LA GRAZIA (NOTE DI TEOLOGIA DOGMATICA) – 5 –

LA GRAZIA

(Note di Teologia Dogmatica) (5)

[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vis. Gen. 7/VI/1955]

§ 21. Il corteggio della grazia santificante.

Con la grazia santificante vanno uniti doni soprannaturali distinti ma ad essa intimamente connessi, designati dal Catechismo romano come il suo nobilissimo corteggio: « L’infusione della grazia è accompagnata dal nobilissimo corteggio (nobilissimus comitatus) di tutte le virtù, che entrano nell’anima battezzata » (II, 2, 50).

1. Le virtù teologali.

Con la grazia santificante vengono infuse le tre virtù divine o teologali della fede, della speranza e della carità. De fide.

Il Concilio di Trento insegna: « Nella giustificazione l’uomo, per mezzo di Gesù Cristo, cui viene inserito, riceve con la remissione dei peccati l’infusione della fede, della speranza e della carità » (D. 800). Queste virtù sono conferite all’anima come abiti, non come atti: l’espressione «infondere» (infundere) designa appunto la comunicazione di un abito. Per quanto riguarda la carità il Concilio dichiara espressamente che essa è diffusa nel cuore degli uomini e inerisce in loro, cioè rimane come stato (D. 821: quæ [se. caritas] in cordibus eorum per Spiritum Sanctum diffundatur atque illis inhaereat).

La dichiarazione del Concilio si fonda soprattutto su Rom. V, 5: « L’amore di Dio è largamente diffuso nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato ». Cfr. 1 Cor. XIII, 8: « La carità non viene mai meno ». Come la carità, così anche la fede e la speranza sono alcunché di permanente nel giusto. 1 Cor. XIII, 13: « Queste tre cose adunque rimangono: la fede, la speranza, la carità ». – S. GIOVANNI CRISOSTOMO, riferendosi agli effetti del Battesimo dice: « Tu hai la fede, la speranza, la carità che rimangono. Cercale; sono più grandi che i miracoli. Nulla è eguale all’amore » (In Actus Apostol. hom. 40, 2). Se anche la carità infusa non è oggettivamente identica con la grazia santificante, come insegnano gli scotisti, tuttavia l’una è indissolubilmente congiunta con l’altra. L’abito della carità viene infuso contemporaneamente con la grazia e si perde con quella. Cfr. D. 1031. – Gli abiti della fede e della speranza sono invece separabili dalla grazia. Si perdono, non come la grazia e la carità per mezzo di peccati gravi, ma soltanto per mezzo dei peccati diretti contro la loro natura, la fede con l’incredulità, la speranza con l’incredulità e la disperazione. Cfr. D. 808, 838. Per il fatto che le virtù teologali si possono separare dalla grazia e dalla carità, parecchi teologi (per es. Suarez) ammettono che esse, quando vi fosse una disposizione sufficiente, vengano infuse già prima della giustificazione come virtù informi (virtutes informes). Questa opinione non contraddice la dottrina del Concilio di Trento (D. 800: simul infusa), che intese parlare soltanto della fede e della speranza « formate », cioè operanti per mezzo della carità.

2. Le virtù morali.

Con la grazia santificante vengono infuse anche le virtù morali. Sent. communis.

Il Concilio di Vienne (1311-12) parla in generale, senza limitarsi alle virtù teologali, dell’infusione, a modo di abiti, delle virtù e della grazia santificante: virtutes ac informans gratia infunduntur quoad habitum (D. 483).Il Catechismo romano (II, 2, 50) parla del « nobilissimo corteggio di tutte le virtù ».L’infusione delle virtù morali non si può provare con certezza mediante la Scrittura; tuttavia si può intravedere in Sap. VIII, 7 (le quattro virtù cardinali sono una dote della sapienza divina), in Ez. II, 19-20 (seguire i precetti del Signore è un effetto del cuore « nuovo ») specialmente in 2 Piet. 1, 4-7,dove con la partecipazione della natura divina vien nominata tutta una serie di altri doni (fede, probità, continenza,pazienza, pietà, amor fraterno, amore di Dio). – S. AGOSTINO dice delle quattro virtù cardinali a cui si possono ricondurre tutte le virtù morali: « Queste virtù ci vengono date adesso nella valle del pianto, per grazia di Dio » (Enarr. in Ps. LXXXIII, 11). Cfr. AGOSTINO, In ep. I Joan., tr. 8, 1. Cfr. 5. S. th. I – II, 63, 3.

3. I doni dello Spirito Santo.

Con la grazia santificante vengono infusi anche i doni dello Spirito Santo. Sent. communis.

Il fondamento biblico si trova in Is. XI, 2-3, ove sono descritte le doti spirituali del futuro Messia: « E si poserà su lui (il Messia) lo Spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di timore di Dio, e nel timore del Signore è la sua ispirazione » (Settanta e Volgata: « … spirito di scienza e di pietà, e lo riempirà lo spirito del timor di Dio »). Il testo ebraico enumera, oltre lo Spirito del Signore, sei doni; i Settanta e la Volgata ne contano sette perché traducono distinguendo il concetto di « timor di Dio » del versetto 2 da quello del versetto 3. Il numero settenario che risale ai Settanta non è essenziale. La liturgia, i Padri (per es. AMBROGIO, De Sacramentis I I , 2, 8; De mysteriis 7, 42) ed i teologi hanno dedotto da questo passo che gli stessi doni vengono partecipati a tutti i giustificati, poiché essi sono conformati a Cristo (Rom. VIII, 29). Cfr. il rito della Cresima e gli inni liturgici Veni Sancte Spiritus e Veni Creator Spiritus, e l’enciclica sullo Spirito Santo Divinum illud di LEONE XIII (1897).

– Secondo la dottrina di S. TOMMASO, oggi comunemente seguita, i doni sono abiti permanenti e soprannaturali dell’anima, realmente distinti dalle virtù infuse, per i quali l’uomo è reso docile e pronto a seguire gli impulsi dello Spirito Santo: dona sunt quidem habitus perficientes hominem ad hoc, quod prompte sequatur instinctum Spiritus Sancti (S. th. I – II, 86, 4). Essi perfezionano parte le potenze intellettive (sapienza, intelletto, consiglio, scienza) e parte quelle volitive (fortezza, pietà, timor di Dio). Si distinguono dalle virtù infuse in quanto il principio motore delle virtù sono le potenze dell’anima perfezionate soprannaturalmente, mentre quello dei doni è immediatamente lo Spirito Santo: le virtù danno la capacità di compiere le azioni ordinarie della vita virtuosa cristiana, i doni di compiere atti straordinari ed eroici. Si distinguono anche dai carismi in quanto sono concessi per la salvezza di chi li riceve e sono sempre infusi nella giustificazione. Cfr. S. th.I – II, 68, 1-8.

§ 22. Le proprietà dello stato di grazia.

1. Incertezza.

Senza una particolare rivelazione divina nessuno può sapere con certezza di fede se egli si trovi in stato di grazia. De fide.

Contro la dottrina protestante secondo cui il giustificato possiede un’assoluta certezza di fede circa la propria giustificazione, il Concilio di Trento dichiara: « Chiunque, guardando la propria debolezza e indisposizione può temere e tremare della sua grazia, dacché nessuno può sapere con certezza di fede, che esclude la possibilità dell’errore, se abbia conseguito la grazia di Dio » (D. 802). – La Scrittura attesta l’incertezza dello stato di giustificazione. 1 Cor. IV, 4: « Non ho coscienza, no, di verun mancamento, ma non per questo mi sento giustificato » Fil. II, 12: « Operate la vostra salvezza con timore e tremore ». Cfr. 1 Cor. IX, 27.

La ragione di tale incertezza sta nel fatto che nessuno senza una particolare rivelazione può conoscere con certezza di fede se ha adempiuto a tutte le condizioni che sono necessarie per raggiungere la giustificazione. L’impossibilità della certezza di fede non esclude però una grande certezza morale che si appoggia sulla testimonianza della coscienza, e appunto per questo il Cattolicesimo non è una religione d’incertezza e di angoscia.

2. Ineguaglianza.

Il grado di grazia non è uguale per tutti i giustificati. De fide. La grazia ricevuta può essere aumentata mediante le opere buone. De fide.

I protestanti, sostenendo che la giustificazione positivamente considerata non è altro che l’estrinseca imputazione della giustizia di Cristo, dovevano concludere che essa è eguale per tutti i giustificati. Contro di essi il Concilio di Trento dichiarò che il grado della grazia santificante ricevuta varia nei singoli giusti a seconda della misura della libera distribuzione di Dio e secondo la propria disposizione e cooperazione di ciascuno (D. 799). Quanto poi all’aumento della grazia il Concilio dichiarò contro gli stessi protestanti, i quali consideravano le opere buone solo come frutti della giustificazione raggiunta, che le medesime buone opere sono anche cause o mezzi per aumentarla: Si quis dixerit, iustitiam acceptam non conservari atque etiam non augeri coram Deo per bona opera… A.S. (D. 834).Cfr. 803, 842. È poi evidente che l’ineguaglianza delle buone opere condiziona nei singoli giusti un ineguale accrescimento dello stato di grazia.Secondo la dottrina della Scrittura, la misura della grazia data a ciascuno non è eguale. Ef. IV, 7: « A ciascuno di noi è stata concessa la grazia secondo la misura del dono di Cristo». 1 Cor. XII, 11: « Egli (lo Spirito) distribuisce a ciascuno i suoi doni, come a lui piace ».La Scrittura attesta anche l’accrescimento della grazia.2 Piet. 3, 18: « Crescete nella grazia! ». Ap. 22, 11: « Chi è giusto diventi ancor più giusto, e chi è santo, si santifichi di più ».

S. GEROLAMO combatte l’errore di Gioviniano, il quale, per l’influsso della dottrina stoica dell’eguaglianza di tutte le virtù, attribuiva a tutti i giusti un identico grado di giustizia e a tutti i beati un identico grado di gloria (Adv. Iovin. 11, 23). – S. AGOSTINO insegna: « I santi sono rivestiti di giustizia, l’uno più e l’altro meno » (Ep. 167, 3, 13). L’intrinseca ragione della possibilità di diversi gradi di grazia sta nel fatto che questa è una qualità fisica: come tale è suscettibile di un più e di un meno. La ragione estrinseca è la volontà di Dio che dispone tale varietà per la bellezza della Chiesa: « (Deus) diversimode suæ gratiæ dona dispensat ad hoc quod ex diversis gradibus pulchritudo et perfectio Ecclesiæ consurgat » (S. th. I – II, 112, 4). L’aumento della grazia comporta pure un aumento delle virtù teologali; la cosa è certa almeno per la carità. Tale aumento poi va concepito come un aumento di intensità e non di estensione.

3. Amissibilità.

a) Perdita della grazia.

La grazia santificante si può perdere e si perde con ogni peccato grave. De fide.

Contro la dottrina di Calvino della assoluta inamissibilità della grazia e contro quella di Lutero per cui la giustizia si perderebbe soltanto con il peccato di incredulità, cioè cessando la fede fiduciale, il Concilio di Trento dichiarò che lo stato di grazia si perde non solo per l’incredulità, bensì anche per ogni altro peccato grave (D. 808). Cfr. 833, 837. Il peccato veniale non distrugge né diminuisce lo stato di grazia (D. 804). La Scrittura insegna l’amissibilità della grazia a parole e con esempi (gli angeli decaduti, i progenitori, Giuda, Pietro). Cfr. Ez. XVIII, 24; XXXIII, 12; Mt. XXVI, 41: « Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione ». 1 Cor. X, 12: « Chi crede di stare in piedi, badi bene di non cadere ». Paolo in 1 Cor. VI, 9-10 enumera insieme alla incredulità numerosi altri peccati che escludono dal regno di Dio e causano la perdita della grazia santificante. – S. GEROLAMO difese l’amissibilità della grazia contro Gioviniano (Ad. Jov. II, 1-4) che cercava di dimostrare il contrario con il passo di Gv. III, 9. – S. GIOVANNI GRISOSTOMO, commentando 1 Cor. X, 12, scrive: « Finché non siamo liberati dai flutti della vita presente e non siamo giunti al porto della salvezza, nessuno sta in piedi che non possa cadere. Non inorgoglirti, non confidare in te stesso, ma sta’ ben attento e vigilante per non cadere. Se temette Paolo, fra tutti fortissimo, molto più noi dobbiamo temere ». D’altronde tutta la prassi penitenziale della Chiesa presuppone la convinzione che lo stato di grazia si perde con ogni peccato mortale. La ragione intrinseca di tale verità si fonda, da un lato nella libertà umana, che importa la possibilità di peccare, e, dall’altro, nell’essenza del peccato mortale, che essendo distacco da Dio e attacco alla creatura, è proprio l’opposto della grazia santificante, che è soprannaturale comunione di vita con Dio.

b) Perdita delle virtù infuse e dei doni dello Spirito Santo.

Con la grazia santificante si perde sempre anche la virtù teologale della carità. La carità ed il peccato mortale si escludono a vicenda. La dottrina contraria di Baio fu condannata (D. 1031-1032).

La virtù teologale della fede, come definì espressamente il Concilio di Trento, non si perde sempre insieme con lo stato di grazia; quella che rimane è vera fede, anche se non è fede viva (D. 838). Si perde invece con il peccato di incredulità che va direttamente contro la sua natura.

La virtù teologale della speranza può esistere senza la carità (cfr. D. 1407), ma non senza la fede. La si perde mediante il peccato di disperazione che va direttamente contro la sua natura, e mediante il peccato di incredulità.

Le virtù morali infuse ed i doni dello Spirito Santo si perdono, secondo la dottrina comune dei teologi, insieme con la grazia e la carità.

CAPITOLO TERZO

Il frutto della giustificazione o il merito.

§ 23. La realtà del merito.

1 . Eresie.

I protestanti negarono la realtà del merito soprannaturale. Mentre LUTERO da principio insegnò che tutte le opere del giusto sono in sé cattive, a motivo del peccato che rimane in lui (cfr. D. 771: In omni opere bono iustus peccat), più tardi ammise che il giusto con l’aiuto dello Spirito Santo può e deve compiere opere buone (cfr. Conf. Aug.  art. 20: docent nostri, quod necesse sit bona opera facere), negando però che avessero valore di merito. Secondo CALVINO (Inst. III, 12, 4) tutte le opere dell’uomo davanti a Dio sono « sporcizia! e sudiciume »: inquinamenta et sordes. Nella Dottrina Cattolica del merito il protestantesimo scorge a torto una derogazione alla grazia e ai meriti di Cristo (cfr. D. 843), un incoraggiamento ad una santità di opere esteriori, ad una ricerca interessata del premio e a una giustizia farisaica.

2. Dottrina della Chiesa.

Mediante le buone opere il giusto si guadagna veramente un titolo alla ricompensa soprannaturale da parte di Dio. De fide.

Il II Concilio di Orange dichiarò con Prospero di Aquitania e con Agostino: « Benché nessun merito da parte nostra preceda la grazia, una ricompensa è dovuta alle buone opere, se son fatte; ma la grazia, che non ci è dovuta, le precede affinché sian fatte » (D. 191). Il Concilio di Trento insegna che la vita eterna è per i giustificati e una grazia promessa da Cristo e la ricompensa per i loro meriti e opere buone (D. 809). Dato che la grazia di Dio è il presupposto ed il fondamento delle opere buone (soprannaturali) con cui si guadagna la vita eterna, esse sono nello stesso tempo un dono di Dio e un merito dell’uomo: cuius (sc. Dei) tanta est erga omnes homines bonitas, ut eorum velit esse merita, quæ sunt ipsius dona (D. 810; cfr. 141). Il Concilio pone l’accento sul fatto che si tratta di un « vero merito » (vere mereri; D. 842), cioè di un merito de condigno. Cfr. D . 835.

3. Fondamento nelle fonti della fede.

Secondo la Scrittura la beatitudine eterna nel cielo è la ricompensa (merces, remuneratio, retributio, bravium) per le opere buone compiute durante la vita terrena. Ora ricompensa e merito sono concetti correlativi. Gesù promette a coloro che saranno oltraggiati e perseguitati per causa sua, grande ricompensa in cielo: « Gioite ed esultate, perché grande sarà la vostra ricompensa nei cieli » (Mt. V, 12). Il Giudice universale emette la sua sentenza sui giusti in base alle opere buone: «Venite, o benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno, che vi è preparato sin dalla creazione del mondo; perché ebbi fame e mi deste da mangiare » (Mt. XXV, 34-35). Il motivo della ricompensa ritorna frequentemente nei discorsi di Gesù. Cfr. Mt. XIX, 29; XXV, 21; Lc.. VI, 38. Paolo, che accentua assai la grazia, pone pure in risalto la meritorietà delle opere buone compiute con la grazia, insegnando che la ricompensa è regolata secondo le opere: « Egli renderà a ciascuno secondo le sue opere » (Rom. II, 6). « Ciascuno riceverà la propria mercede a proporzione del suo lavoro » (1 Cor. III, 8). Cfr. Col. III, 24; Ebr. X, 35; XI, 6. Definendo la ricompensa eterna come « la corona di giustizia, che il giusto giudice darà in premio » (2 Tim. IV, 8), egli mostra che le opere buone del giusto fondano presso Dio un vero diritto alla ricompensa (meritum de condigno). Cfr. Ebr. VI, 10. – La Tradizione, sin dai Padri apostolici, testimonia la meritorietà delle opere buone. S. IGNAZIO DI ANTIOCHIA scrive a Policarpo: « Dov’è maggiore la fatica, è più grande il guadagno » (1, 3). « Cercate di piacere a Colui per il quale militate e dal quale ricevete lo stipendio… I vostri depositi siano le vostre opere, affinché possiate avere (un giorno) rimborsi considerevoli » (6, 2). Cfr. GIUSTINO, Apol. I, 43. TERTULLIANO ha introdotto il concetto di merito, senza tuttavia alterare per nulla la dottrina tradizionale. S. AGOSTINO, nella lotta contro il pelagianesimo, ha accentuato con più forza che non i Padri anteriori la parte della grazia nel compimento delle buone opere, ma ha pure anche sempre insegnato la meritorietà di queste. Ep. 194, 5, 19: « Come potrà dunque l’uomo meritare la grazia, dato che ogni merito è in noi opera della grazia e che quando Dio corona i nostri meriti, non corona che i suoi doni? ». La ragione non può di per sé provare la realtà del merito soprannaturale, dato che questo si fonda sulla libera promessa divina della ricompensa. Tuttavia, appellandosi ai principii universali della coscienza umana, è in grado di mostrare la convenienza di una ricompensa soprannaturale per azioni buone soprannaturali e liberamente compiute. S. th. I – II, 114, 1.

§ 24. Le condizioni del merito.

1. Da parte dell’opera.

L’opera meritoria deve essere:

a) moralmente buona, cioè conforme, per l’oggetto, l’intenzione, le circostanze, alla legge morale. Cfr. Ef. VI, 8: « Voi sapete che ciascuno, schiavo o libero che sia, sarà rimeritato dal Signore, di quanto avrà fatto di bene ». Dio, l’assolutamente Santo, non può ricompensare che il bene.

b) libera tanto da costrizione esterna quanto da necessità interna. Innocenzo X condannò come eretica la dottrina giansenistica, secondo cui, nello stato di natura decaduta, basta per meritare e demeritare la libertà da coazione esterna (D. 1094). Cfr. Eccli. XXXI, 10; Mt. XIX, 17: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti ». Mt. XIX, 21; 1 Cor. IX, 17.

S. GEROLAMO dice: « Dove vi è necessità non vi è ricompensa  (ubi necessitas est, nec corona est; Adv. Iov. II, 3). Secondo la testimonianza della coscienza umana soltanto un’azione libera merita ricompensa o punizione.

c) soprannaturale, cioè fatta sotto l’azione della grazia attuale e per un motivo soprannaturale. Anche il giustificato ha bisogno della grazia attuale per compiere atti salutari (§ 8, 3). È richiesto un motivo soprannaturale, poiché colui che agisce è dotato di ragione e di libertà e deve quindi orientare coscientemente la sua azione a tal fine. Gesù promette ricompensa per le opere che vengono compiute per Lui. Mc. IX, 40: « Chiunque vi darà un bicchier d’acqua appunto perché siete di Cristo, in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa ». Cfr. Mt. X, 42; XIX, 29; Lc. IX, 48. Paolo ammonisce di compiere tutto in nome del Signore Gesù Cristo o per la gloria di Dio. Col. III, 17: « Qualunque cosa facciate o con parole o con opere tutto fate nel nome del Signore Gesù! ».

1 Cor. X, 31: « Sia che mangiate dunque, sia che beviate, sia che facciate altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio! ». – Il motivo più perfetto è il perfetto amor di Dio. Secondo i passi della Scrittura or ora citati, possono però bastare anche motivi meno perfetti, per es. l’ubbidienza al precetto divino, la speranza della beatitudine eterna (cosi Suarez, De Lugo contro l’opinione della maggioranza dei tomisti).

2. Da parte dell’uomo.

Chi merita dev’essere:

a) nello stato di via (in statu viæ) dato che, secondo la disposizione positiva di Dio, la possibilità del merito è ristretta al tempo della vita terrena. Cfr. Gv. IX, 4: « Viene la notte, quando più non si può operare ». Gal. VI, 10: « Mentre ne abbiamo il tempo facciamo del bene a tutti ». La ricompensa è commisurata a quello che è stato fatto « mediante il corpo », cioè nella vita terrena (2 Cor. II, 10). Cfr. Mt. XXV, 34; Lc. XVI, 26. I Padri negano, contro Origene, che nell’altra vita vi sia la possibilità di convertirsi e di procacciarsi dei meriti. – FULGENZIO dice: « Dio ha dato all’uomo la possibilità di guadagnare la vita eterna soltanto in questa vita » (De fide ad Petrum III, 36).

b) nello stato di grazia (in statu gratiæ), se si prende il merito in senso proprio (meritum de condigno). Le decisioni dottrinali del Concilio di Trento sul merito si riferiscono espressamente ai giustificati (D. 836, 842). La dottrina contraria di Baio fu condannata (D. 1013 ss.). Gesù esige la continua unione con Lui quale condizione indispensabile per produrre frutti soprannaturali: « Siccome il tralcio da sé non può portare frutto, se non rimane congiunto con la vite, così nemmeno voi, se non rimanete in me » (Gv. 15, 4). PAOLO richiede per l’azione meritoria la carità inseparabilmente congiunta con lo stato di grazia (1 Cor. XVI, 2-3). S. AGOSTINO insegna che soltanto « il giustificato dalla fede può vivere giustamente ed agire bene », e procacciarsi così la vita eterna (Ad Simplicianum I , 2, 21). La necessità dello stato di grazia è fondata sul fatto che tra l’opera meritoria e la sua ricompensa vi è reale equivalenza, solo quando chi merita è elevato, con la grazia abituale, allo stato di amicizia e figliolanza divina.

3. Da parte di Dio.

Il merito dipende dalla libera disposizione di Dio di ricompensare con la beatitudine eterna le opere buone compiute con l’aiuto della sua grazia. Per l’infinita distanza tra il Creatore e la creatura, l’uomo di per sé non può fare che Dio gli sia debitore, se Dio stesso con la sua libera disposizione non lo stabilisca. E che Dio abbia così disposto, risulta dalla promessa della ricompensa eterna. Cfr. Mt. V, 34 ss. (le otto beatitudini); XIX, 29 (ricompensa del centuplo); XXV, 34 ss. (sentenza del Giudice universale). Paolo parla della « speranza nella vita eterna, la quale Dio, che non mentisce, promise dall’eternità » (Tit. 1, 2). Cfr. 1 Tim. IV, 8; Giac. 1, 12. — S. AGOSTINO dice: « Il Signore si è fatto da sé debitore, non ricevendo, ma promettendo. Non gli si può dire: ritornaci ciò che hai ricevuto, ma soltanto: dacci quello che hai promesso» (Enarr. in Ps. LXXXIII, 16). S. th. I – II, 114, 1 ad 3. Secondo l’opinione dei nominalisti e degli scotisti la ragione della meritorietà delle opere buone sta esclusivamente nella libera accettazione di Dio, di modo che Egli potrebbe accettare come meriti anche le opere buone naturali e ricompensarle con la vita eterna. Secondo la concezione, meglio fondata, dei tomisti, la ragione della meritorietà sta nel valore intrinseco delle opere buone compiute nello stato di grazia; poiché tale stato produce un’intrinseca proporzione tra le azioni buone e la ricompensa eterna, come è nel concetto del merito de condigno.

NOTA. Le condizioni per il merito de congruo (merito di convenienza) sono le stesse che per il merito de condigno (merito di giustizia), fatta eccezione dello stato di grazia e della promessa divina.

§ 25. L’oggetto del merito.

1. Oggetto del merito de condigno.

Il giustificato si merita con le sue opere buone l’aumento della grazia santificante, la vita eterna e l’aumento della gloria celeste. De fide.

Il Concilio di Trento dichiarò: Si quis dixerit, iustificatum bonis operibus… non vere mereri augmentum gratiæ, vitam aeternam et ipsius vitæ aeternæ (si tamen in gratia decesserit) consecutionem, atque etiam gloriæ augmentum, A.S. (D. 842). Secondo questa definizione si devono distinguere tre oggetti del merito vero e proprio:

a) l’aumento della grazia santificante. Dato che la grazia è il preludio della gloria, e che la gloria si misura dalle buone opere, anche il grado della grazia deve aumentare con le opere buone. Come la gloria è oggetto del merito, così lo è anche l’aumento della grazia. Cfr. D. 803, 834. – Secondo S. Tommaso la grazia santificante non aumenta sempre appena compiuta un’opera buona, ma solo quando l’anima sia sufficientemente disposta. S. th. I – II, 114, 8 ad 3.

b) la vita eterna, più precisamente il diritto alla vita eterna e, se nell’istante della morte si è nello stato di grazia, il reale conseguimento di essa. Secondo la dottrina della Scrittura la vita eterna è la ricompensa delle opere buone compiute quaggiù. Cfr. Mt. XIX, 29; XXV, 46; Rom. II, 6-7; Giac. 1, 12. La perdita della grazia santificante a causa del peccato mortale importa la perdita di tutti i meriti anteriori. Le opere buone vengono in un certo senso uccise (opera mortificata). Esse tuttavia rinascono, secondo la dottrina generale dei teologi, quando si riacquista la grazia (opera vivificata).

c) l’aumento della gloria celeste. Dato che, secondo la dichiarazione del Concilio generale di Firenze, il grado della gloria varia nei beati a seconda dei loro meriti (prò meritorum diversitate; D. 693), è evidente che l’aumento dei meriti comporta un aumento della gloria. Paolo attesta: « Chi semina scarsamente, scarsamente mieterà, e chi semina abbondantemente, raccoglierà con abbondanza » (2 Cor. IX, 6). Cfr. Mt. XVI, 27; Rom. II, 6; 1 Cor. III, 8; Ap. XXII, 12.

– Osserva TERTULLIANO: « Perché ci sono presso il Padre molte dimore (Gv. XIV, 2), se non per la varietà dei meriti? » (Scorp. 6). L’errore di Gioviniano, che sosteneva l’eguaglianza della gloria celeste per tutti i beati, fu respinto da Gerolamo (Adv. Iov. II, 32-34).

2 . Oggetto del merito de congruo.

Non ci sono al riguardo decisioni del magistero della Chiesa. Dato poi che il concetto di merito de congruo non ha uno stesso significato in quanto per il motivo che lo fonda può essere più o meno ampio, le opinioni dei teologi non sono concordi.

a) Ciò che può meritare il peccatore.

Chi è in peccato mortale può meritare (de congruo), con la libera cooperazione della grazia attuale, ulteriori grazie attuali per prepararsi alla giustificazione e, in ultimo, la stessa grazia giustificante. Sent. probabilis.

Cfr. Sal. L, 19: « Un cuore contrito ed umiliato, o Signore, tu non lo disprezzerai ». AGOSTINO dice del pubblicano ( Lc. XVIII, 9-14) che « per merito della sua umiltà (merito fidelis humilitatis) se ne andò giustificato » (Ep. 194, 3, 9).

b) Ciò che può meritare il giusto.

1) Il giusto può meritare (de congruo fallibili) la grazia della perseveranza finale, in quanto è conveniente che Dio conceda a colui che coopera fedelmente con la sua grazia, la grazia attuale richiesta per durare nello stato di grazia. Sent. probabilis.

Il titolo del giusto alla grazia di perseveranza, fondato sulle buone opere è molto debole, e quindi l’effetto è incerto. Più sicuro è l’effetto dell’umile e costante preghiera. Mt. VII, 7: « Chiedete e vi sarà dato ». Gv. XVI, 23: « Quanto domanderete al Padre, ve lo darà in nome mio ». Cfr. AGOSTINO, De dono persev. 6, 10.

2) Il giusto può meritarsi (de congruo fallibili) di riavere la grazia santificante dopo un eventuale peccato, in quanto è conveniente che Dio per sua misericordia ridoni lo stato di grazia a colui che, quando era in tale stato, ha compiuto molte opere buone. Sent. probabilis.

Quando S. Tommaso insegna (S. th. I – II, 114, 7) che non si può meritare né de condigno né de congruo la conversione dopo la caduta in peccato, egli intende il merito de congruo in senso molto stretto. Commentando la Lettera agli Ebrei (cap. VI, lect. 3) egli ne allarga il senso e afferma la possibilità di un siffatto merito.

3) Per gli altri il giusto può meritare (de congruo) quello che può meritare per sé stesso, e in più la prima grazia attuale. Sent. probabilis.

La possibilità di meritare per gli altri ha il suo fondamento nella amicizia divina del giusto e nella comunione dei Santi. Occorre notare che per gli altri è più efficace la preghiera del merito. Giac. V, 16: « Pregate gli uni per gli altri per essere salvi. Molto vale la preghiera assidua del giusto ». Cfr. 1 Tim. II, 1-4.

4) I beni temporali sono oggetto di merito soprannaturale solo in quanto costituiscono un mezzo per conseguire la salute eterna. Sent. probabilis. Cfr. 5. S. th. I – II, 114, 10.

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LA GRAZIA (NOTE DI TEOLOGIA DOGMATICA) – 4 –

LA GRAZIA

(Note di Teologia Dogmatica) (4)

[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vis. Gen. 7/VI/1955]

SEZIONE SECONDA

La grazia abituale.

Dopo la grazia attuale dobbiamo considerare la grazia abituale, quella cioè che ci santifica in modo permanente stabilendo in noi lo stato di grazia. La Scrittura chiama giustizia questo stato di grazia e giustificazione l’atto divino col quale esso è prodotto in noi. Dividiamo la materia in tre capitoli che trattano rispettivamente del processo della giustificazione, dello stato di grazia che ne è il risultato e del merito che è frutto dello stato di grazia.

CAPITOLO PRIMO

Il processo della giustificazione.

§ 16. La giustificazione.

1. La giustificazione secondo i riformatori.

Il punto di partenza della dottrina luterana della giustificazione è l’idea che la natura umana sia stata totalmente corrotta dal peccato di Adamo e che il peccato originale consista formalmente nella concupiscenza disordinata. LUTERO concepisce la giustificazione come un atto giudiziale (actus forensis) di Dio che dichiara giusto l’uomo, benché internamente rimanga peccatore (iustus et peccator). Siffatta giustificazione, nel suo aspetto negativo, non è ima vera abolizione o cancellazione dei peccati, ma solo una non imputazione o copertura di essi; nel suo aspetto positivo non è una rinnovazione e santificazione interiore, ma una semplice imputazione esterna della giustizia o santità di Cristo. La condizione soggettiva per la giustificazione è la fede fiduciale, cioè la fiducia dell’uomo, unita alla certezza della salvezza, che Dio misericordioso a cagione di Cristo gli perdoni i peccati. Cfr. Conf. Aug. e Apol. Conf. Art. 4; Art. Smalc. P. III, Art. 13; Formula Concordiæ P. II, c. 3.

2 . Dottrina cattolica della giustificazione.

Il Concilio di Trento, riallacciandosi a Col. I, 13, descrive la giustificazione come un « trasferimento da quello stato di peccato, in cui l’uomo nasce figlio del. primo Adamo, allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio per opera del secondo Adamo, Gesù Cristo nostro Salvatore » (translatio ab eo statu, in quo homo nascitur filius primi Adæ, in statum gratiæ et adoptionis filiorum Dei, per secundum Adam Iesum Christum Salvatorem nostrum; D. 796). La giustificazione sotto l’aspetto negativo cancella veramente i peccati,e sotto l’aspetto positivo santifica e rinnova soprannaturalmente l’uomo interiore: non est sola peccatorum remissio, sed et sanctificatio et renovatio interioris hominis (D. 799). La dottrina riformista della copertura dei peccati e dell’imputazione esterna della giustizia di Cristo fu respinta come eretica dal Concilio di Trento(D. 792, 821). – Per quanto riguarda l’aspetto negativo, la Scrittura concepisce la remissione dei peccati come una reale e perfetta abolizione dei peccati usando le seguenti espressioni:

a) delere = cancellare (Sal. L, 3 ; Is. XLIII, 25; Atti III, 19), auferre vel transferre = portar via (2 Sam. XII, 13; 1 Cor. XXI, 8; Mich. VII, 18), tollere = togliere(Gv. 1, 29), longe facere = allontanare (Sal. CII, 12);

b) lavare, abluere = lavare, mundare = purificare (Sal. L, 4; Is. 1, 16; Ez. XXXVI, 25; Atti XXII, 16; 1 Cor. VI, 11; Ebr. 1, 3; 1 Gv. 1, 7); c) remittere vel dimittere = rimettere, perdonare (Sal. XXXI, 1; LXXXIV, 3; Mt. IX, 2. 6; Lc. VII, 47-48; Gv. XX, 23; Mt. XXVI, 28; Ef. 1, 7). I pochi passi della Scrittura che parlano di una velatura o copertura dei peccati (Sai. XXXI, 1-2; LXXXIV, 3; 2 Cor. V, 19) devono essere interpretati alla luce delle espressioni parallele («remittere» in Sal. XXXI, 1; LXXXIV, 3) e degli altri passi scritturali chiari, nel senso di una effettiva cancellazione. In Prov. X, 12 (l’amore ricopre tutti i peccati) e 1 Piet. IV, 8 (l’amore copre la moltitudine dei peccati) si parla non della remissione dei peccati da parte di Dio, ma del perdono reciproco degli uomini. – Per quanto concerne l’aspetto positivo, la Scrittura rappresenta la giustificazione come rinascita da Dio, cioè generazione di una nuova vita soprannaturale nel peccatore (Gv. III, 5; Tit. III, 5-6), come nuova creazione (2 Cor. V, 17), rinnovamento interiore (Ef. IV, 23), santificazione (1 Cor. VI, 11) trasferimento dallo stato di morte allo stato di vita (1 Gv. III, 14), dallo stato di oscurità allo stato di luce (Col. 1, 13; Ef. V, 8), permanente comunione dell’uomo con Dio (Gv. XIV, 23; XV, 5), partecipazione della natura divina (2 Piet. 1, 4: divinæ consortes naturæ). Quando Paolo dice che Cristo è divenuto la nostra giustizia (1 Cor. 1, 30; cfr. Rom.V, 18) non esprime che la causa meritoria della nostra giustificazione.

– I Padri considerano la remissione dei peccati come vera abolizione o cancellazione. S. AGOSTINO respinge la deformazione pelagiana, secondo cui il Battesimo non rimette, ma si limita a radere i peccati: dicimus baptisma dare omnium indulgentiam peccatorum et auferre crimina, non radere; Contra duas epist. Pelag. I , 13, 26. La santificazione che si compie con la giustificazione vien spesso chiamata dai Padri divinizzazione (θείωσις =teiosis, deificano). S. AGOSTINO spiega che la giustizia di Dio (iustitia Dei) di cui parla S. Paolo, non è la giustizia per cui Dio stesso è giusto, ma quella per cui Egli ci rende giusti (cfr. D. 799); essa vien detta giustizia divina perché ci vien data da Dio (De gratia Christi 13, 14). È inconciliabile con la sua veracità e santità che Dio dichiari giusto un uomo, se internamente rimane peccatore.

§ 17. Le cause della giustificazione.

Il Concilio di Trento (D. 799) stabilisce le seguenti cause della giustificazione:

1. La causa finaleè la gloria di Dio e di Cristo (c. f. primaria) e la vita eterna dell’uomo (c. f. secondaria).

2. La causa efficiente, più propriamente la causa efficiente principale è Dio misericordioso.

3. La causa meritoria è Gesù Cristo, che, quale mediatore tra Dio e l’uomo, ha soddisfatto per noi ed ha meritato la grazia giustificante.

4. La causa strumentale della prima giustificazione è il sacramento del Battesimo. La dichiarazione del Concilio aggiunge: quod est sacramentum fidei, sine qua nulli unquam contigit iustificatio. Con ciò si stabilisce che la fede è condizione previa necessaria (causa dispositiva) per la giustificazione (degli adulti).

5. La causa formale è la giustizia di Dio, non quella della quale Egli è giusto, ma quella di cui fa giusti noi (iustitia Dei, non qua ipse iustus est, sed qua nos iustos facit), cioè la grazia santificante. Cfr. D. 820. Secondo la dottrina del Concilio Tridentino la grazia santificante è l’unica causa formale della giustificazione (unica formalis causa). Questo significa che l’infusione della grazia santificante opera sia la cancellazione dei peccati sia la santificazione interiore. Il Concilio respinge così la teoria della duplice giustificazione, sostenuta da alcuni riformatori (Calvino, Martino Butzer) ed anche da alcuni teologi cattolici (Girolamo Seripando, Gasparo Contarmi, Alberto Pighi, Giovanni Gropper), per cui la remissione dei peccati consisterebbe nell’imputazione della giustizia di Cristo e la santificazione positiva in una giustizia inerente all’anima. – Secondo la dottrina della Scrittura la grazia e il peccato sono antitetici e si oppongono come la luce e le tenebre, la morte e la vita. La comunicazione della grazia produce necessariamente la remissione dei peccati. Cfr. 2 Cor. VI, 14: « Quale consorzio tra giustizia e iniquità? e quale comunanza vi è tra la luce e le tenebre? ». Col. II, 13: « E mentre eravate morti a causa dei vostri peccati… Dio con lui (Cristo) vi richiamò alla vita». Cfr. 1 Gv. IX, 14; S. Th. I – I I, 113, 6 ad 2.

§ 18. La preparazione alla giustificazione.

1. Possibilità e necessità di una preparazione.

Il peccatore può e deve prepararsi, con l’aiuto della grazia attuale a ricevere la giustificazione. De fide.

I riformatori negavano la possibilità e la necessità di una preparazione alla giustificazione, partendo dal presupposto che la volontà dell’uomo, in seguito alla totale rovina della natura umana per il peccato di Adamo, sarebbe divenuta incapace di ogni bene. Il Concilio di Trento li condannò dichiarando: Si quis dixerit… nulla ex parte necesse esse eum (se. impium) suæ volontatis motu præparari atque disponi, A. S. (D. 819. Cfr. D . 797 ss., 814, 817).

IL Concilio adduce come prova della Scrittura (D. 797) il passo di Zac. 1, 3: « Convertitevi a me, che io mi rivolgerò verso di voi » e quello di Lam. V, 21: « Convertici a te, o Signore, e ci convertiremo ». Il primo testo accentua la libertà del nostro movimento verso Dio, il secondo la necessità della grazia preveniente.Occorre pure ricordare le numerose esortazioni del Vecchio e del Nuovo Testamento alla penitenza ed alla conversione e la prassi del catecumenato e della penitenza nella Chiesa antica. S. th. I – I I , 113, 3.

2. Fede e giustificazione.

Senza fede la giustificazione dell’adulto non è possibile. De fide.

