclusivamente umano, s’ispiri a motivi esclusivamente terreni e riponga la sua forza nella sanzione di un’autorità semplicemente esterna. – Dove è negata la dipendenza del diritto umano dal diritto divino, dove non si fa appello che ad una malsicura idea di autorità meramente terrena e si rivendica un’autonomia fondata soltanto sopra una morale utilitaria, qui lo stesso diritto umano perde giustamente nelle sue applicazioni più gravose la forza morale, che è la condizione essenziale per essere riconosciuto e per esigere anche sacrifici. – È ben vero che il potere basato sopra fondamenti così deboli e vacillanti può raggiungere talvolta, per circostanze contingenti, successi materiali da destar meraviglia ad osservatori meno profondi; ma viene il momento, nel quale trionfa l’ineluttabile legge che colpisce tutto quanto è stato costruito sopra una latente o aperta sproporzione tra la grandezza del successo materiale ed esterno e la debolezza del valore interno e del suo fondamento morale. Sproporzione che sussiste sempre, quando la pubblica autorità misconosce o rinnega il dominio del sommo Legislatore, il quale se ha dato la potestà ai reggitori, ne ha per altro segnato e determinato i limiti. La sovranità civile è stata voluta dal Creatore, come sapientemente insegna il Nostro grande predecessore Leone XIII nell’enciclica Immortale Dei, affinché regolasse la vita sociale secondo le prescrizioni di un ordine immutabile nei suoi princìpi universali, rendesse più agevole alla persona umana, nell’ordine temporale, il conseguimento della perfezione fisica, intellettuale e morale e l’aiutasse a raggiungere il fine soprannaturale. È quindi nobile prerogativa e missione dello stato il controllare, aiutare e ordinare le attività private e individuali della vita nazionale, per farle convergere armonicamente al bene comune, il quale non può essere determinato da concezioni arbitrarie, né ricevere la sua norma primariamente dalla prosperità materiale della società, ma piuttosto dallo sviluppo armonico e dalla perfezione naturale dell’uomo al quale la società è destinata, quale mezzo, dal Creatore. – Considerare lo stato come fine, al quale ogni cosa dovrebbe essere subordinata e indirizzata, non potrebbe che nuocere alla vera e durevole prosperità delle nazioni. E ciò avviene, sia che tale dominio illimitato venga attribuito allo stato, quale mandatario della nazione, del popolo, o anche di una classe sociale, sia che venga preteso dallo stato, quale padrone assoluto, indipendente da qualsiasi mandato. Se lo Stato infatti a sé attribuisce e ordina le iniziative private, queste, governate come sono da delicate e complesse norme interne, che garantiscono e assicurano il conseguimento dello scopo ad esse proprio, possono essere danneggiate, con svantaggio del pubblico bene, venendo avulse dall’ambiente loro naturale, cioè dalla responsabile attività privata. – Anche la prima ed essenziale cellula della società, la famiglia, come il suo benessere e il suo accrescimento, correrebbe allora il pericolo di venir considerata esclusivamente sotto l’angolo della potenza nazionale e si dimenticherebbe che l’uomo e la famiglia sono per natura anteriori allo Stato, e che il Creatore diede ad entrambi forze e diritti e assegnò una missione, rispondente a indubbie esigenze naturali. – L’educazione delle nuove generazioni non mirerebbe a un equilibrato armonico sviluppo delle forze fisiche e di tutte le qualità intellettuali e morali, ma ad una unilaterale formazione di quelle virtù civiche, che si considerano necessarie al conseguimento di successi politici; quelle virtù invece, che dànno alla società un profumo di nobiltà, d’umanità e di rispetto, meno s’inculcherebbero, quasi deprimessero la fierezza del cittadino. Davanti al nostro sguardo si profilano con dolorosa chiarezza i pericoli che temiamo potranno derivare a questa generazione e alle future dal misconoscimento, dalla diminuzione e dalla progressiva abolizione dei diritti della famiglia. Perciò Ci eleviamo a fermi difensori di tali diritti in piena coscienza del dovere che Ci impone il Nostro apostolico ministero. Le angustie dei nostri tempi, sia esterne che interne, sia materiali che spirituali, i molteplici errori con le loro innumerevoli ripercussioni da nessuno vengono assaporati così amaramente come nella piccola nobile cellula familiare. Un vero coraggio e, nella sua semplicità, un eroismo degno di ammirato rispetto sono spesso necessari per sopportare le durezze della vita, il peso quotidiano delle miserie, le crescenti indigenze e le ristrettezze in una misura mai prima sperimentata, di cui spesso non si vede né la ragione né la reale necessità. Chi ha cura d’anime, chi può indagare nei cuori, conosce le nascoste lacrime delle madri, il rassegnato dolore di numerosi padri, le innumerevoli amarezze, delle quali nessuna statistica parla né può parlare; vede con sguardo preoccupato crescere sempre più il cumulo di queste sofferenze e sa che le potenze dello sconvolgimento e della distruzione stanno al varco, pronte a servirsene per i loro tenebrosi disegni. – Nessuno, che abbia buona volontà e occhi aperti, potrà rifiutare nelle condizioni straordinarie, in cui si trova il mondo, al potere dello Stato un corrispondente più ampio diritto eccezionale per sovvenire ai bisogni del popolo. Ma l’ordine morale, stabilito da Dio, esige, anche in tali contingenze, che s’indaghi tanto più seriamente e acutamente sulla liceità di tali provvedimenti e sulla loro reale necessità, secondo le norme del bene comune. – Ad ogni modo, quanto più gravosi sono i sacrifici materiali richiesti dallo stato agli individui e alle famiglie, tanto più sacri e inviolabili devono essergli i diritti delle coscienze. Può pretendere beni e sangue, ma non mai l’anima da Dio redenta. La missione assegnata da Dio ai genitori, di provvedere al bene materiale e spirituale della prole e di procurare ad essa una formazione armonica pervasa da vero spirito religioso, non può esser loro strappata senza grave lesione del diritto. Questa formazione deve certamente aver anche lo scopo di preparare la gioventù ad adempiere con intelligenza, coscienza e fierezza quei doveri di nobile patriottismo, che dà alla patria terrestre tutta la dovuta misura di amore, dedizione e collaborazione. Ma d’altra parte una formazione che dimentichi, o peggio, volutamente trascuri di dirigere gli occhi e il cuore della gioventù alla patria soprannaturale, sarebbe un’ingiustizia contro gli inalienabili doveri e diritti della famiglia cristiana, uno sconfinamento, a cui deve essere opposto un rimedio anche nell’interesse del bene del popolo e dello stato. Una simile educazione potrà forse sembrare a coloro, che ne portano la responsabilità, fonte di aumentata forza e vigoria; in realtà sarebbe il contrario, e le tristi conseguenze lo proverebbero. Il delitto di lesa maestà contro «il Re dei re e il Signore dei dominanti» (1 Tm VI, 15; Ap XIX,16), perpetrato da un’educazione indifferente o avversa allo spirito cristiano, il capovolgimento del «lasciate che i pargoli vengano a me» (Mc X, 14) porterebbero amarissimi frutti. Lo stato invece, che toglie ai sanguinanti e lacerati cuori dei padri e delle madri cristiane le loro preoccupazioni e ristabilisce i loro diritti, promuove la sua stessa pace interna e pone il fondamento per un più felice avvenire della patria. Le anime dei figli, donati da Dio ai genitori, consacrati nel battesimo con il sigillo regale di Cristo, sono un sacro deposito, su cui vigila l’amore geloso di Dio. Lo stesso Cristo, che ha pronunziato il «lasciate che i pargoli vengano a me», ha anche minacciato, nonostante la sua misericordia e bontà, terribili mali a coloro che dànno scandalo ai prediletti del suo cuore. E quale scandalo più dannoso alle generazioni e più duraturo di una formazione della gioventù mal diretta verso una méta, che allontana da Cristo, «via, verità e vita», e conduce ad un’apostasia manifesta o occulta da Cristo? Questo Cristo, da cui si vogliono alienare le giovani generazioni presenti e future, è quello stesso che dall’Eterno Padre ha ricevuto ogni potere in cielo e in terra. Egli tiene nella sua mano onnipotente il destino degli Stati, dei popoli e delle Nazioni. Appartiene a lui il diminuire o prolungare la vita, l’accrescimento, la prosperità e la grandezza. Di tutto ciò che è sulla terra, solo l’anima vive immortale. Un sistema di educazione che non rispettasse il recinto sacro della famiglia cristiana, protetto dalla santa legge di Dio, ne attaccasse le basi, chiudesse alla gioventù il cammino a Cristo, alle fonti di vita e di gioia del Salvatore (cf. Is XII, 3), considerasse l’apostasia da Cristo e dalla Chiesa come simbolo di fedeltà al popolo o a una determinata classe, pronuncerebbe contro se stesso la condanna e sperimenterebbe a suo tempo l’ineluttabile verità delle parole del profeta: «Coloro che si ritirano da te, saranno scritti in terra» (Ger XVII,13).
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La concezione che assegna allo Stato un’autorità illimitata non è, venerabili fratelli, soltanto un errore pernicioso alla vita interna delle nazioni, alla loro prosperità e al maggiore e ordinato incremento del loro benessere, ma arreca altresì nocumento alle relazioni fra i popoli, perché rompe l’unità della società soprannazionale, toglie fondamento e valore al diritto delle genti, apre la via alla violazione dei diritti altrui e rende difficili l’intesa e la convivenza pacifiche. Infatti il genere umano, quantunque per disposizione dell’ordine naturale stabilito da Dio si divida in gruppi sociali, nazioni o Stati, indipendenti gli uni dagli altri, in quanto riguarda il modo di organizzare e di dirigere la loro vita interna, è tuttavia legato, da mutui vincoli morali e giuridici, in una grande comunità, ordinata al bene di tutte le genti e regolata da leggi speciali, che ne tutelano l’unità e ne promuovono la prosperità. – Ora non è chi non veda come l’affermata autonomia assoluta dello stato si ponga in aperto contrasto con questa legge immanente e naturale, la neghi anzi radicalmente, lasciando in balìa della volontà dei reggitori la stabilità delle relazioni internazionali, e togliendo la possibilità di una vera unione e di una collaborazione feconda in ordine all’interesse generale. Perché, venerabili fratelli, all’esistenza di contatti armonici e duraturi e di relazioni fruttuose è indispensabile che i popoli riconoscano e osservino quei princìpi di diritto naturale internazionale, che regolano il loro normale svolgimento e funzionamento. Tali princìpi esigono il rispetto dei relativi diritti all’indipendenza, alla vita e alla possibilità di uno svolgimento progressivo nelle vie della civiltà; esigono, inoltre, la fedeltà ai patti, stipulati e sanciti in conformità alle norme del diritto delle genti. – Il presupposto indispensabile di ogni pacifica convivenza tra le leggi e l’anima delle relazioni giuridiche, vigenti fra di esse, è senza dubbio la mutua fiducia, la previsione e persuasione della reciproca fedeltà alla parola data, la certezza che dall’una e dall’altra parte si è convinti che «meglio è la sapienza che le armi guerresche» (cf. Eccle IX, 18) e si è disposti a discutere e a non ricorrere alla forza o alla minaccia della forza nel caso in cui sorgessero ritardi, impedimenti, mutamenti e contestazioni: cose tutte che possono anche derivare non da cattiva volontà, ma da mutate circostanze e da reali interessi contrastanti. – Ma d’altra parte, staccare il diritto delle genti dall’àncora del diritto divino, per fondarlo sulla volontà autonoma degli stati, significa detronizzare quello stesso diritto e togliergli i titoli più nobili e più validi, abbandonandolo all’infausta dinamica dell’interesse privato e dell’egoismo collettivo tutto intento a far valere i propri diritti e a disconoscere quelli degli altri. È pur vero che, col volgere del tempo e il mutar sostanziale delle circostanze, non previste e forse neanche prevedibili all’atto della stipulazione, un trattato o alcune sue clausole possono divenire o apparire ingiusti o inattuabili o troppo gravosi per una delle parti, ed è chiaro che, quando ciò avvenisse, si dovrebbe tempestivamente procedere a una leale discussione per modificare o sostituire il patto. Ma il considerare i patti per principio come effimeri e l’attribuirsi tacitamente la facoltà di rescinderli unilateralmente, quando più non convenissero, toglierebbe ogni fiducia reciproca fra gli stati. E così rimarrebbe scardinato l’ordine naturale, e verrebbero scavate delle fosse incolmabili di separazione fra i vari popoli e Nazioni. – Oggi, venerabili fratelli, tutti osservano con spavento l’abisso a cui hanno portato gli errori da Noi caratterizzati e le loro pratiche conseguenze. Son cadute le orgogliose illusioni di un progresso indefinito; e chi ancora non fosse desto, il tragico presente lo scuoterebbe con le parole del profetar «Ascoltate, o sordi, e rimirate, o ciechi» (Is XLII, 18). Ciò che appariva esternamente ordine, non era se non invadente perturbamento: scompiglio nelle norme di vita morale, le quali si erano staccate dalla maestà della legge divina e avevano inquinato tutti i campi dell’umana attività. Ma lasciamo il passato e rivolgiamo gli occhi verso quell’avvenire che, secondo le promesse dei potenti di questo mondo, cessati i sanguinosi scontri odierni, consisterà in un nuovo ordinamento, fondato sulla giustizia e sulla prosperità. Sarà tale avvenire veramente diverso, sarà soprattutto migliore? I trattati di pace, il nuovo ordine internazionale alla fine di questa guerra saranno animati da giustizia e da equità verso tutti, da quello spirito, il quale libera e pacifica, o saranno una lamentevole ripetizione di antichi e recenti errori? Sperare un decisivo mutamento esclusivamente dallo scontro guerresco e dal suo sbocco finale è vano, e l’esperienza ce lo dimostra. L’ora della vittoria è un’ora dell’esterno trionfo per la parte che riesce a conseguirla; ma è in pari tempo l’ora della tentazione, in cui l’Angelo della giustizia lotta con il dèmone della violenza; il cuore del vincitore troppo facilmente s’indurisce; la moderazione e una lungimirante saggezza gli appaiono debolezza; il bollore delle passioni popolari, attizzato dai sacrifici e dalle sofferenze sopportate, vela spesso l’occhio anche ai responsabili e fa sì che non badino alla voce ammonitrice dell’umanità e dell’equità, sopraffatta o spenta dall’inumano «Guai ai vinti!». Le risoluzioni e le decisioni nate in tali condizioni rischierebbero di non essere che ingiustizia sotto il manto della giustizia. – No, venerabili fratelli, la salvezza non viene ai popoli dai mezzi esterni, dalla spada, che può imporre condizioni di pace, ma non crea la pace. Le energie, che devono rinnovare la faccia della terra, devono procedere dall’interno, dallo spirito. Il nuovo ordine del mondo, la vita nazionale e internazionale, una volta cessate le amarezze e le crudeli lotte presenti, non dovrà più riposare sulla infida sabbia di norme mutabili ed effimere, lasciate all’arbitrio dell’egoismo collettivo e individuale. Esse devono piuttosto appoggiarsi sull’inconcusso fondamento, sulla roccia incrollabile del diritto naturale e della divina rivelazione. Ivi il legislatore umano deve attingere quello spirito di equilibrio, quell’acuto senso di responsabilità morale, senza cui è facile misconoscere i limiti tra il legittimo uso e l’abuso del potere. Solamente così le sue decisioni avranno interna consistenza, nobile dignità e sanzione religiosa, e non saranno alla mercé dell’egoismo e della passione. Se è vero che i mali di cui soffre l’umanità odierna provengono in parte dallo squilibrio economico e dalla lotta degli interessi per una più equa distribuzione dei beni che Dio ha concessa all’uomo come mezzi per il suo sostentamento e il suo progresso, non è men vero che la loro radice è più profonda e interna, poiché tocca le credenze religiose e le convinzioni morali pervertitesi con il progressivo distaccarsi dei popoli dall’unità di dottrina e di fede, di costumi e di morale, una volta promossa dall’opera indefessa e benefica della chiesa. La rieducazione dell’umanità, se vuole sortire qualche effetto, deve essere soprattutto spirituale e religiosa: deve, quindi, muovere da Cristo come da suo fondamento indispensabile, essere attuata dalla giustizia e coronata dalla carità. – Compiere quest’opera di rigenerazione, adattando i suoi mezzi alle mutate condizioni dei tempi e ai nuovi bisogni del genere umano, è ufficio essenziale e materno della chiesa. La predicazione dell’evangelo, affidatale dal suo divino Fondatore, nella quale vengono inculcate agli uomini la verità, la giustizia e la carità, e lo sforzo di radicarne saldamente i precetti negli animi e nelle coscienze, sono il più nobile e più fruttuoso lavoro in favore della pace. Questa missione, nella sua grandiosità, sembrerebbe dover scoraggiare i cuori di coloro che formano la Chiesa militante. Ma l’adoprarsi alla diffusione del regno di Dio, che ogni secolo compì in vari modi, con diversi mezzi, con molteplici e dure lotte, è un comando a cui è obbligato chiunque sia stato strappato dalla grazia del Signore alla schiavitù di satana e chiamato nel Battesimo ad essere cittadino di quel regno. E se appartenere ad esso, vivere conforme al suo spirito, lavorare al suo incremento e rendere accessibili i suoi beni anche a quella parte dell’umanità che ancora non ne fa parte, ai giorni nostri equivale a dover affrontare impedimenti e opposizioni vaste, profonde e minuziosamente organizzate, come mai prima, ciò non dispensa dalla franca e coraggiosa professione di fede, ma incita piuttosto a tener fermo nella lotta, anche a prezzo dei massimi sacrifici. Chi vive dello spirito di Cristo non si lascia abbattere dalle difficoltà che si oppongono, anzi si sente spinto a lavorare con tutte le sue forze e con piena fiducia in Dio; non si sottrae alle strettezze e necessità dell’ora, ma ne affronta le durezze pronto al soccorso, con quell’amore che non rifugge dal sacrificio, è più forte della morte, e non si lascia spegnere dalle impetuose acque della tribolazione. – Un intimo conforto, una gioia celeste, per cui giornalmente rivolgiamo a Dio il Nostro ringraziamento umile e profondo, Ci dà, venerabili fratelli, l’osservare in tutte le regioni del mondo cattolico evidenti segni di uno spirito che coraggiosamente affronta i compiti giganteschi dell’epoca presente, che con generosità e decisione è teso a riunire in feconda armonia con il primo ed essenziale dovere della santificazione propria anche l’attività apostolica per l’accrescimento del regno di Dio. Dal movimento dei congressi eucaristici, promossi con amorosa cura dai Nostri predecessori, e dalla collaborazione dei laici, formati nell’Azione Cattolica alla profonda coscienza della loro nobile missione, promanano fonti di grazia e riserve di forze, che, nei tempi attuali, in cui aumentano le minacce, maggiori sono i bisogni e arde la lotta tra cristianesimo e anticristianesimo, difficilmente potrebbero essere adeguatamente stimate. – Quando si deve con tristezza osservare la sproporzione tra il numero e i compiti dei sacerdoti, quando vediamo verificarsi anche oggi la parola del Salvatore: «La messe è molta, gli operai sono pochi» (Mt IX, 37; Lc X, 2), la collaborazione dei laici all’apostolato gerarchico, numerosa, animata da ardente zelo e generosa dedizione, appare un prezioso ausilio all’opera dei sacerdoti e mostra possibilità di sviluppo che legittimano le più belle speranze. La preghiera della chiesa al Signore della messe, perché mandi operai nella sua vigna (cf. Mt IX, 38; Lc X, 2) è stata esaudita in maniera conforme alle necessità dell’ora presente, e felicemente supplisce e completa le energie, spesso impedite e insufficienti, dell’apostolato sacerdotale. Una fervida falange di uomini e di donne di giovani e di giovinette, ubbidendo alla voce del sommo pastore, alle direttive dei loro vescovi, si consacra con tutto l’ardore dell’anima alle opere dell’apostolato, per ricondurre a Cristo le masse di popolo che da lui s’erano distaccate. Ad essi vada in questo momento, così importante per la chiesa e l’umanità, il Nostro saluto paterno, il Nostro commosso ringraziamento, la Nostra fiduciosa speranza. Essi hanno veramente posto la loro vita e la loro opera sotto il vessillo di Cristo re, e possono ripetere con il Salmista: «Al re io espongo le opere mie» (Sal XLIV, 1). «Venga il tuo regno» è non solamente il voto ardente delle loro preghiere, ma anche la direttiva del loro operare. In tutte le classi, in tutte le categorie, in tutti i gruppi questa collaborazione del laicato con il sacerdozio rivela preziose energie, a cui è affidata una missione che cuori nobili e fedeli non potrebbero desiderare più alta e consolante. Questo lavoro apostolico, compiuto secondo lo spirito della chiesa, consacra il laico quasi a «ministro di Cristo» in quel senso che sant’Agostino così spiega: «O fratelli, quando udite il Signore che dice: “Dove sono io, ivi sarà pure il mio ministro”, non vogliate correre col pensiero soltanto ai buoni vescovi e ai buoni chierici. Anche voi, a modo vostro, dovete essere ministri di Cristo, vivendo bene, facendo elemosine, predicando il suo nome e la sua dottrina a chi potrete, di modo che ognuno, anche se padre di famiglia, riconosca di dovere, anche per tale titolo, alla sua famiglia un affetto paterno. Per Cristo e per la vita eterna ammonisca i suoi, li istruisca, li esorti, li rimproveri, loro dimostri benevolenza, li contenga nell’ordine; così egli eserciterà in casa sua l’ufficio di chierico e in certo qual modo di vescovo, servendo a Cristo, per essere con lui in eterno». – Nel promuovere questa collaborazione dei laici all’apostolato, così importante ai tempi nostri, spetta una speciale missione alla famiglia, perché lo spirito della famiglia influisce essenzialmente sullo spirito delle giovani generazioni. Fino a che nel focolare domestico splende la sacra fiamma della fede in Cristo e i genitori foggiano e plasmano la vita dei figli conforme a questa fede, la gioventù sarà sempre pronta a riconoscere nelle sue prerogative regali il Redentore, e ad opporsi a chi lo vuole bandire dalla società o ne vìola sacrilegamente i diritti. Quando le chiese vengono chiuse, quando si toglie dalle scuole l’immagine del Crocifisso, la famiglia resta il rifugio provvidenziale e, in un certo senso, inattaccabile della vita cristiana. E rendiamo infinite grazie a Dio nel vedere che innumerevoli famiglie compiono questa loro missione con una fedeltà, che non si lascia abbattere né da attacchi né da sacrifici. Una potente schiera di giovani e di giovinette, anche in quelle regioni dove la fede in Cristo significa sofferenza e persecuzione, restano fermi presso il trono del Redentore con quella tranquillità e sicura decisione, che Ci fa ricordare i tempi più gloriosi delle lotte della chiesa. Quali torrenti di beni si riverserebbero sul mondo, quanta luce, quanto ordine, quanta pacificazione verrebbero alla vita sociale, quante energie insostituibili e preziose potrebbero contribuire a promuovere il bene dell’umanità, se si concedesse ovunque alla chiesa, maestra di giustizia e di amore, quella possibilità di azione, alla quale ha un diritto sacro e incontrovertibile in forza del mandato divino! Quante sciagure potrebbero venir evitate, quanta felicità e tranquillità sarebbero create, se gli sforzi sociali e internazionali per stabilire la pace si lasciassero permeare dai profondi impulsi dell’evangelo dell’amore nella lotta contro l’egoismo individuale e collettivo! – Tra le leggi che regolano la vita dei fedeli Cristiani e i postulati di una genuina umanità non vi è contrasto, ma comunanza e mutuo appoggio. Nell’interesse dell’umanità sofferente e profondamente scossa materialmente e spiritualmente, Noi non abbiamo desiderio più ardente di questo: che le angustie presenti aprano gli occhi a molti, affinché considerino nella loro vera luce il Signore Gesù Cristo e la missione della sua chiesa su questa terra, e che tutti coloro i quali esercitano il potere si risolvano a lasciare alla chiesa libero il cammino per lavorare alla formazione delle generazioni, secondo i princìpi della giustizia e della pace. Questo lavoro pacificatore suppone che non si frappongano impedimenti all’esercizio della missione affidata da Dio alla sua chiesa, non si restringa il campo della sua attività e non si sottraggano le masse, e specialmente la gioventù, al suo benefico influsso. Perciò Noi, come rappresentanti sulla terra di colui, che fu detto dal profeta «Principe della pace» (Is IX, 6), facciamo appello ai reggitori dei popoli e a coloro che hanno in qualsiasi modo influenza nella cosa pubblica, affinché la chiesa goda sempre piena libertà di compiere la sua opera educatrice, annunziando alle menti la verità, inculcando la giustizia, e riscaldando i cuori con la divina carità di Cristo. – Se la Chiesa, da una parte, non può rinunziare all’esercizio di questa sua missione, che ha come fine ultimo di attuare quaggiù il disegno divino di «instaurare tutte le cose in Cristo, sia le celesti sia le terrestri» (Ef 1,10), dall’altra, oggi la sua opera si dimostra più che in ogni altro tempo necessaria, giacché una triste esperienza insegna che i soli mezzi esterni e i provvedimenti umani e gli espedienti politici non portano un efficace lenimento ai mali, dai quali l’umanità è travagliata. – Edotti appunto dal fallimento doloroso degli espedienti umani per allontanare le tempeste che minacciano di travolgere la civiltà nel loro turbine, molti rivolgono con rinnovata speranza lo sguardo alla chiesa, rocca di verità e di amore, a questa cattedra di Pietro, donde sentono che può essere ridonata al genere umano quell’unità di dottrina religiosa e di codice morale, che in altri tempi diede consistenza alle relazioni pacifiche tra i popoli. Unità, a cui guardano con occhio di nostalgico rimpianto tanti uomini responsabili delle sorti delle nazioni, i quali esperimentano giornalmente quanto siano vani i mezzi, nei quali un giorno avevano posto fiducia; unità, che è il desiderio delle schiere tanto numerose dei Nostri figli, i quali invocano quotidianamente «il Dio di pace e di amore» (cf. 2 Cor XIII, 11); unità, che è l’attesa di tanti nobili spiriti, da Noi lontani, i quali nella loro fame e sete di giustizia e di pace, volgono gli occhi alla sede di Pietro e ne aspettano guida e consiglio. – Essi riconoscono nella chiesa cattolica la bimillenaria saldezza delle norme di fede e di vita, l’incrollabile compattezza della gerarchia ecclesiastica, la quale, unita al successore di Pietro, si prodiga nell’illuminare le menti con la dottrina dell’evangelo, nel guidare e santificare gli uomini, ed è larga di materna condiscendenza verso tutti, ma ferma, quando, anche a prezzo di tormenti o di martirio, ha da pronunziare: «Non è lecito». – Eppure, venerabili fratelli, la dottrina di Cristo, che sola può fornire all’uomo fondamento di fede, tale da allargargli ampiamente la vista e dilatargli divinamente il cuore e dare un rimedio efficace alle odierne gravissime difficoltà, e l’operosità della chiesa per insegnare quella dottrina, diffonderla e modellare gli animi secondo i suoi precetti, sono fatte talvolta oggetto di sospetti, quasi che scuotessero i cardini della civile autorità e ne usurpassero i diritti. – Contro tali sospetti Noi con apostolica sincerità dichiariamo – fermo restando tutto ciò che il Nostro predecessore Pio XI di v. m. nella sua enciclica Quas primas dell’11 dicembre 1925 insegnò circa la potestà di Cristo re e della sua chiesa che simili scopi sono del tutto alieni dalla chiesa medesima, la quale allarga le sue braccia materne verso questo mondo, non per dominare, ma per servire. Essa non pretende di sostituirsi nel campo loro proprio alle altre autorità legittime, ma offre loro il suo aiuto, sull’esempio e nello spirito del suo divino Fondatore, il quale «passò beneficando» (At X, 38). La Chiesa predica e inculca obbedienza e rispetto all’autorità terrena, che trae da Dio la sua nobile origine, e si attiene all’insegnamento del divino Maestro, che disse: «Date a Cesare quel che appartiene a Cesare» (Mt XXII, 21); non ha mire usurpatrici e canta nella sua liturgia: «Non rapisce i regni terreni Colui che dà i regni celesti». Non deprime le energie umane, ma le eleva a tutto ciò che è magnanimo e generoso e forma caratteri, che non transigono con la coscienza. Né essa, che rese civili i popoli, ha mai ritardato il progresso dell’umanità, del quale anzi con materna fierezza si compiace e gode. Il fine della sua attività fu dichiarato mirabilmente dagli angeli sulla culla del Verbo incarnato, quando cantarono gloria a Dio e annunziarono pace agli uomini di buona volontà (cf. Lc II, 14). Questa pace, che il mondo non può dare, è stata lasciata come eredità ai suoi discepoli dallo stesso divino Redentore: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv XIV, 27); e così seguendo la sublime dottrina di Cristo, compendiata da lui medesimo nel duplice precetto dell’amore di Dio e del prossimo, milioni di anime l’hanno conseguita, la conseguono e la conseguiranno. La storia – chiamata sapientemente da un sommo oratore romano «maestra della vita» – da quasi duemila anni dimostra quanto sia vera la parola della Scrittura, che non avrà pace chi resiste a Dio (cf. Gb IX, 4). Poiché Cristo solo è la «pietra angolare» (cf. Ef II, 20), sulla quale l’uomo e la società possono trovare stabilità e salvezza. – Su questa pietra angolare è fondata la Chiesa, e perciò contro di essa le potenze avverse non potranno mai prevalere: «Le porte dell’inferno non prevarranno» (Mt XVI, 18), né potranno mai svigorirla, ché anzi le lotte interne ed esterne contribuiscono ad accrescerne la forza e ad aumentare le corone delle sue gloriose vittorie. Al contrario, ogni altro edificio che non si fondi saldamente sulla dottrina di Cristo, è appoggiato sulla sabbia mobile, e destinato a rovinare miseramente (cf. Mt VII, 26-27).
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Venerabili fratelli, il momento in cui vi giunge questa Nostra prima enciclica è sotto più aspetti una vera ora delle tenebre (cf. Lc XXII, 53), in cui lo spirito della violenza e della discordia versa sull’umanità una sanguinosa coppa di dolori senza nome. È forse necessario assicurarvi che il Nostro cuore paterno è vicino in compassionevole amore a tutti i suoi figli, e in modo speciale ai tribolati, agli oppressi, ai perseguitati? I popoli, travolti nel tragico vortice della guerra, sono forse ancora soltanto agli «inizi dei dolori» (Mt 24,8), ma già in migliaia di famiglie regnano morte e desolazione, lamento e miseria. Il sangue di innumerevoli esseri umani, anche non combattenti, eleva uno straziante lamento specialmente sopra una diletta nazione, quale è la Polonia, che per la sua fedeltà verso la chiesa, per i suoi meriti nella difesa della civiltà cristiana, scritti a caratteri indelebili nei fasti della storia, ha diritto alla simpatia umana e fraterna del mondo, e attende, fiduciosa nella potente intercessione di Maria «Soccorso dei cristiani» l’ora di una risurrezione corrispondente ai princìpi della giustizia e della vera pace. Ciò che testé è accaduto e ancora accade appariva al Nostro sguardo come una visione, quando, non essendo ancora scomparsa ogni speranza, nulla lasciammo intentato, nella forma suggeritaci dal Nostro apostolico ministero e dai mezzi a Nostra disposizione, per impedire il ricorso alle armi e tener aperta la via ad una intesa, onorevole per ambedue le parti. Convinti che all’uso della forza da una parte avrebbe risposto il ricorso alle armi dall’altra, considerammo come dovere imprescindibile del Nostro apostolico ministero e dell’amore cristiano di metter tutto in opera, per risparmiare all’umanità intera e alla cristianità gli orrori di una conflagrazione mondiale, anche se vi era pericolo che le Nostre intenzioni e i Nostri scopi venissero fraintesi. I Nostri ammonimenti, se furono rispettosamente ascoltati, non vennero peraltro seguiti. E mentre il Nostro cuore di pastore osserva dolorante e preoccupato, si affaccia al Nostro sguardo l’immagine del buon pastore e Ci sembra di dover ripetere al mondo, in nome suo, il lamento: «Oh, se conoscessi … quello che giova alla tua pace! Ma ora questo è celato ai tuoi occhi!» (Lc XIX, 42). – In mezzo a questo mondo, che presenta oggi uno stridente contrasto alla pace di Cristo nel regno di Cristo, la chiesa e i suoi fedeli si trovano in tempi e anni di prove, quali raramente si conobbero nella sua storia di lotte e sofferenze. Ma proprio in simili tempi, chi rimane fermo nella fede e ha robusto il cuore, sa che Cristo re non è mai tanto vicino quanto nell’ora della prova, che è l’ora della fedeltà. Con cuore straziato per le sofferenze e i patimenti di tanti suoi figli, ma con il coraggio e la fermezza che provengono dalle promesse del Signore, la sposa di Cristo cammina verso le incombenti procelle. Ed essa sa: la verità, che essa annunzia, la carità, che insegna e mette in opera, saranno gli insostituibili consiglieri e cooperatori degli uomini di buona volontà nella ricostruzione di un nuovo mondo, secondo la giustizia e l’amore, dopo che l’umanità, stanca di correre per le vie dell’errore, avrà assaporato gli amari frutti dell’odio e della violenza. – Nel frattempo, però, venerabili fratelli, il mondo e tutti coloro che sono colpiti dalla calamità della guerra devono sapere che il dovere dell’amore cristiano, cardine fondamentale del regno di Cristo, non è una parola vuota, ma una viva realtà. Un vastissimo campo si apre alla carità cristiana in tutte le sue forme. Abbiamo piena fiducia che tutti i Nostri figli, specialmente coloro che non sono provati dal flagello della guerra, si ricordino, imitando il divino Samaritano, di tutti coloro che, essendo vittime della guerra, hanno diritto alla pietà e al soccorso. La Chiesa cattolica, città di Dio, «che ha per re la verità, per legge la carità, per misura l’eternità», annunziando senza errori né diminuzioni la verità di Cristo, lavorando secondo l’amore di Cristo con slancio materno, sta come una beata visione di pace sopra il vortice di errori e passioni e aspetta il momento in cui la mano onnipotente di Cristo re sederà la tempesta e bandirà gli spiriti della discordia che l’hanno provocata. Quanto sta in Nostro potere per accelerare il giorno in cui la colomba della pace su questa terra, sommersa dal diluvio della discordia, troverà dove posare il piede, Noi continueremo a farlo, fidando in quegli eminenti uomini di stato che prima dello scoppio della guerra si sono nobilmente adoperati per allontanare dai popoli un tanto flagello; fidando nei milioni di anime di tutti i paesi e di tutti i campi, che invocano non solo giustizia, bensì anche carità e misericordia; ma soprattutto fidando in Dio onnipotente, al quale giornalmente rivolgiamo la preghiera: «All’ombra delle tue ali mi rifugio, finché passi la calamità» (Sal LVI, 2). Dio può tutto: al pari della felicità e delle sorti dei popoli, tiene nelle sue mani anche gli umani consigli e, in qualsiasi parte Egli voglia, dolcemente li inclina: anche gli ostacoli per la sua onnipotenza sono mezzi a plasmare le cose e gli eventi e a volgere le menti e i liberi voleri ai suoi altissimi fini. – Pregate, quindi, venerabili fratelli, pregate senza interruzione, pregate, soprattutto, quando offrite il divino Sacrificio d’amore. Pregate voi, ai quali la professione coraggiosa della fede impone oggi duri, penosi e non di rado eroici sacrifici; pregate voi, membra sofferenti e doloranti della Chiesa, quando Gesù viene a consolare e lenire le vostre pene. – E non dimenticate di rendere, mediante un vero spirito di mortificazione e degne opere di penitenza, le vostre preghiere più accette agli occhi di Colui «che sostiene tutti coloro che cadono e rialza tutti gli abbattuti» (Sal CXLIV, 14), affinché egli nella sua misericordia abbrevi i giorni della prova e si avverino così le parole del Salmo: «Gridarono al Signore nella loro tribolazione, e dalle loro angustie li liberò» (Sal CVI, 13). – E voi, candide legioni di bimbi, che siete tanto amati e prediletti da Gesù, nel comunicarvi col Pane di vita innalzate le vostre ingenue e innocenti preghiere e unitele a quelle di tutta la chiesa. All’innocenza supplicante non resiste il cuore di Gesù che vi ama: pregate tutti, «pregate senza interruzione» (1Ts V, 17). – In tal modo metterete in pratica il sublime precetto del divino Maestro, il più sacro testamento del suo cuore, «che tutti siano una cosa sola» (Gv XVII, 21), che tutti vivano in quell’unità di fede e di amore, da cui riconosca il mondo la potenza e l’efficacia della missione di Cristo e dell’opera della sua Chiesa. La Chiesa primitiva comprese e attuò questo divino precetto e lo espresse in una magnifica preghiera; e voi unitevi con gli stessi sentimenti, che tanto bene rispondono alle necessità dell’ora presente: «Ricòrdati, o Signore, della tua Chiesa, per liberarla da ogni male e perfezionarla nella tua carità e, santificàtala, raccòglila da ogni parte del mondo nel regno tuo, che le hai preparato; poiché tua è la virtù e la gloria per tutti i secoli». Nella fiducia che Dio, autore e amante della pace, ascolti le suppliche della chiesa, vi impartiamo come pegno dell’abbondanza delle grazie divine, dalla pienezza del Nostro animo paterno, l’apostolica benedizione.
Castel Gandolfo, presso Roma, il 20 ottobre dell’anno 1939, I del Nostro pontificato.
UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – “SUMMI PONTIFICATUS” (1)
Questa lettera Enciclica è come un biglietto da visita, una carta di “Identità Spirituale” con la quale il novello Sommo Pontefice, S. S. Pio XII si presenta al mondo cattolico e a tutto l’orbe in occasione del suo insediamento sulla Cattedra di S. Pietro, in un anno funestato dall’inizio di una guerra terribile che non avrebbe risparmiato rovine, lacrime e sangue all’intera umanità. Superfluo sarebbe sottolineare la caratura spirituale di questo Vicario di N. S. Gesù Cristo, l’ultimo Pontefice operante liberamente prima dell’invasione massonica della Chiesa e l’insediamento di una serie di antipapi, falsi profeti precursori dell’anticristo imminente. «Quand’ebbero crocifisso Gesù si fece buio». Questo brevissimo passaggio evangelico viene ricordato per illustrare simbolicamente la situazione sociale dell’epoca, situazione ancor più grave oggi quando l’umana società si trova a brancolare tra tenebre spirituali, morali e sociali, anticamere delle “tenebre esteriori” in cui sarà gettata gran parte dell’umanità se non torna prontamente alla fede ed alla pratica della dottrina cristiana. D’altra parte questi sono i tempi nei quali si devono compiere le sacre Scritture che, compiutesi in Gerusalemme per il Capo del Corpo Mistico, dovranno compiersi pure su tutto il pianeta per tutte le membra del Corpo mistico di Cristo. La Chiesa, crocifissa ed uccisa da un infame conciliabolo e dall’apostasia postconciliabolare, si trova sepolta in un sepolcro dal quale risorgerà gloriosa dopo 40 ore di sepoltura e di silenzio [cioè dopo 40 anni dall’omicidio di S. S. Gregorio XVII, l’ultimo Papa conosciuto sebbene impedito!], in coincidenza della fine della “deportazione a Babilonia” iniziata il 26 ottobre del 1958. Alla morte sanguinosa sulla croce, farà seguito, al suono dell’ultima tromba, come ricordano nelle Scritture sia San Paolo che San Giovanni Evangelista, il ritorno inatteso e glorioso della sua “vera” Chiesa – Una, Santa, Cattolica ed Apostolica – e di Cristo che brucerà con il soffio delle sue labbra l’anticristo, con il falso profeta ed il dragone scatenato che saranno scaraventati nello stagno di fuoco e di zolfo ove saranno tormentati in eterno. – Godiamoci la prima parte di questo meraviglioso documento magisteriale.
PIO XII
LETTERA ENCICLICA
SUMMI PONTIFICATO (1)
PROGRAMMA DEL PONTIFICATO
L’arcano disegno del Signore Ci ha affidato, senza alcun Nostro merito, l’altissima dignità e le gravissime sollecitudini del sommo Pontificato proprio nell’anno in cui ricorre il quarantesimo anniversario della consacrazione dell’umanità al sacratissimo cuore del Redentore, indetta dal Nostro immortale predecessore, Leone XIII, al declinare del secolo scorso, alle soglie dell’anno santo. Con quale gioia, commozione e intimo consenso accogliemmo allora come un messaggio celeste l’Enciclica Annum sacrum, proprio allorquando, novello levita; avevamo potuto recitare: «Introibo ad altare Dei» (Sal XLII ,4). E con che ardente entusiasmo unimmo il Nostro cuore ai pensieri e alle intenzioni, che animavano e guidavano quell’atto veramente provvidenziale di un pontefice, che con tanta profonda acutezza conosceva i bisogni e le piaghe, palesi e occulte, del suo tempo! Come quindi potremmo non sentire oggi profonda riconoscenza verso la Provvidenza, che ha voluto far coincidere il Nostro primo anno di pontificato con un ricordo così importante e caro del Nostro primo anno di sacerdozio; e come potremmo non cogliere con gioia l’occasione per fare del culto al «Re dei re e Signore dei dominanti» (1 Tm VI,15; Ap XIX,16) quasi la preghiera d’introito di questo Nostro Pontificato, nello spirito del Nostro indimenticabile predecessore e in fedele attuazione delle sue intenzioni? Come non faremmo di esse l’alfa e l’omega del Nostro volere e del Nostro sperare, del Nostro insegnamento e della Nostra attività, della Nostra pazienza e delle Nostre sofferenze, consacrate tutte alla diffusione del regno di Cristo? – Se Noi contempliamo sotto la luce dell’eternità gli eventi esterni e gli interiori sviluppi degli ultimi quarant’anni e ne misuriamo grandezze e deficienze, quella consacrazione universale a Cristo re appare allo sguardo del Nostro spirito sempre più nel suo significato sacro, nel suo simbolismo esortatore, nel suo scopo di purificazione e di elevazione, di irrobustimento e di difesa delle anime e in pari tempo nella sua preveggente saggezza, mirante a guarire e nobilitare ogni umana società e promuoverne il vero bene. Sempre più chiaramente Ci si rivela come un messaggio di esortazione e di grazia di Dio non solo alla sua Chiesa, ma anche a un mondo, troppo bisognoso di scuotimento e di guida, il quale, immerso nel culto del presente, si smarriva sempre più e si esauriva nella fredda ricerca di terreni ideali; un messaggio a un’umanità, la quale, in schiere sempre più numerose, si staccava dalla fede in Cristo e più ancora dal riconoscimento e dall’osservanza della sua legge; un messaggio contro una concezione del mondo, a cui la dottrina di amore e di rinunzia del Sermone della montagna e la divina azione d’amore della croce apparivano scandalo e follia. Come un giorno il precursore del Signore a coloro che, cercando, interrogavano, proclamava: «Ecco l’Agnello di Dio» (Gv 1, 29), per ammonirli che l’aspettato delle genti (cf. Ag II, 8 Vg) dimorava, sebbene ancora sconosciuto, in mezzo a loro; così il rappresentante di Cristo rivolgeva scongiurando il suo grido potente: «Ecco il vostro Re!» (Gv XIX,14) ai rinnegatori, ai dubbiosi, agli indecisi, agli esitanti, i quali o rifiutavano di seguire il Redentore glorioso, sempre vivente e operante nella sua Chiesa, o lo seguivano con noncuranza e lentezza.
Dalla diffusione e dall’approfondimento del culto del divin cuore del Redentore – che trovò lo splendido coronamento, oltre che nella consacrazione dell’umanità al declinare del secolo scorso, anche nell’introduzione della festa della regalità di Cristo da parte del Nostro immediato predecessore di felice memoria – sono scaturiti indicibili beni per innumerevoli anime: «un impeto di fiumana», che «rallegra la città di Dio» (cf. Sal XLV,5). Qual epoca più della nostra fu così tormentata da vuoto spirituale e da profonda indigenza interiore, nonostante ogni progresso tecnico e puramente civile? Non può forse ad essa applicarsi la parola rivelatrice dell’Apocalisse: «Vai dicendo: sono ricco e dovizioso e non mi manca nulla; e non sai che tu sei meschino e miserabile e povero e cieco e nudo» (Ap III,17)?
Venerabili fratelli! vi può essere dovere più grande e più urgente di «annunziare … le inscrutabili ricchezze di Cristo» (Ef III, 8) agli uomini del nostro tempo? E vi può essere cosa più nobile che sventolare il vessillo del Re davanti ad essi, che hanno seguìto e seguono bandiere fallaci, e riguadagnare al vittorioso vessillo della croce coloro che l’hanno abbandonato? Quale cuore non dovrebbe bruciare ed essere spinto al soccorso, alla vista di tanti fratelli e sorelle, che in seguito a errori, passioni, incitamenti e pregiudizi si sono allontanati dalla fede nel vero Dio, e si sono distaccati dal lieto e salvifico messaggio di Gesù Cristo? Chi appartiene alla milizia di Cristo – sia ecclesiastico, sia laico – non dovrebbe forse sentirsi spronato e incitato a maggior vigilanza, a più decisa difesa, quando vede aumentar sempre più le schiere dei nemici di Cristo, quando s’accorge che i portaparola di queste tendenze, rinnegando o non curando in pratica le vivificatrici verità e i valori contenuti nella fede in Dio e in Cristo, spezzano sacrilegamente le tavole dei comandamenti di Dio per sostituirle con tavole e norme dalle quali è bandita la sostanza etica della rivelazione del Sinai, lo spirito del Sermone della montagna e della croce? Chi potrebbe senza profondo accoramento osservare come questi deviamenti maturino un tragico raccolto tra coloro che, nei giorni della quiete e della sicurezza, si annoveravano tra i seguaci di Cristo, ma che – purtroppo, Cristiani più di nome che di fatto – nell’ora in cui bisogna resistere, lottare, soffrire, affrontare le persecuzioni occulte o palesi, divengono vittime della pusillanimità, della debolezza, dell’incertezza e, presi da terrore di fronte ai sacrifici imposti dalla loro professione cristiana, non trovano la forza di bere il calice amaro dei fedeli di Cristo? – In queste condizioni di tempo e di spirito, venerabili fratelli, possa l’imminente festa di Cristo re, in cui vi sarà pervenuta questa Nostra prima Enciclica, essere un giorno di grazia e di profondo rinnovamento e risveglio nello spirito del regno di Cristo. Sia un giorno, in cui la consacrazione del genere umano al Cuore divino, la quale dev’essere celebrata in modo particolarmente solenne, riunisca presso il trono dell’eterno Re i fedeli di tutti i popoli e di tutte le nazioni in adorazione e in riparazione, per rinnovare a Lui e alla sua legge di verità e di amore il giuramento di fedeltà ora e sempre. Sia un giorno di grazia per i fedeli, in cui il fuoco, che il Signore è venuto a portare sulla terra, si sviluppi in fiamma sempre più luminosa e pura. Sia un giorno di grazia per i tiepidi, gli stanchi, gli annoiati, e nel loro cuore, divenuto pusillanime, maturino nuovi frutti di rinnovamento di spirito, e di rinvigorimento d’animo. Sia un giorno di grazia anche per coloro che non hanno conosciuto Cristo o che l’hanno perduto; un giorno in cui si elevi al cielo da milioni di cuori fedeli la preghiera: «La luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo» (Gv I, 9) possa rischiarare loro la via della salute e la sua grazia possa suscitare nel cuore inquieto degli erranti la nostalgia verso i beni eterni, nostalgia che spinga al ritorno a colui, che dal doloroso trono della croce ha sete anche delle loro anime e desiderio cocente di divenire anche per esse «via, verità e vita» (Gv XIV, 6).
Ponendo questa prima Enciclica del Nostro Pontificato sotto il segno di Cristo re con cuore pieno di fiduciosa speranza, Ci sentiamo interamente sicuri del consenso unanime ed entusiastico dell’intero gregge del Signore. Le esperienze, le ansietà e le prove dell’ora presente risvegliano, acuiscono e purificano il sentimento della comunanza della famiglia cattolica in un grado raramente sperimentato. Esse eccitano in tutti i credenti in Dio e in Cristo la coscienza di una comune minaccia da parte di un comune pericolo. – Di questo spirito di comunanza cattolica, potentemente aumentato in così ardue circostanze, e che è raccoglimento e affermazione, risolutezza e volontà di vittoria, Noi sentimmo un soffio consolante e indimenticabile in quei giorni, in cui con trepido passo ma fiduciosi in Dio, prendemmo possesso della cattedra che la morte del Nostro grande predecessore aveva lasciata vacante. – Con il vivo ricordo delle innumerevoli testimonianze di filiale attaccamento alla Chiesa e al Vicario di Cristo, rivolteCi in occasione della Nostra elezione e incoronazione, con manifestazioni così tenere, così calde e spontanee, Ci piace cogliere questa occasione propizia, per rivolgere a voi, venerabili fratelli, e a quanti appartengono al gregge del Signore, una parola di commosso ringraziamento per tale pacifico plebiscito di amore riverente e di inconcussa fedeltà al Papato, con il quale si veniva a riconoscere la provvidenziale missione del Sommo Sacerdote e del Supremo Pastore. Poiché veramente tutte quelle manifestazioni non erano né potevano essere rivolte alla Nostra povera persona, ma all’unico, altissimo ufficio, al quale il Signore Ci elevava. Se già fin da quel primo momento sentivamo tutto il peso delle gravi responsabilità, connesse con la somma potestà, che Ci veniva conferita dalla Provvidenza divina, Ci era insieme di conforto il vedere quella grandiosa e palpabile dimostrazione dell’inscindibile unità della Chiesa cattolica, che tanto più compatta si stringe alla infrangibile rupe di Pietro e le forma attorno tanto più forti murali e antemurali, quanto più cresce la baldanza dei nemici di Cristo. – Questo stesso plebiscito di mondiale unità cattolica e di soprannaturale fraternità di popoli attorno al Padre comune, Ci pareva tanto più ricco di felici speranze, quanto più tragiche erano le circostanze materiali e spirituali del momento in cui avveniva; e il suo ricordo Ci andò confortando anche nei primi mesi del Nostro pontificato, nei quali abbiamo già sperimentato le fatiche, le ansietà e le prove, di cui è seminato il cammino della Sposa di Cristo attraverso il mondo. – Né vogliamo passare sotto silenzio quanta eco di commossa riconoscenza abbia suscitato nel Nostro cuore l’augurio di coloro che, sebbene non appartengano al corpo visibile della Chiesa Cattolica, non hanno dimenticato, nella loro nobiltà e sincerità, di sentire tutto ciò che, o nell’amore alla persona di Cristo o nella credenza di Dio, li unisce a Noi. A tutti vada l’espressione della Nostra gratitudine. Affidiamo tutti e ciascuno alla protezione e alla guida del Signore e assicuriamo solennemente che un solo pensiero domina la Nostra mente: imitare l’esempio del buon pastore, per condurre tutti alla vera felicità, «affinché abbiano la vita e l’abbiano abbondantemente» (Gv X,10). – Ma in singolar modo Ci sentiamo mossi dall’animo Nostro a far palese l’intima Nostra gratitudine per i segni di riverente omaggio pervenutiCi da sovrani, da capi di stato e da pubbliche autorità di quelle nazioni, con le quali la Santa Sede si trova in amichevoli rapporti. E a particolare letizia si eleva il Nostro cuore nel potere, in questa prima Enciclica indirizzata a tutto il popolo cristiano sparso nel mondo, porre in tal novero la diletta Italia, fecondo giardino della fede piantata dai prìncipi degli apostoli, la quale, mercè la provvidenziale opera dei Patti Lateranensi, occupa ora un posto d’onore tra gli stati ufficialmente rappresentati presso la Sede Apostolica. Da quei Patti ebbe felice inizio, come aurora di tranquilla e fraterna unione di animi innanzi ai sacri altari e nel consorzio civile, la «pace di Cristo restituita all’Italia»; pace, per il cui sereno cielo supplichiamo il Signore che pervada, avvivi, dilati e corrobori fortemente e profondamente l’anima del popolo italiano, a Noi tanto vicino, in mezzo al quale respiriamo il medesimo alito di vita, invocando e augurandoci che questo popolo, così caro ai Nostri predecessori e a Noi, fedele alle sue gloriose tradizioni cattoliche, senta sempre più nell’alta protezione divina la verità delle parole del Salmista: «Beato il popolo, che per suo Dio ha il Signore» (Sal CXLIII,15). – Questa auspicata nuova situazione giuridica e spirituale, che quell’opera, destinata a lasciare una impronta indelebile nella storia, ha creato e suggellato per l’Italia e per tutto l’Orbe cattolico, non Ci apparve mai così grandiosa e unificatrice, come quando dall’eccelsa loggia della Basilica Vaticana Noi aprimmo e levammo per la prima volta le Nostre braccia e la Nostra mano benedicente su Roma, sede del Papato e Nostra amatissima città natale, sull’Italia riconciliata con la Chiesa, e sui popoli del mondo intero.
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Come vicario di Colui, il quale in un’ora decisiva, dinanzi al rappresentante della più alta autorità terrena di allora, pronunziò la grande parola: «Io sono nato e venuto al mondo per render testimonianza alla verità; chiunque sta per la verità ascolta la mia voce» (Gv XVIII, 37), Noi di nulla Ci sentiamo più debitori al Nostro ufficio, e anche al nostro tempo, come di «rendere testimonianza alla verità». Questo dovere, adempiuto con apostolica fermezza, comprende necessariamente l’esposizione e la confutazione di errori e di colpe umane, che è indispensabile conoscere, perché sia possibile la cura e la guarigione: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv VIII, 32). Nell’adempimento di questo Nostro dovere, non Ci lasceremo influenzare da terrene considerazioni, né Ce ne tratterremo per diffidenze e contrasti, per rifiuti e incomprensioni, né per timore di misconoscimenti e di false interpretazioni. Ma lo faremo sempre animati da quella paterna carità che, mentre soffre dei mali che travagliano i figli, indica loro il rimedio, sforzandoCi cioè di imitare il divino modello dei pastori, il buon pastore Gesù, che è luce insieme e amore: «Seguendo il vero con amore» (Ef IV, 15). – All’inizio del cammino, che conduce all’indigenza spirituale e morale dei tempi presenti, stanno i nefasti sforzi di non pochi per detronizzare Cristo, il distacco dalla legge della verità, che egli annunziò, dalla legge dell’amore, che è il soffio vitale del suo regno. Il riconoscimento dei diritti regali di Cristo e il ritorno dei singoli e della società alla legge della sua verità e del suo amore sono la sola via di salvezza. – Nel momento in cui, venerabili fratelli, scriviamo queste righe, Ci giunge la spaventosa notizia, che il terribile uragano della guerra, nonostante tutti i Nostri tentativi di deprecarlo, si è già scatenato. La Nostra penna vorrebbe arrestarsi, quando pensiamo all’abisso di sofferenze di innumerevoli persone, a cui ancora ieri nell’ambiente familiare sorrideva un raggio di modesto benessere. Il Nostro cuore paterno è preso da angoscia, quando prevediamo tutto ciò che potrà maturare dal tenebroso seme della violenza e dell’odio, a cui oggi la spada apre i solchi sanguinosi. Ma proprio davanti a queste apocalittiche previsioni di sventure imminenti e future, consideriamo Nostro dovere elevare con crescente insistenza gli occhi e i cuori di coloro, in cui resta ancora un sentimento di buona volontà verso l’Unico da cui deriva la salvezza del mondo, verso l’Unico, la cui mano onnipotente e misericordiosa può imporre fine a questa tempesta, verso l’Unico, la cui verità e il cui amore possono illuminare le intelligenze e accendere gli animi di tanta parte dell’umanità, immersa nell’errore nell’egoismo, nei contrasti e nella lotta, per riordinarla nello spirito della regalità di Cristo. Forse – Dio lo voglia – è lecito sperare che quest’ora di massima indigenza sia anche un’ora di mutamento di pensiero e di sentire per molti, che finora con cieca fiducia incedevano per il cammino di diffusi errori moderni, senza sospettare quanto fosse insidioso e incerto il terreno su cui si trovavano. Forse molti, che non capivano l’importanza della missione educatrice e pastorale della Chiesa, ora ne comprenderanno meglio gli avvertimenti, da loro trascurati nella falsa sicurezza di tempi passati. Le angustie del presente sono un’apologia del Cristianesimo, che non potrebbe essere più impressionante. Dal gigantesco vortice di errori e movimenti anticristiani sono maturati frutti tanto amari da costituire una condanna, la cui efficacia supera ogni confutazione teorica. Ore di così penosa delusione sono spesso ore di grazia: un «passaggio del Signore» (Es XII,11), in cui alla parola del Salvatore: «Ecco, io sto alla porta e busso» (Ap III, 20) si aprono le porte, che altrimenti sarebbero rimaste chiuse. Dio sa con quale amore compassionevole, con quale santa gioia il Nostro cuore si volge a coloro che, in seguito a simili dolorose esperienze, sentono in sé nascere il desiderio impellente e salutare della verità, della giustizia e della pace di Cristo. Ma anche per coloro, per i quali non è ancora suonata l’ora della suprema illuminazione, il Nostro cuore non conosce che amore e le Nostre labbra non hanno che preghiere al Padre dei lumi, perché faccia splendere nei loro animi indifferenti o nemici di Cristo un raggio di quella luce, che un giorno trasformò Saulo in Paolo, di quella luce che ha mostrato la sua forza misteriosa proprio nei tempi più difficili per la Chiesa. – Una presa di posizione dottrinale completa contro gli errori dei tempi presenti può essere rinviata, se occorrerà, ad altro momento meno sconvolto dalle sciagure degli esterni eventi: ora Ci limitiamo ad alcune fondamentali osservazioni. – Il tempo presente, venerabili fratelli, aggiungendo alle deviazioni dottrinali del passato nuovi errori, li ha spinti a estremi, dai quali non poteva seguire se non smarrimento e rovina. Innanzitutto è certo che la radice profonda e ultima dei mali che deploriamo nella società moderna sta nella negazione e nel rifiuto di una norma di moralità universale, sia della vita individuale, sia della vita sociale e delle relazioni internazionali; il misconoscimento cioè, così diffuso ai nostri tempi, e l’oblio della stessa legge naturale. – Questa legge naturale trova il suo fondamento in Dio, Creatore onnipotente e Padre di tutti, supremo e assoluto legislatore, onnisciente e giusto vindice delle azioni umane. Quando Dio viene rinnegato, rimane anche scossa ogni base di moralità, si soffoca, o almeno si affievolisce di molto, la voce della natura, che insegna, persino agli indotti e alle tribù non pervenute a civiltà, ciò che è bene e ciò che è male, il lecito e l’illecito, e fa sentire la responsabilità delle proprie azioni davanti a un Giudice supremo. – Orbene, la negazione della base fondamentale della moralità ebbe in Europa la sua originaria radice nel distacco da quella dottrina di Cristo, di cui la cattedra di Pietro è depositaria e maestra; dottrina che un tempo aveva dato coesione spirituale all’Europa, la quale, educata, nobilitata e ingentilita dalla croce, era pervenuta a tal grado di progresso civile da diventare maestra di altri popoli e di altri continenti. Distaccatisi invece dal Magistero infallibile della Chiesa, non pochi fratelli separati sono arrivati fino a sovvertire il dogma centrale del Cristianesimo, la divinità del Salvatore, accelerando così il processo di spirituale dissolvimento. – Narra il santo Vangelo che quando Gesù venne crocifisso, «si fece buio per tutta la terra» (Mt XXVII,45): spaventoso simbolo di ciò che avvenne e continua ad avvenire spiritualmente dovunque l’incredulità, cieca e orgogliosa di sé, ha di fatto escluso Cristo dalla vita moderna, specialmente dalla vita pubblica, e con la fede in Cristo ha scosso anche la fede in Dio. I valori morali, secondo i quali in altri tempi si giudicavano le azioni private e pubbliche, sono andati, per conseguenza, come in disuso; e la tanto vantata laicizzazione della società, che ha fatto sempre più rapidi progressi, sottraendo l’uomo, la famiglia e lo stato all’influsso benefico e rigeneratore dell’idea di Dio e dell’insegnamento della Chiesa, ha fatto riapparire anche in regioni, nelle quali per tanti secoli brillarono i fulgori della civiltà cristiana, sempre più chiari, sempre più distinti, sempre più angosciosi i segni di un paganesimo corrotto e corruttore: «Quand’ebbero crocifisso Gesù si fece buio». – Molti forse nell’allontanarsi dalla dottrina di Cristo, non ebbero piena coscienza di venire ingannati dal falso miraggio di frasi luccicanti, che proclamavano simile distacco quale liberazione dal servaggio in cui sarebbero stati prima ritenuti; né prevedevano le amare conseguenze del triste baratto tra la verità, che libera, e l’errore, che asservisce; né pensavano che, rinunziando all’infinitamente saggia e paterna legge di Dio, all’unificante ed elevante dottrina di amore di Cristo, si consegnavano all’arbitrio di una povera mutabile saggezza umana: parlarono di progresso, quando retrocedevano; di elevazione, quando si degradavano; di ascesa alla maturità, quando cadevano in servaggio; non percepivano la vanità d’ogni sforzo umano per sostituire la legge di Cristo con qualche altra cosa che la uguagli: «divennero fatui nei loro ragionamenti» (Rm 1, 21). Affievolitasi la fede in Dio e in Gesù Cristo, e oscuratasi negli animi la luce dei princìpi morali, venne scalzato l’unico e insostituibile fondamento di quella stabilità e tranquillità, di quell’ordine interno ed esterno, privato e pubblico, che solo può generare e salvaguardare la prosperità degli stati. Certamente, anche quando l’Europa era affratellata da identici ideali ricevuti dalla predicazione cristiana, non mancarono dissidi, sconvolgimenti e guerre, che la desolarono; ma forse non si sperimentò mai più acutamente lo scoramento dei nostri giorni sulla possibilità di comporli, essendo allora viva quella coscienza del giusto e dell’ingiusto, del lecito e dell’illecito, che agevola le intese, mentre frena lo scatenarsi delle passioni e lascia aperta la via a una onesta composizione. Ai nostri giorni, al contrario, i dissidi non provengono soltanto da impeto di passione ribelle, ma da una profonda crisi spirituale, che ha sconvolto i sani principi della morale privata e pubblica.
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Fra i molteplici errori, che scaturiscono dalla fonte avvelenata dell’agnosticismo religioso e morale, vogliamo attirare la vostra attenzione, venerabili fratelli, sopra due in modo particolare, come quelli che rendono quasi impossibile, o almeno precaria e incerta, la pacifica convivenza dei popoli. Il primo di tali perniciosi errori, oggi largamente diffuso, è la dimenticanza di quella legge di umana solidarietà e carità, che viene dettata e imposta sia dalla comunanza di origine e dall’uguaglianza della natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia dal sacrificio di redenzione offerto da Gesù Cristo sull’ara della croce al Padre suo celeste in favore dell’umanità peccatrice. – Infatti, la prima pagina della Scrittura, con grandiosa semplicità, ci narra come Dio, quale coronamento della sua opera creatrice, fece l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gn 1, 26-27); e la stessa Scrittura ci insegna che lo arricchì di doni e privilegi soprannaturali, destinandolo a un’eterna ineffabile felicità. Ci mostra inoltre come dalla prima coppia trassero origine gli altri uomini, di cui ci fa seguire, con insuperata plasticità di linguaggio, la divisione in vari gruppi e la dispersione nelle varie parti del mondo. Anche quando si allontanarono dal loro Creatore, Dio non cessò di considerarli come figli, i quali, secondo il suo misericordioso disegno, dovevano un giorno essere ancora una volta riuniti nella sua amicizia (cf. Gn XII, 3). – L’Apostolo delle genti poi si fa l’araldo di questa verità, che affratella gli uomini in una grande famiglia, quando annunzia al mondo greco che Dio «trasse da uno stesso ceppo la progenie tutta degli uomini, perché popolasse l’intera superficie della terra, e determinò la durata della loro esistenza e i confini della loro abitazione, affinché cercassero il Signore …» (At XVII, 26-27). Meravigliosa visione, che ci fa contemplare il genere umano nell’unità di una comune origine in Dio: «Un solo Dio e Padre di tutti, colui che è sopra tutti e per tutti e in tutti» (Ef IV, 6): nell’unità della natura, ugualmente costituita in tutti di corpo materiale e di anima spirituale e immortale; nell’unità del fine immediato e della sua missione nel mondo; nell’unità di abitazione, la terra, dei beni della quale tutti gli uomini possono per diritto naturale giovarsi, al fine di sostentare e sviluppare la vita; nell’unità del fine soprannaturale, Dio stesso, al quale tutti debbono tendere; nell’unità dei mezzi, per conseguire tale fine. – E lo stesso Apostolo ci mostra l’umanità nell’unità dei rapporti con il Figlio di Dio, immagine del Dio invisibile, «in cui tutte le cose sono state create» (Col 1,16); nell’unità del suo riscatto, operato per tutti da Cristo, il quale restituì l’infranta originaria amicizia con Dio mediante la sua santa acerbissima passione, facendosi mediatore tra Dio e gli uomini: «Poiché uno è Dio, uno è anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (1Tm II, 5). – E per rendere più intima tale amicizia, tra Dio e l’umanità, questo stesso Mediatore divino e universale di salvezza e di pace, nel sacro silenzio del cenacolo, prima di consumare il sacrificio supremo, lasciò cadere dalle sue labbra divine la parola che si ripercuote altissima attraverso i secoli, suscitando eroismi di carità in mezzo a un mondo vuoto d’amore e dilaniato dall’odio: «Ecco il mio comandamento: amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv XV, 12). – Verità soprannaturali sono queste che stabiliscono profonde basi e fortissimi comuni vincoli di unione, rafforzati dall’amore di Dio e del Redentore divino, dal quale tutti ricevono la salute «per l’edificazione del corpo di Cristo, finché non giungiamo tutti insieme all’unità della fede, alla piena conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, secondo la misura della pienezza di Cristo» (Ef IV,12-13). – Al lume di questa unità di diritto e di fatto dell’umanità intera gli individui non ci appaiono slegati tra loro, quali granelli di sabbia, bensì uniti in organiche, armoniche e mutue relazioni, varie con il variar dei tempi, per naturale e soprannaturale destinazione e impulso. E le genti, evolvendosi e differenziandosi secondo condizioni diverse di vita e di cultura, non sono destinate a spezzare l’unità del genere umano, ma ad arricchirlo e abbellirlo con la comunicazione delle loro peculiari doti e con quel reciproco scambio dei beni, che può essere possibile e insieme efficace, solo quando un amore mutuo e una carità vivamente sentita unisce tutti i figli dello stesso Padre e tutti i redenti dal medesimo Sangue divino.
La Chiesa di Cristo, fedelissima depositaria della divina educatrice saggezza, non può pensare né pensa d’intaccare o disistimare le caratteristiche particolari, che ciascun popolo con gelosa pietà e comprensibile fierezza custodisce e considera qual prezioso patrimonio. Il suo scopo è l’unità soprannaturale nell’amore universale sentito e praticato, non l’uniformità, esclusivamente esterna, superficiale e per ciò stesso debilitante. Tutte quelle direttive e cure, che servono ad un saggio ordinato svolgimento di forze e tendenze particolari, le quali hanno radici nei più riposti penetrali d’ogni stirpe, purché non si oppongano ai doveri derivanti all’umanità dall’unità d’origine e comune destinazione, la chiesa le saluta con gioia e le accompagna con i suoi voti materni. Essa ha ripetutamente mostrato, nella sua attività missionaria, che tale norma è la stella polare del suo apostolato universale. Innumerevoli ricerche e indagini di pionieri, compiute con sacrificio, dedizione e amore dai missionari d’ogni tempo, si sono proposte di agevolare l’intera comprensione e il rispetto delle civiltà più svariate, e di renderne i valori spirituali fecondi per una viva e vitale predicazione dell’evangelo di Cristo. Tutto ciò che in tali usi e costumi non è indissolubilmente legato con errori religiosi troverà sempre benevolo esame e, quando riesce possibile, verrà tutelato e promosso. E il Nostro immediato predecessore, di santa e venerata memoria, applicando tali norme a una questione particolarmente delicata, prese generose decisioni, che innalzano un monumento alla vastità del suo intuito e all’ardore del suo spirito apostolico. Né è necessario, venerabili fratelli, annunziarvi che Noi vogliamo incedere senza esitazione per questa via. Tutti coloro che entrano nella chiesa, qualunque sia la loro origine o la lingua, devono sapere che hanno uguale diritto di figli nella casa del Signore, dove dominano la legge e la pace di Cristo. In conformità con queste norme di uguaglianza, la chiesa consacra le sue cure a formare un elevato clero indigeno e ad aumentare gradualmente le file dei vescovi indigeni. Al fine di dare a queste intenzioni espressione esteriore, abbiamo scelto l’imminente festa di Cristo re per elevare alla dignità episcopale, sul sepolcro del principe degli apostoli, dodici rappresentanti dei più diversi popoli e stirpi. – Tra i laceranti contrasti che dividono l’umana famiglia, possa quest’atto solenne proclamare a tutti i Nostri figli, sparsi nel mondo, che lo spirito, l’insegnamento e l’opera della Chiesa non potranno mai essere diversi da ciò che l’Apostolo delle genti predicava: «Rivestitevi dell’uomo nuovo, che si rinnovella dimostrandosi conforme all’immagine di Colui che lo ha creato; in esso non esiste più greco e giudeo, circonciso e incirconciso, barbaro e scita, schiavo e libero, ma tutto e in tutti è Cristo» (Col III,10-11). – Né è da temere che la coscienza della fratellanza universale, fomentata dalla dottrina cristiana, e il sentimento che essa ispira, siano in contrasto con l’amore alle tradizioni e alle glorie della propria patria, o impediscano di promuoverne la prosperità e gli interessi legittimi, poiché la medesima dottrina insegna che nell’esercizio della carità esiste un ordine stabilito da Dio, secondo il quale bisogna amare più intensamente e beneficare di preferenza coloro che sono a noi uniti con vincoli speciali. Anche il divino Maestro diede esempio di questa preferenza verso la sua terra e la sua patria, piangendo sulle incombenti rovine della città santa. Ma il legittimo giusto amore verso la propria patria non deve far chiudere gli occhi sulla universalità della carità cristiana, che fa considerare anche gli altri e la loro prosperità nella luce pacificante dell’amore. – Tale è la meravigliosa dottrina di amore e di pace, che ha sì nobilmente contribuito al progresso civile e religioso dell’umanità. E gli araldi che l’annunziarono, mossi da soprannaturale carità, non solo dissodarono terreni e curarono morbi, ma soprattutto bonificarono, plasmarono ed elevarono la vita ad altezze divine, lanciandola verso i culmini della santità, in cui tutto si vede nella luce di Dio; elevarono monumenti e templi i quali mostrano a qual volo di geniali altezze spinga l’ideale cristiano, ma soprattutto fecero degli uomini, saggi o ignoranti, potenti o deboli, templi viventi di Dio e tralci della stessa vite, Cristo; trasmisero alle generazioni future tesori di arte e di saggezza antica, ma soprattutto le resero partecipi di quell’ineffabile dono della sapienza eterna, che affratella gli uomini con un vincolo di soprannaturale appartenenza.
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Questa lettera Enciclica è come un biglietto da visita, una carta di “Identità Spirituale” con la quale il novello Sommo Pontefice, S. S. Pio XII si presenta al mondo cattolico e a tutto l’orbe in occasione del suo insediamento sulla Cattedra di S. Pietro, in un anno funestato dall’inizio di una guerra terribile che non avrebbe risparmiato rovine, lacrime e sangue all’intera umanità. Superfluo sarebbe sottolineare la caratura spirituale di questo Vicario di N. S. Gesù Cristo, l’ultimo Pontefice operante liberamente prima dell’invasione massonica della Chiesa e l’insediamento di una serie di antipapi, falsi profeti precursori dell’anticristo imminente. «Quand’ebbero crocifisso Gesù si fece buio». Questo brevissimo passaggio evangelico viene ricordato per illustrare simbolicamente la situazione sociale dell’epoca, situazione ancor più grave oggi quando l’umana società si trova a brancolare tra tenebre spirituali, morali e sociali anticamera delle “tenebre esteriori” in cui sarà gettata gran parte dell’umanità se non torna prontamente alla fede ed alla pratica della dottrina cristiana. D’altra parte questi sono i tempi nei quali si devono compiere le sacre Scritture che, compiutesi in Gerusalemme per il Capo del Corpo Mistico, dovranno compiersi pure su tutto il pianeta per tutte le membra del Corpo mistico di Cristo. La Chiesa, crocifissa ed uccisa da un infame conciliabolo e dall’apostasia postconciliabolare, si trova sepolta in un sepolcro dal quale risorgerà gloriosa dopo 40 ore di sepoltura e di silenzio [cioè dopo 40 anni dall’omicidio di S. S. Gregorio XVII, l’ultimo Papa conosciuto sebbene impedito!]. Alla morte sanguinosa sulla croce, farà seguito, al suono dell’ultima tromba, come ricordano nelle Scritture sia San Paolo che San Giovanni Evangelista, il ritorno inatteso e glorioso e della sua “vera” Chiesa Cattolica – Una, Santa, Cattolica ed Apostolica – e di Cristo che brucerà con il soffio delle sue labbra l’anticristo, con il falso profeta ed il dragone scatenato che saranno scaraventati nello stagno di fuoco e di zolfo ove saranno tormentati in eterno. – Godiamoci la prima parte di questo meraviglioso documento magisteriale.
PIO XII
LETTERA ENCICLICA
SUMMI PONTIFICATUS (1)
PROGRAMMA DEL PONTIFICATO
L’arcano disegno del Signore Ci ha affidato, senza alcun Nostro merito, l’altissima dignità e le gravissime sollecitudini del sommo Pontificato proprio nell’anno in cui ricorre il quarantesimo anniversario della consacrazione dell’umanità al sacratissimo cuore del Redentore, indetta dal Nostro immortale predecessore, Leone XIII, al declinare del secolo scorso, alle soglie dell’anno santo. Con quale gioia, commozione e intimo consenso accogliemmo allora come un messaggio celeste l’Enciclica Annum sacrum, proprio allorquando, novello levita; avevamo potuto recitare: «Introibo ad altare Dei» (Sal XLII ,4). E con che ardente entusiasmo unimmo il Nostro cuore ai pensieri e alle intenzioni, che animavano e guidavano quell’atto veramente provvidenziale di un pontefice, che con tanta profonda acutezza conosceva i bisogni e le piaghe, palesi e occulte, del suo tempo! Come quindi potremmo non sentire oggi profonda riconoscenza verso la Provvidenza, che ha voluto far coincidere il Nostro primo anno di pontificato con un ricordo così importante e caro del Nostro primo anno di sacerdozio; e come potremmo non cogliere con gioia l’occasione per fare del culto al «Re dei re e Signore dei dominanti» (1 Tm VI,15; Ap XIX,16) quasi la preghiera d’introito di questo Nostro Pontificato, nello spirito del Nostro indimenticabile predecessore e in fedele attuazione delle sue intenzioni? Come non faremmo di esse l’alfa e l’omega del Nostro volere e del Nostro sperare, del Nostro insegnamento e della Nostra attività, della Nostra pazienza e delle Nostre sofferenze, consacrate tutte alla diffusione del regno di Cristo? – Se Noi contempliamo sotto la luce dell’eternità gli eventi esterni e gli interiori sviluppi degli ultimi quarant’anni e ne misuriamo grandezze e deficienze, quella consacrazione universale a Cristo re appare allo sguardo del Nostro spirito sempre più nel suo significato sacro, nel suo simbolismo esortatore, nel suo scopo di purificazione e di elevazione, di irrobustimento e di difesa delle anime e in pari tempo nella sua preveggente saggezza, mirante a guarire e nobilitare ogni umana società e promuoverne il vero bene. Sempre più chiaramente Ci si rivela come un messaggio di esortazione e di grazia di Dio non solo alla sua Chiesa, ma anche a un mondo, troppo bisognoso di scuotimento e di guida, il quale, immerso nel culto del presente, si smarriva sempre più e si esauriva nella fredda ricerca di terreni ideali; un messaggio a un’umanità, la quale, in schiere sempre più numerose, si staccava dalla fede in Cristo e più ancora dal riconoscimento e dall’osservanza della sua legge; un messaggio contro una concezione del mondo, a cui la dottrina di amore e di rinunzia del Sermone della montagna e la divina azione d’amore della croce apparivano scandalo e follia. Come un giorno il precursore del Signore a coloro che, cercando, interrogavano, proclamava: «Ecco l’Agnello di Dio» (Gv 1, 29), per ammonirli che l’aspettato delle genti (cf. Ag II, 8 Vg) dimorava, sebbene ancora sconosciuto, in mezzo a loro; così il rappresentante di Cristo rivolgeva scongiurando il suo grido potente: «Ecco il vostro Re!» (Gv XIX,14) ai rinnegatori, ai dubbiosi, agli indecisi, agli esitanti, i quali o rifiutavano di seguire il Redentore glorioso, sempre vivente e operante nella sua Chiesa, o lo seguivano con noncuranza e lentezza.
