SALMI BIBLICI: “CONFITEBIMUR TIBI, DEUS” (LXXIV)

SALMO 74: “CONFITEBIMUR TIBI, DEUS, confitebimur”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 74

In finem, ne corrumpas. Psalmus cantici Asaph.

[1] Confitebimur tibi, Deus, confitebimur,

et invocabimus nomen tuum; narrabimus mirabilia tua.

[2] Cum accepero tempus, ego justitias judicabo.

[3] Liquefacta est terra et omnes qui habitant in ea, ego confirmavi columnas ejus.

[4] Dixi iniquis: Nolite inique agere, et delinquentibus: Nolite exaltare cornu.

[5] Nolite extollere in altum cornu vestrum; nolite loqui adversus Deum iniquitatem.

[6] Quia neque ab oriente, neque ab occidente, neque a desertis montibus.

[7] Quoniam Deus judex est; hunc humiliat, et hunc exaltat:

[8] quia calix in manu Domini vini meri, plenus misto. Et inclinavit ex hoc in hoc, verumtamen fæx ejus non est exinanita; bibent omnes peccatores terrae.

[9] Ego autem annuntiabo in sæculum; cantabo Deo Jacob.

[10] Et omnia cornua peccatorum confringam; et exaltabuntur cornua justi.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXIV

Ammonizione a viver bene ed a depor l’alterigia, perché il giusto e severo giudizio è imminente. —

Parlano quindi i giusti, quando il Profeta e quando il Dio medesimo.

Per la fine: non dispergere; salmo e cantico dì Asaph.

1. Noi darem laude a te, o Dio; ti darem laude, e invocheremo il tuo nome.

2. Racconterem le tue meraviglie; quando io avrò preso il tempo, io giudicherò con giustizia.

3. Si è strutta la terra con tutti i suoi abitatori; io fui che alle colonne di lei diedi saldezza.

4. Ho detto agl’iniqui: Non vogliate operare iniquamente; e ai peccatori: Non vogliate alzar le corna.

5. Non vogliate alzar in alto le vostre corna; non vogliate parlar contro Dio iniquamente.

6. Imperocché né ad oriente, né ad occidente, né sulle montagne deserte (avrete scampo); (1) perocché il giudice è Dio.

7. Egli umilia l’uno, e l’altro esalta, perché il Signore ha nella mano un calice di vin pretto, (calice) pieno di amara mistura.

8. E da questo ne mesce in altro (calice); ma la feccia di esso non è consumata: ne berranno tutti i peccatori della terra.

9. Ma io per tutti i secoli annunzierò, e canterò laudi al Dio di Giacobbe. (2)

10. Perocché io spezzerò tutte le corna dei peccatori; ma i giusti alzeranno le loro teste. (3)

(1) Né dalle montagne del deserto, sottinteso, ci verrà il soccorso, la liberazione. Questo deserto è probabilmente l’Arabia, ove si trovano le montagne sinaitiche.

(2) Ex hoc in hoc, ex hoc poculo in hoc poculum, o ex hac parte in aliam partem.

(3) Questo salmo ed il seguente, sono stati composti – dicono un certo numero di esegeti – in occasione della miracolosa sconfitta di Sennacherib ed in azione di grazie per la liberazione del popolo di Dio.

Sommario analitico

In questo salmo, c’è come un dialogo tra il Profeta ed il Cristo sul futuro giudizio (2).

I.- Il Profeta, a nome dei giusti, promette di celebrare le lodi di Dio: 

1° con lo spirito e con il cuore, per la gloria di Dio, invocandolo per la sua utilità; 

2° raccontando agli altri le sue meraviglie (1).

II. – Gesù-Cristo:

1° predice che a tempo debito, eserciterà il suo giudizio sugli uomini, giudizio che farà sciogliere per la paura le anime imperfette, e fortificherà le perfette (2, 3);

2° esorta gli empi a rinunciare al loro orgoglio nelle loro opere, nei loro pensieri, nei loro discorsi (4, 5);

3° li avverte che essi non troveranno alcun soccorso, alcun rifugio contro di Lui (6);

4° annuncia loro il castigo del loro orgoglio: – a) essi saranno rovesciati dalle loro elevate posizioni (7); – b) berranno la coppa della collera di Dio (8); – c) passeranno da un supplizio all’altro, senza speranza di vederli mai conclusi (9);

III. – Il Profeta, nel suo nome, promette di celebrare per sempre le lodi del Dio di Giacobbe (9).

IV. – Gesù-Cristo predice di nuovo l’umiliazione dei superbi e l’esaltazione degli umili (10).

Spiegazioni e Considerazioni

I. – 1.

ff. 1. – Le prime parole di questo salmo sono come un cantico di liberazione e di azioni di grazie che i giusti intonano al pensiero del giudizio che deve affrancarli dal giogo tirannico che i malvagi hanno per così lungo tempo fatto pesare su di loro: Noi vi loderemo, o Dio! Noi vi loderemo ed invocheremo il vostro Nome. Noi racconteremo le vostre meraviglie. – Noi dobbiamo sempre cominciare col rendere a Dio i nostri doveri, che sono la lode e le azioni di grazie; in seguito dobbiamo domandargli le sue grazie ed invocare il suo Nome, cioè il suo soccorso.

II. – 2-9.

ff. 2. – Voi chiamate in voi colui che Voi invocate. Che cos’è in effetti invocare se non chiamare in se stesso? Se Dio è invocato da voi, cioè chiamato in voi a quali condizioni vi si avvicinerà? Egli non si avvicina all’orgoglioso. Dio è elevato, ma colui che si eleva non arriva a Lui. Quando noi vogliamo raggiungere gli oggetti posti in alto, noi ci ingrandiamo, e se non possiamo raggiungerli, cerchiamo degli strumenti e delle scale per elevarci all’altezza di questi oggetti; Dio agisce in senso contrario, Egli è elevato e non è raggiungibile che dagli umili. È scritto: « il Signore è vicino a coloro con il cuore infranto » (Ps. XXXIII, 19). La contrizione del cuore è la pietà, è l’umiltà. Colui che è contrito si irrita contro se stesso, perché Dio gli sia propizio; che sia il proprio Giudice, perché Dio sia il suo difensore. Dio viene dunque quando è invocato. Ma a chi viene? Egli non viene verso l’orgoglioso (S. Agost.). ascoltate un’altra testimonianza di questa verità: « Grande è il Signore, Egli guarda le cose basse, e conosce da lontano le cose elevate » (Ps. CXXXVII, 6). Il Signore è grande, Egli guarda da vicino le cose basse, mentre guarda da lontano le cose elevate. E perché è detto che Dio riguarda gli umili, per paura che i superbi non gioiscano della speranza dell’impunità, come se Dio, abitando i cieli non conoscesse il loro orgoglio; la Scrittura dice pure, per tenerli nel timore: Io vi vedo e vi conosco, ma da lontano. Egli fa la felicità di coloro che avvicina; quanto a voi, uomini orgogliosi, uomini che vi levate arrogantemente, voi non resterete impuniti, perché Egli vi conosce, e voi non sarete felici perché Egli vi conosce da lontano (S. Agost.). – Quando Dio giudicherà secondo giustizia? « Quando sarà giunto il suo tempo ». Non è ancora il suo tempo. Rendiamo grazie alla sua misericordia; Egli predica dapprima la giustizia e giudica in seguito i giudici; perché se volete giudicare prima di predicare chi si troverebbe per liberare? Chi si troverebbe per assolvere? Ora dunque è il tempo della predicazione: « Io racconterò – egli dice – tute le vostre meraviglie ». Ascoltate questo narratore, ascoltate quest’altro predicatore; perché Egli vi dice, che se lo disprezzate: « … quando sarà giunto il mio tempo, Io giudicherò i giudici ». Oggi Io rimetto i peccati a chi li confessa; più tardi Io non risparmierò coloro che mi hanno disprezzato; o Signore, io celebrerò la vostra misericordia ed il vostro giudizio (Ps. C, 1), dice il Profeta in un altro salmo: « … la vostra misericordia ed il vostro giudizio »; la misericordia per il presente ed il giudizio per l’avvenire; la misericordia per la quale i peccati sono rimessi; il giudizio per il quale i peccati saranno puniti. Voi volete non temere Colui che punisce i peccati? Amate Colui che li rimette; guardatevi dal disdegnarlo, di elevarvi con l’orgoglio e di dire: io non ho niente da farmi perdonare (S. Agost.). – San Paolo ci fa conoscere che c’è in effetti non soltanto un tempo, ma un giorno designato per questo giudizio di giustizia che Dio deve esercitare. « Dio annuncia ora agli uomini che tutti faccianno, in tutti i luoghi, penitenza, perché Egli ha stabilito un giorno per giudicare il mondo secondo la giustizia, per colui che Egli ha destinato ad esserne giudice, confermando la fede di tutti resuscitandoli dai morti ». (Act. XVII, 30, 31). In questo giorno di cui Dio dice qui: « … quando avrò preso il mio tempo, Io giudicherò secondo le regole della mia infallibile giustizia ». A Dio solo, in effetti, appartiene il parlare della sorte; a Dio solo appartiene il prendere il suo tempo per giudicare, per punire. Egli non esercita ancora questo rigoroso ed infallibile giudizio; Egli non fa ancora questo discernimento terribile tra i buoni ed i malvagi, … perché? Perché Egli prende il suo tempo e ha scelto il suo giorno, ove farà apparire la sua giustizia nei confronti di tutto l’universo. Ecco ciò che spiega uno dei più insondabili misteri del governo della Provvidenza sulla terra, questa pazienza, questa longanimità, questo silenzio di Dio rispetto ai crimini ed alle prevaricazioni senza numero degli individui come delle nazioni; pazienza, longanimità, silenzio che giungono fino a far dubitare, a far negare agli empi che Dio si occupa delle cose umane. – La spiegazione di questo mistero di pazienza è in queste parole: « … quando Io ho preso il mio tempo ». Dio ha il tempo per Lui, ed il tempo verrà. C’è una cosa che non dovete mai ignorare – dice San Pietro -: che agli occhi di Dio, un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno. Così il Signore non ritarda il compimento della sua promessa, come qualcuno potrebbe immaginare; ma Egli usa la pazienza a causa vostra, non volendo che nessuno perisca, ma che tutti facciano ricorso alla penitenza (II Piet. III, 9-10). – Il senso primo e letterale di questo versetto è che Dio giudicherà secondo le regole della giustizia, e non i giusti! Secondo la spiegazione di un gran numero di interpreti, tuttavia questo ultimo senso può essere ammesso sotto il beneficio delle importanti lezioni che racchiude. « Voi che desiderate l’avvento del vostro Salvatore, temete l’esame severo del Giudice, temete Colui che ha detto: Io scruterò, Io visiterò Gerusalemme con la lampada in mano ». La sua vista è penetrante, niente sfugge al suo sguardo. Egli scruterà i reni ed i cuori, ed il pensiero dell’uomo sarà forzato a rendere omaggio alla sua giustizia. Quale sicurezza c’è per Babilonia, se Gerusalemme deve essere esaminata in tal modo? Gerusalemme qui è il simbolo di coloro che, in questo mondo, imitano, con la professione della vita sacerdotale o religiosa, la santità degli abitanti della celeste Gerusalemme, mentre Babilonia rappresenta coloro che sono nel turbinio di tutti i vizi e la confusione di tutti i crimini. È di questi peccatori manifesti che San Paolo dice: « I peccati di alcuni uomini si manifestano prima del giudizio » (I Tim. V, 24); essi reclamano il castigo piuttosto che l’esame ed il giudizio. Ma per i miei peccati, a me che sono religioso, prete, abitante di Gerusalemme, essi sono nascosti, coperti dal nome e dall’abito religioso; « Essi non possono essere riconosciuti se non dopo l’esame »; essi hanno bisogno di essere ricercati e discussi con la più grande cura, e non possono uscire dalle tenebre per rilucere nel gran giorno con l’ausilio di una torcia. È a questa ricerca scrupolosa, a questo esame accurato, che fa allusione il Salmista, quando dice nel nome del Signore: « Quando Io avrò preso il mio tempo, Io giudicherò i giudici » (S. BERN. Serm. LV in Cant.). – C’è un senso sublime in questa espressione « quando Io avrò preso il tempo per giudicare »; essa fa conoscere che il tempo è in mano a Dio e che Egli ne dispone come Gli piace; essa ci avverte di essere sempre pronti a rendere conto delle nostre azioni, perché in tutti i momenti, noi possiamo essere citati al tribunale del Giudice sovrano. Dio ci accorda il tempo per prepararci a questo giudizio, e ci nasconde i limiti di questo tempo, affinché non cessiamo di prepararci (Berthier). – « Quando il tempo stabilito sarà giunto, allora Io giudicherò », per farci intendere che anche al suo sguardo c’è un tempo per giudicare, ed un tempo per perdonare. E ci dice San Gregorio che, con insostenibile temerarietà, noi vogliamo giudicare in ogni tempo. Prima che Dio abbia preso il suo tempo, noi prendiamo il nostro, e lo prendiamo quando e come ci piace (Bourdiol: Jug. Tém.). 

ff. 3. – Non è qui il cuore dei giusti che prende la parola, come pensa Bellarmino, ma il Signore che continua a parlare. « La terra fonde ed i suoi abitanti sono passati ». nel giorno del giudizio la terra e tutti coloro che la abitano, saranno distrutti. Il Signore ne parla come di una cosa già fatta, per sottolineare la certezza dell’avvenimento. L’apostolo S. Pietro attesta la stessa verità: « Ora, i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della rovina degli empi » (II Piet. III, 7). Allo spettacolo degli avvenimenti terribili che precedono queste grandi assise del Giudizio universale, « … gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra » (Luc. XXI, 26). Tuttavia il Signore dichiara che ha consolidato e raffermato le colonne, le sostiene dalla terra, perché non siano ridotte in cenere, ed ha fortificato i giusti che ne sono le colonne, affinché possano levare la testa, perché la loro redenzione si avvicina. Il profeta Gioele predice sia questo terrore degli abitanti della terra, sia questa forza che il Signore darà ai suoi eletti: « Il Signore ruggisce da Sion e da Gerusalemme fa sentire la sua voce; tremano i cieli e la terra. Ma il Signore è un rifugio al suo popolo, una fortezza per i figli di Israele » (Gioele IV, 16). – Queste parole esprimono anche, se si vuole, questa corruzione generale della terra, tutta fusa nella mollezza e nelle delizie di questa vita, e Dio ne trae qualcuno da questa massa corrotta e li rafferma nella sua grazia come sue colonne. « La terra si è come fusa », e cosa intendete con “questa terra”? Tutti coloro che la abitano, vale a dire coloro i cui pensieri, tutte le affezioni hanno la terra come oggetto unico, perché ciascuno è, in realtà, ciò che ama; se amate Dio, siete nel numero di coloro a cui il Signore ha detto, per bocca del suo profeta. « … voi siete degli dei ». La terra è in fusione, quando i cuori degli uomini si rammolliscono, si fondono e si liquefano nelle impure fornaci del vizio, delle concupiscenze, delle prevaricazioni che li profanano e li fanno appassire. 

ff. 4-7. – È il salmista, o se si vuole, il Signore che parla in questo versetto, e trae dal discorso di Dio la conseguenza che gli empi ed i malvagi hanno timore dell’inevitabile giudizio di Dio. – « Non vi elevate dunque, e le vostre parole non imputino a Dio l’iniquità ». Ascoltate ora il linguaggio di un gran numero di uomini: ciascuno di voi lo ascolti e sia toccato di compunzione. Cosa dicono ordinariamente gli uomini? Veramente Dio giudica le cose umane?Questo è il giudizio di Dio? O ancora. Dio si occupa di ciò che succede sulla terra? Ci sono tanti ingiusti che rigurgitano di beni, e tanti innocenti che sonno carichi di malanni!  Ma ecco che a questo felice del secolo giunge non so quale malanno, castigo ed avvertimento di Dio; egli non ignora lo stato della sua coscienza, non ignora che possa avere da soffrire a motivo dei suoi peccati, da dove trarrà dunque argomenti contro Dio? Egli non può dire: io sono giusto; cosa pensiamo dunque che dirà? Ci sono più ingiusti di me, e tuttavia non soffrono questi mali. Ecco l’iniquità che gli uomini imputano a Dio con il loro linguaggio. Vedete quale ingiustizia, perché questo uomo, volendo apparire giusto, accusa Dio di ingiustizia per il giudizio di cui soffre, e pretende di essere giusto, poiché dice di soffrire ingiustamente. Io vi domando, miei fratelli è equo che Dio sia considerato come ingiusto e voi come giusti? Ora quando usate un tale linguaggio, le vostre parole imputano a Dio l’iniquità (S. Agost.). – In questo giorno, il giusto Giudice distruggerà tutti i pretesti, annienterà tutte le scuse che i peccatori tenteranno di opporre ai colpi della sua giustizia: « Io ho detto ai malvagi: Non commettete l’iniquità, ed ai peccatori la cui empietà provoca la mia collera: non ritenetevi autorizzati dal mio appoggio per rinnovare la fila delle vostre iniquità, e soprattutto non levate la testa contro di me per rinnovare le vostre bestemmie ». Quale scusa resterà loro? Sotto quali circostanze attenuanti potranno rifugiarsi? – Il giudice delle vostre iniquità, è Dio. Se c’è Dio, Egli è presente dappertutto. In quale luogo vi potrete sottrarre agli occhi di Dio, per dire qualcosa che Egli non intenda? Se il giudizio di Dio viene dal lato d’oriente, fuggite in Occidente e dite contro Dio ciò che vorrete; se viene dall’Occidente, passate in Oriente e là parlate senza fermarvi; se esso viene dai deserti e dalle montagne, andate in mezzo ai popoli, e là mormorate sommessamente contro di Lui. Costui non giudica di alcun luogo chi è nascosto ovunque, che nessuno può vedere mai, che nessuno ha il potere di ignorare. Vedete dunque cosa fate. Le vostre parole imputano a Dio l’iniquità. Ora la Scrittura vi dice: « … lo Spirito del Signore ha riempito l’universo e, siccome contiene tutto, Egli conosce tutto ciò che si dice: ecco perché colui che pronuncia parole inique non può restare nascosto » (Sap. I- 7, 8). Non crediate dunque che Dio sia in tale o tal altro luogo; Egli è con voi ciò che voi siete con voi stessi. Che significa ciò che voi siete voi stessi? Buono, se voi siete buono, e malvagio ai vostri occhi se siete malvagio; soccorritore, se siete buono, vendicatore delle vostre colpe, se siete malvagio. Voi avete un giudice dentro di voi. Forse volete fare qualche male, lasciate i luoghi pubblici per rifugiarvi nel segreto della vostra casa, ove nessun nemico possa controllarvi; dagli spazi della vostra casa che sono accessibili a tutti ed esposti agli sguardi, vi ritirate nella vostra camera, ancora nella vostra camera voi temete un testimonio, vi ritirate nel vostro cuore, e voi rifletterete che Dio è proprio la, più intimo per voi che questo fondo del vostro cuore. In qualunque parte dunque che voi fuggiate, Dio ivi si trova. Ove fuggirete voi stesso? In quale luogo fuggirete? Ma poiché Dio è ancora più profondo del vostro cuore di voi stesso, voi non potete fuggire un Dio irritato, se non tra le braccia di un Dio placato. Voi non potete fuggire da nessun’altra parte. Volete dunque sfuggire a Dio? Gettatevi in Dio, in Lui stesso. Che le vostre parole di conseguenza, non imputino a Dio l’iniquità, anche nel luogo segreto in cui parlate (S. Agost.). – « Pensate qui a ciò che potrete rispondere »; pensateci quando è tempo, ed il pensiero ne possa trarre utilità. Non asserite più la vostra debolezza, non mettete il vostro appoggio nella vostra fragilità. La natura era debole, la grazia era forte; voi avete una carne che brama contro lo spirito, voi avete uno spirito che desidera contro la carne; avete delle malattie, ma avete anche dei rimedi nei Sacramenti; voi avete un tentatore, ma avete pure un Salvatore; le tentazioni sono sempre presenti, le ispirazioni non lo sono da meno; gli oggetti sono sempre presenti, e la grazia sempre pronta, e voi potete almeno fuggire ciò che non potreste vincere. Infine, da qualunque lato vi giriate, non vi resta più alcuna scusa, alcun sotterfugio, alcun mezzo di evasione, voi siete presi e condannati. Ecco perché il profeta Geremia dice che « … i peccatori saranno in quel giorno come colui che è preso in flagranza di delitto » (Gerem. II, 26). Egli non può negare il fatto, non può scusarlo, non può difendersi con la ragione, né scappare con la fuga (Bossuet). – « Non vi verrà alcun soccorso da parte degli astri che si levano, né da parte degli astri che si posano, né da parte dei deserti o delle montagne, perché è Dio solo che è il vostro Giudice ». Ecco la grande ragione che chiude tutte le bocche, chiude ogni discussione e rende impossibile ogni difesa. « Il giudice è Dio »; vale a dire Colui che è tutta intelligenza, tutta scienza, tutta saggezza, tutta potenza; Colui che è la giustizia sovrana e di conseguenza, inevitabile; divina, e di conseguenza infinita … « Perché è Dio stesso che è giudice ». Non ci sono appelli contro il giudizio di Dio. Che il peccatore si porti ad Oriente, ad Occidente, nel deserto, nelle cavità delle rocce, nelle gole delle montagne, Dio è giudice dappertutto, niente sfugge alle sue conoscenze né alla forza del suo braccio. Egli umilia i grandi, se sono stati orgogliosi, ed eleva i poveri che sono stati umili di cuore; Egli ha nella sua mano la coppa in cui versa il vino della collera – secondo l’espressione del Profeta – ed è necessario che i peccatori bevano questo calice di amarezza fino alla feccia. Questa è la fine dei destini umani. È a questo tribunale di ogni verità e di ogni giustizia che devono giungere tutti i nostri pensieri, tutti i nostri progetti e tutte le nostre opere. Non si potrà protestare contro questo tribunale, né addurre l’ignoranza, tutte le pagine dei santi Libri ce l’annunciano; … né le passioni, perché il pensiero di questo tribunale ne è il rimedio; … né la debolezza della nostra natura, perché i milioni di Santi deboli come noi si sono resi favorevoli il Giudice sovrano; … né l’imbarazzo delle cure della terra, poiché la nostra cura primaria deve essere occuparci del giudizio di Dio. Questo sarà uno dei più grandi rimorsi dei riprovati: il pensare che essi sono condannati da un tribunale il cui ricordo doveva salvarli (Berthier).

ff. 8, 9. – « Dio abbassa l’uno ed eleva l’altro ». Chi è abbassato da questo Giudice sovrano? Esaminate i due uomini che erano insieme nel tempio, e vedrete qual è colui che sia abbassato e colui che sia elevato (Luc. XVIII, 10, 11). « Chiunque si eleva sarà abbassato e chiunque si abbassa sarà elevato ». Ecco che il versetto del salmo spiega. Che fa Dio quando giudica? Egli abbassa l’uno ed eleva l’altro; Egli abbassa i superbi ed eleva gli umili (S. Agost.). – Questa coppa di Dio si abbassa a volte sul popolo, sugli individui, a volte sugli altri. Secondo che la sua giustizia e la sua misericordia lo richiedano, è quella di cui il Signore diceva a Geremia. « Prendi dalla mia mano questa coppa di vino della mia ira e falla bere a tutte le nazioni alle quali ti invio, perché ne bevano, ne restino inebriate ed escano di senno dinanzi alla spada che manderò in mezzo a loro ». Presi dunque la coppa dalle mani del Signore e la diedi a bere a tutte le nazioni alle quali il Signore mi aveva inviato: …. Tu riferirai loro: Dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Bevete e inebriatevi, vomitate e cadete senza rialzarvi davanti alla spada che io mando in mezzo a voi. Se poi rifiuteranno di prendere dalla tua mano il calice da bere, tu dirai loro: Dice il Signore degli eserciti: « Certamente ne berrete! » (Gerem. XXV, 15, 28). – È questa coppa di cui Dio diceva all’infedele Gerusalemme: « Berrai la coppa di tua sorella, profonda e larga, sarai oggetto di derisione e di scherno; la coppa sarà di grande capacità. Tu sarai colma d’ubriachezza e d’affanno, coppa di desolazione e di sterminio era la coppa di tua sorella Samaria. Anche tu la berrai, la vuoterai, ne succhierai i cocci, ti lacererai il seno » (Ezech. XXIII, 31, 34). – Che il santo e divino salmista abbia elevato divinamente questa bella distinzione dei beni e dei mali! Io ho visto – Egli dice – nella mano di Dio, c’è una coppa piena di tre liquori: c’è in primo luogo il vino puro, « vini meri »; c’è secondariamente il vino misto, infine c’è la feccia. Che significa il vino puro? La gioia dell’eternità, gioia che non è alterata da alcun male, non misto a nessuna amarezza. Che significa questa feccia? Se non il supplizio che non è temperato da alcuna dolcezza. E cosa rappresenta questo vino misto? Se non questi beni e questi mali che l’uso può far cambiare di natura, come noi proviamo nella vita presente. O la bella distinzione dei beni e dei mali che il Profeta ha cantato! Ma saggia è la dispensa che la Provvidenza ne ha fatto! Ecco i tempi della miscela; ecco i tempi del merito, in cui bisogna esercitare i buoni per provarli, e sopportare i peccatori per attenderli: e si versano in questa miscela questi beni e questi mali mescolati, di cui i saggi sanno approfittare, mentre gli insensati ne abusano, ma questi tempi di miscela finiranno. Venite, spiriti puri, spiriti innocenti, venite a bere il vino puro di Dio, la sua felicità senza mistura. E voi, malvagi induriti, malvagi eternamente separati dai giusti, non vi è per voi felicità, niente più danze, banchetti, giochi; venite a bere tutta l’amarezza della vendetta divina  (Bossuet, Serm. sur la Prov.). – La Provvidenza di Dio porta nella sua mano una coppa piena del vino rude ed amaro della cupidigia, essa vi mescola tutto ciò che sia contrario alle passioni e che è proprio nel punirle; essa agita questa coppa e ne rimuove gli sgradevoli liquori, secondo i bisogni che ne hanno coloro ai quali essa la presenta. Se non fossero privi del gusto della verità e della giustizia, essi gli renderebbero grazie di ciò che essa spande sui loro ingiusti desideri delle salutari amarezze, secondo l’espressione di S. Agostino… I più giusti hanno bisogno di bere in questa coppa e di berne anche più di una volta. Senza questo contro-veleno, la loro virtù anche li rigonfierebbe; senza questo mezzo per espiare i loro peccati, essi li conoscerebbero poco e ne farebbero una penitenza imperfetta. Quelli che sono testimoni delle loro prove e che non ne conoscono né le ragioni né la necessità, le lamentano come malaugurate, o le considerano pure come egualmente indegne dell’attenzione di Dio e di quella degli uomini. Ma è da queste prove che essi sono purificati e che diventano degni della qualifica di figli di Dio … Le afflizioni comuni qui ai buoni ed ai malvagi, al popolo di Dio ed alle nazioni infedeli, sono piuttosto delle lezioni che dei castighi; esse non sono che leggeri efflussi della coppa, molto diversi dalla feccia riservata agli empi, ai peccatori impenitenti. Questa feccia che è nel fondo della coppa, è una figura degli ultimi tempi, e di una giustizia senza miscela di misericordia (Rendu). 

III. — 10.

ff. 10. – « Ed Io distruggerò tutti le potenze dei peccatori ». I peccatori non vogliono che si distruggano le loro potenze; ma nessuno dubita che queste potenze non saranno alla fine distrutte. Non volete che Dio le distrugga all’ultimo momento? Distruggetele voi stessi oggi. Voi avete inteso ciò che è detto più in alto; tenete gran conto di queste parole: … io ho detto agli ingiusti: « astenetevi dal commettere l’iniquità, ho detto a coloro che l’avevano commessa, astenetevi dal sollevare potenza ». Se quando vi si dice: « Astenetevi dal sollevar potenza », voi disprezzate questo consiglio e levate orgogliosamente la fronte, la fine verrà e compirà quella minaccia: « Io distruggerò tutte le potenze dei peccatori, e le potenze dei giusti saranno elevate ». Le potenze dei peccatori sono le vane dignità dell’orgoglio; i corni dei giusti sono i doni di Cristo. In effetti si intende per corno, tutto ciò che sia elevato. Odiate in questa vita ogni elevazione terrena, per giungere all’elevazione celeste. Se voi amate le grandezze della terra, Dio non vi ammetterà alle grandezze del cielo, e per vostra confusione vi distruggerà le potenze; ed anche ciò che sarà della vostra gloria, se eleva allora i vostri corni. È ora il momento di scegliere, allora sarà troppo tardi. Voi allora non potrete dire: lasciatemi fare la mia scelta, perché siete prevenuto da questa minaccia: « Io ho detto agli empi ». Se non avessi detto niente, potevate preparate le vostre scuse, preparare la vostra difesa; se al contrario, Io ho detto: fate prima la vostra confessione per non arrivare alla vostra condanna; perché allora ogni confessione sarà inutile ed ogni difesa impossibile (S. Agost.). – L’orgoglioso è come quel mostro terribile che vide Daniele: egli aveva dei lunghi denti di ferro, che divorava e stritolava, calpestando il resto con i piedi; esso era diverso da tutte le altre bestie ed aveva dieci corni (Dan. VII, 7). Questi dieci corni dell’empio e del peccatore orgoglioso sono: 1° la scienza infatuata, gonfia di sé; 2° la prudenza del mondo; 3° la vana gloria; 4° la presunzione; 5° l’arroganza; 6° la superbia, 7° la bellezza fisica; 8° l’amore dei piaceri, 9° la ricchezza della terra; 10° gli onori, le dignità, i favori del mondo. Il piccolo corno che si leva in mezzo ad essi, con gli occhi simili a quelli di un uomo ed una bocca che proferisce grandi cose, è l’ipocrisia aggiunta a tutti i vizi che precedono. 

DIO IN NOI (3)

DIO IN NOI (3)

[Versione p. f. Zingale S. J. – L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923 Can. Francesco Duvina]

CAPO III.

“Alter Christus,,

Essere « tabernacolo », essere « cielo », ecco la splendida realtà di un’anima in stato di grazia. Possiamo adesso far un passo innanzi. Il Cristiano, nella cui anima abita Dio, è, letteralmente, un altro Gesù Cristo, alter Christus. In primo luogo perché ha accettato la dottrina e la professione esterna, visibile del Vangelo. Difatti, bisogna che la nostra fede non sia unicamente per noi soli; deve avere una irradiazione. Bisogna che costituisca il suggello, la divisa, che ci faccia distinguere: « Induimini Christum. Rivestitevi di Gesù Cristo». Ohimè, quanti battezzati non si curano punto di questo: Cristiani di nome e nulla più! Inoltre il Cristiano dev’essere Alter Christus, perché deve vivere o studiarsi di vivere, prendendo ad imprestito — invece dei giudizi e dei sentimenti del mondo — i pensieri ed i sentimenti di Nostro Signore: Hoc sentite in vobis quod et in Christo Jesu. Ma il battezzato, può e deve essere « un altro Cristo » per ben altre ragioni, immedesimandosi cioè con Lui nel modo più intimo possibile. S. Paolo intendeva questa intimità quando diceva: « Vivo ego, jam non ego, vivit vero in me Christus. Io vivo, ma non sono io che vivo, è invece Gesù Cristo che vive in me ». Molti autori spiegano queste parole della presenza di Nostro Signore — Uomo-Dio — in noi, per mezzo della Comunione. E perché, presa alla lettera, questa frase pare esprimere una realtà troppo bella, molti indietreggiano, e come chi non osa farsi avanti, si provano a diminuirla, raddolcirla, rimpiccolirla. – I buoni commentatori non amano tali alterazioni. Bisogna spiegare la frase letteralmente: « Perché parlare d’imitazione, scrive il Padre Prat, quando l’Apostolo ha in mira l’identità mistica? ». Dobbiamo rassomigliare al Cristo non solo perché assunse un’umanità simile alla nostra, ma perché ha dato alla nostra umanità, individualmente presa, una vita simile, identica alla sua, la stessa vita di Dio. In conseguenza, come Cristiano debbo indossare la sua livrea, condividere i suoi sentimenti; e, meglio ancora, prendere e custodire la sua Persona, fare di me un altro « Lui ». Il Cristo vive la vita del Padre. Ego et Pater unum sumus. Noi dobbiamo vivere la vita del Figlio. Ut sint unum. Questa è la formola divina con cui si esprime la nostra vita soprannaturale. Le correzioni necessarie che indicheremo, non la muteranno nella sua parte sostanziale. Egli vive unicamente della stessa vita di Dio e noi dobbiamo solamente vivere della sua. Giacché la sua è la stessa vita di Dio; la nostra, per la grazia, è anch’essa la vita di Dio. – Nostro Signore per spiegare la realtà di cui ci occupiamo, apportava questo paragone: « Guardate la vite. Nei tralci e nel ceppo circola lo stesso succo. I tralci vivono la vita del tronco. Il ceppo, il tronco, sono Io; i tralci siete voi. In me la vita divina, totale; in voi, finché restate a me uniti, la vita divina per partecipazione » (S. GIOVANNI, XV, 1-6. — S. Agostino, colla sua ampiezza ordinaria, sviluppa, in molti passi, il paragone del Salvatore. Alcuni testi fra i molti: Unius naturœ sunt vitis et palmites. Propter quod cum esset Deus, cujus naturæ non sumus, factus est homo, ut in illo esset vitis natura humana, cujus et nos palmites esse possemus. (Tract. 80 in Joan.) —  (Id.. Tract. 81). – S. Paolo sceglie un altro esempio: « Considerate un corpo con le sue membra. Le membra non hanno la vita che dal corpo; separate dal corpo, non sono più nulla; si disseccano e muoiono. Finché restano unite al corpo, questo le fa vivere e permette ad esse il movimento. La stessa cosa avviene di Gesù Cristo e dei Cristiani. Il Cristo è il corpo, voi Cristiani ne siete le membra. La vita di Gesù diventa vostra vita; e siccome la vita del Cristo è divina, la vostra, in virtù della vostra unione al Cristo, ormai è una vita divina. Rimanete dunque sempre membra del Cristo » (EPH., 1 , 2, 3). – Possiamo immaginare il Padre, il Figliuolo elo Spirito Santo: la Trinità, simile a un oceano senza limite. Per un mistero della bontà infinita di Dio, questo oceano viene a racchiudersi in una capacità finita, in un serbatoio, per dire così, immenso, ma anche esso limitato, la Umanità di Nostro Signore Gesù Cristo. Nel Cristo è contenuta tutta la vita del Padre, del Verbo e dello Spirito Santo. Lo scopo del Battesimo è quello di formarci come condotti di questo serbatoio divino che è il Salvatore, nel quale trovasi la pienezza della Divinità (Avviene questo in due maniere: in virtù, primieramente, dell’unione ipostatica, privilegio che Egli solo possiede; in secondo luogo, perché possiede in grado massimo la grazia santificante, privilegio al quale noi partecipiamo per i Suoi meriti). Un tubo che comunica con un serbatoio, contiene il medesimo liquido fino alla stessa altezza; la differenza sia nella misura, giacché questa dipende dalla capacità che è diversa nei due. Messi in comunicazione col Cristo nel giorno del nostro Battesimo, abbiamo ricevuto da Lui la vita divina; essa è passata da Lui a noi: la medesima circola in noi ad ogni minuto, finché restiamo in grazia. Ma commesso un peccato mortale, la comunicazione tra il serbatoio divino e noi viene interrotta. Sarà necessario il Sacramento della Penitenza per stabilire di nuovo il passaggio fino a noi. Questo paragone, benché troppo ordinario, mostra, con qualche inesattezza facile a correggere, l’insieme delle nostre relazioni con Dio per mezzo di Nostro Signore. Spiega, in particolare, come mai ci basti che restiamo uniti al Cristo, perché Dio viva in noi. Le orazioni della liturgia ci affermano questa verità, quando esprimono la formula: Per Dominum nostrum Jesum Christum. Noi siamo deificali permezzo di Gesù, e nel dominio spirituale nulla ci accade senza Gesù Cristo.L’esempio del Salvatore sulla vigna e i tralci rappresenta più fedelmente ciò che l’uomo diventa quando la vita divina non scorre più inlui. Tralcio secco, privo di succo: legno per l’inferno. La morte temporale coincide con la privazione dell’influsso divino? La dannazione eterna! Aut vitis aut ignis, come dicono energicamente i Padri: o ramo vivo, unito al tronco,ovvero legno morto; non c’è via di mezzo.« Il Cristiano, dice S. Agostino, non deve nulla temere quanto l’essere separato dal corpo di Gesù Cristo. Separato a questo modo, non è più membro, non è quindi vivificato dallo Spirito Santo; e chiunque non ha lo spirito di Gesù Cristo, dice l’Apostolo, non è con Lui » (Tract. 27, in Joan).Una sola cosa adunque importa, che noi custodiamo il contatto, che restiamo — secondo l’espressione di S. Paolo — « innestati sul Cristo». In questo modo la vita che circola in Lui,penetra in noi e la vita del Cristo è la medesima vita di Dio (per non generare confusione, è meglio evitare le espressioni: « Nostro Signore in noi, Gesù in noi ». Alcuni autori, Monsignor de Ségur in particolare, nei suoi bellissimi volumetti, le usano. Le parole Gesù, Nostro Signore, secondo la terminologia ordinaria, indicano l’Uomo-Dio. Per la grazia santificante, il Figlio è in noi allo stesso titolo che il Padre e lo Spirito Santo, cioè a dire, come Verbo. Con la sua Santa Umanità, Nostro Signore abita in noi solamente dopo la Santa Comunione, durante il tempo in cui durano le sacre specie. Ma se la vita di Dio, in Gesù Cristo e in noi, è sostanzialmente la stessa, abbiamo notato che differisce nella misura e nelle condizioni della sua esistenza).

Egli la possiede intera — noi per partecipazione.

Egli per natura — noi per adozione.

Egli per il fatto della sua Incarnazione — noi perché abbiamo ricevuto il Battesimo.

Egli non può perderla — e noi possiamo perderla.

Nondimeno conviene insistere meno sulle differenze della vita divina, quale è in Nostro Signore e in noi, che sui punti di somiglianza.

Il pericolo non consiste nel crederci troppo « altri Gesù Cristo », ma piuttosto a non voler consentire di crederci tali, nella misura in cui lo siamo. – A chi volesse trovare in ciò un motivo di orgoglio; si potrebbe facilmente rispondere quello che diceva S. Bernardo ai suoi monaci: « Il giumento, su cui cavalcò il Signore la domenica delle palme, rimase sempre un giumento ». Creature, esseri finiti, la nostra partecipazione alla vita divina non ci trasforma in Dio; ci lascia creature.

– Il dogma cristiano, ben compreso, non ha nulla da fare col panteismo. –

Del resto, le anime avvezze a meditare sulla Abitazione divina, sanno quanto costi il comporre, con la propria vita, « il poema prodigioso di un povero uomo che voglia configurarsi a Gesù Cristo ». Piuttosto che inorgoglirsi, si confondono nell’umiltà. « La contemplazione delle grazie ricevute fa loro conoscere meglio la propria miseria, dice S. Teresa. Sembra loro di essere come una nave che affonda per il troppo peso che porta ». E poi, il timore di poter perdere l’ospite benedetto, diminuisce ancor più la fiducia che potrebbero avere in se stesse: « La impressione che loro fa questo pensiero è così viva, che le eccita a camminare con una vigilanza estrema e a trarre nuove forze dalla loro stessa debolezza, per non perdere, per propria colpa, una sola occasione di rendersi più accette a Dio. Quanto più si vedono colmate di grazie dal divino Maestro, altrettanto temono di offenderlo e quindi dubitano di se stesse ». Il motivo che più fa soffrire la maggior parte dei Cristiani non è certo quello di avere esagerato la presenza di Dio in noi. « Molti Cristiani, osserva con tristezza il P. Ramière, anche credendo alle promesse divine, non possono, nondimeno, risolversi ad accettarle nella loro magnificenza. « Temono di riconoscere troppa bontà in Colui che non hanno difficoltà di chiamare il buon Dio. E si persuadono che Egli abbia esagerato le sue promesse, quando sentono ripetersi che sono invitati ad associarsi alla natura divina, ad essere fratelli adottivi di Gesù Cristo, membra del Suo Corpo, figli del Padre celeste, a vivere, anche quaggiù, della vita di Dio, per goderne in eterno la suprema felicità; in Tutto questo la maggior parte non trova che figure e pie iperboli » (Divinisation du chrétien, p. 4). – Nel paradiso terrestre, il serpentedice alla donna: « Eritis sìcut dii, sarete come dei », e mentisce. Ma per la grazia santificante, con tutta verità, noi diventiamo figli di Dio, « filii Dei, uomini divini, altrettanti Gesù Cristo ». – « Sono figlio dell’uomo e della donna, secondo ciò che mi è stato detto», scriveva un tale. « Questo mi fa meraviglia, perché io credevo essere qualcosa di più ». E intanto, quanto sono numerosi coloro i quali non si meravigliano punto e non sospettano affatto di essere qualcosa di più! – Il dogma della Presenza e dell’Abitazione di Dio — poiché è il dogma fondamentale — mette tutto a suo posto. E allora, che cosa rispondere a coloro che ci potrebbero rivolgere il seguente rimprovero: A voler soprattutto considerare Dio in noi, nell’anima nostra, non si corre il rischio di perdere di mira Gesù Cristo, il personaggio storico, il Galileo di un tempo, nato due mila anni fa in Betlem? Ciò appunto che S. Teresa, i cui consigli in materia d’ascetismo fanno legge, dice di se stessa; che avendo cioè lasciato per qualche tempo la meditazione dei misteri dell’Umanità Santa del Salvatore, se l’ebbe a rimproverare per tutto il resto della sua vita. – La devozione a « Dio presente in noi », non esclude punto la devozione all’Umanità di Nostro Signore. Al contrario la comprende, la suppone, le dà la sua ragione di essere e costituisce il motivo ultimo di ciascun passo di Gesù Cristo. Il Verbo, facendosi carne, non ebbe altro scopo che quello di vivere in noi, rientrando nelle nostre anime insieme col Padre e lo Spirito Santo: facendo sì che noi potessimo vivere con Lui della vita divina. « Societas vestra cum Christo in Deo! » (Osea, II, 14).Gesù Cristo come Verbo è, allo stesso titolo del Padre e dello Spirito Santo, causa efficiente della nostra salvezza. Allo stesso titolo del Padre e del Divino Spirito vive, come Verbo, nell’anima nostra giustificata.Come Uomo Dio, è causa strumentale della nostra redenzione, vale a dire strumento benedetto che ci ha riscattati, e che per la sua dottrina, la sua Chiesa, i Santi Sacramenti, ci dà i mezzi di restare fedeli. Come Uomo Dio, è causa meritoria della nostra salvezza; giacché noi dobbiamo alle sue fatiche e alla sua immolazione compensatrice la vita soprannaturale. Finalmente, come Uomo Dio, è causa esemplare della nostra redenzione, essendo il modello divino che dobbiamo tener presente, per imitarlo e seguirlo, onde conservare la grazia e pervenire alla gloria.Alcuni autori e commentatori isolano troppo Gesù Cristo. Bisogna integrare il Salvatore, personaggio storico, in tutta la nostra storia soprannaturale, senza dimenticare che questo Gesù lontano è venuto per renderci Dio vicino; per ristabilire nelle anime nostre la Trinità Santa che noi dobbiamo sforzarci di trovare, poiché veramente si trova in fondo a noi.Senza dubbio, per molti la contemplazione del Cristo lontano, separato dal tempo e dallo spazio, del Cristo «storico» e «geografico», basta a render loro facile l’intimità. Agiscono come se la vita del Salvatore fosse presente e vicina. Noi abbiamo l’uso di dire che trattasi di paragone, di immaginare il luogo, di ricostruire gli avvenimenti; giacché, se è vero che per Gesù di Galilea noi, di adesso, eravamo presenti allora; per noi, di adesso, il Gesù di allora non è realmente presente.  Invece, è in realtà presente, attualmente, ed è vicino a noi — dentro di noi— Dio Padre, Figliuolo, Spirito Santo, se siamo in grazia. Considerata sotto questo rispetto, quanto, l’intimità, non riesce più facile! Per parlare con Dio e vivere con Lui non ci occorre uno sforzo di immaginazione che ci porti lontano, in un angolo remoto; ma basta un atto di fede. Dio non è lontano. Egli vive in noi, al di dentro, « intus ». Dopo questo, siamo inescusabili se non perveniamo a l’intimità.

CAPO IV.

“Attuare,, i nostri privilegi soprannaturali.

Nelle note intime del grande universitario cattolico Ollé-Laprune, stanno scritte queste riflessioni: « Io sono Cristiano per grazia di Dio. Ma capisco io che cosa voglia dire essere Cristiano?… Non è molto essere Cristiano per abitudine, per sentimento. Io voglio esserlo nella luce, con riflessione, per scelta. Voglio pensare seriamente quello che sono, vederlo bene… Richiamare alla mente i principii, meditarli, approfondirli ». – Pochi, molto pochi sono coloro che hanno un’idea sì seria della vita cristiana, da non contentarsi d’una fede di sentimento o d’abitudine, ma che vogliono rendersi conto dei tesori soprannaturali conferitici col Battesimo. I buoni Cristiani si mostrano così poco Cristiani, perché  non hanno « attuato » i loro privilegi divini. Dio abita in noi per la grazia. Ma praticamente per noi è come se non ci fosse. « Attuare », è vedere che ciò che possediamo si trovi realmente in noi. Non è questione di mettervelo, ma di scoprirvelo, di fare in modo che quello che già esiste sia per noi una realtà. In qual modo il possesso di un tesoro di cui non conosciamo l’esistenza, può diventare uno stimolo di vita cristiana? – Si dirà: non è affatto necessario penetrare la natura dello stato di grazia, purché se ne viva. Io non ho peccati; questo mi basta. Quindi, indipendentemente da qualsiasi atto riflesso per spiegarmi il fatto e misurarne le conseguenze e l’importanza, la mia vita è meritoria, le mie azioni sono buone, l’anima mia è unita a Dio. – No, certo, non occorre per condurre la vita di tutti gli altri. Ma può dirsi cristiana la vita di molti Cristiani? Alcune pratiche, di cui spesso s’ignora il senso profondo; una cornice puramente esteriore e niente altro: quindi nessuna vita, perché non vi è vera conoscenza di questa vita.

