PRIMA MESSA DI NATALE – DURANTE LA NOTTE

SANTO NATALE

Doppio di I Cl. con ottava privileg. di III ord. – Paramenti bianchi.

PRIMA MESSA • DURANTE L A NOTTE.

Stazione a S. Maria Maggiore all’altare del Presepe.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Il Verbo, generato nell’eternità del Padre, (Com. Grad.) ha elevato fino all’unione personale con sé il frutto benedetto del seno verginale di Maria, ciò che significa che la natura umana e la natura divina sono legate in Gesù nell’unità di una sola Persona, che è la seconda Persona della SS. Trinità. E, come quando si parla di figliolanza, è la persona che si designa, si deve dire che Gesù è il Figlio di Dio perché la sua persona è divina; è il Verbo incarnato. Perciò Maria è la Madre di Dio; non perché essa abbia generato il Verbo, ma perché ha generato l’umanità che il Verbo si è unito nel mistero dell’Incarnazione; mistero di cui la nascita di Gesù a Betlemme fu la prima manifestazione al mondo. Si comprende allora perché la Chiesa canti ogni anno a Natale: « Puer natus est nobis et Filius datus est nobis»; un fanciullo è nato per noi, un figlio ci viene dato, (Intr., Allei.). Questo Figlio è il Verbo incarnato, generato come Dio dal Padre nel giorno dell’eternità: Ego hodie genui te, e che Dio genera come uomo nel giorno dell’Incarnazione: Ego hodie genui te; perché con l’assunzione della sua umanità in Dio « assumptione humanitatis in Deum » (Simbolo di S. Atanasio), il Figlio di Maria è nato alla vita divina, ed ha Dio stesso per Padre, perché Egli è unito ipostaticamente a Dio Figlio. – «Con grande amore, dice S. Leone, il Verbo incarnato ha ingaggiato la lotta contro satana per salvarci, perché l’onnipotente Signore ha combattuto con il crudelissimo nemico non nella maestà di Dio, ma nella debolezza della nostra carne » (5a Lez.). E la vittoria che ha riportato, malgrado la sua debolezza, mostra che Egli è Dio. – Fu nel mezzo della notte, che Maria mise al mondo il Figlio primogenito e lo depose in una mangiatoia. Cosi la Messa si celebra a mezzanotte nella Basilica di S. Maria Maggiore, dove si conservano le reliquie della mangiatoia. – Questa nascita in piena notte è simbolica. È il « Dio da Dio, luce da luce » (Credo) che disperde le tenebre del peccato. « Gesù è la vera luce che viene a illuminare il mondo immerso nelle tenebre » (Or.). «Col Mistero dell’Incarnazione del Verbo, dice il Prefazio, un nuovo raggio di splendore del Padre ha brillato agli occhi della nostra anima, perché, mentre conosciamo Iddio sotto una forma visibile, possiamo esser tratti da Lui all’amore delle cose invisibili ». « La bontà del nostro Dio Salvatore si è dunque manifestata a tutti gli uomini per insegnarci a rinunciate alle cupidigie umane, per redimerci da ogni bassezza e per fare di noi un popolo gradito, e fervente di buone opere» (Ep.). «Si è fatto simile a noi perché noi diventiamo simili a Lui (Secr.) e perché dietro il suo esempio possiamo condurre una vita santa » (Postcom.). « È cosi che vivremo in questo mondo con temperanza, giustizia e pietà, attendendo la lieta speranza e l’avvento della gloria del nostro grande Iddio Salvatore e nostro Gesù Cristo » (Ep.). Come durante l’Avvento, la prima venuta di Gesù ci prepara dunque alla seconda.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps II:7.
Dóminus dixit ad me: Fílius meus es tu, ego hódie génui te. (Il Signore disse a me: tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato).
Ps II: 1
Quare fremuérunt gentes: et pópuli meditáti sunt inánia?
[Perché si agitano le genti: e i popoli ordiscono vani disegni?]

Dóminus dixit ad me: Fílius meus es tu, ego hódie génui te. [Il Signore disse a me: tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato].

Oratio

Orémus.
Deus, qui hanc sacratíssimam noctem veri lúminis fecísti illustratióne claréscere: da, quǽsumus; ut, cujus lucis mystéria in terra cognóvimus, ejus quoque gáudiis in coælo perfruámur:

[O Dio, che questa notta sacratissima hai rischiarato coi fulgori della vera Luce, concedici, Te ne preghiamo, che di Colui del quale abbiamo conosciuto in terra i misteriosi splendori, partecipiamo pure i gaudii in cielo:]

Lectio

Léctio Epístolæ beati Pauli Apóstoli ad Titum
Tit II: 11-15
Caríssime: Appáruit grátia Dei Salvatóris nostri ómnibus homínibus, erúdiens nos, ut, abnegántes impietátem et sæculária desidéria, sóbrie et juste et pie vivámus in hoc sǽculo, exspectántes beátam spem et advéntum glóriæ magni Dei et Salvatóris nostri Jesu Christi: qui dedit semetípsum pro nobis: ut nos redímeret ab omni iniquitáte, et mundáret sibi pópulum acceptábilem, sectatórem bonórum óperum. Hæc lóquere et exhortáre: in Christo Jesu, Dómino nostro.

[Carissimo: La grazia salvatrice di Dio si è manifestata per tutti gli uomini e ci ha insegnato a rinnegare l’empietà e le mondane cupidigie, e a vivere in questo mondo con temperanza, giustizia e pietà, aspettando la lieta speranza e la manifestazione gloriosa del nostro grande Iddio e Salvatore nostro Gesù Cristo. Egli ha dato sé stesso per noi, a fine di riscattarci da ogni iniquità, e purificare per sé un popolo suo proprio, zelante per buone opere. Insegna queste cose e raccomandale: in nome del Cristo Gesù, Signore nostro.]

Aspirazione. Siate benedetto, o mio divin Salvatore, che vi siete degnato di scendere dal cielo e rivestirvi di nostra carne mortale, per venire ad insegnarmi il cammino giustizia! Riconoscente a sì grande amore e per  profittare di un sì gran benefizio, rinunzio ad ogni empietà e ad ogni inimicizia, ai piaceri della carne ed a tutte le azioni, parole, pensieri che potessero dispiacervi, e prometto fermamente di vivere con temperanza, giustizia e pietà. Deh! la vostra grazia, o mio Dio, mi renda fedele ai disegni che essa m’ispira! (L. Goffinè: Manuale per la santif. della Domenica, etc …)

Graduale

Ps CIX: 3; 1
Tecum princípium in die virtútis tuæ: in splendóribus Sanctórum, ex útero ante lucíferum génui te.
[Con te è il principato dal giorno della tua nascita: nello splendore dei santi, dal mio seno ti ho generato, prima della stella del mattino.]

V. Dixit Dóminus Dómino meo: Sede a dextris meis: donec ponam inimícos tuos, scabéllum pedum tuórum. Allelúja, allelúja.

[V. Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra: finché ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi. Allelúia, allelúia.]

Ps II: 7
V. Dóminus dixit ad me: Fílius meus es tu, ego hódie génui te. Allelúja.

[V. Il Signore disse a me: tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secundum S. Lucam
S. Luc II: 1-14
In illo témpore: Exiit edíctum a Cæsare Augústo, ut describerétur univérsus orbis. Hæc descríptio prima facta est a præside Sýriæ Cyríno: et ibant omnes ut profiteréntur sínguli in suam civitátem. Ascéndit autem et Joseph a Galilæa de civitáte Názareth, in Judæam in civitátem David, quæ vocatur Béthlehem: eo quod esset de domo et fámilia David, ut profiterétur cum María desponsáta sibi uxóre prægnánte. Factum est autem, cum essent ibi, impléti sunt dies, ut páreret. Et péperit fílium suum primogénitum, et pannis eum invólvit, et reclinávit eum in præsépio: quia non erat eis locus in diversório. Et pastóres erant in regióne eádem vigilántes, et custodiéntes vigílias noctis super gregem suum. Et ecce, Angelus Dómini stetit juxta illos, et cláritas Dei circumfúlsit illos, et timuérunt timóre magno. Et dixit illis Angelus: Nolíte timére: ecce enim, evangelízo vobis gáudium magnum, quod erit omni pópulo: quia natus est vobis hódie Salvátor, qui est Christus Dóminus, in civitáte David. Et hoc vobis signum: Inveniétis infántem pannis involútum, et pósitum in præsépio. Et súbito facta est cum Angelo multitúdo milítiæ coeléstis, laudántium Deum et dicéntium: Glória in altíssimis Deo, et in terra pax hóminibus bonæ voluntátis.

[In quel tempo: Uscì un editto di Cesare Augusto che ordinava di fare il censimento di tutto l’impero. Questo primo censimento fu fatto mentre Quirino era preside della Siria. Recandosi ognuno a dare il nome nella propria città, anche Giuseppe, appartenente al casato ed alla famiglia di Davide, andò da Nazareth di Galilea alla città di Davide chiamata Betlemme, in Giudea, per farsi iscrivere con Maria sua sposa, ch’era incinta. E avvenne che mentre si trovavano lì, si compì per lei il tempo del parto; e partorì il suo figlio primogenito, lo fasciò e lo pose in una mangiatoia, perché non avevano trovato posto nell’albergo. Nello stesso paese c’erano dei pastori che pernottavano all’aperto e facevano la guardia al loro gregge. Ed ecco apparire innanzi ad essi un Angelo del Signore e la gloria del Signore circondarli di luce, sicché sbigottirono per il gran timore. L’Angelo disse loro: Non temete, perché annuncio per voi e per tutto il popolo un grande gaudio: infatti oggi nella città di Davide è nato un Salvatore, che è il Cristo Signore. Questo sia per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, giacente in una mangiatoia. E d’un tratto si raccolse presso l’Angelo una schiera della Milizia celeste che lodava Iddio, dicendo: Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà.]

Omelia

(A. Carmignola – Sac. sales. -: MEDITAZIONI; VOL. I, S. E. I. Torino, 1942)

Cominceremo dal riflettere sui motivi che ebbe la Divina Provvidenza nell’editto di Cesare Augusto. C’immagineremo di vedere Iddio che dall’alto de’ cieli tiene rivolto il suo sguardo di compiacenza sopra il suo Divin Figlio e che, giunta la pienezza dei tempi da Lui stabiliti per la sua nascita, dispone ogni cosa per essa. Adoreremo questa divine disposizioni e imploreremo da Gesù l’aiuto di saperci sottomettere anche noi a tutto ciò che il Signore dispone per il nostro bene.

Primo motivo dell’editto di Cesare Augusto.

L’imperatore romano Cesare Augusto, divenuto padrone di quasi tutto il mondo, volendo fare il censimento dell’impero emana un decreto, per il quale tutti i suoi sudditi devono recarsi nella loro città natale a dare il proprio nome. Ma sebbene sia egli l’autore materiale del decreto ed abbia per movente la sua saggezza amministrativa, pure in realtà è Iddio che ordina così, affinché il suo divin Figlio abbia a nascere nella città indicata dai profeti, e la sua regale discendenza sia confermata dagli atti pubblici. Così adunque gli uomini si agitano, ma Dio li conduce e ne fa convergere tutte le azioni all’adempimento perfetto dei disegni della sua Provvidenza. Oh! se noi fossimo ben persuasi diquesta verità, che solo Iddio regola tutti gli avvenimenti del Mondo con sapienza infinita, con forza irresistibile e con bontà paterna, noi vedremmo sempre la mano di Lui che tutto dirige ed ordina per nostro bene e per la sua gloria! Tante volte, è vero, le ragioni che Iddio ha nel suo governo ci sono ignote, i suoi disegni sfuggono alla corta vista del nostro intelletto; ma sicuri che in cielo comprenderemo ogni cosa, adoriamo intanto la Provvidenza Divina. E ciò non solo per riguardo alla storia del mondo, ma ancora per ciò che spetta a ciascuno di noi. Gesù ci ha insegnato che un capello solo non cade dalla nostra testa senza permissione divina ( S. Luc., XXI, 18). Nelle contrarietà dunque abbandoniamoci a Dio; questo abbandono sarà per noi fonte di pace e di consolazione.

Secondo motivo dell’editto di Cesare Augusto.

Giunto anche in Nazaret l’editto imperiale, a cui dovevano ottemperare anche i Giudei, divenuti quasi sudditi romani, Maria e Giuseppe si accingono senz’altro a recarsi a Betlemme, loro terra natale, ancorché si tratti di un viaggio lungo, a piedi, per strade montane, in stagione cruda. Ma ciò essi fanno perché lo stesso Bambino Gesù con le sue ispirazioni li anima a compiere la volontà di Dio, espressa per la volontà di un re. – Oh esempio di obbedienza, che ci dà Gesù non ancor nato, volando sottomettere sé, la sua madre e il suo futuro padre nutrizio al decreto di Cesare! Vicino a manifestarsi agli uomini vuol subito offrir loro l’esempio di questa virtù, con la quale viene a ripararne l’orgoglio. Per la disobbedienza di Adamo, – dice S. Paolo (Rom., V, 19) – gli uomini furono costituiti peccatori, e per l’obbedienza di Gesù gli uomini devono diventare giusti. Purtroppo dal giorno in cui Adamo superbamente disobbedì a Dio, penetrò negli uomini il disdegno degli altrui comandi, benché legittimi, affine di far prevalere la propria volontà. E Iddio volendo sradicare dal cuore degli uomini un sì grave disordine stabilisce che venga fuori un editto, cui il suo Divin Figlio incarnato si sottometta, offrendosi tosto a noi come modello della più perfetta obbedienza. Dinanzi a tanto esempio come non ti animerai tu a obbedire in tutto e sempre?

Terzo motivo dell’editto di Cesare Augusto.

Il Signore dispose che l’editto di Cesare Augusto desse occasione al suo Divin Figlio di compiere un viaggio prima ancora di nascere, perché con esso si appalesasse ben tosto la missione che Egli veniva a compiere e quanto gli sarebbe premuto di muovere in cerca di noi per salvarci. Giuseppe, figliuolo di Giacobbe, mandato dal padre in cerca dei suoi fratelli, interrogato da chi lo incontrava, rispondeva: Fratres meos quæro, cerco i miei fratelli (Gen., XXXVII, 16). Or ecco la parola che Gesù benedetto va ripetendo in quel viaggio penoso. Infatti il Vangelo ci attesta che Gesù è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto: Venit quærere et salvum facere quod perierat (S. Luc., XIX, 10). Egli altro non vuole che cercare i suoi fratelli per salvarli Fratres meos quæro, fratres meos quæro. Ed oh! come si reputerà felice, se dopo tanto soffrire potrà ritrovare coloro che Egli cerca, e stringerseli al cuore! E noi non l’abbiamo già troppo a lungo costretto a correrci dietro, chiamandoci con insistenza? È tempo che ci fermiamo nella nostra fuga, che ci stacchiamo dal nostro orgoglio, dalle nostre vanità, dalle nostre insensatezze, e moviamo incontro a Lui con uno slancio di amore e di fede, massime in questo tempo.  – Mediteremo ora sopra l’indifferenza dei cittadini di Betlemme per Maria e Giuseppe, indifferenza per la quale Gesù nacque in una povera capanna fuori di quella città. C’immagineremo l’affanno dei due santi sposi e la calma del Verbo incarnato, il quale prima ancora di nascere c’insegna a sopportare per amor di Dio i maltrattamenti altrui. Adoreremo il Divin Verbo in queste sue interiori disposizioni e lo pregheremo con ardore di volercene rendere partecipi.

I Betlemmiti rifiutano Gesù.

Maria e Giuseppe, compiuto il penoso viaggio da Nazaret a Betlemme, si recarono tosto dal pubblico ufficiale per dare il proprio nome e quello di Gesù, indi mossero in cerca di una casa ove riparare la notte. Si aggirano di porta in porta, benché stanchi dal cammino; ma non trovano persona amica o cortese, che li accolga presso di sé. Oh se i Betlemmiti avessero conosciuto chi erano quei due pellegrini e chi doveva nascere in quella notte! Ah! tutti avrebbero voluto dar loro la propria Abitazione o li avrebbero forzati a entrare nella casa più bella che vi fosse in quella città. Al contrario non conoscendoli e son sapendo il gran mistero di quella notte, mentre provvedono di buon alloggio tutti i forestieri di agiata condizione, con tutta indifferenza lasciano in abbandono Maria e Giuseppe e con essi il Salvatore del mondo. Tant’è, Gesù è venuto nella sua città natale e i suoi concittadini non gli han dato ricetto: In propria venit et sui Eum non receperunt (S. Jo., I , 11). A Betlemme si può raffigurare quell’anima, in cui Gesù sarebbe pronto a nascere con la sua grazia, ma che per attacco alle misere vanità del mondo lo respinge da sé. E tale anima non sarebbe per avventura la nostra? Ma che cosa ci possiamo aspettare di bene dalle meschinità della terra? Deh! alla vista di Gesù, pronto a visitare lanostra anima per arricchirla dei suoi celesti favori, liberiamoci tosto dagli attacchi terreni e cediamo in essa il posto al nostro buon Redentore.

Nel pubblico albergo non c’è posto per Gesù.

Maria e Giuseppe, respinti da ogni casa, furono costretti a presentarsi al pubblico albergo. Non si trattava, è vero, che di un recinto quadrato contornato da un portico lunghesso le mura, sotto al quale conveniva distendere delle stuoie per adagiarvisi sopra. Ma almeno avrebbero avuto un riparo in città, frammezzo a gente, che poteva porgere un po’ di aiuto. Eppure nemmeno lì si trova un posto: non erat eis locns in diversorio (S. Luc., II, 7). Il Creatore e Signore del cielo e della terra non troverà dunque in Betlemme un luogo qualsiasi, ove fare la sua entrata nel mondo? Gesù – dice S. Agostino – permette che fra le mura di Betlemme gli manchi una stanza, per vedere se tu, o Cristiano, pensi ad aprirgliela dentro il cuor tuo: non erat eis locus in diversorio, ut tu locum illi præberes in eorde tuo.Se in questo momento Maria si presentasse a me in cerca diun cuore, ove posare il suo Divin Figlio, le potrei offrire il cuormio! Dio lo voglia: ma voi intanto, o Vergine Santa, aiutatemia rendere il mio cuore meno indegno di dare ricetto al vostroDivin Figlio.

Gesù nasce in una grotta.

Maria e Giuseppe respinti non solo dalle case private di Betlemme, ma persino dal pubblico albergo, escono alla campagna e cercano tra l’oscurità e la solitudine un misero tugurio ove ricoverarsi. Trovano finalmente una grotta scavata nella collina, una di quelle grotte, che servivano di rifugio ai pastori sorpresi dalle intemperie nella custodia del gregge. E lì in quella grotta solitaria, mentre tutto all’intorno era profondissimo silenzio e le stelle sul firmamento segnavano la mezzanotte, da Maria Vergine nacque Gesù Cristo, eterno Dio e Figlio dell’Eterno Padre! Oh grotta benedetta! Per quanto umile e meschina, tu sei diventata il luogo santo, la casa di Dio, la porta del Cielo. Così Gesù ci ha fatto conoscere quanto ami l’oscurità e la solitudine, e come a nascere nell’anima nostra con l’abbondanza delle sue grazie voglia che essa per amore di oscurità e di solitudine si renda simile alla grotta di Betlemme. Oh se noi fossimo persuasi di queste grandi verità: che quanto più noi amiamo di essere oscuri, di tenerci nascosti, di vivere lontani dall’ammirazione del mondo e dalle sue frivole conversazioni, tanto più Iddio si avvicinerà a noi, ci parlerà al cuore, ci farà godere della sua amabile presenza e delle sue consolazioni! Come ameremmo di più la vita di ritiro! Come cercheremmo meno di metterci in evidenza! Quanta minor cura avremmo di attirare su di noi gli altrui sguardi! E quanta maggior pace godremmo! – Mediteremo infine sopra la povertà e abbiezione della capanna di Betlemme, in cui volle nascere il Divin Salvatore. C’immagineremo di vedere il Bambino Gesù che accetta con gioia di nascere nella povertà, nello spogliamento e nella miseria, avendo stabilito da tutta l’eternità di dare fin dalla sua nascita la preferenza a tutto ciò che lo separa dal mondo e lo abbassa e lo umilia, per insegnare anche a noi il distacco dalla terra, l’amore agli abbassamenti e alle umiliazioni. Prostrandoci dinanzi a Lui col nostro spirito lo adoreremo umilmente e lo pregheremo di mettere nel nostro cuore quei sentimenti, che ha manifestato di avere nel suo all’atto della sua nascita.

Povertà della capanna di Betlemme.

Che povera stanza era quella in cui nacque il Re del Cielo! Una misera stalla destinata a rifugio degli animali, mal difesa dalle intemperie dell’aria, sprovvista di ogni mobile, con soltanto una meschina mangiatoia e un po’ di paglia. Perché si abbassò cotanto Colui che non poteva essere degnamente albergato nel più sontuoso palagio, e a cui nemmeno gli Angeli avrebbero potuto preparare una degna abitazione? Egli ci volle in tal modo insegnare che conto si debba fare delle cose del mondo. Difatti, che cosa sono mai davanti a Dio l’oro, l’argento, le pietre preziose, i più ricchi abbigliamenti, i più sontuosi palagi, e tutte le grandezze mondane? Tutto ciò davanti a Dio non conta più del fango e della spazzatura. Ma quanti purtroppo mettono la loro felicità nel possesso del danaro, nel godersi le comodità e gli agi della vita, nelle belle comparse, nelle ricche vesti, nelle pompe del secolo, nelle più sciocche vanità! Noi che in effetto abbiamo rinunziato ai beni caduchi della terra possiamo dire d’avervi rinunziato altresì con l’affetto? Ah! sefinora il nostro cuore ha ceduto al fascino delle misere cose di questo mondo, non sia più così dinanzi al grande insegnamento di Gesù Bambino.

Confronto della capanna di Betlemme con l’anima nostra.

Ben a ragione ci sorprende la degnazione che ebbe il Re del cielo col nascere in una capanna sì misera; ma ancora più dobbiamo meravigliarci della degnazione, che Egli ha, di venire a prendere dimora nell’anima nostra per mezzo della Santa Comunione. Difatti, paragonando l’anima nostra a quella capanna, non dobbiamo riconoscere che la miseria della nostra anima è di gran lunga superiore a quella della capanna betlemmitica? Tutta la povertà di questa era solo materiale, mentre l’anima nostra è misera spiritualmente, disadorna delle cristiane virtù, e sordida per tanti peccati. Eppure Egli si degna di visitarla e di abitarvi, oh quanto frequentemente! Ma dovrà sempre trovare questa sua casa così poco degna di Lui? Se fossimo stati là a Betlemme, e avessimo saputo che in quella capanna doveva nascere il Re del Cielo, che premura ci saremmo presa di mondarla e purificarla da ogni sozzura, di ripararla dal rigore della stagione, di provvederla del necessario! Avremmo fatto tutto il possibile perché quell’abitazione di animali diventasse una stanza meno indecente per il Divin Salvatore. Ora questo dobbiamo fare nell’anima nostra, perché quando Gesù viene in essa con la Santa Comunione vi si trovi meno a disagio. Sebbene sia vero che anche col peccato veniale possiamo accostarci quotidianamente alla Comunione, tuttavia il nostro studio ha da essere quello di evitarlo, di staccarne affatto il cuore e di adornare l’anima nostra delle virtù cristiane e religiose.

I due animali della capanna di Betlemme.

Secondo l’antichissima tradizione, ritenuta dalla Chiesa nella sua liturgia, c’erano nella capanna di Betlemme un bue e un giumento, che stando dappresso alla mangiatoia, in cui fu deposto il Bambino Gesù, col loro fiato mitigavano il rigore della fredda aria notturna. Grande argomento di umiltà! Canta la Chiesa: Colui che risplende nei cieli di gloria eterna, giaceva nel presepio tra due animali! Come poteva maggiormente abbassarsi il R e del cielo per insegnare anche a noi l’abbassamento? Eppure quanto facilmente rigettiamo tale insegnamento! Noi cerchiamo tutto ciò che serve a conciliarci la stima degli uomini, non vogliamo cedere nei nostri puntigli, ci irritiamo se siamo ripresi di qualche mancamento, andiamo dietro alle vanità mondane. Dinanzi all’infinita maestà del Signore così umiliata, ceda ogni pretesto che ci tragga a far atti di superbia e c’induca ben anche a commettere gravi errori con danno incalcolabile dell’anima nostra e con scandalo delle anime altrui. Ecco la più bella disposizione del nostro cuore per diventare abitacolo gradito a Gesù.

I Sermoni del curato d’Ars:https://www.exsurgatdeus.org/2019/12/24/i-sermoni-del-curato-dars-per-il-giorno-di-natale/

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps XCV:11:13
Læténtur cæli et exsúltet terra ante fáciem Dómini: quóniam venit.

[Si allietino i cieli, ed esulti la terra al cospetto del Signore: poiché Egli è venuto.]

Secreta

Acépta tibi sit, Dómine, quǽsumus, hodiérnæ festivitátis oblátio: ut, tua gratia largiénte, per hæc sacrosáncta commércia, in illíus inveniámur forma, in quo tecum est nostra substántia:

[Ti sia gradita, o Signore, Te ne preghiamo, l’offerta dell’odierna solennità: affinché, aiutati dalla tua grazia, mediante questi sacrosanti scambi, siamo ritrovati conformi a Colui nel quale la nostra sostanza è unita alla Tua:]

Prefatio de Nativitate Domini

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Quia per incarnáti Verbi mystérium nova mentis nostræ óculis lux tuæ claritátis infúlsit: ut, dum visibíliter Deum cognóscimus, per hunc in invisibílium amorem rapiámur. Et ideo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes: Sanctus …

COMUNIONE SPIRITUALE https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps CIX: 3
In splendóribus Sanctórum, ex útero ante lucíferum génui te.

[Nello splendore dei santi, dal mio seno ti ho generato, prima della stella del mattino.]

Postcommunio

Orémus.
Da nobis, quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, qui Nativitátem Dómini nostri Jesu Christi mystériis nos frequentáre gaudémus; dignis conversatiónibus ad ejus mereámur perveníre consórtium:

[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore Dio nostro, che celebrando con giubilo, mediante questi sacri misteri, la nascita del Signore nostro Gesù Cristo, meritiamo con una vita santa di pervenire al suo consorzio:]

PREGHIERE LEONINE https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Ordinario della Messa.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: PER IL GIORNO DI NATALE

PER IL GIORNO DI NATALE

(Secondo Sermone)

Sul Mistero

“Evangelizo vobis gaudium magnum; natus est vobis hodie Salvator”.

