Il gran mezzo della preghiera: Salutazione angelica, Angelus – Salve Regina – Regina cæli – Litanie

Il gran mezzo della preghiera

Salutazione angelica – Angelus – Salve Regina – Regina cæli – Litanie

[J.-J. Gaume: Catechismo di perseveranza, vol. II – VI ed. – Torino 1881]

Dopo l’Orazione Dominicale, la più bella di tutte le preghiere particolari è l’Angelica Salutazione. L’ha composta infatti Iddio stesso, benché non ce l’abbia insegnata per bocca sua, ma per bocca dell’Arcangelo Gabriele, di Santa Elisabetta e della Chiesa, tutti e tre governati dallo Spirito Santo. [Bellarm., Dottr. crist. 95.]. Egli è uso universale della Chiesa recitarla dopo il Pater Noster, ed eccone la ragione. Una persona che solleciti qualche grazia dalla Corte, comincia dal presentare allo stesso Principe la sua supplica, poscia rivolgesi a quello fra i cortigiani cui egli crede più benvisto al Monarca, e lo scongiura ad avere a cuore la domanda inoltrata, onde venga conforme al suo desiderio soddisfatta. Simile all’esposto è pure il nostro procedimento. Supplicato il Re del Cielo e Padre nostro, noi preghiamo la Regina del Cielo sua e nostra Madre perché parli per noi e ci aiuti colla potente sua raccomandazione ad ottenere quello che abbiamo domandato [“Opus est mediatore ad mediatorem Christum, nec alter nobis utilior quam Maria”. S. BERNARD., Serm. ultin. de Assumpt]. – Ed ecco altresì la ragione per cui ora ci accingiamo a spiegare l’Ave Maria. – Siccome il Pater Noster, dividesi l’Ave Maria in tre parti, od anche in quattro, se vogliasi tener conto della conclusione, la quale del rimanente è la stessa che nell’Orazione Dominicale. La prima parte consta delle parole dette dall’Arcangelo Gabriele alla Santa Vergine: Dio ti salvi, Maria, piena di grazia, il Signore è teco, tu sei benedetta fra tutte le donne. La seconda comprende le parole di S. Elisabetta: E benedetto il frutto del ventre tuo. La terza: Maria, Madre di Dio, ecc. è stata composta dalla Chiesa. – Parte prima: Io ti saluto. Giusta la cronologia più comunemente abbracciata, nell’anno del mondo 4004, il giorno 25 del mese di marzo, che cadeva in venerdì, l’Arcangelo Gabriele, tutto splendente di luce, discese dal Cielo quale inviato della SS. Trinità ad una verginella della stirpe reale di David, che abitava una piccola casa di una piccola città della Galilea, chiamata Nazareth, e le disse: Io ti saluto. Queste parole esprimono ad uno stesso tempo la dimestichezza, il rispetto, la felicitazione. – La dimestichezza: allorquando le ripetiamo alla Santa Vergine, noi dimostriamo che, come l’Arcangelo Gabriele, Le siamo famigliari ed amici, la qual cosa ne dà ardire di venirLe a parlare. Il rispetto: salutando Maria, riconosciamo nella sua Persona la più santa, la più sublime, la più possente di tutte le creature. La felicitazione: queste parole io ti saluto significano: rallegrati e godi; dopo quella di Dio niuna beatitudine può paragonarsi alla tua. Che sia accetto in sommo grado alla Santa Vergine di udirci ripetere spesso queste parole, è cosa fuor d’ogni dubbio. Difatti, come supporre ch’Ella non ascolti con piacere quel saluto che le ricorda l’istante più fortunato, più solenne, più glorioso di sua vita, e la sua incomparabile dignità di Madre di Dio; prerogativa che sola comprende e sopravanza qualunque titolo o prerogativa attribuir si possa a qualsiasi creatura? Come non deve Ella rallegrarsi vedendoci occupati nel pensiero della sua gloria in riconoscenza dell’immenso benefizio dell’Incarnazione? Queste due attestazioni si rinnovano per parte nostra tutte le volte che degnamente pronunziamo le parole io ti saluto, le quali ci rendono graditi al materno suo cuore. Con questo saluto noi attestiamo alla Santa Vergine l’affetto che Le portiamo, la gratitudine da cui siamo compresi pei benefizi che ne abbiamo ricevuti, e risvegliamo nel suo cuore il gaudio che le recò già l’Angelo, quando le indirizzò Le stesse parole. Ecco perché nei primi secoli della Chiesa i Cristiani non hanno giammai cessato di far risuonare come armonioso concerto alle orecchie della Santa Vergine l’Angelica Salutazione. Ne abbiamo la prova nei nostri più antichi monumenti, come sono le liturgie di San Giacomo e di San Giovanni Crisostomo.

Maria. — L’Arcangelo non profferì questo nome augusto, ma si contentò di dire: Io ti saluto, piena di grazia. Perché ciò? 1° Perché 1’Angelo trovandosi solo colla Santa Vergine, non era punto necessario eh’ ei la chiamasse per nome, per farle intendere che il suo discorso era ad Essa rivolto; 2° perché il nome di quelle persone che si distinguono per qualche prerogativa eminente è chiarito abbastanza dall’indicazione della prerogativa stessa. Così, per esempio, se dicasi il Saggio, ognuno intende Salomone; pronunziando, l’Oratore Romano, il pensiero corre a Cicerone. Egualmente quando l’Angelo disse: «Io ti saluto, piena di grazia » dimostrava aperto, che non poteva riferirsi ad altri che a Lei sola; 3° perché quando parlasi apersone di altissima dignità comunemente non si adopera il loro nome proprio: così parlando ai Principi della Chiesa, ai Re della terra, al Sommo Pontefice, noi diciamo: Eminentissimo, Sire, Santità, senza aggiungere il nome proprio di questi alti personaggi. Fu la Chiesa che pose nella Salutazione Angelica il nome di Maria, per ricordarci bene a Chi noi parliamo, e risvegliare nel nostro cuore gl’ineffabili sentimenti che ridesta per se stesso quel nome benedetto.

Maria è vocabolo ebraico che significa signora, padrona, illuminatrice; e nel doppio significato questo nome si conviene mirabilmente alla Santa Vergine. Ella è signora, poiché Iddio l’ha stabilita regina e padrona di tutte le creature, e Le ha conferito sovra se stesso un impero senza limiti; è illuminatrice, avendoci dato il Salvatore, Sole di giustizia e Luce del mondo. Da ciò nasce il profondo rispetto e la viva confidenza, che la Chiesa cattolica ha in ogni tempo dimostrato al nome di Maria; quindi nelle preghiere pubbliche essa ingiunge a’ suoi Ministri di non pronunziarlo giammai, senza inclinare il capo in segno di venerazione; quindi la religiosa Polonia non permise pel corso di quattrocent’anni che alcuna delle sue donne lo assumesse nel battesimo; quindi il glorioso martire San Gerardo, vescovo di Candia, insegnò agli Ungheresi a pronunziare raramente il nome di Maria, ma a chiamarla piuttosto Nostra Signora; e quando l’avessero pronunziato, ovvero inteso pronunziare, a scoprirsi il capo, e piegare il ginocchio. Noi attesteremo la nostra venerazione per questo nome glorioso non pronunziandolo giammai con sbadataggine, e conservandolo o portandolo con sé, scritto, dipinto od inciso, quale obbietto religioso e come un ricordo, un preservante. Ad imitazione della Chiesa dobbiamo noi pure invocarlo con piena fiducia nei pericoli, nelle infermità, nelle tentazioni, nei travagli, e nel punto specialmente della nostra morte; imperocché, scrive un Santo, l’augusto nome di Maria è segno di vita, fonte di gioie, miniera di grazie [S. BERNARD., Serm. 2, sup. miss. — [“Quemadmodum continua respiratio non solum est signum vitæ, sed etiam causa; sic sanctissimum Mariæ nomen, quod in Dei servorum ore assidue versatur, simul argumentum est, quod vera vita vivant, simul etiam hanc vitam ipsam efficit et conservat, omnemque eis lætitiam et opem ad omnia impertitur” – S. GERM. Episcop. Constanolinop. In Orat. de Deip. Virg.]. Piena di grazia. — Queste parole cominciano a spiegare il profondo rispetto dell’Arcangelo verso Maria, e palesano la precipua dote della Vergine augusta. Maria è piena di grazia, vale a dire, ch’ella sola ha ricevuto più grazie che non tutti insieme gli uomini e gli Angeli. Iddio infatti proporziona sempre i mezzi al fine che vuol conseguire. Ora avendo scelto la Santa Vergine per sublimarla alla dignità di Madre di Dio, che è la maggiore di cui una pura creatura possa essere insignita, Ei l’ha ancora dotata d’una pienezza di grazia proporzionata a questa suprema dignità. Ma qual è il senso preciso di queste parole piena di grazia? E a sapersi che la grazia di Dio produce tre grandi effetti nell’anima: cancella i peccati che sono come macchie, le quali imbrattano l’anima; adorna la stess’anima di doni e di virtù; e finalmente le dà forza di fare opere meritorie e grate alla Divina Maestà. – La Madonna è piena di grazia, perché quanto al primo effetto, Ella non ha mai avuto macchia di peccato alcuno, né originale, né attuale, né mortale, né veniale. – Quanto al secondo ha avuto tutte le virtù e i doni dello Spirito Santo in altissimo grado. Rispetto al terzo, ha compiuto opere tanto grate a Dio e tanto meritorie, che è stata degna di salire sopra tutti i Cori degli Angeli in corpo ed anima [Bellar., Dottr. Crist. 97].

Il Signore è teco. — Queste parole esprimono la seconda prerogativa della Santa Vergine e un’altra lode singolare che noi Le tributiamo. Pel nome Signore qui adoperato intendesi in generale la Santa Trinità, e in particolare la seconda Persona. Laonde le parole dell’Arcangelo suonavano per Maria, come se le dicesse: « La Santa Trinità è con Te dal primo istante della tua concezione con perpetua assistenza. onde preservarti da ogni macchia, da ogni imperfezione, per dirigerti in tutte le tue vie, proteggerti, colmarti delle grazie più eccellenti; in una parola, per custodire Essa stessa un sì prezioso tesoro. Né solo la Santa Trinità è stata Teco fino a questo punto con una provvidenza speciale; fin da questo momento Essa è con Te in un modo ben altrimenti singolare. Il Padre ti copre colla sua ombra, lo Spirito Santo in Te sopravviene, il Figlio discende nel castissimo tuo seno, di modo che non è solo con Te per grazia, ma in persona [“Dominus (Filius) tecum non tantum gratia, sed etiam natura ex te factus homo; non tantum consensione voluntatis, sed etiam coniunctio carnis.” – S. BER., Serm.5, sup. miss. — S . CHRY – S Chrys. Serm. 143]. Quindi il Padre è con Te innalzandoti alla dignità di Madre del suo proprio Figlio; il Figlio è con Te lasciando intatta la tua verginità prima del parto, durante il parto, e dopo il parto; lo Spirito Santo è con Te santificandoti il corpo e l’anima con incomparabile santificazione. In una parola, la Santa Trinità è con Te come nel suo vivo tempio; il Padre è in Te come in sua figlia; il Figlio come in sua madre; lo Spirito Santo come in sua sposa. Ma ciò non è tutto: Il Signore, il Verbo divino sarà con Te: vivrà nove mesi nelle tue viscere verginali; si trastullerà sui tuoi ginocchi, ti prodigherà le sue divine carezze; pel corso di trent’anni non Ti abbandonerà giammai; come figlio obbediente Ti renderà tutti i servigi che Gli chiederai; nella quotidiana conversazione t’istruirà, ti consolerà, ti colmerà d’incessanti grazie. Durante la sua vita pubblica, del pari che nella sua vita privata, non si separerà da Te; sarà con Te alle nozze di Cana per compiacere i tuoi desideri; persino sul Calvario ti darà un’ultima testimonianza di tenerezza confidandoti alle cure del prediletto fra suoi discepoli. Dopo la sua Risurrezione verrà a visitarTi per la prima; dopo la sua Ascensione t’inonderà dei doni dello Spirito Santo, di guisa che Tu sola ne andrai più colma che non tutti insieme gli Apostoli ed i Santi. Allorché sarai sul punto di abbandonare la terra, scenderà al tuo fianco e Ti accoglierà fra le proprie braccia onde condurti trionfante in corpo ed anima nel soggiorno della sua gloria, e Ti collocherà alla sua destra per tutta l’eternità: Io Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con Te ». Tu sei benedetta fra tutte le donne. — Ecco la terza incomparabile dote di Maria, e il terzo singolarissimo omaggio che noi Le rendiamo. Facendo eco alle parole dell’Arcangelo noi confessiamo che nessuna donna ha ricevuto, né riceverà giammai maggior copia di benedizioni singolari quanto la Vergine Maria. Ella difatti, per unico privilegio, riunisce nella propria persona le benedizioni tutte della Vergine e della Madre; grazia, che non ebbe mai né potrà avere esempio; e che a Lei sola conferisce il diritto di esser chiamata Benedetta fra tutte le altre donne. Benedizioni della Vergine sono la purità continua e senza macchia del corpo e dell’anima; stato sublime che presso tutti i popoli anche pagani ha meritato alle vergini i più grandi onori, e un rispetto religioso; che continua a meritar loro eguali favori in seno alle nazioni cristiane; e che nelle pompe della Corte celeste merita loro la gloria esclusiva di seguire l’Agnello immacolato negli eterni suoi trionfi. Maria sola ha goduto, gode tuttora, e godrà in perpetuo infinitamente più ch’ogni altra vergine queste benedizioni della verginità. – Le benedizioni della Madre sono la fecondità e la perfezione di cuore de’propri figli. Maria ha partorito un Figliuolo che solo vale infinitamente più che non tutti i nati e nascituri. Si può dire ancora che ella è Madre di più gran numero di figli che non il suo padre Abramo, la cui posterità sopravanza il numero delle stelle del firmamento; imperocché tutti i buoni Cristiani sono fratelli di Nostro Signore, e per conseguenza figli di Maria, non per ragion di natura, siccome il Salvatore medesimo, ma per amor di Madre, per grazia, per eredità. Di più, siccome la verginità di Maria eccede in perfezione quella di tutte le vergini, così pure la sua maternità sorpassa in gloria quella di tutte le madri. Tutte le donne partoriscono nei dolori; Maria sola andò immune da questa legge. Perciò a giusto titolo noi la salutiamo Benedetta fra tutte le donne, perché le altre hanno la gloria della verginità senza la fecondità, o la benedizione della fecondità senza la verginità, laddove Maria sola accoppia il privilegio di perfetta verginità e di fecondità perfetta.

Seconda parte: Benedetto il frutto del tuo ventre, Gesù. Queste parole racchiudono la seconda parte dell’Angelica Salutazione, ispirata dallo Spirito Santo a S. Elisabetta [Luc. I]; ed esprimono in pari tempo il quarto privilegio di Maria, e la quarta lode che noi Le tributiamo. Noi abbiamo superiormente lodato la Vergine, per ciò ch’Ella è in se stessa; qui ci congratuliamo per ciò che Ella è a motivo del Figlio suo, frutto delle caste sue viscere. E sebbene al primo aspetto questa lode sembri rivolta al Figlio, non ostante essa ridonda direttamente alla Madre, come la lode del frutto ridonda all’albero che lo porta, e la gloria del Figlio si riflette sulla Madre. Ora, Nostro Signore essendo vero uomo e vero Dio, è benedetto non solo fra tutti gli uomini, ma ancora, come dice S. Paolo, sopra tutto ciò che esiste in Cielo e sulla terra [Rom. IX]. Egli è benedetto; vale a dire, che è la sorgente stessa di tutti i beni che possiede per natura, e diffonde su tutte le creature; e così pure la Santa Vergine, Madre sua, non solamente è benedetta fra tutte le donne, ma benedetta fra tutte le creature tanto nel Cielo quanto sulla terra: e ciò, come abbiamo detto, perché la gloria del Figlio riflettesi sulla Madre.Il Signor Nostro è designato sotto il misterioso nome di frutto, onde palesare primieramente eh’esso è stato formato della sostanza medesima di Maria, e inoltre unicamente per opera soprannaturale dello Spirito Santo; e per mostrare da ultimo ch’Egli è nato senza lesione della santa Madre, come il frutto nasce e matura senza ledere l’albero che lo porta.

Gesù. — Santa Elisabetta tacque questo nome divino indirizzandosi alla cugina, e ciò a un di presso per le stesse ragioni che spiegano il silenzio dell’Angelo intorno al nome di Maria. Fu la Chiesa che aggiunse poi il nome di Gesù all’Angelica Salutazione, onde apertamente indicare ch’egli era il frutto benedetto delle caste viscere dell’augusta Vergine, e stimolarci per questo appunto a celebrare piamente il seno di Maria, degno dell’eterne lodi del Cielo e della terra. La Chiesa in far ciò ha perfettamente interpretato l’intenzione del Salvatore medesimo, il cui desiderio è di vedere esaltato e benedetto il seno della divina sua Madre, che durante nove mesi servi a Lui di ricettacolo. Laonde allorché una donna, dopo di aver udito gli ammirabili discorsi dell’Uomo-Dio, gridò di mezzo alla folla: Benedetto il seno che ti ha portato! Il Signor Nostro approvò cotale elogio, e lo confermò col dire: Sì, benedetto; ma più ancora benedetta la Madre mia, che ascoltò le parole di Dio! Dopo molti secoli la Chiesa cattolica, ad esempio di questa femmina dell’Evangelo, innalza ogni giorno a Maria questa medesima formula di encomio.

Terza parte: Santa Maria, Madre di Dio, prega, ecc. —Noi siamo giunti alla terza parte dell’Angelica Salutazione composta dalla Chiesa. Gli elementi di questa preghiera risalgono fino alla culla del Cristianesimo. Perciò i Sirii, che dagli Apostoli stessi e probabilmente da S. Pietro impararono l’Ave Maria, non la finiscono mai senza implorare il patrocinio della Vergine dicendo: Salve, o Maria, piena di grazia! Il Signor Nostro è teco; tu sei benedetta fra le donne, e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi, per noi, dico, che siamo peccatori: Così sia. Per quanto concerne la formula attuale, il Cardinal Baronio, fondandosi nella tradizione, la fa risalire all’anno 431, dopo il Concilio di Efeso, epoca nella quale uscì per acclamazione dalla bocca di tutti i Fedeli, come risarcimento dell’oltraggio fatto alla loro Madre da Nestorio, e come solenne monumento della vittoria di Maria contro quell’ eresiarca In questa parte della Salutazione si trovano compendiate le principali glorie di Maria, le quali si riepilogano esse pure dall’ ineffabile privilegio della Maternità divina; e insieme noi le esprimiamo la nostra confidenza filiale nel suo aiuto e lo stringente bisogno che abbiamo del suo patrocinio. Santa Maria! Oh! sì, santa di tale santità che niuna creatura può a gran pezza raggiungerla; santa nella sua concezione, nella nascita, prima di nascere; santa nella vita e nella morte; santa d’anima e di corpo, senz’ombra di macchia o di sozzura: tutta bella d’animo e di corpo; di una bellezza superiore a quella degli Angeli e degli uomini, e solo inferiore a quella di Dio.

Madre di Dio. — Oh! quanto son proprio queste due parole a rallegrare il cuor di Maria! quanto opportune a muoverla per noi a compassione, e ad ispirarci per essa fiducia senza limiti! Madre di Dio, sei dunque la più gloriosa, la più felice delle creature! Madre di Dio, Tu sei dunque onnipossente! potrebbe forse una Madre ricevere un rifiuto da un Figlio come il tuo? Madre di Dio, Tu sei dunque pietosa verso i peccatori; questi infelici che t’implorano sono teneramente amati dal tuo Figlio; son prezzo del sangue suo, sono suoi fratelli, e debbono essere suoi coeredi. Potresti forse non amarci, Tu che ami sì ardentemente il tuo Figlio, mentre la nostra salute è il primo de’ suoi desideri; potresti negarci il tuo soccorso per ottenerla?

Prega. — Ripetuta la principale lode della Vergine, chiamandola Madre di Dio, noi ce ne serviamo per dirle: 1° quanto Ella può sul cuore di Dio, e quanto le è facile perciò d’intercedere per noi peccatori. A Lei basta uno sguardo, un cenno, una parola, la più semplice preghiera. E perché ciò? Perché la preghiera della migliore e più diletta fra tutte le madri sull’ animo del migliore ed onnipotente Figlio è sempre un comando. Così spiegansi tutti i Padri, tutti i Dottori; tutti i secoli cristiani, che non sapendo in qual altro modo definire l’unione dell’ inferiorità connaturale ad una creatura coll’onnipotenza di cui Maria è dotata per grazia, chiamano la Santa Vergine l’onnipotenza supplichevole [Omnipotentia supplex]. – In secondo luogo noi le ricordiamo la sua bontà; una madre è tutta Cuore. Ora il Cuore della Vergine, sempre in armonia perfetta con quello di Gesù, ama tutto quello ch’Egli ama, ama molto tutto ciò che molto ha amato Gesù, e per conseguenza gli uomini creati a sua immagine e somiglianza, gli uomini da Lui nominati suoi fratelli, e coi quali Ei realmente ha stretto i vincoli indissolubili di parentela, assumendo la nostra natura nel puro seno di Maria.

Per noi. — Con ciò intendonsi tutti gli uomini e principalmente i Cristiani; poiché tutti hanno bisogno del patrocinio della Vergine, ed essa è avvocata di tutti..

Poveri peccatori. — Fra tutti gli uomini, coloro che in certa guisa più sono stati amati dal Salvatore sono i peccatori, atteso ché per essi Egli si fece carne: « il Figlio dell’Uomo, parla Egli stesso, non venne pei giusti, ma bensì pei peccatori; è venuto per salvare tutto ciò che era perito: non i sani, ma gl’infermi abbisognano di medico ». Ei fu con essi famigliare persino a farsi chiamare dai suoi nemici l’amico dei pubblicani e dei peccatori; a loro specialmente Egli indirizzò quest’invito: « Venite a me, o voi tutti? che gemete sotto il peso degli affanni ed io vi allieverò”.- Fu per questo ch’Ei narrò nel suo Evangelo le affettuose parabole della dramma perduta e del figliuol prodigo. Per le quali ragioni tutti noi siamo certi di commuovere il Cuore della Vergine, dicendo , a Lei rivolti : Pregate per noi, poveri peccatori.

Poveri peccatori; oh! sì, ben poveri; perché il peccato ne tolse tutti i beni, e ne gettò nudi e semispenti sotto i piedidel demonio. Questa confessione della nostra infelicità ha forza per se sola ad impietosire il cuore di Maria; ma coll’aggiungere la parola peccatori, vale a dire, col confessare che questa nudità, queste ferite, questo stato lacrimevole nel quale ci troviamo è per nostra colpa, per nostra propria e somma colpa, noi mostriamo in tutta la sua pienezza la nostra miseria, ed usiamo il vero mezzo d’intenerire infallibilmente le viscere della Madre di misericordia. Le rammentiamo che se Ella è la Regina di misericordia, noi siamo i primi de’ suoi sudditi. Ed Essa lo conosce sì bene, che San Bernardo giunse a dire: « Io acconsento che niuno parli più di Te, o Maria, se mi si cita un sol uomo, che ne’ suoi bisogni t’abbia inutilmente invocata ». [“Sileat misericordiam tuam, Virgo beata, si quis est qui invocatami te in necessitatibus suis sibi meminerit defuisse.” Serm. De Nativ. B. Mar., Memorare, o piissima, etc.]

Adesso. — Questo vocabolo significa tutto il tempo della vita presente, della quale non possediamo né la vigilia, né l’indomani, ma il solo istante presente. Si osservi con qual cura Iddio ci ricorda nelle due più belle preghiere, l’Orazione Dominicale e la Salutazione Angelica, la brevità del tempo e la fragilità della vita.

Adesso, ci richiama ancora al pensiero qua è il nostro stato sulla terra, stato di lotta continua, tantoché ogni giorno, ogni ora noi abbisogniamo di soccorso, non essendovi un solo istante in cui ci troviamo senza pericoli.

E nell’ ora della nostra morie. — L’ora la più pericolosa e decisiva, quella perciò in cui maggiormente abbisogniamo di aiuti, è l’ora della morte. Essa è la più pericolosa; poiché allora il demonio, veggendo che pochi istanti gli rimangono ancora per tentarci, raddoppia di furore e d’astuzia per farci cadere nel peccato; la più pericolosa, dacché il passato, il presente, l’avvenire, i dolori della malattia, tutto cospira a gettarci nell’abbattimento, nell’impazienza, nella disperazione, mentre dall’altra parte l’indebolimento delle forze non lascia energia per resistere, o ci rende insensibili al nostro stato, e spesso ancora le persone, che ne circondano, con crudele pietà si sforzano per quanto è in loro a mantenerci in fatali illusioni. Quell’ora è la più decisiva, perché dall’ora della morte dipende tutta l’eternità: l’albero resterà da quella banda in cui sarà caduto. Ora la Santa Vergine è onnipossente per fortificare l’infermo, consolarlo, difenderlo, risvegliare nel suo cuore sensi di pentimento, di fiducia, di perfetta conformità ai voleri di Dio; a dir breve, per ottenere a tutti quelli che, a guisa di S. Giuseppe vissero in sua compagnia, la grazia di morire com’esso fra le sue braccia materne e fra quelle del divino suo Figlio.

Amen. — Avvenga come abbiamo chiesto. Oh! che quest’Amen è sapientemente posto nella fine dell’Angelica Salutazione, ben intesa e ben recitata! Spiegando l’Orazione Dominicale e la Salutazione Angelica, noi abbiamo fatto conoscere le due più perfette e più venerabili di tutte le preghiere particolari. Per compiere questa importante lezione non ci rimane che ad indicare certe altre preghiere degne esse pure di tutto il rispetto, vuoi per la loro intrinseca beltà, vuoi per l’antichità, vuoi finalmente per l’uso generale che ne fanno i fedeli da molti secoli in tutto il mondo cristiano. – La prima, la quale in certa guisa ha radice nelle due precedenti, è:

l’Angelus.

Tre volte al giorno: la mattina, al mezzo giorno, alla sera, il sacro bronzo fa udire un suono religioso, e i devoti Cristiani tre volte al giorno salutano l’augusta Madre loro, Maria. – Quest’uso, ora generale in tutta la Chiesa, risale ad un’alta antichità. Nel 1262, San Bonaventura prescrisse ai Religiosi dell’Ordine di S. Francesco, de’ quali egli era generale, di recitare ogni sera, al suono della campana, tre Ave Maria per onorare il mistero dell’Incarnazione. La Diocesi di Saintes fu la prima in Francia ad accogliere tal uso, che da Giovanni XXII, con sua Bolla 13 ottobre 1318, fu approvato ed incoraggiato con indulgenze. Nel i 1724 Benedetto XIII concesse cento giorni d’indulgenza ogni volta, e indulgenza plenaria una volta al mese a tutti quelli che reciteranno l’Angelus nella sua formula attuale. Per meritare l’indulgenza è mestieri recitare questa preghiera inginocchio, anche il sabato a mezzogiorno. Per rito comune, la domenica è eccettuata da questa regola, e durante il tempo pasquale l’Angelus è surrogato dalla Regina Coeli. La triplice ripetizione di questa preghiera ci fa intendere il bisogno in cui siamo di ricorrere frequentemente a Dio ed ai Santi, circondati come ci troviamo da nemici visibili ed invisibili; e ne insegna eziandio di non contentarci di usar 1’arme della preghiera nel principio delle nostre azioni, ma di adoperarla ben anco nel mezzo e nella fine. Nell’uso di suonare tre volte per giorno la campana, e di recitar pure tre volte l’Angelica Salutazione, racchiudasi un altro mistero. La santa Chiesa vuol rammentarci continuamente i tre grandi misteri della nostra Redenzione: l’Incarnazione, la Passione, la Risurrezione; quindi essa vuole che salutiamo la Santa Vergine al mattino in memoria della Risurrezione del Salvatore; a mezzo giorno in memoria della Passione; alla sera in memoria della Incarnazione. Difatti, siccome siamo certi che Nostro Signore fu messo in croce a mezzodì, e risuscitò alla mattina, così si crede che l’Incarnazione succedesse durante la notte. La seconda, è la

Salve Regina.

Il pio e dotto Hermann Contractus, conte di Veringen, morto nel 1054, è creduto autore della medesima. Questa preghiera favorita di S. Bernardo, è sì bella, sì affettuosa, si ben collocata nella bocca dei poveri figli di Eva, pellegrini nella Valle di lacrime, che è difficile recitarla senza sentirsi commuovere il cuore e senza intenerire altresì le viscere materne di Maria. [Vedi la spiegazione della SaJve Regina nell’Opera del CANISIO, De Virg. Mar. Deip., lib. V, 15; e S. ALFONSO, nelle Glorie di Maria.]. – Preziose indulgenze vanno annesse alla sua recitazione. – La terza sono le

Litanie della Santa Vergine,

dette ancora Litanie Loretane dal Santuario della Madonna in Loreto, nel cui recinto con gran pompa sono cantate tutti i sabati dell’anno. Queste litanie che ogni buon Cattolico sa a memoria e recita devotamente ogni giorno, sono generabilissime per la beltà delle domande che racchiudono; per gli encomi leggiadri ed amorosi che tributano alla Santa Vergine; per la devozione somma colla quale santi Pontefici, possenti Re, Dotti di tutti i paesi le hanno recitate ad onore di Maria, infine per la loro antichità. Tutto ne fa ritenere che risalgano ai tempi apostolici. Crediamo soltanto che la parola sancta,– La quarta, è la

Regina Coeli,

la quale fu cominciata dagli Angeli e compiuta dal Pontefice S. Gregorio Magno, o dal popolo di Roma, nel giorno di Pasqua, 25 aprile 590, epoca della terribile pestilenza che desolava la capitale del mondo cristiano e che cessò immantinente. Ottiensi la stessa indulgenza che per l’Angelus. -La quinta, le Litanie del santo nome di Gesù, nelle quali si rammentano al Signor Nostro i diversi suoi titoli d’Uomo-Dio, di Salvatore, di Modello. Sebbene posteriori in tempo alle Litanie della Santa Vergine, esse nondimeno sono bellissime, piissime, ed arricchite per ogni recitazione di trecento giorni d’indulgenza dal Pontefice Sisto V. – La sesta, le

Litanie dei Santi,

che formano come un lungo sospiro della Chiesa militante verso la sua sorella, la Chiesa trionfante. Nulla è più solenne o più affettuoso di questa invocazione di tutti gli ordini dei Beati, dei quali s’implora la possente intercessione, rappresentando loro la lunga sequela delle miserie corporali e spirituali, pubbliche e private da cui sono circondati i miseri esiliali nella valle del pianto. L’origine di questa sublime preghiera si perde nella notte dei tempi; e se ne trova la traccia nei secoli de’Martiri. Tali sono le principali formule di preghiere il cui uso è più generale ed antico nella Chiesa. I fedeli opereranno santamente preferendole ad ogni altra orazione, siccome mezzo il più degno e il più efficace di orare.

Preghiera.

O mio Dio , che siete lo stesso amore, vi ringrazio che abbiate inspirato alla vostra Chiesa tante preghiere, cosi potenti sul vostro Cuore; fatemi la grazia di poterle recitare col fervore dei Santi, che mi hanno preceduto e dovranno seguirmi. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose e il prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore, non mancherò giammai di raccogliermi un istante prima di pregare.

BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CONTRO LA RELIGIONE [prefaz.+ r. I-IV]

BREVI E FAMILIARI RISPOSTE

ALLE OBBIEZIONI

che si fanno più frequentemente

CONTRO LA RELIGIONE

[OPERETTA  DELL’ABATE DE SÉGUR

[G. Marietti ed. Torino, 1870]

Prefazione del TRADUTTORE

Dacché la stampa irreligiosa, e proterva anche nel nostro paese si mise con procace audacia a spargere Io scherno, l’insulto, e il biasimo su le cose, e persone sacre, e su i doveri religiosi, fu sentito il bisogno di riparare a questo danno col raccogliere in un piccolo libro alla portata di tutti, e che nella sua semplicità avesse l’attraente della svelta e lucida esposizione, tutte le obbiezioni, tutti i sofismi, che con mala fede si vanno propinando al popolo dei fogli perversi, e da uomini irreligiosi, e fare appositamente ad essi una facile, corta, e famigliare risposta. Un tal libro tanto opportuno nelle circostanze, che ci fa il tempo presente, uscì colà, dove forse la diffusione dell’irreligiosità fu maggiore, cioè in Francia, dall’abile, arguta, e facile penna dell’abate De Segur, Cappellano della prigione militare di Parigi. —Il Traduttore animato dall’utilità grande, che la lettura di queste risposte arrecherà ad ogni ceto di persone, si determinò a portarle nel nostro idioma, procurando di conservare quel brio e scioltezza di stile, che è propria dell’Autore. Possa la diffusione di quest’operetta produrre anche nel nostro paese quel bene, che recò in Francia, ove in poco tempo se ne fecero sedici edizioni.

PREFAZIONE DELL’AUTORE

Eccoti un libretto, che io ho fatto a bella posta per te, mio caro lettore; te ne offro la dedica, specialmente se a primo aspetto ti spiace; è segno che ne hai più particolarmente bisogno. Si dice che un buon libro è un amico. Io spero in questi momenti di presentarti uno di questi amici. Ricevilo, come si ricevono gli amici, con benevolenza, e con cuore aperto, che in tal modo te l’offro. Benché esso parli dì cose un po’ serie, ho buona fiducia, che esso non ti darà noia. Io glielo ho molto raccomandato, ed esso mi promise non di predicare, ma semplicemente di discorrere.—Dopo aver letto l’ultimo capitolo, mi saprai dire, se egli fu di parola. – Tu osserverai senza dubbio che i pregiudizi, ai quali io faccio risposta, sono di tre specie. Gli uni provengono dall’empietà, questi sono i peggiori, da essi ho cominciato: gli altri provengono da ignoranza; gli altri in fine da codardia. — Io spero, che la maggior parte di queste obbiezioni ti saranno sconosciute, e che giammai te le sarai proposte seriamente. Ciononpertanto te l’ho notate come un preservante per l’avvenire. E il contraveleno, che ti presento avanti per precauzione. Prego Dio che questi semplici discorsi ti siano profittevoli e che guadagnino il tuo cuore. Conoscendo per dolce esperienza che la vera felicità consiste in conoscere, amare e servire Iddio, io non ho desiderio più ardente di quello di vedere la mia felicità così pura, così stabile divenire altresì la tua… L’intenzione è buona; ciò è già qualche cosa, specialmente nei tempi che corrono. Lo è pure il libro? Lo desidero, benché conosca la mia insufficienza. Troverai senza dubbio molte questioni trattate troppo brevemente; ma io temo di stancarti, mio caro lettore, ed amo meglio essere incompleto, che d’addormentarti. Povero il libro, sul quale si dorme!  Io t’impegno, quanto a questo, a non leggerne troppo alla volta. Leggi piuttosto con, riflessione, considerando attentamente le ragioni, che ti presento. Ti prego sopratutto di cercar di buona fede la verità, di non respingerla, se essa si presenta alla tua mente. Quando il cuore è retto e sincero, non tarda a venire la luce.

 RISPOSTE BREVI E FAMILIARI

ALLE OBBIEZIONI PIU’ DIFFUSE CONTRO LA RELIGIONE

 I. – NON MI PARLATE DI RELIGIONE

R. – E perché dunque? La Religione è la conoscenza, l’amore, ed il servigio di Dio. È la scienza e la pratica del bene. — Che avvi in ciò che non sia degno di voi, di ogni persona ragionevole, ed onesta? Credetemi; voi non conoscete la Religione. Quale voi ve la rappresentate, capisco facilmente, ch’essa vi spiace, ch’essa vi ripugna… ma essa è tutt’altra cosa di quello che se l’immagina il mondo. Io ve lo farò vedere in alcuni discorsi famigliari. Vi mostrerò che essa è fatta per voi, e che voi siete fatto per essa, perché essa porta la verità al vostro intelletto, e la pace al vostro cuore, perché essa vi fa conoscere chi voi siete, d’onde venite, dove andate, e che senza essa voi siete un essere mancante, perduto, e perciò infelice. – Qual cosa più degna d’altronde dell’attenzione, dello studio, del rispetto d’un uomo ragionevole, che la dottrina, la quale ha formato, e nutrito il genio d’un Bossuet, d’un Fénelon, d’un Pascal? Che di più venerabile, anche a primo aspetto, della fede d’un s. Vincenzo de’ Paoli, d’un S. Francesco Saverìo, d’un s. Carlo Borromeo, d’un S. Francesco di Sales, d’un s. Luigi-, d’un s. Alfonso , d’un s. Filippo Neri, d’un b. Sebastiano Valfrè, d’un Bellarmino? – « Il più gran servigio che io abbia reso » alla Francia, diceva l’imperatore Napoleone, si è d’avervi ristabilita la Religione cattolica. Senza la Religione che ne sarebbe degli uomini? Essi si scannerebbero per la più bella donna, per la più grossa pera. » Ah! se come io, voi la vedeste ciascun giorno, questa Religione benedetta, tergere le lacrime del povero, mutare i cuori più viziosi, formare d’un delinquente degradato un santo, se voi la vedeste spandere per tutto la verità, la rassegnazione, la speranza, la pace, la gioia, la purità nello anime, voi cambiereste di linguaggio, e direste senza dubbio: Oh parlatemene sempre, parlatemene! Rischiarate la mia mente colla sua luce, purificate il mio cuore colla sua santa influenza, con essa consolate i miei dolori! – Lasciatemi dunque parlar della religione. E per farvi conoscere la realtà di questa dolce influenza, alla quale io v’invito a non sottrarvi, permettetemi di cominciare i nostri discorsi da un tratto commovente di cui io sono stato testimonio, e direi quasi l’attore; esso parlerà in favore della mia tesi più fortemente di tutti i discorsi. Or son due anni, un povero sergente condannato a morte, aspettava nella prigione militare di Parigi l’esecuzione della fatale sentenza. Il suo delitto era molto grave. Egli aveva ucciso con premeditazione il suo luogotenente per vendicarsi d’una punizione, di cui questi l’aveva minacciato. – Cappellano di questa prigione, vidi il sergente Herbuel e gli apportava i soccorsi della Religione. Pentendosi già del suo delitto, egli li riceveva senza difficoltà. Dopo il secondo, o terzo giorno della sua sentenza si accostò ai sacramenti, e da questo momento quest’uomo sembrò tutto mutato. « Ora, mi ripeteva, ora io sono felice. Io son pronto. Iddio faccia di me ciò che » vorrà. Io sono in una pace profonda: non mi rincresce la vita che per potere far penitenza.» -Egli si confessava e comunicava quasi ogni otto giorni. Dopo due mesi di prigione il primo novembre del 1848. gli si notificò l’esecuzione della sua sentenza. L’ascoltò con la calma d’un cristiano. Il suo corpo era convulso per una specie di tremolo convulsivo; ma l’anima dominava questa violenta emozione, e conservava tutta la pace del cuore. « La volontà di Dio sia fatta, disse » al comandante: confesso che io non mi vi attendeva più dopo un si lungo ritardo!… » – Restai solo con lui. Ricevei un’ultima volta la confessione delle sue colpe, quindi gli portai il santo Viatico. Ei pregò tutta la notte ragionando di tempo in tempo tranquillamente coi due gendarmi che lo custodivano. – La triste vettura che lo doveva condurre a Vincennes, arrivò verso le sei ore. Herbuel abbracciò il portinaio della prigione ed il comandante: niuno poteva trattenere le lacrime. Montai con lui nella vettura cellulare. Egli era tranquillo, anche giulivo durante il tragitto: « Voi non sapreste credere, » signor cappellano, mi diceva, quale eccellente giornata io passai ieri! come ero felice! Questo era un presentimento permesso dalla provvidenza. Io sapeva che era il dì d’ogni santi; io ho pregato continuamente…. la sera era tutto contento… ed ora io lo sono ancora. Niente può esprimere quale pace io gustai questa notte: era una gioia di cui non può farsi idea — Egli andava alla morte!!… « La morte, soggiungeva egli, è più niente per me — io so dove vado, io vado colassù dal mio Padre, io vado alla patria… » Fra poco vi sarò — Io sono un gran peccatore, il più grande di tutti i peccatori. » Io mi metto all’infimo luogo; offesi Iddio, peccai…. ma Dio è buono e confido immensamente in lui. » E leggendo una preghiera che gli ricordava la comunione: « Mio Dio è là » a voce sommessa diceva, ed era pieno di gioia. -« Oh quanto io credo fermamente, soggiungeva ancora, tutte le verità della Chiesa! Oh! Che io sono in una perfetta calma!… E che bel giorno! Io sarò presto con Dio!» E rivolgendosi verso me con un sorriso: « Mio padre, io vi vado ad aspettare; io verrò a farvi entrare a mia volta.» Quindi rientrando in lui stesso: o Io sono niente, Dio solo è tutto. Tutto ciò che ho di buono è per Lui, vien da Lui » solo… io merito niente, io non sono che un gran peccatore! » – Egli mi mostrava il suo manuale del cristiano: « I soldati dovrebbero sempre avere questo libretto e non mai abbandonarlo. Se io l’avessi letto tutta la mia vita » io non avrei fatto ciò che ho fatto e neppure sarei dove sono…» – Il momento dell’esecuzione s’avvicinava. Io presentai al povero condannato il crocifisso: lo prese con trasporto, e riguardandolo con inesprimibile tenerezza disse dolcemente e a più riprese: « Mio Salvatore! mio Salvatore! sì eccolo là! morto per » me ! E anche io vado a morire per Voi! » E baciava la santa immagine. Tutto era pronto. Si discese. Herbuel domandò che gli si lasciasse comandare il fuoco: gli fu accordato. « Io ho avuto il coraggio » del delitto, disse, bisogna che abbia quello dell’espiazione !» – Ricevette a ginocchi un’ultima benedizione. Egli si collocò davanti il picchetto dei soldati che dovevano fucilarlo.—«Compagni, gridò con voce vibrata, io muoio cristiano! Eccovi l’immagine di nostro Signore Gesù Cristo! Guardate bene, io muoio cristiano! E a tutti loro mostrava la croce — « Guardatevi dal fare ciò che io feci, rispettate i vostri superiori! » Io l’abbracciai un’ultima volta…. Un istante dopo la tenibile scarica si fece sentire e Herbuel comparve avanti Dio che perdona lutto al pentimento!!… – Che pensate voi, ditemi, d’una religione che fa morire in tal modo un gran colpevole? E non avvi in ciò di che farvi riflettere?

II. – NON VI È DIO

R. — Ne siete voi ben sicuro ? — E chi allora ha fatto il cielo, la terra, il sole, le stelle, l’uomo, il mondo? Tutto ciò si è fatto da sé? — Che direste voi se qualcuno mostrandovi una casa, vi asseverasse che ella si è fatta da sé? Che direste voi pure se pretendesse che ciò è possibile? — Che egli si burla di voi, non è egli vero? oppure che egli è pazzo: e voi avreste molto ragione. Se una casa non può farsi da sè, quanto meno ancora le creature maravigliose che riempiono l’universo a cominciare dal nostro corpo che è la più perfetta di tutte! Non c’è Dio? — Chi ve l’ha detto? Uno stordito senza dubbio che non aveva veduto Iddio, che conchiudeva da ciò che non esisteva? — Ma forsechè non son reali se non gli esseri che si possono vedere, sentire e toccare? — Il vostro pensiero, cioè la vostra anima che pensa, forse non esiste? Ella esiste: e voi De avete il sentimento cosi intimo ed evidente che nessun ragionamento al mondo potrebbe persuadervi il contrario. —Avete voi tuttavia mai veduto, o sentito, o toccato il vostro pensiero? — Guardate dunque come è ridicolo il dire: Non c’è Dio perché non lo vedo. Dio è un puro spirito cioè un Essere che non può cadere sotto i sensi materiali del nostro corpo, e che non si percepisce che dalle facoltà dell’anima. — La nostra anima è anche un puro spirito. Dio la fece a sua immagine. – Si narra che nel passato secolo quando l’empietà era alla moda, un uomo di spirito si trovava un giorno a cena con alcuni pretesi filosofi che sparlavano di Dio e negavano la sua esistenza.—Esso si taceva. L’orologio suonò quando gli si domandò il suo parere. Ei si contentò di loro additarlo dicendo questi due versi pieni di acume e di buon senso: per me più penso, più perdo il pensiero. Possa andar l’oriuol senza orlogiere. – Non si dice ciò che i suoi amici rispondessero. Sarebbe stato necessario molto spirito per cavarsela. – Si cita anche una risposta molto arguta di una signora ad un celebre incredulo della scuola di Voltaire. Egli aveva inutilmente cercato di convertire questa Signora al suo ateismo. Offeso per la resistenza « Io non avrei mai creduto, disse egli, essere il solo a non credere in Dio in una radunanza di persone di spirito!». – “Ma voi non siete il solo, signore, gli soggiunse la padrona di casa, i miei cavalli, il mio cagnolino e il mio gatto hanno anche questo onore; solo queste povere bestie hanno il buon senso di non vantarsene.” – In buon volgare sapete voi cosa significhi questa frase « Non v’ha Dio? » — Ve la spiego fedelmente. — Sono un malvagio che ho gran timore che Dio esista.

III. QUANDO SI È MORTI TUTTO È MORTO

R. – Sì pei cani, gatti, asini, canarini ecc. Ma voi siete ben modesto se vi ponete nel loro numero.

1.° Voi siete un uomo, mio caro, e non una bestia: avvi una piccola differenza tra l’uno e l’altro! L’uomo ha un’anima capace di riflettere, di fare il bene o il male, e quest’anima è immortale: mentrechè la bestia ha l’anima, ma non ragionevole né immortale. – Ciò che fa l’uomo è l’anima, cioè quello che pensa in noi, quello che ci fa conoscere la verità ed amare il bene. Questo è che ci distingue dalle bestie. Ecco perché è una grande ingiuria dire a qualcheduno: Voi siete una bestia, voi siete un animale, voi siete un cane, ecc. questo vale negargli la sua prima gloria, quella di esser uomo. – Dunque il dire: « Quando io sarò morto, sarò morto tutto intero, vuol dire: io sono una bestia, un bruto, un animale. E quale animale! Io valgo molto meno che il mio cane; perché egli corre più spedito, dorme meglio, vede più da lungi, ha il naso più fino, ecc. ecc.; meno che il mio gatto che vede nella notte, che non ha da prendersi cura del suo vestire, della sua calzatura ecc. In una parola io sono l’ultima delle bestie e il più miserabile degli animali. – Se questo vi piace, ditelo, credetelo se lo potete, ma permetteteci d’esser un poco più fieri di voi e di dichiarar altamente che noi siamo uomini. Questo è il meno.

2.° Eh! che diverrebbe il mondo se la vostra asserzione fosse fondata? Sarebbe un vero luogo di assassini! —Il bene ed il male, la virtù e il vizio non sarebbero più che vane parole o piuttosto odiose menzogne! Il furto, l’adulterio, l’assassinio, e il parricidio sarebbero azioni indifferenti, così buone in se stesse, e così giuste come l’onestà, la castità, la beneficenza, l’amor figliale. – Perché infatti, se per una parte ho nulla a temere in un’altra vita, e se d’altra parte mi accomodo con abbastanza d’industria per non aver niente a temere in questa, perché non ruberò, non ucciderò quando il mio interesse mi vi spingerà? Perché non mi abbandonerò al libertinaggio più raffinato? Perché frenerò le mie passioni? e queste ingiustizie nascoste e queste mille mancanze segrete tanto più colpevoli, che per commetterle avrò meglio prese le mie misure, perché non le commetterò io? Non ho più nulla a temere, la mia coscienza è una voce menzognera, a cui imporrò silenzio…. Una sola cosa attirerà la mia attenzione; ciò sarà d’evitare la vista del commissario di polizia, e del gendarme.—Il bene per me, come per ogni uomo sensato sarà di sfuggir loro: il male, d’essere presi da essi. — Godrò pacificamente del bene altrui, che avrò rubato con destrezza, godrò inoltre della stima universale; alla morte rientrerò nel nulla e non mi distinguerò dalle mie vittime se non per la magnificenza de’ miei funerali!… — Se voi udiste un uomo a tenere un simile discorso vi degnereste voi solamente di rispondergli? « Povero infelice! pensereste » voi, egli ha perduta la testa. Si dovrebbe rinchiuderlo, è un animale pericoloso; » con tali idee si è capace di tutto. » – E tuttavia se la pala del becchino segnasse la distruzione totale della nostra esistenza, quest’uomo, che vi pare a sì giusto titolo un pazzo furioso, sarebbe nella verità. Io vi sfiderei a confondere questo linguaggio così abominevole, ed assurdo. – Se non vi ha una vita futura, io vi sfido di farmi vedere, in che s. Vincenzo de Paoli è più stimabile che Voltaire, che Robespierre. — Il bene ed il male non sono altro che semplici parole… Dal frutto giudicate dunque l’albero, come insegnano il buon senso, ed il Vangelo. — Dalle orribili conseguenze, giudicate il principio… e osate ripetere ancora «Quando si è morto, si è morto interamente. » — Noi sapremo quindi innanzi ciò che voglia dire questo!…

3.° Ma se voi giudicate l’albero da’ suoi frutti, lo potrete ben anche giudicare dalle persane che lo coltivano, e voi arriverete alla stessa conclusione. – Quali sono gli uomini da cui s’intende dire che tutto finisce alla morte, che non esiste Dio, che non vi è anima, non vita futura?… Conoscete voi un buon padre di famiglia, uno sposo, o una casta sposa, un uomo ordinato, onorato, virtuoso che predichi tali dottrine? – Non avvi che il vizio che abbia il triste potere di suggerirle all’uomo. E questo non le ammette né le predica che quando una condotta disonorevole gli fa temere la giustizia di Dio e la riprovazione degli uomini. Spera con ciò soffocare gl’importuni rimorsi, ingannare l’opinione pubblica, farsi giudicare con più d’indulgenza. Dando ad intendere questo grossolano materialismo come il risultato della riflessione e dei lumi, spera di acquistare un gran numero di simili che lo rassicuri, c avere in favore della sfrenatezza, del libertinaggio, dell’irreligione, della pigrizia e di tutti i disordini una triste maggioranza!…

4.° Ma non crediate che questa religione del niente sia negli empi allo stato di convinzione, di profonda credenza. Son parole e non altro. Osservateli, infatti, al momento della loro morte…Qual cambiamento di tono e di linguaggio! Hanno essi dunque pria di cadere ammalati studiata la religione? Hanno essi riflettuto di più?— No; sono presso a morire; sono davanti alla Verità pronta a giudicarli!… Ecco il tutto! — La turba impura delle passioni fuggì davanti alla temuta luce ed è il grido sì lungamente soffocato della loro coscienza, che in allora voi intendete (Vi sono alcune eccezioni, lo so; non tutti quelli che negarono l’esistenza di un’altra vita si convertirono al punto di morte. L’ignoranza, l’abbrutimento, cagionato da certe passioni, una vana speranza di guarire, soprattutto la testardaggine dell’orgoglio sono causa qualche volta che l’empio muoia come visse.» Ma l’eccezione prova la regola, e si può affermare risolutamente che l’ateo, il materialista sono sfrontati mentitori»). – Allora essi non disprezzano più i preti. Allora non mettono più in ridicolo la confessione, la comunione, la preghiera! Allora non trovano più che l’inferno, il paradiso siano favole proprie a divertire le vecchierelle!

5.° Del resto non sono io solo che mi alzo contro essi; è la voce dell’umanità tutta intera. – Non vi fu popolo in qualsiasi tempo o paese lo prendiate, che non abbia creduto alla vita futura. Io non voglio per prova, che il culto reso ai morti. Dappertutto e sempre si ‘rispettarono i morti, dappertutto si è pregato e fatto pregare per suo padre, per sua madre, per suo figlio, pel suo amico rapiti dalla morte. — Su che riposa questa pratica universale se non sopra un sentimento invincibile d’immortalità che proclama che la morte non è che un cambiamento di vita? « Perché piangerò? » diceva Bernardino di Saint-Pierre, morendo alla sua sposa e a’ suoi figli: « ciò che vi ama, in me vivrà sempre… Non è che una separazione momentanea; non la fate così dolorosa!… lo sento che abbandono la terrat non la vita.» Tale è la voce della coscienza ; tale è la voce, la dolce consolarne voce della verità! Tale è altresì la solenne parola del Cristianesimo. Esso ci fa conoscere la vita presente come una prova passeggera che Dio coronerà con una felicità eterna. Esso ci stimola a meritare questa felicità col sacrificio, e col fedele adempimento del dovere. Giunto alla sua ultima ora il cristiano mette con confidenza la sua anima nelle mani di Dio; e ad una vita pura, santa e piena di pace succede un’eternità di gioia…. – Lungi dunque da noi, lungi dalla nostra patria così saggia, questo triste materialismo che vorrebbe rapirci così sublimi speranze! Lungi da noi queste menzogne che avviliscono il cuore, che distruggono tutto ciò che è buono, tutto ciò che è rispettabile e dolce sulla terra! Lungi da noi la dottrina che non vorrebbe lasciare «al povero che soffre e piange, all’innocente oppresso, che la disperazione per retaggio!.. La coscienza dell’uomo la respinge con disprezzo!

IV. – E LA SORTE CHE DIRIGE OGNI COSA, ALTRIMENTI NON VI SAREBBE SULLA TERRA TANTO DISORDINE. QUANTE COSE INUTILI, IMPERFETTE, CATTIVE ! EGLI È EVIDENTE CHE DIO NON S’OCCUPA DI NOI.

R.- 1° Credete voi sinceramente ciò che dite? Permettetemi di dubitarne. Questo è uno di quei pensieri che non vengono alla mente, se non quando il cuore è infermo. Diffidate di voi stesso; la passione monta alla testa, quanto il vino, e questa dannosa ubriachezza fa sragionare più ancora che l’altro. Quale è la conseguenza pratica, immediata di questa parola…. « Dio non si cura di me?» Non è egli, io vi domando, la libertà di seguire le vostre cattive inclinazioni a briglia sciolta?— E non potrei io tradurla in questi termini: « Desidero fare tal peccato, e vorrei bene commetterlo a mio piacere, senza rimorsi e senza paura ».

2.° Cosa è, ditemi, questa sorte, che voi mettete in luogo della Provvidenza di Dio? — Un non so che sconosciuto da tutto il mondo, che nessuno giammai seppe definire, che è un niente, e che tuttavia fa tutto, governa tutto ed è padrone assoluto di tutto. Volete che io vi dica ciò elle sia il caso, o la sorte o il destino come voi vogliate chiamarlo? — È un niente. È una parola vuota di senso, inventata dall’empio per sostituirla al nome da lui sì temuto della Provvidenza. — È un linguaggio più comodo, e che ha l’aria di spiegare le cose, ma che infatti è un controsenso ed una scempiaggine. – II caso dirige niente perché è un niente. Dio solo sovrano Signore e Creatore unico di tutti gli esseri, li governa, li sorveglia, li coordina tutti colla sua Provvidenza; vale a dire che nella sua sapienza, bontà, giustizia infinite, li dirige tutti in generale e ciascuno in particolare al loro ultimo fine (che è Egli stesso) per le vie che egli conosce per le più adatte. – Siccome egli ha creato tutto senza sforzo, così conserva e governa tutto senza fatica, e non è tanto indegno della sua grandezza occuparsi di tutte le sue creature, quanto crearle tutte. Nell’istesso atto, per il solo suo essere infinito, sa tutto, vede tutto, dirige tutto senza mutamento o pena di spirito. Occupandosi degli esseri i più impercettibili, Egli s’occupa nello stesso tempo con una scienza, sapienza e bontà eguali delle sue più eccellenti creature. E l’empio è veramente troppo buono quando ha paura che tanti affari stanchino Iddio. No, no; calmate le vostre inquietudini! Dio sorveglia tutte le creature, e soprattutto sorveglia voi, voi sua creatura ragionevole che Egli creò per conoscerLo, amarLo e servirLo, e meritare perciò di possederLo per tutta L’eternità.

3.° Voi negate questa Provvidenza divina perché voi dite di vedere dei disordini nel mondo? Domandate perché vi siano tante cose inutili? Perché tante imperfette? Perché tante cattive? Domandate perché costui nacque povero, e quello ricco? Perché tante ineguaglianze nelle condizioni umane? Perché tante pene, tante afflizioni negli uni, e tante prosperità negli altri? — A sentir voi tutto va in disordine, e voi avreste meglio disposto le cose! Ma chi v’ha detto, raro talento, che ciò che tanto non vi va a genio sia realmente un disordine? E che! voi giudicate che una cosa è inutile nel mondo, perché non sapete a che serva! Credete che ella sia cattiva, perché ignorate a qual cosa sia buona! Chi siete voi, ditemi in grazia, piccola ed ignorante creatura, limitata nella vostra intelligenza, nella vostra forza, in tutto il vostro essere, per giudicare l’opera di Colui che è l’onnipotenza, la perfetta sapienza, bontà e giustizia?  Pretesa veramente strana! Se un ignorante che non sa leggere, aprisse un volume di Corneille o di Racine, e vedendo tante lettere sconosciute disposte in mille differenti maniere, le une unite alle altre, qualche volta otto insieme, qualche volta sei, altre tre, o sette, o due per comporre le parole; vedendo molte linee che si succedono l’una l’altra, questa al cominciar d’una pagina, quella alla fine; molti fogli ordinati, l’uno in capo del libro, l’altro alla metà l’altro alla estremità; scorgendo delle parti bianche, altre stampate; qui lettere maiuscole, là lettere piccole, ecc.; se vedendo tutto ciò di cui nulla comprende domandasse perché queste lettere, questi fogli, queste linee sono messe in questo luogo piuttosto che nell’altro; perché ciò che è al principio non è al mezzo né alla fine, perché la vigesima pagina non è la cinquantesima ecc., gli si direbbe: « Amico, è un gran poeta, è un uomo di genio che ha disposto ciò in tal maniera per esprimere i suoi pensieri, e se si mettesse una pagina in luogo d’un’altra, se si trasportasse non solo le linee, ma anche le parole o le lettere, vi sarebbe del disordine in questa bell’opera, e il disegno dell’autore sarebbe distrutto. » – E se quest’ignorante volesse fare il saputello, e prendere a censurare l’ordine di questo volume; se egli dicesse: « Mi pare che sarebbe stato molto meglio di riunire tutte le lettere, che si somigliano, le grosse colle grosse, le piccole colle piccole; sarebbe stato un miglior ordine il fare tutte le parole della medesima lunghezza, di comporle dello stesso numero di lettere: e perché queste sono così corte, e le altre cosi lunghe? ecc., perché quivi è del bianco, e non colà? Tutto ciò è mal disposto; non vi ha ordine. Colui, che ha fatto quest’opera non se n’intende niente; lutto ciò è gettato al caso. » — Voi gli rispondereste: — « Ignorante che voi siete! siete voi, che non ve n’intendete niente. Se le cose fossero disposte secondo la vostra idea, non vi sarebbe né senso, né ordine. Va bene come si trova. Un’intelligenza più grande cento volte della vostra ha diretta, e dirige continuamente questa disposizione; e se voi non ne sapete la ragione, dovete prendervela colla vostra ignoranza! » – Cosi facciam noi, quando critichiamo le opere d’Iddio! È il suo gran libro, che noi contempliamo, quando fissiamo gli occhi sulla natura. Tutti i secoli ne sono come le pagine che si succedono l’una l’altra; tutti gli anni ne sono come le linee; e tutte le diverse creature, dall’angelo, dall’uomo sino all’ultimo filo d’erba, e al più piccolo grano di polvere, ne sono come le lettere disposte ciascuna a suo proprio luogo dalla mano di questo grande Compositore, il quale solo conosce i suoi eterni concetti, e insieme della sua opera. – Se domandate perché una creatura è più perfetta di un’altra; perché questa é messa in questo luogo, e quella in quest’altro; perché vi è freddo d’inverno e caldo d’estate; perché la pioggia in questo tempo, e non in quell’altro, perché questa vicenda di fortuna, di sanità, perché questa malattia; perché la morte di questo ragazzo d’accanto a questo vecchio, che sopravvive; perché quest’uomo benefico, rapito dalla morte, e non quel malvagio che non fa se non male? ecc. io vi risponderò che un’intelligenza infinita, che una sapienza, una giustizia, una bontà infinite hanno così disposte le cose, e che è certo che tutto è ordinato, benché a noi così non paia. – Vi risponderò che per giudicare saggiamente d’un’opera conviene conoscerla interamente, è d’uopo concepirla nel suo assieme, e nei suoi particolari, paragonare i mezzi col fine cui devono arrivare. Ora qual uomo, qual creatura ha mai conosciuto i segreti degli eterni consigli del Creatore? Ciò sarebbe soprattutto necessario per apprezzare la sapienza e la giustizia della provvidenza relativamente agli uomini ragionevoli e liberi capaci di fare il bene e il male, capaci di merito e di demerito. – Si vedrebbe allora l’eternità aperta dinanzi a noi, e coordinando meravigliosamente ciò che sembrava ingiustizia sulla terra. « Perché, si diceva, Dio non punisce questo grande colpevole?Perché questo malvagio colmo di prosperità, e quest’uomo dabbene oppresso da tanti mali? » Qual cura prende dunque Iddio di ciò? » Dov’è la sua giustizia? dove la sua saggezza? dove la sua bontà? » – Ecco l’Eternità che spiega il mistero! Era giusto e ragionevole ricompensare con le passeggere prosperità della terra il poco di bene che aveva fatto quest’empio, questo gran peccatore che l’Eternità doveva punire. Questi giusti invece, che il mondo credeva si infelici, scontavano giustamente con afflizioni passeggere la pena di falli leggeri sfuggiti alla debolezza umana ; l’Eternità beata era la ricompensa della loro virtù! – Ella è pure l’Eternità che ci spiega come l’avversità é sovente un benefizio in questo senso, che ella riconduce a Dio l’anima che l’obliava in mezzo ai piaceri. Quante anime nel cielo ringraziano e ringrazieranno Dio di averle visitate sopra la terra col patire! —La ricchezza al contrario, la prosperità temporale sono di sovente una punizione. Quanti a causa di questi beni caduchi hanno disprezzato e perduto i beni eterni! Quanti malediranno nell’Eternità questi piaceri, questi onori, queste ricchezze che li hanno perduti! Si è coll’occhio fisso della Eternità che bisogna giudicare tutto quello che accade al~ l’uomo in questo mondo. Fuor di questo è impossibile di conoscere per nulla i disegni di Dio sopra di noi! – Riformiamo dunque quinci innanzi la nostra maniera di vedere. Non più giudichiamo il nostro gran Giudice! — Né voi né io, credetelo, non abbiamo la vista così lunga come Egli. Ciò che Egli fa è ben fatto; e se permette il male è sempre per un bene maggiore. Non vi ricordate più del giardiniere della, favola? — Egli si trovava nel suo giardino vicino ad una grossa zucca. “E che pensò, diceva, il Creatore di così collocar codesta zucca? Io per certo l’avrei con miglior senno sospesa a quercia annosa: allora al frutto. Come vuole ragion, l’albero risponde. A questo minor albero la ghianda. Perché non pende, umile tra i frutti? Qui si compiacque di scherzar natura! Più questo osservo, più conosco in ciò aver fatto natura un qui pro quo. – Faceva caldo; Garò era stanco: si corica al piede di una delle vicine querce. Cominciava ad addormentarsi, quando si stacca una ghianda, e dall’alto dell’albero gli cade sul naso. Garò svegliato all’improvviso, manda un grido, e vedendo la causa di questo accidente; Oh! ohi diss’egli, giù mi corre il sangue! Or che sarebbe se più grave peso fosse caduto? E maestosa zucca fosse stata la ghianda? Iddio nol volle: e conviene confessar ch’ebbe ragione; E la causa qual sia or ben conosco. E lodando il Signore in ogni cosa, Garò di giudicarlo più, non osa. Fate come questo buon uomo; e lungi dal negare la divina Provvidenza, guardatevi pure dal lamentarvene. [Continua …]

I CAMPIONI DELLA QUINTA COLONNA NELLA CHIESA

I campioni della quinta colonna nella Chiesa:

Giuda Iscariota,

Simon Mago, G.B. Montini.

