GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (34): GNOSI ED UMANESIMO – 3 –

GNOSI, TEOLOGIA DI Satana (34)

Gnosi ed UMANESIMO -3-

[Elaborato da: É Couvert: La gnose contre la foi, Ed. de Chiré, 1989]

ALCUNI UMANISTI:

A) Cornelio Agrippa

Cornelio Agrippa di Mettersheim (nato a Colonia nel 1486, morto a Grenoble nel 1533), è un buon esempio di umanista. Egli fu iniziato alla kabbala e all’occultismo dall’abate Giovanni Tritemio (Johann Trithémius). Quest’ultimo a sua volta è il tipo perfetto del prete “modernista” novus-ordo ante litteram. Egli aveva raggruppato attorno a lui i suoi discepoli a Wuzburg, fu il maestro di Paracelso, che era stato anch’egli iniziato alla magia. Cornelio Agrippa compone già all’età di 25 anni un libro sulla filosofia occulta, impregnata di kabbala giudaica; insegna l’alta teologia annunciando agli “eletti” i segreti del Vangelo. Sull’esempio di Tritemio, attacca violentemente i monaci. Nel 1509 si reca a Dole, ove viene aggregato come membro dell’Accademia e da inizio a delle lezioni pubbliche sul trattato di Reuchlin “De Verbo Mirifico”, in cui Reuchlin riuniva le dottrine della Kabbala e di Pitagora. Recandosi a Dole, nella contea di Bourgogne, spera di guadagnarsi la benevolenza di Marherita d’Austria. Scrive a questo scopo un discorso sul « La nobiltà ed eccellenza del sesso femminile » e glielo dedica, dandolo alla stampa nel 1529: « L’uomo, scrive, è Adamo, è la natura, la carne, la materia. La donna è Eva, la vita, l’anima, il misterioso tetragramma dell’ineffabile onnipotenza divina. La donna ebbe per culla il Paradiso, l’uomo vide il giorno in mezzo ai bruti. La donna è superiore all’uomo, sia per spirito che per bellezza, questo riflesso della divinità, questo raggio di luce celeste, ancor più la donna è Dio stesso… » Si riconoscono, sotto queste enormi ed assurde adulazioni, delle nozioni certamente gnostiche, il « tetragramma sacro » in particolare, e l’idea della “Sophia”, la saggezza femminile del divino, l’idea anche dell’« eterno femminino », ben conosciuto dai Teilhardiani. – Questo discorso non piace però a Margherita d’Austria, perché il provinciale dei francescani, Jean Catelinet, predicando la Quaresima nel 1510, davanti al governatore dei Paesi Bassi, denuncia Cornelio Agrippa come « eretico giudaizzante ». – Ma sempre spinto da Tritemio, l’Agrippa spiega che tutte le dottrine sulla magia, l’Astrologia e l’Alchimia, devono essere comprese secondo un senso mistico. Nel 1512 diviene consigliere imperiale  dell’imperatore Massimiliano, nel 1515 dà delle lezioni a Pavia su Hermete Trismegisto, vi si sposa ed è ricevuto come dottore in diritto e medicina. Diviene così rispettato, onorato, coccolato. Poi nel 1529 Margherita d’Austria lo nomina suo consigliere, fiduciario e storico: risultato di un’abile scalata progressiva, frutto di una lunga pazienza, a coronamento di una ambiziosa carriera:  ormai, potrà scrivere in tutta sicurezza, protetto da personaggi così eminenti dai tribunali ecclesiastici. – Vediamo il suo insegnamento. Nel suo trattato:  “De incertitude et vanitate scientium”, parte con una guerra alla ragione umana, professa uno scetticismo generalizzato sul quale costruisce la sua mistica; insegna l’unione mistica del nostro spirito con la natura e con Dio. Attacca Aristotele e la sua logica, ovviamente. Trova ridicolo quel che ci vuole portare a concludere: «  Si pensa – egli scrive – che le nostre conoscenze debbano uscire dai sensi, ma i sensi sono ingannevoli, essi non possono conoscere le cose donde tuttavia bisogna estrarre tutte le nostre conoscenze. » Da qui la conclusione che ogni uomo debba convincersi che la verità non possa essere conosciuta se non con la libera adesione alla fede: « La bontà dell’uomo non si fonda che sul libero arbitrio, che si prova con la fede, nella quale tutti ci volgiamo verso Dio, fonte di ogni verità. Non è la lingua, ma il cuore, la sede di ogni verità. Non è la ragione, ma la volontà che ci unisce a Dio. » Ecco una bella definizione del fideismo, con un culto della volontà, privata della sua norma, la ragione, posta alla sorgente della conoscenza. È il Modernismo… Cornelio edifica la Teologia sulla santa Scrittura, ed imputa ai teologi l’aver privato il popolo di questa unica fonte di religione, ma … non bisogna comprendere la scrittura alla lettera. Essa non rivela il suo vero senso se non con l’illuminazione divina dello Spirito-Santo. Dio solo è verace, gli uomini sono tutti mentitori. Con la nostra ragione, che specula a torto e a traverso, noi non possiamo comprendere il senso mistico della Parola rivelata. « La nostra fede – egli dice – deve essere diretta da Dio. Dio solo è verace, ed è  a lui che siamo connessi mediante la Fede, Egli ci rivela tutto, ci fa vedere tutto in Lui. » Evidentemente, se l’anima umana è una particella divina, scintilla luminosa piombata in un corpo, non ha bisogno di un ausilio naturale, come è la ragione, per raggiungere penosamente, con tanto sforzo e rischio di errori, una Verità che possediamo già in noi stessi, poiché la nostra anima è già piena di ogni conoscenza, essa che è la sorgente stessa di tutte le idee, in connessione con la Natura di Dio. Da qui questo disprezzo della ragione che è comune a tutta la gnosi da sempre. disprezzo che ritroviamo in Lutero, come nel Romanticismo ed nel “Tradizionalismo” del secolo scorso. – Nella sua opera De occulta philosophia, Cornelio Agrippa riprende l’insegnamento dei neo-platonici. Alla maniera degli umanisti del XVI secolo, come abbiamo in precedenza esposto, egli parla degli dei, afferma che i peccatori ed i pagani sono stati presi dallo Spirito angelico o divino; « Inoltre – egli dice – tutte le religioni sono buone, benché la cristiana sia la migliore. » – « La religione – ancora scrive – purifica lo spirito e lo rende divino; con questo aumenta le forze della natura … » – « … Una forza universale anima il mondo e vi si rivela, ma tutto deve essere ricondotto alle idee di Dio, le quali sono “uno” in Lui, ma multiple nell’anima del mondo; questo le infonde nelle cose inferiori per mezzo degli astri, cioè nella materia, esse non esistono se non come ombre. Esse sono anche nel nostro spirito, sono innate, come insegna Platone … le cose materiali sono occupate da forze occulte. Gli elementi sono pieni di vita e di anima. Uno spirito li mette in movimento. Da qui la necessità di una sorgente universale di vita, vale a dire dell’anima del mondo, seguendo Platone. » Da questi estratti  dalla sua “Philosophia Occulta”, si vede come Cornelio Agrippa fosse profondamente panteista. Tutti questi temi sono comuni in effetti a Platone e alla gnosi. Non ci si domanda più come sia potuto sfuggire ai fulmini della Chiesa, conoscendo ora i suoi potenti protettori.

B) L’ecumenismo secondo Tommaso Moro.

Tommaso Moro o Morus (1485-1535), gran cancelliere di Inghilterra sotto il Re Enrico VII, fu decapitato su ordine del Re, il 6 luglio 1535, per aver rifiutato di rinnegare la sua fede cattolica. Egli fu dunque realmente martire. La recita della sua prigionia e della sua morte è ammirevole. La Chiesa romana lo ha canonizzato giustamente nel 1935. Ma questa non deve ingannarci, intanto perché egli fu, in tutta la sua vita, un umanista profondamente paganizzato ed un amico intimo di Erasmo, di cui parleremo a breve. La sua conversione finale resta così il frutto della grazia divina e della libertà umana. Non si può trovare una spiegazione semplicemente umana, e niente nella sua vita passata, né nella sua attività intellettuale, poteva lasciar prevedere una tale conversione. – Il suo celebre libro l’Utopia, ispirato alla Repubblica di Platone, è un’opera veramente sovversiva della fede cristiana. Noi abbiamo già mostrato che l’ideale di vita espressa in tutte le pagine del libro, è totalmente pagano, che non c’è posto in Utopia per qualunque religione, perché gli “utopisti” sono belli, buoni, perfetti, pienamente felici nella soddisfazione di tutti i loro istinti e nell’esaltazione dei loro piaceri. – L’isola di Utopia ha una forma ovale: è una terra ben protetta da rocce circondate da acque tiepide e tranquille, è fertile ed accogliente. La sua capitale Amorante, alla foce del fiume, ha la posizione esatta dell’embrione nel seno materno. L’Utopia è previdente, nutrice, materna. Essa è l’uovo primitivo da cui sono usciti tutti i mondi che popolano l’universo, essa è la cellula originale, la matrice del mondo, di più: essa è Dio diffusa per emanazione in tutti gli esseri. L’ispirazione del libro è nettamente panteista. – Ma continuiamo la nostra esplorazione attraverso l’isola di Utopia. Come nella Repubblica di Platone, così come nello Stato sovietico, tutto vi è regolato con una precisione tipica di un orologiaio. Tutte le attività, private e pubbliche, sono minuziosamente regolate. Non c’è lo spazio per la minima spontaneità, per un equilibrio personale e sociale lasciato al libero gioco delle iniziative personali. Una sola libertà è stata proclamata dall’inizio dal re Utopus: la libertà religiosa. Questo potrebbe costituire la confessione che la religione sia senza importanza nella vita della città, mentre tutte le altre attività sono regolate in quanto necessarie e fondamentali. – ma il motivo addotto dal re Utopus è veramente notevole, singolare, perché egli pensa ancora che l’interesse della religione esiga questa misura. Egli non osa nulla stabilire in materia di fede, non sapendo se Dio non ispirasse Egli stesso agli uomini delle credenze diverse, al fine di saggiare una moltitudine di culti. Del resto una intuizione provvidenziale lo portava a credere che tutte le religioni fossero false, ad eccezione di una sola, e che sarebbe giunto un tempo in cui, con l’aiuto della dolcezza e della ragione, la verità si sarebbe manifestata da se stessa, come un cammino luminoso nella notte di errori inestricabili. Ma nell’attesa, chi avrebbe potuto dire se Dio non si compiacesse di questa molteplicità variopinta di omaggi, in questo gioco sincero ed multiforme di bambini che vanno alla sua ricerca? Questo è veramente notevole: la molteplicità delle religioni sarebbe dunque un omaggio variopinto di un gioco sincero, e perciò essa sarebbe ispirata da Dio. La verità si manifesta da se stessa con il pensiero libero degli uomini. Ma certamente, poiché l’anima è una “scintilla divina” essa possiede in se stessa la verità che fa scaturire dal proprio fondo. Essa non ha bisogno di un sostegno esterno, come una rivelazione. Siamo qui, come si capisce facilmente, nella logica della gnosi. – Come dunque spiegare questa molteplicità che appare a noi, poveri umani ordinari, una contraddizione insolubile? La risposta è molto semplice: tutte le religioni sono vere, ma di una verità particolare e complementare, essendo esse tutte forme particolari e rispettabili di una unica religione universale, quella cioè che fu insegnata dal serpente ai nostri progenitori: è questa l’ecumenismo, una rivelazione satanica: « Eritis sicut dei ». – Quando il re Utopus ci dice: « se tutte le religioni fossero false », abbiamo ben compreso che questa condizione sia irreale, perché è Dio stesso che avrebbe ispirato questa diversità di credenze. – Ora noi sappiamo che la nostra anima non è divina, e che la nostra ragione è semplicemente naturale; essa è orientata da sé verso la Verità, ma dopo la caduta originale non può più raggiungerla se non con una sforzo sostenuto e difficile. I rischi di errore sono molteplici. È per questo che l’uomo ha bisogno di autorità naturali, come quella del padre, quella del principe, quella del sacerdote. Ora gli umanisti hanno proclamato il rigetto di ogni autorità. Nel suo Momus, scritto nel 1443, Leon Battista Alberti si erge contro il principio di autorità in materia di pensiero terminando con questo aforisma dal quale si possono trarre le conseguenze le più gravi: « Nulla getta la verità nell’ombra più dell’autorità. » – Ad ogni modo, in Utopia la felicità è già istallata; un giorno tuttavia, uno dei discepoli di Hythlodeo è venuto ad Amorante, la capitale. Egli esalta subito la religione cristiana, l’esistenza di un Salvatore, in qualche luogo, ma per salvare chi, mio Dio ? … perché tutto va bene qui, nel regno di Utopia. Questi spinge poi la sua audacia fino ad esprimersi contro i seguaci dei misteri pagani, trattandoli da empi e da dannati. Evidentemente viene immediatamente espulso.  In Utopia, come nel regime sovietico, e come si prospetta nel satanico Nuovo Ordine Mondiale, sono autorizzate tutte le religioni, … salvo quella di Gesù-Cristo. Si è proclamata, come anzidetto, innanzitutto la libertà religiosa, poi la libertà di propaganda anti-religiosa, ma non di propaganda religiosa, ciò che è logico. Perché reclamare la libertà religiosa in uno stato cristiano in cui l’insieme della popolazione è rimasta fedele alla sua fede? Non si vuol rivendicare il diritto di adorare il vero Dio, perché questo è già assicurato. Non si può dunque rivendicare che il diritto di rifiutare questa adorazione. – Ed il prosieguo della storia dell’Inghilterra ce lo dimostra. Una volta padrone del potere politico, il serpente manda a spasso « l’aiuto della dolcezza e della ragione » ed organizza la persecuzione più violenta contro tutto ciò che si vede di Cattolico, il saccheggio e la distruzione dei monasteri, il massacro in grande stile delle popolazioni rivoltate, due secoli di violenze sanguinarie in Inghilterra ed in Irlanda contro i preti della Chiesa Cattolica e contro i loro fedeli. Queste sono pagine di storia che i nostri scrittori protestanti hanno ben curato di mettere tra parentesi occultandole. – Tuttavia, siamo in piena ipocrisia. Proclamare un rispetto uguale per tutte le religioni, è mostrare che le si disprezza tutte allo stesso modo. Perché di fatto, nella città di Utopia, esiste una religione ufficiale ed obbligatoria: si è costruito un tempio al centro della città ove tutto è calcolato per favorire il raccoglimento. Tutti gli utopisti vi si recano regolarmente e rivolgono un culto “ecumenico” ad una sola divinità « eterna, immensa, incomprensibile » che si chiama Mithra (1), la cui natura si spande per tutto l’universo. Così gli utopisti adorano se stessi nello specchio del loro Mithra. Non si può essere più panteista di così.

(1) Mithra « Noi sappiamo che il culto di Mithra è stato opposto, nei primi secoli cristiani, a quello di Gesù Cristo. Mithra è il sole invitto, imbattuto, (sol invictus). Esso finì per essere il culto ufficiale dell’Impero Romano sotto Aureliano. Ecco che gli Umanisti del Rinascimento, nel loro furore anticattolico, hanno ripreso questo culto, ma in segreto, secondo gli usi dei marrani, nelle loro conventicole intime, i cosiddetti mitrei. Il sistema eliocentrico, insegnato da Copernico e ripreso da Galileo è effettivamente una manifestazione dell’adorazione del sole, pura idolatria e becero paganesimo. Copernico scrive nel “De revolutionibus orbium cœlestium”: “ in mundo vero omnium residet Sol. Quis enim in hoc pulcherrimo templo lampadem hanc in alio vel meliori loco poneret, quam unde totum simul possit illuminare, si quidem non inepte quidam lucernam mundi, alii mentem, alii rectorem invocant, Trismegistum visibilem deum”. Il sole è dunque, per Copernico lo spirito del mondo, il reggitore del mondo, un dio visibile. Il riferimento ad Ermete Trismegisto è significativo. Il sole ha la sua sede di soggiorno in tutte le cose del mondo ed il mondo è il suo tempio: non è questa forse una definizione di Panteismo? Galilei ulteriormente precisa: “Mi sembra che in natura si trovi una sostanza molto volatile, molto tenue, rapidissima che, nel suo espandersi nell’universo, penetra tutto senza ostacolo, riscalda, dà vita e rende feconde tutte le creature animate. Sembra che i sensi stessi ci mostrino che il corpo del sole sia il ricettacolo di questo “spirito”, fuori dal quale si spande su tutto l’universo una immensa luce accompagnata da questo “spirito calorifico”, penetrante tutti i corpi capaci di essere animati, dando loro vita e fecondità.” – “Il sole è un dio visibile al centro dell’universo; immobile esso penetra tutte le creature, è sorgente di vita, anima tutto. Certamente è questo il “culto solare”, tipicamente pagano, che Copernico e Galilei praticavano, come già Persiani, gli Esseni, ed ancora oggi diverse obbedienze massoniche. Ed è alla luce di questi testi che i giudici del Santo Uffizio, quelli che facevano bene il loro lavoro di guardia dell’ortodossia, hanno condannato Galilei. Da questa chiara angolazione si aprono prospettive nuove sul “complesso Galilei”! [cf.: “La verità su Galilei”, in www. exsurgatdeus. Org.]. Si può ben comprendere allora che le considerazioni sui movimenti della terra e del sole, non sono altro che un pretesto per sviluppare un insegnamento fondamentalmente panteistico, un “cavallo di Troia” che in una certa misura si insinuò tra le autorità romane. Ma il 24 febbraio 1616, l’Eliocentrismo di Copernico, come decodificato sopra, venne condannato dal Santo-Uffizio ed a giusto titolo come abbiamo visto! E per manifestare che i censori non erano incappati nelle trappole tese, essi hanno precisato con cura che le formule condannate “erano assurde in filosofia e formalmente eretiche”, ma che non pregiudicavano considerazioni puramente astronomiche o fisiche. L’affare a questo punto avrebbe dovuto essere chiuso, lo si doveva arrestare là, ma si era di fronte ad una vera “setta” molto ben organizzata, una proto-ragnatela gnostico-cabalista, archetipo degli interessi ed intrallazzi kazaro-massonici oggi visibilmente e spudoratamente operanti in chiaro, ben al di fuori delle tenebre delle conventicole, addirittura all’opera con le cosiddette Agenzie spaziali internazionali, in primis la Nasa – “il serpente” in ebraico –  che gestisce studi televisivi e cinematografici con sceneggiate di grande livello per mostrarci “palle che girano” – pianeti tutti perfettamente sferici, oh che meraviglia della tecnica! – guerre stellari, pupazzi umani – gli astronauti – ridicolmente goffi, “galleggianti”, danzanti nell’aria senza la supposta gravità prodigiosamente eliminata da trucchi tecnologici, sbarchi lunari strampalati ed improbabili, degni dei momenti migliori di Charlot, e fantasmagoriche scenografie con foto ritoccate e taroccate].

– Tommaso Moro non si è accontentato di esporre solo il suo pensiero sulla società ideale, nell’Utopia, perché ha tentato, come cancelliere di Inghilterra, di mettere in pratica il suo insegnamento. « Se i turchi, i saraceni ed i pagani – spiega il suo portavoce nell’Utopia, soffrono che la fede Cattolica sia predicata pacificamente tra noi, e se noi Cristiani accettiamo che nella nostra città, tutte le sette predichino tra di noi,  messa da parte ogni violenza di comune accordo, io non ho alcun dubbio che la fede di Cristo, lungi dal subirne una diminuzione, ne trarrebbe un immenso profitto.  » E per mettere d’accordo il suo pensiero con i suoi atti, si fa complice attivo degli eretici. Egli ce lo ha spiegato, verso la fine della sua carriera di cancelliere. « Per l’eretico, io odio il suo errore e non la sua persona, vorrei di cuore che l’uno fosse sterminato e l’altro salvato. Questi “fratelli” benedetti, professori e predicatori di eresie, hanno proclamato ad alta voce le loro menzogne, ed io non ho altra condotta nei loro riguardi. E se si sapesse di quale indulgenza e di quale pietà ne avessi fatto prova, vi giuro che nessuno mi contraddirebbe. » Ecco ciò che definisce lo stato d’animo di un umanista. Quando Moro fu nominato cancelliere, l’Inghilterra praticava una stessa regola di fede. Ora, nello stesso tempo, l’eresia è in piena espansione, gli eretici luterani moltiplicano le loro satire in tutti i paesi, ma la polizia del cancelliere chiude gli occhi. Nessun interesse da parte del tribunale, né del rogo a Smithfield. Quando riceve degli istigatori, egli li ascolta, li interroga, tenta di suscitare in essi un moto di conversione o di rimorso. Chiede loro di rinunciare a diffondere le loro dottrine. Infine si mostra pieno di pietà e di indulgenza nei loro riguardi come dice egli stesso: Punto, tutto qui! Erasmo, suo amico intimo, ha potuto scrivere al Vescovo di Vienne che durante il passaggio di Moro alla cancelleria non aveva avuto luogo nessuna esecuzione. Di questi avvenimenti buonisti, si conosce il seguito e di come la “fede in Cristo ne abbia avuto un immensi profitto!”

C) Un prete “modernista”: Erasmo.

Erasmo è nato il 28 ottobre 1467 a Rotterdam. Suo padre, Geart Praet, era ecclesiastico e non poté pertanto legittimare suo figlio. Egli si chiamava “Geert Geerts, cioè Gerard, figlio di Gérard” e, come scrittore, assume lo pseudonimo di Desiderius erasmus (dal greco ερασμιος = amabile). Viene ordinato sacerdote il 25 febbraio 1492 dal Vescovo di Cambrai, Henri de Berques, che diviene per lui un fedele protettore. Vive per molto tempo a Londra, presso Tommaso Moro, poi nel 1521, si stabilisce a Bâle. L’ultima parola di tutta la sua filosofia è: la libertà. Egli sostiene efficacemente gli sforzi di Lutero per riformare la Chiesa. Nel 1519, in risposta ad una lettera affettuosa di quest’ultimo, gli precisa: « La vostra lettera respira un’anima cristiana … mi sembra che si avanzi mediante una dolce moderazione, piuttosto che per importunità; non è così che il Cristo condusse il mondo sotto la sua legge?» Ecco un consiglio che non poteva moderare l’ardore focoso e violento del riformatore. Erasmo vuol mostrare ai suoi amici protestanti che i libelli e le caricature sparse da essi in Europa, non possono che far torto alla loro causa: « Credete voi che con tali mezzi di ostacolare le vie del Vangelo? Io credo piuttosto che la stolta malizia e la maliziosa stupidità, non possa abbattere uomini letterati e lo stesso Vangelo se si potesse fare, e vi facciano cadere in discredito. » Poi egli si rivolge alla corte di Roma, supplica il Papa Adriano IV di mostrarsi tollerante: « Il male è troppo profondo – egli spiega – per poter essere guarito con il ferro ed il fuoco. Sono necessarie delle mutue concessioni, la dottrina sulla quale poggia la fede, resta intatta … inoltre bisognerebbe offrire al mondo la speranza di veder cambiare certe cose che danno luogo a legittime lamentele. Alla dolce parola di libertà, i cuori rifioriranno. » – « … nel cuore di Lutero – aggiunge – brillano delle fiammelle della vera dottrina evangelica, ma invece di metterlo in guardia, di presentargli la verità con dolcezza e bontà, teologi che non lo comprendono e che spesso non lo hanno nemmeno letto, lo denunciano al popolo con clamori insensati, lo colpiscono con violenti attacchi, non hanno sulle labbra che le parole … eresia, eresiarca, scisma ed anticristo. Si condanna in Lutero, come eresia, ciò che si trova ortodosso in san Bernardo ed in sant’Agostino. Molti di quelli che si effondono in ingiurie contro Lutero non credono essi stessi all’immortalità dell’anima. » Egli scrive, il 1 novembre 1519 all’Arcivescovo di Magonza: « Dei teologi ai quali converrebbe soprattutto la mansuetudine, sembrano non respirare che sangue umano, tanto aspirano agli arresti di Lutero ed alla sua eliminazione. » Infine, quando viene pubblicata la bolla di scomunica: « … questa bolla risente di crudeltà, piuttosto che del pensiero dolce e benevolo del nostro Leone X. » – Ma vediamo le “ … cose che bisogna cambiare perché danno luogo a legittime lamentele”. Erasmo critica il digiuno, le indulgenze, i giorni di festa, il culto delle immagini, i voti monastici e la confessione auricolare. Si pronuncia per la dissoluzione del matrimonio. Si burla dell’Immacolata Concezione della Vergine, difende la causa dell’Arianesimo; e mette dei dubbi sulla divinità di Cristo, sulla Santissima Trinità. Nega l’eternità delle pene. Vuole che i bambini, giunti all’età della ragione ratifichino gli impegni del Battesimo. Chiede al Papa di accordare il calice ai laici ed il matrimonio ai preti .. è tutto? È più o meno il programma messo in opera dalla riforma luterana. Molte rivendicazioni hanno dovuto attendere l’apostasia del conciliabolo cosiddetto Vaticano II, ove si vede oggi l’accanimento con cui i nostri moderni riformatori, oramai veri e propri apostati della fede, si sforzano di demolire ciò che resta della fede cristiana, mettendo in opera le reclamazioni di Erasmo. Il Modernismo è rimasto lo stesso da dopo il Rinascimento. – Un controversista dei più celebri, Josse Clichtove di Nieuport [Judocus Clichtoveus Neoportuensis], pubblica nel 1519 uno scritto intitolato Propugnaculum fidei, ove rimprovera ad Erasmo di rigettare la legge canonica che impone la continenza del clero. Erasmo gli manda una breve e pronta risposta in cui sostiene che la Chiesa può permettere il matrimonio a quelli tra gli ecclesiastici ai quali non è possibile vivere nel celibato. I teologi di Lovanio considerano il portabandiera della fazione luterana, trattandolo come … libero pensatore che faceva lo stesso del saio di un monaco e del mantello di un briccone, che avrebbe dato tutta la scolastica per un solo trattato di Cicerone e che non ha ritegno nel dire: « san Socrate, prega per noi »! Erasmo si spegne a Bâle la notte tra l’11 ed il 12 luglio 1536, all’età di sessantanove anni. Muore senza l’assistenza di un prete e rifiutando gli ultimi Sacramenti, nell’impenitenza finale: conclusione logica di una vita consacrata alla demolizione della fede cristiana.

DALL’UMANESIMO ALLA RIFORMA.

Si sa dell’odio ferocissimo nei riguardi della filosofia Scolastica. Gli umanisti le rimproveravano soprattutto il suo richiamo alla ragione naturale per porre le verità della Fede su delle basi indistruttibili.  Erasmo è partito in guerra contro i teologi del Medio Evo. « Tutto il loro sforzo, scrive nell’Elogio della Follia, consiste nell’interrogare, dividere, distinguere definire. Una parte è divisa in tre, la prima delle tre in quattro ed ognuna delle quattro di nuovo in tre. Cosa è più distante dallo stile dei profeti, del Cristo o degli Apostoli? » Ma la sua ironia è fuori luogo e malintesa. Ciò che denunzia con tanta veemenza in realtà è l’uso naturale della nostra intelligenza. Essa è comune a tutti coloro che non vogliono prendersi cura nel riflettere. La Scolastica non pretende di sostituirsi alla parola o allo stile di Gesù o dei Profeti, essa cerca solo di comprendere e definire il buon fondamento della ragion d’essere. –  I protestanti appunto accentuano questo odio della ragione e del suo uso nella filosofia scolastica, odio ricevuto in consegna dagli umanisti. Essi hanno proclamato la necessità di leggere la Bibbia nel testo, senza alcun commento, poiché l’anima del lettore è a contatto diretto con la Divinità che l’ispira. Occorre dunque sviluppare gli studi linguistici, studiare l’ebraico ed il greco, ma respingere la Teologia. Da qui il disprezzo manifesto nei confronti della Sorbona, “maestra di errore” e l’infatuazione per i collegi reali ove potevano darsi allo sfogo le nuove mode intellettuali senza rischio di condanne, poiché questo collegi erano protetti dai re. – Nel 1535, in una “Lettera al re del tempo, dal suo esilio a Ferrara”, indirizzata a Francesco I, Clement Marot, scrive:  « Tanto come loro, senza causa che sia buona, mi vuol male l’ignorante Sorbona, essa è ignorante e nemica della trilingue e nobile Accademia che si è eretta. È infatti manifesto che là dentro, contro la tua voglia celeste, è proibito dar voce pronunziante l’ebraico, il greco, né il latino elegante, dicendo che è lingua di eretici. O povera gente dal sapere tutto etico ben fa veder questo proverbio corrente: la scienza non è in odio che all’ignorante. » – L’umanista Ramus, professore al Collegio reale, il futuro Collegio di Francia, rimprovera all’università il suo immobilismo, lo statu quo dei suoi metodi. Egli è dalla parte degli umanisti, per il greco, per l’ebraico e pertanto per il protestantesimo, contro la Sorbona, contro la Scolastica, in fondo alla quale si trovava pertanto l’ortodossia. – Il Rinascimento umanista ha preparato la via al protestantesimo, permettendone l’esercizio del libero esame nella lettura dei testi biblici, senza riferimenti autorizzati dalla Teologia. Nel suo “Præmium reformandæ academiæ parisiensis”, Ramus pretende di imporre l’ebraico come base necessaria di ogni teologia. Egli diventa anche l’anima del Collegio reale, di cui la maggior parte dei professori passano al protestantesimo: Ramus stesso, Vatable, Mercier, Palma-Gayet, che tiene la cattedra di ebraico. – Quando Ignazio di Loyola giunge a Parigi con i suoi futuri compagni, per prepararsi alla Teologia, si reca alla Sorbona; egli sconsiglia ai suoi amici di seguire i corsi di lingue antiche, tenuti dai real lettori, origine del Collegio di France, che il Re stava istituendo nel 1530. Il suo amico Bobadilla, scrive che « L’eresia luterana cominciava a diffondersi a Parigi; a quei tempi se ne bruciava molto sulla piazza Maubert e coloro che grecizzavano, luteranizzavano » (“qui græcisabant lutheranisabant”). Un altro suo compagno, Saverio, in una lettera a suo fratello, nel 1535, dice che è molto riconoscente ad Ignazio, a lui deve di essersi distaccato dalle “cattive frequentazioni” che la sua scarsa esperienza non gli permetteva di riconoscere come tali. « … ora che le eresie si sono scatenate a Parigi, io non vorrei a nessun costo avere relazioni con questa gente. » e più oltre aggiunge che questi uomini dai quali Ignazio lo ha staccato « … esteriormente sembrano buoni, ma interiormente erano pieni di errori, come il prosieguo ha fatto vedere chiaramente ». – Sui pensieri e sulle parole degli umanisti e soprattutto di Erasmo, si è continuato a sostenere, in tutti i manuali di storia, che la Sorbona era in piena decadenza, che la Scolastica era obsoleta, che occorreva una grande riforma dell’insegnamento. Questo non era l’opinione di Ignazio che ha trovato, al contrario, in questa vecchia Sorbona, così criticata dagli umanisti, il punto di appoggio fondamentale di tutta la sua formazione intellettuale e spirituale. – Egli ha fatto della Scolastica aristotelica e tomistica la base di tutto l’insegnamento dei Gesuiti. Nelle sue “Costitutioni della Compagnia di Gesù”, raccomanda la dottrina di San Tommaso d’Aquino, finché non appaia « un’altra teologia più adatta ai tempi moderni » e più utile, ma sempre sulla scia di quella di San Tommaso. Nella sua Ratio Studiorum, egli precisa che bisogna insegnare la filosofia e la fisica « non solamente in conformità alla verità, ma anche nel senso di Aristotele e del suo spirito », con la proibizione di « non allontanarsi mai da Aristotele quando si tratti di punti di qualche importanza ». Non ci si deve mai servire che con estrema prudenza di commentari non cristiani e « se si trova qualcosa di buono da ritenersi dalle loro opere », bisogna almeno citarli « senza farne l’elogio. » Nell’appendice agli “Esercizi spirituali”, Ignazio raccomanda di « tenere in grande stima la teologia positiva e la teologia scolastica », perché « … è dovere dei teologi scolastici di denunciare, combattere e rifiutare gli errori religiosi, i falsi ragionamenti e le opinioni pericolose della loro epoca ». Giudizio netto! Sant’Ignazio di Loyola  ha ben compreso che l’Umanesimo platonizzante del suo tempo conduceva necessariamente all’eresia protestante ed ha lottato tutta la sua vita contro questo movimento verso l’eresia con la Compagnia di Gesù, alla sua sequela. Come si opera questo passaggio dal platonismo degli umanisti all’eresia protestante? È quanto ci resta da dimostrare. – Gli gnostici hanno sempre affermato che l’anima umana era una “scintilla divina”, particella dell’Anima del mondo, che altro non è che Dio immanente nell’universo. Questa dottrina è stata ripresa dai mistici tedeschi dal XV secolo, passando da Mastro Eckart nel pensiero dei riformatori. Essi hanno visto la prova che la nostra anima era in contatto immediato e permanente con Dio, pretendendo che in ogni coscienza risiedesse una certezza, che la voce della coscienza fosse la voce di Dio che risiede in se stessi. – La nostra anima dunque in noi, non è altro che uno strumento passivo nelle mani di Dio, da cui, per irresistibile influenza vien porta in ogni direzione. L’uomo è certamente, secondo l’espressione dei riformatori, « un blocco di legno o di pietra »; egli subisce una forza universale ed unica che si sostituisce alla sua azione propria. L’individualità è fusa in una totalità di anime dal movimento perpetuo e divino: è Dio che, in noi, è il principio di causalità in tutti i nostri atti, è Dio che opera in noi il bene ed il male. – Zwingli, più ardito e più logico di Lutero, ne trae le conclusioni, nel 1530, nel suo trattato sulla Provvidenza: « Una forza creata, egli scrive, non è altra cosa che la forza universale che si manifesta in un nuovo soggetto e sotto una forma nuova. » – « essere di Dio, aggiunge, è l’essere stesso di tutte le cose, etc. » Ecco le formule in latino: « Omnium esse numinis Esse. – Certum est quod, quantum ad esse et Exsistere attinet, nihil sit quod numen est, id enim est verum universarum Esse. – Jam constat, extra infinitum hoc Esse nullum Esse posse. – Creata virtus dicitur, eo quod in novo subjecto et nova specieuniversalis aut generalis ista virtus exhibitur. » Si trova in queste espressioni tutto Spinoza e tutto Hegel, in un colpo solo la riforma sfocia nel panteismo con l’assorbimento dell’attività umana nell’operazione divina e la negazione del libero arbitrio. – Kant è il filosofo dei riformatori. Per lui precisamente, come per Platone, come per Maestro Eckart, la coscienza è la “Partecipazione” immediata dell’uomo dell’idea del bene e per questo la garanzia della sua autonomia morale. È per questo che nella sua “Religione nei limiti della semplice ragione”, si legge nel capitolo intitolato: « del filo conduttore della coscienza negli affari della fede »: « La questione di sapere come la coscienza debba essere diretta, perché essa non vuole filo conduttore; è abbastanza già avere una coscienza. La coscienza morale morale, è una coscienza psicologica, che si obbliga da sé … Dunque, se la coscienza psicologica mi dice che un’azione che io voglio intraprendere è giusta, la sua parola è un imperativo assoluto … ». In altre parole, la mia coscienza essendo la voce stessa dell’Assoluto che risiede in me, è totalmente autonoma e non ha da ricevere da nessuno la direzione di una regola di moralità eteronoma, vale a dire da una legge divina impostami dall’esterno. È la coscienza divinizzata, perché partecipe di un’unica coscienza universale. Non c’è più posto per il libero arbitrio, rispetto ad una regola ricevuta. Non c’è dunque né bene, né male, perché è giusto tutto ciò che la mia coscienza mi dice di intraprendere.

CONCLUSIONE

Con un movimento continuo di andirivieni, abbiamo percorso la gnosi, la kabbala, l’umanesimo ed il protestantesimo, ed abbiamo incontrato degli uomini appassionati, tesi verso la loro deificazione. Si può tuttavia sentire in questa ricerca di una perfetta felicità, come un’inquietudine sottogiacente opposto allo scopo ricercato …! L’uomo che accetta la sua condizione naturale di creatura, che adora il suo Dio, gli rende omaggio e si sottomette alla sua legge, possiede una felicità, imperfetta senza dubbio,  ma possibile. Egli è libero, di una libertà di figlio di Dio. Egli può scegliere tra i molteplici beni che il Creatore ha messo a sua disposizione. È il libero arbitrio. Egli può anche, senza dubbio, usarne ragionevolmente o irragionevolmente, cioè abusarne: è la scelta possibile tra un bene ed un male. È anche una responsabilità. – L’uomo ribelle che rigetta Dio rifiuta questa responsabilità. Di colpo, perde il suo libero arbitrio. Non gli resta che ergersi un piedistallo, come un dio Panteo ed adorarsi. Eccolo dissolto in una divinità “totale” , perso nel gran tutto “Pleroma”, di cui non è però più che una particella, indeterminata, intercambiabile. Egli ha perso la sua volontà libera. Non c’è per lui né bene né male, perché tutto viene determinato è necessario. La Città di Utopia, come la Repubblica di Platone, come lo Stato Sovietico, come il Nuovo Ordine Mondiale, è un mondo chiuso delimitante una umanità deificata.  L’uomo, “scintilla divina” è interamente prigioniero della città fino alla soddisfazione dei suoi minimi piaceri. La libertà religiosa, proclamata all’inizio, è infine realizzata, perché non c’è più religione … l’uomo si è definitivamente “liberato” di Dio! – Tale è la rivelazione del serpente. Egli aveva detto ai nostri progenitori: “voi sarete come dei”, ma non aveva aggiunto, « così diventerete miei schiavi, poiché sono io il padrone del mondo ». Un attimo, Adamo ed Eva si sono lasciati convincere. Ma la divinizzazione non ha avuto luogo. La schiavitù, invece, è diventata la realtà quotidiana ed è l’INFERNO.