Si scires donum Dei! Se conoscessimo un poco di più, un po’ meglio il dono di Dio! Se ne avessimo solo il sospetto! Disgraziatamente, un grave ostacolo si oppone alla conoscenza del dono divino. Tutte le realtà soprannaturali fanno parte del mondo invisibile: e corrono facilmente il rischio di passare inosservate. – Quindi un primo passo è indispensabile: convincersi della vera esistenza delle realtà che sono dentro di noi. Esse esistono in realtà, ma bisogna che noi le facciamo nostre. È inutile far risaltare l’obbiezione: « Io non sento nulla, dunque non esiste nulla ». Molti fenomeni d’ordine materiale accadono in noi e sfuggono alla nostra coscienza: digestione, assimilazione, circolazione. Ci meraviglieremo dunque, se nel dominio dell’anima e quando trattasi di fenomeni di ordine spirituale e soprannaturale, nulla viene percepito, né sentito? Bisogna convincersi che esiste un altro mondo, benché noi non lo vediamo, e che questo mondo appartiene ad un ordine superiore a quello che cade sotto i nostri occhi. Dio, invisibile da tutta l’eternità, non si fece visibile e palpabile che per lo spazio di trentatré anni. Ha Egli esistito solo trentatré anni? Noi non abbiamo l’esperienza sensibile della sua presenza, ma Egli « vive eternamente ». Le anime dei nostri morti, allorché esulano da questa terra, non lasciano di esistere per il solo fatto che si ritirano dietro la scena delle cose sensibili e non agiscono più sui nostri sensi. Quando un uomo perde l’uso della favella, non perde la possibilità di pensare, ma solo la facoltà di comunicarci il suo pensiero. Dunque, oltre il mondo corporale che vediamo, esiste anche un mondo spirituale. Di questi due mondi, quello che ha maggiore realtà non è il secondo, ma il primo. E poiché solo il primo conta, S. Paolo c’invita ad occuparci esclusivamente di esso. Non vivete sulla terra, ma in cielo: Nostra conversatio in cœlis est. La vostra vita sia nascosta in Dio: Vita abscondita in Deo, e poi: Invisibilia tanquam videns. Fissate i vostri sguardi soltanto sulle cose che non si vedono. Mondo invisibile, in realtà, non significa mondo che esiste lungi e dopo di noi; ma vicinissimo e di adesso: bisogna quindi considerarlo ad ogni istante come un’attualità permanente, sotto pena di non vivere che a metà, trascurando la più bella parte del mondo reale e del mondo intero. – Newman (In più di una pagina della Grammatica dell’Assentimento, della quale non è qui nostra intenzione dare un giudizio completo e in una conferenza d’Oxford dal titolo: Il mondo invisibile) insiste spesso su queste idee, e riconduce tutto a queste due proposizioni: Molte cose esistono e sappiamo che esistono, benché non le consideriamo in realtà come esistenti; sentiamo molte parole le quali esprimono una verità che riconosciamo come tale, ma perché puramente schematica, in pratica la stimiamo nulla e come non accaduta. – Spieghiamoci con qualche esempio. Ecco questa semplice parola: un’ora. Per chi non la realizza, non rappresenta che un totale matematico di sessanta minuti. Ma per colui che la realizza, è considerata diversamente, secondo le direzioni abituali del pensiero, secondo i temperamenti, le circostanze, ecc.. E allora, per esempio, l’ora che passa potrebbe essere considerata come il succedersi di sessanta minuti primi… Un minuto, come l’istante in cui, presso a poco, cento persone muoiono e altrettante ne nascono: Un centinaio di vagiti e un centinaio di ultimi aneliti… Un’ora, come uno spazio di tempo che ci dà sei mila cadaveri e sei mila culle. Ognuno vede la differenza. – Ecco un’altra parola: La Croce. Non «concretata» non dice altro che due sbarre di legno perpendicolari, ovvero il segno algebrico più. «Concretata», però, dice le idee seguenti, più o meno: « Una croce servì un giorno; una vera croce di legno, fu adoperata una volta sopra una montagna… Quale giorno memorabile!… Accanto alle altre croci che portano l’immagine di Gesù morto, vi fu una volta una croce, sulla quale fu appeso Gesù vivo, Gesù inchiodato, Gesù sanguinante, Gesù morto per me…». Molte parole, appunto perché le usiamo continuamente non impressionano. Un giorno, bruscamente, a caso, ovvero grazie ad una maggior riflessione, diventano luminose, splendide, ripiene di un senso profondo, dotate di una realtà che fino allora non si era neppure sospettata. – S. Ignazio raccomanda di non sorvolare premurosamente, col pensiero, sopra una verità che si voglia fare propria; ma di riflettere con posa, di ripetere, di fissare più da vicino la verità, fino a gustarla: gustare res interne. Non potrebbe esprimersi meglio la natura della riflessione, tanto necessaria, di cui parliamo. – « Occorre mollo tempo, dice Newman, per percepire e capire le cose come sono in se stesse, e noi impariamo a farlo gradatamente ». Se questa osservazione ha la sua importanza allorquando trattasi del mondo visibile, più ne deve avere allorquando trattasi dell’invisibile. – Un’idea che non esprima una realtà capace di essere percepita dai nostri sensi, perché sia capita a dovere, deve rassomigliare ai resti che si vedono galleggiare sulla superficie dell’Oceano. A lungo resteranno ad agitarsi sulla superficie delle onde; in seguito, poco a poco, alghe, sale, coralli e conchiglie aderiranno ad essi… finché, lentamente, quei resti sprofonderanno in seno all’Oceano. Ecco quale dev’essere il gustare interne. Alla superficie della nostra mente vi sono molte idee, per così dire, galleggianti, fluttuanti, non ancora approfondite. Perché  diventino parte di noi stessi, perché penetrino al fondo dell’anima, bisogna che ne aumentiamo il peso con mezzi tratti dal nostro fondo medesimo, coll’unione di tutti i nostri ricordi, dei nostri pensieri più cari, dei sentimenti più delicati e penetranti, di tutte le particelle di vita o di cose viventi atte a rendercele familiari per sempre. – Non può negarsi che certe anime in questo lavoro di assimilazione siano più capaci di altre, nondimeno tutte possono giungere al minimum necessario e sufficiente, esercitando la fede. Noi qui intendiamo di occuparci soltanto della devozione possibile a tutti. È certo che Dio ricolma alcune anime di favori speciali. Santa Margherita Alacoque godeva abitualmente di una presenza sentita di Nostro Signore. — Una volta l’Angelo Custode disse al Beato Susone: «Fissa gli sguardi sul tuo petto, e vedrai ». Il Beato vide che la sua persona diventava quasi diafana: Dio era in lui. — « Tu sei colei che non esiste, e io sono Colui che è »^ dichiarava Nostro Signore a Santa Caterina da Siena. E aggiungeva: « Contemplami al fondo del tuo cuore, saprai che sono il tuo Creatore, e sarai felice ». Questi casi, in cui trattasi di grazie speciali e di anime privilegiate, non sono l’oggetto del nostro lavoro il quale, invece, si limita alla presenza di Dio in tutte le anime che vivono in grazia, per il solo fatto che sono in grazia. Chi potrà impedire a qualsiasi Cristiano di applicarsi, con la fede, a scoprire Dio vivente in lui (Alcuni autori usano l’espressione: « Acquistare coscienza » di Dio in noi. Non essendo rigorosamente esatta, la frase può produrre confusione. Chi dice prendere coscienza, suppone una conoscenza immediata — e dello stesso soggetto. Ma qui trattasi di una conoscenza indiretta per mezzo del ragionamento e della fede, — della presenta di un essere diverso dal soggetto in cui si trova) ? – Monsignor Ugo Benson descrive così l’attitudine di un suo eroe: «Cominciò e continuò con costanza a fare un atto di rinunzia al mondo sensibile », — diciamo meglio, cominciò con un atto di fede alla realtà del mondo invisibile. —  Si sforzò di scendere fino al fondo di se stesso; e subito il suono dell’organo, il rumore dei passi, la rigidità del banco su cui era inginocchiato disparvero davanti a lui, ed egli ebbe l’impressione di non essere altro che un cuore che batteva, uno spirito in cui le immagini si succedevano l’una all’altra ». — Non è necessario simile sforzo, che del resto riesce difficile. — Poi fece una nuova discesa: il suo spirito ed il suo cuore, dominati dalla presenza sublime che si ergeva, si sottomettevano docilmente alla volontà del loro padrone… rimase così lungo tempo… Si trovava adesso in un luogo secreto, del quale aveva appreso la via per mezzo di uno sforzo ostinato; in quella regione singolare in cui le realtà si fanno visibili e la Chiesa, nei suoi misteri si vedono dalla parte interna di noi stessi… » ( Le Maitre de la terre, p. 54). –  Dio vive in me. Io lo credo. Ecco l’atto di fede. Lo spirito di fede va più lontano di un’adesione pura e semplice ad una formula,la cui realtà può essere invisibile e che a molti pare priva di sostanza e senza valore dinamico,fa un’adesione generale ad una formula, la cui realtà ormai apparisce nel suo intero complesso,piena di quella vita che le è propria.È forse esigere troppo, se a ogni battezzato che voglia vivere la sua fede, si domanda di interrogare, di quando in quando, se stesso come Ollé-Laprune: « Io sono Cristiano, per grazia di Dio; ma capisco che cosa importi essere Cristiano; vi penso? ».Oh, quale sostegno interiore troveremmo in quest’atto di convinzione: « Dio non mi abbandona,Dio è con me e in me, mi ama; io sono unito al suo Cristo cuore a cuore; il suo spirito aleggia in me come la brezza leggera di cui parla il profeta. Non mi resta che ascoltare e seguire, conoscere e gustare, confidare e sperare;la mia vita non è da abbandonarsi perseguire il divino Maestro; Egli stesso l’adatta e la fa sua accettandomi come suo discepolo; io vado insieme con essa e con Lui, ripudiando il solo male, separando quello che è meno bene; e la presenza dell’amico celeste, in luogo di distrarmi dalle occupazioni giornaliere, mi vi applica con gioia e costanza, perché le opere mie sono sue » (SERTILLASNGE: La vie en présence de Dieu, Revue des Jeunes, 10 mai 1918, p. 550. — Vedere altresì id., ibid., 10marzo 1919: La vie de silence). E difatti, la grandezza suprema dell’uomo non è forse Dio, Dio che vive in lui, ovvero che desidera vivervi se non ci vive, o che vuole vivervi di una vita sempre più piena, se ci vive?Qualcuno si meraviglia e rabbrividisce al pensiero che nella società contemporanea tutto sia « laicizzato » : governo, servizi pubblici, amministrazione,ecc. A tal punto, che se ci domandassimo:« Che cosa cambierebbe nel nostro mondo se il soprannaturale non esistesse, se la Redenzione e la Croce fossero un mero sogno,Gesù Cristo un semplice mito, senza realtà né consistenza? », non si saprebbe che cosa rispondere,ovvero bisognerebbe dire: nulla, assolutamente nulla muterebbe, o così poco!La responsabilità di questo stato deplorevole ricade sopra molti; e una parte non piccola su di noi, Cristiani, buoni Cristiani, che possedendo tesori sublimi, abbiamo dimenticato dipensarvi o di esplorarli. Nel 1834, Ozanam si faceva questo rimprovero:« Ho sentito che finora non avevo portato abbastanza nei mio cuore il pensiero del mondo invisibile, del mondo reale, benché non avessi smesso le pratiche religiose ». Egli parlava così per umiltà; ma noi, che diremmo di noi stessi? È tempo ormai di « attuare » i nostri privilegi divini: «La vita intima della grazia con Gesù. Tu non sei sola, anima mia; vive in te Colui che ti deifica! Tu fosti naturalizzata divina ». Questo è il linguaggio di un convertito. I convertiti vedono spesso meglio di noi: quello che a noi non fa meraviglia, li colma d’incanto. Oh, magnificenza dell’anima più semplice, racchiusa nel corpo più miserabile, vestito poveramente,— prosegue a dire Loewengard, —splendore di quest’anima, tocca dalla grazia,divenuta dimora immortale, dove abita il Re dei re, il Signore dei signori, Dio in tre Persone!« È possibile? È credibile? L’anima in grazia possiederebbe dunque sostanzialmente la SS. Trinità, la saprebbe (egli dice «sentirebbe», ma noi correggiamo) presente nel suo spirito e nella sua carne, potrebbe amarla come una sposa ama il suo sposo?Oh! se l’uomo è infinitamente meschino in ragione del suo corpo, tratto dal fango…, è infinitamente grande, infinitamente forte e nobile in quanto partecipa, per la grazia, alla vita di Dio ».Perché ci affatichiamo a diminuire noi stessi,perché, essendo grandi, ci ostiniamo a vivere da piccoli? Che peccato tremendo di omissione, che disprezzo grossolano del « realismo » più elementare: — le società, le quali si organizzano, o cercano di organizzarsi, con la volontà esplicita di non voler tenere in alcun conto il soprannaturale — noi stessi, che viviamo nella dimenticanza pratica e quasi completa di ciò che è l’uomo, tale quale Dio l’ha creato, cioè, non solo con un corpo e un’anima,ma secondo la bella e vera espressione di Tertulliano — che bisogna ben comprendere— con « un corpo, un’anima e lo Spirito Santo »!Che grande orgoglio, e al medesimo tempo,che grande decadenza non è quella di considerare nell’uomo soltanto l’uomo! Naturalizzati divini, noi non possiamo, né dobbiamo vivere« indifferenti », « laicizzati » ; non possiamo,né dobbiamo, assistere impassibili o inattivi,alla laicizzazione di tutto. Bisogna che Dio abbia nella nostra vita un posto, come ha diritto di averlo nella vita della società e delle nazioni. Ogni giorno più si vuole espellere Dio, ometterlo, far credere agli uomini che noi siamo soltanto « umani ». Ma imporre ai popoli e agli individui la dimenticanza o la privazione del soprannaturale, è lo stesso che imporre loro una dannazione anticipata. I dannati non sono altro che esseri i quali hanno perduto la loro naturalizzazione divina, creature per sempre disorientato. L’inferno non è altro che il paese della laicizzazione generale, la regione dove Dio non vuole contare più nulla, perché  l’angelo e l’uomo hanno voluto così. Figli di Dio, noi non dobbiamo vivere da volgari figli dell’uomo. È nostro dovere vivere da esseri divini e lavorare per ottenere che anche attorno a noi si viva la vita divina. È nostro dovere attuare i nostri privilegi soprannaturali e aiutare le anime perché capiscano che esse sono chiamate a « vivere del Dio che abita in loro ».I profani, notava a ragione un autore, sarebbero attirati più facilmente, se invece di lasciare nell’ombra i tratti caratteristici del Cristianesimo,

si mostrassero loro in tutto lo splendore e l’incomprensibile verità che è in essi. – Il P. Gratry, parlando dei nostri doni soprannaturali scriveva: «Se gli uomini fossero davvero compresi della loro realtà, vi penserebbero assai di più. Ma essi, lo so, hanno l’abitudine di passare attraverso le meraviglie senza neppure sospettarne l’esistenza. La presenza di Dio nei nostri cuori non è forse la più grande meraviglia? E chi vi pensa, chi se ne occupa? Non dite loro nulla, osserva Fénelon, essi non vedono e non pensano a nulla » (La philosophie du Credo, p. 220). E intanto! « La vita dell’Ospite divino del cuore è lo stato normale in cui dovrebbero mantenersi tutti i battezzati. Perché non avviene così? Forse appena uno su mille, uno su dieci mila corrisponde al dono di Dio! » (Mons. DE SEGUR: Le Chrétien vivant en Jesus, p. 269).Chi non vede, in ciò, un fatto scoraggiante,un disordine che dovrebbe finire? Che cosa aspettiamo da parte nostra per vivere nello « stato normale » di battezzati, e fare in modo che molti corrispondano al « dono di Dio » ?

https://www.exsurgatdeus.org/2019/12/19/dio-in-noi-4/

SALMI BIBLICI: “UT QUID, DEUS, REPULISTI IN FINEM” (LXXIII)

sALMO 73: “UT QUID, DEUS, REPULISTI IN FINEM”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 73

[1] Intellectus Asaph.

     Ut quid, Deus, repulisti in finem,

iratus est furor tuus super oves pascuæ tuæ?

[2] Memor esto congregationis tuæ, quam possedisti ab initio. Redemisti virgam hæreditatis tuae, mons Sion, in quo habitasti in eo.

[3] Leva manus tuas in superbias eorum in finem. Quanta malignatus est inimicus in sancto!

[4] Et gloriati sunt qui oderunt te in medio solemnitatis tuae; posuerunt signa sua, signa;

[5] et non cognoverunt sicut in exitu super summum. Quasi in silva lignorum securibus

[6] exciderunt januas ejus in idipsum; in securi et ascia dejecerunt eam.

[7] Incenderunt igni sanctuarium tuum, in terra polluerunt tabernaculum nominis tui.

[8] Dixerunt in corde suo cognatio eorum simul: quiescere faciamus omnes dies festos Dei a terra.

[9] Signa nostra non vidimus; jam non est propheta; et nos non cognoscet amplius.

[10] Usquequo, Deus, improperabit inimicus? irritat adversarius nomen tuum in finem?

[11] Ut quid avertis manum tuam, et dexteram tuam de medio sinu tuo in finem?

[12] Deus autem rex noster ante saecula, operatus est salutem in medio terrae.

[13] Tu confirmasti in virtute tua mare; contribulasti capita draconum in aquis.

[14] Tu confregisti capita draconis; dedisti eum escam populis Aethiopum.

[15] Tu dirupisti fontes et torrentes; tu siccasti fluvios Ethan.

[16] Tuus est dies, et tua est nox; tu fabricatus es auroram et solem.

[17] Tu fecisti omnes terminos terrae; aestatem et ver tu plasmasti ea.

[18] Memor esto hujus, inimicus improperavit Domino, et populus insipiens incitavit nomen tuum.

[19] Ne tradas bestiis animas confitentes tibi, et animas pauperum tuorum ne obliviscaris in finem.

[20] Respice in testamentum tuum, quia repleti sunt qui obscurati sunt terrae domibus iniquitatum.

[21] Ne avertatur humilis factus confusus; pauper et inops laudabunt nomen tuum..

[22] Exsurge, Deus, judica causam tuam; memor esto improperiorum tuorum, eorum quae ab insipiente sunt tota die.

[23] Ne obliviscaris voces inimicorum tuorum: superbia eorum qui te oderunt ascendit semper.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXIII

Salmo d’intelligenza, cioè da ben meditare, che espone l’afflizione del popolo ebreo, quando fu seguitato da Antioco l’illustre.

Salmo d’intelligenza per Asaph.

1. E perché, o Dio, ci hai tu rigettati per sempre, si è infiammato il tuo sdegno contro le pecorelle della tua greggia?

2. Ricordati della tua congregazione, che tua fu fin da principio. Tu comperasti il dominio di tua eredità; il monte di Sion fu il luogo di tua abitazione.

3. Alza per sempre il tuo braccio contro la loro superbia; quanti mali ha commesso il nemico nel Santuario! (1).

4. E color che ti odiano se ne vantarono nel luogo stesso delle tue solennità.

5. Hanno poste (e non v’han fatto riflessione) le loro insegne: le insegne sulla sommità del tempio, come ad un capo di strada.

6. Hanno similmente spezzate con accette le sue porte, come si fa degli alberi nella foresta; colla scure e colle accette lo hanno atterrato.

7. Han dato fuoco al tuo santuario; han profanato il tabernacolo, che tu avevi sopra la terra.

8. Ha detto in cuor suo tutta la loro nazione: Leviam di sopra la terra tutti i giorni consacrati al culto di Dio.

9. E noi non veggiam que’ nostri prodigi, (2) né v’ha più alcun profeta, ed egli più non ci riconosce.

10. E fino a quando, o Dio, insulterà il nemico, e l’avversario bestemmierà continuamente il tuo nome? (3).

11. E perché ritiri tu la tua mano? Tira fuor dal tuo seno la tua destra una volta per sempre.

12. Ma Dio, il quale da secoli è nostro Re, ha operato salute nel mezzo della terra.

13. Tu desti, col tuo potere, saldezza al mare; tu le teste dei dragoni conculcasti nelle acquea.

14. Tu spezzasti le teste del dragone: il facesti preda de’ popoli d’Etiopia. (4).

15. Tu apristi le rupi in fontane e torrenti; tu asciugasti i fiumi nella loro forza (5).

16. Tuo è il giorno, e tua è la notte; tu creasti l’aurora e il sole.

17. Tu facesti la terra e i suoi confini; opera tua sono e l’estate e la primavera.

18. Di queste cose ricordali. Il nemico ha detti improperii contro il Signore; e un popolo stolto ha bestemmiato il tuo nome.

19. Non dare in poter delle bestie le anime di quelli che te onorano, e non ti scordar per sempre dell’anime de’ tuoi poveri.

20. Volgi lo sguardo alla tua alleanza; perocché i più oscuri uomini della terra hanno copia di case iniquamente occupate.

21. L’uomo umiliato non si parta (da te) svergognato; il povero e il bisognoso daran lode al tuo nome.

22. Levati su, o Signore, giudica la tua causa; ricordati degli oltraggi fatti a te, di quelli che un popolo stolto ti fa tutto giorno.

23. Non ti scordare delle voci de’ tuoi nemici; la superbia di coloro che ti odiano va sempre in su.

(1) Essi hanno posto i loro stendardi (senza conoscere ciò che facevano), dall’alto del tempio così come alle porte … Essi hanno posto le insegne della loro potenza al posto di quelle di Dio. – Essi hanno abbattuto il legname del tempio con l’ascia, come si abbattono le foreste.

(2) I segni della provvidenza paterna di Dio riguardo al suo popolo.

(3) Perché ritirate la vostra mano, la vostra destra, cioè la vostra onnipotenza.

(4) Il coccodrillo, simbolo del re d’Egitto, del demonio (ad imitazione di Giobbe). I cadaveri degli egiziani, gettati sulla riva, sono stati preda di bestie selvagge. (Le Hir.)

(5) Allusione al miracolo dell’acqua estratta dalla roccia ed al passaggio del Giordano; in opposizione ai torrenti che si prosciugano durante l’estate.

(6) Quia repleti sunt, qui obscurati sunt terræ domibus iniquitatum, cioè

quia repleti sunt obscuri terræ domibus inique partis.

Sommario analitico

Il Salmista, figurando davanti agli occhi la profanazione del tempio e la devastazione della città di Gerusalemme di Antioco, ed in un senso più rilevante la Chiesa in preda alle persecuzioni crudeli che essa ha dovuto subire dai re e dai popoli idolatri [Questo salmo non fu composto sembra che dopo la cattività (II Par. XXXVI), durante la quale il tempio fu bruciato (v.7), ossia alla profanazione del tempio da parte di Antioco-Epifane. Ci sono di coloro che lo considerano precedente alla persecuzione di Manasse.

I. Egli eccita Dio:

1° A placare la sua ira così funesta per il suo popolo (1);

2° A ricordarsi delle bontà antiche (2); la protezione di cui il Signore ha onorato il suo popolo in tutti i tempi; la scelta che ha fatto di esso per essere suo regno e sua eredità; la predilezione che ha testimoniato per la montagna di Sion, fissandovi la sua dimora;

3° A sopprimere l’orgoglio e l’insolenza dei suoi nemici (3).

II. – Egli espone l’audace insolenza dei persecutori, che si produce:

1° per le loro imprese sacrileghe contro i luoghi sacri e le riunioni sante;

2° per l’erezione dei loro empi trofei nel luogo santo (4);

3° per la distruzione e l’incendio degli altari e di tutti gli oggetti consacrati al culto di Dio (5, 7);

4° per l’abolizione delle feste sacre (8).

III.- Si lamenta:

1° della cessazione dei miracoli e del dono della profezia (9);

2° degli aumenti degli obbrobri e degli oltraggi diretti contro Dio (10);

3° della tolleranza in apparenza inerte con la quale Dio sopporta tali eccessi (11).

IV. – Rammenta i gloriosi ricordi della potenza di Dio:

1° che si era manifestata altra volta nel passaggio del mar Rosso, ove gli Egiziani sono stati inghiottiti; nelle fonti miracolose che Egli ha fatto sgorgare nel deserto, e nel disseccamento dei fiumi (12-15);

2° che si manifesta tutti i giorni al levar del sole e dell’aurora (16);

3° che si manifesta tutti con gli anni nel ritorno regolare delle stagioni (17),

V. – Egli sollecita di nuovo Dio:

1° a ricordarsi di questi segni della sua potenza e degli sforzo sacrileghi dei suoi nemici (18);

2° a difendere e conservare il suo popolo (19);

3° a ricordare l’alleanza fatta con il suo popolo, per soddisfare le aspettative dei suoi fedeli servitori (20, 21);

4° a prendere in mano la sua causa, vendicare l’onore del suo Nome e mettere un termine all’orgoglio sempre crescente di coloro che lo odiano (22, 23).   

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-3.

ff. 1-2. – Questa preghiera che i Giudei indirizzavano a Dio nella loro angoscia conviene ancor più giustamente alla Chiesa Cristiana, le cui persecuzioni sono cominciate fin dalla sua culla, e si sono prolungate in tutta la serie dei secoli. Percorrendo la storia della sua instaurazione e della sua propagazione sulla terra, delle sue lotte, dei suoi combattimenti contro tanti nemici diversi ed incessantemente rinascenti, quante volte la vediamo come sul precipizio della rovina, tanto è violenta la rabbia dei suoi persecutori; ed oggi ancora, c’è parte del mondo abitato, ove frequenti e diverse, le persecuzioni della Chiesa Cattolica, nella sua dottrina, nel suo culto, nella sua gerarchia, nella sua potenza spirituale, nella libertà dei suoi atti, siano all’ordine del giorno, e sembrino cospirare la sua rovina? In queste tristi circostanze, dividiamo i sentimenti del Profeta: un vivo dolore, accompagnato da una grande fiducia e da un’umile sottomissione alle volontà divine. – « O Dio perché ci avete rigettato per sempre? » Egli non rimprovera nulla, interroga: « perché », per quale ragione, per quale scopo lo avete fatto? « Voi ci avete respinto fino alla fine », forse fino alla fine dei secoli? « Il vostro Spirito si è irritato contro le pecore del vostro gregge ». perché vi siete irritato contro le pecore del vostro gregge, se non perché siamo legati alle cose della terra e non riconosciamo il nostro Pastore? (S. Agost.). – Tutti gli uomini sono del Signore, ma coloro che Egli ha scelto per rendergli un culto particolare, il popolo giudeo prima e il popolo cristiano dopo, eredi delle promesse, sono pecore scelte. Essi sono pure lo scettro della sua eredità, perché occupano il più alto rango nella sua casa. La Chiesa Cristiana è la vera eredità che Gesù-Cristo ha riscattato con il suo sangue e la sua morte; è la vera montagna di Sion, ove Gli è piaciuto stabilire la sua dimora in mezzo ai suoi, fino alla consumazione dei secoli. – Quale preghiera più conveniente per un’anima cristiana che si sia allontanata dalle vie della giustizia e che torni a Dio nella sincerità del suo cuore? Signore, ricordatevi di un’anima che Voi possedete fin dall’inizio con il santo Battesimo, che Voi avete riscattato al prezzo del vostro sangue, che avete scelto come vostra eredità e per fissare il vostro soggiorno. Voi lo vedete in preda ai nemici suoi e vostri; cacciate questi tiranni imperiosi, e rientrate in possesso di un bene che è vostro (Berthier).

ff. 3. Notiamo 1° che il Profeta non domanda la distruzione dei nemici del popolo di Israele, ma solo l’umiliazione del loro orgoglio. È la preghiera che fa la stessa Chiesa Cristiana per i suoi persecutori: essa chiede a Dio « che si degni di umiliare i nemici della sua Chiesa » (Litan.) 2° È soprattutto l’onore di Dio e lo zelo del suo culto, piuttosto che le malefatte del popolo giudeo, che eccitano il rimpianto ed i pianti del Profeta. Egli non mira che alla gloria ed agli interessi di Dio, indegnamente prostrato ai suoi piedi. Egli geme per la distruzione del tempo e del santuario, e considera i funesti effetti di questa desolazione (Berthier). – « Quante profanazioni il nemico ha commesso contro tutto ciò che vi è consacrato! » contro tutte le cose consacrate a vostra gloria, contro il tempio, contro il sacerdozio, contro il culto stabilito, contro tutti i Sacramenti! « Quante pronazioni ha commesso il nemico! Si, queste profanazioni non sono che troppo reali » (S. Agost.).

II. — 4 – 11.

ff. 4-8. – « Essi hanno issato i loro stendardi in segno di vittoria, in forma di trofeo, e non hanno compreso ». I Romani avevano delle insegne da porre nel santuario, i loro stendardi, le loro aquile, le loro bandiere ed anche le loro statue, che essi hanno posto inizialmente nel tempio. « Ed essi non hanno compreso » … ma cosa non hanno compreso? Queste parole del Salvatore: «voi non avreste su di me alcun potere se non vi venisse dall’alto » (Giov. XIX, 2). Essi non hanno compreso che Dio non accordava loro, come titolo di gloria, di far soffrire, di prendere o distruggere questa città, ma che la loro empietà era in qualche modo divenuta l’ascia di Dio. Essi sono stati gli strumenti di Dio irritato, e non sono divenuti il reame di un Dio placato. Spesso, in effetti, Dio agisce allo stesso modo con l’uomo: un uomo giustamente irritato, presa una verga che trova sotto mano, forse qualche bastone, il primo trovato, e bastona suo figlio; poi getta nel fuoco il bastone, e conserva la sua eredità a suo figlio. È così che talvolta Dio istruisce i buoni, per mezzo dei malvagi, e con il potere passeggero dei colpevoli che Egli poi condannerà, punisce e riconduce chi libererà (S. Agost.).  

ff. 5-8. – Queste scene di desolazione e di profanazioni sacrileghe si sono sfortunatamente riprodotte alla lettera nella nostra patria, tra flutti di sangue e di lacrime, durante la più empia delle rivoluzioni. – Esisteva un patto antico, una lunga alleanza tra la Religione e la società, tra il Cristianesimo e la Francia, questo patto fu distrutto, l’alleanza interrotta. Dio era nelle leggi, nelle istituzioni, negli usi, e ne fu cacciato: fu pronunciato il divorzio tra la costituzione ed il Vangelo, la legge fu secolarizzata, e fu stabilito che lo spirito della nazione moderna non avrebbe avuto nulla da dividere con Dio, dal Quale essa si isolava completamente. Dio aveva sulla terra dei templi maestosi che si elevavano come segno del Redentore degli uomini: i templi sono abbattuti o chiusi; non vi si ascoltano, in luogo dei sacri canti, se non il rumore dell’ascia o lo stridere della sega; la Croce del Signore è divelta o rimpiazzata da segni volgari … Dio aveva sulla terra dei giorni che Gli appartenevano, dei giorni che si era riservato, e che tutti i secoli e tutti i popoli avevano unanimemente rispettato, e tutta la famiglia degli empi ha esclamato: facciamo sparire dalla terra i giorni consacrati a Dio. Dio aveva sulla terra dei rappresentanti e dei ministri che parlavano di Lui e Lo ricordavano ai popoli: le prigioni, l’esilio, la forza, il mare, i fiumi hanno divorato tutto. Infine, essi dicono, non ci sono più profeti, e Dio non troverà più bocche per farsi ascoltare … infatti tutti i diritti di Dio sono annientati, e non restano in piedi che i diritti dell’uomo; o piuttosto, l’uomo è Dio, la sua ragione è il Cristo, e la nazione è la Chiesa (Mgr Pie, Disc. Et Jnstr., T. II, 669) – questo quadro della desolazione di Gerusalemme e del suo tempio, questi eccessi sacrileghi che si sono rinnovati tante volte in seno alla Chiesa Cristiana, sono la figura molto reale di ciò che accade in un’anima che abbandona Dio o che Dio abbandona. Geremia – dice san Crisostomo – non avrebbe potuto avere tante lacrime per deplorare il malore di un’anima schiava della tirannia del demonio. Questo nemico di Dio comincia con l’impadronirsi di quest’anima come un leone ruggente e si glorifica insolentemente della sua vittoria. Egli stabilisce il suo impero nel luogo che il Signore aveva destinato al suo culto, in un cuore consacrato con la Grazia santificante, nel santuario dove aveva abitato lo Spirito Santo. Egli vi erge lo stendardo della rivolta contro Dio e raccoglie intorno a questo segno di orrore tutte le passioni; esse dominano su tutte le potenze più nobili dell’anima, e sui sensi che sono come fuori posto. Questi nemici vittoriosi non conoscono e non rispettano alcuna traccia della santità che Dio aveva impresso nell’uomo, sia col Carattere battesimale, sia con il dono del suo Corpo e Sangue prezioso, sia con i tocchi della sua grazia. Le potenze dell’inferno, secondando le passioni, distruggono, senza distinzione, tutto ciò che serve alla difesa ed all’ornamento dell’interno. L’ascia del boscaiolo non fa tanta devastazione in un luogo piantato d’alberi, quanto l’esca del piacere, la sete di ricchezze, il fuoco dell’ambizione, le tempeste della gelosia e della vendetta, la mollezza e l’intemperanza, fanno in colui che l’amore di Dio non difende più. Tutto è invertito nell’edificio spirituale; tutto è in preda alla devastazione del demonio, della cupidità del mondo, tutto cade, finanche la stessa fede, sotto i colpi di questi tiranni: è una terribile catastrofe di cui i nostri occhi non sono testimoni, ma che non sfugge agli sguardi dell’Eterno! (Berthier). – La profanazione delle cose sante, è un segno terribile della collera di Dio. Noi non siamo colpiti che da profanazione esteriori, ma l’abuso dei Sacramenti, le Comunioni sacrileghe, i sacri ministeri tra le mani di preti indegni, devono piuttosto eccitare i nostri gemiti, e farci temere gli ultimi effetti della collera di Dio. – C’è una cospirazione quasi generale oggi dei governi stessi, degli individui, dell’industria, del commercio, per distruggere la santificazione della Domenica, i giorni di festa consacrati a Dio, alfine di darsi interamente al lavoro, ai divertimenti, alla dissoluzione, a vergognosi spettacoli, a questi piaceri della folla che ci inducono facilmente a tutti i vizi.

ff. 10, 11. – Il Profeta chiede a Dio se è per sempre che il nemico li insulterà ed irrierà il Nome di Dio; se è per sempre che il Signore devierà la sua mano e la ritirerà dal seno delle sue misericordie. – È la preghiera che deve rivolgere a Dio ogni anima provata da forti tentazioni: Signore, fino a quando il nemico il nemico della mia salvezza mi perseguiterà? Fino a quando la vostra mano sembrerà allontanarsi da me e non effondere su di me le sue misericordie abituali? O Dio! Sarò per sempre l’oggetto degli insulti dell’inferno e delle mie passioni? (Berthier)

III. — 12-17.

ff. 12. – « Dio nostro Re, ancor prima dei secoli, ha operato la salvezza in mezzo alla terra ». – 1° Il Profeta dà a Dio il titolo di Re; – 2° Dio è Re, non come i re della terra per qualche anno, ma per tutta l’eternità e per sempre: « Il regno dell’Altissimo è eterno, e tutti i re Gli renderanno omaggio e Lo serviranno » (Dan. VII, 27); gli imperi passeranno, le generazioni si susseguiranno e spariranno e Dio sarà ancora il Re di tutti gli uomini; – 3° Egli particolarmente è il Re del suo popolo privilegiato; – 4° Egli è il suo Salvatore; Egli è venuto a salvare gli uomini con il sacrificio della sua vita. – Noi esclamiamo: « Fino a quando, Signore, il nemico mi insulterà, fino alla fine? Fino a quando mi oltraggerà? Fino a quando allontanerete le vostre mani dal vostro seno? » Mente noi parliamo così « Dio, nostro Re da prima dei secoli, ha operato la salvezza in mezzo alla terra »; e noi, noi dormiamo. Ecco che i gentili già vegliano, e noi siamo ancora intorpiditi dal sonno e deliriamo nei nostri sogni, come se Dio ci avesse abbandonati. « Egli ha operato la salvezza in mezzo alla terra » (S. Agost.). – Questa grande opera di salvezza del mondo, il capolavoro della potenza, della saggezza, della bontà di Dio, si è compiuto in mezzo alla terra con il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione del Salvatore.

ff. 13-15. – Le meraviglie che Dio operò altre volte pubblicamente in favore del suo popolo, per liberarlo dalla oppressione degli Egiziani, li rinnova tutti i giorni in favore dei Cristiani, per trarli dalla servitù del demonio, questo grande dragone a cui Egli schiaccia la testa nelle acque del Battesimo. Il Mar Rosso apre i suoi flutti quando Dio lo comanda, e forma come due muraglie di acqua sospese nell’aria, dando un passaggio libero al popolo di cui Dio si dichiara protettore, e ricongiunge le sue acque appena Egli comanda di abbattere sotto i propri flutti questa armata innumerevole di Egiziani senza che ne resti uno solo che possa sfuggire alla sua vendetta. – Nessun cuore fu più duro di una pietra, da cui Dio non faccia uscire delle fontane di acqua, quando gli piace toccarla. Se occorre fondere del ghiaccio, farà soffiare il suo Spirito, il quale, come il vento del mezzogiorno, diminuirà il rigore del freddo, e dal cuore più indurito usciranno le lacrime di penitenza (Bossuet). –  Non è senza una grande gioia che si possano intendere delle cose che si vedono realizzate nel mondo intero. Quando sono state dette, esse non erano compiute, perché non erano ancora che promesse e non realtà. Ma ora, quale gioia è mai la nostra, nel vedere realizzate nel mondo intero le predizioni che leggiamo nei Libri santi! Vediamo ciò che ha fatto Dio che ha operato la salvezza in mezzo alla terra: « Voi avete fatto sgorgare fontane e torrenti », affinché facciano colare l’acqua della saggezza, affinché facciano sgorgare i tesori della fede, affinché possano mischiarsi ai flutti amari della gentilità e le loro acque espandano nei cuori di tutti gli infedeli la dolcezza della fede … Se occorre qui mettere una distinzione, in certi fedeli, la parola di Dio è stata « … una fontana d’acqua viva zampillante fin nella vita eterna »; (Giov. IV, 14); altri al contrario, hanno ascoltato la parola di Dio, e benché non l’abbiano potuto osservare in modo da condurre una vita virtuosa, tuttavia l’hanno sparsa nei loro discorsi, sono diventati dei torrenti, cioè delle acque che non scorrono sempre … in effetti si chiamano propriamente torrenti, dei corsi di acqua che si prosciugano durante l’estate, e che al contrario si gonfiano di tutte le acque invernali precipitandosi con impetuosità. Voi vedete un uomo veramente fedele che persevererà fino alla fine, che non abbandonerà il Signore in alcuna tentazione, e che sopporterà per la verità, ma non per l’errore e la menzogna, ogni specie di sofferenze: da dove gli viene un tale vigore, se non dal fatto che la parola di Dio è divenuta in lui « … una fontana di acqua viva che zampilla fin nella vita eterna? ». Un altro al contrario, ha ricevuto la parola divina, la predica, non starebbe in silenzio, corre impetuosamente; ma l’estate farà vedere se è una fontana o un torrente. Tuttavia, « colui che opera la salvezza in mezzo alla terra » … sa come irrigare la terra con entrambi. Che le fontane zampillino dunque, e che i torrenti si precipitino (S. Agost.). 

ff. 16-17. – Dio, che è l’autore del tempo e della vita, non poteva aggiudicarsene almeno una parte. « Il giorno e la notte vi appartengono, esclama il Profeta, siete Voi che avete fatto l’aurora ed il sole che misura i giorni ». Nella sua infinita condiscendenza Dio ha potuto partirsi dai rigorosi diritti che avrebbe avuto su ciascuno di noi, della sua provvidenza misericordiosa con cui ha potuto abbandonare una larga ed ampia parte alle cure necessarie alla nostra vita materiale; ma sarebbe stata contro natura che un operaio infinitamente saggio, e che deve necessariamente  rapportare tutto a se stesso, non si fosse riservato, nella sua opera, un certo diritto d’autore che fosse, per la parte nostra, come un’autentica riconoscenza del suo dominio sul tempo. (Mgr Pie, Discours etc. III, p. 631). « Il giorno è vostro e la notte vi appartiene ». Chi lo ignora, poiché è Dio che ha fatto ogni cosa, tutte le cose essendo state fatte dal Verbo. È Lui che ha operato la salvezza in mezzo alla terra per cui il Profeta dice: « … Il giorno è vostro e la notte vi appartiene ». Noi dobbiamo credere da questo anche che in queste parole ci siano cose che si riferiscono alla salvezza che Egli ha operato in mezzo alla terra, « Il giorno è vostro ». Quali sono coloro che il giorno rappresenta? Gli uomini spirituali. Chi sono coloro di cui la notte è il simbolo? Gli uomini carnali. E gli uomini spirituali parlano agli uomini spirituali il linguaggio dello spirito (1 Cor. III, 1), gli uomini carnali non comprendono ancora questa saggezza: « … io non vi ho potuto ancora parlare come ad uomini spirituali, ma come ad uomini carnali » (Ibid. III, 1). Dunque, quando gli uomini spirituali parlano ad altri uomini spirituali, « … il giorno annuncia la parola al giorno », ma quando gli uomini carnali confessano essi stessi la loro fede in Gesù crocifisso, fede che è alla portata dei piccoli, « … la notte annuncia la scienza alla notte » (Ps. XVIII, 3). Il giorno è a Voi, e la notte è a Voi. Gli uomini spirituali vi appartengono, i carnali vi appartengono pure: Voi illuminate i primi col bagliore immutabile della vostra saggezza e della vostra verità; consolate i secondi con la manifestazione della vostra incarnazione, come la luna consola la notte (S. Agost.).- Questo giorno, questa notte che si succedono naturalmente, sono la figura del giorno e della notte spirituale. Dio, che è ugualmente il maestro dell’uno e dell’altra, conduce i suoi attraverso quello che Gli piace. L’inverno, la primavera, l’estate, l’autunno sono un’altra immagine dello stato differente, della vicissitudine in cui si trovano coloro che sono con Dio. A vederli così maltrattati in questo mondo, la loro vita esteriore è un inverno spaventoso agli occhi della carne. Ma chi vedesse la loro vita interiore, fatta tutta di fede e di speranza, vedrebbe il loro cuore come una primavera perpetua, ove essi considerano i mali presenti come passati, ed i beni futuri come presenti (Duguet). « Voi avete creato l’estate come la primavera ». Come descrivere l’ordine mirabile delle stagioni simile ad un coro di ragazze, esse si succedono con regolarità perfetta, e poco a poco, senza rumore, ma pure senza tregua, le stagioni opposte che ci riconducono l’una verso l’altra con l’aiuto delle stagioni intermedie. All’uscita dall’inverno non è l’estate che ci riceve con l’inesauribile tesoro dei suoi frutti, né l’inverno che ci riceve all’uscita dall’estate con i suoi rigori e i suoi geli, tra le due sono state poste la primavera e l’autunno; ed è così con un passaggio dolce ed insensibile, e nello stesso tempo senza sofferenza alcuna, che i nostri corpi sono condotti dal freddo dell’inverno ai calori dell’estate. I bruschi cambiamenti di temperatura, avendo per conseguenza malattie e danni molto gravi, Dio ha disposto le cose in modo tale che passiamo dall’inverno alla primavera, dalla primavera all’estate, e dall’estate all’autunno, dopo il quale comincia un nuovo inverno, e grazie a queste disposizioni, noi non abbiamo a temere le stagioni opposte, poiché il passaggio dall’una all’altra avviene attraverso le stagioni intermedie (S. Chrys. IX hom. au p. d’Ant.).

ff. 18-19. Una delle bestemmie più orribili che i nemici della Religione hanno spesso sulla bocca e sempre nel cuore, è quella dell’empio Antioco: che Dio non è così potente da togliere dalle loro mani colui del quale hanno giurato la perdita … è l’ultimo colmo della stravaganza, poiché questo è irritare il Nome di Dio togliendogli ciò che Gli è ordinario, cioè il Nome di Onnipotente.  – Le passioni degli uomini sono più violente e sregolate di quelle delle bestie. Sarebbe meglio essere esposti al furore di quelle che alla rabbia delle altre (Duguet).

ff. 20-21. – Benché indegni come siamo dei favori di Dio, non tralasciamo di chiederglieli ed attenderli, in virtù della santa Alleanza che Egli ha fatto con noi, e che ha sigillato col sangue del proprio Figlio. « … Considerate il vostro testamento », rendete ciò che avete promesso: noi abbiamo in mano le vostre tavolette, noi aspettiamo la vostra eredità. « Considerate il vostro Testamento »; non l’antico, io non vi prego per ottenere la terra di Chanaan, per vedere i miei nemici temporalmente sottomessi alla mia dominazione, per avere numerosi figli secondo la carne, per ammassare ricchezze terrene, per gioire della salute corporale; « Considerate il vostro Testamento », con il quale Voi avete promesso il Regno dei cieli … « Considerate il vostro Testamento, perché coloro che abitano la casa dell’iniquità  sono accecati dalla terra e pieni di terra.  « … Considerate dunque il vostro Testamento », e che il resto del popolo sia salvato (Rom., IX, 27); perché per il gran numero di coloro che si attaccano alla terra, sono colpiti dalla cecità e pieni delle cose della terra. La polvere è entrata nei loro occhi e li acceca, ed essi sono diventati simili alla polvere che il vento spazza dalla faccia della terra. « … Coloro che abitano delle case di iniquità sono accecati dalla terra e pieni di terra ». In effetti a furia di considerare la terra, essi hanno perso la vista, ed è di essi che in un altro salmo è detto: « … che i loro occhi siano accecati, affinché essi non vedano, ed il loro dorso si curvi sempre più verso la terra » (Ps.LXVIII. 24). « Coloro che abitano delle case d’iniquità sono dunque accecati dalla terra e pieni di terra », e questo perché i cuori sono pieni di iniquità (S. Agost.). «  … Che l’umile non torni coperto di confusione ». In effetti, è l’orgoglio che ha causato la confusione degli altri. « L’indigente ed il povero glorificano il vostro Nome ». Vi vedete quanto la povertà debba essere dolce, vedete che i poveri e gli indigenti appartengono a Dio; ma i poveri di spirito, perché di essi è il regno di Dio. Quali sono i poveri di spirito? Gli umili che ricevono con timore le parole di Dio, che confessano i loro peccati e che non confidano nei loro meriti né nella loro giustizia. Chi sono i poveri di spirito? Coloro che lodano Dio quando fanno qualche bene, e che si accusano quando fanno qualche male.

ff. 22, 23. Vediamo spesso ripetuto nei Salmi e nella santa Scrittura questo appello fatto a Dio: « Giudicate la vostra causa », espressione della quale si servono gli Autori sacri per annunciare agli uomini il formidabile giudizio di Do. Tutto ciò che avviene sulla terra è la “causa di Dio”, perché il buono o cattivo uso della libertà onora oppure offende la maestà divina, che non può essere indifferente alla fedeltà o alle deviazioni degli uomini che ha creato capaci di una buona o di una cattiva scelta. Quando i Profeti dicono a Dio: « Signore giudicate la vostra causa », essi testimoniano lo zelo da cui sono animati per la Gloria di questo sovrano Essere; essi sanno che questo giudizio arriverà ma in ritardo per loro, in qualche modo, per vederne il compimento. – Ci sono due cose che devono riguardarci se abbiamo fede: la prima è che tutte le nostre azioni sono la “causa di Dio”; la seconda, che questa causa sarà giudicata un giorno (Berthier). – Il giorno in cui Dio giudicherà la sua causa, avverrà come sono avvenuti tutti gli avvenimenti ancora incompiuti, che allora non esistevano, ed il cui compimento era predetto; orbene Dio ci avrà dato tutto ciò che ci ha promesso, per ingannarci sul solo giorno dell’ultimo Giudizio? Dopo aver predetto e compiuto tutte queste cose che noi vediamo, ha forse mentito solo sul giorno del Giudizio? Questo giorno verrà dunque. Che nessuno dica allora: esso non verrà; orbene, esso verrà, ma dopo un lungo lasso di secoli, benché per voi, il momento in cui lascerete questa vita, non sia lontano (S. Agost.). – « Ricordatevi degli oltraggi di cui vi è stato prodigo l’insensato, durante tutto il giorno ». Ora ancora si insulta Cristo, e non mancherà il vaso di collera durante tutto il giorno, vale a dire fino alla fine dei secoli. Si dice ancora: i Cristiani predicano cose vane. Si dice ancora: la resurrezione dai morti non è che una vana immaginazione, « giudicate la vostra causa, ricordatevi degli oltraggi che un popolo insensato vi ha prodigato tutto il giorno ». (S. Agost.). – « L’orgoglio di coloro che vi odiano, monta sempre ». È orribile il dirlo, ma l’odio per Dio è lungi dall’essere raro tra le sue creature. Vi sono dei peccatori audaci ed induriti che sono diventati dei demoni anzitempo; il Nome di Dio o delle sue perfezioni ispira loro paura e rabbia; quando si trovano in presenza dei suoi Comandamenti, o di qualche manifestazione della sua Sovranità, o di un’amabile testimonianza della sua tenerezza, essi sono come posseduti dal cattivo spirito, la passione li trasporta, li fa uscire da se stessi e violare, non solo le convenienze del linguaggio, ma le regole del rispetto di se stessi. Sembra che nella sola menzione di Dio, anche senza allusione all’assoluta dominazione che Egli vuole esercitare su di essi come Creatore, vi sia qualcosa che causi una irritazione soprannaturale (Faber, Le Créateur et la Créature, p. 197). – Si, si fa fatica a crederlo, se ogni giorno non ci portasse qualche nuova prova: ci sono degli uomini talmente nemici di Dio che Lo odiano di un odio gratuito, che preferiscono piuttosto morire che essere salvati dalla sua mano. E questo empio orgoglio, lontano dal decrescere e dall’abbassarsi, sembra al contrario salire ed ingrandirsi. « L’orgoglio di coloro che vi odiano aumenta sempre ». È questo il carattere dell’empietà: come l’orgoglio di cui essa è figlia, come l’odio di cui essa è madre, l’empietà aumenta sempre. – L’orgoglio e l’audacia di coloro che si scagliano contro Dio, cresce sempre. L’empietà non ha limiti nei suoi furori e nei suoi attacchi: sembra che l’uomo le cui affezioni si rallentano poco a poco verso gli altri oggetti, sia come infinito nelle sue rivolte contro Dio e la sua Religione. « … L’orgoglio di coloro che vi odiano aumenta sempre ». 