La quinta colonna ebraica degli infiltrati nella Chiesa Cattolica, è comparsa insieme alla stessa Chiesa di Cristo. Il classico esempio che ci danno i Santi Evangelisti è quello di Giuda Iscariota, uno dei dodici Apostoli, che tradì Cristo e lo vendette per trenta denari d’argento. E’ evidente che egli, nella sua qualità di Apostolo di Nostro Signore rivestiva una dignità equivalente, o maggiore, a quella dei Vescovi e dei Cardinali. Perché fu scelto dal Divino Redentore? Egli, più che un Vescovo, fu il primo Cardinale e addirittura ancor più di un Cardinale: egli fu uno dei dodici Apostoli! Giuda Iscariota, si chiamava; e venne scelto da Nostro Signor Gesù Cristo, e da Lui medesimo elevato a tanta sublime investitura. Perché mai Nostro Signor Gesù Cristo fece una cosa del genere? Forse perché Egli incorse in errore nello scegliere Giuda e nell’onorarlo di sì alta dignità nel seno della Chiesa nascente? Tanto alta da essere immediatamente successiva alla Sua medesima? No, fratelli. E’ chiaro che Nostro Signor Gesù Cristo mai poteva ingannarsi, né si ingannò, perché Egli era Dio stesso. – Se il Divin Salvatore così si comportò, ciò fece, ancora una volta, spinto da un infinito amore per noi, sue indegne creature. Lo fece per far constatare a noi quale sarebbe stato il maggior pericolo al quale sarebbe andata incontro la Santa Chiesa. Egli volle sic et simpliciter mettere in guardia la Sua Chiesa contro i nemici che sarebbero sorti dalle sue stesse fila. E, soprattutto, tra le più alte gerarchie; perché se uno di coloro che Cristo stesso aveva scelto come Apostolo, risultò essere un Giuda — parola che da allora significò per tutti i tempi la peggiore specie di traditore — è evidente che, a maggior ragione, altri Giuda rinomati sarebbero apparsi anche nel futuro tra i seguaci di Cristo. I fedeli non debbono scandalizzarsi delle nostre parole, né, tantomeno, perdere la loro fede nella Chiesa. Né debbono meravigliarsi nel conoscere la storia dei Vescovi e Cardinali eretici che arrecarono tanto grave male alla Santa Chiesa. Tantomeno lo debbono nell’apprendere che la lotta dei giorni nostri coinvolge Vescovi e Cardinali che aiutano la Frammassoneria, il Comunismo e il Giudaismo stesso nel loro infame e sciagurato tentativo di rovina del Cristianesimo e di schiavitù dei popoli della Terra.

Simon Mago, fondatore dell’eresia gnostica, la prima che intaccò la giovane cristianità, fu anche uno degli iniziatori della « quinta colonna » ebrea in seno alla Chiesa. La Sacra Bibbia ci narra come il suddetto ebreo riuscì ad introdursi nel seno della Santa Chiesa stessa: Atti degli Apostoli Capitolo VIII : Versetto 9 « Or un cert’uomo chiamato Simone, stava già da tempo in quella città, ed esercitando la magia seduceva molta gente in Samaria, spacciandosi per un gran che. 12. Ma quando ebbero creduto a Filippo che evangelizzava il regno di Dio, uomini e donne si battezzavano in nome di Gesù Cristo. 13. E anche Simone credette, e ricevuto il battesimo, non si staccava da Filippo; e, osservandone i miracoli ed i prodigi grandissimi, andava fuori di sé dallo stupore. 14. Or gli Apostoli che eran in Gerusalemme, avendo sentito che la Samaria aveva ricevuto la parola di Dio, vi mandarono Pietro e Giovanni 15. i quali arrivati pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo, 16. perché non era ancor disceso in alcuno di essi ma erano soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. 17. Allora imposero loro le mani, ed essi ricevettero lo Spirito Santo. 18. Or Simone come vide che mediante l’imposizione delle mani degli Apostoli era dato lo Spirito Santo, offerse loro del denaro 19. dicendo : «date anche a me questo potere di far ricevere lo Spirito Santo a quelli a cui imporrò le mani ». Ma Pietro gli disse : 20. « Vada il tuo denaro teco in perdizione, perché hai stimato che il dono di Dio si possa comperare coi danari». A questa così cruda risposta di San Pietro, Simon Mago rispose: Versetto 24, « Pregate voi per me il Signore perché nulla mi avvenga di quanto avete detto » . Questo passo del Nuovo Testamento ci dice come nacque e quale sarebbe stata la natura della quinta colonna degli ebrei falsi convertiti. Simon Mago si converte al Cristianesimo e riceve l’acqua del battesimo, però dopo, quando già si trova nel seno della Chiesa, pensa di corromperla e ha in mente di comprare — né più né meno — addirittura la Grazia Santificante dello Spirito Santo. Dinanzi al fallimento delle sue intenzioni, dinanzi all’incorruttibilità dell’Apostolo San Pietro, Capo Supremo della Chiesa, finge un pentimento, che evidentemente è ben lungi dal provare, e dà inizio all’opera di lacerazione interna della Chiesa con l’eresia dello Gnosticismo. Con questo, così come con altri fatti, la Sacra Bibbia leva la sua voce per richiamare la nostra attenzione su quanto sarebbe accaduto nel futuro. E infatti le quinte colonne ebree della Santa Chiesa, seguirono l’esempio di Simon Mago; i loro gregari si convertirono al Cristianesimo onde poter corromperlo con la simonia, disintegrarlo con l’eresia e tentar di impossessarsi delle più alte dignità della Chiesa con altri diversi mezzi: non escluso finanche quello di tentare di comprar col denaro la Grazia Santificante dello Spirito Santo! – Occorre tener conto che neanche a questo proposito la tattica ebrea è cambiata: e sempre ha inserito nelle sue dottrine —nei riti e simboli massonici per esempio — oltre agli elementi kabalistici e giudaici anche elementi di origine greca. [M. Pinay: Complotto contro la Chiesa].

L’obiettivo delle quinte colonne ebraiche sembra concretizzarsi con il massimo eresiarca di tutti i tempi, G. B. Montini, che introdottosi nella Chiesa accedendo alle più alte cariche, ed usurpando il Papato di Gregorio XVII, Cardinal G. Siri, eletto Papa già nel Conclave del 26-10-1958, con il sostegno della massoneria clericale e della cupola massonica del B’nai B’rith [massoneria esclusivamente ebraica], riusciva ad insediarsi fraudolentemente sul trono di S. Pietro, dando origine alla demolizione delle strutture portanti della Chiesa Cattolica, cioè: 1. –demolendo la Santa Messa, sostituita da un rito rosa-crociano offerto a lucifero, il “signore dell’universo” [in pratica il Santo Sacrificio è divenuto un sacrilegio infame]; 2° – invalidando prima il rito di consacrazione dei vescovi [18 giugno 1968], e – 3° poi abolendo di fatto il sacerdozio cattolico eliminando la tonsura e gli ordini minori [15 agosto 1972]; 4° – devastando il Divino Ufficio con il frazionarlo addirittura in quattro settimane di minima preghiera salmodica; 5° – Eliminando il Santo Uffizio e lasciando campo libero a tutte le eresie moderniste ed ai teologi della blasfema “nuovelle théologie”; 6°.-Eliminando la obbligatorietà dell’imprimatur per scritti spirituali e per le rivelazioni pubbliche o private, potendo così ognuno scrivere qualsiasi sciocchezza ammantandola di veli di falsa spiritualità; 7°. – proclamando la chiesa dell’uomo aperta solo alle necessità materiali ed eliminandone progressivamente gli elementi soprannaturali; 8° – Intronizzando il suo idolo: satana, in Vaticano il 29 giugno del 1963, nel corso di una doppia messa nera tenutasi contemporaneamente a Charleston e nella Cappella Palatina in Vaticano, a sigillo della apparente conquista della Chiesa Cattolica da parte della sinagoga di satana; 9°. -proseguendo e chiudendo “in bellezza” il conciliabolo c. d. Vaticano II, nel quale si ribaltava tutta la dottrina bimillenaria della Chiesa, in particolare la parte riguardante, guarda caso, i “fratelli” ebrei. A questo punto, sembra che il sogno ostinato, nato dall’odio feroce contro Cristo ed i suoi seguaci della Santa Chiesa Cattolica, nella falsa sinagoga ebraica, da Giuda a Caifa, da Erode a Simon mago, da Ario a Pierleoni, etc. etc. si sia concretizzato con l’insediamento fino ai nostri giorni di antipapi marrani, tutti di estrazione ebraica anticristiana. Ed allora che fare? Ricordando che “qui abitat in caelis irridebit eos”, e che le porte dell’inferno “non praevalebunt” sulla navicella di S. Pietro, oggi più che mai bisogna: 1° conservare la fede cattolica con tutti gli insegnamenti di Cristo, dei Padri della Chiesa, orientali ed occidentali, e soprattutto del Magistero pietrino, 2° invocare con il Santo Rosario la Vergine Maria, che sola ha da sempre combattuto e distrutto ogni eresia e può schiacciare il capo dell’infernale serpente oggi in apparenza trionfante, 3°pregare con fede certa i Santi Apostoli Pietro e Paolo, i Santi Martiri, Vergini ed i Confessori, in primis i Santi Pontefici, gli Angeli fedeli, perché il Signore abbrevi i tempi della sua venuta per ridare alla Santa Chiesa Cattolica nuovo splendore e gloria, eliminando l’attuale abominio della desolazione e ripristinando oltre a tutti i Sacramenti, oggi invalidi ed illeciti, il Santo Sacrificio di Cristo offerto alla Santissima Trinità. Che Dio ce lo conceda!

 

LA PREGHIERA DI CRISTO

La preghiera di Cristo

 (Martedì dopo la Domenica di Settuagesima)

“Abbà, Padre, se è possibile, passi da me questo calice! Padre mio! Tutto è possibile a Te! Prendi da me questo calice! … Tuttavia, non come voglio io, ma come vuoi Tu”.

Questa festa cade il Martedì dopo Settuagesima (Doppio maggiore). Il suo scopo è quello di ricordare la preghiera prolungata che Cristo ha offerto nel Getsemani a nostro favore, in preparazione per la sua Sacra Passione. L’Ufficio insiste sulla grande importanza della preghiera.

La festa è posta all’inizio della Quaresima per ricordarci che la stagione penitenziale è soprattutto un momento di preghiera.

“Egli è nell’arena dei suoi patimenti e sull’altare del suo olocausto che dobbiamo seguire, per ben comprenderlo, quest’uomo che si proclama il Figlio e l’Inviato di Dio. Colà noi invitiamo il fedele per commuoverlo, l’incredulo per convincerlo. – Noi loro additeremo una Vittima che spasima, e che muore; ma una Vittima, che spirando fra gli strazi, opera una quantità di tali prodigi accompagnati da circostanze cotanto straordinarie, che il Cristiano, che Lo adora, vi trova il fondamento più saldo della sua fede, e l’incredulo che lo bestemmia v’incontra, se ha fior di senno, i più possenti motivi di un pronto ritorno alla verità. – Ricordiamoci soltanto prima d’imprendere la lettura delle sofferenze e della morte del Salvatore, che era stato predetto in mille luoghi delle Scritture, che il Cristo sarebbe immolato per la gloria di Dio, per la salute degli uomini, e per lo stabilimento d’un nuovo culto, fondato sulla divinità della sua persona e sul merito del suo sacrificio. Ed è pur d’uopo di ricordarci che Gesù Cristo medesimo nel corso della sua vita e fino all’istante della sua morte verificò nella propria persona, tanto parzialmente che complessivamente, tutti gli oracoli degli antichi Profeti. – Ogni cosa era già disposta all’intero loro adempimento; e da parte dell’Eterno Padre che da oltre quattro mila anni aspettava una vittima che fosse degna di soddisfarlo; e da parte dell’Unico Figlio, che venendo al mondo, aveva offerto sé stesso per surrogare gl’inefficaci olocausti della Legge di Mose; e da parte del genere umano che sospirava il Redentore sì sovente predetto, figurato, promesso, preparato da tanti eventi, il cui sangue doveva riconciliare la terra col Cielo; finalmente, ci sia concesso il dirlo, da parte dell’inferno stesso che aveva di sfrenato contro del Cristo tutte le sue potenze. Era giunto il momento solenne. – Accompagnato da’ suoi undici Apostoli il Salvatore erasi recato al giardino di Getsemani, luogo solitario, che distendevasi sul pendìo del monte degli Olivi, separato soltanto da Gerusalemme mediante la valle di Giosafat, nel cui piano scorreva il torrente Cedron. La distanza che correva da Gerusalemme a questa montagna era appena di mille passi; di modo che in giorno di sabato e nelle feste solenni potevasi fare questo breve tragitto senza trasgressione della Legge. – Il villaggio di Getsemani, presso cui oravi il mentovato giardino, sorgeva sull’alto del colle, e di quivi come in anfiteatro si presentava allo sguardo la città ed il Tempio di Gerusalemme. – Giuda, che Lo tradiva, sapeva che Gesù usava di recarsi colà durante la notte coi suoi discepoli, per attender alla preghiera; ondeché può dirsi che il Figlio di Dio, invece di fuggire il traditore, lo precedeva come a luogo di convegno. Essendo imminente l’ora del combattimento, il Salvatore disse a’suoi discepoli: Trattenetevi qui, mentre io vado colà a pregare: pregate voi pure, affinché non entriate in tentazione. Distaccatosi poscia dagli altri, prese con sé Pietro, Giacomo, e Giovanni. Quando si trovò solo con essi, e si lasciò colpire dagli orrori della sua passione, cominciò a rattristarsi e a cadere in mestizia ed in abbattimento mortale. – L’anima mia, ei disse a’ suoi tre Apostoli, è afflitta sino alla morte, restate qui e vegliate con me. Poscia andato innanzi quanto sarebbe la gittata di un sasso, si prostrò per terra orando e dicendo: Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice: del resto sia fatta non la mia, ma la tua volontà. Egli è manifesto che un interiore e terribile contrasto sorse nella sua grand’anima. Essere da una parte, l’Innocenza medesima, il Figlio unico di Dio, il Re dell’universo, e dover tollerare tanti scherni, tanti oltraggi, e finire da ultimo su d’una croce obbrobriosa, quale avvilimento! Quale ignominia! Ma, dall’altro lato, salvare gli uomini suoi fratelli, soddisfare alla giustizia di Dio, qual consolazione! qual trionfo! Finita la sua preghiera, e ritornato presso i tre discepoli, li trovò addormentati. Disse dolcemente a Pietro: Simone, tu dormi? Così dunque non hai potuto vegliare un’ora con me? Vegliate ed orate, affinché non entriate nella tentazione. Lo spirito veramente è pronto, ma la carne è debole. Si allontanò poscia per la seconda volta, e orò dicendo: Padre mio, se non può questo calice passare, che io lo beva, sia fatta la tua volontà. E ritornato di nuovo presso i suoi discepoli, li trovò egualmente addormentati. Come mai far conto sulle consolazioni degli uomini! Voi soffrite, ed essi dormono! Lasciatili pertanto, andò una terza volta, e ripeté la medesima preghiera. Frattanto la tristezza, il terrore, l’angoscia mortale che volontariamente pativa il Salvatore alla vista delle imminenti torture di sua Passione lo fecero entrare in una violenta agonia, cosicché diede in un sudore di grosse gocce di sangue, le quali uscendo da tutto il suo corpo scorrevano fino a terra, che ne fu ben tosto inzuppata. – Un Angelo allora scese dal Cielo per confortarlo. Gesù accetta la croce, sottomettesi al sacrificio, il mondo è salvo. – Ecco quali sono le vere consolazioni del Cielo; esse non infrangono le nostre croci, ma ci tolgono la tentazione di rifiutarle. Dal momento in cui la sentenza pronunziata dal Padre fu accettata dal Figlio, più non si scorge nel Salvatore che intrepidità e coraggio; ma coraggio modesto, intrepidità tranquilla. Gesù alzatosi dall’orazione, accostassi un’ultima volta a’ suoi discepoli, e disse: su via dormite e riposatevi! Ecco è vicina l’ora, ed il Figlio dell’uomo sarà dato nelle mani dei peccatori. Alzatevi; andiamo incontro all’uomo che sta per tradirmi; è prossimo il suo arrivo.”

[da: Il Catechismo di Perseveranza dell’Abate J.-J. Gaume,Vol. 2, Torino 1881].

Qui di seguito c’è la spiegazione dell’Agonia di Nostro Signore, nel giardino, tratto da ‘La Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, secondo le rivelazioni della Beata Anna Caterina Emmerich.

Nell’orto degli Ulivi. L’angoscia mortale di Gesù

«Cristo Gesù, pur possedendo la natura divina, non pensò valersi della sua uguaglianza con Dio, ma annientò se stesso prendendo la natura di schiavo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umilò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte in croce…» (Filippesi II,6-8). Dopo l’istituzione del santissimo Sacramento, in cui Gesù aveva offerto se stesso immolato misticamente, il Signore e gli apostoli intonarono un canto di ringraziamento e lasciarono il cenacolo. Nel vestibolo incontrarono Maria, la Madre di Gesù, con Maria figlia di Cleofa e Maria Maddalena. Le pie donne esortarono il Signore a non recarsi nell’orto degli Ulivi per ché correva voce sulla sua cattura. Ma Gesù le confortò e lasciò il cenacolo, dirigendosi verso il monte degli Ulivi. Compresi che la sua anima era profondamente turbata. Attraversando la valle di Giosafat, Gesù parlò agli apostoli metaforicamente, ma essi non capirono e attribuirono alla stanchezza quel modo strano di esprimersi. – Quando giunsero al monte degli Ulivi era già notte. La luna, benché non fosse ancora piena, illuminava tutta la montagna e rifletteva la sua luce sul volto di Gesù e degli apostoli. Con aria afflitta il Signore disse: «Questa notte sarete indignati con me e vi disperderete, poi ché è scritto: “Percuoterò il pastore e le pecore si disperde ranno”… Ma quando sarò risuscitato vi precederò in Galilea». – Gli apostoli, che da quando avevano ricevuto il santo Sacramento vivevano la pace dello spirito, si strinsero affettuosamente attorno a Lui e Lo rassicurarono della propria fedeltà. Pietro intervenne più di tutti gli altri: «Se anche tutti si scandalizzassero, io non ti lascerà mai, Signore!». Con il volto afflitto Gesù gli predisse: «In verità, in verità ti dico che questa notte stessa, prima ancora che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». Ma Pietro non si diede per vinto e replicò: «Dovessi morire con te, Signore, non ti rinnegherò mai!’». Così ribadirono pure tutti gli altri. – Attraversarono un ponte sul torrente Cedron e si fermarono nel giardino del Getsemani. Era questo un luogo adatto alla meditazione e alla preghiera; qualche volta veniva anche utilizzato dalle persone prive di un proprio giardino per organizzarvi feste e banchetti. – Il Getsemani è ampio, circondato da una siepe, pieno di alberi e di fiori. Vidi anche alcune capanne di frasche. Gli apostoli avevano la chiave del giardino. Nelle notti precedenti Gesù vi si era ritirato con i suoi apostoli per istruirli circa la scienza divina; quella notte, però, scelse di pregare solo nell’orto degli Ulivi, che è lì vicino, cinto da un muro. Il Signore lasciò otto apostoli all’ingresso del Getsemani e portò con sé soltanto i prediletti: Pietro, Giacomo e Giovanni. Giunto nell’angolo più incolto dell’orto interno, in cui si trovano piccole grotte e molti ulivi, Gesù di venne molto triste perché sentì vicina la sua ora. L’angoscia di quel momento si rispecchiava chiaramente sul suo volto. Allora Giovanni gli domandò perplesso: «Signore, come mai sei così triste, tu che ci hai sempre dato conforto e coraggio e ci hai consolato nei tempi peggiori?».

 “La mia anima è triste fino alla morte.”

Egli gli rispose: «La mia anima è triste fino a morire!» Guardandosi intorno vide avanzarsi nubi cariche d’immagini orrende: erano le tentazioni della vicina prova. La sua passione spirituale stava per avere inizio. Prima di ritirarsi nella solitudine orante, Gesù disse ai tre: «Mentre io vado a pregare nel luogo che ho scelto, resta te qui e vegliate: pregate per non cadere nella tentazione. Ricordate che lo spirito è pronto, ma la carne è debole!». Così dicendo, nella sua sconfinata angoscia interiore, Gesù scese per un piccolo sentiero ed entrò in una grotta profonda sei piedi. Vidi spaventose figure affollare minacciose la stretta caverna dove il Signore si era ritirato a pregare. – Fu qui, ai piedi del monte degli Ulivi, che Adamo ed Eva piansero disperati il loro peccato. Vidi i nostri progenitori nello stesso luogo in cui Gesù depose la sua divinità nelle mani della santissima Trinità, affidando la sua innocente umanità alla giustizia di Dio. Con questo sublime atto di carità il Redentore si donava interamente al Padre quale vittima riparatrice dei nostri peccati. – Tutte le colpe del mondo, commesse dall’uomo fin dal la sua prima caduta, gli apparvero a miriadi nella loro completa mostruosità. Nella sua sconfinata angoscia, Gesù supplicò il Padre celeste di perdonare i pensieri malvagi e le offese degli uomini, offrendogli in cambio la sua suprema espiazione. La grotta si era affollata di forme spaventose, immagini delle passioni, dei vizi e delle malvagità del genere umano. Vidi il Redentore abbandonarsi alla sua natura umana e prendere sopra di sé le nefandezze del mondo. Era su dato, stremato e angosciato di fronte agli innumerevoli peccati che Satana continuava a mostrargli come sue conquiste, mentre gli diceva: «Come?!… Anche questo vuoi prendere sopra di te e sopportarne la pena?». La sua umanità stava già per soccombere sotto l’enorme peso dei nostri peccati, quando un solco di luce chiarissima scese dal cielo, da oriente. Erano le schiere angeliche del paradiso inviate dal Padre celeste per infondere rinnovato vigore al suo Figlio divino. Gesù era al limite del le sofferenze spirituali, il peso delle colpe umane continuava a gravare immensamente su di lui e a causargli dolori atroci, mentre gli spiriti malvagi lo deridevano e i demoni gli facevano sentire la loro orribile voce. Infine, nonostante le spaventose visioni, rincuorato dagli angeli, Gesù misericordioso seppe accogliere tutto su di sé. Egli amò immensamente Dio e anche gli uomini, vittime delle loro stesse passioni. – Il demonio ignorava che Gesù fosse il Figlio di Dio; credendolo soltanto un uomo giusto, lo tentò in tutti i modi come già aveva fatto nel deserto. Satana lasciò scorrere’dinanzi alla santa anima del Signore le sue opere di carità facendole apparire come colpe contro il mondo e contro Dio. Tentò di dimostrargli che esse non sarebbero valse a nulla e non erano state adatte a soddisfare la giustizia divina, anzi erano state causa di scandalo e di rovina per molti. – Come un arguto fariseo, Satana gli rimproverò le mancanze e gli scandali che avevano suscitato i suoi apostoli e i discepoli, i disordini che essi avevano provocato abolendo le antiche usanze e, tra l’altro, incolpò Gesù di aver causato la strage degli innocenti e una vita di tribolazioni ai suoi genitori. Inoltre l’accusò di essersi rifiutato di operare diverse guarigioni e di non aver salvato Giovanni Battista, e così continuò a lungo. Gesù era rimasto perseverante nell’orazione, pur continuando a sudare con tremiti convulsi. Egli aveva lasciato prevalere la sua infinita misericordia permettendo al demonio di fargli soffrire le pene dei comuni mortali, in particolare dei giusti, i quali in punto di morte dubitano per fino delle loro sante opere. Atterrito dall’immensa ingratitudine degli uomini verso Dio, il Signore sentì piagare la sua anima e cadde in un violento dolore; allora si alzò e rivolse la sua pena al Padre:

 “Abbà, Padre, se è possibile, allontana questo calice da me.”

«Abbà, Padre mio, se puoi, allontana da me quest’amaro calice!». Ma subito soggiunse: «Sia fatta, però, non la mia, ma la tua volontà!». Sebbene la sua volontà e quella del Padre fossero strettamente congiunte, la natura umana di Gesù tremava di fronte alla morte. Lo vidi sfigurato in volto e le sue labbra erano livide. Barcollando, uscì dalla grotta e si diresse verso i tre apostoli che aveva lasciato fuori. Vedendoli addormentati, il Signore, estenuato e sopraffatto dalla tristezza, incespicò e cadde vicino a loro. Ancora circondato dalle tremende visioni, rialzandosi lentamente, Gesù disse: «Perché dormite? Non potete vegliare nemmeno un’ora? ». I tre, che frattanto si erano svegliati e si erano levati in fretta, vedendo il Signore trafelato e madido di sudore, sta vano per chiamare gli altri apostoli, ma Gesù fermò Pietro dicendo: «Non chiamare gli altri, non voglio che mi vedano in queste condizioni, dubiterebbero di me e cadrebbero in tentazione. Ma voi che avete veduto il Figlio dell’uomo nello splendore, potete pure vederlo nell’oscurità e nell’abbandono. Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è sveglio, ma la carne è debole e inferma». Gesù non ignorava che anche i suoi amati apostoli erano caduti in preda all’angoscia e alla paura. Allora parlò loro con amorevole tristezza, mettendoli al corrente circa la dura lotta della natura umana contro la morte. Dopo un quarto d’ora fece di nuovo ritorno alla grotta. Erano quasi le undici di notte. I tre apostoli, afflitti, si chiedevano: «Cosa gli accade per essere così smarrito?». Si coprirono la testa e si misero a pregare. – Frattanto, nella notte silenziosa di Gerusalemme, Ma ria santissima, Maria Maddalena, Maria figlia di Cleofa, Maria Salomè e Salomè avevano lasciato il cenacolo e si erano recate a casa di Maria, la madre di Marco. Tutte erano molto preoccupate per la sorte di Gesù, in modo particolare Maria santissima, la quale non dubitava più sul tradimento di Giuda. Con il cuore colmo d’amara tristezza, Gesù dunque era ritornato nella grotta. Si gettò col viso al suolo e, con le braccia distese, pregò il Padre in cielo. – Allora gli angeli consolatori gli mostrarono l’immagine beata dei nostri progenitori nello stato di santa innocenza, ossia quando Dio dimorava ancora nel loro cuore, facendogli vedere come la loro caduta l’avesse deturpata. – In tale contesto il Salvatore vide le indicibili sofferenze che la sua anima avrebbe dovuto superare per redimere l’uomo dal peccato d’origine, causa di tutti i patimenti. Gli angeli gli fecero notare che l’unica natura umana esente dal peccato era quella del Figlio di Dio, il quale per prendere sopra di sé il debito dell’intera umanità doveva superare la ripugnanza umana per la sofferenza e la morte.

 Gesù vede i peccati del mondo in tutta la loro bruttezza.

La sua santa anima vide le pene future che sarebbero gravate sugli apostoli, sui discepoli e sui santi martiri. La crescita della Chiesa tra ombre e luci, le eresie, gli scismi e tutte le forme di vanità e le colpe scandalose del clero. La tiepidezza e la malvagità di numerosi sedicenti cristiani. E ancora: la desolazione del regno di Dio sulla terra e le or rende raffigurazioni dell’ingratitudine e degli abusi degli uomini. Con il suo martirio egli avrebbe instaurato nel mondo il precetto salvifico dell’amore e sarebbe stato il Salvatore divino per quanti, nei secoli, avrebbero voluto sfuggire alle fiamme dell’inferno e avvicinarsi alla luce beatifica di Dio. – L’umanità, corrotta dal peccato, che Lui si preparava a riscattare col proprio tributo di sofferenze indicibili, si sarebbe potuta salvare solo alla sequela della sua imitazione. Era quindi necessario che Egli bevesse quest’amaro calice per trasfigurarsi nella “verità”, nella “porta” e nella “via” al Padre. – Vidi Gesù versare lacrime di sangue di fronte all’immane ingratitudine degli uomini; per quelle moltitudini che l’avrebbero odiato e si sarebbero rifiutate di portare la croce con lui. Egli pativa affinché la sua Chiesa fosse fondata sulla roccia, contro la quale le porte dell’inferno non avrebbero prevalso. – Ecco perché il demonio per provocano gli aveva detto: «Vuoi davvero soffrire per questa massa d’ingrati?». Con forte dolore, vidi una fitta schiera di nemici del mio Sposo divino mossi dal fanatismo, dall’idolatria e dall’odio contro la Chiesa: ciechi, paralitici, sordi, muti e persino fanciulli. Ciechi che non volevano vedere la verità, paralitici che con la verità non volevano camminare, muti per ché si rifiutavano di trasmetterla agli altri e sordi perché rifiutavano di ascoltare le ammonizioni di Dio. I fanciulli crescevano insensibili alle cose divine, istruiti dai genitori e dai maestri alla vana sapienza del mondo. Questi mi fecero maggior compassione perché erano stati oggetto del massimo amore di Gesù. Non potrei mai finire se volessi raccontare tutti gli oltraggi fatti a Gesù, dai sacerdoti indegni, nel santissimo Sacramento… Vidi gli angeli che seguivano con il dito le diverse immagini che essi stessi producevano, ma non udivo quel che dicevano; compresi solo che avevano molta compassione per le sofferenze del Signore. Le sofferenze interiori di Gesù, per tali orribili peccati e concupiscenze, furono così intense che il suo corpo versò fiotti di sangue. – Nello stesso tempo vidi la Vergine Maria patire a sua volta l’agonia spirituale del Figlio. La Madre di Gesù si trovava ancora nel giardino di Maria di Marco e veniva con solata dalle pie donne, particolarmente dalla padrona di casa e dalla fedele Maria Maddalena. Perse più volte i sensi mentre sollevava le mani imploranti verso il Getsemani. – Anche Gesù, con molto trasporto, contemplava nello spirito le pene della sua santa Madre. Fu una visione intensa e molto commovente. Gli Otto apostoli, sbigottiti e afflitti dal dubbio, teme vano per la sorte di Gesù e per la loro. Essi si chiedevano: «Che faremo, se il Maestro verrà arrestato e morirà? Abbiamo rinunciato a tutto per seguirlo e adesso siamo poveri ed esposti al ridicolo. Forse abbiamo sbagliato affidandoci completamente a lui». Fu così che gli apostoli entrarono in tentazione e si misero a cercare un nascondiglio. Anche i discepoli furono assaliti da un grande sconforto e andavano in giro per Gerusalemme con l’intento di apprendere qualche notizia in torno alla sorte del Redentore. – Mancava poco alla mezzanotte. Gesù continuava l’intimo colloquio con il Padre celeste, allorché si aprì la terra sotto di lui e si trovò all’improvviso su un sentiero luminoso che scendeva nel limbo. Il Maestro divino scorse Adamo ed Eva, gli antichi patriarchi, i profeti e i giusti, i genitori di sua Madre, Giovanni Battista e una moltitudine di sacerdoti, di martiri, di beati e di santi della futura Chiesa. Tutti avevano il capo cinto dalle corone del santo trionfo, conseguite grazie alle sofferenze patite e alla perseverante lotta contro il male. Lo splendore ditale trionfo era legato unicamente ai meriti della sua prossima passione. Essi lo circondarono, esortandolo a compiere il sacrificio del suo sangue, sorgente di redenzione e di vita spirituale per tutti gli uomini di buona volontà. Questa visione rinvigorì Gesù che stava soggiacendo all’abbattimento umano. Dopo quelle confortanti scene, gli angeli gli mostrarono in tutti i particolari la passione che avrebbe subito tra poco. Quando il divino sofferente si vide inchiodato sulla croce completamente nudo per espiare l’impudicizia degli uomini, pregò fervorosamente il Padre di risparmiargli quell’immane umiliazione. Questa preghiera sarebbe stata esaudita per l’intervento di un uomo pietoso che l’avrebbe coperto. -Dopo la visione del suo martirio sulla croce anche gli angeli lo abbandonarono. Egli cadde a terra sfinito come se fosse moribondo: il suo corpo era agonizzante e in preda a un tremito convulso. Vidi la grotta illuminata da tenui raggi lunari. – All’improvviso un’altra luce illuminò la grotta: era un angelo inviato da Dio, indossava abiti sacerdotali e aveva nelle mani un piccolo calice. Senza discendere al suolo, la creatura celeste accostò il calice alle labbra di Gesù e, ciò fatto, disparve. Così il Signore aveva accettato il calice delle sue pene, dal quale ne trasse straordinarie energie. Restò ancora per alcuni minuti in atto di gratitudine verso il Padre celeste, poi si rialzò, si asciugò il volto con un sudario e fece ritorno dagli apostoli. Quando Gesù uscì dal la grotta, vidi la sua faccia pallidissima e spettrale: destava profonda compassione; notai però che il suo passo era diritto. La luce lunare e lo splendore delle stelle mi apparvero molto più naturali. Pietro, Giacomo e Giovanni, spossati dall’angoscia, era no caduti di nuovo nel torpore e si erano assopiti con la te sta coperta.

