18 GIUGNO 1968: FONDAZIONE DELLA GERARCHIA DELLA SINAGOGA DI sATANA (3)

  18 giugno 1968: Fondazione della gerarchia nella sinagoga di satana. (3)

(Studio redazionale dal comitato internazionale “Rore sanctifica”)

Continuiamo a discutere con le idee un po’ più chiare, circa l’Invalidità intrinseca del rito del “Pontificalis Romani”, per quanto concerne la consacrazione episcopale. Ricordiamo in quali termini San Tommaso d’Aquino pone la questione: “Dio è il solo a realizzare l’effetto interno al Sacramento? Risposta: « Ci sono due modi di realizzare un effetto: in qualità di agente principale o in qualità di strumento. Secondo la prima maniera, è Dio solo che realizza l’effetto del Sacramento. Ecco perché Dio solo penetra nelle anime ove risiede l’effetto del Sacramento, e un essere non può agire direttamente là dove Egli non c’è. Anche perché appartiene solo a Dio il produrre la “grazia”, che è l’effetto interiore del Sacramento (Sum. Theol. I-II, Q.112, a. 1). Inoltre, il carattere, effetto interiore di certi Sacramenti, è una virtù strumentale derivante dall’Agente principale, che è qui Dio. Ma, nella seconda maniera, cioè agendo in qualità di ministro, l’uomo può realizzare l’effetto interiore del Sacramento; perché il ministro e lo strumento hanno la stessa definizione: l’azione dell’uno conduce ad un effetto interiore sotto la mozione dell’Agente principale che è Dio. » (Summa theologiæ III, Q.64, 1). In poche parole, l’uomo non è che il ministro, lo strumento dell’azione di Dio in un Sacramento. E qui sorge la domanda: “Chi è che ci assicura in modo assolutamente certo che Dio agisca al meglio in un rito creato nel 1968”?

Seguiamo ancora San Tommaso, che si chiede: “L’istituzione dei Sacramenti ha solo Dio per Autore? – « È a titolo di strumento, lo si è visto, che i Sacramenti realizzino degli effetti spirituali. Ora lo strumento trae la sua virtù dall’Agente principale. Vi sono due agenti, nel caso di un Sacramento: Colui che lo istituisce, e colui che usa del Sacramento già instituito applicandolo quanto a produrre il suo effetto. Ma la virtù del Sacramento non può venire da colui che non fa che usarne, perché non si tratta così se non al modo di un ministro. Rimane dunque che la virtù del Sacramento gli viene da Colui che l’ha instituito. La virtù del Sacramento non venendo che da Dio, ne risulta che Dio solo abbia istituito i Sacramenti. » Summa theologiæ (III, Q.64, 1). Dio solo ha istituito i Sacramenti, e allora, ripetiamo la domanda: Chi ci assicura in modo assolutamente certo che un rito creato nel 1968 trasmetta la “virtù” di un Sacramento che ha solo Dio come autore? – “Gli elementi necessari istituiti dal Cristo secondo San Tommaso d’Aquino: L’istituzione dei sacramenti ha Dio solo per autore?« Obiezione n°1: Non sembra, perché è la Santa Scrittura che ci fa conoscere le istituzioni divine. Ma ci sono alcuni elementi dei riti sacramentali che non si ritrovano menzionati nella Santa Scrittura, come la santa Cresima, con la quale si da’ la confermazione, e l’olio con cui si ungono i Sacerdoti, e certe altre parole e gesti che sono in uso nei Sacramenti. Risposta all’obiezione n° 1: Gli elementi del rito sacramentale che sono d’istituzione umana non sono necessari al Sacramento, ma contribuiscono alla solennità di cui lo si circonda per eccitare devozione e rispetto in quelli che lo ricevono. Quanto agli elementi necessari ai Sacramenti, essi sono stati istituiti dal Cristo stesso, che è nello stesso tempo Dio ed uomo; e se essi non ci sono tutti rivelati nelle Scritture, la Chiesa comunque li ha ricevuti dall’insegnamento ordinario degli Apostoli [la tradizione – ndr. – ]; è così che San Paolo scrive (1 Co XI, 34) : « Per gli altri punti, io li regolerò alla mia venuta ». (Summa theologiæ III, Q.64, 1). Se gli elementi del rito “necessari” al Sacramento sono stati istituiti dal Cristo stesso, ci domandiamo ancora più perplessi, chi è che ci assicura in modo assolutamente certo che gli elementi del rito creato  (… nientemeno che da dom B. Botte su commissione di Buan 1365/75!?!) nel 1968 contengano effettivamente gli elementi necessari al Sacramento istituito dallo stesso N.S. Gesù Cristo? Ricordando, al proposito, il giudizio di San Pio X « … allorché si sappia bene che la Chiesa non ha il diritto di innovare nulla che tocchi la sostanza del Sacramento » [San Pio X, 26 dicembre 1910, “Ex quo nono”]. Quindi veniamo alle “1+3” condizioni di validità del Sacramento di consacrazione: 1) Perché una consacrazione episcopale sia valida, si richiede innanzitutto che il consacratore abbia egli stesso il potere d’ordine, cioè che egli sia validamente (ed ontologicamente) Vescovo. Successivamente, sono necessarie 3 condizioni all’esistenza del Sacramento della consacrazione episcopale (vale a dire alla sua validità) : • la materia e la forma: « I Sacramenti della nuova legge devono significare la grazia che essi producono e produrre la grazia che essi significano. Questo significato deve ritrovarsi … in tutto il rito essenziale, e cioè nella materia e nella forma; ma esso appartiene particolarmente alla “forma”, perché la materia è una forma indeterminata per se stessa, ed è la “forma che la determina” ». [Leone XIII, Apostolicae Curae, 1896]. • l’intenzione del consacratore: « la forma e l’intenzione sono egualmente necessarie all’esistenza del Sacramento », «Il pensiero o l’intenzione, dal momento che è una cosa interiore, non cade sotto il giudizio della Chiesa; ma Essa deve giudicarne la manifestazione esteriore » [Leone XIII, Apostolicae Curae, 1896]. E il Santo Padre Pio XII sottolinea efficacemente la questione alla Conclusione dei lavori del 1° congresso internazionale della liturgia pastorale d’Assisi, il 22 settembre 1956: «Ricordiamo a questo proposito ciò che Noi diciamo nella Nostra Constituzione Apostolica “Episcopalis Consecrationisdel 30 novembre 1944 (Acta Ap. Sedis, a. 37, 1945, p. 131-132). Noi vi determiniamo che nella consacrazione episcopale i due Vescovi che accompagnano il Consacratore, debbano avere l’intenzione di consacrare l’Eletto, e che essi debbano per conseguenza compiere i gesti esteriori e pronunciare le parole, per mezzo delle quali il potere e la grazia da trasmettere siano significate e trasmesse. Non è dunque sufficiente che essi uniscano la loro volontà a quella del Consacratore principale e dichiarino che essi fanno proprie le sue parole e le sue azioni. Essi stessi devono compiere quelle azioni e pronunziare le parole essenziali. »! E allora, quali sono state le modifiche o le soppressioni “sospette” (per usare un eufemismo) del rito montiniano. Ecco cosa è stato soppresso: – 1) Il giuramento del futuro Vescovo che promette a Dio « di promuovere i diritti, gli onori, i privilegi dell’autorità della santa Chiesa romana… d’osservare con tutte le sue forze, e di farle osservare agli altri, le leggi dei santi Padri, i decreti, le ordinanze, le consegne ed i mandati apostolici … di combattere e di perseguire secondo il suo potere gli eretici [una delle principali funzioni del Vescovo!!!], gli scismatici ed i ribelli verso il nostro San Pietro: il Papa ed i suoi successori ». – 2) L’esame attento del candidato sulla sua fede, comprendente la domanda di confermare ciascuno degli articoli del credo. – 3) L’istruzione del Vescovo: « Un Vescovo deve giudicare, interpretare, consacrare, ordinare, offrire il sacrificio, battezzare e confermare ». In nessuna parte quindi, il nuovo rito menziona che la funzione del Vescovo sia quella di ordinare, di confermare e di giudicare (di slegare e legare). -.4) La preghiera che precisa le funzioni del Vescovo, dopo la preghiera consacratoria. Nel Pontificalis Romani, si definisce quindi una forma essenziale insufficiente. Per Pio XII, la forma deve significare in modo univoco l’intenzione del rito di fare un Vescovo per ordinare dei preti: « allo stesso modo, la sola forma sono le parole che determinano l’applicazione di questa materia, parole che significano in un modo univoco gli effetti sacramentali, cioè il potere di ordine e la grazia dello Spirito-Santo, parole che la Chiesa accetta ed impiega come tali» [Pio XII, Sacramentum Ordinis, 1947]. –

[la vera formula consacratoria di sempre in uso nella Chiesa Cattolica]

La forma designata come “essenziale” da Paolo VI non indica né il potere d’ordine, né la grazia dello Spirito-Santo come grazia del Sacramento:

« La forma consiste nelle parole di questa preghiera consacratoria; tra di esse, ecco quelle che appartengono alla natura “essenziale”, sicché sono quelle esatte perché l’azione sia valida:

« Et nunc effunde super hunc electum eam virtutem, quæ a te est, Spiritum principalem, quem dedisti dilecto Filio Tuo Jesu Christo, quem ipse donavit sanctis apostolis, qui constituerunt Ecclesiam per singula loca, ut sanctuarium tuum, in gloriam et laudem indeficientem nominis tui »

[ed ora effondi su questo eletto quella virtù che viene da Te, lo Spirito “principale”, che desti al Figlio tuo diletto, e che Egli donò ai suoi Apostoli, perché si costituisse la Chiesa come tuo santuario a gloria e lode del tuo Nome …]. (Inoltre non è specificato di quale spirito si tratti! “Principalem”, in latino, significa pure: “del principe” [si consulti un normale vocabolario della lingua latina]… quindi non è per caso che ci si riferisca, viste le referenze degli autori, allo … spirito del “principe … di questo mondo”?) – (Paolo VI, Pontificalis Romani, 1968.]. I termini supposti per definire il Vescovo figurano in un’altra parte del prefazio: «ut distribuát múnera secúndum præcéptum tuum » [Paolo VI, Pontificalis Romani, 1968). Alla maniera degli anglicani, i difensori del rito montiniano devono allora invocare l’“unità morale” del rito. Nel Pontificalis Romani, la forma essenziale è senza dubbio, insufficiente. Il Sacramento (ex opere operato) non può operare ciò che esso non significa!!! « La sola forma sono le parole che determinano l’applicazione di questa materia, parole che significano in modo univoco gli effetti sacramentali, cioè il potere d’ordine e la grazia dello Spirito-Santo, parole che la Chiesa accetta ed impiega come tale». [Pio XII, Sacramentum ordinis, 1947]. Le parole del prefazio del Pontificalis romani “non” significano affatto il potere d’ordine: “Ut distribuant munera secundum praeceptum tuum”. [Che essi distribuiscano dei “doni” (!?! forse come santa Claus o la befana !?) secondo il tuo comandamento]. Il termine adottato “distribuant munera” è equivoco, esso esprime dei doni, dei carichi, delle funzioni (vedere il diz. Gaffiot per “munus”), si tratta di un termine profano che non esprime nemmeno lontanamente il potere d’ordine. Dom Botte traduce il greco κλήρους (Klerous) con ‘carichi’ (La Tradition apostolique, Ed. Sources chrétiennes, maggio 1968). Ora un “carico” ecclesiastico non è un ordine. Un anglicano può accettare l’espressione di distribuzione di carichi, un luterano ugualmente. Questa ambiguità è voluta … siamo ben lontani dalle parole essenziali del rito latino (comple sacerdote tuo). Queste parole esprimono in modo univoco il potere d’ordine (Episcopum oportet … ordinare – il Vescovo deve ordinare!). Il sacramento (ex opere operato) non può operare ciò che esso non significhi e quindi la forma è da considerarsi “difettosaA questo punto, a differenza di tutti i riti precedentemente adottati, è patente la “contro-intenzione” del rito, quella di “non” significare il potere di ordinazione dei Sacerdoti, e quindi la volontà di non ordinare! Si mette dunque in evidenza una contro-intenzione a livello della forma del rito, contro-intenzione che appare in un contesto ecumenico-modernista che fornisce la “chiave” per la comprensione della posa in atto di questo rito. Non a caso Jean Guitton, scriveva: « Questa Chiesa ha cessato di chiamarsi cattolica per chiamarsi ecumenica », ed il massone Bugnini (col nome d’arte BUAN, sempre lui, quello della messa del baphomet “signore dell’universo”!) dichiarava sull’Osservatore Romano del 19 marzo del 1965: Noi dobbiamo spogliare le nostre preghiere Cattoliche e la liturgia Cattolica da tutto ciò che potrebbe rappresentare l’ombra di una pietra d’inciampo per i nostri “fratelli” separati (quelli che la “vera” Chiesa ha sempre chiamato “eretici” e “scismatici”, vale a dire i Protestanti.”).

Un caso simile, a proposito delle false ordinazioni anglicane, fu inesorabilmente ed infallibilmente stroncato da un Papa “vero”, Leone XIII nella sua famosa lettera Enciclica del 1896 (oggi occultata con ogni mezzo dagli apostati modernisti conciliari!), la già più volte citata “Apostolicæ curæ” nella quale si dimostravano 4 punti: –

1) La forma del Sacramento è stata rimpiazzata da una forma ambigua che non significa precisamente la grazia che produce il Sacramento [appunto come l’attuale -ndr. -]. –

2) Il rito anglicano è stato composto e pubblicato in circostanze di odio del Cattolicesimo ed in uno spirito settario ed eterodosso (come quello ecumenico e neoterico della setta modernista, ampiamente scomunicato da Papi di felice memoria, uno tra tutti: Pio II in Execrabilis– ndr, – ); –

3) Le espressioni del rito anglicano non possono avere un senso cattolico (esattamente come quello esaminato –ndr. – ).–

4) L’intenzione del rito anglicano è contraria a ciò che fa la Chiesa • Una conclusione infallibile e senza appello!!!.

Tale conclusione, viste le premesse, può essere tranquillamente e serenamente applicata, con identica fermezza, a quella del rito di Montini e del “trio blasfemo”. Si tratta come si vede, di una ulteriore impostura sacrilega a-canonica ed a-cattolica introdotta a devastazione della Gerarchia cattolica, e la formazione di una nuova gerarchia farlocca, completata di li a poco (1972) dall’abolizione indebita della tonsura ecclesiastica, e che ha “confezionato”, come vedremo, dei laici mai consacrati, dei prelati-zombi, ridicoli travestiti ed usurpanti ignobilmente titoli e giurisdizioni!

.- Continuiamo a parlare di questa cosa gravissima, della quale pochi sono a conoscenza, e chi sa e la conosce, si guarda ovviamente bene dal farne parola, e cioè della INVALIDITA’ formale e materiale della consacrazione episcopale del “Pontificalis Romani”, che sta producendo in apparenza, l’estinzione dell’Ordine sacerdotale cattolico e di conseguenza di tutti i Sacramenti: quella che oggi appare essere la Chiesa Cattolica, è costituita in realtà da un esercito di “zombi” spirituali, da “finti” e presunti sacerdoti e vescovi che stanno lentamente ma inesorabilmente soppiantando i pochi veri “residui” Vescovi e Sacerdoti, oramai solo ultraottantenni, e cioè i Vescovi ordinati con il “rito Cattolico” di sempre contenuto nel Magistero irreformabile ed eterno, o i Sacerdoti ordinati da “veri” Vescovi a loro volta ordinati prima del fatidico 18 giugno 1968. – L’Apostolicità della Chiesa Cattolica, prosegue nelle “catacombe” in cui è relegato il vero Pontefice Romano, successore di S.S. Gregorio XVII, Giuseppe Siri, che anche se con estrema difficoltà e prudenza ordina e garantisce l’operato dei Vescovi da lui nominati.

Adesso discorreremo addirittura delle ERESIE contenute nella formula del rito del “Pontificalis Romani”!! Effettivamente costateremo nella “forma” essenziale: 1) un‘eresia monofisita, 2) un’eresia anti-filioque, 3) un’eresia anti-Trinitaria, tali da configurare una forma essenziale “kabbalista e gnostica” (la Gnosi in generale, e quella talmudica-cabbalista in particolare, è propriamente la “teologia” di lucifero), e creare quindi un perfetto “eletto manicheo”. Una forma quindi, che non solo rende invalida ed illecita ogni presunta consacrazione, ma ne inverte i valori spirituali, consacrando cioè un “servo di lucifero”. E allora ci chiediamo: ma se è così come sembra, e come ci accingiamo a dimostrare, cosa pensare del prossimo “santo” G.B. Montini, Paolo VI? Possiamo affermare, con piglio categorico, sicuro e senza … peli sulla lingua: il “dannato subito” della “sinagoga di satana”, infiltrata lentamente fraudolentemente nella Chiesa Cattolica, è da ritenersi come il più grande eresiarca della storia di tutti i tempi, al cui confronto Lutero, Calvino, Fozio, Ario, Krenmer, Soncino e compagnia cantando, sono dilettanti di serie Z, di ultima categoria!”.

PORTRAIT DE CALVIN

gli eretici dilettanti e…

… Il più grande eresiarca di tutti i tempi!

C’è chi ha attaccato la Chiesa dal tetto, chi dalle mura esterne, chi dal portone e dalle finestre, ma Montini “la ruspa” L’ha praticamente rasa al suolo (si fieri potest), scardinandone i pilastri portanti: la Santa Messa, la Consacrazione episcopale, la tonsura abolita e quindi Sacerdozio cattolico abolito, con la conseguente invalidità di tutti i Sacramenti e di ogni rito! Ma torniamo alla invalida ed illecita consacrazione episcopale, alla blasfema formula di ispirazione fanta-copto-etiopica, come dimostrato in precedenza: « Et nunc effunde super hunc electum eam virtutem, quæ a te est, Spiritum principalem, quem dedisti dilecto Filio Tuo Jesu Christo » [Pontificalis Romani, 1968 (forma essenziale)]. Qui è palese l’affermazione dell’eresia monofisita, l’eresia dei monofisiti etiopici [che negano cioè la natura divina di Cristo]. Queste due righe citati infatti si ritrovano tal quali nel loro rito abissino di consacrazione episcopale. Questa eresia consiste nel considerare che il Cristo abbia bisogno di ricevere dal Padre lo Spirito-Santo per divenire ’Figlio di Dio’, e per poter comunicare a sua volta, lo Spirito-Santo ai suoi Apostoli. Il Figlio riceve lo Spirito ad un dato momento (al battesimo secondo gli Etiopi), cosa quindi che nega la natura del “Fiat” della Santissima Vergine Maria, “Fiat” che permette nello stesso momento la sua verginale Concezione, realizzando così il Mistero centrale della Fede Cattolica: l’Incarnazione di Nostro Signore Gesù-Cristo, vero Uomo e vero Dio per mezzo dello Spirito-Santo). Quindi: negazione totale della verità cattolica dell’Incarnazione del Verbo! Ma nella “forma essenziale” c’è anche spazio per l’eresia anti-Filioque [l’eresia di Fozio e dei sedicenti “Ortodossi”, che negano il procedere dello Spirito-Santo dal Padre “e” dal Figlio]. In questa forma, infatti, si afferma l’eresia anti-Filioque etiopica, secondo la quale “Non è più il Figlio che spira, con il Padre, lo Spirito-Santo (cf. il “Filioque” del Simbolo di Nicea), ma è il Figlio che riceve dal Padre lo Spirito-Santo. Si tratta di un’inversione (secondo un tipico costume satanico), delle relazioni nella Santa Trinità tra il Figlio e lo Spirito-Santo. Incredibile! Pensare che al Credo della Messa “di sempre” la Chiesa ci fa cantare a proposito dello Spirito-Santo « qui ex Patre Filioque procedit »! Questa formula esprime la fede della Chiesa nello Spirito Santo come terza Persona della Santa Trinità. Lo Spirito-Santo procede dal Padre e dal Figlio come da un solo Principio e possiede, con il Padre ed il Figlio, gli stessi attributi di onnipotenza, di eternità, di santità; Esso è uguale al Padre ed al Figlio a causa della divinità che è Loro propria. L’utilizzazione del termine Puer Jesus Christus nella “forma”, in Ippolito, «modello» del rito della consacrazione dei Vescovi riformato da Montini (il sedicente marrano Paolo VI), è rimpiazzato da: “dilectus Filius” = tuo Figlio diletto, Gesù Cristo. Malgrado tutto, questa correzione indica ancora e sempre una inferiorità del Figlio poiché il Cristo è designato anche, come nei Greci scismatici, come canale transitorio dello Spirito-Santo. Manca dunque allo Spirito-Santo la relazione essenziale in seno alla Santa Trinità come Persona emanante dal Padre e dal Figlio dall’eternità. Un errore grossolano, fondamentale, che rende, una volta di più, la forma dell’ordinazione intrinsecamente inoperante e dunque assolutamente invalida! Ed anche se la rettitudine della fede del Vescovo consacrante fosse certa, questa non potrebbe “sopperire” né correggerebbe la forma e l’intenzione che è normalmente veicolata dal rito.

Ma non è ancora finita: la “forma” inventata da B. Botte per Bugnini, su richiesta di Montini, proclama anche una eresia anti-Trinitaria! Ed infatti il « Signore » che è: Dio, il Padre; il Figlio Gesù-Cristo, consustanziale al Padre; e « lo Spirito che fa i capi (!?!) e che Tu hai dato al tuo Figlio diletto, Gesù-Cristo » non costituiscono affatto una designazione teologicamente corretta delle tre Persone divine nell’unità della sostanza e distinte per le loro Relazioni proprie! Qui il discorso è sottile e non alla portata di ogni mente non abituata (e dove sono più oramai?) al “tomismo” (la teologia di S. Tommaso), ma è palese il voler rinnegare la formulazione di San Tommaso quando dice: Pater et Filius et Spiritus Sanctus dicuntur “unum” et non unus. (Quodl. 6,1+2) [si dicono un “unico” e non uno]. Di conseguenza la nuova formula di consacrazione episcopale è egualmente invalida a causa di questa eresia antitrinitaria.

Ma c’è ancora dell’altro: questa “forma” sembra a ragione, provenire addirittura da un sistema gnostico e kabbalista! Riportiamo ancora la formula: « Et nunc effunde super hunc electum eam virtutem, quæ a te est, Spiritum principalem, quem dedisti dilecto Filio Tuo Jesu Christo» Con la modifica di “Spiritus principalis” in “Spiritum principalem”: cioè un genitivo che diviene un accusativo, l’essere dello Spirito è assimilato ad una qualità (forza), lo Spirito diviene cioè una sorta d’ “energia”, e non più una “Persona”. Questo concetto eretico deriva da un sistema “gnostico” immanentista panteista (il discorso sui concetti della “gnosi spuria” e di kabbala “spuria”, richiederebbe un’opera monumentale). La messa in equivalenza mediante un accusativo, proprio della “fabbricazione” di Dom Botte (“originalità” luciferina che non si ritrova né presso gli etiopi, né nella sinossi della ’Tradizione apostolica’ e neppure nelle Costituzioni apostoliche), tra la “forza” (virtus) che viene dal Padre e lo Spiritus principalis, fa nuovamente assimilare la Persona dello Spirito-Santo ad una semplice “qualità” proveniente da Dio, ma senza essere Dio. Questo è nuovamente un negare lo Spirito-Santo come Persona divina e quindi la sua consustanzialità divina. Ma addirittura in certe traduzioni “diocesane” lo Spirito vi appare con una minuscola, ed egualmente il ’Figlio’ vi appare con una minuscola: “Signore, spandi su Colui che tu hai scelto la tua forza, lo spirito sovrano che tu hai dato a tuo figlio”. Facendo il legame di questi elementi con la concezione kabbalista di Elia Benamozegh (cf. le sue opere in proposito), si arriva alla riduzione dello Spirito e del Figlio a due “eoni” inviati da Dio, ma che non sono Dio, bensì degli “éoni” [coppia di entità che Dio manderebbe ogni tanto per illuminare gli uomini], come nel sistema dell’eretico gnostico Valentino (o della neognosi massonica attuale), o delle forze semplici, “virtù” o energie spirituali. Questo riduce la Santa Trinità ad un concetto puramente simbolico, espressione di un sistema gnostico sotto le apparenze monoteiste (monoteismo appunto del “signore dell’universo”: lucifero, cosa di cui ci ha informato il sig. Margiotta, massone ex 33° del palladismo di Pike e Mazzini). Questo lascia trasparire la profonda conoscenza che il “marrano” Patriarca degli Illuminati di Baviera dell’epoca, Montini [la cui famiglia materna era giudaica] aveva della kabbala e della gnosi spuria che egli ha travasato nel Cattolicesimo facendola apparire “cristiana” agli “ignari” fiduciosi della sua (finta) infallibilità! A chi ne volesse sapere di più, si consiglia : “Dell’Origine dei Dogmi Cristiani”, di Elia Bénamozegh. Cap. III. Caratteri dello Spirito-Santo, pag. 271, e, sempre dello stesso rabbino, gli: Atti del convegno di Livorno (settembre 2000) Alessandro Guetta (ed.), Edizioni Thalassa de Paz, Milano, coop srl. – Dicembre 2001 Via Maddalena, 1 – 20122 Milano. Quindi la SS. Trinità è intesa seconda la “gnosi spuria”: « Non è più la Trinità di Persone nell’unità della sostanza, ma è l’Infinito, l’Assoluto, l’Eternità, l’Immensità incomprensibile, inintelligibile, vuota e senza alcuna forma, l’“ensof” in cui le tre Persone non sono più che delle emanazioni temporali (…). Secondo il paganesimo, l’Essere primordiale, che è nello stesso tempo il Non-essere, si differenzia e si rivela solamente dopo un certo tempo, facendo emanare dal suo vuoto interiore le tre divinità che i pagani hanno adorato. Così si elimina la S.S. Trinità in vista della religione noachide. E qui il discorso si allargherebbe a dismisura esulando dalle intenzioni di questo scritto. Ricordiamo solo che la negazione dell’eternità della Trinità divina è la negazione della creazione “ex nihilo”, è la negazione della differenza essenziale tra Dio e l’universo; è l’abbassamento del Creatore al livello della sua creatura o la deificazione della creatura, in particolare dell’uomo… è il panteismo» In verità questa è stata sempre la costante del “falso” pontificato di Montini: sostituire l’uomo a Dio, sostituire alla Redenzione di Gesù-Cristo, la redenzione gnostico-cabalista della triplice e blasfema trinità massonica.

Oltre a queste chiare eresie e l’intento noachide, la “forma” montiniana, nasconde un’ulteriore intenzione “occulta”, quella di designare un « Eletto » manicheo, aggiungendo l’espressione: “super hunc Electum”. “Electus” ha due sensi (cristiani) secondo il Gaffiot (termine electus) • scelto da Dio per la salvezza: VULG. Luc. XVIII,7 • scelto per ricevere il Battesimo: AMBR. Hel. 10, 34. Poi il Gaffiot aggiunge un ultimo senso: • membro d’élite della setta dei manichei, [eretici gnostici, seguaci di Mani]: MINUC. 11,6. Ora, essendo gnostica la natura del sistema dal quale deriva questa formula, questo è il vero senso, e cioè l’intenzione del rito d’ordinazione episcopale di sua satanità Paolo VI è un rito che conferisce dei poteri ad un eletto manicheo! A questo punto abbiamo bisogno di respirare aria pura, non ne possiamo più di tutti questi inganni! Certo, non vorremmo ritrovarci nei panni “infuocati” di un vescovo (falsamente) consacrato dopo il 1968, cioè un “eletto manicheo” anti-Cristo! Alla prossima per ricapitolare il tutto!

Quali sono le origini del Pontificalis Romani, da dove proviene questa formula dell’antipapa Paolo VI? Le Ragioni addotte da Paolo VI nel Pontificalis Romani per promulgare questa riforma ufficialmente sono: – « … Si è giudicato bene di ricorrere, tra le fonti antiche, alla preghiera consacratoria che si trova nella “Tradizione apostolica di Ippolito di Roma”, documento dell’inizio del terzo secolo, e che, in una grande parte, è ancora osservata nella liturgia dell’ordinazione presso i Copti ed i Siriaci occidentali. In tal modo, si rende testimonianza, nell’atto stesso dell’ordinazione, dell’accordo tra la tradizione orientale ed occidentale sul carico apostolico dei Vescovi » Paolo VI (Pontificalis Romani,1968). L’inganno è palese, poiché è provato (come vedremo più avanti) che: – La pretesa (*) Tradizione apostolica attribuita ad Ippolito di Roma, o ad altri autori, è un tentativo di ricostituzione fatto da Dom Botte dopo il 1946, ed « in modo costruttivo », secondo l’espressione di R.P. Hanssens, nel 1959. – La Tradizione apostolica d’Ippolito suscita dal 1992 un dibattito tra specialisti che la qualificano come di « pretesa Tradizione apostolica », quindi quantomeno dubbia, se non fantomatica! Questa controversia divenne oggetto di un seminario nel 2004 nel quale si concluse che: –1) La preghiera di consacrazione di Paolo VI si ispira, ma non s’identifica, con la pretesa Tradizione apostolica attribuita ad Ippolito; essa rappresenta una creazione “artificiale” di Dom Botte nel 1968. 2) La preghiera consacratoria di Paolo VI, la cui forma essenziale è ispirata alla pretesa (*) Tradizione Apostolica d’Ippolito, presenta delle similitudini con i riti Abissini, riti di eretici “monofisiti”, i quali non costituiscono dei riti validi, ma piuttosto dei riti risultanti da dibattiti teologici nati alla fine del XVII secolo. 3) I riti copto e siriaco non utilizzano affatto la formula detta d’Ippolito, (dello stesso avviso è perfino Dom Botte!). inoltre i riti utilizzati dal siriaco al copto, ai quali ci si è falsamente ispirati, venivano utilizzati per insediare un Patriarca già consacrato Vescovo, e quindi non conferivano in alcun caso il Sacramento dell’Ordine!  – 4) La formula di Paolo VI non manifesta alcun « accordo tre le tradizioni orientale ed occidentale», ma viene recuperata piuttosto da una pretesa (*) ‘Tradizione apostolica d’Ippolito’, testo che secondo alcuni proviene invece da ambiti egiziano-alessandrini, nei quali i riti traducono, secondo Burton Scott Easton, le influenze della sinagoga (The Apostolic Tradition of Hippolytus, Burton Easton, 1934, pag. 67 ed. del 1962, Archon Books).

(*) [Noi abbiamo preferito scrivere, in accordo con il comitato internazionale “rore sanctifica”: La ‘pretesa’ Tradizione apostolica a proposito di questo documento denominato “la Tradizione apostolica attribuita ad Ippolito” (o a diversi autori “Ippoliti”), conformandoci così alla denominazione dei lavori Scientifici ed universitari che si è imposta da un paio di decenni nel mondo degli specialisti che trattano di questo soggetto.]

In sostanza, la “contestazione d’Ippolito”, conosciuta dagli specialisti già dal 1946, ossia ben 22 anni prima del Pontificalis Romani, continua nel 1990 ed oltre, anche da parte dei Bollandisti (Gesuiti seguaci di Bolland, particolarmente eruditi nelle documentazioni ecclesiastico-liturgiche). Sarebbe troppo lungo e noioso riportare tutti i documenti, veri o presunti, ed i dibattiti successivi sul tema, ma a quanti, incuriositi, volessero delle indicazioni precise, consigliamo di consultare il sito del comitato “Rore Sanctifica” o i diversi Tomi di “Démontration et bibliographie” editi da ESR. In conclusione, la preghiera consacratoria di Paolo VI s’ispira, ma non riproduce affatto neppure quella della pretesa (*) “Tradizione Apostolica d’Ippolito’ che è stata quindi solo un po’ di “fumo negli occhi”, un “bluff” per prendere tempo in attesa di tempi migliori e … di nuove invenzioni, e costituisce pertanto una creazione artificiale di Dom Botte nel 1968. L’inganno verrà meglio compreso successivamente, quando qualche “topo di biblioteca”, un inopportuno ed inatteso “figlio di topa….” va a scovare le formule ed i riti orientali nelle lingue originali, fraudolentemente addotti essere un modello di ispirazione onde fondere le consuetudini liturgiche occidentali ed orientali, sicuri che nessuno mai andasse a verificarle, fidandosi della perizia dei falsi e ben oleati “sapienti” incaricati. Per il momento ci fermiamo qui, ma le sorprese continuano: “Esse ci fanno capire la volontà sottile con la quale si sia perpetrato l’inganno tra l’indifferenza, l’insipienza e, non voglia Iddio, la connivenza di tanti presunti “conoscitori di cose divine”, mollemente adagiati nei loro dorati e comodi giacigli, magari in compagnia di qualche “amichetto”.. Tremate, il giudizio arriverà anche per voi … come un ladro, quanto meno lo aspettate … e lì sarà pianto e stridor di denti!

     Concludiamo con una certa tensione il nostro esame circa la totalmente invalida e blasfema consacrazione episcopale la cui “forma” è contenuta nel (falso) pontificalis romani del 1968, forma progettata, redatta e confezionata ad arte dal trio massonico-modernista BBM [Botte, Buan 1365/75, Montini], esame che ci ha messo a conoscenza di cose sconvolgenti e scrupolosamente celate da chi “sa”, cose che descrivono una realtà totalmente artefatta ed ingannevole. A riguardo degli attuali falsi-vescovi vaticano-secondisti (compreso quelli “sedicenti” di Roma), è bene rileggere le parole, oggi tragicamente attuali, contenute in una lettera famosa che reca le firme delle più belle ed appropriate penne del Cattolicesimo, ossia di trentatré Vescovi, tra i più insigni dell’epoca della peste giudaico-ariana abbattutasi sulla Cristianità, tra i quali Melezio di Antiochia, primo presidente del Concilio Ecumenico di Costantinopoli, di S. Gregorio Nazianzeno, grande Padre della Chiesa, che presiedette il suddetto Concilio Ecumenico alla morte di Melezio, San Basilio, anch’esso Padre della Chiesa, S. Giovanni Crisostomo, ed altre personalità insigni per fama e santità. La lettera famosa riporta quanto segue: “… si getta lo scompiglio nei dogmi della Religione, si confondono le leggi della Chiesa. L’ambizione di coloro che non temono il Signore li spinge a scavalcare le autorità e ad attribuirsi l’Episcopato quale premio alla più sfacciata empietà, di modo che colui che proferisce le più gravi bestemmie venga ritenuto il più adatto per reggere il popolo come Vescovo. È scomparsa la serietà episcopale. Mancano pastori che pascolino con coscienza il gregge del Signore. I beni dei poveri sono costantemente impiegati dagli ambiziosi per proprio tornaconto e regalati senza riguardo. Il fedele compimento dei canoni si è oscurato (….) Per tutto questo gli increduli ridono, i deboli vacillano nella fede, la fede stessa è dubbiosa, l’ignoranza si distende sulle anime, quindi assumono aspetto credibile coloro che insozzano la divina parola con loro malizia, visto anche che la bocca dei più osserva il silenzio” [Opere di S. Giovanni Crisostomo. Bibliot. di Autori Cristiani. La Editorial Catolica S. A., introd. Pag. 7 -grassetto e sottolineatura redaz.-]. Nulla è cambiato oggi rispetto alla quella tragica situazione, anzi oggi è ancora peggio, perché abbiamo da un lato 1°- finti vescovi non-consacrati dell’ecumenico-modernismo, setta oggi padrona illegittima usurpante nella Chiesa; dall’altro altrettanto 2° – finti non-vescovi mai consacrati, a cominciare dal cavaliere kadosh A. Lienart, massone 30° già quattro anni prima della sua sacrilega ed invalida consacrazione, invalida poiché un Sacramento non può operare in un pluriscomunica scomunicato “latæ sententiæ” od imprimere il sigillo del sacerdozio anche ordinario in uno che grida alzando un pugnale al cielo: “Adonay nokem” [Adonai vendetta], nei brindisi inneggianti a lucifero delle agapi massoniche. (Inutile e falso dire che anche Giuda fosse stato costituito Vescovo da Gesù-Cristo, malgrado le sue intenzioni nefaste, ma il Salvatore ha lasciato fare, perché sapeva già a quale fine il reprobo traditore andasse incontro … da lì a poco). Invalida quindi la sua consacrazione, invalide tutte quelle da lui operate e quelle operate dai suoi falsi consacrati, a cominciare dal “santo” “Marcello” Giuda-Lefebvre, ben consapevole della cosa, e che oltretutto poi, senza alcun mandato, contravvenendo a tutte le regole ed ai Canoni della Chiesa, ed in dispregio a qualunque autorità, anche alle false, ha sacrilegamente ed invalidamente “finto” di consacrare, con cognizione di causa, altri poveri disgraziati peggiori di lui, destinati anch’essi alla fine di Giuda, che continuano il turpe ed infame costume di perdizione delle anime incaute. Delle pittoresche balorde consacrazioni di mons. Thuc, ai limiti della patologia psichiatrica, che in preda ad enfasi misticheggianti, ha consacrato cani e p…., senza mandato apostolico e giurisdizione, avallando scismatici ed eretici movimenti sedevacantisti pseudo-tradizionalisti, non è neppure il caso di accennare. E qui non abbiamo Santi come il Crisostomo, Basilio, Gregorio Nazianzeno. Ci resta solo la Santissima Vergine e la potentissima arma del Rosario… Ella ce l’ha promesso … “Ma alla fine il mio Cuore Immacolato trionferà!!!” [Messaggio di Fatima].

Ricordiamo pure come il grande autore cattolico francese Dom Guéranger (quando in Francia c’erano ancora Sacerdoti cattolici! … bei tempi …) nelle “Instituzioni Liturgiche”, presenta in 12 punti fondamentali la «Marcia dei pretesi riformatori del cristianesimo» : – Egli dimostra che l’eresiarca antiliturgista odia la Tradizione, rimpiazza le formule liturgiche con i testi della Scrittura Santa per interpretarli a suo modo, introduce delle formule «perfide», rivendica i diritti dell’antichità di cui si fa beffe cambiandone il rito, sopprime tutto ciò che esprime i misteri della fede cattolica, rivendica l’uso della lingua volgare, sopprime le genuflessioni ed altri atti di pietà della liturgia cattolica, odia la Potenza Pontificia Romana, organizza la distruzione dell’episcopato, rigetta l’autorità di Roma per gettarsi nelle braccia del principe temporale. Alla luce delle considerazioni di dom Guéranger, della cui retta dottrina c’è da essere assolutamente certi, siamo quindi alla presenza di eresie antiliturgiste, e del maggiore eresiarca antiliturgista mai comparso sulla faccia della terra: G. B. Montini, il marrano sedicente Paolo VI, “giustamente” pseudo-canonizzato, “santo” della attuale “sinagoga di satana” [si legga: “dannato” della chiesa Cattolica] che oggi domina la Sede di Pietro ed i Sacri palazzi dell’urbe e dell’orbe così come da visione “purtroppo” profetica del Santo Padre S. S. Leone XIII! – Ma torniamo al nostro argomento, facendo un po’ di riepilogo. Ci pare di aver capito, nella nostra grossolana ignoranza, che il rito Romano, soppresso il 18 giugno del 1968, sia un rito antico, invariabile nella sua forma essenziale da più di 17 secoli, ed infatti tutti i Vescovi cattolici di rito latino (tra i quali Santi straordinari, tipo S. Francesco di Sales o S. Alfonso Maria de’ Liguori, tanto per citarne qualcuno), sono stati consacrati con questo rito. Che cosa ha questo nuovo Rito che non va? Ecco la risposta pronta: “ Il rito di Pontificalis Romani è stato creato nel 1968 e non è MAI stato utilizzato nella Chiesa. Nessun Vescovo cattolico è mai stato consacrato in questo rito. Questo rito non possiede gli «elementi necessari», secondo la teologia sacramentale. (v. San Tommaso): Esso è INTRINSECAMENTE invalido. Questo non è un rito cattolico!!! A tal proposito cerchiamo, prima di un riepilogo dettagliato sulla questione, di comprendere meglio cosa si intendesse, accennando all’“eletto manicheo”, che sarebbe in realtà l’unico titolo che il rito, o meglio questa “pantomima”, spacciata per consacrazione episcopale, conferirebbe! Gli “eletti” manichei, o “i perfetti”, costituivano, nell’ambito del Manicheismo, una “religione” di carattere gnostico che annoverava influssi disparati derivanti da tradizioni giudaiche, iraniane, ed afro-orientali, in un “minestrone” ecumenico comprendente elementi di buddismo, cristianesimo, zoroastrismo, tradizioni iraniche, giudaismo talmudico e paganesimo variegato, il tutto ben cementato dalla cosmogonia e teogonia gnostica, in un sistema codificato secondo presunte “rivelazioni” spirituali di un “paracleto”, il presunto “spirito gemello” di Mani (da cui Manicheismo, definire compiutamente il quale richiederebbe tempo e spazio), nobile personaggio vissuto nel III secolo d.C. In Persia: gli “eletti”, erano un gruppo ristretto di religiosi osservanti rigorose norme morali e comportamentali, che libererebbero le “fiammelle” divine imprigionate nei corpi materiali creati da un “demiurgo” malefico, il Dio dei Cristiani [sempre la stessa “solfa” gnostica]: agli “eletti” si contrapponevano gli “auditores” che erano i collaboratori degli “eletti”, verso i quali avevano doveri servili (elemosine), che non li avrebbero però liberati dalla materia, continuando così essi, poverini, ad essere obbligati a trasmigrare in corpi diversi (metempsicosi gnostica e teosofica!). L’obiettivo inconfessato della sceneggiata della “falsa” consacrazione cattolica episcopalele, non è altro quindi che la blasfema “istituzione” di eletti manichei (vescovi della chiesa gnostica) nell’ambito della dottrina gnostica, “gnosticismo” del quale è infarcito il talmudismo “spurio” giudaico, al quale si “abbeverava”, per tradizione familiare, l’apostata Montini. – Chiudiamo allora con il riepilogo succinto di quanto abbiamo cercato di esporre in questa serie di scritti dedicati alle “false consacrazioni episcopali” iniziate il 18 giugno del 1968. I fatti e gli argomenti precedentemente riportati hanno dimostrato quanto segue, per il rito di consacrazione episcopale promulgato dal falso Papa, l’antipapa Giovan Battista Montini, sedicente Paolo VI, il 18 giugno 1968 a Roma, nel Pontificalis Romani:

1) Questo rito non è antico, ma è stato creato nel maggio 1968 da diversi materiali.

2) Questo rito rivendica una origine oggi contestata dagli specialisti (veri) della questione

3) Questo rito non riproduce affatto quello della pretesa (*) “Tradizione apostolica” attribuita ad Ippolito.

4) Questo rito non è, e non lo è mai stato, praticato in Oriente, presso i copti ed i siriaci occidentali.

5) Questo rito si rivela, dall’inchiesta, non essere null’altro che una “costruzione” puramente umana di Dom Botte.

6) Questo rito possiede una “forma” essenziale insufficiente.

7) Questo rito non esprime l’intenzione di conferire il potere di ordinare dei sacerdoti cattolici.

8) Questo rito subisce le condanne che Leone XIII infallibilmente indirizzò (in “æa Trinità.

9) Questo rito nega l’unione ipostatica delle due nature nella Persona di N.S. Gesù Cristo.

10) Questo rito nega la “spirazione” dello Spirito dal Figlio, nega cioè il “Filioque”.

11) Questo rito veicola una concezione kabbalista e gnostica dello Spirito-Santo.

12) Questo rito rilancia, nel 1968, l’attacco contro lo Spirito-Santo sviluppato mezzo secolo prima dal rabbino di Livorno, Elia Benamozegh (1828-1900).

13) Questo rito serve a creare, in modo sacrilego e blasfemo, gli “eletti” Manichei, e quindi vescovi gnostici!

   Ne risulta da ciò che precede, così come dai testi infallibili di Leone XIII, di Pio XII e del Magistero tutto della Chiesa di sempre, che sia assolutamente IMPOSSIBILE considerare un rito tale come INTRINSECAMENTE VALIDO e capace di consacrare dei veri Vescovi cattolici, veri successori degli Apostoli di Nostro Signore Gesù-Cristo. In tal modo quindi, come da copione scritto nelle retro logge giudaico-massoniche, e recitato dai pupazzi della “quinta colonna” ecclesiastica infiltrata, si è cercato di distruggere l’Apostolicità della Chiesa Cattolica Romana, almeno spiritualmente, lasciando poi che si distruggesse materialmente, con opportune guerre inventate per i più futili motivi, anche l’Apostolicità delle chiese orientali greco-Cattoliche, ad esempio in Ucraina, Libano, Siria, Egitto, etc., che non hanno modificato il loro rito antichissimo, così come la Messa di S. Basilio e S. Giovanni Crisostomo degli uniati.

L’Apostolicità è unicamente conservata solo nella Chiesa d’occidente, la Chiesa Cattolica Romana, dalla Gerarchia in esilio, che da Gregorio XVII, Cardinal Siri, Papa “impedito”, in poi è rimasta l’unico filo conduttore che da San Pietro in poi giunga ai nostri giorni e continuerà la serie ininterrotta dei Papi, come da Magistero solenne (v. C. A. Pastor Æternus in Conc. Vaticano), e da promessa del divin Salvatore Gesù-Cristo. A Lui sia onore e gloria, a Lui che vive e regna, con il Padre e lo Spirito Santo, per tutti secoli dei secoli.

Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat!

FESTA DI SAN PIETRO PRINCIPE DEGLI APOSTOLI (2023)

SAN PIETRO

OTTO HOPHAN: GLI APOSTOLI – Marietti ed. Torino, 1951

In Roma, al Laterano, la chiesa « caput et mater » di tutte le chiese dell’orbe cristiano, s’eleva grande e solenne, in apostolica autorità e maestà, la statua di Simone Pietro: egli sta là con le vesti svolazzanti, come scendesse dall’eternità per venire in questo misero mondo, con la destra benedicente e insieme alzata sull’ « Urbs et Orbis » a comandare, tenendo con la sinistra le pesanti chiavi d’oro, che legano e sciolgono, e sotto il braccio sostiene, dolce e sacro peso, il Vangelo, ch’egli portò al di là di Gerusalemme e di tutta la Giudea e Samaria, sino ai confini della terra e al quale quivi, nell’antica e potente Roma, creò un’altra patria ed un altro luminoso mattino. Quale figura eccezionale di dominatore dovette essere Simone Pietro! quale geniale personalità religiosa! – La basilica di San Pietro a Roma, sul colle Vaticano, la più grande casa, che la cristianità abbia consacrata al Signore, una delle più poderose creazioni del genio umano, che con travolgente giubilo s’inarca sulle spoglie mortali dell’Apostolo, è il degno monumento di questo signore del mondo. Nella cupola di Michelangelo spiccano, scritte a caratteri giganteschi, quelle parole, che nostro Signore Gesù Cristo rivolse a Pietro e che mai passeranno, anche se cielo e terra passano: « Tu es Petrus! Et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam — Tu sei Pietro, la roccia! E su questa roccia Io edificherò la mia Chiesa ». Quando nei giorni di grande solennità il Successore di Pietro è portato nella basilica fra gli evviva osannanti d’una folla mareggiante, e quando alla consacrazione echeggiano le trombe d’argento e il Sacerdote Sommo, stringendo fra le mani l’Ostia e il Calice, si volge benedicente ai quattro punti cardinali, le migliaia di fedeli hanno la sensazione che si faccia loro incontro il rappresentante d’un uomo, che s’è elevato sino all’eternità, dove può toccare le soglie della stessa Divinità. Quanto grande e sublime Pietro!

LA PERSONALITÀ DI PIETRO

Se, allontanandoci dalla statua di San Pietro e dalla sua basilica e da tutta la grande Roma, ci inoltriamo nel santo Vangelo, restiamo quasi interdetti dinanzi alla semplicità personale di quest’uomo, intorno al quale guizzano i bagliori di Dio; la sua semplicità è così manifesta e così accentuata, che ci domandiamo storditi che cosa mai il Signore abbia scoperto in questo Pietro per risolvere di stabilirlo, proprio lui, pastore del suo gregge, padre dei re, fondamento della sua Chiesa, condottiero di questo mondo; se fosse stato eletto Paolo, l’uomo famoso nei secoli, o il geniale Giovanni o anche Giacomo, così energico, l’avremmo compreso, sebbenenil peso della dignità e della responsabilità avrebbe oppresso anche loro; ma Pietro? chi era questo Simone Pietro?

Patria e Famiglia.

Non sortì come patria Roma, Atene, Gerusalemme, Tarso, no, ma Bethsaida, una città di nessuna importanza, sulla riva orientale del lago di Genezareth, che era la residenza del tetrarca Filippo, o forse addirittura il piccolo nido di Bethsaida sulla spiaggia occidentale; in qualunque caso Bethsaida entrò nella storia del mondo solo perchè fu patria di Pietro. Al tempo della vita pubblica di Gesù, Pietro aveva preso domicilio nella vicina Cafarnao, dove possedeva una casa; il Signore si degnò di entrarvi e uscirne, come fosse ivi in casa propria. Questo suolo, ove Pietro ebbe i suoi natali, contribuì evidentemente alla sua formazione; in nessun altro Apostolo è impressa profonda come in lui la caratteristica dei Galilei: lo storico Giuseppe Flavio dice che i Galilei sono facili all’entusiasmo, precipitosi nelle decisioni e ardenti. – Anche la condizione familiare di Pietro era tanto semplice: suo padre si chiamava Giona o Giovanni — può essere che questa differenza sia dovuta a un errore di scrittura nella trascrizione greca del Vangelo di Matteo —, un Giovanni qualunque, ignorato, di niun conto, che non apparteneva nè al Sinedrio né alla classe dei finanzieri; ma, poichè lo sguardo del Signore si posò su suo figlio, anche il suo nome divenne celebre per tutti i tempi: « Beato sei tu, Simone, figlio di Giona…! ». « Simone, figlio di Giovanni, Mi ami tu? ». Il Vangelo ricorda un fratello di Pietro, il quieto Andrea, cui pure toccò l’ambito onore d’essere chiamato da Gesù all’ufficio apostolico. Pietro, secondo la stessa informazione evangelica, era sposato; uno dei primi miracoli anzi operati da Gesù fu la guarigione della suocera sua, che giaceva a letto a motivo « della grande febbre », come nel suo Vangelo ne precisa la diagnosi Luca, il medico. Nel Vangelo invece non si fa mai menzione esplicita della sposa di Pietro; secondo Girolamo, sarebbe morta presto; e forse, dopo la guarigione miracolosa, vediamo la buona suocera così attiva e sollecita nel prestare i suoi servizi, perché non c’era altra donna in casa, che ne curasse i bisogni. Altri commentatori della Scrittura invece ravvisano la sposa di Pietro in quella « sorella », ch’è ricordata da Paolo, nella prima lettera ai Corinti, come coadiutrice di Pietro nei suoi viaggi apostolici “. Clemente di Alessandria riferisce che, quando l’Apostolo vide la sua sposa condotta alla morte, si rallegrò perché veniva chiamata e ricondotta in Patria, la esortò e consolò dicendole: « Oh, ricordati del Signore! ». Girolamo accenna pure a più figli di Pietro; altre informazioni meno attendibili s’attardano specialmente su d’una figlia di nome Petronilla, che compare negli atti del martirio dei santi Nereo e Achilleo; questa santa « Petronilla » però era più probabilmente della famiglia di « Petronio », il quale apparteneva alla celebre famiglia romana dei Flavi.

