IL MATRIMONIO CATTOLICO – 5 –

IL MATRIMONIO (5)

[ENCICLOPEDIA CATTOLICA, vol. VIII, Coll. 407 e segg.  – Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico – Città del VATICANO – impr. 1952]

VIII. USO DEL M.

1. Principi. – L’uso del M., anche dopo il peccato originale, nonostante il fervore della concupiscenza che ad esso si accompagna, è del tutto onesto (cf. Gen. 1, 28; cann. 1111, 1081 § 2, 1015 § 1). La rettitudine obiettiva di tale uso è necessariamente subordinata alle finalità intrinseche del M. e alla gerarchia degli stessi fini. Pertanto, essendo la procreazione e l’educazione della prole alla base dell’ordine da Dio stabilito per l’incontro dei due sessi, tutto ciò che si dimostra a quest’ordine direttamente contrario, privando l’atto coniugale della sua naturale tendenza alla generazione, è intrinsecamente illecito, e quindi per nessun motivo giustificabile. Al contrario, ove quest’ordine sia rispettato, l’atto non è illecito, anche se infecondo, potendo egualmente raggiungere le altre finalità che lo giustificano. È infatti da tener presente, a tale riguardo, che all’uomo è imposta l’osservanza dell’ordine, non già il raggiungimento del fine cui esso tende: ciò infatti non dipende solo dall’azione dell’uomo, ma anche da quella della natura, la quale non solo non è sottoposta all’arbitrio dell’individuo, ma sfugge molte volte alla sua stessa conoscenza. – La considerazione obiettiva non è la sola sulla valutazione etica concreta dell’uso del M. nei casisingoli: come in tutte le altre attività dell’uomo, è necessario tener presenti le circostanze dell’atto; sotto l’aspetto soggettivo è preminente la considerazione del fine.

2. Alcune applicazioni. – A richiesta dell’altro coniuge si è obbligati alla prestazione del debito coniugale sotto pena di peccato grave (1 Cor. 7, 3); il rifiuto è si tanto peccato veniale (a meno che l’altro coniuge venga esposto al pericolo di incontinenza), quando la parte richiedente rinuncia facilmente alla sua domanda o la prestazione è soltanto differita per breve tempo, oppure il rifiuto avviene di rado. Di più, a volte, il rifiuto può essere legittimo, data l’esistenza di determinate cause scusanti, quali l’adulterio volontario e non condonato dal richiedente, la grave trascuratezza negli obblighi di mantenimento della famiglia, la mancanza anche temporanea dell’uso di ragione, l’esagerazione nelle richieste. – Nell’uso del M. non si può non tener conto, anche in ragione della sua finalità primaria, della sanità fisica della prole futura e dei diritti della prole concepita. Il giudizio nei singoli casi va fatto tenuto conto di tutte le circostanze. – Si può, in genere, dire che quanto più grave è il pericolo ed il danno che si teme, tanto più grave deve essere la causa che ne giustifichi la permissione. Così a parità di condizioni, il probabile danno della prole già concepita pesa di più sulla valutazione etica dell’atto che non il probabile danno del futuro prodotto del concepimento; e ciò sia per la stessa incertezza di questo, sia perché non si può parlare di lesioni di diritti di chi ancora non esiste; che anzi, se si dovesse tener conto unicamente di un tale futuro soggetto, si potrebbe, nei suoi confronti applicare il principio melius est esse quam non esse. Senonché c’è anche da tener conto della sanità della stirpe, ossia del bene comune; e qualora alla prole futura si possa provvedere in maniera migliore, la stessa primaria finalità del M. impone che a ciò si badi. – Altra circostanza da valutare per il retto uso del M. è il pericolo di danno per la salute di uno dei due coniugi. Anche in questo caso, in cui non urge il diritto derivante dalla mutua traditio propria del M., la soluzione concreta delle innumerevoli situazioni che possono crearsi va ricercata nella prudente applicazione dei principi, che disciplinano l’attività umana e ne definiscono la responsabilità. Soprattutto è necessario non perder mai di vista la gerarchia dei valori e l’ordine della carità. – Una questione assai dibattuta in questi ultimi tempi è quella relativa alla liceità della cosiddetta continenza periodica, ossia all’uso del M. riservato ai periodi o cicli che, secondo alcuni calcoli e particolari teorie, si prevedono infecondi (tempo agenesiaco). Di natura assai diversa è la continenza temporanea suggerita dal concorde desiderio degli sposi di dedicarsi più liberamente alla preghiera, cui si riferisce il discreto consiglio dell’Apostolo, seguito, però, immediatamente dal prudente richiamo alla concreta ed ordinata realtà della vita (« ma poi di nuovo siate come prima »), affinché non si muti in tentazione ciò che era ordinato al perfezionamento dello spirito (I Cor. 3-6).

3. Peccati dei coniugi. – Tutto ciò che non è effettivamente ordinato o non è obiettivamente ordinabile al fine primario stabilito da Dio per l’unione dei due sessi, costituisce una violazione sostanziale dell’ordine ed è quindi peccato. Trattandosi, d’altra parte, di ordine essenziale per l’uomo, dato che dipende dal medesimo la coservazione e propagazione del genere umano, il peccato è grave, perché direttamente ed essenzialmente opposto alla carità. – L’ordine può essere violato sia nell’ambito della vita coniugale ed in contrasto con i suoi diritti e le sue leggi, o al di fuori di essa. Nell’ambito della vita coniugale costituiscono colpa grave tutte le pratiche anticoncezionali, malthusiane, qualunque sia il mezzo o il modo usato per rendere sterile l’unione. La loro diretta opposizione al fine primario del M., le rende intrinsecamente illecite, e quindi ingiustificabili, qualunque sia il motivo che le suggerisca. – Quanto poi al coniuge innocente, il quale non di rado soffre il peccato piuttosto che esserne causa, egli non commette colpa, se, per ragione veramente grave, permetta la perversione dell’ordine dovuto, purché l’atto non sia fin dal principio intrinsecamente corrotto, ma ripeta la sua malizia dalla successiva frode dell’altro coniuge, e purché, memore anche in tal caso delle leggi della carità, non trascuri di dissuadere il coniuge dal peccato. Che se, invece, l’atto fosse fin dal principio intrinsecamente viziato, è dovere opporvisi positivamente e respingere l’inedia non altrimenti che qualsiasi altro attentato alla virtù. – Qualunque esperienza extra-coniugale da parte di uno dei due coniugi, anche se incompleta, è colpa grave e costituisce il peccato specifico di adulterio. E siccome non può considerarsi estraneo al M., ossia alla mutua traditio, l’affetto, che anzi esso ne è l’elemento spirituale ed in un certo senso principe, la fedeltà coniugale può essere tradita anche solo spiritualmente, mediante relazioni affettive di ordine non sessuale con altre persone (adulterio spirituale). [BIBL.] – Pietro Palazzini.

V. LITURGIA DEL M.

Nella Chiesa cristiana antica non esisteva un rito speciale per la celebrazione del M. Gli sponsali e le cerimonie nuziali si svolgevano senza l’intervento attivo di un sacerdote, in famiglia, con il rito usato nella vita civile. Soltanto, in sostituzione del sacrificio pagano, si aggiunsero in presenza dei fedeli la Messa e la benedizione solenne nuziale. Più tardi, il contratto matrimoniale si fece con l’intervento del sacerdote, prima fuori, poi dentro la chiesa, la quale innovazione si traeva dietro gli antichi riti nuziali. Nel rito attuale dunque si distinguono due parti: la prima è costituita dai riti che accompagnano e solennizzano la manifestazione del consenso, la seconda, complementare, si compone della Messa e della benedizione. Già s. Ignazio martire desidera che il M. dei cristiani si faccia con il consiglio del vescovo (secondo H. Lietzmann, anche con l’intervento attivo di lui). Tertulliano (Ad uxor., 11, 8) distingue bene l’approvazione del M. da parte della Chiesa (« Ecclesia conciliat »), l’offerta degli sposi (« confirmat oblatio ») e la loro benedizione (« obsignat benedictio »), cioè gli sponsali familiari approvati dalla Chiesa, e la Messa con la speciale benedizione nuziale; accenna all’anello pronubo, al bacio degli sposi, alla coronazione e all’accompagnamento nella casa dello sposo. S. Ambrogio parla del velo (flammeum) che si impone alla sposa. Da questo velo, l’azione vien denominata « velario nuptialis », ed anche la voce « nuptialis » sembra derivarsi da questa azione « nubere » (« obnubilatio »). I Sacramentari offrono non i riti, ma le preghiere della Messa nuziale e della benedizione; ad es., il cosiddetto Sacramentario Leoniano, il Gelasiano antico, contenuto nel cod. Reginensis 316 della Biblioteca Vaticana. La prima descrizione dei riti si trova nella risposta del papa Niccolò I (m. nel 867) ai Bulgari (Responsa ad consulta Bulgarorum, 3). Si distinguono gli atti preliminari e gli atti complementari. Gli atti preliminari che si facevano a casa contengono tre cose: a) gli sponsali, cioè la promessa mutua del futuro M., la manifestazione del consenso dei fidanzati e dei genitori, b) la consegna delle arre, ossia dell’anello dello sposo alla sposa, c) la sottoscrizione dei patti in presenza dei testi, la consegna delle tavole nuziali o assegnazione della dote. Gli atti complementari o le parti propriamente nuziali sono: a) la celebrazione della Messa davanti ai fidanzati che prendono parte alla offerta ed alla Comunione, b) la benedizione congiunta con la velazione, c) all’uscita di chiesa, la coronazione. – Tutti questi riti corrispondono bene ai riti degli antichi Romani, cioè ai riti degli sponsali, della preparazione al M. ed ai riti del M. stesso. La Chiesa ha accettato i costumi già in uso, purificandoli da ciò che era sconveniente e rendendoli più augusti. Ma questi riti erano soltanto la solennità del M., la solennizzazione del M. contratto fuori della chiesa per « il solo consenso reciproco » (Niccolò I). – Questi riti si osservano anche oggi nella celebrazione del M., con questa differenza che il rito del M. oggi comprende tanto i riti degli sponsali quanto quelli nuziali. Particolare rilievo ha la manifestazione del consenso, l’unico elemento sostanziale del M. Nei tempi antichi, sia precristiani che cristiani (ad es., da Papa Niccolò I), il consenso si dava tra le cerimonie degli sponsali, non tra quelle delle nozze. Ma dopo il 1000 (non si sa precisare quando), si incominciò ad introdurre la manifestazione esplicita del consenso nell’atto del M. stesso, con una certa varietà: o i contraenti pronunciavano (o da soli o insieme con il sacerdote benedicente) il consenso, o il sacerdote interrogava (una o tre volte) i contraenti ed essi rispondevano. All’interrogazione e risposta dei contraenti il sacerdote aggiungeva una formola solenne di ratifica in nome di Dio: « Ego coniungo vos in matrimonium in nomine… » ( E . Martène, Ordo Rotomag. sec. XIII, in Antiquæ Ecclesiæ ritus, II, p. 367). – Un rito usato già dagli antichi, non ricordato da papa Niccolò I, era la congiunzione delle destre. In Tob. 7, 15 Raguel congiunge le mani di Tobia e Sara; presso i Romani nel giorno della solennità del m., la « pronuba » diceva agli sposi di darsi le mani. Anche oggi, nella Chiesa, alla manifestazione del consenso, il sacerdote dice agli sposi di darsi la destra; poi, secondo alcuni riti, egli li avvolge con la stola, pronuncia le solenni parole della ratifica ed asperge con l’acqua benedetta. La consegna dell’anello, presso i Romani ed anche sotto papa Niccolò I, facendo parte degli sponsali, passò tra le cerimonie del M., prima o dopo il consenso; il sacerdote benediceva l’anello, lo consegnava allo sposo per infilarlo al dito della sposa e poi ratificava il consenso. In alcune regioni non solo lo sposo mette l’anello alla sposa, ma anche la sposa allo sposo. – L’intervento della Chiesa alla celebrazione del M. cominciò quando cessò il M. tutorio, ossia quando la sposa stessa poteva darsi in M. senza l’intervento del tutore nato, cioè del padre. Una triplice fase si deve rilevare: il M. davanti o fuori della chiesa in presenza di un sacerdote che recitava un’orazione, poi con l’intervento del sacerdote come tutore eletto invece del tutore nato, e finalmente con l’intervento del sacerdote per constatare e domandare la manifestazione del consenso. Dal sec. XII sinodi o concili locali (Treviri 1227, Praga 1350, Magdeburgo 1370) proibiscono i M. laicali senza l’intervento della Chiesa. Finalmente il Concilio Tridentino prescrive l’assistenza del parroco; il nuovo CIC (can. 1095 § 1 ad 3) ordina che il parroco domandi e riceva il consenso (« requirant excipiantque contrahentium consensum »). L’atto di M. si compone di due parti : a) dell’interrogazione del sacerdote in ordine alla manifestazione del consenso, b) del consenso stesso degli sposi. L’anello sponsalizio è divenuto anello nuziale o coniugale. Seguono le parti religiose e complementari, la Messa e la benedizione solenne nuziale. Prima si diceva la Messa votiva, ad es., della S.ma Trinità, aggiungendovi le orazioni proprie per gli sposi, poi la Messa votiva prò sponsis. La benedizione nuziale, prerogativa delle prime nozze della sposa, si trova già negli antichissimi Sacramentari; si faceva dopo il Pater noster. Durante la benedizione s’imponeva alla sposa il velo, la cerimonia più appariscente del M. presso gli antichi Romani, ritenuta anche dagli sposi cristiani, mentre poi andò cedendo il primo posto alla consegna dell’anello. Ed anche la cerimonia, assai antica, dell’incoronazione degli sposi con fiori scomparve; si compiva dopo la Messa, quando gli sposi uscivano di chiesa. Oggi vive nei fiori, con cui si suole adornare la sposa nel presentarsi alla chiesa. Dopo il Benedicamus Domino, il sacerdote pronuncia di nuovo una benedizione speciale agli sposi per la loro felicità terrena ed eterna. Dove si sono conservati riti speciali o locali nel contrarre il M., si possono adoperare. – Un rito antico è la benedizione e l’uso della bevanda nuziale, presentata agli sposi come simbolo della carità cristiana. Alla sera del giorno nuziale vien poi benedetto il loro talamo, usando fin dal sec. X una formola che si trova già nel Messale di Bobbio (sec. VIII). [BIBL.] Pietro Siffrin.

M. NELLE LITURGIE ORIENTALI. –

Nei riti matrimoniali odierni si vedono ancora chiaramente distinte, sebbene congiunte, le due antiche parti che li compongono: la prima può chiamarsi fidanzamento, sposalizio ed è caratterizzata dalla tradizione dell’anello; la seconda sono le nozze con il rito particolare dell’incoronamento. Anticamente, e ancora recentemente nel mondo semitico, queste due parti erano celebrate separatamente e poteva intercorrere fra le due cerimonie un tempo assai lungo, anche di molti anni. E quel fidanzamento non era una promessa rescindibile di un futuro M., ma con quel rito si aveva l’inizio del M. già con la sua proprietà di indissolubilità, mentre il diritto di coabitazione si otteneva soltanto con il rito dell’incoronamento. Prima ancora di procedere al rito dell’anello, il sacerdote si assicurava del consenso degli sposi; in Occidente questa espressione del consenso seguito dal rito dell’anello diventò il rito sacramentale, perché il consenso di due cristiani costituisce il contratto elevato alla dignità di Sacramento, e la benedizione nuziale data durante la S. Messa fu considerata come un sacramentale non obbligatorio. – Al contrario in Oriente anche l’incoronamento è stato riguardato sempre almeno come una conditio sine qua non del Sacramento, e il nuovo Codice orientale (can. 85 § 2) tiene conto di questo concetto dove esige per la validità del M. l’intervento del sacerdote adsistentis ac benedicentis (cf. AAS, 41 [1949], p. 107). – Nel rito bizantino, secondo l’Eucologio dei Greci, la prima parte è composta dalla grande colletta con domande speciali seguita da due preghiere, poi dalla tradizione degli anelli con una formola, e da una preghiera finale. La seconda parte comincia anche con la grande colletta, con altre domande speciali, seguita da tre preghiere nuziali; allora il sacerdote impone le corone con una formola e dà una triplice benedizione; dopo questo si ha una specie di Messa dei presantificati, cioè: Epistola, Vangelo, Litanie, Pater Noster con preghiera d’inclinazione, anticamente l’ammonizione: « Præsantificata sanctis » con la S. Comunione, oggi la sunzione di una coppa di vino; segue la processione intorno alla tavola davanti alla quale si fa la cerimonia, poi la deposizione delle corone, ciò che anticamente si faceva l’ottavo giorno dopo il M ; ancora due preghiere, il bacio dei novelli sposi e il congedo. – L’Eucologio di Benedetto XIV (Roma 1754), nella rubrica iniziale, prescrive al Sacerdote di interrogare gli sposi sul loro libero consenso. Il Trebnik dei Russi e dei Serbi dà la formola di tale domanda ma la pone all’inizio della seconda parte (la prima volta nel Trebnik di Moghila, Kiev 1646). Nel Trebnik dei Ruteni (dall’edizione riformata di Leopoli 1720 in poi) la struttura del rito fu sconvolta (soppressione della prima parte; ma un rito abbreviato dell’anello è intercalato fra le preghiere nuziali e si aggiunge un giuramento sul libro del Vangelo prima dell’incoronamento); il Malii Trebnik di Roma (1946) ristabilì la netta divisione fra le due antiche parti. Negli altri riti orientali, sebbene molto diversi fra loro, si può osservare uno sviluppo, che sembra oggi esagerato, di preghiere e di inni nella cerimonia dell’incoronamento, ma che mette bene in rilievo la solennità di questo atto costitutivo della famiglia cristiana. [BIBL.] Alfonso Raes. –

 

Diamo ora un cenno al c. d. Privilegio Paolino, riservandoci una trattazione più particolareggiata in seguito. [ndr.]

#    #    #

PRIVILEGIO PAOLINO

[Enc. Catt. vol IX COLL. 49-50]

 – Il p. p. è il caso di scioglimento di matrimonio legittimo, concesso a favore della fede dal diritto positivo divino; privilegio proclamato da s. Paolo (1 Cor. 7, 1 2 – 1 5 ) da cui perciò ha preso l’appellativo. È detto anche casus Apostoli, privilegium Christi, privilegium fidei. Il matrimonio degli infedeli (matrimonio legittimo, cui non si opponga nessun impedimento di diritto divino o naturale è valido e indissolubile e non si può sciogliere per l’arbitrario abbandono di una delle parti o per mutuo consenso e volontà dei coniugi ( S . Uffìzio, 18 sett. 1824 ad 3; S. Uffizio, 18 giugno 1866 ad 8). – Dai matrimoni misti, però, in nessuna maniera cautelati da previ accordi, possono derivare dei gravissimi inconvenienti, poiché spesso per la cattiva volontà di colui che rimane infedele non è più possibile la convivenza pacifica, la fede del neofita si trova in pericolo e i figli divengono oggetto di conquista dell’uno o dell’altro dei coniugi per essere attratti a diverse e opposte forme di educazione morale e religiosa. Allora, nel concorso di un bene di ordine superiore, il mantenimento dell’indissolubilità non rimane più obbiettivo principale, ma passa automaticamente in second’ordine; e lo stesso diritto naturale dà al neofita il diritto e il dovere di andarsene, piuttosto che perdere il dono della fede. Questa legge ha interpretato s. Paolo per far sì che l’uomo non fosse allontanato dalla fede o dal perseverare in essa dalla prospettiva di dover osservare la castità perfetta e per questo promulgò l’eccezione, in base alla quale il matrimonio degli infedeli, quando l’uno dei coniugi solamente si converta alla fede e non sia più possibile la pacifica convivenza, è solubile dall’esterno.

I. NOZIONE. – In vista di questo p., dunque, il matrimonio dei non battezzati o infedeli, sebbene consumato, si può sciogliere nel caso in cui una parte, non battezzata, o non voglia coabitare con la parte convertita o non voglia coabitare pacificamente, cioè senza offesa al nome di Dio o disprezzo del Creatore. Il disprezzo del Creatore si può avere in vari modi, o trascinando la parte convertita al peccato mortale o impedendo l’educazione cattolica della prole (S. Uffizio, 14 diC. 1848) o perseverando nel concubinato (S. Uffizio, 4 luglio 1853 ed 11 luglio 1866), ecc. Né cessa il p., se i coniugi, dopo il Battesimo di uno di essi, coabitarono ancora ed in seguito la parte infedele (senza che il convertito però abbia dato ragionevole motivo di andarsene) non solo ricusi di convertirsi, ma inoltre, mancando alla parola data di coabitare pacificamente, si allontani o per odio alla religione o per altri motivi, o non voglia più stare insieme senza il disprezzo del Creatore, o abbia tentato di trascinare la parte fedele al peccato mortale o all’infedeltà. Ma questo p. non ha più ragione di essere, se tutti e due i coniugi convertiti e battezzati abbiano poi usato del matrimonio. Il p. vale per il matrimonio valido di due infedeli, uno dei quali si converta alla fede; non comprende però il matrimonio di due eretici, di cui uno abbracci la fede cattolica, perché il matrimonio di questi ultimi è rato (Sacramento), e perciò, una volta consumato, per nessun motivo si può più sciogliere. Il p. non si applica al matrimonio che un fedele, ottenuta regolare dispensa, contrae con un infedele, sebbene poi la parte infedele non voglia più coabitare pacificamente (can. 1120 § 2). Così pure non ha luogo il p. nel matrimonio contratto fra due parti battezzate, di cui una sia passata all’apostasia o all’infedeltà. Neppure si applica, se si tratta di un matrimonio invalido tra due infedeli. Quando si applica il p. p., il vincolo matrimoniale si scioglie, appena il convertito contragga un altro matrimonio valido (can. 1126)..

IL FONDAMENTO DEL P. – Il fondamento è nel testo scritturistico della 1 Cor., 7, 12 : «Agli altri poi dico io, non il Signore. Se un fratello ( = un cristiano cioè) ha una moglie infedele e questa è disposta a coabitare con lui, non la ripudi. E se una moglie fedele ha un marito infedele, che è contento di abitare con essa, non lo abbandoni. Che se l’infedele si separa (discedit), si separi (discedat): poiché non soggiace a servitù il fratello o la sorella in tal caso: ma Iddio ci ha chiamati alla pace ». Che con quest’ultimo versetto l’Apostolo permetta l’allontanamento della parte fedele o lo scioglimento del vincolo stesso, lo si prova: dal contesto della lettera ai Corinti, dalla comune interpretazione di Padri e teologi, dai decreti dei Romani Pontefici e dalla prassi della Chiesa.

1. Il contesto della lettera ai Corinti. – Mentre l’Apostolo nei versetti precedenti, parlando della separazione di coniugi cristiani, comanda che la moglie non sposi più, rimanga cioè senza sposare: in questi versetti invece permette che si allontani, senza più porre alcuna restrizione; e quindi senza neppur più porre la condizione che rimanga non sposata, altrimenti non ci sarebbe più nessuna differenza dal caso precedente. Questa interpretazione è confermata anche dalle parole che seguono, « perché in tal caso il fratello o la sorella non soggiace alla servitù ». La servitù in questione non è che il vincolo coniugale che legava i due coniugi. Se ora il coniuge fedele non soggiace più a servitù, vuol dire che non soggiace più al vincolo matrimoniale verso l’infedele che non voglia pacificamente coabitare. In altre parole il vincolo, in caso, è solubile. […] Pietro Palazzini.

#     #     #

Chi ha avuto la pazienza di consultare la voce MATRIMONIO dell’Enciclopedia Cattolica pubblicata sul blog, si è sicuramente reso conto della complessità della materia. Ma le domande più ovvie e frequenti che si pongono i residui Cattolici della Chiesa “eclissata”, che hanno a cuore la salvezza della propria anima innanzitutto, e dei loro cari familiari, e che in buona fede hanno aderito alla setta modernista del novus ordo, setta vaticana che si spaccia per Chiesa Cattolica [e sono la maggior parte], o alle sette scismatiche degli eretici fallibilisti-gallicani, sedevacantisti, sedeprivazionisti della tesi manichea, degli eretici Feyneisti, dei monasteri virtuali e via discorrendo, riguardano la validità e liceità del loro matrimonio. È evidente che, essendo il matrimonio contratto da due fedeli o infedeli, o addirittura pagani, che hanno avuto intenzione di sposarsi, con qualunque rito, pure laico, è sempre e comunque valido e quindi indissolubile, fatti salve le eccezioni già considerate. Il problema grave si pone per la sacralità e sacramentalità del matrimonio, che praticamente è, da 1958, sempre illecito e quindi senza che apporti la grazia santificante che ogni Sacramento valido e lecito comporta, in vista della eterna salvezza. Per rendere il Sacramento lecito ed operante, è sufficiente rientrare nella Chiesa Cattolica, quella “vera” guidata da Gregorio XVIII, legittimo successore di Gregorio XVII, canonicamente eletto il 26 ottobre del 1958. Importante è la distinzione tra i battezzati validamente da un prete cattolico, o illecitamente o invalidamente da un prete cattolico apostata delle setta scismatica roncallo-montiniana, o addirittura da un mai-prete, mai-ordinato da un mai-vescovo a sua volta mai-consacrato prima del 18 giugno del 1968, non tonsurato e senza che sia passato per gli ordini minori, come stabilito nel Sacrosanto Concilio tridentino. Ogni caso va quindi innanzitutto valutato su questo presupposto: una volta ricevuto validamente il Battesimo, in forma ordinaria o condizionale e rimosse le censure contratte per aver partecipato ad un culto acattolico, gli sposi automaticamente recuperano anche la grazia sacramentale del loro matrimonio, senza dover rinnovare il rito o le cerimonie prescritte. Del fatto che il matrimonio non conferisca alcuna grazia santificante, se contratto nella falsa chiesa dell’uomo, ne è prova il fallimento pressoché sistematico di tali unioni, la cui percentuale è anche superiore alle unioni laiche o di fatto, o ai pseudo-matrimoni contratti nelle sedi municipali. Il “recupero” del Sacramento, incide naturalmente su tutti i componenti del nucleo familiare e soprattutto sulla prole, che passa finalmente nello stato di legittimità canonica davanti a Dio. Sono infatti i giovani a pagare maggiormente questa situazione di illegittimità, oltre ad essere per la maggior parte non validamente battezzati, confessati, comunicati e cresimati. Si spiega così il deplorevole stato spirituale della gioventù dei Paesi un tempo cattolici oggi invasi da modernisti e scismatici! Tutte le altre questioni, soprattutto quelli inerenti alla solvibilità matrimoniale, restano immutate, non c’è spazio per “divorzi” o separazioni fuori dal “rato non consumato” o dal privilegio paolino, ed eventuali casi controversi devono essere sottoposti alla valutazione della Gerarchia Cattolica in esilio ed al Santo Padre a cui spetta unicamente la decisione finale..  –  [Nota redazionale].

 

 

 

IL MATRIMONIO CATTOLICO – 4 –

IL MATRIMONIO (4)

[ENCICLOPEDIA CATTOLICA, vol. VIII, Coll. 407 e segg.  – Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico – Città del VATICANO – impr. 1952]

M. PUTATIVO.

L’istituto del M. putativo che si può definire genericamente come un M. invalido contratto in buona fede – venne creato dal diritto canonico allo scopo di mitigare, soprattutto nei confronti della prole, le rigorose conseguenze della nullità del M. –

1. Presupposto logico generale perché il M. produca gli effetti giuridici che gli sono inerenti, sia nei confronti delle parti che in quelli dei figli nati dalla loro unione, è che il M. stesso sia valido, cioè posto in essere con l’osservanza di tutti i requisiti di capacità, consenso e forma richiesti dalla legge per dare vita legittimamente al negozio matrimoniale, e – se tra battezzati – al relativo Sacramento. Perciò, se il M. è invalido per la presenza di qualche impedimento o comunque illegittimamente contratto, né i coniugi possono dirsi tali, né i figli considerarsi legittimi. A questo rigoroso principio, formulato come regola assoluta nel diritto romano (C. V, 5, 6), la dottrina canonistica ritenne doversi fare eccezione nel caso di buona fede da parte degli sposi, quando questi avessero contratto il M. ignorandone il vizio, e perciò fossero nella persuasione di essere legittimamente congiunti. Già Pietro Lombardo riferisce chiaramente (Sentent., 1. IV, D. 41, C), l’opinione di dottori che, pur divergendo nella valutazione giuridica del rapporto creatosi col coniugio invalido contratto ignoranter, sono concordi nella conclusione che riconosce la legittimità dei figli. Questa massima viene infine sanzionata nel diritto delle decretali (cc. 2, 8, 10, 14, X , qui filii sint legitimi, IV, 17). – Rimase così stabilito che, se uno dei due coniugi era stato in buona fede al momento del contratto, il M., benché nullo, produce tutti gli effetti di un M. legittimo o valido per tutto il tempo precedente la dichiarazione di nullità e per i figli nati o concepiti in tale periodo. Condizione normalmente richiesta però, oltre la buona fede, era che il M. fosse contratto in facie o in conspectu Ecclesiæ; il M. clandestino (v. sopra) non poteva di regola dar vita ad un M. putativo (c. 3, X , decland. despons., IV, 3). S u queste basi venne così a delinearsi la dottrina dell’istituto, ma non mancarono le questioni intorno all’esatta determinazione dei due requisiti richiesti ad integrarlo: buona fede, e celebrazione in facie Ecclesiæ. Circa la buona fede, consolidatasi l’opinione che bastasse quella di uno solo dei coniugi, onde si respinse la teoria che dovesse considerarsi indipendentemente per i due sposi, per cui il figlio avrebbe dovuto essere dichiarato legittimo solo nei confronti del coniuge ignorans – (monstruosum esset aliquem pro parte fore legitimum pro parte illegitimum) – la regola si fissò nel senso che fosse sufficiente a costituirla non soltanto l’ignoranza o l’errore di ratto, ma anche l’errore di diritto, purché valde probabilis et iustus. Si accolse inoltre la massima che, nel dubbio se le parti avessero ignorato o no l’impedimento, la buona fede si presumesse; però, secondo alcuni, solamente nel caso di errore di fatto e non anche in quello dell’errore di diritto. Infine, sempre coerentemente con lo scopo fondamentale determinante la formazione dell’istituto, cioè il favore dei figli innocenti, si allargò il concetto di buona fede sino a ritenerla compatibile con il dubbio iniziale circa la validità del M. (nam qui dubitat est in bona fide) ed a mantenerne gli effetti, quando sussistesse inizialmente, anche dopo la contestazione della lite sull’esistenza di un impedimento, così da dirsi legittimi i figli nati successivamente, purché concepiti prima della sentenza di nullità. – Quanto all’altro requisito della celebrazione in facie Ecclesiæ, che avrebbe escluso la possibilità di considerare putativo il M. viziato da clandestinità, esso segue naturalmente le variazioni che la nozione di quest’ultima subì fino al Concilio Tridentino. Perciò, mentre nel diritto anteriore bastava a costituire la celebrazione in facie Ecclesiæ che essa avvenisse pubblicamente, in conspectu fidelium o cohadunatis amicis, e, dopo il quarto Concilio Lateranense (1215), osservata la formalità delle pubblicazioni o bandi prescritti da esso, dopo il Tridentino si richiede la forma da questo stabilita, e cioè la presenza nel parroco e dei testi. Tuttavia gli autori non sono concordi nel ritenere che nel diritto anteriore al CIC la celebrazione coram Ecclesia fosse un requisito tassativo per dare vita a un M. putativo; e comunque sembra più plausibile l’opinione per cui la condizione in parola andasse sempre esplicata in relazione al requisito della buona fede; nel senso cioè che per effetto della clandestinità della celebrazione, non si presumeva più la buona, ma la mala fede. – Gli effetti del M. putativo, da principio limitati ala legittimità della prole, andarono man mano estendendosi anche ai rapporti patrimoniali tra i coniugi, garantendo alla parte in buona fede i vantaggi che avrebbero dovuto derivarle da un M. valido.