 “Non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?”

Gesù, pieno di amarezza, li chiamò ancora una volta e disse loro che non era il momento di dormire ma di pregare, perché l’ora della verità era venuta. Li avvertì che egli si sarebbe consegnato ai suoi nemici senza opporre resistenza; chiese che assistessero sua Madre ed ebbe parole di compassione per il traditore. Ma Pietro gridò: «Noi ti difenderemo, vado a chiamare gli altri!». Gesù lo fermò e gli fece segno di guardare nella valle,dall’altra parte del torrente Cedron, dove una masnada di armati si avvicinava alla luce di una lanterna.

Il gran mezzo della preghiera: il PATER NOSTER

IL PATER NOSTER

L’Orazione Dominicale.

[J.-J. Gaume: Il Catechismo di perseveranza, vol II, VI ed. – Torino 1881]

Quantunque l’Orazione Dominicale entri nel novero delle pubbliche preghiere allorquando è offerta a Dio dal sacro ministro a nome di tutto il popolo fedele, tuttavolta noi la mettiamo a capo delle preghiere particolari, dappoiché il Signor Nostro Gesù Cristo la compose, a quanto sembra, principalmente per uso particolare di ogni Cristiano in tutti quei casi, che sì frequentemente ricorrono, nei quali abbiam bisogno d’implorare 1’aiuto del Signore. « Quando tu fai orazione, leggesi in San Matteo, entra nella tua camera, e chiusa la porta, prega in segreto il Padre tuo, orando in tal guisa: Padre nostro, che sei ne’ Cieli, ecc. i » [Matth. VI, 6-9]. – L’Orazione Dominicale, sia che si consideri nel suo Autore, o nella sua forma e sostanza è senza fallo la forma più eccellente di preghiera.

1° Rispetto al suo Autore. Non fu un Santo, né un Profeta, né un Angelo, né un Arcangelo quegli che la compose, ma lo stesso Signor Nostro Gesù Cristo, il Figlio, l’eterna Sapienza di Dio.

2° Rispetto alla forma. L’Orazione Dominicale è chiarissima e non avvi chi non la comprenda, dal piccolo fanciullo al canuto vegliardo, dal villico al cittadino: ella è breve, ed ognuno può impararla con somma facilità, ritenerla fedelmente, e recitarla di frequente. Questo pregio la rende essenzialmente popolare, e per conseguenza degna di quel Dio che venne a salvare tutti gli uomini, e della Religione che dev’essere predicata così ai liberi come agli schiavi, così ai popoli civilizzati come ai barbari e selvaggi. Essa ha forza di persuadere, piena com’è di semplicità, di umiltà, dì tenerezza, e perciò efficacissima pel modo con cui esprime a Dio le nostre Necessità.

3° Rispetto alla sostanza. Essa è completa; racchiude tutto ciò che noi possiamo e dobbiamo chiedere, nella condizione di figliuoli di Dio, pel tempo e per l’eternità, pel corpo e per l’anima, per noi stessi e per gli altri. Ella è sapientissima, poiché ci rammemora e ci fa porre in pratica le tre virtù che sono le tre basi della Religione, della società, della salute, vale dire, la fede, la speranza, la carità: ella è divinamente logica, poiché regola i desideri del nostro cuore insegnandoci ad esprimere in primo luogo i più nobili ed importanti, e poscia quelli che lo son meno [“In Oratione dominica non solum petuntur omnia quæ recte desiderare possumus, sed etiam eo ordine quo desideranda sunt; ut sic haec oratio non solum instruat postulare, sed etiam sit informativa totius nostri affectus”. D. Tu., 2, 2, q. 85, art. 9.]. – «Infatti, scrive S. Tommaso, egli è palese che l’obbietto precipuo dei nostri desiderii dev’essere l’ultimo fine, e dopo questo i mezzi necessari per giungere al suo conseguimento. Ora, il fine ultimo è Iddio, verso del quale in due modi si portano i nostri affetti: primamente col desiderare la gloria di Dio; e in secondo luogo col bramare per noi pure il godimento di questa istessa gloria divina. Il primo modo appartiene alla carità, mercé la quale noi amiamo Dio in se stesso; il secondo egualmente alla carità, ma in quanto che amiamo noi stessi in Dio. Ed ecco il perché la nostra prima domanda è questa: Sia santificato il nome vostro, con cui chiediamo la gloria di Dio; e la seconda: Venga a noi il regno vostro, colla quale domandiamo di pervenire noi stessi alla gloria di Dio. Ciò premesso, si osservi, che una cosa può guidarci all’ultimo nostro fine, o per se stessa, o in modo accidentale. Per se stessa e direttamente, facendoci meritare la beatitudine eterna, mercé l’obbedienza ai Comandamenti di Dio, donde consegue, che la nostra terza domanda è così concepita: Sia fatta la volontà vostra così in Cielo come in terra; e per se stessa ancora, ma in un modo meno diretto, vale a dire, coll’aiutarci a meritare la beatitudine eterna, quindi la nostra quarta domanda: Dateci oggi il nostro pane quotidiano. Una cosa può condurci all’ultimo nostro fine in modo accidentale, allorquando rimuove gli ostacoli che potrebbero impedire il conseguirlo; e questi ostacoli sono di tre sorta: 1° il peccato che ce ne allontana direttamente, dal che è mossa la nostra quinta domanda: Rimettete a noi i nostri debiti; 2° la tentazione che conduce al peccato, onde la sesta domanda: E non induceteci in tentazione; 3° i mali temporali, funesta conseguenza del peccato, che rendono cotanto gravoso il peso della vita, quindi la nostra settima ed ultima domanda: Ma liberateci dal male! ». [D. TH., 2, 2, q. 83, art. 9]. – Le sette domande dell’Orazione Dominicale corrispondono oltracciò ai sette doni dello Spirito Santo ed alle sette Beatitudini evangeliche, tantoché quest’ammirabile preghiera è in armonia perfetta colla gran tela della Religione, ed ha per iscopo di farci conseguire tutti quegli aiuti che sono indispensabili per fare del Cristiano un uomo perfetto in questo mondo ed un beato nell’altro. La qual considerazione moveva S. Agostino a designare l’Orazione Dominicale con questo sublime concetto: « quel modo e quella regola di pregare che il celeste Giureconsulto ha dato egli stesso ai fedeli, affinché ottengano l’adempimento d’ogni loro voto » [“Regula postulandi fldelibus a codesti Jurisperito data”. Enarr, in Ps. CXLII. – Finalmente ciò che accresce ancora l’eccellenza dell’Orazione Dominicale si è che essa è la più necessaria di tutte le preghiere. Molti Concili, e fra gli altri il Concilio di Roma, obbligano tutti i Cristiani a saperla a memoria, attesoché, secondo la dottrina dei Santi Padri, è necessario farne ciascun giorno la recitazione [E la più necessaria di tutte. BELLAR., Dottr. crist. 71; Concil. Rom., c. 2 . — Nisi qui has duas sententias (Symbolum et Orationem dominicam) et memoriter tenuerit et ex toto corde crediderit, et in oratione saepissime frequentaverit, catholicus esse non poterit. Syn. Remens. VI, e. 7. Vedi pure il Concilio Toletano VI, c. 9. — S. Auc, Enchir. 71. — S. CYPR., De Orat. domin. — « Si è obbligati di necessità di precetto, di sapere almeno quanto alla sostanza: 1° il Simbolo degli Apostoli intieramente; 2° l’Orazione dominicale; 5° i precetti del Decalogo; 4° quei Comandamenti della Chiesa, che sono comuni a tutti i Fedeli; 6° il sacramento del Battesimo, che ogni Fedele può trovarsi nel caso di amministrare, e i sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, che si ha obbligo di ricevere almeno una volta all’anno. Per gli altri Sacramenti, la fede esplicita non è necessaria che a chi li riceve. Ma il conoscimento di questi diversi articoli ha diversi gradi: può essere più o meno perfetto, più o meno esteso. Tuttavia non è permesso d’ignorarli interamente. Non vi ha che un difetto di capacità che possa scusare quest’ignoranza da peccato mortale » . GOUSSET, Teol. mor., c. 1, pag. 129: Ediz. Parmense]. – «Vivendo noi, scrive S. Agostino, nel mezzo del mondo, in cui niuno può vivere senza cadere in peccato, la remissione delle nostre colpe trovasi non solo nelle acque sante del Battesimo, ma sì ancora nell’Orazione Dominicale e giornaliera. Essa in certa guisa è il nostro Battesimo di tutti i giorni [Serm. 215 De temp.: Enchir.,c. 71]. – « L’ orazione Dominicale è adunque il rimedio de’ nostri falli quotidiani, vale a dire, dei peccati veniali, purché nel recitarla noi ci troviamo animati da un vero sentimento di contrizione. Egli è conveniente che ogni Fedele sappia questa preghiera nelle due lingue, latina e volgare: in latino, perché questa è la lingua dalla Chiesa; in volgare ossia nella lingua nativa, per intendere ciò che ella domanda.

Divisione dell’Orazione Dominicale.