Secondo il Concilio di Trento la fede è l’inizio della salvezza umana, il fondamento e la radice di ogni giustificazione » (humanæ salutis initium, fundamentum et radix omnis iustificationis; D. 801). Cfr. 799: sine qua (se. fide) nulli unquam contigit iustificatio; e anche D. 1793. – Per quanto concerne il contenuto della fede giustificante, non è sufficiente la cosiddetta fede fiduciale, ma si richiede quella teologica o dogmatica, che consiste nel ritenere vere le verità rivelate a motivo dell’autorità di Dio rivelante. Il Concilio di Trento: si quis dixerit, fidem iustificantem nihil aliud esse quam fiduciam divinæ misericordiæ, A. S. (D. 822). Cfr. D . 798: credentes vera esse, quæ divinitus revelata et promissa sunt; D. 1789 (definizione della fede). – Secondo la testimonianza della Scrittura la fede, e precisamente quella dogmatica, è la condizione previa indispensabile per il conseguimento della salvezza eterna. Mc. XVI, 15-16: «Predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crede e si fa battezzare, sarà salvato; chi non crede, sarà condannato». Gv. XX, 31: «Questi sono stati scritti, affinché crediate che Gesù il Cristo, è Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome ». Ebr. XI, 6: « Senza fede è impossibile piacere a Dio; poiché chi si accosta a Dio, deve credere che Egli esiste e che è rimuneratore di quei che lo cercano». Cfr. Gv. III, 14ss.; VIII, 24; XI, 26; Rom. X, 8 ss. . I passi addotti dagli avversari che accentuano molto l’importanza della fiducia (Rom. IV, 3 ss.; Mt. IX, 2; Lc.. XVII, 19; VII, 50; Ebr. XI, 1) non escludono la fede dogmatica, dacché la fiducia nella misericordia divina è una conseguenza necessaria della fede nella verità della rivelazione divina. – Una prova patristica di fatto in favore della necessità della fede dogmatica per la giustificazione è l’istruzione dei catecumeni nelle verità cristiane di fede e la professione del Credo prima del Battesimo. TERTULLIANO definisce il Battesimo il suggello della fede professata prima di riceverlo (obsignatio fidei, signaculum fidei; De pœnit. 6; De spect. 24). S. AGOSTINO dice: « Il principio della vita buona, della vita che merita la vita eterna è la retta fede » (Sermo 43, 1, 1).

3. Necessità di altri atti preparatorii oltre la fede.

Alla fede devono aggiungersi altri atti preparatorii. De fide.

Secondo la dottrina dei riformatori la fede, intesa nel senso di fede fiduciale, è l’unica causa della giustificazione (dottrina della « sola fides »). Al contrario il Concilio di Trento dichiarò che oltre la fede sono necessari altri atti preparatorii o dispositivi alla giustificazione stessa (D. 819). Vengono nominati il timore della giustizia divina, la speranza nella misericordia divina per i meriti di Cristo, l’inizio dell’amore di Dio, l’odio e la detestazione del peccato, il proposito di ricevere il Battesimo e di incominciare una vita nuova. Il Concilio descrive il normale processo psicologico della giustificazione, senza definire che tutti i singoli atti debbano sempre susseguirsi nell’ordine detto o che vi possano essere solo questi. Come non deve mai mancare la fede quale inizio della salvezza, così pure non deve mai mancare il pentimento per i peccati commessi, poiché la loro remissione senza conversione interiore non è possibile (D. 798. Cfr. D. 897). – La Scrittura richiede al di fuori della fede altri atti preparatorii, per es. il timor di Dio (Eccli. 1, 27-28; Prov. XIV, 27), la speranza (Eccli. II, 9), l’amore di Dio (Lc. VII, 47; 1 Gv. III, 14), il pentimento e la penitenza (Ez. XVIII, 30; 33, 11; Mt. IV, 17; Atti II, 38; 3, 19).

PAOLO e GIACOMO. Quando Paolo insegna che siamo giustificati mediante la fede senza le opere della legge (Rom. III, 28: « Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato dalla fede senza le opere della legge »; cfr. Gal. II, 16), intende per fede la fede viva, operante per mezzo della carità (Gal. V, 6) e per opere le opere della legge del Vecchio Testamento, per es. la Circoncisione, e per giustificazione la purificazione e la santificazione interiore del peccatore non Cristiano per l’adesione alla fede cristiana. Quando Giacomo, in apparente contrasto con Paolo, insegna che noi siamo giustificati dalle opere e non soltanto dalla fede (Giac. II, 24: « Vedete bene che l’uomo è giustificato per le opere e non solo per la fede »), intende per fede la fede morta, cioè senza la carità (Giac. II, 17; cfr. Mt. VII, 21), per opere le opere buone che procedono dalla fede cristiana e per giustificazione il dichiarare giusto chi lo è già, o renderlo maggiormente giusto. Paolo scrive contro i giudaizzanti che si facevano forti delle opere della legge e quindi accentua la fede; Giacomo scrive per i Cristiani tiepidi e perciò accentua le opere. Ambedue esigono concordemente una fede viva ed operante. I Padri, in armonia con la prassi antica del catecumenato, insegnano che la fede da sola non basta alla giustificazione.

S. AGOSTINO dice: « Senza la carità ci può essere la fede, ma serve a nulla » (De Trin. XV, 18, 32). Cfr. S. th. I – II, 113, 5.

CAPITOLO SECONDO

Lo stato di grazia.

§ 19. L’essenza della grazia santificante.

1. Determinazione ontologica della grazia santificante.

a) La grazia santificante è un dono creato soprannaturale realmente distinto da Dio. Sent. Fidei proxima.

Secondo PIETRO LOMBARDO (Sent. I, d. 17) la grazia santificante non sarebbe alcunché di creato, ma lo Spirito Santo stesso, che abita nell’anima dei giusti e vi opera immediatamente (non mediante aliquo habitu) gli atti di amor di Dio e del prossimo. Cfr. S. th. II- II, 23, 2.

– La dottrina del Concilio di Trento che presenta la grazia santificante come « giustizia di Dio, non quella della quale Egli è giusto, ma quella di cui fa giusti noi »

(D. 799), esclude l’identità dalla grazia santificante stessa con lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo non è causa formale, ma causa efficiente della giustificazione. Secondo Rom. V, 5: « L’amore di Dio è largamente diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo, che ci è stato dato ». Ma l’amore di Dio e la grazia sono indissolubilmente congiunti dimodoché se quello è distinto dallo Spirito Santo, come il dono dal donatore e l’effetto dalla causa, lo è anche questa.

b) La grazia santificante è un’entità soprannaturale infusa da Dio e inerente all’anima in modo permanente. Sent. certa.

Secondo i nominalisti la grazia giustificante è la costante benevolenza di Dio che per i meriti di Cristo condona i peccati al peccatore e gli concede la grazia attuale necessaria per il conseguimento della salvezza. Alla stessa guisa Lutero definisce la grazia giustificante come benevolenza di Dio che si manifesta nel non imputare al peccatore i suoi peccati, e nell’imputargli la giustizia di Cristo. – Le espressioni « diffunditur, infunditur, inhæret » (D. 800, 809, 821), di cui si serve il Concilio di Trento, indicano che la grazia giustificante aderisce all’anima del giustificato in modo permanente. Il Catechismo romano definisce la grazia santificante una « qualità divina inerente all’anima » (divina qualitas inhærens; II, 2, 49).

Anche dalla giustificazione degli infanti risulta che la grazia santificante è alcunché che inerisce in modo abituale al giustificato. Cfr. D. 410, 483, 790 ss. – La Scrittura descrive lo stato di giustificazione come la presenza nell’uomo di un seme divino (1 Gv. III, 9): « Chiunque è nato da Dio non pecca, perché un germe di Lui in esso dimora », come unzione, sigillo e pegno dello Spirito Santo (2 Cor. 1, 21-22), partecipazione della natura divina (2 Piet. 1, 4), vita eterna (Gv. III, 15-16, ecc.). La giustificazione vien detta rinascita (Gv. III, 5; Tit. III, 5), nuova creazione (2 Cor. V, 17; Gal. VI, 15) e rinnovazione interiore (Ef. IV, 23). Simili espressioni non si possono spiegare come interventi passeggeri di Dio nell’anima per produrre gli atti salutari, ma richiedono un’entità soprannaturale permanente e inerente all’anima. La nuova vita soprannaturale nel giustificato presuppone un principio soprannaturale permanente di vita.

S. CIRILLO DI ALESSANDRIA chiama la grazia giustificante una « qualità » (ποιότης = poiotes – che ci fa santi (Hom. Pasch. 10, 2) o « una certa forma divina », che lo Spirito Santo infonde in noi (In Is. IV, 2). Cfr. S. th. I – II, 110, 2.

c) La grazia santificante non è una sostanza, ma un accidente reale, inerente alla sostanza dell’anima. Sent. certa.

Il Concilio di Trento si serve dell’espressione « inhærere » (Denz. 800, 809, 821) che caratterizza il modo di essere dell’accidente. Come accidente che modifica l’anima la grazia santificante appartiene più propriamente alla categoria della qualità, e, in quanto la modifica in modo stabile, appartiene piuttosto a quella specie di qualità che si dice abito. Siccome la grazia santificante perfeziona immediatamente la sostanza dell’anima e ha solo rapporto mediato con l’azione, vien definita come abito entitativo (a differenza dell’abito operativo). Per la sua origine l’abito della grazia santificante si dice infuso (per distinguerlo da quello innato e da quello acquisito).

d) La grazia santificante è realmente distinta dalla carità. Sent. communior.

Secondo la dottrina di S. TOMMASO e della sua scuola, la grazia santificante, come perfezione della sostanza dell’anima (habitus entitativus), è realmente distinta dalla carità che è una perfezione della volontà (habitus operativus). Gli scotisti definiscono la grazia come abito operativo realmente identico con la carità, dalla quale pertanto si distinguerebbe solo virtualmente. Il Concilio di Trento non ha decisa la questione.

Mentre in un luogo (D. 821) distingue tra carità e grazia (exclusa gratia et caritate) in un altro, riallacciandosi a Rom. V, 5, parla soltanto dell’infusione della carità (D. 800). – In favore della concezione tomista milita soprattutto l’analogia dell’ordine soprannaturale con quello naturale, la quale ci fa vedere come i doni soprannaturali che perfezionano la sostanza dell’anima siano realmente distinti da quelli che perfezionano le sue potenze, proprio come la sostanza dell’anima e le sue potenze sono tra loro realmente distinte. Cfr. S. th. I – II, 110, 3-4.

2. Determinazione teologica della grazia santificante.

a) La grazia santificante è una partecipazione alla natura divina.

Nell’Offertorio della Messa la Chiesa prega: « Concedici di diventare, mediante il mistero di quest’acqua e di questo vino, consorti della divinità di Colui che si degnò farsi partecipe della nostra umanità». Similmente nel Prefazio della festa dell’Ascensione: « Il quale salì al cielo, per far noi partecipi della sua divinità». Cfr. D. 1021. Pio XII, nell’enc. Mystici Corporis, scrive: « Se il Verbo si esinanì prendendo la forma di servo (Fil. II, 7), ciò fece anche per rendere partecipi della divina natura (cfr. 2 Piet. I, 4 ) i suoi fratelli secondo la carne, sia nell’esilio terreno con la grazia santificante, sia nella patria celeste col possesso della beatitudine eterna» (A.A.S. 1943, P. 214). – Secondo 2 Piet. 1, 4, il Cristiano viene elevato alla partecipazione della natura divina: « Per essa (la sua virtù e la sua gloria) Egli (Dio) ci ha donato grandissime e preziose promesse affinché per mezzo di queste diventiate partecipi della natura divina». Anche i testi della Scrittura che presentano la giustificazione come generazione o nascita da Dio (Gv. 1, 12; III, 5; 1 Gv. III, 1. 9; Tit. III, 5; Giac. 1, 18; 1 Piet. 1, 23) insegnano in modo indiretto la partecipazione dell’uomo alla natura divina, dacché la generazione consiste nella trasmissione della natura dal generante al generato. Con questi passi e altri ancora (Sal. LXXXI, 6; Gv. X, 34-35) i Padri hanno elaborato la dottrina della divinizzazione dell’uomo mediante la grazia (deificatio). È loro ferma convinzione che Dio si fece uomo perché l’uomo divenisse Dio, cioè fosse deificato. Cfr. ATANASIO, Or. de incarti. Verbi 54: « Il Logos si è fatto uomo perché noi diventassimo Dio ». Cfr. Contro Arianos, or. 1, 38, PSEUDO-AGOSTINO, Sermo 128, 1: Factus est Deus homo, ut homo fieret Deus. Lo PSEUDO-DIONIGI spiega la deificazione come la « massima assimilazione e unione con Dio » (De Eccl. Hier. 1, 3).

b) Circa il modo di spiegare tale partecipazione si devono evitare due estremi:

1) Non va concepita in senso panteistico come trasformazione della sostanza dell’anima nella divinità. L’infinita distanza tra il Creatore e la creatura rimane intatta. D . 433, 510, 1225, 2290.

2) Né dev’essere intesa come pura partecipazione morale consistente nella conformità al pensiero e alla volontà di Dio, analoga alla figliolanza del peccatore col diavolo (Gv. VIII, 44).

3) Essa è una partecipazione fisica (reale) alla natura divina. Consiste in un’unione accidentale, che si attua mediante un dono divino creato, che assimila ed unisce l’anima con Dio in un modo che supera tutte le forze create. L’uomo che per il corpo è vestigio e per l’anima è immagine di Dio, viene elevato, mediante la grazia santificante, alla somiglianza divina, cioè ad un grado superiore e soprannaturale di assimilazione con Dio. Cfr. S. th. III, 2, 10 ad 1: gratia, quæ est accidens, est quædam similitudo divinitatis participata in nomine. – La somiglianza soprannaturale con Dio è fatta consistere dal Ripalda in una somiglianza con la santità divina, dal Suarez in una somiglianza con la spiritualità divina. Poiché questa è per Dio il principio della sua vita, cioè della sua conoscenza e del suo amore, la grazia santificante, quale partecipazione alla medesima, è il principio della vita divina nell’uomo giustificato.

c) La somiglianza soprannaturale con Dio, che sulla terra ha il suo fondamento nella grazia santificante, si completa nell’aldilà colla visione beatifica di Dio, cioè colla partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso e alla felicità che ne deriva. Grazia e gloria stanno tra loro come il seme al frutto. La grazia è il principio della gloria (gloria inchoata) e la gloria il compimento della grazia (gratia consummata).

Cfr. S. th. II – II, 24, 3 ad 2: gratia et gloria ad idem genus referuntur, quia gratia nihil est aliud quam quædam inchoatio gloriæ in nobis. La Scrittura attesta l’identità essenziale dellagrazia e della gloria, quando insegna che il giustificato porta già in sé la vita eterna. Cfr. Gv. III, 15; III, 36; IV, 14; VI, 54.

§ 20. Gli effetti formali della grazia santificante.

1. Santificazione dell’anima.

La grazia santificante santifica l’anima. De fide.

Secondo la dottrina del Concilio di Trento la giustificazione è « santificazione e rinnovazione dell’uomo interiore » (sanctificatio et renovatio interioris hominis; D. 799). PAOLO scrive ai Cristiani di Corinto: « Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore nostro Gesù Cristo e mediante lo Spirito del Dio nostro » (1 Cor. 6, 11). Egli definisce i Cristiani santi (cfr. il prologo delle epistole) e li esorta: « Vestitevi dell’uomo nuovo; quello secondo Iddio creato in vera giustizia e santità » (Ef. IV, 24). La santità comprende negativamente l’esenzione dal peccato grave e positivamente l’unione soprannaturale permanente con Dio.

2. Bellezza dell’anima.

La grazia santificante conferisce all’anima bellezza soprannaturale. Sent. communis.

Il Catechismo romano dice della grazia santificante: « La grazia è… simile ad uno splendore e una luce che dissipa tutte le macchie delle nostre anime e le rende più belle e più splendenti » (II, 2, 49). I Padri vedono nella sposa del Cantico dei Cantici un simbolo dell’anima adorna della grazia. – S. TOMMASO dice: Gratia divina pulchrifìcat sicut lux (In Ps. XXV, 8). Quale partecipazione alla natura divina, la grazia santificante produce nell’anima un’impronta della bellezza increata di Dio e la trasforma secondo l’immagine del Figlio (Rom. VIII, 29; Gal. IV, 19), che è fulgore della gloria e impronta della sostanza di lui (Ebr. 1, 3).

3. Amicizia con Dio.

La grazia santificante fa del giusto un amico di Dio. De fide.

Il Concilio di Trento insegna che l’uomo mediante la giustificazione « da ingiusto diviene giusto, e da nemico diviene amico (di Dio) »: ex inimico amicus (D. 799). Cfr. D. 803: amici Dei ac domestici facti. Gesù dice agli Apostoli. «Voi siete gli amici miei, se fate quanto vi comando. Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa ciò che fa il suo padrone: Io vi ho chiamato amici, perché vi ho manifestato tutto quello che ho sentito dal Padre mio » (Gv. XV, 14-15). Cfr. Sap. VII, 14; Ef. II, 19; Rom. V, 10. – Dice S. GIOVANNI CRISOSTOMO della fede giustificante: « Essa ti ha trovato come un morto, un perduto, un prigioniero, un nemico e ti ha fatto un amico, un figlio, un libero, un giusto, un coerede » (In ep. ad Rom. Hom. 14, 6). – L’amore d’amicizia, come dice S. TOMMASO seguendo Aristotile (Etica Nic. VIII, 2-4) è un reciproco amore di benevolenza fondato su una comunanza di vita (S. th. II – II, 23, 1). Il fondamento dell’amicizia con Dio è la partecipazione, concessa da Dio al giusto, della natura divina (consortium divinæ naturæ). La virtù teologica dell’amore, congiunta indissolubilmente con lo stato di grazia, rende il giusto capace di ricambiare, col suo proprio, il benevolo amore di Dio.

4. Figliolanza divina.

La grazia santificante fa del giusto un figlio di Dio e gli conferisce un diritto all’eredità celeste. De fide.

Secondo il Concilio di Trento la giustificazione è « un trasferimento… nello stato di grazia e di adozione dei figli di Dio »: translatio… in statum gratiæ et adoptionis filiorum Dei ( D . 796). Il giustificato è « erede in speranza della vita eterna »: heres secundum spem vitae aeternæ (Tit. 3, 7; D. 799). La Scrittura presenta lo stato di giustificazione come una relazione di figliolanza dell’uomo con Dio. Rom. VIII, 15-17: «Non avete ricevuto spirito di servitù da ricader nel timore, ma spirito di adozione a figliuoli, in cui gridiamo: Abba, Padre! Lo Spirito stesso attesta allo spirito nostro che siamo figli di Dio. E se figli, siamo pure eredi; eredi di Dio, coeredi di Cristo ». Cfr. Gal. IV, 5; Gv. 1, 12; 1 Gv. III, 1. 2. 9. L’adozione è l’accettazione graziosa di una persona estranea per figlio ed erede (personæ extraneæ in filium et hæredem gratuita assumptio). Mentre l’adozione umana presuppone la comunanza di natura tra l’adottante e l’adottato e stabilisce solo un rapporto morale-giuridico tra le due parti, nell’adozione divina invece si ha la comunicazione, mercé una nuova generazione (Gv. 1, 13; 3, 3), di una vita soprannaturale, deiforme, che produce una comunanza fisica del figlio adottivo con Dio. Prototipo della figliolanza divina adottiva è la figliolanza divina naturale di Cristo. Rom. VIII, 29: « Egli è il primogenito tra molti fratelli». Cfr. S. th. III, 23, 1.

5. Inabitazione dello Spirito Santo.

La grazia santificante fa del giusto un tempio dello Spirito Santo. Sent. certa.

Lo Spirito Santo abita nell’anima del giusto non soltanto mediante i doni di grazia che elargisce, ma anche con la sua presenza sostanziale e personale (inhabitatio substantialis sive personalis). Cfr. D. 898, 1015, 2290. La Scrittura ci garantisce simile abitazione. 1 Cor. III, 16: « Non sapete che siete tempio di Dio, e che lo Spirito divino abita in voi? ». Cfr. Rom. V, 5; VIII, 11; 1 Cor. VI, 19.

– I Padri attestano la chiara dottrina della Scrittura. Cfr. IRENEO, Ad. Hær. V , 6, 1-2. Essi provano la divinità dello Spirito Santo contro i macedoniani dal fatto della sua abitazione nell’anima del giusto. Cfr. ATANASIO, Ep. ad Serap. 1, 24. — Per la testimonianza della liturgia si veda la liturgia pentecostale. L’inno Veni Sancte Spiritus chiama lo Spirito Santo « dulcis hospes animæ ». Circa il modo di tale presenza si deve anzitutto ritenere che lo Spirito Santo non si unisce all’anima del giusto sostanzialmente, ma solo in modo accidentale (D. 2290). Inoltre, come opera divina esterna (ad extra) e quindi comune alla SS. Trinità, l’inabitazione importa la presenza delle tre divine Persone; ma perché effetto dell’amore divino, viene appropriata allo Spirito Santo, l’amore personale del Padre e del Figlio. La Scrittura attribuisce espressamente l’abitazione anche alla prima e seconda Persona. Gv. XIV, 23: « Se uno mi ama osserverà le mie parole, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui, e in lui faremo dimora ». Alcuni teologi (Petavio, Passaglia, Scheeben, ecc.), influenzati dai Padri greci, oltre l’inabitazione comune della Trinità ne ammettono una tutta propria ed esclusiva della terza Persona. Ma non è facile conciliare simile opinione con la dottrina dell’unità delle operazioni divine esterne. – Volendo ora precisare in modo positivo in che cosa propriamente consista quest’inabitazione della Trinità, riportiamo quanto scrive Pio XII nell’enc. Mystici Corporis: « Inhabitare quidem divinæ personæ dicuntur, quatenus in creatis animantibus intellectu præditis imperscrutabili modo præsentes, ab iisdem per cognitionem et amorem attinguntur, quadam tamen ratione omnem naturam trascendente, ac penitus intima et singularis » ( D . 2290). – L’inabitazione dunque importa due cose: la presenza fisica delle Persone divine che producono e conservano in noi i doni della grazia (presenza dinamica, operativa); la presenza intenzionale che è il potere di godere Dio Padre, Figlio e Spirito Santo con atti di intelligenza e volontà, in modo soprannaturale e amichevole. Il che, come insegnava LEONE XIII nell’enc. Divinum illud, è una certa qual anticipazione e un pregustamento della visione beatifica. Di queste due presenze quale costituisce propriamente e formalmente l’inabitazione? La presenza dinamica, rispondono alcuni (ad es. Galtier); la presenza intenzionale, rispondono altri (ad es. Froget); tutte e due con prevalenza della seconda, rispondono altri ancora (ad es. Gardeil).

[4 – Continua …]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/09/26/la-grazia-note-di-teologia-dogmatica-5/

SALMI BIBLICI “DIXI CUSTODIAM VIAS MEAS” (XXXVIII)

SALMO 38: “DIXI custodiam vias meas”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 38:

[1] In finem, ipsi Idithun. Canticum David.

[2] Dixi: Custodiam vias meas;

locutus sum in lingua mea: posui ori meo custodiam cum consisteret peccator adversum me.

[3] Obmutui, et humiliatus sum, et silui a bonis; et dolor meus renovatus est.

[4] Concaluit cor meum intra me; et in meditatione mea exardescet ignis.

[5] Locutus sum in lingua mea: Notum fac mihi, Domine, finem meum, et numerum dierum meorum quis est, ut sciam quid desit mihi.

[6] Ecce mensurabiles posuisti dies meos, et substantia mea tamquam nihilum ante te. Verumtamen universa vanitas, omnis homo vivens.

[7] Verumtamen in imagine pertransit homo; sed et frustra conturbatur: thesaurizat, et ignorat cui congregabit ea.

[8] Et nunc quae est exspectatio mea: nonne Dominus? Et substantia mea apud te est.

[9] Ab omnibus iniquitatibus meis erue me: opprobrium insipienti dedisti me.

[10] Obmutui, et non aperui os meum, quoniam tu fecisti;

[11] amove a me plagas tuas.

[12] A fortitudine manus tuæ ego defeci in increpationibus, propter iniquitatem corripuisti hominem: et tabescere fecisti sicut araneam animam ejus: verumtamen vane conturbatur omnis homo.

[13] Exaudi orationem meam, Domine, et deprecationem meam; auribus percipe lacrimas meas. Ne sileas, quoniam advena ego sum apud te, et peregrinus sicut omnes patres mei.

[14] Remitte mihi, ut refrigerer priusquam abeam et amplius non ero.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXXVIII

Brevità e vanità della vita presente. Frenare la lingua da ogni rissa pei beni temporali, che sono ombra, onde non perdere gli eterni. Per tal dottrina il salmo è da cantare tino alla fine del mondo. Idithun è uno dei tre capi cantori dei salmi ai quali Davide lo diede da mettere in musica e cantare.

Per la fine, a Idithun, cantico di David

1. Io dissi: Starò attento sopra di me per non peccare con la mia lingua. Posi un freno alla mia lingua, allorché veniva in campo contro di me il peccatore.

2. Ammutolii e mi umiliai, e di cose anche buone non parlai; ed il dolor mio rincrudì.

3. Si accese dentro di me il cuor mio, ed un fuoco divampò nelle mie considerazioni.

4. Dissi colia mia lingua: Signore, fammi conoscere il mio fine, e qual sia il numero dei giorni miei, affinché io sappia quel che mi avanza.

5. Certo, che a corta misura tu hai ridotto i miei giorni, e la mia sussistenza è come un nulla dinanzi a te. Certamente mera vanità egli è ogni uomo vivente

6. Certamente l’uomo passa come ombra: i di più si conturba senza fondamento. Tesoreggia, e non sa per chi egli metta da parte.

7. E adesso la mia aspettazione qual è, se non  tu, o Signore, in cui è la mi sussistenza?

8. Liberami da tutte le mie iniquità: tu mi hai renduto oggetto di scherno allo stolto.

9. Ammutolii, e non apersi la mia bocca, perché opera tua ell’è questa:

10. Rimuovi da me i tuoi flagelli.

11. Sotto la tua mano forte io venni meno quando mi correggesti: tu, per ragion dell’iniquità, castigasti l’uomo. E l’anima di lui facesti che a guisa di ragno si consumasse: certamente indarno l’uomo si conturba.

12. Esaudisci la mia orazione, o Signore, e le mie suppliche: dà udienza alle mie lagrime. Non istarti in silenzio, perocché forestiero e pellegrino son io davanti a te, come tutti i padri miei.

13. Fa pausa con me, affinché io abbia refrigerio avanti ch’io me ne vada da un luogo, dove più non sarò.

Sommario analitico

Davide, obbligato a fuggire davanti ad un figlio ribelle, esposto alle maledizioni di Semei, in questa rivolta di suo figlio e del suo popolo, punizione del peccato da lui commesso, considera in spirito il mistero del peccato dei nostri progenitori, che in seguito alla loro disobbedienza ed alla loro ingratitudine, furono cacciati dal paradiso, persero la loro felicità e videro tutte le creature rivoltarsi contro di loro, e da lì prende occasione per descrivere e deplorare la vanità e le miserie della vita presente. Questo Salmo ha molte analogie con il discorso di Giobbe, ed è improntato alla più toccante tristezza.

I. – Davide dichiara di aver preso la risoluzione di soffrire con pazienza ed in silenzio tutte le prove che gli venivano inviate:

1° Egli veglia attentamente sulle sue voci, col vigilare sulle sue parole e con la fuga dal peccato, soprattutto in presenza del peccatore (1, 2); – 2° egli costudisce la sua lingua col silenzio, con l’umiltà, con la pazienza (3); – 3° I tre effetti di questa vigilanza, di questo silenzio, sono per l’avvenire: evitare i peccati della lingua; per il passato, un dolore vivissimo delle colpe commesse; per il presente, una preghiera più fervente che gli ottenga la conoscenza circa la brevità della vita (4, 5).

II. – Deplora la miseria e la vanità della vita presente:

– 1° essa è breve, di poca durata (6); – 2° essa è fragile (6); 3° – non è che vanità (6); – 4° è cangiante e piena di instabilità (7); – 5° è sottomessa a turbamenti, inquietudini (7); – 6° essa è piena di affanni nella ricerca di ricchezze; – 7° lascia l’uomo nell’incertezza di ciò che avverrà (7).

III. – Considera tutti gli uomini come pellegrini e viaggiatori di quaggiù e nella sua persona insegna loro a non guardare che Dio solo.

1° egli fa conoscere quale sia la fine della nostra vita sulla terra: a) il fine eterno è Dio stesso (8); b) il fine accidentale, sono i beni che saranno dati ai beati in cielo (8).

2° gli ostacoli che l’uomo incontra nella sua via: a) un ostacolo interiore, il peccato, di cui chiede a Dio di essere liberato (9); b) un ostacolo esterno, i nemici per i quali è divenuto oggetto di obbrobrio (9).

3° Il soccorso che Dio gli concede in questa via: a) il silenzio e la conformità alla volontà di Dio (10); b) l’esperienza della sua misericordia (11); c) il timore dei castighi della sua giustizia (12); d) l’umiltà e la mortificazione, in seguito alla conoscenza delle proprie iniquità e delle pene che esse meritano (12); e) il disprezzo del mondo in cui l’uomo si agita e si turba inutilmente (12); f) la preghiera fervente; g) la compunzione e le lacrime per le colpe commesse (13); h) il desiderio dei beni eterni (13); i) il desiderio di arrivare alla perfezione prima del termine della vita (14).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-5.

ff. 1. – Io ho detto, o in altri termini, mi sono proposto, ho preso la ferma risoluzione, mi sono fatto un obbligo, ho detto al mio cuore: « osserverò con cura le mie vie ». Se io avessi fatto questa promessa a qualcuno, dovrei osservarne la parola; quanto più devo essere fedele quando ho preso questa decisione nei miei riguardi (S. Ambr.). – Quanto è importante non peccare con la lingua: « Noi facciamo tutti tanti peccati, ma se c’è qualcuno che non pecca con la parola, questi è un uomo perfetto, e può condurre tutto il corpo come con un freno ». (Giac. III, 8). – Colui che bada alla sua lingua, bada alla sua anima, ma colui che agita incessantemente le proprie labbra conoscerà il male (Prov. XIII, 3). – « La lingua è un male inquieto, pieno di veleno mortale » (Giac. III, 8), cosa che ha fatto dire a S. Crisostomo, che … la lingua ha fatto un numero di vittime più grande della spada. – Come esempio, c’è quel monaco che, ai tempi di S. Attanasio, chiedeva che gli spiegasse questo salmo, ed avendo inteso la spiegazione del primo versetto, non volle ascoltare la spiegazione dei seguenti. Se io posso mettere in pratica questo primo versetto – egli diceva – ciò mi è sufficiente; e dopo quaranta anni affermava che era appena giunto ad adempierlo. – E quando non è necessario parlare, restiamo in silenzio. La vanità e le maldicenze che sostengono tutto il traffichio del mondo, devono farci temere tutte le conversazioni, e nulla dovrebbe esserci così gradito e sicuro come il silenzio e la solitudine.

ff. 2. – « Ho messo un freno alle mie labbra ». Perché? È a causa dei giusti, degli zelanti, a causa dei fedeli e dei santi? No. Questi ascoltano in tal modo che lodano ciò che essi approvano, e tra le grandi cose che essi lodano se per caso c’è qualcosa che essi disapprovano, la scusano piuttosto che farne oggetto di calunnia. Chi sono dunque costoro a causa dei quali volete custodire le vostre vie, e mettere un freno alle vostre labbra? « Nel tempo che il peccatore si erge contro di me ». Egli non dice: « Si tiene in piedi davanti a me », ma « rimane in piedi contro di me ». Perché, cosa posso dire perché lo soddisfi? Io parlo di cose spirituali ad un uomo carnale che vede ed intende l’esterno, mentre per le cose interiori è sordo e cieco. In effetti, « l’uomo animale non è capace di comprendere le cose che sono dello spirito di Dio » (I. Cor. II, 14). – E se non era un uomo animale, sarebbe mai un calunniatore? Beato colui che parla ad un orecchio che l’ascolta (Eccli. XXV, 12), e non all’orecchio del peccatore che si erge contro di lui! Che direste voi, in effetti, ad uomini gonfi di orgoglio, pieni di agitazioni, calunniatori, litigiosi, avidi di parole? Cosa direste di santo, di pio, di religioso, di superiore ai loro pensieri, quando il Signore stesso ha detto a coloro che lo ascoltavano con gioia, che desideravano istruirsi, che avrebbero aperto la loro anima affamata del nutrimento di verità che avrebbero ricevuta avidamente: « … Io ho ancora molte cose da dirvi, ma voi non potete sopportarle adesso »? (Giov. XVI, 12). – Ma cosa dire di simile al peccatore che si erge contro di me, e si crede capace o finge di essere capace di comprendere ciò che non comprende realmente? Dopo aver parlato senza essere stato compreso, egli immaginerà non di non aver compreso, ma che sia io in errore (S. Agost.). – La ragione principale per la quale noi dobbiamo mettere un freno alle nostre labbra, quando siamo in presenza del nostro nemico, è che noi gli diamo una presa su di noi. Noi saremmo stati vincitori nella sua prima lotta con il genere umano, se Eva avesse mantenuto il silenzio. Il primo peccato prese dunque origine da una parola ed è con la parola che il serpente ci ha tentati. E sarebbe piaciuto a Dio che Adamo fosse stato sordo per non sentire le parole della sua sposa, o che Eva non avesse aperto la bocca per non versare nell’animo del marito il veleno che il serpente le aveva comunicato! (S. Ambrog.). –

ff. 3. – Ci sono delle circostanze in cui come uno degli amici di Giobbe, Eliu, noi siamo pieni di verità, in noi c’è uno spirito che ci spinge; il nostro cuore è come un vaso chiuso che si spacca per la forza del vino nuovo. (Giob. XXXII, 18, 19). – È allora che noi con una sola parola potremmo confondere la calunnia, o dissipare dei pregiudizi ostili, delle ingiuste prevenzioni, che ci fanno tacere assolutamente, umiliarci davanti a Dio, ed astenere dal dire anche delle buone cose per paura di offendere la carità, la dolcezza o l’umiltà. – Al pensiero di aver soppresso il bene che dovevo affermare, il mio dolore è ricominciato. Io ho cominciato a soffrire più nell’aver taciuto ciò che dovevo dire, piuttosto che per aver detto ciò che non dovevo dire (S. Agost.). Io ho taciuto su quel che doveva essere la testimonianza della mia coscienza; e non ho cercato di giustificarmi davanti agli uomini perché io so che il Padre celeste che mi vede nel segreto mi renderà giustizia (S. Gir.). – C’è qui il linguaggio di un vero penitente che non osando più, alla vista delle proprie cadute, parlare con Dio nella preghiera, dire: Signore io ho taciuto alla vostra presenza; la mia umiliazione e la mia confusione hanno parlato per me. E allora nel silenzio dell’onta e della compunzione, il dolore dei miei crimini si è rinnovato. Il mio cuore, penetrato dalle mie ingratitudini e dalle vostre misericordie, si è infiammato di un nuovo amore per voi; e tutto ciò che io ho potuto dire, o mio Dio, nella profonda umiliazione nella quale mi teneva davanti a Voi la vista delle mie miserie, è che ogni uomo non è che un abisso di debolezza, di corruzione, di vanità e di menzogna. Ecco il silenzio della compunzione che forma davanti a Dio la vera preghiera (Massill., Sur la Prière).

ff. 4. – Questo silenzio è una eccellente preparazione alla preghiera ed alla meditazione. – Felice e santa meditazione che non si fa con cuore freddo e languente, ma con un cuore tutto acceso alla vista ed per il dolore dei propri peccati, – È un fuoco divino illuminato nel fondo dell’anima, che non serve che a distruggere il peccato ed a purificare il cuore, fuoco che si accende con la meditazione delle Scritture divine; fuoco simile a quello che ardeva nel cuore dei due discepoli di Emmaus, mentre Gesù parlava loro. « Non era il nostro cuore ardente, quando ci spiegava le Scritture? » (Luc. XXIV); ma soprattutto quel fuoco che Gesù è venuto a portare sulla terra e col quale desidera vedere che sia tutto ardente (Luc. XII, 49) (Duguet). – Ci sono nella vita dei momenti in cui la preghiera apporta una dolcezza deliziosa; essi sono brevi e fuggitivi come i raggi della luna quando, spuntando a tratti tra le dense nubi, illuminano per un istante la sommità delle rocce e spariscono, ma sono sufficienti a sostenere un’anima per più giorni; così ancora, dopo la santa Comunione, minuti rubati alla terra, noi portiamo come Maria, nel nostro seno, il Signore del cielo e della terra, ne sentiamo la presenza, abbiamo tante cose da dire che restiamo muti; un calore soprannaturale riscalda il nostro sangue e in un batter d’occhio abbiamo scalato una montagna sulla strada del cielo. (Faber, Le Créât., et la Créât., L. III, ch. IV.).

ff. 5. – Questo versetto non è in contraddizione con il secondo. In quest’ultimo Davide vegliava nel non peccare con la sua lingua. In questo qui, egli la lascia parlare per indirizzarsi liberamente a Dio, dal momento che tutti i pensieri sono gravi, tutte le parole sono misurate; in una parola, quando era occupato dall’idea della sua morte che poteva credere prossima. « … Io ho sciolto la mia lingua ed ho parlato ». A chi? Non a colui che mi ascolta e che voglio istruire, ma a Colui che mi può esaudire e dal quale voglio essere istruito. « … Io ho sciolto la mia lingua ed ho parlato » a Colui che sento interiormente, quando viene a porgermi qualche cosa di buono e di vero. Ma cosa avete detto? Egli ha detto: « … Signore fatemi conoscere la mia fine, il fine che devo perseguire, e non la corsa che io seguo ora » (S. Agost.). – Davide non chiede, come sembrerebbero indicare le espressioni di cui si serve, di sapere quanto tempo gli resti fino alla morte, cosa che potrebbe essere una curiosità temeraria e colpevole; egli prega Dio di non permettere che egli abusi, come fanno la maggior parte degli uomini, nel considerare durevole ciò che è invece di breve durata, e di fargli vedere chiaramente che il termine della sua vita è già a lui vicino (Bellarm.). – Orbene, fatemi conoscere quale sia la mia fine, affinché sappia quel che mi manca, finché sono su questa terra, per ottenere la ricompensa eterna (S. Girol.). – Ebbene « fatemi conoscere il numero dei miei giorni qual è ». Il numero degli anni dei quali non è; i giorni presenti non sono reali, e non si può dare un sì gran nome a questa corsa precipitevole di anni fuggitivi. « Fatemi conoscere dunque qual sia il numero dei miei giorni »: numero senza numero, giorno senza giorno, come è in questa Gerusalemme, sposa del mio Salvatore, ove non ci sarà né morte né cambiamento, né giorno passeggero, ma dove c’è un solo giorno eterno, senza una veglia che lo preceda, né un domani che lo cancelli (S. Agost. e S. Gerol.). « Affinché io sappia ciò che mi manca », perché io non sono ancora giunto e non sono ancora perfetto, « ma io proseguo la mia corsa per cercare di giungere là dove Gesù Cristo ha voluto condurmi » (Filipp. III, 13), e se dovessi inorgoglirmi del punto in cui già sono, avrei da temere, arrivando alla mia fine, di trovarmi sprovvisto di giustizia. Comparando così ciò che è con le cose che veramente non sono, e vedendo quel che mi manca e non possiedo, io sarò più umile alla vista di ciò che mi manca, piuttosto che orgoglioso delle cose che possiedo (S. Agost.).