2. Il CIC ha mantenuto la figura del M. putativo nei suoi tratti essenziali. Esso qualifica formalmente come tale ogni M. invalido, celebrato in buona fede da una almeno delle parti, e fino a quando entrambe non abbiano acquistato la certezza della nullità (can. 1015 §4). In questa definizione non è menzione, come si vede, della necessità della celebrazione coram Ecclesia, per cui la dottrina prevalente interpretò questa norma nel senso più lato – conforme anche alle regole della più corretta ermeneutica giuridica -, riferendola quindi ad ogni M. contratto in buona fede, indipendentemente dalla celebrazione o meno nella forma canonica. Senonché un responso della Commissione per l’interpretazione autentica del CIC in data 26 genn. 1949, dichiarava che la parola celebratum usata dal can. 1015 § 4 doveva intendersi riferita solamente ai M. celebrati coram Ecclesìa. In tal modo la disposizione del CIC è venuta ad avere una interpretazione fortemente restrittiva, che parrebbe escludere fra l’altro la possibilità di configurare il M. putativo nel caso di M. tra acattolici; ma benché si sia voluto giustificare tale responso come un ritorno al genuino e originario concetto del M. putativo nel diritto ante Codicem, autorevole parte della dottrina non ha mancato di osservare che, non solo, – come si è visto — è lungi dall’essere pacifico che il principio affermato dal responso corrisponda realmente alla dottrina ante Codicem, ma che inoltre il responso stesso sembra in contrasto con la secolare tendenza della Chiesa di eliminare la clandestinità quale motivo di nullità dei M. fra acattolici e misti, considerando M. legittimi tutti quelli che hanno formam et figuram matrimonìì secondo le usanze locali, ed inoltre con lo spirito di larghezza in favore della prole che ha ispirato il sorgere e l’evolversi dell’istituto nel diritto canonico. – Gli effetti del M. putativo preveduti dal CIC sono quelli di far considerare legittimi i figli concepiti o nati dal medesimo alla stessa stregua che i figli concepiti o nati da M. valido, e cioè purché ai genitori non fosse vietato l’uso del M. al tempo del concepimento per effetto di solenne professione religiosa o di Ordine sacro (can. 1114). Parimenti il M. putativo, anche se non consumato, ha per effetto di legittimare la prole nata anteriormente, nella stessa maniera che il M. valido, e cioè purché i genitori fossero capaci di contrarre M. fra di loro al tempo della concezione, della gravidanza o della nascita (can. 1116). Il M. putativo cessa di essere tale allorché entrambe le parti acquistino la certezza della nullità (can. 1015 § 4); con l’effetto che la prole concepita successivamente non viene più considerata legittima, a tenore del can. 1114, come quella nata o concepita anteriormente.

3. L’istituto del M. putativo, elaborato dal diritto canonico, e da questo passato nel diritto comune e penetrato profondamente nella pratica dei vari paesi, veniva accolto nei suoi principi costitutivi anche nelle moderne legislazioni, particolarmente nel Codice civile francese e nei codici che da esso derivarono più o meno direttamente. Mentre alcuni ordinamenti, come quello svizzero, assicurano favorevole trattamento ai figli nati da M. nullo senza riguardo alla buona fede dei genitori, la considerazione di questo elemento è rimasta essenziale nelle legislazioni che, come quelle più sopra ricordate, hanno accolto la figura del M. putativo. – Il vigente Codice civile italiano dispone in proposito che il M. dichiarato nullo, quando è stato contratto in buona fede, ha, rispetto ai coniugi, fino alla sentenza che pronunzia la nullità, gli effetti del M. valido. Tali effetti si producono anche rispetto ai figli nati o concepiti durante il M. dichiarato nullo nonché rispetto ai figli nati prima del M. che siano stati riconosciuti anteriormente alla sentenza che dichiara la nullità. Se uno solo dei coniugi è stato in buona fede, gli effetti valgono soltanto in favore di lui e dei figli. Se entrambi i genitori sono stati in mala fede, i figli nati o concepiti durante il M. hanno lo stato di figli naturali riconosciuti, nei casi in cui il riconoscimento è consentito (art. 128). I medesimi effetti si hanno nel caso in cui il consenso del coniuge sia stato estorto con violenza, e si producono rispetto al coniuge che ha subito la violenza e ai figli; quanto all’altro coniuge essi valgono solo nel caso che questi fosse in buona fede (art. 129). Con queste disposizioni, le quali vengono a togliere alla pronuncia del giudice, che dichiara nullo il M., l’effetto retroattivo che logicamente dovrebbe discenderne, vengono sostanzialmente ad equipararsi la dichiarazione di nullità o l’annullamento (è noto che per il M. civile, a differenza che per il M. canonico, i due concetti vanno distinti) ad uno scioglimento che impedisce il prodursi di effetti nuovi, ma conserva quelli già prodotti. – Per aversi il M. putativo secondo il Codice Civile sembra indubbio che si richieda anzitutto l’esistenza di qualche elemento essenziale che escluda la fattispecie del M. inesistente e in ogni caso che non sia mancata una forma qualsiasi di celebrazione, ossia, come anche si è detto, che si sia avuta l’investitura formale nel rapporto giuridico di M. Si discute se possa parlarsi di M. putativo agli effetti civili nel caso di un M. religioso non trascritto: la dottrina italiana è su questo punto discorde. La giurisprudenza francese ha invece riconosciuto come M. putativo anche quello contratto in buona fede davanti a un sacerdote. – Quanto al requisito della buona fede, anche qui, riecheggiando le vecchie dispute in materia, non mancano punti di contrasto. L’opinione prevalente sembra oggi nel senso che la buona fede (che si ha quante volte i coniugi, o almeno uno di essi, contraendo il M. ignorarono – e sia per effetto di un errore di fatto, che di un errore di diritto – l’esistenza della causa di nullità) si presume, e perciò non deve essere dimostrata, per il principio generale di presunzione della buona fede. Ma vi è chi dubita che in questo caso tale principio possa essere applicato, poiché qui la buona fede viene appunto in considerazione nella legge per la concessione di eccezionali diritti. Altri ancora fanno la distinzione fra l’errore di fatto e quello di diritto ammettendo la presunzione della buona fede solo per il primo e non per il secondo, in omaggio al principio nemo censetur ignorare ius, che darebbe vita a sua volta ad una presunzione contraria. Controversa è pure la valutazione da farsi del dubbio circa l’esistenza nella causa di nullità, ecc. Comunque, a differenza che nel diritto canonico vigente, ove, come si è visto, il M. putativo rimane tale solo finché entrambi i coniugi non raggiungano la certezza della nullità (cann. 1015 § 4, 1114), nel diritto civile vale la regola mala fides superveniens non nocet, per cui è sufficiente che vi sia la buona fede al momento della celebrazione perché si producano e permangano gli effetti del M . putativo fino alla sentenza che pronunzia la nullità (art. 128). Tali effetti si producono anche se la nullità del M. è stata dichiarata dopo la morte di uno dei coniugi, nel qual caso al coniuge superstite di buona fede spettano gli stessi diritti ereditari attribuiti al coniuge nel caso di valido M. (art. 528). Però qualora il coniuge defunto fosse stato legato al momento della morte da un M. valido (ossia nell’ipotesi di bigamia), il coniuge putativo è escluso dai diritti ereditari, e ciò allo scopo ovvio di eliminare la possibilità del concorso alla successione da parte di due coniugi, uno vero e uno putativo. [Arnaldo Bertola]

VII. M. RATO E NON CONSUMATO

Il M. rato, secondo il can. 1015 § 1, è il M. valido dei battezzati, se non ancora è integrato con la consumazione. Si dice rato non solo per opposizione al M. consumato, ma più propriamente perché, essendo dotato della sacramentalità, la Chiesa lo sanziona: « eum ratum habet » (cf. P. Gasparri, De Matrimonio, I, Città del Vaticano 1932, n. 41). Il M. rato e consumato si ha quando tra i coniugi vi è stato l’atto coniugale, a cui per natura sua è ordinato il M. (can. 1015 § 1). Il M. validamente contratto tra i non battezzati, si chiama « legittimo »: se è avvenuta la copula « legittimo e consumato». Se la copula sussegue al M. legittimo, il quale sia diventato rato per la recezione del Battesimo da parte di ambedue i coniugi, allora questo M. si chiama « consumato e rato ». – Queste sono le formole usate dal CIC e dai canonisti moderni, che nei testi di diritto antico hanno invece un senso vario e fluttuante. M. rato è preso a significare ora il M . valido e lecito dei fedeli, ora il M. valido, ora quello invalido, sebbene celebrato secondo la forma tridentina, ed a volte il M. né valido né lecito. Più comunemente veniva chiamato M. « semplicemente rato »  il M. valido, ma non lecito, e M. « legittimo e rato » il M. dei fedeli valido e lecito per la osservanza del rito della Chiesa : così in Graziano (17, C. 28, q. 1). Il Concilio di Trento chiamò M. « veri e rati » i M. clandestini, celebrati dai fedeli prima della loro proibizione (Sess. 24, cap. 1, de ref.). Vari autori anteriori al CIC chiamano rati i M. non consumati non solo dei fedeli, ma anche dei non battezzati. A norma del can. 1118, che riassume l’insegnamento delle fonti della tradizione, affinché il M. sia assolutamente indissolubile si richiedono due condizioni, cioè il carattere sacramentale e la consumazione: mancando l’una o l’altra, l’assoluta indissolubilità non si avvera più. Non ripugna quindi che il romano Pontefice abbia la potestà di sciogliere il vincolo di un M. che non sia consumato, purché una parte, per la recezione del Battesimo, sia soggetta alla giurisdizione della Chiesa; e che il vincolo sia ugualmente sciolto dalla professione religiosa solenne, per costituzione del diritto stesso (can. 1119).

1. – Lo scioglimento del rato per professione religiosa solenne. – a) Note storiche. – Nella storia della Chiesa esistono esempi di sante e pie persone, che, dopo aver celebrato le nozze e prima di consumarle, lasciarono nel mondo la comparte per consacrarsi a Dio. Tali gesti hanno suscitato la lode degli scrittori sacri e della Chiesa. Lasciando da parte l’esempio di s. Tecla, riferito da scrittori tardivi (s. Ambrogio: De virginibus, 2, 3, 19: P L 16, 223; s. Epifanio: Adversus hæreses, 3, 2, hær. 78, n. 16: PG 42, 726), e di s. Cecilia, si ha l’esempio, narrato da s. Agostino (Confessioni, 8, 6 : P L 32, 755-56), dei due cortigiani, che alla lettura della vita di s. Antonio abbandonarono il mondo, mentre anche le spose offrivano a Dio la loro verginità. Notissima è la leggenda di s. Alessio, nobile romano, che, fuggito la sera delle nozze, condusse vita di asceta in Edessa. Simile è la leggenda dell’eremita Macario (26, C . 27, q. 2), di s. Leonardo, di s. Oditta, regina di Inghilterra (J. Clericatus, Decisiones sacramentales, II. De Matrimonii Sacramento, decis. XIV, Ancona 1757, p. 53 sg.) e dell’altra regina inglese Edildrida (Beda, Hist. eccl., 4, 19: PL 95, 201), con la variante che in questi ultimi due casi è la donna che abbandona il mondo. Ma in tutti questi esempi o non è accertato il valore storico dei fatti narrati, o si dubita se si tratti di rottura di fidanzamenti, piuttosto che di veri e propri M. rati, o non si ha la certezza del passaggio della comparte, rimasta nel mondo, a seconde nozze. Fuori della vera e propria tradizione ecclesiastica, nella legislazione romana giustinianea la professione monastica (d’accordo con Padri e concili) è annoverata fra gli impedimenti matrimoniali (Nov. 5, 8; 123, 1): la semplice entrata nel monastero è ritenuta come giusta causa per la soluzione degli sponsali (ibid., 123, 34. 40); anzi (e ciò in disaccordo con l’autorità ecclesiastica) la professione monastica viene considerata come giusta causa di scioglimento del M . (cf. C. I , 3, 52 [53] § 15; C. I, 3, 54 [56] § 4; Novv. 5, 5; 22, 5; 117, 12; 123, 40). Ritornando alla tradizione strettamente ecclesiastica, e lasciando da parte altri cenni di non molta perspicuità che si incontrano nella tradizione sulla soluzione del M. rato (cf. 27, 28, C. 27, q. 2; Bernardo di Pavia, Summa de Matrim., ed. Laspeyres 1860, p. 299), il primo che ne abbia parlato esplicitamente è Alessandro III, già Magister Rolandus a Bologna, in due decretali dirette all’arcivescovo di Salerno (a. 1180) ed al vescovo di Brescia (2, 7, X , 3, 32). Egli ammette espressamente che la comparte, rimasta nel mondo, possa passare a nuove nozze ad secunda vota transire »), e non fa difficoltà alla terza decretale, del resto non raccolta nelle Decretali gregoriane, ma solo nella prima compilazione antica (c. 5, de sponsa duorum, IV,4), in cui parrebbe che si asserisca contrario, perché la negazione non è qui assoluta, ma condizionata (sine iudicio Ecclesiæ). La dottrina di Alessandro III è poi confermata da Innocenzo III (14, X, 3, 32) e diviene definizione dogmatica nel Concilio di Trento (sess. XXIV, de Sacr. Matr., can. 6 ), che volle infrangere l’audacia dei falsi riformatori, i quali svalorizzavano l’efficacia della professione religiosa. Oggi è accolta, come si è accennato, nel can. 1119, il quale sancisce che il M. non consumato tra i battezzati, seppure fra una parte battezzata ed un’altra non battezzata, si scioglie ipso iure per la solenne professione religiosa. –

b) Condizioni richieste. — α) La non consumazione del M. — In che consiste la consumazione sarà detto più È opportuno ora osservare che il M. su cui la prefessione solenne esercita la sua efficacia, può essere: o rato e non consumato, se i coniugi sono ambedue battezzati e cattolici o uno cattolico e l’altro acattolico; oppure indubbiamente rato e non consumato (stante la controversia circa il carattere sacramentale di questi M.), se i coniugi sono l’uno battezzato e l’altro non battezzato, ed hanno contratto o con la dispensa dalla disparità di culto oppure, essendo il battezzato acattolico, hanno potuto contrarre senza bisogno di dispensa (can. 1070 § 1), prima che il battezzato si convertisse e passasse ai voti religiosi solenni. – È ancora M. rato il M. già legittimo non consumato né prima né dopo la conversione ed il Battesimo di ambedue i coniugi: è dubbiamente rato lo stesso M., alle stesse condizioni, dopo la conversione ed il Battesimo di uno dei coniugi. Su di essi può esercitare senza dubbio la sua efficacia la professione religiosa solenne. È controverso invece se possa essere sciolto per professione solenne un M. contratto validamente e consumato nell’infedeltà, ma non più consumato dopo la conversione ed il Battesimo delle due parti. In teoria le due opinioni, negativa ed affermativa, restano anche oggi contrastanti e si bilanciano: in pratica però ambedue concordano nell’esigere il ricorso alla S. Sede.

β) Emissione della professione solenne. – Poiché si parla espressamente di professione solenne, non sortisce alcun effetto né il voto di entrare in religione, né l’entrata in religione, né l’assunzione dell’abito religioso, né la professione dei voti semplici, né il conferimento dell’Ordine sacro del suddiaconato, ed il voto di castità emesso in questa circostanza o indipendentemente nel secolo. Si parla inoltre di professione vera e quindi valida, per cui cioè si siano osservate tutte le formalità richieste ad validitatem (can. 572 §§ 1-2). – Tra le altre formalità per la validità della professione è richiesto che preceda un noviziato valido a norma dei cann.  555 e 542 – ln forza di quest’ultimo can. 542, n. 1, non è valida, senza dispensa pontificia, l’ammissione al noviziato di persone legate da M.; occorre quindi che preceda questa dispensa. Ancora per la validità della professione solenne occorre che preceda la professione semplice per almeno un triennio (can. 574). Per evitare tutta questa attesa al coniuge che rimane nel mondo, la S. Sede può concedere o la dispensa dal triennio di professione semplice (Dichiarazione della S. Congregazione superstatu Regularium, 25 genn. 1861) o la dispensa dal M. rato non consumato. – Per tutte queste ragioni, sono rarissimi i casi in cui M. non consumati vengano disciolti per effetto della professione solenne. La quale, per essere tale, deve essere emessa in un Ordine regolare, preso nel senso stretto, ed includere il voto di castità perfetta. Restano così esclusi alcuni Ordini militari con voto di castità coniugale e di astinenza dalle seconde nozze. – Resta pure esclusa (nonostante qualche parere in contrario di molti autori) la professione semplice emessa dalla Compagnia di Gesù, nonostante che questa abbia effetto irritante per un M. futuro (cf. A. Ballerini- D. Palmieri, Opus theol. morale, VI, 3a ed., Prato 1900, n. 479 sg.). Resta infine esclusa la professione semplice, emessa in istituti di monache nella Francia e nel Belgio, le quali, pur avendo voti per istituto solenni, emettono solo voti semplici, eccetto il caso in cui, a norma del Decr. della S. Congregazione dei Religiosi 23 giugno 1923, abbiano ottenuta la facoltà di emettere voti solenni (AAS, 15 [1923], p. 357. Oggi è desiderio della S. Sede che ovunque siano ripristinati i voti solenni: Sponsa Christi, AAS, 4 3 [1951], p. 5 sgg.). La risoluzione del vincolo matrimoniale si verifica nel momento stesso in cui viene emessa la professione solenne. È naturale che per lo stato libero dell’altro coniuge debbano risultare da autentico documento e l’inconsumazione e la professione solenne.

γ) Diritto sul quale si fonda la risoluzione del M. rato per professione solenne. — Alcuni tra i più antichi autori (Durando, Gaetano, Salmanticenses, ecc.) asseriscono che ciò avviene per diritto naturale, essendovi opposizione tra i due stati; altri (Benedetto XIV, Sànchez, Perrone, Palmieri) per diritto positivo-divino od immediato, trattandosi di un privilegio concesso da Cristo; altri infine (Suàrez, Schmalzgrueber, Wernz, Gasparri, Oietti, ecc., ed è l’opinione comune) per diritto ecclesiastico. Questa potestà della Chiesa però è vicaria o ministeriale e non propria. In altre parole la Chiesa, da cui dipende unicamente la solennità dei voti, in forza della potestà ministeriale, concessale da Cristo, per propria costituzione ha stabilito di ritenere la solenne professione religiosa sempre come una giusta causa di soluzione del vincolo di un M. non consumato. Il canone dogmatico del Concilio Tridentino non osta insormontabilmente a questa opinione, in quanto è possibile che una verità non sia rivelata e che tuttavia sia insegnata con infallibilità dalla Chiesa. Conseguentemente niente vieta che la Chiesa possa stabilire che il M. non consumato venga sciolto ipso iure per altre cause generali che non siano la professione solenne.

2. – Lo scioglimento del M. rato e non consumato per dispensa pontificia. – a) Note storiche. — Già da Alessandro III (1159-81) prese inizio la rivendicazione esplicita alla potestà pontificia di poter sciogliere il M. non consumato (la risposta di s. Gregorio II, a. 726, al vescovo Bonifacio: 18, C. 37, q. 7, pare piuttosto un caso di impotenza). Alessandro III, infatti, prendendo una via di mezzo tra la teoria della copula (Scuola bolognese, a cui aveva aderito da docente) e la teoria del consenso (Scuola di Parigi), insegnò da Pontefice che il M. rato, sebbene abbia ragione di vero M. e Sacramento, si può sciogliere solo per voto di castità (2, 7, X, III, 32) e per affinità sopravveniente, almeno pubblica: nel qual secondo caso egli permise di contrarre nuove nozze (2, X, III, 32). Egli con ciò mostrò di considerare il M. non consumato, rispetto alla soluzione del vincolo, come soggetto alla potestà e giurisdizione della Chiesa. Lo stesso fecero due pontefici posteriori, Urbano III (1185-87) ed Innocenzo III (1198-1218) nelle loro decretali (14, X, II, 32; c. 3 Comp. I, 4, 8; 3, X, IV, 8). Tuttavia nessuno di questi Pontefici afferma la potestà pontificia di sciogliere il M. non consumato per via di dispensa in caso particolare. – Le prime tracce di questa dottrina si possono trovare nei canonisti, da Paucapalea (Summa iiber das Decretum… ed. Schulte, Giessen 1890, p. 114), all’Alanus, a Vincentius Hispanus ( Glossa ad c. 7, X, III, 32, in Corpus iuris canonici, I, Lione 1517, p. 271), all’Hostiensis, al Panormitanus ecc. Non si può tuttavia provare con argomenti storici che siano state concesse dispense dal rato in casi particolari (si prescinde dalla soluzione per professione solenne religiosa) prima di Martino V (1417-31) ed Eugenio IV, i quali diedero alcune di queste dispense, come attesta s. Antonino di Firenze (Summa theologica, Verona 1740, parte 3a, tit. 1, cap. 21, 3) che vide le relative bolle. Nel sec. XVI la Chiesa si servì spesso di questa potestà, mentre teologi e canonisti si schieravano pro e contro. L’opinione negativa, che argomenta va soprattutto dal non uso prima di Martino V e dall’impossibilità per il romano Pontefice di dispensare nel diritto naturale e divino, sebbene difesa da grandi teologi (s. Bonaventura, Scoto, D. Soto, Pontius, Reiffenstuel, Billuart ecc.), cedevaman mano il passo al prevalere dell’opinione affermativa, che, oltre ai predetti canonisti, veniva difesa da s. Antonino, Gaetano, Azpilcueta, Sànchez, Suàrez, Schmalzgrueber, Benedetto XIV, Perrone, Ballerini, ecc., ed aveva soprattutto l’appoggio dell’uso costante e continuo dei romani Pontefici. Una volta messo fuori dubbio il fatto, molte volte ripetuto, della dispensa concessa dai Papi, è facile passare al diritto, data l’assistenza divina di Cristo alla sua Chiesa. – Ora esempi del genere si ebbero sotto Alessandro VI (Pastor, III, p. 506 nel caso di s. Giovanna regina di Francia, oltre l’altro caso, per più motivi però oscuro, di Lucrezia Borgia, ibid., p. 376), sotto Paolo III e Pio IV (M. da Azpilcueta, Manuale confessariorum et poenitentium, 22, zi, Roma 1573, p. 319), sotto Gregorio XIII (H. Henriquez, Theologiæ moralis summa, I, 11, 8, 11, Venezia 1600, p. 663 nota). Clemente VIII fece esaminare la questione del potere del Papa in merito da una commissione di canonisti e teologi, che il 16 luglio 1599 si espresse favorevolmente (D. Ursaia, Disceptationes ecclesiasticæ, II, ivi 1724, p. 1, disc. 3, nn. 10-11). Sotto Paolo V si ebbero nuovi esempi di dispensa (P. Fagnanus, Commentaria in I lib. Decretalium, de off. iud., I, 61, ivi 1942, p. 552). Così sotto Urbano VIII (V. De Iustis, De disp. Matrim., II, 10, 17, Lucca 1726, p. 292). Sotto i Papi successivi crebbero sempre più (cf. C. Cosci, De separat. tori con., I, 1, 16, 4-8, Roma 1773, p. 149; S . Pallottini, Collectio conclusionum… S. Congr. Concilii…, VII, ivi 1893, p. 542 sg.; J. Perrone, De Matrimonio christ., III, ivi 1858, p. 509). – Oggi l’esistenza della potestà del Romano Pontefice sullo scioglimento del M . rato e non consumato, benché non sia di fede, appartiene alla dottrina cattolica, per l’espresso insegnamento del CIC (cf. can. 249 § 3, 1119) ed il susseguente decreto della S. Congregazione dei Sacramenti del 7 maggio 1923.

b) Natura della dispensa e potestà pontificia sul rato. – Non si tratta di una dispensa in senso stretto a norma del can. 80, ma in senso largo. Il Romano Pontefice infatti non agisce in nome proprio, ma in forza della potestà vicaria o ministeriale, cioè in nome di Cristo stesso, di cui fa le veci. La dispensa non avviene direttamente, rimovendo l’obbligo della legge naturale e positivo – divina, ma agendo sull’atto umano proveniente dalle libere volontà, da cui è stato causato il vincolo, con una certa remissione ex parte materiæ. L’effetto è uno scioglimento dal vincolo: del tutto diversa è una sentenza di nullità. – La soluzione del M. rato è nel diritto attuale riservata al Romano Pontefice, che per se stesso immediatamente concede la grazia della dispensa. A lui è riservato anche il processo necessario per ottenerla, processo che egli ordinariamente commette ai vescovi residenziali per mezzo della S. Congregazione dei Sacramenti. Si ebbero esempi in passato di delega ai vescovi della facoltà di concedere la soluzione del M. rato ed anche teoricamente niente vieta che il Pontefice eserciti la sua potestà vicaria a mezzo di altri; tuttavia, secondo l’opinione più comune, non compete ai vescovi una potestà ordinaria su tale soggetto. – Circa l’ambito della potestà pontificia nella soluzione del rato, il can. 1119 determina: « il M. non consumato tra i battezzati oppure tra una parte battezzata ed un’altra non battezzata, si scioglie … ». Di conseguenza si può sciogliere: il M. rato tra battezzati cattolici; il M. misto non consumato; il M. legittimo consumato e poi divenuto rato per il Battesimo di ambe due i coniugi; il M. contratto con dispensa da disparità di culto; il M. di due acattolici, di cui uno battezzato fuori della Chiesa cattolica (cf. can. 1070 § 1); i l M. di due coniugi, di cui uno si converta, ma non voglia usufruire del privilegio Paolino, né coabitare pacificamente, in favore del coniuge infedele (almeno secondo l’opinione più comune). Questa dispensa viene data dietro domanda di ambedue le parti o di una parte sola, anche se l’altra sia contraria (can. 1119). Ad essi soli spetta domandarla (can. 1973), ma secondo un’opinione non improbabile si ammette che, in casi speciali, vi possa essere una giusta e proporzionata causa di dispensa anche quando ambedue i coniugi siano ignari della dispensa o vi si dichiarino contrari.

3. – Condizioni richieste per addivenire alla dispensa.

Modo di concederla. — a) Giusta e proporzionata causa. –Trattandosi di un vincolo indissolubile per diritto naturale e divino, da cui il Romano Pontefice può solo dispensare per potestà vicaria, è necessario il concorso di una giusta e proporzionata causa, affinché l’esercizio della potestà avuta sia in edificazione e non in distruzione della Chiesa. La causa deve essere ragionevole e grave: non è però richiesto che sia di pubblica utilità. Tra le giuste cause, ammesse come legittime dalla prassi, vi sono il contrasto insanabile degli animi, il timore di scandalo, di risse, il divorzio civile o la separazione legale, la prova semipiena del timore, dell’impotenza, ecc.

b) L’inconsumazione. — Il M. si dice non consumato, se tra i coniugi non è intervenuto l’atto coniugale. Quet’atto è la copula coniugale, mediante la quale si verifica fra i coniugi l’unità della carne (Gen. 2, 24; I Cor. 6, 16): tale unità non è ottenuta con gli atti incompleti, intervenuti tra i coniugi. È consumativa del M. solo quella copula che considera l’azione umana fatta secondo le leggi fisiche della natura (non quindi la copula onanistica, né la fecondazione artificiale propriamente detta), anche se non ha attuale riguardo alla generazione della Da ciò ne segue che neppure per il fòro esterno e giudiziale il concepimento della prole è in ogni caso un argomento perentorio e decisivo della consumazione. Per avere la consumazione del M. l’atto deve aver luogo dopo la celebrazione del medesimo. Non è quindi consumazione il rapporto fornicario od adulterino prima del M. Una presunzione che si fonda su quanto comunemente avviene, attese le ordinarie circostanze, stabilisce che, avvenuta la celebrazione del M., se i coniugi hanno coabitato, la consumazione si presume sempre, finché non sia provato il contrario (can. 1015 § 2). – La Chiesa, annuendo benignamente alla domanda dei coniugi (chi chiede è detto oratore, l’altra parte convenuta), prende in esame il loro caso in fòro esterno, per vedere se esiste la prova della non consumazione del M., che si basa su un duplice argomento: l’argomento morale e quello fisico. – L’accertamento è fatto per mezzo di uno speciale processo amministrativo che si svolge specialmente secondo i cann. 1976-82 ed il decr. Catholica doctrina della S. Congregazione dei Sacramenti, 7 maggio 1923 (AAS, 15 [1929], p. 389 sg .), integrato dall’Istr. 27 marzo 1929 (ibid., 21 [1929], p. 490 sg.) della stessa S. Congregazione e dal decreto del S. Uffizio 12 giugno 1942 (ibid., 34 [1942], pp. 200-202). Nel diritto anteriore norme specifiche per lo scioglimento del rato erano contenute nelle Istruzioni della S. Congregazione del Concilio, 22 ag. 1840 e del S. Uffizio nel 1858 (P. Gasparri, CIC Fontes, IV, Roma 1926, nn. 846, 1076); oltre ad altre prescrizioni generiche, reperibili nei documenti riguardanti i processi matrimoniali in genere. – Gli argomenti che servono per scoprire la verità in queste cause sono principalmente: 1) la confessione giurata dei due coniugi, che forma solo l’inizio e la base in favore dell’inconsumazione del M. (can. 1975 § 2; reg. 50-57); 2) la deposizione dei cosiddetti testimoni septimæ manus (normalmente 7 da una parte e 7 dall’altra, scelti di preferenza tra consanguinei ed affini), e quella di testi indotti d’ufficio (prevalentemente testi de scientia) oppure dietro istanza delle parti: deposizione costituente un argomento di credibilità che aggiunge valore alle deposizioni dei coniugi (cann. 1975 § § § 1-2: reg. 58-63, 66-74); 3) l’esame corporale fatto dai periti nel modo determinato dal CIC (cann. 1976-81) e dall’Istruzione (regg. 84-95), a meno che dalle circostanze non risulti inutile. Questo esame deve rilevare quello stato anatomico del corpo in generale e degli organi genitali in specie che è proprio di una donna che non abbia ancora avuto completa congiunzione carnale. Può essere esteso anche all’uomo nei casi di sospetta impotenza (reg. 84 § a); 4.) I documenti autentici, pubblici o privati, anche extra-giudiziali, di qualsiasi genere, che spieghino e corroborino le deposizioni fatte (reg. 75-78); 5) indizi e presunzioni (can. 1825; reg. 65, 79-83), che possono essere lievi, gravi e gravissime. – La S. Sede, pur riservando a sé la concessione della dispensa, ordinariamente affida l’istruttoria del processo ai vescovi competenti per territorio (l’istruttoria è condotta da un unico giudice con intervento del difensore del vincolo e di un attuario [cann. 1966-67, reg. 21-30] e si conclude con il voto del vescovo) e l’esame, a seconda dei casi, alla S. Congregazione dei Sacramenti, in via normale (can. 249 § 3), alla S. Congregazione per l a Chiesa orientale (che ha dato in merito una propria istruzione, in data 10 giugno 1935: AAS, 32 [1935LP- 333 sgg.), se una od ambe due le parti appartengono al rito orientale (can. 257 § 2), alla S. Congregazione del S. Uffizio, nel caso che almeno una parte sia acattolica (can. 247 § 3: risposta del 18-27 genn. 1928, AAS, 20 genn.1928], p. 75), ad una commissione speciale, costituibile a norma del can. 1962, al Tribunale della S. R. Rota, can. 249 § 3) sempre per delegazione, almeno ex iure, a norma del can. 1963 § 2 (qualche autore non esclude anche il ricorso alla S . Penitenzieria, tramite l’autorità che avesse già istruito il processo, nel caso di fatto veramente occulto, di cui non si possa trattare in fòro esterno: cf. can. 285 § 1). – Se durante un processo di nullità, per impotenza o per altro titolo, incidentalmente sorgesse il dubbio molto probabile della inconsumazione, è data facoltà ai coniugi di domandare la dispensa dal rato ed il giudice, in caso, beneficia di una delegazione a iure per l’istruttoria (can. 1963 § 2: reg. 3 – 4). – Il rescritto viene spedito in forma graziosa (divenendo quindi esecutivo per se stesso) dal prefetto della S. Congregazione dei Sacramenti o da altro cardinale che lo sostituisca, e dal segretario o sottosegretario della stessa S. Congregazione (reg. 102). Se le circostanze esposte non rispondono alla realtà, la dispensa pontificia è nulla, il M. non è sciolto, e tutti i M. eventualmente contratti in seguito non hanno nessun valore (reg. 103, can. 41). – Il rescritto di dispensa dal rato porta con sé una particolare concessione: la dispensa dall’impedimento del crimine nella forma proveniente dall’adulterio con promessa o con attentato di M. (can. 1053: reg. 104, decr. S. Congregazione dei Sacramenti, 3 giugno 1912). Effetto della dispensa è la soluzione del vincolo e la libertà di nuovamente contrarre, salvo il caso di aggiunta di clausola impediente nei confronti del coniuge dubbiamente impotente (vetito viro – vel mulieri – transitu ad alias nuptias). Seguono tutti gli altri effetti giuridici, ma ex nunc (dal momento della soluzione da parte del Romano Pontefice), non ex fune.