Professione e Vocazione.

Di professione Pietro era pescatore; e pescatore non vuol dire senz’altro proletario o, peggio, miserabile, come talora, esagerando, si vorrebbe far credere di Pietro; possedeva infatti una casa, delle barche con tutti gli annessi e connessi attinenti alla pesca e forse, come sappiamo della famiglia di Zebedeo, aveva pure a suo servizio degli operai; un individuo, che proveniva dalla povertà d’una stamberga in rovina, non si sarebbe presentato al Signore con quella affermazione così ferma e sicura: « Ecco, noi abbiamo abbandonato ogni cosa e Ti abbiamo seguito ». Noi abbiamo abbandonato tutto! Persino il lago Pietro aveva lasciato per il Signore, il lago vasto e azzurro, per sostituirgli le strade polverose e gli sporchi villaggi. Chissà quante volte più tardi, quand’era gravato dalle cure della giovane Chiesa e camminava per le vie di Antiochia, di Corinto e di Roma, avrà richiamato in sorridente mestizia il lago della sua giovinezza! Sì, quel lago! Eppure proprio in quel lago Pietro si era addestrato alle fatiche, alle tempeste e alla diffusione della Chiesa nel mondo. Nondimeno, considerata ogni circostanza, l’origine, la condizione familiare, la posizione sociale, nessuno avrebbe predetto a quest’uomo l’ufficio più eccelso, che Cielo e terra possono concedere. Più d’uno, senza dubbio, nella sua giovinezza ha custodito le capre ed è poi asceso fino a divenire reggitore di popoli; ma Pietro non ha, anche come persona, abilità straordinarie che lo elevino al di sopra dell’aurea mediocrità; è vivace, di spirito sveglio, di volontà pronta e sopratutto ha un cuore ardente, è vero; ma, se si confronta con Giovanni o, più ancora, con Paolo, che mise sossopra un mondo intero, Pietro manca dell’impulso alle gesta geniali e gloriose. È l’uomo semplice, leale, e come un dì attese con onestà e lodevole sollecitudine alla sua famiglia, così ora si adopera per la giovane Chiesa; è l’uomo della vita pratica e dell’azione immediata; non rifugge dai piani arditi e dalle alte speculazioni, ma, messo dinanzi ad essi, si fa circospetto, come possiamo arguire dal suo benevolo giudizio su Paolo: «Il nostro diletto fratello Paolo ha scritto secondo la sapienza, che gli è stata data, come fa in tutte le lettere, quando parla di questi argomenti; in esse vi sono certi punti difficili ad intendersi, che le persone senza istruzione e malsicure stravolgono a loro propria perdizione». Dal Sinedrio è giudicato “indotto e incolto”, sebbene questo giudizio non escluda ogni formazione, bensì l’istruzione rabbinica, della quale forse aveva approfittato Paolo. Gli era invece molto familiare la Sacra Scrittura, come lo provano tanto bene i suoi discorsi, riportati negli Atti degli Apostoli, così pregni del profumo della Parola di Dio. È possibile che per tutta la vita sia sopravissuto nel pescatore di Bethsaida un non so che di goffo; qualcuno della plebaglia di Gerusalemme si burlò del modo impacciato di comportarsi del povero Apostolo e della sua lingua e pronunzia rozza, genuinamente di Galilea “. E così in Pietro tutto è semplice ed umano, ad eccezione del suo sovrumano ufficio; non è un dominatore, dello stampo di quelli che s’incontrano nella storia, nè un eroe, che sia penetrato nelle stratosfere dello spirito; le più antiche immagini (Dagli antichi monumenti cristiani non è possibile concludere a un tipo uniforme per Pietro. Gli antichi sarcofaghi presentano teste di lui abbastanza differenti; quello di Basso, ad esempio, della metà del V secolo, dà a Pietro un capo alto, coperto di capelli corti, con fronte liscia, naso stretto e quasi verticale, bocca decisamente tagliata, barba arricciata, ma fluente. Si conservano però, quasi dello stesso tempo, delle raffigurazioni, che gli danno un capo calvo nella parte anteriore, fronte rugosa, larga base del naso, labbra rigonfie e barba rotonda. Col passar del tempo s’andò delineando una netta distinzione fra le figurazioni di Pietro e Paolo: gli artisti assegnarono al primo la barba rotonda e i capelli tutti ricciuti, al secondo il capo calvo e la barba fluente.) lo rappresentano con i lineamenti dell’uomo intelligente e buono, ma insieme anche con quelli dell’uomo semplice del popolo. Proprio qui dunque, di fronte a quest’essere ordinario ch’è Pietro, ci si presenta di nuovo la domanda: perchè appunto quest’uomo comune fu chiamato ad una dignità così straordinaria? Certamente anche questa disadorna semplicità presentava il suo aureo rovescio; è sufficiente una scorsa al Vangelo per essere attratti dall’incanto della rettitudine e schietta cordialità di Pietro, dalla purezza della sua anima, che ricorda l’amabile e illibata ingenuità d’un bambino. Si consideri la sua lealtà dopo la pesca miracolosa: con una parola, che dice insieme tutto il suo stupore e la sua profonda umiltà, riversa l’interaanima sua dinanzi al Signore: “Allontanati da me, o Signore, io sono un uomo peccatore”. All’Evangelista Marco, che mise in iscritto la sua predicazione, non permise che tramandasse alle future generazioni, come l’evangelista Matteo, le sublimi parole, che il Signore gli aveva rivolte a Cesarea di Filippo. Pietro era l’uomo semplice, modesto e puro sino nel più profondo dell’anima. È questo forse il motivo di quell’elezione del Signore, che a primo aspetto sembrerebbe inconcepibile? La condizione essenziale richiesta dal Signore per le guide del suo gregge è: “Il maggiore fra voi sia come il più piccolo e il superiore come il servo”. Grazie alla sua semplice indole, Pietro aveva già nella sua natura un salutare contrappeso al pericoloso sovraccarico di dignità, che il Signore intendeva concedergli; possiamo anzi dire che Gesù, eleggendo Pietro così alla buona, lasciava intravvedere fin da principio quale doveva essere la norma direttrice di quell’arrischiato ufficio, perché mai avesse a degenerare in presuntuosa avidità di dominio nè irrigidirsi in carte e paragrafi e neppure avesse a straniarsi dalla vita con speculazioni teoriche. – Agostino sulla elezione del semplice Pietro ha la seguente profonda e brillante osservazione: « Pietro era un pescatore… Se Iddio avesse scelto un oratore, questi avrebbe potuto dire: “Sono stato scelto a motivo della mia oratoria “. Se avesse scelto un senatore, il senatore avrebbe detto: “Sono stato eletto a motivo della mia dignità “. E infine, se Egli da principio avesse eletto un imperatore, questi avrebbe potuto dire: “Sono stato scelto in vista della mia potenza politica…”. Dammi, dice però il Signore, quel pescatore, dammi l’incolto, dammi quell’indotto, dammi colui, col quale il senatore, dovendo acquistare un pesce, non si sarebbe degnato neppure di parlare! Dammi costui, e se lo potrò riempire, sarà ben manifesto che l’ho fatto Io. Sebbene Io sia per chiamare anche un senatore e un oratore e un imperatore…, col pescatore però sono più sicuro». – Questo pescatore fu chiamato la prima volta dal Signore nei pressi del Giordano; perché, come i futuri Apostoli Andrea, Giovanni, Filippo, forse anche Giacomo e Bartolomeo, egli apparteneva al gruppo del Battista, che laggiù, al Giordano, aveva in loro attizzata la brama e la speranza del Messia: “Preparate la via del Signore…! In mezzo a voi sta Colui, Che voi non conoscete; io non sono degno di scioglierGli i calzari”. Un giorno splendido di primavera Andrea si precipitò ansante alla volta di suo fratello e gli gridò giulivo: “Abbiamo trovato il Messia”; e Gesù e Pietro si trovano già l’uno dinanzi all’altro per la prima volta: Pietro, curioso e lontano da ogni sospetto, come la maggior parte degli uomini nell’ora di Dio; Gesù invece tutt’intento a ponderare e a misurare la portata e la vastità di questo momento, che si protenderà sino all’eternità. Qual sole estivo, il suo sguardo penetrò nelle profondità del semplice Pietro, poi elevò i suoi occhi verso i confini della terra, e poi pensoso disse più a Se stesso quasi che a Simone: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni; tu ti chiamerai Kefas (roccia)”. Simone se ne stette lì senza parole; avrebbe mai potuto sospettare che quest’incontro con Gesù l’avrebbe tolto ai suoi modesti binari per incamminarlo sulle vie del Cielo e della terra? Parecchi mesi più tardi seguì la seconda chiamata, perchè i primi discepoli, dopo quei giorni passati con Gesù presso il Giordano, non restarono stabilmente con Lui; pesava su di loro la necessità di guadagnare il pane quotidiano per sè e per i loro cari, il lavoro quindi urgeva ed il lago ve li invitava. Sul lago stavano anche quel giorno, nel quale Gesù ritornò per posare la sua mano su Pietro la seconda volta e definitivamente, per sempre. I pescatori stavano accoccolati sulla spiaggia, amareggiati: s’erano «affaticati tutta la notte e non avevano preso nulla»; ma il Signore ama introdursi in queste ore della disperazione. « Prendete il largo e gettate le vostre reti per la cattura », grida a Simone in tono di comando. Obbediscono; Egli è il Signore; non però un pescatore…, se no, non ordinerebbe un viaggio in pieno giorno, senza speranze. Ma ecco, le reti cominciano a tendere all’ingiù e sempre più pesantemente, tanto che la barca perde quasi l’equilibrio; « presero una così grande quantità di pesci, che le loro reti minacciavano di stracciarsi; allora fecero cenno ai loro compagni dell’altra barca, perchè venissero e li aiutassero; vennero anche quelli; e si riempirono tutte e due le barche in modo che quasi sprofondavano ». – Luca annette la chiamata di Pietro e degli altri tre primi Apostoli, Andrea, Giacomo e Giovanni, al racconto della pesca miracolosa, e in questa cornice la chiamata diviene tanto più manifesta e la cattura dei pesci profondamente simbolica: Pietro « d’ora innanzi diverrà pescatore di uomini »; i compagni verranno e l’aiuteranno; e anche alle fatiche e alle veglie del pescatore di uomini il Signore accorderà un successo così lusinghiero, che le barche stracariche quasi affonderanno. Tutti e tre gli Evangelisti notano quello, che tenne dietro immediatamente a questo glorioso incontro con Gesù: « Lasciarono le reti sull’istante e Lo seguirono » “. Solo poche settimane dopo, il Signore scelse come suoi Apostoli questi primi quattro con a capo Pietro e aggiunse ad essi altri otto.

Temperamento e Carattere.

Del tempo, che passò fra la vocazione degli Apostoli e la professione di fede emessa da Pietro a Cesarea di Filippo, in quel gran giorno della sua vita, il Vangelo ci ha conservato tre note, che si direbbero di nessuna importanza e invece illuminano un nuovo aspetto del suo carattere. Mentre Gesù andava alla casa di Giairo, « molto popolo Lo accompagnava e si stringeva intorno a Lui »; quando la povera donna emorroissa, protetta dalle folle, riuscì a spingersi tanto innanzi da toccare l’orlo della veste sua e « Gesù sentì che una forza era uscita da Lui, Egli si rivolse alla folla e domandò: “Chi ha toccato le mie vesti? “. Poiché tutti negavano, Pietro e i suoi compagni dissero: “Maestro, le folle Ti circondano e opprimono, e Tu domandi: Chi Mi ha toccato? ». Una seconda notizia intorno a Pietro riguarda la notte, che seguì alla moltiplicazione miracolosa dei pani. Alla quarta vigilia della notte, Gesù s’accostava agli Apostoli camminando sulle onde del lago in tempesta. « Quand’essi Lo videro camminare sul lago, pensarono che fosse uno spettro e per paura gridarono ». Dopo la parola rassicurante di Gesù: « Consolatevi, non temete, sono Io », Pietro disse al Signore: « Signore, se sei Tu, fa ch’io venga a Te sulle acque! »; ed Egli rispose: « Vieni ». Allora Pietro uscì dalla barca e camminò sulle onde per raggiungere Gesù; ma quando ebbe avvertito il vento, fu preso da terrore e, cominciando a sprofondare, gridò con tutta forza: « Signore, salvami! ». Gesù stese subito la mano, lo prese e gli disse: « O uomo di poca fede, perché hai dubitato? » . In questo intervallo di tempo Pietro fa capolino una terza volta dopo le censure, che il Signore aveva fatte sulla condotta dei Farisei, e precisamente a motivo delle parole: « Non quello che entra per la bocca contamina l’uomo, ma quello che esce dalla bocca… ». « Allora Pietro disse: “Spiegaci questa parabola”. Queste tre brevi notizie mettono in luce un secondo tratto essenziale nella figura di Pietro: il suo temperamento spigliato e anzi impetuoso. Pietro evidentemente è un sanguigno, che si lascia impressionare e influenzare facilmente, cambia presto d’umore e di disposizioni d’animo; è il primo nella parola, il primo anche nell’azione, ma non è il primo nella riflessione, spesso vi arriva solo in ritardo o anche troppo tardi. Qualcuno ha presentato Pietro come un collerico; ma a lui la caratteristica del collerico manca assolutamente, e cioè la costanza paziente e tenace, necessaria per superare le avversità e gli ostacoli della vita; egli è troppo vivace e volubile per spuntarla con se stesso, come comporta l’indole del collerico. La sua caratteristica balza da parecchi testi del Vangelo: risolve alla svelta, su due piedi, precipitoso e a sbalzi. Egli interruppe bruscamente le auguste e gravi parole, con le quali il Signore dava il primo annunzio della sua passione. Pensò che anche nella sublime solennità della Trasfigurazione bisognasse dire qualche cosa: « Maestro, è buona cosa per noi lo star qui. Erigiamo tre tende, una a Te, una a Mosè e una a Elia ». A questa uscita inopportuna Marco fa seguire la timida osservazione: “Non sapeva cioè che cosa dicesse, tanto erano storditi”. Con un sì pronto e irriflessivo Pietro rispose pure alla domanda del ricevitore delle tasse: « Il vostro Maestro non paga il didramma? » . Quando si trattò della lezione sul perdono per i torti ricevuti dai fratelli, egli credette di giungere al massimo dello spirito conciliativo con la sua proposta: « ” Signore, se il mio fratello ha mancato verso di me, quante volte gli debbo perdonare? forse fino a sette volte?” Gesù gli rispose: “Io ti dico, non sette volte, ma settanta volte sette volte” ». L’ultima sera, durante la lavanda dei piedi, Pietro sollevò dall’imbarazzo i colleghi rompendo il silenzio: « Signore, Tu non mi laverai i piedi in eterno », ma subito dopo, persuaso dal Signore, cadde nell’estremo opposto: “Allora, o Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mie mani e il mio capo”. Dopo l’annunzio del tradimento, egli non resse più e fece cenno al « discepolo che riposava sul petto di Gesù », egli disse: “Domanda chi Egli intenda!” Fu pure Pietro, proprio Pietro, che nel modo più risoluto protestò al Signore: « Anche se tutti si sbandassero, ma io, io no! ». E sul Monte degli Olivi fu solo lui che prese a difendersi decisamente con la spada, anche se allora non gli riuscì di più che « mozzare un orecchio a uno dei servi del Sommo Sacerdote », sia pure « l’orecchio destro », come non manca di constatare con tutta esattezza Luca, il medico. Che figura il nostro Pietro, svelto, bollente e tuttavia di cuore così buono! Il suo temperamento balza subito agli occhi anche oggi, specialmente dal Vangelo di Marco, che di tutti e quattro è il più vivo e drammatico; ma già l’antica arte cristiana ha messo in luce quest’aspetto suo d’uomo ardente e impetuoso; così in un frammento di sarcofago di San Sebastiano in Roma, che risale all’inizio del quarto secolo, Pietro è ritratto come un vecchio vivace e quasi nervoso. Ma ora di nuovo, dinanzi a questo esuberante temperamento sanguigno, si ripresenta e ancor più urgente la precedente questione: Pietro, essere così impetuoso e talora addirittura imprudente, sarà idoneo a divenire il condottiero e il fondamento della Chiesa di Cristo? Su quale base instabile e traballante edifica Cristo la sua Chiesa! E sarà adatto a fare il pastore un individuo, che tutt’al più arriva a perdonare « sette volte »; che s’avventa indignato con la spada e ferisce e mutila?! Povero quel gregge, cui presieda un pastore violento! Eppure per l’ufficio ed i compiti di Pietro quest’indole viva e immediata offre anche dei preziosi contributi: grazie alla sua prontezza, Pietro è l’Apostolo più chiaroveggente, dall’udito fine, di delicato sentire; si potrebbe definire l’Apostolo dal sesto senso. L’idea gli brilla in mente per primo; egli trova la parola prima degli altri; lui prende la decisione, passa all’azione, salva la situazione. La grazia profitterà di queste disposizioni della natura: fra tutti i Dodici Pietro sarà il primo a riconoscere e a proclamare Gesù Messia e Figlio di Dio vivente. Questa snellezza può tornare benefica anche per la direzione del gregge: Pietro pascerà il gregge di Cristo con occhio vigile e s’avvedrà subito del suo bene e del suo male e vi provvederà senza solenni formalità e prolissità soffocante. Il suo sguardo va alla sostanza delle cose e scorge e scevera subito l’essenziale dal puro accessorio; sa adattarsi con mirabile elasticità alle mutate circostanze e non si irrigidisce inflessibile su posizioni ormai sorpassate; posto dal Signore qual roccia in mezzo ai flutti che s’accavallano rumorosamente, egli li deve certamente sfidare e superare, ma si fa pure togliere via da essi di continuo la polvere dei secoli. Pietro può anche andare sulle furie e colpire dolorosamente, come ebbe a sperimentare Malco, cui tagliò l’orecchio, ma la sua natura svelta lo fa essere presto buono di nuovo e riparare il suo errore con sincero e intenso affetto. In un’antica scrittura coptica leggiamo di Pietro il seguente giudizio tanto esatto e bello insieme: « Egli fu un uomo misericordioso e incline a sciogliere subito ». L’indole personale di Pietro, svelta, vivace e arrendevole può felicemente bilanciare e completare la rigidezza e inflessibilità del suo ufficio.

Rinnegamento.

Questo piacevole carattere tuttavia fu per Pietro fatale e sarebbe stato anzi la sua stessa rovina, se il Signore, mentr’egli affondava, non gli avesse di nuovo stesa la mano, come quella notte sul lago in tempesta. Lungo tutto il Vangelo infatti, da autentico sanguigno, instabile e malsicuro già per naturale propensione, si manifesta debole e incapace di fronte alle imminenti difficoltà; lo sprofondarsi nelle onde furiose del lago è un vero simbolo della sua indole malferma e non cesellata a martello. Fin da quando il Signore parlò la prima volta apertamente della sua passione, ch’era certamente il mistero più arduo della sua vita, Pietro Gli resistette, protestando con tutta la sua anima: « Pietro prese Gesù in disparte e cominciò a sopraffarLo con le gravi parole: “Lungi da Te, o Signore, questo non Ti deve avvenire” » . L’effetto di questa resistenza fu per lui rovinoso: « Gesù si volse e disse a Pietro: “Via da Me, satana! Tu mi sei di scandalo; tu non hai in animo disegni divini, ma umani! ” ». Lo stesso Gesù aveva proclamato beato il medesimo Pietro solo sei versetti prima; ma è così: chi non accetta anche la croce, facesse pure come Pietro splendida professione di fede nella divinità di Cristo, dinanzi al Signore equivale a « satana », perchè tenta, come quel seduttore nel deserto, di condurre il Signore alla potenza e alla gloria col distoglierLo dalla volontà del Padre. Il mistero della croce era per ogni Giudeo uno scandalo. Il Signore, per rappacificare gli animi dei Discepoli che n’erano rimasti sconcertati, « otto giorni dopo quel discorso », fece dono a Pietro, Giacomo e Giovanni, i primi del Collegio apostolico, del segno luminoso della Trasfigurazione, nella quale fece zampillare le recondite sorgenti della sua divinità. La lettera, che Pietro indirizzò ai credenti dell’Asia Minore circa 35 anni dopo quell’avvenimento, è prova che la Trasfigurazione gli aveva lasciata un’impressione incancellabile; per lui è anzi una delle dimostrazioni più importanti per la fede in Cristo: « Noi fummo testimoni oculari di quelle sublimità di Gesù Cristo. Egli ricevette da Dio Padre onore e gloria, allorchè dall’eccelsa gloria venne su di Lui la voce: “Questi è il mio Figlio diletto, nel quale Io Mi compiaccio “. Questa voce udimmo venire dal Cielo, quando fummo con Lui sul monte santo. Con questo è tanto più ferma per noi la parola profetica; voi fate bene ad attenervi ad essa >. La Trasfigurazione però non tolse di mezzo la passione, chè piuttosto aveva lo scopo preciso di rafforzare gli animi di fronte ad essa; e il Signore tornò a parlare dell’argomento sgradito subito, scendendo dal monte, ma incontrò nei Discepoli la medesima incomprensione della prima volta. Se terremo dinanzi agli occhi questa incomprensione o piuttosto indignazione, provocata dalla passione fin dall’inizio, noi intenderemo più facilmente l’ora più cupa della vita di Pietro, il suo rinnegamento; in esso infatti ebbe solo l’occasione di manifestarsi quella debolezza, ch’era in lui visibile già all’annunzio della passione. Durante l’ultima Cena il Signore l’aveva ammonito insistentemente perchè stesse in guardia: « In verità ti dico che ancor questa notte, prima che il gallo canti due volte, tu Mi negherai tre volte ». Ma Pietro, sicuro di se stesso, replicò: « Dovessi anche morire con Te, assolutamente non Ti negherò >. Gesù tacque, come chi sa che gli avvenimenti gli daranno purtroppo ragione. E in quale dolorosa misura Gli diedero ragione! Solo un’ora dopo le proteste: « Anche se tutti si allontanassero da Te, io, io non mi lascierò mai traviare »; « son pronto ad andare in carcere e alla morte con Te >; perfino: « Io voglio dare la mia vita per Te »: solo un’ora dopo questa audace assicurazione dunque sul Monte degli Olivi.., l’eroe dormiva! Anche Giacomo dormiva e persino Giovanni — ah, come potè dormire anche Giovanni?! —; ma Gesù non fece particolare rimprovero nè a Giacomo e neppure a Giovanni, sebbene fosse il discepolo dell’amore, quando, tremante e asperso di sangue, stette dinanzi a loro; accusò invece in particolare Pietro: « Simone, tu… tu!… dormi! Non hai potuto vegliare un’ora sola? ». Quello che seguì poi s’abbattè su Pietro con la subitaneità della catastrofe. – Dopo lo scompiglio sul Monte degli Olivi, si trovò nel cortile del Sommo Sacerdote; l’amico suo Giovanni glien’aveva procurato l’accesso. Dentro all’aula il suo Maestro è interrogato e condannato; fuori sta lui, disorientato e solo, fra i soldati schiamazzanti. Una fantesca, la loquace e impertinente portinaia, lo osserva per un po’ e poi gli scaglia contro: « Anche tu eri con Gesù, il Galileo ». Gli manca il fiato; vuol dire, tartaglia, balbetta: « … No ». Orrendo! Che cos’hai detto mai? > Vuole ritirare la parola esecranda, ma vede ivi la moltitudine, quella braccheria; fa meglio tacere. E così quel no resta misteriosamente sospeso, come fuori, nelle tenebre, a mezzanotte, il rintocco delle dodici ore. L’ottusa fantesca ha attirato l’attenzione di tutti su Pietro; osservano quel camerata sconosciuto e impacciato; egli cerca di togliersi di lì, allontanandosi per la porta, ma un’altra fantesca gli sbarra la via e lo risospinge angosciato verso il fuoco. Ivi, con una tranquillità artefatta, tenta di confondersi con i servi per allontanare da sè ogni sospetto; ma già per la seconda volta lo raggiunge l’infausta domanda: « Non appartieni anche tu ai suoi discepoli? ». Avrebbe potuto cancellare in quel momento l’orrendo no precedente; ma quando il vento e le onde s’abbatterono su di lui, stava già sprofondando nel lago, e la tempesta, che ora l’investe, è più selvaggia di quella; sprofonda e affoga: « Egli negò con un giuramento: “Io non conosco l’uomo! “»; i suoi occhi però smarriti e supplici deponevano contro le parole della sua bocca. La folla malvagia, aizzata e divertita da questo smarrimento, assediò più da vicino la sua vittima. Anche la rozzezza della lingua testifica che Pietro è un galileo; senz’alcuna pietà, mettono il povero uomo alle strette: « Sei davvero uno di loro, ti tradisce persino la tua lingua ». Ormai due no orribili erano detti; il soffio d’un sì non può più annullarli: quando un malaugurato parente di Malco, cui Pietro aveva mozzato l’orecchio, s’alzò a deporre contro di lui, egli fu completamente perduto: « Cominciò a imprecare e a giurare: “Io non conosco l’uomo!” Ma quei giuramenti risuonarono innaturali e trillarono come i vetri, che dall’alto d’un Duomo santo precipitano giù sulla polvere della strada. Stupì persino quella masnada; s’accorse ch’era avvenuto qualcosa d’insolito. Frattanto, durante quel singolare silenzio, un gallo cantò, un qualunque gallo fuori del palazzo; lo sentirono tutti, perché intorno a Pietro s’era fatto profondo silenzio… Rileggessimo anche cento volte questa storia del rinnegamento di Pietro, dovremmo piangere ogni volta su questo povero e buon Apostolo, come su di un santuario ridotto in cenere e frantumi. E pianse anche Pietro: “Uscì fuori e pianse amaramente”; il testo greco dice: « Eklausen pikrós », che non significa semplicemente piangere, ma piangere dirottamente. I Sinedristi, che dentro nella sala sedevano a tribunale, alzarono gli occhi sorpresi e anche Gesù, mentre veniva ricondotto fuori, alzò il capo verso quella parte, donde giungeva il singhiozzo: «Il Signore si volse e guardò Pietro »; e i suoi occhi illuminarono già quelle lacrime amare d’un primo barlume di perdono. Potremmo noi criticare Pietro?… Chi è senza peccato, scagli su di lui la prima pietra! Era stata così dura la lotta fra fedeltà e debolezza! Del resto sul Monte degli Olivi lui e lui solo fra tutti aveva preso le difese del Maestro; Gesù gli comandò di rinfoderare la spada, e Pietro non obbedì volentieri, però obbedì: il Maestro s’aiuterà da solo; e invece non s’aiutò. Fuori di sè per l’angoscia, tenne dietro al suo amato Signore sino dentro al covo pericoloso dei suoi nemici; e ivi avvenne purtroppo tutto quello, che abbiam visto or ora. Ma è tutto? Sotto le macerie, continuarono a fiorire la fede e l’amore, come in un campo di croco, seppellito da una valanga di neve. Perchè Pietro l’aveva rotta col suo Maestro soltanto a parole, non col cuore; fede e amore risorgeranno di nuovo; invece non potrà più certamente essere colonna della Chiesa lui, ch’è stato infranto tre volte, tre volte caduto. Ovvero il Signore, con ironia veramente divina, colloca qual roccia proprio… il caduto?

IL PRIMATO DI PIETRO

Allusioni.

La famiglia aveva imposto a Pietro il nome di « Simone », « Simeone » (= esaudizione), nome tanto frequente e comune fra i Giudei, come fra noi oggi il nome di Giovanni; nel primo incontro però presso il Giordano il Signore gli fece intravvedere il nome di « Kefas » (= roccia), ma non gli svelò allora il motivo e il contenuto di questo secondo nome. Negli scritti del Nuovo Testamento egli è chiamato ora col nome di Simone solo, ora con quello solo di Pietro e ora con tutti e due: « Simone Pietro>; ma queste piccole differenze non sono senza significato. Con i nomi “Simone Pietro” è introdotto da Matteo e da Luca solamente nelle grandi ore della sua vita; il quarto Evangelista invece preferisce questo doppio nome, che esprime insieme l’aspetto personale e quello dell’ufficio di Pietro; quando, dopo la risurrezione e l’ascensione al Cielo, l’ufficio andò prendendo il primo posto sempre più decisamente, ricorre quasi esclusivamente, e sopratutto negli Atti degli Apostoli, il nome di “Pietro”. Anche Paolo lo ricorda con questo nome dell’ufficio: « Kefas » (=Pietro). Il Signore poi ritorna al primo nome “Simone” solo quando gli deve dare avvisi o rimproveri, come prima delle negazioni e sul Monte degli Olivi, nell’ora del sonno. Quanto è significativo questo secondo nome, altrettanto lo è il posto assegnato a Pietro nei quattro cataloghi degli Apostoli: è sempre il primo di tutti, e Matteo lo sottolinea espressamente: «I nomi dei dodici Apostoli sono i seguenti: in primo luogo Simone, che si chiama anche Pietro» . Ora questo posto ci sorprende veramente, perché ci saremmo aspettati che stesse al primo posto Andrea, il quale aveva condotto Pietro a Gesù, oppure Giovanni, che di Gesù era il discepolo prediletto; e invece, senza eccezione, Pietro è sempre in testa sia del Collegio dei dodici, come anche di quel gruppo preferito da Gesù e che solo fu ammesso a vivere le ore più solenni della sua vita. Ricorrono inoltre molti passi, nei quali Pietro è il solo ricordato per nome fra i Dodici; leggiamo, ad esempio: « Pietro e i suoi compagni »; « Pietro e gli altri discepoli »; « Pietro con gli Undici”; donde l’impressione necessariamente che Pietro sia stato il rappresentante e il portavoce degli altri, impressione che resta rafforzata da parecchi altri passi del Vangelo: in occasione della predica sul lago, quando il Signore « vide due barche, che stavano alla riva, salì nella barca, che apparteneva a Simone » 63; il Signore paga l’imposta dovuta al tempio anche per Pietro; a lui lava i piedi per primo. Chi potrebbe arrischiare di sbrigarsi di questa preferenza così marcata e continua, dicendola semplicemente casuale? Frattanto lo stesso Vangelo ci rivela il senso profondo e il motivo di queste distinzioni.

Promessa.

Siamo a Cesarea di Filippo, nel limpido e sublime meriggio della vita di Pietro! Egli aveva reso omaggio al Signore anche poche settimane prima, dopo la defezione delle folle nella sinagoga di Cafarnao: « Noi crediamo e sappiamo che Tu sei il Santo di Dio”; ma quella professione doveva essere come il chiaro preludio al canto giulivo del suo Credo pieno. Quando furono lassù, a settentrione della Terra Santa e già oltre i suoi confini, a Cesarea di Filippo, il Signore decise finalmente di porre i suoi Discepoli dinanzi a una domanda ed a una deliberazione: « Per chi ritiene la gente il Figlio dell’uomo?… Per chi Mi ritenete voi? ». Come aquila, Pietro allarga le ali dell’anima sua, sale, sale, più in alto, sempre più in alto, ben al di là di ogni umana opinione, che in Gesù di Nazareth scorge un nobile dello spirito o anche un profeta della grandezza del Battista, di Elia o Geremia, nulla però di più elevato; egli invece volteggia intorno alle nevi eterne della messianità e persino della divinità di Gesù e s’innalza per primo fino a queste due vette sublimissime, irradiate d’eterna luce, con l’atto della sua fede ardita: « Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente”. Questa sua professione di fede in Gesù di Nazareth fu tanto sublime e al di là d’ogni terreno intendimento, che Gesù stesso guardò meravigliato ed esultò: « Beato sei tu, Simone, figlio di Giona! Poiché non carne e sangue ti han rivelato questo, ma il Padre mio, Ch’è nei Cieli ». Poi, qual’onda marina libera d’ogni intoppo, le parole di Gesù s’ampliarono e sul meschino pescatore Simone, in piedi sulla riva del tempo, rumoreggiò tutta la pienezza di Dio: « E Io dico a te: “Tu sei Pietro (= roccia)! E su questo Pietro roccia) edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non la supereranno. Io ti darò le chiavi del regno dei Cieli. Qualunque cosa legherai sulla terra, sarà legata anche in Cielo; e qualunque cosa scioglierai sulla terra, sarà sciolta anche in Cielo ». Quale potenza fu messa fra le mani incallite del pescatore di Bethsaida con queste parole! una pienezza di poteri quale nessun imperatore del mondo possiede! Pietro è il fondamento, e proprio lui, non la sua fede, sebbene, certo, lui a motivo della sua fede; Cristo si rivolge ripetutamente a Pietro: «Io dico a te: “Tu sei Pietro e su questa roccia edificherò la mia Chiesa” ». La mia Chiesa! La Chiesa di Cristo è una sola, ed è quella costruita su Pietro, ed è tanto invincibile, che le stesse porte dell’inferno — le porte della morte, secondo una traduzione più esatta — non possono superarla. E Pietro ha le chiavi; esse anzi gli son così proprie, che son divenute la sua caratteristica e il suo contrassegno; chiavi non certo per i regni e le ricchezze terrene, ma per il regno dei Cieli; chiavi che dischiudono verità, grazia e beatitudine. Pietro è del regno dei Cieli alla « porta e ha la porta ed è il portinaio e ha le chiavi. Egli è il portinaio eterno e l’eterno clavigero. E tuttavia posso giurarti che non è un carceriere. Perché egli è il custode dell’eterna libertà». E Pietro può « legare e sciogliere” senza nessun limite: « Qualunque cosa », obbligando in modo davvero sconcertante: « Sarà legata anche in Cielo e anche in Cielo sarà sciolta ». È una pienezza di poteri in bianco, che mette quasi paura; ma vedremo presto la sua motivazione e i suoi limiti. Potere simile fu dato veramente anche agli altri Apostoli — « In verità Io vi dico: ” Qualunque cosa legherete sulla terra, sarà legata anche nel Cielo, e qualunque cosa scioglierete sulla terra, sarà sciolta anche nel Cielo ” » —, ma agli altri solo in comune con Pietro, mentre a Pietro anche senza degli altri. Il potere di Pietro è veramente grande, non si può concepire. Egli è la roccia della Chiesa; per mezzo della sua fede in Cristo, il Figlio di Dio vivente, egli stesso è inserito nell’eterno Fondamento. Egli porta le chiavi del regno dei Cieli e a lui il Signore ha affidato l’aureo forziere della sua verità. È il legislatore e il giudice nel mondo delle anime, e lega e scioglie «qualunque cosa ». Cristo, è vero, non ha parlato col linguaggio della scuola di « Primato di Pietro »; ma i Teologi moderni non insegnano se non quello che deriva dalla genuina fonte del Vangelo; e tutte le singolari prerogative, che costituiscono il « primato d’onore », hanno il loro fondamento e senso solo nei diritti del « primato di giurisdizione” di Pietro. Solo Matteo ha trasmesso questo documento del Vangelo intorno al Papato. Si capisce bene che Marco, l’amanuense di Pietro, l’abbia tralasciato: l’umiltà di Pietro gliel’ha imposto. Ma questo testo non ricorre neppure in Luca; in Matteo dunque non potrebbe essere un’interpolazione posteriore? Contro questa ipotesi sta il fatto ch’esso si trova in tutti i manoscritti del vangelo di Matteo, anche nei più antichi; il gioco di parole inoltre con Kefas = roccia non è possibile e chiaro che nella lingua originale aramaica; il testo dunque non può essere in Matteo una falsificazione posteriore. Altri potrà obiettare che Matteo stesso potè mettere insieme parole di tanta grandezza nei riguardi di Pietro per esaltarlo di fronte alla nuova stella, che stava sorgendo, l’Apostolo Paolo. Ma chi scruti con attenzione il Vangelo, s’accorgerà che il tratto di maggior peso nel testo di Matteo son le parole: « Tu sei la roccia; su questa roccia Io edificherò la mia Chiesa »; ora proprio questa parola « Pietro = = roccia» non ricorre solo in Matteo, ma torna in tutta la Scrittura del Nuovo Testamento ogni volta che si fa parola dell’apostolo Simone; il suo nome personale scompare completamente; da tutti e quattro gli Evangelisti e dallo stesso Paolo è chiamato « Roccia »; e questo sta a dimostrare che Simone fu posto a fondamento della Sua Chiesa da Cristo stesso e non da Matteo. Ma abbiamo anche di più! Nel vangelo di Luca leggiamo un testo, che fa l’impressione d’essere l’eco di Matteo XVI, 18: « Simone, Simone, bada che satana ha desiderato di vagliarvi come il grano; Io però ho pregato per te, affinchè la tua fede non venga meno (non sia scossa); e tu, quando ti sia orientato (epistrépsas), conferma i tuoi fratelli » . Queste parole furono rivolte a Pietro immediatamente prima del suo vile rinnegamento; riguardano dunque un avvenire più lontano: dopo che si sarà «orientato », « convertito », sarà ufficio e compito di Pietro irrobustire i suoi fratelli; non abbiamo, in questo sostegno e rafforzamento degli altri nella fede, l’equivalente di quanto esprime il Signore nel Vangelo di Matteo con la metafora della roccia?

Conferimento.

Le parole, che leggiamo nel Vangelo di Giovanni intorno alla prelazione o primato di Pietro, sono anche più chiare e più care: quello, che il Signore solo promette in Matteo e Luca, in Giovanni lo conferisce. L’Evangelista ci trasporta in quei giorni, tutti dolcezza e mestizia insieme, che seguirono alla risurrezione, quando Gesù, con le sue apparizioni, riannodava e scioglieva ripetutamente i vincoli con i suoi discepoli; sette Apostoli sedevano in timida venerazione intorno al Risorto presso il lago di Tiberiade, dopo una pesca miracolosa, che per più motivi dovette richiamar loro la prima; prendevano cibo col grande Sconosciuto in silenzio, perché « nessuno dei Discepoli osava interrogarLo: “Chi sei Tu? “; chè sapevan bene ch’era il Signore ». A un certo momento Gesù prende dinanzi a Sè Pietro; ecco, stanno l’uno di fronte all’altro, come un giorno lontano presso il Giordano, e anche poche settimane prima.., nel cortile del Sommo Sacerdote; a Pietro s’arresta il respiro; l’ora sua più grave è giunta; non dubita certamente del perdono del Signore, che forma tutta la sua consolazione, perché fin dal mattino di Pasqua Egli affidò alle donne, che stavano presso il sepolcro, un messaggio particolare per Pietro; si era anzi degnato di apparire a lui solo e per primo, come sappiamo dall’esplicita informazione della Scrittura: tanto è buono il Signore ed eterna la sua misericordia! Un caduto però non è più fatto per essere la « roccia »; adesso il Signore gli toglierà il potere promesso e lo donerà a un altro, forse a Giovanni, che in mezzo alla bufera aveva perseverato e aveva seguito il Maestro sino sul Calvario, ai piedi della croce. In quel momento « Gesù disse a Pietro: “Simone, figlio di Giovanni…, Mi ami tu più di costoro?”». Il Signore l’interroga sull’amore…? Gli occhi di Pietro rilucono sbalorditi, come raggi di sole attraverso fosche nubi: « Signore, Tu sai ch’io Ti amo! »; poi abbassa lo sguardo e la voce; perchè, come potrebbe lui e proprio lui arrischiare l’affermazione di voler bene al Signore « più » che non Gliene vogliano « gli altri »? E Gesù gli risponde tranquillo: « Pasci i miei agnelli! ». Pietro allora solleva lo sguardo, stordito e lieto insieme: il caduto pascerà il gregge di Cristo nonostante tutto…? Ma il Signore « lo interroga per la seconda volta: “Simone, figlio di Giovanni, Mi ami tu?”». Pietro si oscura, perché pensa che il Signore ne dubiti, e aveva ben motivo di dubitare di lui tanto miserabile. La seconda professione d’amore risuona nutrita, quasi forte, come volesse coprire l’infelice giuramento e la stolida imprecazione nel cortile del Sommo Sacerdote: «Sì, o Signore, Tu sai ch’io Ti amo». « Gesù disse a lui: “Pasci le mie pecore!”». – Il Signore, tutto benignità e grazia, sa biasimare e sollevare insieme; Pietro respira liberamente e riconoscente. Ma « Egli lo interrogò per la terza volta: “Simone, figlio di Giovanni, Mi ami tu? ” ». Pietro non riesce più a trattenersi e, come nella notte dopo il peccato, lascia libero corso al pianto, si getta a terra e mendica, prega, confessa, assicura: « Signore, Tu sai tutto, Tu sai anche ch’io Ti amo! ». Sì, giacchè il Signore sa tutto, sa pure che colui, che Lo aveva rinnegato, nonostante tutto… Lo ama. E così disse: «Pasci le mie pecore ».

Significato.

La traduzione di questo testo del Vangelo adopera sempre lo stesso termine per esprimere « amare »; il testo greco invece ha due espressioni diverse, che non dicono esattamente lo stesso: « agapein » e « philein » (in lingua latina: « diligere » e «amare »). Il Signore interroga Pietro intorno all’« agapan », e « agapan » dice l’amore della venerazione, dell’alta stima, dell’azione moralmente libera. Alla domanda circa questo amore Pietro risponde costantemente con « philein »; «philein» (amare) dice l’amore del sentimento, dell’inclinazione, della soddisfazione; dopo il rinnegamento, egli non osa più promettere al Signore l’« agapein », l’amore magnanimo e forte sino al sacrificio. Alla fine, dopo la terza domanda, anche il Signore s’accontenta di « philein »: se Pietro pasce il gregge di Cristo, con la sua sollecitudinenprova che il suo « philein » è pure « agapein», non solo amore del sentimento, ma anche dell’azione. – Ora soltanto è evidente il senso più profondo del dialogo mirabile fra Gesù e Pietro al lago di Tiberiade. Quelle tre richieste e assicurazioni di amore furono qualche cosa di più che un semplice compenso, offerto in riparazione del precedente rinnegamento; esse ebbero lo scopo dì precisare per tutti i tempi quale dovesse essere l’indole dell’ufficio di Pietro: è la premura amorosa e l’amore premuroso per il gregge di Cristo. Pietro è posto a custodire e a soccorrere, non per dominare; egli dev’essere servo — « servus servorum Dei! » —, non dominatore! Il Signore non esclude dalla sua Chiesa il diritto, l’ordine, l’autorità, chè anzi Egli stesso ha parlato di « roccia », di « chiavi », di « legare e sciogliere »; ma nella Chiesa ogni diritto ha il suo fondamento e la sua limitazione nell’amore. Pietro è costituito qual roccia precisamente perché il gregge di Cristo abbia pascoli sicuri; gli sono concesse le chiavi proprio perché dischiuda il Cielo e chiuda l’inferno. Simone, figlio di Giovanni, Mi ami tu?… Se Mi ami, pasci il mio gregge…! Se l’ultimo significato della Chiesa di Cristo è una cura del gregge tutta soffusa di dilezione, allora si comprende pure perché il Signore affidò questo ufficio a un… caduto: nella sua dignità spaventosamente eccelsa, Pietro porta con sè delle salutari riserve, che gli derivano appunto dall’esperienza della sua debolezza; non entrerà fra il gregge di Cristo con una virtù altezzosa e incurante degli altri, ma come chi, sentendosi per primo affetto di infermità, è in grado di essere compassionevole con chi ignora ed erra. La sua debolezza lo difende pure dagli abusi della propria dignità; come all’Apostolo Paolo fu lasciato il pungolo della carne, perché la sublimità delle sue rivelazioni non l’avesse a sovraesaltare, così la triplice negazione fu per Pietro il suo pungolo perpetuo. Dobbiamo aggiungere l’ultima osservazione e la più profonda: solo Iddio può osare di fare d’un caduto la… roccia. – Qui rifulge la divina ironia, che in Pietro si compiace di eleggere sempre di nuovo la debolezza, affinché la potenza di Dio si manifesti nell’infermità dell’uomo e nessun eletto possa gloriarsi se non nel Signore.

PIETRO NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI.

Qualche libro delinea l’Apostolo, attenendosi soltanto al Vangelo, qualche altro attingendo solo agli Atti degli Apostoli; ma per avere una rappresentazione di Pietro adeguata e completa bisogna interrogare tutte e due le fonti, il Vangelo e anche gli Atti, non l’uno senza gli altri; il Vangelo infatti in molti punti, che interessano Pietro, è solo come un bocciolo e una profezia; sono gli Atti, che apportano e lo sviluppo e il compimento, come l’estate alla primavera. In essi si parla di Pietro diffusamente; la prima parte anzi, che consta dei primi undici capitoli, fu detta semplicemente: « Gli Atti di Pietro ». Dopo il rimpatrio del Signore, chi prende in mano il timone della giovane Chiesa è il buon Pietro, proprio lui, e non Giovanni, non Giacomo o un altro dei Dodici, no; chi la guida, colui che decide e che rappresenta la Chiesa anche nei rapporti con gli estranei è sempre Pietro; questo fatto risulta dagli Atti degli Apostoli con chiarezza meridiana. È Pietro che comanda l’elezione d’un Apostolo in sostituzione del Traditore e premette la condizione essenziale per l’elezione del candidato. Sotto l’influsso dello spirito Pietro nel giorno di Pentecoste tiene la prima predica apostolica dinanzi a tutta una folla. Pietro opera il primo miracolo della Chiesa apostolica con la guarigione dello storpio fin dalla nascita “. Pietro ne fa una relazione al Sinedrio e fa risplendere su quegli uomini della sera il segno del mattino: « Gesù Cristo di Nazareth! Egli è la pietra, che da voi costruttori fu rigettata, ma ora è divenuta la pietra d’angolo. In nessun altro v’è salvezza! » “. Pietro invoca sui due coniugi Anania e Safira, che hanno simulato, il castigo divino d’una morte improvvisa”. Inviato dalla chiesa madre di Gerusalemme, Pietro va con Giovanni in Samaria per visitarla e conferire la Cresima. Pietro lancia il primo anatema apostolico, che colpisce il mago Simone. Dopo la persecuzione di Saulo, Pietro fa il primo giro attraverso la Giudea, la Galilea e la Samaria. Pietro introduce nella Chiesa il primo pagano, il centurione Cornelio, con una decisione d’incalcolabile portata “. Ed è pure Pietro, che nel Concilio apostolico dichiara che la legge mosaica non ha valore per gli etnicocristiani: « Perchè volete tentare Iddio e imporre ai discepoli (venuti dal paganesimo) un giogo, che né i padri nostri né noi abbiamo potuto portare? No, noi crediamo di conseguire la salvezza, come anche loro, per mezzo della grazia del Signore Gesù Cristo ». – Pietro è presente in tutte le svolte importanti della Chiesa apostolica e… lega e scioglie, chiude e apre, e sta qual roccia, come il Signore gli ha predetto nel Vangelo. E Iddio stesso conferma quello, che Pietro lega e scioglie sulla terra; il miracolo seguiva Pietro così spesso, che «si portavano gli ammalati persino sulle strade e si adagiavano su letti e barelle, affinché mentre Pietro passava dinanzi, almeno la sua ombra toccasse l’uno o l’altro ed essi fossero guariti dalla loro infermità » “. Gli Atti degli Apostoli apocrifi colorano ulteriormente queste notizie storiche, che ci tramandò Luca, intorno al posto di direzione tenuto da Pietro: riferiscono in modo infantile ch’egli si adoperò per installare gli altri Apostoli nei loro uffici nelle varie provincie ecclesiastiche, assegnate a ciascuno. Così “Atti di Pietro” etiopici possono informarci che insediò Simone, figlio di Cleofa, a Gerusalemme; che con Bartolomeo partì per le « oasi» e con Andrea per la Grecia; che condusse Filippo in Africa, Giacomo e Tommaso nelle Indie; ammise nel campo della propria attività in Siria Giuda Taddeo e destinò Giovanni ad Efeso. Queste son leggende, che però suppongono il fatto storico dell’autorità dì Pietro sugli altri Apostoli. Ma negli Atti degli Apostoli, più che la stessa autorità, sorprende il modo dinesercitarla da parte di Pietro; qui si vede chiaramente che non solo viene adempiuto il mandato, ma anche la persona di Pietro è maturata; in nessun altro Apostolo è manifesto come in Pietro il miracolo della trasformazione di Pentecoste. Noi ci attendiamo che quest’uomo svelto, irriflessivo e debole, come lo conosciamo dal Vangelo, ci prepari qualche cosa d’angoscioso nell’esercizio del suo alto ufficio. E invece negli Atti degli Apostoli la sveltezza d’un tempo s’è mirabilmente cambiata in prudenza e la debolezza in fermezza; quel Pietro, che poche settimane prima, intimorito da una fantesca, aveva negato e giurato: « Non conosco quest’uomo », nella festa di Pentecoste proclama dinanzi a migliaia di ascoltatori « con voce elevata:.”Questo Gesù, che voi avete crocifisso, Iddio Lo ha fatto Signore e Messia” ». – Dinanzi al Sinedrio e sebbene gli si profilassero all’orizzonte il carcere, la tortura e la morte, egli fa la prudente e decisa dichiarazione: «Giudicate voi stessi se sia giusto dinanzi a Dio dare ascolto a voi piuttosto che a Dio! A noi è assolutamente impossibile tacere quello che abbiamo visto e udito ». E quando si vuole violentarlincon una nuova proibizione d’autorità, Pietro stende la lettera d’immunità per la coscienza cristiana di tutti i millenni con una parola divinamente semplice: «Bisogna obbedire piuttosto a Dio che agli uomini>. Ma è costui il Pietro del Vangelo?… Non ritirò mai nulla del suo ardito atteggiamento, neppure quando lo si «pose in custodia », quando si volle toglierlo di mezzo con la morte insieme a tutto il Collegio apostolico, nemmeno quando egli non attendeva che il mattino pernessere giustiziato da Erode. Anche nella direzione interna della Chiesa dimostrò la medesima fermezza, come provano le situazioni difficili e pericolose, create da Anania e Safira e Simone Mago. Pietro è divenuto veramente la roccia, sulla quale s’infrangono e le tempeste dal di fuori e quelle dall’interno; nel Vangelo dinanzi al vento e ai flutti egli sprofonda, negli Atti invece dimostra ch’è sincera la sua affermazione solenne: « O Signore, io son pronto ad andare con Te in carcere e alla morte! ».

PIETRO E PAOLO.