[Fine]

 

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (33): GNOSI ED UMANESIMO -2 –

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA –

Gnosi ed UMANESIMO (2)

[Elaborato da: E Couvert: La gnose contre la foi, Ed. de Chiré, 1989]

IL CULTO DI PLATONE

Secondo Platone, gli oggetti che noi chiamiamo “reali” non sono in realtà che riflessi del mondo eterno delle Idee ove si trovano, dotate esse sole di una vita reale, i modelli di questi oggetti. Le nostre sensazioni, legate al corpo peribile, non ci fanno conoscere che delle apparenze, ed è solamente attraverso la conoscenza (la “Gnosi”) che la nostra anima può elevarsi gradualmente fino alla contemplazione delle Idee pure. Questa anima eterna ha vissuto precedentemente nel mondo superiore delle Idee, e vi ritornerà quando sarà liberata dalla prigione del corpo. Essa ne ha conservato una reminiscenza confusa che le permette di accedere alla contemplazione delle idee senza ricorrere al ragionamento… Non si vede come Dio potrebbe collocarsi in questa filosofia, se non come Demiurgo, cioè fabbricatore della materia. Ecco pertanto che le grandi tesi platoniche, sono in contraddizione manifesta con la Fede cristiana. La Chiesa ha sempre condannato la natura divina dell’anima, la sua preesistenza e le sue trasmigrazioni; Essa afferma che Dio sia l’unico Creatore di tutto e dunque: che il « mondo delle Idee » non esista. Noi comprendiamo così che queste tesi condannate dalla Chiesa, siano parimenti comuni a Platone, alla Gnosi classica ed alla Cabala giudaica. Ogni qual volta che nella storia del pensiero cristiano, ci si imbatta in una “folata” gnostica, essa si realizza sempre sotto la forma di una invasione del Platonismo. Fu questo infatti il caso eminente dell’Umanesimo, apparso all’epoca del cosiddetto Rinascimento. – Già Petrarca, nel XIV secolo, ha letto diversi dialoghi di Platone, nel testo originale portato da Costantinopoli, e si è appassionato a questa filosofia che egli contrappone a più riprese a quella di Aristotele. È lui ad aprire le strade a Bessarion e a Marsilio Ficino, e burlandosi dell’insegnamento della Scolastica, dichiara che i dottori di sillogismo sono degli affabulatori « rigonfi di nulla, che lavorano incessantemente nel vuoto e si esercitano con delle futilità”.» Egli è irritato dal rispetto “superstizioso” di cui la Scuola circonda Aristotele. Si sente, nei suoi attacchi violenti, il veleno della libertà di esame e ciò nonostante rimane alla corte del Papa in Avignone che, da parte sua non comprende le conseguenze di una tale demolizione. – Ma sono soprattutto le opere del Cardinal Bessarion che esercitano un’influenza capitale sul movimento degli spiriti: dopo il suo ritorno da Costantinopoli, egli si fa mentore degli umanisti, sostiene la causa di Platone contro i suoi detrattori in diversi trattati: « De natura arte », « In Calumniatorum Platonis ». – « Preferire Aristotele a Platone, egli dice, è cosa permessa, ma accusare quest’ultimo di ignoranza in ogni cosa, è fare un’accusa, non un parallelo. » Con una difesa erudita e calorosa di Platone, egli vuol dimostrare che le ardite speculazioni dell’Accademia, non meritano le diffidenze mostrate nel Medio Evo e che, secondo i Padri più illustri, si poteva elevare la filosofia platonica alle verità della Religione. Egli insegnò con il suo esempio che, nell’ambito della ragione, bisogna evitare ogni esclusivismo e che l’amore che si prova per un grande spirito, non debba chiudere gli occhi sui meriti di qualcun altro: « Io onoro e venero Aristotele, scrive agli stesso, e però amo Platone. » Si vede bene ove pende il suo cuore. Il rispetto apparente per Aristotele, non è che il mezzo per attirare gli spiriti verso Platone, e tutti gli umanisti, che lo hanno ben compreso, non temeranno più di rigettare con disprezzo e violenza tutta la Scolastica. È Bessarion che ha lanciato il movimento. È Infine a Firenze, sotto la protezione dei Medici, che il culto di Platone assume tutta la sua ampiezza. Nel corso del suo esilio provvisorio, Cosimo de’ Medici, raccoglie i sapienti greci che i turchi hanno cacciato dalle loro terre: Giovanni  Argyropoulos. Demetrio Calcondila, Giovanni Lascaris, il Cardinal Bessarion, il vecchio Giorgio Gemisto Platone ed altri. Al suo ritorno a Firenze, egli fonda l’« accademia platonica » e ne affida la presidenza al figlio del suo medico personale: Marsilio Ficino. Nato il 15 ottobre 1433 a Firenze, divenuto canonico della chiesa di San Lorenzo, viene ricevuto da Cosimo che gli apre le sue ville più belle e i suoi giardini fioriti all’ombra dei pini, dei cipressi e dei larici. « Qui ancora, scrive Cosimo a Marsilio, arrivai alla mia villa di Careggi con il desiderio di migliorare le mie terre e di migliorare me stesso. Venitemi a vedere, Marsilio, quando potrete, e non dimenticate di portare con voi il libro del vostro divino Platone sul bene sovrano. Non c’è sforzo che io non faccia per scoprire la vera felicità. Venite e non mancate di portare con voi la lira di Orfeo. » – Il primo lavoro dell’Accademia di Firenze è di contrastare Aristotele, questo colosso eretto sul formidabile piedistallo della “Summa Theologica”. La stella di Platone, spentasi con la fine della scuola di Alessandria, rispunta all’orizzonte, e da questo momento  pertanto l’umanità sarà divisa in due campi, quello Aristotelico e quello platonico. Più che una scuola, l’Accademia è una religione, un ardente e puro fervore che raggruppa in un culto pubblico tutti i fedeli di Platone e Marsilio Ficino ne è l’anima, la vita. – Platone è morto, seduto ad un banchetto ad 81 anni, un numero perfetto che si ottiene moltiplicando 9 per 9. Si riprende allora l’usanza di celebrare la sua morte il 7 novembre, uso che si era perso dopo Plotino e Porfirio. – Platone è la verità corroborata da S. Agostino che ebbe a  dire [ritrattando poi]: « varie cose presso i platonici, sono cristiane ». Si studiano pertanto le grandi questioni poste dal maestro: l’uomo è libero o no? La natura agisce secondo un disegno o no? È essa cosciente dello scopo a cui tende o no? Possiede  essa una essenza divina? La riflessione è immanente alla Natura? Appartiene essa proprio allo Spirito divino che governa la natura? L’anima non è il corpo, dice ancora Ficino, è l’anima che sente e non il corpo; l’anima ripugna al corpo. Essa non abita la terra, non è che un “ospite divino” che deve raggiungere la sua patria celeste.  Essa è sprofondata in seguito ad una caduta, deve trasmigrare per tornare nel mondo perfetto da cui è venuta. Platone che, di fatto, non è che un abile scenografo di dottrine orientali insegnate da Pitagora, diviene, nelle parole della sua bocca, una specie di Messia; i suoi discepoli sono degli apostoli. Marsilio si prosterna davanti a tutti i platonici, a Giustino, ad Origene, a Clemente, a Filone i quali tutti cercano di conciliare la Genesi con il Timeo, davanti a Numenio che afferma che tutta la teologia è racchiusa nei dialoghi di Platone. Egli circonda di un’aureola gloriosa  Platone. Platone è il precursore. «Il nostro Platone – egli scrive – con ragioni pitagoriche e socratiche, segue la legge di Mosè e anticipa la legge di Cristo. » – « Anzi, cosa dico?, Platone è Dio stesso ed i suoi misteri sono divini ». Marsilio, si dice, tiene acceso un cero giorno e notte davanti al busto di Platone, lo prega nella chiesa degli Angeli a Firenze: « In questa chiesa, noi vogliamo esporre la filosofia religiosa del nostro Platone, vogliamo contemplare la verità divina in questo soggiorno degli Angeli. Entriamo, cari fratelli, con spirito puro … » Egli aggiunge poi: « Io ho trovato con certezza come Numerio, Filone, Plotino, Giambico, Proco abbiano attinto i loro principali misteri da Giovanni, Paolo, Dionigi l’Aeropagita, perché tutto ciò che i platonici dicono dello spirito divino degli angeli ed altre cose teologiche, le presero da loro … » – Nel 1460, Cosimo compra il « Corpus hermeticum », e si affretta a farlo tradurre da Marsilio. Entrambi vengono elettrizzati dalla scoperta di questa rivelazione primordiale; i testi ermetici erano allora supposti premosaici e si pensava addiruttra che essi avessero ispirato Mosè, Pitagora e Platone.  Soltanto nel 1624 Isaac Casaubon ridimensionò questi testi e dimostrò che essi in realtà non erano anteriori al III secolo della nostra era. Nella stessa epoca, il Papa Alessandro VI (1492-1503) aveva fatto dipingere in Vaticano un affresco, in seguito distrutto, ricco di simboli ermetici ed egiziani. È attraverso il « Corpus hermeticum » che la Gnosi più classica può agevolmente penetrare nell’umanesimo rinascimentale. Come suo nonno Cosimo, Lorenzo il Magnifico coltiva la filosofia platonica da vero discepolo di Ficino. « Senza Platone – amava dire – io mi sentirei incapace di essere un buon cittadino ed un buon Cristiano. » Pico della Mirandola è il suo intimo consigliere. Lorenzo scrive degli inni, il canto “Oratione magno Deo”, l’inno “Oda il sacro inno tutta la natura”, lode al sacro contenuto in tutta la natura. In essi si trova l’idea che il mondo è strutturato come un grande cosmo fisico e morale, riproduzione di un modello preesistente; vi si trova ancora il concetto che l’anima può, per mezzo della conoscenza (la Gnosi), fare entrare l’Essere infinito nel cerchio stretto che essa abbraccia, estendendosi poi indefinitamente, grazie all’amore divino. Tale è la vera felicità della terra! – Questo culto di Platone è completato da un’attitudine curiosa nei confronti di Aristotele. Marsilio Ficino lo considera un percorso che conduce a Platone: « Si  ingannano completamente coloro che pensano che la disciplina peripatetica e platonica siano opposte, perché il cammino non può essere contrario al fine da raggiungere. » Pico della Mirandola aggiunge che « non vi è questione naturale o divina in cui Aristotele e Platone non siano d’accordo sul senso della cosa, benché sembrino divergere con le parole », cosa che evidentemente  è una manifesta contro-verità. Pico prepara un’opera: “Concordia Platonis ed Aristotelis”, che la morte gli impedisce di terminare. Ma intanto è dichiarata la guerra all’Aristotele del Medio Evo, al “filosofo” per eccellenza di San Tommaso d’Aquino, e non si riconosce più che l’Aristotele pagano interpretato in maniera panteista da Averroè. – E questa evoluzione nel pensiero cristiano si ritrova pure nella storia dell’arte di questa epoca. Mentre i vecchi pittori, come Francesco Traini, Benozzo Gozzoli e Taddeo Gaddi rappresentano San Tommaso, l’Angelo della Scuola, Aristotele dominante, e con Averroè, l’“anticristo”, calpestato, Raffaello, nella Scuole di Atene, oppone ai dottori cristiani, i maestri della saggezza greca, fianco a fianco, la filosofia pagana di fronte alla Teologia.

Il culto dell’uomo divinizzato

L’uomo, questa scintilla divina caduta nel mondo, è di natura ed origine divina. Egli è « imago mundi », microcosmo nel macrocosmo, vale a dire è la riproduzione quaggiù del mondo divino. Egli solo è Dio, ed è pure l’adempimento di tutta la natura nella sua perfezione. Gli umanisti lo hanno ripetuto sotto ogni forma. « L’uomo – ci dice Leone Battista Alberti – può ottenere da se stesso, tutto ciò che vuole. » – « La natura del nostro spirito è universale », dice Matteo Palmieri. « Noi siamo nati in questa condizione – dice Pico della Mirandola – noi siamo ciò che vogliamo essere. » – « L’uomo – dice Marsilio Ficino – si sforza di restare sulla bocca dell’uomo per tutto l’avvenire … egli soffre per essere stato celebrato in tutto il passato, da tutti i paesi, da tutti gli animali … egli misura la terra ed il cielo, scruta le profondità del Tartaro, il cielo non gli sembra troppo alto, né certo il centro della terra troppo profondo … e poiché ha conosciuto l’ordine dei cieli, muove verso questi cieli e dove essi vanno, e le loro misure e i loro prodotti, chi negherà che egli abbia quasi lo stesso genio dell’autore di questi cieli e che in un certo modo potrebbe crearli egli stesso? … L’uomo non vuole dunque né uguali né superiori, egli non tollera che ci sia sopra di lui qualche dominio dal quale sia escluso.  È solamente lo stato di Dio … egli si sforza di essere dappertutto come Dio, come Dio egli si sforza di essere sempre … » Queste formule estratte dalla sua “Theologia platonica”, sono dei commentari dell’ « Eritis sicut dei », promessa del serpente ad Adamo. Si sente tuttavia in questi testi una collera assurda contro Dio. L’uomo vorrebbe essere divino; ma è questo in lui uno sforzo portato per l’avvenire e non una realtà attuale. Questo culto dell’uomo è “in divenire”. Pico della Mirandola pubblica un discorso sulla dignità dell’uomo. Per terminare l’opera della creazione, Dio ha fatto l’uomo affinché conosca le leggi che reggono l’universo, ne esalti la bellezza, ne ammiri la grandezza. Egli non lo ha condannato a vivere nello stesso posto, come le piante, non ha incatenato la sua azione e la sua volontà, come per gli animali, ma gli ha dato la libertà di agire a suo piacere, di andare, di venire: « Io ti ho posto in mezzo al mondo – dice il Creatore ad Adamo – affinché tu possa più facilmente allungare il tuo sguardo intorno a te e meglio vedere ciò che ivi è racchiuso. E facendo di te un essere che non è né celeste, né mortale, né immortale, Io ho voluto darti il potere di formarti e di vincere te stesso. Tu puoi scendere fino al livello della bestia, e puoi elevarti fono a diventare un essere divino. Venendo al mondo, gli animali hanno tutto ciò che devono avere, ma gli spiriti di ordine superiore sono dal principio, o almeno subito dopo la loro formazione [allusione al culto di lucifero e dei suoi partigiani], ciò che essi devono essere e restare per l’eternità. Tu solo puoi ingrandirti e svilupparti come vuoi, tu hai in te i germi della vita sotto ogni forma. » – A partire da un giustissimo pensiero, che l’uomo sia stato posto  da Dio ai confini del mondo materiale e del mondo spirituale, Pico della Mirandola falsifica tutto il piano divino. Mai Dio infatti ha rivelato ad Adamo che potrebbe un giorno divenire divino. Egli gli ha solamente chiesto di regnare sulla creazione a patto che l’uomo rendesse omaggio al suo Creatore rispettandone l’ordine da Lui voluto, cioè l’ordine della vita, e la distinzione del Bene e del Male, i due alberi sacri del Paradiso. Ora, Pico della Mirandola pretende che Dio abbia dato all’uomo la facoltà di auto-divinizzarsi a suo piacimento. Come quest’ultimo potrebbe acquisire, secondo Pico, questa facoltà se la possedeva già per natura propria? Questo discorso è stato inviato a Roma, esaminato da un collegio di sapienti apostolici ed autorizzato ad essere pubblicato nel 1486. Poi si fanno delle obiezioni  contro « questo mago empio, nuovo eresiarca », il Papa Innocenzo VIII sospetta delle tesi del giovanotto, « … avvolte da vocaboli nuovi ed insoliti ». Punto, è tutto. Rispetto all’invasione della gnosi, proveniente dalla Kabbala, l’Autorità suprema è mostrato una sconcertante indulgenza. – Tale è l’ideale di tutti gli umanisti dall’inizio del XVI secolo; ad esempio Coluccio Salutati scrive i “Lavori di Ercole”. « Il cielo – egli dice – appartiene di diritto agli uomini energici che hanno sostenuto grandi lotte e compiuti straordinarie opere sulla terra. » Si tratta dunque di una conquista in pieno diritto. L’uomo prende dalle sole sue forze il suo fine ultimo e la sua perfezione. L’uomo è un Dio in divenire. Coluccio Salutati era maestro di Poggio, i suoi discepoli hanno popolato il collegio dei segretari apostolici, gli « abbreviatori » di cui abbiamo già parlato, istallati a Roma, al centro della Cristianità. – Nella sua Utopia, Tommaso Moro propone, come esempio, la ricerca sfrenata dei piaceri naturali che costituiscono il « condimento e il fascino della vita ». Egli rifugge « ogni voluttà che impedirebbe di gioire di una voluttà ancora maggiore o che sarebbe seguita da qualche sofferenza ». Egli esalta la santità ma rifiuta di sacrificarsi, con il digiuno e l’astinenza, ad un « vano fantasma di virtù ». Egli è avido di felicità e non dimentica nulla per ottenerla. In “Utopia” ci si sposa: « gli sposalizi sono preceduti da un esame nunziale, » una dama onesta e seria, presenterà al suo futuro fidanzato, la giovane o vedova, nello stato di perfetta nudità, e dall’altra parte, un uomo di provata probità, mostrerà alla giovane il suo fidanzato, nel medesimo stato di semplicità … « L’onore della città vuole dei cittadini di nobile razza, prestanti, vigorosi, amanti della salute, dei divertimenti, delle gioie della vita. La bellezza e la robustezza del corpo sono i segni di questa esaltazione dell’uomo divinizzato. L’Utopia appare nel novembre del 1516 a Lovanio,. L’opera ottiene subito la stima di tutti i grandi umanisti: al primo posto Guglielmo Budé ed Erasmo. Essa non fu tradotta in francese che nel 1550 da Jean Le Bond, ma dal 1532, la stessa parola “utopia”, fa la sua comparsa nel vocabolario francese. Rabelais, nel suo Pantagruel, si ispira all’Utopia di Tommaso Moro, ma con maggiore impudenza ancora: l’abbazia di Thélèma (in greco, libera volontà) è costruita sulle rive della Loira « al contrario di tutte le altre ». Qui non ci sono mura esterne, né orologio; uomini e donne vi praticano un triplo voto di “matrimonio, ricchezza e libertà”; si tratta dell’inversione della perfezione cristiana: “castità, povertà e obbedienza”. « … Fu ordinato che non vi venisse ammesso nessuno se non i ben conformati, perfetti e le donne belle ed attraenti … fu stabilito che si potessero maritare coloro che erano ricchi e vissuti in libertà. » Un gran cartello vien posto sulla porta di Thélèma che proibisce l’ingresso agli « ipocriti, ai bigotti », agli agenti di giustizia ed agli usurai; sono ammessi solo  « nobili cavalieri, le dame di alto lignaggio, fior di bellezza, dal viso celestiale, dal contegno riservato e saggio » ed i Cristiani evangelici. « Entrate, ché qui ci si basa su di una fede profonda! Poiché i nemici della santa parola, confondono con la voce e con il ruolo! » Si tratta di conciliare l’abbrutimento totale della natura umana con un sé dicente Cristianesimo tornato alle origini, – Ma siamo come si nota, agli antipodi della fede cristiana. « Come regola non avevano che questa clausola: fate ciò che volete, perché persone ben nate, bene istruite, conversanti in compagnia onesta, hanno per natura un istinto ed un acume che li spinge sempre ad essere virtuosi. » Li si spinge, in vero, in maniera più imperiosa verso una morale che qui consiste nella soddisfazione di tutti gli istinti. Elevare al più alto grado d’intensità l’umanità che si porta in sé, la [pseudo] “virtù”, questa è la legge morale! L’« uomo universale » deve svilupparsi armoniosamente in tutte le felici disposizioni del corpo, in tutte le facoltà della propria intelligenza. Là dove la Chiesa afferma che la curiosità di Eva ha perso l’intera l’umanità, gli umanisti fanno della curiosità insaziabile e ovunque diretta, la principale delle virtù: là dove la Chiesa insegnava l’umiltà in una ignoranza rispettosa del mistero, essi hanno posto il loro ideale nella conoscenza (la gnosi!). – Infine a Thélèma non c’è una chiesa. Ognuno delle 9332 camere dispone di una cappella particolare; la religione ridotta alla soddisfazione di un sentimento individuale, di una fantasia infinitamente modificabile a proprio piacimento. Ed infatti che bisogno ha l’uomo divinizzato di un Dio? Egli si crea da sé, rigetta ogni intervento di una volontà divina che pretende di  regolare l’esistenza quaggiù. La società utopica è vuota di Dio, perché dispone da se stessa degli attributi della divinità. Essa ha rinnegato Dio per darsi all’adorazione degli uomini. Come dice bene Jean-Philippe Delsol, gli umanisti «non reclamano ancora la morte di Dio, ma preparano involontariamente (?) la lettiga sulla quale i secoli successivi lo sdraieranno prima di sotterrarlo ». – E questo culto dell’uomo si manifesta finanche nell’arte dell’epoca. Tutto il pensiero di Leonardo da Vinci, ad esempio, è inebriato di paganesimo, esaltato da costumi voluttuosi e violenti, con la pretesa di ritrovare la bellezza originale ed inventare la scienza. Il suo San Giovanni, posto in una splendida solitudine, appare come un dio di voluttà. Nel suo sguardo balenano gli ardori della passione e di tutte le audacie dello spirito. Dalla sua bocca si si sente l’antico grido pagano di èvoé (grido che baccanti ebbre, in stato di esaltazione, rivolgevano a Bacco) La celebre Gioconda si pone all’entrata di un labirinto strano formato da rocce bizzarre e ruscelli sinuosi che si perdono nei vapori dell’orizzonte. Tranquilla e sorridente, la sirena attende con un bagliore negli occhi e con sulle labbra fini e serrate, il fascino mortale della menzogna. –  Che resta di veramente cristiano in questo “San Sebastiano”, simile e pari ad Adone, o nelle sue Madonne che sono delle Veneri travestite? Finanche nell’arte funeraria si sente questa esaltazione della vita divinizzata; infatti l’apparato di morte si circonda di un elogio della vita e glorifica la maestà e le bellezza del vivente: diversi “piangenti”  circondano il “giacente”, il morto è come per miracolo, resuscitato. Si eleva dalla bara, solleva il coperchio, si siede sul bordo della tomba e sembra conversare con i suoi, venuti a fargli visita. Ben presto camminerà, argomenterà …

Il culto del serpente: verso l’ecumenismo.

Nel XVI secolo, il serpente si tiene modesto e non canta ancora vittoria, come farà nel XIX secolo nella furia romantica. Ma esso sa comunque rendersi insinuante. Mormora discretamente alle orecchie degli umanisti, ascoltiamolo! Il suo leitmotiv, è l’ecumenismo. Tutte le religioni si equivalgono, esse sono tutte eccellenti nel loro ambito, ma seguitemi e vi insegnerò la vera religione, quella della felicità e della libertà. – Gemisto Pletone ha suscitato una triplice rivoluzione religiosa. Egli adora un Dio iperboreano, annuncia una nuova religione che non sarà « né del Cristo, né di Maometto, ma non differisce essenzialmente dal paganesimo » ; pubblica il suo opuscolo nel 1489 a Firenze. – Luigi Pulci pubblica il suo Morgante maggiore, confessa di credere alla bontà relativa di tutte le religioni. È il demonio Astaroth che lo dice nel capitolo 25 del suo poema. In precedenza si pensava che bisognasse essere ortodosso o eretico, o cristiano o musulmano. Pucci crea la figura del gigante Margotte, che si burla di tutte le religioni, professa l’egoismo più materiale, si dà a tutti i vizi. Nel capitolo 16 egli completa l’insegnamento di Astaroth con un discorso deista della bella pagana Antea, che è l’espressione più netta delle opinioni che circolavano tra i compagni di Lorenzo dei Medici. – Il demonio Astaroth ha frequentato l’accademia platonica, letto tutta l’opera di Marsilio Ficino, ascoltato l’astronomo Buonincontri, commentato l’Astronomicon di Manilius. Egli ha la sua opinione su Dio, la Trinità, il libero arbitrio, la caduta e l’eterna dannazione degli angeli. Il negromante Malagigi lo evoca per aver notizie di Rinaldo. Egli stesso, Astaroth, è entrato nel cavallo di Rinaldo che conduce dall’Egitto, gli rivela con la bocca del suo destriero che al di là delle colonne di Ercole ci sono delle città ed un popolo chiamato “Antipode”, ove si adora il sole, Giove e Marte.  Ogni religione, egli dice, è gradita a Dio, purché sia sincera. Solo la fede cristiana è vera, certamente, e i giudei ed i maomettani saranno dannati. Ma essi … non perderanno nulla, perché fin nell’inferno si trova « gentilezza, amicizia, cortesia ». In tutti gli umanisti serpeggia una ammirazione discreta per l’islam. Gli viene attribuito un ideale di generosità, i dignità, di fierezza. Si esalta questo o quel sultano, soprattutto Saladino, come Boccaccio nel Decamerone,  o nella Commedia di Dante. In Masiccio si esaltano dei sultani, il re di Fez, il re di Tunisi. Fazio degli Uberti esalta “il buon Saladino” nel suo “il Dittamento”. Bisogna pure ascoltare le declamazioni furibonde contro il Papa Pio II, quando chiama alla crociata contro i turchi, proprio un Piccolomini, il grande amico degli umanisti. L’Astrologia viene pure opportunamente in soccorso dell’ecumenismo. Sono autori arabi e giudei che diffondono questa teoria, che ogni religione dipenda dagli astri. Battista Mantovano, nel suo “De Sapientia” spiega che la congiuntura di Giove con Saturno aveva prodotto la dottrina ebraica, quella di Giove con Marte aveva dato origine alla religione caldea, la religione egiziana era il frutto della congiunzione di Giove con il sole; Giove in congiuntura con Venere aveva creato il maomettanesimo, in congiuntura con Mercurio, aveva prodotto il Cristianesimo. Come si vede le religioni sono sotto la dipendenza diretta degli Arconti dei nostri gnostici, degli Zephiroths dei cabalisti, che sono le vere divinità reggitrici degli astri. Si noti anche che l’Arconte, maestro del Cristianesimo, è mercurio, cioè Hermès, il tre volte grande, il “Trismegista”: è lui che è stato formato dal “Pastore” il pimandro, cioè il Cristo, l’ultimo dei grandi iniziati. – Più insinuante ancora, il demone ispira ai poeti del Rinascimento gli argomenti che i nostri modernisti si sono fatti un maligno piacere di sviluppare dopo l’ultimo secolo e che sono oggi ripresi dai nostri moderni gnostici. – Un certo Theodolus o Theudulus (il suo nome familiare è Teodolo) pubblica un’ecloga nella quale oppone Pseustis, la menzogna, e Alitea, la verità. Due pastori che sulla moda di Virgilio, ingaggiano una lotta poetica. Phronisis, la Saggezza, è designata come arbitro e, come Pseustis racconta le favole dell’antica Grecia, Alitea gli oppone la meravigliosa recita della Bibbia. Si capisce che la verità rimane vittoriosa, ma qual demolizione intanto: Se Alitea parla di paradiso terrestre, è perché Pseustis ha cantato l’età d’oro, il regno di Saturno. Se racconta la storia di Adamo cacciato dal Paradiso, il suo avversario ha mostrato Saturno detronizzato da Giove, l’età dell’oro sostituita dall’età dell’argento. Si vede così da un lato Cecrops istituire il culto idolatrico, dall’altro Abele e Caino offrire sacrifici. Poi viene Licaone con Henoch, il diluvio di Deucalione con il diluvio di Noé. Hebé è soppiantato da Ganimede ed il corvo maledetto dagli animali perché non ha portato nell’arca la notizia della salvezza. Qui i Titani fanno la guerra all’Olimpio e là, Babele si volta contro il cielo; Dedalo causa la perdita di suo figlio Icaro mentre Abramo sacrifica Isacco, etc. si potrebbero ancora riferire parecchie concordanze, degli avvenimenti che l’umanità primitiva si era trasmessa oralmente deformati nel corso dei secoli, ai quali si era aggiunta molta fantasia, ma la Genesi aveva conservato la tradizione più autentica. Gli umanisti ne traggono invece un’altra conclusione, che cioè tutte le religioni, la cristiana come la pagana, erano la deformazione di una Tradizione primitiva perduta ed il serpente era là, vicino alle loro orecchie per sussurrare loro che egli era il solo a conoscerla veramente, e che se essi volevano esserne iniziati, avrebbero dovuto passare per la Conoscenza (la gnosi). Gli umanisti praticano abitualmente la mescolanza delle due ispirazioni, la cristiana e la pagana. Pio II scrive al sultano di Costantinopoli che “il Cristianesimo non è che una nuova lezione più completa del sovrano bene egli antichi”. – Leone Battista Alberti, già citato, commenta secondo un metodo simile, i sei primi libri dell’Eneide di Virgilio. I viaggi che porteranno fino in Italia Enea, che rappresenta la saggezza (la “sofia” degli gnostici), simbolizzano l’ascensione graduale dell’anima terrestre verso la contemplazione della pura divinità. Idea tutta di matrice gnostica. Pico della Mirandola nell’Eptaplus, interpreta la recita della Genesi, come il contenuto dei segreti della Natura e la storia dello “spirito divino”. L’ecumenismo contiene necessariamente il Panteismo ed il “culto dell’uomo” sostituito al culto di Dio. È la religione del serpente. [Da queste considerazioni si comprende come effettivamente l’ecumenismo del novus ordo, sia la religione dell’uomo divinizzato, del Dio immanente vivente nell’uomo e nella natura, nel cosmo in evoluzione; l’uomo pertanto non ha bisogno di redenzione, né di culto, né di sacramenti, ma semplicemente della conoscenza di sé come uomo-dio, cioè la gnosi; è il medesimo sibilo serpentino delle conventicole massoniche ormai trapiantate in quelli che erano  un tempo i sacri palazzi … dell’urbe e dell’orbe. Il serpente si fa adorare nelle logge come baphomet-lucifero, e nella falsa chiesa dell’uomo, come il “signore dell’universo” …, ma la lingua biforcuta è la stessa.]

I TEMI GNOSTICI NELLA LETTERATURA.

Infine gli gnostici hanno ben compreso che, per penetrare la società cristiana e capovolgerne la mentalità, non si poteva fare a meno dei letterati, e soprattutto dei poeti. Essi hanno assediato questi ultimi, li hanno educati, istruiti in tutte le scienze occulte, l’alchimia, la kabbala, e soprattutto la filosofia platonica. Poi hanno spiegato loro che essi erano i veri sacerdoti di una nuova religione, che la loro poesia dovesse sembrare come una rivelazione divina, poiché l’ispirazione viene direttamente dalla divinità. Non si rimarrà allora sorpresi dal ritrovare nei poemi del Rinascimento tutte le idee sviluppate nelle pagine precedenti. Joachim du Bellay ha lasciato dei sonetti tutti impregnati da idealismo platonico, adagiati su una concezione nuova dell’amore e della bellezza. L’amore per la bellezza terrestre, egli dice, traduce l’aspirazione sublime dell’anima, prigioniera quaggiù, verso la bellezza divina ideale. Questo deve essere pertanto un amore casto e puro, nei fatti un amore sterile, stornato dalla sua propria finalità, che è la procreazione. È pure un amore che esalta la morte, che la chiama, la provoca finanche. Già prima di lui, Clemente Marot aveva presentato questo amore della bellezza come un richiamo al suicidio:

« L’anima è il fuoco, il corpo un tizzone,

l’anima vien dall’alto, il corpo è inutile.

Altro non è che bassa prigione,

in cui langue l’alma nobile e gentile.

Di tal prigione ho la sottile chiave;

è il mio dardo all’anima graziosa,

perché la trae fuor dalla vil prigione,

per rinviarla da quaggiù al cielo ».

La morte è buona, bisogna averne desiderio, è facile darsela, perché è liberatoria. Si ritrova la stessa concezione della morte liberatrice in questo poema di Joachim du Ballay, intitolato:  l’Idea

« Se la nostra vita è men che una giornata nell’eterno,

se l’anno che fa il giro,

discaccia i nostri giorni senza spirto di ritorno;

se peritura è ogni cosa nata,

cosa sogni tu, anima prigioniera?

Perché ti piace l’oscur dei nostri giorni,

se per volare in più soggiorno chiaro,

tu hai al dorso ali ben piumate?

Là c’è il bene che desia ogni spirto

Là il riposo a cui tutto il mondo aspira,

là è l’amore, là è il piacer ancora.

Là, all’alto ciel, anima mia guidata,

potrai conoscervi l’Idea

della beltà che in questi mondo adoro. »

Si noti, al termine, che la bellezza ha preso il posto di Dio, l’amore è sinonimo di piacere e di libertà, che l’anima portata dall’aquila piumata è angelica. Infine come involarsi verso il soggiorno più chiaro, senza darsi la morte? Questo poema è dunque anch’esso un netto richiamo al suicidio. Non bisogna poi egualmente illudersi sulla qualità cristiana di un tale amore. Mai il Cristianesimo ha insegnato che l’amore debba essere sterile, conseguenza del cosiddetto amore “casto e puro”; è una invenzione del serpente, omicida e menzognero . lo ritroveremo tutto nella poesia romantica. Questa impazienza di scappare alla “prigione” terrena, questa aspirazione verso l’assoluto della bellezza, che non è Dio, annunzia tutte le stravaganze romantiche.

Ma ascoltiamo Ronsard.

« Dio è in noi, e per noi fa miracoli,

sì come i versi di un poeta scrivente,

son degli dei gli oracoli e i segreti

che innanzi spingon con la bocca. »

« Perché dunque fate sacerdoti? » domanderà più tardi Victor Hugo. Il poeta è il vero sacerdote della religione gnostica. Ronsard si vanta e si dice cristiano, ma tutto il pensiero è panteista. Dio stesso – secondo lui – è l’energia vitale che circola nell’universo e generatrice degli esseri che lo popolano. Egli è il viscere centrale, il focolaio dell’ardore del mondo, l’Anima del mondo che lo avvolge e di cui tutte le creature sono degli accidenti. Ascoltiamo questa gnosi:

« Perché dappertutto si mescola Dio,

inizio, intermezzo e fine

di ciò che vive ed in cui l’anima è chiusa

dappertutto rinvigorisce ogni cosa

dagli elementi di questa anima infusa

noi siam nati. Il corpo mortale utilizzato al tempo,

dagli elementi è fatto;

da Dio vene l’anima, l’anima perfetta,

l’anima perfetta, intoccabile, immortale,

come da un’essenza eterna:

l’anima non ha inizio né fine,

perché la parte segue il tutto,

con la virtù di questa anima mistata

gira il ciel e la stellata volta,

il mare ondeggia, la terra produce,

con le stagioni, erbe, foglie e frutti …

perle, zaffiri, han da questo lor essenza,

e per tal anima han forza e potenza.

Che più, che meno secondo la pienezza,

così ne è di noi, poveri umani … »

Ecco un buon compendio di cosmologia gnostica: Dio è identificato con l’anima del mondo che dà vita e forza a tutti gli esseri. Egli è inizio, intermedio, e fine! [Dio certamente è l’inizio, essendo il Creatore del mondo, e ne è fine, perché l’Universo è creato a sua gloria, ma non ne è l’intermedio, perché l’universo non è Dio].  Questa espressione è tratta da Hermete Trismegisto. L’anima umana è un elemento dell’anima divina infusa nella natura. Si tratta qui di un’emanazione. Essa è eterna, non ha avuto mai inizio, come Dio, poiché … “la parte segue il tutto”. L’anima divina percorre il mondo e passa da un essere all’altro come lo slancio vitale di Bergson [filosofo gnostico moderno]. Essa è il principio che anima il tutto, anche gli esseri non animati, come le perle e gli zaffiri, così tutti i regni, vegetale, animale, minerale, sono animati dal medesimo soffio. – Questo “animismo universale” è comune a tutti i poeti del Rinascimento. Perfino l’austero calvinista, Agrippa d’Aubigné, parafrasa in anticipo il “tutto vive, tutto è pieno di anime …” di Victor Hugo. Egli così descrive la resurrezione:

« Qui un albero sente dalle braccia della sua radice,

sciame di un capo vivente, uscire un petto.

Là, l’acqua torbida ribolle e poi disperdendosi

Sente in sé dei capelli ed un capo si scuote … »

Ronsard, in una delle sue più celebri “Elegie”, riassume il problema molto bene:

« O dei, quanto vera è la filosofia che dice ch’ogni cosa alla fine perirà,

e cambiando forma in altro vestirà!

… la materia resta, la forma svanirà.