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI (… CON CAZZUOLA E GREMBIULINO) DI TORNO: S. S. PIO IX- “ETSI MULTA”

Il Santo Padre Pio IX, nel biasimare e condannare le leggi inique emanate in Svizzera, Austria ed in Prussia, non teme di attribuire questa nuova persecuzione a quella che egli definisce, con termine apocalittico, la “sinagoga di satana”, cioè la massoneria e le sette di qualsivoglia denominazione, a questa collegata dai medesimi principi e fini. Comincia con il descrivere le angherie e le ingiustizie perpetrate ai danni della Gerarchia canonicamente costituita, ai religiosi tutti ed agli interessi spirituali e materia dei fedeli cattolici, scomunicando tra l’altro un falso vescovo imposto da empie autorità civili, compreso l’imperatore di Prussia (che la storia ha poi appurato essere un noto massone), senza giurisdizione e senza mandato pontificio. Oggi, di tali soggetti sacrileghi e contravventori di tutte le regole canoniche più elementari, ce ne sono tantissimi in giro, millantando cattedre ed uffici di cui sono semplicemente usurpanti, ci riferiamo naturalmente ai cosiddetti scismatici gallicani fallibilisti delle “fraternità paramassoniche” (termine eufemistico per indicare ben altro), ai tradizionalisti falsi sedevacantisti senza uno straccio di giurisdizione né missione canonica, oltre agli aderenti ai falsi vescovi di Roma del Novus ordo con giurisdizioni usurpate. Ma a questo panorama sconfortante, il Santo Padre reagisce ed esorta il piccolo gregge dei veri Cattolici superstiti ed imperterriti, confidando nell’aiuto divino, a reagire citando le nobilissime parole di Crisostomo: « Molti flutti, molte gravi tempeste incalzano; ma non temiamo d’essere sommersi, perché posiamo sulla pietra. Infierisca pure il mare; la pietra non potrà venirne disciolta. Insorgano pure le onde; la nave di Gesù non potrà venirne affondata. Nulla è più potente della Chiesa. La Chiesa è più forte dello stesso cielo. Passeranno il cielo e la terra; ma le parole di Cristo non passeranno. Quali parole? “Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei”. Se non credi alle parole, credi ai fatti. Quanti tiranni tentarono di opprimere la Chiesa? Quante caldaie, quante fornaci, e denti di fiere, e aguzze spade! Tuttavia non ottennero nulla. Dove sono quei nemici? Sono dispersi nel silenzio e nell’oblio. E dove è la Chiesa? Ella splende più del sole. Le imprese di quei tali si estinsero, le cose della Chiesa vivono immortali. Se quando i cristiani erano pochi, non furono vinti, come potrai vincerli, quando l’intero mondo è pieno della loro sacra Religione? Il Cielo e la terra passeranno; ma le mie parole non passeranno”. Pertanto, non spaventati da alcun pericolo e sgombri da ogni dubbio, perseveriamo nella preghiera e procuriamo di giungere a questo: che tutti ci sforziamo di placare l’ira celeste, provocata dai delitti degli uomini, in modo che alla fine sorga l’Onnipotente nella sua misericordia, comandi ai venti e porti la tranquillità. ». – Temano piuttosto i servi della sinagoga di satana … il seme del serpente ovunque essi siano, soprattutto se infiltrati nel luogo santo: « Inimicitias ponam inter te et mulierem, et semen tuum et semen illius: Ipsa conteret caput tuum, et tu insidiaberis calcaneo ejus. » Il seme della Vergine Immacolata, benché insidiato e combattuto ed odiato, avrà la definitiva vittoria sul seme del serpente, Dio lo ha promesso fin dalla più remota antichità, ed il suo Cristo lo ha solennemente confermato … et portæ inferi non prævalebunt. Riposate, i vostri sforzi non approderanno ad un bel niente, siete sconfitti già in partenza, rassegnatevi, PENTITEVI e scansate l’inferno che vi attende!

Pio IX
Etsi multa

Benché fin dagli stessi inizi del Nostro lungo Pontificato abbiamo dovuto subire sofferenze e lutti, di cui Noi abbiamo trattato nelle encicliche a Voi spesso inviate; tuttavia in questi ultimi anni la mole delle miserie è venuta crescendo in maniera tale che quasi ne saremmo schiacciati, se non Ci sostenesse la benignità divina. Anzi, le cose sono ora giunte a tal punto che la stessa morte sembra preferibile ad una vita sbattuta da tante tempeste, e spesso con gli occhi levati al cielo siamo costretti ad esclamare: “È meglio per Noi il morire, che vedere lo sterminio delle cose sante” (1Mac III,59). Certamente da quando questa Nostra nobile Città, per volere di Dio, fu presa con la forza delle armi, e assoggettata al governo di uomini che calpestano il diritto, e sono nemici della Religione, per i quali non esiste distinzione alcuna fra le cose divine ed umane, non è trascorso quasi giorno alcuno, che al nostro cuore, già piagato per le ripetute offese e violenze, non s’infliggesse una nuova ferita. Risuonano tuttora alle nostre orecchie i lamenti ed i gemiti degli uomini e delle vergini appartenenti a famiglie religiose che, cacciati dalle loro case e ridotti in povertà, vengono perseguitati e dispersi, come suole accadere dovunque domina quella fazione, la quale tende a sovvertire l’ordine sociale. Infatti come per testimonianza di Sant’Atanasio diceva il grande Antonio, il diavolo odia tutti i Cristiani, ma non può in alcun modo tollerare i buoni monaci e le vergini di Cristo. E anche questo abbiamo visto negli ultimi tempi (che non sospettavamo potesse mai accadere), cioè che venisse condannata e soppressa la Nostra Università Gregoriana; la quale (come un antico autore scriveva a proposito della scuola Romana Anglosassone) era istituita allo scopo che i giovani chierici, anche di lontane regioni, venissero ad istruirsi nella dottrina e nella Fede Cattolica, affinché nelle loro chiese non s’insegnasse nulla di distorto o contrario all’Unità Cattolica, e così tornassero alle loro contrade consolidati nelle certezze della Fede. Così, mentre con metodi malvagi Ci vengono sottratti a poco a poco tutti i presidi e gli strumenti, coi quali possiamo reggere e governare la Chiesa tutta, appare chiaro quanto sia lontano dal vero ciò che fu poco fa affermato, e cioè che, strappataci Roma, non sia diminuita la libertà del Romano Pontefice nell’esercizio del ministero spirituale e nella gestione di quelle cose che spettano al mondo cattolico. Contemporaneamente si fa ogni giorno più chiaro quanto fosse vero e giusto ciò che da Noi è stato tante volte dichiarato e ripetuto, e cioè che l’occupazione sacrilega del Nostro Stato mirava in primo luogo a spezzare la forza e l’efficacia del Primato Pontificio, ed a distruggere, se fosse possibile, la stessa Religione Cattolica. – Ma la Nostra principale intenzione non è di scrivere a Voi riguardo ai mali, da cui questa Nostra città e l’intera Italia sono travagliate, ché anzi Noi forse comprimeremmo in mesto silenzio queste Nostre afflizioni, se Ci fosse concesso dalla divina clemenza di poter lenire gli aspri dolori, dai quali in altre regioni tanti Venerabili Fratelli, preposti alle cose sacre, insieme al loro Clero e al loro popolo sono afflitti. – Voi certamente non ignorate, Venerabili Fratelli, come alcuni Cantoni della Confederazione Elvetica, sospinti non tanto dagli eterodossi (alcuni dei quali anzi hanno biasimato il fatto) quanto dagli operosi seguaci delle sette, (padroni oggi qua e là del potere), abbiano sovvertito ogni ordine e divelto gli stessi fondamenti della costituzione della Chiesa di Cristo, non solo contro ogni regola di giustizia e di ragione, ma anche contro i pubblici impegni. Infatti, in virtù di solenni trattati, difesi anche dal suffragio e dall’autorità delle leggi federali, doveva rimanere intera ed illesa la libertà religiosa per i Cattolici. Nella Nostra Allocuzione del 23 dicembre dello scorso anno Noi abbiamo deplorato la violenza fatta alla Religione dai governi di quei cantoni “sia con l’emanare decreti intorno ai dogmi della Fede Cattolica, sia favorendo gli apostati, sia impedendo l’esercizio dell’autorità episcopale“. Ma le Nostre giustissime lamentele, rivolte anche per Nostro comando al Consiglio Federale dal Nostro Incaricato d’affari, furono del tutto trascurate; né in maggior conto furono tenute le rimostranze, ripetutamente espresse dai Cattolici di ogni ordine e dall’Episcopato svizzero; anzi, alle offese inflitte prima se ne aggiunsero delle nuove e più gravi. – Infatti, dopo la violenta espulsione del Venerabile Fratello Gaspare, Vescovo di Hebron e Vicario Apostolico di Ginevra, – la quale quanto fu decorosa e gloriosa per chi l’ha subita, altrettanto fu ignobile e indegna per coloro che la imposero e la eseguirono – il governo di Ginevra, nei giorni 23 marzo e 27 agosto di questo anno, promulgò due leggi, pienamente conformi all’editto (proposto nel mese di ottobre dell’anno precedente) che era stato da Noi biasimato nell’Allocuzione che prima abbiamo ricordato. Il medesimo Ggverno, anzi, si è arrogato il diritto di rifare in quel Cantone la Costituzione della Chiesa Cattolica, e di redigerla in forma democratica, assoggettando il Vescovo all’autorità civile, sia per quanto si riferisce all’esercizio della sua giurisdizione e della sua amministrazione, sia per quanto riguarda la delegazione della sua potestà; vietandogli d’aver domicilio in quel Cantone; determinando il numero e i confini delle parrocchie; proponendo la forma e le condizioni dell’elezione dei Parroci e dei Vicari, i casi e il modo di revoca o di sospensione dei medesimi dal loro incarico; affidando ai laici il diritto di nominarli e l’amministrazione temporale del culto, e preponendo gli stessi laici quali ispettori alle funzioni della Chiesa in generale. È sancito inoltre da quelle leggi che senza il permesso del governo, anch’esso revocabile, i Parroci e i Vicari non possano esercitare alcuna funzione, non possano accettare alcun incarico superiore a quello che hanno assunto per elezione del popolo, e allo stesso modo siano costretti a prestare giuramento all’autorità civile, con parole che, a rigore di termini, contengono apostasia. Non c’è nessuno che non veda che queste leggi non solo sono irrite e non possiedono alcun vigore, per la totale mancanza di autorità dei legislatori laici, e per lo più eterodossi, i quali ancora, nelle cose che comandano, si oppongono talmente ai dogmi della Fede Cattolica e alla disciplina della Chiesa, sancita dal Concilio Ecumenico Tridentino e dalle Costituzioni pontificie, tanto che è assolutamente necessario che siano da Noi riprovate e condannate. – Noi pertanto, secondo i doveri del Nostro Ufficio, con la Nostra Autorità Apostolica, solennemente riproviamo e condanniamo tali leggi, dichiarando contemporaneamente che è illecito e totalmente sacrilego il giuramento da esse imposto. Pertanto, tutti coloro che, eletti nel territorio di Ginevra o altrove, secondo i decreti di queste leggi o in modo simile, per suffragio del popolo e conferma dell’autorità civile, osino esercitare le funzioni del ministero ecclesiastico, incorrono ipso facto nella scomunica maggiore, peculiarmente riservata a questa Santa Sede, e nelle altre pene canoniche; e che di conseguenza tutti costoro devono essere tenuti lontani dai fedeli, secondo l’ammonizione divina, come alieni e ladri che non vengono se non per rubare, uccidere, mandare in rovina (Gv X, 5.10). – Sono certamente tristi e funeste le cose che fin qui abbiamo ricordato, ma più funeste quelle che avvennero in cinque dei sette cantoni, di cui è composta la Diocesi di Basilea, cioè Soletta, Berna, Basilea Campagna, Argevia, Turgovia. Anche qui furono emanate leggi (riguardo alle parrocchie, all’elezione e alla revoca dei Parroci e dei Vicari) che sovvertono l’amministrazione della Chiesa e la sua divina Costituzione e sottomettono il ministero ecclesiastico al potere secolare e sono in tutto scismatiche. Queste leggi dunque, e particolarmente quella che fu promulgata dal governo di Soletta il giorno 23 dicembre dell’anno 1872, Noi biasimiamo e condanniamo, e decretiamo che esse debbano considerarsi per sempre riprovate e condannate. Pertanto il Venerabile Fratello Eugenio, Vescovo di Basilea, in un convegno (ossia conferenza, come dicono, diocesana) a cui erano convenuti i Delegati dei cinque Cantoni sopraddetti, ha respinto con giusta indignazione e costanza apostolica alcuni articoli che gli venivano proposti: la ragione del rifiuto era che essi offendevano l’autorità episcopale, sovvertivano il governo gerarchico, e favorivano apertamente l’eresia. Per questo motivo egli fu deposto dall’Episcopato, strappato dalle sue case, e cacciato violentemente in esilio. Allo stesso modo non fu tralasciato nessun genere di frode o di violenza, nei predetti cinque cantoni, per indurre il clero ed il popolo allo scisma; fu vietato al clero qualunque rapporto col Pastore in esilio e fu comandato al Capitolo della Cattedrale di Basilea di procedere all’elezione del Vicario Capitolare, o Amministratore, come se la Sede episcopale fosse realmente vacante; questo indegno eccesso fu rifiutato dal Capitolo, con apposita protesta. Intanto per decreto e sentenza dei Magistrati civili di Berna fu dapprima imposto a sessantanove Parroci del Giura di non esercitare le funzioni del proprio ministero; poi l’incarico fu tolto per questo solo motivo, che pubblicamente avevano testimoniato di riconoscere come legittimo e unico Vescovo e Pastore il Venerabile Fratello Eugenio, cioè di non voler turpemente rinnegare la verità cattolica. Così è avvenuto che tutto quel territorio, (che aveva sempre conservato la Fede Cattolica, e che da tempo era stato congiunto al cantone Bernese con la legge e con il patto che potesse esercitare liberamente e senza violazione alcuna la sua religione) venisse privato delle sue adunanze parrocchiali, delle solennità del Battesimo, delle nozze, e dei funerali; di questo invano si lamentava e reclamava la moltitudine dei fedeli, la quale con somma offesa era stata ridotta alla scelta estrema di dovere o ricevere i pastori scismatici ed eretici, imposti dal potere politico, o rimanere privata d’ogni aiuto e ministero sacerdotale. – Noi di cuore benediciamo Iddio, il quale con la medesima grazia con cui un tempo confortava e confermava i martiri, ora sostiene e rende forte quella eletta parte del Gregge Cattolico, la quale virilmente segue il suo Vescovo, che combatte come muro in difesa della casa d’Israele, affinché stia salda in battaglia nel giorno del Signore (Ez XVIII, 5), e senza conoscere la paura segue le orme del primo Martire, Gesù Cristo, mentre, opponendo la mansuetudine dell’agnello alla ferocia dei lupi, propugna in modo forte e costante la propria Fede. – Questa nobile fermezza dei fedeli Svizzeri è emulata con non minore gloria dal Clero e dal popolo fedele di Germania, il quale allo stesso modo segue gli illustri esempi dei suoi Vescovi. Questi certamente sono diventati oggetto di ammirazione per il mondo, per gli Angeli e per gli uomini, i quali da ogni parte guardano come costoro, rivestiti della corazza della verità cattolica e dell’elmo della salvezza, strenuamente combattono le battaglie del Signore, e tanto più ammirano la fortezza e la costanza incrollabile del loro animo e con alte lodi le esaltano, quanto più cresce di giorno in giorno l’aspra persecuzione, mossa contro di loro nell’Impero Germanico e soprattutto in Prussia. – Oltre alle molte e gravi offese inflitte alla Chiesa Cattolica nell’anno precedente, il Governo prussiano, con leggi durissime ed ingiuste e del tutto estranee alle consuetudini fin ad allora adottate, ha sottoposto l’intera istituzione ed educazione del Clero alla potestà laica in modo tale che a questa compete la facoltà di esaminare e determinare in quale modo i chierici debbono essere istruiti e preparati per la vita sacerdotale e pastorale; e andando ancora più oltre, attribuisce alla medesima potestà laica il diritto di conoscere e giudicare sul contributo relativo a qualunque ufficio e beneficio ecclesiastico, e di privare anche dell’ufficio e beneficio i suoi Pastori. Inoltre, affinché in modo più rapido e totale venissero sconvolti il governo e l’ordinamento gerarchico della Chiesa stabilito dallo stesso Cristo Signore, da tali leggi sono stati introdotti molti impedimenti ai Vescovi, affinché non possano opportunamente provvedere, mediante censure e pene canoniche, né alla salvezza delle anime, né alla integrità della dottrina nelle scuole cattoliche, né all’ossequio loro dovuto da parte dei chierici. Infatti, in nome di queste leggi non è lecito ai Vescovi fare tali cose, in nessun modo se non con il beneplacito dell’autorità civile e secondo la norma da lei prescritta. Infine, affinché nulla mancasse alla totale oppressione della Chiesa Cattolica, è stato istituito un regio tribunale per gli affari ecclesiastici, presso il quale i Vescovi e i sacri Pastori possono essere citati tanto dai cittadini privati che siano da loro dipendenti, quanto dai pubblici magistrati, in modo che siano sottoposti a giudizio come rei e siano impediti nell’esercizio del ministero spirituale. – Così la santissima Chiesa di Cristo, a cui era stata assicurata la necessaria e piena libertà religiosa, anche con solenni e ripetute promesse dei supremi Principi e con pubbliche convenzioni ufficiali, ora piange in quei luoghi, spogliata di ogni suo diritto, esposta a forze nemiche che la minacciano di morte; queste nuove leggi infatti sono tali che ella non può sopravvivere. Non c’è dunque da meravigliarsi che l’antica tranquillità religiosa in quell’Impero sia gravemente turbata da queste leggi e da altre decisioni ed atti del governo prussiano quanto mai ostili nei confronti della Chiesa. Ma sarebbe ingiusto gettare la colpa di questo sconvolgimento sui Cattolici dell’Impero germanico. Perché se si deve imputare loro come colpa il non adattarsi a quelle leggi, a cui, salva la coscienza, non possono adattarsi, per la stessa causa e allo stesso modo dovrebbero essere accusati gli Apostoli ed i Martiri di Gesù Cristo, i quali preferirono soggiacere ai più atroci supplizi e alla stessa morte, piuttosto che tradire il loro dovere e violare le leggi della loro santissima Religione, obbedendo agli empi comandi di Principi persecutori. Certamente, Venerabili Fratelli, se al di là delle leggi del mondo civile non ce ne fossero altre, e certamente di più alto valore, che è doveroso riconoscere ed illecito violare; se, inoltre, queste leggi civili costituissero la suprema norma della coscienza, così come in modo empio ed egualmente assurdo alcuni pretendono, sarebbero degni di rimprovero piuttosto che di onore e di lode i primi martiri e tutti quelli che poi li imitarono, per avere sparso il proprio sangue per la Fede di Cristo e per la libertà della Chiesa. Anzi, non sarebbe stato neppure lecito insegnare e professare la Religione Cristiana e fondare la Chiesa contro quanto era prescritto dalle leggi e dalla volontà dei Sovrani. Tuttavia la Fede ci insegna, e l’umana ragione ci dimostra, che esiste un doppio ordine di cose, e allo stesso modo si deve distinguere una duplice potestà sulla terra: l’una, di origine naturale, che provvede alla tranquillità dell’umana società e alle cose del mondo; l’altra, di origine soprannaturale, che presiede alla città di Dio, cioè alla Chiesa di Cristo, da Dio istituita per la pace e per l’eterna salvezza delle anime. Ora i compiti di queste due potestà sono stati ordinati con somma sapienza, in modo che si rendano a Dio le cose che sono di Dio, e per riguardo a Dio si rendano a Cesare le cose che sono di Cesare; “il quale perciò è grande qui, perché è minore in cielo; appartenendo egli a Colui, al quale appartengono il cielo ed ogni cosa creata“. E da questo divino comandamento certo la Chiesa non si è mai allontanata: sempre e dappertutto Ella si è adoperata per inculcare nell’animo dei suoi fedeli l’obbedienza che inviolabilmente essi debbono mantenere verso i supremi Principi e le loro leggi per quanto riguarda i doveri secolari, e secondo le parole dell’Apostolo insegnò che i Principi sono stati istituiti non per timore delle opere buone, ma di quelle cattive; essa comanda ai fedeli di essere loro sottoposti, non solo per timore della pena, in quanto il Principe è armato della spada per punire chi compie il male, ma anche per l’obbligo di coscienza, dato che il Principe nell’adempimento del suo ufficio è ministro di Dio (Rm XIII, 3ss.). Senonché la coscienza ridusse questo timore dei Principi nei confronti delle cattive azioni, fino a svincolarlo addirittura dall’osservanza della legge divina. Si ricorda di essa il beato Pietro, che insegnò ai fedeli: “Nessuno di voi si adatti a vivere come omicida, o ladro, o calunniatore, o desideroso dei beni altrui; ma se vive come Cristiano, non arrossisca, e glorifichi anzi Dio in questo nome” (1Pt IV, 14-15). – Stando così le cose, facilmente comprenderete, Venerabili Fratelli, di quanto dolore necessariamente Ci sentiamo trafiggere l’animo nel leggere nella lettera, da poco inviataci dallo stesso Imperatore germanico l’accusa, non meno atroce che impensabile, contro una parte, come egli dice, dei suoi sudditi Cattolici, e in particolare contro il Clero Cattolico ed i Vescovi della Germania. L’unica motivazione di quella accusa è che costoro, senza temere né le sofferenze né le carceri, e non preoccupandosi della loro vita più che di se stessi (At XX, 24), rifiutano di obbedire alle sopraddette leggi, con la medesima costanza con la quale, prima che esse fossero sancite, vi si erano opposti, denunziandone al Potere gli errori e spiegandoli, con gravi pesanti numerose e solidissime rimostranze, che con plauso di tutto il mondo cattolico e anche di non pochi eterodossi, hanno presentato al Principe, ai Ministri, e alla stessa suprema Assemblea del Regno. – Per questo essi sono ora accusati di tradimento, come se fossero in accordo e cospirassero con coloro che tentano di sconvolgere tutti gli ordinamenti della società umana, senza tenere in considerazione le numerose e autorevoli prove che evidentemente dimostrano la loro saldissima fedeltà e la loro obbedienza verso il Principe, e il loro caldo amore verso la patria. Ché, anzi, Noi stessi siamo pregati di esortare quei Cattolici e i sacri Pastori all’osservanza di quelle leggi, come se Noi stessi concorressimo con l’opera Nostra ad opprimere e a disperdere il gregge di Cristo. Ma, fiduciosi in Dio, Noi speriamo che il serenissimo Imperatore, conosciute e ponderate meglio le cose, respingerà un sospetto tanto inconsistente ed incredibile verso sudditi fedelissimi, né permetterà che il loro onore sia straziato più a lungo da una così turpe diffamazione e che una tanto immeritata persecuzione continui contro di loro. Del resto Noi avremmo ben volentieri ignorato in questa sede questa lettera dell’Imperatore se, a Nostra insaputa e con scelta davvero insolita, non fosse stata divulgata dal giornale ufficiale di Berlino, insieme con un’altra scritta di Nostra mano, in cui Ci appellavamo alla giustizia del serenissimo Imperatore in favore della Chiesa Cattolica in Prussia. – Le cose che abbiamo ricordato fin qui sono davanti agli occhi di tutti: perciò mentre i Religiosi e le vergini consacrate a Dio vengono privati della libertà comune a tutti i cittadini, e vengono perseguitati con crudele ferocia; mentre le scuole pubbliche, nelle quali si educa la gioventù cattolica, vengono sottratte ogni giorno di più al salvifico Magistero e alla vigilanza della Chiesa; mentre si sciolgono i sodalizi istituiti per promuovere la Religione, e perfino gli stessi seminari dei chierici; mentre s’impedisce la libertà della predicazione evangelica; mentre in alcune parti del Regno si proibisce che venga impartita nella lingua materna l’istruzione religiosa; mentre vengono allontanati a forza dalle loro parrocchie i Parroci colà preposti dai Vescovi; mentre gli stessi Vescovi vengono privati delle loro rendite, perseguitati con multe, atterriti con la minaccia del carcere; mentre i Cattolici sono tormentati con ogni sorta di vessazione, è possibile che Noi Ci persuadiamo di quello che Ci si vuole dare a credere, cioè che né la Religione di Cristo né la verità sono chiamate in causa? – E non finiscono qui le offese che si fanno alla Chiesa Cattolica. Si aggiunge anche il fatto che il governo prussiano ed altri dell’Impero germanico hanno apertamente assunto la protezione di quei nuovi eretici, che, per un abuso di nome si chiamano Vecchi cattolici, il che sarebbe degno di riso, se i tanti mostruosi errori di quella setta contro i principi fondamentali della Fede, i tanti sacrilegi nella celebrazione dei misteri divini e nell’amministrazione dei sacramenti, i tanti gravissimi scandali, infine la tanto grande rovina delle anime redente dal sangue di Cristo, non inducessero piuttosto a versare calde lacrime. – E che cosa tentino e dove mirino codesti miserabili figli del male, chiaramente si vede da altri loro scritti, e soprattutto da quello empio e spregiudicato che fu pubblicato poco tempo fa da colui che essi, di recente, hanno eletto come pseudo-Vescovo. Essi infatti sovvertono il vero potere di giurisdizione che risiede nel Romano Pontefice e nei Vescovi, successori del Beato Pietro e degli Apostoli, e lo trasferiscono al popolo, ossia, come dicono, alla comunità; rifiutano sfacciatamente e combattono il Magistero infallibile sia del Romano Pontefice, sia di tutta la Chiesa docente. Contro lo Spirito Santo (che Cristo affermò che sarebbe rimasto in eterno nella Chiesa), essi con incredibile ardire sostengono che il Romano Pontefice, e tutti i Vescovi, sacerdoti e popoli, congiunti con lui in unità di fede e di comunione, sono caduti in eresia, quando hanno sancito e professato le definizioni del Concilio Ecumenico Vaticano. Negano quindi anche l’infallibilità della Chiesa, bestemmiando che essa è morta in tutto il mondo, e che il suo Capo visibile e i Vescovi non esistono più; quindi vanno dicendo che è sorta in loro la necessità di restaurare l’episcopato legittimo nel loro pseudo-Vescovo, il quale, salendo alla carica non per la porta, ma in modo diverso, come uno che rapina o ruba, attira egli stesso sul proprio capo la dannazione di Cristo. – Ciò nonostante questi miserabili, che sovvertono i fondamenti della Religione Cattolica, che distruggono tutti i suoi principi e i suoi caratteri, che hanno inventato tanto turpi e numerosi errori o, piuttosto, desumendoli dal vecchio patrimonio degli eretici e raccogliendoli insieme, li hanno riproposti, non si vergognano di dirsi cattolici, Vecchi cattolici, mentre con la loro dottrina, con la loro stranezza, e con il loro numero rimuovono da se stessi in modo totale ambedue i caratteri: l’antichità e la Cattolicità. Contro costoro, con maggior diritto certamente che non un tempo Agostino contro i Donatisti, insorge la Chiesa diffusa fra tutte le genti: quella Chiesa che Cristo, figlio del Dio vivente, edificò sopra una pietra e contro la quale le porte dell’inferno non prevarranno; quella Chiesa con la quale Egli, a cui è data ogni potestà in cielo ed in terra, disse che sarebbe stato tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli. “Grida la Chiesa all’eterno suo Sposo: come può accadere che alcuni, non so chi, allontanatisi da me, mormorino contro di me? Come può essere che coloro che sono perduti pretendano che io sia perita? Annunziami la brevità dei miei giorni: per quanto tempo starò in questo mondo? Annunzialo a me per coloro che dicono: “Fu e non è più”; per coloro che dicono: “Sono adempiute le Scritture, tutte le genti hanno creduto, ma la Chiesa ha apostatato ed è perita per tutte le genti. Ed egli l’annunziò, né la sua voce fu vana”. In che modo l’annunziò? “Ecco, io sono con voi fino alla consumazione dei secoli”. Colpita dalle vostre parole e dalle vostre false opinioni, la Chiesa chiede a Dio che le dichiari la brevità dei suoi giorni, e trova che il Signore ha detto: “Ecco, io sono con voi fino alla consumazione dei secoli”. Qui voi dite: “Di noi ha detto: noi siamo e saremo fino alla consumazione dei secoli. Si interroghi lo stesso Cristo”. Egli disse: “Si predicherà questo Vangelo in tutto il mondo, a testimonianza per tutte le genti, ed allora verrà la fine”. Dunque, sino alla fine dei secoli la Chiesa è in tutte le genti. Periscano gli eretici, periscano per quello che sono; e vengano recuperati affinché siano ciò che non sono” . – Ma codesti uomini che procedono con maggior audacia per la via dell’iniquità e della perdizione (come per giusto giudizio di Dio suole accadere alle sette degli eretici) hanno voluto anche, come accennammo, creare una gerarchia, e hanno eletto e creato pseudo-vescovo certo Giuseppe Uberto Reinkens, noto apostata della fede cattolica; ed affinché non mancasse nulla alla loro impudenza, per la sua consacrazione ricorsero a quei Giansenisti di Utrecht, che essi, prima che si ribellassero alla Chiesa, consideravano (insieme con gli altri cattolici) eretici e scismatici. Tuttavia quel Giuseppe Uberto osa dichiararsi vescovo, e, cosa che supera ogni credibilità, è riconosciuto e nominato con pubblico decreto come vero Vescovo Cattolico dal serenissimo Imperatore di Germania, e proposto a tutti i sudditi perché sia considerato e riverito quale legittimo vescovo. Eppure gli stessi primi elementi della Dottrina Cattolica insegnano che non può essere considerato Vescovo legittimo, nessuno che non sia congiunto per comunione di fede e di carità con la Pietra sopra cui è edificata la Chiesa di Cristo, e non sia legato strettamente al supremo Pastore, a cui sono date da pascolare tutte le pecore di Cristo, e non sia unito a colui che difende e garantisce la fraternità che è nel mondo. E in verità “a Pietro parlò il Signore: ad uno solo, per fondare l’unità dall’uno” . A Pietro “la divina clemenza conferì una grande e mirabile parte del suo potere, e se volle che qualche cosa fosse comune con gli altri Principi, non concesse mai alcunché agli altri se non per mezzo di lui” . Ne consegue che da questa Sede Apostolica, dove il Beato Pietro “vive, presiede e concede a chi la cerca la verità della Fede , si diffondono per tutti i diritti della venerabile unione comune” ; e questa stessa Sede senza dubbio “è per le altre Chiese, sparse in tutta la terra, come il capo rispetto alle membra; chiunque si separa da lei diventa esule dalla religione cristiana, avendo cominciato a non essere più nello stesso corpo comune” . – Di conseguenza il santo martire Cipriano, discorrendo dello pseudo-vescovo scismatico Novaziano, gli negò perfino l’appellativo di cristiano, dato che era staccato e separato dalla Chiesa di Cristo. “Chiunque sia, dice, e di qualunque genere sia, non è cristiano chi non è nella Chiesa di Cristo. Si vanti pure e con parole superbe predichi la sua filosofia e la sua eloquenza; chi non è stato fedele alla carità fraterna e all’unità ecclesiastica, ha perduto anche quello che era prima. Dato che da Cristo deriva per tutto il mondo una sola Chiesa, divisa in molte membra, egualmente un solo episcopato è diffuso nel concorde pluralismo di molti Vescovi; esso, dopo il mandato di Dio, e dopo l’unità della Chiesa dovunque stretta e congiunta, si sforza di fare la Chiesa delle persone umane. Dunque, chi non osserva né l’unità dello spirito, né la comune unità della pace, e si separa dal vincolo della Chiesa e dal Collegio dei Sacerdoti, non può avere né il potere né l’onore di Vescovo, non avendo voluto mantenere né l’unità, né la pace dell’episcopato” . – Noi dunque che, benché immeritevoli, siamo collocati in questa suprema Cattedra di Pietro, a custodia della Fede Cattolica per mantenere e difendere l’unità della Chiesa universale, seguendo la consuetudine e l’esempio dei Nostri Predecessori e delle leggi ecclesiastiche, con la potestà conferitaci dal cielo, non solo dichiariamo l’elezione di Giuseppe Uberto Reinkens (prima ricordato) compiuta contro la sanzione dei Sacri Canoni, illecita, vana, e completamente nulla, e condanniamo e detestiamo la sua consacrazione sacrilega; ma con l’autorità di Dio onnipotente scomunichiamo e anatemizziamo lo stesso Giuseppe Uberto e coloro che osarono eleggerlo, coloro che collaborarono alla consacrazione sacrilega, tutti quelli che li hanno sostenuti e che, aderendo ad essi, diedero loro favore, aiuto o consenso; dichiariamo, comandiamo ed ordiniamo che tutti costoro debbano essere considerati separati dalla comunione della Chiesa e considerati nel numero di coloro, la cui familiarità e la cui frequentazione l’Apostolo vietò a tutti i fedeli di Cristo, tanto che espressamente comandò che non si dovesse neanche dire loro “Ave” (2Gv 10).

Da tutte le cose che abbiamo toccato, più deplorandole che narrandole, vi è abbastanza chiaro, Venerabili Fratelli, quanto triste e piena di pericolo sia la condizione dei Cattolici nei paesi d’Europa, di cui abbiamo trattato. E le cose non vanno meglio, né i tempi sono più pacifici in America, dove alcune regioni sono così ostili ai Cattolici, che i loro Governi sembrano negare coi fatti quella fede cattolica che professano. Infatti là da alcuni anni ha cominciato ad essere mossa una terribile guerra contro la Chiesa, le sue istituzioni e i diritti di questa Sede Apostolica. Se volessimo continuare in questo argomento non Ci verrebbero mai meno le parole. Dato che ciò, per la sua importanza, non può essere toccato per inciso, ne parleremo più a lungo un’altra volta. – Si meraviglierà forse qualcuno di Voi, Venerabili Fratelli, che la guerra che oggi si muove alla Chiesa Cattolica si espanda tanto. Ma chiunque conosce il carattere, gli obiettivi ed il proposito delle sette, sia che si chiamino massoniche, sia che si chiamino con qualsivoglia altro nome, e li paragoni al carattere, al modo, e all’ampiezza di questa guerra, da cui la Chiesa è assalita quasi da ogni parte, non potrà certamente dubitare che questa calamità non si debba attribuire alle frodi ed alle macchinazioni di quelle sette. Da esse infatti è formata la sinagoga di Satana, che ordina il suo esercito contro la Chiesa di Cristo, innalza la sua bandiera e viene a battaglia. I Nostri Predecessori, vigili in Israele, denunziarono ai Re ed ai popoli queste sette già da molto tempo, fin dalle loro origini, e poi ripetute volte le colpirono con le loro condanne. Noi pure non siamo venuti meno a questo dovere. Oh, se si fosse data più fiducia ai supremi Pastori della Chiesa, da parte di coloro che avrebbero potuto respingere una tanto esiziale pestilenza! Invece essa ha progredito attraverso nascondigli, viscidi anfratti e senza mai interrompere il suo lavorio, ingannando molti con astute frodi; ed è giunta infine a tale punto che ha potuto uscire dalle sue latebre, e vantarsi di essere oggi potente e sovrana. Aumentata ormai immensamente la turba dei loro seguaci, queste empie sette credono di aver quasi raggiunto lo scopo, anche se non hanno ancora toccato l’ultima meta. Avendo conseguito ciò che tanto avevano desiderato, cioè di decidere di ogni cosa nella maggior parte dei luoghi, ora indirizzano audacemente la forza e l’autorità acquistate allo scopo di ridurre la Chiesa in durissima schiavitù, abbattere i fondamenti sopra i quali ella si regge, contaminare le impronte divine delle quali luminosamente rifulge, e, ancor più, annientarla del tutto, se mai fosse possibile, nel mondo intero, dopo averla percossa con frequenti colpi, disfatta e distrutta. – Stando così le cose, Venerabili Fratelli, impiegate ogni mezzo per difendere dalle insidie e dal contagio di queste sette i fedeli affidati alle vostre cure, e per salvare dalla perdizione coloro che a queste sette disgraziatamente hanno dato il nome. Ma soprattutto mostrate e combattete l’errore di coloro che, o ingannati o ingannatori, non temono tuttavia di asserire che da queste oscure congreghe non si cerca altro che l’utilità sociale, il progresso e la reciproca beneficenza. Esponete spesso ai fedeli ed imprimete nelle loro anime le Costituzioni pontificie sull’argomento, e insegnate loro che da esse sono colpite non solo le società massoniche d’Europa, ma anche tutte quelle di America e quante altre si trovano nelle diverse regioni del mondo intero. – Del resto, Venerabili Fratelli, poiché Ci toccò di vivere in tempi nei quali incombe l’occasione di patire certamente molto, ma anche di meritare molto, noi, come buoni soldati di Cristo, preoccupiamoci in primo luogo di non abbattere il nostro animo; anzi, nella stessa tempesta da cui siamo sbattuti, armati della sicura speranza di tranquillità futura e di più limpida serenità della Chiesa, troviamo la forza per incoraggiare Noi stessi, il clero affaticato e il popolo, confidando nell’aiuto divino e sostenuti dalle nobilissime parole di Crisostomo: “Molti flutti, molte gravi tempeste incalzano; ma non temiamo d’essere sommersi, perché posiamo sulla pietra. Infierisca pure il mare; la pietra non potrà venirne disciolta. Insorgano pure le onde; la nave di Gesù non potrà venirne affondata. Nulla è più potente della Chiesa. La Chiesa è più forte dello stesso cielo. Passeranno il cielo e la terra; ma le parole di Cristo non passeranno. Quali parole? “Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei”. Se non credi alle parole, credi ai fatti. Quanti tiranni tentarono di opprimere la Chiesa? Quante caldaie, quante fornaci, e denti di fiere, e aguzze spade! Tuttavia non ottennero nulla. Dove sono quei nemici? Sono dispersi nel silenzio e nell’oblio. E dove è la Chiesa? Ella splende più del sole. Le imprese di quei tali si estinsero, le cose della Chiesa vivono immortali. Se quando i cristiani erano pochi, non furono vinti, come potrai vincerli, quando l’intero mondo è pieno della loro sacra religione? Il Cielo e la terra passeranno; ma le mie parole non passeranno”. Pertanto, non spaventati da alcun pericolo e sgombri da ogni dubbio, perseveriamo nella preghiera e procuriamo di giungere a questo: che tutti ci sforziamo di placare l’ira celeste, provocata dai delitti degli uomini, in modo che alla fine sorga l’Onnipotente nella sua misericordia, comandi ai venti e porti la tranquillità.

Frattanto con ogni affetto impartiamo la Benedizione Apostolica, espressione della Nostra speciale benevolenza, a Voi tutti, Venerabili Fratelli, al clero e a tutto il popolo affidato alle vostre cure.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 21 novembre 1873, anno ventottesimo del Nostro Pontificato

DOMENICA III DI AVVENTO (2019)

III DOMENICA DI AVVENTO

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Pietro

Semid. Dom. privil. di II cl. – Paramenti rosacei o violacei.

Il Signore è già vicino, venite, adoriamolo (Invitatorio). 1° Avvento. È Maria che ci dà Gesù: « Tu sei felice, o Maria, perché tutto quello che è stato detto dal Signore, si compirà in te » (Ant. Magn.). « Da Bethlem verrà il Re dominatore, che porterà la pace a tutte le Nazioni » (2° resp.) « e che libererà il suo popolo dal dominio dei suoi nemici » (4° resp.). Le nostre anime parteciperanno in un modo speciale a questa liberazione nelle feste di Natale, che sono l’anniversario della venuta in questo mondo del vincitore di satana.« Fa, chiede la Chiesa, che la nascita secondo la carne del tuo unico Figlio ci liberi dall’antica schiavitù che ci tiene sotto il giogo del peccato ». (Messa del giorno, 25 dic.). S. Giovanni Battista preparai Giudei alla venuta del Messia: egli ci prepara anche all’unione, ogni anno più intima, che Gesù contrae con le nostre anime a Natale.« Appianate la via del Signore » dice il Precursore. Appianiamo dunque le vie del nostro cuore, e Gesù Salvatore vi entrerà per darci le sue grazie liberatrici.

Avvento. S. Gregorio fa allusione alla venuta di Gesù alla fine del mondo allorché, spiegando il Vangelo, dice: «Giovanni, il Precursore del Redentore, precede Gesù nello spirito e nella virtù d’Elia, che sarà il precursore del Giudice » (9a Lezione). Dell’avvento di Gesù come Giudice parlano l’Epistola e l’Introito. Se proviamo gran gioia nell’avvicinarsi alle feste del Natale, che ci ricordano la venuta dell’umile bambino della mangiatoia, quanto più il pensiero della sua venuta in tutto lo splendore della sua potenza e della sua maestà, non deve empirci di santa esultanza, perché  allora soltanto la nostra redenzione sarà compiuta. S. Paolo scrive ai Cristiani: « Godete, rallegratevi nel Signore, ve lo ripeto ancora, perché il Signore è vicino ». E come nella Domenica Lætare (Questa pia pratica in uso per la benedizione della rosa a Roma, nella Domenica Lætare, si è estesa a tutti i sacerdoti che ne hanno desiderio per la celebrazione della Messa ed è passata alla Domenica Gaudete, perché queste due domeniche cantano la nostra liberazione dalla schiavitù del peccato per opera di Cristo), i sacerdoti che lo desiderano celebrano oggi con paramenti rosa, colore che simboleggia la gioia della Gerusalemme celeste, dove Gesù ci introdurrà alla fine dei tempi. « Gerusalemme, sii piena di gioia, perché il tuo Salvatore sta per venire » (2a Ant. vesp.). Desideriamo dunque questo avvento, che l’Apostolo dice vicino, e, invece di temerlo, auguriamoci con santa impazienza che si realizzi presto. « Muovi, o Signore, la tua potenza, e vieni a soccorrerci » [« Ecco — dice l’Apocalisse — il Signore apparirà e con Lui milioni di Santi e sulla sua veste porterà scritto: Re dei Re e Signore dei Signori » (/° resp.). « Il Signore degli eserciti verrà con grande potenza » (4° resp.). « Il Suo Regno sarà eterno e tutte le Nazioni Lo serviranno » (6° resp.). (All). « Vieni, o Signore, non tardare » (Ant. delle Lodi). « Per adventum tuum libera nos, Domine »].

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Phil IV:4-6
Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus enim prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne petitiónes vestræ innotéscant apud Deum. [Godete sempre nel Signore: ve lo ripeto: godete. La vostra modestia sia manifesta a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi per alcuna cosa, ma in ogni circostanza fate conoscere a Dio i vostri bisogni]

Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob. [Hai benedetto, o Signore, la tua terra: hai liberato Giacobbe dalla schiavitù]. Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus enim prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne petitiónes vestræ innotéscant apud Deum. [Godete sempre nel Signore: ve lo ripeto: godete. La vostra modestia sia manifesta a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi per alcuna cosa, ma in ogni circostanza fate conoscere a Dio i vostri bisogni.]

Oratio

Orémus.
Aurem tuam, quǽsumus, Dómine, précibus nostris accómmoda: et mentis nostræ ténebras, grátia tuæ visitatiónis illústra: [O Signore, Te ne preghiamo, porgi benigno ascolto alle nostre preghiere e illumina le tenebre della nostra mente con la grazia della tua venuta.]

Lectio

Lectio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses

Philipp IV: 4-7
Fratres: Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne et obsecratióne, cum gratiárum actióne, petitiónes vestræ innotéscant apud Deum. Et pax Dei, quæ exsúperat omnem sensum, custódiat corda vestra et intellegéntias vestras, in Christo Jesu, Dómino nostro.
R. Deo gratias.

[“Rallegratevi sempre nel Signore: da capo ve lo dico, rallegratevi. La vostra benignità sia nota a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi di nulla: ma in ogni cosa le vostre domande siano manifestate a Dio nell’orazione, nella preghiera e nel rendimento di grazie. E la pace di Dio, che supera ogni mente, custodisca i vostri cuori e le vostre menti in Gesù Cristo „ (Ai Pilipp. IV, 4-7]

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Che significa rallegrarsi nel Signore?

Significa ringraziare Dio del benefizio che ci ha dato di una felice eternità, e della continua protezione che ci presta: e rallegrarsi dei mali e delle persecuzioni che si possono avere a sopportare per il Signore, come se ne rallegrarono gli Apostoli, e specialmente s. Paolo. – Docili all’esortazione di s. Paolo, la nostra vita sia esemplare, e mai la nostra sollecitudine per i beni temporali sia eccessiva; confidiamoci nella Provvidenza: gratissimi a Dio per i suoi benefizi esponiamo a Lui le nostre necessità. E può questo Dio di bontà, che ha cura dei più piccoli animali abbandonare i suoi figli, se ricorrono a Lui come al migliore dei padri?

In che consiste la pace di Dio?

. – Consiste nella buona coscienza che ci unisce a Dio, e tien lontano da noi il peccato , fonte di discordie e dissensioni. S. Paolo non sa abbastanza celebrare i felici effetti della buona coscienza. Questa pace che l’uomo sensuale non comprende, e che soltanto provandola si può conoscere,ha fatto la consolazione dei martiri e di quanti sono stati perseguitati per la giustizia. Purificate il vostro cuore, unitevi a Dio, ed allora gusterete la gioia della buona coscienza e la tranquilla calma che l’accompagna.

Aspirazione: Signore, tenete il nostro spirito e il nostro cuore strettamente uniti a voi: fateci godere della tranquillità da voi recataci, e che il mondo non conosce, Sapienza eterna, che arrivate da un’estremità all’altra con forza, e disponete ogni cosa con dolcezza, fateci camminare nella via della sapienza e della pace.

Il rimedio migliore nei patimenti e nelle afflizioni.

A ricreare un cuore oppresso, a sollevare un animo scoraggiato, a far succedere la luce alle tenebre, nulla è più acconcio della preghiera accompagnata da un intero abbandono nell’amore e nella misericordia di Dio. Nessuno ci può amare più che Dio, poiché Egli ha sacrificato l’unico Figlio per noi; nessuno è più capace di soccorrerci nelle nostre necessità, poiché dal nulla Egli ha fatto tutte le cose. Che sono le consolazioni degli uomini a paragone di quelle di cui Dio, fedele alle sue promesse, può riempire il nostro cuore? Ricorrete dunque a Lui, ed esso vi libererà, vi illuminerà, vi nutrirà. Verso di Lui, dal profondo dei loro mali, fecero salire con fiducia le loro voci lamentevoli Anna, l’afflitta moglie di Elcana; David perseguitato dal suo figlio Assalonne; il pio re Ezechia, vivamente incalzato da Sennacherib; Giosafat, incerto del partito da prendere; la casta Susanna, falsamente accusata d’adulterio e condannata a morte; e tanti altri che la santa Scrittura e la storia ecclesiastica ricordano: Dio gli esaudì e gli colmò di consolazione.