e) La dispensa dal M. non consumato nel diritto concordatario italiano. – Lo Stato italiano riconosce la competenza dei tribunali e dicasteri ecclesiastici in materia di dispensa dal rato. Per l’esecuzione, i provvedimenti, con i relativi decreti del S. Tribunale della Segnatura, devono essere trasmessi alla Corte d’appello, competente per territorio, la quale con ordinanza li renderà esecutivi agli effetti civili, disponendo che siano annotati nei registri dello Stato civile, a margine dell’atto di M. (Concordato con l’Italia, 11 febbr. 1929, art. 34: legge 27 maggio 1929, n. 847 all’art. 17). – Il riconoscimento è esteso anche ai M. civili, contratti prima dell’entrata in vigore della predetta legge (ibid., art. 22), esigendosi però in questi casi (e qui è il contrasto con le norme canoniche) la domanda di ambedue i coniugi. Si deve inoltre notare che l’art. 34, come la legge italiana di applicazione, parlano solo di dispensa « dal M. rato e non consumato ». Tuttavia la dottrina, dissipata ormai qualche voce contraria, è concorde nell’includere nella dizione anche la dispensa del M. solo non consumato, senza essere rato, e lo scioglimento per effetto di professione religiosa solenne (cf. A . Piola, Lo scioglimento del M. per inconsumazione, in Diritto ecclesiastico, 14 [1934], pp. 272-73, 274 nota 9, ove sono citati anche gli autori contrari). Inoltre, sebbene la legge civile non precisi espressamente il tempo in cui bisogna considerare sciolto a che il M. civile, si dovrà considerare lo scioglimento di questo come avvenuto contemporaneamente a quello canonico e non dalla data del provvedimento della Corte d’appello, perché la legge italiana non può limitare l’efficacia del provvedimento della S. Sede (cf. C. Rebuttati, L’ordinamento matrimoniale concordatario, in Diritto ecclesiastico, 50 [1939], p. 539; cantra: M. Falco, Corso di diritto ecclesiastico, II, Padova 1938, pp. 219-20). – Altre controversie sono sorte nella giurisprudenza italiana in materia. Una prima in merito alla possibilità del tutore dell’interdetto per infermità di mente o del curatore dell’assente di presentare la domanda richiesta per la esecutorietà della dispensa pontificia agli effetti civili. Gran parte della dottrina è contraria, dato il carattere personalissimo della facoltà che hanno i coniugi di inoltrare domanda di scioglimento (art. 22 legge cit.), ma si ha qualche sentenza in contrario (Corte d’appello di Bologna, dic. 1934, in Diritto eccles., 46 [1935], p. 22). – Un’altra controversia si ha in merito alla possibilità dei coniugi di revocare il consenso, precedentemente espresso nella domanda alla S. Sede, al momento della proposizione della formale domanda alla Corte d’appello, arrestando così l’esecutorietà della sentenza (cf. C. Rebuttati, op. cit., p. 541 sg .). – Si è anche chiesto se la domanda di ambedue i coniugi sia richiesta soltanto per ottenere l’esecutorietà in sede di volontaria giurisdizione, rimanendo la possibilità per la parte sola richiedente di esigerla in contraddittorio con l’altra in via contenziosa. La distinzione, negata da alcuni, è ragionevolmente accolta da altri (cf., ad es., L. Capalti, La funzione giudiziaria negli effetti civili dei M. pre-concordatarii, in Fòro italiano, 55 [1930, 1], P- 579 sg.; contro: F. Vassalli, Il fòro civile e il fóro eccles. nelle questioni di nullità… in Riv. di dir. proc. civ., 7 [1930, 11], p. 310 sg.). Si è poi chiesto se la domanda dei coniugi debba essere rivolta direttamente alla Corte d’appello o possa anche venir trasmessa a questa dall’autorità ecclesiastica (in questo  secondo senso: L. Capalti, Istanza di parte e tratrasmissione d’ufficio negli effetti civili dei M. prec, in Diritto eccles., 41 [1930], p. 453 sg.; contra: A. C. Jemolo, Tribunali della Chiesa e tribunale dello Stato nel regime degli Accordi Lateranensi, in Archivio giuridico, 102 [1929], p. 138 sg.). – La giurisprudenza italiana non si sa dare ancora esatto conto della natura dello scioglimento del M. non consumato, che, essendo nuovo per essa, non può essere ridotto ad istituti consimili del diritto civile. Certo tale dispensa non può essere considerata come una causa dichiarativa di nullità, né ridotta allo scioglimento per morte, né venir assimilata a sentenza di divorzio; ma è da considerarsi come un istituto a sé, quale viene considerato dalla Chiesa nel suo CIC. Ne viene di conseguenza che ad essa bisogna attribuire quella natura ed efficacia propria del diritto canonico, senza ricorrere all’analogia con altri istituti consimili. – Anche le questioni sugli effetti, su cui sono sorti diversi orientamenti sia in giurisprudenza che in dottrina, vanno risolte alla luce di questi principi, per non cadere in illogicità ed incongruenze. Così occorrerà concludere che la prole nata extra torum, prima della dispensa dal rato, conserva il carattere di adulterina e quindi non è riconoscibile per susseguente M., mentre è senz’altro riconoscibile quella nata da rapporti extra coniugali dopo la concessione della dispensa (cf. cann. 1116, 7053); che le donazioni propter nuptias di un M. sciolto per dispensa, sono ripetibili a norma dell’art. 785 Cod. civ. ital. perché fatte in previsione di un M. duraturo ed indissolubile, che viene a mancare. Lo stesso si dirà delle donazioni tra coniugi prima della dispensa, a tenore dell’art. 781 Cod. civ. ital.. Repetibili sembrano essere fin dall’inizio anche i frutti della dote, mentre non lo sembra la tassa di registro corrisposta per assegni fatti in considerazione del M. – In altro campo, in sede penale, si dovrà dire che costituisce reato di adulterio o di concubinato (artt. 559-560 Cod. pen. ital.) la congiunzione carnale con altra persona, vincolata da valido M., di poi dispensato: lo stesso si dirà per il reato di bigamia (art. 556). Si dirà che il reato di violazione degli obblighi di assistenza famigliare (art. 570 Cod. pen. ital.) sussiste, se compiuto nel tempo tra la celebrazione del M. e la dispensa. [segue BIBL.]. [Pietro Palazzini].

IL MATRIMONIO CATTOLICO -3 –

IL MATRIMONIO (3)

[ENCICLOPEDIA CATTOLICA, vol. VIII, Coll. 407 e segg.  – Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico – Città del VATICANO – impr. 1952]

II. DIRITTO CONCORDATARIO ITALIANO.

1. Il riconoscimento concordatario del M. canonico. — La rilevanza giuridica del M. canonico nell’ordine statuale — già venuta meno con l’istituzione del M. civile, che aveva ridotto il primo ad un puro atto religioso destituito di efficacia giuridica — ha ritrovato ampio riconoscimento attraverso l’art. 34 del Concordato Lateranense. Con questa disposizione (integrata poi, rispettivamente, per parte dello Stato italiano da una legge applicativa in data 27 maggio 1929, n. 847, e da parte della S. Sede da una istruzione della S. Congregazione della Disciplina dei Sacramenti agli Ordinari in data 1° luglio 1929), si è dato vita a un complesso sistema giuridico che, riconoscendo in linea di massima efficacia civile al regolamento matrimoniale canonico per coloro che volontariamente vi si assoggettino con la celebrazione religiosa cattolica, detta particolari norme affinché tale efficacia giuridica possa essere conseguita, sia in ordine alle condizioni per la costituzione e la validità del vincolo, sia in ordine alle pronunzie di nullità o di scioglimento del vincolo stesso. La dichiarazione fondamentale espressa nell’art. 34, che lo Stato italiano « riconosce al sacramento del M., disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili » (sostituita poi nella legge applicativa dalla più restrittiva menzione di M. « celebrato davanti un ministro del culto cattolico » producente, « dal giorno della trascrizione, gli stessi effetti del M. civile »), ha importato intanto la conseguenza che il M. civile cessasse di essere l’unica forma di M. avente efficacia giuridica di fronte allo Stato, come era nel sistema del Codice del 1865, continuando peraltro a sussistere come forma ordinaria di celebrazione aconfessionale. Forma che resta pertanto ancora aperta, sotto l’aspetto meramente legale, a chiunque voglia adottarla, ma che per i cattolici è severamente proibita, essendo essi gravemente obbligati a celebrare il M. religioso, ed esclusivamente questo, sì che « qualora osassero contrarre civilmente saranno trattati come pubblici peccatori » (art. 1, istruzione 1° luglio 1929 della S. Congregazione Disciplina dei Sacramenti). – Altra conseguenza fondamentale è che, pur dichiarandosi equiparati agli effetti civili il M. religioso cattolico e il M. civile vi è tuttavia grande differenza fra i due, poiché il primo è regolato dal diritto canonico e il secondo dal solo Codice civile, sia in quello che concerne i requisiti per la formazione e validità del vincolo, sia in quello che concerne la competenza a trattare le controversie relative alla nullità o allo scioglimento di esso, e che è devoluta agli organi della Chiesa per i M. canonici, restando ferma quella degli organi statuali per quelli civili. Poiché poi lo Stato, disinteressandosi della eventuale celebrazione di M. semplicemente religiosi, non ammette in alcun caso l’esistenza di più di un M. avente effetti civili fra i medesimi soggetti, o fra uno di essi e una terza persona, chi sia già unito da M. civile non potrà contrarre M. religioso con effetti civili con la medesima o altra persona. La Chiesa poi, a ovviare la possibilità che chi abbia contratto solo religiosamente possa poi contrarre altro M. civile, non consente di regola che sa celebrato M. religioso senza effetti civili.

2. La trascrizione: natura giuridica, requisiti, forme. – Affinché il M. religioso cattolico abbia effetti civili, è necessario che sia trascritto nei registri dello stato civile. Questa trascrizione, dice la relazione ministeriale per la legge applicativa, « non è una semplice registrazione probatoria, ma costituisce l’atto essenziale per l’attribuzione degli effetti civili, giacché in mancanza di trascrizione di M. canonico rimarrebbe puramente un atto religioso e a nulla varrebbe provarne la celebrazione »: però, una volta effettuata, la trascrizione retroagisce al momento della celebrazione. Essa deve pertanto considerarsi come la formalità al cui adempimento la legge subordina la produzione degli effetti giuridici civili del M. canonico; essa funziona non come atto autonomo ma ma come condicio iuris, al cui verificarsi il M. canonico produce, fin dalla sua celebrazione, gli effetti medesimi del M. civile.La legge, pur lasciando, in coformità all’art. 34 del Concordato, che i requisiti per l’esistenza e la validità di questo M. religioso siano regolati dal diritto canonico e sottoposti all’esclusivo apprezzamento dell’autorità ecclesiastica, stabilisce però delle norme, la cui osservanza è indispensabile affinché possa addivenire alla trascrizione. Perché dunque un M. canonico possa essere validamente trascritto, o possa, se comunque trascritto, conseguire e mantenere gli effetti civili della trascrizione, si richiede: a) che sia stato celebrato alla presenza di un ministro del culto cattolico (ma sulla assoluta necessità di questo requisito e pertanto sulla non trascriivibilità del M. contratto coram solis testibus, si discute); b) che non ricorra uno dei tre casi seguenti: 1) che anche una sola delle persone unite in M. risulti legata da altro M. valido agli effetti civili; 2) che le persone unite in M. risultino già legate tra loro da M. valido agli effetti civili; 3) che il M. sia stato contratto da un interdetto per infermità di mente. Soddisfatte tali condizioni il M. religioso deve essere trascritto, indipendentemente dalla sussistenza o meno delle altre condizioni di esistenza o validità prevista dalla legge per i M. civili, su cui quindi ogni indagine resta preclusa. Naturalmente viene anche esclusa, in sede di trascrizione, ogni indagine sulla sussistenza o meno do impedimenti o di altre cause di nullità canoniche. Questo ultimo accertamento spetta invero all’autorità religiosa competente, che deve procedervi di regola prima della celebrazione. Poiché l’art. 34 richiede che subito dopo la celebrazione il parroco illustri ai coniugi gli effetti civili del M. dando lettura degli articoli del Codice civile relativi ai doveri dei coniugi, si è chiesto se anche qui si tratti di condizione sine qua non per la trascrizione; ma non sembra debba rispondersi affermativamente, a meno che in qualche caso particolare, la mancanza di tale lettura risulti determinata dalla espressa intenzione di escludere gli effetti civili del M.In relazione all’art. 34 del Concordato, il quale dispone che le pubblicazioni del M. siano effettuate oltre che nella chiesa parrocchiale anche nella casa comunale, la legge applicativa (artt. 6-7) ha dettato in proposito varie norme per la richiesta e l’esecuzione di tali pubblicazioni, l’osservanza delle quali, e conseguente rilascio da parte dell’ufficiale dello stato civile di un certificato attestante che nulla gli risulti ostare alla celebrazione, costituisce il curriculum preliminare normale da seguire per la celebrazione di un M. religioso destinato ad essere scritto, e che ne assicura a priori la trascrizione entro ventiquattro ore dalla comunicazione dell’atto di M. all’ufficiale di stato civile.

3. Trascrizione tardiva. – Se peraltro questa procedura normale non sia stata seguita, la trascrizione può ottenersi ugualmente, ma previo accertamento (per cui la legge detta norme apposite) che non esista una delle tre circostanze sopra ricordate, la cui assenza costituisce condizione indispensabile per una valida trascrizione (art. 12). – La trasmissione dell’atto di M. religioso all’ufficiale dello stato civile per la trascrizione, è, a tenore dell’Istruzione della S. Congregazione dei Sacramenti, di regola obbligatoria, e il parroco deve procedervi d’ufficio entro cinque giorni, anche indipendentemente dalla volontà dei contraenti, salve determinate eccezioni consentite dalla Chiesa. – Qualora però, anche all’infuori di tali eccezioni consentite, la trascrizione sia stata omessa per un’altra qualunque ragione, la legge ammette che possa venire effettuata successivamente in ogni tempo, e non soltanto a richiesta delle parti, ma di chiunque vi abbia interesse. Questo sempre che le condizioni stabilite dalla legge sussistessero al momento della celebrazione del M., e non siano venute meno successivamente. Peraltro, qualora la trascrizione richiesta trascorsi i cinque giorni dalla celebrazione, essa non pregiudica i diritti legittimamente acquisiti dai terzi (art. 14). Questa tardiva trascrizione può essere richiesta anche nel caso in cui il M. religioso non fosse stato trascritto perché contratto da un interdetto per infermità di mente, se vi sia stata coabitazione per un mese dopo revocata l’interdizione (art. 14, cap. 1; cf. art. 119 cod. civ.).

4. Annullamento della trascrizione e nullità del M.La trascrizione del M., quando sia avvenuta, può essere impugnata per una delle cause menzionate nell’art. 12 della legge, e cioè le note tre circostanze che ostano in modo perentorio alla sua validità: precedente M. civilmente valido con una terza persona; M. civile fra le stesse parti; interdizione per infermità di mente (salvo il caso di coabitazione per un mese dopo la revoca dell’interdizione. A tali impugnazioni si applicano (art. 16) le disposizioni del Codice civile, ove si determina quali siano le persone legittimate ad agire per l’impugnativa del M. civile, e che potranno dunque anche promuovere l’azione per impugnare la trascrizione del M. religioso, onde ottenerne l’annullamento.Una viva questione si è dibattuta circa la possibilità di ottenere l’annullamento della trascrizione anche per cause diverse dalle tre menzionate, ed in particolare per interdizione dichiarata posteriormente alla celebrazione e trascrizione del M., o per la cosiddetta incapacità naturale prevista dall’art. 120 Cod. civ., ossia l’incapacità di intendere o di volere da parte di uno degli sposi, quantunque non interdetto all’atto del M. La tesi affermativa (a cui di fatto poteva farsi carico, tra l’altro, di aprire la via a facili frodi contro il principio della indissolubilità coniugale, specialmente se a mezzo di pronunciati di tribunali esteri), veniva giustamente respinta dalla Corte di Cassazione a sezioni unite. Effettivamente i divieti di procedere alla trascrizione e corrispondenti cause di annullamento ammessi dalla legge matrimoniale all’art. 12, costituiscono deroghe al principio generale fissato dall’art. 34 del Concordato che riconosce al M. gli effetti civili; deroghe che non possono estendersi ad altre ipotesi oltre quelle prevedute espressamente dalla legge, e per se stesse caratterizzate dal fatto che ognuna di esse prevede essenzialmente la preesistenza già accertata di un determinato stato giuridico (M. civile o dichiarazione di interdizione) ritenuto incompatibile con una trascrizione destinata a dare effetti civili a un vincolo che la legge non potrebbe ammettere. D’altra parte l’infermità mentale costituisce per sé vizio di consenso che rientra fra le cause di nullità del M. canonico, su cui sono esclusivamente competenti i tribunali ecclesiastici. –  Indipendentemente dalla esistenza o meno di motivi che rendano invalida la trascrizione perché fatta contro le norme della legge civile che regolano l’istituto, può accadere che il M. religioso dopo la sua trascrizione venga dichiarato nullo dai competenti organi di giurisdizione ecclesiastica, o sia sciolto per inconsumazione, in conformità delle norme canoniche. Per questi casi il Concordato e la legge dettano le norme da seguire perché i relativi provvedimenti e sentenze ecclesiastiche divengano esecutivi agli effetti civili. Tali provvedimenti o sentenze, resi esecutivi, vanno annotati in margine all’atto di M. (art. 17 u. p.), del quale ultimo cessano pertanto tutti gli effetti civili; retroattivamente, cioè dal momento della celebrazione, nel caso di dichiarazione di nullità, e dalla data dello scioglimento, nel caso di dispensa del M. rato e non consumato. In entrambe le ipotesi, e cioè quella in cui sia annullata la trascrizione per inosservanza delle norme della legge civile, e quella in cui sia resa esecutiva una sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità del M. religioso, quando il M. sia stato contratto in buona fede, esso produce nei riguardi dei coniugi e dei figli gli effetti del M. putativo (v. oltre).

5. M. preconcordatari. – Il principio concordatario che riconosce efficacia civile al M. canonico ed alla relativa giurisdizione ecclesiastica, fu dalla legge matrimoniale esteso in parte anche ai M. anteriori. Così fu consentito che in date condizioni vengano trascritti M. celebrati con il solo rito religioso anche prima della legge 27 maggio 1929, per quanto con decorrenza degli effetti civili dal giorno della trascrizione e non da quello della celebrazione (art. 21). D’altra parte fu ammesso per i M. contratti con il doppio rito, civile e religioso, prima del Concordato, che la pronunzia di nullità o il provvedimento di dispensa per inconsumazione del M. religioso producano, in determinate circostanze, il loro effetto anche riguardo al M. civile contratto fra le stesse persone (art. 22).

6. Natura del riconoscimento statuale del M. canonico. — Il riconoscimento degli effetti civili al M. canonico e la relativa devoluzione alla giurisdizione ecclesiastica delle cause di nullità e di dispensa hanno dato origine a una grossa questione intorno alla figura di tale riconoscimento, ossia al titolo in base al quale le norme del diritto matrimoniale canonico spiegano la loro efficacia nell’ordinamento dello Stato. Si è domandato in particolare se per effetto della norma concordataria si sia avuta o no recezione (rinvio recettizio o materiale) del diritto matrimoniale canonico, nel diritto italiano, affermandolo alcuni e negandolo altri, che sostennero trattarsi invece di semplice rinvio formale o non recettizio. Altri poi opinano non potersi parlare neppure di rinvio formale, ma di un riconoscimento civile di leggi canoniche emesse dalla Chiesa nella sfera della propria autonomia, mentre altri ancora tentano diverse spiegazioni. Senza addentrarsi qui in tale questione, in gran parte accademica e resa particolarmente ardua dalla incertezza concettuale e terminologica delle nozioni di partenza, importa però rilevare che il riconoscimento dell’efficacia giuridica nell’ordinamento italiano all’ordinamento matrimoniale canonico, comunque lo si voglia qualificare o classificare, non può, per la lettera e lo spirito chiarissimi della disposizione concordataria, intendersi limitato alle norme canoniche vigenti al momento in cui fu attuato quel riconoscimento, ma si riferisce al diritto canonico come sistema autonomo, nella realtà del momento storico e nelle possibilità di sviluppo futuro, cioè quale è e quale potrebbe essere modificato in seguito dal legislatore ecclesiastico.

III. SECONDE NOZZE

Sono quelle contratte dopo che sia stato sciolto il vincolo del M. precedente, anche, se in ordine di tempo, sono le terze, le quarte od ulteriori. A tale proposito si parla ancora di poliandria o poligamia successiva e, secondo il numero delle mogli precedenti, di bigamia, trigamia ecc. Il diritto divino ed ecclesiastico danno come valide e lecite le seconde nozze, purché il vincolo del primo M. sia stato sciolto con certezza. Sorsero tuttavia discussioni e si ebbero contrasti tra la disciplina della Chiesa latina ed orientale.

Note storiche. – L’insegnamento di Gesù tace su questo punto, ma l’apostolo Paolo è esplicito sulla liceità delle seconde nozze, poiché il vincolo matrimoniale si scioglie con la morte del coniuge (Rom. VII,3; 1 Cor. VII, 39). Pur lodando quindi, come stato di vita più perfetto, una casta vedovanza, non la impone (1 Cor.VII, 8); anzi alle vedove giovani consiglia di nuovo il M. (1 Tim. 5, 14). E solo nel candidato all’episcopato esige, per ragioni diverse, che sia « unius uxoris vir » (Tit. I . 5-7; l Tim. 3,3). Perfettamente aderente all’insegnamento dell’Apostolo è Il pastore di Erma, che scrive a Roma circa un secolo dopo (Mand. 4, 4, 1a ed. F. X . Funck, Patres Apostolici, I, Tubinga 1901, p. 480). Ma già pochi anni appresso (ca. 177), in Oriente, Atenagora chiama le seconde nozze «un decoroso adulterio « (Legatio, 33: PG 6, 967). Seno evidenti due tendenze, una più benigna, l’altra più rigida”. Questa ultima si formò nel seno della tradizione cattolica, fuori dei movimenti ereticali, per una esagerata interpretazione dell’unitas carnis e del simbolismo del M., come figura dell’unione di Cristo con la Chiesa, predicato da S. Paolo {Eph., 5, 23-32). – Nella tradizione occorre distinguere tra Oriente ed Occidente e nell’Oriente stesso tra l’atteggiamento dottrinale dei Padri e la legislazione ecclesiastica in materia. I concili greci della prima antichità non vietano le seconde nozze, pur sottomettendo i bigami ad una penitenza di una certa durata, forse per conservare una qualche convenienza esteriore e per dare soddisfazione alla corrente più rigida. Questa è formata da alcuni Padri che per le ragioni predette, e nello sforzo di tendere ad una più alta perfezione morale, considerano le seconde nozze come poco decorose, spingendosi, i più estremisti, fino a condannarle. Ciò in Occidente non avviene, finché si rimane nel nell’ortodossia: la condanna delle seconde nozze propria degli eretici (montanisti, novaziani etc vj. pur venendo accolti nelle collezioni canoniche e nei libri penitenziali alcuni canoni che assoggettano i bigami ecc. a penitenza. A questo proposito è significativo l’atteggiamento di Tertulliano. Nella sua opera Ad uxorem (1. I: PL 1, 1386-1400) ammette (a. 190-206) le seconde nozze, pur con delle riserve e pur esortando sua moglie a non contrarle in caso di sua morte. Nella seconda opera Exortatio castitatis (cap. 7-8 : PL 2, 970-73) la disapprovazione delle seconde nozze si accentua (a. 208-11) ma già, pure appoggiandosi su futili motivi, getta un certo discredito anche sulle prime nozze. Nel De monogamia (cap. 14: PL 2, 1000), ormai montanista [dopo il 213] condanna formalmente ogni nuovo M., ma con ragioni puerili (tutti i cristiani sono fratelli) ed anche pericolose (il M. è un minor male, da Dio tollerato soltanto). La voce di Tertulliano non è più però quella della tradizione, che in Occidente si farà più tardi sentire con S. Ambrogio (De viduis, n , 68 ; PL 16, 267-68), con S. Girolamo (Ep. 48, 9: PL 22, 499-500), con s. Agostino specialmente (De hono viduitatis, 12, 15: PL 50, 439), con Papa Gelasio (Ep. 14, cap. 22: PL 69, 49), tutti favorevoli alle seconde nozze, anche se queste sono dette: Solatio  miseriæ… non laudes continentiæ (s. Girolamo, Ep. 48, 18 PL 22, 508). – I Concili d’Occidente, tenuti ad Elvira (ca. I ad Arles (a. 314) ed a Vaison (a. 442) non parlano di seconde nozze. Solo il Concilio di Orange (a. 441), ha un accenno che non è di riprovazione (can. 25). In Oriente pure non mancano dei Padri che ritengono del tutto lecite le seconde nozze. Così Clemente Alessandrino (Stromata, 3, 12: PG 8, 1186 sgg.), così Epifanio (Adversus hæreses, 59, 4: PG. 41, 1024-25). Ma la corrente rigorista trova eco specialmente tra i Cappadoci e si fa  forte della loro autorità. S. Basilio, che chiama la trigamia col nome di fornicazione, sottopone a vari gradi di penitenza i bigami ed i trigami (Ep. can. 1°, can.4: PG 32, 673). S. Gregorio di Nazianzo si spinge a dire che le seconde nozze dopo la morte del coniuge sono semplicemente tollerate e che le terze nozze, nel medesimo caso, sono una iniquitas, o colpa (Orat., XXXVII, 7, 8: PG 36, 292). – Questa contrarietà per le seconde nozze propriamente dette, non si protrarrà oltre il sec. IV. Già s. Giovanni Crisostomo si limita a sconsigliare solo le seconde nozze (In Mt., Hom. XVII, 4: P G 57, 259-60), ma si continuerà a considerare illecite la trigamia e la tetragamia. Nella legislazione canonica orientale il Concilio di Ancira (a. 314) ha solo un accenno all’anno di penitenza prescritto ai bigami (can. 19). Simili accenni si hanno ancora nel Concilio di Neocesarea (aa. 214-25), cann. 3,7; nel Concilio di Laodicea (aa. 343-81), can. 1. Ma la penitenza è ristretta ad un periodo breve e non è condanna assoluta. Tanto è vero che già il Concilio Niceno (a. 325) esige nella ritrattazione dei catari (novaziani) 1’ammissione della liceità delle seconde nozze (can. 18 : Denz-U, 55). |Questa tendenza a considerare i bigami, trigarmi, etc.  come penitenti passò nei Penitenziali, in uso anche nell’Occidente, tanto che se ne ha traccia anche nel Decretum di Burcardo (tit. 23, cap. 2). – Ma già in questo stesso periodo i Romani Pontefici nella causa (aa. 907-20) dell’imperatore d’Oriente Leone VI, rimproverato dai Greci per le sue quarte nozze, prendono parte per lui. E non si lasciano indurre a porre un limite al diritto di contrarre successivamente nozze, mentre in Oriente vengono condannate formalmente le quarte nozze e guardate con disfavore anche le terze nozze (A. Fliche-V. Martin, Hist. de l’Eglise, VII, s. 1. 1948, p. 119 sgg.). Controversie del genere si ebbero successivamente nella Chiesa russa e serba, ormai fuori dell’unità, ma la questione della tetragamia non fu mai presa in| considerazione a Roma, se non nei momenti di riunione con i dissidenti ( M . Jugie, Theologia dogmatica Christianorum  orientalium, II, Parigi 1930, p. 468 sgg.). – Fin dal tempo di Graziano in Occidente, pur non ignorandosi gli antichi canoni (c. 7, 10, C. 31), nessuno pensava più ad applicare i canoni penitenziali relativi ai poligami successivi, e !a Glossa interpretava il can. 3 del Concilio di Neocesarea, che imponeva la penitenza ai bigami, come se si trattasse di bigamia contemporanea (Glossa ad 7, C31). – Quasi contemporaneamente nella professione di fede, imposta da Innocenzo III ai Valdesi (ep. Eius exemplis, 18 dic. 1208) è comandato di asserire « nec etiam secunda et ulteriora matrimonia condemnamus » (Denz-U, 424). La stessa professione è sottoposta ai Greci da Innocenzo IV (Cap. sub catholicæ del 6 marzo 1254, § 3, n. 20: Denz-U, 455), a Michele Paleologo nel II Concilio di Lione (Ecumenico XIV) del 1274 (Denz-U, 465, la versione greca però ricorda solo le seconde e le terze nozze: M. Jugie, op. cit. II, p. 469), nel libello Iam dudum (n. 49) trasmesso agli Armeni nell’anno 1341 da Benedetto XII (Denz. – U, 541) e di nuovo a questi nel Decretum prò Armenis (Mansi 31, 1054). Però come la Chiesa orientale a coloro che contrevano le seconde nozze negava la « coronazione » (cf. Jugie, op. cit., II, p. 467), così la Chiesa occidentale negò agli stessi la solenne benedizione (Nicolò I, Resp. Ad cons. Bulg., a. 866, n. 3: PL 119, 979). Questa prassi fu però modificata nel senso che, se la donna era al suo primo matrimonio, anche se il marito era vedovo, non si negava la benedizione. Ciò viene attestato già da Bernardo di Pavia (Stimma decretalìum, ed. E. A. T. Laspeyres, Ratisbona 1861, p. 194) e dalla Glossa alle Decretali Gregoriane (ad c. 3, X , 4, 21) ed è ancora oggi da osservarsi, se in uso nella regione (Rituale Romanum, VII, c. 1, n. 18). – La Chiesa stessa non acettò nel diritto comune (per il diritto particolare, cf., ad es., il Pœnitentiale Theodori [Pseudo-Teodoro], 1. II, cap. 12, § 9) l’impedimento del tempus lugendi, introdotto dalle leggi romane, ed accettato con modifiche in molte legislazioni odierne.

Disciplina attuale. – È la stessa enunciata da S. Paolo e riaffermata ancora nel Concilio Tridentino ( Sess. XXVI, can. 10): è preferibile una casta vedovanza, sono lecite però le seconde nozze (can. 1142); prima di contrarle è da rimuovere ogni possibile dubbio sulla cessazione del primo vincolo (cann. 1142, 1069 § 2). – La Chiesa non prescrive nessun intervallo di tempo tra la cessazione del M. precedente e la celebrazione del susseguente; raccomanda però di osservare le consuetudini ed i costumi del luogo. In Italia per il Concordato non è lecito senza la licenza dell’ordinario ammettere la vedova al M. prima dei dieci mesi o del parto (istr. della S. Congr. dei S acramenti, 1 luglio 1929). Come si è detto, è proibito dare la benedizione alla vedova che contrae nuove nozze (can. 1143, Rituale Romanum, tit. VII, c.1, n. 18).

M . DI COSCIENZA.

