DOMENICA DI SESSAGESIMA [2018]

Incipit 
In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLIII:23-26

Exsúrge, quare obdórmis, Dómine? exsúrge, et ne repéllas in finem: quare fáciem tuam avértis, oblivísceris tribulatiónem nostram? adhaesit in terra venter noster: exsúrge, Dómine, ádjuva nos, et líbera nos. [Risvégliati, perché dormi, o Signore? Déstati, e non rigettarci per sempre. Perché nascondi il tuo volto diméntico della nostra tribolazione? Giace a terra il nostro corpo: sorgi in nostro aiuto, o Signore, e líberaci.]

Ps XLIII:2 – Deus, áuribus nostris audívimus: patres nostri annuntiavérunt nobis. [O Dio, lo udimmo coi nostri orecchi: ce lo hanno raccontato i nostri padri.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui cónspicis, quia ex nulla nostra actióne confídimus: concéde propítius; ut, contra advérsa ómnia, Doctóris géntium protectióne muniámur. – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

[O Dio, che vedi come noi non confidiamo in alcuna òpera nostra, concédici propizio d’esser difesi da ogni avversità, per intercessione del Dottore delle genti. – Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. – Amen.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

2 Cor XI:19-33; XII:1-9.

“Fratres: Libénter suffértis insipiéntens: cum sitis ipsi sapiéntes. Sustinétis enim, si quis vos in servitútem rédigit, si quis dévorat, si quis áccipit, si quis extóllitur, si quis in fáciem vos cædit. Secúndum ignobilitátem dico, quasi nos infírmi fuérimus in hac parte. In quo quis audet, – in insipiéntia dico – áudeo et ego: Hebraei sunt, et ego: Israelítæ sunt, et ego: Semen Abrahæ sunt, et ego: Minístri Christi sunt, – ut minus sápiens dico – plus ego: in labóribus plúrimis, in carcéribus abundántius, in plagis supra modum, in mórtibus frequénter. A Judaeis quínquies quadragénas, una minus, accépi. Ter virgis cæsus sum, semel lapidátus sum, ter naufrágium feci, nocte et die in profúndo maris fui: in itinéribus sæpe, perículis fluminum, perículis latrónum, perículis ex génere, perículis ex géntibus, perículis in civitáte, perículis in solitúdine, perículis in mari, perículis in falsis frátribus: in labóre et ærúmna, in vigíliis multis, in fame et siti, in jejúniis multis, in frigóre et nuditáte: præter illa, quæ extrínsecus sunt, instántia mea cotidiána, sollicitúdo ómnium Ecclesiárum. Quis infirmátur, et ego non infírmor? quis scandalizátur, et ego non uror? Si gloriári opórtet: quæ infirmitátis meæ sunt, gloriábor. Deus et Pater Dómini nostri Jesu Christi, qui est benedíctus in saecula, scit quod non méntior. Damásci præpósitus gentis Arétæ regis, custodiébat civitátem Damascenórum, ut me comprehénderet: et per fenéstram in sporta dimíssus sum per murum, et sic effúgi manus ejus. Si gloriári opórtet – non éxpedit quidem, – véniam autem ad visiónes et revelatiónes Dómini. Scio hóminem in Christo ante annos quatuórdecim, – sive in córpore néscio, sive extra corpus néscio, Deus scit – raptum hujúsmodi usque ad tértium coelum. Et scio hujúsmodi hóminem, – sive in córpore, sive extra corpus néscio, Deus scit:- quóniam raptus est in paradisum: et audivit arcána verba, quæ non licet homini loqui. Pro hujúsmodi gloriábor: pro me autem nihil gloriábor nisi in infirmitátibus meis. Nam, et si volúero gloriári, non ero insípiens: veritátem enim dicam: parco autem, ne quis me exístimet supra id, quod videt in me, aut áliquid audit ex me. Et ne magnitúdo revelatiónem extóllat me, datus est mihi stímulus carnis meæ ángelus sátanæ, qui me colaphízet. Propter quod ter Dóminum rogávi, ut discéderet a me: et dixit mihi: Súfficit tibi grátia mea: nam virtus in infirmitáte perfícitur. Libénter ígitur gloriábor in infirmitátibus meis, ut inhábitet in me virtus Christi.”

Deo gratias.

Omelia I

[Mons. Bonomelli, Nuovo saggio di Omelie, Marietti ed. – Torino, 1899, vol. I, om. XXIII – imprim.]

“Essendo voi savi, volentieri sopportate gli insipienti. E invero, se alcuno vi tratta da schiavi, se alcuno vi divora, se alcuno vi raggira, se alcuno si innalza, se alcuno vi schiaffeggia, voi lo sopportate. Lo dico a vergogna, come se noi da questo lato fossimo deboli: eppure in ciò, onde altri si vanta (lo dico da pazzo), anch’io me ne vanto. Sono essi Ebrei? Io ancora. Son essi Israeliti? Io ancora. Sono progenie di Abramo? Io ancora. Sono essi ministri di Cristo? Parlo da pazzo: io lo sono più di loro: nei travagli più sbattuto, nelle carceri più macerato di loro, nelle battiture oltre ogni misura, spesso nelle fauci della morte. Dai Giudei cinque volte ricevetti quaranta colpi, meno uno; tre volte fui vergheggiato, una volta lapidato, tre volte naufragai, restando un dì ed una notte in balia del mare. Spesse volte in viaggi, in pericoli di fiumi, in pericoli di ladroni, in pericoli da quelli della mia nazione, in pericoli dai gentili, in pericoli in città, in pericoli in luoghi deserti, in pericoli in mare, in pericoli tra falsi fratelli: tra fatiche e calamità, in veglie, in fame e sete, in prolungati digiuni, in freddo e nudità: oltre alle cose esterne, l’ansia che porto di tutte le Chiese, mi stringe. Chi mai è debole, ch’io non sia debole con lui? Chi è scandalizzato, ch’io non ne bruci? Se conviene vantarsi, io vanterò gli effetti della mia debolezza. Dio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, che sia benedetto in eterno, sa ch’io non mentisco. In Damasco, il capo della mia nazione, governatore del re Areta, aveva poste guardie nella città dei Damasceni per pigliarmi. Ma io fui calato dal muro per una finestra, in una sporta e così scampai dalle sue mani. Se mette conto gloriarmi (non è certo spediente), verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un cristiano, il quale quattordici anni or sono, fu rapito (se nel corpo o fuori del corpo, io non lo so, lo sa Iddio) fino al terzo cielo; so che quest’uomo (se nel corpo o fuori del corpo, io non lo so, lo sa Iddio) fu rapito in paradiso e vi udì parole ineffabili, che a nessun uomo è lecito profferire. Io mi glorierò di quel tale, ma non mi glorierò di me stesso, se non nelle mie debolezze. Perocché s’io volessi gloriarmi, non sarei stolto, perché direi il vero; tuttavia me ne rimango, affinché altri non mi stimi da più di ciò, che vede in me, od ode cosa di me. E perché l’altezza delle rivelazioni non mi faccia salire in orgoglio, mi fu dato un pungolo nella mia carne, un ministro di satana che mi tormenti. Onde tre volte ho pregato il Signore perché quello si partisse da me, e mi disse: Ti basti la mia grazia, perché la potenza si compie nella debolezza. Di gran cuore adunque mi glorierò delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo alberghi in me „ (II. Cor. XI, 19-33; XII, 1-9).

Non ho potuto dispensarmi dal riportare tutto intero questo tratto abbastanza lungo della epistola odierna per attenermi alla consuetudine universalmente stabilita. D’altra parte in questo tratto dell’epistola, che avete udito, vi è tanta forza, tanto calore, tanto nerbo di eloquenza popolare e serrata da gareggiare con i sommi oratori, ed era mio dovere farvelo gustare nella nativa sua semplicità e robustezza. Si direbbe che in queste in due pagine il grande Apostolo volle versare tutta l’anima sua, anima di fuoco. – Voi comprendete che la strettezza del tempo non mi permette di commentare ad uno ad uno questi ventiquattro versetti, come siam soliti fare: in quella vece, assommando insieme le cose dette dall’Apostolo, mi studierò di cavarne alcuni punti, che ne sono come la sostanza e il succo, e li verremo meditando insieme. S. Paolo aveva fondato la Chiesa di Corinto, composta di gentili e in parte di Ebrei ivi stabiliti. Quella Chiesa era fiorente, come apparisce dalle lettere dell’Apostolo; ma ben presto vi nacquero dei partiti, per sopire i quali S. Paolo scrisse la sua prima lettera. Poco appresso vi si recò Tito e ne recò ottime notizie all’Apostolo; ma dovette pure riferirgli che a Corinto non erano interamente cessati i dissidi e che colà v’erano ancor molti, massime Ebrei convertiti, i quali combattevano lo stesso Apostolo, lo gridavano nemico di Mosè e delle istituzioni nazionali ed osavano mettere in dubbio la sua missione e dignità di Apostolo. – Scopo della lettera, particolarmente nella parte recitàtavi, è di mostrare con le opere la sua dignità di Apostolo e che non ha fatto meno degli altri, anzi più degli altri, e tesse a rapidi tocchi le incredibili fatiche e i patimenti senza numero e senza nome, che sostenne per la causa di Gesù Cristo e per la salvezza delle anime. Si direbbe che l’Apostolo volesse fare il più splendido panegirico delle proprie imprese e gloriose conquiste. Da tutto questo noi apprendiamo in primo luogo, che i maggiori santi, lo stesso Apostolo per eccellenza, permettendolo Iddio, quaggiù non vanno immuni dalle contraddizioni e dalle prove più dure. S. Paolo, quest’uomo meraviglioso per l’ingegno e per la tempra d’acciaio della sua volontà, in un istante si decide di lasciare il mosaismo, di cui era campione fanatico e si fa discepolo di Gesù Cristo: chiamato da Lui stesso all’apostolato, affronta ogni sorta di nemici, Giudei e gentili; soffre esili e carceri, è vergheggiato e lapidato: la sua è la vita più travagliosa che si possa immaginare: va da Damasco ad Antiochia, a Tarso, a Gerusalemme, in Arabia, ritorna a Gerusalemme; poi ripiglia i suoi viaggi nell’Asia Minore, a Cipro, in Grecia, in Macedonia, e poi rifà il viaggio per Gerusalemme, poi rivede le Chiese fondate e carico di catene è condotto a Roma. È quasi impossibile narrare tutte le fatiche e le opere apostoliche di quest’uomo straordinario. Eppure questo apostolo, questo vaso di elezione, non sfugge alle censure, alle accuse, alle calunnie dei Cristiani, forse da lui stesso convertiti: si vede caduto in sospetto di nemico di Mosè e della legge, di falso apostolo, è obbligato a difendersi e ricordare i titoli della divina sua missione. Quali conseguenze dobbiamo dedurre, o cari? Parecchie, e questa in primo luogo: che gli uomini stessi più virtuosi, più fedeli ai loro doveri, attese le debolezze, l’ignoranza e le passioni comuni, devono rassegnarsi a vedere bene spesso travisate le loro intenzioni, anche più rette, e non meravigliarsi d’essere fatti segno essi medesimi di calunnie e persecuzioni. Basti loro la testimonianza della coscienza retta dinanzi a Dio, e da Lui aspettino pazientemente la giustizia, che tardi o tosto deve pur venire. Tengano dinanzi agli occhi della fede l’esempio luminoso dell’Apostolo, che ebbe feroci avversari tra gli stessi Cristiani. In secondo luogo consideriamo qual fu la condotta dell’Apostolo accusato e calunniato. – Si danno casi, nei quali chi è accusato e calunniato può tacere e rimetter a Dio la sua causa; ma vi sono casi, nei quali l’accusato e il calunniato non solo può, ma deve difendersi e smascherare i suoi avversari e calunniatori. Allorché l’accusato o calunniato tiene un ufficio e ha bisogno della stima pubblica per adempirlo debitamente, e questa gli è tolta o scemata e ne deriva danno altrui, egli può e deve mettere a nudo le arti inique dei tristi, vendicare il suo buon nome e se occorre può tradurli anche dinanzi ai tribunali. S. Paolo, negli Atti apostolici, nelle sue lettere e segnatamente in questo luogo ce ne porge uno splendido esempio. Egli nella sua difesa non ebbe certamente di mira di confondere e svergognare i suoi avversari per il vile piacere di umiliarli, per un basso sentimento di vendetta: in quell’anima sublime siffatti sentimenti non potevano entrare: egli si propose soltanto di conservare al suo apostolato quell’onore e quella fiducia, che si richiedevano perché l’opera sua fosse fruttuosa: suo fine principale e santo era il bene e la salvezza delle anime: del resto non si curava punto. – Si dice, e meritamente, che la lode in bocca propria non istà bene: Laus in ore proprio sordescit. Nulla di più vero. Il sentimento della propria debolezza, il dubbio troppo ragionevole d’essere cattivi giudici in causa propria, la modestia più elementare, che si fa sentire e si impone anche ai più orgogliosi ci vietano di far le lodi di noi stessi sotto pena di cadere sotto il biasimo e le risa del pubblico. Ma talora può accadere che altri per difendersi e per mettere in luce la propria innocenza e procurare il bene altrui possa e debba anche ricordar quelle opere, che fruttano lode, e ciò senz’ombra di vanità o di arroganza; e in questa congiuntura si trovò S. Paolo allorché scrisse la seconda lettera ai Corinti! Egli non esitò punto a fare la storia del suo apostolato, che era la storia della sua conversione miracolosa, delle sue rivelazioni prodigiose, dei suoi dolori, delle persecuzioni sostenute, delle sue opere e del suo zelo instancabile. Tutto questo narra l’Apostolo, non per farsene un vanto, per menarne pompa innanzi ai Corinti, ma solamente per fiaccare la baldanza di coloro che si camuffavano da Apostoli di Cristo che mettevano in dubbio la sua missione e per tal modo fuorviavano i fedeli. Ed è sì vero che l’Apostolo non parlava di sé e delle cose sue per averne vana lode, che due volte protesta di far ciò a malincuore, e dichiara di parlare da stolto, quasi in insipientia, da pazzo; ma voi, dice altrove, voi a ciò mi avete costretto. Non è dunque cosa biasimevole, nè da persone vane parlare di sé e delle opere proprie meritevoli di lode quando sia necessario per difendere se stessi, salvare il proprio onore o procurare il bene delle anime. – Né S. Paolo si fermò a ricordare le sole opere del suo apostolato, delle quali quasi tutti erano testimonio: stringendo più davvicino i suoi avversari, non stette in forse di appellare ad altre e più gagliarde prove del suo apostolato, prove che a lui solo erano note e che i Corinti dovevano ammettere sulla sua parola, perché “Iddio sa ch’io non mentisco Scit quod non mentior. „ E qui S. Paolo parla del suo rapimento al più alto dei cieli e di cose là vedute ed udite, che a nessun uomo è dato di dire; afferma che è certissimo di questo fatto, avvenuto quattordici anni prima, ma che non saprebbe dire se sia stato rapito colassù con lo spirito, od anche con il corpo. Era questo, per sentenza di S. Paolo, il suggello supremo del suo apostolato e la prova massima della sua autorità. Ma pervenuto a questa prova massima della sua missione divina, a questo argomento sommo della sua gloria, S. Paolo ritorna sopra di sé, ricorda il proprio nulla e non vuole che altri lo stimi da più ch’egli non è. Si direbbe che l’Apostolo ad un tratto dalle altezze dei cieli precipita sulla terra e alle grandezze dei doni celesti ricevuti contrappone le debolezze e le miserie della sua natura. Egli parla di un pungolo della carne, di un ministro di satana, che lo schiaffeggia e tormenta: questo pungolo della carne e ministro di satana S. Paolo non disse che cosa fosse. Alcuni pensarono che fosse la concupiscenza, che lo travagliava; ma non sembra probabile che l’Apostolo parlasse di questa miseria umana e molto meno che potesse poi gloriarsene, come fa subito dopo. Si può dunque credere che accennasse a qualche grande tribolazione o dolore acuto che lo tormentava stranamente che noi ignoriamo e doveva essere noto ai Corinti. Era sì pungente questo dolore, che l’Apostolo dichiara d’aver pregato tre volte, cioè molte volte Iddio, affinché ne lo liberasse, ma gli fu risposto, probabilmente per ispirazione interna, che dovesse accontentarsi della grazia necessaria per sopportarlo, perché la potenza o la forza si compie e si affina nella debolezza. In un impeto di fede, di amore e di umiltà l’Apostolo esclama: “Di gran cuore adunque io mi glorierò nelle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo dimori in me. „ Condannati a soffrire nel corpo e nello spirito; messi continuamente alle prove più amare dai nemici esterni ed interni; travagliati da noie e timori d’ogni maniera, noi pure bene spesso gridiamo a Dio che ne liberi, e Dio sembra sordo alle nostre preghiere, e le nostre pene, le nostre amarezze continuano e forse crescono ogni dì. E perché? Perché per noi è bene il soffrire: ci tiene umili, ci fa sentire e conoscere il nostro nulla, ingenera in noi un santo timore, ci obbliga di ricorrere a Dio ed abbandonarci in Lui, ci stacca dalle cose della terra, ci porge occasione di meriti sempre maggiori. In mezzo pertanto alle nostre pene ed agli aspri combattimenti della vita, pieni di fiducia e di santa gioia esclamiamo con S. Paolo: “Di gran cuore mi glorierò nelle mie debolezze, affinché la forza di Cristo dimori in me! „

Graduale Ps LXXXII:19; 82:14

Sciant gentes, quóniam nomen tibi Deus: tu solus Altíssimus super omnem terram, [Riconòscano le genti, o Dio, che tu solo sei l’Altissimo, sovrano di tutta la terra.]

Deus meus, pone illos ut rotam, et sicut stípulam ante fáciem venti.

[V. Dio mio, ridúcili come grumolo rotante e paglia travolta dal vento.]

 Ps LIX:4; LIX:6

Commovísti, Dómine, terram, et conturbásti eam.

Sana contritiónes ejus, quia mota est.

Ut fúgiant a fácie arcus: ut liberéntur elécti tui.

[Hai scosso la terra, o Signore, l’hai sconquassata.

Risana le sue ferite, perché minaccia rovina.

Affinché sfuggano al tiro dell’arco e siano liberati i tuoi eletti.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.

Gloria tibi, Domine!

Luc VIII:4-15

“In illo témpore: Cum turba plúrima convenírent, et de civitátibus properárent ad Jesum, dixit per similitúdinem: Exiit, qui séminat, semináre semen suum: et dum séminat, áliud cécidit secus viam, et conculcátum est, et vólucres coeli comedérunt illud. Et áliud cécidit supra petram: et natum áruit, quia non habébat humórem. Et áliud cécidit inter spinas, et simul exórtæ spinæ suffocavérunt illud. Et áliud cécidit in terram bonam: et ortum fecit fructum céntuplum. Hæc dicens, clamábat: Qui habet aures audiéndi, audiat. Interrogábant autem eum discípuli ejus, quæ esset hæc parábola. Quibus ipse dixit: Vobis datum est nosse mystérium regni Dei, céteris autem in parábolis: ut vidéntes non videant, et audientes non intéllegant. Est autem hæc parábola: Semen est verbum Dei. Qui autem secus viam, hi sunt qui áudiunt: déinde venit diábolus, et tollit verbum de corde eórum, ne credéntes salvi fiant. Nam qui supra petram: qui cum audierint, cum gáudio suscipiunt verbum: et hi radíces non habent: qui ad tempus credunt, et in témpore tentatiónis recédunt. Quod autem in spinas cécidit: hi sunt, qui audiérunt, et a sollicitudínibus et divítiis et voluptátibus vitæ eúntes, suffocántur, et non réferunt fructum. Quod autem in bonam terram: hi sunt, qui in corde bono et óptimo audiéntes verbum rétinent, et fructum áfferunt in patiéntia.”

[“In quel tempo: radunandosi grandissima turba di popolo, e accorrendo gente a Gesù da tutte le città. Egli disse questa parabola: Andò il seminatore a seminare la sua semenza: e nel seminarla parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono; parte cadde sopra le pietre, e, nata che fu, seccò, perché non aveva umore; parte cadde fra le spine, e le spine che nacquero insieme la soffocarono; parte cadde in terra buona, e, nata, fruttò cento per uno. Detto questo esclamò: Chi ha orecchie per intendere, intenda. E i suoi discepoli gli domandavano che significasse questa parabola. Egli disse: A voi è concesso di intendere il mistero del regno di Dio, ma a tutti gli altri solo per via di parabola: onde, pur vedendo non vedano, e udendo non intendano. La parabola dunque significa questo: La semenza è la parola di Dio. Ora, quelli che sono lungo la strada, sono coloro che ascoltano: e poi viene il diavolo e porta via la parola dal loro cuore, perché non si salvino col credere. Quelli caduti sopra la pietra, sono quelli che udita la parola l’accolgono con allegrezza, ma questi non hanno radice: essi credono per un tempo, ma nell’ora della tentazione si tirano indietro. Semenza caduta tra le spine sono coloro che hanno ascoltato, ma a lungo andare restano soffocati dalle sollecitudini, dalle ricchezze e dai piaceri della vita, e non portano il frutto a maturità. La semenza caduta in buona terra indica coloro che in un cuore buono e perfetto ritengono la parola ascoltata, e portano frutto mediante la pazienza.”]

Lode a Te, o Cristo.

OMELIA II

[Mons. Bonomelli; op. cit. Omelia XXIV]

È questo, o figliuoli miei, il Vangelo, che la Chiesa ci fa leggere in questa Domenica e che io tolgo a commentarvi. Il significato della parabola, che avete udita, è certissimo, perché Gesù Cristo medesimo si compiacque porgerlo agli Apostoli, che gliene fecero domanda. Nulla di più semplice e di più istruttivo di questa parabola in ciascuna delle sue parti, e voi medesimi siatene giudici. – “Raccoltasi una grande moltitudine, e accorrendosi da tutte le città a Gesù, Egli disse in parabola. „ Gesù si trovava nelle parti di Galilea, sulle rive del lago di Tiberiade o Genesaret, presso alla cittadella o borgata di Cafarnao: da poco tempo aveva cominciato la sua predicazione. La fama dei suoi miracoli, la semplicità e la sublimità della sua dottrina, l’unzione della sua parola, che andava dritta al cuore, il tutto insieme della sua persona, da cui traluceva un raggio della nascosta divinità, commuovevano i popoli, che pieni d’un sacro entusiasmo lo seguivano dovunque e pendevano estatici dalle sue labbra. Quelle turbe, sì avide di udire la parola di Dio, ci danno un grande esempio e ci insegnano come dobbiamo accorrere noi pure ad udirla con amore e rispetto, allorché si annunzia nelle nostre chiese. È sempre la stessa dottrina che si annunzia, ancorché diverse siano le persone che ve la porgono. – Gesù prese a dire in parabola: “Uscì un seminatore a seminare il suo seme, e nel seminare una parte cadde lungo la via e fu calpestato e gli uccelli dell’aria lo mangiarono: ed altro ne cadde sopra dei sassi, e nato appena, disseccò per difetto di umore. Altro cadde in mezzo alle spine, e le spine, germogliate insieme, lo soffocarono. Altro poi cadde nella terra buona, e nato fruttò il centuplo. Dicendo queste cose, esclamava: Chi ha orecchi da udire, oda. „ Certamente questa parabola non era difficile ad intendersi, e perciò Gesù Cristo conchiuse, dicendo, chi ha orecchi da udire, oda; il che voleva dire, chi ha fior di mente, la mediti e la comprenderà. Ma crederei di non errare, affermando, che buon numero di quelli che ascoltavano Gesù Cristo, non compresero il senso della parabola, giacché, come tosto vedremo, gli stessi Apostoli confessarono di non averlo compreso. Che dovevano fare quelle turbe? Ciò che poco appresso fecero gli Apostoli, domandarne a Gesù stesso la spiegazione, che senza dubbio l’avrebbe data, come la diede agli Apostoli. Ma le turbe, per trascuratezza, o per orgoglio, o per altra cagione, non la chiesero e rimasero nella loro ignoranza. Dilettissimi! In ciò non imitiamole. Allorché alla mente nostra si affacciano difficoltà, che non possiamo da noi stessi sciogliere, dubbi che ci angustiano, che forse mettono a pericolo la nostra fede, chiediamo lume a chi può darcelo, e l’acquisto della verità sarà il premio della nostra umiltà. Dov’è l’uomo che conosca tutto? che non abbia bisogno di lume? che sdegni di ricorrere ad altri allorché n’abbia bisogno? Nessuna meraviglia adunque, che anche persone dotte ed alto locate abbiano bisogno d’essere ammaestrate in certe verità della fede, che ignorano o non conoscono chiaramente. Saranno dottissime nelle scienze umane, ma non di rado accade che nella scienza della religione siano meno istruite e bisognose d’essere meglio illuminate. Non arrossiscano di chiedere questo lume a chi può darlo. Ma quanto raramente ciò avviene! – I discepoli poi, trovatisi soli con Gesù, come narra S. Marco, gli chiesero che volesse dire quella parabola. „ Vedete umiltà e confidenza filiale dei discepoli! Non hanno capito il senso della parabola: non si vergognano di confessarsi ignoranti e pregano il divino Maestro ad illuminarli; ed Egli con paterna amorevolezza risponde: “A voi è dato conoscere il mistero del regno di Dio, „ cioè a voi spiegherò le cose occulte della mia dottrina, ossia il senso della parabola. “Agli altri parlo in parabole, sicché vedendo non vedano e ascoltando non intendano. „ Ma, come, o Signore? voi siete il maestro per eccellenza: voi siete venuto per istruire i poverelli e parlate in parabole, affinché vedendo non vedano, ascoltando non intendano? Voi dunque volete che rimangano nelle tenebre dell’ignoranza e che per essi sia inutile la vostra venuta, la vostra parola? Perché dunque predicate se non volete che vi intendano? — Voi comprendete che sarebbe bestemmia orribile il solo sospettare che Gesù parlasse in parabole per non essere inteso. Egli anzi parlava in parabole per acconciarsi alla loro debolezza: se avesse annunziata più chiaramente la verità, anche meno l’avrebbero intesa: la nascondeva sotto il velo della parabola per temperarne la luce, perché non li offendesse troppo vivamente e li allontanasse e così accrescesse la loro colpa. Parlava in parabole, perché chi le intendeva, ne traeva alimento di vita; chi non le intendeva, poteva domandarne la spiegazione e l’avrebbe avuta, e chi non la domandava, non si rendeva reo di maggior colpa, né correva il rischio di calpestare le perle. Dette queste parole ai suoi cari Apostoli, Gesù spiega la parabola. Udiamolo. “Il seme è la parola di Dio, „ cioè rappresenta la parola di Dio. Vediamo come il seme raffiguri la parola di Dio. Il seme si affida alla terra: posto sotto terra, riscaldato dal sole e irrigato dalla pioggia, mette le sue radici, si assimila la terra, cresce, germoglia il fiore e poi dà moltiplicato il frutto, che è sempre in ragione della fecondità del suolo che lo riceve, del calore del sole, dell’umido della pioggia e dell’opera che l’agricoltore vi spende intorno. – La parola di Dio, ossia la verità chiusa entro la parola di Dio, come il seme entro la sua corteccia, per l’orecchio discende al cuore: esso l’accoglie in sé, l’ama, la fa propria. Che avvien allora? Tra l’anima e la verità avviene un connubio misterioso sotto l’azione della grazia divina, che è luce e acqua fecondatrice. L’anima pensa, vuole, opera secondo la verità ricevuta; dirò meglio, la verità germoglia nell’anima, cresce, si ammanta di fiori, si copre di frutti, e i fiori e i frutti sono i pensieri, i desideri buoni, le opere sante. Un solo seme ci dà venti, cinquanta, mille frutti: una sola verità praticata dall’uomo, quanti pensieri ed affetti buoni e quante opere sante ci può dare! – La moltiplicazione del seme è opera del seme istesso e della terra, del sole e dell’acqua e del lavoro dell’industre agricoltore: le opere buone e sante sono il frutto della verità, della libertà umana, della grazia divina e della cooperazione dell’uomo. Senza il seme, senza la verità, nessun frutto: il seme senza la cooperazione dell’uomo rimane sterile ed infruttuoso. Voi vedete, o cari, come sapientissimamente Gesù Cristo sotto l’immagine del seme adombrasse la parola di Dio, o la verità, e sotto l’immagine del terreno raffigurasse il cuore umano. – Gesù prosegue e dice: “Quelli che sono lungo la via, sono quelli che ascoltano; ma dopo viene il diavolo e porta via dai loro cuori la parola, affinché col credere non si salvino. „ Il seme fu gettato e cadde in parte lungo la via, cioè sull’estremo lembo del terreno, dove passano gli uomini, e quello fu calpestato o mangiato dagli uccelli. Vi sono raffigurati quegli uomini, che ascoltano la parola di Dio, che ricevono la verità, ma non vi può mettere radice. Quanti, o cari, vengono in chiesa, ascoltano la parola di Dio, conoscono la verità e, uscendo di qui, più non se ne rammentano! E il seme calpestato sulla via o rapito dagli uccelli e dal demonio. Nostra prima cura pertanto sia quella di ricevere nel nostro cuore la parola di Dio e con essa la verità, di imprimervela fortemente, affinché il nemico non ce la involi e noi restiamo come la pubblica via, su cui non spunta mai il germoglio d’un granello. “Quelli poi di sopra i sassi, son coloro, ì quali, udita la parola, la ricevono con gioia; ma questi, non avendo radice, credono per poco e al tempo della prova si ritraggono. „ Fate che il seme cada in mezzo ai sassi, cioè in terreno petroso, con pochissimo fondo. Il seme, riscaldato dal sole, mette le prime barbe, spunta dal suolo, comincia a distendere le sue foglioline; ma, poi, riarso dal sole e non potendo ficcare le radici in terreno che lo alimenti, imbianca, intristisce e muore senza dare ombra di frutto. – Eccovi un’immagine della parola di Dio sparsa in certe anime, che l’ascoltano e la ricevono volentieri, ma senza energia, senza saldezza di volontà. La parola di Dio, ossia la verità, non può mettervi radici profonde; queste rimangono a fior di terra, senza umore, e prima di gettare il frutto, la povera pianticella inaridisce e muore. È necessario, o cari, che le verità della fede penetrino ben addentro nel terreno del nostro cuore, vi si abbarbichino fortemente mercé della volontà, che le abbracci, le ami e le faccia proprie: allora potranno soffiare i venti delle tentazioni e il nemico muoverci più aspra battaglia; ma reggeremo saldi alla prova. – “Il seme caduto nelle spine significa coloro che ascoltarono, ma dalle cure, dalle ricchezze e dai piaceri della vita restano soffocati e non portano frutto. „ Avrete rilevato certamente la gradazione della parabola: il primo seme cade lungo la via e non nasce nemmeno; il secondo cade un terreno petroso, nasce, ma muore tosto; il terzo cade in terreno, ma le spine lo soffocano. Non rare volte avrete visto sparso il buon seme in terra ferace: ma appena il buon seme spunta rigoglioso, ecco i cardi, le ortiche, le spine ed altre male erbe germogliare d’ogni parte e coprire e soffocare il buon seme, se la mano dell’agricoltore non le sbarbica prontamente. Le verità divine sono piantate nel nostro cuore mercé dell’istruzione: vi crescono vigorose e ben presto darebbero frutto abbondante; ma le cure delle cose terrene, la fame delle ricchezze, la sete dei piaceri, la febbre dell’ambizione, l’amore sregolato di noi stessi, in una parola, le passioni scomposte ci fanno perdere di vista le verità, non ce ne diamo più pensiero alcuno e rimangono nel nostro cuore come se non ci fossero. Come le male erbe rubano al buon seme il succo vitale e lo fanno miseramente perire, cosi le passioni, le cure mondane, i piaceri sensuali rapiscono all’anima le sue forze e condannano alla infecondità od alla morte il seme celeste della verità. Che fare? Ciò che fa il contadino, che taglia e svelle senza pietà le male erbe: tagliamo e, se è possibile, svelliamo i rei germogli delle nostre passioni, particolarmente dell’avarizia, della gola e della lussuria. “Il seme che cade in terra buona, significa coloro i quali, udita la parola, la conservano in un cuor retto e buono, e danno frutto con la pazienza. „ S. Matteo (XIII, 3, seg.) e S. Marco (IV, 3, seguenti) riferiscono più ampiamente questa parte della parabola e dicono che il seme caduto in buona terra fruttò dove il trenta, dove il sessanta e dove il cento per uno: qui san Luca dice in generale che diede frutto con la pazienza. Notate bene, o dilettissimi, le singole parole del Vangelo, perché non ve n’è una sola inutile. Gesù Cristo parla di coloro che ascoltano la parola di Dio e ricevono le verità, e sono come terra buona rispetto al seme si sparge. Chi sono costoro? Quelli che hanno un cuor retto e buono. Intendete, o fratelli miei? Cuor retto e buono hanno coloro che accorrono ad udire la parola di Dio per amore della verità, col desiderio vivo di abbracciarla e di farne tesoro, attuandola nelle opere; che non secondano una curiosità mondana, che non appuntano il ministro sacro che la annunzia, per alcuni difetti di forma, che guardano più ai modi che alla sostanza: cuor retto e buono hanno coloro che ascoltano docilmente, come gli Apostoli ascoltavano Gesù, e cercano solo di piacere a Lui e fare la sua volontà. Questi danno il frutto copioso, purché (ponete mente a quest’ultima condizione) abbiano pazienza: In patientia. – Il mettere in pratica le verità conosciute, massime in certi casi, è cosa ardua e domanda saldezza di propositi, costanza incrollabile e spirito di sacrificio a tutta prova. Per non venir meno in mezzo alle tante traversie della vita cristiana, non occorre il dirlo, si esige la pazienza: In patientìa; quella pazienza, alla quale sola, dice san Paolo, “è legato il conseguimento delle divine promesse.„