Vengo  a portarvi una lieta novella: oggi vi è nato un Salvatore (S. Luc. II, 11)

Far sapere ad un moribondo che un abile medico lo trarrà dalle porte della morte e gli restituirà una salute perfetta, quale felice notizia, fratelli miei! Ma è infinitamente più felice è quella che l’Angelo porta a tutti gli uomini nella persona dei pastori. Il demone aveva ferito mortalmente la nostra anima attraverso il peccato. Vi aveva messo tre passioni fatali, da cui scaturiscono tutte le altre: vale a dire l’orgoglio, l’avarizia e la sensualità. Sì, fratelli miei, eravamo tutti sotto queste vergognose passioni, come dei malati senza speranza che aspettano solo la morte eterna, se Gesù Cristo non fosse venuto in nostro aiuto. Ma questo tenero Salvatore viene al mondo nell’umiliazione, nella povertà, nella sofferenza, per distruggere questo lavoro del diavolo e per applicare rimedi efficaci alle ferite crudeli che questo antico serpente ci aveva fatto. Sì, fratelli miei, è questo tenero Salvatore pieno di carità che viene a guarirci e a meritarci la grazia, con una vita umile, povera e mortificata; e per eccitarci in modo più efficace alla pratica di queste virtù, Egli stesso vuole darcene l’esempio. Questo è ciò che vediamo mirabilmente nella sua nascita. Egli ci prepara, con le sue umiliazioni e la sua obbedienza, un rimedio per il nostro orgoglio; con la sua estrema povertà, un rimedio al nostro amore per i beni di questo mondo; col suo stato di sofferenza e di mortificazione, un rimedio al nostro amore per i piaceri dei sensi, e quindi ci rende spirituali e ci apre la porta del cielo. Preziosa è questa grazia, fratelli miei, ma poco conosciuta dalla maggior parte dei Cristiani. Questo Messia, fratelli miei, questo tenero Salvatore, viene nel mondo per salvarlo. Tuttavia, il Vangelo ci dice che nessuno vuole riceverlo; ed Egli è obbligato a nascere in una stalla su di una manciata di paglia. No, fratelli miei, non possiamo fare a meno di incolpare la condotta degli Ebrei nei confronti di questo divino Gesù. Ma, ahimè, la condotta che abbiamo noi verso di Lui è ancora più crudele, poiché gli Ebrei non lo conoscevano come Messia, mentre noi lo conosciamo come nostro vero Dio. Pertanto, fratelli miei, vi mostrerò il grande bene che questa nascita ci offre e che è il nostro modello in tutto ciò che dobbiamo fare.

I. Per capire, fratelli miei, la grandezza dei beni che la nascita di Gesù Cristo ci ha procurato, è necessario essere in grado di comprendere lo stato infelice in cui il peccato di Adamo ci aveva fatto precipitare, cosa che non potremo mai compiutamente fare. Vi dico, quindi, che la prima ferita del nostro cuore è l’orgoglio. Questa passione, fratelli miei, così pericolosa, consiste in un fondo di amore proprio e di stima di noi stessi, per cui: 1 ° non ci piace dipendere da nessuno, 2 ° non temiamo nulla quanto essere umiliati agli occhi degli uomini e 3° cerchiamo tutto ciò che possa elevarci nelle loro menti. Ecco, fratelli miei, le fatali passioni che Gesù Cristo viene a combattere con la sua nascita nella più profonda umiltà. Non solo, Egli vuole dipendere da suo Padre e obbedirgli in tutto; vuole ancora obbedire agli uomini e dipendere in qualche modo dalla loro volontà. In effetti, l’imperatore Augusto, per vanità, interesse o capriccio, ordinò che tutti i suoi sudditi fossero censiti e che ogni famiglia in particolare dovesse essere registrata nel luogo da cui essa proveniva, donde era stata presa, e derivava la sua origine. Ma l’obbedienza di Gesù era così grande, che appena fu pubblicato l’editto, la Beata Vergine e San Giuseppe si misero in cammino. Quale lezione, fratelli miei, Dio obbedisce alle sue creature e vuole dipendere da esse! Ahimè! Quanto ne siamo lontani! Con quanti inutili pretesti non cerchiamo di dispensarci dall’obbedire ai Comandamenti di Dio o agli ordini di coloro che prendono il suo posto nei nostri confronti! Che vergogna per noi, o meglio, fratelli miei, qual orgoglio il non voler mai obbedire, ma ordinare sempre, credere che abbiamo sempre ragione e mai torto! – Ma andiamo oltre, fratelli miei, vedremo qualcosa di più. Dopo un viaggio di oltre quaranta leghe, Maria e Giuseppe arrivarono a Betlemme. Ditemi, quando questa città ha ricevuto il suo Dio, il suo Salvatore, avrebbe dovuto mettere limiti gli onori che gli si dovevano? Non dovremmo forse dire in questo momento, come nella sua entrata a Gerusalemme: « Beato colui che viene nel nome del Signore, Gloria gli sia resa nel più alto dei cieli? Ma no, questo tenero Salvatore viene solo per soffrire! E vuole iniziare fin dalla nascita. Tutti lo respingono; nessuno vuole ospitarli. Ecco a cosa è ridotto il padrone dell’universo, il Re del cielo e della terra, disprezzato e respinto dagli uomini, costretto a prendere in prestito dagli animali una dimora. Mio Dio! Che umiliazione! Che annientamento! No, fratelli miei, niente ci è così penoso, come gli insulti, il disprezzo e i rifiuti! Ma se noi consideriamo quelli che il Salvatore ha ricevuto alla nascita, avremo il coraggio di lamentarci, vedendo il Figlio di Dio ridotto a tale umiliazione? Impariamo, fratelli miei, a soffrire tutto ciò che può accaderci, con pazienza e con spirito di penitenza. Quale felicità per un Cristiano poter imitare in qualcosa il suo Dio e il suo Salvatore! – Andiamo oltre e vedremo che Gesù Cristo, ben lungi dal voler cercare ciò che potesse rivelarlo agli occhi degli uomini, vuole al contrario nascere nell’oscurità, nell’oblio; vuole che solo i poveri pastori siano informati della sua nascita da un Angelo che viene ad annunciare questa lieta notizia. Ditemi, fratelli miei, dopo un simile esempio, chi di noi potrebbe ancora conservare un cuore gonfio, animoso pieno di vanità e desideri stima, lode e considerazione del mondo? Vedete, fratelli miei, e contemplate questo tenero Bimbo; vedetelo già versare lacrime d’amore, che piange i nostri peccati, per i nostri mali. Ah! fratelli miei, che esempio di povertà, di umiltà, di distacco dai beni della vita! Lavoriamo, fratelli miei, onde diventare umili e spregevoli ai nostri occhi – dice Sant’Agostino -, se un Dio ha così disprezzato tutte le cose create, come potremmo noi amarle? Se fosse stato permesso di amarle, Colui che divenne uomo per noi ce lo avrebbe certo comandato. Questo, fratelli miei, è il rimedio che il divino Salvatore applica alla nostra prima piaga, che è l’orgoglio. – Ma ne abbiamo una seconda che non è meno pericolosa, e questa seconda ferita che il peccato ha fatto nel cuore dell’uomo, è l’avarizia; intendo parlare dell’amore disordinato delle ricchezze e dei beni di questa vita. Ahimè! questa passione sta causando il caos nel mondo! San Paolo, che la conosceva ancor meglio di noi, afferma che essa è la fonte di tutti i tipi di vizi. Non è forse a causa di questo maledetto interesse che avvengono le ingiustizie, i desideri, gli odi, i pregiudizi, le cause legali, i litigi, le animosità e la durezza verso i poveri? Da questo, fratelli miei, possiamo forse stupirci che Gesù Cristo, che è venuto sulla terra per guarire le passioni degli uomini, sia nato nella più grande povertà, nelle privazioni di tutte le comodità che sembrano così necessarie all’uomo? Innanzitutto vediamo che Egli sceglie una povera madre. Vuole essere il figlio di un povero artigiano. Dato che i profeti avevano annunciato che Egli sarebbe nato dalla famiglia reale di David, al fine di conciliare questa nobile origine con il suo amore per la povertà, ha permesso che al momento della sua nascita, questa illustre famiglia, cadesse in povertà. Ma non si ferma qui: Maria e Giuseppe, sebbene molto poveri, avevano una misera casa a Nazareth; ma anche questa è troppo per Lui, perché non vuole nascere in un posto che apparteneva a loro; per questo costringe la sua santa Madre a recarsi a Betlemme nel momento in cui deve metterlo al mondo. Tuttavia, a Betlemme, che era la patria di suo padre David, forse avrebbe potuto trovare delle risorse, specialmente tra i suoi parenti. Ma no, nessuno vuole riconoscerlo, nessuno vuole offrirgli un alloggio. Per Lui non c’è niente. Ditemi dove andrà questo divino Salvatore per proteggersi dalle intemperie del tempo, dal momento che tutti i posti sono già occupati? Giuseppe e Maria si presentano in diverse locande; ma no! sono poveri e per loro non c’è posto! Oh, amabile Salvatore, in quale stato di disprezzo e di abbandono vi vedo ridotto? – Giuseppe e Maria sono ansiosi di cercare da ogni parte. Alla fine vedono un fienile dove gli animali si ritirano in caso di maltempo; si era in inverno, si era all’aperto, quasi quanto in mezzo alle strade. – E cosa mai? Fratelli miei! una stalla esser l’abitazione di un Dio!? Sì, fratelli miei, sì, è lì che Dio vuole nascere. Non toccava che a Lui nascere nei più magnifici palazzi; ma no! Il  suo amore per la povertà non sarebbe stato soddisfatto … una stalla sarà il suo palazzo, una greppia la sua culla, un po’ di paglia comporrà tutto il suo letto, delle miserabili fasce saranno tutti i suoi ornamenti e dei poveri pastori formeranno la sua corte. Ditemi, fratelli miei, poteva Egli darci una lezione migliore sul disprezzo che dobbiamo noi avere dei beni e delle ricchezze di questo mondo? Poteva farci comprendere meglio l’amore che dobbiamo avere per la povertà e per il disprezzo? Venite, fratelli mie, voi che siete così attaccati alle cose della terra, ascoltate la lezione che vi dà questo divino Salvatore, e se non lo sentite ancora parlare – dice San Bernardo – ascoltate questa stalla, ascoltate la sua culla e le bende che lo fasciano! Cosa ci dice tutto questo? Ciò che Gesù Cristo stesso ci dirà un giorno:  « Guai a voi, ricchi del secolo. » Ah, quanto è difficile a coloro che attaccano i loro cuori ai beni di questo mondo, il salvarsi. Ma, mi direte, perché è così difficile per quelli che sono ricchi di cuore salvarsi? È perché, fratelli miei, i ricchi, se non hanno un cuore distaccato dai loro beni, sono pur pieni di orgoglio, disprezzano i poveri, si aggrappano alla vita presente, sono privi dell’amore di Dio: diciamo meglio, le ricchezze sono lo strumento di tutte le passioni. Ah! guai ai ricchi perché è così difficile per loro salvarsi! Preghiamo dunque, fratelli miei, questo bimbo sdraiato su una manciata di paglia, privo di tutto ciò che è necessario alla vita dell’uomo. Guardiamoci bene, fratelli miei, dal non attaccare i nostri cuori a cose così vili e spregevoli, poiché se avremo la sfortuna di non saperli usare bene, produrranno la perdita della nostra povera anima. Possano i nostri cuori essere poveri in modo da poter partecipare alla nascita di questo Salvatore. Voi vedete bene che Egli non chiama che i poveri, mentre i ricchi non arrivano che molto tempo dopo, per insegnarci che la ricchezza ci porta via da Dio, quasi senza che ce ne accorgiamo. – Possiamo concordare sul fatto che questo stato del Salvatore debba essere molto confortante per i poveri, poiché hanno un Dio come loro padre, loro modello e loro amico. Ma i poveri devono, se vogliono ricevere la ricompensa promessa ai poveri – che è il regno dei cieli – imitare il loro Salvatore, sopportare, sopportare la loro povertà nello spirito di penitenza, senza mormorare, senza invidiare i ricchi, ma, al contrario, compatirli perché sono molto in pericolo per quanto riguarda la loro salvezza; non devono lanciar maledizioni contro di loro, ma seguire l’esempio di Gesù Cristo, che si è ridotto all’estrema miseria, sebbene volontariamente. Egli non si lamenta, ma al contrario, versa lacrime sulle disgrazie dei ricchi; con questo, fratelli miei, ha guarito entrambe le ferite che il peccano ci ha fatto. Ma ancora va oltre, gli resta da guarire la terza ferita che il peccato ci ha fatto, che è la sensualità. Ma la sensualità consiste nell’amore disordinato dei piaceri che gustiamo con i sensi. È da questa fatale passione che nasce l’eccesso nel bere e nel mangiare, l’amore per il proprio benessere, le comodità della vita dolce e l’impurità; in una parola, tutto ciò che la legge di Dio ci ha proibito. Cosa fa il nostro Salvatore per guarirci da questa pericolosa malattia e da questo vizio? Egli è nato, fratelli miei, nella sofferenza, nelle lacrime e nelle mortificazioni: nasce durante la notte, nella stagione più rigorosa dell’anno. Appena nato, giace su un pugno di paglia e in una povera stalla completamente aperta. Ah! uomo sensuale, avido, impudico, entra in questo abisso di miseria e vedrai cosa fa un Dio per guarirti. Credetemi, fratelli miei, è là il vostro Dio, il vostro Salvatore, il vostro tenero Redentore? Sì, direte. Ma, se lo credete, dovete pure imitarlo. Ahimè! Quanto la nostra vita è lontana dalla sua! Ahimè! Vedete, fratelli miei, Egli soffre e voi non volete soffrire nulla! Egli si sacrifica per la vostra salvezza e voi non volete fare nulla per guadagnarla. Ahimè! Come vi comportate nel suo servizio (religioso)? Tutto vi scoraggia, tutto vi dà fastidio; appena si vedono fare le vostre Pasque; le vostre preghiere sono o manchevoli, o mal fatte; appena vi si vede assistere ai santi Uffici, ancora, fratelli miei, come vi comportate? Ah! le lacrime, le sofferenze di questo divin Bambinello, sono per voi terribili minacce. Guai a voi! Ah! Guai a voi che ora ridete, perché verrà un giorno in cui verserete lacrime; e queste lacrime saranno tanto più intense in quanto non si prosciugheranno mai. Il regno dei cieli – ci dice – subisce violenza; esso non è che per coloro che la fanno continuamente a se stessi. Felici – dice questo tenero Salvatore – felici quelli che piangono in questo mondo, perché un giorno saranno consolati. Chiunque prende Gesù Cristo come modello, dalla sua culla alla croce, è beato! Infatti ha di che incoraggiarsi! Ha qualcosa da imitare! Che armi potenti per respingere il demonio! Diciamo meglio: la vita dell’imitazione di Gesù Cristo è una vita da santo. – La storia ce ne fornisce un buon esempio; qui vediamo che una vedova che possedeva pochi beni, ma virtù e zelo per la salvezza dei suoi figli, aveva una figlia di dieci anni di nome Dorothea. Questa bambina era vivace, e incline alla dissipazione; la madre temeva che questa bambina potesse perdersi con i suoi piccoli compagni; la mise in una pensione con una maestra virtuosa per addestrarla alla virtù. Ella fece mirabili progressi nella sua pietà e tenne nel cuore tutti i buoni consigli che le aveva dato la sua maestra; ma soprattutto si proponeva Gesù Cristo come modello in tutte le sue perfezioni. Quando è stata restituita a sua madre, ella è stata l’esempio e la consolazione di tutta la sua famiglia. Non si lamentava mai di nulla, era paziente, gentile, ubbidiente, sempre serena, con uguale umore nel suo lavoro e nelle croci che le venivano incontro, casta, ostile ad ogni vanità, rispettosa di tutti, ben disposta verso tutti, sia nel linguaggio che nell’amor di servizio, sempre unita a Dio. Tale condotta la rese presto oggetto di stima per l’intera parrocchia; ma, come al solito, i falsi saggi che sono ciechi e orgogliosi, ne erano arrabbiati perché, senza saperlo, essi non sono virtuosi e saggi se non perché tutti li stimano tali; essi non possono soffrirne degli altri, per timore che non si faccia più attenzione a loro e che tutta la stima gli sia tolta. Questo è quello che è successo a questa ragazza. Alcuni compagni invidiosi si studiarono di offuscare la sua reputazione, chiamandola ipocrita e falsa devota. Ma Dorothea accettò tutto questo senza lamentarsi; lo subì per amore di Gesù Cristo e non mancò mai di amare coloro che la calunniarono. Ma la sua innocenza era nota e tutti ne avevano ancora più stima. Il curato della parrocchia, ammirando in lei i felici effetti della grazia ed il frutto che questa ragazza portava tra coloro che la frequentavano, le disse un giorno: « Dorothea, ti prego di dirmi in confidenza, come vivi, come ti comporti con i tuoi compagni? » – « Signore – rispose lei – mi sembra che io non faccia che molto poco rispetto a quello che dovrei fare. Mi sono sempre ricordata di un avviso che la mia maestra mi ha dato quando avevo solo dodici anni. Mi ha ripetuto molte volte di propormi Gesù Cristo come modello in tutte le mie azioni e in tutte le mie traversie. Questo è quello che ho cercato di fare. Ecco come lo faccio: quando mi sveglio e mi alzo, rappresento il Bambino Gesù che, al risveglio, si è offerto a Dio suo Padre in Sacrificio; per imitarlo, mi offro in sacrificio a Dio, dedicando la mia giornata a Lui, con tutte le mie fatiche e tutti i miei pensieri. Quando prego, immagino che Gesù preghi suo Padre nel giardino degli Ulivi a faccia in giù, e nel mio cuore, mi unisco a questa disposizione divina. Quando lavoro, penso che Gesù Cristo, così stanco, lavora per la mia salvezza e, lungi dal lamentarmi, unisco con amore e rassegnazione le mie opere alle sue. Quando mi viene comandato qualcosa, mi immagino Gesù Cristo sottomesso, obbediente alla Beata Vergine e a San Giuseppe, e in quel momento unisco la mia obbedienza alla sua. Se mi viene ordinato qualcosa di duro e doloroso, penso immediatamente che Gesù Cristo si sottomise alla morte della croce per salvarci; quindi accetto con tutto il cuore tutto ciò che mi viene comandato, per quanto difficile possa essere. Se uno parla di me, se mi dice durezze e insulti, non rispondo a nulla, soffro pazientemente, ricordando che Gesù Cristo ha sofferto in silenzio e senza lamentarsi delle umiliazioni, delle calunnie, i tormenti e gli obbrobri più crudeli; io penso allora che Gesù fosse innocente e non meritasse ciò che gli si faceva soffrire al posto mio, che sono una peccatrice, e merito più di quanto possa io mai soffrire. Quando prendo i miei pasti, immagino Gesù che prende i suoi con modestia e frugalità per lavorare alla gloria di suo Padre; se mangio qualcosa di disgustoso, penso immediatamente al fiele che Gesù Cristo ha assaggiato sulla croce, e gli faccio il sacrificio della mia sensualità. Quando ho fame o non ho abbastanza da mangiare, non smetto di essere felice, ricordando che Gesù Cristo ha trascorso quaranta giorni e quaranta notti, ed ha sofferto una fame crudele per amore mio e per espiare le intemperanze degli uomini. Quando prendo qualche momento di svago, quando parlo con qualcuno, immagino quanto fosse dolce e gentile Gesù Cristo con tutti. Se ascolto cattivi discorsi o vedo commettere qualche peccato, chiedo immediatamente a Dio perdono, rappresentandomi quanto Gesù Cristo avesse il cuore trafitto dal dolore nel vedere suo Padre offeso. Quando penso agli innumerevoli peccati commessi nel mondo, quanto Dio sia oltraggiato sulla terra, gemo, sospirando; io mi unisco alle disposizioni di Gesù Cristo, che diceva a suo Padre, parlando dell’uomo: « Ah! Padre, il mondo non ti conosce. » Quando vado a confessarmi, immagino che Gesù pianga i miei peccati nel Giardino degli Ulivi e sulla croce. Se frequento la Santa Messa, unisco immediatamente la mia mente e il mio cuore alle sante intenzioni di Gesù, che si sacrifica sull’altare per la gloria di suo Padre, per l’espiazione dei peccati degli uomini e per la salvezza di tutti. Quando sento cantare qualche cantico o ascolto le lodi di Dio, mi rallegro in Dio, mi rappresento questo glorioso cantico e la felice serata che Gesù Cristo trascorse con i suoi Apostoli dopo l’istituzione dell’adorabile Sacramento. Quando vado a riposarmi, immagino Gesù Cristo che vada a riposarsi unicamente per prendere nuova forza per la gloria di suo Padre, o immagino pure che il mio letto sia molto diverso dalla croce sulla quale Gesù Cristo si coricò come un agnello, offrendo a Dio il suo spirito e la sua vita; poi mi addormento dicendo queste parole di Gesù Cristo sulla croce: « Padre, metto il mio spirito nelle vostre mani. » Il curato, non potendo trattenersi dall’ammirare tanta luce in una giovane ragazza del villaggio, le disse: « Oh, Dorothea, quanto siete beata, e quante consolazioni avete nel vostro stato! » – « È vero che ho delle consolazioni al servizio di Dio; ma devo confessare che ho molte battaglie da sostenere: devo fare grandi violenze, sopportare le beffe di coloro che mi deridono e superare le mie passioni, che sono molto vivaci. Se il buon Dio mi fa delle grazie, permette anche che abbia molte tentazioni. A volte sono nel dolore; a volte, il disgusto per la preghiera mi travolge. « Che cosa fai – le dice il curato – per superare la tua ripugnanza e le tue tentazioni? « Quando sono – gli dice ella – nelle torture dello spirito, mi rappresento il Salvatore nel Giardino degli Ulivi, abbattuto, torturato e afflitto fino alla morte; oppure me lo rappresento abbandonato e senza consolazione sulla croce, e, unendomi a Lui, dico subito queste parole che Egli stesso pronunciò nel giardino degli ulivi: « Mio Dio, sia fatta la vostra volontà ». Per quanto riguarda le mie tentazioni, quando provo una certa attrazione per entrare in certe compagnie, nelle veglie, nelle danze e nei divertimenti pericolosi, o quando ho delle tentazioni violente per acconsentire a qualche peccato, immagino a me stesso Gesù-Cristo che mi dice queste parole: Eh! come, figlia mia, mi vuoi lasciare, per darti al mondo e ai suoi piaceri? Vuoi riprendere il tuo cuore per donarlo alla vanità e al diavolo? Non ci sono già abbastanza persone che mi offendono? Vuoi metterti dalla loro parte e abbandonare il mio servizio? Immediatamente, gli rispondo dal profondo del mio cuore: « No, mio ​​Dio, non ti abbandonerò mai, ti sarò fedele fino alla morte! Dove andrò, Signore lasciandoti? Tu solo hai parole di vita eterna! » Queste parole mi riempiono sul momento di forza e di coraggio. « Nelle conversazioni che hai con i tuoi compagni – le dice il curato – di cosa parlate? » – « Io parlo loro delle stesse cose di cui mi sono presa la libertà di parlarvi, dico loro di proporre Gesù Cristo come modello di tutte le loro azioni, da ricordare nelle loro preghiere, nei loro pasti, nel loro lavoro, nelle conversazioni, nei dolori della vita, di agire nel modo in cui Gesù Cristo si sarebbe comportato in queste occasioni, e sempre unendosi alle sue intenzioni divine; dico loro che sto usando questa santa pratica e che la trovo buona, che non c’è niente di più grande e nobile del voler seguire e imitare Gesù Cristo, e che non c’è niente di più grande e di più nobile che servire un Maestro così buono. » – Oh! beata l’anima, fratelli miei, che ha preso Gesù Cristo come sua guida, suo modello prediletto. Quante grazie, quante consolazioni che non si provano mai a servizio del mondo! Ecco, fratelli miei, le consolazioni che avreste se voleste darvi la pena di educare bene i vostri figli ed ispirar loro, non la vanità e l’amore dei piaceri del mondo, ma di prendere Gesù Cristo come modello in tutto ciò che fanno. Oh! che lumi felici! Oh! I genitori amati da Dio!