Dalla diffusione e dall’approfondimento del culto del divin cuore del Redentore – che trovò lo splendido coronamento, oltre che nella consacrazione dell’umanità al declinare del secolo scorso, anche nell’introduzione della festa della regalità di Cristo da parte del Nostro immediato predecessore di felice memoria – sono scaturiti indicibili beni per innumerevoli anime: «un impeto di fiumana», che «rallegra la città di Dio» (cf. Sal XLV,5). Qual epoca più della nostra fu così tormentata da vuoto spirituale e da profonda indigenza interiore, nonostante ogni progresso tecnico e puramente civile? Non può forse ad essa applicarsi la parola rivelatrice dell’Apocalisse: «Vai dicendo: sono ricco e dovizioso e non mi manca nulla; e non sai che tu sei meschino e miserabile e povero e cieco e nudo» (Ap III,17)?
Venerabili fratelli! vi può essere dovere più grande e più urgente di «annunziare … le inscrutabili ricchezze di Cristo» (Ef III, 8) agli uomini del nostro tempo? E vi può essere cosa più nobile che sventolare il vessillo del Re davanti ad essi, che hanno seguìto e seguono bandiere fallaci, e riguadagnare al vittorioso vessillo della croce coloro che l’hanno abbandonato? Quale cuore non dovrebbe bruciare ed essere spinto al soccorso, alla vista di tanti fratelli e sorelle, che in seguito a errori, passioni, incitamenti e pregiudizi si sono allontanati dalla fede nel vero Dio, e si sono distaccati dal lieto e salvifico messaggio di Gesù Cristo? Chi appartiene alla milizia di Cristo – sia ecclesiastico, sia laico – non dovrebbe forse sentirsi spronato e incitato a maggior vigilanza, a più decisa difesa, quando vede aumentar sempre più le schiere dei nemici di Cristo, quando s’accorge che i portaparola di queste tendenze, rinnegando o non curando in pratica le vivificatrici verità e i valori contenuti nella fede in Dio e in Cristo, spezzano sacrilegamente le tavole dei comandamenti di Dio per sostituirle con tavole e norme dalle quali è bandita la sostanza etica della rivelazione del Sinai, lo spirito del Sermone della montagna e della croce? Chi potrebbe senza profondo accoramento osservare come questi deviamenti maturino un tragico raccolto tra coloro che, nei giorni della quiete e della sicurezza, si annoveravano tra i seguaci di Cristo, ma che – purtroppo, Cristiani più di nome che di fatto – nell’ora in cui bisogna resistere, lottare, soffrire, affrontare le persecuzioni occulte o palesi, divengono vittime della pusillanimità, della debolezza, dell’incertezza e, presi da terrore di fronte ai sacrifici imposti dalla loro professione cristiana, non trovano la forza di bere il calice amaro dei fedeli di Cristo? – In queste condizioni di tempo e di spirito, venerabili fratelli, possa l’imminente festa di Cristo re, in cui vi sarà pervenuta questa Nostra prima Enciclica, essere un giorno di grazia e di profondo rinnovamento e risveglio nello spirito del regno di Cristo. Sia un giorno, in cui la consacrazione del genere umano al Cuore divino, la quale dev’essere celebrata in modo particolarmente solenne, riunisca presso il trono dell’eterno Re i fedeli di tutti i popoli e di tutte le nazioni in adorazione e in riparazione, per rinnovare a Lui e alla sua legge di verità e di amore il giuramento di fedeltà ora e sempre. Sia un giorno di grazia per i fedeli, in cui il fuoco, che il Signore è venuto a portare sulla terra, si sviluppi in fiamma sempre più luminosa e pura. Sia un giorno di grazia per i tiepidi, gli stanchi, gli annoiati, e nel loro cuore, divenuto pusillanime, maturino nuovi frutti di rinnovamento di spirito, e di rinvigorimento d’animo. Sia un giorno di grazia anche per coloro che non hanno conosciuto Cristo o che l’hanno perduto; un giorno in cui si elevi al cielo da milioni di cuori fedeli la preghiera: «La luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo» (Gv I, 9) possa rischiarare loro la via della salute e la sua grazia possa suscitare nel cuore inquieto degli erranti la nostalgia verso i beni eterni, nostalgia che spinga al ritorno a colui, che dal doloroso trono della croce ha sete anche delle loro anime e desiderio cocente di divenire anche per esse «via, verità e vita» (Gv XIV, 6).
Ponendo questa prima Enciclica del Nostro Pontificato sotto il segno di Cristo re con cuore pieno di fiduciosa speranza, Ci sentiamo interamente sicuri del consenso unanime ed entusiastico dell’intero gregge del Signore. Le esperienze, le ansietà e le prove dell’ora presente risvegliano, acuiscono e purificano il sentimento della comunanza della famiglia cattolica in un grado raramente sperimentato. Esse eccitano in tutti i credenti in Dio e in Cristo la coscienza di una comune minaccia da parte di un comune pericolo. – Di questo spirito di comunanza cattolica, potentemente aumentato in così ardue circostanze, e che è raccoglimento e affermazione, risolutezza e volontà di vittoria, Noi sentimmo un soffio consolante e indimenticabile in quei giorni, in cui con trepido passo ma fiduciosi in Dio, prendemmo possesso della cattedra che la morte del Nostro grande predecessore aveva lasciata vacante. – Con il vivo ricordo delle innumerevoli testimonianze di filiale attaccamento alla Chiesa e al Vicario di Cristo, rivolteCi in occasione della Nostra elezione e incoronazione, con manifestazioni così tenere, così calde e spontanee, Ci piace cogliere questa occasione propizia, per rivolgere a voi, venerabili fratelli, e a quanti appartengono al gregge del Signore, una parola di commosso ringraziamento per tale pacifico plebiscito di amore riverente e di inconcussa fedeltà al Papato, con il quale si veniva a riconoscere la provvidenziale missione del Sommo Sacerdote e del Supremo Pastore. Poiché veramente tutte quelle manifestazioni non erano né potevano essere rivolte alla Nostra povera persona, ma all’unico, altissimo ufficio, al quale il Signore Ci elevava. Se già fin da quel primo momento sentivamo tutto il peso delle gravi responsabilità, connesse con la somma potestà, che Ci veniva conferita dalla Provvidenza divina, Ci era insieme di conforto il vedere quella grandiosa e palpabile dimostrazione dell’inscindibile unità della Chiesa cattolica, che tanto più compatta si stringe alla infrangibile rupe di Pietro e le forma attorno tanto più forti murali e antemurali, quanto più cresce la baldanza dei nemici di Cristo. – Questo stesso plebiscito di mondiale unità cattolica e di soprannaturale fraternità di popoli attorno al Padre comune, Ci pareva tanto più ricco di felici speranze, quanto più tragiche erano le circostanze materiali e spirituali del momento in cui avveniva; e il suo ricordo Ci andò confortando anche nei primi mesi del Nostro pontificato, nei quali abbiamo già sperimentato le fatiche, le ansietà e le prove, di cui è seminato il cammino della Sposa di Cristo attraverso il mondo. – Né vogliamo passare sotto silenzio quanta eco di commossa riconoscenza abbia suscitato nel Nostro cuore l’augurio di coloro che, sebbene non appartengano al corpo visibile della Chiesa Cattolica, non hanno dimenticato, nella loro nobiltà e sincerità, di sentire tutto ciò che, o nell’amore alla persona di Cristo o nella credenza di Dio, li unisce a Noi. A tutti vada l’espressione della Nostra gratitudine. Affidiamo tutti e ciascuno alla protezione e alla guida del Signore e assicuriamo solennemente che un solo pensiero domina la Nostra mente: imitare l’esempio del buon pastore, per condurre tutti alla vera felicità, «affinché abbiano la vita e l’abbiano abbondantemente» (Gv X,10). – Ma in singolar modo Ci sentiamo mossi dall’animo Nostro a far palese l’intima Nostra gratitudine per i segni di riverente omaggio pervenutiCi da sovrani, da capi di stato e da pubbliche autorità di quelle nazioni, con le quali la Santa Sede si trova in amichevoli rapporti. E a particolare letizia si eleva il Nostro cuore nel potere, in questa prima Enciclica indirizzata a tutto il popolo cristiano sparso nel mondo, porre in tal novero la diletta Italia, fecondo giardino della fede piantata dai prìncipi degli apostoli, la quale, mercè la provvidenziale opera dei Patti Lateranensi, occupa ora un posto d’onore tra gli stati ufficialmente rappresentati presso la Sede Apostolica. Da quei Patti ebbe felice inizio, come aurora di tranquilla e fraterna unione di animi innanzi ai sacri altari e nel consorzio civile, la «pace di Cristo restituita all’Italia»; pace, per il cui sereno cielo supplichiamo il Signore che pervada, avvivi, dilati e corrobori fortemente e profondamente l’anima del popolo italiano, a Noi tanto vicino, in mezzo al quale respiriamo il medesimo alito di vita, invocando e augurandoci che questo popolo, così caro ai Nostri predecessori e a Noi, fedele alle sue gloriose tradizioni cattoliche, senta sempre più nell’alta protezione divina la verità delle parole del Salmista: «Beato il popolo, che per suo Dio ha il Signore» (Sal CXLIII,15). – Questa auspicata nuova situazione giuridica e spirituale, che quell’opera, destinata a lasciare una impronta indelebile nella storia, ha creato e suggellato per l’Italia e per tutto l’Orbe cattolico, non Ci apparve mai così grandiosa e unificatrice, come quando dall’eccelsa loggia della Basilica Vaticana Noi aprimmo e levammo per la prima volta le Nostre braccia e la Nostra mano benedicente su Roma, sede del Papato e Nostra amatissima città natale, sull’Italia riconciliata con la Chiesa, e sui popoli del mondo intero.
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Come vicario di Colui, il quale in un’ora decisiva, dinanzi al rappresentante della più alta autorità terrena di allora, pronunziò la grande parola: «Io sono nato e venuto al mondo per render testimonianza alla verità; chiunque sta per la verità ascolta la mia voce» (Gv XVIII, 37), Noi di nulla Ci sentiamo più debitori al Nostro ufficio, e anche al nostro tempo, come di «rendere testimonianza alla verità». Questo dovere, adempiuto con apostolica fermezza, comprende necessariamente l’esposizione e la confutazione di errori e di colpe umane, che è indispensabile conoscere, perché sia possibile la cura e la guarigione: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv VIII, 32). Nell’adempimento di questo Nostro dovere, non Ci lasceremo influenzare da terrene considerazioni, né Ce ne tratterremo per diffidenze e contrasti, per rifiuti e incomprensioni, né per timore di misconoscimenti e di false interpretazioni. Ma lo faremo sempre animati da quella paterna carità che, mentre soffre dei mali che travagliano i figli, indica loro il rimedio, sforzandoCi cioè di imitare il divino modello dei pastori, il buon pastore Gesù, che è luce insieme e amore: «Seguendo il vero con amore» (Ef IV, 15). – All’inizio del cammino, che conduce all’indigenza spirituale e morale dei tempi presenti, stanno i nefasti sforzi di non pochi per detronizzare Cristo, il distacco dalla legge della verità, che egli annunziò, dalla legge dell’amore, che è il soffio vitale del suo regno. Il riconoscimento dei diritti regali di Cristo e il ritorno dei singoli e della società alla legge della sua verità e del suo amore sono la sola via di salvezza. – Nel momento in cui, venerabili fratelli, scriviamo queste righe, Ci giunge la spaventosa notizia, che il terribile uragano della guerra, nonostante tutti i Nostri tentativi di deprecarlo, si è già scatenato. La Nostra penna vorrebbe arrestarsi, quando pensiamo all’abisso di sofferenze di innumerevoli persone, a cui ancora ieri nell’ambiente familiare sorrideva un raggio di modesto benessere. Il Nostro cuore paterno è preso da angoscia, quando prevediamo tutto ciò che potrà maturare dal tenebroso seme della violenza e dell’odio, a cui oggi la spada apre i solchi sanguinosi. Ma proprio davanti a queste apocalittiche previsioni di sventure imminenti e future, consideriamo Nostro dovere elevare con crescente insistenza gli occhi e i cuori di coloro, in cui resta ancora un sentimento di buona volontà verso l’Unico da cui deriva la salvezza del mondo, verso l’Unico, la cui mano onnipotente e misericordiosa può imporre fine a questa tempesta, verso l’Unico, la cui verità e il cui amore possono illuminare le intelligenze e accendere gli animi di tanta parte dell’umanità, immersa nell’errore nell’egoismo, nei contrasti e nella lotta, per riordinarla nello spirito della regalità di Cristo. Forse – Dio lo voglia – è lecito sperare che quest’ora di massima indigenza sia anche un’ora di mutamento di pensiero e di sentire per molti, che finora con cieca fiducia incedevano per il cammino di diffusi errori moderni, senza sospettare quanto fosse insidioso e incerto il terreno su cui si trovavano. Forse molti, che non capivano l’importanza della missione educatrice e pastorale della Chiesa, ora ne comprenderanno meglio gli avvertimenti, da loro trascurati nella falsa sicurezza di tempi passati. Le angustie del presente sono un’apologia del Cristianesimo, che non potrebbe essere più impressionante. Dal gigantesco vortice di errori e movimenti anticristiani sono maturati frutti tanto amari da costituire una condanna, la cui efficacia supera ogni confutazione teorica. Ore di così penosa delusione sono spesso ore di grazia: un «passaggio del Signore» (Es XII,11), in cui alla parola del Salvatore: «Ecco, io sto alla porta e busso» (Ap III, 20) si aprono le porte, che altrimenti sarebbero rimaste chiuse. Dio sa con quale amore compassionevole, con quale santa gioia il Nostro cuore si volge a coloro che, in seguito a simili dolorose esperienze, sentono in sé nascere il desiderio impellente e salutare della verità, della giustizia e della pace di Cristo. Ma anche per coloro, per i quali non è ancora suonata l’ora della suprema illuminazione, il Nostro cuore non conosce che amore e le Nostre labbra non hanno che preghiere al Padre dei lumi, perché faccia splendere nei loro animi indifferenti o nemici di Cristo un raggio di quella luce, che un giorno trasformò Saulo in Paolo, di quella luce che ha mostrato la sua forza misteriosa proprio nei tempi più difficili per la Chiesa. – Una presa di posizione dottrinale completa contro gli errori dei tempi presenti può essere rinviata, se occorrerà, ad altro momento meno sconvolto dalle sciagure degli esterni eventi: ora Ci limitiamo ad alcune fondamentali osservazioni. – Il tempo presente, venerabili fratelli, aggiungendo alle deviazioni dottrinali del passato nuovi errori, li ha spinti a estremi, dai quali non poteva seguire se non smarrimento e rovina. Innanzitutto è certo che la radice profonda e ultima dei mali che deploriamo nella società moderna sta nella negazione e nel rifiuto di una norma di moralità universale, sia della vita individuale, sia della vita sociale e delle relazioni internazionali; il misconoscimento cioè, così diffuso ai nostri tempi, e l’oblio della stessa legge naturale. – Questa legge naturale trova il suo fondamento in Dio, Creatore onnipotente e Padre di tutti, supremo e assoluto legislatore, onnisciente e giusto vindice delle azioni umane. Quando Dio viene rinnegato, rimane anche scossa ogni base di moralità, si soffoca, o almeno si affievolisce di molto, la voce della natura, che insegna, persino agli indotti e alle tribù non pervenute a civiltà, ciò che è bene e ciò che è male, il lecito e l’illecito, e fa sentire la responsabilità delle proprie azioni davanti a un Giudice supremo. – Orbene, la negazione della base fondamentale della moralità ebbe in Europa la sua originaria radice nel distacco da quella dottrina di Cristo, di cui la cattedra di Pietro è depositaria e maestra; dottrina che un tempo aveva dato coesione spirituale all’Europa, la quale, educata, nobilitata e ingentilita dalla croce, era pervenuta a tal grado di progresso civile da diventare maestra di altri popoli e di altri continenti. Distaccatisi invece dal Magistero infallibile della Chiesa, non pochi fratelli separati sono arrivati fino a sovvertire il dogma centrale del Cristianesimo, la divinità del Salvatore, accelerando così il processo di spirituale dissolvimento. – Narra il santo Vangelo che quando Gesù venne crocifisso, «si fece buio per tutta la terra» (Mt XXVII,45): spaventoso simbolo di ciò che avvenne e continua ad avvenire spiritualmente dovunque l’incredulità, cieca e orgogliosa di sé, ha di fatto escluso Cristo dalla vita moderna, specialmente dalla vita pubblica, e con la fede in Cristo ha scosso anche la fede in Dio. I valori morali, secondo i quali in altri tempi si giudicavano le azioni private e pubbliche, sono andati, per conseguenza, come in disuso; e la tanto vantata laicizzazione della società, che ha fatto sempre più rapidi progressi, sottraendo l’uomo, la famiglia e lo stato all’influsso benefico e rigeneratore dell’idea di Dio e dell’insegnamento della Chiesa, ha fatto riapparire anche in regioni, nelle quali per tanti secoli brillarono i fulgori della civiltà cristiana, sempre più chiari, sempre più distinti, sempre più angosciosi i segni di un paganesimo corrotto e corruttore: «Quand’ebbero crocifisso Gesù si fece buio». – Molti forse nell’allontanarsi dalla dottrina di Cristo, non ebbero piena coscienza di venire ingannati dal falso miraggio di frasi luccicanti, che proclamavano simile distacco quale liberazione dal servaggio in cui sarebbero stati prima ritenuti; né prevedevano le amare conseguenze del triste baratto tra la verità, che libera, e l’errore, che asservisce; né pensavano che, rinunziando all’infinitamente saggia e paterna legge di Dio, all’unificante ed elevante dottrina di amore di Cristo, si consegnavano all’arbitrio di una povera mutabile saggezza umana: parlarono di progresso, quando retrocedevano; di elevazione, quando si degradavano; di ascesa alla maturità, quando cadevano in servaggio; non percepivano la vanità d’ogni sforzo umano per sostituire la legge di Cristo con qualche altra cosa che la uguagli: «divennero fatui nei loro ragionamenti» (Rm 1, 21). Affievolitasi la fede in Dio e in Gesù Cristo, e oscuratasi negli animi la luce dei princìpi morali, venne scalzato l’unico e insostituibile fondamento di quella stabilità e tranquillità, di quell’ordine interno ed esterno, privato e pubblico, che solo può generare e salvaguardare la prosperità degli stati. Certamente, anche quando l’Europa era affratellata da identici ideali ricevuti dalla predicazione cristiana, non mancarono dissidi, sconvolgimenti e guerre, che la desolarono; ma forse non si sperimentò mai più acutamente lo scoramento dei nostri giorni sulla possibilità di comporli, essendo allora viva quella coscienza del giusto e dell’ingiusto, del lecito e dell’illecito, che agevola le intese, mentre frena lo scatenarsi delle passioni e lascia aperta la via a una onesta composizione. Ai nostri giorni, al contrario, i dissidi non provengono soltanto da impeto di passione ribelle, ma da una profonda crisi spirituale, che ha sconvolto i sani principi della morale privata e pubblica.
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Fra i molteplici errori, che scaturiscono dalla fonte avvelenata dell’agnosticismo religioso e morale, vogliamo attirare la vostra attenzione, venerabili fratelli, sopra due in modo particolare, come quelli che rendono quasi impossibile, o almeno precaria e incerta, la pacifica convivenza dei popoli. Il primo di tali perniciosi errori, oggi largamente diffuso, è la dimenticanza di quella legge di umana solidarietà e carità, che viene dettata e imposta sia dalla comunanza di origine e dall’uguaglianza della natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia dal sacrificio di redenzione offerto da Gesù Cristo sull’ara della croce al Padre suo celeste in favore dell’umanità peccatrice. – Infatti, la prima pagina della Scrittura, con grandiosa semplicità, ci narra come Dio, quale coronamento della sua opera creatrice, fece l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gn 1, 26-27); e la stessa Scrittura ci insegna che lo arricchì di doni e privilegi soprannaturali, destinandolo a un’eterna ineffabile felicità. Ci mostra inoltre come dalla prima coppia trassero origine gli altri uomini, di cui ci fa seguire, con insuperata plasticità di linguaggio, la divisione in vari gruppi e la dispersione nelle varie parti del mondo. Anche quando si allontanarono dal loro Creatore, Dio non cessò di considerarli come figli, i quali, secondo il suo misericordioso disegno, dovevano un giorno essere ancora una volta riuniti nella sua amicizia (cf. Gn XII, 3). – L’Apostolo delle genti poi si fa l’araldo di questa verità, che affratella gli uomini in una grande famiglia, quando annunzia al mondo greco che Dio «trasse da uno stesso ceppo la progenie tutta degli uomini, perché popolasse l’intera superficie della terra, e determinò la durata della loro esistenza e i confini della loro abitazione, affinché cercassero il Signore …» (At XVII, 26-27). Meravigliosa visione, che ci fa contemplare il genere umano nell’unità di una comune origine in Dio: «Un solo Dio e Padre di tutti, colui che è sopra tutti e per tutti e in tutti» (Ef IV, 6): nell’unità della natura, ugualmente costituita in tutti di corpo materiale e di anima spirituale e immortale; nell’unità del fine immediato e della sua missione nel mondo; nell’unità di abitazione, la terra, dei beni della quale tutti gli uomini possono per diritto naturale giovarsi, al fine di sostentare e sviluppare la vita; nell’unità del fine soprannaturale, Dio stesso, al quale tutti debbono tendere; nell’unità dei mezzi, per conseguire tale fine. – E lo stesso Apostolo ci mostra l’umanità nell’unità dei rapporti con il Figlio di Dio, immagine del Dio invisibile, «in cui tutte le cose sono state create» (Col 1,16); nell’unità del suo riscatto, operato per tutti da Cristo, il quale restituì l’infranta originaria amicizia con Dio mediante la sua santa acerbissima passione, facendosi mediatore tra Dio e gli uomini: «Poiché uno è Dio, uno è anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (1Tm II, 5). – E per rendere più intima tale amicizia, tra Dio e l’umanità, questo stesso Mediatore divino e universale di salvezza e di pace, nel sacro silenzio del cenacolo, prima di consumare il sacrificio supremo, lasciò cadere dalle sue labbra divine la parola che si ripercuote altissima attraverso i secoli, suscitando eroismi di carità in mezzo a un mondo vuoto d’amore e dilaniato dall’odio: «Ecco il mio comandamento: amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv XV, 12). – Verità soprannaturali sono queste che stabiliscono profonde basi e fortissimi comuni vincoli di unione, rafforzati dall’amore di Dio e del Redentore divino, dal quale tutti ricevono la salute «per l’edificazione del corpo di Cristo, finché non giungiamo tutti insieme all’unità della fede, alla piena conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, secondo la misura della pienezza di Cristo» (Ef IV,12-13). – Al lume di questa unità di diritto e di fatto dell’umanità intera gli individui non ci appaiono slegati tra loro, quali granelli di sabbia, bensì uniti in organiche, armoniche e mutue relazioni, varie con il variar dei tempi, per naturale e soprannaturale destinazione e impulso. E le genti, evolvendosi e differenziandosi secondo condizioni diverse di vita e di cultura, non sono destinate a spezzare l’unità del genere umano, ma ad arricchirlo e abbellirlo con la comunicazione delle loro peculiari doti e con quel reciproco scambio dei beni, che può essere possibile e insieme efficace, solo quando un amore mutuo e una carità vivamente sentita unisce tutti i figli dello stesso Padre e tutti i redenti dal medesimo Sangue divino. – La Chiesa di Cristo, fedelissima depositaria della divina educatrice saggezza, non può pensare né pensa d’intaccare o disistimare le caratteristiche particolari, che ciascun popolo con gelosa pietà e comprensibile fierezza custodisce e considera qual prezioso patrimonio. Il suo scopo è l’unità soprannaturale nell’amore universale sentito e praticato, non l’uniformità, esclusivamente esterna, superficiale e per ciò stesso debilitante. Tutte quelle direttive e cure, che servono ad un saggio ordinato svolgimento di forze e tendenze particolari, le quali hanno radici nei più riposti penetrali d’ogni stirpe, purché non si oppongano ai doveri derivanti all’umanità dall’unità d’origine e comune destinazione, la chiesa le saluta con gioia e le accompagna con i suoi voti materni. Essa ha ripetutamente mostrato, nella sua attività missionaria, che tale norma è la stella polare del suo apostolato universale. Innumerevoli ricerche e indagini di pionieri, compiute con sacrificio, dedizione e amore dai missionari d’ogni tempo, si sono proposte di agevolare l’intera comprensione e il rispetto delle civiltà più svariate, e di renderne i valori spirituali fecondi per una viva e vitale predicazione dell’evangelo di Cristo. Tutto ciò che in tali usi e costumi non è indissolubilmente legato con errori religiosi troverà sempre benevolo esame e, quando riesce possibile, verrà tutelato e promosso. E il Nostro immediato predecessore, di santa e venerata memoria, applicando tali norme a una questione particolarmente delicata, prese generose decisioni, che innalzano un monumento alla vastità del suo intuito e all’ardore del suo spirito apostolico. Né è necessario, venerabili fratelli, annunziarvi che Noi vogliamo incedere senza esitazione per questa via. Tutti coloro che entrano nella chiesa, qualunque sia la loro origine o la lingua, devono sapere che hanno uguale diritto di figli nella casa del Signore, dove dominano la legge e la pace di Cristo. In conformità con queste norme di uguaglianza, la chiesa consacra le sue cure a formare un elevato clero indigeno e ad aumentare gradualmente le file dei vescovi indigeni. Al fine di dare a queste intenzioni espressione esteriore, abbiamo scelto l’imminente festa di Cristo re per elevare alla dignità episcopale, sul sepolcro del principe degli apostoli, dodici rappresentanti dei più diversi popoli e stirpi. – Tra i laceranti contrasti che dividono l’umana famiglia, possa quest’atto solenne proclamare a tutti i Nostri figli, sparsi nel mondo, che lo spirito, l’insegnamento e l’opera della Chiesa non potranno mai essere diversi da ciò che l’Apostolo delle genti predicava: «Rivestitevi dell’uomo nuovo, che si rinnovella dimostrandosi conforme all’immagine di Colui che lo ha creato; in esso non esiste più greco e giudeo, circonciso e incirconciso, barbaro e scita, schiavo e libero, ma tutto e in tutti è Cristo» (Col III,10-11). – Né è da temere che la coscienza della fratellanza universale, fomentata dalla dottrina cristiana, e il sentimento che essa ispira, siano in contrasto con l’amore alle tradizioni e alle glorie della propria patria, o impediscano di promuoverne la prosperità e gli interessi legittimi, poiché la medesima dottrina insegna che nell’esercizio della carità esiste un ordine stabilito da Dio, secondo il quale bisogna amare più intensamente e beneficare di preferenza coloro che sono a noi uniti con vincoli speciali. Anche il divino Maestro diede esempio di questa preferenza verso la sua terra e la sua patria, piangendo sulle incombenti rovine della città santa. Ma il legittimo giusto amore verso la propria patria non deve far chiudere gli occhi sulla universalità della carità cristiana, che fa considerare anche gli altri e la loro prosperità nella luce pacificante dell’amore. – Tale è la meravigliosa dottrina di amore e di pace, che ha sì nobilmente contribuito al progresso civile e religioso dell’umanità. E gli araldi che l’annunziarono, mossi da soprannaturale carità, non solo dissodarono terreni e curarono morbi, ma soprattutto bonificarono, plasmarono ed elevarono la vita ad altezze divine, lanciandola verso i culmini della santità, in cui tutto si vede nella luce di Dio; elevarono monumenti e templi i quali mostrano a qual volo di geniali altezze spinga l’ideale cristiano, ma soprattutto fecero degli uomini, saggi o ignoranti, potenti o deboli, templi viventi di Dio e tralci della stessa vite, Cristo; trasmisero alle generazioni future tesori di arte e di saggezza antica, ma soprattutto le resero partecipi di quell’ineffabile dono della sapienza eterna, che affratella gli uomini con un vincolo di soprannaturale appartenenza. http://summi pontificato (2)
UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: PIO XI – “QUAS PRIMAS” 2021
Oggi, in questa magnifica festa di Cristo Re, torniamo a leggere e meditare questo capolavoro magisteriale, dottrinale di S. S. Pio XI. Se non regna Cristo, regna Belial, regna Moloch, regna il principe dell’inferno, regna l’anticristo, il falso profeta e l’immonda bestia mondialista … Questa è la triste realtà che oggi stiamo sperimentando in questa nostra Italia, in questa Europa un tempo cristiana, nell’intero orbe cattolico, nelle mani di buffoni teatranti riciclati, incompetenti ignoranti in malafede, assassini laureati, professori di infamie ed inganni, magnificati da truffaldini azzeccagarbugli, filosofastri e gionalettari da strapazzo al soldo delle logge. Questa è la giusta punizione per un popolo apostata che non vuole essere guidato dal Cristo-Re e dal suo Vicario, S. S. Gregorio XVIII, che anzi è forzatamente inoperoso ed impedito prigioniero relegato in qualche anfratto o catacomba, come e peggio delle persecuzioni antiche. Un popolo che si ribella ma non ne ha la forza e la convinzione, facilmente ingannato da mercenari imbonitori e ciarlatani prezzolati, a loro volta gestiti da avide jene delle “cupole” dominanti, pronte a sbarazzarsene quando non ne avranno più bisogno e diventeranno per esse pericolosi testimoni rivelatori di occulte manovre sovversive di sfoltimento. Giusta punizione per un popolo pagano, peccatore e gaudente che tante grazie singolari, fra le Nazioni del mondo, aveva ricevuto immeritatamente. È un popolo senza futuro, erede di morte e d’eterna dannazione, ben meritata per aver rifiutato il Regno più benefico che una Nazione avesse potuto mai desiderare. Lontano da Cristo, solo lacrime, sangue, fuoco, supplizio e morte ingloriosa, prigionia di esseri infernali accaniti per l’eternità. Peggio per loro, avevano ricevuto tanti avvertimenti, richiami a tornare alla vera fede e alla vera Chiesa … tutto inutile, hanno scelto il demonio e la morte … questa toccherà loro se non tornano oggi stesso ad arruolarsi tra le file dell’esercito di Cristo onde sconfiggere i nemici infernali, scatenati per l’ultiuma battaglia che li vedrà alla fine soccombere con ignominia sotto il calcagno vergineo dell’Immacolata .. et IPSA conteret caput tuum.
[Lettera Enciclica “Quas primas” di S. S. Pio XI]
Nella prima Enciclica che, asceso al Pontificato, dirigemmo a tutti i Vescovi dell’Orbe cattolico — mentre indagavamo le cause precipue di quelle calamità da cui vedevamo oppresso e angustiato il genere umano — ricordiamo d’aver chiaramente espresso non solo che tanta colluvie di mali imperversava nel mondo perché la maggior parte degli uomini avevano allontanato Gesù Cristo e la sua santa legge dalla pratica della loro vita, dalla famiglia e dalla società, ma altresì che mai poteva esservi speranza di pace duratura fra i popoli, finché gli individui e le nazioni avessero negato e da loro rigettato l’impero di Cristo Salvatore. – Pertanto, come ammonimmo che era necessario ricercare la pace di Cristo nel Regno di Cristo, così annunziammo che avremmo fatto a questo fine quanto Ci era possibile; nel Regno di Cristo — diciamo — poiché Ci sembrava che non si possa più efficacemente tendere al ripristino e al rafforzamento della pace, che mediante la restaurazione del Regno di Nostro Signore. – Frattanto il sorgere e il pronto ravvivarsi di un benevolo movimento dei popoli verso Cristo e la sua Chiesa, che sola può recar salute, Ci forniva non dubbia speranza di tempi migliori; movimento tal quale s’intravedeva che molti i quali avevano disprezzato il Regno di Cristo e si erano quasi resi esuli dalla Casa del Padre, si preparavano e quasi s’affrettavano a riprendere le vie dell’obbedienza.
L’Anno Santo e il Regno di Cristo
E tutto quello che accadde e si fece, nel corso di questo Anno Santo, degno certo di perpetua memoria, forse non accrebbe l’onore e la gloria al divino Fondatore della Chiesa, nostro supremo Re e Signore? – Infatti, la Mostra Missionaria Vaticana quanto non colpì la mente e il cuore degli uomini, sia facendo conoscere il diuturno lavoro della Chiesa per la maggiore dilatazione del Regno del suo Sposo nei continenti e nelle più lontane isole dell’Oceano; sia il grande numero di regioni conquistate al cattolicesimo col sudore e col sangue dai fortissimi e invitti Missionari; sia infine col far conoscere quante vaste regioni vi siano ancora da sottomettere al soave e salutare impero del nostro Re. E quelle moltitudini che, durante questo Anno giubilare, vennero da ogni parte della terra nella città santa, sotto la guida dei loro Vescovi e sacerdoti, che altro avevano in cuore, purificate le loro anime, se non proclamarsi presso il sepolcro degli Apostoli, davanti a Noi, sudditi fedeli di Cristo per il presente e per il futuro? – E questo Regno di Cristo sembrò quasi pervaso di nuova luce allorquando Noi, provata l’eroica virtù di sei Confessori e Vergini, li elevammo agli onori degli altari. E qual gioia e qual conforto provammo nell’animo quando, nello splendore della Basilica Vaticana, promulgato il decreto solenne, una moltitudine sterminata di popolo, innalzando il cantico di ringraziamento esclamò: Tu Rex gloriæ, Christe! – Poiché, mentre gli uomini e le Nazioni, lontani da Dio, per l’odio vicendevole e per le discordie intestine si avviano alla rovina ed alla morte, la Chiesa di Dio, continuando a porgere al genere umano il cibo della vita spirituale, crea e forma generazioni di santi e di sante a Gesù Cristo, il quale non cessa di chiamare alla beatitudine del Regno celeste coloro che ebbe sudditi fedeli e obbedienti nel regno terreno. – Inoltre, ricorrendo, durante l’Anno Giubilare, il sedicesimo secolo dalla celebrazione del Concilio di Nicea, volemmo che l’avvenimento centenario fosse commemorato, e Noi stessi lo commemorammo nella Basilica Vaticana tanto più volentieri in quanto quel Sacro Sinodo definì e propose come dogma la consustanzialità dell’Unigenito col Padre, e nello stesso tempo, inserendo nel simbolo la formula «il regno del quale non avrà mai fine», proclamò la dignità regale di Cristo. – Avendo, dunque, quest’Anno Santo concorso non in uno ma in più modi ad illustrare il Regno di Cristo, Ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro ufficio apostolico, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi sia individualmente, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. – Questa cosa Ci reca tanta gioia che Ci spinge, Venerabili Fratelli, a farvene parola; voi poi, procurerete di adattare ciò che Noi diremo intorno al culto di Gesù Cristo Re, all’intelligenza del popolo e di spiegarne il senso in modo che da questa annua solennità ne derivino sempre copiosi frutti.
Gesù Cristo è Re
Gesù Cristo Re delle menti, delle volontà e dei cuori
Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re per il sommo grado di eccellenza, che ha in modo sovreminente fra tutte le cose create. In tal modo, infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è Verità ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da Lui la verità; similmente nelle volontà degli uomini, sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perché con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana (Supereminentem scientiæ caritatem) e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità: nessuno infatti degli uomini fu mai tanto amato e mai lo sarà in avvenire quanto Gesù Cristo. Ma per entrare in argomento, tutti debbono riconoscere che è necessario rivendicare a Cristo Uomo nel vero senso della parola il nome e i poteri di Re; infatti soltanto in quanto è Uomo si può dire che abbia ricevuto dal Padre la potestà, l’onore e il regno, perché come Verbo di Dio, essendo della stessa sostanza del Padre, non può non avere in comune con il Padre ciò che è proprio della divinità, e per conseguenza Egli su tutte le cose create ha il sommo e assolutissimo impero.
La Regalità di Cristo nei libri dell’Antico Testamento.