L’Orazione Dominicale si divide in tre partì: nella prefazione ossia preparazione, nel corpo della preghiera e nella conclusione. La prefazione consta di queste semplici ma sublimi parole: Padre nostro, che sei ne’ Cieli. Il Salvatore avrebbe potuto senza dubbio farci dare a Dio dei titoli più improntati di maestà e più capaci d’infonderci rispettosa temenza; ma questi titoli sarebbero stati cagione che noi continuassimo a crederci gli schiavi del Sinai, mentre dobbiamo all’incontro essere i figli del Calvario. Noi siamo adunque ammaestrati a dire, non già nostro Dio, nostro Creatore, nostro padrone, ma sì: nostro Padre! – Fermiamoci alquanto a meditare questa parola rispetto a Dio, rispetto a noi stessi, rispetto al prossimo. – Rispetto a Dio. Essa eccita mirabilmente la nostra fiducia, rammentandoci che, malgrado il nostro nulla e la nostra miseria, noi siamo figliuoli, non d’un principe, d’un re, d’un monarca terreno, ma bensì di Dio medesimo; e d’altra parte essa muove infallantemente il cuore di Dio col ricordarGli ch’è nostro padre; Padre sott’ogni riguardo, vale a dire, per creazione, per conservazione, per redenzione; padre del nostro corpo, padre dell’anima nostra. « A quella guisa, ne dice il Salvatore con queste tenere parole, che i figli si rivolgono al padre loro in tutti i bisogni, né temono di manifestarglieli per quanto grandi e numerosi; così pure voi dovete ricorrere al vostro Padre celeste, che vi consolerà, allevierà i vostri travagli, avrà pietà di voi, siccome un padre ha pietà dei propri figli ». – Rispetto a noi stessi. Questa parola Padre nostro ci fa risovvenire più eloquentemente d’ogni altro discorso la nobiltà di nostra origine, e perciò ancora tutto il rispetto che dobbiamo avere sì pel corpo che per l’anima nostra, le cure diligenti che dobbiamo osservare onde mantenerci nell’amicizia di Dio e vivere da veri suoi figli, se pur vogliamo ch’Egli ci esaudisca. I peccatori che, secondo l’espressione del Salvatore medesimo, sono i figli del demonio, non possono a buon diritto dare a Dio il nome di Padre, dappoiché non ubbidiscono a’ suoi santi comandamenti; tuttavolta non devono menomamente tralasciare la recitazione dell’Orazione Dominicale; anzi è da dire che neppur essi la recitano senza frutto. Se veramente sono penitenti, essi dicono Padre nostro, come il figliuol prodigo nell’atto di ritornare al padre suo, per ottenere il perdono dei propri falli; se poi sono induriti al mal fare, essi dicono Padre nostro, se non altro, in nome della Chiesa, della quale sono membri mercé la fede e la speranza. – Rispetto al prossimo. La parola Padre nostro esprime la gran legge che ha salvato e che sola può ancora salvare il mondo, la legge cioè della fraternità universale, e c’insegna quello che sono per noi tutti gli nomini, e quello altresì che noi dobbiamo essere per loro. Difatti noi non diciamo Padre mio, ma sebbene Padre nostro, atteso ché noi siamo tutti fratelli e dobbiamo pregare non solo per noi, ma ancora per tutti i cattolici, eretici, giudei, infedeli, amici e nemici, che è quanto dire, amarli di amore veramente fraterno. In questa sola parola Padre nostro racchiudesi l’abolizione, o almeno la condanna di tutte le tirannie, l’esaltazione del piccolo, la protezione del debole, sacrificio del ricco e del potente al sollievo corporale e spirituale de’ suoi fratelli, meno di lui beneficati dei doni di fortuna e d’intelletto; in una parola, comprendesi in essa la carità, base della famiglia, vincolo della società, e pegno della felicità avvenire. Brevemente, noi diciamo Padre nostro, da una parte per attestare che noi preghiamo per tutti e in nome di tutti; d’altra parte, per impegnare il Signore ad accordarci pei meriti altrui quelle grazie che per noi stessi non meriteremmo di ottenere. Padre nostro! Egli è alle tre divine Persone che s’indirizza questa preghiera, dappoiché tutte tre meritano il nome di padre, a motivo della creazione, della redenzione, della santificazione. Che sei ne’ Cieli. Il Dio a cui ricorriamo è dappertutto tuttavolta noi diciamo che sei nei cieli, vuoi perché tutte le magnificenze della gloria colà rifulgono più che altrove, vuoi perché colà egli regna in tutta la pienezza del suo amore sugli Angeli e sui Santi, e vuoi da ultimo per ricordarci continuamente che colà debbono essere i nostri pensieri, i nostri desiderii, lo scopo delle nostre fatiche; in una parola, come dice l’Apostolo, la nostra conversazione: Padre nostro, che sei ne’ Cieli! – Sì, tu sei nei Cieli, nel sommo della felicità, infinitamente ricco, infinitamente potente, infinitamente buono; e noi, tuoi figli, noi siamo sulla terra, in luogo di esilio, lontani dalla nostra patria, dalla nostra famiglia, poveri, deboli, infermi, circondati di nemici e di pericoli. Che di più efficace per intenerire il cuore di Dio? – Che di più opportuno per imprimere nell’animo nostro un’umiltà profonda, un vivo sentimento dei nostri bisogni, e ad un tempo stesso il rispetto filiale, la pietà, la purità, la carità verso i nostri fratelli? E come non verrà esaudita una preghiera che dispone sì bene chi domanda e chi debbe esaudire? Tale si è il proemio dell’Orazione Dominicale. – Ma che cosa dobbiamo noi domandare, e con qual ordine? Pur troppo noi siamo tanto ciechi ed insensibili, che spesso non conosciamo né la natura dei nostri veri bisogni , nè l’ordine giusta il quale dobbiamo chiederne l’alleviamento. Da ciò nasce che noi o non chiediamo cosa alcuna o che chiediamo male. Laonde per ovviare a questa doppia disgrazia il nuovo Adamo ha composto ei medesimo una supplica a nostro uso, nella quale si esprimono gli obbietti delle nostre suppliche e l’ordine da osservarsi nell’implorarli. Ciò posto, la ragione e la fede ne insegnano, che dai figli bennati ed intelligenti gli interessi del padre si debbono anteporre all’utile proprio; ai beni transitori di questo mondo quelli dell’eternità; il fine, in una parola, ai mezzi. E tutto ciò è appunto insegnato in modo ammirabile nella seconda parte dell’Orazione Dominicale. – Difatti il corpo di questa divina preghiera si divide, a guisa del Decalogo, in due parti. La prima riguarda Dio e comprende tre domande: Sia santificato il nome tuo; venga il regno tuo: sia fatta la tua volontà, siccome in Cielo così in terra. La seconda concerne l’uomo e contiene quattro domande: Dacci oggi il nostro pane quotidiano, con ciò che segue sino alla fine. – Prima domanda: Sia santificato il nome tuo. La prima cosa che domandar si deve è la gloria di Dio, poiché questa è la cosa più eccellente e ad un tempo il più grande di tutti i beni. Qual figli pertanto che di vero cuore desiderano l’onore del proprio padre, noi cominciamo primamente dal chiedere in generale che il nome del celeste Padre nostro, vale a dire, quello di Dio medesimo, che è quanto dire la sua maestà, la sua potenza, la sua sapienza, la sua bontà, la sua misericordia, la sua giustizia siano santificate, conosciute, apprezzate, onorate, rispettate, amate così in terra come in Cielo; ch’è quanto dire, che ad imitazione degli avventurosi abitatori del Cielo tutti gli abitanti della terra onorino, amino, esaltino, lodino colle loro parole e colle azioni, colla fede, colla speranza, colla carità il nome adorabile di Dio. Noi domandiamo specialmente: 1° che gl’infedeli illuminati dalla luce giungano alla cognizione del vero Dio, e siano rigenerati colle acque del Battesimo nel nome del Padre, del Figliuolo, Spirito Santo; 2° che tutte l’eresie vengano estirpate, ed i loro seguaci conoscano ed abbraccino qual vera madre loro la santa Chiesa cattolica, apostolica e romana, fuori della quale non v’ha effusione di Spirito Santo, né remissione dei peccati, né salute eterna; 3° che spariscano dalla faccia della terra le superstizioni, i sortilegi, le pratiche diaboliche, gli spergiuri, le bestemmie e tutti gli altri disordini coi quali il nome di Dio è vilipeso ed oltraggiato; 4° il ritorno dei peccatori sotto il dolce e sacro giogo del nostro Padre celeste; la persuasione sincera che tutti i beni del corpo e dell’anima vengono da Dio; la fedeltà nel riferirli tutti a gloria sua; e finalmente uno zelo religioso di onorare costantemente colle opere nostre la santa Trinità, affinché gli uomini dai nostri scandali non piglino occasione di bestemmiare il santissimo suo nome. E tutto questo noi domandiamo noi non per un giorno, ma per tutta la nostra vita; ovvero, in altre parole, noi chiediamo la perseveranza nel bene fino all’estremo sospiro. – Il desiderio della santificazione del nome di Dio è certamente il più nobile che possa sortire dal cuor dell’uomo, attesoché appunto per questo noi fummo creati e dotati di ragione; ed è eziandio il più ardente e il più costante che sia stato formato dal Signor Nostro stesso, e dietro il suo esempio da tutti i Santi nel corso dei secoli. – Sant’ Ignazio di Lojola rivolto un giorno al P. Laynez gli disse: « Se Iddio lasciasse alla vostra scelta di andar subito in Paradiso, oppure di rimanere ancora sulla terra colla probabilità di operare qualche gran fatto per la gloria del suo nome, a qual dei due vi appigliereste? — Accetterei di andare in Cielo, rispose il P. Laynez. — Quanto a me, riprese il Santo, preferirei di restare quaggiù per fare la volontà di Dio, e renderGli come potessi un qualche servigio. Rispetto alla mia salute, io non dubito punto che Iddio volesse dimenticarmi, e lasciar perire colui che per suo amore avesse volontariamente ritardato il suo ingresso nel Cielo». – Seconda domanda: Venga il regno tuo. Dopo di aver desiderato la gloria di Dio, noi domandiamo che ci sia dato di partecipare della medesima, essendo questo lo scopo pel quale siamo stati creati, e per conseguenza la ragione suprema della Religione, della vita, del tempo, dell’eternità [Matth. VI]. – Osservisi come noi dimandiamo che il regno di Dio venga a noi, e non già che noi andiamo a lui, poiché è necessario che a noi venga il regno della grazia, acciocché possiam giungere a quello della gloria. E infatti il regno di Dio in tre modi si può intendere: regno di natura, regno di grazia, regno di gloria. Il regno di natura è quello pel quale Iddio regge e governa tutti gli esseri creati e tutto quanto l’uman genere. Di questo regnoparla la Scrittura quando dice: Signore, Signore, Re onnipotente, tu facesti il Cielo e la terra e tutto quello che nel giro dei cieli contiensi; in tuo dominio son tutte le cose, e non avvi chi al tuo volere resister possa [Ps. Esther XIII, 9-10] . Noi non chiediamo che questo regno arrivi, perché esso esisté, sin dall’origine del mondo, e gli stessi malvagi, vogliano o non vogliano, non possono sottrarvisi; dimandiamo soltanto la sua manifestazione, e desideriamo che tutti riconoscano, ammirino, benedicano le leggi di quella materna Provvidenza che il tutto dispose in numero, peso e misura; che raggiunge la sua meta con altrettanta forza che dolcezza, ed alla quale tutti devono sottomettersi con filiale rassegnazione. – Il regno di grazia si è quello col quale Iddio regge e governa i cuori e le anime dei fedeli figli della Chiesa, mercé l’azione dello Spirito Santo, e per mezzo delle tre grandi virtù, fede, speranza e carità, le quali conducono ad osservare con piena fedeltà i suoi divini precetti ed a cercare la sua gloria prima di ogni altra cosa. – Il regno di gloria avrà luogo nell’altra vita dopo il generale giudizio. Allora Iddio regnerà coi Santi in tutte le creature senza opposizione di sorta, perché allora ogni potenza sarà stata tolta al demonio ed ai malvagi che insieme incatenati gemeranno nelle prigioni dell’eternità. Allora eziandio sarà distrutto l’impero della morte, della corruzione, delle tentazioni tutte del mondo e della carne che tormentano qui in terra i servi di Dio, tantoché sarà quello un regno tranquillo, pacifico, accompagnato dal godimento certo e sicuro di una felicità sincera e senza fine. – Di quale di questi tre regni affrettiamo noi coi voti la venuta nella terza domanda dell’Orazione Dominicale? Siccome superiormente dicemmo, non già del primo, poich’esso non deve venire, ma è venuto; noi non ne chiediamo nemmeno la continuazione, poiché c’impedirebbe il nostro ultimo fine, che è quello di veder Dio a faccia a faccia per tutta l’eternità. E neppure chiediamo il secondo, attesoché ne esprimemmo il desiderio nella prima domanda, ed è già in gran parte venuto. Domandiamo invece la venuta del terzo che deve venire, regno a cui tutti quelli i quali conoscono le miserie di questa vita ardentemente anelano, e che consiste nella fruizione del sommo bene e nella gloria perfetta del nostro corpo e dell’anima nostra. E siccome questa gloria non sarà perfetta se non dopo il finale giudizio, così noi domandiamo ogni giorno e con intenso affetto la fine di questo mondo e l’arrivo del generale giudizio. Noi domandiamo che questo mondo sì pieno d’iniquità e di disordini sia ben tosto surrogato da nuova terra e da nuovi cieli, in cui regnerà la giustizia, affinché Iddio sia tutto in tutte le cose. E sebbene gli amatori di questo mondo non possano sentire più sgradevole annunzio di quello del finale giudizio, tuttavia noi altri, cittadini del Cielo, che viviamo quaggiù come pellegrini ed esuli, non possiamo e non dobbiamo avere desiderio più grande di quello di vederlo arrivare. Perciò scrive S. Agostino: « Siccome prima che Gesù Cristo venisse al mondo tutti i desideri dei Santi dell’antica Legge s’indirizzavano alla prima venuta di Cristo: così ora tutti i desideri de’Santi della Legge nuova s’indirizzano alla seconda venuta dello stesso Cristo, che ci porterà la perfetta beatitudine» [in Ps. CXVIII,- Bellarm., Dottr. Crist.. p. 79]. Ecco una verità che importa sommamente di richiamare al nostro spirito e a quello degli altri. Nulla è più atto a nobilitare i nostri pensieri quanto la memoria di questo fine sublime al quale noi siamo destinati; nulla è più proprio a farci tollerare coraggiosamente le avversità, a resistere fedelmente alle tentazioni, a disprezzare tutti i beni della terra, quanto il meditare queo gaudii eccelsi che ci aspettano nell’eternità. Oh! sì; un giorno noi regneremo in compagnia del Signor Nostro; addestriamoci pertanto a far da padroni comandando alle nostre passioni, e costringendo il mondo a piegarsi innanzi alla nostra fede. Quale vergogna se altrimenti avvenisse! Forseché col portar le catene dello schiavo si può apprendere ad esser re? – Terza domanda: Sia fatta la volontà tua. Nell’antecedente petizione noi abbiamo domandato la beatitudine eterna, che è il fine ultimo dell’uomo; ed in questa chiediamo il mezzo principale per arrivarvi.Ora questo mezzo, secondo la parola dello stesso Signor Nostro, è di adempiere la volontà del nostro Padre celeste: Se brami di arrivare alla vita, osserva i comandamenti [Matth.XIX,17]. E perché noi non siamo bastanti da noi stessi ad osservare questi divini Comandamenti come si conviene, però noi imploriamo da Dio che sia fatta da noi la sua volontà, cioè che ci dia: 1° la grazia di adempiere la sua volontà, obbedendo in tutto e per tutto a’ suoi santi Comandamenti, imitando in questo l’esempio del nostro divino modello, che umiliò se stesso, fatto ubbidiente sino alla morte, e morte di croce [Philipp. II, 3]; 2° la grazia di accettare, se non con fiducia e con gioia filiale, senza mormorazioni almeno, le pene spirituali e corporali che ci possono affliggere, come la perdita delle sostanze, dei congiunti, degli amici. Infatti, tutte queste cose che Iddio comanda, o permette, tendono al maggior nostro bene; se noi siamo giusti ci aprono più vasto campo a meritare; se non lo siamo ne somministreranno almeno il mezzo di purificarci. – Uomini di poca fede! Che possiam noi chiedere di più vantaggioso che l’adempimento della volontà del nostro Padre? Ei ci ama più teneramente di quello che non ci amiamo noi stessi; la sua volontà è santa, giusta, perfetta. Ohimè! per non averla adempiuta il primo Adamo precipitò in quell’abisso di mali che sono il triste nostro retaggio; adempiendola, noi ce ne libereremo e ne saremo preservati, o questi almeno saranno per noi di tanto minore aggravio, con quanta maggiore esattezza avremo adempiuta questa volontà perfetta; e ciò è così vero che su nel Cielo si gode la pienezza della felicità, posciaché ivi regna tutta sola, eternamente, la volontà di Dio. E questa felicità per ognuno di noi sarà proporzionata a quella fedeltà colla quale avrem fatto la volontà di Dio sulla terra. – Siccome in Cielo, così in terra. Nel chiedere a Dio la grazia di ubbidirGli, noi domandiamo ad un tempo che si degni di render meritoria e degna di Lui la nostra ubbidienza, vale a dire, somigliante a quella degli Angeli e di tutti i Santi cittadini del Cielo. Ora gli Angeli ed i Santi si soggettano alla volontà di Dio con tutta la pienezza dell’amore; obbediscono unicamente perché Dio lo vuole, senza cercare l’amor proprio; adempio noi suoi cenni colla massima prontezza; non si lagnano, non discutono. Ad ogni volere dell’Altissimo essi rispondono con un cantico di lode, con rendimenti di grazie: Santo, Santo, Santo, è il Signore, Dio degli eserciti. E così pure dobbiamo ubbidir noi: Oh! quanto sarebbe dilettevole questa terrena dimora, se tutti quei milioni di umane volontà non avessero in tutte le cose e in tutti i tempi altra volontà che quella di Dio! Quanto a noi almeno, deh! Siano sempre nel nostro cuore e sulle nostre labbra le parole dell’Apostolo San Paolo: «Signore, che volete voi che io faccia?» Quelle del Re Profeta: «Il mio cuore è preparato, o Signore, il mio cuore è preparato». Quelle del santo Giobbe: « Il Signore me lo diede, il Signore me lo tolse, come a Lui piacque così fu fatto, sia benedetto il suo santo nome ». Quelle finalmente dello stesso divino nostro Maestro: « Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice: tuttavolta sia fatta la vostrae non la mia volontà ». – Tale si è la prima parte dell’Orazione Dominicale; e quando vogliansi considerare nel loro obbietto, nulla è più sublime delle tre domande di cui essa consta, nulla è più logico dell’ordine col quale sono esposte. Noi chiediamo primamente che il nome di Dio sia santificato, dappoiché prima di ogni altra cosa noi dobbiamo amar Dio, e cercare innanzi tutto la sua gloria; in secondo luogo domandiamo che venga a noi il suo regno, perciocché Egli sarà perfettamente amato e benedetto, quando specialmente dopo il finale giudizio, regnerà pienamente e perfettamente su tutte le creature; in terzo luogo (domandiamo la grazia di fare la volontà di Dio quaggiù in terra, allo scopo di cominciare anche in questa vita a santificare il Nome del Signore, ed a vivere sotto il suo regno, onde giungere, mercé tale cominciamento, a quel luogo beato in cui sarà perfetto il suo regno, ed il suo nome perfettamente santificato. A dir breve, in queste tre prime petizioni noi chiediamo le cose pertinenti a Dio: che il suo Nome sia santificato; che venga il suo regno; che i suoi Comandamenti siano osservati: in ciò consiste la perfezione e l’ultimo fine dell’uomo. – La seconda parte dell’Orazione Dominicale abbraccia quattro domande, per le quali si chiedono tutte le cose temporali necessarie per arrivare ai beni eterni. Che di più saggio? Alla stessa guisa che l’uomo si riferisce a Dio come a proprio fine, così pure i beni di questa vita si riferiscono a quelli dell’altra come mezzi al loro fine. Ed ecco perché il Signor Nostro vuole che la domanda di questi beni terreni occupi il secondo luogo. Noi non dobbiamo domandarli se non in quanto Iddio medesimo lo permette, e che noi ne abbisogniamo per conseguire i beni celesti. Quarta domanda: Dà a noi oggi il nostro pane quotidiano. Con queste parole così semplici ed affettuose noi chiediamo tutto ciò ch’è necessario al sostentamento della nostra vita temporale. Ora noi siamo composti di due sostanze, d’anima e di corpo; ambedue per vivere hanno bisogno di alimento. L’anima che è spirituale, esige alimento spirituale; il corpo che è materiale, richiede cibo materiale. La santa Eucaristia, la parola di Dio, le sante ispirazioni, ecco qual’è il ristoro dell’anima, ecco quello che per essa noi domandiamo. – Bere, mangiare, vestire e consimili altre necessità sono le cose che richieggonsi per la conservazione del corpo, ed ecco ciò che pel medesimo noi chiediamo. Dà a noi. Parole d’umiltà attissime a muovere a pietà il cuor di Dio! Per esse riconosciamo che noi non abbiamo nulla, e siamo affatto uguali ai mendichi-, riconosciamo che Iddio solo è ricco, e ch’Egli solo può darci il tutto; che a Lui andiamo debitori dell’esistenza e del necessario, sì per la vita spirituale che per la temporale, e non già alle nostre fatiche, alla nostra industria, alle nostre virtù. Meravigliose verità! È forse per virtù nostra che cresce il grano nei campi, il vello sul dorso della pecora? È per virtù nostra che si avviva nel nostro cuore la fede, si dilata la speranza, s’infiamma la carità? Oh! senza dubbio, ricchi e poveri, di qualunque grado o stato, tutti dobbiam pregare che dia a noi; tutti senza eccezione siamo tapini chiedenti l’elemosina alle porte del Padre di famiglia. I facoltosi devono dire dà a noi, e sulle loro labbra queste parole significano: Mio Dio! degnatevi di conservarci i beni che ci avete confidati, continuateci le vostre liberalità; noi sappiamo che ad ogni istante voi potete toglierci ogni nostro avere, tantoché col conservarceli voi ci fate la stessa grazia, come se ad ogni istante ce li donaste. I poveri devono dire dà a noi, e nella loro bocca queste parole significano: Mio Dio! noi aspettiamo dalla vostra liberalità tutto ciò che è necessario al nostro sostentamento, deh!inviatecelo o direttamente per Voi stesso, o indirettamente per mezzo dei ricchi ai quali voi ispirate di essere caritatevoli verso di noi; benedite le nostre fatiche, né vogliate che le infermità o i pubblici infortuni ci privino del frutto dei nostri sudori. Ora sarebbe un tentare Iddio il credere ch’Egli fosse per inviarci la manna dal Cielo senza far altro del canto nostro che domandarla. No, quel Dio che comanda la preghiera, comanda altresì la fatica; e le nostre suppliche non hanno altro scopo che d’implorare le sue benedizioni sulle nostre fatiche, sui nostri sudori. Infatti ogni fatica nostra è inutile, se Iddio per sua grazia non la rende feconda: la nostra preghiera dà a noi è quindi una protesta che noi viviamo della Provvidenza di Dio, anziché della nostra industria. Finalmente noi tutti, e ricchi e poveri, domandiamo non solo che Iddio ne conceda il nostro pane, ma che egualmente Io benedica, lo santifichi, affinché ne usiamo sempre a vantaggio non solo del corpo, ma eziandio dell’anima. – Noi diciamo dà a noi, e non dà a me, imperocché è proprio del Cristiano di non pensare solamente a se stesso; e vuole la carità che si abbia a cuore l’utile eziandio del nostro prossimo. D’altra parte Iddio non ci accorda i suoi benefizi perché ne approfittiamo noi soli e ci abbandoniamo all’intemperanza; ma vuole che facciamo parte agli altri di tutto quello che ne avanza dopo di aver provveduto a’ nostri personali bisogni. – Oggi. Questa parola ha due significati. Primieramente significa tutto il tempo della vita presente, poiché la vita non è che un giorno, senza ieri, senza domani. E noi chiediamo a Dio che ci doni per tutto il tempo di questo terreno pellegrinaggio il pane dell’anima e il pane del corpo, finché possiamo giungere in quella patria fortunata dove più non abbisogneremo né di Sacramenti, né di prediche, né di materiali alimenti Oggi, in secondo luogo, denota il giorno presente. E noi domandiamo a Dio che ne conceda oggi stesso quel pane di che abbisogniamo, poiché non ci vogliamo angustiare per l’indomani, non sapendo noi se domani saremo ancora in vita. Laonde il pane d’oggi si richiede oggi; quello di domani sarà chiesto domani. – È egli possibile d’insegnarci più eloquentemente quell’amabile, quell’ammirabile povertà evangelica, che per un lato è riposta nel distacco assoluto dai beni della terra, e per l’altro in una filiale, assoluta fiducia nella divina Providenza? Il nostro Padre celeste non vuole che neppure per un giorno noi facciamo assegno sulle nostre forze, ma vuole che ogni giorno gli chiediamo il pane di ogni giorno; vuole che ogni giorno riposiamo in braccio alla sua Provvidenza, e in lei rimettiamo la cura di soccorrere alle nostre necessità. E quale inquietudine possiamo aver noi? Se prima d’ogni altra cosa cercheremo il regno di Dio e della sua giustizia, tutto il resto ne verrà donato per soprappiù. Osservate; non nutrisce Egli forse il nostro Padre celeste gli augellelti dell’aria che non seminano punto? Non veste Egli forse i gigli del campo che non filano? non fa egli nascere ogni giorno il sole sul giusto e sul malvagio? Ma dacché noi non dobbiamo occuparci che del presente, non è forse mal fatto accumulare provvigioni di grano, di vino e di ogni altra derrata per un anno intero? Allorché il Signore ne insegna ad occuparci soltanto del presente, Egli vuole solamente liberarci da quelle soverchie premure che sono ostacolo fortissimo alla preghiera, nonché alle altre occupazioni di maggiore importanza, e il cui adempimento può solo guidarci alla vita eterna. E però quando il pensiero dell’avvenire non è punto eccedente, ma sì bene misurato, come sarebbe il premunirsi di convenienti provvigioni, esso non è riprovevole; anzi, che dico io? Un tale pensiero non si può dire dell’indomani, ma piuttosto del giorno d’oggi, perché, aspettando l’indomani, potrebbe fors’essere troppo tardi. – Il nostro pane. Dopo di avere coll’antecedente petizione domandato la grazia che è la vita stessa, nulla è più naturale di chiedere in seguito il pane che alimentala vita. Difatti la prima cosa che desidera il fanciullo appena nato è quel nutrimento che mantiene l’esistenza. Non esca però di mente, che qui noi pure domandiamo anzi tutto il pane spirituale, nutrimento dell’anima, e poscia il pane materiale, nutrimento del corpo; tanto esigono la ragione e la fede. Per pane spirituale s’intende in primo luogo la santissima Eucaristia, pane celeste e sovrannaturale che sostenta miracolosamente la vita dell’anima; in secondo luogo, la parola di Dio, la quale, ricevuta mercé la predicazione o la lettura, è possente aiuto ad alimentare la nostra vita spirituale; e da ultimo son dinotate le sante ispirazioni, la preghiera e tutto ciò che contribuisce ad alimentare od accrescere in noi la grazia, la quale, siccome abbiam detto, è la vita dell’anima. Perciò il Signor Nostro vuole che chiediamo ogni giorno la sua carne in cibo e il suo sangue in bevanda, che è quanto dire la santa Eucaristia, nutrimento giornaliero delle anime nostre; quindi noi dobbiamo vivere in guisa da renderci degni di riceverlo ogni giorno. Che pensare, o mio Dio! di coloro che non la ricevono se non una volta all’anno! Ei vuole altresì che domandiamo ogni giorno la sua divina parola. Che pensare pertanto di quegli infelici che non l’ascoltano, non la leggono, che per discuterne e censurarla? Costoro, per sentimento dei Padri, si condannano da se stessi alla morte spirituale, e si rendono colpevoli dello stesso sacrilegio dei profanatori dell’Eucaristia È almeno indubitato che coloro i quali fuggono la parola di Dio, non men di coloro che si allontanano dalla santa Eucaristia, ignorano ciò che dicono allorquando dicono il Pater. – Per pane materiale s’intende tutto quello ch’è necessario alla vita del corpo, ma nulla più; nulla di quanto può appagare la sensualità o lusingare il lusso. Nostro Signore usa la parola pane, primieramente perché nelle Scritture una tal voce denota tutto ciò ch’è necessario alla vita, come ad esempio il vitto, il vestito, l’abitazione; e in seguito per insegnarci che dobbiamo contentarci di poco, senza cercare il superfluo, che mal si addice a viaggiatori che passano in terra straniera. – Noi diciamo nostro pane, e questa parola racchiude un senso profondo. Infatti, se s’intende la santa Eucaristia, essa è nostro pane, dappoiché per noi soli fu formato nel seno della Vergine benedetta per opera dello Spirito Santo, fu cotto sulla croce nel fuoco della carità, imbandito sull’altare col ministero dei Sacerdoti. Essa inoltre è nostro pane, pane dei veri figli di Dio, non già dei cani, secondo l’energica espressione delle Scritture, vale a dire, dei peccatori; è pane dei Cattolici, non già degli eretici e degli infedeli. Intendesi la parola di Dio? Col dire nostro pane noi domandiamo la sana e pura parola di Dio, dispensata dai veri Predicatori ai figli della Chiesa, e non già il pane straniero, il pane corrotto, avvelenato, che offrono gli eretici ai loro settari. Intendesi il pane materiale? Noi desideriamo che Iddio ci doni il nostro pane, non quello d’altrui, vale a dire, che ci aiuti a guadagnarlo col benedire le nostre fatiche, i nostri poderi, i nostri campi, le nostre vigne, affinché senza ricorrere alla frode, né aver bisogno di mendicare, ci possiamo procurare di che vivere. Diciamo ancora nostro pane, non perché ci appartenga di diritto, ma sì bene affinché Iddio per somma sua misericordia si degni concederlo a noi, come nutrimento convenevole all’ uomo; diciamo nostro pane e non mio pane, perché ciascuno di noi deve chiedere pe’ suoi fratelli quello che chiede e desidera per se medesimo. Ma potremo noi dire di avere tal desiderio, se ricusiamo di metterli a parte di quel superfluo che Iddio ci dona? Quotidiano. Questa parola ne insegna che da noi non devesi chiedere nutrimento squisito, né delicato, ma sì un cibo semplice, frugale e bastevole alle giornaliere necessità, giusta gl’insegnamenti dell’Apostolo: Avendo gli alimenti, e di che coprirci, contentiamoci di questo (1 Tim.VI, 8) . Alla qual lezione di frugalità la parola quotidiano ne aggiunge un’altra non meno eloquente di modestia e d’isinteresse: l’uomo chiede pane per un sol giorno, attesoché egli ignora se per lui sorgerà l’indomani! – Quinta domanda: Rimetti a noi i nostri debiti, siccome noi li rimettiamo ai nostri debitori. Nelle quattro precedenti domande abbiamo chiesto al Padre nostro d’impartirci i beni temporali ed eterni; nelle tre successive lo preghiamo a liberarci da qualsivoglia male passato, presente e futuro; onde per tal modo l’Orazione Dominicale comprende quanto possiamo desiderare. Il male già passato sono i peccati che commettemmo; il mal futuro, le tentazioni che inducono a peccare; il mal presente, le tribolazioni e gli affanni tutti del faticoso nostro pellegrinaggio. Col domandare di essere liberati dal male, intendesi ancora la domanda di essere preservati dai mali grandissimi che sono i peccati che ci separano da Dio ; e dai mali mediocri altresì, come ad esempio le tentazioni; perciocché sebbene queste non siano per se stesse peccati, sono per altro incentivi possenti a trascinarci nella colpa; ond’è fuor d’ogni dubbio ragionevole chiamare col nome di male ciò che ci espone a sì grande pericolo. Per mali leggieri finalmente, in confronto degli altri di cui sono conseguenza, s’intendono le pene temporali ed eterne. – In questa quinta domanda il Signor Nostro ne insegna dunque a chiedere il perdono dei nostri peccati, e per esprimerli egli adopera la parola «debiti, debita». Ma d’onde una tale espressione? Per tre ragioni, rispondono i Dottori: «La prima, perché ogni uomo che offende Dio, diventa debitore a Dio per l’ingiuria che Gli ha fatto. La seconda, perché chi pecca trasgredisce la Legge di Dio; e perché essa Legge promette premio a chi l’osserva, e minaccia castigo a chi la trasgredisce: il trasgressore si trova perciò stesso debitor della pena fissata nella Legge. La terza, perché ciascuno di noi è obbligato a coltivare la vigna dell’anima sua, e renderne a Dio il frutto, che sono le buone opere; però chi non fa buone opere, e molto più chi ne fa di cattive, si costituisce debitore a Dio, il quale è il vero Padrone della vigna e dei frutti. E perché tutti noi spesso manchiamo, sia col fare ciò che non dovremmo, come col non fare quello che dovremmo, però più volte al giorno conviene dire con profonda umiltà a Dio che ci rimetta i nostri debiti ».(Bellarm. Dottr. Crist., p. 88). – Bastano queste parole per ottenere la remissione dei peccati? — Se trattasi di peccati veniali e giornalieri, tali parole, purché accompagnate, siccome abbiamo detto, da vera contrizione, li rimettono direttamente; ma rispetto ai peccati mortali non li rimettono che indirettamente, nel significato cioè, che dispongono il cuore del nostro Padre celeste ad accordarci il dono di ricevere con frutto l’effusione della grazia e dei meriti del Signor Nostro Gesù Cristo nel sacramento della Penitenza. Tanto i giusti, quanto i peccatori debbono dire rimetti a noi i nostri debiti: 1° perché non è già lo stesso non conoscere i propri peccati, e non averne alcuno. Sebbene la mia coscienza, dice l’Apostolo, nulla mi rimproveri, non per questo io sono giustificato; 2° perché moltissimi sono i peccati occulti; 3° perché l’asserire d’essere senza peccato, dice l’Apostolo S. Giovanni, è un pretto mentire; 4° perché noi domandiamo non solo la remissione del peccato, ma quella eziandio della pena che gli è dovuta; 5° perché chiediamo il perdono così per noi, come ancora per tutti i nostri fratelli. (Con. Trid., sess. VI, can 23). – Siccome li rimettiamo a’ nostri debitori. Con tali parole noi diciamo al Padre nostro celeste: Per ottenere la remissione dei debiti de’ quali siamo carichi verso di voi, noi rimettiamo ai nostri fratelli tutti quei debiti che essi hanno verso di noi. – Chiunque ci offende contrae un debito verso di noi, poiché infrange la legge della carità, e qualche volta ancora quella della giustizia, e per conseguenza incorre l’obbligo di darci soddisfazione. Ora noi dichiariamo di assentire che Iddio prenda per regola della sua misericordia a nostro riguardo quella che noi usiamo verso il prossimo; dunque se noi perdoniamo imperfettamente o solo a metà, oppure non perdoniamo che a fior di labbra, conservando l’amarezza, l’antipatia, il rancore nel fondo dell’animo; e finalmente se non perdoniamo punto, invitiamo Iddio a fare altrettanto con noi. – Tuttavolta coloro che non perdonano ai loro nemici possono recitare l’Orazion Dominicale, non, per vero dire, coll’intenzione che il Signore perdoni loro com’essi stessi perdonano, dappoiché ciò sarebbe un chiedere la propria condanna; ma nel significato che Iddio perdoni loro come eglino pure dovrebbero perdonare, e parlando a nome della Chiesa, che conta sempre tra i suoi figli gran numero di Cristiani i quali perdonano ai nemici e pregano per loro. Perciò anche la Santissima Vergine, quantunque immune da ogni colpa, poteva recitare l’Orazione Dominicale, e dire perdona a noi; imperocché sul suo labbro queste parole significavano: Perdonate ai peccatori che come me appartengono alla Chiesa. « Se quelli soltanto, scrive S. Agostino, che amano i propri nemici possono dire: Rimetti i nostri debiti, siccome noi li rimettiamo a’nostri debitori, io non so quel che mi debba dire, o quel che mi debba fare. Vi dirò io forse: No, non pregate punto? Certo io non lo ardisco; dirovvi invece: Pregate affinché possiate amare. Ma al postutto se voi non amate il prossimo, dovrò proibirvi di recitare l’Orazione Dominicale? Se vi astenete dal dirla non otterrete perdono, e se a lei ricorrete e lasciate non ostante di eseguire quanto dice, non otterrete egualmente perdono. Che resta dunque a farsi? Recitarla e perdonare onde ottener remissione » (Serm. V, alias de divers. 48). – Quindi le parole siccome noi perdoniamo racchiudono una condizione che il Signor Nostro istesso ha voluto imporre alla divina sua misericordia. E perché mai una tale condizione? Per più ragioni, tutte egualmente degne della sua infinita sapienza. La prima, affinché appieno da noi si comprenda la grandezza del benefizio che Iddio c’imparte nel perdonare i nostri peccati; grazia sì grande Ei non volle concederla, senza mettervi la condizione che noi pure usiamo misericordia verso i nostri fratelli. La seconda, a fine d’incoraggiare la nostra debolezza, dimostrandoci con qual estrema facilità si può dall’uomo conseguire l’immenso beneficio della remissione dei peccati, dappoiché egli per parte sua ci promette misericordia se noi non la neghiamo al nostro prossimo: il che dipende affatto dal nostro volere. La terza, onde mantenere fra di noi la carità, la quale è il gran precetto del Vangelo, facendo della nostra la condizione e la regola della carità di Dio inverso di noi. La quarta finalmente, per fiaccare il nostro orgoglio e far palese quanto ingannati e colpevoli sieno quelle persone del mondo che chiamano una viltà il perdonare e rinunziare alla vendetta. Quando infatti essi chiederanno misericordia, Iddio li condannerà colle stesse loro parole, dicendo: come vuoi tu che Io ti usi misericordia, se questa appunto tu abborri e poni in derisione? tu tratti da vile chi perdona; osi tu dunque pregarmi ch’Io mi avvilisca perdonandoti, e vuoi che ti esaudisca? (S. Greg. Niss., in 3 Orat. Domin.). -Per le quali cose il dovere e l’utile nostro egualmente ne impongono di perdonare non solo esternamente, ma interiormente e senza indugio, giusta il detto della Scrittura: « Se voi non perdonate di tutto cuore, il vostro Padre celeste non vi perdonerà; ed altrove: il sole non tramonti giammai sull’odio vostro». I Santi presero in ogni tempo queste parole per regola di loro condotta. San Giovanni l’Elemosiniero, Patriarca di Alessandria, avea ripreso con qualche vivezza un Senatore, che perciò l’aveva lasciato fortemente indispettito. Giunta la sera, il Santo inviò un messo al Senatore con quest’ambasciata: il sole è prossimo al tramonto. A queste parole il Senatore, compreso da vero dispiacere, corre presso il santo Vescovo, dal quale è accolto ed abbracciato come un fratello, e l’ultimo raggio del sole morente rischiarava questo quadro affettuoso di riconciliazione. – Meditiamo spesso questo esempio, non meno della quinta petizione del Pater. Iddio promette di perdonarci, purché noi pure perdoniamo ai nostri fratelli. Le offese che noi perdoniamo al prossimo sono un nulla in paragone di quelle di cui siamo debitori verso Dio. Noi l’abbiamo crocifisso! Noi domandiamo la remissione di dieci mila monete d’oro per qualche denaro che ci è dovuto! Ma se noi rimettiamo questa lieve somma con cuor sincero, e senza neanche aspettare che il debitore venga a pregarci; se la rimettiamo tutta intera e senza restrizione, vale a dire, se perdoniamo con animo volonteroso e con affetto fraterno; se noi preveniamo i nostri offensori con bontà e carità, invece di abbandonarci ad una cieca vendetta, e senza pretendere da essi soddisfazioni umilianti; se tutto ciò, io dico, noi opereremo, le nostre colpe saranno tutte perdonate. Non dimentichiamo giammai le parole del Salvatore: « Se voi perdonerete le offese ricevute, il vostro Padre celeste perdonerà quelle che Gli avete fatto». – Questa promessa per altro suppone in colui, che perdona al suo prossimo, lo spirito di penitenza pei suoi propri peccati; imperocché è verità di fede, che senza lo spirito di penitenza nessun peccato può giammai venir rimesso. – Nè contentiamoci soltanto di meditare queste parole, ma mettiamole in pratica, ad esempio di quel buon Religioso ricordato dalla storia. Aveva esso vissuto nel suo monastero con tale tiepidezza, che spesso si era attirato severe ammonizioni del Superiore. Giunto ad età inoltrata, cadde infermo per non più rialzarsi. Uno de’ suoi confratelli, vedutolo agli estremi, né scorgendo sul suo volto o timore od inquietudine di sorta, gli domandò, come mai poteva morire con tanta tranquillità dopo una vita così poco edificante. E verissimo, fratel mio, gli rispose il moribondo, che sono stato negligentissimo, e gli Angeli pure mi hanno spiegato innanzi agli occhi la lunga lista dei peccati, che ho commesso dopo il mio ingresso in religione: io sono convinto di tutto; ma intanto non mi poterono mostrare o un giudizio temerario, o la più piccola vendetta di cui mi sia reso colpevole. Allora io dissi loro: Io ho fiducia nelle promesse del Signore, il quale ha detto: Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati; perdonate, e vi sarà perdonato. Ciò inteso, gli Angeli hanno lacerato l’elenco de’ miei falli, ed ecco da che nasce la mia fidanza. E in così dire si addormentò tranquillamente nelle braccia del Dio di misericordia, lasciando a tutti i suoi fratelli un salutare esempio ed una grande edificazione. – Sesta domanda. E non c’indurre in tentazione. Allorquando figli ben nati hanno ottenuto dal Padre il perdono dei loro falli, non altro ad essi rimane che sfuggirli per lo innanzi, e mercé una condotta irreprensibile consolare il genitore ch’ebbero la disgrazia’di contristare. Cosi pure il Signor Nostro vuol che si faccia da noi: quindi è naturale il legame che unisce alla precedente questa domanda dell’Orazione Dominicale. Nella quinta noi abbiamo domandato la liberazione dal male passato, cioè dal peccato commesso; nella sesta noi domandiamo l’aiuto di Dio contro il male futuro che è la tentazione. Tuttavolta questa per se stessa non è un male come il peccato; anzi non è male se non in quanto può trascinarci ad un altro male, cioè l’offesa di Dio. Ma per tal ragione è molto pericolosa, e perciò supplichiamo Iddio a volercene preservare. Qui pure conviene spiegar chiaramente il senso della nostra preghiera: Dicendo non c’indurre in tentazione, noi non chiediamo già di essere liberati interamente da ogni tentazione, ma chiediamo: 1° di non esser vinti dalle tentazioni; 2° di esser liberati dalle tentazioni straordinarie; 3° di non essere esposti a tentazioni o deboli o forti, se Dio vede che la vittoria non sarà nostra ma del demonio. – Ma perché non chiediamo noi di essere liberati da ogni sorta di tentazioni? Perché ci torna vantaggioso l’essere tentati. La tentazione ci ammaestra: per un lato ci fa conoscere la nostra debolezza, la nostra corruzione; dall’altro ne dimostrala potenza della grazia la quale con sì deboli soldati, quali noi siamo, sa riportare splendide vittorie. La tentazione ci mantiene nell’umiltà. Affinché, scrive San Paolo, la grandezza delle mie rivelazioni non mi facesse insuperbire, lo stimolo della carne, l’angelo di Satanasso mi fu lasciato intorno per schiaffeggiarmi, vale a dire, per farmi ricorrere all’umiltà, alla vigilanza , alla preghiera. La tentazione ci assoda nella virtù. I venti che scuotono le piante, dice un santo Padre, nello stesso tempo le alimentano; e così pure le tentazioni accrescono vigore all’anima. La tentazione ci arricchisce; imperocché tutte le volte che noi le resistiamo, ci fa produrre atti di virtù e di fedeltà che aumentano i nostri meriti. La tentazione ci rende esperti, vuoi a nostro, vuoi a riguardo altrui. Chi non è stato tentato, quanto sa egli? (Eccl.XXXIV, 11) richiede giustamente il Saggio. Finalmente la tentazione ci fa compatire le debolezze altrui, e fa riposare su di noi lo spirito del Signore, secondo il dettato dell’Apostolo S. Giacomo: Beato l’uomo che tollera tentazione: perché quando sarà stato provato, riceverà la corona di vita promessa da Dio a quelli che lo amano . (Jacob. I, 12). Noi diciamo al nostro Padre celeste: Non indurci in tentazione. Qual significato hanno tali parole? Forse che Dio ci tenta? No certamente; a parlare con proprietà Iddio non tenta alcuno, poiché tentare vuol dire indurre al male (Jacob. I, 12). È bensì vero che nelle Scritture si legge avere Iddio tentato Abramo, ma questo significa che il Signore volle mettere a prova la fede e l’obbedienza di quel santo Patriarca. – Ogni giorno Iddio tenta noi pure in simil guisa colle infermità, colle afflizioni, coi travagli, sia per convertirci come per accrescere i nostri meriti. Rispetto alle tentazioni propriamente dette Iddio permette soltanto che noi siamo tentati; e questo deve consolarci, attesoché per una parte i nemici dell’anima nostra non possono assalirci senza la permissione del Padre nostro celeste; e per l’altra Egli loro non permette giammai di tentarci oltre le nostre forze: Non vi ha sorpreso tentazione, dice l’Apostolo, se non umana; ma fedele a Dio, il quale non permetterà che voi siate tentati oltre il vostro potere, ma darà con la tentazione il profitto, affinchè possiate sostenere (1 Cor. X, 13). Ecco adunque qual’è il senso della preghiera che noi Gli volgiamo: Signore, noi conosciamo la nostra debolezza e fragilità, sappiamo quanta sia la malvagità e il potere del demonio; non vogliate dunque permettere che noi vostri servi siamo atterrati dalla tentazione, e neppure tentati, se non dobbiamo uscire vittoriosi dal combattimento.Ma ad ottenere la vittoria in una lotta sì pericolosa è mestieri ben conoscere i nostri nemici e le armi con cui si devono combattere. Tre grandi nemici son collegati a’ nostri danni, né cessano mai dal tentarci: il demonio, il mondo, la carne. Il demonio ne tenta col suggerirci pensieri peccaminosi d’ogni specie: d’orgoglio, d’invidia, di bestemmia, di vendetta, e somiglianti. Il mondo ci tenta coi cattivi discorsi, colle cattive letture, coi cattivi esempi. La carne ci tenta con criminose tendenze. Il più pericoloso di questi tre nemici è la carne, poiché da essa non possiamo un solo istante separarci. Rispetto alle armi di cui dobbiamo valerci contro questi tre nemici, conviene opporre al demonio, il segno della croce e l’invocazione dei santi nomi di Gesù e Maria; al mondo, il disprezzo de’suoi motteggi, delle sue minaccie, delle sue promesse, considerando la sua debolezza e la caducità delle cose temporali che svaniscono alla morte; alla carne, la fuga dalle occasioni, la mortificazione dei sensi, la devozione alla santa Vergine Madre di ogni purità. Ecco i rimedi particolari. I rimedii generali sono: l’umiltà, la preghiera, il digiuno, la meditazione della Passione del Signor Nostro Gesù Cristo e dei Novissimi; finalmente la fedeltà nello svelare al Confessore le tentazioni tutte dalle quali siamo molestati. – Quest’ultima domanda conferma le domande antecedenti, e vi aggiunge qualche cosa di nuovo. Di fatto nella quinta e nella sesta noi abbiamo chiesto di essere liberati dal peccato e dalla tentazione, e qui pure imploriamo la stessa grazia, conciossiaché supplichiamo di essere liberati da ogni specie di mali; ma nel tempo stesso vi aggiungiamo la domanda di essere liberati da ogni afflizione corporale e spirituale, pubblica e privata, che potesse toglierci di pervenire all’eterna salute. Laonde dopo aver chiesto a Dio la liberazione dai mali passati e futuri, domandiamo di più la liberazione dai mali presenti; e così pure dopo aver pregato di esser liberati dal male della colpa, che è il peccato ed il maggiore di tutti i mali, noi supplichiamo di essere liberati dal male della pena, assai più lieve del primo, e che è riposto nelle afflizioni temporali ed eterne, funeste conseguenze del peccato. – «Ed avvertite che Nostro Signore con gran sapienza c’insegna a domandare la liberazione dal male in universale, e non viene al particolare, come dire dalle povertà, malattie, persecuzioni e simili cose; perché molte volte pare a noi, che una cosa ci sia buona, la quale Dio vede che per noi è cattiva: e per lo contrario a noi pare che una cosa sia cattiva, e Dio vede che per noi è buona. E però noi, secondo l’ammaestramento del Signore, Gli domandiamo che ci liberi da tutto quello che Egli vede, che per noi è male, o sia prosperità, o sia avversità » (Bellar. Dottr. Crist.). Ma non è egli superfluo il volere che noi domandiamo la liberazione del male, poiché la natura medesima ne suggerisce di ricorrere a Dio in ogni nostra tribolazione? È verissimo che sotto i colpi della sventura suolsi invocare l’aiuto divino; ma si osservi ancora, che taluni noi fanno, ed è pur necessario rammentar loro un obbligo così imperioso; altri poi lo fanno troppo tardi, e dopo avere esaurito tutti i mezzi umani. Iddio per costoro non è che un espediente, cui non si ricorre che alla peggio andare; e questa mancanza di fiducia è atto ingiuriosissimo, contro cui era necessario premunirli. Finalmente quasi tutti ignoriamo l’ordine e la maniera con cui si deve chiedere la liberazione dal male. Cosi per esempio, invece di chiedere innanzi tutto la liberazione dal peccato, noi domandiamo la liberazione dalla pena. Siam noi percossi da rovesci di fortuna, o da perdita di salute? Tosto domandiamo a Dio la liberazione da questi mali, senza nemmeno pensare alla liberazione dai mali più importanti, vale a dire, il peccato e il pericolo di commetterlo. Da ciò nasce che nulla si ottiene, poiché non si osserva il precetto del Signore, il quale comanda di chiedere prima d’ogni altra cosa il regno di Dio e la sua giustizia. Oltre a ciò in luogo d’implorare colle debite condizioni la liberazione dai mali temporali, noi più spesso la domandiamo in modo assoluto, senza rassegnazione, talvolta pure con impazienza, uscendo eziandio in atti di disgusto e in parole di mormorazione se non l’otteniamo, oppure se Iddio ce la fa aspettare. Ora, al fin di pregare come vuole Nostro Signore, conviene chiedere in maniera assoluta che Dio ci preservi, o ci liberi per sua benignità dal peccato, che è il solo vero male; ma rispetto agli altri mali, noi dobbiam chiedere d’andarne immuni, in quanto solo una tal grazia può esser proficua alla nostra salute. Ma liberaci dal male. Per restringere in due parole tutta l’importanza di questa petizione, noi diremo, che in tal modo devono sempre finire le preghiere dell’uomo decaduto. La liberazione dal male: ecco lo scopo di ogni Religione, di ogni sacrificio, di ogni penitenza pubblica o privata che mai siasi usata presso tutti i popoli sin dall’origine del mondo. Nella domanda che precede, noi preghiamo Dio a liberarci dal peccato, in questa noi lo supplichiamo a liberarci dalla pena del peccato, come a dire dalla morte subitanea, dai castighi riserbati agli empi, e dal fuoco del Purgatorio; da cui pure Lo preghiamo con tutto l’ardore di liberare le anime che vi sono tormentate. Noi domandiamo di essere preservati da tutti i mali, tanto esterni che interni: dall’acqua, dal fuoco, dal fulmine, dalla gragnuola, dalla fame, dalla guerra, dai tumulti; facciam voti perché restino sempre da noi lontane le malattie, le pestilenze, gl’infortuni, le prigionie, gli esilii, i tradimenti, le insidie; a dir breve, tutte le sventure che affliggono l’umanità. Domandiamo finalmente che le ricchezze, gli onori, la sanità, la vita stessa non tornino a detrimento ed a perdizione dell’anima nostra. Noi dobbiam chiedere tutto ciò con fiducia, perché il nostro buon Padre, col comandarci di chiedere la liberazione dai nostri mali, ci ha pur dato malleveria di essere esauditi: Alzaron le grida i giusti, e il Signore li esaudì, e liberolli da tutte le loro tribolazioni (Ps. XXXIII, 17). In questa domanda la parola male significa ancora il malvagio, ossia il demonio. Noi preghiamo Iddio a liberarci da’ suoi assalti, attesoché il demonio fu l’autore di tutti i delitti e di tutte le sventure degli uomini. Abbiamo detto malvagio e non malvagi, poiché tutti i mali che ci vengono dal nostro prossimo devono essere imputati alle maligne suggestioni dello spirito infernale. Laonde, anziché adirarci coi nostri fratelli, dobbiam volgere interamente il nostro odio contro satana, vera cagione di tutti i mali, che l’un l’altro si fanno gli uomini.La terza parte dell’Orazione Dominicale si compone di questa sola parola, che è come suggello, conclusione, di tutta la preghiera. Amen. Amen è parola ebraica, che vuol dire così sia, cioè, facciasi come ho chiesto; possano essere esauditi i miei voti, io lo credo, io lo spero. Come una rimembranza della Chiesa primitiva,e per rispetto alla veneranda nostra antichità si è conservata questa voce ebraica (“Propter sanctiorem auctoritatem servata est antiquitas”. S. AUG., lib. II , De Doctr. christ., c. 11); non meno che per venerazione al Signor Nostro, dalle cui labbra era frequentemente ripetuta. Amen esprime altresì un voto novello, un più vivo desiderio di ottenere le cose richieste. È mestieri profferire questa conclusione con pietà particolare e con affetto sincero, sia per supplire al mancamento di attenzione e di fervore che poté sorprenderci nel tempo della preghiera, che per tentare un ultimo sforzo, e toccare, per così dire, l’ultima corda al cuore del nostro Padre. – Tale è l’Orazione insegnata dal Signore: niente di più santo, di più affettuoso, di più augusto, di più efficace. È una chiave d’oro colla quale possiamo aprire a nostro talento i tesori del Cielo. Si ami dunque, si veneri, si custodisca come il bene più prezioso, si ponga indefessamente in uso. Ma tuttoché onnipossente, questa divina preghiera, non ci sarà in verun conto giovevole se non sarà fatta a dovere. Ora nulla di più opportuno a rianimare il nostro fervore nella preghiera, come nulla di più celebre negli annali dei Santi, che la visione di S. Bernardo. Ella ne fa conoscere le diverse classi di persone che si dedicano alla preghiera, e ne mostra al tempo stesso quali ricompense si meriti ognuna d’esse. Una notte, l’illustre fondatore di’ Chiaravalle, mentre tutti i suoi Religiosi recitavano il divino Officio, era assorto in profonda meditazione. Erano essi in gran numero, e Iddio gli fece conoscere che tutti andrebbero salvi, sebbene nel punto della visione non tutti egualmente fossero animati dal medesimo fervore. Vedeva il Santo che un Angelo stava al fianco d’ogni Religioso, e scriveva: alcuni di questi Angeli scrivevano in lettere d’oro, altri con acqua, alcuni finalmente con nero inchiostro. Il Signor Nostro degnossi di far comprendere al Santo il significato di questa visione. Gli disse che i Religiosi i quali pregavano col dovuto fervore erano quelli, le cui preghiere l’Angelo scriveva con lettere d’oro; quelli che pregavano con tiepidezza erano quelli, le cui preci venivano scritte coll’acqua; gli altri finalmente che pregavano distrattamente e sonnecchiando erano quelli, le cui orazioni scrivevansi col nero inchiostro: che i primi meritavano una grande ricompensa; i secondi nulla, o quasi nulla; e gli ultimi erano degni di castigo. – Voi che leggete questo racconto (supposto che sappiate in che modo scriva il vostro buon Angelo, quando alla mattina, o alla sera, in chiesa, o nel corso della giornata vi esercitate nella preghiera), la sua penna dovrebbe intingersi nell’oro, nell’acqua, oppure nel nero inchiostro? Lascio a voi il risolvere la questione!

