UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO:; S. S. PIO XI – “AD CATHOLICI Sacerdotii” (2)

Continua la lettura di questo stupendo documento magisteriale di S. S. Pio XI riguardante l’ufficio sacerdotale, la sua missione, la sua insostituibile importanza, le sue responsabilità ed i suoi oneri al cospetto di DIO e di Cristo che li chiama ad essere alter Christus nella sua Chiesa. Questa lettera da sola ci mostra le autentiche caratteristiche del vero Sacerdote cattolico, caratteristiche che l’antipapa “Illuminato” Montini ha totalmente distrutto con il suo pontificale falso ed ingannevole, mediante il quale ha resa invalida la formula di consacrazione dei Vescovi – fissata irreformabilmente da Pio XII circa venti anni prima in Sacramentum ordinis– e quindi di tutti i sacerdoti (per questo finto-)cattolici, dal 18 giugno del 1968. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: società scristianizzata in toto, pseudosacerdoti che ignorano le più elementari norne canoniche ecclesiastiche, la dottrina cattolica di sempre, sono moralmente anticristiani, elargitori di sacrileghi sacramenti che, lungi dall’apportare la grazia santificante, o un aumento di essa, sono forieri di disgrazia terrena e dannazione dell’anima. Non vogliamo affondare il coltello nella piaga putrida della falsa chiesa del Novus ordo e del c. d. Vaticano II degli antipapi, veri eretici vicari dell’anticristo, il castigo più grande che il buon Dio, offeso e vilipeso da quasi tutta l’umanità – compresa quella che si professa cristiana – abbia mai inferto al genere umano, castigo che sta mietendo innumerevoli vittime di Cristiani di facciata, ma di vita pagana, precipitate nel fuoco eterno, grazie soprattutto a questi falsi preti mai ordinati validamente e quindi privi del sigillo sacerdotale e della grazia divina utile alla loro missione, che li avrebbe dovuto portare a conquistare la salvezza eterna per sé e per il gregge delle anime loro affidate. In attesa di N. S. Gesù Cristo che verrà per bruciare con il soffio della sua bocca l’uomo della perdizione con i suoi adepti, e del trionfo del Cuore Immacolato della Vergine Maria, e quindi del ripristino nella gloria della vera Chiesa Cattolica, oggi eclissata, leggiamo la seconda parte di questa Lettera piena, per il Pusillus grex cattolico apostolico romano, di speranza e di gioia per un nuovo splendido sacerdozio cattolico, per una Chiesa di Cristo rinnovata, santa e santificante, guidata dal vero Pontefice Romano, finalmente libero dalle catacombe massoniche e pagane … et IPSA conteret caput tuum..

LETTERA ENCICLICA
AD CATHOLICI SACERDOTII
(II)


PIO PP. XI

III. La preparazione

Il Seminario

Se così alta è la dignità del sacerdozio e così eccelse le doti che richiede, ne segue, Venerabili Fratelli, l’imprescindibile necessità di dare ai candidati del santuario una formazione proporzionata. La Chiesa, conscia di questa necessità, per nessun’altra cosa forse, lungo i secoli, ha mostrato tanto tenera sollecitudine e materna premura come per la formazione de’ suoi sacerdoti. Essa non ignora che, se le condizioni religiose e morali dei popoli dipendono in gran parte dal sacerdozio, l’avvenire stesso del sacerdote dipende dalla formazione ch’egli avrà ricevuto, essendo anche per lui verissimo il detto dello Spirito Santo: “Il giovinetto secondo la via che ha presa, anche quando sarà invecchiato non se ne scosterà”. Perciò la Chiesa, mossa dallo Spirito Santo, ha voluto che dappertutto si erigessero Seminari dove si allevino e si educhino con singolare cura i candidati al sacerdozio.

La cura dei Seminari

Il Seminario dunque è e deve essere la pupilla degli occhi vostri, o Venerabili Fratelli, quanti dividete con Noi il formidabile peso del governo della Chiesa, è e deve essere l’oggetto precipuo delle vostre sollecitudini. Accurata soprattutto deve essere la scelta dei Superiori, dei Maestri e in modo particolare del Direttore spirituale, che ha una parte sì delicata e sì importante nella formazione dell’anima sacerdotale. Date ai vostri Seminari i migliori sacerdoti, né temiate di sottrarli anche a cariche apparentemente più rilevanti, ma che in realtà non possono venire a confronto con quest’opera capitale e insurrogabile; cercateli anche altrove, dovunque ne troviate di veramente atti a sì nobile scopo; siano tali che insegnino, prima con l’esempio che con la parola, le virtù sacerdotali e sappiano infondere con la dottrina uno spirito sodo, virile, apostolico; facciano fiorire nel Seminario la pietà, la purezza, la disciplina, lo studio, premunendo prudentemente gli animi giovanili, non solo contro le tentazioni presenti, ma anche contro i pericoli ben più gravi a cui si troveranno poi esposti nel mondo, in mezzo al quale dovranno vivere ” per far tutti salvi “.

E affinché i futuri sacerdoti possano avere quella scienza che i nostri tempi esigono, come sopra abbiamo esposto, è di somma importanza che, dopo una soda formazione negli studi classici, siano bene istituiti ed esercitati nella filosofia scolastica “secondo il metodo, la dottrina e i principii del Dottore Angelico”. Questa “philosophia perennis”, come la chiamava il Nostro grande Predecessore Leone XIII, non solo è loro necessaria per approfondire il dogma, ma li premunisce efficacemente contro gli errori moderni, quali che essi siano, rendendo la loro mente atta a distinguere nettamente il vero dal falso, e in ogni questione di qualunque genere o in altri studi che dovranno fare, darà loro una chiarezza di vista intellettuale che supererà di molto quella di altri, privi di questa formazione filosofica, anche se dotati d’una più vasta erudizione. Che se, come avviene specialmente in alcune regioni, la poca estensione delle Diocesi o la dolorosa scarsità degli alunni o la mancanza di mezzi e di uomini adatti non permettesse a ciascuna Diocesi di avere un proprio Seminario ben ordinato secondo tutte le leggi contenute nel Codice di Diritto Canonico e secondo le altre prescrizioni ecclesiastiche, sommamente conviene che i Vescovi della regione fraternamente si aiutino ed uniscano le loro forze concentrandole in un Seminario comune, che risponda interamente all’alto suo scopo. I grandi vantaggi di tale concentrazione compensano largamente i sacrifici sostenuti per conseguirli; anche il sacrificio, talvolta doloroso al cuore paterno del Vescovo, di vedere temporaneamente allontanati i suoi chierici dal Pastore, che vorrebbe trasfondere egli stesso il suo spirito apostolico nei suoi futuri collaboratori, e dal territorio che dovrà essere il campo del loro ministero, sarà poi ripagato dal riceverli meglio formati e più forniti di quello spirituale patrimonio che profonderanno in maggior copia e con maggior frutto a beneficio della loro Diocesi. E perciò Noi non abbiamo mai tralasciato di incoraggiare e promuovere e favorire tali iniziative, spesso anzi le abbiamo suggerite e raccomandate; dal canto Nostro poi, dove l’abbiamo creduto necessario, abbiamo Noi stessi eretto o migliorato o ampliato parecchi di tali Seminari Regionali, come a tutti è noto, non senza grandi spese e gravi cure, e continueremo, con l’aiuto di Dio, ad adoperarCi con tutto lo zelo anche per l’avvenire per un’opera che riputiamo tra le più giovevoli al bene della Chiesa.

La scelta dei candidati

Ma tutto questo magnifico sforzo per l’educazione degli alunni del santuario poco gioverebbe se non fosse accurata la scelta dei candidati stessi, per i quali sono eretti e amministrati i Seminari. A tale scelta tutti devono concorrere, quanti sono preposti alla formazione del clero: i Superiori, i Direttori spirituali, i Confessori, ciascuno nel modo e nei limiti propri del suo ufficio, come devono con ogni impegno coltivare la vocazione divina e corroborarla, così con non minore zelo devono distogliere ed allontanare per tempo da una via, che non è la loro, quei giovani che si scorgono sprovvisti della necessaria idoneità e si prevedono quindi non atti a sostenere degnamente e decorosamente il ministero sacerdotale. E quantunque sia molto meglio che questa eliminazione si faccia fin dal principio, perché in queste cose l’attendere ed aspettare è insieme un grave errore e un grave danno, tuttavia qualunque sia stata la causa del ritardo, si deve correggere l’errore quando lo si avverte, senza umani riguardi, senza quella falsa misericordia che diventerebbe una vera crudeltà, non solo verso la Chiesa, a cui si darebbe un ministro o inetto o indegno, ma anche verso il giovane stesso che, sospinto così sopra una falsa via, si troverebbe esposto ad essere pietra d’inciampo a sé e agli altri, con pericolo di eterna rovina. – Né sarà difficile all’occhio vigile ed esperto di chi presiede al Seminario, di chi segue e studia amorosamente ad uno ad uno i giovani a sé affidati e le loro inclinazioni, non sarà difficile, diciamo, accertarsi se uno abbia o no una vera vocazione sacerdotale. Questa, come ben sapete, Venerabili Fratelli, più che in un sentimento del cuore o in una sensibile attrattiva, che talvolta può mancare o venir meno, si rivela nella retta intenzione di chi aspira al sacerdozio, unita a quel complesso di doti fisiche, intellettuali e morali che lo rendono idoneo per tale stato. Chi tende al sacerdozio unicamente per il nobile motivo di consacrarsi al servizio di Dio e alla salute delle anime, e insieme ha o almeno seriamente attende ad acquistare una soda pietà, una purezza di vita a tutta prova, una scienza sufficiente nel senso da Noi sopra esposto, questi mostra di essere chiamato da Dio allo stato sacerdotale. Chi invece, spintovi forse da malconsigliati genitori, volesse abbracciare questo stato per la prospettiva di vantaggi temporali e terreni, intravveduti e sperati nel sacerdozio, come avveniva più frequentemente in passato; chi è abitualmente refrattario alla soggezione e alla disciplina, poco inclinato alla pietà, poco amante del lavoro e poco zelante delle anime; chi specialmente è proclive alla sensualità e con diuturna esperienza non ha provato di saperla vincere; chi non ha attitudine allo studio, in modo che si preveda non poter seguire con sufficiente soddisfazione i corsi prescritti; tutti costoro non sono fatti per il sacerdozio, e il lasciarli progredire, fin quasi alla soglia del santuario, rende loro sempre più difficile il ritrarsene, e forse li spingerà a varcarla, per umano rispetto, senza vocazione e senza spirito sacerdotale. Pensino i Superiori dei Seminari, pensino i Direttori spirituali e Confessori, quale gravissima responsabilità si assumono davanti a Dio, davanti alla Chiesa, davanti ai giovani stessi, se dal canto loro non fanno il possibile per impedire un passo sbagliato. Diciamo che anche i Confessori e Direttori spirituali potrebbero essere responsabili di un sì grave errore, non già perché essi possano in niun modo agire esternamente, il che è loro severamente vietato dal loro stesso delicatissimo ufficio e spesso anche dall’inviolabile sigillo sacramentale, ma perché essi molto possono influire sull’animo dei singoli alunni e con paterna fermezza devono guidare ciascuno, secondo che richiede il suo bene spirituale; essi quindi, specialmente se per qualunque ragione non agissero i Superiori o si mostrassero deboli, devono intimare, senza umani riguardi, agli inetti o agli indegni l’obbligo di ritirarsi finché ne sono ancora in tempo, attenendosi in ciò alla sentenza più sicura, la quale in tal caso è anche la più favorevole a quel penitente perché lo preserva da un passo che potrebbe essere per lui eternamente fatale. – Che se anche non vedessero talvolta così chiara l’obbligazione da imporre, usino almeno tutta l’autorità che viene loro dall’ufficio e dall’affetto paterno che hanno verso i loro figli spirituali, per indurre quelli, che non hanno le dovute disposizioni, a ritrarsi spontaneamente. Si ricordino i confessori quello che in un argomento simile dice Sant’Alfonso Maria de’ Liguori: “Generalmente parlando… (in questi casi) il confessore quanto maggior rigore userà co’ penitenti, tanto più gioverà alla loro salute; e all’incontro tanto più sarà crudele quanto sarà con essi più benigno. San Tommaso da Villanova chiamava tali confessori troppo benigni empiamente pii, impie pios. Una tal carità è contro la carità”.

Il dovere dei Vescovi

Ma la responsabilità principale rimane pur sempre quella del Vescovo, il quale, secondo la gravissima legge della Chiesa, ” non deve conferire gli ordini sacri a veruno, se non sia moralmente certo, per argomenti positivi, della idoneità canonica di lui; altrimenti non solo commette un gravissimo peccato, ma si espone anche al pericolo di partecipare ai peccati altrui”. Nel qual canone risuona ben chiara l’eco dell’ammonimento dell’Apostolo a Timoteo: “Non imporre le mani a nessuno con troppa fretta, e non prender parte ai peccati altrui”. “E che cos’è poi questo imporre con troppa fretta le mani – come spiega il Nostro predecessore San Leone Magno — se non conferire la dignità sacerdotale a soggetti non provati, prima di un’età matura, prima di averli bene esaminati, prima del merito dell’obbedienza, e prima di averne esperimentata la disciplina? E prender parte ai peccati altrui, che cosa vuol dire, se non che tale si fa l’ordinante quale è quegli che non meritava di venir ordinato?”. Perché, come dice San Giovanni Crisostomo rivolgendo la parola al Vescovo, “per i peccati di lui passati e futuri anche tu dovrai scontare la pena perché gli hai dato quella dignità”.

Severe parole, Venerabili Fratelli, ma ancor più tremenda è la responsabilità che esse designano, la quale faceva dire al grande Vescovo di Milano San Carlo Borromeo: “In questa materia, una negligenza anche leggera può rendermi reo di gravissima colpa”. Attenetevi dunque al consiglio del già citato Crisostomo: “Non dopo la prima prova né dopo la seconda o la terza, ma dopo che avrai ben riguardato e tutto accuratamente esaminato, allora soltanto imponi pure le mani”. Il che vale soprattutto della bontà della vita dei candidati al sacerdozio: “Non basta – dice il Santo Vescovo e Dottore Alfonso Maria de’ Liquori — che il Vescovo non conosca alcunché di male nell’ordinando, ma deve rendersi certo della sua positiva probità”. Perciò non temete di sembrare troppo severi, se, valendovi del vostro diritto e compiendo il vostro dovere, esigete in antecedenza tali prove positive e, nel caso di dubbio, rimandate ad altro tempo l’ordinazione di qualcuno; poiché — come bellamente insegna San Gregorio Magno – “si tagliano bensì dalla selva i legni adatti agli edifici, ma non vi si mette sopra il peso dell’edificio se non dopo che l’attesa di molti giorni li abbia disseccati e resi atti allo scopo; che se si trascuri tale precauzione, ben presto si spezzeranno sotto il peso”; ossia, per usare le brevi e chiare parole dell’Angelico Dottore, “gli ordini sacri esigono in antecedenza la santità… e perciò il peso degli ordini deve sovrapporsi a pareti che per la santità siano già disseccate dall’umore dei vizi”. – Del resto, se saranno diligentemente osservate tutte le prescrizioni canoniche, se tutti si atterranno alle prudenti norme che or sono pochi anni abbiamo fatto promulgare dalla Sacra Congregazione dei Sacramenti su questo argomento, si eviteranno molte lagrime alla Chiesa e molti scandali ai fedeli. E siccome analoghe norme abbiamo voluto che fossero date per i Religiosi, mentre ne inculchiamo a chi spetta la fedele osservanza, ricordiamo a tutti i supremi Moderatori degli Istituti Religiosi i quali hanno giovani destinati al sacerdozio, che riguardino come detto anche a sé tutto quello che abbiamo finora raccomandato intorno alla formazione del clero, poiché essi presentano i loro alunni all’ordinazione e il Vescovo generalmente si rimette al loro giudizio. – Né si lascino rimuovere, sia i Vescovi che i Superiori religiosi, da questa necessaria severità, per il timore che venga a diminuire il numero dei sacerdoti della Diocesi o dell’Istituto. L’Angelico Dottore San Tommaso si è già proposta questa difficoltà e così vi risponde con la sua consueta lucidità e sapienza: “Iddio non abbandona mai la sua Chiesa, così che non si trovino (sacerdoti) idonei in numero sufficiente alla necessità del popolo, se si promovessero i degni e si respingessero gli indegni”. Del resto, come bene osserva lo stesso Dottore riportando alla lettera le gravi parole del Concilio Ecumenico Lateranense IV, “se non si potessero trovare tanti Ministri quanti sono al presente, sarebbe meglio avere pochi Ministri buoni che molti cattivi”. Ed è quello stesso che Noi abbiamo rammentato in una solenne circostanza, quando in occasione del pellegrinaggio internazionale dei Seminaristi, durante l’anno del Nostro giubileo sacerdotale, parlando all’imponente gruppo degli Arcivescovi e Vescovi d’Italia, abbiamo detto che vale meglio un sacerdote ben formato, che molti poco o nulla preparati, sui quali la Chiesa non può contare, anche se non ha piuttosto da gemere. Quale terribile conto, Venerabili Fratelli, dovremo rendere al Principe dei Pastori, al Supremo Vescovo delle anime, se avremo consegnate queste anime a guide inette e a condottieri incapaci! Ma, quantunque debba sempre tenersi ben ferma la verità che il numero da sé non deve essere la principale preoccupazione di chi lavora per la formazione del clero, tutti però devono sforzarsi che si moltiplichino i validi e strenui operai della vigna del Signore, tanto più che i bisogni morali della società anziché diminuire vanno crescendo. E tra tutti i mezzi per sì nobile scopo, il più facile insieme e il più efficace è anche il più universalmente accessibile a tutti e quindi tutti devono assiduamente usarlo, cioè la preghiera, secondo il comando di Gesù Cristo stesso: “La messe è veramente copiosa, ma gli operai sono pochi; pregate adunque il Padrone della messe, che mandi operai alla sua messe”. E quale preghiera può essere più gradita al Cuore Santissimo del Redentore? Quale preghiera può sperare d’essere esaudita più prontamente e più abbondantemente di questa, che è sì conforme alle ardenti aspirazioni di quel Cuore divino? “Chiedete, e vi sarà dato”; chiedete dei buoni e santi sacerdoti e il Signore non li negherà alla sua Chiesa, come sempre ne ha concessi attraverso i secoli, anche in tempi che meno sembravano propizi al fiorire di vocazioni sacerdotali, anzi proprio allora in maggior copia, come attesta anche solo l’agiografia cattolica del secolo XIX, così ricca di nomi gloriosi dell’uno e dell’altro clero; fra i quali brillano come astri di prima grandezza quei tre veri giganti di santità, esercitata in tre campi così diversi, che Noi stessi avemmo la consolazione di cingere dell’aureola dei Santi: San Giovanni Maria Vianney, San Giuseppe Benedetto Cottolengo e San Giovanni Bosco.

La cooperazione dell’Azione Cattolica

Non bisogna però trascurare le diligenze umane, onde coltivare il prezioso seme della vocazione che Dio largamente sparge nei cuori generosi di tanti giovani; e quindi lodiamo e benediciamo e raccomandiamo con tutto l’animo Nostro quelle opere salutari che, in mille forme e con mille sante industrie suggerite dallo Spirito Santo, mirano a custodire, a promuovere, ad aiutare le vocazioni sacedotali. “Per quanto possiamo pensarvi – afferma l’amabile Santo della carità, Vincenzo de’ Paoli – troveremo sempre che non avremmo potuto contribuire a niente di più grandioso che a fare dei buoni sacerdoti”. Nulla infatti vi è di più accetto a Dio, di più onorifico alla Chiesa, di più proficuo alle anime, che il dono prezioso di un santo sacerdote. E quindi, se chi offre un bicchier d’acqua a uno de’ più piccoli tra i discepoli di Cristo “non perderà la sua ricompensa”, quale mercede non avrà colui che mette per così dire nelle mani pure di un giovane levita il sacro calice in cui rosseggia il Sangue della Redenzione, e lo aiuta a sollevarlo al cielo arra di pacificazione e di benedizione per l’umanità? – E qui il Nostro grato pensiero corre di nuovo a quell’Azione Cattolica, da Noi così costantemente voluta, promossa, difesa, la quale, come partecipazione del laicato all’apostolato gerarchico della Chiesa, non può disinteressarsi di questo vitale problema delle vocazioni sacerdotali. E difatti, con Nostra intima consolazione, la vediamo in ogni luogo distinguersi, come in ogni altro campo di cristiana attività, così in modo speciale in questo; e certamente il più ricco premio di tale operosità è appunto la copia veramente mirabile di vocazioni sacerdotali e religiose, che vanno fiorendo in seno alle sue organizzazioni giovanili, mostrando con ciò di essere non solo un terreno fecondo di bene, ma anche una ben custodita e ben coltivata aiuola, dove i fiori più belli e più delicati possono svilupparsi senza pericolo. Sentano tutti gli ascritti all’Azione Cattolica l’onore che con ciò ricade sulla loro associazione e si persuadano che il laicato cattolico, in nessun’altra maniera meglio che col collaborare a questo accrescimento delle file del clero secolare e regolare, parteciperà davvero all’alta dignità di “regale sacerdozio” che il Principe degli Apostoli attribuisce a tutto il popolo dei redenti.

La collaborazione della famiglia

Ma il primo e più naturale giardino, dove devono quasi spontaneamente germinare e sbocciare i fiori del santuario, è sempre la famiglia veramente e profondamente cristiana. La maggior parte dei Santi Vescovi e Sacerdoti, “le cui lodi celebra la Chiesa”, devono l’inizio della loro vocazione e della loro santità agli esempi ed insegnamenti di un padre pieno di fede e di maschia virtù, di una madre casta e pia, di una famiglia in cui regnava sovrana con la purezza dei costumi la carità di Dio e del prossimo. – Le eccezioni a questa regola di ordinaria provvidenza sono rare e non fanno che confermare la regola stessa. Quando in una famiglia i genitori, ad esempio di Tobia e di Sara, domandano a Dio una numerosa posterità “nella quale venga benedetto in eterno il Nome del Signore”, e la ricevono con gratitudine come dono celeste e come prezioso deposito, e si sforzano di instillare ai figli fin dai primi anni il santo timor di Dio, la cristiana pietà, una tenera devozione a Gesù Sacramentato e alla Vergine Immacolata, il rispetto e la venerazione per i luoghi e le persone sacre; quando il figli vedono nei genitori il modello di una vita onesta, laboriosa e pia; quando li vedono amarsi santamente nel Signore, li scorgono spesso accostarsi ai Santi Sacramenti, obbedire non solo alle leggi della Chiesa circa l’astinenza e il digiuno, ma anche allo spirito della cristiana mortificazione volontaria; quando li vedono pregare anche in casa, riunendo intorno a sé tutta la famiglia perché la comune prece s’innalzi più gradita al cielo; quando li sanno compassionevoli alle miserie altrui e li vedono dividere coi poveri il molto o il poco che posseggono, è ben difficile che, mentre tutti cercheranno di emulare gli esempi paterni, qualcuno almeno di tali figli non senta nell’animo suo l’invito del divino Maestro: “Vieni dietro a me” e “Io ti farò diventare pescatore di uomini”. Fortunati quei genitori cristiani, i quali, anche se di queste divine visite, di queste divine chiamate rivolte ai loro figli, non fanno l’oggetto delle loro più fervide preghiere, come più spesso di oggi avveniva in tempi di maggior fede, almeno non ne hanno paura, e sanno scorgere in esse un insigne onore, una grazia di predilezione e di elezione del Signore per la loro famiglia! – Si deve invece purtroppo confessare che spesso, troppo spesso, i genitori, anche quelli che si gloriano di essere sinceramente Cristiani e Cattolici, specialmente nelle classi più elevate e più colte della società, sembra che non sappiano rassegnarsi alla vocazione sacerdotale e religiosa dei loro figli, e non si fanno scrupolo di combattere la divina chiamata con ogni sorta di argomenti, anche con mezzi che possono mettere a repentaglio non la sola vocazione ad uno stato più perfetto, ma la coscienza stessa e l’eterna salute di quelle anime che pur dovrebbero essere loro così care. Il qual deplorevole abuso, come quello già malamente invalso nei secoli passati di costringere invece i figli allo stato ecclesiastico anche senza alcuna vocazione né idoneità, non torna certo ad onore di quelle stesse classi sociali più alte, che ora sono così poco rappresentate, generalmente parlando, nelle file del clero: poiché, se le dissipazioni della vita moderna, le seduzioni che, specie nelle grandi città, eccitano precocemente le passioni giovanili, le scuole, in molte regioni così poco favorevoli allo sviluppo di simili vocazioni, sono in molta parte causa e triste spiegazione della scarsità di esse in tali famiglie agiate e signorili, non si può negare che ciò arguisce anche una lacrimevole diminuzione di fede nelle famiglie stesse. Difatti, se si guardassero le cose al lume della fede, quale più alta dignità potrebbero i genitori cristiani desiderare per i loro figli, quale ministero più nobile di quello che, come abbiamo detto, è degno della venerazione degli uomini e degli Angeli? Una lunga e dolorosa esperienza poi insegna che una vocazione tradita (non si creda troppo severa la parola) è fonte di lagrime non solo per i figli, ma anche per gli sconsigliati genitori; e Dio non voglia che tali lagrime siano troppo tardive, da diventare lagrime eterne.

IV. Esortazione

La pratica di santificarsi

Ed ora a voi, diletti Figli, rivolgiamo direttamente la Nostra paterna parola, quanti siete sacerdoti dell’Altissimo, dell’uno e dell’altro clero, sparsi per tutto l’orbe cattolico; a voi “gloria Nostra e Nostro gaudio”, che portate con tanta generosità il ” peso e l’ardore della giornata ” e così validamente aiutate Noi e i Nostri Fratelli nell’episcopato, nell’adempimento del dovere di pascere il gregge di Cristo, giunga il Nostro paterno ringraziamento e il Nostro fervido incoraggiamento insieme con l’accorato appello che, pur conoscendo ed apprezzando il vostro encomiabile zelo, vi rivolgiamo nei bisogni dell’ora presente. Quanto più questi si vanno aggravando, tanto più deve crescere ed intensificarsi l’opera vostra redentrice; poiché “voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo”. Ma perché l’opera vostra sia davvero benedetta da Dio e copiosi ne siano i frutti, è necessario ch’essa sia fondata nella santità della vita. Questa è, come abbiamo dichiarato di sopra, la prima e più importante dote del sacerdote cattolico: senza questa, le altre doti poco valgono; con questa, anche se le altre doti non sono in grado eminente, si possono compiere meraviglie, come avvenne (per citare solo qualche esempio) in San Giuseppe da Copertino, e, in tempi a noi più vicini, in quell’umile Curato d’Ars, San Giovanni Maria Vianney, già ricordato, che Noi volemmo assegnare a tutti i Parroci come modello e celeste Patrono. Pertanto, “considerate – vi diremo con l’Apostolo delle Genti – considerate la vostra vocazione”; e questa considerazione non potrà non farvi apprezzare sempre più quella grazia, che vi fu data nella sacra ordinazione, e non spronarvi “a diportarvi in modo degno della chiamata che vi fu fatta”.

Raccoglimento e preghiera

A ciò vi gioverà immensamente quel mezzo, che il Nostro predecessore di santa memoria Pio X nella sua così pia e così affettuosa Exhortatio ad Clerum catholicum, la cui assidua lettura caldamente vi raccomandiamo, pone in primo luogo tra i più validi aiuti per custodire ed accrescere la grazia sacerdotale; quel mezzo che Noi stessi più volte, e soprattutto con la Nostra Lettera Enciclica Mens Nostra, abbiamo paternamente e solennemente inculcato a tutti i Nostri figli, ma più specialmente ai sacerdoti; cioè l’uso frequente degli Esercizi spirituali. E come al chiudersi del Nostro giubileo sacerdotale non abbiamo creduto di poter dare ai Nostri figli un migliore e più salutare ricordo di quella fausta ricorrenza, che con l’invitarli per mezzo della ricordata Lettera ad attingere più largamente l’acqua viva che sale alla vita eterna, a questa fonte perenne aperta da Dio provvidenzialmente nella sua Chiesa, così ora a voi, diletti figli, che più ci siete cari, perché più direttamente lavorate con Noi all’avvento del Regno di Cristo sulla terra, non crediamo di poter meglio mostrare il Nostro paterno affetto che con l’esortarvi vivamente a valervi di questo stesso mezzo di santificazione, nel miglior modo possibile, secondo i principi e le norme da Noi esposte nella memorata Enciclica, chiudendovi nel sacro ritiro degli Esercizi spirituali, non solo nei tempi e nella misura strettamente prescritta dalle leggi ecclesiastiche, ma anche più spesso e più a lungo che vi sarà concesso, prendendovi poi ogni mese un giorno per consacrarlo ad una più fervida orazione, ad un maggior raccoglimento, come hanno sempre usato i più zelanti sacerdoti. – Nel ritiro e nel raccoglimento potrà pure “ravvivare la grazia di Dio” chi mai fosse entrato “nell’eredità del Signore” non per la via diritta della vera vocazione, ma per fini terreni o meno nobili; poiché, essendo anch’esso ormai indissolubilmente legato a Dio e alla Chiesa, non gli rimane che di seguire il consiglio di San Bernardo: “Procura d’ora in avanti di rendere buone le tue vie e i tuoi affetti, e santo il tuo ministero; e così se la santità della vita non è preceduta, che almeno essa segua”. La grazia di Dio, e segnatamente quella che è propria del sacramento dell’Ordine, non mancherà di aiutarlo, se sinceramente lo desidera, a correggere quello che allora vi fu di difettoso nelle disposizioni personali, e a compiere tutti i doveri del proprio stato, comunque ci sia entrato. – Tutti poi dal raccoglimento e dalla preghiera uscirete rinfrancati contro le insidie del mondo, pieni di santo zelo per la salute delle anime, tutti infiammati d’amore in Dio, quali devono essere i sacerdoti, più che mai in questi tempi, nei quali, accanto a tanta corruzione e diabolica perversità, si sente in tutte le parti del mondo, un potente risveglio religioso nelle anime, un soffio dello Spirito Santo che pervade il mondo per santificarlo e per rinnovare con la sua forza creatrice la faccia della terra. Pieni di questo Spirito Santo, comunicherete questo amor di Dio come sacro incendio a quanti vi si accosteranno, diventando davvero portatori di Cristo in mezzo alla società così sconvolta, la quale solo da Gesù Cristo può sperare salvezza perché egli solo e sempre è “veramente il Salvatore del mondo”. E prima di terminare, a voi, o giovani chierici, che vi educate al sacerdozio, rivolgiamo con una tenerezza tutta particolare il Nostro pensiero e la Nostra parola, e dall’intimo del cuore vi raccomandiamo di prepararvi con ogni impegno alla grande missione, a cui Dio vi chiama. Voi siete le speranze della Chiesa e dei popoli, che molto, tutto anzi aspettano da voi, perché da voi aspettano quella attiva e vivificante cognizione di Dio e di Gesù Cristo, in cui consiste la vita eterna. Cercate dunque nella pietà, nella purezza, nell’umiltà, nell’obbedienza, nella disciplina e nello studio, di formarvi sacerdoti davvero secondo il Cuore di Dio; persuadetevi che la diligenza, con cui attenderete a questa vostra solida formazione, per quanto accurata e solerte, non sarà mai eccessiva, perché da essa in gran parte dipende tutta la vostra futura attività apostolica. Fate che la Chiesa, nel giorno della vostra sacerdotale ordinazione, possa trovarvi davvero quali vi vuole, che cioè ” una sapienza celeste, costumi illibati e una diuturna osservanza della giustizia vi renda commendevoli”, affinché poi “il profumo della vostra vita sia di consolazione alla Chiesa di Cristo, perché con la predicazione e con l’esempio abbiate ad edificare la casa, cioè la famiglia di Dio”. Solo così potrete continuare le gloriose tradizioni del sacerdozio cattolico e affrettare l’ora auspicatissima in cui sarà dato all’umanità di godere i frutti della Pace di Cristo nel Regno di Cristo.

Nuova messa votiva

Ed ora, terminando questa Nostra Lettera, a voi, Venerabili Fratelli Nostri nell’Episcopato, e per mezzo vostro a tutti i Nostri diletti Figli dell’uno e dell’altro Clero, siamo lieti di annunziare che a solenne testimonianza del Nostro grato animo per quella santa cooperazione con cui essi, dietro la guida e l’esempio vostro, hanno reso così largamente fruttuoso alle anime questo Anno Santo della Redenzione, e più ancora perché sia perenne il pio ricordo e la glorificazione di quel sacerdozio, del quale il Nostro e il vostro, Venerabili Fratelli, e di quanti sono sacerdoti di Cristo, è la partecipata continuazione, abbiamo creduto opportuno, dopo udito il consiglio della Sacra Congregazione dei Riti, di preparare una propria Messa votiva “de summo et aeterno Iesu Christi Sacerdotio“; Messa, che abbiamo il piacere e la consolazione di pubblicare insieme a questa Nostra Lettera Enciclica, e che potrà celebrarsi nelle ferie quinte, secondo le prescrizioni liturgiche. – Non Ci resta, Venerabili Fratelli, che impartire a tutti quell’Apostolica e paterna Benedizione che tutti aspettano e desiderano dal comun Padre; e sia benedizione di ringraziamento per tutti i benefici largiti dalla divina Bontà in questi Anni Santi straordinari della Redenzione, sia benedizione augurale per il nuovo anno che sta per cominciare.

Dato a Roma presso San Pietro, il 20 dicembre 1935, nel LVI anniversario del Nostro sacerdozio, del Nostro Pontificato l’anno decimoquarto.

PIUS PP. XI

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XI, “AD CATHOLICI SACERDOTII” (I)

Anche questa Enciclica è l’ennesimo capolavoro magisteriale di S. S. PIO XI, che si volge a delineare l’istituzione fondamentale per la vita dello spirito dell’intera umanità, quella del Sacerdozio cattolico, divinamente istituito da N. S. Gesù Cristo, e divinamente assistito dall’opera dello Spirito Santo. Questa figura, immagine di Cristo operante nella sua Chiesa sulla terra, vero alter Christus, dopo il conciliabolo vaticano ed il “colpo si stato” della sinagoga di satana infiltrata ubiquitariamente nelle sedi storiche della Chiesa Cattolica romana, è stata eclissata e relegata nelle catacombe odierne, sostituita da un falso personaggio, alter antichristus, che, senza averne titolo canonico, finge di offrire il Sacrificio eucaristico e dispensare i sacramenti divinamente istituiti dal divin Figlio di Dio, predicare una catechesi ed una morale sempre più falsa ed ingannevole affettando falsa pietà e ancor più falsa carità, con lo scopo ben definito, secondo la teologia ed i canoni della tradizione ecclesiastica, di sprofondare con se stessi un numero impressionante di anime alla perdizione eterna dell’anima. È un castigo che il Signore Iddio sta infliggendo a tutta l’umanità dal 26 ottobre del 1958, quando, messo da parte (cioè cacciato via senza riguardi) il Santo Padre Gregorio XVII – sostituito dal massone 33° Roncalli -, il popolo cristiano dell’orbe si è ritrovato scismatico e poi apostata di fatto guidato dai falsi sacerdoti invalidamente ordinati dall’orrido e blasfemo rito montiniano a partire dal 18 giugno del 1968 (e non parliamo qui dei sacrileghi eretici pseudotradizionalisti di marca lefebvriana e sedevavacantista). Ma il pusillus grex cattolico, fedele al vero Papa ed alla sua vera Chiesa cattolica romana, l’unica fondata ed abitata da Gesù Cristo, nell’attesa paziente del trionfo del Cuore Immacolato della Vergine Maria e del soffio della bocca del Cristo che bruciandolo inabisserà l’uomo della perdizione nello stagno di fuoco eterno con la bestia, il falso profeta ed il drago infernale, può consolarsi rileggendo questo meraviglioso documento, aspettando le figure sacerdotali qui sapientemente definite secondo il pensiero autenticamente cattolico del Santo Padre Pio XI. Et IPSA conteret caput tuum…

N. B. La Lettera è divisa, per la sua lunghezza, in due parti, onde consentirne una lettura più penetrante e proficua sotto l’aspetto dottrinale.

LETTERA ENCICLICA
AD CATHOLICI SACERDOTII
(I)

AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA:
SUL SACERDOZIO CATTOLICO.
PIO PP. XI
VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE.