Qualcuno di voi é nell’afflizione? Preghi: Io innalzo i miei occhi verso di Voi, o mio Dio, che abitate nei cieli: come il servo tiene gli occhi sul suo padrone, e la serva sulla padrona, così i nostri sguardi sono rivolti al Signore Dio nostro, finché si muova a pietà di noi. Signore, volgete l’orecchio ed esauditemi, poiché io sono povero e mendico. Custodite l’anima mia, perché io vi sono fedele; o mio Dio! salvate il vostro servo che spera in voi: abbiate pietà di me, Signore, poiché v’invoco tutto il giorno; versate la gioia nel mio cuore, perché io lo rivolgo continuamente verso di Voi. Voi siete dolce, o Signore, facile a piegarvi, ricco in misericordia verso tutti quelli che v’invocano. Signore, porgete l’orecchio alla mia preghiera, ascoltate le mie suppliche. Nei giorni delle mie angosce, io esclamerò verso di Voi, e Voi mi esaudirete. Nessuno tra gli dei è simile a voi; nessun opera è somigliante alla vostra. Tutte le nazioni che avete create verranno, piegheranno il ginocchio davanti a Voi, renderanno gloria al vostro nome. Voi solo siete grande, Voi siete che operate i prodigi; Voi solo siete Dio. Signore, insegnatemi le vostre vie, ed io camminerò nella vostra verità; il timor del vostro nome sparga la pace nel mio cuore, Signore, Dio mio, io vi loderò con tutto il cuore, glorificherò sempre il vostro nome, perché la infinita misericordia è venuta su me, ed avete sottratto l’anima mia dagli abissi dell’inferno. O Dio, i superbi, si son levati contro di me. L’adunanza dei forti ha congiurato contro di me alla mia rovina: essi hanno dimenticata la vostra potenza. E Voi Signore, Voi Dio compassionevole e dolce, paziente, prodigo di misericordia e pieno di verità, volgete gli occhi su me pietosamente, date la vostra forza al vostro servo, e salvate il figlio della vostra serva: manifestate per me il segno di vostra clemenza: sicché quelli che mi odiano siano confusi; e vedano che Voi mi avete soccorso e consolato.

Graduale

Ps LXXIX: 2; 3; 79:2

Qui sedes, Dómine, super Chérubim, éxcita poténtiam tuam, et veni. [O Signore, Tu che hai per trono i Cherubini, súscita la tua potenza e vieni.]

Qui regis Israël, inténde: qui dedúcis, velut ovem, Joseph. [Ascolta, Tu che reggi Israele: che guidi Giuseppe come un gregge. Allelúia, allelúia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja,

Excita, Dómine, potentiam tuam, et veni, ut salvos fácias nos. Allelúja. [Suscita, o Signore, la tua potenza e vieni, affinché ci salvi. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem

Gloria tibi, Domine!

Joann l: XIX-28

“In illo tempore: Misérunt Judæi ab Jerosólymis sacerdótes et levítas ad Joánnem, ut interrogárent eum: Tu quis es? Et conféssus est, et non negávit: et conféssus est: Quia non sum ego Christus. Et interrogavérunt eum: Quid ergo? Elías es tu? Et dixit: Non sum. Prophéta es tu? Et respondit: Non. Dixérunt ergo ei: Quis es, ut respónsum demus his, qui misérunt nos? Quid dicis de te ipso? Ait: Ego vox clamántis in desérto: Dirígite viam Dómini, sicut dixit Isaías Prophéta. Et qui missi fúerant, erant ex pharisæis. Et interrogavérunt eum, et dixérunt ei: Quid ergo baptízas, si tu non es Christus, neque Elías, neque Prophéta? Respóndit eis Joánnes, dicens: Ego baptízo in aqua: médius autem vestrum stetit, quem vos nescítis. Ipse est, qui post me ventúrus est, qui ante me factus est: cujus ego non sum dignus ut solvam ejus corrígiam calceaménti. Hæc in Bethánia facta sunt trans Jordánem, ubi erat Joánnes baptízans.”

Omelia I

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

III  DOMENICA D’AVVENTO.

Spiegazione III.

“In quel tempo i Giudei mandarono da Gerusalemme a Giovanni i sacerdoti ed i leviti, per domandargli: Chi sei tu? Ed ei confessò, e non negò, e confessò: Non son io il Cristo. Ed essi gli domandarono: E che adunque? Se’ tu Elia. Ed ei rispose: Noi sono. Se’ tu il profeta? Ed ei rispose: No. Gli dissero pertanto: Chi se’ tu, affinché possiamo render risposta a chi ci ha mandato? Che dici di te stesso? Io sono, disse, la voce di colui che grida nel deserto: Raddrizzate la via del Signore, come ha detto il profeta Isaia. E questi messi erano della setta de’ Farisei. E lo interrogarono, dicendogli: Come adunque battezzi tu, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta? Giovanni rispose loro, e disse: Io battezzo nell’acqua; ma v’ha in mezzo a voi uno, che voi non conoscete: questi è quegli che verrà dopo di me, il quale è prima di me; a cui io non son degno di sciogliere i legaccioli delle scarpe. Queste cose successero a Betania di là dal Giordano, dove Giovanni stava battezzando”.

(Jo. I, 19-28).

Il Vangelo di questa mattina, o miei cari, ci fa assistere ad una bellissima scena della vita di S. Giovanni Battista, avvenuta a Betania di là dal Giordano, dove Giovanni stava battezzando. E in questa scena ciò che spicca maggiormente è la grande umiltà di questo santo. Egli non aveva per nuca inteso il dirla Redentore a dire quella gran parola: « Imparate da me ad essere umili di cuore »; pur tuttavia illuminato come era dallo Spirito del Signore egli conosceva a fondo l’importanza della santa umiltà, ed oltre all’averla ben radicata in fondo al cuore, prestatasi l’occasione, la manifestò eziandio all’esterno con le parole e con la condotta. Per tal guisa egli si manifestò degnissimo precursore di nostro Signor Gesù Cristo, del quale ha detto giustamente l’Apostolo S. Paolo, che per tutta la sua vita si è umiliato, facendosi in tutto obbediente al suo Divin Padre sino alla morte e morte di croce. Ed oh! voglia il Signore, che, richiamando noi quest’oggi alla mente nostra il bell’esempio di umiltà datoci da S. Giovanni Battista, ci rendiamo anche noi degni seguaci del nostro divino Maestro e Modello.

1. Per ben apprendere l’importanza dell’esempio di umiltà lasciatoci da S. Giovanni Battista, conviene che vediamo prima almeno brevissimamente l’importanza della virtù dell’umiltà. Questa virtù, o miei cari, è una di quelle più indispensabili per vivere da buoni Cristiani e guadagnarsi il cielo, perché Iddio medesimo ci dice, che ha in abbondino l’orgoglio e i suoi vili schiavi; che resiste ai superbi e li umilia; mentre all’opposto innalza gli umili e comparte loro con abbondanza le sue grazie. No, l’umiltà non è soltanto una virtù di consiglio o dalla quale possiamo in certe circostanze e per speciali ragioni esimerci, no; essa è doverosa a conseguire l’eterna vita ed è doverosa sempre. In cielo si possono trovare dei Santi, che non abbiano fatto elemosina, ve ne possono essere degli altri, che non abbiano potuto praticare digiuni e macerazioni, vi possono regnare di coloro, che non mantennero la verginità, ma nessuno può trovarsi e nessuno può entrarvi, senza che sia stato umile. Gesù Cristo ha parlato chiaro, dicendo: Se non diventerete umili sino a parere semplici pargoletti, non entrerete nel regno dei cieli: nisi efficiamini sicut parvuli, non intrabitis in regnum cælorum, (Matt. XVIII, 3). Anzi, senza umiltà le più grandi virtù degenerano in vizio; la più grande austerità della vita diventa un’ipocrisia detestabile, la più alta contemplazione un’illusione vituperevole, l’estrema povertà una sciocca vanità. Senza l’umiltà i deserti degli anacoreti, le penitenze dei confessori, i tormenti dei martiri, lo zelo degli Apostoli non sono che una vanità, che può colpire d’ammirazione gli uomini, ma che rallegra i demoni. Senza umiltà gli stessi doni di Dio riescono di nocumento. Come i venti quando soffiano nelle vele di un bastimento, benché sembrino favorevoli al suo corso, non fanno che precipitarne il naufragio, se il bastimento è spinto verso gli scogli nascosti sotto le onde, così pure l’abbondanza dei doni del Signore in un’anima, che si lasci dominare dalla superbia, possono servire ad accrescergliela spaventosamente e farla miseramente perire. E così è accaduto, che uomini eminenti per santità, già vicini a raggiungere o pel martirio o per le più belle virtù il porto dell’eterna salute, miseramente naufragarono per avere urtato nello scoglio fatale della superbia. Or ecco perché i santi Padri fanno dell’umiltà il più magnifico elogio. Se voi domandate, dice uno tra essi, ciò che tiene il primo posto nella Religione e nella dottrina di Gesù Cristo, io rispondo essere l’umiltà; e il secondo e il terzo posto è l’umiltà, perché la vera dottrina della sapienza cristiana consiste tutta intera in una umiltà profonda. Che cosa si può dire di più eccellente? Che cosa si può riferire di più atto ad ispirarci la stima di questa virtù? Ebbene, chi pensa e parla in tal modo dell’umiltà è S. Agostino, uno dei più grandi dottori di Santa Chiesa. Se pertanto tale è il pregio dell’umiltà, quanto importa di praticarla! Epperò quanto viene a proposito l’esempio ammirabile, che di essa ci ha dato San Giovanni Battista, e ci vien riferito nel santo Vangelo di oggi. – Giovanni Battista menava una vita santa: perciocché la predicazione, che egli faceva agli altri della penitenza, l’adempieva egli stesso in sommo grado; e ben a ragione i Giudei lo riguardavano tutti come un uomo veramente straordinario. Per la qual cosa il Sinedrio o gran consiglio dei Giudei, che era già stato istituito da Mosè per le cause più gravi, e che aveva il diritto di ispezione sovra tutti coloro, che insegnavano pubblicamente, si commosse alla parola di Giovanni Battista, che con tanta fama risuonava sulle rive del Giordano; e sia, come pensa S. Gregorio, che i Giudei dubitassero che egli fosse il Messia ed avessero sì alta opinione di lui da crederlo sulla sua parola, sia invece, come ci dice S. Giovanni Grisostomo, che i maggiorenti del popolo mossi da gelosia gli volessero tendere qualche insidia, il fatto si è, che il Sinedrio nominò una commissione di sacerdoti e di leviti della setta dei Farisei, siccome dei più zelanti, che andasse ad interrogarlo. I Giudei, ci dice appunto il Vangelo di oggi, mandarono da Gerusalemme a Giovanni dei sacerdoti e dei leviti, che gli domandassero: Chi sei tu? Ed ei confessò e non negò; e confessò: Non sono io il Cristo. Or ecco come in questa risposta S. Giovanni comincia a darci l’esempio del primo grado di umiltà, che è quello di non attribuire a sé maggior valore di quello che realmente ai ha. Difatti nella domanda dei sacerdoti e dei leviti vi era per lui una tentazione assai delicata, quella cioè di poter passare pel Cristo e crescere così smisuratamente nell’opinione degli uomini. Ma egli profondamente umile amò meglio restare costantemente quel che era, epperò secondo l’energica espressione del Vangelo subito confessò e non negò; e confessò: Non son io il Cristo, vale a dire dichiarò nel modo più chiaro, più positivo, più formale, che non era il Messia. – Or bene, o carissimi, è questa la condotta più ordinaria degli uomini? Pur troppo, tutt’altra. Quanti vi sono, che ipocritamente si coprono col mantello di virtù, che non hanno, fingendosi umili, pii, caritatevoli, onesti, mentre invece hanno in cuore ogni vizio! Quanti vi sono, che pur sapendo di non meritare gli elogi, che loro si fanno, pure li accettano con gioia, e ne vanno anzi in cerca con indicibile ansietà! Quanti vi sono, che in qualsiasi condizione si trovino, o di studenti, o di artigiani, o di servitori, o di maestri, o di avvocati, o di medici, o di capitani, o di sovrani, si reputano di tutti più abili, più capaci, più esperti, più valenti. Quanti vi sono, che non solo vogliono essere i primi di tutti, ma vogliono essere tali ad esclusione di qualsiasi altro! Di Maometto si dice, che un giorno esclamasse: Di eguali è da lungo tempo, che io non ne debbo avere. E di Napoleone I si racconta, che ricevendo in Egitto una lettera d’un membro dell’Istituto, intestata colle parole: Mio caro collega: « Come? Si facesse a ripetere, lacerando quella lettera, come? Mio caro collega? È questo il modo di scrivermi? » Come per dire: E chi mai osa di stimarsi mio pari? Ora tutti costoro non sono veramente poveri pazzi? Che cosa fanno ordinariamente i pazzi, se non attribuire a sé qualità, che non hanno? L’uno si mette in testa di essere re e con tono imperioso pronuncia i suoi ordini e fa delle severe minacce, perché non è obbedito. Un altro si immagina di essere padrone del cielo e suppone di avere il sole, la luna, le stelle a sua disposizione. Un terzo non fa che sognare denari, ricchezze, campi, vigne ed altre possessioni. Un quarto si vanta professore, un quinto medico, un sesto avvocato, un settimo musico, tutti decantano qualità, che non hanno. Infelici! sono poveri pazzi! Ah è veramente una gran disgrazia perdere la ragione! Ma dite un po’, non è disgrazia anche maggiore avere la ragione e vivere del tutto come non si avesse? Ebbene una tale disgrazia tocca per l’appunto al superbo, che pretende essere dappiù di quello che è, e attribuirsi virtù e meriti, che non ha. Che una tale disgrazia non capiti a noi, opperò in sull’esempio di S. Giovanni Battista non soccombiamo mai a tentazioni siffatte; non vantiamoci di trionfi non ottenuti; non fingiamo d’avere virtù, che non possediamo, non vogliamo insomma essere dappiù di quello, che realmente siamo.

2. Ma Giovanni Battista non fu pago di praticare l’umiltà in siffatto grado: egli andò più innanzi e, dopo d’aver chiaramente confessato quello che non era, volle ancora nascondere quello che era. Ed in vero quei Sacerdoti e Leviti, continuando ad interrogarlo, gli domandarono: E che adunque Sei tu Elia? Ed ei rispose: Nol sono.

Se’ tu il Profeta? Ed ei rispose: No. Già da molti secoli Elia era stato rapito in cielo sopra un carro di fuoco. Ora i Giudei sapevano, che quell’uomo di Dio doveva ritornare sulla terra prima della venuta del Figliuolo di Dio. Ma ignorando essi, che ciò avrebbe dovuto effettuarsi prima della seconda venuta di Gesù Cristo, vale a dire alla fine del mondo, e credendo invece che, dovesse precedere la prima venuta, è perciò che i messi gli domandarono se era Elia. Gli domandarono in secondo luogo, se egli era il profeta; perciocché come riferisce S. Giovanni Grisostomo, per una falsa interpretazione di un passo del profeta Malachia (Cap. IV, 5) si era ingenerata tra gli Ebrei la falsa credenza, che alla venuta del Messia non solamente dovesse tornare al mondo Elia, ma dovesse nascere tra di loro anche un profeta simile a Mosè, al quale applicavano alcune parole di un sacro libro, chiamato il Deuteronomio (Cap. XVIII, 15), le quali si debbono intendere di Gesù Cristo stesso. Ma tanto all’una come all’altra domanda S. Giovanni Battista rispose negativamente. Eppure, tanto all’una, come all’altra avrebbe potuto rispondere di sì. E di fatti l’Angelo del Signore parlando di lui al suo padre Zaccaria, non aveva detto, che precederebbe il Salvatore nello spirito e nella virtù di Elia? (Luc. I , 17). E facendo Gesù Cristo alle turbe il suo elogio non aveva aggiunto, che « Giovanni era profeta e più che profeta, che anzi non era sorto maggiore di lui fra nati di donna? » (Matt. XI, 11). San Giovanni adunque, senza mentire menomamente, poteva rispondere di essere Elia per lo spirito e per la virtù, ed anche di essere un Profeta, facendo in tal guisa concepire di sé una men bassa opinione. Ma egli invece, e perché non era Elia in persona, e perché non era neppure il profeta per eccellenza, vale a dire Gesù Cristo, sia per amore alla verità, ma più ancora per amore all’umiltà, anche qui rispose negando e dicendo di non essere né Elia, né il profeta. – Che bell’esempio è mai questo! Impariamo, o miei cari, a nascondere, anche noi con molta cura le virtù e le buone qualità, che avessimo, a meno che il rivelarle fosse necessario all’edificazione degli altri ed a giustificazione di noi medesimi. Non diamoci così facilmente a pubblicare le nostre buone azioni, perciocché per averne il premio loro dovuto, basta che le sappia Iddio, e specialmente perché anche le opere più meritorie, limosine, preghiere, digiuni, sacramenti, pratiche di pietà pèrdono tutto il loro merito, se di essecerchiamo gli umani applausi. Colui che opera per questo fine, di accattare le lodi degli uomini, al dire di un profeta, fa come colui che mette le sue robe dentro un sacco forato, ed al termine della vita, non ostante il bene che avrà fatto, si sentirà a dire da Dio medesimo: Iam recepisti mercedem tuam: hai già ricevuto la tua mercede (Matt. VI, 2).

3. In seguito a quelle risposte di S. Giovanni, i messi del Sinedrio si fecero a rivolgergli una domanda più incalzante di ogni altra, alla quale egli avrebbe dovuto rispondere direttamente e dir chiaro quello, che pensava di sé medesimo. Gli dissero pertanto: Ohi sei tu, affinché possiamo render risposta a chi ci ha mandato: Che dici di te stesso? Ed è qui che S. Giovanni ci diede l’esempio di un terzo grado di umiltà, che consiste nell’abbassarsi per amor di Dio al di sotto di quello, che si è. Imperciocché messo così alle strette da’ suoi interrogatori: Io sono, disse, la voce di colui, che grida nel deserto: Raddrizzate la via del Signore, come ha detto il profeta Isaia, Come adunque, soggiunsero essi, tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta? E Giovanni rispose loro e disse: Io battezzo nell’acqua; ma v’ha in mezzo a voi uno che non conoscete: Questi è quegli, che verrà dopo di me, il quale è da più di me: a cui io non son degno di sciogliere i legaccioli delle scarpe. Ecco le umilissime parole di S. Giovanni. Incalzato a rispondere direttamente chi egli sia, dice: Io sono la voce di colui, che grida nel deserto. Qual cosa vi ha più debole della voce, la quale non è altro che un soffio leggero, che per un istante percuote l’aria e poi svanisce? Ebbene quantunque S. Giovanni fosse così penitente, così virtuoso, così santo, egli si riguardò nulla di meno innanzi a Dio come un lieve soffio, che il vento dissipa in un minuto. Ed aveva ragione. Perciocché che cosa sono mai dinanzi al Signore anche i più grandi Santi? Quando ci poniamo alla presenza di Dio, non possiamo far a meno di riconoscere di essere nulla, assolutamente nulla. Era questo appunto il pensiero del santo re Davide: Substantia mea tamquam nihilum ante te; la mia sostanza è come un niente dinnanzi a te, o Signore (Ps. XXVIII, 6). Ma è pur questo il sentimento nostro? Se anche a noi fosse rivolta una domanda somigliante a quella di Giovanni Battista: Chi sei tu? che dici di te stesso? Daremmo anche noi una somigliante risposta? O non ci metteremmo piuttosto a tessere subito il nostro panegirico? È bensì vero che vi hanno taluni che alle volte parlando di sé dicono di non essere altro che miserabili peccatori, di non avere abilità alcuna, di essere da meno di tutti gli altri; ma forse che essi lo dicono col cuore? per vero sentimento di umiltà? Tutt’altro. Essi, parlano in tal guisa, perché quelli che li odono, mettendosi a correggerli delle loro asserzioni, facciano a loro più ampie lodi. E ciò è tanto vero, che se, contro la loro aspettazione, qualcuno facesse mostra di credere realmente quello, che costoro di sé asseriscono, tosto schizzerebbero fuori il veleno della superbia, che hanno in cuore, offendendosi di colui, che si mostrò con loro o sì ingenuo o sì audace. Est qui nequiter se humiliat et interiora eis piena sunt dolo (Eccli. XIX, 23). Vi ha, dice lo Spirito Santo, chi si umilia maliziosamente ed ha il suo cuore pieno di frode. Costoro adunque, tutt’altro che esser umili, sono superbi più raffinati, opperò anche più maligni degli altri. Guardiamoci bene di appartenere al numero di questi disgraziati; ad esempio di S. Giovanni umiliamoci davvero, riconoscendo anche noi il niente, che siamo rispetto a Dio, le miserie di cui siamo ripieni, i peccati che abbiamo commessi e coi quali tanto ci siamo avviliti, e per tal guisa induciamo la volontà nostra ad un sincero abbassamento e disprezzo di noi stessi e ad esprimerlo anche al di fuori di noi nelle parole, nei fatti, e nel portamento stesso della persona. – E nell’esercizio dell’umiltà anche noi come Giovanni, non cerchiamo altro che la gloria di Dio. Con quale sollecitudine egli fece intendere che il suo battesimo non era altro che una cerimonia simbolica, un apparecchio a quello, che avrebbe istituito Gesù Cristo! Con quale fretta egli aggiunse, che in mezzo ai Giudei vi era uno incomparabilmente a lui superiore in dignità e potenza, il quale avrebbe fatto quel che egli non poteva fare! Per certo in questo colloquio da lui tenuto coi messi del Sinedrio e che si può riguardare la chiusa ufficiale dell’antico testamento, egli fece spiccare con termini sublimi la grandezza di Gesù Cristo e gli rese una grandissima gloria. E questo appunto è il carattere più spiccato dell’umiltà: cercar sempre in tutto e per tutto la gloria di Dio. Così fecero, oltre a S. Giovanni, tutti gli altri Santi; e render gloria a Lui solo di ogni prospero successo fu sempre la loro massima cura. Soli Deo honor et gloria; Ad maiorem Dei gloriam; Deo gratias; Tutto per Gesù; ecco i loro motti ed il loro costante programma. Facciamo adunque di imitarli. E se il demonio, spirito di superbia, verrà ancora tentandoci ad invanirci di quel poco, che siamo o che facciamo, domandiamoci subito con le parole di S. Paolo: Quid hàbes quod non accepisti? Che cosa hai che tu non abbia ricevuto da Dio? E se tutto quello che hai, da Lui l’hai ricevuto, perché te ne glorii come se non l’avessi ricevuto? Quid gloriaris quasi non acceperis? (1. Cor. IV, 7). E con questa interrogazione, soffocando il nostro amor proprio, di tutto loderemo e benediremo Iddio.

Omelia II

DISCORSO PER LA III DOMENICA DELL’AVVENTO

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra i Cristiani.

“Tu quis es?” Jo. 1

Menava S. Giovanni Battista là nel deserto una vita sì santa che i Giudei, incerti se fosse un profeta ovvero lo stesso Messia, gli mandano un’ambasciata per sciogliere il loro dubbio ed istruirsi di quel che conveniva credere a suo riguardo. Chi siete voi? gli chieggono i deputati della sinagoga: Tu quis es? Ma il servo di Dio, lungi di lasciarsi abbagliare dallo splendor della gloria che gli procaccia la sua virtù, umilmente risponde sé esser la voce di chi grida nel deserto: preparate le vie del Signore: Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini (Matth. V). Permettete, fratelli miei, che io vi faccia in quest’oggi, sebbene in un senso differente, la stessa domanda che i Giudei fecero al Battista: Tu quis es? Chi siete voi? Io so che, rigenerati essendo nell’acque del Battesimo e facendo professione di seguire la legge di Gesù Cristo, potete rispondermi che siete Cristiani. – Ma avete voi ben compreso sin qui la grazia di vostra vocazione al Cristianesimo e siete stati fedeli a corrispondervi? Riconoscete in questo giorno a qual grado di onore v’innalzi il Cristianesimo; ma imparate altresì a qual grado di santità tendere voi dovete. Ecco su di che mi determino d’istruirvi in questo ragionamento.

Qual è la dignità del Cristiano? Prima parte:

Quali ne sono gli obblighi? Seconda parte.  

Eccellenza del Cristianesimo; dovere del Cristianesimo. Ecco tutto il mio disegno.

I.° Punto. L’averci Dio cavati dal nulla a preferenza di tanti altri è un benefizio il quale, benché comune a tutti gl’uomini, merita pur la nostra riconoscenza. Questo benefizio nulladimeno ci era inutile, dice s. Ambrogio, se Dio aggiunto non vi avesse quello della redenzione; Non prodesset nasci, nisì redimi profuisset. Ora Dio, la cui carità per gli uomini è infinita, non si è contentato di dar loro l’essere, ha voluto ancora dare il suo Figliuolo per redimerli. Ma ciò che mette il cumulo ai disegni di misericordia che Dio ebbe sopra di noi si è che per una grazia speciale abbia voluto farci nascere nel seno del Cristianesimo; che senz’alcun’altra ragione, se non un più grande amore per noi, distinti ci abbia da tanti infedeli privi del Battesimo; e che separandoci cosi da questa moltitudine d’uomini, ci faccia partecipare in un modo più abbondante ai meriti di Gesù Cristo, perché tal è il sacro carattere che ci fa Cristiani, produce nelle nostre anime gli effetti più santi e più gloriosi. E per meglio giudicarne, richiamatevi alla memoria, fratelli miei, ciò che eravate prima del vostro Battesimo, e consultate la vostra fede. Essa v’insegnerà che voi uscite non dal nulla della natura, ma dal nulla del peccato. Discendenti infelici di un padre prevaricatore, non prima foste formati nel seno delle vostre madri che siete divenuti schiavi del demonio. Concepiti nel peccato, voi siete venuti al mondo figliuoli d’ira; oggetto dell’odio e dello sdegno di Dio: Eramus natura filii iræ (Eph. II). Decaduti voi eravate dal diritto alla sua eredità. Il cielo, quel bel cielo che ci aveva destinato, eravi chiuso per sempre. La vostr’anima, spogliata di tutti i doni della giustizia originale, era divenuta l’orribile dimora del demonio. Questo principe delle tenebre esercitava su di voi il suo impero, e un impero sì vergognoso che, prima di esser battezzati, vi giudicavano indegni di entrare nella casa del Signore, perché eravate riguardati come figliuoli di maledizione. E perciò la Chiesa, prima di darvi il Battesimo, ha fatto frequenti esorcismi, ed ha impiegato il soffio misterioso dei suoi ministri per dar la fuga al demonio e fargli lasciar una dimora in cui doveva abitar Gesù Cristo. Quanti ringraziamenti non dovete voi rendere a Dio, che vi ha liberati col Battesimo dalla schiavitù vergognosa cui eravate ridotti, che vi ha dalle tenebre chiamati alla sua luce? Sì, fratelli mici, in quel fortunato momento in cui si versò un’acqua salutevole sul vostro capo, la vostr’anima morta per lo peccato ha ricevuto Una nuova vita. Nell’atto che si spandeva quest’acqua sopra il vostro corpo, il sangue di Gesù Cristo versavasi sopra la vostr’anima per lavarla e purificarla dalle sue macchie. In quel momento spogliati vi siete dell’uomo vecchio per essere rivestiti di nuove creature in Gesù Cristo, come dice l’Apostolo. La vostr’anima ha riacquistata la sua primiera bellezza, ed invece della spaventevole immagine del demonio che la sfigurava, Si ha impresso Iddio dei tratti di sua somiglianza che vi rendono per partecipazione ciò ch’Egli è per natura: divinæ consortes naturæ (2 Pet. 1); vale a dire, fratelli miei, che per mezzo della grazia battesimale, voi non solo siete stati purificati dalla macchia del peccato, siete stati santificati, ma in qualche modo divinizzati. E come ciò? Ricevendo voi questa grazia, avete contratta un’alleanza particolare con le tre auguste Persone della Trinità santissima, in virtù della quale siete divenuti figliuoli di Dio, membri e fratelli di Gesù Cristo, tempio dello Spirito Santo. Quanto sono gloriosi questi titoli! quanto stimabili sì fatte prerogative! essere figliuolo di Dio, qual gloria per una creatura! Non era forse già assai che ci permettesse di prendere la qualità di servo? Quale è dunque stata la carità di Dio verso gli uomini, dice l’apostolo s. Giovanni, di volere che noi fossimo chiamati e che in realtà fossimo suoi figliuoli? Videte qualem charitatem dedit nobis Pater, ut flii Dei nominemur et sìmus (I Jo. 5). Questo è, dice S. Cirillo, il colmo della grandezza, della nobiltà. Iddio, è vero, non ha che un solo Figliuolo per natura; ma Egli ha inviato questo Figliuolo nella pienezza dei tempi per redimere quelli che erano sotto la legge e compiere l’adozione dei figliuoli: vale a dire, Iddio ci ha elevati per mezzo di suo Figliuolo alla dignità di figliuoli adottivi; perciocché questo Figliuolo adorabile, vestendo la nostra natura, ci ha rivestiti della sua divinità, ci ha comunicata per mezzo del suo divino Spirito la grazia santificante, il cui proprio effetto si è di renderci figliuoli di Dio e di darci il dritto di chiamarlo nostro Padre: in quo clamamus, Abba, pater (Rom.VIII). Qual gloria, dico, per vili creature, per miserabili vermi di terra, come siamo noi? Giudicatene, fratelli miei, dall’onore che riceverebbe un povero suddito, se il più gran re del mondo lo traesse dal fango per farlo suo figliuolo adottivo e dargli diritto alla sua corona; non si crederebbe egli il più felice dei mortali? Ora il favore che Dio ci ha fatto in averci adottati per suoi figliuoli è infinitamente più glorioso. Vantino pure i grandi della terra quanto tornerà loro a grado, la nobiltà della loro origine; si compiaccian pure e si faccian gloria di quei titoli pomposi che l’innalzano al di sopra degli altri uomini; ma che sono i titoli tutti della grandezza umana, paragonati all’augusta dignità di figlioli di Dio, che noi riceviamo nel Battesimo? il più povero, il più miserabile degl’uomini di Dio, è infinitamente superiore a tutti i monarchi del mondo che nol sono. – La veste d’innocenza, che abbiamo ricevuta nel Battesimo, vale infinitamente più che la porpora e il diadema di cui i re sono adorni. Oimè, fratelli miei, a che ci servirebbero le corone tutte, tutti gl’imperi del mondo, se noi non fossimo Cristiani, figliuoli di Dio? Senza questa qualità nessun diritto avremmo al cielo; laddove essendo figliuoli di Dio, siamo gli eredi del suo regno, dice s. Paolo: Si filii, et hæredes (Rom. VIII). Noi vi abbiamo un diritto incontrastabile, che ci è stato acquistato col sangue di Gesù Cristo, di modo che se moriamo in grazia di Dio, questo regno eterno ci è tanto dovuto, quanto l’eredità di un padre al figliuolo: Si fllii et hæredes. Convien dopo questo meravigliarci se i santi hanno anteposto il titolo di Cristiano a tutte le dignità del mondo? Ah! sapevan essi le grandi prerogative che sono annesse alla qualità di Cristiano; sapevano che questo titolo onorevole, sostenuto dalla santità della vita, dava loro diritto ad un regno che vale più che tutti gl’imperi del mondo. Testimonio il grande s. Luigi re di Francia, il quale se ne riputava più onorato che del titolo di re, poiché segnava il suo nome Luigi di Poissij, perché aveva in quel luogo ricevuto il Battesimo. Concepiamo anche noi la dovuta stima per quest’augusta qualità che ci rende figliuoli di Dio, ci fa eredi del suo regno e membri di Gesù Cristo. Sì, fratelli miei , voi siete divenuti per mezzo del Battesimo membri di Gesù Cristo; è lo stesso apostolo S. Paolo che ve ne assicura. Non sapete, diceva egli a quei di Corinto, che i vostri corpi sono i membri di Gesù Cristo: Nescitis quoniam corpora vestra membra sunt Christi (1 Cor. VI) ? Or come mai, per via del Battesimo, siete voi stati incorporati con Gesù Cristo? Si è che questo Sacramento vi ha dato l’entrata nella Chiesa , che è il corpo mistico di cui Gesù Cristo è il capo. Voi siete per lo Battesimo aggregati a questa nazion santa, a questo popolo eletto che Gesù Cristo ha col suo sangue acquistato. Voi fate parte di questa Chiesa ch’egli ha santificata, come dice l’Apostolo, e purificata nel Battesimo d’acqua per farla comparire avanti di Lui piena di gloria, per associarsela come sua sposa. Ora, da che voi siete membri della Chiesa, di cui Gesù Cristo è capo, voi partecipate delle grazie ch’Egli le comunica, voi siete animati del suo Spirito, voi ricevete da Lui la vita, siccome un membro la riceve dal corpo, e per servirmi del paragone di cui servesi Egli stesso, voi uniti gli siete come il tralcio della vite è unita al suo ceppo da cui riceve il nutrimento, unione sì intima che la paragona anche a quella ch’ Egli ha col suo Padre: Tu in me, et ego in eis (Jo. XVII). E che di più glorioso? Voi siete ancora per via del Battesimo fratelli di Gesù-Cristo, non solo perché Egli ha preso una natura simile alla vostra, ma perché, essendo Egli figliuolo di Dio per sua natura, e voi per adozione, associati vi ha ai suoi diritti, facendovi coeredi del suo regno: cohæredes Christi (Rom. VIII). Eccovi dunque in qualità di Cristiani figliuoli di Dio, fratelli di un Dio, aggiungiamo, tempio dello Spirito Santo, che è Dio. Questo è sempre il linguaggio di s. Paolo: non sapete voi, che i membri sono tempio dello Spirito Santo che abita in voi? Nescitis quia vos eslis templum Spiritus Sancti qui habitat in vobis (1 Cor. III)? Questo divino Spirito, che era portato più particolarmente sopra le acque del Battesimo che sopra quelle che sparse erano al principio del mondo, vi elesse sin d’allora per sua abitazione. Vi purificò, vi santificò e impresse in voi un sacro e indelebile sigillo che noi chiamiamo carattere del Battesimo, carattere che distingue i Cristiani dagl’infedeli e che vien rappresentato dal santo crisma, con che ci viene amministrato questo Sacramento: unxit nos, signavit nos (2 Cor. 1). Non solo lo Spirito Santo santificò le vostre anime ma ancora i vostri corpi per esser tempi vivi a lui consacrati, in cui dovete fargli il sacrificio delle vostre passioni, offrirgli l’incenso delle vostre preghiere, l’omaggio dei vostri cuori. Avete mai fatto riflessione, fratelli miei, ad una cerimonia che fa la Chiesa all’esequie de’ fedeli? Perché mai la stessa mano del sacerdote che offre l’incenso al Dio vivente incensa i corpi dopo la morte? Qual rispetto, qual onore meritano dunque questi corpi che debbono fra poco essere pascolo dei vermi? Non ne meritano alcuno da se stessi; ma questi corpi sono stati consacrati dallo Spirito Santo nel Battesimo, sono divenuti sua abitazione; ecco ciò che li rende sì rispettabili, ciò che li fa onorare dopo la loro morte, ciò che fa seppellirli in luoghi santi, perchè crederebbesi profanarli mettendoli altrove. Riconoscete dunque, o Cristiani, l’eccellenza di vostra vocazione al Cristianesimo: Agnosce, o Christiane, dignitatem tuam. Riconoscetela, dico, per non degenerar dalla nobiltà di vostra origine: Iddio per una grazia particolare vi ha separati dalle altre nazioni che ha lasciate nelle tenebre; per chiamarvi all’ammirabile sua luce: Non fecit taliter omni nationi (Psal. 147). Vi ha innalzati ad una dignità che supera tutto ciò che le corone del mondo hanno di più grande e di più brillante: qual riconoscenza dunque non gli dovete per un dono così prezioso? Gratias Deo super inenarrabili dono eius (2 Cor. IX). Ma questa qualità sì augusta è forse quella di cui facciasi più stima nel mondo? Si vantano alcuni delle ricchezze, della nascita, degl’impieghi: mettono in mostra agli occhi degl’uomini titoli pomposi, che altro non sono che fumo, e poi non fanno alcun caso del nobil carattere di Cristiano di cui son rivestiti. Che dico? ben lungi dal gloriarsene hanno vergogna di comparirlo, arrossiscono a darne un qualche segno, credono un disonore il trovarsi alle assemblee di pietà, alle cerimonie della Chiesa, le quali sono una professione pubblica del Cristianesimo: voglia Dio che non le mettano ancora in derisione! Ben lungi dal sostenere la Religione contro gli empi che l’assalgono, osservano un colpevole silenzio, il che è un disapprovarla, si uniscono eziandio a quelli che la combattono, per farle guerra; ose non l’attaccano con parole, la disonorano con una condotta, irregolare. Si contentano di portar il nome di Cristiano senza curarsi di adempierne i doveri. Quali sono questi doveri? Soggetto del secondo punto.

II.°  Punto. Per darvi subito un’idea dei doveri e della santità del Cristianesimo, bisogna considerare questo stato sotto due rapporti, che ne racchiudono tutte le obbligazioni. Noi dobbiamo riguardare il Cristianesimo come uno stato di separazione e di consacrazione; questa idea segue naturalmente da ciò che abbiamo detto della dignità del Cristianesimo. Ed invero, se il Battesimo vi libera dalla schiavitù del demonio e del peccato, ne segue da questo che voi rinunciar dovete al peccato e a tutto ciò che può essere per voi occasione di peccato. Se voi avete contratta nel Battesimo una sì augusta alleanza con le tre Persone dell’adorabile Trinità, divenendo figliuoli di Dio, membri e tempi di un Dio, quei gloriosi titoli v’impegnano a consacrarvi al servizio di Dio in un modo che corrisponda alla scelta ch’Egli ha fatto di voi, e alla dignità cui vi ha innalzati. Tale è la santità che l’apostolo s. Paolo esigeva dai primi Cristiani, allorché li esortava ad operare come persone morte al peccato e viventi della vita di Dio: Existimate vos mortuos peccato, viventes autem Deo (Rom. VI). Sì, tutti quanti noi siamo, aggiunge egli, siamo stati in Gesù Cristo battezzati nella sua morte; imperciocché noi siamo stati con lui sepolti per morire, affinché, come Gesù Cristo è risuscitato, meniamo pure noi una nuova vita. Dobbiamo tener per certo, continua quest’Apostolo, che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con Gesù Cristo, affinché il corpo del peccato sia in noi distrutto, e noi non ne siamo più gli schiavi. Che cosa c’insegna quest’ammirabile dottrina di s. Paolo? Se non che il Cristianesimo è uno stato di morte, poiché paragona il Battesimoalla morte di Gesù Cristo; e che, essendo Gesù Cristo veramente morto, noi altresì dobbiam morire, morire per via del Battesimo; dico di più, non solamente morire, ma essere sepolti, cioè dobbiamo rinunciare interamente al peccato e non avere alcun affetto per tutto ciò che può essere per noi occasione di peccato. E non è altresì, fratelli miei, quel che v’han fatto promettere al Battesimo allorché vi presentarono alla Chiesa per essere ammessi nel numero dei suoi figliuoli? Vi fu domandato se rinunziavate a satanasso, alle sue pompe, alle sue opere: Abrenuntias satanæ? Voi rispondeste per bocca dei vostri padrini che vi rinunciavate: Abrenuntìo. Voi faceste adunque allora un trattato con Dio, una promessa solenne in faccia della Chiesa, di cui il cielo e la terra furono testimoni. Questa promessa fu non solo inserita nei registri del Battesimo, ma ancora nel libro della vita, dice s. Ambrogio; Iddio ne conserverà sempre la memoria. Ora in che consistevano queste promesse che voi faceste di rinunziare a satanasso, alle sue pompe e alle sue opere? Voi agevolmente lo comprendete, e non è bisogno di dirvelo. Voi prometteste a Dio che, se avevate avuto la disgrazia di essere divenuti, per una volontà straniera, schiavi del demonio, non volevate più esserlo per vostra elezione: gli prometteste che il peccato non regnerebbe più in voi; che eravate perciò risoluti di resistere a tutti gli assalti del nemico della salute e di rinunziare a tutti gli oggetti capaci a dargli l’entrata nel vostro cuore. Ecco ciò che s’intende per le pompe e le opere di satanasso. Ma quali sono quegli oggetti di cui servesi il demonio per pervertirvi e a cui voi avete rinunziato? Sono i beni,gli onori, i piaceri del mondo, le massime perniciose che egli spaccia, i cattivi esempi che vi si vedono: ecco le attrattive che il demonio presenta agli uomini per farli cadere nei suoi lacci; li tenta con l’amore dei beni terreni, affinché, attaccandovi il cuore; più non pensino ai beni eterni che Dio ad essi riserba nel cielo; li abbaglia con lo splendor degli onori, affinché, perdendo di vista il loro niente, s’innalzino e di poi precipitino nel profondo degli abissi; li tiene a bada con l’incanto de’ piaceri per render la loro carne ribelle alla legge di Dio. Che cosa dunque dovete voi fare, fratelli miei, per adempiere le promesse con che vi siete obbligati nel Battesimo? Dovete staccarvi da’ beni del mondo, disprezzare i suoi onori, morire ai suoi piaceri. A ciò vi esorta il discepolo diletto allorché vi dice di non amar il mondo né tutto quello che v’è nel mondo: Nolite diligere mundum (1 Jo. III). Imperciocché tutto ciò che è nel mondo, dice egli, è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi, superbia della vita. Siete voi provveduto di beni di fortuna? Non vi attaccate il vostro cuore, ma fatene un santo uso ed impiegateli a soccorrere i mendici! Siete voi in uno stato di povertà ? Adorate i disegni della provvidenza, che vi ha posti in quello stato, e non invidiate la felicità dei ricchi, la quale si cambierà per molti di essi in una miseria eterna. Fuggite gli onori e la gloria come uno scoglio fatale alla salute dell’ anima: un vero Cristiano fa consistere la sua gloria nei disprezzi e nelle umiliazioni. Morite finalmente a’ piaceri dei sensi con una continua mortificazione delle vostre passioni; poiché, per appartenere a Gesù Cristo in qualità di Cristiano, bisogna, dice s. Paolo, crocifiggere la propria carne con le sue concupiscenze: Qui Christi sunt carnem suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiis (Gal. V). Ecco, fratelli miei, gli obblighi che avete contratti nel Battesimo;ecco lo stato di morte in cuidovete essere per rassomigliare a GesùCristo morto. Non basta ancora morire,bisogna essere con Gesù Cristo sepolti: Consepulti sumus cum Christo (Rom. VI). Un uomo morto non ha più commercio col mondo, ma il mondo ne ha ancora con lui, gli si rendono onori: ma un uomo nel sepolcro è interamente dimenticato dagli uomini. Tale è la situazione in cui dovete essere per rapporto al mondo: voi dovete essere crocifissi al mondo: ed il mondo deve essere a voi crocifisso, come dice l’Apostolo: Mihi mundus crucifixus est, et ego mundo (Gal. VI). Se il vostro stato vi obbliga a viver nel mondo, voi dovete starvi come se non vi foste; vivere in una specie d’indifferenza per tutti gli oggetti creati, di modo che non siate né afflitti dalle disgrazie né invaghiti dai piaceri; siate così indifferenti alla gloria come al disprezzo, alla stima come alla obblivione degli uomini. Ecco in che consiste questa morte e questa sepoltura mistica che deve rappresentare la morte e la sepoltura di Gesù Cristo: Consepulti sumus per baptismum in mortem (Rom. VI). Ma quanto è mai raro, fratelli miei il trovare Cristiani così fedeli alle promesse del Battesimo che muoiano al peccato e alle pompe del secolo, e si seppelliscano con Gesù Cristo, e non abbiano alcun affetto ai piaceri del mondo! Quanti all’opposto se ne vedono che fanno rivivere in sé il peccato; che, dopo essere stati illuminati dalla luce della grazia, dopo avere gustato il dono celeste lo calpestano coi piedi, perdono a sangue freddo la veste d’innocenza col cattivo uso che fanno della loro libertà? Oimè! appena conservano questa grazia battesimale nella più tenera età; subito che la ragione comincia a svilupparsi dalle tenebre dell’infanzia, il primo uso che ne fanno si è di perdere col peccato questa grazia, che è il frutto della morte di un Dio! Almeno, dopo averla perduta si sforzassero di ricuperarla con la penitenza, che è come un secondo Battesimo; men grande sarebbe allora la disgrazia: ma no; ben lungi dallo spezzare le loro catene, ne accrescono il peso con nuovi peccati; persistono ostinatamente in quel funesto stato; mantengono ree pratiche, attaccamenti illeciti, che romper non vogliono; si fan gloria di camminare sotto gli stendardi del demonio, cui hanno rinunciato nel Battesimo. Oh Cristiani indegni, Cristiani infedeli alle vostre promesse questo è ciò che Dio doveva da voi attendere quando tratti vi ha dalle ombre della morte per darvi una nuova vita? Questo è ciò che la Chiesa sperava da voi quando vi ha ricevuti nel numero de’ suoi figliuoli? Voi le avete promesso che rinuncereste a satanasso, alle sue pompe e alle sue opere; ma non diremmo piuttosto che avete promesso di seguire il partito del demonio, di ricercare le sue pompe e le sue opere, tanto vi vediamo attaccati ai beni del mondo, ai piaceri de’ sensi, alle massime e alle costumanze del secolo; tanto vi vediamo solleciti pei giuochi, per gli spettacoli, le adunanze dei piaceri, dove presiede il principe delle tenebre e dove egli ruba tante anime a Gesù Cristo? invece di onorare il vostro carattere con la santità delle azioni, voi lo disonorate con una condotta del tutto irregolare, con una vita affatto pagana. Or sappiate che quel carattere che vi è stato dato e che servir doveva a vostra salute, servirà un giorno a farvi condannare con maggior rigore. Si produrrà contro di voi al giudizio di Dio questa veste d’innocenza che avete profanata con azioni peccaminose e vi si dirà: Ecco, o perfido, la veste di cui fosti rivestito quando ricevesti il Battesimo. Doveva questa veste darti l’entrata nel convito delle nozze eterne; me perché tu l’hai perduta col peccato, interdetta ti sarà per sempre l’entrata. Porterai per tua confusione durante tutta l’eternità il carattere che hai ricevuto nel Battesimo; ma, distinguendoti dagli altri reprobi, non servirà che a procacciarti dal canto loro i rimproveri più amari. Per scansare una tale disgrazia, fratelli miei, morite al peccato e a tutte le lusinghe del peccato: questo è il primo passo che far dovete nella strada cristiana; voi adempirete con ciò la prima promessa del Battesimo, che è uno stato di separazione. Ho aggiunto uno stato di consacrazione. Sì, fratelli miei, per esser fedele alle promesse del Battesimo, non basta vivere separato da tutto ciò che costituisce l’uomo vecchio, bisogna ancora consacrarsi a Dio; vale a dire che dopo esser morto convien risuscitare, convien menare una vita nuova che rassomigli a quella di Gesù Cristo risuscitato: viventes autem Deo (Rom. VI). Or, ecco in che consiste questa vita nuova, questa consacrazione.In qualità di figliuoli di Dio voi dovete ubbidirgli; come membri e fratelli di Gesù Cristo, dovete conservarli in uno stato di purità e di Santità che corrisponda alla scelta che Egli ha fatto di voi per essere la sua abitazione. Qual cosa più giusta che i figliuoli rendano al loro padre l’ubbidienza che gli debbono? Dio ha diritto sopra la nostra in qualità di padrone e di creatore; ma ce la richiede ancora sotto l’amabil titolo di padre. Vuole sottometterci al suo impero  piuttosto perla strada dell’amore e delle ricompense che per quella del timore e dei castighi. Possiamo noi ricusargli questa ubbidienza che gli è per tanti titoli dovuta? E non dobbiamo noi, in qualità di figliuoli, farci un dovere di compiere in tutto la sua volontà? Ah! Signore, dobbiam dire, comandate tutto quel che volete, noi siamo pronti ad ubbidirvi in tutto; bastaci di conoscere che una cosa vi piaccia per farla con diletto, o ch’ella vi dispiaccia per evitarla sollecitamente. Con tutto ciò dove è, fratelli miei, la vostra docilità e la vostra esattezza a fare la volontà di Dio? Nella vostra condotta qual regola seguite? Ciò che vi fa risolvere nelle vostre azioni non è piuttosto la vostra propria volontà che quella di Dio? Voi osservate, è vero, alcuni capi della legge, quando vi trovate il vostro interesse, quando la vostra comodità ve lo permette il vostro umore vi si accomoda ma a quei punti che molestano le vostre passioni, che ripugnano al vostro amor proprio, voi non volete in alcun modo assoggettarvi. Non ha dunque ragione il Signore di dirci quel che diceva altre volte per un profeta ad un popolo che gli era ribelle: Se io sono vostro Padre, dov’è l’onore che mi dovete? Non mi disonorate voi all’opposto con le vostre resistenze ai miei voleri, con gli oltraggi che fate alla mia gloria? –  Voi siete ancora per via del Battesimo membri e fratelli di Gesù Cristo. Come membri, dovete essergli uniti con una viva fede, una ferma speranza, una carità ardente. Se ne siete separati per il peccato, voi non siete che un membro morto, indegno d’appartenere ad un sì nobile capo. Come fratelli di Gesù Cristo voi dovete imitarlo;cioè voi dovete esser animati dal suo spirito, seguir le sue massime, imita i suoi esempi. Or quali esempi di virtù non ci ha dati Gesù Cristo? Qual povertà, quale umiltà, qual pazienza, qual mansuetudine non ha Egli mostrata in tutta la sua vita ? Che cosa è dunque un vero Cristiano? E un uomo che si fa gloria di esser discepolo di Gesù Cristo, che pensa, che parla, che opera come Gesù Cristo, che regola tutte le sue azioni sopra quelle di Gesù Cristo, che in ogni cosa se lo propone per modello. È un uomo umile negli onori, povero nell’abbondanza, paziente ne’ patimenti, che vive in pace co’ suoi fratelli, che perdona ai suoi più crudeli nemici. È un uomo raccolto in Dio, riserbato nelle sue parole, giusto nelle sue azioni, regolato nei suoi costumi, moderato nelle sue passioni, che porta incessantemente sopra il suo corpo la mortificazione di Gesù Cristo, di modo che dir può, come l’Apostolo, che non è egli che vive, ma che Gesù Cristo vive in lui: Vivo ego, iam non ego, vivit vero in me Christus (Gal.II) . A questi tratti riconoscete, fratelli miei, se siete Cristiani. Ah quanto vi vuole,affinché render vi possiate una tale testimonianza! La superbia, l’interesse, l’amore dei piaceri, la vendetta e le altre passioni che vi predominano, formano in voi un ritratto ben diverso da quello che vi ho fatto di un discepolo di Gesù Cristo. Voi ne portate il nome, è vero; voi date alcuni segni di Cristianesimo, recitate alcune preghiere, assistete alla Messa, ai divini uffizi, siete aggregati a qualche Confraternita; ma con tutto questo voi non avete lo spirito di Gesù Cristo, voi non volete portar la sua croce, contentate i vostri sensi e le vostre passioni, amate i beni, gli onori, i piaceri, che Gesù Cristo ha avuti in odio; dunque non gli rassomigliate né siete suoi fratelli. Ora, se voi non siete fratelli di Gesù Cristo, come sperar potete di essere gli eredi del suo regno? Cangiate dunque di condotta, o cangiate di nome. Finalmente, fratelli miei, divenuti voi siete per via del Battesimo i tempi dello Spirito Santo, ed in questa qualità conservar dovete i vostri corpi e le vostre anime in una purezza inviolabile che ne bandisca a ogni peccato a questa virtù contraria. Perciocché sappiate, dice il grande Apostolo, che se qualcheduno profana il tempio del Signore, Iddio lo perderà: Si quis violaverit templum Domini, disperdet illum Dominus (1 Cor. III). Ora si è profanar il tempio del Signore il dare il suo cuore alle creature e lasciarvi bruciare un fuoco straniero in pregiudizio dell’amore che voi dovete a Dio. Egli è profanare il tempio del Signore imbrattare i vostri corpi con piaceri brutali, con libertà illecite, che sono in un Cristiano una specie di sacrilegio. Colpevoli di una tal profanazione, temete il castigo con cui punito verrà questo peccato: disperdet illum Dominus. E certamente, fratelli miei, un sì nero attentato potrebbe forse essere troppo rigorosamente punito? Mentre qual indegnità i membri di Gesù Cristo farli membri di una prostituta? Tollens membra Christi, faciam membra meretricis? Absit (1 Cor. VI). A Dio non piaccia, dovete dire, allorché il nemico della salute v’incita a qualche peccato vergognoso, allorché vuole impegnarvi in qualche pratica peccaminosa: Absit. A Dio non piaccia che io commetta giammai azione alcuna contraria alla purezza del Cristianesimo. Absit. A Dio non piaccia ch’io n’abbia neppur il desiderio o il pensiero. Absit.