Si direbbe che Pietro, nella sua pieghevole debolezza, sia giunto una volta ancora al rinnegamento, e precisamente in quella penosa avventura, ch’è nota sotto il nome di « conflitto di Antiochia ». Esso ha una lunga e dolorosa preistoria ed è profondamente significativo che Pietro abbia dovuto, per questo increscioso incidente, soffrire la passione del Papa a pro della giovane Chiesa, che doveva divenire e crescere in Chiesa del mondo. Era in questione il posto degli etnicocristiani nella Chiesa. Pietro aveva presa la decisione di principio, quando aveva fatto battezzare il primo pagano, il centurione Cornelio: anche i gentili, e non solo il « popolo eletto », dovevano aver parte nel regno di Cristo; « “Iddio mi ha fatto vedere (nella visione degli animali mondi e immondi) che nessun uomo si può dire profano e immondo… Si può rifiutare l’acqua del Battesimo a coloro, che al pari di noi hanno ricevuto lo Spirito Santo? “. Così li fece battezzare nel Nome di Gesù Cristo >. Ma già questa decisione gli aveva fruttato la critica e i rimproveri dei fratelli di fede giudei; Pietro però rimase fermo nella risoluzione presa, e fa impressione tanto gradita l’arte, con la quale in questa circostanza seppe congiungere autorità, prudenza e riguardo. Nella riunione dei fratelli non s’impose con parole irate — «sic volo, sic iubeo; stet pro ratione voluntas! » —, ma « espose loro con esattezza » quant’era avvenuto e concluse, quasi scusandosi: «”Se Iddio ha concesso loro (ai gentili) lo stesso dono che a noi, i quali abbiam accolto la fede nel Signore Gesù Cristo, come avrei potuto io impedire l’opera di Dio?”. Quand’essi ebbero udito, si tranquillizzarono; lodarono Iddio e dissero: “Iddio dunque ha accordato anche ai gentili la penitenza perché abbiano vita” ». La controversia per gli etnicocristiani entrò in un secondo stadio, quando i medesimi circoli giudeocristiani, che avevan il cuore tanto angusto, vollero obbligare i primi alla Legge e alla circoncisione: « Se non vi fate circoncidere secondo il costume mosaico, non potete salvarvi ». A questo s’opponevano con tutta la loro forza apostolica Paolo e Barnaba. La contesa venne a una conclusione nel così detto Concilio apostolico, tenuto a Gerusalemme nell’anno: gli animi erano eccitati; l’esposizione fu lunga e stizzosa; la questione veramente era molto grave per le sue conseguenze. Anche in quel consesso fu di nuovo Pietro, che con una chiarificazione tanto giudiziosa e discreta da fare stupire — non più con la spada! — portò sentenza favorevole agli etnicocristiani: «Iddio non ha fatto nessuna distinzione fra noi e loro (gli etnicocristiani), perché per mezzo della fede ha purificato i loro cuori. Perché volete voi adesso tentare Iddio e porre sulle spalle dei discepoli un giogo, che né i nostri padri né noi abbiam potuto portare? ». – Quel Concilio tuttavia ebbe una deficienza e uno strascico; ce ne informa la lettera ai Galati. In esso non s’era dichiarato nulla circa la posizione dei giudeocristiani rispetto alla legge dell’Antica Alleanza, forse perché in realtà non s’era presentato neppure il motivo; e i giudeocristiani perseveravano fedeli alla Legge, tanto più anzi vi aderivano quanto più facilmente, secondo la loro opinione, gli etnicocristiani la trascuravano. È evidente che questa situazione doveva condurre i giudeocristiani e gli etnicocristiani, che vivevano in comune, a difficoltà e urti nei quali venne ad essere coinvolto anche Pietro. Egli infatti, dopo la riunione degli Apostoli a Gerusalemme, si portò ad Antiochia ed ivi frequentava apertamente la mensa comune con gli etnicocristiani; ma quando « furono giunti alcuni da partendi Giacomo (giudeocristiani), dopo il loro arrivo si ritirò e si separò per timore dei circoncisi ». Debolezza di Pietro? solo debolezza? Possiamo osare una parola in favore di Pietro! Il buon Apostolo si trovava in una situazione spinosa, fra giudeocristiani ed etnicocristiani; se continuava a mangiare con gli etnicocristiani, si alienava i giudeocristiani; se invece si fosse seduto a mensa con questi, avrebbe urtati quelli; quando s’era trattato dell’essenziale, aveva deciso, e già due volte, a favore degli etnicocristiani; ma questa terza volta, in una questione di vita pratica, che sembrava secondaria, non gli si potrà perdonare, umanamente parlando, se fa una concessione ai giudeocristiani? In questa circostanza Paolo vide certo più a fondo e più lontano. Pietro, che dapprima s’era seduto accanto agli etnicocristiani così decisamente e pubblicamente, non poteva più tardi separarsi da loro; chè altrimenti essi sarebbero passati come Cristiani di second’ordine, oppure, per poter continuare la loro comunione con Pietro, avrebbero dovuto cambiare e passare al modo di vivere giudaico, nonostante la libertà dalla legge giudaica loro assicurata; ora questo sarebbe stato un compromettere moralmente la missione fra i gentili, sarebbe anzi stato un tradimento, se si consideri la natura stessa del Cristianesimo, che non consiste nelle opere dellabLegge, ma nella redenzione per mezzo di Gesù Cristo. L’esempio di Pietro aveva già provocata una scissione fatale nella comunità cristiana di Antiochia, perché con lui s’erano separati dagli etnicocristiani anche gli altri giudeocristiani, persino anzi l’alApostolo dei gentili Barnaba. Paolo nella lettera ai Galati scrive eccitato: « Quando m’avvidi che non camminavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa dinanzi a tutti: “Se tu, giudeo come sei, vivi al modo dei gentili e non dei giudei, come puoi dunque costringere i gentili a vivere giudaicamente? “. Gli resistetti apertamente perchè era nell’errore >. Qualcuno ha provato a far scomparire il lato duro e aspro di questo screzio; ma che male può far mai sapere che anche Pietro e Paolo erano uomini?! In realtà Paolo aveva ragione; nella condotta di Pietro v’era il pericolo che il Cristianesimo fosse ricondotto al giudaismo e restasse precluso ai pagani; su questo punto Paolo non potè transigere, dovette scongiurare il grave pericolo. Qualcuno potrebbe osservare ch’era possibile forse comporre la lite in forma più conciliante, e fortiter in re et suaviter in modo », ma Paolo era « fortiter », tipo collerico, ardente, energico e nell’idea e nel modo di procedere. Nel fuoco però di questa prova Pietro documentò l’oro del suo carattere: accolse con umiltà la dura riprensione che Paolo gli rivolse in pubblico; non si trincerò dietro la sua autorità per sostenere con ostinatezza e prepotenza il suo errore. Dal testo della lettera ai Galati appare manifesto che Paolo riportò una incontrastata vittoria; Pietro tuttavia non gli serbò rancore alcuno, nella sua seconda lettera anzi lo chiama con cuore affettuoso: « Il nostro diletto fratellonPaolo >: è quasi l’ultima parola, che conosciamo di Pietro. Quanto si è affinato dal Vangelo a questo momento! Di quello ch’era allora gli è rimasta solo la semplicità, ch’è anche il più bell’ornamento della sua autorità, esercitata così umilmente che seppe accettare non solo le critiche, ma anche i rimproveri, non temette anzi neppure di recedere da una via sbagliata: l’umiltà di Pietro non è certamente meno degna di ammirazione della franchezza di Paolo. Ma nemmeno Paolo andò per la sua strada, inorgoglito per la sua vittoria, restò invece in comunione con Pietro. Non è inutile rilevarlo; perchè l’incidente di Antiochia ha porto il destro a troppe congetture e affermazioni: si volle farne un argomento contro il primato di Pietro; si vide in esso la manifestazione di due tendenze opposte nella Chiesa primitiva, del così detto « Petrinismo » cioè e del « Paolinismo »; si giunse anzi a dire che la lotta sostenuta da Pietro in Samaria col mago Simone e più tardi a Roma non è che un palliativo per nascondere quella fra lui e Paolo. Queste e simili concezioni sono confutate dalla stessa Scrittura: quella medesima lettera ai Galati, nella quale leggiamo del conflitto fra Pietro e Paolo ad Antiochia, attesta pure il riconoscimento da parte di Paolo dell’autorità di Pietro; Paolo infatti riferisce in essa di essere asceso a Gerusalemme per vedere Cefas, presso il quale si trattenne quindici giorni; annovera Pietro fra gli « uomini guida », dai quali ottenne la fraterna conferma della sua missione fra i gentili. Del resto lo stesso episodio antiocheno, più che del contrario, è una prova del posto eminente di Pietro nella Chiesa primitiva: appunto perché Paolo conosceva e riconosceva l’importanza di Pietro, pretese da lui una condotta rettilinea in modo così inflessibile e forte; egli non si oppose all’autorità di Pietro, ma esclusivamente al modo di condursi, che poteva essere pericoloso; non voleva la scissione, ma l’unità e la comunione anche degli etnicocristiani con quell’uomo roccia, sul quale il Signore aveva edificato la sua Chiesa. Nessuno dunque nella Chiesa si è opposto più decisamente a « Petrinismo » e « Paolinismo » di… Paolo stesso. Quando seppe che nella comunità cristiana di Corinto s’erano formati dei partiti — « Io tengo per Paolo; io per Apollo; io per Cefas; io per Cristo > egli scrisse loro scongiurandoli: «Nel Nome di nostro Signore Gesù Cristo io vi esorto, o fratelli: siate tutti un’unica cosa! Non permettete che fra voi alligni scissione alcuna! Siate d’un solo sentire, d’una sola idea! Cristo è forse diviso? forse che Paolo è stato crocifisso per voi? o siete stati voi battezzati nel nome di Paolo? » – Questa comunione fra Pietro e Paolo ha sempre avuto, dai primi secoli sino ai nostri giorni, una marcata espressione nell’arte e anche nella Liturgia; in una sua predica il Grisostomo chiama senz’altro i due: « La coppia apostolica ». E come una coppia di fratelli unanimi compaiono già in raffigurazioni antichissime; sino dalla fine del terzo secolo essi occupano un posto di preminenza su tutti gli altri Apostoli, alla destra del Signore. La loro festa viene celebrata dalla Liturgia in comune, nel giorno della loro morte, il 29 giugno; che se oggi è, per così dire, divisa e la commemorazione solenne di San Paolo ha luogo solo il giorno 30, questo si deve al fatto che a Roma la grande distanza fra le due chiese, dedicate ai Principi degli Apostoli, avrebbe resa troppo laboriosa la celebrazione delle sacre. funzioni in tutte e due nel medesimo giorno. Inoltre ogni volta che nel calendario liturgico è ricordato Pietro, viene ricordato anche Paolo, e viceversa. Può essere che, a questo riguardo, l’arte e la Liturgia abbiano subito l’influsso della leggenda, specialmente di quella contenuta negli Atti di Pietro e Paolo, comparsi fra il 170 e il 250; secondo questa fonte, i due Apostoli avrebbero svolto un’attività in comune e sincrona a Roma, insieme avrebbero sofferto nel medesimo carcere e avrebbero incontrato lo stesso genere di morte per martirio nel medesimo giorno. – Non è difficile scorgere in tutto questo un parto di fantasia poetica; la quale però non avrebbe potuto fingere e divulgare una così stretta comunanza fra Pietro e Paolo, se i due Apostoli secondo la verità storica fossero stati l’un l’altro contrari. Dedicando la prima parte degli Atti degli Apostoli a Pietro e la seconda a Paolo, Luca stesso li unisce fraternamente fra di loro; gli Atti sono il primo e il più bel quadro di Pietro e di Paolo. Pietro-Paolo! Nonostante il giorno di Antiochia, essi non furono avversari, non rivali, non competitori; furono invece due raggi, che s’incontrano nel medesimo Sole divino; due voci, che riecheggiarono della stessa divina parola; nell’unico Signore Gesù Cristo furono un’unica cosa. A Lui, al Tutto e Unico sia gloria e onore!

L’ATTIVITÀ APOSTOLICA DI PIETRO

Dall’ascensione del Signore fino agli anni 42, 43, Pietro lavorò, come gli altri Apostoli, in Palestina. Di questo tempo gli Atti riferiscono viaggi suoi attraverso la Giudea, la Galilea e la Samaria a scopo di visita”. Un passo della lettera ai Galati potrebbe far pensare che Pietro e Paolo si fossero spartiti il mondo frandi loro, in modo che il primo dovesse annunziare il Vangelo ai Giudei e il secondo ai Gentili: « Gli uomini guida riconobbero ch’io sono incaricato del Vangelo per gli incirconcisi, come Pietro lo è per i circoncisi»; ma in realtà non si tratta qui d’un campo d’apostolato riservato all’uno con l’esclusione dell’altro, bensì del campo coltivato di preferenza dall’uno e dall’altro; Pietro di fatto fu missionario non solo fra i Giudei, ma anche fra i pagani, una delle sue prediche anzi la tenne nella casa del pagano Cornelio; e d’altra parte Paolo non si rivolse solo ai gentili, ma anche ai Giudei e proprio nelle loro sinagoghe cercò la piattaforma, donde poter predicare ai gentili. La persecuzione di Erode Agrippa fu come il segnale dato da Dio per indicare agli Apostoli ch’era giunto il momento di lasciare l’angolo della Palestina e di disperdersi nel mondo. Luca riferisce negli Atti che, dopo l’uccisione di Giacomo, anche Pietro stava in carcere e fu preservato dalla stessa sorte da un Angelo, che lo trasse fuori, conducendolo per mano ancor sonnacchioso e incespicante, e insieme passarono dinanzi ai soldati di guardia e uscirono quindi dalla porta, che si aprì da sola, mentre l’Apostolo andava pensando che si trattasse non di cosa reale ma solo di un sogno, finché non si trovò all’aperto completamente libero; aggiunge Luca che allora Pietro si diresse alla casa di Marco in Gerusalemme, ove l’esigua comunità dei credenti stava in angosciosa preghiera per Lui, e le comunicò solo la notizia della sua liberazione: « Riferite questo a Giacomo (Minore) e agli altri fratelli>. Luca continua a informare, ma in modo così indeterminato, che sembra volesse conservare anche quando scriveva l’incognito di Pietro: « Pietro allora si mise in cammino e si recò in un altro luogo ». Circa quest’« altro luogo» sono state fatte molte congetture; secondo una antica tradizione, che non è però del tutto sicura, Pietro si sarebbe portato fin da allora, e cioè nei primi anni dell’imperatore Claudio (41-54), a Roma “; e questa supposizione sembra avere una conferma dalla stessa Sacra Scrittura, in quanto la lettera dell’Apostolo Paolo ai Romani, scritta verso l’anno 58, fa pensare a una comunità cristiana di Roma fiorente, tanto che Paolo anzi deve scusarsi di cullare l’intenzione di portarsi anche a Roma ; tutto questo si comprende bene se Pietro era già pastore della comunità romana. Verso l’anno, con decreto imperiale, i Giudei furono espulsi da Roma; il nuovo soggiorno di Pietro a Gerusalemme negli anni 49-50, attestato dagli Atti degli Apostoli, in occasione del Concilio apostolico, potrebbe spiegarsi con quell’espulsione. Dopo il Concilio apostolico, Pietro si portò ad Antiochia di Siria, dove Paolo si scontrò con lui nell’incidente visto più sopra. Lo scrittore di storia ecclesiasticanEusebio ritiene che Pietro sia il fondatore della comunità cristiana di Antiochia, Girolamo lo dice il primo Vescovo “; Gregorio aggiunge che Pietro lavorò per sette anni ad Antiochia; la Liturgia infine il 22 febbraio celebra la festa della Cattedra di San Pietro ad Antiochia. Probabilmente l’opinione d’un ministero episcopale di Pietro in questa città ebbe per unico motivo il conflitto con Paolo; S. Ignazio Martire, morto verso l’anno 100 non ricorda mai qual primo Vescovo di Antiochia Pietro, ma Evodio, mentre lo stesso Ignazio ne era il secondo; può essere tuttavia che l’Apostolo abbia ivi faticato per un tempo abbastanza lungo. Partendo da Antiochia, egli percorse probabilmente le provincie del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia, tutte regioni dell’odierna Turchia; ai fedeli di queste comunità egli più tardi indirizzò due lettere, sebbene in esse sia appena possibile accertare degli indizi di rapporti personali dell’Apostolo con quei fedeli; le leggende però, che riferiscono d’un’attività apostolica di Pietro e di suo fratello Andrea in queste regioni, sulle coste in parte del Mar Nero, sono antichissime e vengono confermate già da Origene (185-254); una tradizione locale di Sinope nel Ponto riferisce che i due fratelli apostoli esercitarono a lungo la loro attività in quella città e ivi stesso poi si separarono per avviarsi Pietro verso l’Occidente e Andrea verso l’Oriente. È certo che Pietro, circa questo tempo, visitò anche Corinto; poiché l’esistenza d’un partito di Pietro nella comunità cristiana si spiega facilmente, se l’Apostolo soggiornò nella città”; ma a una sua attività apostolica in essa rimandano già Clemente Romano e anche più esplicitamente il Vescovo Dionigi di Corinto, nella lettera che diresse alla comunità cristiana di Roma fra gli anni 170-175 : « Tutti e due (Pietro e Paolo), quali fondatori della nostra comunità, hanno istruito anche la nostra Corinto. Similmente essi hanno istruito insieme l’Italia e sono morti nello stesso tempo come martiri >.

PIETRO A ROMA.

Il soggiorno e l’attività di Pietro a Roma, per l’importanza tutta particolare che rivestono, meritano d’essere provati. La tradizione sia della Chiesa orientale che della occidentale è unanime. Una prima testimonianza di quella orientale l’abbiamo nella lettera del Vescovo Dionigi, riportata più sopra; ma già alcuni decenni prima di lui, il Pontefice Clemente, nella lettera inviata alla comunità cristiana di Corinto per richiamarla alla fraterna concordia, scriveva dell’animo generoso sino al sacrificio « dei buoni Apostoli Pietro e Paolo, che furono fra di noi (a Roma) splendido esempio nelle torture e nei supplizi > “. Il santo Vescovo e martire Ignazio (98-110), nella sua lettera ai Romani, parla dei due Principi degli Apostoli come di due maestri autorevoli della chiesa romana: « Io non vi dò comandi come Pietro e Paolo>”. Più diffuso è Sant’Ireneo, vescovo di Lione (177), nella sua testimonianza, secondo la quale Pietro e Paolo predicarono a Roma e vi fondarono la comunità cristiana “. A queste chiare deposizioni degli antichi Padri possiamo aggiungere la muta testimonianza degli antichi monumenti cristiani. Sui sarcofaghi, che Roma con serva del terzo, quarto e quinto secolo, è un ripetersi continuo di scene, che riguardano Pietro; donde pure si può concludere che nessun’altra città dell’Oriente o dell’Occidente abbia conservato con altrettanta varietà e vivacità il ricordo di lui. La prova però più eloquente della sua attività e della sua morte in Roma è la sua tomba. Già verso l’anno 200 il prete romano Gaio redarguiva un maestro d’errore affermando che poteva fargli vedere “il trofeo” dei sepolcri apostolici di Pietro sul Vaticano e di Paolo sulla Via Ostiense. Nelle catacombe di SanSebastiano, sulla Via Appia, nel 1915 fu ritrovato un sepolcro di Pietro; condussero alla scoperta di questo venerando monumento dei «graffiti », specie di scarabocchi tanto sgraziati, con i quali i Cristiani si raccomandano all’intercessione anche di Pietro e di Paolo; secondo la testimonianza del Calendario romano e del Martirologio Geronimiano, i santi corpi dalla loro originaria sepoltura sul Vaticano e sulla Via Ostiense furono ivi trasportati verso l’anno 258, al tempo della persecuzione di Valeriano, e all’epoca dell’imperatore Costantino furono di nuovo restituiti ai loro primi sepolcri, e sopra i venerabili resti mortali dei due Apostoli, Costantino fece costruire rispettivamente la basilica di San Pietro e quella di San Paolo. Gli scavi praticati negli anni 1941-42 sotto l’attuale basilica Vaticana misero in luce una vasta necropoli pagana e confermarono un’antica tradizione di Roma, secondo la quale Pietro era stato sepolto sul Colle Vaticano, in un cimitero pagano. La continuazione di questi recentissimi scavi portò alla scoperta anche delle linee fondamentali dell’antica basilica di Costantino; apparvero pure sempre più evidenti le difficoltà, che l’imperatore dovette superare per quella costruzione, difficoltà d’ordine tecnico, perchè il suolo del Vaticano era ineguale, e difficoltà d’ordine psicologico, in quanto per lo spianamento del colle fu necessario sacrificare la zona cimiteriale, che godeva di tutta la venerazione del popolo romano; tutto questo è una prova evidente che la tomba di Pietro si trovava esattamente sotto la basilica costantiniana, chè altrimenti l’imperatore, nella scelta dell’area fabbricabile, avrebbe avuto riguardo e all’ineguaglianza del suolo e al carattere sacro di esso. Nel giro dell’antica « Confessione », il sepolcro vero e proprio, fu rinvenuta una quantità di monete provenienti da ogni parte del mondo allora conosciuto; nella sua parte centrale invece fu scoperto un sepolcro semplice, sormontato da tre altari di epoche diverse, sovrapposti l’uno all’altro, verso del quale, come lo provano numerosi graffiti, i fedeli pellegrini avevano dimostrata la loro venerazione già molto prima di Costantino. Questo muto, eppur eloquente linguaggio delle pietre parla apertamente del soggiorno e della morte di Pietro a Roma lungo tutti i millenni. – Pietro stesso però è un degno testimonio del suo soggiorno romano, perchè termina la sua prima lettera con le parole: « Vi saluta la comunità, eletta con voi, in Babilonia e Marco, figlio mio » . Già gli antichi Padri, quali Papia, Clemente d’Alessandria, Girolamo, videro in questa « Babilonia » Roma, espressa dall’Apostolo con nome simbolico; e giustamente, poiché non può trattarsi dell’antica Babilonia dell’Asia Anteriore, sita sulle rive dell’Eufrate, che al tempo di S. Pietro era distrutta, come neppure della città dello stesso nome in Egitto, del tutto insignificante: non consta di un’attività dell’Apostolo in nessuna delle due città; al contrario in quel torno di tempo Roma fu chiamata spesso « Babilonia », come anche da Giovanni in parecchi passi della sua Apocalisse; inoltre il soggiorno di Marco a Roma è assicurato da altre testimonianze “. La comunità eletta di Babilonia! Queste parole suonano sorpresa, raccapriccio, terrore; per intenderle si legga quella concisa e drastica descrizione, che fa San Paolo nel primo capitolo della sua lettera ai Romani, della corruzione religiosa e morale della Roma del tempo e ch’egli termina coll’oscuro giudizio: « Essi son ripieni d’ogni ingiustizia, malignità, avidità, malizia, son pieni di invidia, omicidio,ncontesa, frode e inganno. Sono susurroni maledici, prepotenti odiati da Dio, millantatori tracotanti, inventori nel male, disobbedienti ai genitori, insensati, sleali, senza affetto, senza compassione». – Pietro venne a Roma una prima volta, probabilmente, al tempo dell’imperatore Claudio (41-54) e la seconda volta al tempo di Nerone (54-68). Claudio, un bizzarro dalle idee anguste e stravaganti, tollerò il governo d’una Messalina, la cui spudoratezza era proverbiale, e d’una Agrippina, che finì per assassinare per criminale ambizione lo stesso imperatore al fine di porre sul trono Nerone, suo figlio del primo matrimonio. Nerone…! È un nome, ch’è divenuto il simbolo d’un empio potente. Un po’ alla volta le sue buone disposizioni affogarono nella ipocrisia, nella sensualità e sete di sangue. Avvelenò suo fratello adottivo, il nobile Britannico; con vile e ipocrita assassinio si sbarazzò della sua stessa madre, che l’aveva portato al trono, solo perchè gli era divenuta molesta; assassinò la sua sposa Ottavia e con un calcio brutale uccise pure la sua seconda sposa, Poppea Sabina, che gli era stata istigatrice di tanti delitti. Quanto poco calcolo faceva ormai dell’assassinio di comuni mortali! Non è del tutto certo se ricada su di lui la colpa dello spaventoso e catastrofico incendio di Roma nel 64; fu lui tuttavia che allontanò da se stesso il sospetto, facendola ricadere sulla comunità cristiana di Roma; durante una festa notturna negli orti, le vittime innocenti dovettero risplendere come fiaccole viventi dinanzi all’imperiale delinquente! Babilonia…! Povero pescatore di Bethsaida, che cosa speri di ottenere con la Croce e col Vangelo in simile Babilonia? Il messaggio di Gesù Cristo, che tu porti, il Crocifisso qui, in mezzo alla concupiscenza degli occhi, alla concupiscenza della carne e alla superbia d’un regno degenerato e potente, non si dileguerà inascoltato e non sprofonderà con minori speranze di quando tu un giorno stavi sprofondando nelle onde del lago della tua terra? E invece Pietro stesso scrive già d’una « comunità eletta in Babilonia »: un fiore nella palude, un mattino irrompente nel tramenio della notte. L’antica Roma giace oggi in frantumi e non pochi dei suoi domatori son passati alla storia esecrati; sulla tomba invece del Pescatore s’inarca giuliva e illesa la cupola, e nella vasta piazza di San Pietro si eleva ardito l’obelisco, che neppure le stragi dell’ultima guerra hanno abbattuto: « Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat! ». Che se anche questo monumento con la sua trionfale iscrizione e la stessa cupola di San Pietro un giorno precipitassero, mai s’infrangerà la Roccia, sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa, poiché lungo tutti i millenni Cristo vincerà, Cristo regnerà, Cristo dominerà! O Roma santa, o Roma eterna! Roma di Pietro, Roma di Paolo, Roma dei Martiri! Patria della nostra fede, presagio dell’eternità! Noi baciamo il tuo santo suolo, che s’è imbevuto delle lacrime e del sangue dei tuoi Apostoli e dei tuoi Martiri. Recitiamo commossi e riconoscenti il Credo, che, come dalla sorgente, Pietro e Paolo hanno attinto dalle labbra del Signore e dall’Oriente hanno portato a noi nelle regioni dell’Occidente, nelle regioni della sera. Pietro e Paolo, conservate il Credo alle regioni della sera!

LA PREDICAZIONE DI PIETRO

Il messaggio dottrinale di Pietro ancor palpitante di vita è contenuto direttamente nei suoi otto discorsi, che ci hanno trasmesso gli Atti degli Apostoli, e nelle sue due lettere. I « discorsi » sono certamente soltanto dei sunti, dei brevi schizzi preparati da Luca; e però essi rendono con fedeltà i pensieri di Pietro e persino anzi il suo stile e temperamento. Sono veramente dei documenti venerandi, le parole più antiche degli Apostoli giunte sino a noi, più antiche d’un decennio o due delle stesse lettere di Paolo, ch’è il primo allegro ruscello di primavera. Se li confrontiamo con le lettere di Paolo o con gli scritti di Giovanni, ci appaiono certo più semplici, non però poveri; possiamo affermare che in essi è già contenuto tutto il patrimonio dottrinale del Nuovo Testamento. Essi sono: il discorso tenuto prima dell’elezione di Mattia; la predica di Pentecoste; il discorso dinanzi al popolo dopo la guarigione dello storpio dalla nascita; i due discorsi dinanzi al Sinedrio; la predica in casa di Cornelio; l’allocuzione ai fratelli e il discorso nel Concilio apostolico. Più importanti sono quelli tenuti nella Pentecoste, nell’atrio del Tempio dopo la guarigione dello storpio e in casa di Cornelio; ma è da lamentare che tutti in generale siano troppo poco presi in considerazione e troppo poco utilizzati. – Una nota, che balza subito agli occhi percorrendoli, è lo stretto rapporto che stabiliscono col Vecchio Testamento; per provare la Nuova Alleanza Pietro rimanda senza stancarsi a quella Antica; i suoi discorsi quindi abbondano di citazioni dal Vecchio Testamento. Egli vede l’adempimento d’una profezia della Scrittura nell’elezione di Mattia in sostituzione del traditore; la predica di Pentecoste si fonda sopra una predizione del profeta Gioele e su quella d’un Salmo di David; anche il discorso al popolo sfocia nella dichiarazione: «Iddio con questo ha adempiuto la profezia ch’Egli fece preannunziare per bocca di tutti i Profeti ». Le condizioni spirituali, nelle quali venne a trovarsi Pietro per i suoi discorsi, sono le stesse nelle quali si trovò Matteo a riguardo del suo Vangelo: tutti e due devono giustificare dinanzi ai Giudei le pretese di Gesù Cristo, arguendo efficacemente dalle Scritture dell’Antico Testamento. Potrà dirsi insignificante questo Testamento? A simile concezione si oppone decisamente lo stesso primo Papa: nel Vecchio Testamento si nasconde il Nuovo, nel Nuovo Testamento si compie il Vecchio. In tutte le prediche di Pietro il centro che tutto illumina è Gesù Cristo; a Lui corrono tutti i suoi pensieri, da Lui egli deriva tutte le conclusioni; il Signore è talmente il tema della sua predicazione, che, quand’anche si perdessero le lettere di Paolo e gli stessi Vangeli, potremmo ricostruire la vita storica di Gesù e formarci un’idea giusta della sua importanza dai semplici discorsi di Pietro. Abbiamo l’impressione di sentire un compendio del Vangelo, ascoltando l’esposizione fatta dinanzi a Cornelio « Iddio inviò ai figli d’Israele la parola e annunziò il lieto messaggio della pace per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti. Voi sapete quello che, dopo il battesimo che predicò Giovanni, ebbe inizio in Galilea e avvenne in tutta la Giudea, come Iddio unse Gesù di Nazareth con lo Spirito Santo e la potenza, come Egli andò elargendo benefici e guarì tutti gli oppressi dal demonio, perché Iddio era con Lui. Noi siamo testimoni di tutto quello, ch’Egli ha fatto in Giudea e a Gerusalemme. Lo hanno sì conficcato in croce e ucciso; Iddio però Lo ha risuscitato il terzo giorno e fatto apparire, non però a tutto il popolo, ma solo ai testi da Dio prestabiliti, a noi, che dopo la risurrezione da morte abbiamo mangiato e bevuto con Lui. Egli ha ordinato a noi di predicare al popolo e di testimoniare che Iddio Lo ha stabilito quale giudice dei vivi e dei morti. A Lui rendono testimonianza tutti i Profeti che nel suo Nome ottiene la remissione dei peccati chiunque credacin Lui ». Anche nella predicazione di Pietro, come in quella di Paolo, il nocciolo dell’insegnamento intorno a Gesù Cristo è la sua risurrezione; in tutti i discorsi, sia dinanzi al popolo che dinanzi al Sinedrio, Pietro torna a questa verità fondamentale del Cristianesimo; anche la predica di Pentecoste nella sua sostanza è una predica di Pasqua; e veramente, parlando specialmente a uditori giudei, il ricorso alla risurrezione del Signore non rispondeva solo a una necessità teologica, ma anche psicologica, chè bisognava sollevarli dall’urto e dallo scandalo della Croce. Noi troviamo Pietro sempre intento a provare che, nonostante la croce, Gesù è il Messia promesso dai Profeti; la divinità di Cristo, nella predicazione di Pietro, passa in seconda linea in confronto con l’ufficio di Messia, sebbene sia anch’essa attestata splendidamente da non poche e singolari espressioni: Gesù è « il Santo di Dio », « il Santo e il Giusto », « l’Autore della vita », « il Signore di tutti », « il Signore > semplicemente; « in nessun altro v’è salvezza », « Iddio Lo ha elevato alla sua destra a dominatore e salvatore» . Quello, che più tardi Paolo e Giovanni annunzieranno più esplicitamente e diffusamente di Cristo a una cristianità più matura, Pietro lo tocca già con vibrati accordi. – V’è pure un terzo pensiero dominante, che percorre tutta la predicazione di Pietro, ed è la redenzione. Con Gesù Cristo è spuntata la liberazione predetta dai Profeti. « Convertitevi, e ciascuno di voi si faccia battezzare nel Nome di Gesù Cristo, affinché riceviate la remissione delle vostre colpe e il dono dello Spirito Santo », ammonisce e incoraggia l’Apostolo nella predica di Pentecoste. Oh, il Credo cristiano! Come lieta e intensa luce del mattino, esso dardeggia già splendido fin dall’inizio!

LE DUE LETTERE DI PIETRO

Le lettere ne continuano la predicazione. La prima porta il seguente indirizzo: « Agli eletti pellegrini nella diaspora del Ponto, della Galazia, Cappadocia, Asia e Bitinia ». Le comunità etnicocristiane di queste regioni a nord e a nord-ovest dell’Asia Minore, che in parte erano state fondate da Paolo, versavano in penose condizioni; i pagani le dipingevano come operatrici del male, sebbene il loro « delitto » consistesse solamente nella loro vita, informata alla verità cristiana e diversa da quella pagana: « Per un tempo abbastanza lungo avete in passato sodisfatte le voglie dei pagani e siete vissuti in dissolutezze, piaceri, ubbriachezze, orgie, crapule e in nefanda idolatria; ora sembra loro strano certamente che voi non vi gettiate più con loro nella stessa mota di depravazione». Il mentito disprezzo, che i cattivi hanno sempre per i buoni, costituiva già per quei primi Cristiani il pericolo dell’interna stanchezza e del rilassamento, che potevano concludersi con l’apostasia. Le notizie allarmanti furono portate a Pietro da Silvano, che probabilmente a Roma voleva incontrarsi con Paolo, ch’era il padre di parecchie fra quelle comunità minacciate; ma poichè in quel momento Paolo non doveva essere a Roma — la nostra lettera é datata dall’anno 63-64 —, suggerì Pietro i pensieri per una enciclica alle comunità oppresse, valendosi dell’opera di Silvano: « Per mezzo di Silvano, ch’io ritengo come un fratello, vi ho scritto brevemente per esortarvi e persuadervi che questa è la vera grazia di Dio, nella quale voi state ». Leggendo la lettera, si ha l’impressione d’un’eco di quello che fu detto al lago di Tiberiade : « Pasci le mie pecore, pasci i miei agnelli ». Pietro, conscio d’essere il pastore di tutto il gregge del Signore, esorta i fedeli, più con l’amore che con la logica, ad aver pazienza e a perseverare. Come piace già il primo pensiero: la nobiltà dell’essere Cristiano! Forse mai sono state scritte parole più splendide circa la sua dignità: « Sapete che siete redenti dal vostro genere di vita frivolo, ereditato dai padri, non con beni caduchi, come l’oro e l’argento, ma per mezzo del Sangue prezioso di Cristo, dell’Agnello senza difetto e macchia… Voi siete un popolo eletto, un sacerdozio regale, una gente santa, una gente posseduta, affinché annunziate le azioni gloriose di Colui, che vi ha chiamati dalle tenebre alla ammirabile luce sua ». – Come secondo motivo della cristiana perseveranza, Pietro ricorda la forza del buon esempio: « Tenete una buona condotta fra i pagani, affinché nelle cose, per le quali sparlano di voi come di malfattori, riconoscano le vostre opere buone e lodino Iddio nel giorno della visita… Poiché questa è la volontà di Dio, che,.per mezzo della buona condotta, riduciate al silenzio l’ignoranza di uomini insensati ». Questa forza dell’esempio, allora come oggi sempre invincibile, deve disarmare l’odio contro le cose cristiane e reclutare a Cristo anche nell’ambiente familiare: « Voi, donne, dovete essere sottomesse ai vostri mariti! Quelli, che ancora non obbediscono alla parola, saranno guadagnati poi per mezzo della muta condotta delle mogli, se osserveranno la vostra condotta pura nel timore di Dio ». La forza però suprema per poter perseverare in mezzo alle vicende tristi della terra deriva d’al di là di questo mondo. Con quell’ardente desiderio, ch’era tutto proprio degli Apostoli e dei primi Cristiani, Pietro scrive della venuta del Signore, che metterà fine a tutti gli stenti e a tutte le tribolazioni e li trasfigurerà: « La fine di tutte le cose s’è avvicinata. Siate dunque prudenti e sobrii per poter pregare… Non vi sorprenda, o diletti, la fiamma ignita della sofferenza, ch’è su di voi per provarvi. Con questo non vi accade nulla di strano; rallegratevi piuttosto nella misura, con la quale partecipate ai dolori di Cristo; potrete poi rallegrarvi ed esultare anche nella manifestazione della sua gloria >. – Pietro è l’uomo dell’azione; consacra quindi tutta la sua lettera alla vita pratica; non si distingue in essa, come in parecchie delle lettere di Paolo, prima una parte teoretica e poi una parte pratica; nondimeno i suoi inviti alla vita cristiana son tutti voluti da un grande pensiero, ch’è Gesù Cristo; come un Vangelo in compendio risuona, ad esempio, il tratto seguente: « Cristo è morto per i peccati al fine di condurvi a Dio. Dopo che ebbe trangugiata la morte, affinchè noi divenissimo eredi dell’eterna vita, è asceso al Cielo e siede alla destra di Dio, dove Angeli, Potestà e Virtù Gli sono sottomessi >. – La prima lettera fu riconosciuta genuina da tutti fin da principio; la seconda invece raggiunse il riconoscimento universale solo dopo il quarto secolo. Essa si stacca assai dalla prima per contenuto e per forma, e tuttavia lo stesso esame interno depone per la sua autenticità: è redatta con tale schiettezza e lealtà, che la presentazione che fa di se stesso il mittente nell’iscrizione non può essere considerata come un puro inganno: « Simone Pietro, servo e Apostolo di Gesù Cristo, a coloro, che come noi hanno ricevuto la stessa fede preziosa per la giustizia del nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo”. Poichè Pietro scrive apertamente del suo presentimento d’una prossima fine, possiamo ritenere che la lettera risalga all’anno: <Ritengo per mio dovere, finché sono in questa tenda, di tenervi desti con ammonimenti. So che è imminente il levarsi della mia tenda, me lo ha rivelato nostro Signore Gesù Cristo”. Dopo la prima lettera — « Diletti, questa è già la seconda lettera, ch’io vi scrivo» —, le condizioni delle comunità cristiane delle regioni a nord e a nordovest dell’Asia Minore non erano migliorate, ma piuttosto cambiate, e questo cambiamento può anche spiegare facilmente la diversità fra le due lettere; ora i grandi pericoli minacciano i fedeli non dal di fuori, ma dall’interno: «Entrarono nel popolo falsi profeti, come anche fra voi entreranno falsi dottori, che introdurranno dottrine corruttrici. Rinnegano il Signore, che li ha riscattati… Cercheranno per cupidigia di sfruttarvi con parole ipocrite» 146. « La libertà evangelica », che annunziavano questi maestri d’errore, equivaleva alla negazione e allo scioglimento d’ogni vincolo legale. Contro questa pericolosa corrente, che guadagnava terreno nelle sue comunità giudeocristiane, aveva già presa posizione l’apostolo Giuda Taddeo con una sua lettera sferzante; evidentemente da questi pseudodottori erano minacciati e in parte ormai intaccati anche gli etnicocristiani dell’Asia Minore. La seconda lettera di Pietro ha delle evidenti analogie di pensiero con la lettera di Giuda Taddeo; si direbbe anzi che il nostro Apostolo, così clemente di per sé, abbia preso di quella lettera persino lo stile pungente: «Essi (quei maestri d’errore) sono uomini audaci e arroganti… Insultano nella loro ignoranza come animali senza ragione… Andranno in rovina per la loro propria corruzione… Sono sorgenti senz’acqua e nubi oscure agitate dal vento… Calza bene a costoro il proverbio: „ Il cane ritorna al suo proprio vomito”, e „La scrofa che s’è lavata si avvoltola di nuovo nel brago ” ». A questo contorcimento del Cristianesimo Pietro oppone il fatto storico della venuta finale di Gesù Cristo, che forma il tema proprio di questa lettera e deve irradiare della sua luce consolatrice nei pericoli delle comunità. L’Apostolo illumina e prova il futuro giudizio finale con esempi di giudizi di Dio, desunti dalla storia del Vecchio Testamento, e così affronta lo scherno degli increduli, che van dicendo: «Dov’è mai il suo promesso ritorno? Da quando i padri si sono addormentati, tutto persevera come al principio della creazione »… «Diletti, ma voi non dovete lasciarvi sfuggire che dinanzi al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno. Il Signore non tarda con la sua promessa, come dicono alcuni, ritenendo la cosa per un ritardo; piuttosto Egli è longanime verso di voi e non vuole che alcuno vada perduto, ma che tutti giungano a penitenza ». Pietro ha poi ancora un accenno misterioso alla fine del mondo, che si direbbe quasi una piccola Apocalisse: «Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora il cielo passerà con fragore; gli elementi si dissolveranno nel calore della vampa e la terra brucerà con tutto quello che v’è sopra… Ma noi, secondo la sua promessa, attendiamo un nuovo cielo e una nuova terra >. Queste vetuste parole del Pescatore di Galilea acquistano una risonanza stranamente vicina nell’età della bomba atomica… Quale sarà la conclusione di questa seconda lettera di Pietro? Non può essere altra che Gesù Cristo; il vecchio Apostolo, stanco e fedele, prende comiato dalla Scrittura e dalla vita con l’elogio a Lui: «Crescete nella grazia e nella conoscenza di nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo! A lui sia gloria adesso e nel giorno dell’eternità! Amen »

(*) Tutto quello, che si spaccia come « predicazione di Pietro », all’infuori dei discorsi contenuti negli Atti degli Apostoli e delle due lettere, è « apocrifo », non genuino dunque e non sicuro, sebbene una certa importanza e uno sfondo storico degli Atti apocrifi non si possano disconoscere. Il « Pétrou Kérygma a risale probabilmente ai primi decenni del secondo secolo; ebbe origine, sembra, in Egitto, in un ambiente cattolico; riferisce la predicazione apostolica di Pietro, che fornì delle direttive generali ai missionari, che lavoravano fra i gentili. L’opera oggi è quasi del tutto perita. — Fra gli anni 180-190 furono scritti in Siria-Palestina gli « Atti di Pietro », che si conservano ancora a frammenti in diverse versioni; quella latina (Actus Vercellenses) racconta le lotte sostenute da Pietro contro le arti magiche del mago Simone, che a Roma, in un tentativo di volare (ascensione al cielo) al di sopra della piazza principale del tempio, ebbe un infortunio mortale. La versione greca riferisce la leggenda « Domine, quo vadis » e la crocifissione di Pietro. Il « Martirio di Pietro scritto da Lino » è una leggenda tardiva, apparsa solo nel secolo sesto. Un’altra opera apocrifa da ricordare è la « Storia di Pietro e Paolo », composta forse nel secolo terzo per soppiantare le storie eretiche e far vedere la stretta unione fra i due Principi degli Apostoli; si leggono quindi in essa le descrizioni del viaggio di Paolo a Roma e del suo martirio insieme con Pietro. – Sotto il nome di Pietro si diffuse pure un « Vangelo di Pietro », non genuino, sorto forse in Siria già prima del 150, di cui ancora non conosciamo che un breve frammento, e inoltre un’« Apoailisse di Pietro », che in alcune chiese di Palestina godette di tanta celebrità, da essere letta pubblicamente il Venerdì Santo ancora per lungo tempo, sebbene da Eusebio e Girolamo fosse stata annoverata fra gli scritti spuri; vi si descrive la bellezza del Cielo e l’orrido dell’inferno, e richiama la Divina Commedia di Dante; la si fa risalire sino alla prima metà del secondo secolo.)

MORTE E SOPRAVVIVENZA DI PIETRO

Un dì, quando il Signore aveva interrogato Pietro tre volte sull’amore, s’erano adagiati sul lago di Tiberiade la primavera e l’avvenire. Sì, anche l’avvenire! Poichè il Signore aveva elevato il suo sguardo e una visione grave del futuro Gli si era offerta, mentre Pietro giovane e vigoroso Gli stava dinanzi ginocchioni: « In verità, in verità ti dico: “Quand’eri giovane, ti cingevi tu stesso e andavi dove volevi; ma quando sarai divenuto vecchio, stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vuoi “». Pietro, in preda all’improvviso sbigottimento per il minaccioso avvenire, che queste parole gli preannunciavano, «Si voltò e vide che lo seguiva il discepolo, che Gesù amava, che nella Cena aveva anche riposato sul petto suo e aveva chiesto: “O Signore, chi è che Ti tradisce?”. Quando Pietro lo vide, chiese a Gesù: “Signore, che sarà di costui? “». Nella domanda del giovane Pietro si sente la supplica; chè gli è difficile camminar da solo la sua via, una via poi che lui non vorrebbe, una via per la quale « altri » lo cingono, mentre una via difficile lo è meno se percorsa in due; la Scrittura stessa lo riconosce: « Due son meglio che uno; poiché, se uno cade, ilsuo compagno lo rialza nuovamente. Ma guai al solo! ». Se nella sua vita Pietro può accompagnarsi al suo amico Giovanni, è disposto ad andare volentieri anche là, dove non vorrebbe andare; Giovanni l’aiuterà a portare il peso e la dignità delle chiavi; qualora cadesse, Giovanni lo rialzerebbe di nuovo. E non sarebbe una grande benedizione anche per la stessa opera di Cristo, se Pietro e Giovanni potessero camminare insieme? Pietro rappresenta la potenza e la legge, Giovanni l’amore e lo spiiito. Che felice unione sarebbe quella dei due Apostoli!… Negli Atti in realtà vanno insieme per lungo tempo; donde è legittimo concludere che una forte amicizia li stringeva l’uno all’altro: « Pietro e Giovanni salirono al Tempio »; Pietro e Giovanni sopportano insieme la prima prigionia; Pietro e Giovanni sono insieme quando elargiscono lo Spirito Santo in Samaria:

unione nella preghiera, unione nella sofferenza, unione nel lavoro! Sarebbe stato

davvero bello se questa vita apostolica in comune sì fosse protratta! Venne invece

il momento, nel quale le vie dei due dovettero divergere e staccarsi; i disegni di

Dio devono avere la precedenza su ogni vincolo umano, per quanto esso sia caro.

In quel giorno ormai lontano, in cui Pietro aveva interpellato Gesù nei riguardi di

Giovanni, Egli gli oppose serio e quasi sdegnato: « S’Io voglio ch’egli resti sino al

mio ritorno, che importa a te? Tu seguimi!». Pietro deve seguire il Signore anche

senza Giovanni, anche su d’una via, ch’egli stesso non vorrebbe proprio. Su quella

scena così soffusa di mistero e di presagio l’Evangelista fa l’osservazione: « Con queste

parole Gesù voleva indicare con quale morte Simone Pietro doveva glorificare

Iddio ».

Quello, che il Signore aveva predetto a Pietro sul lago della patria, si compì

dopo 35 anni (Pietro subì il martirio probabilmente l’anno 67; non escluso però l’anno 64, quando cominciò la persecuzione contro la comunità cristiana di Roma, provocata dall’incendio della città. Il 29 giugno è ricordato come giorno della morte già dalla tradizione storica più antica e meglio garantita. Agostino con altri Padri della Chiesa difende l’opinione, secondo la quale Pietro e Paolo avrebbero tollerata la morte per Cristo lo stesso giorno del mese, ma non lo stesso anno.) nel lontano Occidente, a Roma: il vecchio Apostolo « distese le sue braccia » sul legno trasversale della croce, per la quale il carnefice l’aveva « cinto ». La leggenda premette al suo martirio il racconto « Quo vadis »: pressato dalle preghiere della comunità cristiana di Roma, Pietro sarebbe fuggito dalla città, che andava macchinando contro di lui; ma presso le sue porte si sarebbe incontrato col Signore, carico della croce, che alla dornanda del fuggente: « Dove vai, o Signore? » — « Quo vadis, Domine? » —, avrebbe risposto: « A Roma per farmi crocifiggere di nuovo »: Pietro avrebbe capita la lezione e sarebbe tornato sui suoi passi per incontrare la croce. Può essere che questa leggenda sia sorta come una lontana eco di quella protesta, che Pietro aveva sollevato contro la croce, quando il Signore annunziò per la prima volta la sua passione. A Roma non si sottrasse più alla croce. Quando fu giunto nel circo di Nerone, in vista del luogo, dove, come volgare giudeo, doveva essere giustiziato dinanzi a una folla stupidamente curiosa — « ti si condurrà dove tu non vuoi » la sua natura dovette certamente rabbrividire, ma il suo cuore dovette desiderare quell’abbraccio straziante e soave insieme della croce; una contenuta nostalgia per il Signore vibra già nella sua ultima lettera; secondo una leggenda, egli, come suo fratello Andrea, salutò con entusiasmo e commozione il legno dell’ultimo amore. Informa Eusebio che Pietro chiese d’essere crocifisso col capo all’ingiù, perchè non si riteneva degno di morire col capo verso l’alto, come il suo Maestro; così dal basso i suoi occhi, rigonfi di sangue, guardavano diritto al Cielo in alto. Nella sua seconda lettera aveva confortato i Cristiani scrivendo: «Il Signore non tarda con la sua promessa »; no, Egli non tarda! Allora si posò sul volto del morente un sorriso… In quel giorno però il paganesimo celebrò un infausto trionfo, non altrimenti che il giudaismo il Venerdì Santo; s’era liberato anch’esso di Cristo! Le porte dell’inferno non vincono Cristo; esse non vincono neppure Pietro.

È morto solo Simone; Pietro non muore; il suo ufficio rimane finché rimarrà la Chiesa di Cristo; perchè Cristo ha edificato la sua Chiesa su « Kefas = roccia »; dovrà esserci quindi sempre nella Chiesa un « Pietro »; se la roccia fosse finita con la morte di Simone, come potrebbero essere vere le parole di Cristo, che le porte cioè dell’inferno — le porte della morte — non vinceranno la Chiesa?! Cristo ha stabilito che nella sua Chiesa ci sia uno che porta le chiavi del regno; sempre dunque ci dovrà essere uno, che apre e chiude, lega e scioglie, pasce e ama. Ove Simone Pietro, morendo, depone le chiavi del regno dei Cieli, là le prende un altro e poi un altro e un altro ancora lungo tutti i millenni. Come è vero che le parole e le opere di Cristo durano — « Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno » —, così sono pure eterne, invincibili, proclamate attraverso tutti gli spazi e lungo tutti i tempi, sino alla fine del mondo, le parole dette a Pietro: « Tu sei la roccia! Corrobora i tuoi fratelli! Pasci le mie pecore! E ama, ama, ama…! ».

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In questo giorno di festa per la Chiesa di Cristo, ci uniamo strettamente in preghiera intorno al nostro attuale Pietro, S.S. Gregorio XVIII, sicuri che, come sempre, anche se muore Gesù sulla croce, anche se muore Pietro a testa in giù, anche se il suo suiccessore non può operare ed è nel sepolcro con la sua Sposa eclissata, la Chiesa, Cristo col suo Corpo mistico, Pietro nel suo successore Vicario, non moriranno mai, vivranno in eterno nel Regno della beatitudine celeste, insieme a coloro che avranno perseverato fino alla fine nella “vera” fede apostolica rivelata da Cristo e trasmessa dagli Apostoli nella sua unica Chiesa Cattolica Romana.

CHRISTUS VINCIT, CHRISTUS REGNAT, CHRISTUS IMPERAT NUNC ET SEMPER!

VIVA DIO UNO E TRINO, VIVA L’UOMO-DIO GESU’ CRISTO, VIVA IL SUO VICARIO IN TERRA, IL PAPA.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S PIO XII (34): “PIO IX 1854-1864”.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (34)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar.

(PIO IX, 1854-1864)

BOLLA “Ineffabilis Deus” 8 Dic. 1854.

L’eccellenza della B. Maria Vergine in generale.

2800. Dio ineffabile, … fin da principio e prima dei secoli, scelse e preordinò al suo Figlio una madre, nella quale si sarebbe incarnato e dalla quale poi, nella felice pienezza dei tempi, sarebbe nato; e, a preferenza di ogni altra creatura, la fece segno a tanto amore da compiacersi in lei sola con una singolarissima benevolenza. Per questo mirabilmente la ricolmò, più di tutti gli Angeli e di tutti i Santi, dell’abbondanza di tutti i doni celesti, presi dal tesoro della sua divinità. Così ella, sempre assolutamente libera da ogni macchia di peccato, tutta bella e perfetta, possiede una tale pienezza di innocenza e di santità, di cui, dopo Dio, non se ne può concepire una maggiore, e di cui, all’infuori di Dio, nessuna mente può riuscire a comprendere la profondità.