II. — 6-7.

ff. 6. – Ecco la bella meditazione con cui Davide si intrattiene sul trono, al centro della sua corte: o eterno Re dei secoli, voi vi ritirate sempre in Voi stesso, il vostro essere eternamente immutabile, non scorre, né muta, né si misura, « ed ecco che Voi avete fatto i miei giorni misurabili, e la mia sostanza non è nulla davanti Voi », e tutto l’essere che si misura non è niente, poiché ciò che si misura ha il suo termine, e quando è arrivato questo termine, un ultimo punto distrugge tutto; come se non fossi mai esistito. È così, tutto ciò che si misura finisce; e tutto ciò che è nato per finire, non è uscito affatto dal nulla, dove ripiomba presto. Se il nostro essere, se la nostra sostanza è nulla, tutto ciò che noi vi costruiamo sopra, cosa può essere? Né l’edificio è più solido del fondamento, né l’accidente legato all’essere più reale dell’essere stesso. Cosa sono cento anni? Cosa sono mille anni … ché un solo attimo cancella? Moltiplicate i vostri giorni, come i cervi che la favola o la storia della natura fa vivere per tanti secoli; durate pure quanto queste grandi querce sotto le quali i nostri antenati si sono riposati, e che daranno ancora ombra alla nostra posterità; ammassate in questo spazio che sembra immenso, onori, ricchezze, piaceri; cosa vi profitterà questo cumulo, poiché l’ultimo soffio della morte, così breve, languido, abbatterà tutto ad un colpo questa vana pompa con la stessa facilità di un castello di carte, vano divertimento dei bambini? E a cosa vi servirà avere scritto tanti libri, l’averne riempite le pagine di bei caratteri, quando poi una sola cancellatura deve tutto eliminare? Almeno una cancellatura lascia qualche traccia di se stessa, mentre questo ultimo momento che cancellerà tutto ad un tratto la vostra vita, si perderà esso stesso con tutto il resto in questa voragine del nulla: sulla terra non resta nessuna vestigia di ciò che noi siamo. Cos’è dunque questa mia sostanza, o gran Dio? Io entro nella vita per uscirne presto; io vengo ad affacciarmi come gli altri; dopo bisognerà sparire. Tutto ci chiama alla morte; la natura, come se fosse quasi invidiosa del bene che ci ha fatto, ci dichiara spesso e ci fa capire che non può lasciarci per lungo tempo questo poco di materia che ci presta, che resta nelle stesse mani, e che deve essere eternamente in movimento: essa ne ha bisogno per altre forme, la richiede per altre opere. Questo ricrearsi continuamente del genere umano, voglio dire dei bambini che nascono, man mano crescono ed avanzano, e sembra che alzino le spalle e dicano: ritiratevi, ora è il nostro turno. Così come noi ne vediamo passare altri davanti a noi, altri ci vedranno passare, e diventano a loro volta successori dello stesso spettacolo. O Dio, ancora una volta, cosa ne è di noi? Se getto lo sguardo davanti, quale spazio infinito davanti a me! Se mi guardo dietro, quale terribile sequela in cui io non sono più, ed occupo un piccolo posto in questo abisso immenso del tempo! Io non sono niente, ed un piccolo intervallo non è capace di distinguermi dal niente. Ancora, se vogliamo discutere le cose in una considerazione più sottile, non è l’estensione della nostra vita che ci distingue dal niente, e voi sapete che non c’è che un momento che ce ne separi. Ora ne teniamo uno; esso perisce e con esso periremo tutti, se prontamente e senza perdere tempo non ne afferriamo un altro simile, finché infine ne arriverà uno al quale non potremo giungere qualunque sforzo facciamo per allungarci; e allora cadremo tutto ad un tratto, senza sostegno. O fragile appoggio del nostro essere! O fondamento rovinoso della nostra sostanza. Ah! L’uomo passa veramente come un ombra, meno di un’immagine in figura, e come questa non ha nulla di solido, non insegue così che cose vane, l’immagine del bene, e non il bene stesso: così passa come un’ombra, ed è solo in voi che si turba e si agita (Bossuet, Serm. s. la mort). – « E la mia sostanza non è nulla davanti a voi ». Davanti a me questo niente è qualche cosa ed anche tutte le cose, ma davanti a Voi, ciò che io chiamo tutte le cose, si confonde e si perde in questo niente; e la morte, che ogni vivente deve considerare come suo inevitabile destino, fa generalmente e senza eccezioni, di tutti i beni che possiede, di tutti i piaceri di cui gode, di tutti i titoli di cui si glorifica, un abisso di vanità (Bourd. Sur la pens. de la mort). – Vanità generale ed universale di tutto ciò che è sulla terra, o piuttosto abisso impenetrabile di vanità. Ogni uomo vivente non è che vanità in tutto ciò che è, in tutto ciò che sembra possedere, nella sua anima, nel suo corpo, nei beni della fortuna. – Ogni uomo vivente non è che vanità, finché è nel mondo, mentre è rivestito di una carne mortale, tanto che la sua vita sulla terra non è che tentazione, mentre geme in mezzo agli scandali, mentre teme di cadere benché in piedi, tanto che tutto è ancora incerto per lui, e il male, e il bene (S. Agost.).

III. — 7 – 14.

ff. 7. – Noi viviamo quaggiù, ma con una vita che non è che l’ombra, una pallida immagine della vita e non la vera vita; noi non abbiamo che l’ombra dei veri beni, dei solidi piaceri e della vita di gloria. Così l’uomo pensa e cammina come un’ombra, come un’immagine, come un fantasma, senza lasciare più traccia come non la lascerebbe il passaggio di un’immagine (S. Ambrog.). – E questa nostra vita non è simile ad una vera morte? I giorni passano con rapidità, il giorno presente ha cancellato il giorno di ieri ed il giorno di domani sta per nascere presto per cancellare il giorno presente (S. Agost.). Questa età che noi contiamo e in cui tutto ciò che noi contiamo non è più nostro, è una vita? E potremo non accorgerci di ciò che perdiamo incessantemente con gli anni? (Bossuet, Or. fun. de Mar. Ther.). – L’uomo si turba, è in continua agitazione, ma si turba inutilmente, perché questo avviene per imprese che la morte non farà compiere, per intrighi che la morte confonderà, per speranze che la morte farà svanire. Egli si affatica, per ammassare ed accumulare, ma il suo guaio è di non sapere nemmeno per chi egli accumuli, né chi profitterà del suo lavoro, se questi saranno dei figli o degli estranei, se saranno eredi riconoscenti o degli ingrati, se saranno dei saggi o dei dissipatori (Bourd. ibid.). « Io ho detestato tutto questo lavoro per il quale mi sono affaticato sotto il sole, perché dopo di me doveva venire un erede, saggio o insensato – io l’ignoro – che possiederà i miei lavori ed i miei sudori, e i miei affanni, e anche questo è vanità » (Eccl. II, 18).

ff. 8, 9. –  « Ed ora dunque qual è la mia aspettativa? Non è il Signore? » Questa è la mia aspettativa, la mia speranza da cui vengono tutte le cose che io disprezzo; Egli si darà Lui stesso a me. Lui che è al di sopra di tutto, per il Quale tutte le cose sono state fatte, e che mi ha fatto tra tutte le cose. « E quel che possiedo è davanti a Voi. »  Io già avanzo, già avanzo verso di Voi, già comincio ad essere, e tutto il mio bene è in Voi. I beni della terra, voi li possedete davanti agli uomini; voi possedete l’oro, voi possedete denaro, dei beni, degli alberi, delle greggi, dei servitori; tutte queste cose, gli uomini possono vederle; ma i veri beni, la pace di una buona coscienza, la speranza dei beni eterni, voi li possedete solo agli occhi di Dio. (S. Agost.- S. Girol.). – « Ed ora, qual è la mia speranza, non è il Signore? » Gesù Cristo, ecco la nostra speranza e la nostra pazienza! Egli è diventato la nostra redenzione, è la nostra attesa e ciascuno di noi può dire: « Io ho atteso e non mi sono lasciato attendere dal Signore ». Guardatemi dunque, Signore, nella vostra giustizia. Abbassate su di noi gli sguardi della vostra misericordia, affinché noi, che ci vantiamo sì giustamente dei nostri meriti, siamo liberati dalla vostra misericordia, nelle mani della quale riposa tutta la sostanza della nostra anima e della nostra vita. Noi non temiamo la morte del corpo, ma temiamo colui che può conservare o perdere la nostra anima, la cui sostanza è una virtù che Dio ha creato a sua immagine e che ha posto nel cuore dell’uomo (S. Ambrog.). – Tali sono le felici disposizioni in cui si stabilisce un’anima fedele che rivolge tutti i suoi pensieri verso il cielo e non si occupa che del regno di Dio ove è chiamata. Vedete le grandezze del mondo, le fortune del mondo? Tutto questo non la tocca perché ella sa che non è fatta per tutto questo, ma è destinata a qualche cosa di più grande. « Io ho pregato il Signore », ella dice con il Re-Profeta, e Gli ho chiesto « che mi faccia conoscere il mio fine ». Io ho considerato che i miei giorni sono misurati, e che tutta la vita dell’uomo quaggiù non è che vanità, che egli accumula senza sapere per chi, e dopo essersi affaticato inutilmente, sparisce come un sogno. Qual è dunque la mia speranza, io ho concluso, « non è il Signore e quel che mi riserva nella sua gloria? » (Bourd. Sur le Bonheur du ciel.). – In qualunque grado di perfezione noi siamo arrivati, « se noi diciamo che non abbiamo peccato, noi inganniamo noi stessi e la verità non è in noi » (1 Giov. I, 8). Io ho lasciato molte cose, ma ancora mi batto il petto e dico: « rimettete i miei debiti ». Liberatemi da tutte le mie iniquità, non solo da quelle che potrebbero farmi tornare indietro, e perdere terreno che ho guadagnato, da tutte assolutamente, anche da quelle per le quali ho ottenuto perdono (S. Agost.). – Perché io disprezzo le cose della terra, perché io mi guardo dal mettere la mia gioia nelle cose passibili, perché io mi espongo alle beffe dell’avaro che si vanta della sua prudenza e si burla della mia follia; perché io agisco così, e vado per questa strada, « … voi mi avete, egli dice, dato in obbrobrio all’insensato ». Voi volete che io viva, che io predichi la verità in mezzo a coloro che amano la vanità: io non posso evitare le loro beffe. In effetti, noi siamo dati come spettacolo per il mondo, per gli Angeli ed il mondo (1 Cor. IV, 9). A destra e a sinistra, noi abbiamo delle armi con le quali combattiamo per la gloria e per l’ignominia, per l’infamia e per la nomea.

ff. 10-12. –  « Io ho taciuto e non ho aperto bocca, perché siete Voi che l’avete fatto »; vale a dire Voi mi avete consegnato all’insensato come un oggetto di disprezzo, ecco perché io ho taciuto: per non rendermi colpevole di peccati più grandi. Io ho riconosciuto la vostra volontà ed ho acconsentito ad essere, per un certo tempo, coperto da onta, per poter essere infine salvato chiedendo il perdono (S. Ambr.). – Il Re-Profeta non dice assolutamente. « Io non sarò più », lui che dice altrove: « io piacerò al Signore nella terra dei viventi ». Egli “sarà” dunque, perché esprime la speranza di piacere al Signore. Si possono comprendere dunque queste parole in questo senso. « Io sono straniero e pellegrino come tutti i miei padri »; perdonatemi dunque affinché non cessi di essere straniero, rimettetemi la pena dell’esilio in cui sono stato relegato. Se mi rimetterete questa pena prima che lasci questa terra, io cesserò di esservi estraneo ed esiliato, e diventerò cittadino dei Santi. Io sarò dunque con i miei padri, che sono stati anch’essi pellegrini e stranieri, e che sono ora cittadini ed abitanti del cielo. Io farò parte della casa di Dio, e a questo titolo, cesserò di temere il castigo, per meritare la grazia della ricompensa (S. Ambr.). – Nelle persecuzioni da parte degli uomini, non bisogna guardare la mano del persecutore, ma alzare gli occhi della fede fino alla mano invisibile di Colui che Egli stesso colpisce, ed accettare senza lamentarsi tutto i malanni che possono arrivare perché è Dio che lo fa. Bisogna soltanto pregarLo di allontanare da noi le nostre piaghe, che sono le tenebre dello spirito e l’indurimento del cuore. – Terribile è la mano di Dio che si appesantisce sul peccatore. Questo peso insopportabile che fa cadere nello smarrimento, giunge quando Dio riprende il suo furore, vale a dire quando un crimine diviene il castigo di un altro crimine (Duguet). – « Voi avete istruito l’uomo a causa della sua iniquità ». Il mio smarrimento, la mia debolezza, il grido che levo dal fondo della mia miseria, tutto questo viene dalla mia iniquità; e in tutto questo Voi mi avete istruito e non mi avete condannato. Un altro salmo ci fa comprendere ancora più chiaramente questo pensiero: « per me è bene che mi abbiate umiliato, perché apprenda così i vostri comandamenti » (Ps. CXVIII, 71). Io sono stato umiliato, e questa umiliazione mi è salutare, essa è nello stesso tempo un castigo ed una grazia. Cosa ci riserva, dopo il castigo, Colui che ci invia il castigo come una grazia? (S. Agost.). – « … Voi avete fatto disseccare la mia anima come un ragno ». Cosa c’è di più fragile di un ragno? Io parlo dell’insetto in sé, ma potrei dire soprattutto: cosa di più fragile della tela di un ragno? Notate come questo insetto sia così poca cosa. Mettete leggermente il dito sopra di esso, ed esso è ridotto in poltiglia; non c’è nulla di assolutamente più fragile. È così che è diventata la mia anima – dice il Profeta – quando Voi mi avete istruito a causa della mia iniquità. Poiché l’istruzione l’ha resa debole, essa aveva dunque in precedenza qualche vizio nella forza. Bisogna che l’uomo dispiaccia a Dio per la sua forza, per essere così istruito dalla debolezza; egli lo ha dispiaciuto con l’orgoglio, ed ha dovuto essere istruito dall’umiltà (S. Agost.). non perseguiamo dunque cose futili e vane, se non vogliamo tessere noi stessi ragnatele, perché il peccato non può avere nessuna speranza di durata e stabilità. Quando vedete allora che l’uomo si applica interamente ad aumentare lo proprie ricchezze, ad accumulare onori, a condurre una vita di ostentazione e di bagliori, ripeterete questa parola del profeta Isaia: « … essi hanno tessuto in un giorno una ragnatela che non può durare a lungo; essa si lacera al minimo strappo, e tutto il lavoro si trova annientato ». In effetti questo lavoro non è poggiato su di un solido fondamento, ma è sospeso nel vuoto. Nessun riposo, nessuna mollezza conviene ad un vero soldato di Gesù Cristo; perché è nel palazzo del re che si trovano coloro che sono vestiti mollemente. Gli avari si piccano di essere scaltri, attivi e vigilanti. Cosa di più scaltro, di più attivo e vigilante del ragno applicato giorno e notte al suo lavoro, che ordisce la sua tela, il suo vestito senza alcuna spesa? Ma tutto il suo lavoro è vano e futile. Così è ogni uomo che non ripone le sue opere sul vero fondamento che è Gesù Cristo. Egli si agita e si turba giorno e notte, perché, sull’esempio del ragno, è in mezzo agli sforzo delle sue ingiuste cupidigie che viene sorpreso dalla rovina delle sue imprese (S. Ambrog.). – Che istruttiva similitudine tra il ragno ed il peccatore avaro ed orgoglioso! Il ragno è pieno di veleno, e raccoglie il suo veleno sugli stessi fiori ove l’ape raccoglie il suo miele. L’avaro, l’orgoglioso, trova l’occasione di peccare là dove il giusto trova il mezzo per elevare la sua anima a Dio. Il ragno esaurisce tutta la sua sostanza, lavora con alacrità e per lungo tempo per ordire la sua tela, l’opera più fragile che egli tesse nel vuoto e che non riposa su alcun solido fondamento, un colpo di scopa basta a distruggere in un istante il lavoro di diversi giorni: è questa l’immagine dell’avaro, dell’orgoglioso, che non appoggia la sua opere su Gesù Cristo, che si consuma inutilmente in vani sforzi per accumulare ricchezze, per ottenere onori, che il primo colpo di vento porta via. La tela del ragno, fatta con tanta pena, non serve che a prendere mosche: immagine troppo reale di questa continua agitazione degli uomini del mondo che riempiono tutto il loro tempo, mettono tutta la loro applicazione nel prendere mosche e che vedono come la loro morte distrugga di colpo tutto il lavoro di svariati anni. – Il ragno si avvolge nella sua tela e cade con essa, e coloro che vogliono diventar ricchi cadono nelle trappole di satana, e in desideri inutili e perniciosi che precipitano gli uomini nella morte e nella dannazione. « In verità, è invano che gli uomini si turbino e si inquietino », perché a che serve all’uomo guadagnare tutto l’universo, se poi perde la propria anima? – In qualunque progresso l’uomo faccia quaggiù, è per le vanità che si turba finché vive, perché egli vive sempre nell’incertezza. Perché, chi può essere sicuro del bene che ha fatto? « Egli si turba per le vanità ». Getta tutto il tuo affanno nel seno di Dio (Ps. LIV, 23); che getti nel seno di Dio tutta la sua sollecitudine; e lasci che sia Dio a nutrirlo e a prendersene cura. Perché, cosa c’è di certo sulla terra, se non la morte? Considerate i beni e i mali di questa terra senza eccezioni: sia che viviate nella giustizia, o nell’ingiustizia, cosa c’è di certo su questa terra se non la morte? Avete fatto progressi nel bene: voi sapete cosa siete oggi, ma non sapete cosa sarete domani. Voi siete peccatore. Non sapete ciò che siete oggi, non sapete ciò che sarete domani. Da qualunque lato vi giriate, tutto è incerto, la morte sola è certa! Voi siete povero, non è sicuro se diventiate ricco; voi siete illetterato, è incerto se vi istruirete; voi siete debilitato a causa di una malattia, non è sicuro che recupererete le vostre forze; voi siete nato, è certo però che morirete, ed anche in questa certezza della morte, il giorno della morte resta incerto. In mezzo a tante incertezze, con la morte come unica certezza, benché incerta nell’ora, questa è la sola cosa che si cerca assolutamente di sfuggire, benché non la si possa evitare in alcun modo, solo per vanità ogni uomo che vive, si turba (S. Agost.).

ff. 13, 14. – La preghiera è la semplice domanda, la supplica, un grido dell’anima, delle lacrime, l’amore, la cui voce si fa intendere davanti a Dio più che alcuna altra parola. – Benché abbia lasciato ogni difficoltà, e che mi sia elevato al di sopra degli ostacoli, non devo più piangere? Non devo piangere ancor più? Perché acquistare la scienza è acquistare il dolore (Eccle. I, 18). Non è giusto che più io desideri ciò che è assente e più debba gemere, che più pianga finché non giunga? Non è giusto che io pianga per quanto gli scandali diventino più frequenti, che l’iniquità si moltiplichi, che la carità di un gran numero si raffreddi ancor più. – Non restate in silenzio davanti a me, io vi ascolterò; perché Dio parla in segreto, parla a molti uomini nel loro cuore e la sua parola rimbomba fortemente in mezzo ad un profondo silenzio di questo cuore, quando Egli dice con voce potente: « Io sono la vostra salvezza » (S. Agost.). « Perciò io sono davanti a Voi come uno straniero e come un pellegrino ». – la vostra patria è dunque il cielo, è in cielo la vostra casa: « io sono davanti a Voi come un ospite ed un pellegrino ». Bisogna comprendere anche « pellegrino presso di Voi ». In effetti molti sono pellegrini presso il demonio; al contrario coloro che già hanno creduto e sono rimasti fedeli, senza dubbio sono ancora pellegrini, perché non sono giunti alla patria e alla casa eterna, ma eppure sono presso Dio. In effetti, intanto che siamo nel nostro corpo, noi viaggiamo lontano da Dio, e sia che ci fermiamo, sia che camminiamo, noi facciamo tutti i nostri sforzi per piacergli. « Io sono davanti a Voi come un ospite ed un pellegrino, come lo sono stati tutti i miei padri. » Se dunque sono come tutti i miei padri, potrò mai dire che non lascerò questo mondo, visto che tutti lo hanno lasciato? Devo io dimorare qui in condizioni diverse da come essi hanno dimorato? (S. Agost.). Un viaggiatore non guarda che di passaggio gli oggetti che gli si presentano davanti agli occhi, e non si ferma a considerarli; egli usa il nutrimento che gli è necessario, ma non si carica troppo e non fa grandi provvigioni; uno straniero non fa grandi costruzioni in un luogo ove non progetta di fermarsi, e non pensa piuttosto che tornare alla sua patria. – « Perdonatemi, affinché io respiri un po’ prima che mi dilegui e più non sia »; vale a dire perdonatemi nel luogo stesso in cui ho peccato. Se non mi perdonerete quaggiù, io non potrò trovare in cielo il riposo del perdono, perché chi è stato legato sulla terra, resterà legato nel cielo, e chi sarà stato slegato sulla terra, sarà slegato nei cieli (S. Ambr.). – Quale uomo provato da grandi afflizioni non si è lasciato sfuggire dal cuore questa toccante preghiera di Davide? Come è nella nostra debole natura desiderare tra una vita agitata, tormentata, piena di dolori e di inquietudini, e la morte che sta per metterci alla presenza del Giudice supremo, Dio ci accordi qualche intervallo di riposo che ci permetta  di respirare, di rinfrancarci, di confortarci, di prepararci infine e di incoraggiarci ad oltrepassare, con un timore temperato dalla fiducia, la soglia della nostra eternità (Rendu).

LA GRAZIA (NOTE DI TEOLOGIA DOGMATICA) – 3 –

LA GRAZIA

(Note di Teologia Dogmatica) (3)

[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vis. Gen. 7/VI/1955]

§ 12. Il mistero della predestinazione.

1. Concetto e realtà della predestinazione.

a) Concetto.

In senso ampio predestinazione significa qualsiasi disposizione o decreto dell’eterna volontà divina; in senso stretto il decreto della stessa volontà riferentesi al fine soprannaturale delle creature razionali, abbia esso per oggetto la felicità eterna o l’esclusione da essa; in senso strettissimo il decreto di accogliere nella beatitudine celeste determinate creature razionali: Prædestinatio est quædam ratio ordinis aliquorum in salutem æternam in mente divina existens (S. th. I, 23, 2). La predestinazione divina comprende un atto dell’intelletto e uno della volontà: la prescienza e la predeterminazione. Per il suo effetto temporale si distingue la predestinazione incompleta o inadeguata, che si riferisce o soltanto alla grazia (prædestinatio ad gratiam tantum) o soltanto alla gloria (prædestinatio ad gloriam tantum), e la predestinazione completa o adeguata, che ha per oggetto la grazia e la gloria (prædestinatio ad gratiam et gloriam simul). Quest’ultima è definita da S. TOMMASO « una preparazione della grazia nel presente, e della gloria nel futuro » (praeparatio gratiæ in præsenti, et gloriæ in futuro; S. th. I , 23, ob. 4).

b) Realtà.

Dio ha predestinato, mediante il suo decreto eterno, determinati uomini alla beatitudine eterna. De fide.

Il magistero ordinario e universale della Chiesa propone questa dottrina come verità rivelata. Essa è presupposta dalle decisioni dottrinali del Concilio di Trento (D. 805, 825, 827). Cfr. D . 316 ss., 320 ss. La realtà della predestinazione è attestata nel modo più evidente in Rom. VIII, 29-30: « Perché quelli che egli ha preconosciuto li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine di suo Figlio, sì da essere lui primogenito tra molti fratelli. E quelli che ha predestinati questi ha anche chiamati; e quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; e quelli che ha giustificati li ha anche glorificati ». Questo passo pone in rilievo tutti gli elementi che appartengono alla predestinazione completa, l’atto dell’intelligenza e della volontà nel decreto eterno divino (præscire, prædestinare) e i momenti principali della sua attuazione nel tempo (vocare, iustificare, glorificare). Cfr. Mt. XXV, 34; Gv. X, 27-28; Atti XIII, 48; Ef. I, 4 ss. – S. AGOSTINO ed i suoi discepoli difendono contro i pelagiani ed i semipelagiani la realtà della predestinazione come un insegnamento tradizionale di fede. AGOSTINO osserva: « La Chiesa ha sempre avuto la fede in questa verità della predestinazione, fede che ora con rinnovata sollecitudine difende contro i nuovi eretici » (De dono persev. 23, 65). La predestinazione è una parte del piano eterno della divina Provvidenza.

2. Motivo della predestinazione.

a) Punto della questione.

La difficoltà principale della dottrina della predestinazione sta nel sapere se il predestinato stesso esercita una causalità (morale), prevista da Dio, sulla sua predestinazione, se cioè l’eterno decreto della predestinazione è stato formato tenendo conto o meno dei meriti dell’uomo (ante vel post prævisa merita). – La predestinazione incompleta alla sola grazia è indipendente da ogni merito (ante prævisa merita) poiché la prima grazia non si può meritare. Cosi pure è indipendente da ogni merito la predestinazione completa alla grazia ed alla gloria insieme, dato che la prima grazia non si può meritare e che le grazie seguenti e i meriti acquistati con la grazia e la loro ricompensa dipendono dalla grazia prima come gli anelli di una catena. Unicamente dunque per la predestinazione alla sola gloria, si può chiedere se avvenga con o senza la previsione dei meriti. Se c’è tale previsione, il decreto della predestinazione è condizionato (ipotetico), se non c’è è incondizionato (assoluto).

b) Tentativi di soluzione.

1) I tomisti, gli agostiniani, gli scotisti in massima parte e anche alcuni molinisti (Suarez, Bellarmino) sostengono una predestinazione assoluta (ad gloriam tantum), cioè avanti la previsione dei meriti (ante prævisa merita). Dio decide dall’eternità, senza guardare ai meriti dell’uomo, secondo il suo libero beneplacito, la beatitudine eterna di determinate persone e quindi la comunicazione delle grazie efficaci per realizzare il suo decreto (ordo intentionis). Nel tempo poi Egli dà prima le predeterminate grazie efficaci e quindi, come ricompensa per i meriti derivati dalla cooperazione della libertà con la grazia, la beatitudine eterna (ordo executionis). – L’ordine d’intenzione e l’ordine di esecuzione stanno tra loro in rapporto inverso (gloria – grazia; grazia – gloria).

2) La maggior parte dei molinistie anche S. FRANCESCO DI SALES ( f 1622) sostengono una predestinazione condizionata(ad gloriam tantum), cioè dopo la previsione dei meriti (post et propter prævisa merita). Secondo la loro teoria, Dio prevede con la scienza media come si comporterebbe la libertà dell’uomo nei più diversi ordini di grazia possibili. Alla luce di questa conoscenza Egli sceglie, secondo il suo libero beneplacito,un ordine di grazia ben determinato. Quindi con la scienza di visione preconosce infallibilmente quale uso farà il singolo uomo della grazia che gli concede. Coloro che cooperano con perseveranza con la grazia, sono da Lui scelti, in vista dei loro meriti, per la beatitudine eterna; mentre quelli che rifiutano la cooperazione sono destinati, in vista dei loro demeriti, alla pena eterna dell’inferno. L’ordine d’intenzione e l’ordine di esecuzione coincidono (grazia – gloria).

La Chiesa ammette ambedue i tentativi di soluzione (D. 1090). Le prove scritturali addotte dalle rispettive parti non sono decisive. I tomistisi appellano soprattutto ad alcuni passi dell’epistola ai Romani, nei quali balza in prima linea il fattore divino della salvezza (Rom. VIII, 29; IX, 11 – 1 3 ; IX, 20-21). – L’Apostolo però non parla della predestinazione alla sola gloria, ma alla grazia ed alla gloria insieme, predestinazione questa indipendente da ogni merito. — I molinisti si richiamano ai passi che attestano l’universalità della volontà divina salvifica, soprattutto a 1 Tim. II, 4, e alla sentenza del Giudice universale (Mt. XXV, 34-36), in cui le opere di misericordia sono addotte come motivo per essere accolti nel regno celeste. – Che però esse siano anche il motivo della « preparazione » del regno, cioè dell’eterno decreto della predestinazione, non può essere provato con certezza.

– Né può essere decisivo il richiamo ai Padri e ai teologi della Scolastica, giacché la questione venne posta soltanto dai teologi posteriori al Concilio di Trento. Mentre la tradizione preagostiniana è in favore della spiegazione molinista, AGOSTINO, specialmente nei suoi ultimi scritti, favorisce piuttosto quella tomista. Quest’ultima dà forte rilievo alla causalità universale di Dio, mentre la prima accentua di più l’universalità della volontà divina salvifica, la libertà della creatura e l’azione personale dell’uomo nell’opera della salvezza. Le difficoltà che rimangono da una parte e dall’altra provano che la predestinazione è un mistero impenetrabile anche per la ragione illuminata dalla fede (Rom. XI, 33 ss.).

3. Proprietà della predestinazione.

a) Immutabilità.

Il decreto della predestinazione è, quale atto dell’intelletto e della volontà di Dio, immutabile come l’Essere divino stesso. Il numero di coloro che sono scritti nel « Libro della vita » (Fil. IV, 3; Ap. XVII, 8; cfr. Lc. X, 20) è fissato materialmente e formalmente, cioè Dio preconosce e predestina con infallibile certezza quante e quali persone saranno beate. Solo Dio sa quale sia il numero dei predestinati: Deus, cui soli cognitus est numerus electorum in superna felicitate locandus (Secreta prò vivis et defunctis). Contrariamente all’opinione rigorista sostenuta anche da S. TOMMASO (S. th. I, 23, 7), la quale, appellandosi a Mt. VII, 13 (cfr. Mt. XXII, 14), sostiene che il numero dei predestinati sarebbe minore di quello dei reprobi, si deve ammettere, a motivo dell’universale volontà salvifica di Dio e della universalità della redenzione operata da Cristo, che il regno di Cristo non è più piccolo di quello di satana.

b) Incertezza.

Il Concilio di Trento dichiarò contro Calvino, che nessuno può conoscere con certezza se è realmente predestinato, se non mediante una rivelazione particolare: nisi ex speciali revelatione sciri non potest, quos Deus sibi elegerit (D. 805; cfr. D. 825-826). La Scrittura esorta di adoperarsi alla salvezza con timore e tremore (Fil. II, 12). « Chi crede di tenersi ritto, badi di non cadere » (1 Cor. X, 12). Nonostante questa incertezza si danno tuttavia segni (signa prædestinationis) dai quali si può arguire, almeno con grande probabilità, se si è predestinati (perseverante esercizio delle virtù raccomandate nelle otto beatitudini, comunione frequente, operoso amore del prossimo, amore a Cristo e alla Chiesa, devozione alla Madre di Dio).

§ 13. Il mistero della riprovazione.

3. Proprietà della predestinazione.

1. Concetto e realtà della riprovazione.

Per riprovazione s’intende il decreto eterno della volontà divina di escludere determinate creature ragionevoli dalla beatitudine eterna. Per i meriti soprannaturali, che sono il fondamento della eterna felicità, Dio coopera positivamente con la sua grazia, mentre invece per i peccati, che sono il motivo della dannazione eterna, non coopera affatto, ma si limita unicamente a permetterli. La riprovazione si distingue in positivae negativa a seconda che il decreto divino ha per oggetto la dannazione alla pena eterna dell’inferno oppure la non elezione alla beatitudine celeste. Si distingue pure in condizionata e incondizionata(assoluta) a seconda che il decreto divino è dipendente o non dalla previsione dei demeriti.

Dio, con il suo eterno decreto, ha predestinato determinate persone, in previsione dei loro peccati, alla riprovazione eterna. De fide.

La realtà della riprovazione non è formalmente definita, ma è insegnamento comune della Chiesa. Il Concilio di Valenza (855) insegna: fatemur prædestinationem impiorum ad mortem (D. 322). La Scrittura l’attesta in Mt. XXV, 41: « Andate via da me, o maledetti, al fuoco eterno, che è stato preparato per il diavolo e per gli angeli suoi », e in Rom. IX, 22: « Vasi di ira preparati per la perdizione ».

2. Riprovazione positiva.

a) Il predestinazianismo eretico nelle sue diverse forme (il prete gallo Lucido nel V secolo; il monaco Gottschalk nel secolo IX, secondo le informazioni dei suoi avversari che però non trovano conferma nei suoi libri riscoperti; Wicleff, Huss e soprattutto Calvino) insegna una predestinazione positiva al peccato ed una predestinazione incondizionata alla pena eterna dell’inferno, cioè senza tener conto dei demeriti. Il predestinazianismo venne condannato come eresia nei Concilii particolari di Orange (D. 200), Quiercy e Valenza (D. 316, 322) e nel Concilio ecumenico di Trento (D. 827). La riprovazione positiva incondizionata conduce alla negazione della universalità della volontà divina salvifica ed è in contraddizione con la giustizia e la santità di Dio e con la libertà dell’uomo.

b) Secondo la dottrina della Chiesa c’è una riprovazione positiva condizionata, cioè dipendente dalla previsione dei demeriti (post et propter prævisa demerita). Essa è richiesta dalla universalità della volontà divina salvifica, la quale esclude che Dio voglia fin da principio la perdizione di determinate persone. Cfr. I Tim. II. 4; Ez. XXIII, 11; 2 Piet. III, 9.

S. AGOSTINO insegna: « Dio è buono, Dio è giusto. Egli può salvare qualcuno senza meriti buoni, perché è buono; ma non può condannare nessuno senza meriti cattivi, perché  è giusto » (Contro Iul. III, 18, 35).

3. Riprovazione negativa.

I tomistisostengono, in corrispondenza con la predestinazione assoluta alla beatitudine eterna, una riprovazione pure assoluta, però soltanto negativa. La maggior parte di loro l’intende come una non elezione all’eterna felicità (non-electio), congiunta con il decreto della volontà divina di permettere che una parte delle creature ragionevoli cada in peccato e così, per propria colpa, perda la salute eterna. Contrariamente alla riprovazione assoluta positiva, i tomisti mantengono fermamente l’universalità della volontà divina salvifica e della redenzione, la concessione della grazia sufficiente ai reprobi con l’universalità della volontà divina salvifica. Quanto all’effetto, la riprovazione negativa incondizionata dei tomisti coincide con quella incondizionata positiva dei predestinazianisti, poiché fuori del cielo e dell’inferno non c’è un terzo stato definitivo.

4. Proprietà della riprovazione.

II decreto divino di riprovazione è, come quello della predestinazione, immutabile e incerto: senza una speciale rivelazione l’uomo non può conoscerlo.

CAPITOLO QUARTO

Grazia e libertà.

§ 14. La dottrina della Chiesa.

Dio concede a tutti gli uomini grazia sufficiente per la loro salvezza, ma di fatto soltanto una parte di essi la consegue. Vi sono, quindi, grazie che sortiscono l’effetto salutare voluto da Dio (gratiæ efficaces) e grazie che non sortiscono tale effetto (gratiæ mere sufficientes). Si tratta ora di sapere se la ragione di questa diversa efficacia stia nella grazia stessa, ovvero nella libertà umana. I riformatori ed i giansenisti cercarono di risolvere radicalmente la difficile questione negando la libertà. Cfr. LUTERO, De servo arbitrio. – Contro di essi la Chiesa difende la collaborazione della libertà con la grazia; i teologi poi cercano con vari sistemi di spiegare l’intima ragione dell’efficacia della grazia stessa.

1. Permanenza della libertà sotto l’influsso della grazia efficace.

La volontà umana rimane libera sotto l’influsso della grazia efficace. La grazia non è irresistibile. De fide.

Il Concilio di Trento dichiarò contro i Protestanti:

« Se qualcuno dirà che il libero arbitrio dell’uomo, mosso ed eccitato da Dio, non cooperi affatto, assentendo alla chiamata e all’eccitamento divino, e non possa disporsi e prepararsi a ricevere la grazia della giustificazione, e non possa dissentire, se vuole (neque posse dissentire si velit), ma comportarsi solo passivamente (mere passive) come un essere morto che in nessun modo può agire, sia anatema » (D. 814). Innocenzo X condannò la seguente proposizione di Cornelio Giansenio come eretica: « Nello stato di natura decaduta non si resiste mai alla grazia interna » (D. 1093). Cfr.

D. 797, 815-816, 1094-1095. – La Scrittura pone in risalto ora il fattore umano della libertà ora quello divino della grazia. Le numerose esortazioni alla penitenza ed al compimento di opere buone presuppongono che la grazia non tolga la libertà umana. La sua permanenza di fronte alla grazia è espressamente attestata in Deut. XXX, 19; Eccli. XV, 18; XXXI, 10; Mt. XXIII, 27: « Quante volte volli raccogliere i tuoi figli,ma tu non hai voluto »; Atti VII, 51: « Voi resistete sempre allo Spirito Santo ». La cooperazione della grazia e della libertà è posta anche in risalto da Paolo in 1 Cor. XV, 10: « Ma per grazia di Dio sono quel che sono, e la grazia di lui verso di me non fu cosa vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non già io, ma la grazia di Dio con me » (non ego autem, sed gratia Dei mecum). Cfr. 2 Cor. VI, 1; Fil. II, 12. – S. AGOSTINO, a cui si richiamano gli avversari, non ha mai negato la libertà di fronte alla grazia. Per difendere la libertà egli compose nel 426 o nel 427 il De gratia et libero arbitrio,nel quale cerca istruire e tranquillizzare coloro che « credono sia negata la libertà quando si difende la grazia, e quelli che difendono talmente la libertà da negare la grazia e affermare che ci vien concessa secondo i nostri meriti » (1, 1). La giustificazione non è soltanto opera della grazia, ma anche della libera volontà: « Colui che ti ha creato senza di te, non ti giustifica senza di te » (Sermo 169, 11, 13). Quando Agostino osserva che « noi operiamo secondo ciò che ci diletta maggiormente» (quod amplius nos delectat, secundum id operemur necesse est; Expositio ep. ad Gal. 49), non pensa ad un diletto buono o cattivo indeliberato, che preceda la decisione della volontà e la determini, come spiegavano i giansenisti, ma ad un diletto deliberato, compreso nella decisione della volontà.La permanenza della libertà sotto l’influsso della grazia èil presupposto necessario perché le opere buone siano meritoria. In favore della dottrina cattolica sta anche la testimonianza della coscienza umana.

2. La grazia sufficiente.

C’è una grazia che è veramente sufficiente, ma che rimane tuttavia inefficace. De fide.

Si intende con questo nome quella grazia, che attese le circostanze concrete, conferisce il potere di fare l’atto salutare (vere et relative sufficiens), ma che per la resistenza della volontà rimane di fatto inefficace (mere vel pure sufficiens). I riformatori e i giansenisti negarono la grazia sufficiente così concepita poiché, secondo loro, mancando il libero arbitrio, la grazia esercita un influsso necessitante sulla volontà. Pertanto, a loro vedere, la grazia sufficiente è sempre efficace. – La Chiesa, affermando la grazia veramente sufficiente, difende ancor una volta la libertà umana. Secondo la dottrina del Concilio di Trento l’uomo, mediante l’aiuto della grazia preveniente, può prepararsi alla giustificazione (vere sufficiens); ma egli può anche negare il suo assenso (mere sufficiens): potest dissentire si velit (D. 814; cfr. D. 797). Alessandro VIII condannò la proposizione giansenista secondo cui la grazia sufficiente non solo sarebbe inutile, ma nociva perché rende l’uomo debitore di fronte a Dio (D. 1296). – La Scrittura attesta che l’uomo spesso non utilizza la grazia che gli è offerta. Cfr. Mt. XXIII, 37; Atti VII, 51. La Tradizione insegna unanime la realtà delle grazie sufficienti, che rimangono senza effetto per colpa dell’uomo. – Anche S. AGOSTINO conosce, di fatto se non a parole, la distinzione tra grazie solo sufficienti e grazie efficaci. Cfr. De spiritu et littera 34, 60: « In tutto ci previene la sua misericordia. Però l’acconsentire alla chiamata di Dio o il dissentire da essa dipende dalla nostra volontà ». Quando non accetta come vera grazia quella che dà solo il potere (gratia quæ dat posse), egli pensa alla grazia di possibilità (gratia possibilitatis) dei pelagiani, consistente nel libero arbitrio. L’esistenza della grazia sufficiente deriva logicamente dalla universalità della volontà divina salvifica e della grazia, da un lato, e, da un altro lato, dal fatto che non tutti gli uomini conseguono la salvezza eterna.