Pratiche generali. Per preservacene, ricordatevi, fratelli miei, che voi siete divenuti nel Battesimo membri di Gesù Cristo tempi dello Spirito Santo; sappiate che non siete più padroni di voi, ma siete particolarmente consacrati alle tre auguste Persone della Trinità santissima, che dovete per conseguenza esser uomini affatto celesti. Tali erano i primi Cristiani, cui voi succedete nella professione della medesima Religione. Perché non ho io qui tempo di rappresentarvi la santità della loro vita? Non potrei darvi migliori pratiche per insegnarvi ad adempiere i doveri del Cristianesimo. Erano si ferventi che passavano i giorni e le notti in orazioni; sì staccati dai beni del mondo che nulla possedevano di proprio; si nemici dei piaceri che vivevano in continua mortificazione; sì uniti gl’uni con gl’altri che non facevano tutti che un cuor solo ed un’anima sola: sì caritatevoli verso i loro fratelli che, ben lungi dal disputar sopra l’interesse, gareggiavano all’opposto chi facesse più di bene l’uno all’altro, sì poco amanti della vita che offerivansi volentieri alla morte per guadagnar una beatitudine eterna. Siate voi pur tali, fratelli miei, e sarete perfetti Cristiani. Erano essi uomini come voi, soggetti alle medesime debolezze che voi, ed avevano anche più ostacoli a superare che voi per compiere i loro doveri; e perché non farete voi quel che han fatto essi; giacché sperate la medesima ricompensa?

Pratiche Particolari. Ringraziate ogni giorno Iddio del benefizio inestimabile di vostra vocazione al Cristianesimo; ma principalmente il giorno in cui avete ricevuto il sacramento del Battesimo, celebratene l’anniversario con l’accostarvi ai Sacramenti; rinnovate alla Chiesa presso i fonti battesimali le promesse che avete fatte di morire al peccato, di rinunciare a Satanasso, alle sue pompe e alle sue opere, ai beni, ai piaceri, agli onori del secolo, per vivere della vita di Dio. Non vi vergognate mai, ma fatevi una gloria di comparir Cristiani: soprattutto in certe occasioni in cui si tratta di difendere la vostra Religione contro i discorsi degli empi. Siate assidui ai divini uffizi, alla adunanze di pietà, che mantengono il fervore del Cristianesimo; fuggite le assemblee mondane, in cui se ne perde lo spirito, Allontanatevi principalmente da quelle che si fan nelle veglie, durante l’inverno, in certe case dove la virtù più soda è esposta a perire col veleno dei discorsi osceni, delle canzoni lascive che si ascoltano, degli oggetti pericolosi che vi si vedono, (all’uscire dalle quali si trovano lacci funesti alla purità e all’innocenza. Rammentatevi che i piaceri del secolo non sono per i Cristiani; il nostro regno non è di questo mondo, noi non dobbiamo cercare la nostra consolazione che nel Signore, come dice s. Paolo: Gaudete in Domino (Philip. IV). Diportatevi dappertutto con modestia, ricordandovi che il Signore è vicino a voi, per nulla fare d’indegno del santo carattere Di cui rivestite siete. Per richiamarvi questa presenza di Dio, fate al principio delle vostre principali azioni il segno della croce, che è il segno del Cristiano. In una parola, operate in tutto con una maniera degna della vocazione cui siete stati chiamati, per giungere alla felicità che essa vi assicura. Cosi sia.

CREDO …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo

Offertorium

Orémus
Ps LXXXIV:2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob: remisísti iniquitatem plebis tuæ. [Hai benedetto, o Signore, la tua terra: liberasti Giacobbe dalla schiavitù: perdonasti l’iniquità del tuo popolo.]

Secreta

Devotiónis nostræ tibi, quǽsumus, Dómine, hóstia iúgiter immolétur: quæ et sacri péragat institúta mystérii, et salutáre tuum in nobis mirabíliter operétur. [Ti sia sempre immolata, o Signore, quest’ostia offerta dalla nostra devozione, e serva sia al compimento del sacro mistero, sia ad operare in noi mirabilmente la tua salvezza.]

Comunione spirituale:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Is XXXV: 4.
Dícite: pusillánimes, confortámini et nolíte timére: ecce, Deus noster véniet et salvábit nos. [Dite: Pusillànimi, confortatevi e non temete: ecco che viene il nostro Dio e ci salverà.]

Postcommunio

Orémus.
Implorámus, Dómine, cleméntiam tuam: ut hæc divína subsídia, a vítiis expiátos, ad festa ventúra nos præparent. [Imploriamo, o Signore, la tua clemenza, affinché questi divini soccorsi, liberandoci dai nostri vizii, ci preparino alla prossima festa.]

Preghiere leonine:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Ordinario della Messa:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

Ite, Missa est.
R. Deo gratias.

LO SCUDO DELLA FEDE (90)

(Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884) (1)

PARTE PRIMA

CAPO I.

Fine dell’autore in quest’opera, e via che tiene.

I

I. Nulla con maggiore studio coltivano i giardinieri nelle loro piante, che la radice. Questa innaffiano, questa impinguano, questa amano d’internar sempre più nel suolo, perché sia forte. Beati però i fedeli, se tutti con ansia simile coltivassero in sé la radice di ogni loro felicità, che è la fede! Sarebbero tutti quell’albero di vita non deficiente, di cui, non pure le frutta, ma insin le frondi, son sì salubri alle genti, per lo esempio di ogni virtù. Ma la notizia contratta in cinque lustri già di missioni, mi ha fatto scorgere, quanto sia grande il bisogno che tengon molti di attendere a tal cultura; mentre essi, in vece di procurar che la fede alligni profondamente dentro il cuor loro, lasciano che per poco ella giunga ad inaridirvi. Se non arrivano a tenerla per falsa, arrivano a sospettarne, che è quanto basta a darle tosto una morte, meno vergognosa all’aspetto, ma non men cruda: Dubius in fide infìdelis es (Cap. I . hæret.) né può non esser tale, mentre egli tien per incerta, col dubitarne, una fede certa (Come nell’ordine della rivelazione chi dubita della fede è infedele, come nell’ordine della ragione chi pone in forse il Vero, è scettico. Il dubbio è morte dell’anima, perché uccide d’un colpo e scienza e fede).

II. Né questo eccesso è sì rado, come alcun pensasi. Mercecchè l’impegno serve a più d’uno, come quei vetri di prima vista, che quanto più fedelmente espongono all’occhio tutti gli oggetti vicini, tanto più alteratamente lo informano de’ lontani. Quel sapere con qualche spezial perizia ciò che appartiene alle verità naturali, confinanti co’ sensi, altera ad alcuni tanto la mente piena di sé, che fa loro concepire disordinatamente le verità che oltrepassano la natura (Profonda osservazione, che si avvera segnatamente a’ di nostri, in cui il culto smodato delle scienze fisiche, chimiche e naturali, non sorretto dal culto dello discipline ideali e speculative, minaccia di ingoiare in un brutale materialismo la società e la scienza). Tanto più, che spinto da vana curiosità di girare il mondo, viaggia bene spesso più di uno di questi per province infettate dalla eresia, ne osserva i riti, ne ode i ragionamenti; e ritornando alla patria con opinion che finalmente tutto il mondo è paese, vi riporta il veleno che concepì nell’incauto pellegrinaggio: sicché, non diversamente di chi fu morsicato da can rabbioso, si manifesta indi a poco non solo avvelenato dentro di sè, ma avvelenatore: Tantum remanet virus, excepto semel malo, ut venefici fiant, venena passi: (Plin. L. 28, c. 3) Quindi il motteggiare continuo sopra la fede e sopra la vita di là ch’ella rivela, ricercandone prove alquanto più chiare, per darle assenso; e quindi parimente il recarsi a gloria un intelletto non pago agli oracoli usciti dal Vaticano, e il reputarsi un miracolo di saviezza, perché sa dubitare di quei miracoli più famosi che da altri sono riveriti a chius’occhi, ed anche, se bisogni, sa dileggiarli.

III. Tali sono i turbini e le tempeste che si generano, dirò così, in questa mezzana region dell’aria, di una mente, né ignorante a sufficienza, né dotta; è sollevata sopra il saper comunale, ma non più su di ciò che lo dettino i sensi, comuni ai bruti, tempeste e turbini, che scendono con rovina su le campagne soggette: tanto un sol di costoro, né eretico, né cattolico, ma già candidato dell’ateismo, è talvolta bastevole a dare il guasto a gran parte del suo paese, e malmenare mille anime, con poca speranza ormai di loro ristoro, mentre in esse marcisce quel primo germe di ogni ravvedimento qual è la fede.

II.

IV. Adunque per desiderio di riparare a tanta rovina mi sono indotto a dar fuori un piccolo libro, da cui si additi a questi traviati il sentier diritto a trovare la verità: che è capir bene l’evidentissimo merito che ha la Fede Cattolica sopra ogni altra, di essere riputata infallibilmente quella che essa è, cioè data dal cielo. Dissi il sentier diritto a trovare la verità: perché il cercar questa nel lungo esame de’ suoi principali articoli ad uno ad uno, è il cercarla per un laberinto piuttosto di tanti giri, che l’uscir da uno sarebbe l’entrar nell’altro più interminabile ad un cervello contenzioso. – La Religione non ha mestieri di provare gli arcani della sua dottrina celeste, ma solamente di esporli. Ciò che ella debbo provar di necessità è che Dio stesso ne sia stato l’Autore. Dopo tal prova rimane affatto evidente che senza altro esaminamento si hanno a credere tutti gli articoli di essa con più fermezza di quella che si rende alle stesse dimostrazioni scientifiche, mercecchè nel credere quelli fermiamo i pie’sopra una base più immota e più incontrastabile, qual è la divina veracità.

V. E questa è la differenza della fede dovuta alle parole di Dio, e alle parole dell’uomo: che all’uomo, siccome a quello che agevolmente può ingannar per malizia, o essere ingannato per ignoranza, non si deve credere, se non si è prima esaminato il suo detto: Non omni verbo credas. Quis est enim, qui non deliquerit in lingua sua? (S. Thom.) Ma a Dio, nella cui lingua non può cadere né fallo, né falsità, si deve questa giustissima riverenza, che ove Egli ci porga indizi già sufficienti di aver parlato, ricevasi ciecamente la sua dottrina senza obbligarlo a provarcela: Quis est adeo impius, et a Deo alienus, qui Deo non credat, et probationem postulet, sicut ab hominibus? , (Clem. Alex. I. 5. Strom. sub init.) Un bambino innocente, certificato di stare in seno alla madre, non cerca più. Sugge, ad occhi ancor dormigliosi, l’alimento vitale che da lei sgorga.

VI. Pertanto la vera Religione cammina fra due estremi tra loro opposti, l’uno di una supina ignoranza, l’altro di una insaziabil curiosità (Questo, che qui l’autore dice della vera Religione, va, a mio avviso, ripetuto del vero sapere umano, il quale si tiene in un giusto punto di mezzo tra la crassa ignoranza e l’insaziabile brama di sfondare i misteri dell’universo). Onde nel credere ella non è né corriva né calcitrosa. I turchi sono sì lungi dal saper dar ragione della lor fede; che anzi han pena la vita a disaminarla; mostrando in questo medesimo di che panno sia quella pezza, che non si può né vendere da veruno, né comperare, se non a botteghe scure. I filosofi puri vogliono, che la fede serva alla scienza, negando con Abailardo di assentire a punto di ciò che essi non capiscono (Ex s. Bern. epist. 190. ad Innoc.) il che è fare alla fede un torto maggiore di quel che farebbe all’oceano chi si ostinasse a contendere se si trovi, mentre nol può comprendere verun fosso; là dove questa dote medesima della sua vastità tanto sterminata gli dà merito di riportare tributo da tutte le acque.

VII. La vera Religione però tiene la via di mezzo che è la reale. Né si arroga di porre in chiaro a veruno con ragioni naturali la verità de’ suoi misteri (siccome quelli che per la sublimità della loro sfera trascendono la capacità natia di ogni intelletto, non pure umano, ma angelico), né lascia di dimostrare quello che basta ad obbligar che si credano fermamente; e ciò è che sono rivelati dal cielo. Il che fa ella con tale evidenza di credibilità, che gli argomenti, su cui la fonda, né convengono ad altra setta, né si può dare mai caso che le convengano, almeno tutti: donde ne segue che, come sapientissimamente ella è confessata da’ suoi fedeli per vera; così stoltissimamente è negata dagl’infedeli, degni per tal capo di piangere in una notte perpetua la ribellione che usarono a tanto lume.

VIII. Questi argomenti però andremo qui disponendo in tale ordinanza, che facciano alla verità, non sol corteggio, ma guardia; mentre ciascun da sé, e molto più tutti insieme, dovran costringere qualunque sano intelletto a ravvisare la Religione verace tra mille false: sicché chi mai non l’ha trovata la trovi; e chi la trovò, e poi per sua disgrazia venne a smarrirla, di subito la ricuperi, e tranquillato ogni dubbio, doni finalmente al suo credere quella pace, di cui l’Apostolo ci voleva pieni in un atto di tanto prò: Repleti pace in credendo (Rom. XV, 13).

III.

IX. Ma per non tralasciare veruna difficoltà, che qual piazza nimica, rimasta alle spalle, porga ai miscredenti occasion di fortificarvi si a loro danno, noi ci faremo da capo con provar ciò, che sarebbe noto dai termini (come sono i principi), se i termini si apprendessero con chiarezza, ed è che v’è un Dio, unico, universale, prima cagione di tutto l’esser creato. Appresso noi mostreremo che di tal esser creato ne ha Dio provvidenza; ma che speziale Egli l’ha ancora dell’uomo, la cui anima faremo poi vedere di proposito che è immortale. E quindi conchiuderemo la prima parte dell’opera col dedurre che dunque su la terra vi sia qualche Religione, e religion vera, sotto cui conviene arrolarsi. Nella seconda parte ci avanzeremo a manifestare che questa Religion vera altra non può essere al certo, che la Cattolica: il che perché meglio apparisca, non faremo altro che metterla al paragone con quelle religioni che a lei fan guerra (Il processo tenuto qui dall’autore è all’intuito logico e naturale, siccome quello, che va dalla ragione alla fede, e giustifica di tutto punto il titolo posto in fronte all’opera, l’incredulo uopo è pigliarlo sul terreno medesimo, in cui è collocato, quello cioè della ragione, per fargli toccar con mano, che se egli si ribella alla guida della ragione, che lo conduce alla fede, è proprio senza scusa. La ragione pronuncia l’esistenza e la provvidenza di Dio, l’immortalità dell’anima umana, la necessità di una Religione vera; e da questi re solenni pronunciati della ragione debbe pigliare le mosse la polemica e l’apologetica cristiana).

X. Dove è da considerare che la infedeltà può al presente commettersi in tre maniere. o contra la fede di Cristo già ricevuta nel suo perfetto chiarore di verità; e così mancano gli eretici, i quali ammettono, o fanno almanco professione di ammettere ambo i testamenti, il vecchio ed il nuovo, e poi li vogliono interpretare a capriccio, per non seguirli. O contra la fede di Cristo ricevuta solo nel suo chiarore imperfetto, e piuttosto in ombra; e così mancan gli ebrei, i quali ammettono il testamento vecchio, ma non il nuovo, quantunque al nuovo fosse da Dio, qual figura, ordinato il vecchio. O contra la fede di Cristo non ricevuta in modo alcuno; e così mancano finalmente i pagani, che non ammettono né il testamento vecchio, ne il nuovo, ma per legislatori hanno gli uomini, non han Dio.

XI. Al paragone dunque del paganesimo, dell’ebraismo, della eresia, noi metteremo la Religione Cattolica, affinché il confronto faccia spiccar più chiara la verità, sino alle menti più deboli. La porpora adulterata può agli inesperti da lontano piacere a par della vera, ma non d’appresso: Et lana tincta fuco, citra purpuram placet, non si contuleris. Se non che non altro paganismo oggimai pare aver più nome, che quello de’ maomettani annoverati ancor loro, e dalle leggi civili, e dalle canoniche, in detta classe. E però invece del paganismo, pigliato in più largo senso, noi più individualmente verremo sempre a ferire, dove abbisogni, il maomettanismo. E dissi dove abbisogni; perché non andremo con ordine ad investire prima l’uno di questi tre generi di infedeli, e poi l’altro e poi l’altro, quasi in tre duelli distinti; ma ora tutti insieme gli assaliremo, ora a corpo a corpo, secondo la varia forza degli argomenti che si porranno in opera al nostro fine.

XII. Il modo di argomentare sarà indi proporzionato al modo di discorrere che ha ciascuna di tali sette. Nella prima parte, pugnando con gli ateisti, i quali non conoscono religione di alcuna guisa, ma le deridono tutte, non addurremo altre prove, che le conformi al dettame della ragione. E così ancora faremo nella seconda coi maomettani, i quali nella religion loro non fanno caso delle scritture divine, superiori ad ogni ragione. Delle scritture divine, congiunte in lega con la ragion naturale, noi ci varremo contro gli ebrei e contro gli eretici, giusta quella parte di esse che nessuno di loro può ripudiare, se non va a militare sotto altro culto, qual è quello del paganismo.

IV.

XIII. Vero è che in questa mia qualunque fatica non ho io per fine di giovare solamente agl’increduli, anzi molto più l’ho di giovare ai fedeli. Conciossiachè quantunque tutta quella evidenza di credibilità, di cui la nostra Religione va adorna, non basti ad ingenerar quell’assenso immobile in cui consiste la fede; ma si richiegga per esso un dono infuso da Dio soprannaturalmente nel cuor dell’uomo, conforme a quel dell’Apostolo a’ Filippensi (1. 29): Vobis donatum est prò Christo, ut in eum credatis, contuttociò quella evidenza conferisce in estremo a ricevere un dono tale. Mercecchè la volontà dopo aver bene appreso dall’intelletto il merito sommo che ha la Religione di Cristo ad esser creduta, comanda all’intelletto con pieno impero che credala fermamente cattivando, dov’egli non arrivi, ogni ritrosaggine, in ossequio della suprema verità, (che ne sa tanto più di lui), e così pone (quantunque non da sé sola, ma col favore quivi ancor della grazia), pone, dico, quasi l’ultima disposizione per ricevere il dono eletto, ch’è l’atto infuso di fede: Donum fidei electum. (Sap. III. 14).

XIV. Anzi è certissimo che senza un giudizio saldo di tal credibilità, conosciuta per evidente, se può darsi una fedo ancora divina (cioè una fede che superi di fermezza qualunque assenso possibile naturale), non suole darsi (È legge psicologica questa, che il volere e l’amare abbisognano di essere preceduti ed illuminati dal conoscere; epperò nessun Cristiano, per quantunque idiota, può, in via ordinaria, volere ed amare la religione sua, se non conoscesse in qualche modo i motivi, che la dichiarano veracemente divina. Indi il rationabile obsequium vestrum dell’Apostolo). Onde conviene, a concepir detta fede, che ancora gli uomini più idioti conoscano in qualche modo questa grande apparenza di verità, che ella porta seco, intendendo, almeno per fama, che la Religione cristiana viene insegnata da personaggi santissimi e sapientissimi, che la tengono tutti per infallibile, e che la predicano, come scesa dal cielo, a tutte le genti, e come testificata con segni tali, che non si può dubitare se sian dall’alto: fama, alla quale alluse l’Apostolo, dove disse: Et quidem in omnem terram exivit sonus eorum, per denotare che se era fama sì vasta, non poteva essere senza gran fondamenti. E la ragione di questa previa disposizione da Dio richiesta, si è, perché quantunque Egli da sé solo possa nelle anime semplici supplire ad ogni illustrazione esteriore che loro manchi, con la sua pura illuminazione interiore; contuttociò, di legge almeno ordinaria, non lo vuol fare, come quivi accennò il medesimo Apostolo in quelle voci: Quomodo credent ei, quem non audierunt? etc. Mercecchè Dio, tanto soave in ogni sua opera, quanto forte, vuole che la sua r Religione non sia credibile solo per fede divina a tutte le genti, ma ancora per fede umana; che è ciò che toglie finalmente ogni scusa a chi non l’accetti, mentre non l’accettando, egli non pure si dimostra infedele, ma irragionevole (Gran verità questa, che chi è volontariamente infedele, è irragionevole, è l’incredulo senza scusa: verità che fonda sull’interiore armonia della ragione e della fede. Quest’armonia viene posta in bella luce nella seconda parte di quest’opera, al capo 1°, numero 15. Il lume di ragione guida alla scoperta della vera e divina Religione il pagano, che vive ancora fuori della fede di Cristo, e la fede alla sua volta dilata e sublima la ragione del credente, che già la possiede. Indi la fides quærens intellectum di S. Anselmo). Nel resto chi fa che il cedro dia pomi così odoriferi? Sicuramente non è quel giardiniere che lo piantò, che lo potò, che adacquollo. È Dio, che dentro il vivifica con vigore a lui solo noto: Est qui incrementum dat Deus (I. Cor. III, 7). E nondimeno Iddio di legge ordinaria non dà vigor sì vivifico a verun cedro, se il giardiniere non vi operi dal suo canto. Così quantunque al credere fermamente, e non solo probabilmente che la nostra r Religione è la vera, non siano i motivi della credibilità quelli che danno all’atto sì gran coraggio, ma sia lo Spirito Santo che parla dentro le anime al modo suo, quando per Lui v’è chi loro parli al di fuori; contuttociò non suolo lo Spirito Santo parlar di dentro in modo sì vivo, se non vi sia chi parli insieme al di fuori, o che abbia almeno parlato: Fides ex auditu (Rom. X. 17).

V.

XV. E da ciò potrà di leggieri arguirsi l’immenso prò che arrecano al popolo cristiano quei sacri predicatori, i quali dal pergamo discorrono ad ora ad ora su questo evidente merito, che ha la nostra fede ad essere da tutti anteposta a qualunque setta. Formano con essi nei cuori de’ fedeli quasi un embrione, cioè a dire una fede umana, e con ciò porgono l’opportunità, allo Spirito Santo d’infondere in un tal feto, ancora imperfetto, l’anima di una fede divina (Giusta ed importante è questa distinzione tra la fede umana e la divina. La prima è frutto di nostra ragione naturale, la seconda è dono della grazia sovrannaturale. Quella mette capo a questa, e tutte e due insieme armoneggiate compiono il congiungimento dell’uomo con Dio), che è quella finalmente che vince il mondo: Hæc est Victoria, quæ vincit mundum, fides nostra (I. Io. V. 4). Vero è che se i predicatori sacri apportano di gran bene con tali ragionamenti; maggiore credo io che lo apportino tuttavia gli scrittori sacri. Attesoché quelle ragioni dotte, che son proprie di sì giovevole tema, molto meglio si apprendono a vista fissa, che ad udito fuggente: onde nessuno vi sarà, che, in leggendole, non ne divenga più facilmente padrone, che in ascoltandole, poco men che di furto. Eppure tal padronanza sembra che qualunque fedele sia tenuto ad averne più che egli possa, affine di corrispondere al suo dovere, che è di star pronto, come gl’impone san Pietro, a rendere sempre conto della sua speranza, e conseguentemente della sua fede: Parati semper ad satisfactionem omni poscenti vos rationem de ea quæ in vobis est, fide et spe (I. Petr. VIII, 15). Dove è da notarsi bene che egli non dice de iis quæ sunt fidei et spei, in particolare, ma de ea, quæ in vobis est, fide et spe, in generale (V. Lorin. hic. S. Th. 2. 2. q. 2. art. 10), perché il saper esporre la convenienza di questo o di quell’articolo in individuo da noi creduto, è sol da uomini grandi, in trattati scientifici, da non andare per le mani di tutti; ma il saper esporre la convenienza di quella fede in universale, che ci obbliga alla credenza di tali articoli, dev’essere comune, più che si può, a quali sia dei fedeli nel grado suo essendo vergogna somma, come osservava San Giovanni Grisostomo, che il medico, che il coiaio, che il calzaiolo, che il tesserandolo, che qualunque altro artiere sappia dar conto della sua professione, e il Cristiano non lo sappia ancor egli dar della sua (Saviissime parole del Grisostomo queste, che inculcano al Cristiano la necessità di conoscere i fondamenti razionali di sua divina Religione. Il Cristiano non teme la luce, sicuro che quanto più la ragione esamina i motivi di credibilità del Cattolicesimo, tanto più è portata a riconoscerne la divina origine): Absurdum est, quod medicus, coriarius, textor et omnes generatim opifices, quoque prò artis suæ professile pugnet: christianus autem non possit ullam religionis suæ afferre rationem.(S. Chrysost. hom. 16. in Ioan.). E se è così, non sarà qui chi non vegga di quanta lode si rendessero meritevoli tutti quei servi di Dio, i quali, affine di addestrare il popolo cristiano a maneggiar bene questi argomenti di credibilità che gode a proprio favore la nostra fede sopra di ogni altra, li compilarono in libri da loro scritti avvedutamente in lingua materna, perché chi non era atto di apprenderli dalle estranee (quale per molti nel Lazio stesso può correre la latina) gli apprendesse dalla domestica.

XVI. Così fece il venerabile padre fra Luigi di Granata domenicano, cui, se per alcuno dei suoi trattati di spirito, tutti eccelsi, si conveniva quel breve di congratulazione che gli inviò dal suo trono Gregorio XIII, sì benemerito e della Religione e delle buone arti, da cui la religion viene amplificata, sicuramente sarebbe egli convenuto, più che per altro, per la introduzione al simbolo della fede, libro trasportato oramai dalla spagnola in tutte lo lingue, ancora orientali, per l’alto bene che per tutto ha operato in cuori anche barbari. E così altri scrittori avevan fatto prima di lui, e dopo lui finalmente han seguito a fare: ond’io non dovrei temere ora alcun biasimo dall’unirmi con questi alla stessa impresa, quando non potesse apparire che io giunga tardi, nel giugnere dietro a tanti i quali già con molta lode han detto abbondantemente innanzi di me, ciò che io non potrò dir dopo loro, se non con poca. Tuttavia non mi sbigottisco: perché i soccorsi freschi, per piccoli che sieno, son sempre a tempo, sinché fervo la mischia; e questa nel caso nostro, non si può dire che ancor non ferva, e non sia per fervere, sinché l’inferno odierà quella Religione che è l’unica a svergognarlo. Si aggiugne, che vari di tali libri sono, o di metodo arduo, o di mole alta, e però men atti a trascorrere per le mani di chi n’ha maggiore il bisogno. La speditezza dell’armi è sì vantaggiosa, che nelle guerre si temono più i moschetti comunemente, che le bombarde.

VI.

XVII. Né già in un argomento tanto agitato mi si vuol domandare la novità. Primieramente se non avessimo a dire se non ciò che mai non fu detto da verun altro, ci converrebbe ammutire: Nihil sub sole novum. Neppure l’api, simbolo dell’industria, nel dare il loro miele, il danno per nuovo. Esse non professano altro, se non che di andare a raccoglierlo qua e là faticosamente da vari fiori. Eppure nessuno nella natura le ha mai dannate d’inutili, ma lodate, mercé la forma con cui lo danno distillato in un favo. Di poi nella materia che ho per le mani voglio anzi protestare liberamente di avere a bello studio sfuggita la novità, poco amica alla Religione. Conviene qui mirar solo all’onor di lei, non mirare al proprio. Però se io metterò in campo ragioni, use altre volte, a difenderla bravamente, stimerò la vittoria tanto più certa, quanto più io me la posso promettere da un corpo di veterani esperimentati, che da una leva di venturieri novelli. Salvo che il medesimo fine, il qual mi propongo della maggior brevità che mi sia possibile, mi obbliga a non dare la mossa a tutto l’esercito, ma a fare come un distaccamento degli argomenti più validi, e questi spignere alla difesa del vero.

XVIII. Ho desiderato di formare lo stile, ove mi riesca, più colto, che no; perciocché io non ho capito mai che la ruggine giovi all’armi. Che se ne’ fulmini temiamo ancora del lampo, chi riputerà che certa energia di dire sia nelle cause meno opportuna a far colpo, perché lo fa balenando? Infìn l’armonia del numero io loderei, dove ella somigliasse il batter dei fabbri, musica insieme e lavoro.

VII.

XIX. Rimane l’ammonire por ultimo il mio lettore, che legga tutto il libro con attenzione e senza passione. Leggalo tutto, se egli ne vuol dar giudizio accertato, da che incivile est, nisi tota lege perspecta, una aliqua eius particula proposita indicare. (L. incivile est, ff. de legibus). Leggalo con attenzione, perché ad un quadro può bastare un’occhiata, ma non può bastare ad un libro: e la nostra mente, a conseguire il vero, è rete bensì, ma rete da pesca (la qual non fa buona preda, se non affondasi), non è rete da paretaio. Leggalo finalmente senza passione, perché ciò bastami, quando in lui ben mancasse la pia affezione. L’occhio, perché sia ben disposto al vedere, convien che trovisi né troppo abbondante di umore, né troppo scarso. Mi contento che sia così parimente il vostro intelletto: né troppo pieghevole al credere, per non esser tacciato dal Savio di leggerezza: Qui credit cito, levis est corde (Eccl. XIX. 4); né troppo restio, per non udirsi rimproverare da Cristo di ostinazione: O stulti, et tardi corde ad credendum! (Luc. XXIV. 25). È lieve al credere chi crede quando ha più ragion di non credere, che di credere. È ostinato chi non crede quando all’incontro ha più ragione di credere, che di non credere. Non ricevete però i miei detti, come lo schermitore riceve i colpi cioè per ribatterli ad ogni modo, o giusti o non giusti che a lui si mandino; riceveteli come il solco ammollito riceve i semi per affomentarli: dacché non altri semi spero io di gettare in voi, che di vita eterna.

XX. E perché veggiate con quanta discretezza io voglia procedere in chiedere il vostro assenso, l’assunto di tutta la presento opera, grande o piccola che ella sia, ha da essere sempre questo: di mostrarvi, che voi con la volontà avete da fare una forza molto maggiore al vostro intelletto, per trattenerlo dal credere quelle cose che io vi dirò a favor della nostra Religione, di quella che gli avreste a fare per indurlo a credere. E posto ciò, eccovi già (se voi non vi arrenderete), che voi siete l’incredulo senza scusa, che è il titolo che questa opera porta in fronte. Conciossiachè quale scusa avrà al tribunal di Dio chi non volle credere, quantunque tanto più agevole gli sarebbe sempre riuscito il volerlo, che il non volerlo? Non potrà egli dir altro, se non che al certo fu stolto e tardo di cuore: Stultus et tardus corde ad credendum. Tardo, perché non si arrese alla verità, quale incredulo: stolto, perché, nel ricusare di arrendervisi, operò contra ogni lume ancor di ragione, quale imprudente.

SALMI BIBLICI: “QUAM BONUS ISRAEL DEUS” (LXXII)

SALMO 72: “QUAM BONUS ISRAEL DEUS

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

CATENA D’ORO SUI SALMI

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR – 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 72

[1] Psalmus Asaph.

      Quam bonus Israel Deus,

his qui recto sunt corde!

[2] Mei autem pene moti sunt pedes, pene effusi sunt gressus mei;

[3] quia zelavi super iniquos, pacem peccatorum videns.

[4] Quia non est respectus morti eorum, et firmamentum in plaga eorum.

[5] In labore hominum non sunt, et cum hominibus non flagellabuntur.

[6] Ideo tenuit eos superbia; operti sunt iniquitate et impietate sua.

[7] Prodiit quasi ex adipe iniquitas eorum; transierunt in affectum cordis.

[8] Cogitaverunt et locuti sunt nequitiam; iniquitatem in excelso locuti sunt.

[9] Posuerunt in cælum os suum, et lingua eorum transivit in terra.

[10] Ideo convertetur populus meus hic, et dies pleni invenientur in eis.

[11] Et dixerunt: Quomodo scit Deus, et si est scientia in excelso?

[12] Ecce ipsi peccatores, et abundantes in sæculo, obtinuerunt divitias.

[13] Et dixi: Ergo sine causa justificavi cor meum, et lavi inter innocentes manus meas;

[14] et fui flagellatus tota die, et castigatio mea in matutinis.

[15] Si dicebam: Narrabo sic; ecce nationem filiorum tuorum reprobavi.

[16] Existimabam ut cognoscerem hoc; labor est ante me:

[17] donec intrem in sanctuarium Dei, et intelligam in novissimis eorum.

[18] Verumtamen propter dolos posuisti eis; dejecisti eos dum allevarentur.

[19] Quomodo facti sunt in desolationem? subito defecerunt; perierunt propter iniquitatem suam.

[20] Velut somnium surgentium, Domine, in civitate tua imaginem ipsorum ad nihilum rediges.

[21] Quia inflammatum est cor meum, et renes mei commutati sunt;

[22] et ego ad nihilum redactus sum, et nescivi;

[23] ut jumentum factus sum apud te, et ego semper tecum.

[24] Tenuisti manum dexteram meam, et in voluntate tua deduxisti me, et cum gloria suscepisti me.

[25] Quid enim mihi est in cœlo? et a te quid volui super terram?

[26] Defecit caro mea et cor meum; Deus cordis mei, et pars mea, Deus in æternum.

[27] Quia ecce qui elongant se a te peribunt; perdidisti omnes qui fornicantur abs te.

[28] Mihi autem adhærere Deo bonum est, ponere in Domino Deo spem meam; ut annuntiem omnes prædicationes tuas in portis filiæ Sion.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXII

Esortazione ai fedeli perché non piglino scandalo dalla prosperità degli empii: esortazione sempre utile, ma necessaria nelle persecuzioni della Chiesa e de’ suoi giusti, mentre gli empii la dominano e trionfano.

Salmo di Asaph.

1. Quanto è mai buono Iddio con Israele; con quelli che son di cuor retto!

2. Ma poco mancò che i miei piedi non vacillassero, e che non uscisser di strada i miei passi.

3. Perché io fui punto da zelo verso gl’iniqui, in osservando la pace de’ peccatori ;

4. Perché non pensano alla loro morte, e non sono di durata le loro piaghe.

5. Non hanno parte alle afflizioni degli uomini, e con gli uomini non sono flagellati.

6. Per questo la superbia li prese ; son ricoperti della loro iniquità ed empietà.

7. Dalla grassezza in certo modo scaturì la loro iniquità: si sono abbandonati agli affetti del loro cuore.

8. Pensano, e parlano malvagità; da luogo sublime ragionano di far del male.

9. Han messo in cielo la loro bocca; la loro lingua va scorrendo la terra.

10. Per questo il popolo mio a tali cose si rivolge, e giorni trova di piena afflizione.

11. E hanno detto: Come mai Iddio sa questo? e l’Altissimo ne ha egli notizia?

12. Ecco che i peccatori medesimi e i fortunati del secolo han raunate ricchezze.

13. E io dissi: Senza motivo adunque purificai il mio onore, e lavai le mani mie cogl’innocenti:

14. E fui tutto dì flagellato, e fui sotto la sferza di gran mattino.

15. Se io pensassi di ragionare così: Ecco che io condannerei la nazione de’ tuoi figliuoli.

16. Mi studiava d’intender questo; cosa laboriosa è questa, che mi si pone davanti :

17. Per sino a tanto ch’io entri nel santuario di Dio, e intenda qual sia la fine di coloro.

18. Peraltro in ingannevole felicità gli hai posti; tu gli hai gettati a terra nell’atto che si levavano in alto. (1)

19. Come mai son eglino ridotti in desolazione; son venuti meno a un tratto; sono andati in perdizione per la loro iniquità.

20. Come il sogno di un che si sveglia, così tu nella tua città, o Signore, ridurrai nel nulla l’immagine di costoro.

21. Ma perché il mio cuore fu in tormento, ed ebber tortura gli affetti miei, ed io fui annichilito senza sapere il perché; (2)

22. E fui qual giumento dinanzi a te, e mi tenni sempre con te;

23. Mi prendesti per la mia destra, e secondo la volontà tua mi conducesti, e con onore mi accogliesti.

24. Imperocché qual cosa havvi mai per me nel cielo, e che volli io da te sopra la terra?

25. La carne mia e il mio cuore vien meno, o Dio del mio cuore, e mia porzione, o Dio, nell’eternità.

26. Imperocché ecco che coloro, che da te si allontanano, periranno; tu manderai in perdizione tutti coloro, che a te rompon la fede.

27. Ma per me buona cosa ch’è lo stare unito con Dio, il porre in Dio Signore la mia speranza;

28. Affinché tutte le tue laudi io annunzi alle porte della figliuola di Sion.

(1) Presso gli ebrei la prosperità non è per essi che una seduzione, una trappola, ed un luogo sdrucciolevole.

(2) Il mio cuore divagava e mi irritavo nei miei pensieri; parola per parola: io mi pizzicavo i reni – i reni rappresentano la sede del pensiero -.

Sommario analitico

Davide o Asaph, contemporanei di Ezechia e Manasse, personificano in lui lo scandalo che causa alla anime ancora deboli, la vista della prosperità dei malvagi, dopo aver fatto inizialmente la sua professione di fede nella bontà di Dio (1).

I.- Egli espone:

1° La fluttuazione interiore della sua anima;

2° L’indignazione che si è levata in lui alla vista della prosperità degli empi (2).

II. – Descrive:

1° la loro felicità:- a)  la loro imprevidenza o la tranquillità della loro morte; – b) la loro affrancatura da tutte le sofferenze del corpo e dai rovesci di fortuna (4, 5);

2° I crimini che ne sono la sequela: – a) il loro orgoglio, – b) la loro empietà, – c) la loro arroganza, – d) la loro sfrenata licenza, – e) la loro malizia, la loro impudenza che giunge fino a bestemmiare Dio ed a calunniare gli uomini (6, 9).

III. –  Mostra l’effetto di questa prosperità degli empi:

1° sulle anime imperfette. – a) esse sono nello stupore e non possono impedirsi di ammirare questa felicità degli empi, – b) concepiscono anche dei dubbi sulla scienza di Dio, – c) si lamentano dell’abbondanza e delle ricchezze in mezzo alle quali vivono gli empi (10-12);

2° su Davide stesso: – a) egli confessa che condivide i dubbi e i mormorii delle anime deboli, vedendosi frustrato dal prezzo della sua innocenza e della sua pazienza (13, 14); – b) ma egli ha ben presto riconosciuto che condannava così tutta la società dei figli di Dio (15); – c) riconosce nello stesso tempo che la conoscenza delle vie della divina Provvidenza è difficile e non può essere data che da Dio stesso, che ci fa comprendere quale sarà la fine degli empi (16, 17).

IV. – Egli fa dunque vedere che la felicità degli empi:

1° È ingannevole,

2° di breve durata (18);

3° fa posto ad una desolazione improvvisa;

4° Che essi perdono in un istante le ricchezze acquisite in lunghi anni e con crimini molteplici (19);

5° Che ogni loro felicità si dissipa come in un sogno (2).

V. – Davide, come conclusione di queste considerazioni:

1° dichiara che è cambiato in altro uomo, che è infiammato dall’amore di Dio, morto a tutti i piaceri del mondo, e convinto del suo niente davanti a Dio (21, 22);

2° esprime il desiderio di consacrarsi tutto interamente e per tutta la sua vita al servizio di Dio (23); 

3° come effetto e frutto di questo desiderio, fa vedere che Dio lo ha sostenuto con la mano, lo fa camminare nelle sue vie e ricevuto con gloria (24);

4° professa altamente che preferisce Dio a tutti i beni del cielo e della terra (25, 26);

5° mostra la saggezza di questa scelta, e promette di rendere pubbliche eternamente le lodi di Dio (27, 28).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1, 2.

ff.1. – Davide, prima di spiegare la tentazione e lo scandalo dei deboli, che personifica in se stesso in questo salmo, pone innanzitutto i fondamenti della vera fede, per farci comprendere che né lui, né coloro che egli qui rappresenta hanno perso la fede nella Provvidenza divina. Geremia si esprime quasi alla stessa maniera: « Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. Perché le cose degli empi prosperano? Perché tutti i traditori sono tranquilli? » (Geremia XII, 1). Dio è buono non perché possieda la bontà, ma perché Egli è le bontà stessa. (Clém. Alex.., Pæd. 1, 8.). Dio è buono perché Egli è la sorgente di ogni bontà, – 1° nella creazione: « Dio vide tutte le sue opere, ed esse erano molto buone » (Gen. I, 31); – 2° nella redenzione: « Io sono il buon pastore, il buon pastore da la sua vita per le pecore » (Giov. X, 11); – 3° nella giustificazione: « Considerate la bontà e la severità di Dio, la sua severità verso coloro che sono caduti e la sua bontà verso di voi », (Rom. XI, 22); – 4° nella pazienza con la quale attende i peccatori: « O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua longanimità? » (Rom. II, 4); – 5° nella maniera in cui Egli punisce i peccatori durante questa vita e nell’altra, perché il castigo è sempre di molto inferiore ai loro crimini: – 6° nella glorificazione dei Santi: « Egli ci ha resuscitato con Lui e ci fatto sedere nel cielo in Gesù-Cristo, al fine di far conoscere nei secoli avvenire le ricchezze abbondanti della sua grazia, per la bontà che ha avuto per noi in Gesù-Cristo » (Efes. II, 6-7).

ff. 2, 3. – Tutta la Scrittura è piena di sante benedizioni per coloro che hanno il cuore retto, ma qual è questa drittura? Diciamolo in una parola: è la carità, è la santa dilezione, è il puro amore; è il casto ed intimo attaccamento della sposa per lo Sposo sacro; è questa celeste dilezione di un cuore che si compiace della legge di Dio, che vi si sottomette con piena ed intera volontà, « … non per la paura della pena, ma per amore della giustizia »: chi sono coloro che sono retti? Diceva Sant’Agostino, coloro che dirigono il loro cuore secondo la volontà di Dio. Coloro che vogliono ciò che Dio vuole, questi sono retti, questi sono giusti. Non c’è abbisogna di spiegazioni: coloro che hanno orecchie cristiane comprendono questa verità. La volontà di Dio è retta di per se stessa; è essa stessa la rettitudine; essa è la regola primitiva ed originale. Noi non siamo la giustizia, noi non siamo la regola; perché noi saremmo impeccabili: così non essendo giusti per noi stessi, noi lo diventiamo, come Cristiani, unendoci alla regola, alla santa volontà di Dio, alla legge che Egli ci ha dato (Boss.). – « Quanto il Dio di Israele è buono! Ma agli occhi di chi? Per gli uomini dal cuore retto ». E a coloro che hanno occhi perversi? Egli sembra perverso. È così che il Profeta dice in un altro salmo: «Voi sarete santo con il santo, innocente con l’innocente, e perverso con il perverso » (Ps. XVII, 26). Cosa vuol dire: voi sarete perverso con il perverso? Il perverso vi crederà perverso. Non che Dio possa pervertirsi in alcun modo: no, lontano da noi questo pensiero, Egli è ciò che Egli è; ma così come il sole sembra inoffensivo a colui che è sano, vigoroso e forte, similmente sembra che lanci tratti brucianti negli occhi malati. Di questi due uomini che lo guardano, fortifica l’uno e ferisce l’altro; non certo cambia dall’uno all’altro, ma è l’uomo che è cambiato. Così, quando comincerete a pervertirvi, Dio vi sembrerà perverso: voi siete cambiato, Dio no! ; ciò che è una gioia per i buoni sarà un castigo per voi. È al ricordo di questa verità che il Profeta esclama: « Quanto il Dio di Israele è buono per gli uomini dal cuore retto! » (S. Agost.). – Abbiate il cuore retto, perché il Signore ha una bontà meravigliosa per i retti di cuore, Egli ha per essi una condiscendenza, una delicatezza di madre … Abbiate il cuore retto e vedrete Dio nelle Scritture, lo vedrete in ogni parola, ogni parola sarà trasparente e vi presenterà una delle facce auguste della Divinità. Anime semplici hanno più illuminazione sul senso delle Scritture, sui misteri della teologia, di tanti dottori! … abbiate il cuore retto, non cercate le difficoltà, non abbiate partito preso nell’intelligenza; soprattutto non desiderate trovare armi contro Dio. Se lo desiderate, voi ne troverete certamente; come un bambino ribelle trova sempre dei soggetti di accusa nelle più semplici e meravigliose parole di suo padre e di sua madre. Desiderate la luce della vita e ne riceverete un’ampia provvigione, perché le parole della scrittura sono « intelligenza e vita » (Mgr Landriot, Béatitudes,!). – Ma cos’è Dio ai vostri occhi? « I miei piedi, continua il Profeta, sono quasi vacillanti ». Quando i miei piedi sono vacillanti, se non quando il mio cuore non è retto? E perché il suo cuore non è retto? Ascoltate: « I miei passi  per poco hanno vacillato nel sostenermi », egli sta per dire . « quasi », ed ora « essi hanno vacillato », è la stessa cosa; i piedi instabili hanno lo stesso senso de « i miei passi hanno vacillato nel sostenermi ». Ma perché i suoi piedi sono stati instabili, ed i suoi passi hanno vacillato nel sostenerlo? I piedi instabili significano lo smarrimento, i passi che mancano di stabilità indicano una caduta, non avvenuta, ma “quasi”. Che significano queste parole? Io cammino verso l’errore, ma non vi ero ancora, stavo per cadere ma non sono ancora caduto (S. Agost.). – In tutti i tempi la fede dei Cristiani è stata turbata e la loro fiducia in Dio vacillante, nel vedere i malvagi prosperare e nel riposo, mentre i giusti sono nelle avversità e nel travaglio. Questa realtà, in apparenza ingiusta, è sempre stata, per così dire, lo scandalo della Provvidenza; perché i peccatori hanno preso a trionfare con insolenza nella vita, e le persone più degne si sono affievolite nel cammino della virtù. Da parte mia – diceva Davide – io lo confesso, ho sentito la mia fede svanire e, benché fosse solido il fondamento della mia speranza, mi sono visto sul punto di soccombere, e perché? Perché nel mio cuore si è alzato un movimento di zelo e di indignazione alla vista dei peccatori che gustano la pace, che riescono nei loro disegni, che stabiliscono le loro case, ai quali nulla manca nella vita. (Bourd. Afflict. des just. et prosp. des péch.). –  « Io ho portato invidia agli uomini di iniquità, vedendo la pace dei peccatori ». Io ho considerato i peccatori, ho visto che avevano la pace. Ma quale pace? Una pace temporanea, fuggitiva, passeggera e terrestre, ma comunque tale come io la desidero ottenere da Dio. Io ho visto che coloro che non servivano Dio possedevano ciò che io volevo ottenere servendolo, ed i miei piedi hanno quasi vacillato, ed i miei passi hanno oscillato nel sostenermi (S. Agost.).