2801. E certo era del tutto conveniente che una Madre così venerabile risplendesse sempre adorna dei fulgori della santità più perfetta, e, immune interamente dalla macchia del peccato originale, riportasse il più completo trionfo sull’antico serpente; poiché a essa Dio Padre aveva disposto di dare l’unigenito suo Figlio — generato dal suo seno, uguale a se stesso e amato come se stesso — in modo tale che egli fosse, per natura, Figlio unico e comune di Dio Padre e della Vergine; poiché lo stesso Figlio aveva stabilito di renderla sua madre in modo sostanziale; poiché lo Spirito Santo aveva voluto e fatto sì che da lei fosse concepito e nascesse colui, dal quale egli stesso procede.

2802. Infatti la Chiesa di Cristo, custode e vindice delle dottrine a lei affidate, non le ha mai alterate, né con aggiunte né con diminuzioni; ma tratta con tutti gli accorgimenti e la sapienza quelle che l’antichità ha delineato e i padri hanno seminato; e cerca di limare e affinare quelle antiche dottrine della divina rivelazione, in modo che ricevano chiarezza, luce e precisione. Così, mentre conservano la loro pienezza, la loro integrità e il loro carattere, si sviluppano soltanto secondo la loro propria natura, ossia nello stesso pensiero, nello stesso senso.

2803. a onore della Santa e indivisibile Trinità, a decoro e ornamento della Vergine Madre di Dio, a esaltazione della fede cattolica, e a incremento della religione cristiana, con l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei beati apostoli Pietro e Paolo e Nostra, dichiariamo, pronunziamo e definiamo: La dottrina, che sostiene che la Beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per singolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in vista dei meriti di Gesù Cristo, salvatore del genere umano, è stata preservata immune da ogni macchia di peccato originale, è stata rivelata da Dio e perciò si deve credere fermamente e inviolabilmente da tutti i fedeli.

2804. Quindi, se qualcuno (che Dio non voglia!) deliberatamente presumerà di pensare diversamente da quanto è stato da Noi definito, conosca e sappia di essere condannato dal suo proprio giudizio, di aver fatto naufragio nella fede, di essersi separato dall’unità della Chiesa, e di essere inoltre incorso da sé, «per il fatto stesso», nelle pene stabilite dalle leggi contro colui che osa manifestare oralmente o per iscritto, o in qualsiasi altro modo esterno, gli errori che pensa nel suo cuore.

Decr. S. Cgr. Indicis, 11 (15) iun. 1855.

Tesi contro il tradizionalismo di Bonnetty.

2811. 1 “Anche se la fede è al di sopra della ragione, non ci può mai essere un vero dissenso o discordia tra loro, poiché entrambe derivano da una stessa fonte di verità immutabile ed eterna, Dio buonissimo e grandssimo, e si aiutano a vicenda” (cf..2776; cfr. 3019).

2812. 2 Il ragionamento può dimostrare con certezza l’esistenza di Dio, la spiritualità dell’anima e la libertà umana. La fede viene dopo la Rivelazione, quindi non può essere usata per dimostrare l’esistenza di Dio ad un ateo, né per dimostrare la spiritualità dell’anima ragionevole e la sua libertà ai sostenitori del naturalismo e del fatalismo (cfr. 2751, 2754).

2813. 3 L’uso della ragione precede la fede e conduce l’uomo ad essa con l’aiuto della Rivelazione e della grazia (cf. 2755).

2814. 4 Il metodo usato da San Tommaso, da San Bonaventura e da altri scolastici dopo di loro, non porta al razionalismo, né è stato la causa dell’inclinazione della filosofia nelle scuole di oggi verso il naturalismo ed il panteismo. Per questo motivo non si può rimproverare a questi Dottori e maestri di utilizzare questo metodo, soprattutto con l’approvazione, almeno, dei loro maestri della Chiesa.

Istruzione del Sant’Uffizio al Vicario Apostolico del Siam, 4 luglio 1855.

Privilegio paolino.

2817. È assolutamente proibito che una donna cristiana sposi un pagano; ma se, dopo che la dispensa dalla disparità di culto sia stata ottenuta dalla Santa Sede, dovesse accadere che tale matrimonio abbia luogo, si sa che sarà indissolubile per quanto riguarda il vincolo, e che solo talvolta potrà essere sciolto per quanto riguarda il letto… Per questo motivo una donna cristiana non potrà mai contrarre un secondo matrimonio durante la vita di quest’uomo non credente, anche se è concubino.

2818. Ma se è la moglie pagana di un concubino pagano, e si converte, in questo caso, una volta fatta l’interpellanza (come sopra), se lui rifiuta di convertirsi o di convivere senza insultare il Creatore, e quindi di rinunciare al concubinato (nel quale non è certo possibile vivere senza insultare il Creatore), potrà avvalersi del privilegio concesso a favore della fede.

2819. In generale, se la conversione del coniuge ha preceduto il matrimonio con un infedele, contratto dopo la dispensa apostolica, non è assolutamente possibile usufruire del privilegio concesso a favore della fede; ma se il matrimonio ha preceduto la conversione, allora la parte che si sia convertita può usufruire di questo privilegio, a scanso di equivoci, come si è detto.

2820. Per quanto riguarda gli impedimenti dirimenti, bisogna anche considerare che l’ignoranza invincibile o la buona fede non sono sufficienti per contrarre validamente il matrimonio. Anche se a volte (ma questo deve essere considerato raramente nella pratica) questa ignoranza e questa buona fede possano scusare il peccato, mai però possono rendere valido un matrimonio che sia stato concluso nonostante un impedimento dirimente.

Enciclica del Sant’Uffizio ai Vescovi, 4 agosto 1856.

Abuso del magnetismo.

2823. Su questo tema la Santa Sede ha già dato alcune risposte in relazione a casi particolari, in cui sono stati condannati come illeciti gli esperimenti finalizzati ad uno scopo che non è quello del magnetismo. Per questo motivo è stato decretato in casi simili mercoledì 21 aprile 1841: “L’uso del magnetismo, così come viene presentato, non è lecito”. Allo stesso modo la Sacra Congregazione ha deciso di proibire alcuni libri che si ostinano a diffondere errori di questo tipo.

2824. Ma poiché era necessario andare oltre i casi particolari e trattare l’uso del magnetismo in generale, mercoledì 28 luglio 1847 fu stabilito quanto segue come regola: “Escluso ogni errore, ogni incantesimo, ogni invocazione del demonio, sia esplicita che implicita, non è moralmente proibito l’uso del magnetismo, cioè il semplice atto di usare mezzi fisici altrimenti leciti, purché non tenda ad un fine illecito o non sia deviato in alcun modo. Ma l’applicazione di principi e mezzi puramente fisici a cose ed effetti realmente soprannaturali, in modo che possano essere spiegati fisicamente, non è altro che un inganno assolutamente illecito ed eretico”.

2825. Sebbene con questo decreto generale sia stato sufficientemente spiegato il carattere lecito o illecito dell’uso o dell’abuso del magnetismo, la malizia degli uomini è aumentata a tal punto che, trascurando la lecita ricerca della conoscenza, preferiscono attaccarsi a cose strane con grande danno della loro anima ed a scapito della società civile, e che si vantano di aver acquisito un principio di magia o di divinazione. È così che donne di pochi mezzi, trascinate da gesti non sempre decorosi, si diffondono affermando che, grazie ai privilegi del sonnambulismo e di quella che chiamano chiaroveggenza, vedono ciò che è invisibile, e in questa loro temeraria impresa hanno l’ardire di lanciarsi in osservazioni sulla Religione stessa, di evocare le anime dei morti, di ricevere risposte, di rivelare cose sconosciute o remote e di indulgere in altre pratiche superstiziose di questo tipo, in modo da assicurare a se stessi e ai loro padroni un grande profitto grazie a sicure divinazioni. Ma qualunque sia l’arte o l’illusione usata in tutto questo: non appena si usano mezzi fisici per ottenere effetti che non sono naturali, siamo in presenza di un inganno assolutamente illecito ed eretico, e di uno scandalo che offende i buoni costumi.

BreveEximiam tuamall’Arcivescovo di Colonia, 15 giugno 1857.

Errori di Anton Günther.

2828. Soprattutto infatti notiamo non senza dispiacere che in queste opere predomina l’erroneo e perniciosissimo sistema del razionalismo, spesso condannato dalla Sede Apostolica; e allo stesso modo notiamo che in questi stessi libri e tra l’altro se ne possono leggere parecchi che non si discostano di poco dalla fede cattolica e da una corretta spiegazione della sostanza divina in tre Persone distinte ed eterne. Allo stesso modo abbiamo imparato che ciò che viene detto sul mistero del Verbo incarnato non sia migliore o più esatto, come dell’unità della Persona divina del Verbo in due nature, divina ed umana. Notiamo che in questi stessi libri si attacca la concezione e la dottrina cattolica sull’uomo, che è costituito da un corpo e da un’anima in modo tale che l’anima, cioè l’anima razionale, è in sé la forma vera ed immediata del corpo. E sappiamo che in questi libri ci sono insegnamenti e affermazioni che contraddicono totalmente la dottrina cattolica sulla sovrana libertà di Dio, al di là di ogni necessità, nella creazione delle cose.

2829. Dobbiamo anche condannare fermamente il fatto che nei libri di Günther la ragione umana e la filosofia, che in materia di Religione non devono dominare ma rimanere totalmente sottomesse, vengano incautamente insignite del diritto di magistero, e che per questo motivo ciò che deve rimanere ben saldo venga disturbato, sia per quanto riguarda la distinzione tra scienza e fede, sia per quanto riguarda il carattere costantemente immutabile della fede, che è sempre una e rimane la stessa, mentre la filosofia e le discipline umane non rimangono sempre identiche a se stesse, né sono esenti da una grande varietà di errori.

2830. A ciò si deve aggiungere che i Santi Padri non sono considerati con la riverenza che i Canoni dei Concili prescrivono e che queste luci più brillanti della Chiesa meritano, né ci si astiene da quei sarcasmi contro le scuole cattoliche che il nostro predecessore Pio VI, di venerata memoria, ha solennemente condannato (cf.2679).

2831. Né passeremo sotto silenzio il fatto che nei libri di Günther il sano modo di parlare è ferito al massimo, come se fosse lecito dimenticare le parole dell’Apostolo Paolo (2Tm 1,13) o quelle con cui Agostino ci ammonisce con grande fermezza: “Ma a noi conviene parlare secondo una regola precisa, per evitare che una libertà troppo grande nelle parole generi un’opinione empia sulle cose che esse designino”.

Lettera apostolicaDolore haud mediocri” al Vescovo di Breslau, 30 aprile 1860.

L’anima razionale come principio di vita dell’uomo.

2833. È stato incriminato… il fatto che Baltzer…, dopo aver ridotto l’intera controversia alla questione se il corpo possieda un principio di vita proprio, distinto in sé dall’anima razionale, sia arrivato a una tale imprudenza da definire eretica la posizione opposta, e abbia spiegato con numerose affermazioni che essa debba essere considerata tale. Questo non può che essere fortemente disapprovato, se si considera che la concezione secondo cui nell’uomo esista un unico principio di vita, cioè l’anima razionale, attraverso la quale anche il corpo riceve il suo movimento e tutta la sua vita e le sue sensazioni, è molto comune nella Chiesa di Dio, e che la maggior parte dei Dottori – e soprattutto i più approvati – la considerino talmente legata al dogma della Chiesa, che è l’interpretazione legittima e l’unica vera, e che di conseguenza non può essere negata senza errore nella fede.

Istruzione del Sant’Uffizio al Vicario Apostolico di Tche-Kiang, 1° (3°) agosto

Ricezione regolare del Battesimo

2835. Spiegazione: (Un missionario, che voglia tener conto sia del rispetto dovuto al Sacramento sia della salvezza eterna di un malato già prossimo alla morte, conferisce il Battesimo con questa condizione: “Se sei veramente disposto”, intendendo così non battezzare se non esistono le giuste disposizioni.

Domanda: questo modo di conferire il Battesimo è lecito o no?

2836. Risposta: È assodato che per ricevere regolarmente il Battesimo siano necessarie tre disposizioni in un adulto: la fede, il pentimento e l’intenzione di riceverlo. È certamente necessaria la fede, con la quale l’adulto debba essere sufficientemente istruito, nella misura della sua comprensione, sui misteri della Religione cristiana, e con la quale deɓa credere fermamente ad essi; è necessario anche il pentimento, con il quale debba provare dolore per i suoi peccati ed anche realizzare la contrizione e l’abbandono; e in terzo luogo, è necessariamente richiesta l’intenzione o la volontà di ricevere questo Sacramento, e se manca, il carattere battesimale non è impresso nell’adulto.

2837. Ora, la fede ed il pentimento sono richiesti in un adulto per ricevere il Sacramento in modo lecito e per ottenere il frutto del Sacramento; l’intenzione, invece, è richiesta per ottenerlo in modo valido, cosicché chi viene battezzato da adulto senza fede e pentimento è sì illecito, ma in modo valido, e d’altra parte chi viene battezzato senza la volontà di ricevere il Sacramento non è battezzato né lecitamente né validamente.

2838. Ciò presupposto, sarà facile riconoscere che nel caso in questione il missionario non abbia agito giustamente quando, amministrando il Battesimo ad un adulto moribondo, ha dato lo stesso valore alle disposizioni richieste per amministrare il Battesimo lecitamente e a quelle necessarie per riceverlo validamente. Infatti, se c’è qualche dubbio sul fatto che l’adulto prossimo alla morte sia sufficientemente istruito sui misteri della fede e creda sufficientemente in essi, e sul fatto che egli stesso desideri veramente ricevere il battesimo, e se dopo un esame diligente rimane ancora qualche dubbio su questa intenzione, il Battesimo deve essere conferito con questa condizione: nella misura in cui sia in grado di essere battezzato.

2839. D’altra parte, il missionario non ha agito giustamente quando, battezzando condizionatamente, ha inteso non battezzare se non ci sono le giuste disposizioni nella persona che riceve il Battesimo, perché in questo caso il missionario deve intendere battezzare solo nella misura in cui la persona che riceve il Battesimo sia capace di essere battezzata, cioè vuole riceverlo sinceramente.

Decreto del Sant’Uffizio, 18 settembre 1861.

Errori degli ontologisti.

Domanda: Si possono insegnare con certezza le seguenti proposizioni?

2841. 1. La conoscenza immediata di Dio, almeno abituale, è essenziale all’intelletto umano, tanto che non può conoscere nulla senza di essa: è infatti la luce dell’intelletto stesso.

2842. 2 Questo essere che conosciamo in tutte le cose, e senza il quale non conosciamo nulla, è l’Essere divino.

2843. 3. gli universali, considerati nella loro realtà oggettiva, non si distinguono realmente da Dio.

2844. 4. la conoscenza innata di Dio come Essere puro e semplice include in modo eminente tutte le altre conoscenze; così che, per mezzo di essa, conosciamo implicitamente tutto l’Essere sotto qualsiasi aspetto sia conoscibile.

2845. 5 Tutte le altre idee non sono altro che modificazioni dell’idea con cui Dio è conosciuto come Essere puro e semplice.

2846. 6 Le cose create sono in Dio come la parte nel tutto, non naturalmente nel tutto formale, ma nel tutto infinito, perfettamente semplice, che pone le sue parti al di fuori di sé senza divisione o diminuzione di sé.

2847. 7 La creazione può essere spiegata come segue: Dio produce la creatura con quell’atto speciale con cui comprende e vuole essere distinto da una creatura determinata, per esempio l’uomo. Censura del Sant’Uffizio: negativo.

Lettera “Gravissimas inter” all’Arcivescovo di Monaco-Frisinga. 11 dicembre 1862.

Errori di Jakob Frohschammer sulla libertà della scienza.

2850. (La Sacra Congregazione dell’Indice ha giudicato che l’autore) si allontani dalla verità cattolica. E questo soprattutto in un duplice modo, in primo luogo perché l’autore attribuisce alla ragione umana forze che non le appartengono affatto; in secondo luogo perché concede a questa stessa ragione una libertà di giudicare tutto, e sempre di osare tutto, tale da far scomparire completamente i diritti, i doveri e l’autorità della Chiesa stessa.

2851. L’autore infatti insegna in primo luogo che la filosofia, se si ha una nozione esatta di essa, possa non solo conoscere e comprendere i dogmi cristiani che la ragione naturale ha in comune con la fede (cioè come oggetto comune di conoscenza), ma anche quelli che siano principalmente e propriamente costitutivi della Religione e della fede cristiana, cioè il fine soprannaturale dell’uomo stesso e tutto ciò che lo riguardi, nonché il santissimo mistero dell’Incarnazione del Signore, siano nel dominio della ragione e della filosofia, e che la ragione, una volta dato l’oggetto, possa raggiungerli con piena cognizione di causa attraverso i suoi stessi principi. Anche se l’autore introduce una distinzione tra questi dogmi ed i primi, e se è con minor diritto che questi ultimi vengano attribuiti alla ragione, egli insegna tuttavia molto chiaramente ed apertamente che anch’essi facciano parte dei dati che costituiscono l’oggetto proprio della scienza e della filosofia.

2852. Possiamo e dobbiamo quindi concludere con l’opinione dell’autore che, anche nei misteri più nascosti della sapienza e della bontà di Dio, anche in quelli della sua libera volontà – purché sia dato l’oggetto della Rivelazione – la ragione possa da sola arrivare alla conoscenza ed alla certezza, e questo non dal principio dell’Autorità divina, ma dai suoi principi e capacità naturali. Quanto sia falsa ed erronea la dottrina di questo autore, chiunque può vedere subito…

2853. Se questi sostenitori della filosofia difendessero i veri principi e diritti della ragione e della filosofia da soli, dovrebbero ricevere un meritato elogio. Infatti, la vera e sana filosofia occupa un posto di tutto rispetto, poiché il suo compito è quello di ricercare accuratamente la verità, di addestrare con giustizia e serietà la ragione umana, oscurata senza dubbio, ma non per questo spenta per colpa del primo uomo, e di illuminarla; cogliere il suo oggetto di conoscenza ed un gran numero di verità, comprenderle bene, approfondirle e dimostrarne molte, come l’esistenza, la natura e gli attributi di Dio, che anche la fede propone di credere, con argomenti tratti da principi, giustificarli, difenderli e, in questo modo, aprire la strada affinché questi dogmi siano sostenuti più esattamente dalla fede e persino i dogmi più nascosti, che solo la fede può conoscere, possano essere compresi in un certo modo dalla ragione. Di questo deve occuparsi l’austera ma bellissima scienza della vera filosofia…

2854. Ma in questa materia importantissima non possiamo mai tollerare che tutto si confonda indistintamente, né che la ragione invada e turbi le realtà che sono nel dominio della fede, mentre ci sono confini ben precisi e perfettamente noti a tutti, oltre i quali la ragione non ha mai potuto avanzare, né può avanzare, di per sé. In particolare, questi dogmi includono chiaramente ciò che riguardi l’elevazione soprannaturale dell’uomo e la sua relazione soprannaturale con Dio, nonché ciò che venga rivelato a questo scopo. E poiché questi dogmi trascendono la natura, ne consegue che non possano essere raggiunti né dalla ragione naturale né dai principi naturali. La ragione non potrà mai essere resa capace di affrontare questi dogmi con piena cognizione di causa. Ma se alcuni osano affermare ciò in modo avventato, sappiano che non si separano dall’opinione di qualche Dottore, ma dalla dottrina comune della Chiesa, che non è mai cambiata.

2855. È infatti stabilito dalle divine Scritture e dalla tradizione dei santi Padri che l’esistenza di Dio e molte altre verità possano certamente essere conosciute alla luce della ragione naturale (Rm 1), anche da coloro che non abbiano ancora ricevuto la fede, ma che Dio solo ha rivelato i dogmi più nascosti, poiché ha voluto far conoscere il mistero che era rimasto nascosto per secoli e generazioni (Col 1,26)…

2856. … Nel trasmettere la dottrina della Chiesa, i santi Padri si sono costantemente preoccupati di distinguere la conoscenza delle realtà divine, che è comune a tutti in virtù dell’intelligenza naturale, dalla conoscenza di queste cose che si riceva per fede attraverso lo Spirito Santo, ed hanno costantemente insegnato che attraverso la fede ci vengano rivelati in Cristo quei misteri che superano non solo la filosofia umana ma anche la conoscenza naturale degli Angeli, e che, anche se sono conosciuti attraverso la Rivelazione divina e ricevuti per fede in essa, rimangono tuttavia coperti dal sacro velo della fede e da un’oscurità tenebrosa finché in questa vita mortale camminiamo lontani dal Signore.

2857. Tutto ciò dimostra che l’opinione in cui lo stesso Frohschammer non esita ad affermare che tutti i dogmi della Religione cristiana siano immediatamente oggetto della conoscenza naturale o della filosofia, e che, non appena questi dogmi siano proposti alla ragione come suo oggetto, la ragione umana, che è solo esperta di storia, sia in grado, in virtù delle sue capacità naturali e del suo principio, di arrivare ad una vera conoscenza di tutti i dogmi, compresi quelli più nascosti, è totalmente estranea alla dottrina della Chiesa cattolica (cf. 2909).

2858. Ma negli scritti di questo autore che sono stati citati prevale un’altra concezione, che è del tutto contraria alla dottrina ed al senso della Chiesa cattolica. Infatti, egli attribuisce alla filosofia una libertà che non debba essere considerata come una libertà della scienza, ma come una licenza che debba essere interamente riprovata e che non possa essere tollerata. Distinguendo tra filosofo e filosofia, egli dà al filosofo il diritto ed il dovere di sottomettersi ad un’autorità che egli stesso ha riconosciuto come vera, ma nega entrambe le cose alla filosofia in quanto afferma, senza tener conto della dottrina rivelata, che quest’ultima non possa e non debba mai sottomettersi ad un’autorità.

2859. Questo sarebbe tollerabile e forse ammissibile se si parlasse solo del diritto che la filosofia ha di fare uso dei suoi principi e metodi e delle sue conclusioni, come fanno anche le altre scienze, e se la sua libertà consistesse nell’usare questo diritto nel senso che non ammetterebbe in sé nulla che non sia stato acquisito da essa stessa secondo le proprie condizioni o che le sia estraneo. Ma questa giusta libertà della filosofia deve riconoscere e verificare i suoi limiti. Infatti, non solo al filosofo, ma anche alla filosofia, non sarà mai permesso né di dire qualcosa che sia contrario a ciò che insegnino la Rivelazione divina e la Chiesa, né di mettere in dubbio qualcosa perché non la comprenda, né di rifiutare un giudizio che l’autorità della Chiesa abbia deciso di dare su una conclusione della filosofia.

2860. A ciò si aggiunga che lo stesso autore difende la libertà della filosofia, o meglio la sua libertà senza limiti, in modo così vivace e spregiudicato che non teme di affermare che la Chiesa non solo non debba mai biasimare la filosofia, ma che debba addirittura tollerare gli errori della filosofia e lasciarla libera di correggersi da sola (cf. 2911), da cui consegue che i filosofi partecipano necessariamente a questa libertà, e che per questo siano essi stessi liberati da ogni legge…

2861. Ecco perché, in virtù del potere conferitole dal suo divino fondatore, la Chiesa ha non solo il diritto, ma soprattutto il dovere non di tollerare, ma di proibire gli errori, quando lo richiedano l’integrità della fede e la salvezza delle anime, ed è dovere di ogni filosofo che voglia essere figlio della Chiesa, e anche della filosofia, non dire mai nulla contro ciò che la Chiesa insegni, e ritrattare tutto ciò su cui abbia ricevuto una monizione. D’altra parte, affermiamo e dichiariamo che la concezione che insegna il contrario sia totalmente errata, e che fa il massimo torto alla fede stessa, alla Chiesa ed alla sua autorità.

Enciclica “Quanto conficiamur mœrore” ai Vescovi d’Italia, 10 agosto 1863

Indifferentismo.

2865. Ancora una volta dobbiamo menzionare e biasimare il gravissimo errore in cui, purtroppo, si trovano alcuni cattolici, che pensano che uomini che vivono nell’errore e lontani dalla vera fede e dall’unità cattolica possano ottenere la vita eterna (cf. 2917). Questo è contrario in sommo grado alla dottrina cattolica.

2866. Sappiamo, come voi, che coloro che soffrono di un’ignoranza invincibile riguardo alla nostra santissima Religione, osservando attentamente la legge naturale e i suoi precetti, incisi da Dio nei cuori di tutti, e che siano disposti a obbedire a Dio ed a condurre così una vita onesta e retta, possono, con l’aiuto della luce e della grazia divine, acquisire la vita eterna. Infatti Dio, che vede, scruta e conosce perfettamente gli spiriti, le anime, i pensieri e le qualità di tutti, nella sua grandissima bontà e pazienza, non permette che qualcuno sia punito con i tormenti eterni senza che sia colpevole di qualche colpa intenzionale.

2867. Ma conosciamo perfettamente anche il dogma cattolico, e cioè che al di fuori della Chiesa cattolica nessuno possa salvarsi, e che non possano ottenere la salvezza eterna coloro che siano ribelli all’Autorità di questa stessa Chiesa ed alle sue definizioni, e che sono ostinatamente separati dall’unità di questa Chiesa e dal Romano Pontefice, successore di Pietro, al quale è stato affidato il governo e la cura della vigna.

Lettera “Tuas libenter” all’Arcivescovo di Monaco-Freising, 21 dicembre 1863

Sottomissione al Magistero della Chiesa.

2875. Abbiamo appreso… che alcuni dei Cattolici che si dedicano allo studio delle scienze più elevate, troppo fiduciosi nei poteri della mente umana, non anniano temuto che, affermando una libertà della scienza spuria e per nulla autentica, i pericoli dell’errore li avrebbero portati oltre i limiti che l’obbedienza dovuta al Magistero della Chiesa, istituito per custodire l’interezza di tutta la verità rivelata, non consenta. Il risultato è che i Cattolici, purtroppo così ingannati, si trovino spesso d’accordo con coloro che inveiscono contro i decreti di questa Sede Apostolica e delle nostre Congregazioni, affermando che essi ostacolano il libero progresso della scienza (cf. 2912), e si espongono al pericolo di rompere quei vincoli di obbedienza con i quali, per volontà di Dio, sono legati a questa stessa Sede Apostolica che è stata istituita da Dio stesso come maestro e protettore della verità.

2876. Non ignoriamo neppure che in Germania si è sviluppata una falsa opinione contro l’antica scuola e contro la dottrina di quegli eminenti dottori (cf. 2912) che la Chiesa universale venera per la loro mirabile sapienza e la santità della loro vita. Con questa falsa opinione si mette in dubbio l’autorità della Chiesa stessa, che non solo ha permesso per secoli che la scienza teologica fosse coltivata secondo il metodo di questi Dottori e secondo i principi sanciti dal consenso riconosciuto di tutte le scuole cattoliche, ma ha anche molto spesso elogiato la loro dottrina teologica e l’ha raccomandata con forza come il più forte baluardo della fede ed un’arma formidabile contro i suoi nemici. …

2877. Poiché, tuttavia, tutti gli uomini di questo Congresso… hanno affermato che il progresso della scienza ed il buon successo nello sforzo di evitare e confutare gli errori del nostro triste tempo dipendano interamente dall’adesione interiore alle verità rivelate insegnate dalla Chiesa Cattolica, essi stessi hanno riconosciuto e professato questa verità che i veri Cattolici, che si sono dedicati all’elaborazione ed allo sviluppo della scienza, hanno sempre sostenuto e tramandato. Ed è sulla base di questa verità che questi uomini colti e veramente cattolici hanno potuto sviluppare queste scienze in modo sicuro, spiegarle e renderle utili e certe. Ma questo non si può ottenere se la luce della ragione umana, circoscritta da limiti, anche quando esplora le verità che possa raggiungere con le proprie forze e facoltà, non veneri al massimo grado, come dovrebbe, la luce infallibile ed increata dell’Jntelligenza divina che risplende così mirabilmente ovunque nella Rivelazione divina. Infatti, sebbene queste discipline naturali si basino su principi propri riconosciuti dalla ragione, i Cattolici che le coltivano devono comunque avere davanti agli occhi la Rivelazione divina come stella polare, affinché, illuminati da essa, si guardino dalle insidie e dagli errori quando, nelle loro ricerche e riflessioni, si accorgano di essere portati, come molto spesso accade, ad affermare ciò che contraddica più o meno la verità infallibile delle cose rivelate da Dio.

2878. Per questo non vogliamo dubitare che gli uomini di questo Congresso, poiché riconoscano e professino questa verità, abbiano voluto, proprio in questo momento, respingere e riprovare questo recente e distorto modo di fare filosofia che, pur ammettendo la Rivelazione divina come fatto storico, tuttavia subordina le verità ineffabili proposte dalla stessa Rivelazione divina ad una verità più o meno infallibile, alle indagini della ragione umana, come se queste verità fossero soggette alla ragione, o se la ragione, con i suoi poteri ed i suoi principi, potesse arrivare a conoscere e a comprendere tutte le verità della nostra santissima fede, che sono così al di sopra della ragione che la ragione non potrà mai essere resa capace di comprenderle o di dimostrarle con i suoi principi naturali (cf. 2909).

2879. Vogliamo persuaderci che essi non abbiano voluto che l’obbligo a cui sono totalmente soggetti i maestri e gli scrittori cattolici, si limitasse unicamente a quegli argomenti che il giudizio infallibile della Chiesa propone a tutti di credere come dogmi di fede (cf. 2922). È anche nostra convinzione che essi non abbiano voluto dichiarare che questa perfetta adesione alle verità rivelate, che hanno riconosciuto come assolutamente necessaria per il vero progresso della scienza e per la confutazione degli errori, possa essere ottenuta accontentandosi di concedere fede e rispetto a tutti i dogmi espressamente definiti dalla Chiesa. Infatti, anche se questa fosse la missione che deve essere manifestata dall’atto di fede divina, essa non può limitarsi a ciò che sia stato definito dalla Chiesa. Essa non può limitarsi a ciò che sia stato definito dai decreti espliciti dei Concili Ecumenici o dei Romani Pontefici di questa Sede Apostolica, ma debba estendersi anche a ciò che il Magistero ordinario di tutta la Chiesa diffusa nell’universo trasmette come divinamente rivelato e, di conseguenza, che sia ritenuto da un consenso unanime e universale dei teologi cattolici, come appartenente alla fede.

2880. Ma quando si tratta di questa sottomissione che obbliga in coscienza tutti i Cattolici che si dedicano alle scienze della mente, a rendere nuovi servizi alla Chiesa con i loro scritti, i membri di questo congresso devono riconoscere che non sia assolutamente sufficiente che gli studiosi cattolici ricevano e riveriscano i dogmi della Chiesa di cui abbiamo parlato, ma che sia anche necessario sottomettersi alle decisioni di dottrina decretate dalle Congregazioni pontificie, così come ai punti di dottrina che il consenso comune e costante dei Cattolici considera verità teologiche e conclusioni così certe che le opinioni contrarie ad esse, anche se non possano essere chiamate eretiche, meritano comunque qualche censura teologica.

Lettera del Sant’Uffizio ai Vescovi d’Inghilterra, 16 settembre 1864.

L’unità della Chiesa.

2885. (L’Associazione per la Promozione della Riunificazione del Cristianesimo eretta a Londra nel 1857) professa espressamente che tre comunità cristiane, la Cattolica Romana, la greco-sciamatica e l’anglicana, sebbene separate e divise tra loro, rivendichino con lo stesso diritto per sé il nome di Cattolica. L’accesso ad esso è quindi aperto a tutti, ovunque vivano, siano essi Cattolici, greco-scismatici o anglicani, a questa condizione però che a nessuno sia permesso di discutere sui vari capitoli di dottrina che li dividono, e che ognuno sia libero di conformarsi in tutta tranquillità ai principi della propria confessione religiosa. Tuttavia, chiede a tutti i suoi membri di recitare preghiere e ai Sacerdoti di celebrare sacrifici secondo la sua intenzione: cioè che le tre comunioni cristiane, che, come si suggerisce, costituiscono tutte insieme la Chiesa cattolica, possano finalmente riunirsi per formare un unico corpo. …

2886. Il fondamento su cui si basa questa associazione è tale da rovesciare completamente la costituzione divina della Chiesa. Essa presuppone essenzialmente che la vera Chiesa di Gesù Cristo sia composta in parte dalla Chiesa romana, diffusa ed estesa in tutto il mondo, e in parte dallo scisma di Fozio e dall’eresia anglicana, per la quale, proprio come per la Chiesa romana, c’è “un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” (Ef IV,5).

2887. Sicuramente nulla dovrebbe stare più a cuore ad un Cattolico che vedere la radicale soppressione degli scismi e delle discordie tra i Cristiani, e in tutti i Cristiani la “preoccupazione di conservare l’unità dello Spirito nel vincolo della pace” (Ef IV, 3)… Ma che i fedeli e gli ecclesiastici preghino per l’unità dei Cristiani sotto la guida di eretici e, quel che è peggio, con un’intenzione profondamente contaminata e infettata dall’eresia, non può essere in alcun modo tollerato.

2888. La vera Chiesa di Cristo è costituita dall’Autorità divina e riconosciuta da quattro note che, nel Credo, affermiamo essere credute. Ognuna di queste note è così intimamente unita alle altre che non può essere separata da esse. Da ciò consegue che la Chiesa veramente cattolica e chiamata tale deve manifestare allo stesso tempo le prerogative di unità, santità e successione apostolica. La Chiesa Cattolica è dunque una, con una notevole e perfetta unità in tutto il mondo e tra tutte le nazioni, un’unità il cui principio, la cui radice e la cui origine indefettibile sono Pietro, la casa degli Apostoli, l’autorità sovrana dei suoi successori sulla cattedra di Roma e la sua “origine superiore”. Non c’è altra Chiesa Cattolica se non quella costruita su Pietro, in un corpo unito e riunito, (Ef IV,16) che sta nell’unità della fede e della carità.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (35): “PIO IX, 1864-1868”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (33): “da PIO VII a PIO IX (1846-1851)”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (33)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(da PIO VII a PIO IX, 1846- 1851)

Pio VII: 14 marzo 1800-20 agosto 1823

Breve “Etsi fraternitatis” all’Arcivescovo di Magonza, 8 ottobre 1803.

Il tentativo di sciogliere un Matrimonio.

2705 . Risposta del Sommo Pontefice ad alcune domande: Condanna da parte di corti e tribunali laici.

I Cattolici che, in particolare, dichiarano nulli i matrimoni e tentano di sciogliere il legame tra loro, non possono avere alcun valore o portata davanti alla Chiesa. …

2706. È una colpa molto grave e un tradimento del loro sacro ministero che i parroci approvino questi matrimoni con la loro presenza e li confermino con la loro benedizione. Inoltre, non dovrebbero essere chiamati Matrimoni, ma piuttosto unioni adulterine. …

LETTERA “Magno et acerbo” all’Arcivescovo di Moghilev, 3 settembre 1816.

Traduzione della Bibbia.

2710. Avreste dovuto… avere davanti agli occhi… “che se la Sacra Bibbia viene ammessa ovunque nella lingua volgare, senza discriminazioni, ne deriverà più danno che bene” (cf. 1854). Poiché, inoltre, in virtù della nota prescrizione del Concilio di Trento (cf. 1506), la Chiesa romana riconosce solo l’edizione della Vulgata, rifiuta le traduzioni in altre lingue e ammette solo quelle redatte con annotazioni tratte opportunamente dagli scritti dei Padri e dei Dottori cattolici, affinché un così grande tesoro non sia aperto alle concezioni degli innovatori e la Chiesa diffusa in tutto il mondo usi la stessa lingua e le stesse parole (Gn XI,1 ).

2711. Poiché, infatti, troviamo molte differenze, diversità e cambiamenti nella lingua volgare, una libertà sfrenata nelle traduzioni della Bibbia minerebbe di fatto quell’immutabilità che è la caratteristica della testimonianza divina, e la fede stessa vacillerebbe, soprattutto perché a volte una sola sillaba decide della verità di un dogma. Ecco perché, nelle loro bieche e abominevoli macchinazioni, gli eretici erano soliti pubblicare Bibbie in lingua volgare (la cui stupefacente diversità e le cui contraddizioni, tuttavia, li spingono ad accusarsi e a dilaniarsi a vicenda), cercando di imporre subdolamente i rispettivi errori ammantandoli della più santa magnificenza della Parola divina. “Le eresie, infatti,” dice Agostino “traggono la loro origine dal semplice fatto che le Scritture, che sono buone, non sono rettamente comprese, e che ciò che non è stato rettamente compreso in esse viene inoltre affermato in modo audace e avventato”. E se siamo afflitti dal fatto che non di rado uomini stimati per la loro pietà e saggezza hanno fallito nell’interpretazione delle Scritture, cosa non dovremmo temere se le Scritture tradotte in una qualsiasi lingua volgare fossero lasciate alla libera lettura del comune ignorante, che il più delle volte non giudica in virtù di una scelta, ma in virtù di una certa temerarietà”.

2712. (Si fa poi riferimento alla famosa lettera di Innocenzo III ai fedeli della Chiesa di Metz: “I misteri nascosti della fede… per non essere pretenziosi”: )771 Ma conosciamo bene le costituzioni non solo di Innocenzo III, appena citato, ma anche di Pio V, Clemente VIII e Benedetto XIV… . Quanto a ciò che la Chiesa pensa della lettura e dell’interpretazione delle Scritture, la vostra fraternità lo troverà molto chiaramente nella famosissima costituzione Unigenitus dell’altro nostro predecessore, Clemente XI, in cui queste dottrine sono state esplicitamente riprovate, affermando che è utile e necessaria in ogni tempo, in tutti i luoghi e a tutti i tipi di persone conoscere i misteri della Sacra Scrittura – la cui lettura si affermava essere per tutti – e che è dannoso escludere il popolo cristiano da essa, e che, inoltre, è chiudere la bocca di Cristo ai fedeli strappando loro dalle mani il Nuovo Testamento v. 2479-2485.

Risposta della Sacra Penitenzieria: 23 aprile 1822.

L’uso onanistico del matrimonio.

2715. Domanda: Può una pia moglie permettere al marito di avvicinarsi a lei quando sa per esperienza che egli si comporta nel modo infame di Onan…, soprattutto se la moglie rifiutandosi si espone al rischio di abusi o teme che il marito vada a prostitute? Risposta: Dato che in questo caso la moglie, da parte sua, non sta facendo nulla contro natura e sta compiendo una cosa lecita, e che tutto il disordine dell’atto deriva dalla malizia dell’uomo che, invece di consumare l’atto, si ritira e si riversa fuori dal recipiente, quando, dopo le opportune ammonizioni, la donna non ottiene nulla e l’uomo persiste, minacciando morte, percosse o altri gravi danni, ella può (come insegnano i medici provati) abbandonarsi passivamente senza peccare, perché in queste condizioni non fa altro che permettere il peccato del marito, e questo per un grave motivo che la giustifica; perché l’amore con cui sarebbe tenuta a impedirlo non la obbliga se include un tale danno.

Breve “Adorabile Eucharistiae” al Patriarca di Antiochia e ai Vescovi dei Greci Melchiti, 8 maggio 1822.

Inefficacia dell’Epiclesi per la Consacrazione.

2718. (Una grande causa di dolore e di paura è stata causata da coloro che diffondono) questa nuova opinione, sostenuta dagli scismatici, che insegna che la forma con cui si compie questo sacramento vivificante… non consiste nelle sole parole di Gesù Cristo, che sia i sacerdoti latini che quelli greci usano durante la consacrazione, ma che, affinché la consacrazione sia perfetta e completa, è necessario aggiungere questa formula di preghiera, che nel nostro caso precede le parole citate, ma che nella vostra liturgia le segue… In virtù della santa obbedienza… prescriviamo… che non abbiano più l’ardire di ritenere che, per questa mirabile conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo Sangue, sia necessario che, oltre alle parole di Cristo, si reciti anche questa formula di preghiera ecclesiastica, che abbiamo già citato più volte…

LEONE XII: 28 settembre 1823-10 febbraio 1829.

Enciclica “Ubi primum” 5 maggio 1824.

Indifferentismo.

2720. (Una certa setta) che si presenta sotto un’accattivante apparenza di pietà e di liberalità, professa e propugna il tollerantismo (così dicono) o l’indifferentismo, non solo in campo civile, di cui qui non parliamo, ma anche in campo religioso, insegnando che è stata data da Dio a ciascuno un’ampia libertà, che permette a ciascuno di abbracciare o adottare, senza pericolo per la sua salvezza, la setta o l’opinione che gli conviene secondo il suo giudizio privato. (Si fa riferimento, contro questo, a Rm. XVI,17 s.).

Pio VIII: 31 marzo 1829-30 Novembre 1830.

Risposta S. Pontef. al Vescovo di Rennes, 18 agosto 1830.

Usura.

2722. Expos.: (I confessori non sono d’accordo) sul tema del guadagno ottenuto con il denaro prestato agli uomini d’affari per il loro beneficio. Il significato dell’enciclica Vix pervenit (cfr. 2546-2550) è stato oggetto di un acceso dibattito. Da una parte e dall’altra sono state addotte ragioni a sostegno della posizione sostenuta: a favore o contro un guadagno di questo tipo. Il risultato sono liti, dissensi, rifiuto dei sacramenti per la maggior parte degli imprenditori che cercano di arricchirsi in questo modo, e innumerevoli danni alle anime.

2723. Per evitare danni alle anime, alcuni confessori credono di poter mantenere una via di mezzo tra le due posizioni. Quando qualcuno li consulta per un guadagno di questo tipo, cercano di dissuaderlo. Se il penitente persevera nell’intenzione di prestare denaro agli uomini d’affari e obietta che la posizione a favore di tale prestito ha molti sostenitori, e inoltre che non è stata condannata dalla Santa Sede, che non è stata consultata una sola volta sull’argomento, In questo caso i confessori chiedono al penitente di promettere che si sottometterà con filiale obbedienza al giudizio del Sommo Pontefice, se si pronuncerà, qualunque esso sia, e se ottengono questa promessa, non rifiutano l’assoluzione, anche se ritengono più probabile la posizione contraria a tale prestito. Se il penitente non confessa nulla riguardo a un guadagno che ha origine da tale prestito e appare in buona fede, questi confessori, anche se sanno altrimenti che tale guadagno è stato ricevuto e continua a essere ricevuto, gli danno l’assoluzione senza averlo interrogato al riguardo, quando temono che il penitente, se avvertito di dover restituire tale guadagno o rinunciarvi, si rifiuterebbe di farlo.

2724. Domande: 1. Può egli (il Vescovo) approvare il modo di fare di questi ultimi confessori? 2. Quando altri confessori più rigorosi si rivolgono a lui per un consiglio, può esortarli a seguire il modo di fare dei primi fino a quando la Santa Sede non emetterà un giudizio esplicito sulla questione?

Risposta del Sommo Pontefice: Per 1: Non devono preoccuparsi. – Per 2: La risposta è al punto 1.

GREGORIO XVI; 2 febbraio 183l – 1 giugno 1846.

Risposta della Sacra Penitenzieria all’Arcivescovo di Besançon, 5 luglio 1831.

2725. Risposta S. Penitenziera all’Arcivescovo di Besançon.

L’Autorità di S. Alfonso Maria dei Liguori nella morale.

L’Arcivescovo di Besancon desidera chiarimenti sulla dottrina morale di S. Alfonso, insegnata nelle sue diocesi, se sia lassa, pericolosa per la salvezza e contraria alla sana dottrina. Propone due dubbi da risolvere:

2726. 1. Secondo l’opinione di qualche professore di teologia che si è avvalso della teologia morale di S. Alfonso, può essere seguito tutto ed avvalersene?

2727. 2. Non conoscendo accuratamente la dottrina del beato Dottore, esistendo diverse opinioni, si può stimare prudentemente che questa dottrina, che non abbia ricevuto censure, sia sana e non abbia nulla di contrario alla santità evangelica?

(Risposta) 22 lug, 183. Alla 1.: Affermativa, essendo opinione seguita da scrittori approvati da Servi di Dio. Alla 2.: Negativa, essendo nella mente della Santa Sede l’approvazione degli scritti del Servo di Dio per la causa della Canonizzazione.

Ep. Encic.”Mirari vos”, 15 Agos. 1832.

L’indifferentismo ed il razionalismo.

1730. Veniamo ora ad un’altra sorgente trabocchevole dei mali, da cui piangiamo afflitta presentemente la Chiesa: vogliamo dire l’indifferentismo ossia quella perversa opinione che per fraudolenta opera degl’increduli si dilatò in ogni parte, e secondo la quale si possa in qualunque professione di Fede conseguire l’eterna salvezza dell’anima se i costumi si conformano alla norma del retto e dell’onesto…. da questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscien.

2731. Errore velenosissimo, a cui apre il sentiero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato, non mancando chi osi vantare con impudenza sfrontata provenire da siffatta licenza qualche vantaggio alla Religione.

1731. Da questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo, a cui apre il sentiero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato, non mancando chi osa vantare con impudenza sfrontata provenire da siffatta licenza qualche vantaggio alla Religione. «Ma qual morte peggiore può darsi all’anima della libertà dell’errore?» esclamava Sant’Agostino [Ep. 166].

2732. Abbracciando con paterno affetto coloro che si applicano agli studi filosofici, e più ancora alle sacre discipline, inculcate loro premurosamente che si guardino dal fidarsi delle sole forze del proprio ingegno per non lasciare il sentiero della verità e prendere imprudentemente quello degli empi. Si ricordino che Dio «è il duce della sapienza e il perfezionatore dei sapienti» (Sap VII,15), e che non può mai avvenire che senza Dio conosciamo Dio, il quale per mezzo del Verbo insegna agli uomini a conoscere Dio [S. Ireneo, lib. 14, cap. 10].

Breve “Sum acerbissimas”, 26 sett. 1835.

Errori di Giorgio Hermes.

2738. … costoro infatti, con peregrine e riprovevoli dottrine, contaminano i sacri studi, e per di più non esitano a profanare il pubblico Magistero docente se insegnano in scuole ed accademie, e si distinguono nell’adulterare lo stesso sacrosanto deposito della fede che si vantano di custodire. Tra i maestri di tali errori si annovera per fama costante, diffusa in Germania, Giorgio Hermes che, deflettendo audacemente dalla retta via che tracciarono l’universale tradizione ed i Santi Padri, nell’esporre e difendere le verità della fede, anzi superbamente disprezzandola e condannandola, apre un’altra tenebrosa via all’errore di qualsiasi genere. Egli pone nel dubbio positivo la base di ogni ricerca teologica, e stabilisce che nella ragione consista la norma principale, l’unico mezzo con il quale l’uomo posasa conseguire la conoscenza delle verità soprannaturali.

2739. … essi [i Cardinali incaricati] giudicarono che l’autore si perdeva nelle sue meditazioni, e nelle opere citate metteva insieme parecchie assurdità, estranee alla dottrina della Chiesa Cattolica: in particolare, circa la natura della fede e la norma di quanto sia oggetto di fede secondo la sacra Sscrittura, la tradizione, la rivelazione e il Magistero della Chiesa; circa i motivi di credibilità; circa gli argomenti coi quali si era soliti fondare e confermare l’esistenza di Dio; circa l’essenza, la santità, la giustizia, la libertà dello stesso Dio e il fine delle Sue opere che dai teologi sono chiamate «ad extra»; inoltre, circa la necessità della grazia e la ripartizione dei suoi doni; circa l’attribuzione dei premi e delle pene; circa la condizione dei progenitori, il peccato originale e le forze dell’uomo caduto.

2740. I Cardinali decisero che tali libri fossero da proibire e da condannare in quanto contenenti dottrine e proposizioni false, temerarie, capziose, tali da indurre allo scetticismo e all’indifferentismo, erronee, scandalose, offensive verso le scuole cattoliche, eversive della divina fede, in odore di eresia e contenenti altre dottrine già condannate dalla Chiesa.

Resp. S. Officio al Vescovo di Nizza. 17 luglio 1838.

L’usura.

2743. Domanda (9 settembre 1837): I penitenti che, sulla base di un titolo legale, abbiano ottenuto un modesto guadagno da un prestito e che dubitano in coscienza o hanno cattiva coscienza, possono ricevere l’assoluzione sacramentale senza essere obbligati a restituirlo, purché almeno provino un sincero dolore per il peccato che hanno commesso nel dubbio o con cattiva coscienza, e siano disposti a conformarsi con fedele obbedienza ai comandi della Santa Sede?
Risposta: Sì, almeno nella misura in cui siano disposti a conformarsi ai comandamenti della Santa Sede.

Cost. “In supremo apostolatus fastigio”, 3 dicembre 1839.

2745. … abbiamo ritenuto essere compito della Nostra pastorale sollecitudine adoperarci per distogliere completamente i fedeli dall’indegno mercato dei Neri e di qualsiasi altro essere umano… Numerosi Pontefici di venerata memoria, Nostri Predecessori, come doverosa opera del loro ministero non tralasciarono mai di condannare tale delitto, contrario alla salvezza spirituale di chi lo compie, e disonorevole per il nome Cristiano, prevedendo che le tribù degl’infedeli si sarebbero confermate sempre più nell’odio contro la vera Nostra Religione.

2746. Questi interventi e queste sanzioni dei Nostri Predecessori giovarono non poco, con l’aiuto di Dio, agli Indiani e agli altri predetti per difenderli dalla crudeltà e dalla cupidigia degli invadenti, ossia dei mercanti cristiani, ma non abbastanza per far sì che questa Santa Sede potesse rallegrarsi del pieno esito dei suoi sforzi in questo settore; così che la tratta dei Negri, benché sia notevolmente diminuita in molte parti, tuttavia è ancora esercitata da numerosi cristiani. Per tale ragione Noi, volendo far scomparire detto crimine da tutte le terre cristiane, dopo aver considerato maturamente la cosa, utilizzando anche il consiglio dei Nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa, seguendo le orme dei Nostri Predecessori, con la Nostra Apostolica autorità ammoniamo e scongiuriamo energicamente nel Signore tutti i fedeli cristiani di ogni condizione a che nessuno, d’ora innanzi, ardisca usar violenza o spogliare dei suoi beni o ridurre chicchessia in schiavitù, o prestare aiuto o favore a coloro che commettono tali delitti o vogliono esercitare quell’indegno commercio con il quale i Negri vengono ridotti in schiavitù, quasi non fossero esseri umani, ma puri e semplici animali, senza alcuna distinzione, contro tutti i diritti di giustizia e di umanità, destinandoli talora a lavori durissimi. Inoltre, chi propone una speranza di guadagno ai primi razziatori di Negri, provoca anche rivolte e perpetue guerre nelle loro regioni. Noi, ritenendo indegne del nome cristiano queste atrocità, le condanniamo con la Nostra Apostolica autorità: proibiamo e vietiamo con la stessa autorità a qualsiasi ecclesiastico o laico di difendere come lecita la tratta dei Negri, per qualsiasi scopo o pretesto camuffato, e di presumere d’insegnare altrimenti in qualsiasi modo, pubblicamente o privatamente, contro ciò che con questa Nostra lettera apostolica abbiamo dichiarato.

Resp. S. Congr. Indulgentiarum, 28 lug. 1840-

2750. (Domanda): Se l’indulgenza annessa all’altare privilegiato debba essere intesa come indulgenza plenaria liberante l’anima da ogni pena del purgatorio o come indulgenza applicata secondo il beneplacito della divina misericordia?