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, vi ringrazio di aver composto per me una preghiera breve, facile, perfetta ed efficacissima. Fatemi la grazia di poterla sempre recitare colle dovute disposizioni. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose e il mio prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore, raddoppierò l’attenzione nel recitare il PATER nelle mie preghiere del mattino.

 

Un’ENCICLICA AL GIORNO, toglie il modernista apostata di torno: INTER CÆTERA

Benedetto XIV

INTER CÆTERA

Tra le molte cose che Ci conturbano, quando Ci conviene tollerare nel Nostro Stato temporale il divertimento del Carnevale, due se ne ritrovano, sopra le quali alcuni zelanti Vescovi del predetto Stato si sono lamentati con Noi, esprimendo le loro giuste querele o a voce o per iscritto. Una consiste nel fatto che per lo più tanto si inoltrano le veglie, i balli, i giochi nell’ultima notte di Carnevale che s’intacca anche l’inizio del primo giorno di Quaresima; in tal maniera accade alle volte di vedere che le persone, partendo dal ballo, dal gioco e dalla veglia, vanno, benché senza maschera ma con gli abiti con i quali si sono mascherati, alla Chiesa a sentire la Messa e prendere le Ceneri portandosi poscia alle loro case, dormendo nei loro letti per lo meno tutta la mattina del primo dì di Quaresima; né si lascia di addossare al Vescovo l’accusa di indiscreto, se si lamenta e molto più se vuol punire l’eccesso. – La seconda: che in alcune Città dello Stato Ecclesiastico o si va introducendo o si pretende di mantenere un abuso pochi anni prima introdotto, che le persone vadano mascherate anche nei giorni di Festa, e che molto più nelle Feste che nei giorni feriali i saltimbanchi, i ciarlatani ed altra simile razza di persone facciano nelle piazze le loro faccende con gran concorso di popolo, e che finalmente negli stessi giorni di Festa siano più frequenti i balli per le strade, che nei giorni feriali. – Quanto alla prima cosa non vi è assolutamente bisogno di farvi sopra gran raziocinio; basta averla riferita, perché ognuno ne concepisca orrore. E poiché l’ordinaria difesa di chi sostiene le parti del vizio e dell’eccesso suole consistere nel dire che tanti altri Vescovi predecessori, che erano uomini dabbene, l’hanno saputo e non ne hanno parlato (lasciando da parte la verità del fatto che per lo più si asserisce e non si trova), dovrà bastare a ciascheduno la risposta di una delle celebri Università Cattoliche che, interrogata a dare il suo parere sopra una certa Festa scandalosa che si chiamava la Festa de’ Pazzi, introdotta in alcune Diocesi e sostenuta coll’esempio che era stata tollerata da tanti Vescovi predecessori, non solo proferì censura condannatoria d’essa, ma rispondendo alla esposta opposizione, così soggiunse: “Non ascoltate le subdole parole degli uomini che dicono che i nostri Predecessori, che erano considerati persone notevoli, permettevano ciò: a noi basta vivere come quelli. Senza dubbio tale argomentazione è diabolica, tale persuasione infernale: voi ignorate se la fine della loro vita è stata buona o cattiva“.

La censura di questa Università è portata per esteso, come suol dirsi, nell’Appendice delle Opere di Pietro di Blois (p. 782), e nel trattato scritto in lingua francese da Giovanni Savaron contro le maschere (pp. 32 e segg). E però inculchiamo con tutto lo spirito a ciascheduno di voi, o Venerabili Fratelli, nelle Diocesi dei quali o si tenta di introdurre o è vigente l’eccesso, di non risparmiare veruna parte del vostro zelo, acciò non si introduca ove non è introdotto ed introdotto si sradichi, castigando severamente e senza rispetto umano gli inventori o mantenitori dello stesso: non essendo questo il modo di incominciare la Quaresima, come esclamava San Basilio nell’Omelia 2 sul Digiuno, pubblicata a Parigi nel 1722: “Delle cose di cui si respinge l’inizio, senza dubbio deve essere anche respinto completamente il tutto” (tomo II, p. 13); e: “Questo giorno è il vestibolo del digiuno. Chi è contaminato nel vestibolo, non è degno di entrare nel Sacrario” (p. 15). È troppo contrario al rispetto che si deve alle Chiese ed alla Sacra Funzione di prendere le Ceneri, entrare nelle Case di Dio con gli abiti da maschera, benché senza maschera, ed accostarsi al Sacro Altare nello stesso modo per ricevere dalle mani del Sacerdote la sacra polvere, con l’intimazione di dover pensare a morire. – Passando poscia alla seconda delle predette cose sopra esposte, Noi qui non intendiamo di esclamare o di predicare contro il Carnevale o di fare contro di esso qualche storica dissertazione. Se lo volessimo lo potremmo fare facilmente, trascrivendo quanto in questo proposito fu santamente composto da San Carlo Borromeo nel suo Libro Memoriale stampato nella Parte settima degli Atti della Chiesa di Milano, allora che in ringraziamento di essere stata liberata la detta città dalla peste, con zelo e con dottrina esortò il popolo a non far più Carnevale; ed inserendo in questa Nostra lettera quanto fu eruditamente radunato dal monaco De L’Isle nel suo nuovo Trattato del Digiuno al libro VI, cap. 6, ove, trattando dei Baccanali dei Pagani, dimostra quanti disordini nel nostro Carnevale sono contrari alle massime del Cristianesimo. Ci contenteremo di dire che, benché di malavoglia e per evitare mali maggiori, dalla Chiesa viene semplicemente permesso e tollerato il divertimento carnevalesco come, dopo un ben fondato ragionamento, conclude il celebre e pio Teologo Tommaso Stapletone nella sua Orazione ottava Contra Bacchanalia, tomo 2 delle sue opere, alla pagina 556: esservi inoltre una bella differenza fra le cose che si comandano e le cose che si tollerano. “Altro è quello che insegniamo, altro quello che sosteniamo; altro quello che siamo costretti a punire, e mentre puniamo siamo spinti a tollerare” (Sant’Agostino, Contro Fausto, libro 20, cap. 21); dal che poi deriva non esser luogo nelle cose semplicemente tollerate di fare estensione, e di giocare d’arbitrio. – Abbiamo ritrovato in questa Nostra città di Roma, instaurato dai Nostri degni Predecessori, un sistema che nonostante il breve tempo prefisso al Carnevale, non si facciano in verun modo le maschere nei giorni di Festa e nel giorno di Venerdì. Lo stesso vogliamo che si pratichi nel rimanente del Nostro Stato. Né lasceremo di far palese questa Nostra determinazione ai Cardinali Legati delle Province e ai Prelati e Governatori locali. Sarebbe pure nostro desiderio che nei giorni di Festa non vi fossero nelle piazze Ciarlatani e Saltimbanchi; avendo sempre avanti gli occhi le parole del Profeta Isaia al capitolo I: “La mia anima odia le vostre Calende e le vostre solennità; mi sono diventate moleste; a fatica le ho sopportate” (Is 1,14), e le altre del Profeta Malachia, al cap. II: “Spargerò sul vostro volto lo sterco delle vostre solennità” (Ml II,3). Ma perché non si può sempre ottenere in un subito dagli uomini quello che si vorrebbe, e che sarebbe giusto che si ottenesse, notifichiamo non volersi da Noi nei giorni di Festa, Ciarlatani o Saltimbanchi nelle piazze, né in altri luoghi delle Città e Castelli, né nella mattina, né nel dopopranzo. Ché se in qualche Città o luogo ritrovasi qualche cattivo abuso da tollerarsi anche nelle Feste, ciò mai si permetta la mattina; si procuri ancora che non vi siano nel dopopranzo; e non potendosi ciò ottenere senza grave disturbo, non si permetta però mai, che i predetti, o simili divertimenti si facciano, se non dopo l’ora del Vespro e della Dottrina Cristiana, sopra di che non lasceremo di dare gli ordini opportuni ai Cardinali Legati ed ai Governatori. – Questo è nel predetto stato delle cose il sistema di San Carlo Borromeo nel suo primo Concilio Provinciale alla parte I, titolo “Sull’osservanza dei Giorni Festivi“, unendolo con quanto da lui fu disposto nel 3° Concilio Provinciale nello stesso titolo; e questo pure è quello che la santa memoria di Clemente XI inculcò in due sue Lettere Circolari, l’una dell’11 gennaio del 1719, l’altra del 4 gennaio del 1721 e che sono l’undecima e la duodecima nel suo Bollario alla pagina 533. E nello stesso tempo in cui Ci protestiamo di ben volentieri battere le orme impresse da San Carlo, e contrassegnate dal predetto Nostro degno Predecessore, Ci protestiamo altresì, che dall’avere Noi finora parlato della proibizione di alcune cose, non abbiamo inteso, né intendiamo di levare la proibizione di tante altre, che sono nei Canoni, nelle Apostoliche Costituzioni, e nei Concili o Provinciali o Diocesani, in ordine ai divertimenti carnevaleschi, e particolarmente rispetto alle persone Ecclesiastiche; avendo avanti gli occhi la disposizione del Concilio di Trento (sess. XXII, cap. 1), dopo avere parlato delle Canoniche disposizioni che proibiscono agli Ecclesiastici il lusso, i conviti, le danze, i giuochi di carte, così parla coi Vescovi: “Se siano venuti a sapere che alcune di queste disposizioni sono cadute in desuetudine, cerchino di richiamarle in uso al più presto e che siano ben custodite da tutti, nonostante qualunque consuetudine, affinché essi stessi non paghino degna pena della trascurata correzione dei sudditi, per vendetta di Dio” (Conc Trid., sess. XXII, cap, 1). – Ciascheduno mediocremente versato nell’Ecclesiastica disciplina sarà facilmente informato che v’erano alcune antiche infami superstizioni dei Gentili, che nel primo giorno di gennaio si facevano in onore di Giano e della Dea Strena, nelle quali talvolta si andavano mischiando i Cristiani, frequentando la crapula e il giuoco, e mascherandosi gli uomini da donne, e le donne da uomini: né lasciarono i Santi Padri nei loro Sermoni, ed anche in Concili della Chiesa, di inveire contro quest’intollerabile abuso, e di stabilire rispettivamente gravi pene contro i trasgressori, del che da Noi si è diffusamente ragionato nella Nostra opera “Delle Feste del Signore“, quando trattammo di quella della Circoncisione di Gesù Cristo Nostro Redentore. – Schiantata questa prava usanza, se n’è purtroppo introdotta un’altra, che è quella di certe pubbliche rilassazioni nelle settimane per lo più di Settuagesima, Sessagesima e Quinquagesima, nelle quali la Santa Chiesa ci rappresenta i principali Misteri della nostra Redenzione, per ben disporci alla penitenza nel tempo di Quaresima, come pure da Noi fu dimostrato nella Nostra Notificazione decimaquarta al tomo I fra quelle che pubblicammo, quando eravamo in Bologna governando quella Chiesa; e questo per l’appunto è il Carnevale, che così viene descritto da un rinomato Vescovo, Monsignor Graziani, nel suo Sinodo di Amelia, tenuto l’anno 1595, alla pagina 150: “Di qui derivò (tanto ci corruppe la mala consuetudine) che i giorni che intercorrono tra Settuagesima e Quaresima, che la Santa Madre Chiesa considera con grande venerazione, come lugubri e funesti, da un’invadente ilarità improntata a lascivia, dall’amore dell’allegria, non solo sono stati volti in gaio e scomposto godimento, ma quasi sono stati consacrati a una specie di pazzia collettiva, e la sfrenatezza fu portata al punto da trascinare le leggi stesse, i Magistrati stessi, e ciò che nessun Governo ben costumato non concedeva neppure a nessun privato, si appoggia ora interamente alla pubblica autorità, e i popoli, quasi dimentichi del nome pel quale sono lodati, hanno degenerato fino ai riti e ai costumi delle genti profane“; per lo che il celebre Ghislain Busbecq, che fu ambasciatore verso la metà del secolo decimosesto dell’Imperatore Ferdinando I a Solimano II, lasciò scritto, che essendo stato un Ambasciatore Turco in un Paese Cristiano in tempo del Carnevale, ritornato in Turchia riferì che in un certo tempo dell’anno, che è quello del Carnevale, i Cristiani impazzivano, ed in virtù di una certa polvere, che si metteva sopra la loro testa, ritornavano in sé: “È stato dato come cosa certa che un Turco, che in quel tempo era venuto da noi come Ambasciatore per affari di Stato, tornato a casa riferì che i Cristiani in certi giorni erano pazzi furiosi, finché, cosparsi nel Tempio di una speciale qualità di polvere, tornavano in sé e guarivano“.

Non è stata neghittosa la Chiesa nell’opporsi, per quanto ha potuto, a questo pubblico disordine; ed è sempre ricorsa alle orazioni e alle opere di pietà, pregando Dio di sospendere i flagelli contro i peccatori, e di somministrare col suo potente aiuto il modo per riparare ad un sì gran male; e fra le altre devozioni indirizzate a questo fine, vi fu quella intrapresa da alcune Famiglie Religiose d’astenersi dal mangiar carne e cibarsi di soli latticini o dalla domenica di Settuagesima, o da quella di Sessagesima, o da quella di Quinquagesima, fino al giorno delle Ceneri; pertanto il Carnevale viene chiamato privo di carne, e nella Messa Mozaraba la domenica di Sessagesima è denominata domenica nella quale bisogna eliminare le carni. Altre devozioni sono state introdotte nel tempo del Carnevale per lo stesso effetto da uomini dabbene, ed oltre tante altre, fra le quali solenne e pubblica è quella introdotta da San Filippo Neri in questa città di Roma, della visita delle sette Chiese, della qual cosa parla il Bacci nella di lui vita; i Nostri Predecessori, per accendere in questi giorni i Fedeli alla frequenza dei Sacramenti, hanno fatto distribuzione del Tesoro delle Sante Indulgenze: “Con nuovo ma molto salutare espediente i Pontefici Sommi, tratte elargizioni dal Tesoro della Chiesa, hanno stimolato i Fedeli a frequentare con grande devozione i Sacramenti in quei tre giorni (parlasi di quelli del Carnevale) e, dal modo con cui vanno gli inizi, vi è speranza che il diavolo, cacciato via di là, dovrà essere costretto a cercare altre scelleratezze” (Teofilo Raynaudo, Opere, tomo 16, p. 412, n. 41). – Battasi dunque, o Venerabili Fratelli, da Voi questa strada, e col vostro esempio si invitino gli altri a fare lo stesso. Non si tralascino, particolarmente in questi giorni di Carnevale, da Voi l’interesse ai Divini Offizi, la celebrazione in pubblico della Messa, la visita delle Chiese e quella degli ospedali, e fate invito degli Ecclesiastici, ed anche di Laici timorati di Dio; ché questo è corteggio buono ed approvato. Si procuri che in una o più Chiese si esponga per un triduo il Venerabile, dando ogni sera la Benedizione, o dentro la settimana di Settuagesima, o in quella di Sessagesima, o in quella di Quinquagesima, o in tutte e tre; concedendo Noi con questa Nostra presente Lettera Circolare una Plenaria Indulgenza, che dovrà pubblicarsi da Voi nelle solite forme, e che essendo diretta a uno scopo pio, non resta impedita da altra Indulgenza Plenaria, che per altri titoli avesse la Chiesa in cui si espone il Venerabile, a chiunque, confessato e comunicato, visiterà in ciaschedun giorno dei detti tridui il Santissimo Sacramento, come sopra esposto, pregando di vivo cuore Sua Divina Maestà secondo l’intenzione di Santa Chiesa, che è quella di sopra esposta. – Il Nostro Apostolico Ministero esigeva che vi scrivessimo questa Lettera. L’esempio vostro, che siete tanto vicini a Noi, moverà i più lontani a far ricorso a Noi medesimi; e Noi non mancheremo di porgere a ciascun ricorrente ogni Nostro aiuto, estendendo anche a pro di lui e della sua Diocesi le Indulgenze a Voi concesse. Infine, con pienezza di cuore abbracciandovi, diamo a ciascuno di Voi, Venerabili Fratelli, ed al Gregge a ciascuno di Voi commesso, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 1° gennaio 1748, anno ottavo del Nostro Pontificato.

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Oggi il carnevale delle nostre contrade mostra orrori ben peggiori di quelli passati, per cui l’opera di riparazione spirituale è veramente insufficiente a contrastare le turpitudini alle quali si assiste, anche sostenute spesso da falsi prelati, che carnevalescamente indossano talari ed abiti clericali senza averne alcun titolo canonico … Ai pochi superstiti cattolici in unione col Santo Padre in esilio, non resta allora che mettere in pratica i propositi suggeriti dalla Santa Madre Chiesa per bocca di Sua Santità, il Vicario di Cristo di felice memoria, Benedetto XIV, già cardinal P. Lambertini, onde acquisire le indulgenze accordate in questi giorni, per l’adorazione del Santissimo, cosa invero sempre più difficile nelle chiese e cappelle oramai occupate nella quasi totale maggioranza dagli apostati falsi preti della setta del Novus Ordo, o dagli eretici scismatici, gli altrettanto falsi preti delle fraternità paramassoniche o da sacrileghi cani sciolti senza “arte né parte” che falcidiano le anime di tanti poveri ingannati e purtroppo così estromessi, per ignoranza però spesso vincibile, dalla Chiesa Cattolica. Preghiamo perché il Signore possa concedere un novello trionfo alla Chiesa Cattolica “vera” sui suoi nemici, su coloro che odiano Cristo-Dio e tutti gli uomini: i marrani infiltrati, gli aderenti alle logge della sinagoga di satana, e gli irriducibili cabalisti-talmudisti. Che il Signore Dio, con l’intercessione della Beata Vergine Maria, ce lo conceda!

 

Domenica di SETTUAGESIMA

Introitus Ps XVII:5; XVII:6; XVII:7

Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam. [Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudí la mia preghiera.]

Psal. Ps XVII: 2-3

Díligam te, Dómine, fortitúdo mea: Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus. [Ti amerò, o Signore, mia forza: Signore, mio firmamento, mio rifugio e mio liberatore.]

Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.

Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen

Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.

Orémus. Preces pópuli tui, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: ut, qui juste pro peccátis nostris afflígimur, pro tui nóminis glória misericórditer liberémur. [O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo: affinché, da quei peccati di cui giustamente siamo afflitti, per la gloria del tuo nome siamo misericordiosamente liberati.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum.

Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

1 Cor IX:24-27; X:1-5

Fratres: Nescítis, quod ii, qui in stádio currunt, omnes quidem currunt, sed unus áccipit bravíum? Sic cúrrite, ut comprehendátis. Omnis autem, qui in agóne conténdit, ab ómnibus se ábstinet: et illi quidem, ut corruptíbilem corónam accípiant; nos autem incorrúptam. Ego ígitur sic curro, non quasi in incértum: sic pugno, non quasi áërem vérberans: sed castígo corpus meum, et in servitútem rédigo: ne forte, cum áliis prædicáverim, ipse réprobus effíciar. Nolo enim vos ignoráre, fratres, quóniam patres nostri omnes sub nube fuérunt, et omnes mare transiérunt, et omnes in Móyse baptizáti sunt in nube et in mari: et omnes eándem escam spiritálem manducavérunt, et omnes eúndem potum spiritálem bibérunt bibébant autem de spiritáli, consequénte eos, petra: petra autem erat Christus: sed non in plúribus eórum beneplácitum est Deo.

[Fratelli: Non sapete che quelli che corrono nello stadio, tutti invero corrono, ma uno solo riporta il premio? Così correte, in modo da guadagnarlo. Orbene, tutti quelli che lottano nell’arena si astengono da tutto: essi per conseguire una corona corruttibile, noi invece per una incorruttibile. Io dunque corro, non come a caso, combatto, non come colpendo nell’aria: ma castigo il mio corpo e lo riduco in schiavitù, affinché per avventura, pur avendo predicato agli altri, io stesso non diventi réprobo. Non voglio infatti che voi ignoriate, o fratelli, come i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, e tutti passarono per il mare, e tutti furono battezzati in Mosè, nella nube e nel mare: e tutti mangiarono dello stesso cibo spirituale, e tutti bevettero la stessa bevanda spirituale e bevevano della pietra spirituale che li accompagnava: e quella pietra era il Cristo: eppure Iddio non fu contento della maggior parte di essi.]

Deo gratias.

Graduale Ps IX: 10-11; IX:19-20

Adjútor in opportunitátibus, in tribulatióne: sperent in te, qui novérunt te: quóniam non derelínquis quæréntes te, Dómine, [Tu sei l’aiuto opportuno nel tempo della tribolazione: abbiano fiducia in Te tutti quelli che Ti conoscono, perché non abbandoni quelli che Ti cercano, o Signore]

Quóniam non in finem oblívio erit páuperis: patiéntia páuperum non períbit in ætérnum: exsúrge, Dómine, non præváleat homo. [Poiché non sarà dimenticato per sempre il povero: la pazienza dei miseri non sarà vana in eterno: lévati, o Signore, non prevalga l’uomo.]

Tractus Ps CXXIX: 1-4

De profúndis clamávi ad te. Dómine: Dómine, exáudi vocem meam. [Dal profondo ti invoco, o Signore: Signore, esaudisci la mia voce.]

Fiant aures tuæ intendéntes in oratiónem servi tui. [Siano intente le tue orecchie alla preghiera del tuo servo.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? [Se baderai alle iniquità, o Signore: o Signore chi potrà sostenersi?]

Quia apud te propitiátio est, et propter legem tuam sustínui te, Dómine. [Ma in Te è clemenza, e per la tua legge ho confidato in Te, o Signore.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.

Gloria tibi, Domine!

Matt XX:1-16

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Simile est regnum coelórum hómini patrifamílias, qui éxiit primo mane condúcere operários in víneam suam. Conventióne autem facta cum operáriis ex denário diúrno, misit eos in víneam suam. Et egréssus circa horam tértiam, vidit álios stantes in foro otiósos, et dixit illis: Ite et vos in víneam meam, et quod justum fúerit, dabo vobis. Illi autem abiérunt. Iterum autem éxiit circa sextam et nonam horam: et fecit simíliter. Circa undécimam vero éxiit, et invénit álios stantes, et dicit illis: Quid hic statis tota die otiósi? Dicunt ei: Quia nemo nos condúxit. Dicit illis: Ite et vos in víneam meam. Cum sero autem factum esset, dicit dóminus víneæ procuratóri suo: Voca operários, et redde illis mercédem, incípiens a novíssimis usque ad primos. Cum veníssent ergo qui circa undécimam horam vénerant, accepérunt síngulos denários. Veniéntes autem et primi, arbitráti sunt, quod plus essent acceptúri: accepérunt autem et ipsi síngulos denários. Et accipiéntes murmurábant advérsus patremfamílias, dicéntes: Hi novíssimi una hora fecérunt et pares illos nobis fecísti, qui portávimus pondus diéi et æstus. At ille respóndens uni eórum, dixit: Amíce, non facio tibi injúriam: nonne ex denário convenísti mecum? Tolle quod tuum est, et vade: volo autem et huic novíssimo dare sicut et tibi. Aut non licet mihi, quod volo, fácere? an óculus tuus nequam est, quia ego bonus sum? Sic erunt novíssimi primi, et primi novíssimi. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia, il quale andò di gran mattino a fissare degli operai per la sua vigna. Avendo convenuto con gli operai un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. E uscito fuori circa all’ora terza, ne vide altri che se ne stavano in piazza oziosi, e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quel che sarà giusto. E anche quelli andarono. Uscì di nuovo circa all’ora sesta e all’ora nona e fece lo stesso. Circa all’ora undicesima uscì ancora, e ne trovò altri, e disse loro: Perché state qui tutto il giorno in ozio? Quelli risposero: Perché nessuno ci ha presi. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti dunque quelli che erano andati circa all’undicesima ora, ricevettero un denaro per ciascuno. Venuti poi i primi, pensarono di ricevere di più: ma ebbero anch’essi un denaro per uno. E ricevutolo, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora e li hai eguagliati a noi che abbiamo portato il peso della giornata e del caldo. Ma egli rispose ad uno di loro, e disse: Amico, non ti faccio ingiustizia, non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi quel che ti spetta e vattene: voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso dunque fare come voglio? o è cattivo il tuo occhio perché io son buono? Così saranno, ultimi i primi, e primi gli ultimi. Molti infatti saranno i chiamati, ma pochi gli eletti.]

Omelia

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XX, 1-16)

Contro i Balli.