§ 15. Indagine teologica.

1 . Tomismo.

La viva discussione teologica, sorta verso la fine del secolo XVI, riguardo al rapporto tra la grazia efficace e la libertà, si riduce a questo: quale è il motivo per cui la grazia efficace sortisce con infallibile certezza l’atto salutare voluto da Dio? Questo motivo sta nella grazia stessa o nel libero consenso della volontà previsto da Dio? La grazia è efficace per sua intrinseca virtù (per se sive ab intrinseco) oppure diviene tale per il consenso della libertà (per accidens sive ab extrinseco)? Di qui sorge l’altra questione: la grazia efficace è intrinsecamente distinta da quella sufficiente o lo è solo estrinsecamente per l’intervento del libero consenso della volontà? – Il tomismo elaborato dal domenicano spagnolo DOMENICO BANEZ ( f 1604) e sostenuto principalmente dai teologi dello stesso ordine, insegna quanto segue: Dio da tutta l’eternità stabilisce di salvare determinate persone e, come mezzo per tale fine, di concedere la relativa grazia efficace. Con quest’ultima Egli, nel tempo, opera fisicamente sulla libertà dell’uomo e lo muove a decidersi liberamente di cooperare alla grazia.La grazia efficace opera per sua intrinseca virtù (per se sive ab intrinseco) infallibilmente il consenso della volontà. Pertanto si distingue intrinsecamente ed essenzialmente dalla grazia sufficiente che dà solo la potenza di fare l’atto salutare. Perché poi questa potenza passi all’atto occorre l’intervento di una nuova grazia, intrinsecamente diversa (gratia efficax).Il libero consenso della libertà umana Dio lo prevede infallibilmente nel decreto della sua volontà, col quale dall’eternità ha deciso e la salvezza di determinate persone e la concessione di grazie efficaci. Il valore di questa concezione consiste nello sviluppare coerentemente il concetto che Dio è la causa prima di tutte le azioni create e che le creature, sia nel loro essere, sia nel loro agire, dipendono totalmente da Lui. Restano tuttavia le difficoltà del come la grazia sufficiente sia davvero sufficiente e del come si possa conciliare la libertà umana con la grazia efficace.

2 . Agostinianesimo.

Perfezionato nei secoli XVII-XVIII dagli eremiti agostiniani, come il card. ENRICO NORIS (t 1704) e LORENZO BERTI (f 1766) l’agostinianesimo ammette come il tomismo, che la grazia è efficace per intrinseca virtù. Tuttavia a differenza dei tomisti, sostiene che tale grazia efficace predetermina la volontà non fisicamente, ma soltanto moralmente mediante la dilettazione vittoriosa del bene, la quale produce il consenso della volontà in modo infallibile, ma libero (sistema della predeterminazione morale). L‘agostinianesimo cerca di salvaguardare la libertà, ma concepisce la grazia unilateralmente come semplice dilettazione, e non spiega sufficientemente l’infallibile successo della grazia efficace e la prescienza divina.

3. Molinismo.

Il molinismo, fondato dal teologo gesuita spagnolo LUDOVICO MOLINA (f 1600) e sostenuto principalmente dai teologi della Compagnia di Gesù, ammette tra la grazia sufficiente e quella efficace una differenza non intrinseca ed essenziale,ma esterna ed accidentale. Dio fornisce alla volontà la grazia sufficiente per agire soprannaturalmente, sicché l’uomo, senza l’aiuto di una nuova e distinta grazia, può porre l’atto salutare.Quando la volontà consente alla grazia e compie con essa l’atto salutare, la grazia sufficiente diventa isso fatto efficace.Se invece la volontà non presta il consenso, la grazia rimane soltanto sufficiente. Il libero consenso è infallibilmente previsto da Dio mediante la scienza media.Il molinismo accentua in modo particolare la libertà umana e con ciò indebolisce l’universale causalità divina. Rimane oscura la scienza media e la previsione, in essa fondata, del successo infallibile della grazia efficace.

4. Congruismo.

Il congruismo dovuto a FRANCESCO SUAREZ ( f 1617) e a ROBERTO BELLARMINO (f 1621), prescritto da CLAUDIO ACQUAVIVA (f 1613), Generale dei Gesuiti, come dottrina dell’Ordine, è un’ulteriore elaborazione del molinismo. Secondo tale sistema la diversità tra la grazia sufficiente e la grazia efficace è fondata non soltanto nel consenso della libera volontà, ma anche sulla convenienza o congruenza della grazia con le condizioni concrete di chi la riceve. Quando la grazia è adatta o proporzionata alle condizioni concrete esterne ed interne dell’uomo (gratia congrua), diviene efficace mediante il libero consenso della volontà; quando non lo è (gratia incongrua) rimane inefficace per la mancanza del consenso della volontà. Dio prevede la congruenza della grazia e il suo successo infallibile mediante la scienza media. Il congruismo in confronto con il molinismo accentua di più il fattore divino nell’opera della salvezza.

5. Sincretismo.

Il sincretismo, sostenuto principalmente dai teologi della Sorbona (NICOLA YSAMBERT f 1642; ISACCO HABERT f 1688; ONORATO TOURNELY f 1729) e da S. ALFONSO DE’ LIGUORI (f 1787), cerca di tenere una via di mezzo tra i sistemi nominati. Esso distingue due sorta di grazia efficace: con il molinismo ed il congruismo ammette per le opere buone più facili, in modo speciale per la preghiera, una grazia estrinsecamente efficace; con il tomismo e l’agostinianesimo ammette per le opere buone più difficili e per il superamento di gravi tentazioni, una grazia intrinsecamente efficace, la quale però determina non fisicamente, ma (nel senso dell’agostinianesimo) soltanto moralmente la libera volontà (prædeterminatio moralis). Coloro che utilizzano la grazia estrinsecamente efficace, soprattutto quella della preghiera, ottengono infallibilmente, mediante il sicuro esaudimento della preghiera stessa, la grazia efficace di per sé. Il sincretismo ha tutte le difficoltà che si incontrano nei diversi sistemi della grazia. Giusto è il concetto che la preghiera abbia una parte importante nella realizzazione della salvezza.

[3 – Continua …]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/09/26/la-grazia-note-di-teologia-dogmatica-4/

SALMI BIBLICI: “DOMINE, NE IN FURORE TUO ARGUAS ME” (XXXVII)

SALMO 37: “DOMINE, ne in furore tuo .. quoniam sagittæ”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 37

[1] Psalmus David, in rememorationem de sabbato.

[2] Domine, ne in furore tuo arguas me,

neque in ira tua corripias me;

[3] quoniam sagittæ tuæ infixae sunt mihi, et confirmasti super me manum tuam.

[4] Non est sanitas in carne mea, a facie irae tuae; non est pax ossibus meis, a facie peccatorum meorum:

[5] quoniam iniquitates meae supergressae sunt caput meum, et sicut onus grave gravatæ sunt super me.

[6] Putruerunt et corruptæ sunt cicatrices meæ, a facie insipientiae meæ.

[7] Miser factus sum et curvatus sum usque in finem; tota die contristatus ingrediebar.

[8] Quoniam lumbi mei impleti sunt illusionibus, et non est sanitas in carne mea.

[9] Afflictus sum, et humiliatus sum nimis; rugiebam a gemitu cordis mei.

[10] Domine, ante te omne desiderium meum, et gemitus meus a te non est absconditus.

[11] Cor meum conturbatum est, dereliquit me virtus mea, et lumen oculorum meorum, et ipsum non est mecum.

[12] Amici mei et proximi mei adversum me appropinquaverunt, et steterunt; et qui juxta me erant, de longe steterunt, et vim faciebant qui quaerebant animam meam.

[13] Et qui inquirebant mala mihi, locuti sunt vanitates, et dolos tota die meditabantur.

[14] Ego autem, tamquam surdus, non audiebam; et sicut mutus non aperiens os suum.

[15] Et factus sum sicut homo non audiens, et non habens in ore suo redargutiones.

[16] Quoniam in te, Domine, speravi; tu exaudies me, Domine Deus meus.

[17] Quia dixi: Nequando supergaudeant mihi inimici mei; et dum commoventur pedes mei, super me magna locuti sunt.

[18] Quoniam ego in flagella paratus sum, et dolor meus in conspectu meo semper.

[19] Quoniam iniquitatem meam annuntiabo, et cogitabo pro peccato meo.

[20] Inimici autem mei vivunt, et confirmati sunt super me: et multiplicati sunt qui oderunt me inique.

[21] Qui retribuunt mala pro bonis detrahebant mihi, quoniam sequebar bonitatem.

[22] Ne derelinquas me, Domine Deus meus; ne discesseris a me.

[23] Intende in adjutorium meum, Domine, Deus salutis meæ.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXXVII

Preghiera d’un penitente, e forse di Davide che fuggiva da Gerusalemme per la persecuzione di Assalonne. Il titolo per commemorazione del sabbato,  è ad indicare la quiete di cui gode la coscienza mentre è in grazia, e di cui con pianto si ricorda il peccatore penitente.

1. Salmo di David, per commemorazione pel giorno di sabato.

2. Signore, non mi riprendere nel tuo furore, e non mi correggere nell’ira tua.

3. Perocché io porto fitte nella mia persona le tue saette ed hai aggravato la mano tua sopra di me.

4. A cagione dell’ira tua ha sanità la mia carne; non hanno pace le ossa mie, a cagione dei miei peccati.

5. Imperocché le mie iniquità sormontano la mia testa e come peso grave mi premono.

6. Si sono imputridite, corrotte le piaghe mie, a cagione di mia stoltezza.

7. Son divenuto miserabile, e sono formisura incurvato: io mi andava tutto il dì carico di tristezza;

8. Perché pieni sono di illusione i miei reni, e nella carne mia non è sanità.

9. Sono abbattuto ed umiliato oltremodo: sfogava in ruggiti i gemiti del mio cuore.

10. Signore, sotto i tuoi occhi è ogni mio desiderio, e non è ascoso a te il mio gemere.

11. Il mio cuore è turbato, la mia forza mi ha abbandonato, e lo stesso lume degli occhi non è più meco.

12. Gli amici miei e i miei congiunti vennero, e si stettero a me dirimpetto. E i miei vicini da lungi si stavano.

13. Ma quelli che cercavano la mia vita, facevano i loro sforzi.

E quei che bramavano di nuocermi, parlavano superbamente, e tutto si studiavano inganni.

14. Ma io, quasi sordo, non udiva, e fui come un mutolo, che non apre sua bocca.

15. E mi diportai qual uomo che nulla intende, e non ha che dire in sua difesa.

16. Perché in te io posi la mia speranza; tu mi esaudirai; Signore Dio mio.

17. Perché io dissi: Non trionfino giammai di me i miei nemici, i quali, ogni volta che i miei piedi vacillino, parlano superbamente contro di me.

18. Perché io son preparalo a flagelli, e sta sempre dinanzi a me il mio dolore.

19. Perché io confesserò la mia iniquità, e penserò al mio peccato.

20. Ma i miei nemici vivono, e son più forti di me, e sono cresciuti di numero quei che mi odiano ingiustamente.

21. Quelli che rendono male per bene, parlavano male di me, perché io cercava il bene.

22. Non abbandonarmi, Signore Dio mio, non ti allontanare da me.

23. Accorri in mio aiuto, o Signore Dio di mia salute.

Sommario analitico

In questo salmo, composto da Davide molto probabilmente durante la rivolta di Assalonne, il Re-Profeta deplora le tristi conseguenze del peccato di impurità nel quale egli era caduto. Bisogna considerare:

I – Che Dio ha in orrore questo peccato: 1° esso provoca il suo furore e la sua collera, ciò che fa sì che David esclami: « Signore. etc.; » (2); 2° esso attira sul peccatore non solo le minacce, ma i dardi della giustizia divina e la mano pesante sul peccatore (3).

II.– Che questo peccato è estremamente nocivo per il peccatore:

al suo corpo, a) è il principio di numerose malattie; b) dissipa la forza ed il vigore del corpo (3); c) ne indica la causa, la molteplicità delle sue iniquità, che diventano un peso schiacciante (4); d) è un principio di corruzione per il corpo e per l’anima (5); e) è causa di tristezza, di illusioni pericolose dei sensi e di umiliazione profonda (6-9).

all’anima, a) turba la volontà e la spoglia della forza necessaria a resistere ai nemici; b) è causa di cecità per l’intelligenza (10).

III. – questo peccato rende colui che ne è colpevole, odioso agli altri:

1° si lamenta per essere stato abbandonato: a) dai suoi amici (11), b) dalle persone della sua casa (12); c) dai suoi nemici che lo hanno perseguitato – 1) con le opere inique, – 2) con i loro discorsi ingiusti, – 3) con i loro disegni criminosi (13).

2° Egli fa conoscere la pazienza con la quale ha sopportato tutte queste pene:

a) chiudendo le sue orecchie con una saggia e prudente dissimulazione (14); b) non aprendo la sua bocca (15), con un silenzio di cui dà tre ragioni: – 1) la speranza che ha nel Signore; – 2) il timore che si renda oltraggio per oltraggio e non sia abbandonato da Dio (17); – 3) la disposizione a soffrire i castighi della giustizia divina (18), ed il ricordo del suo peccato per il quale è pronto a soddisfare (19).

3° Egli implora il soccorso di Dio contro i suoi nemici: a) ne fa vedere la potenza, la moltitudine (20), la malizia (21); b) chiede a Dio: – 1) di non abbandonarlo con la sottrazione delle sue grazie; – 2) di non sottrargli la consolazione della sua presenza (22), – 3) di dargli tutti i soccorsi efficaci per giungere al porto della salvezza (23).

Spiegazioni e Considerazioni

I. 1-2

ff. 1. – Il Re Profeta si riconosce colpevole, vede le sue piaghe, ne domanda la guarigione. Colui che vuole essere guarito non teme di essere ripreso; egli desidera non di essere ripreso col furore, ma con la parola, con il verbo di Dio. La parola di Dio è onnipotente nel guarire le anime: « Egli ha inviato la sua parola, è detto allora, e li ha guariti » (Ps. CVI, 20). – Egli non vuole essere corretto dalla collera, ma dalla dottrina. Così, pregate il medico di non mettere il ferro nella piaga, ma di applicarvi un rimedio efficace. Il dolore che produce questo rimedio è anch’esso vivo, ma non eccessivo; esso è penetrante, ma non fa sgorgare il sangue (S. Ambr.). – Dio, sovranamente giusto, non può non perseguire il peccatore perché esso intacca la sua giustizia. Così non domandiamo che i nostri peccati non siano puniti, ma che Dio li punisca come padre, i cui castighi sono sempre accompagnati dalla tenerezza e dall’amore, e non come nemico, i cui castighi crudeli hanno lo scopo di perdere coloro che li patiscono (Gerem. XXX, 44). – Perché il profeta prega il Signore di non riprenderlo nella sua indignazione, e di non correggerlo nella sua collera? È come se dicesse a Dio: poiché i mali che mi accadono sono già grandi e numerosi, vi supplico di non aumentarli. Egli comincia allora ad enumerarli, come per soddisfare Dio, e Gli offre i suoi dolori per non averne da sopportare di ancor più considerevoli. (S. Agost.).

ff. 2. – Questi dardi del Signore sono il timore dei suoi terribili giudizi che squarciano il cuore; sono i crudeli rimorsi di coscienza che come spine aguzze, penetrano fin in fondo all’anima. Queste frecce che penetrano Davide da ogni parte non sono quelle di cui Giobbe diceva: « I dardi dell’Onnipotente sono su di me, ed il loro furore spossa la mia anima ». (Giob. VI, 3). Sono queste, delle frecce spirituali, forse le parole stesse di Dio, che trafiggono la sua anima ed infliggono alla sua coscienza il castigo che essa meritava. Queste verità che ricordano all’anima i giusti giudizi di Dio, che mostrano al peccatore la vendetta divina sospesa sul capo, sono più penetranti delle frecce più acute, perché penetrano la coscienza da parte a parte, producendo dolorose ferite, e divengono per essa un pungiglione salutare. È quindi con ragione che David, colpito da questi dardi sacri della giustizia divina, prega Iddio di non riprenderlo nel suo furore, di non abbatterlo nel suo furore. E perché? « Perché le vostre frecce mi hanno penetrato ». Questi dardi lanciati dalla vostra mano contro di me, sono un supplizio, un castigo sufficiente per le mie colpe. (S. Bas.).

II – 3-10.

ff. 3. – Davide non fa qui come i peccatori che si rivoltano contro i dardi della collera divina. Egli non attribuisce i suoi dolori alla malizia degli uomini, all’ingiustizia della sorte, al rigore della Provvidenza; egli ne trova la causa nelle sue iniquità, esempio che dovrebbe essere seguito da tutti gli uomini, poiché tutti sono peccatori (Berthier). – Nessuna pace per le potenze dell’anima nostra c’è quando i nostri peccati giungono a presentarsi in massa davanti ai nostri occhi, ed espandersi come una nube spessa sul nostro spirito … i nostri peccati sono i nostri più grandi nemici, essi tormentano coloro che sono in riposo, affliggono le anime che hanno recuperato la salvezza, contristano coloro che sono nella gioia, inquietano gli spiriti più calmi, agitano gli umili, risvegliano le anime dormienti. Noi siamo colpevoli senza che nessuno ci accusi, siamo torturati senza un carnefice, siamo legati senza catene, siamo venduti senza che nessuno ci compri, come dice il profeta Isaia (L, 1): « … voi siete stati venduti a causa dei vostri peccati ». (S. Ambr.).

ff. 4. – Due sono le comparazioni in questo versetto, l’una presa dall’abbondanza delle acque che si elevano sopra la testa di un uomo piombato nell’abisso; l’altra ricavata da un peso che schiaccia colui che intraprende il portarlo. Circostanze che aggravano il peccato di Davide: adulterio, omicidio, scandalo, doppiezza, ingratitudine enorme verso Dio e oblio dei suoi benefici (Berthier). – Ragion per la quale se pochi uomini sentono per i loro peccati il dolore che dovrebbero averne, è perché non ne soppesano tutte le circostanza criminali.

ff. 5. – Vedete come Davide si accusa, non di un solo peccato, ma di tutti quelli che ha commesso; peccati sì grandi, sì enormi, che non possono restare nascosti nella sua anima, ma che si riversano esternamente, e si elevano al di sopra della sua testa, in modo da essere percepiti e conosciuti da tutti. – Impariamo a non nascondere i nostri errori, a non seppellirli nell’interno della nostra anima, a non rinchiudere dentro noi stessi questo marciume, questa corruzione, che imprime sulla nostra coscienza le stimmate dell’ignominia (S. Bas.). – Mai si è adoperato un tal linguaggio per le piaghe corporee. Giobbe stesso, tutto coperto da ulcere orripilanti, Giobbe, nell’eccesso dei suoi mali, nella violenza dei suoi pianti, non ha mai imputato alla sua follia, alla sua stupidità, l’orribile estrema condizione alla quale il suo corpo era ridotto. Ed in effetti l’uomo non fa, non vuole i mali del suo corpo. Egli impiega ogni cura onde preservarlo. Se gli accade un male, ricorre presto all’arte dei medici, alla potenza dei rimedi. Ma in morale, non è così: l’uomo fa, l’uomo vuole i mali della sua anima. Egli li cerca, li attira, li aumenta, li inasprisce; egli vi applica tutte le forze della sua volontà, tutte le luci della sua intelligenza, tutto l’ardore dei suoi desideri. Evidentemente, nel peccatore che scientemente si ingegna nel fare il male, vi è la stupidità, e questa stupidità alla fine corrompe sia l’anima che il corpo, entrambi destinati, nel pensiero di Dio, a gioire eternamente di una gloriosa immortalità (Rendu). – Consideriamo da noi stessi le piaghe della nostra anima, le sue ulcere inveterate, la degenerazione, la gangrena, la morte nelle sue vene, il cuore attaccato e già quasi tutto penetrato dal veleno. – « Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è in esso una parte illesa, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite, né fasciate, né curate con olio. » (Isai. I, 6). – Le cicatrici qui designano l’azione della penitenza, e la ferita, il peccato stesso. Colui che espia e corregge i suoi peccati con gemiti di penitenza, cicatrizza per così dire le ferite fatte alla sua anima col peccato; ma se il ricordo delle iniquità che gli sono state rimesse l’attira e lo conduce nuovamente verso il peccato, le cicatrici antiche si corrompono, e Davide ne indica la causa, quando aggiunge: « … a causa della mia follia, delle mie imprudenti ricadute » (S. Greg.).

ff. 6. –  « Io sono divenuto miserabile e tutto ricurvo ». Perché curvo? … perché si era elevato! Se siete umile, sarete elevato; se vi siete elevato sarete curvato; perché Dio non mancherà di usare un peso per curvarvi. Questo peso, sarà il fardello dei vostri peccati; e si ripiegherà sulla vostra testa, e voi sarete curvi. Che cos’è dunque l’essere curvato? È il non potersi rialzare. (S. Agost.). – È questa l’immagine di colui che pecca gravemente e che cade sotto la servitù umiliante dei sensi: chi non trova nel suo peccato miseria, avvilimento, dolore, tristezza? La sua anima, che doveva essere continuamente elevata alla contemplazione delle delizie celesti, si è indegnamente abbassata all’infamia dei piaceri sensuali, è diventata tutta curva e tutta carnale. Pressata dai rimproveri della propria coscienza, cammina oppressa da una profonda e continua tristezza.

ff. 7. – Chi è colui la cui anima non soffra queste miserie? Queste pericolose illusioni, questi movimenti vergognosi, cattivi figli di un padre ancora peggiore, ci lasciano appena la volontà di pregare. Noi non possiamo pensare agli oggetti corporali che con l’aiuto di immagini, e spesso quelle che noi cerchiamo non fanno irruzione in noi, fintantoché noi vogliamo uscire dall’una per entrare nell’altra o passare dall’una all’altra (S. Agost.). – Chi non ha gridato spesso come il grande Apostolo: « io sento nelle membra del mio corpo un’altra legge che combatte contro la legge del mio spirito, e che rende prigioniero sotto la legge del peccato che è nelle membra del mio corpo? Io non faccio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Maledetto uomo io sono! Chi mi libererà da questo corpo di morte? »  (Rom. VII, 24).

ff. 8. – Ascoltate il parlare di questo santo penitente: « … io sono afflitto all’eccesso ». Non era un gemito come quello di una colomba, ma un ruggito simile a quello di un leone; era questo il pianto di un uomo irritato contro i propri vizi, che non può soffrire il suo languore, la sua viltà, la sua debolezza. Questa collera lo porta fino ad una specie di furore: « Il furore ha riempito il mio occhio di scompiglio ». Perché non potendo soffrire le sue ricadute, prende delle risoluzioni estreme contro la sua lentezza e lassità: egli non sogna che di sbarazzarsi delle compagnie che lo perdono; … cerca l’ombra e la solitudine. Dirò la parola del profeta? Egli è come quegli uccelli che fuggono la luce del giorno, « come un gufo nella sua casa ». In queste solitudine, in questo ritiro, egli si indigna contro se stesso; egli fa dei grandi e potenti sforzi per prendere delle abitudini contrarie alle sue: « affinché – dice S. Agostino – il costume del peccatore cede alla violenza della penitenza » (Bossuet, Serm. sur la Pénit.). – I servitori di Dio Lo pregano il più sovente con gemiti, e voi ne cercate la causa. Infatti i gemiti di un servitore di Dio non vanno oltre l’orecchio di un uomo posto vicino a lui; e c’è anche un gemito nascosto che l’uomo non intende. Se dunque il cuore è invaso dall’espressione così viva di un qualche desiderio, che la ferita dell’uomo interiore sia rivelata da segni evidenti, se ne cerca la causa e si dice in se stesso: è forse questa cosa che lo fa gemere? Chi può comprendere questi gemiti, se non colui agli occhi e all’orecchio del quale sono indirizzati? Ecco perché il poeta dice: « … io ruggisco per i gemiti del mio cuore, perché se gli uomini intendono talvolta il gemito di un uomo, più spesso essi intendono i gemiti di colui che geme nel suo cuore. Qualcuno, non so chi, ha rapito ciò che quest’uomo possedeva; egli possedeva dei ruggiti, ma non era il suo cuore che ruggisce (S. Agost.).

ff. 9. – E non è davanti agli uomini che non possono vedere il cuore, ma è davanti a voi che ogni mio desiderio è esposto. « che il vostro desiderio sia esposto davanti a lui » e « … il Padre che vede nel segreto, ve lo renderà. » (Matt. VI, 6). – Il vostro desiderio è la vostra preghiera, e se il desiderio è continuo, la vostra preghiera lo è ugualmente. Non è inutilmente che l’Apostolo ha detto: « pregate incessantemente » (I Tess. V, 17). – E incessantemente possiamo flettere il ginocchio, rimanere prosternati, o levare al cielo le mani? A queste condizioni ci è impossibile pregare senza interruzione. Ma c’è un’altra preghiera interiore che noi possiamo non interrompere, ed è il desiderio. Se volete incessantemente pregare, non cessate mai il desiderare. Un desiderio continuo da parte vostra è anche per voi una parola continua. Voi tacete se cessate di amare. Chi sono coloro che tacciono? Quelli di cui era detto: « perché l’iniquità si è moltiplicata, la carità di molti si è raffreddeta » (Mat. XXIV, 12). – il raffreddamento della carità è il silenzio del cuore; il fervore della carità è il silenzio del cuore; il fervore della carità è il grido del cuore. Se il vostro amore sussiste costantemente, voi gridate incessantemente; se gridate incessantemente, è perché desiderate incessantemente; e se desiderate, è perché vi ricordate del riposo eterno (S. Agost.).

ff. 10. – Davide ci mostra a quale triste stato l’ha ridotto la vergognosa caduta che ha compiuto. Quando si rende colpevole di questo crimine che deplora, la penetrazione dell’intelligenza di cui Dio l’aveva dotato soffre, una specie di mancanza, di turbamento, e fu come oscurato e coperto da tenebre da colui che era stato il primo autore del suo peccato. Anche la sua forza l’abbondonò e non poteva dire più « … io posso tutto in colui che mi da forza » (Filip. IV, 15), essendo vinto dalla concupiscenza e completamente spoglio delle sue forze. Perché in coloro che seguono le ispirazioni della virtù, « … lo spirito è pronto, ma la carne è debole » (Matt. XXVI, 41); ma in coloro che sono vinti dalla loro bramosia, la carne si eleva, si fortifica, mentre l’anima langue e si debilita (S. Basilio). – Da dove viene questo scompiglio? « La mia forza mi ha abbandonato. E perché la sua forza l’ha abbandonato? E la luce dei miei occhi non è più con me ». La luce dei suoi occhi era Dio stesso che Egli aveva perso a causa del peccato. (S. Agost.). – In quale antro profondo, infatti, si erano ritirate le leggi dell’umanità e della giustizia, che Davide conosceva così perfettamente, quando gli si dovette inviare il profeta Nathan, per fargliene sovvenire nella memoria? Nathan gli parla, Nathan lo intrattiene, ed intende così poco di quello che deve capire, che egli infine è costretto a dire: « O principe! È a voi che si parla », perché incantato dalla sua passione, distratto dai suoi affari, egli lasciava la verità nell’oblio. E allora, sapeva ciò che sapeva? Intendeva ciò che intendeva? Ascoltate la sua deposizione e la sua testimonianza: è lui stesso che si stupisce che i suoi lumi lo abbiano abbandonato in questo stato infelice; non è una luce estranea, è la luce dei miei occhi, dei miei propri occhi, è quella stessa che non avevo più (Bossuet, Prèdicat. Ev. n° P.).

III. — 11-23

ff. 11-13. È questo un quadro molto vivo dello stato di coloro che sono afflitti e che sono abbandonati e pure calunniati e perseguitati dai loro amici, dai loro prossimi, dai loro vicini. – La persecuzione è esercitata contro coloro che vogliono ritornare a Dio ed abbracciare le vie della penitenza. Grande grazia per un penitente è questa persecuzione del mondo: quando il mondo ci cerca, noi restiamo senza i suoi legami; quando ci abbandona noi cominciamo ad essere liberi. « Il mondo vi odia, ha detto Gesu-Cristo, perché Io vi ho scelto; se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me per primo ». – In un altro senso, i miei amici e i miei prossimi si sono avvicinati a me, e si sono fermati per considerarmi. I preti, i confessori, i superiori sono venuti dietro di me, per aiutarmi nel mio male estremo; presi da stupore, si sono fermati, non sapendo più cosa fare; infine essi si sono ritirati, si sono allontanati da me (Bossuet, Retraite sur la Pen.). – Ricordiamoci la rivolta di Assalonne e dei suoi partigiani, le maledizioni di Semei, le perfide trame macchinate da Architophel e da tanti altri!

ff. 14-17. – Considerate la forza di questa espressione: « come se fossi stato sordo ». Egli non dice « io facevo come se non intendessi ciò che dicevano », ma « io non intendevo ». È una determinazione ben ferma del mio spirito che io chiudessi le orecchie alle loro parole, e che io fossi come un muto che non apre bocca. Beato colui la cui virtù è tanto grande da non rispondere ad un attacco ingiusto con la collera, e la cui anima violentemente agitata non cede mai alla furia! I nostri nemici fanno di tutto per provocare la nostra collera: essi ci maledicono affinché noi li malediciamo, ci calunniano perché noi li calunniamo a nostra volta, ci oltraggiano per eccitarci alle rappresaglie. Così San Pietro prende cura di ricordarci la condotta ammirevole di Gesù Cristo « … che, quando Lo maledicevano, non rispondeva con ingiurie; quando veniva maltrattato, non minacciava, ma si abbandonava al potere di colui che lo trattava ingiustamente ». (I Piet. II, 23). – Sul suo esempio, il giusto che vuole uniformarsi alla perfezione, tace quando lo si oltraggia, per imitare Colui che è stato condotto come un agnello al macello, senza aprire bocca, e pur avendo giuste ragioni per poter rispondere, preferisce tacere piuttosto che parlare (S. Ambr.). – Sembra infatti che dalla gloria di Dio, la calunnia sia confusa. È vero, risponde San Bernardo, ma era ancor più della stessa gloria che un giusto calunniato restasse in silenzio … Egli doveva a se stesso la giustificazione della sua vita e della sua condotta, ma il suo Vangelo doveva essere un Vangelo di umiltà, e la sua Chiesa non aver altro fondamento che questo, e trovar la sua strada meglio giustificata dal suo silenzio più che dalle sue parole; e questo fa che Egli non parli affatto (Bourd. 3° Serm. sur la Pass.). – Sono poche le occasioni in cui sia prudente, utile, necessario difendersi, quando ci calunniano. La cura nel giustificarsi causa quasi sempre due mali: il turbamento dell’anima e la cattiva edificazione del prossimo. – Davanti a quelli che vogliono la mia rovina spandendo calunnie contro di me, e meditano ogni giorno nuove perfidie, io sono rimasto senza poter trovare una sola parola a mia difesa. Io, così eloquente altre volte, così pieno di saggezza, sono stato come un sordo che non ascolta, come un muto che non può aprir bocca (S. Basil.). – Legame questo, per il quale il profeta non si giustifica affatto, non rispondendo ai suoi nemici: egli spera nel Signore. Egli vi insegna ciò che dovete fare se sopravviene qualche tribolazione. In effetti, voi cercate di difendervi, e forse nessuno accetta la vostra difesa. Voi siete già turbato, come se aveste perso la vostra causa, perché non c’è nessuno che vi difenda e renda testimonianza in vostro favore. Conservate la vostra innocenza in voi stessi, là dove nessuno può opprimere il vostro buon diritto. La falsa testimonianza ha prevalso contro di voi presso gli uomini; e chi prevarrà al tribunale di Dio, presso il quale sarà portata la vostra causa? Quando Dio sarà vostro giudice, non ci sarà alcun testimone se non la vostra coscienza. Tra questo giusto giudice e la vostra coscienza, non temete se non la vostra stessa causa: se la vostra causa non è cattiva, voi non dovete temere nessun accusatore, alcun falso testimone da respingere, nessun testimone veritiero da chiamare (S. Agost.). – Un secondo motivo del silenzio volontario del Profeta, è che egli stesso ha detto: è per me meglio aver pazienza, sperare nel soccorso del Signore, per timore che se non voglio soffrire gli oltraggi, se io rendo maledizione per maledizione, il Signore non mi abbandoni, e che i miei nemici non siano gioiosi e trionfanti della mia rovina (Bellarm.). – Questi nemici, che sono i demoni e gli uomini dei quali egli si serve per catturarci, si crederanno vittoriosi, e trionferanno effettivamente di noi, se ci vedono troppo sensibili agli oltraggi dai quali siamo sopraffatti, ed ancor più se ci proponiamo di mormorare contro gli ordini della vostra adorabile Provvidenza.

ff. 18, 19. – Ecco un terzo motivo di silenzio volontario di Davide alla presenza dei suoi nemici: egli è prossimo a soddisfare alla giustizia di Dio, perché egli soffre, e per sincera sua disposizione a soffrire. – Qual è questo dolore che è sempre davanti a lui? Forse quello del castigo? Gli uomini, è vero, gemono nell’essere castigati, e non gemono per i peccati per i quali sono castigati. Questo non accade per colui che qui parla. Chiunque sia che prova un malanno è più portato a dire: “io ho sofferto ingiustamente”, che a considerare: perché ho sofferto?; egli geme per aver perso il suo denaro, non geme per aver perduto la sua virtù. Per Davide, il suo dolore non viene dal castigo che subisce, viene dalla sua ferita e non dal trattamento della sua ferita, perché i colpi sono il rimedio del peccato (S. Agost.). – La causa di tutti i tentativi infruttuosi per arrivare alla perfezione, è l’assenza di un dolore costante, eccitato dal ricordo del peccato. Così come ogni culto cade in rovina, se non ha per base i sentimenti di una creatura per il suo Creatore, nessuna conversione è seria se non è la conversione intera di un peccatore; allo stesso modo che le penitenze non portano a nulla, se esse non sono fatte in unione con Gesù-Cristo; così come tutte le buone opere finiscono nella polvere, se non hanno come punto di appoggio Nostro Signore; così la santità ha perso il principio della sua crescita, quando è separata da un rammarico costante per aver peccato. Questo dolore costante ci manterrebbe continuamente in un sentimento della nostra dignità e della nostra dipendenza da Dio; essa ci farebbe ingaggiare una guerra perpetua contro l’amor proprio, ci impedirebbe di concepire la stima per noi stessi, e conserverebbe in noi, senza interruzione, lo spirito di penitenza che la mortificazione esteriore produce ammirevolmente, senza dubbio, ma solo ad intervalli. Essa ci darebbe la calma e la moderazione verso noi stessi, la dolcezza e l’indulgenza nei riguardi degli altri, la pazienza con Dio, che noi otterremmo per l’assenza di alacrità (P. Faber, Progrès de l’ame, Cap. XIX). – David ha fatto conoscere non solo a tutti gli uomini del suo tempo, ma a tutti quelli che dovevano sopraggiungere nello scorrere dei secoli, che egli era un grandissimo peccatore. Egli lo ha scritto a caratteri indelebili, nei suoi ammirevoli Salmi che faranno risuonare in tutte le chiese la storia dei suoi crimini e della sua penitenza. – « Io confesserò il mio peccato », è la confessione; ma occorre aggiungere: « io sarò in pensiero per il mio peccato », farò riflessione su di un sì gran male e sui mezzi per liberarmene. – L’uomo conserva la memoria del male che ha fatto più di quanto non conservi quella del bene ed ancor meglio di quella delle sue povere gioie perseguite per lungo tempo, sì raramente raggiunte, sì velocemente dimenticate, quand’esse non lascino nella coscienza sozzure o rimorsi. – « Io mi prenderò cura del mio peccato ». Quando avete confessato il vostro peccato non abbiate questa falsa sicurezza che voi sareste sempre pronti a confessarlo ed a commetterlo nuovamente. Dichiarate la vostra iniquità, ma prendendo cura di pensare al vostro peccato. Che vuol dire questo, prendendo cura di pensare al vostro peccato? Significa prendersi cura della vostra ferita, prendersi cura di guarirla. Prendere cura della propria ferita, è dunque fare uno sforzo, essere sempre attento, agire sempre con zelo e con cura per guarire il proprio peccato. Ecco che giorno dopo giorno, voi piangerete il vostro peccato, ma forse le vostre lacrime scorrono senza che le vostre mani agiscano; fate allora delle elemosine, riscattate i vostri peccati; il povero si rallegri dei vostri doni, affinché a vostra volta possiate gioire dei doni di Dio (S. Agost.). Ancora c’è il ricordarsi delle proprie colpe e delle cadute passate, che hanno corrotto la bellezza dell’anima: non perché le si amino ancora, ma al contrario per amare Dio maggiormente, affinché questo ricordo faccia meglio gustare la soavità di questa vera dolcezza che offre felicità e sicurezza (S. Agost. Conf. IV, 1).

ff. 20-22. – Il Profeta mette in contrasto con il suo pentimento, la sua rassegnazione, la malvagità dei suoi nemici, e riconosce che la loro condotta al proprio riguardo è un giusto castigo per le sue infedeltà a Dio. Rendendogli il male per il bene che essi hanno ricevuto da lui, essi gli ricordano, senza che lo sappiano, l’ingratitudine con la quale egli aveva sì malamente riconosciuto i favori straordinari dei quali Dio lo aveva ricolmato. – Si ha pena nel figurarsi che un uomo che non pensi che a fare del bene, che lo insegua in tutte le sue azioni, in tutti i suoi pensieri, malgrado ciò, o piuttosto a causa di questo stesso, sia in balia di contraddizioni o inimicizie. Ma anche il cuore dell’uomo lo vede: gli ripugna essere indifferente; ondeggia da un lato all’altro; ama o odia. Se gusta la virtù, la loderà negli altri, la fuggirà per conto suo; se non la gusta, la detesterà, la fuggirà, la temerà come un rimprovero o un giudizio, l’annienterebbe se potesse (Rendu). – Guardiamoci dal credere, quando siamo riconciliati e la grazia del sacramento della Penitenza ci ha tratto dalla morte eterna, che possiamo trascorrere la nostra vita eternamente sicuri. I nostri nemici vivono sempre, sono superati, ma non abbattuti, non disperano di poter rivincerci … aspettano un’ora più propizia ed un’occasione più stringente. Tremiamo anche nella vittoria, è allora che essi fanno i loro sforzi maggiori, e rimescolano le loro macchinazioni più terribili. Se la guerra è continua, se nemici così potenti e numerosi vegliano incessantemente su di noi, chi potrebbe compiutamente esprimere quanto accurata, vigilante previdente ed inquieta debba essere, in ogni momento, la vita cristiana? (Bossuet, Sur les démons). O Signore, Dio della nostra salvezza, che siete l’unico Autore, applicatevi nel nostro soccorso. Apprendiamo da queste parole che occorre fare tutti i nostri sforzi per prendere delle buone risoluzioni; ma ancor più per domandare con tutto il nostro cuore a Dio il suo soccorso, senza il quale nulla si può (Bossuet, Retr. sur la pen.).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO, E … PURE I LADRI ED I BRIGANTI CHE SI INTRUFOLANO NELLA CHIESA DI CRISTO: S. S. PIO XII – “AD SINARUM GENTEM”

Già in altre occasioni il Santo Padre Pio XII, ha rivolto ai fedeli e religiosi Cattolici cinesi, la propria attenzione per esortarli nelle vicissitudini da essi patite nei confronti di coloro che … odiano Dio, tutti gli uomini, e la Religione divinamente rivelata da Gesù Cristo. Toccanti sono i suoi richiami alla resistenza nella conservazione della fede pura ed illibata di Cristo affidata alla Chiesa Cattolica e tramandata dalla sua Gerarchia. Il richiamo più accorato è rivolto ad evitare pericolosi scismi, sotto falsi pretesti di patriottismo o di autonomia “gestionale” « … parimenti da essa non si può richiedere che, spezzata l’unità di cui il suo divin Fondatore l’ha voluta insignire, e costituite chiese particolari in ciascuna nazione, queste miseramente si separino dalla Sede Apostolica, dove Pietro, Vicario di Gesù Cristo, continua a vivere nei suoi successori sino alla fine dei secoli. Se una qualsiasi comunità cristiana compisse tale cosa, inaridirebbe come un tralcio staccato dalla vite (cf. Gv 15, 6), e non potrebbe portare frutti salutari ». Sono quelle stesse parole che Pio XII rivolgeva ancora al popolo cinese ed ai falsi prelati della abominevole chiesa patriottica contenute nella lettera “Ad Apostolorum Principis” del 29 giugno del 1958 – pochi mesi prima della sua morte – in cui, ampliando il concetto qui esposto, ribadiva il Primato divinamente stabilito nel Romano Pontefice che unico poteva concedere la nomina vescovile con la relativa Giurisdizione canonica. Queste esortazioni, parte del Magistero Apostolico universale ed ordinario, a nulla sono valse nella nomina di falsi Vescovi che, autonomamente si sono arrogati la nomina – naturalmente invalida o quanto meno illecita e sacrilega – della Carica vescovile. Ancora oggi, vediamo come falsi, sacrileghi pseudo-vescovi carnevaleschi attirino disgraziati ed incauti fedeli alla loro sequela, determinandone con il pretesto dello stato di necessità, la fine del “tralcio disseccato” gettato al fuoco eterno. Pensiamo ai pittoreschi pseudo-Monsignori mai nominati dal Santo Padre [neppure dagli antipapi usurpanti] e privi di qualsiasi Giurisdizione e scomunicati ipso-facto latæ sententiæ con scomunica riservata in specialissimo modo alla Sede Apostolica sia per i consacranti che per gli pseudo-consacrati. Pensiamo ai vari finti-tradizionalisti, alle gallicane disobbedienti “illuminate” (para)massoniche, fraternité (… liberté, [dalle regole canoniche], egalité, [nella dannazione]), ai cani sciolti sedicenti sedevacantisti, «…. la Sede Apostolica, dove Pietro, Vicario di Gesù Cristo, continua a vivere nei suoi “VERI” successori sino alla fine dei secoli» [ sedevacantisti… nel senso che non hanno né hanno mai avuto alcuna sede diocesana con giurisdizione territoriale, (… e l’unica “vacanza è quella della loro non-sede o … del loro intelletto) etc. Quanti tralci secchi, quante disobbedienze alle più semplici regole canoniche, quante scomuniche mai rimesse, quanta dannazione eterna!!! Al pusillus grex Cattolico, dopo la lettura attenta e meditata della lettera proposta, auguriamo, con l’aiuto della grazia divina, di poter dire come S. Paolo a Timoteo: bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi! Coraggio, strenui fedeli Cattolici, non facciamoci persuadere dai ladruncoli e dai briganti … Gesù ha vinto il mondo, e … tutto possiamo in Colui che ci dà forza, sotto il manto di Maria e del suo Cuore Immacolato.