La materia qui, nel pensiero del poeta, è divinizzata, poiché porta in se stessa in potenza tutte le forme possibili e ne produce la varietà. Questa materia è certamente dunque l’anima del mondo. Gli esseri non sono che manifestazioni provvisorie e successive di uno stesso principio vitale « incluso, infuso » nella natura. – Infine Rostand, come ogni buon gnostico pratica il culto del demonio. Egli ne eredita la storia dai sogni neo-platonici di Giamblico, dal cronicario bizantino Psellos, ai tomi degli occultisti. – Egli ha pubblicato « L’inno dei demoni », dedicato al vescovo di Riez, Lancelot Carle, grande estimatore dei filosofi segreti, con l’intenzione di sfuggire ai fulmini dell’Inquisizione riparandosi dietro un prelato. Questo poema si ricollega alle tradizioni più esatte delle scienze occulte dell’epoca. In questo poema, Rostand ci racconta che i demoni sono stati concepiti dalle donne della terra per mezzo di Angeli (guadate che potenza viene attribuita alla bellezza femminile) e che Dio, avendo punito i colpevoli, perdonò ai figli innocenti, « che, non essendo colpevoli dei misfatti dei loro genitori, tenendosi più dalla parte del padre che della madre, si involeranno in aria come cosa leggera ».

Ecco uno stravolgimento un po’ forte del dogma del peccato originale. Questi demoni hanno animato i diversi pianeti che governano, attraverso loro, gli atti ed i caratteri dei mortali:

« Secondo l’astro del cielo sotto il quale essi sono nati,

quelli di Saturno fan l’amore malinconico,

quei di Marte, il collerico, quei di Venere, lubrico;

quei del sole amati, felici, di Giove … »

Da ciò si vede ancora che l’Astrologia è certo una scienza demoniaca, perché pretende di determinare gli atti umani con una influenza astrale che toglie loro ogni libertà. –  Si comprende bene pure che questi “demoni” non sono altro che gli arconti degli gnostici o gli zephiroth dei kabbalisti; sono le perfette emanazioni del “gran tutto” che comandano il cammino dell’universo e governano le umane volontà. Si vede ancora apparire in filigrana attraverso questo poema, la riabilitazione di satana, ridivenuto lucifero e padrone del cielo, che i romantici fra non molto esalteranno.

[2 – Continua …]

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (32): GNOSI ED UMANESIMO -1-

GNOSI, TEOLOGIA DI Satana -32-

Gnosi ed UMANESIMO (1)

[Elaborato da: É. Couvert: La gnose contre la foi, Ed. de Chiré, 1989]

La gnosi è l’anima dell’Umanesimo, di tutto il Rinascimento [in realtà rinascimento del paganesimo e del culto solare di Mithra, con annesso becero ed assurdo eliocentrismo], che in nome di una pretesa e falsa libertà di pensiero e di coscienza, ha guidato la ribellione a Dio – pretendendo di averne causato addirittura la morte – ed al suo Cristo, ha stravolto, in unione con la gnosi islamica e giudaico-kabbalista, le fondamenta del Cristianesimo e della sua Chiesa, demolendone prima il potere temporale [1871] e poi, si fieri potest, quello spirituale [dal 26 ottobre del 1958]. La “Rivolta” ha interessato tutta la società, tutta la cultura, le arti, il pensiero, addirittura ha imposto un falso modello astronomico, fondato sul nulla, sull’immaginario di visionari allucinati, occultisti astrologi, alchimisti e veri e propri stregoni, definiti ancor oggi “scienziati”; coinvolte sono state naturalmente la letteratura, la filosofia, la teologia, virata dal sano e lucido tomismo, alle fantasie ofidiche della nuova teologia modernista. Il nostro É. Couvert, che non sapremo mai ringraziare abbastanza per la sua opera di “talpa-segugio” anti-gnostico, ha elaborato dei capitoli veramente straordinari per farci rivivere e comprendere l’ambiente in cui è rinata, nonché l’evoluzione storico-culturale della gnosi, vero cancro del Cristianesimo, e dell’intero pensiero umano. Possiamo ringraziarlo pregando per la sua conversione alla Chiesa Cattolica, quella vera, che non è la sinagoga satanica del “novus ordo”, fogna di tutte le eresie, infestata e disfatta dalla lebbra gnostica; possa finalmente comprendere – e chi meglio di lui – che Gesù Cristo non poteva ingannarci consentendo l’errore nella sua Chiesa o l’apostasia del suo “vero” Vicario, infallibile capo visibile della sua Sposa, senza macchia e senza rughe, Corpo mistico di Cristo, e parte del vero “PLEROMA”, [non la contraffazione luciferina], cioè la pienezza di Cristo, costituita dal Capo, l’uomo-Dio, e dalla Chiesa, membra del corpo, secondo la meravigliosa definizione di San Paolo ai Colossesi ed agli Efesini.

Introduzione

Fin dalle origini del Cristianesimo, abbiamo visto che gli gnostici si sono sforzati di penetrare nella giovane Chiesa per depositarvi il germe del loro culto satanico. Ma fu all’epoca un insuccesso clamoroso. A partire dal IV secolo, essi dovettero lavorare nell’ombra, e così la loro azione continuò discreta e nell’oscurità attraverso i secoli del Medio Evo. Qui e là, la loro dottrina satanica, appariva improvvisamente per ripiombare con altrettanta velocità nelle voragini dalle quali faceva capolino. Ad esempio: gli eretici Sabelliani, spiegavano Dio come una monade in espansione. Marcello, Vescovo di Ancyra, parlava di “dilatazione del divino” e del “logos” esteriorizzantesi da se stesso attraverso una energia attiva [emanazione!], benché rimanesse sempre Dio. Gli Ariani credevano che Gesù-Cristo e lo Spirito-Santo fossero delle emanazioni di Dio Padre [eoni!], che Gesù-Cristo fosse un uomo perfetto la cui anima fosse il “Logos”, in comunicazione diretta con Dio. – Più tardi, nel XII secolo, si vede apparire, senza apparenti legami con una gnosi precedente, un monaco calabrese, che pretendeva di aver intravisto, passeggiando al sole nel giardino del suo convento, un giovane uomo che gli tendeva una coppa dalla quale bevve alcuni sorsi. Joachim de Flore aveva gustato da un calice meraviglioso la “rivelazione dell’avvenire”, la visione del “Vangelo eterno”. Egli partì per la Terra santa, al ritorno si fermò in un monastero della Sicilia, alle falde all’Etna, ove ebbe un’estasi di tre giorni, simile ad un’agonia:« … io ero ai suoi piedi, racconta un suo discepolo: io scrivevo, e due altri erano con me. Egli dettava notte e giorno. Il suo volto era pallido come una foglia secca di un albero. » Egli annunciava la fine della legge del Cristo che doveva retrocedere, nell’anno 1260, e far luogo alla legge dello Spirito. La terza età, proclamava, sarà quella del Vangelo eterno, della legge dell’amore ed il tempo della libertà. La sua dottrina fu propagata dai francescani. E Jochim stesso non fu perseguitato. Dante, gnostico occultista, lo pone tra gli eletti e gli attribuisce il titolo di profeta. Egli ebbe discepoli in Germania, nel secolo XIV, i « Fratelli del libero Spirito», Maestro Eckart, Tauler, Suso. Nei fatti egli insegnava la più classica delle gnosi. La fine dell’umanità è un fondersi in Dio per mezzo dell’opera dello Spirito ed in questa unione, l’anima dell’uomo non è che Dio stesso!  – Maestro Eckart continua l’insegnamento di Joachim de Flore. « L’anima, egli dice nei suoi sermoni, “Nisi granum frumenti”, sfugge alla sua natura, al suo essere alla sua vita e nasce nella divinità. È là che c’è il suo divenire. Essa diviene sì totalmente un solo essere al quale non resta altra distinzione che questa: «Esso resta Dio, ed essa resta anima. » Questa unione, « Einung », è nei fatti una fusione di due esseri in una sola divinità totale: è il ritorno all’ “unità primordiale” dei nostri gnostici. Il Papa Giovanni XXII, condannò in una bolla del 1329 questa tesi di maestro Eickart: « noi Ci metamorfosizziamo totalmente in Dio e ci convertiamo in Lui allo stesso modo che il pane, nel Sacramento, si cambia in Corpo di Cristo. Io sono così cambiato in Lui, perché Egli stesso mi fa essere suo. Unità, quindi, non similitudine. Con il Dio vivente è vero che non c’è alcuna distinzione. » Come questa, attraverso i secoli del Medio Evo, si può seguire una linea segreta di penetrazione, nel pensiero cristiano, di una gnosi che si nasconde sotto un linguaggio apparentemente cristiano. Ma se si vuole assistere veramente ad un ritorno in forze della gnosi nel pensiero cristiano, bisogna attendere il XV secolo, con la fioritura dell’Umanesimo nel Rinascimento. È allora che il pensiero gnostico va ad esercitare un’influenza decisiva su tutta la mentalità dell’élite coltivata nel XVI secolo, di tal sorta che dopo di allora, essa non ha mai cessato di avvelenare gli spiriti fino ad esplodere ai nostri giorni, malgrado gli sforzi energici della Chiesa per preservare la dottrina cristiana contro questa nuova invasione. Il Romanticismo degli ultimi secoli, ad esempio, non è stato che una riesumazione dell’Umanesimo gnostico. – Se si vuol definire con precisione l’Umanesimo del Rinascimento, occorre riconoscere che esso è stata il risultato di una penetrazione della gnosi cabalistica insegnata dai rabbini del XV secolo nella società cristiana del loro tempo.

LA KABBALA, FORMA GIUDAICA DELLA GNOSI.

Gli gnostici si sono sforzati, fin dai primi secoli, di penetrare nel giudaismo della diaspora in modo da indurre i rabbini, fedeli alla Rivelazione dell’Antico Testamento, a rinnegare il vero Dio, Yeowah. Essi hanno spiegato loro infatti, che Yeowah non era che un’entità demoniaca, che la legge di Mosè era stata da lui inventata per ridurre i Giudei alla schiavitù del Demiurgo, rinchiudendoli in una rete di istituzioni e principi arbitrari, manifestando la volontà determinata di un tiranno malvagio. Così essi hanno inondato la Siria e la Palestina di canti gnostici da loro composti. Vi si ritrova in essi tutto il principio dell’emanazione, le idee neoplatoniche, con uno stato di esaltazione e di entusiasmo grazie al quale si “volava nell’aria” sul “carro dell’anima”, e si compivano ogni sorta di miracoli, accompagnati da allucinazioni e da visioni. – Il risultato di questa penetrazione gnostica in Israele fu, nel corso del Medio Evo, l’apparizione della Kabbala, o “tradizione”. La sua forma definitiva si è espressa nel libro dello “Zohar”, cioè “Lo splendore”. Esso si presenta sotto la forma di un commentario del Pentateuco, insegnato da rabbi Simon Ben Jochai al suo circolo di pii uditori; la sua redazione attuale risale in gran parte a Moïse de Léon. Ne diamo un riassunto secondo Moïse Cordovero e Isaac Luria. – Ma è innanzitutto necessario sbarazzare lo Zohar di tutta una stravagante mitologia la cui lettura è veramente penosa per una intelligenza ordinaria e sana. I kabbalisti si sono ingegnati nell’avviluppare il loro insegnamento con un rivestimento fantasioso destinato in realtà a nascondere le loro vere intenzioni. In questo, per la verità, essi non hanno fatto che seguire l’esempio dei nostri primi gnostici. Era in effetti difficile far abbandonare ai rabbini il vero culto di Yeowah, e per questo bisognava fingere di seguire la Rivelazione dell’Antico Testamento, poi darne un commento rispettoso che doveva però lentamente pervenire ad invertirne completamento il vero senso. Si continuava a parlare del “Santo, il suo nome benedetto”, della “creazione”, ma queste parole si caricavano di un senso nuovo ed inaudito in precedenza in Israele, quello della gnosi, come già in precedenza esposto. Il “Gran Tutto”, il “Pleroma” dei nostri gnostici, si chiama, presso di loro l’« En-Sof », cioè il non-limitato”, il grande Essere immutabile, eterno, infinito, che racchiude in sé tutte le forme. Per spiegare l’apparizione del mondo visibile e la molteplicità degli esseri che popolano l’universo, i kabbalisti hanno ricorso come al solito, alla nozione di emanazione e contrazione. Il “gran Tutto” primitivo, esce dal “caos”, si contrae per lasciare un vuoto all’interno di sé, dal quale appaiono le forme determinate e multiple delle creature che sono il riflesso apparente dell’ « En-Sof ». In altri termini, il “gran Tutto” non è altro che la somma, la totalità delle cose finite. Per spiegare questo passaggio dall’uno al molteplice, dall’indeterminato alle forme concrete, gli gnostici avevano inventato delle potenze divine intermedie, gli Arconti, capaci di produrre gli esseri. Essi sono chiamati “Zephirot” dai kabbalisti. Il loro numero ed i loro attributi possono variare da una scrittore all’altro, ma il loro ruolo resta essenziale nella produzione delle cose finite distinte tra loro per le qualità, la gradazione, le determinazioni. – Una nozione fondamentale della kabbala è che essa rappresenta la maniera di presentare il panteismo più assoluto, è la corrispondenza di struttura tra i due mondi, quello dell’« En-Sof » ed il mondo visibile, oggetto della nostre percezioni: «Tutte le cose, ci dice lo Zohar, dipendono le une dalle altre e tutte sono collegate le une alle altre, affinché si sappia che: tutto è Uno, e tutto è l’Antico e niente è separato da Lui ». L’Antico, è il nome velato per designare la divinità originale, fonte di tutti gli esseri; lo Zohar precisa ancora: « Quando si afferma che le cose sono state create dal niente, non si vuole parlare del nulla propriamente detto, perché non può mai succedere che un essere venga da un non essere. Ma si intende con il nome di non-essere ciò che non si concepisce né dalla sua causa, né per essenza, ma è, in una parola, la causa delle cause, quello che noi chiamiamo il Non-Essere primitivo, perché è anteriore all’universo, e con questo noi intendiamo non sono gli oggetti materiali, ma anche la Saggezza sulla quale è fondato il mondo … Tutte le cose di cui questo mondo è composto, lo spirito, come il corpo, rientrano nel principio e nella radice dalla quale sono usciti. Esso è la l’inizio la fine di tutti i gradi della creazione, tutti i gradi sono marcati dal suo sigillo e non lo si può nominare se non come l’unità. Esso è l’Essere unico, malgrado le forme innumerevoli dalle quali è rivestito. » Tutto questo è perfettamente gnostico. Si riconoscono in queste considerazioni: – la filosofia di Spinoza, secondo la quale Dio è al tempo stesso causa e sostanza dell’Universo; – la filosofia di Hegel, per la quale il mondo apparente non è che la manifestazione di “Dio primordiale incosciente”; – la filosofia di tanti filosofi moderni che si son ingegnati nello sviluppare temi gnostici sotto le forme più disparate e stravaganti. – Lo Zohar studia anche l’uomo. Già Maimonide aveva distinto nell’uomo, altre al corpo ed all’anima, una intelligenza materiale, incaricata di animare il corpo, ed una intelligenza comunicata, emanazione dell’Anima universale del Mondo. Si tratta dunque di una costituzione tripartita dell’uomo, tale come si è sempre insegnato nella gnosi. Per il kabbalista, il corpo non è un rivestimento, ma il principio intermedio, cioè la Psiche dei nostri gnostici: è divisa in due anime, così da partecipare e della materia e dello spirito: questa è la nephesh, principio animale e sensitivo a contatto immediato con il corpo; la Ruach, invece, è la sede della vita morale ed il principio di animazione; “Neschama” resta l’anima spirituale, l’emanazione divina, l’intelligenza pura, lo pneuma degli gnostici. Tutte le anime preesistono nel mondo e cadono nei corpi in seguito ad una caduta; « Notate, spiega lo Zohar, che tutte le anime di questo mondo, che sono il frutto delle opere del Santo … sia esse benedetto, non formano prima della loro discesa sulla terra, che un’unità, poiché queste anime fanno parte tutte di un solo e medesimo mistero, e quando discendono giù in questo mondo, si separano in maschio e femmina; sono i maschi e le femmine che si uniscono. » Da qui, la trasmigrazione delle anime, insegnata già dagli gnostici nella metempsicosi. « Notate, dice sempre lo Zohar, che il Santo … esso sia benedetto, impianta le anime quaggiù; se esse prendono radici, è bene, altrimenti le strappa anche più volte e le trapianta fino a che mettano radici … le trasmigrazioni sono inflitte alle anime come punizione e variano secondo la colpevolezza … Ogni anima che si è resa colpevole durante il suo passaggio in questo mondo è, per punizione, obbligata a trasmigrare tante volte, quanto necessita perché essa raggiunga, con la sua perfezione, il sesto grado della regione dalla quale essa emana. » Si trova ancora nello Zohar la dottrina della Reminiscenza: « Anche prima della creazione, tutte le cose di questo mondo si trovavano presenti al pensiero divino, tutte le sue forme che gli sono proprie, così come tutte le anime umane, prima di scendere in questo mondo, esistevano davanti a Dio, nel cielo, nella forma che hanno conservato quaggiù e tutto ciò che apprendono sulla terra, esse lo conoscevano già prima di arrivarvi. » – Ecco come Adolphe Franck riassume la posizione dell’uomo, secondo lo Zohar: « L’uomo è allo stesso tempo il riepilogo ed il termine più elevato della creazione. Egli non è soltanto l’immagine del mondo, dell’universalità degli esseri, ivi compreso l’Essere assoluto, egli è anche e soprattutto l’immagine di Dio, considerato nell’insieme dei suoi attributi infiniti. Egli è la presenza divina sulla terra, è l’Adamo celeste che, uscendo dall’oscurità suprema e primitiva, ha prodotto questo Adamo terrestre … ». Rabbi Simon ben Jochaï spiega ai suoi discepoli che « la forma dell’uomo racchiude tutto ciò che è nel cielo e sulla terra, gli esseri superiori come gli esseri inferiori ». Non si poteva dir meglio che l’uomo è Dio stesso manifestato. Gli umanisti del Rinascimento non dimenticheranno affatto la lezione dei rabbini. Essi rappresenteranno l’uomo con gli arti divaricati, perfettamente descritto in un cerchio, nell’uovo primitivo dal quale sono stati estratti tutti gli esseri; i diari di Leonardo da Vinci e di Albert Dürer sono le proporzioni umane rappresentanti questa sovrapposizione della forma umana in una figura geometrica che vuol suggerire che l’uomo è la misura del mondo! – Come vediamo, la kabbala non è altro che la gnosi tradotta in ebraico. Il contenuto dottrinale è lo stesso, e gli si possono opporre gli stessi argomenti di buon senso che una ordinaria intelligenza non può mancare di trovare, se appena vuol prendersi la briga di riflettere un poco. Infine, il serpente ispiratore di tutta questa mitologia menzognera, non ha avuto remora né riguardo nel menzionare se stesso. Egli ha spiegato ai cabalisti che egli non è assolutamente il nemico del genere umano, bensì, al contrario, il suo protettore ed il suo padrino, che egli, poverino, è stato una vittima dell’ingiusta gelosia del Demiurgo, creatore della materia, che l’Arcangelo San Michele e le altre potenze celesti che lo avevano precipitato nell’abisso, erano dei veri demoni, mentre lucifero, belzebuth e astaroth erano l’innocenza e la luce stessa. Ecco che allora il regno di Michele e della sua milizia, deve ben presto finire, ed egli stesso sarà riabilitato e reintegrato nel cielo con la sua falange. Il nome del serpente velenoso è samael. Il giorno in cui ritroverà il suo nome e la sua natura di angelo, si ritaglierà la prima sillaba, che vuol dire “veleno” mentre la seconda è il termine comune designante tutti gli Angeli. Niente è cattivo, niente è maledetto: tutto ciò che si chiama il male, è in Dio stesso, l’altra faccia del bene. I mistici giudei del periodo talmudista, riflettendo sulla natura di Dio, avevano dichiarato che « Dio è il luogo in cui soggiorna l’universo »; essi avevano impiegato la parola “Ma kom” che vuol dire “piazza”, per designare Dio. Filone si esprimeva già così: « Dio è chiamato Ma kom (il luogo) perché racchiude l’Universo », nel suo trattato “De Somniis”. Come abbiano fatto dunque i rabbini, nel corso del Medio Evo, a riciclarsi aderendo in tutto alla kabbala? È cosa che sarà molto difficile da comprendere. In effetti questa nuova dottrina è la totale inversione dell’insegnamento della Bibbia, ed in particolare della Genesi. Ciò che è certo è che il giudaismo contemporaneo ha abbandonato il culto del vero Dio ed ha spinto questo abbandono alla sue estreme conseguenze. M. Th. Reinach, un’autorità in Israele, dichiara nella “Grande Enciclopedia”, che emergerà dal giudaismo « una religione superiore, conciliante la nozione della divinità, anima del mondo e sorgente del bene, con i dati della scienza, che la religione supera ma non saprebbe contraddire, accettando dal Cristianesimo il suo principio di fraternità universale già proclamata dai Profeti, ma correggendo il suo pessimismo che non vede salvezza che nell’altra vita, salvezza che scaturisce invece dal miglioramento infinito della specie umana: è questa la forma moderna della speranza messianica ».

GLI UMANISTI ALLA SCUOLA DEI RABBINI

È in Italia, nel corso del Medio Evo, che l’attività letteraria dei Giudei esercitò una influenza considerevole sul pensiero cristiano all’epoca in cui l’imperatore Federico II di Hohenstaufen aveva invitato il celebre Anatoli di Provenza a tradurre in ebraico gli scritti di Averroè, poi in latino le opere di Maimonide. Dal XIV secolo, gli scrittori giudei si avvicinarono ai principali rappresentanti della cultura italiana. Guido Romano studia la filosofia scolastica e scrive sul soggetto, dei trattati in ebraico. Suo cugino Manoello [Manuel Romano o Manoello Giudeo], divenne amico intimo di Dante, scrisse una sorta di Divina Commedia in lingua ebraica, nella quale fa l’elogio del suo amico e deplora la morte del grande (?!) poeta fiorentino in un sonetto in italiano. Dante stesso, come ben sappiamo, ha preso come modello della sua Divina Commedia, ricopiandolo in gran parte, il “Libro del viaggio notturno” del mistico arabo Ibn el Arabi, scritto ottanta anni prima. Questo trattato descrive in effetti una traversata dei tre mondi dell’aldilà: l’inferno, il purgatorio, il paradiso, con gli stessi incontri e le medesime peripezie e riportando molti personaggi simili. Ora, Ibn el Arabi era affiliato alla setta mistica degli “Assassini”, ed il suo libro era stato tradotto in ebraico. È così che da questo ambiente culturale, Dante ha tratto il suo odio per il Papato. Egli mette nell’Inferno nella “bolgia” dei simoniaci, i Papi Nicola III, Clemente V, Bonifacio VIII, con i corpi conficcati in buche, testa all’ingiù, piedi all’aria. Cotti al fuoco! Essi avevano invertito l’ordine stabilito da Dio, era giusto che fossero invertiti a loro volta; essi avevano calpestato la santa fiamma dello spirito: la Santa Fiamma brucia in compenso i loro piedi. La Chiesa subisce un affronto cruento, ricevendo uno schiaffo più violento di quello del Nogaret sul volto di Bonifacio VIII. Essa ne resterà per lungo tempo abbattuta. Gli umanisti del Rinascimento, non fecero altro che sviluppare questo odio satanico contro Roma, e Lutero non avrà difficoltà ad ammassare tutta questa spazzatura per gettarla in faccia al Papato. Elia Del Medigo insegna pubblicamente a Padova e Firenze; egli viene anche scelto un giorno, dal senato di Venezia, per arbitrare un grande incontro filosofico. Per costituirsi professori e maestri del pensiero religioso, gli scrittori giudei cominciano a produrre edizioni della loro bibbia ebraica, poi delle grammatiche e dei dizionari ebraici: il primo tipografo di Mantova è un medico giudeo che lavora con una donna. Un altro edita a Reggio Calabria. Ecco ben presto i nostri umanisti inquieti: la Chiesa non possedeva dunque la vera Bibbia. Le Pogge si chiede secondo quali principi San Girolamo avesse tradotto la Vulgata. Bruni gli risponde che leggere la Bibbia nell’originale, è mostrare una diffidenza ingiusta rispetto all’opera intrapresa da san Girolamo. Nel 1482, i Giudei furono cacciati dalla Sicilia e si rifugiarono a Firenze. È là che essi formano Pico della Mirandola (1463-1494): sotto la direzione di Elia Del Médigo e di Jonachan Alemanno, a mezza voce e porte chiuse, coi vetri oscurati, nella sua camera di Firenze, Pico studia la kabbala nelle scritture misteriose portate dall’Oriente, per passare poi ad elementi di arabo e di caldeo. Egli si approfondisce nello studio dei numeri. Pretende di ritrovare nella kabbala l’incarnazione del Verbo, la divinità del Messia, la Gerusalemme celeste. Gesù vi appare, egli crede, come colui che unisce tutte le cose nel Padre, per il quale tutto è fatto e tutto diviene, e tutto  sabbatizza. Gesù è rivelato in ogni tempo come il Pallas di Orfeo, lo spirito paterno di Zoroastro, il Figlio di Dio di Mercurio, la Saggezza di Pitagora, la sfera intelligibile di Parmenide, il Verbo di Platone. Presso di lui tutto procede per via di simboli, allegorie, immagini. Ogni rivelazione è esoterica, ermetica. Gesù non ha scritto, ma ha rivelato i suoi misteri ai suoi discepoli, come insegna Origene [passato già ai Manichei], e secondo Dionigi l’Aeropagita, questi ultimi devono impegnarsi formalmente a non confidare nulla attraverso la scrittura, ma a trasmettere tutto bocca a bocca. – In Germania altri rabbini formano e plasmano Reuchlin (1455-1522). Nel 1492, nel momento in cui i rabbini di Toledo e di Cordova, cacciati dalla Spagna, camminavano verso la Germania, un Giudeo, medico dell’imperatore Massimiliano, fece dono a Reuchlin di un manoscritto prezioso della Bibbia. Nel 1494, Reuchlin pubblica il suo libro “De Verbo mirifico”, il cui senso era: “solo i Giudei hanno conosciuto Dio”. Nel 1498, tre mesi dopo il supplizio di Savonarola, egli visita Firenze, raccoglie l’anima del martire tra i visionari che lo piangono, torna ai suoi studi e pubblica nel 1506 i suoi “Rudimenta hebraica”, e nel 1512 il suo “Lexicon Hebraicum”. La dottrina centrale della kabbala, egli dice, ha per oggetto il Messia, essa trae la sua origine immediatamente dall’illuminazione divina. Grazie a questa luce, l’uomo diviene capace di penetrare il contenuto della dottrina, interpretando simbolicamente le lettere, le parole, le frasi della Scrittura. Egli è inoltre lo zio del celebre compagno di Lutero, Melantone. In Francia il neo-platonismo circola nelle opere di Lefebvre d’Etaples. Gli scritti dello pseudo-Dionigi esercitano molte attrattive sugli umanisti che li credono autentici. Nel 1521, in una “Raccolta di allegorie e sentenze morali estratte dai due Testamenti”, noi vediamo apparire delle formule ben conosciute sull’illuminazione dell’intelligenza e la “purgazione dei sentimenti”. – La penetrazione platonica è manifesta in un erudito ebraizzante, Charadame de Seez. Sotto il titolo di “Alfabeto ebraico”, egli pubblica nel 1529, un piccolo trattato di mistica dionisiaca. Egli vede nell’ebraico, lingua sacra, tutto un simbolismo. Questa lingua è stata, egli dice, insegnata direttamente da Dio; essa è dunque eminentemente divina. Le parole hanno un senso celato. Nel triplo nome di Gerusalemme gli apparirà, ad esempio, quello della Trinità. Egli cerca nelle lettere, nella loro forma, nella loro consonanza, nella loro armonia, nel loro numero, tutto un senso nuovo. L’uno figura essere di Dio, imperituro e semplice, l’altro, il Cristo, questi gli elementi del mondo materiale o le forme multiple della creazione, queste altre l’uomo, la sua intelligenza, il suo corpo. L’alfabeto ebraico racchiude così tutta una teologia e questo non è altra cosa che la speculazione neo-platonica di Hermète Trismegisto. La gerarchia del mondo, l’armonia degli esseri “non soltanto nelle cose che sono visibili, ma anche nelle cose umane che l’occhio non percepisce.” Questo ritorno al platonismo è l’opera degli ebraizzanti. Noi potremmo continuare così la lunga lista degli scrittori e delle opere destinate a diffondere il pensiero giudaico negli ambiente intellettuali del Rinascimento, ma la lista sarebbe fastidiosa ed inutile.

UNA SETTA DI INIZIATI

Nel XV secolo gli umanisti, così formati dalla kabbala giudaica ed impregnati di neo-platonismo, hanno coperto l’Europa occidentale, salva la Spagna dalla quale i Giudei erano stati espulsi, di una rete densa di relazioni e di attive complicità. Essi hanno fatto circolare, prima sotto traccia, e poi sempre più apertamente, una moltitudine di opere di violenta polemica anticristiana, opere nelle quali viene insultato e disprezzato il Papato, si biasimano gli ordini religiosi con un odio feroce contro tutto ciò che potrebbe riferirsi all’ascesi, alla rinunzia, alla povertà volontaria … Legati tra di loro da un segreto comune, gli umanisti praticano un metodo meraviglioso ed efficace per darsi una grande autorità intellettuale sull’élite coltivata del loro tempo, schivando scrupolosamente tutti i rischi connessi al loro accanito combattimento. Essi cominciano con l’assicurarsi la protezione del potente del giorno, un cardinale, un vescovo, un principe, un re, lo stesso imperatore, finanche il Papa. Essi li lusingano di volta in volta senza vergogna, servono indifferentemente l’uno o l’altro. Fidelfo si mette a servizio dei Visconti, poi della Repubblica ambrosiana, poi degli Sforza. Fontana serve indifferentemente gli Aragonesi ed i francesi che erano venuti a cacciarli da Napoli. Appena un personaggio emerge, essi accorrono, si rendono disponibili, lusingano, “scodinzolano e leccano”. – Redigono all’inizio dei loro scritti delle grandi dichiarazioni di ortodossia onde sfuggire ai fulmini dei tribunali dell’Inquisizione o del Santo Officio. Ad esempio, Marsilio Ficino scrive al principio delle sue opere: « In tutte le cose che sono state trattate da me qui o altrove, io non voglio proporre nulla che non sia stato approvato dalla Chiesa ». (« Tantum adsertum esse volo, quantum ad Ecclesia comprobatur »). Una volta assicurati i loro “deretani”, gli umanisti sono di un’audacia incredibile; essi ingiuriano i loro avversari, si prendono gioco dei tribunali ecclesiastici, pubblicano satire incendiarie, ingaggiano violente polemiche, sversano tonnellate di spazzatura sulla Chiesa, soprattutto sugli ordini mendicanti, in tutta impunità. Se talvolta un tribunale ecclesiastico si inquieta e comincia un processo per diffamazione, è ben presto fermato nelle procedure dal potente protettore di turno che interviene discretamente. – Si riporta ad esempio, la storia di Lorenzo Valla: nato a Roma nel 1415, studia la storia, dichiara che la famosa donazione dell’imperatore Costantino alla Santa-Sede è un falso. Allora insulta il Papa, afferma che una cortigiana è più utile allo società di un religioso, pretende di non aver mai incontrato un Papa uomo onesto ed aggiunge una moltitudine di altre “gentilezze” di tal sorta. Deve egli darsi alla fuga e rifugiarsi presso Alfonso il Magnanimo, re di Napoli e protettore degli uomini di preteso talento (cioè degli umanisti), nel 1445. Ma Valla è anche un violento ed un litigioso; egli maneggia meglio la spada che la penna, e la polizia napoletana comincia ad interessarsi di lui e minaccia una tempesta, avendo egli scritto delle cose folli sulla Trinità e sul libero arbitrio. Viene così condannato ad essere bruciato vivo dall’Inquisizione. Ma il re Alfonso interviene, e Valla viene rilasciato per essere frustato nel chiostro di San Giacomo. Egli torna in seguito a Roma ove ha la fortuna di trovare il Papa Niccolò V. il quale gli accorda una pensione; diviene poi canonico, curiale e professore  vantato e celebre. – Simile avventura, ugual copione, si legge nella storia dell’Accademia di Roma ove vediamo comparire una vera società segreta. – Un giorno, il Papa Paolo II (1464-1471) destituì dal collegio degli abbreviatori  della cancelleria romana, diversi umanisti e li rimpiazzò con altri più sicuri da un punto di vista dottrinale. Nel corso di venti mesi, essi sedettero alla porte del palazzo pontificale senza riuscire a farsi ricevere. Uno di essi, Platina, scrisse allora al Papa minacciandolo di andare a visitare i re ed i principi per invitarli a convocare un Concilio davanti al quale Paolo II avrebbe dovuto poi discolparsi della condotta tenuta nei loro confronti. Questa insolenza lo fede condurre al Castel Sant’Angelo; il resto della truppa degli umanisti, si riunì presso uno di essi, Pomponio Leto. Così nacque l’Accademia romana di cui lo storico Grecorovius ci dice che essa « funzionava come una loggia di classici franco-massoni ». Per evitare di essere perseguiti, i membri di questa accademia si riuniscono in catacombe. Essi celebrano il Natale come anniversario della fondazione di Roma; il loro “papa” è Pomponio Leto, « questo oracolo delle buone lettere, ci dice Antonio di Verona, il capo singolare delle muse, il sovrano pontefice » (maximus pontifex); Platina è chiamato il “pater amatissimus”. Quest’ultimo, Callimacus, Luca Toloza ed i loro amici che « si sono appassionati alla storia di Roma, l’hanno apprezzata, e perché Roma ritorni al suo primitivo stato, hanno deliberato di sottrarre questa città all’assoggettamenti ai preti ». Papa Paolo II si inquieta e verso gli ultimi giorni del febbraio del 1468, la polizia pontificia arresta i membri dell’Accademia con l’accusa di lesa maestà pontificale e cospirazione: essi avevano progettato semplicemente di assassinare Paolo II e proclamare la repubblica. Pomponio Leto fugge a Venezia, ma ripreso viene imprigionato con gli altri nel Castel Sant’Angelo. – Il Papa successivo, Sisto IV, purtroppo, si incarica di mettere in libertà i prigionieri dalla loro prigione. Platina viene nominato addirittura bibliotecario del Vaticano, Pomponio viene ristabilito alla Sapienza. Le riunione dell’Accademia possono quindi riprendere. E qui si riprende a sacrificare a San Vittore, a San Fortunato, a San Genesio: queste sono dei nomi di “copertura” della Fortuna, della Vittoria, del “Genetliaco” della città eterna. Nel 1483 l’imperatore Federico accorda all’Accademia romana, che è definitivamente recuperata, il diritto di creare dei dottori e di incoronare poeti. Il cerchio è chiuso; i sovversivi sono padroni del terreno nella stessa Roma, qui al centro della Cristianità. – Altra società segreta … nel 1545, Sozzini, o Soccino, o Socino, nato a Siena nel 1525, fonda a Vicenza una società segreta per la distruzione del Cristianesimo che vuole rimpiazzare con il “puro razionalismo”. Nel 1546, egli organizza una conferenza a Vicenza ove arrivano delegati da tutta Europa, uniti tra loro dall’odio per tutto il Cristianesimo. Nel corso di questa conferenza si conviene come mezzo per distruggere la Religione di Gesù-Cristo, il formare una società segreta. L’apostata Ochino, vecchio generale dell’ordine dei Cappuccini, è anch’egli presente a questo incontro come uno dei più virulenti. Papa Paolo III, informato di tale conferenza di Vicenza, indirizza una lettera alla Repubblica di Venezia per segnalare questo pericoloso focolaio di corruzione. Si arresta Giulio Trevisan e Francesco de Lugo, che venono giustiziati. Gli altri, tra cui Ochino e Lelio Sozzini, riescono a fuggire. Essi divengono in Europa i propagatori di una nuova dottrina che pretende di ricostruire sulle rovine della Chiesa un tempio che avrebbe accettato tutte le credenze, dal libero pensiero fino al culto di lucifero. Ecco gli inizi della setta massonica e del blasfemo ecumenismo. Alla morte di Lelio, suo figlio Fausto Sozzini (1539-1604) fu suo zelante continuatore. Adriano Lemmi, antico Maestro del Grand’Oriente di Italia, ha presentato, durante la sua elezione, il 29 settembre 1893, Lelio Sozzini come il vero padre della franco-massoneria. – La complicità delle grandi autorità politiche e religiose è considerevole in questa diffusione delle sette anticristiane nel corso del Rinascimento. Re, imperatori, cardinali, finanche Papi, si fanno efficaci e zelanti protettori di coloro che preparavano la loro caduta … incredibile e colpevole accecamento! – Un giorno che Erasmo, sconvolto davanti alle conseguenze violente di una riforma protestante che egli aveva singolarmente contribuito a fomentare, scriveva della sua sconfitta al suo amico, il principe Alberto di Carpi; costui gli risponde sottolineando per bene le vere responsabilità: « I principi ecclesiastici ed i laici, egli scrive, raccolgono ora i frutti della semenza che hanno sparso a profusione, o di cui essi tutti hanno almeno favorito la crescita. Sono i poeti che hanno contribuito più ad eccitare in Germania la rivola contro la Chiesa e la società. Sono essi che hanno incoraggiato tutte queste violazioni del diritto di cui noi siamo tutti i giorni testimoni. Ma chi dunque ha sostenuto questi uomini? Sono i dignitari ecclesiastici, finanche quelli di rango più elevato. Essi hanno intrattenuto alle loro corti voluttuose queste persone dalle tendenze semipagane, che gettano il disprezzo su tutto ciò che sia rimasto caro al popolo e non hanno altro scopo che di ribaltare tutto ciò che esiste. » Questa lettera è estratta dai “Lucubrationes” nelle quali Erasmo, deluso dai risultati della riforma luterana, aveva raccolto i documenti nell’ultima parte della sua vita.