E non leggiamo infatti spesso nelle Sacre Scritture che Cristo è Re ? Egli invero è chiamato il Principe che deve sorgere da Giacobbe,, eche dal Padre è costituito Re sopra il Monte santo di Sion, che riceverà le genti in eredità e avrà in possesso i confini della terra. Il salmo nuziale, col quale sotto l’immagine di un re ricchissimo e potentissimo viene preconizzato il futuro Re d’Israele, ha queste parole: «II tuo trono, o Dio, sta per sempre, in eterno: scettro di rettitudine è il tuo scettro reale». – E per tralasciare molte altre testimonianze consimili, in un altro luogo per lumeggiare più chiaramente i caratteri del Cristo, si preannunzia che il suo Regno sarà senza confini ed arricchito coi doni della giustizia e della pace: «Fiorirà ai suoi giorni la Giustizia e somma pace… Dominerà da un mare all’altro, e dal fiume fino alla estremità della terra». A questa testimonianza si aggiungono in modo più ampio gli oracoli dei Profeti e anzitutto quello notissimo di Isaia: «Ci è nato un bimbo, ci fu dato un figlio: e il principato è stato posto sulle sue spalle e sarà chiamato col nome di Ammirabile, Consigliere, Dio forte, Padre del secolo venturo, Principe della pace. Il suo impero crescerà, e la pace non avrà più fine. Sederà sul trono di Davide e sopra il suo regno, per stabilirlo e consolidarlo nel giudizio e nella giustizia, da ora ed in perpetuo». E gli altri Profeti non discordano da Isaia: così Geremia, quando predice che nascerà dalla stirpe di Davide il “Rampollo giusto” che qual figlio di Davide «regnerà e sarà sapiente e farà valere il diritto e la giustizia sulla terra»; così Daniele che preannunzia la costituzione di un regno da parte del Re del cielo, regno che «non sarà mai in eterno distrutto… ed esso durerà in eterno» e continua: «Io stavo ancora assorto nella visione notturna, quand’ecco venire in mezzo alle nuvole del cielo uno con le sembianze del figlio dell’uomo che si avanzò fino al Vegliardo dai giorni antichi, e davanti a lui fu presentato. E questi gli conferì la potestà, l’onore e il regno; tutti i popoli, le tribù e le lingue serviranno a lui; la sua potestà sarà una potestà eterna che non gli sarà mai tolta, e il suo regno, un regno che non sarà mai distrutto». E gli scrittori dei santi Vangeli non accettano e riconoscono come avvenuto quanto è predetto da Zaccaria intorno al Re mansueto il quale «cavalcando sopra un’asina col suo piccolo asinello» era per entrare in Gerusalemme, qual giusto e salvatore fra le acclamazioni delle turbe?
Gesù Cristo si è proclamato Re
Del resto questa dottrina intorno a Cristo Re, che abbiamo sommariamente attinto dai libri del Vecchio Testamento, non solo non viene meno nelle pagine del Nuovo, ma anzi vi è confermata in modo splendido e magnifico. E qui, appena accennando all’annunzio dell’arcangelo da cui la Vergine viene avvisata che doveva partorire un figlio, al quale Iddio avrebbe dato la sede di David, suo padre, e che avrebbe regnato nella Casa di Giacobbe in eterno e che il suo Regno non avrebbe avuto fine vediamo che Cristo stesso dà testimonianza del suo impero: infatti, sia nel suo ultimo discorso alle turbe, quando parla dei premi e delle pene, riservate in perpetuo ai giusti e ai dannati; sia quando risponde al Preside romano che pubblicamente gli chiedeva se fosse Re, sia quando risorto affida agli Apostoli l’ufficio di ammaestrare e battezzare tutte le genti, colta l’opportuna occasione, si attribuì il nome di Re, e pubblicamente confermò di essere Re e annunziò solennemente a Lui era stato dato ogni potere in cielo e in terra. E con queste parole che altro si vuol significare se non la grandezza della potestà e l’estensione immensa del suo Regno? – Non può dunque sorprenderci se Colui che è detto da Giovanni «Principe dei Re della terra», porti, come apparve all’Apostolo nella visione apocalittica «scritto sulla sua veste e sopra il suo fianco: Re dei re e Signore dei dominanti». Da quando l’eterno Padre costituì Cristo erede universale, è necessario che Egli regni finché riduca, alla fine dei secoli, ai piedi del trono di Dio tutti i suoi nemici. – Da questa dottrina dei sacri libri venne per conseguenza che la Chiesa, regno di Cristo sulla terra, destinato naturalmente ad estendersi a tutti gli uomini e a tutte le nazioni, salutò e proclamò nel ciclo annuo della Liturgia il suo autore e fondatore quale Signore sovrano e Re dei re, moltiplicando le forme della sua affettuosa venerazione. Essa usa questi titoli di onore esprimenti nella bella varietà delle parole lo stesso concetto; come già li usò nell’antica salmodia e negli antichi Sacramentari, così oggi li usa nella pubblica ufficiatura e nell’immolazione dell’Ostia immacolata. In questa laude perenne a Cristo Re, facilmente si scorge la bella armonia fra il nostro e il rito orientale in guisa da render manifesto, anche in questo caso, che «le norme della preghiera fissano i principi della fede». Ben a proposito Cirillo Alessandrino, a mostrare il fondamento di questa dignità e di questo potere, avverte che «egli ottiene, per dirla brevemente, la potestà su tutte le creature, non carpita con la violenza né da altri ricevuta, ma la possiede per propria natura ed essenza»; cioè il principato di Cristo si fonda su quella unione mirabile che è chiamata unione ipostatica. Dal che segue che Cristo non solo deve essere adorato come Dio dagli Angeli e dagli uomini, ma anche che a Lui, come Uomo, debbono essi esser soggetti ed obbedire: cioè che per il solo fatto dell’unione ipostatica Cristo ebbe potestà su tutte le creature. – Eppure che cosa più soave e bella che il pensare che Cristo regna su di noi non solamente per diritto di natura, ma anche per diritto di conquista, in forza della Redenzione? Volesse Iddio che gli uomini immemori ricordassero quanto noi siamo costati al nostro Salvatore: «Non a prezzo di cose corruttibili, di oro o d’argento siete stati riscattati… ma dal Sangue prezioso di Cristo, come di agnello immacolato e incontaminato». Non siamo dunque più nostri perché Cristo ci ha ricomprati col più alto prezzo: i nostri stessi corpi sono membra di Cristo.
Natura e valore del Regno di Cristo
Volendo ora esprimere la natura e il valore di questo principato, accenniamo brevemente che esso consta di una triplice potestà, la quale se venisse a mancare, non si avrebbe più il concetto d’un vero e proprio principato. – Le testimonianze attinte dalle Sacre Lettere circa l’impero universale del nostro Redentore, provano più che a sufficienza quanto abbiamo detto; ed è dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui debbono riporre la loro fiducia, ed allo stesso tempo come legislatore a cui debbono obbedire. – I santi Evangeli non soltanto narrano come Gesù abbia promulgato delle leggi, ma lo presentano altresì nell’atto stesso di legiferare; e il divino Maestro afferma, in circostanze e con diverse espressioni, che chiunque osserverà i suoi comandamenti darà prova di amarlo e rimarrà nella sua carità . Lo stesso Gesù davanti ai Giudei, che lo accusavano di aver violato il sabato con l’aver ridonato la sanità al paralitico, afferma che a Lui fu dal Padre attribuita la potestà giudiziaria: «Il Padre non giudica alcuno, ma ha rimesso al Figlio ogni giudizio». Nel che è compreso pure il diritto di premiare e punire gli uomini anche durante la loro vita, perché ciò non può disgiungersi da una propria forma di giudizio. Inoltre la potestà esecutiva si deve parimenti attribuire a Gesù Cristo, poiché è necessario che tutti obbediscano al suo comando, e nessuno può sfuggire ad esso e alle sanzioni da lui stabilite.
Regno principalmente spirituale
Che poi questo Regno sia principalmente spirituale e attinente alle cose spirituali, ce lo dimostrano i passi della sacra Bibbia sopra riferiti, e ce lo conferma Gesù Cristo stesso col suo modo di agire. – In varie occasioni, infatti, quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, egli cercò di togliere e abbattere questa vana attesa e speranza; e così pure quando stava per essere proclamato Re dalla moltitudine che, presa di ammirazione, lo attorniava, Egli rifiutò questo titolo e questo onore, ritirandosi e nascondendosi nella solitudine; finalmente davanti al Preside romano annunciò che il suo Regno “non è di questo mondo”. – Questo Regno nei Vangeli viene presentato in tal modo che gli uomini debbano prepararsi ad entrarvi per mezzo della penitenza, e non possano entrarvi se non per la fede e per il Battesimo, il quale benché sia un rito esterno, significa però e produce la rigenerazione interiore. Questo Regno è opposto unicamente al regno di Satana e alla “potestà delle tenebre”, e richiede dai suoi sudditi non solo l’animo distaccato dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e sete di giustizia, ma anche che essi rinneghino se stessi e prendano la loro croce. Avendo Cristo come Redentore costituita con il suo sangue la Chiesa, e come Sacerdote offrendo se stesso in perpetuo quale ostia di propiziazione per i peccati degli uomini, chi non vede che la regale dignità di Lui riveste il carattere spirituale dell’uno e dell’altro ufficio?
Regno universale e sociale
D’altra parte sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio. Tuttavia, finché fu sulla terra si astenne completamente dall’esercitare tale potere, e come una volta disprezzò il possesso e la cura delle cose umane, così permise e permette che i possessori debitamente se ne servano. A questo proposito ben si adattano queste parole: «Non toglie il trono terreno Colui che dona il regno eterno dei cieli». Pertanto il dominio del nostro Redentore abbraccia tutti gli uomini, come affermano queste parole del Nostro Predecessore di immortale memoria Leone XIII, che Noi qui facciamo Nostre: «L’impero di Cristo non si estende soltanto sui popoli cattolici, o a coloro che, rigenerati nel fonte battesimale, appartengono, a rigore di diritto, alla Chiesa, sebbene le errate opinioni Ce li allontanino o il dissenso li divida dalla carità; ma abbraccia anche quanti sono privi di fede cristiana, di modo che tutto il genere umano è sotto la potestà di Gesù Cristo». – Né v’è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli. È lui solo la fonte della salute privata e pubblica: «Né in alcun altro è salute, né sotto il cielo altro nome è stato dato agli uomini, mediante il quale abbiamo da essere salvati», è lui solo l’autore della prosperità e della vera felicità sia per i singoli sia per gli Stati: «poiché il benessere della società non ha origine diversa da quello dell’uomo, la società non essendo altro che una concorde moltitudine di uomini». – Non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l’incolumità del loro potere, l’incremento e il progresso della patria. Difatti sono quanto mai adatte e opportune al momento attuale quelle parole che all’inizio del Nostro pontificato Noi scrivemmo circa il venir meno del principio di autorità e del rispetto alla pubblica potestà: «Allontanato, infatti — così lamentavamo — Gesù Cristo dalle leggi e dalla società, l’autorità appare senz’altro come derivata non da Dio ma dagli uomini, in maniera che anche il fondamento della medesima vacilla: tolta la causa prima, non v’è ragione per cui uno debba comandare e l’altro obbedire. Dal che è derivato un generale turbamento della società, la quale non poggia più sui suoi cardini naturali».
Regno benefico
Se invece gli uomini privatamente e in pubblico avranno riconosciuto la sovrana potestà di Cristo, necessariamente segnalati benefici di giusta libertà, di tranquilla disciplina e di pacifica concordia pervaderanno l’intero consorzio umano. La regale dignità di nostro Signore come rende in qualche modo sacra l’autorità umana dei principi e dei capi di Stato, così nobilita i doveri dei cittadini e la loro obbedienza. – In questo senso l’Apostolo Paolo, inculcando alle spose e ai servi di rispettare Gesù Cristo nel loro rispettivo marito e padrone, ammoniva chiaramente che non dovessero obbedire ad essi come ad uomini ma in quanto tenevano le veci di Cristo, poiché sarebbe stato sconveniente che gli uomini, redenti da Cristo, servissero ad altri uomini: «Siete stati comperati a prezzo; non diventate servi degli uomini». Che se i principi e i magistrati legittimi saranno persuasi che si comanda non tanto per diritto proprio quanto per mandato del Re divino, si comprende facilmente che uso santo e sapiente essi faranno della loro autorità, e quale interesse del bene comune e della dignità dei sudditi prenderanno nel fare le leggi e nell’esigerne l’esecuzione. – In tal modo, tolta ogni causa di sedizione, fiorirà e si consoliderà l’ordine e la tranquillità: ancorché, infatti, il cittadino riscontri nei principi e nei capi di Stato uomini simili a lui o per qualche ragione indegni e vituperevoli, non si sottrarrà tuttavia al loro comando qualora egli riconosca in essi l’immagine e l’autorità di Cristo Dio e Uomo. – Per quello poi che si riferisce alla concordia e alla pace, è manifesto che quanto più vasto è il regno e più largamente abbraccia il genere umano, tanto più gli uomini diventano consapevoli di quel vincolo di fratellanza che li unisce. E questa consapevolezza come allontana e dissipa i frequenti conflitti, così ne addolcisce e ne diminuisce le amarezze. E se il regno di Cristo, come di diritto abbraccia tutti gli uomini, cosi di fatto veramente li abbracciasse, perché dovremmo disperare di quella pace che il Re pacifico portò in terra, quel Re diciamo che venne «per riconciliare tutte le cose, che non venne per farsi servire, ma per servire gli altri”» e che, pur essendo il Signore di tutti, si fece esempio di umiltà, e questa virtù principalmente inculcò insieme con la carità e disse inoltre: «II mio giogo è soave e il mio peso leggero?». – Oh, di quale felicità potremmo godere se gli individui, le famiglie e la società si lasciassero governare da Cristo! «Allora veramente, per usare le parole che il Nostro Predecessore Leone XIII venticinque anni fa rivolgeva a tutti i Vescovi dell’orbe cattolico, si potrebbero risanare tante ferite, allora ogni diritto riacquisterebbe l’antica forza, tornerebbero i beni della pace, cadrebbero dalle mani le spade, quando tutti volentieri accettassero l’impero di Cristo, gli obbedissero, ed ogni lingua proclamasse che nostro Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre».
La Festa di Cristo Re
Scopo della festa di Cristo Re
E perché più abbondanti siano i desiderati frutti e durino più stabilmente nella società umana, è necessario che venga divulgata la cognizione della regale dignità di nostro Signore quanto più è possibile. Al quale scopo Ci sembra che nessun’altra cosa possa maggiormente giovare quanto l’istituzione di una festa particolare e propria di Cristo Re. – Infatti, più che i solenni documenti del Magistero ecclesiastico, hanno efficacia nell’informare il popolo nelle cose della fede e nel sollevarlo alle gioie interne della vita le annuali festività dei sacri misteri, poiché i documenti, il più delle volte, sono presi in considerazione da pochi ed eruditi uomini, le feste invece commuovono e ammaestrano tutti i fedeli; quelli una volta sola parlano, queste invece, per così dire, ogni anno e in perpetuo; quelli soprattutto toccano salutarmente la mente, queste invece non solo la mente ma anche il cuore, tutto l’uomo insomma. Invero, essendo l’uomo composto di anima e di corpo, ha bisogno di essere eccitato dalle esteriori solennità in modo che, attraverso la varietà e la bellezza dei sacri riti, accolga nell’animo i divini insegnamenti e, convertendoli in sostanza e sangue, faccia si che essi servano al progresso della sua vita spirituale. – D’altra parte si ricava da documenti storici che tali festività, col decorso dei secoli, vennero introdotte una dopo l’altra, secondo che la necessità o l’utilità del popolo cristiano sembrava richiederlo; come quando fu necessario che il popolo venisse rafforzato di fronte al comune pericolo, o venisse difeso dagli errori velenosi degli eretici, o incoraggiato più fortemente e infiammato a celebrare con maggiore pietà qualche mistero della fede o qualche beneficio della grazia divina. Così fino dai primi secoli dell’era cristiana, venendo i fedeli acerbamente perseguitati, si cominciò con sacri riti a commemorare i Martiri, affinché — come dice Sant’Agostino — le solennità dei Martiri fossero d’esortazione al martirio. E gli onori liturgici, che in seguito furono tributati ai Confessori, alle Vergini e alle Vedove, servirono meravigliosamente ad eccitare nei fedeli l’amore alle virtù, necessarie anche in tempi di pace. – E specialmente le festività istituite in onore della Beata Vergine fecero sì che il popolo cristiano non solo venerasse con maggior pietà la Madre di Dio, sua validissima protettrice, ma si accendesse altresì di più forte amore verso la Madre celeste, che il Redentore gli aveva lasciato quasi per testamento. Tra i benefici ottenuti dal culto pubblico e liturgico verso la Madre di Dio e i Santi del Cielo non ultimo si deve annoverare questo: che la Chiesa, in ogni tempo, poté vittoriosamente respingere la peste delle eresie e degli errori. – In tale ordine di cose dobbiamo ammirare i disegni della divina Provvidenza, la quale, come suole dal male ritrarre il bene, così permise che di quando in quando la fede e la pietà delle genti diminuissero, o che le false teorie insidiassero la verità cattolica, con questo esito però, che questa risplendesse poi di nuovo splendore, e quelle, destatesi dal letargo, tendessero a cose maggiori e più sante. – Ed invero le festività che furono accolte nel corso dell’anno liturgico in tempi a noi vicini, ebbero uguale origine e produssero identici frutti. Così, quando erano venuti meno la riverenza e il culto verso l’augusto Sacramento, fu istituita la festa del Corpus Domini, e si ordinò che venisse celebrata in modo tale che le solenni processioni e le preghiere da farsi per tutto l’ottavario richiamassero le folle a venerare pubblicamente il Signore; così la festività del Sacro Cuore di Gesù fu introdotta quando gli animi degli uomini, infiacchiti e avviliti per il freddo rigorismo dei giansenisti, erano del tutto agghiacciati e distolti dall’amore di Dio e dalla speranza della eterna salvezza. – Ora, se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società.
Il “laicismo”
La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso. – I pessimi frutti, che questo allontanamento da Cristo da parte degli individui e delle nazioni produsse tanto frequentemente e tanto a lungo, Noi lamentammo nella Enciclica Ubi arcano Dei e anche oggi lamentiamo: i semi cioè della discordia sparsi dappertutto; accesi quegli odii e quelle rivalità tra i popoli, che tanto indugio ancora frappongono al ristabilimento della pace; l’intemperanza delle passioni che così spesso si nascondono sotto le apparenze del pubblico bene e dell’amor patrio; le discordie civili che ne derivarono, insieme a quel cieco e smoderato egoismo sì largamente diffuso, il quale, tendendo solo al bene privato ed al proprio comodo, tutto misura alla stregua di questo; la pace domestica profondamente turbata dalla dimenticanza e dalla trascuratezza dei doveri familiari; l’unione e la stabilità delle famiglie infrante, infine la stessa società scossa e spinta verso la rovina. – Ci sorregge tuttavia la buona speranza che l’annuale festa di Cristo Re, che verrà in seguito celebrata, spinga la società, com’è nel desiderio di tutti, a far ritorno all’amatissimo nostro Salvatore. Accelerare e affrettare questo ritorno con l’azione e con l’opera loro sarebbe dovere dei Cattolici, dei quali, invero, molti sembra non abbiano nella civile convivenza quel posto né quell’autorità, che s’addice a coloro che portano innanzi a sé la fiaccola della verità. – Tale stato di cose va forse attribuito all’apatia o alla timidezza dei buoni, i quali si astengono dalla lotta o resistono fiaccamente; da ciò i nemici della Chiesa traggono maggiore temerità e audacia. Ma quando i fedeli tutti comprendano che debbono militare con coraggio e sempre sotto le insegne di Cristo Re, con ardore apostolico si studieranno di ricondurre a Dio i ribelli e gl’ignoranti, e si sforzeranno di mantenere inviolati i diritti di Dio stesso.
La preparazione storica della festa di Cristo Re
E chi non vede che fino dagli ultimi anni dello scorso secolo si preparava meravigliosamente la via alla desiderata istituzione di questo giorno festivo? Nessuno infatti ignora come, con libri divulgati nelle varie lingue di tutto il mondo, questo culto fu sostenuto e sapientemente difeso; come pure il principato e il regno di Cristo fu ben riconosciuto colla pia pratica di dedicare e consacrare tutte le famiglie al Sacratissimo Cuore di Gesù. E non soltanto famiglie furono consacrate, ma altresì nazioni e regni; anzi, per volere di Leone XIII, tutto il genere umano, durante l’Anno Santo 1900, fu felicemente consacrato al Divin Cuore. – Né si deve passar sotto silenzio che a confermare questa regale potestà di Cristo sul consorzio umano meravigliosamente giovarono i numerosissimi Congressi eucaristici, che si sogliono celebrare ai nostri tempi; essi, col convocare i fedeli delle singole diocesi, delle regioni, delle nazioni e anche tutto l’orbe cattolico, a venerare e adorare Gesù Cristo Re nascosto sotto i veli eucaristici, tendono, mediante discorsi nelle assemblee e nelle chiese, mediante le pubbliche esposizioni del Santissimo Sacramento, mediante le meravigliose processioni ad acclamare Cristo quale Re dato dal cielo. – A buon diritto si direbbe che il popolo cristiano, mosso da ispirazione divina, tratto dal silenzio e dal nascondimento dei sacri templi, e portato per le pubbliche vie a guisa di trionfatore quel medesimo Gesù che, venuto nel mondo, gli empi non vollero riconoscere, voglia ristabilirlo nei suoi diritti regali. – E per vero ad attuare il Nostro divisamento sopra accennato, l’Anno Santo che volge alla fine Ci porge la più propizia occasione, poiché Dio benedetto, avendo sollevato la mente e il cuore dei fedeli alla considerazione dei beni celesti che superano ogni gaudio, o li ristabilì in grazia e li confermò nella retta via e li avviò con nuovi incitamenti al conseguimento della perfezione. – Perciò, sia che consideriamo le numerose suppliche a Noi rivolte, sia che consideriamo gli avvenimento di questo Anno Santo, troviamo argomento a pensare che finalmente è spuntato il giorno desiderato da tutti, nel quale possiamo annunziare che si deve onorare con una festa speciale Cristo quale Re di tutto il genere umano. – In quest’anno infatti, come dicemmo sin da principio, quel Re divino veramente ammirabile nei suoi Santi, è stato magnificato in modo glorioso con la glorificazione di una nuova schiera di suoi fedeli elevati agli onori celesti; parimenti in questo anno per mezzo dell’Esposizione Missionaria tutti ammirarono i trionfi procurati a Cristo per lo zelo degli operai evangelici nell’estendere il suo Regno; finalmente in questo medesimo anno con la centenaria ricorrenza del Concilio Niceno, commemorammo la difesa e la definizione del dogma della consustanzialità del Verbo incarnato col Padre, sulla quale si fonda l’impero sovrano del medesimo Cristo su tutti i popoli.
L’istituzione della festa di Cristo Re
Pertanto, con la Nostra apostolica autorità istituiamo la festa di nostro Signore Gesù Cristo Re, stabilendo che sia celebrata in tutte le parti della terra l’ultima domenica di ottobre, cioè la domenica precedente la festa di tutti i Santi. Similmente ordiniamo che in questo medesimo giorno, ogni anno, si rinnovi la consacrazione di tutto il genere umano al Cuore santissimo di Gesù, che il Nostro Predecessore di santa memoria Pio X aveva comandato di ripetere annualmente. – In quest’anno però, vogliamo che sia rinnovata il giorno trentuno di questo mese, nel quale Noi stessi terremo solenne pontificale in onore di Cristo Re e ordineremo che la detta consacrazione si faccia alla Nostra presenza. Ci sembra che non possiamo meglio e più opportunamente chiudere e coronare 1’Anno Santo, né rendere più ampia testimonianza della Nostra gratitudine a Cristo, Re immortale dei secoli, e di quella di tutti i cattolici per i beneficî fatti a Noi, alla Chiesa e a tutto l’Orbe cattolico durante quest’Anno Santo. – E non fa bisogno, Venerabili Fratelli, che vi esponiamo a lungo i motivi per cui abbiamo istituito la solennità di Cristo Re distinta dalle altre feste, nelle quali sembrerebbe già adombrata e implicitamente solennizzata questa medesima dignità regale. – Basta infatti avvertire che mentre l’oggetto materiale delle attuali feste di nostro Signore è Cristo medesimo, l’oggetto formale, però, in esse si distingue del tutto dal nome della potestà regale di Cristo. La ragione, poi, per cui volemmo stabilire questa festa in giorno di domenica, è perché non solo il Clero con la celebrazione della Messa e la recita del divino Officio, ma anche il popolo, libero dalle consuete occupazioni, rendesse a Cristo esimia testimonianza della sua obbedienza e della sua devozione. – Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti. – Pertanto questo sia il vostro ufficio, o Venerabili Fratelli, questo il vostro compito di far sì che si premetta alla celebrazione di questa festa annuale, in giorni stabiliti, in ogni parrocchia, un corso di predicazione, in guisa che i fedeli ammaestrati intorno alla natura, al significato e all’importanza della festa stessa, intraprendano un tale tenore di vita, che sia veramente degno di coloro che vogliono essere sudditi affezionati e fedeli del Re divino.
I vantaggi della festa di Cristo Re
Giunti al termine di questa Nostra lettera Ci piace, o Venerabili Fratelli, spiegare brevemente quali vantaggi in bene sia della Chiesa e della società civile, sia dei singoli fedeli, Ci ripromettiamo da questo pubblico culto verso Cristo Re. – Col tributare questi onori alla dignità regia di nostro Signore, si richiamerà necessariamente al pensiero di tutti che la Chiesa, essendo stata stabilita da Cristo come società perfetta, richiede per proprio diritto, a cui non può rinunziare, piena libertà e indipendenza dal potere civile, e che essa, nell’esercizio del suo divino ministero di insegnare, reggere e condurre alla felicità eterna tutti coloro che appartengono al Regno di Cristo, non può dipendere dall’altrui arbitrio. – Di più, la società civile deve concedere simile libertà a quegli ordini e sodalizi religiosi d’ambo i sessi, i quali, essendo di validissimo aiuto alla Chiesa e ai suoi pastori, cooperano grandemente all’estensione e all’incremento del regno di Cristo, sia perché con la professione dei tre voti combattono la triplice concupiscenza del mondo, sia perché con la pratica di una vita di maggior perfezione, fanno sì che quella santità, che il divino Fondatore volle fosse una delle note della vera Chiesa, risplenda di giorno in giorno vieppiù innanzi agli occhi di tutti. – La celebrazione di questa festa, che si rinnova ogni anno, sarà anche d’ammonimento per le nazioni che il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti: li richiamerà al pensiero del giudizio finale, nel quale Cristo, scacciato dalla società o anche solo ignorato e disprezzato, vendicherà acerbamente le tante ingiurie ricevute, richiedendo la sua regale dignità che la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principî cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell’amministrare la giustizia, sia finalmente nell’informare l’animo dei giovani alla santa dottrina e alla santità dei costumi. – Inoltre non è a dire quanta forza e virtù potranno i fedeli attingere dalla meditazione di codeste cose, allo scopo di modellare il loro animo alla vera regola della vita cristiana. – Poiché se a Cristo Signore è stata data ogni potestà in cielo e in terra; se tutti gli uomini redenti con il Sangue suo prezioso sono soggetti per un nuovo titolo alla sua autorità; se, infine, questa potestà abbraccia tutta l’umana natura, chiaramente si comprende, che nessuna delle nostre facoltà si sottrae a tanto impero.
Conclusione
Cristo regni!
È necessario, dunque, che Egli regni nella mente dell’uomo, la quale con perfetta sottomissione, deve prestare fermo e costante assenso alle verità rivelate e alla dottrina di Cristo; che regni nella volontà, la quale deve obbedire alle leggi e ai precetti divini; che regni nel cuore, il quale meno apprezzando gli affetti naturali, deve amare Dio più d’ogni cosa e a Lui solo stare unito; che regni nel corpo e nelle membra, che, come strumenti, o al dire dell’Apostolo Paolo, come “armi di giustizia” offerte a Dio devono servire all’interna santità delle anime. Se coteste cose saranno proposte alla considerazione dei fedeli, essi più facilmente saranno spinti verso la perfezione. – Faccia il Signore, Venerabili Fratelli, che quanti sono fuori del suo regno, bramino ed accolgano il soave giogo di Cristo, e tutti, quanti siamo, per sua misericordia, suoi sudditi e figli, lo portiamo non a malincuore ma con piacere, ma con amore, ma santamente, e che dalla nostra vita conformata alle leggi del Regno divino raccogliamo lieti ed abbondanti frutti, e ritenuti da Cristo quali servi buoni e fedeli diveniamo con Lui partecipi nel Regno celeste della sua eterna felicità e gloria. – Questo nostro augurio nella ricorrenza del Natale di nostro Signore Gesù Cristo sia per voi, o Venerabili Fratelli, un attestato del Nostro affetto paterno; e ricevete l’Apostolica Benedizione, che in auspicio dei divini favori impartiamo ben di cuore a voi, o Venerabili Fratelli, e a tutto il popolo vostro.
[Dato a Roma, presso S. Pietro, il giorno 11 Dicembre dell’Anno Santo 1925, quarto del Nostro Pontificato.]
«Vi sono noti i passi della Sacra Scrittura, che chiaramente e palesemente insegnano che tali castighi di Dio sono provocati dalle colpe degli uomini … » Così il Santo Padre esordisce in questa lettera Enciclica, indirizzata ai Vescovi del Regno delle due Sicilie, in occasione dei violenti terremoti che interessarono quel Regno. Da questa premessa trae spunto per ricordare ai Prelati in oggetto i loro precisi ed attenti doveri nei confronti dei fedeli, in particolare dei giovani e della loro educazione cristiana, nonché dei Parroci e degli aspiranti sacerdoti, per il cui reclutamento si raccomanda un’attenta osservazione della loro vocazione, pietà, integerrima condotta morale, e robusto bagaglio dottrinale e teologico, tutte qualità alla base dell’opera salvifica nei confronti delle anime dei fedeli affidati alle cure di pastori pii ed integri per vita e dottrina. Veramente è di tutta evidenza la preoccupazione del Santo Padre interamente volta alla salvezza eterna dell’anima dei Cattolici, scopo di ogni attività ecclesiastica, massimamente del Sommo Pontefice. Certo è palese la diversità di linguaggio di un vero Pontefice (e che Pontefice!) se paragonata a quella degli antipapi e falsi profeti usurpatori dell’antichiesa vaticana e delle conventicole scismatiche pseudotradizionaliste … d’altra parte il Signore Gesù li aveva giudicati già a suo tempo dicendo: dai frutti li riconoscerete, i lupi travestiti da agnelli e da angeli di luce, i ladri ed i briganti famelici che sbranano le anime di tanti incauti ingannati. Ma si consoli il pusillus grex cattolico, la fine per gli sciacalli è vicina, il Cuore Immacolato di Maria, dopo la grande tribolazione, trionferà mirabilmente schiacciando la testa del drago primordiale come profetizzato in Genesi III … et Ipsa conteret caput tuum. Usque tandem?…
Pio IX Cum nuper
Era trascorsa da poco la solenne, festiva ricorrenza annuale che celebra il giorno in cui l’Unigenito Figlio di Dio, per il grandissimo trasporto con il quale Ci ha amati, scendendo dal cielo senza recedere dalla gloria del Padre, fattosi in tutto simile agli uomini, ha voluto nascere dall’immacolata e beatissima Vergine Maria, quando Noi abbiamo ricevuto la Vostra gentilissima lettera in cui Voi, Venerabili Fratelli, professando la Vostra particolare e profonda devozione, l’amore e l’obbedienza verso di Noi e verso questa Cattedra di Pietro, avete manifestato ancora una volta che niente Vi sta più a cuore che scongiurare con assidue e fervide preghiere il Dio Ottimo e Massimo affinché, con la sua onnipotente grazia, aiuti, confermi e rafforzi l’umile Nostra Persona, travagliata dalla gravissima sollecitudine per tutte le Chiese, e affinché la conservi salva e incolume ancora a lungo e la ricolmi di ogni prosperità per la maggior gloria del suo santo Nome e per la salvezza delle anime. – Gli egregi sentimenti della Vostra piissima devozione, sempre a Noi graditissimi, hanno, così commosso il Nostro animo paterno, che abbiamo voluto scrivere questa Lettera Enciclica a tutti Voi che esercitate il ministero pastorale in codesto Regno delle Due Sicilie, a testimonianza della particolarissima benevolenza Nostra verso di Voi e nello stesso tempo affinché comprendiate sempre meglio con quanta carità Vi amiamo nel Signore e quanto siamo solleciti delle Vostre persone e dei fedeli affidati alle Vostre cure. – Infatti, Venerabili Fratelli, non possiamo quasi esprimere a parole quell’acerbissimo dolore da cui siamo stati colpiti, allorché abbiamo avuto notizia che nello scorso mese di dicembre molte città di codesto Regno furono talmente sconquassate da grandi terremoti che molte persone, travolte dalle rovine di edifici cadenti, in modo miserando hanno perso la vita, con grande dolore del Nostro carissimo Figlio in Cristo il Re Ferdinando II che, per la sua grande carità cristiana e il suo affetto per le popolazioni a lui soggette, non risparmiandosi negli interventi e nelle spese, non cessò di apportare aiuti e soccorsi alle popolazioni di dette città per sollevare la loro deplorevole condizione. – Appena Ci giunsero le prime tristissime notizie di una così grande calamità, senza alcun indugio, nell’umiltà del Nostro cuore abbiamo levato i Nostri occhi al Signore, implorando e scongiurando la Sua divina misericordia per quelle misere popolazioni affinché risanasse le fratture della terra le cui fondamenta erano state scosse in modo così terribile. – Vi sono noti i passi della Sacra Scrittura, che chiaramente e palesemente insegnano che tali castighi di Dio sono provocati dalle colpe degli uomini. Noi, per il Nostro ufficio, sproniamo vivamente in Domino la Vostra episcopale sollecitudine, Venerabili Fratelli, affinché adempiate con ardore e attivamente ciò che fa parte del Vostro ministero, e abbiate subito in animo di allontanare dal vizio e dal peccato, con ogni sforzo e zelo, i fedeli affidati alle Vostre cure e di incamminarli per le vie della virtù, della giustizia e della religione. – E poiché, con Nostro e Vostro grande rammarico si trovano in codesto Regno anche degli ecclesiastici che, dimentichi della loro vocazione, con la loro riprovevole e malvagia condotta eccitano l’indignazione divina e diventano causa di morte spirituale del popolo cristiano, al quale dovrebbero essere guide per la vita, cercate di sradicare gli abusi e le corruzioni che si sono infiltrate nel costume del Clero, e difendete e favorite con la massima diligenza la disciplina ecclesiastica a norma dei sacri canoni. Non lasciate nulla d’intentato affinché i giovani Chierici fin dai teneri anni vengano educati opportunamente alla pietà, alla religiosità e allo spirito ecclesiastico, e vengano istruiti nelle migliori dottrine, nelle più severe discipline e specialmente nella conoscenza solida e sicura della scienza teologica e dei sacri Canoni. – E prima di tutto, avendo sempre davanti agli occhi il precetto dell’Apostolo, preoccupatevi in modo particolare di non aver fretta ad imporre le mani a chiunque, ma usate somma cura e precauzione nel conferimento degli Ordini sacri. – Venerabili Fratelli, non avvenga mai che in una scelta così importante vi sia alcuno di Voi che, indulgendo a interessi d’altri, propensioni, favori e ragioni umane, voglia aggregare al Clero e promuovere alle dignità ecclesiastiche e agli Ordini coloro che, non essendo dotati delle qualità prescritte dai sacri Canoni, sono invece da respingere dal sacro ministero. Infatti, ben sapete quale grave colpa commette, quanto danno reca alla Chiesa e quale tremendo e strettissimo conto dovrà rendere a Cristo Signore chi non ha paura di iniziare agli Ordini sacri persone indegne. Per questa ragione, Venerabili Fratelli, per la Vostra singolare pietà, abbiate cura di osservare scrupolosamente le sapientissime e prudentissime prescrizioni dei sacri Canoni nell’ammettere e promuovere ai sacri Ordini gli ecclesiastici; e dopo accurato accertamento ed esame vogliate conoscere e valutare l’origine familiare di ciascuno, la sua formazione, l’indole, l’ingegno e la cultura. Occorre quindi decorare dei sacri Ordini e ammettere a trattare i divini misteri soltanto coloro che, dopo una prova accurata e diligente, sia per il possesso di tutte le virtù, sia per lodata e buona condotta, sia perché dotati di vero spirito ecclesiastico, possono servire le Vostre Diocesi ed esserne di ornamento. Astenendosi da tutte quelle azioni e dagli atteggiamenti che sono vietati ai Chierici e che loro sconvengono, essi siano d’esempio ai fedeli nella parola, nella conversazione, nella carità, nella fede e nella castità. Esigete particolarmente in coloro ai quali si devono affidare la cura e la guida delle anime, buoni costumi, probità, integrità, pietà, scienza e prudenza. E vegliate sempre affinché i Parroci, esercitando premurosamente il proprio ufficio con scienza e virtù, non tralascino mai di istruire il popolo cristiano loro affidato con l’annuncio della parola di Dio, con l’amministrazione dei Sacramenti, e col dispensare la multiforme grazia di Dio, ammaestrando specialmente i fanciulli e le persone ignoranti nei misteri santissimi della nostra divina Religione; insegnando diligentemente i Comandamenti, onde portarli tutti alla pietà e ad ogni virtù. Voi ben sapete come si corrompono i costumi, con grande danno della società sacra e civile, se si rilassa la disciplina cristiana e si distrugge il culto religioso, se i Parroci non sanno esercitare il loro ministero e compiere il loro dovere, o se lo trascurano. Dovendo inoltre vigilare con particolare attenzione che la gioventù d’ambo i sessi venga educata nel timor santo del Signore, nella Sua legge, e venga preparata all’onestà, dovete avere molto a cuore l’ispezione nelle scuole, sia pubbliche che private, e con particolare zelo procurare che la stessa gioventù, lontana da ogni pericolo, abbia un’istruzione sana e veramente cattolica. Dedicate pertanto tutte le forze della Vostra pastorale sollecitudine a quest’opera, poiché ben sapete che la prosperità della società civile dipende specialmente dalla retta educazione della gioventù, come pure ben conoscete le arti molteplici e nefaste con le quali, in questi tempi scellerati, i nemici di Dio e dell’umanità si sforzano di corrompere e pervertire l’incauta gioventù. – Non tralasciate di erudire ogni giorno con pari sollecitudine i fedeli a Voi affidati sulla dottrina cattolica, sia a voce, sia per iscritto, per difenderli dal contagio di tanti errori ora serpeggianti, ammonendoli a conservarsi stabili e fermi nella professione della nostra Fede e ad osservare diligentemente le leggi di Dio e della Santa Chiesa per non lasciarsi ingannare e trarre in errore dai propagatori di perverse dottrine. E poiché si pubblicano ovunque, emersi dalle tenebre, perniciosissimi libri per mezzo dei quali abilissimi fabbricatori di menzogne si sforzano di portare alla depravazione, con malvage opinioni di ogni genere, le menti e i cuori, confondendo ogni realtà umana e divina, onde far crollare le fondamenta stesse della cristiana e civile società, allora, Venerabili Fratelli, combattete coraggiosamente con tutto il Vostro zelo per tener lontana il più possibile dal Vostro gregge questa esiziale peste di libri. – E affinché possiate più facilmente e con maggior sicurezza difendere la sana dottrina e i buoni costumi e chiudere l’adito ad ogni errore e alla corruzione, non trascurate di esaminare accuratamente tutti i libri, specialmente quelli che trattano di materie teologiche e filosofiche e di cose sacre, oltre che di diritto canonico e civile. – Sapete inoltre che è Vostro compito episcopale e fa parte del Vostro ministero difendere e sostenere costantemente i diritti venerandi della Chiesa, difendere i suoi beni, provvedere alla loro retta amministrazione e specialmente aver cura che siano convenientemente conservati i pii legati di Messe e gli altri oneri, e siano tutti religiosamente soddisfatti, rimovendo qualsiasi frode o turpe lucro. Né ignorate con quale saggezza e con quale delicatezza dovete provvedere a che nelle Vostre singole Curie gli affari siano trattati con ogni giustizia ed equità. Pertanto, abbiate cura zelante che nelle Vostre Curie Vescovili siano presenti soltanto quegli uomini che, stimati da tutti per integrità di vita e per esperienza nel trattare gli affari, possano essere incaricati ad adempiere con competenza ed onestà tutti i compiti da Voi affidati. – Vi chiediamo inoltre insistentemente che approfondiate e con grande diligenza esaminiate le cause ecclesiastiche che spettano ai Vostri Tribunali, secondo le prescrizioni dei Sacri Canoni e in virtù della Convenzione; che le giudichiate e Vi adoperiate fortemente a che le sentenze abbiano la loro debita esecuzione; e a questo scopo, ogni qualvolta fosse necessario, chiedete l’aiuto e la forza dell’autorità civile. – E poiché i Sacerdoti Regolari sono dati ai Vescovi come aiuto nel coltivare la vigna del Signore, come ci ricorda il Nostro Predecessore di immortale memoria Benedetto XIV, per quanto dipende da Voi non trascurate di ammonire ed esortare questi uomini, affinché, seguendo le vestigia dei loro Padri ed emulandone l’esempio, si sforzino di ricambiare quello che hanno promesso a Dio, e vivano una vita santa secondo le regole del loro Istituto, e cerchino di dare a Voi e al Vostro gregge un utile aiuto, sia con le parole, che con l’esempio e la preghiera. – In modo particolare datevi cura, con la Vostra pastorale sollecitudine e carità, delle Vergini consacrate a Dio; esse sono la parte eletta del gregge, i fiori dei germogli della Chiesa, decoro e ornamento della grazia dello Spirito Santo. Offrite loro, pertanto, tutto l’aiuto e la Vostra opera, affinché, memori della santa vocazione con la quale Dio le chiamò, distolgano gli occhi dalle realtà umane per rivolgerli sempre ai beni celesti e ogni giorno, progredendo di virtù in virtù, cerchino di diffondere ovunque il buon profumo di Cristo. E chiediamo insistentemente alla Vostra religiosa pietà che abbiate sempre davanti agli occhi e prendiate in seria considerazione e poi eseguiate ciò che lo stesso Nostro Predecessore Benedetto XIV provvidamente raccomanda e sapientemente stabilisce nella sua Costituzione Pastoralis Curae del 5 agosto 1748 sulla designazione di Confessori straordinari per le Monache. – Infine, Venerabili Fratelli, affinché possiate provvedere sempre meglio al bene della nostra santissima Religione e alla salvezza delle pecorelle, Vi esortiamo caldamente a celebrare i Sinodi Provinciali secondo le prescrizioni dei Sacri Canoni. Voi ben sapete, infatti, che soltanto in questo modo, esaminando tutte le realtà fra di Voi, potete più facilmente e ponderatamente porre rimedio opportuno ai mali, provvedere alla spirituale prosperità delle vostre Diocesi e ordinare successivamente i Sinodi Diocesani che dovete convocare secondo le Norme Canoniche. E siccome in codesto Regno molti Arcivescovi mancano di Vescovi suffraganei e alcuni Vescovi non hanno il loro Vescovo Metropolitano, e quindi non sono in grado di celebrare un Sinodo Provinciale, è affidato alla prudenza degli stessi sacri Prelati il compito di ponderare diligentemente tutte le circostanze di luogo, di cose e di tempo perché possano giungere ad avere anch’essi un Sinodo assieme a coloro con i quali hanno maggior consuetudine nel Signore, senza nessuna modifica al rango delle Chiese e senza alcun detrimento per i diritti e i privilegi dei quali i predetti Vescovi legittimamente godono e sono in possesso. – Avete davanti agli occhi, Venerabili Fratelli, tutto quello che abbiamo stimato opportuno esporvi per la particolare benevolenza che abbiamo verso di Voi e verso i fedeli affidati alle Vostre cure. Non dubitiamo che vorrete soddisfare sollecitamente e ancor più volonterosamente a tutti questi desideri e ammonimenti paterni, anche perché il carissimo Figlio Nostro in Cristo Ferdinando II, illustre Re delle Due Sicilie, Vi porge la mano ausiliatrice e – come Noi confidiamo – per la sua grande pietà farà sì che, secondo i Nostri desideri, nel suo Regno la Chiesa goda della piena libertà ed eserciti tutti quei diritti che le convengono e di cui deve usufruire per volontà di Dio e secondo i Sacri Canoni. – Frattanto umilmente preghiamo e supplichiamo Dio, ricco di misericordia, perché effonda su di Voi sempre più copiosi tutti i doni della sua bontà e benedica le Vostre fatiche pastorali, le Vostre preoccupazioni e le Vostre iniziative affinché i fedeli che Vi sono stati affidati, ogni giorno sempre più forti nella fede, rigettino il male e facciano il bene e, crescendo nella scienza di Dio e nella conoscenza del Signor Nostro Gesù Cristo, camminino degnamente nella via di Dio, piacendo in tutto e operando proficuamente in ogni buona iniziativa. – Come auspicio di tutto quanto esposto e come pegno certissimo della Nostra particolarissima benevolenza verso di Voi, ricevete l’Apostolica Benedizione che impartiamo dall’intimo del cuore a Voi, Venerabili Fratelli, e con grande amore ai Chierici delle Vostre Chiese e ai fedeli Laici.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 20 gennaio 1858, anno dodicesimo del Nostro Pontificato.