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

AD SINARUM GENTEM(1)

PATERNE ESORTAZIONI
ALLA CHIESA CATTOLICA IN CINA

Circa tre anni fa inviammo la lettera apostolica Cupimus imprimis (2) al popolo cinese, a Noi tanto caro, e in modo speciale a voi, venerabili fratelli e diletti figli, che professate la Religione Cattolica, non soltanto per esprimervi la Nostra partecipazione alle vostre angosce, ma anche per esortarvi paternamente ad adempiere tutti i doveri della Religione cristiana con quella risoluta fedeltà, che qualche volta esige un’eroica fortezza; e nel momento presente, Noi, unitamente alle vostre preghiere, innalziamo un’altra volta le Nostre a Dio onnipotente e Padre delle misericordie, affinché «come il sole di nuovo brilla dopo le tempeste e le procelle, così dopo tante angustie, sconvolgimenti e sofferenze, tornino finalmente a risplendere sulla vostra chiesa la pace, la tranquillità e la libertà».(3)

In questi ultimi anni, purtroppo, le condizioni della Chiesa Cattolica in mezzo a voi non sono per niente migliorate; anzi sono aumentate le accuse e le calunnie contro questa Apostolica Sede e contro coloro che si mantengono ad essa fedeli; è stato espulso il Nunzio apostolico, che presso di voi rappresentava la Nostra persona; e si sono intensificate le insidie per ingannare le persone meno illuminate.

Però – come già vi abbiamo scritto – « voi opponete la fermezza della vostra volontà alle insidie, anche se presentate con astuzia, con inganno o con false apparenze di verità ».(4) Sappiamo che queste Nostre parole contenute nella precedente lettera apostolica, non hanno potuto arrivare fino a voi; e perciò volentieri ve le ripetiamo per mezzo di questa enciclica; e sappiamo anche, con sommo conforto del Nostro animo, che voi avete perseverato nel vostro fermo e santo proposito, e che nessuno sforzo è riuscito a staccarvi dall’unità della Chiesa; perciò Ci congratuliamo vivamente con voi e ve ne diamo la meritata lode.  – Ma, siccome dobbiamo preoccuparci dell’eterna salute di ciascuno, non possiamo nascondere la tristezza e l’angoscia del Nostro animo nel venire a conoscere che, pur mantenendosi i Cattolici nella grande maggioranza fermi nella fede, tuttavia non sono mancati in mezzo a voi coloro che, ingannati nella loro buona fede, o presi dalla paura, o traviati da nuove e false dottrine, hanno aderito, anche di recente, a pericolosi «movimenti», che sono promossi dai nemici di ogni religione, specialmente di quella divinamente rivelata da Gesù Cristo.  – Perciò la coscienza del Nostro dovere esige che vi rivolgiamo un’altra volta la Nostra parola per mezzo di questa lettera enciclica, con la speranza che essa possa arrivare a vostra conoscenza; sia essa di conforto e d’incoraggiamento per coloro che costanti e forti perseverano nella verità e nella virtù; mentre agli altri porti luce e i Nostri paterni ammonimenti.  – Prima di tutto, poiché oggi pure, come avveniva anticamente, i persecutori dei Cristiani li accusano falsamente di non amare la propria patria e di non essere buoni cittadini, desideriamo ancora una volta proclamare (5) – ciò che del resto non può non essere riconosciuto da chiunque sia guidato dalla retta ragione – che i Cattolici cinesi non sono secondi a nessuno nell’ardente amore e nella viva fedeltà verso la loro nobilissima patria. Il popolo cinese – Ci piace ripetere quanto abbiamo già scritto a sua lode nella citata lettera apostolica – « fin dai tempi più remoti si è distinto tra gli altri popoli dell’Asia per le sue imprese, per la sua letteratura, e per lo splendore della sua civiltà; e, dopo essere stato illuminato dalla luce dell’Evangelo che supera immensamente la sapienza di questo mondo, trasse da quella luce maggiori ricchezze per il suo spirito, cioè le virtù cristiane, che perfezionano e consolidano le stesse virtù civili. (6)  – Inoltre Noi vediamo che voi siete degni di lode anche per questo motivo: cioè perché nelle quotidiane e lunghe prove, in cui vi trovate, voi percorrete proprio la via giusta, quando prestate, come si conviene a Cristiani, rispettoso ossequio alle vostre pubbliche autorità nel campo di loro competenza, e, amanti della vostra patria, siete pronti al compimento di tutti i vostri doveri di cittadini. Ma Ci è anche di grande consolazione sapere che voi, all’occasione, avete apertamente affermato e ancora affermate che in nessun modo vi è lecito allontanarvi dai precetti della Religione Cattolica, e che in nessun modo potete rinnegare il vostro Creatore, per il cui amore molti di voi hanno affrontato tormenti e carcere.  – Come già vi abbiamo scritto nella precedente lettera, questa Sede Apostolica, specialmente in questi ultimi tempi, con la più grande sollecitudine ha avuto cura della retta istruzione e formazione del maggior numero possibile di Sacerdoti e di Vescovi della vostra nobile Nazione. Così il Nostro immediato predecessore Pio XI di f.m, ha consacrato personalmente nella maestosa basilica di San Pietro i primi sei Vescovi, scelti dal vostro popolo; e Noi stessi, avendo grandemente a cuore il progressivo stabilirsi e il continuo quotidiano sviluppo della vostra Chiesa, di buon grado abbiamo costituito la sacra gerarchia ecclesiastica in Cina; e per la prima volta nella storia, abbiamo conferito la dignità della porpora romana a un vostro cittadino. (7)  – Desideriamo poi che venga quanto prima il giorno – a questo fine rivolgiamo a Dio ardentissimi voti e supplichevoli preghiere – in cui, anche presso di voi, Vescovi e Sacerdoti, tutti della vostra Nazione e in numero sufficiente per le necessità, possano governare la Chiesa Cattolica nell’immenso vostro Paese e così non vi sia più bisogno dell’aiuto dei missionari esteri nel campo del vostro apostolato. Ma la verità e il dovere di coscienza esigono che proponiamo alla diligente attenzione di voi tutti quanto segue: primo, questi predicatori dell’Evangelo, che, dopo avere abbandonata la propria diletta patria, presso di voi fecondano il campo del Signore con le loro fatiche e i loro sudori, non sono mossi da motivi terreni, ma non cercano altro che illuminare il vostro popolo con la luce del Cristianesimo, formarlo a costumi cristiani, aiutarlo con la divina carità; in secondo luogo, anche quando l’aumentato numero del clero cinese non avrà più bisogno dell’aiuto dei missionari esteri, la Chiesa Cattolica nella vostra Nazione, come in tutte le altre, non potrà essere retta con «autonomia di governo», come oggi si usa dire. Infatti, anche allora, come ben sapete, sarà del tutto necessario che la vostra comunità cristiana, se vorrà far parte della società che è stata divinamente fondata dal nostro Redentore, sia del tutto sottomessa al Sommo Pontefice, Vicario di Gesù Cristo in terra e con lui strettamente unita, per quanto riguarda la fede religiosa e la morale. Con le quali parole – è bene notarlo – si abbraccia tutta la vita e l’opera della Chiesa: perciò, anche la sua costituzione, il suo governo, la sua disciplina, cose tutte che dipendono senza dubbio dalla volontà di Gesù Cristo, fondatore della Chiesa. In forza di questa divina volontà i fedeli si dividono in due classi: clero e laicato; in forza della medesima volontà è costituita la duplice sacra potestà, cioè di ordine e di giurisdizione. Inoltre – ciò che parimenti è stato divinamente stabilito – alla potestà di Ordine (per cui la gerarchia ecclesiastica è composta di Vescovi, Sacerdoti e ministri) si accede ricevendo il Sacramento dell’Ordine sacro; la potestà di giurisdizione poi, che al Sommo Pontefice viene conferita direttamente per diritto divino, proviene ai Vescovi dal medesimo diritto, ma soltanto mediante il successore di san Pietro, al quale non solamente i semplici fedeli, ma anche tutti i Vescovi devono costantemente essere soggetti e legati con l’ossequio dell’obbedienza e con il vincolo dell’unità.  – E infine, per la stessa divina volontà, il popolo o l’autorità civile non devono invadere il campo dei diritti e della costituzione della gerarchia ecclesiastica. (8) – Tutti, devono inoltre notare – ciò che del resto per voi, venerabili fratelli e diletti figli, è evidente – che Noi desideriamo vivamente che giunga presto il tempo in cui per le necessità della Chiesa cinese possano essere sufficienti i mezzi finanziari che i fedeli cinesi riescono a fornirle; però, come ben sapete, le offerte raccolte per questo presso le altre nazioni, hanno origine da quella carità cristiana per la quale tutti coloro, che sono stati redenti dal sacro Sangue di Gesù Cristo, sono necessariamente uniti l’uno all’altro da un’alleanza fraterna e dall’amore divino sono spinti a propagare dappertutto, secondo le loro forze, il regno del Redentore nostro. E ciò non per fini politici o comunque profani, ma soltanto per mettere in pratica utilmente il precetto della carità, che Gesù Cristo ha dato a noi tutti e per il quale si riconoscono i suoi veri discepoli (cf. Gv XIII, 35). Così hanno fatto volontariamente i Cristiani di tutti i tempi, come già l’Apostolo delle genti attestava dei fedeli della Macedonia e dell’Acaia, i quali spontaneamente inviavano le loro offerte «ai poveri dei santi che sono in Gerusalemme» (Rm XV, 26); e a fare la stessa cosa l’Apostolo esortava i suoi figli in Cristo, che abitavano a Corinto e nella Galazia (cf. 1 Cor XVI, 1-2).  – Infine, alcuni fra di voi vorrebbero che la vostra Chiesa fosse completamente indipendente non soltanto; come abbiamo detto, nel governo e per la parte economica; ma pretendono di rivendicarle un’«autonomia» anche nell’insegnamento della dottrina cristiana e nella sacra predicazione.  – Non neghiamo affatto che il modo di predicare e d’insegnare debba essere diverso secondo i luoghi e perciò debba essere conforme, quando è possibile, alla natura e al carattere particolare del popolo cinese, come pure ai suoi antichi tradizionali costumi; che anzi, se ciò verrà fatto nel debito modo, si potranno certamente raccogliere presso di voi maggiori frutti.  Ma – ciò che è assurdo soltanto a pensarsi – con quale diritto possono gli uomini di proprio arbitrio, differentemente secondo le differenti nazioni, interpretare l’Evangelo di Gesù Cristo? – Ai Vescovi, che sono i successori degli Apostoli, e ai Sacerdoti, che secondo il proprio ufficio sono i cooperatori dei Vescovi, è stato conferito l’incarico di annunziare e insegnare quell’Evangelo che per primi annunziarono e insegnarono Gesù stesso e i suoi Apostoli, e che questa Sede Apostolica e tutti i Vescovi, a essa uniti, hanno conservato e tramandato illibato e inviolato attraverso il corso dei secoli. Non sono dunque i sacri pastori gli inventori e i compositori di questo Evangelo, ma soltanto i custodi autorizzati e i banditori divinamente costituiti. Perciò Noi stessi, e i Vescovi insieme con Noi, possiamo e dobbiamo ripetere le parole di Gesù Cristo: « La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato» (Gv VII, 16). E a tutti i Vescovi, di ogni tempo, può essere rivolta l’esortazione di san Paolo: «O Timoteo, custodisci il deposito, evitando le profane novità delle espressioni e le contraddizioni della falsa scienza» (1 Tm VI, 20); e così pure quest’altra affermazione del medesimo Apostolo: «Custodisci il buon deposito per mezzo dello Spirito Santo che abita in noi» (2 Tm 1, 14). Non siamo dunque maestri di una dottrina scaturita da mente umana, ma secondo il dovere della nostra coscienza, dobbiamo abbracciare e seguire quella che ha insegnato lo stesso Cristo Signore e che Egli, con solenne comando, ha ordinato di insegnare agli Apostoli e ai loro successori (cf. Mt XXVIII, 19-20).

Perciò chi è Vescovo, o Sacerdote della vera Chiesa di Cristo, deve più e più volte meditare ciò che l’Apostolo Paolo diceva della sua predicazione dell’Evangelo: «Vi rendo… noto, o fratelli, che l’Evangelo da me predicato non è secondo l’uomo; poiché io non l’ho né ricevuto né imparato da un uomo, ma per mezzo della rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1, 11-12).  – E inoltre, essendo Noi certissimi che questa dottrina (di cui con l’aiuto dello Spirito Santo dobbiamo difendere l’integrità) è stata divinamente rivelata, ripetiamo queste parole dell’Apostolo delle genti: «Anche se noi, o un Angelo dal cielo, vi insegnasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo insegnato, sia anatema» (Gal 1, 8).  – Potete dunque facilmente vedere, venerabili fratelli e diletti figli, come non possa pretendere di essere ritenuto e onorato del nome di Cattolico colui che professi o insegni diversamente da quanto abbiamo fin qui brevemente esposto, come fanno coloro che hanno aderito a quei pericolosi principi, da cui è informato il movimento delle «tre autonomie» o ad altri principi dello stesso genere. – I promotori di tali movimenti con somma astuzia cercano di ingannare i semplici o i pavidi, o di allontanarli dalla retta via; a tal fine affermano falsamente che sono veri patrioti soltanto coloro che aderiscono alla chiesa da loro ideata, cioè a quella che ha le «tre autonomie». Ma in realtà essi cercano, per venire alla cosa principale, di costituire finalmente presso di voi una chiesa, come dicono, «nazionale»; la quale non potrebbe più essere Cattolica, perché sarebbe la negazione di quella universalità ossia «cattolicità», per cui la società veramente fondata da Gesù Cristo è al di sopra di tutte le nazioni e tutte singole le abbraccia. – Ci piace qui ripetere le parole che sullo stesso argomento vi abbiamo scritte nella ricordata lettera apostolica: la Chiesa Cattolica «non chiama a sé un solo popolo, non una sola nazione, ma ama le genti di qualsiasi stirpe con quell’amore soprannaturale di Cristo che deve tutti unire tra loro come fratelli.  – Perciò nessuno può affermare che essa sia al servizio di una particolare potenza; parimenti da essa non si può richiedere che, spezzata l’unità di cui il suo divin Fondatore l’ha voluta insignire, e costituite chiese particolari in ciascuna nazione, queste miseramente si separino dalla Sede Apostolica, dove Pietro, Vicario di Gesù Cristo, continua a vivere nei suoi successori sino alla fine dei secoli. Se una qualsiasi comunità cristiana compisse tale cosa, inaridirebbe come un tralcio staccato dalla vite (cf. Gv 15, 6), e non potrebbe portare frutti salutari». (9)  – Esortiamo dunque vivamente «nell’amore di Cristo» (Fil 1, 8) quei fedeli, di cui prima Ci siamo lamentati; a ritornare sulla via della resipiscenza e della salvezza. Si ricordino essi che se bisogna dare, quando è necessario, a Cesare quello che è di Cesare, a maggior ragione anche bisogna dare a Dio ciò che è di Dio (cf. Lc 20, 25); e quando gli uomini comandano cose contrarie alla volontà divina, allora è necessario mettere in pratica la massima dell’apostolo Pietro: «È necessario ubbidire a Dio più che agli uomini» (At 5, 29). Si ricordino inoltre che è impossibile servire due padroni, se questi comandano cose tra di loro opposte (cf. Mc 6, 24); e anche che è impossibile alle volte piacere a Gesù Cristo e agli uomini (cf. Gal 1, 10). E se talora avvenga che debba subire gravi danni chi vuole rimanere fedele al divin Redentore sino alla morte, egli tolleri ciò con animo forte e sereno.  – Vogliamo, invece, ripetutamente congratularci con coloro che, sopportando penose difficoltà, si sono distinti nella fedeltà verso Dio e verso la Chiesa Cattolica e, perciò, «sono stati fatti degni di patire contumelie per il nome di Gesù» (At 5, 41); con animo paterno li incoraggiamo a continuare forti e intrepidi nel cammino iniziato, tenendo presenti le parole di Cristo: «… Non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; ma piuttosto temete chi può far perdere nella Geenna e anima e corpo. … I capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete dunque. … Chi dunque mi avrà confessato davanti agli uomini, lo confesserò anch’io davanti al Padre che è nei cieli; ma chi mi avrà rinnegato davanti agli uomini, lo rinnegherò anch’io davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mc 10, 28.30-33).

Certamente, venerabili fratelli e diletti figli, non è leggera la lotta che vi è imposta dalla legge divina. Ma Cristo Signore che ha dichiarato beati coloro che patiscono persecuzione per la giustizia, ha loro comandato di godere ed esultare perché abbondante sarà nei cieli la loro ricompensa (cf. Mc V, 10-12). Egli stesso benigno vi assisterà dal cielo col suo potentissimo aiuto, affinché possiate combattere il buon combattimento e conservare la fede (cf. 2 Tm IV, 7); tutti, pure, vi assisterà con la sua efficacissima protezione la madre di Dio, Maria Vergine, che è anche la Madre amantissima di tutti. Essa, regina della Cina, vi difenda e vi aiuti in modo particolare in quest’anno mariano, affinché con costanza siate perseveranti nei vostri propositi; vi assistano dal Cielo i santi Martiri della Cina, i quali sono andati incontro sereni alla morte per il loro vero amore alla patria terrena, e soprattutto per la loro fedeltà al divino Redentore e alla sua Chiesa. – Intanto vi sia auspicio di celesti grazie l’apostolica benedizione che, a testimonianza della Nostra specialissima benevolenza, impartiamo con molto affetto nel Signore tanto a voi, venerabili fratelli e diletti figli, quanto a tutta la carissima nazione cinese.

Roma, presso San Pietro, 7 ottobre, festa del ss.mo Rosario della beata Vergine Maria, nell’anno 1954, XVI del Nostro pontificato.

PIO PP. XII


(1) PIUS PP. XII, Epist. enc. Ad Sinarum gentem qua paterna impertiuntur hortamenta in præsentibus rerum angustiis, [Ad venerabiles Fratres ac dilectos Filios Archiepiscopos, Episcopos aliosque locorum Ordinarios ceterumque clerum ac populum Sinarum, pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes], 7 octobris 1954: AAS 47(1955), pp. 5-14.

 (2) AAS 44(1952), p. 153ss; EE 6/1977.

(3) Ibidem , p. 157; EE 6/1987.

(4) Ibidem, p. 155; EE 6/1983.

(5) Cf. ibidem, p. 155; EE 6/1982.

(6) Ibidem, p. 153: EE 6/1977.

(7) Cf. ibidem, p. 155; EE 6/1983.

(8) Cf. CONC. TRID., sess. XXIII, De Ordine, cann. 2-7: COD 743-744: CONC. VAT. I, sess. IV: COD 811ss; CIC, cann. 108-109.

(9) AAS 44(1952), p. 155; EE 6/1982.

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2019)

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXXV: 1; 2-3
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die. [Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]
Ps LXXXV: 4
Lætífica ánimam servi tui: quia ad te, Dómine, ánimam meam levávi.
[Allieta l’ànima del tuo servo: poiché a Te, o Signore, levo l’anima mia.]

Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die. [Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]

Oratio

Orémus.
Ecclésiam tuam, Dómine, miserátio continuáta mundet et múniat: et quia sine te non potest salva consístere; tuo semper múnere gubernétur.
[O Signore, la tua continua misericordia purífichi e fortífichi la tua Chiesa: e poiché non può essere salva senza di Te, sia sempre governata dalla tua grazia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti s. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V: 25-26; 6: 1-10
Fratres: Si spíritu vívimus, spíritu et ambulémus. Non efficiámur inanis glóriæ cúpidi, ínvicem provocántes, ínvicem invidéntes. Fratres, et si præoccupátus fúerit homo in áliquo delícto, vos, qui spirituáles estis, hujúsmodi instrúite in spíritu lenitátis, consíderans teípsum, ne et tu tentéris. Alter alteríus ónera portáte, et sic adimplébitis legem Christi. Nam si quis exístimat se áliquid esse, cum nihil sit, ipse se sedúcit. Opus autem suum probet unusquísque, et sic in semetípso tantum glóriam habébit, et non in áltero. Unusquísque enim onus suum portábit. Commúnicet autem is, qui catechizátur verbo, ei, qui se catechízat, in ómnibus bonis. Nolíte erráre: Deus non irridétur. Quæ enim semináverit homo, hæc et metet. Quóniam qui séminat in carne sua, de carne et metet corruptiónem: qui autem séminat in spíritu, de spíritu metet vitam ætérnam. Bonum autem faciéntes, non deficiámus: témpore enim suo metémus, non deficiéntes. Ergo, dum tempus habémus, operémur bonum ad omnes, maxime autem ad domésticos fídei.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

CONOSCI TE STESSO

Fratelli: Se viviamo di spirito, camminiamo secondo lo spirito. Non siamo avidi di vanagloria, provocandoci a vicenda, a vicenda inviandoci. Fratelli, quand’anche uno venisse sorpreso in qualche fallo, voi che siete spirituali ammaestratelo con lo spirito di dolcezza, e bada a te stesso che tu pure non cada nella tentazione. Gli uni portate i pesi degli altri, e così adempirete la legge di Cristo. Poiché, se alcuno crede di essere qualche cosa, e invece non è nulla, costui inganna sé stesso. Piuttosto ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi soltanto in se stesso, e non nel confronto con gli altri. Perché ciascuno porterà il proprio fardello. Chi poi viene istruito nella parola faccia parte di tutti i beni a chi lo istruisce. Non vogliate ingannarvi: Dio non si lascia schernire. Ciascuno mieterà quello che avrà seminato. Così, chi semina nella sua carne, dalla carne mieterà corruzione: chi, semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna. Non stanchiamoci dunque dal fare il bene; poiché se non ci stanchiamo, a suo tempo mieteremo. Perciò mentre abbiamo tempo facciamo del bene a tutti, e in modo speciale a quelli che, per la fede, sono della nostra famiglia. (Gal. 5, 25-26: 6, 1-10).  

L’Epistola di quest’oggi è la continuazione di quella della domenica scorsa, nella quale si inculcava di vivere secondo lo spirito. Per vivere secondo lo spirito, prosegue l’Apostolo, bisogna fuggire la vanagloria e l’invidia. Si deve correggere chi sbaglia con spirito di dolcezza; tutti hanno a sopportarsi vicendevolmente. Persuasi del proprio nulla, devono esaminar spassionatamente le proprie azioni. Siamo, inoltre, generosi con chi ci istruisce nella fede. E conclude esortando di non stancarci di fare il bene, essendo la nostra vita il tempo della semina. Se in questa vita non ci stancheremo a seminare nello spirito, a suo tempo, mieteremo la vita eterna. – Accogliamo l’invito di S. Paolo, a esaminare le nostre opere. Questo esame:

1 È necessario, data la nostre debolezza.

2 Dev’essere spassionato.

3 Deve prendere a guida il Vangelo.

1.

Non siamo avidi di vana gloria. Se l’uomo conoscesse bene se stesso, si convincerebbe che non ha troppi motivi di vanagloriarsi. La dignità dell’uomo è certamente grande. Dio lo ha costituito re del creato. Noi ammiriamo certi appartamenti dei palazzi reali. Tappeti, arazzi, quadri, affreschi, intarsi, fermano l’attenzione del visitatore, che non sa staccarsi da quelle sale. Queste sono le abitazioni che gli uomini hanno preparato per i re di questo mondo. Senza confronto più splendida è l’abitazione che Dio ha preparato per l’uomo. Salomone, nello splendore e nel lusso superò tutti i re d’Israele. Pure Gesù dichiara che un giglio del campo, cresciuto senza alcuna cura di giardiniere, veste più splendidamente di Salomone. E quel che si dice del giglio, si dica di tutta la creazione, che Dio ha apparecchiata per dimora dell’uomo. Nessun tappeto può gareggiare con la magnifica armonia di verde e di fiori, che ornano le nostre pianure, con lo strato di candida neve che copre le vette dei monti. Nessun pennello potrà uguagliare, riproducendole, certe scene della natura. Dev’esser pur grande l’uomo, se Dio ha preparato per lui una tale abitazione. Molto più grande ancora ci appare, se consideriamo la sua creazione. Dio, creandolo, disse: «Facciamo l’uomo a immagine e somiglianza nostra, e abbia potere sui pesci del mare e su gli uccelli del cielo, e su tutti gli animali e su tutta la terra» (Gen. I, 26). L’uomo, creato a somiglianza di Dio, è da Lui costituito re della creazione. Quale grandezza e quale dignità! Si comprende come Davide, rivolto a Dio, esclamasse: «Chi è mai l’uomo? Tu l’hai fatto di poco inferiore agli Angeli, l’hai coronato di gloria e di onore; gli hai dato il dominio su le opere delle tue mani, e ogni cosa hai posto sotto i suoi piedi» (Ps. VIII, 5-7). – Ma lo stesso Davide domanda ancora: « O Signore, che cosa è l’uomo, a cui hai voluto farti conoscere, o il Figlio dell’uomo che tu ne fai conto? L’uomo è simile al nulla, i giorni di lui passano come ombra» (Ps. CXLIII, 3-4). È questo dal lato fisico. Dal lato morale egli è costretto ogni giorno a confessare: «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole » (Matth. XXVI, 41). Se l’uomo dovesse pensare alla instabilità della sua vita e alle miserie che l’accompagnano, invece di coltivare la vanagloria per la sua dignità, dovrebbe esaminare, se a questa dignità non venga meno con la sua condotta. Nessuno vorrà certamente confondere la dignità con la virtù. La dignità dell’uomo, creato a somiglianza di Dio, non gli impedisce di scendere al livello degli animali irragionevoli. E siccome le azioni che non corrispondono alla sua dignità saranno un giorno giudicate da Dio, la più elementare prudenza suggerisce di prevenir questo giudizio, col metterci noi a giudicar noi stessi; e così vedere, dove c’è da continuare, dove c’è da riformare. È un giudizio che non bisogna, naturalmente, ripetere sempre, perché la chiamata al giudizio di Dio può venire da un momento all’altro.

2.

Se alcuno crede di essere qualche cosa, mentre non è nulla, costui illude se stesso. E noi siamo veramente nulla. Anche se presentemente uno non è peccatore, non deve credersi qualche cosa. « Avessi anche esercitato la virtù dai primi anni, avrai anche commessi molti peccati. Che se credi di non averne, pensa che questo non avvenne per tua virtù, ma per la grazia di Dio » (S. Giov. Cris. In Ep. Ad Tit. Hom. V, 3). Ma è poi proprio vero che sei senza peccati? È tanto facile illudersi! « Se vi fu peccato in cielo, quanto più in terra? Se vi fu delitto in quelli che sono liberi dalla tentazione corporale, quanto più in noi che siamo circondati da una carne fragile e diciamo con l’Apostolo: Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte?» (S. Girol. Epist. 122, 3 ad Rust.). La nostra illusione deriva dal fatto che non conosciamo noi stessi. Ci sono di quelli che conoscono a meraviglia città e paesi molto lontani, e non conoscono i luoghi che confinano col loro paese o con la loro città. Ci sono quelli che parlano speditamente lingue straniere, e non sanno parlare la lingua propria. Ci sono Cristiani che conoscono le mancanze e i difetti degli altri e non conoscono le mancanze e i difetti propri. Il Battista, ai sacerdoti e ai leviti mandati dai Giudei a interrogarlo, risponde, parlando del Messia: « In mezzo a voi sta uno che non conoscete » (Joan. I, 26). Questa risposta è a proposito di un gran numero di Cristiani.

— In mezzo a voi sta uno che non conoscete: non conoscete il vostro cuore; non conoscete il vostro interno. Non vi date cura di osservare se l’anima vostra conserva ancora la grazia di Dio, o se l’ha perduta, se i vostri affetti sono per Dio o per il mondo. — E non conoscendo il nostro interno, non possiamo essere che degli illusi. –  Generalmente non si vuole interrogare il proprio interno, perché si ha paura delle risposte che ci potrebbe dare. Se la nostra coscienza ci rivelasse sempre cose a noi grate, non avremmo difficoltà a interrogarla. S. Paolo, in mezzo dell’Areopago di Atene, tiene un mirabile discorso, che attira l’attenzione di tutti. Ma quando viene a parlare del giudizio e della risurrezione dei morti la scena cambia. « Sentita nominare la risurrezione dei morti; gli uni se ne burlarono, gli altri poi dissero: Ti ascolteremo sopra di ciò un’altra volta » (Act. XVII, 32). Quella verità non piaceva ai superbi o gaudenti filosofi della Grecia: bisognava far tacere, bellamente, chi ne parlava, e licenziarlo. Quando i responsi della coscienza non ci piacciono, quando da essa si leva qualche voce ammonitrice, cerchiamo di tutto per farla tacere. — T’ascolteremo un’altra volta — diciamo dentro di noi. E intanto il danno è tutto nostro. Un uomo d’affari, non si contenta di esaminare l’attivo, ma esamina con attenzione il passivo, altrimenti non saprà mai come guidarsi nei suoi affari. Noi dobbiamo interrogare la nostra coscienza non con il proposito di trovarvi tutto bene; ma con il proposito di trovarla qual è realmente. Non solamente dobbiamo interrogare la coscienza su quel che abbiamo, ma anche, e specialmente, su quel che ci manca. «Perciò — dice S. Bernardo — non sii pigro nell’indagare che cosa ti manca, né di arrossire di confessare che qualche cosa ti manca» (De cons. l. 2. c. 7). – Coloro che negli affari riscontrano delle perdite, indagano le cause per poter porvi rimedio; così devesi fare anche quando si esamina la propria coscienza. A un esame superficiale non si scorgeranno sempre queste cause, ma a un esame diligente esse non possono sfuggire. – Un foro praticato da una talpa, da una biscia, la penetrazione d’una radice di albero nell’argine d’un fiume, in tempo di piena, sotto la pressione della corrente, possono facilmente aprir la via all’acqua, che, aumentando sempre più, aprirebbe una breccia nell’argine, e andrebbe a riversarsi sulle campagne. I profani passano sull’argine del fiume, senza badare a queste piccolezze: ma gli incaricati, esaminano l’argine attentamente e frequentemente; e quando scorgono uno di questi piccoli guasti, con la costruzione della coronella, un piccolo argine esterno di forma arcuata, provvedono a eliminare il pericolo. — Certe tendenze, trascurate perché sono ancora deboli, certe mancanze di cui non facciamo conto, perché non ci tolgono la grazia di Dio, ci possono predisporre sotto la violenza delle passioni, in circostanze impreviste, a dei gravi crolli spirituali. Un’occhiata attenta anche ad esse nel nostro esame.

3.

Si dice che la più difficile cosa che vi sia, è conoscer se stesso. I motivi di questa difficoltà sono molti. Non ultimo, però, è la falsa norma che si adotta per conoscer se stessi. Generalmente si giudica se stessi nel confronto con gli altri; e così avviene che crede di aver motivo di gloriarsi chi, giudicato davanti a Dio, non avrebbe che motivo di arrossire. È un sistema molto comodo di accontentar il nostro amor proprio, e di esimerci dall’obbligo di migliorar noi stessi. Se nessuno va esente da mancanze, o per lo meno, da difetti, è facile trovarli in coloro che ci circondano. Ma il nostro egoismo non ci lascia vedere che i difetti degli altri: non ce ne lascia scorgere la virtù. Inoltre, ci dà occhi di lince per vedere quello che fa il prossimo, e ci lascia ciechi per vedere quel che facciamo noi. Siamo come quelle macchine, che coi loro fanali gettano fasci di luce che rischiarano la strada, ma esso rimangono nell’oscurità. È facile, con questo sistema, il ragionamento: “in fondo, sono migliore di tanti altri; non faccio quel che fanno essi, quindi posso esser tranquillo. Se si salveranno essi, a maggior ragione mi salverò io”. Contro questa illusione ci premunisce l’Apostolo: Ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi in se stesso. Non ci dice: Confrontate le vostre azioni con quelle del vostro prossimo. Se in qualche cosa vi trovate migliori del prossimo vostro, state tranquilli: non avete più nulla da fare. Ci dice: Ciascuno esamini le proprie opere. Il che vuol dire : «Esaminiamo noi stessi e le nostre opere per vedere se vengono da Dio» (S. Efrem. in h. 1). Le azioni del prossimo non centrano, dunque, pur nulla in questo affare del nostro esame. Per vedere se le nostre azioni vengono da Dio, non abbiamo che da confrontarle con la dottrina del Vangelo.

Il Vangelo è una norma infallibile, e prendendolo per norma nel nostro esame non cadremo nel pericolo di essere ingannati. Mettendo la nostra coscienza di fronte al Vangelo, vedremo ciò che c’è da levare, ciò che c’è da aggiungere. Uno troverà che è dominato dalla superbia, l’altro dall’avarizia. Questi vedrà che è schiavo dell’ira, quell’altro dell’invidia, della lussuria, della gola. Chi, alla fine della giornata, trova che non ha messo via nulla di buono per l’eternità, si persuaderà che è un servo inutile. – Confrontando le nostre azioni con la legge di Dio, conosceremo veramente noi stessi. Siccome però, « ogni uomo, quantunque santo, quantunque giusto, quantunque progredito, in molte cose è un abisso » (S. Agostino. Enarr. in Ps. XLI, 13), domandiamo a Dio che ci aiuti ad acquistar questa conoscenza, dicendogli con Davide: «Scrutami, o Dio, ed esamina il mio Cuore: interrogami e ti siano manifesti i miei pensieri, E vedi se è in me la via dell’iniquità, e guidami per la vita eterna» (Ps. CXXXVIII, 23-24).

Graduale

Ps XCI: 2-3.
Bonum est confitéri Dómino: et psallere nómini tuo, Altíssime. [È cosa buona lodare il Signore: inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]
V. Ad annuntiándum mane misericórdiam tuam, et veritátem tuam per noctemm. [È bello proclamare al mattino la tua misericordia, e la tua fedeltà nella notte.].

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XCIV: 3 Quóniam Deus magnus Dóminus, et Rex magnus super omnem terram. Allelúja. [Poiché il Signore è Dio potente e Re grande su tutta la terra. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntiasancti Evangélii secúndum S. Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc VII: 11-16
“In illo témpore: Ibat Jesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli ejus et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. – Hi autem, qui portábant, stetérunt. – Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et coepit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam.

Omelia II

[[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XLIII.

“In quel tempo avvenne che Gesù andava a una città chiamata Naim: e andavan seco i suoi discepoli, e una gran turba di popolo. E quand’ei fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato fuori alla sepoltura un figliuolo unico di sua madre, e questa era vedova: e gran numero di persone della città l’accompagnavano. E vedutala il Signore, mosso di lei a compassione, le disse: Non piangere. E avvicinossi alla bara, e la toccò (e quelli che la portavano si fermarono). Ed egli disse: Giovinetto, dico a te, levati su; e il morto si alzò a sedere, e principiò a parlare. Ed egli lo rendette a sua madre. Ed entrò in tutti un gran timore; e glorificavano Dio, dicendo: Un profeta grande è apparso tra noi; e ha Dio visitato il suo popolo” (Luc. VII, 11-16).

Il Vangelo di questa domenica ci offre a considerare una scena assai pietosa. Gesù in compagnia dei discepoli e di una gran furia di popolo andava ad una città chiamata Naim. Et reliqua. – Quale scena! o miei cari. Non è egli vero che rincresce perché l’Evangelista San Luca ce la narri cosi brevemente? Ma se dessa è una scena tanto pietosa, non è tuttavia meno istruttiva per noi. Epperò tra i molti ammaestramenti che se ne potrebbero ricavare, scegliamone qualcuno dei più pratici e più utili per noi.