Il M. di coscienza od occulto, detto alle volte anche meno perfetto (in rapporto alle formalità esterne), è quello che si contrae con l’omissione delle pubblicazioni, dinanzi a testimoni ed al proprio parroco o ad un sacerdote delegato dall’ordinario, i quali tutti sono tenuti all’obbligo del segreto, finché non cesserà il motivo di questo stesso segreto. Non è quindi da confondersi con il M. clandestino (v. sopra), contratto senza la presenza de1 parroco e dei due testi, oggi possibile solo per gli acattolici. – La nozione esatta circa tali M. si deve ricercare nelle opere di Benedetto XIV, al tempo del quale erano venuti molto in uso, mentre prima vi era stato appena qualche indizio, come lo stesso affermò in un suo voto, scritto quando per la prima volta la cosa fu proposta alla S. Congregazione del Concilio. Le discussioni che allora si tennero sull’argomento persuasero a differire il giudizio circa i requisiti per compiere lecitamente tali M. (cf. Benedetto XIV, De Synodo dioecesana, 13, 23, n. 2, in Opera omnia, XI, Prato 1844, p. 654). Elevato al soglio pontificio, Benedetto XIV, con la sua cost. Satis vobis del 27 nov. 1751 (ibid., XV, ivi 1845, pp. 113-16), espose chiaramente lo stato della questione e prescrisse con la consueta precisione le norme da osservare in pratica. – Anche oggi vige la stessa legislazione, perché i principi sono passati dalla costituzione al CIC (cann. 1004-1007). Prima di tutto non è consentito ad alcuno di celebrare il M. in questo modo, senza il permesso dell’Ordinario del luogo, escluso anche il vicario generale senza mandato speciale (can. 1104) . L’Ordinario deve usare di questa facoltà soltanto quando vi sono motivi gravissimi ed  urgentissimi. La ragione di questa disposizione è ben chiara, se si rifletta che con questa specie di M. possono riaffiorare i pericoli che portarono i l Tridentino a dichiarare nulle le nozze clandestine. – A questi inconvenienti oggi se ne aggiungono altri per opera delle leggi civili circa la validità delle nozze e la legittimità della prole. Ma insieme l’età presente, pur rendendo soggetto il M. di coscienza a nuovi pericoli, ha anche causato nuove situazioni, in cui questo appare necessario. Perciò i l CIC non ha voluto né l’abolizione del M. di coscienza né la sua eccessiva facilitazione, ma concessioni rare e motivate; esige cioè che vi siano motivi tali per cui il M. non può essere omesso o ritardato, né si può celebrare pubblicamente. – Quali siano poi in concreto i motivi sufficienti, è proprio il nocciolo della questione e fonte di tante difficoltà. Il nuovo legislatore tace in proposito. Secondo la dottrina di Benedetto XIV un motivo si ha nel caso in cui l’uomo e la donna vivano pubblicamente in veste di vero M., senza che vi sia alcun sospetto di delitto, mentre in realtà vivono in occulto concubinato (cost. Satis vobis, n. 6). L a maggior parte dei moderni contesta però che in questo caso si tratti di un vero M. di coscienza; infatti lo stato matrimoniale (matrimonium in facto esse) di questi coniugi non è affatto occulto. L’atto però (matrimonium in fieri) con cui questo M. viene celebrato, rimane segreto e tale deve rimanere, per non ledere la fama dei coniugi, e per evitare lo scandalo del popolo. E sotto questo aspetto tale M. si dice di coscienza. – I moderni canonisti elencano altri motivi che si possono stimare sufficienti per un M. di coscienza. Così, ad es., il caso del militare impedito di sposare la donna, con cui già è legato da affetto maritale e con cui intende continuare a convivere e dalla quale ha avuto figli, perché essa è priva di dote. Così si deve dire del figlio di famiglia, che si trova nella stessa situazione, mentre i parenti, senza ragione, ostacolano i suoi desideri. Ma molto in ciò dipende dai costumi dei diversi luoghi e dalle opinioni vigenti. Perciò la necessità di una valutazione esatta della condizione dei pretendenti sposi, del loro carattere, della disposizione degli animi, dei costumi del luogo e dell’intera situazione; occorre soprattutto tener presente se tra di loro vi sia già stata una comunione di vita, da cui solo con grave scapito si possa recedere. – In genere occorre che i motivi, che richiedono il M. di coscienza, siano transitori, specialmente quando già vi è la prole o vi sarà probabilmente; altrimenti si aumentano le difficoltà. Il permesso del M. di coscienza importa per se stesso l’obbligo del segreto in tutti i partecipanti e nei successori stessi del sacerdote assistente e dell’Ordinario (can. 1105). L’obbligo del segreto cessa da parte di questo ultimo, quando si delineasse un grave scandalo, in mezzo ai fedeli, che, non conoscendo la celebrazione del M., vedessero i due trattarsi ed agire come veri coniugi. Cessa pure con il verificarsi di una grave ingiuria contro la santità del M., con l’attentato, p. es., da parte di uno dei due coniugi, o di ambedue, di un nuovo M.; oppure se i genitori non si curassero di far battezzare i figli o li facessero battezzare sotto falsi nomi, senza che l’Ordinario entro trenta giorni abbia notizia della prole avutae battezzata con il vero nome dei genitori, o trascurassero la cristiana educazione dei figliuoli (can. 1106). Veramente il CIC non parla di una speciale promessa da emettersi dai contraenti in questo senso; ma oltre ad essere ciò espresso chiaramente da Benedetto XIV, che è la fonte del CIC, la natura stessa della cosa esige che conoscano ed accettino tutti gli oneri annessi e connessi con la grazia loro concessa. I coniugi poi possono in qualsiasi tempo, ma sempre di comune accordo, render noto il loro M., poiché il segreto si conserva unicamente in loro favore. Infine il M. di coscienza non si deve annotare nel solito libro dei M. e dei battezzati, ma in un libro speciale da conservarsi nell’Archivio segreto della Curia (cann. 1107, 379). [Pietro Palazzini]

M. MORGANATICO

Il nome di M. morganatico deriva probabilmente dalla parola morgengabe oppure da morgangeba, che era il dono dato dal marito alla moglie dopo la prima notte di nozze, quasi pretìum pudicitiæ, o, secondo altri, come segno della consumazione del M.: nel M. morganatico, infatti, la moglie e la prole non venivano a partecipare dei beni e della dignità rispettivamente del marito o del padre, se non in piccola parte, a modo del cosiddetto dono mattutino, ad instar solius doni mattutini. Altri derivano la voce dal gotico morgjan (=restringere), o dal tedesco morgen (nel qual caso il M. del mattino sarebbe contrapposto a quello solenne del pieno giorno); o dalla dizione à la fée morgane, etimologia quest’ultima molto discutibile e non controllata. – Si dice morganatico il M. contratto tra un uomo di stirpe nobilissima o regia ed una donna di umili origini, con la condizione che, mentre il M. è di pieno diritto davanti alla Chiesa, nel campo civile la moglie viene esclusa dal partecipare alla dignità del marito, ed i figli da tutte le onorificenze e titoli, nonché, almeno in parte, dalla successione dei beni paterni. È detto anche disparagio (M. tra non uguali), in opposizione a M . aparagio (cioè tra pari); M. ad sinistrarli manum o ad legem salicam. Da quanto si è detto, è chiaro che l’esistenza del M. morganatico dipende completamente dalla legge, secondo cioè che, nei vari paesi, sia conosciuta o meno la distinzione, con differenti effetti, tra i M. comuni e quelli contratti dai vari nobili con donne di inferiore origine. – Il M. morganatico è d’origine barbarica; tracce infatti se ne trovano nella legislazione longobarda sotto Liutprando (Leges Langobardorum, tit. V , cap. 1) e nelle usanze feudali (Liber de usibus feudorum, 1. II, tit. 29). La legge salica ribadisce le usanze feudali (tit. XLVI, sect. IV) e così il Codex Friderici (parte Ia, lib. II, tit. III, art. 3). L’Austria e la Germania sono state, si può dire, le terre classiche di simili M.: di là consuetudini e leggi si irradiarono nel resto d’Europa (cf. la legislazione sabauda del sec. XVIII: A. Pertile, Storia del diritto italiano, III, Torino 1894, p. 290, nota 27). Dell’ultimo secolo si ricordano in Austria i M. di Maria Luisa, figlia di Francesco I e vedova di Napoleone I, che sposò il conte di Neipperg; quello dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria, figlio di Ferdinando, fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe con la contessa Sofia Chotek di Chotkiowa. In Germania si ricorda il M. del principe Alberto, fratello dell’imperatore Guglielmo, con la contessa Rosalia Hohenau de Ranche; nella Russia zarista quello del granduca Michele Michailovitch, cugino dello zar Nicola II, con la contessa Sofia Marenberg-Torby. In Francia si ha il caso celebre del M. di Luigi XIV con Madame de Maintenon; ma la legislazione francese fu sempre ostile al M. morganatico. Anche nella casa di Savoia si ricordano M. morganatici, come quello di Vittorio Emanuele II con la contessa di Mirafiori Rosa Vercellana e del principe Eugenio di Carignano-Savoia con la contessa di Villafranca-Soissons, Felicita Crosio. – Al M. morganatico si attengono ormai solo le case sovrane o le famiglie dell’alta nobiltà ad esse uguagliate con l’atto imperiale dell’8 giugno 1818, la decisione federale del 19 giugno 1825 e gli atti del Congresso di Aixla-Chapelle. Gli attuali ordinamenti (cf. Codice civile italiano, francese ecc.) sono contrari al M. morganatico, che va scomparendo. Il Codice germanico lo ammette per alcune famiglie. Nel fòro ecclesiastico il M. morganatico è considerato come un qualsiasi altro M. e produce tutti gli effetti canonici: le restrizioni riguardano solo gli effetti civili. Per quanto riguarda il diritto canonico bisogna ben guardarsi dal confondere il M. morganatico con il M. di coscienza (v. sopra), sebbene alle volte convengano assieme. La distinzione infatti da una parte appare dal fatto che il M. morganatico può essere celebrato apertamente e pubblicamente, con la consueta solennità e concorso di popolo; e questo fa sì che il M. di coscienza non è morganatico, se l’uomo non appartiene, p. es., alla nobiltà di un certo determinato grado, al quale la legge civile applica la speciale disposizione circa i M. morganatici, oppure se nel codice civile da cui dipende non è ammessa la distinzione tra M. morganatico e gli altri, e perciò non vengono stabiliti diversi effetti civili. D’altra parte nei luoghi, dove il M. morganatico è riconosciuto dalla legge civile, alle volte esso coincide con il M. di coscienza. Infatti spesso avviene che il M. morganatico sia celebrato come quello di coscienza, poiché le ragioni per occultare le nozze intervengono più facilmente nelle famiglie dei grandi e dei prìncipi. [Pietro Palazzini]

 

IL MATRIMONIO CATTOLICO – 2 –

IL MATRIMONIO (2)

[ENCICLOPEDIA CATTOLICA, vol. VIII, Coll. 407 e segg.  – Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico – Città del VATICANO – impr. 1952]

III. FINI DEL M. –

Già si è accennato come Dio stesso fissi i fondamenti naturali del M., promulgandone le leggi e determinandone le finalità nella procreazione e nel mutuo aiuto (Gen. 1, 26 – 31; 2, 7 – 25). Tali concetti sono altrove richiamati nei libri del Vecchio e Nuovo Testamento. La dottrina di s. Paolo a questo riguardo ha una importanza particolare, poiché indica un altro scopo a cui Dio ha ordinato l’istituto matrimoniale dopo il peccato originale, cioè il rimedio della concupiscenza. Nella prima Epistola ai Corinti, parlando delle vedove e dei non coniugati, dice: « È bene per essi se rimangono come me; ma se non possono osservare la continenza, si sposino; è meglio, infatti, sposare che bruciare » (7, 8 – 9); inoltre: « E bene per un uomo non toccar donna; tuttavia, per evitare la fornicazione, ciascuno abbia la propria moglie e ciascuna il suo proprio marito » (ibid. 7, 1-2). E dopo aver insegnato che è bene astenersi dai rapporti matrimoniali per dedicarsi all’orazione, soggiunge: « Poi siate nuovamente insieme, affinché non vi tenti Satana per la vostra incontinenza » (ibid. 7, 5). Questi dati rivelati sobri e profondi vennero poi sviluppati dalla tradizione cattolica nella dottrina sistematica.

Fini essenziali del M. nella dottrina della Chiesa.Movendo dalle linee tracciate dalla S. Scrittura, l’insegnamento cattolico è stato sempre concorde nell’assegnare al M. tre fini essenziali: la generazione ed educazione della prole, il mutuo aiuto, il temperamento della concupiscenza. La generazione e l’educazione della prole è una finalità, che sulla scorta del sacro testo viene per prima messa in rilievo dalla tradizione cattolica. Il pensiero dei Padri è riassunto da s. Agostino: « Che le nozze si contraggono per ragione della prole, così ne fa fede l’Apostolo: voglio che le giovani si sposino (I Tim. V, 14). E come se gli dicesse: E perché?, subito soggiunge: A procreare figlioli ed nessere madri di famiglia » (De bono coniug., cap. 24, n. 32; cf. encicl. Casti Connubii, Denz-U, n. 2228 sgg.). – Nel M. l’uomo e la donna, oltre il prolungamento della stirpe, cercano e trovano il compagno della vita. Il M., infatti, mediante l’unione intima, totale, definitiva dei due coniugi, offre a ciascuno di essi il complemento cui aspirano naturalmente: un sostegno materiale e spirituale prezioso, che costituisce per la generalità degli uomini il mezzo provvidenziale del loro perfezionamento personale e sociale, del loro progresso morale e della loro santificazione. Si parla anche di « completamento » o « perfezionamento » degli sposi. Questi termini bene esprimono l’idea di un vuoto colmato, di pienezza, di equilibrio di tutto l’essere suscitati dall’amore scambievole. Di qui nei coniugi la gioia, la dedizione alla persona amata e al focolare, il coraggio nell’ora della prova e lo sviluppo armonico e completo della propria personalità. – Oltre al mutuum adiutorium nel M. si aggiunge nell’ordine attuale, il remedium concupiscentiœ. La concupiscenza della carne, infatti, non è solo un provvidenziale impulso verso il soddisfacimento di una esigenza della natura, ma, dopo il peccato originale, è spesso del naturale impulso una pericolosa deviazione, in quanto insorge contro il governo della ragione e spinge l’uomo verso l’uso disordinato del piacere sensuale ; vulnus naturæ lo ha ritenuto la teologia: rimedio legittimo per la natura ferita è il M., che, pure temperando l’ardore della passione, argina la concupiscenza, ordinandola al nobile fine della procreazione.

Rapporto tra i fini del M. – Tra i fini del M., non c’è opposizione, ma armonia. Gli sposi infatti, cercando il completamento reciproco, contribuiscono al benessere della società, d’altra parte la procreazione e l’educazione dei figli non giova soltanto allo Stato e alla Chiesa, ma viene pure a cementare l’amore coniugale con nuovi vincoli. Questi fini, tuttavia, non sono su di uno stesso piano e tra loro eguali: esiste un rapporto gerarchico per cui uno è più elevato e importante dell’altro. – « Fine primario del M . è la procreazione ed educazione della prole; fine secondario, il mutuo aiuto ed il rimedio della concupiscenza» (CIC, can. 1013 § 1).  Questo enunziato è una sintesi della dottrina tradizionale della Chiesa. Infatti, sulla scorta dei Padri, i teologi, i moralisti e i canonisti anteriori al CIC si mossero costantemente entro questo schema dottrinale acquisito. In modo particolare nessuno ritenne che il fine primario del M. sia altro dalla procreazione ed educazione della prole: il solo Ugo di San Vittore vi sostituì l’unione d’amore tra l’uomo e la donna, da cui deriva, come conseguenza, la funzione generativa dei coniugi (cf. M . Abellan, El fin y la significación sacramental del matrimonio, desde s. Anselmo hasta Guillermo de Auxerre, Granata 1939).  S. Tommaso lo disse il « fine più essenziale senza del quale il M. non può né essere compreso né definito : « Proles est essentialissimum in Matrimonio; et secundo fides, et tertio Sacramentum (Sum. Theol., Suppl., q. 49, a 3). Così la Chiesa fece anche dopo il CIC. La Casti connubii di Pio XI (31 dicembre 1930) riaffermò « quanto viene pure espresso efficacemente nel Codice di diritto canonico », riferendo il can. 1013 § 1. Del resto, è la natura che fa concludere a questa gerarchia di rapporti: solo la prole infatti, può essere considerata come il termine naturale a cui è stata ordinata la differenza stessa dei temperamenti, che corrispondono alle diverse mansioni dell’uomo e della donna entro l’ambito della famiglia. La cosa è ancora più evidente se si considera il rimedio della concupiscenza. Voler separare questo fine dalla procreazione, significa invertire l’ordine stabilito da Dio, secondo cui il piacere congiunto con l’uso del M. è per sua natura un mezzo provvidenziale per facilitare ai coniugi il compito della procreazione del genere umano, e quasi a controbilanciare le gravi responsabilità. – Occorre ancora sottolineare che i tre fini sono subordinati, ma distinti e assolutamente irreducibili. Il fine secondario, cioè, non si esaurisce nell’essere semplicemente un mezzo, uno strumento, sia pure del fine principale, ma conserva la sua ragione di fine, benché subordinato a un altro, che è principale, ossia non è qualcosa di accessorio e di accidentale che si aggiunge all’essenza del M., ma appartiene alla sostanza dell’istituzione e del Sacramento, e pertanto è perseguibile per se stesso. Si spiega così come in certi periodi, in cui il fine primario è assolutamente e temporaneamente irrealizzabile, il M. e il suo uso rimangono ragionevoli e leciti, poiché continua ad esistere un fine sufficiente a dar loro una ragione d’essere. L’unione matrimoniale però, privata allora « per accidens » del suo fine superiore, verso cui non cessa di essere orientata nella sua intima costituzione, è imperfetta senza il suo ultimo coronamento.

Nuove teorie e autorevoli riconferme della dottrina tradizionale. – Recentemente, invece, si è cercato di dare rilievo primario all’elemento psicologico e affettivo della società coniugale, che deve essere una piena comunione di anime tra due sposi. In Italia, tra gli altri, si orientano verso questa corrente B. Brugi (L’art. 107 del Codice Civile italiano e lo scopo del M. in Rivista intern. di Filosofia del diritto, 5 [1925], pp- 113 segg.); L. Cornaggia Medici (Dell’essenza del M., in Il diritto eccles., 39 [1928], p. 398 sgg.); G. Viglino (Oggetto e fine primario del M., in Diritto eccles., 40 [1928], p. 142 sgg.). In Germania, sono da ricordare Von Hildebrand (Die Ehe, Monaco 1928), N. Rochol (Die Ehe als geweites Leben, Dulmen, 1936) soprattutto H. Doms (Vom Sinn und Zwek der Ehe, Breslavia 1935), e B. Krempel (Die Wzechfrage der Ehe in neue Beheuchtung begriffen aus dem Wesen der beiden Geschlechter im Lichte der Beziehunglehre des hl. Thomas, Benzinger 1941). – Sulle ragioni che hanno determinato questo abbandono della posizione tradizionale prevale il motivo psicologico, il desiderio sincero cioè di introdurre nel M. una nota più alta di spiritualità. La concezione canonistica non sembra sufficiente, perché secondo essi, ridurrebbe il M. a una funzione specificamente sessuale, sminuendo la sua spiritualità e riducendolo a qualcosa di materiale e quasi volgare. Quindi si ritiene superata la dottrina corrente, che sarebbe collegata con lo stato delle scienze biologiche del secolo XIII, e che pertanto occorre aggiornare col pregresso degli studi psicologici. Queste teorie minacciarono di determinare sbandamenti dottrinali e pratici in una materia che più di ogni altra esige perspicuità di termini e di concetto. Per tali motivi la Chiesa ritenne opportuno riaffermare i principi immutabili della sua dottrina. Un primo intervento si ebbe il 3 ott. 1941, con il discorso che Pio XII tenne alla S. Rota: « Due tendenze sono da evitarsi, quella che nell’esaminare gli elementi costitutivi dell’atto della generazione dà peso unicamente al fine primario del M. , come se il fine secondario non esistesse, o almeno non fosse finis operis stabilito dall’Ordinatore stesso della natura; e quella che considera il fine secondario come egualmente principale, svincolandolo dalla sua essenziale subordinazione al fine primario, il che, per logica necessità, condurrebbe a funeste conseguenze » (AAS, 38 [1941], p. 423).Il S. Uffizio, in data 1°apr. 1944 (AAS, 36 [1944], p. 103), insiste sulla pericolosità del nuovo modo di pensare fatto apposta per favorire errori ed incertezze. Il che fu largamente dimostrato dagli autori che difesero la linea tradizionale. Secondo essi è già una affermazione grave il fatto di interpretare il can. 1013 § 1 come una semplice formula pastorale. Ma gli errori non si limitano a ciò. Per accennare alcuni: 1) se lo scopo principale del M. è il completamento dei coniugi, e la prole è soltanto un mezzo a tale fine, ne segue che questa potrebbe venire sacrificata quando potesse costituire una minaccia per la vita della madre. – 2) Considerando poi il M. come un essenziale perfezionamento della vita umana, quasi che fuori del M. l’uomo resti incompleto, ne segue un deprezzamento del celibato virtuoso, o dello stato sacerdotale e religioso, contro la dottrina tradizionale della Chiesa. 3) Ugualmente non rimane sufficientemente spiegata la gravità intrinseca dell’onanismo, così decisamente asserita dalla Chiesa, in quanto appunto si oppone al fine primario del M. – Secondo le ultime direttive del magistero ecclesiastico, occorre conservare la dicitura e il significato dei termini: fine primario e fine secondario, e affermare che i fini secondari sono subordinati al principale, e non indipendenti.

Il M. PRESSO I PRIMITIVI [omissis]

III. STORIA DEL M. [Omissis]

IV DIRITTO E TEOLOGIA MORALE

SOMMARIO: I. Diritto Canonico. – II. Diritto concordatario italiano. – III. Seconde nozze. – IV. M. di coscienza. – V. M. morganatico. – VI. M. putativo. – VII. M. rato e non consumato. – VIII. Uso del M.

 

DIRITTO CANONICO. – .1. Nozione. – Il M. può essere considerato giuridicamente, come è stato rilevato nella trattazione dogmatica, sotto due diversi aspetti,  come atto transeunte o come stato permanente. Il primo, chiamato matrìmonium in fieri, è l’atto costitutivo della società coniugale, ossia il contratto matrimoniale. Il secondo, chiamato matrimonium in facto esse, è la società coniugale costituita, ossia, il rapporto matrimoniale. In altri termini il matrimonium in fieri è il momento iniziale dello stato coniugale o matrìmonium in facto esse. – La disciplina giuridica matrimoniale potrebbe dunque teoricamente sistemarsi in relazione a tali due momenti; ricollegando al primo tutto quanto concerne i requisiti di capacità e di forma necessari per la istituzione di un valido negozio matrimoniale, cioè del contratto-Sacramento, e al secondo quanto concerne il regime del vincolo, i suoi effetti nei rapporti tra i coniugi e di questi con la prole, la separazione e lo scioglimento. Nel sistema canonico, peraltro, è da notare che l’interesse giuridico è prevalentemente, se non quasi esclusivamente, concentrato sul primo momento, o atto costitutivo. E questo sia per l’efficacia permanente e definitiva attribuita al consenso iniziale dei nubenti e conseguente proscrizione del divorzio, sia perché, mentre la Chiesa afferma la propria esclusiva competenza e giurisdizione su ciò che concerne la formazione del vincolo fra i cristiani in quanto questo è inseparabilmente contratto-Sacramento, una volta costituito il vincolo ne considera il regime essenzialmente sotto il profilo teologico-morale, di foro interno; e lascia allo Stato di disciplinarne gli effetti civili, consentendo talora, come nel Concordato italiano, che esso ne regoli aspetti anche non puramente civili, come quello della separazione.

2. Fondamenti dogmatici. — Per una chiara comprensione dei principi del diritto canonico in materia, occorre tener sempre presenti i fondamenti dogmatici sui quali si basa l’istituto matrimoniale secondo la dottrina cattolica; e cioè  che il M. è stato istituito e restaurato da Dio e che il contratto è stato elevato alla dignità di Sacramento. – Al M. così considerato vanno connessi tre grandi beni, che in senso rigoroso costituiscono anche tre capi di obbligazioni: proles, fides, sacramentum. Il bonum prolis consiste nella procreazione e nella educazione cristiana della prole; il bonum fidei nella fedeltà che ognuno dei coniugi deve all’altro nell’adempimento del contratto matrimoniale, ossia nel diritto esclusivo e reciproco obbligo di ognuno di essi ad officia coniugalia verso l’altro; esso richiede inoltre amore vero e aiuto vicendevole, e ordine gerarchico familiare (encicl. Casti connubii, I); il bonum sacramenti nell’indissolubilità del vincolo matrimoniale e nella comunanza di vita; indissolubilità assoluta per il M. rato e consumato, mentre può eccezionalmente venire meno per i M. rati ma non ancora consumati. Questa dottrina dei bona matrimonii ha fondamentale importanza sotto l’aspetto giuridico, come si vedrà più oltre, specialmente per la determinazione della validità del consenso.

Requisiti. — Per la costituzione di un valido rapporto matrimoniale (che può essere, ma non necessariamente, preceduto dal contratto di promessa di M.) occorrono i seguenti requisiti: la capacità; il consenso o volontà matrimoniale; la forma legittima della manifestazione del consenso, ossia della celebrazione. Questi requisiti, analoghi nella loro formulazione generica a quelli di ogni altro contratto, vanno intesi però in relazione alla peculiarissima natura e disciplina giuridica dell’istituto matrimoniale. Essi non devono quindi valutarsi alla stregua degli altri negozi giuridici, ma secondo i principi speciali dettati per questa materia.

3. – La capacità matrimoniale e gli impedimenti. – Questa osservazione vale soprattutto in ordine al requisito della capacità. Principio generale è che tutti possono contrarre M. quando non ne abbiano divieto dal diritto (can. 1035), ossia quando non sussistano i peculiari ostacoli preveduti dalla legge in opposizione alla valida esistenza del M. Quindi la capacità matrimoniale non va apprezzata in base alla capacità giuridica ordinaria, ma in relazione alla sussistenza o meno di tali ostacoli, detti impedimenti, o condizioni relative alle persone dei contraenti. Nel diritto anteriore al CIC sotto il nome di impedimento erano comprese tanto le cause che costituivano ostacoli al M . in dipendenza della condizione personale dei contraenti (ex parte personæ), quanto quelle che costituivano motivo di invalidazione del M. in dipendenza di difetti della volontà (ex parte consensus) o della forma della celebrazione (ex parte formæ). Il loro elenco era consuetamente espresso in versi mnemonici di cui ecco una delle versioni più usate dopo il Concilio di Trento: « Error, conditio, votum, cognatio, crimen, / Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, / Ætas, affinis, si clandestinus et impos, / Raptave sit mulier loco nec reddita tuto : / Hæc facienda vetant connubia, facta retractant ». A questi impedimenti, detti dirimenti, perché causa di nullità del M., si aggiunge l’elenco degli impedimenti semplicemente impedienti, cioè che non rendono il M. nullo ma solo illecito : « Ecclesiæ vetitum; nec non tempus feriatum / atque catechismus, sponsalia, iungito votum, / Impediunt fieri, permittunt facta teneri », ridotti poi a quelli contenuti nel versicolo « sacratum tempus, vetitum, sponsalia, votum ». – Nel sistema del CIC, invece, pur usandosi talora saltuariamente la parola impedimento ancora in senso lato, più razionalmente si considera quanto si attiene alla validità o meno del consenso o della forma della celebrazione distintamente dalle circostanze inerenti alla persona dei contraenti e che possono limitare la capacità matrimoniale. Solo queste ultime si dicono ora, in senso proprio, impedimenti, e dal loro esame si desumono, con processo a contrario, i requisiti di capacità richiesti per la validità del M. – Gli impedimenti sogliono classificarsi sotto diversi punti di vista (cann. 1036-42), ma di tali distinzioni due soprattutto hanno qui importanza fondamentale. La prima ed essenziale è quella già accennata, fra impedimenti impedienti (che inducono una grave proibizione di contrarre M. e perciò lo rendono illecito, ma non invalido se il M. ciò nonostante sia stato celebrato), e impedimenti dirimenti (che non solo vietano di contrarre M., ma ne impediscono la valida celebrazione, e, se il M. sia stato ugualmente contratto, ne producono l’invalidità: can. 1036). – Altra distinzione è quella fra impedimenti di diritto divino e impedimenti di diritto umano od ecclesiastico, a seconda che siano posti dal diritto divino (naturale o positivo), o da leggi della Chiesa. Questa distinzione è pure di importanza capitale perché di regola possono essere dispensati gli impedimenti di diritto umano od ecclesiastico, e non invece quelli di diritto divino. Solo alla suprema autorità della Chiesa, cioè al Pontefice, spetta di dichiarare in modo autentico quando il diritto divino impedisce o dirime il M. (can. 1038). Devono distinguersi dagli impedimenti i divieti individuali, che possono essere stabiliti per un determinato M., temporaneamente e per giusta causa, dagli Ordinari locali (can. 1039 § 1). Il loro effetto è semplicemente proibente, e perciò rende il M. illecito ma non invalido. Soltanto la S. Sede può aggiungere a tale divieto la clausola irritante, cioè la sanzione di invalidità, nel caso di inosservanza del divieto medesimo (can. 1039 § 2). Gli impedimenti impedienti, più numerosi nel diritto antico e in quello anteriore al Tridentino, si riducono nel sistema attuale a due: 1) il voto semplice di verginità, di castità perfetta, di non sposarsi, di ricevere gli Ordini Sacri e di abbracciare lo stato religioso; 2) la mista religione. A questi due può eventualmente aggiungersi un terzo impedimento, la cognazione legale. – Nel diritto vigente gli impedimenti dirimenti sono in numero di dodici di diritto generale, più un tredicesimo di diritto particolare, per quei luoghi dove è ritenuto tale dalla legge civile. Essi sono l’età, l’impotenza; la disparità di culto; il M. precedente; l’Ordine Sacro; la professione religiosa solenne e quella dei professi di voti semplici a cui, per indulto della S. Sede, fu aggiunta la forza di irritare le nozze (can. 132 § 2); il ratto; il delitto, ossia l’adulterio qualificato; la consanguineità; l’affinità; la pubblica onestà; la cognazione legale e quella spirituale. Per quelli fra gli impedimenti che sono dispensabili, competenti a dispensare sono il Sommo Pontefice e chi ne abbia concessa facoltà o per diritto comune o per speciale indulto della S. Sede (can. 1040). Il Pontefice esercita il suo potere di dispensare o personalmente (nel caso di sovrani o di prìncipi reali) o a mezzo di organi della Curia romana (Congregazione Disciplina dei Sacramenti; S. Penitenzieria; Congregazione del S. Uffizio; Congregazione per la Chiesa orientale), a seconda che si tratti di foro interno o di foro esterno, e a seconda degli impedimenti (v. cann. 247 § 3; 249 § 1; 251 § 3; 257 § 3; 259 § 1). I vescovi possono concedere dispense dagli impedimenti matrimoniali o per potestà ordinaria, cioè attribuita loro per diritto comune (così nel caso di pericolo di morte, o di impedimento scoperto nell’imminenza delle nozze; v. cann. 1043-45) o per potestà delegata, cioè attribuita loro con indulto particolare dalla S. Sede. Poteri analoghi spettano anche al parroco, al sacerdote che assiste al M. e al confessore (ma a quest’ultimo soltanto per il foro interno all’atto della confessione sacramentale), nei casi in cui non si possa ricorrere all’Ordinario locale (cann. 1044, 1045 § 3).