Continua la dura reprimenda del Santo Padre nei confronti del Patriarca ribelle …« Come avresti potuto ignorare – proprio tu che ricordi anche troppo spesso di essere stato disciplinatamente educato nella fede cattolica – che nessuno può essere legittimamente creato Vescovo contro il parere della Sede Apostolica? Che non è investito di nessun potere colui che la stessa Sede Apostolica ha dichiarato privo di qualunque giurisdizione? … » Questa ovvia sentenza è quella che viene disattesa allegramente da pseudo finti-vescovi delle sette scismatiche attuali facenti capo ai non-preti lefebvriani, agli ex-lefebvriani tesisti, e a tutti i pittoreschi sedevacantisti che ingannano, eludendo tutte le disposizioni canoniche della Chiesa Cattolica, senza Giurisdizione o missione alcuna, gli scellerati loro adepti che li seguono nei loro sacrileghi atti sacramentali o nel sacrificio della messa, rito invalido ed illecito, foriero di disgrazie spirituali senza numero che si paleseranno nell’altra vita, ove per loro ci sarà pianto e stridor di denti se si ostineranno fino alla fine. Quanti inganni ha escogitato il drago maledetto per trascinare con sé negli inferi illusi pseudo-cattolici che credono di partecipare a riti salvifici solo perché conservano una forma esteriore tradizionale, senza chiedersi se coloro che li officiano siano veri o falsi chierici e prelati regolarmente consacrati … ciechi e sordi guidati da ciechi e sordi, da ladri e da briganti, da lupi con apparenza di agnelli e da sciacalli avidi e crudeli. Piccolo sarà il gregge che il Signore troverà al suo ritorno, gregge che seguirà fino alla morte le disposizioni ed i canoni ecclesiastici fino al più infimo dettaglio, dimostrando una fede indomita e senza compromessi, così come il loro divin Maestro ci ha insegnato.
“Cercando, per quanto è 9possibile alla Nostra debolezza, di imitare la carità di Colui che agisce con pazienza, non volendo condannare a morte alcuno ma portare tutti sulla strada della penitenza, Ci asteniamo dall’attuare nei tuoi confronti le censure che ti sei attirato, finché non ti sia consegnata questa Nostra lettera, che consideriamo ultima, perentoria ammonizione. Noi confidiamo in Dio, Padre delle misericordie, affinché tu voglia ritornare in te, riconoscendo la malvagità dei tuoi atti, la futilità delle motivazioni con le quali hai voluto giustificarli, ed inoltre il gravissimo debito del quale sei tenuto a dar sollecita soddisfazione alla Chiesa di Dio; speriamo che tu non tardi a detestare e ad odiare tutto ciò che hai iniquamente compiuto.
“Conviene dimenticare tutto quello che hai fatto dopo la tua partenza da Roma, prima a Costantinopoli e poi nel tuo Patriarcato, fino alla dichiarazione della tua adesione e sottomissione ai decreti del Concilio Vaticano, resa il 29 luglio 1872. Infatti tu sai bene quel che hai portato a termine erroneamente in quell’arco di tempo e con quale Apostolica sollecitudine Noi siamo venuti in soccorso delle tue necessità spirituali. Noi speravamo che non Ci avresti procurato in futuro una causa di dolore ancora più grave. Dopo questo periodo, tu inviasti alla citata Nostra Congregazione una lettera datata 12 maggio 1873, nella quale chiedevi ti fosse concessa la facoltà di consacrare Vescovi in Malabaria. Poiché Noi non potevamo consentire a tale richiesta, per le ragioni che già molte volte ti avevamo illustrate, non molto dopo tu non hai esitato a superare i confini prestabiliti, avendo ricevuto e disatteso sia la Nostra lettera Apostolica che comincia “Cum ecclesiastica“, nella quale avevamo fissato le regole da seguire nella scelta dei Vescovi, sia le altre lettere con le quali più e più volte ti ordinavamo di non osare alcunché in Malabaria. Ma tu non hai avuto riguardo di dotare del carattere episcopale due sacerdoti e di affidare loro arbitrariamente le Diocesi, e di destinare a Malabar, contro le Nostre disposizioni, il Vescovo Elia Mello, che osa definirsi metropolita di quella regione.
“Non piangeremo mai abbastanza i mali che fecero immediatamente seguito a questi tuoi ardimenti, i danni che essi arrecarono alla stessa Chiesa cattolica sia in Malabaria sia in Mesopotamia, ed il grande disdoro che comportarono per la tua dignità e per la tua fede. Infatti la disciplina ecclesiastica è stata turbata dall’operato del predetto Vescovo Elia, che hai mandato a Malabar violando il Nostro comando, e al quale hai ordinato di restare colà nonostante fosse stato colpito da solenne scomunica da Noi disposta; agli ordini sacri sono stati promossi giovani inidonei e persino indegni; chiese cattoliche sono state strappate con l’inganno e talora con la violenza; con ingiurie e con calunnie sono stati aggrediti non soltanto i missionari Apostolici ma persino lo stesso Venerabile Fratello Leonardo, Arcivescovo di Nicomedia, che in quella regione esercita la Nostra potestà vicaria; ed un luttuoso scisma è stato introdotto ed alimentato. Da qui le discordie e le contese sviluppatesi fra i fedeli Malabarici, gli uni fermamente stretti al loro legittimo Presule, gli altri legati all’intruso Elia, il quale non cessò mai di mettere in campo qualunque subdola ed iniqua manovra per ingannare gli incauti e i semplici. Codesto figlio della perdizione s’azzardò non soltanto ad affermare pubblicamente che la Nostra lettera Apostolica Speculatores, inviata ai Malabarici il 1° agosto dell’anno scorso, era falsa; ma arrivò al punto d’inventarsi di sana pianta un Breve apostolico, al quale mise la data del 20 agosto 1872, e di promulgarlo pubblicamente e solennemente come Nostra lettera. In tale testo, codesto falsario di lettere Apostoliche dice calunniosamente che nel Concilio Ecumenico Vaticano si era trattato del tuo preteso diritto in Malabaria, e che esso era stato riconosciuto dai Padri ed approvato da Noi; non ha avuto paura di chiamare a suffragio di questa sua menzogna tanti testimoni quanti furono i Padri che presero parte al Concilio Ecumenico Vaticano. Così, tramite voi, con inganni di tal fatta vengono diffusi negli animi errore e confusione, e la verità viene corrotta in malizia; oscillano i fedeli, trascinati in diverse direzioni, ed alcuni di loro si trovano ad aderire all’usurpatore scismatico, ritenendo al contrario di essere in consonanza con la Cattedra Apostolica del Beatissimo Pietro.
“Se in verità analizziamo quanto è accaduto in Mesopotamia, riscontriamo con gran dolore che alle Diocesi sono preposti Vescovi che non hanno alcuna comunione con questa Cattedra del Beatissimo Pietro, da te scelti in maniera temeraria ed illegale, contro le disposizioni apostoliche, consacrati in modo sacrilego ed iniquamente insediati. Come avresti potuto ignorare – proprio tu che ricordi anche troppo spesso di essere stato disciplinatamente educato nella fede cattolica – che nessuno può essere legittimamente creato Vescovo contro il parere della Sede Apostolica? Che non è investito di nessun potere colui che la stessa Sede Apostolica ha dichiarato privo di qualunque giurisdizione? E forse ti sembrano poca cosa il sovvertimento dell’ordine ecclesiastico suscitato dalla tua opera, il turbamento dei fedeli, le lotte, lo spirito di emulazione, ed il gravissimo scandalo che è stato recato ai fedeli, e tuttora perdura, per la tua disobbedienza alle disposizioni Apostoliche? A causa di essa esultano gli infedeli e gli eretici; oscillano confusi coloro che sono deboli nella fede; si dolgono e piangono coloro che l’hanno più salda, e non vedono per quale ragione debbano restare sottomessi ad un Patriarca che spregia l’obbedienza dovuta al Pontefice Romano.
“Che tu stesso abbia capito queste cose e le tema è dimostrato con chiarezza dalle lettere con le quali hai voluto sollevare i Venerabili Fratelli Vescovi del tuo Patriarcato contro le Nostre stesse disposizioni e costituzioni, per trarli dalla tua parte. Questo confermano le dicerie calunniose sparse fra la gente contro i missionari apostolici e contro lo stesso Nostro Delegato, il Venerabile Fratello Ludovico, Arcivescovo di Damietta; lo conferma l’impegno che, come abbiamo saputo, tu hai profuso affinché i fedeli, ed il clero in particolare, non avessero rapporti con i Nostri missionari, né potessero far ricorso alle loro parole, al loro parere o al loro ministero, instillando anzi la paura che coloro che avessero avuto frequentazioni avrebbero ricevuto censure da te. Lo conferma infine l’inimicizia contro costoro suscitata nel potere civile, che si dice tu abbia invocato come presidio contro disposizioni e censure della Sede Apostolica, che senti di aver ampiamente meritate. A coronamento di tutto ciò, si aggiunse l’altra nefasta consacrazione dei Vescovi, uno dei quali tu destinasti alla diocesi di Zaku e l’altro a quella delle Indie; maggior scandalo per i fedeli derivò dal fatto che la cerimonia fu compiuta con il massimo apparato e la massima solennità, in spregio a questa Sede Apostolica.
“Questo, Venerabile Fratello, è ciò che è accaduto ed accade in Malabaria ed in Mesopotamia per tua iniziativa, per tacer del resto; di ciò siamo costretti dal Nostro ufficio a chiedere ragione a te, che ben più gravemente renderai conto all’eterno Principe dei pastori. Che tu non abbia avuto ripensamenti, e che anzi tu disprezzi tutto ciò, è espresso temerariamente dalla ricordata tua lettera alla Nostra Congregazione di Propaganda Fide, con la quale ti sforzi di dimostrare la tua innocenza, confermando la tua fiducia nel primato pontificio ma adducendo argomenti a sostegno dei tuoi pretesi diritti sulla scelta dei Vescovi e sulle regioni Malabariche.
“Invano, infatti, tu proclami nella tua lettera di riconoscere e di onorare il primato del Pontefice Romano, se poi non ti adegui in ogni comportamento a quanto sancì il Concilio Ecumenico Fiorentino e che il Concilio Ecumenico Vaticano ha esplicitato con maggior chiarezza e confermato. Non è certo atteggiamento cattolico ammettere un primato di giurisdizione costituito per diritto divino, per poi opporgli quelli che tu chiami diritti patriarcali, istituiti per disposizione ecclesiastica, dai quali il Pontefice Romano non potrebbe derogare per ragioni di causa, di tempo e di luogo; per un Vescovo cattolico è indegno riservarsi qualunque diritto o privilegio mediante il quale intenda sottrarsi al potere ed alla disposizione piena e legittima del Beato Pietro e dei suoi successori.
“In verità Noi abbiamo sempre ritenuto che la fede cattolica fosse in te pienamente integra, e che tu non avessi mai voluto dissentire dalla dottrina e dallo spirito di tutta la Chiesa. Perciò, quando – nella lettera della tua adesione ai decreti del Concilio Vaticano, che stilasti il 29 luglio 1872 – dichiarasti che volevi ti fossero riservati e conservati tutti i diritti ed i privilegi patriarcali, come tu li chiamavi, non potemmo ritenere che tu avessi voluto fissare un limite ovvero porre una condizione alla professione cattolica da te resa: né l’una né l’altra infatti avrebbero potuto conciliarsi con la verità e con l’unità cattolica. Poiché lo spirito del tuo discorso appariva troppo duro e ambiguo, Noi ritenemmo che fosse doverosamente da respingere, rispetto a quella dottrina integra che tu dichiaravi di voler proclamare; avrai potuto rendertene conto dalla lettera che, in occasione della tua citata adesione, ti inviammo il giorno 16 novembre 1872; in quel caso accogliesti la Nostra dichiarazione in essa espressa, e da ciò che Ci rispondesti per iscritto risultò che tu ti uniformavi ad essa integralmente e tranquillamente.
“Dopo questo, tuttavia, non ti trattenesti dal diffondere la tua rivendicazione tra i tuoi Vescovi, per sostenere i tuoi pretesi diritti. Se avessi mandato loro anche una copia della Nostra lettera citata, certamente essi avrebbero capito che Noi non avevamo approvato la tua riserva, e dalla stessa Nostra lettera avrebbero desunto l’autentica dottrina cattolica, da Noi riferita, in materia di privilegi dei Patriarchi; e avrebbero notato con ammirazione la Nostra benignità nei tuoi confronti; benignità che nella stessa lettera esprimemmo con motivazioni assolutamente eccezionali e con la massima dolcezza di linguaggio, proprio quando tu avevi bisogno dell’indulgenza e dell’assoluzione della Sede Apostolica, per tutto ciò che iniquamente avevi compiuto perturbando la Chiesa Orientale.
“Non possiamo inoltre nascondere che ha costituito grande tristezza per Noi e grave scandalo per i fedeli il fatto che – per giustificare la tua disubbidienza alla Nostra Costituzione Apostolica Cum ecclesiastica – tu abbia tentato di contrastarne il valore e l’efficacia asserendo che non era stata da te ricevuta; questo in verità avrebbe potuto accadere senza scapito per la fede, dato che la Costituzione in oggetto è da annoverarsi non fra quelle dogmatiche ma fra quelle meramente disciplinari. Ma in che modo mai può essere accettato, una volta ammesso il fondamento divino della Chiesa, che la forza e l’efficacia delle Costituzioni Apostoliche dipendano dall’accoglimento dei Vescovi o di chiunque altro? Non pensavi certo questo, tu, Venerabile Fratello, quando – chiedendo la conferma della tua elezione – nella tua lettera promettevi che saresti stato obbediente e soggetto a Noi per tutto il tempo futuro della tua vita e dimostravi questa soggezione con il tuo comportamento. Questo certo non pensarono i Patriarchi cattolici della Caldea che ti hanno preceduto. Questo infine non pensò certo il famoso Simone Sulaka, che ti vantavi di aver avuto come predecessore. Egli infatti professò con tanto vigore il primato della giurisdizione del Romano Pontefice da promettere che “egli avrebbe sempre ottemperato, come figlio dell’obbedienza, agli ordini, alle disposizioni, ai divieti e ai comandi del nuovo Papa Giulio III, dei suoi successori assurti canonicamente al ruolo di Pontefici Romani, e della Sede Apostolica“. Riteniamo che questa professione di fede sia conservata nei tuoi archivi, dato che fu inserita integralmente nella lettera Apostolica che lo stesso Giulio, Nostro Predecessore, inviò a Sulaka il 20 febbraio 1553 per confermargli l’elezione a Patriarca.
“Che dire poi del pretesto che accampi: il timore dei mali che dici potrebbero derivare a te ed ai tuoi dal potere civile, nel caso tu obbedissi alla Nostra citata Costituzione, portando l’esempio dei mali che toccarono al Venerabile Fratello Patriarca Armeno ed alle Chiese cattoliche dello stesso Rito? Ecco dove approdano anche i più solidi Presuli della Chiesa quando cominciano ad allontanarsi da questa Sede del Beatissimo Pietro Principe degli Apostoli dalla cui solidità trae linfa vitale ogni forza dei sacerdoti! I Santi Apostoli di Dio insegnarono che si deve obbedire ai Principi terreni e si devono pagar loro i tributi: nella Chiesa cattolica, che ha sempre rispettato e rispetta questa dottrina, è sempre stata disapprovata e condannata la ribellione contro i poteri legittimi. Non sarà però lecito venire meno al rispetto ed all’obbedienza che si debbono alle leggi divine ed ecclesiastiche, se per caso il potere civile abbia qualcosa contro di loro. Infatti Colui che disse di dare a Cesare quel ch’è di Cesare, ordinò anche di dare a Dio quel ch’è di Dio; e quando si trattò di difendere le disposizioni di Cristo nostro Signore, gli Apostoli si esposero intrepidamente davanti al potere civile: è necessario obbedire più a Dio che agli uomini. Se non è vano riportare alla mente e riflettere sui tanti esempi di santissimi uomini e di antichi martiri, che hanno subìto torture terribili dai poteri di questo mondo per non venir meno al rispetto della legge divina od ecclesiastica, guarda anche quel che accade alle Chiese Cattoliche, sia quelle orientali – soprattutto l’Armena – sia quelle occidentali, in particolare quella Tedesca e quella Elvetica. Colà i Vescovi, il clero ed anche i più eminenti fra i laici, pur conservando il pieno rispetto e la dovuto sudditanza ai legittimi poteri, non hanno paura delle loro minacce quando si deve rendere a Dio ciò che è di Dio; né, per paura di punizioni, tradiscono la verità o il loro dovere, o si allontanano dalla Sede Apostolica. Anzi, sopportano con animo sereno la sottrazione dei beni, il carcere, l’esilio, sapendo di avere assicurato la massima grazia e la mercede in cielo.
“Per difendere poi i tuoi pretesi diritti sulla Malabaria, tu sostieni che i fedeli di quella regione ti debbono essere sottoposti perché mantengono il rito caldeo e perché un tempo erano soggetti ai Patriarchi caldei. Non abbiamo intenzione di introdurci in dispute storiche, nelle quali ciascuno la pensa diversamente. Anche se le cose stessero come tu sostieni, non per questo raggiungeresti il tuo obiettivo. Anche se un Vescovo, di qualunque dignità ed ordine, ha ricevuto un tempo la giurisdizione su una regione, non per questo la regione dovrà essere soggetta in perpetuo al Vescovo di quella sede e non c’è alcun motivo per cui, con una decisione legittima e per legittima causa, non possa esser trasferita alla giurisdizione di un altro Vescovo. Molti esempi tratti dagli Annali della Chiesa e dagli Atti dei vecchi Concilii confermano questa tesi. Per la verità, i Nestoriani ed altri Patriarchi scismatici si sono arrogati abitualmente la giurisdizione ecumenica ed universale su tutti i fedeli del loro rito, in qualunque terra abitino; infranti i vincoli che li congiungevano a questa Sede Apostolica, essi non riconoscono alcun superiore. Ciò non è mai stato concesso ai Presuli cattolici, né autorizzato dai canoni legittimi, ne dalle Costituzioni pontificie.
“Inoltre hai sostenuto che la giurisdizione sul territorio di Malabar ti era stata promessa, affermando che a ciò si era formalmente obbligato nei tuoi confronti il Venerabile Fratello Zaccaria, Vescovo di Maronea, recentemente sottratto ai vivi. Egli, che pure Ci ha riferito molte cose di quelle che ha fatto costà, non ha mai scritto nulla alla Nostra Congregazione su una promessa di questo tipo; né Noi gli demmo mai alcuna facoltà di formularla. Comunque non apparirebbe valida alcuna ragione che avesse potuto indurlo a fare una tale promessa. Infatti non possiamo accettare che l’abbia fatta per ottenere la tua adesione alle Costituzioni del Concilio Vaticano, perché l’autorità del Concilio non aveva bisogno della tua adesione ed un simile modo di agire si sarebbe tradotto in onta non solo per la tua coscienza e la tua dignità, ma anche per la sua.
“Per dimostrare le concessioni della Sede Apostolica, tu presentasti una lettera, inviata il 28 aprile 1553 dal Nostro predecessore Giulio III di felice memoria, con la quale venivano concessi il sacro pallio ed alcune facoltà speciali al ricordato Sulaka, Patriarca del rito caldeo. Tu hai ordinato che nelle chiese venisse diffusa la traduzione araba – neppure molto fedele – di quella lettera, per contrapporre alle Nostre disposizioni e alle Nostre Costituzioni i decreti e le lettere dei Nostri Predecessori. I quali, tu dici, avrebbero confermato la giurisdizione dei Patriarchi caldei sulle regioni dell’India ed inoltre avrebbero concesso loro l’arbitrio di scegliere i Vescovi. Giulio III, come tu stesso sai, nella ricordata lettera concesse al Patriarca Sulaka la facoltà di confermare con la sua autorità patriarcale l’elezione di Vescovi ed Arcivescovi suoi sudditi, una volta che essa fosse avvenuta correttamente, secondo il rito e la prassi della Chiesa Romana, e di impartire ai Vescovi ed agli Arcivescovi così eletti, dopo che le loro elezioni fossero state ratificate, il potere della consacrazione, secondo il rito e la prassi predetti, dopo aver ricevuto da essi, nel nome del Pontefice Romano e della predetta Chiesa Romana, il solito giuramento della dovuta fedeltà. Perciò devi capire, come appare chiaro a chiunque legga quella lettera, che egli non vi ha sancito o fissato nulla che riguardi i luoghi in cui debba essere esteso il diritto patriarcale di Sulaka: l’impiego della potestà concessa era anzi espressamente vietato per quei luoghi nei quali i Presuli vengono designati dal Pontefice Romano. Perciò quella lettera non ti aiuta assolutamente ad estendere la tua giurisdizione oltre i confini nei quali è racchiusa attualmente; alle tue aspirazioni sulla Malabaria, dove i Presuli sono istituiti dal Pontefice Romano, contraddicono apertamente quei Cristiani che proprio per questo motivo, rigettata nel Sinodo Diamperitano del 1599 l’eresia Nestoriana, si sono aggregati alla Chiesa Cattolica. In quel Sinodo essi giurarono e promisero formalmente che non avrebbero mai riconosciuto alcun Vescovo, Arcivescovo, Prelato, Pastore o Governatore, se non quello che fosse direttamente nominato dalla Santa Sede Apostolica tramite il Papa Pontefice Romano. Ciò fu sancito e ribadito dall’autorità dei Nostri Predecessori Clemente VIII e Paolo V, ed è stato osservato fino ad oggi.
“In questa lettera monitoria, Venerabile Fratello, riconoscerai il segno della Nostra singolare longanimità e carità nei tuoi confronti; con essa Ci siamo impegnati con sollecitudine a mostrarti la debolezza dei sofismi nei quali ti sei invischiato ed a recuperarti a saggi consigli, nella speranza che, con l’aiuto della grazia di Dio, ascoltando una buona volta la Nostra voce, tu ti ravveda e ritragga dal pericolo di un imminente scisma te e le chiese di rito caldeo a te affidate. Perciò, con la Nostra autorità Apostolica, nel rispetto della santa obbedienza e sotto la minaccia del giudizio divino, ti ordiniamo esplicitamente, Venerabile Fratello, di richiamare al più presto dalla Malabaria il Vescovo Elia Mello e quanti altri vi siano, sacerdoti, monaci ed anche Vescovi del tuo rito; e di lasciare che quella regione, nella quale abbiamo già dichiarato e ripetiamo che non hai nessuna giurisdizione, sia governata dal suo legittimo Presule in pace e cattolica armonia.
“Ordiniamo inoltre che tu richiami dalle Diocesi alle quali li avevi arbitrariamente, sacrilegamente e inefficacemente preposti, i sacerdoti Elia e Matteo e gli altri che, contro la Nostra Costituzione, avevi recentemente elevato alla dignità episcopale. Quanto alle Diocesi del tuo Patriarcato che mancano di un legittimo pastore, affidane il governo e l’amministrazione ad altri sacerdoti del tuo rito che ne siano degni ed idonei, fintanto che alle stesse Diocesi non siano assegnati Vescovi legittimi, correttamente nominati. Se trascurerai di adempiere questa Nostra disposizione, Noi stessi Ci occuperemo di quelle Diocesi, come C’impone doverosamente il ruolo del Nostro Apostolato.
“Inoltre ti ammoniamo di evitare assolutamente l’abuso di punizioni ecclesiastiche, che abbiamo saputo esser state da te comminate e utilizzate spesso con arbitrio e senza giusta causa. Se infatti tu le irrogherai per ragioni non giuste ed adeguatamente gravi, non potremo esimerci dall’assolvere, con la Nostra autorità (come già altre volte Ci hai costretto a fare) quei fedeli che, colpiti da pene ingiuste, fanno ricorso a Noi. Vogliamo in definitiva che tu ti attenga assolutamente a tutto ciò che la Nostra Congregazione ti ha scritto nella lettera del 27 agosto dell’anno scorso.
“Confidiamo che tu eseguirai con scrupolo tutto ciò che ti abbiamo ordinato nel Signore; a questo scopo invochiamo per te la pienezza delle grazie divine. Se – ma speriamo di no! – trascurerai di obbedire a questa Nostra perentoria ammonizione e persisterai nella caparbietà, sappi che Noi seguiremo le orme dei Nostri Predecessori, che non tralasciarono, quando si rese necessario, di colpire con pene e censure ecclesiastiche gli antichi Patriarchi, nonostante in qualche caso fossero protetti dal patrocinio dei potenti; e li castigarono non soltanto con la pena della scomunica, ma anche della deposizione. Se sarà necessario, seppure con grande dolore Noi attueremo nei tuoi confronti questa stessa procedura, per non essere rimproverati dall’eterno Principe dei Pastori di aver tradito il Nostro ministero e di aver trascurato la fede e la salvezza di tante anime, trascinate ad un gravissimo punto nodale.
“Noi ti preghiamo, Venerabile Fratello, e ti scongiuriamo nel nome del Signore Nostro Gesù Cristo, affinché tu riconsideri seriamente di fronte a Dio la tua malvagia condotta, il grado della tua dignità, la tua età ed il gravissimo pericolo per la tua eterna salvezza; implorata con umili preghiere la luce divina, prendi dunque quelle decisioni che dimostrino nei fatti il tuo ossequio verso la Sede Apostolica, tante volte asserito a parole; quelle decisioni che allontanino da te la rovina nella quale, finché presti orecchio agli iniqui consiglieri, deploriamo che trascinerai te stesso ed il popolo che ti è stato affidato dalla Nostra autorità.
“Affinché la misericordia divina si sparga benignamente, a te Venerabile Fratello, insieme con i Vescovi, il clero, i monaci ed i fedeli che rimangono in comunione ed obbedienza con la Sede Apostolica, impartiamo con affetto la Benedizione Apostolica nel Signore.
“Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 settembre 1875, anno trentesimo del Nostro Pontificato”.
19. La risposta a questa Nostra lettera tardò a lungo. Dapprima accettammo che il ritardo fosse dovuto ad una malattia, ma dopo che egli si era ripreso niente più poteva scusarlo. Nel frattempo i suoi comportamenti, che seguivamo con la massima attenzione, Ci fornivano una risposta più eloquente di una lettera. Infatti non furono richiamati dalla regione Malabarica coloro che vi erano stati inviati, e nemmeno dalle Diocesi i sacerdoti sconsideratamente investiti della dignità episcopale. Per di più, l’intruso nella diocesi di Amida ebbe l’ardire di promuovere agli ordini alcuni monaci, che poco dopo il Patriarca in persona non si peritò di avviare al sacerdozio. I sacerdoti che non volevano accettare questo malvagio comportamento furono vessati con minacce e punizioni; in alcuni casi furono fatti passare come perturbatori del popolo e ribelli al Patriarca; in altri puniti con l’aiuto del potere civile. Né possiamo fingere di ignorare la risposta che il Patriarca diede il 7 febbraio di quest’anno alla lettera inviatagli da alcuni Mauxiliesi. In essa dichiarava con estrema franchezza che non aveva mai rinunciato – né mai lo avrebbe fatto – ai suoi pretesi diritti; che questo era dimostrato dai suoi comportamenti, chiari, diceva, come il sole; che egli poteva valersi del ministero patriarcale, così come se n’erano valsi i suoi predecessori Patriarchi cattolici, mantenendosi come loro congiunto in fede e disciplina con il Sommo Pontefice; al qual proposito ordinava loro di non avere nessun dubbio e nessun sospetto. Questa esplicita dichiarazione fu resa ancor più inequivoca dalla lettera che gli stessi Mauxiliesi inviarono al Patriarca il 20 dello stesso mese di febbraio. Costoro, infatti, mentre lo ringraziavano e promettevano di trarre forza e coraggio dalla sua dichiarazione, affermavano di essere, allora ed in futuro, concordi fino alla morte con il Patriarca nel rifiutare la Costituzione Apostolica, nel proteggere i suoi diritti e nel proseguire l’invio di Vescovi in Malabaria.
20. Mentre tutto ciò poco alla volta veniva a galla, i fedeli si meravigliavano che quest’uomo, completamente immemore della propria dignità e così cambiato rispetto a colui che in altri tempi aveva dimostrato la propria fede e la propria obbedienza alla Sede Apostolica, avesse potuto procedere impunemente fino a quel punto; tanto che i Caldei, invasori della Malabaria, da ciò traevano argomento per difendere lo scisma che avevano introdotto colà e per negare impudentemente l’autenticità o la fondatezza della Lettera Apostolica con la quale avevamo comandato d’intervenire contro il Vescovo Mello e contro i suoi seguaci; si seppe che altri erano giunti ad un tal limite d’impudenza da negare che il Patriarca potesse essere da Noi scomunicato.
21. Si era dunque arrivati al punto in cui per Noi non sarebbe più stato lecito evitare di comminare le pene canoniche al Patriarca, che, più volte ammonito, aveva rifiutato di obbedire agli ordini e non si tratteneva dal rendere nota la sua disobbedienza con le azioni e con gli scritti. Frattanto, con data 19 marzo di questo anno, Ci giunse la sua risposta, così a lungo aspettata; da essa ricavammo la certezza, non senza grande dolore del Nostro animo, che la sua ostinazione era più che abbondantemente confermata. Che cosa infatti di più sciocco o di più ingiurioso avrebbe potuto escogitare che mettere in dubbio, come il Patriarca fa all’inizio della sua risposta, l’autenticità della Nostra lettera che gli era stata mandata secondo la prassi per il tramite del Nostro Delegato in Mesopotamia? Tutta la sua risposta consiste nel garantire più e più volte, con gran giro di parole e con adulazione, la propria fede cattolica e la propria obbedienza nei Nostri confronti. A quel punto egli cerca di tutelare e rivendicare i suoi interessi, sia in riferimento all’elezione dei Vescovi, sia per quanto riguarda la Malabaria, ripetendo una volta di più quei concetti che già tante volte Ci aveva scritto a questo proposito; fingendo tuttavia di non conoscere assolutamente le risposte che, per soddisfare compiutamente la giustizia, gli avevamo fatte avere nella Nostra lettera monitoria. Ripetendo sempre le stesse frasi, aggiunge anche molte lamentele contro i Missionari Apostolici, ai quali attribuisce – in modo tanto calunnioso quanto impudente – la causa dello scompiglio dei Caldei. Egli non si perita inoltre di scongiurarci affinché manifestiamo la Nostra approvazione al fatto che egli invii successivamente in Malabaria dei Vescovi di rito caldeo. Alla fine annuncia di avere in animo di convocare dopo l’inverno alcuni suoi Vescovi per renderli partecipi delle Nostre disposizioni, e decidere unanimemente con loro che cosa sia opportuno fare; ciò egli Ci farà sapere al più presto.