1. Ed anzi tutto diamo uno sguardo a colui che si portava a seppellire. Egli era giovine, era ricco, era unico figlio, eppure né la giovinezza, né le ricchezze, né le lagrime della madre valsero a mantenerlo in vita: egli morì e come morto veniva portato ad essere sepolto. Or ecco il terribile ammaestramento, che ne viene da questo giovane defunto; che la morte cioè non guarda in faccia a nessuno, che nulla vale a rattenerla, ma che inesorabile esecutrice dei decreti di Dio mena tuttodì la sua falce, cogliendo anche coloro, i quali o per la loro gioventù e robustezza, o per i beni di cui sono in possesso, e che solo pensano a godere, o per l’affetto, di cui si vedono circondati, pensano meno degli altri a morire. Ad ogni modo, quand’anche la morte avesse riguardo a coglier le vite degli uomini con un certo qual ordine, che cosa è mai la vita umana? Essa non lascerebbe perciò di essere simile ad un vapore, che ad un poco di vento sparisce e non è più. La vita dell’uomo è breve, dice Giobbe; l’uomo è come un fiore che nasce, e tosto è reciso. Essa, dice il profeta Isaia, è come una pianticella di fieno, che vive pochissimo tempo e poi secca e muore. La morte ci corre all’incontro più presto d’un cursore, e noi in ogni momento, in ogni passo, in ogni respiro corriamo alla morte. Tutti siamo mortali, e scorriamo sulla terra come l’acqua che non ritorna più in dietro. Vedete là come corre quel ruscello al mare, e quelle acque che scorrono non tornano più indietro; così, o giovane, passano i tuoi giorni e ti avvicini alla morte: passano i piaceri, passano gli spassi, passano gli onori, le lodi, le acclamazioni, e che resta? Solo ci resta il sepolcro. Sarem buttati in una fossa, ed ivi avremo da stare a marcire spogliati di tutto. Ma come è certo che ben presto finirà la nostra vita, così è certissimo che fluirà tanto più spaventosamente, quanto meno ci pensiamo. Al presente i peccatori discacciano la memoria e il pensiero della morte, e così cercano di trovar pace, benché non la trovino mai nel vivere che fanno in peccato; ma quando si troveranno nell’angustie della morte, prossimi ad entrare nell’eternità, allora non potranno sfuggire il tormento della loro mala coscienza; cercheranno la pace, ma che pace può trovare un’anima, ritrovandosi aggravata di colpe, che come tante vipere la mordano? I peccati, come tanti satelliti, dice S. Bernardo, terranno afferrato il peccatore moribondo e gli diranno: Noi siamo tuoi, non vogliamo lasciarti, ti accompagneremo all’altra vita, e teco ci presenteremo all’eterno Giudice. – Vorrà egli allora sbrigarsi di tali nemici, ma per sbrigarsene bisognerebbe odiarli, bisognerebbe convertirsi di tutto cuore a Dio, e come lo farà con la mente ottenebrata e il cuore indurito? Sant’Agostino ebbe da combattere dodici anni per superare i suoi mali abiti; come potrà dunque un moribondo, che sempre è stato con la coscienza imbrattata, in mezzo ai dolori, agli stordimenti della testa e nella confusione della morte, fare facilmente una vera conversione? E poi chi sa dire gli sforzi, che faranno allora contro di lui i demoni che innumerabili lo assisteranno per non perderne più mai la padronanza? Uno gli dirà: non temere che sanerai: Un altro gli dirà: e come! tu per tanti anni sei stato sordo alla voce di Dio, ed ora esso vorrà usarti pietà? Un altro: come ora puoi rimediare a quei danni fatti? A quelle fame tolte? Un altro: non vedi che le tue confessioni sono state tutte nulle, senza vero dolore, senza proposito? Come puoi ora più rifarle? Allo spavento cagionato dalla vista dei peccati e dagli assalti del demonio, si aggiungerà la rimembranza di tutti i diletti goduti in vita, di tutti gli onori acquistati; e non servirà che ad accrescere la pena e la diffidenza di ottenere la salute eterna. Dunque, allora dirà il misero mondano, la mia casa, i miei giardini, quei mobili di buon gusto, quelle pitture, quelle vesti tra poco non saranno più mie? Solo per me vi resterà il sepolcro? Ah! che allora niun bene di questa terra si guarda, se non con pena da chi l’ha amato con attacco; e questa pena non gli servirà ad altro, che a mettere in maggior pericolo la salute dell’anima, vedendosi con la esperienza che tali persone attaccate al mondo, in morte non vogliono sentir parlar d’altro che della loro infermità, di medici che possono chiamarsi e di rimedi che possono giovare: e quando si discorre loro dell’anima, subito si tediano e vi dicono che li lasciate riposare, perché loro duole il capo e non possono parlare. E se talvolta rispondono, si confondono, né sanno che dirsi. E spesso dai confessori si dà loro l’assoluzione, non perché si conoscano disposti, ma perché non v’è tempo d’aspettare. Così muoiono quei che poco pensano alla morte. Che pazzia adunque, per i miseri e brevi diletti di questa così breve vita, mettersi a rischio di fare una mala morte, e con quella incominciare un’eternità infelice! Anche un gentile Antistene domandato qual fosse in questo mondo la miglior fortuna, rispose: Una buona morte. E che dirà un Cristiano, il quale ha per fede, che da quel momento principia l’eternità, sicché in quel momento si afferra una delle due ruote, che seco tira o un eterno godere o un eterno patire? Se in una borsa vi fossero due cartelle, in una delle quali vi stesse scritto l’inferno, nell’altro il paradiso che avesse a toccarti, qual diligenza non useresti per indovinare a prendere quella del paradiso? Miei cari, se credete che si ha da morire, e che vi è un’eternità, e che una volta sola si ha da morire, sicché se allora la sgarrate, l’avrete sgarrata per sempre senza speranza di rimedio, come non vi risolvete di cominciare da questo punto a far quanto potete per assicurarvi una buona morte? Tremava un S. Andrea d’Avellino dicendo: Chi sa qual sorte mi toccherà nell’altra vita? se mi salverò o mi dannerò? Tremava ancor S. Luigi Beltrando talmente, che la notte non poteva prender sonno al pensiero che gli diceva: E chi sa se ti danni? E voi che farete? Presto risolvete di darvi davvero a Dio, e cominciate almeno da questo tempo una vita, che non vi affligga, ma vi consoli in morte. Datevi all’orazione, frequentate i Sacramenti, lasciate le occasioni pericolose; e se bisogna lasciate ancora il mondo, assicurate la vostra salute eterna; e intendete che per assicurare la salute eterna non vi è sicurtà che basti.

2. Ma se il defunto giovanetto di Naim ci richiama così efficacemente al pensiero della morte del corpo, non ci richiama meno a quello della morte dell’anima. E poiché il cadavere di questo giovane veniva già portato fuori di città, all’aperto, tanto che un popolo intero poteva vederlo e compiangerlo, perciò dice il venerabile Beda, significa non solo qualsiasi peccatore, che è morto spiritualmente alla vita della grazia, ma quello specialmente, che non nasconde più il suo stato di morte nel segreto del suo cuore, ma lo pubblica e lo propala con la impudenza dei suoi discorsi, con la sfacciataggine delle sue opere, col menar vanto della sua malvagità, con l’essere insomma un peccatore pubblico e scandaloso. E purtroppo sono veri scandalosi tutti coloro che lasciano conoscere i loro peccati: poiché lo scandalo, come ha detto Tertulliano, non è che l’esempio che si dà agli altri di far male: Scandalum, exemplum rei malæ. Ed infatti, ogni peccato conosciuto ha una efficacia funesta di diminuire in quelli che lo conoscono, il disonore, l’infamia, l’orror del peccato, è uno sforzo diabolico con cui si indebolisce il freno della santa verecondia, del salutare rimorso in coloro, che non sono troppo fermi nel proposito di vivere cristianamente; è una ferita che si fa alle coscienze delicate, anzi è persino una scossa che si dà alle anime forti e ferventi, le quali al vedere come tanti pecchino con tanta disinvoltura e spudoratezza, si turbano ed hanno bisogno di ricorrere prontamente per aiuto a Dio, affine di non cadere ancor esse. – Sì, o miei cari, come ogni azione virtuosa che si conosce è una lezione, un incoraggiamento, uno stimolo di virtù, così ogni peccato che si conosce è una lezione, un incoraggiamento, uno stimolo di peccato. Coloro pertanto che non soddisfatti delle loro colpe, le lasciano ancor scoprire, le lasciano conoscere, e peggio poi le mettono essi stessi in pubblico, commettendole all’aperto o menandone vanto coi loro compagni ed amici, come scandalosi, sono rei non solo di quelle colpe che commettono essi, ma di quelle ancora, che col loro esempio funesto fanno commettere agli altri. Perciò costoro per rimettersi nella via del bene non solo dovranno reprimere le loro malvagie passioni, ma dovranno ancora riparare nel miglior modo possibile agli scandali dati, ciò che costituisce una difficoltà maggiore ad operare veramente la loro conversione e la loro salute. E questo appunto, dice Sant’Agostino, ha voluto significarci il Signore con l’aver dimostrata una certa difficoltà nel risuscitare il figlio della vedova di Naim. E difatti se risuscitò la figlia di Giairo quasi scherzando, nel risuscitare invece il giovine di Naim dapprima mostrossi commosso al pianto della sua madre; quindi si avvicinò alla bara, v’impresse un tocco misterioso, fermò i becchini, fece risuonare all’orecchio dell’estinto la sua voce onnipotente. Ed a questa voce rivisse bensì il giovanetto, ma stette tuttavia a sedere sul feretro e fu necessario che Gesù lo pigliasse per mano, lo facesse discendere, lo aiutasse nei suoi primi passi, affine di renderlo sano e vegeto alla madre. Quanto adunque è felice la condizione del Cristiano che dà buon esempio con le sue buone opere, tanto è triste e funesta la sorte di colui, che commettendo in pubblico il male, o manifestandolo, scandalizza. Colui che dà buoni esempi procaccia il bene suo e altrui; quegli che scandalizza rovina sé e gli altri; e la maledizione di Dio non tarderà a pesargli sopra del capo anche nel corso di questa vita. – Tuttavia, o miei cari, per coloro i quali, portando in pubblico i loro peccati, avessero scandalizzato il prossimo, non vi sarà più alcuno scampo? Oh no! risponde lo stesso S. Agostino, non bisogna creder questo. Poiché Gesù Cristo con l’aver detto al giovanetto di Naim: Risorgi; ci ha chiaramente fatto comprendere, che anche i peccatori scandalosi raffigurati in quel giovanetto, possono essi pure risorgere alla grazia di Dio, e che anche per essi vi è speranza di salute. Ma a tal fine bisogna fermarsi anzi tutto sulla via che conduce all’abisso, lasciando tosto il peccato; quindi bisogna esser docili alla voce di Dio, che con le ispirazioni, e con gli altrui consigli, e specialmente con le lacrime di una madre, chiama alla conversione; sorgere dalla bara delle proprie colpe per mezzo di una buona confessione, e non facendo più nessuna ricaduta, affìdarsi nelle braccia della nostra madre, la Chiesa, per vivere unicamente al suo amore nell’osservanza esatta dei precetti di Dio e della Chiesa. E come il giovinetto di Naim risuscitato che fu si mise tosto a parlare della sua nuova vita al popolo circostante, così chi ripiglia davvero una vita cristiana, dopo aver dato degli scandali, deve far conoscere la sua conversione a coloro che ha scandalizzati, affine di riparare al male che ha fatto. Egli deve imitare lo zelo di Davide, il quale, ritornato a Dio dopo le sue gravi colpe, protestava di voler insegnare ai malvagi le vie del Signore: Docebo iniquos vias tuas, affinché quelli che si erano per cagione sua dati al male si convertissero; et impii ad te convertentur. No, non bisogna arrossire della nuova vita cristiana, non bisogna curare il sarcasmo dei cattivi; conviene calpestare ogni umano rispetto, e parlare sovente di Dio, della sua bontà; soprattutto poi bisognerà farsi vedere alieno dal mondo, assiduo alle pratiche di religione, pio e fervoroso nelle chiese, riservato nelle parole, nel tratto, negli sguardi, umile, paziente, caritatevole. Allora chi per tal modo, anche dopo aver dato scandali, ripiglierà una vita veramente cristiana, non solo in privato, ma anche in pubblico, non abbia alcun timore, che gli riuscirà anche facilmente di pareggiare le sue partite con la divina giustizia ed assicurarsi la sua salute eterna.

3. Da ultimo, o miei cari, diamo ancora uno sguardo alla madre di quel giovane risuscitato. Questa vedova che prova un cordoglio così acerbo per la morte del suo figlio, che sparge tante lacrime dietro la bara, che cammina circondata da un gran popolo, che divide con lei il dolore ed il pianto, dice ancora S. Agostino, è la santa ed augusta nostra Madre, la Chiesa, la quale dopoché il suo divino Sposo è salito al Cielo, e non lo vede più corporalmente a sé dappresso, è rimasta come vedova su questa terra. E questa Madre vedova piange ancor essa continuamente con tutto quanto il popolo, veramente cristiano, che partecipa ai suoi dolori come alle sue gioie; piange sopra la morte dei poveri peccatori e di tanti infelici, che, non avendo ancor conosciuto l’Autor della vita, giacciono ancor nelle tenebre e nell’ombra di morte. E con le sue lagrime e preghiere incessanti si adopra a presentare avanti a Dio tale spettacolo di compassione, che Dio ne resti commosso e si degni operare i miracoli delle spirituali risurrezioni. Or bene, o miei cari, apparteniamo noi al bel numero di quelle persone che tengono dietro a questa Madre piangente, condividendo le sue lagrime e le sue preghiere? Ricordiamo, o carissimi, che il massimo tra gli uffìzi della carità cristiana è l’adoperarsi per la salute spirituale dei prossimi, per la conversione dei poveri peccatori. – S. Giacomo termina la sua lettera cattolica col dire che chi riuscirà a convertire con le sue preghiere, con le sue opere un peccatore, salverà l’anima di lui dalla morte e coprirà la moltitudine dei peccati suoi, vale a dire renderà se stesso sicuro della sua salute: Qui converti fecerit peccatorem ab errore viæ suæ, salvabit animam ejus a morte, et operiet multitudinem peccatorum (V. 20). Preghiamo adunque volentieri, perché si convertano a Dio quelli che ne sono lontani; preghiamo tutti, che tutti potremo commuovere a compassione il cuore di Dio; ma preghino, piangano soprattutto le madri, che avessero figliuoli morti alla vita cristiana. Così faceva appunto la madre di S. Agostino, come attesta egli stesso. Mia madre, diceva egli, mi piangeva con un dolore più vivo che non piangono le madri i loro figliuoli, quando li vedono portare alla sepoltura, perciocché mi vedeva morto innanzi a Voi, o mio Dio! Quindi Voi avete ascoltata la sua voce e non avete disprezzato i torrenti di lagrime ch’ella versava in vostra presenza in tutti i luoghi, dove offrivavi la sua prece. Oh! le lagrime di una madre cristiana, le sue preghiere sono l’olocausto più gradito al trono di Dio, e se pure qualche volta, come fece con la stessa madre di Sant’Agostino, Iddio pei suoi giusti motivi ritarda ad esaudirle, non le lascia certamente andare perdute. O amabilissimo Salvatore! degnatevi accostarvi a quei cuori che noi amiamo; fermateli sul cammin della morte; comandate a quelle passioni, che li trascinano verso l’abisso e ne han giurata la perdita; spezzate, spezzate quelle catene del peccato, che li tengono avvinti; rendeteli pieni di vita, di grazia alla Chiesa che li piange; ed allora anche noi, pieni di sacro entusiasmo e di viva gratitudine, vi loderemo, vi glorificheremo, e ripeteremo a tutti: Il gran Profeta è comparso tra noi! Iddio ha visitata la sua plebe.

Credo …

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 2; 3; 4
Exspéctans exspectávi Dóminum, et respéxit me: et exaudívit deprecatiónem meam: et immísit in os meum cánticum novum, hymnum Deo nostro. [Ebbi ferma fiducia nel Signore, il quale si volse verso di me e ascoltò il mio grido: e pose nella mia bocca un càntico nuovo, un inno al nostro Dio.]

Secreta

Tua nos, Dómine, sacramenta custodiant: et contra diabólicos semper tueántur incúrsus. [I tuoi sacramenti, o Signore, ci custodiscano e ci difendano sempre dagli assalti del demonio.]

Communio

Joann VI: 52
Panis, quem ego dédero, caro mea est pro sæculi vita.
[Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo.]

Postcommunio

Orémus.

Mentes nostras et córpora possídeat, quǽsumus, Dómine, doni cœléstis operátio: ut non noster sensus in nobis, sed júgiter ejus prævéniat efféctus. [L’azione di questo dono celeste dòmini, Te ne preghiamo, o Signore, le nostre menti e nostri corpi, affinché prevalga sempre in noi il suo effetto e non il nostro sentire.]

Per l’ordinario della  Messa:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (78)

LO SCUDO DELLA FEDE (78)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO I.

QUALI BENI SPIRITUALI TOLGA IL PROTESTANTESIMO

Chiunque ha dal Signore la grande grazia di vivere nella S. Chiesa, possiede un tesoro di beni spirituali, che sono i più preziosi che si possano immaginare. I Protestanti (compreso  il falso Novus Ordo e i sedevacantisti vari – ndr.-) con lo strapparvi dalla S. Chiesa vi vogliono rapire tutti questi beni. Miei cari, considerate un momento l’ampiezza e la gravità del danno che vi vogliono fare, che basterà certo a colmarvi di santo orrore. – Chiunque è entrato nella S. Chiesa per mezzo del S. Battesimo, di brutto e deforme che era pel peccato originale diventò mondo e bello per la grazia di Dio infusale in quel punto: di nemico che era del Signore gli è diventato amico: di schiavo di lucifero che era, divenne figliuolo di Dio: d’impotente a nulla operare per la vita eterna divenne libero di verace libertà, che è quella di poter meritare: mentre prima era spoglio d’ogni bene, colmo di ogni male diventò ricco in Gesù Cristo di tutti i doni e possessore fortunato dell’abito della Fede, della Speranza e della Carità e di tante altre virtù: e quello che tutto corona, divenuto per la grazia figliuolo di Dio, è stato fatto erede del santo Paradiso. Ora ecco quello che vi farebbero i Protestanti se vi strappassero dalla S. Chiesa: vi ruberebbero tutti questi tesori, e vi spoglierebbero di tutti questi beni e soprattutto dell’eterna eredità che sperate da Gesù Cristo. – Nella S. Chiesa avendo ricevuto voi la Confermazione, voi avete lo Spirito Santo che abita nel vostro cuore con i suoi doni e con le sue grazie, che v’illumina nella mente per ben osservare i santi comandamenti e che vi conforta il cuore, perché possiate negl’incontri anche difficili, mostrarvi veri Cristiani, professando la S. Fede. Ma se vi strappassero dal cuore questa Fede si partirebbe da voi lo Spirito Santo, e voi rimarreste privo di tutte quelle grazie di cui esso è la fontana perenne. – Finché siamo in questa vita, pur troppo cadiamo sempre nel peccato, e pur troppo cadiamo anche talvolta in peccati gravi, che danno morte all’anima nostra, privandoci della grazia di Gesù. Ora qual è tutta la nostra speranza quando siamo carichi d’iniquità e meritevoli dell’Inferno? Allora noi abbiamo nella S. Chiesa istituito da Gesù Cristo il Sacramento della Confessione; noi manifestiamo tutti i nostri peccati al Sacerdote che è ministro di Gesù per concederci in suo nome il perdono. Se egli vede che noi sinceramente e con tutto il cuore detestiamo il peccato, egli con l’autorità che Gesù Cristo gli ha data, ce ne assolve e ci perdona: e Dio rimette nel cielo quello che egli ha rimesso in terra secondo le sue infallibili promesse. Oh che grazia grande è questa che possiedono i Fedeli! Che sarebbe di noi che siamo tanto facili a cadere, se non avessimo questa consolazione in vita e specialmente nell’ora della morte, quando tanto importa d’essere perdonati da Dio? Ora, miei cari, i Protestanti vi priverebbero di questo gran bene qual è il perdono dei peccati; e togliendovi dal cuore quella dolce fiducia che avete di essere perdonati, fondata sulle divine promesse, vi sostituirebbero una presunzione superba di salvarvi senza merito o una irreparabile disperazione. Dovreste tremare sempre come le foglie al vento dicendo: chi sa se io sia perdonato, nessuno me ne assicura, nessuno me ne dà speranza, e soprattutto poi nell’ora della morte vi trovereste in estreme angustie. Oh perfidi che vi vogliono togliere tanti beni e con tanta ipocrisia! La Santa Confessione per noi è l’apparecchio a beni anche maggiori. Dopoché ci siamo purificati nel Sangue prezioso di Gesù con la Confessione e col pentimento nel Sacramento della Penitenza, noi passiamo a ricevere Gesù nel S. Sacramento dell’Altare. Qui le grazie che ci fa il buon Gesù non si possono dire per metà. Egli ci dà allora il suo Corpo Divino, il suo Sangue prezioso, l’anima sua sacrosanta, la sua ineffabile divinità: e cosi stringendoci tutti a Lui ne riempie d’ogni sorta di grazie: grazie per vincere tutte le tentazioni del mondo, del demonio e della carne: grazie per disimpegnare tutti gli obblighi del nostro stato: grazie per amarlo ardentemente, non solo con le parole, ma con l’esecuzione di tutti i suoi comandi: grazie per arrivare facilmente al cielo. Quando noi ci comunichiamo degnamente, noi restiamo così uniti ed incorporati con Gesù, che i Santi Angeli stessi ce ne portano invidia. Oh che stato fortunato è mai questo! Ebbene guardate la perfidia dei Protestanti. Essi non riconoscono per niente questa gran grazia del Signore. Non credono che Gesù Cristo stia presente nella S. Eucaristia, e sono tanto superbi, che non lo credono neppure a Gesù Cristo, il quale lo ha detto più volte, non lo credono alla S. Chiesa che l’ha imparato dalla bocca di Gesù e dei santi Apostoli; non lo credono a tutti i Santi i quali ricevevano con tanta riverenza ed amore questo cibo angelico, e dopo che i miseri sono per la loro infedeltà e malizia privi di tutti questi beni, ne vogliono privare anche voi dandovi ad intendere che Gesù Cristo non si trova in quell’Ostia sacrosanta, e che non vi può far nessun bene. Ah malvagi che sono, ah infedeli! Nési contentano ancora di tanti beni preziosi che vi hanno involato. La S. Eucaristia oltre all’essere Sacramento che noi riceviamo, è ancora il sacrifizio che noi offriamo a Dio. Voi sapete che quando il Sacerdote si reca al S. Altare e celebra la S. Messa, esso non fa altro che immolare di nuovo il nostro buon Gesù all’eterno Padre, rinnovando così, sebbene senza spargimento di sangue, il gran Sacrifizio che fu già offerto dallo stesso Gesù sopra la Croce. Ora quando il Padre nostro celeste vede quella gran vittima che gli è tanto cara, perché è il suo Figliuolo Unigenito, si placa subito verso di noi, ascolta le nostre preghiere per riguardo di Lui, si rende propizio ai nostri peccati e pago e soddisfatto di quell’onore che Egli gli rende, lo accetta da Lui come se glielo avessimo fatto noi stessi, di cui Egli è il Redentore ed il Salvatore pietoso. Di quaè poi che in forza di questo gran sacrificio che per noi si offre ed a cui noi siamo presenti almeno nei dì festivi, il Signore risparmia alla terra tanti castighi che la sua giustizia manderebbe sopra di noi e ci converte invece in benedizioni quelle maledizioni che noi avremmo meritato. Guai al mondo, se non si offrisse nel mondo il santo Sacrificio della Messa! Ma i Protestanti dopo di averci rapito tutti gli altri beni, ci vogliono togliere anche questo, e così toglierci con un colpo solo tutti i beni corporali e spirituali che ci provengono dal Sacrifizio. Oh malvagità, oh perfidia! – Né sono ancora paghi. Ci vorrebbero ridurre in questa terra a vivere come le bestie. Ci vogliono rapire il santo Sacramento del matrimonio, negando che esso sia un sacramento. E così l’unione dell’uomo con la donna invece di essere santificata dalla grazia di Gesù Cristo, sarebbe come l’unione dei cani e delle bestie. – Ci vogliono togliere il Sacramento dell’Ordine con cui si fanno i sacerdoti, e così a poco a poco ci farebbero diventare come i selvaggi i quali sono senza Chiesa, senza sacerdoti e senza Dio. Credereste? perfino nelle nostre agonie ci vorrebbero contristare, levandoci la grande consolazione dell’Olio santo. In quel momento in cui è così grande il bisogno, in cui il demonio ci assale, la vista dei nostri peccati ci conturba, la infermità ci affanna, in quel momento terribile i buoni Fedeli ricevono un gran conforto dal Sacramento dell’Estrema Unzione, perché Gesù per mezzo di essa ci anima, ci consola, ci rimette anche i peccati, ci dà fiducia per morir bene. Ora questi perfidi ci perseguitano anche in quei momenti, vietando che ci si amministri questo Sacramento di tanta consolazione. Può darsi un delitto più grave di questo? Eppure essi mirano a tutto ciò, giacché se voi diventaste protestanti, sareste privi di tutti questi tesori che essi disprezzano, perché non conoscono e non vogliono conoscere. – Ah mille morti piuttosto che cadere in tanto errore e tanta abbominazione!

SALMI BIBLICI: “NOLI ÆMULARI IN MALIGNANTIBUS” (XXXVI)

SALMO 36: “Noli æmulari in malignantibus”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR; RUE DELAMMIE, 13 – 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

SALMO XXXVI

[1] Psalmus ipsi David.

    Noli æmulari in malignantibus,

neque zelaveris facientes iniquitatem;

[2] quoniam tamquam fœnum velociter arescent, et quemadmodum olera herbarum cito decident.

[3] Spera in Domino, et fac bonitatem; et inhabita terram, et pasceris in divitiis ejus.

[4] Delectare in Domino, et dabit tibi petitiones cordis tui.

[5] Revela Domino viam tuam, et spera in eo, et ipse faciet.

[6] Et educet quasi lumen justitiam tuam, et judicium tuum tamquam meridiem.

[7] Subditus esto Domino, et ora eum. Noli æmulari in eo qui prosperatur in via sua, in homine faciente injustitias.

[8] Desine ab ira, et derelinque furorem; noli æmulari ut maligneris.

[9] Quoniam qui malignantur exterminabuntur; sustinentes autem Dominum, ipsi hæreditabunt terram.

[10] Et adhuc pusillum, et non erit peccator; et quæres locum ejus, et non invenies.

[11] Mansueti autem haereditabunt terram, et delectabuntur in multitudine pacis.

[12] Observabit peccator justum, et stridebit super eum dentibus suis.

[13] Dominus autem irridebit eum, quoniam prospicit quod veniet dies ejus.

[14] Gladium evaginaverunt peccatores, intenderunt arcum suum, ut dejiciant pauperem et inopem, ut trucident rectos corde.

[15] Gladius eorum intret in corda ipsorum, et arcus eorum confringatur.

[16] Melius est modicum justo, super divitias peccatorum multas;

[17] quoniam brachia peccatorum conterentur, confirmat autem justos Dominus.

[18] Novit Dominus dies immaculatorum, et haereditas eorum in æternum erit.

[19] Non confundentur in tempore malo, et in diebus famis saturabuntur,

[20] quia peccatores peribunt. Inimici vero Domini mox ut honorificati fuerint et exaltati, deficientes quemadmodum fumus deficient.

[21] Mutuabitur peccator, et non solvet, justus autem miseretur et tribuet;

[22] quia benedicentes ei haereditabunt terram: maledicentes autem ei disperibunt.

[23] Apud Dominum gressus hominis dirigentur; et viam ejus volet.

[24] Cum ceciderit, non collidetur, quia Dominus supponit manum suam.

[25] Junior fui, etenim senui; et non vidi justum derelictum, nec semen ejus quærens panem.

[26] Tota die miseretur et commodat; et semen illius in benedictione erit.

[27] Declina a malo, et fac bonum, et inhabita in sæculum saeculi;

[28] quia Dominus amat judicium, et non derelinquet sanctos suos; in æternum conservabuntur. Injusti punientur, et semen impiorum peribit.

[29] Justi autem hæreditabunt terram, et inhabitabunt in sæculum sæculi super eam.

[30] Os justi meditabitur sapientiam, et lingua ejus loquetur judicium.

[31] Lex Dei ejus in corde ipsius, et non supplantabuntur gressus ejus.

[32] Considerat peccator justum, et quærit mortificare eum.

[33] Dominus autem non derelinquet eum in manibus ejus, nec damnabit eum cum judicabitur illi.

[34] Exspecta Dominum, et custodi viam ejus; et exaltabit te ut hæreditate capias terram; cum perierint peccatores, videbis.

[35] Vidi impium superexaltatum, et elevatum sicut cedros Libani;

[36] et transivi, et ecce non erat; et quæsivi eum, et non est inventus locus ejus.

[37] Custodi innocentiam, et vide æquitatem, quoniam sunt reliquiæ homini pacifico.

[38] Injusti autem disperibunt simul; reliquiæ impiorum interibunt.

[39] Salus autem justorum a Domino; et protector eorum in tempore tribulationis.

[40] Et adjuvabit eos Dominus, et liberabit eos; et eruet eos a peccatoribus, et salvabit eos, quia speraverunt in eo.

[Vecchio Testamento secondo la VolgataTradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXXVI.

I pusilli non imitino le opere dei malvagi, perché li vedono prosperare, e non dubitino della Provvidenza di Dio. È una raccolta di sentenze distribuite alfabeticamente, cosi da contenere ogni sentenza due versetti.

Salmo dello stesso David.

1. Non voler imitare i maligni, e non portar invidia a coloro che operano l’iniquità.

2. Perocché seccheranno ben presto: come il verde fieno e come la tenera erbetta, appassiranno velocemente.

3. Spera nel Signore, ed opera il bene, e abiterai la terra, e sarai pasciuto di sue ricchezze.

4. Metti la tua consolazione nel Signore, ed ei ti darà quello che il tuo cuore domanda.

5. Esponi al Signore il tuo stato, e in lui confida, e farà egli.

6. E renderà manifesta come la luce la tua giustizia, e la tua virtù come il mezzodì.

7. Sta soggetto al Signore e pregalo. Non riscaldarti per ragion di colui che è prosperato nelle sue vie; dell’uomo che fa ingiustizie.

8. Lascia andare lo sdegno, e metti da parte l’impazienza: non averne invidia, per poi fare il male.

9. Imperocché saranno sterminati i maligni; ma quelli che aspettano in pazienza il Signore, saranno eredi della terra.

10. E un po’ di pazienza, e il peccatore più non sarà: e cercherai del luogo dov’ei si stava, e nol troverai.

11. I mansueti poi saranno eredi della terra, e goderanno abbondanza di pace.

12. Il peccatore mirerà di mal occhio il giusto, e digrignerà i denti contro di lui.

13. Ma il Signore si farà beffe di lui, perché  vede che il suo giorno verrà.

14. I peccatori sguainarono la spada, tesero il loro arco. Per abbatter il povero e il miserabile, per trucidare gli uomini di retto cuore.

15. La loro spada trapassi i loro cuori, e l’arco loro si spezzi.

16. Più giova il poco al giusto, che le molte ricchezze al peccatore;

17. Perocché le braccia del peccatore saranno rotte; ma il Signore corrobora i giusti.

18. Il Signore ha cura dei giorni degli uomini senza macchia; e la eredità loro sarà eterna.

19. Non abbiano da godere del mio male quelli saranno confusi nel tempo cattivo, e nei giorni di carestia saranno satollati;

20. Imperocché i peccatori periranno, E i nemici del Signore, appena saranno stati messi in onore ed esaltati, mancheranno e spariranno come fumo.

21. Il peccatore prenderà in prestito, e non restituirà; ma il giusto è misericordioso, e donerà.

22. Perocché quelli che a lui danno benedizione, saranno eredi della terra; ma quei che lo maledicono, andranno in perdizione.

23. Dal Signore saranno diretti i passi dell’uomo, e le sue vie saranno approvate da lui.

24. Se egli cadrà, non sarà infranto, perché il Signore pone sotto di lui la sua mano.

25. Sono stato giovane, perocché son già vecchio, e non ho veduto derelitto il giusto, né la stirpe di lui cercante del pane.

26. Ogni giorno egli è liberale, e dà in prestito: in benedizione sarà la sua stirpe.

27. Fuggi il male e opera il bene; ed avrai un’abitazione sempiterna.

28. Imperocché il Signore ama la rettitudine, e non abbandonerà i suoi santi; eglino saranno conservati in eterno. Gl’ingiusti saran puniti, e perirà la stirpe degli empi.

29. Ma i giusti saranno eredi della terra, e l’abiteranno in perpetuo.

30. La bocca del giusto parlerà meditazioni  di saviezza, e la lingua di lui di buone cose ragionerà.

31. La legge del suo Dio egli ha nel suo cuore, e i piedi di lui non saran vacillanti.

32. Il peccatore adocchia il giusto, e cerca di ucciderlo;

33. Ma il Signore non lo abbandonerà nelle mani di colui; né lo condannerà, quando di lui farassi giudizio.

34. Aspetta il Signore, e osserva sua legge, ed egli ti esalterà, affinché erede tu sii della terra; quando i peccatori siano periti, allor vedrai.

35. Io vidi l’empio a grande altezza innalzato come i cedri del Libano.

36. E passai, ed ei più non era; e ne cercai, e non si trovò il luogo dov’egli era.

37. Custodisci l’innocenza, e osserva la rettitudine, perocché qualche cosa rimane per l’uomo di pace.

38. Ma l’iniqui tutti periran malamente; quel che resta degli empi andrà in perdizione.

39. La salute de’ giusti vien dal Signore, ed egli è lor protettore nel tempo della tribolazione.

40. E il Signore li aiuterà e li libererà, e li trarrà dalle mani de’ peccatori, e li salverà, perché in lui hanno sperato.

Sommario analitico

Il salmista, alla vista delle fluttuazioni, dello scoraggiamento dell’uomo giusto indignato dalla prosperità dei peccatori, lo invita a moderare la sua indignazione e a non invidiare una simile prosperità, prezzo della loro vita criminale, perché questi sono i beni che in abbondanza possiedono gli empi ed i malvagi [Questo salmo è uno degli alfabetici, ma le lettere vi appaiono ogni uno o due versetti, vi si nota una grande analogia di forme ed anche qualche somiglianza di fondo con i salmi alfabetici XXIV e XXXIV. I versetti 3, 11, 22, 29, 34, sembrano designare l’epoca in cui il reame di Giuda versava in rovina, e qualche autore pensa che sia stato scritto nel tempo in cui Geremia dissuadeva i Giudei dal ritirarsi in Egitto, promettendo loro che non avrebbero avuto nulla da soffrire se avessero acconsentito a restare nella terra di Israele. Secondo Rosen-Müller, il salmista non avrebbe osservato alcun ordine stabilito, ed alcun legame ci sarebbe tra le differenti parti di questo Salmo. È fuor di dubbio – egli dice – che in certi scritti dell’Antico Testamento, le parti di cui si compongono, sono talmente legate ed incatenate tra loro, che si possono comparare ai legami stretti che uniscono tra loro le membra del corpo umano. Ma non è meno certo che in altri scritti, le sentenze siano riunite come tanti fiori in un sol fascio e legate tra loro da un legame comune, senza tuttavia dipendere più l’una dall’altra come tante perle che, attraversate da un filo comune, servono a formare una sola collana. Questo apprezzamento nell’applicazione a questo Salmo, ci sembra solo in parte fondata, a causa della ripetizione di alcuni pensieri, ma non tanto da escludere, come fa Rosen-Muller, ogni legame, ogni concatenazione tra le diverse parti del Salmo].

I – Sono per loro natura fragili e deperibili.

1° Malgrado essi, i loro beni, la loro prosperità, le loro grandezze, si seccheranno rapidamente come succede ben presto alle erbe dei campi (1, 2);

2° Invece i giusti possiederanno dei beni molto superiori, come compenso della loro speranza in Dio e la pratica del bene e avranno come parte: a) una felicità stabile: « voi abiterete la terra », b) una beatitudine abbondante « e sarete nutriti dalle sue ricchezze » (3), – c) Una felicità piena di soavità e che colmerà tutti i desideri del loro cuore (4); – d) una felicità gloriosa: i giusti riveleranno a Dio le loro vie e metteranno in lui la loro speranza; e come ricompensa: 1) Dio si dichiarerà loro protettore (5), 2) farà brillare in loro tutte le luci di grazie e di gloria (6); e) i mezzi per giungere a queste felicità sono: 1) sottomettersi umilmente a Dio, 2) essergli unito con una fervente preghiera (7); 3) non invidiare il benessere dei malvagi; 4) frenare la collera e l’indignazione che eccita la vista del loro benessere; 5) detestare e fuggire gli esempi della loro vita criminale (8).

II – Questi beni, indipendentemente dalla loro fragile natura, sono strappati con violenza agli empi, mentre il benessere dei giusti sarà stabile e perseverante (9).

1° Quanto ai malvagi: a) questa somma rovina che li minaccia arriverà ben presto (10); b) sarà terribile tanto che non resterà traccia dei luoghi che essi abitavano, mentre i giusti erediteranno la terra e si vedranno: c) ricolmi di gioia nell’abbondanza di una pace beata (11); – d) essi saranno maledetti nei tempi nel tempo stesso in cui si credono e si proclamano i beati della terra: 1) a causa delle pene che si danno nel tendere insidie ai giusti, e dell’invidia che nutrono verso di essi (12); 2) a causa della paura del giusto Giudice, che essi sanno che non lascerà i loro crimini impuniti; 3) a causa della crudeltà che essi dispiegano, delle menzogne e delle frodi alle quali essi hanno fatto ricorso (14); 4) a causa della tristezza nella quale li sprofonderà la vista dei loro sforzi impotenti, dei quali saranno essi le prime vittime, e della felicità dei giusti. (15).

2° Quanto ai giusti: – a) essi saranno felici anche in mezzo alla mediocrità (16), – b) Dio dà loro la salute e la forza, mentre snerva e fiacca la forza dei peccatori (17); – c) Dio dà loro una lunga vita, esente da pene; – d) conserverà l’eredità ai loro figli (18); – e) li nutrirà abbondantemente in tempi di fame (19); f) distruggerà i loro nemici, la cui rovina è proporzionata alla loro elevazione (20); mentre i peccatori prendono in prestito e non possono pagare, i giusti danno largamente e sono sempre nell’abbondanza, perché essi benedicono Dio ricevendo la terra in eredità (21, 22).

III – Questi beni non possono affatto paragonarsi ai beni riservati ai giusti:

1° Essi vedono Dio: – a) che li dirige sulla strada lungo la quale camminano (23); – b) che li risolleva se essi cadono (24); – c) che li nutre abbondantemente in tempo di fame (25); – d) che associa i loro figli al loro benessere (26); – e) che li aiuta nella fuga dal male e la pratica del bene, e dà loro la ricompensa eterna che i loro meriti e la loro giustizia esigono (27, 28), mentre gli empi riceveranno il castigo dovuto per i loro crimini (29).

2° La loro occupazione è: – a) lodare il Signore con la bocca (30); – b) amarLo fino al fondo del cuore (31); – c) fuggire i loro nemici con l’aiuto della protezione di Dio (32, 33); – d) attendere pazientemente l’eredità promessa a coloro che seguono fedelmente la via del Signore (34).