II. — 4-9.

ff. 4, 5. – La felicità degli empi è tale che essi non hanno il pensiero della morte, e coloro che la considerano trovano la loro felicità sì stabile che non presumono che possa mai aver fine. Gli empi non pensano alla morte; essi sanno che questo momento arriverà, ma per non interrompere il corso dei loro piaceri, allontanano il pensiero di questa ultima ora … Si vedono degli empi ricolmi di beni in questo mondo: essi sembrano non dipendere da nessuno, non temono nulla, non essere soggetti ad alcuna legge, e giungono ad una estrema vecchiaia senza provare alcuna delle disgrazie che affliggono tanto gli uomini giusti. La loro salute si conserva fino all’ultima ora; le loro forze si sostengono malgrado gli anni e gli abusi che fanno. Si direbbe quasi che le attenzioni della Provvidenza siano tutte solo per essi. È quello che il Profeta chiama uno stato esente da costrizioni, infermità e traversie (Berthier).

ff. 6, 7. – « L’orgoglio, l’intemperanza, l’abbondanza di ogni cosa, l’oziosità, la durezza verso il povero, tale è stata l’iniquità di Sodoma » (Ezech. XVI, 49). Chi considera queste cose ora come i gradini attraverso i quali questi popoli abominevoli discesero infine sino al fondo dell’abisso? Così quanto più si ha orrore degli abomini attraverso i quali i suoi abitanti furono consumati dal fuoco del cielo, tanto più ci si dimentica di evitare i crimini che ve li condussero (Dug.). – « Nel loro grasso, dice lo Spirito-Santo, nella loro abbondanza, si fa un fondo di iniquità che non si esaurisce mai ». È di là che nascono questi peccati regnanti che non si contentano che li si soffra, neanche che li si scusi, ma vogliono pure che li si applauda; perché ci sono – dice Sant’Agostino – due specie di peccati, gli uni vengono dalla carenza, gli altri nascono dagli eccessi, quelli che nascono dal bisogno e dalla miseria, sono i peccati servili e timidi: quando un povero ruba, si nasconde, quando è scoperto egli trema; non oserà sostenere il suo crimine, troppo felice se può coprirlo e avvolgerlo nelle tenebre. Ma quelli che peccano di abbondanza, sono superbi ed audaci, vogliono regnare; voi direste che sentono la grandezza della loro estrazione. « essi vogliono gioire, dice Tertulliano (Ad nat. lib. i, n° 16), di tutta la luce del giorno e di tutta la coscienza del cielo ». (BOSSUET, Impén. fin, I. p.). – Essi non si sono dunque puniti, non condividono le pene degli altri uomini, cosa ne risulta per essi? « Ecco perché l’orgoglio si è impossessato di essi ». Considerateli, questi orgogliosi, questi che disprezzano ogni legge; considerate il toro designato per il sacrificio, al quale hanno lasciato la libertà di errare ove vuole e devastare tutto quel che può, fino al giorno della sua immolazione; è l’emblema degli uomini di cui parla il Profeta: « Ecco perché l’orgoglio si è impossessato di essi; essi sono avviluppati come da un vestito dalla loro iniquità e dalla loro empietà ». Il Profeta non si è limitato a dire: essi sono coperti, ma essi si sono avvolti, cioè coperti da ogni lato dalla loro empietà. I malvagi non vedono il loro stato, e gli altri ancor di più, perché essi sono avvolti da ogni parte e non se ne vede il loro interno, perché chiunque potesse vedere l’interno di questi malvagi che sembrano felici secondo il mondo, chiunque fosse testimone della rivolta della loro coscienza, chiunque conoscesse le lacerazioni della loro anima sotto le violente perturbazioni della loro lussuria e dei loro terrori, saprebbe a qual punto siano uomini miserabili, mentre li si chiamano felici. Ma poiché essi sono avvolti come da un vestito « dalla loro iniquità e dalla loro empietà » essi non vedono il loro malore e nessuno lo vede. Lo Spirito-Santo, che dettava queste parole, li conosceva, e noi sapremmo considerarli con lo stesso occhio, se ogni velo di empietà potesse essere tolto dai nostri occhi. Vediamo dunque questi uomini; malgrado il loro benessere, fuggiamoli; malgrado la loro felicità, non li imitiamo, non chiediamo a Dio, come premio, dei beni che hanno potuto ricevere degli uomini che non Lo servono. Egli ci riserva ben altra cosa; noi dobbiamo desiderare altra cosa … Ma innanzitutto come il Profeta dipinge questi uomini: « … la loro iniquità uscirà come dal loro grasso », essa filtra, per parlare così, dal loro sovrappeso. Vedete se non è il caso di riconoscere qui il toro di cui abbiamo parlato. Non passiamo negligentemente su queste parole: « … la loro iniquità uscirà come dal loro grasso ». Ce n’è che sono malvagi, ma malvagi per la loro magrezza, malvagi perché sono magri, vale a dire che le sofferenze della necessità li hanno resi sottili e fragili e come disseccati. Essi sono malvagi e condannabili comunque; perché bisogna saper sopportare ogni specie di necessità piuttosto che commettere alcuna iniquità. Una cosa infatti è peccare per le necessità di cui si soffre, altra cosa è peccare in mezzo all’abbondanza. Un povero commette un furto, la sua iniquità proviene dalla sua magrezza, ma un ricco ricolmo di beni, perché si appropria del bene altrui? L’iniquità del primo proviene dalla sua magrezza, quella del secondo dalla sua opulenza. Se dite al magro: perché avete fatto questo, egli risponde: la necessità mi ha costretto, perché non avete paura di Dio? Il bisogno mi ha spinto. Dite ora al ricco: Perché fate questo e non temete Dio? Se tuttavia siete in una posizione tanto elevata per parlargli in tal sorta. Vedete se si degnerà di ascoltarvi, vedete anche se il suo grasso non farà passare in voi la sua iniquità come una sorta di contagio. In effetti, questi ricchi malvagi fanno sentire la loro inimicizia a coloro che insegnano e li riprendono, e diventano nemici di coloro che dicono loro la verità, abituati come sono ad essere dolcemente incensati dai discorsi degli adulatori, gente dalle orecchie delicate e dal cuore malato (S. Agost.). – Le prosperità temporali producono ordinariamente sul cuore un’impressione di attaccamento alla terra, un amore eccessivo di noi stessi e soprattutto elevazione e rigonfiamento del cuore, cioè un certo sentimento di auto considerazione che abitua l’anima a ritenersi come elevata dai propri doni al di sopra di tutti coloro che il proprio rango e la prosperità lasciano al di sotto di essa; un segreto errore di vanità che fa che noi confondiamo la nostra fortuna con noi stessi, che facciamo entrare la nascita, la grandezza dei titoli, le dignità, i beni nell’idea di ciò che noi siamo, e che di tutti questi vantaggi, che sono al di fuori di noi e di conseguenza non ci appartengono, formano in noi una grandezza immaginaria che scambiamo per noi stessi; infine, un errore che ci persuade che siamo, agli occhi di Dio e nell’ordine della sua Provvidenza, delle creature privilegiate ed anche distinte davanti agli uomini, nell’ordine esteriore della società. La loro prosperità, dice il Re-Profeta, li affranca dai travagli e dalle miserie comuni al resto degli uomini, ed ecco perché un orgoglio segreto si è impossessato dei loro cuori. Così il primo avviso che l’Apostolo raccomanda a Timoteo (1 Tim. VI, 17) da dare ai grandi del mondo, è di non elevarsi (Massil., Dang. des prosp.). –  Ciò che è vero per gli individui, lo è ugualmente per le società e le Nazioni. – la prosperità materiale di un popolo non fornisce da sola tutte le condizioni della sua durata e della sua gloria, se è la giustizia che eleva le Nazioni ed il peccato che le precipita nell’abisso, troppo spesso l’indebolimento delle virtù morali e dei nobili sentimenti si fa sentire in proporzione ai progressi del benessere e della fortuna pubblica.  « Prodiït quasi ex adipe iniquitas eorum. » (Mgr Pie, Discours et Instruct.., T. I, 13). – Sant’Agostino traduce la seconda parte di questo versetto in modo differente, che senza essere il più letterale, forse, è pieno di istruzione. « Essi sono andati oltre, egli dice, fino alla disposizione del loro cuore ». essi sono passati ben oltre, dentro di se stessi. Che vuol dire: « Essi sono passati oltre? » Essi hanno abbandonato i limiti della natura umana; essi hanno creduto di non essere pari agli altri uomini. Essi hanno – egli dice – oltrepassato il limite della natura umana. Quando voi dite ad un uomo di questa specie: questo povero è vostro fratello, voi avete la stessa origine, gli stessi progenitori; non ascoltate l’orgoglio che vi gonfia, non fate attenzione al vano rigonfiarsi sul quale vi elevate; benché circondati da numerosi domestici, benché ricco in oro ed argento, benché abitiate in un palazzo di marmo, benché riposiate all’ombra di baldacchini sontuosi, non siete da meno, voi ed il povero, rifugiati sotto la volta dello stesso cielo; voi non differite dal povero che per gli oggetti esteriori, che non sono voi stessi, ma sono posti intorno a voi; voi siete in mezzo a queste cose, esse non possono essere in voi. Considerate cosa siate rispetto al povero; guardate voi stesso e non ciò che possedete. Voi siete nati, l’uno e l’altro nel seno delle vostre madri, e quando sarete usciti da questa vita, quando le vostre carni, dopo la partenza dell’anima, saranno cadute nel putridume, distinguete, se potete, le ossa del ricco dalle ossa del povero … Ma tutte queste cose, a chi le dite? A colui che celebra festini sontuosi, a colui che si copre ogni giorno di porpora e di fine lino. A chi le dite queste cose? A colui che passa oltre, fino alla disposizione del suo cuore (S. Agost.).

ff. 8, 9. – Senza dubbio, ci sono degli uomini che hanno propositi di malvagità, ma almeno li fanno con timore. E questi? « Essi hanno proferito altezzosamente il linguaggio dell’iniquità ». (Ibid). Non solo essi hanno proferito il linguaggio dell’iniquità, ma lo hanno fatto apertamente, alla presenza di tutti, con fierezza: ecco ciò che io farò, io ve lo farò vedere, voi sentirete con chi avete a che fare, voi morrete per sua mano (S. Agost.). se avete tali pensieri, voi non li manifesterete al di fuori, o ben saprete vincere la vostra passione nel segreto del vostro cuore, o almeno saprete tenervi nascosto. Bisogna domandare perché? … « … La loro iniquità uscirà come il loro grasso. Essi hanno proferito altezzosamente il linguaggio dell’iniquità ». – Essi non si contentano di pensare il male, ma proferiscono altezzosamente l’empietà: contro Dio, con le bestemmie; contro il prossimo, con le calunnie; contro se stesso, per questa impudenza nel commettere pubblicamente il male, ed anche a glorificarsene (Dug.). – « Essi non hanno nascosto i loro crimini; come Sodoma, essi li hanno resi pubblici » (Isai., III). – Si trovano in questi versetti tutti i caratteri degli increduli che dogmatizzano; essi cominciano a pensare male dei misteri della Religione, esternano poi i loro pensieri; da qui si azzardano ad elevare altezzosamente la voce contro le verità rivelate; proclamano l’assenza di Dio e dei divini attributi; inondano la terra delle loro bestemmie. Essi calunniano egualmente il cielo e la virtù, l’Altissimo e gli uomini dabbene (Berthier). – Sant’Agostino dà ancora, della seconda parte del versetto 10, una traduzione un poco differente dall’interpretazione comune. Ma quali magnifici sviluppi, quale importante verità ne trae fuori! « La loro lingua ha lasciato i limiti della terra? » che vuol dire: « … ha lasciato i limiti della terra? » lo stesso che: « essi hanno elevato la loro bocca fino al cielo ». In effetti abbandonare i limiti della terra significa: passare al di sopra di tutte le cose terrestri? L’uomo non pensa, tra i suoi discorsi, che egli possa morire; egli vive come se dovesse vivere sempre. Il suo pensiero passa sopra la fragilità umana; egli dimentica cos’è questo vaso che lo ricopre e lo circonda; egli non sa cosa sia scritto contro gli orgogliosi: «La sua anima uscirà dal suo corpo ed egli tornerà nella terra dalla quale è venuto; in questo giorno tutti i suoi pensieri periranno » (Ps. CXLV). Ma i superbi, non pensando al loro ultimo giorno, hanno il linguaggio dell’orgoglio, elevano la loro bocca fino al cielo e lasciano i limiti della terra. Se il brigante messo in prigione non pensasse al suo ultimo giorno, al giorno cioè in cui dovrà subire il suo giudizio, nessun essere sarebbe bruto quanto lui, e tuttavia egli avrebbe ancora delle possibilità di sfuggire alla sua sentenza. Ma dove si potrebbe fuggire per evitare la morte? Questo giorno è certo. Per lungo tempo sperate di vivere? Ma questo pur lungo tempo dovrà finire, quand’anche ne avesse realmente la durata? Ma in realtà non è pur così: non c’è questo lungo tempo. E che ci sia è cosa tutta incerta. Perché il peccatore non vi pensa? « … perché egli ha elevato la sua bocca fino al cielo e la sua lingua ha lasciato i limiti della terra » (S. Agost.). 

III. —10-17.

ff. 10, 11. – È evidente che il Profeta che parla non metterebbe in dubbio né la Provvidenza, né i mezzi che essa ha per vendicare i suoi diritti. Egli sapeva che la prosperità di cui godono i malvagi è per essi un vero flagello, ma a lui premeva dipingere le turbe che questo spettacolo degli empi, fortunati in questo mondo, causa qualche volta agli uomini virtuosi … I giusti che si trovavano in questa nazione e provano delle disgrazie, mentre i malvagi sembrano felici, possono essere tentati col dubitare delle promesse e della fedeltà di Dio; bisognava insegnar loro che Dio non si era impegnato che con l’intera Nazione e non con i particolari; che la via della salvezza era, per i giusti separatamente presi, una via stretta,  e che bisognava trovare rovi e spine, affinché fosse provata la loro costanza (Berthier). – Il profeta ritorna alla spiegazione dello scandalo che provano i giusti alla vista della ricchezza e della prosperità degli empi. Il mio popolo alla vista di tanti crimini, si metterà a considerarli; esso troverà che i loro giorni sono pieni e che la loro vita giunge alla pienezza dell’età, e dirà: e l’Onnipotente lo sa questo? Se lo sa come può sopportarlo? – I vostri giorni, se volete saranno dei giorni pieni, perché la grazia, se volete, nel santificarli, li riempirà, invece che essere dei giorni vuoti, perché il peccato rovina tutto e vi spoglia di tutto; tanto più che disgraziatamente voi non avvertite il vostro malore; si perde la grazia senza pena e si vive nel peccato senza rimorso; se ne fa una beatitudine, un piacere, una gloria, spesso anche un interesse ed una legge (Bourd. Etat du péché et état de grâce).

ff. 12-14. – Questi sono dei peccatori ed hanno ammassato in questo mondo abbondanti ricchezze. Ed è a causa di questo che Dio non sa e che l’Altissimo è nell’ignoranza? Io servo Dio e non ottengo questi beni; essi non servono Dio ed ottengono beni in abbondanza, « … è dunque inutilmente che ho mantenuto il mio cuore nella giustizia, e che ho lavato le mani tra gli innocenti ». Tutto questo, io l’ho fatto inutilmente? Dov’è la ricompensa della mia vita onesta? Dov’è il prezzo della mia obbedienza verso Dio? Io vivo facendo il bene e manco di tutto, mentre l’ingiusto è nell’abbondanza. « E tutto il giorno sono stato flagellato ». i colpi di Dio non cessano di cadere su di me, io Lo servo bene e sono castigato; un altro non Lo serve affatto, ed è ricolmo di beni. Tale è la grande questione che ci si pone. La sua anima è agitata, la sua anima passa attraverso la prova che deve condurlo a disprezzare le cose terrene, ed a desiderare le cose eterne. L’anima passa in effetti su questo pensiero, ove essa fluttua come sballottata dalla tempesta nel momento stesso di entrare nel porto (S. Agost.). – Ne è come per i malati, che sono più abbattuti quando la guarigione è ancora lontana, e più agitati quando la salute sta per tornare.

ff. 15-17. – Io non so se in tutti i Salmi non vi sia niente di più toccante di questo pensiero. Se mi lamento della Provvidenza quando essa mi affligge, io sono perfido rispetto a tutta la Nazione dei figli di Dio. Ah – dice S. Agostino – spiegando questo passaggio, se io mormoro contro i flagelli con cui Dio mi batte, io non sarò più all’unisono con i Santi; io parlerei diversamente da come hanno fatto Abramo, Isacco, Giacobbe, e tutti i Profeti. Tutti questi Santi hanno proclamato con forza che c’è una Provvidenza, che Dio governa tutte le cose umane, che la volontà del Signore è la regola unica delle nostre azioni. Oserei allora parlare diversamente? Ho forse io più saggezza ed intelligenza di Dio? Nella nuova Legge, questo ragionamento è ancor più forte, perché il Figlio di Dio ha dato pure l’esempio di pazienza in mezzo a prove e tribolazioni, perché ha preferito questa via a quella degli onori, dei piaceri, delle ricchezze. Sarò dunque io in discordia con Lui? Riproverò forse questo grande modello di tutti i Santi? (Berthier). – Cercare di penetrare nella profondità di questo mistero della condotta di Dio sui giusti e sui malvagi, è gettarsi in un grande lavoro. La ragione umana vi trova un gran disordine, ma una fede attenta vi scopre un ordine grandissimo, perché vede tutto alla luce del grande giorno dell’eternità, ove tutte le cose saranno sbrigliate e regolate da una decisione definitiva ed irrevocabile. – Voi dite – è vero – che sia un gran lavoro sapere come possa succedere che i malvagi siano felici, mentre i buoni siano nella sofferenza … Questa questione si erge davanti come un muro; ma con il soccorso di Dio, voi attraverserete questo muro (Ps. XVII, 30); è un lavoro per voi, ma per Dio non è un lavoro. Ponetevi dunque alla presenza di Dio, davanti al Quale nulla è un lavoro, e non vi sarà più lavoro per voi … Questa difficoltà non durerà che fino a quando io non entrerò nel santuario di Dio.  Quale risorsa troverete nel santuario di Dio, per risolvere questa questione? « Che abbia l’intelligenza delle cose ultime, non delle cose presenti ». Ora – egli dice – dal santuario di Dio, io getto gli occhi sulle cose ultime oltre ciò che è il presente. Tutto ciò che si chiama il genere umano, la massa intera di tutti gli uomini verrà davanti a Dio per essere esaminato, arriverà sulle bilance dell’eterna giustizia; là saranno pesate tutte le azioni degli uomini. Oggi, una nube circonda tutte le cose; ma i meriti di ciascuno sono conosciuti da Dio (S. Agost.).- Questo santuario di Dio, o questo mistero può essere chiarito: è Gesù-Cristo nel quale sono nascosti tutti i tesori della saggezza e della scienza di Dio (Coloss. II, 3), ciò che fa che l’Apostolo, in questo stesso ambito, solleciti i Colossesi affinché siano ripieni di tutte le ricchezze di una perfetta intelligenza, per conoscere i misteri di Dio Padre e di Gesù-Cristo. Questo santuario sono ancora le sante Scritture, nelle quali Dio ci parla come da un santuario, e che racchiudono i misteri di Gesù-Cristo e della sua Chiesa, e le ragioni della condotta della divina Provvidenza. È il santuario ove Dio, sotto l’antica legge, rendeva i suoi oracoli e che figurava l’augusto Santuario dei nostri templi, ove Gesù-Cristo non cessa di essere la luce che rischiara ogni anima cristiana che si avvicina a Lui per essere illuminata (Ps. XXXIII, 6). Questo Santuario sono ii misteriosi segreti della Provvidenza di Dio, nei quali entriamo mediante una meditazione profonda. Infine, questo Santuario è il cielo, ove allo splendore della luce divina, noi vedremo chiaramente le ragioni dei disegni segreti di Dio sui figli degli uomini durante la loro vita mortale sulla terra.

IV. —18-25.

ff. 18-19. – Il Profeta non dice: Voi li avete abbattuti, perché essi si erano elevati, ma voi li avete abbattuti nel momento stesso in cui essi sembravano elevarsi, perché elevarsi così, significa cadere; la loro elevazione è una rovina (S. Agost.). – Anche lo stesso Profeta dice allora. « … Essi svaniranno come il fumo ». È salendo nell’aria che una fumata svanisce, è ostentandosi che essa si dissipa: così è del peccatore che la fortuna favorisce, è una stessa causa che fa scoppiare e che annienta la sua grandezza  (S. BERN., Colloq. Sim. cum Jesu.).- La prosperità dei malvagi è una trappola nella quale essi sono tutti presi. Questa prosperità è la più rigorosa delle pene con cui Dio possa colpirli, e ben lontano dal renderli felici, essa è per essi un inizio di supplizio. – Si, questa felicità dei figli del secolo, quando navigano nei piaceri illeciti, quando tutto loro arride, e tutto per loro ha successo, questa pace, questo riposo che noi ammiriamo, « che – secondo l’espressione del Profeta – fa uscire l’iniquità dal loro grasso », che li gonfia, che li inebria fino a far dimenticare loro la morte, è un supplizio, una vendetta che Dio comincia ad esercitare su di loro. Questa impunità, è una pena che li precipita nei sensi riprovati, che li libra ai desideri del loro cuore, ammassando così un tesoro di odio, in questo giorno di indignazione, di vendetta e di furore eterno. Non resta per noi che esclamare con l’incomparabile Agostino: « Non c’è nulla di più miserabile della felicità dei peccatori che conservano una impunità che sostituisce una pena e fortifica questo nemico domestico, « io voglio dire la volontà sregolata », contenente i suoi cattivi desideri (Bossuet, Sur la Providence). – Questa lunga sequela di prosperità, che costituisce ciò che gli uomini chiamano la felicità è, per una persona illuminata nelle cose spirituali, una rivelazione di Dio che deve portare il terrore in un cuore religioso; perché spesso ciò che appare agli occhi di un uomo, come la legittima conseguenza dei suoi sforzi e dei suoi talenti, non è che il prezzo esatto del suo valore morale, la ricompensa scrupolosamente misurata delle sue virtù naturali, delle sue buone qualità secondo il mondo. Dio non si serve, per punire, che delle forme più terribili di questa prosperità. Non sono queste parole una sentenza di riprovazione: « … Tu hai ricevuto la tua ricompensa »? Signore, esclama san Filippo, che io non riceva la mia ricompensa in questa vita! Pertanto, quando noi vediamo questi uomini riuscire in tutte le loro imprese e portarsi indifferenti, in materia di Religione, fino a non avere alcuna nozione di Dio, quante volte la sua voce è giunta alle loro orecchie quando solo loro potevano udirla! (FABER, Le S. Sacrement, Livre III, Section VII). – Questi pretesi felici del secolo sono nella più infima punizione che Dio possa far subire alla creatura umana, e se il cielo è ancora aperto sulle loro teste, poiché essi vivono, sotto i loro piedi non c’è però se non l’abisso eterno. Coloro che Dio tratta così, coloro che Lo hanno conosciuto, che Lo hanno dimenticato, e che non sentono alcun turbamento interiore nell’insolenza del loro oblio; coloro che Egli lascia dormire nel fango dell’orgoglio e del piacere; coloro che Egli lascia ridere, con la bocca piena delle ricompense abominevoli di satana, ed il cuore gioioso per il bottino che essi fanno per l’inferno, servendosi dei doni che hanno ricevuto dal cielo: … guai a loro!  (L. V., Rome et Lor., t. II, 128).

ff. 20. – Come hanno cessato di essere? Come cessa il sogno di un uomo che si sveglia! Supponete un uomo che si veda in un sogno, che trovi dei tesori: egli è ricco, ma fino a quando si sveglia … egli cerca il suo tesoro e questo tesoro non c’è più: nelle sue mani non c’è niente, niente c’è sul suo letto. Egli si era addormentato povero, era diventato ricco nel sogno; se non si fosse svegliato sarebbe ancora ricco; ma si è svegliato, ed ha trovato la miseria che aveva lasciato nell’addormentarsi. Allo stesso modo, questi uomini troveranno la miseria che si sono preparati. Al risveglio che chiude questa vita, non resta niente di ciò che possedevano, come in un sogno. E per paura si obietta: Ma che! È dunque così poca cosa ai vostri occhi lo splendore della loro gloria? È così poca cosa la pompa che li circonda? Sono così poca cosa i loro titoli, le loro immagini, le loro statue, le lodi che ricevono e la falange dei loro clienti? « Signore – dice il Profeta – nella vostra città voi riducete la loro immagine a niente … ». Dunque non aspirate ai beni terreni voi che non li possedete, e voi che li possedete, non abbiate a presumerne. Voi non sarete condannati se possedete questi beni; ma sarete condannati se presumete di tali beni, se vi gonfiate per tali beni, se per tali beni voi pensate di essere grandi, se a causa di tali beni, non riconoscerete i poveri; se, nell’arroganza della vostra vanità, dimenticate la condizione comune degli uomini, perché alla fine dei tempi, Dio renderà inevitabilmente a ciascuno secondo le proprie opere e, nella sua città, renderà un niente l’immagine di questi orgogliosi (S. Agost.).  – O vanità e grandezza umana, trionfo di un giorno, superbo niente, che sembri niente alla mia vista quando ti guardo da questa angolazione! Apriamo gli occhi a questa luce; lasciamo, lasciamo ruggire il mondo, e non gli invidiamo la sua prosperità. Essa passa, il mondo passa, essa fiorisce con qualche benessere nella confusione di questo secolo. Verrà poi il tempo del discernimento. « Voi la dissiperete Signore, come un sogno in coloro che si svegliano; e per confondere i vostri nemici, distruggerete la loro immagine nella vostra città ». Che vuol dire, … Voi distruggete la loro immagine? Vale a dire, distruggerete la loro felicità, che non è vera felicità, ma solo una fragile ombra di felicità; Voi la frantumerete come il vetro, e la frantumerete nella vostra città; vale a dire davanti ai vostri eletti, affinché l’arroganza dei figli degli uomini, resti eternamente confusa (Bossuet). 

ff. 21-24. – « Il mio cuore è tutto infiammato ed i miei reni alterati ». Questo fuoco di cui il cuore del Profeta arde, è il fuoco dello Spirito Santo, che non gli permette di bruciare se non per le cose spirituali e divine. È soprattutto questo fuoco della carità di cui dice in un altro salmo: « … Ardeva il cuore nel mio petto, al ripensarci è divampato il fuoco » (Ps. XXXVIII, 4); questo fuoco è quello di cui divampava il profeta Geremia quando diceva: « Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo » (Gerem. XX, 9); questo fuoco, del quale i discepoli di Emmaus ardevano per i discorsi del Signore: « … non erano i nostri cuori ardenti quando ci parlava durante il cammino e ci spiegava le Scritture ?» (Luc.  XXIV,32). « Le mie reni sono state cambiate », perché il mio cuore è stato infiammato dall’amore di Dio, le mie reni, cioè le mie passioni, sono cambiate, ed io sono diventato interamente puro (S. Agost.).- Un cuore infiammato di Dio, annientato in sé, che riconosce la propria ignoranza e che si umilia come un animale privo ragione, in presenza della luce sovrana, riconosce facilmente che Dio è onnipotente e che è giusto, che riserva per l’altra vita i beni che prepara a coloro che Gli sono fedeli, e che i suoi giudizi sono sempre santi benché siano spesso impenetrabili.- Colui che è sostenuto dalla mano di Dio, è imperturbabile tra gli avvenimenti di questa vita. – La pietà solida è esente dall’essere colpita da qualsiasi illusione e si lascia condurre alla volontà di Dio. Nessuna pace è comparabile a quella, poiché nulla arriva contro la volontà di colui che non ne ha altra se non quella di Dio; nessuno mezzo più sicuro c’è per essere ricevuto tra le braccia di Colui che si è interamente abbandonato, e per essere ricolmo delle vera gloria (Duguet). –  Quale consolazione e qual soggetto di gioia per voi in qualunque stato vi troviate! Quando talvolta anche voi vi trovate in preghiera, con lo spirito pieno di mille fantasmi, senza alcuna tregua, non potendo assoggettare l’immaginazione, questa folle dell’anima, come la chiama Santa Teresa; altre volte, disseccati ed aridi, senza poter produrre un solo pensiero buono, come un tronco, come una bestia davanti a Dio: che importa? Non c’è allora che consentire ed aderire alla verità dell’essere di Dio. Consentire alla verità, questo solo atto è sufficiente. Aderire alla verità, acconsentire alla verità, è aderire a Dio, è mettere Dio in possesso del diritto che Egli ha su di noi (Bossuet, Opuscul., Disc, sur la mort).

ff. 25, 26. – L’amore di preferenza compara Dio con tutte le altre cose, come per provarle, convincersi delle menzogne, e la loro vanità gli ispira un disgusto profondo. Egli le calpesta e si leva sulle loro rovine per avvicinarsi a Dio. Il loro niente lo debilita, è da tutto disilluso; i beni terreni non possono più tenerlo lontano dal cielo; il distacco è la sua grazia caratteristica. Egli attraversa il mondo come la rondine sfiora l’erba della prateria, senza che nulla lo possa fermare. Così fa un giusto apprezzamento di Dio, mettendolo al di sopra di tutto ciò che esiste (Faber, Le Créateur et la créature, 181). –  Cosa ho a che fare con tutti i tesori della terra? Essa è fredda come il marmo delle montagne. Cosa sono gli oceani con la pienezza delle loro acque? Il mio pensiero li oltrepassa. Cosa possono per me gli orizzonti dei cieli e l’armonia degli astri che vi dispiegano i loro movimenti? Le loro voci sono mute, e sono io che presto loro la vita. Cosa sono i pensieri dello spirito e le loro contemplazioni orgogliose? Il pensiero è vuoto, è vano, infeltrisce tutto ciò che tocca. Ciò che il mio cuore chiama, desidera, come l’abisso chiama un abisso, è Dio (Mgr Bauday. Coeur de Jésus, p. 89). – Cosa possono presentarmi, in effetti, e il cielo e la terra, che mi sia più caro del mio Dio, che sia caro come il mio Dio e che mi sia caro in qualche modo più del mio Dio, se non è il mio Dio stesso? (BOURD. Vraie et fausse piété.). – « O Dio del mio cuore, Voi siete mia eredità per l’eternità! », ebbene! Vediamo le nostre ricchezze, ed il genere umano scelga la sua eredità. Vediamo gli uomini lacerarsi per le loro diverse passioni; che scelgano, gli uni la guerra, gli altri la locanda, gli altri le dottrine varie e differenti, questi il commercio, quello l’agricoltura; si dividano i beni terreni, ma il popolo di Dio esclami: « … Il mio Dio è la mia parte! », Egli non è mia parte per un tempo, il mio Dio è mia parte per i secoli dei secoli » (S. Agost.). – « Voi siete il Dio del mio cuore ». Dio è il primo principe ed il motore universale di tutte le creature, è l’amore anche che fa mescolare tutte le inclinazioni e le pulsioni del cuore più segrete; è come il Dio del cuore. Ma alfine di impedire questa usurpazione, occorre che si sottometta lui stesso a Dio affinché il nostro grande Dio essendo Egli stesso il Dio del nostro amore, sia nello stesso tempo il Dio dei nostri cuori così che noi gli possiamo dire con Davide: «Voi siete il Dio del mio cuore e la mia parte per sempre » (Bossuet III, Serm. Pâque).

ff. 27. – Non è con il movimento del corpo che ci si allontani da Dio o che si torni a Dio, ma con le affezioni del cuore. –  Prostituirsi alle creature, è preferire le creature a Dio. – Essendo Dio lo sposo vero delle nostre anime, è una specie di adulterio il suddividere il proprio cuore, che questo divino Sposo domanda per intero. « Anime adultere, dice san Giacomo, non sapete che l’amore per questo mondo è nemico di Dio? E chiunque vorrà essere amico di questo mondo, si rende nemico di Dio? (Giac. IV, 4). – « Il mio bene è attaccarmi a Dio ». Un trono è caduco, la grandezza svanisce, la gloria non è che una fumata, la vita non è un sogno, il mio bene è avere il mio Dio, è tenermi legato … io non vedo che Voi, mio Dio, mia parte, mia parte eternamente; nel cielo e in terra, io non vedo che Voi. Tutto ciò che non sia eterno, fosse pure una corona, non è degno della vostra liberalità né del vostro coraggio … Io non vedo che Voi sulla terra, e non vedo che Voi medesimo nel cielo; e se non siete Voi stesso il dono prezioso che ci fate, tutto ciò che Voi ci date allora in tanta profusione, non mi sarebbe nulla  (Bossuet. IV, Serm. Pâque.).

DIO IN NOI (2)

DIO IN NOI (2)

[R. PLUS: Dio in noi – Versione p. f. Zingale S. J. – L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923 Can. Francesco Duvina]

CAPO III.

La Redenzione.

Abbiamo detto che il soprannaturale è la vita divina in noi, la nostra partecipazione alla natura infinita di Dio. Fissiamo meglio il concetto. Abbiamo già un punto di riscontro per apprezzare, al suo giusto valore, la ricchezza di cui siamo gratificati. Prima ancora d’investigare in che consista la mia vita divina, che luce non promana già da questo solo pensiero: Dio ci ha riscattato, e Gesù Cristo si è incarnato per questo solo motivo: renderci il soprannaturale perduto! – È questo un fatto misterioso: Dio che si fa uomo, e poi il presepio, i trenta anni di vita nascosta; tre anni di vita pubblica; la croce; e lo scopo unico di tutto ciò: rifarci uomini divini. Riflettiamoci più addentro. – L’abbiamo già notato: per il peccato di Adamo noi eravamo tantum homo, uomini e nulla più. Dio non può accettare questa formula. Abbiamo saccheggiato la sua opera: Egli la vuole intatta; l’abbiamo cacciato dall’anima nostra: Egli vuole ritornarvi.

« … E il Verbo si è fatto carne ».

S. Ignazio, negli Esercizi spirituali, nella contemplazione sull’Incarnazione, ci invita a penetrare i consigli di Dio e vedervi la Trinità santa che delibera sulla sorte dell’uomo e sui mezzi da scegliere per salvarlo. – Taine, pensando a Dio e alla sua immensa maestà, paragonava l’uomo a una formica e l’Altissimo a un personaggio impassibile che, col suo mantello, spazza il piccolo essere che cammina ai suoi piedi, senza punto curarsi di lui! Crassa ignoranza di ciò che è Dio! Rivolta verso di noi, la Trinità santa si turba per la nostra miseria, e cerca un mezzo di salvarci… Dio non è troppo grande per abbassarsi a questo modo? — Dio è buono, infinitamente buono, e prova per l’uomo una tenerezza particolare, quella tenerezza che rapiva in estasi il Salmista, e lo faceva esclamare: « Che cosa è dunque l’uomo, o Signore, perché Voi pensiate a lui? » (Quid est homo, quod memor es ejus! Ps. VIII, 5). È vero, profonda è la nostra miseria, ma è pur vero che la misericordia di Dio è meravigliosa. Quello che non fece per gli Angeli, lo farà per noi. Ma come risolvere il problema? Il delitto fu commesso da un uomo; bisogna dunque che la riparazione di questo delitto venga compiuta per mezzo di un uomo. D’altra parte l’ingiuria fatta a Dio ha un valore infinito … Allora la seconda Persona, il Verbo, pronunzia, nelle magioni celesti, la parola di salvezza. Egli si incaricherà di tutto. Figlio di Dio, si farà figlio dell’uomo. Prenderà la nostra natura, diventerà uno di noi. Avrà una madre come noi, una vita come la nostra, abbraccerà le sofferenze come noi. La riparazione sarà di un uomo, perché, pur essendo Verbo, Egli si farà carne. La riparazione sarà di un Dio, perché pur fattosi carne, Egli non cesserà di essere Verbo. E l’Incarnazione è stabilita. Il Salvatore si farà fratello nostro per natura, affinché noi diventiamo fratelli suoi per grazia; parteciperà della nostra vita, affinché noi possiamo partecipare della sua. – Ecco il disegno; ed eccone l’attuazione. L’Arcangelo Gabriele si reca da una Vergine e Le dice: «Dio cerca una madre. Volete divenire la Madre del Figlio di Dio? ». Maria consente. Gesù viene al mondo: « Verbo abbreviato », come dicono i Santi Padri, Verbum abbreviatium, figura ridotta, compendio della Parola eterna, adattato alla nostra capacità. Se Dio si fosse appagato di offrirvi una formula di solvenza, un comandamento da osservare, non avremmo capito. Gli Ebrei, nell’Antico Testamento, avevano le Tavole della legge. Una carta è poco per attrarre gli uomini, e la storia d’Israele è la storia dei continui oblìi e dei rinnegamenti, rinnovati senza interruzione. La formula finirà di essere una mera formula, il comandamento cesserà di essere un semplice comandamento. La parola prenderà corpo, e invece di operare secondo le norme scritte su di un pezzo di carta, agirà seguendo le orme di un uomo. – Il Figlio di Dio, divenuto uno di noi, sarà il nostro capo. Egli sarà il primogenito, il grande fratello di cui tutta la famiglia umana si onorerà; e basterà seguirlo per non deviare nel nostro cammino. Ci mostrerà per dove dobbiamo passare: « Io sono la via ». Lo vedremo sempre il primo della fila, e due sbarre incrociate che formano la sua bandiera, per quanto ne siamo lontani, le scorgeremo facilmente, perché in mezzo ad esse risplende un cuore luminoso. Ego lux! — Venite, figliuoli miei — filioli— il cammino è difficile, ma io vi precedo e chiedo da voi unicamente che mettiate i piedi sulle tracce dei miei passi. Credete alla mia parola. « Io sono la Verità ». Colui che ha ricevuto il Battesimo e crederà, sarà salvo. Colui che rifiuterà di ascoltare la mia voce, si perderà. Che cosa fai tu sull’orlo della strada, che hai gettato la croce per terra e non vuoi più andare innanzi?… Chi vuol venire dietro a me, prenda la sua croce; solo dopo aver fatto questo, potrà seguirmi… Povero Figliuolo! tu manchi di forze. Io te le do. La vita del Padre è discesa nell’anima tua col Battesimo; questa vita bisognerà custodirla in te stesso, svilupparla; i mezzi, a questo scopo, sono i miei Sacramenti… Se per caso vieni meno, se cadi, bisognerà che ti rialzi. Io caddi tre volte, percorrendo lo stesso cammino, per dare a te l’esempio del coraggio e farti rialzare dalle tue cadute mortali, come Io mi rialzai dalle mie cadute fisiche. Io ti ho dato l’esempio: Io ti ho dato anche i mezzi per ristorare le tue forze esauste. Non hai tu la Confessione? La Confessione, il più divino di tutti i miei Sacramenti, da me immaginato affinché la colpa non imputridisca nel tuo cuore. Come il Padre mio, dopo il fallo di Adamo, poteva astenersi dal perdonare, ugualmente Io potrei, dopo il tuo primo peccato, non concederti alcuna remissione. Considera la mia bontà, non per abusarne, ma perché tu abbia maggior confidenza in me. Ogni qualvolta tu cadrai, un Sacerdote sarà pronto, vicino a te, per perdonarti in mio nome. E quando sarai tormentato dal dubbio o dall’angoscia, ascolta la voce dei miei rappresentanti sulla terra, della mia Chiesa. L’esempio, la regola da seguire, i soccorsi da utilizzare; che cosa più ti manca? Dimmelo, che cosa avrei potuto fare di più, per te, che non l’abbia fatto? E tutto questo, notalo bene, tutto questo unicamente, esclusivamente perché tu viva della vita del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, perché tu viva della vita divina. Ho agito così, ho fatto un così grande passo — sicut gigas— per farti partecipe, Io Verbo, della mia vita che è la vita del Padre e dello Spirito Santo. Continuerai a stimare come cosa di poco conto, questa vita divina, questa vita soprannaturale? Tu non vi badi, ovvero non ne fai alcun caso. Mentre io… Considera quello che risolvetti di fare e che poi feci. – E cerca, ormai, di capire.

— Signore! Lo so. Aumentate la mia fede. Concedetemi di modellare tutta la mia vita su queste grandi idee. Voi mi avete reso la mia vita divina. Terrò ormai davanti agli occhi, non dimenticherò mai quanto quest’opera insigne vi sia costata.

— Tu non hai ancora compreso tutto. Hai contemplato, sì, con un’occhiata la mia vita e i miei benefizi. Il presepio, per te; la mia vita nascosta, per te; per te la predicazione evangelica; per la tua salvezza la fondazione della mia Chiesa, l’istituzione dei miei Sacramenti. – Hai pensato che su tutto ciò si distendeva una grande ombra, l’ombra sinistra, ma gloriosa, delle due traverse, mal connesse, che in forma di croce, dominavano il Golgota? Potevo vivere felice sulla terra. Non volli farlo: intendevo scrivere nel Vangelo: «Beati i poveri ». Se fossi stato ricco, mi avresti detto: « Voi parlate senza aver provato ». Scelsi la povertà. A Betlem non ebbi nulla. Sulla Croce, nulla. Fra la Croce e Betlem, nulla. Potevo vivere fra gli onori. Volevo poterti dire: «Beati i perseguitati», senza che tu avessi nulla da rimproverarmi. Ascolta. Alla mia nascita sono cercato a morte da Erode. Durante la mia predicazione, parecchie volte, vogliono arrestarmi e mettermi in prigione; prendono di terra le pietre per lapidarmi; la mia bontà è rimunerata con l’insulto. Quanto alla Passione ecco Anna, Caifa, un altro Erode, Pilato, i Giudei che schiamazzano; l’abbandono, l’odio, il tradimento; non mi mancò nulla. Avrei potuto… ma perché continuare? Scelsi la sofferenza, la Croce, volli versare tutto il mio sangue.

Perché?

Perché tu capisca meglio quanto io stimi la vita soprannaturale alla quale è destinata l’anima tua. Io mi annientai, mi ridussi a zero exinanivit— affinchè Dio viva in te. Mi ridussi al minimum, affinché tu potessi avere la vita al maximum.

Ohimè!

Che disdetta non fu la mia, che perdita! Operai a questo modo per amore degli uomini. Ma quanti di loro vi pensano? Quale stima mostrano della vita divina che portano in sé, — che dovrebbero almeno portare? — Il peccato dappertutto, nella strada e nella famiglia, nelle grandi sale, nelle stanze destinate al riposo, perfino nelle chiese e nei chiostri. I peccati dei buoni, specialmente! Essi soli mi ridussero all’agonia. Non potei resistere a tanto orrore, e dovetti sudare sangue. Peccati numerosissimi, grossolani, enormi! Io ne fui schiacciato dal peso, annientato. – Il mio sangue, tutto il mio sangue, inutile! Inutile, non per i soli infedeli di nascita, i pagani, ma per la folla degli infedeli dal cuore troppo gaio; per i Cristiani che sono in peccato mortale. Il povero Giuda, lo sai bene, è il modello delle anime che rifiutano di lasciarsi guadagnare. Misi in opera ogni mezzo, per salvarlo: la bontà, la compassione, la minaccia. M’inginocchiai ai suoi piedi per lavarglieli. Non capì nulla, non si commosse, e Io dovetti lasciarlo in braccio alla perdizione! Tutto il mio sangue è pertanto un prezzo d’infinito valore!… L’uomo mi ha profondamente rattristato. È dunque questo il cuore dell’uomo? E mia Madre, la mia povera Madre ch’Io volli associare con me alla tua redenzione e al mio martirio! Non è Madre tua, solo perché ha, per te, gli stessi sentimenti che una madre nutre per suo figlio, ma perché in realtà — Io la feci tua Madre, — tu Le devi la vita soprannaturale. – Nell’Annunziazione, quando Gabriele si presentò a Maria, ecco la strana proposta che Le fece, il contratto singolare a cui Le domandò di associarsi: « Dio ha stabilito di rendere all’uomo la vita divina. A questo scopo vuole incarnarsi e voi siete scelta per metterlo al mondo. Se accettate, il mondo possederà un Salvatore. Per mezzo suo avrà la salvezza. Senza di voi nulla è possibile. Dite sì, e tutto sarà conchiuso. Ma perché non vi sia un malinteso, sentite quali sono le condizioni del contratto: Gesù morrà sulla Croce. Voi lo alleverete per il sacrificio. Senza il Calvario non vi sarà Redenzione. Per salvare i vostri figli, gli uomini, — figli vostri perché a voi dovranno la vita soprannaturale che dipende unicamente dal vostro fiat, — bisognerà sacrificare il vostro Primogenito. Accettate la morte dell’uno, per salvare tutti gli altri? ».

Maria accetta.