22. Voi vedete, Venerabili Fratelli e diletti Figli, quale risposta Noi possiamo dare a quest’ultima sua lettera, tenuto anche contro di quel che abbiamo detto nelle Nostre missive precedenti. La divina Sapienza (Sir 32,6) infatti ammonisce a non spendere parole dove esse non possono essere udite. Lo stesso Patriarca ricorda di aver dovuto molto subire per aver difeso e propagato la fede cattolica; per questo abbiamo usato con lui la massima pazienza. Ma va ricordato anche che colui che abbia osservato tutta la legge, ma si sia reso colpevole di una cosa, sarà considerato colpevole di tutto (Gc 2,10); e non chi avrà cominciato, ma chi sarà arrivato fino in fondo sarà salvato. Che cosa possiamo dire di quel che ha messo insieme contro i Missionari? Noi abbiamo accertato che essi si sono valsi dei loro diritti religiosamente; se risulta che essi abbiano compiuto qualcosa di malvagio, ne venga riferito a Noi, con un’esposizione diligente ed accurata di tutto lo svolgimento della vicenda; né certamente verremo meno all’obbligo di rendere giustizia a ciascuno. Non siamo disposti a prestare orecchio tollerante a vaghe accuse, soprattutto sapendo che i Missionari hanno affrontato le calunnie e l’invidia dei malevoli e per di più furono talora perseguitati con gravissime offese, non solo con la connivenza e la condiscendenza del Patriarca, ma persino per sua iniziativa.
23. Stando così le cose, è evidente che il Venerabile Fratello Patriarca Giuseppe, per quanto più volte ammonito, non soddisfece né volle soddisfare Noi e la Sede Apostolica. A che cosa serve, infatti, proclamare il dogma cattolico del primato del Beato Pietro e dei suoi successori, ed aver diffuso tante dichiarazioni di fede cattolica e di obbedienza verso la Sede Apostolica, quando le azioni in sé smentiscono apertamente le parole? Forse che non diventa persino meno scusabile la caparbietà, quanto più si riconosce il doveroso impegno dell’obbedienza? Forse che l’autorità della Sede Apostolica non si estende oltre ciò che è stato da Noi disposto, o basta avere comunione di fede con essa, senza obbligo d’obbedienza, perché si possa considerare salva la fede cattolica? Fino ad ora nei confronti del Patriarca Noi abbiamo agito con la massima mitezza e nei suoi confronti abbiamo usato una pazienza così grande, quale da Noi non si sarebbe dovuto aspettare. È tuttavia giusto che anche la pazienza e la longanimità abbiano una loro misura: per evitare, come spiega il Nostro Predecessore San Gregorio Magno , che la forza della punizione sia addolcita oltre misura da un eccessivo languore. Lo stesso Cristo Signore ci ha insegnato che colui che sarà stato ammonito inutilmente più e più volte e non avrà dato ascolto nemmeno alla Chiesa, dev’essere considerato come un pagano e un pubblicano. Perciò i Pontefici Romani, per l’autorità ricevuta da Dio sopra tutti, di qualunque ordine e dignità, per conservare l’integrità dell’unità e della Fede Cattolica, e per annullare l’arroganza dei ribelli, spesso hanno dovuto far ricorso alla scomunica degli stessi Patriarchi, deponendoli anche, quando si è reso necessario, come risulta più volte negli annali delle Chiese Orientali, e come voi non potete assolutamente ignorare.
24. È perciò necessario che Noi, sia pur mal volentieri e rattristati, teniamo lo stesso comportamento col predetto venerabile Fratello Giuseppe, affinché egli non si burli ulteriormente di questa Sede Apostolica e del popolo cristiano con le lusinghe delle parole; affinché non si trinceri dietro la comunione con Noi mentre invece è contro di Noi e trasgredisce le disposizioni dei Padri. Perciò abbiamo ritenuto di dover spedire questa lettera enciclica a Voi, Venerabili Fratelli, e a tutti e a ciascuno dei fedeli del vostro rito, affinché conosciate la realtà autentica delle cose e tutto ciò che fino ad ora il vostro Patriarca ha compiuto e sta compiendo e che è – come abbiamo detto sopra – contrario alle decisioni ed alle Costituzioni Nostre e di questa Sede Apostolica; e sappiate che tutto ciò viene da Noi rigettato e condannato. Perciò Voi non dovete – e nemmeno potete – obbedirgli in quei casi in cui sia accaduto o accada che egli disponga contro gli ordini Nostri e della Sede Apostolica. State attenti a non essere ingannati dalle false narrazioni e dalle dicerie calunniose che vengono messe in giro per invidia, specialmente su questioni rituali o – come dicono – nazionali. Si tratta infatti, Venerabili Fratelli e diletti Figli, dell’obbedienza che si deve prestare o negare alla Sede Apostolica; si tratta di riconoscerne la suprema potestà, anche nelle vostre Chiese, quanto meno per ciò che riguarda la fede, la verità e la disciplina; chi l’avrà negata è un eretico. Chi invece l’avrà riconosciuta, ma orgogliosamente rifiuti di obbedirle, è degno dell’anatema. Se qualcuno, ritenendo di giudicare diversamente lo stato delle cose, si allontanerà dalla retta via, si affretti a pentirsi. In verità, se tutti coloro che debbono averla useranno nei confronti del loro Patriarca sincera carità, essi tenteranno di riportarlo alla buona messe con ammonizioni, esortazioni, frequenti preghiere elevate a Dio, secondo ciò che il Signore avrà concesso a ciascuno. – Perché tutto ciò accada aspetteremo fino a quaranta giorni, pregando anche personalmente Dio fra i gemiti, affinché il cuore di colui non s’indurisca, ma oda alla fine la Nostra voce e ritorni a saggi consigli e con questa decisione procuri a sé ed alla sua gente la vera utilità ed il vero bene. Una volta trascorsi quaranta giorni dacché questa lettera sarà giunta nelle sue mani, se egli persevererà – Dio non voglia! – nella sua ribellione e nella sua disobbedienza, e non darà seguito nei fatti a tutto ciò che Noi gli abbiamo ordinato, saremo costretti a rendere operativa nei suoi confronti, senza ulteriore dilazione, la sentenza in forza della quale egli sarà completamente allontanato dalla comunione con Noi, cioè dalla comunione con la Chiesa cattolica, e, legato dal vincolo della scomunica maggiore, per ciò stesso sarà privato di ogni e qualunque giurisdizione spirituale nei confronti dei fedeli del suo Patriarcato.
25. Non potremmo impiegare verso di lui pazienza e commiserazione tanto grandi senza preoccuparci contemporaneamente con efficacia della salvezza delle anime, individuando fin d’ora che cosa sia necessario per garantire la loro incolumità e per strapparle dai gravissimi pericoli nei quali sono state trascinate, ed ogni giorno vengono spinte vieppiù, per la disobbedienza del Patriarca. Come possiamo infatti tollerare che i fedeli delle Diocesi di Iezira, Amida, Zaku siano stati affidati fino ad ora all’arbitrio di pseudopastori, dei quali è sacrilega la consacrazione, illegittima la missione, nulla la giurisdizione? Che tutti costoro tentino di raggirare i più ingenui, ingannare gl’incauti, spaventare i più dedoli ed allontanare tutti dal centro della comunione cattolica, anche se a parole ripetono espressamente il contrario? E mentre si gloriano di essere baluardo della potestà patriarcale e velame della propria malvagità, facciano di tutto per irretire le coscienze? Forse che non dovremmo privarli completamente di questo presidio e strappare dalla loro tirannia i fedeli delle Diocesi che furono loro affidate?
Perciò, su suggerimento dei Venerabili Fratelli Nostri Cardinali di Santa Romana Chiesa preposti agli affari del rito orientale con la Nostra autorità Apostolica sospendiamo il Venerabile Fratello Giuseppe Audu, Patriarca Babilonese dei Caldei, da ogni e qualsivoglia giurisdizione sulle ricordate Diocesi di Iezira, Amida e Zaku e su tutte le altre del suo rito che attualmente sono prive di un Pastore legittimo o che lo diverranno in futuro. Riserviamo a Noi ed a questa Sede Apostolica il loro governo e la loro amministrazione, fintanto che non siano assegnati loro regolarmente Vescovi legittimi.
26. Vogliamo e disponiamo che i Vescovi intrusi Matteo, Ciriaco ed Elia, che una consacrazione temeraria e sacrilega ha insignito del carattere episcopale, e che non hanno alcuna giurisdizione, si allontanino immediatamente dalle predette Diocesi e adempiano tutto ciò che abbiamo loro ordinato nella lettera della ricordata Nostra Congregazione. Se non avranno attuato tutto ciò nell’arco, come sopra, di quaranta giorni, e soprattutto se non si saranno allontanati dalle citate Diocesi e non ne avranno rimessa completamente e concretamente l’amministrazione malvagiamente usurpata, procederemo anche contro di loro con la sentenza di maggiore scomunica.
27. Quanto al Vescovo Tommaso Rokos, che nella seconda sacrilega consacrazione ha affiancato il Patriarca Giuseppe, svolgendo il ruolo dei Vescovi consacranti, per quanto reiteratamente ammonito, egli si presenta ancora ribelle; perciò puniremo anche lui con analoga pena di scomunica se entro il termine di quaranta giorni, da calcolare come sopra, non avrà riprovato per iscritto il suo delitto e tutto ciò che il Patriarca ha illegittimamente commesso contro le Nostre Costituzioni e disposizioni.
28. Noi stessi Ci occuperemo del governo delle Diocesi che mancano di un legittimo Pastore, affidandone l’amministrazione ad idonei Sacerdoti del medesimo rito Caldeo, con le opportune e necessarie facoltà per dirigerle, indipendentemente non solo dagli pseudovescovi intrusi, che non hanno né possono avere alcuna autorità, ma anche dallo stesso Patriarca, al quale, con questa Nostra lettera, viene sottratta qualunque giurisdizione su quelle diocesi.
29. In verità, poiché non ignoriamo che il Patriarca si era accanito con censure e pene ecclesiastiche contro quei sacerdoti, chierici e fors’anche altri fedeli, che avevano rifiutato di concordare con i suoi malvagi disegni, facciamo presente che Noi avevamo già concesso una speciale facoltà al Venerabile Fratello Ludovico, Arcivescovo di Damietta, Nostro Delegato in Mesopotamia, per esaminare la forza e la fondatezza di queste censure e pene che, in quanto comminate dal legittimo Pastore, nessuno può rigettare; e di sollevarne coloro che avrà giudicato essere stati ingiustamente condannati nel Signore. Noi confermiamo questo potere speciale e straordinario al medesimo Delegato Apostolico, finché lo stesso Patriarca non avrà dato piena e totale soddisfazione a Noi ed a questa Sede Apostolica, o la stessa facoltà non gli sia revocata in altro modo.
30. Mentre adempiamo, con queste scelte necessarie, il gravissimo incarico del Nostro Apostolato, non dubitiamo, Venerabili Fratelli, che Voi ottempererete al vostro dovere, sia verso i fedeli a Voi affidati, sia verso la Sede Apostolica, con diligenza tanto maggiore quanto più difficili sono le circostanze che Ci tormentano. Vi rattristerete probabilmente e sopporterete amaramente che il vostro Patriarca sia stato pesantemente punito e che ancor più pesantemente lo sarà in futuro. Ci rattristiamo anche Noi, che lo abbiamo sempre amato e che, per quanto riluttante e disobbediente, non lo abbiamo mai privato della Nostra carità, e vi chiamiamo a testimoni di quanta carità, pazienza e longanimità abbiamo usato con lui. Al punto però in cui il Patriarca rifiuta pervicacemente di obbedire alle Nostre disposizioni ed ai Nostri comandi, ed offre agli altri un esempio di disobbedienza, non Ci è più lecito continuare ad essere pazienti e trattenerci ancora dal comminargli le pene meritate. Infatti temiamo e tremiamo di fronte alla condanna che il sacerdote Heli meritò di ricevere per aver castigato negligentemente i suoi figli, mentre sarebbe stato necessario espellerli dalla porta del tempio dato che perseveravano nella nequizia, dopo esser stati ammoniti una prima e una seconda volta . Da ciò discese che gli stessi figli furono uccisi in un sol giorno, trentamila popolani vennero ammazzati, l’arca del testamento fu catturata e lo stesso sacerdote, cadendo all’indietro, morì miseramente con la testa spaccata. Intanto Voi agite presso il vostro Patriarca con la stessa Nostra carità, dandovi da fare affinché il periodo che gli abbiamo concesso per pentirsi non abbia a trascorrere invano e senza esito. Stategli vicino, affinché non sporchi con questa macchia la sua età avanzata e la sua elevatissima dignità, cosicché colui che un tempo si adoperò per la tutela e la crescita della Fede cattolica, colui che un tempo fu obbediente e devoto a Noi ed a questa Sede Apostolica, non debba essere riprovato dalla stessa Sede Apostolica e privato a buon diritto di quel potere che da Lei aveva ricevuto.
Conviene che teniate tutto questo come vostro modello, Sacerdoti, Monaci e quanti siete chiamati al servizio di Dio; che educhiate il vostro popolo alla rettitudine contemporaneamente con le parole e con l’esempio, affinché non accada che, ingannato con malvagie dottrine e falsi discorsi, esso sia allontanato, inconsapevole o controvoglia, dalla solidissima pietra sulla quale Cristo Dio ha edificato la Sua Chiesa.
31. Infine esortiamo Voi, genti tutte del Rito Caldeo, ad invocare con fervide preghiere presso Dio e l’eterno Principe dei Pastori Cristo Gesù, con l’intercessione della Beatissima Maria, Madre di Dio, la luce e la potenza della grazia per il vostro Patriarca e per gli altri che hanno miseramente sbagliato; ed in auspicio del sostegno celeste, ed in pegno del Nostro affetto impartiamo amorevolmente la Benedizione Apostolica a Voi, Venerabili Fratelli e Diletti Figli, che rimanete in comunione ed obbedienza con la Sede Apostolica.
Dato a Roma, presso San Pietro, il primo settembre 1876, anno trentunesimo del Nostro Pontificato.
S. S. Pio IX, scrisse questa lunga lettera Enciclica per portare ordine nella questione malabarica minata da un comportamento poco rispettoso nei confronti della disciplina e dei canoni imposti dalla Chiesa Cattolica per mezzo della Sede Apostolica. La questione è riassunta qui in modo dettagliato con tanto di lettere del Sommo Pontefice e delle risposte del Patriarca ribelle. Al di là della vicenda specifica, l’interesse di questa lettera si spiega per il fatto che il Pontefice rivendichi il suo ruolo decisionale, quale Vicario di Cristo e capo in terra della Chiesa su ogni questione liturgica, dottrinale, teologica, gerarchica, disciplinare. Il grande Pio IX con fermezza e carità paterna richiama il dissidente, ribadendo la distinzione dei ruoli e la superiorità gerarchica in una società voluta dal suo Fondatore, rigidamente rispettosa dei ruoli e senza ammettere prevaricazioni di sorta. Questo è il ruolo del Vicario di Cristo, paterno ma deciso nei suoi richiami, preoccupato delle anime affidate ai suoi Vescovi e Patriarchi, della loro eterna salvezza a gloria di Dio. Quanto diverso è il comportamento degli antipapi “democratici” apparentemente, ma in realtà dispotici e tirannici nel loro servizio attivo in favore del “nemico infiltrato e travestito da angelo di luce” per la perdizione e dannazione delle anime che da essi si fanno stoltamente guidare.”
Pio IX Quæ in Patriarchatu
1. Non crediamo che Voi ignoriate le cose che sono avvenute nel Patriarcato di rito Caldaico da diversi anni a questa parte, e che ancora avvengono, tuttavia è conveniente ricordarle, affinché sappiate come sono andate realmente le cose, quanto è stato fatto da Noi e che cosa rimane ancora da fare per allontanare i danni che minacciano la vostra fede cattolica e l’unità. Abbiamo ragione di temere che non si sia agito sinceramente con voi e che la verità sia stata oscurata con capziose ambiguità di parole, e i fatti siano stati esposti calunniosamente o distorti in senso malvagio. Seguendo pertanto l’esempio dei Nostri Predecessori, che in simili congiunture non tralasciarono di rendere edotti i Vescovi, il Clero e il popolo sulla vera situazione, vogliamo fare anche Noi la stessa cosa, affinché non appaia che siamo carenti per nessuna ragione al dovere del Nostro Apostolato.
2. È stata tanto grande la rovina recata alle vostre regioni dall’eresia di Nestorio, che ha devastato codesta vigna del Signore, una volta così fiorente, come se un cinghiale, animale particolarmente selvatico, fosse uscito dalla selva e l’avesse distrutta. Infatti, si affievolì poco a poco la scrupolosa osservanza dei Canoni; scomparve la solenne autorità dei Pontefici; prese piede l’ambizione di uomini che, privi del timor di Dio, aspiravano alle cariche ecclesiastiche; s’introdusse l’obbrobrio della successione ereditaria dei Patriarchi; e la dottrina cattolica si trovò infettata, oltre che degli antichi errori quasi obsoleti, anche di nuovi, al punto che sembrava dovesse considerarsi cancellato lo stesso nome Cristiano. I Romani Pontefici non cessarono mai di curare attentamente tutti questi mali, finché fu loro permesso di inviare in Oriente uomini Apostolici, per opera dei quali non pochi Presuli Nestoriani, dopo avere abiurata l’eresia, sono ritornati alla fede cattolica e all’unità. Con quanta attenzione e con quanta carità siano stati accolti, sia quelli che inviarono lettere ai Nostri Predecessori, sia quelli che, dopo aver superato le molestie e le fatiche di un lungo pellegrinaggio, giunsero a questa santa Città, appare manifesto tanto dagli Atti della Sede Apostolica, quanto dalle lettere della stessa che riteniamo esistano ancora nei vostri archivi.
3. Giunse finalmente l’auspicato giorno luminoso nel quale, tolte di mezzo tante difficoltà e specialmente rimosso l’impedimento della successione ereditaria dei Patriarchi, era lecito sperare che, ristabilito e ricomposto l’ordine della disciplina ecclesiastica, che è custodia e baluardo della fede, potesse rinascere e rifiorire la Chiesa di rito Caldaico. Noi speravamo che questo potesse avvenire per opera del Venerabile Fratello Giuseppe Audu, che allora era Vescovo di Amida. Animati quindi da tale speranza, lo abbiamo nominato Vicario Apostolico del Patriarcato Caldaico, allorché questo si rese vacante per la rinuncia di Isaia Giacomo, resa nelle Nostre mani. In seguito Ci siamo molto rallegrati quando abbiamo saputo che la medesima persona era stata richiesta e poi eletta alla dignità patriarcale con i voti dei Vescovi. Successivamente abbiamo confermato con tanta soddisfazione questa elezione, o istanza, nel Concistoro dell’11 settembre 1848, e con la Nostra autorità Apostolica abbiamo nominato il predetto quale Patriarca di Babilonia dei Caldei, difendendolo strenuamente quando fu assalito da tanti obiettori. La speranza che avevamo precedentemente concepito, fu confermata non soltanto dalla fedeltà e dall’obbedienza che egli promise con solenne giuramento a Noi e ai Nostri Successori, come è costume e dovere di tutti i Patriarchi cattolici, ma anche con lettere ossequiose con le quali espose i suoi egregi sentimenti di una devota volontà e di un animo sottomesso a Noi e a questa Santa Sede.
4. Ma non molto dopo scrisse una e più volte alla Nostra Congregazione di Propaganda Fide che gli erano state recapitate lettere dei Malabarici, per opera ed iniziativa di un Vescovo eretico dei Siro-Giacobiti che dimorava colà, nelle quali gli stessi Malabarici, raccogliendo molte proteste e accuse contro i Missionari Latini e i Vescovi che li curavano spiritualmente in Nostro nome, chiedevano che fosse loro concesso dal Patriarca un Vescovo del loro rito. Sebbene fosse certo che lo stesso Patriarca non poteva avere nessuna giurisdizione sui Malabarici, tuttavia era giusto esaminare diligentemente le loro doglianze per poter provvedere alle loro necessità spirituali con tanta maggiore efficacia e celerità, quanta maggior sollecitudine la Sede Apostolica deve avere verso coloro che essa stessa regge e governa tramite i suoi Vicari. Per tali ragioni fu disposta un’accurata indagine per accertare la verità, al fine di poter giudicare che cosa si doveva fare e stabilire per il loro vantaggio spirituale. Mentre ritardava una risposta definitiva, si venne a sapere quello che poi fu provato da una lettera autografa inviata in data 21 dicembre 1856 a un sacerdote Malabrico di nome Emmanuele: le richieste venivano eccitate dallo stesso Patriarca dei Malabarici; veniva favorita la speranza e insegnato il modo con i quali si potevano soddisfare i desiderata, stancando la Santa Sede con lamentele contro i Missionari e con frequenti e ripetute istanze. Frattanto Noi, desiderando comporre la questione con miti provvedimenti, abbiamo dato mandato al Nostro Pro-Delegato in Mesopotamia di far recedere il Patriarca dal suo intento. Questi fu anche invitato a non interessarsi più della regione Malabarica.
5. Egli però non diede ascolto agli ordini, e pretendendo che la regione dei Malabarici a buon diritto fosse di sua competenza, scelse fra i suoi familiari Tommaso Rokos e, ordinatolo Vescovo, lo mandò a Malabar, nonostante si opponesse e lo proibisse, anche sotto la minaccia di censure, il Nostro Venerabile Fratello Enrico Amanton, Vescovo – finché visse – di Arcadiopoli e Nostro Delegato in Mesopotamia. Il Rokos, giunto colà, asserendo falsamente di essere stato inviato dallo stesso Patriarca su Nostro comando, usurpò la giurisdizione ecclesiastica, promosse agli Ordini sacri molti individui, anche se poco degni, e non ebbe scrupolo di sovvertire in su e in giù la Chiesa Malabarica. Mossi da questi misfatti e stimolati dalle proteste dei Sacerdoti malabarici, abbiamo dato ordine al Venerabile Fratello Bernardino, Arcivescovo di Farsalo, che presiedeva allora come Vicario, su Nostro mandato, a quella Chiesa, che invitasse secondo i Canoni quel Vescovo Tommaso ad andarsene e, se renitente, lo scomunicasse pubblicamente; il che avvenne. Noi frattanto richiamammo a Roma il Patriarca, lo rimproverammo apertamente per la grave mancanza, e gli comandammo di revocare immediatamente quel Vescovo Rokos, che egli aveva temerariamente introdotto in Malabar. Al Patriarca, che ubbidì, concedemmo il richiesto perdono e l’assoluzione dalle censure.
6. Allora ordinammo che tutta la materia e ciò che era accaduto venissero esaminati dai Venerabili Nostri Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa della Congregazione di Propaganda Fide per gli affari di Rito Orientale. Nella riunione svoltasi il 6 marzo 1865, furono esaminate accuratamente e sollecitamente tutte queste vicende, e a suffragio unanime, con la Nostra approvazione, fu stabilito che non si doveva estendere la giurisdizione del Patriarca di Babilonia dei Caldei alla regione di Malabar. Inoltre furono approvate molte altre decisioni, sia per procurare la sicurezza ai Malabarici, sia per sedare il turbamento degli animi che si era creato fra i Caldei in conseguenza di quanto il Patriarca aveva sconsideratamente compiuto. Il Patriarca accettò, seppure a malincuore, questi provvedimenti, o almeno parve li accettasse: e questa opinione fu confermata dalle sue successive azioni. Anche se in seguito dovemmo dolerci di alcuni provvedimenti da lui adottati poco rettamente, tuttavia egli si dimostrò accondiscendente verso di Noi come si conveniva, e riconoscendo, come di dovere, la Nostra autorità, diede un preclaro esempio di obbedienza, sia pubblicando – come avevamo comandato – il Nostro decreto con il quale si abrogavano le censure da lui temerariamente comminate, sia negando la consacrazione episcopale a un Malabarico che gli era stata richiesta da alcuni che macchinavano innovazioni in quella regione.
7. In tale situazione stabilimmo pure che s’instaurasse nella Chiesa Caldea l’auspicata disciplina ecclesiastica, poco osservata, trascurata e, per la malizia dei tempi, quasi dimenticata, fatti salvi pero i suoi riti, che anticamente erano stati istituiti dai Santi Padri e che furono sempre riconosciuti e approvati da questa Sede Apostolica. Questo Nostro proposito fu notificato al Patriarca dalla Nostra Congregazione di Propaganda Fide, per Nostro mandato, il 3 settembre 1868, e contemporaneamente fu inviato a lui un esemplare della Nostra Costituzione, pubblicata il 12 luglio 1867, nella quale erano stati sanciti alcuni capitoli di disciplina ecclesiastica, specialmente relativi all’elezione dei Vescovi, da osservarsi nel Patriarcato Armeno. Non appena ricevette tale materiale, per mezzo del Vescovo Elia Mello che allora era presente a Roma, con proprie lettere inviate alla predetta Congregazione volle assicurarci che egli non dissentiva per nulla dalla Nostra volontà riguardo alle regole sulla elezione dei Vescovi, professando di accoglierle con ogni devozione ed obbedienza. Anzi, sperava che dal previsto ordinamento sulle elezioni dei Vescovi sarebbero derivati vantaggi, ed egli si sarebbe sempre comportato come appariva conveniente ed opportuno a Noi; il che fu per Noi motivo di gioia e letizia. Frattanto, essendo rimaste orbate dei loro Pastori le Chiese di Diyarbekir e di Mardin di rito Caldaico, Ci propose i nomi di alcuni sacerdoti, affinché mettessimo a capo di queste Diocesi coloro che secondo la Nostra autorità avessimo giudicato in Domino più degni e più idonei: il che fu fatto con Nostra Lettera Apostolica in data 22 marzo 1869. Fummo talmente commossi da tali segni di devozione ed obbedienza, che avendo egli umilmente esposto che preferiva che colui che avevamo destinato alla Chiesa di Amida venisse assegnato come Vescovo alla Chiesa di Mardin, e viceversa, Noi abbiamo deciso di acconsentire in pieno a tale richiesta.
8. Dopo questi avvenimenti, abbiamo ritenuto che non si dovesse differire oltre il ripristino della disciplina nel Patriarcato di rito Caldaico, nel quale si doveva assolutamente iniziare dalla retta elezione dei Vescovi. Infatti, se non si scelgono per tale oneroso compito, spaventoso per le stesse spalle angeliche, uomini ragguardevolissimi, che agiscano secondo il cuore e la volontà di Dio, si producono gravissimi danni e calamità quasi irrimediabili per la Chiesa: lo attesta la storia di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e lo conferma l’esperienza. A questo scopo fu pubblicata da Noi il 31 agosto 1869 la Costituzione Apostolica Cum ecclesiastica disciplina nella quale, riguardo alla elezione dei Vescovi, veniva stabilito di osservare all’incirca quello che lo stesso Patriarca – come abbiamo detto sopra – aveva già fatto volentieri per le Diocesi di Diyarbekir e di Mardin: cioè, quando si rendesse vacante una Sede episcopale, venissero a Noi proposti dal Sinodo dei Vescovi tre uomini ragguardevoli, onde giudicassimo chi era il più degno e il più idoneo e lo collocassimo alla guida della Diocesi vacante. Veniva inoltre decretato che sarebbe stato illegale e invalido tutto ciò che si fosse tentato di fare contro queste disposizioni.
9. Frattanto era stato indetto il Concilio Ecumenico Vaticano, al quale furono convocati i Vescovi di ogni Nazione e Rito. Intervenne fra gli altri anche lo stesso Venerabile Fratello Patriarca dei Caldei con quasi tutti i Vescovi del suo Rito; ma avvertimmo con dolore che egli era molto mutato da quello che prima Ci aveva dato tanti segni di riverenza e di obbedienza. Infatti si rifiutò di consacrare come Vescovi delle predette Chiese di Diyarbekir e di Mardin i sacerdoti Pietro Attar e Gabriele Farso, che avevamo eletto fra quelli da lui proposti, assegnando a ciascuno la Chiesa da lui preferita. Allorché stava per partire da Roma, abbiamo ordinato che gli venisse richiesta una dichiarazione di totale adesione e di accettazione della Costituzione De Ecclesia Christi approvata nella quarta Sessione del Concilio Ecumenico Vaticano, alla quale egli non era stato presente. Noi stessi lo esortammo e scongiurammo a compiere questo dovere, prospettandogli l’esempio di altri Vescovi che, non essendo intervenuti alla quarta Sessione, non esitarono ad aderire a quella dichiarazione. Egli da principio cominciò a frapporre indugi e a tergiversare, poi asserì pervicacemente che lo avrebbe fatto più utilmente dopo che fosse tornato alla sua sede, promettendo contemporaneamente che non avrebbe tralasciato nulla per darci soddisfazione. Questo fatto Ci procurò grande dolore e ansietà, che poi crebbero quando, recatosi a Costantinopoli, subornato dalle blandizie e dalle menzogne degli Armeni Neoscismatici e incitato dal loro esempio, egli non esitò a celebrare occasionalmente con loro in divinis; mentre professava con un atto solenne la sua fedeltà alle leggi civili del Sultano, insinuava che le Nostre Costituzioni Apostoliche erano contrarie ad esse. In quella circostanza accadde anche che egli trascurò di presentare i debiti doveri di urbanità al Nostro Legato straordinario che in quel tempo dimorava a Costantinopoli. Non diede alcuna risposta alla lettera inviata dalla Nostra Sacra Congregazione nella quale erano espresse le opportune ammonizioni. Inoltre, ritornato in Mesopotamia, si unì ai promotori di novità e fece sconsideratamente certe affermazioni che, come fu riferito, non potevano accordarsi in alcun modo col ministero di un Vescovo cattolico, anzi neppure con la stessa fede ortodossa.
10. Udendo con gran dolore tutte queste cose, Ci assillava l’animo il precetto del Signore, dato al Beato Pietro, di confermare i fratelli, e insieme il dovere di provvedere alla salvezza della anime e di difendere il gregge del Signore. Era secondo Noi gravissima la condizione alla quale era stato ridotto il Nostro Venerabile Fratello Timoteo, Arcivescovo dei Caldei di Diyarbekir, per l’inimicizia e le male arti di alcuni che si dicevano sostenuti dal patrocinio del Patriarca. Anzi l’Arcivescovo, sentendo che gli era ostile l’animo del Patriarca, ci aveva inviato più volte lagnanze e dolenti preghiere perché gli concedessimo di cessare dal ministero episcopale. Pertanto incaricammo il Venerabile Fratello Zaccaria, Vescovo a vita di Maronea, di partire alla volta di Mauxilio per incontrare il Patriarca e per comunicargli la rinuncia all’episcopato del predetto Venerabile Fratello Timoteo: rinuncia da Noi riconosciuta. Lo stesso Patriarca, con la Nostra autorità, investisse quale Vicario Apostolico della Diocesi di Diyarbekir la persona che preferiva. Infine, il Vescovo Zaccaria inducesse il Patriarca a sottoscrivere la necessaria dichiarazione di adesione e sottomissione ai decreti della quarta Sessione del Concilio Vaticano: adesione che per lui era assolutamente necessaria, non soltanto perché contro di essi blateravano i Neoscismatici Armeni (e lo stesso comportamento che il Patriarca aveva tenuto dopo il suo ritorno era di grande meraviglia per i fedeli), ma soprattutto perché si preoccupasse dell’eterna propria salvezza, rimovendo lo scandalo o almeno prevenendo quel che stava nascendo dal suo silenzio.
11. Finalmente il predetto Patriarca accolse questi ammonimenti, e consegnò la sua adesione per iscritto. Aggiunse tuttavia che egli voleva che fossero conservati e riservati tutti i diritti e i privilegi del Patriarcato. Sebbene potessimo sospettare che in tal modo egli agiva verso di Noi poco sinceramente, tuttavia, considerando la sua antica fedeltà – che ricordava nella stessa dichiarazione – e la forte pressione che su di lui esercitavano i malvagi; avendo davanti agli occhi l’esempio di Colui del quale è scritto che non rompe la canna sconquassata e non spegne il lucignolo fumigante (Is 42,3; Mt 12,20), abbiamo preferito vedere in quella dichiarazione più un desiderio del Patriarca che una iniqua condizione o limitazione nella professione della fede. Cosi abbiamo deciso di accettare quell’atto di adesione pur dichiarando manifestamente con quale sentimento intendevamo accoglierlo: cioè nel rispetto della dottrina cattolica, sia sul Primato Pontificio, sia sui diritti dei Patriarchi. Per questo gli inviammo la seguente Lettera Apostolica il giorno 16 novembre 1872.
[Gli Atti di Pio IX omettono il paragrafo 12 che, secondo la successione aritmetica, dovrebbe trovarsi a questo punto della presente Enciclica].
Al Venerabile Fratello Giuseppe, Patriarca Babilonese dei Caldei.
Il Papa Pio IX. Venerabile Fratello, salute e Apostolica Benedizione.
13. “Dobbiamo ringraziare l’Autore di ogni bene, che si è degnato di concedere generosamente ciò che avevamo ininterrottamente richiesto con assidue preghiere, come Ci ha dimostrato dalla tua lettera del 29 luglio di quest’anno, e Ci rallegriamo per il sentimento della tua devozione. Infatti hai dichiarato apertamente che aderisci ai Decreti e alle Costituzioni del Sacro Concilio Vaticano e soprattutto alla definizione dogmatica dell’infallibile magistero del Romano Pontefice in materia di fede e di costumi, che fu promulgata nella quarta sessione dello stesso Concilio. Con grandissimo piacere abbiamo ricevuto proprio da Te, devoto a questa Sede Apostolica fin dall’infanzia, l’attestazione che ti sei sempre attenuto fermamente a tutto ciò che la Chiesa Romana insegna e dispone, e che quindi già prima credevi in cuor tuo, per senso di giustizia, a ciò che ora apertamente professi per la tua salvezza.
“Né in verità avrebbe potuto essere diversamente, dato che nelle sacre Epistole e negli scritti dei santi Padri, nelle espressioni dei Concili ecumenici e nei sacri Canoni non c’è nulla di più evidente di quel che il Concilio Ecumenico Vaticano ha decretato e sancito a proposito della suprema potestà del Pontefice Romano, ribadendo ed esprimendo con ulteriore chiarezza – così come esigevano gli errori più recenti – la definizione scaturita sul medesimo argomento nel Sinodo Ecumenico Fiorentino, cioè che la Chiesa Romana, per volontà di Dio, possiede la supremazia su tutte le altre realtà di diritto ordinario e che questa potestà di giurisdizione del Pontefice Romano, che è propriamente episcopale, non ha intermediari; che nei confronti di tale giurisdizione tutti i sacerdoti ed i fedeli, di qualunque rito e grado, sia considerati come singoli sia tutti insieme, sono tenuti al dovere della subordinazione gerarchica e della vera obbedienza, non soltanto in materia di fede e di comportamenti, ma anche in quei settori che attengono alla disciplina ed all’organizzazione della Chiesa diffusa in tutto il mondo; cosicché – salvaguardata l’unità sia di comunione, sia di professione della propria fede con il Pontefice Romano – la Chiesa di Cristo sia un solo gregge sotto un solo sommo pastore: questa dunque è la dottrina della verità cattolica, dalla quale nessuno può allontanarsi conservando intatte la fede e l’aspirazione alla salvezza. Noi non abbiamo mai dubitato che tu abbia voluto professare pienamente e rettamente tutte e singole queste verità, aderendo alle costituzioni del Concilio Vaticano.
“Tu ricavi da ciò, Venerabile Fratello, quanto Cristo Signore volle personalmente stabilire a proposito del regime gerarchico e dell’ordinamento della Chiesa. La diversità e la gerarchia di potere dei Vescovi (che per diritto divino hanno uguale dignità) sono state introdotte dal diritto ecclesiastico “per evitare che tutti rivendicassero tutto per sé: ma fossero ciascuno in una diversa provincia, detenendo fra i confratelli il primo giudizio; ed inoltre, coloro che vengono assegnati alle città principali avessero una funzione maggiore, affinché tramite loro l’impegno della Chiesa universale si ricompatti nell’unica sede di Pietro, e niente assolutamente s’allontani dal suo vertice . Da questo, infatti, come se fosse una testa, il Signore volle che si diffondessero in tutto il corpo i suoi doni” : ed in realtà da Lui e dai suoi successori le sedi principali hanno ricevuto tutto ciò che correttamente loro spetta in onore e potere. Poiché il Beato Pietro che vive nella propria Sede e la presiede , offre la verità della fede a coloro che la cercano, e la Sua dignità non vien meno nei Suoi successori, vedi, Venerabile Fratello, che è dovere e diritto di costoro individuare dalle premesse ciò che nel nome del Signore avrà costituito, a seconda dei tempi e dei luoghi, bene a vantaggio per la Chiesa ed autentica salvezza per le anime: il che è la suprema legge.
“Quando questi fondamenti della fede cattolica vengono trascurati, si apre un’ampia strada agli scismi e persino alle eresie, come testimonia la storia di tutti i tempi e come mostra anche quella attuale, visto che alcuni non rispettano né la moderazione della giustizia né la sacralità della fede. Hai conosciuto, Venerabile Fratello, il luttuoso scisma che recentissimamente alcuni Armeni hanno provocato a Costantinopoli: costoro, anche se ritengono di potersi chiamare cattolici, per ingannare gl’incauti e gl’impreparati, tuttavia si sono tragicamente allontanati dalla verità e dall’unità cattolica e sono condannati dal Nostro giudizio e dalla Nostra autorità. Costoro, per altro, tutto smuovono, tutto osano, come è comportamento consolidato degli eretici, per trarre a sé discepoli e conquistare credito di qualsiasi provenienza per la loro sciaguratissima causa; in questo modo hanno tramato anche contro i fedeli di rito caldeo e tuttora non smettono di tramare. Noi non dubitiamo che ai fedeli che ti sono stati affidati per mantenerli nella verità e nell’unità cattolica, come esigono la tua dignità e il tuo incarico, Tu, Venerabile Fratello, spiegherai apertamente che il nuovo scisma Armeno è stato da Noi già sconfessato; e che Tu insegnerai loro che non è lecita alcuna commistione con gli stessi Neoscismatici, men che meno nelle pratiche religiose. Che costoro infatti siano completamente esclusi e cacciati dalla Chiesa Cattolica lo testimonia più che a sufficienza la stessa lettera emanata dal Romano Pontefice, cioè dalla prima ed Apostolica Sede.