4. – Il consenso matrimoniale. — Il secondo dei requisiti voluti per la sussistenza di un M. valido, e cioè il consenso o la volontà matrimoniale da parte dei contraenti, è definito l’« atto della volontà con il quale ognuna delle due parti conferisce e riceve il diritto sul corpo, perpetuo ed esclusivo, in ordine agli atti per sé idonei alla generazione della prole » (can. 1081 § 2). Su questo elemento consensuale è costruito con rigorosa coerenza tutto l’istituto matrimoniale canonico. Con l’unione dei consensi il M. diviene perfetto, senza che occorra la consumazione. Il consenso dei contraenti, che non può venire supplito da alcun potere umano (can. 1081 § 1), deve essere dato da persone che ne abbiano la capacità, e cioè che, oltre a non trovarsi in alcuno dei casi già visti costituenti impedimento, siano fornite di sufficiente capacità di intendere e di volere, e non siano quindi prive di ragione, tanto per cause transitorie (ebrietà, ipnotismo, sonnambulismo), quanto per cause permanenti (demenza, paranoia, ecc.). È ovvio che, per la validità del consenso, i contraenti non devono ignorare almeno che il M. è una società permanente tra l’uomo e la donna per la procreazione dei figli (ma tale ignoranza dopo la pubertà non si presume). Il contratto è invalido se una o entrambe le parti escludono con un atto positivo della volontà, anche solo interno, il M. stesso, oppure ogni diritto all’atto coniugale o qualche proprietà essenziale del M. (can. 1086 § 2). Però si richiede una precisa intenzione, e cioè, come espressamente dice il CIC, un positivo atto di volontà escludente qualche proprietà essenziale del Sacramento, e non è sufficiente a determinare l’invalidità un pensiero accessorio o secondario nel senso suddetto, né il semplice desiderio né il proposito di non adempiere le obbligazioni assunte. La validità del M. può inoltre essere infirmata, sotto l’aspetto del consenso, per altre cause dipendenti da vizi nel processo di formazione o di determinazione della volontà, oppure da discordanze tra la volontà manifestata e la volontà interna. Nella descrizione e valutazione di tali elementi, per altro, la disciplina matrimoniale segue criteri peculiari che la differenziano nettamente da quella relativa agli altri contratti, ai cui concetti pertanto non si può d’ordinario, in questa materia, fare sicuro riferimento. Così, in ordine al vizio di consenso per errore il CIC, oltre al tipico caso di errore sull’identità della persona (ove si ha piuttosto un assoluto difetto di consenso, per discordanza fra la manifestazione di volontà e la volontà reale), considera influente sulla validità del M. solo l’errore sulla qualità che ridondi in errore sulla persona (tale sarebbe la qualità che serve a individuare la persona), o quello per cui una persona libera contragga M. con una schiava, credendola libera (can. 1085). Non invalida il consenso l’errore di diritto (error iuris) intorno all’unità o all’indissolubilità del M., o alla sua dignità sacramentale dia causa al contratto (can. 1084), ma solo quello consistente nell’ignoranza dell’essenza del M. (v. can. 1052). – Il consenso può anche essere viziato per violenza o timore che abbia influito nella determinazione della volontà matrimoniale, purché concorrano determinati estremi. È invalido il M. contratto per timore grave (ob vim vel metum gravem) incusso dall’esterno ed ingiustamente (ab extrinseco et iniuste) e per liberarsi dal quale alcuno sia costretto a scegliere il M. (Can. 1087). Così non è influente il timore che manchi di gravità, quale il semplice timore reverenziale verso i genitori, (a meno che non si tratti di timore reverenziale qualificato, ossia intervengano minacce di gravità tali, o maltrattamenti o rimproveri, sì da rendere impossibile la vita nella casa paterna); così pure il timore che non provenga dall’esterno, come quello di castighi soprannaturali, etc.; così infine il timore che, benché grave, sia incusso per giusta causa, ad es., per costringere il seduttore a sposare la sedotta, purché la minaccia non ecceda e perciò ingiusta quoad modum. – Il diritto stabilisce come regola generale che il consenso o volontà interiore (internus animi consensus) si presume sempre conforme alle parole o dai segni adoperati nella celebrazione del M. (can. 1086 § 1). Tale presunzione però è iuris tantum, e quindi può vincersi dalla prova contraria con la quale si dimostri che la volontà reale era discordante da quella manifestata, il che rende il M. invalido. Tale è il caso della simulazione, che si ha quando il contraente finge esternamente di voler contrarre, esprimendo con serietà e in modo rituale che invece internamente non ha. Sia nel caso di simulazione bilaterale, cioè quando le parti d’intesa fra loro fingano di contrarre M. per raggiungere invece un altro scopo (ad es., di conseguire un mutamento di cittadinanza, ecc.), sia nel caso di simulazione unilaterale o riserva mentale, quando una sola delle parti simuli traendo in inganno l’altra parte ignara, il M. è invalido. Gli stessi effetti della simulazione produce lo scherzo (iocus), per quanto questa sia un’ipotesi oggi assai difficilmente avverabile. –  La funzione di elemento centrale riconosciuta al consenso nel M. cristiano, fa sì che il diritto canonico prenda anche in considerazione le ipotesi in cui esso sia prestato con l’aggiunta di qualche modalità o determinazione accessoria da parte dei contraenti, che intendano far dipendere da essa la validità o la sussistenza, o il permanere del vincolo. Escluse assolutamente le condizioni di questa ultima specie, ossia le condizioni risolutive (perché contrarie al principio dell’indissolubilità), si ammette entro determinati limiti che possa condizionarsi il consenso, con effetto sospensivo del M., o con effetto di farne dipendere la sussistenza o validità, alla esistenza o meno di determinate circostanze, denominate genericamente condizioni. Esse però comprendono sia condizioni sospensive vere e proprie (e cioè la determinazione di un avvenimento futuro e incerto) sia condizioni impropriamente dette, costituite dalla determinazione di fatti passati o presenti della cui esistenza le parti sono incerte oppure dalla aggiunzione re al consenso, come indissolubilmente connessi al medesimo, di patti riguardanti il futuro. I loro effetti (sempre quando la condizione apposta non sia stata in seguito revocata) sono notevolmente diversi. Il CIC distingue le condizioni in de futuro e de futuro e de præterito vel de præsenti. Le condizioni proprie o relative a fatti futuri leciti, sospendono il valore del M. (Can. 1092 n. 3). Pendente la condizione, la vita coniugale non è permessa;  se la condizione si avvera, il M. è valido e si producono senz’altro tutti i suoi effetti, senza bisogno di rinnovare il consenso; se la condizione non si verifica, il M. è nullo. Se però si tratta di fatti futuri necessari (ad es. se domani sorgerà il sole), o impossibili (ad es. se toccherai il cielo col dito), o turpi ma non contrari alla sostanza del M. (p. es., se ucciderai) la condizione si considera apposta (can. 1092, n . 1). Se si tratta invece di condizioni contrarie alla sostanza del M., esse lo rendono invalido (can. 1092, n. 2). Tali sono quelle che escludono lo jus in corpus, o quelle contrarie o i nconciliabili con i tre bona del M. – Quanto alle condizioni improprie de præterito vel de præsenti, il M. sarà valido o no, a seconda che il fatto dedotto in condizioni sussista o no (can. 1092, n. 4). Possono in tal modo essere assunte come condizioni qualità personali dell’altra parte, la cui esistenza o inesistenza sarebbero invece irrilevanti a determinare la nullità del M. a titolo di errore, qualora non dedotte espressamente

5. – La celebrazione del M. — Il terzo requisito per la esistenza del M. valido, la celebrazione, non ha avuto una disciplina uniforme che in epoca relativamente recente. Fino al Concilio di Trento non vi era una norma generale che prescrivesse una determinata forma essenziale per la validità del M. Essa fu stabilita col celebre decreto Tametsi (sess. XXIV, c. I, de reform. Matr.), nel quale per eliminare gli inconvenienti che si verificavano per il passato, si stabilì che fosse non solo illecito, ma anche invalido il M. ( detto clandestino [v. sopra]) non contratto dinanzi al proprio parroco o ad altro sacerdote, con licenza di questi o dell’Ordinario, e di almeno due testi. La mancata promulgazione del decreto tridentino in molte regioni, fece sì che esso non fosse applicabile dovunque; onde questo punto del diritto matrimoniale canonico, restò regolato diversamente nei vari paesi a seconda che vi fosse stato o meno pubblicato il decreto. Tale disuguaglianza non cessò che agli inizi di questo secolo con il decreto del 2 ag. 1907, Ne temere, di Pio X, con il quale fu estesa a tutti i cattolici ed anche ai M. tra Cattolici ed acattolici, la forma stabilita dal Concilio di Trento. Il CIC accolse pressoché integralmente le norme  del decreto Ne temere.- Prima che il M. sia celebrato deve constare che nulla osti alla sua validità   o lecita celebrazione (can. 1019 § 1). A tale fine, (salvo nel caso di pericolo di morte, can. 1019 § 2, è prescritta l’osservanza di certe forme preliminari: le investigazioni. o processetto prematrimoniale e le pubblicazioni. Adempiute queste formalità senza che risulti l’esistenza di qualche impedimento, può procedersi alla  celebrazione nella forma ordinaria. Questa consiste nella espressa manifestazione del consenso dinanzi o all’Ordinario del luogo o ad un sacerdote delegato da uno di costoro e alla presenza di due testimoni. Per le determinazione della competenza ad assistere validamente e lecitamente al M. da parte del parroco o dell’Ordinario (la cui figura giuridica è propriamente quella di teste qualificato del M., ministri essendone, come noto, gli sposi) il CIC detta varie norme (cann. 1094-1097). Per regola generale il M. deve celebrarsi davanti al parroco della sposa se non vi sia giusta causa in contrario (can. 1097 § 2). Non si ri chiedono particolari requisiti per i testimoni, è soltanto necessario che abbiano l’uso di ragione e siano i n grado di testimoniare sulla prestazione del consenso. I contraenti devono essere presenti realmente o a mezzo di procuratore (cann. 1088 § 1, 1089, 1091); è permesso l’uso dell’interprete (cann. 1090, 1091). – Oltre alla forma ordinaria della celebrazione sono ammesse, in casi eccezionali, due forme straordinarie: a) il M. davanti ai soli testi, che può contrarsi in pericolo di morte (M. in extremis), quando non sia possibile senza grave incomodo avere la presenza del parroco o del vescovo o di un loro delegato, o anche fuori del pericolo di morte, quando parimenti non sia possibile avere tale presenza e si preveda che la mancanza di uno dei suddetti ecclesiastici durerà per un mese (can. 1098); b) il M. di coscienza (v. oltre), detto anche M. segreto od occulto, che è contratto senza pubblicazioni, in segreto, davanti al parroco proprio o ad altro sacerdote delegato d all’Ordinario e a due testimoni (can. 1104). Esso deve essere autorizzato dall’Ordinario, il quale non può permetterlo se non per causa gravissima, e importa l’obbligo di serbare il segreto da parte del sacerdote assistente, dei testi, dell’Ordinario e suoi successori, e anche del coniuge, se l’altro non consenta alla divulgazione (cann. 1104, 1105). L’obbligo del segreto da parte del vescovo cessa se ne derivi scandalo o ingiuria alla santità del M. o se i genitori manchino alle loro obbligazioni verso i figli (can. 1106).

  1. Effetti del M. Separazione. Scioglimento.Dal M. valido sorgono particolari effetti giuridici, sia nei rapporti dei coniugi, sia in quello della prole. I primi sono: l a creazione di un vincolo per sua natura perpetuo ed esclusivo (can. 1110); il rispettivo diritto e dovere al debito coniugale (can. 1111); la partecipazione, salvo sia diversamente stabilito per diritto speciale, della donna allo stato del marito (can. 1112); l’obbligazione gravissima di curare l’educazione della prole, sia religiosa che morale, sia fisica che civile (can. 1113). A tali effetti, detti canonici, si aggiungono anche quelli puramente civili (mere civiles) che cioè non sono, come i precedenti, essenziali al M. ed inevitabilmente connessi ad esso (ad. es., quelli inerenti ai rapporti dotali, ecc.), e che sono regolati dalla legge civile. Rispetto alla prole il M. ha inoltre l’effetto di determinare la legittimità dei figli concepiti o nati nel medesimo, salvo che la professione religiosa solenne o l’Ordine sacro vietasse ai genitori l’uso del M. anteriormente contratto (can. 1114). Il M. valido rato e consumato non può essere sciolto da nessun potere umano e da nessuna causa, all’infuori della morte (can. 1118). Il M . non consumato tra battezzati o fra un battezzato e un infedele, si scioglie ipso iure con la solenne professione religiosa di uno degli sposi e, fuori di questo caso, può anche essere sciolto per dispensa concessa dalla S. Sede per giusta causa, e sopra istanza di una sola o di entrambe le parti (can. 1119). Quanto al M. legittimo dei non battezzati, per quanto pure considerato dalla Chiesa come rigorosamente indissolubile, esso può in via di eccezione essere sciolto in seguito al Battesimo di uno dei coniugi, in favore della fede, in forza del Privilegio paolino. – Il divorzio, come scioglimento del M., non è dunque ammesso dal diritto canonico. Gli sposi possono invece per giusti motivi, sempre restando fermo il vincolo, essere liberati dall’obbligo della comunione di vita che il M. impone, mediante la sospensione della convivenza maritale o separazione (separatio; talora anche detta, nelle fonti e negli scrittori, divortium). La legge canonica regola (cann. 1129-32) i casi e le modalità in cui può essere concessa la separazione, che non è lasciata al semplice arbitrio delle parti, ma va sempre giustificata da una giusta causa.

5. – Il M. nullo: convalidazione e dichiarazione di nullità.Verificandosi un caso di nullità del M., in cui o le parti non vogliano ottenere o non possa farsi luogo né alla convalidazione semplice né all’altra più favorevole forma di convalidazione costituita dalla sanazione in radice, le parti incolpevoli, come pure l’autorità ecclesiastica per gli impedimenti di loro natura pubblici, possono chiedere che la nullità venga dichiarata giudizialmente. Benché nel sistema canonico non abbia luogo la distinzione, che vien fatta nella dottrina civilistica, fra M. inesistente e M. semplicemente annullabile, e quindi la mancanza di uno qualsiasi dei requisiti necessari alla valida esistenza del M . ne produca sempre la nullità assoluta (le espressioni di M. irrito, nullo, invalido, vanno intese nel CIC come sostanzialmente equivalenti), tuttavia non è lecito alle parti, anche nella certezza soggettiva della nullità del precedente M., contrarne un altro prima che di tale nullità consti in modo legittimo e certo (can. 1069 § 2). A tal fine è necessaria una pronuncia del giudice ecclesiastico, unico competente a conoscere delle cause relative al M. fra battezzati, cattolici e non cattolici, o in cui anche una sola delle parti sia battezzata (can. 1960; v. oltre: M. rato non consumato e Nullità).

IL MATRIMONIO CATTOLICO – 1 –

 

Uno dei temi più dibattuti tra i residui Cattolici del “pusillus grex”, è il matrimonio. Ci si chiede soprattutto se il matrimonio contratto nella falsa chiesa dell’uomo, o nelle chiesuole scismatiche dei sedevacantisti o dei gallicani fallibilisti, etc., sia valido, nullo, sacrilego, se ci si possa ritenere “coppie di fatto” mai unite dal vincolo matrimoniale o conviventi, se il vincolo falso si possa sciogliere, o di fatto sia già sciolto, se i figli siano legittimi … e non mancano amenità o facezie quanto mai inopportune in una questione sì seria e che coinvolge la salvezza o la dannazione di numerose anime. In effetti l’argomento è stato da sempre dibattuto e complicato, come cominceremo a vedere tra poco, conteso tra legislatori, teologi, canonisti etc. Per tanti aspetti l’argomento è di non facile approccio e può risultare per certi versi troppo tecnico o addirittura noioso. Armati di santa pazienza, come l’importanza dell’argomento giustifica ampiamente, ci “abbeveriamo” alla fonte della “Enciclopedia Cattolica”, ultima opera cattolica edita nella Città del Vaticano, quando ancora c’erano autorità valide, che garantiscono così la veridicità e l’affidabilità, diremmo la infallibilità, dello scritto riportato quasi per intero. Abbiamo ritenuto di suddividere in 5 parti la voce in esame, ed alla fine abbiamo tratte alcune considerazioni generali da utilizzare nei casi più comuni onde rispondere agli interrogativi più pressanti, lasciando alle autorità competenenti “in esilio” l’esame di ogni singola problematica, se richiesto. In ogni caso, si resta aperti al contributo di Cattolici ed acattolici in buona fede, onde chiarire al meglio possibile la vicenda “Matrimonio” in questo tempo in cui questo istituto di fondamentale importanza per la vita del Cattolico e della società in generale, riceve rovinose picconate da ogni parte, dai governi a guida massonica e laica (compreso il nostro, gestito dai “fratelli d’Italia” delle logge del grande oriente e degli illuminati, per non parlar d’altro … ); dalla falsa chiesa della setta modernista vaticano-cattolica usurpante, che ha addirittura istituito il “divorzio cattolico breve” (sic!), con allo studio nientemeno che il matrimonio tra sodomiti; da tutti i papaveri prezzolati dei mass-media, oramai assurti a “sibille cumane” e “pitonesse di Efeso”, che profetizzano ed offrono oracoli a buon mercato con l’unico intento di abbattere [si fieri potest] la dottrina cattolica e la vita familiare cristiana. Ma bando alle polemiche e si dia inizio all’esame della problematica in oggetto. [Nota redazionale]

MATRIMONIO (1)

[ENCICLOPEDIA CATTOLICA, vol. VIII, COLL. 407 e segg.  – Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico – Città del VATICANO- impr. 1952]

MATRIMONIO [M.]: – Storicamente considerato, può definirsi l’unione dell’uomo e della donna al fine della propagazione e dell’educazione del genere umano. E poiché tale scopo non potrebbe rettamente conseguirsi se le relazioni fra i due sessi non fossero sottoposte ad una disciplina, fin dall’epoca più antica, per necessità stessa di natura, si assiste, presso tutti i popoli, allo stabilirsi di un istituto giuridico-sociale che è appunto il M. . La parola M. viene dal latino matris munus munium, che indica la parte rilevante della donna nella famiglia. Altri  nomi: coniugio (lat. coniugium), che il Catechismo di Trento ( parte 2 a , cap. 6, 8) spiega: « quia mulier cum viro quasi uno iugo astringitur »; connubio (lat. connubium, da nubere, velare, dall’usanza di porre sul capo della sposa il flammeum) dalla stessa radice viene la parola nozze (lat. nuptiæ).

SOMMARIO : I. Il M. come Sacramento. – II. Il M. presso i primitivi.[omissis] – III. Storia del M . – IV. Diritto e teologia morale. – V. Liturgia del M.

IL M. COME SACRAMENTO. È il Sacramento che prepara i nuovi candidati al regno di Dio. Ha origine (M. in fieri) dal mutuo e libero consenso di due persone di diverso sesso, che si uniscono in perpetuo, allo scopo di procreare e educare la prole al culto di Dio. Dal mutuo consenso nasce il vincolo indissolubile tra i coniugi (M. in facto esse).

SOMMARIO : I. Il M. in teologia dogmatica. Indole sacramentale del M. – II. Natura del Sacramento del M. – III. Fini del M.

I. IL M. IN TEOLOGIA DOGMATICA. INDOLE SACRAMENTALE DEL M.

I Sacramenti della Nuova Legge sono segni sensibili produttivi della Grazia, istituiti da Gesù Cristo. Siccome il M. è un’istituzione naturale, che vige fin dalle origini dell’umanità, occorre cercare nelle fonti della Rivelazione, se consti della sua positiva elevazione all’ordine soprannaturale disegno efficace della Grazia.

1. Scrittura. – Nelle prime pagine della Bibbia è delineata la struttura del M. come istituzione naturale (Gen. I, 27-28; II, 18-24), i cui elementi costitutivi sono chiaramente indicati: a) come officium naturæ risultante dall’indole dei sessi e dalla loro mutua attrazione; Dio vi soggiunse una positiva conferma: « Et creavit Deus nomine ad imaginem suam; ad imaginem Dei vreavit illum, masculum et feminam creavit eos. Benedivitque illi Deus et ait: crescite et multiplicamini et replete terram » (ibid.,I,27-28) ; b) è caratterizzato da due doti fondamentali: l’unità e l’indissolubilità « quamobrem relinquet homo patrem suum et matrem et adhærebit uxori suæ; et erunt duo in carne una (ibid., II, 24); c) è orientato al fine principale della procreazione: « Crescite et multiplicamini et replete terram » (ibid., 1, 28; cf. Tob. 8, 9 ) e a quello secondario  del mutuo aiuto: « Dixitque quoque Dominus Deus: non est bonum hominem esse solum, faciamus ei adiutorium simile sibi » (Gen. 2, 18); d) porta fin dalle origini qualche cosa di sacro (cf. I Tob. 8, 9; P. Heinisch, Teologia del Vecchio Testamento, trad. it., Roma 1950, p. 217), che tutti i popoli riconobbero nelle cerimonie religiose, di cui circondarono le nozze. Dal vecchio al nuovo Adamo la primitiva unità e indissolubilità non venne sempre osservata, neppure presso il popolo eletto, che per la sua dura cervice ottenne da Dio stesso una temporanea dispensa (cf. Heinisch, op. cit., pp. 220- 22), né, tanto meno presso i pagani, che, abbandonatisi al divorzio ed alla poligamia, scesero presto a quel basso livello morale, da cui Gesù Cristo venne a liberare il mondo. Egli infatti prima restituì il M. alla primitiva purezza,  richiamando in vigore la legge dell’unità: Mat. XIX, 9; Mc. X, 11; Lc. XVI, 18) e della indissolubilità: « Quod Deus coniunxit, homo non separet (Matt. XIX, 6), poi lo elevò alla dignità di Sacramento. – Tale elevazione adombrata nel modo di agire di Cristo (cf. Leone XIII, encicl. Arcanum, divinæ sapientiæ, 10 febbr. 1880) è più chiaramente suggerita da s. Paolo, nel celebre testo di Eph. 5; dopo aver detto che l’uomo deve armare la sposa come Cristo ha amato la Chiesa, soggiunge: « per questo l’uomo abbandonerà il padre e la madre sua e si stringerà alla sposa sua e saranno i due una sola carne sola. Questo mistero è grande, io però parlo rispetto a Cristo e alla Chiesa. Pertanto anche voi, ciascuno ami la sua sposa come se stesso, la sposa poi abbia in riverenza il marito. » – Largamente discusso l’inciso: « Sacramentum hoc, mysterium magnum est, ego autem dico in Christo et in Ecclesia » (v. 32). Il Gaetano, G. Estio, B. Giustiniani soprattutto L. Godefroy (Mariage dans l’Ecriture, in DThC, IX, coll. 2066-71), I. Vosté (Commentarius in epist. ad Eph., 2a ed., Roma 1932, pp. 272-88) e F. Amiot (L’enseignement de st Paul, II, Parigi 1938, p.8) ritengono che da questo testo nessuna prova può dedursi dell’indole sacramentale del M., poiché il versetto va riferito al mistero dell’unione di Cristo con la Chiesa, di cui la primitiva istituzione del M. fu simbolo (figura, typus). Ma, come osserva F. Prat (La teologia di San Paolo, trad. it., II, Torino 1937, p. 270), quest’ipotesi non sembra ammissibile, poiché suppone una intollerabile tautologia: questo mistero, cioè l’unione di Cristo con la Chiesa, è grande, relativamente a Cristo e alla Chiesa. Pertanto la maggior parte degli interpreti, riferisce il μυστήριον [musterion] al M. e vi scorge il fondamento di una prova biblica della sua indole sacramentale. Il processo dimostrativo, molto vario, può essere ridotto a tre tipi di argomentazione:

a) Ex analogia fidei. — I segni sacri seguono l’indole dell’economia soprannaturale cui appartengono; nel Vecchio Testamento non ebbero efficacia santificatrice (Gal. IV, 9 : « infirma et egena elementa »), ma furono soltanto immagini e figure futurorum honorum; nel Nuovo Testamento al contrario hanno avuto da Dio, per i meriti del Redentore, una virtù soprannaturale, con cui penetrano nella coscienza, santificandola (cf. IX-10). In Eph. V, 32 si tratta di un segno sacro, che ebbe origine nella creazione e perdura nella Redenzione (s. Paolo infatti parla ai cristiani ed esalta la grandezza morale del loro M. considerato come segno sacro), si deve pertanto ritenere che nel Vecchio Testamento il M. fu un simbolo ordinato da Dio a significare la futura unione di Cristo con la Chiesa (signum prognosticum, senza alcuna efficacia santificatrice), e che nel Nuovo Testamento rimane, per volere divino, come segno di una realtà già compiutasi sulla Croce, le mistiche nozze di Cristo con la Chiesa e pertanto un signum rememorativum, che appartenendo alla Nuova Legge possiede la prerogativa di santificare interiormente (signum demonstrativum Gratiæ). Né deve fare impressione il diverso orientamento, che acquista il M. nei successivi stati della Legge e della Grazia… se la circoncisione fosse stata conservata da Gesù Cristo come segno della sua alleanza con l’umanità, si avrebbe ragione di pensare che essa sarebbe divenuta un Sacramento in senso stretto. Rivolta verso il passato e non più verso l’avvenire, avrebbe mutato significato e direzione, sarebbe divenuta capace di produrre effettivamente la Grazia dell’alleanza interiore tra Dio e le anime, mentre abbandonata, come un elemento naturale, perdette ogni valore alla morte di Cristo. Così il M., che sotto la Legge era il tipo e la figura della futura unione di Cristo con la Chiesa, cambiò significato (perché Dio lo conservò in ratione signi) quando questa unione fu consumata sul Golgota; da profetico divenne commemorativo, da speculativo pratico, da inerte efficace. – Questo genere di d’argomentazione, svolto con calore da D. Palmieri (De M. christiano, Roma 1880, pp. 62-70), fu accolto da H. Hurter (Theologiæ dogmaticæ compendiun, III, Innsbruck 1900, p. 592), L. Billot (De Sacramentis, Roma 1930, pp. 346-50), L. Lercher – F. Dander (Institutiones theologiae dogmaticae, IV, II, Innsbruck, 1949, pp. 336-39) e da molti altri. – b) Ex oneribus. – Gli sposi cristiani, nei loro mutui rapporti, devono ispirarsi alle relazioni che vigono tra Cristo e la Chiesa: da una parte sottomissione rispettosa fino al sacrificio (Eph. V, 22-24), dall’altra amore e devozione fino alla morte (ibid., 25-29). La gravità di questi obblighi soprannaturali (cf. Mt. XIX, 10) implica una fonte corrispondente di grazie e di aiuti divini. S. Paolo suppone appunto che le a n i m e dei coniugi cristiani siano immerse in una sfera di soccorsi celesti, quando li esorta con calore, a imitare i rapporti di Cristo con la Chiesa, di cui il loro M. è l’emblema. Quest’argomento è comune a tutti i teologi (v., p. es., M. Cordovani, Il Santificatore, 2a ed., Roma 1946, p. 364 sgg). – c) Ex parallelismo. — Il M. cristiano riceve la sua fisionomia dal mistero dell’unione di Cristo con la Chiesa, di cui, secondo s. Paolo, è l’immagine vivente. Non è soltanto un esemplare che rimane fuori, ai margini delle mistiche nozze di Cristo, ma una copia, una riproduzione germogliata da quell’unione, impregnata della medesima essenza, che non solo raffigura, ma riproduce, attivo ed efficiente dentro di sé, il mistero dei rapporti di Cristo con la Chiesa. I due coniugi cristiani, già membri del Corpo mistico, rafforzano nella loro unione soprannaturale i vincoli vigenti tra Cristo e la Chiesa, del cui mistico connubio diventano una propaggine e un prolungamento. L’espressione vivente e l’attuazione concreta dell’unione di Cristo con la Chiesa, affinché realizzi perfettamente quanto significa, deve necessariamente riprodurre e incarnarne le linee fondamentali e le note distintive, cioè l’unità, l’indissolubilità e la santità. Questa prova, toccata con l’usuale profondità da M. – G. Scheeben ( I misteri del cristianesimo, trad. it., Brescia 1949, p. 445-46) , è stata svolta da J . Fischer (Ehe und Jungfràulichkeit im Neuen Test., Mùnster 1919, p. 44), I. B. Colon (Paul [saint], in DThC, XI, coll. 2421-22), C. Adam (La dignità sacramentale del M., trad. it., Milano 1935, p. 16), B. Bartmann (Manuale di teologia dogmatica, trad. it. , III, Alba 1950, p. 350), J . Huby (Les Epitres de la captività, 13° ed., Parigi 1947, pp. 246-248). Questi argomenti, pur non essendo decisivi e tali non ritenuti dai loro autori, rivestono un carattere di spiccata probabilità, che dà piena ragione della studiata frase del Concilio di Trento: « Paulus innuit » ( Denz – U, 969).

