DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA X dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LIV:17; 18; 20; 23
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante saecula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet. [Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]
Ps LIV:2
Exáudi, Deus, oratiónem meam, et ne despéxeris deprecatiónem meam: inténde mihi et exáudi me.
[O Signore, esaudisci la mia preghiera e non disprezzare la mia supplica: ascoltami ed esaudiscimi.]
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.
[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui omnipoténtiam tuam parcéndo máxime et miserándo maniféstas: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, ad tua promíssa curréntes, cœléstium bonórum fácias esse consórtes.
[O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto perdonando e compatendo, moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché quanti anelano alle tue promesse, Tu li renda partecipi dei beni celesti.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XII: 2-11
Fratres: Scitis, quóniam, cum gentes essétis, ad simulácra muta prout ducebámini eúntes. Ideo notum vobisfacio, quod nemo in Spíritu Dei loquens, dicit anáthema Jesu. Et nemo potest dícere, Dóminus Jesus, nisi in Spíritu Sancto. Divisiónes vero gratiárum sunt, idem autem Spíritus. Et divisiónes ministratiónum sunt, idem autem Dóminus. Et divisiónes operatiónum sunt, idem vero Deus, qui operátur ómnia in ómnibus. Unicuíque autem datur manifestátio Spíritus ad utilitátem. Alii quidem per Spíritum datur sermo sapiéntiæ álii autem sermo sciéntiæ secúndum eúndem Spíritum: álteri fides in eódem Spíritu: álii grátia sanitátum in uno Spíritu: álii operátio virtútum, álii prophétia, álii discrétio spirítuum, álii génera linguárum, álii interpretátio sermónum. Hæc autem ómnia operátur unus atque idem Spíritus, dívidens síngulis, prout vult.

Omelia I

[Mons. G. Bonomelli, Omelie, vol. III – Torino, 1899. Omelia XXI]

« Voi sapete, che, essendo Gentili, andavate agli idoli muti, come vi menavano. Perciò vi dico che nessuno, parlando nello Spirito di Dio, può dire anatema a Gesù; e che nessuno può dire Signore Gesù, se non per lo Spirito Santo. Vi sono poi diversi doni, ma lo Spirito è medesimo: e sono diversi ministeri, ma è lo stesso Signore; e sono diverse operazioni, ma è lo stesso Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito ad utilità. Perciocché ad uno è data per lo Spirito parola di sapienza, ad altro di scienza, secondo lo Spirito stesso. Ad altro la fede per il medesimo Spirito, ad altri doni di guarigioni nello stesso Spirito. Ad altro l’operare portenti, ad altro profezia, ad altro il discernere gli spiriti, ad altro generi di lingue, ad altro interpretazioni di lingue. Ora tutte queste cose le opera quell’uno e medesimo Spirito, dividendole a ciascuno come vuole „ (I. Cor. XII, 2-11).

Lo scopo della prima lettera di S. Paolo ai Corinti (le sentenze che or ora avete udite spettano a quella lettera) è vario, come apparisce a chi la legge anche solo superficialmente. Si studia di togliere i dissidi che turbavano la pace di quella Chiesa e vuole che, smesse le pretensioni a sapienza, riconosca nei sacri ministri Colui che li manda. Usando della sua autorità, separa dalla Chiesa l’incestuoso: stabilisce come devono regolarsi, quanto al mangiar le carni offerte agli idoli e dichiara la dottrina di Cristo intorno al matrimonio ed alla verginità, e dà le norme intorno al modo di celebrare la cena e di ricevere la S. Eucaristia. Nella primitiva Chiesa erano assai frequenti i doni straordinari, secondo la promessa di Cristo. L’Apostolo per cessare i pericoli e la confusione che ne potevano derivare nella Chiesa, ricorda ai fedeli la dottrina cattolica intorno a questi doni e poi traccia le regole pratiche, alle quali si devono attenere nell’uso dei medesimi. Nella lezione che debbo spiegare, si espone la dottrina cattolica rispetto a tutti i doni celesti, ed essa è ben meritevole di tutta la vostra attenzione. Dio è il Padre dei lumi, dice S. Giacomo, è la fonte inesauribile di tutti i doni, siano naturali, siano sovrannaturali. I doni di Dio, che appartengono all’ordine sovrannaturale, si sogliono partire in due grandi classi: alla prima classe spettano i doni più eccellenti, quelli che per se stessi ci fanno grati a Dio, ci costituiscono suoi amici, anzi suoi figliuoli e partecipi della sua stessa natura; tal è la grazia di Dio santificante. Alla seconda classe di doni sovrannaturali appartengono quelli che propriamente non ci fanno amici di Dio, ma che ci possono condurre a Lui e che si possono trovare e si trovano di fatti anche in uomini peccatori. Così taluno può avere il dono della profezia, di far miracoli e andate dicendo, e vivere in peccato ed anche perdersi. Questi doni sovrannaturali nessuno può meritarli; Iddio li concede a chi vuole secondo i consigli della sua sapienza, e direttamente hanno per fine, non il bene di chi li riceve, ma sì il bene altrui. Così il potere sacerdotale è volto principalmente alla salvezza delle anime e può trovarsi e validamente si esercita anche da chi ne è indegno e vive nel peccato e nello scandalo. S. Paolo nel luogo che siamo per ispiegare, ragiona dei doni sovrannaturali della seconda classe, a quei tempi molto comuni, perché erano ordinati a diffondere e stabilire la fede e la Religione ch’era in sul suo nascere. – L’Apostolo scrive ai Corinti, molti dei quali erano stati Gentili, e dopo aver detto loro: “Quanto ai doni spirituali non voglio che ne siate ignari, ,, prosegue e scrive: “Voi sapete, che, essendo Gentili, andavate agli idoli mutoli, come vi menavano. „ Con destrezza affatto naturale, S. Paolo contrappone lo stato presente a quello in cui, poco prima, si trovavano quei suoi neofiti allo scopo manifesto di far loro conoscere l’immenso beneficio ricevuto. Non potete dimenticarlo, par che dica l’Apostolo: pochi anni or sono voi eravate idolatri e adoravate statue mute e come pecore vi lasciavate condurre a’ loro piedi. Voi, esseri dotati di ragione e di libera volontà, prestavate il vostro culto ad idoli muti, sordi, senza vita. Quale vergogna per voi caduti sì basso! Ora avete conosciuto Dio, il vero Dio, puro spirito e Lui solo adorate, Lui, sorgente d’ogni bene e perciò siete capaci di conoscere il pregio eccelso de’ suoi doni e il modo di usarne a vostra santificazione. “Il perché vi significo, continua S. Paolo, che nessuno, parlando nello Spirito di Dio, può dire anatema a Gesù. „ Dire anatema significa maledire, bestemmiare, esecrare, ed è forma di parlare ebraica. Volete conoscere chi ha lo Spirito di Dio e possiede la verità? – Volete conoscere i veri dottori e distinguerli dai falsi, dagli impostori? Tenete questa regola: Chi sente bene di Gesù Cristo, lo riconosce, lo confessa qual è, nostro Salvatore, chi l’onora e l’ama, costui ha lo Spirito di Dio, è nella verità, e potete sicuramente ascoltarlo e seguirlo. In quei primi principi, erano già sorti non pochi maestri, che insegnavano perverse dottrine: chi diceva ch’era uomo soltanto e non Dio: chi affermava che non aveva corpo vero, ma solo apparente, e perciò solo apparentemente aveva patito ed era morto, e chi altri errori spacciava intorno a Gesù Cristo. Ebbene: chiunque erra intorno a Gesù Cristo e lo bestemmia, sappiatelo bene, non parla nel suo spirito, e fuggitelo. Questo stesso criterio è ripetutamente stabilito quarant’anni dopo da S. Ignazio M. nelle sue magnifiche lettere, che sembrano l’eco di quelle di san Paolo, del quale dovette essere discepolo. Per contrario, “Nessuno può pronunziare Signore Gesù, se non per lo Spirito santo. „ In altri termini: Chi riconosce Gesù per Signore, lo confessa, lo benedice, questi ha lo spirito di Lui, e in Lui dovete riconoscere un suo sincero discepolo. Una grande verità è qui affermata dall’Apostolo, ed è questa: “Nessuno, sia quanto si voglia pieno d’ingegno e di dottrina, senza la grazia divina, senza l’aiuto dello Spirito Santo, può credere e sperare, come si deve, in Gesù Cristo, e nemmeno invocarlo a salute”. Senza gli occhi potreste voi vedere le cose? Senza gli orecchi potreste voi udire? Senza la ragione potreste voi ragionare e senza volontà potreste voi volere? Certo che no, e non occorre dimostrarlo. Similmente senza la grazia di Dio, che illumina la nostra mente ed eccita ed avvalora la nostra volontà, noi non solo non possiamo credere, né sperare, né amare Iddio, ma nemmeno fare il minimo atto od avere il minimo pensiero, che a Lui ci guidi e ci renda accettevoli. In una parola: senza l’aiuto della grazia divina non possiamo fare né poco, né molto, in ordine alla nostra salvezza, ma nulla, perfettamente nulla: non possiamo nemmeno pronunciare o invocare, come si deve, il nome di Gesù! “Nemo potest dicere Dominus Jesus nisi in Spiritu sancto”. Quale argomento di umiliarci dinanzi a Dio e di riconoscere la necessità assoluta della sua grazia e di chiederla con ogni istanza! Tutti i beni, tutte le grazie vengono da Dio, e senza di Lui non abbiamo, né possiamo fare cosa alcuna: è verità di fede. “Sono poi diversi i doni, ma lo Spirito è il medesimo. „ I doni, dei quali qui si discorre, sono quelli, che si chiamano gratis dati, per es. i miracoli, le profezie, i doni del sacro ministero e via via: essi sono vari e più innanzi li nomina distintamente, ma la causa o il principio che li produce è un solo, lo Spirito Santo. Quantunque tutti questi doni vengano tutti egualmente dalle tre divine Persone, nondimeno si attribuiscono specialmente allo Spirito Santo, perché esso è l’Amore sostanziale del Padre e del Figlio, e questi doni sono un frutto od una conseguenza dell’amore di Dio verso di noi. – “E diversi sono i ministeri, ma è lo stesso Signore. „ La parola ministeri, qui usata, significa i diversi uffici o servigi che sono nella Chiesa, per es. l’ufficio di diacono, di prete, di vescovo; sono diversi, è vero, ma è un solo e medesimo che li ha istituiti, che è Gesù Cristo, fondatore della Chiesa. – “E diverse sono le operazioni, ma è lo stesso Dio che opera tutto in tutti. „ Con la parola operazioni, S. Paolo indica la potenza, la forza od efficacia, per cui le grazie e i ministeri sacri producono i loro effetti variamente; ma il  principio da cui derivano, è sempre Dio e più propriamente il Padre, che è il principio senza principio del Figlio e dello Spirito Santo. E Dio opera tutto in tutte le cose: “Operatur omnia in omnibus”. Questa espressione o sentenza, perché non sia torta a cattivo senso, richiede un po’ di spiegazione. – Senza fallo tutte le cose che esistono, tanto nell’ordine naturale, che nel sovrannaturale, tutte muovono da Dio, sono effetto dell’azione divina: Qui operatur omnia. Ma Dio opera o produce anche gli effetti che derivano dalle cause seconde? Il fuoco brucia, la luce illumina, l’acqua bagna, l’albero germoglia il suo frutto: questi effetti sono essi prodotti da Dio stesso? Certamente il fuoco brucia per sé, e la luce lumina per sé, e l’acqua per sé bagna, e l’albero per sé fruttifica; ma perché poi tutte queste cose producono questi effetti? Donde traggono le forze per produrli? Essi fanno ciò che fanno, perché tale è la loro natura, né potrebbero fare diversamente da quello che fanno; ma la forza per cui producono gli effetti, che noi vediamo, fondamentalmente la ricevono da Dio solo, che le ha create, tantoché possiamo dire che è Dio che opera per loro, e tutto opera in ciascuna di loro. Onde è verità certissima il dire che Dio brucia col fuoco, ci illumina con la luce, ci disseta con l’acqua, ci nutre coi frutti degli alberi e ci veste con le lane delle pecore: Deus operatur omnia in omnibus. Tutti i servigi che noi riceviamo ad ogni istante, dalle creature che ne circondano, li riceviamo veramente da Dio, poiché esse non fanno che ciò che Dio Creatore vuole facciano: sono esecutrici fedeli e infallibili delle sue leggi e de’ suoi voleri. – È dunque un linguaggio pieno di verità quello che si ode sì spesso sulle labbra del popolo credente: Dio ci ha dato la pioggia! Dio ci dà il calore del sole! Dio ne ha concesso un raccolto abbondante! Dio ci ha mandata questa siccità! e via dicendo. È dunque un linguaggio pieno di verità e a torto gli uomini della scienza lo biasimano quasi erroneo e contrario alla scienza. Il popolo in tutti i fenomeni naturali vede e riconosce la Causa prima senza negare le cause seconde, e a quella li ascrive: gli uomini della scienza non badano alla Causa prima e si fermano alle cause seconde. Questi ragionano bene, e ragionerebbero meglio se quando è necessario e conveniente, dalle cause seconde risalissero alla Causa prima, e quelli riconoscendo la prima debbono riconoscere anche le cause seconde o immediate: ma questi meritano compatimento se non le ricordano, perché spesso le ignorano: ma il loro linguaggio è sempre vero e sapiente. Ma vi sono creature, fornite di ragione e libertà, come gli Angeli e gli uomini; anch’esse operano secondo la loro natura. Ma come? Sicuramente in modo ben diverso da quello che tengono le creature irragionevoli. Le creature ragionevoli operano liberamente, possono fare e non fare, a questo e a quel modo, e Iddio non le sforza, ma rispetta Egli stesso quella libertà che loro ha data. Ma la forza di fare ciò che fanno, sia bene, sia male, da chi la ricevono? Anch’esse tutte e sempre la ricevono da Dio solo, e perciò è giusto il dire che anche in esse Dio opera tutto in ciascuna: Operatur omnia in omnibus. Non opera, né può operare il male, ch’Egli non vuole, né può volere, ma la forza con cui l’uomo fa il male, anche questa viene da Dio. È vero pertanto che tutto è dono di Dio, in qualunque ordine di cose, e ch’Egli opera tutto in ogni cosa. Dio è un solo e nella semplicissima sua unità, produce la più sterminata varietà di effetti: diversissimi sono i doni, eppure un solo è lo Spirito da cui scaturiscono. – S. Cirillo di Gerusalemme spiega la cosa con una similitudine, che non è senza grazia. Uditelo: “Vedete, così il santo in una delle sue mirabili catechesi, vedete l’acqua; essa è una sola e da per tutto la stessa, senza colore proprio; fate che si spanda sopra un prato e lo irrighi; dovunque spuntano fiori per colore e fragranza differentissimi tra loro. Similmente la grazia dello Spirito Santo: essa è una sola in se stessa, eppure variamente partecipata produce vari effetti, ond’è verissima la sentenza dell’Apostolo: Diverse sono le operazioni, ma è lo stesso Iddio, che opera tutto in tutti. „ S. Paolo ora discende ai doni particolari, che Dio concede a vantaggio della Chiesa: “A ciascuno è data la manifestazione dello Spirito a fine di utilità; „ il che vuol dire che il dono dello Spirito santo, nel quale lo stesso Spirito Santo si fa conoscere, come il sole si manifesta nei suoi raggi, ha per fine proprio il bene della Chiesa. E in vero; ad uno è data la parola di sapienza per lo Spirito Santo: “Alii quidem datur sermo sapientìæ”. Che è quanto dire, lo Spirito Santo ad uno elargisce il dono di spiegare i misteri più alti della dottrina evangelica, di gustare e far gustare con la parola le verità più sublimi e farne sentire tutta l’altezza e la profondità, la lunghezza e la larghezza, come altrove scrive lo stesso Apostolo:  “Ad un altro è data la parola della scienza, secondo lo stesso Spirito. „ Noi possiamo conoscere semplicemente le verità, averne la nozione precisa, e possiamo conoscerle, assaporarne la bellezza e la dolcezza e praticarle: questo secondo dicesi dono della sapienza, quel primo, dono della scienza. Non occorre il dire che la sapienza sovrasta alla scienza e ne è, a così dire, il fine. Un teologo o filosofo può conoscere nettamente le verità della fede, spiegarvele e mostrarvele ad evidenza senza praticarle: S. Francesco d’Assisi, che passa le notti intere, meditando quelle parole; ” Mio Dio, voi siete tutto per me, „ si delizia nella contemplazione della verità: egli possiede il dono della sapienza. La scienza è luce, sì, ma luce fredda: la sapienza è luce che spande per tutte le fibre dell’anima il tepore ed il calore della vita, che ci fa amare e praticare la verità. – Seguitiamo l’Apostolo nella sua lunga enumerazione dei doni celesti: ” Ad un altro è data la fede nello stesso Spirito: “Alteri fides in eodem Spiritu”. Gesù Cristo un giorno disse agli Apostoli: “Se voi avete fede, direte a questo monte: Tirati in là e gettati in mare, e il monte ubbidirà. „ E di questa fede, operatrice di miracoli, non della fede ordinaria e comune, teologica, che Gesù Cristo ragiona. Questa è un dono singolare, punto necessaria per salvarsi, ma solo per operare miracoli. – “Ad altri sono dati doni di guarigioni nello stesso Spirito. „ Gesù Cristo e gli Apostoli assai volte con una parola, con un cenno, con una preghiera, con l’ombra della loro persona scacciavano le infermità più ostinate e restituivano ai miseri che n’erano travagliati, la perfetta guarigione. Questo dono speciale di guarire gli infermi era assai comune nella Chiesa dei primi secoli, e qui è ricordato da S. Paolo: ” Ad altro è dato operare prodigi: „ Alii operatio virtutum. Nella sentenza precedente S. Paolo accenna in particolare il dono di risanare gli infermi, qui designa più largamente il dono di far miracoli: Alii operatio virtutum, che è molto più ampio del far guarigioni, giacché comprende qualunque miracolo. “Ad altri è data la profezia. „ Ve lo dissi altra volta: la parola profezia ha parecchi significati distinti nei Libri santi, e due sono i principali: talora la parola profezia importa conoscimento e annunzio di cose future affatto superiori alle forze umane, e questo è il significato più comune e più proprio: tal altra si usa per significare semplicemente l’annunzio di verità divine, onde profeta e predicatore o apostolo equivalgono. In questo luogo la parola profezia suona precisamente il dono di dichiarare in pubblico le verità della fede, e i sensi della Scrittura santa, in modo piano ed intelligibile. – “Ad altro, continua S. Paolo, è dato il discernere gli spiriti: „ Alii discretio spirituum. Che dono è questo, dilettissimi? Ciò che avviene in fondo al nostro spirito, i pensieri, che si affacciano alla nostra mente, gli affetti e desideri, che spuntano nel nostro cuore, non sono manifesti che a Dio solo: i demoni, anzi gli stessi Angeli, senza una illustrazione particolare di Dio, non possono spingere lo sguardo nei penetrali del nostro spirito e leggervi ciò che vi passa. Possono, come noi uomini e più di noi uomini, perché dotati di acume assai maggiore, possono argomentare i pensieri e gli affetti interni dagli atti esterni ed averne una cognizione congetturale, ma non certa ed assoluta. Conoscere pertanto con sicurezza gli occulti pensieri e leggere nel libro delle coscienze, a Dio solo è riservato e a quegli uomini che Iddio rischiara della sua luce: esso è un dono affatto sovraumano, ed era frequente in quei primordi della Chiesa. “Ad altro, prosegue ancora S. Paolo, è dato di avere generi di lingue: „ Alii genera linguarum. Nessun uomo può parlare una lingua ignota: la è cosa evidente: il perché se una persona favella in una lingua ad essa ignota, è forza arguire che lo fa per virtù divina, che è un dono dall’alto. Ebbene: il dì della Pentecoste avvenne questo miracolo e avvenne pubblicamente per le vie di Gerusalemme, come si narra nel libro degli Atti apostolici. Gli Apostoli annunziavano il Vangelo nella loro lingua nativa e le turbe che li ascoltavano, benché ignare di quella, li intendevano, onde attonite esclamavano: Come avviene, che noi li intendiamo ciascuno nel nostro linguaggio? Quel fatto ebbe a ripetersi più volte e se n’ebbero prove indubitate nelle predicazioni di S. Francesco Xaverio. Ai tempi apostolici questo miracolo del favellare in una lingua ignota non doveva essere infrequente, perché S. Paolo ne parla qui e in altro luogo più innanzi. Ma se alcuni  parlavano linguaggi stranieri e mostravano in sé la virtù divina, vi erano altri che li spiegavano, illustrati sempre dallo stesso Spirito, onde S. Paolo soggiunge: “Ad un altro è data l’interpretazione delle lingue: „ Alii interpretatio sermonum. Il parlare improvvisamente una lingua affatto ignota in mezzo all’adunanza dei fedeli mostrava l’azione divina ed era una prova della verità della fede, ma non illuminava le menti, che udivano accenti strani senza afferrarne il senso: stupivano gli uditori, ma nulla apprendevano, e ciò che più importa è che  le menti siano illustrate dalla luce del vero. Ed  ecco che Iddio, aggiungendo miracolo a miracolo, in mezzo all’assemblea dei fedeli, ad un tratto dava a qualcuno il dono di interpretare quelle lingue straniere e ne spiegava i sensi, tantoché i presenti ne ritraevano edificazione. – “Tutte queste cose, conchiude il nostro Apostolo, opera un solo e medesimo Spirito, spartendole a ciascuno come vuole. „ Sono dodici doni diversi, che in questo luogo sono partitamente numerati da S. Paolo: doni che avevano per iscopo diretto di mostrare la divinità della fede, di rassodarla negli animi e propagarla rapidamente, e che per se stessi non erano tali da santificare né quelli che li possedevano, né quelli che n’erano testimoni. Questi doni se nella Chiesa non vennero, né  verranno meno giammai, sono senza fallo assai più rari, perché minore è il bisogno, e a quella prova della divina origine della cristiana Religione altre splendidissime sono sottentrate [Quando gli Apostoli cominciarono la predicazione evangelica, i miracoli erano una necessità, e perciò erano frequentissimi: più tardi la stessa propagazione e conservazione della Chiesa divennero un miracolo permanente, e l’adempimento delle profezie a tutti manifesto, può tenere il luogo di tutti i miracoli.]. – Tutti quei doni sì magnifici e sì vari sgorgavano dalla stessa fonte, da Dio, causa suprema d’ogni cosa, da Dio, che li dà a chi vuole, come vuole, quanto vuole e quando vuole perché nessuno può dirgli: Io ho il diritto di averli. L’unica ragione della partecipazione di questi doni è la volontà sovrana del donatore. – Carissimi figliuoli! Iddio dispone ogni cosa in numero, peso e misura, e come non abbonda nelle cose superflue, così non manca nelle necessarie. Gli Apostoli, annunziando il Vangelo, dovevano provarne la verità e la divina origine ai Giudei ed ai Gentili: come potevano ciò fare senza miracoli che scuotessero quei popoli rozzi, ignoranti, schiavi di superstizioni antichissime? Si trattava di insegnare e far abbracciare una Dottrina che aveva per Autore un uomo vissuto poverissimo, morto sulla croce; una dottrina, che imponeva misteri inscrutabili, che muoveva guerra asprissima a tutte le passioni: una dottrina, che veniva proposta da pescatori, da uomini sprezzati, senza cultura, senza autorità. Come far credere e tenere fermissimamente questa dottrina senza l’intervento immediato di Dio, senza la prova irrecusabile dei miracoli? E i miracoli furono fatti, si moltiplicarono sui passi degli Apostoli e dei loro discepoli, miracoli solenni, indubitati, quasi continui, come ne fanno fede gli Atti apostolici e S. Paolo in questa lettera, e la Chiesa fu stabilita. Poiché la Chiesa fu stabilita, la necessità dei miracoli se non cessò al tutto, certamente scemò di molto, ed ecco perché i miracoli nel corso dei secoli furono meno frequenti. A noi per credere la divinità della nostra Religione non occorrono nuovi miracoli; basta la cognizione certa di quelli, che accompagnarono la sua comparsa sulla terra: basta il compimento delle profezie, che si avverano sotto i nostri occhi, e la forza delle quali cresce di giorno in giorno; a noi basta la sola vista di questa Chiesa che, inerme e sempre combattuta attraverso i secoli, e sulla via da lei percorsa spande tanta luce di verità, tal serie e tal cumulo di benefici d’ogni maniera da mostrare ad evidenza, essere ella opera non degli uomini, ma di Dio. – Un’altra osservazione ed ho finito. I miracoli sono fatti visibili, certi, che ci attestano la presenza di Dio: sono la sua voce, che risuona sulla terra, l’opera immediata della sua mano, e perciò grandissimo è in tutti il desiderio di vederli, di toccarli. Per vedere un miracolo che non farebbero i popoli? Basta la sola fama, la sola voce d’un miracolo per agitarli, per far loro intraprendere lunghi viaggi,  per riempirli di gioia o di timore, per imporre loro i maggiori sacrifici. Sì, i miracoli son cose grandi e per esserne testimoni è  bene spesa qualunque fatica; ma io, grida S. Paolo, vi addito cose ancor più grandi, doni senza confronto più eccelsi, che voi potete acquistare: “Æmulaminì charismata melìora et adhuc excellentìorern viam vobis demonstro”. Io suppongo che ciascuno di voi parli per divina virtù tutte le lingue della terra e le intenda: che conosca tutti i segreti dei cuori, che con una parola risani tutte le infermità, che comandi a tutta la natura, che sappia tutti gli avvenimenti dell’avvenire, che richiami a vita novella i morti. Qual potenza! Qual gloria! Qual felicità! Ebbene: io vi dico, che chiunque di voi ha viva la fede in cuore, chiunque possiede la carità, pratica l’umiltà, la mortificazione, l’obbedienza; chiunque in breve è adorno delle virtù proprie del Cristiano, è di gran lunga superiore a chi avesse il potere di operare tutti i miracoli più strepitosi. Perché? Perché con questo potere sì glorioso potrebbe miseramente perdere l’anima sua, doveché col possesso della virtù egli è caro a Dio e assicura l’eterna sua salvezza. Una vecchierella pia e virtuosa dinanzi a Dio è più grande del massimo operatore di miracoli, a talché di Giovanni Battista sta scritto, che non fece alcun miracolo, eppure tra i figli di donna non sorse chi fosse maggiore di lui [Questa sentenza evangelica non vuol dire, come taluno parve credere, che il Precursore fosse veramente il più gran santo che sia stato sulla terra: essa significa soltanto che Giovanni Battista fu il maggiore dei profeti per ragione del suo ufficio.]

Graduale
Ps XVI:8; LXVIII:2
Custódi me, Dómine, ut pupíllam óculi: sub umbra alárum tuárum prótege me.
[Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio: proteggimi sotto l’ombra delle tue ali.]
V. De vultu tuo judícium meum pródeat: óculi tui vídeant æquitátem.
[Venga da Te proclamato il mio diritto: poiché i tuoi occhi vedono l’equità.]

Alleluja
Allelúja, allelúja

 Ps LXIV:2
Te decet hymnus, Deus, in Sion: et tibi redde tu votum in Jerúsalem. Allelúja.
[A Te, o Dio, si addice l’inno in Sion: a Te si sciolga il voto in Gerusalemme. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc XVIII:9-14.
In illo témpore: Dixit Jesus ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam: Duo hómines ascendérunt in templum, ut orárent: unus pharisæus, et alter publicánus. Pharisaeus stans, hæc apud se orábat: Deus, grátias ago tibi, quia non sum sicut céteri hóminum: raptóres, injústi, adúlteri: velut étiam hic publicánus. Jejúno bis in sábbato: décimas do ómnium, quæ possídeo. Et publicánus a longe stans nolébat nec óculos ad cœlum leváre: sed percutiébat pectus suum, dicens: Deus, propítius esto mihi peccatóri.Dico vobis: descéndit hic justificátus in domum suam ab illo: quia omnis qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.” 

Omelia II

[Mons. Bonomelli, ut supra, Om. n. XXII]

“A certi tali, che confidavano in se stessi d’essere giusti e sprezzavano gli altri, Gesù propose questa parabola: Due uomini salirono al tempio per pregare: l’uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo stava a pregare da sé in questo modo:  “O Dio, io ti ringrazio che non sono come il resto degli uomini, rapaci, ingiusti, adulteri e né anche come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana: pago le decime di ciò che posseggo”. Intanto il pubblicano, stando da lungi, non osava pure levare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto, dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore. Vi so dire che questo, a differenza di quello, se ne tornò a casa giustificato: perché chiunque si innalza sarà abbassato, e chi si abbassa, sarà innalzato „ (S. Luca, XVIII, 9-14).

È questo il Vangelo della corrente Domenica, decima dopo la Pentecoste. L’argomento è la notissima parabola del fariseo e del gabelliere, che Gesù disse verso la fine della sua missione, e forse in uno dei quattro ultimi giorni di sua vita, in Gerusalemme. Troppe volte nel Vangelo si parla di farisei e di pubblicani o gabellieri, perché non torni utile dirne quel tanto che occorre a conoscimento delle cose che li riguardaino – La parola fariseo in nostra lingua significa Separato o partigiano. I farisei formavano una setta potente, composta la maggior parte di laici. Essa ebbe origine cento settantanni prima di Cristo, allorché il popolo giudaico levossi contro i re di Siria, che lo tiranneggiavano e sotto la condotta dei Maccabei, parola che vuol dire martelli, si riscosse a libertà. I farisei si atteggiavano a rigidi osservatori della legge, nella parte materiale, attribuendo al manco di esattezza della medesima, le sventure della nazione. Alla legge poi avevano aggiunte molte tradizioni od usanze, alle quali davano forza di legge e rendevano questa non solo grave e molesta, ma perfino ridicola. – I farisei costituivano il partito nazionale per eccellenza; avversavano la signoria straniera, tenevano illecita cosa pagarle il tributo ed aspettavano e caldeggiavano la riscossa e la libertà della patria. Era naturale che l’austerità, almeno apparente della dottrina e della condotta, ed il sentimento patriottico conciliassero stima e procacciassero credito grande ai farisei presso un popolo sì ligio alla legge e sì fiero della sua indipendenza. I pubblicani o gabellieri riscuotevano le pubbliche imposte, e sia per l’ufficio, odioso per se stesso, sia per l’abuso che ne facevano e le vessazioni che cagionavano, erano in mala voce presso il popolo, a talché pubblicano e peccatore e ladro erano pressoché la stessa cosa. Questi pubblicani, per la maggior parte, dovevano essere stranieri. – Gesù, in questa parabola, ci rappresenta al vivo l’orgoglio e la burbanza nel fariseo e l’umile conoscimento di se stesso nel pubblicano. Poche parabole esprimono meglio di questa la natura e l’indole della dottrina evangelica. Uditela, e voi stessi siatene giudici.