Sin da quando, per arcano disegno della divina Provvidenza, Ci vedemmo sollevati a questo supremo vertice del sacerdozio cattolico, non abbiamo mai cessato di rivolgere le nostre cure più sollecite e più affettuose a quelli tra gli innumerevoli figli che Dio Ci ha dati, i quali, insigniti del carattere sacerdotale, hanno la missione di essere ” il sale della terra e la luce del mondo “, e in modo ancora più speciale ai dilettissimi giovani che si vanno educando all’ombra del santuario e si preparano a questa nobilissima missione. – Negli stessi primi mesi del Nostro Pontificato, prima ancora di rivolgere la Nostra solenne parola a tutto l’orbe cattolico, Ci demmo premura, con la Lettera Apostolica Officiorum omnium del 11 agosto 1922 indirizzata al diletto Figlio nostro, Prefetto della Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi, di tracciare le direttive, a cui deve ispirarsi la formazione sacerdotale dei giovani leviti. Ed ogni qualvolta la pastorale sollecitudine Ci muove a considerare più in particolare gli interessi e i bisogni della Chiesa, la Nostra attenzione prima di ogni altra cosa si dirige ai sacerdoti e ai chierici, che formano sempre l’oggetto principale delle Nostre cure. – Di questo Nostro speciale interessamento per il sacerdozio sono prova eloquente i numerosi Seminari che abbiamo o eretti dove ancora non erano, o forniti, non senza grande dispendio, di nuove sedi ampie e decorose, o meglio provveduti di mezzi e di persone onde possano più degnamente raggiungere l’alto loro scopo. – Se poi in occasione del Nostro giubileo sacerdotale abbiamo consentito che ne fosse solennemente festeggiata la fausta ricorrenza e con paterno compiacimento abbiamo secondato le manifestazioni di filiale affetto che Ci venivano da tutte le parti del mondo, ciò fu perché, più che come un ossequio alla Nostra persona, consideravamo quella celebrazione come una doverosa esaltazione della dignità e del carattere sacerdotale. – E anche la riforma degli studi nelle Facoltà ecclesiastiche, da Noi decretata con la Costituzione apostolica Deus scientiarum Dominus del 24 maggio 1931, fu da Noi voluta col precipuo intento di accrescere ed elevare sempre più la cultura e la dottrina dei sacerdoti. – Ma è questo un argomento di tanta e così universale importanza, che ci sembra opportuno di trattarne più di proposito in questa Nostra Lettera Enciclica, affinché non solamente quelli che già posseggono il dono inestimabile della fede, ma anche quanti con rettitudine e sincerità di cuore vanno in cerca della verità, riconoscano la sublimità del Sacerdozio cattolico e la sua provvidenziale missione nel mondo, e soprattutto la riconoscano e la apprezzino quelli che ad essa sono chiamati: argomento particolarmente opportuno alla fine di quest’anno che a Lourdes, ai candidi raggi dell’Immacolata e fra i fervori dell’ininterrotto triduo eucaristico, ha visto il Sacerdozio cattolico, di ogni lingua e di ogni rito, circonfuso di luce divina nello splendido tramonto del Giubileo della Redenzione dall’Urbe esteso all’Orbe cattolico; di quella Redenzione, della quale i Nostri cari e venerati sacerdoti sono i ministri, mai tanto operosi e benefici quanto in questo Anno Santo straordinario, in cui, come dicemmo nella Costituzione apostolica Quod nuper, si è pure celebrato il XIX centenario della Istituzione del Sacerdozio. – E con ciò, mentre questa armonicamente s’innesta alle Nostre precedenti Encicliche, con cui abbiamo voluto proiettare la luce della dottrina cattolica sui più gravi problemi che travagliano la vita moderna, sentiamo pure di dare a quegli stessi Nostri solenni ammaestramenti un opportuno complemento. Difatti il sacerdote è, per vocazione e mandato divino, il precipuo apostolo e l’indefesso promotore dell’educazione cristiana della gioventù; il sacerdote in nome di Dio benedice il Matrimonio cristiano e ne difende la santità ed indissolubilità contro gli attentati e le deviazioni suggerite dalla cupidigia e dalla sensualità; il sacerdote porta il più valido contributo alla soluzione o almeno alla mitigazione dei conflitti sociali, predicando la fratellanza cristiana, a tutti ricordando i mutui doveri della giustizia e della carità evangelica, pacificando gli animi inaspriti dal disagio morale ed economico, additando ai ricchi e ai poveri gli unici beni a cui tutti possono e devono aspirare; il sacerdote finalmente è il più efficace banditore di quella crociata di espiazione e di penitenza, a cui abbiamo invitato tutti i buoni per riparare le bestemmie, le turpitudini e i delitti, che disonorano l’umanità nell’ora che volge, un’ora che come poche altre nella storia ha tanto bisogno della misericordia divina e de’ suoi perdoni. E i nemici della Chiesa ben sanno l’importanza vitale del sacerdozio, contro cui appunto, come abbiamo già lamentato per il Nostro diletto Messico, dirigono prima di tutto i loro colpi, per toglierlo di mezzo e sgombrarsi la via alla sempre desiderata e mai ottenuta distruzione della Chiesa stessa.

I. La sublime dignità:

Alter Christus

Il genere umano sentì sempre il bisogno di avere dei sacerdoti, degli uomini cioè che per missione ufficiale loro affidata fossero i mediatori tra Dio e gli uomini, e a questa mediazione interamente consacrati, ne facessero il compito della loro vita: deputati ad offrire a Dio pubbliche preghiere e sacrifici a nome della società, che pur essa, in quanto tale, ha l’obbligo di rendere a Dio culto pubblico e sociale, di riconoscere in Lui il suo supremo Signore e primo principio, tendere a Lui come ad ultimo fine, ringraziarlo, propiziarlo. Difatti presso i popoli, di cui conosciamo gli usi, purché non costretti dalla violenza ad andar contro le leggi più sacre della natura umana, si trovano dei sacerdoti, quantunque spesso al servizio di false divinità: dovunque si professa una religione, dovunque si ergono altari, là vi è anche un sacerdozio, circondato da speciali mostre di onore e di venerazione. – Ma ai fulgori della rivelazione divina il sacerdote apparisce rivestito di una dignità di gran lunga maggiore, della quale è lontano annuncio la misteriosa, veneranda figura di Melchisedech, sacerdote e re che San Paolo rievoca con riferimento alla persona e al sacerdozio di Gesù Cristo stesso. – Il sacerdote, secondo la magnifica definizione che ne dà lo stesso San Paolo, è bensì un uomo “preso di mezzo agli uomini”, ma “costituito a vantaggio degli uomini per i loro rapporti con Dio”: il suo ufficio non ha per oggetto le cose umane e transitorie, per quanto sembrino alte e pregevoli, ma le cose divine ed eterne; cose, che possono essere per ignoranza derise e disprezzate, che possono anche venire osteggiate con malizia e furore diabolico, come una triste esperienza lo ha spesso provato e la prova pur oggi, ma che stanno sempre al primo posto nelle aspirazioni individuali e sociali dell’umanità, la quale sente irresistibilmente di essere fatta per Iddio e di non potersi riposare se non in Lui. – Nella legge mosaica al sacerdozio, istituito per disposizione divino-positiva promulgata da Mosè sotto l’ispirazione di Dio, vengono minutamente assegnati i compiti, le mansioni, i riti determinati. Sembra che Dio nella sua sollecitudine volesse nella mente ancora primitiva del popolo ebreo imprimere una grande idea centrale che, nella storia del popolo eletto, irradiasse la sua luce su tutti gli avvenimenti, le leggi, le dignità, gli uffici: il sacrificio e il sacerdozio; perché, per la fede nel futuro Messia, diventasse fonte di speranza, di gloria, di forza, di liberazione spirituale. Il tempio di Salomone, mirabile per ricchezza e splendore e ancor più mirabile ne’ suoi ordinamenti e ne’ suoi riti, eretto all’unico vero Dio come tabernacolo della divina Maestà sulla terra, era pure un altissimo poema cantato a quel sacrificio e a quel sacerdozio, che, quantunque ombra e simbolo, racchiudevano tanto mistero da far inchinare riverente il vincitore Alessandro Magno davanti alla ieratica figura del Sommo Sacerdote; e Dio stesso faceva sentire l’ira sua all’empio re Baldassare, perché gozzovigliando aveva profanato i vasi sacri del tempio. Eppure quell’antico sacerdozio non traeva la sua più grande maestà e gloria se non dall’essere una prefigurazione del Sacerdozio cristiano, del Sacerdozio del nuovo ed eterno Testamento confermato col Sangue del Redentore del mondo, di Gesù Cristo vero Dio e vero uomo! – L’Apostolo delle Genti scultoriamente compendia quanto si può dire intorno alla grandezza, alla dignità e ai compiti del sacerdozio cristiano, con queste parole: “Così ci consideri ognuno come ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio”. Il sacerdote è ministro di Gesù Cristo; è dunque strumento nelle mani del divin Redentore per la continuazione dell’opera sua redentrice in tutta la sua mondiale universalità e divina efficacia, per la continuazione di quell’opera mirabile che trasformò il mondo; anzi il sacerdote, come ben a ragione si suol dire, è davvero alter Christus perché continua in qualche modo Gesù Cristo stesso: “Come il Padre ha mandato me, anch’Io mando voi “, continuando anch’esso come Gesù a dare, secondo il canto angelico, “gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”.

Potere ineffabile

E in primo luogo, come insegna il Concilio di Trento, Gesù Cristo nell’ultima Cena istituì il sacrificio ed il sacerdozio della Nuova Alleanza: “… Egli adunque, Dio e Signore nostro, benché stesse per offrire se medesimo una volta sola a Dio Padre, mediante la morte sull’altare della croce, per operarvi una redenzione eterna; tuttavia, poiché il suo sacerdozio non doveva estinguersi con la sua morte, nell’ultima Cena, nella notte in cui veniva tradito, per lasciare alla diletta sua sposa la Chiesa un Sacrificio visibile, come è richiesto dalla natura degli uomini, col quale venisse rappresentato quel Sacrificio cruento che doveva operarsi una volta sola sulla croce, e affinché di quel Sacrificio rimanesse il ricordo in perpetuo e venisse applicata l’efficacia per la remissione delle colpe che da noi si commettono ogni giorno, dichiarandosi costituito sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech, offrì a Dio Padre il Corpo e il Sangue suo sotto le specie di pane e di vino, e sotto le apparenze di queste medesime cose, diede a gustare quel Corpo e quel Sangue divino agli Apostoli, cui allora costituiva sacerdoti del Nuovo Testamento, e con le parole: Fate questo in memoria di me, comandò agli stessi Apostoli e ai loro successori nel sacerdozio di offrire quella medesima oblazione”. E da allora, gli Apostoli e i loro successori nel sacerdozio cominciarono ad innalzare verso il cielo quella “oblazione monda” predetta da Malachia per la quale il Nome di Dio è grande tra le genti e che, offerta ormai in ogni parte della terra e in ogni ora del giorno e della notte, continuerà ad offrirsi perennemente sino alla fine del mondo: vera azione sacrificale, e non meramente simbolica, che ha una reale efficacia per la riconciliazione dei peccatori con la divina Maestà: “Poiché il Signore, placato da una tale oblazione, concedendo la grazia e il dono della penitenza, rimette le colpe e i peccati anche gravissimi”. La ragione di ciò la indica lo stesso Concilio Tridentino con queste parole: “Una sola e medesima è la vittima, e Colui che ora la offre, mediante il ministero dei sacerdoti, è quello stesso che allora offrì Se medesimo sulla Croce, essendone diverso soltanto il modo”. – Donde apparisce luminosamente l’ineffabile grandezza del sacerdote umano, che ha il potere sullo stesso Corpo di Gesù Cristo, rendendolo presente sui nostri altari ed offrendolo in nome di Cristo stesso, vittima infinitamente grata alla Divina Maestà. “Mirabili cose sono queste — esclama giustamente San Giovanni Crisostomo — cose mirabili e piene di stupore!”. – Oltre questo potere che esercita sul Corpo reale di Cristo, il sacerdote ha ricevuto altri poteri eccelsi e sublimi sul Corpo mistico di Lui. Non abbiamo bisogno, Venerabili Fratelli, di dilungarCi ad esporre questa bella dottrina del Corpo mistico di Gesù Cristo, così cara a San Paolo; questa bella dottrina, che ci mostra la persona del Verbo fatto carne insieme con tutti i suoi fratelli, ai quali giunge l’influsso soprannaturale che da Lui deriva, formanti con Lui, come Capo, un solo corpo di cui essi sono le membra. Orbene il sacerdote è costituito “dispensatore dei misteri di Dio” in favore di queste membra del Corpo mistico di Gesù Cristo, ministro ordinario com’è di quasi tutti i Sacramenti, che sono i canali attraverso i quali scorre a beneficio dell’umanità la grazia del Redentore.

Dispensatore dei misteri di Dio

Il Cristiano, quasi ad ogni passo importante della sua mortale carriera, trova al suo fianco il sacerdote in atto di comunicargli o accrescergli col potere ricevuto da Dio questa grazia, che è la vita soprannaturale dell’anima. Appena nasce alla vita del tempo, il sacerdote lo rigenera col Battesimo ad una vita più nobile e più preziosa, la vita soprannaturale, e lo fa figlio di Dio e della Chiesa di Gesù Cristo; per fortificarlo a combattere generosamente le lotte spirituali, un sacerdote rivestito di speciale dignità lo fa soldato di Cristo nella Cresima: appena è capace di discernere ed apprezzare il Pane degli Angeli, il sacerdote glielo porge, cibo vivo e vivificante disceso dal cielo; se caduto, il sacerdote lo rialza in nome di Dio e con Lui lo riconcilia per mezzo della Penitenza; se Iddio lo chiama a formarsi una famiglia ed a collaborare con Lui alla trasmissione della vita umana nel mondo, per aumentare prima il numero dei fedeli sulla terra e poi quello degli eletti nel cielo, il sacerdote è là a benedire le sue nozze e il suo casto amore; e quando il Cristiano, giunto alla soglia dell’eternità, ha bisogno di forza e di coraggio prima di presentarsi al tribunale del Giudice divino, il sacerdote si china sulle membra doloranti dell’infermo e lo riconsacra e conforta con l’Olio Santo. Dopo di aver così accompagnato il Cristiano attraverso il pellegrinaggio terreno fino alle porte del cielo, il sacerdote ne accompagna il corpo alla sepoltura con i riti e le preci della speranza immortale, e ne segue l’anima sino oltre le soglie dell’eternità per aiutarla coi suffragi cristiani, se mai abbisognasse ancora di purificazione e di refrigerio. Così dalla culla alla tomba, anzi sino al cielo, il sacerdote è accanto ai fedeli, guida, conforto, ministro di salute, distributore di grazia e di benedizioni. – Ma fra tutti questi poteri che il sacerdote ha sul Corpo mistico di Cristo, a vantaggio dei fedeli, uno ve n’è sul quale non possiamo contentarci del semplice accenno testé fatto: quella postestà, “che Iddio non ha data né agli Angeli né agli Arcangeli”, come dice San Giovanni Crisostomo, la potestà cioè di rimettere i peccati: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi ed a chi li riterrete saranno ritenuti”. Potestà formidabile, tanto propria di Dio, che la stessa umana superbia non poteva comprendere fosse possibile che venisse comunicata all’uomo: “Chi può rimettere i peccati, se non il solo Dio?”. E vedendola esercitata da un semplice uomo qual è il sacerdote, c’è davvero da chiedersi, non per scandalo farisaico, ma per riverente stupore di tanta dignità: “Chi è costui, che rimette anche i peccati?”. Ma appunto l’Uomo-Dio, che aveva ed ha “sulla terra il potere di rimettere i peccati”, l’ha voluto trasmettere ai suoi sacerdoti per venir incontro, con divina liberalità e misericordia, a quel bisogno di purificazione morale che è insito alla coscienza umana. Quale conforto per l’uomo colpevole, trafitto dal rimorso e pentito, udire la parola del sacerdote, che in nome di Dio gli dice: “Io ti assolvo dai tuoi peccati”! E l’udirla dalla bocca di uno, che a sua volta avrà bisogno egli pure di chiederla per sé ad un altro sacerdote, non solo non avvilisce il dono misericordioso, ma lo fa apparire più grande, facendoci meglio intravedere, attraverso la fragile creatura, la mano di Dio, per la cui virtù si opera il portento. Ed è perciò che — per usare le parole di un illustre scrittore, il quale tratta anche di cose sacre con una competenza rara a trovarsi in un laico — “quando un sacerdote, fremendo in ispirito della sua indegnità e dell’altezza delle sue funzioni, ha stese sul nostro capo le sue mani consacrate; quando, umiliato di trovarsi il dispensatore del Sangue dell’alleanza, stupito ad ogni volta di proferire le parole che danno la vita, peccatore egli ha assolto un peccatore, noi alzandoci da’ suoi piedi, sentiamo di non aver commessa una viltà… Siamo stati ai piedi di un uomo che rappresentava Gesù Cristo… vi siamo stati per acquistare la qualità di liberi e di figliuoli di Dio”. – E tali poteri eccelsi, conferiti al sacerdote in uno speciale sacramento a ciò ordinato, non sono in lui transitori e passeggeri, ma stabili e perpetui, congiunti come sono ad un carattere indelebile impresso nell’anima sua, per cui è diventato “sacerdos in æternum“, a similitudine di Colui del cui eterno sacerdozio è fatto partecipe: carattere, che il sacerdote, anche tra le più deplorevoli aberrazioni in cui per umana fragilità può cadere, non potrà mai cancellare dall’anima sua. Ma insieme con questo carattere e con questi poteri il sacerdote, per il sacramento dell’Ordine, riceve nuova e speciale grazia con speciali aiuti, per i quali, se con la sua libera e personale cooperazione fedelmente asseconderà l’azione divinamente potente della grazia stessa, egli potrà degnamente assolvere tutti gli ardui doveri dello stato sublime, a cui fu chiamato, e portare, senza restarne oppresso, quelle formidabili responsabilità inerenti al ministero sacerdotale, che fecero tremare perfino i più forti atleti del sacerdozio cristiano, come un San Giovanni Crisostomo, Sant’Ambrogio, San Gregorio Magno, San Carlo e tanti altri.

Apostolo della verità e della carità

Ma il sacerdote cattolico è ministro di Cristo e dispensatore de’ misteri di Dio, anche con la parola, con quel ” ministero della parola”, che è un diritto inalienabile e insieme un dovere imprescrittibile impostogli da Gesù Cristo medesimo: “Andate adunque e ammaestrate tutte le genti,… insegnando loro di osservare tutto quello che vi ho comandato”. La Chiesa di Cristo, depositaria e custode infallibile della divina rivelazione, per mezzo de’ suoi sacerdoti sparge i tesori delle celesti verità, predicando colui che è “luce vera, che illumina ogni uomo che viene a questo mondo”, spargendo con divina profusione quel seme, piccolo e disprezzato allo sguardo profano del mondo, ma che, come l’evangelico grano di senape, ha in sé la virtù di mettere radici salde e profonde nelle anime sincere e sitibonde di verità e di renderle, come alberi robusti, incrollabili anche tra le più forti bufere. – In mezzo alle aberrazioni dell’umano pensiero, ebbro di una falsa libertà da ogni legge e da ogni freno, in mezzo alla corruzione spaventevole dell’umana malizia, si erge faro luminoso la Chiesa, che condanna ogni deviazione a destra o a sinistra della verità, che indica a tutti e a ciascuno la via diritta da seguire; e guai se anche questo faro, non diciamo si spegnesse, il che è impossibile per le promesse infallibili su cui è basato, ma venisse impedito dal diffondere largamente i suoi raggi benefici! Già vediamo coi nostri occhi dove abbia condotto il mondo l’aver rigettato superbamente la divina rivelazione e l’aver seguito, sia pure sotto lo specioso titolo di scienza, false teorie filosofiche e morali. Che se nella china dell’errore e del vizio non si è ancora caduti più in basso, lo si deve ai raggi della verità cristiana che sono pur sempre diffusi nel mondo. – Orbene la Chiesa esercita il suo “ministero della parola” per mezzo dei sacerdoti, distribuiti sapientemente per i vari gradi della sacra gerarchia, ch’essa invia in ogni plaga, banditori indefessi della buona novella, che sola può conservare o portare o far risorgere la vera civiltà. La parola del sacerdote scende nelle anime ed arreca loro luce e conforto; la parola del sacerdote, anche in mezzo al turbine delle passioni, si eleva serena ed annuncia impavida la verità e inculca il bene: quella verità che rischiara e risolve i più gravi problemi della vita umana; quel bene che nessuna sventura, nemmeno la morte, può togliere, che la morte anzi assicura e rende immortale. – Se poi si considerino ad una ad una le verità stesse, che il sacerdote deve più spesso inculcare per essere fedele ai doveri del suo ministero, e se ne ponderiamo l’intima forza, ben si comprende quanto sia grande e benefico, per l’elevazione morale e la pacificazione e tranquillità sociale dei popoli, l’influsso del sacerdote: quando, per esempio, ricorda ai grandi e ai piccoli la fugacità della vita presente, la caducità dei beni terreni, il valore dei beni spirituali e dell’anima immortale, la severità dei divini giudizi, la santità incorruttibile dell’occhio divino che scruta i cuori di tutti e “renderà a ciascuno secondo il suo operato”. Nulla di più acconcio che questi ed altri simili insegnamenti, per temperare quella febbrile avidità di godimenti, quella sfrenata cupidigia dei beni temporali, che degradano oggi tante anime e spingono le varie classi della società a combattersi come nemiche, anziché aiutarsi a vicenda con la mutua collaborazione. In mezzo poi al cozzo di tanti egoismi, nel divampare di tanti odi, fra tanti cupi disegni di vendetta, nulla di più opportuno e di più efficace che proclamare alto il “comandamento nuovo” di Gesù, il precetto della carità, la quale si estende a tutti, non conosce barriere né confini di nazioni o di popoli, non eccettua neppure il nemico. – Una gloriosa esperienza di ormai venti secoli dimostra tutta l’efficacia salutare della parola sacerdotale, che essendo eco fedele e ripercussione di quella “parola di Dio”, che “è viva ed efficace e più tagliente di qualunque spada a due tagli”, anch’essa arriva “sino alla divisione dell’anima e dello spirito”, suscita eroismi di ogni genere, in ogni classe e in ogni luogo, e crea l’azione disinteressata dei cuori più generosi. Tutti i benefici, che la civiltà cristiana ha portato nel mondo, si devono, almeno nella loro radice, alla parola e all’opera del sacerdozio cattolico. E tale passato basterebbe da sé a dare affidamento anche per l’avvenire, se non avessimo “una parola più sicura” nelle promesse infallibili di Cristo. Anche l’opera missionaria, che manifesta in maniera così luminosa la potenza di espansione, di cui, per divina virtù, è dotata la Chiesa, è promossa ed attuata principalmente dal sacerdote, che, pioniere di fede e di carità, a costo di innumerevoli sacrifici, estende e dilata il Regno di Dio sulla terra.

Mediatore tra Dio e gli uomini

Il sacerdote finalmente – continuando anche in ciò la missione di Cristo, il quale “passava la notte pregando Dio” e “sempre vive ad intercedere per noi”.— come pubblico ed ufficiale intercessore dell’umanità presso Dio, ha l’incarico e il mandato di offrire a Dio in nome della Chiesa, non solo il sacrificio propriamente detto, ma anche il “sacrificio della lode” con la preghiera pubblica ed ufficiale; egli, con salmi, preci e cantici, tolti in gran parte dai Libri ispirati, paga a Dio ogni giorno a più riprese questo doveroso tributo di adorazione e compie questo necessario ufficio d’impetrazione per l’umanità, oggi più che mai afflitta e più che mai bisognosa di Dio. Chi può dire quanti castighi la preghiera sacerdotale allontana dal capo dell’umanità prevaricatrice e quanti benefici le procura ed ottiene? Se la preghiera anche privata ha promesse divine così magnifiche e così solenni, come quelle che Gesù Cristo le ha fatto, quanto più potente sarà la preghiera innalzata ex officio in nome della Chiesa, diletta Sposa del Redentore? E il Cristiano, anche se troppo spesso immemore di Dio nella prosperità, conserva nel fondo dell’animo suo la fiducia nella preghiera, sente che la preghiera può tutto e, quasi per santo istinto, in ogni frangente, in ogni pericolo privato o pubblico, ricorre con singolare fiducia alla preghiera sacerdotale. Ad essa domandano conforto gli sventurati di ogni specie; ad essa si ricorre per implorare l’aiuto divino nelle varie vicende di questo terreno esilio. Veramente “il sacerdote sta nel mezzo tra Dio e l’umana natura, da una parte arrecando a noi i benefici di Dio, dall’altra presentando a Dio le nostre preghiere, riconciliandocelo se adirato”. – Del resto, come accennavamo fin da principio, i nemici stessi della Chiesa, a modo loro, mostrano di sentire tutta la dignità e l’importanza del sacerdozio cattolico, dirigendo contro questo i loro primi e più feroci colpi, ben sapendo quanto sia intimo il nesso che intercede tra la Chiesa e i suoi sacerdoti. I più accaniti nemici del sacerdozio cattolico sono oggi i nemici stessi di Dio: ecco un titolo di onore che rende il sacerdozio più degno di rispetto e di venerazione.

II. Fulgido Ornamento

La virtù e la scienza

Sublimissima dunque, Venerabili Fratelli, è la dignità del sacerdote; e le debolezze, per quanto deplorevoli e dolorose, di alcuni indegni non possono oscurare lo splendore di tale altissima dignità, come non devono far dimenticare le benemerenze di tanti sacerdoti insigni per virtù, per sapere, per opere di zelo, per il martirio. Tanto più che l’indegnità del soggetto non rende punto invalida l’opera del suo ministero: la indegnità del ministro non intacca la validità dei Sacramenti, che ripetono la loro efficacia dal Sangue di Cristo, indipendentemente dalla santità dello strumento, ossia, come si esprime il linguaggio ecclesiastico, esercitano la loro azione ” ex opere operato”.  – È però verissimo che tale dignità, di per se stessa, esige in chi ne è investito una elevazione di mente, una purezza di cuore, una santità di vita corrispondente alle sublimità e santità dell’ufficio sacerdotale. Questo, come abbiamo detto, costituisce il sacerdote mediatore tra Dio e l’uomo in rappresentanza e per mandato di Colui che è “l’unico Mediatore tra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo”; deve quindi avvicinarsi quanto è possibile alla perfezione di Colui di cui fa le veci e rendersi sempre più gradito a Dio con la santità della vita e delle opere; poiché, più che il profumo degli incensi, più che il fulgore dei templi e degli altari, Iddio ama e gradisce la virtù. “Diventando (gli ordinati) mediatori tra Dio e il popolo — dice San Tommaso — devono risplendere per la bontà della coscienza davanti a Dio e per la buona fama presso gli uomini”. Dall’altra parte, invece, se chi tratta ed amministra le cose sante, mena una vita riprovevole, le profana e diventa sacrilego: “Quelli che non sono santi, non devono trattare le cose sante”. – Perciò già nell’Antico Testamento, Iddio comandava ai suoi sacerdoti e ai leviti: “Siano dunque santi, perché santo sono anch’Io, il Signore che li santifico”. E il sapientissimo Salomone, nel cantico per la dedicazione del tempio, questo appunto chiede al Signore per i figli di Aronne: “I tuoi sacerdoti si rivestano di giustizia e i tuoi santi esultino”. Orbene, Venerabili Fratelli, “se tanta perfezione e santità e alacrità – diremo con San Roberto Bellarmino – si esigeva in quei sacerdoti, che sacrificavano pecore e buoi e lodavano Dio per benefici temporali, che cosa mai non si dovrà esigere in quei sacerdoti che sacrificano l’Agnello divino e rendono grazie per benefici eterni?”. “Grande in vero— esclama San Lorenzo Giustiniani— è la dignità dei Prelati, ma maggiore ne è il peso; posti come sono in grado così elevato davanti agli occhi degli uomini, bisogna che anche si innalzino al sommo vertice delle virtù davanti agli occhi di Colui che tutto vede; altrimenti sono sopra gli altri non a proprio merito, ma a propria condanna”.

Imitatore di Cristo

E veramente tutti i titoli da Noi accennati più sopra per dimostrare la dignità del sacerdozio cattolico, ritornano ora qui come altrettanti argomenti per dimostrare il dovere che gli incombe di una sublime santità; poiché, come insegna l’Angelico Dottore, “ad esercitare convenientemente i sacri ordini non basta una bontà qualunque, ma si richiede una bontà eccellente; siccome quelli che ricevono il sacro Ordine vengono costituiti per ragione di esso sopra il popolo, così siano a lui superiori anche per la santità”. Infatti, il Sacrificio eucaristico, in cui s’immola la Vittima immacolata che toglie i peccati del mondo, in modo particolare esige che il sacerdote con una vita santa ed intemerata si renda il meno indegno possibile di Dio, a cui ogni giorno offre quella Vittima adorabile, che è lo stesso Verbo di Dio incarnato per nostro amore. “Rendetevi conto di quello che fate, imitate quello che trattate”, dice la Chiesa per bocca del Vescovo ai diaconi che stanno per essere consacrati sacerdoti. Inoltre il sacerdote è distributore della grazia di Dio, di cui i Sacramenti sono i canali; ma troppo disdirebbe a un tale distributore, se di quella grazia preziosissima egli stesso fosse privo o anche solo ne fosse in sé scarso estimatore e pigro custode. Di più egli deve insegnare la verità della fede: la verità religiosa non si insegna mai tanto degnamente e tanto efficacemente, che quando è accompagnata dalla virtù; poiché, come dice il comune effato: “Le parole commuovono, ma gli esempi trascinano”. Deve annunziare la legge evangelica; ma, per ottenere che gli altri l’abbraccino, l’argomento più accessibile e più persuasivo, con la grazia di Dio, è il vedere quella legge attuata nella vita di chi ne inculca l’osservanza. E San Gregorio Magno ne dà la ragione: “Più facilmente penetra nel cuore degli uditori quella voce che ha in suo favore la vita del predicatore, perché, mostrando con l’esempio come si debba operare, aiuta a fare quello che inculca”. Così appunto del divin Redentore dice la Sacra Scrittura che “cominciò a fare e ad insegnare”, e le turbe lo acclamavano, non tanto perché “nessun uomo ha mai parlato come quest’uomo”, quanto, piuttosto perché “ha fatto bene ogni cosa”. E al contrario “quelli che dicono e non fanno” si rendono simili agli Scribi e Farisei, a rimprovero dei quali lo stesso divin Redentore, pur salvando l’autorità della parola di Dio che annunziavano legittimamente, ebbe a dire al popolo che l’ascoltava: “Sulla cattedra di Mosè si sono assisi gli Scribi e i Farisei: osservate dunque e fate tutto quello che essi vi dicono; non vogliate però agire secondo le loro opere”. Un predicatore che non si sforzi di confermare con l’esempio della vita la verità che annunzia, distruggerebbe con una mano quello che edifica con l’altra. E invece Iddio largamente benedice le fatiche dei banditori del Vangelo, che prima di tutto attendono seriamente alla propria santificazione: essi vedono sbocciare copiosi i fiori e i frutti del loro apostolato e nel giorno delle messe “tornando andranno con gioia portando i loro covoni”. – Sarebbe un errore gravissimo e pericolosissimo se il sacerdote, trasportato da falso zelo, trascurasse la propria santificazione per tutto immergersi nelle opere esteriori, per quanto buone, del ministero sacerdotale. Con ciò, metterebbe in pericolo la propria eterna salute, come il grande Apostolo delle Genti temeva di se stesso: “Castigo il mio corpo e lo rendo schiavo, perché non avvenga che dopo aver predicato agli altri, io diventi riprovato”; e si esporrebbe anche a perdere, se non la grazia divina, certamente quell’unzione dello Spirito Santo, che dà una mirabile forza ed efficacia all’apostolato esterno. – Del resto, se a tutti i Cristiani è detto: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”, quanto più devono i sacerdoti considerare rivolte a sé queste parole del divino Maestro, chiamati come sono con vocazione speciale a seguirlo più da vicino! Perciò la Chiesa inculca apertamente a tutti i chierici questo gravissimo dovere, inserendolo nel codice delle sue leggi: “I chierici devono condurre una vita internamente ed esternamente più santa che i laici ed essere loro di preclaro esempio nella virtù e nella rettitudine dell’operare”. E siccome il sacerdote “è ambasciatore di Cristo”, egli deve vivere in modo da potere con verità far sue le parole dell’Apostolo: “Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo”, deve vivere come un altro Cristo, che col fulgore delle sue virtù illuminava ed illumina il mondo.

La pietà sacerdotale

Ma se tutte le virtù cristiane devono fiorire nell’anima sacerdotale, ve ne sono però alcune che in modo tutto particolare convengono e più si addicono al sacerdote. E prima di tutte la pietà, secondo l’esortazione dell’Apostolo al suo diletto Timoteo: “Esercitati nella pietà”. Infatti, se sono così intimi, così delicati e frequenti i rapporti del sacerdote con Dio, evidentemente essi devono essere accompagnati e come imbalsamati dal profumo della pietà; se “la pietà è utile a tutto”, essa è utile soprattutto al retto esercizio del ministero sacerdotale. Senza la pietà, le più sante pratiche, i più augusti riti del sacro ministero saranno eseguiti meccanicamente e per abitudine; mancherà loro lo spirito, l’unzione, la vita. La pietà però, di cui parliamo, Venerabili Fratelli, non è quella falsa pietà, leggera e superficiale, che piace ma non nutre, solletica ma non santifica; Noi intendiamo la pietà soda, la quale, non soggetta alle incessanti fluttuazioni del sentimento, si fonda sui principii della dottrina più sicura, ed è quindi formata di convinzioni salde, che resistono agli assalti e alle lusinghe della tentazione. E questa pietà, se deve in primo luogo filialmente dirigersi al Padre che sta nei cieli, deve però estendersi anche alla Madre divina, e con tanto maggior tenerezza nel sacerdote che non nei semplici fedeli, quanto più vere e profonde sono le somiglianze tra i rapporti del sacerdote con Cristo e i rapporti di Maria col suo divin Figliuolo.

La castità

Intimamente congiunta con la pietà, da cui deve ricevere consistenza e splendore, è l’altra gemma fulgidissima del sacerdote cattolico, la castità, alla cui perfetta e totale osservanza i chierici della Chiesa Latina costituiti negli Ordini maggiori sono tenuti con obbligo sì grave che, trasgredendolo, sarebbero rei anche di sacrilegio. – Che se tale legge non vincola in tutto il suo rigore i chierici delle Chiese orientali, anche tra essi però il celibato ecclesiastico è in onore e, in certi casi, specialmente per i supremi gradi gerarchici, è requisito necessario ed obbligatorio. – Un certo nesso tra questa virtù e il ministero sacerdotale si scorge anche solo col lume della ragione: essendo che “Dio è spirito”, appare conveniente che chi si dedica e si consacra al servizio di lui, in qualche modo “si spogli del corpo”. Già gli antichi Romani avevano intravisto questa convenienza; una loro legge così formulata: “Agli dèi accostati castamente”, viene citata dal più grande dei loro oratori, aggiungendovi questo commento: “La legge comanda di accostarsi agli dèi castamente, cioè con l’anima casta, in cui sta ogni cosa; non esclude però la castità del corpo, ma questo si deve intendere così, che, essendo l’anima di molto superiore al corpo, se si deve conservare la purezza del corpo, molto più si deve custodire quella dell’anima”. Nell’Antico Testamento, ad Aronne e a’ suoi figliuoli fu comandato da Mosè in nome di Dio di non uscire dal Tabernacolo e quindi di osservare la continenza nei sette giorni in cui si compiva la loro consacrazione. – Ma al sacerdozio cristiano, tanto superiore all’antico, conveniva una purezza molto maggiore. Infatti la legge del celibato ecclesiastico, la cui prima traccia scritta (la quale evidentemente suppone una prassi più antica) si riscontra in un canone del Concilio di Elvira all’inizio del secolo IV, quando ancora fremeva la persecuzione, non fa che dar forza di obbligazione a una certa, diremmo quasi, morale esigenza, che sgorga dal Vangelo e dalla predicazione apostolica. L’alta stima in cui il Divino Maestro mostrò di avere la castità, esaltandola come cosa superiore alla comune capacità, il saperlo “fiore di Madre Vergine” e fin dall’infanzia allevato nella famiglia verginale di Maria e Giuseppe, il vederlo prediligere le anime pure, come i due Giovanni, il Battista e l’Evangelista; l’udire il grande Apostolo Paolo, fedele interprete della legge evangelica e del pensiero di Cristo, predicare i pregi inestimabili della verginità, specialmente in ordine ad un più assiduo servizio di Dio: “Chi è senza moglie, ha sollecitudine delle cose del Signore, del compiacere a Dio”; tutto questo doveva quasi necessariamente far sì che i sacerdoti della Nuova Alleanza sentissero il fascino celestiale di questa eletta virtù, cercassero di essere nel numero di quelli “ai quali è stato concesso di comprendere questa parola”, e se ne imponessero spontaneamente l’osservanza, sancita poi ben presto da gravissima legge ecclesiastica in tutta la Chiesa Latina: affinché – come asseriva alla fine del secolo IV il Concilio Cartaginese II – “anche noi osserviamo quello che gli Apostoli hanno insegnato e la stessa antichità ha osservato”. – Né mancano testimonianze anche di illustri Padri Orientali, che esaltano l’eccellenza del celibato cattolico e che mostrano esservi stata allora, nei luoghi dove la disciplina era più severa, consonanza anche su questo punto tra la Chiesa Latina e l’Orientale. Sant’Epifanio alla fine dello stesso secolo IV attesta che il celibato già s’estendeva fino ai suddiaconi: “Colui che ancora vive nel matrimonio e attende ai figli, anche se sia marito di una sola donna, non viene tuttavia ammesso (dalla Chiesa) all’ordine di diacono, di presbitero, di vescovo o di suddiacono, ma colui soltanto che si sia separato dall’unica sua consorte o ne sia rimasto vedovo; il che si fa specialmente in quei luoghi dove i canoni ecclesiastici sono osservati con accuratezza”. Ma eloquente sopra tutti è in questa materia il Santo Diacono di Edessa e Dottore della Chiesa universale Efrem Siro, “chiamato meritamente cetra dello Spirito Santo”. Questi, in un suo carme, rivolgendo la parola al Vescovo Abramo, suo amico: “Tu ben rispondi al nome che porti, o Abramo — gli dice — perché tu pure sei stato fatto padre di molti; ma poiché tu non hai una sposa, come Abramo ebbe Sara, ecco che la tua greggia è la tua sposa. Educa i figli di lei nella tua verità, diventino a te figli di spirito e figli della promessa affinché sieno eredi nell’Eden. O frutto splendido della castità, nel quale si è compiaciuto il sacerdozio… e il corno riboccante del sacro olio ti unse, la mano sacerdotale si è posata su di te e ti ha eletto, la Chiesa ti ha scelto e ti ha amato”. E altrove: “Non basta al sacerdote ed al nome di lui purificare l’anima e far monda la lingua e lavare le mani e rendere mondo l’intero corpo, mentre offre il vivo Corpo (di Cristo), ma in ogni tempo egli deve essere puro, perché è posto quale mediatore tra Dio ed il genere umano. Sia lode a Colui che ha in tal guisa voluto mondi i suoi ministri”. E San Giovanni Crisostomo afferma che “perciò chi esercita il sacerdozio deve essere così puro come se fosse collocato nei cieli tra quelle Podestà”. – Del resto la stessa sublimità, o per usare la frase di Sant’Epifanio, “l’incredibile onore e dignità” del sacerdozio cristiano, già brevemente da Noi esposta, dimostra la somma convenienza del celibato e della legge che lo impone ai ministri dell’altare: chi ha un officio in certo modo superiore a quello dei purissimi spiriti “che stanno al cospetto di Dio”, non è forse giusto che debba vivere quanto è possibile come un puro spirito? Chi tutto deve essere “in quelle cose che sono del Signore”, non è giusto che sia interamente distaccato dalle cose terrene ed abbia sempre “la sua conversazione ne’ cieli”?. Chi deve essere assiduamente sollecito della salute eterna delle anime e continuare verso di esse l’opera del Redentore, non è forse giusto che si tenga libero dalle preoccupazioni di una famiglia, che assorbirebbe gran parte della sua attività? – Ed è davvero spettacolo degno di commossa ammirazione quello, pur così frequente nella Chiesa Cattolica, dei giovani Leviti, che prima di ricevere il sacro Ordine del Suddiaconato, prima cioè di consacrarsi interamente al servizio e al culto di Dio, liberamente rinunziano alle gioie e alle soddisfazioni, che potrebbero onestamente concedersi in un altro genere di vita! Diciamo “liberamente”, poiché, se dopo l’ordinazione non saranno più liberi di contrarre nozze terrene, all’ordinazione stessa però accedono non costretti da veruna legge o persona, ma di propria e spontanea volontà. – Non intendiamo però, che quanto siamo venuti dicendo in commendazione del celibato ecclesiastico, sia così interpretato come se volessimo in certo modo biasimare e quasi redarguire la disciplina diversa, legittimamente ammessa nella Chiesa Orientale; ma lo diciamo unicamente per esaltare nel Signore quella verità che riteniamo una delle glorie più pure del sacerdozio cattolico e Ci pare risponda meglio ai desideri del Cuore Santissimo di Gesù e ai suoi disegni sulle anime sacerdotali.