[1. Continua …]

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (V)

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO 

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I. , Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO III

Dogma che ha cagionato la divisione del mondo soprannaturale.

L’Incarnazione del Verbo, causa della caduta degli angeli — Prove: dottrina dei Teologi — San Tommaso — Viguier — Suarez — Catharin.

Decretato sino ab æterno il dogma dell’Incarnazione del Verbo, fu a suo tempo proposto all’adorazione degli Angeli. Alcuni accettarono umilmente la superiorità ch’esso creava in favore dell’uomo; altri, ribellatisi per la preferenza data all’umana natura, protestarono contro il divino consiglio. Tale essendo l’opinione della maggior parte degli illustri dottori, essa merita per ogni rispetto l’attenzione del teologo e del filosofo. Il primo vi trova la soluzione delle più alte questioni della scienza divina. Al secondo spiega essa unicamente il carattere intimo dell’eterna lotta del bene e del male. Comunque siasi, tre incontrovertibili proposizioni ci sembrano dimostrarne la giustezza. Il mistero dell’Incarnazione fu la prova degli Angeli: 1° se essi hanno avuto cognizione di questo mistero; se questo mistero era di natura da ferire l’orgoglio loro e da eccitare gelosia; 3° se il Verbo incarnato è l’unico oggetto dell’odio di satana e dei suoi angeli. – Sentiamo i dottori che stabiliscono questa triplice verità: « Sin dal principio della loro esistenza, dice san Tommaso, tutti gli Angeli conobbero in qualche maniera il mistero del regno di Dio adempito mediante il Cristo; ma soprattutto partendo dal momento in cui essi furono beatificati con la visione del Verbo: visione che non ebbero mai i demonii, imperocché fu essa la ricompensa della fede degli angeli buoni. (Mysterium regni Dei, quod est impletum per Christum, omnes quidem angeli a principio aliquo modo cognoverunt; sed maxime ex quo beatificati sunt visione Verbi, quam dæmones nunquam habuerunt. – P. I, q. LXIV, art. 1, ad. 4) » – Che tutti gli Angeli, senza eccezione, abbiano avuto sin dal primo istante della loro creazione una certa conoscenza del Verbo eterno, la ragione si eleva sino a capirlo. Il Verbo è il sole di verità che illumina ogni intelletto che esce dalla notte del nulla; non ve ne sono però altri. Gli Angeli come specchi di una rara perfezione non poterono non riverberare qualche raggio di quel sole divino, del quale essi erano le più perfette immagini. Ma, quantunque essi avessero la coscienza di se medesimi, e delle verità che possedevano, quei raggi erano ancora velati e dovevano esserlo. Creati gli Angeli nello stato di grazia, non godettero però sin dall’origine della visione beatifica. Essi non conobbero dunque che imperfettamente il regno di Dio mediante il Verbo. Le cognizioni preliminari degli spiriti angelici furono, che questo Verbo adorabile, pel quale tutto è stato fatto, sarebbe il punto d’unione tra il finito e l’infinito, tra il Creatore e la creazione tutta quanta, e che in tal modo stabilirebbe gloriosamente il regno di Dio sopra l’universalità delle sue opere. Era insomma il mistero in germe dell’Incarnazione, o della unione ipostatica del Verbo con la creatura; ma nulla di più. (Fa d’uopo dire altrettanto dello stesso Adamo, e per le stesse ragioni. S. Th. II. 2a, q. n, art. 7. corp., ec.; e q. I, p. XCIV, art. 1, corp). – Spiegando le parole del maestro: « Gli Angeli, dice un dotto discepolo di san Tommaso, hanno una duplice cognizione del Verbo, cognizione naturale e soprannaturale. » – « Una cognizione naturale, con cui essi conoscono il Verbo nella sua immagine, risplendente nella loro propria natura. Questa prima cognizione, illuminata dalla luce della grazia e riferita alla gloria di Dio e del Verbo, costituiva quella beatitudine naturale nella quale essi furono creati. Pur tuttavia essi non erano ancora perfettamente beati, poiché essi erano capaci di una maggior perfezione, e che potevano perderla, il che infatti ebbe luogo per un gran numero. « Una cognizione soprannaturale o gratuita, in virtù della quale gli Angeli conoscono il Verbo per essenza e non per immagine. Essa non fu data loro al primo istante della loro creazione, ma al secondo, dopo una libera elezione per parte loro. » – Ascoltiamo adesso Suarez, per la cui bocca, dice Bossuet, parla tutta la scuola: « Bisogna tenere per molto probabile l’opinione che crede, che il peccato originale commesso da lucifero, sia stato il desiderio dell’unione ipostatica: ciò che l’ha reso sin da principio il nemico mortale di Gesù Cristo. Ho detto che questa opinione è molto verosimile, e continuo a dirlo. Abbiamo dimostrato che tutti gli Angeli, nello stato di prova, avevano avuto rivelazione del mistero dell’unione ipostatica che doveva compiersi nella natura umana. È dunque credibilissimo che lucifero abbia trovato in ciò l’occasione del suo peccato e della sua caduta. » (Viguier, cap. III, § 11, vers. 6, p. 79) – Una delle glorie teologiche del concilio di Trento, Catharin, sostiene altamente la stessa opinione, e con altri commentatori spiega egli così il testo di san Paolo: E allorquando lo introdusse di nuovo nel mondo, Egli disse: che tutti gli angeli l’adorino. (Hebr. I, 6). Perché questa parola di nuovo, una seconda volta? « Perchè il Padre eterno aveva già introdotto una prima volta il suo Figliuolo nel mondo, allorché, sin dal principio, Egli lo propose all’adorazione degli Angeli e rivelò loro il mistero dell’incarnazione. Lo introdusse una seconda volta, allorquando lo mandò sulla terra per incarnarsi effettivamente. Ora, a questa prima introduzione e rivelazione, lucifero ed i suoi angeli rifiutarono a Gesù Cristo di adorarlo ed obbedirlo. Tale fu il loro peccato. « Difatti, secondo la dottrina comune dei Padri, il demonio ha peccato per invidia contro l’uomo, ed è più probabile ch’egli abbia peccato prima che l’uomo fosse creato. Ora, non bisogna credere che gli angeli abbiano invidiato la perfezione naturale dell’uomo, in tanto che creata ad immagine e similitudine di Dio. In questa supposizione, ogni Angelo avrebbe avuto la stessa ragione, ed anche una più forte, quella d’ingelosire gli altri Angeli. È dunque più verosimile che il demonio abbia peccato per l’invidia della dignità con cui ha visto innalzare la umana natura nel mistero dell’Incarnazione. » (Opusc. de gloria Beator. apud Vasquez, pars I, q. LXIII, disp. 233). – Nel capitolo seguente verranno nuove autorità a confermare l’opinione dell’illustre teologo.

CAPITOLO IV.

(continuazione del precedente.)

Naclanto — Nuovo passo di Viguier — Ruperto — Ragionamento —

Testimonianza di san Cipriano, di sant’Ireneo, di Cornelio a Lapide

— Conclusione.

Un altro membro del concilio di Trento, il dottissimo vescovo di Foggia, Naclanto, così si esprime: « Sin dal principio, lucifero e lo stesso Adamo conobbero il Cristo, almeno per il lume della fede e di una rivelazione particolare, come il Creatore, il Signore e l’Oceano di tutti i beni. Ma, traviati per propria loro colpa, rimossero gli occhi dalla luce, e come se non l’avessero conosciuto per il Signore e per l’autore di ogni grazia e di ogni felicità, rifiutarono di sottometterglisi. Essi lo disprezzarono altresì nel modo il più empio: cosi la Scrittura spiega il non conoscerlo. Quanto a lucifero, la cosa è evidente. Non solo egli pretese innalzarsi da sé medesimo nel cielo, ma di più uccidere Cristo, invadere il suo trono e costituirsi in suo luogo. » (Enarrat, in epist ad Eph., cap. I, p. 49, in-fol.). –  Per stabilire che l’odio verso il Verbo incarnato fu il peccato di lucifero, e che non ha altro scopo che di combatterlo, Naclanto dimostra dal canto suo che il Verbo incarnato non ha altro pensiero che di combattere satana e di distruggere l’opera sua, « Cristo è venuto per distruggere le opere del diavolo. Infatti, muore Cristo, e il capo di satana è schiacciato, e cacciato egli stesso dal suo impero. Cristo scende all’inferno, e satana è spogliato; le armi ed i trofei nei quali riponeva egli la sua fiducia gli son tolti. Cristo trionfa, e satana, nudo e prigioniero, è consegnato e lasciato in balìa del disprezzo del mondo, e lasciato in. Esempio ai suoi partigiani. » (Venit Christus ut dissolvat opera diaboli. Cliristo moriente, contritum est caput ejus; et ipse foras est a principatu dejectus. Christo descendente, Tartarus est spoliatus, et arma et trophaea in quibus confidebat sunt direpta. Christo triumphante, nudus et captivus palam est ostentatus, et reliquia ejus membris in exemplum traductus. Enarr. In Epist. ad Eph., XI, p. 100).  – La stessa dottrina trovasi, ma in una maniera più esplicita, nel gran teologo spagnolo Viguiero. Parlando del testo di san Tommaso (Part. I, q. LXIII, art. 3; et De malo, q. XVIII, art. 8, ad 4) egli dice: « lucifero, considerando la bellezza, la nobiltà e la dignità della sua natura e della sua superiorità su tutte le creature, dimenticò la grazia di Dio, a cui tutto doveva. Disconobbe inoltre i mezzi di giungere alla perfetta felicità che Dio riserba ai suoi amici. Pieno d’orgoglio, ambì quella felicità suprema, e il cielo dei cieli, retaggio della natura umana, che doveva essere unita ipostaticamente al Figlio di Dio. Egli invidiò quel posto, il quale, nella Scrittura è chiamato la destra di Dio, s’ingelosì dell’umana natura, e comunicò il suo desiderio a tutti gli Angeli, dei quali egli era naturalmente il capo. – « Siccome egli era superiore agli Angeli nei doni naturali, cosi volle esserlo pure nell’ordine soprannaturale. Insinuò loro dunque di sceglierlo per mediatore o mezzo di giungere alla beatitudine soprannaturale, in luogo del Verbo incarnato, predestinato da tutta la eternità a questa missione. Tale è il significato dèlle sue parole: Io salirò al cielo; sopra le stelle di Dio innalzerò il mio trono, salirò sul monte del testamento al lato di settentrione. Sormonterò l’altezza delle nuvole, sarò simile all’Altissimo.  (Is., XIV, 13, 14) « Risovvenendosi i buoni Angeli allo stesso istante della grazia di Dio, come principio di tutti, i beni, e conoscendo per via della fede la passione del vero mediatore, il Verbo incarnato, cui gli eterni decreti avevano riserbato il posto e l’ufficio di mediatore del quale Lucifero voleva impadronirsi, non vollero per niente associarsi alla sua rapina. Essi gli seppero resistere; e grazie al merito della passione preveduta del Cristo, vinsero mediante il sangue dell’Agnello. In cotal modo quella gravitazione verso Dio che fin dal primo istante di loro creazione avevano essi incominciata, parte per inclinazione naturale, parte per impulso della grazia, liberamente, ma imperfettamente, la continuarono poi in piena e perfetta libertà. « In quanto agli angeli cattivi, ve ne furono di tutte le gerarchie e di tutti gli ordini, in tutto formanti la terza parte del cielo. Abbagliati essi, come Lucifero, dalla nobiltà e dalla bellezza della loro natura, si lasciarono adescare dalla brama di ottenere la bellezza soprannaturale, mediante le proprie loro forze e col soccorso di Lucifero; se ne stettero alle di lui suggestioni, applaudirono al suo progetto, portarono invidia alla natura umana, e giudicarono che l’unione ipostatica, l’ufficio di mediatore e la destra di Dio, si addicevano meglio a Lucifero che alla natura umana, inferiore alla natura angelica. « Dopo quell’istante, la cui durata ci è ignota, di libera e completa elezione, l’Iddio onnipotente comunicò ai buoni Angeli la chiara visione della sua essenza, e condannò al fuoco eterno i cattivi, con lucifero, loro capo, a cui disse: Tu non salirai, ma scenderai, e sarai trascinato nell’inferno.(Isa. XIV, 1). Gli Angeli buoni, avendo Michele e Gabriele alla loro testa, tosto eseguirono l’ordine di Dio, e comandarono a lucifero ed ai partigiani suoi di uscire dal cielo, dove pretendevano rimanere. – Bisognò loro malgrado obbedire. « In conseguenza di quanto abbiamo visto, risulta chiaro:

1° Che lucifero non ha peccato per avere ambito di essere uguale a Dio; era egli troppo illuminato da ignorare ch’è impossibile uguagliare Dio, essendo impossibile che vi fossero due infiniti. Inoltre è impossibile che una natura di un ordine inferiore diventi una natura d’un ordine superiore; attesoché bisognerebbe, perciò, ch’ella si annientasse. Egli non poté concepire un tal desiderio, conciossiachè ogni creatura desidera altresì, innanzi tutto e invincibilmente, la sua conservazione. Perciò il Profeta Isaia non gli fa dire: Io sarò uguale, sarò simile a Dio.

2° É evidente che Lucifero ha peccato desiderando in un modo colpevole la rassomiglianza con Dio. Ambì egli d’essere il capo degli Angeli, non solamente per l’eccellenza della sua natura, privilegio di cui godeva, ma volendone esser loro mediatore per ottenere la beatitudine soprannaturale: beatitudine che voleva acquistare egli stesso con le sue proprie forze. Cosi è che egli desiderò l’unione ipostatica, l’ufficiò di mediatore ed il posto riserbato all’umanità del Verbo, come ad esso conveniente meglio che alla natura umana, alla quale sapeva che il Verbo doveva unirsi. Il volere impadronirsene era dunque per parte sua, un atto di rapina. Perciò Nostro Signore Gesù Cristo lo chiama ladro. » (Viguier, cap. m, § 11, vers. 15, p. 96, 97). – Ruard, Molina e altri sommi teologi professano la stessa dottrina in un modo non meno assoluto: assolute. Molto prima di costoro il celebre Ruperto area espresso la stessa sentenza. Intorno a quelle parole del Salvatore: Egli fu omicida sino da principio, e voi volete compiere i desideri del Padre vostro, egli dice: Il Figliuolo di Dio parla qui della sua morte. Cosi, niente impedisce d’intendere per questo primitivo omicidio, l’antico odio di satana contro il Verbo. Quest’odio, anteriore alla nascita dell’uomo, satana arde di soddisfarlo. Per giungere al suo intento, adopra tutti i mezzi di far porre a morte quello stesso Verbo di Dio, attualmente rivestito dell’umana natura. « Ciò è tanto più vero, in quanto che Nostro Signore aggiunge: Ed egli non fu fedele al vero; il che ebbe luogo avanti la creazione dell’uomo. Infatti, nel momento in cui sollevandosi contro il Figliuolo, che solo è l’immagine del Padre, egli disse nel suo orgoglio: Io sarò simile all’Altissimo, divenne omicida dinanzi a Dio, salvo a divenirlo dinanzi agli uomini, facendo morire per mano dei Giudei l’eterno oggetto dell’odio suo…. Queste parole, egli non rimase fedele alla verità, significano che egli non ha continuato ad amare Colui il quale è la verità, il Figlio di Dio. Difatti rimanere nella verità è lo stesso che amare la verità; e rimanere o tenersi a Cristo è la stessa cosa che amare Cristo. Satana è dunque omicida sin dal principio, perché ha sempre tenuto per la verità, che è il Verbo, un odio indicibile.1 » (Comment. in Joan., lib. VII, ad illa: Ille erat homicida, n° 242 a 224).  Questa notevole testimonianza può riassumersi cosi: lucifero, avanti la sua caduta, conosceva le adorabili persone della SS. Trinità, e le amava. Troppo grandi erano i suoi splendori per permettergli d’essere geloso di Dio, tanto meno ancora di avere la pretensione di divenirlo. Allora egli tenevasi nel vero. Ma quando seppe che il Verbo doveva unirsi alla natura umana, a fine di divinizzarla, e, divinizzandola, innalzarla al disopra degli Angeli, al disopra del medesimo lucifero, allora non stette più nel vero. L’orgoglio entrò in lui, questo lo condusse alla ribellione; dalla ribellione all’odio, dall’odio alla caduta. – La stessa ragione dall’altra parte, per poco che essa rifletta, si persuade facilmente che la prova degli Angeli ha dovuto consistere nel credere al mistero dell’Incarnazione. Prima di tutto, il peccato degli Angeli è stato un peccato d’invidia; questo è un punto indiscutibile della dottrina cattolica. Fra tutti i Padri ascoltiamo solamente san Cipriano, parlando dell’invidia: « Come è grande, o miei dilettissimi figli, esclama egli, quel peccato che ha fatto cadere gli Angeli; che ha offuscato quelle alte intelligenze, e rovesciato dai troni loro quelle potenze sublimi; che ha ingannato lo stesso ingannatore! Di qui appunto è discesa sulla terra l’invidia. Per cagion sua perì colui che, pigliando a modello il maestro della perdizione, obbedì alle sue ispirazioni, come sta scritto: Per invidia del demonio la morte entrò nel mondo. » (Invidia diaboli mors introivit in orbem terrarum. – Opusc. de zelo et livore.) In conseguenza, l’invidia degli angeli non ha potuto avere che due oggetti: Dio o l’uomo. Rispetto a Dio, il volere essere simile a Dio, uguale a Dio, considerato in se medesimo, e fatta astrazione dal mistero della Incarnazione, è un desiderio che l’angelo non ha potuto avere: « Questo desiderio, dice san Tommaso, è assurdo e contro natura; e l’angelo lo sapeva. » (Scivit hoc esse impossibile, naturali cognitione…. et dato quod esset possibile, hoc esset contra naturale desiderium. Pars I; q. LXIII, art. 3, corp.; id Petav. de Ang. cap. XI, n° 22) – L’uomo è stato dunque l’oggetto della gelosia di lucifero. « Per la gelosia concepita contro l’uomo, dice sant’Ireneo, l’angelo divenne apostata e nemico dell’uman genere. » (Ex tunc enim apostata est angelus et ininnicus, ex quo zelavit plasma Dei et inimicum illum Deo facere agressus est. Lib. IV”, Adv. hæres., cap. LXXVIII). – Ma come noi abbiamo già visto, l’angelo non aveva nessuna ragione d’invidiare la dignità naturale dell’uomo. Questa dignità consiste nella creazione ad immagine ed a somiglianza di Dio. Ora, l’Angelo stesso è fatto ad immagine di Dio, ed anche in un modo più perfetto dell’uomo. (S. Aug.: De Trinit, lib. XII, cap. VII). Una sola cosa innalzava l’uomo al disopra dell’Angelo e poteva eccitare la sua gelosia, cioè l’unione ipostatica. – Se il dogma dell’Incarnazione, considerato in sé medesimo, basta per spiegare la caduta di lucifero; lo spiega ancor meglio riguardato nelle sue relazioni e ne’suoi effetti. Da un lato, questo mistero è il fondamento e la chiave di tutto il disegno divino, tanto nell’ordine della natura che in quello della grazia. Dall’altro esigeva dagli Angeli, per essere accettato, il più grande atto di abnegazione: atto sublime relativamente alla sublime ricompensa che doveva coronarlo. Tutta la creazione, materiale, umana, ed angelica, come discesa da Dio, a Dio deve risalire; imperocché il Signore ha fatto tutto per sé e per sé solo. (Universa propter semetipsum operatus est Dominus. Prov., XVI, 4. — Ego Dominus, hoc est nomen meum, et gloriam meam alteri non dabo. Is. XLII, 8). Ma una distanza infinita separa il creato dall’increato. Per colmarla, è necessario un mediatore; e poiché è necessario, si troverà. Formando il punto di congiunzione, e come la saldatura del finito con l’infinito, questo mediatore sarà il legame misterioso che unirà tutte le creazioni tra di esse e con Dio. (S. Aug. Soliloq. cap. VI. Chi sarà egli? Evidentemente Colui il quale, avendo fatte tutte le cose, non può lasciare l’opera sua imperfetta: sarà dunque il Verbo eterno. Alla natura divina unirà ipostaticamente la natura umana, nella quale si danno convegno la creazione materiale e la creazione spirituale. Mercé di questa unione in una medesima Persona, dell’Essere divino e dell’essere umano, del finito e dell’infìnito, Dio sarà uomo, e l’uomo sarà Dio. Questo Dio-uomo diventerà la deificazione di tutte le cose, principio di grazia e condizione di gloria, anco per gli Angeli, i quali dovranno adorarlo come loro Signore e loro padrone. (S. Iren. Adv. hæres., lib. III, cap. VIII, et Corn. a Lap., in Epist. ad Eph. ap. I, 10).Un uomo-Dio, una Vergine-Madre, l’innalzamento più smisurato dell’essere il più umile, la natura umana preferita alla natura angelica, l’obbligo d’adorare, in un uomo-Dio, il loro inferiore divenuto loro superiore! A questa rivelazione, l’orgoglio di Lucifero si rivolta, e si manifesta la sua invidia. Iddio l’ha visto. La giustizia, rapida come la folgore, colpisce il ribelle ed i complici suoi, in quelle colpevoli disposizioni, le quali, facendo eterno il loro delitto, eternizzano il loro castigo. Tale è la grande battaglia della quale parla san Giovanni.Il Cielo ne fu il primo teatro: la terra sarà il secondo.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (IV)

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO 

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I. , Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO II

Divisione del Mondo Soprannaturale.

Certezza di questa divisione: il dualismo universale e permanente — Causa di questa divisione: un atto colpevole — Origine storica del male — Spiegazione del passo di San Giovanni: Una gran battaglia ebbe luogo in cielo etc. — Natura di questa battaglia — Grandezza di essa — In qual Cielo ebbe luogo — Due ordini di verità: le verità naturali e le soprannaturali — Gli Angeli conoscono naturalmente le prime con certezza — La prova ebbe per oggetto una verità dell’ordine soprannaturale — Caduta degli Angeli.

Abbiamo dunque visto che il mondo superiore, il mondo delle pure intelligenze, governa necessariamente l’uomo e il mondo che gli è inferiore. Logicamente ne risulta che il Re del mondo superiore è il vero Re di tutte le cose. Gli Angeli e gli uomini, forze della natura, non sono che i suoi agenti. Tutto dipende da lui; Egli solo non dipende da alcuno. In conseguenza di ciò parrebbe che nell’universo tutto dovesse esser pace e unità. Invece altra è la realtà; dappertutto è il dualismo. Ora il dualismo non è nel mondo inferiore se. Non perché è nel mondo superiore; è nel mondo dei fatti, perché è nel mondo delle cause. La divisione e la guerra son dunque scoppiate nel cielo, innanzi di discendere sulla terra. Come esse sono tra gli uomini, profonde, accanite, universali, permanenti, cosi lo sono tra gli angeli. In una parola, il mondo soprannaturale, diviso in buono e cattivo, tale é la seconda verità fondamentale che bisogna mettere in chiaro. – Dio essendo la bontà per essenza, tutto ciò che esce dalle di lui mani non può essere che buono. (Deus charitas est. I Joan., IV, 16. — Vidit Deus cuncta quæ fecerat, et erant valde bona. Gen. I, 31). –  Essendo che una parte degli abitanti del mondo superiore sono malvagi, e che non sono tali per natura, fa d’uopo per necessità concludere ch’essi lo sono divenuti. Nessuno diventa malvagio che per sua colpa. Ogni colpa suppone il libero arbitrio. Gli Angeli cattivi sono dunque stati liberi, e hanno abusato della loro libertà. Ma quale è la prova a cui hanno essi volontariamente mancato? Se la ragione ne conferma resistenza, la rivelazione soltanto può spiegarne la natura. Sotto pena di sragionare eternamente, fa d’uopo dunque interrogare Dio medesimo, autore della prova e testimone dei suoi resultati. Ecco ciò che l’Antico dei giorni dice al suo più intimo confidente: Una gran battaglia ebbe luogo nel Cielo; Michele e gli angeli suoi combattevano contro il Dragone; e il Dragone combatteva, e seco i suoi Angeli. (Et factum est praefium magnum iu cœlo; Michael et Angeli ejus præliabantur cum Dracone; et Draco pugnabat et Angeli ejus. Apoc., XII, 7). – Queste poche parole racchiudono tesori immensi di luce. In ciò solamente sta l’origine storica del male. Dappertutto altrove incertezze, contradizioni, tenebre, oscillazioni eterne. E poiché siamo giunti al gran problema del mondo, tratteniamoci a considerare ogni sillaba dell’Oracolo divino. – Quale è questo combattimento, praelium? Essendo gli Angeli puri spiriti, questo combattimento non fu una lotta materiale, come quella dei Titani della mitologia; né una battaglia simile a quelle che si danno sulla terra, dove ora dall’una, ora dall’altra parte, i combattenti si assalgono da lontano con proiettili, si pigliano corpo a corpo, si gettano a terra, e si calpestano. In ciò essendo gli esseri tanti attori, un combattimento di Angeli è puramente intellettuale. È una contesa tra puri spiriti, in cui alcuni dicono si a una verità, e altri no. Grande combattimento, prælium magnum. Grande è infatti sotto qualunque punto di vista lo si ravvisi. Grande, pel numero e la potenza dei combattenti; grande, perché fu il principio di tutti gli altri; grande pei suoi resultati immensi, eterni; grande per la verità che ne fu l’oggetto. Per dividere il Cielo in due campi irreconciliabili, per trascinare nell’abisso la terza parte degli Angeli, e per assicurare per sempre la felicità degli altri, bisogna che questa verità tanto contrastata fosse un domma fondamentale. (Et cauda ejus trahebat tertiam partem stellamm Cœli, et misit eos iu terram. Apoc., XII, 4). – Quale può essere la natura di questa verità proposta come prova, all’adorazione delle gerarchie celesti? Per gli Angeli come per gli uomini vi sono due sorta di verità: le verità dell’ordine naturale e quelle dell’ordine soprannaturale. Le prime non oltrepassano le facoltà naturali dell’Angelo e dell’uomo. Ma delle seconde è altrimenti: spieghiamo dunque questo punto di dottrina. Ogni essere, come opera di un Dio infinitamente buono, è creato per la felicità. La felicità dell’essere consiste nella sua unione col fine pel quale egli è stato creato. Tutti gli esseri essendo stati creati da Dio e per Iddio, la loro felicità consiste nella unione di questi con Dio. Negli esseri intelligenti, fatti per conoscere e per amare, questa unione ha luogo mediante la cognizione e l’amore. Quest’amore e questa cognizione, svolte per quanto lo concedano le forze della natura, costituiscono la felicità naturale della creatura. Iddio non se n’è contentato. A fine di procurare agli esseri dotati di intelligenza una felicità infinitamente maggiore, cioè la sua bontà essenzialmente comunicativa, ha voluto che gli Angeli e gli uomini si uniscano al Bene supremo, per via di una conoscenza molto più chiara e mediante un amore molto più intimo, che non lo esigeva la loro naturale felicità: quindi, la bontà soprannaturale. Di qui pure, due sorta di cognizioni di Dio e della verità: una, naturale che consiste nella vista di Dio, in quanto la creatura n’è capace con le sue proprie forze; l’altra soprannaturale che consiste in una vista di Dio, superiore alle forze della natura e infinitamente più chiara della prima. Questa seconda cognizione è un favore tutt’affatto gratuito. Gli Angeli e gli uomini, come esseri liberi, debbono, per assicurarsene il possesso, soddisfare alle condizioni alle quali Iddio lo promette. – Da ciò infine derivano, com’è stato detto, relativamente agli Angeli ed all’uomo, due sorta di verità: le verità dell’ordine naturale, e le verità dell’ordine soprannaturale. Gli Angeli conoscono perfettamente, completamente, nei loro principiì e nelle loro ultime conseguenze, nell’insieme e minutamente, tutte le verità dell’ordine naturale, vale a dire che rientrano nella sfera nativa della loro intelligenza. Per essi, in questa sfera, non avvi alcun errore, nessun dubbio: per conseguenza nessuna possibile contradizione. Donde viene loro questa mirabile prerogativa? dall’eccellenza stessa della propria natura. Spieghiamo ancora questo punto d’alta filosofia, tanto nota alla barbarie del medio evo. e tanto sconosciuta nel nostro secolo dei lumi. L’Angelo è una intelligenza pura. Il suo intendimento è sempre un atto, non mai una potenza; cioè dire che l’Angelo non ha soltanto, come l’uomo, la facoltà o la possibilità di conoscere, ma che conosce attualmente. Ascoltiamo quei grandi filosofi, sempre antichi e sempre nuovi, che chiamansi i Padri della Chiesa ed i teologi scolastici. « Gli Angeli, dicono essi, per conoscere non hanno bisogno né di cercare, né di ragionare, né di comporre, né di dividere: essi si guardano e vedono. La ragione è questa, che sino dal primo istante della loro creazione, hanno avuto tutta la loro perfezione naturale e posseduto le specie intelligibili, o rappresentazioni delle cose, perfettamente luminose, per mezzo delle quali vedono tutte le verità che possono conoscere naturalmente. – Il loro intendimento è come uno specchio perfettamente puro, nel quale si riflettono e s’imprimono senz’ombra, senza accrescimento né diminuzione, i raggi del sole di verità. – « Altra cosa è l’intendimento dell’uomo, uno specchio imperfetto, cosparso di macchie più o meno dense, e più o meno numerose, le quali non scompaiono che in parte sotto lo sforzo laborioso e di continuo rinnovato dello studio e del raziocinio. La ragione è che l’anima umana, essendo unita al corpo, deve ricevere successivamente cose sensibili; e per via di queste, una parte delle specie intelligibili, mediante le quali gli è fatta conoscere la verità. È appunto cosi che l’anima è unita al corpo. » (Angelus semper est actu intelligens, non quandoque actu et quandoque potentia, sicut nos. S. Thn i p., q. l , art. 1). – Poiché, sino dall’istante della loro creazione, gli Angeli conobbero perfettamente, tutte le verità dell’ordine naturale, così la loro prova ha avuto necessariamente per oggetto qualche verità dell’ordine soprannaturale. Queste verità essendo inaccessibili alle forze native del loro intendimento, non vengono essi a conoscerle che per via della rivelazione. « Negli angeli, dice san Tommaso, vi sono due conoscenze: una naturale, con cui conoscono le cose tanto per la loro essenza che per (le specie innate. In virtù di questa conoscenza, essi non possono capire i misteri della grazia, perché questi misteri dipendono dalla pura volontà di Dio. L’altra soprannaturale, che gli beatifica, e in virtù di essa vedono il Verbo e tutte le cose nel Verbo. Con questa visione, conoscono i misteri della grazia, non tutti, né tutti egualmente, ma secondo che a Dio piace rivelarglieli. »E il combattimento ebbe luogo nel cielo, in Cœlo. Qual è questo cielo? Sonovi tre cieli o tre sfere di verità: il cielo delle verità naturali; il cielo della visione beatifica; il cielo della fede, intermediario tra i due primi. Abbiamo visto già che fino dal primo istante della loro creazione, gli angeli conoscono perfettamente nel loro insieme e nelle loro ultime conseguenze, tutte le verità dell’ordine naturale. Questa conoscenza forma la loro gloria, statuendo l’immensa superiorità di questi sull’uomo,. Così non havvi, da parte loro nessun interesse a protestare contro alcuna di queste verità. Nessuna possibilità di farlo; imperocché ogni essere ripugna invincibilmente alla sua distruzione. Le verità dell’ordine naturale essendo connaturali agli Angeli, protestare contro di esse sarebbe stato un protestare contro l’essere proprio: il negarle poi, sarebbe stato una specie di suicidio: dunque la battaglia non ebbe luogo nel cielo delle verità naturali. Tanto meno ebbe per teatro il cielo della visione beatifica; poiché questo, come ricompensa della prova, è l’eterno soggiorno della pace. Ivi, tutte le intelligenze angeliche ed umane, poste in faccia alla verità contemplata da esse senza velo, confermate nella grazia, unite in carità e confermate nella gloria, vivono della stessa vita, senza opposizioni, senza divisioni e senza possibili gare.Qual è dunque il cielo del combattimento? Evidentemente la dimora, o lo stato nel quale gli Angeli dovevano, come l’uomo, subire la prova per meritare la gloria. In che questa consisteva? Certamente ancora nell’ammissione di qualche mistero sconosciuto dell’ordine soprannaturale. Questa ammissione, per essere meritoria doveva costare. Essa ebbe dunque per oggetto qualche mistero il quale, al cospetto degli Angeli, sembrava urtare la loro ragione, derogare alla propria eccellenza e nuocere alla gloria loro. Ammettere umilmente questo mistero sopra la parola di Dio, adorarlo a malgrado delle sue oscurità e delle ripugnanze della loro natura, a fine di vederlo dopo averlo creduto; tale era la prova degli Angeli. Con quest’atto di sottomissione, queste intelligenze sublimi, curvando la loro fronte luminosa dinanzi all’Altissimo, gli dicevano: « Noi non siamo che creature; Voi solo siete l’Essere degli esseri. La vostra sapienza è infinita; grande com’essa, la nostra non è. La vostra carità agguaglia la vostra saggezza; noi abbracciamo nella pienezza dell’amore il mistero che vi degnate rivelarci. »Nei consigli di Dio, quest’atto di adorazione, che implica l’amore e la fede, era decisivo per gli Angeli, come un atto simile lo fu per Adamo, come lo è per ognuno di noi: chiunque non crederà, sarà condannato. (Qui vero non crediderit. condemnabitur. Marc.XVI, 16) – « E Michele e gli angeli suoi combatterono contro il Dragone. Michael et angeli ejus prælìabantur cum Dracone. Appena venne proposto di credere a questo domma, uno degli Arcangeli più luminosi, Lucifero, mandò il grido della ribellione: « Io protesto: ci si vuol far discendere, ed io salirò. Si vuole umiliare il mio trono, io lo innalzerò al di sopra degli astri. Io sederò sul monte dell’alleanza, ai fianchi dell’Aquilone. Io e nessun altro, sarò simile all’Altissimo. » 2 (“Conscendam, super astra Dei exaltabo solium meum, sedebo in monte testamenti, in lateribus Aquilonis…., similis ero Altissimo. Is., XIV, 13, 14). – Una parte degli angeli, ripete: « noi protestiamo. Tale è la prima origine del protestantismo. In questo senso può lusingarsi di non essere d’oggi.) » – A queste parole, un Arcangelo, luminoso quanto Lucifero, esclama: «Chi è simile a Dio? chi può rifiutarsi di credere, di adorare ciò che propone alla fede e all’adorazione delle sue creature? Io credo e adoro. » Quis ut Deus? La moltitudine delle celesti gerarchie ripete: « Noi crediamo e adoriamo. » Lucifero ed i suoi aderenti non appena commessa la colpa essendo stati puniti, si videro cangiati in demoni orribili, e furono precipitati negli abissi di quell’inferno che il loro stesso orgoglio aveva scavato. Spaventevole severità della giustizia di Dio! Quale n’è la causa, e donde viene ch’Egli abbia avuto misericordia per l’uomo e non per un angelo? La ragione sta nella superiorità della natura angelica. Gli angeli sono immutàbili, mentre l’uomo non lo è. San Tommaso dice: « essere un articolo della fede cattolica, che la volontà degli Angeli buoni è confermata nel bene, e la volontà dei cattivi, ostinata nel male. La causa di questa ostinazione non è nella gravità della colpa, bensì nella condizione della natura. Fra l’apprensione dell’Angelo e l’apprensione dell’uomo avvi questa differenza, che l’Angelo comprende o afferra immutabilmente col suo intelletto, come noi stessi afferriamo i primi principii che conosciamo. Al contrario l’uomo, con la sua ragione, apprende o afferra la verità, in una maniera variabile, andando da un punto all’altro, avendo pure la possibilità di passare dal si al no. Di guisa che la sua volontà non aderisce a una cosa che in un modo variabile, conservando essa altresì la facoltà di distaccarsene, e di appigliarsi alla cosa contraria. Diverso è il caso della volontà dell’Angelo: essa aderisce stabilmente e immutabilmente. » Noi conosciamo l’esistenza, il luogo ed il resultato della prova; ma qual ne fu la natura? In altri termini: qual è il domina preciso, la cui rivelazione diventò la pietra d’inciampo, per una parte delle celesti intelligenze? L’esame di tale questione sarà l’argomento dei seguenti capitoli.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: LÆTITIÆ SANCTÆ DI S. S. LEONE XIII