Offertorium

Orémus Ps XVI:5; XVI:6-7

Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine. [Rendi fermi i miei passi nei tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino. Inclina l’orecchio verso di me, e ascolta le mie parole. Fa risplendere la tua misericordia, tu che salvi chi spera in Te, o Signore.]

Secreta

Oblátum tibi, Dómine, sacrifícium, vivíficet nos semper et múniat.

[Il sacrificio a Te offerto, o Signore, sempre ci vivifichi e custodisca.]

Communio

Ps XLII:4

Introíbo ad altáre Dei, ad Deum, qui lætíficat juventútem meam. [Mi accosterò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut, quos tuis réficis sacraméntis, tibi étiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas. [Ti supplichiamo, o Dio onnipotente, affinché quelli che nutri coi tuoi sacramenti, Ti servano degnamente con una condotta a Te gradita.]

 

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA – 20 – : GNOSI ED ISLAM (4)

Gnosi, teologia di satana

“omnes dii gentium dæmonia

GNOSI ED ISLAM (4)

[da E. Couvert: “La gnose universelle”, cap. II]

Islam, veicolo della gnosi:

A. – Mediante la FILOSOFIA

Non c’è una filosofia araba e, non se ne dispiaccia Henry Corbin, non ci sono neppure filosofi islamici o musulmani. Gli scrittori musulmani che hanno compilato i commentari dei filosofi greci erano sia iraniani, come al-Ghazzali, al-Kindi, sia berberi, come ibn Tofail, ibn Badja, sia spagnoli come ibn Roschild, che gli occidentali hanno chiamato Averroè. Essi infatti non esprimono un pensiero personale, un pensiero autoctono elaborato secondo concetti originali. Essi si contentano di tradurre e commentare semplicemente i filosofi anteriori. Ora noi vedremo che essi sono in realtà prigionieri del pensiero neo-platonico, sprofondati nella gnosi manichea, quella che si era già diffusa in oriente attraverso il Buddhismo. – Gli arabi avevano stabilito dall’VIII al X secolo una scuola di traduttori ad Harran, a sud di Edessa, al confine tra Siria e Mesopotamia. Essi pretesero di risalire ad Ermete Trismegisto e ad Agathodaimon (il demonio buono?!?). Ora noi sappiamo che nei manoscritti dell’Asia centrale, Ermete è un avatar di Mani, che di la è passato presso gli Arabi ove è stato identificato come Idris o Hénoch. Il loro dottore più celebre, Thabit ibn Qorra (morto nel 901) aveva scritto e tradotto in siriaco, poi in arabo, un libro delle “Istituzioni di Ermete”, parafrasi della rivelazione do Ermete Trismegisto, già ben conosciuto. Egli aveva pure ugualmente tradotto in arabo delle opere di matematica ed astronomia. I Sabei avevano da parte loro inondato il mondo musulmano con molte opere dette “pseudoepigrafi”,  degli pseudo-Platone, pseudo-Plutarco, pseudo-Tolomeo, pseudo-Pitagora, etc., che furono la fonte di una vasta letteratura neo-platonica in Asia. Si deve a loro pure uno pseudo-Dionigi, attribuito a S. Dionigi l’Aeropagita. – Citiamo due pseudoepigrafi che ebbero un’incidenza considerevole in Occidente, e che hanno avvelenato le università cristiane. Il primo è una “Teologia detta di Aristotele”, tradotta in arabo da una versione siriaca del IV secolo. È questa una parafrasi delle tre ultime enneadi di Plotino, e cerca di dimostrare un accordo tra Platone ed Aristotele ponendosi alla base del neo-platonismo in Islam. Il secondo è il “libro sul bene puro”, tradotto in latino nel XII secolo da Gerardo da Cremona, con il titolo  “Liber de causis” o “liber Aristotelis de expositione bonitatis puræ”, ed è infatti un estratto dell’ “Elementatio théologica” del neo-platonico Proclo. Si è fatto credere a tutto il Medio-Evo che Aristotele fosse platoniano. I Sabei hanno ripreso cioè il metodo degli gnostici che consisteva nell’attribuire dei testi fittizi agli autori antichi celebri, per dar loro così una forte pubblicità. – Bisogna notare egualmente due opere ermetiche che furono molto lette in terra islamica: Il “Libro del Segreto della Creazione e tecnica della natura” attribuito dall’autore anonimo ad Apollonio di Tiane (Ma certamente, ritroviamo qui in fondo sempre gli stessi nomi visti nella gnosi). Esso contiene la celebre “Tavola di Esmeralda (Tabula smaragdina), e lo “Scopo del Saggio” (Ghâyat al Hakim), che offre informazioni sulla liturgia dei Sabei e tutto un insegnamento sul tema della “Natura perfetta”. La Natura perfetta è l’entità spirituale (Rûha-nîyar), l’Angelo del filosofo. Sohrawardi commenta questa visione di Hermés: è alla sua quiete che se ne va il pellegrino delle epopee mistiche persiane d’Attar. – Tutti questi testi insegnano null’altro che il panteismo della gnosi. Ascoltiamo Abû  Yasid … Bastamî: « io contemplavo il mio Signore con l’occhio della certezza dopo che mi ebbe allontanato da tutto ciò che è altro da lui ed illuminato della Luce. Egli mi fece allora conoscere le meraviglie del suo segreto, rivelandomi la sua ipseità (il suo Sé). Io contemplavo il mio “me” con la sua ipseità. La mia luce impallidì sotto la sua Luce, la mia forza svanì sotto la sua forza, la mia potenza cessò sotto la sua Potenza. Così io vedevo il mio “me” attraverso il suo Sé. La grandezza che io mi attribuivo, era in realtà la sua grandezza, la mia progressione era la sua progressione, etc. ». Si potrebbe continuare a lungo su questo tema dell’identificazione con il mondo divino. – Sohrawardi è vissuto nel XII secolo. Egli era nato nel 1155 a Soharaward, una città del nordovest dell’Iran nell’antica Media. Egli è discepolo di Hermès, di Platone, di Zoroastro. « C’era presso gli antichi Persi, scrive, una comunità che era diretta da Dio. È da lui che furono condotti degli eminenti saggi, a differenza dei Maguse. È la loro alta dottrina della Luce, dottrina che testimonia dell’esperienza di Platone e dei suoi predecessori, e che io ho resuscitato nel mio libro intitolato la “Teosofia orientale” (Himkat al Iskrak) ed io non ho avuto predecessori per un progetto tale ». Egli resuscitò dunque le dottrine dei Saggi della Persia concernenti i Principi della Luce e delle Tenebre ». Questa comunità della Luce, perseguitata dai Magi, adoratori del Fuoco, che avevano aizzato contro di essa il re sassanide, non è altro che la Chiesa manichea. – Sohrawardi aveva dapprima seguito la dottrina di Aristotele, ma ebbe una visione estatica. Anche egli fu “illuminato”. Gli viene mostrato la moltitudine di « questi esseri di luce che contemplavano Hermés e Platone e queste irradiazioni celesti, fonti della luce della gnosi e della sovranità della Luce di cui Zoroastro fu l’annunciatore ». Egli riprese la formula modificata di Socrate: « Svegliati a te stesso! » Egli insegnava una iniziazione progressiva per mezzo della conoscenza, una illuminazione con la quale l’anima conosce se stessa e conosce ogni cosa con la sua luce interiore. Così tutto è perfettamente gnostico. – Nel VI secolo l’imperatore Giustiniano aveva chiuso le scuole filosofiche di Atene. Il pensiero greco era emigrato in Siria, ad Edessa. I filosofi siriani l’avevano trasmessa agli arabi che ne pubblicarono i commentari a Bagdad: Al Farabi nel X secolo, Avicenna nel XI  secolo, Averroè nel XII secolo a Toledo in Spagna. – Ora il pensiero di Aristotele era stato rivoltato e falsato dalla pubblicazione di opere neo-platoniche che gli avevano attribuito i Sabei, di modo tale che la coesione del suo sistema metafisico era frantumata ed il miscelaggio mal fuso di tesi inconciliabili andava a sconvolgere l’insegnamento delle università cristiane. – Nel 1085, i cavalieri cristiani di Spagna, aiutati dai Crociati franchi in vista della “reconquista”, si impadronirono di Toledo e ne fecero la capitale del regno cristiano in modo tale che mai più i saraceni poterono riconquistarla. Fu allora che il vescovo francese Raymond de Sauvetat (1126-1151 circa) stabilì a Toledo un collegio di traduttori per riprendere nelle università d’Occidente il pensiero e la scienza degli arabi. Il giudeo Ibn Daoud traduce dall’arabo in “romanzo” (la lingua spagnola popolare) i libri arrivati da Bagdad. Eli ignorava il latino: è Gondisalvi che è un buon latinista, ma ignora l’arabo, a continuare l’operato e trascrivere il “romanzo” di Ibn Daoud in latino. – A partire dal XIII secolo, la filosofia di Aristotele, rivista e corretta dagli Arabi, si intrufola nelle università. Aristotele, come dice bene il p. Gabriel Théry, arriva a noi “non vestita con peplo o con toga, ma ricoperto da un mantello incappucciato e come copricapo un fez arabo”. Fu una vera conquista spirituale dell’Islam egli precisa. Ci fu così una vera rivoluzione nelle università. Il Medio-Evo viveva fino ad allora sulla filosofia di Platone: questi non vede nella natura se non dei segni il cui significato si trova nel mondo ideale, che sarebbe il solo reale, il mondo delle idee pure. Essa conduce dunque ad un simbolismo sistematico e delirante. Tutto è simbolismo, niente di questo mondo quaggiù è reale. È “il mito della caverna”, ben conosciuto. Si resta stupefatti davanti al successo di un pensiero sì assurdo e sì contrario al buon senso naturale. Ma Aristotele, al contrario, naturalista, considera che la natura è veramente reale e contiene in essa la sua intellegibilità. Si scopriva infine la natura che il XII secolo si contentava di interpretare simbolicamente. Aristotele usava la dimostrazione, processo proprio della ragione. La superiorità di questa metafisica razionale sui miti platonici era così grande che essa doveva necessariamente averne la meglio. Aristotele diviene infatti “il filosofo” per eccellenza. – Orbene, Aristotele era stato “rivisto e corretto” da Averroè; quest’ultimo aveva attribuito l’idea di un intelletto-agente unico per tutti gli uomini: « C’è, scrive Etienne Gilson, nella sua “Filosofia del Medio-Evo”, un solo ed unico intelletto-agente per tutta la specie umana, ed è per la sua azione in noi che pensiamo … l’immortalità non appartiene che a questo intelletto-agente comune a tutta la specie umana, cioè l’immortalità sparisce, e l’individuo in quanto tale svanisce al momento della morte ». Questo intelletto-agente unico non è altro che, in linguaggio scolastico, l’ “anima universale del mondo” insegnata dai nostri gnostici, “ … io non penso da me stesso, bensì mediante un’anima divina alloggiata in me. Le mie idee non sono l’opera elaborata da una facoltà intellettuale, esse sono ricevute da intelligenza divina che agisce in me. Esse sono dunque necessariamente vere. L’errore è impossibile. La nostra anima è una Spirito-Santo. Il nostro corpo non è che un carapace di materia unita temporaneamente ad un’anima universale. Al momento della morte, la nostra individualità scompare. È il ritorno al “niente”, il “Nirvana” dei buddhisti, seguito dal ripiombare nel Gran tutto. Non si potrebbe essere più gnostici di così! – ne seguiranno le conseguenze: se l’uomo non pensa da se stesso, non è padrone dei suoi atti. È l’anima universale o intelletto-agente che è il solo responsabile … non c’è il libero arbitrio. Applichiamo questo all’Islam. È Allah che interviene costantemente nella vita umana, secondo il suo beneplacito: « Noi abbiamo attaccato, dice il profeta, al collo di ogni uomo il suo uccello (il suo destino) ». « Allah, ci spiega Louis Gardet, è il solo essere ed il solo agente. Il creato non saprebbe avere un reale valore ontologico. Il bene ed il male non esistono nelle cose ma per il comando del Signore. E Allah guida nel bene che gli piace ed abbandona nel male chi a lui piace. » – Poiché non c’è attività spirituale propria a ciascuno, è la comunità, l’«umma» che pensa, che ha ricevuto il Libro. Non c’è magistero dogmatico nell’Islam, perché tutti pensano con lo stesso testo perpetuamente recitato. Per di più, non c’è una conoscenza “naturale” de mondo. Allah non ha dato agli uomini una natura intellegibile delle cose che ognuno deve “decifrare”, che deve “leggere” nelle creature (è questo il senso della parola “intellegere”). Non c’è una realtà permanente, coerente e significativa nel mondo creato. Dio solo può insegnare. Tutta la scienza della natura si riduce ad una fede ed è accettata senza un atto di comprensione naturale. – Allora ben si comprende che le autorità ecclesiastiche si siano inquietate per una tale invasione, sì contraria alle verità naturali ed alla fede cristiana. Averroé, il panteista! Averroé l’anticristo! Le condanne si sono moltiplicate contro la filosofia di Aristotele. Il vescovo di Parigi ha pubblicato delle sentenze di condanna, anche contro San Tommaso d’Aquino, all’inizio del suo insegnamento. Resta a gloria di San Tommaso l’aver compreso che bisognava innanzitutto ristabilire il vero pensiero di Aristotele e per far questo, era necessario ritrovare il testo iniziale. Egli ignorava il greco, ma ottenne la traduzione diretta dal greco in latino operata  da Guglielmo de Moerbeke. Ne sottomise il testo ad una esegesi rigorosa, letterale. Che differenza con quello di Averroé! Quest’ultimo apparve allora non come il commentatore eletto di Aristotele, bensì come il suo “depravatore”, il suo sovvertitore. Ci volle così un genio e Santo per “esorcizzare” in senso proprio Aristotele e “liberare” così l’Occidente da questa invasione gnostica sotto l’etichetta musulmana!

B. MEDIANTE LA LETTERATURA

I critici letterari che si sono dedicati seriamente al problema delle origini della letteratura medioevale, hanno notato con grande precisione l’apparizione improvvisa nel XII secolo di una epopea cortese e di romanzi cavallereschi, di cui non hanno potuto trovare le fonti nelle canzoni delle gesta e nelle epopee carolingie del secolo precedente. Essi hanno notato in tal soggetto, delle importanti strane novità nella scelta dei temi e nei modi di ispirazione tra le epopee franche ed i romanzi bretoni della Tavola Rotonda. – Louis Clédat, nella sua “Epopée courtoise” definisce così i due generi: « L’epopea cortese, leggera, brillante, piacevole ritratto delle feste di corte, dei tornei, delle spedizioni avventurose, che amavano moltiplicare le sorprese di un meraviglioso racconto delle fate, danno all’amore un posto preponderante; l’epopea nazionale, al contrario, grave, grandiosa, consacrata alle lotte nazionali, feudali o religiose, prende dalla religione le risorse della sua meravigliosa austerità, profondamente sprezzante delle passioni e delle delicatezze del cuore ». Si notano in questi romanzi del ciclo bretone, dei riquadri vivi, molto liberi in situazioni rischiose, con una compiacenza per il vizio. In Tristano, ad esempio, nessuna colpa per Isotta ed il suo complice, al contrario, entrambi sono vantati per la loro bellezza ed il loro spirito. Solo il re Marco è ridicolizzato. Si trova in questo romanzo una sorta di naturalismo tutto pagano, una finezza ed una cortesia ricercata nel disprezzo più odioso delle leggi morali e dell’insegnamento della Chiesa. Si è ugualmente sottolineato che non si ritrova in questi romanzi l’entusiasmo che suscitavano allora nei cavalieri franchi le lotte contro i saraceni, elemento che costituiva l’anima dei poemi carolingi; la cosa doveva far “drizzare le orecchie”. È nell’epoca in cui la cavalleria d’Occidente ingaggia i più energici combattimenti contro i saraceni, che una nuova letteratura si sforza di allontanare gli spiriti di nobiltà franca verso la vita raffinata ed effeminata delle corti d’amore. Si tratta dunque di un’operazione disarmante per gli spiriti, ben condotta secondo l’Oriente musulmano e che coincideva con l’invasione della nuova filosofia nelle nostre università cristiane. – Ora lo studio minuzioso delle fonti ci mostra che questa letteratura cortese è tutta estrapolata dagli scrittori musulmani del X e del XI secolo, ed è penetrata in Occidente dalla Spagna, così come la filosofia della stessa epoca. Si è notato ad esempio che il tipo del cavaliere errante, che raddrizza i torti, è tratto dal poema di Antar, raccolta di leggende risalente ad Haroun-al-Raschid, riunito sotto forma di romanzo da Erous Moyyed, medico e poeta, dedicato al visir di Zangui nel 1145. Autar, montato su di un cavallo [Abjer], è sempre pronto a sguainare la sua spada Dhamy gridando. “Io sono colui che ama Ibla”. Come ricompensa delle sue prodezze, il re Zoheir gli da il soprannome di Aboul-fauris, il padre dei cavalieri. Vi si trovano pure temi cortesi nel libro dei Re (Shah-nameh) di Firdousi, pubblicato nel 1010 e dunque anteriore alle prime epopee cavalleresche.

1°) L’amore cortese o “l’Eterno femminile”.

Nella storia degli gnostici, si vedono apparire, fin dalle origini, delle donne deificate: Simon mago viveva ad esempio con la famosa Elena di Tiro che personificava, egli diceva, l’Ennoia, cioè l’emanazione diretta di Dio; la fede in Elena ed in lui era la prima condizione per ottenere la salvezza. – Montano aveva le profetesse Priscilla e Massimiliana, porta voci dello Spirito-Santo. I catari ammiravano la loro dea, Esclarmonda de Foix. Petrarca vide apparire nel tempio di Santa Chiara, ad Avignone, la sua amica Laura; Boccaccio riceve la sua diletta Fiammetta (piccola fiamma!) nel tempio di Santa Chiara a Napoli; Dante trova anche la sua Beatrice in « un luogo in cui si cantano le lodi della regina della gloria ». Questa Beatrice è una sorta di dea che conduce il poeta attraverso il mondo della notte e degli eletti. Una certa Guglielmina era considerata all’epoca di Dante come un’incarnazione dello Spirito-Santo. Fra Dolcino si era aggregato una donna chiamata Margherita che egli chiamava sua “sorella spirituale”. Si potrebbe proseguire ancora per molto con il culto della donna divinizzata in tutta la tradizione gnostica attraverso i secoli. – Questo mito gnostico ci è tornato attraverso l’Islam, sotto forma di amor cortese cantato nella lingua d’oc dai trovatori. Si è cercato per lungo tempo donde venisse questo tema nel contempo erotico e religioso, sconosciuto prima del XII secolo nella nostra letteratura feudale. Due eruditi si sono dedicati al problema, Eugène Aroux, nel secolo scorso, e A. R. Nykl, più recentemente. Entrambi hanno riconosciuto in questa nuova moda letteraria una invasione del pensiero musulmano. – Nei poeti sufi, si trova dappertutto una mescolanza straordinaria, una singolare amalgama tra l’amore spirituale e l’esaltazione erotica. Gli annali di questa poesia che invoca sotto il nome di una donna la divinità stessa, di cui questa donna è il simbolo visibile, si aprono in Occidente con Platone che ha spiegato nel suo “Banchetto” che l’amore fisico degli esseri creati è il simbolo ed il primo grado dell’amore di Dio. – Si risale, in questa ricerca dell’amor cortese, a Ibn Dawoud che scriveva a Bagdad nel 910 un trattato sull’amore, il « Kitab-as-Zahra ». L’amore umano, egli dice è un male che bisogna dominare. È una fatalità fisica, una forza naturale, ineluttabile e cieca, senza ragione e senza scopo. È possibile ridurne i misfatti. L’atto carnale è reprensibile, il desiderio dominato è atto meritorio: « Quando anche la castità degli amanti, la loro lontananza dalla corruzione e la cura della loro purezza non fossero protetti dai precetti delle leggi religiose ed dal pregiudizio dei costumi, certo questo sarebbe ancora dovere di ciascuno, restare casto, alfine di eternizzare il desiderio che lo possiede con il desiderio che lo ispira ». Si riporta ugualmente un dialogo sull’amore tratto dai “Prati d’oro” di Mas’oudi, scritto nel VIII secolo. « L’amore emana dalla bellezza divina, dal principio sottile della sostanza. Colui che ama è illuminato da una fiamma interiore, tutto il suo essere risplende, le sue qualità lo pongono al di sopra degli altri uomini. L’amore non è vivificante se non per la sua sconfitta, non si compie che nella morte ». – A partire dal secolo XI, questa letteratura amorosa passa in Spagna. Ibn Hazm (994-1065) pubblica a Cordova il “Libro delle religioni e delle sette”. Nel 1022, a ventotto anni, egli redige “la collana della colomba”, ove si scopre tutto il linguaggio dei “fedeli d’Amore” della Linguadoca: lo zerbino, la sottomissione alla dama, il “lauzengier”, lodatore, la fedeltà, la malattia e la morte dell’amante. Questa sottomissione dell’amante alla sua dama è un omaggio platonico alla Bellezza, una esaltazione della dama divinizzata. « L’amante deve sottomettersi ai desideri della sua amata, come lo schiavo ed il domestico al suo padrone ». Il suo contemporaneo, Ibn Zaïdoun compone unicamente dei poemi alla poetessa Wallanda, figlia di un califfo, che era la prima “donna del suo tempo”. Nel secolo XII Abou Bekr Mohammed ibn Guzman celebra l’amor cortese in lingua araba popolare, il “zadjal” in cui mescola molte parole ed espressioni in linguadoca, cosa che suppone un pubblico mezzo arabo e mezzo cristiano. –  Questa letteratura appare infine in Francia, a Poitiers dapprima, portata dai cavalieri del conte Guglielmo.  Nel 1120 egli aveva condotto 600 cavalieri ad Alfonso il Battagliero, che aveva percorso con fulmineo percorso tutta la Spagna fino a Valenza e Grenada. Il conte Guglielmo aveva sposato una aragonese, la vedova di Sancio d’Aragona. Alla presa di Barbastro, gli autori arabi raccontano che i signori francesi si erano mostrati molto sensibili ai canti ed alle danze dei giovani moreschi e si erano comportati in maniera scandalosa. Nel corso di queste continue guerre, la due civiltà, l’araba e la cristiana, si sono compenetrate, soprattutto con i prigionieri ed i transfughi, anche attraverso i giudei. –  Per il platonismo dei sufi, come per i “fedeli d’amore”, si produce una vera trasmutazione dell’amore umano, che appare come un’emergenza divina. – Ascoltiamo questo testo significativo di Ahmed Ghazzali (morto nel 1126 in Iran) : « Quando l’amore esiste realmente, l’amante diviene il nutrimento dell’amato; non è l’amato il nutrimento dell’amante, ma l’amato non può essere contenuto nella capacità dell’amante … la farfalla che è diventata l’amante della fiamma, ha come nutrimento, benché ne sia distante, la luce di questa aurora. È il segno precursore dell’illuminazione mattutina che la chiama e l’accoglie. Ma essa deve continuare a volare finché non la raggiunge. Quando è arrivato non è più lui a progredire verso la fiamma, è la fiamma che progredisce verso di lui. . non è la fiamma che gli è nutrimento, è lui che è il nutrimento della fiamma. E la vi è un gran mistero. Un istante fuggitivo, diviene il proprio amato (poiché è la fiamma). E la sua perfezione è questa ». – Praticare l’amore è divinizzarsi. Non si tratta di un amore puramente spirituale, ma ben carnale. I testi dei poeti sufi e dei trovatori sono formali, le descrizioni sensuali ed erotiche vi abbondano. L’abbraccio amoroso provoca in tutto il corpo una esaltazione della sensibilità generale che dà l’impressione all’amante di oltrepassare la sua condizione semplicemente umana e di partecipare ad un atto divino. Ecco anche perché egli cerca anche di trovare la morte nell’atto stesso dell’amore per eternizzare questa intuizione divinizzante. Ma di fatto, contrariamente a quanto affermano i “Fedeli d’amore” l’unione carnale ha una finalità naturale che è la procreazione, cioè la partecipazione all’azione creatrice di Dio. In un certo senso questo atto è divino, in ogni caso è sacro. La Chiesa l’ha santificato con il Sacramento del Matrimonio, ma non lo divinizza. – Ora i “fedeli d’amore”, come i poeti sufi, vogliono togliere all’amore la sua finalità. Essi lo dicono puro e casto, cioè sterile. Essi parlano di un amore “da lontano”, diremmo oggi di “un abbraccio riservato”. È la forma di contraccezione dell’epoca. Unitevi nell’atto carnale, ma non date la vita, cercate piuttosto la morte! In più questo amore è sempre adultero e praticato fuori dal matrimonio. Esso né l’esatto inverso. Non ci si può opporre più efficacemente al piano di Dio che rifiutando di trasmettere la vita che si è ricevuta dai genitori. Solo lucifero, “omicida e menzognero” fin dall’inizio, può interessarsi ad un tale scimmiottare del vero amore così come lo ha voluto Dio.