II. – Sì, fratelli miei, non è solo per riscattarci che Gesù Cristo è venuto, ma anche per servirci da esempio, ci dice: « Sono venuto per cercare e salvare ciò che era perduto; » E in un altro posto dice: « Io vi ho dato l’esempio, in modo che facciate quello che vedete che Io  faccio. » Quando San Giovanni battezzò Gesù Cristo nel Giordano, sentì l’eterno Padre dire: « Ecco, questi è il Figlio mio diletto, ascoltatelo. » Egli vuole che ascoltiamo le sue parole e che imitiamo le sue virtù. Egli non le ha praticati se non per mostrarci cosa dovessimo fare noi. Poiché i Cristiani sono figli di Dio, devono seguire le orme del loro Maestro, che è Gesù Cristo stesso. Sant’Agostino ci dice che un Cristiano che non vuole imitare Gesù Cristo non merita di essere chiamato Cristiano. Ci dice in un altro luogo: « … l’uomo è creato per imitare Gesù Cristo, che si è fatto uomo per rendersi visibile e perché potessimo imitarlo. Nel giorno del Giudizio, noi saremo esaminati nel vedere se la nostra vita sia stata conforme a quella di Gesù Cristo dalla nascita alla morte. Tutti i Santi che entrarono in Paradiso vi entrarono solo perché hanno imitato Gesù Cristo. Un buon Cristiano deve imitare la sua carità, che è una virtù che ci porta ad amare Dio con tutto il nostro cuore ed il prossimo come noi stessi. Gesù Cristo amò suo Padre dal momento del concepimento fino alla morte, dicendo: Io faccio sempre ciò che piace al Padre mio. Egli non si è accontentato di dirlo, ma ha dato la propria vita per riparare gli oltraggi che il peccato gli aveva fatto. Ama il suo prossimo, non solo come se stesso, ma più di se stesso, poiché ha dato il suo sangue e la sua vita per trarci fuori dall’inferno. Dobbiamo, come Gesù Cristo, amare il buon Dio con tutto il nostro cuore; preferirlo a tutto, non amare nulla se non in relazione a Lui. Dobbiamo amare il nostro prossimo come noi stessi, vale a dire, con il fargli tutto ciò che noi vorremmo fosse fatto a noi stessi, facendo tutto ciò che dipende da noi per aiutarlo a salvare la sua povera anima. – In secondo luogo, dobbiamo imitare la sua povertà e il suo distacco dalle cose della vita. Vedete, fratelli miei, come Egli è nato povero, ha vissuto povero ed è morto povero, poiché prima di morire ha permesso che gli fossero strappare tutti i suoi vestiti. Durante la sua vita non ha mai avuto nulla di suo in particolare. Ah! un bell’esempio di disprezzo per le cose della terra! – In terzo luogo, noi dobbiamo imitare la sua dolcezza. Egli ci dice: « Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore. San Bernardo ci dice che Egli possiede la dolcezza nel suo nome che è quello di Gesù. Quando gli Apostoli volevano mandare il fuoco dal cielo in una città della Samaria, che non aveva voluto ricevere il Salvatore: « volete – gli dissero i suoi discepoli – che diciamo al fuoco del cielo di scendere su questa città? » Nostro Signore rispose loro: « Voi non sapete cosa state chiedendo; il Figlio dell’uomo non è venuto sulla terra per perdere anime, ma per salvarle. » Imitiamo la sua dolcezza verso Dio, ricevendo dolcemente tutto ciò che viene da Lui, i pene, dolori ed altri mali. Cerchiamo di essere buoni verso il nostro prossimo, non lasciamoci andare alla collera contro di lui; ma trattiamolo con gentilezza, con carità. Cerchiamo di essere così gentili anche con noi stessi; non agiamo mai per capriccio o per rabbia; se cadiamo in qualche errore, non dobbiamo prendercela con noi stessi; ma umiliarci profondamente davanti a Dio e, senza molto tormentarci, continuare le nostre pratiche religiose. Beati – dice Gesù Cristo – sono coloro che hanno un cuore dolce perché possederanno la terra, cioè il cuore degli uomini. – In quarto luogo, dobbiamo imitare la sua umiltà. Egli ci dice: « Imparate da me che sono umile di cuore. » La sua umiltà è stata così grande che, sebbene fosse il Re di tutti, volle essere l’ultimo di tutti gli uomini! Guardate quanto pratichi l’umiltà, nascendo in una stalla, abbandonato da tutti. Egli ha voluto essere circonciso, cioè, farsi considerare un peccatore, Lui che era la santità stessa, incapace di giammai peccare; Egli ha sofferto quando lo si chiamava stregone, indemoniato, seduttore; ha sempre nascosto ciò che poteva farlo stimare agli occhi degli uomini. Ha voluto lavare i piedi ai suoi Apostoli e persino al traditore Giuda, sebbene sapesse bene che doveva tradirlo; infine, Egli ha voluto essere venduto come un vile schiavo, trascinato con la corda al collo per le strade di Gerusalemme, come se fosse stato il più criminale del mondo. Cercate, fratelli miei, di imitare la sua grande umiltà nascondendo il bene che fate, soffrendo pazientemente gli insulti, il disprezzo e tutte le persecuzioni che possono essere portate contro di voi, sull’esempio di Gesù Cristo. – Noi dobbiamo ancora imitare la sua pazienza. Egli è stato paziente rimanendo rinchiuso nove mesi nel seno di sua madre, Egli che il cielo e la terra non possono contenere. Qual pazienza nel conversare con gli uomini, molti dei quali erano induriti e carichi di crimini. Quale pazienza durante tutta la sua passione! Lo si prende, lo si lega, lo ricoprono di piaghe, lo flagellano, lo attaccano alla croce, lo si fa morire, senza che abbia detto una sola parola per lamentarsi. Imitiamo, fratelli miei, questa pazienza quando siamo disprezzati e perseguitati ingiustamente. Imitiamo ancora la sua preghiera. Egli ha pregato versando lacrime di sangue. Ah! Fratelli miei, che felicità per noi la nascita di questo divin Salvatore! Noi dobbiamo solo seguire le sue orme; dobbiamo solo fare quello che ha fatto Egli stesso. Che gloria per dei Cristiani avere in Gesù Cristo un modello di tutte le virtù che dobbiamo praticare, per compiacerlo e salvare le nostre anime! Padri e madri addestrate i vostri figli su questo bellissimo modello, proponete loro spesso le virtù di Gesù Cristo come esempio. Felice notizia, che dal cielo ci porta l’Angelo nella persona dei pastori, poiché con essa abbiamo tutto: il cielo, la salvezza della nostra anima e il nostro Dio. È ciò  che io vi auguro  …

DIO IN NOI (5)

DIO IN NOI (5)

[Versione p. f. Zingale S. J. – L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923 Can. Francesco Duvina]

CAPO I.

Col Padre.

« Ritenete per certo che voi non siete l’uomo che Dio vi vuole e che voi stesso pensate, quando in certi momenti di luce il vostro ideale viene a rispecchiarsi sull’anima vostra. Come avete impiegato la vostra vita, fino ad ora? Che cosa avete fatto dei vostri titoli di adozione divina? Siete veramente figlio di Dio nelle opere e nel modo di pensare? No. Ebbene, piangete sulla vostra vita, profanata, sterile e vana e alla prima lacrima ritroverete Dio ». Così parla il P. Gratry all’uomo che vive in peccato. Ma le anime che sono abitualmente in grazia, pensano talvolta a quali risorse procura loro l’adozione divina per mezzo del Padre che sta nei cieli, adozione che li rende partecipi della stessa vita del Padre, presente in esse, ben inteso, in quella copia che è permessa a una creatura, lasciando libera entrata a Dio? L’adozione umana è d’ordine giuridico e legale. Essa permette di aver comune il nome, il blasone e l’eredità di chi adotta, ma non può infondere il vincolo naturale del sangue. L’adozione divina ci fa vivere la stessa vita di Dio… Le parole di San Pietro sono esplicite: « Ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ, partecipidella natura divina » (II Petr. I, 4la liturgia all’Offertorio rammenta la stessa verità; « divinitatis consortes, partecipi della divinità »).« Che la vita superiore, promessa e data alleanime nostre da Gesù Cristo, scrive un autore(Exortation à un jeune homme chrétien dell’Abate CHABOT, Beauchesne. 1909. p. 212), sia la partecipazione alla stessa vita di Dio, non possiamo metterlo in dubbio: l’origine ci viene indicata assai chiaramente. Proviene dal seno del Padre, come il Verbo medesimo; ci fu preparata ed elaborala dal Figliuolo che dovette inoltre meritarcela col prezzo del suo Sacrificio; lo Spirito Santo distribuisce la vita, da questa sorgente, come vuole; e la mette in attività nelle anime con impulsi misteriosi. In questo modo tutti coloro che la ricevono, diventano figli di Dio, nati, non dal sangue e dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio. Noi siamo veramente partecipi della vita di Dio, un seme divino è in noi, portiamo Dio nel nostro corpo, lo spirito di Dio ci anima e ci conduce, il divino ci trasforma come il fuoco fa del ferro, e ripieni di divinità noi siamo templi del Dio vivente ». – Non si potrebbe riassumere meglio la storia della nostra esistenza soprannaturale, né la natura dei rapporti che possiamo avere — e che

dovremmo avere — con la divina Trinità, con Dio Padre in modo particolare. Una parola spiega ogni cosa. Non in un senso metaforico, ma reale, noi siamo divenuti filii Dei, figli di Dio. Se quindi abbiamo capito in qualche modo ciò che riguarda il dogma della grazia santificante, ne risulta una conseguenza importante: l’amore filiale verso il Padre. – Quanto è grande la differenza fra un padrone sovrano che si contenta dei rapporti di Creatore con la sua «creatura», ed il Padre amantissimo che noi abbiamo; fra un Dio lontano che profitta della sua lontananza per farci comprendere la distanza infinita che ci separa da Lui, e il Dio vicinissimo, quale è il nostro, che si è talmente avvicinato a noi, da stabilire la sua dimora dentro di noi! L’uomo era schiavo. Adesso fa parte della famiglia. Dio, in realtà, potrà essere chiamato da lui, non Padre, ma mioPadre. È divenuto fratello di Gesù Cristo, e può dire insieme con Lui: Padre nostro. È dello stesso lignaggio di Gesù, e Gesù tiene il suo da quello del Padre. Gesù è il Figlio, ma anch’egli può, con tutta verità, dirsi figlio: figlio d’adozione, è vero, giacché a Gesù Cristo l’essenza divina è propria per natura, mentre a lui solo per grazia; ma figlio, nondimeno, a un titolo autentico e scelto fra i mille, « avendoci Dio generati liberamente per mezzo del suo Verbo di verità » (Giov. I, 18 ). Ugualmente, perché siamo i figli di Dio, « ci manda lo Spirito del suo Figliuolo che provochi, nei nostri cuori, il grido: “Padre, Padre!,, » (Rom. VIII, 15); e perché siamo figli, per legittima conseguenza, abbiamo diritto all’eredità. Il primogenito non vuole per sé tutta l’eredità. Anzi Egli è venuto sulla terra solo per mettercene in possesso, rendendoci partecipi del suo gaudio. Non disse forse, prima di lasciare gli uomini, che ritornava al Padre, per prepararci un posto? Un giorno tornerà per condurci con sé, poiché vuole che noi siamo là dove Egli si trova. Non sarà allora più l’abbraccio oscuro nel cielo ristretto dell’anima nostra in questo interno divino in cui si degna abitare; sarà la intimità a viso aperto, nella luce piena, e la gioia illimitata d’un cielo senza confini: « Intra in gaudium Domini tui» (Matth. XXV, 21). Che cosa è mai la morte — domandava a se stessa una Santa — se non un salto sulle ginocchia del Padre? Il nostro stato è ora provvisorio e tutti coloro che sono assai vigili, ne soffrono: « Expectatio creaturæ revelationem filiorum Dei expectat… quia et ipsa creatura liberatur a servitute corruptionis in libertatem gloriæ filiorum Dei. Scimus enim quod omnis creatura ingemiscit et parturit usque adhuc» (ROM., VIII, 19-22: « Le creature attendono la manifestazione dei figli di Dio… nella speranza che saranno liberate dalla servitù della corruzione, per partecipare alla libertà e alla gloria dei figli di Dio. Esse gemono fino a quest’ora nella fatica del parto ») . « Ancora non si vede ciò che noi siamo» (Giov. III, 2). Un giorno il provvisorio finirà, e noi vedremo spiegarsi, nel possesso dell’eredità, « la libertà gloriosa dei figli di Dio ». Verrà l’ora in cui ciò che in noi è soggetto a perire, sarà assorto dalla vita: « Ut absorbeatur quod mortale est a vita». Dio ha preparato ogni cosa a questo modo, per la nostra glorificazione. Ce ne ha dato una caparra nello Spirito, principio della nostra vita superiore: « Qui autem efficit nos in hoc ipsum, Deus qui dedit nobis pignus Spiritus» (II Cor., V, 4, 5). Sarà allora « la fusione completa nell’unità ». Il Cristo è venuto sulla terra a questo solo scopo: infondere in noi, a partire dalla vita presente, la vita del Padre, affinché insieme, eternamente, in un’unità radiosa, la vita del Padre dimori e si dilati in noi. Questo era l’oggetto delle preghiere che il Salvatore rivolgeva al Divin Padre: « Padre mio, fate che come Voi siete in me e Io sono in Voi, così essi sieno una cosa sola in noi. Io in Voi, Voi in me, affinché essi sieno perfetti nell’unità » (Giov. XVII, 21-23).Può esistere un altro fatto più meraviglioso, più degno di tutta la nostra stima e il nostro affetto, un’altra storia più bella della vita di Dio nelle anime, vita nascosta sulla terra, ma luminosa nei cieli? Può darsi una geografia — diciamo cosi —più importante di quella dei mille fiumi di grazia che, circolando senza strepito nel mondo, scaturiscono da sorgenti abbondanti, spesso invisibili, e malgrado ostacoli di ogni natura, sabbie e detriti che si ammucchiano, lordure che contaminano, seguono il loro corso verso uno ceano senza limiti?Può mai concepirsi un dramma più strano di questo: un’anima che mette alla porta Dio che vuole entrare per vivere in lei e con lei: ovvero un’anima che avendolo perduto, cerca con sollecitudine, e lungo la strada incontra quel Dio che anch’Egli si era messo a cercarla da un pezzo, aspettando un minuto di pentimento, ovvero un palpito di amore, per rientrare nella città morta?Purtroppo, quanto pochi sono i Cristiani che pensano a queste verità! Quanto limitato è il numero di coloro i quali hanno questa devozione filiale al Padre di famiglia, devozione che la nostra qualità di figli adottivi o ci permette o c’impone e che sarebbe facile ottenere, se avessimo una idea profonda della preghiera insegnataci da Nostro Signore, il PaterHo accennato al Pater, e con ragione. Nostro Signore, insegnando agli Apostoli la formola del Pater, non disse: Ecco una fra le molte preghiere che potrete fare, un esempio, un modello di preghiera; ma disse: «Quando pregherete,voi pregherete così » (Matth. VI, 9). Così, e non altrimenti. Non vi sono diverse mostre, diversi saggi di preghiera cristiana. La preghiera cristianaè la preghiera del Cristo, il Pater, composto da Lui, a nostro uso. « Voi pregheretecosì ». Il modo di esprimersi è esplicito e imperativo. In conseguenza, il Pater noster è non solo la prima, ma l’unica preghiera. Non intendiamo dire con ciò che il Pater sia preghiera invariabile nella forma, che debba interdire ogni slancio spontaneo, qualsiasi elevazione personale e vivente di ogni anima inparticolare. Ma importa la preghiera, di cui tutte le altre, perché possano dirsi cristiane, non devono essere che la riproduzione e lo sviluppo: preghiera che non ammetterà mai alcun mutamento nella sostanza, né alcuna aggiunta capitale; preghiera tipo di tutte le preghiere, preghiera fondamentale le cui orme tutte le altre devono ricalcare e sulla quale devono modellarsi. Preghiera che deve racchiudere le altre, e riflettersi in tutte senza alterarsi. Quando pregherete, direte così: « Padre nostro… ». Il Pater è l’arma protettrice delle nostre orazioni particolari, l’anima di ogni devozione personale, della nostra vita interiore, come anche della pietà liturgica e della vita della Chiesa, il tema ispiratore e vivificante di ogni nostro passo nella vita cristiana.« Padre nostro… ». In queste parole commoventi, molti non scorgono che un’introduzione insinuante, per attirarci la benevolenza di Colui che regna nei cieli. Queste parole significano qualcosa di più. Esprimono una verità fondamentale, il centro intorno al quale gravita ogni vita religiosa e dal quale si irradia tutta la vita cristiana. Una volta eravamo figli d’ira, filii iræ; il Pater ci ricorda che l’opera di Gesù Cristo ci ha resi « figli di Dio ». Per l’abitudine contratta, questa espressione non ci colpisce. Essere « figli di Dio »; non sembra a noi un fatto straordinario, crediamo invece di averne quasi il diritto. Poter chiamare Dio, Padre, quando si è un nulla; Padre, quando si personifica il peccato: non lo si dovrebbe poter fare tanto facilmente. Sempre la stessa ignoranza: noi non ce ne meravigliamo affatto, mentre S. Paolo ne era ripieno di stupore: Io posso dire a Dio: Abba, Pater. Io, a Dio, « Padre » ; dirgli « Padre »! Oh! giammai, per me stesso, ciò sarebbe possibile! Ma io possiedo lo Spirito Santo, lo Spirito del Padre, ed è Egli il primo a riconoscere in Dio la Paternità che io acclamo. Persuadersi che il Padre è un essere paterno, più ancora, un essere veramente materno, darebbe grande coraggio nella vita! Nostro Signore si studiava di farcelo capire. « Una madre ama molto; ma il Padre che è nei cieli, ama cento volte di più. Osservate come sono vestiti i gigli del campo. Lo splendore di Salomone non uguaglia lo splendore dei gigli. Riconoscete, nella loro bellezza, il dono del Padre. Guardate gli uccelli dell’aria. Colui che li ha creati lilascia forse senza nutrimento e senza ricovero? Riconoscete, in tali soccorsi, il dono del Padre. E se Dio spiega tanta generosità per i gigli e per gli uccelli, quanta non ne spiegherà per noi! ». – « Padre nostro », due parole che proclamano! il titolo più bello di Dio, quello che conviene! collocare prima di ogni altro, come un prefisso esplicativo, un richiamo evocatore, un correttivo prezioso. Giusto, sì, ma Padre. Terribile, sì, quando non può farne a meno, ma anche allora, e sempre, Padre. – E qual tristezza non dovrebbe produrre il vedere che molti Cristiani, molti buoni Cristiani, hanno pochissimo spirito filiale e mancano di confidenza verso Dio, quasi in tutte le occasioni! Un dolore sopraggiunge. Se ne getta la colpa contro Dio e manca poco se non lo si tratta da barbaro. Barbaro, Dio? Abbiamo mai posto mente alle due prime parole del Pater? Si commette una colpa, quindi tante altre. Segue lo scoraggiamento. Si era fatto un proposito fermo; e si cade di nuovo! Dio non perdonerà più. Dio capace di conservare rancore? Ciò può mai concepirsi in un padre terreno? No. Ebbene, come poterlo concepire in Colui che ha plasmato il cuore dei padri della terra, nel Padre del cielo? Oh! la grande insipienza! Se abbiamo avuto la disgrazia di peccare, non aggiungiamo alle nostre colpe una nuova colpa, mille volte più grave, quella che ci farebbe dubitare del perdono del Padre. Ciò indicherebbe che noi abbiamo perduto ogni sentimento di figli. Il prodigo ammise forse un sol momento l’idea che suo padre potesse rigettarlo? No, No! In piedi, e subito alla volta del Padre, Surgam… ad Patrem! – Il vero spirito filiale, in primo luogo, importa il desiderio della grandezza e della gloria del Padre, della grandezza di Colui al quale apparteniamo in qualità di figliuoli, e questo sotto la triplice forma che ci viene indicata dai seguenti ottativi che seguono le parole: Padre Nostro. Sia santificato il vostro nome! Quale grave peccato commettono i bestemmiatori! — vi sono le bestemmie degli individui e quelle dei governi — e chi non bramerebbe compensare queste gravi ingiurie, con altrettanti alti di riparazione e di amore! Venga il vostro regno! Quando Dio sarà visto altrimenti che con un atto puramente astratto, oh! allora come si vorrà che la Paternità divina si estenda a tutti gli uomini, a ogni famiglia, su tutte le nazioni! Sia fatta la vostra volontà! Quanto dilata il cuore e lo consola questo pensiero: Dio è « NostroPadre ». Gli avvenimenti ci sconcertano.

— Che cosa fa dunque Dio? — La sua volontà.

— Ma è una volontà di tiranno! — No, è una volontà di Padre.

— Ma dai fatti non risulta. — Se io guardassi attentamente, vedrei meglio, capirei che fra lo svolgersi degli avvenimenti, che sono opera di giustizia ovvero di misericordia, una cosa è certa: ed è che il Padre vuole che io mi faccia santo: « Hæc est voluntas Dei, sanctificatio vestra », che Egli vede cose che io non vedo; e che della vera devozione al Padre, nostro Signore stesso mi diede un giorno un esempio ideale nel giardino degli olivi, durante la sua agonia, quando mormorò il suo fiat voluntas tua. Oh, Padre, io voglio ciò che voi volete, perché lo volete, come lo volete e nella misura in cui lo volete! – « Carta » dei diritti di Dio, il Pater lo è anche dei diritti del Cristiano. Noi siamo figli: da questa premessa dipendono le conseguenze. Siamo figli, dunque possiamo parlare al Padre come figli, ed esigere — Egli ce ne dà il potere — tutto quello al quale i figli hanno diritto. – Fin qui, nel Pater, l’uomo esprimeva desideri; ripeteva gl’imperativi divini. Il Padre diceva: «Che il mio nome sia santificato», e il figlio ripeteva: « Sì, o Padre, sia santificato il vostro nome », e così di seguito. Ora l’uomo enumera alcuni imperativi che sono a suo vantaggio. Fa prevalere i suoi diritti, in qualità di figlio. Essendo figlio, ha diritto di essere nutrito dal Padre: « Padre, dateci oggi il nostro pane quotidiano! ». Ha diritto all’indulgenza del Padre: « Padre, perdonate le nostre colpe! ». Ha diritto alla protezione del Padre: « Padre, liberateci dal male! ».Questo importa pregare: « Vivere in casa sua », non solo, cioè, nell’intimità dell’anima propria, ma nel seno della famiglia divina che abita in noi; vivere nella gioia, nell’abbandono, nella certezza di essere compresi, esauditi, prevenuti anzi, nei nostri desideri, e circondati di tenerezza.Non ci si taccia di « sentimento ». È pura fede, semplice conseguenza del dogma. Fra piccoli ammalati, a Villepinte, si era stabilita un’associazione, consacrata alla Madonna della «riconoscenza». Una fanciulla aveva adottato la formola seguente: « Madre mia, io so che voi siete molto buona, che mi amate e che siete potente. Ciò mi basta ». Nessuno c’impedisce di parlare con Dio allo stesso modo: «Padre, so che Voi siete molto buono, che mi amate e che siete onnipotente. Questo mi basta ». Ecco in che cosa deve consistere il vero spirito filiale. Possiamo dire di essere sempre animati da questo spirito? Se no, che cosa attendiamo per animarcene?

CAPO II.

Col Figlio.

Il Verbo discese sulla terra, per apportarci la Vita, la Vita soprabbondante, la sua Vita propria, la Vita di Dio che Adamo aveva perduto. – La sua venuta non ebbe altro fine. Unicamente questo. Oh magnificenza della Vita divina in noi! Grandezza dell’anima nostra « naturalizzata divina! ».

« Al principio era il Verbo, seconda Persona della Trinità adorabile, e il Verbo era in Dio, e il Verbo era Dio» (Giov. I, 4). Nel Verbo era 1° Vita, quella Vita di cui Dio aveva voluto rendere partecipe l’uomo, in origine, e che ora vuole, con un prodigio di amore, restituirgli, malgrado il peccato. – Il Verbo s’incarna. La Vita lontana diventa prossima. Troppo elevata per poterla ricevere, racchiude la sua pienezza in una umanità simile alla nostra, e forma con essa la Persona del Cristo. La Vita del Verbo diviene la Vita dell’Uomo Dio, la Vita si trasmetterà negli altri uomini, chiamati tutti a divenire « simili a Lui » (Rom. VIII, 29), vero Figlio del Padre. Ed eccoci per la grazia, divenuti fratelli di Gesù Cristo, « primogenito di molli fratelli » (Ibid.). L’idea — che noi siamo fratelli di Gesù, che Egli è il Primogenito, il grande fratello — colpisce molto alcune anime. Coloro che hanno seguito o letto semplicemente un certo triduo del P. Longhaye, sul tema che ci occupa, hanno potuto constatare quale ricchezza trovasi racchiusa in questa considerazione, per chi voglia alquanto approfondirla. – Alcuni sentono quasi ripugnanza a considerare Nostro Signore sotto quest’aspetto. Sembra loro che così non vi sarebbe più bastante differenza tra essi e Lui. Si rappresentano abitualmente Dio, il terribile Jave, circondato di fulmini e tuoni, il quale non lascia avvicinare alcuno che non siasi tolto i calzari e non abbia sprofondato la testa nella polvere. La giustizia di Dio, la grandezza di Dio è l’unico puntello su cui poggia il loro ascetismo. L’abitudine di meditare la loro debolezza e le loro cadute, la tendenza naturale della loro anima, un ricorso più costante all’Antico Testamento, un modo di pensare e di agire giansenistico, ovvero il ricordo di fatti terribili intesi, una volta, nelle prediche degli esercizi o letti in certi libri; tutto ciò li inclina e li conferma in questa idea. Altre anime, non meno rispettose, ma colpite dai tentativi che fa Dio per nascondere la sua onnipotenza e avvicinarsi a noi, preferiscono considerare in Lui l’amico, pur non avendo difficoltà di riguardarlo come giudice. – Costoro, poiché non si dà intimità senza presenza e senza una certa uguaglianza, e d’altra parte questa uguaglianza si trova in loro, fanno dell’amicizia l’idea principale della loro vita, l’idea dominatrice. Ciò si scorge nel libretto dell’Imitazione di Cristo — almeno nei due ultimi libri. — Ce ne dà un saggio il bel capitolo XIII del libro IV: « Quis mihi det, Domine, ut inveniam te solum et aperiam tibi totum cor meum… Tu in me et ego in te, et sic nos in unum pariter manere concede. Chi mi concederà, Signore, di trovare Voi solo, e di aprirvi completamente il mio cuore… Voi in me e io in Voi, e così potere rimanere uniti per sempre».Quasi lo stesso aspetto, benché sotto un riguardo un po’ speciale, presenta il dogma della Comunione dei SantiLo studio di Gesù, Fratello maggiore, c’insegna a considerare, intorno a noi, i nostri fratelli, che sono suoi veri fratelli.