Ella è Madre. È tua Madre, titolo che Maria stima molto, perché riassume il suo ufficio, il suo sacrifizio, la sua missione: Mater Dolorosa, madre dei dolori. In tutta la sua vita, tua Madre — la Madre mia — ebbe dinanzi agli occhi la visione tremenda della Croce che avrebbe dominato la mia e la sua vita, e a ogni momento si rinnovava il triste spettacolo di me, suo Primogenito, inchiodato e sanguinante sopra il legno infame. E Io ho permesso questo, per amor tuo. Senza questa doppia crocifissione, che per me durò trentatrè anni e per mia madre tutta la vita, tu non saresti stato riscattato. Maria rinnovò il fiat dell’Annunziazione in ogni istante della sua esistenza. Ai piedi della Croce ripeterà con me la sua giaculatoria consueta, l’Amen sublime, con cui si associò pienamente, fin da principio, alla mia volontà redentrice. Così si riassume, con l’ufficio di Gesù, l’ufficio di Maria nella nostra rinascita collettiva alla vita soprannaturale (noi non pretendiamo punto che la Vergine abbia avuto, dal primo momento, la conoscenza di tutta la Passione del suo Divino Figliuolo, in tutte le particolarità. Ma diciamo, secondo il giudizio di vari Santi Padri, che l’Angelo verisimilmente poté rivelare alla Vergine la Passione del Figlio, presa nel suo insieme. Come difatti spiegare l’accento di rassegnazione del fiat? Ad una proposta di grande onore si risponde piuttosto: meglio così, anziché: fiat, sia. La sola umiltà di Maria non basta, secondo alcuni, a dare ragione della risposta fatta all’Angelo. La Vergine aveva d’altronde letto Isaia, il vermis et non homo, il virum dolorum. Sapeva quindi che il Messia sarebbe l’uomo dei dolori. Accettando perciò la maternità del Messia, per il fatto stesso accettava di essere una Madre addolorata; e per chi conosce il cuore di una madre, Maria si rassegnava al dolore durante tutta la sua vita. La Vergine dovette averne l’intuizione alle prime parole dell’Angelo. Quanto alle particolarità, non si potrebbe forse ammettere che durante i trent’anni di contatto continuo con Lei, Nostro Signore abbia rivelato a sua Madre, scelta ad essere corredentrice, quale sorta di pene fossero riservate a Lui?). L’umanità deve tutto a Maria; e l’essere costata a Lei tanti dolori, spiega perché la Vergine sia così potente presso Dio, allorquando trattasi di difenderci contro gli attacchi giornalieri dei nemici dell’anima nostra. – Giacché non basta che siamo stati salvati una volta. Noi siamo esposti, ogni giorno, a cadere nel male in mille maniere. Maria, per ciascuno di noi, non dimentica l’ufficio che assunse una volta. Ella accettò il sacrificio del suo Primogenito, per strappare alla morte noi, suoi « secondi » figli. Questo importa molto, ed è la ragione precipua dell’efficacia del suo intervento. Nel secondo libro dei Re si racconta che una madre, avendo due figli, vede un giorno il minore accusato dell’uccisione del fratello. Il reo è condannato a morte, essendo provato il delitto. La madre, presente alla sentenza, si getta ai piedi del giudice, e gli dice : « Che cosa fate, signore? Ho perduto già un figlio, e voi oserete uccidere l’unico che mi resta? ». Possiamo immaginarci lo stesso riguardo Maria — Omnipotentia supplex, l’onnipotenza supplichevole — al momento in cui la morte è sul punto di colpire un suo figliuolo in peccato mortale, per privarlo in eterno dell’eredità dei figli di Dio. Ella allora si prostra ai piedi del Padre, e dice: « Signore, Io ho sacrificato il mio Primogenito. Fate grazia, vi supplico, a questo mio secondogenito, per i dolori sofferti dal Primo; per tutte le pene da me sopportate, perdonatelo… è un mio figliuolo! Non vogliate punirlo in eterno. Mandategli una grazia che lo converta… Abbiate pietà di me! ». Cominciamo a capire il vero valore della nostra vita soprannaturale. Allorché si ignora il valore di un bene, si ricorre a chi è in grado di stimarlo. – Io stimo per nulla la mia vita divina.

Quanto invece fu stimata da Maria?

Quanto da Gesù? L’uno e l’altra capaci, pertanto, di apprezzarla! Bisogna che qualcuno s’inganni; o s’ingannano essi o m’inganno io. Sì, m’inganno io. Bisogna quindi che io rettifichi al più presto il mio falso giudizio, e che, in conseguenza, non trascurando la stima che altri ne ha fatto, mi studii di trovare in me che cosa sia la vita soprannaturale, la presenza di Dio, nell’anima mediante la grazia.

LIBRO SECONDO

L’abitazione divina nell’anima nostra

Le grandi linee del disegno di Dio sono le seguenti:

In principio l’uomo è colmato, al disopra della sua natura, di doni meravigliosi, dei quali il più importante è una partecipazione di amore alla stessa vita della Trinità Santa. – Per il peccato originale, l’uomo perde questo tesoro soprannaturale. Tutto però non è perduto irremissibilmente. – Dio stabilisce di rendere all’uomo la partecipazione ineffabile alla sua vita divina; soltanto non saranno resi alcuni doni accessori e d’ordine temporale. – Per mandare ad effetto tale restituzione, Dio sceglie di venire Egli stesso sulla terra. Il Verbo, seconda Persona della Santa Trinità, si incarna, dopo aver fatto domandare a Maria se accetta l’onore e il martirio di divenire sua Madre. – Grazie a questa redenzione, a questo riscatto, eccoci divenuti uomini divini. Dio ha determinato di venire in terra, unicamente per rientrare nelle nostre anime. Egli non si lasciò attrarre dal presepio di Betlem, ma dal nostro cuore. Vuole rientrare nel dominio del cuore, affinché ridiveniamo quello che eravamo alla nostra origine: portatori di Dio.

Spieghiamo quest’espressione e dimostriamone l’esattezza letterale. Ci riuscirà facile il compito, se avremo provato che per mezzo della grazia santificante Dio fa dell’anima nostra:

1. Un vero tabernacolo;

2. Un cielo;

CAPO I .

” Templum Dei .

Nulla è più spesso ripetuto e affermato, nelle Epistole, di questa verità, che noi dobbiamo considerarci come tabernacoli, vere Chiese, case di Dio: Quæ domus sumus. — Vos estis templum Dei. – S. Paolo, per sostenere questa dottrina, usava lo stesso insegnamento di Nostro Signore. « Se qualcuno mi ama», aveva detto Gesù, vale a dire se qualcuno è fedele ai miei comandamenti, se non pecca, ma vive in stato di grazia, « mio Padre e Io l’ameremo, e verremo a lui, stabiliremo in lui la nostra dimora, la nostra abitazione, il nostro soggiorno ».

« Verremo a lui ». Chi farà questo? Noi, Padre, Verbo, Spirito Santo, che siamo un solo. Verremo, non della venuta necessaria e comune, in virtù dell’immensità divina; ma di una venuta speciale, gratuita, di amore, che ci costituirà non più nelle relazioni di un oggetto con colui che l’ha fatto, di creatura a Creatore, ma nelle relazioni di amico ad amico.

« Noi verremo a lui ».  È una grazia grande venire anche di passaggio, venire per ripartire al più presto. Ma noi faremo di più: Verremo e resteremo; verremo per dimorare, per stabilirci, per operare continuamente la divinizzazione più completa e più perfetta dell’anima. « Noi verremo e resteremo ». Noi resteremo, e da parte nostra, questa presa di possesso sarà irrevocabile, sarà una dimora che non avrà fine. Tu solo, col peccato, potrai pronunziare una sentenza d’espulsione e allora Noi partiremo. Non potremmo fare altrimenti! Ma finché questo non accade, la nostra vita, la nostra presenza in te, è un fatto, una vera realtà. Io impegno la mia parola. – Si conosce da tutti l’espressione di San Pietro, difficile a tradursi, ma bella, chiara, con cui afferma ai primi Cristiani, che se persistono nello stato di grazia, sono in possesso della « partecipazione alla natura divina, divinæ consortes naturæ ». Cerchiamo di rappresentarci in concreto questa presenza di Dio nell’anima nostra. – Abbiamo spesso meditato sul presepio. Supponiamo adesso il presepio, divenuto tutto a un tratto vivente… La culla del Salvatore conteneva Gesù, Uomo-Dio. Noi, divenuti, per la grazia, culle viventi, portiamo, non la santa Umanità del Signore, ma la sua divinità. Secondo il simbolismo delle tre Messe che si celebrano il giorno di Natale, se la prima ci ricorda la nascita eterna del Verbo nel seno del Padre e la seconda la nascita temporale del Cristo a Betlem, la terza, invece, ci rappresenta la nascita spirituale di Dio in ciascuna delle nostre anime con la grazia santificante. Spesso abbiamo meditato sull’Eucaristia. Immaginiamoci la sacra pisside divenuta a un tratto vivente… La pisside racchiude Gesù, l’Uomo-Dio. Per la grazia, noi divenendo pissidi viventi, portiamo non l’Umanità di Nostro Signore, ma quello che in Lui è più grande: la sua Divinità. – Nel 1914 alcune religiose belghe, costrette a fuggire dinanzi all’invasione tedesca, riparando in Olanda, portarono seco la sacra pisside che la superiora aveva tolta dal tabernacolo. Erano fuori di sé per la gioia di portare, una volta nella loro vita, Nostro Signore. Ma la religiosa che teneva con sé il sacro deposito, aveva forse pensato che ogni giorno, per la grazia santificante, ella portava realmente, benché non nello stesso modo, il buon Dio? – Di tutte le lodi tributate al valore durante la guerra, è certamente assai meritata quella di un basco di Urrugna, chiamato Ururétagoyena: « Soldato valoroso… Il 16 giugno 1916, durante l’incendio di X …, non permise che il parroco andasse a prendere il Santissimo in mezzo alle fiamme, ma vi andò egli stesso, malgrado i pezzi infiammati che cadevano da tutti i punti, e, attraversando una finestra, riuscì a portare la pisside al prete ». Essendo quel soldato un fervente Cristiano, come lo sono generalmente i baschi, si può supporre che sia stato santamente orgoglioso di avere portato, anche durante alcuni minuti, il Dio vivente. E per noi, quale dovrebbe essere il nostro nobile orgoglio, se pensassimo che ad ogni momento — se siamo in grazia — portiamo Dio. Lo portiamo dovunque andiamo, non soltanto sopra di noi, come le buone suore di cui abbiamo parlato, ovvero come il bersagliere basco, o come il Papa Alessandro, che si dice portasse continuamente appeso al collo, in una teca d’oro, il SS. Sacramento; ma dentro di noi dove risiede, non corporalmente, — privilegio riservato alla presenza eucaristica dopo ogni Comunione, durante il tempo in cui durano le sacre specie; — ma spiritualmente, per la grazia santificante, finché noi lo vogliamo, in virtù della nostra fedeltà. – Noi siamo altrettanti tabernacoli. I Santi vivevano di questo pensiero. Ogni anno la Chiesa ci fa leggere nel breviario le lezioni della festa di Santa Lucia. Il prefetto l’interroga: «Lo Spirito Santo è in te? » — « Sì, coloro che vivono casti e pii sono il tempio dello Spirito Santo ». S. Ignazio martire dice a Traiano che l’insulta, trattandolo di miserabile: — Nessuno osi trattare di miserabile Ignazio, Porta-Cristo. — Come potresti chiamarti Porta-Cristo, Cristoforo? — Perché questa è la verità. Io porto Dio in me. – All’occasione, Nostro Signore stesso s’incarica di dire, ad alcune anime privilegiate, le meraviglie della sua presenza in noi. Un giorno chiamò così S. Angela da Foligno: « Figlia mia carissima, mio tempio, mia delizia… ». – E a Santa Gertrude, la santa per eccellenza, dell’Abitazione in noi, la Santa di cui la Chiesa, nell’orazione per la sua festa, dice: « O Signore, che nel cuore di Gertrude vi siete preparata una dimora deliziosa… » parecchie volte Gesù Cristo rivolge queste parole: « Io ti ho scelta per abitare in te, e per trovare in te le mie delizie ». – La conoscenza che il Divin Salvatore dava alle sue Sante era ben diversa dalla nostra, non era cioè una conoscenza di pura fede, ma una conoscenza sperimentale, sentita, appartenente a quell’ordine mistico di cui noi qui non intendiamo affatto occuparci. Fatta questa riserva, possono valere per noi le parole che Gesù rivolgeva loro. Nessuno negherà che non possa chiamare noi suo tempio e non possa dirci: « Io ti ho scelto per abitare in te ». E difatti nel suo dogma Egli ci chiama e ci parla così. – Nulla di più esatto. I Cristiani istruiti che hanno una fede viva, non ignorano questo. Si conosce il gesto di Leonida, padre di Origene. Inchinandosi sul figlio, adagiato nella culla, per baciarne il petto, risponde a chi si meraviglia: « Io adoro Dio, presente nel cuore di questo piccolo battezzato ». Origene stesso scriverà più tardi, parlando della grazia santificante e della vita divina che la grazia apporta in noi: « Scio animam meam inhabitatam. Habitata est quando plena est Deo, quando habet Christum et Spiritum Sanctum. L’anima mia è un’abitazione. Abitazione di chi? Di Dio, di Gesù Cristo, dello Spirito Santo » (In Jerem., hom. VIII).

Abbiate stima di questo piccolo essere;

Egli è assai grande, ha in sè Dio!

(Prenez garde à ce petit être;

Il est bien grand, il contient Dieu.

VICTOR HUGO).

Credette mai, Victor Hugo, di esprimere, in questi due versi, una verità dogmatica fondamentale ed insieme commovente? Ecco ancora un tratto, forse più bello di quello di Leonida. – Una madre, fervente cristiana, dopo molti anni di sterilità dà alla luce una bambina. A coloro che glie la porgono perché l’abbracci: « No, risponde; lo farò tra breve, quando avrà ricevuto il Battesimo ». Poche madri avrebbero forse una fede simile. Non meno cristiana è l’attitudine di Botrel, bardo bretone, il quale, citato a testimoniare in un tribunale e non scorgendovi più il Crocifisso, rifiuta di sollevare la mano, e la pone invece, premendo forte, sul petto, esclamando: « Dio è almeno qui ». Dalla cittadella di Lilla, in cui era stato rinchiuso come in prigione di rigore, per essersi rifiutato di ubbidire contro coscienza, allorché il governo aveva imposto gl’inventari agli edifici sacri, un ufficiale francese, non potendo visitare il Santissimo Sacramento, si consolava al pensiero che almeno nessuno gli poteva impedire di visitare Dio presente nell’anima sua, per la grazia: «Per fare una buona adorazione, egli scriveva, io rientro in me stesso, o meglio, adoro Dio presente in me. Non siamo forse noi altrettanti tabernacoli?».Pensiero, anche quest’altro, pratico e profondo: « Quanto a me, scriveva prima della guerra il Dottor Périé, presidente del circolo della gioventù cattolica dell’Aveyron, la vita cristiana consiste, tutta quanta, nella fedeltà a questa massima: vivere, ogni momento della nostra vita, con Gesù Cristo. Sentire Lui, Dio, amico, confidente, padrone, presente sempre accanto a noi e dentro di noi ».Quanta forza in questo pensiero, quando lo si è compreso! Poter dire a ogni minuto: io non sono solo, siamo due, Dio e io! Consideriamo come dato a noi il consiglio di Monsignor d’Hulst: « L’anima vostra sia un tabernacolo davanti al quale vi prostrerete spesso, a causa dell’Ospite divino che vi abita ».

CAPO II.

“Cœlum sumus,,.

« Noi siamo un cielo ».

S. AGOSTINO.

Una carmelitana di Digione, morta di recente, dopo solo alcuni anni di vita religiosa, suor Elisabetta della Trinità, la cui vita spirituale si basa quasi esclusivamente sul dogma dell’Abitazione divina, è un modello di ciò che deve essere l’intimità « interiore ». Il titolo di Carmelitana non deve costituire una difficoltà. Il P. Foch fa osservare, con ragione, in una lettera, citata al principio delle Memorie di suor Elisabetta: « Il carattere singolarmente importante che me la fa assai apprezzare, si è che la perfezione di quest’anima religiosa, in ultima analisi, consiste nell’effusione della grazia, nello sviluppo progressivo, normale, logico delle virtù teologali, quali il Battesimo le infonde in tutti ». Questo importa, che il substratum divino, su cui suor Elisabetta edificò l’edificio della sua santità, è posseduto anche da noi. Non esistono punto due forme di stato di grazia. È pertanto, fuori di dubbio che il posto che noi riserviamo a Dio nell’anima nostra può differire a seconda della capacità delle nostre virtù; ma ciò sarà solo secondo un numero maggiore o minore di gradi, una misura più o meno ristretta. Dio può concedere, è vero, grazie straordinarie che facilitano la vita interiore, come fece con S. Elisabetta. Col solo spirito di fede noi possiamo, nondimeno, avvantaggiarci molto nella conoscenza concreta di Dio in noi. Questo è possibile a tutti, purché si abbia buona volontà. Ecco perchè le « Memorie » di questa religiosa — con le correzioni che noi indichiamo — possono servire di modello a tutti. S. Paolo fornisce la teoria; Suor Elisabetta ce ne mostra la pratica, con gli accomodamenti necessari alla vita di ciascuno di noi. – La serva di Dio dice di avere trovato un gran segreto, il giorno in cui s’accorse che le parole di Gesù Cristo e quelle di S. Paolo su « Dio in noi », non erano da ritenersi come una metafora, ma alla lettera; in altri termini: « Dio in noi » non è semplicemente una formula, ma una vera, una sublime realtà. La pia carmelitana fece, di questa realtà, il centro della sua vita. – « Dio in noi », cioè a dire il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo: « Tre »; secondo una sua espressione favorita. Non bisogna parlare d’un Dio lontano, assente. Il suo Dio è vicinissimo, i suoi « Tre » sono là. E la sua intera esistenza si riassumerà in queste poche parole: «L’intimità interna cogli ospiti dell’anima mia ». A partire da questo momento, una sua idea molto cara, idea vera anche per noi, si è che possedendo Dio, l’anima nostra è un cielo. Noi dicevamo poco fa: tabernacolo, tempio. Possiamo dire, molto esattamente: cielo, paradiso. « Vivere, è comunicare con Dio da mane a sera e dalla sera al mattino… Lo portiamo in noi, e la nostra vita è un cielo anticipato. « Far sì che la nostra « casa di Dio » sia pienamente occupata dai « Tre… », mi pare il segreto della santità, un segreto molto semplice! – Dire che abbiamo in noi il nostro cielo … Quanto sarà bello, quando il velo cadrà, e noi godremo Dio faccia a faccia! ». Scrivendo a sua sorella, le cita la parola dell’Apostolo: « Non siete più ospiti o estranei, ma della città dei santi e della casa di Dio ». E aggiunge: « Questo cielo è al centro dell’anima nostra… Non vi pare semplice e consolante? Malgrado le tue occupazioni e attraverso le tue sollecitudini materne, tu puoi ritirarti in questa solitudine… Allorquando sarai distratta dai tuoi numerosi doveri… se vuoi raccoglierti, entrerai, a ogni ora, nel centro dell’anima tua, là dove dimora l’Ospite divino; potrai pensare alle consolanti parole: Le nostre membra sono il tempio dello Spirito Santo che abita in voi (1 Cor., III, 16); e a queste altre che sono di Gesù Cristo: Dimorate in me ed Io in voi. Si narra di S. Caterina da Siena che viveva sempre nella sua stanzetta, benché fosse in mezzo al mondo, giacché viveva in quest’abitazione interiore… ». Questo pensiero dominava la serva di Dio nei suoi ritiri spirituali. Ella scrive: «Poiché l’anima mia è un cielo dove io vivo aspettando la Gerusalemme celeste»… E riassume tutto in un’equazione luminosa: « Ho trovato il mio cielo sulla terra, poiché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia ». – Grazie speciali davano a Suor Elisabetta una particolare penetrazione del mistero divino. Questa facilità di « rientrare nel suo interno », di vivere « sola con Dio solo », non può appartenere, nello stesso grado, che alle anime prevenute da soccorsi straordinari, ovvero preservate dalle innumerevoli distrazioni della vita del mondo. – In conseguenza noi non vogliamo occuparci di questo. Non pretendiamo che la facilità sia per tutti uguale, ma diciamo che in tutti — in tutti coloro che sono in grazia, — Dio abita, e che dipende da noi, aiutati dalla grazia e secondo le risorse esteriori della nostra devozione, discendere in noi, quando vogliamo pregare;

in noi, poiché Dio vi si trova e in nessun altro posto ci è più vicino. Nostro Signore stesso spiegò una volta, nel giorno dell’Ascensione, a Santa Margherita Maria questa dottrina: « Ho scelto l’anima tua perché sia un cielo di riposo sulla terra e il tuo cuore sia un trono di delizie per il mio divino amore». Presenza sentita per la Santa; presenza semplicemente conosciuta in virtù della fede, quando trattasi di noi, ma identica nel suo fondo, differente solo in un punto accidentale: il modo di percepirla. – I Padri spiegano spesso questa dottrina: « Cœlum es et in cœlum ibis, dice Origene (In Jer., hom. VIII); tu sei cielo e andrai in cielo ».

— E Sant’Agostino: « Portando con noi il Dio del Cielo, siamo cielo. Portando Deum cœli, cœlum sumus». (In Psalm. LXXXVIII).L’Imitazione di Cristo nella sua semplicità dice:« Ubi tu es, ibi cœlum » (III, 59). E il P. Faber traduceva: « Dio produce il cielo, dovunque si trova ». Da ciò si comprende meglio l’agire di Santa Teresa che cadeva in estasi alla vista di un’anima in istato di grazia. « Il cielo, scriveva la Santa, non è l’unica abitazione di N. Signore; ve n’è un’altra nell’anima che può chiamarsi un secondo cielo ».S. Teresa considera specialmente, e nelle Fondazioni e in altri scritti, la verità della presenza di Dio in noi dal punto di vista mistico, come in generale facevano gli scrittori antichi; ma non omette, all’occasione, di ricordare il nostro punto di vista, basandolo sui principii della teologia dogmatica. Valendosi della frase di Origene: Tu coelum es, la Santa chiama l’anima nostra « un piccolo cielo… in cui abita Colui che ha creato il cielo e la terra ». « Vi è mai cosa alcuna più degna d’ammirazione, dice ancora, che di vedere Colui il quale riempirebbe della sua grandezza mille mondi, racchiudersi in una piccolissima dimora come la nostra? ».S. Bernardo, a sua volta, parlando dell’anima scrive: « Non bisogna dirla celeste unicamente a causa della sua origine; bisogna chiamarla il cielo stesso. Puto non modo cœlestem esse propter originem, sed cœlum ipsum posse non immerito appellari » (Dice ancora: « Non mirum si henter habitet hoc cœlum Dominus juxta illud Lucæ: Regnum Dei infra vos est. Nessuna meraviglia se Dio abita volentieri nel cielo dell’anima nostra; per creare il cielo visibile, si contentò di dire il fiat; per il cielo dell’anima nostra, dovette combattere e versare tutto il suo sangue, pugnavit ut aquireret, occubuit ut redimeret. Quindi, dopo quest’immenso lavoro, godendo della sua vittoria, ait: hæc requies mea, hic habitabo, disse: prenderò là il mio riposo, abiterò là dentro » – Serm. XVII in cantica, n. 9). È però indubitato che a differenza del cielo che ci attendiamo nell’eternità, il cielo dell’anima noi possiamo perderlo. Quaggiù portiamo i nostri tesori in vasi di argilla, vasis fictilibusl’altro invece non si può perdere. Questo « cielo» in noi è invisibile. Dio è presente, ma sfugge a qualsiasi percezione dei nostri sensi, e vi è un abisso tra la fede e la visione. Maria de la Bouillerie, che doveva morire religiosa del Sacro Cuore, nel suo ritiro di prima comunione fu colpita da questa frase: « Il nostro corpo è un velo che c’impedisce di vedere Dio ». Fra la grazia e la gloria vi è solo questa distanza — grandissima e piccolissima — il velo. Alla morte cadrà il velo della nostra carne, come un mantello che si squarcia, e allora vedremo. È invisibile, si può perdere e sfugge ai sensi. Con la grazia possediamo l’eredità, ma per goderne bisogna aspettare la gloria ( « Il cielo è Gesù », scriveva Mgr. Gay all’abate Perdrau; « la felicità non consiste nel vederlo, ma nel fatto che esista e che sia nostro. Or ci appartiene qui. È  verissima quindi la definizione che il Dottore Angelico dà della grazia: inchoatio vitæ eternæ… Noi possiamo e dobbiamo esclamare, lodando Dio e congratulandoci gli uni gli altri: portio mea Dominus » (Corresp. t. II, p. 217Monsignor Gay, per la sua devozione personale e per dirigere le anime, si valeva molto del dogma dell’Abitazione divina.).Quale soggetto, pertanto, degno della nostra stima, se vi facessimo attenzione! Io sono «cielo»! E la conclusione da dedurne: lavorare a mettere il « cielo » nell’anima mia, a metterne sempre di «più». Seminare nel tempo, per raccogliere nell’eternità: abbiamo altre ragioni di vivere quaggiù?

https://www.exsurgatdeus.org/2019/12/17/dio-in-noi-3/

SALMI BIBLICI: “DEUS, JUDICIUM TUUM REGIS DA” (LXXI)

SALMO 71: “Deus, judicium tuum regi da”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

CATENA D’ORO SUI SALMI

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 71

Psalmus, in Salomonem.

[1] Deus, judicium tuum regi da,

et justitiam tuam filio regis;  judicare populum tuum in justitia, et pauperes tuos in judicio.

[2] Suscipiant montes pacem populo, et colles justitiam.

[3] Judicabit pauperes populi, et salvos faciet filios pauperum, et humiliabit calumniatorem.

[4] Et permanebit cum sole, et ante lunam, in generatione et generationem.

[5] Descendet sicut pluvia in vellus, et sicut stillicidia stillantia super terram.

[6] Orietur in diebus ejus justitia, et abundantia pacis, donec auferatur luna.

[7] Et dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum.

[8] Coram illo procident Aethiopes, et inimici ejus terram lingent.

[9] Reges Tharsis et insulæ munera offerent; reges Arabum et Saba dona adducent;

[10] et adorabunt eum omnes reges terræ, omnes gentes servient ei.

[11] Quia liberabit pauperem a potente, et pauperem cui non erat adjutor.

[12] Parcet pauperi et inopi, et animas pauperum salvas faciet.

[13] Ex usuris et iniquitate redimet animas eorum, et honorabile nomen eorum coram illo.

[14] Et vivet, et dabitur ei de auro Arabiæ; et adorabunt de ipso semper, tota die benedicent ei.

[15] Et erit firmamentum in terra in summis montium; superextolletur super Libanum fructus ejus, et florebunt de civitate sicut fænum terræ.

[16] Sit nomen ejus benedictum in sæcula; ante solem permanet nomen ejus. Et benedicentur in ipso omnes tribus terræ; omnes gentes magnificabunt eum.

[17] Benedictus Dominus, Deus Israel, qui facit mirabilia solus.

[18] Et benedictum nomen majestatis ejus in æternum, et replebitur majestate ejus omnis terra. Fiat, fiat.

Defecerunt laudes David, filii Jesse.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXI

Davide nell’ultima sua vecchiezza, consegnando il regno a Salomone, prega Dio per lui. Ma più veramente trasportato dallo spirito di profezia, con elegantissime immagini descrive la venuta di Cristo, la propagazione del suo regno e la rettitudine del suo governo.

Salmo sopra Salomone.

1. Dà, o Dio, la potestà di giudicare al re, e l’amministrazione di tua giustizia al figliuolo del re, affinchè egli giudichi con giustizia il tuo popolo e i tuoi poveri in equità.

2. Ricevano i monti la pace pel popolo, e i colli ricevano la giustizia.

3. Ei renderà giustizia ai poveri del popolo, e salverà i figliuoli de’poveri, e umilierà il calunniatore.

4. Ed ei sussisterà quanto il sole e quanto la luna per tutte quante le generazioni. (1)

5. Egli scenderà come pioggia sul vello di lana e come acqua che cade a stille sopra la terra. (2)

6. Spunterà ne’ giorni di lui giustizia e abbondanza di pace, fino a tanto che non sia più la luna.

7. Ed ei signoreggerà da un mare sino all’altro mare, e dal fiume sino alle estremità del mondo. (3)

8. Si getteranno a’ suoi piedi gli Etiopi, e i nemici di lui baceranno la terra.

9. I re di Tharsis (4) e le isole a lui faranno le loro offerte; i re degli Arabi e di Saba porteranno i loro doni. (5)

10. E lo adoreranno tutti i re della terra, e le genti tutte a lui saran serve;

11. Imperocché egli libererà il povero dal possente; e tal povero, che non aveva chi lo aiutasse.

12. Avrà pietà del povero e del bisognoso, e le anime dei poveri farà salve.

13. Libererà le anime loro dalle usure e dalla ingiustizia; e il nome loro sarà in onore dinanzi a lui.

14. Ed ei vivrà, e gli sarà dato dell’oro dell’Arabia, (6) e sempre lo adoreranno, e tutto il dì lo benediranno. (7)

15. E nella terra il frumento sarà sulla cima delle montagne, e le sue spighe si alzeranno più che i cedri del Libano e moltiplicheranno gli uomini nella città come l’erba ne’ prati.

16. Sia benedetto pei secoli il di lui nome: il nome di lui fu prima che fosse il sole. E in lui riceveran benedizione tutte le tribù della terra; le genti tutte lo glorificheranno. (8)

17. Benedetto il Signore Dio di Israele: egli solo fa cose ammirabili.

18. E benedetto il nome della maestà di lui in eterno; e la terra tutta sarà ripiena della sua maestà; cosi sia, cosi sia. Fine delle laudi di David, figliuolo di Jesse. (9) (10).

(1) Vale a dire, le generazioni vi loderanno notte e giorno, fintanto che dureranno il sole e la luna.

(2) La pioggia abbondante che bagna la terra, opposta a “pluvia”, la pioggia fine.

(3) L’Eufrate, limite estremo del regno di Salomone, è considerato qui come l’estremo del mondo.

(4) Tharsis, Tartessus, colonia fenicia di Spagna, viene considerata tra i paesi marittimi più lontani. – Era verso occidente il paese marittimo più lontano conosciuto dagli Ebrei; di conseguenza, i re delle coste marittime più lontane del lato di ponente.

(5) I re di Arabia e di Saba, l’Arabia felice; ciò non prova che i magi fossero di questi paesi; il salmo non si applica a loro che “in specie”, ma generalmente a tutti i popoli che vengo alla Chiesa ed al Messia. – Saba designa l’Abissinia, popolata dagli arabi. Così, tutti i popoli più lontani vengono al Messia (Le Hir.). 

(6) Sia che vi fossero miniere d’oro (oggi non ce ne sono più), sia perché piuttosto perché con trasporto, l’oro dell’interno delle terre, arrivava in Giudea (Le Hir.).

(7) L’ebraico tradotto con «  de ipso », significa « propter cum », ed anche « per eum ». – i Settanta dicono: essi pregheranno, « orabunt », invece di « adorabunt ». « Orabunt de ipso » sarebbe l’equivalente di: essi pregheranno nel suo nome, o per i suoi meriti.

(8) Immagine della prosperità sotto il regno del Messia. Un pugno di frumento, seminato anche sulla cima di una montagna, darà delle spighe magnifiche che muovendosi al soffio dei venti, somiglieranno ai cedri del Libano. Dall’altro canto, le città saranno così floride e gli abitanti così numerosi che sembreranno pullulare come l’erba dei campi. – Questi due versetti formano la dossologia che si trova alla fine di ciascun libro.

(9) Secondo san Girolamo, è detto che qui finiscono i cantici di Davide, perché è descritto ciò che deve succedere alla fine dell’epoca di Gesù-Cristo. Ma questa ragione non è meno che letterale. Noi amiamo dire meglio con qualche critico, che queste parti indicherebbero una prima raccolta di Salmi, dati volgarmente sotto il nome di Davide – benché non siano tutti suoi – che ne comprende i primi settantadue. La prima raccolta, che sarebbe stata composta dopo la costruzione del tempio, sarebbe stata completata da un altro, ed in essa sono inseriti altri salmi di autori che vissero prima di Davide, ed un buon numero di salmi inediti dello stesso Davide. 

(10) Il nuovo Testamento non cita questo salmo come profetico, dice M. Schmidt (Rédemption du genre humain); ma come disconoscere questo carattere, tanto più che celebri rabbini gli attribuiscono formalmente questo carattere? – In effetti, la maggior parte dei rabbini più famosi hanno applicato i versetti 16 e 17 ed anche tutto il salmo al regno del Messia. Si può vedere come Drach, Michaelis e Rosen-Müller assicurino che questo salmo contenga dei tratti troppo magnifici per non essere applicati che solo a Salomone. – L’esame del Salmo conferma la stessa verità, ed è sufficiente scorrerlo con attenzione per convincersi: – 1° che questo salmo contenga tratti che non sono affatto verificabili in Salomone; di conseguenza non c’è armonia nel salmo, considerando questo principe come l’oggetto totale e primitivo dello stesso salmo, benché si faccia una continua allusione al suo regno come ad una brillante immagine del regno del Messia; – 2° che tutti questi tratti, al contrario, convengano perfettamente e letteralmente a Gesù-Cristo, che di conseguenza ne è l’oggetto primario. – I. Ammettiamo che si possano applicare i primi 4 versetti a Salomone; ma una volta giunti al 5° bisogna lasciare l’uomo mortale per considerare un regno tanto esteso quanto la durata del sole e della luna, cosa che non può convenirgli. – Il 6° versetto contiene una comparazione che sembra così bene caratterizzare il regno dolce e pacifico di Salomone, ma non si torna a lui che per lasciarlo al versetto 7°, ove ancora si tratta di un regno di pace e di giustizia che deve durare quanto la luna. – Questo principe riappare al versetto 8°, che gli si può applicare, restringendo il senso di « a mari usque ad mare » e di « terminos orbis terrarum », ma non si può affatto riconoscerlo nel 9° versetto, perché quali sarebbero i nemici ai quali avrebbe fatto « mangiare la polvere », egli il cui regno non è mai stato turbato dalla guerra? – il Versetto 11 non può essere applicato a Salomone che con restrizione, ed è di questo avviso lo stesso D. Calmet, che non può applicarlo a questo principe, se non con esagerazione ed iperbole. Non si vedono da nessuna parte poi tutti i re della terra prosternarsi ai piedi di Salomone, come nei versetti 11-15. A maggior ragione non gli si possono applicare queste parole. « ante solem permanet nomen eius … benedicentur in ipso omnes tribus terræ ». – pertanto se si consideri Salomone in un versetto, lo si deve abbandonare al seguente, per riprenderlo poi dopo e lasciarlo nuovamente subito dopo nel seguente, cioè distruggendo tutta l’armonia del salmo, che non può dunque applicarsi a Salomone. – II. Tutti questi tratti al contrario, convengono perfettamente e letteralmente al regno del Messia; dunque bisogna concludere che Egli è l’oggetto primario in senso letterale di questo salmo. Così le diverse qualità del regno del Messia, i due grandi caratteri del Messia, quello di liberatore e di santificatore dei poveri, l’abbondanza di ogni tipo di beni spirituali; infine i tratti ancora più caratteristici del Messia con i quali il Profeta termina questo salmo; l’eternità del suo nome di Figlio che data prima di tutti i secoli; tutte le tribù della terra benedette nella sua Persona, etc.

Sommario analitico

Davide, nella persona di suo figlio Salomone, o secondo altri, Salomone stesso, contempla il regno di Gesù-Cristo, di cui descrive le diverse qualità (3).

I. – Egli fa dei voti per la sua venuta:

1° affinché porti sulla terra la giustizia nei giudizi e la pace nel governo del suo reame (1, 2);

2° perché faccia una giusta ripartizione tra ricompense e castighi (3);

3° per l’eterna durata del suo regno (4).

II. – Descrive la sua discesa dall’alto dei cieli e la sua incarnazione:

1° La sua incarnazione nel seno di una Vergine, sotto la figura della dolce rugiada che cade segretamente sul vello di pecora (5);

.2° I benefici della sua Incarnazione e della sua nascita, l’abbondanza durevole della giustizia e della pace (6).-

III. – Descrive la grandezza del regno di Gesù-Cristo, i beni  che elargirà ai suoi soggetti:

1° la sua estensione in tutte le parti del mondo: Egli sarà riconosciuto dai più barbari tra i popoli, dai suoi nemici abbattuti, dagli omaggi, le offerte, le adorazioni di tutti i re della terra (7-10);

2° I due grandi caratteri del Messia, cioè di liberatore e di santificatore dei poveri, che lo rendono l’oggetto della venerazione e delle benedizioni dei popoli (11-13);

3° L’abbondanza di ogni tipo di beni spirituali, designati sotto delle immagini conformi alle idee degli orientali, e conformi alla natura della loro terra (14-15);

4°  L’eternità del suo nome di Figlio che data da prima dei secoli, tutte le tribù della terra benedette nella sua Persona, le meraviglie così grandi, i prodigi così elevati al di sopra dell’uomo che Dio solo può esserne l’autore, Dio solo, di cui Egli esalta il nome e la maestà (16-19). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-4.

ff.1. – Il Signore dice Egli stesso nel Vangelo: « Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio » (Joan. V, 22). È il compimento di questa parola: « Date il vostro giudizio al Figlio ». È nello stesso tempo il Figlio del Re, perché Dio Padre, è il Re per eccellenza (S. Agost.). Uno dei principali caratteri con cui gli scrittori sacri descrivono il regno di Gesù-Cristo, è la giustizia; è in effetti il regno della giustizia che il mondo reclama prima della venuta di Gesù-Cristo. Quel che dominava di più nel mondo antico era l’ingiustizia sotto tutti gli aspetti: ingiustizia dell’uomo in rapporto a Dio, che non era né conosciuto né amato, né servito come doveva essere; ingiustizia dell’uomo rispetto ai suoi simili, la frode, la violenza, l’oppressione, i diritti più sacri calpestati così come le cause più giuste, gli interessi più inviolabili. – Il Figlio di Dio, venendo al mondo, doveva distruggere questa triplice ingiustizia. – Notate che il Profeta, dopo aver detto: « O Dio! Date il vostro giudizio al Re, e la vostra giustizia al Figlio del Re », ponendo in primo luogo il giudizio, ed in secondo la giustizia, ha detto poi, ponendo prima la giustizia e dopo il giudizio, « per giudicare il vostro popolo nella giustizia ed i vostri poveri nel giudizio »; ma questa inversione di parole prova soltanto che il giudizio non ha altro senso che la giustizia. In effetti è costume il chiamare giudizio cattivo ciò che è ingiusto, ma non diciamo giustizia iniqua, una giustizia ingiusta; perché, se la giustizia fosse cattiva, essa sarebbe stata ingiusta, e non si potrebbe più chiamare giustizia. Così ponendo in primo luogo il giudizio ed esprimendolo una seconda volta sotto il termine di giustizia, e ponendo poi in primo luogo la giustizia ed esprimendola una seconda volta sotto il termine di giudizio, il Profeta ci mostra chiaramente che egli chiama giudizio, propriamente parlando, ciò che si ha l’abitudine di chiamare giustizia, cioè ciò che non può esistere in un giudizio cattivo (S. Agost.). Coloro che sono chiamati a governare i popoli devono avere innanzitutto, una grande rettitudine di spirito e di cuore, e giudicare i subordinati, non secondo le prevenzioni o anche secondo i lumi sì limitati dello spirito umano, ma secondo le regole di questa giustizia divina, secondo la quale Dio conduce Egli stesso gli uomini e di cui quella che riluce in noi non è che una scintilla.

ff. 2. – « Per giudicare i vostri poveri nell’equità dei suoi giudizi ». Notiamo questa espressione del salmista: « vostri poveri ». Che significa questa espressione? I ricchi, in qualità di ricchi, essendo alla sequela del mondo, essendo per così dire marcati nel loro spazio, nel regno di Dio vi sono per tolleranza, ma è ai poveri e agli indigenti  che portano il marchio del Figlio di Dio, che appartiene l’esserne propriamente ricevuti. Ecco perché il divin salmista li chiama « i poveri di Dio », perché i poveri di Dio? Li nomina così in spirito, perché, nella nuova alleanza, Egli li ha potuto adottare con una particolare prerogativa (BOSSUET, Eminente dignité des pauvres dans l’Eglise) – Le montagne, le prime ad essere illuminate, fanno scendere in seguito la loro luce sulla distesa delle campagne; le montagne sono, nella Chiesa, gli uomini eminenti per santità e per scienza e che sono capaci di istruire gli altri (2 Tim. II, 2), dando loro, con la loro parola, un insegnamento fedele e, per via loro, un esempio salutare. Le colline, al contrario sono questi uomini che imitano, con la loro obbedienza, l’eccellenza delle montagne. La pace è la riconciliazione che ci avvicina a Dio, e le montagne ricevono questa grazia per trasmetterla al popolo, « tutto viene da Dio, che ci ha riconciliato con Lui per mezzo del Cristo – dice l’Apostolo – e ci ha affidato il ministero della riconciliazione » (1 Cor. V, 17). « Ecco come le montagne ricevono la pace per darla al popolo » (S. Agost.). Le montagne sono più elevate e le colline lo sono di meno. Le montagne vedono, le colline credono. Coloro che vedono ricevono la pace per portarla a coloro che credono, e questi ricevono la giustizia, cioè l’obbedienza che è negli uomini ed in tutte le creature ragionevoli, poiché è la perfezione della giustizia (S. Agost.). – Gli uomini più eminenti per i loro meriti come degni oratori, in uno Stato, così come nella Chiesa, ricevono la pace e la giustizia; essa discende poi sui popoli simbolizzati dalle colline, che sono più basse delle montagne: la pace dei reami e degli Stati dipende molto dalla giustizia di coloro che li governano. – Non si può avere la vera gioia, se non si ha a salvaguardia la pace e la giustizia. La prima cosa, in effetti è come la radice dalla quale tutto esce, ed è la giustizia. La seconda, la pace; la terza la gioia. Dalla giustizia nasce la pace, che uno dei primi frutti della venuta di Gesù-Cristo. La vera giustificazione è stata seguita da una vera pace dell’uomo con Dio, con tutti gli altri uomini e con se stesso. La pace, a sua volta, produce la vera gioia (S. Ces. D’Arles. Hom. XIX.).

ff. 3. – Il Profeta espone le qualità di un Re giusto, soprattutto quelle del Messia, al quale appartiene sovranamente il far giustizia ai poveri, ai piccoli, agli infelici, e distruggere coloro che li opprimono « … ed Egli umilierà i calunniatori ». Ora non si potrebbe meglio applicare che al demonio questo titolo di calunniatore. La calunnia è il suo forte. « … forse Giobbe adora il Signore per nulla? » (Giob. I, 9). Ora Gesù, il Signore, lo umilia, aiutando i suoi con la sua grazia perché essi adorano il Signore gratuitamente e mettendo le loro delizie nel Signore. Egli ancora lo ha umiliato per il fatto che il demonio, vale a dire il principe di questo mondo, non avendo trovato in Lui alcuna colpa (Giov. XIV, 39), l’ha fatto perire con le calunnie dei Giudei, delle quali il calunniatore si è servito come di suoi strumenti. Egli ha umiliato il demonio perché Colui che i giudei avevano messo a morte è resuscitato, ed ha distrutto il reame della morte, che il demonio aveva così ben governato a suo profitto, e per mezzo di un solo uomo, che egli aveva ingannato, aveva coinvolto tutti gli uomini in una simile condanna a morte. Il demonio è stato umiliato perché, se il peccato ha stabilito, per mezzo di un unico uomo, il regno della morte, a maggior ragione, coloro che ottengono l’abbondanza della grazia e della giustificazione, regneranno nella vita eterna per mezzo del solo Gesù-Cristo (Rom. V, 17), che ha umiliato il calunniatore nel momento in cui costui utilizzava, per perderlo, delle false accuse, dei giudici iniqui e dei falsi testimoni (S. Agost.). – « … Ed io ascoltavo una gran voce nel cielo che diceva: Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, poiché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. » (Apoc. XII, 10).

ff. 4. – « E sussisterà come il sole ». Ma che cos’ha di glorioso il durare quanto il sole per Colui per mezzo del Quale tutte le cose sono state fatte, e senza il Quale nulla è stato fatto (Giov. I, 5), a meno che questo profezia non sia stata fatta a causa di coloro che pensano che la Religione cristiana vivrà nel mondo per un certo tempo e poi sparirà? Egli durerà quindi tutto il tempo del sole: finché il sole si leverà e si deporrà; vale a dire finché i secoli compiranno le loro rivoluzioni, la Chiesa di Dio o “Corpo di Cristo” sussisterà sulla terra. Il Profeta dice poi. « Egli sarà prima della luna ». Avrebbe potuto dire : « … e prima del sole »; cioè Egli durerà come il sole ed esisteva prima del sole; ciò che significherebbe: Egli durerà quanto i secoli ed esisteva già prima dei secoli. Ora, ciò che precede i tempi è eterno e lo si deve considerare come veramente eterno ciò che non cambia con il corso dei tempi, come il Verbo, che era fin dall’inizio. Ma il Profeta ha preferito la comparazione della luna, perché questo astro è la figura della crescita e della diminuzione delle cose mortali (S. Agost.). – Il regno del Messia non si limiterà alla durata del sole e della luna; è solo detto: « Egli durerà quanto il sole e la luna, di generazione in generazione, per sottolineare che, durante questa rivoluzione di secoli, eserciterà il suo impero sugli uomini, formando tra essi i suoi eletti, governandoli e conducendoli al termine ove essi regneranno eternamente con Lui ». (Berthier).