2°) Il linguaggio degli Uccelli.

Nel suo desiderio di divinizzarsi, l’uomo cerca dei mezzi per salire verso l’azzurro e per confondersi con la Luce per raggiungere il suo soggiorno originale, il cielo, dal quale è ricaduto con una catastrofica caduta. Ecco un tema gnostico ben conosciuto. L’uomo vorrebbe essere un uccello: il suo volo nell’aria sembra sottrarlo alla gravità, nell’azzurro ed ai raggi del sole appare rivestito da un alone d’oro e di luce. Egli finisce per confondersi con il cielo stesso. Ecco un simbolo dell’anima che, chiusa nel suo carapace corporeo, ma ricoperto di piume alla maniera di Icaro, cerca di raggiungere il mondo divino dal quale è stato rigettato. – Si conosce il celebre testo di Chateaubriand, in René: « Spesso ho seguito con gli occhi gli uccelli di passaggio che volavano al di sopra della mia testa. Immaginavo i confini ignorati, i climi lontani, ove essi si recano. Avrei voluto essere sulle loro ali. Un istinto segreto mi tormentava. Mi sentivo io stesso un viaggiatore, ma una voce dal cielo sembrava dirmi: Uomo, la stagione della tua migrazione non è ancora giunta; aspetta che il vento della morte si alzi; allora tu deplorerai il tuo volo verso queste regioni sconosciute che il tuo cuore domanda. Levatevi presto, tempeste desiderate, ché dovete trasportare René negli spazi di un’altra vita. » Questo testo illustra bene quello di Al Gazzali, citato in alto, che ci mostra la farfalla, che con il suo volo si congiunge alla luce del mattino per confondersi con la fiamma che l’accoglie e nella quale si perde. – Ora i poeti musulmani hanno giocato in questo registro con molto virtuosismo. Il poeta persiano Farid al Din Attar ha scritto un poema intitolato “Il colloquio degli uccelli” (Mantic al Tayr). Sotto la guida dell’upupa, gli uccelli si mettono alla ricerca di Simurgh che essi hanno scelto per re. Tutti periscono nel corso di questa ricerca, salvo trenta di essi (“si” in persiano vuol dire trenta e “murgh” significa uccelli). Questi sopravvissuti finiscono per riconoscere la divinità in se stessi e vengono assorbiti nel Simurgh divino per annientamento (fanâ) della loro individualità materiale. – Questo poema ha delle grandi analogie con un’altra opera persiana: « La Rosa di Bakawali ». La rosa misteriosa proposta alla conquista dell’uomo, è Dio stesso. Vi si ritrova la dottrina dei Sufi: « Dio esisteva da solo all’inizio dei secoli, vi è detto. Egli era concentrato su se stesso. Il sole della sua sostanza era rimasto nascosto dietro il velo del mistero. Egli si compiaceva nel suo amore ma provò il desiderio di manifestarsi all’esterno. Volle mostrare la sua bellezza, far conoscere il vino del suo amore e mettere in evidenza il tesoro sacro della sua natura. A questo scopo creò l’universo. Fu così che l’unità di Dio andò a riflettersi nello specchio del niente ». Il mondo non è che lo specchio di Dio; esso è un puro niente, è Dio che si riflette su se stesso. Non si può essere più panteista! – Orbene, questa “Rosa di Bakawali” è l’ispiratore del celebre “ Romanzo della Rosa”. Questa rosa divina è posta al centro di un bel giardino che percorre Déduit, che “dalla terra dei saraceni, fece trasportare là questi alberi”. Precisiamo che gli uccelli, cantori dell’amore, vi gorgogliavano per invidia cercando di sperarsi l’un l’altro; « essi cantavano un canto tale come se fossero degli spiritelli”. Comprendere il linguaggio degli uccelli, è dunque prepararsi a raggiungere il “regno della luce”, il “Wonderland” che Michel Carrouges ci ha descritto con tanta minuziosa precisione nella sua “Mistica del superuomo”. – La religione musulmana è stata marcata, fin dalla sua apparizione, da una importante serie di deficienze fondamentali. Enumeriamole: – Nell’Islam non c’è culto sacrificale, dunque, non c’è sacerdozio, non sacrificio, non sacramenti, diciamo che non c’è niente di specificamente “sacro”. – Nell’Islam non c’è una dottrina, dunque non c’è magistero, non c’è insegnamento. – La recita cadenzata e bilanciata del Corano, i commentari sulle “Hadith” del profeta non possono certamente definirsi un insegnamento. – Nell’Islam non c’è la distinzione fondamentale tra l’ambito temporale e l’ambito spirituale. L’uno si riconduce all’altro e constatiamo che lo spirituale è dominato e schiacciato dal temporale. Di conseguenza non esiste affatto nell’Islam distinzione tra “foro” esterno degli atti umani e “foro” interno delle coscienze. – La moralità si riduce all’osservanza delle regole giuridiche e siccome vi è negato il libero arbitrio, l’ambito della coscienza personale è ridotto a niente. Ecco un handicap prodigioso per l’educazione della rettitudine di intenzione nella vita morale. – In tal modo, l’Islam non può essere definita una religione che in senso ristretto ed usurpato. Infatti esso “occupa il posto” di una religione per milioni di uomini da svariati secoli. Si comprende che con una tale deficienza di quasi tutto ciò che potrebbe costituire in “senso proprio” una religione, i popoli sottomessi all’Islam siano regrediti verso una semi-barbarie, in un abbrutimento generale degli spiriti ed una lunga sclerosi della civilizzazione. – In queste condizioni, l’Islam non poteva espandersi sui cristiani d’Europa che lo rigettano con orrore. – Gli scrittori musulmani hanno dovuto cercare altrove il loro nutrimento intellettuale, mentre i filosofi sono andati a trovare nel pensiero greco di che nutrire le loro meditazioni. Essi le hanno ritrasmesso all’Occidente la filosofia neo-platonica che le era stata data in pasto dai Sabei. I poeti ed i mistici sono andati a trovare nel Buddhismo di che alimentare i loro sogni o allucinazioni. Essi hanno trasmesso all’Occidente il panteismo insufflato dai Sufi. E dietro a loro, l’Occidente cristiano ha assorbito in parte questi due veleni. La filosofia realista di Aristotele e di San Tommaso non ha potuto imporsi definitivamente e, dopo Cartesio, viviamo nella più completa confusione di dottrine. La letteratura resta ancora oggi avvelenata da una nozione radicalmente contraria all’ordine naturale, come ha dimostrato Denis de Rougemont nella sua notevole opera: “L’Amore e l’Occidente”. – Infine, quando l’Occidente ha potuto riprendere il dominio politico e militare sul mondo arabo, l’Islam è stato capace di assimilare i progressi tecnologici, la potenza materiale, il lusso ed il confort delle sue classi dirigenti, ma ha rigettato con infallibile istinto, il Cristianesimo che gli era stato simultaneamente presentato. La “religione” musulmana resterà sempre l’ostacolo più radicale all’espansione della fede cristiana. –  L’Islam ha assorbito immediatamente il pensiero e le attitudini della massoneria, avendone in comune la profonda radice gnostico-giudaica, così come oggi assistiamo pure alla sua fusione con il “modernismo ecumenista del Vaticano II”, supportato dal finto tradizionalismo di facciata lefebvriano o sedevacantista [basti pensare ad esempio all’ignoranza in mala fede che fa passare, per gli allocchi inebetiti, il Corano nientemeno che … come libro di pace!!!], il c.d. “novus ordo”, con cui condivide il pensiero gnostico-talmudico base della nuova falsa religione universale noachide, fondata sul monoteismo luciferino, denominatore comune pure delle sette protestanti, delle pseudo-religioni orientali, e della ideologia massonica dominante, camuffata di volta in volta sotto l’abito comunista, liberista, radicale o finto-democratico, mondialista … pare proprio che tutte le vie portino all’inferno, ma … Illa conteret caput tuum!

[Continua… ]

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA -19- : GNOSI ED ISLAM (3)

Gnosi, teologia di satana

“omnes dii gentium dæmonia”

GNOSI ED ISLAM (3)

[da E. Couvert: “La gnose universelle”, cap. II]

Il panteismo dei sufi

Si pensa che la parola “sufi” venga da “suf” che vuol dire  “lana”, perché i sufi portavano il costume dei filosofi neoplatonici, dei gran mantelli di lana bianca, la khirka, un bastone e la lunga barba. Tuttavia è più logico vedervi la trascrizione del greco σοφος [sofos], saggio, che si ritrova in “faylasôf” dal greco φιλοσοφος [filosofos]. I dervisci ed i fachiri sono anch’essi dei sufi popolari. Essi si ritengono filosofi; infatti, essi sono mistici e contemplativi. Si pretendono musulmani; in effetti essi sono buddhisti. Tutti loro, come gli gnostici, ammettono una doppia dottrina, l’esoterica o interiore (batn), riservata agli iniziati, e l’essoterica o esteriore (zahar) per il volgare. Essi impiegano tutti i loro sforzi nel far concordare uno ad uno i loro principi con i dogmi maomettani, in maniera da stabilirne l’ortodossia agli occhi delle autorità musulmane. Ma è un concordismo artificiale che non inganna nessuno. – Un erudito del secolo scorso, specialista in letteratura sanscrita ed induista, M. Garcin de Tassy, ha riassunto in 9 proposizioni tutto l’insegnamento dei sufi:

1°) Dio solo esiste, Egli è in tutto e tutto è in lui e tutto è lui-stesso.

2°) Tutti gli esseri, visibili ed invisibili, ne sono una emanazione, « divinæ particula aureæ » e non ne sono realmente distinte.

3°) I sufi non sono soggetti alle leggi esteriori. Il paradiso e l’inferno, tutti i dogmi infine delle religioni positive non sono per i sufi, che delle allegorie delle quali essi solo conoscono lo spirito.

4°) Così le religioni sono indifferenti. Esse servono tuttavia come mezzo per giungere alla realtà. Alcune possono essere più vantaggiose di altre per raggiungere questo scopo, tra le altre la religione musulmana, della quale la dottrina dei sufi è la filosofia.

5°) Non esiste realmente differenza tra il bene ed il male, poiché tutto si riduce all’unità e così Dio in realtà è l’autore delle azioni dell’uomo.

6°) È Dio che determina la volontà dell’uomo e così quest’ultimo non è libero nelle proprie azioni.

7°) L’anima preesiste al corpo e vi è racchiusa come in una gabbia o in una prigione. La morte deve dunque essere l’oggetto degli auguri dei sufi, perché è allora che essi rientrano nel seno della divinità ed ottengono ciò che il buddhismo chiama il “nirvana”, cioè l’annientamento in Dio.

8°) È con la metempsicosi che le anime che non hanno raggiunto la loro destinazione quaggiù, sono purificate e diventano degne di essere riunite a Dio.

9°) La principale occupazione dei sufi deve essere la meditazione sull’unità con l’avanzare progressivamente attraverso i vari gradi della perfezione spirituale alfine di morire in Dio e raggiungere fin da questo mondo l’unificazione in Dio. »

È sufficiente comparare queste nove proposizioni con quelle sviluppate nello studio di base sulla « Gnosi, tumore in seno alla Chiesa » [vedi al n. 7 di “Gnosi, teologia di satana”/Exsurgatdeus.org.], per constatarne la sostanziale identità. I sufi sono semplicemente degli gnostici formati dal buddismo. Essi insegnano a disprezzare tutto ciò che è terreno, a dirigere la propria anima solamente verso ciò che esiste: l’Essere divino, a spogliarsi, a sganciarsi dall’apparenza dell’esistenza personale per associarsi all’esistenza divina, la sola reale, ad inebriarsi della bevanda stupefacente della bellezza della luce divina. » Il sufi deve assorbirsi in Dio. I poeti arabi sufi scrivono: « Purificati da ogni attributo di “me”, alfine di percepire la tua essenza brillante. » – « Lasciatemi diventare inesistente, perché la non-esistenza mi grida con gli accenti di un organo: è a lui che noi torniamo. » – « Realizza nel tuo cuore la conoscenza del Profeta, senza libro, senza maestro, senza istruttore. » Si potrebbero moltiplicare le formule di questo genere … ci troviamo in una terra pienamente conosciuta: la gnosi buddhista!  – Questa dottrina “esoterica” dell’Islam non è altro che il panteismo indiano. Vi si ritrovano gli errori del Vedanta che insegna, secondo Vyaçadavera, l’unità di tutti gli esseri, quelle del Sankia che insegna secondo Kapila il “niente delle cose visibili”. – Si è costituito ai limiti del mondo musulmano e del mondo buddhista una zona intermedia, una sorta di marchio, o delle sette miste, semi-buddhiste, semi-musulmane, che hanno avvicinato gli elementi opposti delle due religioni, ad esempio i Kabir-panthis ed i Sikh. I musulmani dell’India rendono un culto uguale ai loro santi Muin-uddin e Marçud Gazi, ed ai santi indù, Kabir e Ramanand. Un sufi indiano, Sabjani, faceva con tanto ardore sia il pouja (adorazione) ed il dandawai (prosternazione) nella pagoda, sia le preghiere musulmane nelle moschee. I sufi hanno ripreso la posizione raccolta dei monaci buddisti per meditare: « Resta raccolto come il bambino nel seno di sua madre », dice l’autore del « Mantie Uthar », un persiano. È la posizione che vi prepara al ritorno nella “terra-matrice” originale della vita, la γἤ μἡτηρ [ghe meter] degli gnostici. – Per i sufi musulmani, tutti gli esseri sono della stessa natura, la metempsicosi permette di passare da un corpo umano ad un corpo animale, ad una pianta, etc. … – Ci piace citare, in questa occasione, una seduta di dervisci urlanti e girovaghi che Teofilo Gautier ci ha descritto al suo ritorno da un viaggio in Oriente. Egli era andato, come molti romantici, alla ricerca della “religione primitiva”. Il suo viaggio era una sorta di “pellegrinaggio alle fonti”. La scena si svolge a Costantinopoli. Egli ci mostra dapprima i dervisci riuniti intorno all’imam, che scuotono la testa in avanti ed indietro e vice-versa, poi accelerando i movimenti e traendo dal petto urla rauche e prolungate che non sembrano appartenere alla voce umana: «L’ispirazione arriva poco a poco, gli occhi brillano come pupille di bestie feroci in fondo ad una caverna,  ed una schiuma da epilettico compare alle commessure della labbra, i volti si decompongono e rilucono di livore sotto il sudore; tutta la fila si piega e si alza sotto un soffio invisibile come delle spighe sotto un vento di tempesta e sempre, ad ogni slancio, il terribile grido: « Allah! Hou! », si ripete con energia crescente … »  Questa passionalità, che si pretende mistica, infatti, è evidentemente bestiale, un ritorno all’animalesco prima di divenire un niente ed imputridire sotto terra. – In questo momento, Gautier nota, tra gli spettatori, due religiosi cappuccini che ridono sotto la barba. Allora la sua collera scoppia « oh! Ridete! Essi non pensano di essere, egli dice, dei dervisci cattolici, che si mortificano in diverso modo per avvicinarsi ad un dio diverso … Io comprendo i preti di Athis, il fachiro indù, il trappista ed il derviscio che si torce sotto l’immensa pressione dell’eternità e dell’infinito cercando di placare il dio sconosciuto con l’immolazione della propria carne e le libazioni del proprio sangue. Questo derviscio che faceva ridere i cappuccini, mi sembravano belli con la loro figura allucinata, come il monaco di Zurbarano, livido per l’estasi, e che lascia brillare sulla sua ombra una bocca che prega e due mani eternamente giunte ». Teofilo dunque è incapace di distinguere un ritorno all’animalità più grossolana e violenta da una spiritualizzazione del corpo mediante la preghiera e la meditazione … c’è una confusione assurda tra la verità mistica che eleva a Dio, e la sua contraffazione diabolica che abbassa e riduce al livello della bestia. Ci vuole una forte miopia intellettuale e spirituale per non capirne la differenza!

Le sette gnostiche nell’islam

Oltre ai sufi, che sono i veri gnostici dell’Islam, si deve notare ancora la presenza in terra musulmana di comunità gnostiche antiche, già fiorenti prima della nascita e l’espansione del Maomettismo e che sono sopravvissute penosamente ripiegandosi su se stesse: questi sono i Druzi, gli Ansariati, gli Yezidi. Oggi queste comunità hanno perso il senso della loro antica dottrina. Il maggior numero di questi settari, vivono miseramente, spacciandosi e cercando di passare per musulmani agli occhi delle autorità, prendendo dall’Islam qualche pratica esteriore che non li turbi. Ma essi sono in realtà pieni di disprezzo per i musulmani, si odiano a vicenda e non si uniscono che nell’odio comune verso i Cristiani. – Gli Yezidi sono gli ultimi eredi dei Mandei; essi erano numerosi un tempo in Babilonia, se ne trovano in Siria. La loro dottrina è quella di Mani. Essi dichiarano di seguire l’insegnamento di Addo, che fu il loro fondatore ed il discepolo preferito di Mani. Essi praticano un battesimo per immersione, tolgono le scarpe e baciano il sole quando entrano in una chiesa cristiana, fanno il segno della croce. Nella loro liturgia hanno conservato la cena eucaristica, credono che il vino contenga il sangue di Cristo, adorano un Dio supremo e rispettano Gesù-Cristo come un Salvatore. Si prostrano davanti al sole al suo sorgere come simbolo di Gesù. Li si accusa di rendere un culto al diavolo: essi rispondono che hanno un gran rispetto per satana che essi chiamano “il serpente della sera”, o il “principe delle tenebre”, talvolta pure Sheik Maazen. Essi affermano che il serpente è un angelo decaduto, contro il quale è scoppiata la collera di Dio; ma che, alla fine dei tempi, sarà ristabilito nel favore divino. La loro mozione del male è derivata dall’Arimane degli antichi maghi e dalla divinità secondaria dei Manichei. Essi parlano tra di loro il curdo: sono infine degli gnostici Manichei, rimasti molto vicini al Cristianesimo con il loro culto e le tradizioni liturgiche. Potrebbero essere considerati come gli ultimi cristiani ofiti o naasseni. – I Druzi pure hanno conservato una tradizione gnostica, si dicono discepoli di un califfo dell’Egitto, Hakem (996-1020), mostro di crudeltà che essi considerano come una divinità e che tornare alla fine dei tempi. Essi professano la metempsicosi, adorano il vitello, si dividono tra iniziati, gli “akkals”, coloro che sanno, e coloro che ignorano, i “djahels”. Essi sono pieni di odio verso i cristiani. Sono sempre stati all’origine dei massacri dei cristiani in Siria nel corso dei secoli. Gérard de Nerval, che voleva sposare la figlia di uno sceicco druizo, nel corso del suo viaggio in Oriente, non potette ottenere la mano della figlia, se non mostrando al padre che egli affiliato alla granco-massoneria e questa affiliazione cancellava dunque in lui la ricezione del battesimo cristiano. – Gli Ansariati, chiamati anche Nosaïri o piccoli cristiani, abitano la Siria del nord, nelle montagne intorno al golfo di Alessandretta. Essi sono biondi con occhi azzurri, sembrano venuti dalle Indie. Essi sono indo-europei e non semiti; si sottomettono in apparenza alle pratiche esteriori dell’Islam, ma il loro vero culto è una iniziazione “gnostica”, che comincia con la rivelazione del “mistero dei due”; adorano una divinità in cinque persone e si prostrano anche davanti agli alberi, al sole, alla luna, riveriscono gli animali, particolarmente il cane. Professano la metempsicosi; sono un residuo delle comunità manichee e buddhiste in ambito musulmano.

Islam, veicolo della gnosi

In un libro che ebbe il suo momento di celebrità, intitolato « Carlo Magno e Maometto », Henri Pirenne, storico belga, ha dimostrato che l’espansione dell’Islam intorno al bacino mediterraneo aveva provocato, sul piano economico, una frattura radicale tra il mondo cristiano d’Europa e l’Oriente. In precedenza i due mondi erano in relazioni costanti e numerose, il commercio nel Mediterraneo era fiorente, la navigazione era facile e senza rischi poiché la flotta bizantina assicurava la sicurezza e faceva da polizia, sull’insieme di questo mare chiuso. Successivamente Henri Pirenne sviluppa nella sua opera le conseguenze di questa rottura in Occidente: la sparizione dei grandi assi commerciali, l’assembramento delle popolazioni intorno alle roccaforti in una stretta autarchia, la decadenza dell’autorità politica malgrado i tentativi di Carlo Magno per ristabilire un grande Impero dell’Occidente che rifiorirà dopo la sua morte. – Se Henri Pirenne non si fosse limitato al solo piano economico, nella sua ricerca nuova e suggestiva, egli avrebbe scoperto un’altra causa ben più fondamentale in questa frattura tra Occidente cristiano ed mondo musulmano.  – Prima dell’Islam, tutti i popoli insediati intorno al Mediterraneo, federati con Roma, partecipavano ad una medesima civilizzazione greco-latina. Essi furono tutti cristianizzati nella stessa epoca, e se questa civilizzazione romano-cristiana poteva assumere degli aspetti diversificati secondo i caratteri peculiari a popolazioni di razza ed origine così variate, restava non meno fondamentale che l’essenziale dei costumi e delle credenze comuni erano un cimento di unità notevole, malgrado le dispute teologiche e le dispute per la successione sul trono imperiale. – Ora, all’arrivo dell’Islam, in Oriente ed in Africa si produssero due fenomeni simultanei e complementari. All’inizio una decadenza dell’autorità politica: i capi arabi musulmani furono incapaci di creare un grande impero unificato. Dopo aver distrutto la rimarchevole amministrazione romana, essi si costituirono dei principati feudali, un po’ come in Occidente, in perpetue guerre intestine. I califfi di Damasco, poi di Bagdad erano incapaci di mantenere un potere politico stabile; essi stessi si massacrarono e si avvelenarono reciprocamente e la storia di questi principi musulmani non è che una lunga serie di orrori. Poi una unità culturale, dovuta al fatto che l’Islam si è diffuso in tutto il mondo musulmano mediante la lingua araba, imposta talvolta con la forza, ma spesso accettata con la nuova religione. Questa lingua araba si è sostituita al latino, al greco, all’aramaico, all’egiziano, ai dialetti berberi. Essa è stata il legame necessario tra le popolazioni disperse intorno al Mediterraneo e separate dai dissensi e dalle guerre perpetue che opponevano i califfi e le signorie arabe costantemente in rivolta. – Ma tanto vale una lingua, quanto una cultura che essa veicola. Ora il ruolo dell’arabo fu quello di tagliare questo mondo musulmano dalla cultura greco-latina e cristiana. Le popolazioni  già cristiane, floride e felici, regredirono rovinosamente verso una pseudo-cultura araba, caratterizzata dall’analfabetismo, dall’abbrutimento degli spiriti, dal disprezzo per tutte le attività intellettuali, dall’inattitudine congenita al progresso morale e spirituale. Da ciò derivava una civilizzazione sclerotizzata, rappresa nella massa delle popolazioni convertite ed il ricorso costante agli schiavi cristiani ogni qual volta un principe musulmano voleva sviluppare intorno a sé un po’ di lusso e di arte. Che l’Islam abbia tenuto incessantemente un ruolo distruttivo, questo è ben risaputo. – Ma la conseguenza fondamentale di questi due fenomeni è non solo una rottura tra l’Occidente cristiano ed il mondo musulmano, ma pure la formazioni di una barriera infrangibile tra i due mondi. La diversità di lingua ha provocato una ignoranza, poi una incomprensione, infine una ostilità dichiarata e definitiva. La guerra religiosa ininterrotta ne fu la manifestazione più suggestiva. Il mondo cristiano si armò contri i Saraceni che, essi stessi, massacrarono con furia e crudeltà i resti delle antiche comunità cristiane che non avevano potuto islamizzare. E dopo di loro non è stato mai possibile colmare il fossato fra questi due mondi antagonisti. Al momento delle crociate, i signori franchi costituirono in terra islamica dei principati cristiani che poterono sopravvivere per circa un secolo in un ambiente così ostile. Se hanno potuto istaurare una sorta di “modus vivendi” con le popolazioni che vi si erano sottomesse, se hanno potuto proteggere le comunità cristiane non ancora completamente massacrate, come gli Armeni, essi si sono scontrati con un ostacolo insormontabile, l’impossibilità quasi assoluta di convertire un musulmano al Cristianesimo: è questa la ragione principale per la quale non hanno potuto “resistere” in Oriente e sono finiti per essere rigettati in mare, “vomitati”, per così dire, dall’Islam. Tutto questo per arrivare al nostro proposito fondamentale. Fino alla colonizzazione europea del XIX secolo, il mondo musulmano è totalmente sfuggito ad una influenza occidentale e cristiana. Non c’è mai stato il benché minimo inizio di osmosi nel senso dell’Occidente verso l’Oriente. Ma curiosamente, lo vedremo, è l’Oriente musulmano che è penetrato nella nostra Europa cristiana. I contatti ripresi nel corso delle crociate, non hanno provocato che un movimento in senso contrario sul piano della cultura. Le crociate sono partite ferocemente come anti-musulmane, per combattere i saraceni. Nello stesso tempo, tutta una letteratura in lingua araba è stata tradotta in latino ed ha diffuso nell’Occidente cristiano dei temi letterari e religiosi venuti dall’Oriente. Noi ora costatiamo che queste traduzioni contengono essenzialmente la gnosi d’Asia e sono penetrate fino a noi attraverso due vie privilegiate, la Sicilia e la Spagna, Spesso queste traduzioni sono state eseguite da giudei che hanno “trasportato” così le opere dei filosofi e poeti persiani o siri, e ne hanno diffuso il contenuto in Europa. È quanto andremo a dimostrare.