“A certi tali, che confidavano in se stessi d’essere giusti e sprezzavano gli altri, Gesù propose questa parabola. „ Chi sono costoro, che confidano in se stessi d’essere giusti e per giunta disprezzano gli altri? L’Evangelista non li nomina, ma è facil cosa il rilevare dal tutto insieme, che erano i farisei, setta, come dicevamo, piena d’orgoglio, e per conseguenza, sprezzatrice degli altri, giacché l’orgoglio è naturalmente congiunto col disprezzo altrui. – Se bene si considera la natura della superbia e dell’orgoglio, si scorge che questa, fra tutte le passioni, è la più rea e maligna e che fra tutti i peccatori, i superbi e gli orgogliosi sono i più spiacenti a Dio. Fine supremo della creazione e di tutte le opere esterne di Dio è la sua gloria; ora la superbia, di sua natura, porta l’uomo ad attribuire a sé quella gloria, che è dovuta a Dio, lo spinge a mettersi al suo luogo, a riscuotere per proprio conto quell’onore e quegli omaggi che spettano a Dio. È dunque cosa affatto naturale che Gesù Cristo, tutto bontà e carità verso dei peccatori e delle peccatrici, che riconoscevano le proprie colpe, sia fieramente inesorabile coi farisei superbi e li flagelli senza pietà. La gola, l’avarizia, l’ira, l’invidia, la lussuria sono brutte passioni, sono peccati che disonorano la nostra natura e offendono Dio senza dubbio; ma la superbia è ben peggiore, o cari. Se la sensualità e l’incontinenza è la lussuria del corpo, la superbia è la lussuria dello spirito, è il peccato degli angeli ribelli, il primo peccato, che cominciò su in cielo, il più difficile a conoscersi, che più strettamente si abbarbica al nostro cuore, che più scaltramente si maschera e l’ultimo che si snida dal nostro spirito. Per guarire gli uomini da questo, Gesù recitò la sua parabola. “Due uomini salirono al tempio per l’orazione: l’uno era fariseo e l’altro pubblicano. „ Ho detto quanto basta intorno alle qualità di questi due uomini. Seguiamoli nel tempio e vediamo come si presentano a Dio e pregano. – Il fariseo entra con la testa alta, non degna d’uno sguardo i suoi fratelli, si apre il passo in mezzo a loro, si mette in luogo alto e in vista di tutti, presso l’altare, e ritto in piedi, così comincia la sua preghiera: “O Dio, io ti ringrazio. „ Bello ed eccellente è il principio di questa orazione! come osserva S. Agostino: il fariseo ringrazia Dio. La vita dell’uomo è un continuo beneficio di Dio, e per ciò dovrebbe essere un continuo ringraziamento, un incessante inno di lode a tanto benefattore, e le parole: “O Dio, io ti ringrazio, „  dovrebbero essere famigliarissime alla nostra lingua. Che almeno alcuna volta fra il giorno risuonino sulla nostra lingua, ricordevoli di quella sentenza, che il mezzo più efficace per ottenere da Dio benefici è quello di mostrarci grati di quelli già ricevuti. Il fariseo ha cominciato bene la sua orazione; ma ecco che subito la guasta, e l’orazione si trasforma in compiacenza presuntuosa, in millanteria ridicola. Uditelo: “O Dio, io ti ringrazio, „ di che cosa? : che non sono come il resto degli uomini, rapaci, ingiusti, adulteri. „ Egli non tanto ringrazia Dio quanto loda se stesso; non domanda nulla, come se di nulla abbisognasse e avesse raggiunto l’ultimo grado d’ogni perfezione. Peggio ancora: egli si confronta agli altri uomini, e nel suo orgoglio li trova tutti, senza eccezione, rapaci, ingiusti, adulteri. Quanta superbia in queste parole! Quanto e quale disprezzo dei fratelli suoi che mette in fascio e atrocemente insulta, chiamandoli ladri ed adulteri: Non sum sicut cœteri homìnes, raptores, injusti, adulteri! Egli solo, questo tronfio fariseo, è giusto e virtuoso, e lo è per virtù propria: vede il fuscello negli occhi altrui, e non vede la trave, se non altro, la grossa trave della superbia nel proprio. Mentre il fariseo vedeva in sé ogni virtù, e tutti gli altri trattava da ladri ed adulteri, l’occhio suo cadde sopra il pubblicano, che in fondo al tempio pregava anch’egli. Quella vista gli risvegliò più viva l’idea delle altrui malvagità: in un baleno gli si affacciarono al pensiero le ingiustizie, le rapacità, le concussioni dei pubblicani: raffrontandosi a lui, sentì crescere il suo orgoglio a dismisura, ed aggiunse queste altre parole: “Io non sono come gli altri uomini… e né anche come questo pubblicano: „ Velut etiam hìc publicanus. Lo sprezzo di questo povero gabelliere non poteva essere maggiore. Lo giudica temerariamente gran peccatore, mentre poteva non esserlo e non l’era, e lo ingiuria atrocemente qualificandolo come rapace, ingiusto ed adultero: Velut etiam hic publicanus. Ecco i frutti naturali della superbia, la presunzione, il giudizio temerario, il disprezzo altrui, l’insolenza e l’ingiuria. – Guardiamoci, o cari, da questo malnato germe della superbia, che tutti più o meno portiamo dentro noi stessi, e che è facile riconoscere dai frutti. Vogliamo noi conoscere e toccare con mano questo funestissimo germoglio, che abbiamo ereditato dal padre nostro, e che è la radice di tanti mali? Entriamo in noi: scrutiamo il nostro cuore, mettiamoci a tu per tu con la nostra coscienza, interroghiamola dinanzi a Dio, e facilmente troveremo che talora ci attribuiamo doti e beni e virtù che non abbiamo, o quelle che abbiamo, siamo inchinevoli ad ingrandirle; troveremo che abbiamo piacere che altri le conosca e ce ne dia lode: troveremo che ci turba il pensiero d’essere dimenticati, che ci sa male che altri salga in fama e che la nostra lingua è pronta a deprimere chi ci dà ombra, e ci adoperiamo a tenerli in basso, e che amiamo tener sempre il primo posto. Che è mai questo, o cari, se non il frutto del mal seme della superbia, che ha sempre profonde le radici nel nostro cuore? Studiamoci, se non di svellerle e sterparle al tutto, che è impossibile, almeno di tagliarle, per guisa che non crescano, né producano i loro frutti sì funesti. Non bastò al superbo fariseo l’affermare pubblicamente, ch’egli non era né rapace, né ingiusto, né adultero, come tutti gli altri e come il povero pubblicano; spiegate le vele all’aura sì carezzevole della vanità e della superbia, narra le sue virtù e ne fa pompa, dicendo: “Io digiuno due volte la settimana: pago le decime di quanto posseggo. „ Gli altri uomini rubano, io pago i miei debiti e do a ciascuno ciò che gli si deve, e adempio la legge in tutte le sue prescrizioni; gli altri uomini seguono le malvagie voglie della carne, io la castigo digiunando due volte la settimana, e perciò io sono giusto, o Signore. — Che dici, o fariseo arrogante? Il digiunare e adempire le prescrizioni della legge, è buona e santa cosa; ma forsechè tutta la virtù e la santità si riduce a queste due pratiche? Dove lasci la carità verso dei poveri, la pazienza, il compatimento per le altrui debolezze e sopra tutto l’umiltà del cuore? — Voi lo vedete, il fariseo ripone la sua giustizia negli atti esterni, pagare le decime e digiunare, e il resto dov’è? La virtù, la santità anzitutto sta riposta nella mente e nel cuore: Dio vuole il culto del corpo sicuramente, ma prima quello dello spirito, ed in tanto gli è accettevole il primo in quantochè proviene dal secondo. – “Signore, diceva Davide, se tu avessi voluto dei sacrifici, io per fermo te li avrei offerti; ma tu non trovi le tue compiacenze negli olocausti: il sacrificio, che tu accetti è quello d’uno spirito dolente dei suoi falli; un cuore contrito ed umiliato tu non lo respingi giammai. „ Ci stia sempre fitta nell’anima questa grande verità, o dilettissimi: Dio vuole noi più che le cose nostre: vuole prima l’ossequio della mente ed il tributo del cuore, vuole il nostro interno, e dopo, quasi segno dell’interno, gradisce gli atti esterni. Ma poniamo che il fariseo con la giustizia esterna della legge e con la mortificazione del corpo per il digiuno, avesse possedute tutte le altre virtù, se volete, anche in grado sommo; sarebbe egli stato giusto dinanzi a Dio? Avrebbe egli avuto diritto alla mercede eterna? No; con quella sua superbia egli guastava qualunque virtù, perdeva ogni ragione di merito e Dio gli avrebbe detto, come sta scritto altrove nel Vangelo: “Hai voluto menar vanto delle tue opere ed insuperbirtene? Hai ricevuta ogni mercede, e vattene. „ Voi sapete che il pregio ed il merito delle opere si misura principalmente dal fine che le informa: se questo è cattivo, l’opera stessa, ancorché buona in se medesima, diventa cattiva agli occhi di Dio ed anche degli uomini, se lo conoscono. Un vostro amico, o cari, vi circonda di cure amorevoli, vi onora, vi rende i migliori servigi, si professa tutto pronto ai vostri cenni; ma un bel giorno voi apprendete che tutto questo egli fa per il suo interesse, per servirsi del vostro nome e della vostra influenza al conseguimento d’un certo fine per giunta biasimevole; che se ciò non fosse, egli non si curerebbe punto di voi; ditemi, qual giudizio fareste voi dell’amico? In qual conto terreste voi i suoi servigi, e l’amore che vi dimostra? Io penso che ne sareste sdegnati e cancellereste dal numero dei vostri amici il suo nome e lo caccereste di casa come un ingannatore, un ipocrita, e a ragione. Or bene: è questo il caso di chi pratica la virtù, adempie i suoi doveri, e se vi piace, fa anche opere grandi ed eroiche all’intento, non di onorar Dio, di piacere a Lui e fare il voler suo, ma di pascere la propria vanità, di correre per le bocche altrui, di trarne lucro e di fare il piacere proprio. Dio, il quale vede questo fine, che è quasi l’anima delle opere, vede anche che le opere non sono fatte per Lui, ma per altri, le respinge e giustamente offeso, gli dirà: Queste opere, tu non le hai fatte per me, ma per te, per altri; a che aspetti la mercede da me, per il quale nulla hai fatto? Chiedila a te stesso, a quelli per i quali le facesti: Recepisti mercedem tuam. – Così le opere più sante e più sublimi che non sono fatte per Iddio, non sono che borra ed immondezza dinanzi a Lui. Ah! dunque, cari, non sia mai che il tarlo della superbia guasti le opere nostre, come guastò i digiuni e le altre opere del fariseo. Dopo che avremo fatto il nostro dovere e praticate tutte le virtù proprie del nostro stato per piacere a Dio, diciamo: Siamo servi inutili: quel poco che abbiamo fatto, l’abbiamo fatto mercé il vostro aiuto, o Signore; giacche senza di questo noi non avremmo potuto far nulla, e per ciò a voi solo se ne renda la gloria. – Abbiamo visto ed udito il fariseo; ora vediamo ed udiamo il suo contrapposto, il pubblicano. “Questi, stando da lungi, non osava nemmeno di levare gli occhi al cielo. „ Egli era peccatore, invischiato in ogni mala pratica: lo sapeva, lo sentiva in cuore: appena entrato nel tempio, si arresta: non osa avvicinarsi all’altare, si reputa indegno di stare nel luogo santo e considera come una somma grazia che Iddio lo tolleri alla sua presenza. Conscio delle proprie colpe, sente una fiamma salire sul volto; si vergogna, non che d’altri, di se stesso: non vede in sé bene alcuno e solo i suoi peccati gli stanno innanzi. China la fronte, la nasconde tra le palme, ripassa con la memoria ad una ad una le sue iniquità, ne misura la gravezza, ne sente tutto il peso, la coscienza si desta e geme, e nell’amarezza dell’anima sua non trova rifugio, che nella misericordia di Dio e nel suo perdono, e cadendo ginocchione, si batte il petto: Percutiebat pectus suum, e prorompe in questo grido, sì bello, sì eloquente: “O Dio, abbi pietà dì me peccatore: „ Propitius esto mihi peccatori. Egli si batteva il petto! Che voleva egli dire con quel battere il petto? Risponde S. Agostino: “Egli rimproverava a se stesso ed in qualche modo puniva il peccato, che sta nella volontà, che si annida nel cuore. „ Il povero pubblicano in quell’atteggiamento, con quel battersi il petto, con quegli occhi lacrimosi, e fissi al suolo, e con quel grido: ” O Dio, abbi pietà di me peccatore, „ voleva dire: Signore lo so, lo confesso innanzi agli uomini e a te, io sono un peccatore, grande peccatore: me ne pento nell’intimo dell’anima, perché ho offeso te, mio Creatore e Signore, te, che dovevo amare sopra ogni cosa. Il mio cuore è spezzato, l’anima mia afflitta e desolata. – Non mi resta altra speranza che la tua misericordia infinita: in essa mi getto e mi abbandono. O mio Dio e mio Signore! pietà, perdono! In questi atti e in queste parole del pubblicano la fede è viva, salda la speranza, ardente la carità, profonda l’umiltà, la preghiera schietta ed affocata; non si scusa, non incolpa altri dei suoi falli, non esita un istante a riconoscerli e confessarli e a confessarli ad alta voce, nel luogo più pubblico e venerando, alla presenza di tutti e del fariseo, che fissava sopra di lui lo sguardo sprezzatore e beffardo. Tanto dolore e tanta umiltà non potevano non ottenere il perdono dei peccati, fossero stati per numero e gravezza mille volte maggiori. Gesù Cristo afferma che “questi (cioè il publicano), a preferenza di quello (cioè del fariseo), se ne tornò a casa giustificato: „ . “Così, scrive un celebre interprete, chi si reputava santo, fu condannato da Dio, e chi si confessava peccatore, era da Dio giustificato: „ Qui sese adeo justificaverat, a Deo condemnatus est, et qui adeo se condemnaverat, justificatus est (Euthymius): chi si presentò a Dio pieno di sé ne partì vuoto, dice S. Bernardo; e chi si presentò vuoto di sè, cioè umile, ne partì ripieno di grazia. “È meglio, esclama S. Ottato di Milevi, essere peccatore ma umile, che innocente ma superbo: „ Meliora sunt peccata cum humilitate, quam innocentìa cum superbia (Lib. 2 Cont. Donat.). Il peccatore, ma umile, confessa i suoi peccati e si giustifica; il giusto che è pieno di sè, non è più giusto, ma peccatore, e quel che è peggio, non sa di essere peccatore. Scorrete il Vangelo; voi troverete Zaccheo pubblicano, Maria Maddalena peccatrice, la Samaritana, donna di perdutissima vita, l’adultera colta in fallo, Pietro spergiuro, il ladrone in croce e Paolo persecutore, che ad una parola di Gesù Cristo, alla chiamata della grazia, si scuotono, si ravvedono, si convertono, fanno pubblica penitenza e diventano gran santi e apostoli; ma non troverete un solo fariseo, che chiamato ed ammaestrato da Cristo e da lui con le più gagliarde espressioni, promesse e minacce, eccitato alla penitenza, abbia mutato vita e lo abbia seguitato. Anzi ai suoi ammonimenti rispondevano con ingiurie, appuntavano le sue parole, malignavano sui suoi miracoli, e non potendo negar questi, conchiudevano dicendo: “Questo uomo fa molti miracoli, e non possiamo negarlo: è dunque necessario toglierlo di mezzo. „ Mistero di iniquità e di perfidia, che non crederemmo possibile se non fosse registrato nel Vangelo. –  E questo fatto strano non lo vediamo ripetersi spesso sotto de’ nostri occhi? Vi sono uomini immersi in ogni sorta di vizi, dediti ai bagordi, dissoluti, iracondi, tutti intesi ad accumulare ricchezze, non badando per il sottile ai mezzi, dimentichi dell’anima e persino praticamente miscredenti, ma non superbi. Fate che venga una missione, che una sventura li colpisca, che una malattia li getti sul letto della morte, che un accidente qualunque, strumento della divina misericordia, li richiami a sé: voi li vedete cadere ai piedi del sacerdote per confessarsi, chiamarlo al loro capezzale, convertirsi, vivere e morire santamente. Per contrario vi sono altri uomini, se volete, che menano vita mediocremente corretta, lontana da certi disordini e scandali pubblici, ma che si tengono dotti, pieni di sé, orgogliosi, sprezzanti del povero popolo, che guardano tutti d’alto in basso: essi offriranno lo spettacolo doloroso di non valicare giammai le soglie del tempio e di respingere il prete ed il crocifisso in punto di morte, ed essere insensibili alle lacrime della madre, della sposa, dei figli, delle figlie, che li scongiurano a riconciliarsi con Dio. D’onde, d’onde, o cari, la conversione sì pronta, sì franca degli uni, l’ostinazione fredda ed invincibile degli altri? Ah! Io non la so trovare che nella umiltà di quelli, e nella superbia di questi, e nella sentenza di S. Giacomo: “Dio dà le sue grazia agli umili e resiste ai superbi. „ Ohimè, fratelli! Questo spirito di superbia, questo orgoglio del cuore, questo disprezzo altezzoso dei poveri peccatori, lo vedo largamente propagato in mezzo a noi, anche in quelli i quali dovrebbero essere modelli di umiltà, di compatimento, di carità verso gli erranti! Il loro linguaggio è duro, altero, sdegnoso, ricorda quello del fariseo ed anziché attirare a Dio i peccatori, li allontana. Non imitiamoli. Mille volte meglio il pubblicano, il peccatore umile e sincero che il fariseo superbo ed arrogante. – Gesù Cristo raccoglie in una breve e bella sentenza il frutto di questa parabola. Eccovela: ” Chiunque si innalza, sarà abbassato; chi si abbassa, sarà esaltato. „ Vale a dire: chi è superbo come il fariseo, sarà cacciato da Dio e coperto d’ignominia: chi si abbassa, chi si umilia, chi confessa d’essere quel che è, peccatore, sarà accolto da Dio, otterrà il perdono e sarà esaltato nel giorno in cui Egli renderà a ciascuno secondo le opere sue. Vogliamo salire alto nella gloria? Abbassiamoci qui con l’umiltà: gli alberi tanto più alta sollevano la cima quanto più profonde sono le radici: tanto più eccelso e saldo sorge l’edificio quanto il fondamento è più profondo: la misura della gloria è l’umiltà [“Sicut superbia omnium malorum fons est, ita humilitas cunctarum virtutum origo est. „ (S. Joan. Chrysost. in Matth. Homil. 45.)]

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps XXIV:1-3
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.
[A Te, o Signore, ho innalzata l’ànima mia: o Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire: che non mi irridano i miei nemici: poiché quanti a Te si affidano non saranno confusi.]

Secreta
Tibi, Dómine, sacrifícia dicáta reddántur: quæ sic ad honórem nóminis tui deferénda tribuísti, ut eadem remédia fíeri nostra præstáres. [A Te, o Signore, siano consacrate queste oblazioni, che in questo modo volesti offerte ad onore del tuo nome, da giovare pure a nostro rimedio.]

Communio
Ps L:21.
Acceptábis sacrificium justítiæ, oblatiónes et holocáusta, super altáre tuum, Dómine. [Gradirai, o Signore, il sacrificio di giustizia, le oblazioni e gli olocausti sopra il tuo altare.]

Postcommunio
Orémus.
Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, quos divínis reparáre non désinis sacraméntis, tuis non destítuas benígnus auxíliis.
[Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché benigno non privi dei tuoi aiuti coloro che non tralasci di rinnovare con divini sacramenti.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XXI)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXI.

I DEMONI.

Prova a cui furono sottoposti gli Angeli. — La gran battaglia in cielo. — Castigo degli angeli ribelli. — Loro denominazione ed esistenza. — Loro azione e potenza. — Come e perché  Dio la permetta.

— Ho inteso dire che i demoni dell’inferno erano angeli anch’essi. Come mai sono divenuti demoni!

Ecco. Gli Angeli come furono creati grandi e belli, così furono creati felici, e, secondo la dottrina comunissima, arricchiti eziandio, senza alcun loro merito, dei doni soprannaturali della grazia. Tuttavia essi non ebbero allora la felicità perfetta e soprannaturale della visione beatifica, alla quale Iddio li aveva destinati, né ebbero la impeccabilità col rassodamento della loro volontà nel bene. Essendo essi stati chiamati ad esistere propriamente per questo fine, per contemplare cioè l’essenza divina e per lodarla e benedirla in eterno, era necessario che ancor essi si rendessero meritevoli di sì eccelso onore col sottostare ad una prova.

— E non poteva Iddio ammetterli alla felicità perfetta ed eterna senza prova alcuna?

Senza alcun dubbio; nella sua potenza Dio assolutamente avrebbe potuto ammetterli senza più, fin dal primo istante della loro creazione a vederlo beatificamente; ma nella sua sapienza stimò assai più conveniente e più degno, che anche l’Angelo, essere intelligente, e mille volte più intelligente dell’uomo, avesse, mercé l’uso del libero arbitrio, a cooperare di sua deliberata volontà alla propria grandezza e felicità eterna.

— A che prova dunque furono sottomessi!

Questo non si può ben dire. Molti sacri dottori opinano, che Iddio abbia rivelato agli Angeli che un dì creerebbe una natura inferiore alla loro, la natura umana, e che questa natura di preferenza che quella angelica avrebbe assunto il Figliuolo di Dio, pel quale, come a Verbo incarnato, chiedeva loro l’omaggio dell’adorazione. Moltissimi degli Angeli obbedirono senz’altro al volere di Dio. Un’altra gran parte per superbia non ne volle sapere.

— E quanto tempo durò questa prova?

Un attimo, perché come ti dissi la intelligenza degli Angeli conosce subito e la volontà tiene dietro in un lampo alla conoscenza.

— E dopo tale prova che avvenne?

Gli angeli rimasti fedeli furono subito confermati in grazia, dimodoché d’allora in poi non poterono più peccare, e furono ammessi altresì al godimento eterno di Dio. E gli altri furono precipitati nell’inferno.

— Ma ho inteso a dire nelle prediche che allora avvenne in cielo una battaglia, e che S. Michele cacciò dal paradiso Lucifero o Satana, il capo degli angeli ribelli, e tutti gli altri.

E così si racconta nelle Sacre Scritture. Ma non perciò devi credere che in questa lotta gigantesca di milioni e milioni di spiriti contro altri milioni avvenisse alcunché di somigliante alle nostre battaglie, no; come tutto ciò accadde in un lampo, in un attimo solo, così tutto ciò accadde senz’armi, senza strepiti, senza azzuffamento, senza versamento di sangue. Una parola bastò a decidere la sorte della battaglia: la parola Michele che vuol dire Chi come Dio! A questa sola parola l’esercito dei ribelli fu precipitato dal cielo negli abissi eterni.

— Ma questo castigo non è stato troppo terribile?

Terribile sì, ma non ingiusto. Rifletti bene che Dio oltre alla più eletta intelligenza per poter ben conoscere la verità, aveva dato altresì agli Angeli suoi quella grazia, con la quale potevano star nel bene, come fecero moltissimi, e l’aveva data loro proporzionatamente alla loro natura e al loro fine; di modo che nessuno tra gli angeli decaduti per non aver resistito alla prova può ora incolpare menomamente Iddio. Credilo, il loro peccato fu veramente enorme. Non c’è confronto alcuno tra la gravezza del peccato angelico e del peccato umano; quello supera questo smisuratamente; ed è una delle ragioni per cui Dio pur perdonando all’uomo, non volle perdonare agli angeli.

— Gli angeli decaduti hanno essi perduta la loro natura angelica!

No, perché il peccato non toglie mai nulla alla natura, sia nell’Angelo, sia nell’uomo. Quindi i doni naturali propri dell’Angelo rimasero in essi integri.

— Perché questi angeli decaduti si chiamano demoni, o diavoli?

Demonii è lo stesso che spiriti maligni, e diavoli vuol dire precipitati.

— E le parole Lucifero o satana, con cui si denomina il capo dei demoni, che significano?

Lucifero equivale a portatore di luce, e così si chiama il primo demonio, perché avanti la caduta era forse il più splendido degli Angeli; satana vuol dire il nemico.

— Sarebbe vero che de’ demonii ve ne siano anche per l’aria?

Senza dubbio. S. Paolo dice per l’appunto che noi « dobbiamo lottare contro gli spiriti di malizia sparsi nella nostra atmosfera ». (Vedi Lettera agli Efesi, capo VI, versetto 12). Con tutto ciò non devi credere che vadano esenti dalle pene infernali. Iddio le fa loro soffrire in qualunque punto dello spazio essi si trovino.

— E tuttavia vi sono molti, i quali dicono che i diavoli non ci sono.

Gesù Cristo, gli Apostoli, tutti i libri sacri ne parlano, e noi non possiamo dubitare della loro esistenza senza rinunziare alla Fede Cattolica. Coloro, i quali vanno dicendo che il diavolo non c’è, sono quelli che vorrebbero che non ci fòsse, e sono non di meno le sue miserabili vittime. In altri tempi satanasso fece di tutto per comparire e farsi credere Dio; ora fa di tutto per eclissarsi e dar ad intendere ch’egli è un bel nulla: perché capisce bene che se si crede al diavolo, bisogna pur credere a Dio.

— E che cosa fanno ora i diavoli?

Oltre a l soffrire il castigo loro inflitto, quasi per rifarsi della sventura a loro toccata si servono dei doni che nella loro natura hanno ricevuto da Dio, dei loro lumi, della loro forza, del loro meraviglioso potere per pascersi nella falsa gioia della vendetta.

— E di qual maniera compiono la loro vendetta?

La loro vendetta la compiono contro di Dio, del quale prendono a contraffare la onnipotenza, contro degli Angeli Santi, dei quali combattono il governo e la protezione, e soprattutto contro gli uomini, chiamati a possedere un dì il bene che essi hanno perduto, e contro la Chiesa, che Gesù Cristo ha fondato propriamente per sottrarre gli uomini alla loro potenza e salvarli.

— È dunque vero che ci sia un demonio apposito per tentare ciascuno di noi?

Non è improbabile che colui, il quale si è fatto capo dei demoni, scimmiottando Iddio e intralciando l’opera del nostro Angelo custode, ne deputi uno a ciascuno di noi per seguirci in tutti i passi della nostra vita, dalla culla alla tomba. Ma da ciò non si ha da conchiudere che sia sempre un solo a tentarci: molte volte sono in più e numerosissimi: del che ci fa fede il Vangelo.

— E i demoni possono conoscere il nostro interno e le cose future?

Già te lo dissi parlando dello spiritismo. L’interno i demoni non lo possono conoscere; possono far delle congetture, delle supposizioni guardando ai nostri atti esterni, epperò ben si comprende che possono prendere dei grossi granchi; e in quanto al futuro possono fare delle induzioni e nulla più. Se però si tratta ci cose dipendenti da cause naturali, come l’eruzione d’un vulcano, un terremoto e simili, può essere che conoscendo le dette cause, conoscano altresì gli effetti, che al tal tempo ne possono seguire.

— Bicordo d’aver letto in qualche libro che i demoni hanno una grande potenza.

Sì, come è grandissimo il loro ingegno naturale, così non è minore la loro potenza. Conoscendo mille segreti, che noi ignoriamo, possono influire senza difficoltà in tutti gli elementi. Possono perciò scatenare i venti, ammontare le nubi tempestose, far brontolare i tuoni e scoppiare le folgori. Hanno potere di operare mille prestigi, quali seducenti, quali spaventevoli, come ne fa fede la storia di Mosè. Possono rendersi visibili e camuffarsi in cento guise, come hanno fatto per tentare S. Antonio, ed anche trasfigurarsi, al dire di S. Paolo, in angeli di luce ».

— E fra questi poteri i demoni hanno anche quello di sforzarci a commettere il male!

No, questo potere non l’hanno. Essi possono tentarci, possono tribolarci, tormentare i nostri corpi, cagionarci delle vere malattie, influire sul nostro sistema nervoso, sfruttare la nostra immaginazione, ma sulla nostra volontà direttamente non possono nulla. E se talora riescono a vincerci, non è per ragione del loro potere, ma per causa della nostra viltà, con la quale ad essi ci arrendiamo di nostra deliberata volontà.

— È certo che talora i demoni pigliano anche possesso del corpo umano?

Certissimo. Il Vangelo ci parla assai spesso di indemoniati, ed anche oggidì ve ne sono. Tuttavia bisogna andare adagio a credere taluno ossesso, a meno che lo si vedesse a compiere cose affatto impossibili, come parlare lingue a lui ignote, rivelare l’altrui stato interno, e cose simili.

— E tutte queste cose che mi ha indicato poter i demoni, sia sulla natura, sia sopra di noi, le possono compiere sempre?

Oh no! Ma solo se e quando Dio loro le permette. I demoni sono come cani legati alla catena, che possono agire solo allorché e fin dove Dio loro l’allenta.

— E perché mai Iddio permette talora ai demoni di fare dei prestigi, di impossessarsi del corpo di taluno e di stare attorno a noi a tentarci?

Questo perché non lo possiamo pienamente comprendere. Certo Iddio sa quel che si fa, e siccome la sua volontà è buona sempre, in tutto e per tutto, così anche in questa permissione non ha di mira che il bene nostro e la gloria sua. Del resto possiamo riconoscere che Dio permette le azioni diaboliche contro gli uomini per metterci alla prova, per concederci il pieno esercizio della nostra libertà, nel combatterle e vincerle, per esercitare la nostra umiltà e pazienza, e talora anche per castigarci dei nostri peccati passati. A d ogni modo l’essere tribolati, tentati e persino ossessi dal demonio non costituisce peccato. E quando Dio lo vuole, il demonio deve subito ritirarsi dall’uomo, e lasciarlo in pace. Tutto sta che noi con la grazia di Dio, che non mai ci manca, facciamo la parte nostra per rigettare e vincere questo nostro avversario.

— Intanto però taluni ne restano vinti.

Che cosa vuoi mai? La libertà, che noi abbiamo, è un bene sì grande, che Iddio preferisce piuttosto che taluni ne abusino arrendendosi al demonio, e restando da lui vinti, anzi che toglierci sì gran bene. Ma di questo abbiamo già discorso più di proposito altra volta, quando abbiamo parlato della permissione del male morale.

— Ed anche a me sembra ora di aver appagato ogni curiosità intorno ai demoni: e sono contento di quanto ho appreso a loro riguardo, specialmente che essi non possono far nulla di male alla nostr’anima, se noi non lo vogliamo.

SAN PANTALEONE MARTIRE

[Ampolla con il sangue di S. Pantaleone a Ravello (Sa)]

S. PANTALEONE MARTIRE

[p. V. STOCCHI: Discorsi Sacri, disc. n. XLVII – Befani ed.; ROMA, 1884]

Un celebre storico delle cose romane indagando la cagione perché tanto scarse e malsicure contezze rimanessero ai suoi tempi delle origini di Roma e degli uomini che illustrarono gli esordi di quella città, dice che tanta penuria provenne principalmente a ciò, che quegli uomini veramente egregi tutti intesi ad operare, poco si brigarono di scrivere, e più che di raccontare le imprese altrui, furono vaghi di esercitarsi in cose che da altri potessero essere raccontate. Questa sapiente speculazione mi si offerse da se medesima al pensiero allora che applicai l’animo a tessere il panegirico di questo gran martire, al quale è sacra la odierna solennità. Celebre è il nome di Pantaleone nei sacri fasti, e i monumenti liturgici della Chiesa greca e della latina ci attestano che nel culto e nella venerazione del mondo cristiano vendicò sempre a se medesimo un luogo insigne fra i più nobili martiri, ma chi ricerchi con occhio sagace i documenti sinceri della storia trova che in gran maniera vacilla quello che di lui contano le leggende orientali, e deplora per conto di lui quel medesimo che Sallustio deplorava in servigio degli eroi pagani della sua Roma, che da un nome celebre infuora a poche gesta precipue nulla ci resta. Il qual difetto non è così proprio di Pantaleone, che non sia comune a un numero senza numero di martiri insigni, a una Cecilia per esempio, a un Sebastiano, a un’Agnese, a un Lorenzo, e la cagione non è per mio credere altro che questa; che mentre la persecuzione dibatteva la Chiesa coi suoi furori, i campioni di Gesù-Cristo più che a scrivere i combattimenti altrui intendevano a mietere gloriose palme per sé. Le quali cose essendo così, non è buon consiglio ragionando di Pantaleone, procedere storicamente, dando per cose certe le dubbie, e per genuina istoria le poche e mal sicure contezze che di lui ci rimangono: ma dai pochissimi accenni sicuri che ci porge la storia e dai monumenti liturgici inferire argomentando la sua grandezza. E questa signori è la via che terró in questa invitando a seguirmi la vostra pietà mi argomenterò di mostrarvi come fu veramente Pantaleone un testimonio insigne di Gesù Cristo. Forse chi sa, aiutandomi il santo martire, dirò cose non affatto indegne di lui: ma ad ogni modo se quel che dirò non sarà degno né del martire che celebro né dell’udienza che mi circonda; questo certamente vi prometto che darò un non inutile pascolo alla vostra pietà.

1. E ho già accennato o signori come nella Chiesa cattolica il santo martire Pantaleone nella fama medesima del suo nome porta il suo panegirico. Conta infatti la Chiesa un numero infinito di martiri, splendide gemme della corona nuziale che alle tempie, sposandola, le intrecciò Gesù Cristo. Ma a quel modo che nel diadema di una regina le gemme sono un gran numero, ma tra le molte alcune soltanto eccedono insigni per vistosità di mole e chiarità di fulgori; così nel coro innumerabile dei santi martiri alcuni soltanto rifulgono di chiarezza particolare, insigni nel gran popolo dei rimanenti; e di questi è celebre il nome, popolare la ricordanza, vetusto il culto, solenne la liturgia. E per verità un Ignazio, un Policarpo, un Apollinare, un’Agata, una Lucia sono tali martiri che non è vanto il conoscere, ma sarebbe in un cristiano negligenza turpissima l’ignorare. Ora che in questa inclita schiera di martiri insigni vendichi a se medesimo un luogo insigne Pantaleone, appena ha mestiere di essere dimostrato. Piene sono le concioni dei santi Padri massime greci delle lodi di questo gran martire, pieno il mondo cristiano di altari e di templi dedicati al culto di lui, pieni gli ecclesiastici dottori dei monumenti delle sue glorie. Ma io passandomi di ogni altro argomento, dirò tal cosa che sola vale un gran panegirico. Il gran Costantino poiché col segno trionfale della croce ebbe sconfitto i nemici non tanto suoi quanto di Gesù Cristo, dette siccome è noto, la pace alla Chiesa, e tribolata e lacera da trecento anni di proscrizione e di sangue, la trasse colla regia mano dalle catacombe, la pose in trono, e le die sul mondo l’imperio che sulla croce le conquistò Gesù Cristo. Si diede allora ad edificare templi e basiliche ai Santi di Gesù Cristo, e colle regie mani trattò il tridente, e sulle regie spalle portò la terra cavata dove ora sorgono le basiliche di Pietro e di Paolo, e nel Laterano aperse al popolo romano la prima chiesa del mondo. Ora questo gran principe empiendo di basiliche dedicate ai più gloriosi martiri di Gesù Cristo l’Occidente e l’Oriente, non lasciò dimenticato indietro Pantaleone, ma una basilica gli dedicò in Nicomedia sopra la tomba che ne accoglieva le ossa e le ceneri, e una seconda sul Bosforo celebri entrambe per sontuosità di edifizio, più celebri pei prodigi coi quali Dio onnipotente glorificava il suo martire. D’allora in poi fu una gara per tutto l’Oriente di fare onore al martire Pantaleone, e io percorrendo il dotto volume dove un savio continuatore del Bollando ha raccolto i monumenti che di lui ci ha tramandato l’antichità, sono stato preso di altissima meraviglia, e vi confesso che io non credeva che di questo gran martire tanto fosse stato il culto, tanto l’onore. I quali monumenti non è qui luogo di riferire perché non sono erudizione da panegirico, ma questo ad ogni modo non tacerò. Teodosio il grande dapprima e poi Giustiniano sulla spiaggia del Bosforo in luogo di lontano e largo prospetto edificarono al nostro martire un tempio: tempio nobile e insigne così, che e degnamente testificava la pietà dei due Cesari, ed era ornamento e presidio della imperiale Bisanzio, e il navigante che tragittava lo stretto vedeva dall’alto della poppa la sacra mole, e leggendo nella marmorea fronte il nome di Pantaleone lodava Gesù Cristo nel suo martire, e il martire supplicava che al suo corso porgesse sereno il cielo, il mare tranquillo, propizi i venti, e frastornasse ogni incorso di nemico e di traversia. Le quali contezze piene di irrefragabile certezza sono di avanzo perché si conchiuda che Gesù Cristo pose in Pantaleone una compiacenza particolare, e che nella Chiesa è stato sempre riputato martire insigne, essendo chiaro che un culto insigne argomenta stima anche insigne, e stima insigne non fa la Chiesa se non di quelli che nella testimonianza che a Gesù Cristo rendettero furono insigni.

2. E insigne fu veramente la testimonianza che Pantaleone a Gesù Cristo rendette, e la storia ci è avara sì, ma non tanto che non ci porga quanto è mestiere ad asserire e confermare a lui questo vanto. Al quale effetto considerate, che l’avere data per Gesù Cristo la vita e il sangue, basta per essere martire, ma non basta per essere martire insigne. La vita e il sangue profuso per Gesù Cristo è gloria comune a tutti quei che sono martiri, e chi non toccò questo termine non ha né il nome, né la corona né il culto di martire. Ma perché altri sia e si dica martire insigne, è richiesto che sia stato insigne in quelle cose per le quali il martire è martire. Le quali chi bene osservi si riducono a tre. La prima è il numero e l’atrocità dei tormenti, la seconda la costanza nel sostenerli, la terza il fervore della carità nel confessare Gesù Cristo. Ora io dico che bastano le poche contezze che del martirio di Pantaleone ci ha tramandato la storia per fare aperto che furono insigni i tormenti che egli sostenne per Gesù Cristo, e nei tormenti insigne la costanza, insigne la carità. Vediamolo brevemente, e cominciamo dai tormenti. I quali e per atrocità furono crudelissimi, e per prolungamento diuturni, e per numero molteplici e per efferatezza immani. Apriamo la storia. – La persecuzione nella quale Pantaleone mieté la palma fu la decima ed ultima, e la mossero quelle due tigri coronate, che furono Diocleziano e Massimiano Galeno. Questa persecuzione fra quante percossero la Chiesa di Gesù Cristo fu spietatissima, a segno tale che neppure quella di Nerone poté essere con questa paragonata, e i santi Padri e le storie ecclesiastiche e i libri liturgici la distinguono sempre col nome di persecuzione immane. In un mese solo, scrive S. Damaso, diciassette mila cristiani furono trucidati con crudelissime morti; ora la persecuzione durò venti anni; e l’Italia e l’Africa e l’Asia proconsolare, e l’Egitto e la Siria e la Palestina ridondarono del sangue di vecchi e di giovani, di vergini e di matrone non d’altro ree che di credere e di amare Gesù Cristo. Si invadevano le case, s’imprigionavano le famiglie, si bruciavano gli oratori, le chiese, gli archivi, agli imprigionati cristiani s’intimava di rinnegare Gesù Cristo. Resistevano? Confessavano la fede? Bastava. Si inserivano ai magnanimi e alle magnanime tra le unghie e le carni canne acutissime, si applicavano all’ignudo corpo fiaccole ardenti e lastre infuocate, alle fanciulle e alle spose si traforava 1’utero con ispiedi candenti, quali scannava il ferro, quali bruciava vivi il fuoco, quali tagliava a membro a membro il coltello con lenta carneficina, quali scerpavano i pettini, i graffi, le unghie di ferro, quali dilaniavano gli artigli e le zanne di crudelissime fiere, quelli che alla strage avanzavano, uccidevano meno violenti, ma non meno efficaci carnefici, le prigioni, gli ergastoli, le miniere, gli esili. A noi pare moltissimo quello che ci costringe a patire la nequizia dei nostri tiranni e ci quereliamo con Gesù Cristo quasi non curi più la sua Chiesa: ma siamo ancora lontani da quello che patirono quegli eroi che pure chiamiamo trionfatori e felici. Ora questa persecuzione che infuriò terribile per tutto il mondo romano, in nessun luogo imperversò più spietata che in Nicomedia. In Nicomedia infatti capitale celebratissima della Bitinia facevano di quei giorni residenza gli imperatori. Quivi si meditarono per conseguenza i feroci consigli, si scrissero i sanguinolenti editti, quivi si promulgarono, quivi sotto gli occhi dei Cesari dettero prova e di sagacità più operosa i delatori, e di severità più inesorabile i giudei, e di crudeltà più efferata i carnefici. Fiorenti erano di quei giorni le chiese della Bitinia, fiorente soprattutto quella di Nicomedia. L’avea fondata Pietro medesimo principe degli Apostoli, e con la parola prima, poi con le lettere vi aveva infuso la fede di Gesù Cristo e l’amore. E in Nicomedia il nome di Pantaleone era celebre, fino dal primo rompere della persecuzione chiamò sopra di sé gli occhi dei delatori e le mani dei sgherri imperiali e fu tratto al tribunale stesso e al cospetto di Massimiano Galerio. Ora i tormenti che Pantaleone sostenne furono l’eculeo, le lastre infuocate, e da ultimo ebbe recisa la testa. Era l’eculeo un’orribile macchina da tormentare, quadrata a modo di letto e congegnata così, che posto a giacere in essa il misero condannato, e inserite in due cappi le mani e i piedi veniva per viva forza di ruota e di argani stirato cosi, che se gli sconnettevano le giunture, e con orribile cigolio si scollegavano le ossa. A questo martirio fu posto Pantaleone, provò le stirature orribili di quella macchina, durò più ore a un supplizio più tormentoso che morte, ebbe scompaginate le giunture, scollegate le ossa, ma il dolore del corpo non vinse la costanza dell’ animo, Gesù Cristo vivo nel suo cuore domò i carnefici, fu tratto dal martirio con le membra infrante e disfatte, ma nelle infrante e disfatte membra vigeva lo spirito indomito, e la lingua cui lo Spirito Santo dava la fiamma, confessava la fede. Tu avevi vinto o Pantaleone, i tuoi carnefici erano vinti, ma la infermità aveva vinto la forza, e la forza efferata dalla sconfitta si armò alla riscossa. Ecco enormi lastre di acciaio si gettano ad infuocare nella fornace, ventano i mantici nella preparata materia, affaticato dalla commossa aria scintilla il fuoco, in fuoco, concepito l’ardore, si convertono le fiere lamine e vengono tratte all’aperto luminose e candenti. Pantaleone queste lastre sono per te: vedi come ardono, come splendono, come scintillano, rinnega Gesù Cristo, o applicate all’ignudo corpo puniranno l’empietà e la follia che ti accecano. Giaceva Pantaleone per terra dissoluto e disfatto dall’atroce eculeo; guardò le candenti lamine, non mutò sembiante, non batté ciglio, invocò con ferma voce Gesù Cristo, e porse l’innocente corpo al martirio. Ed ecco si mette mano: si applicano le rosseggianti lamine al petto ignudo del martire, si applicano all’ignudo ventre alle cosce, al dorso, alle spalle, cigolano le arsicciate carni, esala dalle piaghe che bruciano fumo e puzzo, il martirio eccede ogni comprensione, i cuori più efferati si commuovono, gli occhi più crudeli si torcono da tanta atrocità di carneficina, un grido di orrore si solleva tra la turba spettatrice, Pantaleone solo sorride, nello strazio del corpo che brucia esulta l’anima invitta, e al crepitare delle cotte carni mescendo il nome e la lode di Gesù Cristo, lo ringrazia che lo fa degno di congiungere il suo olocausto con l’olocausto del Golgota. Bastava una sua parola e il tormento cessava, rinnegasse Gesù Cristo, e al fuoco succedeva il refrigerio, alla ignominia l’applauso, ma Pantaleone non volle altro refrigerio che l’eterno, né altro onore fuorché la palma di martire. Perché altri sia martire insigne, deve avere sostenuto insigni tormenti; ma quali tormenti saranno insigni se questi non sono? Deve in insigni tormenti avere dimostrato insigne costanza; ma qual costanza di martire vinse la costanza di Pantaleone? Nei tormenti e nella costanza deve avere dimostrato insigne l’amore di Gesù Cristo e la fede; ma donde o Pantaleone attingesti l’animo che ti indurò e mantenne al Aero conflitto, se non alla fede e alla carità di Gesù Cristo, che signora onnipotente ti faceva di smalto il corpo e di ferro il cuore?

3. Le quali cose vie meglio si schiariranno, e voi conferirete con cognizione maggiore a Pantaleone il vanto di martire insigne se porrete mente alle condizioni particolari e agli aggiunti che rendono e Pantaleone più glorioso nella confessione di Gesù Cristo, e Gesù Cristo più glorioso nella confessione di Pantaleone. Cominciamo da Gesù Cristo; il quale in ogni confessione di martire viene senza dubbio glorificato, ma se il martire che gli rende testimonianza sia stato innanzi la confessione o indifferente, o nemico, od incredulo, è manifesto che la confessione di tal testimonio torna a Lui più gloriosa, onde Gesù Cristo trionfa in esso in due modi: il primo facendolo suo per fede ed amore, il secondo riscuotendone la testimonianza più ardua che dare si possa, la testimonianza del sangue. Ora o signori Pantaleone era nato di padre idolatra, ma idolatra non aveva già avuto la madre. Cristiana era Eubula madre del martire e cristiana degna di questo nome, e aver generato il suo figlio a questa vita caduca le pareva sventura se non lo rigenerava alla eterna. E per la possanza che nella istituzione della prole Dio onnipotente ha dato alle madri riuscì nell’intento, e Pantaleone giovinetto fu col battesimo in Gesù Cristo rigenerato. Ma il mondo nemico di Gesù Cristo lo avvinse di buon’ ora tra le sue spire, avvinto lo rapì a Gesù Cristo, rapito a Gesù Cristo lo pose nella potestà del demonio, che con le ritorte dei piaceri e delle ricchezze a se lo teneva strettissimo. Nobile aveva Pantaleone l’ingegno, con nobile ingegno nella palestra degli studi fece nobili voli, professò l’arte salutare e levò tal grido che Massimiano Galerio lo volle in corte e fu medico carissimo della casa imperiale. Vuole Gesù Cristo ricevere da Pantaleone testimonianza? Si conviene che lo raggiunga tra le corruttele e le superbie di una corte immondissima, raggiuntolo se ne impossessi, impossessandosene lo illumini, illuminandolo lo sani, sanandolo lo innamori di sé, e tale fiamma gli accenda in petto di carità, che ne estorca quella dimostrazione della quale non si può dare la maggiore, la dimostrazione di porre per esso l’anima sua. E Gesù Cristo lo fece, e si valse dell’opera del santo vecchio Ermolao prima maestro di martiri nella chiesa di Nicomedia poi martire incoronato per sé. Teneva egli d’occhio Pantaleone, lo sapeva cristiano, lo vedeva degenerare dai costumi e dagli istituti cristiani, e il veleno di corte insinuatosi nell’animo suo, e Gesù Cristo nella viltà della sua vita disonorato, e la confessione del suo nome lungi dal suo labbro e più dal suo cuore, Lo trasse a se con le arti della carità, si fece a lui ogni cosa per guadagnarlo a Gesù Cristo, e come si avvide di avere in pugno il cuore del giovane gli parlò amorosamente così. Voi siete cristiano Pantaleone, il segnacolo di Gesù Cristo suggella l’anima vostra: ma la vita e le opere di cristiano dove son esse? Io vedo in voi il cortigiano, vedo il medico, vedo l’uomo di lettere, ma il cristiano non vedo. O se la benedetta Eubula madre vostra tornasse in vita! Che cuore sarebbe il suo vedendovi così mutato da quel che foste! E voi come sosterreste la rampogna di lei rimproverante i giuramenti conculcati e il sangue di Gesù Cristo tradito? Deh! Pantaleone tornate al cuore, retrocedete, e rifacendovi quello che foste, glorificate Gesù Cristo e consolate con la conversione questa Chiesa che avete con la apostasia contristato. Così parlava Ermolao, Pantaleone arrossiva, pentimento e vergogna davano insieme al cuore fiera battaglia, calde e inesauste gli piovevano dagli occhi le lacrime, tornerò Cristiano o Ermolao, tornerò siate certo, glorificherò Gesù Cristo, consolerò la Chiesa e le opere del convertito faranno ammenda delle ignominie e degli scandali del disertore. Così disse, e come disse fece, e partire convertito glorificò Gesù Cristo più che non avrebbe fatto innocente. Imperocché rivocare il piede dalla strada di perdizione è difficile a tutti, ma a Pantaleone era cimento di lotta e di travaglio incredibile. Conveniva mutare procedimenti e costumi, e alle corruttele pagane sostituire la verità della disciplina cristiana. Tal mutamento sì repentino in corte corrottissima non poteva farsi senza tirare sopra di sé gli occhi e gli stupori dei cortigiani. Gli occhi dei cortigiani esercitati e sagaci avrebbero subito inteso il mistero, e una sarebbe stata la voce di tutti, Pantaleone è cristiano. Questa o diceria o supposizione o sospetto imponeva a Pantaleone la necessità di confessare la fede quando o i cortigiani o l’imperatore o gli amici interrogato lo avessero: dì, sei cristiano? La confessione della fede lo faceva ignominioso, lo bollava col marchio d’ingrato, lo spogliava di tutto, lo cacciava di corte, lo designava all’ira dei Cesari, lo dava in mano al carnefice. Ed ecco come le più veementi passioni e gli affetti più vivaci e congeniti al cuore umano entravano in isteccato per labefattare il consiglio e debilitare il proposito e la lena del martire. Il quale tutto vinse e combattendo in lui, Gesù Cristo prima manifestò la fede con l’opere, poi la confessò con la costanza, poi la confermò con la vita. Non curò la malignità curiosa dei cortigiani, spregiò le rampogne e le derisioni degli emoli, indurò l’animo alle lusinghe, non temé le minacce, sfidò le ire dei Cesari furibondi, sostenne il cospetto di Massimiano Galerio che lo chiamò ingrato e fellone, dalla corte privo di tutto passò ai tribunali, dai dai tribunali all’eculeo, dall’eculeo alle lastre. Pantaleone vinceva sempre, e con le sue vittorie svergognava i nemici di Gesù Cristo. Che farem noi, disse fremendo Massimiano Galerio? Quello che né l’eculeo né le lastre ottennero espugni la spada, e la testa del fellone cadendo in terra ne risarcisca le offese, ne espugni la pertinacia e plachi l’ira dei numi. Così sentenziò il tiranno: Pantaleone tratto al supplizio porse con gran costanza il capo al carnefice. Lampeggiò brandita in alto l’atroce mannaia, un silenzio profondo compresse la voce e lo spirito della attonita moltitudine, scese il fendente sul collo, del martire, scoppiò un urlo dalla plebe spettatrice e, il capo santo del martire rotolando per terra, il nome di Gesù Cristo usciva dalla recisa gola col sangue. – Grande è nella santa Chiesa o Pantaleone il tuo nome, ma anche tu fosti grande nella testimonianza a Gesù Cristo renduta, e noi a ragione ti salutiamo esultando martire insigne.