(Risposta).: Per l’indulgenza annessa all’altare privilegiato, se la mente del concedente è l’uso della potestà delle chiavi, si intende essere l’indulgenza plenaria che libera subito dalle pene del Purgatorio; Secondo, tuttavia, l’applicazione dell’effetto, è da intendere che l’indulgenza risponda applicazione deve essere un’indulgenza, la cui misura corrisponde alla misura del beneplacito ed accettazione divina.

Tesi sottoscritte al suo Vescovo, da Ludovico Eugenio Beautain, 8 sett. 1840.

2751. Il ragionamento può provare con certezza l’esistenza di Dio e l’infinità delle sue perfezioni [!]. – La fede, dono del cielo, suppone la rivelazione; essa dunque non può essere convenientemente invocata nei confronti di un ateo come prova dell’esistenza di Dio (cf. 2812).

2752. La divinità della rivelazione mosaica si prova con certezza con la tradizione scritta ed orale della sinagoga e del Cristianesimo.

2753. La prova della (rivelazione cristiana) derivata dai miracoli di Gesù Cristo, sensibile ed evidente per i testimoni oculari, non ha perduto la sua forza ed il suo splendore davanti alle generazioni successive. Noi troviamo queste prove con ogni certezza nell’autenticità del nuovo Testamento [!], nella tradizione orale e scritta di tutti i Cristiani. È per questa doppia tradizione che noi dobbiamo dimostrarla all’incredulità che la rigetta o a coloro che senza ammetterla ancora, la desiderano.

2754. Non si ha il diritto di attendere da un incredulo che egli ammetta la resurrezione del Nostro Salvatore, prima di avergliene somministrate le pro certe; e queste prove sono dedotte dalla stessa tradizione con il ragionamento.

2755. su queste diverse questioni, la ragione precede la fede e ci deve condurvi. [L’uso della ragione precede la fede e vi conduce l’uomo con la rivelazione e la grazia] (cf- 2813)

2756. Per quanto debole ed oscura sia divenuta la ragione a causa del peccato originale, le resta ancora molta chiarezza e forza per guidarci con certezza all’esistenza di Dio, alla rivelazione fatta a ai Giudei da Mosè, ed ai Cristiani dal nostro adorabile Uomo-Dio [La  ragione può provare con certezza l’autenticità della rivelazione fatta ai Giudei da Mosè ed ai Cristiani da Gesù Cristo].

Resp. S. Penitenziaria, 8 giugno 1842. Diretto al Vescovo di Le Mans.

L’uso onanistico del matrimonio.

2758. Domande: 1) I coniugi che usano il matrimonio in modo da impedire il concepimento commettono un atto di per sé moralmente sbagliato?

2759. 2) Se l’atto deve essere considerato moralmente cattivo, i coniugi che non se ne accusano possono essere considerati in quella buona fede che giustifica il peccato grave?

2760. 3) Dobbiamo approvare il modo di fare dei confessori che, per non ferire i coniugi, non li interrogano sul modo in cui usano i diritti del matrimonio? …

Risposta: 1) Dato che tutto il disordine dell’atto deriva dalla malizia dell’uomo che, invece di consumare l’atto, si ritira ed effonde extra vas, non appena dopo le opportune ammonizioni la donna non ottiene nulla e l’uomo persiste minacciando colpi o la morte, essa può, come insegnano i dottori provati, semplicemente lasciarlo fare senza peccato, e questo per un grave motivo che la giustifica; perché l’amore con cui è tenuta a impedirlo non la obbliga se include un tale danno. …

Per i punti 2) e 3)… il confessore si ricordi di questo adagio: le cose sante devono essere trattate con santità; e consideri anche le parole di Sant’Alfonso Liguori, uomo dotto e molto esperto in queste materie, che nella Praxis confessariorum, (cap. I) Par. IV, n. 41: “Per quanto riguarda i peccati dei coniugi relativi al dovere coniugale, il confessore non è tenuto ad interrogare nel dialogo ordinario, e questo non è opportuno, se non per le mogli – e questo nel modo più riservato – per sapere se lo hanno adempiuto. Per il resto, che taccia, a meno che non venga interrogato. E non manchi di consultare altri autori comprovati.

Resp. S. Officii, 14 sett, 1842

La Materia dell’unzione degli infermi.

2762. Dom.: In caso di necessità, può il parroco, per validare l’Estrema Unzione, benedire da sé l’olio?

Risp. Negativo.

2763. Propos.: Si può validamente amministrare il Sacramento dell’Estrema Unzione con l’olio non consacrato con la benedizione episcopale.

Dichiar. S. Officio: proposizione temeraria e prossima all’errore.

Tesi sottoscritte da Ludovico Eugenio Bautain, su mandato S. Congreg. dei Vescovi e dei Religiosi. 26 aprile 1844.

La dimostrazione della Religione cristiana e l’indifferenza verso le forme di governo civile.

2765… Noi promettiamo oggi e per l’avvenire:

1. … di non insegnare mai che con le sole luci della retta ragione, fatta astrazione dalla rivelazione divina, si possa dare una vera dimostrazione dell’esistenza di Dio;

2766. 2. che con la sola ragione non si possa dimostrare la spiritualità e l’immortalità dell’anima, o ogni altra verità puramente naturale, razionale o morale;

2767. 3. che con la sola ragione non si possa avere la scienza dei principi o della metafisica, come delle verità che ne dipendono, come scienza affatto distinta dalla teologia soprannaturale che non si fondi sulla rivelazione divina;

2768. 4. che la ragione non possa acquistare una vera e piena certezza dei motivi di credibilità, cioè di quei motivi che rendono credibile la rivelazione divina, come sono specialmente i miracoli e le profezie, e particolarmente la Resurrezione di Gesù-Cristo.

2769. 5. Che la Religione cristiana non possa adattarsi ad ogni forma legittima di governo politico, restando sempre la medesima religione cristiana e cattolica, completamente indifferente a tutte le forme di regime politico, non favorendo l’uno più che l’altro, ed non escludendone alcuno.

Lettera Enciclica “Inter precipuas machinationes” 8 maggio 1844.

Le versioni della s. Scrittura.

2771. Neppure ignorate quanta diligenza e quanta sapienza siano necessarie nel tradurre fedelmente in altra lingua le parole del Signore; onde nulla di più facile che, o per ignoranza, o per frode di tanti interpreti, s’insinuino gravissimi errori nelle innumerevoli versioni delle Società Bibliche: errori che per la loro moltitudine e varietà restano nascosti a lungo, a danno di molti. A queste Società Bibliche non importa un gran che se coloro che leggono la Bibbia nelle diverse traduzioni cadono in diversi errori, purché a poco a poco acquistino l’abitudine d’interpretare il senso delle Scritture secondo il proprio giudizio, disprezzando le divine tradizioni custodite nella Chiesa Cattolica secondo l’insegnamento dei Padri, anzi rigettando lo stesso magistero ecclesiastico.

2772. Pertanto, nelle regole scritte dai Padri del Concilio Tridentino a ciò delegati, approvate da Pio IV di felice memoria, Nostro Predecessore [In Constit. Dominici gregis XXIV martii MDLXIV] e premesse all’Indice dei libri proibiti, con disposizione generale fu stabilito che la Bibbia nella lingua volgare non venisse permessa se non a coloro ai quali la lettura potesse recare qualche «profitto della fede e della pietà» [In Regulis Indicis III et IV]. A questa regola, temperata poi di nuove cautele per il perseverare degli attacchi degli eretici, l’autorità di Benedetto XIV aggiunse una dichiarazione che permette la lettura nelle versioni popolari soltanto nelle «edizioni approvate dalla Sede Apostolica» o recanti «annotazioni desunte dai Santi Padri della Chiesa o da dotti uomini cattolici» [In Addition. ad dict. Regul. IV ex Decreto Congregationis Indicis XVII junii MDCCLVII].

Pio IX 16 GIUGNO 1846 – 7 FEBBRAIO 1878

Lett. Encycl. “Qui pluribus”, 9 novem. 1846.

L’errore del Razionalismo.

2775. (Dz 1634) Perché sapete, Venerabili Fratelli, che questi nemici ostili al nome cristiano, infelicemente presi da una certa forza cieca di folle empietà, procedono con questa imprudenza di pensiero che “aprendo la bocca alle bestemmie contro Dio” (cfr. Ap 13,6) con un’audacia del tutto sconosciuta, non si vergognano di insegnare apertamente e pubblicamente che i santissimi misteri della nostra religione sono finzioni e invenzioni di uomini; che l’insegnamento della nostra religione è una finzione e un’invenzione di uomini; che l’insegnamento della nostra religione è un’invenzione di uomini. Ap 13,6) con un’audacia del tutto sconosciuta, non si vergognano di insegnare apertamente e pubblicamente che i santissimi misteri della nostra religione sono finzioni e invenzioni degli uomini; che l’insegnamento della Chiesa cattolica è contrario [cfr. n. 1740] al bene e al vantaggio della società, e non temono neppure di abiurare Cristo stesso e Dio. E, per illudere più facilmente il popolo e ingannare soprattutto gli incauti e gli inesperti, trascinandoli con sé nell’errore, pretendono che le vie della prosperità siano note solo a loro; e non esitano ad arrogarsi il nome di filosofi, come se la filosofia, che si occupa interamente di indagare la verità della natura, dovesse rifiutare quelle verità che lo stesso Dio supremo e clementissimo, autore di tutta la natura, si è degnato di manifestare agli uomini con singolare bontà e misericordia, affinché gli uomini possano ottenere la vera felicità e la salvezza.

2776. Quindi con fallace e confuso argomento non cessano mai di magnificare la forza e l’eccellenza della ragione umana contro la fede santissima di Cristo, e audacemente blaterano che la medesima ripugna alla ragione umana. Del che niente si può pensare od immaginare né di più stolto, né di più empio, né di più ripugnante alla ragione medesima. Sebbene infatti la fede sia al di sopra della ragione, pur tuttavia fra di esse non si può trovare nessuna vera discordanza e nessun dissidio, quando ambedue prendono origine da una stessa fonte d’immutabile ed eterna verità, da Dio Ottimo Massimo; e per tale motivo vicendevolmente si aiutano, di modo che la retta ragione dimostra e difende la verità della fede, e la fede libera la ragione da ogni errore e mirabilmente la illustra, la rafforza e la perfeziona con la cognizione delle cose divine.

2777. Né con minore fallacia certamente, Venerabili Fratelli, questi nemici della divina rivelazione, con somme lodi esaltando il progresso umano, vorrebbero con temerario e sacrilego ardimento introdurlo perfino nella Religione cattolica; come se essa non fosse opera di Dio, ma degli uomini, ovvero invenzione dei filosofi, da potersi con modi umani perfezionare. Contro siffatto delirare possiamo ben ridire la parola con cui Tertulliano rimproverava i filosofi della sua età, “che fecero il Cristianesimo Stoico, o Platonico, o Dialettico” [Tertulliano, De Praescript, cap. VIII]. E certamente poiché non è la nostra santissima Religione un risultato della ragione umana, ma fu da Dio clementissimamente manifestata agli uomini, ognuno intende facilmente che dall’autorità di Dio medesimo essa acquista ogni sua forza, né la ragione umana può mutarla o perfezionarla.

2778. Bensì alla umana ragione appartiene il cercare con ogni diligenza il fatto della rivelazione, affinché non sia ingannata ed erri in una cosa di tanta importanza, e per rendere a Dio un ossequio ragionevole, come sapientissimamente insegna l’Apostolo, quando sia certa che Iddio le ha parlato. Chi, infatti, ignora o può ignorare che a Dio che parla si debba prestare ogni fede, e che alla ragione medesima niente sia più conforme che l’acquietarsi e l’aderire fermamente alle cose che si conoscano rivelate da Dio il quale non può essere né ingannato né ingannatore?

2779. Ma quanti meravigliosi e splendidi argomenti esistono per convincere l’umana ragione che la Religione di Cristo sia divina e che “ogni principio dei nostri dogmi venga dal Signore dei Cieli” [S. Joann. Chrysost., Homil. I in Isaiam]; e però della nostra fede niente sia più certo, più sicuro, più santo ed edificato sopra più soldi fondamenti! Questa fede, maestra della vita, guida della salvezza, liberatrice di tutti i vizi, feconda madre e nutrice di virtù, fu sigillata con la nascita, la vita, la morte, la resurrezione, la sapienza, i prodigi, le predizioni del suo autore e perfezionatore Gesù Cristo. Sfolgoreggiante da ogni parte di una luce di soprannaturale dottrina; arricchita dei tesori delle celesti dovizie; ampiamente illustre ed insigne per i vaticini dei profeti, per lo splendore di tanti miracoli, per la costanza di tanti martiri, per la gloria di tutti i santi; questa fede vivificata dalle salutari leggi di Cristo, ritraendo sempre nuova vita dalle stesse crudelissime persecuzioni, con il solo vessillo della Croce percorse l’orbe universo e per terra e per mare, dal luogo ove nasce sin dove muore il sole. Dileguata la fallacia degli idoli, sgombrata la caligine degli errori, trionfando di ogni sorta di nemici, illuminò con la luce delle dottrine e assoggettò al soavissimo giogo di Cristo medesimo popoli, genti, nazioni quantunque barbare per ferocia, e diverse d’indole, di costumi, di leggi, d’istituti, annunziando a tutti la pace, annunziando beni. Le quali cose certamente risplendono da ogni parte di tanta luce, di sapienza e di potenza divina, che la mente ed il pensiero di ciascuno facilmente intendono che la fede di Cristo è opera di Dio.

2780. [Obbligo di credere]. Pertanto la ragione umana, conoscendo chiaramente per siffatti argomenti splendidissimi e fermissimi, che Dio è l’autore della fede, non può sospingersi più oltre, ma, tolta ogni difficoltà e rimosso ogni dubbio, conviene che presti ossequio alla fede medesima, tenendo per cosa data da Dio tutto ciò che essa propone da credere e da fare.

L’infallibilità del Romano Pontefice.

2781. E di qui si vede chiaro quanto errino coloro che, abusando della ragione e stimando opera umana la parola di Dio, a loro arbitrio osano spiegarla ed interpretarla, quando Iddio medesimo ha costituito una viva autorità, la quale insegni e stabilisca il vero e legittimo senso della sua celeste rivelazione, e con infallibile giudizio definisca ogni controversia di fede e di costumi, affinché i fedeli non siano raggirati da ogni turbinio di dottrina, né siano per umana nequizia indotti in errore. La quale viva ed infallibile autorità è in quella sola Chiesa che da Cristo Signore fu edificata sopra Pietro, Capo, Principe e Pastore della Chiesa universale, la cui fede, per divina promessa, non verrà mai meno, ma sempre e senza intermissione durerà nei legittimi Pontefici i quali, discendendo dallo stesso Pietro ed essendo collocati nella sua Cattedra, sono anche eredi e difensori della sua medesima dottrina, della dignità, dell’onore e della sua potestà. E poiché “ove è Pietro ivi è la Chiesa” [S. Ambros., In Psal. 40], e“Pietro parla per bocca del Romano Pontefice” [ Conc. Chalced., Act. 2], e “sempre vive nei suoi successori, e giudica” [Synod. Ephes., Act. 3], e “appresta la verità della fede a coloro che la cercano” [S. Petr. Chrysol., Epist. ad Eutich.], perciò le divine parole sono da interpretare nel senso che ha tenuto e tiene questa Romana Cattedra del beatissimo Pietro; “la quale, madre di tutte le Chiese e maestra” [Conc. Trid., sess. 8 De Baptis.], sempre serbò la fede consegnatale da Cristo Signore integra ed inviolata, ed in quella ammaestrò i fedeli, mostrando a tutti la via della salute e la dottrina dell’incorrotta verità. Ed è questa appunto la “principale Chiesa donde nacque l’unità sacerdotale” [S. Cyprian., Epist. 55 ad Cornel. Pontif.]; questa la metropoli della pietà “nella quale è intera e perfetta la solidità della Religione cristiana” [Litt. Sin. Joan Constan. ad Hormis. Pontif., et Sozom, Hist., lib. 2, cap. 8], “nella quale sempre fiorì il principato della Cattedra Apostolica” [S. August., Epist. 162], “cui a motivo del suo primato è necessario che si stringa ogni altra Chiesa, cioè dovunque sono i fedeli” [S. Irenaeus, lib. 3 Contra haereses, cap. 3], “perché chi non raccoglie con lei, disperde” [S. Hieronym., Epist. ad Damas. Pontif.].

Altri errori del tempo.

2782. Conoscete ancora, Venerabili Fratelli, altre mostruosità di errori ed altre frodi, con cui i figli del secolo acerbamente impugnano la divina autorità e le leggi della Chiesa, per conculcare insieme i diritti della potestà civile e di quella sacra. A questo mirano inique macchinazioni contro questa Romana Cattedra del Beatissimo Pietro, nella quale Cristo pose l’inespugnabile fondamento della sua Chiesa.

2783. A questo mirano altresì quelle sette segrete che occultamente sorsero dalle tenebre per corrompere gli ordini civili e religiosi, e che dai Romani Pontefici Nostri Predecessori più volte furono condannate con lettere apostoliche [Clemens XII, Const. In eminenti; Benedict. XIV, Const. Providas; Pius VII, Const. Ecclesiam a Jesu; Leo XII, Const. Quo graviora] che Noi, con la pienezza della Nostra Potestà Apostolica, confermiamo …

2784. Questo vogliono le scaltrissime società Bibliche mentre, rinnovando le vecchie arti degli eretici, senza badare a spese non si peritano di spargere fra gli uomini anche più rozzi i libri delle divine Scritture, volgarizzati contro le santissime regole della Chiesa e sovente corrotti con perverse spiegazioni, affinché, abbandonate la divina tradizione, la dottrina dei Padri e l’autorità della Chiesa cattolica, tutti interpretino la parola del Signore secondo il loro privato giudizio e, guastandone il senso, cadano in errori gravissimi. Gregorio XVI di santa memoria, al quale seppure con minori meriti siamo succeduti, emulando gli esempi dei suoi Predecessori, con sua lettera apostolica riprovò tali società [Greg. XVI, Litt. Encycl. Inter præcipuas machinationes], e Noi parimenti le vogliamo condannate.

2785. Altrettanto diciamo di quel sistema che ripugna allo stesso lume della ragione naturale, che è l’indifferenza della Religione, con il quale costoro, tolta ogni distinzione fra virtù e vizio, fra verità ed errore, fra onestà e turpitudine, insegnano che qualsivoglia religione sia ugualmente buona per conseguire la salute eterna, come se fra la giustizia e le passioni, fra la luce e le tenebre, fra Cristo e Belial potesse mai essere accordo o comunanza.

2786. A questo punta la nefanda dottrina del Comunismo, come dicono, massimamente avversa allo stesso diritto naturale; una volta che essa sia ammessa, i diritti di tutti, le cose, le proprietà, anzi la stessa società umana si sconvolgerebbero dal fondo.

Decr. S. Officii 21 magg. 1851.

L’uso onanistico del matrimonio.

2791. Domanda: Quale nota si deve attribuire alle seguenti tre proposizioni?

1. Per motivi onesti è lecito che i coniugi usino il matrimonio nel modo in cui lo usava Onan? (Gen XXXVIII, 8ss.).

2792. 2. È probabile che questo uso del matrimonio non sia proibito dalla legge naturale.

2793. 3. Non è mai consigliabile interrogare i coniugi di entrambi i sessi su questo argomento, anche se prudentemente si può temere che i coniugi, l’uomo o la donna, abusino del matrimonio.

Risposta: Per 1.: scandalosa, errata e contraria al diritto naturale del Matrimonio.

Per 2.: Scandalosa, e già implicitamente condannata in un’altra occasione da Innocenzo XI, proposizione 49 (cf. 2149).

Per 3. Così com’è, la proposizione è falsa, troppo permissiva e pericolosa nella pratica.

Resp. S. Officii 6 (19) Apr. 1853

Uso onanistico del matrimonio.

2795. Domanda 1) È lecito il ricorso al matrimonio non consumato, sia esso onanistico o condomistico (cioè con l’uso di uno strumento empio comunemente chiamato “condom”), come nel caso in questione? …2) Una donna che ne è a conoscenza può concedersi passivamente ad un’unione condomistica? …

Risposta (decreto del 6, pubblicato il 19 aprile):

Per 1): No, la cosa è infatti intrinsecamente malvagia. …

Per 2): No, la donna parteciperebbe infatti a qualcosa di intrinsecamente illecito.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S PIO XII (34): “PIO IX 1854-1864”.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “QUUM DIUTURNUM”

Questa brevissima lettera Enciclica di Papa Leone XIII, sollecita la convocazione di un Concilio continentale per l’America meridionale, così che i Vescovi locali possano coordinarsi per evangelizzare al meglio i popoli giunti da poco alla fede cattolica, e «…. affinché presso quei popoli, legati da una stessa stirpe o da una affine, si mantenga salda l’unità della disciplina ecclesiastica, si rinvigoriscano i costumi degni della fede cattolica, e la Chiesa si segnali pubblicamente per il comune impegno dei buoni…». Un Concilio quindi, ove si riaffermassero con decisione e fermezza dogmi e disciplina, senza aperture a culti locali di radice demoniaca, come la recente divinità pagana “Pachamama” adorata con blasfema sfacciataggine addirittura in Vaticano, terra un tempo “casa” di Pietro, il Vicario di Cristo, e della sua Chiesa. Ma è chiaro che parliamo di due realtà opposte tra loro, come quando ad Ezechiele furono dell’Angelo mostrati gli abomini ed i riti di adorazione dei demoni che si compivano nel Tempio santo di Dio. Si vede, come diceva il Qoelet, che nulla di nuovo c’è sotto il sole e nell’ombra degli inferi aperti. Ci sarà molto da soffrire, ma dopo la breve sofferenza arriverà il premio eterno per chi avrà perseverato fino alla fine (Rom. VIII).

Leone XIII
Quum diuturnum

Lettera Enciclica

Indizione del concilio plenario dell’America Latina
25 dicembre 1898

Quando ripercorriamo il lungo corso del nostro pontificato, vediamo che non abbiamo mai tralasciato nulla che riguardasse il rafforzamento e la promozione del regno di Dio presso codeste genti. Certamente è tuttora presente in voi, venerabili fratelli, il ricordo delle azioni da noi compiute, con l’aiuto di Dio, a vostro favore. Non abbiamo affidato invano quei servizi della nostra prudenza al vostro zelo e alla vostra diligenza. Ora vogliamo che sia manifesta una nuova prova del nostro affetto verso di voi; cosa che già da tempo era nei nostri desideri. Infatti, fin dal tempo della celebrazione del IV centenario della scoperta dell’America, abbiamo cominciato a pensare con insistenza al modo in cui avremmo potuto mettere in rilievo le comuni origini latine, che il nuovo mondo detiene per più della metà. Arrivammo alla conclusione che a tale scopo la cosa migliore sarebbe stata che voi tutti, Vescovi di queste contrade, vi foste riuniti, su nostro invito e con la nostra autorità, per deliberare. Eravamo infatti convinti che, mettendo insieme la vostra sapienza e i frutti della prudenza che ciascuno di voi ha tratto dalla propria esperienza, avreste provveduto convenientemente affinché presso quei popoli, legati da una stessa stirpe o da una affine, si mantenesse salda l’unità della disciplina ecclesiastica, si rinvigorissero i costumi degni della fede cattolica, e la Chiesa si segnalasse pubblicamente per il comune impegno dei buoni. Mi persuadeva poi grandemente a tradurre in atto questo intendimento, il fatto che voi, interpellati al riguardo, aveste accolto con forte assenso una tale proposta. – Quando poi giunse il momento di attuare l’iniziativa, lasciammo a voi, venerabili fratelli, il compito di scegliere il luogo in cui vi sembrava opportuno tenere questo Concilio. Dichiaraste allora, in massima parte, che sareste venuti assai volentieri a Roma, anche perché per molti di voi sarebbe stato molto più semplice raggiungere questa sede che non qualche altra lontana città americana, per la grande difficoltà di viaggiare in cedesti posti. All’annuncio di questa vostra scelta, non potemmo che dare il nostro più pieno assenso, perché essa conteneva un segno non piccolo del vostro amore verso questa Sede Apostolica. Anche se Ci dispiace, per le condizioni in cui ora ci troviamo, che Ci sia tolta la possibilità di trattarvi, mentre sarete a Roma, tanto dignitosamente e liberalmente quanto vorremmo. Perciò la Sacra Congregazione [per interpretare gli Atti] del Concilio [di Trento] ha il mandato da Noi conferitole di convocare per il prossimo anno a Roma il Concilio di tutti i Vescovi delle nazioni dell’America Latina, e di emanare le norme adeguate che esso dovrà seguire. Intanto, come auspicio dei celesti favori e come testimonianza della nostra benevolenza verso di voi, venerabili fratelli, e verso il clero e il popolo a ciascuno affidato, impartiamo di tutto cuore l’apostolica benedizione.

Roma, presso S. Pietro, proprio il giorno della nascita di nostro Signore Gesù dell’anno 1898, XXI del Nostro pontificato.

DOMENICA IV DOPO PENTECOSTE (2023)

DOMENICA IV DOPO PENTECOSTE (2021)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Il pensiero che domina tutta la liturgia di questo giorno è la fiducia in Dio in mezzo alle lotte ed alle sofferenze di questa vita. Essa appare nella lettura della storia di David nel Breviario e da un episodio della vita di S. Pietro, di cui è prossima la festa. Quando Dio scacciò Saul per il suo orgoglio, disse a Samuele di ungere come re il più giovane dei figli di Jesse, che era ancora fanciullo. E Samuele l’unse, e da quel momento lo Spirito di Dio di ritirò da Saul e venne su David. Allora i Filistei che volevano ricominciare la guerra, riunirono le loro armate sul versante di una montagna; Saul collocò il suo esercito sul versante di un’altra montagna in modo che essi erano separati da una valle ove scorreva un torrente. E usci dal campo dei Filistei un gigante, che si chiamava Golia. Esso portava un elmo di bronzo, una corazza a squame. gambiere di bronzo e uno scudo di bronzo che gli copriva le spalle; aveva un giavellotto nella bandoliera e brandiva una lancia il cui ferro pesava seicento sicli. E sfidando Israele: «Schiavi di Saul, gridò, scegliete un campione che venga a misurarsi con me! Se mi vince, saremo vostri schiavi, se lo vinco io, voi sarete nostri schiavi » – Saul e con lui tutti i figli d’Israele furono allora presi da spavento, Per un po’ di giorni il Filisteo si avanzò mattina e sera, rinnovando la sua sfida senza che nessuno osasse andargli incontro. Frattanto giunse al campo di Saul il giovane David, che veniva a trovare i suoi fratelli, e quando udì Golia e vide il terrore d’Israele, pieno di fede gridò: « Chi è dunque questo Filisteo, questo pagano che insulta l’esercito di Dio vivo? Nessuno d’Israele tema: io combatterò contro il gigante ». « Va, gli disse Saul, e che Dio sia con te! » David prese il suo bastone e la sua fionda, attraversa il letto del torrente, vi scelse cinque ciottoli rotondi e si avanzò arditamente verso il Filisteo. Golia vedendo quel fanciullo, lo disprezzò: « Sono forse un cane, che vieni contro di me col bastone? » E lo maledisse per tutti i suoi dèi. David gli rispose: « Io vengo contro di te in nome del Dio d’Israele, che tu hai insultato: oggi stesso tutto il mondo saprà che non è né per mezzo della spada, né per mezzo della lancia, che Dio si difende: Egli è il Signore e concede la vittoria a chi gli piace ». Allora il gigante si precipitò contro David: questi mise una pietra entro la sua fionda e dopo averla fatta girare la lanciò contro la fronte del gigante, che cadde di colpo a terra. David piombò su di lui e tratta dal fodero la spada di Golia, lo uccise tagliandogli la testa che innalzò per mostrarla ai Filistei. A questa vista i Filistei fuggirono e l’esercito di Israele innalzato il grido di guerra li insegui e li massacrò. « I figli d’Israele, commenta S. Agostino, si trovavano da quaranta giorni di fronte al nemico. Questi quaranta giorni per le quattro stagioni e per le quattro parti del mondo, significano la vita presente durante la quale il popolo cristiano non cessa mai dal combattere Golia e il suo esercito, cioè satana e i suoi diavoli. Tuttavia questo popolo non avrebbe potuto vincere se non fosse venuto il vero David, Cristo col suo bastone, cioè col mistero della croce. David, infatti, che era la figura di Cristo, usci dalle file, prese in mano il bastone e marciò contro il gigante: si vide allora rappresentata nella sua persona ciò che più tardi si compi in N. S. Gesù Cristo. Cristo, infatti, il vero David, venuto per combattere il Golia spirituale, cioè il demonio, ha portato da sé la sua croce. Considerate, o fratelli, in qual luogo David ha colpito Golia: in fronte ove non c’era il segno della croce; cosicché mentre il bastone significava la croce, cosi pure quella pietra con la quale colpì Golia rappresentava Cristo Signore. » (2° Notturno). Israele è la Chiesa che soffre le umiliazioni, che le impongono i nemici. Essa geme attendendo la sua liberazione (Ep.), invoca il Signore, che è la fortezza per i perseguitati (All.), «Il Signore che è un rifugio e un liberatore » (Com.), affinché le venga in aiuto « per paura che il nemico gridi: Io l’ho vinta » (Off.). E con fiducia essa dice: « Vieni in mio aiuto, o Signore, per la gloria del tuo nome, e liberami » (Grati.). « Il Signore è la mia salvezza, chi potrò temere? Il Signore è il baluardo della mia vita, chi mi farà tremare? Quando io vedrò schierato contro di me un esercito intero il mio cuore sarà senza paura. Sono i miei persecutori e i miei nemici che vacillano e cadono » (Intr.). Cosi sotto la guida della divina Provvidenza, la Chiesa serve Dio con gioia in una santa pace (Or.); il che ci viene mostrato dal Vangelo scelto in ragione della prossimità della festa del 29 giugno. Un evangeliario di Wurzbourg chiama questa domenica, Dominica ante natalem Apostolorum. Infatti è la barca di Pietro che Gesù sceglie per predicare, è a Simone che Gesù ordina di andare al largo, ed è infine Simone, che, dietro l’ordine del Maestro, getta le reti, che si riempiono in modo da rompersi; infine è Pietro che, al colmo dello stupore e dello spavento, adora il Maestro ed è scelto da Lui come pescatore d’uomini. « Questa barca, commenta S. Ambrogio, ci viene rappresentata da S. Matteo battuta dai flutti, da S. Luca ripiena di pesci; il che significa il periodo di lotta che la Chiesa ebbe al suo sorgere e la prodigiosa fecondità successiva. La barca che porta la Sapienza e voga al soffio della fede non corre alcun pericolo: e che cosa potrebbe temere avendo per pilota Quegli che è la sicurezza della Chiesa? Il pericolo s’incontra ove è poca fede; ma qui è sicurezza poiché l’amore è perfetto » (3° Nott.). Commentando il brano di Vangelo molto simile a questo (vedi mercoledì di Pasqua) ove S. Giovanni racconta una pesca miracolosa, che ebbe luogo dopo la Resurrezione del Salvatore, S. Gregorio scrive: « che cosa significa il mare se non l’età presente nella quale le lassitudini e le agitazioni della vita corruttibile assomigliano a flutti che senza tregua si urtano e si spezzano? Che cosa rappresenta la terra ferma della riva, se non la eternità del riposo d’oltre tomba? Ma poiché i discepoli si trovavano ancora in mezzo ai flutti della vita mortale, si affaticano sul mare, mentre il Signore, che si era spogliato della corruttibilità della carne, dopo la Risurrezione era sulla riva » (3° Notturno del mercoledì di Pasqua). In S. Matteo il Signore paragona « il regno dei cieli ad una rete gettata in mare che raccoglie ogni sorta di pesci. E quando è piena, i pescatori la tirano a riva e prendono ibuoni e rigettano i cattivi ». Orsù, coraggio: mettiamo tutta la nostra confidenza in Gesù. Egli ci salverà, mediante la Chiesa, dagli attacchi del demonio, come salvò per mezzo di David l’esercito d’Israele che temeva il gigante Golia.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XXVI: 1; 2 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timebo? Dóminus defensor vitæ meæ, a quo trepidábo? qui tríbulant me inimíci mei, ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt.

[Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò? Il Signore è baluardo della mia vita, cosa temerò? Questi miei nemici che mi perséguitano, essi stessi vacillano e stramazzano.] Ps XXVI:3

Si consístant advérsum me castra: non timébit cor meum.

[Se anche un esercito si schierasse contro di me: non temerà il mio cuore.]

Gloria….

Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timebo? Dóminus defensor vitæ meæ, a quo trepidábo? qui tríbulant me inimíci mei, ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt.

[Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò? Il Signore è baluardo della mia vita, cosa temerò? Questi miei nemici che mi perséguitano, essi stessi vacillano e stramazzano.]

Kyrie
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria
Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe.
Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Da nobis, quæsumus, Dómine: ut et mundi cursus pacífice nobis tuo órdine dirigátur; et Ecclésia tua tranquílla devotióne lætétur.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore, che le vicende del mondo, per tua disposizione, si svolgano per noi pacificamente, e la tua Chiesa possa allietarsi d’una tranquilla devozione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII: 18-23.

“Fratres: Exístimo, quod non sunt condígnæ passiónes hujus témporis ad futúram glóriam, quæ revelábitur in nobis. Nam exspectátio creatúræ revelatiónem filiórum Dei exspéctat. Vanitáti enim creatúra subjécta est, non volens, sed propter eum, qui subjécit eam in spe: quia et ipsa creatúra liberábitur a servitúte corruptiónis, in libertátem glóriæ filiórum Dei. Scimus enim, quod omnis creatúra ingemíscit et párturit usque adhuc. Non solum autem illa, sed et nos ipsi primítias spíritus habéntes: et ipsi intra nos gémimus, adoptiónem filiórum Dei exspectántes, redemptiónem córporis nostri: in Christo Jesu, Dómino nostro”.

[“Fratelli: Ritengo che i patimenti del tempo presente non hanno proporzione con la gloria futura, che deve manifestarsi in noi. Infatti il creato attende con viva ansia la manifestazione dei figli di Dio. Poiché il creato è stato assoggettato alla vanità non di volontà sua; ma di colui che ve l’ha assoggettato con la speranza che anch’esso creato sarà liberato dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo, invero, che tutta quanta la creazione fino ad ora geme e soffre le doglie del parto. E non solo essa, ma anche noi stessi, che abbiamo le primizie dello Spirito, anche noi gemiamo in noi stessi attendendo l’adozione dei figliuoli di Dio, cioè la redenzione del nostro corpo”].

IL RE DELLA MUNIFICENZA.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

L’epistola d’oggi comincia con una frase celebre del grande Apostolo San Paolo. Già di queste frasi San Paolo ce ne ha lasciate molte. Era anche, umanamente parlando, uno scrittore così poderoso! « I dolori del tempo non sono proporzionati alle gioie dell’eternità » o più alla lettera « le sofferenze di questo mondo non sono coadeguate alla futura gloria che in noi dovrà manifestarsi ». – Se c’è un uomo che abbia molto faticato e sofferto a questo mondo, è proprio Lui, San Paolo. Faticato più di tutti i suoi colleghi, lo dice Lui con ispirato accento; e scusate se è poco! E pari alle fatiche i dolori ineffabili del suo apostolato, irto di difficoltà materiali, di morali contraddizioni; una vita così angosciosa da parere una morte, da poter egli chiamarla tale. « Quotidie morimur » E non crediamo, che Paolo non sentisse tutto questo peso e tutte queste punture: era un forte, non era un insensibile. Anzi la sua era una sensibilità squisita. Soffriva atrocemente. Soffriva quando esercitava l’apostolato con quella sua foga impetuosa, soffriva quando era costretto all’inazione — a starsene, anche lui, uomo di azione, di zelo, « le braccia al sen conserte ». In tutto questo martirio apostolico, apostolato martirizzatore, c’era un conforto per S. Paolo, il vero, il grande conforto. Guardava in su, guardava in là. Tutto questo martirio doveva finire a trasformarsi: alla lotta doveva subentrare la vittoria, alla fatica il riposo, al patimento la gioia, alla umiliazione la gloria. L’Apostolo vi guarda con una fede inconcussa, che diviene speranza irremovibile. E trova che il premio sperato e promesso, promesso e sperato, è di gran lunga superiore alla posta che si richiede. « Non sunt condigno passiones huius temporis ad futuram gloriam quae revelabitur în nobis; » parole aureeche ciascun fedele può e deve ripetere perconto proprio, soggetto com’è ai dolori dellaprova, aperto come deve essere alla speranzadel premio.Ma dunque, dirà qualcuno più saputello, ma dunque San Paolo è un calcolatore? che impiega il suo capitale al 100 per uno? anzi all’infinitoper uno? e di questo buon affare egoisticamente si compiace? e lo predica perché buono a tutti? Adagio alle conseguenze stiracchiate…Ben diversa da quella del calcolatore avido ed egoista, la figura spirituale di San Paolo e di quanti ripetono fidenti il suo gesto e la sua parola! Paolo è un innamorato di Dio del qual esa due cose; che Egli chiede ai suoi figliuoli eai suoi soldati parecchio, che Egli darà loro moltissimo. Questa ricompensa Paolo non può non accettarla; ma accettandola, accettandola come ricompensa divina alla fatica umana, poiché è ricompensa, e Dio vuol che lo sia, accettandola dunque così, San Paolo vuole sentirla ancora più come una misericordia che una giustizia; vuol sentire nel Dio rimuneratore il Dio generoso. E il mezzo logico per rimanere in quella forma di sentimento è presto trovato. Pur meritandolo, nel senso che bisogna porre noi le condizioni « sine qua non » del premio che i desiderî avanzano, il premio rimane sempre più un dono che un premio; premio per un decimo, dono per novantanove centesimi. Dio va con la sua ricompensa bene al di là del punto dove arriverebbero i nostri meriti. Tra il nostro «facere et pati» e il suo rimunerare non c’è proporzione, questo supera a dismisura quello. E ciò perché Dio è Dio e lo sarà sempre, è il Re della munificenza, della magnificenza. Re e Padre ha benignamente mascherato e maschera (prendete la parola con un po’ di grano di sale) il suo dono finale con la giustizia di un premio « corona justitiæ, » ma ha pagato e paga il suo premio non con la esattezza del matematico e la tirchieria del mercante, ma colla generosità del principe. A noi l’essergli, come Padre, di ciò doppiamente grati.

Graduale

Ps LXXVIII: 9; 10 Propítius esto, Dómine, peccátis nostris: ne quando dicant gentes: Ubi est Deus eórum?

V. Adjuva nos, Deus, salutáris noster: et propter honórem nóminis tui, Dómine, líbera nos.

[Sii indulgente, o Signore, con i nostri peccati, affinché i popoli non dicano: Dov’è il loro Dio? V. Aiutaci, o Dio, nostra salvezza, e liberaci, o Signore, per la gloria del tuo nome.]

Allelúja

Alleluja, allelúja Ps IX: 5; 10 Deus, qui sedes super thronum, et júdicas æquitátem: esto refúgium páuperum in tribulatióne. Allelúja

[Dio, che siedi sul trono, e giudichi con equità: sii il rifugio dei miseri nelle tribolazioni. Allelúia.

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam. Luc. V: 1-11

In illo témpore: Cum turbæ irrúerent in Jesum, ut audírent verbum Dei, et ipse stabat secus stagnum Genésareth. Et vidit duas naves stantes secus stagnum: piscatóres autem descénderant et lavábant rétia. Ascéndens autem in unam navim, quæ erat Simónis, rogávit eum a terra redúcere pusíllum. Et sedens docébat de navícula turbas. Ut cessávit autem loqui, dixit ad Simónem: Duc in altum, et laxáte rétia vestra in captúram. Et respóndens Simon, dixit illi: Præcéptor, per totam noctem laborántes, nihil cépimus: in verbo autem tuo laxábo rete. Et cum hoc fecíssent, conclusérunt píscium multitúdinem copiósam: rumpebátur autem rete eórum. Et annuérunt sóciis, qui erant in ália navi, ut venírent et adjuvárent eos. Et venérunt, et implevérunt ambas navículas, ita ut pæne mergeréntur. Quod cum vidéret Simon Petrus, prócidit ad génua Jesu, dicens: Exi a me, quia homo peccátor sum, Dómine. Stupor enim circumdéderat eum et omnes, qui cum illo erant, in captúra píscium, quam céperant: simíliter autem Jacóbum et Joánnem, fílios Zebedaei, qui erant sócii Simónis. Et ait ad Simónem Jesus: Noli timére: ex hoc jam hómines eris cápiens. Et subdúctis ad terram návibus, relictis ómnibus, secuti sunt eum”.

(“In quel tempo mentre intorno a Gesù si affollavano le turbe per udire la parola di Dio, Egli se ne stava presso il lago di Genesaret. E vide due barche ferme a riva del lago; e ne erano usciti i pescatori, e lavavano le reti. Ed entrato in una barca, che era quella di Simone, richiese di allontanarsi alquanto da terra. E stando a sedere, insegnava dalla barca alle turbe. E finito che ebbe di parlare, disse a Simone: Avanzati in alto e gettate le vostre reti per la pesca. E Simone gli rispose, e disse: Maestro, essendoci noi affaticati per tutta la notte, non abbiamo preso nulla; nondimeno sulla tua parola getterò La rete. E fatto che ebbero questo, chiusero gran quantità di pesci: e si rompeva la loro rete. E fecero segno ai compagni, che erano in altra barca, che andassero ad aiutarli E andarono, ed empirono ambedue le barchette, di modo che quasi si affondavano. Veduto ciò Simon Pietro, si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: Partiti da me, Signore, perché io con uomo peccatore. Imperocché ed egli, e quanti si trovavano con Lui, erano restati stupefatti della pesca che avevano fatto di pesci. E lo stesso era di Giacomo e di Giovanni, figliuoli di Zebedeo: compagni di Simone. E Gesù disse a Simone: Non temere, da ora innanzi prenderai degli uomini. E tirate a riva le barche, abbandonata ogni cosa, lo seguitarono”).

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956).

« SARAI PESCATORE D’UOMINI »

Quella mattina la turba era così numerosa che Gesù, per far sentire a tutti la sua parola, dovette portarsi sul lago. Lungo la spiaggia sabbiosa due barchette, di ritorno dalla pesca notturna, erano là ferme mentre i pescatori stavano lavando le reti. Proprio la barca di Pietro ebbe la fortuna di accogliere il dolce Maestro, ed egli, il futuro Apostolo, lasciando da parte il lavoro che lo teneva occupato, salì col Nazareno, pronto ad eseguire i suoi cenni. Scostatosi un po’ dalla riva, cominciò a parlare del Regno di Dio: il tepido sole illuminava quell’incanto di natura e di grazia. Quando ebbe finito, disse a Simone: « In alto! lontano dalla riva; e poi gettate le reti ad una gran pesca! ». A vigorosi colpi di remi, subito si trovarono in alto lago: non si sentiva più il rumore della folla, erano soli, con Gesù, sulle onde leggermente increspate, sotto il limpido cielo d’oriente. « Maestro, noi tutta la notte abbiamo faticato e non abbiamo preso neppure un pesciolino. Però sebbene il giorno sia già inoltrato, ho fiducia nella tua parola e lascio cadere la rete ». Così disse Pietro, ed eseguì come aveva detto. Prese tale una quantità di pesci che quasi rompevano le maglie della rete se non fossero venuti in aiuto quelli che stavano sull’altra barca. Entrambe le barche furono così riempite che solo a fatica si riuscì a condurle a riva. Il miracolo era troppo evidente e Pietro, stupito, esclamò: « Allontanati, o Signore, da me che sono un peccatore! ». Ma Gesù l’aveva compiuto apposta per annunciare agli Apostoli che un giorno avrebbero preso, nella rete del Vangelo, tutto il mondo. Lo fece capire a Pietro dicendogli: « Non aver paura! da questo momento tu devi essere un conquistatore non di pesci ma di uomini vivi! ».