3° essi ammirano come gli empi siano travolti e distrutti senza ritorno (35, 36), mentre Dio pone loro nell’abbondanza (37), li conserva, li protegge e li libera dalla mano dei peccatori (38, 40).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-8.

ff. 1, 2. – La prosperità dei malvagi in questo mondo è la prova più cruda che i buoni debbano subire. È un gran male, di cui la vita futura è la sola spiegazione ed il solo rimedio. Questa prosperità irrita le anime forti, e troppo spesso esse sono tentate dal mormorare contro la divina provvidenza. Le anime deboli ne sono scandalizzate, ed hanno pena col difendersi da una segreta gelosia. Il Profeta oppone a queste due cattive impressioni, un doppio pensiero: la brevità della vita e la sorte funesta riservata a questi felici del secolo. L’erba dei campi che piace tanto agli occhi e che dissecca così rapidamente, o che cade così vilmente sotto la falce, è una immagine viva di quanto destinato ai malvagi. Il “velociter arescent”, e il “cito decident”, risponde a tutto. Così la pensa S. Agostino, in questo bel brano del suo “Enarrationes” (Rendu). – Ma indubbiamente voi siete turbati dal veder felici coloro che vivono male; dal veder affluire intorno ad essi in abbondanza, i beni di questo mondo. Voi vedete i loro costumi detestabili, apprezzate le immense ricchezze e nel vostro cuore voi dite che non c’è giustizia divina, che tutto va secondo la volontà degli avvenimenti e fluttua al vento casualmente … tutte le malattie dello spirito hanno il loro rimedio nelle Scritture: e colui che è malato fino al punto da tener questi discorsi, beva la salutare pozione che contiene questo Salmo. Prendete questa pozione, bevetene; il Profeta ha preparato questa bevanda sul soggetto dei vostri mormorii. Solo non respingete questa coppa che contiene la salute. Aprite con le vostre orecchie la bocca del vostro cuore, e bevete ciò che intendete. « Astenetevi dal serbare invidia verso i malvagi, e di essere gelosi di coloro che commettono l’iniquità, perché essi disseccheranno semplicemente come il fieno, e cadranno ben presto come le erbe dei campi ». Ciò che vi sembra lungo, è breve agli occhi di Dio: sottomettetevi a Dio e lo stesso tempo sarà breve anche per voi. Il fieno ha lo stesso senso delle erbe dei campi. Queste erbe non hanno un prezzo, spuntano su tratti assolati, e non posseggono radici profonde, cominciano a verdeggiare in inverno, e quando giungono i primi calori dell’estate, ingialliscono e disseccano. Noi siamo ora nella stagione invernale, e la vostra gloria non appare ancora. Ma se la carità ha messo profonde radici in inverno, come fa un gran numero di alberi, quando il freddo cesserà e l’estate sarà giunta, cioè al giudizio, allora si disseccherà il verde del fieno mentre la gloria degli alberi apparirà nel suo splendore; perché « … voi siete morti » (Coloss. III, 3), dice l’Apostolo, nello stesso modo che d’inverno gli alberi sembrano disseccati e come morti. Qual è dunque la nostra speranza se noi siamo morti? Noi abbiamo una radice interiore; dov’è la nostra radice interiore, la è la nostra vita, perché là è la nostra carità! « E la vostra vita, dice l’Apostolo, è nascosta con il Cristo in Dio » (Ibid.). chi dunque può disseccarsi avendo una simile radice? Ma quando verrà la vostra primavera? Quando verrà la vostra estate? Quando saremo rivestiti dalla bellezza del nostro fogliame ed arricchiti dall’abbondanza dei frutti? Ascoltate il seguito: « Quando il Cristo che è la vostra vita apparirà, allora anche voi apparirete nella gloria, e allora cosa faremo? » – « Badate di non portare invidia ai malvagi e gelosia verso coloro che commettono iniquità, perché essi disseccheranno rapidamente come il fieno e cadranno presto come le erbe dei campi. » (S. Agost.). – O mondo! È dunque invano che per farti comprendere la tua brevità, Dio ha messo dappertutto erbe che appassiscono e piccoli fiori nei campi che durano solo un mattino! O mondo! I piaceri passano ancora più presto, e nessuna primavera li farà mai rivivere (Mgr. De la Bouillerie, Symb.).

ff. 3-5. –  Solido fondamento della speranza cristiana è « … sperare nel Signore e fare il bene ». Colui che non è sostenuto dalla pratica delle buone opere è falso e presuntuoso. – Qual è questa terra che il Re-Profeta ci consiglia di abitare, se non la vostra anima, che dovete coltivare con cura, lavorare frequentemente con il vomere dell’aratro spirituale, così che non sia colpita da sterilità? (S. Ambrog.). Cosa dovete allora fare? « … mettete la vostra speranza nel Signore », perché essi sperano, ma non nel Signore: la loro speranza è effimera, la loro speranza è caduca, fragile, fuggitiva, passeggera, … sarà ridotta a nulla. « Mettete la vostra speranza nel Signore ». Ebbene, io spero in Lui, ed ora cosa farò? « Fate il bene ed abitate la terra; non fate il bene al di fuori della terra che dovete abitare; perché la terra del Signore è la sua Chiesa, essa è irrorata, coltivata dal Padre, che ne è il lavorante ». (Giov. XV, 1). Molti in apparenza fanno delle buone opere; ma poiché non abitano la vera terra, essi non appartengono al celeste agricoltore; fate dunque del bene, ma non al di fuori della terra. « E cosa me ne verrà? … Voi sarete nutriti dalle sue ricchezze ». Quali sono le ricchezze di questa terra? Questa terra ha come ricchezza il suo Signore; essa ha per ricchezza il suo Dio, lo stesso al Quale il profeta ha detto: « Signore, voi siete la mia parte » (Ps. LI, 26) – (S. Agost.). – « Dilettatevi nel Signore », amate, cercate di piacergli, e mettete la vostra gioia, come pure la vostra gloria: allora la vostra gioia sarà compiuta; essa sarà perfetta come il vostro amore (Bossuet, Médit. Sur l’Evang.). – Perché il Re Profeta non ha detto: « Egli vi accorderà … ciò che domanderete », ma « … le domande del vostro cuore » ? È perché c’è una grande differenza tra le domande dell’uomo esteriore e quelle dell’uomo interiore; non tutte infatti sono gradite a Dio, perché la legge della carne è spesso contraria alla legge dello spirito. Ma le domande dell’uomo che è stato rinnovato dallo Spirito Santo, sono sempre esaudite da Dio. Ecco ciò che allora fa dire a David: « Egli vi concede ogni cosa secondo il vostro cuore, e compie tutti i vostri desideri » (Ps. XIX, 5). Ricordate: « … secondo il vostro cuore » e non secondo i desideri della carne, e che Egli esaudisce le domande che provengono dal fondo del cuore, e non quelle che originano dai desideri delle gioie terrene. – Discernete con cura le domande del vostro cuore dalle domande della carne, perché non è inutilmente che il Profeta dice in un altro Salmo: « … e Dio è mia parte di eredità nell’eternità » (Ps. LXXII, 26). Prendiamo un esempio: un uomo è cieco, chiede di recuperare la vista. Questi lo domanda perché è Dio che fa la vista e che la dona; ma anche i malvagi la chiedono: questa è una domanda della carne. Un uomo è malato, chiede la sua guarigione, e in effetti, già sul punto di morire, ottiene di guarire. È ancora questa una domanda della carne, così come tante altre domande dello stesso genere. Ma che cos’è una domanda del cuore? È una domanda della carne il pregare che Dio ci renda la vista, per gioire di questa luce che i nostri occhi di carne possono percepire; così è una domanda del cuore quella che si rapporta ad un’altra luce. « Beati coloro che hanno il cuore puro, perché vedranno Dio. » (Matt. V, 8) – (S. Agost.). – Lasciarsi condurre dal Signore, scoprirgli semplicemente i propri bisogni, e poi lasciarlo fare; « dipendere da Dio come un servo dal suo maestro, che non vuole prevenire i suoi ordini, ma seguirli » (Dug.). – « Ed Egli farà Lui stesso – compirà la sua opera ». Quanta forza in queste parole « Egli farà Lui stesso »! il profeta non specifica l’oggetto di questa azione, ma fa intendere, con questa stessa reticenza, che Dio farà tutto, che Egli sa meglio di noi stessi ciò che per noi è più utile, e che noi dobbiamo riferirci soltanto a Lui (Berthier).

ff. 6. – L’impazienza umana non vuole attendere i momenti di Dio. Quando siamo esposti alla persecuzione degli uomini, o il vento della tribolazione si leva contro di noi, è per noi sufficiente rappresentare a Dio l’innocenza della nostra vita; attendiamo con pazienza, teniamoci in silenzio davanti a Dio, siamo perfettamente sottomessi e contentiamoci di pregarlo (Dug.). – « … Ed Egli farà brillare la vostra giustizia come la luce e come lo splendore del meriggio ». Ecco la luce in tutto il suo splendore. È poco il dire: come la luce. In effetti, noi diciamo già « la luce », quando spunta l’alba; noi ugualmente diciamo « la luce », quando sorge il sole, ma mai la luce è così splendente come nel mezzo giorno. Dunque non solo la vostra giustizia brillerà come la luce, ma ancora il vostro giudizio brillerà come il sole a mezzodì. Perché ora avete deciso di seguire il Cristo, ne avuto preso la risoluzione, l’avete scelto: ecco il vostro giudizio, ma nessuno vi ha mostrato ciò che Egli ha promesso. Ora, voi avete certo una promessa, ma voi ne attendete la realizzazione, voi avete dunque scelto, nel giudizio della vostra fede di seguire ciò che non vedete. È là il vostro giudizio; ma quale sia il valore del vostro giudizio, questo non appare ancora. Questo secolo è come il tempo della notte. Quando dunque il Signore farà brillare il vostro giudizio come il sole a mezzodì? « Quando il Cristo, che è la vostra vita, apparirà e vi apparirà nella sua gloria » (S. Agost.).

ff. 7, 8. – Ecco che lo faccio: io sono sottomesso al Signore e Lo prego insistentemente. Ma cosa ve ne pare? Questo mio vicino è un malvagio, fa il male, e gode di una prosperità piena; come resistere davanti ad un tale sovvertimento? Voi siete malato se pensate così; bevete la pozione che vi guarirà: « … non portate segretamente invidia a colui che prospera nella sua via; egli prospera, ma nella sua strada; voi avete delle pene sì, ma sulla strada di Dio; egli trova delle prosperità nella sua via; per lui, prosperità nella strada e sciagura all’arrivo, per voi, pena lungo la strada e felicità all’arrivo; perché il Signore conosce le vie dei giusti ma il cammino degli empi sarà distrutto » (Ps. I, 6S. Agost.). – « Reprimete la vostra collera e contenete la vostra indignazione »; cioè la natura vi travolge, la passione vi agita, un’offesa, un oltraggio eccita la vostra indignazione; reprimete questi moti, che abbiano una misura, un limite, un termine, così che non cadiate nel peccato. Dio non vi comanda affatto di non montare assolutamente in collera; Egli cede per un istante a questo moto naturale. Il medico non applica immediatamente il rimedio all’ammalato, se il dolore è violento, egli impiega dei calmanti per lenirlo; se la febbre è ardente, egli attende il momento favorevole, rifiuta anche al malato ogni bevanda. Non gli dice: non avete la febbre quando essa è al suo apogeo; ma: attendete che la febbre sia cessata, che questa violenta agitazione si calmi. Così il profeta non dice all’uomo la cui carne è agitata da tanta passione: « non montate in collera »; ma gli dice. « … reprimete la vostra collera e contenete la vostra indignazione », per non cadere in peccato, perché la collera è la grande maestra del peccato (S. Ambr.).

II. — 9-22

ff. 9, 10. –  Dio soffre per qualche tempo e porta pazienza; ma infine, quando è arrivato il suo tempo, stermina l’empio con la sua empietà (Dug.). Ma per quanto tempo il peccatore sarà fiorente? Quanto tempo aspetterò? Voi correte verso questo momento: esso è così breve anche se vi sembra lungo. È la vostra debolezza che vi fa sembrare lungo ciò che passa così in fretta. Quali sono ai nostri occhi i desideri di un malato? Nulla è così lungo per lui, nella sua sete, che il tempo che gli si prepari la sua bevanda. Gli astanti si impressionano per la paura di vedere il malato così impaziente. Quando sarà fatto? Quando me lo si darà? Non c’è che celerità da parte di quelli che vi servono; ma è la vostra malattia che vi va sembrare lungo ciò che si fa celermente. Così, guardate il vostro medico, come calma l’impazienza del malato che si lamenta: quando tempo dovrò sopportare, quanto durerà tutto questo? Ancora un po’ di tempo ed il peccatore non ci sarà più! Ricordate gli anni trascorsi da Adamo fino al presente; e se voi avreste trascorso tutto il tempo dalla cacciata di Adamo dal Paradiso fino al presente, voi vedreste sicuramente che la vostra vita, passata così rapidamente, non sarebbe stata abbastanza lunga. Ma qual è la durata della vita di un uomo? Aggiungete tutti gli anni che vorrete, prolungate ancora ed ancor più la vostra vecchiaia, e che cos’è questo, se non la rugiada del mattino? Se noi consideriamo così lontano il giorno del giudizio, e che in questo giorno sarà reso, secondo le loro opere, ai malvagi ed ai giusti, certamente non è il vostro ultimo giorno. Preparatevi a questo giorno. Come in effetti uscirete da questa vita, entrerete nell’altra vita (S. Agost.).

ff. 11. – Che l’empio trovi dunque quaggiù le sue delizie nell’abbondanza dell’oro, nell’abbondanza dell’argento, nell’abbondanza dei suoi possedimenti, nella ricchezza delle sue case di piacere, nell’abbondanza delle sue rose, nelle ubriachezze e negli splendori dei suoi festini voluttuosi! È questa dunque la potenza che invidiate? È questo il fiore che vi affascina? E se anche questa felicità fosse durevole, non sarebbe ancora l’empio da compiangere? Ma voi, di quelle delizie gioireste? « … essi troveranno le loro delizie nell’abbondanza della pace ». La pace sarà il vostro oro, la pace sarà il vostro argento, la pace sarà la vostra proprietà, la pace sarà la vostra vita ed il vostro Dio sarà la vostra pace. Tutto ciò che desiderate sarà la vostra pace. Ciò che quaggiù è oro, non potrà essere per voi danaro; ciò che è vino non può essere per voi pane; ciò che è luce per voi, non può essere una bevanda. Il vostro Dio è tutte queste cose per voi; Egli vi possederà interamente, essendo Egli stesso tutto intero. Là non sarete nella ristrettezza con colui che come voi Lo possederà tutto intero. Voi Lo possederete per intero ed un altro pure lo possederà, perché voi ed ogni altro, non farete che una sola cosa, che il vostro possessore possederà interamente (S. Agost.). – La pace è l’ordine perfetto; e la turba, i dissensi, le discordie, la guerra, non sono entrate nel mondo che per la violazione dell’ordine e per il peccato. Così, non c’è pace ove regni l’orgoglio ed il peccato; non c’è pace nell’uomo i cui pensieri, le affezioni, le volontà, non siano in tutto conformi all’ordine o alla verità e alla volontà di Dio; nessuna pace nella società le cui dottrine o leggi si allontanano dalla legge e dalla dottrina rivelata di Dio; e chiunque, uomo o popolo, distrugge questa legge, nega queste dottrine, anche in un solo punto, quest’uomo, questo popolo ribelle a Dio, subisce all’istante il castigo del suo crimine. Un malessere sconosciuto si impossessa di lui; … io non so quale forza disordinata lo spinga e lo respinga in tutti i sensi, e da nessuna parte trovi riposo (Mgr. Pie). No, la pace non è in effetti se non per i miti, gli umili, i veri figli di Dio; essi la gustano in se stessi, essi si rallegrano nell’abbondanza della pace, e la espandono sugli altri: essa, per così dire cola dal loro cuore come questi fiumi che bagnavano il felice soggiorno del nostro primo padre, ai tempi della sua innocenza.

ff. 12, 13. – C’è un’attenzione maligna del peccatore nell’osservare tutti gli sforzi del giusto, per trovare così l’occasione di perderlo. Se non scopre in lui alcun male, li inventerà, e se non può far esplodere il suo furore, digrignerà i denti contro di lui (Dug.). – Noi concepiamo facilmente come Dio, il cui sguardo abbraccia il mondo e l’eternità, non rida delle pretese e delle violenze del malvagio. Attraverso tutti i loro successi, ed a dispetto di ogni loro sicurezza, Egli vede giungere il loro giorno. E a noi non resta che, illuminati dal Vangelo, e fortificati dalla grazia, approfittare di questa lunga veduta di Dio, e giudicarne, come giudica Egli stesso, il presente e l’avvenire dei giusti e dei peccatori (Rendu). – Il Signore vede avanzare questo giorno ma voi non lo vedete. Ora Colui che lo vede ve lo ha mostrato. Voi ignorate il giorno in cui l’empio sarà punito; ma Colui che lo conosce non lo ha nascosto. È avere una gran parte di scienza l’essere unito a Colui che sa. Dio ha gli occhi della scienza; voi abbiate quelli della fede; ciò che Dio vede, credetelo, perché il giorno dell’empio arriverà, e Dio lo vede anzitempo (S. Agost.). « Dio, dice Tertulliano, avendo posto il giudizio alla fine dei secoli, non precipita il discernimento, che ne stima condizione necessaria »: è la verità stessa che Gli ha dettato questo pensiero. Perché non avete notato questa parola ammirevole: Dio non precipita il discernimento? Precipitare gli affari, è proprio della debolezza che è contraria al premurarsi nell’esecuzione dei propri disegni, perché essa dipende dalle occasioni, e queste occasioni sono certi momenti di cui la fuga subitanea causa una necessaria precipitazione a coloro che sono obbligati ad attaccarvisi. Ma Dio, che è arbitro di tutti i tempi, che dal centro della sua eternità sviluppa tutto l’ordine dei secoli, che conosce la sua Onnipotenza, e che nulla può sfuggire alle sue mani sovrane, ah! … Egli non precipita i suoi consigli. Egli sa che la saggezza non è nel fare sempre le cose prontamente, ma nel farle nei tempi necessari. Egli lascia censurare questi disegni ai folli e ai temerari, ma non ritiene di doverne anticipare l’esecuzione per il mormorio degli uomini. « … per Lui è abbastanza, Cristiani, che i suoi amici ed i suoi servitori guardino da lontano venire il suo giorno con umiltà e tremore; per gli altri, Egli sa ove attenderli, ed il giorno per punirli è segnato; Egli non si cura dei loro rimproveri, perché vede venire il suo giorno rapidamente ». (Bossuet. Serm. Sur le 3° Dim. Ap. Paques, Provid.). – Uscendo dalle nostre idee ristrette, prolungheremo i nostri sguardi come quelli di Dio, giudicheremo Dio come fa dalla sua eternità immobile, possessore del tempo, Creatore dei secoli, che vede tutto scorrere davanti a Lui, che passa rapidamente come l’onda follemente irritata, come schiuma impotente che si frange per perdersi e svanire per sempre. Eleviamoci fino al Dio vero, fino al Dio eterno. Egli vede le iniquità della terra, il suo occhio segue il lavorio perverso dei suoi nemici, lo sviluppo vittorioso dei loro disegni, i loro complotti sapienti, le loro audaci imprese, sempre coronate da successo; essi fanno la guerra a Dio; essi vogliono annientare la sua Chiesa; già l’edificio vacilla; essi trionfano; essi predicono la decadenza prossima del Cristo, l’avvenire è per loro! Che fa Dio? Dio se ne ride di tutti loro. E perché? « Perché vede avvicinarsi il suo giorno ». Ecco la parola rivelatrice, ecco la spiegazione luminosa intorno alla quale ruota la trama della storia (Doublet, Psaumes étud. En vue de la Préd.).

ff. 14, 15. – È facile per i malvagi raggiungere con la propria arma o la loro spada il vostro corpo, come il persecutore ha raggiunto il corpo dei martiri; ma se il corpo è stato colpito, il cuore è rimasto intatto; al contrario, il cuore di colui che ha colpito con la spada il corpo del giusto, non è evidentemente rimasto intatto: ciò che prova il salmo. Esso non dice: … che la loro arma entra nei loro corpi, ma che la loro arma entra nel proprio cuore. Essi hanno voluto portare la morte nel corpo del giusto; essi portano la morte nella loro anima. Gli insensati somigliano a colui che per strappare la tunica ad un altro, passerebbe il ferro attraverso il proprio corpo. Voi guardate ed avete colpito, e non guardate ove siete passati; voi avete strappato il vestito di un altro ed avete trafitto la vostra carne (S. Agost.). – Voi vedete due specie di armi tra le mani del peccatore. Un arco per tirare da lontano, una spada per colpire da vicino. L’arco si rompe ed è inutile; la spada porta il colpo, ma contro se stesso. Comprendiamo il senso di queste parole: il peccatore tira da lontano, egli tira contro il cielo e contro Dio, e non solo i dardi non arrivano, ma ancora l’arma si rompe al primo sforzo. Ma non è sufficiente che l’arco di spezzi e che la sua impresa sia inutile; bisogna che la sua spada gli trapassi il cuore e che, per aver tirato da lontano contro Dio, egli si dà da vicino un colpo senza rimedio, se Dio non lo guarisce con un miracolo. È il destino comune a tutti i peccatori. Il peccato, che turba tutto l’ordine del mondo, mette disordine primariamente in colui che lo commette. La vendetta, che esce dal cuore per distruggere tutto, porta sempre il suo primo colpo, il più mortale, sul cuore che la produce e la nutre. L’ingiustizia, che vuol profittare del bene altrui, fa la prima prova sul suo autore, che essa spoglia del suo bene più grande, che è la dirittura, prima che possa rapire ed usurpare quella degli altri. Il maldicente non distrugge negli altri che la rinomanza, ma distrugge in lui la stessa virtù. L’impudicizia che vuole corrompere tutto, comincia in effetti dalla sua sorgente, perché nessuno può attentare all’integrità altrui, senza perdere la propria. Così ogni peccatore è nemico di se stesso, corruttore nella propria coscienza del bene più grande della natura razionale: cioè l’innocenza (Bossuet, Serm. Pour la 3 Dim. De l’Av.).

ff. 17. – Le ricchezze della terra sono incapaci di rendere felici coloro che le posseggono. Essi d’ordinario, ne sono posseduti a loro volta. Un uomo ha dei beni, ma non ne ha affatto; egli non manca di nulla ma tutto gli manca. Le modiche risorse profittano più al giusto, che le immense ricchezze al peccatore. La ragione è che Dio dirige il giusto nell’uso che fa dei suoi beni. – Un’altra ragione per la quale il giusto mette la sua fiducia in Dio, è che è più felice con pochi beni, mentre la forza e la potenza dei peccatori sono distrutte nell’ora stessa in cui le loro ricchezze sono a loro tolte, spesso durante la loro vita, ed infallibilmente al momento della loro morte (Dug.). – Non sono le ricchezze in se stesse che il Re profeta accusa, ma le ricchezze dei peccatori. Forse parla così perché il peccatore per eccellenza ha detto: « tutte queste cose mi sono state assegnate, ed io le do a colui che voglio » (Luc. IV, 16). – Un’altra ragione, è che le ricchezze attirano i bollori della cupidigia, e colui che desidera possedere grandi ricchezze non evita ordinariamente gli ostacoli dai quali la vita dei peccatori è disseminata. « … La loro eredità sarà eterna », perché essi hanno cercato i beni eterni e non i beni fragili delle eredità terrene, e non avranno da arrossirne « (S. Ambr.).

ff. 18. « Il Signore conosce i giorni di quelli che sono senza macchia ». Colui che conosce il Signore è conosciuto dal Signore. Egli conosce i giusti e non conosce gli ingiusti; anche ad essi un giorno dirà « allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità, Io non vi conosco » (Matt. VII, 23), cioè: voi siete indegni della conoscenza divina. Io non vi conosco perché voi non avete voluto conoscermi. Le vostre opere non mi conoscono, le vostre azioni non mi conoscono; benché voi diciate che mi conoscete, i vostri peccati vi smentiscono e vi condannano. I peccatori non hanno dei giorni, perché essi fuggono la luce, e di essi lo Spirito Santo ha detto: « i loro giorni passano come l’ombra » (Ps. CXLIII, 14). La conoscenza in Dio è un atto di bontà e di condiscendenza e non un atto di visione. I suoi occhi sono luce, Egli rischiara coloro che lo guardano, ed i suoi occhi sono i giorni dei giusti (S. Ambr.).

ff. 19, 20. – Cosa vuol dire: « … essi non saranno confusi nei tempi malvagi »? essi non saranno confusi nei tempi di afflizioni, nei giorni di angoscia, come colui la cui speranza è delusa. Chi è dunque colui che è confuso? Colui che dice: io non ho trovato ciò che io speravo. E non è senza ragione, perché mettevate la vostra speranza in voi stessi, o speravate in un uomo vostro amico. Ora, « … maledetto colui che ripone la sua speranza in un uomo » (Gerem. XVII, 5). – Voi siete confusi perché la vostra speranza vi ha deluso poiché riposava sulla menzogna, poiché … ogni uomo è menzognero (Ps. CXV, II). Se al contrario mettete la vostra speranza nel vostro Dio, voi non sarete confusi, perché Colui nel Quale avrete riposto la vostra speranza non può essere ingannato. Ecco perché questo giusto afferma quello che vengo a ricordarvi, e cosa ha detto, dopo aver attraversato, senza essere confuso, dei tempi malvagi e dei giorni di tribolazione? « Noi ci glorifichiamo delle nostre tribolazioni, sapendo bene che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza una virtù provata, e la virtù provata la speranza, e che la speranza non è delusa » (Rom. V, 3). – Perché la speranza non è delusa? Perché riposa in Dio. Così dice continuando: « perché l’amore di Dio è stato infuso nei nostri cuori dallo Spirito-Santo, che ci è stato dato. Poiché già lo Spirito Santo ci è stato dato, come Colui dal Quale abbiamo ricevuto un tal pegno, potrebbe ingannarsi? » – « E nei giorni della carestia, essi saranno saziati ». Da quaggiù, in effetti, c’è per essi una vera sazietà; perché i giorni della vita presente sono i giorni della carestia; e mentre gli altri hanno fame, i giusti sono saziati (S. Agost.). – Cosa fa al contrario il malvagio, quando comincia a sentire la tribolazione? Esternamente non ha più niente, tutto gli viene tolto; nella sua coscienza egli non trova nessuna consolazione. Egli non ha come uscire da se stesso, all’esterno tutto è afflizione, non ha dove rientrare in se stesso: all’interno tutto è cattivo. E giunge a ciò che il profeta aggiunge: « … perché i peccatori periranno ». Come, in effetti non periranno coloro che non hanno asilo da alcuna parte? Non ci sono per essi consolazioni né all’esterno, né all’interno. I peccatori non hanno asilo nelle cose esterne, perché non trovano la causa delle loro tribolazioni; la loro coscienza non li consola; non sono sereni con se stessi, perché è impossibile essere sereno per un malvagio. Ora, chiunque sia malvagio, sta male con se stesso, è inevitabilmente lo strumento del proprio supplizio. Colui che tortura la propria coscienza è castigo a se stesso. Egli fugge un nemico ovunque può; ma egli stesso ove fuggirà? (S. Agost.). Il fumo, nel momento in cui esce dal braciere, si gonfia in vortici densi; ma più è denso, più si rivela la sua vanità. Questa massa fluttuante che non ha appoggi, questo gonfiarsi senza solidità si dissipa più facilmente nell’aria. Il volume del fumo, lungi dall’avere una consistenza, piuttosto lo danneggia; ugualmente più il peccatore si eleva, più si gonfia e si tronfia nei suoi ambiziosi desideri, più Dio si compiace nel ridimensionarlo e farlo sparire come fumo inutile (S. Agost.).

ff. 21, 22. – Maledette ricchezze, impoverire i felici del mondo per il cattivo uso che ne fanno: essi prendono in prestito senza mai rendere. La povertà, al contrario, mette il giusto in questo felice stato di cui parla l’Apostolo, in cui non avendo nulla, arricchisce gli altri. L’uno dunque non possiede nulla; l’altro possiede. Vedete dove è l’indigenza e dove le ricchezze. Costui riceve e non pagherà; quell’altro presta all’infelice di cui ha compassione ed ha tutti i beni in abbondanza. Ma, se egli è povero? Anche allora è ricco. Gettate solo un pio sguardo sulle sue ricchezze. Voi in effetti vedete la sua borsa vuota, ma non fate attenzione alla sua coscienza, che Dio riempie. Esteriormente non ha risorse, ma interiormente possiede la carità. E quanto, per questa carità, non danno senza mai esaurirsi? Se in effetti esternamente ha delle risorse, la sua carità ne disporrà, ed i suoi doni esteriori saranno veramente quelli della sua carità. Se al contrario non trova esteriormente nulla da dare, egli dà la sua benevolenza, dà i suoi consigli, se può; se, infine non può aiutare né con i consigli, né con i soccorsi, egli aiuta con i suoi auguri, e prega per l’afflitto, e forse per la maniera in cui prega è esaudito, ed è più utile di colui che dà un pane. Costui ha sempre qualcosa da dare con il cuore pieno di carità. Questa carità ancora si chiama buona volontà. Dio non vi chiede null’altro che ciò che vi ha dato interiormente; perché la buona volontà non è mai nell’impossibilità. Se, in effetti, vi manca la buona volontà, anche quando avete tanto danaro, voi non lo date al povero; mentre i poveri sono in grado da se stessi di aiutarsi con la loro buona volontà, che non resta sterile nei loro mutui rapporti (S. Agost.). – Due effetti ben diversi vengono dal fatto che il povero benedice Dio nella sua povertà, mentre i peccatori al contrario, maledicono Dio nelle loro ricchezze. – Qual è questa terra il cui possesso è benedetto? Non è quella che è coperta da tenebre e piena di amarezza; ma quella in cui scorre latte e miele, vale a dire che ha la grazia della soavità, e lo splendore della luce eterna. (S. Ambr.).

III. — 24 – 40.

È il Signore stesso che conduce i passi del giusto, ed è anche nel consiglio di Dio che i suoi passaggi siano regolati. Egli non cammina che secondo le regole della volontà e dello Spirito del Signore che lo conduce; perché non è lui che vuole, né colui che corre, ma Dio nella sua misericordia, che veglia sui passi del suo servo, per impedire che egli cada. Quale fortuna avere Dio stesso per guida nel cammino in cui si procede, perché se si viene a cadere non si può essere abbattuti, mettendo Dio la sua mano sul giusto, per impedire che la sua caduta sia mortale! (Duguet).- Qui si sente il movimento di una madre che vedendo il suo bambino cadere, si sforza di mettere la mano sotto di lui per attutire il più possibile l’effetto della sua caduta.

ff. 26. – L’uomo onesto, sobrio e laborioso, guadagna il suo pane. È questo l’ordine generale ed è sufficiente un po’ di esperienza di vita per acquisirne la dimostrazione. Ogni impotenza di sussistere risale a quale virtù oltraggiata, sia la giustizia e la temperanza, sia la prudenza o la forza, e se accidenti imprevisti possono essere giustamente accusati, essi non sono che l’eccezione di una regola troppo evidente per essere misconosciuta. La virtù nutre l’anima, e l’anima nutre il corpo. Voi penserete forse che essa non lo faccia splendidamente? Ne convengo, perché più l’anima si eleva e gioisce in Dio essa stessa, meno il corpo ha dei bisogni. È questo anche uno dei segni più infallibili della virtù, la diminuzione dei bisogni del corpo; e i saggi del paganesimo, disdegnando le ricchezze, parlavano anzitempo il linguaggio del Vangelo, e profetizzavano a loro modo, questa parola che apre la legge nuova: « Beati i poveri! » (Lacord., Conf. T. V, pag. 114). – Non è il disegno di nostro Signore il dare anche ai suoi fedeli una certezza infallibile di non soffrire mai alcuna indigenza. Non meravigliamoci dunque di vedere che i più fedeli servitori possano essere esposti all’indigenza. Ma perché dunque ha promesso a coloro che cercano scrupolosamente il suo regno, che tutte le altre cose sarebbero state date loro? Le sue parole sono dubbiose? La sua promessa è incerta? A Dio non piace che sia così. Come nell’uomo ci sono due tipi di bene, il bene dell’anima ed il bene del corpo, così ci sono due generi di promesse, le une essenziali e fondamentali, che riguardano il bene dell’anima, che è primario; gli altri accessori e accidentali, che riguardano il bene del corpo, che è secondario. Queste promesse essenziali si compiono di per se stesse, e l’esecuzione non manca mai; ma essendo il corpo stato formato per l’anima, chi non vede che le promesse che gli sono fatte, devono essere necessariamente rapportate altrove? Così il nostro Padre celeste, vedendo nei consigli della sua Provvidenza ciò che è utile alla salvezza dell’anima, nella sua paterna bontà dà o meno i beni temporali in rapporto a questo fine principale, con la stessa condotta di un medico saggio e caritatevole che dispensa il nutrimento al suo malato, concedendolo o rifiutandolo secondo i bisogni della sua salute (Bossuet, Serm. sur les disp. a l’égard des nécess. de la vie.). – Pertanto, se alcuni veri giusti sembrano abbandonati e cercano delle briciole di pane come Lazzaro, essi hanno ricevuto da Dio qualcosa di meglio che non l’abbondanza dei beni temporali, e non cambierebbero i meriti della pazienza con tutti i beni della terra (Bellarm.).

ff. 27, 28. – È una verità spesso ripetuta nei salmi, che bisogna evitare il male e fare il bene, perché questo è sovranamente importante, e che l’uno non è sufficiente senza l’altro. – Dio ama la giustizia e non abbandonerà mai i Santi, ma nel modo per cui la vita dei Santi è nascosta in Lui; così che coloro che soffrono attualmente sulla terra sono simili ad alberi che d’inverno non hanno né foglie né frutti; ma quando apparirà il sole nel suo spuntare, la vita che era nascosta nelle radici si rivelerà con i frutti dell’albero. Donerà loro dunque, perché non debba abbandonarli, ciò che amate quaggiù, una lunga vita, la vecchiaia? Voi non riflettete che se desiderate la vecchiaia, voi desiderate una cosa di cui vi lamenterete quando sarà giunta. Che la vostra anima non vi dica dunque, per malvagità, debolezza o per mancanza di ragione: come è che sia vero che il Signore ama il giudizio e non abbandonerà i suoi Santi? (S. Agost.).

ff. 29 . – Due sono gli aspetti della giustizia: punire i malvagi e ricompensare i buoni. Dio fa l’uno e l’altro in Dio, vale a dire: punisce severamente e ricompensa liberamente, e per l’eternità. – Ascoltando queste parole, non vi promette qualche vasta campagna, o la speranza in un altro mondo nel disprezzo di questo attuale. Questa terra è la terra dei viventi, la terra dei Santi. Questo fa dire al Profeta: « … voi siete la mia speranza e la mia parte nella terra dei viventi » (Ps. CXLI, 6). Se tale deve essere la vostra vita, comprendete dunque qual sia la terra che avrete in eredità: è la terra dei viventi. Al contrario la terra ove noi siamo è la terra di coloro che muoiono, che riceve nel suo seno coloro che ha nutrito durante la loro vita. La terra è dunque ciò che è la vita: se la vita è eterna, è una terra eterna (S. Agost.).

ff. 30, 31. –  La bocca del giusto non parla come quella dell’insensato, alla leggera, ma parla con gravità, premeditando ciò che deve dire, proferendo parole di saggezza conformi alla giustizia. – In questi versetti è da considerare tutto: 1° la saggezza, che il giusto medita prima di parlare; – 2° la giustizia, che è l’oggetto ed il motivo delle sue parole; – 3° la legge di Dio che è profondamente radicata nel suo cuore; – 4° la fermezza che traspare in tutte le sue fatiche. Il peccatore, l’empio abbandonato ai suoi lumi o alla sua passione, non può che commettere grandi peccati nel parlare. Egli riflette poco e si preoccupa ancor meno di consultare la legge di Dio prima di manifestare il proprio pensiero. Da qui tutti i falsi passi che fa, sia nella vita civile, sia nella carriera della salvezza. Ciò che fa la saggezza e la sicurezza del giusto, è che la legge di Dio è nel suo cuore. Il profeta non dice nella sua testa, nei suoi pensieri; questa conoscenza si limiterebbe alla speculazione e ne farebbe un sapiente. Questa legge santa è nel cuore del giusto, egli la medita, la ama, la prende come regola delle sue azioni e dei suoi discorsi. Questa disposizione del giusto suppone che egli sia molto dedito alla preghiera e alla lettura dei santi libri, occupazione che fa le delizie e la felicità della sua vita (Berthier). – La legge di Dio è nel suo cuore, e di cosa si verve allora? « Egli non sarà abbattuto nel suo cammino ». La parola di Dio in un cuore, lo preserva da ogni insidia; la parola di Dio in un cuore lo preserva da ogni via cattiva; la parola di Dio in un cuore lo preserva da ogni ambito scivoloso. Se la sua parola non esce dal vostro cuore, Egli evidentemente è con voi (S. Agost.).

ff. 32-34. – Il peccatore osserva sovente il giusto non per edificarsi con la sua pietà e per imitarlo, ma per tendergli insidie e trovare qualche occasione per perderlo. – Ma Dio non abbandona i suoi. « Egli dà loro una bocca ed una saggezza alla quale tutti i loro nemici non possono resistere né contraddire » (Luc. XXI, 15). Dio non condannerà il giusto quando sarà giudicati, perché o non gli permetterà che sia condannato, o almeno coronerà la sua pazienza quando sarà condannato dai giudizi degli uomini (Dug.). – Ma questo quando avverrà? Badate di non pensarci. È il tempo del lavoro, è il tempo della semina, è il tempo dell’irrigazione. Sebbene lavoriate in mezzo ai venti, quantunque lavoriate in mezzo alla pioggia, seminate sempre, non siate pigri; l’estate verrà presto, ed allora sarete felici di aver seminato. Cosa farò allora? « … Aspettate il Signore », ed aspettando cosa farò? « … seguite le sue vie ». E se le seguo, quale sarà la mia ricompensa? « … Egli vi eleverà affinché possediate la terra in eredità ». Quale terra? Io ve lo ripeto non vi venga da pensare a nessun possedimento; si tratta di ciò che è stato detto: « … Venite, benedetti del Padre mio, riceverete questo regno che vi è stato preparato dall’inizio del mondo. » (Matt. XXV, 34). – E cosa diverranno coloro che ci hanno tormentato, in mezzo ai quali abbiamo gemito, dei quali abbiamo sopportato gli scandali? Ascoltate il seguito: « … Quando i peccatori saranno morti voi vedrete. E quanto vicino vedremo? Voi sarete alla destra del Cristo, essi saranno alla sua sinistra » (S. Agost.). – « Quando il peccatore sarà perito, voi vedrete ». Questo pensiero ben meditato è l’appoggio più stabile dell’anima cristiana, condannata a vedere quaggiù l’insolente prosperità dei peccatori, e spesso a subire le loro persecuzioni ed i loro oltraggi. – Sotto forme cangianti e nomi che si succedono, la vanità dei popoli prima o dopo si mostra. Io dico prima o dopo, perché la Provvidenza non è mai sempre visibile; se appare sempre, essa non sparisce mai. Un’apparizione non ha luogo che in virtù di un’assenza. Dio si nasconde e si rivela di volta in volta per essere visto meglio. Il suo silenzio fa risaltare la sua parola, la sua sepoltura dà credito alla resurrezione. Ecco perché vuole essere atteso, e Davide, suo Profeta, diceva eccellentemente al popolo di Israele: « … Attendi il Signore e Lo vedrai. » E quando lo vedrà? Ascoltate: tu lo vedrai quando i peccatori periranno. È la forza invincibile del Cristiano: più di ogni cosa quaggiù, è nella destra di Dio. La provvidenza, che avviluppa a governa tutto, avviluppa e governa con predilezione. Che sarà della Chiesa, cenacolo immortale delle anime riscattate, ove nell’oscurità dei tempi e del cambiamento, la fede, la speranza e la carità, la preghiera, tutte le virtù e tutte le loro opere si tengono in piedi in attesa del suo giorno? Se questo giorno viene per tutto il mondo, quanto più presto per la Chiesa e più inevitabilmente? Quanto ogni figlio di questa Madre feconda e sublime debba ripetere con una certezza che niente ha mai confuso, la parola di David : « Attendi il Signore, e quando i peccatori periranno, lo vedrai » (Lacord, LXVII° Conf.).

ff. 35, 36. – Quando l’uomo del bene, umile e modesto, vede l’orgoglioso prosperare sulla terra, circondato da ricchezze ed onori, si turba ed è tentato di provare invidia; ma la cima del cedro ha un bel toccare le nubi e la sua ombra estendersi lontano, per quanto questa gloria sia effimera. « io ho visto l’empio elevato come il cedro, sono passato, e non c’era più ». Mentre i vostri pensieri carnali vi portano a desiderare una felicità terrestre, questa vi sembra le vera felicità, ma perché? Finché siete in presenza del cedro, voi lo contemplate. Non siete passati, siete nel suo stesso punto o al di sotto di lui, avanzate e passate; man mano che passate, il cedro si allontanerà, e non lo vedrete più; Dio solo sarà davanti a voi. Correndo allora con viva fede verso i beni spirituali, voi direte: io sono passato, ma il cedro non c’era più, e cercate invano il suo posto. Come la potenza, le ricchezze, un certo rango nel mondo che gli assicura il rispetto di un gran numero di persone e l’obbedienza agli ordini che dà; questo posto voi lo cercherete, ma non lo troverete più (S. Agost.). – Quante fortune non vediamo più noi stessi tutti i giorni, mutate in tristi rovine e penose macerie? E quante volte, dopo essere stati spettatori e testimoni delle rivoluzioni del mondo e di ciò che si chiama la scena del mondo, non avete detto: io ho visto quest’uomo elevato come i cedri del Libano; io sono passato e non c’era più; io l’ho cercato e un altro occupava il suo posto. Quanti esempi ne abbiamo ogni giorno di coloro che sembrano ora i più stabili, gli eletti del secolo, o come colui che osa o possa promettersi una più felice o durevole posterità? (Bourd. Récomp. des saints.).

ff. 37. –  Custodite l’innocenza, così come un tempo, quando eravate avaro, custodivate la vostra borsa, come la tenevate per paura che un ladro la rubasse. Custodite ancora la vostra innocenza per timore che il demone ve la rubi. Che sia per voi un patrimonio sicuro, perché essa rende ricchi gli stessi poveri. « Custodite l’innocenza, cosa vi serve il guadagnare l’oro, se perdete l’innocenza? E non vedete ciò che è retto ». Che i vostri occhi siano retti, per non vedere solo ciò che sia retto; che non siano cattivi, in modo che non vediate che i malvagi; che non siano torbidi fino al punto che Dio vi sembri ingiusto, perché favorisce gli empi e perseguita i giusti. Non notate come vedete di traverso? Correggete i vostri occhi e non guardate se non ciò che sia retto. Ma cosa vedere di retto? Badate a non fare attenzione alle cose presenti. Cosa vedrete allora? « Cosa resta dei beni all’uomo pacifico? ». Quando sarete morto, voi non sarete morto; ecco il senso di queste parole … restano dei beni. Egli avrà qualche altra cosa anche dopo questa vita: e quest’altra cosa è la sua discendenza, che ne sarà benedetta. Ecco perché il Signore ha detto: « Colui che crede in me, benché muoia, vivrà » (S. Agost.). – Questi beni riservati, questo resto, per impiegare l’espressione del Profeta, contengono un grande senso. Al giusto resta tutto, all’empio non resta nulla. Il giusto ha sempre davanti agli occhi questo resto prezioso che gli viene riservato come ricompensa dei suoi lavori e risarcimento per le sue prove, e ripete con San Paolo: « Io so a Chi mi sono affidato, ed è tanto potente da conservare il deposito delle mie speranze fino a questo grande giorno » (II Tim., I, 12).

ff. 38-40. – Gli ingiusti e le loro ingiustizie periranno egualmente. Quelli che avranno lasciato dietro di loro, grandi ricchezze, magnifici palazzi, splendide proprietà, tutto perirà con loro. Solo i loro crimi sussisteranno eternamente (Dug.). – « La salvezza dei giusti viene dal Signore, e non dal mondo degli elementi. Il cielo e la terra passeranno. Io non affido la mia salvezza al cielo, perché il cielo passerà e sarà distrutto, mentre Dio resta » (Ps. CI, 27). – Io affido la mia salvezza solo a Dio, che resta e permane, che può rimettere i peccati, affinché sia mio protettore nel giorno della tribolazione, … venga in mio soccorso, mi liberi e mi separi dai peccatori nel giorno del giudizio, perché io ho sperato in Lui (S. Ambr.). – Al contrario la salvezza sarà data dal Signore ai giusti, etc. Che i giusti allora sopportino oggi i peccatori, che il frumento sopporti la zizzania, che il grano sopporti la paglia, perché verrà il tempo della separazione, e la buona semenza sarà separata dalla paglia che il fuoco consumerà. La prima sarà raccolta nel granaio, l’altra sarà gettata nelle fiamme eterne. È così che il giusto e l’ingiusto sono stati dapprima mescolati insieme, in modo che l’ingiusto sopravanzi il giusto, e questi sia provato; ma in seguito l’ingiusto sarà condannato, ed il giusto coronato (S. Agost.).