II. — 5-6.

ff. 5. – « Scenderà come pioggia su di un vello di lana ». Davide fa qui allusione all’azione di Gedeone, e ci fa sapere che essa si è compiuta in Gesù-Cristo.  Gedeone aveva domandato a Dio, come segno della sua volontà, che un vello di lana in mezzo ad un’ara, si imbibisse solo di rugiada, mentre l’aia restasse asciutta; e fu così come Gedeone aveva chiesto (Giud. VI, 36-40). Questo vuol dire che il popolo di Israele fu inizialmente questo vello posto in mezzo ad un’aia, cioè in mezzo all’universo. Il Cristo è dunque disceso come una pioggia sul vello, mentre l’aia restava asciutta; ed è per questo che Egli ha detto: « … Io non sono stato inviato che alle pecore sperdute di Israele »  (Matth. XV, 24). È là in effetti che ha scelto la Madre in seno alla quale voleva prendere forma di schiavo per mostrarsi agli uomini; è là che ha formato i suoi discepoli ai quali ha dato un comandamento simile alla sua dichiarazione: « Non andate nelle vie dei gentili, … ma andate prima alle pecore perse della casa di Israele » (Ibid. X, 5-6). Dicendo prima verso quelli, Egli mostrava che in seguito, quando avrebbe avuto luogo il coprirsi di acqua l’intera aia, essi potessero andare verso altre pecore che non appartenevano all’antico popolo di Israele. È così che la pioggia è discesa sul vello mentre l’aia restava ancora asciutta. « Ma ben presto, per la grazia di Gesù-Cristo, mentre la nazione giudaica restava all’asciutto, l’universo intero, in tutte le Nazioni che lo compongono, è stato bagnato dai torrenti della grazia cristiana, versati dalle nuvole che ne erano cariche. Così il salmista ha designato questa stessa pioggia sotto il termine di gocce di acqua che cadono, non più sul vello, ma sulla terra » (S. Agost.). – Ma un gran numero di altri Padri, in particolare S. Ambrogio, san Crisostomo, san Bernardo, hanno visto in questo vello di Gedeone il simbolo della beata Vergine Maria; e in questa pioggia che cade sul vello, la figura del divino Salvatore discendente dal cielo nel suo seno verginale. In effetti: – 1° l’agnello esce come dal seno del vello, e dal seno della Vergine Maria è uscito l’Agnello che toglie il peccato dal mondo (Giov. IV,29), – 2° il vello della pecora figura perfettamente, per il suo candore, la purezza dei costumi e l’innocenza della vita di questa Vergine divina; – 3° Essa è il vello, cioè la lana senza la carne, la lana staccata dalla carne con la mortificazione e la verginità. Il vello, dice S. Pietro Crisologo (Serm. 143), appartiene al corpo, ma essa è estranea alle sofferenze, alle impressioni del corpo; così come la verginità esiste nella carne restando estranea ai vizi della carne. – 4° la Vergine Maria, dice Riccardo di San Vittore (in Ps. LXXI), è il vello che riveste le sue virtù, che protegge e riscalda le anime pure ed innocenti. – 5° Maria è veramente il vello di Gedeone, perché essa ha ricevuto tutta intera la rugiada discesa dal cielo, vale a dire il Cristo. Cosa c’è di più silenzioso e meno rumoroso della rugiada che cade dolcemente su un vello? Essa non colpisce l’orecchio con alcun suono, non rimbalza su alcun corpo circostante, ma senza turbare le pecore, la pioggia penetra il vello interamente, senza violenza, senza alcune separazione del tessuto. Ed è con ragione che Maria è comparata ad un vello: Ella che ha concepito nostro Signore ricevendolo nel suo casto seno, senza che l’integrità del suo corpo verginale ne abbia sofferto il minimo danno (S. AMBR. Serm. 3 de Nativ.). « E come l’acqua che cade goccia a goccia sulla terra … », questa pioggia abbondante che Dio ha riservato come sua eredità, è dapprima discesa dolcemente e senza brusii, senza il concorso dell’azione dell’uomo, nel seno verginale di Maria, ma in seguito essa si è sparsa su tutta la terra con la bocca dei predicatori, non più come rugiada sul vello, ma come pioggia sulla terra, con il rumore che accompagna la predicazione e l’operazione dei miracoli; perché queste nuvole che portano la pioggia nel loro seno, si sono ricordate del comandamento che fu loro dato quando furono inviate: « Ciò che o vi dico nelle tenebre ditelo alla luce » (Matth. X, 27) (S. Bern. Hom. 2 super Missus est.). – Il regno di Gesù-Cristo si stabilisce in un’anima con tutti i caratteri che comprendono le due comparazioni enunciate in questo versetto. È dal cielo che questo Re benefico versa i doni della sua grazia, il mondo non ha parte in quest’operazione tutta divina. Gesù-Cristo si comunica nel profondo del cuore: Egli lo penetra come la rugiada imbibiva il vello misterioso, la cui vista incoraggiò Gedeone. È nelle segrete comunicazioni, ed anche durante il silenzio della notte che l’anima, svincolata da ogni occupazione terrena, riceve le sue salutari influenze. Non si fa tutto con una sola visita dell’Altissimo, ma i doni della sua misericordia si succedono come le gocce di acqua che umettano a poco a poco un terreno arido. Allora tutta quest’opera interiore diviene feconda in buone opere, tutte le sue facoltà concorrono alla gloria di questo Re pieno di bontà, che non disdegna di regnare in un cuore puro, umile, sottomesso a tutte le sue volontà (Berthier). – « La giustizia si leverà nei suoi giorni con l’abbondanza della pace ». Il primo frutto dell’incarnazione e della nascita del Figlio di Dio, è la giustizia considerata o come virtù speciale che rende a ciascuno ciò che gli è dovuto, o come virtù generale, significante la riunione di tutte le virtù. È questo regno di giustizia che reclamava, prima della venuta del Salvatore, il mondo, schiacciato sotto il regno della forza brutale, che opprimeva tutti i diritti più sacri. Il secondo frutto, è l’abbondanza della pace, cioè una pace profonda nella sua natura, universale nella sua estensione ed eterna nella sua durata. Una pace universale regnava in tutto l’universo quando Gesù-Cristo, il Principe della pace, apparve sulla terra; ma non era che una falsa pace. L’uomo, in preda alle sue passioni ingiuste e violente, provava dentro di sé la guerra ed il dissenso più crudele; lontano da Dio, lasciato alle agitazioni ed ai furori del suo cuore, combattuto dalla molteplicità e dalla contrarietà eterna delle sue inclinazioni sregolate, egli non poteva trovare la pace, perché non la cercava che nella sorgente stessa delle sue turbolenze e delle sue inquietudini … Gesù-Cristo scende sulla terra per portare agli uomini questa pace vera, che il mondo fino ad allora non aveva potuto dare loro  (MASSILL. Serm. p. la f. de Noël), la pace dell’uomo come Dio, la pace con gli altri uomini, la pace con se stesso. – Noi non immaginiamo che sia un vantaggio per il Re degli Angeli essersi fatto anche il Principe degli uomini. Il regno che gli piace stabilire su di noi, è la pace, la libertà, la vita e la salvezza dei suoi popoli; Egli non è Re né per esigere dei tributi, né per formare delle grandi armate, ma è Re perché governa le anime, perché ci procura i beni eterni, perché fa regnare con Lui coloro che la carità sottomette ai suoi disordini … Il regno del nostro Principe, è la nostra felicità per cui si degna di regnare su di noi, è la clemenza, è la misericordia e questo non è un accrescimento di potenza, ma una testimonianza della sua bontà (S. Agost. Trait, XL, sur S. Jean, N° 4.). I precetti del Vangelo ben osservati uniranno insieme tutti i popoli, e manterranno tra di essi gli stessi principi di moderazione, di buona fede, di equità e tranquillità. Ciò che il Vangelo non fa, a causa delle passioni che dividono i principi e le Nazioni, Egli lo esegue nelle anime dei giusti. È la che regnano e regneranno sempre la vera giustizia e l’abbondanza della pace; beneficio che non hanno le umane Nazioni: esse non possono regolare che la condotta esteriore, ma non hanno alcun impero sui sentimenti del cuore (Berthier).

III. — 7-19.

ff. 7-10. – Tale è l’estensione del regno di Gesù-Cristo: da un mare all’altro e fino alle estremità della terra, dove non finisce, perché si estende fino al cielo. –La durata del regno di Gesù-Cristo, non è limitato dalla durata del mondo, ma si estende a tutta l’eternità. – Trionfo di piacere quando vedo in Tertulliano che già ai suoi tempi, così vicini alla morte del nostro Salvatore e dall’inizio della Chiesa, il nome di Gesù era già adorato per tutta la terra, e che in tutte le province del mondo che erano conosciute, il Salvatore vi aveva un numero infinito di soggetti. « Noi siamo, dice con risonanza questo gran personaggio, quasi la maggior parte di tutte le città»(AD SCAP., N° 2). I Parti, invincibili dai Romani, i Traci antinomi, come li chiamavano gli antichi, gente insofferente ad ogni sorta di leggi, hanno subito volontariamente il giogo di Gesù. I Medi, gli Armeni, i Persiani e gli Indiani più lontani; i Mauri e gli Arabi, e queste vaste province dell’Oriente; l’Egitto e l’Etiopia, e l’Africa più selvaggia; gli Sciti, sempre erranti; i Sarmati, i Getutei e le barbarie più inumane sono state domate dalla modesta dottrina del Salvatore Gesù. L’Inghilterra, i cui bastioni rendevano inaccessibili i luoghi ai Romani, era stata affrontata. Cosa dirò dei popoli della Spagna e delle bellicose nazioni dei galli, paura e terrore dei Romani, e dei fieri Germani, che si vantavano di non temere null’altro che il cielo che cadesse sulle loro teste? Essi sono venuti a Gesù, dolci e semplici come degli agnelli, a chiedere umilmente perdono, pressati da un timore rispettoso. Roma stessa, questa città superba che si era per tanto tempo inebriata del sangue dei martiri di Gesù, Roma, la padrona, ha abbassato la testa ed ha portato tanto onore alla tomba di un povero pescatore più che ai templi del suo Romolo.  Non c’è impero così vasto che non sia racchiuso in qualche limite. Gesù regna dappertutto, dice il grave Tertulliano (AD JUD., N° 7), nel libro contro i Giudei dai quali ho disegnato quasi tutto ciò che sto dicendo dell’estensione del regno di Dio. Gesù regna dappertutto, egli dice, ed è adorato dappertutto. Davanti a Lui la condizione dei re non è migliore di quella degli infimi schiavi. Sciti o romani, greci o barbari, tutto è uguale davanti a Lui, Egli è uguale per tutti, è il Re di tutti, è il Signore ed il Dio di tutti (BOSSUET. Circonc. Royauté de Jésus-Christ.) – (FÉNÉLON,  Serm. pour la féte de l’Êpiph., I part.). « … I re di Tarsi e delle isole gli offrono dei doni ». Predizione dei doni che i Re Magi offrono a Gesù-Cristo appena nato. – I Magi – dice S. Gregorio Magno – riconoscono in Gesù la triplice qualità di Dio, di uomo e di re: essi offrono al Re l’oro, a Dio l’incenso, all’Uomo la mirra. Ora – egli prosegue – ci sono degli antichi eretici che credono che Gesù sia Dio, che credono ugualmente che Gesù sia un uomo, ma si rifiutano assolutamente di credere che il suo regno si estenda dappertutto … Essi non erano irreprensibili nella loro fede, ed il Papa san Gregorio inflisse la nota di eresia a coloro che, facendosi un dovere di offrire a Gesù l’incenso, non volevano aggiungere l’oro. Costa caro alla terra, costa caro alle Nazioni il non flettere il ginocchio davanti al Nome ed alla regalità di Gesù. Sono allora altre genuflessioni che occorre fare. La lingua che rifiuta di aprirsi per proclamare e confessare la potenza del Re Gesù, a quale silenzio umiliante non è condannato? « … Ed ora Signore, noi non abbiamo neanche il diritto ed il potere di aprire la bocca, e noi, la vecchia Francia cattolica, la regina della Nazioni, noi siamo diventati un soggetto di confusione e di obbrobrio per tutti coloro che vi servono e vi onorano ». (Dan. III, 33) – (MGR PIE, sur l’étendue univ. de la royauté de Jésus-Christ. TOM. VIII, p. 621).

ff. 11-13. – « Perché Egli libererà il povero dalle mani del potente ». Davide predice qui uno dei caratteri principali del grande Re atteso da Israele, che libererà il povero dalla servitù sotto la quale era stato ridotto dai potenti. La generazione presente si è talmente identificata con la menzogna, e le contro-verità più manifeste sono talmente accreditate tra di noi, che si è esposti ad essere accusati di paradosso richiamando semplicemente i principi del Cristianesimo su questa materia. Ciò nonostante, non è vero che la grande legge dell’eguaglianza degli uomini e della loro divina fraternità era stata come abrogata sotto l’impero dell’idolatria, che non era affatto che il regno della forza ed il trionfo della materia?  E in effetti, dappertutto e sempre, fuori dal Cristianesimo, la schiavitù sarà un fatto inevitabile, e nello stesso tempo una conseguenza dell’ordine sociale. Il Figlio di Dio scende sulla terra e prende forma di schiavo; Egli trasmette a tutti gli uomini di tutti i paesi e di tutti i secoli questa parola, fino ad allora sconosciuta: « … Padre nostro, che siete nei cieli »; e con questa parola Egli ristabilisce sulla terra una fraternità spirituale che produrrà prima o poi, tra le sue conseguenze, il ritorno della fraternità primitiva nella grande famiglia degli uomini. Si, secondo la parola di Gesù-Cristo, un giorno verrà in cui « il Figlio libererà gli schiavi, ed allora essi saranno veramente liberi, perché saranno affrancati dalla verità ». Questa opera di affrancamento, di emancipazione non sarà l’opera di un giorno: essa si opererà insensibilmente con la forza delle idee ed il progresso dei princìpi evangelici (Mgr PIE. Disc. T. I.er, p. 75).- Due grandi caratteri del Messia, quello del liberatore e del santificatore, vengono a liberare i poveri. Nostro Signore Gesù-Cristo ha cominciato il corso delle sue predicazioni evangeliche col proclamare beati i poveri; Egli si era applicato questa profezia di Isaia: « lo Spirito del Signore è su di me, Egli mi ha consacrato con la sua unzione per evangelizzare i poveri »; (Luc. IV, 17); ed in effetti i poveri sono per Lui, come per i suoi Apostoli e per tutti gli operai evangelici animati dal suo spirito, il principale oggetto del loro zelo apostolico. – Egli salva le anime dei poveri richiamandoli alla conoscenza della verità, rendendoli ricchi nella fede ed eredi del regno che Egli ha promesso a coloro che ama (Giac. II, 5); Egli li salva perché, per sua grazia, essi useranno santamente del loro stato, e troveranno preziose risorse nella povertà più grande, facendo un tesoro della stessa povertà. – Come il peccatore è stato liberato dalle usure con la redenzione che gli ha meritato Gesù-Cristo? È – dice S. Agostino, la cui osservazione sembra inizialmente sottile, ma che si trova vera ed anche necessaria quando la si medita – è, dice questo santo dottore, che il peccato consumato in un momento, ed il cui frutto è sì poca cosa per colui che lo commette, è punito con una pena eterna. È una usura che la giustizia divina trae dalla temerità e dall’ingratitudine del peccatore. Gesù-Cristo ce ne ha liberato, e nello stesso tempo dalla iniquità che era la causa di questa usura. Non si può abbastanza considerare qual sia il prezzo del sangue e del nome dei Cristiani; il loro sangue è costata la vita di un Dio, il loro nome è stato consacrato nella Persona di un Uomo-Dio. Questo sangue e questo nome sono rispettabili agli occhi di Dio stesso, che rispetta il nome dei Cristiani, perché vi vede il carattere di Gesù-Cristo, il suo unico Figlio. « Il Profeta dice che questi sono i poveri di cui soprattutto il sangue ed il nome sono preziosi agli occhi di Dio ». Quanta forza e sentimento in questa espressione! Egli ha detto, più in alto, che i re e le Nazioni Lo adoreranno e Lo serviranno; ma, quando viene a parlare ai poveri, agli umili, ai piccoli, Egli cambia in qualche modo il tono, e dice che il Messia stesso li rispetterà e li onorerà (Berthier). Questo perché il povero è ben diverso agli occhi della carne ed agli occhi della fede! Cosa c’è di più disprezzabile agli occhi della carne, di un povero spoglio di tutto, abbandonato da tutti, mentre agli occhi della fede, il nome di questo povero appare onorevole davanti a Dio stesso.

ff. 14, 15. – Gesù-Cristo, doveva riscattare con la sua morte, le anime dei poveri, cioè di coloro che erano interamente spogli di ricchezze naturali, e soprattutto della grazia, ma questa morte stessa doveva essere in Lui la sorgente di una nuova vita immortale che Gli ha attirato i rispetti, le adorazioni, le benedizioni, le ricche offerte dei popoli convertiti. Il Profeta descrive in seguito la fecondità della Chiesa ed i frutti della predicazione evangelica, dopo la Resurrezione di Gesù-Cristo. La terra sarà ricoperta dai frutti della parola di Dio; li si vedrà anche là ove regna ordinariamente la sterilità, sulle sommità delle montagne, il frumento su queste sommità aride, oltrepasserà l’abbondanza e l’altezza dei cedri del Libano, ed in questa città di cui è già stato detto: « … è da Sion che uscirà la legge, e la parola del Signore da Gerusalemme, i credenti saranno numerosi come l’erba dei campi ». È ciò che S. Luca ci insegna essersi compiuto: « … E la parola di Dio cresceva ed il numero dei discepoli aumentava sempre di più » (Act. VI), (Bellarm.). – Ci è pure permesso, con un gran numero di pii interpreti, fare una predizione dell’Eucarestia, che è il sostegno, l’appoggio per eccellenza (firmamentum); vale a dire il pane solido, sostanziale dell’anima. È così che la scrittura chiama il pane, « firmamentum panis » (Ps. CIV, 16); « baculus panis, » (Lev. XXVI, 26), e del pane dice che « consolida il cuore dell’uomo » (Ps. CIII, 15). Il pane dell’Eucaristia consolida le montagne. Cioè gli uomini eminenti in santità. La divina semenza del Vangelo, così come la santa Eucaristia, producono il loro frutto, ma un frutto che si eleva al di sopra dei cedri del Libano, perché essendo un frutto tutto celeste, si eleva fino al cielo ed oltrepassa tutto ciò che sembra essere più elevato nel secolo.

ff. 16-19. – « Che il suo Nome sia benedetto in tutti i secoli; il suo Nome dimora da prima del sole ». il sole significa il tempo, il suo Nome dimora dunque eternamente; perché l’eternità precede il tempo e non si saprebbe limitare. « E tutte le tribù della terra saranno benedette in Lui ». In effetti è in Lui che si compie la promessa fatta ad Abramo; perché secondo l’osservazione dell’Apostolo, Dio non dice: « e ai tuoi discendenti », come se si trattasse di molti, ma « … alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo » (Galat. III, 16). Ora ecco la promessa fatta ad Abramo: « Tutte le tribù della terra saranno benedette in Colui che nascerà da te ». (Gen. XXII, 18). « Questi non sono i figli secondo la carne, dice San Paolo, ma i figli della promessa, che sono contati nella posterità ». (Rom. IX, 6). « Tutte le nazioni Lo esalteranno ». esse Lo esalteranno perché esse saranno benedette in Lui; esse Lo esalteranno, non dandogli maggiore grandezza, perché Egli è per se stesso ogni grandezza, ma lodandoLo e proclamandone la grandezza. È così che tutti noi esaltiamo la grandezza di Dio, è così che egualmente diciamo: « sia santificato il vostro Nome », benché il suo Nome sia sempre infinitamente santo. – « Benedetto sia il Signore, Dio di Israele ». Dopo aver completato tutte le meraviglie che Egli viene a portare, il Profeta, nel suo entusiasmo, canta un inno e benedice il Signore Dio di Israele. È il compimento della profezia data a questa donna sterile, figura della Chiesa: « e Colui che l’ha liberata, il Dio di Israele, sarà nominato il Signore di tutta le terra » (Isaia, LIV, 5). « Solo Egli compie dei prodigi », perché solo Lui è l’Autore dei prodigi compiuti dagli altri. – « Che il suo Nome glorioso e maestoso sia benedetto nell’eternità », e tutta la terra sarà piena della sua gloria: « Così sia ». Voi l’avete ordinato, Signore, ed è così. È così fino a che il reame, che è cominciato dal fiume, si estenda fino alle estremità dell’universo (S. Agost.). 

DIO IN NOI (1)

DIO IN NOI (1)

[R. PLUS: “Dio in noi” – Versione p. f. Zingale S. J. – L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923 Can. Francesco Duvina]

PREFAZIONE

Reverendo e carissimo Padre,

Durante i quattro anni appena trascorsi, abbiamo pregato molto per il felice esito della guerra. Bisognava farlo. La vittoria fu spessissimo compromessa, rimase lungo tempo incerta, indecisa! – Siano rese grazie al Signore: la vittoria delle armi è adesso un fatto compiuto. Ma la vittoria di Dio? A quale fase è pervenuta? « La vittoria di Dio! ». L’espressione, la formula non è mia. Giuda Maccabeo fu il primo a trovarla, e la dava come parola d’ordine, come segno di raccolta alle sue truppe, quando le lanciava all’assalto contro gli eserciti di Siria (Mac. XIII, 15).

La Francia, l’Italia, l’Inghilterra, l’America, il Belgio hanno avuto « il loro scopo di guerra ». Dio anche ha avuto il suo. Non ha permesso che si scatenasse sul mondo un simile cataclisma, senza qualche grande fine. Quale fine si propose?

Primieramente, — la Chiesa ce lo suggerisce nella Messa prò tempore belli — primieramente l’emenda dei nostri difetti, l’espiazione delle nostre colpe nazionali e individuali. Meglio ancora. Alcuni anni prima della guerra, Pio X, salendo sul trono pontificale, pubblica un’enciclica, in cui riassume, con tre parole di San Paolo, il suo programma di governo: Instaurare omnia in Cristo (Ephes. I, 10). Pio X, possiamo crederlo, fu l’araldo precursore, il profeta, l’interprete della saggezza e della volontà di Dio; alcuni anni prima della guerra venne ad annunciarci ciò che Dio aveva in mira, permettendo questa tremenda calamità: la rigenerazione cristiana della Francia e del mondo — con tutto ciò che essa importa. – E gli avvenimenti, le vicende della guerra, non fanno forse sentire, meglio di tutte le apologie, quanto i popoli abbiano bisogno di Gesù Cristo, quello che guadagnano vivendo del suo spirito e ciò che perdono facendone a meno? La vittoria di Dio, ohimè, è molto lenta a venire. La vedessimo almeno delinearsi da lontano, all’orizzonte!

Una prima volta la rigenerazione del mondo fu fatta dallo Spirito Santo, nel mistero di Pentecoste…

Tutto sarebbe concluso se arrivassimo a guadagnare il cuore di Dio: giacché Egli può tutto: « quæcumque voluit, fecit ». Noi guadagneremo il cuore di Dio nella misura in cui riusciremo a stabilirci nel soprannaturale. Una legge del mondo morale richiede che ogni essere ami il suo simile. Dio non può non sentire affetto e simpatia irresistibile per l’anima che vive della sua vita divina, che vive del soprannaturale. Non può non esaudirne la preghiera.

Ora, difficilmente immagineremo — ecco il punto che volevo mettere in rilievo — una forma di soprannaturale più concreta, più intellegibile del mistero di « Dio in noi ». Il lavoro che Ella pubblica importa la spiegazione larga, luminosa, concludente di questa dottrina. Quanto più le anime, che l’avranno imparato alla sua scuola, ne avranno coscienza e sapranno sfruttarne la virtù, altrettanto saranno in grado di gustare e di provare, nella loro vita, ciò che S. Paolo diceva di se stesso e dei suoi discepoli fedeli: « Dio ci fa sempre trionfare in Gesù Cristo » (II COR., II, 14. Gratias Deo qui semper triumphàt nos in Christo Jesu). Ed Ella avrà così preparato la « Vittoria di Dio » per mezzo del culto dell’Emmanuele, il culto del « Dio in noi ».La benedizione del Sacro Cuore di Gesù possa concedere a queste pagine la diffusione che meritano, perché vadano a spargere dovunque « la vita eterna », quella vita superiore e realmente divina che il Sacro Cuore stesso c’infonde a ogni istante: Jugiter influit. – Col ricordo persistente e affettuoso delle nostre antiche relazioni in Olanda (1), formo, Reverendo e carissimo Padre, il voto sincero per la maggiore diffusione del suo ottimo libro.

GERMANO FOCH, S. J .

Montpellier, 10 gennaio 1919.

***

(1) L’autore delle pagine che seguono, ebbe il benefizio della direzione spirituale del Rev. P. Foch, durante i tre anni del corso filosofico. Una dura necessità costringeva allora a vivere fuori di Francia. Ecco quindi il motivo dell’allusione all’Olanda.

Il P. Germano Foch è fratello dell’illustre Maresciallo Foch. (N. D. T).

LIBRO PRIMO

I nostri privilegi soprannaturali

CAPO I

L’intimità con Dio.

La mèta della devozione, la sua ragione di essere e il suo coronamento è l’intimità con Dio. Ma poche anime, relativamente, la possiedono e molte la considerano come impossibile. Quale ne è la causa? La ragione principale si è che noi abbiamo l’uso di trattare Dio come un assente. Come divenire intimo di qualcuno che non è con noi? L’intimità suppone la presenza… Benissimo. Ma è possibile, senza che ci abbandoniamo a un mero sogno, all’immaginazione, trattare con Dio come con qualcuno che ci è presente? Fra le differenti maniere, in cui Dio è presente nel mondo, ve n’è una, in modo particolare, che fornisce la sorgente per eccellenza dell’intimità. Noi vorremmo, in queste pagine, spiegarla e metterla in piena luce, se fosse possibile:

« La Presenza di Dio in noi per mezzo dello stato di grazia. »

Dio, ci dice il Catechismo, è presente dappertutto. Questa presenza universale, questa onnipresenza, impressiona molto certe anime, ma in piccolo numero. Per la maggior parte, essere dappertutto, equivale a non essere in nessun punto, ed eccettuati alcuni Santi, la massa non arriva a comprendere come mai possa generare l’intimità una presenza impersonale, difficile a concepirsi, la stessa per il peccatore e per il giusto, che risulta unicamente dal fatto della creazione. – Dio, inoltre, è presente d’una presenza speciale, in cielo. Ma è così lontano, il cielo! Occorre una grande potenza d’astrazione per crearsi una intimità che non distrugga questa distanza enorme e perpetuamente esistente. Ciò valga per S. Tommaso, di cui dicono i contemporanei che camminava cogli occhi sempre levati al cielo, assorto nella contemplazione divina. Valga per S. Ignazio di Loyola, che il Lainez paragona a Mosè, perché pareva che parlasse faccia a faccia con Dio (La sua giaculatoria favorita era: « O Beata Trinitas! » e la sua preghiera che noi citeremo più innanzi: « O amabilissimo Verbo di Dio ») e amava pregare, come dice il P. Nouet, sui punti più elevati della casa in cui abitava, immaginando di trovarsi così più vicino al cielo. Dio è presente nell’Eucaristia, e questa presenza, benché anch’essa molto misteriosa, è assai più palpabile. Vediamo e sentiamo qualcosa che la garantisce alla nostra povera natura sensibile. Ciò che vediamo e gustiamo, è semplice apparenza; la realtà sfugge alla nostra percezione, ma questo poco basta a sostenere la nostra fede che sotto queste apparenze adora la realtà divina. E poi, la presenza eucaristica, nella Comunione, dura poco; ed io non posso fare della mia vita una visita perpetua al Santissimo Sacramento. – Oltre queste tre maniere di presenza di Dio, ne esiste un’altra, molto più feconda, dal punto di vista che trattiamo.

— Dov’è Dio? — fu chiesto a un fanciullo. — Nel mio cuore.

— Chi ve l’ha messo? — La grazia.

— Chi potrebbe cacciarnelo? — Il peccato.

Queste risposte di un fanciullo, mentre mostrano una grande conoscenza della vera vita cristiana, riassumono la dottrina che ci sembra produrre l’intimità al suo ultimo grado. Di tutte le nostre attitudini, la più singolare è quella di saper passare accanto al meraviglioso, senza punto curarcene. La bellezza morale della vita di sacrificio di una suora, lo splendore della Chiesa, la grandezza del sacerdote chi la vede? Ma anche noi, noi Cristiani, siamo maestri nell’arte di non curarci affatto delle splendide realtà che portiamo con noi. – Domandate ad un battezzato che definisca lo stato di grazia. Vi risponderà: «Lo stato di grazia consiste nel non avere peccati mortali sulla coscienza». Insistete: «Unicamente in questo, secondo voi? » — « Sì; non è forse sufficiente?…» — «Nella vostra spiegazione vedo bene che possedere lo stato di grazia significa non avere qualche cosa. Ma non vorrebbe anche dire: Avere… » — « Avere che cosa?…» —

« Ecco; state bene attenti: Dio presente e vivente in noi ».

E’ il dogma della Chiesa, la definizione del Catechismo, né più né meno. Come vedremo più innanzi, questa presenza, questa abitazione di Dio in noi, in virtù della grazia:

Nostro Signore l’afferma;

S. Pietro la spiega;

S. Paolo ne fa l’argomento abituale delle sue epistole;

I Dottori la richiamano continuamente alla nostra considerazione;

La liturgia la commenta in mille modi;

I Santi vivevano di essa.

Donde mai viene che questo dogma fondamentale, per la maggior parte dei Cristiani, ed anche per molte anime religiose, sia praticamente lettera morta? Che una dottrina davvero così consolante sia quasi sconosciuta o senza vigore? – Varie ragioni potrebbero addursi di un modo di agire così strano. Una che fin d’ora vogliamo far notare sta in ciò che se ne parla pochissimo. In un corso di esercizi spirituali, predicati ai sacerdoti della sua diocesi, alcuni mesi prima della guerra, l’arcivescovo di Malines, S. Em. il Card. Mercier, diceva: « È una verità che Dio vive in noi… Molti battezzati ignorano questo mistero profondo e per tutta la loro vita vi restano estranei… I Sacerdoti, cioè a dire quei medesimi che ricevettero la missione divina di predicarlo al mondo, se ne lasciano distrarre, non vi pensano punto, e quando lo si richiama alla loro memoria, se ne meravigliano… Convenite dunque nel credere che Dio non vi abbandona finché, per il peccato mortale, voi non lo costringiate a fuggire. Fate atti di fede volontari, espliciti, frequenti in questa presenza reale, stabile, di Dio dentro voi stessi. Non ricercate Dio al di fuori, ma là, dentro voi stessi, dove Egli abita per voi, dove vi chiama, vi aspetta e soffre delle vostre dissipazioni e dimenticanze ». Già un sapiente commentatore, Cornelio Alapide, rimpiangeva simile omissione: «Poche persone, scrive, apprezzano il dono della grazia nel suo giusto valore. Ciascuno dovrebbe ammirarla rispettosamente in se stesso, i predicatori e i dotti dovrebbero spiegarla, per inculcarne al popolo una conoscenza profonda. I fedeli apprenderebbero così che sono tempio vivente dello Spirito Santo e che portano Dio medesimo nel loro cuore; che perciò debbono camminare divinamente alla sua presenza, vivere una vita degna dell’ospite che li accompagna dovunque e dovunque li vede ». Monsignor de Ségur esprime la stessa lagnanza:

«Tutti i Cristiani sanno, in via generale e teorica, che Dio è nel loro cuore, che sono tempio di Gesù Cristo, che lo Spirito Santo abita in loro. Intanto, come mai accade che quasi nessuno sembra annettervi importanza, che quasi nessuno vi pensa, ne vive, o lo crede praticamente? Anche fra i Sacerdoti, fra i buoni Sacerdoti, non ho timore di dirlo, sono pochi coloro che danno direttamente alle anime questo nutrimento delizioso e inestimabile, il solo di cui abbiano vero bisogno, il solo capace di appagare la fame e di estinguere la sete che hanno di Dio, vita dell’anima loro, tesoro del loro cuore, compagno della loro esistenza, intima sorgente della loro forza, della loro mortificazione e pietà ». – Se si deve prestar fede al messaggio del Cuore di Gesù al Cuore del Sacerdote, Nostro Signore manifesterebbe il desiderio di veder propagata la « devozione allo stato di grazia ». Ecco ciò che importa questo « messaggio », trovato fra i manoscritti di un religioso Marista, morto a Roma, e che un’anima santa gli aveva certamente comunicato: « È certo che la devozione al mio Sacro Cuore è molto diffusa: essa mi consola poiché procura numerose anime a me, che sono il Salvatore delle anime! Ma ciò nondimeno, quanto si è lontani dal comprendere i tesori infiniti del mio Cuore! Ahi se sapessero il desiderio intenso che Io ho di unirmi intimamente a ciascuno di loro!… Molto rari sono coloro i quali giungono a questa unione, nella misura in cui il mio Cuore l’ha loro preparata sulla terra!… « E che cosa bisogna fare per conseguirla?

« Raccogliere, riunire, in qualche modo, tutti i propri affetti, e dirigerli verso di me che sono là, nel più intimo dell’anima loro! Ah! grida e di’ a tutti quanto Io li ami; supplicali di ascoltare l’appello premuroso del mio cuore, il mio tenero invito di scendere nel fondo della loro anima, per unirsi, là, a Colui che non li abbandona mai; di identificarsi in qualche modo con me… oh, allora, che abbondanza di benedizioni prometto loro!

« Quest’unione misteriosa e divina sarà il principio di una vita molto più santa e feconda di quella condotta fin qui.

« Molti Sacerdoti conoscono benissimo la teoria dell’unione dell’anima con Dio; parecchi vi aspirano; ma quanto pochi la conoscono in pratica; quanto pochi, fra i leviti pii, zelanti, anche miei amici devoti, sanno che Io sono là, in fondo all’anima loro, ardendo dal desiderio di farla una con me!

«Perché? Perché vivono come alla superficie della loro anima. Ah! se si involassero alle cose sensibili, alle impressioni umane, per discendere così soli nell’intimo della loro anima, proprio al fondo, dove Io sto; mi troverebbero subito, e che vita di unione, di luce e d’amore non sarebbe la loro!… ».

Monsignor de Ségur non esitava ad incolpare se stesso del fatto che i fedeli vivono così poco di questa dottrina ammirabile, mentre, come spiega S. Paolo ai Colossesi, essa è il grande mistero, nascosto alle generazioni passate, manifestato dal Vangelo ai Santi che Dio degna iniziare alle ricchezze divine. – Il santo prelato diceva, nella sua bonomia ordinaria: « Noi, ministri di Dio, non abbiamo abbastanza spirito di fede, abbiamo la fede in partibus, come quei buoni vescovi che non hanno diocesi. Ahimè! io sono un Arcivescovo di questa specie ». – Intanto non si può mettere in dubbio, che di tutte le realtà della fede, la più indispensabile a penetrarsi da chi, a un titolo qualsiasi, vuol essere apostolo, non sia questa realtà sublime che portiamo in noi. Se non l’abbiamo a lungo esplorata, con una diuturna e assidua meditazione, con uno studio paziente, come potremo meravigliarci che i fedeli trascorrano la loro vita nell’ignoranza inverosimile del più bel tesoro che esista, dato che questo tesoro, dai predicatori della dottrina non fu creduto degno di una fervida investigazione? Qualcuno forse dirà che i Sacerdoti, avendo studiato il trattato de Gratia, conoscono bene ciò che riguarda il mistero dell’abitazione di Dio in noi, ma che riesce impossibile predicare e porgere alle anime questa dottrina come nutrimento ordinario e abituale. – Dovremo allora rassegnarci a questo ripiego: che la parte fondamentale del dogma, quella su cui si basa ogni vera vita cristiana, praticamente sarà ignorata dalla maggior parte dei fedeli; ciò che noi non crediamo possibile (« Se c’è un argomento che debba interessarci, è assolutamente questo: nulla è a noi più intimo, nulla ha un così grande valore, nulla c’importa di più… Questo studio non solo non è scoraggiante e arido; ma è capace di sprofondarci in un vero abisso di gratitudine, di ammirazione, di confidenza, d’amore ». P . FROGET, O. P .: De l’Habitation du Saint Esprit dans les àmes justes. Lethielleux, 1898; p. 184). – Eppure a chi predicava S. Paolo « il grande mistero » della presenza di Dio in noi mediante la grazia? Ai conciapelli di Efeso, agli scaricatori di Corinto, tutta gente non meno « sprofondata nella materia » di molti Cristiani dei nostri tempi, e le cui abitudini e idee pagane dovevano renderli più difficilmente accessibili all’intelligenza di « Dio in noi », di quello che non accade a noi, Cattolici di razza, figli e nipoti di battezzati. – Ma ammesso pure che non tutti i fedeli, almeno nella stessa misura, possano familiarizzarsi con questo concetto della divina presenza in noi, non potremmo supporre che molte anime religiose, o semplicemente ferventi, le quali aspirano all’intimità con Dio, rivolgendo la loro attenzione su questo fatto capitale, abbiano a trovarvi un vantaggio di molta importanza? L’abbiamo supposto; donde la ragione di queste pagine. – Molte anime generose si spossano in lunghi sforzi senza giungere a poggiare più in alto, perché invece di cercare la ragione della loro intimità, là dove si trova veramente, cioè nel dogma più bello, più fondamentale della Religione, la cercano nel sentimento, o in pratiche accessorie (Altra difficoltà: il pericolo, per le anime, di confondere l’Abitazione divina con certe dottrine eterodosse, venute fuori dal modernismo [l’antico Panteismo gnostico riciclato dal modernismo ed oggi dal post-modernismo del novus ordo, l’antichiesa vaticana – ndr. -], e che tendono a sopprimere Dio, o a deificare l’uomo. Noi abbiamo Impugnato questa obiezione nella Revue Pratique d’Apologétique 1 e 16 giugno 1914: «Notre temps et l’intelligence de l’état de grace»). – S. Bernardo, per fare comprendere a queste anime il loro inganno, commenta quello che accadde al sepolcro a Maria Maddalena. Cerchiamo Dio dove non si trova, o piuttosto, non lo cerchiamo là, dove in modo speciale si trova; ecco l’origine di tanti indugi e lamenti. « Donna, tu piangi? Chi cerchi? Tu possiedi Colui che cerchi e l’ignori! Tu l’hai e piangi? Lo cerchi fuori di te, eppure Egli si trova dentro di te. Ritta accanto al sepolcro, sei tutta in lagrime; perché? Dove sono Io? Ma Io sono in te — mens tua monumentum meum est. — Io riposo là dentro, non morto, ma eternamente vivo. Tu stessa sei il mio giardino. Hai ben giudicato appellandomi giardiniere. Novello Adamo, anch’Io ho in custodia un Paradiso. Il mio officio è lavorare a far nascere in questo giardino, che è l’anima tua, messi abbondanti di desideri. In qual modo? Tu mi hai, mi possiedi in te, e l’ignori? — habes me intra te et nescis? — Ecco perché mi cerchi fuori. Ebbene, eccomi. Io ti apparisco fuori, ma per ricondurti dentro — ut te intus reducam. — Proprio qui tu mi troverai… Ah! io non sono assente e lontano, come t’immagini; ti sono molto vicino. Dimmi, che cosa è più vicino a qualcuno che il proprio cuore? Coloro che mi trovano, mi trovano appunto nel loro cuore, perchè Io risiedo là dentro — lllic intus invenior, a quibuscumque inveniorDeliciæ ejus esse cum filiis hominum. Mulier, quid ploras, quem quæris? Habes quem quæris, ignores? Habes intus, quem foris inquiris. Vere stas ad monumentum foris plorans? Mens tua monumentum meum est. Ibi non mortuus, sed in æternum requiesco vivens. Mens tua, hortus meus est. Bene existimasti, quia hortulanus sum… Habes me intra te et nexcis, ideo foras quæris… Ecce et foras apparebo ut te intus reducam et invenias intus quem foris quæris… Non longe a te sum. Quid propinquius homini quam cor suum? Illic intus invenior a quibuscumque invenior ». – In passionem et resurrectionem Domini, sermo XV). – Evitando tutto ciò che nell’esposizione della dottrina potrebbe essere oggetto di controversia, procureremo di spiegare nella maniera più chiara possibile, a vantaggio di tutte le anime desiderose di condurre una vita veramente cristiana, in che cosa consista la Presenza e l’Abitazione di Dio in noi (1).

 (1) Per lo svolgimento teologico e patristico, e una più profonda intelligenza di alcuni punti della nostra trattazione, rimandiamo ad alcune opere di un interesse speciale in materia. Oltre CORNELIO A LAPIDE (Commentario su S. Paolo), e PETAU (de Trinitate) inaccessibili forse alla maggior parte dei lettori, rammentiamo: BELLAMY: La Vie Surnaturrlle; NOUET: Le chrétien dans ses rapports avec la Très Sainte Trinité; TERRIEN: La Gràce et la Gloire; RAMIERE: La Divinisation du chrétien; DE SMET: Notre vie surnaturelle;. FROGET. O. P.: De l’Habitation du Saint Esprit dans les Ames justes; M.gr DE SÉGUR (con le correzioni che indicheremo) (*): Gesù vivente in noi; il P. FOCH: Catechism de la vie interieure; SAUVÉ: Elèvations Dogmatiques, t. VI.

(*) Tutte le opere summenzionate, tradotte, saranno di prossima nostra pubblicazione – ndr.-

CAPO II.

L’ordine soprannaturale.

Dio non ha crealo l’uomo solamente con un corpo e un’anima.

La definizione dell’uomo: animale ragionevole, corrisponde alla realtà filosofica, ma non alla realtà storica. L’uomo, tale quale Dio lo ha fatto, tale quale Dio lo ha costituito, è più che un uomo, è un uomo piùqualche cosa. – Noi ci studieremo di spiegare questo « qualche cosa ». – Quando Dio vuole creare un essere, si fa un dovere di conferirgli tutto ciò che lo costituisce nella sua natura. Ammettiamo che Dio crei un albero. Dio dovrà dargli tutto quello che sarà necessario affinché l’albero sia realmente un albero. Se Dio, dopo aver crealo l’albero, volesse aggiungergli qualche cosa che non gli appartiene, come sarebbe la facoltà di spostarsi: questo « qualche cosa » non potrà dirsi dovuto per natura, ma eccedente la natura, cioè soprannaturale. – Se Dio crea un animale, deve a quest’animale ciò che lo costituisce nel suo essere proprio. Dovrà forse in seguito conferirgli qualcosa di più? No. Ma se mai gliela conferisce, ciò sarà un mero favore. Se a un cavallo o ad un cane Dio desse la ragione, questa facoltà sopraggiunta, potrà considerarsi come eccedente la natura di quel cavallo o di quel cane, e quindi, in un senso molto vero, soprannaturale(1(1) Notiamo subito la terminologia in uso: preternaturale si dice quello che eccede una data natura; soprannaturaleciò che è specificamente divino, e che eccede qualsiasi natura creata).Fin qui, pure supposizioni. Entriamo ora nell’ordine dei fatti. Dio vuol creare l’uomo: gli deve in conseguenza (o meglio Dio deve a se stesso) tuttociò che lo costituisce nella vera natura d’uomo, e nulla più: dunque, un corpo, un’anima e niente altro. La Rivelazione c’insegna che Dio, creando l’uomo, come se ancora non fosse soddisfatto dell’opera sua, sotto l’impressione, per così dire, di un secondo slancio del suo amore infinito, aveva voluto aggiungere qualcosa di più ai doni meravigliosi che costituivano l’uomo nella sua natura.Un corpo, un’anima; sta bene: l’uomo vi è tutto intero. Ma in questa creazione, Dio non è tutto intero. Egli ha realizzato il suo piano; ma non ha esaurito il suo amore. Secondo Lui non ha dato abbastanza. Vuol dare di più. L’uomo non sarà solo un uomo. Sarà corpo e anima,sì; ma sarà anche qualcosa di più. Dio stabilisce di farlo partecipe della sua vera vita, della sua vita divina. L’uomo, restando uomo, sarà chiamato, fin da questa terra, a vivere della vita di Dio, per potere più tardi, in cielo, viverne pienamente, definitivamente; in modo limitato, è vero, ma senza velo; e il mistero consisterà forse meno nel fatto che l’uomo sia ammesso a porre un atto divino (quello di vedere Dio, come Dio si vede in se stesso) che non nel fatto che ponga quest’atto divino e tuttavia rimanga uomo.D’altronde le difficoltà importano poco. Voglio dire che esse formano l’oggetto dello studio del teologo, ma non di chi solo voglia fondare sul dogma la sua vita spirituale. E queste stesse difficoltà manifestano meglio l’immenso amore che Dio ebbe per noi. Noi eravamo sul punto di ringraziarlo in modo singolare.Questi privilegi splendidi (e anche altri di ordine temporale e sensibile, come la facoltà di non essere soggetti al dolore e alla morte), Dio li aveva connessi con l’osservanza fedele dei suoi ordini. Il conseguimento della vita divina era subordinato a un atto d’obbedienza del primo uomo. Dio, così, non lasciava di essere infinitamente buono. Nella sua bontà ci porgeva anzi l’occasione di meritare ciò che da parte sua era un puro favore. Adamo disobbedisce. Tutto è perduto. Esseri sensibili quali siamo, noi sentiamo di più la scomparsa dei doni sensibili. Noi quindi soffriamo E quanto!Ormai siamo condannati alla morte. Il fatto principale, il solo veramente essenziale è che tutti i nostri tesori divini ci furono rapiti, e siccome Dio ce li aveva dati a questa condizione, che il loro possesso o il loro rifiuto fosse per noi una sorgente di vita o di morte, perderli, importava l’inferno senza pietà, senza perdono. Dio non creò l’uomo e il soprannaturale nell’uomo con due atti distinti della sua potenza. No. Ma con unico atto, d’un solo colpo fece l’uomo soprannaturale. Quindi l’uomo vedrebbe Dio faccia a faccia, custodendo i suoi tesori di vita divina; ovvero cacciando Dio da sé, egli verrebbe cacciato da Dio, per sempre. Ecco la legge. – Or l’uomo pur conoscendo questo, preferì, da stolto, perdere la sua vita divina: ed ecco il peccato originale. Senza dubbio, Dio, in punizione, abbandonerà l’uomo a se stesso. – Il peccato originale — e in genere, sotto questo aspetto, ogni peccato mortale, — secondo un’espressione scultoria di S. Agostino, consiste in ciò, che l’uomo accetta di non essere altro che un semplice uomo: Per peccatum, homo fit tantum homo. L’uomo, animale ragionevole, per soddisfare un suo capriccio, rigetta i doni divini, la sua soprannatura; — amputato della parte più bella del suo essere, del tesoro che lo rende non solo cosa di Dio, ma amico di Dio e suo figliuolo, in un attimo perde, per la vita presente e per la futura, tutti i favori, tutte le ricchezze racchiuse in questo tesoro che egli possedeva. Si suol dire l’uomo decaduto. E difatti, che caduta tremenda! L’uomo sarà dunque abbandonato da Dio alla miseria di non essere altro che unuomo? E poiché Adamo ha rinunziato volontariamente ai suoi doni divini, il Creatore promulgherà il decreto di condanna eterna, senza lasciare né a lui, né ai suoi posteri, alcuna possibilità di riscatto? – Noi non conosciamo Dio! Non sappiamo quale misericordia infinita lo inclini verso l’uomo, prevaricatore nella persona di Adamo, e dopo Adamo, attraverso i secoli, così meschino, così miserabile, così poco degno delle attenzioni divine, anche fra quei popoli che Dio aveva prediletto, nell’Antico e nel Nuovo Testamento! – Abituati come siamo alla Redenzione, Gesù Cristo, (quando non ci sembra un personaggio del tutto insignificante e di cui non bisogna tener conto, ci appare come un uomo perfettamente normale, non del tutto straordinario, venuto, così si pensa presso a poco, per suo piacere, o almeno per sua fantasia; come un uomo quasi, la cui venuta, noi, gente senza macchia, meritavamo. – Il soprannaturale ci pare cosa naturalissima. E non vediamo quale enorme splendore si racchiuda nella Redenzione; quale anormalità prodigiosa presenti un personaggio come Gesù Cristo. Se riflettessimo solo un istante, vedremmo che l’opera del nostro riscatto, compiuta da Dio medesimo, meriterebbe da parte nostra un’ammirazione senza fine e continui ringraziamenti. – Noi avevamo perduto tutto. Dio ci rende tutto ciò che avevamo perduto. Noi restiamo freddi. Che indifferenza incredibile! Senza dubbio vi è una difficoltà. Ciò che abbiamo sempre visto a un modo, ci fa pensare che non poteva essere altrimenti. Chi di noi, essendo fanciullo, pensò mai che le circostanze della sua nascita potevano essere assai diverse: che in luogo delle rive della Senna, per esempio, o della Loira, potevano toccarci in sorte le rive del fiume Giallo o quelle del Congo? I doni soprannaturali, in mezzo ai quali siamo nati, ci sembrano anch’essi un ornamento che ci spetta, le cui parti già preparate, si sono connesse senza difficoltà, in virtù di non so quale armonia prestabilita e tutta meccanica. – Ma noi avremmo potuto benissimo non avere un Salvatore! La Redenzione non è una parte obbligatoria di un ornamento necessario. Commesso il peccato originale, poteva benissimo accadere che nessuno venisse in nostro soccorso e quindi non avessimo un Gesù Cristo; una volta perduti, si sarebbe potuto essere perduti per sempre. Lucifero peccò. Per lui non vi fu Redenzione. Gli angeli cattivi si ribellano, Dio li abbandona per sempre alla loro condanna. Perché dunque Dio ha voluto salvare noi? Come noi, Lucifero e i demoni non avevano commesso che un solo peccato; Dio non li salva. Ma salva noi. Quelli erano puri spiriti, noi nature inferiori, cioè spirito unito al corpo. Dio salva noi e danna i demoni. E chi mai si prende pensiero di questo, per così dire, capriccio di Dio? Noi, gli ultimi della famiglia, troviamo grazia presso Dio. E, invece, per i nostri fratelli maggiori, più nobili, più belli di noi, la cui colpa sembra meno grave, le circostanze, se non altro, meno puerilmente desolanti, nessuna remissione. Bisogna confessare che Dio ha avuto per noi un amore di preferenza! – Appena creati ci arricchisce di doni meravigliosi che non ci spettavano punto. Noi perdiamo tutto… E Dio — che abbandona alla colpa altre creature più privilegiate di noi per natura, — pensa unicamente a renderci tutto quello che abbiamo perduto! – Ma allora che cosa sono mai questi doni meravigliosi? Certamente devono costituire un tesoro magnifico agli occhi di Dio, se Egli — per farci rientrare nel loro possesso — determina e sceglie un piano meraviglioso, quello della Redenzione!

[1 – Continua]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/12/12/dio-in-noi-2/