PURIFICAZIONE DELLA VERGINE

PURIFICAZIONE DELLA VERGINE

Tre misteri. — Saviezza della legge della Purificazione. — Umiltà e obbedienza di Maria. — Esempio per le madri cristiane. — Cerimonie dell’andare in Santo. — Presentazione. — Umiltà e sacrificio del bambino Gesù. — Sacrificio di Maria. — Incontro del santo vecchio Simeone. — Sue predizioni. — Suo cantico di morte. — Origine della festa della Purificazione. — Sapienza della Chiesa. — Disposizioni alla festa.

Da Natale fino alla Purificazione la Chiesa si ritiene in adorazione davantial Bambino di Betlemme, poiché vuole che siano profondamente penetrati delle lezioni che Egli ci dà, e perché il suo presepio è una cattedra espressiva, dall’alto della quale ei ci istruisce. Quaranta giorni dopo la nascita del Salvatore ella ci convoca solennemente; ma non è più dentro il presepio che offre il Dio bambino alle nostre adorazioni. – Il tempio di Gerusalemme è per ricevere per la prima volta una vittima degna del Dio che vi si adora. Partiamo per la città santa, ove Maria ci precede portando tra le braccia il suo Figlio, sorretta nelle fatiche del viaggio da un vecchio che l’accompagnava, vale a dire da san Giuseppe, il virtuoso discendente della reale stirpe di David. – Il due febbraio, tre misteri sono presentati alle nostre meditazioni : La Purificazione della santa Vergine; la presentazione di Gesù al tempio: l’incontro dei santi vecchi Anna e Simeone.

I. Purificazione. — Figlio di padre colpevole, l’uomo è macchiato fino dal suo concepimento; e il parto d’un ente macchiato fa contrarre una specie d’immondezza alla madre. Domma profondo e terribile, sorgente d’umiltà, di purità, di santo timore per i genitori, la cui memoria volle Dio che fosse perpetuata di generazione in generazione. Poiché ecco quello che disse il Dio della santità nel dettare le sue leggi a Mose. Parla ai figliuoli d’Israele, e dirai loro: La donna la quale rimasta incinta partorirà un figliuolo maschio, sarà immonda per quaranta giorni. Non toccherà nulla di santo e non entrerà nel santuario fino a tanto che siano compiuti i giorni di sua purificazione. Che se avrà partorito una bambina, ella sarà immonda per ottanta giorni. E compiuti che siano i giorni della sua purificazione pel figliuolo ovver per la figlia, porterà all’ingresso del tabernacolo del testimonio un agnello dell’anno per l’olocausto, e un colombino o una tortora per il peccato, e darà queste cose al sacerdote (Levit. XII, 2-6). Il sacerdote offriva l’agnello in olocausto, affine di confessare il sovrano dominio del Signore, e insieme ringraziarlo pel felice parto della madre; e quanto alla colomba o alla tortorella, queste venivano offerte per il peccato. Compiuto il doppio sacrificio la donna rimaneva purificata dalla sua immondezza, o peccato legale, ed era ristabilita nei suoi antecedenti diritti. Continuando poi il Signore a parlare a Mose aggiunge: Che se ella non ha il modo di poter offrire l’agnello, prenderà due tortore, ovvero due colombini, uno per l’olocausto e l’altro per il peccato: e il sacerdote farà orazione per lei, e così sarà purificata (Levit. XII, 8). – Maria, resa dal suo parto divino più pura e più vergine, era sicuramente esente dalla cerimonia della purificazione, Ella tuttavia si sottomise e stando alla lettere della legge si presentò al tempio quaranta giorni dopo la nascita del Salvatore. Discepola del proprio Figlio, che occultava la divinità sotto la debolezza dell’infanzia, Maria volle celare la sua augusta prerogativa di Madre di Dio, regolandosi quanto all’apparenza come le donne comuni. Chi potrà a tanto esempio astenersi dallo esclamare: Vive forse in noi quello spirito di Gesù e di Maria? Ahimè! l’orgoglioso è sollecito di pubblicare i suoi meriti, e spesso se ne vanta senza possederli: è egli forse questo il nostro ritratto? L’umile, pago degli sguardi di Dio, si delizia nella sua oscurità: siamo noi tali? Maria, perché povera e Madre d’un Figlio che secondo le profezie doveva nascere e vivere povero, si presentò al tempio con due tortorine, come la legge esigeva. La figlia di David, la Madre del Messia, non poté presentare che l’offerta dei poveri! Ripensando a ciò, allorché veggo disprezzata la povertà mi offendo e mi adiro, perché quanto spesso sotto i cenci del povero si rifugia ed alberga la dignità e la nobiltà! E chi assicura che sotto misera veste non si asconda un figlio di re, o che un logoro velo non celi una pronipote di regina? Forse qualche orgoglioso ricco di Gerusalemme avrà guardato con insolente disdegno la coppia, che non recava al tempio fuorché le due colombe del povero; forse nell’atrio del tempio, presso l’altare dei sacrifici, l’uomo dal mantello di porpora e con i sandali a borchie d’oro avrà contrastato il passo a Giuseppe e a Maria ….! Eppure, sappi, o dissennato favorito della cieca fortuna, che quell’uomo, che porta le due colombe, è un discendente degli antichi tuoi re! Quella donna si timida, sì bella e sì umile è una figlia di David! Quel fanciullo…. è il padrone del mondo! S’ei volesse, con la sua piccola mano rovescerebbe le colonne dei tuoi palazzi, spezzerebbe i cedri delle tue colline, farebbe perire le messi delle tue campagne. Quella offerta, per quanto ti sembri meschina, è mille volte più accetta delle tue. Il cuore che la presenta è il più perfetto di tutti, e Iddio considera il cuore come l’anima dei sacrifici. Non dimentichiamo questa dottrina, ed una carità viva, sincera, dia pregio anche alle nostre minime azioni.La purificazione di Maria è dunque il primo mistero che la festa del due febbraio presenta alle nostre meditazioni. Quantunque i riti giudaici restassero abrogati dall’istante della promulgazione del Vangelo, si è mantenuto il costume nelle madri cristiane d’imitare, la prima volta che escono, l’esempio della santa Vergine, la quale sommettevasi volontariamente ad una legge che non la comprendeva. Esse vanno alla chiesa a ricevere la benedizione del sacerdote e a dimostrare a Dio la loro gratitudine. Per altro le madri cristiane non recansi alla messa con lo scopo che si proponevano le donne Giudee nell’andare al tempio; ma bensì per offrire al Signore un giusto tributo di lodi e di azioni di grazie. Ecco in qual modo circa tale argomento il pontefice Innocenzo III si esprime: « Se le donne desiderano entrare nella chiesa subito dopo il loro parto, esse non peccano entrandovi, né debbono esserne impedite; ma se per rispetto, piace loro piuttosto di starne per qualche tempo lontane, non crediamo sia da biasimare la loro divozione ». Né solamente la Chiesa non disapprova una tale usanza, ella anzi la incoraggia. Alcune diocesi hanno stabilito il numero dei giorni, dopo i quali si fa la cerimonia d’andare in santo, e bisogna uniformarvisi. Nei luoghi ove non è cosa alcuna di stabilito, una madre cristiana deve adempiere questo dovere appena può uscire senza rischio della salute; ed infatti non è egli anzi un debito di giustizia che la sua prima visita sia fatta alla Chiesa?Quivi ella deve primieramente ringraziare il Signore della sua felice liberazione, e pregarlo di spargere le sue benedizioni tanto sopra di lei, quanto sopra la sua prole. Deve in secondo luogo chiedere gli aiuti di cui abbisogna per educare alla virtù il fanciullo che ha messo al mondo, e adottare una stabile risoluzione di preservarne l’anima dai pericoli del peccato. Che cosa infatti le gioverebbe esser divenuta madre, se il frutto delle sue viscere dovesse cadere in potestà del demonio, ed esser poi condannato ai supplizi dell’inferno? Consacri ella dunque il proprio figlio al Signore, che questo suo sacrificio non può non essergli gradito, s’ella nutre le disposizioni in cui era la santa Vergine nel giorno della sua purificazione. Mezzo certamente idoneo ad inspirarle tali disposizioni sono le preghiere della Chiesa nella cerimonia dell’andare in santo. La madre cristiana che va a ricevere la benedizione dopo il suo parto, si ferma all’ingresso della chiesa, vi sta in ginocchio tenendo in mano una candela accesa, per dimostrare che si crede indegna di comparire davanti a Dio, il suo ardente desiderio di partecipare alle divine misericordie.Il sacerdote in cotta e stola bianca le si avvicina e recita il salmo ventitré: salmo che più d’ogni altro è opportuno alla circostanza. Egli ripete alla madre cristiana le virtù che procureranno a lei ed al figlio la somma ventura di abitare la santa montagna di Sion; le rammenta il dominio assoluto del Signore sopra le creature tutte, e poscia le ricorda la gratitudine e la sottomissione illimitata che a Lui sono dovute. Dopo aver dato alla donna tutte queste utilissime lezioni, il sacerdote le presenta il lembo della sua stola e le dice: « Entra nel tempio di Dio, e adora il figlio della beata Vergine Maria che ti ha concesso la fecondità. Il rito di presentare il lembo della stola è cerimonia che racchiude un’alta significazione, poiché, essendo la stola emblema della potestà sacerdotale, il prete nel porgerla alla donna le dice in misterioso linguaggio: « In nome di Dio, ch’io qui rappresento, sii purificata dall’immondezza che avresti potuto contrarre; il Signore ti permette di entrare nel suo tempio ed aggradisce l’omaggio di gratitudine che tu vieni ad offrirgli ». – Giunta la madre cristiana a pie’ dell’altare, il sacerdote le dice, essere il Signore soltanto che dà la virtù di ben educare i figliuoli e concede prosperità alle famiglie; dover ella mettere in lui tutta la sua fiducia per adempire il difficile uffizio di madre cristiana; in fine invoca sul capo della nuova Eva tutte le benedizioni del cielo. – Or dite, per fede vostra, se possa darsi altra circostanza in cui la donna ne abbia maggior bisogno? Non è ella forse, fragile creatura, incaricata di formare un cittadino utile alla società temporale, un figlio alla Chiesa, un fratello a Gesù Cristo, un santo al cielo? E non è forse in grembo alla madre che si decide l’avvenire dell’uomo, la pace delle famiglie, la felicità del mondo? Penetrati da tutti questi gravi pensieri, il sacerdote e la madre cristiana incominciano a pie’ dell’altare, in presenza di Dio e degli Angeli, uno di quei dialoghi inimitabili, che niuna favella può esprimere tranne quella del culto cattolico. Il sacerdote dice alla donna: «Non ti scoraggiare; il nostro soccorso è riposto nel nome del Signore ». E la donna risponde, per bocca del chierico: « Che ha fatto il cielo e la terra ».

– Il sacerdote: « Signore, salvate la vostra ancella ».

– La madre: « Mio Dio, voi sapete ch’egli spera in voi ».

– Il sacerdote: « Inviatele il vostro aiuto dall’alto del vostro santuario».

– La madre: « Proteggetela dal sommo della santa Sionne ».

– Il sacerdote: « Che il nemico nulla possa contro di lei ».

– La madre: « E il Figlio dell’iniquità non arrivi a nuocerle ».

– Il sacerdote: « Signore, esaudite la mia preghiera ».

– La madre: « E le mie voci giungano fino a voi ».

– Il sacerdote: « Preghiamo. — Dio eterno ed onnipotente, che pel felice parto della Vergine Maria avete cangiato in gioia gli acerbi dolori delle madri, rimirate con bontà la vostra ancella, e concedete, per l’intercessione di quell’augusta Regina, a costei, che viene oggi nel vostro tempio a rendervi solenni grazie, di pervenire insieme col suo figlio all’eterna beatitudine: per i meriti del Nostro Signore Gesù Cristo ».

.- La madre: « Così sia! » – Il sacerdote le indirizza qualche pia esortazione per assodare in lei quei sentimenti di riconoscenza e di devozione che l’hanno condotta ai piedi dell’altare, e per animarla a consacrare al Signore la propria vita e quella del figlio; ovvero le porge parole di consolazione, se, a guisa di Rachele, ella pianga il figlio suo, già divenuto preda di morte, e rialza il suo coraggio rammentandole la sua felicità per essere madre di un angelo. Quale sarà quella madre cristiana, quella madre che comprenda i suoi doveri e la sua dignità che possa dispensarsi da questa nobile cerimonia? Ah! lasciate che se ne esimano soltanto quelle che non hanno rendimenti di grazie da fare al Signore per la conservazione dei propri giorni e di quelli del figlio, né consigli, né conforti da ricevere, né lumi, né aiuti, né benedizioni celesti da impetrare per l’educazione dei fanciullo confidato loro dal cielo. – Il sacerdote benedice il pane che la madre gli presenta; il qual uso rammenta le due colombe di Maria, e la parte che la madre cristiana desidera prendere al sacrificio che viene offerto alla Chiesa. – Il sacerdote, facendole baciar la croce ingressa sopra la stola, la benedice dicendo: « La pace e la benedizione di Dio Onnipotente, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, discendano sopra te e sopra il tuo figlio, e vi rimangano in perpetuo». – La madre risponde: « Così sia » Amen! – Ei finisce con aspergerla leggermente di acqua benedetta, affine di renderla più santa, più fedele ai suoi nobili doveri e più degna de’ benefizi del Signore.

II. Presentazione. — Il secondo mistero che la Chiesa venera nel due febbraio è la presentazione del bambino Gesù al Tempio. Voi ben rammenterete che l’Angelo sterminatore il quale aveva ucciso tutti i primogeniti degli Egiziani aveva risparmiato quelli degli Ebrei. In memoria pertanto di tale avvenimento, e per mostrare il suo supremo dominio su tutte le creature, Dio aveva dettata a Mosè la legge seguente: Consacra a me tutti i primogeniti, tanto degli uomini che dei giumenti, giacché sono mie tutte le cose. E quando in appresso domanderà a te il tuo figliuolo: Che è questo? gli risponderai: con braccio forte ci trasse il Signore dalla terra di Egitto, dalla casa di schiavitù. Imperocché, essendosi il Faraone ostinato a non voler lasciarci partire, uccise il Signore tutti i primogeniti dalla terra di Egitto, dal primogenito dell’uomo, fino al primogenito dei giumenti: per questo io offerisco al Signore tutti i primi parti maschi, e riscatto tutti i primogeniti dei miei figliuoli (Es. XIII, 3-14-15). – Si riscattavano i figli primogeniti con una modica somma, cioè mediante cinque sicli di d’argento. Maria portò dunque il suo Figlio al tempio onde offrirlo al Signore per mano del sacerdote, poi diede i cinque sicli per riscattarlo, e lo ricevé tra le braccia come un deposito affidato alla sua cura fino al momento in cui il Padre Eterno lo avrebbe ridomandato per compier l’opera della Redenzione del genere umano. – Egli è fuori di dubbio che Gesù non era compreso nella legge; perché, dice sant’Ilario, se un figlio di monarca erede della corona è esente dalla servitù, a quanto più forte ragione Gesù Cristo, che era il Redentore delle nostre anime e dei nostri corpi, era dispensato da riscattare se stesso! Ma questo divino Salvatore voleva darci un esempio d’umiltà, d’obbedienza e di devozione; Egli voleva rinnovare nel tempio, e ben anco in modo solenne, l’offerta ch’Egli aveva fatta al Padre suo fino dal momento della sua incarnazione. In questo giorno Gesù accettò solennemente la croce, i supplizi, la corona di spine, la canna dell’ignominia, la veste di derisione, il fiele, l’aceto e la morte. In questo stesso giorno il Padre Eterno ricevé un sacrificio valevole a disarmare la sua collera accesa dai nostri peccati, e a strappare le anime nostre a quel fuoco divoratore che non si estinguerà giammai (Matt. XVII, 11). – Desideriamo noi di entrare nello spirito di questo mistero? E chi di noi non lo vorrebbe? Ebbene, dall’interno del tabernacolo come pure dal fondo del presepio e dall’alto della croce non ci grida Egli forse: « Io vi ho dato l’esempio, affinché come ho fatto io facciate voi pure? » Offriamo dunque a Dio in questo giorno noi stessi con la grande vittima del mondo; offriamo i nostri due oboli, il nostro corpo e l’anima nostra. Per quanto meschino sia questo, il nostro sacrificio, unito a quello del divino Redentore, non sarà rigettato. Guardiamoci solamente dal renderci colpevoli di rapina nell’olocausto, vale a dire dal riserbare una parte delle nostre affezioni per il peccato e per le creature. – Esaminiamo con tutta schiettezza e interroghiamo noi stessi: ci siamo noi mai offerti a Dio senza riserva e senza divisione? O mio cuore, a chi appartieni tu oggidì, in quest’ora, in questo momento in cui io leggo queste linee? Povero cuore! tu hai forse a vicenda servito di vittima a tutti gli Dei stranieri: tutto forse fino ad oggi è stato Iddio per te, tranne Dio! Su dunque a Dio solo da quest’istante e per sempre, non è vero? Non paventare, tu sarai bene accolto; il tuo Dio non guarda a quello che tu sei stato, ma a quello che sei, e a quello che vuoi essere. – Il divino Fanciullo, nostro specchio e maestro, volle essere presentato al tempio per mano della sua santa Madre. Preghiamo anche Maria, che si assuma la cura di presentarci a Dio; è dessa la tesoriera delle grazie. Qual mezzo è più idoneo ad eccitare in noi un’intera fiducia fuori della potente di Lei mediazione? Ciò posto io domando che cosa potrebbe Dio ricusare a Maria in questo giorno, in cui Ella fa il più eroico sacrificio che possa immaginarsi? Propongasi ad una madre: Una città è condannata a perire se non si trova una vittima; per salvarla, vi si domanda l’amato vostro figlio, l’unico oggetto della vostra tenerezza; Egli sarà insultato, vilipeso, percosso, straziato, posto a morte sulla croce; vi acconsentite voi? Chiamo in testimonianza tutte le madri: non ve ne avrebbe pur una che non preferisse morire in luogo del figlio suo; non una che non rigettasse con tutta l’energia della sua tenerezza una simile proposizione. E frattanto Maria, la tenera Maria, la Madre la più affettuosa del più amato Figlio, accetta la richiesta del Padre Eterno, e acconsente; ecco qual è il sacrificio ch’Ella fa in questo giorno! Come dunque pensare che il giusto e buon Dio, che ricompensò sì magnificamente il sacrificio figurativo d’Abramo, sarà poi scortese per Maria, e potrà chiudere l’orecchio ed il cuore quando Ella si presenterà per chiedergli qualche cosa in nostro favore? È empietà pensarlo, bestemmia il dirlo.

III. Incontro dei santi vecchi. — Il terzo mistero, che il due febbraio ci richiama alla memoria, è l’incontro che accadde nel tempio fra il vecchio Simeone e la profetessa Anna con Gesù e i suoi genitori. Maria aveva fatto il suo sacrificio; Ella aveva detto a Dio: Io vi offro il vostro Figlio ch’è anche il mio. E già stava per discendere i gradini del tempio e per ripigliare il sentiero di Nazaret, allorché le mosse innanzi un vecchio. Simeone il Giusto, che affrettava con tutti i suoi voti il Redentore d’Israele, Simeone a cui Dio aveva promesso di non richiamarlo dal mondo prima di avergli mostrato il Desiderato delle nazioni, fermò quei santi personaggi, li benedisse, prese tra le braccia il divino Fanciullo, poscia restituendolo alla Madre intuonò questo splendido inno: Adesso lascerai, o Signore , che se ne vada in pace il tuo servo, secondo la tua parola; perché gli occhi miei, hanno veduto il Salvatore dato da te, il quale è stato esposto da te al cospetto di tutti i popoli, luce a illuminare le nazioni, e a gloria del popolo tuo Israele!-  Deh! quali furono, o Maria, gli affetti del tuo cuore materno, allorché ascoltasti le benedizioni e le profezie del santo vegliardo! Ma le gioie stanno per mutarsi in affanno: ascolta di nuovo Simeone: Ecco che questi è posto per mina e per risurrezione di molti in Israele, e per bersaglio alla contraddizione; e anche l’anima tua stessa, o Maria, sarà trapassata dal coltello, affinché di molti cuori restino disvelati ì pensieri s .[Luc. II, 29-34-35].  – E quali saranno questi pensieri? Li conoscerai un giorno, o Madre amorosissima al giardino degli Olivi, a Gerusalemme, lungo la via della Passione, sul Calvario! Maria, piena di rassegnazione, aveva ricevuto fra le braccia il divino suo Figlio ed era per ritirarsi, ma ecco che una santa femmina sorge a proclamare alla sua volta le grandezze di Gesù. Eravi allora in Gerusalemme una profetessa chiamata Anna, figlia di Fanuele, e che era avanzata in età e vedova da lungo tempo, non avendo vissuto col marito suo che sette anni. Quella vera Israelita passava la vita nel tempio, pregando e digiunando e facendo opere pie; era in lei lo Spirito di Dio. E quando ella ebbe udito il cantico di Simeone, anch’ella incominciò a lodare il Signore e a parlare di Gesù a tutti quelli che aspettavano la salute e la redenzione d’israele. Fortunati vegliardi! Chi mai non avrebbe ambito la vostra sorte! Voi trovaste il Salvatore del mondo, voi lo vedeste, voi ne proclamaste le lodi! Vogliamo noi ora gustare la stessa felicità? Rechiamoci al tempio guidati dallo Spirito di Dio, dove troveremo Gesù e Maria, dove ci sarà concesso godere della loro presenza e del loro colloquio, sicché potremo parlarne a tutte le anime fedeli che aspettano gemendo la salute d’Israele, la consolazione delle loro pene e la gloria della Religione.

IV. Origine della festa. — La festa della Purificazione vien detta comunemente Candelora, per motivo de’ cerei che in tal giorno si accendono; festa e cerimonia che ne forniscono una prova novella della divina sapienza della Chiesa. Nel mese di febbraio Roma pagana celebrava le feste denominate Lupercali, instituite ad onore di Pane, deità dei pastori, il culto del quale era stato recato in Italia da Evandro. Questo principe gli aveva consacrato la celebre caverna detta Lupercal, situata alle radici del Palatino, entro cui Romolo e Remo ebbero il latte dalla lupa, e dove in oggi sorge una chiesa dedicata alla Regina degli Angeli. Di buon mattino i sacerdoti di Pane, chiamati Luprici, si recavano al tempio di tale Deità, a cui immolavano in sacrificio un cane e alcune capre di color candido; in seguito si spogliavano delle loro vesti e armati di staffili formati di pelle di capra correvano come furibondi per le strade della città percuotendo tutti coloro in cui si abbattevano, e le donne specialmente, le quali per parte loro si esponevano a gara a tale stranissima cerimonia, che per avviso dei Pagani aveva a scopo la purificazione della città. Da ciò appunto ebbe nome il mese di febbraio (februarius), poiché februa presso i Romani denotava sacrifìci di purificazione. Tali erano le feste di quella Roma che era a capo dell’antico incivilimento. – Alla fine del quinto secolo continuavano a sussistere numerosi vestigi di quel culto bizzarro, né il sacerdozio del Dio Pane venne completamente abolito fuorché nel 512 per decreto dell’imperatore Anastasio, sebbene fin dall’anno 496 il Pontefice Gelasio avesse posto in opera ogni mezzo per distruggere le nefande cerimonie Lupercali. A tale effetto egli aveva appunto instituito la festa della Purificazione della santa Vergine, contrapponendo con ciò una reale purificazione ed espiazioni veramente sante alle impure espiazioni dei Pagani. – Da Roma passò, dopo qualche anno, a Costantinopoli, dove fu celebrata con magnificenza e fervore straordinario per impetrare la cessazione della spaventevole pestilenza che divorava in quella città fino a cinque mila persone per giorno. Ciò non ostante è facile arguire da molti monumenti che la festa della Purificazione era anche prima d’allora osservata in molte chiese particolari, sicché la sua primitiva istituzione si perde nell’oscurità dei tempi. – Perciò che spetta alla processione di tal giorno con cerei accesi, è mestieri stabilirne l’origine innanzi al sesto secolo. Venne questa instituita col disegno di opporre un rito edificante e utile in pari tempo ad una cerimonia pagana che fondavano nella superstizione, ed era accompagnato da disordini; vale a dire quelli che celebravasi dai Romani sotto il nome di Feste Amburvali. Feste ridicole, che accadevano ad ogni quinquennio e nelle quali il popolo percorreva le strade di Roma con torce accese. Pervenuti i Romani a sottomettere al loro impero tutte le nazioni della terra, avevano perciò imposto ad esse un tributo che pagavasi ogni cinque anni nella circostanza del censo quinquennale. Allorché il denaro era giunto nel tesoro della Repubblica, un mese intero, e quello precisamente di febbraio, era impiegato nel correre le vie e le piazza con fiaccole ardenti, in onore degli Dei Infernali, ai quali Roma si credeva debitrice della conquista della terra. – I sommi Pontefici distrussero questa festa mediante un’altra festa: e perciò il giorno di febbraio, il popolo ed il clero adunati si recano in processione con gran solennità con accese in mano per le strade della città eterna, celebrando e cantando altamente le laudi del vero vincitor del mondo e dell’augusta sua Madre; di quel Dio del Calvario che aveva impartito a Roma, in luogo dello scettro di forza, un dominio ben più glorioso, più esteso e più potente vale a dire quello della fede. Il popolo tutto, partendo dalla chiesa di S. Adriano, si recava a quella di santa Maria Maggiore faendo ardere migliaia di cerei, in omaggio delle splendide vittorie riportate da Maria e da Gesù suo figlio. – Tutte le torce, che splendono durante la processione o in tempo della Messa, e che alla sera illuminano con tanta maestà i templi cristiani, sono inoltre una rimembranza di quelle parole del cantico di Simeone: «Questo Fanciullo sarà la luce di Israele». Ogni fedele col suo cereo acceso è simbolo espressivo di quelle disposizioni di fede viva e di carità ardente con le quali si deve andare incontro l’Agnello divino: simbolo affettuoso, che sarebbe sì fecondo di religiose meditazioni! Chi fra voi in passato ha volto i pensieri a tali meraviglie? Potreste mai dopo il presente avvertimento ricusare di farne talvolta un aggetto di riflessioni?

V. Disposizioni alla festa. — Chi desidera di celebrare degnamente la festa di questo giorno procuri di ben comprendere i tre misteri che ci rammemora. Ammiriamo, chiediamo, e sforziamoci particolarmente d’imitare la profonda umiltà della santa Vergine. Questa nobile virtù divenga per l’avvenire il fondamento e la difesa di tutte le altre; sia esso l’obbietto continuo delle nostre meditazioni e delle nostre preghiere, oggi specialmente in cui il mondo corre a rovina, spinto da orgoglio e da amore di indipendenza. Non dimentichiamo lo zelo e l’esempio di Gesù bambino; procuriamo che metta radice profonda nel cuor nostro, deploriamo di averne fatto sì poco conto in passato, non ostante le mille occasioni e i mille motivi di doverla esercitare. Uniamoci finalmente a Simeone ed Anna nel loro santo entusiasmo; impariamo a mettere, com’essi, Iddio e la sua grazia al di sopra di tutte le cose, e preghiamolo ad infonderci in cuore un sincero disgusto verso tutto ciò che non è Dio.

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio che abbiate inspirato alla vostra Chiesa di stabilire la festa della Purificazione; fateci la grazia che possiamo imitare gli splendidi esempi di umiltà e di obbedienza che ci hanno lasciati Gesù e Maria. – Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso, per amor di Dio, e in prova di questo amore mi purificherò con ogni diligenza dalle prave intenzioni nel venire alla chiesa.