— Questi non sono innestati sul Cristo e non ne conoscono la vita? In tal caso, aumenta il desiderio di dir loro ciò che bisogna fare perché abbiano la Vita. « Non de vestra tantum sante, sed de universo mundo ». Alla vista di tanti cadaveri, la fiamma dello zelo si accende, perché in loro vece dovrebbero aversi altrettanti viventi: « Nonne vivent ossa ista? ». Il mondo ha l’aspetto della pianura che vide Ezechiele in visione… Quante ossa disseccate, quante anime in cui la vita del Cristo non circola affatto! – A che valse dunque la venuta in terra del Fratello maggiore e la sua morte sulla Croce, se l’universo, dopo molti secoli, resta ancora popolato di tanti infedeli, e, letteralmente, si è sotto l’impressione della responsabilità della salvezza del mondo? Sembra che si cammini in un deserto, in un immenso deserto e che dalle sabbie aride venga fuori un lamento fioco. « Di chi è questa voce? », domanda il viaggiatore alla sua guida araba che lo conduce attraverso il Sahara. « È il deserto che piange, si lamenta perché vorrebbe divenire una prateria ». Non so quale spinta irresistibile vi inciti a partire più lontano che si potrà, per narrare a tutti la storia della Samaritana, dell’acqua misteriosa che zampilla fino alla vita eterna, dell’acqua viva e vivificante destinata a estinguere ogni sete; a partire con quest’acqua divina, portandone quanto più se ne potrà, per abbeverarne il maggior numero d’anime che vi riesca possibile, tutte le anime. – Un giovine ufficiale aviatore, resistendo a due nemici, fa una caduta terribile col suo apparecchio: resta ventisei ore fra le linee. Ma il desiderio di darsi a Dio si fa strada nell’animo suo. Viene raccolto con una frattura alla colonna vertebrale: è il primo venerdì del mese. Il suo proposito è ormai irrevocabile. Egli così scrive: « Resto sempre immobile sulla mia povera schiena: la paralisi tenace diminuisce poco a poco. Guarirò completamente, bisogna che sia così, Dio lo vuole, giacché mi ha messo nell’anima un’ambizione immensa e delle aspirazioni gigantesche » (Abbiamo raccontato la caduta e la protezione meravigliosa dell’aviatore, nel Messager du Coeur de Jesus, novembre 1917, e in Immolations Fécondes, Blond et Gay, p. 3-11). Può darsi che la vista delle anime lontane alle quali il Vangelo non è stato ancora predicato, sia meno impressionante di quella delle anime a noi vicine, le quali un tempo possedevano la vita del grande Fratello, ma ora l’hanno perduta, dopo d’averla sciupata in compromessi rincrescevoli e sono così divenute anche esse dei cadaveri, in mezzo ad un mondo creduto vivente. – Un uomo che vediamo passare… è vivo?… o morto?… Che cosa potrei fare a suo bene? Farò come Caino con Abele? Non ho contribuito per nulla alla sua rovina? E se posso rispondere di no, il mio compito è finito? Non avrebbe forse bisogno di me per rivivere, e avrei il coraggio di far mia questa parola glaciale: «Non mi curo della sorte di mio fratello?». – Sono pochissimi coloro che a un titolo qualunque non abbiano cura d’anime. Ma quanti se ne preoccupano? Tante persone di cui mi valgo, che mi circondano, che dipendono da me, che abitano con me, aiutandomi o servendomi, hanno la vita? Quale esame di coscienza più grave di questo: « Voi affidate, Signore Gesù, una missione tremenda e divina a chiunque si occupi dell’anima di un fanciullo: con l’esempio e con la parola, con discrezione e rispetto profondo, dovuti a un’intelligenza e a una volontà libera, egli deve produrre Voi in quest’anima. Ogni educatore è un profeta che annunzia e prepara il Natale nell’anima del fanciullo. Per quei giovani dei quali oggi mi ricordo dinanzi a Voi, seppi trovare le parole, i gesti, i silenzi che annunziano, preparano e compiono la vostra nascita? Signore Gesù, vi prego per loro, perché Voi fissiate pienamente il vostro sguardo su di essi. Fatene dei veri Cristiani » (Bullelin des Professeurs catholiques de l’Université, Pierre Pacary; Natale 1921).A questo modo, la solidarietà misteriosa, mareale, che unisce l’anima nostra a Gesù Cristo,alla Vita, conduce spontaneamente a considerarela solidarietà misteriosa, ma ugualmentereale, che unisce, fra loro, tutte le anime cristiane. « Ut sint… unum » (Ego in eis, et tu in me, ut sint consummati in unum. L’Unità è perfetta tra Dio. Gesù Cristo e noi; noi siamo« perfetti nell’unità della vita». Giov. XVII, 23). Bisogna che di tutte queste vite se ne formi una sola. Essendo tutte « innestate » sul Cristo, sono sottoposte alla legge dei vasi comunicanti, a cui abbiamo accennato. Se in un’anima la vita diminuisce o termina, l’insieme resta privato di una porzione più o meno grande di Vita. Se invece in un’anima la vita aumenta, e ciò avviene nella misura in cui le si lascia libero il posto, l’insieme ne risente un beneficio. Ut sint unum. Si legge in un sermone di Sant’Agostino, che la Chiesa inserisce nel breviario il giorno della Dedicazione: Tutti i Cristiani compongono il corpo mistico del Cristo; Gesù, la pietra angolare, noi le altre pietre viventi dell’edificio. Gesù, e noi, anime in grazia, formiamo un solo blocco, un solo Uno, una medesima cattedrale, un unico cuore, un solo amore, un tutto, il solo tutto, l’unica cosa che conti. Alle anime è dato di vivere insieme econ Dio. I palpiti di un cuore si dirigono a un altro; la forza ela virtù di un cuore passano in un altro cuore; un’anima è santificata perché un’altra si santifica. Ogni membro agisce per la forza di tutto il corpo. – « Quel movimento della grazia che mi salva, poté essere determinato da quell’alto di amore compiuto stamattina, ovvero cento anni fa da un uomo oscuro che così riceve il suo guiderdone. Eccovi una povera fanciulla che prega in una chiesa diroccata. Non sa nulla, eccetto che Dio esaudisce immancabilmente, avendo promesso di concedere quello che gli si domanda con confidenza… Vi accade di sentire, in una notte, un immenso strepito di fanteria di cavalleria, di carri in moto. Quello strepito rappresenta il movimento delle labbra di quell’innocente fanciulla, alla quale Dio è certamente sul punto di obbedire ». – Quale grande stimolo, per santificarci, è il pensiero che il minimo atto di virtù, non solo nell’anima mia, ma anche in tutte le anime che sono in grazia, e alle quali io sono unito nel Cristo, fa scorrere un po’ più di vita divina. Altri sfruttano diversamente il gran concetto del Corpo mistico. Il Verbo venne sulla terra e prese un corpo, per farsi Mediatore. Come compagni dell’opera redentrice vuole tutti coloro che accettano di partecipare al suo compito. Vuole avere bisogno di noi, non perché da solo non possa compiere tutto, ma perché l’amore lo spinge a chiedere con sollecitudine il nostro concorso. Egli è il Primo e vuole che noi gli siamo i « secondi ». Da solo poteva salvare tutte le anime. In realtà vi saranno delle anime che non si salveranno che per mezzo nostro. – Dignità singolare — e responsabilità tremenda — del Cristiano. Da questo proviene, in molti, il desiderio di vedere riprodotto, in qualche modo, in se stessi, ciò che effettuò il Verbo nell’Umanità del Salvatore; e di offrirsi, secondo l’espressione singolare di Suor Elisabetta della Trinità, a divenire come « un’umanità aggiunta ». Soltanto alcune anime privilegiate possono comprendere ciò che importa una simile offerta in certi momenti di dolore. Esse sanno bene che supplire, ultimare la sua missione, significa: « Completare la Passione del Cristo». Ed ecco in qual modo la conoscenza dello stato di grazia, dal primo stadio, che è lo spirito fraterno nelle nostre relazioni col Signore, conduce al secondo, che è lo spirito di vittima. – Donde questa strana ambizione, nelle anime, di divenire vittime? — « Vittima con la Vittima, Vittima per la Vittima, mi pare debba il riassunto della mia vita » (Une Ame Réparatrice: Simone Denniel, Vitte, 1916) — noi ci siamo studiati di mostrarlo altrove (L’idea riparatrice, ed. Marietti). – La visione del Cristo in Croce, il bisogno di mettere qualche cosa dentro le piaghe aperte sul corpo del Salvatore, il pensare che esse possono offrire nel loro cuore un ricovero al Divino Maestro, per fargli dimenticare a furia di amore, generosità e sacrifizio, le abbominazioni dei peccatori; il pensiero che il loro sacrifizio può, in qualche modo, riparare per tutti coloro che dimenticano ed oltraggiano Dio, che il loro corpo può diventare uno strumento destinato a soffrire con Gesù, in vece di Gesù, per conto di Gesù; tutti questi sono forti motivi capaci di stimolare nelle anime l’ardore, più di quanto non si immagini. Inoltre tutto ciò che di terribile affermano gli autori spirituali sullo spirito di morte, esse l’accolgono come il fatto più naturale, ovvio, obbligatorio. Il « Quotidie morior» dell’Apostolo per queste anime non è che una fòrmula, una frase che si legge con aria disinvolta, e si ripete ad altri perché abbiano la cura di rendersela propria. S. Paolo non sente il bisogno di supplicarle con molte istanze. « Spogliatevi – dice egli – dell’uomo vecchio, conforme al quale avete vissuto nella vostra prima età, e rivestitevi dell’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità » (Eph. IV, 22-24). Ed esse sono pronte a dire con S. Paolo: « Con Gesù Cristo io mi sono inchiodato alla Croce » (Gal. II, 19), e ancora: « Io mi glorio della Croce di Gesù Cristo » (Gal VI, 14). – In un’opera celebre, per scoraggiare l’Aquilotto, il ministro austriaco Metternich gli mostra che non ha nulla delle doti di suo padre, nulla che lo renda capace di governare. « Voi avete il cappello, ma non la testa! ». Anche la coscienza ripete continuamente una espressione simile, non per scoraggiare, ma per stimolare: Guarda, dice, l’immagine del divino Maestro che soffre. Rassomigli a Lui? Paragona il tuo viso al suo. Il tuo volto è proprio quello di un crocifisso?… La vista del Salvatore dilaniato, toglie il coraggio di vivere senza la Croce, e ad ogni costo si vuole appartenere al numero di coloro che « Dio ha conosciuto in precedenza, e ha predestinato ad essere conformi all’immagine del suo Figliuolo » (Rom. VIII, 29). – Del resto ogni anima che vive « interiormente » è sempre un’anima più o meno destinata al martirio. Con ciò non intendiamo dire che le siano riservate, come a S. Lidwina, le sofferenze fisiche; ma che a ogni minuto vi sarà nel suo interno un pensiero che la tortura, il pensiero della crocifissione. Ella constata la grande sproporzione fra quello che vorrebbe essere e quello che è in realtà. Sente che l’Ospite divino vorrebbe tutto, e sa quante cose si sottraggono all’olocausto. Vorrebbe che tutto fosse di Gesù, e intanto non gli cede la parte migliore. E se in certi momenti di maggiore generosità ha coscienza di dare tutto, sente nondimeno quanto sia poco ciò che dà: sa troppo bene che il tutto è quasi niente. L’anima non è capace di rivaleggiare: Gesù è troppo ricco, essa è troppo povera. Capisce che si tratta di giocare una partita, dove perde sempre: Giacobbe lotta contro l’Angelo. L’Angelo riesce sempre vittorioso. Intorno a lei e in lei, il Cristo è così poco conosciuto e sì mal servito! La piena del peccato si solleva e minaccia di sommergere tutto; e quello spazio di terreno risparmiato dall’inondazione, non è che una pianura, ovvero uno scoglio d’indifferenza. Che fare? Il cuore è pieno di desideri, ma i mezzi, per realizzarli, sono inefficaci ed ecco il supplizio di Francesco Saverio che muore di fronte alla immensa Cina, dove non gli è dato di entrare. Ecco ancora la stretta del cuore di un missionario, che dopo cinquanta anni di lavoro, muore sfinito nella sua dimora, guardando in alto, sulla montagna, una pagoda gigantesca, dove il rivale di Gesù Cristo, un budda grasso e spregevole, regnerà con orgoglio! Il tormento del Serafino d’Assisi, quando percorre le solitudini di Alvernia, donde fissa gli sguardi sulla campagna umbra — sull’universo intero! — e mormora: « Gesù non è amato! Gesù non è amato! ». « Perché non posso incoraggiare tutti ad amare Gesù Cristo, mio divino Maestro, e spingere tutti gli uomini al suo servizio? » scriveva M. Olier. « Sia benedetto Dio che supplisce, con tanta dolcezza e carità, allo zelo dei suoi poveri servi i quali languiscono di non poter servire che per poco tempo, e in modo imperfetto, il loro grande Padrone. Mille milioni di uomini, ripieni del vostro amore e dello zelo di servirvi, darebbero alla mia gioia, o mio Dio! ciò che le manca. Cento mila anni, e più ancora, da me impiegati a propagare la passione santa di cercare la gloria vostra, la gloria del vostro Figliuolo e della sua Madre divina sarebbero almeno un principio di appagamento dei desideri che mi tormentano. Oh, se avessi tanti cuori quanti sono gli spiriti sciagurati e maledetti che vi bestemmiano, come li impiegherei volentieri a vostra lode e a rendervi gli onori che essi vi negano! Moltiplicherei la mia lingua in altrettante creature, quante voi ne avete create sulla terra per glorificarvi! Ma per supplire, o mio Dio! Fate che io mi perda in Gesù, vostra eterna lode, il quale vi rende onori infinitamente infiniti; che io m’immerga e mi inabissi nei cuori dei vostri santi; che, come David, io inviti tutte le creature a benedirvi; che faccia concorrere il mondo intero, per quanto dipende da me, a glorificarvi! Nell’universo ogni cosa fu creata per il mio Gesù e per le sue membra, per Lui e per me; e in Gesù Cristo, Figliuol vostro e nelle sue membra fu tutto disposto a essere una vittima di lode, per tutta la gloria del nome vostro durante tutta l’eternità. O Dio, amor mio! fate che io cominci fin da ora per non finire mai più » (OLIER, Vie, Lebel, Versailles, pp. 608-82).La devozione è svariata nelle sue forme. Alcuni preferiranno considerare, in Nostro Signore, il Verbo, altri l’Umanità sacrosanta. La preghiera di S. Ignazio torna opportuna: « O amantissimo Verbo di Dio, insegnatemi ad essere generoso, a servirvi come lo meritate, a donare senza contare, a combattere senza preoccuparmi delle ferite, a lavorare senza ricercare il riposo, a spogliarmi di me stesso senza attendere altra ricompensa che di sapere che sto facendo la Vostra santa Volontà ».Suor Elisabetta aveva anche la devozione « all’amantissimo Verbo di Dio », ma sotto l’aspetto di cui specialmente ci occupiamo, cioè del Verbo presente nell’anima in grazia. La sua bella preghiera non sfigura accanto a quella di S. Ignazio:

« O eterno Verbo, Parola del mio Dio, voglio trascorrere la mia vita ad ascoltarvi, voglio divenire perfettamente capace d’imparare, per potere da Voi apprendere ogni cosa. Attraverso tutte le notti della mia vita, tutte le privazioni e impotenze, voglio fissarvi sempre e vivere sotto la vostra luce. – « O Fuoco consumatore, Spirito di amore, venite in me, perché si faccia, nell’anima mia, come un’incarnazione del Verbo; ch’io sia per Lui come un’umanità aggiunta, nella quale Egli rinnovi tutto il suo Mistero. E Voi, o Padre, inchinatevi sulla vostra piccola creatura, considerate in lei il solo amantissimo Gesù, nel quale avete posto ogni vostra compiacenza… ». Alcune anime preferiranno, nella Umanità del Signore, meditarne l’Infanzia. Molti avranno letto l’autobiografia di un’altra carmelitana, Santa Teresa del Bambino Gesù. Sarebbe grave torto stimare mancanza di virilità la freschezza che emana da queste pagine. Offrirsi a Gesù per divenire, nelle sue mani, come una palla elastica nelle mani di un bambino, una palla che si possa buttare a terra, forare con spille e chiodi, farla saltare, abbandonarla in un angolo, sono concetti molto più profondi di quello che non sembrino a prima vista. – La fondatrice del Carmelo non ebbe forse un amore particolare per il Bambino Gesù, a partire dalla celebre visione, in cui la Santa chiese:

« Chi sei tu? ». « Io sono Gesù di Teresa ». « E io, Signore, sono Teresa di Gesù ». S. Antonio di Padova, giovine ancora, ebbe una simile visione, come si legge nelle sue biografie. Vide un giorno, davanti a sé, un bambino con un grembiale rilevato, in atto di volere raccogliere qualcosa di prezioso: « Che cosa vuoi? » gli dice il Santo. «Voglio il tuo cuore ». « Che cosa fai? ». « Tu lo vedi, vado in cerca di cuori che vogliano consentire ad amarmi ». – Il P. de Condren, sul punto di morire, nell’ultima visita fattagli dall’Olier, diede quest’ultimo consiglio: « Prendete come vostro direttore il Bambino Gesù » – « parole, aggiunge l’Olier, che sono state per me molto utili e assai care ». Spirito d’infanzia, spirito abituale alle anime interiori, per le quali la contemplazione dei primi anni della vita di Gesù non è sterile, ma perviene a un abito di fede rapida e spontanea, alla sottomissione completa, all’intero abbandono, necessario perché a Dio sia permesso di vivere in noi, come vuole e quanto vuole. « Nostro Signore, l’intera mattina mi ha occupato in questo pensiero, che il mio bisogno più importante era quello di ottenere lo spirito del santo Bambino…, d’essere un fanciullo che non può né parlare, né camminare, né aiutarsi, che si lascia volgere e rivolgere a piacere senza che sia consultato, né gliene siano detti i motivi. E io mi sono lasciata compenetrare questa verità, ascoltando Gesù Dottore: « In verità nessuno, se non rinasce, non può veder il regno di Dio… Bisogna che voi nasciate di nuovo… Lasciate che i piccoli vengano a me giacché di questi è il regno dei cieli e di chi loro rassomiglia ». Io ho guardato Gesù modello; Gesù dell’Incarnazione, del presepio, della fuga in Egitto, di Nazareth. Che silenzi quanta sottomissione, quale abbandono! » (Paolina Reynolds, inglese convertita e fattasi carmelitana, della quale parleremo più oltre). – I Cristiani che acquistano la semplicità dei piccolini, nella contemplazione del Bambino Gesù, sanno meglio degli altri, dove tenda e ciò che esiga, questa « seconda nascita », la nascita di Dio nei nostri cuori per la grazia, che fa di noi « i figli del Regno ». Meglio che lo spirito d’infanzia, la conoscenza dell’ « Inabitazione » sviluppa lo Spirito eucaristico. A prima vista potrebbe sembrare che la devozione a Dio, presente nell’anima, debba nuocere alla devozione a Dio, presente nei tabernacoli delle nostre Chiese. Poiché già godo della vera presenza spirituale, l’Eucaristica è meno utile, meno desiderabile, e più facilmente mi dispenserò di ricevere in me Dio, poiché già lo possiedo in me. Modo di vedere falso e superficiale. Quanto più un’anima vivrà di Dio che abita in lei, altrettanto ambirà di diventare un’anima eucaristica. Anima eucaristica, non solo perché apprezzando di più il divino tesoro che porta con sé, vivrà in « atti di ringraziamento », parola che traduce alla lettera il nome « Eucaristia » (Il postcommunio della Messa di S. Luigi Gonzaga ci fa domandare, ad imitazione del modello offerto alla nostra pietà, di vivere come « eucaristia », cioè di restare « in azione di grazia », « in gratiarum actione manere »); ma anche perché logicamente si sentirà avida della Comunione. – Chi ama, brama amare di più; chi possiede, vuole possedere ancora e in tutti i modi possibili. Possedere Dio, l’Uomo Dio, è certamente la cosa più importante; ma la Comunione questo lo suppone, giacché esige l’assenza del peccato grave, lo stato di grazia. Ora, aggiungendo il possesso dell’Umanità del Salvatore, qual privilegio insigne si acquista, in quanto, con l’Umanità Santa riceviamo per così dire una maggiore dose di Divinità! – Le anime interiori lo sanno, ed ecco perché, lungi dall’essere portate a comunicarsi rare volte, anelano a ricevere l’Ostia divina il più spesso possibile. Esse sanno che una sola parola basta a trasformare il pane sull’altare, ma per trasformare noi, occorre più di un’ostia, occorreranno ripetutissime visite del Figliuolo, per renderci come ci è richiesto, perfetti — nientemeno — sicut Pater cælestis, come il Padre celeste. – Ma vi è di più; le anime che hanno maggiore conoscenza dell’Abitazione divina capiranno a perfezione l’Eucaristia, cioè non solo come una vittima che si riceve, ma anche come vittima che si offre. Meditando il templum Dei quod vos estis (I Cor., III, 17), si avrà presto l’intuizione che il nostro cuore dev’essere il luogo di un’offerta liturgica, un santuario intimo, dove, secondo l’invito di S. Paolo, che dice d’immolarci col Cristo e di essere una vittima santa e grata a Dio (Rom., XII, 1. – Vedi Videa Riparatrice), si apporteranno, in olocausto, tutti gli atti dell’anima, e che perciò ogni Cristiano è rivestito, come affermano S. Pietro e l’Apocalisse, di un vero sacerdozio (Fecisti nos sacerdotes, ci avete fatto veri sacerdoti. – Apoc. V. 10;  1 Petr. II, 5 e 9). Se il pensiero di Dio in noi dà al culto eucaristico il suo vero senso, può dirsi anche che lo stesso concetto, ed esso solo, dia una spiegazione profonda della vera devozione al Cuore di Gesù. Il P. Ramière nel suo libro: Il Cuore di Gesù e la Divinizzazione del cristiano ne apportauna prova perentoria. La nostra deificazione è l’opera di tutta la SS. Trinità. La prima e la terza delle Divine Persone non certo vi partecipano meno della seconda, perché questa deificazione consiste nell’adozione che Dio Padre fa di noi, e nella unione delle nostre anime con lo Spirito Santo. Ma questo divino Spirito ci è dato per mezzo di Gesù Cristo e, unicamente a causa della nostra incorporazione a Gesù Cristo, Dio Padre ci riconosce e ci ama come suoi figli. La nostra giustificazione è l’opera di Gesù. Potremmo dire, domanda il P. Ramière, opera del Cuore di Gesù? E risponde: Lo possiamo e lo dobbiamo.Infatti, Nostro Signore ci ha procurato la giustificazione per un atto libero o per un atto necessario? Per un atto libero. Il Verbo è venuto liberamente: « Quia voluit ». E l’Umanità santa del Salvatore ratificò liberamente questa volontà libera. « Dio ci ha generato volontariamente », dice S. Giacomo; e S. Paolo Dilexit me, tradidit se. Mi ha salvato per puro amore, per un puro slancio del suo Cuore.« Gesù Cristo, continua il P. Ramière, ci dà il suo spirito e ci fa membri del suo corpo mistico, con un atto di amore perfettamente libero e continuamente rinnovato. Noi siamo quindi debitori della nostra vita divina e di tutte le nostre ricchezze soprannaturali al suo Cuore che è l’organo (o meglio il simbolo) del suo amore » (Dinisation p. 565).Nostro Signore ci ha salvati, dando tutto il suo sangue per un primo ed eccessivo trasporto del suo divino amore. Per un altro trasporto di amore incessante, facendo valere i suoi meriti, ci ottiene, ad ogni momento, la grazia santificante di cui abbiamo un bisogno continuo; da ciò trae la sua ragione la parola di S. Paolo, quando dice che « Egli è la nostra giustizia (colui che ci rende giusti) la nostra santificazione e la nostra redenzione » (I Cor., I, 30). In cielo Nostro Signore trascorre il tempo, o a dir meglio, passa l’eternità mandandoci lo Spirito Santo. Una volta, un’iniziativa dell’amor suo — del suo Cuore — valse la prima, la grande Pentecoste. Ogni Pentecoste particolare, ciascuna discesa dello Spirito Santo nelle anime nostre, è anche l’affetto degli slanci amorosi del suo Cuore. « Allorquando dico: Gesù — aggiunge l’autore della Divinizzazione — io vedo Dio fattosi accessibile. Quando dico Cuore di Gesù, vedo il Salvatore ancora più vicino, guardo in Lui il punto dal quale vuole unirsi con me, e m’invita ad unirmi a Lui». Di questa fontana che zampilla fino alla vita eterna — fons aquæ salientis in vitam æternam — il Cuore di Gesù è l’organo propulsore. Per mezzo suo il divino influsso, lo Spirito Santo, perviene in ogni membro del corpo mistico. Ciascuna delle nostre azioni soprannaturali è un’azione del Cristo, giacché il Cristo mistico è il Cristo personale (il Capo), più il Cristo mistico (noi Cristiani, sue membra); e grazie al suo Cuore, la vita circola dalla testa alle membra; da Lui a noi. – Presso tutti i popoli, il cuore simbolizza l’amore. Gesù poteva quindi dire a Santa Margherita Maria, poiché noi dobbiamo la nostra salvezza al suo amore: « Ecco il mio cuore, che ha fatto tanto per gli uomini ». – Separando la devozione al Sacro Cuore dal dogma dell’Inabitazione divina, si corre il rischio di farne una devozione di mero sentimento, una devozione della quale non si capisce, né l’origine., né lo scopo. Un’anima, invece, che ha compreso in che consista lo stato di grazia e la vita con Dio dentro di sé, sarà immancabilmente un’anima che ha una devozione fervente al Cuore di Nostro Signore, a quel Cuore al quale deve i preziosissimi tesori che porta in se stessa.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/12/26/dio-in-noi-6/

TEMPO DI NATALE

IL TEMPO DI NATALE

(24 Dicembre-13 Gennaio)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. D. G. Lefebvre O. S. B.; L.I..C.E. Berruti & C. – Torino, 1950))

Commento Dogmatico.

Se il Tempo dell’Avvento ci fa desiderare la duplice venuta del Figlio di Dio, il Tempo di Natale celebra l’anniversario della sua nascita come Uomo, e ci prepara alla sua venuta futura come Giudice. – A partire da Natale, la liturgia segue passo passo nel suo Ciclo Gesù nella sua opera di redenzione, perché la Chiesa, godendo di tutte le grazie che derivano da ciascuno di questi misteri della vita di Lui, sia, come dice l’Apostolo S. Paolo, la Sposa senza macchia, senza ruga, santa ed immacolata, ch’Egli potrà presentare al Suo Padre,quando tornerà a prenderci alla fine del mondo. Questo momento, designato dall’ultima Domenica dopo la Pentecoste, è il termine di tutte le feste del calendario cristiano. Percorrendo le pagine che il Messale e il Breviario dedicano al Tempo di Natale, si trova ch’esse sono consacrate specialmente ai misteri della fanciullezza di Gesù. La liturgia celebra la « manifestazione » al popolo Giudeo (Natività 25 Dicembre) e pagano (Epifania: 6 gennaio) del grande mistero dell’Incarnazione, che consiste nell’unione in Gesù del Verbo generato dal Padre prima di tutti i secoli, con l’umanità « generata dalla sua madre nel mondo » (Simbolo di S. Atanasio). E questo mistero ci completa con l’unione delle nostre anime al Cristo che ci genera alla vita divina: «A tutti quelli che l’hanno ricevuto ha dato il potere di divenire Figli di Dio » (Giov. I, 10). – Il Verbo, che riceve eternamente la natura divina dal Padre, « innalzò a Sé l’umanità che gli diede nel tempo la Vergine (Simb. S. Atanasio), e si unisce nel corso dei secoli alle nostre anime mediante la grazia. L’affermazione della triplice nascita del Verbo, dell’umanità di Gesù e del suo Corpo Mistico costituisce soprattutto l’oggetto della meditazione della Chiesa in questo periodo dell’anno.