SS. Padri. — La Chiesa visse la dottrina di s. Paolo prima di spiegarla scientificamente. In pratica ritenne il M. un negotium sanctum, avvolto nelle ombre del mistero di Cristo. S . Ignazio di Antiochia, all’inizio del sec. II, attesta che il M. dei fedeli era celebrato con l’autorizzazione del vescovo: « Decet ut sponsi et sponsæ de sententia episcopi coniugium faciant, ut nuptiæ secundum Dominum sint, non secundum cupiditatem. Omnia ad honorem Dei fiant » (Ad Polyc, 5, 1). Tertulliano, riferendo quanto era già in uso fin dal sec. II, enumera con precisione gli interventi della Chiesa nella celebrazione del M.: « Unde sufficiamus ad enarrandam felicitatem eius Matrimonii, quod Ecclesia conciliat et confirmat oblatio et obsignat benedictio, Angeli renuntiant, Pater rato habet ? » (Ad uxorem, 2, 9: PL 1, 1415). Da questo testo risulta che il M. non solo si solennizzava coram Ecclesia (« de sententia episcopi, Ecclesia conciliat »), ma era già circondato dai più augusti riti: l’offerta del sacrificio eucaristico (oblatio) e la benedizione sacerdotale (benedictio), di cui si ha una testimonianza esplicita nel Prædestinatus, 3, 31: « Sacerdotes nuptiarum initia consecrantes et in Dei mysteriis sociantes » (cf. s. Ambrogio, Ep. 19, 7: PL 16, 98). L’originario innesto dei nuptiarum solleoni nell’actio liturgica era richiesto dalla persuasione, che la Chiesa in seguito esplicitamente manifestò nei suoi Sacramentari ed Eucologi, nei quali pose il M. tra i Sacramenti veri e propri, e formulò preghiere che espressamente attribuiscono alle nozze cristiane l’efficacia della Grazia (cf. D . Palmieri, De Matrimonio christiano, Roma 1880, pp. 54-55; L. Duchesne, Origines du culte chrétien, 2 a ed., Parigi 1898, pp. 413 – 19 ; A . Villien, Les Sacrements. Histoìre et liturgie, 2a ed., ivi 1931, pp. 335 – 402) . La stessa idea è svolta nei monumenti archeologici. Ivi gli sposi cristiani sono comunemente rappresentati nell’atto di porgersi la mano; tra loro viene posto come segno della mutua unione (concepita sempre nell’ambito della Grazia) o la mano del Signore circondata dai monogrammi costantiniani, talora seguita da una iscrizione (p. es., nel sarcofago di Tolentino: « Quos paribus mentis iunxit M. dulci Omnipotens Dominus »), o la colonna gemmata simbolo della Chiesa, o Gesù ritto in mezzo ai coniugi con la scritta;, o Cristo, considerato come « Pro nubo » delle nozze dei suoi fedeli, p. es., nel frammento Albani, secondo la spiegazione di s. Paolino da Nola: « Absit ab his thalamis vani lascivia vulgi Iuno, Cupido, Venus, nomina luxuriæ. Sancta sacerdotis veneranda pignora pacto iunguntur; comun pax, pudor et pietas … Tali lege suis nubentibus adstat Iesus Pronubus » (Carm., XXV, 9-12, 151 : P L 51, 633. 636; cf. O. Marucchi, La santità del M. confermata dagli antichi monumenti cristiani, Roma 1902; G . Wilpert, La fede della Chiesa nascente secondo i monumenti dell’arte funeraria antica, Città del Vaticano 1928, pp. 249 – 55). – Parallelo alla tradizione liturgica ed archeologica, d’indole prevalentemente pratica, è il ripensamento teoretico dei motivi evangelici e paolini concernenti il M. Dal sec. III al V tre concetti sono costantemente ripetuti: a) il M. cristiano è il simbolo dell’unione di Cristo con la Chiesa (Clemente Aless., Strom., 3, 12: PG 8, 1186; Origene, Fragm. in Io., 3, 29: CB, IV, 520; id., Hom. 11 in Num.: PG 12, 643; Crisostomo, Hom. 40 in Eph.: ibid., 62, 140; s. Ilario di Poitiers, Tractatus de mysteriis, 3: CSEL, 65, 4 – 5; s. Ambrogio, Ep., 76: PL 16, 399; Ambrosiaster, In Eph., 5, 31: ibid., 17, 399); b) cui è connessa l’infusione della Grazia: « Siratum est apud Deum Matrimonium … habens iam ex parte divina e Gratia; patrocinium » (Tertulliano, Ad uxorem, 2, 7, PL I, 1229); « Deus quidem est, qui duo in unum compegit … et quotiamo coniunctionis auctor est Deus, propterea iis in est Gratia, quia Deo coniuncti sunt; quod non ignorans Paulus connubium Verbo Dei consentaneum gratiam esse pronuntiat » (Origene, In Mt., 14, 16: PG 13, 1229; cf. s. Epifanio, Hæres, 51, 30: ibid., 41, 941; s. Innocenzo, Ep., 3 6 : PL 20, 602; s. Cirillo Aless., In Io., 2, 1: PG 73, 224); c) la cui elevazione all’ordine della Grazia avvenne a Cana di Galilea, ove il Redentore perfezionò l’opera del Creatore : « In Cana Galilea e externæ sunt celebratæ nuptiæ… ut quod deerat emendaret ac iucundissimi vini suavitat emulceret et Gratia » (s. Epifanio, Hæres., 51, 30: PG 41, 941); « Cum nuptiæ celebrarentur … adest quidam Mater Salvatoris, sed et ipse cum discipulis suis invitatus venit … ut gener ationis humanæ principium sanctificaret » (s. Cirillo Aless., In Io., 2, 1 : PG 73, 224); « Vadit ad nuptias Dei Filius ut, quas dudum potestate constituit, tunc praesentiæ suæ benedictione sanctificet » (s. Massimo di Torino, Hom., 23 : PL 57, 274; cf. Teodoreto di Ciro, Hæret. fabularum compendium, 5, 25: PG 83, 537; s. Giov. Damasceno, De fide orihod., 4, 2 4 : ibid., 94, 1209). S. Agostino, caldo difensore della liceità del M. contro i manichei e Gioviniano, era preoccupato di porre in luce il tripartitum bonum: fides, proles, Sacramentum (De nuptiis et concupiscentia, 11: PL 44, 421; De bono coniugali, 24, 32 : ibid., 40, 394). Fermando la sua attenzione sull’ultimo punto della trilogia (Sacramentum), s. Agostino svolge ampiamente il simbolismo paolino (cf. B. Alves Pereira, La doctrine du Mariage selon st. Augustin, Parigi 1930, pp. 184-223) e conclude costantemente che la res Sacramenti è l’indissolubilità del M., la quale imita in modo perfetto la inscindibilità delle mistiche nozze di Cristo con la Chiesa: « Huius procul dubio Sacramenti res est ut mas et fœmina connubio copulati, quamdiu vivunt, inseparabiliter perseverent » (De nuptiis et concupiscentia, 1, 10: PL 44, 420); « Bonum nuptiarum, quod ad populum Dei pertinet, est etiam in sanctitate Sacramenti, per quam nefas est etiam repudio discedentem alteri nubere. » (De bono  coniugali, 24, 31 : ibid., 40, 394). Il vincolo dei coniugi cristiani (res Sacramenti) è talmente profondo che può essere paragonato al carattere indelebile del dell’Ordine (ibid.). In questa prospettiva la Grazia è vista nel M. solo di scorcio, come la regione ultima (cui si allude forse nella parola sanctitas) del vincolo dei coniugi, immagine perfetta dell’unione di Cristo con la Chiesa.  Ma s. Agostino non deve essere isolato dagli altri Padri di cui accettò l ‘ insegnamento, e tanto meno dagli scrittori africani, soprattutto da Tertulliano, di cui continuò  la tradizione dottrinale.

Scolastici. – L’insegnamento dei Padri nella particolare formulazione agostiniana, divenne comune. Trasmesso al medio evo nella rapida sintesi di S. Isidoro di Siviglia (De ecclesiasticis officiis, 2, 20: PL: 83, 812), riaffiorò timidamente nei secc. IX-XI, per affermar pur nelle modifiche e negli ampliamenti che subì , attraverso le opere teologiche e canonistiche del secolo XII: Ugo di Amiens (Contra hæreticos, 3, 4: PL 192, 1289), Abelardo (Epitome theologiæ, 31: ibid. 178, 1747), Ugo di S. Vittore (De Sacramentis: ibid. 176, 481-82, 494: con una distinzione singolare tra Sacramentus majus e minus), Onorio di Autun (Elucidarium, 2, 16, ibid. 172, 1147, Pietro Lombardo (IV Sent., d. 26, c, 6), presso il quale è già imbastita un’intera trattazione sistematica de Matrimonio, che, perfezionata da s. Bonaventura e da s. Tommaso, divenne la dottrina classica della teologia cattolica.Maturatasi fin dalla metà del sec. XII la speculazione sul significato intimo di Sacramento della Nuova legge  che implica il concetto inscindibile di segno e di causa (id efficit quod significat), esso fu applicato al M. si ebbe così l’occasione di affermare, in forma scientifica quanto la tradizione dei Padri, attinta dalle fonti bibliche, aveva  insegnato in modo semplice e popolare. L’applicazione  non avvenne senza contrasti: nel sec. XII Abelardo, pur riconoscendo al M. la dignità di magnæ rei Sacramentum, lo riteneva Sacramento non spirituale e pertanto « non alicuius meriti ad salutem, sed propter inconvenientiam ad salutem concessum » (Epitome theologiæ, 28: PL 178,  1738); mentre Ugo di S. Vittore lo considerava vera fonte di Grazia (De Sacramentis, II, 2, C. 8: ibid. 186, 496). – Questa oscillazione dottrinale continuò per un secolo (dal 1150 al 1250) presso canonisti e teologi e venne definitivamente eliminata dal chiaro insegnamento di S. Tommaso (IV Sent., d. 26, q. 2, a. 3), la cui efficacia non fu sminuita dalla tenace resistenza dell’Olivi e di Durando, poiché accolta nel Decretum prò Armenis (Denz.-U, 695e 702), divenne dottrina autentica della Chiesa. –  Già da secoli i romani pontefici avevano annoverato il M. tra i veri e propri Sacramenti della Nuova Legge:  nel Concilio Lateranense II (1139) e Veronese sotto  Lucio III (1184), nella Epist. ad Umbertum, (1198) e nella Professio fidei Waldensìbus præscripta (1208) di Innocenzo III, nella Professio fidei M. Paleologo proposita (1274) di Gregorio X, nella condanna dei Fraticelli da parte di Giovanni XXII ( Denz – U , 367, 402, 406, 424, 465, 490).

Errori protestanti. — È contro questo secolare e solenne insegnamento, che urtarono le audaci innovazioni di Lutero: « Mai si legge che abbia ricevuto la Grazia di Dio chi ha preso moglie. Anzi neppur il simbolo stato istituito da Dio nel M . . . I l M . dunque venga pure inteso come un’allegoria dell’unione di Cristo e della Chiesa, ma non come Sacramento istituito da Dio; è un Sacramento introdotto nella Chiesa degli uomini per ignoranze delle cose e delle parole » (De capti vitate Babylonica, 7, in M. Lutero, Scritti politici, a cura di G. Panzieri Saija, Torino 1949, pp. 314, 317). Per il « riformatore » il M. è una necessità assoluta della vita, come il bere e il mangiare, regolato quindi da leggi maramente umane, da ritenersi pertanto un affare esclusivamente civile: ein weltlich Ding (cf. A. Kawerau. Die reformation und die Ehe, Halle 1892; L. Cristiani, Du lutheranisme au protestantisme, Parigi 1911, pp. 181-82;  J. Pasquier, Luther, in DThC, IX, coll. 1276-82) . Queste idee furono  condivise da tutti i protestanti, particolarmente da Calvino (cf. Institutio christianæ religionis, 4, 19), che nel commento alla Lettera agli Efesini stigmatizzò l’insegnamento cattolico di crassæ ignorantiæ hallucinatio (Opera Calvini, in Corpus reformatorum, LXXIX, 227).

Concilio di Trento. – Contro questo svisamento della verità lottarono con ardore e erudizione i teologi cattolici del cinquecento (cf. V. Zollini, De Matrimonii Sacramento novatorum errores, catholicorum exsplanationes, Roma 1943 ; tesi inedita dell’Ateneo di Propaganda Fide) e emise le sue solenni definizioni di Concilio di Trento, sess. XXIV (11 nov. 1563), che vigorosamente affermò l’indole sacramentale del M., trattando inoltre delle sue proprietà (Denz – U, 969-82). Le limpide e precise formule di Trento, felice epilogo della tradizione cristiana, che tanta uggia recarono ai regalisti e ai febroniani, accesi « secolarizzatori » del M., vennero riprese e illustrate, secondo le esigenze dei tempi, da Pio VI contro Scipioni Ricci (Denz-U, 1556-60), da Pio IX, nel Syllabo (Ibid. 1765-76); da Leone XIII nell’enciclica Arcana divinæ sapientiæ, 10 febbr. 1880 (ed. F. Hürt, Roma 1942), di cui sono celebri la concisione del dettato e la robustezza delle formole; da Pio X, nel decreto Lamentabili contro i modernisti ( Denz-U, 2251); da Pio XI nella classica encicl. Casti connubii, 31 dic. 1930 (ed. ed. Hürt, Roma 1942).

NATURA DEL SACRAMENTO DEL M. –

Contratto e Sacramento. – Intorno alla natura di questo Sacramento, la questione fondamentale, da cui tutte le altre logicamente dipendono, riguarda il rapporto in cui si trovano il contratto e il Sacramento: se cioè il M. dei cristiani, prima di essere un Sacramento, debba considerarsi come un contratto, in modo da potere distinguere in esso due elementi successivi, il primo dei quali debba considerarsi come fondamento necessario del secondo; o se invece il contratto resti compenetrato totalmente dal Sacramento.La concezione che separa il contratto dal Sacramento entrò tardi nella dottrina, ed ebbe propugnatori fino al sec. XIX, per motivi non sempre di ordine teologico. Vi contribuirono alcuni teologi in buona fede, i quali non prevedevano certamente i frutti funesti che ne sarebbero derivati.Il primo fu Melchior Cano (Opera theologica, II, Roma 1900, cap. 8), secondo cui il contratto matrimoniale non è che la materia del Sacramento, al quale si aggiunge la benedizione del sacerdote ministro come forma sacramentale. Ciò conduceva direttamente a ritenere concepibile un vincolo matrimoniale che non fosse Sacramento: e lo affermava egli stesso senza ambagi. Il teologo spagnolo ebbe molti seguaci fino alle soglie del sec. XIX (p. es., Silvio, Estio, Tournely, lo stesso Benedetto XIV, prima che divenisse papa). Alla medesima conclusione conduceva la teoria del Vasquez e dei Salmanticensi, secondo cui i due elementi sono certamente legati tra di loro, ma il contratto conserva il suo valore naturale, nel caso che i fidanzati intendessero concludere solo un contratto: rimarrebbe quindi in loro potere separare il contratto dal Sacramento.Alcuni teologi e canonisti moderni, gallicani e giuseppinisti (p. es., M. A. de Dominis, Launoy, Nuytz), separavano ancor più il contratto dal Sacramento. Essi ritenevano che tra questi due elementi non esistessero che rapporti estrinseci, in quanto la benedizione del sacerdote si aggiungerebbe esteriormente al contratto. Per opera di questi teologi la distinzione dal terreno teologico scese su quello politico, prestando un valido argomento alle pretese dello Stato in materia matrimoniale. In tal maniera si favorì il M. civile moderno. – Secondo l’insegnamento cattolico, invece, nel M. cristiano il contratto e il Sacramento, pur essendo logicamente distinti, realmente si identificano, poiché « Cristo Signore elevò a dignità di Sacramento lo stesso contratto matrimoniale tra battezzati » (CIC, can. 1012 § 1). Il contratto, quindi, dal piano di officium naturæ viene innalzato all’ordine della Grazia, in maniera che questa sublimazione di valore compenetra il contratto integralmente. Non è concepibile una vivisezione, per cui il contratto rimanga nella zona di natura, e acceda, quasi a perfezionarlo, il Sacramento. Pertanto il CIC dichiara che « tra battezzati non può esistere valido contratto che non sia al tempo stesso Sacramento » (can. 1012 § 2). Tale dottrina, pur non essendo proposta nell’insegnamento ufficiale della Chiesa tamquam divinitus revelata, è però certa, anzi dalla S. R. Rota è stata giudicata proxima fidei (AAS, 11 [1919], p. 933). Del resto i Padri hanno ignorato la distinzione, come pure i teologi prima del sec. XVI. Inoltre Eugenio IV nel Decretum prò Armenìs implicitamente affermò che il contratto matrimoniale e il Sacramento nei fedeli non sono due cose distinte (Denz – U, 702) . L o stesso concetto è supposto dal Concilio di Trento, che attribuì valore sacramentale ai M. clandestini celebrati prima del decreto Tametsi (Denz-U, 990); ed è difeso validamente da Pio IX in un breve al Re di Sardegna (1852) e inoltre nell’allocuzione Acerbissimum vobiscum del 27 sett. 1852 ( Denz – U, 1640) e nella condanna degli errori contrari, contenuti nelle proposizioni 66 e 73 del Sillabo (Denz-U, 1766, 1773); da Leone XIII nell’encicl. Arcanum (10 febbr. 1880: Denz-U, n. 1854) e da Pio XI nell’encicl. Casti connubii (31 dic.1930: ibid., n. 2237).

Materia e forma. — Poiché il Sacramento non è altro che il contratto naturale elevato all’ordine della Grazia, ne segue che gli elementi costitutivi del Sacramento devono identificarsi con gli elementi costitutivi del contratto stesso. Il segno sensibile del Sacramento del M. pertanto è costituito dal reciproco consenso dei due sposi. Le parole che esprimono tale consenso vengono considerate come materia, in quanto contengono la donazione di una parte all’altra, e come forma, in quanto implicano l’accettazione di questa donazione. – Non si richiede tuttavia la formalità di determinate parole, perché Cristo non richiese come segno sensibile di questo Sacramento se non ciò che è necessario a costituire il contratto umano: è sufficiente pertanto qualsiasi segno, con cui venga espresso il consenso interno. – Tale dottrina, formulata dal Bellarmino, dal Suàrez, dal Sanchez, è ritenuta comunemente da quasi tutti i teologi moderni, e ricorre nella stessa cost. Paucis, del 19 marzo 1758, di Benedetto XIV. Non possono ad essa opporsi le parole del Concilio di Firenze, che stabilisce un triplice elemento per la costituzione del Sacramento « rebus tamquam materia, verbis tamquam forma et persona ministri », in base alle quali alcuni teologi sostennero che materia sono i corpi, e forma sono le parole con cui i contraenti si trasferiscono reciprocamente lo ius in corpus. Nel M. infatti, come nel Sacramento della Penitenza, non esiste una materia vera e propria. I corpi dei contraenti non costituiscono il contratto, ma ne sono piuttosto l’oggetto (materia remota circa quam). Il contratto viene concluso formalmente per il fatto che le parti esprimono esteriormente il loro consenso. In ciò consiste il segno sensibile del Sacramento del M. (cfr. s. Tommaso, IV Sent., d. 26, q. 1, a. I sol. 2). In un secondo momento vengono distinti, per analogia con gli altri Sacramenti, un elemento determinabile ed uno determinante, ossia una mutua donazione e una mutua accettazione del diritto sul corpo, rispettivamente chiamata materia e forma. – I teologi, che considerano il sacerdote come ministro del Sacramento del M., ritengono che il contratto sia la materia, e le parole della benedizione siano la forma che suggella e conferma il contratto. Già si è rilevato come tale opinione parta da un principio insostenibile. I sostenitori portano come argomento le parole del Rituale « Ego coniungo vos », ma occorre osservare come esse non esistono nei Rituali più antichi, e che il Concilio i Trento ne lasciò facoltativo l’uso e permise altre formule alquanto diverse (Denz-U, 990). Ciò non sarebbe stato stabilito, se la Chiesa avesse ravvisato in queste parole la forma sacramentale del M.

Ministri. – Ministri del Sacramento del M. sono i contraenti stessi: data l’inseparabilità del Sacramento dal contratto, chi fa il contratto fa anche il Sacramento. Il sacerdote celebra il rito, non il Sacramento; la sua assistenza è solo di testimone qualificato, che riceve il consenso degli sposi in nome della Chiesa. – I Padri misero in rilievo la benedizione della Chiesa e la richiesero, ma nulla fa supporre che nella benedizione abbiano visto la forma necessaria: essi infatti non negarono mai la validità dei M . clandestini, La Scolastica ebbe un identico punto di vista. S. Tommaso considerò la benedizione del sacerdote come un sacramentale. Il M . si compie con il mutuo consenso (Sum. Theol.., Suppl. q. 45, a. 5), e questa concezione presso gli scolastici è tanto più degna di nota, in quanto essi misero molto in risalto l’azione del sacerdote nel Sacramento. – Il Concilio di Trento suppose la medesima dottrina poiché, sebbene abbia imposto di contrarre davanti al parroco e a due testimoni, tuttavia non contestò la validità dei M . clandestini (Denz-U, 990. Pio X, nella cost. Provida (18 genn. 1906) sul M., richiese la forma tridentina, ma in caso di assenza prolungata del sacerdote, dichiarò che il M. può essere contratto validamente e lecitamente davanti a due testimoni laici (Denz-U, 2069).  Il Codice ha stabilito: « Matrimonium facit partium consensus in personas iure habiles legitime manifestatus »  (can. 1081) [Il matrimonio nasce dal legittimo consenso manifestato]. Pertanto la sentenza contraria di Melchior Cano, dei gallicani e giuseppinisti, che un tempo ebbe molti aderenti, è oggi totalmente abbandonata.

Soggetto. – Soggetto capace di ricevere « validamente » il M. è solo il battezzato, che non abbia impedimenti dirimenti. – Per ricevere « lecitamente e con frutto » il M., occorre l’assenza degli impedimenti impedienti e lo stato di Grazia. Il M . contratto con gli impedimenti impedienti è valido, ma la Grazia non viene conferita, a motivo dell’ostacolo posto dal peccato grave al momento della conclusione del contratto. Quanto allo stato di Grazia, esso è richiesto perché il M. è un Sacramento dei vivi; tale stato può essere procurato o con la contrizione perfetta oppure con la Confessione. Quantunque lo stato di Grazia ottenuto con il Sacramento della Penitenza sia prescritto solo per l’Eucaristia, il CIC tuttavia ordina che il parroco esorti i fidanzati a confessare i loro peccati ed a ricevere piamente la S. Comunione prima della celebrazione del M. (can. 1033). – Non può darsi M. valido tra battezzati al tempo stesso anche Sacramento: ciò si verifica anche quando i contraenti non sono consapevoli di questo, o vogliono contrarre M. valido con l’esclusione del Sacramento, oppure errano credendo che il M. non sia un Sacramento. Ricevono quindi il Sacramento non solo i Cattolici, ma anche gli eretici, gli scismatici e gli apostati. Su questo non c’è controversia. Dibattuta invece è la questione se si abbia il Sacramento quando due coniugi infedeli si convertono e si battezzano. Secondo alcuni, si richiede la rinnovazione, espressa o tacita, del consenso; secondo altri tale M. non può mai elevarsi alla dignità di Sacramento. Oggi prevale l’opinione, già difesa dal Bellarmino (De Matrim. Sacramento, cap. 5), secondo diventa Sacramento nell’atto stesso in cui i due coniugi ricevono il Battesimo. Il Bellarmino è stato seguito da Sànchez, Perrone, Pesch, Billot, Cappello, De Smet, Wernz-Vidal. Tale opinione ha un fondamento biblico, poiché le parole di s. Paolo agli Efesini (Eph. 5, 32) erano rivolte a cristiani, di cui molti certamente si erano sposati nell’infedeltà; è fondata anche teologicamente, se si considera che causa efficiente del vincolo sacramentale nel M. tra battezzati è il consenso naturale dei fedeli, e che pertanto al carattere sacramentale del M. degli infedeli si oppone soltanto la carenza del Battesimo; sopravvenendo questo, il vincolo, permanente, viene elevato a significare l’unione di Cristo con la Chiesa, e a tale M. nulla manca perché ad esso non debba applicarsi il principio generale: « Matrimonium inter christianos est Sacramentum ». Un nuovo consenso, necessario per avere il Sacramento,  è da escludersi, perché il Battesimo non scioglie, ma lascia in vigore il precedente M.; c’è sempre, quindi, un unico M. sempre perseverante, in cui l’originale consenso conserva sempre il suo valore.Diversa : conclusione prevale nel caso del M. contratto tra un battezzato e un infedele. Vi è chi ritiene che un tale M. sia un Sacramento per la parte fedele (Sasse, Rosset, Pesch). Altri ciò affermano, quando sia intervenuta la dispensa dall’impedimento relativo. Ma la sentenza più comune non ammette questo sdoppiamento: se Sacramento non c’è, com’è certissimo, per il coniuge infedele, così, per l’inscindibilità del contratto e del Sacramento non vi può essere neppure per il coniuge fedele (Wernz-Vidal, Cappello, Noldin, Gasparri).

Effetti. – Gli effetti di questo Sacramento consistono nella formazione del vincolo sacramentale, nell’aumento della Grazia santificante e nel diritto a tutte le grazie attuali necessari e per vivere cristianamente lo di M. – Il vincolo coniugale costituisce la res et Sacramentum; funge da causa dispositiva per l’infusione della Grazia, e preserva fino a quando non sia legittimamente disciolto. Il conferimento della Grazia santificante è verità di fede definita dal Concilio di Trento nella sess. VII, can. 6, 8 (Denz – U, 849, 851) e XXIV, can. 1 (Denz. – U, 791). Si tratta della Grazia seconda perché il M., simboleggiando l’unione di Cristo con la Chiesa, è un Sacramento dei vivi. Quando è ricevuto consapevolmente in stato di peccato mortale, è valido se ci sono tutte le altre condizioni, ma illecito. La Grazia in tal caso rivive in seguito, quando vien tolto l’ostacolo. Se invece è ricevuto in stato di peccato inconsapevolmente, produce « per accidens » la prima giustificazione per mezzo dell’attrizione. – Il diritto alle grazie attuali speciali costituisce uno degli aspetti della Grazia sacramentale, propria di questo sacramento, per mezzo della quale i coniugi vengono messi in grado di raggiungere le alte finalità della vita matrimoniale. Già s. Paolo accenna all’effetto negativo della moderazione della concupiscenza: « Per evitare l’impudicizia, ognuno abbia la sua moglie, e ogni donna abbia il suo marito » (I Cor. VII, 2 ; cf. I Thess. IV, 4 – 5). Il Concilio di Trento ricorda inoltre, tra gli effetti operati dal Sacramento, il perfezionamento dell’amore naturale e il consolidamento dell’unità indissolubile, dai quali gli sposi sono santificati, allo stesso modo che il vincolo che unisce Cristo con la Chiesa è vincolo di carità e santità (Denz–U, 969). La Casti connubii parla di vivere il M. « la cui efficace virtù, sebbene non imprima il carattere, è tuttavia permanente ». A questo riguardo l’enciclica commenta un testo di S. Roberto Bellarmino: « Il Sacramento del M. è simile all’Eucaristia, la quale è Sacramento non solo mentre si fa, ma anche mentre perdura; perché, fin quando vivono i coniugi, la loro unione è sempre il Sacramento di Cristo e della Chiesa » (De Matr., II, 6). Perciò tutti gli atti che traducono nella pratica, che continuano e ratificano nei particolari il dono vicendevole, ossia tutto quello che tra gli sposi è manifestazione dell’amore santificato, è fonte di Grazia. Per tal modo lo stato del M . può essere eminentemente santificante.

Poteri della Chiesa. – Il M. dei fedeli è sempre Sacramento, e il potere di amministrare i Sacramenti fu conferito esclusivamente da Gesù Cristo alla sua Chiesa; ad essa pertanto compete il diritto proprio, esclusivo, indipendente, di determinare quanto è necessario per la valida e lecita celebrazione del M. cristiano (can. 1038). – In particolare, rientra nei poteri specifici della Chiesa: a) interpretare e dichiarare in forma autentica ed esclusiva (non derogare e dispensare senza espresso mandato di Dio) il diritto divino, in virtù della sua potestà di magistero (can. 1322); b) determinare gli impedimenti dirimenti e impedienti, e prescrivere le condizioni richieste per la lecita e valida celebrazione del M.; c) procedere e sentenziare su tutte le cause matrimoniali circa l’esistenza, la validità, gli effetti e la soluzione degli sponsali e del M. stesso, e circa la separazione coniugale; d) costringere i coniugi delinquenti, anche con pene, all’osservanza delle sue leggi e delle sue sentenze. Questi poteri della Chiesa indirettamente si estendono anche sull’infedele, qualora questi voglia contrarre M. con un battezzato; onde la legge che obbliga direttamente uno dei contraenti, vincola indirettamente anche l’altro. Nel caso, il Battesimo di una parte basta a determinare la competenza della Chiesa in merito. – Da ciò segue che allo Stato non compete potere alcuno sulla liceità o validità del M. dei fedeli, per i quali il Sacramento non si distingue dal contratto. Esso può unicamente: a) fissare certe condizioni, obbligatorie civilmente, per chi voglia contrarre M., purché ciò sia richiesto dal bene pubblico e non contrasti con il diritto divino e canonico; b) legiferare sugli effetti temporali, separabili dalla sostanza del M. In questo la sua competenza è propria ed esclusiva. L’esercizio di questo potere della Chiesa già si riscontra in s. Paolo (I Cor. 5); fin dai primi secoli la Chiesa affermò questi suoi diritti, indipendenti dal potere civile, così che durante il medioevo il diritto canonico divenne prevalente, se non esclusivo. Non mancarono resistenze da parte dei principi, ed errori da parte dei canonisti e teologi regalisti. I protestanti, considerando il M. non più come Sacramento ma come semplice contratto, lo fecero dipendere esclusivamente dalla giurisdizione civile. Ma non mancarono teologi (Sànchez, Soto, Billuart) che, pur tenendo inseparabile per i fedeli il contratto dal Sacramento, concedevano ad ambedue le autorità il diritto proprio sul M., a meno che la Chiesa non volesse riservarsi, come si riservò, il diritto di stabilire l’esclusività. Ma anche in questo caso si concedeva allo Stato il diritto di stabilire impedimenti proibenti, riservando alla Chiesa i dirimenti. – La dottrina cattolica emerge da numerose ed esplicite dichiarazioni dell’insegnamento ufficiale della Chiesa: Concilio Tridentino (sess. XXIV, cann. 3, 4, 9, 12); Pio VI, Errores Synodi pistoriensis, propp. 58-60 (Denz – U, 1558 – 60); Breve ad archiep. Trevirensem, 1782; Ep. Ad episc. Motulensem, 1788; Pio IX, Syllabus, propp. 68-70 ( Denz – U, 1768-70); Leone XIII, encicl. Arcanum; Pio XI, encicl. Casti connubii; CIC, cann. 1016, 1038, 1040, 1960-61.

OMELIA DI NATALE a GRAND STRAND – USA –

“Sulla Natività di Cristo e la verginità della sua Madre Santissima “

Un sermone ai cattolici di rito orientale di FatherUK., sacerdote di Sua Santità, Gregorio XVIII

Santo Natale, 7 gennaio 2018, The Grand Strand, SC, USA

Sia benedetta la Natività del nostro Salvatore.

Questa festa è tanto importante per ogni cattolico, poiché, grazie alla Natività, prendiamo parte al Mistero dell’Incarnazione della Seconda Persona della Santissima Trinità, che mediante questo Mistero è diventato così vicino a noi. – Cosa dovremmo ricordare durante la celebrazione della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo? Ebbene, troviamo la risposta nel Santo Vangelo di San Matteo:

Pariet autem filium: et vocabis nomen ejus Jesum : ipse enim salvum faciet populum suum a peccatis eorum”. (Ella partorirà un figliuolo, cui tu porrai il nome Gesù; imperocchè egli libererà il suo popolo dai suoi peccati.) –  (San Matteo 1:21).

“Ecce virgo in utero habebit, et pariet filium: et vocabunt nomen ejus Emmanuel, quod est interpretatum Nobiscum Deus.” – (Ecco, una vergine sarà incinta e partorirà un figliuolo: e lo chiameranno per nome Emmanuele: che, interpretato, significa Dio con noi) (San Matteo 1:23).

 “Et non cognoscebat eam donec peperit filium suum primogenitum : et vocavit nomen ejus Jesum.” – (Ed egli non la conosceva fino a quando partorì il suo figliuolo primogenito; e lo chiamò con il nome Gesù)( San Matteo 1:25).

– Innanzitutto dunque vediamo che lo scopo della Natività, o il primo Avvento di Cristo, era quello di “salvare il suo popolo dai suoi peccati” e divenire il “Dio con noi”: Emmanuel.

Sin dal primiero peccato  di Adamo ed Eva, tutta la razza umana è stata contaminata dal peccato originale. A causa del peccato originale, Adamo ed Eva, e tutta l’umanità attraverso di loro, persero la loro “verginità spirituale” e conseguentemente persero il dono della vita eterna con il loro Creatore. I loro corpi  andarono così soggetti alla debolezza e alla decadenza estrema … la loro vita sulla terra divenne triste e difficile:

… maledicta terra in opere tuo : in laboribus comedes ex ea cunctis diebus vitae tuae…pulvis es et in pulverem reverteris. – (maledetto sia il suolo per causa tua: con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita … polvere tu sei e in polvere tornerai!”.)

Ciò accadde perché Adamo ed Eva accettarono volontariamente la menzogna del serpente, cioè del diavolo … essi trasgredirono imprudentemente l’unico comandamento che Dio aveva loro dato: “Di ogni albero del paradiso tu mangerai; ma dell’albero della conoscenza del bene e del male, non mangerai. Perché in qualunque giorno tu ne mangerai, tu morirai “( Genesi 2: 16-17). [Ex omni ligno paradisi comede; de ligno autem scientiae boni et mali ne comedas : in quocumque enim die comederis ex eo, morte morieris.]

Essendo giusto Giudice, Dio ha dato loro la punizione, ma allo stesso tempo ha dato loro la possibilità di essere salvati. Dio diede loro il Salvatore, il Quale “salverà il suo popolo dai suoi peccati”. [salvum faciet populum suum a peccatis eorum]. Ogni uomo ha la possibilità di essere salvato, ma sfortunatamente non tutti gli uomini sfruttano questa possibilità. Solo il suo popolo sarà salvato.

Ma chi sono i suoi?

Dio fondò la Sua unica Chiesa su Pietro Apostolo (San Matteo XVI:18); pertanto gli uomini che appartengono alla Sua Chiesa, questi sono il Suo popolo … ed usano prudentemente la possibilità, data loro da Dio.

Quando le persone diventano membri della Chiesa di Dio, fondata su San Pietro, non hanno solo la possibilità, ma la vera opportunità di essere salvati, perché il Fondatore della Chiesa, l’Emmanuel“Dio con noi”, in effetti è sempre con noi, cioè con la sua Chiesa, alla quale ha fornito  numerosi mezzi necessari per la salvezza, specialmente i SS. Sacramenti. Quando il nostro Salvatore disse ai Suoi Apostoli che sarebbe stato con loro “fino al compimento del mondo” ( San Matteo XXVIII: 19-20), lo disse non solo ai suoi Apostoli, sebbene ad essi per primi, ma a tutta la Chiesa, attraverso di loro. – Per essere salvati è assolutamente necessario essere membri della Chiesa di Cristo, non importa che uno sia chierico o laico. E se si vuole essere salvati, non si deve solo essere parte del suo popolo, cioè appartenere alla sua Chiesa costruita su San Pietro, ma si deve fare tutto quanto il nostro Salvatore ha comandato.