4. E qui o signori metterei volentieri il suggello al mio dire dimostrando che, come Pantaleone rese un’insigne testimonianza a Gesù Cristo col sangue, così Gesù Cristo ha renduto e rende a Pantaleone testimonianza insigne anche in terra conferendogli a pro di coloro che fedelmente lo invocano virtù e possanza. E questo è ordinario costume di Gesù Cristo glorificare dopo la morte chi glorificò Lui con la vita, e niuno è che non sappia quanti miracoli opera Dio tutto dì facendone strumento le ossa, le ceneri, le tombe, gli altari, il nome, la invocazione dei martiri. E fra i martiri taumaturghi in Occidente non meno che nel suo Oriente Pantaleone fu insigne. Fu io dico? E doveva dire, è tuttavia dopo tanto corso di secoli, e mentre altri martiri simili a fonti temporanee e caduche ebbero alla gloria e ai prodigi un corso di anni e di secoli misurato, Pantaleone simile a fontana viva in deficiente e perpetua dura tuttavia profondendo con inesausta vena grazie e favori, e miracoli recenti aggiunti agli antichi provano al mondo quanto in lui si compiaccia il Signore. Ma è tempo ormai che io raccolga le vele alla troppo vaga orazione, e però contento di questo cenno sulla postuma gloria di sì gran martire, mi sollevo su quest’ultimo dalla terra al cielo e con l’estatico Evangelista di Patmos, mi inoltro animoso fino al trono ed all’altare di Dio. Vidi, son parole di Giovanni che narra una stupenda visione, vidi sub altare animas interfectorum propter verbum Dei et propter testimonium quod habebant. (Apoc. VI, 9.) Vidi sotto l’altare le anime degli uccisi per lo Verbo di Dio e per la testimonianza che gli avevano renduta. Queste anime di uccisi che riposano in paradiso sotto l’altare di Dio sono senza dubbio le anime dei Santi martiri uccisi per aver reso a Gesù Cristo testimonianza. Udiamo ora quello che fanno queste anime benedette. Et clamabant voce magna dicentes, usquequo domine sanctus et verus non iudicas et vindicas sanguinem nostrum de his qui sunt in terra? (Apoc. VI, 10.) E gridavano a gran voce, e dicevano: che fai o Signore? Che indugi? Perché non bandisci il giudizio e non vendichi il nostro sangue sopra coloro che sono in terra? Et datæ sunt illis singulæ stolæ albæ, et dictum est illis ut requiescerent adhuc modicum, tempus, donec compleantur conservi eorum et fratres eorum qui interficiendi sunt sicut et illi. (Apoc. VI, 11.) E fu data a ciascuna di esse una stola bianca, e fu detto loro che quietassero alcun poco tempo, finché non sia compiuto il numero dei conservi e fratelli loro, che come essi debbono essere uccisi. Ora mentre io favello e voi mi ascoltate l’anima gloriosa di Pantaleone vestita della candida stola riposa sotto l’altare di Dio ed aspetta che il momento dei martiri che debbono essere uccisi per Gesù Cristo si compia, e il Figlio dell’ uomo venga come ha promesso in terra, e giudice dei vivi e dei morti faccia la tremenda vendetta del versato sangue dei santi. Quando questo numero dei Martiri che cresce ogni giorno sia per compiersi, non si sa: ma se giriamo gli occhi per l’ambito di questa terra ubriaca di empietà e di delitto e dementata dalla maledizione di Dio, ci persuaderemo di leggieri che anche il nostro secolo, durante questa seconda metà che noi percorriamo, dava a questo numero di martiri che deve compiersi il suo contingente. Lasciate o signori, che io liberamente favelli. – Allora che negli anni più verdi della nostra vita andavamo svolgendo le memorie e leggendo gli atti dei martiri, ci pareva impossibile che in questo secolo in questa Italia, in tanto tranquillo di pace, splendore di fede, e gloria della Religione Cattolica, si avesse a parlare di martiri e di martirio, e credevamo che i persecutori e i tiranni convenisse andare a cercarli nelle spiagge inospite del Giappone o nelle coste della Cocincina e del Tonchino. Ma piena il petto del veleno e della rabbia che satana generandola le travasò nel cuore, si annidava nel mezzo a noi la rivoluzione, e negli antri tenebrosi fra i sacrilegi, le bestemmie e i pugnali o le libidini, apparecchiava le macchine ed ordinava le squadre. L’ira di Dio per flagello del mondo le ha rotto la catena e la sbarra e l’ha licenziata ad un infelice trionfo, ed ella non ha mancato a se stessa. È mestiere che io vi contristi dipingendone i delitti e le opere infami, mentre ogni ordine domestico, religioso e sociale volto sossopra tutto è pieno di soqquadro, di bestemmia, di rapina, di meretricio, di sacrilegio? Non ha ancora fra noi dato di piglio al ferro ed al fuoco, né tuffato le truculenti mani nel sangue e l’avida bocca. Con freddo consiglio di gelida ipocrisia si contenta di straziare gli animi con angherie e fierezze poco meno dolorose che morte. Ma quali siano le opere finali che medita lo ha mostrato. E tu lo sai per esperienza terribile o Francia infelice. Tu consegnata dall’ira vendicatrice di Dio alle mani di quei mostri che tu medesima t’eri allevata in seno e nutricato col latte dei tuoi principi e della tua civiltà, tu allagata di sangue e di fuoco, di rapina, di stupro, di vitupero, tu hai provato al mondo esterrefatto, che i mostri, le fiere, le furie, i demoni sotto umana sembianza non si convengono cercare fra i barbari nelle nazioni selvagge, ma nelle terre europee e fra i popoli educati coi famosi principi e fazionati con le dottrine e con le opere della civiltà e del progresso. Ahimè signori che vi dirò? Che una sorte eguale aspetta anche noi? Ahimè la natura delle cose porta che le cause medesime partoriscano i medesimi effetti. Veggo o sì,  veggo con l’occhio atterrito dell’animo veggo come in Patmos vide già S. Giovanni. Veggo la bestia venir su dalla terra. Vidi bestiam ascendentem de terra. Questa bestia rassomiglia a un leopardo, ha piedi come piedi di orso, ha bocca quasi di leone, e il dragone le ha dato la sua virtù e potestà grande. Bestia quam vidi similis erat pardo, et pedes eius sicut pedes ursi et os eius sicut os leonis, et dedit itti draco virtutem, suam et potestatem magnam. (Apoc. XIII, 2.) Ha questa bestia denti di ferro grandi e divora e stritola ogni cosa e quello che avanza ai suoi denti schiaccia coi piedi. Dentes ferreos habebat magnos, comedens atque comminuens, et reliqua pedibus suis conculcans. (Dan. VII, 7.) Questa bestia deve fare le vendette di Dio. Sotto l’incesso di questa bestia veggo sì desolata la Chiesa, rapinato il santuario, disperse le cose sante, versato il sangue dei sacerdoti e delle vergini di Gesù Cristo, vidi ebriam sanguine sanctorum. (Apoc. XVII, 6.) Ma vedo ancora abbattute per terra le potestà, diroccati i troni, disfatte le dinastie, annichilati i consigli delle volpi politiche, e nella rapina delle cose sacre involta la rapina delle sostanze private, e al fumo delle chiese ardenti mescolata la fiamma dei palagi incendiati, e il sangue dei mercanti dei popoli mischiato col sangue dei servi di Gesù Cristo, e la strage confusa degli idolatri di questa civiltà corrotta e corrompitrice mostrare alle future generazioni, che l’apostasia da Gesù Cristo non è progresso, non è civiltà, ma sterminio. Io tremo e gelo dicendo queste cose, e Dio placato disperda l’orribile vaticinio ed abbia misericordia del mondo. – Ma se questi tempi ci soprastessero e questa Italia dovesse con questi scempi scontare i suoi sacrilegi e col sangue dei suoi martiri placare l’ira del Dio degli eserciti, allora tu o Pantaleone martire di Gesù Cristo, a noi servi di Gesù Cristo impetra e prima del cimento una vita santa, e nel cimento una pazienza, una costanza, una fede che somigli alla tua.

LE PIAGHE DELLA COMUNITA’ CRISTIANA: GLI SCISMI (4)

LE PIAGHE DELLA COMUNITÀ’ CRISTIANA

Capitolo I

Gli SCISMI,

ferite alla unità della fede (4)

[“Somma del Cristianesimo”, a cura di R. Spiazzi, vol. II Ed. Paoline, Roma, 1958]

SPECCHIETTO CRONOLOGICO DEI PRINCIPALI SCISMI

Scisma– Inizio (I.)  Fine (f.) Reg. geogr. (Rg.) – Fautori (Ft.)

EBIONITA   (I.) 63; (f.) sec. IV;  (Rg.) Palestina: Pella di Perea;     (Ft.): Tebutis

MARCIONITA (I.): 144; (f.):  s. III;     (Rg.): Roma (e   passim);                                                (Ft.): Marcione

MONTANISTA    (I.):177;   (f.): s. VIII;    (Rg.) Frigia e Asia minore, Roma e  Africa (fino al 360); (Ft.): Montano

IPPOLITO (di(I.) :217; (f.) : 235 (?);     (Rg.):  Roma;

 (Ft.): Ippolito (I antipapa)

MONARCHIANI   (I.) 190     (f.) s. V;      (Rg.): Roma, Siria,  Egitto; (Ft.): Teodoto il Conciatore, per gli adoziani;          Noeto per i modalisti.

ARABICO       (I.): s. II;  (f.):244;   (Rg.):   Arabia

FELICISSIMO      (I.): 250;   (f): 252;   (Rg.): Cartagine;                 (Ft.):     Felicissimo

NOVAZIANO        (I.): 251; (f.): s. VI; (Rg.): Roma; poi Gallia,   Africa, Siria;         (F.t.): Novaziano

APOSTOLICI (antichi) (I.):260; (f.): s. V (Rg.): Frigia, Cilicia, Pamfìlia

MELEZIANO (d’Egitto) (I.):306; (f.)s. VI  (Rg.) Egitto; (Ft.)  Melezio di Licopoli

MELEZIANO (d’Antiochia) (I.): 360 (330); (f.)394 (413); (Rg.) (Siria);   –                 (Ft.):     Melezio (Paolino)

DONATISTA (I.):313; (f.): 650; (Rg.): Africa (Ft.):Donato

MESSALIANI  (I.): s. IV; (f.): s. X; (Rg.): Siria, Asia Minore

APOTATTICI  (I.): s. IV; (f.): s. V; (Rg.): Asia Minore

ARCONTICI    (I.): s. IV; (f.): 383; (Rg.): Armenia e Palestina

ARIANI (I.): 320; (f.): s. V; (Rg.): Diffusisi dappertutto;  (Ft.)Ario

AUDIANI  (I.) :325; (f) :671; (Rg.): Siria, Asia Minore; (Ft.)Audi

AERIANI   (I.): s. IV; (f): s. V; (Rg.): Sebaste (Armenia); (Ft.)Aerio

PELAGIANO    (I.): 411; (f): s. VI; (Rg.): Roma, Africa, Palestina;

semipelagianesimo (in Gallia);       (Ft.)Pelagio

MONOFISITA (I.): 451;  (Rg.): Siria e Palestina; Egitto; Armenia; Etiopia.

ACACIANO (I.): 484; (f): 519 (Rg.): Costantinopoli; (Ft.): Acacio

ACEFALI (I.): 486; (f): s. IX; (Rg.): Egitto e Siria.

ACEMITI (I.): s. V; (f): 534; (Rg.): Costantinopoli.

NESTORIANO (I.): 486; (Rg.): Persia, India.

AFTARDOCETA (I.): s. VI; (f): s. VIII; (Rg.): Egitto, Asia Minore; (Ft.): Giuliano di Alicarnasso. 

ACTISTETA (I.): s. VI; (f): s. VI; (Rg.): Asia Minore.

AGNOETA (I.): s. VI; (f): s. VI; (Rg.): Egitto;(Ft.): Temistio

BARSANIANO (I.): s. VI; (f): s. X; (Rg.): Siria; (Ft.): Barsanio

TRE CAPITOLI (I.): 553; (f): 687; (Rg.): Africa; Milano; Aquileia.

PAULICIANI (I.): s.VI; (f): s. IX; (Rg.): Armenia; (Ft.): Costantino

MONOTELITA (I.): 640; (f): 681; (Rg.): Costantinopoli; (Ft.): Sergio. 

ICONOCLASTA I (I.): 726; (f): 787; (Rg.): Patriarcato Costantinopolitano.

ICONOCL. II (I.): 813; (f): 842;     (Rg.): Patr. Costantinop.

ADOZIANI (I.): 782; (f.) s. IX; (Rg.): Spagna, Francia (Ft.): Elipando di Toledo. (Spagnoli)

e Felice di Urgel.

ABRAMITI (I.): s. IX; (f.): s. IX; (Rg.): Siria;  (Ft.): Abramo di Antiochia.

FOZIANO (I.): 867; (f.): 879; (Rg.): Costantinopoli; (Ft.): Fozio.

BOGOMILI (I.): s. IX; (f.): s. XI; (Rg.): Bulgaria, Russia; (Ft.): Bogomil.

BIZANTINO (I.): 1054; (Rg.): Patriarcato costantinopolitano e Paesi da esso dipendenti; (Ft.): Michele Cerulario

APOSTOLICI (I.): (secolo XII);  (f.): s. XII; (Rg.): Francia, Renania, Fiandre.

CATARI (I.): s. XII; (f.): s. XIV; (Rg.): Francia sett., Fiandre. Italia, Germania, Inghilterra.

ALBIGESI (I.): s. XII; (f.): s. XIV; (Rg.): Linguadoca.

ALBANESI (I.): s. XII; (f.): s. XIV; (Rg.): Albano in Lombardia.

VALDESI    (I.):1179        (Rg.): Lione; poi Piemonte (Italia); (Ft.): Pietro Valdo.

FRATICELLI (I.):1290; (f.): s. XVII; (Rg.): Italia, Francia.

OCCIDENTALE (I.): 1378; (f.): 1417; (Rg.): Tutta la Chiesa Cattolica.

CALISTINO (I.): 1435; (f.): 1471; (Rg.): Cecoslovacchia; (Ft.): Rokyçana

BASILEA (I.):1437; (f.): 1449; (Seguito assai limitato, di persone più che di Paesi).

PROTESTANTE (I.): 1509; (Rg.): Germania, Svizzera, Norvegia, Svezia, Olanda, Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, ecc.; (Ft.): Lutero, Calvino,  Edoardo VII, ecc.

UTRECHT (I.): 1702;                 (Rg.): Olanda.

ABRAMITI (I.): s. XVIII; (f.): 1783; (Rg.): Boemia.

BOEMI

PETITE ÉGLISE (I.): 1801;         (Rg.): Francia.

TEDESCO – CATTOLICI  (I.): 1845; (Rg.): Germania.

VECCHI-CATTOLICI (I.): 1871; (Rg.): Germania.

AGLIPAYTA (I.): 1902;  (Rg.): Isole Filippine.

CHIESA Naz. CECA (I.): 1920; (Rg.): Cecoslovacchia.

 

 

 

LE PIAGHE DELLA COMUNITÀ CRISTIANA: GLI SCISMI (3)

LE PIAGHE DELLA COMUNITÀ CRISTIANA

Capitolo I

Gli SCISMI

ferite alla unità della fede (3)

[“Somma del Cristianesimo”, a cura di R. Spiazzi, vol. II Ed. Paoline, Roma, 1958]

Iconoclasti. – La lotta contro il culto delle immagini, iniziata dall’imperatore Leone III l’Isaurico e che doveva travagliare la Chiesa per ben 116 anni (726-842), diede luogo a due separazioni della Chiesa costantinopolitana da quella romana: separazione della Chiesa ufficiale solamente, perché, mentre l’episcopato e l’esercito sostenevano l’imperatore, ì monaci, seguiti dalle persone pie e dalle masse popolari, erano per il culto delle immagini e quindi per il Papa, il quale da Roma difendeva le immagini. 1) La prima separazione ebbe luogo nel 726, quando Leone III cominciò col distruggere la veneratissima immagine di Cristo che stava sopra una porta di Costantinopoli. Di fronte all’opposizione di Roma, l’imperatore fece rompere le relazioni ecclesiastiche, giungendo fino a deporre il patriarca Germano (730). La lotta fu continuata dai suoi successori, Costantino Copronimo, Leone IV e Costantino VI. Vi mise termine l’imperatrice Irene nel 787 con la coadunazione del II Concilio di Nicea (il VII ecumenico), il quale permise che si venerassero le immagini, ma insistette sulla differenza tra venerazione e adorazione. 2) La seconda separazione cominciò nell’815, anno in cui Leone l’Armeno ricominciò la lotta contro le immagini. Terminò nell’842 e vi mise fine l’imperatrice reggente Teodora nell’842. La prima domenica di quaresima (11 marzo 843) una solenne processione a Santa Sofia, presente l’imperatrice e il nuovo patriarca Metodio, introdusse il popolo alla cattedrale, in cui erano nuovamente esposte le immagini sacre.

(Di) Ippolito.Sotto il nome di « Scisma di Ippolito » viene comunemente indicato uno dei primi scismi consumati nella Chiesa romana, agli inizi del secolo III, da parte del presbitero romano di nome Ippolito, il quale si fece eleggere vescovo di una ristretta cerchia di persone influenti per nascita e per cultura, in opposizione al Papa Callisto (217-222). Ippolito, ambizioso e rigorista, accusò di sabellianesimo e di indulgenza verso i peccatori il Papa legittimo, dando inizio a uno scisma che si protrasse per alcuni anni. Sembra che i suoi fedeli gli erigessero la famosa statua di marmo ritrovata nel 1551 e ora nel Museo Lateranense, in cui sono incisi il computo pasquale e la lista dei suoi scritti. Se è così, questo Ippolito va identificato con lo scrittore Ippolito. Però, non dovrebbe essere confuso con l’autore dei Filosofumeni, né con l’Ippolito martire in Sardegna insieme a papa Ponziano. Oggi, infatti, si tende a distinguere tre Ippoliti, i cui dati bibliografici alla metà del secolo scorso erano stati identificati.

Luterani: vedi Protestanti.

Macedoniani: vedi Ariani.

Mandei. – È una setta che esiste tuttora con circa 8.000 persone nella Bassa Mesopotamia, presso Bagdad. Oscurissime le sue origini, sembra si possano far risalire agli insegnamenti gnostici dei primi secoli del Cristianesimo. – Essi stessi si chiamano Nazorei, mentre il nome di mandei viene da « manda » che significa gnosi. La dottrina mandea parte dall’emanatismo gnostico; la sua morale consiste nella liberazione della luce, l’anima, caduta nel corpo, personificazione della materia. Mezzi di questa liberazione sono la vita austera, la rinunzia ai piaceri e il battesimo, amministrato per triplice immersione.

Maratoniani: vedi Ariani.

Marcioniti. – Si diede questo nome ai seguaci dello gnostico Marcione, il quale fondò una setta sua, risultata la più importante delle sette gnostiche, la più pericolosa per la Chiesa e che durò per vari secoli. Marcione, abbandonando l’insegnamento della fantastica dottrina degli eoni e delle allegorie intorno alle parole della S. Scrittura, poneva in primo piano gli intenti pratici della dottrina gnostica. Al Dio creatore degli Ebrei, il demiurgo, pieno di somma giustizia e d’iracondia, opponeva il Dio ignorato dell’amore, manifestatosi nel Cristo, con corpo puramente apparente. Creò un suo proprio Nuovo Testamento da un raccorciato Vangelo di S. Luca e da 10 lettere di San Paolo. Scomunicato dal proprio padre, vescovo di Sinopo, fu dapprima accolto nella Chiesa romana intorno al 139, ma già nel 144 venne espulso.

Meleziani. – Il nome di « Scisma meleziano » è dato a due scismi ben differenti, uno nella Chiesa di Antiochia, l’altro nella Chiesa di Alessandria.

1) Lo scisma meleziano di Antiochia piglia il nome da S. Melezio, già Vescovo di Sebaste in Armenia, elevato alla sede di Antiochia nel 360. Qui egli trovò la Chiesa divisa in due fazioni, che si disputavano il campo e l’episcopato fin dal 330. Essendo stato inviato in esilio il Vescovo Eustazio, difensore della fede nicena, gli era stato sostituito l’ariano Eudossio. Ma gli ortodossi niceni, diretti dal prete Paolino, rimasti fedeli ad Eustazio (onde furono detti « eustaziani »), non l’avevano voluto riconoscere. Ora, nel 360, passato Eudossio alla sede costantinopolitana, Melezio fu eletto dagli ariani a sostituirlo. Senonché egli deluse le loro speranze, predicando secondo la formula e la dottrina nicena. Gli ariani, allora, Io accusarono di pretese irregolarità canoniche e lo fecero inviare in esilio dall’imperatore (360-362), sostituendolo con l’ariano Euozio. La massa degli antiocheni rimase fedele a Melezio, e, capeggiata da Flaviano, il futuro successore di Melezio, formò una comunità detta dei « meleziani ». Così, tornato dall’esilio, il Vescovo trovò la sua Chiesa divisa in tre partiti: gli eustaziani, i quali, sempre diretti da Paolino, non avevano voluto riconoscere Melezio, perché eletto dagli ariani; i suoi seguaci, i meleziani; gli ariani. La differenza tra i primi due era verbale: gli eustaziani ammettevano una usia e tre ipostasi nella Trinità; gli eustaziani, fedeli all’antica terminologia che identificava ipostasi e usia, parlavano di una usia o ipostasi e tre prosopa (= persone). Venuto a mettere pace, l’intransigente niceno Lucifero di Cagliari non fece che accrescere la divisione, consacrando vescovo Paolino. Nel 378 Melezio fu finalmente riconosciuto da Roma come rappresentante degli ortodossi, ma non da Alessandria. Morto Melezio, nel 381 durante il Concilio di Costantinopoli, fu eletto a succedergli Flaviano, confermato dal Concilio. Morto Paolino nel 388, i seguaci elessero Evagrio. La Chiesa antiochena continuava ad essere travagliata dallo scisma fra due partiti cattolici. È vero che Roma e Alessandria non riconobbero mai Evagrio, ma tardarono ugualmente a riconoscere Flaviano. Morto Evagrio (392), Flaviano riuscì a non fargli dare un successore. Nel 394 Flaviano fu riconosciuto da Roma e Alessandria in un sinodo a Cesarea di Palestina. I resti degli eustaziani rientrarono nella comunità nel 413 sotto il vescovo Alessandro.

2) Lo scisma meleziano di Alessandria fu originato da Melezio Vescovo di Licopoli. Nel 306 durante la persecuzione di Diocleziano, essendosi nascosto il vescovo di Alessandria Pietro, Melezio, forse considerandolo decaduto per tradimento, si arrogò il diritto di ordinare e scomunicare in tutto l’Egitto. Al ritorno Pietro difese la legittimità della fuga e sancì un trattamento disciplinare non molto rigoroso verso i lapsi. Melezio fu contrario a tanta remissività, e, deposto, si diede a organizzare la « Chiesa dei martiri », rinvigorita dalla costanza di Melezio nel subire la condanna alle miniere (308-311). Per contrastarne l’influsso al suo ritorno, Pietro dichiarò invalido il battesimo amministrato dai meleziani; il che non piacque a molti del suo clero, fra cui il celebre Ario, il futuro eresiarca. Melezio, prima di morire, riuscì a darsi un successore, Giovanni di Arkaph. La setta in stretta alleanza con gli ariani condusse una lotta spietata contro il nuovo vescovo di Alessandria Atanasio. Per questo venne annoverata tra gli ariani e ne subì le sorti. Se ne trovano tracce fino al principio del sec. VI.

Mennoniti: vedi Protestanti.

Messaliani o Massaliani. – Eretici del secolo IV. Erano anche detti in greco Euchiti (= « gli oranti »; anche « messaliani », nome d’origine caldaica, significa «gli oranti ») o Eufemiti. Dicevano essere la preghiera il solo mezzo per vincere il demonio e unirsi a Dio. Rigettavano i Sacramenti e la Gerarchia. Mantenevano il più gran segreto sulle loro dottrine. Sopravvissero alle varie condanne fino al secolo X in Asia Minore, dissimulati variamente.

Metodisti: vedi Protestanti.

Modalisti: vedi Monarchiani.

Monarchìani. – L’antica formula battesimale usata in Oriente conteneva questa professione di fede: «Noi crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, e in un solo Signore Gesù Cristo, vero Dio, e in un solo Spirito Santo, il Paraclito » (DENZ. 8). Come si accordava questa fede trinitaria con lo stretto monofisismo del Vecchio Testamento? Giacché la S. Scrittura non dava allo Spirito Santo esplicitamente il nome di Dio, le controversie per la soluzione della questione riguardarono agli inizi del Cristianesimo la divinità del Figlio. Una serie di eretici e di movimenti ereticali, per salvare l’unicità di Dio, o negarono la divinità di Gesù Cristo, o non distinsero realmente il Verbo dal Padre. A tutti costoro, poiché vogliono conservare l’unità o monarchia divine, vien dato il nome comune di monarchiani. Ma differenti sono i punti di vista da cui partono.

Gli Adoziani pongono il Figlio fuori della sfera divina. L’errore rimane associato in Occidente al nome di Teodoto, un mercante d’Oriente, fattosi ricco col commercio dei cuoi e perciò detto « il Conciatore», e trasferitosi a Roma, dove cominciò a insegnare teologia (intorno al 190). Fu noto anche Artemate (circa il 235). In Oriente, invece, l’errore fu insegnato da Paolo vescovo di Samosata, condannato nel 267-268 da un Concilio in Antiochia. In questo sistema, che del resto conosciamo assai male, Gesù non è Dio per natura, ma un uomo, sul quale discese dal cielo Cristo, o il Verbo (secondo Paolo Samosateno), o lo Spirito Santo (secondo Teodoto). La sua personalità morale, superiore senza alcun paragone a quella di ogni altro uomo, gli ottenne da Dio la potenza dei miracoli; la sua virtù e la sua passione gli ottennero di essere elevato alla sfera della divinità. Teodoto fu condannato da Papa Vittore (195); Paolo Samosateno dai vescovi della sua regione e poi da tutta la Chiesa. L’adozianismo fu un fenomeno di carattere episodico.

I Modalisti non negarono la divinità del Verbo, ma identificarono la realtà divina del Verbo con quella del Padre, ponendo fra loro una differenziazione solo apparente. Contro gli adoziani sono difensori della divinità del Verbo, ma soprattutto difensori dell’unità e monarchia divina (onde a loro spetta più propriamente il nome di « monarchiani »). L’errore è associato ai nomi di Noeto (intorno al 220), di Prassea e particolarmente di Sabellio (intorno al 220), da cui derivò l’altro nome di Sabellianismo dato all’errore. Secondo i Modalisti il Padre e il Figlio denotano solo differenti modi o aspetti (da qui il nome di « modalisti ») della stessa realtà divina rigorosamente unitaria nelle sue differenti mansioni. Così, è lo stesso Padre che si è incarnato nel seno della Vergine, perciò è divenuto Figlio, ed ha patito sulla croce (da qui il nome di Patripassiani appioppato ai seguaci del sistema). – Questa è la forma antica, più rudimentale del sistema; più tardi esso si perfezionò. In Egitto, per esempio, ammisero una monade, la quale prende successivamente tre aspetti temporanei e transitori, secondo che si tratti della creazione (Padre), dell’incarnazione e della redenzione (Figlio), della santificazione (Spirito Santo). È da notare come in questa teoria il patripassianesimo è eliminato e lo Spirito Santo trova posto in una posizione uguale a quella del Padre e del Figlio. Il modalismo continuò fino al secolo V, combattuto e in Occidente e in Oriente da scrittori di grande fama: Tertulliano, Ippolito, Eusebio di Cesarea, S. Atanasio, S. Ilario di Poitiers.

Monofisiti. – Definita nel Concilio di Calcedonia (451) la dottrina delle due nature e dell’unica ipostasi o Persona in Cristo, molti seguaci della formula alessandrina, tanto cara anche a S. Cirillo d’Alessandria, dell’« una natura », vi si opposero. Dopo le persecuzioni subite sotto gli imperatori Marciano (450-457) e Leone I (457-474), si ripresero con l’appoggio di Zenone (474-491), di Basilisco (475-476) e di Anastasio (491-518), tanto da conquistare a un dato momento tutti e tre i grandi patriarcati di Costantinopoli, Alessandria e Antiochia. Ma, sotto Giustino (518-527) perdettero quasi tutti i posti conquistati. Purtroppo Giustiniano nei primi tempi del suo regno (527-565) pensò di poterli ricondurre all’unità attraverso discussioni teologiche tenute alla sua presenza. Non ottenne altro che di coadunarne i capi a Costantinopoli, dove essi si rinvigorirono anche con l’appoggio dell’imperatrice Teodora. Quando, nel 536, Giustiniano si decise a tornare alla maniera forte contro di loro, i monofisiti espulsi da Costantinopoli, si diedero a organizzare una loro gerarchia ecclesiastica in Egitto e in Siria. Questa organizzazione fu opera soprattutto del monaco Giovanni detto Baradai (il « Cencioso »). In seguito anche in Armenia, dove la gerarchia aveva sottoscritto l’Enoticon di Zenone per motivi politici, si formò una tendenza decisamente anticalcedonese. L’Etiopia, per la sua originaria dipendenza dall’Egitto e per una nuova, più profonda evangelizzazione fatta da monaci monofisiti, fu anch’essa acquisita allo scisma. – Oggi si contano le seguenti Chiese nazionali monofisite: 1) Giacobita (da Giacomo Baradai) in Siria e Palestina, dove al suo formarsi molto peso ebbero le tendenze nazionalistiche e antibizantine delle masse rurali; 2) Copta (dal nome geografico del paese nella dizione araba) in Egitto, dove giocarono le stesse tendenze antibizantine della Siria; 3) Armena in Armenia; 4) Etiopica in Etiopia. Il monofisismo di tutte queste Chiese è solo verbale.

Millenaristi: vedi Protestanti.

Monoteliti. – Definita a Calcedonia (451) l’esistenza delle due nature, la umana e la divina, nell’unica Persona del Verbo, restava da risolvere in termini tecnici quale fosse il modo d’operare di ciascuna natura. Avevano ciascuna una propria volontà? Se così era, non potevano queste volontà essere discordi fra loro? Sergio, patriarca di Costantinopoli, per non ammettere due volontà in possibile conflitto fra loro, sostenne che in Cristo c’era una sola attività e una sola volontà (mónon thélema = una volontà; donde il nome di «. monotelismo » data a questa erronea dottrina). Altri, asserendo che la natura umana in Cristo fosse quasi inerte, parlavano di una sola operazione (energeia; donde il nome di « monoenergismo »), quella divina. Di fronte all’opposizione di Papa Onorio, Sergio fece pubblicare dall’imperatore Eraclio un editto (l’Ekthésis) che vietava di parlare di una o due operazioni (638). La lotta continuò fino al Concilio di Costantinopoli del 680-681 (il VI ecumenico), il quale ristabilì la comunione interrotta di Costantinopoli con Roma e definì le due volontà in Cristo, mai in opposizione fra loro. La salita al trono di Filippico l’Armeno (711-713) fece risuscitare per un momento il monetelismo, al quale pose fine definitiva Anastasio II (713-715).

Montanisti. – Montano, neofita della Frigia, poco dopo il 170 iniziò a predicare la prossima Parusia del Cristo, alla quale bisognava prepararsi con maggiori austerità, digiuni prolungati, rinunzia all’unione coniugale, assoluta prontezza al martirio e una rigorosissima penitenza per i peccati commessi dopo il Battesimo. La Chiesa gerarchica non aveva motivo di essere, giacché i poteri ecclesiastici si perpetuavano per la trasmissione dei poteri carismatici, donati anche alle donne, come Priscilla e Quintilla, le prime adepte di Montano. – La diffusione della setta fu enorme, soprattutto in Asia Minore, ma anche a Roma e in Africa, dove vi si ascrisse Tertulliano. Papa Zefirino condannò i nuovi profeti intorno al 200. Ma essa continuò in Asia Minore fino al sec. VIII, sebbene non più con lo stesso seguito.

Mormoni: vedi Protestanti.

Nazorei: vedi Mandei.

Nestoriano. – Nella condanna di Nestorio al Concilio efesino (431) i Vescovi e teologi antiocheni videro la condanna della loro scuola. Non presenti al Concilio, che Cirillo non li aveva voluti attendere, si riunirono, appena giunti, per condannare Cirillo. Ma, col favore imperiale, da lui conquistato con tanti sforzi, Cirillo ottenne l’esilio di Nestorio. Gli antiocheni non si arresero se non dopo due anni, dopo una lunga corrispondenza con Cirillo e quando questi si convinse a sottoscrivere una formula sulle due nature, abbandonando per un momento le sue espressioni monofisitiche (433). Allora i più accaniti nestoriani furono perseguitati. Molta parte del clero antiocheno si trasferì ad Edessa, dove la Scuola locale continuava l’insegnamento diofisitico antiocheno, quello soprattutto di Teodoro di Mopsuestia. Iniziatasi, dopo il Concilio di Calcedonia (451), l’opposizione monofisita, la Scuola di Edessa fu costretta a trasferirsi a Nisibi. Qui divenne il centro della difesa antimonofisita, con influenza soprattutto sulla vicina Chiesa persa. Un cumulo di circostanze politiche ed ecclesiastiche condussero questa Chiesa alla separazione ufficiale dalle altre Chiese, motivata da una resistenza antimonofisitica (489). – Non Nestorio, quindi, ma Teodoro di Mopsuestia è il grande maestro di questa Chiesa cosidetta « nestoriana ». Essa ebbe un periodo di grande sviluppo, giungendo ad estendersi fino in Cina e in India. Oggi, però, non conta che poche decine di migliaia di fedeli nell’Iran e nell’Iraq, più qualche migliaio in India (Malabar).

Novaziani.Seguaci di Novaziano intorno al 251, quando questi si staccò dalla Chiesa, sostenendo in opposizione al nuovo Papa, Cornelio, un forte rigorismo contro gli apostati durante la persecuzione. Molto devono avere giuocato nell’animo di Novaziano le sue profonde ambizioni, giacché, mentre inizialmente fu sostenitore di Cipriano di Cartagine contro Felicissimo, non appena eletto papa Cornelio, egli passò alla sentenza opposta. Si fece consacrare antipapa da tre vescovi dell’Italia Meridionale. La sua Chiesa fu il ricettacolo di tutti gli ambiziosi: un Novato, il quale si era opposto al rigorismo di Cipriano, ora, venuto a Roma, si schierava per Novaziano. Lo scisma ebbe molti seguaci in Italia, in Gallia, in Africa e in Oriente, dove si protrasse fino al VI secolo.

Occidentale. – Si produsse nel 1378 a motivo del lungo esilio dei Papi ad Avignone, i quali avevano francesizzato la curia. Appena l’anno prima Gregorio XI era tornato, dopo tenaci resistenze, definitivamente a Roma. Alla sua morte i romani, timorosi che fosse eletto un francese e che questi riportasse la curia ad Avignone (i cardinali erano per la massima parte francesi), fecero sentire la loro voce, chiedendo l’elezione di un romano o almeno un italiano. I cardinali, non potendo mettersi d’accordo su uno di loro con due terzi dei voti, elessero un prelato di curia, Bartolomeo Prignani, arcivescovo di Bari, il quale assunse il nome di Urbano VI. Il suo proposito di non lasciare Roma, di creare nuovi Cardinali e, soprattutto, i suoi modi bruschi, disgustarono i cardinali francesi. Essi si riunirono a Fondi e, col pretesto di non essere stati liberi nell’elezione di Urbano, elessero Clemente VII. Si ebbero così due papi: uno scisma, che era piuttosto un periodo di incertezza su chi fosse il vero Capo della Chiesa. Sarebbe durato per 38 anni. Col concilio di Pisa (1409), radunato per porre fine all’incertezza, si ebbe l’elezione d’un nuovo papa, Alessandro V, aggiungendo così una terza obbedienza. In ognuna di esse si riteneva di ubbidire al vero Papa, anche perché vi erano persone sante e illustri per ognuna di esse. La fine si ebbe col Concilio di Costanza (1414-1417), il quale procedette alla deposizione di Giovanni XXIII (il papa di Pisa risiedente a Bologna), all’accettazione delle dimissioni di Gregorio XII (il Papa legittimo di Roma) e alla condanna di Benedetto XIII (il papa di Avignone). Fu eletto come nuovo papa Martino V (11 novembre 1417).

Omeusiani: vedi Ariani.

Pauliciani. – Con questo nome, — Non si sa se derivato da Paolo di Samosata, per un supposto nesso della setta con le sue dottrine, o da un armeno Paolo, che fu tra i primi loro capi, o dall’Apostolo Paolo, da loro molto esaltato — si designa una setta propagata da un certo Costantino verso la metà del secolo VII nell’Armenia. Come dottrina avevano un dualismo tra il Dio celeste e il Creatore e Signore di questo mondo, seguito dalla negazione dei dommi fondamentali del Cristianesimo, sebbene essi si dicessero « cristiani » e rifiutassero l’accusa di dipendenza dal manicheismo. Respingevano il Vecchio Testamento, il Battesimo, l’Eucaristia, il culto delle immagini. Niceforo I, (802-811), perché buoni soldati, li arruolò e li inviò in Tracia a difendere i confini contro i Bulgari e nella stessa Costantinopoli. Dopo Niceforo, i successori li perseguitarono fortemente per oltre mezzo secolo. Parte si rifugiarono in Persia, donde fecero ripetute incursioni nelle province bizantine, finché Basilio III li sconfisse definitivamente (871). I pauliciani di Tracia sopravvissero nei bogomili (vedi).