A) Nascita eterna del Verbo.

« Iddio — dice S. Paolo — abita in una luce inaccessibile (1 Tim. VI, 16). Ed è per farci conoscere il Padre Suo, che Gesù è disceso sulla terra. « Nessuno conosce il Padre tranne il Figlio, e colui al quale il Figlio avrà voluto rivelarlo » (Matth. XI, 27). Il Verbo fatto carne è dunque per noi la manifestazione di Dio, è Dio fatto uomo che ci rivela il Padre. – Non meravigli dunque l’importanza che la Chiesa ammette nella liturgia di Natale, a questa manifestazione della divinità di Gesù Cristo. Attraverso le belle sembianze del Fanciullo, che Maria ha deposto nella mangiatoia, la Chiesa ci fa scorgere, come in trasparenza, la Divinità diventata in qualche modo visibile e tangibile. « Chi vede me, vede il Padre » (Giov. XIV, 9) diceva Gesù. « Per mezzo del mistero delI’Incarnazione del Verbo, aggiunge il Prefazio di Natale, noi conosciamo Dio in una forma visibile e, per bene affermare che la contemplazione del Verbo è soprattutto il fondamento della ascesi di questo tempo, si prendono specialmente dagli scritti dei due apostoli: S. Giovanni e S. Paolo, araldi per eccellenza della Divinità di Cristo, i brani nei quali essi ne parlano più profondamente. Così la liturgia di Natale ci fa inginocchiare, con Maria e Giuseppe, davanti a questo Dio rivestito della nostra carne: «Cristo è nato per noi: venite, adoriamolo» (Invit. Di Natale); con l’umile corteo dei pastori che vanno al presepio «ci fa accorrere in fretta per glorificare e lodare Iddio» (Vang. Messa di Mezzanotte); ci unisce alla sontuosa carovana dei Re Magi onde con loro « ci prostriamo avanti al Fanciullo e adoriamo» (Vang. Epifania) « Colui che tutti gli Angeli di Dio adorano » (Ep. della Messa del giorno).Riconosciamo con la Chiesa il grande dogma della Divinità diGesù e dell’Incarnazione del Verbo.

B) Nascita temporale dell’umanità di Gesù.

« Quando il sole si sarà alzato nel Cielo, vedrete il Re dei re procedere dal Padre, come lo sposo che esce dalla camera nuziale » (Antif. del Magnificat dei primi Vespri del Natale). « E il Verbo si fece carne ed abitò tra noi » dice S. Giovanni (Vang. Messa del giorno di Natale). Questo fanciullo che adoriamo è dunque Dio unito alla natura umana in tutto ciò che essa ha di più bello e di più debole, affinché noi non siamo accecati dalla sua luce e ci accostiamo a Lui senza timore. Conoscere i misteri dell’infanzia del Salvatore e penetrarne lo spirito è il principio della vita spirituale. Perciò, durante queste settimane, noi contempliamo con la Chiesa, Cristo a Betlemme, in Egitto, a Nazareth. Maria mette al mondo il suo divin Figliuolo, lo avvolge in fasce e lo adagia in una mangiatoia (Vang. Messa di Mezzanotte). Giuseppe circonda il bambino delle sue paterne sollecitudini. Egli ne è il padre, non solo perché, essendo lo sposo della Vergine, ha dei diritti sul frutto del seno di Lei, ma anche – come dice Bossuet – perché, mentre « gli altri adottano dei fanciulli, Gesù ha adottato un padre ». I tre nomi benedetti di Gesù, Maria e Giuseppe sono dunque incastonati nei testi della liturgia di Natale come perle preziose. « Maria, madre di Gesù, era fidanzata a Giuseppe» (Vang. della Viglia di Natale) . « I Magi trovarono Maria, Giuseppe ed il Fanciullo » (Vang. Vang. Messa dell’Aurora). « Giuseppe e Maria, madre di Gesù » (Vang. Messa dell’Ottava); « Giuseppe prende il Fanciullo e la Madre » (Vang. Vigilia dell’Epifania) « Figlio mio, tuo padre ed io ti cercavamo » (Vang. Dom. dell’Ottava dell’Epifania).

C) Nascita spirituale del corpo mistico di Gesù.

Ma— dice S. Tommaso — « non è per sé che il Figlio di Dio si è fatto uomo, ma per divinizzarci con la sua grazia (S. Th. III. Q. XXXVII, a 3 ad 2). Alla Incarnazione di Dio, cioè all’unione della natura divina e della natura umana nella Persona del Figlio di Dio, deve corrispondere la divinizzazione dell’uomo, cioè l’unione delie anime al Verbo, mediante la grazia santificante e la carità soprannaturale che l’accompagna. « Il Cristo intero – afferma infatti S. Agostino – è Gesù Cristo e i Cristiani. Egli è la testa e noi le membra ». Con Gesù noi nasciamo sempre più alla vita spirituale, perché la nascita del Capo è insieme quella del corpo (ad Ephes. II, 4 – ad Col. III, 9). « Rendiamo grazie a Dio Padre, per mezzo del suo Figlio, nello Spirito Santo, dice S. Leone, perché, avendoci amato nella sua infinita carità, ci ha usato misericordia, e, poiché eravamo morti per i peccati, ci ha tutti risuscitati in Gesù Cristo » (S. Leone, VI Serm. Della Natività) affinché noi fossimo in Lui una creatura nuova ed un’opera nuova. « Liberiamoci dunque del vecchio uomo e da tutte le sue opere » (Col. III, 9), e, ammessi a partecipare alla nascita di Cristo, rinunciamo alle opere della carne. Riconosci, o Cristiano, la tua dignità, e « divenuto partecipe della natura divina » (S. Piet. I, 4), guardati dal ricadere, con una condotta indegna di questa grandezza, nella miseria di una volta. Ricordati di quale Capo e di che corpo tu sei membro. Non dimenticare mai che « strappato alle potenze delle tenebre » « sei stato trasferito alla luce ed al regno di Dio » (Sesta lezione di Natale) . La ragione di festeggiare l’anniversario della natività di Gesù si è quella di fare ogni anno nascere maggiormente Gesù nelle anime nostre, mediante l’incremento della nostra fede e del nostro amore verso il Verbo Immacolato. I presepi e le altre manifestazioni esteriori di questo avvenimento, il più importante della Storia, non sono che mezzi per ravvivare questa fede e questo amore che ci fanno vivere divinamente. Occorre dunque che m questa festa del Natale, noi abbondiamo in buone opere (Oraz. delle Dom. nell’Ottava di Natale), manifestando così che noi siamo nati da Dio e divenuti suoi figli (Vang. Messe di Natale); occorre che tutta la nostra attività sia un irradiare di quella luce del Verbo che riempie le nostre anime (Oraz. Messa dell’Aurora). È questa la grazia propria del Tempo di Natale, che ha per iscopo di estendere la Paternità divina, affinché il Padre possa dire, parlando di ciascheduno di noi ciò che ha detto, a titolo specialissimo del Suo Verbo Incarnato; «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato » (Introito Messa di Mezzanotte. Questo “oggi” è per il Verbo, l’eternità). Prostrati umilmente, pronunciamo adunque con grande rispetto queste parole del Simbolo: lo credo in Gesù Cristo: 1) nato dal Padre prima dei secoli: Dio da Dio, consostanziale al Padre. 2) Disceso dal Cielo, incarnatosi per opera dello Spirito Santo nel seno di Maria Vergine e fattosi uomo. 3) Credo alla S. Chiesa, nata alla vita divina mediante la grazia dello Spirito Santo, che rese feconde le acque del Battesimo.

II. Commento storico.

Tra gli anni 747 e 749 di Roma, il censimento generale, ordinato da Cesare Augusto, costrinse Giuseppe e Maria a recarsi da Nazareth a Betlemme, in Giudea. Ora, mentre essi erano in questo luogo, dice S. Luca, la Vergine mise alla luce il suo primogenito (Vangelo della Messa di Mezzanotte). Alludendo alla tradizione che, nel IV secolo, pone la culla di Gesù tra due animali, la liturgia, cita due testi di Profeti, quello di Isaia « il bue conosce il suo padrone e l’asino la greppia del suo signore (I, 3) » e quello di Abacuc « Signore tu apparirai tra due animali » (III, 2). – C’erano, nei dintorni, dei pastori che vegliavano durante la notte per custodire il gregge. Avvertiti da un Angelo, discesero in fretta sino a Betlemme (Vang. della Messa dell’alba). L’Antifona delle Lodi di Natale, indirizzandosi ad essi, domanda: « Chi avete visto, pastori? ditecelo, annunziatecelo; chi è comparso sulla terra? ». Essi rispondono; «Abbiamo visto un neonato, e abbiamo inteso i canti degli Angeli che lodavano il Signore, alleluia, alleluia ». Otto giorni dopo, il Fanciullo divino fu circonciso da Giuseppe (Circoncisione, genn.) e ricevette il nome di Gesù (Festa del S. Nome di Gesù: 2 Genn.) che l’Angelo aveva indicato a Giuseppe e a Maria. E quaranta giorni dopo che Maria ebbe partorito, andò al Tempio per offrirvi il sacrificio prescritto dalla legge (Presentazione: 2 febbraio). Allora Simeone predisse che Gesù sarebbe stato la rovina e la risurrezione di molti, e che una spada di dolore avrebbe trafitto il cuore della sua madre (Vang. della Dom. nella Ott di Natale). – Al corteo dei pastori ne succede ben presto un altro, quello dei Magi. Arrivano dall’Oriente a Gerusalemme, guidati da una stella, e, seguendo le indicazioni degli stessi principi dei sacerdoti, vanno a Betlemme, perché lì, secondo il profeta Michea, doveva nascere il Messia. Vi trovano il Bambino con Maria sua Madre e, prostrandosi, l’adorano. Poi, avvertiti in sogno, tornano a casa loro senza più passare per Gerusalemme (Vang. dell’Epif.). Erode, che aveva chiesto ai Magi di indicargli dove fosse nato il fanciullo, vedendo che essi l’avevano ingannato, andò in collera e fece uccidere tutti i fanciulli nati da meno di due anni, che trovavansi a Betlemme e nei dintorni, sperando così di liberarsi del re dei Giudei, nel quale temeva un competitore (Vang. dei SS. Innocenti). – Un Angelo apparve allora in sogno a Giuseppe e gli disse di fuggire in Egitto con Maria ed il Fanciullo. Ivi rimasero fino alla morte di Erode. L’Angelo del Signore apparve allora di nuovo in sogno a Giuseppe e gli disse di tornare nella terra d’Israele. Ma, avendo saputo che in Giudea governava Archelao al posto del padre Erode e che ordinava delle persecuzioni, Giuseppe temette per la vita del fanciullo e andò in Galilea, nella città di Nazareth » (Vang. della Vig. dell’Epif.). – Quando Gesù aveva dodici anni, i suoi Genitori, avendolo smarrito a Gerusalemme durante una delle feste di Pasqua, lo ritrovarono dopo tre giorni nel Tempio in mezzo ai Dottori. Tornato a Nazaret, vi crebbe in saggezza, in statura e in grazia avanti a Dio e agli uomini (Vang. della Domen. fra l’Ott. dell’Epif.). – Da Nazareth, trentenne, Gesù andò al Giordano per farsi battezzare da Giovanni Battista. E questi compiendo la sua missione di testimonio: hic venit ut testimonium perhiberet de lumine, dichiarò che quel Gesù sul quale lo Spirito Santo si posò sotto forma di una colomba, era il Messia atteso (Vang. dell’Ott, dell’Epif.).

III. — Commento Liturgico.

Il tempo di Natale comincia alla Vigilia della festa e termina, per il ciclo temporale, l’ottavo giorno dopo l’Epifania (13 gennaio), e per il santorale alla festa della Purificazione della Vergine (2 febbraio). Questo tempo è in parte caratterizzato dalla gioia che prova l’umanità di possedere colui, del quale l’umana natura è totalmente « consacrata » al Verbo, che la possiede come sua. e che consacrerà a Dio tutti gli uomini di cui sarà il Salvatore. Perciò questo Tempo è un’epoca di « grande gioia per tutto il popolo » (Vang. Messa di Mezzanotte). Con gli Angeli, con i Pastori, con i Magi soprattutto, primizie dei Gentili, lasciamoci « trasportare dal grande giubilo » (Vang. Epifania), e con la Chiesa, che riveste i suoi Sacerdoti di paramenti bianchi e rende agli organi la loro voce melodiosa, cantiamo un festante « Gloria in excelsis». « Il Salvatore Nostro, scrive S. Leone, oggi è nato, rallegriamoci ». « Non ci può esser tristezza nel giorno in cui nasce la vita, la quale, dissipando il timore della morte, spande sulle nostre anime la gioia della promessa eternità. Non c’è persona che non abbia parte a questa allegrezza. Tutti hanno uno stesso motivo di rallegrarsi, poiché nostro Signore, distruttore del peccato e della morte, trovandoci tutti schiavi della colpa, è venuto per liberarcene tutti. Esulti il santo, perché si avvicina alla palma; gioisca il peccatore, poiché è invitato al perdono; si animi il gentile, perché è chiamato alla vita » (4a Lez. – 25 Dic.,). E questa allegrezza è tanto più grande in quanto la nascita di Gesù (La Festa dei Santi è chiamata Natalis, perché si celebra il giorno in cui la loro anima entra nel cielo. Alla fine del mondo i nostri corpi risuscitati parteciperanno alla loro volta a questa nascita celeste) sulla terra è il pegno della nostra nascita in cielo, quando Egli ritornerà a prenderci alla fine del mondo. – È in mezzo alle tenebre, simbolo di quelle che oscurano le anime, che Gesù è nato. « Mentre il mondo intero era sepolto nel silenzio e la notte era a metà del suo corso, dice l’Introito della Messa della Ottava di Natale, il Vostro Verbo onnipotente, o Signore, è disceso dal trono regale del cielo ». Cosi, per uno speciale privilegio, si celebra nella Festa di Natale una Messa a Mezzanotte, seguita da un’altra all’aurora, e da una terza al mattino. Come notano i Padri, si è appunto al momento in cui il sole arriva al punto più basso del suo corso e rinasce in qualche modo, che nasce ogni anno pure a Natale il « Sole di giustizia ». – Il sole della natura e quello delle anime, di cui è l’immagine, sorgono insieme. « Il Cristo ci è nato, dice S. Agostino, proprio quando i giorni cominciano a crescere » (Disc. sulla Natività di N. S.). La festa di Natale, il giorno 25 dicembre, coincide con la festa che i pagani celebravano al solstizio d’inverno per onorare la nascita del sole ch’essi divinizzarono. Così la Chiesa cristianizzò questo rito pagano. La Messa di mezzanotte a Roma si celebrava nella basilica di S Maria Maggiore, che rappresenta Betlemme, perché vi si venerano alcune parti del presepio del Salvatore, sostituita da una mangiatoia d’argento nella grotta dove nacque Gesù. Questa grotta era, dalla metà del secondo secolo, visitata da numerosi pellegrini. L’imperatrice Elena fece costruire in questo luogo una basilica che si volle molto semplice, essendo Gesù nato nella povertà. Si lasciò scoperta una parte di roccia, e quando più tardi, verso l’Ottavo secolo, la mangiatoia d’argento sparì, si pose un altare nel luogo presunto della nascita del Salvatore. In questa Basilica della Natività Baldovino, fratello di Goffredo di Buglione, si fece consacrare nel Natale 1101, nella stessa città dove un tempo David era stato unto re dalle mani del Profeta Samuele. – Nel XII secolo, la culla del Principe della pace fu ornata molto riccamente di preziosi mosaici. « Mentre nelle loro insegne spiegate i profeti vi testimoniavano la divinità del Messia e la lunga teoria dei suoi antenati ne affermava la sua umanità, la Chiesa, nelle sue Assisi solenni, v i proclamava insieme l’umanità completa e la perfetta divinità di Colui che nacque a Betlemme, che fu osannato dagli Angeli e adorato dai Magi » (Vincent et Abel: Bethleem, pag. 154).- Il nostro presepe sia l’Altare dove Gesù nasce per noi, specialmente in questo giorno, in cui l’Eucaristia ci viene presentata dai testi del Messale e del Breviario in relazione al mistero della nascita. E ritornati in famiglia manifestiamo il nostro senso liturgico, mantenendo le commoventi tradizioni dei tempi di grande fede, quando si continuavano in letizia le feste della Chiesa nell’intimità della vita familiare. Ogni focolare cristiano dovrebbe avere il suo piccolo presepe, intorno al quale recitare in questi giorni le preghiere del mattino e della sera. I fanciulli imparerebbero così (in questo periodo di gioia, proprio dell’infanzia) che essi debbono unirsi ai piccoli pastori e ai Magi per adorare il piccolo Gesù, il Dio fanciullo adagiato sulla paglia, per domandargli di diventare con Lui e con la sua grazia sempre più figli di Dio.

SALMI BIBLICI: “VOCE … Voce MEA AD DEUM, ET INTENDI” (LXXVI)

SALMO 76 “VOCE … VOCE MEA AD DEUM, et intendi”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 76

In finem, pro Idithun. Psalmus Asaph.

[1] Voce mea ad Dominum clamavi; voce mea ad Deum, et intendit mihi.

[2] In die tribulationis meae Deum exquisivi; manibus meis nocte contra eum, et non sum deceptus. Renuit consolari anima mea;

[3] memor fui Dei, et delectatus sum; et exercitatus sum, et defecit spiritus meus.

[4] Anticipaverunt vigilias oculi mei; turbatus sum, et non sum locutus.

[5] Cogitavi dies antiquos, et annos æternos in mente habui.

[6] Et meditatus sum nocte cum corde meo, et exercitabar, et scopebam spiritum meum.

[7] Numquid in æternum projiciet Deus? aut non apponet ut complacitior sit adhuc?

[8] aut in finem misericordiam suam abscindet, a generatione in generationem?

[9] aut obliviscetur misereri Deus? aut continebit in ira sua misericordias suas?

[10] Et dixi: Nunc cæpi; hæc mutatio dexteræ Excelsi.

[11] Memor fui operum Domini, quia memor ero ab initio mirabilium tuorum;

[12] et meditabor in omnibus operibus tuis, et in adinventionibus tuis exercebor.

[13] Deus, in sancto via tua: quis Deus magnus sicut Deus noster?

[14] Tu es Deus qui facis mirabilia: notam fecisti in populis virtutem tuam.

[15] Redemisti in brachio tuo populum tuum, filios Jacob et Joseph.

[16] Viderunt te aquæ, Deus; viderunt te aquae, et timuerunt; et turbatæ sunt abyssi.

[17] Multitudo sonitus aquarum; vocem dederunt nubes. Etenim sagittæ tuætranseunt;

[18] vox tonitrui tui in rota. Illuxerunt coruscationes tuæ orbi terræ; commota est, et contremuit terra.

[19] In mari via tua, et semitæ tuæ in aquis multis, et vestigia tua non cognoscentur.

[20] Deduxisti sicut oves populum tuum, in manu Moysi et Aaron.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXVI

Quanto al titolo, sembra che sia Salmo pel cantore Asaph sopra l’istrumento Idithun. — L’argomento é la preghiera nella tribolazione della schiavitù babilonica o in quella di Antioco, o in qualche altra.

Può applicarsi al giusto nelle gravezze insopportabili del pellegrinaggio terreno.

Per la fine: per Idithun. – Salmo di Asaph.

1. Alzai la mia voce, e le mie grida al Signore; alzai la mia voce a Dio, ed egli mi ascoltò.

2. Nel giorno di mia tribolazione, stesi la notte verso Dio le mie mani; e non sono stato deluso.

3. Non volle consolazione l’anima mia; mi ricordai di Dio, e n’ebbi conforto, e mi esercitai nella meditazione; e venne meno il mio spirito.

4. Gli occhi miei prevennero le vigilie; io era turbato e non apersi la bocca.

5. Ripensai ai giorni antichi; ed ebbi in niente gli anni eterni.

6. E meditava la notte in cuor mio, e ponderava e si purgava il mio spirito.

7. Ci rigetterà forse Dio in eterno, ovvero non vorrà più essere disposto a placarsi?

8. Ovvero torrà egli per sempre la sua misericordia a tutte le generazioni, che seguiranno?

9. Ovvero si dimenticherà Dio di usar pietà, e tratterrà nell’ira sua le sue misericordie?

10. E io dissi: Adesso io incomincio; questo cangiamento (vien) dalla destra dell’Altissimo.

11. Mi sono ricordato delle opere del Signore; anzi mi ricorderò di tutte le meraviglie fatte da te fin da principio.

12. E mediterò tutte quante le opere tue, e onderò investigando i tuoi consigli.

13. Le tue vie, o Dio, sono sante; qual è il Dio, che grande sia come il Dio nostro? Tu se’ il Dio, che operi meraviglie.

14. Tu facesti manifesto ai popoli il tuo potere; col tuo braccio tu riscattasti il tuo popolo, i figliuoli di Giacobbe e di Giuseppe. (1)

15. Te videro le acque, o Dio, le acque ti videro, e s’impaurirono; e gli abissi furono sconvolti.

16. Rumor grande di pioggia; le nuvole hanno date fuori le loro voci.

17. Le tue saette scoppiano; la voce del tuo tuono ruota per l’aria.

18. I tuoi folgori illuminarono il giro della terra; la terra si scosse, e tremò. (2)

19. Tu camminavi pel mare; tu ti facesti strada per mezzo alle acque, e non si vedranno le tue pedate. (3)

20. Guidasti il tuo popolo, come tante pecorelle, col ministero di Mosè e di Aronne.

(1) Giuseppe è considerato qui come il capo della tribù, perché egli fornisce per un certo tempo gli alimenti agli israeliti in Egitto. Questa espressione sarebbe anche indice di un tempo « che ha seguito la  cattività delle dieci tribù, o di coloro tra essi che erano scappati riunendosi a Giuda. »

(2) in rota, in orbe; lo svolgimento dei tuoni.

(3) E le tracce dei vostri piedi, etc. cioè il mare si è diviso in due, ed in seguito le acque si son riunite senza lasciar traccia del cammino aperto dalla potenza di Dio.

Sommario analitico

In questo salmo, che sembra collocarsi ai tempi di Sennacherib, devastando tutta la Giudea, arrivava su Gerusalemme per prenderla e distruggerla;

il Profeta, personificando tutti i giusti in mezzo alle afflizioni ed alle prove inseparabili dalla vita:

I – Si rivolge a Dio

1° Con tutti i sensi del corpo (1, 2);

2° Con tutte le potenze dell’anima (3);

3° Elevandosi alla meditazione, – a) che inizia dall’aurora, con la contrizione del cuore e nel silenzio (4), – b) dalla quale egli prende  la materia dai giorni antichi e dagli anni eterni, e dai ricordi del peccati (5); – c) che continua durante la notte, durante la quale si leva alla ricerca della verità ed all’esame dell’anima (6).

II. È agitato dal timore

1° di essere riprovato da Dio (7);

2° di essere al di fuori delle attenzioni della sua misericordia (8);

3° di avere Dio sempre irritato contro di sé (9).