“In quest’occasione inoltre non possiamo tacere, Venerabile Fratello, quel che accade nella chiesa di Diyarbekir, facente parte del tuo patriarcato; Tu non ignori che da molti anni essa è appesantita e divisa da tensioni e lotte intestine; ed inoltre quante ne abbia dovute sopportare colui che di recente ne è stato il capo, il Vescovo Pietro Di-Natale. Alla sua morte, quando su tua proposta vi nominammo Vescovo il Venerabile Fratello Pietro Timoteo Attar, apprendemmo con gran dispiacere che le predette tensioni non si erano risolte; anzi, sotto la spinta dello spirito Neoscismatico, si era arrivati a tal punto che, come già rimproverava l’Apostolo ai Corinzi, uno diceva di essere di Paolo e l’altro di Cefa; e lo stesso Venerabile Fratello Timoteo più e più volte Ci supplicò che gli concedessimo di lasciare l’incarico che gli avevamo affidato e che lo aveva trascinato in tanta tempesta. Scismi e scandali di tal fatta devono essere assolutamente tolti di mezzo. Perciò ti esortiamo e scongiuriamo nel nome di Nostro Signore Gesù Cristo, Venerabile Fratello, affinché ti impegni prioritariamente e con la massima efficacia nel comporre ed azzerare codesti dissidii. Vogliamo che tu sia certo che per ottenere questo risultato non ti verranno mai meno il Nostro consiglio, il Nostro aiuto e la Nostra autorità. – “È vecchio e nello stesso tempo ben noto il metodo degli eretici di isolare prima e poi scindere in fazioni quei cattolici che mirano ad opprimere con gli inganni, la paura, la violenza; poi incalzare Re e Principi con calunnie e lamentele, per procurarsi in tal modo il loro patrocinio e suscitare odio ed indignazione contro i cattolici. Essi agiscono con il massimo impegno per allontanare dall’unità e dalla comunione con la Sede Apostolica coloro che tentano di trarre dalla loro parte, per farseli poi complici di malvagità e perdizione. Per questo motivo, quando i fedeli siano turbati dall’eresia e dallo scisma, è da sempre consuetudine per i cattolici, e soprattutto per i Vescovi, implorare – come diceva il grande Basilio di Cesarea – la mano risanatrice del Pontefice Romano ed invocarne l’autorità; affinché, nella fermezza del Beato Pietro, Principe degli Apostoli, si consolidino le fondamenta della Chiesa Orientale. “Impegnati dunque, Venerabile Fratello; segui i precetti e gli esempi dei predecessori, che hanno pronunciato parole di vita; analizzando l’obiettivo del loro discorso, imitane la fede. Cristo è lo stesso ieri, oggi e nei secoli futuri; nessuno potrà sradicare ciò che Egli pose come fondamento della Chiesa, così come nessuno che voglia rimanere nel gregge del Signore potrà mai allontanarsi da Colui che Egli prepose come Pastore di tutti.
“Questo devi insegnare, e proclamare in Cristo Gesù; a questo attieniti e nessuno si approprierà della tua corona. Siamo invecchiati entrambi, Venerabile Fratello, ed è imminente la conclusione del nostro attendamento terreno; perciò diamoci da fare al massimo per compiere al meglio il nostro ministero; Tu nei confronti del popolo che, per Nostro tramite, Dio ti ha dato da governare; Noi nei confronti della Chiesa tutta che, con imperscrutabile scelta, Dio stesso ha affidato alla Nostra debolezza, perché la nutrissimo e la governassimo. E se ci capita di dover soffrire un po’ per questa causa, rallegriamoci ed esultiamo di essere ritenuti degni di sopportare qualche offesa nel nome del Signore e di guadagnare una mercede più copiosa in cielo. Noi preghiamo di ciò il Signore, Venerabile Fratello, per Te che abbiamo sempre trattato e trattiamo con sincero affetto, e per Noi; volendo aggiungere a ciò un nuovo pegno, a conferma della Nostra benevolenza, e desiderando andare incontro alle tue necessità spirituali, date le perturbazioni attuali della Chiesa Orientale, ad esse soccorriamo per quanto è necessario con il Nostro potere Apostolico e con la Nostra indulgenza, per mezzo di questa lettera.
“Mentre scrivevamo queste cose, abbiamo ricevuto da Te un’ulteriore lettera datata 16 settembre di quest’anno, e contemporaneamente un chirografo del Venerabile Fratello Simeone, Arcivescovo di Senhanen, firmato il primo dello stesso mese, per attestare la sua adesione alle Costituzioni del Sacro Concilio Vaticano; il che già aveva fatto il Venerabile Fratello Tommaso, Arcivescovo di Bassora, il 29 luglio di quest’anno. Di ciò ringraziamo i Venerabili Fratelli e Te, poiché tutti i Presuli del tuo patriarcato sono unanimi e insieme procedono nella casa del Signore; non soltanto nel chiuso del cuore coltivano questo consenso degli animi, ma lo dichiarano pubblicamente e solennemente; nulla più di questo è opportuno per impedire od estinguere gli scismi e per conservare la pace tra i fedeli.
“Il Dio stesso della pace Ti sorregga in ogni buon impegno e Ti doni la pace sempiterna; nel Suo nome e con la Sua autorità Noi impartiamo di cuore la Benedizione Apostolica a Te e a tutti i Vescovi, sacerdoti, monaci ed al fedele popolo del Patriarcato Babilonese che si mantengono in comunione ed obbedienza con la Sede Apostolica.
“Dato a Roma, presso San Pietro, il 14 novembre 1872, anno ventisettesimo del Nostro Pontificato”.
14. Nella risposta che diede a questa Nostra lettera, il Patriarca dichiarava con molte parole obbedienza e devozione nei Nostri confronti e verso questa Cattedra Apostolica di San Pietro e prometteva che si sarebbe pienamente impegnato affinché i fedeli del suo Patriarcato restassero immuni dagli errori del nuovo scisma Armeno, ed anzi lo detestassero dal più profondo del cuore. Di conseguenza Ci saremmo rallegrati che tutto fosse finito bene, se non Ci avesse offerto motivo di preoccupazione la reiterata richiesta dell’autorizzazione a mandare Vescovi del suo rito in Malabaria; per ottenerla, da un lato asseriva che non si era provveduto sufficientemente alle necessità di quella gente; dall’altro si sforzava di mettere avanti l’ansietà della sua coscienza, se non si fosse intervenuti sollecitamente. Dopo che l’argomento fu esaminato attentamente dalla citata Nostra Congregazione incaricata dei rapporti con i Riti Orientali, ricevuta la relazione Noi disponemmo che si rispondesse al Patriarca che Noi non potevamo essere d’accordo con le sue tesi a proposito della Malabaria. Infatti Ci risultava chiaro che esse non si sarebbero tradotte minimamente in beneficio per le anime; che da parte Nostra si era provveduto a sufficienza alla salvezza spirituale dei Malabarici; perciò si calmasse e deponesse ogni ansietà a questo proposito. Molti altri concetti vennero aggiunti in quella stessa risposta, per fortificare il suo animo, che sapevamo tentato dai suggerimenti dei malvagi, perseguitato dalle ingiurie, atterrito dalle minacce.
15. Ma poco dopo apparve chiaro quanto gli sforzi dei malvagi riescano a trascinare con sé un uomo, anche probo, quando il tempo li aiuti; in effetti, non avrebbero potuto desiderare nulla di più favorevole ai loro spregiudicati disegni. A quell’epoca infatti un nuovo scisma si era sviluppato fra gli Armeni, già era divampato e già tentava di trarre dalla propria parte ed ai propri perfidi progetti, anche controvoglia, le Chiese degli altri Riti Orientali, con lo scopo di perseguitare e depredare i cattolici. Così il 24 maggio 1874, nella solennità della Pentecoste, il Venerabile Fratello Patriarca Giuseppe osò offendere lo Spirito Santo. In quello stesso giorno infatti ebbe l’impudenza di elevare in modo sacrilego alla dignità episcopale due sacerdoti del suo rito, uno di nome Elia, l’altro Matteo; gli fecero da assistenti Elia Mello, Vescovo di Akra dei Caldei, ed Eliseo, Abate generale dei monaci di Sant’Ormisda. I due consacrati furono posti uno a capo della chiesa di Iezira, l’altro di quella di Amida, arbitrariamente e senza alcun fondamento. Lo impediva infatti la predetta Nostra Costituzione edita nel 1869. A quel punto, in spregio alle altre lettere ed ai decreti della Sede Apostolica, destinò Elia Mello come Vescovo in Malabaria; a trattenere questi dall’intraprendere il viaggio non valsero né il Nostro divieto, né la condanna della sospensione, annunciata da parte Nostra, nella quale sarebbe incorso ipso facto se avesse osato porsi in viaggio; tutto ciò gli era stato opportunamente comunicato.
16. Spinti dalla gravità e dalla frequenza di queste azioni scellerate, ordinammo che lo stesso Patriarca venisse pesantemente ammonito tramite il Nostro diletto figlio Alessandro Franchi, Cardinale di Santa Romana Chiesa al titolo di Santa Maria in Trastevere e Prefetto della ricordata Nostra Congregazione di Propaganda Fide per gli affari dei Riti Orientali. Questi inviò al Patriarca una lettera datata 27 agosto dello stesso anno, per richiamare alla sua memoria le disposizioni ed i divieti della Sede Apostolica. Le motivazioni con le quali egli s’era ingegnato di contestare tali provvedimenti erano da considerarsi confutate; disapprovato l’invio del citato Vescovo Mello in Malabaria; riprovata l’illegittima consacrazione dei due Vescovi (l’elezione di costoro era dichiarata nulla e priva assolutamente di qualunque effetto); agli stessi veniva interdetto l’esercizio di qualunque attività d’ordine episcopale. Al Patriarca veniva ordinato espressamente di richiamare personalmente il Vescovo Mello dalla Malabaria e gli altri dalle Diocesi nelle quali erano stati da lui introdotti, e di rendere conto dei suoi atti; se non l’avesse fatto entro un lasso di tempo stabilito, il Sommo Pontefice, per quanto a malincuore, avrebbe dovuto applicare nei suoi confronti le pene canoniche. Allo stesso modo furono ammoniti, per Nostra disposizione, i due sacerdoti Matteo ed Elia; fu resa loro nota la nullità della loro elezione, vietato l’esercizio dei pontificali, ordinato l’allontanamento dalle Diocesi che avevano occupato, minacciati di pene ecclesiastiche se non avessero obbedito. A questo punto dovevano essere ammoniti coloro che erano stati partecipi della consacrazione sacrilega. Dio tolse di mezzo l’abate Eliseo: questi infatti morì non molto tempo dopo, senza aver dato alcun segno di pentimento. Il Vescovo Mello, non appena arrivato in Malabaria, fu solennemente scomunicato dal Venerabile Fratello Leonardo, Arcivescovo di Nicomedia, Vicario Apostolico di Verapolis, in forza dell’autorità che gli avevamo conferito con la lettera inviatagli il 1° agosto 1874, che comincia Speculatores: una volta insediatosi, Mello fu ammonito canonicamente di andarsene, ma rifiutò di obbedire.
17. La risposta del Patriarca , fattasi aspettare a lungo, Ci dimostrò a sufficienza che egli non voleva attenersi alle Nostre disposizioni; tutto in essa tendeva ad asseverare l’integrità della sua fede e a garantire la sua devozione e sottomissione verso la Cattedra Apostolica del Beato Pietro, ma intanto egli proteggeva i suoi pretesi diritti patriarcali; e premeva perché gli permettessimo di goderli liberamente, revocando ciò che la Sede Apostolica aveva decretato per il Malabar e l’elezione dei Vescovi. Alla fine, ricordando la canizie della propria età e le fatiche sopportate, Ci incitava ad aver pietà di lui e della sua gente. Nel frattempo però non modificava la posizione né i comportamenti temerari, ché anzi non esitò a consacrare Vescovi arbitrariamente e sacrilegamente altri due sacerdoti del suo Rito, Ciriaco e Filippo Giacomo (destinando uno dei due alla diocesi di Zaku, l’altro all’India), con l’assistenza e la cooperazione all’empia consacrazione del Vescovo Tommaso Rokos e di Matteo, precedentemente consacrato in modo sacrilego dallo stesso Patriarca. A questo punto Noi Ci rattristammo terribilmente, considerando come si era ridotto miseramente, spinto dai suggerimenti dei malvagi, lo stesso Venerabile Fratello Patriarca Giuseppe, che un tempo si era mostrato sostenitore strenuo della fede cattolica e dell’unità. Riflettendo inoltre che la misericordia non deve essere remissiva, ma giusta; che se una colpa viene cancellata sconsideratamente, colui che è colpevole potrebbe esser trascinato più pesantemente nel reato; che non sarebbe misericordia ma segno di torpore e debolezza essere indulgenti in qualcosa che soddisfacesse alla voglia di uno o più, ma che poi risultasse dannosa e mortale per la salvezza di molti, ritenemmo che al Patriarca dovesse essere mandata un’altra lettera, nella quale – volendo mantenere contemporaneamente misericordia e discernimento – abbiamo ricostruito per sommi capi tutto ciò che da lui era stato e veniva erroneamente compiuto; abbiamo voluto rendergli evidente l’inconsistenza delle motivazioni con le quali egli tentava di giustificarsi, e di nuovo ammonirlo affinché obbedisse, almeno stavolta, alle disposizioni Apostoliche, com’era suo dovere; se non l’avesse fatto alla svelta, denunciavamo che Noi non Ci potevamo astenere dal seguire le orme dei Nostri Predecessori, che in caso di necessità non trascurarono di colpire anche i vecchi Patriarchi con la scomunica e persino con la deposizione. Con questo orientamento, il 15 settembre 1875 gli mandammo la seguente lettera monitoria.
Al Venerabile Fratello Giuseppe, Patriarca Babilonese dei Caldei.
Il Papa Pio IX. Venerabile Fratello, salute e Apostolica Benedizione.
18. “La risposta che tu hai fornito il 20 febbraio di quest’anno alla lettera monitoria che su Nostro comando e con la Nostra autorità ti è stata inviata dalla Nostra Congregazione di Propaganda Fide per gli affari di Rito Orientale Ci ha riempito di dolore e tristezza. Da essa infatti abbiamo capito fino a che punto il tuo cuore sia lontano da Noi, anche se Ci onori a parole, poiché dichiari che non puoi eseguire ciò che per lettera ti è stato trasmesso in Nostro nome e per Nostro volere. Se rifiuterai di obbedire alle predette ammonizioni e confermerai questa tua disubbidienza con ulteriori azioni sacrileghe, questo solo Ci rimarrebbe da fare: seguendo le regole ecclesiastiche e le norme istituite dai Santi Padri, colpirti, come è giusto, con le censure canoniche. Riflettendo però che in altri tempi tu hai professato (e anche per lettera continui a professare) la fede cattolica e il dovuto ossequio verso questa Sede Apostolica e che un tempo hai comprovato ciò con i fatti, abbiamo preferito ritenere che tu sia stato ingannato dagli astutissimi cavilli dei neo-eretici, mediante i quali si tenta di conciliare la riverenza con la disubbidienza che ti ha fatto venir meno, in effetti, ai tuoi convincimenti cattolici.
Si deve dire che le Encicliche siano infallibili? Questa, come abbiamo visto, è la domanda che ancora divide i teologi e alla quale ci siamo posti il compito di dare una risposta. Il Concilio Vaticano, nel definire l’infallibilità papale, può aver contribuito a semplificare i termini del problema, ma non ha, ahimè, indirizzato le menti verso la sua soluzione definitiva. – I Cattolici hanno avuto la loro attenzione concentrata, per così dire, sull’affermazione solenne di questo privilegio unico. Li induceva in una tentazione di dividere gli Atti della Santa Sede in due classi: le definizioni, che erano riconosciute come infallibili, e gli altri documenti che erano invece esclusi dal beneficio dell’infallibilità. In quale di queste due categorie vanno collocate le Encicliche? Tutto il problema della loro autorità è stato troppo spesso ridotto a questa formula apparentemente molto chiara, ma che in realtà porta a un vicolo cieco. Limitare il tentativo di un’identificazione tra le Encicliche e le definizioni, era certamente una soluzione allettante per la sua stessa semplicità e per l’autorità che assicurava alle lettere papali; ma questo non era tuttavia senza pericolo. Se i teologi non potessero riconoscerne la validità, quale titolo proporrebbero per stabilire l’ineguagliabile autorità che i Pontefici rivendicano per le loro Encicliche? Senza dubbio alcuni autori, seguendo il card. Billot e l’arcivescovo Perriot, si sforzerebbero di estendere la portata della definizione vaticana, al di là dei giudizi dogmatici, ad altri atti pontifici, tra i quali comprenderebbero le Encicliche (BILLOT, Tractat. de Ecclesia Christi, Romæ 1921, Tom. I, p. 632. – PERRIOT, L’Ami du Clergé, 1903, pp. 196 e 200). La maggior parte dei teologi, tuttavia, non credevano che il testo conciliare fosse suscettibile di un’interpretazione così ampia. Di conseguenza, essi furono indotti a negare alle Encicliche il privilegio dell’infallibilità, e a contentarsi di rivendicare per esse, con un’autorità dello stesso ordine di quella dei decreti delle Congregazioni, il diritto all’obbedienza totale da parte dei Cattolici (Per esempio, L. CHOUPIN, S. J. Valore delle decisioni dottrinali e disciplinari della Santa-Sede. Parigi, 1929, p. 50 e seguenti e gli autori citati ibid.) Questa posizione salvaguardava il principio della piena sovranità pontificia; tuttavia, se ne vede l’insufficienza: anche con tale autorità, le Encicliche, senza essere infallibili, potevano conservare il carattere di regola di fede e di autentica fonte di dottrina, universalmente riconosciuto nelle lettere dei primi Papi, e ancora affermato per le loro Encicliche dai Pontefici contemporanei? (Per esempio Pio IX, Quanta Cura: “Noi vogliamo e ordiniamo che tutti i figli della Chiesa Cattolica ritengano come reprobi, proscritte e condannate, ognuna delle opinioni e dottrine malvagie descritte nelle lettere precedenti. Lettere apostoliche di Pio IX, Gregorio XVI, Pio VII (Bonne Presse), p. 13. – LEONE XIII, Immortale Dei: « Se i Cattolici ci ascoltano come dovrebbero, saprebbero esattamente cosa devono pensare e fare. In teoria, prima di tutto, in opinando quidem è necessario attenersi con incrollabile aderenza a tutto ciò che i Romani Pontefici hanno insegnato e insegneranno, e ogni volta che le circostanze lo richiedano, farne pubblica professione ». B. P., vol. II, p. 54. Pio XI a sua volta, Mortalium animos, dà le Encicliche come « una regola di pensiero e di azione per i Cattolici, unde catholici accipiant quid sibi sentiendum agendumque ». B. P. IV, 87). La risposta dei teologi moderni, lasciando aperto il problema essenziale, è stata solo una infelice ritirata, le cui conseguenze non si sono fatte attendere. – Né infallibile né irreformabile, l’Enciclica non potrebbe essere oggetto di revisione da parte dal Papa stesso? Le menti preoccupate porrebbero la domanda, e andrebbero anche oltre: un’Enciclica ostacolerebbe lo sviluppo di una tesi audace, metterebbe in questa revisione possibile, attesa, tutta la loro speranza o anticiperebbero addirittura questo intervento dichiarando l’Enciclica “superata” e collocandola, con tutto il rispetto dovuto al suo rango, nell’archivio delle “questioni chiuse senza conseguenze“. « Mio giovane amico – disse una persona grave ad un sacerdote che si riferiva a una Lettera di Pio X – quando avrai un po’ di esperienza, vedrai… un’Enciclica, dopo venti anni… » (Queste righe erano già state pubblicate quando Pio XII, nella sua Allocuzione del 18 settembre 1951 ai Padri di Famiglia francesi, affermava: « Gli stessi principi che nella sua Enciclica Divini illius Magistri, il nostro predecessore Pio XI ha così saggiamente evidenziato, riguardo all’educazione sessuale e alle questioni connesse, sono – triste segno dei tempi! – congedati con un gesto della mano o un sorriso: Pio XI, si dice, l’ha scritto venti anni fa, per il suo tempo. Da allora, abbiamo fatto molta strada. » – Doc. Cath. t. 48, col. 1285, 1286). – Dal punto di vista dei nostri autori, come possiamo rispondere? Poiché, infatti, se solo le definizioni sono infallibili e se le Encicliche non sono definizioni, come si può concedere loro il privilegio dell’infallibilità? E se non sono infallibili, ma al contrario suscettibili di errore, come si può proibire che un giorno, forse molto presto, siano messe in discussione? Con una tale problematica così sommaria, siamo alla stretta finale. Ma non è proprio questo il problema che richiederebbe una revisione? Quanti esempi ci sono in teologia di problemi apparentemente irrisolvibili, semplicemente perché partono da domande mal poste! – Invece di aggiungere un altro fardello ad un dossier già pesante, vorremmo provare a rivisitare il punto di partenza stesso del dibattito, con l’aiuto dei risultati della nostra inchiesta e della luce recentemente gettata dall’Enciclica Humani Generis. Alla domanda così posta: le Encicliche sono definizioni infallibili? … ci permetteremo di sostituirne altre due: Le Encicliche possono contenere definizioni? – Le Encicliche, anche se non contengono giudizi dogmatici, possono ancora partecipare al privilegio dell’infallibilità nel loro insegnamento ordinario? – Al problema, così precisato, sarà forse più facile dare infine una risposta.
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C’è da meravigliarsi se i teologi non hanno ritenuto possibile identificare Encicliche e definizioni? Per capire la loro esitazione, basta confrontare questi due tipi di documenti. La Definizione, come il Giudizio Dogmatico, è un atto preciso del Sommo Pontefice, con il quale egli afferma, impegnando irrevocabilmente la sua suprema Autorità, che una verità è vincolante per i Cristiani (« Requiritur intentio manifesta definiendi doctrinam dandodefinitivam sententiam et doctrinam illam proponendo tenendam ab Ecclesia universali. » Collectio lacensis, t. VII Acta et décréta SS. Concilîi Vaticani – Relazione di Mons. GASSER – Col. 414, 2° – Citiamo d’ora in poi, Coll. Lac.). Se nelle Costituzioni che, il più delle volte, le promulgano, esse sono precedute o seguite da lunghe considerazioni, le definizioni stesse sono solitamente contenute in poche righe e hanno tutta la precisione di un testo giuridico. (Per esempio, la definizione dell’Assunzione della Madonna: « Perciò, dopo aver rivolto incessanti e supplichevoli preghiere a Dio e aver invocato le luci dello Spirito di Verità, per la Gloria di Dio Onnipotente che ha profuso la sua particolare benevolenza sulla Vergine Maria, per l’onore di suo Figlio, il Re immortale dei secoli e il vincitore della morte e del peccato, per aumentare la gloria della Sua augusta Madre e per la gioia e l’esultanza di tutta la Chiesa, per l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei beati Apostoli Pietro e Paolo e per la Nostra, Noi proclamiamo, dichiariamo e definiamo che è un dogma divinamente rivelato che Maria, l’Immacolata Madre di Dio, sempre Vergine, alla fine della sua vita terrena, è stata innalzata in anima e corpo alla gloria celeste. » Questo è il testo della definizione stessa, che occupa appena un terzo di una colonna della Documentation Catholique, t. XLVII, col. 1486; la Costituzione stessa è inserita in tredici colonne intere). – L’Enciclica, come abbiamo già visto, ha tutte le caratteristiche di una lettera, in cui il Sommo Pontefice affronta i problemi dottrinali nei toni più vari, assumendo talvolta la forma di un’esortazione, talvolta di un rimprovero, spesso di un’ampia esposizione teologica, eccezionalmente quella di un giudizio. – Le Encicliche non sono dunque delle definizioni; ma possono almeno contenerle? Messa in questi termini, sembra che il problema non possa che avere oggi una risposta affermativa. Le esitazioni che erano sorte in passato avevano il loro punto di partenza nel carattere imperativo delle definizioni, che erano vere leggi per la fede dei fedeli, e che era normale cercare in testi legislativi come quelli delle Costituzioni Apostoliche o “Decreta”, circondati da tutte le garanzie di forma, e oggetto di autentica promulgazione. (Cfr. Analecta juris pontificii, 1878, “La promulgation des lois“, col. 333-336. Molto recentemente nello stesso senso, R. NAZ., Dict. De Droit Canon., « Encyclical »: « Il Papa non sceglie la via dell’Enciclica per dare definizioni dogmatiche »). Questo argomento aveva già perso molto della sua forza dopo l’istituzione da parte di Pio X di un nuovo modo di promulgazione per i documenti romani, la loro iscrizione nella rivista ufficiale della Santa Sede, gli Acta Apostolicæ Sedis (Costituzione Promulgandi del 29 settembre 1908). Sappiamo che le Encicliche sono in primo piano negli Acta Apostolicæ Sedis, così come le Costituzioni e i Decreti. Non è più possibile arguire che per il fatto di non essere promulgate, si possa rifiutare il riconoscimento delle definizioni. Questo pretesto è mai stato valido? Senza dubbio, la Costituzione o il Decreto è lo strumento normale di una decisione vincolante, ma è lo strumento necessario, almeno quando si tratta di una sentenza del Papa stesso? Il relatore della Commissione della Fede al Concilio Vaticano già sottolineava che nessuna autorità al mondo, nemmeno quella di un Concilio ecumenico, potrebbe imporre al supremo Legislatore della Chiesa il metodo che debba usare per far conoscere le sue definizioni (cf. Col. Lac, col. 401-d, dove il relatore mostra che è impossibile per l’assemblea conciliare imporre la forma delle sue definizioni al Papa, senza cadere nell’errore che sostiene la superiorità del Concilio sul Papa. – La definizione dell’Assunzione è senza dubbio inscritta in una Costituzione dogmatica, ma era già pienamente valida prima della promulgazione di quest’ultima, dal momento in cui fu pronunciata oralmente dal Papa). « Di fatto e di diritto – scrive P. Pègues – non esiste una formula determinata che sia prescritta e necessaria. » (PÈGUES, O. P. L’Autoritè des Encycliques pontificales d’après S. Thomas, Revue Thomiste, 1904, p. 529. Vedi nello stesso senso il testo di GRÉGOIRE XVI citato qui sotto). Chi prova troppo non prova niente. Se l’argomento fosse stato impeccabile, avrebbe escluso dalle Encicliche, insieme alle definizioni, ogni decisione strettamente normativa. Ora, anche i teologi che rifiutano di riconoscere in esse delle definizioni hanno ammesso il carattere obbligatorio delle sentenze pontificie contenute nelle Encicliche. (Cfr. L. CHOUPIN, loc. cit.), e Pio XII nella Humani Generis, diede loro una conferma eclatante su questo punto (« Quodsi Summi Pontifices, in actibus suis de re hactenus controversa, data opera sententiam ferunt, omnibus patet, rem illam, secundum mentem ac voluntatem eorumdem Pontificum, quæstionem liberæ inter theologos disceptationis jam haberi non posse »). – Non c’è dubbio, quindi, che le Encicliche contengano giudizi dogmatici che devono essere imposti all’assenso dei fedeli. Affinché queste frasi siano riconosciute come vere definizioni, è solo necessario che soddisfino le condizioni specificate dal Concilio: « l’oggetto della definizione deve essere una questione di fede o di morale, il Sovrano Pontefice deve esercitare il suo ruolo di Dottore e Pastore universale, infine, l’atto stesso deve essere una sentenza senza appello » (« definimus; Romanum Pontificem, cum ex cathedra loquitur, id est, cum omnium Christianorum Pastoris et Doctoris munere fungens pro suprema sua Apostolica auctoritate doctrinam de fide vel moribus ab universa Ecclesia tenendam définit, per assistentiam divinam, ipsi in beato Petro promissam ea infallibilitate pollere, qua divinus Redemptor Ecctesiam suam in definenda doctrina de fide vel moribus instructam esse voluit; ideoqne eiusmodi Romani Pontificis definitiones ex sese, non autem ex consensu Ecclesiæ irreformabile esse. » Sess. 4, cap. 4, D B. 1839). « lnfallibilitas Romani Pontificis restricta est ratione subjecti, quando Papa loquitur tanquam doctor universalis et judex snpremns in cathedra Petri, id est, in centro, constitutus; restricta est ratione objecti, quando agitar de rebus fidei et morum; et ratione actus, quando définit quid sit credendum vel reiiciendum ab omnibus Christifidelibus » Relazione di Mons. GASSCH ai Padri del Concilio Vaticano sulle proposte di correzione del Vaticano, sulle correzioni proposte al Cap. IV delle Cost. de Ecclesia. Coll. lac, t. VII, col. 401 a.). – Fede e morale, il dominio delle definizioni, è anche, come abbiamo visto, quello delle encicliche (« ad catholicam fidem custodiendam, morumque disciplinam aut servandam aut restaurandam », Benedicti XIV Bullarium, p. IV). – Forse sarà utile ricordarlo per evitare malintesi molto frequenti, che la materia dottrinale e morale in cui si esercita il supremo Magistero non si limita alle verità formalmente rivelate, ma comporta inoltre, con tutte le prescrizioni della legge naturale (che appartiene anch’essa alla morale), ogni verità in stretta connessione della fede, che si rivela necessaria alla conservazione fedele del deposito rivelato. (Questa estensione del magistero, affermata da Pio IX nella sua lettera Tuas libenter del 21 dicembre 1863, è stata nuovamente affermata dal Concilio Vaticano alla fine della Costituzione Dei Filius: « Quoniam vero satis non est hæreticam pravitatem devitare nisi ii quoque errores diligenter fugiantur qui ad illam plus minusve accedunt, omnes officii monemus, servanai etiam constitutiones et decreta quibus pravæ hujusmodi opiniones quae isthic diserte non enumerantur ab hac sancta sede proscriptæ et prohibitæ sunt. » Const, de Fide Cath, post canones, DB. n° 1820. – Non c’è dubbio che le Encicliche siano inserite tra le Costituzioni, documenti maggiori della Santa Sede, e i semplici Decreti. – Cfr. J. C. FENTON, The doctrinal Authority of Papal Encyclicals, in The American Ecclesiastical Review, agosto 1949, p. 145. Fu per riservare questa estensione dell’oggetto del Magistero che furono scelti i termini della definizione dell’infallibilità del Papa nella Cost. Pastor æternus. Cfr. relazione GASSER, Col. lac. col. 415 e 575. Troppo spesso dimenticata, questa dottrina dovette essere oggetto di frequenti richiami, ad esempio, Decreto Lamentabili, prop. 5 – Pio XI, Casti connubii, Atti di Pio XI, B.P., VI, 307′, – Quadragesimo anno ibid. VII, 111, e molto recentemente Humani Generis di PIO XII, che riproduce il testo della Constit. Dei Filius, succitata). – La seconda condizione richiesta per una definizione non può mancare nemmeno nelle Encicliche, dove il Papa si esprime come Dottore universale, sia quando si rivolge solo ai Vescovi, per raggiungere tutto il gregge attraverso di loro, sia quando gli stessi fedeli siano inclusi tra i destinatari. Non mancano esempi in cui i Papi hanno esplicitamente rivendicato questo titolo nelle loro Encicliche (Pro Christi in terris vicarii ac supremi Pastoris et Magistri munere. Nostrum esse duximus Apostolicam attollere vocem…”. Casti connubi, B. P. VI, 245. Vedi altri esempi sopra). – Solo la terza condizione deve essere esaminata da vicino. È necessario, chiede il Concilio, che il Papa definisca, cioè intenda pronunciarsi con un giudizio inappellabile (Cfr. relazione di Mons. GASSER: « Vox définit significat, quod Papa suam sententiam… directe et terminative proférât, ita ut jam unusquisque fidelium certus esse possit de mente Sedis apostolices, de mente Romani Pontificis; ita quidem, ut certo sciat a Romano Pontifice hanc vel illam doctrinam haberi hæreticam, hæresi proximam, certam vel erroneam, etc…». Col. lac, col. 474-d, e 475-a.). – Questa intenzione, per creare un obbligo rigoroso per la fede, deve apparire chiaramente e non deve essere presupposta, soprattutto in una Lettera come l’Enciclica che, per sua natura, non è espressiva di questa intenzione. – Ascoltiamo Gregorio XVI nella sua opera « Il Trionfo della Santa Sede »: « Poiché l’uso costante della Chiesa e dei Pontefici consacra certe formule per indicare inequivocabilmente a tutta la cristianità il giudizio supremo e definitivo… ne consegue che se il Papa trascura queste formule e non esprime chiaramente che, nonostante questa omissione, intende e vuole definirsi giudice supremo della fede, si deve credere che non abbia reso il suo giudizio in questa veste (Il Trionfo della Santa Sede, Venezia, 1838, cap. XXIV, p. 558. – Tradotto da Analecta Juris Pontif. loc. cit., col. 344-345. Cfr. la relazione di Mons. GASSER: « verum hanc proprietatem ipsam et notant definitionis propri dictæ aliquatenus saltem etiam débet exprimere, cum doctrinam ab universali Ecclesia tenendam définit », coll. lac, col. 414-c. – Vedi anche HOUPIN, op. cit. p. 26: « È quando il Papa definisce, cioè quando decide definitivamente e con l’intenzione formale di chiudere tutte le discussioni o di impedirle, è allora e solo allora che è infallibile e che la sua decisione è vincolante per tutti, come articolo di fede »). Tuttavia, il significato del termine “solenne“, che è generalmente usato per designare le sentenze definitive, non deve essere frainteso. (Ha lo stesso significato nel termine “professione solenne”.) Il Papa – osserva giustamente il signor Chavasse – non è infallibile solo quando parla in circostanze solenni, come per esempio nella definizione del dogma dell’Immacolata Concezione, ma può esserlo in circostanze meno solenni; non è infatti secondo l’apparato esterno degli interventi che si deve giudicare della loro infallibilità (A. CHAVASSE. La Véritable conception de l’infaillibilité papale, in Eglise et Unité, Lille, 1948, p. 81). – Basta – affermava già il padre Pègues – che nel modo di esprimersi, qualunque sia la formula che vorrà usare, il Papa designi chiaramente la sua intenzione di risolvere definitivamente il dibattito, di fissare irrevocabilmente un punto di dottrina (L’autorité doctrinale des Encycliques Pontificales d’après S. Thomas, “Revue Thomiste”, 1904, p. 529). – Inoltre, nel suo eccellente articolo nel Dictionnaire deThéologie Catholique, M. Mangenot ha potuto scrivere: Il Papa potrebbe, se volesse, inserire delle definizioni nelle Encicliche (D. T. C. art. Encicliche cfr. PÈGUES, loc. cit. p. 531: “La definizione solenne può… essere comunicata al mondo cattolico per mezzo di un’enciclica“). Ma perché il condizionale, quando ci sono esempi già noti di definizioni in semplici Encicliche? Per citare solo una delle lettere papali di un tempo, la condanna di Pelagio da parte di Innocenzo I è ben considerata come una sentenza ex cathedra; tuttavia la leggiamo in una lettera ai Vescovi d’Africa, sorella maggiore delle nostre Encicliche (Epis. 29. In requirendis del 27.1.417: “Innocentius Aurelio et omnibus sanctis episcopis (seguono i nomi di 69 Vescovi), et ceteris qui in Carthaginensi concilio adfuerunt, dilectissimis fratribus in omino satutem“. P. L. 20-582). – Le cadette, non potrebbero contenerne, quando Benedetto XIV, e dopo di lui Pio VII, le presentano come i le fedeli continuatrici dei loro predecessori? (Benedetto XIV, « Veterem prædecessorum nostrorum… consuetudinem revocandam duximus . » Bullarium, p. IV. – PIE VII, « Dobbiamo infine obbedire, non tanto a un’usanza che risale ai tempi più remoti… quanto a una… » Diu satis. BP, p. 249. – La condanna di Lamennais,in Singulari nos, di GREGORIO XVI, sembra avere le caratteristiche di una definizione ex cathedra. La questione è stata discussa per Quanta Cura di PIO IX; è da notare però che il carattere di definizione per le condanne che portava era riconosciuto implicitamente; è da notare, tuttavia, che il carattere di definizione per le condanne che conteneva era implicitamente riconosciuto da coloro che, per negarlo al Sillabo, si sforzavano di mostrare che i due documenti non erano collegati. – Alcuni teologi hanno visto nella Pascendi di Pio X una definizione. Forse si potrebbe citare anche Casti connubii, dove le parole usate per introdurre l’affermazione della dottrina cristiana del matrimonio sono eccezionalmente solenni. « Pro Christi in terris Vicarii ac Supremi Pastoris et Magistri munere, Nostrum esse duximus Apostolicam attollere vocem… Ecclesia Catholicain signum legationes suæ divinæ, altam per os Nostrum extollit vocem atque denuo promulgat… » B.P. VI. 245 e 276). – Quando, in un’Enciclica, il Papa impone una dottrina, indicando chiaramente la sua intenzione di pronunciare una sentenza definitiva, non c’è più alcun dubbio che in gioco ci sia l’infallibilità. Ci troviamo in presenza dell’autentica Regola di Fede. Anche se questa intenzione di definire è assente dalla sentenza pontificia, né i teologi né i fedeli possono sottrarsi al dovere dell’obbedienza e chi rifiutasse l’assenso interiore non potrebbe evitare la nota di temerità (« È chiaro che un tale atteggiamento sarebbe avventato e contrario all’obbedienza e alla prudenza. » C. VAN GESTEL, O.P. Introduzione all’insegnamento sociale della Chiesa, trans. Bourgy, p. 31. – Cfr. CHOUPÎN, op. cit. p. 50 – ss. PIO XI, Casti connubii. B.P. VI, 308). – Avendo Roma pronunciato, ogni controversia è d’ora in poi proibita. Ascoltiamo i Vescovi di questa chiesa che amava definirsi “gallicana” e che non può essere sospettata di sopravvalutare l’autorità dei documenti papali. Senza dubbio, nelle rimostranze indirizzate al Re dall’Assemblea del Clero nel 1755, non è ancora un’Enciclica che è in questione. (Ma la Costituzione Unigénitas, che i parlamenti rifiutarono di ricevere, proibì che fosse riconosciuta come “Regola di Fede“). Pertanto, accettando come terreno di discussione la posizione degli oppositori che, per sottrarsi all’autorità dottrinale di un atto della Santa Sede, cercavano già di contestarlo, la posizione della Chiesa veniva messa in discussione per una questione di forma, i prelati diedero ai loro argomenti una portata sufficientemente ampia da poter essere applicata a quei giudizi pontifici che non erano definizioni in senso proprio. « Non ci si rende conto – fanno notare a Luigi XV – che si attacca di petto la saggezza e l’autorità della Chiesa… che si contraddice M. Bossuet che dichiara che le condanne generali erano utilmente praticate nella Chiesa, per dare come un primo colpo agli errori incipienti, e spesso anche l’ultimo, secondo l’esigenza dei casi e il grado di ostinazione che si trova negli spiriti (Second écrit ou Mémoire de M. l’Eveque de Meaux, pour répondre à plusieurs Lettres de M. l’Archevêque de Cambrât Nouvelle édition des Œuvres de M. Bossuet, in-4°, tom. 6, p. 304), che si disconoscono infine i diversi usi che la Chiesa può fare della sua autorità in materia di dottrina. A volte Essa elabora dei Simboli che definiscono verità rivelate, a volte emette giudizi che condannano e riprovano: Essa può mettere in entrambi i casi lo stesso grado di precisione, dichiarare ciò che è eretico, come insegnare ciò che appartiene alla Fede; ma può anche, secondo la prudenza e la necessità dei suoi figli, limitarsi a una censura più generale, condannare i Libri, senza estrarre da essi alcuna proposizione condannabile, proscrivere delle proposizioni senza qualificarle nel dettaglio; Essa può allora giudicare che sia sufficiente che i suoi figli sappiano ciò che non devono credere, come si esprime S. Agostino. Chi può negare che questa conoscenza non sia benefica per i fedeli? E chi può sostenere che abbiano il diritto di chiedere alla Chiesa che faccia loro apprendere di più? Quanti esempi si potrebbero citare di leggi che non spiegano le ragioni particolari dei divieti che si pronunciano? E se si risponde che in questi esempi l’obbedienza consista nell’astenersi esteriormente dalle azioni proibite, si sta dicendo il vero, per quanto riguarda le leggi che un’autorità puramente umana ha portato; ma i giudizi, dettati dallo Spirito di verità catturano la mente arrestando la mano; e quando la Chiesa comanda ai suoi figli di considerare delle proposizioni dottrinali come tanti veleni nocivi alla loro Fede, una sottomissione interiore può solo garantirli dal pericolo di cui li si avverte (Raccolta dei Processi Verbali delle Assemblee Generali del Clero di Francia, Parigi 1778, t. VIII, 1″ parte. Pièces justificatives: “Remontrances au Roi concernant les refus des Sacrements“, col. 168.). Senza dubbio lo scrittore delle Rimostranze insisterà un po’ troppo, in seguito, sull’autorità supplementare che l’accettazione dei Vescovi aggiungerebbe, secondo lui, alle sentenze pontificie; non di meno il carattere decisivo di quelle è affermato con un’eloquenza degna di colui che è stato appena chiamato “Monsieur Bossuet”, e una chiarezza che due secoli dopo, l’Enciclica Humani generis lo ripeterà solo, ma questa volta in una formula altrimenti concisa. – Se i Papi si pronunciano espressamente nelle loro Encicliche un giudizio su una questione fino ad allora controversa, tutti capiscono che tale questione, nel pensiero e nella volontà dei Pontefici, non è più da considerare come una questione libera tra i teologi (B.P. p. 10. Esempi di ciò si trovano negli anni successivi alla ripresa delle Encicliche da parte di Benedetto XIV. Vix pervertit ai Vescovi d’Italia, 1-11-1745. Ex omnibus ai Vescovi di Francia, 16-10- 1756. Anche la lettera di Leone XIII sulle ordinazioni anglicane risolve categoricamente il dibattito. Abbiamo su questa intenzione del Papa l’espressa affermazione dello stesso Leone XIII nella sua lettera del 5-11-96 al card. Richard (Acta Sanctæ Sedis, vol. XXXIX, p. 664). Un testo del Card. RICHARD interpreta la Lettera Apostolica Testem Benevolentiæ nello stesso senso, testimonianza che J. C. FENTON (art. citato, p. 215) autorizza a vedere in questo documento pontificio come una definizione ex cathedra).