Patripassiani: vedi Monarchiani.

Pelagiani. – 1) Il monaco laico Pelagio, originario forse dell’Irlanda, molto stimato per l’austerità dei costumi, visse verso la fine del secolo IV a Roma, dove diffuse la sua dottrina sulla natura e la grazia, sul peccato originale e il Battesimo dei bambini. Partito da un ideale di rigorismo morale, per cui tendeva a imporre a tutti i fedeli l’osservanza dei consigli evangelici, costruì un sistema in cui l’uomo può giungere alla « giustizia » da sé solo, in forza della sua scelta, della rettitudine della ragione e l’esercizio della libertà, senza alcun intervento da parte di Dio, in una parola senza bisogno della Grazia. L’anima umana, creata immediatamente da Dio, non può portare il peso di alcun peccato, è amorfa dal punto di vista morale, ma capace per le sue stesse facoltà di raggiungere la « santità naturale ». Il peccato personale di Adamo ha avuto solo conseguenze fisiche. Sicché il Battesimo amministrato ai bambini non ha alcun significato, mentre è indispensabile ai pagani per la loro salvezza e agli adulti per la remissione dei loro peccati personali. Pelagio trovò in Celestio un propagandista indefesso delle sue idee, mitigate però quanto al rigorismo morale, e un polemista nato; in Giuliano, vescovo di Eclano, il sistematico del pelagianesimo. L’ideale di giustizia perfetta e della costituzione di una «Chiesa immacolata e senza rughe» incontrò, tra il 411 e il 415, grandissimo favore in Italia, specie in Sicilia. Ma il pelagianesimo si diffuse dovunque, anche in Oriente. Combattuto in Africa, specie da Sant’Agostino, e dappertutto da vari concili, sopravvisse come setta fin verso il 490. Come dottrina ebbe dei fautori, qua e là, anche in seguito.

2) Una conseguenza del pelagianesimo fu il semi-pelagianesimo. Si trattò di libere opinioni, divenute incompatibili con la dottrina Cattolica solo dopo il Concilio di Orange (529). U n gruppo di scrittori galli, Cassiano, Vincenzo di Lerino, Fausto di Riez, preoccupati delle affermazioni di Sant’Agostino sulla assoluta iniziativa della Grazia, quasi che si distruggesse così il libero arbitrio, e dalla affermazione della predestinazione degli eletti e dei reprobi, vollero salvare l’efficacia degli sforzi della volontà in vista del bene e la validità delle buone opere in vista del merito soprannaturale e della salvezza eterna. Essi cercarono di insistere sulla universalità dell’appello divino alla salvezza, sulla misericordia di Dio, che « vuole che tutti gli uomini siano salvi », e cercarono di tornare alla tesi pelagiana della proporzionalità della grazia secondo i meriti attuali o futuri di ciascuno. Si opposero a questi scrittori Prospero di Aquitania, San Fulgenzio di Ruspe, San Cesario di Arles. La controversia ebbe fine nel Concilio di Orange, nel quale si venne a queste conclusioni: a) il libero arbitrio a causa del peccato originale non è sufficiente, senza la Grazia, ad innalzarsi all’amore di Dio; b) i giusti del Vecchio Testamento devono i loro meriti non al « bene naturale », ma alla Grazia di Dio; c) la Grazia del Battesimo permette a tutti i cristiani la salvezza e dà il potere di compiere i doveri necessari; d) in ogni azione buona il primo impulso viene da Dio.

Petite-Eglise. – Si dà questo nome allo scisma sorto in Francia dal rifiuto di seguire la Chiesa nella concessione di un concordato con il potere napoleonico, sorto dalla Rivoluzione (1801). Fin dal 1847 tutti i vescovi e i sacerdoti che l’avevano provocato erano già morti. Continuarono tuttavia i seguaci laici. Ai giorni nostri, essi hanno rifiutato di aderire all’appello loro rivolto dal card. Gerlier, arcivescovo di Lione, di ritornare all’ovile (20 febbraio 1949).

Pneumatomachi: vedi Ariani.

Protestanti. – Si dà il nome di protestanti a tutte le sette derivate dal movimento di rivolta contro la Chiesa Cattolica e di cosidetta « riforma » inaugurato da Lutero, Calvino, Zuinglio ecc. nel secolo XVI. È impossibile enumerarle tutte: sono oltre 200; molte di esse non ritengono di cristiano che il solo nome e, a volte, neppure questo; del resto moltissime sono considerate « sette » anche dalle grandi Chiese protestantiche. I gruppi protestanti più importanti sono:

1) Luterani, diffusisi particolarmente in Germania e in tutti i paesi nordici, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia. L’idea fondamentale di Lutero è la giustificazione attraverso la sola fede, senza le opere. È per lui impossibile porre una relazione giuridica tra Dio e l’uomo. La « giustizia » di Dio nell’uomo è il suo stesso amore. La parola di Dio nella Bibbia è l’unico mezzo di salvezza; per questo la predicazione della parola divina è collocata al di sopra dei Sacramenti. La Chiesa, nella sua concezione, è di conseguenza invisibile: la comunità di coloro che sperimentano in sé la salvezza. Nella Chiesa Cattolica, dispensatrice di Grazia coi Sacramenti e luogo di salvezza, egli vide una bestemmia e nel Papa l’Anticristo. I Sacramenti del Battesimo, Penitenza, Eucaristia, che all’inizio Lutero fece sopravvivere, sono sottovalutati rispetto alla predicazione, e servono solo come segno sensibile della giustificazione ottenuta mediante la parola divina.

2) Calvinisti e Zuingliani, i quali ebbero origine in Svizzera da Zuinglio e Calvino e si diffusero in Francia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra. Zuinglio introdusse per primo le idee riformatrici in Svizzera. Conservò Battesimo ed Eucaristia, ma solo come espressione della fede, un puro simbolo. La sua meta concreta era l’educazione morale del popolo e lo sviluppo della cultura nazionale per la gloria di Dio. Su queste aspirazioni lavorò Calvino, il quale guidò con mano ferrea e una serie di « ordinanze ecclesiastiche » l’opera riformatrice in Svizzera. Nel pensiero di Calvino l’idea fondamentale era quella di Dio e della sua potenza: è Dio che fa tutto in tutto e, come predestina alla vita beata, così muove anche i peccatori al peccato e li predestina alla perdizione. – Per Calvino la fede nella predestinazione ha la stessa importanza che per Lutero ha la fede nella giustificazione.

3) Anglicani, sorti inizialmente come Chiesa scismatica, per la sfrenata libidine e il bisogno di denaro di Enrico VIII. Sebbene egli intendesse non mutare nulla dell’insegnamento della Chiesa antica, la Chiesa anglicana scivolò alla sua morte man mano nel protestantesimo. La Chiesa anglicana, sotto le forme cultuali esterne dell’antico Cattolicesimo e della sua organizzazione gerarchica, nasconde un mondo ideale protestante a tinta riformistica moderata. Vi prevale il temperamento pragmatista inglese, con la negazione del lato duro e oscuro del calvinismo. – Questi tre grandi gruppi protestanti raccolgono oggi da soli oltre 100 milioni di fedeli. Tutte le altre innumeri confessioni e sette raggiungono altri 100 milioni di fedeli. La pullulazione delle sette è stata una caratteristica del protestantesimo fin dal suo inizio, accentuatasi nei tempi moderni, particolarmente negli Stati Uniti. Era il fondamento stesso posto da Lutero, la salvezza, non più collettiva in una Chiesa dispensatrice di Grazia, ma nella sola Bibbia, a originare questa dispersione di opinioni, giacché ogni protestante veniva implicitamente autorizzato a proporre la sua personale interpretazione della Bibbia, come unica, sicura dottrina rivelata, e unica certezza di salvezza. – Due comunità, l’una nata prima della riforma, l’altra al di fuori di essa, si frammischiarono poi al protestantesimo:

1) I Valdesi, i quali risalgono al secolo XII. Il mercante lionese Valdo, impressionato dall’improvvisa morte di un suo amico, distribuì tutte le sue ricchezze ai poveri, e con alcuni compagni detti « poveri di Cristo » si prefisse il ritorno alla povertà evangelica. Attirarono l’attenzione per la loro vita austera, moderata e pura. Non accettavano né la gerarchia ecclesiastica, né la devozione ai santi, né le feste e i digiuni. Dopo essersi sparsi in molti paesi, si ridussero principalmente in Italia nelle valli celtiche tra il Monviso e il Moncenisio. Attualmente il loro centro è Torre Pellice (Torino). Il loro passaggio ufficiale al protestantesimo riformato avvenne nel 1532 in un sinodo tenuto a Cianforan in Val Angrogna. Oggi sono circa 50.000, dei quali 36.000 in Italia.

2) Gli Unitari, detti Ariani moderni o anche Antitrinitari (sebbene questo nome generico va attribuito anche ad altre confessioni protestantiche che negano la Trinità come i Quaccheri, gli Scientisti, ecc.), nella loro doppia ramificazione di Socìniani e di Unitari liberali. L’umanista Fausto Socino da Siena, passato in Polonia nel 1579, diede nuova vita al movimento unitario polacco, sfruttandolo come veicolo del proprio pensiero. Egli disse la ragione umana superiore alla Bibbia. Negò la Trinità, la divinità di Cristo, perché incomprensibile, la prescienza divina e la grazia dell’uomo allo stato originale, la necessità della grazia dato che non esiste peccato originale, la risurrezione della carne, l’eternità dell’inferno, ammettendo i sacramenti solo come cerimonie religiose. Ridotti al niente in Polonia, rimasero in altri paesi, come in Ungheria e in Romania (circa 60.000 oggi), e in Olanda. Da qui l’unitarismo passò in Inghilterra, predicato da Lindsey e Priestley, i quali ne fecero una religione puramente etico-naturalistica. Priestley lo trasportò in America, dove oggi conta circa 80.000 seguaci. – Fra le sette derivate dalle grandi correnti protestantiche vanno ricordati gli Anabattisti (= ribattezzatori), perché non ritenendo valido il Battesimo conferito ai bambini, lo rinnovano in età adulta. Sorsero già al tempo di Lutero. – Volevano far rivivere l’epoca apostolica con la bontà primitiva e con la pretesa comunità dei beni. Ben presto il movimento fu pervaso da sogni millenaristi: un regno di Cristo in terra per mille anni dopo la sua prossima venuta. – Dagli anabattisti sono derivati i Mennoniti, i quali ebbero una concezione spirituale del regno di Dio e rinunciarono a mezzi violenti degli anabattisti per realizzarne l’avvento. Il loro nome deriva dal loro primo organizzatore Menno Simone (1492-1539). Mennoniti (di gran lunga la maggior parte) e anabattisti oggi contano circa 600.000 fedeli, dei quali circa mezzo milione negli Stati Uniti. Il battismo mennonita passò dall’Olanda in Inghilterra, dividendosi in varie denominazione: i Battisti generali, i quali contrariamente al domma calvinista, ammettevano la generale distribuzione della grazia; i Battisti particolari, i quali intendevano invece la predestinazione in senso rigorosamente calvinista. Ma, il regno del Battismo dovevano diventare gli Stati Uniti, dove si contano circa 15.000.000 battisti delle varie confessioni; mentre quelli d’Europa non arrivano a un centinaio di migliaia. Oltre alla Bibbia come fonte unica della fede e il domma della predestinazione inteso in senso più o meno stretto, i gruppi battisti hanno questo di particolare, che ogni comunità è indipendente e riconosce come capo soltanto Cristo. – Altri gruppi sorti in seno al protestantesimo ebbero un tentativo di risveglio della pietà e diedero importanza alle buone opere, in opposizione al domma fondamentale protestantico della sufficienza della sola fede. Si accentuava la morale di fronte alla fede. I Quaccheri furono fondati come « Società degli amici » da Giorgio Fox in Inghilterra (1624). Secondo lui l’uomo non può raggiungere la salvezza neppure nella lettura della Bibbia, ma l’apprenderà dalla voce di Dio che parla nella sua anima. Quacchero significa « tremante ». Si vuole che questo nome sia stato appioppato al fondatore da un giudice civile, quando Fox, invece di rispondere alle sue questioni, lo esortò a « tremare davanti a Dio ». I quaccheri — che si possono considerare come l’estremo sviluppo logico dei principi protestanti — hanno spesso raggiunto un alto grado di perfezione morale, e sono sempre rimasti uno sparuto numero. – Assai più grande sviluppo, invece, hanno avuto i Metodisti, nelle loro varie denominazioni: oltre 10.000.000 in America, compresi i bambini, di cui gran parte negri; circa 1.500.000 in Europa. Fondatore ne è G. Wesley (1703-1781), il quale con un’infaticabile opera di predicazione, risvegliò la coscienza cristiana dell’Inghilterra, dando vita a pratiche collettive di pietà che immisero nuova linfa nell’arido protestantesimo. Imparentato con il metodismo, sebbene si proclami interconfessionale, è l’Esercito della Salvezza, fondato da W. Booth (1829-1912), come movimento sociale per la salvezza del prossimo. I suoi principi sono quelli metodisti, esclusi i sacramenti. Non si nutrono pregiudizi verso le altre confessioni. Il servizio divino consiste in preghiere, canto, predica. L’organizzazione è militare: un esercito contro il peccato, composto da circa 25.000 ufficiali, circa 100.000 ufficiali laici subalterni, 265.000 cantori, 80.000 musicisti, 30.000 cadetti. – Ultima propaggine nel terreno protestante, fecondo di sette, sono i movimenti escatologici, risalenti tutti al secolo scorso. La Comunità cattolico-apostolica, fondata nel 1826 a Londra da E . Drummond, indirizzata all’idea della prossima fine del mondo da Ed. Irving, è una specie di ideale ritorno verso la Chiesa Cattolica. Esso si manifesta nell’imitazione della liturgia cattolica, nell’introduzione dei 7 sacramenti, nella venerazione della Madonna, nelle benedizioni, ecc. Nel 1901, morto l’ultimo dei dodici apostoli nominati dal Drummond, è venuto a mancare anche il sacerdozio e la comunità va spegnendosi. L a Comunità neo-apostolica è una derivazione della precedente, sorta in Germania, fondata da due cattolico-apostolici, H. Geiger e F. W. Schwarz. Essi vedendo diminuire con la morte il numero degli apostoli, sostennero la necessità di sostituirli; ma furono espulsi dalla comunità. Anche per loro il ritorno di Cristo è imminente. Egli apparirà con 144.000 giusti, legherà la potenza di satana e regnerà sulla terra per mille anni coi giusti. Poi avverrà la risurrezione generale, con la definitiva ricompensa o pena eterna. I Mormoni sono una deviazione del protestantesimo, che di cristiano ha solo il nome. La loro teologia somiglia allo gnosticismo antico. La « materia primitiva spirituale » produsse il « dio primitivo », questi a sua volta infiniti esseri spirituali, generatori anch’essi di altri esseri, fra cui l’anima umana, i quali per divinizzarsi devono passare attraverso la carne. Dar vita a corpi umani è dare la possibilità di sviluppo a figli e figlie degli dei non ancora evolutisi; da qui la pratica e la santa missione della poligamia. Ma, oggi, la legittimità di questa pratica è discussa. Non esiste peccato originale, però si parla della morte espiatrice di Cristo. Il battesimo, invalido se amministrato dai non mormoni, si dà solo per immersione dopo gli otto anni. Esiste la Cena e l’imposizione delle mani. Si crede nel regno millenario. Il culto divino è improntato a gaiezza, con musica e danze. Nello stato dell’Utah (Stati Uniti), retto dai mormoni (circa 700.000), le bevande alcooliche sono proibite, vige un ottimo sistema scolastico e una grande attività caritativa. N e esistono circa 12.000 anche in Germania e Svizzera. Il fondatore fu J. Smith (1805-1844), un visionario, cui successe Brigham Yung, il quale trasferì con una marcia leggendaria la comunità mormone dall’Illinois nell’Utah fondando nel deserto la città di Salt Lake.

Gli Avventisti furono fondati negli Stati Uniti da W. Miller, il quale profetizzò la fine del mondo per il 1844. Non avveratasi la profezia, la setta si divise in varie denominazioni, spiegandosi da alcuni la data del 1844 come quella dell’ingresso del Cristo nel santuario del cielo. Oggi sono circa 500.000. Superano di assai tutti gli altri gli avventisti del giorno. Essi santificano il sabato, dal tramonto del venerdì al tramonto del sabato. Il battesimo è riservato agli adulti ed è conferito per totale immersione. Dopo il giudizio universale si avrà un regno pacifico di Cristo con 144.000 avventisti del settimo giorno. Astinenza rigorosa dal vino, dal tè, dal tabacco e dalla carne suina, sono i precetti positivi. È prassi un furioso astio anticattolico e antipapale. Dagli avventisti si separò nel 1879 C. Taze Russel, dando vita agli « Studiosi della Bibbia », detti Millenaristi o Russelliani. I suoi discepoli, nel luglio del 1931, decisero di darsi il nome di Testimoni di Geova. Il successore di Russel, il giudice Rutherford, fissò la dottrina della setta in parecchie pubblicazioni. Tutto del Cristianesimo vien negato: spiritualità di Dio, Trinità, divinità di Cristo e dello Spirito Santo, Sacramenti, immortalità dell’anima. Il culto comporta solo il battesimo per immersione, la celebrazione annuale della morte di Gesù Cristo e la lettura della Bibbia. Alla fine del mondo, che è vicina, Gesù verrà a separare i Testimoni di Geova dagli altri uomini e con essi regnerà per 1000 anni di paradiso terrestre. Essi combattono la Chiesa con l’odio e la calunnia. Sono circa 88.000.

Quaccheri: vedi Protestanti.

Russelliani: vedi Protestanti.

Sabelliani: vedi Monarchiani.

Semiariani: vedi Ariani.

Semidaliti: vedi Barsaniani.

Semipelagiani: vedi Pelagiani.

Sociniani: vedi Protestanti.

Tedesco-cattolici. – L e comunità scismatiche fondate nel 1845 da due sacerdoti tedeschi, Ronge e Czerski, fusisi insieme lo stesso anno, si diedero questo nome. Ma contemporaneamente la setta passava dallo scisma all’eresia, facendo predominare principi protestantici (la Scrittura come unica norma di fede), razionalistici e nazionalistici. Il nazionalismo e un pronunciato antiromanesimo tiene unite tutte le varie confessioni derivate da questo movimento.

Testimoni di Geova: vedi Protestanti.

Tre-capitoli. – Giustiniano nel 543 emanò un editto di condanna sotto forma di capitoli o anatematismi (donde il nome assunto anche dagli scismi successivi al II Concilio Costantinopolitano) alcune proposizioni estratte dalle opere di Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro e Iba di Edessa, tutti e tre celebri rappresentanti dell’indirizzo dualistico in cristologia vigente nella scuola antiochena. Dopo lunghe peripezie si giunse al Concilio di Costantinopoli del 553, il quale rinnovò la prima condanna di Giustiniano. L’imperatore si riprometteva di ricondurre così all’unità ecclesiastica i monofisiti, pervicaci nel non volere ammettere in Cristo le due nature definite al Concilio di Calcedonia (451), quasi che questo Concilio fosse stato una vittoria della scuola antiochena e di quel suo dualismo a volte tanto esagerato da fare temere che non ammettesse un’unione perfetta tra le due nature. La speranza di Giustiniano riguardo al ritorno dei monofisiti fallì. Invece, al Concilio del 553 seguirono vari scismi: 1) quello della Chiesa dell’Africa, dove parecchi scrittori pubblicarono opere in difesa dei Tre Capitoli. Ma fu represso da Giustiniano abbastanza presto alla maniera forte, con l’esilio d i tutti i vescovi oppositori. 2) Lo scisma della Chiesa di Milano, favorito dalla invasione dei Longobardi, anch’esso finito fortunatamente assai presto. 3) Lo scisma della Chiesa di Aquileia, il quale non ebbe termine che alla fine del secolo VII.

Unitari: vedi Protestanti.

Utraquisti: vedi Calistini.

(Di) Utrecht. – Questo scisma è nato in Olanda agli inizi del secolo XVIII, in seguito alla condanna del vescovo Pietro Codde (1702) per giansenismo. Alla sua morte i seguaci gli diedero un successore, facendolo consacrare da un vescovo sospeso. A lui si associarono altri due vescovi sospesi. Ancora nel 1763 la Chiesa di Utrecht conservava tutte le dottrine e le pratiche cattoliche, eccetto il primato del Papa. Respinse la proclamazione del domma dell’Immacolata Concezione (1854). Dopo il Concilio Vaticano (1870), i suoi vescovi furono i consacratori di quelli della Chiesa dei Vecchi-cattolici, sorta in opposizione alle definizioni in tale Concilio. Dal 1931 ha cominciato a sacrificare alcuni punti di dottrina, dopo aver sancito la intercommunicatio in sacris con gli anglicani. Si compone di circa 10.000 fedeli.

Valdesi: vedi Protestanti.

Vecchi-Cattolici. – Si denominano così gli oppositori del Concilio Vaticano e particolarmente della infallibilità pontificia ivi proclamata. Si costituirono in comunità a Monaco di Baviera nel 1871. Nel 1873 elessero un vescovo che fecero consacrare da un vescovo della Chiesa di Utrecht, con la quale si collegarono nel 1889. Secondo loro la Chiesa visibile è composta da tutte le confessioni cristiane, nessuna delle quali da sola realizza in pieno la vera Chiesa di Cristo. In ogni nazione in cui si trovano (Germania, Svizzera, Austria, Iugoslavia, Polonia) essi formano altrettante Chiese autonome, dirette da un sinodo composto anche di laici. Complessivamente ammontano a circa 100.000 fedeli.

BENIAMINO ELMI

LE PIAGHE DELLA COMUNITÀ CRISTIANA: GLI SCISMI (2)

LE PIAGHE DELLA COMUNITÀ CRISTIANA

Capitolo I

Gli SCISMI,

ferite alla unità della fede (2)

[“Somma del Cristianesimo”, a cura di R. Spiazzi, vol. II Ed. Paoline, Roma, 1958]

Abramiti. – Sotto questo nome si hanno due sette: 1) Alcuni seguaci di Abramo di Antiochia, i quali negavano la divinità di Cristo. Sorti nel secolo IX, scomparvero presto. 2) Una setta di deisti boemi, sorta nei dintorni di Padubice nel secolo XVIII. Dicevano di volersi conformare alla fede in Dio di Abramo prima della circoncisione. Rifiutavano quasi tutti i dommi cristiani, come la Trinità, la divinità del Cristo, la penitenza, l’eternità delle pene dell’inferno. Della Sacra Scrittura ritenevano solo il Decalogo e il Padre Nostro. Tuttavia facevano battezzare i loro figli dai preti cattolici. L’imperatore Giuseppe coscrisse gli uomini nei battaglioni di frontiera (1783) e cosi disperse la setta, che presto scomparve.

Acaciano. – Prende il nome da Acacio, patriarca di Costantinopoli (471-489), il quale, dopo essere divenuto famoso per la caduta dell’imperatore monofìsita Basilisco, da lui agevolata, consigliò Zenone a promulgare l’Enoticon, favorevole ai monofisiti (482). Allora egli fu invitato da papa Felice III a discolparsi a Roma. Seppe tergiversare, giocando d’astuzia i legati. Ma, nel sinodo romano del 484 il Papa lo condannò. Egli per tutta risposta bandì il nome del Papa dai dittici, dando così inizio allo Scisma Acaciano, il quale durò per 35 anni, finché il suo terzo successore, Giovanni II, si riconciliò con il papa Ormisda (519).

Acéfali. – Eretici monofisiti alessandrini, i quali rigettarono l’Enoticon di Zenone, perché condannava Eutiche e perché non prendeva una posizione netta contro il Concilio di Calcedonia. Essendosi il Patriarca Pietro Mongo riconciliato con Acacio, essi, monofisiti più rigorosi, si separarono da lui, considerando ultimo legittimo patriarca Timoteo Eluro. Poiché erano senza patriarca, furono detti senza capo (a-cefalì). In seguito si diedero un capo. Sopravvissero fino al secolo IX, se ancora San Teodoro Studita componeva un trattato contro di loro.

Acemiti. – È il nome dato ai monaci fondati da Sant’Alessandro (+ 430), i quali risiedettero inizialmente a Irenaion (oggi Cibukli) nella costa asiatica del Bosforo e poi a Costantinopoli nel monastero dello Studios. Poiché si alternavano incessantemente, in vari turni, nella preghiera liturgica, essi furono chiamati dal popolo gli insonni (a-cémiti). Difensori accaniti del Concilio di Calcedonia, furono più volte i protagonisti di importanti avvenimenti ecclesiastici: denunziarono Acacio a Roma; denunziarono i monaci sciti per la formula « Uno della Trinità ha patito nella carne ». L’accanimento antimonofisita li spinse in seguito ad esagerare le proprietà delle nature umana e divina nel Cristo e quasi a separarle, sicché furono accusati di nestorianesimo. Dietro richiesta di Giustiniano, papa Giovanni II li condannò il 24 marzo 534. Così essi scomparvero, pur rimanendo il monastero, che passò ai celebri monaci detti Studiti.

Actisteti. – È una setta nota solo per pochissime righe di Timoteo di Costantinopoli (MG, 136, col. 4). Non hanno lasciato traccia né nomi. Si diede loro questo soprannome perché ritenevano la carne del Cristo, non solo, come i giulianiti o aftardoceti, cui erano apparentati, incorruttibile, ma anche increata (a-ctistos).

Adoziani. – Sotto questo nome vengono due sette : 1) Gli antichi adoziani o monarchiani (vedi Monarchiani). 2) Gli adoziani spagnuoli. Furono seguaci di Elipando di Toledo e di Felice di Urgel, i quali insegnavano la doppia adozione del Cristo, una divina e una umana. Come uomo il Cristo è soltanto figlio adottivo di Dio, mentre come Dio è Figlio vero. Dimenticavano che l’idea di filiazione è legata all’idea di Persona e non a quella di natura, per cui, parlando di due adozioni, rischiavano di separare il Cristo in due persone, sebbene essi asserissero, e dal loro modo di parlare risulta, che ammettevano una sola persona nel Cristo. La teoria, che fece la sua comparsa con Elipando nel 782, si sparse in Spagna, ma ben presto anche nel sud della Francia. Combattuta da Alcuino e da Leidrado arciv. di Lione, diede luogo a vari sinodi, finché in quello di Aquisgrana del 799 Felice di Urgel lesse la sua abiura. Ne rimasero tracce in Spagna fino al secolo IX. – Eustazio vesc. di Sebaste (eletto intorno al 356) commise la direzione dell’ospizio dei poveri. Ma egli, forse geloso del vescovo, suo antico compagno di ascetismo, si ribellò e con un gruppo di seguaci professò il semiarianesimo (sebbene lo storico Epifanio lo dica ariano esagerato), insegnò l’uguaglianza tra Vescovi e Sacerdoti, l’inutilità delle preghiere per i defunti, la libertà dei digiuni, che non potevano essere obbligatori, ma andavano fatti spontaneamente anche di Domenica, e rigettava la celebrazione della Pasqua come pratica giudaica. Al tempo di Sant’Agostino le idee aeriane erano diffuse negli ambienti monastici. Ma la setta scomparve presto.

Aeziani: vedi Ariani.

Aftardoceti. – Eretici monofisiti del secolo VI, seguaci di Giuliano di Alicarnasso. Ebbero vari nomi: giulianiti, gaianiti, fantasiasti, ecc. Insegnavano l’incorruttibilità (aftarsia) e l’impassibilità della carne del Cristo fin dal primo istante della sua concezione, giacché, non essendo il Cristo nemmeno lontanamente soggetto al peccato, la sua carne non poteva subire alcuna passione, che è appunto conseguenza del peccato. Egli, però, derogava di volta in volta a questa legge della sua umanità per le passioni che non avessero alcuna relazione col peccato e servivano alla Redenzione. Cominciarono a decadere nel secolo VIII e non se ne trovano più tracce nel secolo IX. Nemico acerrimo di Giuliano fu Severo di Antiochia, il quale per opposizione fu detto « ftartolatro » ( = adoratore della corruttibilità).

Aglipayti. – Il sacerdote filippino Gregorio Aglipay y Labayan, acceso nazionalista contro gli spagnoli, vedendo svanire i suoi sogni d’indipendenza nazionale con l’occupazione americana, volle dare alla sua patria almeno una Chiesa nazionale, e nel 1902 fondò la « Chiesa Filippina Indipendente », di cui si proclamò sommo pontefice e dichiarò vescovi alcuni sacerdoti suoi seguaci. – Ben presto passò ad insegnare molte eresie: negò la Trinità, la crocifissione, la resurrezione e la divinità di Gesù Cristo, la Maternità divina di Maria, l’inferno, il purgatorio, il primato del Papa. Raggiunse un gran numero di adepti: 1.500.000 intorno al 1918. Ma ben presto il movimento si sgonfiò e oggi è sparutissimo.

Agnoeti. – Setta di monofisiti del secolo VI, detti anche « Temistiani » dal loro fondatore, il diacono Temistio di Alessandria, discepolo di Severo di Antiochia. Temistio attribuì all’anima umana del Cristo l’ignoranza (agnoia) di certe cose, particolarmente del giorno del giudizio. Per questo fu respinto dal suo patriarca Teodoro (535-567) come eretico, ed egli si separò da lui, fondando una sua setta. Ma essa ebbe effimera vita. L’agnoetismo dell’anima umana di Cristo non può essere detto una eresia (cfr. Decreto del Sant’Uffizio del 7-6-1818).

Albanesi. – Eretici del secolo XIII, sorti con probabilità ad Albano presso Bergamo (donde il nome), i quali professavano un manicheismo rigido. Per reazione contro alcuni catari d’Italia, i concorrezzesi, i quali avevano attutito il manicheismo dicendo creato e non eterno il principio del male; questa setta riaffermava l’eternità e l’uguale potenza dei due principi, insegnamento originario del dualismo manicheo. Si estesero alla Lombardia tutta, al Veneto, e parte della Toscana, con propria gerarchia.

Albigesi. – La famosa setta degli albigesi piglia il nome dalla città di Albi in Linguadoca, i cui adepti professavano il dualismo. Condannavano il matrimonio, la procreazione dei figli; l’autorità ecclesiastica era considerata corrotta ed avevano perciò una propria gerarchia; respingevano l’adorazione della Croce e delle immagini e la costruzione delle chiese, interpretavano a loro senso la Bibbia; negavano ubbidienza all’autorità civile, proibivano i giuramenti e la pena di morte. Per la parte morale della loro dottrina si può vedere quella dei catari, giacché « cataro » non è che nome generico e «Albigese » il nome geografico locale della stessa fondamentale eresia. Furono estirpati dalla Crociata indetta contro di loro da Innocenzo III e guidata da Simone di Monfort. Gli ultimi focolai furono spenti dall’inquisizione fondata da Gregorio IX.

Anabattisti: vedi Protestanti.

Anglicani: vedi Protestanti.

Anomei: vedi Ariani.

Antitrinitari: vedi Protestanti.

Apostolici. – Le sette che vanno sotto questo nome convengono tutte nell’idea del ritorno della Chiesa alla primitiva semplicità dell’età apostolica.

1) Nell’antichità una setta, le cui origini sono molto oscure, ma che debbono risalire intorno al 260 (ne parla San Efrem), insegnava la totale povertà come obbligo assoluto, nonché un rigorismo assoluto a modo degli encratiti, con i quali sembrano affini. Oltre ai Vangeli usavano anche gli Atti apocrifi di Sant’Andrea e di San Tommaso. Si diffusero nell’Asia minore, soprattutto in Frigia, Cilicia e Pamfilia.

2) Nel secolo XII sorsero vari movimenti con questa idea fondamentale della povertà apostolica. Una setta col nome di « apostolica » ebbe ramificazioni in Francia, in Renania, nelle Fiandre. Mentre altri movimenti, sottomessi alla gerarchia ecclesiastica, entrarono nell’alveo cattolico, gli adepti di questa setta attaccavano la gerarchia ecclesiastica come decaduta dalla sua missione e corrotta.

3) Alcune sette protestantiche vanno sotto il nome di « apostoliche » (vedi Protestanti).

Apotattici. – Setta del secolo IV, scomparsa subito. Faceva centro nell’Asia Minore. Su sfondo manicheo, proibivano il matrimonio, la povertà privata e ostentavano il più assoluto rigorismo morale. Teodosio li incluse nella condanna del manicheismo (383).

Arabici. – Questo nome è dato da Sant’Agostino agli adepti di una setta sorta intorno al secolo II. Fondandosi su una falsa interpretazione di 1 Tim. VI, 16, insegnavano la morte dell’anima insieme al corpo per risorgere nel giudizio finale insieme ad esso. Era una specie di materialismo, in cui il corpo veniva considerato la parte principale dell’uomo. Furono convertiti da Origene in uno dei suoi viaggi in Arabia (intorno al 244).

Arcontici. – Eretici gnostici del secolo IV, diffusi specialmente in Armenia e in Palestina. Ponevano al principio e al di sopra di tutti gli esseri un ente chiamato la « Madre luminosa », da cui dipendevano 7 arconti, i quali, coadiuvati dagli angeli, loro creature, governavano i 7 cieli. Al primo posto era Sabaoth, il dio dei Giudei, autore del male e generatore del demonio. Caino e Abele sarebbero nati dall’unione carnale del demonio con Eva ; la loro lotta ebbe origine dall’amore comune della stessa sorella. Da Adamo ed Eva, invece, nacque Seth. I misteri cristiani, a cominciare dal battesimo per finire alla risurrezione della carne, erano ripudiati.

Ariani. – Con il nome comune di ariani sono designati i seguaci della dottrina di Ario, il prete di Alessandria che intorno al 320 cominciò ad insegnare che il Verbo non era veramente Dio, ma una creatura tratta dal nulla, adottata da Dio in Figlio in previsione dei suoi meriti. Era il crollo di tutti i dogmi più fondamentali del Cristianesimo: dell’Incarnazione e della Redenzione. Ario fu condannato nel Concilio di Nicea (325). Ma la sua dottrina continuò in varie forme, dando luogo a lungo travaglio per la Chiesa:

1) Gli Anomei o Aeziani o Eunomiani (ed ebbero ancora altri nomi) rimasero dopo la condanna di Ario il gruppo degli ariani puri. Insegnavano che il Verbo è dissimile (anomios; onde furono detti anomei) dal Padre. Celebri dottori furono Aezio di Antiochia ( + 367), Eunomio di’ Cizico ( + c. 395) e Eudossio di Costantinopoli.

2) I Semiariani o Omeusiani insegnavano, invece, che il Verbo non è dissimile dal Padre, ma neppure consustanziale (secondo la definizione di Nicea: omoùsios), bensì simile nella sostanza (pmoiùsios; onde furono detti Omeusiani). 3) Una conseguenza dell’arianesimo fu il Macedonianesimo, così detto da Macedonio vescovo di Costantinopoli ( + c. 341), il quale tuttavia non sembra che abbia insegnato l’errore che da lui piglia il nome. Quest’errore era l’applicazione della dottrina di Ario allo Spirito Santo, negandone la divinità e facendone la prima creatura del Figlio, che secondo Ario era stato scelto dal Padre a strumento della creazione. L’errore ebbe origine dalla affermazione di un gruppo di semiariani che, pur ammettendo in modo piuttosto chiaro la divinità del Figlio, la negò allo Spirito Santo (intorno al 360). I seguaci furono detti anche Maratonìani, da Maratonio, vescovo di Nicomedia, uno dei loro capi, o anche Pneumatomachi (« avversari dello Spirito »). Essi si distinsero dagli ariani per la loro credenza nella divinità del Verbo. – L’arianesimo, sotto le sue molteplici forme, sparì, dall’impero romano con l’ascesa al trono (379) di Teodosio. Ma intanto si era infiltrato tra i popoli barbari da poco convertiti al Cristianesimo, quei popoli che tra poco avrebbero governato i territori dell’impero occupandoli: Visigoti, Ostrogoti, Vandali, Longobardi, Svevi. Anch’essi man mano, al contatto del Cristianesimo ufficiale, si andarono convertendo: ultimi i Longobardi nel 671.

Si dà il nome di « ariani moderni » ad alcune sette antitrinitarie (vedi Protestanti).

Armeno: vedi Monofisita.

Audiani.Seguaci di Audi, arcidiacono della Chiesa di Edessa, il quale non volle seguire il computo pasquale fissato dal Concilio di Nicea, per conservare quello locale secondo il sistema giudaico. Per questo motivo e per il suo zelo esagerato si allontanò sempre più dalla Chiesa. Confinato da Costantino in Scizia, lavorò alla conversione dei Goti. Morì nel 372. Gli audiani rifiutavano di pregare insieme ai membri della Chiesa. L’errore principale loro imputato era l’antropomorfismo, perché dicevano che l’immagine di Dio nell’uomo è il corpo umano e perciò anche Dio ha un corpo. Li si accusò anche di dottrine gnostiche. La setta continuava ancora nel secolo V nella Siria e nell’Asia Minore.

Avventisti: vedi Protestanti.

Bagnolesi: vedi Catari.

Barsaniani. – Setta derivata dagli acefali. Essi per darsi un capo elessero, Barsanio, pretendendo consacrarlo vescovo mediante l’imposizione delle mani di un vescovo morto di recente. Celebravano l’Eucaristia cospargendo le sacre Specie, già consacrate moltissimi anni prima dal patriarca Dioscuro, di fior di farina (chiamata in greco semidalis; onde essi furono detti anche Semidaliti); vi intingevano un dito, che portavano alla bocca. Scomparvero tra i giacobiti nel secolo IX.

(Di) Basilea. – A Basilea si adunò il 14 dicembre 1431 un concilio indetto da Papa Martino V. Il successore Eugenio IV prima lo sciolse (18 dicembre), poi, ad evitare uno scisma — dato che il Concilio nel frattempo aveva proclamato di derivare la sua autorità da Cristo e di non potere essere sciolto da alcuna autorità (15 febbraio 1432) — lo riconobbe. Ma lo spirito del Concilio rimaneva ancora poco cattolico e tendeva a porre la sua autorità al di sopra di quella del Papa. Per questo Eugenio IV lo trasferì a Ferrara (18 settembre 1437). Il Concilio di Basilea continuò, divenendo così da questo momento scismatico. Dichiarò « come articolo di fede » che il Papa non può trasferire un Concilio (15 marzo 1438), sospese il Papa (24 aprile) e poi lo depose (25 luglio), eleggendo infine come nuovo pontefice Amedeo IV di Savoia (5 dicembre), il quale prese il nome di Felice V. Morto Eugenio IV (1447) ed eletto Nicolò V, i membri del concilio di Basilea, ormai radunatisi a Losanna, trattarono con lui, ritirarono le censure lanciate contro i legittimi Pontefici, e, avendo Felice V abdicato, elessero anch’essi per proprio conto Nicolò V (7 aprile 1449).

Battisti: vedi Protestanti.

Bizantino. – È il più grande scisma della Chiesa, che ancora continua e costituisce la più grave ferita aperta nel Corpo mistico di Cristo. Gli si assegna come data iniziale il 1054, anno in cui i legati del papa Leone IX deposero sull’altare della cattedrale di Costantinopoli, Santa Sofia, la bolla di scomunica contro il patriarca Michele Cerulario. La Chiesa bizantina, che pur aveva conosciuto tanti scismi dalla Chiesa Romana, ma sempre era ritornata nell’unico ovile, da allora rimase sempre separata. E tutti gli « ortodossi » orientali — i seguaci cioè della « retta fede » (Orthodoxid) cristologia sancita dal Concilio di Calcedonia (451) — furono da essa trascinati nello scisma: fra questi i nuovi popoli convertiti da Bisanzio al Cristianesimo: Russi, Bulgari, Rumeni, Serbi, ecc. In realtà al tempo di Michele Cerulario la Chiesa bizantina era di fatto separata da Roma da lunghi anni (dagli inizi del secolo sotto il patriarca Sergio II), e il Cerulario non faceva che difendere pertinacemente l’autonomia pratica eli cui godeva. Perciò si oppose recisamente al tentativo di riconciliazione, religiosa e politica, perseguito, con assai poco tatto e con superba arroganza dai legati romani. Michele Cerulario riprese contro Roma le accuse già lanciate da Fozio, aggiungendovi di suo quella dell’invalidità della consacrazione con il pane azimo. Ma in realtà queste questioni teologiche avevano meno peso di quelle di carattere politico, etnico, culturale, le quali avevano scavato come un abisso tra l’Oriente e l’Occidente cristiano. In seguito, affievolitisi i motivi d’attrito politico, sono rimasti intatti quelli della differente cultura e mentalità, anche religiosa e canonica, mentre sono andate aumentando le differenze teologiche. I molteplici tentativi fatti per porre fine a questo scisma così doloroso riuscirono vani. Si giunse, è vero, nei Concili di Lione (1274) e di Firenze (1438), alla proclamazione dell’unione delle Chiese, ma essa non ebbe che risultati assai parziali ed effimeri.