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA -18-: GNOSI ED ISLAM (2)

Gnosi, teologia di satana

“omnes dii gentium dæmonia”

GNOSI ED ISLAM (2)

[da E. Couvert: “La gnose universelle”, cap. II]

 I temi gnostici nel Corano

Nel 1874, il professor Adolf von Harnak, nella sua tesi di laurea, dichiarava che il maomettanesimo non era che una lontana derivazione della gnosi giudaico-cristiana e non certo una nuova religione. Egli ha mantenuto costantemente questa visione fondamentale. È quanto andremo per l’appunto a dimostrare. L’autore del Corano è un religioso, un monaco giudeo-cristiano, appartenente ad una comunità derivata dagli antichi ebioniti, i cosiddetti “poveri di Gerusalemme”. San Ireneo ci aveva già spiegato, nel II secolo, che questi ebioniti negavano la divinità di Gesù-Cristo e restavano molto legati alla pratica del mosaismo, rimproverando ai Cristiani della Grande Chiesa il loro abbandono della legge di Mosè. L’autore del Corano possiede una conoscenza minuziosa ed approfondita di tutto l’Antico Testamento. Secondo lui, pure, non esiste il Nuovo Testamento: Gesù-Cristo non è che un profeta della linea di Mosè. Le sue fonti sul Messia sono tutte chiaramente estratte da opere apocrife, rigettate dalla Grande Chiesa Cristiana greca e latina. La sua biblioteca è composta da pseudo epigrafi di carattere gnostico: « il Vangelo dell’infanzia », redatto in siriaco, il « Protovangelo di Giacomo il minore », il « Vangelo di Tommaso », opera gnostica oggi ben conosciuta, il « Vangelo dello pseudo-Matteo », redatto inizialmente in lingua ebraica. La maggior parte di questi apocrifi erano già tradotti in arabo in questa epoca. Si trovano ancora nella biblioteca di questo monaco ebionita, degli apocrifi dell’Antico Testamento, il « Libro dei giubilei », dal quale è estratta l’astrusa storia di satana lapidato, e « le rimostranze di Abramo a suo padre Tharé », come spiega Siderski, nel suo « Origini delle leggende musulmane nel Corano ». Ora il « Libro dei Giubilei » apparteneva alla letteratura ebionita tanto che se ne sono ritrovati degli estratti a Qumran. – L’autore del Corano tenta con tutte le sue forze di distruggere il dogma fondamentale del Cristianesimo, la divinità del Salvatore. Egli ha considerato infatti Gesù come un eminente profeta, come il Verso e lo Spirito di Dio, ma nelle linea degli altri profeti e legandolo direttamente alla rivelazione di Mosè. Per questo egli ha affermato che Maria, Madre di Gesù, era la sorella di Aronne e di Mosè:  « … O sorella di Aronne, tuo padre non era un padre indegno, né tua madre una prostituta » (come affermano i giudei). Ella era vergine, poiché Isaia lo aveva annunziato ed i libri apocrifi, come lo « pseudo-Matteo » ed il « Protovangelo di Giacomo », pure affermano. Dunque il Cristo Gesù, secondo questa svista clamorosa, non è che il nipote di Mosè! Occorre una audacia singolare, praticamente idiozia pura, per urtarsi con i secoli e proporre nel VII secolo una leggenda sì contraria a tutta la storia religiosa conosciuta da tempo. Henna Zacharias ha sviluppato bene questo punto capitale. Di conseguenza, Gesù-Cristo non sarebbe Figlio di Dio. Come potrebbe verificarsi questo? « … egli che ha formato i cieli e la terra, come potrebbe avere un figlio, lui che non ha compagna! ». – « Essi [i Cristiani] dicono: Dio ha un figlio. Per la sua gloria, no. Dite piuttosto che tutto ciò che è nei cieli e sulla terra gli obbedisce ». – « … Gesù è agli occhi di Dio ciò che è Adamo. Dio lo formò dalla polvere, poi disse: Sia, ed egli fu ». Gesù è dunque creato, non generato. Non c’è che un solo Dio. Gli arabi Cristiani professavano il dogma trinitario, ed impiegavano la parola Tathlith per designarlo; inoltre essi sapevano distinguere le tre Persone con il termine uqnum, di origine siriaca. L’autore del Corano si leva con forza contro questo dogma: « … o voi che avete ricevuto le Scritture, nella vostra religione, non oltrepassate la giusta misura, non dite di Dio che ciò che è vero. Il Messia, Gesù, figlio di Maria è l’apostolo di Dio ed il suo verbo che egli ha gettato in Maria. Egli è uno spirito che viene da Dio. Credete dunque in Dio, ai suoi apostoli, e non dite: c’è la Trinità. Astenetevi dal farlo. Questo vi sarà di danno, perché Dio è unico, gloria a Lui … » – « … gloria a Dio che non ha preso figli per sé  e che non ha soci nel suo regno, magnificate l’Altissimo! … » – « … Coloro che sono empi hanno certamente detto: Dio è il Messia, il figlio di Maria. Ora il Messia ha detto: O figli di Israele! Adorate Dio, il mio Signore, e vostro! A chiunque attribuisce associati a Dio, Dio interdice il giardino; costui avrà il fuoco come rifugio … », etc. – Per il Corano, i Cristiani che adorano Gesù sono dei “mushri kun”, degli “associatori”, poiché associano Gesù a Dio; sono dei politeisti, perché adorano tre dei; degli idolatri, poiché fanno di Gesù un idolo; degli infedeli, perché si rifiutano di seguire la legge di Mosè. In tutte queste accuse, sono coinvolti sempre i Cristiani e mai i popoli pagani dell’Arabia. C’è una volontà deliberata di staccare gli Arabi Cristiani di Siria dall’adorazione dovuta a Gesù Nostro Signore. – Infine Gesù-Cristo non è stato crocifisso! Nel negare la sua morte sulla croce, l’autore del Corano ha tolto ogni motivo di credere al suo Sacrificio espiatorio per il genere umano. Gesù-Cristo non è il Salvatore. Ora questa tesi è tutta propriamente gnostica. Il Vangelo apocrifo di Barnabè (lo pseudo-Barnabè) dice che … Dio permise che Giuda ebbe l’apparenza del Salvatore e fu crocifisso al posto suo. Basilide, altro gnostico d.o.c., pretende che si sostituì a Gesù-Cristo nientemeno che Simone di Cirene. I manichei affermano egualmente che Gesù non è morto se non in apparenza. È questo il docetismo (dal greco δοκειν = sembrare, apparire). – « Essi [i giudei] dicono: Noi abbiamo messo a morte il Messia, Gesù, il figlio di Maria, l’inviato di Dio. No essi non lo hanno ucciso, non lo hanno crocifisso. Un uomo che gli somigliava fu messo al suo posto e coloro che disputavano lassù, sono stati essi stessi nel dubbio. Essi non sapevano di scienza certa, non facevano che seguire un’opinione. Essi non lo hanno ucciso realmente. Dio lo ha elevato a sé, e Dio è potente e saggio ». – Il farneticante autore del Corano vuol dimostrare con ciò l’errore dei Giudei, fieri di aver crocifisso un impostore, e le discussioni tra gli gnostici che disputavano su chi fosse stato sostituito al Cristo sulla croce. Questa elevazione del Cristo, di cui parla il testo citato non ha il senso di cui parlano i Cristiani. La Bibbia racconta che l’ascensione di Henoch e di Elia in un turbine di fuoco; gli apocrifi raccontano egualmente quelle di Mosè e di Isaia, anche se si tratta ancora di una leggenda gnostica passata nei miti religiosi dell’Oriente e nel Corano. Questa “Ascensione” presuppone l’esistenza dei sette cieli, insegnati dai rabbini … al limite del settimo cielo, secondo essi, c’è “l’orizzonte superiore”, ove si trova il “giuggiolo del limite”, l’albero che bisogna attraversare per raggiungere l’ottavo cielo, che costituisce il Pleroma degli gnostici. Questi ultimi parlano pure di una “crocifissione”, cioè di un passaggio attraverso lo  σταυρος [stauros], la croce-limite. Il Corano che rigetta ogni idea di croce, vi ha sostituito un albero, il giuggiolo, ma l’idea è la stessa: il Cristo ha varcato il limite, così come Mani e come tutti i suoi successori, i Buddhas. – L’autore del Corano è dunque ben ispirato da tutta una letteratura apocrifa di carattere gnostico, che compone l’essenziale della sua personale documentazione sul Cristo. Ma se egli è cristiano a suo modo, egli è pure essenzialmente giudeo: i doni di Dio sono senza pentimento. Il popolo giudeo resta il popolo eletto, anche dopo la distruzione del tempio. Egli è fiero di appartenere al popolo giudeo ed attende la ricostruzione del tempio, come tutti i confratelli di religione, i monaci ebioniti [… fino ai massoni attuali]. Non si tratta quindi di convertire i popoli dell’Oriente al giudaismo: essi infatti non costituiscono il popolo eletto, ma devono essere esattamente preparati a vivere “more judaico”, seguendo la legge di Mosè, ma senza che sia loro attribuito il vero culto sacrificale del tempio. Così il Corano non comporta dei riti propriamente giudaici, i fedeli di Allah si “accontentano” di adorare e pregare Dio. Le loro moschee sono vuote di ogni presenza della divinità, non c’è Santo dei Santi, né altare per il sacrificio. Il vero culto di Dio non potrà che essere ristabilito dopo la ricostruzione del tempio. Ciò che mostra che gli Ebioniti, i « Poveri di Yahvé » sono rimasti fedeli all’Antico Testamento. – L’autore del Corano ha approfittato della eclissi che ha conosciuto nel VII secolo la potenza dell’autorità romana per riportare questi arabi Cristiani, detentori del potere politico, alla pratica dei « Timorati di Dio », cioè dei proseliti giudei del passato. Questi, non essendo giudei, non potevano avvicinarsi al culto sacrificale del tempio; essi restavano perciò sul sagrato: erano i “gérim”, di cui la parola “proseliti” è la traduzione greca. I musulmani praticano l’islam, la sottomissione a Dio; essi lo pregano attendendo il loro ritorno a Gerusalemme. È una religione di attesa, provvisoria. I temi gnostici riconosciuti nel Corano non sono passati nella pratica religiosa dei musulmani, perché restano “esoterici”, riservati agli iniziati. Li ritroveremo pertanto nei sufi. L’autore del Corano è molto severo con i Giudei che hanno seguito i rabbini precursori aderenti all’insegnamento di Gesù, secondo lui essi hanno distrutto la successione delle profezie, hanno diviso il popolo eletto. Egli dice loro: « Essi – i Giudei – non hanno creduto a Gesù; essi hanno inventato contro Maria una menzogna atroce». Egli aggiunge « tu troverai certamente che i più ostili a coloro che credono sono i giudei e gli associatori, e tu troverai che le persone più vicine a quelli che credono per amicizia, sono coloro che dicono: noi siamo Cristiani. Tra essi si trovano dei preti e monaci e queste persone si gonfiano di orgoglio ». è un testo capitale da comprendere bene: i giudei rabbini ed i Cristiani “associatori”, hanno tagliato in due la tradizione di Mosè, quella del Sinai. Solo i giudei Cristiani hanno conservato intatto il deposito della tradizione, completamente, fino a Gesù-Cristo compreso. Essi hanno dei sacerdoti e dei monaci, “i poveri di Yahvé”, gli ebioniti dunque! Essi hanno conservato la legge di Mosè, alla quale hanno aggiunto i loro consigli evangelici, che completano la legge, ed hanno così dunque la pienezza della legge, senza alcuna frattura. Essi ne sono fieri, orgogliosi. Un islamologo attuale, Roger Arnaldez, nel suo libro intitolato – “Gesù, figlio di Maria, profeta dell’islam”, mette fianco a fianco i testi del Corano, che tanto magnificano i monaci cristiani, e a volte li denunciano: “ Lo storico, egli dice, dovrebbe fare a proposito della diversità di questi testi, alla lettera contraddittori, numerose riflessioni e ricerche sulle circostanze che servirono loro da fondo”. Egli non ha compreso che esistevano due tipi di Cristiani, gli “associatori” che adoravano Gesù, ed i Giudeo-cristiani” che lo veneravano come un grande profeta. Siccome l’autore del Corano si rivolgeva a degli arabi già Cristiani, bisognava metterli in guardia contro i primi e convertirli alla religione cristiana giudaizzata dei secondi. L’autore del Corano è necessariamente quindi un monaco ebionita. San Gerolamo aveva spiegato già che le comunità ebionite erano numerose in tutte le città dell’Oriente, che possedevano delle sinagoghe, che si dichiaravano essere i « veri cristiani », che erano denunciati dai rabbini come una setta di mineani (provenienti cioè dallo Yemen). È evidentemente, in questa prospettive, che bisogna cercare l’autore del Corano non presso i nestoriani, veri cristiani adoratori di Gesù-Cristo e dunque incapaci di aver scritto questo libro. Si sono citati dei nomi, Bahira, Sergius, Giorgi, Nestore … agli storici proseguire le loro ricerche. – Infine un altro testo capitale del Corano ci mostra in quale ambiente gnostico vivessero gli ebioniti: « coloro che credono, coloro che praticano il giudaismo, i Cristiani, i sabei (coloro che credono in Dio e nell’ultimo giorno e compiono opere pie) hanno la loro retribuzione dal Signore. Su di essi alcun paura, perché non sarebbero stati rattristati … nel giorno della resurrezione, Dio distinguerà tra loro coloro che avranno creduto (cioè coloro che avranno praticato il giudaismo, i sabei, i cristiani e gli zoroastriani) e coloro che saranno stati “associatori”. Dio è testimone di ogni cosa. – Dunque per l’autore del Corano, i Cristiani (cioè gli ebioniti), i Sabei, e gli zoroastriani che praticano il giudaismo, e sono fedeli all’Antico Testamento, si oppongono radicalmente agli “associatori”, i Cristiani della Grande Chiesa che adorano Gesù-Cristo ed hanno rigettato la legge di Mosè. – I Sabei si chiamano ancora caldei, talvolta nazareni o cristiani di San Giovanni, perché pretendono di ricollegarsi a Giovanni il Battista e praticano un battesimo quotidiano per immersione. Essi si dicono pure mandei, dalla parola “manda” che significa “conoscenza”, dunque “gnosi”. La loro entità divina si chiama “gnosi di vita”, Si trova nella loro liturgia il buon pastore e la vigna. I loro testi sono stati codificati nell’VIII secolo, per resistere alla penetrazione dell’islam. Essi chiamano il loro uomo-Dio: Enosch-Uthra. Ora nei manoscritti manichei o buddisti dell’Asia centrale, Enosch è presentato come un avatar di Mani, il Bouddha. Il loro insegnamento è uniforme a quello dei manichei. Nel XI secolo, lo storico musulmano El Firdousi designa i monaci buddisti sotto il nome di sabeeni. – I zoroastriani sono anch’essi degli gnostici. Noi non sappiamo granché sulle stesso Zoroastro, chiamato Zarust nei manoscritti manichei e buddhisti. Il suo insegnamento è contenuto nel Zend-Avesta, redatto nel III secolo della nostra era, all’epoca in cui Mani diffondeva la sua dottrina in Persia ed in India. Si chiamava un “libro di Abraham”. Esso conteneva una storia della creazione, del diluvio, la vita di Adamo, di Giuseppe, di Mosè, di Salomone, presentati conformemente all’insegnamento della Bibbia. Vi si annuncia il Messia promesso, e la sua “stella”. I nestoriani pretendono che Zoroastro fosse discepolo di Geremia e che inviò i Magi a Bethlem per la nascita del Cristo. Era senza dubbio un giudeo anch’egli, insegnava nella città dei Medi a Urmia, nei pressi di Urumia, nel nord del Kurdistan attuale. Il suo insegnamento, ripreso da Mani è puramente gnostico, con un culto del sole, il doppio principio del bene e del male in eterno conflitto, etc. – Infine, come tutti, anche l’autore del Corano finì un giorno con il morire. I suoi discepoli, i signori musulmani di Siria, sbarazzatisi del loro maestro, poco toccati dagli scrupoli religiosi, ma avidi di domini e potenza politica hanno dovuto utilizzare il Cosano come uno strumento di asservimento e stordimento di popolazioni appena islamizzate, per depistarli dalla velleità che avrebbero potuto avere, di tornare al Cristianesimo o peggio, di fare appello ai “Rumi” ed alle armate bizantine alfine di sbarazzarsi dei loro nuovi tiranni. Da qui, non sappiamo più nulla. Agli storici indagare …

[2 – Continua …]

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA -17- : GNOSI ED ISLAM (1)

GNOSI ED ISLAM (1)

“omnes dii gentium dæmonia”

[da E. Couvert: “La gnose universelle”, cap. II]

La storia critica delle origini dell’Islam, dopo tanti secoli, resta ancora da scrivere. Fino a tutti questi ultimi anni, gli islamologi si sono accontentati di dare un’apparenza erudita e sapiente, di offrire una veste dignitosa e credibile alle leggende diffuse dopo le origini dell’Islam dalle autorità musulmane per corrompere lungo i secoli gli infelici popoli del medio-Oriente e dell’Africa del Nord. Ciò facendo, questi storici sconsiderati e senza scrupoli hanno imposto detti popolari, pieni di menzogne ed imposture destinate a mantenere queste povere popolazioni in uno stato soporoso, inebetito, sia moralmente che intellettualmente. Riza Tewfik scriveva nel 1947 a Beyrut: « Ho constatato che la maggior parte degli storici orientali sono sprovvisti di qualsiasi senso critico e la storia – fin quasi all’inizio del XIX secolo – ha conservato da noi il suo carattere primitivo: quello di essere cioè platealmente aneddotico! Quanto ai commentari, essi hanno accumulato – nel nome della tradizione che considerano come verità mai dimostrate, ma evidenti per se stesse – un tasso di superstizione estrapolate dall’immaginario popolare. Essi ne hanno talmente abusato, che i commentari sono zeppi di questi stupidi aneddoti che, lungi dal chiarire il significato del testo, lo ottundono piuttosto; questo sconvolge l’intelligenza delle persone semplici, e distrugge la loro fede. » Si sono dovuti attendere questi ultimi venti anni per trovare storici liberi ed indipendenti dalle mode intellettuali capaci di produrre dei fori efficaci in questo muro di ufficiale e gratuito conformismo universitario. Per primo, il p. Gabriel Théry ha denunciato la falsificazione storica diffusa dagli islamologi; ma egli non ha osato farlo con il suo nome, che tuttavia era già sufficientemente autoritario in materia; egli si è contentato infatti dello pseudonimo di Hanna Zacharias (cosa che dimostra tra l’altro quale forte pressione eserciti il conformismo intellettuale anche su uomini realizzati, giunti alla sommità degli onori universitari!). Tuttavia la sana critica storica non conserverà granché delle sue ipotesi, se non questa giustissima ipotesi, che l’Islam cioè, diffondendosi tra le popolazioni cristiane dell’Oriente le ha condotte alla pratica del giudaismo ed all’osservanza della legge di Mosè. Il suo discepolo e successore Joseph Bertuel ha compiuto uno studio molto approfondito sulle origini dell’Islam. Egli resta prigioniero di diverse tesi di Hanna Zacharias. Tuttavia il primo, ha avuto il coraggio di « radiare Maometto dal numero dei grandi fondatori di religione, e di togliergli puramente e semplicemente la paternità del Corano », come egli stesso ha detto. Egli avrebbe potuto aggiungere semplicemente che Maometto non è mai esistito e che la sua legge e la sua esistenza è totalmente leggendaria. Ma allora perché aver conservato questa distinzione tra sure della Mecca e sure di Medina? È un rimaneggiamento artificiale del Corano, operato per ricollegare il testo del libro ad una leggenda secondo la quale il libro stesso non era stato umanamente scritto. Inoltre le ricerche storiche del Bertuel sono appassionanti: si può dire che, per primo, egli ha fatto un’opera degna di uno storico serio. Infine il frate Bruno Bonnet-Aymart, si è dedicato al compito faticoso ma fondamentale, di ritradurre seriamente il Corano. Si comprende così da questa dotta traduzione, che l’autore di questo libro era in realtà un uomo sapiente, addirittura un erudito che conosceva in profondità l’ebraico, l’aramaico, il greco. Questo erudito è stato tra l’altro capace di creare, a partire da una lingua araba solo parlata, una lingua scritta. Egli ha forgiato da se medesimo un vocabolario religioso necessario a trasmettere il suo insegnamento ed ha dato a questa lingua una struttura grammaticale sufficientemente complessa per esprimere delle nozioni religiose e giuridiche alle quali i grezzi nomadi arabi erano poco abituati. Il frate Bruno ha già estratto dalle sue traduzioni delle conclusioni notevoli, importanti al punto tale da capovolgono da cima a fondo tutta la storia dell’Islam fondata sulle sabbie mobili della pura leggenda. Non è certamente il caso di riprendere questo lavoro di primo ordine, ma solo di utilizzarne diverse sue conclusioni che possono essere poste alla base dell’intenzione di mostrare, attraverso la storia di questa falsa religione, la sua impregnazione di pensiero gnostico fin dalle origini, ed il ruolo che l’Islam ha giocato nel corso dei secoli nella trasmissione di questa gnosi, con i caratteri di sempre, riversata sull’Occidente cristiano.

Posizione del problema

Per comprendere le origini dell’Islam, bisogna aver presente al proprio spirito, la tela del fondo e delle vicende storiche sulle quali si è, per così dire, stampata la nuova religione. Dopo l’inizio dell’era cristiana, il vicino-Oriente venne scosso dalla lotta secolare tra l’impero romano ed il regno persiano. I Romani in realtà non hanno mai potuto abbattere questo impero dei Sassanidi, la guerra era endemica, interrotta da tregue e da paci provvisorie, ma sempre venne ripresa con alterne fortune da una parte e dall’altra. Alcuni imperatori romani vi persero addirittura la vita, tra essi ad esempio: Aureliano e Giuliano. Fu proprio la necessità di avvicinarsi al teatro delle operazioni che costrinse l’imperatore Costantino ad insediare la sua capitale a Bisanzio, divenuta poi Costantinopoli. – Ora in questa guerra ininterrotta, i Romani hanno fatto appello agli arabi e li hanno incorporati nelle loro legioni come ausiliari; i re sassanidi fecero altrettanto. Così già dall’inizio dell’era cristiana vi erano delle tribù arabe insediate in Siria, in Palestina, in Egitto, in modo più o meno sedentario e residenziale. Oltre il Giordano c’erano ad esempio i Nabatei. Questi erano stati legati con trattato di pace e di assistenza all’Impero romano che li utilizzava per proteggere i territori dell’Impero contro le altre tribù arabe rimaste nomadi e predatrici. Durante i primi secoli cristiani, questi arabi si convertirono al Cristianesimo. Uno di essi divenne nientemeno che imperatore a Roma: Filippo l’Arabo, imperatore e nello stesso tempo cristiano. M. F. Nau ci aveva già in precedenza presentati questo “Arabi cristiani della Mesopotamia e della Siria del VII ed VIII secolo”, cioè nell’epoca della nascita dell’Islam. Egli precisa pure che « il nome Allah non appartiene ai musulmani, ma è di proprietà degli Arabi cristiani. » Cosa successe pertanto nel VII secolo? Poco più o meno di quanto sarebbe successo due secoli dopo nella parte occidentale dell’Impero romano: qui i Germani, i Franchi, i Visigoti, i Burgondi, istallati sul territorio della Gallia, si staccarono dall’imperatore romano divenuto impotente e si proclamarono di fatto regni indipendenti, pur mantenendo un’alleanza teorica con l’impero. Si evitarono così invasioni, massacri di popoli, e si ebbero solo sporadiche battaglie contro le legioni romane rimaste fedeli all’imperatore. Nel vicino-Oriente, dopo l’ultima e più violenta delle guerre contro la Persia, l’indebolimento dei due belligeranti fu tale che i capi delle tribù arabe cristianizzate e installate in Siria, Palestina, Egitto, Mesopotamia, rivendicarono la loro autonomia e si attribuirono un potere sovrano, impadronendosi di città ed espellendo le legioni bizantine rimaste fedeli all’imperatore. L’operazione si compì nel giro di qualche anno, senza resistenza delle popolazioni, felici di sottrarsi agli scontri ed alle esigenze dell’amministrazione imperiale. Non si ebbero quindi propriamente delle invasioni, o delle guerre di conquiste, ma una semplice presa di potere da parte dei capi delle tribù già insediate in loco. Un fenomeno simile si produsse in Persia. L’ultimo dei Sassanidi, Cosroe II, aveva organizzato una grande spedizione in Egitto, al ritorno della quale le sue armate avevano saccheggiato e distrutto Gerusalemme nel 614, impadronendosi del legno della vera Croce. Dopo la riconquista di queste regioni da parte dell’imperatore Eraclio e dopo la morte di Cosroe II, il regno persiano cadde in una disastrosa crisi dinastica. Si generò in tal modo l’occasione di una specie di interregno contrastato ed oscuro, durante il quale i capi dei contingenti arabi presero egualmente il potere. – La redazione del Corano data proprio quest’epoca. Essa è legata alla presa di potere degli Arabi cristiani ai quali si indirizza appunto in particolare l’autore del libro. L’Abate Bertuel si pone questa obiezione: « Se questo autore fosse stato cristiano, le sue narrazioni si sarebbero svolte come delle lezioni che facilitavano, chiarivano il senso e la portata spirituale dei testi mediante la rivelazione del Nuovo Testamento. » Ma no, signore Abate! Il Corano non era destinato a convertire gli Arabi al Cristianesimo, poiché essi già lo erano, ma ad allontanarli dall’adorazione di Gesù-Cristo ed a ricondurli alla pratica del Giudaismo ed all’osservanza della legge di Mosè! L’autore del Corano non era dunque un cristiano, ma un eretico giudaizzante, che negava la Divinità di Gesù-Cristo. Soprattutto non bisogna richiamare il Nuovo Testamento per chiarire l’insegnamento della sua eresia, poiché egli stesso ne rigetta il fondamento che è la divinità di Gesù-Cristo. Vi ritorneremo ancora. – L’Abate Bertuel aggiunge poi questa riflessione: « Ci si domanda perché gli Arabi non si convertirono subito al Cristianesimo che avrebbe detto loro più chiaramente le cose e li avrebbe liberati radicalmente dall’apologetica giudaica … » Perché? Ma perché gli Arabi erano già cristiani e si trattava quindi di ricondurli ad un’apologetica giudaizzante, quella dell’Antico Testamento, la sola autentica agli occhi del Corano. Non c’è infatti Nuovo Testamento, poiché il Cristo non sarebbe che un profeta, successore di Mosè. La verità è che il libro del Corano è stato scritto in Siria, da un cristiano giudaizzante, per gli Arabi di Siria. Non c’è nulla in questo libro infatti che lo possa far ricondurre o faccia riferimenti all’Arabia. Non si menziona mai né la Mecca, né Medina, né la Kaaba. Il tempio che si menziona invece, non può essere che quello di Gerusalemme, che occorre ricostruire! Nel corso dei secoli seguenti, i Cristiani di Occidente hanno infatti sempre considerato i musulmani come cristiani eretici. Essi li chiamavano Mori, abitanti della Mauritania, l’Africa romana, oppure Saraceni, popolazioni della Siria, ma mai Arabi, quando si tratta di riferirsi ai musulmani! Anche Dante, nel secolo XIV, mette Maometto tra i Cristiani eretici: quest’ultimo si lacera il petto in due parti, perché ha diviso la Chiesa in due. San Giovanni Damasceno (morto nel 749) accusa il fondatore dell’islam  “di avere avuto colloqui con un certo monaco ariano” e pone la “superstizione degli Ismaeliti” tra le eresie cristiane. – Precisiamo ancora che gli Arabi non hanno conquistato il resto del bacino mediterraneo. Quando la popolazione sotto la loro dominazione è passata nella loro “superstizione”, credendo tuttavia di rimanere cristiana, essi sono partiti all’avventura, i Siriani sui loro navigli per piratare le coste occidentali e fornire di schiavi gli harem d’Oriente, i Mauri sulla Spagna per saccheggiare e razziare, per insidiarsi nelle città prosperose. Si è notato che nei contingenti islamizzati, gli arabi erano una infima minoranza diluiti tra molteplici apporti stranieri. In Spagna c’erano quasi unicamente berberi, Tuaregh, slavi che erano antichi schiavi dell’Europa centrale, formanti corpi di giannizzeri, giungendo alle posizioni più elevate nell’Islam, nonché molti cristiani convertiti spontaneamente o con la forza, ed infine i Mozarabi, indigeni rimasti cristiani ma più o meno arabizzati e quasi assimilati. Solo le popolazioni delle campagne e delle montagne hanno resistito per lungo tempo ed efficacemente all’invasione dell’Islam, i Fellahs d’Egitto, i Kabili di Algeria, i Cristiani delle montagne del nord della Spagna. – Infine l’esistenza di Maometto è rimasta, diversi secoli dopo la conversione dell’Islam, sconosciuta alle popolazioni convertite. In Spagna, durante tutto l’VIII secolo e l’inizio del IX, nessuna opera polemica tra Cristiani e musulmani menziona la persona di Maometto. Nel 857, Eulogio scrive: « Siccome mi trovavo al monastero di Leyre (nel nord della Spagna), io presi conoscenza del desiderio di istruirmi con tutti i libri che vi erano riuniti, leggendo quelli che mi erano sconosciuti. Improvvisamente in una piccola opera anonima, scoprii una storiella su di un profeta nefasto »: era Maometto! Egli riassunse questa storia nella sua « Apologetica dei Martiri », e la inviò poi a Giovanni da Siviglia che la rese nota. Alvarez de Cordou parla di Maometto nel suo « Indiculus luminosus ». Un monaco di Sens, Gautier, compone un poema su di lui. Hildebert, vescovo di Mans, compone un altro poema in sedici canti, intitolato « Historia Mahumeti », composto nel 1100, nel quale Maometto è presentato come un barone del Medio Evo, circondato di vassalli devoti, e che forniva l’opinione che della sua persona si facevano i cavalieri delle crociate. È dunque a giusto titolo che l’Abate Bertuel pone la questione che resta ancora oggi senza risposta: « il solo mistero che sussiste è puramente di ordine storico: perché e come, dopo un secolo e mezzo di oblio dell’apostolo arabo, i musulmani del IX secolo hanno “fabbricato” delle vite di Maometto che dovevano diventare il pensiero universale degli adepti dell’Islam? » – Tutte le considerazioni che svilupperemo sono destinate unicamente a decantare una storia disseminata di leggende inverosimili e che ci permettono infine di dare una spiegazione giustificata e ragionata dei molteplici elementi gnostici che affiorano dappertutto nel pensiero musulmano, a cominciare dallo stesso testo del Corano. [1 – Continua…]

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA – FEBBRAIO 2018

FEBBRAIO è il mese che la CHIESA DEDICA alla SANTISSIMA TRINITA’ [2018]

All’inizio del mese è bene rinnovare il Credo Cattolico, autentico e solo, il Credo Atanasiano, le cui affermazioni, tenute e tenacemente professate contro tutte le insidie ed eresie della gnosi: modernista … protestante … massonica … pagana … comunisto-liberista … noachide-mondialista, permettono la salvezza dell’anima per l’eterna felicità.