III. Egli concepisce ben presto le migliori speranze,

1° con il buon proposito che formula, in nome di Dio, di condurre una vita tutta nuova (10);

2° con il pensiero della potenza, della saggezza, della maestà divina (11, 12);

3° con il ricordo delle meraviglie che ha operato in favore degli Israeliti, che Egli ha liberato dalla schiavitù dell’Egitto (13-20).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-6.

ff. 1, 2. – Tutte le qualità della preghiera si trovano riunite: l’umiltà, il fervore, la perseveranza, l’efficacia. È soprattutto nel giorno della tribolazione che noi dobbiamo cercare Dio. Noi possiamo andare a Dio rettamente, è certo, seguendo piacevolmente la grande strada, ma non lo cerchiamo efficacemente, non ritorniamo a Lui se non attraverso il sentiero del dolore.  Ogni ritorno a Dio implica nel contempo l’errore del crimine, lo smarrimento colpevole e la loro misericordiosa punizione. Beati quindi i cuori feriti! Beata la sofferenza che induce a cercare Dio! Beati i prigionieri incatenati dalla benedizione del dolore! (S. Ambrogio in Psal. LXXVI). – Il profeta esprime qui una cosa ben difficile e molto rara. « Nel giorno della mia tribolazione, io ho cercato Dio ». Quando l’afflizione cade su di noi, noi ci lasciamo abbattere, non pensiamo che alla sofferenza; il Profeta, al contrario, dimentica tutto per non pensare che a Dio, per non cercare che Dio, come se dicesse: se io trovo Dio, io trovo tutto con Lui (S. Gerol.). – Sono in molti a gridare verso il Signore per le ricchezze da acquisire e per le perdite da evitare, per la salute della propria famiglia, per la stabilità della propria casa, per il benessere temporale, per le dignità del mondo, infine, per questa salute del corpo che è il patrimonio dei poveri. Per tutte queste cose e per altre simili, tutti gridano incessantemente verso il Signore: appena c’è qualcuno che grida verso il Signore per il Signore stesso. È facile all’uomo desiderare qualcosa dal Signore, senza desiderare il Signore stesso, come se ciò che Egli dà possa essere più dolce di Colui stesso che lo dona! (S. Agost.). – La voce di colui che prega per interesse e senza un vero ritorno verso Dio, ha come termine i beni che desidera, non il buon piacere di Dio: è per questo che la sua preghiera è inutile o addirittura condannabile. Essi hanno gridato – dice il Profeta in un altro passo – e nessuno li ha salvati; essi hanno invocato il Signore, ed Egli non li ha esauditi. Il marinaio alza la voce durante la tempesta; il contendente alla veglia del suo processo; la madre nella malattia di suo figlio; il mercante in una impresa in cui impegna il suo bene; il ministro anche della parola, nel momento in cui va a distribuirla ad i suoi uditori.  Scrutate il cuore di queste persone, e seguite il corso delle loro azioni, e vedrete che spesso il motivo delle loro preghiere non è il desiderio di onorare Dio, ma l’alacrità di riuscire in ciò che progettano: la loro voce è rivolta all’oggetto che affligge la loro anima, e non verso Dio, o se pure è verso Dio, è per farlo entrare a far parte dei loro desideri terreni. Essi meritano di non essere esauditi, e se lo sono, questo sarà nella collera del Signore, che li distoglierà dalle loro inclinazioni sregolate, dalle loro ambizioni, dalla loro avarizia, dalla loro vanità, dalle loro gelosie.  Preghiamo dunque nella prospettiva di salvezza, preghiamo per crescere nella conoscenza e nell’amore di Dio; preghiamo con un cuore distaccato da tutte le affezioni terrene (Berthier). – « Nel giorno della tribolazione, ho cercato il mio Dio ». Chi siete voi che agite così? Vedete cosa cercate nel giorno della vostra tribolazione: se una prigionia causa la vostra tribolazione, cercate di uscire dalla prigione; se la lebbra causa la vostra tribolazione, cercate la salute; se la fame causa la vostra tribolazione, cecate di essere saziato; se delle perdite causano la vostra tribolazione, cercate il guadagno; se l’esilio causa la vostra tribolazione, cercate la città che vi ha visto nascere; e perché tutto riportare, o piuttosto come riportare tutto? Volete liberarvi di tutti questi ostacoli? Nel giorno della tribolazione, cercate Dio, non cercate niente da Dio; cercate di acquisire il possesso di Dio in cambio della vostra pena; vale a dire domandate a Dio che allontani le vostre afflizioni, affinché Gli restiate legati in tutta sicurezza. « Nel giorno della mia tribolazione, io ho cercato il mio Dio », non qualsiasi altra cosa, bensì solo Dio. – Come Lo avete cercato? « … Con le mie mani ». quando Lo avete cercato?  « … Durante la notte ». Dove lo avete cercato? « … In sua presenza ». e qual è stato il frutto della vostra ricerca? « … Io non sono stato deluso ». Vediamo tutte queste circostanze, esaminiamole tutte, interroghiamole tutte (S. Agost.).

ff. 2, 3. – Cercare veramente Dio, è non soltanto invocare, ma pure tendere le mani verso di Lui con la pratica delle buone opere. Cercarlo con la purezza di una vita innocente e con obbedienza fedele a tutti i suoi comandamenti, è la via più sicura per trovarlo piuttosto che con letture e lunghe meditazioni. – La notte dell’afflizione è una occasione favorevole per cercare Dio, che veniva dimenticato durante il giorno della pace e della prosperità. – Impotenza delle consolazioni umane; ricordo di Dio, sorgente della vera gioia, consolazione solida di coloro che rifiutano le consolazioni umane e la gioia inalterabile di coloro che non ne hanno altre fuori di Lui. – necessita un desiderio ardente di possedere Dio, effetto di una lunga e fervente meditazione, e che giunge a far cadere lo spirito nel mancamento (Duguet). – « La mia anima ha rifiutato la consolazione della terra, così io mi sono ricordato di Dio ed ho ritrovato la gioia ». Oh quanto queste parole sono vere, semplici e profonde nella loro verità! Come in una sola parola la Scrittura santa descrive la subitanea trasformazione del cuore! L’anima grida nel giorno dell’angoscia: io ero nel dolore e le acque della tribolazione mi avevano circondato; una densa nube gravava su di me e mi soffocava, lasciandomi nelle tenebre; io ho chiamato, io ho chiesto soccorso, e nessuno mi ha ascoltato; io stavo per sprofondare negli abissi della disperazione; ma tutto ad un tratto il ricordo di Dio si è presentato al mio cuore, è penetrato nell’anima mia come il raggio di sole che visita il prigioniero in un oscuro anfratto; io ignoro cosa sia successo in me, ma tutto è sparito, ed i torrenti di una gioia sconosciuta hanno inondato la mia anima … è sufficiente – dice S. Agostino – versare Dio nella propria anima, come un prezioso liquore, per ottenere la dilatazione del cuore, e la dilatazione del cuore non è null’altro che il passaggio dall’angoscia alle ampie campagne della gioia (mons. Landriou, “Preghiera”, n. 39).

ff. 4-6. – « Prevenire il levarsi del sole per benedire il Signore ed adorarlo al principio del giorno » (Sap. XVI, 28). Una meditazione attenta dei suoi giudizi ci riempie di un turbamento che ci toglie la parola e non ci lascia se non la libertà di adorarli con profondo rispetto. Occupazione utile è il richiamare nel proprio pensiero le azioni dei Santi per imitarli; pensieri ancor più salutari da aver spesso presenti allo spirito sono questi lunghi e vasti anni dell’eternità (Duguet). – Quali sono gli anni eterni? Che gran soggetto di meditazione! Vedete se questa meditazione non esiga il silenzio più profondo? Colui che si pone al riparo da ogni agitazione esterna e si separa in se stesso da ogni tumulto delle cose umane, vuole meditare sugli anni eterni. Sono forse gli anni durante i quali noi viviamo, o quelli durante i quali sono vissuti i nostri ancestri, o quelli durante i quali vivranno i nostri discendenti, gli anni eterni? A Dio non piace! Cosa resta in effetti di questi anni? Ecco che parlando noi diciamo: questo anno, e di questo anno cosa è in nostro potere se non il solo giorno in cui siamo? Perché i giorni precedenti a quest’anno sono già trascorsi e noi non li possediamo più; quanto ai giorni a venire, essi non esistono ancora. Noi dunque non siamo che in un giorno, e noi diciamo quest’anno; dite dunque oggi, se volete parlare al presente, perché di tutto questo anno cosa possedete come tempo presente? Tutto ciò che di quest’anno è passato, non esiste più. E tutto ciò che deve arrivare, non c’è ancora. Come osate dire allora: questo anno? Correggete il vostro linguaggio, dite: oggi! Voi avete ragione, dirò ormai: oggi! Ma riflettiamo ancora a questo. Le prime ore di questa giornata appartengono già al passato e le ore avvenire non esistono ancora. Correggete il vostro linguaggio e dite: in quest’ora. E di quest’ora cosa avete in vostro potere? Tanti istanti sono già nel passato e quelli che devono arrivare non sono ancora. Dite dunque: “in questo momento”. Ma quale momento? Mentre io pronuncio parole di due sillabe, l’una non risuona ancora, e l’altra è già passata; infine in una stessa sillaba, non fosse composta che da due lettere, non risuona ancora la seconda che la prima non sia già passata. Cosa possediamo dunque di questo tipo di anni? Questi anni sono soggetti a cambiamenti; bisogna pensare ad anni eterni, ad anni stabili che non siano composti da giorni che vanno e vengono, a quegli anni dei quali la Scrittura dice, indirizzandosi a Dio. « … ma Voi, Voi siete lo stesso, ed i vostri anni non avranno fine » (Ps. CL, 28). – (S. Agost.).

ff. 5. – Si domandava ad un venerabile anziano della Trappa ciò che avesse fatto durante i lunghi giorni della sua vita solitaria. Egli rispose semplicemente: « … Ho pensato ai lunghi giorni dell’eternità ». Grande e solenne parola, semplice e profonda come la verità, grido sublime dell’anima che ha compreso il suo valore e la sua destinazione, il suo punto di partenza e gli orizzonti che l’attendono. – Quando Dio apparirà un giorno per giudicare la terra, e chiederà a certi uomini che avranno calunniato la vita di clausura: … e voi, detrattori ingiusti, cosa avete fatto durante la vostra vita? Forse, e per un certo numero, dormire, mangiare, praticare la vita animale in tutta la perfezione del suo sviluppo … tale sarà il risultato più esatto della loro vita, ed ancora devo tacere ciò che farebbe arrossire pure l’animale senza ragione! – Quando poi il Signore si rivolgerà versi il religioso contemplativo, e gli chiederà, con gli accenti di paterna soddisfazione: « E tu, servitore fedele, cosa hai fatto? » – Mio Dio, durante questi lunghi e dolci anni della mia solitudine, io ho pensato agli anni dell’eternità, ho coltivato la mia anima per renderla degna di Voi, facevo ciò che Voi fate dall’eternità … io vi amavo. – Allora sapremo quale delle due vie sarà stata la più piena e meritoria, quando entrambi saranno pesati sulla bilancia della divina giustizia (Mons. Landriot, Preghiera, II, 136, 137). – Notti santamente impiegate, non nei piaceri e nemmeno nel sonno, ma in una meditazione viva ed attenta, non degli anni di questa vita che passano così in fretta, ma di quegli anni eterni che sono il desiderio e la speranza dei veri fedeli. – Io sondavo, lavoravo il mio spirito come un campo, per spandervi il buon seme delle dottrine del Signore (S. Girol.). – Se qualcuno si mettesse a sondare la terra per trovarvi un filone d’oro, nessuno lo accuserebbe di follia; molti uomini, al contrario, lo stimerebbero saggio per voler arrivare a scoprire l’oro! Quanti tesori l’uomo racchiude in se stesso senza mai cercarli! (S. Agost.).

II. — 7 – 9.

ff. 7-9. – Non c’è in voi o da parte vostra, alcun tipo di misericordia verso il prossimo che Dio non vi abbia dato, e Dio stesso forse dimenticherebbe la sua misericordia? Il ruscello cola, la sorgente stessa sarà a secco? « O Dio dimenticherà di aver pietà di noi? O nella sua collera reprimerà la sua misericordia? » Cioè Dio si lascerà irritare tanto da non avere nessuna pietà? Egli reprimerà più facilmente la sua collera che la sua misericordia. È quello che aveva detto per bocca di Isaia (Isai. LVII, 16): « Io non mi vendicherò di voi in eterno, e non sarò sempre irritato contro di voi » (S. Agost.).

ff. 10. – « Ed io ho detto: è ora che io cominci, e questo cambiamento viene dalla destra dell’Altissimo ». Ecco che l’Altissimo ha cominciato a cambiarmi; ecco che io ho preso possesso di un luogo ove sarò in sicurezza; ecco che io sono entrato in un palazzo ove si trova la felicità, e dove nessun nemico è da temere; ecco che io ho cominciato ad abitare questa regione ove la vigilanza dei miei nemici non prevarrà su di me; « ora, io ho cominciato; è la destra di Dio che ha operato questo cambiamento » (S. Agost.). – Una disposizione necessaria agli stessi che sono i più avanzati nella virtù, è di essere ben persuasi che non si fa ogni giorno che entrare al servizio di Dio e dire con gli stessi sentimenti di San Paolo: « Io penso di non avere raggiunto ancora lo scopo a cui tendo o che io sia perfetto; ma io proseguo la mia corsa per cercare di raggiungere il luogo al quale Gesù-Cristo ha voluto condurmi » (Fil. III, 13). – Quando si ha ben riflettuto sulla Religione, ci si determina a crederla; si dice, con una convinzione piena di zelo e di attività, … io comincio a far tacere tutti i miei dubbi, e ad abbracciare delle verità così preziose. Quando si è affaticati dai processi e dalle illusioni del mondo, si dice volentieri: io comincio a non vedere intorno a me che inganni di frivole vanità, di beni che non possono accontentarmi. Quando si è colpiti vivamente dai propri peccati e si prende la risoluzione di condurre una vita totalmente cristiana, si dice nella sincerità del cuore: io comincio a camminare nelle vie della giustizia; io rinuncio per sempre alla schiavitù delle mie passioni. Quando dopo una vita tiepida e languida, si intraprende il servire il Signore con fervore, si dice, senza differire e senza ascoltare le ripugnanze dell’amor proprio: io comincio a camminare sui passi di Gesù-Cristo, qualsiasi cosa mi costi il seguirlo. Quando ci si sente attratti dai santi esercizi dell’orazione, si deve avere un sentimento che è già il frutto di una unione intima con Dio: … io comincio, Signore, a non voler vivere se non del vostro amore. Così la parola del Profeta è come il segnale di tutte le risoluzioni più sagge e più salutari. Non ci viene appunto dato questo segnale, senza una grazia particolare, e senza l’obbligo di riconoscere che questo cambiamento sia l’opera della mano dell’Altissimo (Berthier). – Il rigore non è nella natura di Dio. Quando Dio cede alla collera, quando esercita la sua giustizia, fa un’operazione che gli è estranea (Isai. XXVIII, 21). È la sinistra che tiene la verga, ed Egli lascia prontamente di operare con questa  mano. La mano destra del Signore, al contrario, è lo strumento favorito del suo cuore, essa frutta le opere del suo amore; in particolare essa ha la felice proprietà e la felice potenza di muovere le anime e di convertirle. Di un peccatore cieco ed incorreggibile, essa sa farne in un batter d’occhio, un penitente risoluto e che si mette immediatamente all’opera. « … Ed io ho detto: ora io comincio, questo cambiamento è l’opera dell’Altissimo ». (Mgr. Pie, Discorsi, etc., tomo VII, p. 303).

ff.11, 12. – « Io mi sono ricordato delle opere del Signore ». Vedete ora il Profeta camminare in mezzo alle opere del Signore. In effetti, egli parlava senza misure all’esterno, ed il suo spirito contristato era indebolito; egli ha parlato interiormente con il suo cuore e con il suo spirito, ed avendo sondato questo medesimo spirito, si è ricordato degli anni eterni, si è ricordato della misericordia del Signore, ha cominciato a gioire in tutta sicurezza nelle opere di Dio, ed a darsi senza alcun timore all’allegria. Ascoltiamo dunque quali siano queste opere, e gioiamone pure, ma per le affezioni del nostro cuore, e non rallegriamoci per i ben temporali. Noi abbiamo anche la nostra cella interiore: perché non vi entriamo? Perché non agirvi nel silenzio? Perché non sondiamo il nostro spirito? Perché non meditiamo sugli anni eterni? Perché non rallegrarci delle opere di Dio? Ora, rallegratevi nelle opere di Dio, dimenticate voi stessi, e cercate in Lui solo, se potete, tutte le vostre delizie. Cosa c’è di meglio in effetti di Lui? Non vedete che tornando a voi stessi, tornate non meno che a Lui? « Io mi sono ricordato delle opere del Signore, ecco perché io mi ricorderò delle meraviglie che avete compiuto fin dall’inizio » (S. Agost.). – Pensate che coloro che temono Dio siano privi di affezioni? Lo credete realmente? Osereste credere che un quadro, un teatro, la caccia di animali selvatici o agli uccelli, eccitino le affezioni, e che le opere di Dio non ne eccitino? Credete che la contemplazione di Dio non ecciti affezioni interiori, quando si consideri il mondo, quando si ha davanti agli occhi lo spettacolo della natura, quando se ne cerca il Fautore, quando si trova Colui che mai si spiace e si compiace di tutte le cose? (S. Agost.).

ff. 13. – « Tutte le mie vie sono in Colui che è santo, o nella santità ». In Colui che è il Santo, vale a dire in Colui che ha detto: « Io sono la via, la verità e la vita » (Giov. V. 6). Uscite dunque, uomini dalle vostre cattive affezioni! Dove andate, dove correte? Dove fuggite? Non solamente lontano da Dio, ma pure lontano da voi stessi? Rientrate violatori della legge, rientrate nei vostri cuori (Isai. XLVI, 8); sondate il vostro spirito, ricordate gli anni eterni, ottenete misericordia da parte di Dio e contemplate le opere di questa misericordia. « La sua via è in Colui che è Santo. Figli degli uomini, fino a quando il vostro cuore sarà appesantito? Che cercate nelle vostre affezioni? Perché amate la vanità e vi attaccate alla menzogna? Sappiate che il Signore ha glorificato Colui che è Santo. » (Ps. IV, 3, 4). « La sua via è in Colui che è Santo. Portiamo dunque su di Lui la nostra attenzione. Portiamo la nostra attenzione sul Cristo: è in Lui che è la via di Dio ». (S. Agost.) –  «  La vostra via è nella santità ». Quante cose contenute in queste poche parole! Se le vie del Signore sono tutte sante, anch’io devo camminare nella santità. « Siate santi, perché Io sono Santo ». Io devo conformarmi in tutto alla sua volontà. Ora la sua volontà chiaramente espressa è che io lavori alla mia santificazione (I Tess. IV, 3). Io devo temere tutti i suoi sguardi. « I vostri occhi sono puri e non possono guardare l’iniquità » (Habac. I, 13). Io devo temere il suo giudizio, perché niente di impuro entrerà nel suo reame (Apoc. XXI, 17). Io devo considerare il mondo come il grande nemico di Dio, perché esso è piombato interamente nel male, cioè nella corruzione e nel peccato (I Giov. V, 19). Io devo gemere incessantemente del mio passato, perché le vie che ho seguito sono state tutte contrarie alla mia santità.

ff. 14. – « Voi solo, o Dio, operate dei miracoli » Voi siete veramente il Dio grande, che solo fa miracoli nel corpo e nell’anima: i sordi ascoltano, i ciechi riacquistano la vista, i malati recuperano la salute, i morti sono resuscitati, i paralitici hanno ripreso vigore. Ma questi miracoli non riguardano che il corpo, vediamo invece quelli che concernono l’anima. Ecco degli uomini sobri che poc’anzi erano dediti all’ubriachezza; ecco dei fedeli che poco prima adoravano gli idoli; ecco degli uomini che danno i loro beni ai poveri e che poco prima rubavano i beni degli altri. « Qual dio è grande come il nostro Dio? Solo Voi siete il Dio che opera miracoli ». Mosè  ha fatto miracoli ma non lui solo; Elia ne ha fatti, Eliseo ne ha fatti, anche gli Apostoli ne hanno fatti, ma nessuno di essi li ha operati da solo. Essi ne hanno fatto, ma Voi eravate con essi, o mio Dio, e quando Voi ne avete fatti, essi non erano con Voi. Essi non erano con Voi quando avete creato tutte le cose, poiché Voi avete creato loro stessi. « Voi avete fatto conoscere Colui che è la vostra virtù, la vostra potenza ». Quale virtù, quale potenza ha fatto conoscere tra i popoli? « Noi predichiamo, dice l’Apostolo, il Cristo crocifisso, che è vero, è uno scandalo per i Giudei ed una follia per i Gentili, ma che è, per gli eletti tra i Giudei ed i Gentili, la Virtù di Dio e la Saggezza di Dio (I Cor. I, 23, 24). Se dunque il Cristo è la virtù di Dio, Dio ha fatto conoscere il Cristo tra i popoli. E non ancora lo sappiamo? Siamo così insensati, discesi così in basso, abbiamo fatto così pochi gradini, perché noi ignoriamo questo fatto? (S. Agost.).

ff. 15-20. – La potenza di Dio, che si è manifestata con tanto splendore nella liberazione degli Israeliti dalla servitù d’Egitto, figura della liberazione delle nazioni dalla tirannia del demonio, con la forza del suo braccio, che è Gesù-Cristo. – I predicatori sono simili a delle nubi che fanno sentire le propria voce per annunziare la grazia del Vangelo, e le loro parole sono state come delle frecce. Una freccia, presa in senso proprio, non è una pioggia, non più che la pioggia non è una freccia; ma la parola di Dio è una freccia, perché essa colpisce, ed una pioggia perché bagna. La voce dei suoi tuoni è risuonata in forma di ruota, i suoi fulmini hanno brillato per tutta la terra. Le nubi hanno formato come una ruota intorno al globo terrestre; da questa ruota partivano i tuoni ed i fulmini che hanno scosso l’abisso: i tuoni hanno l’autorità della parola, i fulmini hanno il bagliore dei miracoli (S. Agost.). – Dio si apre un cammino nel mare di questo mondo, quando entra in un’anima che lo fa camminare in mezzo alle acque tempestose del secolo, come tra due montagne di acqua, senza fare naufragio. « le acque vi hanno visto, o mio Dio, le acque vi hanno visto ed hanno temuto, e gli abissi sono stati agitati ». Che si intende per “abisso” ? si intende la profondità delle acque. Chi ne sarà turbato, tra i popoli, quando la sua coscienza sarà colpita? Voi cercate la profondità del mare, cosa c’è di più profondo della coscienza umana? Questo abisso è stato scosso quando Dio ha riscattato il suo popolo in mezzo alle sue braccia. Qual è stato questo scuotersi degli abissi? Ciò che tutti gli uomini, confessando le proprie colpe, hanno fatto diffondendo le loro coscienze davanti a Dio (S. Agost.). – Dio, conducendo il suo popolo come un gregge di pecore, per mano di Mosè ed Aronne, ci insegna quanto sia importante e necessario avere un uomo illuminato per condurci nelle vie di Dio.  

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI (… CON CAZZUOLA E GREMBIULINO) DI TORNO: SS. LEONE XIII – “ETSI NOS”

A leggere questa lettera Enciclica di primo acchito, si resta perplessi sul periodo in cui essa sia stata scritta. Ad un lettore distratto, sembra addirittura un resoconto dettagliato della situazione italiana odierna, descritta da uno degli empi quotidiani del mattino fresco di stampa. Poi, stropicciando gli occhi, si legge con gran meraviglia la data della sua composizione: 1882. Cento quaranta anni fa circa, S.S. Leone XIII, dipingeva, come in un quadro macabro alla Picasso, la situazione dell’Italia sia politica, che sociale, che ecclesiale. Tutte realizzate le premesse citate, viviamo oggi l’incubo prospettato con largo anticipo dal Sommo Pontefice, oltretutto con il castigo di falsi e sacrileghi prelati, di una falsa chiesa, “sinagoga di satana” governata direttamente dai servi del baphomet-lucifero ed asservita agli interessi della “razza di vipere”, cioè di … coloro che odiano Dio e tutti gli uomini, il tutto sotto gli occhi compiacenti di mezzi di comunicazione opportunamente teleguidati, totalmente corrotti ed ingannevoli. Certo che l’Itala se l’è proprio cercato e meritato questo castigo, benché avvertita per tempo dal Vicario di Cristo. Ma sembra che “il bello” debba ancora arrivare, similmente a quelli che gridavano duemila anni or sono, a mo’ di sfida a Dio: « … il suo sangue ricada su di noi, tolle, tolle, crucifigatur! » Gli inizi, richiamano gli sviluppi, gli sviluppi reclamano le conclusioni ovvie e la relativa fine. Anche Leone XIII, già all’epoca, comprende chiaramente come il flagello che Dio usi per punire l’Italia e tutte le Nazioni, allontanatesi dal Cristianesimo della Chiesa militante per tornare ad un paganesimo pratico, filosofico e morale, sia la setta degli empi, degli aderenti cioè alle legge demoniache della c. d. franco-massoneria e affini, lui che era stato pure divinamente avvertito dalla visione della Sede di Pietro occupata dagli angeli decaduti e dai loro adepti, … come effettivamente è accaduto e a cui assistiamo. « … Una dannosissima setta, i cui autori e corifei non celano né dissimulano affatto le loro mire, già da gran tempo ha preso posto in Italia e, intimata la guerra a Gesù Cristo, si propone di spogliare in tutto, i popoli di ogni cristiana istituzione ». Ed un monito all’Italia: « … il popolo italiano, abbandonando la Religione Cattolica, dovrebbe forse aspettarsi una pena anche maggiore (… delle altre Nazioni), perché all’enormità dell’apostasia aggiungerebbe l’enormità dell’ingratitudine. » … e tutto si sta compiendo sotto ai nostri occhi!