Bogomili o Bulgari. – Setta eretica apparsa in Bulgaria (onde furono detti anche Bulgari) nella prima metà del secolo X. Il loro nome più comune proviene dal loro capo Bogomil ( = amico di Dio). In realtà i bogomili non erano che la continuazione dei vecchi pauliciani dell’Asia Minore, trasferiti in forti contingenti militari dall’imperatore Niceforo i (802-811) per difendere l’impero dai Bulgari. Bogomilismo e paulicianesimo sono in sostanza tutt’uno. Al fondo del loro sistema dottrinale sta un dualismo di marca manichea, ma mitigato. Il mondo materiale è opera non del Dio supremo, ma del primo degli esseri spirituali, Satanaele, ribelle al Padre eterno. Satanaele creò l’uomo, ma, incapace di dargli un’anima, invocò l’aiuto del Dio supremo, il quale gliela infuse. Satanaele, però, non seppe stare ai patti con Dio, onde sorse la continua lotta fra il bene e il male, finché venne nel mondo un altro spirito, Gesù il Figlio di Dio, il Verbo, rivestito solo in apparenza di carne mortale. Satanaele ne tramò la morte, credendo di vincerlo, ma ne fu vinto, che Gesù risuscitò e, così, privò di ogni potenza Satanaele, il quale d’ora in poi divenne semplicemente Satana. Questi continua a lottare contro il bene, ma lo Spirito di Gesù gli suscita contro i veri fedeli: i dodici Apostoli, che furono le prime creature dello Spirito Santo, e, al loro seguito, gli « amici di Dio » ( = bogomili). – Essi sono sicuri di non morire di definitiva e assoluta morte, mediante la loro adesione allo Spirito. Per ottenerla non è necessario il battesimo, ma l’imposizione delle mani degli Apostoli e dei loro successori. È ripudiata anche l’Eucaristia dei Cattolici, considerata anzi come un sacrificio offerto agli spiriti maligni di cui satana è il capo. Seguirà più tardi anche il rifiuto del culto dei santi e di Maria, delle immagini e della Croce. Per garantirsi contro i maltrattamenti degli spiriti cattivi, i bogomili ammettevano un compromesso: rendersi loro complici, ma solo esternamente, con la partecipazione esteriore al culto della Chiesa Cattolica. (I catari dell’Occidente non accetteranno questo compromesso). Tuttavia, celebravano i loro riti in conventicole private per mettersi in contatto con lo Spirito di Gesù. Erano estremamente fanatici. Quanto alla morale pare fosse della più rigida: astensione dall’unione carnale, astinenza rigorosa, osservanza dei comandamenti, preghiera, culto delle virtù morali dell’umiltà, misericordia, mitezza. In questo secolo X furono combattuti dal grande teologo Cosma, poi si perdettero di vista, per riapparire nel secolo XIV, in cui furono combattuti dal patriarca Teofilo e dal monaco Teodoro. Ma già si erano grandemente diffusi in Occidente, confusisi o identificatisi coi catari.

Calistini. – Il « calice ai laici » dopo la morte di Huss (6 luglio 1415) divenne un motto che suscitò come una febbre nazionale in Boemia. I calistini (da «calice») sostenevano anch’essi la comunione sotto le due Specie (sub utraque specie; onde furono detti anche utraquisti), ma non negavano la presenza reale del Cristo sotto ciascuna specie. Si separarono dalla Chiesa con l’elezione d’un loro vescovo nella persona di Rokacana (1435), mai riconosciuto da Roma. Dopo la morte di lui avvenuta nel 1471, i calistini vivacchiarono tollerati, ma non legalmente autorizzati. Dopo il « defenestramento di Praga » (1618), motivato da loro, i calistini passarono parte al Cattolicesimo, parte al protestantesimo.

Caloiani: vedi Catari.

Calvinisti: vedi Protestanti.

Catari. – Il nome catari è di origine greca (catharòs = puro) ed era dato a quella parte degli adepti, « puri » o «perfetti», i quali praticavano la più rigida morale della setta. Il fondo della loro concezione dualistica era comune ai pauliciani (vedi), ai bogomili (vedi), e agli albigesi (vedi), i quali ultimi del resto non erano che i catari della Linguadoca con centro ad Albi. Non staremo a ripeterla. Facciamo solo notare che questa concezione dualistica era a volte rigida, con l’insegnamento della perfetta uguaglianza dei due principi del bene e del male, a volte mitigata, facendo del principio del male una creatura del Dio supremo, un angelo decaduto, creatore a sua volta del mondo, ma col permesso di Dio, e per potenza inferiore al Dio supremo. – Il movimento cataro, a differenza di quello bogomilo, è religioso e sociale allo stesso tempo. Si dubita se veramente il catarismo abbia una vera dipendenza d’origine dal bogomilismo (e quindi, risalendo più avanti nella storia, dal paulicianesimo), oppure sia una efflorescenza locale, collegatasi in un secondo tempo con i movimenti similari dell’Oriente. Certo si è che le Chiese dei catari dell’Occidente dal secolo XII sono in stretta dipendenza dottrinale e gerarchica coi capi e comunità similari dell’Oriente. La morale catara parte dal concetto della fuga della vita, perché essa è in sé malvagia. L’endura, la pratica di lasciarsi morire di fame o svenandosi o con altro mezzo violento, era il loro ideale, il quale però si attenuò col tempo. – Il consolamentum era una specie di sacramento, sostitutivo del battesimo, consistente nell’imposizione delle mani da parte dei vescovi, accompagnata dalla professione di fede e dalla promessa di rimanere sempre fedeli alla fede catara, di vivere in castità e di non cibarsi di carne. Rinunzia all’unione carnale, ai cibi animali e lunghi digiuni rituali, erano la pratica dei « perfetti ». Essi giungevano a questo grado dopo una lunga iniziazione, che sfociava poi in una vita di tipo monastico. Ai « credenti » bastava, invece, un rito di adorazione verso i perfetti, detto melioramentum, dando loro ospitalità e cibo, ricevendone in cambio la benedizione e il pane benedetto (in un rito che sostituiva l’Eucaristia), facendo loro una specie di confessione generica (detta apparelhamentum). In realtà la massa dei credentes poteva anche darsi alla dissolutezza più sfrenata nella speranza di ricevere il consolamentum all’ultimo istante. – Ciò spiega la feroce repressione contro questa eresia, vera disgregatrice della famiglia e della società cristiana. In Italia si notano tre sette catare: gli Albanesi, che erano dualisti rigidi; i Concorezzesi o Garati dal loro capo Garato; i Bagnolesi o Caloìani dal loro vescovo Caloiano. Questi ultimi due gruppi erano dualisti mitigati, ma differivano fra loro perché i concorezzesi ammettevano la realtà materiale del corpo di Cristo e la propagazione dell’anima per generazione, mentre i bagnolesi ritenevano il corpo di Cristo solo apparente e dicevano tutte le anime create da Dio all’origine del mondo spirituale e peccatrici già fin dal cielo.

Chiesa Filippina indipendente: vedi Aglipayti.

Chiesa nazionale Ceca. – Fondata nel 1920, come comunità distaccata dalla Chiesa cattolica, sembra sia in fondo una reviviscenza dell’Ussitismo. In essa si ristabiliva la comunione sotto le due specie, si sopprimeva il celibato obbligatorio dei sacerdoti, si introduceva la lingua Ceca nella liturgia. Ebbe gerarchia propria con un patriarca e quattro vescovi. Raggiunse all’inizio la cifra di quasi un milione di fedeli, scendendo in breve tempo a 150.000 e infine a un esiguo numero. Vive tuttora.

Comunità Cattolica-Apostolica: vedi Protestanti.

Concorezzesi: vedi Catari.

Copto: vedi Monofisiti.

Crisostomiano. – Il papa Innocenzo I e tutto l’Occidente ruppero la comunione con la sede costantinopolitana in seguito al secondo esilio di S. Giovanni Crisostomo (404), e non fu ripresa che nel 415. È uno dei tanti scismi passeggeri della Chiesa costantinopolitana prima di quello definitivo del 1054.

Docetismo. – Una delle più diffuse eresie dell’antichità cristiana, ch’ebbe inizio fin dai tempi apostolici. Insegnava fondamentalmente la sola apparenza del corpo di Cristo. Deriva dalla difficoltà di concepire una realtà umana materiale e carnale, unita intimamente a una realtà divina e soprannaturale. Più che una setta determinata fu una corrente d’idee che penetrò i giudaizzanti e gli gnostici. Le determinazioni particolari di questa eresia furono molte: da quelle che ammettevano solo l’apparenza (docheia; donde il nome) della carne del Cristo a quelle che parlavano d’una dimora temporanea di Cristo nell’uomo Gesù, abbandonato da Cristo al momento della passione. È chiaro che i dommi fondamentali della Religione Cristiana venivano completamente sovvertiti.

Donatisti. – È il più grande degli scismi che conobbe l’Africa romana. Durò dal 313 alla conquista araba dell’Africa nel 650. Ebbe origine dalla persecuzione di Diocleziano, in cui era stato fatto obbligo ai cristiani d i consegnare i libri sacri. Molti nell’intento di salvare e la fede e la vita consegnarono altri libri. Tra questi il vescovo di Cartagine Mensurio, il quale chiamato a Roma a discolparsi mori nel ritorno (311). Gli fu dato come successore Ceciliano, assenti i vescovi della Numidia. Questi gli contestarono di essersi fatto consacrare da Felice d’Aptungi, uno dei « traditores » ( = consegnatari) dei libri sacri, e gli sostituirono Maggiorino. Quando Costantino, ingerendosi negli affari ecclesiastici, volle mettere fine allo scisma, ne divenne suo capo Donato (donde il nome dei seguaci), successo poi a Maggiorino. Alle misure imperiali, i donatisti opposero resistenza, anzi con gli adepti fanatici detti « Circumcelliones » perseguitavano i cattolici e distruggevano i loro edifici sacri. Presto i donatisti divennero anche eretici, sostenendo l’invalidità dei sacramenti amministrati dai ministri indegni, e quindi la necessità di ripetere il Battesimo da loro conferito. Considerarono la Chiesa composta solo dai « perfetti ». Sebbene l’imperatore Onorio li perseguitasse come eretici (editto del 405), essi sopravvissero ancora. Perseguitati in una coi cattolici dai Vandali invasori e ariani, durarono fino all’occupazione musulmana. Parecchi concili si interessarono dei donatisti. Essi furono dottrinalmente combattuti particolarmente da Sant’Agostino.

Ebioniti. – Essendo il Cristianesimo nato giudeo, i primo compito era di definire ciò che bisognava ritenere delle pratiche giudaiche: circoncisione, digiuni, purificazioni, osservanza del sabato, ecc. Un forte gruppo di Cristiani provenienti dal giudaismo, intorno al 63, con a capo un certo Tebutis, si staccò dalla Chiesa apostolica, sostenendo l’immutabilità e l’insostituibilità del Vecchio Testamento. In seguito essi si frazionarono in varie sette. Ebioniti viene da « ebion », termine aramaico che significa povero, umile; ma nel linguaggio popolare venne a significare la grettezza della legge mosaica e l’incapacità di comprendere la legge dell’amore sostituita da Cristo alla legge del rito. [Fu un monaco ebionita siriano a comporre il “Corano” che in pratica è la sintesi delle tesi eretiche ebionite – ndr. -]

Encratiti. – Il nome significa «astinenti» dal greco encràteia (= padronanza di sé). Verso la fine del sec. III appaiono in Siria, ma si diffusero in Gallia e in Spagna. Consideravano, con derivazione manichea, essenzialmente cattiva la materia, dichiaravano illecita l’unione coniugale, intimavano ai ricchi lo spogliamento da tutti i beni, pena la dannazione eterna. Proibito era l’uso della carne e del vino. Anche l’Eucaristia doveva celebrarsi senza vino, con solo acqua, onde furono detti anche « acquariani ». Austerissimi, negavano per sempre la Comunione ai peccatori. Si ritenevano esenti da ogni legge, perchè « il giusto è legge a se stesso ». Lo scrittore Taziano, già discepolo di San Giustino a Roma, fu detto il principe degli encratiti.

Esercito della Salvezza: vedi Protestanti.

Etiopico: vedi Monofisiti.

Eunomiani. – Seguaci di Eunomio vescovo di Cizico (360), il quale attrasse a sé altri vescovi della Siria, della Palestina e della Cappadocia, dando luogo a una gerarchia ariana (per la dottrina vedi: ariani) opposta a quella cattolica. Scomparvero presto come Chiesa scismatica.

(Di) Felicissimo e Fortunato. – È lo scisma consumato in Cartagine nel 250 dal diacono Felicissimo, il quale con altri cinque compagni, fra cui Fortunato e Novato, si oppose alle decisione di San Cipriano intorno ai « lapsi » della persecuzione di Decio. Cipriano aveva deciso che gli apostati durante la persecuzione avrebbero dovuto essere riammessi alla Chiesa solo dopo severa penitenza; se, però, fosse scoppiata una nuova persecuzione, essi avrebbero potuto essere corroborati subito con la santa Eucaristia anche prima della fine del periodo di penitenza. Sebbene ancora nel 252 venisse contrapposto a Cipriano un vescovo nella persona di Fortunato, lo scisma rimase senza grande importanza. Novato, recatosi a Roma, vi appoggiò lo scisma di Novaziano (vedi).

Foziano. – È lo scisma del patriarcato di Costantinopoli dalla Chiesa romana consumato da Fozio. Egli era stato scelto dall’imperatore Michele III a sostituire Ignazio, uomo pio e retto, ma ostinato, nell’858. Sembra che Ignazio si dimettesse dietro la promessa che Fozio l’avrebbe trattato come patriarca onorario e non avrebbe agito contro i suoi fautori. Ma Fozio si fece consacrare da Gregorio Asbesta, arcivescovo di Siracusa in esilio a Costantinopoli, che era appunto il più accanito avversario di Ignazio. Questi ricorse a Roma. Due legati inviati a Costantinopoli da Roma per esaminare il caso si fecero convincere da Fozio e comunicarono con lui. Ma, al loro rientro, il Papa Nicolò I li sconfessò e nel sinodo romano dell’863 scomunicò Fozio, il quale non se ne diede per inteso. Anzi, complicatasi la questione con l’affare di Bulgaria — giacche questa nazione, convertita da Bisanzio, era passata sotto la giurisdizione romana e i missionari bizantini erano stati scacciati — Fozio convocò un sinodo e scomunicò a sua volta il Papa (867). Con una enciclica alle Chiese orientali accusò la Chiesa romana di errori disciplinari e dell’aggiunta del « Filioque » al Credo. Ma pochi mesi dopo, Basilio, successo a Michele, fatto da lui uccidere, depose Fozio e richiamò Ignazio (867). Lo scisma ufficiale della Chiesa costantinopolitana dalla romana era di fatto finito, sebbene continuasse quello dei foziani contro Ignazio. L’ottavo Concilio ecumenico di Costantinopoli (869-870) confermò solennemente la condanna di Fozio. Ma, morto Ignazio (878), Fozio fu richiamato da Basilio al patriarcato. Un anno dopo, nel Concilio di Costantinopoli dell’879-880, avvenne la sua riabilitazione personale e il suo riappacificamento con il Papa Giovanni VIII.

Fraticelli. – Fu uno dei movimenti ereticali a sfondo sociale del sec. XIV Originato da alcuni Francescani fanatici, insegnarono che tutta la vita cristiana si riduceva alla pratica della povertà assoluta. Durante la lotta di Giovanni XXII contro Ludovico il Bavaro, trovarono nell’imperatore un protettore. Percorrevano le città e le campagne predicando la povertà. Si elessero vescovi e papi propri. Si estesero anche fuori d’Italia. Poterono essere estirpati nella seconda metà del secolo XV con i rimedi più drastici.

Garati: vedi Catari.

Giacobiti: vedi Monofisiti.

Giulianiti: vedi Aftardoceti.

Gnostici. – Questo nome di origine greca (gnosis = scienza) fu assunto da quei « sapienti » i quali agli inizi del Cristianesimo asserivano di avere, solo essi, una vera conoscenza salvifica della dottrina cristiana. Più che una eresia, essi formano un pullulare di eresie nel secolo II e III: un’infinita varietà di sette, dalle dottrine non solo differenti, ma anche opposte fra loro. Una sintesi del loro insegnamento è quanto mai difficile. Con un misto di idee filosofiche, religiose e culturali, sia greche, sia d’origine orientale, cercavano di dare una spiegazione razionalistica dei misteri cristiani. A base comune si può trovare un dualismo radicale tra Dio e la materia, per spiegare il problema del male. Dalla materia proviene tutto il male. Liberarsi dal male è liberarsi dalla materia, per ridurre alla originaria purezza la scintilla divina, la luce, che è nella materia. Perché, mentre la materia fu opera di uno degli eoni emanati o generati da Dio, di cui è composto il mondo spirituale, e precisamente dall’ultimo di questi, degenerato, cioè dal Demiurgo (il Dio degli Ebrei), la luce fu immessa nella materia da un altro eone, la Sofia. Per aiutare gli uomini a liberare in se stessi la luce dalle tenebre, venne nel mondo Gesù, il Salvatore: è questa l’opera della sua redenzione. Gli uomini, però, si dividono in tre gruppi: gli ilici ( = materiali), per i quali non c’è salvezza; gli psichici (da psyche = anima), per i quali con l’aiuto di Cristo c’è la salvezza; gli pneumatici (da pneuma = spirito), che sono gli gnostici perfetti, i quali sono già salvi e non hanno, quindi, bisogno di ulteriore salvezza. – I maestri gnostici furono numerosissimi, fondatori ciascuno d’un proprio sistema, differente in molti punti dagli altri: celebri Basilide, Valentino, Marcione — il cui complesso sistema fu considerato dagli scrittori cristiani pericolosissimo — Eracleone, Bardesane, Tolomeo, ecc. Si vuol fare risalire lo gnosticismo fino a Simon Mago. Molti Padri scrissero contro lo gnosticismo, particolarmente Sant’Ireneo, Sant’Ippolito, Tertulliano, Origene.

LE PIAGHE DELLA COMUNITÀ’ CRISTIANA: GLI SCISMI (1)

LE PIAGHE DELLA COMUNITÀ’ CRISTIANA

Capitolo I

Gli SCISMI,

ferite alla unità della fede (I)

[“Somma del Cristianesimo”, a cura di R. Spiazzi, vol. II Ed. Paoline, Roma, 1958]

Art. 1. – NATURA DELLO SCISMA.

Significato e uso della parola. – Scisma è parola greca (σχίσμα = skisma) la quale, nel suo significato letterale di fenditura, strappo, separazione materiale, spaccatura, è d’uso corrente tanto nei classici, quanto nel Nuovo Testamento. (La traduzione greca dei LXX del Vecchio Testamento usa in questo senso il sinonimo (σχισμη). Invece, nel suo significato figurato di dissensione, divergenza d’opinione, scissione, è d’uso assai raro nei classici, ma lo si ritrova in San Giovanni e in San Paolo. In San Giovanni (VII, 43; IX, 16: X, 19) indica tutte e tre le volte un disaccordo prodottosi fra i giudei in seguito a discussioni intorno al Cristo. In San Paolo (1 Cor. I,10; XI,18; XII, 25) indica i dissensi interni alla comunità di Corinto, sorti per varie cause: ora a motivo dell’autorità cui i vari partiti si appoggiano, Paolo o Apollo o Cefa (I, 10); ora a causa delle diversità di classi e di condizioni sociali (XI, 18); ora per l’egoismo naturale dei singoli membri della comunità (XI, 18). È certamente l’uso di San Paolo che ha fatto entrare la parola « scisma » nel linguaggio ecclesiastico. Il latino classico la sconosce. Ma dal latino ecclesiastico è passata in tutte le lingue moderne occidentali, con un senso ecclesiologico tecnico. – Questo senso tecnico è frutto di una lunga evoluzione attraverso i secoli. In San Paolo non si parla ancora di veri scismi nel senso attuale della parola: non di gruppi usciti dalla comunione ecclesiastica, ma di partiti formatisi nel seno della stessa Chiesa locale. – Anche la parola « eresia », che si trova in uno di questi passi di San Paolo accostata a «scisma» (1 Cor. XI, 18-19), non ha ancora un significato ben distinto e tecnico: tutt’al più indica vagamente un’aggravante dello scisma. Con i Padri apostolici, che pur si riferiscono a San Paolo, o esplicitamente, come San Clemente Romano, o implicitamente, come San Ignazio, la parola si è caricata d’un senso più forte. Sta ad indicare la rottura dell’unità nell’ambito della Chiesa locale, attraverso il rifiuto dell’autorità del vescovo, attraverso la rottura della fedeltà alla sua fede, attraverso la negazione della partecipazione alla sua Mensa eucaristica. (Cfr. San Clemente Romano, 1 Cor., II, 16; 46,5,9; Sant’Ignazio, il quale però usa solo il participio σχίζωντι, Ai Filad. I 3 ; e cfr. le condizioni dell’unità della Chiesa in Agli Smirn., c. 7-8; Ai Filad., c. 3-4; A Polic., c. 6; Didachè 4,3; Barnaba, 19,12; Erma, Simil. VIII, 9,4). – Ma, quando si rompe con una Chiesa locale, si rompe anche con tutte le Chiese locali, le quali sono tutte unite fra loro dai profondi legami dell’unica fede e della medesima carità. Così, « scisma » passa presto a designare la rottura dell’unità con la Chiesa universale. È soprattutto San Cipriano che gli dà questo senso più vasto, nelle sue Epistole e nel suo trattato “De Ecclesiæ imitate”, composto per combattere lo scisma di Felicissimo a Cartagine, inviato poco dopo a Roma perché servisse a combattervi lo scisma di Novaziano. – Poiché l’unità della Chiesa si ottiene con l’unione di ciascun fedele al proprio Vescovo, chi non sta con lui, non sta neppure nella Chiesa. L’episcopato, però, è unico, giacche tutti i Vescovi costituiscono una vera unità, derivante da quell’unica autorità di legare e di sciogliere che il Cristo concesse inizialmente a uno solo, a Pietro, ma che estese poi anche agli altri Apostoli facendoli ugualmente partecipi della stessa autorità di Pietro. Pertanto, separarsi dal proprio Vescovo, è separarsi dalla Chiesa unica e universale (Epist. 43,5; 66,8; 68,3-5; 69,3; De Eccl. un. 7). San Cipriano non distingue ancora bene lo scisma dall’eresia. Spesso i due termini sono da lui abbinati o usati promiscuamente l’uno per l’altro. Tuttavia, a volte intravede l’eresia come qualcosa di più grave che lo scisma (Cfr. Epist. 51,1; 55,24). La distinzione dello scisma dall’eresia è indicata con chiarezza, ma solo da un punto di vista pratico, senza alcuna spiegazione teorica, da Ottato di Milevi. Sul problema della validità dei sacramenti amministrati dagli eretici, punto tanto discusso tra l’Africa e Roma, Ottato sostiene che quelli conferiti dagli scismatici sono validi, perché costoro spezzano l’unità della Chiesa, ma conservano la medesima fede, mentre quelli conferiti dagli eretici sono invalidi, perché costoro adulterano la fede stessa. (De schimate donat., I , 10-11). -Una precisazione ancora più netta tra scisma ed eresia la dà Sant’Agostino, questa volta dal punto di vista teorico: l’eresia viola la fede; lo scisma spezza il vincolo della carità fraterna (De fide et symb. 10,2). Siamo nel 393. Lo stesso egli ripeterà nel 420 (Contra Gaudentium, 2,9). Ma intorno al 406 per difendere la costituzione dell’imperatore Onorio, che sottoponeva gli scismatici donatisti alle medesime pene sancite contro gli eretici, Sant’Agostino espresse l’idea che ogni dissenso, se pertinacemente protratto, diventa per questo solo motivo una eresia (Contra Cresconium, I I , 7-9). – San Girolamo in un testo divenuto famoso nel Medio Evo, ha le idee altrettanto nette, anzi più esatte ancora di S. Agostino: « Tra l’eresia e lo scisma pensano che ci sia questa differenza, che l’eresia tiene un domma perverso, lo scisma per dissensione episcopale si separa dalla Chiesa: il che si può in certo modo capire al suo inizio. Però non c’è nessuno scisma che non si foggi una eresia, per sembrare che si è separato dalla Chiesa giustamente » (In epist. ad Titum, 3,10-11). Così Girolamo, più acutamente di S. Agostino, osserva che non la durata fa diventare lo scisma una eresia, ma è lo scisma a fabbricarsi una eresia, per giustificare la sua secessione dalla Chiesa universale. Sono queste le idee che la Scolastica, quando formerà la grande sintesi teologica, in cui si definisce e distingue scisma ed eresia, troverà dinanzi a sé. – C’è anche da aggiungere che ormai con S. Agostino lo scisma è stato riferito, non solo alla Chiesa universale in genere, come aveva fatto S. Cipriano, ma alla Chiesa romana in particolare, che, quale Sede Apostolica per eccellenza, è il criterio pratico, unico e centrale, dell’unità della Chiesa universale (Epist. 43,7; 52,3). Già prima di lui, fin dal II secolo S. Ireneo aveva scelto questa referenza esplicita alla Chiesa romana come segno e criterio della vera tradizione. Ottato di Milevi, poco prima di S. Agostino, chiama scismatico chiunque osi contrapporre la propria sede episcopale a quella di Roma (De schismate donat., II, 2). – Ecco lo scisma assumere il significato più pratico di «scissione dalla Chiesa Romana, ribellione al Papa ». È questo il senso che avrà ormai per sempre. Quando col sec. XI l’Occidente vivrà una vita ecclesiastica praticamente separata da quella dell’Oriente, la rEferenza al Papa diventerà essenziale ed esclusiva.

Lo SCISMA SECONDO LA TEOLOGIA.

1. Nozione cattolica.

– « Scismatici sono detti coloro che rifiutano di sottostare al Sommo Pontefice e coloro che ricusano di comunicare coi membri della Chiesa a lui sottomessi ». Questa è la definizione data da S. Tommaso a conclusione del suo articolo in cui considera lo scisma come peccato speciale (Somma, II-II q. 39, a. 1). La stessa definizione, quasi con le stesse parole, dà il Codice di Diritto Canonico (can. 1325, § 2). Lo scisma, dice San Tommaso, è peccato speciale perché si oppone alla carità principio formale della comunione ecclesiastica, cioè di quell’unità ecclesiastica per cui tutti i Cristiani vivono in pace vicendevole e spirituale come membri della medesima e inscindibile Chiesa. Quest’unione ecclesiastica ha un duplice aspetto: da una parte è comunione dei singoli membri fra loro, dall’altra è ordine di tutti i membri verso un solo capo, lo stesso Cristo, di cui fa le veci il Sommo Pontefice. – Commette, pertanto, peccato di scisma, sia chi rigetta l’autorità del Sommo Pontefice sia chi si stacca da uno dei membri della Chiesa comunicante con il Sommo Pontefice (Somma II-II, q. 39, a. 1). Il Sommo Pontefice è, per San Tommaso, l’ultimo criterio pratico di comunione e d’unità. Criterio importantissimo; ma non esclusivo. Perché anche chi si stacca da una Chiesa locale, rifiutando l’obbedienza al proprio Vescovo, in quanto questi fa parte della Chiesa universale, è scismatico. L’antica visione dello scisma nel quadro della Chiesa locale viene così accolta e inserita, ma non sommersa, nel nuovo quadro più vasto della Chiesa universale. L’unità da cui lo scismatico si stacca è concepita da S. Tommaso come una unità, non sostanziale, quale è ad esempio quella del corpo umano, ma un’unità di ordine e di relazione, propria di ogni società. L’unità della società civile scaturisce dalle mutue relazioni suscitate dalla ricerca del bene comune da parte di tutti i membri di essa. Così anche l’unità della Chiesa, benché costituita da valori superiori, nasce dalle mutue relazioni derivanti dalla ricerca del loro bene soprannaturale, dalla ricerca comune di attuare il Corpo Mistico di Cristo. Come nella società civile, la ricerca del fine comune si attua sotto la guida d’una autorità, così l’unità della Chiesa, in quanto relazioni di membri al capo, si attua quando il capo dà a ogni membro ciò che gli conviene e quando i membri regolano la loro attività spirituale di fede, di carità, di mutuo aiuto, ecc. secondo le norme sancite dal capo (Somma, ivi; cfr. In IV Sent., dist. 24, q. 3, a. 2, sol. 2; Commen. in Eph., c. 4, lect. 1; Commen. in Coloss., c. 1, lect. 5; Somma II-II, q. 183, a. 2, ad. 1; Commen. in 1 Cor., c. 12, lect. 2). – Il Caietano, commentando San Tommaso, nota con acume che, in ultima analisi, l’unità della Chiesa è opera dello Spirito Santo, « il quale, ripartendo i doni secondo il suo beneplacito, ha voluto che la Chiesa Cattolica, cioè universale, fosse unica e non frazionata. Di conseguenza, Egli muove ciascuno dei suoi membri a comportarsi nelle sue azioni interiori ed esteriori come parti di un tutto (ut partes unius), per questo tutto, e conformemente a questo tutto. Ogni fedele, infatti, sa dalla sua fede che egli è membro della Chiesa, ed è come membro della Chiesa che egli crede, spera, amministra o riceve i Sacramenti, insegna o apprende, ecc. Ed è per la Chiesa ch’egli fa ciò, come parte per il tutto, cui appartiene tutto ciò che egli è » (In II-II, q. 39 a. 1, n. 2). Così, secondo la precisazione del Caietano, l’unità della Chiesa è costituita, più che dai medesimi Sacramenti o dalle medesime virtù teologiche, più che dalla unione derivante da uno stesso governo, dall’assoluta comunione di animi e di cuori, frutto di quella carità che è opera dello Spirito Santo, per la quale tutti i membri si regolano secondo le norme dettate dal capo e vivono secondo queste norme per il tutto. Scismatico è, allora, chi rifiuta di agire come parte (ut pars), per volere pensare, agire, vivere, non nella Chiesa e per la Chiesa, ma come essere autonomo, il quale determina da solo e per sé solo una propria legge di pensiero, di azione e di vita. Osserva ancora il Caietano che il peccatore, pur avendo perduto la carità, non è ancora uno scismatico, perché sebbene abbia perduto la radice della comunione ecclesiastica, tuttavia conserva ancora le regole dell’unione, in quanto agisce ancora ut pars. Insomma, il Cristiano che ha perduto col peccato la carità, non diventerà scismatico se non offenderà la carità in quanto forma l’unione della Chiesa (Ivi, n. 3).

2. Nozione di scisma secondo i dissidenti.

– Occorre notare subito che tali idee sulla natura dello scisma rispondono al punto di vista cattolico, secondo cui la Chiesa è un corpo visibile, gerarchicamente costituito sotto la guida del Romano Pontefice. Per i protestanti propriamente detti, i quali negano la visibilità della Chiesa e la sua costituzione gerarchica, lo scisma è una rottura, non meglio definita, dei legami spirituali fra le comunità cristiane. Gli anglicani e gli « ortodossi » ammettono la visibilità della Chiesa e della sua comunione ecclesiastica, ma negano una autorità universale, la quale possa costituire l’organo e il criterio della sua unità. È la confederazione delle Chiese particolari, aventi la stessa fede fondamentale, gli stessi essenziali sacramenti, che costituisce l’universalità e l’unità della Chiesa. Per gli anglicani, i quali concepiscono la confederazione come risultante dalla comunione delle varie diocesi, si commette peccato di scisma quando si rifiuta l’autorità del vescovo della propria diocesi o quando si celebra a un altare eretto contro la sua autorità … Per gli ortodossi, i quali concepiscono la confederazione come risultante della comunione fra le Chiese nazionali, è scismatico chi si separa dalla propria Chiesa nazionale. Per quanto riguarda la separazione fra la Chiesa romana e loro, non parlano di scisma ma di eresia, giacché imputano alla Chiesa latina non pochi errori.

3. Gravità dello scisma.

– La gravità essenziale dello scisma — a prescindere dalle circostanze in cui è prodotto — va misurata come quella di qualsiasi altro peccato, dal suo oggetto: più grande è il bene di cui esso è la negazione, più profonda è la sua gravità. Ora, lo scisma attenta al più grande fra i beni creati: il comune fine soprannaturale dell’umanità, realizzato in terra dalla comunione ecclesiastica. Lo scisma, opponendosi a questo fine soprannaturale, rompe l’unità della Chiesa. – La Chiesa è raffigurata nella S. Scrittura, nei Padri e nella Tradizione come una unità organica, simile a un regno, a un corpo, destinato a un fine soprannaturale. Lo scisma viola questa unità organica, reca frattura al « grande e glorioso Corpo di Cristo », come si esprime Sant’Ireneo (Adv. hæreses, IV, 37,5). – La Chiesa è una società di fedeli (societas fidelium), costituiti e viventi in perfetta comunione spirituale. Ma, se questa. comunione. è anzitutto ed essenzialmente spirituale, essa è tuttavia realizzata in un corpo visibile cioè nella vita societaria collettiva dei suoi membri presi insieme. È comune vita teologica, liturgica, morale, contemplativa, di vicendevole aiuto sociale ed ecclesiastico. L’impulso di questa vita comune proviene dall’autorità, che ne è il principio d’unità. Chi nega sia l’autorità ecclesiastica — quella cioè dei capi visibili della Chiesa e del suo capo supremo, il Sommo Pontefice — sia la comunione tra i membri della Chiesa, promossa, assicurata e misurata dalla loro unione ai capi, si esclude automaticamente dai benefici di questa comunione ecclesiastica. – Lo scismatico diventa allora come un membro reciso dal capo, un ramo staccato dall’albero, cui non giunge più la linfa vitale che proviene dal tronco e dal cuore. Per questo motivo alcuni Padri e Dottori dicono che lo scisma è il più grave peccato (ad esempio San Bernardo, Epist. 219). Anzi Sant’Agostino, portando dei paragoni, dice esplicitamente che lo scisma è più grave dell’idolatria e dell’infedeltà (Epist. 51,1-2; De baptismo contra Don., I , 8,10). Essi partono dalla considerazione del gravissimo castigo inflitto da Dio agli scismatici, come Core, Dathan e Abiron, per i quali la terra si apri inghiottendoli (Num, XVI,28-35); mentre, in paragone, al peccato di bestemmia è riservata la sola lapidazione (Lev., XXIV,14-16). – Ma, in una rigorosa sistemazione teologica, la quale considera ogni peccato in sé e non nelle circostanze in cui è avvenuto, la quale sa vedere negli esempi biblici il loro carattere prevalentemente didattico e non scientifico, l’affermazione dei Padri non trova motivazione logica. Essa va intesa o corretta nel senso che lo scisma è il più grave fra i peccati opposti ad un bene creato, precisamente il più grave dei peccati esterni contro il prossimo (SAN TOMMASO, Somma II-II, q. 39, a. 2; in IV Sent., dist. 13, q. 2, a. 2, ad 4; De malo, q. 2, a. 10). Altri peccati vanno considerati ancora più gravi dello scisma: quelli che si oppongono a un bene increato. Così, il più grave fra. tutti i peccati è l’odio contro Dio, perché si dirige contro lo stesso Sommo Bene (SAN TOMMASO, Somma, II-II,’ q. 34, a. 2; cfr. ivi, a. 4).

4. Scisma e disubbidienza.

– Lo scisma comporta sempre anche un peccato di disubbidienza. Ma, non ogni peccato di disubbidienza contro l’autorità della Chiesa è un peccato di scisma. La disubbidienza che comporta lo scisma è accompagnata, dalla ribellione pertinace all’autorità ecclesiastica legittima: « Costituisce l’essenza dello scisma la disubbidienza ai precetti accompagnata da una certa ribellione. Dico « con ribellione »: il che avviene quando si disprezza con ostinazione (pertinaciter) i precetti della Chiesa e si rifiuta dì piegarsi al suo giudizio » SAN TOMMASO, Somma, II-II, q. 39, a. 1, ad 2). – Il Caietano con tre chiari esempi precisa di che disubbidienza si tratti. Quando qualcuno si rifiuta di osservare i precetti del superiore per il loro contenuto, che in quel momento non piace o non conviene, senza però mettere in causa né l’autorità né la persona del superiore, commette un peccato di semplice disubbidienza, anche se si tratta dell’autorità della Chiesa, ma non di scisma: così, quando, nei secoli scorsi, il Papa comandava di astenersi da una guerra o di restituire uno stato ingiustamente occupato, chi disubbidiva errava gravemente, ma non poteva essere detto scismatico. Quando qualcuno rifiuta di sottostare ai precetti del superiore mettendo in causa la sua persona, ma rispettando la sua funzione in se stessa, come quando, per una ragione o l’altra, sospetta della sua stessa persona o della sua competenza o della sua legittimità, disubbidisce, anche se si tratta della autorità della Chiesa, ma non è scismatico: così chi disubbidisce a un comando del Papa, perché crede che egli governa in modo tirannico, non è da considerarsi scismatico. – Quando, invece, il rifiuto di ubbidire si riferisce all’autorità stessa e alla funzione del capo ecclesiastico, considerata e conosciuta come tale, allora e solo allora si verifica il peccato di scisma: « Cum quis autem Papæ præceptum vel iudicium ex parte sui officiì recusat, non recognoscens eum ut superiorem, quamvìs hoc credat, tunc proprie scismaticus est » (In II-II, q. 39, a. 1, n. 7). La precisazione del Caietano, molto acuta, serve da sola a sfatare la asserzione di quegli autori moderni i quali sostengono che, una volta definito dal Concilio Vaticano il primato del Romano Pontefice, non è più possibile uno scisma senza eresia. Chi pertinacemente e volontariamente nega che il primato del Romano Pontefice sia un domma da credersi da tutti i fedeli, commette un peccato di eresia. Ma, chi, pur credendo al primato del Papa, rifiuta di sottomettersi ai suoi ordini legittimi e si considera praticamente come un essere ecclesiasticamente autonomo, non agisce cioè « ut pars » della comunione ecclesiastica, direbbe il Caietano, commette semplicemente un peccato di scisma puro: separatosi così dalla comunione ecclesiastica, la linfa vitale proveniente dal centro della Chiesa non può più giungere fino a lui, sebbene non sostenga alcuna eresia. Praticamente sarà magari indotto a sostenere una eresia per giustificare il suo modo di agire, ma ciò non toglie la possibilità, almeno teorica, di uno scisma senza eresia. – Del resto questi due concetti, di scisma e di eresia, e i loro rapporti, vanno meglio precisati.