 IL CREDO Atanasiano

 (Canticum Quicumque * Symbolum Athanasium)

“Quicúmque vult salvus esse, * ante ómnia opus est, ut téneat cathólicam fidem: Quam nisi quisque íntegram inviolatámque serváverit, * absque dúbio in ætérnum períbit. Fides autem cathólica hæc est: * ut unum Deum in Trinitáte, et Trinitátem in unitáte venerémur. Neque confundéntes persónas, * neque substántiam separántes. Alia est enim persóna Patris, ália Fílii, * ália Spíritus Sancti: Sed Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti una est divínitas, * æquális glória, coætérna majéstas. Qualis Pater, talis Fílius, * talis Spíritus Sanctus. Increátus Pater, increátus Fílius, * increátus Spíritus Sanctus. Imménsus Pater, imménsus Fílius, * imménsus Spíritus Sanctus. Ætérnus Pater, ætérnus Fílius, * ætérnus Spíritus Sanctus. Et tamen non tres ætérni, * sed unus ætérnus. Sicut non tres increáti, nec tres imménsi, * sed unus increátus, et unus imménsus. Simíliter omnípotens Pater, omnípotens Fílius, * omnípotens Spíritus Sanctus. Et tamen non tres omnipoténtes, * sed unus omnípotens. Ita Deus Pater, Deus Fílius, * Deus Spíritus Sanctus. Ut tamen non tres Dii, * sed unus est Deus. Ita Dóminus Pater, Dóminus Fílius, * Dóminus Spíritus Sanctus. Et tamen non tres Dómini, * sed unus est Dóminus. Quia, sicut singillátim unamquámque persónam Deum ac Dóminum confitéri christiána veritáte compéllimur: * ita tres Deos aut Dóminos dícere cathólica religióne prohibémur. Pater a nullo est factus: * nec creátus, nec génitus. Fílius a Patre solo est: * non factus, nec creátus, sed génitus. Spíritus Sanctus a Patre et Fílio: * non factus, nec creátus, nec génitus, sed procédens. Unus ergo Pater, non tres Patres: unus Fílius, non tres Fílii: * unus Spíritus Sanctus, non tres Spíritus Sancti. Et in hac Trinitáte nihil prius aut postérius, nihil majus aut minus: * sed totæ tres persónæ coætérnæ sibi sunt et coæquáles. Ita ut per ómnia, sicut jam supra dictum est, * et únitas in Trinitáte, et Trínitas in unitáte veneránda sit. Qui vult ergo salvus esse, * ita de Trinitáte séntiat. Sed necessárium est ad ætérnam salútem, * ut Incarnatiónem quoque Dómini nostri Jesu Christi fidéliter credat. Est ergo fides recta ut credámus et confiteámur, * quia Dóminus noster Jesus Christus, Dei Fílius, Deus et homo est. Deus est ex substántia Patris ante sǽcula génitus: * et homo est ex substántia matris in sǽculo natus. Perféctus Deus, perféctus homo: * ex ánima rationáli et humána carne subsístens. Æquális Patri secúndum divinitátem: * minor Patre secúndum humanitátem. Qui licet Deus sit et homo, * non duo tamen, sed unus est Christus. Unus autem non conversióne divinitátis in carnem, * sed assumptióne humanitátis in Deum. Unus omníno, non confusióne substántiæ, * sed unitáte persónæ. Nam sicut ánima rationális et caro unus est homo: * ita Deus et homo unus est Christus. Qui passus est pro salúte nostra: descéndit ad ínferos: * tértia die resurréxit a mórtuis. Ascéndit ad cælos, sedet ad déxteram Dei Patris omnipoténtis: * inde ventúrus est judicáre vivos et mórtuos. Ad cujus advéntum omnes hómines resúrgere habent cum corpóribus suis; * et redditúri sunt de factis própriis ratiónem. Et qui bona egérunt, ibunt in vitam ætérnam: * qui vero mala, in ignem ætérnum. Hæc est fides cathólica, * quam nisi quisque fidéliter firmitérque credíderit, salvus esse non póterit.”

L’adorazione della Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, con il mistero dell’Incarnazione e la Redenzione di Gesù-Cristo, costituiscono il fondamento della vera Fede insegnata dalla Maestra dei popoli, la Chiesa di Cristo, casta Sposa del Verbo, verità unica ed infallibile, via di salvezza, fuori dalla quale c’è la dannazione eterna!

O uomini, intendetelo quanto questo dogma vi nobiliti. Creati a similitudine dell’augusta Trinità, voi dovete formarvi sul di lei modello, ed è questo un dover sacro per voi. Voi adorate una Trinità il cui carattere essenziale è la santità, e non vi ha santità sì eminente, alla quale voi non possiate giungere per la grazia dello Spirito santificatore, amore sostanziale del Padre e del Figlio. Per adorare degnamente l’augusta Trinità voi dovete dunque, per quanto è possibile a deboli creature umane, esser santi al pari di lei. Dio è santo in se stesso, vale a dire che non è in lui né peccato, né ombra di peccato; siate santi in voi stessi. Dio è santo nelle sue creature: vale a dire che a tutto imprime il suggello della propria santità, né tollera in veruna il male o il peccato, che perseguita con zelo immanchevole, a vicenda severo e dolce, sempre però in modo paterno. Noi dunque dobbiamo essere santi nelle opere nostre e santi nelle persone altrui evitando cioè di scandalizzare i nostri fratelli, sforzandoci pel contrario a preservarli o liberarli dal peccato. Siate santi, Egli dice, perché Io sono santo. E altrove: Siate perfetti come il Padre celeste è perfetto; fate del bene a tutti, come ne fa a tutti Egli stesso, facendo che il sole splenda sopra i buoni e i malvagi, e facendo che la pioggia cada sul campo del giusto, come su quello del peccatore. Modello di santità, cioè dei nostri doveri – verso Dio, L’augusta Trinità è anche il modello della nostra carità, cioè dei nostri doveri verso i nostri fratelli. Noi dobbiamo amarci gli uni gli altri come si amano le tre Persone divine. Gesù Cristo medesimo ce lo comanda, e questa mirabile unione fu lo scopo degli ultimi voti che ei rivolse al Padre suo, dopo l’istituzione della santa Eucarestia. Egli chiede che siamo uno tra noi, come Egli stesso è uno col Padre suo. A questa santa unione, frutto della grazia, ei vuole che sia riconosciuto suo Padre che lo ha inviato sopra la terra, e che si distinguono quelli che gli appartengono. Siano essi uno, Egli prega, affinché il mondo sappia che Tu mi hai inviato. Si conoscerà che voi siete miei discepoli, se vi amate gli uni gli altri «Che cosa domandate da noi, o divino Maestro, esclama sant’Agostino, se non che siamo perfettamente uniti di cuore e di volontà? Voi volete che diveniamo per grazia e per imitazione ciò che le tre Persone divine sono per la necessità dell’esser loro, e che come tutto è comune tra esse, così la carità del Cristianesimo ci spogli di ogni interesse personale ». – Come esprimere l’efficacia onnipotente di questo mistero? In virtù di esso, in mezzo alla società pagana, società di odio e di egoismo, si videro i primi Cristiani con gli occhi fissi sopra questo divino esemplare non formare che un cuore ed un’anima, e si udirono i pagani stupefatti esclamare: « Vedete come i Cristiani si amano, come son pronti a morire gli uni per gli altri! » Se scorre tuttavia qualche goccia di sangue cristiano per le nostre vene, imitiamo gli avi nostri, siamo uniti per mezzo della carità, abbiamo una medesima fede, uno stesso battesimo, un medesimo Padre. I nostri cuori, le nostre sostanze siano comuni per la carità: e in tal guisa la santa società, che abbiamo con Dio e in Dio con i nostri fratelli, si perfezionerà su la terra fino a che venga a consumarsi in cielo. – Noi troviamo nella santa Trinità anche il modello dei nostri doveri verso noi stessi. Tutti questi doveri hanno per scopo di ristabilire fra noi l’ordine distrutto dal peccato con sottomettere la carne allo spirito e lo spirito a Dio; in altri termini, di far rivivere in noi l’armonia e la santità che caratterizzano le tre auguste persone, e ciascuno di noi deve dire a sé  stesso: Io sono l’immagine di un Dio tre volte santo! Chi dunque sarà più nobile di me! Qual rispetto debbo io aver per me stesso! Qual timore di sfigurare in me o in altri questa immagine augusta! Qual premura a ripararla, a perfezionarla ognor più! Sì, questa sola parola, io sono l’immagine di Dio, ha inspirato maggiori virtù, impedito maggiori delitti, che non tutte le pompose massime dei filosofi. [J.-J. Gaume, Catechismo di Perseveranza]

Queste sono le feste del mese di FEBBRAIO

1 Febbraio S. Ignatii Epíscopi et Martyris    Duplex

2 Febbraio In Purificatione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis *L1*

Primo Venerdì del mese

3 Febbraio Sanctae Mariae Sabbato  –Fer. S. Blasii Epíscopi Martyris Simpl.

Primo sabato del mese

4 Febbraio Dominica in Sexagesima    Semiduplex II classis S. Andreæ Corsini 

                                                                             Epíscopi et Confessoris    Duplex

5 Febbraio S. Agathæ Virginis et Martyris    Duplex *L1*

6 Febbraio S. Titi Epíscopi et Confessoris    Duplex

7 Febbraio S. Romualdi Abbatis    Duplex

8 Febbraio S. Joannis de Matha Confessoris    Duplex

9 Febbraio S. Cyrilli Episc. Alexandrini Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

10 Febbraio S. Scholasticæ Virginis    Duplex

11 Febbraio Dominica in Quinquagesima    Semiduplex 2nd class In   

        Apparitione Beatæ Mariæ Virginis Immaculatæ  – Duplex majus

12 Febbraio Ss. Septem Fundatorum Ordinis Servorum B. M. V.    Duplex

14 Febbraio Feria IV Cinerum  – Feria privilegiata

15 Febbraio SS. Faustini et Jovitæ    Simplex

18 Febbraio Dominica I in Quadr    Semiduplex I classis

21 Febbraio Feria Quarta Quattuor Temporum Quadragesimæ    Feria privilegiata

22 Febbraio In Cathedra S. Petri Apostoli    Duplex II classis *L1*

23 Febbraio S. Petri Damiani Confessoris  Duplex  Feria Sexta Quattuor Temporum  Quadragesimæ    Feria privilegiata

24 Febbraio S. Matthiæ Apostoli    Duplex II classis *L1*Sabbato Quattuor Temporum  Quadragesimæ    Feria privilegiata

25 Febbraio Dominica II in Quadr    Semiduplex I classis

27 Febbraio S. Gabrielis a Virg. Perdolente Confessoris    Duplex

BUON ESEMPIO

BUON ESEMPIO

[E. Barbier: “I Tesoti di Cornelio Alapide”; S.E.I. Ed. Torino, 1930 – vol. I]

1. – Necessità del buon esempio. — 2. Eccellenza e vantaggio del buon esempio. — 3. Sublimi esempi di Gesù Cristo e dei Santi. — 4. Quanto sia vantaggioso il buon esempio dei superiori. — 5. Perché gli scandalosi criticano le persone edificanti. — 6. In che consiste il buon esempio. — 7. Ricompense dei buoni esempi.-
1. – Necessità del buon esempio. – S. Gregorio dice: « Insegna con autorità colui che predica prima con l’esempio, poiché non si ha confidenza in colui le cui opere contraddicono alle parole ». Pastori, padri di famiglia, maestri, magistrati, padroni, superiori, che forza avranno le lezioni, gli avvisi, le correzioni vostre, se mentre insegnate agli altri, non riformate voi medesimi? (Rom. II, 21). « Parlar bene e viver male è forse altra cosa, dice S. Prospero, che condannarsi di propria bocca? ». E S. Bernardo soggiunge: « Cosa mostruosa è l’accoppiare un’alta posizione ad una vita vituperosa; una bocca eloquente a mani oziose; molte parole a poco frutto; un volto grave ad un operare leggero; una grande autorità ad uno spirito incostante; una faccia seria ad una lingua frivola ». Chi insegna e non fa ciò che insegna, veniva dall’abbate Pastore (Vit. Pat.) rassomigliato ad un pozzo che fornisce acqua a chi ne vuole, che lava le immondezze, e non può purificare se medesimo. È ancora simile alle pietre che lungo le strade indicano ai viaggiatori il cammino che devono seguire ed esse intanto se ne rimangono sempre fisse al loro luogo: « Bisogna, secondo l’avviso di S. Paolo, che noi rinunciamo alle opere delle tenebre, e ci vestiamo delle armi della luce » (Rom. XIII, 12) : « poiché siamo fatti spettacolo agli occhi del mondo, degli Angeli, degli uomini » (I Cor. IV, 9). « Noi siamo debitori, scrive S. Bernardo, del buon esempio verso il prossimo, e della buona coscienza verso noi medesimi ». La stessa cosa già inculcava S. Paolo ai Tessalonicesi, esortandoli a camminare per la via del bene per edificare coloro che erano tuttora fuori della Chiesa (1 Thess. IV, 12). E scrivendo agli Ebrei, insiste che si esortino vicendevolmente al bene finché dura quello che la Scrittura chiama, Giorno d’oggi, affinché non avvenga che alcuno sedotto dal peccato dello scandalo, rimanga indurato nella seduzione della colpa (Hebr. IlI, 13). Bisogna predicare Gesù Crocifisso più con l’esempio che con le parole. Viviamo di buone opere, perchè invano possederemmo la terra, se non la coltivassimo; essa non ci porterebbe frutto. « Comandiamo con l’esempio, dice S. Atanasio, e persuadiamo con la lingua ». « Quando le nuvole sono piene, scaricano piogge su la terra », leggiamo nell’Ecclesiaste (Eccle. XI, 3). Queste nuvole figurano gli uomini che non cessano di dare buon esempio. Fecondati dalla grazia del Signore, essi fanno il bene, spandono la vita sul loro cammino, mitigano l’ardore delle passioni, irrorano le anime aride e fanno loro produrre frutti abbondanti ed eccellenti di vita. « Chi ha l’ufficio di ammaestrare e guidare ed educare alla virtù i popoli, deve mostrarsi santo in tutto, ed in nulla riprensibile. Infatti chi ha da biasimare i peccati altrui, dev’essere senza macchia; perciò lasci d’insegnare il bene, colui che non si cura di praticarlo ». Anzi v’ha ben di peggio per questo tale; perché, come bene osserva S. Giovanni Crisostomo, « malamente vivendo egli indica, per così dire, a Dio il modo con cui deve condannarlo. Severo giudizio toccherà a colui che si studia di parlare bene, ma non pensa a viver bene. Comandare e non eseguire è un atteggiarsi a ipocrita e buffone. Dio ci ha scelti perchè risplendessimo: noi dobbiamo essere modelli. Sia lo splendore della nostra vita una pubblica scuola ed esemplare d’ogni genere di virtù ». Chi non pratica le cose che va insegnando, non è utile agli altri; anzi nuoce loro e condanna se stesso, perché, come dice la Scrittura, il Signore ha imposto a ogni uomo il dovere di procurare la salute del prossimo col buon esempio (Eccli. XVII, 12).» Bisogna che la pubblica stima renda testimonianza delle nostre azioni», dice S. Ambrogio; perché, come soggiunge S. Tommaso, « non si può a meno che disprezzare le parole di colui che ha costumi spregevoli ». Quindi S. Agostino esclama: « O voi che siete cristiani, date al prossimo degli esempi che diano la vita non la morte ».
2.- Eccellenza e vantaggio del buon esempio. — Su quelle parole del Cantico: «Io sono il fiore dei campi ed il giglio delle valli» S. Bernardo lasciò scritto: « Anche i costumi hanno i loro colori e i loro odori : il colore agli occhi della coscienza, l’odore nella fama. Il colore viene all’opera tua dalla bontà e dalla purità d’intenzione, l’odore dall’esempio di modestia e di virtù. Il giusto è in sè un giglio candido, e per il prossimo, un giglio odoroso ». Che cosa è la rosa? è la grazia della primavera: Che cosa è il buon esempio? la grazia della virtù, o, come lo chiama S. Paolo, « una parola di vita che mena alla gloria » (Philipp. II, 16). Dagli atti del corpo si conosce l’anima: i movimenti dell’uno sono la voce dell’altra. Col buon esempio si stimolano coloro coi quali si vive, a vigilare sul loro esteriore ed interiore; su gli occhi, su la lingua, su le orecchie, su le mani, sui piedi, su la mente, sul cuor loro. L’uomo che edifica gli altri col suo esempio è, al dire di S. Bernardo, un serbatoio riboccante, un canale che mena in abbondanza le acque della virtù (Serm. in Cantic.). Ed il pagano Seneca già notava nelle sue Lettere che « breve ed attraente è la strada dell’esempio, lunga e disgustosa quella dell’insegnamento ». Nulla può paragonarsi al modello che offre il cristiano virtuoso. A lui ci è lecito applicare quel detto del real Profeta a Dio: «Nella vostra luce noi vedremo la luce » (Psalm. XXXV, 10); infatti alla luce dei buoni esempi l’uomo scorge la bellezza della virtù e si sente stimolato a praticarla. Può dirsi del buon esempio che, a somiglianza di Gesù Cristo, esso rischiara ogni persona che viene in questo mondo; e di colui, che coi buoni esempi esala il profumo delle virtù, si può ripetere ch’egli è la via, la verità, la vita. Come del sole il quale diffonde nel suo corso per ogni dove torrenti di luce (Eccle. I, 6), il buon esempio risplende di meravigliosa bellezza, riscalda, feconda, vivifica tutto ciò che avvicina: è, come dice il Crisostomo, un’argomentazione a cui non si può contrastare. Quindi S. Gerolamo vede nella vita dei Santi una interpretazione chiara e incontrastabile delle Scritture sante. Tertulliano chiama il cristiano, un compendio del Vangelo; e S. Gregorio vede un gran dottore in colui che splende di molta santità p. La luce che spandono i giusti riempie di gioia il cuore (Prov. XIII, 3) e sgomina e atterra il demonio, il mondo, le passioni, perché le tenebre non possono sostenere la luce, dice S. Bernardo. Gedeone nascose delle lampade in vasi di creta, ma all’ora del combattimento rompe i vasi, e con la luce che improvvisamente risplende, spaventa il nemico, lo vince e lo mette in fuga. Le sorgenti d’acqua viva zampillano continuamente per dissetare e rinfrescare quelli che se ne vogliono giovare; ma se alcuno non vuole approfittarne, non lasciano perciò di scaturire. Il medesimo avviene del buon esempio… Il Concilio di Trento chiama il buon esempio una specie di predicazione continua; e S. Agostino dice che « la vita del cristiano ha da essere una predica di salute, perché i buoni esempi mandano fuori una voce più sonora e più potente che qualunque tromba ». E Gesù Cristo disse: «Risplenda la luce vostra in faccia agli uomini, sì, che essi vedano le vostre buone opere e diano gloria al Padre vostro che è ne’ Cieli » (Matth. V, 16), Il buon esempio dissipa le tenebre, apporta viva luce, traccia la retta strada. La virtù e le buone opere sono chiamate luce, 1° perché sono nate per la luce divina e illuminano gli uomini; 2° perché hanno origine da Dio, vera luce. Il buon esempio, dice S. Paolo, apporta la pace e la felicità e a chi lo dà e a chi lo riceve (Philem. 7) : trae a conoscere, amare, servire e glorificare Dio, soggiunge S. Pietro (1 Petr. II, 12). Per il buon esempio si osservano, si fanno osservare i comandamenti divini, aggiunge la Sapienza, e quindi l’uomo conserva se stesso e gli altri, illesi da ogni male (Sap. XIX, 6).
3.- Sublimi esempi di Gesù Cristo e dei Santi. — Gesù Cristo ha dato, in ogni istante della sua vita, al mondo intero i più sublimi esempi d’ogni genere di virtù; perciò l’Apostolo ci sprona a rivestirci di Gesù Cristo (Rom. XIII, 14). Gesù Cristo è nostra forza, nostra vita, nostro sposo, nostro cibo, nostra bevanda, nostro padrone e padre e fratello, nostro coerede e nostra eredità, nostra dimora ed ospite ed amico, nostro medico e medicina, nostra salute, ricchezza, luce e gloria, il sacerdote per antonomasia, la sorgente della grazia, della vita e della verità (Ioann. XIV, 6); sorgente da cui scaturisce l’abbondanza delle acque divine che dissetano le anime dei fedeli; visita la terra, l’innaffia e la feconda. Imitiamolo con una santa vita, così che possiamo ripetere, con S. Paolo, a chi ci vede: « Siate imitatori miei, come io lo sono di Cristo » (I Cor. XI, 1). Inspiriamoci agli esempi del Redentore e saremo di edificazione al nostro prossimo. « Teniamo fisso lo sguardo, dice l’Apostolo, nell’autore della nostra fede » (Hebr. XII, 2). « Gesù Cristo cominciò a fare, poi a insegnare », ci dicono gli Atti Apostolici (Act. I, 1). Così deve regolarsi il cristiano affinché ognuno si specchi in lui con piacere, desideri stargli dappresso, intenderlo, imitarlo, ed affinché gli uomini, vedendolo, credano di vedere un altro Gesù Cristo. Il cristiano è degno di questo nome, a misura che imita e presenta in sè Gesù Cristo; fuori di questo, il nome che porta è una parola vana… Il Redentore attestò di S. Giovanni Battista, che egli era « una lampada ardente e splendida » (Ioann. V, 35). E S. Bernardo fa la seguente osservazione : Vana cosa è il risplendere solamente, ma nulla il solamente ardere; ma ardere e risplendere insieme è la perfezione. S. Giovanni Battista era una lampada ardente e splendente; e non prima splendente poi ardente, ma prima ardente e poi splendente. La sua luce proveniva dal fervore che l’infiammava, e non già il fervore nasceva dalla luce che diffondeva. Per ciò vanità ed errore è il brillare per io splendore dell’ingegno, ed intanto essere privo del fuoco della pietà. S. Gregorio Nazianzeno dice di S. Basilio, che la parola di lui era tuono, perchè la sua vita era folgore ». I Santi spandono il buon odore di Gesù Cristo; e questo è « odore di vita che risuscita i popoli », come si esprime S. Paolo (lI Cor. II, 15-16). Più si pestano gli aromi, e più spandono all’intorno grato odore; così, più Gesù Cristo, gli Apostoli, i Martiri, i Confessori, e tutti i Santi furono pigiati e pesti dalle tribolazioni e dalle persecuzioni, più abbondante sparsero il soave e divino odore del buon esempio e d’ogni virtù. Ad imitazione del grande Apostolo, tutti i Santi hanno fatto il bene non solamente innanzi a Dio e per Iddio, ma ancora in faccia agli uomini e per la salvezza loro (Il Cor. VIII, 21). S. Bernardo racconta del santo vescovo Malachia, che non muoveva membra senza che lo spingesse una ragione, e mirasse all’edificazione del prossimo. S. Luciano, prete e martire, convertì un gran numero di pagani con la modestia, serenità e pietà del suo sguardo. E di lui si narra, come essendo venuto alle orecchie dell’imperatore Massimiano per relazione di parecchie persone, che il volto suo inspirava tanto rispetto ed amore, che se egli l’avesse veduto si sarebbe fatto cristiano, gli fece velare il capo, per timore che quella vista convertisse lui e gli assistenti (Babon. Ann.). Udite S. Gregorio: In Abele contemplate uno specchio d’innocenza, in Enoch un modello di purità d’intenzione. Noè ci stimola col suo esempio a perseverare e non lasciarci mai cadere di speranza; Abramo ci addita fin dove deve spingersi la nostra obbedienza; Giobbe ci insegna la costanza nelle traversie; Mosè quale dev’essere la dolcezza e la mansuetudine. Così i Santi splendono, come stelle nel firmamento, per illuminarci e additarci la via delle buone opere, che è quella del Cielo. Quanti Santi Dio ha fatto, altrettanti astri splendenti ha creato per fugare le tenebre che avviluppano i peccatori (Lib. moral). Dopo ciò s’intende il senso di quelle parole di S. Paolo agli Ebrei: « Poiché siamo circondati da così gran numero di testimoni, liberiamoci di tutto ciò che ci pesa, spezziamo i legami del peccato, e corriamo mediante la pazienza, nell’arena che ci sta aperta dinanzi» (Hebr. XII, 1). Chi aspira alla santità, consideri la vita dei Santi, imiti i loro esempi, attinga al fuoco ed alla smagliante chiarezza di questi astri divini la luce dello spirito e la fiamma del cuore. A imitazione de’ Santi il cristiano procura, come dice S. Gregorio, di difendere con le parole il suo modo di vivere, e di far parere belle, con l’esempio della vita, le sue parole, non guardando in tutto questo alla sua gloria, ma a quella di Dio e alla salute del prossimo; e appunto perchè mira soltanto a questo doppio scopo, la gloria gli tien dietro e lo circonda, come dice S. Gerolamo di Santa Paola: Ella fuggiva la gloria, e la gloria la seguiva… «La vita del giusto, leggiamo ne’ Proverbi, somiglia al sole nascente il quale s’avanza e cresce fino alla pienezza del giorno » (Prov IV, 18). « Il cristiano persuade ancora prima di parlare, soggiunge il Crisostomo, a quel modo che lo splendore del sole fuga le tenebre al primo suo spuntare sull’orizzonte ». « I giusti sono gli angeli della terra, sono divinità provviste di corpo… L’occhio di Dio li contempla amoroso, dice l’Eaclesiastico, li esalta a misura che s’abbassano : e molti, dopo di averli osservati, cominciarono a onorare Dio » (Eccli. XI, 13). Il Papa Clemente VI nota, ad elogio di S. Tommaso d’Aquino, come egli fosse l’esemplare d’ogni virtù, perché ogni suo membro dava un insegnamento particolare : gli si leggeva la semplicità negli occhi, la bontà sul viso, l’umiltà nel suo modo di ascoltare; aveva la sobrietà nel gusto, la verità nella bocca; tutto all’intorno spandeva un profumo di virtù; irreprensibili ne erano le azioni, liberale la mano, grave il portamento, riserbato e grazioso il tratto, pietoso il cuore, splendido e acuto l’ingegno. La sua bontà era affettuosa, l’anima santa e ardente di carità. Fu, in una parola, il ritratto del cristiano esemplare, l’immagine vivente della virtù. S. Bernardo dice di S. Andrea apostolo, che « su la croce predicava Gesù Cristo crocefisso »; e Tertulliano, parlando dei primi cristiani, afferma che « coprivano di vergogna il vizio, con la sola loro presenza ».
4. – Quanto sia vantaggioso il buon esempio dei superiori. — Del Centurione sta scritto nel Vangelo, che credette lui e tutta la sua famiglia (Ioann. IV, 53). « L’anima mia, cantava il Salmista, servirà Dio e i miei posteri m’imiteranno » (Psalm. XXI, 31). Un pastore, un re, un magistrato, un padre di famiglia, un padrone, ecc. che danno buon esempio, procurano la gloria di Dio…, il trionfo della religione… la salute delle anime…; vedete Costantino…, Carlomagno…, S. Luigi.,. Portatevi a quella casa governata da un padre, da una madre edificanti… Che ordine, regolarità, felicità, ecc. Quanto disastrose non sono, al contrario, le conseguenze del cattivo esempio!
5. Perché gli scandalosi criticano le persone edificanti. — « Non vi prenda meraviglia, o fratelli, diceva S. Giovanni, se il mondo vi odia » (I Ioann. III, 13). Cinque sono i motivi che spingono i malvagi a criticare e condannare le persone edificanti. Il primo è la dissomiglianza de’ costumi; perchè se la somiglianza inclina all’amore, la difformità induce all’odio. II secondo è l’invidia… Il terzo è il dispetto che provano i mondani, vedendo i cristiani separarsi da loro e fuggire la loro compagnia. Il quarto è che non possono sostenere i rimproveri delle persone virtuose, poiché queste, con la loro vita, sono una severa condanna della malvagia condotta. Il quinto sta nell’opposizione che esiste tra i figli del secolo ed i santi; quelli son gonfi d’amor proprio, questi non si muovono che per amor di Dio.
6. In che consiste il buon esempio. — La perfezione del buon esempio si trova in quella esortazione di S. Paolo ai Romani: «Vestitevi di Gesù Cristo » (Rom. XIII, 14); e vestirsi di Gesù Cristo vuol dire, insegna il Crisostomo, rappresentare Gesù Cristo in tutte le nostre azioni con la santità e la mansuetudine (Homil. ad pop.). Sia dunque il cristiano un ritratto fedele, una viva immagine di Gesù Cristo; è questo per lui un sacro dovere solennemente contratto al fonte battesimale : là egli si è obbligato a rappresentare Gesù Cristo nella sua vita, nelle sue opere, nel suo esteriore, in tutto se stesso insomma. È cosa certa che tutti i cristiani dovrebbero essere altrettanti Cristi per l’imitazione e l’esempio; poiché ci avverte S. Gerolamo : « dover la vita e la conversazione del cristiano essere ordinata in modo che ne’ suoi gesti, nei portamenti, nelle azioni tutte traspiri la grazia celeste ». « Fate ogni cosa senza mormorazioni né dispute, scriveva il grande Apostolo ai Filippesi; affinché siate irreprensibili e sinceri figli di Dio, scevri di colpa in mezzo ad una nazione prava e perversa tra cui risplendete come luminari nel mondo, portando la parola di virtù » (Philipp. II, 14-16). S. Ambrogio così commenta queste parole: L’Apostolo avverte i cristiani e loro intima che ricordino la loro professione e vi corrispondano, affinché splendano tra gli increduli, come il sole e la luna in mezzo alle stelle, e servano con la vita, con le parole, con i costumi, di modello a chi li guarda (In Epl. ad Philipp.). «L’Apostolo, dice il Crisostomo, esorta i cristiani a gettare luce e splendore nelle tenebre del secolo, come altrettanti astri ». « Vuole, soggiunge S. Anseimo, che siano astri i quali, fissi nel Cielo, non sono punto solleciti di quello che avviene su la terra, ma intendono unicamente a compiere il loro corso e a illuminare il mondo ». Noi dobbiamo essere fari che rischiarano e guidano al porto i navigatori erranti nella notte e fra le tempestose vicende del mondo aiutarli ad evitare il naufragio e a tener la prora volta alla città santa: dobbiamo somigliare a quella donna dell’Apocalisse, immagine della Beata Vergine e della Chiesa, la quale è vestita di sole con la luna sotto i piedi ed una corona di dodici stelle attorno il capo (Apoc. XII, 1). Sia calma la voce, modesto il portamento, decente l’atteggiamento, circospetto il tratto, dimesso lo sguardo, la mente nutrita di buoni pensieri, l’anima al Cielo. Imitiamo i Tessalonicesi a cui lode S. Paolo scriveva: « Voi siete stati esempio a tutti i credenti nella Macedonia e nell’Acaia. Poiché da voi si divulgò la parola di Dio non solamente per la Macedonia e l’Acaia, ma di più per ogni luogo si propagò la fede che voi avete in Dio, tanto che non occorre che ne parliamo… Tutti raccontano il buon successo da noi ottenuto in mezzo a voi, e come vi convertiste dagli idoli a servire il Dio vivo e vero e ad aspettare il Figliuolo di lui dal Cielo (cui Egli risuscitò da morte), Gesù, il quale ci sottrasse all’ira che è per venire » (I Thess. I, 7-10). Dei Romani il medesimo Apostolo attestava che la loro fede era celebre su la bocca di tutto il mondo (Rom. I, 8); esortava il discepolo Timoteo ad essere esempio di carità, di fede, di castità ai fedeli, nei discorsi e nel tratto (I Tim. IV, 12); e animava gli Ebrei a vigilarsi vicendevolmente per provocarsi alla carità e alle buone opere (Hebr. X, 24). Finalmente suggeriva a Tito che si mostrasse modello di buone opere in tutto, con la dottrina, con la purità dei costumi, con la gravità (Tit. II, 7). Anche Socrate ordinava a’ suoi discepoli di acquistare e praticare queste tre virtù: 1° la prudenza; 2° il silenzio; 3° la modestia (Anton, in Meliss.). Quando per la prima volta si trattò di scegliere e stabilire de’ diaconi, gli Apostoli ammonirono i fedeli che cercassero e scegliessero di mezzo a loro sette persone d’integra fama, piene di Spirito Santo e di prudenza (Act. IV, 3). Il buon esempio richiede che noi viviamo in qualche modo come S. Bernardo il quale così ci fu dipinto da uno storico : La serenità brillava sul suo viso, la modestia regolava il suo portamento, la più consumata prudenza informava le sue parole: cauto nelle imprese, assiduo nell’orazione, pio nella meditazione, grande nella fede, fermo nella speranza, infiammato di carità, egli portava come speciale contrassegno un’umiltà profonda ed una pietà tenerissima. Prudente nei consigli, utile negli affari, lieto tra gli insulti, sempre pronto a far servigi, di costumi soavissimi, santo per i suoi meriti, egli era pieno di saggezza, di virtù e di grazia presso Dio e presso gli uomini. « Bisogna, dice S. Agostino, che gli adoratori e servi di Dio siano così mansueti, gravi, prudenti, pii, irreprensibili, immacolati, che chiunque li incontri li ammiri, e dica: Costoro son tutti dei ». Non per gli ornamenti del corpo, ma per quelli dell’anima, che sono la modestia e l’innocenza, noi dobbiamo distinguerci. A proposito di quella sentenza di Gesù Cristo, « portate nelle vostre mani lampade ardenti» (Luc. XII, 35), S. Gregorio scrive: « Noi abbiamo in mano lampade ardenti, quando per mezzo di buone azioni porgiamo agli altri luminosi esempi ». Udite ancóra S. Giovanni Crisostomo e S. Martino, il primo de’ quali ci dice che, « bisogna condurre una vita incolpata, affinché chi ci osserva, veda in noi e nella vita nostra uno specchio tersissimo. Potremmo quasi far a meno delle parole, se la nostra vita splendesse di santità ». Il secondo poi vorrebbe che dalla bocca nostra non uscissero che parole di pace, di castità, di carità, di religione; che il mondo vi trovasse ben di rado eco, e spesso vi risuonasse Cristo. Si possono anche applicare ai laici quelle prescrizioni che indirizzava al Clero il Concilio di Trento: «E assolutamente necessario che i chierici, chiamati al servizio del Signore, regolino così rettamente la vita ed i costumi loro, che e nel vestire, e nel trattare, tutto in essi spiri gravità, compostezza, religiosità, affinché quanti li osservano si sentano attratti dalle loro azioni a venerarli ».
7. Ricompense dei buoni esempi. — « Quelli che hanno la scienza, leggiamo in Daniele, rifulgeranno come la luce del firmamento, e quelli che insegnano a molti la giustizia, risplenderanno come stelle per tutta l’eternità» (Dan. XII, 3). Ora, il segno più incontrastabile e chiaro della vera scienza, ed il miglior mezzo d’istruire, consiste nel menare una vita esemplare… Per il buon esempio noi otteniamo quaggiù la pace, la grazia, una buona morte, e, nell’altro mondo, una felicità imperitura.