Arrivati che furono a riva, quei pescatori lasciarono ogni cosa e seguirono Gesù. Cristiani, dopo che ci ha fatto sentire la divina parola della fede, dopo che ci fatto conoscere i miracoli della sua vita e della sua Chiesa, anche a noi Gesù dice: « Sii forte, non aver paura. Tu pure sarai un pescatore, un conquistatore di anime ». Nessuno, proprio nessuno che voglia essere vero Cristiano può disinteressarsi del prossimo. Gesù non vuol salvare il mondo da solo: vuol farci l’onore grande di chiedere il nostro aiuto. Ebbene oggi l’esempio di Pietro nella pesca miracolosa, che è simbolo della conquista delle anime, ci fa vedere in che modo possiamo essere davvero pescatori di uomini. Osservate: sono due i comandi di Gesù. Duc in altum! Prendi il largo! lontano dalla folla, dagli uomini: vicini soltanto a Lui con la preghiera. Laxate retia vestra! Calate le vostre reti per la pesca. Faticate, date le vostre energie per conquistare le anime. L’ubbidienza di Pietro a questi comandi ci ha dato il miracolo della cattura dei pesci. L’ubbidienza nostra agli stessi comandi ci darà i miracoli della salvezza delle anime. – 1. DUC IN ALTUM. Chi lo racconta è proprio lei, la piccola Santa di Lisieux, nella sua autobiografia (Cap. V). Una domenica quando alla fine della Messa chiuse il suo libro di preghiere, una fotografia che rappresentava Gesù crocifisso, sporse un po’ fuori lasciandole vedere solamente una delle mani ferite e sanguinose del Redentore. Provò allora un senso nuovo ineffabile: il suo cuore parve spezzarsi dal dolore alla vista di quel Sangue prezioso che cadeva per terra senza che nessuno si desse premura di raccoglierlo. Fece il proposito di starsene continuamente a piè della croce per raccogliere quella divina rugiada di salute e spargerla poi sulle anime. Da quel giorno in poi il grido di Gesù morente: Ho sete! non fece che risonare al suo cuore, per accendervi un nuovo vivissimo fuoco. Voleva dissetare il suo Diletto con lo strappare ad ogni costo i peccatori dalle fiamme dell’inferno. Ed il suo buon Maestro le mostrò che i suoi desideri gli erano accetti. Aveva sentito parlare di un gran delinquente — di nome Panzini — condannato a morte per orrendi delitti. La sua impenitenza faceva temere della sua eterna salute e la piccola Santa volle impedire quest’ultima ed irreparabile sventura, impiegando, pure di giungervi, tutti i mezzi spirituali che le era dato d’immaginare. Per la salvezza di quel disgraziato offriva i meriti infiniti di Gesù Cristo e i tesori di Santa Chiesa, le suppliche e qualche mortificazione. La preghiera fu esaudita. L’indomani della esecuzione della sentenza, rlla apre con premura il giornale e che vede?… Il Panzini era salito sul patibolo senza confessione e senza assoluzione; già i carnefici lo trascinavano verso il punto fatale, quando come riscosso da una improvvisa ispirazione, si volta, prende il Crocifisso presentatogli dal Sacerdote, e bacia tre volte quelle piaghe santissime. Ogni volta che assistiamo al divin Sacrificio della Messa, noi dovremmo saper scorgere con lo sguardo infallibile della fede la Passione di Cristo che si rinnova per la salvezza delle anime. Troppo spesso però quel sangue cade per terra perché mancano quelli che sappiano raccoglierlo e versarlo sopra le anime. Tocca a noi versarlo alle anime e poi a Gesù offrire quelle anime stesse rinfrescate dalla rugiada del Calvario. Questo lo possiamo fare con la preghiera, con qualche mortificazione, con le opere buone di cui potremmo riempire le nostre giornate. Quanti delinquenti, quanti poveri infelici potrebbero salvarsi in Paradiso se ci fossero dei cuori ardenti che sanno, come la piccola Santa, tendere l’orecchio al « Sitio » di Gesù morente. Se pregassimo spesso pei nostri fratelli che vivono male, non sopra un giornale qualunque, ma sul libro della nostra vita, leggeremmo un giorno che siamo stati capaci… di far imprimere un bacio di eterna salvezza sulle piaghe insanguinate del Crocifisso. « Il mondo è pagano; il mondo va male ». Così si va dicendo. Non è colpa in parte dei Cristiani? Andrà meglio quando vorremo; e, poiché la preghiera è uno dei mezzi più efficaci di conversione, quando vorremo pregare. Così ci insegna anche il Vangelo della pesca miracolosa. Pietro ha ottenuto il miracolo quando ha preso il largo, si è staccato dalla riva rumorosa e distratta per essere solo, con Gesù! Questa compagnia si ha soltanto quando si prega. – 2. LAXATE RETI A VESTRA IN CAPTURAM. Dopo una notte intera di grande fatica, senza la soddisfazione di un esito buono, doveva pure essere stanco Pietro. Eppure, al comando del Maestro dimentica ogni stanchezza e si mette a cominciare da capo. Il miracolo diremmo quasi che lo meritava. Così per pescare le anime ci vuol fatica, il lavoro, l’azione esterna, che si congiunga con la preghiera fervente. S. Giovanni Evangelista, nelle sue visite alle chiese dell’Asia, si incontrò una volta con un giovane che gli pareva animato da ottime disposizioni e desideroso di farsi Cristiano. L’Apostolo doveva partire ed allora lo affidò al Vescovo con la raccomandazione più viva di istruirlo e di assisterlo come un deposito sacro. Il giovane dapprima corrispondeva benissimo allo zelo del suo protettore, ma poi… a poco a poco le compagnie cattive gli fecero perdere il suo primo fervore, il gusto delle cose sante. Finì per mettersi in una truppa di delinquenti che vivevano di rapine e disordini. Passarono parecchi anni e S. Giovanni ritorna e domanda al Vescovo cosa fosse avvenuto del suo giovane amico. « Ohimè! è morto, è morto alla grazia. Trascorre la vita su quelle montagne con una masnada di uomini perduti ». S. Giovanni non dubita un istante e vecchio com’è: « Datemi un cavallo ed una guida — egli dice — io lo voglio salvare ad ogni costo; devo ricondurlo qui ancora ». Dopo fatiche inaudite, su per scoscendimenti pericolosissimi il santo vegliardo giunge al covo dei ladri. Appena fu veduto arrivare, quel povero infelice, in preda ai rimorsi, si mise a fuggire disperatamente. E S. Giovanni ad inseguirlo e a dirgli « O figliuolo, mio caro figliuolo, perché mi fuggi? Fermati, senti tuo padre. È Gesù Cristo che mi manda a te ». E non si fermò dall’inseguirlo finché il giovane fu vinto dal suo amore. L’Apostolo non ne poteva più dalla stanchezza, ma quella sera poteva dire che in cielo si faceva festa perché un’anima era salvata. Il lavoro, la sofferenza è la moneta con cui si compera il potere di fare del bene. Quanti nella loro giovinezza hanno avuto una buona educazione nella fama e nella scuola. Attorno alle loro anime si sono prodigate nell’abnegazione tante buone persone che han seminato nell’anima i germi della virtù. Per loro non è proprio del tutto scomparso il ricordo del giorno che han fatto la prima Comunione. Ma poi… le compagnie cattive, le passioni, il rispetto umano, le prime colpe han distrutto quanto avrebbe dovuto sempre durare e poiché la vicinanza dei buoni era un rimprovero duro sono fuggiti lontani col corpo, certo coll’anima imbrattata dal vizio. Eppure, anche costoro bisogna salvare: lo vuole il sangue di Cristo sparso su di essi, nell’età innocente. Se aspettiamo che vengano essi per i primi non ricaveremo nulla. È necessario andare a loro per riconquistarli al Cristo della loro giovinezza. Col buon esempio, con la parola amorevole, con un buon libro, con un dolce invito, col sorriso sul volto. Certo costa fatica e la salvezza delle anime, che è costata il Sangue di Cristo, non si può ottenere se non sulla via del Calvario, con la fatica, con la Croce. Anche L’Apostolo si sentiva sfinito, gli sfuggiva davanti la preda, ma finalmente ottenne la vittoria. – Un Sacerdote si lamentava col santo Curato d’Ars di aver tutto tentato per convertire la sua parrocchia ma senza risultato. « Tutto tentato? Avete fatto ferventi preghiere, avete digiunato qualche volta? Ricordate che finché non avrete sofferto per le vostre pecorelle, non potete dire di aver tutto tentato per ricondurle a Dio! Col buon esempio, con la parola amorevole, con un buon libro, con un dolce invito, col sorriso sul volto. Certo costa fatica e la salvezza delle anime, che è costata il Sangue di Cristo, non si può ottenere se non sulla via del Calvario, con la fatica, con la Croce. » Parole del Santo che insegnano la maniera infallibile per far del bene. Cristiani, guardate che per la salvezza del vostro prossimo anche noi dobbiamo essere Sacerdoti: se ci manca la veste talare e non abbiamo ricevuto il carattere sacerdotale abbiamo però la immensa fortuna di essere figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo. E allora lavoriamo e preghiamo! Qualche cosa otterremo, sempre. Per essere pescatori d’uomini non è necessario ottenere una pesca miracolosa: basta salire in alto verso Dio, e gettare le reti nel nome di Cristo. — IL LAVORO SANTIFICATO. È doloroso uscire per i campi dopo una tempesta. Qua e là per i sentieri fradici, ritorna il contadino: a passi lenti, curvo, muto. E con gli occhi dolenti guarda le piante sradicate e smozzicate, guarda le biade orribilmente trinciate a mezzo mentre i raccolti sotto ai cespi e nei solchi biancheggiano ancora i chicchi di gragnuola. Lontano, intanto, soffiano gli ultimi lampi dispersi e muore il brontolìo cupo del tuono, ma egli ha gli occhi pieni di lacrime. Tutto è perduto: invano ho rivoltato la terra, invano ho seminato, invano ho sudato per giorni e giorni nei solchi: tutto è perduto ». Quanto è mai rincrescevole, dopo aver molto lavorato, non ricavare alcun profitto dal proprio lavoro. Questo rincrescimento ci sarà tutto nel grido di straziante meraviglia che lanceranno non pochi Cristiani all’alba dell’eternità, quando dopo una vita di lavoro e di sudori, s’accorgeranno d’aver perduto tutto. Nel mondo si lavora molto; non è certo l’ozio che condannerà la maggior parte degli uomini; eppure davanti alla morte non pochi si troveranno nella più squallida miseria: perché il lavoro non fu santificato secondo la parola di Dio. Chi non vuol lavorare invano tutta la notte della vita, chi non vuol trovarsi senza un pesce all’alba dell’altra vita, deve santificare il suo lavoro secondo la parola di Dio. E Dio vuole che il lavoro non leda il diritto altrui, rispetti la dignità della nostra natura, sia fatto con mente retta e con retto cuore. – 1. GIUSTIZIA NEL LAVORO. Viveva in una città un capomastro molto ingordo, che temeva sempre gli finisse il pane in bocca prima della fame. Perciò, si prendeva molti impegni di costruzione che poi non arrivava a soddisfare. Ma una volta andarono da lui i clienti indispettiti a protestare di togliergli dalle mani i loro affari se avesse tirato ancora per le lunghe. E quel poverino si vide costretto a cominciare una grossa fabbrica, quantunque s’andasse incontro ad una stagione crudissima e troppo infausta per costruire solidamente. I suoi operai tentarono di ribellarsi: gelava l’acqua nel secchio e avevano le mani intorpidite che non potevano trasportare mattoni. Il capomastro inferociva e li costringeva al lavoro con la minaccia di licenziarli. E la fabbrica crebbe su, lenta ma solenne. Ma quando venne l’aprile e i raggi tiepidi batterono su quei muri ghiacciati, cominciarono a cedere: cadde la volta e tutta la casa s’accovacciò in un mucchio di rovine, fragorosamente. Come fu stolto quel capomastro! Ma S. Giovanni Crisostomo dice che sono più stolti quelli che cercano nel lavoro ingiusti guadagni. Qui ædificat domum suam, impendiis alienis, quasi qui colligit lapides suos in hyeme. Edifica d’inverno il venditore che tiene due pesi e due misure; il commerciante che falsifica la merce; il contadino che raccoglie dove non ha seminato; l’avvocato che difende una lite ingiusta e moltiplica le scritture per aggravare di spese al povero cliente; lo strozzino che presta il denaro con esagerato interesse. Contro costoro risuona la rovente parola di S. Giacomo: «Su, o ricchi, piangete, ululate per la miseria in cui verrete a trovarvi, nonostante le vostre ingiuste ricchezze. Il vostro danaro marcirà e le vostre vesti di seta saranno rose dalle tignole. La ruggine consumerà l’oro vostro e l’argento, e la ruggine sarà contro di voi e come fuoco divorerà le vostre carni. Avete raccolto tesori d’ira per l’ultimo giorno. Ecco: già la mercede che avete defraudato agli operai che hanno mietuto nei vostri campi, leva un grido al Signore degli eserciti. Come si ingrassano gli animali per il giorno dell’uccisione, così voi vi siete ingrassati nei banchetti e nell’ingiustizia per il dì della vendetta di Dio (V, 1-5). – 2. RISPETTO DELLA DIGNITÀ UMANA. Il primo infaticabile lavoratore è Dio: « Pater meus operatur — diceva Gesù — et ego operar » (Giov., V, 17). Ma Dio, ponendo mano a creare e cielo e terra, divise la sua opera in sei giorni. Il settimo riposò. Forse che non poteva fare tutto in un sol giorno? Forse che gli sopraggiunse stanchezza come un faticato pellegrino che sosta per via? No: era la legge del lavoro che Egli voleva promulgare fin dal principio del mondo. Non è l’uomo fatto per il lavoro, ma è il lavoro fatto per l’uomo. E se, scacciando Adamo dal Paradiso, gli disse: « Maledetta la terra per quello che hai fatto: con grandi fatiche le strapperai il tuo pane ad oncia ad oncia » gli aggiunse poi: « Lavora sei giorni e fa in essi ogni opera tua: ma il settimo è il giorno del riposo sacro al Signore, tuo Dio. Non fare in esso lavoro alcuno: né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il bestiame e neppure l’ospite che ha varcato le tue soglie ». Ed è ragionevole che sia così. L’uomo non è un animale bruto: ma ha un’anima e un cuore; anima e cuore che hanno destini non solamente terreni e temporali, ma oltremondani ed eterni. Ma come potrà pensare a questi suoi destini se voi lo tenete, ogni giorno, condannato nel solco del campo, o tra il rullo delle motrici? Se non gli concedete mai di sostare in questa ridda di lavoro, per elevare i suoi pensieri a Dio ed alla vita sua futura? « Ma sa, dicono alcuni, è il mestiere che vuole così: i calzolai, i sarti… ». — Il mestiere è forse superiore alla legge di Dio? « Se non lavoro, perdo gli avventori ». — Meglio perdere gli avventori che Dio. « Si mangia anche di festa ». — È vero: ma alla festa si beve anche, e si sciupa forse di più che il guadagno di due o tre giorni. « Ma quando i miei figliuoli hanno fame, non viene la Religione a portar loro un pane ». — È forse morto di fame qualche figlio di un buon operaio? Oh, non è la Religione che farà mancare il pane alla tua famiglia, ma altri motivi. « Ma io ho bisogno di mettere da parte qualche cosa per l’avvenire ». — Qui t’aspettavo. In manu Dei prosperitas hominis (Eccl., X, 5). Dio non fa mai fruttare il lavoro di festa. Ti parrà di guadagnare: verrà poi un cattivo figliuolo a sperperare, verrà la disoccupazione, la malattia, verrà la mano di Dio e tu angosciosamente dovrai ripetere: « Ho lavorato tutta la vita, e non ho avanzato niente! ». Per totam noctem laborantes, nihil cepimus. – 3. RETTITUDINE D’INTENZIONE NEL LAVORO. Talvolta nelle vie di qualche metropoli si osserva un doloroso contrasto. Un giovane spazzacamino sporco di fuliggine: ha nere le mani e le dita; ha nero il viso che si direbbe di bronzo se due occhi non brillassero di lagrime e due labbra rosse non tremassero di fame; ha nero il vestito lacero ai gomiti e consunto ai ginocchi. Accanto a lui che soffre passa la dama splendente: ha una collana di diamanti al collo, ha diamanti agli orecchi, diamanti sulle dita, diamanti sulla veste di seta. Il diamante e il carbone! l’uno adorna e splende, l’altro sporca e annerisce. Eppure, in sostanza, questi due corpi sono di un medesimo elemento: il carbonio. Solo che il carbone è carbonio impuro, e il diamante è carbonio puro e cristallizzato. Oh, se potessimo prendere il carbone e purificarlo, riempiremmo il mondo di diamanti! Quello che non possiamo fare sul carbone, possiamo però farlo sul lavoro e trasformarlo in un diamante d’infinito valore, con un processo assai facile che ci ha insegnato S. Paolo: « Sive manducatis, sive bibitis, sive aliquid facitis, omnia in gloriam Dei facite ». Poveri che lavorate molto! Non è necessario per diventar santi che voi facciate cose straordinarie, che andiate come gli Apostoli a predicare il Vangelo, che diate come i martiri il vostro sangue, che maceriate come gli anacoreti il vostro corpo, basta lavorare con intenzione di piacere a Dio. Si smetta, dunque, quella turpissima abitudine di profanare il santo lavoro con la bestemmia e con i discorsi impuri! Bestemmie e turpiloqui sono uccelli rapaci che rubano tutta la vostra sostanza; questi sono la ruggine che vi farà esclamare: « Per totam noctem laborantes nihil cepimus ». – La natura è maestra dell’uomo. Ecco due insetti molto laboriosi: il ragno e l’ape. Il ragno lavora da mane a sera a stendere sui soffitti la sua trama bigia e sottile: e va, senza posa, da una trave all’altra, allunga, connette, incrocia i fili e vi disegna poligoni concentrici. L’ape, invece, passa di fiore in fiore e sugge quell’essenza che poi tramuterà, nel ronzio dell’arnia, in dolcissimo miele. E poi passerà la massaia: e mentre adirata distrugge con la scopa l’opera del ragno, sorriderà beata davanti al favo colmo. Così è nel mondo. Tutti lavorano: chi secondo la parola di Dio e chi secondo la parola del demonio. Ma quando passerà il Signore distruggerà adirato l’opera degli uni e premierà l’opera degli altri.

IL CREDO

 Offertorium

Orémus Ps XII: 4-5 Illúmina óculos meos, ne umquam obdórmiam in morte: ne quando dicat inimícus meus: Præválui advérsus eum.

[Illumina i miei occhi, affinché non mi addormenti nella morte: e il mio nemico non dica: ho prevalso su di lui.]

Secreta

Oblatiónibus nostris, quæsumus, Dómine, placáre suscéptis: et ad te nostras étiam rebélles compélle propítius voluntátes.

[Dalle nostre oblazioni, o Signore, Te ne preghiamo, sii placato: e, propizio, attira a Te le nostre ribelli volontà.]

Præfatio
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.
de Spiritu Sancto
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. Qui, ascéndens super omnes cælos sedénsque ad déxteram tuam, promíssum Spíritum Sanctum hodierna die in fílios adoptiónis effúdit. Qua própter profúsis gáudiis totus in orbe terrárum mundus exsúltat. Sed et supérnæ Virtútes atque angélicæ Potestátes hymnum glóriæ tuæ cóncinunt, sine fine dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: per Cristo nostro Signore. Che, salito sopra tutti cieli e assiso alla tua destra effonde sui figli di adozione lo Spirito Santo promesso. Per la qual cosa, aperto il varco della gioia, tutto il mondo esulta. Cosí come le superne Virtú e le angeliche Potestà cantano l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XVII: 3 Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus: Deus meus, adjútor meus.

[Il Signore è la mia forza, il mio rifugio, il mio liberatore: mio Dio, mio aiuto.]

Postcommunio

Orémus. Mystéria nos, Dómine, quæsumus, sumpta puríficent: et suo múnere tueántur. Per …

[Ci purifichino, o Signore, Te ne preghiamo, i misteri che abbiamo ricevuti e ci difendano con loro efficacia.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa).

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2).

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (257)

LO SCUDO DELLA FEDE (257)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (26)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

PARTE III

IL RINGRAZIAMENTO

ART. IV

LA S. MESSA COMPIUTA.

« Nel nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo. »

Così nella santa Messa, in questo vero compendio di tutta la religione, in questo vero spettacolo di misericordia divina, di che fummo con infinita pietà graziati da Dio, in sul presentarci ed assistervi peccatori, cademmo confusi nell’abisso delle nostre miserie dinanzi all’altare del santissimo Iddio. Qui per noi non si poteva far altro, che gridare col pubblicano dell’Evangelo: « Signore abbiate di noi pietà, che siamo peccatori! » E Dio si degnava di volgersi clemente alle nostre grida col risponderci di perdono nei riti di propiziazione, che ci preparavano alla santa azione. (Così dal principio fino al Kyrie.) Tra le braccia del perdono di Dio, alimentati della speranza della vita beata, noi abbiarn voluto allora il nostro al cantico degli Angioli associare, per dare gloria al Salvatore, che in cielo col Divin Padre riconcilia noi colpevoli. (Dal Kyrie fino all’ Evangelo). – Come tale Ei ci istruiva di sua bocca, e coi misteri di sua vita spirava nelle anime nostre la carità, che doveva consumare il Sacrificio aceettevole sull’altare del Dio vivente. (Dal Valgelo fino all’offerta del Sacrificio). Così istruiti, allora ci lasciavamo dalla madre Chiesa condurre per mano sul monte santo; e qui, Dio della misericordia! a che abbiamo mai assistito! Egli stesso, il Figliuolo di Dio, ci cadeva innanzi sacrificato: e placato Dio, ci riapriva il paradiso. (Dall’Offerta fino al Pater noster). Poi a farci poggiare così alto , si fermò tra noi Egli stesso, ci accolse in seno, ci porse l’alimento divino da poter con esso salire e vivere a vita eterna. (Dal Pater noster fino al Postcommunio). Noi nell’unione con Dio godiamo qui un saggio iniziale della beatitudine, che il Redentore ci prepara nel cielo, nostra patria. Oh quanta gloria a Dio per tanta sua bontà! Noi adunque che la gloria di Dio abbiamo veduto, corriamo ora dal monte a raccontare le meraviglie della bontà di Dio: e passando peregrini sulla terra, diamo la mano ai fratelli, per ravviarli al Padre nostro amorosissimo, che abbiamo in Cielo. Quando la buona famiglia di Tobia trattava ancora colla più tenera gratitudine il benedetto compagno e duca del periglioso viaggio del figlio, l’Angelo Raffaele, perchè di tanti beni li aveva ricolmi; e se lo guardavano in mezzo di loro quei pii, come una vera benedizione mandata da Dio: e all’improvviso se lo videro sollevarsi in aria, benedirli, salire al cielo; esclamarono attoniti: « egli era un Angelo! » E non seppero far altro, che gettarsi sul suolo atterriti ad adorare la maestà del Signore così buono con loro. Anche la gran famiglia cristiana nel santo Sacerdote, degli eccelsi doni di Dio dispensatore, riconosce l’Angelo del nuovo Testamento, che dalla croce, ove lo saldò Gesù col Sangue, deriva la maggiore benedizione nel Nome del Padre, che ci creò; e ci vuole salvi col darci a Redentore il proprio Figlio: nel Nome del Figlio, che è la nostra salute: nel Nome dello Spirito Santo, che di grazia ci vivifica nel tempo, e ci alimenterà di beatitudine nella eternità. La famiglia non può far altro che cadere per terra esclamando: amen, amen. » Sia in noi fermata tanta benedizione colla croce di Gesù, di cui si fa appunto il segno, per dare sopra di noi la benedizione col Sangue di Gesù Cristo. (Dal Postcommunio fino all’ultima benedizione).

Col Dominus vobiscum ancor con un saluto ci dà un amplesso il Sacerdote. Oh! il cuore nella foga dell’ affetto ama ripetere le sue più calde espressioni: ed una madre non finisce mai di dire la parola più cara nel cuore del figlio delle sue viscere; ed il Sacerdote nello stringerci in seno ancora una volta dice col palpito del cuore che palpita in Gesù: « su, su la mente, il cuore, il corpo coperto dalle Piaghe di Gesù! su, su tutti in Dio, a contemplare nella fonte della Divinità i misteri che abbiamo meditato. »

Principio del santo Evangelo secondo Giovanni.

Legge l’ultimo evangelo.

Adoriamo! è il santo Apostolo dell’amore, é l’amico dello sposo, è il diletto Giovanni, che riposò nel convito della carità sul petto a Gesù Cristo. Facciamoci appresso, chè, dice s. Agostino, ciò che bevette in seno a Dio, ora lo riversa sull’anime purificate. Ben fortunati anche noi, che riposiamo sul petto a Gesù, e lo teniamo stretto in cuore! Ora con Gesù prima di scendere dal santo monte contempliamo ancor la gloria di Dio. Abbiamo detto: è il bisogno che ci spingeva a cercarlo su questo altare: ora giacché tanto ci è dato, solleviam le anime nostre; varchiamo i mondi del tempo, spingiamo in alto il pensiero a contemplare in quel trono d’inaccessibile luce l’altissimo Iddio! E qui come nell’aurora sulla vetta del monte s’innalza di candidissima nube di argento leggiera leggiera, e vola in seno al ciel d’oriente, e fra le vampe di quella luce dorata par che vagheggi con amore il sole; e il sole di splendore la investe e la compenetra tutta, e la incorona, di raggianti baleni in mezzo al firmamento, ed ella riflette la sua luce color di rosa sopra gli oggetti a cui sovrasta: così a temperare l’ardenza di quello splendore, che sfolgorerebbe il pensiero, per noi Gesù si frammette, ed infrange quei dardi di luce divina, gli spezza e spande in noi come adattati alla forma della mente umana: e noi pel Verbo contempliamo Iddio.

Principio dell’evangelo secondo Giovanni.

« Nel principio era il Verbo ecc. »

Dio virtù onnipotente, sapienza infinita, e lume eterno, conosce se stesso, e genera il Verbo sua Immagine sostanziale. Così Dio Padre genera il Figliuolo Divino, il quale era già ab eterno, quando il tempo ebbe principio. Era questo Figliuolo suo Verbo, e sua Sapienza Divina, che il Signore ebbe seco nel principio del suo operare, già prima che cominciasse ogni cosa (Prov. VIII,22).

Il Verbo era appresso Dio ecc.

Questo eterno Figliuolo, Unigenito del Padre e sua Immagine, è figura della sua Sostanza, il che vuol dire suo Verbo. Non è già come l’immagine e l’espressione del pensiero umano, semplice atto che passa nell’anima che è la stessa che pensa; ma essendo Immagine Sostanziale, è una Persona distinta dal Padre. Era adunque appresso a Dio Padre: ben dice che era; e non già che nel principio è, perchè non si potesse credere che cominciasse ad essere, quando ebbero principio le cose; ma nel principio Egli era già. Nè dice che fu; perché non si potesse mai credere, che di poi abbia cessato di essere; ma si dice era, colla quale voce espresse l’eterna immutabile esistenza del Verbo (Martini, nota a questo versetto in Nuovo Test.); così ab eterno generato dal Padre della stessa Natura e Sostanza del Padre.

« Il Verbo era Dio, questo era nel principio appresso a Dio ecc. »

Dopo espressa l’unità dell’Essenza, e la distinzione della Persona del Verbo, si dà ora un saggio della Trinità. Poiché nell’essersi detto la prima volta che il Verbo era nel principio, ed era appresso Dio, si ha voluto dire, che il Verbo era nel Padre che è Dio; e ripetendosi ora che il Verbo era appresso Dio, si vuol dire che Esso è ancora nello Spirito Santo. Così può intendersi l’unione e la distinzione delle tre Divine Persone.

« Tutte le cose furono fatte per Esso, e senza di Esso niente fu fatto di ciò che è stato fatto ecc. »

Dio Padre vede nel suo Figlio tutte le cose, siccome scorgeva il disegno di tutto l’universo nel suo Eterno Creatore Pensiero. Egli così pel suo Verbo, che è la Sapienza, concepiti gli esseri, disse la sua parola di creazione; ed è questa creatrice parola di Dio tradotta in atto, che dà esistenza a tutte le cose. Adunque pel Verbo tutte le cose furono fatte, e senza di Esso non fu fatto niente di ciò che è stato fatto. Ecco, ecco la ragione di tutte le cose create. Rivolgiamo lo sguardo sopra di noi, interroghiamo noi stessi: come noi siamo fatti? come abbiamo noi cominciato ad esistere? Dove era, per dir così, il disegno, in cui si vedevano tutte le parti minute, così ordinate, perché risultare ne dovesse la nostra persona? Interroghiamo tutte le cose che ci circondano: dicano esse, perché esistono così: come, quando non erano, han potuto cominciare ad essere? Povera ragione umana! Ella dispera di poter concepire, come una cosa, che prima non era, cominciò ad essere. Dall’essere al non essere vi è una distanza, un abisso infinito, che la mente umana non può misurare. Quel tutto, che può la ragione, è il poter esclamare ragionando col filosofo: non eran le cose, non eravamo noi: noi siamo adesso; vi è adunque una Cagione Somma, che produsse tutti questi effetti. Fermiamoci un istante vediamo dappertutto accadere movimenti, e questi non esistevano in prima. Esiste pertanto il moto? Dunque può ancora la ragione come Aristotile esclamare: se esiste il moto, esistere deve il Motore che lo ha prodotto. Ma la fede ci rivela, che il disegno di tutte le cose è la ragione della loro esistenza, cioè il perché esistono esse come sono create, la Cagione Prima è il gran Motore di tutto, è il Verbo, per cui tutto è fatto, perché in Lui sono le idee archetipe di ogni cosa. In Lui dunque come in principio ed in fonte risiedeva la vita, tanto naturale, che Egli comunica agli esseri animati, quanto la spirituale, che Egli dona alle anime vivificandole all’immortalità, giustificandole alla vita eterna. – Qui poi l’Evangelista, manifestato il Principio di tutto, entra ad esporre la più grande delle opere del Verbo eterno di Dio, cioè il discendere che fece dal seno del Padre per dar la vita alle anime degli uomini giacenti nelle tenebre e nelle ombre di morte. Dimostra (così s. Ireneo) come pel Verbo il Padre eseguita la creazione dell’universo, pure pel Verbo dona vita e salute agli uomini da Lui creati.

« La vita era la luce degli uomini ecc. »

Cóme in mezzo alla creazione il Verbo lasciando correre un raggio della sua Luce divina, e comunicando un’immagine del suo Pensiero questo raggio di luce celeste, quest’immagine della Sostanziale Immagine di Dio diede vita al pensiero umano, per cui noi siamo uomini, che portiamo qualche cosa in noi che viene di Cielo, e nel Cielo siain destinati a trovar tutto che qui sentiamo mancarci: così per questa luce, che splende in noi, vediamo nelle creature uno specchio magnifico del Creatore, e gli esseri esistenti ci servono di scala per salire a quell’altezza.

« E la Luce splende tra le tenebre, e le tenebre non l’hanno compresa ecc. ecc.

Ma quando cademmo in basso, quel lume di ragione dato da Dio oscurossi così, e restò così ombrato dalle passioni, Che l’anima era nelle tenebre sepolta, senza quasi un raggio di luce che le facesse scorgere dove sono collocati i suoi sublimi destini. Il Verbo vivificante, che era luce per gli uomini là nella creazione, nel ristorare e ricreare gli uomini è là é per noi vera luce celestiale e divina, che scorge l’uomo a vita eterna. Ma le tenebre non l’hanno riconosciuta: perché gli uomini acciecati aman le tenebre più che la luce; e non vollero prevalersi di questa Luce. Benediciamo a Dio noi, che eravamo tenebre una volta ma ora poi, dice l’Apostolo, siamo luce nel Signore.

« Fu un uomo mandato da Dio, che nomavasi Giovanni: questi venne qual testimonio, affine di rendere testimonianza alla Luce, affinché per mezzo di lui tutti credessero. Egli non era la luce, ma era per rendere testimonianza della Luce ecc. »

Dopo di aver esposta la divina generazione del Verbo, che è la vera Luce dell’universo, comincia a raccontare la storia della sua generazione umana, col dire come venne mandato da Dio il precursore Giovanni. Quest’uomo nel venire a compiere la missione, si presenta mostrando di essere mandato da Dio, coi miracoli della sua nascita, colla sua vita ammirabile, colla santità della sua dottrina. Era egli adunque l’uomo più idoneo a rendere testimonianza. Ei predicava che Gesù, che si presentava qual semplice uomo, era il Cristo di Dio, venuto ad illuminare il mondo. Quando poi tutti accorrevano alla predicazione di Giovanni, e ammiravano i doni di Dio nell’uomo straordinario così, che già credevano fosse il Messia; nel sentirsi a dire subito da lui medesimo: « No, che non sono

io il Messia: ma io non sono altro che una povera voce; e sono venuto nel deserto per dirvi che vi prepariate, » intendevano che non era esso la Luce: ma sì della Luce il foriero ed il precursore, a cui dovevano credere, perché era già dal profeta Isaia predetto.

« Quegli era la Luce vera che illumina ogni uomo, che viene in questo mondo ecc. »

Egli era la vera Luce, eterna, increata, da cui ogni luce procede, per cui resta illuminato ogni uomo che viene in questo mondo. Io venni Luce nel mondo, disse Gesù, affinché chi crede in me non rimanga (Jo. XII,46) in tenebre. Chi mi segue non camminerà nelle tenebre; perché, dice san Paolo (Hebr. 1, 3.- Tim. VI, 16) Egli è lo Splendore della eterna gloria, il Candore della luce eterna, che illumina terra e cielo.

« Era nel mondo, ed il mondo per Lui fu fatto: e il mondo non lo conobbe. »

Questa Luce, vera Sapienza del Padre, era già nel mondo, perché in tutte le create cose riflette un raggio della Sapienza divina, che dà di Dio la più degna cognizione che per gli uomini aver si possa.

« Ma il mondo non la conobbe. »

vero pur troppo, che gli uomini, benché conservati tra le braccia dell’ammirabile provvidenza di Dio, voltarono le spalle al loro Creatore, che è benedetto in eterno; per loro l’aspetto medesimo del firmamento non ebbe più una voce a narrare la gloria del suo Fattore: ed abbandonati al reprobo senso, adorarono invece le creature: e quando comparve il Figliuolo di Dio, non lo vollero conoscere.

« Venne nella propria casa, ed i suoi non Lo ricevettero ecc.

Benché Egli sia comparso in mezzo al popolo suo, sua eredità e depositario dei segreti di Dio nella rivelazione affidati; i suoi non Lo vollero ricevere. Seppure non si vuol intendere qui, che il Verbo divino si preparava nella creazione la casa, dove voleva porre la sua delizia nell’abitare coi figliuoli degli uomini (Prov. VIII,31), volendo anche dei gentili fare sua eredità, porzione sua. Ma gli uomini tutt’ora non vogliono che entri in possesso del suo regno. Come i Giudei non volevano che regnasse Cristo sopra di loro, così non vogliono che regni certi potenti della terra, che Lo escludono dai loro governi, regolandosi con una politica, che non ha per fondamento la legge di Dio ed il rispetto alla sua Chiesa: non vogliono che regni gli educatori alla moda, che non prendono per fine di condurre i loro allievi colla loro coltura a conoscerlo e servirlo con amare Iddio nell’adempimento dei loro doveri: non vogliono che regni in certe famiglie molti individui pei quali servire a Dio non pare ormai che sia più tutto il dovere della vita umana. Nei pensieri di tutti questi Dio non deve entrare più, quasi non abbia più diritto sopra di loro. Per eseguire i loro disegni fanno continua guerra alla verità; affinché non si stabilisca il regno di Dio, ed essi possan vivere indipendenti: e per poco non dicono chiaro; allontanatevi, o Dio, chè siamo noi gli Dei.

« Ma a tutti quelli che lo ricevettero, diede di poter diventare figliuoli di Dio, a quelli che credono nel suo nome ecc. ecc.

Si, in tutte le nazioni, a quelli di buona volontà, che accolgono il verbo di Dio, concede grazia per Lui di diventare figliuoli di Dio in adozione, e come a tali concede loro il diritto all’eredità del regno celeste per virtù della fede, la quale è il fondamento della giustificazione.

« I quali, non per via di sangue, nè per volontà della carne; nè per volontà d’uomo, ma da Dio son nati ecc. »

Significa che la fede non ha origine dalla generazione della carne: ma bensì dalla grazia dello Spirito di .Dio; per mezzo della quale le prave inclinazioni si correggono, la mente si illumina, si purifica il cuore nell’amor santo di Dio. Non vale adunque essere figlio di Abramo secondo il sangue, nè valgono le forze della natura, né il libero arbitrio a renderci figliuoli di Dio. E solo per volontà di Dio, la Chiesa, rigenerata nel Sangue di Gesù Cristo, genera in tutte le nazioni dell’ universo i figli, che andran nella società degli eletti in Cielo a vita eterna, per virtù del Sangue di Gesù Cristo.

« Ed il Verbo si è fatto carne ecc. »

Ecco il miracolo che la fede ci rivela: un Dio incarnato, Un Dio-Uomo, fino a poter dire che si è fatto carne. Così la Carne dell’uomo nella Persona del Redentore è veramente carne di Dio, e nel beato istante, in cui fu concepita questa Carne Verginale, si trovò penetrata, dice s. Paolo, dell’unzione di Dio, non avendo altra sussistenza che quella del Verbo di Dio. La beatissima Vergine concepì, dice s. Ambrogio, ed il Verbo si è fatto carne, a fine che la carne diventasse Dio: Tunc in utero Virgo concepit, et Verbum Caro factum est, ut caro fieret Deus. Quale espressione! Prodigio divino, che la Chiesa credette di dovere far meditare sull’altare ancor rosso del Sangue di Gesù Cristo! Tra quella Carne di Gesù, ed il Verbo niente è diviso: quello che è vero dell’uno, per comunicazioni di attributi è vero dell’altra. Così perché la Carne di Gesù è stata passibile, il Verbo di Dio fatto uomo veramente ha patito: come pure perché il Verbo è eguale a Dio Padre; perciò quella Carne è assisa alla destra del medesimo; perché la natura umana sussiste nel Verbo insieme colla divina. Il Verbo adunqne si è incarnato! Qui il Sacerdote col popolo s’inginocchia in segno di grande umiltà. Poiché, come dice s. Atanasio, se non possiate sapere come il Verbo si sia incarnato, non ci è permesso tuttavia ignorare che siasi incarnato ed abbia preso carne somigliante alla nostra. Qui in luogo d’invilupparci in una ricerca inutile che sorpassa tutte le umane vedute, in luogo di voler penetrare in questi ineffabili arcani della divina Incarnazione, mentre neppure conosciamo noi stessi: quello che abbiamo da fare sopratutto, si è di benedire mille volte la misericordia infinita del nostro Dio, disceso per noi dalla sua gloria e fattosi uomo come noi siamo; e di umiliar l’intelletto a credere il Mistero, fondamento di nostra salute, e di umiliar noi stessi confusi innanzi a Dio. Questo esprimiamo nello inginocchiarci. – Ora qui a noi resta di applicare il mistero del Verbo al mistero del Sacrificio, dicendo a noi stessi; Quel Corpo, che abbiamo sacrificato e ricevuto, è la Carne di Dio! e noi siam destinati ad essere come Maria Santissima il tempio vivo, dove Dio fatto carne vuol abitare.

« Ed abitò tra noi ecc. »

« Ah! Signore, esclamiamo, per salvar l’uomo Voi, che siete la Santità Sostanziale, vi avete eletta « una Vergine, e a Lei concepita nella santità madaste lo Spirito Santo a santificarla nuovamente con grazie più abbondanti.» Eppure, dopo questa nuova santificazione, la Chiesa canta che (Hym. Te Deum) crede di non offender Maria, quando fa le meraviglie, che Voi non abbiate avuto orrore di chiudervi nel seno di tal SS. Vergine. Noi compresi da tali sentimenti entreremo in noi stessi; e giacché siamo destinati a portare nel seno il medesimo Iddio, il prepararci a questo Sacramento sarà la più grande, e la più grave occupazione della nostra vita; il trarne giovamento sarà il più ardente dei nostri desiderii; e l’abusarne il più terribile dei nostri terrori. Verremo alla santa Mensa coi cuori infiammati d’amore, qual leoni spiranti fuoco di carità, dice il Grisostomo; quali aquile, soggiunge s. Agostino, sollevate al di sopra della terra da pensieri affatto celesti. Adoperandoci per ricevere il Dio della ,gloria col medesimo spirito con cui la Benedetta fra tutte le creature lo concepì; l’esempio della SS. Immacolata sarà la nostra regola. Così pel dovere di comunicarci e di aver parte al Sacrificio sentiamo il dovere di santificarci “(Bourdaloue, Serm. dell’Annunziata). « Abbiamo veduto la sua gloria, gloria come dell’Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.» Si, l’hanno veduta gli Apostoli la gloria di Lui, e nel Battesimo suo, e ne’ suoi miracoli e sul Tabor, e fin sul Calvario ed al Sepolcro, poi nella Risurrezione e nella Ascensione; l’ha veduta la sua gloria il mondo intero, salvato dalla univérsale corruzione: l’ha ;veduta la sua gloria ne’miracoli dei Santi, eroi del Cristianesimo, nell’abolizione della schiavitù, nella santità del costurne, che il mondo.non conosceva, ne’prodigi dell’Apostolato e della carità: dappertutto si vede, si prova la grazia e la verità, che il Verbo diffonde sulla terra colla pienezza -del suo Spirito.

« Deo gratias! »

Grazie a Dio! Ma chi renderà degne grazie a Lui? Nessun altro, o Gesù, fuori di Voi, che restaste qui fra noi nelle nostre chiese, compagno del nostro peregrinaggio. Ringraziatelo Voi, o Maria SS. Noi getteremo la penna nell’impotenza di ringraziare Dio in modo degno dell’infinita sua bontà! Noi fortunati! Il gran Mistero d’Amore si chiama appunto da tutta la Chiesa Eucaristia, che vuo dire rendimento di grazie; non ci resta altro che immedesimarci qui con Gesù, per render grazie che siano degne di Dio. Quest’opera fu intrapresa per dar segno d’amore

a Gesù Sacramentato; siam pertanto contenti di condurci in fine a contemplare Gesù, che sta con noi nel Sacramento: e per Lui amare ed onorare, a Lui dedichiamo la nostra povera persona, indirizziamo.ed ordiniamo tutte le Opere nostre. Preghiamo con Maria tutti i Beati a ringraziar Dio.

CONCLUSIONE.

Noi finiamo questa 2 edizione dopo il di undici dell’aprile dell’anno 1869, festa della Messa Nuova del quinquagenario sacerdozio di Pio IX. Ci giunge un articolo della Civiltà Cattolica (giornale) scritto coi palpiti di un figlio, che non ne può più della gioia in mezzo al tripudio dei rappresentanti del mondo cattolico in Roma, come in famiglia intorno alla mensa del padre di tutti. Già l’Unità Cattolica (giornale), quando vide l’annunzio di questa festa di casa rapido come corrente elettrica per tutta la superficie della terra scuotere tutti i cuori alla preghiera, presentiva un miracolo. Il miracolo è già avvenuto; l’universo n’è testimonio. Da ogni piccol paese i popoli, nazioni anche nel terror delle rivoluzioni, presidenti di repubbliche, re, imperatori cattolici e non cattolici, tutti a gara di cuore a Roma, a Roma a consolarsi col padre, come figli giubilanti di vederlo per poco ringiovanito. La diplomazia incantata vede per la prima volta sprezzare le esigenze della fredda etichetta, e col fervore dei cuori comandarsi agli ambasciatori di correre subito a portare i saluti della tenerezzane i belli regali dell’amore per la cara festa di famiglia al gran Padre dell’umanità cristiana. I fedeli rapiti al grande spettacolo della più grande unione in preghiera nell’istesso istante preciso, che mai sia avvenuto nella storia dell’umanità, esclamano in estasi: « È qui Dio, è qui Dio; nessun può negarlo! » Noi eravamo in missione, a cui dedicammo la vita: ed abbiamo annunciato predicando a città e borghi la Messa nuova del santo Padre: e i popoli all’improvviso sorsero, come un sol uomo, si affollarono nelle chiese. Qui d’ogni condizione persone si disputano urtandosi; a fare che?… a gettarsi per terra ai preti tanto calunniati, a picchiarsi il petto, a dirsi peccatori in colpa e dimandare in carità di essere purificati; perché sospirano tanto di gettarsi in braccio a Gesù in Comunione, proprio alle otto ore, quando nella sua Messa Nuova il Padre nostro in terra va a trattare col Padre nostro in cielo i nostri interessi nel Costato di Gesù Cristo!

Dio Salvatore! È dunque forse vicina l’ora della vostra grande misericordia!… (esclamiamo colle lagrime della più consolante speranza). I poveri popoli, divorati dai mali crescenti, non ne ponno più della vita; e pare che gridino, come quel meschinello fortunato: « abbiamo ancora un padre… e in casa del padre tutti stan bene! » Solenne istante! Tra un passato che crolla e un avvenire che si paventa e si spera, ma è imminente, la società corre con lena non mai tanto affannata… L’istmo di Suez le è aperto, la via ferrata mondiale del Pacifico è compiuta; i telegrafi, come la rete di nervi le sensazioni, colla rapidità del baleno diffondono i pensieri per tutto il mondo, e portano dagli antipodi gli evviva al Papa. Ebbene? in questo vortice di movimento universale ristanno i popoli incantati un istante!… Or par che dicano: « A chi andiam noi a cercare il ben che sospiriamo: ad quem ibimus? Oh! abbastanza la filosofia incredula colle sue fole ci ha ingannato, la politica ci sugge il sangu e, il liberalismo c’incatena, la rivoluzione ci ruba danari, pane, fede, moralità, fino un resto di dignità umana, e dopo averci acclamati sovrani, ci getta un motto di scherno: ve’ che siete scimmie brutte! Intanto la guerra mondiale ci si minaccia in permanenza: colla coscrizione universale ci portano via tutti, tutti i nostri poveri figli: ahi! ahi! crudeli, ci vogliono nei figli uccidere fino le nostre speranze. In questo negro orizzonte la tremenda bufera guizza qua e là lampi sanguigni! Padre Santo, salvateci voi! Coraggio, o popoli; Pietro è qui, e stringe fra le braccia Gesù, che è solito d’incatenare le tempeste sotto del suo piede! Nella Chiesa vige lo

spirito di profezia: e noi osserviamo che quando questa, la più paurosa delle rivoluzioni, scoppiava in Francia, Pio VI pigliava la Pisside e col Sacramento sul cuore, strascinato andava a morir in esilio: ma moriva invitto colla Pisside sul cuore. – Pio IX raccolse quella Pisside, e con essa scappava salvo dagli assassini, e ritornava invitto a Roma. Ora che questo mostro di rivoluzione divora se stesso e nel fremito della morte minaccia sterminio universale, Pio IX alza nel calice del Sacramento Gesù in Sacrificio e grida piangendo: « Miei figliuoli, pigliate cuore; QUI È LA VITA! »

Si, questa è la vita dell’umanità immortale, che è la Chiesa. Gesù Cmisto in Sacramento! Anche i fenomeni, che questo Verbo nella creazione produce in natura, sono sovente i veli di questo più gran Mistero del suo amore. In vero voi, che scrutate la natura, per scoprire che cosa sia questo misterioso fenomeno, la vita; e credete trovarla nei vegetali: o botanici, diteci voi che cosa sia la vita nei vegetali? E un vortice nell’organismo, che si sviluppa per l’elettricità, assorbe e ributta gli elementi. Vel concediamo: ma vedete questa è immagine della vita di questo gran corpo, la Chiesa, che vive in Gesù! In essa, qual organismo in perfezione! quanto dell’elettrico nella carità! quanta azione di vita, che assorbe i buoni, rigetta i mali e fiorisce sempre in prosperità! Psicologici, voi credete comprendere la vita negli esseri animali, e la dite essere l’attuazione del sentimento nell’organismo elaborato degli animali. Ve lo lasciam dire; ma voi vedete come questo fenomeno dimostri somma la potenza di vita in questa attuazione di sentimento, che scote tutta la cristianità per l’orbe, e si unifica nel suo Capo! Anatomici, voi poi vi compatiamo; se cercate la vita cogli scalpelli in mano, e confessate che è un quid misterioso che vi sfugge sempre! ma vel diremo noi che cosa è la vita, (noi che colla luce mistica dei nostri santi misteri vediam fin dentro nei tenebrosi misteri, in cui le scienze vostre vi inabissano), noi vi diremo: Che la vita è l’azione di Dio, è il soffio della Divinità! È la vita nel Verbo di Dio, che sostiene tutto che per Lui fu fatto; ed il Verbo Divino è qui in Sacramento. È qui dunque nell’Essenza Divina la vita. No, non abbiam paura della morte noi che viviamo unificati col Capo il Papa, in Gesù Cristo. Ecco: ora i popoli sono raccolti in orazione paurosi come gli Apostoli nel Cenacolo insieme con Maria; e il Pontefice dell’Immacolata, mentre la Babele della rivoluzione cade in rovina, sull’altare del santo Cenacolo pubblica la Bolla del Concilio Ecumenico, e proclama la Pentecoste: che rinnova il mondo in Gesù Cristo.

Noi concludiamo quest’Opera dicendo col pianto della consolazione: LA VITA dell’umanità, che ci salva, È GESU’ CRISTO IN SACRIFICIO NEL SACRAMENTO!

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (32): “PIO VI (2)”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (32)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(PIO VI – 2)

Costituzione “Auctorem fidei” a tutti i fedeli, 28 agosto 1794.

Errori del Sinodo di Pistoia.

Premessa.

2600. … Dopo che il Sinodo di Pistoia è uscito dalle tane in cui era rimasto nascosto per qualche tempo, non c’è stato nessuno tra coloro che hanno sentimenti pii e saggi riguardo alla religione più eminente, che non percepisse subito che il disegno degli autori era quello di riunire in un unico corpus i semi delle false dottrine che avevano precedentemente diffuso per mezzo di molti libellisti, di far rivivere errori da tempo proscritti e di negare ogni credibilità e autorità ai decreti apostolici con cui erano stati proscritti.

(Ansiosi di soffocare il male emergente) … Abbiamo prima sottoposto gli Atti del Sinodo pubblicati dal Vescovo (Scipione de Ricci) all’esame di quattro Vescovi assistiti da altri teologi del clero secolare; poi abbiamo addirittura incaricato una commissione composta da diversi reverendissimi Cardinali e altri Vescovi di esaminare attentamente gli Atti nella loro interezza, raccogliendo i passaggi che si contraddicono, e di discutere le proposte selezionate. Abbiamo ricevuto le posizioni espresse oralmente o per iscritto in nostra presenza; tutti erano del parere che fosse necessario sia respingere il sinodo nella sua interezza, sia qualificare come censure più o meno severe la maggior parte delle proposte che vi erano state raccolte, alcune in sé, altre tenendo conto delle relazioni tra le proposte; dopo aver ascoltato le osservazioni e averle esaminate con attenzione, ci siamo anche preoccupati che alcuni argomenti principali tratti dal sinodo nel suo complesso, e ai quali sono principalmente collegate, in modo diretto o indiretto, le posizioni da rimproverare diffuse dal sinodo, siano messi in un certo ordine, e che ciascuno sia colpito dalla censura che gli è propria.

(Per scongiurare ogni artificioso tentativo di discolpa, sostenendo) … che ciò che è stato detto con troppa severità in un luogo possa essere spiegato o corretto meglio altrove, … si è seguita la strada migliore, che consiste nell’esporre quelle proposizioni che nascondono sotto il manto dell’ambiguità differenze di significato pericolose o sospette, in modo da portare alla luce la falsa concezione alla cui base si trova un errore riprovato dalla concezione cattolica …

Sull’oscuramento delle verità nella Chiesa.

2601. 1. La proposizione che afferma: “Negli ultimi secoli si è diffuso un generale oscuramento su verità di grande importanza che riguardano la religione e che sono alla base della fede e della dottrina morale di Gesù Cristo” (è) eretica.

Del potere attribuito alla comunità della Chiesa di essere comunicata con i suoi Pastori.

2602. 2. La proposizione che afferma: “Il potere è stato dato da Dio alla Chiesa per essere comunicato ai pastori che sono i suoi ministri per la salvezza delle anime”, se si intende in questo senso che il potere del ministero e del governo ecclesiastico derivi dalla comunità dei fedeli ai pastori, (è) eretica.

Dalla denominazione di “capo ministeriale” attribuita al Pontefice Romano.

2603. 3. D’altra parte (la proposizione) che dichiara: “Il Romano Pontefice è il capo ministeriale”, se viene spiegata nel senso che non è da Cristo, nella persona del beato Pietro, ma dalla Chiesa che il Romano Pontefice riceva il potere del suo ministero con il quale, come successore di Pietro, vero Vicario di Cristo e capo della Chiesa, ha potere su tutta la Chiesa, (è) eretica.

Dal potere della Chiesa di stabilire e sancire una disciplina esterna.

2604. 4. La proposizione che afferma: “È un abuso dell’autorità della Chiesa trasferirla oltre i limiti della dottrina e della morale a cose esterne, ed esigere con la forza ciò che dipende dalla persuasione e dal cuore”, e anche: “È molto meno appropriato esigere con la forza una sottomissione esterna ai suoi decreti”, se con questi termini indefiniti “estendere alle cose esterne” considera un abuso dell’autorità della Chiesa l’uso del potere che ha ricevuto da Dio e che gli stessi Apostoli hanno usato per stabilire e sancire una disciplina esterna, (è) eretica.

2605. 5. Nella parte in cui (il Sinodo) insinua che la Chiesa non abbiia l’autorità di esigere la sottomissione ai suoi decreti con mezzi diversi da quelli della persuasione, nella misura in cui intende dire che la Chiesa “non abbia ricevuto da Dio, oltre al potere di dirigere con il consiglio e l’esortazione, anche quello di comandare con le leggi e di giudicare e costringere con giudizi esterni e pene salutari coloro che deviano e persistono”, si inoltra in un sistema già condannato come eretico.

I diritti indebitamente attribuiti ai Vescovi.

2606. 6. La dottrina del sinodo che afferma: “Siamo convinti che il Vescovo abbia ricevuto da Cristo tutti i diritti necessari per il buon governo della diocesi”, come se per il buon governo di una diocesi non fossero necessarie norme più elevate sia in materia di fede e di morale che di disciplina generale, e che i sovrani Pontefici ed i Concili generali abbiano il diritto di emanare per tutta la Chiesa, (è) scismatica, quanto meno errata.

2607. 7. Allo stesso modo, quando esorta il Vescovo a “ricercare con zelo uno stato più perfetto della disciplina ecclesiastica”, e questo “contro tutte le consuetudini contrarie, le esenzioni, le riserve che contrastano con il buon ordine della diocesi, per la maggior gloria di Dio e la maggior edificazione dei fedeli”, perché suppone che sia permesso al Vescovo di governare e decretare secondo il proprio giudizio e secondo la propria volontà, contro le consuetudini, le esenzioni e le riserve che esistono, sia nella Chiesa nel suo insieme sia in una provincia, senza l’approvazione e senza l’intervento del potere gerarchico superiore da cui provengono o da cui sono state approvate e a cui hanno dato forza di legge, (questa dottrina) porta allo scisma e al sovvertimento del governo gerarchico, ed è erronea.

2608. 8. Allo stesso modo, poiché afferma di essere convinta che “i diritti che il Vescovo ha ricevuto da Gesù Cristo per governare la Chiesa non possano essere né alterati né impediti, e (che) se dovesse accadere che l’esercizio di questi diritti sia stato interrotto per qualsiasi motivo, il Vescovo può sempre e deve recuperare i suoi diritti originari ogni volta che il bene della Chiesa lo richieda”, nella misura in cui suggerisce che l’esercizio dei diritti episcopali non possa essere limitato da alcun potere superiore ogni qualvolta il Vescovo, a suo giudizio, lo ritenga meno adatto al bene superiore della Chiesa, (esso) conduce allo scisma e alla sovversione del governo gerarchico ed è erronea”.

Il diritto falsamente attribuito ai Sacerdoti dell’ordine inferiore per i decreti della fede e della disciplina.

2609. 9. La dottrina che dichiara: “La riforma degli abusi riguardanti la disciplina ecclesiastica debba dipendere in egual misura, nei sinodi diocesani, dal Vescovo e dai parroci, ed essere decisa da loro in egual misura, e senza che la sottomissione decisionale non sia dovuta ai suggerimenti ed agli ordini dei Vescovi”, (è) falsa, temeraria, lede l’autorità episcopale, sovverte il governo gerarchico, promuove l’eresia ariana che fu rinnovata da Calvino.

2610. 10. Allo stesso modo la dottrina in cui si dice che i parroci e gli altri Sacerdoti riuniti in sinodo sono giudici della fede insieme al Vescovo, e in cui allo stesso tempo si insinua che il giudizio in materia di fede appartenga a loro come un diritto proprio, ricevuto ugualmente con l’ordinazione, (è) falsa, temeraria, sovverte l’ordine gerarchico, mette in discussione la fermezza delle definizioni e dei giudizi dogmatici della Chiesa, quantomeno erronea.

2611. 11. La proposizione che afferma che secondo una disposizione degli antichi, risalente al tempo degli Apostoli e conservata fino ai secoli più belli della Chiesa, si riceveva “che i decreti, o le definizioni, o le decisioni anche delle sedi più grandi, non erano accettate se non erano riconosciute e approvate dal sinodo diocesano” (è) falsa, avventata, deroghi nella sua generalità all’obbedienza dovuta alle costituzioni apostoliche, ma anche alle decisioni emanate dal legittimo potere gerarchico, favorendo lo scisma e l’eresia.

Calunnie contro alcune decisioni in materia di fede emanate da alcuni secoli.

2612. 12. Le affermazioni del Sinodo che si riferiscono in toto a decisioni in materia di fede prese alcuni secoli fa, e che presenta come decreti provenienti da una singola Chiesa particolare o da alcuni pastori, senza essere supportati da sufficiente autorità, come idonei a corrompere la purezza della fede e a suscitare problemi, e come imposti con la forza, e in virtù dei quali si continuano ad infliggere nuove ferite, (sono) false, capziose, avventate, scandalose, dannose per i Romani Pontefici e per la Chiesa, deroghino all’obbedienza dovuta alle Costituzioni Apostoliche, (siano) scismatiche, perniciose e quanto meno erronee.

Della pace detta di Clemente IX.

2613. 13. La proposizione riportata negli Atti del Sinodo, che insinua che Clemente IX abbia ristabilito la pace nella Chiesa approvando la distinzione tra diritto e fatto nella sottoscrizione della forma prescritta da Alessandro VII, (è) falsa, avventata e ingiuriosa per Clemente IX.

2614. 14. Ma nella misura in cui approva questa distinzione, lodando coloro che vi aderiscono e vituperando i suoi oppositori, (è) avventata, perniciosa, dannosa per i sovrani Pontefici, e promuove lo scisma e l’eresia.