5. Scisma ed eresia.

– Oltre allo scisma, anche l’eresia rompe l’unità ecclesiastica, e separa i suoi fautori dalla comunione ecclesiastica. I due peccati non vanno, tuttavia, confusi. La loro distinzione è, del resto, teoricamente facile, essendo differente l’oggetto formale dei due atti: l’eresia si oppone alla fede, lo scisma si oppone alla comunione ecclesiastica nata dalla carità. Si può essere scismatici senza essere eretici, quando cioè non si sostiene pertinacemente alcun errore contro la fede, ma si nega solo o l’autorità della Chiesa o la comunione ecclesiastica. – L’eretico, al contrario, è anche scismatico; perché nega il fondamento radicale su cui si basa la comunione ecclesiastica, la verità cioè rivelata da Dio e proposta autenticamente come tale dalla Chiesa. Pertanto, tutte le eresie possono essere considerate anche come scismi (l’elenco storico degli scismi del seguente articolo va intesa in questo ampio senso); ma non tutti gli scismi possono essere detti eresie. Si chiama scisma puro quello in cui al pertinace rifiuto dell’autorità della Chiesa non si aggiunge alcun errore contro la fede; si dice scisma misto quello in cui si aggiunge la negazione pertinace di una o più verità definite dalla Chiesa e. proposte, ai fedeli come dommi di fede. Tutti gli autori, seguendo la vecchia osservazione di S. Girolamo (In Epist. ad Titum, 3,10-11), fanno notare che lo scisma trascina verso l’eresia, giacche ogni scismatico tende a giustificare la sua secessione dando vita a una eresia. La storia della Chiesa è là a dimostrare che difficilmente si trova uno scisma, il quale non sia accompagnato, almeno successivamente al suo inizio, da una eresia. Quando si dice che lo scismatico e l’eretico rompono, mutilano, sovvertono l’unità della Chiesa, s’intende che è in loro stessi — e in tutti quelli che con la stessa conoscenza e la stessa pertinacità li seguono — ch’essi la rompono, la mutilano, la sovvertono. In se stessa la Chiesa è indivisibile, inseparabile, immortale. La Chiesa può cessare di far giungere la sua linfa vitale ad alcuni uomini o ad alcuni gruppi umani, ma perché questi si sono staccati volontariamente dalla sua unità organica di Corpo e di Anima.

6. Scisma interno e scisma esterno;  scisma occulto e scisma pubblico.

– Lo scisma è interno se la negazione della comunione ecclesiastica o dell’autorità della Chiesa risiede solo nell’animo, e non è accompagnato da alcun segno esterno. È, invece esterno, se è manifestato con qualche segno esteriore, per esempio con parole o con scritti. Lo scisma esterno, cioè manifestato con parole o con qualche scritto, è considerato occulto, se queste manifestazioni esterne non sono a conoscenza di alcuno, per esempio se uno ha pronunziato da solo quelle parole o non ha mai mostrato a nessuno i suoi scritti, e anche se sono a conoscenza di ben poche persone. Se invece è ormai noto a molti, in modo che non si può nascondere, è scisma pubblico. La distinzione tra scisma interno ed esterno interessa principalmente il Diritto Canonico, perché per incorrere le pene ecclesiastiche sancite contro gli scismatici è necessario l’atto esterno dello scisma, dato che la Chiesa non suole punire se non gli atti esterni. Anche la teologia, tuttavia, si interessa a questa distinzione, a causa del problema se basta il peccato di scisma puramente interno ad escludere un battezzato dalla Chiesa. Qualche teologo, come Th. Spàcil, lo sostiene, considerando l’appartenenza alla Chiesa da un punto di vista anzitutto interiore e morale. Ma la maggior parte dei teologi, e sono quelli di più gran nome, come Cano, Soto, Bellarmino, D. Palmieri, Mazzella, d’Herbigny, G. Philipps, considerando l’appartenenza alla Chiesa da un punto di vista anzitutto sociale e giuridico, lo negano, affermando che gli scismatici puramente interiori rimangono membri della Chiesa, allo stesso modo dei comuni battezzati peccatori. Questi scismatici interni, se pur nell’intimo del loro cuore non amano più la comunione ecclesiastica, ne subiscono tuttavia ancora gli obblighi, e, trascinati dall’ambiente, potranno più facilmente tornare a riceverne tutti i benefici con un ritorno anche interiore all’unità.

7. Scisma materiale o scisma come stato.

– Fin qui lo scisma è stato considerato come l’atto positivo, cosciente e pertinace, di chi rifiuta di sottomettersi all’autorità della Chiesa o di comunicare coi membri della Chiesa. Ma chi dovesse aderire a uno scisma in buona fede o chi fosse nato in una Chiesa separata da quella cattolica, può essere detto scismatico? L’uso popolare lo dice « scismatico in buona fede », considerando lo scisma non più un peccato, ma uno stato. L’espressione è quanto mai impropria, anzi assurda nella sua intima contraddizione, perché attribuisce un peccato (e che grave peccato) a chi non ha commesso questo peccato. Allo scisma si richiede, infatti, quella pertinacia, la quale è negata dalla supposta buona fede. La teologia recente usa chiamarlo, allora, con espressione non troppo elegante, uno scismatico materiale, riservando il titolo di scismatico formale a chi ha veramente commesso personalmente il peccato di scisma. La distinzione è divenuta d’uso comune tra i moralisti ed è conosciuta anche dal Diritto Canonico. Tuttavia, questi cosiddetti « scismatici materiali », particolarmente quelli nati nelle Chiese orientali — alla cattolica tanto vicine per la sostanza della fede e dei mezzi della grazia e del valido sacerdozio — avendo ricevuto validamente il Battesimo, e col Battesimo la grazia e le virtù infuse, appartengono fin da bambini al corpo e all’anima della vera Chiesa, allo stesso modo dei bambini nati nella Chiesa Cattolica. Quando essi arrivano all’uso di ragione e all’età della deliberazione, nutriti dalla profonda efficacia dei sette sacramenti e da una fervida linfa liturgica, non sapranno discernere, fra tanta chiarezza di fede e tanto amore, quel che di falso e di tenebra è loro pervenuto come patrimonio d’uno scisma commesso lontano nei secoli. Accetteranno, allora, in blocco questa eredità dell’antico scisma, il quale diventerà per loro un puro stato, un modo di essere, acquisito involontariamente. Ma, non cesseranno per questo di appartenere alla vera Chiesa. Perché dare, allora, questo nome di scismatici, così odioso e infamante, anche se attutito dall’aggettivo «materiali», a chi non è scismatico? I documenti ufficiali della Santa Sede danno ormai alle Chiese orientali e ai suoi fedeli il nome di « dissidenti ». Ecco il titolo adatto a sostituire il termine di « scismatici materiali ».

LO SCISMA SECONDO IL DIRITTO CANONICO,

– 1. Scisma come delitto.

– Il Diritto Canonico s’interessa allo scisma soprattutto come delitto, cioè come « esterna e moralmente imputabile violazione di una legge o precetto, alla quale sia annessa una sanzione penale » (can. 2195, § 1). Dopo aver dato la definizione di scismatico da noi riportata sopra (can. 1325, § 2), il Codice di Diritto Canonico enumera lo scisma tra i delitti (can. 2314, § 1,1°). Perché uno sia reo di vero e proprio delitto di scisma si richiede:

a) una manifestazione esterna, non necessariamente pubblica, ma basta solo occulta, purché abbia il carattere di un rifiuto che possa essere contestato;

b) un atto moralmente imputabile. Pertanto è necessaria la piena conoscenza e la perfetta libertà della volontà. Ogni diminuzione della conoscenza o della libertà, poiché toglie l’imputabilità morale, toglie anche l’essenza del delitto. Non basta, quindi, la colpa meramente giuridica, ma si richiede una colpa morale grave. – Praticamente, quanto alla conoscenza, il soggetto deve sapere che la Chiesa romana è la sola vera Chiesa di Cristo e che il Sommo Pontefice è il suo capo visibile a lei assegnato per diritto divino. – Quanto alla libertà della volontà, il soggetto deve spontaneamente e pertinacemente staccarsi dalla comunione ecclesiastica col rifiuto di essa o col rifiuto di sottomettersi alla autorità della Chiesa. Basta, però, questo rifiuto pertinace, anche se egli non ha dato il proprio nome ad alcuna setta scismatica o non ne ha fondata una sua. Colui che ha già dato il nome a una setta scismatica in buona fede, commette il delitto di scisma al momento che, venuto in qualsiasi modo a conoscenza che quella setta non fa parte della vera Chiesa di Cristo, si ostina tuttavia a rimanervi. Segue chiaramente da ciò che a tutti i cosiddetti « scismatici materiali » mancano i requisiti perché si parli d’un loro delitto di scisma, a norma del Codice di Diritto Canonico. Pertanto essi non sono colpiti da alcuna pena. Perché, infatti, siano applicate le pene sancite per il delitto di scisma, si richiede, oltre la piena avvertenza e la libertà dell’atto, anche il disprezzo della legge, la contumacia, la quale nel caso è già implicita nella sua stessa trasgressione pertinace (can. 2242, § 1, 1° e § 2).

2. Pene ecclesiastiche sancite per lo scisma.

– Sono le stesse sancite per l’eresia. La pena principale è la scomunica riservata speciali modo alla Sede Apostolica (can. 2314, § 1, 1° e § 2). Dopo un avvertimento infruttuoso, lo scismatico deve essere privato dei benefici, dignità, pensioni, uffici o privilegi che eventualmente aveva nella Chiesa; deve anche essere dichiarato infamis; e, se chierico, dopo una nuova ammonizione infruttuosa, deve essere deposto (ivi, § 1, 2°). L’infamia giuridica, che si incorre, come in questo caso, dopo la sentenza del giudice, o ipso facto, come nel caso successivo, comporta l’irregolarità riguardo al ricevimento degli ordini sacri o per difetto o per delitto (can. 984, 5° e 985, 1°), l’inabilità a ottenere ed esercitare ogni ufficio o beneficio o dignità, e la proibizione di esercitare il ministero ecclesiastico nelle sacre funzioni (can. 2294). Se lo scomunicato ha dato pubblicamente il nome a una setta eretica è ipso facto infamis, e, se è chierico, dopo una nuova ammonizione infruttuosa, deve essere degradato (can. 2314. § 1., 3°). – ‘Lo scismatico, inoltre, non può essere padrino nel Battesimo e nella Cresima di Cattolici (can. 765, 2° e can. 795, 2°). – Non si può trasmettere validamente a uno scismatico il diritto di patronato (can. 1453, § 1); se gli viene trasmessa la proprietà della cosa cui è annesso il diritto di patronato, il diritto di patronato relativo resta sospeso (ivi, § 3). Lo scismatico incorre nella irregolarità ex delicto quanto al ricevimento degli ordini sacri (can. 985, 1°). È privato della sepoltura ecclesiastica (can. 1240, § 1, 1°) e gli si debbono rifiutare sia la Messa funebre, anche anniversaria, sia tutti gli uffici funebri (can. 1241). Però, le Messe private, se è tolta ogni occasione di scandalo, possono essere applicate per lui.

3. Scisma come stato o scisma materiale.

– Dicevamo sopra che questo concetto non è ignoto al Diritto Canonico. Il can. 731, § 2 dice: «È proibito amministrare i sacramenti della Chiesa agli eretici o scismatici, anche se errano in buona fede, ed anche se li chiedono se prima, rigettati i loro errori, non si siano riconciliati con la Chiesa ». Questo canone contiene due proibizioni di natura assai differente. La prima vieta l’amministrazione dei Sacramenti ai veri eretici e ai veri scismatici, a quelli cioè macchiatisi del relativo delitto. È una proibizione di natura penale: una conseguenza della scomunica. Tutti i veri eretici e i veri scismatici sono allontanati dai Sacramenti (can. 2260, § 1), perché tutti costoro sono scomunicati (can. 2314, § 1). – L’altra proibizione, invece, non è affatto di natura penale, ma nasce da un ostacolo naturale (can. 87). Trattandosi di soggetti che non hanno commesso il delitto, non li si può colpire con alcuna pena. Tuttavia una norma di sana prudenza vieta che l’errore, anche se non imputabile, e la verità possano venire confusi insieme. – La duplice considerazione di scisma come delitto e scisma come stato è implicita in altri canoni che vietano la communicatio in sacris (can. 1258 e can. 2316). – La proibizione dell’amministrazione dei sacramenti anche agli scismatici « materiali » (can. 731, § 2) è senza dubbio grave, ma deve essere benignamente interpretata in caso di estrema necessità e anche in alcuni casi di particolare gravità in cui la legge divina della carità richiede di prevalere sulla legislazione positiva ecclesiastica. Se altri beni della Chiesa, ad esempio le benedizioni, possono essere date agli acattolici in genere per ottenere loro la luce della fede e con essa, in certi casi, anche la sanità corporale (can. 1149), non c’è motivo di dubitare che anche i Sacramenti possono essere amministrati agli « scismatici materiali » per assicurare o facilitare la loro salvezza eterna. – In pratica, è certo che a uno « scismatico materiale » moribondo e privo di sensi si possono conferire i Sacramenti, sotto condizione; se, invece, egli è ancora in sensi, il decreto del Sant’Officio del 15 nov. 1941 (cfr. Monitor Eccl. 1942, p. 117) richiede che nel modo migliore, secondo le circostanze, rigetti almeno implicitamente gli errori e faccia professione di fede; tuttavia di fronte al timore che la sua buona fede possa venire profondamente turbata, si può procedere ugualmente al conferimento dei Sacramenti, sempre che egli stesso li abbia chiesti. – E severamente proibita ai Cattolici qualunque partecipazione attiva in sacris con gli scismatici (can. 1258). Le pene sancite contro i Cattolici trasgressori sono gravissime: essi sono sospetti di eresia (can. 2316), anzi se entro sei mesi non si sono ravveduti vanno considerati eretici e sottomessi alle stesse pene di costoro (can. 2315), compresa la scomunica (can. 2314, § 1).

NECESSITÀ DI STRINGERSI A GESÙ CRISTO

NECESSITÀ DI STRINGERSI A GESÙ CRISTO

[P. V. Stocchi: Discorsi Sacri; Tip. Befani, Roma, 1884,]

DISCORSO I.

“Accipite armaturam Dei, ut possitis resistere  in die malo et in omnibus perfecti stare”.

(Ephes. VI, 13)

Chi consideri quello svariatissimo tenore di provvidenza, onde si è Dio compiaciuto di governare le sorti della sua Chiesa, fra le incessanti burrasche che l’hanno sempre bersagliata e tuttavia la bersagliano, vedrà che se l’essere e il mostrarsi cristiano non di solo nome ma di opere, non è stato mai cosa facile, neppure è stato sempre difficile allo stesso modo. Imperocché Colui che manda come gli piace e si fa obbedire ai venti ed al mare, alle volte infrenando per così dire i turbini, e tenendo alla catena le tempeste, ha voluto che le cose passassero, tranquille, e il vivere dei Cristiani fosse come viaggio di nave in bonaccia, senza altre scosse ed altri barcollamenti che quelli che porta seco necessariamente l’instabilità di questo mare del secolo: altre volte per lo contrario licenziando i venti, e lasciandoli irrompere a sconvolgere il pelago e levare i flutti alle stelle: ha permesso che nel Cristianesimo tutto andasse in sommossa, in iscompiglio: di sorte che fosse necessaria gran forza di animo, gran perizia e gran lena per giungere a riva fra tanto dibattersi di onde e flagellar di marosi. Ora a quel modo che un naviglio di saldezza mediocre e scarsamente arredato basta a valicare il golfo e afferrare il porto quando o il mare è spianato, e l’aria è mite, o se tempesta, la traversia non è né lunga né formidabile, ma per durare contro la rabbia diuturna di un pelago infellonito è mestiere al legno di fianco valido e di robusta armatura: cosi nel Cristiano, sino quando è pace e sereno, con una virtù ordinaria si giunge a riva, ma nelle prove, nelle tenzoni, nelle burrasche ci vuole qualche cosa di più, e bisogna trovarsi bene stretti e congiunti con Gesù Cristo, chi non vuole essere dalla furia del vento traboccato e sommerso. Stando così le cose, io non credo che nessuno vorrà negarmi, che il vivere cristianamente costi più, e più sia difficile ai giorni nostri, di quel che fosse al tempo dei nostri padri, e che per conseguenza sia ai giorni nostri necessaria una virtù più robusta per serbarsi fedele a Gesù Cristo e salvarsi l’anima; ma se alcuno ci fosse che o lo rivocasse in questione o non lo credesse, io mi son posto in animo di persuaderglielo con questo discorso, tenendo per fermo che chi attenderà potrà cavare dalle mie parole quel prò, che cava il passeggero dall’aver conti ed aperti i pericoli della via e non trovarsi sprovveduto al bisogno. – Mostrerò dunque che chi vuole scampare alle seduzioni e all’insidie di questo secolo, e salvarsi l’anima, conviene che si stringa fortemente con Gesù Cristo: e che i fiacchi e i rilenti nella sequela del Salvatore saranno facilmente rapiti dal vortice e periranno. Le prove saranno chiarissime, e, se tanto mi è lecito di promettere, irrepugnabili: dunque attendetemi e incomincio.

1. Ma per non mettere il piede in fallo nella dimostrazione che mi sono proposta, credo opportuno di richiamar qui subito alla memoria di chi mi ascolta, quello che del nostro Signore Gesù Cristo disse S. Paolo con divina energia in quelle poche parole; Jesus Chrìstus fieri et hodie, tpse et in sæcula. (Hebr. XIII, 8.). Il che vuol dire che Gesù Cristo non fa come fanno gli uomini e come fa il mondo, i quali si accomodano ai tempi, e secondo le circostanze mutano le massime, i divisamenti, le leggi, i pensieri e gli affetti. No. Gesù Cristo tale è oggi quale fu ieri, e senza mutazione nessuna sarà tale in perpetuo. Può quindi il mondo e scompigliarsi e quietare, e ricomporsi ed insorgere, a modo della marea: possono gli uomini aborrire oggi quello che amarono ieri, e gittar domani nel fango quell’idolo che oggi innalzarono, e a cui testé ardevano incenso, accumulare sul capo il vituperio e la contumelia; Gesù Cristo immobile in mezzo a tanta vicenda, signoreggia tutte le mutazioni, le doma, le tempera, le regola, le disperde, a somiglianza di una rupe, che piantata ed eretta in mezzo all’oceano, aspetta imperterrita e sfida l’orgoglio dei marosi i quali siano grandi quanto si vuole, forza è che spumeggiando le si infrangano ai piedi l’uno dopo l’altro, e svaniscano. È per conseguenza un conato non solamente inutile ed empio, ma folle e ridicolo quello di coloro, che non avendo tanta lena di fianco per sollevar se medesimi all’altezza del Vangelo, si sforzano di abbassare il Vangelo alla propria abbiettezza, e argomentandosi di far complice delle loro codardie il Verbo fatto carne, cercano di persuadere a sé medesimi e agli altri, che Gesù Cristo non Badi tanto per la sottile, cosse suol dirsi ai dì nostri, e chiuda gli occhi rispetto a cene cose, che il Vangelo condanna, ma la snoda e il costume mettono in voga ed accreditano. Follie uditori, follie: cœlum et terra transibnnt. Vedete la terra? Vedete i cieli? Che si può pensar di più saldo, di più immutabile? Governati da leggi stabilissime ruotano da tanti secoli nello spazio, e sull’orbita e sulla traccia segnata loro da Dio viaggiano e viaggeranno. Eppure verrà giorno che questa gran macchina scrosci scompaginata e trapassi, ma neppur una trapasserà delle mie parole, disse Gesù: verba autem mea non prœteribunt, (Luc. XXI 33.) – Muti dunque il mondo quanto vuole, le verità insegnate da Gesù Cristo non mutano: imbizzarrisca a sua posta e si trasformi e insolentisca la moda, le leggi di Gesù Cristo son sempre quelle: sempre il medesimo debito di osservarle corre per tutti, e sotto la stessa sanzione. E qual sanzione? Del paradiso per gli obbedienti e delle eterne fiamme per i trasgressori.

2. Fermato bene questo gran punto veniamo a noi, e consideriamo onde avvenga, che una legge intimata da Dio medesimo agli uomini e con allettamenti di premi cosi grandi per chi la guarda, e con minacce di supplizi cosi formidabili per chi la conculca, sia stata e sia cosi poco osservata, che dico poco osservata? dovevo dire baldanzosamente trasgredita, vilipesa. La ragione la troveremo nelle passioni corrotte del cuore umano: alle quali se l’uomo dia il governo di sé medesimo, come cavallo sboccato ed indomito a cui il cavaliere abbia lasciato sul collo la briglia, lo porteranno senza fallo ad infrangersi nel precipizio; che è quello che disse lo Spirito Santo nell’ Ecclesiastico: si præstes animæ tuæ concupiscentias ejus faci et te in gaudium inimicis tuis: (Eccli. XVIII, 31.) se ti lascerai tirare agli appetiti sregolati del cuore, diverrai lo scherzo e il ludibrio dei tuoi nemici. – Ora se confronto il nostro secolo coi secoli antipassati, trovo che. in quelli come nel nostro abbondarono gli schiavi delle passioni, perchè sarebbe uno stolto chi pensasse che gli uomini abbiano cominciato ora a mostrarsi quei figliuoli che sono di Adamo prevaricatore. Con tutto ciò nessuno potrà negarmi, che se le passioni imperversavano per lo passato come al presente, era pel passato più assai che non al presente conosciuta e pregiata la mortificazione. Sì: gli schiavi medesimi delle passioni sapevano e intendevano che l’uomo sensuale e perduto dietro ai piaceri che appagano la parte animalesca non è cristiano altro che di nome; onde se non avevano animo di imitare coloro, che battevano la via segnata da Gesù Cristo li pregiavano e li onoravano, e questo non era poco. Non era poco, perché temperava e debilitava lo scandalo, mentre i godenti inchinandosi in faccia ai mortificati, facevano una quasi protesta di esser del numero dei primi, per non aver tanto di valore quanto faceva mestieri per mettersi coi secondi: non era poco, perché tagliava i nervi al rispetto umano, e operava che nessuno dovesse vergognarsi di essere e mostrarsi seguace del Crocifisso: non era poco, perché induceva gli stessi voluttuosi a praticare a quando a quando qualche opera di mortificazione cristiana, e pungeva i loro cuori di una spina continua; onde date giù le passioni, sfiorita la gioventù, sottentrato alle illusioni il disinganno, alle fallacie la verità, alle lusinghe della presente le speranze e i timori della vita futura, era ordinario vedere uomo morigerato chi fu giovane dissoluto, e vecchio pio e cristiano, chi fu uomo di bel tempo e arnese di mondo: non era poco finalmente, perché faceva, se non amabile, tollerabile almeno ed anche soave la loro condizione ai privi dei beni della terra, e agli sforzati a campar la vita stentatamente con l’opera delle mani e con il sudor della fronte, molceva gli affanni mantenendo viva nei loro cuori la consolazione della speranza cristiana. Ma che segno, che traccia resta oggimai nel mondo di mortificazione, di vittoria di sé medesimo, di abnegazione che traccia resta? Una smisurata sensualità invade e corrompe ogni cosa. Si vuol godere, e goder sempre e goder da tutti. E secondo questo desiderio tutto il mondo è pieno di templi, dove si arde incenso continuo alla voluttà. Godere, ed eccovi moltiplicati i teatri, teatri per le ore notturne, teatri per le diurne: teatri nobili e dispendiosi che smungano l’oro dell’agiato e del ricco, teatri umili ed abbietti, che si appaghino dell’obolo dell’artigiano e del povero. Godere, e i passeggi ribollono: godere, e 1- spesseggiano : godere, e non han posa le musiche: godere, e qua si legge a vil prezzo ogni lordura ed oscenità di romanzo; godere, e là si schiudono casini di giuoco e ridotti di gozzoviglia: insomma quel che aiuta a godere tutto è buono, quel che lo impedisce tutto è cattivo; ogni invenzione che può fruttare un godimento di più al corpo oramai svogliato fradicio di delizie consuete si applaude; ogni trovato che intenda ad ingentilire la miglior parte di noi, l’intelletto, o non si cura o si vilipende. Gode il dovizioso, e per godere getta nel vortice insano di mille inezie l’avito retaggio. Quegli che ha mezzane le facoltà, si spolpa e si riduce nella paglia per godere: chi è costretto rimanere fra gli ultimi guarda bieco chi lo precede, e aspetta fremendo il momento di sospingersi avanti. – Né questa è faccenda dei soli cattivi -. anche fra i buoni son molti che sottilmente quanto si possa goder di piaceri senza andare all’inferno, e li voglion godere fino all’ultima stilla, dedicando ad essi se non tutta almeno la maggior parte della lor vita. Questa immensa sete di diletti, questa è a confessione di tutti, la piaga massima del nostro secolo: questa da cui tutte le altre traggono la loro origine, lo costituisce praticamente un secolo anticristiano per eccellenza, mentre Gesù Cristo lo fulmina con tante saette quante sono le parole del suo Vangelo. Onde è che se il Vangelo è Vangelo, salvarsi con questa maniera di vita non è possibile. Che convien fare pertanto? Conviene farsi parte da sé, lasciare andare il mondo per la sua via, e a malgrado e a dispetto e quasi in faccia di tutta la turba che gode mortificarsi, o perire. Non è altro rimedio: conviene davvero stringersi al Crocifisso, conviene impararlo a conoscer bene: quella cognizione che in altri tempi sarebbe bastata non basta più: le cautele ordinarie per conservar la salute bastano nei tempi ordinari, ma quando regna la peste e imperversa il contagio, le cautele si convengono raddoppiare, e non bisogna aspettare ad esser malato, bisogna ancora prevenire la malattia.

3. Tanto più, uditori carissimi, che la faccenda non si contiene negli ordini della pratica, ma passa ancora negli speculativi, e questo sommergersi nel lezzo della voluttà e dei godimenti del senso vien proclamato come un diritto, e asserito come un dovere. Imperocché per tacere per ora di quelle truculenti dottrine che ad udirle fanno dubitare se si dia per avventura ai tempi nostri il miracolo di vedere sotto umane sembianze le più sozze fra le bestie: la riabilitazione per esempio della carne, la necessità dei piaceri, e per procacciarseli la fellonia, la licenza, l’empietà, il furto, il ladroneggio, l’assassinio, preconizzati sotto nome di diritti dell’ uomo, di libertà, di emancipazione e andate voi discorrendo; chi non ha udito ripetere mille volte, che il Vangelo non fa guerra alla voluttà, ma adagia l’uomo dei mezzi per procacciarsela? E perché il dir la cosa così crudamente, avrebbe avuto tal sembiante di assurdo, che nessuno ci si sarebbe gabbato, hanno abusato della parola civiltà; ed equivocando sul senso della medesima, hanno domandato prima se il Vangelo si opponga alla civiltà; e udito rispondersi che no, ma che la promuove invece, e può dirsi che dal Vangelo germoglia come frutto terreno, da pianta celeste, che hanno fatto? Hanno chiamato civiltà tutto ciò che conferisce a satollare gli appetiti ed il senso, e poi hanno gridato: “Popoli, ecco qua, pigliate, godete, tutto questo vi dà il Vangelo; e se altri viene a dirvi che la cosa non è così, chiamatelo un ipermistico, un ascetico esagerato, che ha capito il Vangelo a rovescio”. Esagero forse? Ma come, se abbiamo ancora le orecchie piene del frastuono di chi bandiva che ivi il Vangelo meglio fa e più puramente si pratica, dove è più lauta l’imbandigione del piacere? Come, se l’affluenza dei beni terreni e degli agi in un popolo ci è stato dato per contrassegno da conoscere chi è in possesso della vera credenza? Come, se quelli medesimi che così parlarono passarono per modesti rispetto agli altri che più baldanzosi se volete, ma meno ipocriti dissero chiaro, bisogna finirla col Vangelo perché una religione che prescrive di mortificarsi non è buona pel nostro secolo? Ora uditori, crediamo noi, che sia poca giunta al male, questo arrogere che si fa alla pratica presso che universale della voluttà, l’insegnamento che la legittima? Non solo non è poco male, ma è male gravissimo e quasi direi irreparabile. E perché? Perché toglie a questo fetido torrentaccio ogni diga ed ogni argine che lo ritiene. È così violenta la inclinazione dell’uomo al piacere, che parecchi vae formidabilissimi, scagliati da Gesù Cristo nel Vangelo contro i voluttuosi non impediscono che la maggior parte di coloro che credono al Vangelo ci si sommerga. Ingannate la gente e datele ad intendere che Gesù Cristo invece di dire: guai a chi gode, guai a chi ride, beato chi piange, beato chi tribola, abbia detto, beato chi la sguazza nei godimenti, e tristo chi è tribolato e chi è povero, e non rimarrà nulla di sano nel mondo: e noi ne vediamo se non il meriggio l’aurora almeno e gli albori, quando passa per buono e se volete per pio, chi satollandosi di diletti, guarda pure con qualche attenzione che non siano gravemente peccaminosi. Eppure ad onta di tanta lusinga di seduzione, di tanta universalità di esempio, di tanta piena di scandalo, di tanta corruttela di insegnamento, bisogna che il cristiano che vuol salvarsi creda ed operi tutto al rovescio : perché che faceva di peggio quell’Epulone del Vangelo? Non bazzicava, che si sappia, nei ridotti del vizio, non bestemmiava, non rubava nulla a nessuno: solamente se la godeva: e qual più innocente maniera di godimento? Vestiva bene, e mangiava meglio. Induebatur purpurei et bysso, epulabatur quotìdie splendide. (Luc. X V I , 19.) Ecco tutto, non ci era di peggio. Eppure non fu appena quell’anima uscita dal corpo, che fu sepolta giù nell’inferno. Mortum est dives et sepultus est in inferno. (Luc. XVI, 22.) Ma come sarà possibile pensare ed operare così, senza capir davvero Gesù-Cristo, e a Lui aderire con tanta più di sollecitudine, quanto più è grosso il torrente che minaccia di separarci da Lui, il quale, come vedemmo, ai dì nostri è gravissimo?

4. E se la cosa rimanesse qui. il male non sarebbe ancora supremo, ma ci è di più. Il mondo è stato sempre diviso in due parti, e i Cristiani si son trovati sempre nel bivio di scegliere fra i due padroni che si contendono il regno di Gesù Cristo ed il secolo, o che è lo stesso, Gesù Cristo e il Demonio. Padroni essenzialmente irreconciliabili, dei quali se l’uno, il demonio, pur di aver qualche cosa verrebbe ai patti, sapendo che avuto il poco ottiene poi di certo anche il molto, l’altro, Gesù Cristo, protesta risolutamente che no, e denunzia e proclama: qui non est mecum contra me est. qui non colligit mecum disperdit. (Luc. VI, 23). Nemo potest duobus Dominis servire; non potestis Deo servire et mammonæ. (Matth.VI. 24.) Chi non è con me è contro di me, chi non raccoglie meco disperde. Servire a due padroni, impossibile: impossibile servire a Dio e al demonio. Essendo tanta la divisione fra i condottieri, è manifesto che fra gli eserciti non può esser pace: ma fra l’esercito di Gesù Cristo e quello del diavolo è questa capitalissima differenza: che nelle continue battaglie mentre pel secondo ogni arme è buona, e ogni libito lecito, le armi del primo non sono altro che la ragione, la verità, la giustizia, la pietà, le quali, se come per lo più accade, vengano in questa malignità di mondo sopraffatte e conquise, e la legittima difesa renduta impossibile, non è lecito contrapporre ai furori degli avversari altro che la rassegnazione, la umiltà, la pazienza, la longanimità, la preghiera, expectantes beatam spem et advenium gloriæ magni Dei. (Tit. II, 11.) sostentandosi con la speranza e rimettendo le proprie ragioni ad un Giudice e a un tribunale che non è in questa terra. Questa condizione di cose è quella che fece dire all’Apostolo, omnes qui pie vivere volunt in Christo Jesu persecutionem patientur. (II. Tim. III, 12.) Non ci è rimedio, chi vuol vivere piamente in Gesù Cristo si rassegni alla persecuzione: la quale non è mai mancata, e la storia della Chiesa ce ne porge continuo ed irrefragabile testimonio. Vero è che i tristi, non hanno avuto in ogni tempo ad un modo le mani libere, e allora i buoni hanno respirato, e la pratica del bene e della vita cristiana è stata più facile, e certo qualche secolo fa, non pativa universalmente altri impedimenti che quelli della intrinseca difficoltà, e degli estrinseci intoppi inevitabili in un mondo posto tutto in maligno. Ma in questi nostri tempi è così? Non ci è bisogno che lo dica io, lo dicano per me le incessanti ed universali querele di tutti i buoni, e più che le querele dei buoni lo dica il manifesto ed irrepugnabile linguaggio dei fatti. Qual velo di pudore, qual freno di verecondia, quale impedimento di paura, comprime oramai la baldanza e i furori dei nemici di Gesù Cristo? Hanno calato la. visiera, e non essendo più né necessaria né possibile l’ipocrisia che ne protesse le culle, ne favorì i progressi, ne dilatò le conquiste, parlano come pensano, operano come parlano, e a chi non pensa e non opera come loro, fanno una guerra inesorabile, e non con altro intento che di perderlo o guadagnarlo. Questo sfrenamento e preponderanza di coloro che combattono nelle file di satana esige una vigoria di animo, e una tempera di virtù robustissima, in chi non vuole esser divelto da Gesù Cristo e perire, e certamente un coraggio, una gagliardia comunale non basta più. Bisogna professare magnanimamente la fede con le parole, sotto pena di incorrere nel numero infelice di coloro dei quali disse Gesù Cristo. Qui me erubuerit…. hunc filius hominis erubescet. (Luc. IX, 26) Chi si vergognerà di me al cospetto degli uomini, anch’Io mi vergognerò di lui al cospetto del Padre mio. Ma va e mostra di sentir da Cristiano, di non patteggiar con la miscredenza, di non tollerare che si faccia insulto alla fede dei tuoi padri, e vedrai i ghigni ingiuriosi, i sorrisi beffardi, proverai le punture dei motti villani, sentirai il morso delle contumelie, la trafittura degli insulti. Bisogna osservare la santa legge di Dio e della Chiesa, frequentare i Sacramenti e le pratiche di pietà, rifuggire da tutto ciò che pericola la salute dell’anima. Ma se vuoi farlo liberamente tieni per certo, che il camminare all’opposto della correste sarà nulla verso le battaglie che dovrai sostenere, quando del rimprovero manifesto, quando della beffarda mostra di compassioni di chi ti compiangerà come un folle deluso. La giustizia deve essere inviolabile per un cristiano, e tutto il mondo armato contro di lui non lo deve ritenere dall’adempiere i sacrosanti doveri. Provati a mostrarti inflessibile propugnatore della giustizia, e quasi fatto stuolo ti piomberanno addosso le persecuzioni, e ti azzanneranno le calunnie, ti arreticheranno le trame, e percosso da mille lati, sospinto da mille mani cadrai sotto il peso di una guerra tanto più formidabile quanto più fraudolenta, e non vedrai l’arme che ti ferisce e ignorerai d’onde parta il colpo che ti conquide. A questo o somigliante prezzo dovrai comprare il mantenerti fedele a Gesù Cristo, e Gesù Cristo non cederà, e tutto questo esigerà inflessibilmente da te, e ti dirà: “o la fedeltà a me a questo prezzo o perire”. Eh! Uditori carissimi, non ci lusinghiamo. Mi concedete voi che tutto questo si esiga per essere o dimostrarsi Cristiani, e per non tradir la coscienza? Se me lo concedete, io ripiglio tosto così. Bisogna amare più che mediocremente Gesù Cristo per esser capaci di far tutto questo per Lui. E come volete che posto al cimento di sostenere tanta battaglia, di privarsi di tante soddisfazioni, di incorrere tanti danni, si tenga saldo un animo più che per metà posseduto e tiranneggiato dal mondo? Gesù Cristo ci fa insuperabili; ma per armarci cosi che tutto il mondo non ci crolli né smuova, bisogna che sia Egli il padrone del nostro cuore. Date il cuore a Gesù Cristo e diverrete un eroe. Perché ci contrista tutto giorno lo spettacolo di tanti che ieri passavano per buoni, oggi sono nelle file dei cattivi? Perché non avevano il cuore stabilito e fermo in Gesù. Si trovarono a un passo forte, urtarono in un intoppo gagliardo, traballarono, sdrucciolarono, caddero, presero il pendio ed ora precipitano.

5. E qui permettetemi che v i apra intero l’animo mio. Avrete udito voi come me e più ancora forse di me, come più prossimi ed aderenti a quel mondo, dal quale la misericordia di Dio mi ha sequestrato, certi avvocati e patrocinatori del nostro secolo, che ce lo vogliono dare come un fiore e una cima di secolo colto e gentile, e di tanto superiore agli antipassati di quanto la civiltà sovrasta alla barbarie, e la luce alle tenebre. E se così parlando costringessero il loro dire nei termini dei miglioramenti materiali che accrescono i comodi della vita, e agevolano il godimento più copioso dei beni della terra non solo non lo negherei, ma lo confesserei di buon grado, anzi l’ho già confessato. Ma si passa più avanti: ed esagerando certi scandali e certi delitti, che si vedevano e commettevano ai tempi andati, non più frequentemente ma per quel che si dice più scopertamente che ai giorni nostri, trionfano e gridano. Ecco: dove sono ora queste brutture? Trovatemi una sfacciataggine di scandalo così manifesto. Un prepotente non avrebbe animo di fare la metà, e se lo osasse lo fulminerebbero mille lingue, e lo percoterebbe la esecrazione universale. Se io avessi preso a difendere i secoli passati potrei mostrare quanto ci sia di esagerato in queste declamazioni: potrei dire che se non mancava chi scandalizzasse il mondo con grandi vizi, soprabbondava chi lo edificasse con lo splendore di virtù ancora più grandi, ma non è questo l’intento mio. Io non voglio difendere i secoli passati, voglio mostrare che ai nostri giorni più che per il passato un Cristiano che vuol salvarsi ha bisogno tener vivo Gesù Cristo e il Vangelo davanti agli occhi, e di calcarne le orme risolutamente. – Quindi io posso concedere, se si vuole, ogni cosa. Se anche nei secoli passati ci eran gli scandali, abbondavano i delitti; e che meraviglia se gli uomini erano uomini e non erano angeli? Ma allora i delitti erano delitti, e come delitti si esecravano e si punivano, e non gli altri solamente ma il delittuoso medesimo e il peccatore si riconosceva per peccatore e delittuoso, non si vantava per integerrimo, né trionfava come un eroe. E così chi insidiava alla innocenza della gioventù, era un sozzo e un infame, chi attentava all’onor dei talami un adultero, chi spargeva bestemmie ed errori contro la fede un sacrilego e un empio, chi insorgeva contro la legittima autorità un fellone: ora questi e somiglianti vituperi hanno mutato nome, e i nomi mutati hanno pervertito i concetti degli nomini. Ed oh! con quanto danno. Perché finché il delitto è chiamato delitto e percosso con l’onta e col vituperio che merita, gli innocenti ne rifuggono inorriditi, i colpevoli sentono il peso della propria miseria ed il rimorso della colpa: ma chiamate male il bene, onorate il vizio coi fregi della virtù, ed eccovi tutta la morale andarsene in fasci, il delitto in trionfo, la virtù in sterminio, e la società in soqquadro. Ci è bisogno che io provi quest’ultima conclusione con l’argomento dei fatti? No, ciascuno può farlo da sé. e la memoria è cosi recente, che ogni commemorazione sarebbe superflua. Domanderò piuttosto che in tanta corruzione dei principi più comuni della legge medesima della natura sia possibile mantenersi fedele a Gesù Cristo con una vita molle, vanitosa, spartita fra le brighe del mondo, e i duetti del senso, e consolata solamente di qualche pia necessaria pratica di religione, la Messa alla festa per esempio, e forse non sempre, la confessione alla Pasqua, e poi ogni maniera di peccati, commessi alla libera in ogni repentaglio di occasioni cercate apposta? No, certo no: non basteranno queste poche pratiche, sebbene santissime a contrabbilanciare gli scapiti, che tutto giorno si incorrono, e saranno scarso contravveleno a tanta copia di tossico che si sorbisce con l’aria medesima che si respira. Quindi poco a poco si verrà stendendo una nebbia sopra il lume delle massime della fede: e non rifulgendo più del loro lume, non accenderanno neppur di sé quell’amore che prima accendevano, né avranno al bisogno quella efficacia che in sé contengono, e se avvenga che alcuno di questi tali sia posto a cimento di subire qualche gran male, o di calpestar la Religione e di rinnegar Gesù Cristo, verrà anche a questo profondo, e per non essersi a dovere assodato nel bene sarà un apostata. Dicendo così, uditori, non dico altro, che quel che disse con espresse ma formidabili parole il nostro Signore Gesù Cristo. Qui audit verbo mea et facit ea assimilabitur viro sapienti qui ædifìcavit domum suam supra Chi ascolta le mie parole e le mette in pratica non tema: egli rende similitudine di quell’uomo savio che pianta i fondamenti della sua casa sopra la roccia. Vengano pure i venti, si scatenino i turbini, cadano le piogge, si disarginino i torrenti non crollerà. Ma quel cristiano per metà che dice di creder tutto ma vuol far poco, che vuol tenere un occhio al Vangelo e un altro al secolo, quello insomma qui audii verba mea et non facit ea, a chi sarà simile? Similis erit viro stulto qui ædificavit domum suam super arenam, (Matth. VII, 24.) al pazzo che va a fondare la casa sopra la rena. Dio gliela guardi da una pioggia che precipiti, da un fiume che traripi, da un turbine che si scateni. All’urto primo, alla prima sospinta, l’edilizio cadrà sul capo, e la rovina non ammetterà riparo. E diciamolo francamente, potrà un Cristiano ai dì nostri promettersi con una fiducia che non sia baldanza, che non gli accadrà mai che insorga qualche bufera a cimentar l’edificio della sua fede, con pericolo che lo spianti se non lo trovi fondato bene sulla vera pietra angolare che è Gesù Cristo? O Dio se il mondo è stato sempre un mare nel quale ad ogni calma è sempre in breve succeduta la procella, oggigiorno si direbbe che da qualche breve tregua in fuori tempesta sempre. A quel modo che un serraglio di fiere freme intorno ai cancelli aspettando che qualche mano audace, o qualche accidente propizio rimuova la sbarra per irrompere ed avventarsi al macello; fremono i nemici di Gesù Cristo e aguzzano l’ugne e la rabbia anelando lo sterminio di tutto ciò che è santo. Non udite le bestemmie che vomitano in tanti libri? Non vi percuotono le orecchie i fremiti che mettono in tante minacce? Non li vedete rodere rabbiosamente la lor catena guatando bieco quanto ha in sé l’impronta di cristiano e di pio ? Stringiamoci con Gesù Cristo uditori, che è quel Potente col quale si vince sempre, e sempre si vincerà. A quel modo che le onde del mare si avventano l’una dopo l’altra alla spiaggia quasi per inghiottirla, né perché le prime si infrangano e retrocedano cessano di avventarsi all’assalto le seconde e le terze: sono diciannove secoli che l’inferno si scaglia contro la Chiesa: sempre indarno sì, ma senza che per le male prove passate si disanimi e resti di tentar le future. È scritto che tutti questi furori contro la Chiesa non prevarranno; ma prevalsero e prevalgono contro quei meschini che nel giorno della prova non si trovano ben saldi in Gesù Cristo. Noi non siamo di questi, uditori carissimi, e per quanto amiamo di non dannarci non facciamo come quel pigro di cui parla lo Spirito Santo. Propter frigus piger arare noluit. (Prov. XX, 4.) Il pigro, venuto il tempo della sementa non volle arare il suo campo dicendo: è freddo. Mendicabit ergo in æstate, alla state quando gli altri mietono andrà cercando limosina. Chi gliela darà? Nessuno. Et non dabitur illi.