Distacco dai beni terreni

Non meno che nella castità, il sacerdote cattolico deve essere segnalato nel disinteresse. In mezzo ad un mondo corrotto, in cui tutto si vende e tutto si compra, egli deve passare scevro di ogni egoismo, santamente sdegnoso di ogni vile cupidigia di guadagno terreno, in cerca di anime, non di danaro, della gloria di Dio, non della sua. Egli non è il mercenario che lavora per riscuotere una mercede temporale, né l’impiegato che, pur attendendo coscienziosamente agli obblighi del suo ufficio, pensa anche alla sua carriera e alla sua promozione; egli è il “buon soldato di Cristo” che “non s’impaccia dei negozi del secolo, perché possa piacere a chi lo ha arrolato”; è il ministro di Dio e il padre delle anime; egli sa che l’opera sua, le sue sollecitudini non possono compensarsi adeguatamente coi tesori e con gli onori della terra. Non gli è interdetto di ricevere il conveniente sostentamento, secondo il detto dell’Apostolo: “Quelli che servono all’altare, hanno parte all’altare; così pure il Signore ordinò a quelli che annunziano il Vangelo di vivere del Vangelo”; ma, “chiamato alla sorte del Signore”, come dice il suo stesso titolo di clericus, ossia “all’eredità del Signore”, nessun’altra mercede si aspetta, se non quella che Gesù prometteva ai suoi Apostoli: “La vostra mercede è copiosa nei cieli”. Guai se il sacerdote, dimentico di sì divine promesse, cominciasse a mostrarsi “avido di turpe lucro” e si confondesse con la turba dei mondani, su cui geme la Chiesa insieme con l’Apostolo: “Tutti pensano alle cose loro, non a quelle di Gesù Cristo”. In tal caso, oltre il mancare alla sua vocazione, raccoglierebbe il disprezzo del suo stesso popolo, il quale riscontrerebbe in lui una deplorevole contraddizione tra la sua condotta e la dottrina evangelica così chiaramente espressa da Gesù e che il sacerdote deve annunziare: “Non cercate di accumulare tesori sopra la terra, dove la ruggine e il tarlo li consumano e dove i ladri li dissotterrano e li rubano; procurate invece di accumulare tesori nel cielo”. Se si pensa che uno degli Apostoli di Cristo, uno dei Dodici, come mestamente notano gli Evangelisti, Giuda, fu condotto all’abisso dell’iniquità appunto dallo spirito di cupidigia delle cose terrene, ben si comprende come questo medesimo spirito abbia potuto arrecare tanti danni alla Chiesa attraverso i secoli: la cupidigia, che dallo Spirito Santo è detta “radice di tutti i mali”, può trascinare a qualunque delitto; e quando anche non arrivi a tanto, di fatto un sacerdote infetto da tale vizio, consciamente o inconsciamente fa causa comune coi nemici di Dio e della Chiesa e coopera ai loro iniqui disegni. – E invece il sincero disinteresse concilia al sacerdote gli animi di tutti, tanto più che con questo distacco dai beni terreni, quando viene dall’intima forza della fede, va sempre congiunta quella tenera compassione verso ogni sorta d’infelici, che trasforma il sacerdote in un vero padre dei poveri, nei quali egli, memore di quelle commoventi parole del suo Signore: “Ogni volta che avete fatto qualche cosa per uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatta a me”, con affetto singolare vede, venera e ama Gesù Cristo stesso.

Lo zelo

Libero così il sacerdote cattolico dai due principali legami che lo potrebbero tenere troppo avvinto alla terra, i legami di una propria famiglia e i legami del proprio interesse, sarà più atto ad essere infiammato da quel celeste fuoco che erompe dai penetrali del Cuor di Gesù e non cerca che di apprendersi a cuori apostolici per incendiare tutta la terra: il fuoco dello zelo. Questo zelo per la gloria di Dio e la salute delle anime deve, come si legge di Gesù nella Sacra Scrittura, divorare il sacerdote, fargli dimenticare se stesso e tutte le cose terrene e spingerlo potentemente a consacrarsi tutto alla sua sublime missione, cercando mezzi sempre più efficaci per compierla sempre più largamente e sempre meglio. – E come può un sacerdote meditare il Vangelo, udire il lamento del buon Pastore: “Ed ho altre pecorelle, che non sono di questo ovile, e anche quelle bisogna che io conduca”, vedere “i campi che già biondeggiano per la messe”, e non sentirsi accendere in cuore la brama di condurre tali anime al cuore del buon Pastore, non offrirsi al Padrone della messe come operaio indefesso? Come può un sacerdote vedere tante povere turbe, non solo nelle lontane regioni delle Missioni ma purtroppo anche nei paesi già cristiani da secoli, “giacenti come pecore senza pastore”, e non sentire in sé l’eco profonda di quella divina commiserazione che tante volte commosse il Cuore del Figlio di Dio?. Un sacerdote, diciamo che sa di possedere la parola di vita e di avere nelle sue mani i mezzi divini di rigenerazione e di salute? Ma sia lode a Dio, che appunto questa fiamma di zelo apostolico è uno dei più luminosi raggi che brillano in fronte al sacerdozio cattolico, e Noi con cuore ripieno di paterna consolazione vediamo i Nostri Fratelli e i diletti Figli Nostri, i Vescovi e i sacerdoti, come scelta milizia sempre pronti a correre, all’appello del Capo, su tutte le fronti dell’immenso campo, dove si combattono le pacifiche ma pur aspre battaglie della verità contro l’errore, della luce contro le tenebre, del Regno di Dio contro il regno di satana.

L’obbedienza

Ma da questa stessa condizione del sacerdozio cattolico come di milizia agile e valorosa, ne viene la necessità di uno spirito di disciplina, o diciamo con parola più profondamente cristiana, la necessità dell’obbedienza: di quella obbedienza, che bellamente lega tutti i vari gradi della Gerarchia ecclesiastica, “sicché – come dice il Vescovo nell’ammonire gli ordinandi – la Chiesa santa ne resta circondata, ornata e retta da una varietà certamente magnifica, mentre in essa altri vengono consacrati Pontefici, altri sacerdoti di grado inferiore… formandosi di molti membri di varia dignità un solo corpo di Cristo “. Quest’obbedienza i sacerdoti promisero al loro Vescovo nell’atto di partire da lui ancora freschi della sacra unzione; quest’obbedienza a loro volta i Vescovi giurarono nel giorno della loro consacrazione al supremo Capo visibile della Chiesa, al Successore di San Pietro, al Vicario di Gesù Cristo. L’obbedienza adunque leghi sempre più queste varie membra della sacra Gerarchia tra loro e tutte al Capo, rendendo così la Chiesa militante davvero terribile ai nemici di Dio “come esercito schierato”; l’obbedienza temperi lo zelo forse troppo ardente degli uni, e sproni la debolezza o la fiacchezza degli altri; assegni a ciascuno il suo posto e le sue mansioni, e ciascuno vi si collochi senza resistenze che non farebbero che intralciare l’opera magnifica che svolge la Chiesa nel mondo; ciascuno veda nelle disposizioni dei Superiori gerarchici le disposizioni del vero ed unico Capo, a cui tutti obbediamo, Gesù Cristo Signor Nostro, il quale si è fatto per noi “obbediente fino alla morte, e alla morte di croce”. – Difatti il divino Sommo Sacerdote volle che in modo tutto singolare ci fosse manifesta la sua perfettissima obbedienza all’Eterno Padre; e perciò abbondano le testimonianze, sia profetiche sia evangeliche, di questa totale e perfetta soggezione del Figlio di Dio alla volontà del Padre: “Entrando nel mondo dice: Tu non hai voluto sacrifizio né offerta, ma mi hai preparato un corpo… Allora dissi: Ecco io vengo (poiché di me sta scritto in principio del libro) per fare, o Dio, la tua volontà ” [72]. ” Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato”. Ed anche sulla croce, non volle consegnare l’anima sua nelle mani del Padre prima di avere dichiarato che tutto era compiuto quanto le Sacre Scritture avevano di lui predetto, cioè tutta la missione affidatagli dal Padre, fino a quell’ultimo così profondamente misterioso “Sitio”, ch’egli pronunciò “affinché si adempisse la Scrittura”; volendo con ciò dimostrare come anche lo zelo più ardente debba sempre essere pienamente sottomesso alla volontà del Padre, cioè sempre regolato dall’obbedienza a chi per noi tiene le veci del Padre e ci trasmette i suoi voleri, ossia ai legittimi Superiori gerarchici.

La scienza

Ma la figura del sacerdote cattolico, che Noi intendiamo mettere in piena luce al cospetto di tutto il mondo, sarebbe incompleta se omettessimo di rilevare un altro importantissimo requisito, che la Chiesa esige in lui: la scienza. Il sacerdote cattolico è costituito “maestro in Israele” avendo ricevuto da Gesù l’ufficio e la missione di insegnare la verità: “Ammaestrate tutte le genti”. Egli deve insegnare la dottrina della salute, e di quest’insegnamento, a somiglianza dell’Apostolo delle Genti, è debitore “ai sapienti e agli ignoranti”. Ma come la potrà insegnare, se non la possiede? “Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca ricercheranno la legge”, dice lo Spirito Santo in Malachia; e nessuno potrebbe mai dire in commendazione della scienza sacerdotale una parola più grave di quella che un giorno la Sapienza stessa divina ha pronunziato per bocca di Osea: “Perché tu hai rigettato la scienza, rigetterò io te dal ministero di mio sacerdote”. Il sacerdote deve pienamente possedere la dottrina della fede e della morale cattolica, deve saperla proporre, deve saper render ragione dei dogmi, delle leggi, del culto della Chiesa, di cui è ministro; deve dissipare l’ignoranza; la quale, non ostante i progressi della scienza profana, ottenebra in fatto di religione le menti di tanti contemporanei. Non è stato mai tanto opportuno come oggi il monito di Tertulliano: “Questo solo spesso desidera la verità, di non essere cioè condannata senza essere conosciuta”. È dovere del sacerdote sgombrare dagli intelletti i pregiudizi e gli errori, accumulativi dall’odio degli avversari: all’anima moderna, che ansiosa cerca la verità, egli deve saperla indicare con serena franchezza; alle anime ancor incerte, travagliate dal dubbio, egli deve ispirare coraggio e fiducia e guidarle con tranquilla sicurezza al porto sicuro della fede coscientemente e fortemente abbracciata; agli assalti dell’errore protervo ed ostinato egli deve sapere opporre una resistenza strenua e vigorosa ma calma insieme e solida. È quindi necessario, Venerabili Fratelli, che il sacerdote, anche in mezzo alle occupazioni assillanti del suo santo ministero e sempre in ordine a quello continui lo studio serio e profondo delle discipline teologiche, aggiungendo al corredo sufficiente di scienza portato seco dal Seminario una sempre più ricca erudizione sacra, che lo renda sempre più idoneo alla sacra predicazione e alla guida delle anime. Inoltre, per il decoro dell’ufficio che esercita e per guadagnarsi come conviene la fiducia e la stima del popolo, che tanto giovano a rendere più efficace la sua opera pastorale, il sacerdote deve essere fornito di quel patrimonio di dottrina anche non strettamente sacra, che è comune agli uomini colti del suo tempo; deve cioè essere sanamente moderno, com’è la Chiesa, che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi e a tutti si adatta, tutte le sane iniziative benedice e promuove e non ha paura dei progressi anche più arditi della scienza, purché sia vera. In tutti i tempi il clero cattolico si distinse in ogni campo dello scibile umano; in alcuni secoli anzi si spinse talmente all’avanguardia del sapere che chierico divenne sinonimo di dotto. E la Chiesa, dopo aver custodito e salvato i tesori della cultura antica, che senza di essa e de’ suoi monasteri sarebbero andati quasi interamente perduti, ha dimostrato ne’ suoi più illustri Dottori come tutte le umane cognizioni possano servire ad illustrare e difendere la fede cattolica; del che abbiamo Noi stessi recentemente additato al mondo un esempio luminoso cingendo del nimbo dei Santi e dell’aureola dei Dottori, quel grande Maestro del sommo Aquinate, quell’Alberto Teutonico, che già i suoi contemporanei onoravano del nome di Magno e di Dottore universale. Ora certamente non si può pretendere che il clero possa avere un simile primato in ogni campo del sapere: il patrimonio scientifico dell’umanità è ormai così vasto, che nessun uomo può abbracciarlo interamente né, molto meno, rendersi insigne in ciascuno de’ suoi innumerevoli rami. Ma, mentre si devono prudentemente incoraggiare e aiutare quei membri del clero che per inclinazione e doti speciali si sentono chiamati ad approfondire e coltivare questa o quella scienza, questa o quell’arte, che non disdica alla loro professione ecclesiastica, perché tutto questo, se si contiene entro i dovuti confini e sotto la direzione della Chiesa, ridonda a decoro della Chiesa stessa e a gloria del divino suo Capo Gesù Cristo; anche tutti gli altri chierici non si devono contentare di quello che forse poteva bastare in altri tempi, ma devono essere in grado di avere, anzi devono avere di fatto, una cultura moderna in confronto dei secoli passati. Che se talvolta il Signore, “scherzando sulla terra”, volle anche in tempi recenti assumere alla dignità sacerdotale ed operare meraviglie di bene per mezzo di uomini sforniti quasi interamente di questo patrimonio di dottrina, di cui parliamo, ciò fu perché tutti impariamo a pregiare, tra le due, più la santità che la scienza, e a non riporre più fiducia nei mezzi umani che nei divini; in altre parole, ciò fu perché il mondo ha bisogno di sentirsi ripetere di tanto in tanto questa salutare lezione pratica: “Le cose stolte del mondo ha scelto Dio, per confondere i sapienti… affinché nessun uomo si dia vanto al cospetto di Lui”. Ma, come nell’ordine naturale i miracoli divini sospendono per un momento l’effetto delle leggi fisiche senza abrogarle, così questi uomini, veri miracoli viventi, nei quali la santità eccelsa suppliva a tutto il resto, non tolgono punto la verità e necessità di quanto siamo venuti inculcando. Questa necessità poi di virtù e di scienza, questa esigenza di esemplarità e di edificazione, di questo “buon odore di Cristo”, che il sacerdote deve spargere dappertutto intorno a sé presso quanti l’avvicinano, è oggi tanto maggiormente sentita e resa tanto più evidente e stringente, in quanto che l’Azione Cattolica, questo movimento sì consolante che sa spingere le anime anche verso i più sublimi ideali di perfezione, mette i laici a più frequente contatto e a più intima collaborazione col sacerdote, al quale naturalmente essi non solo si rivolgono come a guida, ma mirano anche come ad esemplare di vita cristiana e di virtù apostoliche.

[Continua… ]

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “VIX DUM A NOBIS”

… “Niente Dio ama tanto in questo mondo, quanto la libertà della sua Chiesa; coloro che vogliono non giovarle, ma dominarla, dimostrano senza dubbio di essere avversari di Dio; Dio vuole che la sua Sposa sia libera, non schiava“… La sentenza di S. Anselmo fa da compendio alla lettera Enciclica che S. S. Pio IX invia ai suoi Vescovi, ai prelati e al popolo cattolico dell’Impero austriaco, minacciati da inique leggi oppressive della libertà della Chiesa di Cristo, la Chiesa Cattolica romana, in dispregio di un recente concordato con la Sede apostolica, e questo ancor più grave perché in essere in un Impero difensore storico della Chiesa Cattolica e guidato da un Imperatore cattolico. Questo dimostra come da sempre la Chiesa abbia avuto ed abbia ed avrà sempre nemici esterni ed interni, soprattutto questi che sono poi i più subdoli ed i peggiori, perché ipocriti ed ingannevoli nelle loro apparenze ossequiose e devozione affettata verso l’Autorità divina incarnata sulla terra dal Sommo Pontefice Romano. Ma ancora una volta vediamo come nella storia coloro che abbiano combattuto o non difeso gli interessi del Regno di Dio sulla terra – cioè la Chiesa di Cristo – dopo un apparente successo iniziale, abbiano pagato caramente la loro rivolta contro Dio; l’Impero Austriaco, un tempo una delle maggiori potenze mondiali,  è ridotto ad un misero staterello senza importanza alcuna, inglobato in una unione europea alla quale è totalmente asservito e tributario di ricchezze utilizzate contro i propri interessi; la famiglia imperiale, alla quale il sovrano Pontefice si rivolgeva con affetto e amore paterno, in gran parte distrutta, demolita, esiliata, destituita di ogni influenza politica e di ogni potere territoriale. Il popolo tanto amato e baluardo nel passato nei confronti di popoli barbari ed infedeli, devastato da guerre, lutti e disastri. La storia si ripete sempre, ma non insegna nulla ai corifei del demonio delle sette di perdizione che, tristemente ingannati dal serpente maledetto, sperano di avere finalmente la meglio sulla Chiesa. Ma ogni tentativo è vano ed il Signore si riderà di loro, se ne prenderà beffe e alla fine li annienterà sommergendoli nello stagno eterno di fuoco.

Pio IX

Vix dum a nobis

Avevamo appena denunciato al mondo cattolico con la lettera del 24 novembre [in realtà: 21 novembre] dell’anno scorso la grande persecuzione scatenata specialmente in Prussia e in Svizzera contro la Chiesa di Dio, quando una nuova preoccupazione si è aggiunta al Nostro dolore con le notizie pervenuteci circa le violenze che incombono sulla stessa Chiesa, la quale, fatta simile allo Sposo divino, può giustamente lamentarsi con le parole del profeta: “Aggiungono dolore alle mie ferite” (Sal 69,27). Queste violenze tanto più Ci angosciano in quanto provengono dal Governo di quella Nazione Austriaca, che nei momenti più critici per la Cristianità aveva già combattuto con valore, strettamente unita alla Sede Apostolica, per la fede cattolica. – Infatti già da alcuni anni in codesto Impero sono state emanate leggi e disposizioni assolutamente contrarie ai più sacri diritti della Chiesa e ai patti solennemente sanciti: leggi e disposizioni che nella Nostra Allocuzione ai Venerabili Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa, tenuta il 22 giugno 1868, abbiamo dovuto, secondo il Nostro ufficio, condannare e dichiarare nulle. Ora poi vengono proposti all’esame e all’approvazione delle Assemblee pubbliche dell’Impero nuove leggi che presentano chiaro l’intento di asservire completamente la Chiesa, con suo gravissimo danno, all’arbitrio del potere civile, contro la divina volontà di Nostro Signore Gesù Cristo. – Il Creatore e Redentore del genere umano fondò la Chiesa come suo regno visibile sulla terra non solo per trasmettere col soprannaturale carisma dell’infallibile Magistero la sacra dottrina e per promuovere il culto divino del santo sacerdozio e la santificazione delle anime con il Sacrificio e con i Sacramenti, ma lo dotò anche di un proprio e pieno potere legislativo, giudiziario ed esecutivo per tutto ciò che riguarda il fine specifico del regno di Dio sulla terra. – Il potere soprannaturale del governo della Chiesa è, per lo stesso volere di Gesù Cristo, del tutto diverso e indipendente dal potere politico. Il regno di Dio sulla terra è il regno di una società perfetta e, come tale, è sostenuto e governato da proprie leggi, da propri diritti, da propri capi che vigilano attentamente, sapendo di dover rendere conto delle anime non ai governanti della società civile, ma a Gesù Cristo, Principe dei pastori, che li ha costituiti pastori e maestri, non soggetti, nell’esercizio del ministero di salvezza, a nessun potere terreno (cf. Eb XIII,17; Ef IV,11; 1Pt V,2). Perciò, come spetta ai Vescovi il dovere di governare, così spetta a tutti i fedeli, secondo l’ammonimento dell’Apostolo, il dovere di ubbidire e di stare sottomessi a loro; e i popoli cattolici hanno il sacrosanto diritto di non essere ostacolati da un governo civile in questo compito, imposto da Dio, di seguire la dottrina, la disciplina e le leggi della Chiesa. – Voi stessi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, vedete bene come Noi quale grave violazione di questa divina costituzione della Chiesa, quale intollerabile sovvertimento dei diritti della Sede Apostolica, dei Vescovi e del popolo cattolico contengono e apertamente sostengono quelle leggi, che ora sono al vaglio delle Assemblee Austriache. – Secondo tali leggi, infatti, la Chiesa di Gesù Cristo, in quasi tutte le sue disposizioni e attività che riguardano il governo dei fedeli, è considerata e ritenuta completamente soggetta e asservita al potere dell’autorità civile; e ciò è stabilito chiaramente come principio in quell’esposto delle Motivazioni, che spiegano la forza e il senso delle leggi proposte. E si dice anche espressamente che spetta al Governo civile dettare leggi sia in campo politico come in campo ecclesiastico, e vigilare e avere il controllo sulla Chiesa come su tutte le altre società private puramente umane che si trovano entro i confini dell’Impero. – Così il governo civile si arroga il compito sia di arbitrare e sindacare sull’ordinamento e sui diritti della Chiesa cattolica, sia di governarla in parte con le proprie leggi, in parte attraverso ecclesiastici che gli si sono venduti. Ne consegue che il potere terreno con l’arbitrio e la forza si sostituisce al potere sacro nel governo della Chiesa istituita da Dio per il ministero e per l’edificazione del corpo di Cristo. Contro una tale usurpazione del sacro in difesa del diritto e della verità cattolica, risponde il grande Ambrogio: “Si dice che tutto è lecito all’imperatore e che tutto è suo. Rispondo: Non pretendere, come pensi, di avere qualche diritto sulle cose divine; non gonfiarti, ma sii sottomesso a Dio. Sta scritto: a Dio, quello che è di Dio; a Cesare quello che è di Cesare. All’imperatore i palazzi, al sacerdote le Chiese“. – Per quanto poi riguarda le leggi a cui si riferisce l’esposto delle Motivazioni, benché sembri forse che esse presentino un’apparenza di moderazione se confrontate con le ultime leggi prussiane, in realtà hanno lo stesso fondamento e lo stesso carattere, e causeranno gli stessi danni alla Chiesa Cattolica nell’interno dell’Impero Austriaco. – Non intendiamo riandare passo per passo le singole leggi; ma non possiamo affatto passare sotto silenzio il torto gravissimo che dalla proposta stessa di queste leggi vien fatto a Noi e a questa Sede Apostolica, non meno che a voi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, e a tutto il popolo Cattolico di codesta Nazione. Infatti la Convenzione stipulata tra Noi e il serenissimo Imperatore nel 1855, garantita con solenne impegno da parte dello stesso Principe cattolico e promulgata a guisa di legge di Stato in tutto l’Impero, viene ora proposta alle Assemblee dell’Impero per essere dichiarata abrogata e nulla quasi in ogni sua parte; e ciò senza nessuna previa trattativa con questa Sede Apostolica, anzi in pieno dispregio delle Nostre giustissime rimostranze. In verità, nei tempi in cui la lealtà pubblica aveva ancora credito, un gesto simile non lo si sarebbe potuto rischiare; ora invece, in questa così triste situazione di cose, non solo si tenta, ma lo si fa. Contro questa violazione di un patto solennemente stipulato, protestiamo nuovamente davanti a voi, Nostri Diletti Figli e Venerabili Fratelli, ma con dolore molto più profondo denunciamo e riproviamo questo torto fatto a tutta la Chiesa in quanto la causa e il pretesto di questa abrogazione del Concordato e delle leggi connesse vengono attribuiti temerariamente alle definizioni della dottrina rivelata dettate dal Concilio Ecumenico Vaticano, e questi stessi dogmi cattolici sono empiamente chiamati innovazioni e stravolgimenti della dottrina della fede e della Costituzione della Chiesa cattolica. Se è vero che nella nazione Austriaca ci sono taluni che sotto la spinta di queste infami menzogne rinnegano la fede cattolica, è anche vero che l’augustissimo Imperatore insieme con i suoi gloriosi Avi e con tutta la famiglia imperiale la conserva e la professa, unitamente alla maggior parte di quel popolo a cui si danno leggi fondate su tali menzogne. – Così, dopo aver rescisso a Nostra insaputa e contro la Nostra volontà la solenne Convenzione che abbiamo stipulata col serenissimo Imperatore per provvedere alla salute delle anime e insieme al bene comune dello Stato, si adduce ora come pretesto una certa qual nuova forma di diritto e si rivendica al Governo civile un nuovo titolo giuridico per poter stabilire e decretare di propria iniziativa ciò che crederà opportuno circa gli affari spirituali ed ecclesiastici. – E questo si compie per riuscire, con l’ausilio delle leggi che ora vengono proposte, a ostacolare e impastoiare, mediante gravose obbligazioni, la inviolabile libertà della Chiesa nella cura delle anime, nel governo dei fedeli, nella formazione religiosa del popolo e dello stesso clero, nel dirigere la vita verso la perfezione evangelica, nell’amministrazione e nella proprietà dei beni; si tenta di ingenerare confusione nella disciplina cattolica, di favorire la defezione dalla Chiesa e di rafforzare, sempre con l’aiuto di quelle leggi, la coalizione e la cospirazione delle sette contro la vera fede di Cristo. Avremmo tutta la possibilità di ricordarvi quali e quanti mali si dovrebbero temere, se quelle leggi venissero promulgate. Ma un fatto, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, non può ingannare e raggirare la vostra prudenza: cioè, quasi tutti gli uffici e i benefici ecclesiastici, anzi perfino l’esercizio dei doveri pastorali, diventeranno così soggetti al potere civile, che i sacri Vescovi, se si adattassero (che ciò non avvenga!) alle nuove leggi, sarebbero costretti a tenere il governo delle diocesi, di cui dovranno rendere conto a Dio, non più secondo i saggi decreti della Chiesa, ma secondo la volontà e l’arbitrio di coloro che saranno a capo dello Stato. – Che cosa ci sarà poi da aspettarsi da quelle proposte di leggi che passano sotto il titolo di riconoscimento degli Ordini religiosi? Decisamente la forza nefasta e l’intento ostile di quelle leggi sono così chiari, che non c’è nessuno che non capisca che sono state pensate e preparate per rovinare e distruggere le Famiglie religiose. – Il danno poi che pende sui beni temporali è così grande, che a stento si differenzia da una pubblica confisca e da un saccheggio. Quei beni, se quelle leggi ostili saranno approvate, il Governo civile li avrà in suo potere, crederà di avere il diritto di dividerli, di conferirli e di impoverirli con tasse al punto che il possesso e l’uso che ne rimarrebbero, sarebbero visti non come un decoro, ma come una beffa per la Chiesa e un velo per coprire l’ingiustizia. – Se queste sono le leggi di cui si discute nelle Assemblee dell’Impero Austriaco, e se questi, come abbiamo dimostrato, sono i principi su cui si fondano, vi risultano palesi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, i pericoli imminenti che incombono sul gregge affidato alla vostra vigilanza. Sono chiamate in causa l’unità e la pace della Chiesa, alla quale si vuole togliere quella libertà che San Tommaso di Canterbury ha saggiamente definito “che è l’anima della Chiesa: senza di essa [la Chiesa] non ha forza né efficacia contro coloro che cercano di impossessarsi ereditariamente del santuario di Dio” . Questo pensiero è già stato espresso prima da un altro forte difensore della libertà, Sant’Anselmo, con queste parole: “Niente Dio ama tanto in questo mondo, quanto la libertà della sua Chiesa; coloro che vogliono non giovarle, ma dominarla, dimostrano senza dubbio di essere avversari di Dio; Dio vuole che la sua Sposa sia libera, non schiava” . Perciò vogliamo sempre più incitare e infiammare la vostra sollecitudine pastorale e lo zelo di cui ardete per la casa di Dio, perché vi adoperiate a tenere lontano il pericolo che incombe. Fatevi coraggio e affrontate una lotta degna del vostro valore. Siamo certi che non avrete meno coraggio e meno valore di altri Venerabili Fratelli, che altrove, tra crudeli angherie, sono esposti pubblicamente a insulti e tribolazioni per la libertà della Chiesa, e non solo accettano con gioia di essere spogliati dei propri beni, ma addirittura sostengono in carcere la battaglia dei patimenti (Eb X, 32ss.). – D’altra parte ogni nostra speranza è posta non nelle nostre forze, ma nella potenza di Dio; qui è in gioco la causa di Dio, il quale, con parole che non passeranno, ci ha ammonito e incoraggiato: “Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia: io ho vinto il mondo” (Gv XVI, 33). Perciò Noi, che per il Nostro ufficio Apostolico, con l’aiuto della grazia divina, siamo stati costituiti come guida in questa lotta così varia e atroce contro la Chiesa, vi annunciamo e promettiamo ciò che disse una volta il Santo Martire di Canterbury con parole che si applicano benissimo alla nostra epoca e al pericolo attuale: “La causa che i nemici della Chiesa muovono contro di noi, è una causa tra loro e Dio, perché noi non chiediamo a loro nient’altro se non ciò che Dio immortale, incarnandosi, ha lasciato per testamento eterno alla sua Chiesa. Nella fede e nella carità di Cristo sorgete insieme a noi in aiuto della Chiesa e con l’autorità e la prudenza che avete, opponetevi agli uomini, che non hanno nessuna possibilità di successo, se la Chiesa di Dio gode di libertà. Contiamo molto su di voi, specialmente perché si tratta della causa di Dio. Quanto a Noi, tenete per certo che siamo disposti ad affrontare la morte temporale piuttosto che continuare a sopportare le angustie di una miserevole schiavitù. Dall’esito di questa controversia dipenderà se la Chiesa in futuro dovrà piangere (che ciò non avvenga!) per continue tribolazioni, o godere di una perenne libertà“. – Nel tentativo, che dovete fare, per prevenire con la vostra autorità, prudenza e zelo i pericoli che incombono, voi sapete che nulla sarà più utile e più opportuno quanto riunirvi a consiglio e cercare e decidere insieme le ragioni e le vie più adatte a conseguire con maggior sicurezza ed efficacia lo scopo proposto. Se vengono attaccati i diritti della Chiesa, tocca a voi ergervi frontalmente e opporre un baluardo in difesa della casa di Israele. – La resistenza sarà tanto più forte, e la difesa tanto più valida, quanto più concordi e uniti saranno l’impegno e lo sforzo dei singoli, e con quanta più cura sarà messo in opera il piano d’azione preparato e deciso in vista delle varie emergenze, che potrebbero verificarsi. Perciò nuovamente vi esortiamo a riunirvi quanto prima, a scambiarvi i rispettivi punti di vista e a stabilire un piano sicuro da tutti approvato, con cui, in ragione del vostro ufficio, possiate tutti d’accordo respingere i mali che sovrastano, e difendere la libertà della Chiesa. Era giusto che vi mettessimo al corrente della vicenda, per non dare l’impressione di mancare al Nostro dovere in una situazione così grave. Siamo persuasi infatti che voi, anche senza le Nostre esortazioni, l’avreste fatto spontaneamente. Del resto, non abbiamo ancora perduto completamente la speranza che Dio voglia allontanare per altra via le calamità che si preannunciano. Ci inducono a ben sperare la pietà e la devozione del Nostro Carissimo Figlio in Cristo Francesco Giuseppe, Imperatore e Re. Con l’ultima lettera inviatagli oggi lo abbiamo scongiurato a non permettere mai che nel suo vastissimo impero la Chiesa sia ridotta in schiavitù e i suoi sudditi Cattolici messi in gravi difficoltà. – Ma poiché sono molti coloro che attentano alla Chiesa, e ogni lentezza è sempre gravida di pericoli, è assolutamente necessario che non siate inerti. Diriga Dio le vostre decisioni, e con il suo potente aiuto vi assista perché possiate stabilire e portare felicemente a termine soprattutto ciò che riguarda il decoro del suo nome per la salute delle anime. – Come auspicio di questo celeste aiuto e come testimonianza della Nostra benevolenza a voi, tutti e singoli, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, al Clero e ai fedeli affidati alla vostra cura, impartiamo con affetto la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 7 marzo 1874, nel ventottesimo anno del nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XV – “SPIRITUS PARACLITUS” (2)

Continua a snodarsi tra citazioni bibliche e brani di scritti di S. Girolamo, il corso luminosissimo di questa splendida Lettera Enciclica di S. S. Benedetto XV che svolge un panegirico completo dell’opera del santo Padre e Dottore della Chiesa d’Occidente. Si sottolinea, tra le altre numerose esortazioni, l’importanza assoluta della conoscenza minuziosa della sacra Scrittura e della sua interpretazione corretta ed approvata da Santa Madre Chiesa Cattolica, nella predicazione dei sacerdoti, nella crescita della fede in Cristo in chierici e nei fedeli, e nella confutazione precisa e senza errori, delle eresie di tanti personaggi abili mestatori o sofisti, filosofi elaboranti idee o princìpi ben costruiti da un punto di vista formale, ma vuoti di solida dottrina cristiana e spacciati per tali. Ecco perché, ne possiamo essere certi,  è stata l’ignoranza più o meno manifesta ed ampia delle sacre Scritture, a far trionfare i modernisti del falso concilio riformatore roncallo-montiniano, e di tutte le scempiaggini dell’ultramodernismo postconciliare, così affine alle balordaggini dei protestanti e dei neognostici filosofastri liberal naturalisti infiltrati nella Chiesa Cattolica, a perdizione eterna di tanti sedicenti fedeli, volutamente ignoranti o contestanti la sublimità delle Scritture. Possa questa Enciclica dedicata a S. Girolamo, ridestare oggi l’amore alle sacre Scritture, il cui unico oggetto finale è Cristo, la nostra vita in Lui, ed il cammino di perfezione che deve guidarci alla eterna beatitudine.