Leone XIII

Etsi nos

Lettera Enciclica

Quantunque Noi, in funzione dell’autorità e della grandezza del ministero Apostolico abbracciamo tutto il mondo cristiano e le singole parti dello stesso con tutta la vigilanza e la carità di cui siamo capaci, tuttavia al presente è l’Italia che richiama su di sé in particolar modo le Nostre cure e i Nostri pensieri. In queste riflessioni e in queste cure, la Nostra attenzione è rivolta ad una cosa ben più nobile e sublime di quelle umane; infatti siamo in angoscia e in grande trepidazione per la salvezza eterna delle anime, per la quale è tanto più necessario che continuamente s’impieghi tutto il Nostro zelo, quanto maggiori sono i pericoli a cui la vediamo esposta. – Siffatti pericoli, se in altro tempo furono gravi in Italia, senza dubbio oggi sono gravissimi, poiché lo stato medesimo delle cose pubbliche è grandemente funesto al benessere della Religione. Il che tanto più profondamente Ci turba l’animo, in quanto vincoli di speciali relazioni Ci uniscono a questa Italia, nella quale Iddio collocò la Sede del suo Vicario, la Cattedra della verità, e il centro dell’unità cattolica. Già altre volte ammonimmo il popolo che stesse in guardia, e che ognuno ben comprendesse quali siano i propri doveri in tante occasioni avverse. Tuttavia, crescendo sempre più i mali, vogliamo che Voi, Venerabili Fratelli, rivolgiate ad essi più attentamente il pensiero e, conosciuto il peggioramento continuo delle cose pubbliche, cerchiate di premunire con maggiore diligenza gli animi delle moltitudini, rinforzandoli con ogni mezzo di difesa, affinché non venga loro rapito il più prezioso dei tesori: la Fede Cattolica. – Una dannosissima setta, i cui autori e corifei non celano né dissimulano affatto le loro mire, già da gran tempo ha preso posto in Italia e, intimata la guerra a Gesù Cristo, si propone di spogliare in tutto i popoli di ogni cristiana istituzione. Quanto abbia proceduto nei suoi attentati non occorre qui ricordarlo, tanto più che Vi stanno innanzi agli occhi, Venerabili Fratelli, il guasto e le rovine già recate sia alla Religione, sia ai costumi. – Presso i popoli italiani, che in ogni tempo si tennero fedeli e costanti nella Religione ereditata dagli avi, ristretta ora ovunque la libertà della Chiesa, di giorno in giorno si tenta il più possibile di cancellare da tutte le pubbliche istituzioni quella impronta e quel carattere cristiano in forza dei quali fu sempre grande il popolo italiano. Soppressi gli Ordini religiosi; confiscati i beni della Chiesa; considerati validi come matrimoni le unioni contratte fuori del Rito Cattolico; esclusa l’Autorità ecclesiastica dall’insegnamento della gioventù: non ha fine, né tregua la crudele e luttuosa guerra mossa contro la Sede Apostolica. Pertanto la Chiesa si trova oppressa oltre ogni dire, e il Romano Pontefice è stretto da gravissime difficoltà. Infatti, spogliato della sovranità temporale, cadde necessariamente nel potere di altri. E Roma, la più augusta città del mondo cristiano, è divenuta campo aperto a tutti i nemici della Chiesa, e si vede profanata da riprovevoli novità, con scuole e templi al servizio dell’eresia. Anzi, pare che addirittura in questo stesso anno sia destinata ad accogliere i rappresentanti e i capi della setta più ostile alla Religione Cattolica, i quali vanno appunto pensando di radunarsi qui in congresso. È abbastanza palese il motivo che li ha spinti a scegliere questo luogo: vogliono con un’ingiuria sfrontata sfogare l’odio che portano alla Chiesa, e lanciare da vicino funesti segnali di guerra al Papato, sfidandolo nella sua stessa Sede. Non è certamente da dubitare che la Chiesa esca alla fine vittoriosa dagli empi assalti degli uomini: è tuttavia certo e manifesto che essi con siffatte arti intendono colpire, insieme con il Capo, l’intero corpo della Chiesa, e distruggere, se fosse possibile, la Religione. – In verità, sembra incredibile che costoro, che si professano devotissimi alla famiglia italiana, vogliano questo poiché la famiglia italiana, se si spegnesse la Fede cattolica, resterebbe necessariamente privata di una fonte di vantaggi supremi. Infatti, se la Religione cristiana apportò a tutte le Nazioni ottimi motivi di salvezza, quali la santità dei diritti e la tutela della giustizia; se per ogni dove, compagna e guida a tutto ciò che è onesto, lodevole e grande, con la sua virtù domò le cieche ed avventate passioni degli uomini; se in ogni contrada ridusse a perfetta e stabile concordia i vari ordini dei cittadini e le diverse membra dello Stato, certamente una maggior copia di benefici più largamente che alle altre essa apportò alla Nazione italiana. – Molti, con loro disonore ed infamia, vanno dicendo che la Chiesa è avversa e nuoce alla prosperità o ai progressi dello Stato, e ritengono che il Romano Pontefice sia contrario alla felicità e alla grandezza del nome italiano. Ma le accuse e le assurde calunnie di costoro vengono solennemente smentite dalle memorie dei tempi passati. Difatti l’Italia deve molto alla Chiesa e ai Sommi Pontefici, se diffuse presso tutte le genti la propria gloria, se non soggiacque ai ripetuti assalti dei barbari, se respinse invitta le aggressioni enormi dei Turchi, e in molte cose conservò a lungo una giusta e legittima libertà, ed arricchì le sue città di tanti monumenti immortali di arti e di scienze. Né ultima fra le glorie dei Romani Pontefici è l’aver mantenuto unite, mercé la stessa fede e la stessa Religione, le province italiane diverse per indole e per costumi, e l’averle così liberate dalle più funeste discordie. Anzi, nei peggiori frangenti più volte le cose pubbliche sarebbero precipitate in situazioni rovinose se il Romano Pontificato non fosse intervenuto a salvarle. – Né sarà da meno per l’avvenire, purché la volontà degli uomini non sorga a porre ostacolo alla sua virtù o a diminuirne la libertà. Infatti, quella forza benefica che si trova nelle istituzioni cattoliche, derivando necessariamente dalla medesima loro natura, è immutabile e perenne. Come la Religione Cattolica supera ogni differenza di luoghi e di tempi per la salvezza delle anime, così anche nelle cose civili, dappertutto e sempre, diffonde ampiamente i suoi tesori a beneficio degli uomini. – In verità, eliminati tanti e così grandi beni, subentrano estremi mali, in quanto quegli stessi che portano odio alla sapienza cristiana, per quanto dicano di fare il contrario, traggono in rovina la società, nulla essendovi di peggio che le loro dottrine per accendere violentemente gli animi ed eccitare le più perniciose passioni. Infatti, nell’ordine speculativo essi rigettano il lume celestiale della Fede: estinto il quale la mente umana spessissimo è trascinata negli errori, non discerne il vero, e con tutta facilità cade alla fine nell’abbietto e turpe materialismo. Nell’ordine pratico, disprezzano la norma eterna ed immutabile dei costumi, e non riconoscono Dio quale supremo Legislatore e Vendicatore. Tolti questi fondamenti, ne consegue che, per difetto di efficace sanzione, ogni regola del vivere dipenda dalla volontà e dall’arbitrio degli uomini. Nell’ordine sociale, da quella smodata libertà che essi predicano e vogliono, nasce la licenza; alla licenza tien dietro il disordine, che è il più grande e micidiale nemico del consorzio civile. Certo una Nazione non presentò spettacolo più penoso di sé o condizione più misera di quando in essa poterono signoreggiare, sia pure per breve tempo, tali dottrine e siffatti uomini. E se non si avessero esempi recenti, sembrerebbe incredibile che degli uomini, per malvagità e furibonda violenza, avessero potuto consumare tanti eccidi e, irridendo al nome di libertà, gozzovigliare fra le stragi e gli incendi. Se l’Italia fino ad ora non fu funestata da tanti eccessi, lo si deve prima di tutto attribuire a singolare beneficio di Dio. Inoltre occorre tenere presente anche questa ragione, che cioè essendo gli italiani nella maggioranza rimasti costantemente devoti alla Religione Cattolica, non riuscì a trionfare la licenza delle empie massime che abbiamo ricordato. Peraltro, ove questi ripari che offre la Religione venissero abbattuti, subito irromperebbero in Italia quelle medesime calamità da cui furono percosse un tempo grandissime e fiorentissime Nazioni. Infatti è giocoforza che dagli stessi principi scaturiscano gli stessi effetti; ed essendo i semi ugualmente guasti, non possano produrre che gli stessi frutti. Anzi, il popolo italiano, abbandonando la Religione cattolica, dovrebbe forse aspettarsi una pena anche maggiore, perché all’enormità dell’apostasia aggiungerebbe l’enormità dell’ingratitudine. – Infatti, non dal caso o dalla volubile volontà degli uomini l’Italia ebbe il privilegio di essere fin dal principio fatta partecipe della salvezza portata da Gesù Cristo, di possedere nel suo seno la Sede del beato Pietro, e di aver goduto per lunghi secoli degli immensi e divini benefici che derivano dal Cattolicesimo. Pertanto, dovrebbe temere grandemente per sé quello che l’Apostolo Paolo annunciò minacciosamente ai popoli ingrati: “Una terra imbevuta dalla pioggia che spesso cade su di essa, se produce erbe utili a quanti la coltivano, riceve la benedizione da Dio; ma se produce pruni e spine non ha alcun valore ed è vicina alla maledizione: sarà infine arsa dal fuoco!” (Eb VI, 7-8). – Iddio tenga lontano tanto terrore. Tutti considerino seriamente i pericoli, sia quelli già presenti, sia quelli che incombono per iniziativa di coloro i quali, operando non alla comune utilità bensì al vantaggio delle sette, combattono con odio mortale la Chiesa. Essi, se avessero senno, se fossero accesi da vera carità di patria, non diffiderebbero certo della Chiesa, né per ingiusti sospetti si proverebbero a menomarne la originaria libertà; ché anzi volgerebbero i loro propositi, che ora sono tutti di farle guerra, a sua difesa ed aiuto, e soprattutto si darebbero cura di far rientrare nel possesso dei suoi diritti il Romano Pontefice. – Infatti, l’ostilità intrapresa contro la Sede Apostolica, quanto più torna a danno della Chiesa, tanto meno giova alla prosperità dell’Italia. In materia dichiarammo altrove il Nostro pensiero: “Proclamate che le pubbliche cose d’Italia non potranno giammai prosperare, né godere stabile tranquillità, finché non sia provveduto, come ogni diritto richiede, alla dignità della Sede Romana e alla libertà del Sommo Pontefice”.

Pertanto, poiché niente Ci sta più a cuore dell’incolumità degl’interessi religiosi, ed essendo turbati per il grave rischio che corrono i popoli italiani, col più vivo calore Vi esortiamo, Venerabili Fratelli, a mettere in opera con Noi lo zelo e la carità Vostra, al fine di riparare a tante sciagure. – Innanzi tutto datevi somma premura di far comprendere ai popoli quale gran bene sia possedere la Fede Cattolica, e quanto sia necessario custodirla gelosamente. E poiché i nemici e i contestatori del Cristianesimo, per ingannare tanto più facilmente gli incauti, molto spesso mentre scaltramente fanno una cosa, ne intendono un’altra, è molto importante che i loro occulti propositi siano pienamente messi in chiaro, affinché, scoperto quello che realmente si propongono e quale sia lo scopo dei loro sforzi, si risvegli nei Cattolici una coraggiosa gara di difendere pubblicamente la Chiesa ed il Romano Pontefice, cioè la loro stessa salvezza. – Fino ad oggi la virtù di molti, che avrebbero potuto fare grandi cose, si è mostrata in certo qual modo meno risoluta nell’operare, e meno resistente alla fatica, sia che gli animi fossero inesperti delle cose nuove, sia che non avessero compreso abbastanza la gravità dei pericoli. Ma ora, conosciuti i bisogni per esperienza, nulla sarebbe più dannoso che il tollerare neghittosamente la lunga perfidia dei malvagi, e lasciare ad essi libero il campo di vessare ulteriormente e come meglio loro piace il mondo cattolico. Costoro, più prudenti invero dei figli della luce, hanno già osato molte cose: inferiori di numero, più forti di scaltrezza e di mezzi, in poco tempo hanno riempito le nostre contrade di grandi mali. – Quanti amano il nome cattolico intendano dunque che è tempo di tentare qualche cosa, e di non abbandonarsi in nessun modo alla indifferenza ed all’inerzia, dato che nessuno rimane tanto presto oppresso, quanto colui che si abbandona ad una stolta sicurezza. Vedano come non abbia mai temuto alcunché quella nobile ed operosa virtù dei nostri antichi, dalle fatiche e dal sangue dei quali trasse vigore la Fede Cattolica. Voi intanto, Venerabili Fratelli, ridestate i neghittosi, incitate i lenti, con l’esempio e l’autorità Vostra rincuorate tutti ad adempiere con alacrità e costanza quei doveri nei quali consiste la vita attiva dei Cristiani. – Per mantenere ed accrescere questo ravvivato vigore, è necessario usare ogni cura e provvedimento, perché si moltiplichino ovunque e fioriscano per operosità, per numero e per concordia quelle società, le quali hanno per scopo principale di conservare ed avvalorare gli esercizi della fede cristiana e delle altre virtù. – Tali sono le Associazioni dei giovani e dei lavoratori, e quelle che furono costituite o per tenere congressi cattolici in determinati tempi, o per dare soccorso alle umane miserie, o per curare l’osservanza delle feste religiose, e per istruire i fanciulli della gente più povera, e molte altre dello stesso genere. – Siccome importa sommamente alla società cristiana che il Romano Pontefice sia ed appaia completamente libero da ogni pericolo, molestia e difficoltà nel governo della Chiesa, per quanto secondo le leggi è possibile, tali società facciano, chiedano ed argomentino il più possibile a vantaggio del Pontefice; né mai si diano posa finché a Noi, in realtà e non in apparenza, non sia resa quella libertà con la quale per un certo necessario legame si congiunge non soltanto il bene della Chiesa, ma anche il prospero andamento delle cose italiane e la tranquillità delle genti cristiane. – Oltre a questo conta moltissimo che si vada largamente diffondendo la buona stampa. Coloro che avversano con mortale odio la Chiesa, hanno preso l’abitudine di combattere con pubblici scritti, che adoperano come armi adattissime a danneggiare. Quindi una pestifera colluvie di libri, quindi giornali sediziosi e funesti, i cui furiosi assalti né le leggi raffrenano, né il pudore trattiene. Sostengono come ben fatto tutto ciò che in questi ultimi anni è stato compiuto per mezzo di sedizioni e di tumulti; coprono o falsano la verità; scagliano quotidianamente brutali contumelie e calunnie contro la Chiesa e il Sommo Pontefice, e non vi è alcuna sorta di dottrine assurde e pestilenziali che non si risparmino di diffondere ovunque. È necessario dunque fare argine alla violenza di questo grande male che va ogni giorno più largamente serpeggiando; e per prima cosa conviene con tutta severità e rigore indurre il popolo a guardarsene il più possibile, e ad usare scrupolosamente il più prudente discernimento sulle cose da leggere. Inoltre occorre contrapporre scritto a scritto, affinché lo stesso mezzo che tanto può nel rovinare, sia rivolto alla salute e al beneficio dei mortali, e i rimedi vengano appunto da dove vengono preparati i micidiali veleni. Pertanto è auspicabile che almeno in ogni provincia si istituisca qualche strumento che illustri pubblicamente quali e quanti sono i doveri dei singoli Cristiani verso la Chiesa: ciò con scritti molto frequenti, e se possibile quotidiani. Soprattutto poi siano evidenziati i grandissimi benefici recati ad ogni paese dalla Religione Cattolica; si faccia comprendere come la sua virtù torni sempre a sommo bene e a vantaggio delle cose private e pubbliche; si spieghi quanto sia importante che la Chiesa venga di nuovo e sollecitamente innalzata nella società a quel grado di dignità che la sua grandezza divina e la pubblica utilità delle genti vivamente richiedono. – Per questo è necessario che coloro che si dedicano alla professione dello scrivere, tengano presenti diverse considerazioni: che tutti, nello scrivere, mirino ad un medesimo scopo; vedano di stabilire con giudizio sicuro ciò che torna più vantaggioso e si sforzino di realizzarlo; non lascino da parte alcuna di quelle cose che sembrino utili e desiderabili a sapersi; gravi e temperati nel dire, confutino gli errori e i difetti, ma in modo che la critica sia senza acerbità, e si porti rispetto alle persone; infine, si esprimano con piano e chiaro discorso, in modo che la moltitudine possa comprenderlo agevolmente. – Tutti gli altri poi che desiderano realmente e di cuore che le cose, sia sacre sia civili, vengano efficacemente difese da valenti scrittori con positivi risultati, cerchino di favorire con la propria liberalità i frutti delle lettere e dell’ingegno; quanto più uno è dovizioso, tanto più con le sue facoltà e con i suoi averi li sostenga. Infatti a tali scrittori si deve prestare aiuto in questo modo, senza il quale il loro impegno non avrà alcun successo, od un successo incerto ed assai esiguo. In tutte tali cose, se ai nostri si presenta qualche disagio, se devono correre qualche rischio, osino tuttavia affrontarli, in quanto per il Cristiano nessuna causa è più giusta di questa, cioè di andare incontro a molestie e fatiche piuttosto che dagli empi venga colpita la Religione. Certamente la Chiesa generò ed allevò i figli non a condizione che, quando il tempo o la necessità lo richiedesse, essa non dovesse aspettarsi da loro alcun aiuto, ma perché ognuno anteponesse alla propria tranquillità e ai privati interessi la salute delle anime e la incolumità degl’interessi religiosi. Precipuo oggetto poi delle Vostre assidue cure e dei Vostri pensieri deve essere, Venerabili Fratelli, formare come si conviene idonei ministri di Dio. Infatti, se è proprio dei Vescovi porre ogni opera e zelo nell’educare a dovere tutta la gioventù in genere, è opportuno curare con maggior diligenza i chierici, che crescono a speranza della Chiesa, e che saranno un giorno partecipi e dispensatori dei sacri doni. Gravi ragioni, comuni a tutti i tempi, richiedono senz’altro nei Sacerdoti un corredo di molte e grandi qualità: tuttavia quest’età nostra ne domanda ancora di più e assai maggiori. In primo luogo la difesa della Fede Cattolica, alla quale massimamente debbono con sommo studio dedicarsi i Sacerdoti: essa è assolutamente necessaria ai tempi nostri; vuole una dottrina non volgare né mediocre, ma profonda e varia, la quale abbracci non solamente le sacre discipline, ma anche le filosofiche, e sia ricca di cognizioni di fisica e di storia. Infatti si debbono estirpare numerosi errori che mirano a sovvertire ogni fondamento della Rivelazione cristiana; si deve lottare spesso con avversari preparatissimi e perseveranti nelle discussioni, i quali traggono accortamente partito da ogni genere di studi. – Analogamente, essendo oggi grande e molto diffusa la corruzione dei costumi, è necessario che i Sacerdoti posseggano un singolare corredo di virtù e di costanza. Infatti essi non possono sfuggire al rapporto con gli uomini; anzi per gli stessi doveri del loro ministero sono tenuti a trattare molto più da vicino col popolo; e ciò in mezzo a città nelle quali qualsiasi rea passione è permessa sino alla licenza. Da ciò si comprende che il Clero deve possedere in questo tempo una fortissima virtù, che possa essere essa stessa sicuro strumento di difesa, vincere tutti gli allettamenti del vizio, ed uscire salva da pericolosi esempi. – Oltre a questo, le leggi emanate a danno della Chiesa hanno causato necessariamente la scarsezza dei chierici: onde è necessario che coloro che per grazia di Dio vengono iniziati agli Ordini Sacri raddoppino l’opera loro, e con singolare diligenza, studio e spirito di abnegazione compensino il piccolo numero. Certamente non possono raggiungere l’obiettivo se non hanno animo costante, mortificato, intemerato, ardente di carità, e sempre pronto e volonteroso a sobbarcarsi alle fatiche per la salvezza eterna degli uomini. Ma per tali compiti è necessario disporre una lunga e diligente preparazione, dato che nessuno può assuefarsi alla leggera e rapidamente a tante cose. E senza dubbio adempiranno utilmente e santamente i doveri del Sacerdozio coloro che ad essi si saranno preparati fin dall’adolescenza, ed avranno ricavato dall’educazione tanto frutto da sembrare non formati, ma quasi nati con quelle virtù delle quali si è accennato. – Pertanto, Venerabili Fratelli, i Seminari dei chierici giustamente richiedono la maggiore e miglior parte delle cure, della sagacia e della vigilanza Vostra. Per quel che concerne la virtù e i costumi, troppo bene conoscete nella Vostra sapienza di quali precetti e ammaestramenti convenga dotare abbondantemente i giovani chierici. Riguardo alle più ardue discipline, poi, la Nostra Enciclica Æterni Patris diede le norme per un ottimo andamento degli studi. Ma poiché in così continuo progredire degl’ingegni furono saggiamente e utilmente ritrovate diverse cose che non conviene siano ignorate, tanto più che uomini empi utilizzano come nuovi dardi contro le verità rivelate da Dio tutto ciò che di giorno in giorno il progresso mette a disposizione in materia, operate, Venerabili Fratelli, secondo le Vostre possibilità affinché la gioventù educata alle cose sacre non solo abbia un ricco corredo di scienze naturali, ma sia altresì ottimamente ammaestrata in quelle discipline che hanno attinenza con gli studi critici ed esegetici della sacra Bibbia. – Ben sappiamo che molte cose sono necessarie alla perfezione dei buoni studi: tuttavia per improvvide leggi è reso impossibile o difficilissimo procacciarsi tali mezzi. Ma anche a questo proposito i tempi esigono che gl’italiani si sforzino di ben meritare della Religione Cattolica con la generosità e con la munificenza. Vero è che la pia e benefica volontà dei maggiori aveva appieno provveduto a tali necessità; e la Chiesa con la sua avvedutezza e parsimonia era giunta a tal punto che non le era necessario raccomandare la tutela e la conservazione delle cose sacre alla carità dei suoi figli. Ma il suo patrimonio legittimo e sacrosanto, che il turbine di altre età aveva risparmiato, è stato distrutto dalla procella dei nostri tempi; pertanto da parte di coloro che professano amore al Cattolicesimo è tornato il momento di rinnovare la liberalità degli avi. Certamente, luminosi esempi di munificenza, in condizioni non molto dissimili, si vedono in Francia, nel Belgio e altrove: esempi degnissimi di ammirazione non solo dei contemporanei, ma anche dei posteri. Né dubitiamo che il popolo italiano, visto lo stato delle pubbliche cose, farà il possibile per mostrarsi degno dei suoi maggiori, e si darà ad imitare gli esempi fraterni. – Nelle cose che abbiamo esposto troviamo invero una non piccola speranza di rimedio e di sicurezza. Ma come in tutte le iniziative, così soprattutto in quelle che riguardano la salute pubblica è necessario che agli aiuti umani si aggiunga il soccorso dell’onnipotente Iddio, nelle cui mani sono non meno le volontà dei singoli individui come l’andamento e la fortuna delle Nazioni. Per la qual cosa è da chiamare Dio in aiuto con le più calde istanze, e supplicarlo che riguardi pietoso l’Italia arricchendola e colmandola con tanti suoi benefici in modo che, dileguata ogni ombra di pericoli, protegga per sempre in essa la Fede Cattolica, che è il massimo dei beni. Per questo, ancora, è da chiamare supplichevolmente in soccorso Maria Vergine Immacolata, gran Madre di Dio, fautrice e ausiliatrice dei buoni consigli, e con Lei il suo santissimo Sposo Giuseppe, custode e patrono delle genti cristiane. Con pari ardore conviene pregare i grandi Apostoli Pietro e Paolo, affinché nel popolo italiano custodiscano intatto il frutto delle loro fatiche, e conservino fino ai tardi posteri pura e inviolata la Religione Cattolica, che essi stessi col proprio sangue conquistarono ai nostri antenati. – Confortati dal celeste patrocinio di tutti loro, in auspicio delle divine consolazioni e a testimonianza della speciale Nostra benevolenza, a Voi tutti, Venerabili Fratelli, ed ai popoli affidati alla Vostra tutela, con affetto nel Signore impartiamo l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 febbraio 1882, anno quarto del Nostro Pontificato.

DOMENICA IV DI AVVENTO (2019)

DOMENICA IV DI AVVENTO (2019)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione alla Chiesa dei 12 Apostoli.

Dom. privil. Semid. di II cl. Paramenti violacei.

Come tutta la liturgia di questo periodo, la Messa della Quarta Domenica dell’Avvento, ha lo scopo di prepararci al doppio Avvento di Cristo, avvento di misericordia a Natale, nel quale noi commemoriamo la venuta di Gesù, e avvento di giustizia alla fine del mondo. L’Introito, il Vangelo, l’Offertorio e il Communio fanno allusione al primo, l’Epistola si riferisce al secondo, e la Colletta, il Graduale e l’Alleluia possono applicarsi all’uno e all’altro. Le tre grandi figure delle quali si occupa la Chiesa durante l’Avvento ricompaiono in questa Messa. Isaia, Giovanni Battista e la Vergine Maria. Il Profeta Isaia annuncia di S. Giovanni Battista, che egli è: « la voce di colui che grida nel deserto: preparate la via del Signore, appianate tutti i suoi sentieri, perché ogni uomo vedrà la salvezza di Dio ». E la parola del Signore si fece sentire a Giovanni nel deserto: ed egli andò in tutti i paesi intorno al Giordano e predicò il battesimo di penitenza (Vang.). « Giovanni, spiega S. Gregorio, diceva alle turbe che accorrevano per essere battezzati da lui: Razza di vipere, chi vi ha insegnato a fuggire la collera che sta per venire? La collera infatti che sovrasta è il castigo finale, e non potrà fuggirlo il peccatore, se non ricorre al pianto della penitenza. « Fate dunque frutti degni di penitenza. In queste parole è da notare che l’amico dello sposo avverte di offrire non solo frutti di penitenza, ma frutti degni di penitenza. La coscienza di ognuno si convinca di dover acquistare con questo mezzo un tesoro di buone opere tanto più grande quanto egli più si fece del danno con il peccato » (3° Nott.). « Iddio, dice anche S. Leone, ci ammaestra Egli stesso per bocca del Santo Profeta Isaia: Condurrò i ciechi per una via ch’essi ignorano e davanti a loro muterò le tenebre in luce, e non li abbandonerò. L’Apostolo S. Giovanni ci spiega come s’è compiuto questo mistero quando dice: Noi sappiamo che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza perché possiamo conoscere il vero Iddio ed essere nel suo vero Figlio » (2° Nott.). – Per il grande amore che Dio ci porta ha inviato sulla terra il Suo unico Figlio, che è nato dalla Vergine Maria. Proprio questa Vergine benedetta ci ha dato di fatto Gesù; così, nel Communio, la Chiesa ci ricorda la profezia di Isaia: « Ecco che una Vergine concepirà epartorirà l’Emmanuele », e nell’Offertorio ella unisce in un solo saluto le parole indirizzate a Maria dall’Arcangelo e da Santa Elisabetta, che troviamo nei Vangeli del mercoledì e del venerdì precedenti: « Gabriele, (nome che significa « forza di Dio »), è mandato a Maria — scrive S. Gregorio — perché egli annunziava il Messia che volle venire nell’umiltà e nella povertà per atterrare tutte le potenze del mondo. Bisognava dunque che per mezzo di Gabriele, che èla forza di Dio, fosse annunciato Colui che veniva come il Signore delle Virtù, l’Onnipotente e l’Invincibile nei combattimenti, per atterrare tutte le potenze del mondo » (35° Serm.). La Colletta fa allusione a questa «grande forza» del Signore, che si manifesta nel primo avvento, perché è nella sua umanità debole e mortale che Gesù vinse il demonio, come anche ci parla dell’apparizione della sua«grande potenza» che avverrà al tempo del suo secondo avvento, quando, come Giudice Supremo, verrà nello splendore della sua maestà divina, a rendere a ciascuno secondo le sue opere (Ep.). Pensando che, nell’uno e nell’altro di questi avventi, Gesù, nostro liberatore, è vicino, diciamogli con la Chiesa « Vieni Signore, non tardare ».

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitu

Exod XVI :16; 7
Hódie sciétis, quia véniet Dóminus et salvábit nos: et mane vidébitis glóriam ejus [Oggi saprete che verrà il Signore e ci salverà: e domattina vedrete la sua gloria.]
Ps XXIII: 1
Dómini est terra, et plenitúdo ejus: orbis terrárum, et univérsi, qui hábitant in eo. [Del Signore è la terra  e quanto essa contiene; il mondo e tutti quelli che vi abitano.]
Hódie sciétis, quia véniet Dóminus et salvábit nos: et mane vidébitis glóriam ejus.

[Oggi saprete che verrà il Signore e ci salverà: e domattina vedrete la sua gloria.]