6. Ma come mai, verrà voglia per avventura a taluno di domandare, come mai permette Gesù Cristo che quella Sposa che Egli ama tanto della quale è Sposo amoroso e su cui veglia dal Cielo con provvidenza così operosa, sia tanto frequentemente bersagliata e battuta dalle persecuzioni che il diavolo solleva per opera dei suoi ministri, persecuzioni cosi violente alle volte che sembrano metterla in fondo, e non passano senza precipizio e rovina di innumerabili? La ragione la diede l’Apostolo Paolo ai fedeli dei suoi tempi, che facevano le meraviglie medesime, e “oportet, disse, et hæreses esse, ut qui probati sunt manifesti fiant in vobis (I Cor.XI,19.). Sono necessarie alta Chiesa le persecuzioni, perché la virtù dei Cristiani sia cimentata, e quella che regge alla, prora riceva la corona, quella che si sommerge sia come alga vile dal mare quando tempesta gittata al lido. Si aggirano in tempo di pace i cristiani di solo nome fra quelli che son Cristiani in opera e in verità, chi li conosce? chi li discerne? Nessuno. Viene la battaglia e la prova, e il soldato codardo getta le armi alla prima affrontata e si dà per vinto, il generoso e il magnanimo guarda il suo posto, sostiene gli impeti, ribatte gli assalti, e non abbandona le armi altro che con la vita. Il premio è grande, è ineffabile, è un’eternità di contenti, un immenso peso di gloria, un trionfo che mai non cessa nel Paradiso: ma la legge è fatta: Gesù Cristo non lo vuol dare ai codardi, non lo ha proposto come dono, ma come premio. Che meraviglia però, che lasci insorgere il nemico e bollir la battaglia? Lo fa per darci occasione di arricchirci di spoglie che siano seme di gloria. E non ne ha fatto mai un mistero, ma l’ha detto scopertamente, e noi lo sappiamo. Siamo soldati di Gesù Cristo, la Chiesa che ci raccoglie ed unisce si chiama Chiesa che milita, il Capitano che ci guida è morto nel campo della gloria, ed eccolo qua guiderdone insieme ed insegna. Guai però al soldato che aspetta ad imparare l’uso dell’armi e a guardare in viso il nemico il giorno della battaglia, guai al Cristiano che aspetta a guernirsi di animo e di virtù quando sovrasta il cimento. Eh! su, gridava l’Apostolo ai cristiani di Efeso: occipite armaturam Dei, ut possitis resistere in die malo, et in omnibus perfecti stare. (Eph. VI, 13) Indossate ora l’armatura di Dio. acciocché nel dì del conflitto sappiate tenervi saldi e far testa: state succinti lumbos vestros in veritate, et induti loricam iustitiæ, calceati pedes in præpatione Evangelii pacis. (1. c. 14. 15) La verità sia la cintura dei vostri lombi, la giustizia vi guernisca il petto come corazza, il Vangelo vi somministri la lena a camminare in pace fra tanti pericoli. In omnibus sumentes scutum fidei, in quo possitis omnia tela nequissimi ignea restinguere. (1. c. 16) La fede poi sia sempre lo scudo che vi armi il braccio, dietro al quale possiate ripararvi, e con il quale ribattere e rintuzzare le infuocate saette del nequitoso. Indossate questa armatura, galeam, salutis assumite, et gladium spiritus quod est verbum Dei. (1. c. 17.) Proteggete il capo con l’elmo della salute, armate la mano con la spada dello spirito che è la parola di Dio, e non temete. Per orationem et obsecrationem in spiritu in ipso vigilantes. (1. c. 18.) Con le preghiere, con le suppliche, con la vigilanza, vedrete annullarsi davanti a voi la potenza dei vostri nemici, mille ne cadranno alla vostra destra, dieci mila alla sinistra, ma la punta delle armi loro non giungerà fino a voi. O bel combattere con la certezza della vittoria. – E questa certezza rallegra sempre e conferma nelle tenzoni chi ha dalla sua Gesù Cristo.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE LA SETTA APOSTATA DI TORNO: S. S. PIO XI, ACERBA ANIMI

A sei anni dalla “Iniquis Afflictisque”, S. S. Pio XI  scrive questa nuova lettera Enciclica sulla persecuzione messicana attuata per conto dei “nemici di Dio e di tutti gli uomini” dai “servi sciocchi” masso-comunisti, insediatesi al governo di quella nobile Nazione con il preciso intento di distruggere la Chiesa Cattolica [si fieri potest!], ed iniziare le prove del regno dell’anticristo, oltre che provvedere alla loro eterna dannazione. Le persecuzioni dell’epoca sono state ripetute in tante altre nazioni, anche in tempi recenti, ove le comunità cristiane sono state bersagliate da ogni genere di attacchi, compresa l’arma atomica sganciata sulle città Cattoliche giapponesi. Le angherie dei servi di lucifero sono e saranno sempre le stesse, e continueranno fino al ritorno glorioso del Figlio di Dio, come Egli stesso ci ha assicurato. Oggi la situazione, soprattutto quella spirituale, è ben peggiore e foriera di morte dell’anima, perché la Chiesa Cattolica è letteralmente nelle catacombe, così la Gerarchia, così il Santo Padre, in esilio e prigioniero ben custodito da apparenti “segretari”. I Sacramenti veri e validi sono amministrati da sparuti Sacerdoti in sotterranei ed anfratti vari, esposti a pericoli ed insidie di natura diversa. La persecuzione poi, è occultata da una falsa e sacrilega chiesa dell’uomo, (l’asteroide verminoso e putrido eclissante, la sinagoga di satana usurpante) insediata con un colpo di mano nei Sacri Palazzi dell’Urbe e dell’orbe che invece, guarda caso, gode di onori, coperture giudiziarie e bancarie, prebende e protezioni dei noti kazari servi di lucifero, compreso il vicario e il sub-vicario dell’anticristo! Nulla di nuovo sotto il sole, d’altra parte il Signore Nostro Gesù Cristo non lo ha mai nascosto a chi volesse seguirlo fino in fondo, tutt’altro. La Chiesa Cattolica ed i suoi fedeli devono seguire parimenti il destino del Divino Maestro, fino alla morte ed al sepolcro, se necessario, per essere sicuri della Resurrezione gloriosa, della posizione alla destra del Giudice Redentore, del governo eterno con Lui. E allora, conclusa la lettura, con cuore unanime gridiamo: “Non vi temiamo, non ci fate paura, dannata razza di vipere maledette, uccidete pure il nostro corpo destinato alla polvere, ma l’anima no, non ve la concediamo, restiamo con Gesù: Viva Cristo-Re! … a voi lasciamo le fiamme e l’eterno … pianto e stridor di denti.

LETTERA ENCICLICA

 ACERBA ANIMI

AI VENERABILI FRATELLI
ARCIVESCOVI E VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
DEGLI STATI FEDERATI DEL MESSICO
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA:
SULLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA
IN MESSICO.


PIO PP. XI
VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

La dolorosa ansietà per le tristissime condizioni presenti di tutta la società umana non attenua la Nostra particolare sollecitudine per i diletti figli della Nazione Messicana e specialmente per voi, Venerabili Fratelli, tanto più meritevoli delle Nostre premure paterne in quanto vi trovate da così lungo tempo vessati da gravissime persecuzioni.  – Già all’inizio del Nostro Pontificato, seguendo l’esempio del venerato Nostro Predecessore, Ci adoperammo con ogni sforzo per allontanare la temuta applicazione di quelle disposizioni cosiddette « costituzionali » che la Santa Sede era stata più volte costretta a condannare come gravemente lesive dei diritti più elementari e inalienabili della Chiesa e dei fedeli; e a tale intento procurammo altresì che un Nostro Rappresentante risiedesse in cotesta Repubblica.  – Ma mentre altri Governi in questi ultimi tempi gareggiavano nel riannodare accordi con la Santa Sede, quello del Messico precludeva ogni via ad intese, anzi nel modo più inaspettato veniva meno alle promesse poco prima fatte per iscritto, e bandiva ripetutamente i Nostri Rappresentanti, mostrando con ciò quali fossero le sue intenzioni verso la Chiesa. Così si giunse alla più rigorosa applicazione dell’art. 130 della « Costituzione », contro la quale, perché estremamente ostile alla Chiesa, come risulta dalla Nostra Enciclica « Iniquis afflictisque » del 18 novembre 1926, la Santa Sede aveva dovuto protestare nel modo più solenne.  – Furono quindi promulgate gravi pene contro i trasgressori dell’articolo deplorato; e, con nuova offesa contro la Gerarchia della Chiesa, si procurò che ogni Stato della Confederazione determinasse il numero dei sacerdoti, ai quali sarebbe permesso l’esercizio del sacro ministero sia in pubblico come in privato.  – Di fronte a così ingiuste e intolleranti ingiunzioni, che avrebbero assoggettato la Chiesa Messicana all’arbitrio dello Stato e del Governo ostili alla Religione Cattolica, voi, Venerabili Fratelli, deliberaste di sospendere il culto in pubblico; e nello stesso tempo invitaste i fedeli a protestare efficacemente contro l’ingiusta imposizione del Governo. Voi, per la vostra apostolica fermezza foste quasi tutti espulsi dalla Repubblica, e doveste assistere dalla terra d’esilio alle lotte e al martirio dei vostri sacerdoti e del vostro gregge; mentre quei pochissimi di voi, che quasi miracolosamente poterono rimanere nascosti nelle proprie diocesi, riuscirono di efficace incoraggiamento ai fedeli con il loro nobilissimo esempio di invitta fermezza.  – Di queste cose Noi già parlammo in solenni allocuzioni, in pubblici discorsi e più diffusamente nella citata Enciclica « Iniquis afflictisque », confortati dalla grande ammirazione destata in tutto il mondo dal nobile coraggio dimostrato dal clero nell’amministrare i Sacramenti ai fedeli, fra mille pericoli, anche della stessa vita, e dal non minore eroismo di numerosi fedeli i quali, a costo di inaudite sofferenze e incontrando ingenti danni, coadiuvarono volenterosamente i loro sacerdoti.  – Noi intanto non mancammo di incoraggiare con parole e consigli la legittima cristiana resistenza dei sacerdoti e dei fedeli, esortandoli a placare, con la penitenza e la preghiera, la giustizia di Dio, affinché la Sua misericordiosa Provvidenza abbreviasse la prova. In pari tempo invitammo ad unirsi alle Nostre preghiere per i fratelli messicani i Nostri figli di tutto il mondo; i quali, con ardore ammirabile, corrisposero pienamente al Nostro invito.  – Né tralasciammo di ricorrere altresì a quei mezzi umani, che erano a Nostra disposizione, per venire in sollievo ai nostri diletti figli; e mentre lanciavamo un appello al Mondo Cattolico, perché desse soccorso, anche con generose oblazioni, ai fratelli messicani perseguitati, insistemmo presso i Governi, con i quali siamo in relazioni diplomatiche, perché considerassero l’anormale e grave condizione di tanti fedeli.  – Di fronte alla ferma e generosa resistenza degli oppressi, il Governo cominciò a far intendere in diversi modi che non sarebbe stato alieno dal venire a intese, pur di uscire da una condizione di cose ch’esso non poteva modificare in suo favore. A questo punto, benché ammaestrati da una dolorosa esperienza a non fare affidamento su simili promesse, dovemmo tuttavia domandarCi se fosse conveniente al bene delle anime che si continuasse nella sospensione del culto in pubblico. Tale sospensione, se era riuscita efficace protesta contro gli arbitrii del Governo, tuttavia, ove si fosse ancora prolungata, avrebbe potuto portare gravi danni sia all’ordinamento civile, sia a quello religioso. Quel che più conta, tale sospensione, secondo gravissime notizie che Ci pervenivano da fonti varie ed ineccepibili, portava serio nocumento per i fedeli; i quali, privati di molti aiuti spirituali necessari alla vita cristiana, e non di rado costretti ad omettere i propri doveri religiosi, correvano il rischio di rimanere prima lontani, poi come avulsi dal sacerdozio, e quindi dalle sorgenti stesse della vita soprannaturale. Si aggiunga che la prolungata assenza di quasi tutti i Vescovi dalle loro Diocesi non poteva non essere causa di rilassamento della disciplina ecclesiastica, specialmente in momenti di tanta tribolazione per la Chiesa Messicana, quando cioè il clero ed i fedeli abbisognavano maggiormente della guida di coloro « che lo Spirito Santo ha posto a reggere la Chiesa di Dio » [1]. – Quando perciò, nel 1929, il Magistrato Supremo del Messico pubblicamente dichiarò che il Governo, con l’applicazione delle note leggi, non intendeva distruggere « l’identità della Chiesa » né misconoscere la Gerarchia Ecclesiastica, Noi, avendo unicamente di mira la salute delle anime, credemmo opportuno di non lasciar passare questa occasione, che sembrava offrire una possibilità di riconoscimento dei diritti della Gerarchia. Quindi, vedendo tornare qualche speranza di rimediare ai mali maggiori, e sembrando che venissero meno i principali motivi che avevano indotto l’Episcopato a sospendere il culto in pubblico, Ci domandammo se non fosse il caso di ordinarne la ripresa. Con ciò non si intendeva certamente accettare le leggi messicane circa il culto, né ritirare le proteste fatte contro le leggi medesime, e tanto meno desistere dalla lotta contro di esse: si trattava soltanto, di fronte alle mutate dichiarazioni del Governo, di abbandonare (prima che potesse tornar nocivo ai fedeli) uno dei mezzi di resistenza, ricorrendo invece ad altri che fossero ritenuti più opportuni.  – Ma purtroppo, come tutti sanno, ai Nostri desideri e voti non corrisposero la sospirata pace e l’auspicato accomodamento. Si continuò invece a punire e ad imprigionare Vescovi, Sacerdoti e fedeli, contro lo spirito col quale si era concluso il « modus vivendi ». Con somma afflizione vedemmo che non solo non si richiamarono dall’esilio tutti i Vescovi, ma anzi qualche altro fu espulso oltre confine, senza neppure l’apparenza di legalità; in alcune diocesi non si restituirono né chiese né seminari, né episcòpi, né altri edifici sacri; nonostante le esplicite promesse, furono abbandonati alle più crudeli vendette degli avversari sacerdoti e laici che con fermezza avevano difeso la fede.  – Inoltre, appena revocata la sospensione del culto, si notò ben presto un inasprimento della campagna della stampa contro il Clero, la Chiesa e contro Dio stesso; ed è risaputo come la Santa Sede abbia dovuto riprovare e proscrivere una di tali pubblicazioni che, per immoralità sacrilega e per l’aperto scopo di propaganda irreligiosa e calunniatrice, aveva superato ogni misura.  – A ciò si aggiunga che non solo nelle scuole primarie è proibito per legge l’insegnamento religioso, ma non di rado si tenta di spingere coloro che devono concorrere ad educare le future generazioni, perché si facciano banditori di dottrine irreligiose e immorali, costringendo così i genitori a gravi sacrifici per tutelare l’innocenza della loro prole. A tale proposito, mentre benediciamo di cuore questi genitori cristiani e tutti i buoni maestri che li coadiuvano, torniamo a raccomandare caldamente a voi, Venerabili Fratelli, al clero secolare e regolare, a tutti i fedeli, di seguire con ogni sforzo la questione scolastica e la formazione della gioventù, specialmente di quella del popolo, più bisognosa perché maggiormente esposta ai pericoli della propaganda atea, massonica e comunista; persuadendovi che la vostra patria sarà quale voi la formerete nei vostri giovani.  – Ma un punto ancora più vitale della Chiesa si è cercato di colpire: l’esistenza cioè del Clero e della Gerarchia Cattolica, col tentativo di eliminarla gradatamente dalla Repubblica. Così la Costituzione Messicana, come abbiamo più volte deplorato, mentre proclama la libertà di pensiero e di coscienza, prescrive, con la più manifesta contraddizione, che ogni Stato della Repubblica Federale debba determinare il numero dei sacerdoti, ai quali si permette l’esercizio del sacro ministero, non solo nelle pubbliche chiese, ma persino tra le pareti domestiche. Tale enormità viene ancora aggravata dai modi con cui si procede all’applicazione della legge.  – Infatti, se la Costituzione vuole che si determini il numero dei sacerdoti, dispone tuttavia che tale determinazione debba corrispondere alle necessità religiose dei fedeli e del luogo; né prescrive che si debba in ciò trascurare la Gerarchia ecclesiastica; come, del resto, fu esplicitamente riconosciuto nelle dichiarazioni del « modus vivendi ». Orbene, nello Stato di Michoacan, fu stabilito un sacerdote per ogni 33.000 fedeli; nello Stato di Chihuahua, uno per ogni 45.000; nello Stato di Chiapas uno per ogni 60.000, mentre in quello di Vera Cruz dovrebbe esercitare il ministero un solo sacerdote per ogni centomila abitanti. Ognuno vede se con siffatte restrizioni sia possibile attendere all’amministrazione dei Sacramenti a così numerosi fedeli, sparsi per lo più in uno sterminato territorio. Eppure i persecutori, quasi pentiti di aver soverchiamente largheggiato, imposero ulteriori limitazioni; e alcuni Governi ordinarono la chiusura di non pochi Seminari, la confisca delle canoniche, e in altri luoghi determinarono altresì i sacri templi e il territorio, dove soltanto sarebbe consentito al Sacerdote approvato di esercitare il ministero.  – Il fatto nondimeno che più manifestamente scopre l’intenzione di voler distruggere la stessa Chiesa Cattolica, è l’esplicita dichiarazione, pubblicata in alcuni Stati, che l’Autorità civile, nel concedere la licenza di esercizio, non riconosce nessuna Gerarchia, esclude anzi positivamente dalla possibilità di esercitare il ministero sacro tutti i Gerarchi, cioè i Vescovi e persino coloro che avessero esercitato l’ufficio di Delegati Apostolici.  – Abbiamo voluto brevemente riepilogare i punti principali della grave condizione imposta alla Chiesa del Messico, perché quanti amano l’ordine e la pace dei popoli, vedendo come una così inaudita persecuzione non sia molto dissimile, specialmente in alcuni Stati, da quella scatenatasi nelle infelici regioni della Russia, traggano, da questa iniqua coincidenza d’intenti, nuovo ardore per arginare la fiumana sovvertitrice di ogni ordine sociale.  – In pari tempo intendiamo dare una nuova prova a voi, Venerabili Fratelli, e a tutti i diletti figli del Messico, della paterna sollecitudine con la quale vi seguiamo nella vostra tribolazione: sollecitudine che Ci ispirò le istruzioni impartitevi nel gennaio scorso per mezzo del Nostro Cardinale Segretario di Stato, e comunicatevi poi dal Nostro Delegato apostolico. Infatti, trattandosi di questioni strettamente connesse con la religione, è senza dubbio Nostro dovere e Nostro diritto stabilire le ragioni e le norme, alle quali tutti coloro che si gloriano del nome cattolico hanno l’obbligo di ottemperare. E qui Ci preme ricordare come, dettando tali istruzioni, abbiamo tenuto nella debita considerazione tutte le notizie e le indicazioni che Ci venivano sia dai fedeli, sia dalla Gerarchia; e diciamo tutte, fino a quelle che sembravano invocare il ritorno, come nel 1926, ad una norma di condotta più severa con la totale sospensione del culto pubblico in tutta la Repubblica.  – Pertanto, in merito alla pratica da seguire, non essendo il numero dei sacerdoti ugualmente ristretto in ogni Stato, né essendo ugualmente offesi i diritti della Gerarchia ecclesiastica, ne consegue che, secondo la diversità dell’applicazione degli infausti decreti, debba altresì essere diverso l’atteggiamento della Chiesa e dei Cattolici. A questo proposito Ci sembra giusto tributare speciali lodi a quei Vescovi Messicani che, secondo le notizie pervenuteCi, hanno sapientemente interpretato le istruzioni che abbiamo ripetutamente inculcato. E ciò vogliamo dichiarare, perché se taluno, spinto più dall’ardore della difesa della propria fede che non dalla prudenza, necessaria soprattutto in momenti così delicati, dal diverso modo di agire nelle diverse circostanze, avesse supposto nei Vescovi intendimenti contraddittori, si persuada ora che tale accusa è del tutto infondata. Tuttavia, poiché qualsivoglia restrizione del numero dei sacerdoti è pur sempre una grave violazione dei diritti divini, occorrerà che i Vescovi, il clero e gli stessi cattolici continuino a protestate con ogni loro energia contro tale violazione, usando di tutti i mezzi legittimi; anche se queste proteste non avranno efficacia sugli uomini del Governo, varranno a persuadere i fedeli, e specialmente i meno istruiti, che lo Stato, così operando, offende le libertà della Chiesa, alle quali questa non potrà mai rinunciare, nemmeno innanzi alla violenza dei persecutori.  – Quindi, come con grande soddisfazione abbiamo letto le diverse proteste recentemente sollevate dai Vescovi e dai Sacerdoti delle diocesi colpite dalle deplorate disposizioni governative, così Noi stessi torniamo ad aggiungervi le Nostre al cospetto del mondo intero, ed in modo particolare innanzi ai Governi di tutte le Nazioni, affinché considerino che la persecuzione del Messico, oltre che offesa a Dio, alla sua Chiesa e alla coscienza di una popolazione cattolica, è anche un incentivo al sovvertimento sociale, a cui mirano le associazioni dei negatori di Dio.  – Intanto, allo scopo di porre qualche rimedio alle calamitose circostanze che affliggono la Chiesa nel Messico, dobbiamo valerCi di quei mezzi che ancora restano in Nostra mano, perché, conservandosi in ogni luogo, per quanto si può, l’esercizio del culto divino in pubblico, la luce della fede e il sacro fuoco della carità non restino estinti in quelle povere popolazioni. Sono inique certamente le leggi, sono empie, come abbiamo già detto, e condannate da Dio, per tutto quello che perfidamente ed empiamente sottraggono ai diritti di Dio e della Chiesa nel governo delle anime; tuttavia sarebbe senza dubbio mosso da vano e infondato timore colui che credesse di cooperare alle inique disposizioni legislative qualora, subendone la vessazione, domandasse al Governo, che ciò impone, di potere esercitare il culto; e quindi ritenesse esser proprio dovere astenersi assolutamente da simile richiesta. Tale erronea opinione e tale condotta, portando ad una totale sospensione del culto, arrecherebbero senza dubbio un grandissimo danno a tutto il gregge dei fedeli.  – È da osservare, infatti, che approvare tale iniqua legge o dare ad essa spontaneamente una vera e propria cooperazione, è senza dubbio illecito e sacrilego; ma è assolutamente diverso il caso di chi soggiace a tali ingiuste prescrizioni soltanto contro la propria volontà e protesta; anzi fa di tutto, da parte propria, per diminuire i disastrosi effetti dell’infausta legge. Infatti il sacerdote si trova costretto a chiedere quel permesso senza il quale gli sarebbe impossibile esercitare il sacro ministero per il bene delle anime; tale imposizione egli forzatamente subisce soltanto per evitare un male maggiore. La sua condotta quindi non è molto differente da quella di colui, il quale, essendo spogliato delle sue cose, si vede costretto a domandare all’ingiusto spogliatore che gli consenta almeno l’uso di esse. – Ed invero, il pericolo di una « formale cooperazione », anzi di una qualsivoglia approvazione della citata legge, viene, in quanto è necessario, rimosso dalle proteste anzidette, energicamente espresse da questa Sede Apostolica, da tutto l’Episcopato e dal Popolo Messicano. A queste poi si aggiungono le cautele del Sacerdote stesso, il quale, benché già canonicamente istituito al sacro ministero dal proprio Vescovo, è costretto a chiedere al Governo la possibilità di esercitare il culto, e ben lungi dall’approvare la legge, che ingiustamente impone tale richiesta, vi si assoggetta materialmente — come suol dirsi — soltanto per eliminare un ostacolo all’esercizio del sacro ministero: ostacolo che condurrebbe, come si è detto, alla totale cessazione del culto e quindi a un danno estremo per tante anime. – In modo non molto dissimile i primi fedeli e i sacri ministri, come è riferito dalla storia, chiedevano, offrendo anche qualche compenso, il permesso di visitare e confortare i martiri detenuti nelle carceri e di amministrare i Sacramenti, senza che alcuno avesse mai potuto pensare che essi, con ciò, in qualche modo approvassero o condividessero la condotta dei persecutori.  – Tale è, certa e sicura, la dottrina della Chiesa; se però l’attuazione di essa riuscisse di scandalo ad alcuni fedeli, sarà vostro dovere, Venerabili Fratelli, illuminarli accuratamente e diligentemente. Se poi, anche dopo che voi avrete fatto questa opera di chiarimento e di persuasione, esponendo questa Nostra direttiva, qualcuno rimarrà ostinatamente nella propria falsa opinione, sappia che in tal modo difficilmente può sfuggire alla taccia di disubbidiente e di ostinato.  – Continuino dunque tutti in quella unità di intenti e di ubbidienza, già altra volta da Noi ampiamente e con viva soddisfazione lodata nel clero; e rimosse le incertezze e i timori, spiegabili nei primi momenti della persecuzione, i sacerdoti, con il già provato spirito di abnegazione, rendano sempre più intenso il loro sacro ministero, particolarmente fra la gioventù e il popolo, procurando di far opera di persuasione e di carità, soprattutto fra gli avversari della Chiesa, che la combattono perché la ignorano.  – A tale proposito nuovamente raccomandiamo un punto che Ci sta grandemente a cuore; la necessità cioè di istituire e di dare sempre maggiore incremento all’Azione Cattolica [2], secondo le direttive impartite, per Nostro mandato, dal Nostro Delegato apostolico; lavoro, questo, senza dubbio difficile negli inizi e specialmente nelle presenti circostanze, lavoro talora lento nel produrre i desiderati effetti, ma necessario e ben più efficace di qualsiasi altro mezzo, come dimostra l’esperienza di tutte le Nazioni, passate esse pure attraverso la prova delle persecuzioni religiose.  – Ai Nostri diletti figli messicani raccomandiamo di tutto cuore l’unione più intima con la Chiesa e la sua Gerarchia, da prestare con la docilità agli insegnamenti e alle direttive di essa. Non tralascino occasione di ricorrere ai Sacramenti, fonti di grazia e di virtù; s’istruiscano nelle verità religiose; implorino da Dio misericordia per la loro sventurata Nazione e sentano l’obbligo e l’onore di cooperare all’apostolato sacerdotale nelle file dell’Azione Cattolica.  – Un elogio tutto particolare vogliamo tributare a coloro che, sia del clero secolare e regolare, sia del laicato cattolico, mossi da ardente zelo della religione e mantenendosi del tutto obbedienti a questa Sede Apostolica, hanno scritto pagine gloriose nella recente storia della Chiesa del Messico; in pari tempo li esortiamo vivamente nel Signore a voler continuare a difendere i sacrosanti diritti della Chiesa, con quella generosa abnegazione di cui hanno dato sì nobili esempi e secondo le norme da questa Sede Apostolica loro indicate.  – Ma non possiamo terminare questa Enciclica senza volgerCi particolarmente a voi, Venerabili Fratelli, fedeli interpreti del Nostro pensiero, per dirvi che Ci sentiamo tanto più strettamente uniti a voi, quanto maggiori sono le pene che incontrate nel vostro apostolico ministero; sicuri che sapendovi vicini al cuore del Vicario di Gesù Cristo, ne proverete conforto ed incitamento a perseverare nella santa ed ardua impresa di condurre a salvamento il gregge affidatovi. Ed affinché la grazia di Dio sempre vi assista e la Sua Misericordia vi sorregga, con ogni paterno affetto a voi e ai diletti figli, così duramente provati, impartiamo l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 29 settembre, dedicazione di San Michele Arcangelo, dell’anno 1932, undecimo del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

DOMENICA IX dopo PENTECOSTE (2018)

DOMENICA IX dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LIII:6-7.
Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine. [Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’ànima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]
Ps LIII:3
Deus, in nómine tuo salvum me fac: et in virtúte tua libera me.
[O Dio, salvami nel tuo nome: e líberami per la tua potenza.]
Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine.
[Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’ànima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]

Oratio
Orémus.
Páteant aures misericórdiæ tuæ, Dómine, précibus supplicántium: et, ut peténtibus desideráta concédas; fac eos quæ tibi sunt plácita, postuláre.
[Porgi pietoso orecchio, o Signore, alle preghiere di chi Ti supplica, e, al fine di poter concedere loro quanto desiderano, fa che Ti chiedano quanto Ti piace.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.
1 Cor X:6-13
Fatres: Non simus concupiscéntes malórum, sicut et illi concupiérunt. Neque idolólatræ efficiámini, sicut quidam ex ipsis: quemádmodum scriptum est: Sedit pópulus manducáre et bíbere, et surrexérunt lúdere. Neque fornicémur, sicut quidam ex ipsis fornicáti sunt, et cecidérunt una die vigínti tria mília.
Neque tentémus Christum, sicut quidam eórum tentavérunt, et a serpéntibus periérunt. Neque murmuravéritis, sicut quidam eórum murmuravérunt, et periérunt ab exterminatóre. Hæc autem ómnia in figúra contingébant illis: scripta sunt autem ad correptiónem nostram, in quos fines sæculórum devenérunt. Itaque qui se exístimat stare, vídeat ne cadat. Tentátio vos non apprehéndat, nisi humána: fidélis autem Deus est, qui non patiétur vos tentári supra id, quod potéstis, sed fáciet étiam cum tentatióne provéntum, ut póssitis sustinére.

Omelia I

[Mons. Bonomelli, Omelie, vol. III, Omelia XIX – Torino, 1899]

“Non siamo desiderosi di cose malvagie come anche quelli ne desiderarono. Non diventate idolatri, come alcuni di loro, secondoché sta scritto: Il popolo si sedette e si pose a mangiare e bere, poi si levò per danzare. Non fornichiamo, come alcuni di loro fornicarono, e in un sol giorno ne caddero ventitré mila. Non tentiamo Cristo, come alcuni di loro tentarono e furono uccisi dai serpenti. Non mormorate come alcuni di loro mormorarono e furono distrutti dallo sterminatore. Ora tutte queste cose avvenivano a quelli in figura e sono scritte ad ammonimento di noi, nei quali si sono scontrati i termini dei secoli. Il perché chi pensa di restar ritto, badi che non cada. Non vi colga tentazione se non umana; Dio è fedele, ed egli non permetterà Che siate tentati sopra le forze vostre; ma colla tentazione darà l’uscita, affinché la possiate “ sostenere „ (I. ai Corinti, X, 6-13;)