Letitiæ sanctæ è l’ennesima Enciclica che Leone XIII dedica al Santo Rosario, ritenuto rimedio efficace non solo per i mali spirituali, ma pure per quelli materiali e sociali. Di questi mali sociali, il Pontefice traccia una profilo rapido facendone una breve analisi, riportando quelli che, secondo Lui, sono i tre fattori perniciosi principali alla base di ogni malessere sociale del tempo, che sono in fondo rimasti tali, anzi ancor più virulenti oggi, e che sono: 1° – l’avversione alla vita umile e laboriosa; 2° – l’orrore della sofferenza; 3° – la dimenticanza dei beni futuri, oggetto delle nostre speranze. Mai si è vista un’analisi così precisa, succinta e veritiera dei mali che devastano l’umanità. Queste brevi parole possono prendere il posto di interi trattati, di codici civili, di enciclopedie dei popoli, tanto sono efficaci nella descrizione, seppur concisa, ma chiarissima, della situazione analizzata. Ma, con ancor maggiore chiarezza e meraviglia, a questi tre mali pestilenziali, il Sommo Pontefice, oppone il singolo opportuno rimedio, riportandoli tutti alle tre serie di Misteri del Santo Rosario, strumento « …  meravigliosamente efficace nel curare i mali dei nostri tempi, e nell’arginare i gravissimi mali della società ». È una goduria dell’anima e della mente la lettura di queste brevi pagine che giustificano a pieno titolo la definizione di “Luce  e Maestra dei popoli” che viene giustamente data alla Chiesa Cattolica, all’unica vera Chiesa di Cristo, nella persona del suo Vicario. Ogni altra parola rovinerebbe l’incanto e la gioia della lettura, per cui senz’altro passiamo alla meditazione di questo breve ma veramente straordinario documento magisteriale:

Leone XIII

Lætitiæ sanctæ

Lettera Enciclica

La pia pratica del Rosario
8 settembre 1893

La santa letizia, arrecataci dal felice compimento del cinquantesimo anniversario della Nostra consacrazione episcopale, si è intensamente accresciuta per il fatto che della Nostra gioia abbiamo avuto partecipi i cattolici di tutto il mondo, stretti come figli intorno al Padre, in una splendida manifestazione di fedeltà e d’amore. In ciò, con rinnovata gratitudine, riconosciamo ed esaltiamo un disegno della divina provvidenza sommamente benevolo verso di Noi e, nello stesso tempo, assai proficuo alla sua Chiesa, Ma il Nostro animo si sente spinto a salutare e lodare anche l’augusta Madre di Dio, che di questo beneficio è stata potente mediatrice presso Dio. La sua singolare bontà, che nel lungo e mutevole periodo della Nostra vita abbiamo sperimentata in vari modi efficace, risplende ogni giorno più manifesta innanzi ai nostri occhi, e, ferendoci soavissimamente il cuore, lo rinsalda con fiducia soprannaturale. – Ci sembra di udire la voce stessa della Regina del cielo, ora benevolmente incoraggiarCi, in mezzo alle terribili traversie della chiesa; ora aiutarCi, con larghezza di ispirazioni, nelle decisioni da prendere per il bene comune; ora anche ammonirci a stimolare il popolo cristiano alla pietà e al culto della virtù. Già molte volte, in passato, ci siamo fatto un gradito dovere di rispondere a questi desideri della Vergine. Ora fra le utilità, che con la sua benedizione abbiamo raccolto dalle Nostre esortazioni, è giusto ricordare lo straordinario sviluppo della devozione del suo santo “rosario”: sia per l’incremento e la costituzione di confraternite sotto questo titolo; sia per la divulgazione di scritti dotti e opportuni; sia anche per l’ispirazione data a veri capolavori artistici. – Ed oggi, quasi accogliendo la stessa voce dell’amorosissima Madre, con cui ci ripete: “Grida, non stancarti mai”, ci piace riparlarvi, venerabili fratelli, del Rosario Mariano, ora che si avvicina il mese d’ottobre: mese che volemmo consacrato a questa cara devozione, e che arricchimmo coi tesori delle sante indulgenze. La Nostra parola, tuttavia, non avrà lo scopo immediato di tributare nuove lodi a una preghiera, già di per se stessa tanto eccellente, ne’ di stimolare i fedeli a praticarla con sempre maggiore fervore; parleremo piuttosto di alcuni preziosissimi vantaggi, che da essa possono derivare, quanto mai rispondenti alle condizioni e alle necessità degli uomini e dei tempi presenti. Perché Noi siamo assolutamente convinti che, se la pratica del rosario sarà rettamente seguita, in modo da poter spiegare tutta l’efficacia che le è insita, apporterà non soltanto ai singoli individui, ma anche a tutta la società, la più grande utilità. – Tutti sanno quanto Noi, per il dovere del supremo Nostro apostolato, ci siamo adoperati per contribuire al bene della società, e quanto siamo ancor disposti a farlo, con l’aiuto di Dio. Abbiamo spesso ammonito i governanti a non fare e a non applicare leggi che non siano conformi alla mente divina, norma di somma giustizia. E, d’altra parte, abbiamo più di una volta esortato quei cittadini che, o per intelligenza, o per meriti, o per nobiltà del sangue, o per averi, sono in posizione di privilegio rispetto agli altri, a difendere e a promuovere, in unione di intenti e di forze, gli interessi supremi e fondamentali della società. – Ma nello stato presente della società civile, sono troppe le cause che indeboliscono i legami dell’ordine pubblico e sviano i popoli dalla doverosa onestà dei costumi. Tuttavia i mali che più pericolosamente minano il bene comune ci sembrano principalmente i tre seguenti: “l’avversione alla vita umile e laboriosa; l’orrore della sofferenza; la dimenticanza dei beni futuri, oggetto delle nostre speranze”. – Noi lamentiamo – e con Noi lo devono riconoscere e deplorare anche coloro che non ammettono altra regola che il lume della ragione, né altra misura all’infuori dell’utilità – Noi lamentiamo che una piaga veramente profonda abbia colpito il corpo sociale da quando si è cominciato a trascurare quei doveri e quelle virtù, che formano l’ornamento della vita semplice e comune. Da ciò, infatti, consegue che, nei rapporti domestici, i figli, insofferenti di ogni educazione, che non sia quella della mollezza e della voluttà, arrogantemente rifiutano l’obbedienza, che la natura stessa loro impone. Per questo motivo gli operai si allontanano dal proprio mestiere, rifuggono dalla fatica, e, scontenti della propria sorte, levano lo sguardo a mete troppo alte, e aspirano a un’avventata ripartizione dei beni. Nello stesso tempo ne consegue l’affannarsi di molti che, dopo aver abbandonato il paese nativo, cercano il frastuono e le numerose lusinghe della città. Per questo motivo ancora, è venuto a mancare il necessario equilibrio tra le classi sociali; tutto è fluttuante; gli animi sono agitati da rivalità e da gelosie; la giustizia è apertamente violata; e coloro che sono stati delusi nelle loro speranze, cercano di turbare la pubblica tranquillità con sedizioni, con disordini e con la resistenza ai difensori dell’ordine pubblico. – Ebbene contro questi mali Noi pensiamo che si debba cercare rimedio nel rosario di Maria, composto da una ben ordinata serie di preghiere e dalla pia contemplazione di misteri relativi a Cristo redentore e alla sua Madre. Si spieghino in una forma esatta e popolare i misteri gaudiosi, presentandoli agli occhi dei fedeli come altrettanti quadri e vive raffigurazioni delle virtù. E così ognuno vedrà quale facile e ricca miniera essi offrano di insegnamenti, atti a trascinare, con meravigliosa soavità, gli animi all’onestà della vita. – Ecco davanti al nostro sguardo la Casa di Nazareth, dove ogni santità, quella umana e quella divina, ha posto la sua dimora. Quale esempio di vita comune! Quale modello perfetto di società! Ivi è semplicità e candore di costumi; perpetua armonia di animi; nessun disordine; rispetto scambievole; e infine l’amore: ma non quello falso e bugiardo, bensì quell’amore integrale, che si alimenta nella pratica dei propri doveri, e tale da attirare l’ammirazione di tutti. Là non manca la premura di procurarsi quanto è necessario alla vita; ma col “sudore della fronte” e come conviene a coloro che contentandosi di poco, si studiano piuttosto di diminuire la loro povertà, che di moltiplicare i loro averi. E soprattutto questo, ivi regna la più grande serenità di animo e letizia di spirito: due cose che accompagnano sempre la coscienza del dovere compiuto. – Orbene questi esempi di modestia e di umiltà, di tolleranza della fatica, di bontà verso il prossimo e di fedele osservanza dei piccoli doveri della vita quotidiana, e, in una parola, gli esempi di tutte queste virtù, non appena entrano nei cuori e vi si imprimono profondamente, a poco a poco vi producono certamente la desiderata trasformazione dei pensieri e dei costumi. Allora i doveri del proprio stato non saranno più ne’ trascurati ne’ ritenuti fastidiosi, ma saranno, anzi, graditi e piacevoli; e la coscienza del dovere, pervasa da un senso di letizia, sarà sempre più decisa nell’operare il bene. Di conseguenza i costumi diventeranno più miti sotto ogni aspetto; la convivenza familiare trascorrerà nell’amore e nella letizia; le relazioni con gli altri saranno intonate a maggior rispetto e carità. – E se queste trasformazioni dagli individui si estenderanno alle famiglie, alle città, ai popoli e alle loro istituzioni, è facile vedere quali immensi vantaggi ne deriveranno all’intera società. – Il secondo funestissimo male, che Noi non deploreremo mai abbastanza, perché sempre più diffusamente e rovinosamente avvelena le anime, è la tendenza a sfuggire il dolore e allontanare con ogni mezzo tutte le avversità. La maggior parte degli uomini infatti non considera più, come dovrebbe, la serena libertà di spirito come un premio per chi esercita la virtù e sopporta vittoriosamente pericoli e travagli; ma insegue una chimerica perfezione della società, in cui, rimosso ogni sacrificio, si trovino tutte le comodità terrene. Ora questo acuto e sfrenato desiderio di una vita comoda fatalmente indebolisce gli animi, che quand’anche non crollino del tutto, pur tuttavia ne restano talmente snervati che prima vergognosamente cedono di fronte ai mali della vita, e poi miseramente soccombono. – Ebbene, anche contro questo male è ben giustificato attendersi un rimedio dal rosario di Maria, il quale, per la forza dell’esempio, può grandemente contribuire a fortificare gli animi. E ciò si otterrà, se gli uomini fin dalla loro prima infanzia, e poi costantemente in tutta la loro vita, s’applicheranno nel raccoglimento alla meditazione dei misteri dolorosi. Attraverso questi misteri, vediamo che Gesù, “duce e perfezionatore della fede”, prese a fare e ad insegnare, affinché vedessimo in Lui stesso l’esempio pratico degli insegnamenti, che egli avrebbe dato alla nostra umanità, circa la tolleranza del dolore e dei travagli; e l’esempio di Gesù giunse a tal punto che Egli stesso volontariamente e di gran cuore abbracciò tutto ciò che vi è di più duro a sopportarsi. Lo vediamo infatti oppresso dalla tristezza, fino a sudare sangue da tutte le sue membra. Lo vediamo legato come un ladro, giudicato da uomini iniqui, e fatto bersaglio ad oltraggi e calunnie. Lo vediamo flagellato, coronato di spine, crocifisso, considerato indegno di continuare a vivere e meritevole di morire fra i clamori di tutto un popolo.
Consideriamo l’afflizione della sua santissima Madre, la cui “anima” non fu solo sfiorata, ma addirittura “trapassata dalla spada del dolore”; cosicché meritò di essere chiamata, e realmente divenne la Madre dei dolori. – Chiunque non si contenterà di guardare, ma mediterà spesso esempi di così eccelsa virtù, oh come si sentirà spinto a imitarli! Per lui, sia pure “maledetta la terra, e faccia germogliare spine e triboli”; sia pure lo spirito oppresso dalle sofferenze, o il corpo dalle malattie, non vi sarà mai alcun male, causato dalla perfidia degli uomini, o dal furore dei demoni, non vi sarà mai calamità, pubblica o privata, che egli non riesca a superare con pazienza. È proprio vero quindi il detto: “È da Cristiano fare e sopportare cose ardue”; perché chiunque non voglia essere indegno di quel nome, non può fare a meno di imitare Cristo che soffre. E si badi che per rassegnazione non intendiamo la vana ostentazione di un animo indurito al dolore, come l’ebbero alcuni filosofi antichi; ma quella rassegnazione, che si fonda sull’esempio di colui che “in luogo della gioia, che gli si parava innanzi, sostenne il supplizio della croce disprezzandone l’ignominia” (Eb XII, 2); quella rassegnazione che, dopo aver chiesto a Lui il necessario aiuto della grazia, non rifiuta in nessun modo di affrontare le avversità; anzi se ne rallegra e considera un guadagno qualunque sofferenza, per quanto acerba essa sia. La Chiesa Cattolica ha sempre avuto, e ha tuttora, insigni campioni di tale dottrina: uomini e donne, in gran numero, in ogni parte del mondo, di ogni condizione. Costoro, seguendo le orme di Cristo, sopportano, in nome della fede e della virtù, contumelie e amarezze di ogni genere, e hanno come loro programma, più coi fatti che con le parole, l’esortazione di san Tommaso: “Andiamo anche noi, e moriamo con lui” (Gv XI, l6). Oh piaccia al cielo che esempi di così ammirevole fortezza si moltiplichino sempre di più, affinché ne sgorghi sicurezza per la società e virtù e gloria per la chiesa! – Il terzo male, a cui bisogna trovare un rimedio è particolarmente proprio degli uomini dei nostri giorni, Infatti gli uomini dei tempi passati, anche quando ricercavano con eccessiva passione le cose terrene, pur tuttavia non disprezzavano del tutto quelle celesti; anzi i più sapienti tra gli stessi pagani insegnarono che questa nostra vita è un luogo di ospizio e una stazione di passaggio, piuttosto che una dimora fissa e definitiva. Molti invece dei moderni, sebbene educati nella fede cristiana, inseguono talmente i beni transitori di questa terra che, non solo dimenticano una patria migliore nell’eternità beata, ma, per eccesso di vergogna, giungono a cancellarla completamente dalla loro memoria, contro l’ammonimento di s. Paolo: “Non abbiamo qui una città permanente, ma cerchiamo quella avvenire” (Eb. XIII,14). Chi voglia esaminare le cause di questa aberrazione noterà subito che la prima di esse è la convinzione di molti che il pensiero delle cose eterne spenga l’amore della patria terrena e impedisca la prosperità dello stato. Calunnia odiosa e insensata. E difatti i beni, che speriamo, non sono di tale natura da assorbire i pensieri dell’uomo fino al punto di distrarlo interamente dalla cura degli interessi terreni. Lo stesso Cristo, pur raccomandandoci di cercare prima di tutto il regno di Dio, ci insinua con ciò che non dobbiamo trascurare tutto il resto. E infatti, se l’uso dei beni terreni e degli onesti godimenti, che ne derivano, serve di stimolo e di ricompensa alla virtù; se lo splendore e il benessere della città terrena – che poi ridondano a vanto dell’umana società – sono considerati come un’immagine dello splendore e della magnificenza della città eterna: non sono ne indegni di uomini ragionevoli, ne’ contrari ai disegni di Dio, Perché Dio è nello stesso tempo autore della natura e della grazia; e perciò non può aver disposto che l’una ostacoli l’altra e siano tra di loro in lotta; ma al contrario che amichevolmente unite, ci guidino, per una più facile via, a quella eterna felicità, alla quale, sebbene mortali, siamo destinati. – Ma gli uomini dediti al piacere ed egoisti, che immergono e avviliscono talmente i loro pensieri nelle cose caduche da non saper assurgere più in alto, costoro, piuttosto che cercare i beni eterni attraverso i beni sensibili, di cui godono, perdono completamente di vista l’eternità; cadendo così in una condizione veramente abietta, In verità Dio non potrebbe infliggere all’uomo una punizione più terribile che abbandonandolo per tutta la vita alle lusinghe dei vizi, senza mai uno sguardo al cielo. – A questo pericolo non sarà esposto colui che, recitando il Santo Rosario, mediterà con attenzione e con frequenza le verità contenute nei “misteri gloriosi”. Da quei misteri, infatti, brilla alla mente dei cristiani una luce così viva che ci fa scoprire quei beni, che il nostro occhio umano non potrebbe mai percepire, ma che Dio – noi lo crediamo con fede incrollabile – ha preparato “a quelli che l’amano”. Da essi impariamo inoltre che la morte non è uno sfacelo che tutto sperde e distrugge, ma un semplice passaggio e un cambiamento di vita. Impariamo che la via del cielo è aperta a tutti: e quando osserviamo Cristo che ritorna in Cielo, ricordiamo la sua bella promessa: “Vado a prepararvi il posto”. Impariamo che vi sarà un tempo in cui “Dio asciugherà ogni lacrima dei nostri occhi; in cui non vi saranno più ne’ lutti, ne’ pianto, ne’ dolore, ma saremo sempre col Signore, simili a Dio, perché lo vedremo come Egli è, attingendo al torrente delle sue delizie, concittadini dei santi”, nella felice unione della gran Madre e Regina. – Un’anima che si nutra di queste verità, dovrà necessariamente infiammarsene e ripetere la frase di un grande Santo: “Oh come mi sembra sordida la terra, quando guardo il Cielo!”; dovrà necessariamente rallegrarsi al pensiero che ” un istante di una nostra lieve sofferenza produce in noi una misura eterna di gloria”, E veramente qui soltanto sta il segreto di armonizzare il tempo con l’eternità, la città terrena con quella celeste e di formare dei caratteri forti e generosi. E se questi poi diverranno molto numerosi, ne sarà, senza dubbio, consolidata la dignità e la grandezza dello stato; e fiorirà tutto ciò che è vero, che è buono, che è bello; fiorirà in armonia con quella norma, che è il sommo principio e la fonte inesauribile di ogni verità, di ogni bontà e di ogni bellezza. – Ora chi non vede la verità di ciò che abbiamo osservato fin da principio; di quali preziosi beni, cioè, sia fecondo il Santo Rosario? Quanto esso sia meravigliosamente efficace nel curare i mali dei nostri tempi, e nell’arginare i gravissimi mali della società? – Ma, come ognuno facilmente comprende, di tale efficacia saranno più direttamente e più largamente partecipi gli ascritti alle sacre Confraternite del Rosario, perché ad essa acquistano un particolare titolo, sia per la loro fraterna unione, sia per la loro speciale devozione verso la Vergine santissima. Tali sodalizi autorevolmente approvati dai Romani Pontefici e da essi arricchiti di privilegi e di tesori d’indulgenze, hanno una loro propria forma di ordinamento e di disciplina, Tengono riunioni in giorni determinati, e sono forniti dei mezzi più adatti per fiorire nella pietà e per rendere utili servizi anche alla società civile. Essi sono come schiere militanti che, guidate e sorrette dalla celeste Regina, combatterono le battaglie di Cristo, in virtù dei suoi santi misteri. E in ogni occasione, ma specialmente a Lepanto, si è potuto vedere come la Vergine gradisca le preghiere, le feste e le processioni di questi suoi devoti. – È dunque ben giusto che, non soltanto i figli del patriarca san Domenico – obbligati certo più degli altri a motivo della loro vocazione -, ma anche tutti coloro che hanno cura d’anime – specialmente nelle chiese dove queste Confraternite sono canonicamente erette – si adoperino con tutto il loro zelo a moltiplicarle, svilupparle e assisterle. Desideriamo anzi ardentemente che si dedichino a questo lavoro anche coloro che intraprendono missioni, sia per portare la dottrina di Cristo agli infedeli, sia per rafforzarla nei fedeli. – Noi non dubitiamo che, per le esortazioni di tutti costoro, molti Cristiani saranno pronti non solo ad iscriversi a queste Confraternite, ma anche a sforzarsi, con ogni mezzo, di raggiungere i già indicati vantaggi spirituali, che formano come la ragione di essere e, per così dire, la sostanza del Santo Rosario. L’esempio poi degli iscritti alle Confraternite trascinerà anche gli altri fedeli ad una maggior stima e devozione verso il rosario; i quali cosi’ stimolati porranno ogni loro impegno – come Noi vivissimamente desideriamo – a ricavare anch’essi, nella più larga misura, salutari vantaggi da questa pratica. – Eccovi la speranza che ci sorride. È essa che in mezzo a tante pubbliche calamità ci guida e profondamente ci consola. Si degni Maria, Madre di Dio e degli uomini, ispiratrice e maestra del santo rosario, di avverare pienamente questa speranza, accogliendo le comuni preghiere, Noi abbiamo fiducia, venerabili fratelli, che, per lo zelo di ciascuno di voi, i vostri insegnamenti e i Nostri voti produrranno ogni specie di bene e contribuiranno, in particolare, alla prosperità delle famiglie, e alla pace dei popoli. – Intanto, come pegno dei favori celesti e testimonianza della Nostra benevolenza, impartiamo di cuore nel Signore, a ciascuno di voi, al vostro clero e al vostro popolo l’apostolica benedizione.

Roma, presso S. Pietro, l’8 settembre 1893, anno decimosesto del Nostro pontificato.

 

DOMENICA XXI DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XXI dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Esth. XIII: 9; 10-11
In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, cœlum et terram et univérsa, quæ cœli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es. [Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.
[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, coelum et terram et univérsa, quæ coeli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es. [Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Orémus.
Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut a cunctis adversitátibus, te protegénte, sit líbera, et in bonis áctibus tuo nómini sit devóta.
[Custodisci, Te ne preghiamo, o Signore, con incessante pietà, la tua famiglia: affinché, mediante la tua protezione, sia libera da ogni avversità, e nella pratica delle buone opere sia devota al tuo nome.]
Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

Lectio
Lectio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes VI: 10-17
Fratres: Confortámini in Dómino et in poténtia virtútis ejus. Indúite vos armatúram Dei, ut póssitis stare advérsus insídias diáboli. Quóniam non est nobis colluctátio advérsus carnem et sánguinem: sed advérsus príncipes et potestátes, advérsus mundi rectóres tenebrárum harum, contra spirituália nequítiae, in coeléstibus. Proptérea accípite armatúram Dei, ut póssitis resístere in die malo et in ómnibus perfécti stare. State ergo succíncti lumbos vestros in veritáte, et indúti lorícam justítiæ, et calceáti pedes in præparatióne Evangélii pacis: in ómnibus suméntes scutum fídei, in quo póssitis ómnia tela nequíssimi ígnea exstínguere: et gáleam salútis assúmite: et gládium spíritus, quod est verbum Dei.

OMELIA I

[Mons. G. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie, vol. IV, Marietti ed., Omelia XVII, Torino, 1889]

“Fratelli, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. Vestite tutta l’armatura di Dio, perché possiate tener fronte alle insidie del demonio; poiché noi non abbiamo a combattere contro la carne ed il sangue, ma sì contro i principati, contro le podestà, contro i reggitori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti malvagi, per i beni celesti. Per questo pigliate l’intera armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio e in ogni cosa trovarvi ritti in piedi. Presentatevi adunque al combattimento cinti di verità i lombi, coperti dell’usbergo della giustizia, calzati i piedi in preparazione dell’Evangelo della pace. Sopra tutto prendete lo scudo della fede, col quale possiate spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Pigliate anche l’elmo della salute e la spada dello spirito, che è la parola di Dio „.

Ve lo dissi altra volta e ve lo ripeto oggi, la seconda metà della lettera ai fedeli di Efeso, e precisamente gli ultimi tre capi, non sono in sostanza che una magnifica serie di verità morali, che si confanno ad ogni classe di persone. Sembra che l’Apostolo voglia per poco condensare tutta la morale cristiana in quelle sentenze, senza nemmeno curarsi di ordinarle tra loro o darne qualche prova. Le annunzia con una chiarezza che è pareggiata solo alla brevità, le addossa l’una all’altra, e nella foga dello scrivere ne ripete più d’una, le inculca con tutto l’ardore della sua grand’anima. Si ammirano, e a ragione, le belle sentenze morali che qua e là sono sparse nei libri di Cicerone, di Epitteto, di Seneca e di Marco Aurelio, e quando si pensa che erano pagani, non possiamo tenerci dall’ammirare quegli uomini; ma io non dubito di affermare, che, raccogliendo tutte le sentenze morali di quei filosofi, non avremmo la decima parte di quelle che l’Apostolo, con una semplicità e concisione tutta sua, ha dettato in questi tre capi. – Dopo aver messo sott’occhio ai suoi cari figliuoli i vizi che dovevano fuggire, e le virtù che dovevano praticare, e il tesoro che dovevano custodire, accenna ai nemici che avevano da combattere, e con un linguaggio tutto militare, li ammaestra intorno al modo di combatterli e vincerli. E qui comincia il nostro commento. – S. Paolo, dopo aver esortato i figli ad ubbidire ai genitori, ed i genitori ad allevare, educare ed ammonire i loro figli, guardandosi dal provocarli ad ira; dopo aver esortati i servi ad ubbidire ai padroni di buon grado, e i padroni a trattare umanamente i servi, ricordandosi che anch’essi hanno un Padrone, che è Dio, continua e scrive: “Fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. „ Allorché un capitano sta per spingere le sue schiere contro il nemico, un nemico formidabile, grida: “Soldati, siate forti, pugnate da valorosi: il vostro re vi guarda, ed egli ha pronte altre schiere per sostenere le vostre: avanti!” — Similmente l’Apostolo, incoraggiando i Cristiani alla battaglia contro il comune nemico, grida: ” Siate forti, e combattete da soldati intrepidi. „ E dove attingeremo la forza per combattere e vincere? — Non in noi stessi, che siamo deboli, senza confronto più deboli dei nostri nemici; ma in Dio, che è onnipotente, e sotto gli occhi del quale combattiamo. Egli ci avvalorerà, Egli sarà con noi, e col suo Nome sulle labbra e con la sua forza in cuore, noi saremo vincitori. In questa guerra sì aspra e crudele vincono quei soldati che diffidano di sé, che non escono dalle fila, dove l’ubbidienza li ha posti, che ripongono tutta la loro fiducia in Dio. – S. Paolo prosegue e dice: “Pigliate l’armatura intera di Dio, affinché possiate tener fronte alle insidie del diavolo. „ — Ogni Cristiano, scrive Tertulliano, è un soldato che pugna sotto la bandiera di Cristo: — ora ogni soldato deve avere la sua armatura: il soldato di Cristo e di Dio deve avere l’armatura, non degli uomini, ma di Dio, e questa deve indossare: Induite armaturam Dei. In che consista questa armatura di Dio lo vedremo tosto partitamente. – Ora ci piaccia considerare questa espressione di S. Paolo: “Affinché possiate tener fronte alle insidie del demonio: „ non dice che dobbiamo assalire il nemico (il che pure talvolta sì ha da fare), ma dice che dobbiamo far fronte, o resistere, come più sotto si esprime. Voi sapete che vi è un doppio genere di guerra, l’una dicesi offensiva, e si ha quando si assalta il nemico; l’altra difensiva, e si ha quando si mantiene il proprio posto e si aspetta a pie’ fermo il nemico per ributtarne gli assalti. In generale noi Cristiani dobbiamo attenerci alla guerra difensiva contro il nemico; per vincerlo a noi basta conservare la grazia, restar fedeli a Dio, mantenerci saldi al nostro posto, sventare le sue insidie occulte e respingere i suoi assalti scoperti; resistere, tener fronte alla tentazione, è vincere.E chi è desso il nostro nemico? Paolo l’ha nominato: ” Il demonio — Adversus insidias diaboli. „ Appena il nome del demonio gli è caduto dalla penna, l’Apostolo si affretta a farcelo conoscere, e scrive: “Noi non abbiamo a combattere contro la carne ed il sangue, ma contro i principati e le podestà, contro i reggitori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti malvagi, per i beni celesti. „Non ingannatevi, grida S. Paolo, non abbiamo guerra contro la carne e il sangue, vale a dire contro uomini come noi, che sarebbe pur sempre faticosa e non senza pericoli, ma contro i demoni, che furono Angeli, e dei primi, principati e podestà (Da questo luogo di S. Paolo apparisce che anche nelle gerarchie superiori, come sono i Principati e le Podestà, v’ebbero degli spiriti apostati), e che hanno parte, e non piccola, nel governo di questo basso e tenebroso mondo, in una parola, contro gli spiriti malvagi, che ci contendono le cose e i beni celesti. — Quante cose apprendiamo da questa sentenza dell’Apostolo! Apprendiamo che esistono i demonii, che sono nostri giurati nemici e ci tendono senza tregua insidie e inganni; che per forza, scaltrezza e potenza, sono di gran lunga a noi superiori; che spiegano la malefica loro azione in questo mondo, adoperandosi ad impedirci il conseguimento dei beni celesti.I demoni adunque esistono, è un articolo di fede, che si incontra ad ogni pagina dei Libri santi, e a cui fanno eco le tradizioni di tutti i popoli della terra. I demoni sono spiriti, e perciò non si vedono, non si toccano, sono immortali, e non possiamo formarci un’idea precisa della loro natura, come degli Angeli buoni. Allorché li vedete dipinti qua e là nelle forme più brutte, più orride, non dovete credere che siano veramente tali, come non dovete credere che gli Angeli buoni abbiano forme di giovani bellissimi ed alati, come si rappresentano. Impotenti come siamo a farci un’idea di puri spiriti, siano buoni, siano cattivi, ci ingegniamo alla meglio di ritrarne le figure, bellissime di quelli, bruttissime di questi.Questi demoni furono creati da Dio, e creati buoni, adorni di grazia e ricolmi dei doni più eletti, e divennero malvagi perché si inorgoglirono, si levarono contro il loro Creatore e gli rifiutarono la dovuta ubbidienza, e Dio li cacciò dal cielo. E perché sono essi sì ripieni di odio contro di noi uomini, che non abbiamo fatto nulla contro di loro? — Perché sono malvagi, e i malvagi non vogliono che il male; perché, odiando Dio, odiano anche gli uomini, nei quali risplende l’immagine di Dio; perché essi rifiutarono la loro ubbidienza a Dio in quanto lo videro prima dei secoli fatto Uomo, e perciò ripetono la loro rovina eterna dall’amore singolare ch’Egli ebbe per noi uomini; perché in noi uomini combattono Gesù Cristo, Dio-Uomo, e quelli che sono chiamati a tenere il loro luogo.E perché Dio permette che i demoni, sparsi sulla terra, tendano insidie e combattano gli nomini? Perché la prova è necessaria per tutti: perché senza battaglie non c’è vittoria, senza lotte non c’è corona. Vi fu la prova su in cielo; la volle per sé Gesù Cristo e l’ebbero tutti quelli che furono prima di noi; perché non l’avremmo ancora noi? La storia del cielo e della terra, degli uomini e degli Angeli, è una storia di battaglie incessanti, di sconfitte e di vittorie: così vuole Iddio, così vuole il nostro bene; pigliamo adunque il nostro posto e combattiamo animosamente. Ma qui odo farmisi una difficoltà, che è prezzo dell’opera esaminare e sciogliere: San Paolo insegna che la nostra lotta è contro gli spiriti malvagi, non contro gli uomini: ma S. Paolo stesso e tutta la tradizione ecclesiastica ci insegnano che dobbiamo combattere anche contro la carne, contro le passioni, contro il mondo, e che questi sono nemici nostri non meno dei demoni. Come dunque si possono spiegare queste dottrine opposte? Non vi sono, né vi possono essere dottrine opposte nell’insegnamento cristiano. Certo la carne con le sue passioni, il mondo con i suoi scandali, i tristi con le loro arti sono nostri nemici, e contro di essi ci conviene combattere senza posa: ma chi poi ha sollevati contro di noi questi uomini? Chi ha messo in rivolta la carne e le passioni? Chi ha riempito la terra di tristi, e li muove ai nostri danni? Il primo artefice dei nostri mali, colui che introdusse nel mondo il peccato, la morte, le passioni, gli scandali, è il demonio; il mondo e la carne sono due alleati che il demonio ha tirato dalla sua parte, e dei quali si vale per combatterci; onde l’Apostolo poté ben dire che la nostra guerra è contro gli spiriti maligni, perché sono essi i primi e principali nostri nemici. E qui, o carissimi, non vi dispiaccia che mi allarghi alquanto e vi parli di queste lotte e battaglie, che abbiamo con la carne e con il mondo, e con il loro duce supremo, che è il demonio. Queste battaglie nel linguaggio comune della Chiesa si chiamano tentazioni. Ora io vi domando: Possiamo noi sfuggire alle tentazioni? A tutte è impossibile sottrarci: converrebbe non vivere su questa terra, non avere questo corpo, in una parola non essere uomini, e che Dio facesse un miracolo per affrancarcene, nondimeno dobbiamo riconoscere che un buon numero di queste tentazioni possiamo cessarle, schivando le occasioni, vegliando attentamente sui nostri sensi, mortificando le nostre passioni e usando di tutti quei mezzi, che la prudenza cristiana ci suggerisce. – E siamo noi obbligati a schivare tutte quelle tentazioni che è in poter nostro schivare? Indubbiamente, per l’amore che dobbiamo avere per noi stessi e per il timore di offendere Dio, noi abbiamo l’obbligo di schivare quelle tentazioni che prevediamo, e quest’obbligo è in ragione del pericolo, che ci farebbero correre di peccare e dei sacrifici necessari per sfuggirle. E come governarci con quelle tentazioni che sono inevitabili, o che per evitarle ci imporrebbero sacrifici impossibili o troppo gravi? Quando è una necessità affrontare la tentazione, non vi è ombra di peccato, appunto perché è impossibile che siamo costretti a commettere il peccato. Allora, o dilettissimi, non temete, fidenti in Dio, affrontate la tentazione, e non potrà fallire la vittoria. – Il primo passo della tentazione è il pensiero cattivo e il diletto che essa con la immaginativa ci fa pregustare, se acconsentiamo: il pensiero, che ci si affaccia non cercato, il diletto che ci cagiona, se noi non acconsentiamo, non costituisce peccato di sorta, nemmeno leggero. Se noi deliberatamente accarezziamo il pensiero cattivo, volontariamente ci fermiamo nel piacere disordinato, allora il nemico entra nell’anima nostra, e nel connubio della nostra volontà, con la tentazione si compie il peccato. Il peccato (e questo, o cari, non dimenticatelo mai), allora penetra nel vostro cuore e vi resta padrone, quando la vostra volontà apre la porta, e alla tentazione che domandava di entrare, dice: “Entra; sì, io ti voglio. „ Finché non pronuncia il si dell’assenso, la tentazione rimane fuori, e può menar rumore, minacciare, dilettare, rinnovare cento, mille volte le sue tentazioni e i suoi assalti, essa non può nuocere, anzi non fa che accrescere i meriti della resistenza. Ora ascoltiamo l’Apostolo, che ci insegna il modo sicuro di vincere qualunque prova, sia quanto si voglia fiera ed ostinata. “Presentatevi cinti i lombi da verità, coperti con la corazza della giustizia, calzati i piedi in preparazione all’Evangelo della pace, e sopra tutto pigliate lo scudo della fede, col quale spegnere i dardi infuocati del maligno, e prendete l’elmo della salute e la spada dello spirito, che è la parola di Dio. „ Voi vedete che S. Paolo, volendo armare il soldato cristiano per le battaglie contro gli spiriti malvagi, piglia bellamente l’immagine del soldato terreno. Il soldato, al tempo dell’Apostolo, doveva anzi tutto provvedersi di armi, che valessero a difenderlo dai colpi dei nemici, ed eccovi il balteo, o cingolo che si stringeva ai fianchi, e la corazza che gli copriva il petto, ed i calzari o le gambiere che difendevano le gambe e i piedi, e lo scudo, con cui riparava quasi tutta la persona, e finalmente l’elmo, che ricopriva il capo; è questa l’armatura intera del soldato antico, che Paolo con elegante e ingegnosa metafora applica al soldato cristiano. “Presentatevi cinti i lombi da verità. „ Il balteo, o cingolo militare, era un ornamento, e nello stesso tempo rendeva il soldato più spedito e pronto a camminare, onde anche al presente chi deve salire monti suole stringersi fortemente i fianchi. Anche il Cristiano deve correre per una lunga via, e spesso deve salire i monti ripidi e dirupati della virtù: stringasi dunque ai fianchi il cingolo, non materiale, ma spirituale della verità: Succinati lumbos vestros in ventate. La verità sia sempre con noi, sia come una cintura ai nostri lombi, e non sentiremo la fatica del cammino. Forse in questo luogo la parola verità, come vogliono alcuni interpreti, significa la schiettezza dell’anima, la fedeltà alle promesse fatte a Dio e la piena signoria che dobbiamo del continuo esercitare sopra noi stessi, rintuzzando le nostre passioni. Del resto ciascuno comprende che tutte codeste interpretazioni in sostanza si riducono ad una sola, ed è questa, che dobbiamo in ogni cosa seguire la verità, sempre, e la sola verità. “Siate coperti con la corazza della giustizia — Induti loricam justitice. „ La giustizia, nel senso più largo, usato nelle sacre Scritture, significa la virtù e la santità, il complesso di tutte quelle opere, che rendono l’uomo caro a Dio: la giustizia fa rendere a ciascuno ciò che gli si deve, e in questo senso la giustizia esprime la virtù e la santità nel suo grado più perfetto, ed è per questo che i Libri santi dicono uomo giusto, per dire uomo santo. Essere adunque coperti della corazza della giustizia vale quanto dire essere adorni di tutte le virtù; e se voi siete adorni di tutte, che potrà mai fare il nemico contro di voi? Nulla. – “E abbiate calzati i piedi in preparazione al Vangelo della pace. „ I piedi sono ordinati a camminare: S. Paolo adunque vuol dire: I vostri piedi siano coperti e difesi per guisa, che possiate camminare alacremente nelle vie del Vangelo, cioè osservare i precetti e le verità sante del Vangelo, che in mezzo alle pugne vi condurranno alla pace, alla vera pace, che supera ogni umana comprensione. Ma ciò che ” sopra tutto — in omnibus „ dobbiamo procurar di fare, è, scrive S. Paolo, –  di pigliare lo scudo della fede — Sumentes scutum fidei. „ La fede, cioè le verità rivelate nel loro complesso, la fede, cioè la nostra salda adesione alle verità rivelate, deve essere il nostro scudo di difesa in queste pugne contro il nemico. Allorché la nostra mente tiene fisso fermamente l’occhio sulle verità nella fede, per modo d’esempio della presenza di Dio, del giudizio divino, dell’inferno e andate dicendo, come volete che sia possibile darla vinta alle tentazioni? Ponete che allorquando il nemico vi eccita al furto, alla bestemmia, alla turpitudine od a qualunque altro peccato, vedeste Dio nella sua maestà di giudice, e dall’una parte il cielo con tutte le sue gioie, e l’inferno con le sue fiamme divoratrici, e vi si dicesse: Se tu commetti questo peccato, ti vedrai tosto chiuso per sempre il cielo, e sarai gettato in mezzo a quelle fiamme sempiterne, credete voi che un uomo potrebbe commettere quel peccato? Ah! Per quanto fosse violenta e terribile la tentazione in quella vista del cielo e dell’inferno e del Giudice supremo, troverebbe la forza di respingerla? Sopra mille forse non ne trovereste un solo forsennato al punto da volere il peccato e con esso precipitarsi subito nell’inferno. Ora che fa essa la fede? Ci mette vive sotto gli occhi le verità eterne, ce le fa toccare e sentire: come volete che l’uomo s’arrenda alla tentazione finche quelle gli stanno innanzi? La fede adunque è lo scudo impenetrabile che ci copre contro tutti gli assalti del nemico. –  S. Paolo, nella lettera agli Ebrei (capo XI), celebra le lodi della fede, ed afferma che tutti quelli che furono salvi, lo furono per la fede; per la fede i santi, continua l’Apostolo, vinsero i regni, operarono la giustizia, turarono le bocche dei leoni, spensero le fiamme, divennero forti in guerra, vinsero i tormenti, gli scherni, la morte, tutto. Contro questa fede si spezzeranno e si estingueranno i dardi infuocati del maligno. Solevano gli antichi non solo aguzzare la punta delle frecce, ma le avvolgevano in bitume e resina od altre materie infiammabili, e, appiccatovi il fuoco, le scagliavano contro i nemici per trafiggerli col ferro e bruciarli col fuoco. Le tentazioni, così S. Paolo, fossero anche come queste frecce acute e ardenti, non temete, si spunteranno e si spegneranno sullo scudo della vostra fede. Al primo indizio adunque della tentazione, al primo avvicinarsi del nemico, levate alto il vostro scudo, ravvivate la fede, pensate a Dio che vi guarda, che tiene in mano la corona, e la vittoria sarà vostra. “Prendete ancora l’elmo della salute — Galeam salutis assumite. „ Il soldato deve coprire e difendere ogni parte del suo corpo, ma sopra tutto il capo, perché là principalmente è la vita, e dal capo dipende tutto il corpo. Che sono le parole e le opere? Sono figlie, sono manifestazioni dei nostri pensieri, perché diciamo e facciamo poi ciò che prima pensiamo. Volete voi che le parole e opere vostre siano buone e sante? Badate ai pensieri, custodite la vostra mente con l’elmo della salute, e non lasciate mai che in essa entrino pensieri se non di salute degni d’un Cristiano. Dopo le armi che sono a difesa, l’Apostolo viene a quelle di offesa, e ne nomina una sola, la più nobile e più comune, la spada, scrivendo: “Pigliate la spada dello spirito, ossia la spada spirituale, che è la parola di Dio — Sumite gladium spiritus, quod est verbum Dei. „ Anche in altra lettera (agli Ebrei) S. Paolo paragona la parola di Dio ad una spada a due tagli, che penetra fino alla divisione dell’anima e dello spirito. La spada, debitamente maneggiata, serve a difesa, ma sopra tutto vale ad offesa, e con essa si ferisce e si atterra il nemico. Similmente, con la parola di Dio, che sveglia, avviva, nutre e rafforza la fede, difendiamo noi stessi ed atterriamo il nemico. Una fede, che non è alimentata dalla parola di Dio, è un seme, un albero, su cui non cade mai la pioggia, inaridisce e dissecca; è come l’occhio, a cui non risplende mai raggio di luce, è un corpo a cui vien meno il cibo. La fede, grida S. Paolo, viene dall’udito, cioè dalla parola: senza la parola, ossia l’istruzione, la fede dorme, se non è morta. Sopra abbiamo udito l’Apostolo comandare ai fedeli di pigliare lo scudo della fede, per spegnere i dardi infuocati del nemico; qui vuole che la nutriamo e la ravviviamo con la parola di Dio. – La parola di Dio, alimento della fede, noi la troviamo nei Libri santi e in tutte le letture buone, acconce alle condizioni speciali di ciascuno. Ma in modo affatto particolare la parola di Dio si ascolta in chiesa, allorché il ministro di Dio la spiega, e di questa singolarmente dovete essere solleciti. E perché? Perché essa v’è data dalla Chiesa in modo autorevole e sicuro; perché a questa parola, che si annunzia nel tempio, è congiunta una grazia speciale, e perché la presenza del popolo ivi raccolto è di edificazione a tutti. Non sia dunque mai che voi, o fratelli, potendolo, veniate meno a questo dovere di ascoltare la parola divina in chiesa, voi e i vostri figli. – Non dite: noi siamo istruiti abbastanza e non abbiamo bisogno di recarci in chiesa a udire il prete. Sarete istruiti, non lo nego, ma non sarà cosa inutile udirvi ripetere ciò che sapete. Non dite: noi studieremo la Religione da noi, in casa. Permettete che ne dubiti; avrete forse la volontà, ma io temerei che da voi non piglierete sì facilmente in mano il Catechismo per studiarlo: e poi lo faceste anche, sarete voi sempre sicuri di intenderlo a dovere? La fede, dice S. Paolo, è la spada spirituale: essa a poco a poco arrugginisce: è opera del sacro ministro mantenerla pulita e lucida e acuta: dunque ogni domenica portatela al tempio e l’avrete sempre quale dev’essere la spada del vero soldato di Cristo. – Cristo a nostro conforto e nostro ammaestramento permise d’essere tentato: come vinse e rimandò confuso e svergognato il tentatore? Col gettargli in faccia la parola di verità, la parola di Dio. Siate tutti, o cari, soldati di Cristo: date di piglio alle armi, che l’Apostolo vi ha messe innanzi, copritevi da capo a piedi, impugnate la spada della parola di Dio, maneggiatela con coraggio e la vittoria è sicura, e dopo la vittoria la corona.