Benedetto XV
Spiritus Paraclitus

Lettera Enciclica (2)

Venerabili Fratelli, se fu mai necessario che tutto il clero e tutti i fedeli s’imbevessero dello spirito del grande Dottore, questo è soprattutto nella nostra epoca, quando numerosi spiriti insorgono con orgogliosa testardaggine contro l’autorità sovrana della rivelazione divina e del Magistero della Chiesa. Voi sapete infatti che Leone XIII già ci aveva ammonito “quali uomini si accaniscano in questa lotta e a quali artifici o a quali armi essi ricorrano“. Quale categorico dovere si impone dunque a voi, di suscitare per questa sacra causa i difensori più numerosi e più competenti che possibile: essi dovranno combattere non solo coloro che, negando ogni ordine soprannaturale, non riconoscono né la rivelazione né l’ispirazione divina, ma anche dovranno misurarsi con coloro che assetati di novità profane, osano interpretare le Lettere Sacre come un libro puramente umano, e rifiutano le opinioni accolte dalla Chiesa fin dalla più vetusta antichità, o spingono il loro disprezzo verso il Suo Magistero fino al punto di disdegnare, di passar sotto silenzio o persino di cambiare secondo il proprio interesse, alterandole sia subdolamente, sia con sfrontatezza, le Costituzioni della Santa Sede e i decreti della Commissione Pontificale per gli studi biblici. Sia possibile almeno a Noi vedere tutti i Cattolici seguire l’aurea regola del Santo Dottore, e docili agli ordini della loro Madre, avere la modestia di non oltrepassare i limiti tradizionali fissati dai Padri e approvati dalla Chiesa! – Ma ritorniamo al nostro soggetto. Armati gli spiriti di pietà e d’umiltà, Gerolamo li invita allo studio della Bibbia. E dapprima raccomanda instancabilmente a tutti la lettura quotidiana della parola divina: “Liberiamo il nostro corpo dal peccato e l’anima nostra si aprirà alla saggezza; coltiviamo la nostra intelligenza con la lettura dei Libri Santi, e la nostra anima vi trovi ogni giorno il suo nutrimento” (Tit. III, 9). Nel suo commento dell’Epistola agli Efesini, scrive: “Noi dobbiamo dunque con tutto l’ardore leggere le Scritture, e meditare giorno e notte la legge del Signore: potremo cosi, come abili cambiavalute, distinguere le monete buone da quelle false” (Eph. IV, 31). Egli non esclude da questo obbligo comune le matrone e le vergini. Alla matrona romana Leta dà, fra gli altri, questi consigli sull’educazione della figlia: “Assicurati che essa studi ogni giorno qualche passo della Scrittura… Che invece dei gioielli e delle sete essa ami i Libri Divini… Ella dovrà dapprima imparare il Salterio, distrarsi con questi canti e attingere una regola di vita dai proverbi di Salomone. L’Ecclesiaste le insegnerà a calpestare, sotto i piedi, i beni di questo mondo; Giobbe le darà un modello di forza e pazienza. Passerà poi ai Vangeli che dovrà avere sempre tra le mani. Dovrà assimilare avidamente gli Atti degli Apostoli e le Epistole. Dopo aver arricchito di questi tesori il mistico scrigno della sua anima, imparerà a memoria i Profeti, l’Eptateuco, i libri dei Re e dei Paralipomeni, per finire senza pericolo col Cantico dei Cantici” (Ep. CVII, IX, 12). – Le stesse direttive San Gerolamo traccia alla vergine Eustochio: “Sii molto assidua alla lettura e allo studio, quanto più ti è possibile. Che il sonno ti colga con il libro in mano e che la pagina sacra riceva il tuo capo caduto per la fatica” (Ep. XXII, XVII, 2; cfr. Ibid. XXIX, 2). – Ed aggiungeva ancora: “Rileverò un particolare che sembrerà forse incredibile ai suoi emuli: ella volle imparare l’ebraico, che io stesso in parte studiai fin dalla mia giovinezza al prezzo di molte fatiche e di molti sudori, e che continuo ad approfondire con incessante lavoro per non dimenticarlo; essa arrivò ad avere una tale padronanza di questa lingua, da cantare i salmi in ebraico e da parlarlo senza il minimo accento latino. E questo si ripete ancora oggi nella sua santa figlia Eustochio” (EpCVIII, 26). Né tralascia di ricordare Santa Marcella, ugualmente molto versata nella scienza delle Scritture (Ep. CXXVII, 7). – Chi non vede quali vantaggi e quali godimenti riserva agli spiriti ben disposti la pia lettura dei Libri Santi? Chiunque prenda contatto con la Bibbia con sentimenti di pietà, di salda fede, di umiltà, e col desiderio di perfezionarsi, vi troverà e vi potrà gustare il pane sceso dal Cielo e in lui si verificherà la parola di Davide: “Mi hai rivelato i segreti e i misteri della tua saggezza” (Psal. L, 8); su questa tavola della parola divina si trova infatti veramente “la dottrina santa; essa insegna la vera fede, solleva il velo (del Santuario), e conduce con fermezza fino al Sancta Sanctorum” (Imit. Chr. IV, XI, 4). – Per quanto sta in Noi, Venerabili Fratelli, non cesseremo mai, sull’esempio di San Gerolamo, di esortare tutti i Cristiani a leggere quotidianamente e intensamente soprattutto i Santissimi Vangeli di Nostro Signore, ed inoltre gli Atti degli Apostoli e le Epistole, in modo da assimilarli completamente. Pertanto, nell’occasione di questo centenario, si presenta al Nostro pensiero il piacevole ricordo della Società detta di San Gerolamo, ricordo tanto più caro in quanto abbiamo preso parte Noi stessi agli inizi e all’organizzazione definitiva di quest’opera; felici di aver potuto constatare i suoi passati sviluppi, con animo lieto altri ancora Ce ne auguriamo per l’avvenire. – Voi conoscete, Venerabili Fratelli, lo scopo di questa Società: estendere la diffusione dei Quattro Vangeli e degli Atti degli Apostoli, in modo che questi libri trovino finalmente il loro posto in ogni famiglia cristiana e che ognuno prenda l’abitudine di leggerli e meditarli ogni giorno. Noi desideriamo vivamente vedere che quest’opera, che tanto amiamo per averne constatata l’utilità, si propaghi e si sviluppi dovunque, con la fondazione, in ognuna delle vostre diocesi, di Società aventi lo stesso nome e lo stesso scopo, tutte collegate con la casa madre di Roma. – Nello stesso ordine di idee i più preziosi servigi sono resi alla causa cattolica da coloro che in diversi paesi hanno offerto, ed offrono ancora, tutto il loro zelo, per pubblicare, in formato comodo e attraente, e per diffondere tutti i libri del Nuovo Testamento e una scelta dei libri dell’Antico. È certo che questo apostolato è stato singolarmente fecondo per la Chiesa di Dio, poiché, grazie a quest’opera, un gran numero di anime si avvicinano ormai a questa tavola della dottrina Celeste, che il Nostro Signore ha preparato all’universo cristiano per mezzo dei suoi Profeti, dei suoi Apostoli e dei suoi Dottori (Imit. Chr. IV, XI, 4). Invero questo dovere di studiare il Testo Sacro, Gerolamo lo inculca a tutti i fedeli, ma lo impone in modo particolare a coloro che “hanno piegato il collo al giogo di Cristo” ed hanno la Celeste vocazione di predicare la parola di Dio. – Ecco l’esortazione che, nella persona del monaco Rustico, Gerolamo volge a tutto il clero: “Fino a che sei nella tua patria, fa’ della tua celletta un paradiso, cogli i diversi frutti delle Scritture, godi delle delizie di questi Libri e della loro intimità… Abbi sempre la Bibbia in mano e sotto gli occhi, impara parola per parola il Salterio, e fa’ in modo che la tua preghiera sia incessante e il tuo cuore costantemente vigile e chiuso ai pensieri vani” (EpCXXV, VII, 3; XI, 1). – Al prete Nepoziano dà questo consiglio: “Leggi con molta frequenza le Divine Scritture ed anzi che il Libro Santo non sia mai deposto dalle tue mani. Impara qui quello che tu devi insegnare. Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la santa dottrina e confutare coloro che la contraddicono” (EpLII, VII, 1). – Dopo aver ricordato a San Paolino i precetti impartiti da San Paolo ai suoi discepoli Timoteo e Tito, riguardanti la scienza delle Scritture, San Gerolamo aggiunge: “La santità senza la scienza non giova che a se stessa; e quanto essa edifica la Chiesa di Cristo per mezzo di una vita virtuosa, tanto le nuoce se non respinge gli attacchi dei suoi nemici. Il profeta Malachia, o piuttosto il Signore stesso per la bocca sua, diceva: “Consulta i sacerdoti sulla legge”. Data da allora il dovere che ha un sacerdote di dare ragguagli sulla legge a coloro che l’interrogano. Leggiamo inoltre nel Deuteronomio: “Domanda a tuo padre, ed egli te lo indicherà, ai tuoi sacerdoti, ed essi te lo diranno”. Daniele, alla fine della sua santissima visione, dice che i giusti brillano come stelle, e gli intelligenti cioè i sapienti – come il firmamento. Vedi tu quale distanza separa la santità senza scienza dalla scienza rivestita di santità? La prima ci rende simili alle stelle, la seconda simili allo stesso Cielo” (Ep. LIII, 3 e segg.). In altra circostanza, in una lettera a Marcella, egli motteggia ironicamente “la virtù senza scienza” di altri chierici: “Questa ignoranza tiene luogo per loro di santità, ed essi si dichiarano discepoli dei pescatori, come se quelli facessero consistere la loro santità nel non saper niente” (Ep. XXVII, 1, 1). Ma questi ignoranti non sono i soli – rilevava San Gerolamo – a commettere l’errore di non conoscere le Scritture; questo è anche il caso di alcuni chierici istruiti; ed egli impiega i termini più severi per raccomandare ai preti la pratica assidua dei Libri Santi. – Venerabili Fratelli, dovete cercare con tutto il vostro zelo di imprimere questi insegnamenti del santissimo esegeta, il più profondamente possibile, nello spirito del vostro clero e dei vostri fedeli; uno dei vostri primi doveri è infatti quello di riportare, con somma diligenza, la loro attenzione su ciò che la missione divina loro affidatagli richiede, se essi non vogliono mostrarsene indegni: “Poiché le labbra del sacerdote saranno i custodi della scienza, e dalla sua bocca si richiederà l’insegnamento, perché egli è l’Angelo del Signore degli eserciti” (Mal. II, 7). Essi sappiano dunque che non devono né trascurare lo studio delle Scritture, né dedicarvisi con uno spirito diverso da quello che Leone XIII ha espressamente imposto nella sua Lettera Enciclica Providentissimus Deus. – Otterranno sicuramente risultati migliori se frequenteranno l’Istituto Biblico che il Nostro immediato Predecessore, realizzando il desiderio di Leone XIII, ha fondato per il più grande bene della Chiesa, come chiaramente dimostra l’esperienza degli ultimi dieci anni. La maggior parte non ne ha la possibilità: quindi è desiderabile, Venerabili Fratelli, che per vostra iniziativa e sotto i vostri auspici, i membri scelti dell’uno e dell’altro clero di tutto il mondo vengano a Roma, per dedicarsi agli studi biblici nel Nostro Istituto. Gli studenti che risponderanno a questo appello avranno molti motivi per seguire le lezioni di quest’Istituto. Gli uni – e questo è lo scopo principale dell’Istituto – approfondiranno le scienze bibliche “per essere a loro volta in grado di insegnarle, privatamente o in pubblico, con la penna o con la parola, e per sostenerne l’onore sia come professori, nelle scuole cattoliche, sia come scrittori, esponenti della verità cattolica” (Pio X, Lett. Ap. Vinea electa, 7 maggio 1909); gli altri poi, già iniziati al santo mistero, potranno accrescere le cognizioni acquisite durante i loro studi teologici, sulla Santa Scrittura, sulle autorità esegetiche, sulle cronologie e sulle topografie bibliche; questo perfezionamento avrà soprattutto il vantaggio di fare di loro ministri perfetti della parola divina e di prepararli ad ogni forma di bene (II Tim. III, 17). – Venerabili Fratelli, l’esempio e le autorevoli dichiarazioni di San Gerolamo ci hanno indicato le virtù necessarie per leggere e studiare la Bibbia. Ora ascoltiamolo indicarci ove deve tendere la conoscenza delle Lettere Sacre e quale deve esserne lo scopo. Ciò che bisogna innanzi tutto cercare nella Scrittura è il nutrimento che alimenti la nostra vita spirituale e la faccia procedere sulla via della perfezione: è con questo scopo che San Gerolamo s’abituò a meditare giorno e notte la legge del Signore e a nutrirsi, nelle Sacre Scritture, del pane disceso dal Cielo e della manna Celeste, che raduna in sé tutte le delizie (Tract. de Ps. CXLVII). – In qual modo la nostra anima potrà fare a meno di questo cibo? E come il sacerdote potrà indicare agli altri la via della salvezza, se trascura egli stesso di istruirsi attraverso la meditazione della Scrittura? E con quale diritto confiderà nel suo sacro ministero “d’essere la guida dei ciechi, la luce di coloro che sono nelle tenebre, il dottore degli ignoranti, il maestro dei fanciulli, colui che ha, nella legge, la regola della scienza e della verità” (Rom. II, 19 e segg.), se rifiuterà di scrutare questa scienza della legge e chiuderà la sua anima alla luce che viene dall’alto? Ahimè! Quanti sono i ministri consacrati, che, per aver trascurato la lettura della Bibbia, muoiono essi stessi di fame e lasciano morire un così gran numero di altre anime, secondo quanto sta scritto: “I piccoli domandano pane, e non v’è nessuno che lo doni loro“(Thren. IV, 4). “Tutta la terra è desolata perché non v’è nessuno che mediti in cuor suo” (Ger. XII, 11). – In secondo luogo è necessario ricercare, come il bisogno richiede, nelle Scritture gli argomenti per rischiarare, rafforzare e difendere i dogmi della fede. Questo meravigliosamente ha fatto San Gerolamo combattendo contro gli eretici del suo tempo; quando voleva confonderli, quali armi ben pungenti e solide egli abbia trovato nei testi delle Scritture, lo dimostrano chiaramente tutte le sue opere! Se gli esegeti d’oggi imitassero il suo esempio, ne risulterebbe senza alcun dubbio questo vantaggio: “risultato necessario e infinitamente desiderabile – diceva il Nostro Predecessore nella sua Enciclica Providentissimus Deus – che l’uso della Sacra Scrittura influirà su tutta la scienza teologica e ne sarà, in un certo senso, l’anima“. – Infine la Scrittura servirà in modo speciale a santificare e fecondare il ministero della parola divina. A questo punto Ci è particolarmente grato poter confermare, con la testimonianza del grande Dottore, le direttive che Noi stessi abbiamo tracciato sulla predicazione sacra nella Nostra Lettera Enciclica Humani generis. Invero, se l’illustre commentatore consiglia così vivamente e con tanta frequenza ai sacerdoti l’assidua lettura dei Libri Santi, è soprattutto perché essi adempiano degnamente il loro ministero d’insegnamento e di predicazione. La loro parola, infatti, perderebbe ogni influenza e ogni autorità, come anche ogni efficacia per la formazione delle anime, se non si ispirasse alla Sacra Scrittura e non vi attingesse forza e vigore. “La lettura dei Libri Santi sarà come il condimento alla parola del sacerdote” (EpLII, VIII, 1). Infatti “ogni parola della Santa Scrittura è come una tromba che fa risuonare agli orecchi dei credenti la sua grande voce minacciosa” (Amos III, 3 e segg.); e “nulla suscita tanta impressione come un esempio tratto dalla Sacra Scrittura” (Zach. IX, 15 e segg.). – In quanto agli insegnamenti del santo Dottore sulle regole da osservarsi nell’uso della Bibbia, sebbene rivolti principalmente agli esegeti, tuttavia non devono essere persi di vista dai sacerdoti nella predicazione della parola divina. – Dapprima ci insegna che noi dobbiamo, con un esame molto attento delle parole stesse della Scrittura, assicurarci, senza alcuna possibilità di dubbio, di ciò che l’autore sacro ha scritto. Nessuno infatti ignora che San Gerolamo era solito ricorrere, in caso di bisogno, al testo originale, confrontare tra loro le differenti interpretazioni, valutare la portata delle lezioni e, se scopriva un errore, ricercarne la causa, in modo da scartare dal testo ogni incertezza. Allora, insegna il nostro Dottore, “è necessario ricercare il senso e il concetto che si nascondono sotto le parole, poiché per discutere sulla Sacra Scrittura ha maggior importanza il significato che la parola” (EpXXIX, 1, 3). – In questa ricerca di penetrare il significato, Noi lo riconosciamo senza alcuna difficoltà, San Gerolamo, seguendo l’esempio dei Dottori latini e di alcuni Dottori greci del periodo anteriore, ha forse concesso alle interpretazioni allegoriche più di quanto fosse esatto concedere. Ma il suo amore per i Libri Santi, il suo sforzo costante per identificarli e comprenderli a fondo, gli permisero di fare ogni giorno un nuovo progresso nel giusto apprezzamento del senso letterale e di formulare su questo punto validi principi. Noi li riassumeremo brevemente, poiché essi costituiscono ancora oggi la via sicura che tutti devono seguire per trarre dai Libri Santi il vero significato. È dunque necessario volgere il nostro animo alla ricerca del senso letterale o storico: “Io do sempre ai lettori prudenti il consiglio di non accettare interpretazioni superstiziose, che isolano brani del testo secondo il capriccio della fantasia, ma di ben esaminare ciò che succede, ciò che accompagna e ciò che segue il punto in questione, sì da stabilire un collegamento fra tutti i brani” (Matth. XXV, 13). – Tutti gli altri metodi per interpretare le Scritture – egli aggiunge – si basano sul senso letterale (Cfr. Ez. XXXVIII, 1 e segg.; XLI, 23 e segg.; XLII, 13 e segg.; Marc. I, 13-31; Ep. CXXIX, VI, 1 ecc.), e non v’è ragione di credere, che questo manchi quando s’incontra una espressione figurata, poiché “spesso la storia è intessuta di metafore ed usa uno stile ricco di immagini” (Hab. III, 14 e segg.). Alcuni pretendono sostenere che il nostro Dottore ha dichiarato che non si rileva in certi passi delle Scritture un senso storico; egli stesso ribatte loro: “Senza negare il senso storico, noi adottiamo di preferenza quello spirituale” (Marc. IX, 1-7; cfr. Ez. XL, 24-27). – Stabilito con certezza il senso letterale o storico, San Gerolamo ricerca i sensi meno ovvi e più profondi, per nutrire il proprio spirito d’un alimento più eletto. Egli insegna infatti a proposito dei libri dei Proverbi, e consiglia più volte riguardo ad altri libri della Scrittura, di non fermarsi al puro senso letterale, “ma di penetrare più a fondo per scorgervi il senso divino, così come si cerca l’oro nel seno della terra, il nocciolo sotto la scorza, il frutto che si nasconde sotto il riccio della castagna” (Eccl. XII, 9 e segg). Perciò, egli diceva indicando a San Paolino “la via da seguire nello studio delle Sacre Scritture“, “tutto ciò che leggiamo nei libri divini splende invero nella sua scorza fulgida e brillante, ma è ancor più dolce nel midollo. Chi vuol gustare il frutto, rompa il guscio” (Ep. LVIII, IX, 1). – San Gerolamo fa inoltre osservare la necessità di usare, nella ricerca del senso nascosto, una certa discrezione, “affinché il desiderio della ricchezza del senso spirituale non sembri farci disprezzare la povertà del senso storico” (Eccl. II, 24 e segg.). – Pertanto egli rimprovera a molte interpretazioni mistiche di antichi scrittori di aver completamente trascurato di appoggiarsi al senso letterale: “Non bisogna ridurre tutte le promesse che i libri dei santi profeti hanno cantato, nel loro senso letterale, a non essere altro che forme vuote e termini estrinseci di una semplice figura di retorica; esse devono, al contrario, posare su un terreno ben fermo, che è quello di stabilirle su basi storiche, perché possano poi elevarsi alla cima più eccelsa del significato mistico” (Amos IX, 6). – Osserva saggiamente, a questo proposito, che non dobbiamo allontanarci dal metodo di Cristo e degli Apostoli, i quali, sebbene l’Antico Testamento non sia ai loro occhi che la preparazione e quasi l’ombra del Nuovo Trattato e, per conseguenza, essi interpretino secondo il senso figurato un gran numero di passi, tuttavia non riducono ad immagini tutto il complesso del testo. A sostegno di questa tesi, spesso San Gerolamo riporta l’esempio dell’Apostolo San Paolo, che, per citare un caso, “descrivendo le figure spirituali di Adamo ed Eva, non negava che esse erano state create, ma, improntando l’interpretazione mistica sulla base storica, scriveva: – Per questo l’uomo abbandonerà… ” (Is. VI, 1-7). – I commentatori delle Sacre Scritture e i predicatori della parola di Dio, seguendo l’esempio di Cristo e degli Apostoli e le direttive tracciate da Leone XIII, “non devono trascurare le trasposizioni allegoriche od altre dello stesso genere fatte dagli stessi Padri di alcuni passi, soprattutto se esse si allontanano dal senso letterale e sono sostenute dall’autorità di un Padre di gran nome“; infine, prendendo per base il senso letterale, devono giungere, con misura e discrezione, ad interpretazioni più elevate; essi coglieranno con San Gerolamo la verità profonda del detto dell’Apostolo: “Tutta la Scrittura è ispirata dallo Spirito di Dio ed è utile per insegnare, per persuadere, per correggere, per formare (le menti) alla giustizia“(II Tim. III, 16), e il tesoro inesauribile delle Scritture fornirà loro un grande appoggio di fatti e di idee atti ad orientare, con forza di persuasione, verso la santità la vita e i costumi dei fedeli. – Quanto a ciò che si riferisce all’esposizione e all’espressione, poiché quello che si richiede nei divulgatori dei misteri di Dio è la versione fedele del testo originale, San Gerolamo sostiene principalmente che è necessario attenersi innanzi tutto “all’esatta interpretazione” e che “il dovere del commentatore non è quello di esporre idee personali, bensì quelle dell’autore che viene commentato” (Ep. XLIX, al. 48, 17, 7); d’altra parte, egli aggiunge, “l’oratore sacro è esposto al grave pericolo un giorno o l’altro, per via di un’interpretazione errata, di fare del Vangelo di Cristo il Vangelo dell’uomo” (GalI, 11 e segg.). – In secondo luogo “nella spiegazione delle Sante Scritture non è da ricercare lo stile ornato e fiorito di retorica, ma il valore scientifico e la semplicità della verità” (Amos, Prefaz. in l. III). – Uniformatosi a questa regola nella compilazione delle sue opere, San Gerolamo dichiara, nei Commentari, che il suo scopo non era quello di “ottenere un plauso” alle sue parole, ma “di far comprendere in esse il vero senso delle parole degli altri” (Gal., Pref. in l. III); l’esposizione della parola divina, egli dice, richiede uno stile che “non sappia di elucubrazioni, ma che riveli l’idea oggettiva, che ne tratti minutamente il significato, che chiarifichi i punti oscuri e che non si impigli in effetti fioriti di linguaggio” (Ep. XXXVI, XIV, 2; cfr. Ep. CXL, 1, 2). – Sarebbe bene riportare a questo punto alcuni passi di San Gerolamo, che chiaramente dimostrano come egli avesse orrore dell’eloquenza propria dei rètori, i quali nell’enfasi della declamazione e nell’eloquio vertiginoso delle parole vuote non hanno di mira che i vani applausi. “Non diventare – consiglia al prete Nepoziano – un declamatore e un inesauribile mulino di parole; ma procura di familiarizzarti col senso nascosto e penetra a fondo i misteri del tuo Dio. Ampliare la forma espressiva e farsi valere per l’agilità dello stile agli occhi del volgo ignorante, è proprio degli stolti” (EpLII, VIII, 1). “Tutti gli spiriti dotti al giorno d’oggi non si preoccupano di assimilare il nocciolo delle Scritture, ma di lusingare gli orecchi della folla coi fiori di retorica” (Dial. e Lucif. II). “Non voglio parlare di coloro che, come io stesso un tempo, se giungono a contatto con le Sacre Scritture dopo aver praticato la letteratura profana e ricreato l’orecchio della folla con lo stile fiorito, ritengono che ogni loro parola sia la legge di Dio e non si degnano di vedere quello che hanno inteso dire i Profeti e gli Apostoli, ma adattano al loro punto di vista testimonianze che non vi si riferiscono affatto; come se fosse eloquenza di grande valore, e non invece la peggiore che esista, quella di falsificare i testi e di allontanare abusivamente la Scrittura dal suo tracciato” (Ep. LIII, VII, 2). “Poiché senza l’autorità delle Scritture questi chiacchieroni perderebbero ogni forza persuasiva, e non sembrerebbe più che essi rafforzino coi testi sacri la falsità delle loro dottrine” (Tit1, 10 e segg.). Ora questa chiacchiera eloquente e questa eloquente ignoranza “non hanno nulla di incisivo, di vivo, di vitale, ma non sono che un tutto fiacco, sterile ed inconsistente che produce solo umili piante ed erbe ben presto avvizzite e giacenti al suolo“;al contrario, la dottrina del Vangelo, fatta di semplicità, “produce qualcosa di meglio di umili pianticelle” e, come il piccolissimo grano di senape, “si trasforma in albero, sì che gli uccelli del cielo… vengono a posarsi tra i suoi rami” (Matth. XIII, 32). – Perciò San Gerolamo ricercava ovunque questa santa semplicità di linguaggio, che non esclude per altro uno splendore e una bellezza tutt’affatto naturali: “Che gli altri siano pure eloquenti e ricevano il plauso tanto desiderato e declamino con voce enfatica e fiumi di parole; quanto a me, mi accontento di farmi capire e, trattando le Scritture, di imitare la loro stessa semplicità” (Ep. XXXVI, XIV, 2). Pertanto “l’esegesi cattolica, senza rinunciare al pregio di un bello, stile, deve occultarlo ed evitarlo per rivolgersi non a vane scuole di filosofi e a pochi discepoli, ma a tutto il genere umano” (Ep. XLVIII, al. 49, 4, 3). Se i giovani sacerdoti metteranno veramente a profitto questi consigli e queste norme, se i preti più anziani non li perderanno mai di vista, Noi siamo sicuri che il loro santo ministero sarà di gran lunga giovevole alle anime dei fedeli. – Ci rimane, Venerabili Fratelli, da commemorare dolci frutti” che San Gerolamo ha colto “dall’amaro seme delle Sacre Lettere“, nella speranza che il suo esempio infiammerà lo spirito dei sacerdoti e dei fedeli affidati alle vostre cure, suscitando in loro il desiderio di conoscere e di partecipare anch’essi alla salutare virtù del Testo Sacro. – Ma tutte queste soavi delizie spirituali che pervadono l’animo del pio anacoreta, preferiamo che voi le apprendiate per così dire dalla sua stessa bocca, piuttosto che da Noi. Ascoltate dunque in quali termini egli parla di questa scienza sacra a Paolino, suo “confratello, compagno ed amico“: “Io ti chiedo, fratello carissimo: vivere in mezzo a questi misteri, meditarli, null’altro conoscere e null’altro sapere, non ti sembra che tutto ciò sia già il paradiso in terra?” (EpLIII, X, 1). “Dimmi un po’, domanda San Gerolamo alla sua allieva Paola, che vi è di più santo di questo mistero? Che cosa di più attraente di questo piacere? Quale alimento, quale miele più dolce di quello di conoscere i disegni di Dio, d’essere ammesso nel suo santuario, di penetrare il pensiero del Creatore e le parole del tuo Signore, che i dotti di questo mondo deridono e che sono piene di sapienza spirituale? Lasciamo che gli altri godano delle loro ricchezze, bevano in una coppa ornata di pietre preziose, indossino sete splendenti, si cibino dei plausi della folla, senza che la varietà dei piaceri riesca ad esaurire i loro tesori: le nostre delizie invece consisteranno nel meditare giorno e notte sulla legge del Signore, nel bussare a una porta in attesa che s’apra, nel ricevere la mistica elemosina del pane della Trinità, nel camminare, guidati dal Signore, sui flutti della vita” (Ep. XXX, 13). Ed ancora a Paola ed a sua figlia Eustochio, San Gerolamo scrive nel suo commentario sull’Epistola agli Efesi: “Se qualcosa vi è, Paola ed Eustochio, che trattiene quaggiù nella saggezza e che in mezzo alle tribolazioni e ai turbini di questo mondo mantiene l’equilibrio dell’anima, io credo che questo sia innanzi tutto la meditazione e la scienza delle Scritture” (EphProl.). Ed è ricorrendo ad esse, che egli, afflitto nell’intimo da profondi dolori e colpito nel corpo dalla malattia, poteva godere ancora della consolazione della pace e della gioia del cuore: questa gioia egli non si limitava a gustarla in una vana oziosità, ma il frutto della carità si trasformava in carità attiva al servizio della Chiesa di Dio, cui il Signore ha affidato la custodia della parola divina. In realtà ogni pagina delle Sante Lettere dei due Testamenti era per lui la glorificazione della Chiesa di Dio. Quasi tutte le donne celebri e virtuose, cui nell’Antico Testamento è tributato onore, non sono forse l’immagine di questa Sposa mistica di Cristo? Il sacerdozio e i sacrifici, i riti e le solennità, quasi tutti i fatti riportati nell’Antico Testamento non ne costituiscono forse l’ombra? E il fatto che si trova divinamente realizzato nella Chiesa un così gran numero di promesse dei Salmi e dei Profeti? Ed egli stesso, infine, non conosceva forse, per l’annuncio che ne avevano fatto Nostro Signore e gli Apostoli, gli insigni privilegi di questa Chiesa? E come è possibile dunque che la scienza delle Scritture non abbia infiammato il cuore di San Gerolamo d’un amore ogni giorno più ardente per la Sposa di Cristo? – Noi già sappiamo, Venerabili Fratelli, quale profondo rispetto, quale amore entusiasta egli nutriva per la Chiesa Romana e per la Cattedra di San Pietro; sappiamo con quale vigore egli combattesse contro i nemici della Chiesa. Così scriveva, esprimendo il suo compiacimento ad Agostino, suo giovane compagno d’armi, che sosteneva le medesime battaglie e si rallegrava d’essersi come lui attirato l’ira degli eretici: “Evviva il tuo valore! Il mondo intero ha gli occhi su di te. I Cattolici venerano e riconoscono in te il restauratore della fede dei primi tempi del Cristianesimo e, indice ancor più glorioso, tutti gli eretici ti maledicono e con te mi perseguitano d’uno stesso odio, per potere, dato che il loro gladio non ne ha la forza, ucciderci col desiderio” (EpCXLI, 2; cfr. Ep. CXXIV, 1). Questa testimonianza si trova egregiamente confermata nel “Sulpizio Severo” di Postumiano: “Una lotta continua e un duello ininterrotto contro i malvagi hanno concentrato su San Gerolamo l’odio dei perversi. In lui gli eretici odiano colui che non cessa di attaccarli, e i chierici colui che rimprovera la loro vita e le loro colpe. Ma tutti gli uomini virtuosi, senza eccezione alcuna, l’amano e l’ammirano” (Postumianus apud Sulp. Sev., Dial. 1, 9). – Quest’odio degli eretici e dei malvagi fece soffrire a Gerolamo molte asperrime pene, soprattutto quando i Pelagiani irruppero sul monastero di Betlemme e lo saccheggiarono; ma egli sopportò di buon animo tutte le offese e tutti gli oltraggi e mai perdette il coraggio, come colui che non esita a morire in difesa della fede cristiana: “La mia gioia, egli scrive ad Apronio, è quella d’apprendere che i miei figli combattono per Cristo e che Colui, nel quale crediamo, rafforza in noi lo zelo ed il coraggio, affinché possiamo essere pronti a versare il nostro sangue per la Sua fede… Le persecuzioni degli eretici hanno rovinato da cima a fondo il nostro monastero quanto alle sue ricchezze materiali, ma la bontà di Cristo lo ha colmato di ricchezze spirituali. È meglio non avere pane da mangiare, che perdere la fede” (Ep. CXXXIX). E se non ha mai permesso all’errore di diffondersi impunemente, non ha impiegato minor zelo ad erigersi in termini energici contro i corrotti costumi, volendo, per quanto le sue forze glielo permettevano, “presentare” a Cristo “una Chiesa gloriosa, senza macchie né rughe, né nulla di simile, ma santa e immacolata” (Eph. V, 27). – Quale vigore nei rimproveri che San Gerolamo rivolge a coloro che profanano con una vita colpevole la dignità sacerdotale! Con quale eloquenza egli investe i costumi pagani che pervadono in gran parte la città stessa di Roma! Per arginare a qualunque costo questa invasione di tutti i vizi e di tutte le colpe, egli vi oppone l’eccellenza e la bontà delle virtù cristiane, giustamente convinto che nulla vale di più contro il male dell’amore delle cose purissime; egli richiede insistentemente per la gioventù un’educazione informata a senso religioso e ad onestà, esorta con severi consigli gli sposi a condurre una vita pura e santa, suscita nelle anime più delicate il culto della verginità, non trova abbastanza elogi per la severa ma dolce austerità della vita dello spirito, richiama, con tutte le sue forze, il primo precetto della Religione cristiana – il comandamento della carità unita al lavoro – la cui osservanza doveva sottrarre la società umana ai turbamenti e restituirle la tranquillità dell’ordine. – Ricordiamo questa bella frase, ch’egli rivolgeva a San Paolino a proposito della carità: “Il vero tempio di Cristo è l’anima del fedele: ornalo, questo santuario, abbelliscilo, deponi in esso le tue offerte e ricevi Cristo. A che scopo rivestire le pareti di pietre preziose, se Cristo muore di fame nella persona di un povero?” (EpLVIII, VII, 1). Quanto al dovere del lavoro, egli lo ricorda a tutti con un tale ardore, nei suoi scritti e più ancora negli esempi di tutta la sua vita, che Postumiano, dopo un soggiorno di sei mesi a Betlemme insieme a San Gerolamo, gli ha reso questa testimonianza nel “Sulpizio Severo”: “Lo si trova senza posa tutto occupato nella lettura, tutto immerso nei libri: né il giorno né la notte riposa, ma sempre legge o scrive” (Postum. apud Sulp. Sev., Dial. 1, 9). – Del resto, il suo ardente amore per la Chiesa si rileva dai suoi Commentari, dove egli non tralascia nessuna occasione per celebrare la Sposa di Cristo. Citiamo, per esempio, questo passo del Commentario del profeta Aggeo: “Accorse il fior fiore di tutte le nazioni e la gloria ha riempito la casa del Signore, cioè la Chiesa di Dio vivente, colonna e fondamento della verità… Questi metalli preziosi donano più splendore alla Chiesa del Salvatore di quanto non ne donassero un tempo alla Sinagoga; di queste vive pietre è costruita la casa di Cristo ed essa si corona d’una pace eterna” (Agg. II, 1 e segg.). E in un altro passo, commentando Michea, dice: “Venite, saliamo alla casa del Signore: è necessario salire se si vuol giungere fino a Cristo e alla casa del Dio di Giacobbe, la Chiesa, casa di Dio, colonna e fondamento della verità” (MichIV, 1 e segg.). – Nella prefazione al Commentario di San Matteo, leggiamo: “La Chiesa è stata costruita su una pietra da una parola del Signore; è questa che il Re ha fatto introdurre nella sua camera ed è a lei che attraverso l’apertura segreta ha teso la mano” (Matth., Prol.). – Come risulta da questi ultimi passi che abbiamo citato, così più volte il nostro Dottore esalta l’unione intima del Signore con la Chiesa. Poiché non è possibile separare la testa dal suo corpo mistico, l’amore per la Chiesa porta necessariamente con sé l’amore per Cristo, che deve essere considerato il frutto principale e dolcissimo della scienza delle Scritture. Gerolamo, infatti, era a tal punto convinto che questa conoscenza del Testo Sacro è la via esatta che conduce alla conoscenza e all’amore di Nostro Signore, che non esitava ad affermare: “Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo stesso” (Is. Prol.; cfr. Tract. de Ps. LXXVII). Con lo stesso intendimento scrive a Santa Paola: “Come si potrebbe vivere senza la scienza delle Scritture, attraverso le quali si impara a conoscere Cristo stesso, che è la vita dei credenti?” (Ep. XXX, 7). È verso Cristo infatti che convergono, come al loro punto centrale, tutte le pagine dei due Testamenti; e nel commento al passo dell’Apocalisse, dove è la questione del fiume e dell’albero della vita, San Gerolamo in particolare scrive: “Non vi è che un fiume che sgorga dal trono di Dio, ed è la grazia dello Spirito Santo, e questa grazia dello Spirito Santo è racchiusa nelle Sante Scritture, cioè in questo fiume delle Scritture. Il quale fiume tuttavia scorre tra due rive, che sono l’Antico e il Nuovo Testamento, e su ogni lato sorge un albero, che è Cristo stesso” (Tractde Ps. I). – Nulla di strano dunque se Gerolamo nelle sue pie meditazioni era solito riferire a Cristo tutto quello che leggeva nei Libri Santi: “Quando io leggo il Vangelo e mi trovo di fronte a testimonianze sulla legge e sui profeti, io non penso che a Cristo: se ho studiato Mosè, se ho studiato i profeti, è stato solo per comprendere quello che essi dicevano di Cristo. Quando un giorno io sarò giunto dinanzi allo splendore di Cristo, quando la sua fulgida luce come quella del sole abbagliante splenderà ai miei occhi, io non potrò più vedere il lume d’una lampada. Se accenderai una lampada in pieno giorno, farà essa luce? Quando splende il sole, la luce di questa lampada svanisce: così, alla presenza di Cristo, la legge e i profeti scompaiono. Nulla io voglio togliere alla gloria della legge e dei profeti: al contrario, li lodo quali annunciatori di Cristo. Se mi accingo alla lettura della legge e dei profeti, il mio scopo non è quello di fermarmi ad essi, ma di giungere, attraverso essi, fino a Cristo” (Marc. IX, 1, 7). – Così noi lo vediamo elevarsi meravigliosamente, per mezzo dei Commentari alle Scritture, all’amore e alla conoscenza di Gesù Nostro Signore, e trovarvi la perla preziosa di cui parla il Vangelo: “Non vi è fra tutte che una sola pietra preziosa, ed è la conoscenza del Salvatore, il mistero della Sua passione e l’arcano segreto della Sua risurrezione” (Matth. XIII, 45 e segg.). – L’amore ardente per Cristo lo portava, povero ed umile insieme a Lui, a liberarsi completamente da ogni legame di preoccupazione terrestre, a non cercare che Cristo, a penetrare nel Suo spirito; a vivere con Lui nella più stretta unione, a foggiare la propria vita secondo l’immagine di Cristo sofferente, a non avere desideri più intensi che soffrire con Cristo e per Cristo. Perciò, al momento di imbarcarsi, allorché, essendo morto Damaso, perfidi nemici con le loro vessazioni lo fecero allontanare da Roma, così scriveva: “Alcuni possono considerarmi un criminale, cacciato sotto il peso di tutte le sue colpe, ma questo non è ancora nulla in confronto ai miei peccati; tu puoi tuttavia credere nel tuo intimo a una virtù dei peccatori… Io rendo grazie a Dio di meritare l’odio del mondo. Quale parte di sofferenze ho patito, io, il soldato della croce? La calunnia mi ha coperto del marchio d’un delitto: ma io so che con la cattiva come con la buona fama si arriva al regno dei Cieli” (EpXLV, 1,6). – Così esortava la pietosa vergine Eustochio a sopportare coraggiosamente per amore di Cristo le pene della vita presente: “Grande è la sofferenza, ma grande è la ricompensa ad imitare i martiri, gli apostoli, ad imitare Cristo. Tutte queste pene che vengo enumerando sembrerebbero intollerabili a chi non ama Cristo; ma, al contrario, chi considera tutta la pompa della vita terrena come un fango immondo, per cui tutto è vano sotto la luce del sole, chi non vuole arricchirsi che di Cristo, chi si unisce alla morte e alla resurrezione del suo Signore e chi uccide la propria carne con tutti i suoi vizi e tutte le sue brame, costui potrà liberamente gridare: Chi mi potrà separare dalla carità di Cristo?” (EpXXII, 38 e segg.). – Gerolamo dunque abbondantissimi frutti traeva dalla lettura dei Libri Santi: di qui egli attingeva quella luce interiore, che lo faceva sempre più avanzare nella conoscenza e nell’amore di Cristo; di qui quello spirito di preghiera, di cui così bene ha detto nei suoi scritti; qui infine acquistò quella mirabile intima comunione con Cristo, che con le sue dolcezze lo incitò a tendere senza tregua, attraverso l’aspro sentiero della croce, alla conquista della palma di vittoria. – Cosi lo slancio del suo cuore lo portava continuamente verso la Santissima Eucaristia: “Poiché nessuno è più ricco di colui che porta il corpo del Signore in un cestello di vimini e il Suo Sangue in un’ampolla” (EpCXXV, XX, 4); uguale venerazione nutriva San Gerolamo per la Santa Vergine di cui difende con ogni forza la perpetua verginità; e la Madre di Dio, ideale di tutte le virtù, era il modello che egli proponeva agli sposi di Cristo, perché la imitassero. – Nessuno si stupirà dunque se i luoghi della Palestina che avevano santificato il nostro Redentore e la sua Santissima Madre hanno esercitato un fascino e un’attrattiva così grandi su San Gerolamo. Quali fossero i suoi sentimenti su questo punto, si potrà facilmente indovinare da ciò che Paola ed Eustochio, sue discepole, scrivevano da Betlemme a Marcella: “Con quali parole noi possiamo darti un’idea della grotta in cui nacque il Divin Salvatore? Della culla che udì i suoi vagiti infantili? È più degno il silenzio che le nostre povere parole… Non verrà dunque il giorno in cui ci sarà dato di entrare nella grotta del Salvatore, di piangere sulla tomba del Divino Maestro accanto a una sorella, ad una madre? Di baciare il legno della Croce e sul Monte degli Ulivi di seguire in ispirito, ardenti di desiderio, Cristo nella Sua Ascensione?” (EpXLVI, XI, 13). – Gerolamo conduceva, lontano da Roma, una vita di mortificazione per il suo corpo, ma il richiamo dei sacri ricordi infondeva alla sua anima una tale dolcezza, da scrivere: “Ah! se Roma possedesse quello che possiede Betlemme, che è tuttavia più umile della città romana!” (EpLIV, XIII, 6). – Il voto del Santissimo esegeta s’è realizzato in modo diverso da quello da lui inteso, e Noi, Noi e tutti i cittadini di Roma, abbiamo motivo di rallegrarcene. Infatti i resti del grande Dottore, deposti in quella grotta che per tanto tempo aveva abitata, per cui la celebre città di Davide si gloriava un tempo di conservarli, Roma oggi ha la fortuna di custodirli nella basilica di Santa Maria Maggiore, ove riposano accanto alla Culla stessa del Salvatore. – S’è spenta la voce, la cui eco dal deserto percorreva un tempo il mondo intero; ma attraverso i suoi scritti, “che splendono su tutto l’universo come fiamme divine” (Cassian. De incarn. 7, 26), San Gerolamo parla ancora. Egli proclama l’eccellenza, l’integrità e la veracità storica delle Scritture, e i dolci frutti che la loro lettura e la loro meditazione offrono. Proclama per tutti i figli della Chiesa la necessità di ritornare a una vita degna del nome cristiano e di guardarsi dal contagio dei costumi pagani, che nella nostra epoca sembrano essersi pressoché ristabiliti. Proclama che la Cattedra di Pietro, mercè soprattutto la pietà filiale e lo zelo degli Italiani, cui il Cielo ha dato il privilegio di possederla entro i confini della loro patria, deve godere dell’onore e della libertà assolutamente indispensabili per la dignità e l’esercizio stesso della carica Apostolica. – Proclama, per le nazioni cristiane che hanno avuto la sventura di staccarsi dalla Chiesa, il dovere di ritornare alla loro Madre, ove riposa tutta la speranza della salute eterna. Voglia Dio che questo appello sia inteso soprattutto dalle Chiese Orientali, che ormai da troppo tempo sono ostili alla Cattedra di Pietro. Quando viveva in quelle regioni ed aveva per maestri Gregorio Nazianzeno e Didimo d’Alessandria, Gerolamo sintetizzava in questa formula divenuta classica la dottrina dei popoli orientali a quell’epoca: “Chiunque non si rifugia nell’arca di Noè, sarà travolto dai flutti del diluvio” (Ep. XV, 11, 1). Se Dio non arresta oggi questo flagello, non minaccia esso di distruggere tutte le istituzioni umane? Che più rimane, se viene soppresso Dio, autore e conservatore di tutte le cose? Che cosa può continuare ad esistere, una volta staccata da Cristo, fonte di vita? Ma colui che un tempo, all’appello dei suoi discepoli, calmò il mare in tempesta, può ancora rendere alla società umana travolta il preziosissimo beneficio della pace. – Possa San Gerolamo attirare questa grazia sulla Chiesa di Dio, che egli ha con tanto ardore amato e con tanto coraggio difeso contro ogni assalto dei nemici; possa il suo patrocinio ottenere per noi che tutte le discordie siano sedate secondo il desiderio di Gesù Cristo, e “che vi sia un solo gregge sotto un solo pastore“. – Comunicate senza indugio, Venerabili Fratelli, al vostro clero e ai vostri fedeli, le istruzioni che vi abbiamo dato in occasione del quindicesimo centenario della morte del grande Dottore. Noi vorremmo che tutti, secondo l’esempio e sotto il patrocinio di San Gerolamo, non soltanto rimanessero fedeli alla dottrina cattolica sotto l’ispirazione divina delle Sacre Scritture e ne prendessero la difesa, ma che osservassero anche con scrupolosa cura le prescrizioni dell’enciclica Providentissimus Deus e della presente Lettera. In attesa, formuliamo l’augurio che tutti i figli della Chiesa si lascino penetrare e fortificare dalla dolcezza delle Sante Lettere, per arrivare a una conoscenza perfetta di Gesù Cristo. – Come pegno di tale voto, e in testimonianza della Nostra paterna benevolenza, Noi impartiamo, nella somma grazia del Signore, a voi, a tutto il clero e a tutti i fedeli che vi sono affidati, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 settembre 1920, anno VII del Nostro Pontificato.