LA GRAZIA (NOTE DI TEOLOGIA DOGMATICA) – 2 –

LA GRAZIA

(Note di Teologia Dogmatica) (2)

[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vic. Gen. 7/VI/1955]

4. Necessità della grazia della perseveranza.

Il giustificato non può perseverare sino alla fine nella giustificazione ricevuta, senza un particolare aiuto di aiuto. De fide.

Il II Concilio di Orange insegna, contro i semipelagiani, che anche i rigenerati devono sempre implorare l’aiuto di Dio, onde pervenire a una buona fine e poter perdurare nelle opere buone (D. 183). Il Concilio di Trento chiama la perseveranza finale « un grande dono (magnum illud usque in finem perseverantiæ donum (D. 826) e insegna che il giustificato senza un particolare aiuto di Dio non può perseverare nella giustizia ricevuta: Si quis dixerit, iustificatum vel sine speciali auxilio Dei in accepta iustitia perseverare posse vel cum eo non posse, A. S. (D. 832). Il « particolare aiuto di Dio » necessario alla perseveranza finale consiste in una somma di grazie attuali.

Si distingue tra:

a) perseveranza temporaneao imperfetta che dura per un certo tempo, per es. da una confessione all’altra, e perseveranza finaleo perfetta, che dura fino alla morte;

b) perseveranza (finale) passiva,che è il coincidere della morte o della chiamata di Dio con lo stato di grazia, e perseveranza attiva,che è la continua cooperazione del giustificato con la grazia. Quella dei bambini è passiva, quella degli adulti è ordinariamente passiva e attiva. Nella tesi si parla solo di quest’ultima;

c) possibilità di perseverare (posse perseverare) e perseveranza effettiva o attuale (actu perseverare). La possibilità di perseverare, dacché Dio vuole che tutti si salvino, è data a tutti, la perseveranza effettiva è data solo agli eletti. La Scrittura attribuisce a Dio il compimento dell’opera di Salvezza. Fil. 1, 6: « Colui che ha incominciato in voi l’opera buona, la perfezionerà sino al giorno di Gesù Cristo ». Cfr. Fil. II, 13; 1 Piet. V, 10. Essa accentua la necessità della preghiera continua, per poter superare gli ostacoli che si oppongono alla salvezza (Lc. XVIII, 1: « Si deve pregare sempre senza stancarsi mai »; 1 Tess. V, 17: « Pregate senza interruzione ») come pure la necessità di una fedele collaborazione con la grazia divina (Mt. XXVI, 41: « Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione »; cfr. Lc. XXI, 36). . S. AGOSTINO, alla fine della sua vita, ha scritto una monografia dal titolo De dono perseverantiæcontro i semipelagiani, nella quale si fonda particolarmente sulla prassi della preghiera: « Perché dunque si chiede a Dio questa perseveranza, se non è Lui che ce la dà? Non sarà la nostra una petizione irrisoria, se gli chiediamo ciò che si sa che Egli non può dare, ma che è in potere nostro averlo, senza che Egli ce lo conceda? » (2, 3). – La perseveranza finale non può essere meritata (de condigno), ma si può ottenere infallibilmente con la preghiera costante fatta in stato di grazia: Hoc Dei donum suppliciter emereri potest (De dono persev. 6, 10). L a certezza di essere esauditi è fondata sulla promessa di Gesù (Gv. 16, 23). Siccome però l’uomo fino a che non sia immutabilmente confermato nel bene, ha sempre la possibilità di cadere, nessuno, senza una speciale rivelazione, può sapere se persevererà realmente sino alla fine. Cfr. D. 826. F i l . II, 12; 1 Cor. X, 12. – Il motivo intrinseco della necessità della grazia della perseveranza, sta nel fatto che la volontà umana, per la continua ribellione della carne contro lo spirito, non ha in se stessa la forza di persistere immutabile nel bene (perseveranza attiva). – Cosi pure non è in potere dell’uomo far coincidere l’istante della sua morte con lo stato di grazia (perseveranza passiva). Cfr. S. Th. I – II, 109, 10.

5. Necessità di una particolare grazia per evitare durante tutta la vita ogni peccato veniale.

Il giustificato non è in grado, senza una particolare grazia, di evitare durante tutta la vita ogni peccato, anche veniale. De fide.

Il Concilio di Trento dichiarò, contro la dottrina dei Pelagiani, secondo cui l’uomo con le sue proprie forze può durante tutta la sua vita evitare ogni peccato, che a tal fine è necessario uno speciale privilegio di Dio: Si quis hominem semel iustificatum dixerit… posse in tota vita peccata omnia, etiam venialia, vitare, nisi ex speciali Dei privilegio, quemadmodum de beata Virgine tenet Ecclesia, A. S. (D. 833). Cfr. D. 107-108; 84.

Per un’esatta comprensione del dogma occorre notar quanto segue: Per « peccata venialia » si devono intendere principalmente i peccati semideliberati; « omnia » va preso in senso collettivo, non distributivo, vale a dire che con l’aiuto della grazia ordinaria si possono evitare i singoli peccati veniali, ma non tutti insieme; « tota vita » significa uno spazio di tempo piuttosto lungo; il « non posse » designa una impossibilità morale; lo « speciale privilegium » in questione comprende una somma di grazie attuali, che rappresentano un’eccezione dell’ordine comune della grazia, ed una eccezione tutta particolare. – Secondo la Scrittura nessuno si mantiene immune da tutti i peccati. Giac. III, 2: « Tutti manchiamo in molte cose ». Il Signore esorta anche i giusti a pregare: « Rimetti a noi i nostri peccati » (Mt. VI, 12). Il Concilio di Cartagine (418) respinse l’interpretazione pelagiana secondo cui i giusti pregano per la remissione dei peccati altrui o, se pregano per sé, pregano secondo umiltà e non secondo verità (humiliter, non veraciter D. 107-108; cfr. 804). – S. AGOSTINO scrive contro i pelagiani: Se si potessero radunare tutti i giusti della terra e domandare loro se siano senza peccati, risponderebbero all’unisono con l’Apostolo Giovanni (1 Gv. 1, 8): « Se noi diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi » (De nat. et grat. 36, 42). – Il motivo intrinseco sta nella debolezza della volontà decaduta di fronte al complesso degli impulsi disordinati, e nella saggia disposizione della provvidenza che permette le piccole mancanze, per mantenere il giusto nell’umiltà e nella coscienza della sua totale dipendenza da Dio. Cfr. S. Th. I – II, 109, 8.

§ 9. La capacità e i limiti della natura umana senza la grazia.

La dottrina cattolica della grazia sta di mezzo a due estremi. Di fronte al naturalismo dei pelagiani ed al razionalismo moderno, essa difende la necessità assoluta della grazia elevante e la necessità morale della grazia sanante. Di fronte all’esagerato sopranaturalismo dei riformatori, dei seguaci di Bajo e di Giansenio essa difende la capacità della natura umana da sola nel campo religioso e morale. Opponendosi ai due estremi, la teologia cattolica fa una netta distinzione tra l’ordine della natura e della sopranatura, tra religione e morale naturale e religione e morale soprannaturale.

1. Capacità della natura da sola.

a) L’uomo anche nello stato decaduto può conoscere con la sola ragione naturale verità religiose e morali. De fide.

Questa possibilità è fondata sul fatto che le forze naturali dell’uomo col peccato originale non furono distrutte (naturalia permanserunt integra), anche se indebolite dalla perdita dei doni soprannaturali. Cfr. D. 788, 793, 815. – Papa Clemente XI respinse la proposizione giansenistica secondo cui noi senza fede, senza Cristo, senza carità siamo soltanto tenebra, errore e peccato (D. 1398; cfr. 1391). Il Vaticano dichiarò dogma la conoscibilità naturale di Dio, chiaramente attestata in Sap. XIII, 1 ed in Rom. 1, 20 (D. 1785, 1806); cfr. D. 2145 (dimostrabilità dell’esistenza di Dio). La conoscibilità naturale della legge morale è attestata in Rom. II, 14-15; cfr. D. 3005. La stessa civiltà superiore dei popoli pagani depone in favore della capacità della ragione umana naturale. Vedi Trattato di Dio, §§ 1 e 2.

b) Per compiere azioni moralmente buone non è richiesta la grazia santificante. De fide.

Quantunque sia senza grazia santificante, il peccatore può tuttavia compiere opere moralmente buone e, con l’aiuto della grazia attuale, anche buone soprannaturalmente (benché non meritorie) e prepararsi così alla giustificazione. Perciò non tutte le opere dei peccatori sono peccati. Il Concilio di Trento dichiarò: Si quis dixerit, opera omnia, quæ ante iustificationem fiunt, quacunque ratione fatta sint, vere esse peccata vel odium Dei mereri… A.S. (D. 817; cfr. D. 1035, 1040, 1399).

La Scrittura esorta i peccatori a prepararsi alla giustificazione mediante opere di penitenza. Ez. XVIII, 30: « Convertitevi, fate penitenza di tutte le vostre iniquità, e l’iniquità non sarà più a vostra rovina ». Cfr. Zac. 1, 3; Sal. L, 19; Mt. III, 2. Non si può pensare che azioni richieste da Dio e preparanti alla giustificazione siano peccaminose. La prassi ecclesiastica della penitenza e del catecumenato sarebbe incomprensibile, se tutte le opere compiute senza la grazia santificante  fossero peccati. La frase di Mt. VII, 18: « Un albero cattivo non può produrre frutti buoni » non esclude che il peccatore possa fare opere moralmente buone, così come non esclude che il giusto possa fare dei peccati la frase parallela: « Un albero buono non può produrre frutti cattivi ». – S. AGOSTINO insegna che anche la vita dell’uomo più malvagio difficilmente sarà priva di qualche opera buona (De spirito et litt. 28, 48). La sua sentenza cui s’appellano i giansenisti: « Regnat carnalis cupiditas, ubi non est Dei caritas » (Enchir. 117) non prova che ogni singola azione del peccatore sia peccaminosa, ma vuol esprimere soltanto il concetto che nella vita morale vi sono due tendenze, l’una dominata dall’impulso al bene (amore divino in senso lato) e l’altra dalla concupiscenza disordinata (amore del mondo e di sè). Cfr. Mt. VI, 24: «Nessuno può servire due padroni». Lc. XI, 23: « Chi non è con me è contro di me ». Per il significato del concetto di carità in Agostino cfr. De Triti. VIII, IO, 14: charitas = amor boni; De gratia Christi 21, 22: charitas = bona voluntas; Contro duas. p. Pel. II, 9, 21: charitas = boni cupiditas.

c) Per compiere azioni moralmente buone non è richiesta la grazia della fede. Sent. certa.

Anche l’infedele può compiere azioni moralmente buone. Di conseguenza non tutte le sue opere sono peccati. Pio V condannò la seguente proposizione di Baio: Omnia opera infidelium sunt peccata et philosophorum virtutes sunt vitia (D. 1025); cfr. D. 1298. – La Scrittura riconosce anche ai pagani la capacità di compiere opere moralmente buone. Cfr. Dan. IV, 24; Mt. V, 47. Secondo Rom. II, 14 i pagani sono per natura capaci di adempiere i precetti della legge morale: « Quando i Gentili che non hanno la legge (mosaica), per lume naturale fanno ciò che la Legge comanda, senza avere la Legge, sono legge a se stessi ». Paolo pensa ai veri pagani, non ai pagani-cristiani, come « spiegava erroneamente Bajo (D. 1022). Il passo Rom. XIV, 23: « omne autem, quod non est ex fide, peccatum est » si riferisce non alle fede cristiana come tale, ma alla coscienza (πίστις = ferma convinzione, giudizio della coscienza), e quindi si traduce: « Quanto non procede da convinzione (ossia non è secondo coscienza) è peccato ». – I Padri attribuiscono senza riserve agli infedeli la capacità di compiere azioni moralmente buone. S. AGOSTINO loda la sobrietà, l’altruismo e l’incorruttibilità del suo amico Alipio, non ancora Cristiano (Conf. V I , 7, 10) e le virtù civili degli antichi (Ep. 138, 3, 17). Se si trovano nei suoi scritti non poche espressioni che quasi coincidono verbalmente con le proposizioni di Bajo, in quanto sembrano affermare che le opere buone e le virtù dei pagani sono peccati e vizi (cfr. De spirito et litt. 3, 5), occorre interpretarle tenendo conto della sua polemica contro il naturalismo pelagiano, nella quale egli ammette come veramente buono e vera virtù solo ciò che ha relazione col fine soprannaturale dell’uomo. Cfr. Contra Iulianum IV, 3, 17, 21, 25.

d) Per compiere opere moralmente buone non è richiesta la grazia attuale. Sent. certa.

L’uomo decaduto può compiere con le sole forze naturali, senza l’aiuto della grazia divina, opere moralmente buone. Perciò non tutte le opere fatte senza grazia attuale sono peccati: Pio V condannò la seguente proposizione di Bajo: Liberum arbitrium, sine gratiæ Dei adiutorio, nonnisi ad peccandum valet (D. 1027) cfr. D. 1037, 1389.

Né con la scrittura né con l’antica tradizione si può provare la necessità di un aiuto della grazia attuale per tutte le opere moralmente buone. A torto gli avversari si appellano a S. AGOSTINO. Se egli dichiara ripetutamente che senza grazia di Dio non è possibile alcuna opera esente da peccato, occorre osservare che chiama peccato in senso ampio tutto ciò che non ha relazione alcuna con il fine soprannaturale. In tal senso dev’essere inteso anche il can. 22 del II Concilio di Orange: Nemo habet de suo nisi mendacium et peccatum (D. 195 = AGOSTINO, In Ioan. tr. 5, 1).

2. Limiti della capacità naturale.

a) Nello stato della natura decaduta è per l’uomo moralmente impossibile, senza rivelazione soprannaturale, conoscere con facilità, con ferma certezza e senza alcun errore tutte le verità naturali morali e religiose. De fide.

Il Concilio Vaticano dichiarò in accordo con S. TOMMASO

(S. Th. I, 1, 1): «È merito di questa divina rivelazione se le verità divine, che per sé non trascendono l’umana ragione, anche nello stato presente del genere umano, da tutti si possono conoscere con facilità, con ferma certezza e senza alcun errore » (D. 1786). Cfr. l’enciclica Humani generis (D. 3005), che conferma e spiega l’insegnamento del Concilio Vaticano, parlando anche espressamente delle « verità morali », cioè « della legge naturale ».

     Il motivo per cui senza rivelazione soprannaturale soltanto pochi uomini raggiunsero di fatto una completa conoscenza di Dio e della legge morale e naturale, sta nell’indebolimento dell’intelletto, causato dal peccato originale (vulnus ignorantiæ).

b) Nello stato della natura decaduta è moralmente impossibile all’uomo, senza grazia medicinale (grazia sanans), adempiere per lungo tempo l’intera legge e vincere tutte le tentazioni gravi. Sent. certa.

Se, come insegna il Concilio di Trento, lo stesso giustificato ha bisogno « di un particolare aiuto di Dio per evitare durevolmente tutti i peccati gravi e cosi perseverare nello stato di grazia » (D. 806, 832), con maggior ragione bisogna ammettere che chi non è giustificato non può evitare per lungo tempo tutti i peccati gravi, anche se, grazie alla sua libertà naturale, ha la capacità di evitare questo o quel peccato e di osservar questo o quel comandamento. – L’Apostolo Paolo descrive in Rom. VII, 14-25 la debolezza dell’uomo decaduto, fondata sulla concupiscenza disordinata, di fronte all’assalto delle tentazioni e accentua la necessità dell’aiuto divino per superarle.

CAPITOLO TERZO

La distribuzione della grazia attuale.

§ 10. La gratuità della grazia.

1. La grazia non può essere meritata in alcun modo (né de condigno né de congruo) con buone opere naturali. De fide.

Il II Concilio di Orange insegna contro i pelagiani ed i semipelagiani che la grazia non è preceduta da alcun merito: nullis meritis gratiam præveniri (D. 191). Il Concilio di Trento afferma che la giustificazione negli adulti ha inizio con la grazia preveniente, in quanto essi « sono da lui chiamati, senza alcun merito preesistente » (nullis eorum existentibus meritis; D. 797). Nella Lettera ai Romani Paolo dimostra che la giustificazione non può essere ottenuta né mediante le opere della Legge del Vecchio Testamento, né mediante l’osservanza della legge naturale, ma è un libero dono dell’Amore divino: « Tutti sono gratuitamente (δωρεάν (dorean) = gratis) giustificati per la sua misericordiosa bontà » (III, 24). Cfr. Rom. III, 9. 23; XI, 6: « Ma se ciò è stato fatto per grazia, dunque non per le opere: altrimenti la grazia non sarebbe più grazia ». Cfr. Ef. II, 8 ss.; 2 Tim. 1, 9; Tit. III, 4-5; 1 Cor. IV, 7. Tra i Padri il più strenuo difensore della gratuità della grazia contro i pelagiani è S. AGOSTINO. Cfr. Enarr. in Ps. XXX, sermo 1, 6: « Perché grazia? Perché viene data gratuitamente. Perché vien data gratuitamente? Perché non è preceduta dai tuoi meriti ». In Ioan. tr. 86, 2: « Non vi sarebbe grazia se precedessero i meriti. Ma la grazia c’è, essa dunque non trova i meriti, ma li opera ». – La ragione argomenta la gratuità della prima grazia dal fatto della mancanza di intrinseca proporzione tra la natura e la grazia (gratia excedit proportionem naturæ) e dalla impossibilità di meritare il principio (la grazia) del merito stesso (principium meriti non cadit sub eodem merito). Cfr. S. th. I – II, 114, 5.

2. La grazia non può essere ottenuta con suppliche naturali. Sent. certa.

Il II Concilio di Orange insegna contro i semipelagiani che la grazia non viene concessa perché invocata (naturalmente) dall’uomo, ma che è invece la grazia a far sì che noi invochiamo Dio (D. 176). Secondo la dottrina di S. Paolo la retta preghiera è un frutto della grazia dello Spirito Santo. Rom. VIII, 26: « Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza: poiché noi non sappiamo quello che convenientemente abbiamo da domandare; ma lo stesso Spirito intercede per noi con gemiti inesprimibili ». 1 Cor. XII, 3: « Nessuno dice: Gesù Signore, se non in Spirito Santo ». – S. AGOSTINO insegna che la preghiera salutare efficace è effetto della grazia di Dio. Commentando Rom. VIII, 15 («riceveste lo spirito di adozione filiale per cui gridiamo: Abba! Padre! ») egli dice: « Di qui comprendiamo che anche questa è dono di Dio il poter gridare a lui interiormente e con sincerità di cuore. Vedano dunque quanto errano coloro i quali pensano che abbiamo da noi stessi, non ricevuto da altri, il potere di chiedere, di cercare, di picchiare » (De dono persev. 23, 64). Poiché l’iniziativa dell’opera di salvezza parte da Dio, una preghiera salutare efficace è possibile soltanto con l’aiuto della grazia divina preveniente.

3. L’uomo non può acquistarsi alcuna disposizione naturale positiva alla grazia. Sent. certa.

Per disposizione si intende la capacità di un soggetto di ricevere una forma, cioè una determinazione. Mentre la disposizione negativa rimuove unicamente gli ostacoli che si frappongono alla recezione della forma, quella positiva prepara e adatta il soggetto a ricevere la forma, dandogli una certa qual tendenza verso di essa, che appare così come il suo naturale compimento. Questa disposizione positiva è del tutto distinta dalla cosiddetta potenza obedienziale, che è pura capacità passiva, fondata nella natura spirituale dell’anima umana (e dell’Angelo) di ricevere la grazia. Una disposizione positiva naturale per la grazia non è possibile poiché tra natura e grazia non vi è alcuna intrinseca proporzione.

Il II Concilio di Orange afferma che il desiderio della purificazione dal peccato non proviene dalla volontà naturale dell’uomo, ma dalla grazia preveniente dello Spirito Santo (D. 177; cfr. 179). – La Scrittura attribuisce alla grazia di Dio il principio e tutta quanta l’opera della salvezza. Cfr. Gv. VI, 44; XV, 5; 1 Cor. IV, 7; Ef. II, 8-9.

S. AGOSTINO ha insegnato nei suoi primi scritti una disposizione naturale positiva per la grazia (cfr. De div. quæst. 83, q. 68, n. 4: Præcedit ergo aliquid in peccatoribus, quo, quamvis nondum sint iustificati, digni efficiantur iustificatione; prima parla di « occultissima merita »). Negli scritti posteriori, a cominciare dalla Questione a Simpliciano I, 2, che è del 397, egli respinge recisamente la possibilità di una siffatta disposizione e sostiene la gratuità assoluta della grazia. Cfr. De dono persev. 21, 55. Come prova scritturale egli si serve con predilezione di Prov. VIII, 25 secondo la vecchia traduzione latina dipendente dai Settanta: Preparatur voluntas a Domino (Volg.: hauriet salutem a Domino; Ebr.: « ottiene il favore di Dio »).

Anche in S. TOMMASO vi fu un’evoluzione della dottrina. Mentre nei primi scritti (Sent. II, d. 28, q. 1, a. 4 e Sent. IV, d. 17, q. 1, a. 2) egli insegna, d’accordo con i teologi più antichi, che l’uomo, senza grazia interna, può raggiungere con la sola libera volontà una disposizione positiva alla grazia santificante, in quelli posteriori esige, per la preparazione a ricevere tale grazia, un aiuto divino che muova internamente l’anima, cioè la grazia attuale. Cfr. S. th. I – II, 109, 6; 112, 2; Qlb. 1, 7.

4. L’assioma scolastico: « Facienti quod in se est, Deus non denegat gratiam ».

c) Spiegazioni possibili.

1) S. TOMMASO, negli ultimi suoi scritti che contengono l’espressione definitiva della sua dottrina, spiega l’assioma, comparso per la prima volta nella teologia del sec. XII e attribuito a Pietro Abelardo, nel senso della collaborazione con la grazia: a colui che con l’aiuto della grazia fa tutto ciò che è in suo potere, Dio non rifiuta un’ulteriore grazia. Cfr. S. th. I – II, 109, 6 ad 2; 112, 3 ad 1; In Rom. X, lect. 3. 2) L’assioma può anche interpretarsi, come fanno non pochi molinisti, nel senso della disposizione naturale negativa, che consiste nell’evitare il peccato. C’è però da osservare che la connessione tra la disposizione negativa e la comunicazione della grazia non è un rapporto di causa ad effetto, ma puramente contingente, fondato sulla universale volontà salvifica di Dio. In altre parole Dio dà la grazia non perché l’uomo evita il peccato, ma perché Egli vuole sinceramente la salvezza di tutti gli uomini.

b) Spiegazioni inaccettabili.

1) Semipelagiana è la spiegazione secondo cui gli sforzi naturali dell’uomo, per il loro intrinseco valore, fondano un certo diritto (meritum de congruo) alla grazia. Siffatta spiegazione si avvicina a quella sostenuta dagli antichi scolastici e da S. TOMMASO nei suoi primi scritti (Sent. II, d. 2 q. I, a. 4).

2) Anche i nominalisti riferiscono l’assioma agli sforzi morali dell’uomo dai quali deriverebbe un certo diritto alla grazia (m. de congruo), ma non fanno dipendere la comunicazione di questa dall’intrinseco valore di quelli, bensì da una accettazione estrinseca da parte di Dio: a colui che fa ciò che è in suo potere, Dio dà la grazia perché così ha promesso conforme a Mt. VII, 7: « Chiedete, e vi sarà dato; cercate, e troverete; picchiate, e vi sarà aperto ». — Secondo l’insegnamento della rivelazione la salvezza vien da Dio, non dall’uomo Pertanto anche il chiedere, il cercare, il picchiare, di cui Mt. VII,7, non son dovuti allo sforzo morale del solo uomo, ma alla cooperazione con la grazia.

Lutero dapprima spiegò l’assioma in senso nominalistico più tardi lo respinse come pelagiano.

§ 11. L’universalità della grazia.

Benché la grazia sia un dono dell’Amore e della misericordia di Dio, tuttavia per la volontà divina salvifica universale, vien data a tutti gli uomini. Siccome però in realtà non tutti gli uomini raggiungono la felicità eterna, ne consegue che c’è una duplice volontà di Dio relativa alla loro salvezza:

a) l’una universale, per cui Dio, indipendentemente dallo stato finale dei singoli, vuole la salvezza di tutti gli uomini alla condizione che muoiano in grazia (voluntas antecedens et condicionata);

b) l’altra particolare, per cui Dio, tenendo conto dello stato finale dei singoli, vuole assolutamente la salvezza di coloro che lasciano la vita in grazia (voluntas consequens et absoluta).Tale volontà coincide con la predestinazione; se invece esclude dalla beatitudine eterna si dice riprovazione. Cfr. GIOVANNI DAMASCENO, De fide orth. II, 29.

1. La volontà salvifica universale di Dio in sé. Anche con la caduta e il peccato originale, Dio vuole veramente e sinceramente la salvezza di tutti gli uomini. Sent. fidei proxima.

Che Dio voglia la salvezza non soltanto dei predestinati, ma almeno di tutti i credenti, è dogma formale.

La Chiesa ha condannata come eretica la tesi dei predestinazianisti, dei calvinisti e dei giansenisti che limitava la volontà divina salvifica ai soli predestinati. Cfr. D. 318, 827, 1096. Tale volontà abbraccia almeno tutti i credenti, come risulta dalla professione di fede della Chiesa nella quale i fedeli dicono: Qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit de cœlis. Che inoltre si estenda al di là dell’ambito dei fedeli risulta dalla condanna da parte di Alessandro VIII di due proposizioni contrarie (D. 1294-1295). Gesù mostra, con l’esempio della città di Gerusalemme, che Egli vuole anche la salvezza di quelli che in realtà si perdono (Mt. XXIII, 37; Lc. XIX, 41). Da Gv. III, 16 risulta che Dio vuole la salvezza almeno di tutti i credenti, perché ha dato il suo Figlio « affinché chiunque in Lui crede non perisca, ma abbia la vita eterna ». Secondo 1 Tim. II, 4, la volontà divina salvifica abbraccia senza eccezione tutti gli uomini: « Egli (Dio) vuole che tutti si salvino e giungano alla conoscenza della verità ». I Padri preagostiniani non pongono in dubbio l’universalità della volontà divina salvifica. L’Ambrosiastro così chiosa 1 Tim. 2, 4: « Egli non ha escluso nessuno dalla salvezza Anche S. AGOSTINO nei primi suoi scritti aderisce a questi modo di vedere (cfr. De spiritu et litt. 33, 58). In quelli posteriori però, conformemente alla sua rigida teoria della predestinazione, limita la volontà divina salvifica ai predestinati e spiega artificiosamente il passo di S. Paolo a Timoteo nei modi seguenti: a) Dio vuole che uomini di tutte le classi si salvino (Enchir. 103); b) tutti quelli che si salveranno, si salveranno per la volontà di Dio (Contro Iulianum IV, 8, Enchir. 103); c) Dio fa che noi vogliamo che tutti si salvino (De corrept. et grat. 15, 47). Non pochi teologi riferiscono la spiegazione limitativa di S . Agostino alla volontà salvifica conseguente, la quale non è universale. Tuttavia dalla forzata spiegazione agostiniana emerge come sia assai problematico se egli, negli ultimi anni della sua vita, abbia ancora sostenuto l’universalità della volontà salvifica antecedente. La sua dottrina della predestinazione, secondo cui Dio, per puro suo beneplacito, sceglie una parte degli uomini dalla « massa dei dannati », mentre non sceglie gli altri, sembra che non dia più adito ad una autentica e seria volontà salvifica universale.

2. L a volontà salvifica universale nella sua attuazione.

a) Dio dà a tutti i giusti la grazia sufficiente (proxime vel remote sufficiens) per l’osservanza dei comandamenti divini. De fide.

La grazia sufficiente si distingue in prossima o immediata (gr. proxime sufficiens), che dà immediatamente la capacità di compiere un determinato atto salutare, e in remota o mediata (gr. remote sufficiens), che dà la capacità di compier un atto col quale si ottengono ulteriori grazie. Quest’ultima è soprattutto la grazia di pregare.

– Dopo il II Concilio di Orange, che aveva già espressa questa dottrina (D. 200), quello di Trento dichiarò che l’adempimento dei comandamenti di Dio non è impossibile all’uomo giustificato: Si quis dixerit Dei prœcepta nomini etiam iustificato et sub gratia constituto esse ad adservandum impossibilia A. S. (D. 828). – Lacontraria dottrina dei giansenisti fu condannata dallaChiesa come eretica (D. 1092).Secondo la Scrittura Dio rivolge ai giusti le sue cureparticolari. Cfr. Sal. XXXII, 18-19; XXXVI, 25 ss.; XC; Mt. XII, 50;Gv. XIV, 21; Rom. V, 8-10. I precetti di Dio possono facilmente essere adempiuti dai giusti. Mt. XI, 30:« Il mio giogo è soave, e il mio peso è leggero ». 1 Gv.V, 3: « L’amore di Dio consiste nell’osservare i suoi comandamenti. E i suoi comandamenti non sono gravosi, perché tutto ciò che è nato da Dio trionfa nel mondo. 1 Cor. X, 13: « Dio è fedele, e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione provvederà anche il buon esito, dandovi il potere di sostenerla ».S. AGOSTINO coniò la frase accolta dal Concilio di Trento:« Dio non abbandona i giusti, se non vien prima abbandonato da loro » (D. 804); cfr. AGOSTINO, De nat. et grat. 26, 29. La fedeltà di Dio vuole che egli dia ai giusti la grazia sufficiente, perché essi possano conservare il diritto, loro concesso,alla vita eterna.

b) Dio dà a tutti i peccatori credenti la grazia sufficiente (saltem remote sufficiens) per la conversione. Sent. communis.

Egli non nega completamente la sua grazia neppure ai peccatori accecati e induriti. – La Chiesa insegna che « se qualcuno dopo il Battesimo è caduto in peccato, può sempre rialzarsi con una vera penitenza» (D. 430). Ciò presuppone che Dio conceda la grazia sufficiente per la conversione. Cfr. D. 911, 321. – Le numerose esortazioni che la Scrittura rivolge ai peccatori perché si convertano presuppongono la possibilità della conversione con l’aiuto della grazia divina. Ez. XXXIII, 11: «Io non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva ». 2 Piet. III, 9: « Il Signore… usa pazienza per riguardo a voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti ritornino a penitenza ». Rom. II, 4: « E non sai che la bontà di Dio ti spinge a penitenza? ». I passi della Scrittura che attribuiscono a Dio l’indurimento dei peccatori (Es. VII, 3; 9, 12; Rom. IX, 18) sono da intendere nel senso che Dio permette il male sottraendo al peccatore, per punizione, la grazia efficace. La conversione viene così resa più difficile, ma non tuttavia impossibile. Secondo l’insegnamento comune dei Padri anche i più grandi peccatori non sono esclusi dalla misericordia di Dio. S. AGOSTINO dice: « Non si deve dubitare neanche del peccatore più grande, fintantoché vive qui sulla terra » (Retract. I, 19, 7). Il fondamento psicologico della possibilità della conversione anche dei peccatori induriti, sta nel fatto che la loro ostinazione, finché sono in vita (in statu viæ), non è definitiva come quella dei dannati.

c) Dio dà a tutti gli infedeli senza loro colpa (infideles negativi) la grazia sufficiente per salvarsi. Sent. certa.

Alessandro VIII condannò nel 1690 le proposizioni giansenistiche secondo le quali Cristo era morto soltanto per i fedeli e che i pagani, i giudei e gli eretici non ricevono da lui alcun influsso di grazia (D. 1294-1295). Cfr. D. 1376. La Scrittura attesta la universalità della volontà divina di salvezza (1 Tim. II, 4; 2 Piet. III, 9) e l’universalità della redenzione di Cristo (1 Gv. II, 2; 2 Cor. V,15; 1 Tim. II,6; Rom. V,18). È pertanto inammissibile che a una grandissima parte dell’umanità rimanga preclusa la grazia necessaria e sufficiente alla salvezza. – I Padri spiegano Gv. 1, 9 (illuminat omnem hominem) nel senso di un’illuminazione di tutti gli uomini, anche degl’infedeli, mediante la grazia divina. Cfr. Giov. CRISOSTOMO, In Ioan. hom. 8, 1. Una monografìa patristica sull’universale distribuzione della grazia è lo scritto anonimo, ma probabilmente composto da Prospero d’Aquitania, dal titolo De vocatione omnium gentium (circa il 450), che cerca una via di mezzo tra i semipelagiani ed i seguaci della dottrina agostiniana e sostiene decisamente l’universalità della volontà divina salvifica e della concessione della grazia. – Siccome la fede è « l’inizio della salvezza, il fondamento e la radice di ogni giustificazione » (D. 801), essa è pure indispensabile per la giustificazione dei pagani. Ebr. XI, 6: « Senza la fede è impossibile piacere a Dio. Chi si avvicina a Dio deve credere che Egli è ed è rimuneratore di quelli che lo ricercano ». Una semplice « fede razionale » non basta. Innocenzo XI riprovò la proposizione: « Fides late dicta ex testimonio creaturarum similive motivo ad iustificationem sufficit » ( D . 1173). È necessaria la fede teologale, cioè la fede soprannaturale nella rivelazione, fede questa che è un effetto della grazia (D. 1789: concetto della fede teologale; 1793: nemini unquam sine illa contigit iustificatio). Per ciò che riguarda il contenuto di questa fede, secondo la testimonianza della Lettera agli Ebrei XI, 6, è necessario di necessità di mezzo credere esplicitamente che Dio esiste e che premia i buoni e castiga i cattivi. Per la Trinità e l’Incarnazione è sufficiente la fede implicita. L’infedele giunge alla fede soprannaturale richiesta per la giustificazione per il fatto che Dio, con ammaestramento interno o esterno, gli fa conoscere la verità rivelata e con la grazia attuale gli conferisce la capacità di emettere l’atto di fede. Cfr. S. TOMMASO, De verit. 14, 11.

Obbiezione. Contro l’universalità della volontà salvifica divina si obbietta che Dio non vuole seriamente e sinceramente la salvezza dei bambini che muoiono senza battesimo. Risposta: Dio, a motivo della sua volontà di salvezza, non è obbligato a eliminare con un intervento miracoloso dall’ordine del mondo da lui creato, tutti i singoli ostacoli derivanti dalla cooperazione di cause seconde con la causa prima divina e che in molti casi rendono vana l’esecuzione della volontà divina. Esiste anche la possibilità che Dio rimetta il peccato originale, per via straordinaria, ai bambini che muoiono senza Battesimo e li faccia partecipi della sua grazia; la sua potenza non è legata ai mezzi della grazia proprii della Chiesa. Il fatto di questa comunicazione estrasacramentale della grazia non si può tuttavia provare positivamente.