L’AGONIA DI GESU’: PRIMO VENERDI’ di Quaresima

[p. Umberto Banci: L’AGONIA DI GESU’, Libr. Pontif. F. Pustet Roma – 1935, impr.]

PRIMO VENERDÌ DI QUARESIMA

In nomine Patris et Filli et Spiritus Sancti. Amen.

Actiones nostras, quæsumus  Domine, adspirando præveni et adiavando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a Te semper incipiat et per Te cœpta finiatur. Per ChrIstum Dominum nostrum. Amen.

[Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia. Inspira, o Signore, le nostre azioni ed accompagnale col tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera e opera da Te sempre incominci e col tuo aiuto sempre si compia. Per Cristo nostro Signore. Così sia.]

INVITO

Già trafitto in duro legno/Dall’indegno popol rio

La grand’alma un Uomo Dio, / Va sul Golgota a spirar.

Voi, che a Lui fedeli siete, /Non perdete, o Dio, i momenti

Di Gesù gli ultimi accenti /Deh! venite ad ascoltar.

 PRIMA PAROLA DI GESÙ IN CROCE

Pater, dimitte ìllis, non enim sciunt quid faciunt.

[Padre, perdona loro, perché non sanno quel che fanno.]

(LUCA, cap. XXIII, v. 34).

CONSIDERAZIONE

Era quasi l’ora sesta del venerdì precedente la solennità della Pasqua ebraica, quando sul Calvario, alla vista del popolo ivi accorso, fu alzata la croce, dalla quale pendeva inchiodato Gesù. Nel tempio di Gerusalemme, invitato dallo squillo delle sacre trombe, si andava raccogliendo il popolo per l’uccisione dell’agnello. Ma è ormai giunto il momento che alla figura debba succedere la realtà, ed ecco che sul Calvario si immola il vero Agnello immacolato, venuto a togliere i peccati del mondo. E poiché durante la sua suprema immolazione fa udire ancora la sua voce, tu, anima cristiana, in questo, come negli altri venerdì della santa Quaresima, sacri in modo particolare all’agonia di Gesù, fatti un dovere di raccoglierti alcuni istanti ai piedi di quella croce dalla quale salla quale l’umanità del Salvatore, salterio vivente, fece udire i suoi ultimi canti. È cosa buona per noi lo star qui, aveva esclamato Pietro sul monte Tabor, rapito in estasi meravigliosa dinanzi a Gesù raggiante di splendore divino. Ma il Calvario, o anima cristiana, è per te più utile che non sia il Tabor; perché quella croce è stata e sarà sempre per l’umanità un libro divino nel quale noi impariamo a conoscere la grandezza e la miseria dell’uomo; una cattedra nello stesso tempo lugubre e gloriosa, che ci rivela il grande e profondo mistero del dolore cristiano ». Sì, anima cristiana, è cosa buona per te lo star qui, sul Calvario, dinanzi a Gesù trasfigurato dal dolore; quelle ultime parole, che tu udrai uscire dal suo labbro, compendiano, in una sintesi meravigliosa, la sua celeste dottrina. Loquere Domine digli dunque col giovanetto Samuele: « Parla pure, o Signore, poiché ecco il tuo servo sta qui ad ascoltarti ». [I Re, III, 10]

Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.

Gesù che fino allora, pur dinanzi a tante ingiustizie e straziato da tanti tormenti, aveva conservato un dignitoso silenzio, appena salito sulla croce apre le labbra ed incomincia a parlare. Era una cosa frequente che il crocifisso, in preda agli spasimi ed al delirio di una febbre cocentissima, con insulti e maledizioni sfogasse sui suoi carnefici la sua rabbia disperata ed impotente. Ma Gesù non impreca, non maledice; le sue prime parole sono una preghiera, che rivolge al Padre suo. E per chi prega Gesù? Lì ai suoi piedi, addolorate e piangenti, stanno raccolte le pie donne; vi è S. Giovanni, il discepolo prediletto, vi è Maria Santissima, la Madre addolorata, dal cui volto traspare il cordoglio che tormenta il suo cuore. Ma non è per loro che prega Gesù; anzi sembra nemmeno accorgersi della loro presenza. Sai a chi pensa Gesù in quel momento? A coloro che fino allora invano aveva cercato di raccogliere sotto le ali della sua misericordia; a coloro che col più orrendo dei delitti stanno ora provocando la divina giustizia. Non aveva Egli detto di essere disceso dal cielo non già per i giusti, bensì per i peccatori? Non è Egli il medico celeste che va in cerca dei malati, il pastore buono che lascia nel deserto le novantanove pecorelle, che sono al sicuro, per andare in cerca della pecorella smarrita? Dunque per i peccatori sono le sue preferenze, per i suoi nemici è la sua preghiera. E guarda in quale stato essi lo hanno ridotto! Il suo corpo porta i segni del loro odio; ha la testa coronata di spine, i capelli sparsi, annodati da grumi di sangue, il volto gonfio di lividure e solcato di lacrime e di sangue, le mani ed i piedi squarciati dai chiodi, le spalle ed il petto lacerati dai flagelli. Si è avverato alla lettera quanto aveva predetto il Profeta: Dalla pianta dei piedi fino alla sommità del capo noti è in Lui sanità, ma ferite, lividure, piaghe sanguinanti [Is. I, 6]. Guarda ora Intorno: a destra ed a sinistra di Gesù due famosi ladri si contorcono negli spasimi di uno stesso supplizio; sono stati messi lì perché il ricordo delle loro scelleratezze gettasse un’ombra d’infamia su Gesù, già tanto vilipeso ed infamato. Ed i suoi nemici sono lì, confusi tra la folla dei soliti sfaccendati, che la curiosità ha spinto sul Calvario; sono venuti a godersi i trionfi della loro perfidia. E mentre i crocifissori, indifferenti a quella scena di dolore, sono intenti a dividersi tra loro le spoglie dei crocifissi, essi, implacabili nel loro odio, hanno per la loro vittima parole di scherno e di bestemmia. Vah! Dicono crollando il capo, tu che distruggi il tempio di Dio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso; se sei Figliuolo di Dio scendi dalla croce. Ha salvato altri, esclamano i Principi dei Sacerdoti insieme agli Scribi ed agli Anziani, non può salvare se stesso! Se è il Cristo, re d’Israele, scenda dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio, lo liberi adesso, se gli vuol bene; imperocché ha detto: sono Figliuolo di Dio [Mt. XXVII, 42-43]. Ed i soldati ancora, offrendogli dell’aceto, soggiungono: Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso [Lc. XXIII, 37]. Così si insulta, si deride, si bestemmia Gesù, che agonizza. E nulla ti vieta di pensare che coloro, i quali trattavano così Gesù, siano i suoi beneficati, i guariti nelle anime e nei corpi! E Gesù li ode tutti questi oltraggi, che feriscono il suo cuore più che le spine ed i chiodi non strazino il suo corpo. Eppure le acque di tanta crudeltà non riescono ad estinguere l’amoroso incendio della sua carità; che anzi, prodigio ineffabile dell’amore di Dio, tanto più esso si accende, quanto più l’umana perfidia si ostina nell’ingratitudine. E prima che la voce del suo sangue, ben più innocente del sangue di Abele, gridi dalla terra al cielo, ed il Padre adirato segni in fronte ai fratricidi il marchio della sua maledizione, non appena il tremito convulso, che al momento della crocifissione dovette invadere tutto il suo corpo, gli permette di parlare, Egli, che già in cuor suo aveva perdonati tutti i suoi nemici, si affretta a sollecitare per loro anche il perdono del Padre suo: Padre, perdona loro. Ed affinché la sua domanda non sia respinta dalla divina giustizia ormai troppo offesa, li scusa nel miglior modo che può, adducendo la loro ignoranza: perché non sanno quello che fanno!

* * *

Quale sublime lezione per te, anima cristiana, per te che non sai perdonare una piccola offesa; che serbi rancore per ogni piccolo torto ricevuto. Pensa, anima cristiana, che non sarai mai degna di Gesù se di cuore tu non perdoni. Ed hai tanto bisogno della misericordia del Signore! E Gesù, asceso al cielo, sta sempre dinanzi al Padre suo, come dice l’Apostolo S. Paolo, ad interpellare per Noi [Ebr. VII, 25], a ripetere per te la sublime preghiera: Padre, perdona. Ma rileggi qui le parole di Gesù; esse ti diranno a quale condizione potrai ottenere il perdono. Se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno altrettanto forse i pubblicani? E se salutate solo i vostri fratelli, che fate di speciale? Non fanno pure così anche i gentili? Ma io vi dico: amateli i vostri nemici; fate del bette a coloro che vi odiano e pregate per coloro che vi perseguitano e calunniano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli [Mt. V, 44 e segg.]. E con queste parole, comprendilo bene, anima cristiana, Gesù non ti ha voluto suggerire un consiglio, ma ti ha voluto imporre un precetto. E forse questo il più grande dei suoi precetti, ma è una conseguenza necessaria di quella carità che è a fondamento della nuova legge; ed è diretto a colpire in te lo spirito di vendetta, l’odio, il risentimento; a distruggere ciò che in te vi è di umano per elevarti fino a Dio, il quale non è che carità: Deus caritas est! E dall’osservanza di questo precetto dipende la tua salvezza, perché sta scritto: Perdonate, e vi sarà perdonato. Ed affinché questo comando non ti cadesse di mente, ha voluto rammentartelo ogni qualvolta reciti la preghiera, che Lui stesso ti ha insegnata: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Né le tue offerte saranno a Dio gradite, né le tue preghiere saranno da Lui ascoltate quando non sei in pace col tuo prossimo. Se stai per fare l’offerta all’altare e ti sovviene che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, deponi la tua offerta davanti all’altare, e va a riconciliarti col tuo fratello e poi ritorna a fare la tua offerta [Mt. V, 23] … perché se perdonate agli uomini le loro mancanze, il Padre vostro celeste vi perdonerà i vostri peccati; ma se non perdonate agli uomini, nemmeno il Padre vostro perdonerà a voi le vostre mancanze giacché: Sarà misurato a voi con la stessa misura, con la quale avrete misurato [ Lc. VI, 38]. E prima di morire volle, col suo esempio, dare dalla croce a questo insegnamento la più autorevole conferma. L’hai proprio ora ascoltata la sublime preghiera: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno. Ti è difficile, anima cristiana, perdonare le offese, e più difficile ancora è per te amare i tuoi nemici? Ma Gesù non ha forse detto: Chi vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua? [Mt. XVI, 24]. Risolviti dunque a rinnegare questa natura guasta dal peccato; impegnati a soffocare i naturali risentimenti ed a maturare nel tuo cuore il sentimento del più generoso perdono, ed allora soltanto sarai degno di Gesù. Chi non porta la sua croce e così mi segue, non può essere mio discepolo [Lc. XIV, 27]. In alto dunque il cuore, sollevalo alle sublimi altezze della carità cristiana; prendila questa croce e guarda a Gesù; il suo esempio te ne renderà leggero il peso.

Breve pausa, poi si reciti la seguente:

PREGHIERA

O Gesù mio amabilissimo, ammiro e benedico la vostra carità infinita che lungi dal raffreddarsi rende sempre di nuovo ardore dinanzi all’ingratitudine nostra. No, non è col discendere dalla croce che potevate dimostrarmi la vostra divinità; la prova migliore me l’avete data con la vostra preghiera, perché solo un Uomo-Dio poteva pregare come avete pregato Voi. E quanto dovrei confondermi, o mio Salvatore, al pensiero che quando sulla croce invocaste il perdono sui vostri nemici, anch’io ero presente al vostro sguardo, perché purtroppo anche su di me si sono tante volte avverate le parole dell’Apostolo: Hanno crocifisso nuovamente in se stessi il Figliuolo di Dio, e lo hanno esposto all’ignominia [Ebr. VI, 6] . Vi ringrazio, o mio Salvatore, di avere anche per me implorato dal Padre vostro il vostro generoso perdono; veramente anch’io, quando vi ho offeso, oltraggiandovi e bestemmiandovi, non sapevo davvero che cosa mi facessi. E poiché so che Voi, o mio Gesù, non vi contentate di sole parole, vi offro tutte quelle pene che il mio prossimo mi cagiona, depongo qui ai piedi vostri tutti i miei risentimenti, ed in Voi e per Voi voglio amare i miei nemici; così potrò, con la certezza di essere esaudito, rivolgervi la preghiera: Dimitte nobis debita nostra; perdonatemi, o Signore, perché anch’io perdono. – O Maria Santissima, Voi che stando ai piedi della croce faceste vostri i desideri ed i sentimenti di Gesù, interponete la vostra materna intercessione presso il Divin Padre, affinché Egli, che ha sempre esaudito il suo e vostro Figlio diletto, ascolti quella voce che domanda perdono. Non guardate, o Vergine addolorata, alle mie colpe così gravi e così numerose, delle quali mi pento con tutto il cuore, ma guardate a quel sangue che anche per me è sparso; ascoltate la voce del vostro cuore materno ed allora son sicuro che non permetterete mai che sia abbandonato un figlio, sia pure indegno, ma sinceramente pentito. Così sia.

Pater, Ave e Gloria.

Di mille colpe reo,

Lo so, Signore, io sono:

Non merito perdono,

Né più il potrei sperar.

Ma senti quella voce,

Che per me prega, e poi

Lascia, Signor, se puoi,

Lascia di perdonar.

GRADI DELLA PASSIONE

1. V. Jesu dulcissime, in horto mœstus, Patrem orans,

et in agonia positus, sanguineum sudorem effundens;

miserere nobis.

R). Miserere nostri Domine, miserere nostri.

2. V. Jesu dulcissime, osculo traditoris in manus

impiorum traditus et tamquam latro captus et ligatus

et a discipulis derelictus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

3. V. Jesu dulcissime ab iniquo Iudæorum concilio

reus mortis acclamatus, ad Pilatum tamquam malefactor

ductus, ab iniquo Herode spretus et delusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

4. V . Jesu dulcissime, vestibus denudatus, et in

columna crudelissime flagellatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

5. V. Jesu dulcissime, spinis coronatus, colaphìs

cæsus, arundine percussus, facie velatus, veste purpurea

circumdatus, multipliciter derisus et opprobriis

saturatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

6. V . Jesu dulcissime, latroni Barabbæ postpositus,

a Judæis reprobatus, et ad mortem crucis injuste condemnatus;

miserere nobis.

R). Miserere etc.

7. V . Jesu dulcissime, tigno crucis oneratus, ad locum supplicii tamquam ovis ad occisionem ductus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

8. V. Jesu dulcissime, inter latrones deputatus,

blasphematus et derisus, felle et aceto potatus, et

horribilibus tormentis ab hora sexta usque ad horam

nonam in ligno cruciatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

9. V. Jesu dulcissime, in patibulo crucis, mortuiis et

coram tua sancta Matre lancea perforatus simul

sanguinem et aquam emittens; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V . Jesu dulcissime, de cruce depositus et lacrimis

mœstissimæ Virgiuis Matris tuæ perfusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V. Jesu dulcissime, plagis circumdatus, quinque

vulneribus signatus, aromatibus conditus et in

sepulcro repositus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V . Adoramus Te Christe, et benedicimus Tìbi.

R). Quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum.

OREMUS

Deus, qui prò redemptione

mundi nasci voluisti,

circumcìdì, a Judæis reprobavi

et Judæ traditore

osculo tradi, vinculis alligavi,

sic ut agnus innocens

ad victimam duci, atque

conspectibus Annæ, Caiphæ,

Pilati et Herodis

indecenter offevri, a falsis

testibus accusari, flagellis

et colaphis cædi, opprobriis

vexari, conspui, spinis

coronari, arundine percuti,

facie velari, vestibus

spoliari, cruci clavis af-

Jigi, in cruce levari, inler

latrones deputari, felle et

aceto potari et lancea vulnerari;

Tu Domine, per

has sanctissimas pœnas,

quas ego indignus recolo,

et per sanctissimam crucem

et mortem tuam libera

me a pœnis inferni et perducere

digneris quo perduxisti

latronem tecum

crucifixum. Qui cum Patre

et Spiritu Sancto vivis

et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

[1. V . O dolcissimo Gesù, triste nell’orto, al Padre con la preghiera rivolto, agonizzante e grondante sudore di sangue; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi, o Signore, abbi di noi pietà.

2. V . O dolcissimo Gesù, con un bacio tradito e nelle mani degli empi consegnato, e come un ladro preso e legato e dai discepoli abbandonato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

3. V . O Gesù dolcissimo, dall’iniquo Sinedrio giudaico reo di morte proclamato, e come malfattore a Pilato presentato, e dall’iniquo Erode disprezzato e schernito; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

4. V . O dolcissimo Gestì, delle vesti spogliato, e c rudelmente alla colonna flagellato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

5. V. O dolcissimo Gesù, di spine coronato, schiaffeggiato, con la canna percosso, bendato, di rossa veste rivestito, in tanti modi deriso e di obbrobri saziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

6. V. O dolcissimo Gesù, al ladro Barabba posposto, dai Giudei riprovato; ed alla morte di croce ingiustamente condannato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

7. V. O dolcissimo Gesù, del legno della croce gravato, e come agnello al luogo del supplizio condotto, per esservi immolato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

8. V. O dolcissimo Gesù, tra i ladroni annoverato, bestemmiato e deriso, di fiele e di aceto abbeverato, e con orribili tormenti dall’ora sesta fino all’ora nona nel legno straziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

9. V. O dolcissimo Gesù, sul patibolo della croce morto, ed alla presenza della tua santa Madre con la lancia trafitto versando insieme sangue ed acqua; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

10. V. O dolcissimo Gesù, dalla croce deposto, e dalle lacrime dell’afflittissima tua Vergine Madre bagnato;abbi di noi pietà

R). Pietà di noi ecc.