BENEDETTO PP. XV.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XV – “SPIRITUS PARACLITUS” (1)

La Spiritus Paraclitus di S. S. Benedetto XV, è una Enciclica straordinaria e di una importanza dottrinale immensa, riferendosi, nell’esaltazione dell’opera e della figura di S. Girolamo, alla Sacra Scrittura nella quale – si ribadisce solennemente – non può trovarsi errore di sorta perché redatta, se pur mediante l’ausilio terreno di molti scrittori, dal sommo Autore, Dio stesso nella Persona dello Spirito Santo. Si tratta di un documento che dovrebbe essere letto e riletto continuamente, ricco com’è di principi assolutamente veritieri e senza inganno di sorta, un vero schiaffo per tanti illustri asini, atei, protestanti, ebraizzanti da strapazzo, massoni di scarso profilo culturale, inattendibili improvvisati biblisti “fai da te”, sbandierati dalla propaganda anticattolica in libercoli insulsi messi in mostra e venduti in edicole ferroviarie e autostradali e fatti passare per novelli studiosi la cui ignoranza è palese oltre che truffaldina. Lo stesso atteggiamento tengono i modernisti indovati nella setta vaticana postconciliare, sempre pronti a discreditare, contro ogni evidenza, ogni rifermento alla vera Chiesa Cattolica, quella dalla quale hanno vergognosamente apostatato trascinando alla perdizione eterna tanti ignari incolti pseudo-fedeli. Oltretutto la Sacra Scrittura è un’arma per confutare e respingere gli eretici di ogni sorta di ogni epoca, in particolare della nostra  … « Una volta che sarai erudito nelle Sacre Scritture, armato delle loro leggi e delle loro testimonianze, che sono i vincoli della verità, tu andrai contro i tuoi nemici, li domerai, li incatenerai e li riporterai prigionieri; e di questi avversari e prigionieri di ieri, tu farai tanti figli di Dio (EpLXXVIII, XXX, al. 78, mansio).» – Per la sua lunghezza dividiamo la Lettera in due parti, così da renderne la meditazione più godibile e fruttuosa.

+
Benedetto XV
Spiritus Paraclitus

Lettera Enciclica (1)

Lo Spirito Santo, che diede al genere umano, per iniziarlo ai misteri della divinità, il tesoro delle Lettere Sante, ha con immensa provvidenza fatto sorgere nel corso dei secoli numerosi esegeti, notevoli per santità e per dottrina, i quali, non contenti di non lasciare infecondo questo Celeste tesoro (Conc. Trid., s. V. decr. di riforma, c. I), dovevano far ampiamente gustare attraverso i loro studi e le loro opere, ai fedeli cristiani, “la consolazione delle Scritture“. È universalmente riconosciuto l’eccelso posto tenuto da San Gerolamo, nel quale la Chiesa Cattolica riconosce e venera il più gran Dottore di cui il Cielo le abbia fatto dono per l’interpretazione delle Sacre Scritture. Invero, poiché fra pochi giorni dobbiamo commemorare il quindicesimo centenario della sua morte, Noi non vogliamo, Venerabili Fratelli, lasciar passare un’occasione così favorevole per intrattenervi a bell’agio sulla gloria che San Gerolamo ha acquistata e sui servizi che egli ha reso con la sua sapienza nelle Sacre Scritture. – La coscienza del Nostro ufficio Apostolico e il desiderio di dare incremento allo studio nobilissimo delle Scritture, Ci incitano da un lato a proporre come esempio da imitarsi questo grande genio, e dall’altro a confermare con la Nostra Apostolica autorità ed a meglio adattare ai tempi che oggi la Chiesa attraversa le preziosissime direttive e le prescrizioni date in questa materia dai Nostri Predecessori di santa memoria: Leone XIII e Pio X. Infatti San Gerolamo, “spirito grandemente impregnato di senso cattolico e molto versato nella conoscenza della legge santa” (Sulp. Sev., Dial., 1, 7), maestro dei cristiani” (Cass., De inc. VII, 26), “modello di virtù e luce del mondo intero” (San Prospero, Carmen de ingratis, V, 57), ha esposto meravigliosamente e validamente difeso la dottrina cattolica intorno ai Libri Santi; e a questo proposito Ci fornisce un insieme di insegnamenti di altissimo valore, di cui Noi Ci valiamo per esortare tutti i figli della Chiesa, e specialmente i membri del clero, al rispetto, alla lettura devota e all’assidua meditazione delle Scritture Divine. Come sapete, Venerabili Fratelli, San Gerolamo, nato a Stridone, città “un tempo di confine tra la Dalmazia e la Pannonia”, (De viris ill., 135), allevato fin dalla più tenera infanzia al Cattolicesimo (Ep. LXXX, 11, 2), dopo che col Battesimo ebbe preso qui in Roma stessa l’abito di Cristo (Ep. XV, 1, 1; XVI, 11, 1), fino alla fine della sua lunghissima vita consacrò tutte le sue forze allo studio, alla esplicazione e alla difesa dei Libri Sacri. – Istruitosi in lettere latine e greche, appena uscito dalla scuola dei rètori, ancora adolescente, si sforzava di commentare il profeta Abdia; questo Saggio “della sua prima gioventù” (Abdpraef.) fece crescere a tal punto il suo amore per le Scritture, che, seguendo la parabola del Vangelo, egli decise di dover sacrificare al tesoro che aveva scoperto “tutti i vantaggi di questo mondo” (Matth. XIII, 44). – Perciò, sfidando tutte le difficoltà di una simile decisione, abbandonò la sua casa, i genitori, la sorella, i parenti, rinunziò all’abitudine di una lauta mensa e partì per i luoghi santi dell’Oriente, allo scopo di procurarsi con maggior abbondanza le ricchezze di Cristo e la conoscenza del Salvatore, con la lettura e lo studio dei Libri Santi (Ep. XXII, XXX, 1). Più volte egli stesso ci descrive come si sia dedicato a questa impresa, senza risparmiare fatica: “Una meravigliosa sete di sapere mi spingeva ad istruirmi e non fui affatto, come alcuni pensano, il maestro di me stesso. Ad Antiochia ascoltai spesso le lezioni di Apollinare di Laodicea (1), che frequentavo; ma benché fossi suo discepolo nelle Sacre Scritture, non ho però mai adottato il suo dogmatismo ostinato in materia di senso” (Ep. LXXXIV, 111, 1). San Gerolamo dalla Palestina si ritirò nel deserto della Calcide, in Siria; e al fine di penetrare più profondamente il senso della parola divina e per frenare nello stesso tempo, con accanito travaglio, gli ardori della giovinezza, si mise alla scuola di un ebreo convertito, dal quale ebbe anche modo di apprendere la lingua ebraica e quella caldea. “Quali pene tutto ciò mi sia costato, quali difficoltà abbia dovuto vincere, quali scoraggiamenti soffrire, quante volte abbia abbandonato questo studio, per poi riprenderlo più tardi, stimolato dalla mia passione per la scienza, io solo, che l’ho provato, potrei dirlo, e con me coloro che mi vivevano accanto. E benedico Iddio per i dolci frutti che mi ha arrecati l’amaro seme dello studio delle lingue” (Ep. CXXV, 12). San Gerolamo, fuggendo le bande di eretici che venivano a turbarlo perfino nella solitudine del deserto, si recò a Costantinopoli. Il Vescovo di questa città era allora San Gregorio il Teologo celebre per la fama e la gloria universali della sua scienza. Gerolamo lo prese per quasi tre anni a guida e a maestro nell’interpretazione delle Sacre Lettere. In quest’epoca egli tradusse in latino le Omelie di Origene sui Profeti e la Cronaca di Eusebio e commentò la visione dei Serafini in Isaia. – Ritornato a Roma, per le difficoltà che la Cristianità attraversava, vi fu accolto paternamente dal Papa Damaso, che egli assistette nel governo della Chiesa (Ep. CXXIII, IX, al., 10; Ep. CXXVII, VII, 1). Sebbene assorbito in ogni senso dalle preoccupazioni di questa carica, tuttavia mai trascurò sia di dedicarsi ai Libri Santi (Ep. CXXVII, VII, 1 e segg.) e di trascrivere e di esaminare i codici (Ep. XXXVI, 2; Ep. XXXII, 1), sia di risolvere le difficoltà che gli venivano sottoposte e di iniziare i discepoli d’ambo i sessi alla conoscenza delle Scritture (Ep. XLV, 2; CXXVI, 3; CXXVII, 7). – Il Papa gli aveva affidato l’importantissimo compito di rivedere la versione latina del Nuovo Testamento: egli rivelò in quest’impresa una tale penetrazione e una tale finezza di giudizio, che la sua opera è sempre più stimata e ammirata dagli stessi esegeti moderni. Ma tutti i suoi pensieri, tutti i suoi desideri l’attiravano verso i luoghi della Palestina. Fu così che, alla morte di Damaso, Gerolamo si ritirò a Betlemme; ivi, fondato un monastero presso la culla di Gesù, si consacrò tutto a Dio, dedicando tutto il tempo che la preghiera gli lasciava libero allo studio e all’insegnamento delle Scritture. “Già – così egli ci riferisce – il mio capo s’incanutiva e avevo ormai l’aspetto più di un maestro che di un discepolo; ciò nonostante mi recai ad Alessandria e mi misi alla scuola di DidimoMolto a lui io devo: mi insegnò quello che ignoravo, e ciò che già sapevo mi rivelò sotto diversa forma. Sembrava che non avessi più nulla da imparare, e ora, a Gerusalemme e a Betlemme, a prezzo di quali fatiche e di quali sforzi ho io seguito ancora durante la notte le lezioni di Baranina! Egli temeva gli Ebrei e mi faceva l’effetto di un secondo Niccodemo” (EpLXXXIV, 111, 1 e segg.). Lungi dall’accontentarsi delle lezioni e dell’autorità di quei maestri – e non solo di questi – egli si valse, per raggiungere nuovi progressi, di fonti di documentazione d’ogni genere: dopo di essersi procurato fin dall’inizio i migliori manoscritti e commentari delle Scritture, studiò i libri delle sinagoghe e le opere della biblioteca di Cesarea, fondata da Origene e da Eusebio; il confronto di questi testi con quelli che già possedeva, doveva metterlo in grado di fissare la forma autentica e il vero senso del testo biblico. – Per meglio raggiungere il suo scopo, visitò la Palestina in tutta la sua estensione, fermamente convinto del vantaggio che ne avrebbe tratto, come faceva notare nella sua lettera a Domnione e a Rogaziano: “La Sacra Scrittura sarà molto più penetrabile per colui che ha visto con i suoi occhi la Giudea, che ha ritrovato i resti delle antiche città, ed appreso i nomi rimasti identici o trasformatisi delle varie località. Questo è il pensiero che ci guidava quando ci siamo imposta la fatica di percorrere, insieme ai più grandi eruditi ebrei, la regione il cui nome risuona in tutte le chiese di Cristo” (Ad Domnionem et Rogatianum in I. Paral. Prefaz.). Ecco dunque San Gerolamo nutrire senza posa il suo spirito di questa manna Celeste, commentare le Lettere di San Paolo, correggere, secondo i testi greci, i codici latini dell’Antico Testamento, tradurre di nuovo in latino dall’originale ebraico quasi tutti i Libri Sacri, spiegare ogni giorno le Sacre Scritture ai fedeli insieme riuniti, rispondere alle lettere che da ogni parte gli giungevano per sottoporgli difficoltà esegetiche da risolvere, confutare vigorosamente i detrattori dell’unità e della fede cattolica, e – tanto grande era l’energia che gli infondeva l’amore per le Scritture – non smettere dallo scrivere e dal dettare, finché la morte non ebbe irrigidito la sua mano e spento la sua voce. – Così, non risparmiando né fatiche, né veglie, né spese, mai, fino all’estrema vecchiaia, cessò di meditare giorno e notte, presso il Santo Presepio, sulla legge del Signore, rendendo maggiori servigi al nome cattolico, dal fondo della sua solitudine, con l’esempio della sua vita e con i suoi scritti, di quelli che avrebbe potuto rendere se fosse vissuto a Roma, centro del mondo. – Dopo questo rapido esame della vita e delle opere di San Gerolamo, vediamo ora, Venerabili Fratelli, quale fu il suo insegnamento sulla dignità divina e l’assoluta veracità delle Sacre Scritture. A questo proposito, si analizzino gli scritti del grande Dottore: non v’è pagina in cui non sia reso evidente come egli abbia fermamente e invariabilmente affermato, in armonia con l’intera Chiesa Cattolica, che i Libri Santi sono stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, che autore di essi va ritenuto Dio stesso e che come tali la Chiesa li ha ricevuti (Conc. Vat. I. III, Const. de fide cath. cap. II). I Libri della Santa Scrittura – egli afferma sono stati composti sotto l’ispirazione o la suggestione o anche la diretta dettatura dello Spirito Santo; ed è per di più questo stesso Spirito che li ha composti e divulgati. D’altronde però San Gerolamo non dubita minimamente che ogni autore di questi libri abbia secondo la propria possibilità e il proprio genio, dato libero contributo all’ispirazione divina. Non solo dunque egli afferma senza riserve l’elemento comune a tutti gli scrittori di cose sacre – sarebbe a dire il fatto che la loro penna è guidata dallo Spirito divino, a tal punto che Dio stesso deve essere considerato causa principe e determinante di ogni espressione della Scrittura – ma anche distingue accuratamente e pone in rilievo ciò che in un singolo scrittore vi è particolarmente caratteristico. Sotto diversi punti di vista, secondo cioè l’ordinamento del materiale, secondo l’uso dei vocaboli, la qualità e la forma dello stile, egli dimostra. come ciascuno abbia messo a profitto le proprie facoltà e le proprie capacità personali; giunge in tal modo a fissare e a ben delineare il carattere singolo, le impronte, per così dire, e la fisionomia di ogni autore, soprattutto riguardo ai Profeti e all’Apostolo San Paolo. Per meglio porre in rilievo questa collaborazione di Dio e dell’uomo alla stessa opera, San Gerolamo adduce l’esempio dell’operaio, che si serve, nella costruzione di un oggetto qualsiasi, di uno strumento o di un utensile; infatti tutto quello che gli scrittori sacri dicono “altro non è che la parola stessa di Dio e non la loro parola, e parlando per mezzo della loro bocca, Dio volle servirsi come d’uno strumento (Tract. de Ps., LXXXVIII). – Se noi cerchiamo inoltre di comprendere come bisogna interpretare questa influenza di Dio sullo scrittore di sacri argomenti e l’azione che Egli come causa principale esercitò, noi vedremo che l’opinione di San Gerolamo è in perfetta armonia con la dottrina comune della Chiesa Cattolica: Dio – egli afferma – con un dono della Sua grazia illumina lo spirito dello scrittore, riguardo alla verità che questo deve trasmettere agli uomini “per ordine divino“.Egli suscita in lui la volontà e lo costringe a scrivere; gli conferisce un’assistenza speciale fino al compimento del libro. E’ principalmente su questo punto del concorso divino, che il nostro Santo fonda l’eccellenza e la dignità incomparabili delle Scritture, la cui scienza paragona al “tesoro prezioso (Matth. XIII, 44; Tract. de Ps. LXXII) e alla “splendida perla” (Matth. XIII, 45 e segg.) e in cui assicura si trovano “le ricchezze di Cristo” (Quaestin Gen., Prefaz.) e “l’argento che orna la casa di Dio” (Agg. II, 1 e segg.; cfr. Gal. 11, 10 ecc.). Proclamava eloquentemente, sia con le parole che con i fatti, l’autorità sovrana della Scrittura. Non appena si sollevava una controversia, egli ricorreva alla Bibbia come alla più autorevole fonte per dedurne testimonianze, argomenti molto saldi e assolutamente inconfutabili al fine di dimostrare apertamente gli errori degli avversari. – Così San Gerolamo rispose, con massima schiettezza e semplicità, a Elvidio, che negava la perpetua verginità della Madre di Dio: Se ammettiamo tutto ciò che dice la Scrittura, neghiamo logicamente ciò che essa non dice. Noi crediamo che Dio sia nato da una vergine, appunto perché lo leggiamo nella Scrittura; e neghiamo che Maria non sia rimasta vergine dopo il parto, perché la Scrittura non lo riporta assolutamente (Adv. Helv., 19). Si ripromette, servendosi di queste stesse armi, di difendere con la massima vigoria, contro Gioviniano, la dottrina cattolica sullo stato di verginità di Maria, sulla perseveranza, l’astinenza e il merito delle buone opere: “Io farò ogni sforzo per opporre, a ciascuna delle sue asserzioni, i testi delle Scritture: eviterò così che egli vada ovunque lamentandosi che io l’ho vinto più con la mia eloquenza che con la forza della verità” (Adv. Iovin., 1, 4). – Nella difesa delle sue opere contro lo stesso eretico, aggiunge: “Sembrerebbe che l’abbiano supplicato di cedere davanti a me, mentre egli non s’è lasciato prendere che a malincuore, dibattendosi nei lacci della verità (Ep. XLIX, al. XLVIII, 14, 1). – Sull’insieme della Sacra Scrittura, leggiamo ancora nel suo commentario su Geremia, che la morte gli impedì di condurre a termine: “Non bisogna seguire l’errore dei genitori né quello degli antenati, bensì l’autorità delle Scritture e la volontà di Dio maestro“(Ier. IX, 12 e segg.). Ecco come descrive a Fabiola il metodo e l’arte per combattere il nemico: “Una volta che sarai erudito nelle Sacre Scritture, armato delle loro leggi e delle loro testimonianze, che sono i vincoli della verità, tu andrai contro i tuoi nemici, li domerai, li incatenerai e li riporterai prigionieri; e di questi avversari e prigionieri di ieri, tu farai tanti figli di Dio (EpLXXVIII, XXX, al. 78, mansio). Per altro San Gerolamo insegna che l’ispirazione divina dei Libri Santi e la loro sovrana autorità comportano, quale conseguenza necessaria, l’immunità e l’assenza di ogni errore e di ogni inganno: tale principio egli aveva appreso nelle più celebri scuole d’Occidente e d’Oriente, come tramandato dai Padri e accettato dall’opinione comune. E invero, dopo che egli ebbe intrapreso, per ordine del Papa Damaso, la revisione del Nuovo Testamento, alcuni “spiriti meschini gli rimproverarono amaramente di aver tentato “contro l’autorità degli antichi e l’opinione di tutto il mondo, di fare alcuni ritocchi ai Vangeli”; San Gerolamo si accontentò di rispondere che non era abbastanza semplice di spirito, né così estremamente ingenuo, per pensare che la più piccola parte delle parole del Signore avesse bisogno d’essere corretta, o per ritenere che non fosse divinamente ispirata (Ep. XXVII, 1, 1 e segg.). Nel commento alla prima visione dì Ezechiele intorno ai quattro Evangeli, fa notare: “Non troverà strani tutto quel corpo e quei dorsi disseminati d’occhi, chi si è reso conto come dal più piccolo particolare del Vangelo si sprigiona una luce che illumina col suo raggio il mondo intero: ed anche la cosa che è apparentemente la più trascurabile brilla di tutto il maestoso splendore dello Spirito Santo (Ex. I, 15 e segg.). Ora, questo privilegio, che egli qui rivendica per il Vangelo, lo reclama poi in ognuno dei suoi commentari per tutte le altre “parole del Signoree ne fa la legge e la base dell’interpretazione cattolica; questo è d’altra parte il criterio di cui San Gerolamo si vale per distinguere il vero profeta dal falso (Mich. II, II e segg.; III, 5 e segg.). Poiché: “la parola del Signore è verità, e per Lui dire significa realizzare” (Mich. IV, 1 e segg.). Pertanto “la Scrittura non può mentire” (Ier. XXXI, 35 e segg.) e non è permesso accusarla di menzogna (Nah. 1, 9) e neppure ammettere nelle sue parole anche un solo errore di nome (Ep. LVII, VII, 4). Del resto, il Santo Dottore aggiunge che egli “non pone sullo stesso piano gli Apostoli e gli altri scrittoricioè gli autori profani; “quelli dicono sempre la verità, mentre questi, come capita agli uomini, si ingannano su alcuni punti” (Ep. LXXXII, VII, 2); molte affermazioni della Scrittura, che a prima vista possono sembrare incredibili, sono tuttavia vere (Ep. LXXII, II, 2), e in questa “parola dì verità” non è possibile scoprire nessuna contraddizione, nessuna discordanza, nessuna incompatibilità (Ep. XVIII, VII, 4; cfr. Ep. XLVI, VI, 2); per conseguenza “se la Scrittura contenesse due dati che sembrassero escludersi, entrambi” resterebbero “veri, quantunque diversi” (Ep. XXXVI, XI, 2). – Sempre fedele a questo principio, se gli capitava di incontrare nei Libri Sacri apparenti contraddizioni, San Gerolamo concentrava tutte le sue cure e tutti gli sforzi del suo spirito per risolvere la difficoltà; e se giudicava la soluzione ancora poco soddisfacente, riprendeva, non appena si presentasse l’occasione, senza perdere coraggio, l’esame del problema, anche se talora non giungeva a risolverlo completamente. Mai tuttavia egli incolpò gli scrittori sacri della minima falsità: “Lascio fare ciò agli empi, come Celso, Porfirio, Giuliano” (Ep. LVII, IX, 1). In ciò era perfettamente d’accordo con Sant’Agostino: questi – leggiamo in una delle sue lettere allo stesso San Gerolamo – aveva per i Libri Sacri una venerazione così piena di rispetto, da credere molto fermamente che nessun errore fosse sfuggito alla penna di uno solo di tali autori; perciò, se incontrava nelle Lettere Sante un punto che sembrava in contrasto con la verità, lungi dal credere ad una menzogna, ne attribuiva la colpa a un’alterazione del manoscritto, a un errore di traduzione, o a una totale inintelligenza da parte sua. Al che aggiungeva: “Io so, fratello, che tu non pensi diversamente: voglio dire che non m’immagino affatto che tu desideri vedere le tue opere, lette nella stessa disposizione di spirito in cui vengono lette le opere dei Profeti e degli Apostoli; dubitare che esse siano prive di ogni errore, sarebbe un delitto (Sant’Ag. a San Gerol., tra le lettere di San Gerol. CXVI, 3). – Questa dottrina formulata da San Gerolamo conferma dunque splendidamente e nello stesso tempo spiega la dichiarazione del Nostro Predecessore di santa memoria, Leone XIII, in cui era precisata la credenza antica e costante della Chiesa sulla perfetta immunità che mette la Scrittura al riparo d’ogni errore: “E’ tanto assurdo che l’ispirazione divina incorra il pericolo di errare, che non solo il minimo errore ne è essenzialmente escluso, ma anche che questa esclusione e questa impossibilità sono tanto necessarie, quanto è necessario che Dio, sovrana verità, non sia l’autore di alcun errore, anche il più lieve“. – Dopo aver riferito le conclusioni dei Concili di Firenze e di Trento, confermate dal Sinodo in Vaticano, Leone XIII prosegue: “La questione assolutamente non cambia per il fatto che lo Spirito Santo s’è servito di uomini come di strumenti per scrivere, come se qualche errore avesse potuto sfuggire non certo all’autore principale, ma agli scrittori che da Lui erano ispirati. Poiché Egli stesso li ha con la sua azione soprannaturale eccitati e spinti lino a che si ponessero a scrivere; li ha poi assistiti nel corso della loro opera a tal punto che essi pensavano secondo assoluta giustizia, volevano riportare fedelmente e perfettamente esprimevano, con esattezza infallibile, tutto quello che Egli ordinava loro di scrivere, e solo questo riportavano: diversamente non potrebbe essere lo Spirito Santo l’autore di tutta la Sacra Scrittura“(Lett. Encicl. Providentissimus Deus). Queste parole del Nostro Predecessore non lasciavano adito ad alcun dubbio, né ad alcuna esitazione. Ma, ahimè!, Venerabili Fratelli, non mancarono tuttavia, non solo fra gli estranei, ma anche tra i figli della Chiesa Cattolica e – strazio ancor più grande per il Nostro cuore – perfino fra il clero e i maestri delle Scienze sacre, spiriti che con fiducia orgogliosa nel proprio criterio di giudizio, – apertamente rifiutarono o attaccarono subdolamente su questo punto il magistero della Chiesa. Certamente noi approviamo l’intenzione di coloro che, desiderosi per sé e per gli altri di liberare il Testo Sacro dalle sue difficoltà, ricercano, con l’appoggio di tutti i dati della scienza e della critica, nuovi modi e nuovi metodi per risolverle; ma essi falliranno miseramente nella loro impresa, se trascureranno le direttive del Nostro Predecessore e se oltrepasseranno i limiti precisi indicati dai Santi Padri. – Ora l’opinione di alcuni moderni non si preoccupa affatto di queste prescrizioni e di questi limiti: distinguendo nella Sacra Scrittura un duplice elemento, uno principale o religioso, e uno secondario o profano, essi accettano, si, il fatto che l’ispirazione si riveli in tutte le proposizioni ed anche in tutte le parole della Bibbia, ma ne restringono e ne limitano gli effetti, a partire dall’immunità dall’errore e dall’assoluta veracità, limitata al solo elemento principale o religioso. Secondo loro, Dio non si preoccupa e non insegna personalmente nella Scrittura se non ciò che riguarda la religione: il resto ha rapporto con le scienze profane e non ha altra utilità, per la dottrina rivelata, che quella di servire da involucro esteriore alla verità divina. Dio soltanto permette che esso vi sia e l’abbandona alle deboli facoltà dello scrittore. Perciò non vi è nulla di strano se la Bibbia presenta, nelle questioni fisiche, storiche e in altre di simile argomento, passaggi piuttosto frequenti che non è possibile conciliare con gli attuali progressi delle Scienze. Alcuni sostengono che queste opinioni erronee non sono affatto in contrasto con le prescrizioni del Nostro Predecessore: non ha forse Egli dichiarato che, in materia di fenomeni naturali, l’autore sacro ha parlato secondo le apparenze esteriori, suscettibili quindi d’inganno? Quanto questa affermazione sia temeraria e menzognera, lo provano manifestamente i termini stessi del documento Pontificio. L’apparenza esteriore delle cose – ha dichiarato molto saggiamente Leone XIII, seguendo Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino – deve essere tenuta in una certa considerazione; ma questo principio non può suscitare il minimo sospetto di errore nella Sacra Scrittura: poiché la sana filosofia asserisce come cosa sicura che i sensi, nella percezione immediata delle cose, oggetto vero di conoscenza, non si ingannano affatto. Inoltre il Nostro Predecessore, dopo aver negato ogni distinzione e ogni possibilità di equivoco tra quello che è l’elemento principale è l’elemento secondario, dimostra chiaramente il gravissimo errore di coloro i quali ritengono che “per giudicare della verità delle proposizioni bisogna senza dubbio ricercare ciò che Dio ha detto, ma più ancora valutare il motivo che lo ha indotto a parlare“.Leone XIII precisa ancora che l’ispirazione divina è presente in tutte le parti della Bibbia, senza selezione né distinzione alcuna, e che è impossibile che anche il minimo errore si sia introdotto nel testo ispirato: “Sarebbe un errore molto grave restringere l’ispirazione divina solo a determinate parti della Sacra Scrittura, o ammettere che l’autore sacro stesso abbia potuto ingannarsi“. – E non sono meno discordi dalla dottrina della Chiesa, confermata dall’autorità di San Gerolamo e degli altri Padri, quelli che ritengono che le parti storiche delle Scritture si appoggiano non sulla verità “assoluta” dei fatti, ma soltanto sulla loro “verità relativa“, come essi la chiamano, e sul modo volgarmente comune di pensare. Per sostenere questa teoria, essi non temono di richiamarsi alle stesse parole del Papa Leone XIII, il quale avrebbe affermato che i principi ammessi in materia di fenomeni naturali possono essere portati in campo storico. Come nell’ordine fisico gli scrittori sacri hanno parlato seguendo le apparenze, cosi – essi pretendono – quando si trattava di riportare avvenimenti non perfettamente noti, li hanno riferiti come apparivano fissati secondo l’opinione comune del popolo o le relazioni inesatte di altri testimoni; inoltre essi non hanno citato le fonti delle loro informazioni, e non hanno garantito personalmente le narrazioni attinte da altri autori. – A che confutare più a lungo una teoria veramente ingiuriosa per il Nostro Predecessore e nello stesso tempo falsa e piena di errore? Quale rapporto, infatti, vi è tra i fenomeni naturali e la storia? Le scienze fisiche si occupano di oggetti che colpiscono i sensi e devono quindi concordare con i fenomeni come essi appaiono; la storia invece, narrazione di fatti, deve – ed è questa la sua legge principale – coincidere con questi fatti, come realmente si sono verificati. Se si accettasse la teoria di costoro, come sarebbe possibile conservare alla narrazione sacra quella verità, immune da ogni falsità, che come il Nostro Predecessore dichiara in tutto il contesto della sua Enciclica, non si deve affatto menomare? – Che anzi, quando egli afferma che v’è interesse a trasportare nella storia e nelle scienze affini i principi che valgono per le scienze fisiche, non intende stabilire una legge generale e assoluta, ma indicare semplicemente un metodo uniforme da seguire, per confutare le obiezioni fallaci degli avversari e difendere contro i loro attacchi la verità storica della Sacra Scrittura. Se almeno i partigiani di queste teorie si fermassero a ciò! Ma non giungono invece fino al punto d’invocare il Dottore dalmata per difendere la loro opinione? San Gerolamo, a credere in loro, avrebbe dichiarato che bisogna mantenere l’esattezza e l’ordine dei fatti storici nella Bibbia “prendendo per regola non la realtà obiettiva ma l’opinione dei contemporanei“, che, veniva così a costituire la vera legge della storia (Ier. XXIII, 15 e segg.; Matth. XIV, 8; Adv. Helv. 4). Come sono abili a trasformare in loro favore le parole di San Gerolamo! Ma non è possibile avere dubbi sul suo esatto pensiero: egli non afferma che nell’esposizione dei fatti lo scrittore sacro si appropria di una falsa credenza popolare a proposito di dati che ignora, ma dice soltanto che nella designazione delle persone e degli oggetti egli usa il linguaggio corrente. Così quando uno scrittore chiama San Giuseppe padre di Gesù, indica chiaramente in tutto il corso della sua narrazione come intenda questo nome di padre. Secondo San Gerolamo, “la vera legge della storia” richiede che nell’impiego delle denominazioni lo scrittore si attenga, dopo aver eliminato ogni pericolo d’errore, al modo generale d’esprimersi; poiché l’uso è l’arbitro e il regolatore del linguaggio. E che? Forse che il nostro Dottore non pone sullo stesso piano i fatti riportati dalla Bibbia e i dogmi nei quali è necessario credere, se si vuol raggiungere la salvezza eterna? Ecco infatti ciò che leggiamo nel suo commentario sull’Epistola a Filemone: “In quanto a me, ecco ciò che penso: uno crede in Dio Creatore: ciò non gli sarebbe possibile se non credesse alla verità di tutto quello che Scrittura riporta riguardo ai suoi Santi“.E compila una lunghissima serie di citazioni tratte dall’Antico Testamento, concludendo: “Chiunque rifiuti di prestar fede a tutti questi fatti e a tutti gli altri, senza eccezione alcuna, riguardanti i Santi, non potrà credere al Dio dei Santi” (Philem. 4). – San Gerolamo si trova quindi in perfetto accordo con Sant’Agostino, il quale, interprete del sentimento comune di tutta l’antichità, così scriveva: “Noi crediamo tutto ciò che la Sacra Scrittura, posta al supremo culmine dell’autorità dalle testimonianze sicure e venerabili della verità, ci attesta riguardo ad Enoch, ad Elia e a Mosè… Così, se noi crediamo che il Verbo è nato dalla Vergine Maria, non è per il fatto che Egli non avrebbe potuto trovare altro mezzo per assumere una forma realmente incarnata, e per manifestarsi agli uomini (come pretendeva sostenere Fausto), ma perché così è detto in quella Scrittura, alla quale dobbiamo prestar fede, se vogliamo rimanere cristiani e salvarci” (San Aug. Contra Faustum, XXVI, 3 e segg., 6 e segg.). Vi è poi un altro gruppo di denigratori della Sacra Scrittura: intendiamo parlare di coloro che, abusando di certi principi, giusti del resto se si trattengono entro determinati limiti, giungono a distruggere la base della veridicità delle Scritture, e a denigrare la dottrina cattolica trasmessa dai Padri. – Se ancora vivesse, certamente San Gerolamo lancerebbe acuminati strali contro questi imprudenti che, disprezzando il sentimento e il giudizio della Chiesa, ricorrono con troppa facilità a quel sistema da essi definito “delle citazioni implicite” o delle narrazioni che sono storiche soltanto apparentemente; i quali pretendono di scoprire nei Libri Sacri procedimenti letterari inconciliabili con l’assoluta e perfetta veracità della parola divina, e professano sull’origine della Bibbia un’opinione che tende unicamente a scuoterne l’autorità o addirittura ad annullarla. E che pensare di coloro che, nella interpretazione del Vangelo, ne attaccano l’autorità, sia umana che divina, diminuendo quella e distruggendo questa? Delle parole, delle opere di Nostro Signor Gesù Cristo, nulla ci è pervenuto, secondo costoro, nella sua integrità e senza alterazioni, malgrado le testimonianze di coloro che hanno riportato con religiosa cura ciò che avevano visto ed udito; essi non vi vedono – soprattutto per ciò che concerne il IV Vangelo – che una compilazione costituita da un lato dalle aggiunte considerevoli dovute all’immaginazione degli Evangelisti, e dall’altro dal racconto di fedeli di altra epoca; queste correnti perciò, sgorganti da dubbia fonte, hanno oggi cosi ben confuse le acque nello stesso letto, che non è possibile assolutamente avere un criterio sicuro per distinguerle. . Non è così che Gerolamo, Agostino e gli altri Dottori della Chiesa hanno compreso il valore storico dei Vangeli, nei quali: “Chi ha visto ha reso testimonianza, e la sua testimonianza è vera. Ed egli sa di dire il vero, affinché anche voi lo crediate” (Ioan. XIX, 35); San Gerolamo, dopo aver rimproverato agli eretici, autori di Vangeli apocrifi, di “aver tentato più di ordinare la narrazione che di stabilire la verità” (MatthProl.) aggiunge al contrario, a proposito dei Libri Canonici: “Nessuno ha il diritto di mettere in dubbio la realtà di quello che è scritto” (Ep. LXXVIII, 1, 1; cfr. Marc. 1, 13-31). Su questo punto è nuovamente d’accordo con Sant’Agostino, il quale in modo eccellente diceva, a proposito del Vangelo: “Queste cose vere sono state scritte con tutta fedeltà e veridicità a suo riguardo, affinché chiunque crede nel suo Vangelo, sia nutrito di verità, e non sia ingannato da menzogne (San Aug., C. Faustum, XXVI, 8). – Vedete quindi, Venerabili Fratelli, con quale ardore dovete consigliare ai figli della Chiesa di fuggire questa folle libertà d’opinione, con la stessa cura che avevano i Padri. Le vostre esortazioni saranno più facilmente ascoltate se convincerete il clero e i fedeli, affidati alla vostra custodia dallo Spirito Santo, che San Gerolamo e gli altri Padri della Chiesa hanno attinto questa dottrina riguardante i Libri Sacri alla scuola stessa del Divin Maestro Gesù Cristo. Infatti, leggiamo noi forse che Nostro Signore abbia avuto una diversa concezione della Scrittura? – Le parole: “E’ scritto“, e “Bisogna che la Scrittura s’avveri” sono sulle Sue labbra un argomento senza eccezioni, tale da escludere ogni possibile controversia. Ma insistiamo con maggior agio su questa questione. Chi non sa e non ricorda come nei Suoi discorsi al popolo, sia sulla montagna prossima al lago di Genezareth, sia nella sinagoga di Nazareth e nella Sua città di Cafarnao, Gesù Nostro Signore traeva i punti principali e le prove della Sua dottrina dal testo sacro? Non è da esso che Egli attingeva armi invincibili per le discussioni con i Farisei e i Sadducei? Sia che insegni o discuta, Egli riporta affermazioni ed esempi tolti da ogni parte della Scrittura; così, ad esempio, si riferisce indistintamente a Giona, agli abitanti di Ninive, alla regina di Saba e a Salomone, a Elia e ad Eliseo, a Davide, a Noè, a Loth, agli abitanti di Sodoma e alla moglie stessa di Loth (Matth. XII, 3, 39-47; Luc. XVII, 26-29, 32, ecc.). Egli rende una grande testimonianza alla verità dei Santi Padri con la solenne dichiarazione: “Non passerà un solo iota o un solo tratto della legge, finché tutto non sia adempiuto” (Matth. V, 18); e ancora: “La Scrittura non può essere annullata” (Ioan. X, 35); perciò: “Colui che avrà violato anche il più lieve di questi comandamenti e insegnato agli uomini a fare altrettanto, sarà il più trascurabile per il regno dei Cieli” (Matth. V, 19). Prima di raggiungere il Padre Suo in Cielo, Egli volle donare questa dottrina agli Apostoli, che ben presto doveva abbandonare sulla terra: “Aprì loro gli spiriti, affinché comprendessero le Scritture, dicendo: così è scritto, e così bisognava che Cristo soffrisse e che risuscitasse da morte il terzo giorno” (Luc. XXIV, 45 e segg.). La dottrina di San Gerolamo sull’eccellenza e la verità della Scrittura è dunque, per esprimerCi brevemente, la dottrina di Cristo stesso. Perciò Noi esortiamo vivissimamente tutti i figli della Chiesa, e in particolar modo coloro che insegnano la Sacra Scrittura agli studenti ecclesiastici, a seguire senza posa la via tracciata dal Dottore di Stridone; ne risulterà certamente che essi avranno per le Scritture la sua stessa profonda stima, e che il possesso di questo tesoro procurerà loro godimenti sublimi. – Non solo i grandi vantaggi, che già abbiamo ricordato, verranno dal prendere il grande Dottore come guida e maestro, ma molti altri ancora ne scaturiranno e considerevoli: Ci piace, Venerabili Fratelli, ricordarveli sia pur brevemente. Innanzi tutto, poiché prima d’ogni altro si presenta al Nostro spirito, rileviamo l’appassionato amore per la Bibbia, testimoniato in San Gerolamo da ogni atto della sua vita e dalle sue parole, tutte infervorate dallo Spirito di Dio, amore che egli ha cercato di destare sempre più nelle anime dei fedeli: “Ama la Sacra Scrittura – sembra voler dire a tutti quando si rivolge alla vergine Demetria – e la saggezza ti amerà; amala teneramente, ed essa ti custodirà; onorala e riceverai le sue carezze. Che essa sia per te come le tue collane e i tuoi orecchini” (Ep. CXXX, 20). La lettura assidua della Scrittura, lo studio profondo e diligente di ogni libro, anzi di ogni proposizione e di ogni parola, gli hanno permesso di familiarizzarsi col Testo Sacro, più di ogni altro scrittore dell’antichità ecclesiastica. Se la Versione Vulgata, compilata dal Nostro Dottore, lascia, secondo il parere di tutti i critici imparziali, molto dietro di sé le altre versioni antiche, perché si giudica essa renda l’originale con maggior esattezza ed eleganza, ciò è dovuto alla conoscenza che San Gerolamo aveva della Bibbia, conoscenza unita in lui ad uno spirito di fine sensibilità. – Questa Versione Vulgata, che il Concilio di Trento ha deciso di considerare autentica e di seguire nell’insegnamento e nella liturgia, “essendo consacrata dal lungo uso che ne ha fatto, la Chiesa per tanti secoli“, è Nostro vivo desiderio vedere corretta e resa alla sua purezza primitiva, secondo l’antico testo dei manoscritti, se Dio nella sua infinita bontà vorrà concederCi vita sufficiente; compito arduo e grandissimo, affidato, con felice decisione, ai Benedettini dal Nostro Predecessore Pio X di santa memoria, che costituisce, Noi ne siamo sicuri, nuove fonti autorevoli per la comprensione delle Scritture. Questo amore di San Gerolamo per la Sacra Scrittura si rileva in modo del tutto particolare nelle sue lettere, si che esse sembrano una trama di citazioni tratte dai Libri Santi; così come San Bernardo trovava insignificante ogni pagina che non racchiudesse il dolcissimo nome di Gesù, San Gerolamo non gustava nessuno scritto che non splendesse della luce delle Sacre Scritture. Con tutta semplicità poteva egli scrivere in una lettera a San Paolino, un tempo brillante senatore e console, e da poco convertito alla fede di Cristo: “Se tu avessi questo terreno d’appoggio (voglio dire la scienza delle Sacre Scritture), le tue opere nulla avrebbero da perdere, ma acquisterebbero anzi una certa finitezza, e non cederebbero a nessun’altra per l’eleganza, per la scienza e per la finezza della forma… Unisci a questa dotta eloquenza il gusto o la comprensione delle Scritture, e presto ti vedrò posto nelle prime file dei nostri scrittori” (Ep. LVIII, IX, 2; XI, 2). Ma quale via e quale metodo seguire per cercare con lieta speranza di scoprire quel prezioso tesoro che il Padre Celeste ha donato ai suoi figli quale consolazione durante il loro esilio? San Gerolamo stesso ce lo indica col suo esempio. Ci esorta innanzi tutto ad intraprendere lo studio della Scrittura con accurata preparazione e con animo ben disposto. – Osserviamo lo stesso San Gerolamo, dopo che ebbe ricevuto il Battesimo: per superare tutti gli ostacoli esteriori che potevano opporsi al suo santo desiderio, imitando il personaggio del Vangelo che, dopo aver trovato un tesoro, “nella sua gioia, se ne va, vende tutto ciò che possiede ed acquista quel campo” (Matth. XIII, 44), egli dice addio ai piaceri effimeri e frivoli di questo mondo, desidera ardentemente la solitudine ed abbraccia una vita austera con tanto maggior ardore quanto più si è reso conto del pericolo che fino allora aveva corso la sua salvezza in mezzo alle seduzioni del vizio. – Superati questi ostacoli, egli doveva ancora d’altra parte disporre il suo spirito ad acquistare la scienza di Gesù Cristo e a rivestirsi di Colui che è “dolce ed umile di cuore“; aveva in realtà provato quella stessa ripugnanza che Sant’Agostino confessava di aver sofferto quando s’era accinto allo studio delle Sante Lettere. Dopo essersi dedicato durante la sua giovinezza alla lettura di Cicerone e degli altri autori profani, quando vuole rivolgere il suo spirito alla Scrittura Sacra, così si pronunzia: “Mi parve indegna d’essere paragonata alla bellezza della prosa ciceroniana. La mia enfasi aveva orrore della sua semplicità e la mia intelligenza non penetrava nel senso suo più profondo; si riesce a penetrarla sempre meglio, quanto più ci si fa piccini, ma io disdegnavo di farmi piccolo, e la boria m’ingigantiva dinanzi ai miei stessi occhi” (S. Aug. Conf. III, 5; Cfr. VIII, 12). Non altrimenti San Gerolamo, anche nella sua solitudine, gustava a tal punto la letteratura profana, che la povertà di stile delle Scritture gli impediva ancora di riconoscere in esse Cristo nella Sua umiltà. “Così – egli dice – la mia follia mi portava al punto di digiunare per leggere Cicerone. Dopo aver passato moltissime notti insonni, dopo aver versato molte lagrime. che il ricordo delle colpe passate faceva scaturire dal fondo del mio cuore, prendevo in mano Plauto. E quando, ritornato in me stesso, intraprendevo la lettura dei Profeti, il loro barbaro stile mi inorridiva, e quando i miei occhi ciechi restavano chiusi alla luce, io non accusavo di ciò gli stessi miei occhi, ma il sole” (Ep. XXII, XXX, 2). Ma ben presto amò con tale ardore la follia della Croce, da rimanere la prova vivente di quanto un animo umile e pio contribuisca alla comprensione della Bibbia. – Cosciente, come egli era, che “nell’interpretazione della Sacra Scrittura noi abbiamo sempre bisogno del soccorso dello Spirito Santo” (Mich. 1, 10, 15) e che per la lettura e la comprensione dei Libri Santi dobbiamo attenerci “al senso che lo Spirito Santo intendeva avere al momento in cui furono scritti” (Gal. V, 19 e segg.), questo santissimo uomo invocava con le sue suppliche, rafforzate dalle preghiere dei suoi amici, il soccorso di Dio e il lume dello Spirito Santo. Si racconta anche che, iniziando i commentari dei Libri Santi, egli volle raccomandarli alla grazia di Dio e alle preghiere dei confratelli, alle quali attribuì il successo, dopo che l’opera fu compiuta. – Oltre che alla grazia divina, egli si rimette all’autorità della tradizione così pienamente da affermare di aver appreso “tutto quello che non sapeva, non da lui stesso, cioè alla scuola di quel cattivo maestro che è l’orgoglio, ma dagli illustri Dottori della Chiesa” (Ep. CVIII, XXVI, 2). Confessa infatti “di non essersi mai fidato delle proprie forze per ciò che concerne la Sacra Scrittura” (Ad Domnionem et Rogatìanum in I. Par. Prefaz.), e in una lettera a Teofilo, Vescovo d’Alessandria, egli cosi formula la regola secondo la quale aveva ordinato la sua vita e le sue sante fatiche: “Sappi dunque che nulla ci sta più a cuore che salvaguardare i diritti del Cristianesimo, non cambiar nulla al linguaggio dei Padri e non perdere mai di vista questa Romana fede, di cui l’Apostolo fece l’elogio” (EpLXIII, 2). E alla Chiesa, sovrana padrona nella persona dei Pontefici Romani, Gerolamo si sottomette con tutto il suo spirito di devozione. – Dal deserto di Siria, ove era esposto alle fazioni degli eretici, in questi termini scrive a Papa Damaso, volendo sottoporre alla Santa Sede, perché la risolvesse, la controversia degli Orientali sul mistero della Santissima Trinità: “Ho creduto bene di consultare la Cattedra di San Pietro e la fede glorificata dalla parola dell’Apostolo, per chiedere oggi il nutrimento all’anima mia, laddove un tempo ho ricevuto i paramenti di Cristo. Poiché voglio che Egli sia per me unica guida, mi tengo in stretto legame con la Tua Beatitudine, cioè con la Cattedra di San Pietro. Io so che su questa pietra è edificata la Chiesa… Decidete, ve ne prego; se così stabilite non esiterò ad ammettere tre ipostasi; se voi l’ordinate, io accetterò che una nuova fede sostituisca quella di Nicea e che noi, ortodossi, ci serviamo delle stesse formule che usano gli ariani” (Ep. XV, I, 2, 4). Infine, nell’epistola seguente, egli rinnova questa notevolissima confessione della sua fede: “Nell’attesa, grido a tutti i venti: Io sono con chiunque sia unito alla Cattedra di San Pietro” (Ep. XVI, 11, 2). Sempre fedele, nello studio della Scrittura, a questa regola di fede, egli si valse di questo solo argomento per confutare un’interpretazione falsa del Testo Sacro: “Ma la Chiesa di Dio non ammette affatto questa opinione” (DanIII, 37), e con queste sole parole rifiuta un libro apocrifo, contro di lui sostenuto dall’eretico Vigilanzio: “Questo libro non l’ho mai letto. Che bisogno dunque abbiamo di ricorrere a ciò che la Chiesa non riconosce?” (Adv. Vigil. 6). Uno zelo così ardente nel salvaguardare l’integrità della fede, lo trascinava in polemiche molto dibattute contro i figli ribelli della Chiesa, che egli considerava come nemici personali: “Mi basterà di rispondere che non ho mai risparmiato gli eretici e che ho impiegato tutto il mio zelo per fare dei nemici della Chiesa i miei personali nemici” (Dial. c. Pelag., Prolog., 2); e in una lettera a Rufino così scrive: Vi è un punto sul quale non potrò essere d’accordo con te: risparmiare gli eretici e non mostrarmi cattolico” (Contra Ruf., III, 43). Tuttavia, rattristato per la loro defezione, li supplicava di ritornare alla loro Madre addolorata, fonte unica di salvezza (Mich. I, 10 e segg.), e in favore di coloro che erano usciti dalla Chiesa e avevano abbandonato la dottrina dello Spirito Santo “per seguire il proprio criterio“, invocava con tutto il cuore la grazia che ritornassero a Dio (Is. l. VI, cap. XVI, 1-5).