Uscì un padre di famiglia, come nell’odierna parabola ci narra S. Matteo, al primo spuntar del giorno in cerca d’operai. Fece lo stesso alle ore di terza, di sesta, e di nona, e adocchiati alcuni agricoltori, che scioperati stavano perdendo il tempo, che fate voi qui tutto il giorno, in questo ozio infingardo? Quid hic statis tota die otiósi?” – Signore, risposero, non abbiamo veduto alcuno che ci chiamasse al lavoro, “Quia nemo nos condúxit. Fu questa una legittima scusa, un’opportuna risposta. Qui mi fermo per fare una poco dissimile interrogazione ad un gran numero di cristiani in questo tempo di licenze carnevalesche. Perché passate voi tutto il giorno e tutta la notte in balli, in festini, che dell’ozio sono peggiori? Oh! sento rispondermi facendo le meraviglie, e che male trovate voi nel ballo? Egli è un onesto e lecito trattenimento, autorizzato dall’antica e moderna consuetudine e praticato da ogni qualità di persone. Voi l’intendete così; contentatevi però ch’io vi dica, esser io di sentimento contrario. Come dunque ci accorderemo, se voi tenete l’opinion vostra, ed io la mia? Io non voglio che crediate sulla semplice mia parola: io non mi arrogo tanta autorità, né tanta pretensione. Mi permetterete all’opposto, che neppur io stia alla sola vostra asserzione. Facciamo dunque così. Si formi tra noi una contesa amichevole, una specie di dialogo. Voi esporrete tutte le più acconce ragioni a difendere il ballo, io vi darò quelle risposte che più saprò. Se voi mi convincete, io vi prometto di non più molestarvi su questo punto. Se restate convinti, spero mi farete grazia e giustizia con l’allontanarvi dal ballo. Cominciamo la pacifica nostra controversia. – Il ballo, dite voi, è una cosa indifferente, come indifferente è il passeggio. Altra differenza non v’è tra quello e questo, se non che nel passeggio si muove un piede avanti l’altro, e nel ballo i piedi si muovono con règola e maestria in tenore delle cadenze musicali. Oltre a ciò noi veggiamo nelle divine Scritture approvato il ballo. Maria sorella di Mose là su le sponda dell’Eritreo diede di piglio a una cetra, e mista a un coro di ebree donzelle, spiccò danze e carole, né fu certo ripresa dal suo fratello, né da alcuno del popolo di Dio. Davide re e profeta, con tutta la regia sua gravità, saltò anch’egli avanti l’arca del Testamento. Ecco il ballo, che, come una cosa tra le indifferenti, e praticata da oneste e sante persone, non si può riprendere, né condannare. – Udite la mia risposta. È dottrina di S. Agostino, e di tutti i Teologi, che un’azione qualunque veste sempre la qualità del fine a cui si dirige, e dell’intenzione con cui si fa : “Noveris, dice egli, ex fine a vitiis discernendas esse virtutes”. Voi avete un fine buono e lodevole, l’azione vostra sarà lodevole e buona. Per l’opposto avete un fine reo o malvagio, la vostra azione rea sarà del pari e malvagia. Posto ciò, il ballo della sorella di Mose e di Aronne fu un trasporto di allegrezza, diretto a magnificare la divina onnipotenza in aver liberato il suo popolo dalle spade di Faraone, sommerso con tutto il suo esercito nel mar rosso; fu perciò un ballo religioso, figlio della riconoscenza, gradito a Dio. Infatti in mezzo alla danza istessa intonò il cantico composto dal suo germano Mosè in lode del Signore. “Cantemus Domino: gloriose cum magnificatus est” (Es. XV, 21). Lo stesso deve dirsi del ballo di Davide. Al veder l’arca del Signore, figura dell’alta divina maestà, avrà un tempo tanto fatale ai Filistei, e propizia tanto ad Israele, al vederla, dissi, entrar con pompa solenne nella regia città di Gerusalemme, al suono festivo delle trombe levitiche, preso da santo giubilo, volle esternare coi salti la sua allegrezza, e applaudire così al trionfo dell’arca, ed alla gloria del suo Signore. – Ditemi or voi con tutta sincerità, qual è quel fine che vi porta al ballo? Interrogatene la vostra coscienza. Sarebbe mai, o donne, quel fine che si propose la ballerina figlia di Erodiade? per cattivarvi cioè il cuore e l’affetto di qualche Erode adultero ed incestuoso? Sarebbe mai, o uomini, quel fine ch’ ebbero gli Ebrei danzanti alle falde del Sinai? per adorare cioè qualche idolo non d’oro, ma di carne? Sarebbe mai, o giovani di bel tempo, il fine, con cui con tanta ardenza vi portate al ballo, simile a quello del corvo uscito dall’arca di Noè, quando volava in giro in volte e rivolte su i galleggianti cadaveri, per adocchiar quel carname, ove meglio potesse saziare la sozza ingordigia? – Comprendete bene, uditori miei cari, che parlando con voi, non parlo di voi. Chi frequenta la parola di Dio, come voi fate, non ha certamente fini sì sordidi. Ma fatemi ragione, e ditemi se non è cosi per la massima parte de’ ciechi mondani? Così è! Risponde un autore di credito e d’esperienza, così è, togliete dal ballo la libidine, separate gli uomini dalle donne, le donne dagli uomini, e non vi son più balli, “tolle libidinem, et choreas sustulìsti”. – Fin qui, voi confessate che la ragione sta per me. Si concede, voi dite, che se un fine così immondo ci conduce al ballo diviene peccaminoso e dannevole; ma se noi, come praticano civili e timorate persone, con fine onesto, onestissimo andiamo al ballo, cesserà d’essere per noi illecito e colpevole. Udite di grazia. Un’azione perché sia permessa, non basta che di sua natura sia indifferente, e diretta a buon fine, convien vedere se qualche circostanza la renda illecita e proibita. Per adattarmi alla capacità di tutti, permettetemi che io mi serva d’un caso ipotetico. Suppongo in questo momento che un di voi passeggi sul tetto di questa Chiesa; io resto sorpreso, lo piego a fermarsi, ed ei mi risponde: “il passeggio non è cosa indifferente e permessa?” Concedo, io soggiungo; e se passeggiate per far moto, prender aria, e per vostro sollievo, questo fine è anch’esso lecito e onesto; ma siccome camminando su questo tetto siete in prossimo pericolo di precipitar sulla piazza e perdere la vita, così non è più lécito e permesso un tal passeggio, anzi vi resta gravemente proibito, e l’onestà dell’azione e del fine non basta a giustificarlo. Lo stesso dite del ballo. Sia per sé indifferente, sia onesto quanto volete il vostro fine; il pericolo è troppo grande, il pericolo è troppo prossimo, lo scandalo è troppo eccedente; viste di sconci abbigliamenti, di mode, di nudità, musiche, suoni, allegrie, salti, stringimenti di mano … Oh Dio! io non vorrei dire di più da questo sacro luogo. Parleranno in mia vece i santi Padri, dati da Dio alla sua Chiesa e a noi per dottori, luminari, guide e maestri. Pochi ne citerò per non essere prolisso, e da questi potrete comprendere il gran pericolo dei balli. Udite santo Agostino (Serm. 115 De Temp.). Voi, diceva al suo popolo, venite alla Chiesa cristiani , e ritornati alle vostre case, dandovi ai balli, diventate pagani. Sarebbe minor male zappare la terra in giorno di festa, che occuparvi nel ballo “melius est arare, quam saltari” (in Ps. XCIII ). Udite S. Ambrogio: vadano al ballo le figlie di madre adultera, che a lei vogliono assomigliarsi, “saltent adulteræ filiæ”. Udite come ne parla S. Efrem: “Dove vedete un festino di ballo, dite pure che quel luogo è tutto tenebre per gli uomini, perdizione per le donne, tristezza per gli angeli, festa per satanasso: “Ubi choreæ, ibi virormn tenebræ, mulierum perditio, angeli cum tristitia, diaboli festum” (De ludici a christian. vitandis). Lascio S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo, e conchiudo col non men pio, che dotto Gersone, “omnia peccata chorizzant in choreìs”, danzano tutt’i peccati con quei che danzano. Questo linguaggio dei santi quanto è mai diverso da quello del mondo! Se dunque il ballo è la festa e la scuola del demonio, se è lo scoglio fatale, ove rompe l’onestà delle zitelle, la fedeltà delle coniugate; se è la rovina de’ giovani, l’obbrobrio de’ vecchi, lo scandalo di tutti, come potete senza peccato esporvi a tanto e cosi evidente pericolo? Sarebbe questo in pretendere che Iddio rinnovasse per voi il miracolo della fornace di Babilonia, ove i tre giovanetti in mezzo alle fiamme neppure sentirono il calore di quelle vampe. – Se siete stati al ballo, me ne appello alla vostra esperienza. – Va bene, voi rispondete, avete citato i santi Padri, citeremo ancor noi un Santo, che se per l’antichità non è nel catalogo dei Padri e dottori della Chiesa, merita però per santità e per dottrina esservi registrato. È questi il gran Vescovo di Ginevra S. Francesco di Sales, il quale ben lungi dal condannare il ballo, anzi l’approva e lo permette. – So che questo errore corre nel volgo, falsamente adottato dagli amanti del ballo; ma per difesa di questo gran Santo tanto diletto a Dio ed agli uomini, io vi assicuro ch’egli non dice né più né meno di quel che dicono tutt’i teologi, che può benissimo darsi caso, in cui concorrono certe circostanze imponenti, che rendano lecito il ballo, come sarebbe una moglie dal marito obbligata a concorrervi, e se essa prevede, che ricusando ne nasceranno disgusti ne’ congiunti, disturbi ne’ domestici, freddezze nell’amor maritale che santamente deve passare tra i coniugi, in questo caso può condiscendere, può ubbidire; qualora però il ballo sia onesto, e con oneste persone, e breve sia il tempo discrétamente. Questo dicono i teologi, questo dice il santo di Sales. Ma di ciò non si contenta. Ecco i suoi sentimenti intorno al ballo, i quali vi prego di riscontrare nel capo trigesimo terzo della sua Filotèa. I balli, dice questo amabile Santo, si possono rassomigliare ai funghi, de’ quali scrive Plinio, che i migliori in certe parti del mondo a nulla valgono. E siccome i funghi, per essere spugnosi e pieni di pori, assorbono facilmente il veleno di quelle serpi, di quei rospi che a loro passano attorno; così quei che vanno al ballo assorbono il veleno dell’impudicizia cogli occhi nelle viste di nudità scandalose; assorbono il veleno per le orecchie colle parole oscene, coi motti equivoci, coi sensi amorosi di qualche basilisco; assorbono il veleno per le mani, per quella maledetta libertà, che dà il ballo, di stringimenti prolissi. Se voi, Filofea, prosegue a dire, dovete per alcun dei buoni fini suddetti prestarvi a un ballo onesto e moderato, riflettete che in quella notte, in quell’ora stessa, in cui danzate, tanti Religiosi salmeggiano in coro, o sono assorti in profonde meditazioni. Riflettete che tanti poveri infermi, feriti, addolorati alzan clamori e sospiri o nelle private case o nei pubblici spedali. Riflettete che tanti moribondi e agonizzanti stanno per spirare l’anima, e renderla al Creatore. Riflettete che tante anime in quell’ora stessa spasimano nell’inferno, appunto per cagione dei balli. Riflettete infine che un giorno la morte vi farà fare un ballo assai diverso da quel che fate, vi prenderà per la mano, e vi farà far un salto dal vostro letto al tribunale di Dio, e i violini saranno i pianti dei vostri congiunti. – Credete che il Santo abbia ancora finito? Siccome, prosegue egli, a chi ha mangiato i funghi si suol consigliare che li corregga con vino generoso; così, dopo esservi, o Filotea, ritirata dal ballo, occupatevi in santi pensieri ai pie’ del crocifisso, considerate la vanità, la pazzia di questi trastulli, che dissipano lo spirito, fan languire la devozione, raffreddano la carità, e svegliano nell’anima mille affetti malvagi. Dopo tutto ciò andate a citar questo gran Santo in approvazione de balli. Questo Santo, che ogni anno si ritirava in solitudine a far gli esercizi spirituali appunto nel tempo di carnevale, per piangere le mondane follie, e le tante offese fatte a Dio ne’ balli. – Orsù, uditori miei cari, non siete ancora convinti? Non mi rispondete; io non voglio obbligarvi a dire l’intimo vostro sentimento, voglio anzi darvi vinta la causa se voi mi fate una promessa. E quale? Ecco, quando sarete in punto di morte col sacerdote a fianco, che vi presenterà il santo Crocifisso, promettetemi di dire a lui rivolti: Signore, io me ne muoio contento, perché in mia vita mi sono molto divertito nel ballo, e non ho mai lasciato passar carnevale senza darmi ad un sì caro esercizio. Io dunque, ripeto, me ne muoio contento, e voi, o Signore, accoglietemi nelle vostre braccia. Se voi “oibò! oibó!” … voi esclamate, e son queste cose da suggerirci? Con Dio non si burla, massime in quel punto estremo tanto formidabile. Ah, dilettissimi miei, se non vi sentite di così fare in quel punto, se ne avete orrore in solo esservi proposto, che segno è questo? Segno che conoscete che il ballo non è un buon passaporto pel paese dell’eternità: segno che siete persuasi che il ballo non piace a Dio, che non potrà esservi di conforto nelle vostre agonie, ma di rimorso e di spavento. Deh! per amor di Dio, per carità dell’anime vostre, dategli un eterno bando, allontanatevi da tanto pericolo, allontanatene col consiglio e coll’esempio i vostri amici, e coll’autorità e comando quei che da voi dipendono. La causa tra noi trattata, se credete averla perduta, sarà vinta in diversa e miglior forma? e in una maniera tutta per voi vantaggiosa. Avrete trionfato del demonio e de’ suoi lacci, del ballo e de” suoi tristi effetti; e cosi vittoriosi sarete ammessi in quell’eterna letizia, in cui esultano i santi nella gloria sempiterna, che Iddio vi conceda.

Credo …

Offertorium

Orémus Ps XCI:2

Bonum est confitéri Dómino, et psállere nómini tuo, Altíssime. [È bello lodare il Signore, e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Secreta Munéribus nostris, quæsumus, Dómine, precibúsque suscéptis: et coeléstibus nos munda mystériis, et cleménter exáudi. [O Signore, Te ne preghiamo, ricevuti i nostri doni e le nostre preghiere, purificaci coi celesti misteri e benevolmente esaudiscici.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

Communio Ps XXX:17-18

Illúmina fáciem tuam super servum tuum, et salvum me fac in tua misericórdia: Dómine, non confúndar, quóniam invocávi te. [Rivolgi al tuo servo la luce del tuo volto, salvami con la tua misericordia: che non abbia a vergognarmi, o Signore, di averti invocato.]

Postcommunio

Fidéles tui, Deus, per tua dona firméntur: ut eadem et percipiéndo requírant, et quæréndo sine fine percípiant. [I tuoi fedeli, o Dio, siano confermati mediante i tuoi doni: affinché, ricevendoli ne diventino bramosi, e bramandoli li conseguano senza fine.]

APPARIZIONE DELLA VERGINE SS. DI LOURDES: 11 FEBBRAIO

Columba mea, in foraminibus petrae, in caverna maceriae, ostende mihi faciem tuam, sonet vox tua in auribus meis: vox enim tua dulcis, et facies tua decora.

[O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro” – Cantico dei cantici, II-14].

 In un secolo tutto incredulità, in una nazione tutta ateismo, quale era la Francia nel secolo XIX, Maria si proclama Immacolata, ed inizia una serie di miracoli che sono la più eloquente apologia del soprannaturale. Il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria SS. era stato proclamato da appena quattro anni, ma le discussioni in pro ed in contro continuavano tuttavia: Maria pone loro termine confermando l’infallibile proclama Pontificio. Le apparizioni avvennero ad un’umile pastorella, la giovine Bernardetta Soubirous, avverandosi anche in questo caso, quanto Gesù diceva pregando il Padre: — Ti ringrazio, o Padre, che hai nascoste queste cose ai prudenti e ai sapienti e le hai rivelate ai pargoli e agli umili. – Era l’alba dell’11 febbraio 1858 e Bernardetta usciva in prossimità della grotta di Massabielle, sulle sponde del torrente Gave. Su una rupe di questa grotta la Madonna le apparve biancovestita, col capo coperto di un velo scendente sulle spalle, i fianchi cinti d’una fascia azzurra, i piedi nudi, baciati da rose olezzanti, un volto celestiale. « Era la più bella fra tutte le donne ». – Nella prima apparizione la S. Madonna insegnò alla a fanciulla a far bene il segno di Croce e a recitare il Rosario, ed Ella stessa per prima, prese fra le mani la corona che aveva penzoloni al braccio e l’incominciò. – Il secondo giorno, Bernardetta, temendo uno scherzo del demonio, all’apparizione gettò acqua santa in direzione della Signora. Ma questa si mise a sorriderle conn volto ancor più benigno. – Il terzo giorno le ordinò di ritornare alla grotta altre quindici volte, dopo le quali si manifestò: « Io sono l’Immacolata Concezione ». – Intanto avvenivano anche miracoli e la fama delle apparizioni si estendeva per tutta la Francia ed anche all’estero destando un concorso straordinario di curiosi e devoti. – Per accertarsi che la Bernardetta non fosse una visionaria o malata di mente e che quindi le apparizioni fossero vere, vi ebbero più sopraluoghi e da parte dell’autorità ecclesiastica come di quella civile. – Medici periti visitarono la fanciulla e ne constatarono la più grande normalità fisica. Mentre in una apparizione era in estasi e in conversazione colla S. Madonna, le accostarono alle dita la fiamma d’una candela; ma essa non se ne risentì. – In breve tempo i numerosissimi devoti edificarono una Chiesa che fu dai Sommi Pontefici arricchita di titoli e privilegi. – L’acqua scaturita nell’interno della roccia miracolosamente, continua anche ai nostri giorni a essere attiva; in questa vengono immersi gli ammalati e molti vengono graziati. – Ogni anno dalla nostra Italia parte per Lourdes un treno speciale, con grandi riduzioni di prezzo, per il trasporto di ammalati e ogni anno ritorna con qualche miracolato.

PRATICA. — La fede è una condizione precipua per ottenere grazie non solo materiali, ma, e più, quelle spirituali.

PREGHIERA. — O Dio, che per l’Immacolata Concezione della Vergine, preparasti al tuo Figliuolo una degna abitazione, ti supplichiamo umilmente che, celebrando l’Apparizione della Vergine, conseguiamo la salute dell’anima e del corpo. Così sia.

Nell’apparizione di Maria SS. a Lourdes

[da: Manuale di Filotea di G. Riva, XXX ed. Milano 1988]

Nella grotta di Massabielle, che trovasi in cima alla montagna che sorge presso Lourdes (Diocesi di Tarbes in Francia negli alti Pirenei, il giorno 11 febbraio del 1838 comparve, circondata da straordinario splendore, e portante al suo braccio la corona del santo Rosario, una Matrona, ornata di celeste bellezza, che più tardi (23 marzo) dichiarò di essere nientemeno che l’Immacolata Concezione Questa gran Dama fissò benigno il suo sguardo su Bernardetta Soubirons, povera e infermiccia pastorella di 14 anni priva d’ogni coltura, ma pia, ingenua ed innocente come una bambina di pochi anni, la quale, a poca distanza dalle sue due compagne, stava raccogliendo legne secche per il domestico focolare. A una prima impressione di paura succedette ben tosto la confidenza, la gioia e il desiderio di rivedere la Signora che dopo un quarto d’ora spari, né ad altri mai si rese visibile fuori che alla povera Bernardetta, la quale per tutta preghiera recitava in ginocchio il suo Rosario. Alla terza visita della grotta la dama le promise di farla felice, non in questo mondo, ma nell’altro quand’ella le promettesse di ivi ritornare per 13 volte, il che ella fece a vari intervalli, appena n’ebbe il potere, In queste apparizioni Bernardetta si trasformava in persona tutta celeste, insensibile anche alla fiamma di una candela ardente fra le sue dita, con gran stupore di migliaia di persone accorse per la già sparsa notizia delle ripetute apparizioni, e più ancora perché la non mai vista fontana, sgorgata dal nudo sasso sotto gli occhi e le mani di Bernardetta il 24 febbraio, quinto giorno della quindicina, operava di continuo le più istantanee sanazioni d’ogni male più incurabile, fra le quali, dalla commissione a ciò istituita dal Vescovo di Tarbes, furono constatate come assolutamente innegabili, non meno di quindici fra le trenta prodigiose sanazioni ch’erano state proposte, Tutte le più indegne arti del secolo, cioè le vessazioni usate a Bernardetta dal Sindaco, dal Direttore di Polizia, dal Regio Pronatore di quel Comune, dal Prefetto di quel dipartimento, dal Ministro del culto a Parigi, congiurati insieme coi medici del luogo, e coi libertini giornali a sparger di ridicolo ed a condannare come finzioni il più innegabile prodigio, tornarono all’atto vane per impedire o smentire: 1.- le apparizioni che dall’11 febbraio al 16 luglio 1858, si ripeterono fino a 18 volte; 2.- l’erezione della domandata Cappella, che finì ad essere un tempio di più di 2 milioni di costo; 3.- le prodigiose guarigioni, che sempre più crebbero in numero, importanza e certezza, per cui l’acqua della fonte di Lourdes è ansiosamente cercata in ogni parte, e con speciale fiducia è da ogni genere di persone devotamente invocata la Immacolata Vergine colà apparsa, e di là diffondente i suoi miracoli in tutto il mondo. – Le meraviglie di questa Apparizione sono assai bene descritte dal signor Enrico Lasserre, uno dei beneficati dalla Madonna di Lourdes colla istantanea ricuperazione della vista quasi perduta. L’opera è intitolata: “Storia di Nostra Signora di Lourdes”.

ALLA MADONNA DI LOURDES ( 11 Febbraio).

I.- Immacolata Regina, che personalmente apparendo qual maestosa Matrona, nella grotta di Massabille sopra Lourdes, onoraste dei vostri benigni sguardi e della comunicazione dei vostri segreti la povera ed infermiccia Bernardetta Soubirons, quanto poco stimabile presso gli uomini per la sua deficienza d’ogni coltura, altrettanto accettissima a voi pel candore della sua innocenza e il fervore della sua devozione, ottenete a noi tutti la grazia che, mettendo sempre ogni nostra gloria nel renderci cari al Signore con una vita tutta conforme alla specialità dei nostri doveri, ci rendiamo al tempo stesso sempre meritevoli dei vostri più speciali favori. Ave.

II.- Immacolata Regina, che, esternando alla povera Bernardetta il vostro desiderio di venire onorata con nuovo tempio nel luogo stesso della vostra apparizione sopra le alture di Lourdes, le ingiungeste ancora di partecipare il vostro ordine ai preti siccome quelli che ne dovevano promuovere esecuzione, ottenete a noi tutti la grazia che, in quanto può riferirsi alle celesti comunicazioni, ci rimettiamo sempre al giudizio dei sacerdoti, essendo essi le guide che Dio medesimo ci ha assegnate per non mai mettere il piede in fallo in tutto ciò che riguarda così il vero culto di Dio, come il vero bene delle anime. Ave.

III.– Immacolata Regina, che, ad assicurar tutto il mondo così della realtà nella vostra apparizioni sopra le alture di Lourdes, come del desiderio da voi espresso di essere ivi onorata con nuovo tempio, faceste sgorgare sotto gli occhi di Bernardetta una sorgente affatto nuova di perenne abbondantissima acqua, quanto gustevole al labbro, altrettanto efficace al risanamento d’ogni più incurabile morbo, ottenete a noi tutti la grazia che, risanandosi per vostra intercessione ciò che è infermo, rinvigorendosi ciò che è sterile nel nostro spirito, apriamo nei nostri cuori quella mistica fonte di virtù e di opere buone, le cui acque salgono alla vita eterna per assicurarcene il felice possedimento. Ave.

IV.- Immacolata Regina, che faceste svanir come nebbia in faccia al sole tutte le armi impugnate dalle più maligne potenze del mondo e dell’inferno per infermare e sventare le vostre divine rivelazioni fatte nella grotta della vostra comparsa alla buona Bernardetta, ottenete a noi tutti la grazia che, lungi dallo sgomentarci per qualsivoglia contraddizione, tanto più spieghiamo di coraggio nel camminare sulle orme da Voi insegnateci, quanto più spiegheranno di forza i nostri spirituali nemici per farci declinare dal cammino retto che solo guida a salute. Ave.

V. Immacolata Regina, che vi degnaste assicurare la buona Bernardetta della eterna beatitudine nell’altra vita, quando ella vi promettesse di cuore di tornare per quindici volte al luogo della vostra apparizione sulle alture di Lourdes, come fece realmente col vostro aiuto, malgrado tutte le arti adoperate contro di lei per distornerla, ottenete a noi tutti la grazia che perseveriamo sempre fedeli nei buoni propositi da Voi suggeriti colle vostre santissime inspirazioni; o così ci assicuriamo quel premio che solo ai perseveranti nel bene è da Dio preparato. Ave.

VI. Immacolata Regina, che a sempre meglio inculcare a tutto il mondo la devozione del santo Rosario mostraste voi stessa di tenera carissima nelle vostre mani la misteriosa corona, e accompagnarne la recita che ne faceva la devota Bernardetta, ottenete a noi tutti la grazia che, facendoci sempre un dovere di praticare colle nostre famiglie una divozione così bella, ci conformiamo ancora costantemente ai divini insegnamenti che ci derivano così dalle santissime preghiere che vi si devono ripetere, come salutari misteri che vi si devono meditare. Ave.

VII. Immacolata Regina, che, a glorificare in modo degno di voi la vostra devotissima Bernardetta, la preservaste da ogni sgomento e da ogni anche minima perturbazione della propria inalterabile tranquillità fra i più insidiosi interrogatori, le più severe minacce e le più inique persecuzioni, la trasformaste in creatura affatto celeste nel tempo delle vostre apparizioni, e la rendeste, alla vista d’immenso popolo, affatto insensibile anche agli ardori di una fiamma su cui nell’estasi della propria preghiera teneva immote le mani, ottenete a noi tutti la grazia che in tutti i nostri pericoli e in tutte le nostre tribolazioni ci affidiamo fiduciosi al materno vostro patrocinio, siccome quello da cui solo possiamo prometterci la liberazione di ogni male e il conseguimento d’ogni bene. Ave.

VIII. Immacolata Regina, che, a soddisfare le pie domande ripetutamente indirizzatevi dalla vostra affezionatissima Bernardetta, ora le spiegaste il motivo del vostro insolito rattristamento, ripetendo nella parola Penitenza ciò che resta sempre da fare a chiunque coi proprii peccati ha meritato i divini castighi, ora colle grandi parole da voi proferite nel giorno stesso della vostra annunciazione: “Io sono la Immacolata Concezione”, le faceste conoscere con precisione la inarrivabilità della vostra eccellenza e la divinità del gran dogma poco prima proclamato dal Sommo Pontefice Pio Nono, vostro fedelissimo servo, quando vi dichiarò affatto esente dall’originale peccato, ottenete a noi tutti la grazia che ci facciamo sempre un dovere di placare colla debita penitenza la divina procata dai nostri falJi, e di sempre propiziarci la divina bontà colla più cordiale venerazione del vostro immacolato Concepimento, che è il più onorifico fra i vostri pregi, il più istruttivo fra i vostri misteri, e l’ossequio il quale è il più proprio a meritarci la vostra potentissima protezione. Ave.

IX. Immacolata Regina, che a perpetuar la memoria della vostra personale apparizione, per ben diciotto volte ripetuta alla buona Bernardetta sulle alture di Lourdes, e dei tanti miracoli operati in tutto il mondo dall’acqua prodigiosamente sgorgata ai vostri piedi, moveste i cuori più duri a concorrere insieme coi più pii alla costruzione di un nuovo tempio rappresentante nella propria magnificenza la nazione primogenita della Chiesa, che si fece poi una gloria di ivi invocare il vostro aiuto coi più devoti pellegrinaggi e colle più splendide testimonianze della propria fede, ottenete a noi tutti la grazia che spieghiamo sempre la più viva riconoscenza a tutti i vostri favori, e congiungendo allo zelo pel vostro culto la imitazione sempre fede, delle vostre celesti virtù, ci assicuriamo la tenerezza del vostro patrocinio in questa vita, e la partecipazione alla vostra gloria tra i Santi e gli Angeli nella eternità. Ave, Gloria.

ORAZIONE.

Deus qui, per Immaculatam Virginis Conceptionem, dignum Filio tuo habitaculum preparasti, qæsumus, ut qui ex morte ejusdem Filii tui prævisa, eam ab omni labe preservasti, nos quoque mundos, ejus intercessione, ad te pervenire concedas. Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum, etc, – R). Amen.

TEMPO DI SETTUAGESIMA

TEMPO DI SETTUAGESIMA

[da Dom Guéranger. L’Anno Liturgico, vol I]

Capitolo I

STORIA DEL TEMPO DI SETTUAGESIMA

Importanza di questo tempo.

Il Tempo di Settuagesima abbraccia la durata delle tre settimane che precedono immediatamente la Quaresima e costituisce una delle parti principali dell’Anno Liturgico. È suddiviso in tre sezioni ebdomadarie, di cui solamente la prima porta il nome di Settuagesima; la seconda si chiama Sessagesima; la terza Quinquagesima. È chiaro che questi nomi esprimono una relazione numerica come la parola Quadragesima, donde deriva la parola Quaresima. La parola Quadragesima sta ad indicare la serie dei quaranta giorni che dobbiamo attraversare per arrivare alla festa di Pasqua. Le parole Quinquagesima, Sessagesima e Settuagesima ci fanno quasi vedere tale solennità in un lontano ancora più prolungato; però non è meno importante il grande oggetto che comincia ad assillare la santa Chiesa, la quale lo propone ai suoi figli quale mèta verso cui devono ormai tendere tutti i loro desideri e tutti i loro sforzi. – Orbene, la festa di Pasqua esige per preparazione quaranta giorni di raccoglimento e di penitenza. E il tempo più propizio, il mezzo più potente che adopera la Chiesa per ravvivare nel cuore e nello spirito dei fedeli il sentimento della loro vocazione. Nel loro più alto interesse, essi non devono lasciar passare questo periodo di grazie, senz’averne approfittato per il rinnovamento dell’intera loro vita. Perciò conveniva disporli a questo tempo di salute, ch’è di per se stesso una preparazione, affinché, spegnendosi a poco a poco nei loro cuori i rumori del mondo, fossero più attenti al grave monito che la Chiesa farà loro, imponendo la cenere sul capo.

Origine.

La storia della Settuagesima è intimamente legata a quella della Quaresima. Infatti fin dal V secolo cominciava la sesta domenica prima di Pasqua, che corrisponde alla prima domenica del l’attuale Quaresima, e comprendeva i quaranta giorni che vanno fino al Giovedì Santo, considerato dall’antichità cristiana come il primo Mistero pasquale. – La domenica non si digiunava; di conseguenza non v’erano, propriamente parlando, che 34 giorni di digiuno effettivo (36 col Venerdì e il Sabato Santo), Ma il desiderio d’imitare l’intero digiuno del Signore portò le anime più ferventi ad anticiparlo a Quinquagesima. – Questa usanza si vede apparire la prima volta nel V secolo; tanto che S. Massimo di Torino, nel Sermone 260, pronunciato forse nel 451, la biasima e ricorda che la Quaresima comincia la domenica di Quadragesima. Ma siccome in seguito essa si andava molto diffondendo tra i fedeli, verso il 465, nel Sermone 360, l’approva. Nel vi secolo S. Cesario d’Arles, nella sua Regola per le Vergini, fa cominciare il digiuno una settimana prima della Quaresima, Dunque è certo che, almeno nei monasteri, la Quinquagesima esiste fin d’allora. Il Primo Concilio d’Orléans (511) ordina ai fedeli di osservare prima di Pasqua la Quadragesima e non la Quinquagesima, per « mantenere – dice il canone 26,0 – l’unità delle usanze », Il primo e secondo Concilio d’Orange (511 e 541) combattono il medesimo abuso e proibiscono di digiunare prima della Quadragesima, L’autore del Liber Pontificalis, intorno al 520, segnala l’usanza d’anticipare la Quaresima d’una settimana, ma sembra che fosse ancora poco diffusa.

Sessagèsima,

In seguito, il periodo consacrato al digiuno venne ancora anticipato di un’altra settimana, che si aggiunse alla Quinquagesima e si chiamò Sessagesima, La prima menzione si riscontra nella Regola di S, Cesario, scritta per i Monaci prima del 542, Ugualmente ne parla il IV Concilio d’Orléans, nel 541, ma solo per proibire le anticipazioni del digiuno.

Settuagesima.

Finalmente, verso la fine del vi secolo o al principio del vii, apparve a Roma la Settuagesima, come se ne fa menzione nelleOmelie di S. Gregorio Magno (594-604). Le osservanze liturgiche raggiunsero a poco a poco prima l’Italia del Nord, con Milano, poi, per l’influsso dei Carolingi, tutta l’Europa occidentale, L’Inghilterra le ricevette alla fine del VII secolo e l’Irlanda soltanto dopo il IX. Però, se il digiuno era ormai osservato durante le settimane di Quinquagesima e di Sessagesima, sembra che al momento della sua istituzione, la Settuagesima non fosse che una celebrazione liturgica senza digiuno; mentre nel IX secolo i Concili Carolingi lo prescrivono formalmente.

Soppressione dell’Alleluia.

Sappiamo da Amalario che, dall’inizio del IX secolo, alla Settuagesima si sospendeva l’Alleluia e il Gloria in excelsis Deo, Anche i monaci si conformarono a quest’uso, sebbene la Regola di S. Benedetto formulasse una disposizione contraria. Secondo alcuni fu S. Gregorio VII (1073-1085) che, alla fine del XI secolo, soppresse l’ufficiatura alleluiatica, in uso fino allora, alla domenica di Settuagesima, Si tratta delle Antifone alleluiatiche delle Lodi, che S, Gregorio VII avrebbe sostituite con quelle dell’ufficio della domenica di Settuagesima, fornendo quest’ultima di nuove antifone. Tale fatto è attestato dall’Orbo Ecclesiae Lateranensis del XII secolo, È dunque da ritenere che fu quel Papa ad anticipare la soppressione dell’Alleluia al sabato avanti la Settuagesima (Mons. Callewaert, Sacris eruditi, p, 650), Così questo Tempo dell’Anno Liturgico, dopo vari esperimenti,finì per stabilirsi definitivamente.- Fondato sull’epoca della festa di Pasqua è, per ciò stesso, soggetto a ritardo o ad anticipo, secondo la mobilità di quella festa. Il 18 gennaio e il 22 febbraio vengono chiamati chiave della Settuagesima, perché la domenica che porta questo nome non può essere collocata né prima del 18 gennaio, né dopo il 22 febbraio.

Capitolo II

Il tempo in cui entriamo contiene profondi misteri, che non sono solamente propri delle tre settimane che ci preparano alla santa Quarantena, ma si estendono a tutto il periodo che ci separa dalla grande festa della Pasqua.

Due tempi.

Il numero settenario è il fondamento di questi misteri. « Vi sono due tempi, dice S. Agostino nel suo commento al Salmo 148: uno si attraversa ora, nelle tentazioni e tribolazioni della vita; l’altro si passerà in una sicurezza e letizia eterne. Noi li celebriamo, il primo avanti la Pasqua, il secondo dopo la Pasqua. II tempo avanti la Pasqua esprime le angosce della vita presente; quello che comincia con la Pasqua significa la beatitudine che godremo un giorno. Ecco perché passiamo il primo dei due tempi nel digiuno e nella preghiera, mentre il secondo lo dobbiamo dedicare ai canti della gioia; e per tutta la sua durata è sospeso il digiuno ».

Due luoghi.

La Chiesa, interprete delle sacre Scritture, ci addita due diverse città, in diretto rapporto coi due tempi descritti da S. Agostino: Babilonia e Gerusalemme. La prima è il simbolo di questo mondo di peccato, dove il cristiano passerà il tempo della prova; la seconda è la patria celeste, dove si riposerà di tutti i suoi combattimenti. Il popolo d’Israele, la cui storia è tutta una grandiosa figura dell’umanità, fu esiliato da Gerusalemme e tenuto, per settant’anni prigioniero in Babilonia. Per esprimere questo mistero la Chiesa, secondo Alenino, Amalario, Ivo di Chartres e generalmente i liturgisti del Medioevo, ha voluto fissare per i giorni dell’espiazione il numero settuagenario, e seguendo lo stile delle sacre Scritture, ha preso il numero simbolico per quello reale.