(Sulla perpetua verginità della madre di Dio)

In secondo luogo, durante la festa della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo, professiamo la nostra fede nella perpetua Verginità di sua Madre, Maria. Il Profeta Isaia e San Matteo Evangelista dicono le stesse parole: “Ecco, una vergine sarà incinta e partorirà un figlio”. Credere nella Verginità Perpetua della Madre di Dio è parte integrante della nostra salvezza. – Molti eretici in tutta la storia del Cristianesimo, fino ai nostri giorni, rifiutano la Verginità perpetua di Maria … e si sottomettono ad una menzogna del diavolo. La “logica” del diavolo è infatti questa: – se la madre è una “non vergine”, allora anche il figlio è un “non-innocente” – ed in tal caso nessuno è obbligato ad osservare i comandamenti di un figlio “peccaminoso”. – Ma la Parola di Dio insegna che la Madre del Salvatore è “la Vergine”, e suo Figlio, il Salvatore, è “l’Innocente”. Lui stesso, essendo l’Innocenza stessa, desiderava che anche sua Madre fosse Vergine. San Giuseppe “non la conosceva” poiché era “un uomo giusto” e obbediva alla volontà ed ai comandamenti di Dio, come sappiamo dalla Sacra Scrittura. – Se qualcuno non crede nella Perpetua Verginità della Madre di Dio, non sarà salvato. Perché? Perché la Volontà di Dio ha comandato che la Beata Vergine Maria fosse uno strumento molto speciale di salvezza … la Chiesa infallibilmente insegna che la Perpetua Verginità di Maria è dottrina “de fide”!

(I tre saggi)

Un’altra lezione molto importante della Natività è la storia dei Tre Saggi che vennero  dall’Oriente a Betlemme. Prima che arrivassero dal Bambino Gesù, essi erano seguaci di un culto pagano, l’astrologia. Uno degli inni natalizi che cantiamo, dice che prima di Cristo adoravano le stelle, ma dopo essere venuti a visitare Cristo, furono convertiti e diventarono seguaci e adoratori dell’unica “Stella, il Sole della Verità”, come la Chiesa chiama metaforicamente Gesù Cristo. – Prima di Cristo essi adoravano le creature. Ma dopo il loro incontro con il Salvatore, adorarono solo il Creatore e non tornarono mai all’adorazione delle creature. – Prima di Cristo erano maghi pagani, ma dopo l’incontro con Gesù Cristo in persona, divennero dei cristiani savi. – Prima di Cristo erano in amicizia con i rappresentanti delle false autorità, come Erode –  questo era normale per loro – per comunicare con coloro che erano del loro circolo … ma dopo aver incontrato il Salvatore, abbandonarono la loro amicizia con le false autorità, iniziando  la loro amicizia esclusivamente con la Vera Autorità: Gesù Cristo. “E avendo ricevuto una risposta nel sonno che non dovevano tornare ad Erode, tornarono indietro nel loro paese” (Et responso accepto in somnis ne redirent ad Herodem, per aliam viam reversi sunt in regionem suam.) (San Matteo II:12).  – Quindi, durante la celebrazione annuale della Natività dovremmo accettare la Verginità della Madre di Dio, come fece San Giuseppe. E poi, proprio come i Re Magi, non dovremmo mai tornare ai culti pagani! Poiché abbiamo trovato Gesù Bambino e lo abbiamo accettato come Vero Dio, non dovremmo tornare mai più dalle false autorità, come Erode allora, Wojtyła, Ratzinger o Bergoglio oggi, perché l’amicizia con loro è inutile e dannosa. – Abbiamo la sempre Vergine Madre di Dio, abbiamo gli Angeli di Dio, abbiamo San Giuseppe, abbiamo i Re Magi: Essi sono tutti membri dell’unica Chiesa di Gesù Cristo, che Egli stesso ha fondata su San Pietro. E tutti loro sono i nostri veri amici e mecenati in preghiera davanti a Dio Salvatore, di cui celebriamo la Natività. –  Imitiamo la loro fede e chiediamo loro di aiutarci a rimanere nello stato di verginità spirituale, che è assolutamente necessario per la salvezza.

Sia benedetta la Natività di Cristo Bambino e la Sua sempre Vergine Madre!

frUK

 

ALLEANZA DI CRISTO E DELLA CHIESA

ALLEANZA DI CRISTO E DELLA CHIESA

[Dom P. Guéranger: l’Anno Liturgico, vol. I, Ed. Paoline, 1957 – impr.]

Il grande Mistero dell’Alleanza del Figlio di Dio con la sua Chiesa universale, rappresentata nell’Epifania dai tre Magi, fu intravisto in tutti i secoli che precedettero la venuta dell’Emmanuele. Dapprima lo fece risuonare la voce dei Patriarchi e dei Profeti, e la stessa Gentilità vi rispose spesso con un’eco fedele. – Fin dal giardino delle delizie, Adamo innocente esclamava, alla vista della Madre dei viventi uscita dal suo costato: « Ecco l’osso delle mie ossa, la carne della mia carne: l’uomo lascerà il padre e la madre, e si unirà alla propria sposa: e saranno due in una sola carne ». La luce dello Spirito Santo penetrava allora l’anima del nostro progenitore; e – secondo i più profondi interpreti dei misteri della Scrittura, Tertulliano, sant’Agostino, san Girolamo – celebrava l’Alleanza del Figlio di Dio con la Chiesa, uscita attraverso l’acqua e il sangue dal suo costato squarciato sulla croce; con la Chiesa, per il cui amore egli discese dalla destra del Padre, e umiliandosi fino alla forma di servo, sembrava aver lasciato la Gerusalemme celeste per abitare in mezzo a noi in questa dimora terrena. – Il secondo padre del genere umano, Noè, dopo aver visto l’arcobaleno che annunciava nel cielo il ritorno dei favori di Dio, profetizzò sui suoi tre figli l’avvenire del mondo. Cam aveva meritato la disgrazia del padre; Sem sembrò per un momento il preferito: era destinato all’onore di veder uscire dalla sua stirpe il Salvatore della terra; tuttavia il Patriarca, leggendo nell’avvenire, esclamò: « Dio allargherà l’eredità di Jafet, ed abiterà sotto le tende di Sem ». E così vediamo a poco a poco nel corso dei secoli l’antica Alleanza con il popolo d’Israele indebolirsi e quindi rompersi; le stirpi semitiche vacillare e presto cadere nell’infedeltà, e infine il Signore abbracciare sempre più strettamente la famiglia di Jafet, la gentilità occidentale, così a lungo abbandonata, porre per sempre nel suo seno la Sede della religione, e costituirla a capo di tutta la specie umana. – Più tardi, è Dio stesso che si rivolge ad Abramo, e gli predice l’innumerevole generazione che deve uscire da lui. « Guarda il cielo – gli dice – conta le stelle, se puoi: così sarà il numero dei tuoi figli ». Infatti – come ci insegna l’Apostolo – la famiglia uscita dalla fede del Padre dei credenti doveva essere più numerosa di quella ch’egli aveva generata attraverso Sarà; e tutti quelli che hanno ricevuto la fede del Mediatore, tutti quelli che, avvertiti dalla Stella, sono venuti a lui come al loro Signore, tutti questi sono figli di Abramo. – Il mistero compare ancora nel seno stesso della sposa di Isacco. Essa sente intimorita due figli combattersi nelle sue viscere. Rebecca allora si rivolge al Signore, e si sente rispondere: « Due popoli sono nel tuo seno: essi si attaccheranno l’un l’altro; il secondo sopraffarrà il primo, e il maggiore servirà il minore ». Orbene, il minore, questo figlio indomito, chi è – secondo l’insegnamento di san Leone e del Vescovo d’Ippona – se non quel popolo gentile che lotta con Giuda per avere la luce, e che, semplice figlio della promessa, finisce con l’avere la meglio sul figlio secondo la carne? – Ora è Giacobbe che, sul letto di morte, circondato dai suoi dodici figli, padri delle dodici tribù d’Israele, affida in maniera profetica a ciascuno il suo compito nell’avvenire. Il preferito è Giuda, perché egli sarà il re dei fratelli, e dal suo sangue glorioso uscirà il Messia. Ma l’oracolo finisce per essere tanto terribile per Israele quanto consolante per tutto il genere umano. « Giuda, tu reggerai lo scettro; la tua stirpe sarà una stirpe di re ma soltanto fino al giorno in cui verrà Colui che deve essere mandato, Colui che sarà l’atteso delle genti ». – Dopo l’uscita dall’Egitto, quando il popolo d’Israele entrò in possesso della terra promessa, Balaam esclamava, con lo sguardo rivolto verso il deserto popolato delle tende e dei padiglioni di Giacobbe: « Io lo vedrò, ma non ancora; lo contemplerò, ma più tardi. Una Stella uscirà da Giacobbe; un reame si leverà in mezzo a Israele ». Interrogato ancora dal re infedele, Balaam aggiunse: « Oh, chi vivrà ancora quando Dio farà queste cose? Verranno dall’Italia su delle galee, sottometteranno gli Assiri, devasteranno gli Ebrei, e infine essi stessi periranno ». Ma quale impero costituirà questo impero di ferro e di carneficine? Quello di Cristo che è la Stella, e che è il solo Re per sempre. – David è pregno dei presentimenti di quel giorno. Ad ogni pagina celebra la regalità del suo figlio secondo la carne; ce lo mostra armato di scettro e cinto di spada, consacrato al padre dei secoli e nell’atto di estendere il suo dominio dall’uno all’altro mare; quindi conduce ai suoi piedi i Re di Tarsi e delle isole lontane, i Re d’Arabia e di Saba, i Principi d’Etiopia. E celebra le loro offerte d’oro e le loro adorazioni. – Nel suo meraviglioso epitalamio, l’autore del Cantico dei Cantici passa quindi a descrivere le delizie dell’unione celeste dello Sposo divino con la Chiesa; e questa Sposa fortunata non è la Sinagoga. Cristo la chiama per incoronarla; ma la sua voce si rivolge a colei che era al di là dei confini della terra del popolo di Dio. « Vieni – egli dice – mia sposa, vieni dal Libano; scendi dalle vette di Amana, dalle alture di Samir e d’Ermon; esci dagli impuri rifugi dei draghi, lascia le montagne abitate da leopardi ». E la figlia del Faraone non teme di dire: « Sono nera», perché può aggiungere che è stata resa bella dalla grazia del suo Sposo. – Si leva quindi il Profeta Osea, e dice in nome del Signore: « Ho scelto un uomo, e d’ora in poi non mi chiamerà più Baal. Toglierà dalla sua bocca il nome di Baal, e non se ne ricorderà più. Mi unirò a te per sempre, o uomo nuovo! Seminerò la tua stirpe per tutta la terra; avrò pietà di colui che non aveva conosciuto la misericordia; a quello che non era il mio popolo dirò: Popolo mio! E mi risponderà: Dio mio! ». – Anche Tobia a sua volta profetizzò eloquentemente, dal seno della cattività, ma la Gerusalemme che deve ricevere i Giudei liberati da Ciro scompare ai suoi occhi, alla visione d’un’altra Gerusalemme più splendente e più bella. « I nostri fratelli che sono dispersi – egli dice – ritorneranno nella terra d’Israele; la casa di Dio sarà ricostruita. Tutti quelli che temono Dio verranno a rifugiarvisi; anche i Gentili lasceranno i loro idoli, e verranno a Gerusalemme, e vi abiteranno, e tutti i re della terra accorsi per adorare il Re di Israele vi fisseranno contenti la loro dimora ». E se le genti debbono essere frantumate nella giustizia di Dio per i loro delitti, è solo per arrivare quindi alla felicità d’una alleanza eterna con Dio. Perché ecco quanto Egli stesso dice per bocca del suo Profeta Sofonia: « La mia giustizia sta nel radunare le genti e riunire in fascio i regni; ed affonderò su di esse la mia indignazione e il fuoco della mia ira; e tutta la terra ne sarà divorata. Ma poi darò ai popoli una lingua eletta, affinché invochino tutti il Nome del Signore, e portino tutti insieme il mio giogo. Fino al di là dei fiumi dell’Etiopia essi m’invocheranno, e i figli delle mie stirpi disperse verranno a portarmi degli splendidi doni ». – Il Signore aveva già proclamato i suoi oracoli di misericordia per bocca di Ezechiele: « Un solo Re comanderà a tutti, dice Dio, non vi saranno più due nazioni nè due regni. Essi non si contamineranno più coi loro idoli; nei luoghi stessi dove hanno peccato, Io li salverò; e saranno il mio popolo, e io sarò il loro Dio. Non vi sarà più che un solo Pastore per tutti loro. Farò con essi un’alleanza di pace, un patto eterno; li moltiplicherò, e il mio santuario sarà per sempre in mezzo ad essi ». – Per questo Daniele, dopo aver predetto gli Imperi che l’Impero Romano doveva sostituire, aggiunge: « Ma il Dio del cielo susciterà a sua volta un Impero che non sarà mai distrutto, e il cui scettro non passerà a nessun altro popolo. Questo impero sorpasserà tutti quelli che l’hanno preceduto, e durerà in eterno ». – Quanto ai perturbamenti che devono precedere l’avvento del Pastore unico e di quel santuario eterno che deve sorgere nel centro stesso della Gentilità, Aggeo li predice in questi termini: « Ancora un poco, e scuoterò il cielo, la terra e il mare; mescolerò tutte le genti; e allora verrà il Desiderato di tutte le genti ». Bisognerebbe citare qui tutti i Profeti per dare la rappresentazione completa del grande spettacolo promesso al mondo dal Signore il giorno in cui, ricordandosi dei popoli, doveva chiamarli ai piedi del suo Emmanuele. – La Chiesa ci fa ascoltare Isaia nell’Epistola della Festa e il figlio di Amos ha superato i suoi fratelli. Se ora prestiamo l’orecchio alle voci che salgono verso di noi dal seno della Gentilità, sentiamo quel grido d’attesa, l’espressione di quel desiderio universale che avevano annunciato i Profeti ebrei. La voce delle Sibille ridestò la speranza nel cuore dei popoli, e perfino nel cuore della stessa Roma il Cigno di Mantova (P. Virgilio M.) consacra i suoi versi più belli a riprodurre i loro consolanti oracoli: « È giunta – egli dice – l’ultima era, l’era predetta dalla Vergine di Cuma; sta per aprirsi una nuova serie di anni, e una nuova stirpe scende dal cielo. Alla nascita di questo Bambino, l’età del ferro finisce, e un popolo d’oro si appresta a scoprire la terra. Saranno cancellate le tracce dei nostri delitti, e svaniranno le paure che opprimono il mondo ». – E come per rispondere con sant’Agostino e tanti altri santi Dottori ai vani scrupoli di coloro che esitano a riconoscere la voce delle tradizioni antiche che si manifesta per bocca delle Sibille, Cicerone, Tacito, Svetonio, filosofi e storici gentili vengono ad attestarci che il genere umano, ai loro tempi, aspettava un Liberatore; che questo Liberatore doveva uscire non soltanto dall’Oriente, ma dalla Giudea; che erano sul punto di avverarsi i destini d’un Impero che doveva contenere il mondo intero.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: Breve « Neminem fugit »

In questa domenica dedicata alla festa della Sacra Famiglia di Nazaret, leggiamo parte della lettera Apostolica di S. S. LEONE XIII “Neminem fugit” nella quale appunto si elogia la Sacra Famiglia invitando tutti: padri, madri, figli, operai, ricchi, etc., a trarne esempio per la propria vita e renderla modello di operato cristiano. Quanto distante è il modello della famiglia cristiana dipinto nel quadro della povera abitazione di Nazaret, dai fallaci ed ingannevoli modelli prospettati dalle moderne ideologie (?!?) sostenute dai falsi prelati del satanico “novus ordo” modernista della setta vaticana degli impostori “marrani”, che propongono: “secondi matrimoni”, “divorzi cattolici brevi”, “unioni di fatto” compresi i rapporti impuri sodomitici contro natura, da sempre condannati dalla Chiesa Cattolica come “peccato che grida vendetta agli occhi di Dio”. Questa sovversione luciferina dei valori naturali, divini, ed ecclesiastici, viene sfacciatamente sbandierata come “rinnovamento” nella Chiesa, senza specificare però che si tratta della falsa chiesa dell’uomo, quella insediata in modo truffaldino il 26 ottobre del 1958 con il colpo di mano della massoneria degli Illuminati, diretta dal B’nai B’rith e dal Gran Kahal [evento ufficialmente rifiutato ma noto oramai a tutti: ad ipovedenti per convenienza, a miopi volontari, agli affetti da cataratta gnostica marcescens, ai cani in talare muti e dormienti, ai mercenari tronfi e grassi che aprono le porte ai lupi famelici mentre essi si affannano a contendersi l’osso nella scodella, agli adepti vari tra i quali i falsi tradizionalisti di ogni risma, gallicani, fallibilisti, sedevacantisti scismatici ed eretici tesisti]. – Per le orecchie cattoliche del pusillus grex, questa lettera è musica soave che dalle orecchie passa direttamente al cuore ed all’anima che vibrano all’unisono di intensa commozione perché sentono affermare e risuonare la VERITA’, l’unica Verità, la sola Verità che l’Uomo-Dio, Egli stesso VERITA’, Via di salvezza e Vita, ha da sempre insegnato attraverso la sua unica e vera CHIESA, la Chiesa Una, Santa, Cattolica Apostolica Romana, Sposa mistica di Cristo, Maestra infallibile e luce di tutti i popoli e di ogni uomo che viene in questo mondo …

LEONE XIII

Breve « Neminem fugit » 14 junii 1892 [ASS 25, 8-10]

Ex Lítteris Apostólicis Leónis Papæ décimi tertii

… Allorché giunse il tempo fissato dai suoi decreti per il compimento della grand’opera dell’umano riscatto, che i secoli da tempo attendevano, il Dio di misericordia ne dispose in tal guisa l’ordine e l’economia, che gl’inizi di quest’opera offrissero al mondo l’augusto spettacolo d’una Famiglia divinamente costituita, nella quale tutti gli uomini potessero contemplare l’esemplare più perfetto della società domestica e d’ogni virtù e santità. Tale fu infatti questa famiglia di Nazaret, in cui, prima d’irradiare su tutte le nazioni lo splendore della sua piena luce, il Sole di giustizia, cioè il Cristo Dio nostro Salvatore, dimorò nascosto colla Vergine sua Madre e Giuseppe, uomo santissimo, che ricopriva a riguardo di Gesù l’ufficio di padre. Quanto alle mutue prove d’amore, alla santità di costumi, all’esercizio della pietà nella società famigliare e nelle relazioni abituali di quelli che vivono sotto un medesimo tetto, non si può senza verun dubbio trovare a celebrare alcuna virtù che non rifulgesse in sommo grado in questa sacra Famiglia destinata a divenire il modello di tutte le altre. E la Provvidenza la stabilì così nel suo disegno pieno di bontà, perché tutti i cristiani, di qualsiasi condizione o patria, possano facilmente, se la riguardano con attenzione, avere e l’esempio di ogni virtù e un invito a praticarla. – I padri di famiglia hanno sicuramente in Giuseppe un modello ammirabile della vigilanza e sollecitudine paterna: le madri hanno nella santa Vergine, Madre di Dio, un esempio insigne di amore, di rispetto modesto e della sottomissione d’un’anima di fede perfetta: i figli di famiglia hanno in Gesù, sottomesso ai suoi genitori, un divino esempio d’obbedienza d’ammirare, onorare, imitare. Quelli che sono nati nobili, apprenderanno da questa Famiglia di sangue reale a conservare la moderazione nella prosperità e la dignità nelle afflizioni: i ricchi riconosceranno a questa scuola quanto siano da stimarsi meno le ricchezze che le virtù. Gli operai poi e tutti quelli che soffrono tanto per le angustie del sostegno d’una famiglia e d’una condizione povera, se guardano ai membri santissimi di questa società domestica, non mancherà loro né motivo né occasione di rallegrarsi della sorte loro toccata piuttosto che di rattristarsene. Difatti le fatiche loro sono ad essi comuni colla Sacra Famiglia, e comuni con essa le cure della vita quotidiana: anche Giuseppe dové provvedere guadagnandosi il pane, al sostegno dei suoi; e anzi, le stesse mani divine s’esercitarono al lavoro di un’arte meccanica. Non è dunque a stupire se uomini sapientissimi aventi copiose ricchezze, abbiano voluto rinunziarvi per scegliere la povertà e trovarsi uniti con Gesù, Maria e Giuseppe. – Per tutti questi motivi a buon dritto il culto della Sacra Famiglia, prontamente affermatosi fra i cattolici, ogni giorno più prende sviluppo. Come lo provano sia le associazioni cristiane istituite sotto il nome della Sacra Famiglia, sia gli onori singolari che le furono resi, e soprattutto i privilegi e favori spirituali accordati dai nostri predecessori per eccitare verso di essa lo zelo della pietà. Questo culto pertanto fu in grande onore fin dal secolo XVII, e propagato ovunque in Italia, Francia e Belgio si sparse quasi in tutta Europa; quindi valicate le immensità degli Oceani, si estese nella regione del Canada nell’America per fiorirvi sotto i più felici auspici. Niente infatti si può trovare di più salutare e più utile per le famiglie cristiane che l’esempio della Sacra Famiglia, la quale abbraccia la perfezione e l’insieme di tutte le virtù domestiche. Implorati così in seno alle famiglie, Gesù, Maria e Giuseppe verranno in loro aiuto, vi conserveranno la carità, vi regoleranno i costumi e ne provocheranno; membri ad imitarne la virtù e addolciranno o renderanno sopportabili le mortali prove che ci minacciano da ogni parte.

FESTA DELLA SACRA FAMIGLIA

FESTA DELLA SACRA FAMIGLIA

[Dom P. Guèranger: l’ANNO LITURGICO, vol. I, Ed. Paoline, 1957 – impr.]

Scopo di questa festa.

Fino a pochi anni fa era la Regalità di Cristo, il suo impero eterno che la Liturgia cantava in questa Domenica, unendo i suoi cantici a quelli dei Cori angelici nell’adorazione del Dio fatto uomo (Introito della Messa della Domenica nell’Ottava della Epifania). Ma la Chiesa, guidata dallo Spirito Santo e dalla sua materna sollecitudine, ha pensato che poteva essere opportuno invitare le generazioni del nostro tempo a considerare oggi le mutue relazioni di Gesù, di Maria e di Giuseppe, per raccogliere le lezioni che esse contengono e trarre profitto dai soccorsi così efficaci che offre il loro esempio (Martirologio romano). Il fatto che nel Messale è assegnato lo stesso brano evangelico alla Domenica nell’Ottava dell’Epifania e alla recente festa della Sacra Famiglia, non è stato senza influsso – si può supporre – sulla scelta del posto che occupa ormai nel calendario la nuova solennità. Questa d’altronde non distoglie completamente il nostro pensiero dai misteri del Natale e dell’Epifania: la devozione alla sacra Famiglia non è forse nata a Betlemme, dove Maria e Giuseppe ricevettero dopo Gesù, gli omaggi dei pastori e dei Magi? E se l’oggetto dell’odierna festa sorpassa i primi momenti dell’esistenza terrena del Salvatore e si estende ai trenta anni della sua vita nascosta, non si trovano forse già presso la mangiatoia alcuni dei suoi aspetti più significativi? Gesù, nella volontaria debolezza in cui lo pone il suo stato d’infanzia, si abbandona a coloro che i disegni del Padre suo hanno affidato alla sua custodia; Maria e Giuseppe esercitano, nell’umile adorazione riguardo a Colui che ha loro dato l’autorità, tutti i doveri che impone la loro sacra missione.

Modello del focolare cristiano.

Più tardi il Vangelo, parlando della vita di Gesù fra Maria e Giuseppe a Nazareth, la descriverà con queste sole parole: « Ed era loro sottomesso. E la madre custodiva nel suo cuore tutte queste cose, e Gesù cresceva in sapienza, in età e in grazia davanti a Dio e davanti agli uomini» (Lc. 2, 51, 52). Per quanto breve sia in questo caso il testo sacro, esso scopre tuttavia al nostro sguardo una luminosa visione d’ordine e di pace, nell’autorità, nella sottomissione, nella dipendenza e nei mutui rapporti. La santa casa di Nazareth si offre a noi come il modello perfetto del focolare cristiano. Qui Giuseppe comanda con la calma e con la serenità, perché ha coscienza, agendo in tal modo, di fare la volontà di Dio e di parlare in suo nome. Sa che riguardo alla sua castissima Sposa e al suo divin Figlio egli è molto inferiore, tuttavia la sua umiltà gli fa accettare, senza timore né turbamento, il compito che gli è stato affidato da Dio di essere il capo della sacra Famiglia, e come un buon superiore non pensa a far uso dell’autorità se non per adempiere più perfettamente l’ufficio di servitore, di suddito, di strumento. Maria, come conviene alla donna, rimane modestamente sottomessa a Giuseppe e, a sua volta, adorando Colui cui essa comanda, dà senza esitare gli ordini a Gesù nelle mille occasioni che presenta la vita di famiglia, chiamandolo, chiedendo il suo aiuto, affidandogli questa o quella occupazione, come fa una madre con il figlio. E Gesù accetta umilmente tale soggezione; si mostra sollecito ai minimi desideri dei genitori, docile ai loro minimi ordini. In tutti i particolari della vita ordinaria, egli, più abile, più sapiente, più santo di Maria e di Giuseppe, e benché ogni onore sia dovuto a lui, resta sottomesso a loro, e lo sarà fino ai giorni della sua vita pubblica, perché quelle sono le condizioni della umanità che ha rivestito e quello è il beneplacito del Padre. « Sì – esclama san Bernardo preso dall’entusiasmo davanti a spettacolo così sublime – il Dio al quale sono sottomessi gli Angeli, al quale obbediscono i Principati, le Potestà, era sottomesso a Maria; e non soltanto a Maria, ma anche a Giuseppe a motivo di Maria! Ammirate dunque l’uno e l’altro, e osservate ciò che vi sembra più ammirevole, se la benignissima condiscendenza del Figlio o la gloriosissima dignità della Madre. Motivo di stupore da entrambe le parti; miracolo sublime ancora da entrambe le parti. Un Dio obbedisce a una creatura umana: ecco un’umiltà che non ha riscontro; una creatura umana comanda a un Dio: ecco una sublimità che non ha uguali » ( Omelia I sul Missus est). – Salutare lezione quella che qui ci è presentata! Dio vuole che si obbedisca e si comandi secondo il compito e le funzioni di ciascuno, non secondo il grado dei meriti e della virtù. A Nazareth, l’ordine dell’autorità e della dipendenza non è lo stesso che quello della perfezione e della santità. Così avviene pure spesso in qualsiasi società umana e nella stessa Chiesa: se il superiore deve talvolta rispettare nell’inferiore una virtù più alta della sua, l’inferiore ha sempre il dovere di rispettare nel superiore un’autorità derivata dall’autorità stessa di Dio. – La sacra Famiglia viveva del lavoro delle sue mani. La preghiera in comune, i santi colloqui con i quali Gesù si compiaceva di formare ed elevare in maniera sempre crescente le anime di Maria e di Giuseppe, avevano un proprio tempo, e dovevano cessare davanti alla necessità di provvedere alle esigenze della vita quotidiana. Povertà e lavoro sono mezzi di santificazione troppo importanti perché Dio non li imponesse al piccolo gruppo benedetto di Nazareth. – Giuseppe esercitava dunque assiduamente il suo mestiere di falegname, e Gesù, appena sarà in grado di farlo, condividerà il suo lavoro. Nel II secolo, la tradizione conservava ancora il ricordo dei gioghi e degli aratri fabbricati dalle sue mani divine (S. Giustino, Dialogo con Trifone, 88). In quelle ore. Maria compiva tutti i suoi doveri di padrona d’una umile casa. Preparava i pasti che Giuseppe e Gesù dovevano trovar pronti dopo il lavoro, attendeva all’ordine e al disbrigo delle faccende, e senza dubbio – secondo l’usanza di quel tempo – provvedeva Ella stessa in gran parte ai vestiti suoi e della famiglia, oppure faceva per altri qualche lavoro il cui compenso sarebbe servito ad aumentare il benessere di tutti. Così, con la sua vita oscura ed attiva nella bottega di Giuseppe, Gesù ha elevato e nobilitato il lavoro manuale che è la sorte della maggior parte degli uomini. Assumendo per sé e per i genitori la condizione di semplice artigiano, egli ha meravigliosamente onorato e santificato la condizione delle classi lavoratrici, che possono d’ora in poi venire a cercare, in così augusti esempi, insieme ad un incoraggiamento nella pratica delle più nobili virtù, un motivo costante di soddisfazione e di felicità (Leone XIII, Breve Neminem fugit del 14 giugno 1892). Così ci appare la sacra Famiglia sotto l’umile tetto di Nazareth, vero modello di quella vita domestica con i suoi mutui rapporti di carità e le sue ineffabili bellezze, che è la sfera d’azione di milioni di fedeli in tutto il mondo; dove il marito comanda come faceva Giuseppe, la moglie obbedisce come faceva Maria; dove i genitori sono solleciti dell’educazione dei figli, e dove questi ultimi tengono il posto di Gesù con l’obbedienza, il progresso, la gioia e la luce che diffondono intorno a sé. Secondo l’espressione d’un pio autore che ci piace citare, il focolare cristiano, per le grazie che ogni giorno e ad ogni istante sono riversate dal cielo su di lui, per la moltitudine delle virtù che mette in azione e infine per la felicità di cui è lo scrigno, è « come il vestibolo del Paradiso » (Coleridge, La vita della nostra vita, ovvero la Storia di Nostro Signor Gesù Cristo, III, c. 16). Cosicché non c’è da stupire se esso forma l’oggetto di continui attacchi dei nemici del genere umano. E se questi riportano talora qualche notevole vittoria sul regno fondato quaggiù da Nostro Signore, ciò avviene « quando riescono a contaminare il matrimonio, a distruggere l’autorità dei genitori, a raffreddare gli affetti e i doveri che legano i figli al padre e alla madre. Non v’è invasione di orde barbariche avanzanti attraverso una fiorente regione che mettono a ferro e fuoco, che sia tanto odiosa agli occhi del cielo quanto una legge che sanzioni lo scioglimento del vincolo matrimoniale, o che sottragga i figli alla custodia e alla direzione dei genitori. In tutto il mondo per misericordia di Dio, la famiglia cristiana è stata stabilita e difesa dalla Chiesa come la sua più bella creazione e il suo più grande beneficio verso la società. Ora la luce, la pace, la purezza e la felicità del focolare cristiano, è derivato tutto dalla vita trascorsa da Gesù, Maria e Giuseppe nella santa casa di Nazareth.

Storia del culto.