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L’eventuale presenza di definizioni nelle Encicliche, se già ci invita ad una lettura attenta, porta però solo una soluzione molto parziale al problema dell’autorità delle Lettere Pontificie, dove le Sentenze solenni appaiono solo come un’eccezione. L’insegnamento enciclicale appartiene normalmente al Magistero ordinario (“Magisterio ordinario hæc docentur…” Humani Generis), che può essere esercitato attraverso decisioni dottrinali sulle quali il Papa non intende impegnarsi irrevocabilmente, e che più comunemente assume la forma di un semplice richiamo (plerumque affirma – Humani Generis), o una dichiarazione ampia e dettagliata della dottrina già ricevuta nella Chiesa. È dunque in relazione a questo insegnamento ordinario che si porrà la questione, se vogliamo soprattutto definire la portata dottrinale delle Encicliche, il problema della loro infallibilità. – Abbiamo già esposto questo problema in questo modo: al di là delle definizioni che possano contenere, si può ancora parlare di infallibilità per l’insegnamento dato dalle Lettere Pontificie? La domanda, bisogna ammetterlo, sembra aver colto di sorpresa i teologi contemporanei, che hanno dato, un po’ frettolosamente sembra, le risposte più contraddittorie. Mentre i più astuti erano cautamente riservati (per esempio H. T. HURSTON, Enciclopedia Cattolica, art. Enciclica, che traduciamo: « È generalmente riconosciuto che il solo fatto che il Papa dia a un suo insegnamento la forma di un’Enciclica non la costituisce necessariamente come una locutio ex cathedra e non la investe di autorità infallibile. Il grado di coinvolgimento del Magistero della Santa Sede deve essere giudicato secondo le circostanze e il modo di espressione usato in ogni caso »), qualcun altro ha pensato di poter autorizzare una soluzione chiaramente affermativa da parte del Concilio Vaticano (es. DUBLAMCH, D. T. C. l’Infallibilità del Papa, col. 1705: « Poiché, secondo il decreto del Concilio Vaticano, il Papa possiede l’infallibilità data da Gesù alla sua Chiesa, e che per la Chiesa questa infallibilità può estendersi agli atti del Magistero Ordinario… si deve affermare che il Papa, insegnando da solo, in virtù del suo Magistero Ordinario, è infallibile nella stessa misura e alle stesse condizioni. » – MANOENOT, D. T. C. Enciclica: “Il privilegio dell’infallibilità si trova in quegli atti del Magistero Ordinario”), cosa che altri respinsero senza ulteriori qualificazioni: « Non bisogna dimenticare – scrisse uno di questi ultimi – che accanto al Magistero straordinario del Sommo Pontefice che si esercita con definizioni infallibili, c’è posto per un Magistero Ordinario che non gode di infallibilità (J. VILLAIN, S. J. t L’étude des Encycliques, in Les Etudes du prêtre d’aujourd’hui” Parigi, 1945, p. 187. – Vedi anche CHAVASSE, loc. cit, p. 80: “Le condizioni poste dal Concilio per l’infallibilità papale sono formalmente restrittive: il Papa è personalmente infallibile solo quando parla ex cathedra“). – Queste divergenze, tuttavia, possono essere spiegate. Erano inevitabili quando la gente insisteva nel chiedere al Concilio Vaticano una soluzione che non aveva intenzione di dare. Senza dubbio la Costituzione Pastor æternus aveva definito l’infallibilità personale del Papa, ma affermava il privilegio solo per le sentenze solenni. Taceva sul Magistero Ordinario. Questo, è vero, era stato espressamente riconosciuto come Regola dalla Costituzione Dei Filius, ma era stata aggiunta una parola: “Magistero Ordinario e Universale“, con l’intenzione, come sappiamo, di lasciare aperta la questione dell’infallibilità personale del Sommo Pontefice. ( « Ratio enim quare optamus ut haec vox universali apponatur voci magisterio, textus nostri, hæc est ut scilicet ne quis putet nos loqai hoc loco de Magisterio infallibili S. Sedis apostolicæ… Nullatenus ea fuit intentio Deputationis, hanc quæstionem de infallibilitate summi Pontifias, sive directe, sive indirecte tangere…» Relazione del vescovo MARTIN, Col. lac. col. 176). – Se era impossibile, senza chiedere ai testi del Concilio, leggere in essi una risposta affermativa, non era più legittimo basare su di essi una negazione. La Costituzione Dei Filius, introducendo nel suo testo la parola universale, aveva rifiutato di risolvere la questione dell’infallibilità personale del Sommo Pontefice, ma non intendeva escluderlo. La definizione di questa stessa infallibilità nella Costituzione Pastor aeternus era espressamente limitata alle sentenze solenni, ma non era “formalmente restrittiva” (È senza dubbio per distrazione che questa confusione si è insinuata nell’altrimenti eccellente articolo di M. CHAVASSE, citato sopra). Il testo del Concilio stesso non è restrittivo. Se le spiegazioni date dal relatore sembrano escludere dall’infallibilità qualsiasi atto che non sia una definizione, esse non contemplano il caso di una serie di atti, o di un insieme come quello costituito dal Magistero Ordinario), e di conseguenza lasciano aperto il problema dell’infallibilità del Papa nel suo Magistero Ordinario. Se questa sfumatura non è stata sempre compresa, è comunque importante; in ogni caso, essa vieta ai teologi di chiedere ai soli testi conciliari di ridurre le loro divergenze. – Più istruttiva, senza dubbio, sarebbe stata una riflessione sui principi richiamati dal Concilio, e sulle discussioni che hanno preceduto il voto sui testi finali. L’enfasi era stata posta sulla necessaria unità della Regola di Fede (Sant’Agostino aveva già fatto affidamento su questo nella sua polemica contro i Donatisti, come su una dottrina indiscussa: “In cathedra unitatis posuit Deus doctrinam veritatis“. Ep. 105 ad donatistas, 16, P.L. 83, col. 408.), nonché sull’impossibilità che contenga errori. È perché realizza di fatto questa unità che la proposta della stessa dottrina dal Magistero Universale della Chiesa può e deve, in nome e sotto la garanzia della prima Verità, impegnare la nostra fede. È perché crea questa unità di diritto, pronunciandosi sul contenuto della Regola di Fede con un atto senza appello, che la sentenza solenne è necessariamente infallibile. Questo, almeno, era l’argomento addotto a favore della definizione dell’infallibilità personale dal relatore della Commissione Fede (Coll. Lac, col. 390-391 e 399-d.), argomento che Leone XIII, citando San Tommaso, avrebbe un giorno ripreso (Leone XIII, Sapientiae Christianæ, B.P. II, 278, in cui cita San Tommaso: – 2a 2æ, q. I, art. 10 – Cfr. Contra Gentiles, 1. IV, с. 76, e BELLARMINO, De Romano Pontifice, 1. IV, с. 1 e 2). Ma questo pronunciamento definitivo è l’unico modo in cui il Papa può effettivamente realizzare l’unità dell’insegnamento ecclesiale intorno a lui? Un maestro – veramente degno di questo grande nome – non ha altro mezzo per stabilire tra sé e i suoi discepoli una intera coesione che formulare delle tesi precise che sarà necessario professare sotto pena di essere immediatamente bollato come dissidente? È molto più spesso e non meno efficacemente che otterrà questo stesso risultato, con il solo esposto quotidiano della sua dottrina, le spiegazioni date sulla sua coerenza interna, sulle sue implicazioni nelle altre discipline o nella condotta quotidiana della vita. In una parola, è il suo insegnamento ordinario che, oltre al ricorso eccezionale a dichiarazioni eclatanti, formerà intorno ad esso la stretta unità di una scuola. Questo insegnamento quotidiano, questo ritorno continuo, tal è proprio quello del Magistero Ordinario che il Sovrano Pontefice, come Pio XII, ricordava solo poco tempo fa (Allocuzione ai giovani sposi La gradita vostra Presenza, 21 gennaio 1942, Discorsi e Radiomessaggi di S. S. Pio XII, Milano, 1942, p. 355), esercitare nei suoi discorsi, nelle sue lettere e nei suoi messaggi, ma soprattutto nelle sue Encicliche. Abbiamo passato molto tempo a dimostrare che “fare l’unità” è la ragion d’essere di queste Lettere, segni di comunione, legami di fede e di carità, che si estendono fino ai più lontani confini del mondo cattolico, portando l’insegnamento del Pastore universale a tutti i fedeli e a serrare intorno alla Sede Apostolica la stretta unione di tutti i pastori. Abbiamo visto i Sommi Pontefici proporre espressamente come obiettivo delle loro Encicliche questa unità da raggiungere (Benedetto XIV ai Vescovi, Via pervenit, « Quando parlate al popolo… nulla ci sia di contrario ai sentimenti che abbiamo trasmesso. » Vedi qui sopra dove si possono trovare altre testimonianze. Possiamo citare ancora Leone XIII, agli operai francesi, il 19-9-91, a proposito della Rerum Novarum: « Senza consumare altro tempo prezioso in sterili discussioni, realizziamo in pratica ciò che, in principio, non può più essere oggetto di controversia »), per qualificare anche come “modernismo pratico” la sola negligenza nel far passare nella condotta di vita l’insegnamento enciclicale (Pio XI, Ubi Arcano, cfr. nota sotto). Pio XII è quindi ben in linea con i suoi predecessori quando esige da tutti l’adesione al contenuto di queste Lettere che ci vengono indirizzate nel nome stesso di Dio (“Né si pensi che ciò che viene proposto nelle Encicliche non richieda di per sé un assenso… a ciò che viene insegnato dal Magistero Ordinario, si applicano anche le parole “Chi ascolta voi, ascolta me“. Humani Generis, B. P., p. 10). I Papi di oggi, come quelli del quarto secolo, hanno sempre un solo scopo nello scrivere le loro Encicliche: « far regnare in tutto il mondo la stessa professione di una medesima fede « (« Ut… per totum mundum una sit fides et una eademque confestio » S. Leone M., ep. 33, P. L. 54, col. 799.3). Non è, tuttavia, generalmente un’affermazione isolata in un’Enciclica, ma piuttosto un insieme che da solo sarà capace di raggiungere necessariamente questa unità. Con il Magistero Ordinario, infatti, non ci troviamo più, come nel caso della definizione, in presenza di un giudizio formulato solennemente, ma di un insegnamento nel senso comune del termine. – Dom Guéranger invitò una volta il Vescovo Dupanloup a non confondere questi due atti (Dom Guéranger, De la Monarchie pontificale, Parigi, 1870, p. 269). È importante distinguere la loro natura, nello stesso tempo il modo in cui ciascuno di essi opera l’unità intorno a sé. Il giudizio si esprime interamente in un’affermazione categorica, in un atto preciso, in cui il giudice della fede impegna la sua autorità (e se si tratta di una definizione, al grado supremo e senza appello), per imporre una dottrina ai Cattolici o per escluderla. Stabilisce dei confini, di solito suppone una controversia o un’esitazioei (« Se i Papi nei loro atti emettono espressamente una sentenza su una questione che era finora controversa … » – scrive Pio XII in Humani Generis, B.P., p. 10). La missione dell’insegnamento non è quella di decidere, ma di far conoscere; non mette fine a una divergenza, ma salva dall’ignoranza o dall’oblio. È all’interno di una dottrina già ricevuta che viene ad assicurare una continuità e una trasmissione fedele, a volte una valorizzazione più completa (« Il più delle volte ciò che viene esposto nelle Encicliche appartiene già d’altra parte alla dottrina cattolica », ibidem). – Di solito implica una molteplicità di espressioni e una continuità di esercizio, integra un intero insieme. Così non è creando per tutta la Chiesa un obbligo giuridico su un punto di dottrina che l’insegnamento delle Encicliche raggiunge la comunione di tutti nello stesso pensiero, è esponendo questo pensiero, non solo ai fedeli, ma ai pastori, che l’insegnamento delle Encicliche diventa una realtà non solo per i fedeli, ma per gli stessi pastori per orientare la propria predicazione; è insistendo su di esso, facendo notare le deviazioni che sopravvengono, ritornandovi in caso di negligenza o di oblio, riducendo con questo stesso ritorno le esitazioni che, qua o là, potrebbero aver cominciato ad apparire. In ogni caso, senza dubbio, un appello al Sommo Pontefice stesso rimane teoricamente possibile, e può sorgere una divergenza momentanea. A parte il caso del giudizio solenne, una singola affermazione non è necessariamente, da sola, rappresentativa di tutta la Chiesa, di per sé rappresentativa di una dottrina, l’intero insegnamento pontificio non vi è impegnato interamente. Ma se si tratta di un soggetto direttamente affrontato in una lettera Enciclica, se questa si inserisce in un insieme o in una continuità, se è oggetto di un richiamo e di un’insistenza, come spesso accade con le grandi Lettere dottrinali, non ci possono essere dubbi sul contenuto autentico dell’insegnamento pontificio. Di conseguenza, rifiutare di aderirvi, cessare di aderirvi per una stretta comunione di pensiero, è necessariamente rompere l’unione della dottrina, è introdurre la dualità nella fede. Come si può allora ammettere per questo insegnamento, almeno nel gruppo che abbiamo appena definito, la possibilità di deviare dalla verità e di sbagliare sulla regola della fede? Se questa ipotesi impossibile fosse assunta, o l’errore non fosse notato, o i Vescovi trascurassero almeno di segnalarlo, tutta la Chiesa sarebbe presto sviata dallo stesso Centro di Unità; (« Tota igitur Ecclesia errare posset, sequens determinationem Papæ, si Papa in tali definitione posset errare. » Coll. Lac. col. 391; L’argomento si applica anche all’insegnamento ordinario. Il semplice fatto di non parlare contro un errore portato dalla lettera pontificia al proprio gregge non dovrebbe essere interpretato dai Vescovi come un’approvazione? “Error cui non resistitur approbatur” citato da Cano in un testo del De Locis 1. S, c* 4, su cui THOMÀSSIN osserva – Diss. in Concil., p. 716-: “Ubi vides et Pontificum et conciliorum provincialium decretis, ex silentio Ecclesiæ universalis, œcumenicæ synodo, parem accedit auctoritatem.”); altrimenti, per rimanere fedeli alla verità, per mantenere i loro greggi in essa, i pastori avrebbero dovuto rompere questa unità, allontanarsi nel loro insegnamento da quello di Roma. Saremmo agli antipodi della tradizione che lega irrevocabilmente la sicurezza della dottrina con la comunione realizzata intorno al Romano Pontefice (per esempio S. Cipriano: “Deus unus et Christus unus, et una Ecclesia et cathedra una super Petram Domini voce fundata… Quisqui ” alibi collegerit spargit.» Ep. plebi universæ. P. L. IV, col. 336 – su S. Girolamo: « Cathedram Pétri et fidem apostolico ore laudatam censui consulendam. Super hanc petram ædificatam Ecclesiam scio. Quicumque extra hanc domum agnum comederit, profanus est ». Episodio. 15 ad Damasum. P. L. XXII, col. 355. Vedi altre testimonianze qui sotto). – Nell’uno o nell’altro caso, ci darebbe una smentita alle promesse divine: Pietro non sarebbe più la roccia da cui la Chiesa trae la sua unità, oppure avrebbe cessato di essere il fondamento sicuro della sua fede. – La conclusione, quindi, è che il privilegio dell’inerranza deve essere riconosciuto per un insegnamento da cui la fede universale dipende così strettamente e circa il quale Dio stesso, la prima Verità, si è fatto garante. Senza dubbio, in tutto il rigore dei termini, la parola infallibilità deve essere pronunciata solo in relazione all’insieme a cui abbiamo appena accennato (« La garanzia infallibile dell’assistenza divina non è limitata ai soli atti del Magistero solenne, ma si estende anche al Magistero Ordinario, senza tuttavia coprirne ed assicurarne ugualmente ogni atto. Essa garantisce assolutamente l’insegnamento della Chiesa universale unita al Papa; ma il Papa, che può esercitare questo Magistero da solo, può anche beneficiare da solo di questa infallibilità. P. LÀBOURDETTE, O. P. LesEnseignements de l’Encyclique Humani Generis, in “Revue Thomiste”, 1950, p. 38.); tuttavia, ognuno degli atti che lo compongono deve anche beneficiare dell’assistenza divina in quanto contribuisce a rappresentare l’insegnamento pontificio, ad assicurare per la sua parte l’unità dottrinale nella Chiesa. Questo mostra il titolo eccezionale che avrà l’Enciclica, « l’atto più alto del Magistero supremo dopo la definizione ex cathedra » (L. CHOUPIN, S. J., Le Motu proprio “Præstantia” di S. S. Pio X, in “Etudes religieuses“, 1908, t. CXIV, p. 123. Cfr. MANGENOT, D. T. C. art. “Encicliche“: « Se non sono giudizi solenni, poiché non hanno né la forma né le condizioni esterne di tali giudizi, sono almeno atti del Magistero Ordinario del Sovrano Pontefice e si avvicinano a giudizi solenni quando trattano materie che potrebbero essere oggetto di definizioni »), atti di cui abbiamo ricordato le immense ripercussioni, non solo sulla fede dei fedeli, ma sull’insegnamento stesso dei pastori. Se un semplice esposto dottrinale, non può mai pretendere l’infallibilità di una definizione se non alla maniera di un asintoto (Nessun atto del Magistero Ordinario, senza cessare di essere tale, può rivendicare da solo la prerogativa connessa all’esercizio del giudizio supremo. Un atto isolato è infallibile solo se il giudice supremo vi impegna la sua autorità al punto da vietarsi di ritornarvi – revocabile, infatti, non potrebbe esserlo senza riconoscere che è passibile di errore – ma un tale atto, senza appello, è proprio quello che costituisce il giudizio solenne e come tale si oppone al Magistero Ordinario. « Neque etiam dicendus est Pontifex infallibilis simpliciter ex auctoritate papatus, sed ut subest divinæ assistentiæ dirigenti in hoc certe et indubie. Nam auctoritate papatus Pontifex est semper supremus judex in rebus fidei et morum etomnium christianorum pater et doctor; sed assistentia divina ipsi promissa qua fit, ut errare non possit, solummodo tunc gaudet, quum munere supremi iudicis in controversiis fidei et universatis Ecclesiæ doctoris reipsa et actu fungitur. – Coll. Lac, col. 399-b.), qui almeno si deve parlare di questa equivalenza pratica (Ecco come il semplice fatto di essere affermato direttamente in un’Enciclica, può rendere certa una dottrina finora considerata probabile tra i teologi. « Nunc… omnino certa habenda ex verbis Summi Pontificis » PII XII, dice l’arcivescovo OTTAVIANI, in relazione a una tesi finora contestata sull’origine della giurisdizione episcopale – Institutiones Juris publici ecclesiastici, Romæ, 1947, I, 413). Le esitazioni dei teologi sull’infallibilità delle lettere papali avrebbero dovuto rendercene conto: ci troviamo in presenza di un limite, ogni affermazione (si tratta, ovviamente, di affermazioni che non sono giudizi dogmatici in senso stretto) presa separatamente, si avvicina solo all’estremo dell’infallibilità, che, invece, è rigorosamente implicita nel caso di convergenza sulla stessa dottrina di una serie di documenti, la cui continuità esclude da sola ogni possibilità di dubbio sul contenuto autentico dell’insegnamento romano. – Questa impareggiabile autorità delle Encicliche non sorprende se si fa attenzione a collocarle nel loro vero posto, nel Magistero Universale, o, nelle parole di Sant’Ireneo, in: « Quella predicazione ricevuta dagli Apostoli » che la Chiesa «…custodisce con cura come se avesse una sola anima e un solo cuore… che predica, insegna e trasmette, come se avesse una sola bocca » (Adv. Hær. I. X, 2. P. G. VII, col. 551). Queste, sono almeno atti del Magistero Ordinario del Sommo Pontefice, e si avvicinano a giudizi solenni quando trattano questioni che potrebbero essere oggetto di definizioni. È solo qui che si rivela « la funzione privilegiata di questo principio di unità che integra », nelle parole di Leone XIII, « la costituzione e l’equilibrio stesso della Chiesa » (Satis Cognitum, B.P., V. 39). « L’autore divino della Chiesa – continua il grande Papa – avendo deciso di darle unità di fede, di governo, di comunione, scelse Pietro e i suoi successori per stabilire in loro il principio e come il centro di questa unità di fede » – … Ecco perché San Cipriano ha potuto dire: «C’è una via facile per arrivare alla fede, e la verità è contenuta in una parola. Il Signore disse a Pietro: Io ti dico che tu sei Pietro… ».È su uno solo che Egli costruisce la Chiesa; e anche se dopo la Resurrezione conferisce a tutti lo stesso potere… tuttavia, per mettere in piena luce l’unità, in uno solo stabilisce con la sua autorità, l’origine e il punto di partenza di quella stessa unità (Ibid., p. 47). Nell’immenso concerto dell’insegnamento universale, la voce di Pietro non è solo una tra le altre, ma è quella che dà il tono, che custodisce e sostiene l’insieme. Sia che lo gridi ad alta voce con un giudizio solenne, sia che lo mantenga più discretamente attraverso la vigilanza e il continuo richiamo delle sue Encicliche, è sempre essa la voce che regola l’unità, e solo sono assicurate circa la loro giustezza le voci che rimangono in armonia con essa. Non è questa, inoltre, l’intima convinzione di tutti i fedeli? « Credo nella Chiesa cattolica », professano nel loro Credo. Ma dalle labbra di chi raccolgono le parole della Chiesa? Quelle di alcuni educatori, quelle dei loro catechisti, del loro parroco. Come sarebbero assicurati di incontrarvi il pensiero autentico di Dio che parla attraverso la sua Chiesa, se non fosse sufficiente per loro sapere che questi sacerdoti sono in unione con il loro Vescovo, che rimane lui stesso rimane unito al centro dell’unità, alla sede del Romano Pontefice? Essendo il Centro e la Causa dell’unità infallibile, come potrebbe essere soggetto all’errore? Stupirsi di non vedere questa dottrina esplicitamente insegnata dal Concilio Vaticano e usarla come pretesto per scartarla, sarebbe dimenticare lo scopo dei decreti e delle definizioni. – Uno dei più illustri teologi che contribuirono alla preparazione degli schemi spiegò « che sarebbe stato un errore cercare in essi l’espressione di ogni verità ammessa », essendo il loro scopo primario quello di opporsi all’errore (Coll. Lac, col. 1612). Senza dubbio le discussioni stesse contribuirono a portare in primo piano le dottrine che erano state contestate dagli oppositori. Per essere state, da questi illustri giocolieri, respinte nell’ombra, quelle stesse che furono l’oggetto di simili dibattiti, non hanno perso nulla della loro tranquilla certezza. Quello che abbiamo appena ricordato, collegandolo come una conclusione teologica dei dogmi vaticani, non sarebbe anche uno di queste? Possiamo basarci sulle testimonianze di Bossuet e Fénelon, anch’esse basate sulla tradizione antica. È il Vescovo di Meaux che parla di « questa Cattedra romana così celebrata dai Padri, che l’hanno esaltata come la continuazione, la primizia della Cattedra apostolica, la fonte dell’unità, e nel posto di Pietro il grado eminente della cattedra sacerdotale; la Chiesa madre, che tiene in mano la guida di tutte le altre chiese; il Capo dell’episcopato, da cui procede il raggio del governo; la Cattedra principale, l’unica Cattedra in cui solo tutti mantengono l’unità. In queste parole si sente San Ottatto, Sant’Agostino, San Cipriano, San Prospero, Sant’Avito, San Teodoreto, il Concilio di Calcedonia ed altri; l’Africa, i Galli, la Grecia, l’Asia, l’Oriente e l’Occidente uniti insieme »(BOSSUET. Sermone sull’unità della Chiesa, parte 1. Oeuvres wtoires, ed. URB. et LEV, Paris, 1923, t. VI, p. 116). Ascoltiamo Fenelon che si riferisce egli stesso alla professione di fede imposta da Papa Ormisda ai Vescovi orientali: « Dio non voglia che qualcuno prenda un atto così solenne, con il quale i Vescovi scismatici tornarono all’unità, come un complimento vago e lusinghiero, che non significhi nulla di preciso e serio. Si tratta qui della promessa del Figlio di Dio fatta a San Pietro, che è verificata di secolo in secolo dagli eventi. Hæc quæ dicta sunt probantur effectibus. Cosa sono questi eventi? Che la Religione Cattolica è inviolabilmente conservata pura nella Sede Apostolica. È che questa Chiesa, come sentiremo presto dire da M. Bossuet, Vescovo di Meaux, è ancora vergine, e che Pietro parlerà sempre dal suo pulpito, e che la fede romana è sempre la fede della Chiesa. È che non c’è differenza tra coloro che sono privati della comunione della Chiesa Cattolica, e quelli che non sono uniti in tutto nel sentimento con questa Sede. Così chi contraddice la fede romana, che è il centro della tradizione comune, contraddice quella di tutta la Chiesa. Al contrario, chi rimane unito alla dottrina di questa Chiesa sempre vergine non rischia nulla per la sua fede » (FÉNELON. Deuxième Mandement sur la Constitution Unigenitus – Œuvres complètes, Paris, 1851. t. V, p. 175). Non si può negare questa prerogativa, inoltre, senza mettersi in opposizione con la più antica e venerabile tradizione. – La “Seconda Lettera sulla Costituzione Unigenitus” ricordava, contemporaneamente alla testimonianza di Ormisda, il famoso passo in cui Sant’Ireneo propone due modi altrettanto sicuri di riconoscere l’autenticità e l’apostolicità di una dottrina: l’insegnamento costante di tutte le chiese, o quello del solo « Presidente della Fede ». Ed ecco la ragione di tale sicurezza: Perché è con questa Chiesa, a causa della sua eminente principalitas (La parola corrisponde sia a “primato” che a “principato”), che ogni chiesa, cioè i fedeli di ogni luogo, devono concordare; ed è in essa, più che altrove, che le tradizioni che vengono dagli Apostoli sono state conservate (Adv. Hær., III, 3, 2, P. G. VII, col. 849. Per la giustificazione della traduzione adottata, vedi Christine MOHRMANN, Vigiliæ Christianæ, gennaio 1949, p. 57 – e H. HOLSTEIN S. J., loc. cit, che conclude: « La pietra di paragone dell’Ortodossia sarà dunque la conformità con ciò che la Chiesa di Roma conserva ed insegna: è necessario che, dappertutto, tutte le Chiese si trovino in accordo con quella Chiesa che gode della principalitas privilegiata delle Chiese apostoliche, con quella comunità di Cristiani di tutto il mondo, nella quale la tradizione apostolica è stata conservata intatta e viva fin dall’inizio.»). – È come un “principio di unità” che San Cipriano rappresenta a sua volta la Chiesa di Roma, in un passaggio in cui sarebbe perfettamente arbitrario limitare la sua portata alle sentenze solenni. Parlando degli eretici, che si erano sforzati, per meglio diffondere le loro dottrine, di farsi coprire dall’autorità del Papa: Essi osano – egli grida – fare vela verso la Cattedra di Pietro e la Chiesa principale, fonte dell’unità del corpo episcopale. Hanno dimenticato chi sono questi romani, la cui fede è stata lodata dalla bocca dell’Apostolo stesso, e nei quali “l’errore non può trovare accesso”? (Epist. 59 ad Cornelium, n° 14 P. L. III, col. 818. Vedi sopra, altri testi nello stesso senso). È davvero utile moltiplicare le testimonianze, quando la dottrina che afferma la possibilità di incontrare l’errore nella Chiesa di Roma è stata oggetto di una solenne riprovazione? Questa è infatti una delle proposizioni di Pietro di Osma, che fu colpito da Sisto IV con varie censure, arrivando fino alla nota di eresia: « Ecclesia Urbis Romæ errare potest ». (Prop. 7, condannata dalla bolla Licet ea, del 9 agosto 1478. DENZ. BAN. Enchiridion, n° 730.). Non ci si sorprenderà quindi di vedere l’importanza attribuita, tra i luoghi teologici, all’insegnamento ordinario della Santa Sede e specialmente alle Lettere papali. Quando i teologi, quando i Concili, o i Papi stessi, come ha fatto recentemente Pio XII nel suo Magnificentissimus Deus, cercano nel passato “testimonianze, indici, vestigia, testimonia, indici, vestigia“, che permettono loro di riconoscere una dottrina come autenticamente contenuta nel deposito della fede, la ritengono certa, anche se gli strumenti sono pochi, purché tra questi possano annoverare l’insegnamento costante del Sovrano Pontefice, la fede autentica della Chiesa Romana (« Mirum videri non débet quod existimet Canus res fidei non numero episcoporum, sed pondere et auctoritate Romani Pontificis definiri. .. atque ubi discordes sunt inter se Episcopi ei parti semper adhærendum pro qua stat Romanus Pontifex. » TOUBNELY, De Ecclesia, p. 223 – ed. di Venezia, 1731). Le stesse Encicliche non ne danno forse una prova definitiva? I loro lettori, anche se un po’ distratti, avranno certo notato la formula solenne con cui i Papi testimoniano la loro costante preoccupazione di collegare la propria dottrina a quella dei « loro predecessori di immortale memoria ». Se a volte lo esplicitano, se lo rivendicano contro una falsa interpretazione, si preoccupano soprattutto, nella prospettiva stessa di san Ireneo, di mostrare come prova e a garanzia della sua autenticità, la continuità rigorosa dell’insegnamento pontificale (A parte i testi che si trovano in tutte le Encicliche, è da notare l’abitudine di segnare gli anniversari delle Encicliche stesse, Quadragesimo anno, Ærant Ecclesiæ, etc. La realtà è ben lontana dal perpetuo « bilanciamento » dal « pendolo oscillante », dalla « successione di cadute accettate », che è stata data come caratteristica dell’insegnamento enciclicale. Questa immagine, troppo spesso usata, non prova nulla, se non che chi la usa non ha letto le Encicliche, almeno non in modo da fare attenzione a non farsi ingannare da una semplice evoluzione semantica. Senza dubbio Pio VI condanna il governo popolare (Allocuzione concistoriale del 17-6-93), mentre Pio XII (Messaggio di Natale 1944) specifica solo le condizioni di una sana democrazia, ma per escludere il governo delle “masse“, termine che copre esattamente il termine “popolo” usato da Pio VI. Al contrario, Pio XII amplia il significato di democrazia per permetterle, in termini espliciti, di includere la monarchia, che Pio VI opponeva al governo del popolo. Altre parole, stessa dottrina). – Assistito dallo Spirito Santo nel cui Nome si rivolge a noi in ciascuna di queste Lettere, l’insegnamento ordinario delle Encicliche, come ci appare attraverso la loro continuità, non può essere soggetto a revisione. Anche una definizione solenne non potrebbe contraddirla, perché, divinamente assistita, e non potrebbe mai pronunciarsi contro una dottrina infallibilmente preservata dall’errore (Collect. Lac, col. 404. – Cfr. anche la lettera di Mons. DESCHAMPS a Mons. Ketteler sulla distinzione tra il fatto e l’atto di accordo delle Chiese, prima della definizione: « Certamente il Papa non può definire – come dice Sant’Agostino – se non ciò che è nel deposito della rivelazione, nella Sacra Scrittura e nella tradizione “quam Apostolica Sedes et Romana cum ceteris tenet perseveranter Ecclesia“. Questo è il fatto che il Papa nota prima di definire come ha sempre fatto… e come l’assistenza divina promessagli garantisce che farà sempre. » R.S.P.T. 1935, p. 298). Qualunque sia il modo in cui la parola divina ci raggiunga, essa esige sempre lo stesso atteggiamento da parte nostra. Potremmo noi senza pericolo – scrive Dom Guéranger in una delle pagine più belle del suo Anno Liturgico – imporre limiti alla nostra docilità agli insegnamenti che ci vengono nello stesso tempo dallo Spirito e dalla Sposa che sappiamo essere uniti in modo indissolubile (Apoc. XXII, 17)? Sia che quindi, la Chiesa ci intimi ciò che dobbiamo credere mostrandoci la sua pratica, o con la semplice enunciazione dei suoi sentimenti, o se dichiari solennemente la definizione attesa, dobbiamo guardare ed ascoltare con sottomissione di cuore; infatti, la pratica della Chiesa è tenuta nella verità dallo Spirito che la vivifica; rinunciare ai propri sentimenti in qualsiasi momenti, è l’aspirazione continua di questo Spirito che vive in essa; e per quanto riguarda le sentenze che Essa pronuncia, non è Essa sola che le pronuncia, ma lo Spirito che le pronuncia in Essa ed attraverso di Essa. Quando è il suo Capo visibile che dichiara la dottrina, sappiamo che Gesù si degnò di pregare affinché la fede di Pietro non venisse meno, cosa che ottenne dal Padre suo e per la quale ha affidato allo Spirito il compito di mantenere Pietro in possesso di un dono così prezioso per noi » (L’Anno Liturgico, Parigi 1950: “Il Giovedì della Pentecoste“, t. III, p. 609).