[1. Continua.]

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLI GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO VI – “IGNOTÆ NEMINI”

Questa breve Lettera Enciclica fu scritta in occasione delle persecuzioni e della cacciata di prelati francesi dalle loro sedi, dai rabbiosi lupi rivoluzionari il cui unico vero scopo era quello di danneggiare la Chiesa Cattolica e, se possibile, rovinarla completamente. Il Santo Padre Pio VI, che doveva egli stesso subire una lunga prigionia ed un esilio forzato ingiuntogli dallo “Sterminatore” francese, un nemico di Cristo e della sua Chiesa, incoraggiava tutti i popoli viciniori – in particolare i Vescovi – ad accogliere gli esuli fuggitivi e salvarli dalla morte e dalla fame. È uno scenario ripetuto tante volte negli ultimi due secoli di storia della Chiesa in ogni parte del pianeta, in ogni continente. La Chiesa, che sembrava soccombere, con l’aiuto di Do, si è sempre rialzata ed i suoi nemici si sono dissolti nell’infamia, per una morte violenta o miserrima, esempio indelebile – uno per tutti – quella dello stesso “Sterminatore”, strumento del demonio, in un’isola sperduta nell’oceano, ivi relegato e sprofondato nel nulla dalla stessa piovra massonica che lo aveva esaltato al massimo grado e sostenuto nelle sue sanguinose battaglie che avevano spazzato via intere generazioni di giovani europei. Dopo un’apparente breve tregua, le stesse condizioni di persecuzione, per religiosi, laici cattolici e finanche per il Santo Padre si stanno ripetendo ed ingrandendo, fino ad ingigantirsi come non mai, fino all’apparire prossima del falso messia che verrà a dirigere la nuova falsa religione unica mondiale, dalla quale sarà totalmente bandito il Cristianesimo. Teniamoci pronti ad accogliere gli esuli cattolici di tutto il mondo ognuno secondo le proprie possibilità, nell’attesa certa che il Signore Gesù arriverà presto a bruciare, con il soffio della sua bocca, l’uomo della perdizione e dell’inganno, scaraventato nello stagno di fuoco insieme con i falsi profeti della falsa chiesa dell’uomo del Novus Ordo, con la bestia delle sette segrete ed il drago infernale.

+
Pio VI
Ignotæ nemini

.1. A nessuno sono sconosciute, né si possono ricordare senza lacrime le cause per le quali gli Arcivescovi, i Vescovi, i parroci, i sacerdoti, i chierici, le sacre vergini e moltissimi fra i regolari del regno delle Gallie, rese pubbliche le prove della loro fede, furono costretti a lasciare le sedi, le abitazioni e i beni e a cercare rifugio in diverse regioni, sia cattoliche, sia non cattoliche nelle quali poterono più facilmente emigrare chiedendo agli stranieri quegli aiuti che non potevano ottenere dai loro. – Questa dispersione del nobile clero in varie parti non poté non commuovere tutti gli animi: noi dobbiamo lodare grandemente non solo i principi, i pastori e i popoli cattolici che, ammaestrati dal Vangelo e infiammati di spirito di vera carità, accolsero benevolmente questi confessori della fede e a proprie spese li mantennero; siamo riconoscenti anche verso i principi e i popoli non cattolici, e fra questi specialmente l’illustre re della Gran Bretagna e la nobile nazione di quel regno che, spinti da un sentimento di umanità verso tutti i propri simili, come dice Sant’Ambrogio, fornirono aiuti ai medesimi imitando la gloria degli antichi Romani “ai quali sembrava molto conveniente aprire le case di uomini illustri agli ospiti illustri, e tornare ad onore dello Stato che quegli uomini stranieri non mancassero nella nostra città di questo genere di liberalità“.

2. Per quanto spetta a Noi che, benché indegni, adempiamo l’ufficio di Pastore universale e di padre di tutti i fedeli, abbiamo creduto di essere stretti da maggior impegno degli altri nel portare un pronto aiuto a questi infelici che si sono gettati fra le Nostre braccia. – Siamo pienamente convinti che in nessuna occasione più giusta né in alcun tempo si possano assegnare aiuti più nobilmente che a coloro i quali, per la causa di Cristo, sopportarono la perdita di tutti i beni e, cacciati dalle loro sedi con ingiuria e violenza, si aggirano per diverse regioni, costretti a vivere fra sconosciuti e quasi nella solitudine. Sin dall’inizio della crudele persecuzione esprimemmo palesemente vivi sentimenti di pietà ai Galli, sia ecclesiastici, sia laici, e li abbracciammo con ogni benevolenza e affetto.

3. Questi esuli, pieni di affanni, certamente speravano di condurre una vita se pur meno comoda, tuttavia priva di preoccupazioni e tranquilla in quei luoghi dove erano approdati, ma improvvisamente l’invasione dei soldati Galli, specialmente nella Savoia e nella città di Nizza e dintorni, li costrinse ad una nuova e più dolorosa fuga. – Noi, perseveranti nei medesimi sentimenti di carità e volontà di bene, pur fra le angustie delle cose nelle quali Ci troviamo, abbiamo raccomandato e ordinato che questi nuovi esuli siano accolti e mantenuti non solo nella Nostra città (Roma) ma anche nelle province della Nostra giurisdizione; per questa stessa causa con Lettera Enciclica del 10 ottobre testé trascorso Ci siamo dati premura di stimolare i Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi dello Stato pontificio affinché ciascuno di loro col proprio clero e le pie associazioni della propria diocesi partecipasse all’opera di misericordia e assecondasse le Nostre paterne preoccupazioni. – Perciò è avvenuto che non solo i sopra ricordati Venerabili Fratelli e il clero secolare e regolare, ma anche molti laici di qualsiasi condizione, a gara, imitando il Nostro esempio, si sono adoperati, tanto che è aumentato il numero dei nuovi ospiti accolti dopo l’occupazione della Savoia e di Nizza sino a giungere a duemila.

4. Sappiamo che parecchi altri ecclesiastici del regno della Gallia col favore del carissimo figlio Nostro in Cristo Francesco, eletto imperatore dei Romani, passarono in Germania dove non erano affatto necessarie le Nostre raccomandazioni per procurare mezzi di sussistenza a questi esuli. Non è ignoto, o Venerabili Fratelli e diletti Figli, che quanto a pietà e carità superate di gran lunga l’antica gloria dei vostri antenati. È stato tramandato che essi erano miti e cortesi verso gli ospiti: ai pellegrini, infatti offrivano spontaneamente ospitalità e gareggiavano fra di loro per i servizi propri dell’ospitalità.

5. Per la verità, alcuni Nostri fratelli degni di ammirazione, come l’Arcivescovo di Parigi e i Vescovi di Saint-Bertrand, Nimes, Maclovien, Tresent e Langres, con lettera del 1¡ di questo mese a Noi indirizzata, continuando lodevolmente ad esercitare quell’ardore di carità con il quale essi stessi, esuli nella città di Costanza, e altri ecclesiastici Galli furono accolti in due abbazie prossime a quella città, Petershausen e Oreutzlingen, Ci hanno chiesto di intervenire presso i presuli, i prelati, gli abati e i capitoli della Chiesa germanica e di raccomandare i sacerdoti della Gallia, profughi per la fede apostolica e tanto provati per l’unità cattolica. Così Noi, volendo accogliere le loro giuste preghiere, volentieri mandiamo a Voi questa lettera affinché possiamo continuare a lodare sempre più quanto da parte Vostra si è già cominciato a fare, e possiamo raccomandare ancora una volta questi atleti di Cristo, che per la causa che hanno valorosamente sostenuto e per i loro distinti meriti di per sé si raccomandano.

6. Questa Nostra lettera vi dimostra chiaramente da quanta consolazione siamo confortati tra le gravi angustie dalle quali siamo afflitti da ogni parte per l’indubbia speranza che nutriamo nel profondo dell’animo, che voi, Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, terrete sempre presente l’aurea sentenza di San Paolo, “È necessario che il Vescovo sia ospitale“: quella sentenza che sia i Santi Padri sia gli stessi Concilii grandemente lodano. Infatti, come scrive San Girolamo, “la casa del Vescovo deve essere l’ospizio comune di tutti; e se il laico accoglie uno o due o pochi, adempie il dovere dell’ospitalità; se il Vescovo non avrà accolto tutti, sarà da lui considerato inumano“. Sono parole del VI Concilio di Parigi. Abbiamo la fondata speranza che anche voi, diletti figli, abati e abbadesse, terrete in mente e compirete con l’opera ciò che San Benedetto insegnò ai monaci, cioè che l’abate ogni giorno debba avere ospiti alla propria mensa e le abbadesse poi, secondo il Sinodo di Aquisgrana, abbiano ospiti davanti alla porta del monastero. Infine siamo certi che Voi, capitoli ed ecclesiastici di qualunque grado della nobile Chiesa germanica, considererete che tornerà a vostra gloria se vi sarà dato di seguire quelle esortazioni con cui il sacrosanto Sinodo Tridentino ammonisce: “Chiunque tiene benefici ecclesiastici, sia secolari, sia regolari, deve abituarsi a compiere prontamente e amorevolmente il dovere dell’ospitalità, spesso raccomandato dai Santi Padri, secondo le proprie possibilità, memore che coloro i quali amano l’ospitalità, negli ospiti ricevono Cristo“. – Come il medesimo Sinodo Tridentino si diede premura di affidare ai Vescovi l’onere di questo tipo di carità, così siamo certi che Voi, Venerabili Fratelli, non solo cogli esempi ma anche con le parole e le esortazioni vi adoprerete a procurare a questi infelici sacerdoti francesi gli aiuti anche maggiori di quelli che per mezzo vostro si poterono procacciare, fin tanto che discenderanno su di Noi il giorno della consolazione e il tempo della pace; come disse Alessandro III, Nostro predecessore, mentre raccomandava alcuni ecclesiastici che i nemici della fede perseguitavano.

7. Moltissimi sono i premi che Dio ottimo e massimo ha promesso e che sempre ha dato a coloro che si sono distinti per il generoso servizio dell’ospitalità; noi confidiamo che quest’opera di misericordia congiunta a preghiere pubbliche Ci porterà quanto prima quella consolazione e quella pace che vivamente desideriamo.

Intanto, Venerabili Fratelli e diletti Figli, con sommo affetto impartiamo l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 21 novembre 1792, anno diciottesimo del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “APOSTOLICÆ CURÆ”.

Questa lettera Enciclica di S. S. Leone XIII, è uno dei capisaldi del dogma cattolico inerente la validità degli Ordini in generale, anche se muove dalla questione particolare della invalidità degli Ordini anglicani allora fortemente dibattuta. Tra le altre, c’è una sentenza che fa tremare i polsi (e non solo) a tutti coloro che dal 18 giugno del 1968 hanno ricevuto uno pseuco-ordine sacerdotale o episcopale non tra gli anglicani, ma tra gli apostati postconciliari del Vaticano, compresi quelli che vestono carnevalescamente la talare bianca: « se il rito viene cambiato per introdurne un altro non approvato dalla Chiesa, e per respingere ciò che fa la Chiesa e che appartiene alla natura del sacramento secondo l’intenzione di Cristo, allora è chiaro che manca non solo l’intenzione necessaria al sacramento, ma che c’è anzi una intenzione contraria e opposta al sacramento. ». È esattamente ciò che è successo nel 1968, allorquando S, S, Pio XII definì irreformabilmente la forma del sacramento dell’Ordine nella sua Costituzione Apostolica Sacramentum Ordinis del 30 novembre 1947, formule poi totalmente eliminate e sostituite da veri e propri obbrobri teologici dall’antipapa G. B. Montini [il sedicente Paolo VI, eletto – per conto degli Illuminati di Baviera – quando era in carica legittimamente, S. S. Gregorio XVII], che ha così rese assolutamente invalide tutte le ordinazioni sacerdotali, e soprattutto episcopali, a partire appunto dal 18 giugno del 1968, epoca in cui promulgò il “nuovo” [cioè falso] Liber Pontificalis. Da quella data, in pratica, la Gerarchia episcopale si sta estinguendo completamente, e con essa la classe dei “falsi” sacerdoti “post-sessantottini”. La Chiesa Cattolica sopravvive grazie ai porporati ed ai sacerdoti delle catacombe ordinati da S. S. Gregorio XVII prima della sua eliminazione nel maggio del 1989 (compreso il suo successore, il Santo Padre attuale). Certo è stato un “colpo da maestro” del nemico ingannatore ed omicida, che ha mandato, e sta ancora mandando, tante anime ignare, però colpevolmente, nello stagno di fuoco eterno, per la definitiva ed eterna dannazione. Al pusillus grex cattolico, compreso, per grazia divina, l’inganno feroce, spetta il compito poco agevole di testimoniare la verità storica e teologica dei fatti, con il rischio di essere emarginato, perseguitato e martirizzato. Preghiamo però con il motto di S. S. Gregorio XVII: Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloria! (Ps. CXIII, 9)   


Leone XIII
Apostolicæ curæ

Lettera

Le ordinazioni anglicane
13 settembre 1896

Leone Vescovo servo dei servi di Dio a perenne memoria.