Graduale
Ps LXXXIX: 1-2
Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie.
V. Priúsquam montes fíerent aut formarétur terra et orbis: a saeculo et usque in sæculum tu es, Deus.

[O Signore, Tu sei il nostro rifugio: di generazione in generazione.
V. Prima che i monti fossero, o che si formasse il mondo e la terra: da tutta l’eternità e sino alla fine]

ALLELUJA

Allelúja, allelúja Ps 113: 1
In éxitu Israël de Ægýpto, domus Jacob de pópulo bárbaro.
Allelúja. [Quando Israele uscí dall’Egitto, e la casa di Giacobbe dal popolo straniero. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XVIII: 23-35
In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Assimilátum est regnum cœlórum hómini regi, qui vóluit ratiónem pónere cum servis suis. Et cum cœpísset ratiónem pónere, oblátus est ei unus, qui debébat ei decem mília talénta. Cum autem non habéret, unde rédderet, jussit eum dóminus ejus venúmdari et uxórem ejus et fílios et ómnia, quæ habébat, et reddi. Prócidens autem servus ille, orábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Misértus autem dóminus servi illíus, dimísit eum et débitum dimísit ei. Egréssus autem servus ille, invénit unum de consérvis suis, qui debébat ei centum denários: et tenens suffocábat eum, dicens: Redde, quod debes. Et prócidens consérvus ejus, rogábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Ille autem nóluit: sed ábiit, et misit eum in cárcerem, donec rédderet débitum. Vidéntes autem consérvi ejus, quæ fiébant, contristáti sunt valde: et venérunt et narravérunt dómino suo ómnia, quæ facta fúerant. Tunc vocávit illum dóminus suus: et ait illi: Serve nequam, omne débitum dimísi tibi, quóniam rogásti me: nonne ergo opórtuit et te miseréri consérvi tui, sicut et ego tui misértus sum? Et irátus dóminus ejus, trádidit eum tortóribus, quoadúsque rédderet univérsum débitum.
Sic et Pater meus cœléstis fáciet vobis, si non remiséritis unusquísque fratri suo de córdibus vestris.

OMELIA II

[Mons. G. Bonomelli, ut supra, Omelia XVIII]

“Il regno dei cieli è assomigliato ad un re il quale volle trarre i conti con i suoi servi. E avendo cominciato a fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti. E non avendo egli da pagare, il suo padrone comandò ch’egli, la sua moglie e i suoi figliuoli e tutto quanto aveva fosse venduto, e così fosse pagato. Allora quel servo cadendo a terra, si buttò davanti a lui, dicendo: Deh! abbi pazienza verso di me, e ti pagherò tutto. E il padrone impietosito di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Ora quel servo, uscito fuori, trovò uno de’ suoi conservi, il quale gli  doveva cento danari, ed afferratolo, lo strangolava, dicendo: Pagami ciò che mi devi! E quel suo conservo, cadendo in terra, lo pregava, dicendo: Abbi pazienza verso di me, ed io ti pagherò tutto. Ma colui non volle; anzi andò e lo cacciò in prigione finché avesse pagato il suo debito. Ora i conservi di lui, veduto il fatto, ne furono grandemente rattristati, e vennero al padrone e gli narrarono tutto il fatto. Allora Il signore lo chiamò a sé e gli disse: Servo malvagio! io ti condonai tutto quel debito, perché tu me ne avevi pregato. E non era dunque giusto che tu avessi pietà del tuo conservo, com’io ancora aveva avuto pietà di te? E adirato il suo padrone, lo diede in mano ai carcerieri infino a tanto che avesse pagato tutto il debito. Così farà ancora il Padre mio celeste con voi, se non rimetterete di cuore ciascuno al proprio fratello i falli suoi „ ( S . Matteo, XVIII, 24-35).

È questa la lezione evangelica, che oggi la Chiesa ci propone di meditare. Questa parabola fu recitata da Gesù Cristo in Galilea, nell’ultima dimora che vi fece, poco prima dell’ultimo suo viaggio a Gerusalemme per la festa della Scenopegia o dei Tabernacoli; festa che cadeva intorno al venti di settembre, e durava otto giorni; onde si può ritenere che la parabola fu come il termine della sua predicazione in Galilea, sette mesi circa prima della sua morte. Un valente scrittore moderno della vita di Gesù Cristo afferma che tutta l’indole, tutto il carattere del regno dei cieli predicato da Gesù Cristo, è racchiuso in questa bellissima parabola (P. Didon, vol. 1, pag. 477). Essa adunque è ben degna di tutta la vostra attenzione. Prima di cominciare la spiegazione della mostra parabola, è necessario conoscere i fatti che diedero occasione a Gesù di proporla. Da S. Luca (capo XVII, 3) apprendiamo che Gesù Cristo disse agli Apostoli: “Se il fratello tuo ha peccato contro di te, riprendilo: e se si pente, tu perdonagli. „ Qui sottentra S. Matteo, e narra che Pietro allora, rivoltosi a Gesù, disse: “Signore, quante volte, peccando contro di me il fratel mio, gli perdonerò? Fino a sette volte ? „ E Gesù gli disse : “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette; „ espressione che nell’uso ebraico vuol dire sempre, senza limiti. Data questa risposta, Gesù disse la parabola che dobbiamo interpretare. Fin d’ora voi comprendete, considerati gli antecedenti, che l’argomento e lo scopo della medesima debba essere ribadire la necessità del perdono. “Il regno dei cieli è assomigliato ad un re, il quale volle trarre i conti con i suoi servi. „ Altra volta accennai il significato diverso che nei libri del nuovo Testamento ha l’espressione regno dei cieli. E fuor di dubbio che qui essa significa il tutto insieme che è necessario per entrare e restare nella Chiesa, per appartenere al regno di Gesù Cristo nel tempo e nella eternità. – Non occorre il dirlo, il re è Dio, è Gesù Cristo medesimo; i servi sono i credenti, i debiti del servo rappresentano le offese o i peccati, la resa dei conti il giudizio divino, il castigo inflitto al servo la pena dovuta ai peccati a rigore di giustizia. Il re, dice il Vangelo, volle fare i conti con i suoi servi di quanto essi gli dovevano, ed egli doveva a loro. Carissimi! Noi viviamo nella casa di questo buon Re, che è la  Chiesa: siamo i suoi servi, e siamo provveduti largamente e per modo, che non ci manca nulla. Noi dobbiamo prestare i nostri servigi e ubbidire ad ogni cenno il Padrone celeste; noi, sue creature, saremmo obbligati a servirlo in ogni cosa, anche senza mercede, perché Egli è padrone nostro assoluto; ma è tanta la sua bontà e la sua magnificenza, ch’Egli vuole pagare e generosamente ogni nostro servigio, come vuole eziandio che noi rispondiamo d’ogni nostro fallo e ne portiamo la giusta pena. C’è un libro, il libro della nostra coscienza ed il libro della sapienza infinita di Dio, sul quale tutto si scrive, ciò ch’Egli ci dà e ciò che noi tacciamo, pensiamo o diciamo. Nulla sfugge, nulla si dimentica, nulla si cancella; quei due libri sono indistruttibili, e contengono l’intera storia della nostra vita, e secondo il risultato di quelli sarà la mercede o la pena che riceveremo. E questa una verità consolante e insieme terribile; consolante, perché d’ogni opera buona, ancorché minima, avremo il premio; terribile, perché di ogni atto, di ogni parola men che retta avremo il condegno castigo. Quel libro lo scriviamo noi stessi, di nostra mano, in ogni istante, bene o male che sia, e lo scriviamo, lasciate che così mi esprima, con la punta di diamante della nostra libera volontà. Prima della resa finale dei conti, noi possiamo cangiare le partite dei debiti col pentimento, e possiamo anche cancellare i crediti, le opere buone con i peccati; in breve è in poter nostro scrivere su quei libri ciò che vogliamo, mutare le parti, aumentare crediti o debiti: il risultato ultimo si vedrà quel dì che il Padrone ci dirà: “Rendi conto delle opere tue opere”. Questo pensiero ci stia sempre dinanzi agli occhi della mente, affinché ci sia uno stimolo continuo a cancellare i debiti ed accrescere i crediti, fuggendo i peccati e compiendo opere buone. – Ma ripigliamo la parabola.”Avendo cominciato a fare i conti, fu presentato al re un servo, che era debitore di diecimila talenti. „ Debito enorme, ma che rappresenta purtroppo secondo verità i debiti che noi abbiamo con Dio. Miei cari! Abbracciamo con uno sguardo rapido tutti i peccati per noi commessi dal dì che acquistammo l’uso della ragione fino ad oggi, per il corso di venti, quaranta, sessant’anni. Tutti i peccati di pensieri, di desideri, di parole, di opere, di omissione, commessi da giovinetti, da uomini, da vecchi, in casa, da soli, in compagnia, in scuola, in mezzo alla società, nei vari uffici tenuti, contro Dio, il prossimo, nell’adempimento dei nostri doveri e andate dicendo. Mio Dio! Qual numero sterminato! Il pensiero ne rimane oppresso. E dire che questi peccati, in quanto sono commessi da noi, creature miserabili, contro Dio, suprema Maestà e sommo nostro benefattore, e commessi sotto i suoi occhi, e commessi per un vile piacere, e commessi abusando dei doni suoi, hanno una cotale infinita malizia! Tutto questo considerando, non è vero, o cari che, per ragione del numero e della gravezza, i nostri peccati costituiscono un debito immenso con Dio e rispondono pur troppo ai diecimila talenti, che il servo doveva al suo padrone? Scoperto il gran debito, il servo sventurato non lo poteva negare; era l’opera sua: bisognava pagarlo. Ma come mai un povero servo poteva pagare quel debito colossale? Era impossibile. Così, o dilettissimi, è impossibile a noi, con le sole nostre forze, pagare i debiti che abbiamo con Dio. La speranza di cancellarli per noi è tutta riposta nella smisurata bontà di Dio, che voglia benignamente condonarceli. Continua la parabola: “Non avendo il servo con che pagare, il padrone comandò che egli stesso, il servo, la moglie ed i figli e tutto quanto aveva, fosse venduto, e così fosse pagato. „ Noi inorridiamo udendo che per pagare i debiti potessero essere venduti, non solo il servo debitore, ma la moglie ed i figli, e ci sembra ed è veramente spaventosa crudeltà. Ma è da avvertire che Gesù Cristo espone una parabola, e non approva, né disapprova siffatta enormità, come non approvò, né poteva approvare il furto del fattore ingiusto. – È da sapere, che le antiche legislazioni davano il diritto ai creditori, non solo di gettare in carcere i debitori impotenti a pagare, ma di venderli e di vendere eziandio le loro mogli ed i loro figli; e questa legge pare fosse in vigore, in alcuni casi almeno, anche presso gli Ebrei (Vedi il libro IV dei Re, capo IV, 1, seg.). Qui torna acconcio ricordare la sapientissima regola, che quanto alla spiegazione delle parabole ci dà S. Giovanni Crisostomo; la regola è questa, che non si vuol sempre applicare ogni parte della parabola in guisa, che quadri rigorosamente alla verità. Se qui si volesse spingere il significato della parabola in modo da applicarla in ogni sua parte, dovremmo dire che dei debiti del marito e del padre ne debbono rispondere anche la moglie ed i figli, e che questi possono essere puniti per i peccati commessi da quelli, che sarebbe orribilissima iniquità. Noi sappiamo che i peccati sono personali, e che ciascuno deve rispondere dei peccati proprii e non di quelli commessi da altri, siano pure persone tra loro legate da vincoli strettissimi. Gesù Cristo, nella parabola, come dissi, narra la cosa come avveniva o poteva avvenire, senza approvarla. All’udire quel terribile comando che fece, che disse il misero servo? È facile immaginarlo: non gli restava che una cosa sola da tentare, e la tentò. “Cadendo a terra, si buttò dinanzi al padrone, dicendo: Deh! abbi pazienza verso di me, e ti pagherò tutto. „ È il grido che esce dal cuore di chi sente la propria impotenza, del naufrago, che si dibatte in mezzo al mare, che non ha speranza se non nell’altrui soccorso. “Abbi pazienza per me — Patientìam habe in me. „ Egli non nega il suo debito, non lo diminuisce, non si scusa, solamente implora pietà. In tutto questo, noi pure possiamo e dobbiamo imitare questo servo: dobbiamo riconoscere e confessare il cumulo dei nostri peccati, guardarci dallo scusarli come che sia, riporre ogni nostra speranza nella misericordia di Dio, e gridare a Lui: “Abbi pazienza, abbi pietà di me, o Signore. „ Il servo, in quelle distrette crudeli, sotto la minaccia del padrone, era sincero? La lingua era essa fedele testimonio del cuore? Ciò che subito dopo avvenne, ci mostra che solo il timore gli strappò di bocca quel grido affannoso, e che nel cuor suo non v’era ombra di pentimento. Del resto nelle parole che aggiunge: “Io ti pagherò tutto „ si scorge una bugia. In qual modo, egli, povero servo, carico di famiglia, poteva nutrire filo di speranza di potere quandochessia pagare per intero quel debito immenso ? Non era meglio per lui confessare la propria impotenza ed appellare umilmente alla bontà e carità del padrone, anziché promettere ciò che non avrebbe potuto far mai? Parla di voler osservare giustizia quando non può avere scampo che nella misericordia! Ecco l’orgoglio male dissimulato. Il padrone a quella vista, a quel grido, a quella scena, s’impietosì: Misertus autem dominus servi illius. Lo rimirò con occhio di compassione, e senza badar punto alla promessa del misero: “Io pagherò tutto, „ non ridusse il debito a quelle proporzioni che rendevano possibile al debitore il pagamento, che sarebbe stato larghezza grande, ma, secondando il suo cuore, gli condonò tutto, nulla esigendo: Et debitum dimisit ei. Quale generosità! Quanta carità in questo padrone! Essa ci rappresenta al vivo la carità veramente infinita di Dio verso di noi peccatori. Noi ci gettiamo ai piedi di Lui nella persona dei suoi ministri: riconosciamo la moltitudine dei nostri debiti, dei nostri peccati, e la impossibilità di soddisfare alla sua giustizia: noi gli diciamo: Signore, abbiamo peccato: le nostre iniquità sono senza numero: siamo pentiti, perdonateci; — ed Egli, il buon Dio, ci condona ogni debito e ci rimanda consolati. – Ho detto che quel servo malvagio non era pentito in cuor suo, come apparisce da ciò che narra subito dopo il Vangelo. Come dunque quel padrone gli condonò il debito, egli che doveva leggergli in cuore e che doveva conoscere ciò che, uscendo di là, avrebbe fatto? Nel Vangelo non è scritta parola che non giovi a nostra istruzione. Dio certamente fugge nel nostro cuore e vede se siamo pentiti dei nostri peccati allorché ci inginocchiamo ai piedi del suo ministro; se, pentiti, alla parola del suo ministro che dice: “Io ti assolvo, „ aggiunge la sua, e l’anima è sciolta da ogni peccato. Ma se noi diciamo con la lingua: Siamo pentiti, — e il cuore non risponde, Dio, che vi legge, alla parola del ministro: “Io ti assolvo, „ non aggiunge la sua, e noi partiamo con tutti i peccati sull’anima e forse con l’aggiunta d’un sacrilegio, se mentiamo alla nostra coscienza. In questo luogo del Vangelo, il Re, o Padrone, che raffigura Dio, volle fare la parte del ministro e mostrare che si appagava della confessione esterna, quasi non vedesse dentro dell’anima, e ciò, credo io, a conforto di quanti in suo luogo esercitano questo ufficio di misericordia. Il servo, avuta l’intera condonazione di tutto il suo debito, uscì e se n’andava a casa. Noi ci immaginiamo quell’uomo pieno di gioia, di gratitudine verso il generoso padrone, e, come avviene in questi casi, con l’animo tutto inchinevole ad atti caritatevoli e magnanimi. Ma non era così. Appena uscito, quel servo, a pochi passi del padrone, “trovò uno dei suoi conservi che gli doveva cento denari, e, afferratolo, lo strangolava, dicendo: Rendi ciò che mi devi. „ Chi di noi non sente ribollire il sangue e fremere l’anima tutta al vedere questo servo scellerato, che due minuti dopo aver avuta la piena condonazione del suo debito sì enorme, afferra per il collo il suo compagno e vuole il pagamento di poche lire, che gli sono dovute? La carità avuta dal padrone gli imponeva di usarla col suo conservo. Questo, colto all’improvviso, a quel modo, non seppe far meglio che imitare il suo creditore stesso, e cadendo anch’egli ai piedi, non del padrone, ma del suo compagno, lo pregava, dicendo: Abbi pazienza verso di me, e ti pagherò tutto. „ All’udire dalla bocca del conservo quelle stesse parole ch’egli aveva rivolte al padrone con esito sì felice, al vedersi ai piedi il compagno in quell’atteggiamento stesso ch’egli aveva tenuto col padrone; a quella promessa di pagar tutto, che si poteva credere sincera, perché possibile, anzi facile l’adempirla, trattandosi di sì lieve somma, pare che il feroce servo dovesse sentirsi disarmato e dovesse o accontentarsi della promessa, o rimettere, come era più naturale, tutto il debito. Non fu così. A quell’umile preghiera del conservo parve maggiormente sdegnarsi: non volle saperne nemmeno di aspettare; se ne andò e lo cacciò in carcere finché restituisse il debito. Il contrasto tra la condotta del padrone col servo debitore, e laèàp condotta del servo debitore con il suo compagno è così mostruoso, che lo spendervi intorno più parole è affatto superfluo: è cosa che si sente più che non si possa dire. Qui viene spontanea una applicazione pratica assai importante. Dio ha condonato a noi, a ciascuno di noi, il gran debito dei nostri peccati, e quante volte! E noi, abbiamo noi perdonato ai fratelli nostri, che per avventura alcuna volta ci offesero? Le offese da questi recateci sono cose lievissime confrontate a quelle che noi abbiamo fatte a Dio, sia pel numero, sia per la gravezza. Ebbene: Dio ha perdonato a noi, e forse noi abbiamo rifiutato di perdonare al fratello! Il Creatore perdona alla creatura e la creatura non perdona alla creatura! L’infinita Maestà perdona a questo miserabile servo, e questo miserabile servo ricusa il perdono al fratello, suo conservo! E se perdona tal volta con la lingua, non perdona sempre col cuore, e cova in fondo all’anima il rancore, l’astio e il segreto desiderio della vendetta, che si rivela nella parola amara, nel fare altezzoso, nell’atto di dispetto! – Ritorniamo alla nostra parabola. “I compagni di quel servo videro ogni cosa e ne furono grandemente rattristati, e vennero al padrone e gli narrarono quanto era accaduto. „ Questo particolare della parabola è come l’ornamento della stessa, ed aggiunge naturalezza al fatto; il padrone, che è Dio, non ha bisogno che altri gli faccia conoscere le cose. “Il padrone allora chiamò quel servo, e gli disse: “Servo malvagio! Io ti condonai tutto quel debito, perché me ne pregasti: non era dunque giusto che tu pure avessi pietà del tuo conservo, com’io l’ebbi di te? „ Rimprovero più giusto e più meritato di questo non si può immaginare. ” E il padrone sdegnato lo mise in mano ai carcerieri finché restituisse tutto il debito. „ Il carcere qui significa senza dubbio il carcere eterno, troppo dovuto a quel servo spietato ed ingratissimo verso il suo Signore. Questa sentenza del padrone non è senza una difficoltà, ed è mestieri snodarla. Noi sappiamo che allorquando Iddio ci perdona i peccati, questi sono perdonati per sempre, e quando pure per nostra sventura ricadessimo negli stessi od in altri, quelli non rivivono più mai, né ce ne chiederà conto. Come dunque avviene che qui il padrone condanna il servo per quei debiti, o peccati, che gli aveva generosamente condonati? Come si spiega? Forse è da intendere la parabola in questo senso, che il servo crudele non era pentito del fallo, e perciò non aveva ricevuto il perdono che in apparenza: la sua atroce durezza col conservo mostrò pubblicamente che pentimento non c’era, e quindi gli si infligge il castigo prima minacciato. Forse, e meglio si può intendere in quest’altro modo: il debito era rimesso, cancellati tutti i peccati: ma la crudeltà feroce usata col conservo era sì detestabile delitto, che equivaleva nella gravezza al debito già prima condonato, e perciò traeva sul miserabile lo stesso castigo. – Qual è l’insegnamento di questa parabola? È tutto racchiuso nell’ultima sentenza sì bella e sì chiara: ” Così farà ancora il Padre mio celeste con voi, se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello. „ Volete voi da Dio il perdono dei vostri peccati? Perdonate ai fratelli vostri le offese che vi hanno fatto. Non volete voi perdonare? Neppure il Padre perdonerà a voi. Torna qui quella sentenza del Vangelo: “Perdonate e sarete perdonati; „ e l’altra della orazione insegnataci da Gesù Cristo stesso: ” Perdonate a noi i nostri peccati come noi perdoniamo ai nostri offensori. „ E non vi sfugga, o cari, quella parola assai significante, che si incontra nella sentenza del divino Maestro: “Se non condonerete di cuore. „ Intendete? Il perdono non deve essere sulle labbra e negli atti esterni, ma deve sgorgare dal cuore: De cordibus vestris: là risiede, come la colpa, così la virtù.

Credo

Offertorium
Orémus
Job I. 1
Vir erat in terra Hus, nómine Job: simplex et rectus ac timens Deum: quem Satan pétiit ut tentáret: et data est ei potéstas a Dómino in facultátes et in carnem ejus: perdidítque omnem substántiam ipsíus et fílios: carnem quoque ejus gravi úlcere vulnerávit. [Vi era, nella terra di Hus, un uomo chiamato Giobbe, semplice, retto e timorato di Dio. Satana chiese di tentarlo e dal Signore gli fu dato il potere sui suoi beni e sul suo corpo. Egli perse tutti i suoi beni e i suoi figli, e il suo corpo fu colpito da gravi ulcere.]

Secreta
Suscipe, Dómine, propítius hóstias: quibus et te placári voluísti, et nobis salútem poténti pietáte restítui. [Ricevi, propizio, o Signore, queste offerte con le quali volesti essere placato e con potente misericodia restituire a noi la salvezza.]

Communio
Ps CXVIII: 81; 84; 86
In salutári tuo ánima mea, et in verbum tuum sperávi: quando fácies de persequéntibus me judícium? iníqui persecúti sunt me, ádjuva me, Dómine, Deus meus. [L’ànima mia ha sperato nella tua salvezza e nella tua parola: quando farai giustizia di coloro che mi perseguitano? Gli iniqui mi hanno perseguitato, aiutami, o Signore, Dio mio.]

Postcommunio
Orémus.
Immortalitátis alimoniam consecúti, quǽsumus, Dómine: ut, quod ore percépimus, pura mente sectémur.
[Ricevuto il cibo dell’immortalità, Ti preghiamo, o Signore, affinché di ciò che abbiamo ricevuto con la bocca, conseguiamo l’effetto con animo puro]

 

 

 

 

LO SCUDO DELLA FEDE (XXXII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXXII.

I SACRAMENTI.

I Sacramenti sono sette, né più né meno — Loro natura ed efficacia. — Errori del protestantesimo. — Condizioni per l’efficacia dei sacramenti in chi li riceve. — In chi li amministra. — Il carattere impresso da certi sacramenti. — Cerimonie e lingua latina nella loro amministrazione.

— Dunque Gesù Cristo per salvarci, oltre all’aver predicato la sua dottrina ha istituito altresì dei Sacramenti?

Sì, affine di comunicarci per essi la sua grazia, quella grazia, che Egli ci ha riguadagnato coi meriti della sua incarnazione, passione e morte.

— E di ciò si è veramente certi?

Certissimi; ed è di fede. Il Vangelo ci mostra Gesù Cristo che comanda ai suoi Apostoli di battezzare le genti nel nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo, ed ecco il Battesimo; che promette questo Divino Spirito a tutti quelli, che dovevano credere in Lui, ed ecco la Cresima; che transustanzia il pane e il vino nel suo corpo e nel suo sangue e dice agli Apostoli : « Fate questo in memoria di me », ed ecco l’Eucaristia; che dà loro il potere di rimettere i peccati, ed ecco la Penitenza; che li manda per le ville e borgate della Giudea ad annunziare il Vangelo e ad ungere gl’infermi per risanarli, ed ecco l’Olio Santo; che li elegge come ministri della sua parola e della sua grazia, ed ecco l’Ordine; che santifica le nozze colla sua presenza, ed ecco il Matrimonio. Certamente durante la vita di Gesù Cristo, i Sacramenti non sono ancora ben determinati; ma compie e conferma tutto ciò che li riguarda in quelle ripetute apparizioni, che fece agli Apostoli suoi durante i quaranta giorni, in cui ancora si fermò sulla terra dopo la sua Risurrezione. E gli Apostoli istruiti da Gesù Cristo e investiti del suo potere, poiché ebbero ricevuto lo Spirito Santo, subito si diedero ad amministrare tutti e sette questi Sacramenti.

— E perché mai Gesù Cristo ha istituito sette Sacramenti, né di più né di meno?

Certamente perché nella sua infinita sapienza vide bene il fare così e non diversamente. È un fatto che questo numero di sette è misterioso e sacro: sette sono le epoche della vita del mondo, sette i giorni della settimana, sette i bracci del candeliere del tempio, sette i suggelli del libro dell’Apocalisse, sette gli spiriti che stanno più vicino a Dio, sette i doni dello Spirito Santo, eccetera, eccetera; dunque anche sette i Sacramenti. S. Tommaso poi ci mostra bellamente che in tal numero i Sacramenti armonizzano pienamente la nostra vita spirituale con quella corporale. Difatti la nostra vita corporale si produce per la generazione, si svolge con l’accrescimento di forze, si sostiene col cibo, si ripara con la medicina, si rinnova con speciali cure, si governa con l’autorità e si riproduce dalla convivenza dell’uomo con la donna; e la vita spirituale sì genera in noi col Battesimo, si rafforza con la Cresima, si alimenta con l’Eucaristia, si restituisce o si ristora con la Penitenza, si rimette in piena vigoria con l’Olio santo, si regge nel corpo della Chiesa per l’Ordine e si rinnovella pel Matrimonio.

— Ho inteso dire che per riguardo al numero, i protestanti non si accordano né con noi cattolici, né fra di loro.

* È così. Per molti di essi i Sacramenti si riducono a due: il Battesimo e l’Eucaristia; e per di più intesi a loro modo. L’Eucaristia è diventata in mano loro una cena volgare, in cui si mangia un po’ di pane e si beve qualche sorso di vino in memoria di Cristo. Quanto al Battesimo, quasi tutti i protestanti lo dichiarano una semplice cerimonia esteriore, indifferente quanto alla santificazione ed alla vita eterna, senz’altro scopo né altra efficacia, fuorché di attestare ufficialmente che il battezzato venne ascritto tra i membri della Chiesa.

— Ma che ragioni hanno avuto i protestanti di rigettare così i Sacramenti?

E che ragioni vuoi che abbiano avuto? Nessun’altra che la loro superbia e la loro audacia. Fino all’anno 1517 la Chiesa cattolica pacificamente, senza contrasto alcuno, in Oriente e in Occidente, in privato ed in pubblico, aveva sempre professata la dottrina dei sette Sacramenti, come dimostrano chiaramente tutti i libri liturgici, tutti i Padri della Chiesa, tutti i Concilii, tutte le memorie più antiche. Non ci voleva dunque in Lutero e in tutti i suoi seguaci un bel fegato per venir fuori a dire che i Sacramenti della Chiesa erano umane invenzioni, ritrovati dei preti, e d’un colpo solo rigettarli?

— Oh sì! senza dubbio. Ma perché mai Gesù Cristo a conferirci la sua grazia, che è cosa invisibile, ha voluto istituire dei riti sensibili?

Ti farò rispondere da S. Tommaso e da S. Agostino. Il primo dice: « È proprio dell’umana natura l’essere condotta dalle cose corporali e sensibili al conoscimento delle spirituali ed intellettuali; onde molto opportunamente la sapienza divina volle conferire all’uomo, secondo la sua natura, i mezzi della salute con alcuni segni corporali e visibili, che si chiamano Sacramenti ». S. Agostino poi a questo riguardo così si esprime: « La religione essendo fatta per l’uomo, composto di due sostanze, materiale e spirituale, deve presentarsi sotto un doppio aspetto, materiale e spirituale: e nel Sacramento c’è la grazia spirituale ed invisibile, e c’è il rito materiale e visibile ». A tutto ciò si può aggiungere che il rito materiale e visibile significando la grazia spirituale ed invisibile, che apporta all’anima il Sacramento, ci rappresenta in modo esteriore e in certa guisa ci accerta l’azione interiore della grazia; di guisa che nel vedere ad esempio nel Battesimo l’acqua a scorrere sul capo, ci si rappresenta la grazia, che discende nell’anima e la purifica, e ci accerta, per così dire, in modo pratico di tale effetto.

— Ma è proprio certo che i Sacramenti ci danno la grazia di Dio?

Anche questa è verità di fede, perché  chiaramente indicata da Gesù Cristo, riconosciuta ed insegnata dagli Apostoli. La grazia, che ci santifica, viene da Dio per i meriti di Gesù Cristo, e i sacramenti sono quali strumenti nelle mani di Dio per produrla nelle nostre anime. Epperò ben a ragione la Chiesa ha condannato l’asserzione opposta dei protestanti, i quali nei Sacramenti non vedono altro che dei segni nudi d’ogni efficacia, o tutto al più delle semplici figure della grazia divina, oppure dei segni che svegliano ed eccitano la fede, per la quale siamo giustificati.

— E com’è che i Protestanti negano la grazia dei Sacramenti?