Le sette età del mondo.

Secondo le antiche tradizioni cristiane anche la durata del mondo si suddivide in sette periodi. Prima che albeggi il giorno della vita eterna il genere umano deve attraversare sette età. La prima è trascorsa dalla creazione di Adamo a Noè; la seconda dal diluvio fino alla vocazione di Abramo; la terza comincia con questo primo nucleo del popolo di Dio e arriva a Mosè, per le cui mani il Signore elargì la Legge; la quarta si estende da Mosè a David, nella cui persona si inizia la sovranità reale nella casa di Giuda; la quinta abbraccia la serie di secoli dopo il regno di David fino alla cattività dei Giudei in Babilonia; la sesta si svolge dal loro ritorno dalla cattività fino alla nascita di Gesù Cristo. Finalmente si apre la settima età, che sorge con l’apparizione del Sole di giustizia, e durerà fino all’avvento del Giudice dei vivi e dei morti. Tali sono le sette grandi frazioni dei tempi, dopo i quali non v’è che l’eternità.

Il settenario della gioia.

Per confortarci in mezzo ai combattimenti di cui è cosparso il nostro cammino, la Chiesa ci fa conoscere un altro settenario, che in realtà seguirà a quello che andiamo attraversando. Dopo la Settuagesima della tristezza verrà la Pasqua, con sette settimane di gioia, a farci pregustare le consolazioni e le delizie del cielo. Difatti, dopo aver digiunato con Cristo e compartecipato alle sue sofferenze, risusciteremo con lui, e i nostri cuori lo seguiranno nel più alto dei cieli. A poco a poco sentiremo discendere in noi il divino Spirito coi suoi sette doni; per cui la celebrazione di sì grandi meraviglie non ci chiederà meno di sette settimane, cioè da Pasqua a Pentecoste.

Il periodo della tristezza.

Dopo aver gettato uno sguardo di speranza verso il consolante avvenire dobbiamo ora rifarci alle realtà presenti. Che cosa siamo quaggiù? Degli esiliati, degli esseri in catene, in preda a tutti i pericoli che Babilonia ci nasconde. Orbene, se amiamo la patria, se desideriamo rivederla, dobbiamo romperla con le false lusinghe di questo perfido straniero e respingere lungi da noi quella tazza, alla quale s’inebria una gran parte dei nostri fratelli di cattività. Essa c’invita ai trastulli ed ai piaceri; ma le nostre arpe devono rimaner sospese ai salici presso le rive del suo fiume, fino a quando ci sarà dato il segnale di rientrare in Gerusalemme. Vorrebbe impedirci di riascoltare i canti di Sion entro le sue mura, come se il nostro cuore potesse star contento lontano dalla patria, mentre un esilio eterno sarebbe la pena della nostra infedeltà. « Come canteremo i cantici del Signore in terra straniera?» (Sal. CXXXVI, 4).

I riti della penitenza.

Sono questi i sentimenti che la Chiesa cerca d’infonderci in tali giorni, richiamando l’attenzione sui pericoli che ci circondano, dentro e fuori di noi, da parte delle creature. Per il resto dell’ anno ci spronerà a ripetere il canto celestiale del gioioso Alleluia! Ma ora ci mette la mano sulla bocca, perché non abbia mai a risuonare quel grido d’allegrezza in Babilonia. «Siamo in viaggio e lontani dal Signore » (II Cor. V, 6): serbiamo i nostri inni per il momento che lo raggiungeremo. Siamo peccatori, e molto spesso complici degli infedeli: purifichiamoci col pentimento, perché sta scritto che « la lode del Signore perde la sua bellezza nella bocca del peccatore» (Eccli. XV, 9). La caratteristica di questo tempo è, dunque, la sospensione dell’Alleluia che non dovrà più sentirsi sulla terra, fino a quando non avremo partecipato alla morte di Cristo e non saremo risuscitati con Lui per una vita nuova (Col. II, 12). – Ugualmente ci viene tolto l’inno angelico Gloria a Dio nel più alto dei cieli, che riecheggiò ogni domenica dopo la nascita del Redentore; ci sarà solo concesso ripeterlo in quei giorni della settimana in cui si commemora la festa d’un Santo. Alla domenica il Mattutinoperde fino a Pasqua l’Inno Ambrosiano “Te Deum laudamus”. – Al termine del Sacrificio il diacono non scioglierà più l’assemblea dei fedeli con le parole Ite, Missa est ; ma solo li inviterà a continuare la loro preghiera in silenzio, benedicendo il Dio della misericordia che, malgrado le nostre iniquità, non ci ha rigettati da Lui. – Dopo il Graduale della Messa, in luogo dell’Alleluia, che si ripeterà tre volte per disporre i nostri cuori ad aprirsi per ascoltare la voce stessa del Signore nella lettura del suo Vangelo, sentiremo l’emozionante melodia del Tratto, il quale esprime il linguaggio del pentimento, della supplica incessante e dell’umile confidenza, che ci devono essere abituali in questi giorni.

Altri riti liturgici

Pare che la Chiesa si preoccupi d’avvertire anche i nostri occhi, che il tempo in cui entriamo è un tempo di dolore. Difatti, il violaceo sarà il colore abituale, quando non vi sarà un Santo da festeggiare. Fino al Mercoledì delle Ceneri il diacono e il suddiacono continueranno a indossare la dalmatica e la tunica; ma a partire da questo giorno deporranno questi abiti di gioia, e aspetteranno che l’austera Quarantena ispiri alla Chiesa come esprimere ancora più la sua tristezza, eliminando tutto ciò che potrebbe minimamente risentire di quello splendore, di cui in altro tempo ama circondare i suoi altari.

Capitolo III

Sono scomparse le gioie che gustammo con la Nascita dell’Emmanuele. Furono quaranta giorni di breve gioia; poi il cielo della Chiesa si è oscurato, apparendo soffuso di tinte più tristi. Forse è per sempre perduto il Messia atteso con tanta speranza nelle settimane d’Avvento? O il Sole di giustizia ha deviato il suo corso per dirigersi lontano da questa terra colpevole?

Partecipazione alla Passione di Cristo.

Rassereniamoci. Il Figlio di Dio e di Maria non ci può aver abbandonati, perché il Verbo s’è fatto carne per abitare in mezzo a noi. Gli è riservata una gloria più grande di quella di nascere fra i cori angelici, e noi ne avremo parte; ma la comprerà a prezzo di mille patimenti e con la più crudele e più ignominiosa delle morti. Se, dunque, vogliamo partecipare al trionfo della sua Risurrezione, dobbiamo prima seguirlo nella via dolorosa bagnata dalle sue lacrime e dal suo sangue. – Fra poco si farà sentire la voce della Chiesa per invitarci alla penitenza quaresimale; ma in preparazione a questo penoso battesimo, vuole che per tre settimane ci soffermiamo a sondare la profondità delle piaghe fatte alle nostre anime dal peccato. È vero, niente uguaglia il fascino e la dolcezza del Bambino di Betlem; ma non ci bastano più le sue lezioni d’umiltà e semplicità. Sta per essere eretto l’altare, dove sarà immolata da una tremenda giustizia la grande vittima che morirà per noi, ed è quindi tempo che ci chiediamo conto delle obbligazioni che abbiamo con Colui ch’è pronto a sacrificare l’innocente in luogo dei colpevoli.

Opera di purificazione.

Il mistero d’un Dio che si degna incarnarsi per gli uomini ci ha aperto i sentieri della Via illuminativa ; ma i nostri occhi sono invitati a contemplare una luce più viva. Non si turbi il nostro cuore: la bellezza della Natività sarà superata dalla grande vittoria dell’Emmanuele. Ma se il nostro occhio è ansioso di mirare il suo splendore, si deve prima purificare, immergendosi senza debolezza nel profondo abisso della sua miseria. A nessuno sarà negato il lume divino per compiere quest’opera di purificazione e di giustizia. Quando giungeremo a ben conoscere noi stessi ed a renderci conto della profonda caduta originale e della malizia dei peccati attuali, a comprendere, nella luce di Dio, la sua immensa misericordia per noi, allora soltanto saremo preparati alle salutari espiazioni che ci attendono ed alle gioie ineffabili che le seguiranno.

Il pianto dell’esilio.

Poiché tale tempo è consacrato ai più gravi pensieri, non sappiamoesprimere meglio i sentimenti che la Chiesa attende dal cristiano che traducendo un brano dell’eloquente esortazione, che nel secolo IX indirizzava il grande Ivo di Chartres al suo popolo, all’aprirsi della Settuagesima. « Lo disse l’Apostolo: Tutte le creature sospirano e sono nei dolori del parto. E non esse soltanto, ma anche noi che dobbiamo le primizie dello spirito, anche noi sospiriamo dentro noi stessi, aspettando l’adozione dei figli di Dio e la redenzione del nostro corpo (Rom. VIII, 22). Questa anelante creatura è l’anima allontanata dalla corruzione del peccato, che piange la sorte d’essere ancora soggetta a tante caducità e continuerà a soffrire i dolori della sua nascita fino a quando sarà lontana dalla patria. Per la stessa ragione il Salmista esclamava: Misero me! il mio pellegrinaggio è prolungato! (Sal. CXIX, 5). Lo stesso Apostolo, che aveva ricevuto lo Spirito Santo ed era uno dei primi membri della Chiesa, ansioso di ricevere di fatto l’adozione filiale, che già possedeva nella speranza, esclamava: “Desidero morire ed essere con Cristo” (Filip. I, 23). Perciò dobbiamoin questi giorni più che mai abbandonarci al pianto ed alle lacrime, per meritare con la tristezza ed i lamenti del nostro cuore di ritornare nella patria, dalla quale ci esiliarono le gioie che procurano la morte. Piangiamo durante il viaggio, se vogliamo gioire giunti alla mèta; percorriamo l’arena della vita presente per cogliere al termine il premio della chiamata celeste; non siamo dei viaggiatori insensati che dimenticano la propria terra e s’affezionano a quella dell’esilio, o si fermano lungo la via; neppure dobbiamo essere di quei malati insensibili che non sanno cercare il rimedio ai loro mali, perché è già spacciato chi non ha neppure coscienza della propria infermità. Corriamo dunque dal medico dell’eterna salute, a scoprirgli tutte le nostre ferite e a fargli sentire l’intimo grido dell’anima nostra: Abbi pietà di me. Signore, che son malato: ridonami la salute, perché le mie ossa sono sconquassate (Sal. VI, 3). Così questo medico divino perdonerà le nostre iniquità, ci guarirà da tutti i languori e colmerà tutti i nostri desideri per il bene ».

Vigilanza.

Il cristiano che vuole, durante questo tempo, penetrare lo spirito della Chiesa, deve bandire da sé quella falsa sicurezza, o quella propria soddisfazione che spesso alligna nelle anime molli e tiepide e non produce che sterilità, quando non porta insensibilmente alla distruzione del vero senso cristiano. Chi si crede dispensato da questa continua vigilanza, tanto raccomandata dal Salvatore (Mc. XIII, 37), è già nelle mani del nemico; chi non sente il bisogno di combattere, lottare per mantenersi saldo nella via del bene deve temere d’essere molto lontano dal Regno di Dio, che si conquista con la forza (Mt. XI-12); chi dimentica i peccati perdonati dalla misericordia divina, deve tremare al pensiero che d’ora in poi sarà lo zimbello d’una pericolosa illusione (Eccli. V, 5). Diamo dunque gloria a Dio in questi giorni, consacrandoci alla coraggiosa contemplazione delle nostre miserie, ed attingendo nella conoscenza di noi stessi sempre nuovi motivi di sperare in Colui, che mai debolezze ed errori impedirono d’abbassarsi fino a noi per innalzarci fino a Lui.

Trionfo della Chiesa

Nella attuale situazione della Chiesa Cattolica, Chiesa attualmente eclissata da un orribile mostro conciliare, infettato dal cancro e dalla peste del modernismo, somma di tutte le eresie, mostro sostenuto pure dalle sette eretico-scismatiche sedicenti tradizionaliste, ci conforta leggere l’introduzione all’opera di Sant’Alfonso Maria dei Liguori: “Storia delle eresie”, che ci ricorda appunto che la “barca di Pietro”, battuta dalle tempeste e dai marosi delle eresie susseguitesi nel corso dei secoli, alfine è stata sempre vittoriosa e più splendente che in precedenza, grazie alla mano di Dio Onnipotente che sempre la sostiene e la dirige. Animo quindi, anche la peste modernista attuale sarà superata, in un modo a noi umanamente impensabile, ma la promessa evangelica di Gesù Cristo si compirà ancora una volta … portæ inferi non prævalebunt … a noi il compito di mantenerci fermi nella fede secondo il Magistero della Santa Chiesa cattolica, senza digressioni o fantasie pseudo-teologiche, cosicché terminata la corsa, con l’aiuto del Cuore Immacolato di Maria, possiamo giungere al premio eterno promesso da Gesù-Cristo a coloro che fanno la volontà del Padre suo.

Trionfo della Chiesa,

ossia “Istoria delle Eresie colle loro confutazioni” (1772) di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori

INTENTO DELL’OPERA

1.- L’intento di quest’opera è di far vedere che la Chiesa cattolica romana è fra tutte le altre chiese l’unica vera; dimostrandosi la cura che Dio ne ha tenuta, facendola sempre restar vittoriosa contro tutte le persecuzioni de’ suoi nemici. Pertanto da essa debbono tutti dipendere, come dal fonte e dal capo, secondo scrisse S. Ireneo: “Omnes a romana ecclesia necesse est ut pendeant tamquam a fonte et capite” (L. 3. c. 3. n. 2.). Questa già è quella Chiesa che fu fondata da Gesù Cristo e poi propagata dagli apostoli; e quantunque fin dal principio fosse stata da per tutto perseguitata e contraddetta, come opposero i giudei a S. Paolo in Roma: “De secta hac, così chiamavano essi la religion cristiana, notum est nobis quia ubique ei contradicitur”, nondimeno ella si mantenne sempre stabile, a differenza delle altre chiese false che a principio ebbero molti seguaci, ma poi col tempo restarono dissipate; come si vedrà nell’opera, quando parleremo degli Ariani, de’ Nestoriani, Eutichiani, Pelagiani e simili. E se qualche setta è rimasta numerosa, come quella de’ Maomettani, de’ Luterani e Calvinisti, da ognuno tuttavia si scorge che non già l’amor della verità la sostiene, ma o l’ignoranza de’ popoli o la licenza de’ costumi. Dice S. Agostino che le eresie non sono abbracciate se non da coloro i quali, se fossero restati nella Chiesa, si sarebbero perduti egualmente per la perversità de’ loro vizj: “Non ex aliis hominibus fiunt haeretici, quam ex iis qui, si in ecclesia permansissent, propter vitae turpitudinem nihil ominus periissent”.

2.- La nostra Chiesa all’incontrario, non ostante che ella insegna a’ suoi figli una legge contraria alle inclinazioni della natura corrotta, non solamente non mancò in mezzo alle persecuzioni, ma con quelle più crebbe; onde poté asserire Tertulliano che il sangue de’ martiri era come una feconda semenza che moltiplicava i cristiani, di cui quanti più ne erano uccisi, tanto più ne cresceva il numero: “Sanguis martyrum semen christianorum; quoties metimur, plures efficimur”. E prima aveva scritto: “Christi regnum et nomen ubique creditur, ab omnibus gentibus colitur”. E ciò si conforma a quel che scrisse Plinio il giovine nella sua celebre lettera a Traiano, dicendo venirgli riferito dall’Asia che ivi regnava da per tutto la religion cristiana, in modo che si vedevano abbandonati tutti i templi degli idoli: “In Asia prope iam desolata esse templa deorum, eo quod christiana religio non tantum civitates sed etiam vicos occupasset”.

3. Ciò non poteva certamente avvenire senza la forza dell’onnipotente mano divina, trattandosi di fondare in mezzo all’idolatria una nuova religione che distruggeva tutte le superstizioni di quella e la credenza così invecchiata di tanti falsi dei, comunemente prima adorati da’ gentili e dai loro antenati ed anche da’ magistrati e dagli stessi imperatori, che con tutto il loro vigore la proteggevano: e ciò non ostante la fede cristiana da molti popoli fu abbracciata, passando essi da una legge rilassata ad un’altra dura che vietava il secondare gli appetiti del senso. Chi mai poteva condurre a fine una tale impresa se non la potenza di un Dio?

4.- Grandi pertanto furono le persecuzioni che patì la Chiesa dall’idolatria; ma più terribili furono quelle che ebbe a soffrire dalle eresie uscite dal suo medesimo seno per mezzo di uomini malvagi, che mossi dalla superbia, o dall’ambizione, o dalla libertà de’ sensi, impresero a lacerar le viscere della stessa loro madre. L’eresia dall’apostolo fu chiamata cancer (ut cancer serpit), perché siccome il canchero infetta tutto il corpo, così l’eresia infetta tutta l’anima, infetta la mente e il cuore, l’intelletto e la volontà. Ella si chiama ancora peste, perché non solo infetta la persona che n’è contaminata, ma ancora gli altri che a lei si accostano. Ed in fatti avvenne che, dilatandosi questa peste nel mondo, è stato molto maggiore il danno recato alla Chiesa dall’eresia che dall’idolatria; sì che questa buona Madre è stata più maltrattata dai figli che dagli stessi suoi nemici. Nulladimanco ella è restata sempre superiore in tutte le tempeste che gli eretici le han suscitate contro. Parve un tempo che l’eresia dell’empio Ario avesse oppressa la Chiesa, precisamente quando per le frodi di Valente e di Ursacio vescovi perversi fu condannata la fede del Concilio niceno; onde scrisse san Geronimo che allora il mondo gemendo si vide fatto Ariano: “Et ingemiscens orbis terrarum se Arianum esse miratus est” [Actor. 28. 22.]. E la stessa oppressione par che avesse sofferta la Chiesa nell’oriente a tempo dell’eresie di Nestorio e di Eutichete; ma ella è una meraviglia e una consolazione insieme nel leggere i successi delle eresie, come in certi tempi sembrava che la navicella della Chiesa dalla forza delle persecuzioni restasse superata e sommersa, e come poi in breve tempo si è veduta risorgere più gloriosa e trionfante di prima.

5.- Scrisse S. Paolo: “Oportet et haereses esse, ut et qui probati sunt, manifesti fiant in vobis”. Spiega s. Agostino la parola oportet, e dice che siccome il fuoco è necessario a purgare l’argento e separarlo dalla scoria, così le eresie sono necessarie a provare i buoni tra i cattivi cristiani, ed a separar la vera dalla falsa dottrina. La superbia degli eretici fa loro presumere che essi conoscano la vera fede, e che la Chiesa cattolica erri. Ma qui sta l’inganno: perché non possiamo noi tener per vera quella fede che ci addita la nostra ragione; mentre le verità della fede divina sono superiori alla nostra ragione. Dobbiamo per tanto attenerci a quella fede che Iddio ha rivelata alla sua Chiesa, e la Chiesa c’insegna, la quale, come dice l’apostolo, è la colonna e la fermezza della verità: “Ecclesia Dei vivi columna et firmamentum veritatis” (Apol. c. ult. ). Onde poi s. Ireneo parlando della Chiesa romana dice che in essa debbono convenire le altre chiese e tutti i fedeli, perché nella Chiesa romana si è conservata sempre la tradizione degli Apostoli: “Omnes a romana ecclesia necesse est ut pendeant, tamquam a fonte et capite. Ad hanc enim ecclesiam propter potiorem principalitatem necesse est omnem convenire ecclesiam, hoc est eos qui sunt undique fideles; in qua semper ab his, qui sunt ubique, conservata est ea, quae ab apostolis est traditio” [Cap. 20.]. E nello stesso luogo aggiunge che per tale tradizione e fede, pervenuta a noi per la successione de’ vescovi della romana chiesa, restan confusi i di lei nemici: “Per Romæ fundatæ ecclesiæ eam, quam habet ab apostolis, traditionem et fidem per successionem episcoporum provenientem usque ad nos, confundimus eos, qui per caecitatem et malam conscientiam, aliter quam oportet, colligunt”. Volete sapere, dice s. Agostino, quale è la vera chiesa di Gesù Cristo? Ritrovate quella ove si numerano i sacerdoti che per continua serie son succeduti nella sede di Pietro, e questa è la pietra, contro cui non possono prevalere le porte dell’inferno: “Numerate sacerdotes vel ab ipsa sede Petri in ordine illo patrum; quis cui successerit, videte, ipsa est petra quam non vincunt superbæ inferorum portæ”. Ed in altro luogo asserisce il santo dottore, che tal successione de’ sacerdoti lo teneva in essa Chiesa: “Tenet me in ipsa ecclesia ab ipsa sede Petri usque ad praesentem episcopatum successio sacerdotum”. Poiché in verità questo carattere della continua successione degli Apostoli e poi dei loro discepoli è un carattere che non si trova che nella sola Chiesa cattolica.

6.- Pertanto il Signore ha voluto che questa sua Chiesa, ove si conserva la vera fede, fosse una, acciocché tutti i fedeli tenessero la stessa fede da questa Chiesa insegnata. Ma il demonio, scrive s. Cipriano, ha inventate le eresie per dividere questa unità, procurando per tal via di distruggere la fede: “Haereses invenit, quibus subverteret fidem, scinderet unitatem”. Ha procurato il maligno che gli uomini costituissero più chiese diverse, affinché, seguitando ciascuno la credenza della sua chiesa particolare, contraria alla credenza delle altre, restasse confusa la vera fede, e si formassero tante fedi false, quante sono le chiese diverse, o per meglio dire, quante sono le teste degli uomini: com’è accaduto specialmente in Inghilterra, ove le religioni sono tante, quante son le famiglie e quante son le persone; poiché nella stessa famiglia ciascuno tiene quella religione che gli piace. Ma perciò, dice s. Cipriano, ha disposto Iddio che la vera fede nella sola Chiesa cattolica romana si conservasse, acciocché, non essendovi che una Chiesa, una fosse per tutti i fedeli sempre uniforme la dottrina e la fede: “Primatus Petro datur, ut una Christi ecclesia et cathedra una monstretur”. Lo stesso fu scritto da S. Optato Milevitano a Parmeniano: Negare non potes, scire te in urbe Romæ Petro primo cathedram episcopalem esse collatam… in qua una cathedra unitas ab omnibus servaretur”.

7.- Anche gli eretici vantano l’unità delle loro chiese; ma dice S. Agostino che la loro unità “est unitas contra unitatem”. Quale unità mai, dice il santo, aver possono tutte quelle chiese che son divise dalla Chiesa cattolica ch’è l’unica vera? Le misere son rimaste come tanti rami mutili recisi dalla vite, che è appunto la Cattolica Chiesa, la quale sta e sarà sempre ferma nella sua radice: Ipsa est ecclesia sancta, ecclesia una, ecclesia vera, ecclesia catholica, contra omnes haereses pugnans; pugnare potest, expugnari non potest. Haereses omnes de illa exierunt, tanquam sarmenta inutilia de vite praecisa: ipsa autem manet in radice sua, in vite sua, in caritate sua: portæ inferorum non vincent eam. Scrive parimente s. Geronimo che gli eretici per la stessa ragione per cui si han formata una chiesa diversa dalla Chiesa romana, essi medesimi si dichiarano esser quei seguaci dell’errore e discepoli del demonio, che furono descritti dall’apostolo: “Attendentes spiritibus erroris, et doctrinis daemoniorum”. Ecco le parole di s. Geronimo: “Ex hoc ipso quod postea instituti sunt, eos se esse iudicant, quos apostolus futuros prænuntiavit”.

8.- Ma dicono i Luterani e i Calvinisti, e prima lo dissero i Donatisti, che la Chiesa cattolica ha conservata la vera fede sino a certo tempo (altri dicono sino al terzo secolo, altri sino al quarto, altri sino al quinto); ma che poi è mancata, corrompendo la sana dottrina, onde da sposa è divenuta adultera. Ma tale opposizione si riprova e convince da se stessa: perché posto che la Chiesa romana è stata la prima fondata da Gesù Cristo, ella non ha potuto, né può mai mancare; mentre dallo stesso nostro Salvatore le sta fatta la promessa, che non mai sarebbe stata vinta dalle porte dell’inferno: “Et ego dico tibi, quia tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo ecclesiam meam, et portæ inferi non prævalebunt adversus eam”. Ammesso dunque per certo che la Chiesa romana è stata vera, come confessa anche il luterano Gerardo, che fu uno de’ primi ministri di Lutero, avendo scritto: “Certum quidem est (ecclesiam romanam) primis quingentis annis veram fuisse et apostolicam doctrinam tenuisse” 1; se dunque è stata vera una volta, ella ha dovuto e dovrà esser sempre vera, e non mai può diventare adultera, come scrive s. Cipriano: “Sponsa Christi adulterari non potest”.

9.- Replicano gli eretici (i quali, invece di apprendere dalla Madre i dogmi che debbono credere, vogliono insegnare alla Madre i dogmi falsi e perversi) e dicono: per noi sta la scrittura sacra, la quale è il fonte della verità. Ma non vogliono intendere che le scritture, come dice un dotto autore, “non in legendo consistunt, sed in intelligendo”. Tutti gli eretici si valgono della scrittura per fondare i loro errori; ma non dobbiamo noi intender la scrittura, come noi l’interpretiamo col nostro spirito privato, che spesso c’inganna, ma secondo c’insegna la santa Chiesa, la quale ci è stata assegnata per maestra della vera dottrina, ed alla quale Iddio manifesta il vero senso de’ sacri libri. Questa Chiesa, dice l’Apostolo, è quella che da Dio è stata costituita per la colonna e la fermezza della verità: “Scias quomodo oporteat te in domo Dei conversari, quæ est ecclesia Dei vivi, columna et firmamentum veritatis” [3]. Onde scrive s. Leone che la fede cattolica deve disprezzar gli errori degli eretici che latrano contro la Chiesa, mentr’eglino si sono allontanati dal vero evangelio, ingannati della loro vana sapienza del mondo: “Fides igitur catholica oblatrantium haereticorum spernat errores, qui mundanæ sapientiæ vanitate decepti a veritatis evangelio recesserunt”.

10.- Posto ciò io stimo esser molto l’utile che si ricava dalla lettura dell’istoria delle eresie; ella fa comparire più bella e risplendente la verità della nostra fede, in dimostrarcela sempre uniforme a se stessa; e se tal lettura è stata sempre giovevole, maggiormente lo sarà ne’ tempi presenti, ne’ quali audacemente si mettono in dubbio le massime più sante e i dogmi più principali. Inoltre ella ci fa vedere la cura che sempre ha avuta Iddio in sostener la sua Chiesa in mezzo a tante procelle che sembravano volerla abbattere; ed insieme le maniere ammirabili con cui ha fatti restar confusi tutti i nemici che l’hanno combattuta. Giova ancora il leggere le storie delle eresie per conservarci nello spirito di umiltà e di soggezione alla Chiesa; ed anche per renderci grati a Dio in averci fatti nascere in paesi ove ella regna, nel vedere in quali errori ed inezie sono caduti tanti uomini letterati, per non aver voluto eglino sottomettersi a’ di lei insegnamenti.

11.- Ma veniamo a vedere l’intento della presente opera. Stimerà alcuno superflua questa mia fatica, dopo che tanti eccellenti autori hanno scritto distesamente la storia delle eresie, come sono Tertulliano, s. Ireneo, s. Epifanio, s. Agostino, s. Filastrio, Teodoreto, Vincenzo Lirinese, Socrate, Sozomeno, Niceforo e molti altri antichi e moderni. Ma per questo stesso motivo che molti autori hanno scritto a lungo in più volumi la storia delle eresie, io mi son mosso a fare quest’opera, considerando che molti o non hanno tempo di leggere questi libri così diffusi, o pure non hanno la possibilità di comprarli, e perciò ho procurato in questo mio libro di raccogliere in breve i principj ed i progressi di tutte le eresie, sì che senza l’applicazione di molto tempo e senza molta spesa può ciascuno restar sufficientemente informato delle eresie e degli scismi che hanno infestata la Chiesa. Ho detto in breve; ma non tanto in breve, come hanno fatto alcuni altri autori che appena accennano i fatti, e lasciano il leggitore scontento, o almeno poco istruito di più cose importanti a sapersi. Io ho cercato di esser breve, come ho detto, ma nello stesso tempo mi sono studiato di dare a’ leggitori una tal cognizione di ciascuna eresia (parlando di quelle che hanno fratto più rumore nella Chiesa), per cui ne restassero contenti ed appieno informati, almeno circa i fatti più notabili.

12.- Inoltre mi ha spinto a dar fuori quest’opera il vedere che gli autori moderni, i quali meglio hanno appurati i fatti, hanno parlato delle eresie, scrivendo essi della storia universale della Chiesa; come hanno fatto il Baronio, Fleury, Natale Alessandro, Tillemont, Orsi, Spondano, Rinaldo, Graveson ed altri. Onde essi hanno parlato di ciascuna eresia in diversi luoghi, secondo l’ordine de’ tempi, ne’ quali è uscita fuori quella eresia o han fatto progresso o è stata abbattuta; e perciò il lettore ha da scorrere diversi luoghi dell’opera per informarsi della nascita, del seguito e della sconfitta che quell’eresia ha avuta. Io all’incontro ho procurato di unire insieme nello stesso luogo tutte le notizie che a ciascuna eresia si appartengono.

13.- Di più non tutti i nominati scrittori hanno addotte le confutazioni delle eresie; e queste confutazioni io le collocherò nel terzo tomo di quest’opera. Non prenderò però tutte a confutarle, ma quelle sole che hanno avuto maggior seguito, come sono state quella di Sabellio, di Ario, di Pelagio, di Macedonio, di Nestorio, di Eutichete, de’ Monoteliti, degl’Iconoclasti, de’ Greci e simili. Delle altre eresie poi che hanno avuto minor seguito accennerò in breve solamente gli autori e gli errori, la falsità de’ quali si conosce dalla loro evidente insussistenza, oppure dalla confutazione che addurrò delle altre eresie più celebri che poc’anzi ho nominate.

14.- Frattanto, lettor mio, ringraziamo noi incessantemente il Signore di averci fatti nascere ed allevare in grembo della Chiesa cattolica. S. Francesco di Sales esclamava: “Buon Dio, molti e grandi sono i benefici coi quali mi avete obbligato, e ve ne ringrazio; ma come potrò io ringraziarvi per avermi illuminato colla santa fede?” E ad una persona scrisse: “O Dio! La bellezza della nostra santa fede compare sì bella, che io ne muoio d’amore; e mi pare che debba chiudere questo dono prezioso dentro un cuore tutto profumato di devozione”. E s. Teresa non si saziava di ringraziare sempre Dio di averla fatta figlia della santa Chiesa. Stando in morte tutta si consolava dicendo: “Muoio figlia della santa Chiesa, muoio figlia della santa Chiesa”. E così ancor noi non lasciamo di ringraziar Gesù Cristo di questa grazia a noi donata, la quale è una delle maggiori che Egli ci ha fatte, distinguendoci con tal favore da tanti milioni di uomini, che sono nati e morti fra gl’infedeli o fra gli eretici. “Non fecit taliter omni nationi” [2. Tim. 2. 17.]. E con animo grato per sì gran beneficio entriamo a vedere il trionfo che la santa Chiesa ha ottenuto per tanti secoli sovra tutte le eresie che hanno cercato di oppugnarla. Prima però di cominciare voglio protestarmi coi signori letterati che io ho fatto quest’opera in mezzo alle cure del vescovado; onde non ho potuto con tutto il rigore della critica esattamente esaminare ciascuna cosa di quelle che ho scritte; quindi in molti fatti ho riferite le diversità che vi sono fra gli autori, senza prender partito con darvi il mio sentimento. Nondimeno ho procurato di ricavar tutto da autori appurati e di chiaro nome; ma trattandosi di tanti innumerabili avvenimenti che si addurranno, non sarà difficile che alcuno erudito appuri qualche fatto meglio di me.

… et Ipsa conteret caput tuum …