Alla nobilissima nazione inglese Noi abbiamo dedicato una parte non piccola della sollecitudine e della carità apostolica con cui cerchiamo in forza dell’ufficio di rappresentare e di imitare, col favore della sua grazia, “il grande pastore delle pecore, il Signore nostro Gesù Cristo” (Eb XIII, 20). Peculiare testimonianza della Nostra benevolenza verso la medesima [nazione] è la lettera che l’anno scorso abbiamo rivolto “agli inglesi che cercano il regno di Cristo nell’unità della fede”: di questo popolo abbiamo ricordato naturalmente, richiamandola alla memoria, l’antica unione con la Chiesa madre, e, riacceso nelle anime lo zelo di pregare Dio, ci siamo adoperati per portare a maturazione una felice riconciliazione. E di nuovo, non molto tempo fa, quando da un punto di vista generale e con una lettera pubblica si è voluto trattare più ampiamente dell’unità della Chiesa, non abbiamo certo dimenticato l’Inghilterra; con la chiara speranza che i nostri documenti possano dare fermezza ai Cattolici e luce salutare ai dissidenti. E fa piacere riconoscere, cosa che mette ugualmente in evidenza sia la benevolenza della popolazione che la preoccupazione della salvezza eterna di molti, come dagli inglesi sia stata valutata favorevolmente sia la Nostra premura che la Nostra libertà di espressione, poste in essere senza nessuna sollecitazione di calcolo umano. Ora poi con la medesima intenzione e con lo stesso spirito Noi abbiamo deciso di rivolgere l’attenzione ad una causa precisa di non minore importanza, che è in linea con lo stesso problema e con i Nostri desideri. Presso gli inglesi infatti, dopo un certo tempo dalla separazione dal centro dell’unità cristiana, è stato introdotto pubblicamente, sotto il re Edoardo VI, un rito completamente nuovo per il conferimento degli ordini sacri. Che per questo motivo sia venuto meno il vero Sacramento dell’ordine, cosi come lo ha istituito Gesù Cristo, e contemporaneamente anche la successione gerarchica, fino a questo momento la sentenza comune lo ha tenuto per fermo, e gli atti e la costante disciplina della Chiesa più di una volta l’hanno confermato. Tuttavia, da qualche tempo e soprattutto in questi ultimi anni, si è ricominciato a discutere se le sacre ordinazioni compiute con il rito edoardiano abbiano o no la natura e l’efficacia del sacramento: danno corpo alla discussione, in modo affermativo o dubitativo, non solo diversi scrittori anglicani, ma anche alcuni Cattolici, specialmente non inglesi. Gli uni certamente li ha spinti la grandezza del sacerdozio cristiano, nel desiderio di non essere privi della sua duplice potestà sul Corpo di Cristo; gli altri li ha spinti l’intenzione di rendere loro in qualche modo più facile il ritorno all’unità. Gli uni e gli altri, essendo progrediti col tempo gli studi su questo argomento, ed essendo venuti alla luce nuovi documenti scritti, si sono detti persuasi che sarebbe stato quanto mai opportuno un nuovo esame della causa da parte della Nostra autorità. Noi quindi, non volendo assolutamente trascurare quei consigli e quei desideri, e soprattutto volendo assecondare la voce della carità apostolica, abbiamo ritenuto che non si dovesse tralasciare nulla che in qualche modo potesse portare ad una riduzione dei danni o ad un accrescimento dei vantaggi delle anime. – È sembrato bene allora permettere, con grandissima benignità, il riesame della causa: e in modo tale che, con la massima scrupolosità della nuova inchiesta, fosse del tutto eliminata per il futuro ogni possibilità di dubbio. Per questo, a un certo numero di uomini insigni per dottrina ed erudizione, e dei quali erano note le contrapposte opinioni su questo problema, abbiamo affidato il compito di mettere per iscritto i motivi del loro giudizio. Chiamatili poi presso di Noi, abbiamo chiesto loro di scambiarsi reciprocamente gli scritti, e di ricercare e valutare qualsiasi cosa che fosse meritevole di più ampia conoscenza per la soluzione del problema. Abbiamo poi stabilito che costoro, senza limitazione alcuna, potessero riesaminare negli archivi vaticani gli opportuni documenti già conosciuti e rendere pubblici quelli non ancora noti; e che ugualmente avessero a disposizione qualsiasi atto su tale argomento conservato presso il sacro Consiglio chiamato Suprema, come anche tutto ciò che avessero pubblicato fino ad oggi le persone più dotte da una parte e dall’altra. Abbiamo voluto che costoro, forniti di tali sussidi, si riunissero poi insieme in sedute particolari; se ne sono tenute dodici, sotto la presidenza di un Cardinale della santa Chiesa di Roma da Noi stessi designato, essendo stata data a tutti la facoltà di discutere liberamente. Gli atti infine delle loro riunioni, unitamente agli altri documenti, abbiamo ordinato che fossero tutti consegnati ai venerabili Cardinali Nostri fratelli; così che questi, avendo riflettuto sul problema, ed avendolo infine dibattuto in Nostra presenza, potessero esprimere ciascuno il proprio parere. – Dopo aver avviato questo modo di procedere, era giusto tuttavia che non si affrontasse l’intima valutazione della causa, se prima non si fosse esaminato con grandissima diligenza lo stato in cui essa già si trovava secondo le determinazioni della sede apostolica e la consuetudine consolidata; di questa consuetudine era senza dubbio estremamente importante valutare il suo inizio e il suo valore. Sono stati così esaminati prima di tutto i principali documenti con i quali i Nostri predecessori, su richiesta della regina Maria, dedicarono particolari premure alla riconciliazione della chiesa d’Inghilterra. Giulio III infatti, designò a questo compito, come legato a latere, il cardinale Reginaldo Pole, di nazionalità inglese, esimio per molteplici meriti, “quasi suo angelo di pace e di amore”, e gli assegnò compiti e poteri d’azione del tutto straordinari, che poi Paolo IV confermò e definì chiaramente. Per questo, al fine di valutare esattamente quale importanza abbiano in sé i documenti ricordati, è necessario stabilire, come punto di riferimento fondamentale, che il loro proposito non fu mai astratto, ma totalmente riferito alla specifica situazione e ad essa peculiare. Poiché infatti le facoltà attribuite da quei Pontefici al legato apostolico riguardavano solo l’Inghilterra e la situazione della Religione sul posto, anche le direttive di comportamento dagli stessi assegnate al legato inquirente, non potevano affatto avere lo scopo di determinare in linea generale quali siano le cose in assenza delle quali le ordinazioni sacre non sono valide; dovevano invece mirare esclusivamente a prendere posizione riguardo agli ordini sacri in quel regno, per quel che mostravano le ben note condizioni dei tempi e delle situazioni. Tutto questo, oltre al fatto di essere evidente per la natura e la modalità di quei documenti, risulta chiaramente anche per il seguente motivo: sarebbe stato del tutto assurdo, riguardo alle cose che sono necessarie per conferire il sacramento dell’ordine, volere che fosse istruito il legato, proprio lui, la cui dottrina aveva brillato anche nel Concilio di Trento. – A coloro che bene intendono queste cose, apparirà subito chiaro per quale motivo nella lettera di Giulio III al legato apostolico, scritta 1’8 marzo 1554, ci sia un distinto riferimento prima di tutto a coloro che, “promossi secondo il rito e in modo legittimo”, dovessero essere conservati nei loro ordini, e poi a coloro che “non promossi ai sacri ordini” potessero, “se fossero stati trovati degni e idonei, essere promossi”. Si indica infatti in modo certo e definito, come era in realtà, una duplice categoria di persone: da una parte coloro che avessero veramente ricevuto la sacra ordinazione, sia prima della secessione di Enrico, o, se anche successivamente per mezzo di ministri implicati nell’errore e nella separazione, tuttavia con il rito cattolico abituale; dall’altra coloro che fossero stati iniziati secondo l’Ordinale edoardiano, e che potessero quindi “essere promossi”, dato che avevano ricevuto una ordinazione invalida. E che altro non fosse stato il proposito del Pontefice, lo conferma chiaramente la lettera dello stesso legato del 29 gennaio 1555, che demanda le sue facoltà al Vescovo di Norwick. Si deve inoltre soprattutto considerare ciò che la lettera stessa di Giulio III riporta riguardo alle facoltà pontificie da usare liberamente, anche a vantaggio di coloro ai quali la funzione di consacrare era stata conferita “in modo non pienamente conforme al rito e senza osservare la forma consueta della Chiesa”: con questa locuzione certamente venivano designati coloro che erano stati consacrati con il rito edoardiano; al di fuori di questa forma infatti e di quella cattolica, non ne esisteva altra in quel tempo in Inghilterra. – Queste cose poi si fanno più chiare ricordando la missione che i re Filippo e Maria, persuasi dal Cardinale Pole, inviarono a Roma, al Pontefice, nel mese di febbraio 1555. Gli ambasciatori del re, tre uomini “veramente insigni e forniti di ogni virtù”, fra i quali Thomas Thirlby, Vescovo di Elie, avevano l’intenzione di informare esattamente il Pontefice con più complete notizie sulla situazione della realtà religiosa in quel regno, e di chiedere che fossero ritenute valide e confermate le cose che il legato aveva trattato e ottenuto per la riconciliazione del medesimo regno con la Chiesa: per questo motivo furono portate al Pontefice tutte le testimonianze scritte che erano necessario, e le parti del nuovo Ordinale che riguardavano più da vicino il problema. Accolta con grande solennità l’ambasceria, Paolo IV, “dopo aver discusso diligentemente” le medesime testimonianze con alcuni Cardinali fidati, “pervenuto ad una deliberazione matura”, pubblicò la lettera Præclara carissimi il giorno 20 giugno del medesimo anno. In questa, essendosi data piena approvazione e conferito efficacia alle cose compiute dal Pole, così si prescrive a proposito delle ordinazioni: “… coloro che sono stati promossi agli ordini ecclesiastici … da altri e non invece da un Vescovo ordinato secondo il rito e il diritto, sono tenuti a ricevere di nuovo … gli stessi ordini”. Quali poi fossero tali Vescovi, “ordinati non secondo il rito e il diritto”, lo avevano indicato già a sufficienza i precedenti documenti, e le facoltà usate dal legato al riguardo: senza dubbio coloro che fossero stati promossi all’Episcopato, come agli altri ordini, “senza che fosse osservata la forma consueta della Chiesa, o senza che fosse osservata la forma e l’intenzione della Chiesa”, come scriveva lo stesso legato al Vescovo di Norwick. Questi altri poi erano certamente quelli promossi secondo la nuova formula rituale; ad esaminare la quale si erano attentamente impegnati i Cardinali prescelti. E non bisogna tralasciare un passo della stessa lettera del Pontefice, del tutto congruente al problema; dove, con gli altri bisognosi del beneficio della dispensa, vengono elencati quelli “che avevano ottenuto sia gli ordini che i benefici ecclesiastici in modo nullo e di fatto”. Avere ottenuto gli Ordini “in modo nullo” è la stessa cosa che con un atto invalido e con effetto nullo, cioè “non validamente”, come chiarisce lo stesso significato di quella parola e il modo consueto di parlare; soprattutto quando è affermata la stessa cosa in ugual modo degli Ordini e dei “benefici ecclesiastici”, che secondo precisi istituti dei sacri Canoni erano manifestamente nulli, perché attribuiti con un vizio invalidante. A questo si aggiunge che, essendo certuni nel dubbio su chi potesse, secondo la mente del Pontefice, dirsi ed essere realmente Vescovo, “ordinato secondo il rito e il diritto”, questi, non molto tempo dopo, il giorno 30 ottobre, fece seguire un’altra lettera, in forma di breve e disse: “Noi, per togliere tale incertezza, e volendo adeguatamente provvedere alla serenità di coscienza di coloro che durante lo scisma furono promossi agli Ordini, esprimendo più chiaramente il pensiero e l’intenzione che abbiamo avuto nella Nostra lettera, dichiariamo che solo quei Vescovi e Arcivescovi che furono ordinati e consacrati non nella forma della Chiesa, non possono dirsi ordinati secondo il rito e il diritto”. Se questa dichiarazione non avesse dovuto riferirsi appositamente alla situazione presente dell’Inghilterra, cioè al rituale edoardiano, certamente il Pontefice non avrebbe fatto la nuova lettera, con cui “togliere l’incertezza e provvedere alla serenità di coscienza”. – Del resto, anche il legato non comprese affatto diversamente i documenti e i comandi della sede apostolica, e ad essi ottemperò nel modo dovuto e con scrupolo: e ciò fu ugualmente fatto dalla regina Maria e dagli altri che con lei si impegnarono affinché la Religione e le istituzioni cattoliche fossero ricondotte alla precedente situazione. – Gli autorevoli comportamenti di Giulio III e di Paolo IV che abbiamo richiamato, mostrano chiaramente l’inizio di quella dottrina a cui in modo costante ci si attiene da più di tre secoli, e cioè che le ordinazioni con il rito edoardiano sono ritenute invalide e nulle; a questa dottrina sono poi di ampio sostegno le molte testimonianze di ordinazioni che, anche in questa città, sono state frequentemente e incondizionatamente ripetute secondo il Rito cattolico. Nell’osservanza poi di questa disciplina c’è un argomento favorevole alla tesi. Infatti, se qualcuno rimane ancora nel dubbio sul senso in cui debbano essere accolte quelle disposizioni dei Pontefici, giustamente vale il detto: “la consuetudine è un’ottima interprete delle leggi”. Infatti, dato che nella Chiesa si è sempre ritenuto in modo fermo e stabile che la reiterazione del sacramento dell’Ordine fosse contro il Diritto Divino, non avrebbe potuto verificarsi in nessun modo che la Sede Apostolica sopportasse e tollerasse tacitamente una tale consuetudine. Orbene non solo non l’ha tollerata, ma ha anche sempre valutato e sanzionato in modo univoco ogni volta che nella medesima situazione si è dovuto giudicare un qualche evento particolare. Presentiamo ora due eventi di tal genere, tra i molti che sono stati deferiti di volta in volta alla Suprema: uno nell’anno 1684, di un calvinista francese, il secondo nell’anno 1704, di Giovanni Clemente Gordon; entrambi avevano ricevuto gli ordini secondo il rituale edoardiano. Nel primo caso, dopo un’accurata indagine del problema, molti consultori misero per iscritto i loro responsi, i cosiddetti voti, e gli altri concordarono con loro in un’unica sentenza, “per l’invalidità dell’ordinazione”: tenendo quindi conto soltanto dell’opportunità, piacque ai Cardinali rispondere: Rinviata. Gli stessi atti poi sono stati ripetuti e riesaminati nel secondo caso: sono stati per questo richiesti nuovi voti dei consultori, si sono interrogati dottori famosi fra quelli della Sorbona e di Kilmacduagh, e non si è trascurata nessuna risorsa di più perspicace competenza nell’esaminare profondamente la cosa. E deve essere tenuto presente che, anche se lo stesso Gordon, di cui si trattava, come pure alcuni consultori, abbiano addotto anche quella ordinazione, come si riteneva, di Parker fra le cause di rivendicazione “della nullità”, tuttavia, nella sentenza che doveva essere promulgata, quella causa è stata totalmente trascurata, come palesano documenti di fede certa, e nessun’altra ragione è stata considerata se non “il difetto di forma e di intenzione”. Riguardo poi a questa forma, affinché il giudizio fosse più completo e più sicuro, si era fatto in modo di avere davanti un esemplare dell’Ordinale anglicano; e anche con questo sono state confrontate le singole forme di ordinazione, ricavate dai vari riti degli orientali e degli occidentali. Quindi Clemente XI, con i voti favorevoli dei Cardinali ai quali spettava, proprio lui personalmente, venerdì 17 aprile 1704, “decretò”: “Giovanni Clemente Gordon “di nuovo e senza condizioni” sia ordinato a tutti gli ordini sacri e particolarmente al presbiterato, e poiché non aveva ricevuto la confermazione, riceva per primo il sacramento della Confermazione”. La sentenza, e questo deve assolutamente essere tenuto presente, non attribuì nessuna importanza alla mancanza “di consegna degli strumenti”: in quel caso, infatti, sarebbe stato prescritto secondo la consuetudine che fosse disposta una ordinazione “sotto condizione”. Si deve poi soprattutto considerare che la medesima sentenza del Pontefice si riferisce in modo generale a tutte le ordinazioni degli anglicani. Anche se ha riguardato una situazione particolare, tuttavia non ha preso le mosse da una qualche ragione particolare, ma da “un vizio di forma”, vizio dal quale sono colpite tutte quelle ordinazioni: al punto che, tutte le volte che in seguito si è dovuto decidere in situazioni simili, sempre ci si è riferiti al medesimo decreto di Clemente XI. – Stando così le cose, non c’è nessuno che non veda come la controversia oggi suscitata sia già stata definita da molto tempo dalla Sede Apostolica: senza conoscere quei documenti in modo adeguato, come sarebbe stato necessario, è accaduto forse che un qualche scrittore cattolico non abbia dubitato di poter discutere liberamente al riguardo. Però, dato che, come abbiamo dichiarato all’inizio, non c’è nulla per Noi di più caro e gradito che poter essere utili con la più grande indulgenza e carità agli uomini rettamente disposti, abbiamo ordinato di indagare di nuovo con la massima cura nell’Ordinale anglicano, che è il fondamento di tutta la causa. – Nel rito di conferimento e di amministrazione di qualsiasi sacramento, si distingue giustamente fra la parte “cerimoniale” e la parte “essenziale”, che si è soliti chiamare “materia e forma”. Tutti sanno che i sacramenti della nuova legge, in quanto segni sensibili ed efficaci della grazia invisibile, debbono significare la grazia che producono, e produrre la grazia che significano. Questa significazione, anche se deve essere contenuta in tutto il rito essenziale, nella materia cioè e nella forma, appartiene però particolarmente alla forma, dato che la materia è parte di per sé non determinata, che per mezzo di quella viene determinata. E questo, in modo ancora più esplicito, appare nel sacramento dell’Ordine, la materia del cui conferimento, quale si manifesta in questo luogo, è l’imposizione delle mani, che di per sé poi non significa nulla di definito, e viene usata ugualmente per tali ordini e per la confermazione. – Ora poi, le parole che fino a questi ultimi tempi vengono ovunque usate dagli anglicani come forma propria dell’ordinazione presbiterale, e cioè: “ricevi lo Spirito Santo”, non significano affatto in modo determinato l’Ordine del sacerdozio, o la sua grazia e potestà, che in particolare è la potestà di “consacrare e di offrire il vero corpo e sangue del Signore” (Denzinger 1771), con quel sacrifìcio che non è “una pura commemorazione del Sacrificio compiuto sulla croce” (Denzinger 1753). Tale forma poi è stata arricchita più tardi con le parole: “per la funzione e il compito di presbitero”. Ma questo dimostra piuttosto che gli anglicani hanno visto loro stessi che quella prima forma era imperfetta e non idonea alla situazione. – La stessa aggiunta però, se anche fosse in grado di apportare alla forma il legittimo significato, è stata introdotta troppo tardi, quando ormai era trascorso un secolo dalla ricezione dell’Ordinale edoardiano, e quando proprio per questo, essendosi estinta la gerarchia, la potestà di ordinazione era ormai nulla. Inutilmente poi ultimamente si è cercato un aiuto alla causa dalle altre preghiere dell’Ordinale. Infatti, anche tralasciando tutto ciò che nel rito anglicano le dimostri insufficienti allo scopo, valga solo questo argomento fra tutti: dalle stesse è stato tolto di proposito tutto ciò che nel rito cattolico designa chiaramente la dignità e le funzioni del sacerdozio. Non può dunque essere adatta e sufficiente al sacramento quella forma che passa sotto silenzio quello che dovrebbe propriamente significare. – Le cose stanno allo stesso modo per quanto riguarda la Consacrazione Episcopale. Infatti, alla formula “ricevi lo Spirito Santo”, non solo sono state aggiunte troppo tardi le parole “per la funzione e il compito di Vescovo”, ma anche riguardo alle medesime, come subito diremo, si deve giudicare altrimenti che nel rito cattolico. E non aiuta certo la causa il richiamare la preghiera del prefazio “Onnipotente Dio”, dal momento che è ugualmente priva delle parole che dichiarano “il sommo sacerdozio”. In verità, non giova a nulla a questo proposito, esaminare se l’episcopato sia un completamento del sacerdozio, o un ordine distinto da quello; o se conferito, come si dice, “per salto”, cioè ad un uomo che non sia sacerdote, abbia effetto oppure no. Ma lo stesso [episcopato] senza dubbio appartiene con assoluta verità al sacramento dell’Ordine, secondo l’istituzione di Cristo, ed è sacerdozio di grado supremo; questo appunto, dalla voce dei santi Padri e dalla nostra consuetudine rituale, è dichiarato “sommo sacerdozio, pienezza del sacro ministero”. Dal momento che il sacramento dell’Ordine e il vero sacerdozio di Cristo è stato totalmente eliminato dal rito anglicano, e che nella consacrazione episcopale del medesimo rito in nessun modo è conferito il sacerdozio, proprio da questo consegue che anche l’episcopato non può essere in alcun modo veramente e giustamente conferito; e questo tanto più perché tra i primi doveri dell’episcopato c’è appunto quello di ordinare i ministri per la santa Eucaristia e il Sacrificio. – Tuttavia, per la retta e piena valutazione dell’Ordinale anglicano, oltre a ciò che è stato osservato su alcune sue parti, nulla vale sicuramente quanto il considerare attentamente in quali circostanze sia stato composto e pubblicamente costituito. Sarebbe lungo enumerare le singole cose, e non è necessario: la storia di quel tempo infatti, dice abbastanza chiaramente quali fossero i sentimenti degli autori dell’Ordinale nei confronti della Chiesa cattolica, quali fautori si associassero dalle sette eterodosse, dove infine dirigessero i loro progetti. Ben sapendo infatti quale vincolo esista fra la fede e il culto, fra “la legge del credere e la legge del pregare”, con il pretesto di reintegrare la sua forma primitiva, hanno alterato in molti modi l’ordinamento della liturgia secondo gli errori dei novatori. Per questo, in tutto l’Ordinale, non solo non c’è nessuna chiara menzione del Sacrificio, della consacrazione e della potestà del sacerdote di consacrare e di offrire il Sacrificio; ma anzi, cosa di cui sopra ci siamo occupati, sono state deliberatamente eliminate e distrutte tutte le tracce di queste cose che fossero rimaste nelle preghiere non completamente rifiutate del rito cattolico. Così si manifesta da sé il nativo carattere e lo spirito, come si dice, dell’Ordinale. Di qui poi, avendo portato con sé l’errore fin dall’inizio, se non ha potuto avere in nessun modo validità nella pratica delle ordinazioni, neppure in futuro, con il passare del tempo, essendo rimasto il medesimo, potrà avere valore. Ed hanno agito inutilmente quelli che, fin dai tempi di Carlo I, hanno cercato di introdurre qualcosa del Sacrificio e del Sacerdozio, avendo fatto qualche aggiunta all’Ordinale; e ugualmente si dà da fare inutilmente quella parte non certo molto grande di anglicani costituitasi in tempi recenti, che ritiene che lo stesso Ordinale possa essere compreso e ricondotto ad un significato sano e retto. Inutili, noi diciamo, sono stati e sono questi tentativi: e ciò anche per questo motivo, perché, se alcune parole dell’Ordinale anglicano, come ora si trova, si presentano in modo ambiguo, non possono assumere il medesimo senso che hanno nel rito cattolico. Infatti, come abbiamo visto, una volta cambiato il rito con cui veramente si è negato o corrotto il sacramento dell’Ordine, e dal quale è stato ripudiato qualsiasi concetto di consacrazione e di sacrificio, non ha più nessuna consistenza il “Ricevi lo Spirito Santo”, Spirito che viene infuso nell’anima con la grazia del sacramento; e non hanno alcuna consistenza le parole “per la funzione e il compito di presbitero” o “di vescovo”, e quelle simili, che restano nomi senza la realtà che Cristo ha istituito. – Moltissimi fra gli stessi anglicani, interpreti più fedeli dell’Ordinale, hanno ben conosciuto la forza di tale argomento; e questa apertamente oppongono a coloro che interpretando in modo nuovo lo stesso [Ordinale], con vana speranza attribuiscono agli ordini con esso conferiti il valore e la forza che non hanno. Con questo medesimo argomento cade anche l’opinione di coloro che dicono che come legittima forma dell’Ordine possa essere sufficiente la preghiera “Onnipotente Dio, largitore di tutti i beni”, che si trova all’inizio dell’azione rituale; anche se forse potrebbe essere ritenuta sufficiente in un qualche rito cattolico che la chiesa avesse approvato. Con questo intimo “vizio di forma”, dunque, è congiunto un “vizio dell’intenzione”, che il sacramento, per poter essere, richiede in modo ugualmente necessario. Riguardo alla disposizione o intenzione, essendo di per sé qualcosa di inferiore, la Chiesa non giudica; ma dal momento che si manifesta all’esterno, deve giudicarla. Ora poi, quando qualcuno per compiere o conferire un sacramento, ha adoperato seriamente e giustamente la materia e la forma dovute, proprio per questo si ritiene che egli abbia inteso certamente fare ciò che fa la chiesa. Su questo principio si fonda la dottrina che tiene per fermo che è veramente un sacramento anche quello che è compiuto mediante il ministero di un eretico o di un non battezzato, purché con il rito cattolico. Al contrario, se il rito viene cambiato per introdurne un altro non approvato dalla Chiesa, e per respingere ciò che fa la Chiesa e che appartiene alla natura del sacramento secondo l’intenzione di Cristo, allora è chiaro che manca non solo l’intenzione necessaria al sacramento, ma che c’è anzi una intenzione contraria e opposta al sacramento. – Tutte queste cose a lungo e ripetutamente le abbiamo considerate fra Noi e coi Nostri venerabili fratelli giudici nella Suprema, l’assemblea dei quali Ci è piaciuto convocare presso di Noi in modo straordinario il venerdì 16 luglio, nella commemorazione di Maria, nostra Signora del Carmelo. Costoro concordemente hanno convenuto che la causa proposta già da tempo era stata conosciuta e giudicata dalla sede apostolica e che, istruita e trattata poi di nuovo la sua discussione, era emerso nel modo più chiaro con quale forza di giustizia e di sapienza [la sede apostolica] aveva deciso l’intera problematica. Abbiamo tuttavia ritenuto che la cosa migliore da farsi fosse il non pronunciare subito una sentenza, per meglio valutare l’utilità e il vantaggio di una nuova dichiarazione sul medesimo argomento in virtù della Nostra Autorità, e per implorare supplici una più copiosa abbondanza di luce divina. Avendo poi Noi considerato che lo stesso capitolo dottrinale, anche se giustamente già definito, è stato da certuni rimesso in discussione, qualunque sia poi il motivo di questa nuova discussione; e che da questa situazione avrebbe potuto nascere facilmente un pericoloso errore per i non pochi che pensano di trovare il sacramento dell’Ordine e i suoi frutti dove invece non ci sono. Ci è sembrato bene nel Signore di rendere pubblica la Nostra sentenza. Pertanto, approvando in modo globale tutti i decreti dei Nostri predecessori su questo problema, e confermandoli e rinnovandoli pienamente, in forza della Nostra autorità, di nostra iniziativa, per sicura conoscenza. Noi dichiariamo e proclamiamo che le ordinazioni compiute con il rito anglicano sono state del tutto invalide e sono assolutamente nulle. Rimane questo: con lo stesso nome e con lo stesso animo del “grande Pastore” con cui ci siamo adoperati per dimostrare la verità assoluta di una realtà così importante, vogliamo dare coraggio a coloro che con volontà sincera desiderano e ricercano i benefici degli Ordini e della Gerarchia. Forse fino ad ora, pur ricercando l’ardore della cristiana virtù, riflettendo più devotamente sulle divine Scritture, raddoppiando le pie preghiere, si sono tuttavia arrestati, incerti e inquieti, di fronte alla voce di Cristo che già da tempo esorta interiormente. Vedono già esattamente che Colui che è buono li invita e li vuole. Se ritornano al suo unico ovile conseguiranno veramente sia i benefici richiesti, sia i rimedi della salvezza che ne conseguono, e di cui Egli stesso ha fatto ministra la Chiesa, quasi custode perpetua e amministratrice della sua redenzione fra le genti. Allora veramente “attingeranno l’acqua con gioia dalle fonti del Salvatore”, i suoi meravigliosi sacramenti; da questi le anime fedeli, rimessi veramente i peccati, sono restituite all’amicizia di Dio, sono nutrite e rafforzate con il pane celeste, e con gli aiuti più grandi pervengono al raggiungimento della vita eterna. Assetati realmente di tali beni, “il Dio della pace, il Dio di ogni consolazione”, voglia benigno con questi ricolmarli e appagarli. Vogliamo poi che la Nostra esortazione e i Nostri desideri riguardino soprattutto coloro che sono considerati ministri della religione nelle loro comunità. Gli uomini che per l’ufficio stesso sono superiori in dottrina e autorità, e ai quali senza dubbio sta a cuore la gloria divina e la salvezza delle anime, vogliano mostrarsi particolarmente alacri e obbedire a Dio che chiama, e dare di sé un chiarissimo esempio. – Certamente la madre Chiesa li accoglierà con gioia specialissima e li abbraccerà con ogni bontà e con ogni cura, perché una più generosa forza d’animo li ha ricondotti al suo seno attraverso ardue difficoltà. Per tale forza, è impossibile dire quale lode sia loro riservata nelle assemblee dei fratelli per l’orbe cattolico, quale speranza e fiducia davanti a Cristo giudice, quali premi da lui nel regno celeste! Noi poi, per quanto sarà possibile, con ogni mezzo, non cesseremo di favorire la loro riconciliazione con la chiesa; dalla quale e i singoli e gli ordini, cosa che desideriamo con forza, possono prendere molto per imitarla. Frattanto preghiamo tutti e supplichiamo per le viscere di misericordia del nostro Dio affinché cerchino fedelmente di assecondare l’abbondante flusso della verità e della grazia divina. – Noi poi decretiamo che la presente lettera, con tutte le cose in essa contenute, non potrà mai in nessun tempo essere censurata o impugnata per vizio di surrezione o di orrezione o di intenzione Nostra, o per un qualsiasi altro difetto; ma che sarà ed è sempre valida e in vigore, e che deve essere osservata infallibilmente da tutti, di qualsiasi grado e onore, nel giudizio e fuori; dichiarando anche invalido e nullo se mai capitasse che fosse portato contro di essa un attacco, consapevolmente o inconsapevolmente, da chiunque e con qualsiasi autorità o pretesto, nonostante qualsiasi cosa contraria. – Vogliamo poi che alle copie di questa lettera, anche stampate, sottoscritte però dalla mano di un notaio e munite del sigillo da un uomo costituito in dignità ecclesiastica, si debba la medesima fiducia che si avrebbe alla manifestazione della Nostra volontà mediante l’ostensione di questa presente.

Roma, presso San Pietro, 13 settembre dell’anno dell’incarnazione del Signore 1896, anno XIX del Nostro pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. PIO VI – “DUM NOS”

Questa lettera Enciclica fu redatta dal S. Padre Pio VI ed inviata ai Vescovi e Prelati francesi, in occasione dei soprusi perpetrati nei confronti dei religiosi e dei territori pontifici di Avignone e del contado Vanesino, indegnamente usurpati da loschi e facinorosi rivoluzionari guidati dalle sette di perdizione. Gli avvenimenti della rivoluzione francese, iniziati al termine dei mille anni in cui satana è stato incatenato, sono in piccolo quelli che si verificheranno – e se ne vedono già i prodromi – negli ultimi giorni del mondo, che vedranno l’arrivo del figlio della perdizione come la sacra Scrittura e le profezie bibliche ci annunciano. Il Santo Padre dell’epoca, un Papa duramente provato dall’azione infernale dei rivoluzionari e dei loro nuovi capi, tra cui lo “sterminator” apocalittico di Ajaccio, esortava i fedeli francesi – esortazione ancor più valida oggi per tutti i veri Cattolici – a sopportare con pazienza fino alla perseveranza finale, infatti « … non è sufficiente sopportare per un certo tempo le ingiurie soltanto con animo forte, ma è necessario perseverare con la stessa costanza fino alla fine e, se è necessario, sacrificare la propria vita. » Ci piace sottolineare ancora la bella espressione finale dell’Enciclica: « Convertitevi con Noi, confidando con indubbia speranza in Dio; pregatelo incessantemente, così come anche Noi lo preghiamo, perché tenga lontano il rigore della sua giustizia, e con quella misericordia di cui è fornito illumini le menti dei ribelli e dei loro sostenitori, e renda le loro anime ferventi nell’ossequio e nella venerazione verso la sua santa Religione e nello zelo e nello spirito di obbedienza verso questa Sede Apostolica. » Questa Lettera Enciclica ci ammaestra quindi in questi tempi di gravissimi attacchi a Dio, al suo Cristo, alla sua “vera” Chiesa e al suo Pontefice legittimo – il successore di S. S. Gregorio XVII – a pazientare e perseverare fino al martirio, se necessario, certi della vittoria finale di Gesù Cristo, vero ed unico Messia, e dell’ingresso nella Gerusalemme celeste che ci salverà dallo stagno di fuoco preparato per le bestie (i popoli e le nazioni infedeli o apostate con i loro governanti e gli aderenti alle logge infernali), il falso profeta (gli antipapi del Vaticano II, i modernisti seguaci del “signore dell’universo”, i fallibilisti ed i sedevacantisti eretici e scismatici e gli adepti delle false sette dei protestanti, e degli ortodossi,), ed il dragone antico e maledetto al quale la Vergine Maria schiaccerà il capo … ET IPSA CONTERET CAPUT TUUM).

Pio VI
Dum nos

All’Arcivescovo di Avignone e i Vescovi di Carpentras, Cavaillon e Vaison, e ai diletti Figli del Capitolo, del Clero e del Popolo della città di Avignone e del Contado Venesino.

1. Mentre Vi scriviamo questa nuova lettera apostolica come P astore universale e vostro sovrano, pensiamo che non vi sia occasione più opportuna e più valida perché Noi possiamo continuare a lodare coloro che fedeli a Dio e al loro sovrano sono accusati e condannati dall’attuale Assemblea Nazionale francese; al contrario, mentre di nuovo ammoniamo ed esortiamo alla penitenza coloro che sono ribelli a Dio e al loro sovrano, la stessa Assemblea francese li esalta con tante lodi, fra l’incredibile stupore di tutte le genti.

2. Dio, dal quale le Nostre colpe e quelle dei popoli sono punite attraverso le tribolazioni, ma che non abbandona mai nessuno di coloro che difendono particolarmente la sua causa, in verità Ci ha consolato con una non trascurabile soddisfazione. Infatti, per opera divina è accaduto che la Nostra precedente lettera ammonitrice che Vi abbiamo inviato il 23 aprile dello scorso 1791 (non per usare la prepotenza o qualche altra difesa propria di quest’epoca, delle quali si avvalgono i potenti del mondo, ma in nome del Signore Dio Nostro) e che Voi, Venerabili Fratelli, guidati da uno spirito non dissimile di bontà, Vi preoccupaste di diffondere, ebbe presso i capitoli, i parroci, il clero, i magistrati e la gente, e anche presso molti fautori della Costituzione francese, tale e tanta forza che a tutto il mese di febbraio di quest’anno furono vani quasi tutti gl’iniqui tentativi degli avversari, tante volte esperiti e con il decreto del 14 settembre dello scorso anno nuovamente ripetuti con i quali l’Assemblea Nazionale – essendo inutilmente riluttante e contraria una gran parte, la più sana, del popolo – tolti di mezzo altri quattro decreti speciali da essa stessa emessi, e cancellato e annullato un altro decreto generale approvato in precedenza che vietava l’occupazione della proprietà altrui, e poste in non cale tutte le leggi umane e divine, nonostante l’indignazione di tutti i sovrani d’Europa osò invadere con la violenza il Nostro territorio di Avignone e del Contado Venesino ed annetterlo al regno di Francia.

3. A comprovare l’ottimo esito che le Nostre precedenti esortazioni avevano conseguito contro tentativi tanto indegni, potremmo enumerare con opportuna orazione le nobili imprese con le quali Voi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, avete onorato soprattutto la vostra Religione, che Ci sta particolarmente a cuore, e successivamente la Vostra fedeltà verso di Noi, sopportando, con ammirevole costanza, taluni la perdita dei beni e delle fortune, altri l’esilio, altri le ingiurie e le persecuzioni, altri il carcere, e altri infine lo sterminio e la morte stessa. Da questo derivò che pochi ecclesiastici e laici seguirono Benedetto Francesco Malierio, pseudo-vicario capitolare della Chiesa di Avignone, che Noi già sospendemmo con precedente lettera dall’esercizio dell’ordine. Si tratta di persone non molto dissimili dai suoi costumi e dalla sua indole, abbastanza noti per la gravità dei delitti compiuti. Egli dovette utilizzare i predetti sia nell’adempimento dei compiti della Chiesa, come si deduce chiaramente dall’editto in lingua volgare pubblicato il 10 giugno 1791, con il quale fu indetta da lui una Supplica per le feste del Corpus Domini, sia delegando alcuni pseudo-parroci, che la maggior parte della popolazione religiosamente e pubblicamente rifiutò di riconoscere, tanto che disprezzò sia il delegante sia i delegati.

4. Sarebbe facile per Noi citare pubblicamente molti altri esempi della vostra religiosità e della vostra fedeltà a maggiore vostra gloria ed onore, ma Ci asteniamo deliberatamente dal ricordarli in quanto uomini assolutamente insospettabili (cioè coloro che chiamano “Comitati delle petizioni e di sorveglianza“) li hanno raccolti in una relazione presentata all’Assemblea francese durante la sessione dell’11 febbraio scorso dedicata alla situazione di Avignone e del Contado Venesino. Dato che la relazione è stata stampata e diffusa largamente, nessuno ignora che lo spirito pubblico è tanto mutato ad Avignone, e molto di più a Carpentras e in altre località del Contado, essendo pochi, e apertamente disprezzati, coloro che sostenevano la Costituzione Gallicana e che i relatori Gallici ricolmano di tante lodi. Per contro è ingente il numero di coloro che essi chiamano sediziosi e seduttori, cioè di coloro che fra gli ecclesiastici, fra i magistrati e fra i laici brillavano per il culto a Dio e per la fedeltà al loro sovrano, tanto che sarebbe prossimo, e non potrebbe assolutamente essere evitato, il ritorno a quello stato nel quale erano prima della ribellione.

5. Rallegratevi ed esultate, Venerabili Fratelli, che allora vi segnalaste per zelo, pietà, carità, e particolarmente tu, Vescovo di Carpentras, che per i tuoi meriti eccezionali ti sei meritato un maggiore elogio. Nello stesso tempo rallegratevi anche voi, diletti Figli, che uniti ai vostri legittimi pastori forniste straordinari motivi della vostra pietà; rallegratevi tutti, diciamo, per le ingiurie che vi vengono indirizzate in quella relazione e che si volgono a vostro onore e decoro, e ricordatevi con Sant’Agostino che “anche il Signore Gesù Cristo fu chiamato seduttore, a conforto dei suoi servi, quando sono detti seduttori“.

6. Se questa è la situazione di Avignone e del Contado Venesino alla data dello scorso febbraio, a buon diritto speriamo che quei pochi che perseverano nell’errore e nell’infedeltà si convertano e seguano la maggioranza, ma non possiamo assolutamente ignorare il nuovo genere di delitto compiuto dall’Assemblea Nazionale con il decreto del 3 marzo scorso. Infatti, con questo decreto essa si è arrogata il diritto di dividere il Nostro territorio di Avignone e del Contado Venesino in due distretti, e di sottometterli al duplice distretto del Rodano e della Druma, che i Francesi chiamano Dipartimento, e al contempo di stabilire che tutte le leggi dell’Impero francese siano valide senza indugi anche nel Nostro territorio, e che le singole Municipalità siano rinnovate. Inoltre, con nuovi decreti subito emessi l’Assemblea comandò che venisse revocata la formazione de la marck, e che ad essa fossero assegnati altri soldati; ché, anzi, fra gli stessi rabbrividenti popoli di Parigi, e con loro meraviglia, giunse al punto di comandare di liberare dalle carceri quei mostri che il 16 ottobre dell’anno scorso si macchiarono di un delitto tanto indegno e tanto volgare; e ciò ordinò per nessuna altra ragione se non perché nei grandi rivolgimenti delle cose non si possono considerare delitti le scelleratezze più gravi che persino le genti barbare e incolte detestano e ne inorridiscono.

7. È tale il furore di cui ardono e da cui sono presi i nemici, che Noi, con immenso dolore del Nostro animo, già vediamo Voi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, soggetti a tutte quelle persecuzioni che dall’empietà, dallo scisma e dall’eresia poterono mai essere escogitate, così che ai Nostri occhi appare già vicino il momento nel quale ci sarà un nuovo e più crudele pericolo per la vostra religiosità e per la vostra fede. Ci è già stata riferita la voce di una nuova persecuzione non solo contro gli uomini ma – ciò che non si può ascoltare senza orrore e che rivela i criminali intendimenti dei persecutori – anche contro le sacre immagini. In questo momento decisivo è necessario che vi sia riferito il Nostro parere.

8. Per quanto riguarda la Religione, non Vi sfugge che non è sufficiente sopportare per un certo tempo le ingiurie soltanto con animo forte, ma è necessario perseverare con la stessa costanza fino alla fine e, se è necessario, sacrificare la propria vita. Infatti, non chi ha incominciato ma “colui che avrà perseverato fino in fondo sarà salvo” (Mt 10,32). Quella costanza che finora avete dimostrato Ci spinge a sperare che sarete egualmente costanti in futuro contro qualunque rischio della sorte e anche della vita: il che sarà certamente condiviso da Noi che, sebbene assenti, porteremo i vostri tormenti come fossero Nostri.

9. Affinché, poi, i buoni vengano maggiormente confermati nel loro proposito e sia concesso ai cattivi un nuovo spazio della Nostra benignità per la loro resipiscenza, come già ritenemmo che fosse da estendere ai popoli del Nostro territorio Avignonese e del Contado Venesino la Nostra precedente lettera ammonitrice del 13 aprile 1791 da Noi indirizzata ai diletti Nostri Figli i Cardinali di Santa Romana Chiesa e ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi e ai diletti Figli del Capitolo, del Clero e del popolo del regno di Francia, così ora estendiamo agli stessi popoli la nuova lettera ammonitrice del 19 marzo scorso, indirizzata agli stessi Arcivescovi, Vescovi, Capitoli, Clero e popolo del regno di Francia, con la quale viene fissato lo spazio di sessanta giorni dalla data di essa per la seconda ammonizione, e di altri sessanta giorni per la terza. – Ciò è riferito soprattutto a Benedetto Francesco Malierio, pseudo-vicario capitolare della Chiesa Avignonese, ai parroci, ai vicari e agli altri preti che, non delegati dai legittimi pastori, si sono impadroniti della direzione spirituale, e a tutti gli altri ecclesiastici che l’avevano occupata anche in forza della tentata divisione dei Nostri territori, secondo le diverse classi distintamente e chiaramente espresse nell’ultima Nostra lettera della quale, Venerabili Fratelli, vi abbiamo spedito molte copie affinché esse, unite a questa lettera, secondo le vostre possibilità siano mandate in giro ai Capitoli, al Clero e al popolo di Avignone e del Contado. Frattanto sarà Nostra cura provvedere affinché le stesse siano diffuse non solo in codeste regioni, ma anche in quelle vicine, in modo che nessuno le ignori.

10. Guardando la travagliata condizione delle cose francesi, con altra lettera dello stesso 19 marzo Noi concedemmo agli Arcivescovi, ai Vescovi ed agli Amministratori delle diocesi del regno di Francia particolari facoltà in forza delle quali potessero provvedere al bene spirituale della gente. Poiché non meno travagliata è la condizione di Avignone e del Contado Venesino, estendiamo anche a Voi, Venerabili Fratelli, le stesse facoltà, con le stesse condizioni comprese nell’indulto, del quale troverete diverse copie allegate a questa lettera.

11. Queste sono le provvidenze che servono a tenere la Religione riparata e protetta, e a renderne più spedite le norme e le procedure. Per quanto riguarda la fedeltà che Ci spetta quale legittimo sovrano, non ignorate, Venerabili Fratelli e diletti Figli, come in gran parte dimostrano le cose da Voi compiute, da quale stretto vincolo siate tenuti ad osservarla, dal momento che ciascuno è obbligato dal divino precetto “ad ubbidire ai legittimi poteri” (Rm 13,1; Eb 13,17), e ciò è richiesto dallo stesso giuramento che Voi, non diversamente dai vostri antenati, avete prestato a questa Sede Apostolica, così che i buoni e i cattivi, secondo le loro possibilità, non debbano omettere nulla di quelle cose che possono sostenere i primi nella fedeltà, e ricondurre i secondi a quella obbedienza dalla quale si distaccarono: ciò per liberare Noi dalla necessità di mettere in uso rimedi più energici e di porre mano alle dovute pene.

12. Abbiamo trattato con gli stessi ribelli come se fossero figli, e nel colmo della sfida abbiamo dato considerevoli aiuti agli uni e agli altri. Sappiamo che l’antico governo di questa Santa Sede, libero ed esente da ogni dazio, suscitò l’invidia di tutti i popoli; assai spesso abbiamo dichiarato che se alcuni, a Nostra insaputa, fossero caduti costà in abusi, immediatamente si sarebbe provveduto da Noi ad allontanarli e a castigarli; non si possono sovvertire gl’imperi ad arbitrio dei popoli e introdurre con leggerezza nuove forme di governo. Perciò nulla è stato tralasciato da parte Nostra, tanto che possiamo sperare per il futuro che gli stessi ribelli, quando si sia calmata un po’ la passione del fanatismo, debbano riconoscere l’orrore dei propri crimini, il peso di nuovi balzelli e servitù, e di tanti altri gravi mali che finora non ebbero ed ai quali, sotto l’aspetto di una simulata e fittizia libertà, saranno senza dubbio contrari, non senza rovina della loro patria se non si ritireranno subito dalla lotta nella quale furono trascinati già da due anni per disobbedienza, corruzione e per ogni genere di violenza.

13. Noi peraltro, restando in quel modo d’agire paterno che abbiamo usato finora con Voi, e nella trasparente giustizia della Nostra causa che con Nostra gioia riconobbero i principi, tutti i re e l’universo mondo, non pensando minimamente di rinunciare in qualunque modo ai Nostri diritti o di trattare qualsiasi compensazione per il principato che i primi decreti dell’Assemblea Nazionale rivendicano da Noi, e che pertanto Ci confermano che il possesso di oltre cinque secoli è titolo legittimo e indiscutibile, Noi qui non solo dichiariamo valido il Nostro chirografo del 5 novembre 1791 con il quale, aderendo alle precedenti proteste ed essendo oltremodo manifesto a tutti la falsità e la calunnia di quegli argomenti che pretendevano di giustificare l’iniqua occupazione, dichiarammo nullo il decreto del 14 settembre dello stesso anno, ma inoltre dichiariamo invalido, irrito e di nessun valore e merito il nuovo decreto del 3 marzo, e tutto ciò che decisero o forse decideranno a danno del Nostro principato, unitamente a tutti gli atti che con temerario ardimento siano già stati perpetrati o verranno perpetrati. Disponiamo e comandiamo che questa Nostra lettera, unitamente a quella del 23 aprile 1791, sia allegata al predetto chirografo e sia conservata a perpetua memoria nell’archivio segreto della Nostra camera.

14. È tanto il Vostro zelo, Venerabili Fratelli e diletti Figli, che riteniamo inutile aggiungere nuove esortazioni. Convertitevi con Noi, confidando con indubbia speranza in Dio; pregatelo incessantemente, così come anche Noi lo preghiamo, perché tenga lontano il rigore della sua giustizia, e con quella misericordia di cui è fornito illumini le menti dei ribelli e dei loro sostenitori, e renda le loro anime ferventi nell’ossequio e nella venerazione verso la sua santa Religione e nello zelo e nello spirito di obbedienza verso questa Sede Apostolica.