La cosa è chiara. Secondo l’insegnamento cattolico la grazia è un’azione immediata di Dio sull’anima, mercé la quale il nostro essere viene trasformato, santificato, reso simile a Dio e a Lui annodato in modo ineffabile. Il protestantesimo invece nega questa dottrina e riguarda la grazia come alcunché di puramente esterno, una imputazione della giustizia stessa di Cristo, la quale si ottiene unicamente per la fede. E questa fede per esso non è già l’adesione del nostro spirito ai dogmi rivelati, ma è una fiducia, che ci fa credere con certezza che Dio cessa di imputarci i nostri peccati per imputarci la giustizia del Figliuol suo. – Questa fiducia supplisce tutte le opere e quindi anche i Sacramenti, che tra le opere di religione sono le più sante. Ma che cosa vi ha di più falso di questa teoria dei protestanti, secondo lo stesso insegnamento della Sacra Scrittura, che pure essi invocano a loro sostegno? – Certamente vi sono in S. Paolo varii testi, che se si prendono isolatamente, come fanno appunto i protestanti, sembrerebbero indicare che la sola fede giustifica, come ti sembrerebbero indicare ciò quel verso del Pange lingua « Sola fides sufficit », se lo pigliassi da solo senza considerare il resto dell’inno. Ma non ci vuole un gran talento per capire che i testi, a cui si aggrappano i protestanti, devono essere esaminati nel contesto del discorso. Ed esaminati in tal guisa significano chiaramente che la fede non è la fiducia del protestantesimo, ma la predicazione delle verità evangeliche e l’adesione del nostro spirito a queste verità, e che se la fede è il principio della nostra giustificazione, non ne è già il tutto, ma che per la nostra giustificazione insieme con la fede si richiedono assolutamente le buone opere, come infatti dimostrano chiarissimamente moltissimi altri testi di S. Paolo e di S. Giacomo, il quale sentenzia nel modo più esplicito che « la fede senza le opere è morta » (V. capo II, versetto 26). Le opere adunque sono necessarie alla nostra giustificazione, e tra di esse in primo luogo i Sacramenti. Tantoché Gesù Cristo ne’ suoi precetti unisce la loro distribuzione alla predicazione della fede, e ne fa come di essa una condizione di salute. « Andate, dice Egli, ammaestrate tutte le genti, battezzandole. Chi crederà e sarà battezzato andrà salvo ».

— Ho ben inteso. Ma ora mi dica un po’: se tutti i sacramenti conferiscono la grazia, non bastava che Gesù Cristo ne istituisse uno solo?

Gesù Cristo poteva anche non istituirne alcuno, e darci lo stesso la grazia sua immediatamente. Egli invece non volle fare così, ma volle invece istituire dei sacramenti per comunicarcela mediante i medesimi, e istituirne sette. Dunque sia fatto com’Egli volle. Del resto c’è anche la ragione di ciò. I Sacramenti ci danno tutti la grazia, oppure ce l’aumentano, ma oltre a questa grazia prima, ce ne danno ciascuno un’altra affatto speciale e propria di ciascuno di essi, che si chiama anche sacramentale, di quella guisa che tutti i cibi hanno l’effetto comune di nutrire, ma ciascuno nutre a seconda delle sue speciali proprietà.

— Anche questo l’ho inteso. E la grazia dei Sacramenti si riceve proprio da tutti!

No, la grazia dei sacramenti si riceve da coloro, che sono ben disposti, giacché per ricevere ogni Sacramento si richiedono delle speciali disposizioni; perciò se queste mancano, la grazia non si riceve, come una stanza che sia interamente chiusa non può ricevere la luce del sole, ancorché questo vi batta contro, oppure come in una vasca non può penetrare l’acqua che viene ad essa da un canale, se dessa è otturata.

— E quei che ricevono la grazia, la ricevono tutti nella stessa misura?

Nemmeno: ma secondo le più o meno buone disposizioni che si hanno, di quella guisa ancora che in una camera entra più o meno luce, secondo che è più o meno aperta alla medesima.

— Mi ricordo d’aver appreso che vi sono Sacramenti dei vivi e sacramenti dei morti.

Non so però che ai morti si diano Sacramenti.

Tu hai voglia di scherzare. I Sacramenti dei vivi sono quelli che si hanno da ricevere in istato di grazia, ossia di vita spirituale; e quelli dei morti, cioè il Battesimo e la Penitenza, sono quelli che danno la grazia, ossia la vita dell’anima, a quelli che per il peccato ne sono privi.

— Vuol dire adunque che per ricevere i Sacramenti dei vivi, cioè la Cresima, l’Eucarestia, l’Olio santo, l’Ordine e il Matrimonio, bisogna sempre essere in grazia di Dio, e per ricevere quei dei morti bisogna essere in peccato.

La tua conseguenza è giusta nella prima parte, riguardo ai Sacramenti dei vivi, ma falsa nella seconda riguardo ai Sacramenti dei morti. Può essere benissimo che un uomo adulto, prima di ricevere il Battesimo, o la Penitenza, facesse un atto di carità perfetta, che gli sciogliesse dall’anima il peccato, e così ricevendo quei Sacramenti si troverebbe già in grazia. Così pure chi va a confessarsi di soli peccati veniali, perché di mortali non ne ha commessi, si confessa in grazia di Dio, giacché i peccati veniali non ci tolgono dall’anima la grazia santificante.

— E in questo caso essendovi già nell’anima la grazia, questi Sacramenti ne portano ancora dell’altra?

Senza dubbio. In questo caso fanno l’effetto dei sacramenti dei vivi, vale a dire aumentano la grazia, che già si trova nell’anima.

— E se chi amministra i Sacramenti si trova in peccato mortale, chi li riceve ottiene pure la grazia di Dio?

Sì; è dottrina di fede anche questa. La ragione è manifesta. Non è già il ministro dei Sacramenti che produca la grazia, ma Iddio stesso per mezzo dei Sacramenti. « Che importa, dice S. Tommaso, che il canale, per cui passa l’acqua, sia di argento, di piombo, di ferro, di legno, o di terra? Conduce sempre l’acqua lo stesso. Così è dei Sacramenti, che sempre ci danno la grazia, qualunque sia il ministro che ce li dia ».

— E se il ministro di un Sacramento fosse un scismatico, un eretico, anche allora il sacramento conferirebbe la grazia?

Sì, anche allora, purché il ministro scismatico od eretico sia nella condizione di poter essere vero ministro di quel Sacramento, e questo sia ben amministrato. Questa verità fu riconosciuta e dichiarata dalla Chiesa fin dai tempi più antichi, quando mostrò e stabilì essere valido il Battesimo anche conferito dagli eretici. Nota però che in ogni caso chi amministra i Sacramenti deve aver l’intenzione di fare quello che fa la vera Chiesa, di amministrare cioè veramente i Sacramenti di Gesù Cristo; e perciò se un cotale amministrando un Sacramento intendesse, ad esempio, di fare uno scherzo, il Sacramento non sarebbe valido, né conferirebbe grazia alcuna.

— Supponga un po’ che un ministro eretico o scismatico conferisse i Sacramenti con l’intenzione di fare quello che fa la Chiesa eretica o scismatica, li conferirebbe egli validamente?

Sì, se egli crede che la Chiesa eretica o scismatica, cui appartiene, sia la vera Chiesa di Gesù Cristo, perché in questo caso, anche senza volerlo egli ha l’intenzione che si identifica con la vera Chiesa di Gesù Cristo, vale a dire con la nostra Chiesa Cattolica.

— Dunque i Battesimi, che si amministrano presso gli eretici e i scismatici, sono validi e conferiscono la grazia?

Sì, ma intendilo bene, quando siano ben amministrati, cioè quando siano amministrati con la debita materia, forma ed intenzione: perché altrimenti non sono validi e non conferiscono la grazia.

— Ma io ho già veduto ridare il Battesimo a qualche protestante convertito. Perché ridarglielo se già l’aveva ricevuto validamente?

Ricordati quello che già ti ho detto. Perché il Sacramento sia valido bisogna che sia ben amministrato e con l’intenzione di fare quello che fa la Chiesa di Gesù Cristo. Ora nel protestantesimo per lo più il battesimo riguardandosi solo come una cerimonia esteriore, senza efficacia alcuna per la nostra santificazione, non si può essere certi che sia stato ben amministrato. Epperò la Chiesa a quelli che si convertono dal protestantesimo (e, quando ha ragione di dubitare, anche a quelli che si convertono da altre eresie) ridà il Battesimo, sotto condizione che non sia stato valido quello che hanno già ricevuto.

— Mi ricordo pure di aver appreso che certi Sacramenti imprimono il carattere.

Sì, i Sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Ordine imprimono il carattere; è questa verità di fede, abbastanza dichiarata nella Sacra Scrittura e manifestissima dalla sacra tradizione.

— Che cos’è propriamente questo carattere?

Il carattere, dice il Concilio di Trento, è un certo segno spirituale, incancellabile, impresso nell’anima di chi lo riceve. E ciò vuol dire, come spiega S. Tommaso, che è una qualità, che distingue l’anima che l’ha ricevuto da quelle che non l’hanno ricevuto, dinanzi a Dio, agli Angeli e ai beati, per modo che altro apparisce il battezzato, altro il cresimato, altro l’ordinato da quelli che non lo sono. Questo carattere resta sempre in noi, anche allora che abbiamo peccato, ed è molto probabile che rimanga eziandio nella vita futura sia in cielo, che nell’inferno.

— Mi pare di aver abbastanza capito, Ora vorrei domandarle il perché nell’amministrare i Sacramenti si facciano tante cerimonie. Non sarebbe meglio farne a meno?

Niente affatto. Il circondare di riti e cerimonie certi atti solenni di grande importanza è cosa all’uomo troppo naturale. Nelle stesse cose umane, siano private che pubbliche, ci sono modi, usi, costumi, cerimoniali, che non si possono omettere senza essere biasimati dagli uomini di senno. E ciò perché le cerimonie esteriori ci parlano alla mente e al cuore e ci fanno meglio comprendere l’importanza degli atti che si compiono. L’adoperare perciò riti e cerimonie nel culto, e specialmente nei Sacramenti, è quasi un bisogno della natura umana e della religione. E ciò è tanto vero, che anche coloro, che respingono i Sacramenti e gli atti del culto, provano poi la necessità nei loro atti e nelle loro funzioni di scimmiottare le cerimonie stesse della Chiesa.

— Ma perché la Chiesa nell’amministrare i Sacramenti fa uso della lingua latina, che il popolo non capisce? Non sarebbe meglio che adoperasse la lingua propria di ogni paese?

Così può sembrare a primo aspetto, ma così non è. La Chiesa deve conservare presso tutti i popoli l’unità della dottrina e dei Sacramenti; ora se essa permettesse l’amministrazione dei medesimi in ciascuna lingua propria d’ogni paese, correrebbe facilmente il rischio di vederli a poco a poco alterati, giacché chi non vede con che facilità traducendo un libro da una lingua ad un’altra si altera il suo contenuto? Inoltre le lingue tutte a poco a poco si mutano: oggidì ad esempio non si parla più come nel seicento e nel cinquecento. Così la Chiesa di tratto in tratto dovrebbe mutare anch’essa le sue formule, altra cosa difficile e pericolosa assai. Di più avendo ogni lingua una fisionomia propria, certe espressioni voltate dal latino in altre lingue potrebbero suonare assai male e persino eccitare le risa. Quindi è, che per queste e per varie altre ragioni la Chiesa sapientemente ha sempre ritenuto ne’ suoi riti liturgici la lingua latina. È vero che il popolo non capisce tutto, ma molte cose gli vengono spiegate nei catechismi, e per chi vuole non mancano i libri devoti, dove dei riti della Chiesa, accanto al testo latino, vi è altresì la traduzione in lingua volgare.

— Le sue ragioni mi hanno persuaso. Intanto la ringrazio delle molte cognizioni, che mi ha dato a riguardo dei Sacramenti.

MEDITAZIONE SUL VANGELO: L’INFERNO

L’INFERNO

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli, vol. III. Società Ed. “Vita e Pensiero” – Milano, 1939 – imprim.]

Un filosofo francese faceva un giorno, con la sua anima, questo dialogo: « Anima mia, se tu abusi, non solo sarai infelice in questa vita, ma ancora dopo morte, nell’inferno ». – E l’anima dal fondo gli rispondeva con un filo di fiato: « Ma chi ha detto che c’è l’inferno? ». E il filosofo: « L’inferno è così orrendo, che anche solo il dubbio che ci possa essere, ci dovrebbe costringere a far giudizio ». L’anima ardì rispondergli: « Io son certa che l’inferno non c’è ». « Anima mia, non dir bugie ! » gridò il filosofo. « Se sei persuasa che l’inferno non c’è, io ti sfido » (Diderot). – Quando dalla bocca di qualche uomo ascolto l’eresia: « Morto io, morto tutto. L’inferno è una favola… », io lo guardo con un sorriso di compassione e dico: « Buon uomo non dir bugie, che tu stesso non sei persuaso delle tue parole. È la tua vita sregolata; è un certo guadagno ingiusto a cui ti sei attaccato; è quell’affetto impuro che non vuoi spegnere in cuore; è quel peccato che non vuoi confessare, che ti fa dir così ». – « Finito noi, finito tutto: mai nessuno è venuto a dirci quello che c’è di là ». — Non dir questo, che non è vero. Oggi stesso viene Gesù, Gesù morto e risorto, Gesù, Figlio di Dio che non inganna, oggi stesso viene col suo Vangelo e ti dice che l’inferno c’è. « Come un re che festeggia le nozze del suo figliuolo, così è il regno dei cieli. Erano stati invitati molti, e il re per tempo li mandò a chiamare. Non vennero. Li mandò a chiamare un’altra volta: e quelli schernirono, batterono, uccisero i poveri servi. « Il re adirato disse: Le nozze si faranno egualmente e senza di loro. Andate negli incroci delle vie, e tutti quelli che passeranno invitate alla mia festa. – « Allora una folla d’ogni colore si riversò al banchetto: ogni posto fu occupato. – « Il re passò nelle sale a salutarli; ma vide un uomo senza la veste nuziale. Fremette e gli disse: Amico! in quest’arnese si viene qui? — Il misero taceva. — Prendetelo! stringetegli con ferri mani e piedi, e buttatelo di fuori nell’oscurità, dov’è pianto e stridore di denti ». Mittite eum in tenebras exteriores, ibi fletus et stridor dentium. – Il Signore parla chiaro: se qualcuno gli comparirà mal vestito, (e il peccato è un pessimo vestito), sarà buttato fuori dalla sua presenza, nell’oscurità ove in eterno piangerà nello stridor dei denti. Dunque l’inferno c’è. E c’è perché Dio è giusto; perché Dio è buono.

Ecco tre pensieri da comprendere bene.

1. L’INFERNO C’È

Se lo dicesse un profeta che l’inferno c’è, gli credereste voi? Ebbene: ricordate che non uno, ma molti profeti sono venuti sulla terra a dir alla gente che l’inferno c’è. Isaia così parla dei dannati: « Il verme che li rode non morrà mai; il fuoco che li divora non si spegnerà mai » (LXVI, 24). – E Daniele dice: « Tutti risorgeranno: alcuni destinati alla vita eterna, altri alla rovina eterna ».

Se venisse Gesù Cristo a dirvelo, credereste che l’inferno c’è? Ebbene: sappiate che Gesù Cristo è venuto e l’ha detto; e più d’una volta Egli stesso ci ha insegnato che è molto meglio sottoporci in questo mondo ai più dolorosi sacrifici, anche a lasciarci amputare un braccio e cavare un occhio piuttosto che incorrere nel supplizio eterno (S. Matth., XVIII, 8). Egli stesso parlando del giudizio finale, ci rivelò le parole che dirà ai condannati: «Via da me, o maledetti; andate in fuoco eterno ». E quelli dovranno entrare nel tormento senza fine. Ibunt hi in supplicium æternum (S. Matth., XXV, 4 6).

Se venisse qua a dirvelo un Apostolo, S. Paolo per esempio, credereste allora che l’inferno c’è? Ebbene: sentite S. Paolo, che cosa scrive ai Tessalonicesi: « Quelli che non riconosceranno Dio, quelli che non obbediranno al Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, riceveranno in morte tormenti eterni (II Tess., I, 8).

Non basta? È necessario forse che vengano a dirvelo trecento vescovi insieme? Ebbene: sono i trecento vescovi, tutti raccolti a Nicea che dissero: « Quelli che faranno bene entreranno nella vita eterna. Ma quelli che faranno male entreranno nel fuoco eterno » (Simb. Atan.).

L’inferno c’è. Più chiaro di così non potrebbe dirvelo nemmeno un dannato, se vi comparisse in casa vostra. E se non credete alle testimonianze dei profeti, di Cristo, degli Apostoli, di tutta la Chiesa, non credereste neppure a vederlo coi vostri occhi stessi. Fareste anche voi come Gaetano Negri che diceva: « Se io, proprio con i miei occhi, in pieno giorno, vedessi anche un miracolo, non crederei ». Come, mai? « Correrei in casa, mi caccerei in letto, mi metterei il ghiaccio sul cervello, persuasissimo d’aver un febbrone ».

2. C’È PERCHÈ DIO È GIUSTO

Semei figlio di Gera aveva rincorso lungo il Cedron il re David, lanciandogli la maledizione peggiore. Ora, morto David, Salomone lo fece chiamare e gli disse: « Fabbricati una casa in Gerusalemme e là vi abiterai, senza uscir mai dalla città. Poiché se ti coglieranno, in qualche giorno, oltrepassare il Cedron, tu morrai: il tuo sangue allora sia sopra il tuo capo ». Semei rispose al re: «Dici bene, perché io ho maledetto David. Così farò ». – Dopo tre anni fu riferito a Salomone che Semei era uscito da Gerusalemme, fino a Geth. Mandò subito a chiamarlo: «Semei! Semei! Non te l’avevo io minacciato? Non te l’avevo io predetto, che ogni qualvolta fossi uscito dalla città e avessi passato il Cedron t’avrei messo a morte? Ora ci sei caduto. Muori dunque, e di questa morte tu solo fosti la causa; tu solo e la tua malizia ». Dominus reddidit malitiam tuam in caput tuum (III Re, II, 44). E Salomone fece spiccare la testa a Semei di Gera. – Nessuno poté accusare Salomone d’ingiustizia o di crudeltà per questa morte, poiché Semei era stato preavvisato. E chi allora potrà accusare d’ingiustizia il Signore quando ci condannerà all’inferno, se più e più volte ci ha avvisati, scongiurati, minacciati? quando anche oggi, vi fa ammonire dal sacerdote che spiega il suo Vangelo? « L’uomo avvisato — dice un proverbio — è mezzo salvato ». E se dopo tutto questo noi cadiamo in inferno, l’ingiustizia non è di Dio, ma nostra. Malitia tua in caput tuum.

« È impossibile — si sente dire — che l’inferno esista; Dio è troppo buono … ». È vero, cristiani; Dio è troppo buono; è infinitamente buono. Ma è pure infinitamente giusto. Che direste voi di un uomo che avesse un braccio lungo e l’altro corto corto? che è un mostro. Allora non fatemi di Dio un mostro. Non crediate che il braccio della sua misericordia sia lungo lungo, e quello della sua giustizia corto corto. Dio è buono, ma anche giusto. – Vedete: a questo mondo c’è poca giustizia. Gli iniqui spesso trionfano: hanno ricchezze, palazzi, cibi, vesti, amici, onori. E nelle cause hanno sempre ragione. Mentre ci sono invece degli uomini buoni che al mondo soffrono: soffrono la miseria, le malattie, l’ingiustizia dei più forti. Ad essi, molte volte, come al povero Lazzaro, vien negato perfino quello che si butta ai cani. È necessario allora che la giustizia si faccia almeno nell’altro mondo; che il povero Lazzaro abbia nel cielo quel che gli fu negato in terra; e che all’Epulone sia negato in cielo quel che ha negato agli altri in terra. Dio è giusto! consolatevi, voi che patite, perché Egli vede ogni vostro dolore, conta ogni lagrima vostra, ogni vostro affanno, anche il più nascosto… niente andrà perduto; di tutto sarete compensati. Dio è giusto! Spaventatevi, uomini tristi, che vivete nel peccato; che non osservate le leggi di Dio; che angariate il vostro prossimo… niente andrà perduto; di tutto sarete puniti, anche di un desiderio cattivo. La vostra pena è l’inferno; che c’è, perché Dio è giusto.

3. C’È PERCHÈ DIO È BUONO

Di solito si dice che l’Inferno non c’è perché Dio è buono e non può farci soffrire così. Ma io vi dico che appunto perché Dio è buono, l’inferno c’è. – Un magnifico re, che aveva un unico figlio, una volta cominciò a voler bene anche al figliuolo di un suo schiavo, che non aveva nulla di suo, che viveva solo perché egli lo faceva vivere. Il gran re lo nutrì ogni giorno, lo arricchì, lo colmò di favori e arrivò perfino a chiamarlo suo figlio, a farlo erede d’ogni sua sostanza insieme all’unigenito suo. Questo figlio adottivo, un giorno malaugurato, commise un pessimo delitto e fu condannato a morte dalla giustizia. Il re non poteva andar contro giustizia. Era straziato dal dolore, eppure l’amava ancora. E in una follia, che solo l’amore potrebbe spiegare, piuttosto che lasciar condannare lui — figlio di schiavo, che non aveva nulla di suo, che viveva solo perché egli lo faceva vivere — preferì veder morire il suo unigenito: l’innocente. E sopportò che questi patisse fame e stanchezza, obbrobrio e dolore, che fosse tradito, messo in croce. Tutto sopportò, pur che l’altro si salvasse. Non basta: l’amore non è ancor stanco. L’altro non si pente; salvato ritorna ancora al pessimo delitto. Il gran re lo segue per ogni via, gli perdona più volte, lo conforta. Inutilmente: eppure l’amore, non è ancor stanco. Lo perseguita con rimorsi; lo fa avvisare dai suoi ministri; ma lo sciagurato s’abbandona al capriccio di tutte le sue passioni. Una volta annunciano al re che egli è malato da morire. Il re lascia ogni cosa e corre al suo capezzale e lo chiama: « Guardami in viso: sono io, il tuo Re, ma chiamami padre, che tu sei mio figlio. Guardami, son io ». E l’ingrato stringe i pugni, si nasconde nelle coltri, gli volta le spalle, e rantola nell’agonia: «Vattene! che non ti voglio ». Oh dite: che farà adesso l’amore? L’amore non corrisposto, o peggio tradito, è terribile nelle sue vendette. Ne potrebbe dire l’orgoglio umano qualcosa! Che farà allora il gran re con quell’ingrato? Che farà allora Dio col peccatore, poiché già tutti l’avete indovinato, il gran re è Dio e il figlio ingrato è il peccatore? Egli non ha più che la vendetta per salvare il proprio onore. Cadi, peccatore, cadi nel fuoco che non si spegne mai; cadi nel dolore che non ha fine, mai; cadi nell’inferno. L’inferno c’è perché Dio è amore, e guai a chi non lo ama. Con lui non si scherza (Gal., VI, 7). Questo non è mio pensiero, ma è di S. Giovanni; ed io non ho fatto che ampliarlo: « Quis non timebit te, Domine, quia tu solus pius es? ». Dobbiamo dunque temere Dio, appunto perché è buono.

CONCLUSIONE

Lisimaco, bruciato dalla sete, pur d’avere una tazza d’acqua fresca, onde placare quel tormento d’arsura, diede i suoi beni e il suo regno e la sua felicità in mano del nemico. E bevve. Dopo quella breve soddisfazione, mirando la tazza vuota, scoppiò in pianto. « Dii boni! quam ob brevem voluptatem amisi felicitatem summam ». « Un regno per una tazza d’acqua! la felicità di tutta la vita per il rinfresco d’una bevanda! Condannarmi a un fuoco eterno per liberarmi da un poco di sete! Che ho mai fatto… ». E cominciò a piangere che riempì di lagrime quella tazza che aveva vuotata d’acqua. – Quando commettiamo il peccato, la pazzia di Lisimaco la ripetiamo noi. Per un breve piacere, per la soddisfazione momentanea d’una passione, perdiamo ogni merito, il paradiso, la somma felicità di goder Dio e ci condanniamo al fuoco eterno. Se così abbiamo fatto, giacché siamo ancora in tempo, riempiamo con le lacrime del pentimento la tazza del piacere, che abbiamo vuotata. Queste lacrime varranno a spegnere il fuoco che ci potrebbe tormentare nei secoli dei secoli.

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: LUX VERITATIS DI S. S. PIO XI

11 Ottobre: nel giorno in cui la Chiesa Cattolica festeggia la Maternità della Beata Vergine Maria, riportiamo il testo della lettera enciclica “Lux Veritatis” di S. S. Pio XI, scritta in occasione del XV centenario del Concilio di Efeso, nel corso del quale vennero definiti dei dogmi di fede basilari della dottrina cattolica ed indispensabili per la salvezza eterna. Tra di essi, fu solennemente enunciato il dogma della Maternità di Maria con il titolo di THEOTOKOS, Madre di Dio, che l’infame Nestorio aveva osato negare. La lettura e la meditazione di questa lettera, ricca di dati storici e di verità di fede, sarà di sommo profitto per chi vuole abbeverarsi alle fonti della dottrina Cattolica per aspirare alla vita eterna. In questo giorno di grande Festa per la Chiesa e per i Cattolici che hanno in sommo grado il culto di Maria, Vergine e Madre di Dio, incidiamo nei nostri cuori le parole del Sommo Pontefice riportate in:

LUX VERITATIS

LETTERA ENCICLICA

DEL SOMMO PONTEFICE

PIO XI


AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA,
NEL XV CENTENARIO
DEL CONCILIO DI EFESO CHE PROCLAMÒ
LA MATERNITÀ DIVINA DI MARIA

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

La storia, luce di verità e testimonio dei tempi, se rettamente consultata e diligentemente esaminata, insegna che la promessa fatta da Gesù Cristo: « Io sono con voi … fino alla consumazione dei secoli » , non è mai venuta meno alla sua Chiesa e non verrà quindi mai a mancare in avvenire. Anzi quanto più furiosi sono i flutti dai quali è sbattuta la nave di Pietro, tanto più pronto e vigoroso essa sperimenta l’aiuto della grazia divina. E ciò in modo singolarissimo avvenne nei primi tempi della Chiesa, non solo quando il nome cristiano era ritenuto delitto esecrabile da punirsi con la morte, ma anche quando la vera fede di Cristo, sconvolta dalla perfidia degli eretici che imperversavano soprattutto in Oriente, fu messa in gravissima prova. Infatti, come i persecutori dei cristiani, l’uno dopo l’altro, miseramente scomparvero, e lo stesso Impero romano cadde in rovina, così tutti gli eretici, quasi tralci inariditi perché recisi dalla vite divina, più non poterono succhiare la linfa vitale né fruttificare. – La Chiesa di Dio invece, fra tante procelle e vicissitudini di cose caduche, unicamente confidando in Dio, proseguì in ogni tempo il suo cammino con passo fermo e sicuro, né mai cessò di difendere vigorosamente l’integrità del sacro deposito della verità evangelica affidatole dal divino Fondatore. – Questi pensieri si riaffacciano alla Nostra mente, Venerabili Fratelli, nell’accingerCi a parlarvi in questa Lettera di quel veramente faustissimo avvenimento che fu il Concilio celebrato ad Efeso quindici secoli fa, nel quale, come fu smascherata l’astuta protervia degli erranti, così rifulse la inconcussa fede della Chiesa, sorretta dall’aiuto divino. – Sappiamo che per Nostro consiglio furono costituiti due Comitati di uomini insigni, incaricati di promuovere nel modo più solenne commemorazioni di questo centenario, non solo qui in Roma, capitale dell’orbe cattolico, ma in ogni parte del mondo. Né ignoriamo che le persone alle quali affidammo tale incarico speciale si adoperarono alacremente di promuovere la salutare iniziativa, senza risparmio di fatiche o di sollecitudini. Di questa alacrità dunque — assecondata, si può dire, dappertutto dal volenteroso e veramente mirabile consenso dei Vescovi e dei migliori fra i laici — non possiamo che grandemente congratularCi, perché confidiamo che ne abbiano a derivare, anche per l’avvenire, grandi vantaggi per la causa cattolica. – Ma considerando Noi attentamente questo avvenimento storico e i fatti e le circostanze ad esso connessi, stimiamo conveniente all’ufficio apostolico affidatoCi da Dio, rivolgerCi personalmente a voi con un’Enciclica in quest’ultimo scorcio del centenario e nella ricorrenza del tempo sacro in cui la B. V. Maria per noi « diede alla luce il Salvatore », e intrattenerCi con voi intorno a questo argomento che certo è della massima importanza. Nel fare ciò nutriamo ferma speranza che non solo le Nostre parole torneranno gradite ed utili a voi e ai vostri fedeli, ma, se esse verranno attentamente meditate con animo desideroso di verità da quanti Nostri fratelli e figli dilettissimi sono separati dalla Sede Apostolica, confidiamo che essi, convinti dalla storia maestra della vita, non potranno non provare almeno la nostalgia dell’unico ovile sotto l’unico Pastore, e del ritorno a quella vera fede, che gelosamente si conserva sempre sicura e inviolata nella Chiesa Romana. Infatti, nel metodo seguito dai Padri e in tutto lo svolgimento del Concilio di Efeso nell’opporsi all’eresia di Nestorio, tre dogmi della fede cattolica specialmente brillarono agli occhi del mondo nella piena loro luce, e di essi Noi tratteremo in modo speciale. Essi sono:

– che in Gesù Cristo unica è la Persona, e questa divina;

– che tutti devono riconoscere e venerare la B. V. Maria come vera Madre di Dio; e infine,

– che nel Romano Pontefice risiede, per divina istituzione, l’autorità suprema, somma e indipendente, su tutti e singoli i Cristiani, nelle questioni concernenti la fede e la morale.