Voi stessi vi sarete accorti, che la lezione della Epistola propria della Messa è quasi sempre tolta dalle lettere di S. Paolo. E perché ciò, o dilettissimi? Se non erro, le ragioni principali di quest’uso della sacra liturgia, devono essere le seguenti: le lettere dell’Apostolo, messe insieme, formano un volume pressoché eguale a quello dei quattro Evangeli uniti e di gran lunga superiore a quello che formerebbero le sette lettere, che ci rimangono di S. Giacomo, di S. Pietro, di san Giovanni e di Giuda Taddeo. Qual meraviglia, che formando le Epistole di S. Paolo una parte
sì considerevole del nuovo Testamento, forniscano anche in proporzione assai maggiore delle altre la materia di lettura nella santa Messa? Oltreché vuolsi avvertire che nelle Epistole di S. Paolo si condensa in modo ammirabile la dottrina dogmatica e particolarmente la morale di Cristo, e perciò queste si prestano a preferenza d’altre parti scritturali alla considerazione ed edificazione dei fedeli [Nei Vangeli occupano una parte considerevole i fatti della vita di Cristo, doveché nelle Epistole di S. Paolo di fatti non se ne fa menzione, che pochissime volte: in quella vece vi si espone la dottrina di Cristo si dogmatica come morale, onde per questa parte si può dire che nelle Epistole abbiamo una ricca miniera al pari e più degli Evangeli.] – Nei versetti precedenti S. Paolo ha detto, che gli conveniva lavorare e mortificare il suo corpo, se non voleva trovarsi tra i reprobi dopo di aver predicato agli altri. Giustifica poi questo suo timore per sè e per gli altri, di esser trovato reprobo, coll’esempio del popolo d’Israele, caduto quasi tutto miseramente nel deserto prima di entrare nella terra promessa; e qui, colto il destro, applica ai cristiani, moraleggiando, i fatti che avvennero agli Ebrei nel deserto. Vedete, dice l’Apostolo: dei seicentomila Ebrei, dai vent’anni in su, che uscirono dall’Egitto, due soli entrarono nella terra promessa: ciò potrebbe accadere anche a noi viaggianti verso la vera terra promessa, il cielo. “ Non siamo desiderosi di cose malvage, come anche quelli ne desiderarono. „ Continua il riscontro tra gli Ebrei e noi cristiani; gli Ebrei nel deserto, rammentando i cibi succulenti che si mangiavano in Egitto: Sedebamus super ollas carnium, e dimenticando l’orribile schiavitù, che vi soffrivano, si levarono a rumore contro Mosè e contro Dio, che li aveva condotti in quel luogo selvaggio, e desideravano le carni: il desiderare le carni per sè non sarebbe stato un gran delitto, ma lo era bene, e gravissimo, il lagnarsi di Dio, il ribellarsi a Mosè, il dimenticare i beneficii innumerevoli ricevuti e il rimpiangere la servitù, ond’erano stati liberati. Iddio punì quell’ingrato e maligno popolo, e gran numero di esso rimase in quel luogo percosso di morte, tantoché gli fu dato il nome di Sepolcri della concupiscenza; Sepulchrum concupiscentiæ (Num. c. XII, 33, 34). Badiamo, grida qui l’Apostolo, di non imitare codesti Ebrei, per non incorrere il loro castigo ed essere esclusi dal cielo. Il popolo, o fratelli miei, è sempre lo stesso, simile ad un fanciullo, mobile, facile ad essere sedotto, a dimenticare i benefizi. Vedete gli Ebrei: dovevano rammentare gli orrori della schiavitù in Egitto, le fatiche intollerabili, i bambini dal barbaro tiranno fatti gettare nel Nilo, i prodigi Operati da Mosè: nulla di tutto ciò. In un momento di malcontento, di dispetto, d’ira, pensa alle cipolle ed alle carni d’Egitto: si lamenta di Dio, grida contro Mosè, si solleva contro il liberatore e lo minaccia. E non è ciò che troppo spesso facciamo noi pure? Liberati dal peccato, col pensiero torniamo agli antichi piaceri, rimpiangiamo la servitù, le catene delle passioni portate sì a lungo e ci pare troppo aspra la via della virtù, troppo dura la vita cristiana? Stolti! desideriamo di ritornare in Egitto e volgiamo le spalle alla terra promessa, la vera terra promessa, a cui Dio ci chiama. Non desideriamo cose malvage; Non simus concupiscentes malorum! Il desiderio dei Giudei si riferiva soltanto alle carni, come apparisce dal sacro testo, ed era colpevole: l’Apostolo proclama che noi cristiani dobbiamo guardarci in genere da ogni desiderio di cose malvage: Non simus concupiscentes malorum. Gli uomini non vedono che le cose esterne, e questo pure in modo assai imperfetto; ma l’occhio di Dio penetra nelle pieghe del nostro cuore, nelle fibre del nostro spirito, e tutto vede, pesa e misura senza pericolo di errore. – Carissimi! quanti desideri spuntano, si agitano, si succedono in fondo al nostro cuore! Chi potrebbe mai contarli? S’incalzano come le onde del mare, e tutti vi lasciano la traccia del loro passaggio: non importa che si manifestino negli atti e gli uomini li vedano e li contino: li vede e li conta Iddio! Ora quali sono questi desideri, figli dei nostri pensieri e dei nostri amori? Sono tutti buoni, retti, onesti, o almeno indifferenti? Ohimè! se siamo sinceri, dovremo confessare che molti di questi desideri, che erompono dal fondo dell’anima nostra, sono viziosi, colpevoli e tali, che arrossiremmo, se fossero conosciuti, non che da altri, ma dai nostri amici! Perché aprire il cuore, vagheggiare e accarezzare questi desideri, che vorremmo nascondere agli uomini, ai nostri cari istessi e sono manifesti a Dio, e un giorno saranno manifestati all’universo intero? Vegliamo adunque su questi desideri, e quelli che sono buoni e santi coltiviamo, quelli che sono malvagi o pericolosi cacciamo prontamente perché imbrattano l’anima: “Non simus concupiscentes malorum”. S. Paolo prosegue ne’ suoi riscontri, e dice: “ Non siamo idolatri, come alcuni di loro (cioè degli Ebrei nel deserto). „ Mosè narra, che mentre egli era sul monte e riceveva la legge, il popolo si fabbricò un vitello d’oro (era un idolo degli Egiziani) e lo adorò, gli offerse sacrifici e probabilmente, secondo l’uso dei gentili, mangiò delle carni offerte all’idolo stesso e si pose a danzare. Non dimentichiamo che queste danze sacre dei gentili dinanzi ai loro idoli erano orge oscene e lascivie senza nome, e possiamo credere che tali fossero pur quelle degli Ebrei dinanzi al vitello d’oro. Ebbene, cosi ragiona S. Paolo: Stiamo in guardia noi pure Cristiani, e non sia mai che per noi si cada nella idolatria alla maniera degli Ebrei. Di quale idolatria discorre l’Apostolo? Chiaramente della idolatria nel senso rigoroso della parola, perché così vuole l’allusione alla idolatria ebraica; né deve far meraviglia, che S. Paolo creda necessario mettere in sull’avviso i fedeli contro il pericolo della idolatria. Non pochi dei fedeli, ai quali scriveva, erano stati gentili ed idolatri e la loro conversione era recente. Il pericolo di ricadere era assai grave, considerata la loro triste abitudine, e visto che l’idolatria allora regnava padrona assoluta dal trono alla capanna. La storia ci narra che non erano rari gli esempi di apostasie e di Cristiani, che dopo ricevuto il Battesimo, o per timore delle persecuzioni, o per interesse, o per altre cause ritornavano al culto degli idoli. L’esortazione dunque di S. Paolo non era fuor di luogo, anzi molto opportuna e necessaria. Oggidì per noi non vi è più ombra di pericolo che si cada nella idolatria antica: quel periodo del massimo degradamento morale per i nostri popoli è passato e passato per sempre. Ma se è cessato il pericolo della idolatria propriamente detta, non è cessata, anzi dura più elle mai vigorosa e generale un’altra idolatria, l’amore sfrenato dei beni della terra, ai quali si sacrifica troppo spesso l’onore, il dovere, la coscienza, Dio stesso. Che faceva l’idolatra? Pigliava un tronco di legno, un pezzo di metallo, ne foggiava una statua e cadendo ginocchioni dinanzi ad essa, l’adorava, le offriva sacrifici, ed esclamava: Tu sei il mio Dio! — Che fa l’uomo schiavo dell’amore sfrenato dei beni di quaggiù? Accumula oro ed argento: vagheggia un posto d’onore: ficca cupido gli sguardi in volto seducente e prostrandosi vilmente dinanzi a loro, grida: Voi avete il mio cuore, tutto l’amor mio; io vivo per voi; voi siete il mio Dio; a voi tutto sacrifico. Non è questa brutta e schifosa idolatria? Una mente, un cuore, uno spirito, che adorano la materia e vituperosamente vi si tuffano? E ch’io non esageri punto, me ne assicura il grande Apostolo, il quale in altro luogo, parlando della cupidigia e della avarizia, la chiama “ servitù di idoli, cioè idolatria: „ Quod est idolorum servitus. Noi detestiamo l’idolatria, come un gran delitto e il sommo vituperio della natura umana, e lo è veramente: detestiamo pur anco ed abbominiamo quest’altra idolatria, per la quale diveniamo adoratori delle ricchezze, degli onori e dei piaceri: Neque idolatræ efficiamìni, sicut quidam ex ipsis. In alto le menti e i cuori! appuntiamo lo spirito nostro in Dio e in lui e con lui ci eleveremo: lui solo adoriamo: i beni della terra sono appena degni di stare sotto i nostri piedi, e vi stiano sempre. – Prosegue S. Paolo il suo riscontro tra noi e i figli d’Israele nel deserto e dice: “Né fornichiamo, come alcuni di quelli fornicarono. „ Mosè nel libro dei Numeri narra come moltissimi Ebrei si abbandonarono al turpe peccato con le figliuole dei Moabiti, e come per comando di Dio furono terribilmente puniti, rimanendone sul campo ben ventitré mila trucidati. Tanta strage ci riempie di stupore e di terrore; ma non dobbiamo mai dimenticare, che quel popolo di dura cervice e di cuore incirconciso, sì facile in trascorrere ad ogni eccesso, solamente con queste tremende lezioni poteva essere contenuto, quando pur queste bastavano. Quel formidabile castigo ci mostra come sia brutta e gravissima colpa la fornicazione. Lungi dunque da noi, sembra dire l’Apostolo, questo delitto, che trasse in capo ai figli d’Israele sì aspra vendetta: Neque fornicemur, sicut quidam ex ipsis fornicati sunt. Questa sozzura è dessa rara tra i Cristiani, figli della legge di grazia e d’amore? Dio immortale! essa, a vergogna del nome cristiano, è frequente e in certi luoghi, in certe città si considera come cosa da nulla e passa quasi in trionfo. Ah! cosa da nulla questo peccato, che la giustizia di Dio percosse si fieramente, e lavò col sangue di ventitré mila vittime? E bensì vero che si paurosi castighi, per bontà di Dio, ora non si rinnovellano; ma non crediate, che sì detestabile peccato rimanga sempre impunito anche quaggiù sulla terra, sotto la legge evangelica. Dio dispone le cose per guisa, che soventi volte gli schiavi di questo peccato si puniscano da se stessi con le opere delle loro mani. Le discordie, gli odi, gli scialacqui, lo sperpero dei più ricchi patrimoni, la miseria, il disonore, i duelli, i delitti di sangue, le più vergognose infermità dello spirito e del corpo, l’ebetismo e la morte precoce non sono frequentemente gli amari frutti di questo peccato? Se noi potessimo conoscere le vittime che questo peccato va facendo in mezzo a noi e contarle ad una ad una, inorridiremmo, e forse dovremmo confessare che il braccio di Dio anche al presente non è meno terribile di quello che fosse coi figliuoli d’Israele. – Allora era Dio, che direttamente percuoteva il popolo fornicatore, ora sono gli stessi fornicatori che si puniscono da se stessi, e trovano qui nel loro peccato un saggio di quella pena eterna che si tesoreggiano nella vita futura. S. Paolo continua: “ Non tentiamo Cristo, come alcuni di loro tentarono e perirono pei morsi dei serpenti. „ Il popolo ebreo (Num. c. XXI, vers: 5 seg.) nel deserto prese a lagnarsi di Dio e di Mosè, perché mancava l’acqua e si annoiava dello stesso cibo, e dovette prorompere in invettive e bestemmie: esso, dimentico dei tanti prodigi veduti e dei tanti benefici ricevuti, metteva a dura prova la bontà e la pazienza di Dio: Tentaverunt! E Dio lo flagellò, mandando in mezzo a quel popolo ingrato e ribelle gran moltitudine di serpenti; i loro morsi erano mortali e gran numero di Ebrei miseramente perì. Ciò che accadde a loro sia nostro ammaestramento: Non tentiamo Cristo, cioè non dubitiamo delle promesse divine, delle verità, che ci furono annunziate; non facciamo come gli Ebrei, che ad ogni istante domandavano miracoli: ci basta la parola di Gesù Cristo e sopra di essa riposiamo tranquillamente. Iddio regge le cose umane con la sua provvidenza, vale a dire con quelle leggi ordinarie, che Egli ha stabilite e sulle quali poggia tutto l’ordine naturale: il miracolo è una eccezione fatta a quelle leggi, è l’intervento diretto ed immediato di Dio e questo non si deve ammettere se non quando l’evidenza ci obbliga ad ammetterlo, perché le leggi naturali sono la regola, il miracolo è l’eccezione e l’eccezione si ammette solo quando è necessario ammetterla e la ragione naturale ci costringe ad ammetterla. Dio può fare la eccezione, ossia il miracolo; ma lo deve fare quando è necessario; ma quando è necessario? Egli ed Egli solo ne è il giudice assoluto e nessuno può imporglielo, perché nessuna creatura può dire al Creatore: Voi dovete far questo e questo, s’Egli non ha promesso di farlo e farlo in quel modo e in quel tempo. Volere adunque che Iddio faccia un miracolo, a nostro modo, e deroghi a nostro cenno alle sue leggi, è un tentare Dio, un imporgli la legge e mostrarci diffidenti delle sue promesse e del corso ordinario della sua provvidenza. Noi possiamo e dobbiamo pregarlo in ogni nostro bisogno con piena confidenza ed umiltà, rimettendoci con figliale abbandono alla sua paterna bontà quanto al modo, al tempo ed alla misura, con cui vorrà esaudirci. “ Né mormoriate, prosegue S. Paolo, come alcuni di loro mormorarono e furono annientati dallo sterminatore; „ è questo l’ultimo dei riscontri, che ci lasciò l’Apostolo fra la storia del popolo ebreo e ciò che può accadere al popolo cristiano. Molte volte Israele mormorò nel deserto contro Dio e Mosè, che a nome di Dio lo guidava: a quale di queste mormorazioni del popolo qui si alluda non è chiaro: certo è che tutte le volte fu più o meno punito, ondechè non irragionevolmente possiamo dire che qui il sacro testo tutte le comprenda. Le mormorazioni del popolo contro Mosè e perciò contro Dio, che mandava Mosè, per vero dire, sono piuttosto sommosse e ribellioni, e Dio ne fece aspra giustizia. L’autorità ha sempre la sua fonte in Dio, da cui solo deriva, sia nell’ordine naturale, sia nell’ordine sovrannaturale: gli uomini, che ne sono investiti, non sono che i mandati e i rappresentanti di Dio, e perciò il mormorare contro di essi, e più assai il ribellarsi, è un offendere Dio stesso ed uno sconvolgere l’ordine per Lui stabilito. Può bene accadere, che quelli, i quali sono investiti dell’autorità, volete civile, volete paterna, volete anche ecclesiastica, nelle varie sue gradazioni,, falliscano al loro dovere ed anche ne abusino malamente; noi possiamo richiamarcene alla autorità superiore, mostrare il torto che riceviamo e chiedere giustizia nei modi onesti e stabiliti, ma rivoltarci contro di loro non mai; l’interesse pubblico e l’ordine posto da Dio non lo consente. I ribelli a Mosè là nel deserto furono percossi da Dio; se al presente Dio non punisce i riottosi quaggiù in modo visibile, senza fallo non sfuggiranno alla sua giustizia nella vita futura. Rispettiamo dunque, o cari, ogni autorità, quale ch’essa sia, e quelli che ne sono investiti, e rispettiamoli in ragione della grandezza ed eccellenza dell’autorità stessa, perché questo è il volere di Dio e chi vien meno non sfuggirà al castigo di Colui che disse: Chi sprezza voi sprezza me. Seguitiamo il testo dell’Apostolo: “Ora tutte queste cose avvenivano a quelli, vale a dire agli Ebrei, in figura e sono scritte ad ammonimento di noi, nei quali i termini dei secoli si sono riscontrati, „ ossia di noi, che veniamo ultimi, nell’ultimo periodo dei secoli. Siamo dunque accertati per questa sentenza dell’Apostolo, che tutti i fatti accaduti agli Ebrei e qui commemorati, erano e sono una figura di ciò che accade nella Chiesa, e devono essere un ammaestramento per noi. Ve lo dissi altra volta, i fatti dell’antico Testamento sono anch’essi come altrettante parole, che ci ammaestrano intorno ai nostri doveri, a ciò che dobbiamo credere, fare od evitare, ed è questo quel senso delle Scritture, che dicesi mistico, o recondito. – Forseché tutti e ciascuno dei fatti registrati nell’antico Patto sono figure di dottrine e di fatti del nuovo Testamento? Ciò sarebbe eccessivo, e S. Paolo non disse semplicemente “ tutte le cose, „ ma si tutte queste cose, che vi ho accennato, erano figura di quello che sarebbe avvenuto nel nuovo patto. – L’Apostolo, dopo aver toccati questi quattro fatti dell’antico Patto e cavatane la pratica morale pei fedeli di Corinto, ai quali scrive, passa ad una osservazione od esortazione generale, scrivendo; “Chi crede di stare ritto in piedi, veda di non cadere. „ Avete visto, o cari, così egli, come i figli d’Israele, messi alla prova caddero; vedete ancor voi, che vi riputate saldi, di non cadere come quelli. La nostra volontà è debole, si muta ad ogni istante, e benché siamo certi che l’aiuto della grazia divina a chi lo vuole non fa mai difetto, non siamo mai certi di corrispondere alla stessa, e perciò la nostra perseveranza nel bene a Dio solo è nota. Diffidiamo dunque di noi stessi, temiamo della nostra debolezza, umiliamoci dinanzi a Dio, preghiamolo con gran fede: sono questi i mezzi per star fermi nella grazia ricevuta. Viviamo sulla terra, vero campo di incessanti battaglie: affrancarci da ogni tentazione, interna od esterna, non è possibile. Che fare? “ Nessuna tentazione vi colga, scrive S. Paolo, se non umana: „ Tentatio vos non apprehendat, nisi humana. Che cosa è dessa questa tentazione umana? Penso che mente dell’Apostolo sia di esortare i fedeli a fuggire tutte le tentazioni che si possono fuggire, rassegnandosi a quelle, che sono inevitabili e a queste virilmente resistendo. Vi sono tentazioni, che è in poter nostro prevenire e schivare, e queste, secondo le circostanze, con ogni cura preveniamo e schiviamo: vi sono altre tentazioni, che nostro malgrado ci si affacciano, ci stringono, ci travagliano in mille modi, e vengono dalla carne, dal mondo, dal demonio: queste si dicono umane da S. Paolo, cioè inerenti alla nostra condizione presente, che avvengono secondo l’andamento ordinario delle cose umane. Queste Iddio le permette per i suoi fini altissimi e per il nostro bene. E allorché queste tentazioni umane sopraggiungono e vi molestano, quale deve essere la vostra regola e la vostra condotta? Anzi tutto ricordatevi, che “ Dio è fedele: „ Fidelis Deus est: ciò che promette, fedelmente mantiene: ha promesso di aiutarvi; non ne dubitate, vi aiuterà secondo il bisogno. Non basta: imporreste voi al vostro servo, ai vostri figliuoli un peso troppo grave, sotto del quale rimarrebbero oppressi? No, di certo; se lo faceste, sareste ingiusti e crudeli: ora voi siete servi di Dio, anzi suoi figli bene amati: sarebbe bestemmia pure il pensare che Iddio, padrone giustissimo, anzi Padre amorosissimo, vi sottometta ad una prova o tentazione superiore alle vostre forze; statene sicuri: “ Dio non lascerà che siate tentati sopra ciò che potete. „ E verità insegnata in termini da S. Paolo, e quando pure non la trovassimo nei libri santi, la dovremmo tenere per la sola ragione, tanto essa è manifesta. Nessuno adunque dica giammai: “La tentazione era troppo forte; io era impotente a resistere. É una menzogna, un’ingiuria atroce a Dio, è un far ricadere sopra di Lui la causa del nostro peccato. Dio non comanda mai cose impossibili, o se le comanda, dà la forza perché siano possibili. E verità questa consolante per noi tutti, che ogni giorno ci troviamo alle prese col nemico e che ci toglie ogni scusa se soccombiamo. – Va innanzi S. Paolo ed alle due verità sì belle e sì consolanti espresse nelle due sentenze brevissime: “Dio è fedele, e non permetterà, che siate tentati sopra le vostre forze, „ ne fa seguire una terza, dicendo: Ma con la tentazione darà l’uscita a poterla sostenere: „ Sed faciet cum tentatione proventum, ut possìtis sustinere. Permettendo che la tentazione v’incolga, Dio vi darà la grazia di uscirne vittoriosi, e lungi dal riportarne danno alcuno, ne avrete vantaggi non lievi. Quali? Quelli che riporta il soldato valoroso, che torna vincitore dalle battaglie. Questo nelle battaglie si addestra sempre meglio a combattere il nemico ed a vincerlo, onde tra i soldati novelli il veterano a ragione si reputa più valente. Come gli atti ripetuti in un’arte qualunque ci danno l’abito della stessa e ce ne rendono più facile e più perfetto l’esercizio, cosi le tentazioni sviluppano meglio le forze spirituali, ci fanno più forti e più generosi, ci fanno correre più speditamente la via della virtù e della perfezione e per conseguenza ci rendono più agevole la resistenza alle tentazioni future: Ut possitis sustinere. Finalmente le tentazioni ci porgono occasione di procacciarci maggiori meriti pel cielo, giacché ogni tentazione superata è una vittoria riportata sul nemico, ed ogni vittoria ci dà il diritto ad una nuova corona, secondochè sta scritto: “ Colui che avrà debitamente combattuto riceverà la corona. „

Graduale  Ps VIII:2
Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in universa terra!
[Signore, Signore nostro, quanto ammirabile è il tuo nome su tutta la terra!]
V. Quóniam eleváta est magnificéntia tua super cœlos. Allelúja, allelúja
[Poiché la tua magnificenza sorpassa i cieli. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps LVIII:2
Alleluja, Alleluja

Eripe me de inimícis meis, Deus meus: et ab insurgéntibus in me líbera me. Allelúja.  [Allontànami dai miei nemici, o mio Dio: e líberami da coloro che insorgono contro di me. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIX:41-47
“In illo témpore: Cum appropinquáret Jesus Jerúsalem, videns civitátem, flevit super illam, dicens: Quia si cognovísses et tu, et quidem in hac die tua, quæ ad pacem tibi, nunc autem abscóndita sunt ab óculis tuis. Quia vénient dies in te: et circúmdabunt te inimíci tui vallo, et circúmdabunt te: et coangustábunt te úndique: et ad terram prostérnent te, et fílios tuos, qui in te sunt, et non relínquent in te lápidem super lápidem: eo quod non cognóveris tempus visitatiónis tuæ.
Et ingréssus in templum, coepit ejícere vendéntes in illo et eméntes, dicens illis: Scriptum est: Quia domus mea domus oratiónis est. Vos autem fecístis illam speluncam latrónum. Et erat docens cotídie in templo”.

Omelia II

(Mons. Bonomelli, ut supra, om. XX)

“E come Gesù si appressava alla città, vedendola, pianse sopra di lei, e disse: Oh! se tu, almeno in questo tuo giorno, avessi conosciute le cose, che si appartengono alla tua pace; ma ora sono nascoste agli occhi tuoi. Che ti sopravverranno giorni, nei quali ti cingeranno di trincee e ti circonderanno “ e ti stringeranno d’ogni intorno. E atterreranno te e i tuoi figliuoli dentro di te e non lasceranno in te pietra sopra pietra, perché non hai conosciuto il giorno propizio della tua visitazione. Ed entrato nel tempio, prese a scacciarne coloro che vi vendevano e comperavano, dicendo loro: Sta scritto: La mia casa è casa di orazione; “ ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri. Ed ogni giorno egli insegnava nel tempio „ (S. Luca, XIX, 41-47).

Udendo questa breve narrazione evangelica, voi tutti senza dubbio vi sarete accorti, che contiene due parti distinte: nella prima si dice che Gesù, alla vista di Gerusalemme pianse, e si riferiscono le parole, piene di dolore e di amore, che piangendo pronunciò sopra di essa; nella seconda parte si narra come entrò nel tempio e di là cacciò i profanatori. Noi verremo considerando i due fatti narratici dal Vangelo e ci studieremo di cavarne alcune pratiche conseguenze a nostra edificazione. Il miracolo della risurrezione di Lazzaro, operato sulle porte di Gerusalemme, alla presenza di tanti testimoni, per le circostanze particolari e gravissime che l’accompagnarono, aveva gagliardamente scosso l’opinione pubblica, e rinfocolato l’odio feroce dei nemici di Gesù Cristo. Essi avevano tenuto consiglio e deliberato di togliergli prontamente la vita, e così spegnere con Lui la nuova religione. Gesù sapeva ogni cosa e, non essendo giunta l’ora per Lui stabilita di darsi in mano dei suoi nemici, si ritrasse più lontano, presso al deserto, in una cittadella che si chiamava Efraim, e che ora non sappiamo dove precisamente fosse. Dopo alcuni giorni, venuto il tempo per Lui determinato, mosse alla volta di Gerusalemme insieme coi discepoli e giunse a Betania, a tre chilometri da Gerusalemme e, come è bene a credere, scese a casa di Lazzaro e delle sorelle. Era imminente la Pasqua, quella Pasqua, in cui Gesù doveva immolare se stesso: sei giorni prima della Pasqua, Egli da Betania andò verso Gerusalemme, dove era già gran moltitudine di devoti pellegrini [Gli scrittori, e tra questi il Bonghi (pag. 342, Vita di Gesù), fanno salire a tre milioni i pellegrini che per la Pasqua si adunavano a Gerusalemme, gran parte dei quali si attendava in campagna, come si usava e si usa in Oriente.] che vi accorrevano d’ogni parte. Montando l’umile cavalcatura, procuratagli dai discepoli, salì il colle degli Olivi, che è a meno di un chilometro dalla città. – La salita del colle degli Olivi da Betania, ossia da oriente è dolce e si può fare comodamente: ma la discesa del versante verso occidente, cioè a cavaliere della città, è ripida assai e non si può fare che girando e rigirando il colle. Dalla cresta del colle, qua e là sparso di olivi anche al presente e seminato di case, di alcune moschee e di alcuni grandi edifici religiosi cattolici e scismatici russi, si gode la più magnifica vista di Gerusalemme. Sul colle di Sion, che sorge di fronte, maestosa e severa giganteggia la torre di Davide, più basso si vedono le cupole del santo sepolcro, più basso ancora la moschea di Omar, la reggia di Erode o torre Antonia. Gesù dovette giungere sulla cima del colle e si addita ancora il luogo, dove si fermò e dove si vede una cappella col titolo: Dominus flevit: Gesù pianse. Di là volse lo sguardo sulla città che stava ai suoi piedi: un velo profondo di mestizia coperse il suo volto, e mentre la folla che lo seguitava, faceva rimbombare il colle e la valle sottoposta delle sue grida festose: “Osanna al Figliuolo di Davide; benedetto Colui, che viene nel nome del Signore, „ Egli, l’amabile Salvatore, pianse: Videns civitatem flevit super illam. Notate che il fatto del pianto di Gesù sopra Gerusalemme è riferito dal solo S. Luca, ed è riferito in modo che apparisce chiaramente, averlo Egli versato mentre il popolo lo acclamava e lo copriva di applausi. Mirabile questo contrasto delle lacrime di Gesù e del trionfo con cui è accolto; la folla è giubilante e Gesù ha il cuore colmo di mestizia e piange di dolore, dacché è fuor di dubbio dalle parole che seguono, ch’Egli pianse non di gioia, ma sì di dolore e di dolore acutissimo. Gesù pianse sopra Gerusalemme: Flevit super illam! Pianse cioè sopra la durezza, la cecità, la ingratitudine e la perfidia di quella rea città, che aveva chiusi gli occhi ai suoi miracoli e gli orecchi alle parole di verità, che le aveva rivolte; pianse sopra il delitto spaventoso che fra pochi giorni avrebbe consumato nella sua persona stessa, e forse da quel luogo poteva scorgere il sito, dove l’avrebbe confitto alla croce; e pianse sopra tutto, pensando alla tremendissima vendetta, che la giustizia del Padre avrebbe fatto di quella sventurata città. Quelle erano lacrime di dolore e di amore, egualmente intensi, l’uno causa dell’altro. – L’amore ardentissimo di Gesù per quella infelice città era la cagione dell’atrocissimo suo dolore e del pianto amaro che ne era il segno esterno visibile. Gesù era Dio e uomo; come Dio, Creatore, conservatore e Redentore di tutti gli uomini, tutti li amava e quanto! Come uomo anche li amava: erano tutti fratelli suoi secondo la carne, tutti fatti ad immagine di Dio; come uomo poi, doveva amare d’un amore peculiare la sua nazione, il centro della sua nazione, Gerusalemme, e ne aveva dato prove non dubbie, scegliendola a teatro dei suoi miracoli e della sua predicazione. I diritti e i doveri di natura sono sacri, perché vengono immediatamente da Dio e precedono quelli stessi della grazia. A quel modo che  Gesù, Dio-Uomo, doveva amare la madre sua, Giuseppe e i suoi congiunti più di tutti i suoi connazionali, così doveva amare Israele e Gerusalemme più d’ogni altra nazione e città. Era la sua patria, e l’obbligo di amare la patria, dice S. Tommaso, non è che una estensione di quello che abbiamo di amare i genitori e la famiglia. Il Figliuolo di Dio avendo voluto farsi uomo e scegliersi una madre ed i consanguinei, volle anche e dovette volere una patria, e come dubitare che adempisse verso di essa ed in modo perfettissimo tutti i doveri di buon figliuolo? L’amore verso la patria, cioè verso quel paese che ci vide nascere, che chiude in seno le spoglie mortali dei nostri cari, e forse un giorno le nostre; dove sorge la chiesa, nella quale fummo battezzati, che compendia in sé tutte le nostre più dolci e sante memorie; l’amore della patria sgorga dalla natura, viene da Dio, autore della natura ed è un dovere sacro, che dobbiamo religiosamente adempire. Bene sciagurato è colui che non ama la patria sua: egli fa oltraggio alla natura e a Dio stesso. Vero è che anche questo amore della patria, come quello dei genitori ed ogni altro amore, deve essere sempre conforme alle leggi eterne ed inviolabili della giustizia, perché sia vero ed onesto amore. Gesù amava teneramente la patria sua e più Gerusalemme, perché maggiori erano i titoli ch’essa aveva all’amor suo, e quel piangere, quel singhiozzare ch’Egli fece alla vista di essa, vi dicono qual fosse l’amor suo, come sentisse al vivo gli orribili castighi che le sovrastano, e più ancora le colpe enormi che quei castighi avrebbero provocato. – Quali fossero i motivi che fecero piangere e singhiozzare Gesù alla vista di Gerusalemme, era facile rilevarli; la natura delle cose e l’insieme delle circostanze li mostravano ad evidenza: ma a quelle lacrime ed a quei singhiozzi, Egli aggiunse le parole, e spiegò chiaramente l’animo suo. Uditelo: “ O se tu almeno, in questo tuo giorno, avessi conosciute le cose che appartengono alla tua pace! ma ora sono nascoste agli occhi tuoi! „ Questo grido erompe dal cuore di Gesù profondamente afflitto, e più che afflitto, trangosciato; l’espressione rotta, che lascia intendere più assai che non dica, ne è prova manifesta.  Essa, tradotta in linguaggio più chiaro, suona cosi: Se tu pure, o Gerusalemme, conoscessi come conosco Io, almeno oggi, ciò che devi fare per aver pace, la vera pace, tu saresti salva: ma, ohimè! tu ostinata e cieca non lo conosci e sei perduta —. E quali erano le cose che Gerusalemme doveva conoscere per avere salvezza e che nella sua pertinacia non conosceva? Non occorre il dirle. Essa non aveva conosciuto Lui, Messia e Salvatore promesso: l’aveva ostinatamente respinto e fra cinque giorni lo avrebbe appeso alla croce: Egli tutto aveva fatto per salvarla, miracoli, promesse, minacce, inviti pieni di carità, ma tutto indarno: ora la misura è piena, alla carità sottentra la giustizia e il ripudio della misera città è ormai consumato: Gerusalemme, quella Gerusalemme, che gli sta dinanzi, che ha tanto amato, in cui si concentrano tutte le glorie della sua nazione, della sua patria, è irrevocabilmente perduta, e Gesù, oppresso dal dolore, piange e singhiozza! È una delle scene più tenere del Vangelo e che rivela mirabilmente il cuore di Gesù. – I Padri in Gerusalemme ravvisano la figura di ogni anima cristiana, che è sorda agli stimoli della grazia e alla voce di Dio, che la chiama a penitenza. Quante anime, o carissimi, sulle quali Gesù piange amaramente! Egli le ha fatte sue col santo Battesimo, le ha ricolmate di grazie: ha fatto conoscere loro le eterne verità, le ha nutrite di se stesso, le ha amate come frutto della sua conquista, prezzo del suo sangue, figlie al suo cuore carissime. Ed esse che han fatto? Si sono allontanate da Lui, gli hanno voltate le spalle villanamente: con la più nera ingratitudine non hanno corrisposto ai suoi favori, al suo amore: hanno accumulate iniquità sopra iniquità: hanno fatto lega coi nemici di Lui, hanno respinta la sua dottrina, bestemmiato il suo Nome, insozzato quel cuore, che a Lui solo era consacrato e ciò per mesi, per anni e per lustri. Povere anime! Gesù le guarda con occhio d’amore e di inesprimibile mestizia: le vede danzare sull’orlo dell’abisso e piange sopra di esse, come sopra di Gerusalemme, e ripete lo stesso pietoso lamento: “O se tu ancora, almeno in questo tuo giorno, avessi conosciute le cose che fanno alla tua pace! Ma ora sono nascoste ai tuoi occhi! „ Deh! che il pianto ed il grido di dolore che esce dal cuor di Gesù sopra queste anime ingrate e cieche, non rimangano sterili! Deh! che nessuna di queste anime infelici rinnovi in se stessa la storia sì terribile di Gerusalemme! Dopo aver pianto sulla ostinazione di Gerusalemme e sfogato il suo dolore sui mali morali della sciagurata città, il suo sguardo si spinge nell’avvenire, a Lui manifesto come il presente; vede la catastrofe spaventosa, che fra quarant’anni la farà scomparire per sempre dalla terra, disperdendo ai quattro venti tutti i suoi figli: vede gli orrori inenarrabili di quell’assedio, di quegli assalti, di quell’eccidio senza nome, e li tratteggia in due versetti in guisa da sembrare storia anziché profezia. Ecco le sue parole: “ Ti sopravverranno giorni, nei quali i tuoi nemici ti cingeranno di trincee e ti stringeranno d’ogni intorno, e atterreranno te e i tuoi figliuoli dentro di te, né lasceranno in te pietra sopra pietra, perché non hai conosciuto il giorno propizio della tua visitazione. „ E prezzo dell’opera, o cari, considerare questa profezia sì memoranda in ogni sua parte. – E primieramente noi sappiamo che non sempre i mali della vita presente sono castighi dei peccati. Noi vediamo frequenti volte, uomini giusti e santi oppressi da mali e dolori d’ogni genere: vedete Gesù Cristo, la Vergine, gli Apostoli, i martiri, i santi tutti, di tutti i tempi: che non soffersero nei beni materiali, nel corpo, nell’onore, nell’anima! Vedete i loro nemici e crudeli persecutori, ricchi, spesso onorati, umanamente felici. È questo il pauroso problema e direi quasi lo scandalo di molti che vedono la virtù calpestata ed il vizio trionfante! Guardiamoci dunque, o cari, dal dire: questi sono percossi da ogni sorta di mali: dunque sono grandi peccatori e li meritano. Per contrario questi altri sono colmi d’ogni prosperità: dunque sono virtuosi e Dio li benedice. È una regola sommamente fallace, e Gesù Cristo più volte nel Vangelo, ci avverte che se vogliamo essere suoi discepoli, dobbiamo aspettarci d’essere trattati come fu trattato Egli stesso. Quantunque le sventure e i mali temporali non si debbano sempre considerare come una punizione da Dio inflitta pei peccati, vi sono casi nei quali ciò si può dire con fondamento, in quanto che vi sono argomenti che lo dimostrano. Nel caso nostro la cosa è indubitata. L’immenso disastro, che cadde sopra Gerusalemme e l’intera nazione ebraica, vuolsi ritenere come una giustissima vendetta dei suoi delitti, perché Gesù Cristo stesso lo disse in termini. Tutti questi mali verranno sopra di te, cosi Gesù Cristo: “Perché non hai conosciuto il tempo propizio della tua visitazione: „ Eo quod non cognovéris tempus visitationis tuæ. – Questo vaticinio di Cristo fu pronunciato circa quarant’anni prima che si compisse, e registrato nel Vangelo di S. Matteo circa otto anni, nel Vangelo di S. Marco, circa quindici anni, in questo di S. Luca circa vent’anni dopo l’Ascensione di Cristo: ciò è indubitato dalla storia, come è indubitato che i Cristiani lo conoscevano e ne fecero tesoro, fuggendo tutti dalla città, secondo il comando di Cristo, che aveva detto: “ Allorché vedrete la desolazione nel luogo santo e gli eserciti nemici appressarsi alla città, fuggite ai monti, e chi legge, se ne rammenti: “Fugite ad montes… Qui legit intelligat,,. È questa, diceva, una delle profezie più splendide e più certe che abbiamo nel Vangelo, perché fatta prima e fatta e registrata in modo chiarissimo; perché è tal complesso di fatti sì particolareggiati e dipendenti dalla volontà libera degli uomini, che solo la mente di Dio poteva conoscere, e perché in ogni sua parte si adempì esattamente. Dell’avveramento perfetto di questa profezia di Gesù Cristo abbiamo tra le altre la testimonianza superiore ad ogni eccezione di Giuseppe Flavio. Egli prese parte a principio ai combattimenti tra Romani ed Ebrei, pugnando valorosamente per questi. Poi, fatto prigioniero, rimase nel campo romano, adoperandosi come meglio poteva a favore de’ suoi connazionali. A lui siamo debitori dei più interessanti particolari di quella lotta spaventevole, che finì con lo sterminio di Gerusalemme e con la dispersione del popolo superstite. I Romani, condotti da Tito, figlio di Vespasiano, in soli tre giorni cinsero la vasta città di un muro di otto chilometri: Circumdabunt te inimici tui vallo et coangustabunt te undique; la profezia di Cristo è d’una precisione meravigliosa. I cittadini, chiusi in grandissimo numero, perché vi erano accorsi da ogni parte come nell’ultimo loro propugnacolo, vi si difesero disperatamente. Sospesi i combattimenti esterni coi nemici, cominciavano gli interni tra loro, fino nel tempio: la fame li struggeva non meno del ferro e una madre uccise il suo bambolo per sfamarsi delle sue carni. Molti non potendo più reggere agli orrori della fame e delle stragi cittadine, fuggivano nel campo romano: ma nei soldati romani era nata l’idea che gli Ebrei, fuggendo dalla città, trafugassero i loro tesori, inghiottendosi l’oro; per impossessarsene, squartavano quei miseri e nelle fumanti viscere cercavano l’oro agognato, e non trovandolo, per rabbia li crocifiggevano, e ben presto si vide la città tutto intorno, coronata da una selva di crocifissi. – Dopo un lungo e ferocissimo assedio, la città fu presa d’assalto: gli Ebrei furibondi si ridussero nel tempio e vi si difendevano col coraggio della disperazione. Vi fu appiccato il fuoco da un soldato romano e quella meraviglia di tempio in pochi istanti fu avvolto tra le fiamme. Alla vista dell’incendio, quegli sventuratissimi Ebrei superstiti nel tempio, volsero le armi gli uni contro gli altri, trucidandosi a vicenda e
lanciandosi tra le fiamme. Perirono in quella guerra senza esempio, più d’un milione di Ebrei e parecchie centinaia di migliaia furono condotti via schiavi e venduti a pochi soldi l’uno. Cosi ebbe compimento la profezia di Cristo, il tempio fu arso e distrutto, la città smantellata e l’intera nazione dispersa ai quattro venti, per non aver conosciuto il tempo della sua visitazione: Eo quod non cognoveris tempus visitationis tuæ. Dio è buono e misericordioso, ma è altresì giusto: quel popolo, che respinse il vero Messia e lo mise barbaramente a morte, prestò fede ai falsi Messia, che gli promettevano la vittoria sui Romani e la libertà, e lo spinsero alla rivolta e alla guerra, e cosi si trasse egli stesso in capo la vendetta divina. – Ma ora torniamo al nostro Vangelo. “Gesù, entrato nel tempio, prese a scacciarne coloro che vi comperavano e vendevano, dicendo loro: Sta scritto: La casa mia è casa d’orazione, e voi l’avete tramutata in una spelonca di ladri. Gesù accompagnato dalla folla plaudente, giunse presso il tempio, ma non vi entrò e se ne tornò a Betania, credo senz’altro nella casa ospitale di Lazzaro e delle sorelle. Il dì seguente ritornò in Gerusalemme (era il nostro lunedì santo) e andò di filato al tempio. Trovò gli atrii ed i portici ingombri di venditori e compratori di cose spettanti al culto ed ai sacrifici che si dovevano offrire: v’erano anche cambiatori di monete, che vi facevano grossi guadagni. Gesù scacciò bruscamente tutti costoro come profanatori del tempio. Due volte Gesù scacciò da quei luoghi i profanatori; la prima volta allorché al cominciamento della sua vita pubblica si recò a Gerusalemme per celebrare la prima Pasqua, ed è narrata da S. Giovanni (c. II, 14-17): la seconda al
chiudersi della sua vita pubblica, tre di prima della sua passione, ed è questa narrata dagli altri tre Evangelisti; cosi il Salvatore comincia e chiude la sua predicazione  in Gerusalemme con lo stesso atto di zelo per l’onore della casa di Dio, volendo significare, che unico e supremo fine della sua missione era la gloria del Padre suo. – Cacciando tutta quella gente, che aveva mutato l’atrio ed i portici del tempio in un mercato, pronunciò queste parole d’Isaia: La casa mia è casa d’orazione. Quale lezione per noi, o dilettissimi! Se l’atrio ed i portici del tempio antico, quasi appendici del medesimo, son detti “casa di orazione, „ che dire dei nostri templi, dei quali l’antico non era che una povera figura? La chiesa nostra è dunque per eccellenza casa di orazione: Domus orationis! Non è dunque luogo di conversazione, punto di geniali convegni, dove si venga per vedere od essere veduti, per fare sfoggio di mode e di lusso, per soddisfare la propria o l’altrui curiosità. La chiesa è il luogo di preghiera: Domus orationis. Andiamovi adunque per pregare, ringraziare ed adorare Iddio; per udire la sua parola; per ricevere i Sacramenti e con essi e per essi la grazia; in breve, andiamovi e dimoriamovi come si conviene andare e dimorare nella casa di Dio, o casa di orazione. “ E Gesù stava ogni giorno ammaestrando nel tempio, „ è l’ultimo versetto della nostra lezione evangelica. Il lunedì, dopo il suo ingresso trionfale, il martedì ed il mercoledì precedenti la sua passione, che cominciò il giovedì sera, Gesù li passò nel tempio, predicando: la sera ritornava a Betania per rivenire nel mattino al tempio e continuare l’opera sua. Quando si pensa che Gesù sapeva tutto con tutta la certezza, che gli veniva dalla sua scienza divina; che contava le ore di vita che gli rimanevano e vedeva tutta l’orrida tragedia che si doveva consumare nella sua Persona; che vedeva lì nel tempio, intorno a sè, gli implacabili suoi nemici, che avevano già stabilita la sua morte; quando si pensa a tutto questo e si vede Gesù, che dimentico affatto di se stesso, continua la sua santa missione fino all’ultimo momento, ammaestra il popolo, conforta i suoi cari, e studia tutte le vie per far penetrare la verità nella mente e nel cuore de’ suoi nemici, noi siamo costretti ad ammirare il suo coraggio eroico, il suo zelo instancabile, la sua infinita carità e ad esclamare: O Gesù! voi siete il Cristo, il Figlio di Dio, il Salvatore del mondo!

Credo …

Offertorium
Orémus
Ps XVIII:9;10;11;12
Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulcióra super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.
[La legge del Signore è retta e rallegra i cuori, i suoi giudizii sono piú dolci del miele e del favo: e il servo li custodisce.]

Secreta
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine, hæc digne frequentáre mystéria: quia, quóties hujus hóstiæ commemorátio celebrátur, opus nostræ redemptiónis exercétur. [Concedici, o Signore, Te ne preghiamo, di frequentare degnamente questi misteri, perché quante volte si celebra la commemorazione di questo sacrificio, altrettante si compie l’opera della nostra redenzione.]

Communio

Joann VI:57
Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo, dicit Dóminus.
[Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me, ed io in lui, dice il Signore.]

Postcommunio
Orémus.
Tui nobis, quǽsumus, Dómine, commúnio sacraménti, et purificatiónem cónferat, et tríbuat unitátem.
[O Signore, Te ne preghiamo, la partecipazione del tuo sacramento serva a purificarci e a creare in noi un’unione perfetta.]