Accesi da questi desideri, a Voi, Venerabili Fratelli, e a Voi, diletti Figli, impartiamo con grande amore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 19 aprile 1792, nel diciottesimo anno del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “CUM MULTA SINT”

« … dove la Religione viene soppressa, è inevitabile che vacilli la solidità di quei principi che sono il fondamento della salute pubblica, che ricevono grande vigore dalla Religione e che consistono soprattutto nel governare con giustizia e moderazione, nell’ubbidire per coscienza del proprio dovere, nel domare con la virtù la cupidigia, nel dare a ciascuno il suo, nel rispettare i beni altrui … ». Si tratta di uno dei passaggi chiave con cui il Sommo Pontefice Leone XIII si rivolge ai fedeli e ai Pastori spagnoli, invitandoli all’unità sociale sulla linea dei princìpi cattolici base della coabitazione pacifica di popoli e singoli. L’adesione alla Chiesa Cattolica deve avvenire con la stretta unione dei fedeli alla sacra Gerarchia, cioè in primis ai Vescovi, capi delle Chiese locali, a loro volta obbedienti e in sintonia perfetta con il Vicario di Cristo, capo in terra della vera ed unica Chiesa di Cristo, la Cattolica romana. Queste adesioni strutturano un corpo sociale solido avendo come fondamento e pietra angolare, il Cristo Figlio di Dio, e come anima l’azione dello Spirito Santo che abita mediante la grazia nei veri Cristiani. Su questa struttura modellante si conforma anche il corpo sociale e politico delle Nazioni che trae tutti i benefici materiali e morali idonei a creare uno sviluppo armonico delle parti ed il benessere di una vita vissuta nella fede e nella speranza della vita soprannaturale, quindi sulla carità. La mancanza di queste solide radici rende tutte le strutture traballanti, vacillanti e soggette alla rovina economica e sociale prima, spirituale poi. Ecco perché la nostra società pseudo-civile, fondata un tempo su valori cristiani, è oggi pressoché crollata in ogni suo aspetto senza che se ne possa vedere una ripresa seppur lontana. Eliminando la Pietra angolare su cui tutta la costruzione fonda, cioè Dio, il Cristo e la sua vera Chiesa, l’uomo ha creato le premesse per una catastrofe già in atto, e della quale sarà sempre più evidente lo sfascio fino al tracollo estremo e non più rimediabile. La realtà è sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono guardare senza paraocchi, realtà per altro ben descritta dalle divine Scritture a più riprese e oggi irrimediabilmente materializzata. Fuori Dio, fuori il Cristo Re, fuori la sua vera Chiesa militante, Corpo mistico vivo, sostituita da una sinagoga infame ed ingannevole, si è diventati ancora una volta schiavi del serpente antico! Ma non ci illudiamo, non è finita qua sul nostro pianeta desinato al fuoco, il peggio arriverà dopo, nella vita eterna, e là … sarà pianto e stridor di denti.

CUM MULTA SINT

LETTERA ENCICLICA
DI SUA SANTITÀ
LEONE PP. XIII

Pur essendo molti i meriti per cui eccelle la generosa e nobile nazione Spagnola, tuttavia è da porre in primo piano quello di aver conservato (dopo il vario succedersi di vicende e di uomini) l’antico e quasi ereditario amore per la fede cattolica, con il quale parvero sempre congiunte la salute e la grandezza del popolo Spagnolo. Molti motivi confermano un siffatto amore: specialmente il grande rispetto verso questa Sede Apostolica, del quale gli Spagnoli offrono spesso chiara testimonianza con ogni sorta di espressioni, con lettere, con generosità, con pellegrinaggi affrontati per motivi religiosi. Né si perderà la memoria di questi ultimi tempi in cui l’Europa ammirò il loro animo parimenti forte e puro, quando avversi eventi turbarono la Sede Apostolica. In tutti questi fatti, Diletti Figli Nostri, Venerabili Fratelli, oltre ad una speciale grazia di Dio Noi ravvisiamo il frutto della vostra vigilanza e il lodevole comportamento del popolo stesso che in tempi così ostili al Cattolicesimo si stringe con tanto zelo alla Religione avita e non esita ad opporre alla grandezza dei pericoli pari grandezza e fermezza d’animo. Certamente non vi è nulla che con ragione non si possa sperare dalla Spagna, se a tale disposizione degli animi daranno sostegno l’amore e una durevole concordia di volontà. – Ma a questo proposito non nasconderemo la realtà; pensando al modo di agire che alcuni Cattolici di Spagna ritengono giusto adottare, l’animo Nostro è colto da un certo dolore che ha qualche somiglianza con quell’ansiosa sollecitudine sofferta un tempo dall’Apostolo Paolo per causa dei Corinzi. Si era conservata costà una sicura e tranquilla concordia dei Cattolici, sia tra loro, sia soprattutto coi Vescovi; a tal proposito Gregorio XVI, Nostro Predecessore, giustamente lodò il popolo Spagnolo poiché gran parte di esso “perseverava nel suo antico rispetto verso i Vescovi e verso i pastori più umili, costituiti secondo i canoni” . Ora però, sopraggiunte le passioni di parte, appaiono tracce di dissensi che dividono gli animi quasi in diverse schiere, e non poco turbano quelle stesse società che si erano formate per merito della Religione. Accade spesso che tra coloro che discutono circa il modo migliore di difendere il Cattolicesimo, l’autorità dei Vescovi sia considerata meno del dovuto. Anzi, talora se il Vescovo dà un suggerimento, se prende una decisione conforme ai propri poteri, non mancano coloro che provano fastidio o apertamente contestano, mostrando di credere che egli abbia voluto favorire gli uni e nuocere ad altri. – In verità si avverte chiaramente quanto sia importante conservare intatta la concordia degli animi, tanto più che fra una così rilevante e diffusa licenza di opinioni aberranti, in una così aspra e insidiosa ostilità verso la Chiesa Cattolica, è assolutamente necessario che tutti i Cristiani, unendo le loro forze e con il più attivo concorso delle volontà, resistano in modo da non soccombere separatamente, vinti dall’astuzia e dall’impeto degli avversari. Pertanto, sospinti dal pensiero di siffatte difficoltà, con questa lettera facciamo appello a Voi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, e vi chiediamo con insistenza che, come interpreti dei Nostri salutari ammonimenti, usiate la Vostra prudenza e la Vostra autorità per consolidare la concordia. – Sarà inoltre opportuno, in primo luogo, ricordare la interdipendenza delle questioni religiose e civili, poiché molti cadono nell’errore opposto. Taluni, infatti, sono soliti distinguere la politica dalla Religione, non solo ma addirittura le disgiungono nettamente in modo che nulla vi vogliono scorgere di comune né ritengono che l’una possa influire sull’altra. Costoro, per certo, non sono molto lontani da chi preferisce una società costituita e amministrata senza Dio Creatore e Signore di tutte le cose, e incorrono in un errore tanto più grave in quanto avventatamente sottraggono allo Stato una copiosa fonte di beni. Infatti, dove la Religione viene soppressa, è inevitabile che vacilli la solidità di quei principi che sono il fondamento della salute pubblica, che ricevono grande vigore dalla Religione e che consistono soprattutto nel governare con giustizia e moderazione, nell’ubbidire per coscienza del proprio dovere, nel domare con la virtù la cupidigia, nel dare a ciascuno il suo, nel rispettare i beni altrui. – Ma come si deve evitare un errore tanto empio, così anche si deve rifuggire dalla contraria opinione di coloro che mescolano la Religione con qualche fazione civile e le confondono in un unico insieme fino al punto che coloro che sono di altro partito sono ritenuti quasi disertori del Cattolicesimo. Questo significa sospingere avventatamente le fazioni politiche nel campo augusto della religione: voler spezzare la concordia fraterna, spalancare l’ingresso e la porta a una funesta serie di sventure. – Pertanto, è necessario che si tengano separate, nel giudizio e nella opinione, la sfera del sacro da quella della politica, che per origine e per natura sono distinte. Infatti, questo genere di questioni civili, per quanto oneste e serie di per se stesse, non oltrepassano mai i confini della vita che conduciamo in terra. Invece la Religione che, nata da Dio, a Dio tutto riconduce, si espande più in alto e raggiunge il cielo. Essa infatti questo vuole, a questo tende: a educare l’animo, che è la parte più nobile dell’uomo, nella conoscenza e nell’amore di Dio e a condurre sicuramente tutto il genere umano nella futura città che andiamo cercando. Perciò è giusto che si consideri di ordine superiore la Religione e tutto ciò che ad essa è collegato con un vincolo particolare. Da ciò deriva che, essendo il sommo bene, essa deve conservarsi integra nella varietà delle umane vicende e nelle stesse mutazioni delle comunità statali: infatti essa abbraccia tutte le distanze di tempo e di luogo. I fautori di partiti opposti, pur dissentendo in parte, devono poi tutti convenire sulla necessità che il Cattolicesimo sia fatto salvo nel consorzio umano. – A codesto nobile e necessario devono tendere con ardore, e quasi stretti ad un patto, tutti coloro che amano il nome cattolico; devono tacere un poco sulla questione politica, pur essendo diverse le opinioni che si vorrebbero imporre e che al momento opportuno possono essere difese in modo legittimo e onesto. Infatti, la Chiesa non condanna affatto attività di tal genere se non contrastano con la Religione e con la giustizia; ma estranea ad ogni chiassoso contrasto, continua l’opera sua in favore del comune vantaggio, nell’amare con sentimento materno tutti gli uomini, soprattutto coloro la cui fede e pietà sono più grandi. – La concordia di cui abbiamo parlato è il fondamento stesso del Cristianesimo e di ogni bene ordinata repubblica; cioè l’obbedienza al legittimo potere che, comandando, vietando, guidando, rende pienamente concordi i mutevoli animi degli uomini. A questo proposito ricordiamo cose note e conosciute da tutti: tali, tuttavia, da non serbare soltanto nella memoria ma da rispettare nei costumi e nel comportamento quotidiano come regola della propria attività. E come il Pontefice Romano è maestro e principe di tutta la Chiesa, così i Vescovi sono i rettori ed i capi delle Chiese che i singoli, secondo il rito, hanno il mandato di governare. È buona norma che essi, ciascuno nella propria giurisdizione, presiedano, ammaestrino, correggano e in generale decidano sulle questioni che riguardano la vita cristiana. Infatti essi sono partecipi della sacra potestà che Cristo Signore ricevette dal Padre e lasciò alla Sua Chiesa: per questo motivo il Nostro Predecessore Gregorio IX disse ai Vescovi: “Non abbiamo alcun dubbio che i chiamati ad affrontare parte dei Nostri doveri religiosi sono da considerare vicari di Dio” . E questo potere appartiene ai Vescovi con sommo vantaggio di coloro sui quali esso si esercita: infatti per sua natura mira alla “edificazione del corpo di Cristo” e agisce in modo che ogni Vescovo unisca e quasi incateni nella comunione della fede e della carità i Cristiani ai quali è preposto, tra loro e col Sommo Pontefice, come membra con il capo. In materia è importante la sentenza di San Cipriano: “La Chiesa consiste in loro, nel popolo che si aduna attorno al sacerdote, nel gregge che si stringe attorno al suo Pastore”. Più importante è quest’altra: “Devi sapere che il Vescovo è nella Chiesa, e la Chiesa nel Vescovo, e se qualcuno non è col Vescovo, non è nella Chiesa”. Tale è la costituzione della repubblica cristiana, ed è immutabile e perenne; se non verrà religiosamente osservata, è inevitabile che sopravvenga un profondo turbamento dei diritti e dei doveri una volta che venga sciolto l’ordinamento delle membra, sapientemente unite nel corpo della Chiesa, “il quale, strutturato e costruito con nessi e correlazioni, cresce in gloria di Dio” (Col II,19). Da tutto ciò risulta che verso i Vescovi occorre usare il rispetto dovuto alla dignità del loro ufficio, e che occorre obbedire in quei casi che rientrano nel loro potere. – Considerate dunque le passioni che costì agitano molte coscienze in questi tempi, non solo esortiamo ma scongiuriamo tutti gli Spagnoli perché si ricordino di questo così importante dovere. E specialmente procurino con ogni impegno di praticare la modestia e l’obbedienza coloro che fanno parte del Clero, le parole e l’azione dei quali hanno ovunque grande influenza in ogni parte come esemplari. Sappiamo che quanto essi fanno nell’adempimento del proprio dovere sarà assai fruttuoso per loro e salutare per il prossimo se si piegheranno agli ordini e al cenno di colui che regge le sorti della Diocesi. Invero, i sacerdoti che si abbandonano alle passioni di parte in modo da sembrare più solleciti dei beni umani che dei celesti, non si comportano come esige la loro missione. Comprendano dunque che si devono guardare dal varcare i limiti della serietà e della misura. Adottata questa cautela, siamo certi che il Clero Spagnolo si renderà ogni giorno più benemerito, con la virtù, con la dottrina, col sacrificio, non meno della salute delle anime che del progresso civile. – In soccorso dell’opera sua giudichiamo assai opportune quelle associazioni che sono come le schiere ausiliarie nel promuovere il cattolicesimo. Pertanto, approviamo la loro istituzione e la loro attività, e desideriamo vivamente che, crescendo in numero e in impegno, producano frutti sempre più abbondanti. Invero, qualora essi si propongano la tutela e la diffusione del Cattolicesimo, e le questioni cattoliche siano affrontate nelle singole Diocesi dal Vescovo, ovviamente consegue che esse siano soggette ai Vescovi ed è doveroso attribuire gran merito alla loro autorità e al loro comando. E non meno essi devono impegnarsi nel preservare l’unione degli animi: infatti è in primo luogo comune ad ogni gruppo di persone far derivare la loro forza ed efficienza dal concorso delle volontà; quindi, sommamente conviene che in tali sodalizi risplenda il mutuo amore, il quale deve essere compagno di ogni opera buona e distinguere i seguaci della dottrina cristiana come un segnale e un vessillo. E siccome gli associati possono facilmente avere opinioni diverse circa lo Stato, perché non sia spezzata la concordia degli animi dalle opposte passioni di parte, occorre ricordare a qual fine tendano le associazioni che prendono il nome di cattoliche; nel prendere decisioni, occorre volgere gli animi verso l’unico proposito di non appartenere a nessuna fazione, memori della divina sentenza di San Paolo: “Tutti voi che siete battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non vi è più Giudeo né Greco, non vi é più schiavo né uomo libero… tutti voi, infatti, siete uno in Cristo” (Gal III, 27-28). In questo modo si avrà il vantaggio che non solo i singoli soci ma anche le varie associazioni del genere si troveranno tra loro in amichevole e benevolo rapporto: il che occorre perseguire con grande zelo. Deposte dunque, come dicemmo, le passioni di parte, saranno anche rimosse le prevalenti cause di nefaste competizioni; ne verrà di conseguenza che una sola causa attiri a sé tutti, in quanto eccelsa e nobilissima, tale da non consentire alcun dissenso tra i Cattolici degni di questo nome. – Infine, è di grande importanza che si adeguino a questa stessa disciplina coloro che con gli scritti, specialmente se quotidiani, combattono per l’integrità della Religione. Ci è noto a qual fine essi tendano, e con quanta volontà si battano, né possiamo fare a meno di rivolgere loro la giusta lode di meritarsi il nome di Cattolici. Invero la causa da essi abbracciata è tanto eccellente e sublime che richiede molte qualità, alle quali non devono venir meno i difensori della giustizia e della verità: infatti essi, adempiendo ad un dovere, non possono trascurare gli altri. Dunque, gli avvertimenti che rivolgemmo alle associazioni, li rivolgiamo anche agli scrittori, affinché, rimossi i contrasti, assicurino con la dolcezza e la mansuetudine l’unione degli animi sia tra loro, sia nel popolo: l’opera degli scrittori, infatti, ha molto potere su entrambe le parti. Nulla poi è così avverso alla concordia come le parole aspre, i sospetti temerari, le simulazioni sleali: pertanto è necessario rifuggire con la massima cautela da tutto ciò, fino ad odiarlo. Per i sacri diritti della Chiesa, per i principi del Cattolicesimo non si ricorra ad aspre dispute, ma queste siano moderate e temperate, tali da assicurare allo scrittore la vittoria nel conflitto, più con il peso della ragione che con uno stile troppo veemente ed aspro. – Siamo convinti che queste norme pratiche possono contribuire moltissimo a rimuovere le cause che impediscono la perfetta concordia degli animi. Sarà vostro compito, Diletti Figli Nostri, Venerabili Fratelli, farvi interpreti del Nostro pensiero presso il popolo e impegnarvi per quanto vi è possibile, in modo che tutti regolino la loro vita quotidiana secondo quanto dicemmo. Confidiamo che gli Spagnoli seguiranno spontaneamente questi precetti, sia per la nobile disposizione d’animo verso questa Sede Apostolica, sia per gli auspicabili benefìci della concordia. Richiamino alla memoria i domestici esempi; pensino che i loro antenati, se compirono molte imprese, in patria e altrove, con splendido valore, questo avvenne non certo per aver dissipato le energie nelle contese, ma per aver agito con animo e mente concordi. Infatti, animati da amore fraterno e “avendo gli stessi sentimenti l’uno per l’altro”, trionfarono sul vessatorio dominio dei Mori, sulla eresia, sullo scisma. Seguano dunque le orme di coloro da cui trassero la fede e la gloria e imitandoli facciano in modo di essere riconosciuti non solo eredi di quel loro nome, ma anche delle loro virtù. – D’altra parte riteniamo, Diletti Figli Nostri, Venerabili Fratelli, che per ottenere l’unione degli animi e l’uniformità della disciplina, giovi che vi riuniate in consiglio, quanti siete nella vostra provincia di residenza, tra voi e con l’Arcivescovo, per consultarvi insieme sui comuni problemi; quando poi la situazione lo richieda, è opportuno rivolgersi a questa Sede Apostolica, da cui promanano l’integrità della fede e la virtù della disciplina insieme con la luce della verità. I pellegrinaggi che ovunque dalla Spagna si dipartono, offrono, in proposito, una agevole opportunità d’incontro. Infatti, a comporre dissidi e a dirimere controversie nulla è più idoneo della voce di Colui che Cristo Signore, Principe della Pace, designò come vicario del Suo potere, nonché l’abbondanza dei carismi celesti che in gran copia emanano dai sepolcri degli Apostoli. – Ma poiché “ogni nostra capacità viene da Dio” pregate fervidamente Dio insieme con Noi perché renda efficaci le Nostre ammonizioni e disponga l’animo dei popoli pronto all’obbedienza. L’augusta Madre di Dio Maria Vergine Immacolata, patrona degli Spagnoli approvi le comuni imprese; ci assista l’Apostolo Giacomo; ci assista Teresa di Gesù, vergine legislatrice, grande luce di Spagna, nella quale l’amore della concordia, la carità di patria, l’obbedienza cristiana rifulsero come ammirevole esempio. – Frattanto, auspice di celesti doni e testimonianza della Nostra paterna benevolenza verso Voi tutti, Diletti Figli Nostri, Venerabili Fratelli, e verso tutte le genti di Spagna, impartiamo con affetto, in nome del Signore, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 8 dicembre 1882, anno quinto del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XIV – “MAGNÆ NOBIS”

« … in tutti i casi nei quali si chiedono facoltà o dispense alla Sede Apostolica per matrimoni di un uomo cattolico, o donna cattolica, con una donna eretica, o uomo eretico: la stessa Sede Apostolica, come sopra dicemmo, sempre disapprovò e condannò questi matrimoni, come anche ora li disprezza e detesta, se non sono preceduti dall’abiura dell’eresia ». È questo un passaggio chiave della Enciclica del S. Padre Benedetto XIV scritta ai Vescovi di Polonia e riguardo dei matrimoni tra Cattolici con eretici e acattolici. La questione è affrontata con riferimenti canonici precisi, quali il Sommo Pontefice Lambertini ben conosceva per il suo immenso bagaglio culturale teologico-canonico. Queste sono disposizioni ancora oggi in voga perché insopprimibili nel Magistero Pontificio, irreformabile ed eterno. Pensiamo allora agli infiniti matrimoni oggi celebrati da soggetti eretici (ad esempio i modernisti del Vaticano II con acattolici atei, eretici settari di ogni risma, sedevacantisti e fallibilisti lefebvriani compresi) o da settari scomunicati comunisti o sessuo-liberisti o aderenti a conventicole massoniche … tutti matrimoni da Dio aborriti come obbrobrio e desolazione, matrimoni maledetti e generanti una prole lontana dalla grazia divina e dalla via di salvezza. Ovviamente il problema non si pone per chi non ha alcuna idea delle leggi e delle disposizioni della Chiesa Cattolica, o ancor peggio, le tiene in gran disprezzo, credendo che un buonismo “fai da te” e un sentimentalismo becero, possano salvarlo dal fuoco eterno. Senza fede, né dottrina, non c’è nemmeno carità verso Dio, e – come dicono i teologi, a cominciare da s. Paolo – senza carità nulla può salvarci. Attenti a non trasformare una festa, che dovrebbe costituire l’inizio di una famiglia cristiana, in un trampolino o in una piattaforma di lancio per lo stagno di fuoco eterno.

Benedetto XIV

Magnæ nobis

È stato causa di grande meraviglia e di non minore dolore il fatto che dalla relazione di uomini degni di fede e da sicura comunicazione di uomini seri abbiamo imparato che in codesto Regno di Polonia ha preso forza una certa falsa, diffusa opinione: cioè che da questa Sede Apostolica (che Noi dirigiamo per divina volontà, pur senza Nostro merito) furono concesse e spedite, e tuttora si concedono e si sogliono spedire, certe dispense matrimoniali in cui sono tolti gli impedimenti canonici che si oppongono a contrarre matrimonio validamente, anche se uno dei contraenti, o ambedue, professano apertamente una setta eretica. E poiché questo è stato pensato e diffuso per offesa e intollerabile calunnia, penseremmo di venire meno all’officio del Nostro ministero apostolico se a Voi, Venerabili Fratelli, e a tutti coloro cui giungerà questa Lettera, non rendessimo manifesto quale sia in questo genere di cose la costante regola di agire di questa Sede Apostolica e la costante consuetudine; se non ammonissimo con forza e nel nome della divina misericordia, Voi tutti, anche singolarmente, di codesto Regno di Polonia (sempre eminente per fede e religione) nonché i Presuli ordinari, a leggere con attenzione le lettere delle dispense matrimoniali che vengono spedite da questa Sede e da questa Curia per gli abitanti di codesto Regno, e ad invitarvi a che vi adoperiate affinché esse vengano considerate con la massima cura dai Vostri Vicari e dai vostri funzionari. Noi abbiamo la certezza, e questo lo chiariremo subito, che se su questo argomento si è sbagliato, non accadde per colpa della Sede Apostolica e dei suoi ufficiali, ma degli Ordinari locali e dei loro ministri, che non si curarono di leggere quelle lettere o di riflettere su di esse. – Né è necessario affrontare la questione quando si può abbondantemente dimostrare l’antichità di quella regola per cui la Sede Apostolica sempre disapprovò i matrimoni dei cattolici con gli eretici. Ma quanto a questo saranno sufficienti alcune considerazioni, con le quali possiamo dimostrare che la stessa disciplina e regola furono costantemente osservate fino ai nostri tempi, e vigoreggiano non meno integre presso di Noi e la Sede Apostolica, e sono religiosamente custodite. È quello che di se stesso e dei suoi tempi ha attestato il nostro Predecessore di felice memoria Urbano VIII nella sua Lettera apostolica del 30 dicembre 1624 che si legge presso il cardinale Albizio nel libro intitolato De inconstantia in Fide, c. 37, n. 127, dove così scrive: “Giustamente crediamo che i matrimoni di cattolici con eretici si debbano sempre evitare e, per quanto sta in Noi, intendiamo tenerli lontani dalla Chiesa Cattolica“. Né meno chiaramente espose il suo parere il Nostro Predecessore di pia memoria Papa Clemente XI nella Lettera scritta il 25 giugno 1706 e stampata nella Raccolta dei suoi Brevi e Lettere, divulgata a Roma nel 1724 dove, a p. 321, così si legge: “Stimiamo essere di somma importanza per la Chiesa di Dio, per la Sede Apostolica, per i Nostri Predecessori e per i Sacramenti che non si trasgrediscano le regole secondo le quali i cattolici devono evitare il matrimonio con gli eretici, a meno che non richieda questo il bene di tutta la Comunità Cristiana“. In altra Lettera del 23 luglio 1707, pubblicata nella stessa Raccolta a p. 391, scrive: “La Chiesa aborrisce da questi matrimoni che portano con sé molte imperfezioni e non poco di spirituale pericolo“. – Crediamo anche che sia abbastanza chiaro il Nostro giudizio su questo argomento nel rescritto decretale emesso per Nostra autorità il 4 novembre 1741 e stampato nel tomo I del Nostro Bollario (n. 34, par. 3), le cui parole sono le seguenti: “Sua Santità si addolora moltissimo che vi siano tra i cattolici coloro che impazziscono per un insano amore, non detestano questi riprovevoli matrimoni che Santa Madre Chiesa sempre condannò e proibì e non pensano di astenersi. Loda assai lo zelo di quei Vescovi che, proponendo più severe pene spirituali, cercano di costringere i cattolici a non congiungersi con gli eretici con questo sacrilego vincolo; esorta ed ammonisce seriamente tutti i Vescovi e i Vicari apostolici, i Parroci, i Missionari e tutti gli altri fedeli Ministri di Dio e della Chiesa che stanno in quelle parti, soprattutto dell’Olanda e del Belgio, affinché i cattolici di ambo i sessi, per quanto possono, si astengano da siffatte nozze che tornano a danno delle loro anime, e si diano da fare per mutare le nozze stesse nel migliore dei modi e impedirle efficacemente“. In subordine, qualora sia già stato contratto il matrimonio di un cattolico con un eretico, si stabilisce: “Ciò deve indurre nell’animo dello sposo cattolico, sia maschio sia femmina, di fare Penitenza per il gravissimo peccato che ha compiuto e chieda perdono a Dio e cerchi secondo le sue forze di trarre al grembo della Chiesa cattolica l’altro coniuge lontano dalla vera Fede e così guadagnare la sua anima; ciò sarebbe quanto mai opportuno per impetrare il perdono per il crimine commesso, sapendo del resto, come si è detto sopra, che si è legati in perpetuo dal vincolo di questo matrimonio“. – A queste regole per così dire fondamentali della Sede Apostolica, risponde prima di tutto la stessa norma di comportamento confermata dall’uso costante. Infatti, tutte le volte che capita di ricorrere ad essa, sia per ottenere la semplice facoltà di contrarre matrimonio tra persone, una delle quali professa l’eresia, sia inoltre per ottenere la dispensa di qualche grado o di altro impedimento canonico, esistente tra i contraenti, non si concede né licenza né dispensa se non con questa espressa legge e con questa condizione: cioè che prima sia stata abiurata l’eresia. Ché anzi il Nostro Predecessore di venerata memoria, Papa Innocenzo X, andando più avanti, comandò e mise in guardia di non concedere siffatte dispense se non fosse stato informato, con documenti autentici, che l’errore eretico era stato abiurato dal contraente eterodosso. Ciò lasciò testimoniato il lodato cardinale Albizio, allora assessore della Congregazione dell’Inquisizione Universale, nel succitato trattato De inconstantia in Fide (cap. 18, n. 44). Il citato Predecessore Clemente XI nella Congregazione del Sant’Officio da lui presenziata il 16 giugno 1710 comandò che fosse proibito per lettera all’Arcivescovo di Malines di concedere alcuna licenza o dispensa per i matrimoni tra un contraente cattolico e un altro eretico se non si fosse avuta in precedenza l’abiura dell’eresia; e decretò che fossero duramente ammoniti i teologi che avevano espresso opinioni contrarie a questa prassi, come tramandò Vincenzo, di buona memoria, Cardinale di Santa Romana Chiesa, soprannominato Pietra, nel suo commento alla Costituzione XII di Giovanni XXII (tomo 4, p. 76, n. 14). – Ché se si trovano alcuni esempi di Romani Pontefici che concessero licenze di contrarre matrimonio, o anche di dispensa da un impedimento, senza porre la condizione di abiurare prima l’eresia, diciamo che queste condizioni prima di tutto furono rarissime; e la maggior parte di esse furono fatte per matrimoni fra Augusti Principi e non senza un grave motivo che riguardava il pubblico bene. Inoltre, furono sempre adottate le opportune cautele in modo che il coniuge cattolico non potesse essere pervertito dall’eretico, anzi sapesse che egli era tenuto, secondo le sue forze, a recuperare costui dall’errore. Inoltre la prole di ambo i sessi che fosse nata dal matrimonio sarebbe stata educata nella santità della Religione Cattolica. Infine, è facile riconoscere che nel genere di queste concessioni non c’è alcuna possibilità di errore per coloro che le eseguono, a meno che essi vogliano mancare scientemente in qualcosa e manchino al loro dovere volontariamente. Da ultimo, da ciò che è stato detto risulta apertamente che in tutti i casi nei quali si chiedono facoltà o dispense alla Sede Apostolica per matrimoni di un uomo cattolico, o donna cattolica, con una donna eretica, o uomo eretico: la stessa Sede Apostolica, come sopra dicemmo, sempre disapprovò e condannò questi matrimoni, come anche ora li disprezza e detesta, se non sono preceduti dall’abiura dell’eresia. – Tutte le volte che per qualche probabile causa si chiedono dispense per matrimoni che sono da contrarre tra eretici, questo non viene mai detto espressamente nella richiesta. Non potendo i Ministri della Sede Apostolica e gli Ufficiali saperlo indovinando, a chiudere la bocca di chi parla a vanvera e di chi calunnia basterebbe dire questo: che non si concede alcuna dispensa che non sia diretta ad un esecutore determinato, al quale viene dato il mandato di conoscere la verità di tutto ciò che è esposto, e faccia sortire, come effetto, la dispensa, servatis servandis. Non essendo lecito a costui di ignorare che i matrimoni dei Cattolici con gli eretici sono disapprovati e condannati dalla Sede Apostolica, facilmente può conoscere quale dei due contraenti che ha il difetto dell’eresia (e di cui non si ha alcuna menzione nella lettera di dispensa) fu nascosto alla Sede Apostolica; appartiene al suo ufficio sospendere l’esecuzione di questa lettera, e notificare per lettera, con la dovuta deferenza, al Romano Pontefice o ai suoi ufficiali il motivo di questa sospensione, così come il Nostro Predecessore Papa Alessandro III prescrive una volta di fare all’Arcivescovo di Ravenna in una sua lettera che, a perenne effetto, fu riportata nel Codice delle Decretali, capitolo Si quando, de Rescriptis, dove si legge: “Considerando diligentemente la qualità dell’affare per il quale ti si scrive, o osservi attentamente il mandato nostro, o per iscritto esponi una causa ragionevole per cui non puoi obbedire: perché se tu non lo farai, sopporteremo con sofferenza ciò che Ci è stato riferito con malvagia insinuazione“. – Ma non si ferma qui l’attenzione della Sede Apostolica e dei suoi Ufficiali. Se si chiede la dispensa per rimuovere l’impedimento canonico di un matrimonio per una ragionevole causa, si faccia presente che si appartiene a quelle regioni nelle quali i Cattolici vivono frammisti agli eretici, e non si può constatare con certezza che ambedue i postulanti o uno di essi soltanto professano la Religione Cattolica; i suddetti ufficiali, interpretando onestamente il pensiero del Pontefice, presumono sempre che l’uno e l’altro postulante siano Cattolici, perché le loro domande presentate nella richiesta (la chiamano Supplica) da sottoporre alla firma del Pontefice, si esprimono con queste parole: “I predetti richiedenti, che sono fedeli praticanti della Fede Ortodossa, e vivono e intendono vivere e morire in obbedienza alla Santa Chiesa Romana, ecc.; con cui combaciano altre parole che si scrivono in parte al condizionale a maggiore cautela, e cioè: Finché i predetti richiedenti vivano fedeli praticanti della Fede Ortodossa, e intendano vivere e morire in obbedienza alla Santa Chiesa Romana“. – Premesso ciò, a buon diritto chiediamo: poiché le lettere di dispensa matrimoniale furono concepite con queste espressioni e furono spedite con questo senso, se poi venga in chiaro che i contraenti erano eretici, o uno Cattolico e l’altro eretico, e tuttavia la dispensa viene mandata ad esecuzione, di chi sarà la colpa e chi a buon diritto potrà essere accusato della dispensa accordata a chi era indegno? Forse colui che in buona fede e con le opportune cautele e con giuste condizioni la concesse, oppure colui che, non avendo tenuto in nessuna considerazione le condizioni o non avendo premesso nessun accertamento sui contraenti, permise che la dispensa, contro la volontà del concedente, ottenesse un ingiusto effetto? – Ma qualcuno dirà che non tutte le lettere di dispensa sono spedite munite di queste clausole dal momento che nello stesso Regno di Polonia, da alcuni anni in qua, qualche dispensa fu inviata da Roma senza alcuna condizione. L’aspetto di questi fatti che Noi abbiamo presenti nella mente, vogliamo qui chiarire. La dispensa era a favore dell’età di una ragazza cui mancavano sei mesi per raggiungere i dodici anni, che per le donne costituiscono l’età legittima per contrarre matrimonio. In quella concessione fu detto che “l’astuzia suppliva così l’età, che a buon diritto la ragazza poteva sposarsi“. Pertanto, più che una dispensa, questa era una lettera chiarificatrice, dal momento che la facoltà di sposarsi prima dell’età prescritta, ogni volta che l’astuzia supplisce l’età, deriva dalla stessa disposizione delle leggi e dei Canoni. Ché, anzi, i Vescovi e gli Ordinari con diritto personale possono pronunciarsi sulla questione, che è di fatto: se cioè la furberia, come si dice, supplisce l’età e di conseguenza si può concedere il permesso di contrarre matrimonio, non è necessario ricorrere alla Santa Sede se non per maggiori solennità dell’atto “e perché non succeda che per la minore età dei contraenti si discuta della validità del matrimonio“, come dice la formula che si suole usare nello scrivere le lettere declaratorie sulla minore età. Se infatti i Canonisti insegnano che è cumulativo il diritto tra la Sede Apostolica e i Giudici ordinari di conoscere e di pronunciarsi su questo argomento, cioè se l’astuzia supplisca l’età, è solo della Sede Apostolica il diritto di concedere la dispensa al matrimonio all’impubere che, a motivo dell’età, non è ancora maturo per la copula coniugale, ma tuttavia ha tale uso della ragione da capire l’importanza e la natura del matrimonio. Infatti, per la validità del matrimonio, come si richiede l’uso di ragione per diritto naturale e divino, così si richiede la potenza in atto all’atto coniugale dal diritto Canonico. Il Romano Pontefice è sopra il diritto Canonico: ma un Vescovo qualunque è inferiore al diritto e quindi non può derogare alle sue leggi. – Ma, tralasciata questa questione se la licenza di contrarre matrimonio prima dell’età legittima quando l’astuzia supplisca l’età, è da vedere se si tratta di una dispensa o piuttosto di una dichiarazione, e perciò se ci si debba accostare agli atti della grazia e della giustizia. Oltre a ciò, si deve vedere se nelle Lettere Apostoliche scritte su questo argomento (quantunque quelle parole e quelle condizioni che si è soliti apporre nelle altre dispense qui non si leggano) siano tuttavia presenti altre parole equipollenti. Secondo il valore di queste Lettere, l’Esecutore delegato (qualora un contraente o ambedue siano colpiti da eresia, e ciò non è espresso nella supplica al concedente, né per altra via si è potuto saperlo) è tenuto ad astenersi dal dare attuazione. Di questo non si può dubitare, se si sta attenti a ciò che in seguito è richiesto nelle Lettere all’Esecutore: “Di informarsi diligentemente dei permessi e di vedere se veramente e legittimamente consti che in questo impubere l’astuzia supplisca al difetto dell’età“. Allo stesso si comanda che permetta al richiedente, “purché non osti altro impedimento canonico, di contrarre matrimonio con un uomo non escluso per qualche norma oppure in forza di qualche dispensa apostolica, osservata la forma del Concilio di Trento“. Con queste parole s’impone all’Esecutore quella legge che poco consente all’impubere di godere l’effetto della dispensa o della declaratoria, se avrà indagato che lo stesso ha in animo di contrarre nozze vergognose con un eretico. – Il Nostro discorso si fa troppo lungo, più di quanto all’inizio di questa Lettera Ci eravamo proposti; ma non Ce ne pentiamo minimamente. Infatti, Ci sta molto a cuore, e interessa molto alla Religione Cattolica e alla Sede Apostolica, che non si ignori la realtà dei fatti e che le false dicerie diffuse contro la Sacra Cattedra di Pietro non siano credute; se si compiono cose contro i Sacri Canoni, non se ne attribuisca la responsabilità a chi non l’ha. – Perché la fine della Nostra Lettera torni là dove ebbe il principio, a Te, Venerabile Fratello e a tutti i Presuli Ordinari di codesto Regno, ancora raccomandiamo fortemente di disporre che dai vostri Ufficiali siano considerate attentamente le Lettere di dispensa che vi sono inviate per l’esecuzione, né vogliate ritenere superfluo – se in esse sembri esservi qualcosa di abnorme o di nuovo – dissertare sulla verità o falsità di esse. Infatti è molta la malizia dell’uomo sulla terra e a Noi non è dato sapere fin dove possa arrivare l’audacia dei falsari. Giunse inoltre al Nostro orecchio che vi fu un tale il quale, disattendendo l’impedimento di grado, unì in matrimonio un uomo eretico con una donna cattolica; ed avendo saputo che la sua azione era criticata, non si peritò di affermare che in tale occasione era dotato della Dispensa Apostolica che aveva ricevuta da Roma; ed essendo stato invitato a produrre la lettera di dispensa, non poté mai mostrarla perché non l’aveva mai ricevuta. Ma Noi, in verità, che abbiamo un giudizio più positivo dell’inclita Nazione Polacca (che abbracciamo con affetto di paterna carità) e dei Presuli consacrati di codesto Regno (che tutti e singolarmente teniamo in grande considerazione), non crediamo che un delitto così efferato sia mai stato tollerato. – A Te, Venerabile Fratello e al Gregge a Te affidato impartiamo con tutto il cuore la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno 1748, anno ottavo del Nostro Pontificato.