Sulla formazione del corpo della Chiesa.

2615. 15. La dottrina che propone di considerare la Chiesa “come un unico Corpo mistico, formato da Cristo che ne è il capo e dai fedeli che ne sono le membra, grazie a quell’ineffabile unione che ci fa diventare in modo mirabile un solo Sacerdote con Lui, una sola vittima, un solo perfetto adoratore di Dio Padre in spirito e verità”, se si intende in questo senso che solo coloro che sono perfetti adoratori in spirito e verità appartengano al corpo della Chiesa, (è) eretica.

Sullo stato di innocenza.

2616. 16. La dottrina del Sinodo sullo stato di felice innocenza, così come è presentato in Adamo prima del peccato, come comprendente non solo l’integrità ma anche la rettitudine interiore con l’impulso verso Dio attraverso l’amore della carità e la santità originaria che è stata in qualche modo ripristinata dopo la caduta, in quanto, nel suo insieme, suggerisce che questo stato sia una conseguenza della creazione, un debito derivante dall’esigenza e dalla condizione naturale della natura umana, e non un beneficio gratuito di Dio, (è) falsa, già condannata in Baio (cf.1901-1980) ed in Quesnel (cf. 2434-2437), erronea e favorisce l’eresia di Pelagio.

Sull’immortalità considerata come condizione naturale dell’uomo.

2617. 17. La proposizione enunciata nei seguenti termini: “Insegnato dall’Apostolo, consideriamo la morte non già come condizione naturale dell’uomo, ma come in realtà la giusta pena del peccato originale”, in quanto implica falsamente, sotto il nome dell’Apostolo, che la morte, inflitta nello stato presente come giusta pena del peccato con la giusta sottrazione dell’immortalità, non fosse la condizione naturale dell’uomo, come se l’immortalità non fosse un beneficio gratuito ma la condizione naturale, (è) capziosa, avventata, offensiva nei confronti dell’Apostolo e già condannata (cf. 1978).

2618 18. La dottrina del Sinodo che dichiara: “Dopo la caduta di Adamo, Dio annunciò la promessa di un futuro liberatore e volle consolare il genere umano con la speranza della salvezza che Gesù Cristo avrebbe portato”, e d’altra parte: “Dio ha voluto che il genere umano passasse attraverso vari stati prima che arrivasse la pienezza dei tempi”; e in primo luogo perché nello stato di natura “l’uomo lasciato ai propri lumi impari a diffidare della ragione cieca e abbandoni le sue aberrazioni per desiderare l’aiuto di una luce superiore”, questa dottrina, così com’è, (è) capziosa; e se viene intesa come desiderio di aiuto di una luce superiore in vista della salvezza promessa da Cristo, e verso la quale – si suppone – l’uomo avrebbe potuto muoversi con ciò che restava delle proprie luci, (è) sospetta, favorendo l’eresia semipelagiana.

Sulla condizione dell’uomo sotto la legge.

2619. 19. Allo stesso modo (la dottrina) che segue, affermando che l’uomo sotto la legge, “essendo impotente ad osservarla, divenne trasgressore, non certo per colpa della legge, che era molto santa, ma per colpa dell’uomo che sotto la legge senza la grazia divenne sempre più trasgressore” e che aggiunge che “la legge, se non guarì il cuore dell’uomo, fece (tuttavia) sì che egli conoscesse i suoi mali e che, convinto dei suoi mali, desidera la grazia di un mediatore”, in quanto implica in modo generale che l’uomo è diventato trasgressore per la mancata osservanza della legge che non era in grado di osservare, come se “colui che è giusto potesse comandare qualcosa di impossibile, o che colui che è buono condannasse l’uomo per qualcosa che non poteva evitare”: (è) falsa, scandalosa, empia, condannata in Baio (cf. 1954).

2620.. 20. Nella misura in cui si dà ad intendere che l’uomo sotto la legge potrebbe senza la grazia concepire il desiderio della grazia del mediatore ordinata alla salvezza promessa da Cristo, come se “non fosse la grazia stessa a farcela chiedere” (II Concilio di Orange, Can. 3, – cf. 373) la proposizione, così com’è, (è) capziosa, sospetta, favorisce l’eresia semipelagiana.

Sulla grazia illuminante ed eccitante.

2621. 21. La proposizione che afferma: “La luce della grazia, quando è sola, fa conoscere solo la disgrazia della nostra condizione e la gravità del nostro male; in tal caso la grazia produce lo stesso effetto che produceva la legge; per questo è necessario che Dio crei nel nostro cuore un santo amore e ispiri una santa dilezione contraria all’amore che domina in noi; questo santo amore e questa santa dilezione sono propriamente la grazia di Gesù Cristo, l’ispirazione della carità con la quale facciamo di un santo amore ciò che abbiamo riconosciuto. Questa è la radice da cui germogliano le opere buone; questa è la grazia del Nuovo Testamento che ci libera dalla schiavitù del peccato, costituendoci figli di Dio”, nella misura in cui intende dire che è propriamente grazia di Gesù Cristo solo quella grazia che crei nel cuore il santo amore e ci faccia agire, o ancora: con la quale l’uomo liberato dal peccato è costituito figlio di Dio, e che non è propriamente grazia di Cristo anche quella grazia con la quale il cuore dell’uomo sia toccato dall’illuminazione dello Spirito Santo (Trento,VI sessione, cap. 5 1525), e che non c’è una grazia che non sia quella di Cristo. (5 1525), e che non esista una vera grazia interiore di Cristo a cui si resista, (è) falsa, capziosa, porta all’errore condannata come eretica nella seconda proposizione di Giansenio e lo rinnova (cf. 2002).

Sulla fede come prima grazia.

2622. 22. La proposizione che insinua che la fede “con la quale inizia la serie delle grazie e con la quale, come con una prima voce, siamo chiamati alla salvezza e alla Chiesa” è essa stessa la virtù più eccellente della fede con la quale gli uomini sono chiamati fedeli e sono, come se non ci fosse prima questa grazia che, “come precede la volontà, precede anche la fede”, (è) sospetta di eresia, sa di eresia, già condannata in Quesnel (cf. 2427),

l doppio amore.

2623. 23. La dottrina del Sinodo sul doppio amore della cupidigia dominante e della carità dominante, che afferma che l’uomo, senza la grazia,sia sotto l’impero del peccato e che in questo stato, a causa dell’influsso generale della cupidigia dominante, infetti e corrompa tutte le sue azioni, in quanto insinua che finché è soggetto alla servitù, o in stato di peccato, privato di questa grazia con la quale è liberato dalla servitù del peccato e costituito figlio di Dio, l’uomo sia talmente dominato dalla cupidigia che per l’influsso generale di essa tutte le sue azioni siano infette e corrotte in sé, o che tutte le opere compiute prima della giustificazione, qualunque sia il loro principio, siano peccati, come se in tutte le sue azioni il peccatore fosse soggetto alla cupidigia dominante, (è) falsa, perniciosa, che conduce nell’errore, condannata come eretica dal Concilio di Trento, e condannata nuovamente in Baio, (art. 40 1557,1940).

2624. 24. Ma poiché così, tra la cupidigia dominante e la carità dominante, non si pongono gli affetti medi, impiantati dalla natura stessa e lodevoli nella loro stessa natura, che, con l’amore della beatitudine e la tendenza naturale al bene, “sono rimasti per così dire gli ultimi contorni e resti dell’immagine di Dio”, come se “tra l’amore divino che ci conduce al Regno e l’amore umano illecito che è condannato” non ci fosse un “amore umano lecito che non sia condannato”, (questa dottrina è) falsa, già condannata (cf. 1938, 2307).

Del timore servile.

2625. 25. La dottrina che afferma che il timore delle pene in modo generale “poossa dirsi non un male solo se almeno contribuisca a frenare la mano, come se lo stesso timore dell’inferno, che la fede insegna debba essere inflitto per il peccato, non fosse di per sé buono e utile, in quanto dono soprannaturale e movimento ispirato da Dio che prepara all’amore della giustizia”, (è) falsa, avventata, pernicioa, lesiva dei doni divini, già condannata (cf. 1456), contraria alla dottrina del Concilio di Trento (cf. 1526, 1678), nonché all’opinione comune dei Padri secondo cui “è necessario”, secondo l’ordine abituale di preparazione alla giustizia, “che entri prima il timore, attraverso il quale viene la carità: il timore è la medicina, la carità è la salute”.

Sulla punizione di coloro che muoiono con il solo peccato originale.

2626. 26. La dottrina che respinge come una favola pelagiana questo luogo degli inferi (che i fedeli chiamano comunemente il limbo dei bambini) in cui le anime di coloro che sono morti con il solo peccato originale sono punite con la pena della dannazione, senza la pena del fuoco, come se coloro che rifiutano la pena del fuoco introducessero con ciò questo luogo e questo stato intermedio, senza colpa e senza pena, tra il Regno di Dio e la dannazione eterna, di cui i pelagiani hanno fabbricato, (è) falsa, temeraria, offensiva per le scuole cattoliche.

Della forma sacramentale accompagnata da una condizione.

2627. 27. La decisione del sinodo che, con il pretesto di conformarsi agli antichi canoni, manifesta l’intenzione, nel caso di un Battesimo dubbio, di omettere ogni menzione della forma condizionata, (è) avventata, contraria alla prassi, alla legge e all’autorità della Chiesa.

Partecipazione al Sacrificio della Messa.

2628. 28. La proposta del Sinodo che, dopo aver stabilito che “la partecipazione alla vittima è parte essenziale del sacrificio”, aggiunge che “tuttavia non condanna come illecite quelle Messe in cui gli assistenti non ricevano la Comunione sacramentale perché partecipano, anche se in modo meno perfetto, alla vittima stessa ricevendola spiritualmente”, nella misura in cui insinua che manchi qualcosa all’essenza del sacrificio in questo sacrificio che viene presentato senza che nessuno vi partecipi o senza che coloro che vi partecipano partecipino sacramentalmente o spiritualmente alla vittima, e come se si dovessero condannare come illecite le Messe in cui comunica solo il Sacerdote e in cui non partecipa nessuno che si comunichi sacramentalmente o spiritualmente, (è) falsa, erronea, sospetta di eresia e sa di eresia.

Sull’efficacia del rito di consacrazione.

2629. 29. La dottrina del Sinodo, che si impegna a presentare la dottrina della fede relativa al rito della consacrazione, trascurando le questioni scolastiche sul modo in cui Cristo è nell’Eucaristia – questioni dalle quali i parroci, che hanno l’ufficio di insegnare, sono esortati ad astenersi -, si limita a queste due sole proposizioni 1) dopo la consacrazione Cristo è veramente, realmente e sostanzialmente sotto le specie; 2) allora cessa tutta la sostanza del pane e del vino e rimangono solo le specie, e omette del tutto di menzionare la transustanziazione o conversione di tutta la sostanza del pane nel corpo e di tutta la sostanza del vino nel sangue, che il Concilio di Trento ha definito come articolo di fede (cf. 1642, 1652), e che è contenuta nella professione solenne di fede (cf. 1866), in quanto con questa omissione sconsiderata e molto sospetta si sottrae la conoscenza di un articolo che appartiene alla fede, nonché di un termine consacrato dalla Chiesa per proteggere la sua confessione di fede dalle eresie, e si tende così a dimenticarlo come se fosse una questione puramente scolastica, (essa) è perniciosa, deroga all’esposizione della verità cattolica sul dogma della Transustanziazione e favorisce gli eretici.

Sull’applicazione del frutto del sacrificio.

2630. 30. La dottrina del Sinodo con cui professa “di credere che l’oblazione del Sacrificio si estenda a tutti, in modo tale però che nella liturgia si possa fare una speciale commemorazione di alcuni fedeli, vivi o defunti, pregando Dio in modo particolare per loro”, ma subito dopo aggiunge “ma non perché crediamo che sia in potere del Sacerdote applicare il frutto del sacrificio a chi vuole; al contrario, condanniamo questo errore come gravemente offensivo dei diritti di Dio, che solo può distribuire i frutti del Sacrificio a chi vuole e secondo la misura che gli piace, e di conseguenza dichiariamo che è una “falsa opinione, destinata al popolo, che coloro che fanno l’elemosina al Sacerdote a condizione che celebri una Messa ne ricevano un frutto speciale”, se si intende nel senso che, oltre alla particolare commemorazione e preghiera, un’offerta o un’applicazione speciale del Sacrificio fatta dal Sacerdote non è più utile, a parità di altre condizioni, a coloro per i quali egli offre il Sacrificio che a tutti gli altri, come se nessun frutto speciale venisse dall’applicazione speciale che la Chiesa raccomanda e prescrive di fare per particolari persone o ordini di persone, specialmente da parte dei pastori per le loro pecore – il che deriva, per così dire, da un precetto divino ed è stato espressamente dichiarato dal santo Concilio di Trento (XXIII Sessione, De la reforme, cap. 1), (è) falsa, avventata, perniciosa, dannosa per la Chiesa, e conduce all’errore già condannato da Wyclif (cf. 1169).

Sull’ordine da osservare nel culto.

2631. 31. La proposta del Sinodo secondo cui, per l’ordinamento degli Uffici divini, e secondo l’antica consuetudine, è opportuno che in ogni chiesa vi sia un solo altare, e che sia gradito al Sinodo che questa consuetudine venga ristabilita, (è) avventata, lesiva di un’antichissima e pia consuetudine, in vigore e approvata da molti secoli nella Chiesa, soprattutto in quella latina.

2632. 32. Allo stesso modo, la prescrizione che vieta di porre sugli altari recipienti contenenti reliquie sacre e fiori (è) avventata, lesiva del pio e sperimentato uso della Chiesa.

2633. 33. La proposta del Sinodo di rimuovere le cause che hanno in parte portato a trascurare i principi dell’ordine della liturgia, “richiamandola ad una maggiore semplicità di riti, celebrandola in lingua volgare e dicendola ad alta voce”, come se l’ordine della liturgia ricevuto e approvato dalla Chiesa derivasse in parte da una dimenticanza dei principi da cui deve essere governato, (è) avventata, offensiva per le orecchie pie, oltraggiosa per la Chiesa, e favorisce i rimproveri degli eretici nei suoi confronti.

Sull’ordinanza della penitenza.

2634. 34. La dichiarazione del sinodo in cui, dopo aver detto che l’ordinanza della penitenza canonica è stata stabilita dalla Chiesa antica sull’esempio degli Apostoli in modo tale da essere comune a tutti, e non solo per la colpa, ma soprattutto per disporre alla grazia, aggiunge che “riconosce in questa venerabile e mirabile ordinanza tutta la dignità del Sacramento così necessario, liberata da tutte le sottigliezze che vi sono state aggiunte nel corso del tempo”, come se con l’ordinanza secondo la quale questo Sacramento venga abitualmente amministrato in tutta la Chiesa, senza il completamento del tempo della penitenza canonica, la sua dignità fosse stata diminuita, (è) avventata, scandalosa, che porta al disprezzo della dignità del Sacramento come è abitualmente amministrato in tutta la Chiesa, e dannoso per la Chiesa stessa.

2635. 35. La proposta si riassume nei seguenti termini “Se la carità è troppo debole all’inizio, per ottenere un aumento di questa carità è necessario che il Sacerdote faccia precedere abitualmente quegli atti di umiliazione e di penitenza che sono sempre stati raccomandati dalla Chiesa; ridurre questi atti a qualche preghiera o a qualche digiuno dopo l’assoluzione ricevuta sembra essere più un desiderio materiale di mantenere questo Sacramento sotto il semplice nome di “penitenza” che un mezzo illuminato capace di aumentare il fervore della carità che deve precedere l’assoluzione. – Siamo certamente lontani dal disapprovare la pratica di imporre penitenze da eseguire dopo l’assoluzione; se tutte le nostre opere buone hanno sempre i loro difetti, dobbiamo temere a maggior ragione di aver lasciato trapelare molte imperfezioni nell’opera così difficile e così importante della nostra riconciliazione, nella misura in cui ciò fa pensare che le penitenze imposte da compiere dopo l’assoluzione siano da considerare più come un supplemento per le colpe commesse nell’opera della nostra riconciliazione che come penitenze veramente sacramentali e soddisfacenti per i peccati confessati, come se, per conservare la vera realtà del Sacramento e non solo il suo nome, fosse ordinariamente necessario che gli atti di umiliazione e di penitenza imposti come modalità di soddisfazione sacramentale precedano l’assoluzione, (è) falsa, avventata, offensiva della prassi della Chiesa, che porta all’errore definito eresia da Pierre d’Osma (cf. 1415 ; cfr. 2316).

Sulla disposizione preliminare necessaria per ammettere i penitenti alla riconciliazione.

2636. 36. La dottrina del sinodo che, dopo aver detto: “Quando ci sono segni inequivocabili della predominanza dell’amore di Dio nel cuore di un uomo, egli può essere giustamente giudicato degno di essere ammesso alla partecipazione al sangue di Gesù Cristo che si attua nei Sacramenti”, aggiunge: “le conversioni presunte che si realizzano per logoramento non sono di solito né efficaci né durature”, di conseguenza “il pastore d’anime deve insistere su segni inequivocabili della predominanza della carità prima di ammettere i suoi penitenti ai Sacramenti” – segni di cui si dice poi (par. 17) che “il pastore può dedurli da una stabile lontananza dal peccato e dal fervore nelle opere buone”, mentre d’altra parte questo “fervore di carità” viene presentato (Decreto sulla penitenza Par. 10) come la disposizione che deve precedere l’assoluzione”, se si intenda in questo senso che non è richiesta solo la contrizione imperfetta che talvolta viene chiamata “attrizione”, anche se unita all’amore con cui l’uomo comincia ad amare Dio come fonte di ogni giustizia (cfr. 1526), né solo la contrizione formata dalla carità, ma che sia richiesto anche il fervore della carità dominante in modo generale e assoluto, provato da una lunga esperienza attraverso il fervore per le opere buone, perché un uomo sia ammesso ai Sacramenti e perché i penitenti in particolare siano ammessi al beneficio dell’assoluzione, (è) falsa, avventata, di natura tale da turbare la pace delle anime, contraria alla prassi sicura e provata della Chiesa, pregiudizievole per l’efficacia dei Sacramenti e ingiuriosa.

Potere di assolvere.

2637. 37. La dottrina del Sinodo che dice del potere di assolvere ricevuto con l’ordinazione: “dopo l’istituzione delle diocesi e delle parrocchie è opportuno che ciascuno eserciti questa giurisdizione sulle persone a lui soggette o per territorio o per diritto personale, perché altrimenti ne deriverebbero disordine e confusione”, nella misura in cui dopo l’istituzione delle diocesi e delle parrocchie dice solo “è opportuno, per evitare la confusione, che il potere di assoluzione sia esercitato sui sudditi”, se ciò sia inteso nel senso che per l’uso valido di questo potere non c’è bisogno di questa giurisdizione ordinaria o delegata senza la quale, secondo la dichiarazione del Concilio di Trento (cf. 1886 s), l’assoluzione data da un Sacerdote non abbia valore, (è) falsa, avventata, perniciosa, contraria al Concilio di Trento e dannosa, erronea.

2638. 38. Allo stesso modo la dottrina in cui il Sinodo, dopo aver professato che “non può non ammirare quella disciplina così venerabile dell’antichità che (dice) non ammettesse così facilmente, e forse mai, qualcuno che, dopo il primo peccato e la prima riconciliazione, fosse ricaduto in una colpa”, aggiunge “con il timore dell’esclusione perpetua dalla comunione e dalla pace, anche in punto di morte, si impone un potente freno a coloro che considerano troppo poco il male del peccato e non lo temono molto”, (è) contraria al can. 13 del primo Concilio di Nicea (cf. 129), alla decretale di Innocenzo I a Esuperio di Tolosa (cf. 212), nonché alla decretale di Celestino I ai Vescovi di Vienne e Narbonne (cf. 236), e sa di perversità di fronte alla quale il santo Pontefice ha orrore in questa decretale.

2639. 39. La dichiarazione del Sinodo sulla confessione dei peccati veniali, che si vuole non sia così frequente per evitare che tali confessioni diventino troppo spregevoli, (è) avventata, perniciosa, contraria alla pratica dei santi e delle persone pie approvata dal santo Concilio di Trento (cf. 1680).

Indulgenze.

2640. 40. La proposizione che afferma che “l’indulgenza, secondo la sua precisa nozione, non sia altro che la remissione di quella parte della penitenza che i Canoni avevano stabilito per il peccatore”, come se l’indulgenza, oltre alla pura remissione della pena canonica non si applicasse anche alla remissione della pena temporale dovuta per i peccati attuali davanti alla giustizia divina, (è) falsa, avventata, lesiva dei meriti di Cristo, condannata da tempo nell’articolo 19 di Lutero (cf. 1469).

2641. 41. Allo stesso modo, quando si dice in ciò che segue che “gli scolastici, gonfiati dalla loro sottigliezza, abbiano introdotto l’equivoco tesoro dei meriti di Cristo e dei Santi, ed hanno sostituito alla chiara nozione di assoluzione dalle pene canoniche quella confusa e falsa dell’applicazione dei meriti”, come se i tesori della Chiesa dai quali il Papa concede le indulgenze non fossero i meriti di Cristo e dei santi, (la proposizione è) falsa, lesiva dei meriti di Cristo e dei santi, condannata da tempo nell’articolo 17 di Lutero (cf. 1467).

2642. 42. Allo stesso modo, quando si aggiunge che “è ancora più deplorevole che si sia voluto trasferire questa chimerica applicazione ai defunti”, (la proposizione è) falsa, avventata, offensiva per le orecchie pie, ingiuriosa per i Pontefici Romani e per la pratica ed il senso della Chiesa universale, e conduce all’errore qualificato come eretico da Pietro d’Osma (cf. 1416), e nuovamente condannato nell’articolo 22 di Lutero (cf. 1472).

2643. 43. Infine, quando attacca nel modo più sfacciato le favole delle indulgenze, gli altari privilegiati, ecc. (è) temerario, offensivo per le orecchie pie, scandaloso, oltraggioso nei confronti dei sovrani Pontefici e della prassi diffusa in tutta la Chiesa.

Sulla riserva dei casi.

2644. 44. La proposta del Sinodo che afferma: “La riserva dei casi, ai nostri giorni, non è altro che un impedimento sconsiderato per i Sacerdoti inferiori e un suono vuoto per i penitenti abituati a non tenere conto di questa riserva, (è) falsa, temeraria, malsonante, perniciosa, contraria al Concilio di Trento (cf. 1697), e lede il superiore potere gerarchico”.

2645. 45. Allo stesso modo l’auspicio espresso che “dopo una riforma del rito e dell’ordine della Penitenza non ci sarà più spazio per tali riserve”, nella misura in cui questi termini volutamente generici implichino che una riforma del rito e dell’ordine della Penitenza fatta da un Vescovo o da un Sinodo possa abolire i casi di cui il Concilio di Trento (XIV sessione, cap. 7 1687) dichiara che il rito e l’ordine della Penitenza non possano essere aboliti, (cf. 1687) dichiara che i sovrani Pontefici possano riservarli al loro giudizio in ragione del loro supremo potere su tutta la Chiesa, la proposta è falsa, temeraria, deroga al Concilio di Trento e all’Autorità dei sovrani Pontefici e li danneggia.

Censure.

2646. 46. La proposizione che afferma che “l’effetto della scomunica sia solo esterno perché per sua natura esclude solo dalla comunione esterna della Chiesa”, come se la scomunica fosse solo una pena spirituale, che lega al cielo e obbliga le anime, (è) falsa, perniciosa, condannata nell’articolo 23 di Lutero (cf. 1473), quanto meno erronea.

2647. 47. Allo stesso modo (la proposizione) che afferma che è necessario, secondo le leggi naturali e divine, che, sia per la scomunica che per la sospensione, ci sia un esame personale preventivo, e che di conseguenza le sentenze dette ipso facto non abbiano altra portata che quella di una grave minaccia senza alcun effetto reale, (è) falsa, avventata, perniciosa, lesiva dell’autorità della Chiesa, erronea.

2648. 48. Allo stesso modo, l’affermazione che “la formula introdotta qualche secolo fa, che assolve generalmente i fedeli dalle scomuniche in cui sarebbero potuti cadere, è inutile e vana” (è) falsa, avventata, lesiva della prassi della Chiesa.

2649. 49. Allo stesso modo quella che condanna come nulle e invalide le “suspenses ex informata conscientia“, (è) falsa, perniciosa, offensiva nei confronti del Concilio di Trento.

2650. 50. Allo stesso modo, quando si insinua che non spetti solo al Vescovo usare il potere conferitogli dal Concilio di Trento (sess. XIV, can. 1, De reformatione) per imporre legittimamente una sospensione ex informata conscientia, si lede la giurisdizione dei prelati della Chiesa.

Ordinazione.

2651. 51. La dottrina del Sinodo che afferma che, per la promozione agli Ordini, secondo la consuetudine e le disposizioni dell’antica disciplina, si seguisse di solito la seguente regola: “Se un chierico si distingueva per la santità della sua vita e veniva giudicato degno di accedere agli Ordini sacri, veniva di solito promosso al diaconato o al Sacerdozio anche se non avesse ricevuto gli Ordini inferiori; e tale ordinazione non si diceva “per salto”, come sarebbe stata chiamata in seguito”.

2652. 52. Allo stesso modo (la dottrina) che suggerisce che non ci fosse altro titolo per l’ordinazione se non quello della designazione per un ministero particolare, come prescritto dal Concilio di Calcedonia (Can. 6), e prosegue (Par. 6) affermando che finché la Chiesa si è conformata a questi principi nella scelta dei Ministri sacri, l’Ordine ecclesiastico ha prosperato; ma che questi giorni felici sono passati, e che in seguito sono stati introdotti nuovi principi con i quali la disciplina nella scelta dei ministri del santuario sia stata corrotta.

2653. 53. Allo stesso modo, quando si nota, tra questi stessi principi di corruzione, che ci si sia allontanati dall’antica prassi con la quale – si dice (par. 5) – la Chiesa, seguendo le orme degli Apostoli, aveva stabilito che non fosse ammesso al Sacerdozio chi non avesse conservato l’innocenza battesimale: nella misura in cui si suggerisce che la disciplina sia stata corrotta da decreti e istituzioni che: – 1 hanno proibito le ordinazioni “per salto” – 2 o hanno approvato, per la necessità e la convenienza delle Chiese, le ordinazioni senza il titolo di un ministero particolare, come è avvenuto in particolare, da parte del Concilio di Trento, l’ordinazione per titolo patrimoniale, fatta salva l’obbedienza in virtù della quale coloro che sono stati ordinati in questo modo devono servire le necessità delle Chiese accettando gli uffici a cui, secondo i tempi e i luoghi, il Vescovo può chiamarli, come era consuetudine al tempo degli Apostoli nella Chiesa primitiva – 3 sia stata stabilita, nel diritto canonico, la distinzione dei crimini che rendono irregolari coloro che li hanno commessi, come se con questa distinzione la Chiesa si fosse allontanata dallo spirito degli Apostoli non escludendo, in modo generale e senza alcuna distinzione, dal ministero ecclesiastico tutti coloro che non abbiano conservato l’innocenza battesimale, questa dottrina (è) falsa nelle sue varie parti, temeraria, distrugge l’ordine stabilito per la necessità e la convenienza delle Chiese, reca danno alla disciplina approvata dai Canoni e in particolare dai decreti del Concilio di Trento.

2654. 54. Allo stesso modo (la dottrina) che condanna come un abuso vergognoso la concessione di qualsiasi elemosina per la celebrazione della Messa o l’amministrazione dei Sacramenti, e l’accettazione di qualsiasi reddito chiamato “dovere di stola” e, in generale, di qualsiasi tributo o onorario che possa essere offerto in occasione di suffragi o di qualsiasi funzione parrocchiale, come se i ministri della Chiesa dovessero essere accusati del reato di abuso vergognoso quando, secondo la consuetudine e le regole ricevute e approvate dalla Chiesa, si avvalgono del diritto promulgato dall’Apostolo di ricevere beni temporali da coloro ai quali amministrano i beni spirituali (Ga. VI,6) , (è) falsa, temeraria, lede il diritto ecclesiastico e pastorale, fa ingiustizia alla Chiesa ed ai suoi ministri.

2655. 55. Allo stesso modo, quando uno dichiara di desiderare ardentemente che si trovi il modo di allontanare dalle cattedrali e dalle collegiate il “clero minore” (come vengono chiamati i chierici degli Ordini inferiori) provvedendo altrimenti – per esempio, con laici di probità e di età avanzata, e assegnando loro uno stipendio adeguato – al ministero di servire le Messe e ad altri uffici come quello di accolito, ecc, come si faceva un tempo, si dice, quando tali uffici non erano ridotti a mera apparenza, in vista della ricezione degli Ordini maggiori, in quanto si biasima un’istituzione con la quale si deve garantire che le funzioni degli Ordini minori siano svolte ed esercitate solo da coloro che sono stati istituiti in essi, e questo secondo il desiderio del Concilio di Trento (Sess. XXII, cap. 17) “che le funzioni degli Ordini sacri, dal diaconato all’ostiariato, ricevute nella Chiesa con lode fin dai tempi apostolici e omesse per un certo tempo in diversi luoghi, siano ripristinate secondo i santi Canoni e non siano più derise come inutili dagli eretici”, il suggerimento (è) temerario, offende le orecchie pie, disturba il ministero ecclesiastico, diminuisce il decoro che deve essere conservato il più possibile nella celebrazione dei misteri, danneggia gli uffici e le funzioni degli Ordini minori e la disciplina approvata dai Canoni e soprattutto dal Concilio di Trento, incoraggia gli attacchi e le calunnie degli eretici contro di essa.

2656. 56. La dottrina secondo cui sembra opportuno che per gli impedimenti canonici che derivano da reati menzionati dal diritto, non si debba mai concedere o ammettere alcuna dispensa, offende l’equità e la moderazione canonica approvata dal santo Concilio di Trento, e deroga all’autorità ed alle disposizioni del diritto della Chiesa.

2657. 57. La prescrizione del Sinodo che respinge come abuso, in modo generale e senza distinzioni, qualsiasi dispensa volta a conferire ad una stessa persona più di un beneficio residenziale; anche quando aggiunge che sia certo che secondo lo spirito della Chiesa nessuno possa godere di più di un beneficio, anche semplice, deroga per la sua generalità alla moderazione del Concilio di Trento (sess. VII; cap. 5, e sess. XXIV, cap. 17).

Promessa di matrimonio e il fidanzamento.

2658. 58. La proposizione che il fidanzamento propriamente detto sia un atto puramente civile, preparatorio alla celebrazione del matrimonio, e che sia interamente soggetto alla prescrizione del diritto civile, come se un atto che prevede il Sacramento non fosse sotto questo aspetto soggetto al diritto della Chiesa, è falsa, mina il diritto della Chiesa per quanto riguarda gli effetti che derivano anche dal fidanzamento in virtù delle disposizioni canoniche, e deroga alla disciplina stabilita dalla Chiesa.

2659. 59. La dottrina del Sinodo, che afferma che “spetti solo alla suprema potestà civile, in modo originale, apporre al contratto matrimoniale impedimenti che lo rendono nullo e che sono chiamati dirimenti”; che, inoltre, questo “diritto originario” sia “legato nella sua essenza al diritto di dispensare”, aggiungendo che “è con l’assenso o la connivenza dei principi che la Chiesa ha giustamente potuto stabilire impedimenti che dirimono il contratto di Matrimonio stesso, come se la Chiesa non avesse sempre potuto e non potesse sempre stabilire di suo diritto per il Matrimonio dei Cristiani impedimenti che non solo impediscono il Matrimonio, ma lo rendono anche nullo per quanto riguarda il vincolo, e da cui i Cristiani sono legati anche in terre infedeli, e anche dispensarlo, rovescia i canoni 3, 4, 9 e 12 della XXIV sessione del Concilio di Trento (Cf. 1803 f. 1809, 1812), ed è eretica.

2660. 60. Allo stesso modo la richiesta rivolta dal Sinodo al potere civile di “sopprimere tra gli impedimenti la parentela spirituale e l’impedimento dell’onestà pubblica, la cui origine si trova nella raccolta di Giustiniano”; poi di “restringere l’impedimento di affinità e parentela, sia che provenga da un’unione libera o illecita, al quarto grado secondo il modo di calcolo civile, in linee laterali e oblique, in modo tale, tuttavia, che non rimanga alcuna speranza di ottenere una dispensa”, nella misura in cui concede al potere civile il diritto di abolire o restringere gli impedimenti stabiliti od approvati dall’autorità della Chiesa. Allo stesso modo, nella misura in cui presuppone che la Chiesa possa essere privata dal potere civile del diritto di dispensare da impedimenti stabiliti o approvati da essa, sovvertea la libertà e il potere della Chiesa, sia contraria al Concilio di Trento e derivi dal principio eretico condannato sopra (cf. 1803-1812).

Sull’adorazione dell’umanità di Cristo.

2661. 61. La proposizione che afferma: “adorare direttamente l’umanità di Cristo, e ancor più una parte di essa, sarà sempre un onore divino dato ad una creatura”, in quanto con questa parola “direttamente” intende riprovare il culto di adorazione che i fedeli rivolgono all’umanità di Cristo, come se tale adorazione, con cui si adora la stessa umanità e carne vivificante di Cristo – non per se stessa e come semplice carne, ma come carne unita alla divinità – fosse un onore divino conferito a una creatura e non piuttosto l’unica e stessa adorazione con cui si adora il Verbo incarnato con la sua stessa carne (2° Concilio di Costantinopoli, Can. 9 431; 259), è falsa, capziosa, deprezza il pio culto che è dovuto e deve essere reso all’umanità di Cristo e gli fa torto.

2662. 62. La dottrina che respinge la devozione al Sacratissimo Cuore di Gesù tra le devozioni che vengono presentate come nuove, erronee e per lo meno pericolose, se si intende questa devozione come è stata riprovevole dalla Sede Apostolica, (è) falsa, avventata, perniciosa, offende le pie orecchie e fa ingiustizia alla Sede Apostolica.

2663. 63. Allo stesso modo, rimproverando anche ai devoti del Cuore di Gesù di non aver notato che la carne santissima di Cristo, o una sua parte, o anche l’intera umanità, non possa essere adorata se è separata o scissa dalla divinità, come se i fedeli adorassero il Cuore di Gesù separandolo o scindendolo dalla divinità, mentre lo adorano in quanto è il cuore di Gesù, cioè il cuore della Persona del Verbo a cui è inseparabilmente unito, così come il Corpo di Cristo dissanguato durante i tre giorni di morte – senza essere separato o scisso dalla divinità – era adorabile nella sepoltura, (questa dottrina è) capziosa, fa ingiustizia ai fedeli devoti del Cuore di Cristo.

Sull’ordine prescritto per il compimento dei pii esercizi.

2664. 64. La dottrina che accusa di essere totalmente superstiziosa “qualsiasi efficacia attribuita ad un determinato numero di preghiere e di pie salutazioni”, come se si dovesse considerare superstiziosa l’efficacia che deriva non da un numero considerato in sé, ma dal precetto della Chiesa che prescrive un determinato numero di preghiere o di azioni esteriori per ottenere le indulgenze, per il compimento delle penitenze e, in generale, per il giusto e ordinato svolgimento del culto sacro e religioso, (è) falsa, avventata, scandalosa, perniciosa, lesiva della pietà dei fedeli, derogatoria dell’autorità della Chiesa, erronea.

2665. 65. La proposizione che afferma: “il frastuono irregolare delle nuove istituzioni chiamate esercizi o missioni, … quasi mai, o almeno molto raramente, si traduce in una conversione assoluta; e i segni esteriori che sono apparsi non sono stati altro che lampi passeggeri di una scossa naturale”, (è) avventata, sconveniente, offensiva nei confronti di un uso praticato in modo pio e salutare dalla Chiesa e fondato nella Parola di Dio.

Su come unire la voce del popolo a quella della Chiesa nella preghiera pubblica.

2666. 66. L’affermazione secondo cui “è contrario alla prassi apostolica ed ai consigli di Dio non preparare vie più agevoli perché il popolo unisca la sua voce a quella di tutta la Chiesa”, se intesa nel senso di introdurre l’uso della lingua volgare nelle preghiere liturgiche, (è) falsa, avventata, sconvolge l’ordine prescritto per la celebrazione dei misteri e produce facilmente molti mali.

Sulla lettura della Sacra Scrittura.

2667. 67. La dottrina che afferma che solo la vera incapacità giustifichi la mancata lettura delle Scritture, aggiungendo che l’oscurità sulle verità primarie della Religione che è nata dalla negligenza di questo precetto continua a diffondersi, è falsa, temeraria e disturba la tranquillità delle anime, è già stata condannata in Quesnel (cf. 2479-2485).

Sulla lettura pubblica dei libri proibiti in Chiesa.

Immagini sacre.

2668. 68 L’alto elogio con cui il Sinodo raccomanda i commentari di Quesnel sul Nuovo Testamento e altre opere favorevoli agli errori di Quesnel, anche se sono proscritti, e propone ai parroci di leggerli al popolo nelle parrocchie, dopo altre funzioni, perché contengono solidi principi di Religione, (è) falso, scandaloso, temerario, sedizioso, danneggia la Chiesa, promuove lo scisma e l’eresia.

2669. 69. La prescrizione che, tra le immagini da respingere in modo generale ed indiscriminato, perché danno occasione di errore agli ignoranti, condanna le immagini della Trinità incomprensibile, (è), per il suo carattere generale, avventata e contraria all’uso pio e consueto della Chiesa, come se non ci fossero immagini della Santissima Trinità comunemente approvate e che possano essere tranquillamente permesse.

2670. 70. Allo stesso modo, la dottrina e la prescrizione che, in modo generale, disapprovino qualsiasi culto speciale che i fedeli sono soliti rendere ad un’immagine particolare, alla quale ricorrono più che a qualsiasi altra, è avventata, perniciosa e dannosa per la pia consuetudine della Chiesa, così come per la disposizione della provvidenza per la quale “Dio non ha voluto che queste cose avvengano in tutti i santuari dei Santi, Lui che distribuisce a ciascuno ciò che è suo, come vuole”.

2671. 71. Allo stesso modo (la dottrina) che proibisce che le immagini in particolare della Beata Vergine, siano distinte da titoli, ad eccezione delle denominazioni che corrispondono ai misteri di cui si fa espressa menzione nella Sacra Scrittura, come se non fosse possibile dare a queste immagini altre pie denominazioni, che la Chiesa nelle stesse preghiere pubbliche approva e raccomanda, (è) avventata, offende le pie orecchie, fa del male alla venerazione dovuta specialmente alla Beata Vergine.

2672. 72. Allo stesso modo chi vuole sradicare come un abuso l’usanza di tenere velate certe immagini (è la dottrina) avventata, contraria alla pratica in uso nella Chiesa e introdotta per promuovere la pietà dei fedeli.

Le feste.

2673. 73. L’affermazione che l’istituzione di nuove feste abbia origine dalla negligenza nell’osservanza delle antiche e da false nozioni sulla natura e lo scopo di queste solennità (è) falsa, avventata, scandalosa, dannosa per la Chiesa e promuove gli attacchi degli eretici contro le feste celebrate dalla Chiesa.

2674. 74. La decisione del Sinodo di trasferire le feste istituite nell’anno alla Domenica, e questo in virtù del diritto che, secondo esso, spetta al Vescovo in materia di disciplina ecclesiastica nell’ordine delle cose puramente spirituali, e quindi anche di abrogare il precetto di ascoltare la Messa nei giorni in cui, secondo un’antica legge della Chiesa, questo precetto sia ancora in vigore ora; e poi in ciò che si aggiunge a proposito del trasferimento, da parte dell’autorità episcopale, al tempo di Avvento dei digiuni prescritti dalla Chiesa durante l’anno, in quanto si afferma che sia permesso al Vescovo, per diritto proprio, di trasferire i giorni prescritti dalla Chiesa per la celebrazione delle feste o per il digiuno, o di abrogare il precetto di ascoltare la Messa, (è una) proposizione falsa, che offende il diritto dei Concili generali e dei sovrani Pontefici, scandalosa, e promuove lo scisma.

Giuramenti.

2675. 75. La dottrina che afferma che nei tempi beati della Chiesa i giuramenti sembravano così contrari agli insegnamenti del Maestro divino e all’aurea semplicità del Vangelo, che “il fatto stesso di giurare senza un’estrema e ineluttabile necessità fosse considerato un atto irreligioso, indegno dell’uomo cristiano”; e d’altra parte che “la successione ininterrotta dei Padri dimostra che i giuramenti fossero considerati dal senso comune come cose proibite”; e da qui arriva a disapprovare i giuramenti che la curia ecclesiastica ha adottato – seguendo, dice, la giurisprudenza feudale – per le investiture e le Ordinazioni sacre dei Vescovi stessi; e che stabilisce che sarebbe addirittura necessario implorare dal potere secolare una legge per abolire i giuramenti che siano richiesti anche nelle curie ecclesiastiche per ricevere cariche ed uffici, ed in modo generale per qualsiasi atto della curia, (è) falsa, lede la Chiesa, lede il diritto ecclesiastico, sovverte la disciplina stabilita e approvata dai Canoni.

Conferenze ecclesiastiche.

2676. 76. La disapprovazione del Sinodo nei confronti della Scolastica, considerata come quella che “ha aperto la strada all’invenzione di sistemi nuovi e contraddittori riguardo a verità di grandissimo valore, e che alla fine ha portato al probabilismo e al lassismo”, nella misura in cui imputa alla Scolastica le colpe di alcuni in particolare che possano averne abusato o che ne abbiano abusato, (è) falsa, temeraria, offensiva nei confronti dei Dottori più santi che hanno coltivato la Scolastica per il maggior bene della Religione Cattolica, incoraggia i rimproveri ostili degli eretici contro di essa.

2677. 77. Allo stesso modo, quando si aggiunge che: “il cambiamento della forma di governo ecclesiastico, in virtù del quale i ministri della Chiesa siano arrivati a dimenticare i loro diritti, che sono allo stesso tempo i loro doveri, ha portato in ultima analisi a dimenticare il significato primitivo del ministero ecclesiastico e della sollecitudine pastorale, come se con un cambiamento di governo che è in conformità con la disciplina stabilita e approvata della Chiesa il significato primitivo del ministero ecclesiastico o della sollecitudine pastorale potesse essere dimenticato e perso, (questa è una) proposizione falsa, avventata ed errata”.

2678. 78. La prescrizione del Sinodo sull’ordine delle questioni da trattare nelle conferenze che, dopo aver detto: “in ogni articolo è necessario distinguere ciò che appartenga alla fede e all’essenza della Religione da ciò che sia proprio della disciplina”, aggiunge “in quello stesso articolo è necessario distinguere ciò che sia necessario o utile per mantenere i fedeli nello spirito da ciò che sia inutile o più gravoso di quanto la libertà dei figli della Nuova Alleanza possa sopportare, e ancor più da ciò che sia pericoloso o dannoso perché porta alla superstizione od al materialismo”, in quanto, a causa del carattere generale dei termini, comprende e sottopone ad esame anche la disciplina stabilita o approvata dalla Chiesa – come se la Chiesa, che è governata dallo Spirito di Dio, potesse stabilire una disciplina che non solo sia inutile e più gravosa di quanto la libertà cristiana possa sopportare, ma addirittura pericolosa, dannosa, che porta alla superstizione e al materialismo, (è) falsa, temeraria, scandalosa, offende le orecchie divine, fa ingiustizia alla Chiesa e allo Spirito di Dio da cui è governata, quantomeno erronea.

Rimproveri contro alcune opinioni sostenute finora nelle scuole cattoliche.

2679. 79. L’affermazione che attacca con rimproveri ed invettive alcune opinioni che si tengono nelle scuole cattoliche e sulle quali la Sede Apostolica ha ritenuto finora di non dover definire o pronunciarsi, (è) falsa, temeraria, dannosa per le scuole cattoliche e deroga all’obbedienza dovuta alle Costituzioni Apostoliche.

Delle tre norme stabilite dal Sinodo come base per la riforma dei regolari.

2680. 80. Regola I, che stabilisce in modo generale e senza distinzioni: “Lo stato regolare o monastico per sua natura non può entrare in composizione con la cura delle anime e con i compiti della vita pastorale, e quindi non può avere parte nella Gerarchia ecclesiastica senza essere in contrasto con i principi della stessa vita monastica”, (è) falsa, perniciosa, fa torto ai santi Padri ed ai capi della Chiesa che hanno associato gli istituti di vita religiosa ai compiti dell’Ordine clericale, contrariamente all’uso pio, antico e approvato della Chiesa e alle ordinanze dei sovrani Pontefici, come se “i monaci, raccomandati dalla gravità dei loro costumi e dalla santa istituzione della loro vita e della loro fede”, non fossero stati “associati agli uffici dei chierici” giustamente, non solo senza danno per lo stato religioso, ma anche per la grande utilità della Chiesa.

2681. 81. Allo stesso modo, quando si aggiunge che i Santi Tommaso e Bonaventura fossero così impegnati a proteggere gli istituti dei mendicanti contro uomini illustri che si sarebbe voluto meno calore e più cura nelle loro difese, (questa affermazione è) scandalosa, fa ingiustizia ai santissimi Dottori e incoraggia le empie invettive di autori condannati.

2682. 82. Regola II: “La moltiplicazione degli Ordini e la loro diversità producono naturalmente disordine e confusione” anche nel par. 4 che precede: “i ‘fondatori’ dei regolari che vennero dopo gli istituti monastici” aggiungendo ordini a ordini, riforme a riforme, non fecero altro che sviluppare sempre più la causa prima del male”, se si intende riferirsi a ordini ed istituti approvati dalla Santa Sede, come se la distinta varietà di compiti pii intrapresi da ordini separati dovesse, per sua natura, produrre disordine e confusione, (è) falsa, calunniosa ed un insulto ai Santi fondatori e ai loro fedeli seguaci, così come agli stessi Sommi Pontefici.

2683. 83. La Regola III che, dopo aver detto: “un piccolo corpo che rimane all’interno della società civile senza farne veramente parte, e che costituisce nello Stato una piccola monarchia, è sempre pericoloso”, per questo accusa i monasteri privati, raggruppati dal vincolo di un istituto comune, sotto un unico capo, di essere tante monarchie particolari, pericolose e dannose per la repubblica civile, (è) falsa, temeraria, dannosa per gli istituti regolari approvati dalla Santa Sede per il progresso della Religione, favorendo gli attacchi e le calunnie degli eretici nei confronti di questi istituti.

Dal sistema o insieme di ordinanze derivate dalle suddette regole, ridotto ai seguenti otto articoli per la riforma dei regolari.

2684. Art. I. Si conservi un solo Ordine nella Chiesa e si scelga tra gli altri la Regola di San Benedetto, sia per la sua eccellenza che per gli illustri meriti di quest’Ordine, in modo però che tra le cose che forse appaiono meno conformi alle condizioni del momento, la disposizione di vita istituita a Port-Royal faccia luce che permetta di esaminare ciò che si debba aggiungere o togliere.

2685. Art. II. Coloro che entreranno a far parte di questo ordine non diventeranno membri della Gerarchia ecclesiastica, né saranno promossi agli Ordini sacri, ad eccezione di uno o due al massimo che saranno istituiti parroci o cappellani del monastero, mentre gli altri rimarranno nel semplice stato di laici.

2686. Art. III. In ogni città sarà ammesso un solo monastero, che dovrà essere collocato fuori dalle mura della città, in luoghi remoti e fuori mano.

2687. Art. IV. Tra le occupazioni della vita monastica, si mantenga intatto il lavoro delle mani, ma si lasci tempo sufficiente per dedicarsi alla salmodia ed anche, se lo si desidera, allo studio delle lettere; la salmodia sia moderata, perché una lunghezza eccessiva porta alla fretta, all’inquietudine e alla distrazione; quanto più sono aumentate la salmodia, le orazioni e le preghiere, tanto più sono sempre diminuite, nella stessa proporzione, il fervore e la santità dei regolari.

2688. Art. V. Non si deve fare distinzione tra i monaci destinati al coro e quelli destinati ai ministeri; questa distinzione ha sempre dato luogo a conflitti ed alle più grandi discordie, e ha allontanato lo spirito di carità dalle comunità.

2689. Art. VI. Non sarà mai ammesso il voto di stabilità perpetua, ma la consolazione della Chiesa e l’ornamento del Cristianesimo, non lo hanno conosciuto; i voti di castità, povertà e obbedienza non saranno ammessi come regola comune e stabile. Se qualcuno vuole fare questi voti, alcuni o tutti, chieda il consiglio e il permesso del Vescovo, che però non permetterà mai che siano perpetui, né che non superino il limite di un anno; gli sarà data solo la facoltà di rinnovarli alle stesse condizioni.

2690. Art. VII. Il Vescovo avrà piena ispezione sulla loro vita, sui loro sforzi e sul loro progresso nella pietà; sarà suo compito ammettere i monaci e dimetterli, ma sempre dopo aver ricevuto il parere di quelli della comunità.

2691. Art. VIII. I regolari degli ordini rimasti, anche Sacerdoti, possono essere ammessi in questo monastero purché intendano dedicarsi alla propria santificazione nel silenzio e nella solitudine; in questo caso interverrà una dispensa dalla regola generale stabilita al n. II, ma in modo da non far loro condurre una forma di vita distinta dagli altri, in modo che non si celebrino più di una o al massimo due Messe al giorno, e che sia sufficiente che gli altri Sacerdoti concelebrino con la comunità. – Lo stesso vale per la riforma delle monache.

2692. “I voti perpetui non siano ammessi prima del quarantesimo o quarantacinquesimo anno”; le monache si dedichino agli esercizi di buon carattere, soprattutto al lavoro, e si allontanino dallo spirito carnale da cui la maggior parte è distratta; Il sistema sovverte la disciplina vigente, approvata e ricevuta già da tempo; è pernicioso, si oppone alle costituzioni apostoliche e a quelle di diversi Concili, anche generali, e poi in particolare alle disposizioni del Concilio di Trento e fa loro torto, incoraggia gli attacchi e le calunnie degli eretici contro i voti monastici e gli istituti religiosi dediti alla professione più stabile dei consigli evangelici.

Sulla convocazione di un Concilio nazionale.

2693. 85. La proposizione che afferma che anche la minima conoscenza della storia della Chiesa sia sufficiente a far riconoscere a tutti che la convocazione di un Concilio nazionale sia uno dei modi canonici con cui si possa porre fine alle controversie in materia di Religione nella Chiesa delle nazioni interessate, se viene inteso nel senso che le controversie riguardanti la fede e la morale che sorgono in una determinata Chiesa possano essere messe a tacere da un Concilio nazionale mediante una sentenza irrefragabile, come se l’inerranza nella fede e nella morale appartenesse ad un Concilio nazionale, (è) scismatica, eretica.

Comandamenti e sanzioni della Bolla.

2694. Chiediamo quindi a tutti i fedeli di Cristo, di entrambi i sessi, di non avere l’ardire di pensare, insegnare o predicare le suddette proposizioni e dottrine contrarie a quanto dichiarato nella nostra Costituzione: in modo che chiunque le insegni. le difenda o le pubblichi, o qualcuna di esse, in toto o separatamente, o ne tratti in una disputa, in pubblico o in privato – a meno che non sia per combatterle – incorrerà ipso facto e senza ulteriori dichiarazioni nelle censure ecclesiastiche e nelle altre pene previste dal diritto contro chi commette atti simili.