I

Per procedere dunque con ordine nella trattazione, facciamo Nostra quella sentenziosa esortazione dell’Apostolo delle genti agli Efesini: « Riuniamoci finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo. Questo affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore. Al contrario, vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di Lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità » . Le quali esortazioni dell’Apostolo, come furono seguite con sì mirabile unione d’animo dai Padri del Concilio di Efeso, così vorremmo che tutti, senza distinzione, facendo tacere ogni pregiudizio, le ritenessero come a sé rivolte e le mettessero felicemente in pratica. – Come è universalmente risaputo, autore di tutta la controversia fu Nestorio; non però nel senso che la nuova dottrina sia sbocciata tutta dal suo ingegno e dal suo studio, avendola egli certamente derivata da Teodoro, vescovo di Mopsuestia; ma egli, svolgendola poscia con maggiore ampiezza, e rimessala a nuovo con una certa apparenza di originalità, si diede a predicarla e a divulgarla con ogni mezzo con grande apparato di parole e di sentenze, dotato com’era di facondia singolare. Nato a Germanicia, città della Siria, si recò da giovane ad Antiochia per istruirsi nelle scienze sacre e profane. In questa città, allora celeberrima, professò dapprima la vita monastica; ma poi, volubile com’era, abbandonato questo genere di vita e ordinato sacerdote, si dedicò totalmente alla predicazione, cercandovi, più che la gloria di Dio, il plauso umano. La fama della sua eloquenza destò tanto favore nel pubblico e talmente si diffuse che, chiamato a Costantinopoli, allora priva del suo Pastore, fu elevato alla dignità episcopale, fra la più grande aspettazione comune. In questa così illustre sede, anziché astenersi dalle massime perverse della sua dottrina, continuò anzi a insegnarle e a divulgarle con maggiore autorità e baldanza. – Per bene intendere la questione, giova qui accennare brevemente ai principali capi dell’eresia nestoriana. Quell’uomo arrogante, giudicando che due ipostasi perfette, vale a dire la umana di Gesù e la divina del Verbo, si fossero riunite in una comune persona, o « prosopo » (com’egli si esprimeva), negò quell’ammirabile unione sostanziale delle due nature, che chiamiamo ipostatica; pertanto insegnò che l’Unigenito Verbo di Dio non s’era fatto uomo, ma si trovava presente nell’umana carne per la sua inabitazione, per il suo beneplacito e per la virtù della sua operazione. Di qui, non doversi Gesù chiamare Dio, ma « Theophoros » ossia Deifero; in modo non molto dissimile da quello per cui i profeti e gli altri santi possono chiamarsi Deiferi, cioè per la grazia divina loro concessa. – Da queste perverse massime di Nestorio seguiva doversi riconoscere in Cristo due persone, l’una divina e l’altra umana; e così ne scendeva necessariamente che la B. V. Maria non era veramente Madre di Dio, ossia « Theotócos », ma piuttosto Madre di Cristo uomo, ossia « Christotócos », o al più Accoglitrice di Dio, ossia « Theodócos » . – Questi empi dogmi, predicati non più nell’oscurità del segreto da un uomo privato, ma apertamente in pubblico dallo stesso Vescovo di Costantinopoli, produssero negli animi, massime nella Chiesa orientale, una gravissima perturbazione. E fra gli oppositori dell’eresia nestoriana, che non mancarono nemmeno nella capitale dell’Impero di Oriente, tiene certamente il primo posto quell’uomo santo e vindice della cattolica integrità che fu Cirillo, Patriarca di Alessandria. Questi, non appena conosciuta l’empia dottrina del Vescovo di Costantinopoli, zelantissimo com’era non soltanto dei figli suoi, ma altresì dei fratelli erranti, difese validamente presso i suoi la fede ortodossa, e si adoperò con animo fraterno di ricondurre Nestorio alla norma della verità, indirizzandogli una lettera. – Riuscito vano questo caritatevole tentativo a motivo della pervicace ostinazione di Nestorio, Cirillo, non meno buon conoscitore che fortissimo assertore dell’autorità della Chiesa Romana, non volle spingere più oltre la discussione né sentenziare di sua autorità in una causa tanto grave, senza prima domandare e udire il giudizio della Sede Apostolica. Scrisse perciò « al Beatissimo e a Dio dilettissimo Padre Celestino », una lettera piena di deferenza, dicendogli fra l’altro: « L’antica consuetudine delle Chiese ci induce a comunicare alla Tua Santità simili cause … » . « Né vogliamo abbandonare pubblicamente la comunione di lui (Nestorio), prima di farne cenno alla Tua pietà. Degnati pertanto di significarci la Tua sentenza, onde chiaramente ci possa constare se convenga che noi comunichiamo con uno che favorisce e predica una siffatta erronea dottrina. Quindi l’integrità della Tua mente e il Tuo parere su questo argomento deve venire esposto chiaramente per iscritto ai vescovi piissimi e a Dio devotissimi della Macedonia e ai Pastori di tutto l’Oriente » . – Nestorio stesso non ignorava la suprema autorità del Vescovo di Roma su tutta la Chiesa; e di fatto ripetutamente scrisse a Celestino, sforzandosi di provare la sua dottrina e di guadagnarsi e accattivarsi l’animo del santo Pontefice. Ma indarno; perché gli stessi scritti incomposti dell’eresiarca contenevano errori non lievi; e il Capo della Sede Apostolica non appena li scorse, mettendo subito mano al rimedio perché la peste dell’eresia non divenisse, temporeggiando, più pericolosa, li esaminò giuridicamente in un Sinodo, e solennemente li riprovò e ordinò che parimenti da tutti fossero riprovati. – E qui desideriamo, Venerabili Fratelli, che riflettiate attentamente quanto, in questa causa, il modo di procedere del Romano Pontefice differisca da quello seguito dal Vescovo di Alessandria. Questi infatti, pur occupando una sede stimata la prima della Chiesa Orientale, non volle, come abbiamo detto, dirimere da sé una gravissima controversia concernente la fede cattolica, prima di aver ben conosciuto il pensiero della Sede Apostolica. Celestino invece, riunito a Roma un Sinodo, esaminata ponderatamente la causa, in forza della suprema e assoluta sua autorità su tutto il gregge del Signore, pronunziò solennemente questa decisione sul Vescovo di Costantinopoli e sulla dottrina di lui: « Sappi dunque chiaramente », così scrisse a Nestorio, « che questa è la nostra sentenza: se di Cristo, Dio nostro, non predichi ciò che affermano la Chiesa Romana e Alessandrina e tutta la Chiesa Cattolica, come anche ottimamente sostenne la sacrosanta Chiesa di Costantinopoli fino a te, e se entro dieci giorni da computarsi da quello in cui avrai avuto notizia di questa intimazione, non ripudierai, con una confessione chiara e per iscritto, quella perfida novità che tenta di separare ciò che la Sacra Scrittura unisce, sei cacciato dalla comunione di tutta la Chiesa Cattolica. Il testo del nostro giudizio su di te abbiamo inviato, per mezzo del ricordato figlio mio il diacono Possidonio, con tutti i documenti, al santo mio consacerdote Vescovo della predetta città di Alessandria, che di tutto questo affare con maggior pienezza C’informò, perché, in nostra vece, faccia in modo che questa nostra decisione venga conosciuta da te e da tutti i fratelli; perché tutti debbono sapere quanto si fa, quando si tratta della causa di tutti » . – L’esecuzione di questa sentenza fu poi demandata dal Romano Pontefice al Patriarca di Alessandria con queste gravi parole: « Pertanto, forte dell’autorità della nostra Sede, tenendo le nostre veci, eseguirai, con forte vigore questa sentenza: o entro dieci giorni, da computarsi dal giorno di questa intimazione, egli condannerà con una professione scritta le sue perverse dottrine e confermerà di ritenere intorno alla natività di Cristo, Dio nostro, la fede professata dalla Chiesa Romana, da quella della tua santità e dall’universale sentimento; oppure, se ciò non farà, subito la tua santità, provvedendo a quella Chiesa, sappia ch’egli dev’essere in tutti i modi rimosso dal nostro corpo » . – Alcuni scrittori antichi e moderni, quasi per eludere la chiara autorità dei documenti riferiti, vollero su tutta questa controversia proferire giudizio, spesso con un’orgogliosa iattanza. Anche ammesso, così vanno sconsideratamente dicendo, che il Pontefice Romano abbia pronunciato una sentenza perentoria ed assoluta, provocata dal Vescovo di Alessandria emulo di Nestorio, e quindi da lui ben volentieri fatta sua, resta però il fatto che il Concilio, riunitosi più tardi ad Efeso, tornò a giudicare da capo tutta la causa, già giudicata e assolutamente condannata dalla Sede Apostolica, e con la suprema sua autorità stabili ciò che da tutti doveva ritenersi in tale questione. Quindi credono di poter concludere che il Concilio Ecumenico gode di diritti assai maggiori e più forti che non l’autorità del Vescovo di Roma. – Ma chi con lealtà di storico e con animo spoglio di pregiudizi riguardi diligentemente ai fatti e ai documenti scritti, non può non riconoscere che tale obiezione posa sul falso ed è solo una simulazione di verità. Anzitutto conviene avvertire che quando l’imperatore Teodosio, anche in nome del suo collega Valentiniano, indisse il Concilio Ecumenico, la sentenza di Celestino non era ancora giunta a Costantinopoli, e quindi non vi era per nulla conosciuta. In secondo luogo avendo Celestino appreso della convocazione del Concilio di Efeso da parte degli Imperatori, non si mostrò affatto contrario; anzi scrisse a Teodosio  e al Vescovo di Alessandria lodando il provvedimento e annunziando la scelta del Patriarca Cirillo, dei Vescovi Arcadio e Proietto e del prete Filippo, quali suoi legati, perché presiedessero al Concilio. Nel fare ciò il Romano Pontefice non rilasciò tuttavia all’arbitrio del Concilio la causa come non ancora giudicata, ma fermo restando, come si espresse, « quanto da Noi già si è stabilito » , affidò l’esecuzione della sentenza da lui pronunciata ai Padri del Concilio, in modo che essi, se fosse stato possibile, dopo essersi insieme consultati e aver pregato Iddio, si adoperassero per ricondurre all’unità della fede il Vescovo di Costantinopoli. Infatti, avendo Cirillo domandato al Pontefice come regolarsi in quell’affare, se cioè « il Sacro Sinodo dovesse riceverlo (Nestorio) nel caso che condannasse quanto aveva predicato; oppure valesse la sentenza già da tempo pronunziata, per essere ormai spirato il tempo dell’indugio », Celestino gli rispose: « Sia questo l’ufficio della tua santità insieme col venerando Concilio dei fratelli, di reprimere cioè gli strepiti sorti nella Chiesa, e di far sapere che, con l’aiuto divino, il negozio si è concluso con la desiderata correzione. Né diciamo già di non essere presenti al Concilio, non potendo non essere presenti a coloro con i quali, ovunque essi si trovino, Noi siamo congiunti per l’unità della fede … Costì Noi ci troviamo, perché pensiamo a ciò che costì si tratta per il bene di tutti; trattiamo presenti in ispirito ciò che non possiamo trattare presenti di corpo. Penso alla pace cattolica, penso alla salute di chi perisce, purché questi voglia confessare la sua malattia. E ciò diciamo perché non sembri che veniamo meno a chi forse vuole correggersi … Provi egli che Noi non abbiamo i piedi veloci ad effondere il sangue, conoscendo che anche per lui è offerto il rimedio ». – Queste parole di Celestino ne dimostrano l’animo paterno e attestano chiaramente ch’egli non bramava di meglio se non che rifulgesse alle menti accecate il lume della fede, e che la Chiesa fosse rallegrata dal ritorno degli erranti; tuttavia le prescrizioni da lui fatte ai legati in partenza per Efeso, sono certamente tali da manifestare la cura sollecita con cui il Pontefice ordinò che fossero mantenuti intatti i divini diritti della Sede Romana. Si legge infatti, tra l’altro: « Comandiamo che si debba custodire l’autorità della Sede Apostolica; poiché così parlano le istruzioni che vi sono state date, che cioè dobbiate esser presenti al Concilio e che se si venga alla discussione, voi dobbiate giudicare delle loro opinioni, non già entrare nella lotta » . Né diversamente si comportarono i legati, col pieno consenso dei Padri del Concilio. Infatti, ubbidendo con fermezza e fedeltà ai predetti ordini del Pontefice, giunti ad Efeso, quando già era finita la prima tornata, chiesero che fossero loro consegnati tutti i decreti della precedente riunione, perché potessero venire ratificati in nome della Sede Apostolica: «Domandiamo che vogliate esporci quanto fu trattato in questo santo Sinodo prima del nostro arrivo, affinché, secondo la mente del beato nostro Papa e di questo santo Concilio, anche noi lo confermiamo …» . – E il prete Filippo pronunciò dinanzi a tutto il Concilio quella famosa sentenza sul primato della Chiesa Romana, che viene riferita nella Costituzione dogmatica « Pastor Æternus » del Concilio Vaticano. Essa dice: «Nessuno dubita, anzi tutti i secoli conoscono, che il santo e beatissimo Pietro, principe e capo degli Apostoli, colonna della fede e fondamento della Chiesa cattolica, ricevette le chiavi del regno dal Signor Nostro Gesù Cristo, Salvatore e Redentore del genere umano, e che a lui fu data la potestà di sciogliere e legare i peccati; ed egli fino a questo tempo e sempre vive nei suoi successori ed esercita il giudizio » . – Che più? Forse che i Padri del Concilio Ecumenico si opposero a questo procedere di Celestino e dei suoi legati? Assolutamente no. Anzi rimangono documenti scritti che ne manifestano chiarissimamente la riverenza e l’ossequio. Quando infatti i legati pontifici, nella seconda tornata del Concilio, leggendo la lettera di Celestino, dissero fra l’altro: «Abbiamo inviato, nella nostra sollecitudine, i santi fratelli e consacerdoti, Arcadio e Proietto, Vescovi, e il nostro prete Filippo, uomini specchiatissimi e concordi con Noi, perché intervengano alle vostre discussioni ed eseguano ciò che già da noi è stato stabilito; e ad essi non dubitiamo che la vostra santità debba dare l’assenso …», i Padri, lungi dal ricusare questa sentenza come di giudice supremo, l’applaudirono anzi unanimemente e salutarono il Romano Pontefice con queste onorifiche acclamazioni: «Questo è il giusto giudizio! A Celestino, nuovo Paolo, a Cirillo nuovo Paolo, a Celestino custode della fede, a Celestino concorde col Sinodo, a Celestino tutto il Concilio rende grazie: un solo Celestino, un solo Cirillo, una sola la fede del Sinodo, una sola la fede del mondo ». – Come poi si venne alla condanna e alla riprovazione di Nestorio, i medesimi Padri del Concilio non credettero di poter liberamente giudicare da capo la causa, ma apertamente professarono di essere stati prevenuti e « costretti » dal responso del Romano Pontefice: « Conoscendo … che egli (Nestorio) sente e predica empiamente, costretti dai canoni e dalla lettera del Santissimo Padre nostro e consacerdote Celestino, Vescovo della Chiesa Romana, versando lacrime, veniamo necessariamente a questa lugubre sentenza contro di lui. Pertanto Gesù Cristo, nostro Signore, assalito dalle blasfeme voci di lui, per mezzo di questo santo Sinodo ha definito il medesimo Nestorio privato della dignità episcopale e separato da ogni consorzio e riunione sacerdotale ». – Questa fu altresì la professione fatta da Fermo, Vescovo di Cesarea, nella seconda sessione del Concilio, con le seguenti chiare parole: « L’Apostolica e Santa Sede del santissimo Vescovo Celestino, con la lettera indirizzata ai religiosissimi Vescovi, prescrisse anche in precedenza la sentenza e la regola intorno a questo caso; conformemente ad esse … giacché Nestorio, da noi citato, non è comparso, mandammo ad effetto quella condanna, proferendo contro di lui il giudizio canonico ed apostolico ». – Orbene, i documenti finora da noi ricordati provano in modo così ovvio e significativo la fede già allora comunemente in vigore in tutta la Chiesa intorno all’autorità indipendente ed infallibile del Romano Pontefice su tutto il gregge di Cristo, che Ci richiamano alla mente quella nitida e splendida espressione di Agostino sul giudizio pochi anni prima pronunziato dal papa Zosimo contro i Pelagiani nella sua Epistola Tractoria: « In queste parole la fede della Sede Apostolica è tanto antica e fondata, tanto certa e chiara è la fede cattolica, che non è lecito a un cristiano dubitare di essa » . m- È così avesse potuto intervenire al Concilio di Efeso il santo Vescovo di Ippona! come vi avrebbe illustrato i dogmi della verità cattolica con quell’ammirabile sua acutezza d’ingegno, vedendo il pericolo delle discussioni, e come li avrebbe difesi con la sua forza d’animo! Ma quando i legati degli Imperatori giunsero ad Ippona per consegnargli la lettera di invito, non poterono far altro che piangere estinto quel chiarissimo luminare della sapienza cristiana e la sua sede devastata dai Vandali. – Non ignoriamo, Venerabili Fratelli, che alcuni di coloro che, specialmente ai nostri giorni, si dedicano alle ricerche storiche, si affannano non solo ad assolvere Nestorio di ogni taccia di eresia, ma ad accusare il santo Vescovo di Alessandria Cirillo quasi che questi, mosso da iniqua rivalità, calunniasse Nestorio e si adoperasse con tutte le sue forze a provocarne la condanna per dottrine non mai da lui insegnate. E i medesimi difensori del Vescovo di Costantinopoli non si peritano di lanciare la medesima gravissima accusa al beato Nostro antecessore Celestino, della cui imperizia Cirillo avrebbe abusato, e allo stesso sacrosanto Concilio di Efeso. – Ma contro un siffatto attentato, non meno vano che temerario, proclama unanime la sua riprovazione la Chiesa tutta, la quale in ogni tempo riconobbe come meritamente pronunziata la condanna di Nestorio, ritenne ortodossa la dottrina di Cirillo, annoverò sempre e venerò il Concilio Efesino tra i Concili Ecumenici celebrati sotto la guida dello Spirito Santo. – Ed infatti, pur tralasciando molte altre eloquentissime testimonianze, valga quella di moltissimi seguaci dello stesso Nestorio. Essi videro svolgersi gli eventi sotto i propri occhi, né erano legati a Cirillo da vincolo alcuno; eppure, benché spinti alla parte contraria dall’amicizia con Nestorio, dalla grande attrattiva dei suoi scritti e dall’acceso ardore delle dispute, nondimeno, dopo il Sinodo Efesino, come colpiti dalla luce della verità, a poco a poco abbandonarono l’eretico Vescovo di Costantinopoli, che appunto secondo la legge ecclesiastica era da evitare. Ed alcuni di essi certamente sopravvivevano ancora, allorché il Nostro predecessore di f. m. Leone Magno, così scriveva al Vescovo di Marsala Pascasino, suo legato al Concilio di Calcedonia: «Tu ben sai che tutta la Chiesa Costantinopolitana, con tutti i suoi monasteri e molti Vescovi, prestò il suo consenso e sottoscrisse alla condanna di Nestorio e di Eutiche, e dei loro errori » . – Nella lettera dogmatica, poi, all’imperatore Leone, egli accusa apertissimamente Nestorio come eretico e maestro di eresia, senza che alcuno gli contraddica. Egli scrive: « Si condanni dunque Nestorio, che opinò la Beata Vergine Maria essere madre soltanto dell’uomo e non di Dio, stimando altra essere la persona umana ed altra la divina, e non ritenendo un solo Cristo nel Verbo di Dio e nella carne, ma separando e proclamando altro essere il figlio di Dio, altro il figlio dell’uomo » . Né alcuno può ignorare che questo stesso fu solennemente sancito dal Concilio di Calcedonia, il quale riprovò nuovamente Nestorio e lodò la dottrina di Cirillo. Così pure il santissimo Nostro predecessore Gregorio Magno, non appena fu innalzato alla cattedra del beato Pietro, dopo avere ricordato — nella sua Lettera sinodica alle Chiese orientali — i quattro Concili Ecumenici, cioè il Niceno, il Costantinopolitano, l’Efesino e il Calcedonese, si esprime intorno ad essi con questa, nobilissima ed importantissima sentenza: «… Su di essi si innalza, come su pietra quadrata, l’edificio della santa fede; su di essi poggia ogni vita ed azione; chi non si appoggia ad essi, anche se sembri essere pietra, giace tuttavia fuori dell’edificio » . – Tutti dunque ritengano come certo e manifesto che veramente Nestorio propalò errori ereticali, che il Patriarca Alessandrino fu invitto difensore della fede cattolica, e che il Pontefice Celestino, col Concilio di Efeso, difese l’avita dottrina e la suprema autorità della Sede Apostolica.

II

Ma è tempo ormai, Venerabili Fratelli, che passiamo a considerare più profondamente quei punti di dottrina, i quali, mediante la condanna stessa di  Nestorio, furono apertamente professati e autorevolmente sanciti dal Concilio Ecumenico di Efeso. Orbene, oltre la condanna dell’eresia Pelagiana e dei suoi fautori, tra i quali senza dubbio era Nestorio, l’argomento principale che vi fu trattato, e che fu solennemente e unanimemente confermato da quei Padri, riguardava la sentenza del tutto empia e contraria alle Sacre Scritture, propugnata da questo eresiarca; ond’è che fu proclamato come assolutamente certo ciò che egli negava, e cioè in Cristo essere una sola persona, la Persona divina. Nestorio infatti, come dicemmo, ostinatamente sosteneva che il Divin Verbo si unisce all’umana natura in Cristo, non già sostanzialmente e ipostaticamente, bensì mediante un vincolo meramente accidentale e morale; e i Padri di Efeso, condannando appunto il Vescovo di Costantinopoli, proclamarono apertamente la vera dottrina dell’Incarnazione, che deve essere da tutti fermamente ritenuta. Ed invero Cirillo, nelle sue epistole e nei suoi capitoli, già in precedenza indirizzati a Nestorio e poi inseriti negli Atti di quel Concilio, accordandosi mirabilmente con la Chiesa di Roma, con chiare e ripetute parole ne difende la dottrina: « Pertanto in nessun modo è lecito scindere l’unico Signor nostro Gesù Cristo in due figli … La Scrittura infatti non dice che il Verbo ha associato a sé la persona umana, ma che si è fatto carne. Il dire che il Verbo si è fatto carne, significa che Egli, come noi, si è unito con la carne e col sangue; Egli dunque fece suo il nostro corpo e nacque uomo dalla donna, senza nondimeno abbandonare la divinità e la filiazione dal Padre: restò quindi, nella stessa assunzione della carne, quello che era » . – Infatti, come sappiamo dalle Sacre Scritture e dalla tradizione divina, il Verbo di Dio Padre non si congiunse con un uomo, già in sé sussistente, ma uno stesso e medesimo Cristo è il Verbo di Dio esistente ab æterno nel seno del Padre e l’uomo fatto nel tempo. Poiché la mirabile unione della divinità e dell’umanità in Cristo Gesù, Redentore del genere umano, la quale a ragione vien detta ipostatica, è appunto quella che è inconfutabilmente espressa nelle Sacre Lettere, allorché lo stesso unico Cristo, non solo è appellato Dio ed uomo, ma viene anche descritto in atto di operare e come Dio e come uomo, ed infine, di morire in quanto uomo e di risorgere glorioso dalla morte in quanto Dio. In altri termini, quello stesso che è concepito per virtù dello Spirito Santo nel seno della Vergine, nasce, giace nel presepe, si dice figlio dell’uomo, soffre, e muore confitto in croce, è quello stesso appunto che dall’Eterno Padre, in modo miracoloso e solenne è proclamato « mio Figlio diletto », dà con potere divino il perdono dei peccati, restituisce per virtù propria la sanità agli infermi e richiama i morti alla vita. Ora tutto ciò, mentre dimostra ad evidenza essere in Cristo due nature, dalle quali procedono operazioni umane e divine, non meno evidentemente attesta uno essere Cristo, Dio e Uomo nello stesso tempo, per quella unità della persona divina, per la quale è detto « Theànthropos ». – Inoltre, non vi è chi non veda come questa dottrina, costantemente insegnata dalla Chiesa, sia comprovata e confermata dal dogma della Redenzione umana. Infatti, come avrebbe potuto Cristo essere chiamato « primogenito fra molti fratelli » , essere ferito a causa della nostra iniquità, redimerci dalla schiavitù del peccato, se non fosse stato dotato di natura umana, come noi? E parimenti come avrebbe Egli potuto del tutto placare la giustizia del Padre celeste, offesa dal genere umano, se non fosse stato insignito, per la sua persona divina, di una dignità immensa e infinita? – Né è lecito negare questo punto della verità cattolica per la ragione che, se si dicesse che il Redentore nostro è privo della persona umana, per ciò stesso potrebbe sembrare che alla sua natura umana mancasse qualche perfezione, e quindi diventerebbe, come uomo, inferiore a noi. Poiché, come sottilmente e sagacemente osserva l’Aquinate, « la personalità in tanto appartiene alla dignità e alla perfezione di qualche cosa, in quanto appartiene alla dignità e alla perfezione di quella cosa l’esistere per se stessa, il che si intende col nome di persona. Però è più degno, per qualcuno, esistere in un altro di sé più elevato, che esistere per sé; quindi la natura umana è in maggiore dignità in Cristo, che non lo sia in noi, perché in noi, esistendo quasi per sé, ha la propria personalità; in Cristo, invece, esiste nella Persona del Verbo. Così pure l’essere completivo della specie appartiene alla dignità della forma; tuttavia la parte sensitiva è più nobile nell’uomo per la congiunzione ad una più nobile forma completiva, che non lo sia nel bruto animale, nel quale essa stessa è forma completiva ». – Inoltre è bene qui notare che, come Ario, quell’astutissimo sovvertitore dell’unità cattolica, impugnò la natura divina del Verbo, e la sua consostanzialità con l’Eterno Padre, così Nestorio, procedendo per una via del tutta diversa, rigettando cioè l’unione ipostatica del Redentore, negò a Cristo, sebbene non al Verbo, la piena ed integra divinità. Infatti, se in Cristo la natura divina fosse stata unita con quella umana solamente con vincolo morale (come egli stoltamente vaneggiava) — ciò che, come abbiamo detto, hanno in certo qual modo conseguito anche i profeti e gli altri eroi della santità cristiana, per la propria intima unione con Dio — il Salvatore del genere umano poco o nulla differirebbe da coloro che Egli ha redenti con la sua grazia e col suo sangue. Rinnegata dunque la dottrina dell’unione ipostatica, sulla quale si fondano ed hanno solidità i dogmi dell’Incarnazione e della redenzione umana, cade e rovina ogni fondamento della Religione Cattolica. – Però non Ci meravigliamo se, alla prima minaccia del pericolo dell’eresia Nestoriana, tutto l’orbe cattolico ha tremato; non Ci meravigliamo se il Concilio Efesino vivamente si è opposto al Vescovo di Costantinopoli che combatteva con tanta temerità ed astuzia la fede avita, ed eseguendo la sentenza del Romano Pontefice lo ha colpito col tremendo anatema. – Noi pertanto, facendo eco, in armonia di animo, a tutte le età dell’era cristiana, veneriamo il Redentore del genere umano non come « Elia… o uno dei profeti » nei quali abita la divinità per mezzo della grazia, ma ad una voce col Principe degli Apostoli, che ha conosciuto tale mistero per rivelazione divina, confessiamo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente » . – Posta al sicuro questa verità dogmatica, se ne può facilmente dedurre che l’universale famiglia degli uomini e delle cose create è stata elevata dal mistero dell’Incarnazione a tale dignità, da non potersene certamente immaginare una maggiore, certo più sublime di quella alla quale fu innalzata con l’opera della creazione. Poiché in tal maniera nella discendenza di Adamo vi è uno, cioè Cristo, il quale perviene proprio alla sempiterna e infinita divinità, e con la stessa è congiunto in modo arcano e strettissimo; Cristo, diciamo, fratello nostro, dotato della natura umana, ma anche Dio con noi, ossia Emmanuele, che con la sua grazia e i suoi meriti, riconduce tutti noi al divino Autore, e ci richiama a quella beatitudine, dalla quale eravamo miseramente decaduti a causa del peccato originale. Nutriamo dunque per lui sensi di gratitudine, seguiamo i suoi precetti, imitiamone gli esempi. Così saremo consorti della divinità di colui « che si è degnato farsi partecipe della nostra umanità » . – Se però, come abbiamo detto, in ogni tempo, nel corso dei secoli la vera Chiesa di Gesù Cristo ha con somma diligenza difeso pura e incorrotta tale dottrina dell’unità di persona e della divinità del suo Fondatore, non così, purtroppo, avviene presso coloro che miseramente vagano fuori dell’unico ovile di Cristo. Infatti, ogni volta che qualcuno con pertinacia si sottrae al magistero infallibile della Chiesa, abbiamo da lamentare in lui anche una graduale perdita della sicura e vera dottrina intorno a Gesù Cristo. In realtà, se alle tante e così diverse sette religiose, a quelle in modo speciale sorte dal secolo XVI e XVII in poi, le quali si gloriano ancora del nome cristiano e al principio della loro separazione confessavano fermamente Cristo Dio e uomo, domandassimo che cosa ora ne pensano, ne avremmo risposte del tutto dissimili e fra loro contraddittorie; perché, sebbene pochi di essi abbiano conservato una fede piena e retta riguardo alla persona del nostro Redentore, quanto agli altri però, se in qualche maniera affermano qualcosa di simile, questo sembra piuttosto un residuo di quel prezioso aroma di antica fede, di cui ormai hanno perduto la sostanza. – Infatti essi presentano Gesù come un uomo dotato di divini carismi, congiunto in un certo modo misterioso, più degli altri, con la divinità, e a Dio vicinissimo; ma sono molto lontani dalla intera e genuina professione della fede cattolica. Altri infine, non riconoscendo nulla di divino in Cristo, lo dichiarano semplice uomo, adorno sì di esimie doti di corpo e di animo, ma soggetto anche ad errori e alla fragilità umana. Da ciò appare manifesto che tutti costoro, allo stesso modo di Nestorio, vogliono con ardire temerario « separare Cristo » e pertanto, secondo la testimonianza dell’Apostolo Giovanni, « non sono da Dio ». – Noi dunque, dal supremo fastigio di questa Sede Apostolica, esortiamo con cuore paterno tutti coloro che si gloriano di essere seguaci di Cristo, e che in Lui ripongono la speranza e la salute sia dei singoli sia dell’umano consorzio, ad aderire ogni giorno più fermamente e strettamente alla Chiesa Romana, nella quale si crede Cristo con fede unica, integra e perfetta, lo si onora con sincero culto di adorazione, lo si ama con perenne e vivida fiamma di carità. Si ricordino costoro, in modo speciale coloro che governano il gregge da Noi separato, che quella fede dai loro antenati solennemente professata in Efeso, è conservata immutata, e viene strenuamente difesa, come nell’età passata così al presente, da questa suprema Cattedra di verità; si ricordino che una tale purezza e unità di fede è fondata ed ha fermezza nella sola pietra posta da Cristo, e parimenti che solo per mezzo della suprema autorità del Beato Pietro e dei suoi Successori si può conservare incorrotta. – E quantunque di questa unità della Religione Cattolica abbiamo trattato più diffusamente pochi anni addietro nell’Enciclica Mortalium animos, gioverà tuttavia richiamarla qui brevemente in memoria, poiché l’unione ipostatica di Cristo, confermata in modo solenne nel Concilio Efesino, propone e rappresenta il tipo di quella unità di cui il nostro Redentore volle ornato il suo corpo mistico, cioè la Chiesa, « un solo corpo » , « ben compaginato e connesso » . E veramente, se la personale unità di Cristo è l’arcano esemplare al quale Egli stesso volle conformare l’unica compagine della società cristiana, ogni uomo di senno comprende che questa non può affatto sorgere da una certa vana unione di molti discordanti fra loro, ma unicamente da una gerarchia, da un unico e sommo magistero, da un’unica regola del credere, da un’unica fede dei Cristiani. – Questa unità della Chiesa, che consiste nella comunione con la Sede Apostolica, fu nel Concilio di Efeso splendidamente affermata da Filippo, legato del Vescovo Romano, il quale, parlando ai Padri Conciliari che ad una voce plaudivano alla lettera inviata da Celestino, proferì queste memorande parole: « Rendiamo grazie al santo e venerabile Sinodo, perché letta a voi la lettera del santo e beato Papa nostro, voi, membra sante, vi siete congiunti al capo santo con le vostre sante voci e con le vostre sante acclamazioni. Infatti la vostra beatitudine non ignora che il beato Apostolo Pietro è capo di tutta la fede ed anche degli Apostoli ». – Più che in passato, ora maggiormente, Venerabili Fratelli, è necessario che tutti i buoni siano stretti in Gesù Cristo e nella sua mistica sposa, la Chiesa, da un’unica, medesima e sincera professione di fede, poiché dappertutto tanti uomini cercano di scuotere il soave giogo di Cristo, respingono la luce della sua dottrina, calpestano le fonti della grazia, e infine ripudiano la divina autorità di Colui, che è diventato, secondo il detto evangelico, « il segno di contraddizione » . – Siccome da tale lacrimevole defezione da Cristo provengono innumerevoli mali che vanno ogni giorno crescendo, tutti cerchino l’opportuno rimedio da Lui, che « è stato dato agli uomini sulla terra e nel quale solamente possiamo avere salvezza ». – Così soltanto con l’aiuto del Sacro Cuore di Gesù, potranno spuntare tempi più felici per gli animi dei mortali, tanto per i singoli uomini, quanto per la società domestica e per la stessa società civile, al presente così profondamente sconvolta.

III

Dal punto della dottrina cattolica fin qui toccato, necessariamente deriva quel dogma della divina maternità, che predichiamo, della B. Vergine Maria: «non già come ammonisce Cirillo, che la natura del Verbo o la sua divinità abbia tratto il principio della sua origine dalla Vergine Santissima, ma nel senso che da Lei trasse quel sacro corpo informato dall’anima razionale, dal quale il Verbo di Dio, unito secondo la ipostasi, si dice sia nato secondo la carne » . Invero se il figlio della B. Vergine Maria è Dio, per certo Colei che lo generò deve chiamarsi con ogni diritto Madre di Dio; se una è la Persona di Gesù Cristo, e questa divina, senza alcun dubbio Maria deve da tutti essere chiamata non solamente Genitrice di Cristo uomo, ma Deipara, « Theotòcos ». Colei dunque che da Elisabetta sua cugina è salutata «Madre del mio Signore », della quale Ignazio Martire dice che ha partorito Iddio, e dalla quale Tertulliano dichiara che è nato Iddio, quella stessa noi veneriamo come alma Genitrice di Dio, cui l’eterno Iddio conferì la pienezza della grazia e che elevò a tanta dignità. – Nessuno poi potrebbe rigettare questa verità, tramandataci fin dall’inizio della Chiesa, per il fatto che la B. Vergine abbia fornito sì il corpo a Gesù Cristo, senza però generare il Verbo del Padre celeste; infatti, come a ragione e chiaramente già fin dal suo tempo risponde Cirillo, a quel modo che tutte le altre donne nel cui seno si genera il nostro terreno composto ma non l’anima, si dicono e sono veramente madri, così Ella ha similmente conseguito la divina maternità dalla sola persona del Figlio suo. – Giustamente quindi il Concilio Efesino ancora una volta riprovò solennemente l’empia sentenza di Nestorio, che il Romano Pontefice, mosso dallo Spirito divino, aveva condannato un anno prima. – E il popolo di Efeso era compreso da tanta devozione e ardeva di tanto amore per la Vergine Madre di Dio, che appena apprese la sentenza pronunziata dai Padri del Concilio, li acclamò con lieta effusione di animo e, provvedutosi di fiaccole accese, a folla compatta li accompagnò fino alla loro dimora. E certo, la stessa gran Madre di Dio, sorridendo soavemente dal cielo ad un così meraviglioso spettacolo, ricambiò con cuore materno e col suo benignissimo aiuto i suoi figli di Efeso e tutti i fedeli del mondo cattolico, perturbati dalle insidie dell’eresia nestoriana. – Da questo dogma della divina maternità, come dal getto d’un’arcana sorgente, proviene a Maria una grazia singolare: la sua dignità, che è la più grande dopo Dio. Anzi, come scrive egregiamente l’Aquinate: « La Beata Vergine, per il fatto che è Madre di Dio, ha una dignità in certo qual modo infinita, per l’infinito bene che è Dio » . Il che più diffusamente espone Cornelio a Lapide con queste parole: « La Beata Vergine è Madre di Dio; Ella dunque è di gran lunga più eccelsa di tutti gli Angeli, anche dei Serafini e dei Cherubini. È Madre di Dio; Ella perciò è la più pura e la più santa, così che dopo Dio non si può immaginare una purezza maggiore. È Madre di Dio; perciò qualsiasi privilegio concesso a qualunque Santo, nell’ordine della grazia santificante, Ella lo ha al di sopra di tutti » . – E allora perché i Novatori e non pochi acattolici riprovano così acerbamente la nostra devozione alla Vergine Madre di Dio, quasi riducessimo quel culto che solo a Dio è dovuto? Ignorano forse costoro, o non attentamente riflettono come nulla possa riuscire più accetto a Gesù Cristo, che certamente arde di un amore grande per la Madre sua, quanto il venerarla noi secondo il merito, premurosamente riamarla e studiarci, con l’imitazione dei suoi esempi santissimi, di guadagnarcene il valido patrocinio? – Non vogliamo però passare sotto silenzio un fatto che Ci riesce di non lieve conforto, come cioè ai nostri tempi, anche alcuni tra i Novatori siano tratti a conoscere meglio la dignità della Vergine Madre di Dio, e mossi a venerarla ed onorarla con amore. E questo certamente, quando nasca da una profonda sincerità della loro coscienza e non già da un larvato artificio di conciliarsi gli animi dei cattolici, come sappiamo che avviene in qualche luogo, Ci fa del tutto sperare che, con l’aiuto della preghiera, la cooperazione di tutti e con l’intercessione della B. Vergine che ama di amore materno i figli erranti, questi siano finalmente un giorno ricondotti in seno all’unico gregge di Gesù Cristo e, per conseguenza, a Noi che, sebbene indegnamente, ne sosteniamo in terra le veci e l’autorità. – Ma nella missione della maternità di Maria, ancora un’altra cosa, Venerabili Fratelli, crediamo doveroso ricordare: una cosa che torna certamente più dolce e più soave. Avendo Ella dato alla luce il Redentore del genere umano, divenne in certo modo madre benignissima, anche di noi tutti, che Cristo Signore volle avere per fratelli. Scrive il Nostro Predecessore Leone XIII di f.m.: «Tale ce la diede Iddio: nell’atto stesso in cui la elesse a Madre del suo Unigenito, le ispirò sentimenti del tutto materni, che nient’altro effondessero se non misericordia ed amore; tale da parte sua ce l’additò Gesù Cristo, quando volle spontaneamente sottomettersi a Maria e prestarle obbedienza come un figlio alla madre; tale Egli dalla croce la dichiarò allorché, nel discepolo Giovanni, le affidò la custodia e il patrocinio su tutto il genere umano; tale infine si dimostrò Ella stessa, quando, raccolta con animo grande quella eredità d’un immenso travaglio lasciatale dal Figlio moribondo, si diede subito a compiere ogni ufficio di madre ». – Per questo avviene che a Lei veniamo attratti come da un impulso irresistibile, e a Lei confidiamo con filiale abbandono ogni cosa nostra — le gioie cioè, se siamo lieti; le pene se siamo addolorati; le speranze se finalmente ci sforziamo di risollevarci a cose migliori —; per questo avviene che se alla Chiesa si preparano giorni più difficili, se la fede viene scossa perché la carità si è raffreddata, se volgono in peggio i privati e pubblici costumi, se qualche sciagura minaccia la famiglia cattolica e il civile consorzio, a Lei ci rifugiamo con suppliche, per chiedere con insistenza l’aiuto celeste; per questo, infine, quando nel supremo pericolo della morte, non troviamo più da nessuna parte speranza ed aiuto, a Lei innalziamo gli occhi lacrimosi e le mani tremanti, chiedendo fervidamente, per mezzo di Lei al Figlio suo, il perdono e l’eterna felicità nei cieli. – A Lei, dunque, ricorrano tutti con più acceso amore nelle presenti necessità dalle quali siamo travagliati; a Lei domandino con suppliche pressanti « di impetrare che le fuorviate generazioni tornino all’osservanza delle leggi, nelle quali è riposto il fondamento d’ogni pubblico benessere, e donde promanano i benefìci della pace e della vera prosperità. A Lei chiedano molto intensamente ciò che tutti i buoni devono avere in cima ai loro pensieri: che la Madre Chiesa ottenga il tranquillo godimento della sua libertà, la quale non indirizza ad altro che alla tutela dei supremi interessi dell’uomo, e dalla quale, come gli individui, così la società, anziché danno, trasse in ogni tempo i più grandi e inestimabili benefìci ». – Ma sopra ogni altra cosa, un particolare e certamente importantissimo beneficio desideriamo che da tutti venga implorato, mediante la intercessione della celeste Regina. Ella cioè, che è tanto amata e tanto devotamente onorata dagli Orientali dissidenti, non permetta che questi miseramente fuorviino e che sempre più si allontanino dall’unità della Chiesa e quindi dal Figlio suo, del quale Noi facciamo le veci sulla terra. Tornino a quel Padre comune, la cui sentenza accolsero tutti i Padri del Concilio Efesino e salutarono con plauso unanime quale « custode della Fede »; facciano ritorno a Noi, che per tutti loro portiamo un cuore assolutamente paterno, e volentieri facciamo Nostre quelle tenerissime parole con le quali Cirillo si sforzò di esortare Nestorio, affinché « si conservasse la pace delle Chiese e rimanesse indissolubile tra i sacerdoti di Dio il vincolo della concordia e dell’amore ». – Voglia il Cielo che spunti quanto prima quel lietissimo giorno in cui la Vergine Madre di Dio, fatta ritrarre in mosaico dal Nostro antecessore Sisto III nella Basilica Liberiana (opera che Noi stessi abbiamo voluto restituire al primitivo splendore), possa vedere il ritorno dei figli da Noi separati, per venerarla insieme con Noi, con un solo animo e una fede sola. Cosa che certamente Ci riuscirà oltre ogni dire gioconda. – Riteniamo inoltre di buon augurio l’essere toccato a Noi di celebrare questo quindicesimo centenario; a Noi, vogliamo dire, che abbiamo difeso la dignità e la santità del casto connubio contro i cavillosi assalti d’ogni genere; a Noi che abbiamo solennemente rivendicato alla Chiesa i sacrosanti diritti dell’educazione della gioventù, affermando ed esponendo con quali metodi dovesse impartirsi, a quali princìpi conformarsi. – Infatti questi due Nostri insegnamenti trovano sia nelle mansioni della divina maternità, sia nella famiglia di Nazaret un esimio modello da proporsi all’imitazione di tutti. Effettivamente, per servirci delle parole del Nostro Predecessore Leone XIII di f. m., « i padri di famiglia hanno in Giuseppe una guida eccellentissima di paterna e vigile provvidenza; nella Santissima Vergine Madre di Dio, le madri hanno un insigne modello di amore, di verecondia, di spontanea sottomissione e di fedeltà perfetta; in Gesù poi, che era a quelli sottomesso, i figli trovano un modello di ubbidienza tale da essere ammirato, venerato ed imitato ». – Ma è particolarmente giovevole soprattutto che quelle madri dei tempi moderni, le quali, infastidite della prole e del vincolo coniugale, hanno avvilito e violato i doveri che si erano imposti, sollevino lo sguardo a Maria, e seriamente considerino a quanto grande dignità il compito di madre sia stato da Lei innalzato. Così si può allora sperare che, con la grazia della celeste Regina, siano indotte ad arrossire dell’ignominia inflitta al grande sacramento del matrimonio, e che siano salutarmente animate a conseguire con ogni sforzo i pregi ammirabili delle virtù di Lei. – E qualora tutto ciò avvenga secondo i Nostri desideri, se cioè la società domestica — principio fondamentale di tutto l’umano consorzio — verrà ricondotta a così degnissima norma di probità, senza dubbio potremo affrontare e porre finalmente un riparo a quello spaventoso cumulo di mali da cui siamo travagliati. In tal modo avverrà « che la pace di Dio, la quale supera ogni intendimento, custodirà i cuori e le intelligenze di tutti », e che l’auspicatissimo regno di Cristo venga dovunque e felicemente ristabilito, mediante la mutua unione delle forze e delle volontà. Né vogliamo por fine a questa nostra Enciclica senza manifestarvi, Venerabili Fratelli, una cosa che certamente riuscirà a tutti gradita. Desideriamo cioè che non manchi un ricordo liturgico di questa secolare commemorazione: un ricordo che giovi a rinfervorare nel Clero e nel popolo la più grande devozione verso la Madre di Dio. Perciò abbiamo ordinato alla Sacra Congregazione dei Riti che vengano pubblicati l’Ufficio e la Messa della Divina Maternità, da celebrarsi in tutta la Chiesa universale. – Intanto a ciascuno di voi, Venerabili Fratelli, al clero e al popolo vostro, come auspicio dei celesti favori e quale pegno del Nostro cuore paterno, impartiamo di cuore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 dicembre, nella festa della Natività di N. S. Gesù Cristo, dell’anno 1931, decimo del Nostro Pontificato.

 

PIUS PP. XI