II culto della sacra Famiglia si sviluppò particolarmente nel secolo XVI, sotto la forma di pie associazioni aventi come fine la santificazione delle famiglie cristiane sul modello di quella del Verbo incarnato. Questa devozione, introdotta nel Canadà dai Padri della Compagnia di Gesù, non tardò a propagarsi rapidamente grazie allo zelo di Francesco di Montmorency-Laval, primo vescovo di Quebec. Il virtuoso Prelato, con il suggerimento e il concorso del Padre Chaumonot e di Barbara di Boulogne, vedova di Luigi d’Ailleboùt di Coulonges, antico governatore del Canadà, eresse nel 1665 una Confraternita di cui egli stesso ebbe cura di stendere i regolamenti, e poco tempo dopo istituì canonicamente nella sua diocesi la festa della Sacra Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, disponendo che ci si servisse della Messa e dell’Ufficio che aveva fatto comporre per tale circostanza (Gosselin, Vie de Mgr. de Lavai, I, c. 27). – Due secoli più tardi, davanti alle crescenti manifestazioni della pietà dei fedeli riguardo al mistero di Nazareth, il papa Leone XIII, con il Breve « Neminem fugit » del 14 giugno 1892, istituiva a Roma l’associazione della Sacra Famiglia, con lo scopo di unificare tutte le Confraternite costituite sotto lo stesso nome. L’anno seguente, lo stesso Sommo Pontefice decretava che la festa della Sacra Famiglia si celebrasse nella terza Domenica dopo l’Epifania dovunque era stata concessa, e la dotava d’una nuova Messa e d’un Ufficio di cui egli stesso aveva voluto comporre gli inni. Infine Benedetto XV, nel 1921, rendeva obbligatoria la festa in tutta la Chiesa, e la fissava alla Domenica tra l’Ottava dell’Epifania (La Francia però festeggia la Sacra Famiglia nella seconda Domenica dopo l’Epifania, a motivo della solennità dell’Epifania che ha luogo oggi).

DOMENICA I DOPO L’EPIFANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Prov XXIII:24;25
Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te. [Esulti di gaudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato.]
Ps LXXXIII:2-3
Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit et déficit ánima mea in átria Dómini.
[Quanto sono amabili i tuoi tabernacoli, o Signore degli eserciti: anela e si strugge l’anima mia nella casa del Signore.]
Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te. [Esulti di gaudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato.]

Oratio
Orémus.
Dómine Jesu Christe, qui, Maríæ et Joseph súbditus, domésticam vitam ineffabílibus virtútibus consecrásti: fac nos, utriúsque auxílio, Famíliæ sanctæ tuæ exémplis ínstrui; et consórtium cénsequi sempitérnum:
[O Signore Gesú Cristo, che stando sottomesso a Maria e Giuseppe, consacrasti la vita domestica con ineffabili virtú, fa che con il loro aiuto siamo ammaestrati dagli esempi della tua santa Famiglia, e possiamo conseguirne il consorzio eterno:]

Lectio

[Ad Romanos, XII, 1-5]
Obsecro itaque vos fratres per misericordiam Dei, ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem, rationabile obsequium vestrum. Et nolite conformari huic saeculo, sed reformamini in novitate sensus vestri : ut probetis quae sit voluntas Dei bona, et beneplacens, et perfecta. Dico enim per gratiam quae data est mihi, omnibus qui sunt inter vos, non plus sapere quam oportet sapere, sed sapere ad sobrietatem: et unicuique sicut Deus divisit mensuram fidei. Sicut enim in uno corpore multa membra habemus, omnia autem membra non eumdem actum habent: ita multi unum corpus sumus in Christo, singuli autem alter alterius membra.

Omelia I

[Mons. Bobomelli, Omelie, vol. I, Torino, 1899]

Omelia XI.

– Vi esorto, o fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi in sacrificio vivo, santo, accettevole a Dio: ad offrire il vostro culto ragionevole. Non vi conformate a questo secolo; anzi riformatevi, rinnovando il vostro spirito, affinché conosciate quale sia la volontà di Dio buona, accettevole e perfetta. Perciocché in virtù della grazia concessami, io dico a tutti voi di non farla da savi più di quello che conviene, ma di essere savi con modestia secondoché Dio dà a ciascuno la misura della fede. Poiché come in un corpo abbiamo molte membra, ma non tutte le membra hanno la stessa operazione, così in molti siamo un corpo solo in Cristo, e ciascuno è membro l’uno dell’altro „ (Ai Rom. XII, vers. 1-5).

Così S.Paolo nei primi cinque versetti del capo XII ai Romani. — Nei capi antecedenti il grande Apostolo ha ragionato profondamente e a lungo della grazia di Dio, della sua gratuità e che nessuno può insuperbire dei doni ricevuti: in questi versetti discende alla parte pratica e tocca verità troppo necessarie a qualunque cristiano, qualunque sia il suo stato. Vi piaccia udirle e meditarle. “Vi esorto, o fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi in sacrificio vivo, santo, accettevole a Dio: ad offrire il vostro culto ragionevole.„ Due qualità soprattutto brillano nelle lettere dell’Apostolo, che sembrano ripugnanti tra loro, eppure in lui si accoppiano mirabilmente, e sono la forza del dire e la tenerezza dell’affetto, l’intrepidezza dell’Apostolo e il cuore del padre. Egli, come Apostolo, potrebbe comandare; invece preferisce esortare e supplicare, chiamando fratelli i suoi figli spirituali. Egli esorta, supplica, obsecro vos, fratres, per ciò che vi è di più commovente e di più dolce e caro, per la misericordia di Dio, per ciò che Iddio ha di più intimo, per la sua carità sì pietosa per noi. Vi piaccia, o dilettissimi, rilevare la differenza che corre tra l’autorità umana e civile e l’autorità sacra e religiosa. La prima riguarda solo gli atti esterni e si appoggia alla forza: la seconda entra nel santuario delle coscienze e domanda la persuasione e ritrae l’indole della autorità paterna. Perciò l’autorità sacra ed ecclesiastica, benché vera autorità e di tanto superiore alla terrena e civile, in generale rifugge dall’impero, dal costringimento, dal dominio, secondo le parole di Cristo e quelle del suo primo Vicario, che dissero di non esercitare il potere alla foggia dei re signoreggiando, ricordandoci che siamo fratelli e che chi comanda si governi come chi è soggetto. S. Paolo, ripieno di questo spirito di Cristo, scrive: “Fratelli, io vi scongiuro. „ L’Apostolo prega, non comanda! Questa idea sì sublime e sì bella della autorità fu portata sulla terra da Gesù Cristo. – Carissimi! Non sarebbe buona e santa cosa, allorché possiamo comandare ai nostri fratelli, imitassimo l’Apostolo, e invece li pregassimo e supplicassimo? Forse saremmo più prontamente e più soavemente obbediti. – E di  cosa S. Paolo prega e supplica i suoi fratelli? Egli li prega di offrire i loro corpi in sacrificio vivo, santo, accettevole a Dio. Presso gli Ebrei e presso gli stessi Gentili si offrivano moltissimi sacrifici; si svenavano buoi, agnelli ed altri animali. No, no, grida l’Apostolo: non sono questi i sacrifici che dovete offrire a Dio: offrite i vostri corpi stessi, dice S. Paolo. Ma dobbiamo noi uccidere i nostri corpi in onore di Dio? No, non occorre uccidere i nostri corpi, che sarebbe delitto: il nostro sacrificio, a differenza degli antichi, che non piacquero a Dio, deve essere sacrificio vivo. Non dobbiamo ferire od uccidere il corpo per compire questo sacrificio, ma dobbiamo ferire, e se fosse possibile, uccidere le nostre passioni, che si annidano nel corpo. Uccidiamo la superbia, l’avarizia, la lussuria, la gola, l’ira, tutte le malnate tendenze, che militano nel nostro corpo, ed avremo offerto un sacrificio vivo, santo, gradito a Dio. Vi furono e vi sono ancora alcuni, che abusando di alcune sentenze della S. Scrittura, dissero, doversi onorare Dio in ispirito e verità e gli atti esterni del corpo non giovare a nulla, ed essere quasi d’impaccio al culto dello spirito. Voi vedete che l’Apostolo qui vuole che offriamo a Dio i nostri corpi: dunque anche il culto esterno e materiale è gradito a Dio. E in vero: non è esso ancora congiunto allo spirito e da esso inseparabile? Chi offre il corpo e i suoi atti se non lo spirito? E poi il corpo non è esso pure dono di Dio? Perché non lo offriremo a Dio, restituendogli, quasi dissi, lo stesso suo dono? Certo è il sacrificio del cuore, dello spirito, che Iddio vuole principalmente, ma non senza del sacrificio del corpo, che deve seguire quello dello spirito. — Non basta. L’Apostolo vuole un altro sacrificio, “il sacrificio o culto ragionevole. „ Che è questo culto o sacrificio ragionevole? Noi abbiamo il corpo e nel corpo le passioni disordinate: al di sopra del corpo abbiamo l’anima, e il vertice, la punta dell’anima è la ragione, di cui siamo sì teneri e sì superbi. Ebbene anche questa ragione dobbiamo sacrificarla a Dio, che ce l’ha data. In che modo? Con la fede. Allorché ci si presentano i misteri della fede, la nostra ragione ricalcitra, si irrita, vorrebbe ribellarsi, perché non li comprende e si sente umiliata e ferita. Ma i misteri ci sono imposti da Dio, che ci fa udir la sua voce per mezzo della Chiesa: noi li dobbiamo ammettere e credere con tutta la certezza; ancorché in se stessi non li intendiamo. Con uno sforzo supremo, sorretti dalla grazia, noi diciamo a Dio: Non comprendo ciò che mi imponete di credere: sottometto la mia mente, ve ne fo il sacrificio e credo. — Ecco il sacrificio più nobile che l’uomo possa fare dopo quello delle sue passioni e della sua volontà, il sacrificio della mente! — E noi lo facciamo ogni volta, che diciamo il Credo. – Non vi conformate a questo secolo. „ Offrendovi totalmente, corpo ed anima a Dio, è impossibile, soggiunge l’Apostolo, che abbiate a seguire questo secolo. Con la parola secolo, qui come altrove, l’Apostolo, vuol significare il mondo con le sue passioni e con la sua corruzione. Lo storico Tacito prende la parola secolo nel senso di S. Paolo, dove scrive: ” Corrumpere et corrumpi sæculum vicatur — il secolo altro non è che corrompere e corrompersi. „ Magnifica definizione! Ah! no, noi non seguiremo questo secolo, non approveremo le sue massime, non praticheremo i suoi costumi, condannati da Gesù Cristo, “ma ci riformeremo, rinnovando il nostro spirito. „ Con queste parole S. Paolo ci esorta ad ordinare la nostra vita internamente ed esternamente secondo i principii insegnati da Gesù Cristo nel Vangelo. – L’uomo nuovo è Adamo giusto ed innocente; nuovo, perché fatto immediatamente da Dio: ma quell’uomo nuovo si è profondamente alterato e corrotto per il peccato: Gesù Cristo è venuto per rifarlo, per rinnovarlo in se stesso, illuminando la sua mente con la luce della verità, e creando nel suo cuore uno spirito nuovo, lo spirito della grazia. –  Figliuoli dilettissimi! Siamo noi simili al secolo, o siamo conformi a Gesù Cristo? La prova infallibile l’avremo nelle opere nostre: esse diranno se siamo discepoli del mondo o di Gesù Cristo. Se possederemo i principii, le verità predicate dal secondo Adamo, Gesù Cristo, potremo, continua S. Paolo, “giudicare qual sia la volontà di Dio buona, accettevole e perfetta.„ Al lume della fede, delle eterne verità insegnateci da Gesù Cristo ci sarà facile distinguere ciò che Dio vuole da ciascuno di noi: conosceremo chiaramente ciò che è bene, ciò che è meglio e ciò che è perfetto od ottimo, giacche sembra che questo voglia dire l’Apostolo con quelle tre parole volontà di Dio buona, accettevole, perfetta. Il Signore non vuole tutto da tutti egualmente: come nell’ordine naturale vi è la varietà dei doni, così vuole la stessa varietà nell’ordine sovrannaturale o della grazia. Questi vuole che vivano nel mondo, quelli chiama al chiostro: vuole che gli uni si santifichino in mezzo alle ricchezze, agli onori, nell’esercizio del potere e del comando; gli altri nella povertà, nelle umiliazioni, nell’ubbidienza; perché Egli, Iddio! è padrone de’ suoi doni e a Lui spetta determinare a ciascuno le vie che deve percorrere! Nostro dovere è quello di conoscere queste vie e metterci animosamente e confidentemente per esse per fare ciascuno la volontà di Dio. – Prosegue S. Paolo e dice: “Perciocché in virtù della grazia concessami, io dico a tutti voi di non farla da savi più di quello che conviene.,, Sono varie le grazie e vari gli offici che Dio dispensa secondo la sua volontà; a me ha concesso la grazia e il ministero dell’apostolato, e in virtù di questo ministero affidatomi, io dico e comando a voi tutti e singoli, senza distinzione, che cosa? “Di non farla da savi più di quello che conviene, ma di essere savi con modestia, secondoché Dio dà a ciascuno la misura della fede.,, – Questa espressione dell’Apostolo ebbe ed hai molte e varie interpretazioni, tutte buone per se stesse: ma mi sembra più naturale e migliore di tutte questa, che è confortata dall’autorità di S. Basilio e di S. Ambrogio. Sono varie e diverse le grazie di Dio, vari e diversi gli uffici, che affida agli uomini: ebbene! che ciascuno si contenga nel proprio ufficio e si guardi dall’invadere l’altrui. – Onde quella parola “secondo la misura della fede, „ si deve pigliare largamente, come se l’Apostolo dicesse: Ciascuno si contenga entro i limiti dei suoi doni e dell’ufficio suo, quale che esso sia. — Insegnamento fecondissimo di pratiche applicazioni è questo, o fratelli miei. Dio, che è la stessa sapienza e perciò lo stesso ordine, vuole che tutto sia ordinatissimo; perché tutto sia ordinatissimo e la terra rappresenti l’immagine del cielo e gli uomini abbiano in sé la somiglianza di Dio, è necessario che ciascuna creatura e ciascun uomo rimangano al proprio posto e adempiano le loro parti. Quando, o cari, una macchina lavora bene quando i singoli pezzi, ond’è composta, stanno al loro luogo e ciascuno fa la parte sua debitamente. Così la famiglia, la parrocchia, la società si trovano bene allorché i singoli membri stanno al loro posto e compiono a dovere il loro ufficio. Studiamoci, o cari, di mettere in pratica il documento dell’Apostolo e saremo buoni cristiani e buoni cittadini. Questa dottrina sì bella e sì naturale è illustrata dall’Apostolo con una similitudine a lui famigliare e che qualunque persona, anche di corta intelligenza, può facilmente comprendere. Eccovi la similitudine: “Poiché come in un corpo abbiamo molte membra, ma non tutte le membra hanno la stessa operazione,  così in molti siamo uno solo in Cristo; e ciascuno è membro l’uno dell’altro. „ – Vedete il corpo umano, dice S. Paolo: esso è un solo corpo, ma ha molte e varie membra, occhi, orecchie, lingua, capo, mani, piedi, e via dicendo. Ciascun membro poi ha il suo ufficio speciale, di vedere, di udire, di parlare, di reggere, di lavorare, di camminare: un solo corpo, e molte membra, e queste non contrastano tra loro, né l’occhio vuol udire, né l’orecchio vedere, né il capo ubbidire, né le mani camminare, né i piedi sostituirsi alle mani: tutte le membra attendono al loro ufficio e l’uomo se ne trova benissimo. Così, conchiude S. Paolo, debb’essere nel corpo di Cristo, che è la Chiesa. Ciascun membro, ossia ciascun cristiano, non si consideri come isolato, ma come membro dello stesso corpo, e il bene comune consideri come bene proprio, ed allora nessuno violerà i diritti altrui ed avremo nella Chiesa, nella parrocchia, nella famiglia, nell’individuo l’ordine più perfetto, e nell’ordine la pace, la carità e tutto quel benessere anche materiale, che è possibile su questa terra. Felici le famiglie, felici le parrocchie, felice la società tutta se la gran legge qui stabilita dall’Apostolo fosse debitamente osservata!

Graduale
Ps XXVI:4
Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. [Una sola cosa ho chiesto e richiederò al Signore: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita.]
Ps LXXXIII:5.
Beáti, qui hábitant in domo tua, Dómine: in saecula sæculórum laudábunt te. Beati quelli che àbitano nella tua casa, o Signore, essi possono lodarti nei secoli dei secoli.
Allelúja

Allelúja, allelúja,

Isa 45:15
Vere tu es Rex abscónditus, Deus Israël Salvátor. Allelúja. [Tu sei davvero un Re nascosto, o Dio d’Israele, Salvatore. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc II:42-52
“Cum factus esset Jesus annórum duódecim, ascendéntibus illis Jerosólymam secúndum consuetúdinem diéi festi, consummatísque diébus, cum redírent, remánsit puer Jesus in Jerúsalem, et non cognovérunt paréntes ejus.
Existimántes autem illum esse in comitátu, venérunt iter diéi, et requirébant eum inter cognátos et notos. Et non inveniéntes, regréssi sunt in Jerúsalem, requiréntes eum. Et factum est, post tríduum invenérunt illum in templo sedéntem in médio doctórum, audiéntem illos et interrogántem eos. Stupébant autem omnes, qui eum audiébant, super prudéntia et respónsis ejus. Et vidéntes admiráti sunt. Et dixit Mater ejus ad illum: Fili, quid fecísti nobis sic? Ecce, pater tuus et ego doléntes quærebámus te. Et ait ad illos: Quid est, quod me quærebátis? Nesciebátis, quia in his, quæ Patris mei sunt, opórtet me esse? Et ipsi non intellexérunt verbum, quod locútus est ad eos. Et descéndit cum eis, et venit Názareth: et erat súbditus illis. Et Mater ejus conservábat ómnia verba hæc in corde suo. Et Jesus proficiébat sapiéntia et ætáte et grátia apud Deum et hómines.” [Quando Gesú raggiunse i dodici anni, essendo essi saliti a Gerusalemme, secondo l’usanza di quella solennità, e, passati quei giorni, se ne ritornarono, il fanciullo Gesú rimase a Gerusalemme, né i suoi genitori se ne avvidero. Ora, pensando che Egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, dopo di che lo cercarono tra i parenti e i conoscenti. Ma non avendolo trovato, tornarono a cercarlo a Gerusalemme. E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio, mentre sedeva in mezzo ai Dottori, e li ascoltava e li interrogava, e tutti gli astanti stupivano della sua sapienza e delle sue risposte. E, vistolo, ne fecero le meraviglie. E sua madre gli disse: Figlio perché ci ha fatto questo? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, ti cercavamo. E rispose loro: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi di quel che spetta al Padre mio? Ed essi non compresero ciò che aveva loro detto. E se ne andò con loro e ritornò a Nazareth, e stava soggetto ad essi. Però sua madre serbava in cuor suo tutte queste cose. E Gesú cresceva in sapienza, in statura e in grazia innanzi a Dio e agli uomini.]
R. Laus tibi, Christe!

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Luca II, 42-52)

Perdita di Dio.

Maria e Giuseppe perdono il fanciullo Gesù, giunto all’età di dodici anni. Credevano, come ci narra S. Luca nell’odierno Vangelo, ch’Egli fosse in lor comitiva, insieme con altri molti della Galilea, che discendevano da Gerusalemme dopo la celebrazione d’una festa solenne; ma giunti ad un ospizio sull’imbrunir della sera, si mirano intorno e non veggono il divino Fanciullo. L’attendono ma inutilmente: ne domandano ai compagni del loro viaggio, ma nessuno ne sa dare conto: lo cercano fra gli amici e fra i congiunti, ma tutto è vano: immaginate qual dovett’essere il loro affanno. Pensavano bensì che qualche giusto e ragionevole motivo tratteneva Gesù da essi lontano; ma questo riflesso non era bastevole a consolarli. Oh con quanta amarezza passarono quella notte! Al primo spuntar del giorno si posero a rifare il cammino dall’ospizio a Gerusalemme, e al terzo dì finalmente lo ritrovarono nel Tempio, che in mezzo ai dottori li interrogava con loro stupore, e con meraviglia del popolo circostante. “Eh! figlio, prese a dirgli la Vergine Madre, figlio, io e il vostro nutrizio padre siamo andati in cerca di Voi con la mestizia nel volto e con la doglia nel cuore” : “Fili… pater tuus et ego dolentes quaerebamus te”. Maria e Giuseppe perdono Gesù e, come osserva il venerabile Beda con altri sacri espositori, lo perdono senza loro minima colpa, e pure tanto si attristano di questa perdita, e tanto si affannano per ritrovarlo. Quanto è mai diversa la condotta di molti cristiani! Perdono questi Gesù per propria colpa, perdono Dio e la sua grazia per lo peccato, e pur non si commuovono, non si contristano, non se ne pigliano pensiero. Così è: quanto sono sensibili e premurosi per la perdita di cose temporali, altrettanto sono stupidi e indolenti per la perdita di Dio. – E questo è appunto ciò che v’invito a meco compiangere, uditori devoti. Non ha bisogno di prova la prima parte del mio assunto; cioè, che per l’ordinario gli uomini della perdita dei beni terreni son tutti in pena ed in contristamento; pure diamo così di volo uno sguardo alle sacre pagine, per riscontrarne fra molti alcuni esempi. Perde Esaù la primogenitura, e alza clamori, e trae dal petto ruggiti a guisa di leone piagato a morte, “irrugiit clamore magno” ( Gen XXVII, 34) . Perde Cis le sue giumente, spedisce Saul suo figlio ad andarne in cerca. Saul, per quanto si aggiri per valli, per monti e per foreste, non gli vien fatto trovarle; e preso il consiglio del suo servo compagno, va a consultarne Samuele gran profeta in Israele. Perde il suo figliuol prodigo le sostanze assegnategli per sua porzione dal suo buon padre, ed è inconsolabile. Perde quel pastore, descritto in parabola nel santo Vangelo, una pecorella, e lascia nel deserto l’armento intero, e ne va in traccia per balze e per dirupi. Perde, a finirla, quella donna evangelica una dramma, moneta di poco valore, e mette tutta sossopra la casa finche non la ritrovi. Ma a che rammentar cose antiche? Non è questo il naturale effetto che producono nel cuor dell’uomo le cose smarrite? e la pena ordinaria di chi più o meno è attaccato ai beni di questa terra? Compatiamo la misera umanità, qualora per gravi infortuni è posta in cimento, qualora o per naufragio si perdono ricche mercanzie, o per sentenza contraria liti di somma importanza, o per prepotenza pingui eredità. Compatiamo ancora coloro, che per un anello, per un orecchino, per un fazzoletto ricorrono al parroco, acciò avvisi il popolo di quegli oggetti smarriti, e loro ricordi il proprio dovere per la necessaria restituzione. – Non si possono costoro né riprendere, né disapprovare, se usano diligenze, se adoprano mezzi per riavere ciò che hanno perduto. Ma di grazia perché almeno non si tiene questa pratica, quando per grave reato si perde Dio e la sua amicizia? Perché non si fa ricorso alla Vergine Madre, ai Santi del cielo, al confessore, acciò vi aiutino a ricuperare la grazia, e a riconciliarvi con Dio? Perché tanta sollecitudine per le perdite temporali, e tanta indifferenza, tanta freddezza per la perdita di Dio, perdita incalcolabile infinitamente maggiore della perdita d’un mondo intero? – Bramate sapere onde nasce tanta stupidezza? Ecco tre cagioni, alle quali, per ben comprenderle, vi prego porgere l’attento orecchio. La prima cagione, per cui, perduto Dio per lo peccato, non si sente il dolore di perdita, sì grande, è perché non c’è lume, non c’è fede, non c’è cognizione di Dio. Avviene a molti ciò che non di rado accade ad un fanciullo non ancor giunto all’uso di ragione. Perde questi una gemma preziosa, e non la cura, e non vi pensa: perde una carta dipinta, una palla da giuoco, un palco da trastullo, ed è inconsolabile, piange, singhiozza, pesta coi piedi la terra. Ed ecco il nostro caso. Perdiamo i beni fallaci, che un giorno bisogna lasciare, e siamo trafitti; si perde il sommo bene, ch’è Dio, e siamo insensibili. E fino a quando, o uomini già adulti e forse incanutiti, amerete ancora i pregiudizi dell’infanzia?Usquequo… diligìtis infatiam? ( Prov. I. 22) Se conosceste che dir voglia perdere Dio, piangereste a lacrime di sangue. La spada più acuta, che ferisce il cuor d’un dannato, la pena più atroce che lo tormenta, è quel fisso contristante pensiero, quell’interna voce di acerbo rimprovero, che gli dice ad ogn’istante: “ubi est Deus tuus?” dov’è quel Dio che ti creò, quel Dio che ti ha redento, quel Dio che ti voleva salvo? dov’è, infelice, tu l’hai perduto! “Ubi est Deus tuus?” Dov’è quel Dio che nello stato di tua dannazione è l’oggetto dell’odio tuo, e al tempo stesso lo scopo del tuo desiderio, come unico rimedio a’ tuoi tormenti, dov’è? Questo Dio non è più per te, non è più tuo. Conosci ora per tua pena quel che conoscere non volesti per tua malizia. – La seconda cagione dell’umana insensibilità nella perdita di Dio è una fiducia ingannevole, una speranza fallace di riacquistare Iddio perduto con una penitenza futura. È vero, dice colui, dice colei, che sono in disgrazia di Dio, ch’Egli contro di me è giustamente sdegnato; ma voglio ben io riconciliarmi con Lui; non voglio vivere in questo stato, in cui non vorrei morire: perciò dato ch’io avrò compimento ai miei affari, ultimato quel negozio, finita quella lite, collocata la famiglia, quando avrò un tempo più comodo, più quiete, penso ben prevalermene per ricuperare tanto bene perduto, e non perdere me stesso. Ahi miei cari, queste vostre proteste non fan che mitigare il rimorso di vostra coscienza, e il dolore della vostra perdita; vi lusingano, vi addormentano in seno al peccato, con una speranza tanto più traditrice, quanto più lusinghiera. Accade a voi come a quel giocatore, che sente meno la pena del danaro perduto, perché spera in un altro giuoco rifarsi del danno sofferto; e questa speranza per lo più moltiplica le sue perdite, e lo getta in rovina. E poi se in questo tempo che differite la vostra conversione vi cogliesse la morte, che sarebbe di voi? Oh allora presi dallo spavento, chiamato in nostro aiuto un confessore, più facilmente ci volgeremo a Dio con un cuor contrito, e pieni di fiducia nella sua misericordia. Non più, miei dilettissimi, non più: questo è il maggior degl’inganni. Questa, seducente speranza ha popolato l’inferno; Iddio, dice S. Agostino, vi promette perdono, se in tempo vi convertite, non vi promette né tempo, né perdono, se differite. – Ma torniamo al nostro argomento. La terza, forse più forte cagione della nostra insensibilità nella perdita di Dio, è perché, se si perde Dio in questa vita, pure si godè dello stesso Dio. E come? Ecco: tutti i beni, che anche dai peccatori si gustano su questa terra, sono altrettante stille emanate da quell’oceano immenso di bontà ch’è Dio. Il sole che c’illumina, l’aria che ci pasce, i fiori che ci dilettano, le piante che ci ricreano, i frutti che ci nutriscono, tutte insomma le creature, o inanimate o sensibili o ragionevoli, son tutti beni che discendono da Dio sommo bene; ond’è che se il peccatore perde Dio bene infinito, pur gode Iddio ne’ beni sparsi nelle sue creature, e non si avvede della perdita del fonte, perché si disseta ai ruscelli. Ma quando poi l’anima sciolta dai legami del corpo comparirà, spirito ignudo, abbandonato e solo, innanzi a Dio, conoscerà allora che Dio è l’unico bene; l’infinito bene; che fuor di Lui in quel nuovo inondo altro bene non v’è, con cui trattenersi, con cui sfamarsi. E perciò una delle due: o l’anima è amica dì Dio, e troverà in Dio come in suo centro ogni bene, o di Dio nemica, e da Lui ributtata e divisa, non avrà più un attimo, un’ombra di bene. Non più mondo in quel terribile istante, non più corpo, non più creature. Piaceri, onori, gradi, ricchezze, amici, congiunti, tutto è finito; Dio, Dio solo è l’unico eterno, incommutabile bene, e fuori di Lui né si può sperare, anzi né pur si può immaginare, o fingere un altro bene. – Vogliamo noi, uditori carissimi, aspettare al mondo di là a conoscer la perdita del sommo bene, che è Dio? Ah anime mie care non vi sarà allora più riparo all’inganno, più rimedio all’errore, non più tempo a profittevole ravvedimento. Dovremo allora esclamare con quel Sovrano, di cui parla la storia: “Omnia perdidimus”. Sedotto questi da lusinghiera beltà, e da furiose passioni invasato, corse a precipizio le vie del piacere, dell’errore e dell’empietà, e giunse in fine a quel termine da Dio a tutti costituito, al quale non si può passar oltre. Infermo, aggravato, giacente a letto, conobbe, come il grande Alessandro, che bisognava morire; “decidit in lectum, et cognovit quia moreretur” ( Mac. I), e data in giro una mesta occhiata a’ suoi favoriti, ahi me disgraziato! esclamò, che ho perduto la fede, la reputazione, l’amor de’ sudditi, la sanità, e fra poco sarò per perdere la vita, il regno, l’anima e Dio, “omnia perdidimus”. Tanto dovrà ripetere un’anima che abbia perduto Dio per colpa e per pena, “omnia perdidimus”. – Infelice pertanto chi aspetta a conoscere la sua disavventura quando non è più in tempo di ripararla. Infelicissimo chi aspetta a cercare Dio quando non si può più ritrovare. Cari ascoltanti, facciamo senno, ravviviamo la fede, apriamo gli occhi sul massimo nostro interesse. Ora in questo tempo accettevole, che ci accorda il pietoso Signore, andiamo in cerca di Dio, e sarà facile il trovarLo, “Quærite Dominum dum inveniri potest” (Isai. LV, 6). In punto di morte, ahi! che forse Lo cercheremo invano. No, peccatori fratelli miei, con Dio non si burla, “Deus non irridetur”. Cercate Dio in vita, perché in morte non lo troverete! Non son io che vel dico, lo dice a me, lo dice a voi l’infallibile Verità, lo dice Gesù Cristo, “quæretis me, et non invenietis” (Joan. VII, 34). E in un altro luogo ce lo ripete in termini di maggiore spavento: mi cercherete, e morrete in seno al vostro peccato: Quæretis me, et in peccato vestro moriemini (Joan. VIII, 21). – Che facciamo dunque? fino a quando noi stolti figliuoli degli uomini ameremo la vanità, e terremo dietro ai beni fuggevoli e bugiardi di questa terra? Deh! se ci cale l’eterna nostra salvezza, procuriamo essere di quella santa generazione, che altro non cerca, che Dio. Cerchiamo Dio sull’esempio e sulla scorta di Maria Vergine, e di S. Giuseppe, cerchiamoLo nel tempio ai piedi degli altari, a piedi dei suoi ministri; che poi dopo il breve corso di nostra vita Lo vedremo nel tempio della beata eternità, e al primo incontro sarà per noi oggetto di consolazione perpetua, come lo fu di temporanea alla Vergine Madre, ed al suo nutrizio padre. Che Dio ce ne faccia la grazia.

Credo …

Offertorium
Orémus
Luc II:22
Tulérunt Jesum paréntes ejus in Jerúsalem, ut sísterent eum Dómino.
[I suoi genitori condussero Gesù a Gerusalemme per presentarlo al Signore.]

Secreta
Placatiónis hostiam offérimus tibi, Dómine, supplíciter ut, per intercessiónem Deíparæ Vírginis cum beáto Joseph, famílias nostras in pace et grátia tua fírmiter constítuas. [Ti offriamo, o Signore, l’ostia di propiziazione, umilmente supplicandoti che, per intercessione della Vergine Madre di Dio e del beato Giuseppe, Tu mantenga nella pace e nella tua grazia le nostre famiglie.]

Communio
Luc II:51
Descéndit Jesus cum eis, et venit Názareth, et erat súbditus illis. [E Gesù se ne andò con loro, e tornò a Nazareth, ed era loro sottomesso.]
Postcommunio
Orémus.
Quos cœléstibus réficis sacraméntis, fac, Dómine Jesu, sanctae Famíliæ tuæ exémpla júgiter imitári: ut in hora mortis nostræ, occurrénte gloriósa Vírgine Matre tua cum beáto Joseph; per te in ætérna tabernácula récipi mereámur: [O Signore Gesú, concedici che, ristorati dai tuoi Sacramenti, seguiamo sempre gli esempii della tua santa Famiglia, affinché nel momento della nostra morte meritiamo, con l’aiuto della gloriosa Vergine tua Madre e del beato Giuseppe, di essere accolti nei tuoi eterni tabernacoli.]