2695. D’altronde, nel riprovare espressamente le suddette proposizioni e dottrine, non intendiamo in alcun modo approvarne altre contenute nello stesso Libro: tanto più che in esso sono state mantenute diverse proposizioni e dottrine che o sono vicine a quelle condannate sopra, o manifestano uno spregiudicato disprezzo per la dottrina e la disciplina comune ed approvata, nonché lo spirito più ostile ai Romani Pontefici ed alla Sede Apostolica.

2696. Riteniamo, tuttavia, di dover biasimare in modo particolare due proposizioni relative all’augustissimo mistero della santissima Trinità – par. 2 del Decreto sulla Fede – che, se non sono dovute ad uno spirito malvagio, sono certamente dovute all’imprudenza del Sinodo, e che potrebbero facilmente indurre in errore soprattutto persone non istruite e ignoranti:

2697. In primo luogo, in quanto, dopo aver detto che Dio rimane uno e semplicissimo nel suo Essere, aggiunge subito che Dio stesso è distinto in tre Persone, allontanandosi così falsamente dalla formula comune e approvata negli insegnamenti della dottrina cristiana in cui l’unico Dio è detto sì “in tre Persone distinte”. Cambiando questa formula, a causa del significato delle parole, si può introdurre un pericolo di errore, cioè di pensare che l’Essenza divina sia distinta in Persone, mentre la fede cattolica la professa una in Persone distinte, in modo da proclamare allo stesso tempo che essa è assolutamente indistinta in se stessa.

2698. In secondo luogo, quando dice delle tre Persone divine stesse che, secondo le loro proprietà personali e incomunicabili, sarebbero espresse o chiamate con termini più esatti Padre, Verbo e Spirito Santo, come se l’appellativo “Figlio” fosse meno proprio e meno esatto, mentre è consacrato da tanti passi della Scrittura, dalla voce stessa del Padre che viene dal cielo e dalla nube, poi dalle formule del Battesimo prescritte da Cristo, poi anche da quella bella Confessione per cui Pietro fu chiamato beato da Cristo stesso; né ricorderemmo ciò che lo stesso Dottore angelico, istruito da Agostino, ha insegnato: “Nel Nome “Verbo” è significata la stessa proprietà che nel Nome “Figlio””, mentre Agostino diceva: “Si chiama Verbo per la stessa ragione per cui si chiama Figlio”.

2699. Né si può passare sotto silenzio la temerarietà insignificante e piena di inganni del Sinodo che ebbe l’ardire non solo di lodare la dichiarazione dell’assemblea gallicana (cf. 2281-2285) dell’anno 1682 già disapprovata dalla Sede Apostolica, ma anche – per darle maggiore autorità – di inserirla subdolamente nel decreto intitolato “De la foi”, di adottare apertamente gli articoli in essa contenuti e di suggellare con la pubblica e solenne professione di questi articoli ciò che aveva già fatto la Sede Apostolica, ma anche – per conferirle maggiore autorità – di inserirla subdolamente nel decreto De la foi, di adottare apertamente gli articoli in essa contenuti e di suggellare con la professione pubblica e solenne di questi articoli ciò che era stato trasmesso in modo sparso da questo stesso decreto. Di conseguenza, non solo ci è stato dato un motivo ancora più grave per lamentarci del Sinodo di quanto non sia stato dato ai nostri predecessori per lamentarsi di questa assemblea, ma la stessa Chiesa gallicana è stata colpita da un’offesa non da poco, dal momento che il Sinodo ha ritenuto degno di appellarsi alla sua autorità per coprire con il suo patrocinio gli errori di cui questo decreto è macchiato.

2700. Poiché gli atti dell’assemblea gallicana, subito dopo la loro pubblicazione, il nostro venerato predecessore Innocenzo XI con una lettera in forma di breve, Paternae caritati, dell’11 aprile 1682, e poi Alessandro VIII ancora più chiaramente il 5 agosto nella costituzione Inter multiplices (cf. 2281-2285) li hanno disapprovati, abrogati e dichiarati nulli in virtù del loro Ufficio apostolico, la sollecitudine pastorale esige da Noi ancora più urgentemente che l’accettazione che ne è stata fatta in un Sinodo inficiato da così tanti difetti, Noi la riproviamo e la condanniamo come avventata, scandalosa – e specialmente dopo i decreti dei nostri predecessori – come sovranamente dannosa per questa Sede Apostolica, come la riproviamo e la condanniamo in questa costituzione che è nostra, e vogliamo che sia ritenuta riprovata e condannata.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (33): “da PIO VII a PIO IX (1846-1851)”

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (71): DEMOCRAZIA CRISTIANA = DEMONIOCRAZIA ANTICRISTIANA? (3)

LA DEMOCRAZIA CRISTIANA = DEMONIOCRAZIA ANTICRISTIANA? (3)

J. DELASSUS

L’ENCICLICA PASCENDI DOMINICI GREGIS e la DEMOCRAZIA

Alla Vergine Immacolata

GAUDE, MARIA VIRGO, CUNCTAS HÆRESES SOLA INTEREMISTI IN UNIVERSO MUNDO.

NIHIL OBSTAT: Insulis, die 26 decembris 1907.
H.QUILLIET, S. Th. Dr. Librorum Censor.
IMPRIMATUR: Cameraci, die 27 decembris 1907.
t FRANCISCUS, Arch.-Coadj. Cameracen

Société St. Augustin. “Desclée, De Brouwer et Cie

LILLE, 41, rue du Metz, 41, LILLE

Il grande principio dei democratici è che non ci possa essere alcun potere pubblico nella società se non quello che proviene dal popolo, l’unica ed essenziale fonte di sovranità. Questo principio è direttamente opposto a quello proclamato da San Paolo: Non est enim potestas nisi a Deo (Rom. XIII, 1). Non c’è autorità che non provenga da Dio. – Nella Chiesa, Dio Padre, origine e principio del Figlio, ha mandato il Figlio; il Figlio manda i suoi ministri. Colui che li riceve riceve Cristo e chi riceve Cristo, riceve il Padre. Come il Padre mio ha mandato ha mandato me, Io mando voi. Chi riceve voi riceve Me, e chi riceve Me, riceve Colui che mi ha mandato. Dio è il Capo del Cristo, Caput Christi Deus (1 Cor., XI, 3). Gesù Cristo è il Capo della Chiesa, Ipsum dedit caput supra omnem Ecclesiam. Egli (Dio Padre) lo ha dato come Capo a tutta la Chiesa (Ef.I, 22). E Gesù Cristo si è dato un Vicario, anch’esso Capo, in Lui e per mezzo di Lui, della Chiesa universale. Definimus…. ipsum Pontificem Romanum successorem esse beati Petri principis Apostolorum et verum Christi Vicarium totiuque Ecclesiae Caput… existere. “Noi definiamo, ha detto il Concilio di Firenze, che il Romano Pontefice è il vero Vicario di Cristo e, di conseguenza, Capo di tutta la Chiesa.” – L’autorità nella Chiesa viene quindi direttamente da Dio Padre attraverso il Figlio incarnato. Questa eccellenza riflette un’inviolabile immutabilita’. La Chiesa sarà fino alla fine dei tempi come Dio l’ha creata. Le potenze dell’inferno non prevarranno mai su di essa. Il protestantesimo ha voluto cambiare questa costituzione. Nel XVI secolo i rivoltati attribuirono la sovranità all’assemblea dei fedeli, cioè al popolo. Sotto l’influsso delle idee protestanti, il XVIII secolo trasportò questo modo di vedere le cose dalla Chiesa allo Stato. È lo stesso sistema, la stessa teoria. Che differenza c’è tra la Chiesa di Dio concepita dai protestanti, guidata unicamente dalla sua parola, e la Repubblica governata unicamente dalle leggi dai deputati del popolo sovrano? Questa è l’osservazione di J. de Maistre nel libro: Du Pape; e aggiunge: “È la stessa follia, ha solo cambiato epoca e nome.” Questa follia si è aggravata. In mezzo al Cattolicesimo, ci sono uomini e, ahimè, Sacerdoti talmente penetrati dallo spirito della democrazia che lo fanno rifluire dall’ordine politico all’ordine religioso. Questo è ciò che ha detto il nostro Santo Padre il Papa, nel passo della sua Enciclica che abbiamo appena citato. Non è una novità. Al Concilio Vaticano si vede, una manifestazione di questo spirito. Alcuni Vescovi presentarono una consultazione in cui sostenevano di aver ricoperto cariche episcopali nelle più importanti nazioni cattoliche. – Agli occhi dei firmatari, i Pontefici stavano quindi prendendo in prestito parte della loro autorità dalle proprie Chiese. Il loro valore rappresentativo era proporzionale al numero dei loro fedeli o all’importanza della loro diocesi. Questa idea li ha portati a voler escludere dal Concilio quei Sacerdoti che non avevano una diocesi da governare, come i Vescovi titolari, o di diocesi propriamente dette, così come i vicari apostolici. Questo era, come osservava Dom Besse, sminuire il carattere episcopale e spiazzare il principio della propria autorità. Questa autorità non dipende in alcun modo dalla situazione politica o geografica della diocesi e dal numero dei diocesani. Non è da essi che il Vescovo trae la sua qualità di giudice della fede, ma dalla missione che ha ricevuto dall’Alto per il sacro e la preconizzazione. La diocesi non è in grado di consegnare al suo capo nemmeno una particella di un’autorità che non ha. Essa viene da Nostro Signore Gesù Cristo attraverso il Nostro Santo Padre il Papa. Quindi regna una perfetta uguaglianza che i Vescovi formano intorno al Sovrano Pontefice. Il prelato che governa una minuscola diocesi d’Italia non è meno eminente di quello che governa delle vaste diocesi, Parigi, Malines o Cambrai. Parlare come questi Vescovi hanno fatto nella loro memoria era inconsciamente voluto senza dubbio, ma è realmente introdurre la demoocrazia ed il suo principio della sovranità del popolo nella Chiesa. I nostri abati democratici vollero farne un tentativo. Le loro congregazioni ecclesiastiche erano niente meno che un tentativo di democratizzazione della Chiesa. – Quando abbiamo ricevuto il programma del primo di questi congressi nel 1896, abbiamo scritto nella “Semaine religieuse” della diocesi di Cambrai: “Le assemblee del clero hanno le loro regole e a nessuno è permesso innovare in questa materia. Il diritto ecclesiastico conosce i Concili ecumenici, i concili provinciali, i sinodi diocesani. L’assemblea prevista a Reims non è nulla di tutto ciò. È una riunione assolutamente anormale. Chi ha l’autorità di redigere il programma? Chi aveva l’autorità di convocarla? Chi avrà l’autorità di presiedere? Non può essere un semplice Sacerdote. Non può essere un Vescovo e nemmeno un gruppo di Vescovi. Ogni Vescovo potrebbe organizzare, nella sua diocesi, un’assemblea dei suoi Sacerdoti. Questo e il sinodo diocesano. Un Arcivescovo, insieme con i Vescovi della sua provincia, può convocare un concilio provinciale. Essi non possono convocare, né al sinodo né al concilio, i Sacerdoti delle diocesi vicine, senza il consenso del loro Ordinario. Supponendo che tutti i Vescovi della Francia abbiano dato all’abate che invia i suoi inviti, la delega necessaria per convocare un’assemblea generale del clero del secondo ordine, lo stesso richiederebbe comunque lo stesso consenso unanime per la redazione del programma, per la presidenza dell’assemblea e per le regole da imporre alla discussione. Eppure, una tale assemblea sarebbe una novità inaudita nella Chiesa; prima di prendere l’iniziativa, sarebbe di rigore consultare la Santa Sede. La circolare di invito che abbiamo ricevuto dice che “l’assemblea non si occuperà di discussione di dottrina”. È sufficiente aprire il programma per vedere che che in molti punti le questioni da trattare confinano con la dottrina. Ma, in più, la disciplina è anche riservata all’episcopato come il dogma. Non è dato presumere che il Papa trasferirà mai lo studio delle questioni di disciplina ad un’assemblea di semplici Sacerdoti. A maggior ragione, essi non possono arrogarsi questo potere da sé stessi.” M. l’Abate Naudet, che aveva sottoscritto la convocazione con gli Abati Lemire e Dabry, ha risposto nel Monde, di cui era direttore, con qualifiche di “refrattari” o di “persone che aborriscono la libertà e starnazzano come puzzole”. – Ciò di cui abbiamo veramente orrore, era l’introduzione, di fatto, della democrazia nella Chiesa.. A questo, egli obiettava: :In quali capitoli del diritto canonico hanno trovato che un uomo, non appena ricevuto il sacerdozio, abdichi ai suoi diritti e alla sua dignità, non essendo altro che un bambino ancora sotto tutela che non può dire una parola o alzare un dito senza ottenere una speciale autorizzazione per farlo?” Dopo la democrazia in atto, era nella Chiesa la democrazia eretta a dottrina. – Sebbene per lungo tempo non si sia parlato di congressi ecclesiastici nella forma inaugurata dai sigg. Abati Dabry, Naudet e Lemire, Sua Santità Pio X, tuttavia, non ha ritenuto necessario ometterlo nella sua Enciclica. Tra le misure prescritte per opporsi alle invasioni del modernismo, c’è questa:

V. – Abbiamo già parlato di congressi e di assemblee pubbliche, come campo favorevole per i modernisti per seminarvi e far prevalere le loro idee. I Vescovi non permettono più, o permettono solo molto raramente, dei congressi sacerdotali. Che se li permettono sia sempre in base a questa legge, che nessuna questione relativa alla Santa Sede o ai Vescovi vendano trattate, a meno che non vi si emetterà alcuna dichiarazione in tal senso, nessuna proposta né alcun voto di usurpazione dell’autorità ecclesiastica, che non si pronunzino parole che risentano di modernismo, di presbitarismo o di laicismo. – Questo tipo di congressi possono essere tenuti solo con un’autorizzazione scritta del loro Ordinario, concessa a tempo debito, e specificamente per ogni caso; i Sacerdoti delle diocesi straniere non potranno intertenire senza un’autorizzazione altrettanto scritta da parte del loro Ordinario. – Inoltre, nessun Sacerdote dovrebbe perdere di vista la grave raccomandazione di Leone XIII: che l’autorità dei loro pastori sia sacra per i Sacerdoti che diano per scontato che il ministero sacerdotale, se non viene esercitato sotto la guida dei Vescovi, non può essere né santo, né fecondo, né lodevole (Encicl. Nobilissima Gallorum, 10 febb. 1881). -La dottrina della democrazia nella Chiesa è stata abbastanza più esplicita e, per così dire, dottrinale, professata da M. l’Abate Lemire nelle parole che abbiamo già riportato: “Io non riconosco a nessuno il diritto di fare di noi Cattolici i servi di un regime accentratore e dispotico, un regime alla Luigi XIV. La costituzione della Chiesa non è modellata su nessuna delle forme effimere di governo umano. Non è una monarchia. A rigore, è una gerarchia. La Chiesa è governata da una serie di autorità locali, dipendenti le une dalle altre, e controllate da un’autorità centrale e superiore”. La Chiesa non è una monarchia! A Roma non c’è che un’unica autorità di controllo. Sono parole tanto contraddittorie con quelle del Maestro divino, interpretate dai Concili, da ultimo dal Concilio Vaticano. Le parole dell’Uomo-Dio: “Tu sei Pietro, e su questa roccia edificherò la mia Chiesa.nCiò che tu rimetterai in terra sarà rimesso nei cieli. Qualunque cosa tu scioglierai sulla terra sarà sciolta anche in cielo. “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle”. Queste parole hanno creato un Sovrano nella Chiesa. Questo è di fede. In effetti San Pietro sta alla Chiesa nascente così come oggi il Papa sta alla Chiesa attuale. Gli Atti degli Apostoli ci mostrano Pietro alla guida del collegio apostolico, organizzando, decidendo, agendo, in una parola, come un sovrano, proprio come oggi il Papa governa l’anima, con un’autorità che non dipende in nessun modo da coloro sui quali la esercita. Egli governa e governa in nome del Signore Nostro Gesù Cristo, il cui posto è al vertice della Chiesa. Questa istituzione e questo stato sono l’opposto della domocrazia. Nel vocabolario francese c’è una sola parola per indicare questa forma di governo: monarchia. – Potremmo riportarvi altre parole e atti dei democratici cristiani a sostegno del rimprovero rivolto dal nostro Santo Padre il Papa ai modernisti, di voler riformare il governo ecclesiastico e di volerlo armonizzare con la coscienza che si sta trasformando in democrazia; di volere che una parte del governo della Chiesa sia affidato ai chierici e fin’anche ai laici, e che l’autorità sia decentrata. Non c’è motivo di essere stupefatti da questa aberrazione. Quando una mente si lascia occupare da un’idea che giudica maestra, come l’eccellenza e la perfezione del sistema democratico, si trova traccia di questa persuasione in tutti i giudizi che esprime. “Lo stato democratico è il più perfetto, quindi dobbiamo trovare questo regime nella più perfetta delle società, la Chiesa! La premessa è molto cauta; si può anche sostenere che essa sia una controverità. La monarchia esiste in cielo, così come lo ha sostenuto un giorno il Sillon, che ha voluto vedere la suprema glorificazione della democrazia nella Santissima Trinità. Non c’è che un Dio che regni su tutto l’universo, che governi il cielo e la terra. Dio ha fatto la famiglia e la Chiesa, queste due società principali ad immagine di ciò che è nel più alto dei Cieli: un Padre sovrano ed un Papa sovrano, come un Dio Signore sovrano. Potremmo aggiungere che la storia dimostra, con la più luminosa chiarezza, che le nazioni abbiano prosperato quanto più la loro costituzione fosse più vicina alla mirabile costituzione di cui la Provvidenza aveva dotato la Feancia, e che il sistema democratico le ha sempre ed ovunque precipitate verso la rovina. – Per tornare alla constitutzione monarchica e non democratica della Chiesa, Dom Guéranger, come risposta alle pretese dei Vescovi di minoranza del Concilio Vaticano, ha detto molto bene: “Fondando la sua Chiesa, Nostro Signore Gesù Cristo era sicuramente libero di darle la forma che Egli, nella sua divina saggezza, avrebbe ritenuto più opportuno. Egli non poteva essere legato né dagli dagli antecedenti iumani, né .dalle idee moderne, di cui prevedeva le aberrazioni fin dall’eternità. Sarebbe una bestemmia affermare che Egli si sia dovuto adattare ai capricci della creatura, mentre è dovere della creatura accettare con umiltà tutto ciò che Egli abbia previsto. La costituzione della Chiesa è quindi l’oggetto della fede. Dobbiamo prenderla come Gesù Cristo ci ha indicato. Il potere è stato costituito dall’Uomo-Dio di un modo immutabile, e nessuno potrebbe cambiarne le condizioni (La monarchia pontificale. Sesto pregiudizio. P.5.).

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (72): DEMOCRAZIA CRISTIANA = DEMONIOCRAZIA ANTICRISTIANA? (4)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (30): “da INNOCENZO XII a CLEMENTE XI”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (30)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(da INNOCENZO XII a CLEMENTE XI)

INNOCENZO XII: 12 LUGLIO 1691-27 settembre 1700.

Risposta del Sant’Uffizio ai missionari cappuccini, 23 Luglio 1698.

Il matrimonio come Sacramento.

2340. Domanda: Il matrimonio tra persone che hanno apostatato dalla fede e che in precedenza sono state regolarmente battezzate, se viene contratto dopo l’apostasia in modo pubblico secondo l’uso dei pagani e dei maomettani, è veramente un matrimonio e un Sacramento?

Risposta: Se c’è un patto di dissolubilità, non è né un matrimonio né un Sacramento; se non c’è tale patto, è un matrimonio e un Sacramento.

Errori di François de Fénelon sull’amore di Dio.

2351. (1) – Esiste uno stato abituale di amore di Dio, che è pura carità e senza alcuna mescolanza di motivi di interesse personale. Né il timore del castigo né il desiderio di ricompensa hanno parte in questo amore: non amiamo più Dio per il merito, né per la perfezione, né per la felicità che troviamo nell’amarlo.

2352. 2 Nello stato di vita contemplativa o unitiva, perdiamo ogni motivo di timore o di speranza.

2353. 3 – L’essenziale nella direzione è seguire la grazia passo dopo passo con infinita pazienza, cautela e delicatezza. Dobbiamo limitarci a lasciare che Dio faccia ciò che vuole, e non parlare mai di amore puro finché Dio, attraverso un’unzione interiore, non cominci ad aprire il cuore a questa parola, così dura per le anime ancora attaccate a se stesse, e così capace di scandalizzarle e gettarle nel turbamento.

2354. 4 Nello stato di santa indifferenza, l’anima non ha più desideri volontari e deliberati per il proprio interesse, se non nelle occasioni in cui non cooperi fedelmente con l’insieme della grazia.

2355. 5 In questo stato di santa indifferenza, non vogliamo nulla per noi stessi, ma vogliamo tutto per Dio; non vogliamo nulla per essere perfetti o beati per noi stessi, ma vogliamo ogni perfezione e ogni beatitudine, nella misura in cui piace a Dio farci desiderare queste cose con l’impressione della sua grazia.

2356. 6. In questo stato di santa indifferenza, non vogliamo più la salvezza come salvezza nostra, come liberazione eterna, come ricompensa dei nostri meriti, come il più grande di tutti i nostri interessi; ma la vogliamo con piena volontà, come gloria e piacere di Dio, come qualcosa che Egli voglia e vuole che noi vogliamo per Lui.

2357. (7) L’abbandono non è altro che l’abnegazione che Gesù Cristo ci chiede nel Vangelo, dopo che abbiamo lasciato tutto fuori. Questa abnegazione di noi stessi è solo per il nostro bene. … Le prove in cui si deve esercitare questa abnegazione sono le tentazioni con cui un Dio geloso vuole purificare l’amore, non facendogli vedere alcuna risorsa o speranza per il proprio interesse, anche eterno.

2358. (8) Tutti i sacrifici che le anime più disinteressate fanno abitualmente per la loro beatitudine eterna sono condizionati. Ma questo sacrificio non può essere assoluto nello stato ordinario: c’è solo il caso delle ultime prove in cui questo sacrificio è in qualche modo assoluto.

2359. 9. Nelle ultime prove, un’anima può essere invincibilmente persuasa, con una persuasione ponderata che non è l’intimo della coscienza, di essere giustamente messa alla prova da Dio.

2360. 10. Allora l’anima, divisa da se stessa, spira sulla croce con Cristo, dicendo: “O Dio mio, perché mi hai abbandonato? ” (Mt XXVII,46) In questo stesso sentimento involontario di disperazione, essa compie il sacrificio assoluto del proprio interesse per l’eternità.

2361. 11. In questo stato, l’anima perde ogni speranza per se stessa; ma non perde mai nella sua parte superiore, cioè nei suoi atti diretti e intimi, la speranza perfetta che è il desiderio disinteressato delle promesse.

2362. 12. Il direttore può quindi permettere a quest’anima di accettare semplicemente la perdita del proprio interesse e la giusta condanna che crede che Dio le abbia dato.

2363. 13. La parte inferiore di Gesù Cristo sulla croce non ha comunicato il suo disturbo involontario alla parte superiore.

2364. 14. Nelle ultime prove, per la purificazione dell’amore, c’è una separazione della parte superiore dell’anima da quella inferiore… Gli atti della parte inferiore, in questa separazione, sono di un disordine del tutto cieco ed involontario, perché tutto ciò che è intellettuale e volontario è della parte superiore.

2365. 15. La meditazione consiste in atti discorsivi facili da distinguere l’uno dall’altro. … Questa composizione di atti discorsivi e riflessivi è propria dell’esercizio dell’amore interessato.

2366. 16. C’è uno stato di contemplazione così alto e così perfetto che diventa abituale: così che ogni volta che un’anima va in preghiera vera e propria, la sua preghiera è contemplativa e non discorsiva; allora non ha più bisogno di tornare alla meditazione o ai suoi atti metodici.

2367. 17. Le anime contemplative sono private della vista distinta, sensibile e riflessiva di Gesù Cristo in due momenti diversi. In primo luogo, nel fervore nascente della loro contemplazione; in secondo luogo, un’anima perde la vista di Gesù Cristo nelle prove finali.

2368. 18. Nello stato passivo esercitiamo tutte le virtù distinte senza pensare che siano virtù; pensiamo solo a fare ciò che Dio vuole; e l’amore geloso fa sì che non vogliamo più essere virtuosi per noi stessi, e non siamo mai così virtuosi come quando non siamo attaccati ad esserlo.

2369. (19) In questo senso si può dire che l’anima passiva e disinteressata non vuole più nemmeno l’amore in quanto perfezione e felicità propria, ma solo in quanto è ciò che Dio vuole da noi.

2370. 20. Le anime trasformate devono, nella confessione, detestare le loro colpe, condannarle e desiderare la remissione dei loro peccati, non come propria perfezione e liberazione, ma come qualcosa che Dio voglia e che vuole che noi vogliamo per la sua gloria.

2371. 21. – I santi mistici escludevano la pratica della virtù dallo stato di anime trasformate.

2372. 22. – Sebbene questa dottrina (dell’amore puro) fosse la perfezione pura e semplice del Vangelo, segnata in tutta la tradizione, gli antichi pastori erano soliti proporre ai sudditi comuni solo le pratiche dell’amore egoistico, proporzionate alla loro grazia.

2373. 23. – Solo l’amore puro fa la vita interiore, e allora diventa l’unico principio e l’unico movente di tutti gli atti deliberati e meritori.

2374. (Censura) … Il suddetto libro…, la cui lettura e il cui uso possono indurre i fedeli a poco a poco in errori già condannati dalla Chiesa Cattolica, e che inoltre contiene proposizioni che, sia nel loro senso ovvio, sia considerando il loro contesto, sono rispettivamente avventate (1 s, 8, 10, 15-20, 22), scandalose (7, 10, 12, 19-21), sgradevoli (4-6, 23), offensive per le orecchie pie (8, 18), perniciose nella pratica (2, 14, 17) e persino erronee (1-7, 10 s,13 ,17-19 , 22 s), con la presente condanniamo e riproviamo e… vietiamo la stampa di questo libro.

CLEMENTE XI : 23 novembre 1700 – 19 marzo 17

Risposta del Sant’Uffizio al Vescovo di Québec, 25 gennaio 1703.

Verità necessarie da credere, perché comunicano la salvezza.

2380. Domanda: Prima di conferire il Battesimo a un adulto, il ministro è obbligato a spiegargli tutti i misteri della nostra fede, soprattutto se è moribondo, poiché questo disturberebbe la sua mente? O non sarebbe sufficiente che il moribondo promettesse che, non appena guarito dalla malattia, si prenderà cura di ricevere istruzioni per mettere in pratica ciò che gli è stato prescritto? Risposta: La promessa non è sufficiente, e il missionario è tenuto, anche per una persona moribonda, se non è in uno stato di totale incapacità, a spiegare i misteri della fede che sono necessari (per la salvezza) per una necessità di mezzi, come sono principalmente i misteri della Trinità e dell’Incarnazione.

Risposta del Sant’Uffizio al Vescovo di Québec, 10 maggio 1703.

Fede e intenzione in coloro che ricevono il Sacramento.

2381. Domanda 2: È possibile battezzare un adulto non istruito e stupido, come è accaduto a un barbaro, se gli si comunica solo la conoscenza di Dio e di alcuni suoi attributi, in particolare quello della giustizia premiante e vendicativa, secondo il passo dell’Apostolo: Chi si avvicina a Dio deve credere che egli è e che premia (Ebr.XI,6) da cui si deduce che in caso di urgente necessità un adulto possa essere battezzato anche se non crede esplicitamente in Gesù Cristo?

Risposta: Un missionario non può battezzare qualcuno che non creda esplicitamente nel Signore Gesù Cristo, ed è tenuto ad istruirlo su tutte le cose necessarie (per la salvezza) di necessità di mezzi, secondo la capacità di colui che deve essere battezzato.

2382. Domanda 8: Si può somministrare il viatico o l’Estrema Unzione ad adulti moribondi che abbiamo ritenuto idonei a ricevere il Battesimo, ma non la Comunione e gli altri Sacramenti?

Risposta: Il viatico non deve essere somministrato ad un neofita moribondo se non distingue almeno tra nutrimento spirituale e corporeo, riconoscendo e credendo nella presenza di Cristo Signore nell’ostia. Allo stesso modo, il Sacramento dell’Estrema Unzione non deve essere conferito ad un neofita morente che il missionario abbia ritenuto idoneo a ricevere il Battesimo, a meno che non abbia almeno l’intenzione di ricevere la santa Unzione destinata al bene dell’anima al momento della morte.

Costituzione “Vineam Domini Sabaoth“, 16 luglio 1705.

Silenzio obbediente sui fatti dogmatici.

2390. Par. 6 o 25. Affinché d’ora in poi sia completamente eliminata ogni occasione di errore e tutti i figli della Chiesa Cattolica imparino ad ascoltare questa stessa Chiesa, non solo tacendo (perché anche i nemici tacciono nelle tenebre (Is. II,9 ), ma anche con l’obbedienza interiore, che è la vera obbedienza dell’uomo alla retta fede, Noi decidiamo, dichiariamo, determiniamo e ordiniamo in virtù della stessa Autorità Apostolica con questa Costituzione che è nostra e che sarà sempre valida, che l’obbedienza dovuta alla suddetta Costituzione Apostolica non sia in alcun modo soddisfatta da questo rispettoso silenzio; ma che il senso condannato nelle cinque proposizioni di Giansenio sopra citate, che i termini di queste esprimono come è espresso, debba essere respinto e condannato come eretico da tutti i fedeli, non solo con la bocca, ma con il cuore; e che la suddetta forma non possa essere legittimamente sottoscritta con altra intenzione, spirito o convinzione, cosicché tutti coloro che su tutti questi punti e su ciascuno in particolare pensino, sostengano, insegnino oralmente o per iscritto, o affermino qualcosa di diverso o di opposto, trasgrediscono la suddetta Costituzione Apostolica e sono quindi soggetti a tutte e a ciascuna delle censure in essa contenute.

CostituzioneUnigenitus Dei Filius“, 8 settembre 1713.

Errori giansenisti di Pasquier Quesnel.

2400. Par. 2 … Sappiamo benissimo che ciò che di molto pernicioso ci sia in questo libro si diffonde e si accresce soprattutto perché è nascosto all’interno, e uscirà fuori, come una cattiva materia saniosa, solo se l’ulcera venga perforata; perché il libro stesso seduce il lettore a prima vista con una certa apparenza di pietà…

2401. Par. 3. 1. Che cosa resta a un’anima che ha perso Dio e la sua grazia, se non il peccato e le sue conseguenze, una povertà orgogliosa ed una pigra indigenza, cioè una generale impotenza a lavorare, a pregare e a qualsiasi opera buona? Questa proposizione si trova nelle Osservazioni morali di Quesnel su Lc XVI,3.

2402. 2. la grazia di Gesù Cristo, principio efficace di ogni tipo di bene, è necessaria per ogni opera buona; senza di essa, non solo non si fa nulla, ma non si può fare nulla. – (Gv XV,5: ed. del 1693).

2403. 3 Invano comandi, Signore, se tu stesso non dai ciò che comandi. – (At XVI,10).

2404. 4 Sì, Signore, tutto è possibile a colui al quale tu rendi possibile ogni cosa facendola in lui. – (Mc IX,22).

2405. 5 Quando Dio non ammorbidisce il cuore con l’unzione interiore della sua grazia, le esortazioni e le grazie esterne servono solo a indurirlo ancora di più. – (Rm IX,18 ed. 1693).

2406. 6 La differenza tra l’alleanza giudaica e quella cristiana è che nella prima Dio esigeva che il peccatore rinunciasse al peccato e adempisse alla Legge, lasciandolo impotente, mentre nella seconda Dio dà al peccatore ciò che comanda, purificandolo con la sua grazia. – (Rm XI,27).

2407. 7 Qual è il vantaggio per l’uomo nell’Antica Alleanza, dove Dio lo ha abbandonato alla propria infermità quando gli ha imposto la Legge? Ma che benedizione è essere ammessi in un’Alleanza in cui Dio ci dà ciò che chiede. – (Eb VIII,7).

2408. 8 Apparteniamo alla Nuova Alleanza solo in quanto partecipiamo alla nuova grazia, che opera in noi ciò che Dio comanda. – (Eb VIII,10).

2409. 9. La grazia di Cristo è la grazia suprema, senza la quale non possiamo mai confessare Cristo e con la quale non possiamo mai negarlo. – (1Co XII,3 ed. del 1693).

2410. 10. La grazia è l’operazione della mano di Dio che nulla può impedire o ritardare. – (Mt XX,34).

2411. 11. La grazia non è altro che la volontà onnipotente di Dio che comanda e fa ciò che comanda. – (Mc II,11).

2412. 12. Quando Dio vuole salvare l’anima, in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, l’effetto inequivocabile segue la volontà di Dio. – (Mc II,12).

2413. 13. Quando Dio vuole salvare un’anima e la tocca con la mano interiore della sua grazia, nessuna volontà gli resiste. – (Lc V,13 ed. del 1693).

2414. 14. Per quanto un peccatore ostinato possa essere lontano dalla salvezza, quando Gesù si mostra a lui con la luce salvifica della sua grazia, deve arrendersi, correre, umiliarsi e adorare il suo Salvatore. – (Mc V,67 ed. del 1693).

2415. 15. Quando Dio accompagna il suo comandamento e la sua parola esteriore con la sua grazia, produce nel cuore l’obbedienza che richiede. – (Lc IX,60).

2416. 16 Non ci sono incantesimi che non cedano al fascino della grazia, perché nulla resiste all’Onnipotente. (At VIII,12).

2417. 17. La grazia è quella voce del Padre che insegna agli uomini interiormente e li fa venire a Gesù Cristo. Chi non viene a Lui dopo aver ascoltato la voce interiore del Figlio non è istruito dal Padre. – (Gv VI,45)

2418. 18. Il seme della parola che la mano di Dio innaffia porta sempre frutto. – (Atti XI:21).

2419. 19. La grazia di Dio non è altro che la sua volontà onnipotente: questa è l’idea che Dio stesso ci dà in tutte le sue Scritture. – (Rm XIV,4 edizione 1693).

2420. 20. La vera idea della grazia è che Dio vuole che gli si obbedisca, e se gli si obbedisce; comanda e tutto si fa; parla come un padrone e tutto gli è sottomesso. – (Mc IV,39).

2421. 21. La grazia di Gesù Cristo è una grazia forte, potente, sovrana, invincibile, poiché è l’operazione della volontà onnipotente, una continuazione ed un’imitazione di Dio che incarna ed eleva suo Figlio. (2Co V,21 éd. del 1693).

2422. 22. L’accordo dell’operazione onnipotente di Dio nel cuore dell’uomo con il libero consenso della volontà, ci viene mostrato immediatamente nell’Incarnazione, come nella fonte e nel modello di tutte le altre operazioni di misericordia e di grazia, tutte gratuite e dipendenti da Dio come questa stessa operazione originale. – (Lc 1,48).

2423 23. Dio stesso ci ha dato l’idea dell’operazione onnipotente della sua grazia, indicandola con quella con cui fa nascere le creature dal nulla e dà la vita ai morti. – (Rm IV, 17).

2424. 24. L’idea corretta del centurione dell’onnipotenza di Dio e di Gesù Cristo di guarire i corpi con il solo movimento della sua volontà è l’immagine dell’idea che dobbiamo avere dell’onnipotenza della sua grazia per guarire le anime dalla cupidigia. – (Lc VII,7).

2425. 25. Dio illumina l’anima e la guarisce, così come il corpo, con la sua sola volontà: comanda ed è obbedito. – (Lc XVIII,42).

2426. 26. Nessuna grazia viene data se non per fede. – (Mc XI,25).

2427. 27. La fede è la prima grazia e la fonte di tutte le altre. – (2Pt 1,3)

2428. 28. La prima grazia che Dio concede al peccatore è il perdono dei peccati. – (Mc XI,25).

2429. 29. Nessuna grazia viene concessa al di fuori della Chiesa. – (Lc X, 35-36)

2430. 30. Tutti coloro che Dio vuole salvare attraverso Gesù Cristo sono infallibilmente salvati. – (Gv VI,40).

2431. 31. I desideri di Gesù Cristo hanno sempre il loro effetto: egli porta la pace nell’intimo dei cuori quando quando lo desidera. – (Gv XX,19).

2432. 32. Gesù si è consegnato alla morte per liberare con il suo sangue i primogeniti, cioè gli eletti, dalla mano dell’Angelo della distruzione per sempre.

2433. 33. Oh, quanto bisogna aver rinunciato alle cose della terra e a se stessi per avere la sicurezza di appropriarsi, per così dire, di Cristo Gesù, del suo amore, della sua morte, del suo mistero, come fa Paolo quando dice: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me”. ” – .

2434. 34. La grazia di Adamo ha prodotto solo meriti umani. – (2Co V,21 ed. 1693).

2435. 35. La grazia di Adamo è una conseguenza della creazione ed era dovuta ad una natura santa e retta. – (2Co V,21).

2436. 36. La differenza essenziale tra la grazia di Adamo e lo stato di innocenza e la grazia cristiana è che ognuno avrebbe ricevuto la prima nella propria persona, mentre la seconda non si riceve se non nella persona di Gesù Cristo risorto, con il quale siamo uniti. – (Romani VII:4).

2437. 37. La grazia di Adamo, poiché lo santificava, era proporzionata a lui; la grazia cristiana, santificandoci in Gesù Cristo, è onnipotente e degna del Figlio di Dio. – (Ef 1,6).

2438. 38. Il peccatore è libero solo per il male senza la grazia del liberatore. – (Lc VIII,9).

2439. 39. La volontà che non è avvertita dalla grazia non ha luce se non per smarrirsi, non ha ardore se non per precipitarsi, non ha forza se non per farsi del male. È capace di ogni male e incapace di ogni bene. – (Mt XX,34).

2440. 40. Senza la grazia non possiamo amare nulla, se non per la nostra condanna. – (2Ts III,18; ed. 1693).

2441. 41. Ogni conoscenza di Dio, anche naturale, anche nei filosofi pagani, può venire solo da Dio, e senza la grazia produce solo presunzione, vanità e opposizione a Dio stesso, invece di sentimenti di adorazione, gratitudine e amore. – (Rm 1,19).

2442. 42. Solo la grazia rende l’uomo idoneo al sacrificio della fede: senza di essa, nient’altro che impurità, nulla e nient’altro che indegnità. Atti XI:9).

2443. 43. Il primo effetto della grazia battesimale è quello di farci morire al peccato, in modo che la mente, il cuore e i sensi non abbiano più vita per il peccato di quanta ne abbia un uomo morto per le cose del mondo. – (Rm VI,2: ed. del 1693).

2444. 44. Ci sono solo due amori da cui scaturiscono tutte le nostre volontà e azioni: l’amore di Dio che fa tutto per Dio e che Dio ricompensa, e l’amore con cui amiamo noi stessi ed il mondo, che non riporta a Dio ciò che dovrebbe essere riportato a Lui, e che per questo stesso fatto diventa cattivo. – (Gv V,29).

2445. 45. Quando l’amore di Dio non regna più nel cuore dei peccatori, vi regna necessariamente l’avidità carnale che corrompe tutte le loro azioni. – (Lc XV,13: ed. del 1693).

2446. 46. L’avidità o la carità rendono buono o cattivo l’uso dei sensi. – (Mt V,28).

2447. 47. L’obbedienza alla Legge deve scaturire da una fonte, che è la carità. Quando l’amore di Dio è il principio interiore e la sua gloria il suo fine, allora ciò che è esterno è puro; altrimenti è solo ipocrisia e falsa giustizia. – (Mt XXV,26 ed. del 1693).

2448. 48. Che altro possiamo essere se non tenebre, errore e peccato, senza la luce della fede, senza Cristo e senza amore? – (Ef V,8)

2449. 49. Come non c’è peccato senza amore per noi stessi, così non c’è opera buona senza amore per Dio. – (Mc VII, 22-23).

2450. 50. Invano gridiamo a Dio: “Padre mio”, se non è lo spirito di carità a gridare. – (Rm VIII, 15).

2451. 51. La fede giustifica quando opera, ma opera solo attraverso l’amore. – (At XIII, 39).

2452. 52. Tutti gli altri mezzi di salvezza sono contenuti nella fede come nel loro germe e nel loro ma non è una fede senza amore e fiducia. – (Atti 10:43).

2453. 53. Solo la fede porta alla realizzazione cristiana (azioni cristiane) attraverso la nostra relazione con Dio e con Gesù Cristo. – (Col III,14).

2454. 54. È solo la carità che parla a Dio; è solo essa che Dio ascolta. – (1Co XIII,1).

2455. 55. Dio incorona solo l’amore; chi corre in virtù di un altro movimento e per un altro motivo, corre invano. (1Co IX,24).

2456. 56. Dio premia solo la carità; solo la carità onora Dio. – Mt 25,36.

2457. 57. Il peccatore manca di tutto quando manca di speranza; e non c’è speranza in Dio se non c’è amore di Dio. – (Mt XXVII,5)

2458. 58. Non c’è Dio né religione dove non c’è carità – (1Gv IV,8).

2459. 59. La preghiera degli empi è un nuovo peccato; e ciò che Dio concede loro è un nuovo giudizio per loro. – (Gv X,25 ed. del 1693).

2460. 60. Se il pentimento è motivato solo dalla paura del tormento, quanto più violento è il pentimento, tanto più porta alla disperazione. – (Mt XXVII,5).

2461. 61. La paura ferma solo la mano; il cuore, invece, si abbandona al peccato finché non è guidato dall’amore. – (Lc XX,19).

2462. 62. Chi si astiene dal male solo per paura del castigo lo commette nel suo cuore, ed è già colpevole davanti a Dio. – (Mt XXI,46).

2463. 63. Un battezzato è ancora sotto la Legge come ebreo, se non adempie alla Legge o se la adempie solo per paura. – (Rm VI,14).

2464. 64. Sotto la maledizione della Legge non si fa mai il bene, perché si pecca o facendo il male o evitandolo solo per paura. –

2465. 65. Mosè, i profeti, i sacerdoti e i maestri della Legge sono morti senza aver dato figli a Dio, perché hanno reso schiavi solo per paura. – (Mc XII,19).

2466. 66. Chi vuole avvicinarsi a Dio non deve venire a lui con pensieri brutali, né comportarsi per istinto naturale o per paura, come le bestie, ma per fede e amore come i figli. – (Eb XII,20 ed. del 1693).

2467. 67. Il timore servile immagina Dio solo come un padrone duro, imperioso, ingiusto, intrattabile. – (Lc XIX,21; ed. del 1693).

2468. 68. Dio ha abbreviato la via della salvezza includendo tutto nella fede e nella preghiera. – (At II,21).

2469. 69. La fede, l’uso, l’incremento e la ricompensa della fede, tutto questo è un dono della pura liberalità di Dio. – Mc 9,22.

2470. 70. Dio non affligge mai l’innocente, e le afflizioni servono sempre o a punire il peccato o a purificare il peccatore. – Gv 9,3 .

2471. 71. L’uomo può, per la propria conservazione, rinunciare a questa legge che Dio ha stabilito per il suo bene. – (Mc II,28).

2472. 72. La nota della Chiesa è che essa è cattolica, comprendendo tutti gli angeli del cielo, tutti gli eletti e i giusti della terra e di tutti i tempi. – (Eb XII,22-24).

2473. 73. Che cos’è la Chiesa se non l’assemblea dei figli di Dio che abitano nel suo seno, adottati in Gesù Cristo, sussistenti nella sua Persona, redenti dal suo sangue, viventi del suo Spirito, agenti della sua grazia, e in attesa della pace dell’età futura? – (2Th 1,1 s ed. del 1693).

2474. 74. La Chiesa, o il Cristo intero, ha come capo il Verbo incarnato e come membri tutti i santi. – (1Tm III,16).

2475. 75. La Chiesa è un solo uomo, composto da molte membra, di cui Cristo è il capo, la vita, la sostanza e la persona: un Cristo composto da molti santi di cui è il santificatore. – (Ef II, 14-16).

2476. 76. Nulla è più spazioso della Chiesa, poiché tutti gli eletti e i giusti di tutti i tempi la compongono. – (Ef II, 22).

2477. 77. Chi non conduce una vita degna di un figlio di Dio e di un membro di Cristo, cessa di avere Dio come Padre e Cristo come capo. – (1Gv 2,24 éd. del 1693).

2478. 78. Ci si separa dal popolo eletto, di cui il popolo ebraico era la figura e di cui Cristo è il capo, sia non vivendo secondo il Vangelo sia non credendo al Vangelo. – Atti 3:23.

2479. 79. È utile e necessario in ogni tempo, in ogni luogo e per ogni genere di persone studiare e conoscere lo spirito, la pietà e i misteri della Sacra Scrittura. – (1Co XIV,5).

2480. 80. La lettura della Scrittura è per tutti. – (At VIII,28).

2481. 81. La santa oscurità della Parola di Dio non è motivo per i laici di rinunciare alla sua lettura. – (At VIII,28).

2482. 82. La domenica deve essere santificata dalla lettura devozionale, soprattutto delle Sacre Scritture. È riprovevole voler escludere i Cristiani da questa lettura.

2483. 83. È un’illusione immaginare che la conoscenza dei misteri della Religione non debba essere comunicata alle donne attraverso la lettura dei libri sacri. Non è dalla semplicità delle donne, ma dalla scienza orgogliosa degli uomini, che le Scritture sono state abusate e che sono sorte le eresie. – (Gv IV,26).

2484. 84. Strappare il Nuovo Testamento dalle mani dei Cristiani o tenerlo loro chiuso, privandoli dei mezzi per comprenderlo, significa chiudere loro la bocca di Cristo. – (Mt V,2).

2485. 85. Vietare ai cristiani di leggere la Sacra Scrittura, e in particolare il Vangelo, significa vietare l’uso della luce ai figli della luce e far loro subire una sorta di scomunica. – (Lc 11,33 ed. del 1693).

2486. 86. Togliere ai semplici la consolazione di unire la loro voce a quella di tutta la Chiesa è una pratica contraria alla prassi apostolica e al disegno di Dio. – (1Co XIV,16).

2487. 87. È una condotta piena di saggezza, di luce e di carità, quella di dare alle anime il tempo di sopportare con umiltà e di sentire lo stato di peccato, di chiedere lo spirito di penitenza e di contrizione e di cominciare, almeno, a soddisfare la giustizia di Dio, prima di riconciliarle. – Atti 8:9.

2488. 88. Non sappiamo cosa siano il peccato e la vera giustizia quando vogliamo essere immediatamente restituiti al possesso dei beni di cui il peccato ci ha privato e non vogliamo sopportare la confusione di questa separazione. – (Lc XVII,11-12).

2489. 89. Il quattordicesimo grado della conversione del peccatore consiste nel fatto che, quando è già stato riconciliato, abbia il diritto di assistere al Sacrificio della Chiesa. – (Lc XV, 23).

2490. 90. La Chiesa ha l’autorità di scomunicare, che deve essere esercitata dai primi pastori con il consenso, almeno presunto, di tutto il corpo. – (Mt XVIII,17).

2491. 91. Il timore di una scomunica ingiusta non deve mai impedirci di compiere il nostro dovere; non lasciamo mai la Chiesa, anche quando ci sembra di esserne espulsi dalla malvagità degli uomini, finché siamo legati a Gesù Cristo e alla Chiesa dalla carità. – (Gv IX, 22-23)

2492. 92. Piuttosto che tradire la verità, è meglio subire in pace la scomunica e l’anatema ingiusto: questo è imitare san Paolo; è ben lontano dal mettersi contro l’autorità o dal rompere l’unità. (Rm IX,3).

2493. 93. Gesù talvolta guarisce le ferite che la fretta dei primi pastori infligge al suo ordine; Gesù ripristina ciò che essi tolgono con uno zelo sconsiderato. – (Gv XVIII,11).

2494. 94. Niente dà un’opinione peggiore della Chiesa ai suoi nemici che vederla esercitare il dominio sulla fede dei fedeli e mantenere le divisioni su cose che non colpiscono né la fede, né la morale. – (Rm XIV,16).

2495. 95. Le verità sono diventate come una lingua straniera per la maggior parte dei Cristiani e il modo in cui vengono predicate è come una lingua sconosciuta, così lontana dalla semplicità degli Apostoli e al di là della comune comprensione dei fedeli; e non si apprezza abbastanza che questa carenza è uno dei segni più sensibili della vetustà della Chiesa e dell’ira di Dio sui suoi figli.

2496. 96. Dio permette che tutte le potenze si oppongano ai predicatori della verità, in modo che la sua vittoria possa essere attribuita solo alla grazia divina. – (Atti XVII:8).

2497. 97. Troppo spesso accade che i membri più santi e più strettamente uniti alla Chiesa siano considerati e trattati come indegni di essere nella Chiesa, o come separati da essa. Ma “il giusto vive per fede” (Rm 1,17) e non per l’opinione degli uomini. – (Atti IV:11).

2498. 98. Subire persecuzioni e punizioni come eretico, odioso ed empio, è di solito l’ultima e più meritoria prova, perché rende l’uomo più conforme a Gesù Cristo. – (Lc XXII,37).

2499. 99. La testardaggine, il pregiudizio, l’ostinazione a non voler esaminare nulla o ad ammettere di essere in errore, cambiano ogni giorno per molti in odore di morte ciò che Dio ha posto nella sua Chiesa per essere un odore di vita, ad esempio i buoni libri, le istruzioni, i santi esempi, ecc. che sono un segno di vita. – (2Co II,16).

2500. 100. Un tempo deplorevole in cui pensiamo di onorare Dio colpendo la verità e i suoi discepoli! Quel tempo è arrivato… Essere considerati e trattati dai ministri della Religione come empi e indegni di trattare con Dio, come un membro putrido capace di corrompere tutto nella società dei santi, è per gli uomini pii una morte più terribile della morte del corpo. Invano qualcuno si lusinga della purezza delle sue intenzioni e del suo zelo per la Religione, se perseguita gli uomini onesti con il fuoco e il ferro, se si lascia accecare dalla passione o trasportare da quella degli altri, perché non vuole esaminare nulla. Spesso pensiamo di sacrificare a Dio un senza Dio, ma sacrifichiamo al diavolo un servo di Dio. – (Gv XVI,2).

2501. 101. Non c’è nulla di più contrario allo spirito di Dio e all’insegnamento di Gesù Cristo che rendere comuni i giuramenti nella Chiesa, perché questo moltiplica le occasioni di spergiuro, tende trappole ai deboli e agli ignoranti, e talvolta fa sì che il nome e la verità di Dio servano agli empi. – Mt 5,37.

2502. (Censura)… Dichiariamo, condanniamo e disapproviamo le proposizioni precedenti in quanto, a seconda dei casi, false, capziose, sconvenienti, offensive per le orecchie pie, scandalose, perniciose, temerarie, dannose per la Chiesa e i suoi usi, oltraggiose, non solo per lei, ma anche per i poteri secolari, sediziose, empie, blasfeme, sospetto di eresia, in odore di eresia, favorevole agli eretici e alle eresie, e persino a uno scisma, erroneo, vicino all’eresia, e spesso condannato, infine, come eretico e rinnovatore di varie eresie, principalmente quelle contenute nelle famose proposizioni di Johannius, prese nel senso in cui sono state condannate.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (31): “Da INNOCENZO XIII A BENEDETTO XIV -I -“