11. V. O dolcissimo Gesù, di piaghe coperto, da cinque ferite trafitto, di aromi cosparso, e nel sepolcro deposto; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

V. Ti adoriamo, o Cristo, e Ti benediciamo.

R). Poiché con la tua santa croce hai redento il mondo.

PREGHIAMO

O Dio, che per la redenzione del mondo volesti nascere, essere circonciso, dai Giudei riprovato, da Giuda traditore con un bacio tradito, da funi avvinto, come agnello innocente al sacrifizio condotto, ed in modo indegno ad Anna, Caifa, Pilato ed Erode presentato, da falsi testimoni accusato, con flagelli e schiaffi percosso, con obbrobri oltraggiato, sputacchiato, di spine coronato, con la canna percosso, bendato, delle vesti spogliato, alla croce con chiodi confitto, sulla croce innalzato, tra i ladroni annoverato, di fiele e di aceto abbeverato, e con la l’ancia ferito; Tu, o Signore, per queste santissime pene, che io indegno vado considerando, e per la tua croce e morte santissima, liberami dalle pene dell’inferno e, desiati condurmi dove conducesti il ladrone penitente con Te crocifisso. Tu che col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni nei secoli dei secoli. Così sia.]

CANTO DEL TEMPO DI QUARESIMA

Attende, Domine, et miserere, quia peccavìmus Tìbi.

R). Attende, Domine, et miserere, quia peccavimus Tibi.

V. Ad Te, rex summe,

omnium redemptor,

oculos nostros sublevamus

flentes; exaudi Christe,

supplicantium preces.

R). Attende etc.

2. V. Dextera Patris, lapis

angularis, via salutis,

janua cœlestis, ablue nostri

maculas delicti.

R). Attende etc.

3. V . Rogamus, Deus,

tuam majestatem, auribus

sacris gemitus exaudi; crimina

nostra placidus indulge.

R). Attende etc.

V. Tibi fatemur crimina

admìssa; contrito corde

pandimus occulta; tua, Redemptor,

pietas ignoscat.

R). Attende etc.

V. Innocens captus,

nec repugnans ductus, teslibus

falsis prò impiis damnatus,

quos re demisti Tu

conserva, Christe.

R). Attende etc.

OREMUS

Respice, quæsumus Domine,

super liane familiam

tuam, prò qua Dominus noster

Jesus Chris tus non dubitava

manibus tradì nocentium,

et Crucis subire tormentum.

Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculorum. Amen.

[R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

V. A Te, o Sommo Re, redentore universale, eleviamo i nostri occhi piangenti;  esaudisci, o Cristo, la preghiera di chi a Te si raccomanda. R). Ascolta ecc.

V. O destra del Padre, o pietra angolare, o via di salvezza, o porta del cielo, tergi le macchie del nostro peccato. R). Ascolta ecc.

V. Preghiamo, o Dio, la tua maestà, porgi le sacre orecchie ai gemiti, e perdona benigno i nostri delitti. R). Ascolta ecc.

V. A Te confessiamo i peccati commessi; con cuore contrito manifestiamo ciò che è nascosto; la tua pietà, o Redentore, ci perdoni. R). Ascolta ecc.

5. V. Imprigionato innocente, condotto non riluttante, da falsi testimoni per i peccatori condannato, Tu, o Cristo, salva coloro che hai redento. R). Ascolta ecc.

PREGHIAMO

Riguarda benigno, o Signore, a questa tua famiglia, per la quale nostro Signore Gesù Cristo non dubitò di darsi in mano ai nemici e di subire il supplizio di croce. Egli che vive e regna Teco nei secoli dei secoli. Così sia.]

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (14)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(14)

16. La verginità

Della via della perfezione io ho avuto tempo e agio solo di richiamare alcune pietre miliari; è evidente che non ho potuto richiamare tutto, e il tempo limitato non mi ha consentito di trattare argomenti di estrema importanza e pertinenti all’argomento generale. Vi parlerò ora della verginità. – Vorrei spiegare il termine perché ha un significato preciso, specifico, che qui non sarebbe usato con proprietà. Io intendo parlare non della verginità ma della castità. Però, data la bellezza del nome, dato il fascino che anche le parole esercitano, invece di usare la parola castità, lasciatemi usare la parola verginità. Il termine verginità è caratteristico, è specifico, ma è tanto bello; lasciate che me ne serva; con la dichiarazione previa, tutto va a posto. La verginità è una strada che non è stata imposta a tutti, no; è strada di elezione, e pertanto diventa figlia di una libertà umana, di un atto sovrano della persona umana che abdica a qualche cosa che potrebbe avere, che potrebbe prendere, e fa tale cosciente e libera abdicazione. Badate che è un gesto sovrano questo. I sovrani di questo mondo cessano di essere sovrani quando abdicano; ma in questo caso lo si diventa quando si abdica, ossia è esattamente il rovescio. Presentato così l’argomento, comincio a dipanarlo. Che cosa vuol dire verginità? Verginità vuol dire una netta e stagliata superiorità sul mondo, su tutto il mondo. Mi direte: A quali condizioni e perché? Prima me ne sto in campo storico, perché la storia ha sempre da parlare e parla sempre bene. È la prima e l’ultima ad aprir bocca, la storia delle faccende umane, e per questo sa che cosa dice, tanto più quando i suoi protagonisti sono taluni. Guardate bene il contegno di Nostro Signore Gesù Cristo. Nostro Signore si è diportato da uomo, ha preso tutto come noi, salvo il peccato e quello che è antecedentemente o conseguentemente connesso col peccato: pertanto Egli non ha conosciuto, come uomo, quello che è il fomite della concupiscenza. Guardate come si è diportato. Ha preso 12 Apostoli; tra questi 12 Apostoli si delinea un primato di stima e di commissione, questo indica la persona di Pietro. Dalla tradizione sappiamo che Pietro aveva moglie, e lo sappiamo anche dal Vangelo, perché Nostro Signore è andato a guarirgli la suocera. La tradizione gli ha sempre affibbiato una figlia, santa, e il ricordo di questa figlia sta nella basilica di S. Pietro, perché nella cappella di testata della navata destra, in fondo, a fare pendant con quella di S. Leone Magno, c’è la cappella di S. Petronilla. Pietro riceve certamente la prerogativa del primato di stima e di commissione da parte di Gesù Cristo; e sapete che cosa Gesù Cristo ne ha fatto di Pietro! E come si vede benissimo in tutto l’Evangelo costruirsi questo primato che più tardi, in momenti solennissimi, prima a Cesarea di Filippo e poi sul lago di Tiberiade, viene esplicitamente confermato, ponendosi con quella commissione di primato la pietra definitiva e basilare della Chiesa. – Ma aveva il primato di stima e di commissione, Pietro, non ha avuto il primato di affetto. Il primato di affetto l’ha avuto un altro, Giovanni, l’Apostolo che è rimasto intatto, l’Apostolo vergine, la figura più spirituale, la più eterea, la più trascendente di tutto il collegio apostolico. E l’Evangelo non tace questo: egli è chiamato per antonomasia « il discepolo che Gesù prediligeva ». Nell’Ultima Cena la bontà del Signore permise un episodio perché rimanesse significativo. Siamo al banchetto pasquale dell’Ultima Cena; era un banchetto festoso, ricco; Gesù aveva voluto che lo preparassero sul serio, con tutti gli intingoli imposti dal cerimoniale. Nonostante tutto questo, Giovanni, a un certo punto, gli piglia il sonno e non lo manda via, comincia a scendere, comincia ad accoccolarsi un po’ e finisce con l’andare ad appoggiarsi a Nostro Signore, il quale né lo sveglia né lo manda via, lo lascia stare fintanto che non si sveglierà da sé. Gli era vicino; essergli vicino voleva dire essere il più caro di tutti. Dall’altra parte abbiamo motivo di ritenere che ci fosse Pietro perché infatti, se qualcuno vuol sapere qualche cosa da Gesù, si rivolge a Pietro perché glielo chieda. Così c’era vicino anche lui, ma quello non si è addormentato. Gesù rimane così in questo atteggiamento verso il discepolo vergine. E questo è l’unico che ha il coraggio di seguirlo; non fugge, gli va dietro e, approfittando del fatto che la sua casa probabilmente si trovava non lontano dalla casa del Sommo Sacerdote e che era conosciuto, entra dentro. Ha avuto del coraggio, questo giovanotto, perché è andato in bocca al lupo: c’è andato ed è restato, e non gli è successo niente di male. Poi è andato a occuparsi della Vergine Madre, l’ha accompagnata, lui, al Calvario ed è rimasto, spettatore unico del collegio apostolico, sul Calvario. Gesù compì in lui il massimo atto di fiducia: gli affidò la Madre e affidò lui a sua Madre, reciprocamente. Voi sapete che in quell’episodio la tradizione ha sempre visto il genere umano affidato alle mani materne della Madre di Dio. Allora bisogna dire che Giovanni in quel momento faceva da genere umano, il discepolo che non ha mai lasciato di essere vicino al Signore. Con Pietro, Giovanni camminò verso il sepolcro, la mattina di Pasqua; camminò a gran passi, a sbalzelloni. Ci arrivò prima di Pietro e, arrivato là, esitò e rimase fuori, aspettò che arrivasse Pietro, che giunse con passo più pacato ed entrò per il primo. L’altro gli andò dietro. Sul lago di Genezaret Giovanni ha sempre il suo ruolo di discepolo che Gesù prediligeva. Quando quella mattina avvenne l’incontro con il Signore, dopo la Risurrezione, secondo l’appuntamento dato da Gesù, gli Apostoli stavano a pescare sul lago e nella bruma mattutina videro un’ombra sulla spiaggia. Chi sarà? È stato lui, Giovanni, con la intuizione del discepolo affezionato e vergine, a riconoscerlo: « Dominus est ». Pietro, quando sente dire questo, non capisce più niente, si getta a nuoto per arrivare; ma chi l’ha conosciuto è Giovanni. Dopo un po’, giunti a terra, Pietro si sente intonare una musica che sembra non gli sia andata molto a genio, perché Gesù molto bonariamente gli fa fare la ritrattazione della triplice negazione. Prima domanda: « Pietro, mi ami tu? ». « Signore, sì che ti amo ». « Pietro, mi ami tu? ». « Sì che ti amo ». « Pietro, mi ami tu veramente? ». E quello s’impressiona, capisce che c’è un ritmo di rispondenza; tre volte l’aveva rinnegato, e capisce, tre volte deve ritrattare. « Ma Signore, tu lo sai che io ti amo ». Va bene allora. Come per dire: quello che è successo non ha rotto niente. E viene la riconferma: « Pietro, pasci i miei agnelli; pasci le mie pecorelle ». Sii il pastore dei miei agnelli e delle mie pecorelle, di tutto il gregge. E poi subito dopo, così per dosare le cose, perché quello non si mettesse troppo su, gli annunciò come sarebbe morto. Ho già avuto occasione di ricordare questa faccenda. Quella non gli andava tanto a genio al povero Pietro, e ce ne accorgiamo da questo particolare, particolare minimo ma espressivo in sommo grado. Dietro, mentre passeggiavano, veniva Giovanni. Pietro non era molto soddisfatto, si vede, e avrà pensato: almeno fossimo in due ad avere questo guaio! Si volta e vede Giovanni e chiede: « E costui? ». Sperava che Gesù dicesse: lo prenderanno, lo squarteranno, sta tranquillo, così sarete in due. No, no, Gesù dice: « E se Io voglio che costui rimanga fintanto che Io ritornerò, a te che importa? ». Non gli dà la soddisfazione. Pietro non ne parlò più. Questa frase però l’hanno raccolta gli altri, e Giovanni se la sentì ripetere tante volte. Nel suo Vangelo sentì il bisogno di fare la rettifica: « Gesù non gli disse che non sarebbe morto, ma: e se Io voglio che costui rimanga finché Io tornerò, a te che importa? ». Questo discepolo, Giovanni, fu il custode della Madre di Dio, dopo la sua prima missione in Giudea e in Samaria. Egli venne mandato in Samaria per dare la Cresima; dopo che il diacono Filippo aveva fatto un gran chiasso e ne aveva convertito una grande quantità, allora mandarono due, e di questi due uno era Giovanni, per andare a dare la Cresima a quelli della Samaria. Ma dopo il Concilio Giovanni scompare, non lo si ritrova più, se ne perdono le tracce; è a custodire la Madre di Dio. La tradizione dice che egli andò in Asia Minore e la portò con sé. Effettivamente in Asia Minore, proprio in questi anni, si sono scoperte le due chiese, vicine, 1abside dell’una combaciante con l’abside dell’ altra, una dedicata a Giovanni, una alla Madre di Dio. Ora, se si tiene conto di come costruivano le chiese allora, questo può essere ritenuto come la documentazione di una tradizione là fortissima e vigente nel secolo IV circa la permanenza della Madonna e di S. Giovanni a Efeso. La casa fu riscoperta a Capuna, su una collina, a pochi chilometri da Efeso. Poi la Vergine andò in Cielo. Allora Giovanni ritornò nella vita attiva, ma mantenne un carattere inconfondibile. Forse vi meraviglierete che io insista su questa parte storica, ma capirete adesso il perché. Non c’è nella storia della Chiesa primitiva il caso di un uomo che sia apparso ai contemporanei così etereo e che abbia avuto una venerazione così viva come Giovanni. Perché quest’uomo invecchia ma rimane sempre giovane spiritualmente. Difatti si diceva che non sarebbe morto. Quando ha passato gli ottanta anni, gli mettono le mani addosso per portarlo a Roma, lo immergono in una caldaia d’olio bollente, ma non muore, nonostante tutto. Quando Domiziano si convinse che i cristiani non volevano portargli via l’impero, si mise un po’ in pace e lasciò andare con la persecuzione. Allora liberò Giovanni. – Poi venne l’episodio di Patmos, e a Patmos la redazione dell’Apocalisse, la visione di Cristo; poi se ne ritornò in Asia Minore dove continuò il suo ministero. Il ministero di Giovanni è un ministero pacato, fatto tanto di parole che di silenzi, un ministero essenzialmente interiore. Da quello che noi sappiamo, egli ha tutto l’aspetto di un grande direttore spirituale dell’Asia Minore; non ha niente della caratteristica incendiaria di Paolo. È un’altra figura! E ‘ una figura eterea. Pare un disincarnato, Giovanni! E’ così! Invecchia, ma rimane sempre giovane; le forze, quando ha passato i cento anni, cominciano ad andar giù, ma egli continua così, disincarnato. La prima età ha guardato Giovanni come noi guardiamo, in certi tramonti meravigliosi e limpidi, una nuvoletta bianca che rimane sull’orizzonte, e poi la vediamo dorata dal sole che noi non vediamo più: essa riceve ancora i raggi del sole e s’indora laggiù, mentre noi il sole non lo vediamo più. La figura di Giovanni nella prima età è così: questo qualche cosa di disincarnato e pur umanissimo che sta all’orizzonte della Chiesa e che riceve i raggi del sole che noi non vediamo. – A Patmos aveva veduto un’altra volta il Signore. Aveva veduto tutti i destini dell’umanità e li aveva segnati. Aveva veduto l’epilogo di tutte le cose. Già prima egli era andato più in su di tutti gli scrittori del Nuovo Testamento col prologo del suo Evangelo, la più grande pagina che sia stata scritta nella storia umana; ma a Patmos in tutti i destini dell’umanità egli vede il Signore. Da allora rimase non solo disincarnato, ma lo si sarebbe detto estatico. Continuava a guardare da quella parte dove l’aveva veduto. E l’ultima parola che gli era rimasta sulle labbra nel chiudere l’Apocalisse fu la parola che rimase sulle sue labbra per tutta la vita che trascinò ancora, sempre disincarnato, sempre estatico, ed è questa: « Veni, Domine Iesu! ». È l’ultima parola con la quale si chiude l’Apocalisse; vieni, Signore Gesù, vieni presto! Non poteva più parlare a lungo, gli ultimi anni, perché ormai era ridotto a una piccola fiamma che ardeva ma prossima a estinguersi. Lo portavano nella adunanza dei fedeli, ed egli che non poteva più tenere le catechesi ripeteva soltanto: « Figliolini, vogliatevi bene l’un l’altro ». Una volta gli dissero: « Maestro, ma perché dici sempre la stessa cosa? ». Rispose: « Perché se avrete fatto questo, veramente sarete col Signore Gesù, se vi vorrete bene l’un l’altro ». E lo scrittore del II secolo che ci riporta il fatto dice: « Digna Johannis hæc sententia »: è stato un modo di parlare degno di Giovanni. Egli rimane come l’Apostolo vergine, che sovrasta la prima età, disincarnato, estatico, altissimo, come una figura di eternità, egli che incoraggiò la Chiesa, che creò la prima grande scuola, la scuola di Efeso, dalla quale usciranno tutti i primi grandi scrittori, scuola che continuò coi discepoli suoi: Papia, Policarpo di Smirne, e arrivò fino a Ireneo: la prima grande scuola cristiana che egli illuminò con la sua luce calda, eterea. – L’apostolo vergine rimane come un simbolo nella storia della Chiesa. La Chiesa, a poco a poco, ha chiesto e poi ha imposto ai suoi ministri di seguire Giovanni l’Evangelista nel celibato. Ha chiesto ai suoi ministri il celibato, non perché fosse assolutamente necessario, ma l’ha chiesto, e non se ne potrebbe fare a meno: l’ha chiesto e l’ha imposto a tutti. È rimasto fuori il gruppo dei greci, approfittando del tempo in cui esso era costume e tradizione ma non ancora legge grave. E guardate cosa hanno combinato! Uno scisma. E tutta la fascia che va dall’Artide al Mediterraneo mostra che lo scisma non ha avuto un’idea e che ha perduto la forza di imporsi anche socialmente e socialmente redimere. La Chiesa ha indicato Giovanni al sacerdozio perché la Chiesa ha veduto che il servizio al mondo lo si fa solo seguendo Giovanni. Non si possono servire completamente i propri fratelli se non c’è la verginità. Ecco la storia. E allora la prima condizione per entrare a servizio della Chiesa Cattolica è questa: la verginità, la castità: senza questa i fratelli non si salvano. Ho detto che la verginità è la superiorità sul mondo! E fin qui ho parlato in nome della storia. Ora lasciamo la storia e torniamo al ragionamento. Perché la verginità è la superiorità sul mondo? Perché chi l’ha, non per paura o neghittosità ma per volontà propria, è certamente un dominatore della vita; plana su tutti gli altri. Vediamo più intimamente perché è una superiorità. Vi prego di osservare una colleganza che è nell’uomo, e questa determinerà la testimonianza della superiorità. Non è vero quel che dice Freud che l’istinto sessuale sia quello che domina la vita; è vero solo che è quello che può avere influenza su tutta la vita materiale; ma ricordiamoci bene che, se questo può avere una influenza su tutta una impostazione della vita materiale, la vita materiale poi finisce col condizionare quella spirituale. E allora si vede anche come, per altri titoli, il collegamento si protragga. Perché? Perché la via che non è di verginità mette l’uomo in una situazione morale di dover fare come proprio l’interesse materiale di coloro che lo seguono nella generazione e nella vita. E questo crea tutta una quantità di appigli materiali; non c’ è mai libertà; sono vincoli onesti, che possono, certo, essere onesti, ma sono vincoli. Quando un uomo ha una famiglia, non è padrone di disporre della propria vita come vuole, ha dei doveri. Solo un uomo che non ha quei vincoli è libero da certi doveri e pertanto può donarsi e può donare; può morire, può consumarsi, può essere povero, perché allora non impone agli altri la sua povertà, è libero di essere povero, cioè di essere ancora più libero. È questa verginità che crea le due classi del mondo: quella di chi anche onestamente ha onesti doveri, la cui onesta dedizione deve condizionarsi a una quantità di ragioni puramente materiali, e quella di chi non si condiziona a situazioni d’ordine puramente materiale: è l’indipendenza. Che se poi si va a guardare interiormente, non è difficile vedere come la verginità integra escluda tutta una sequenza interiore che diventa grave per l’uomo, che lo lega, gli aumenta i bisogni, gli riduce tutto, e questo glielo fa anche se egli sta nella via dell’onestà che è quella dell’onesto matrimonio; ma glielo fa in modo infinitamente più grave e profondo se sta nella via del peccato perché gli conturba tutto. Là sta il principio di ogni squilibrio, che incatena sentimento, istinto, fantasia, crea problemi, il principio che mette in contrasto una cosa con l’altra dentro l’uomo. Due classi: eccovi la superiorità, la grande superiorità! Però vi sono delle condizioni, e le condizioni sono quelle della verginità piena, perché quello che io vado dicendo è che la verginità piena non condiziona semplicemente la parte materiale di noi, ma condiziona la mente, il sentimento e la fantasia; dà il distacco pieno, la esenzione non dalla tentazione ma dalla colpa, perché quello che conta è la esenzione dalla colpa, non dalla tentazione; perché chi può guardare dall’alto il male che lo insidia alle calcagna, lo guarderà sempre dall’alto, anche se quello insidia. Egli è sempre al disopra, è sempre signore, sempre vittorioso. Miei cari amici, giacché una strada la si percorre, percorriamola tutta: intera, dignitosamente! Se abbiamo fatto 90, facciamo 100. Perché perdere il vantaggio per poco? Se occorre gettare giù qualche cosa di viscido del sentimento, qualche cosa di ricorrente nella mente e nell’abitudine, anche di non peccaminoso ma di impiastricciato, un affetto che non è più al suo posto, giacché ci siamo, facciamo piazza pulita! – Dal momento che nella verginità si è fatto il più, si capisce quanto sia decoroso fare il meno e arrivare al completo, e che tutto sia chiaro, che tutto sia pulito; se è necessario sfogliare ancora un po’ sto carciofo perché non abbia più punte, sfogliamolo ancora un po’, leviamole tutte le punte a questo carciofo, e facciamo in modo che non abbia da pungere niente. Voi capite che quando si è fatto il sacrifico del più, lo si può fare del meno, si può farne il sacrificio in quella tale modestia che compone l’atmosfera giusta affinché la verginità vi respiri bene, quella modestia che è cautelata, che è prudente, moderata, contenuta, che è sovrana padrona di sé e di quanto la circonda. Certo ci vuole una custodia sui sensi interni e sui sensi esterni, ma la verginità è coronata. – Voi sapete che la Sacra Scrittura ci parla di tre aureole speciali che saranno nella vita eterna rispondenti a tre situazioni. Ma la prima è quella della verginità. Giovanni stesso, quando vede la celeste Sion, vede l’Agnello; ma « sequuntur Agnum virgines quocumque ierit »; vede che l’Agnello è seguito dai vergini. L’eternità porterà per sempre lo stigma della verginità del tempo. La verginità porta via qualche cosa, certo; quello per cui gli uomini non rimangono in una certa solitudine, glielo porta via. Bisogna ricordarcelo questo; la verginità porta via qualche cosa, porta via per sacrificare al Signore; ma il fatto che porta via serve a dare all’umiltà di chi la osserva una indicazione preziosa, e cioè che a quel posto bisogna mettere sempre un’altra cosa, altrimenti rimane un vuoto. E questo spiega perché talvolta vi sono delle anime verginali che a un dato momento pare che rotolino su sé stesse, senza far niente di male, forse, ma rotolano su sé stesse come le trottole. La ragione è questa: che la verginità porta via qualche cosa, e se al posto di quella non ci si mette qualche altra cosa, viene a mancare il peso che fa l’equilibrio, e allora comincia il movimento della trottola. E cosa ci si deve mettere? La vita soprannaturale. Bisogna metterci l’amore di Dio, il dovere, una missione, anche nascostissima. Bisogna metterci il livello soprannaturale. Allora state tranquilli che di trottole non ce ne saranno, e voi avrete le figure più complete che si possano pensare al mondo. Avrete i più coraggiosi, i più moderni, i più materni, e parrebbe una contraddizione; avrete i più fini, i più forti, avrete gli intelletti più alti e le soluzioni più radicali. Badate che, a quanto è stato dato a noi di sapere, l’intelletto più alto del genere umano è stato S. Tommaso d’Aquino. La guglia! Nessuno è penetrato in cielo col suo pensiero, al di fuori si capisce delle rivelazioni soprannaturali. La guglia. S. Tommaso! Un colosso alto un po’ più di due metri, che pesava più di un quintale e mezzo, per cui gli avevano dovuto fare un taglio nella tavola perché potesse collocare l’epa; però alla fine della famosa tentazione di Roccasecca fu miracolosamente da Dio liberato per sempre dalla comune condizione degli uomini, e allora filò diritto in cielo con la mente. Senza Roccasecca non si capirebbe S. Tommaso d’Aquino. S. Tommaso, ammalatosi in viaggio verso il Concilio di Lione, a Fossanova, lo misero a letto. Era malato, e dal letto, per ripagare i buoni monaci Cistercensi che lo ospitavano, cominciò a spiegare il Cantico dei Cantici. Accanto al suo letto fra Guglielmo da Tucco, suo segretario, prendeva gli appunti. Un bel modo di morire! Fino all’ultimo respiro ha spiegato ai buoni monaci che si assiepavano intorno al suo letto il Cantico dei Cantici, il cantico degli sponsali eterni fra l’anima e Dio, fra l’umanità redenta e Dio, simboleggiata dal canto fra Dio e Israele suo popolo. Se quel tale vuoto che la verginità lascia viene riempito da elementi soprannaturali, avrete le figure più complete. E quando avrete da risolvere delle cose a questo mondo, mandate a chiamare quelle figure, perché gli altri non ce la faranno. Ricordatevi che la verginità dà: questo almeno portatevelo con voi: dà la verginità, quando è autentica! La verginità autentica, quella spirituale, ha la freschezza che non tramonta mai. Non avete mai incontrato voi delle persone che, vecchissime, hanno ancora il sorriso dei bambini? Non perché ci sia dell’artificio, no. Perché? Dio ha i suoi disegni. – Si incontrano talvolta delle persone vecchissime che hanno un fascino straordinario, che sono disincarnate. Si sente qualche cosa; cosa sarà? Chi è pratico capisce che cos’è! La verginità vera impedisce che si diventi veramente vec-chi. Si muore giovani quando c’è la verginità integra, quella spirituale, perché tiene talmente aperte le finestre sull’eterno azzurro che non vi sono mai ombre crepuscolari; ci potranno essere temporali, ma ombre del crepuscolo no; c’è sempre una luce che irradia e lascia quello che la natura dà ai bambini. I bambini scoprono sempre qualche cosa di nuovo; sempre; è la gioia dell’infanzia scoprire qualche cosa di nuovo. Vedete, il risultato è questo. Tra l’altro, non avendo mai toccato il fondo, c’è sempre del nuovo per i vergini, sempre tutto nuovo. E poi la verginità dà l’entusiasmo, il dono delle piccole cose. Il giorno in cui si sono spenti gli entusiasmi, un uomo è diventato vecchio. Nella verginità questo non succede. E poi la verginità dà la irradiazione dei missionari. Voi dovete far del bene agli altri; ma non sapete che razza di predica fate voi soltanto con la verginità? Non si traduce, non si sa che linguaggio abbia, e chi lo può dire? Non si può fissare in un codice; però quelli che vi avvicinano sentiranno in voi qualche cosa che non sentono negli altri. La irradiazione di un vergine! Voi volontari siete per questa strada. Questo è il ricordo che vi lascio. Dovete arrivare alla perfezione; ci potete arrivare; se mettete a posto l’orazione, ci arriverete certamente. Ora siccome la vostra via di perfezione caratteristica, che vi distingue, è quella che io ho chiamato della verginità, sappiate che cosa è questa strada! Sappiate che cosa porta questa strada a voi e a me. E possiate tutti essere come Giovanni l’Evangelista, i disincarnati, non inumani ma disincarnati. In alto, da illuminare nella luce crepuscolare la vita degli altri che non vedono più il sole. Così, come Giovanni l’Evangelista! – E così sia!