Oratio 

  Excita, quǽsumus, Dómine, poténtiam tuam, et veni: et magna nobis virtúte succúrre; ut per auxílium grátiæ tuæ, quod nostra peccáta præpédiunt, indulgéntiæ tuæ propitiatiónis accéleret: [O Signore, Te ne preghiamo, súscita la tua potenza e vieni: soccòrrici con la tua grande virtú: affinché con l’aiuto della tua grazia, ciò che allontanarono i nostri peccati, la tua misericordia lo affretti.]

Lectio

Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Corinthios
1 Cor IV: 1-5
Fratres: Sic nos exístimet homo ut minístros Christi, et dispensatóres mysteriórum Dei. Hic jam quaeritur inter dispensatóres, ut fidélis quis inveniátur. Mihi autem pro mínimo est, ut a vobis júdicer aut ab humano die: sed neque meípsum judico. Nihil enim mihi cónscius sum: sed non in hoc justificátus sum: qui autem júdicat me, Dóminus est. Itaque nolíte ante tempus  judicáre, quoadúsque véniat Dóminus: qui et illuminábit abscóndita tenebrárum, et manifestábit consília córdium: et tunc laus erit unicuique a Deo.

Lezione tratta dalla prima Lettera dell’Apostolo S. Paolo ai Corinti, Cap. IV, v. 1. 5.

“Fratelli mici, così ci consideri ognuno come ministri di Cisto, e dispensatori dei misteri di Dio. Del resto poi ciò che si richiede ne’ dispensatori è che sian trovati fedeli. A me pochissimo importa di esser giudicato da voi, o in giudizio umano; anzi nemmeno io giudico di me stesso. Poiché non ho coscienza di nessun male; ma non per questo sono giustificato; e chi mi giudica, è il Signore. Onde non vogliate giudicare prima del tempo, finché venga il Signore: il quale rischiarerà i nascondigli delle tenebre, e manifesterà i consigli de’ cuori, ed allora ciascuno avrà lode da Dio”.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

A qual fine la Chiesa fa leggere oggi questa lettera?

Per avvertire quelli che ieri ricevettero i sacri ordini a distinguersi per la fedeltà ai loro doveri e per la Santità della vita, quanto sono distinti per l’alta dignità del loro stato; per ispirare il rispetto dovuto ai sacerdoti. che sono i ministri di Gesù Cristo, e i dispensatori dei divini misteri; ed in ultimo per ricordare ai Fedeli questa seconda venuta del Figliuolo dell’uomo; ed invitarli così a giudicarsi da se stessi, a purificare il loro cuore per la festa del Natale, ed a ricevere degnamente Gesù Cristo come Salvatore, sicché non l’abbiamo a temer come Giudice.

In che qualità Gesù Cristo si serve dei Sacerdoti?

Se ne serve in qualità di economi, di dispensatori dei santi misteri, di mediatori e di ambasciatori. Perciò Iddio ordina tanto espressamente di riverirli. I sacerdoti che governano bene siano doppiamente onorati, in particolar modo quelli che si affaticano nella predicazione e nell’istruire. (Lett. prima a Timoteo cap. V. v. 17.).

I Sacerdoti possono amministrare i sacramenti a loro piacere?

No, come gli economi non possono fare a loro volontà.  Essendo gli economi di Gesù Cristo, debbono conformarsi al suo volere, esercitar fedelmente il loro ufficio, e per conseguenza non dare ai cani ciò che è santo, cioè non dar l’assoluzione, o conferire altri Sacramenti ai non degni. Nelle prediche non debbono cercare né di lusingar l’orecchio né di far mostra del loro ingegno, ma predicare la dottrina di Gesù Cristo con tutta la gravità e dignità conveniente, né guardare al giudizio degli uomini, siccome faceva s. Paolo.

Perché i Sacerdoti non debbono guardare al giudizio degli uomini?

Perché spesso avviene che gli uomini giudicano dall’apparenza, e non secondo la verità, per passione, per amor proprio, per spirito di parte, e non secondo giustizia; danno elogio e biasimo senza attendere al merito; sono incostanti nei loro giudizi, approvando ciò che prima censurarono, e censurando quel che approvarono: trovano cattivo ciò che piace a Dio, e buono ciò che gli dispiace; e tutto quanto gli uomini dicono di noi non può togliere né aggiunger niente al nostro merito innanzi a Dio: il giudizio di Dio, sempre conforme alla verità, è il solo al quale debbono riguardare i Sacerdoti e tutti gli altri Cristiani. Qual follia dunque è quella di coloro che seguono le mode scandalose del mondo e si conformano ai suoi corrotti costumi, per non dispiacergli; si uniscono a compagnie pericolose, per non comparir singolari; lasciano le pratiche di religione per umano rispetto, e dimandan sempre: che dirà il mondo? e mai: che dirà Iddio, se faccio questa cosa, se tralascio quest’altra? Se io volessi piacere agli uomini dice s. Paolo – non sarei servo di Gesù Cristo. – Il giudizio degli uomini non ci distolga mai dall’adempimento degli ordini di Dio, che non ricompensa se non la fedeltà. V’è onore e felicità più grande del servire a Dio? Cerchiamo dunque di piacergli in tutto.

Perché S. Paolo non voleva giudicar se stesso?

Perché non sapeva come Dio lo giudicava, sebbene di niente gli rimordesse la coscienza: senza una rivelazione di Dio, nessuno sa se sia degno d’amore o d’odio. Dio scandaglia i cuori e le reni; nulla può sfuggire al suo sguardo, ed i giudizi di Lui sono ben differenti da quelli degli uomini, che accecati dall’amor proprio e dalla passione, spesso non vedono il male che fanno; nascondono sé a se stessi, e si giustificano quando dovrebbero condannarsi. Tale si crede innocente e si riguarda come santo, che al giorno poi del giudizio sarà ricoperto di confusione, quando Dio svelerà in faccia all’universo tutte le azioni di lui e tutti gli interni segreti. Non giudichiamo gli altri; di loro ci è ignoto l’interno; ma giudichiamo noi stessi: esaminiamoci accuratamente, pesiamo tutte le nostre azioni, scendiamo nel fondo della nostra coscienza, frugando tutte le pieghe e i nascondigli del nostro cuore; ed imiteremo S. Paolo che si giudicava così da se stesso; ma imitiamo parimente s. Paolo che in un altro senso non si giudicava da sè, cioè se dopo un’esatta ricerca, non troviamo nulla di reprensibile in noi, senza troppo fidarci del nostro giudizio, rimettiamo a Dio il giudizio definitivo, ed affatichiamoci per la nostra salvezza con timore e tremito, ponendo la confidenza nella misericordia del Signore.

Aspirazione. Ah! Signore, non entrate in giudizio col vostro servo, poiché nessun uomo vivente sarà giustificato alla vostra presenza. O chiave di David, e scettro della casa d’Israele, che aprite e nessuno chiude, che serrate e nessuno apre, venite a sottrarre il prigioniero dalla carcere, il misero assiso nelle tenebre all’ombra della morte.

Graduale 

Ps. CXLIV: 18; 21
Prope est Dóminus ómnibus invocántibus eum: ómnibus, qui ínvocant eum in veritáte. [Il Signore è vicino a quanti lo invocano: a quanti lo invocano sinceramente.]
V. Laudem Dómini loquétur os meum: et benedícat omnis caro nomen sanctum ejus. [Signore: e ogni mortale benedica il suo santo nome.

Alleluja

Allelúja, allelúja,
V. Veni, Dómine, et noli tardáre: reláxa facínora plebis tuæ Israël. Allelúja [Vieni, o Signore, non tardare: perdona le colpe di Israele tuo popolo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secundum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc III: 1-6

Anno quintodécimo impérii Tibérii Cæsaris, procuránte Póntio Piláto Judæam, tetrárcha autem Galilaeæ Heróde, Philíppo autem fratre ejus tetrárcha Ituraeæ et Trachonítidis regionis, et Lysánia Abilínæ tetrárcha, sub princípibus sacerdotum Anna et Cáipha: factum est verbum Domini super Joannem, Zacharíæ filium, in deserto. Et venit in omnem regiónem Jordánis, praedicans baptísmum pæniténtiæ in remissiónem peccatórum, sicut scriptum est in libro sermónum Isaíæ Prophétæ: Vox clamántis in desérto: Paráte viam Dómini: rectas fácite sémitas ejus: omnis vallis implébitur: et omnis mons et collis humiliábitur: et erunt prava in dirécta, et áspera in vias planas: et vidébit omnis caro salutáre Dei.”

OMELIA I

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE IV.

 “L’anno quintodecimo dell’impero di Tiberio Cesare, essendo procuratore della Giudea Ponzio Pilato, e tetrarca della Galilea Erode, e Filippo suo fratello tetrarca della Galilea Erode, e Filippo suo fratello, tetrarca dell’Idurea della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i Pontefici Anna e Caifa, il Signore parlò a Giovanni figliuolo di Zaccaria, nel deserto. Ed egli andò per tutto il paese intorno al Giordano, predicando il battesimo di  penitenza per la remissione dei peccati: conforme sta scritto nel libro dei sermoni d’Isaia profeta: Voce di uno cbe grida nel deserto: Preparate la via del Signore; raddrizzate i suoi sentieri: tutte le valli si riempiranno, e tutti i monti e le colline si abbasseranno: e i luoghi tortuosi si raddrizzeranno, e i malagevoli si appianeranno: e vedranno tutti gli uomini la salute di Dio”. (Luc. III, 1-6).

Il divin Redentore Gesù dopo di aver passati trent’anni nell’oscurità della bottega di Nazaret, soggetto a Maria ed a S. Giuseppe, stava al fine per uscirne e dar principio alla sua pubblica predicazione. E poiché S. Giovanni Battista aveva da Dio ricevuto la gran missione di preparare gli uomini a ben ricevere Gesù ed a credere ai suoi divini insegnamenti, conveniva che, lasciato il deserto, dove si era recato sin dai più teneri anni a vivere da solitario e tutto occupato nelle cose celesti, si recasse sulle rive del Giordano a predicare la necessità della penitenza e delle opere buone. Così fece per l’appunto, ed è quello che ci racconta il Vangelo di oggi, tanto opportunamente scelto dalla Chiesa per questo tempo, in cui ci troviamo così vicini alla festa del Santo Natale. Di fatti noi potremo facilmente vedere come questo Vangelo ci parli anzitutto della venuta di Gesù Cristo, ci dica in seguito quale sia la preparazione, che dobbiamo tare a tale venuta, e ci dimostri da ultimo quale sarà il frutto della medesima.

1. Quando nostro Signor Gesù Cristo, giunto all’età di trent’anni, dava principio alla sua vita pubblica, a Roma il grande imperatore Augusto era morto, e gli era succeduto Tiberio, arrivato già al quindicesimo anno del suo regno. A Gerusalemme era pur morto lo scellerato e crudele Erode, che alla nascita di Gesù aveva ordinato la strage degli innocenti; ed il suo regno era stato diviso fra i suoi tre figli Erode-Antipa, Filippo ed Archelao. La Giudea era toccata a quest’ultimo; ma debole e violento, ad un tempo non andò guari che venne deposto dall’imperatore Augusto e mandato in esilio nelle Gallie; e così la Giudea venne annessa all’impero romano e già da venti anni vari governatori romani vi comandavano a nome dell’imperatore. Non è certo difficile il comprendere l’afflizione, anzi la rabbia, in cui si trovavano i Giudei per avere in tal guisa perduta la loro libertà, il loro regno, la loro patria. Quella terra Iddio l’aveva loro concessa operando tanti prodigi, dopoché Abramo ne aveva ricevuto da Dio una solenne promessa: ivi Giuseppe, figliuolo di Giacobbe, aveva fatto trasportare le sue ossa, Davide per molti anni aveva combattute le battaglie del Signore, Salomone aveva innalzato al solo vero Dio un magnifico tempio, a paragone del quale era ben poca cosa quello che, sebbene già tanto splendido, esisteva presentemente; ivi i monti, le valli, le pianure, i fiumi erano cose tutte, che parlavano mirabilmente ai Giudei e dicevano loro le grandezze e le meraviglie dei loro padri e dei santi Profeti: ed ora questa terra era uscita dal loro dominio e caduta in potere altrui! Considerando il loro decadimento, si infiammavano di furibondo livore e, di tanto in tanto, nella speranza di scuotere l’abborrito giogo, facevano delle insurrezioni, che però a nulla approdavano. La potenza delle aquile romane si era posata là da vera signora ed anche a costo di radere al suolo Gerusalemme, non ne sarebbe più partita. Presentemente, vale a dire l’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio, chi governava la Giudea, era il procuratore Ponzio Pilato, uomo irresoluto e debole, che commise poi, tre anni dopo, la più spaventevole delle iniquità, cedendo alla voce del popolo ebreo e condannando alla morte di croce il nostro divin Redentore. E mentre Pilato governava la Giudea, i due fratelli Erode-Antipa e Filippo, figli di Erode, continuavano ciascuno a governare la loro parte, cioè il primo la Galilea, il secondo l’Iturea e la Traconitide; ed un certo Lisania comandava un piccolo tratto di paese chiamato Abilene, e tutti costoro avevano più o meno propriamente il titolo di tetrarca, parola greca, che significa governatore della quarta parte di uno stato. Inoltre gran sacerdote o pontefice de’ Giudei era allora Caifa, genero di Anna, il quale era stato pontefice prima di lui, e che, per connivenza di Caifa e del procuratore romano, conservava pur tuttavia il suo titolo con una parte delle sue funzioni, presiedendo il sinedrio e continuando a godere d’una grande influenza. – Tale era lo stato politico della Giudea, quando lo Spirito di Dio parlò a S. Giovanni, figliuolo di Zaccaria, chiamandolo ad esercitare la sua missione sulle rive del Giordano. Il Vangelo di oggi ci reca appunto il tempo preciso della sua comparsa e lo annunzia con una solennità inusitata: L’anno quintodecimo dell’impero di Tiberio Cesare, essendo procuratore della Giudea Ponzio Pilato, e tetrarca della Galilea Erode, e Filippo suo fratello tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i pontefici Anna e Caifa, il Signore parlò a Giovanni, figliuolo di Zaccaria, nel deserto. – Ora, o miei cari, perché mai questa lunga enumerazione dei nomi di coloro, che allora comandavano nel paese di Giudea? Il santo Vangelo volle provare con ciò, che la famosa predizione di Giacobbe al suo letto di morte era avverata. Sul punto di mandare l’ultimo sospiro, circondato dalla numerosa sua famiglia, il Patriarca, illustrato da una luce divina, aveva detto: « Non sarà tolto da Giuda lo scettro, fino a tanto che sia venuto Colui, che dev’essere mandato, ed è egli che sarà l’aspettazione delle nazioni » (Gen. XLIX, 10). Di questa profetica parola la conseguenza naturale è questa: Quando più non regneranno i principi di Giuda, quando la reale famiglia di Davide avrà lasciato cadere lo scettro, allora sarà venuto il Messia, ch’è l’aspettazione delle genti. Ed ecco che i tempi predetti sono compiuti: La Giudea è soggetta all’Impero romano, e quelli che comandano in quel paese sono i commissari di Cesare. Ora essendo le cose in questo stato, il Signore parlò a S. Giovanni chiamandolo ad esercitare il suo ufficio di precursore.

2. Fattoci in tal guisa conoscere la venuta del Messia, il santo Vangelo nel metterci innanzi la predicazione di S. Giovanni, con la quale egli si studiava di preparare alla stessa gli Ebrei, indica pure a noi che cosa dobbiamo fare per prepararci degnamente alle prossime feste del santo Natale. – Dice adunque il Vangelo che Giovanni andò per tutto il paese intorno al Giordano, predicando il battesimo di penitenza per la remissione dei peccati: conforme sta scritto nel libro dei sermoni d’Isaia profeta: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore; raddrizzate i suoi sentieri. Tutte le valli si riempiranno, e tutti i monti e le colline si abbasseranno; e i luoghi tortuosi si raddrizzeranno, e i malagevoli si appianeranno. Ecco qual era la predicazione, che S. Giovanni faceva agli Ebrei. Ei predicava loro, dice S. Giovanni Grisostomo, il battesimo di penitenza per la remissione dei peccati, vale a dire, li esortava a pentirsi dei loro disordini, a confessarli, a fare degni frutti di penitenza, a ricevere il suo battesimo, il quale non rimetteva i peccati, ma era una preparazione a quello di Gesù Cristo, al quale era riserbato il rimetterli. Ed applicando a sé stesso esattamente la predizione, che il profeta Isaia aveva fatto di lui e della sua missione, si valeva ancora delle sue parole per adempierla. Isaia, dopo aver predetto la schiavitù, che subirebbero gli Ebrei in Babilonia, aveva altresì annunziato la loro liberazione, indicando il modo, con cui dovevano dal Signore meritarsela. Ma nel tempo stesso egli aveva annunziato la venuta di Gesù Cristo a liberare dalla schiavitù di satana tutto il mondo, e fin d’allora udiva la voce del banditore, che avrebbe intimato agli uomini di ben ricevere il loro liberatore. E questo banditore, per riuscire nel suo intento si sarebbe servito di quello, che si suol fare quando un gran principe va in qualche città, che si accomodano, e si adornano le strade, e si colmano i luoghi bassi. Così appunto faceva il Santo Precursore. Nel cammino della vita egli precedeva il Salvatore, affine di rendergli più agevole la strada, e preparargli la via nei cuori degli uomini. Quei cuori avevano bisogno di essere dirizzati, perché erano stati viziati dall’amore del mondo e dall’attaccamento alle creature. Per causa degli errori, dei vizi, della superbia, dell’ingiustizia, della disonestà, e di tanti altri peccati, in quei cuori vi erano come delle valli da riempire, dei monti da abbassare, dei sentieri tortuosi e malagevoli da raddrizzare e da appianare. Epperò solo la penitenza poteva operare questo felice risultato di togliere da quei cuori tutti gli ostacoli, che si frapponevano a ricevere il gran benefizio della venuta di Gesù Cristo, e S. Giovanni con uno zelo ammirando si era dato a predicarla, e mercé di Dio con grande frutto. Si accorreva a lui da ogni parte, veniva richiesto che cosa si dovesse fare; i pubblicani ed i soldati gli confessavano i loro peccati, ricevevano il suo battesimo, e così si preparavano a ricevere quello del Salvatore. Or bene la predicazione di Giovanni è la stessa che conviene a noi. Quanto egli raccomandava agli Ebrei è quanto la Chiesa oggi raccomanda a noi. Anche noi, fra pochi giorni aspettiamo il Messia; la Chiesa sta per mostrarcelo bentosto nel suo presepio, sulla paglia della sua stalla. Ella è per dirci tutte le circostanze della benedetta sua nascita: i pastori che vegliano nella pianura, l’Angelo dal ciel disceso per annunziar loro le meraviglie di Betlemme, i festosi cantici intonati dall’esercito celeste, i pastori che lasciano i loro greggi per recarsi alla città di Davide ad adorare il Bambinello involto nelle fasce e deposto in una mangiatoia. Ella è per invitarci a porci in cammino pel santo e giocondo pellegrinaggio; e s’Ella non dice più: Cristiani, a Betlemme! ci dirà almeno: Cristiani all’altare! Troverete sotto gli eucaristici velami lo stesso Gesù, che trovarono i pastori sotto i lineamenti dell’infanzia. Più avventurosi dei primi adoratori del presepio, voi potete toccare, ricevere, portare nel vostro seno questo re degli Angeli, che per voi si è fatto il pane di vita. Ma ancor voi dovete prepararvi a riceverlo con la vera penitenza, e con la risoluta correzione della vostra vita. Pentitevi adunque sinceramente delle vostre passate colpe, lavate accuratamente le vostre macchie con una buona Confessione e contrizione vera. Colmate le valli, cioè rinunziate ai peccati di negligenza, pigrizia, omissione, che fecero un vuoto nelle anime vostre. Abbassate i monti ed i colli, cioè umiliatevi profondamente al vedere le vostre imperfezioni, invece di innalzarvi agli occhi vostri, seguendo le illusioni del vostro amor proprio, che non può far altro che indurvi in errore. I sentieri torti diventino dritti, cioè siate aperti e sinceri, nemici della menzogna e della doppiezza, della finzione e dell’astuzia. Ed appianate gli aspri cammini, cioè frenate la violenza di un carattere incapace di sopportare alcun che, ed a quella durezza ed asprezza d’umore, di cui tutti si lagnano, succeda la dolcezza e pazienza cristiana, poiché colui che andate a ricevere, dal tabernacolo, ove risiede, vi predica la dolcezza, la pazienza, l’amor del prossimo ed il perdono delle ingiurie. Ed allora in seguito a questa santa preparazione godrete anche voi i frutti della venuta di Gesù Cristo.

3. S. Giovanni, conchiude il Vangelo di oggi, dopo aver predicato la penitenza e la rinnovazione della vita, soggiungeva: E tutti gli uomini vedranno la salute di Dio; Et videbit omnis caro salutare Dei. E voleva dire: Il Messia, apportatore della salute comparirà presto in pubblico e presto si darà a vedere agli uomini insegnando agli stessi la via del cielo, e tutti, non solamente gli Ebrei, ma ogni uomo a qualunque nazione appartenga e in qualunque tempo egli viva, potrà vedere e conoscere per la fede la salute di Dio, cioè questo Salvatore, mandato da Dio per la salute eterna di tutti. Or ecco il frutto, che dalla venuta del Salvatore, ancor noi, mercé la penitenza e le buone opere, possiamo guadagnare, la nostra eterna salute, il paradiso per tutta l’eternità. E potremmo noi fare un guadagno più grande, più importante di questo? Potremmo noi desiderare, volere qualche cosa di meglio? Pur troppo è vero, ci sono di coloro, che non stimano punto questo bene supremo. L’eterna salute è il vero tesoro, la vera felicità, per la quale l’uomo è stato creato. Ora si potrebbe dire che la stimi colui, il quale per un piacere da nulla, per il gusto di un momento se ne rende indegno e si mette a rischio di perderla eternamente? No, certamente, costui non stima la sua salvezza e sarà impossibile che la consegua. Per poter dire che si stima il Paradiso bisogna essere pronti a far piuttosto getto di ogni altra cosa. Che cosa farebbe un ricco mercante, che, viaggiando sopra di un bastimento, oltre a tante stoffe porta seco una cassetta di preziosissime perle, qualora fosse assalito dalla tempesta? Costretto dai marinai a gettare la sua roba nel mare per alleggerire la nave, getterebbe senz’altro tutte le stoffe, ma non getterebbe giammai quella cassetta di gioie, che è il suo più gran tesoro. Così chi si trova nel caso o di perdere l’onore, la sanità, la roba, oppure il Paradiso, deve dire: Vada l’onore, vada la sanità, vada la roba, ma si guadagni, si guadagni il Paradiso. E come? esclamava Tommaso Moro alla sua donna, che lo tentava ad acconsentire alle inique pretese di Arrigo VIII, come? per dieci o vent’anni di vita, che tu mi prometti e non mi assicuri, per dieci, vent’anni di vita nella stima e nell’amore di un re della terra, tu vuoi che io rinunzi all’eternità del Paradiso nella stima e nell’amore di un Dio? Ah! stolta mercantessa che tu sei; allontanati da me: recede, recede a me, stulta mercatrix. Benché il più delle volte non è mai tanto, che da noi si deve fare. Ordinariamente il tutto si riduce a fuggire una cattiva compagnia, a rompere una brutta catena, a lasciare la lettura di un cattivo libro o giornale, a vincere una tentazione e rinunziare ad uno schifoso piacere: e noi non saremo disposti a fare questo poco? Verrebbe senza dubbio un giorno, nel quale. come Esaù, che per una scodella di lenticchie si lasciò sfuggir di mano il diritto di primogenitura, ruggiremmo con grandi clamori, ma indarno. Or dunque facciamo dell’eterna salute la giusta stima. Ma in secondo luogo vogliamola e vogliamola efficacemente. Come non tutti coloro, che dicono: Signore, Signore; entreranno nel regno dei cieli: Non omnis qui dicit, Domine, Domine, intràbit in regnimi cælorum (Matt. VII, 21); così non tutti quelli, che dicono: vogliamo salvarci, vogliamo andare in Paradiso, vi andranno; ma solo coloro, che lo vogliono efficacemente. E per volerlo efficacemente bisogna far realmente quel che bisogna per guadagnarlo; bisogna cioè praticare la predicazione di S. Giovanni Battista, che non fu diversa da quella, che per questo riguardo fece poi Gesù Cristo e fa tuttora la Chiesa; bisogna far penitenza e correggere i nostri mali costumi, bisogna in sostanza osservare i Comandamenti di Dio, i Comandamenti della Chiesa, pregare, frequentare i Sacramenti, le chiese, praticare la virtù, fuggire costantemente il peccato, sopportare con pazienza le tribolazioni, fare opere buone. Perché se Gesù Cristo è venuto quaggiù per operare la salute di tutti, è certo tuttavia, che non si salveranno che coloro, i quali corrisponderanno con la bontà della vita alla grazia di Dio. Intanto aspettando di vedere poi la nostra eterna salute al termine della vita, prepariamoci fin d’ora a vedere e ricevere nei nostri cuori il Divin Salvatore in queste feste del Santo Natale.

II OMELIA

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

DISCORSO IV

– Sopra la qualità della penitenza. –

Parate viam Domini, rectas facite semitas eius.”

 [Matth. III]

Mi valgo ancora quest’oggi, fratelli miei, delle parole e delle voce di s. Giovanni Battista per annunziarvi una verità che faceva il soggetto ordinario dei suoi discorsi. Preparate le strade del Signore, diceva al popolo il santo precursore, perché il regno del cielo si avvicina. Affrettatevi di prevenire ira del Signore, la quale è pronta a colpirvi. Già la scure è alla radice dell’albero, e ben presto quest’albero verrà tagliato per esser gettato nel fuoco. – Fate dunque frutti degni di penitenza, se volete schivare la disgrazia che vi minaccia: Pænitentiam agite. Il regno del cielo si avvicina, posso dirvi io pure con s. Giovanni Battista, vicini voi siete al momento in cui deve il Messia di nuovo nascere nei vostri cuori e regnar in voi colla sua grazia. Nessun mezzo più acconcio della penitenza per prepararvi alle grazie ch’Egli vuol farvi; forse anche voi siete molto vicini all’ultimo momento di vostra vita. Affrettatevi dunque a purificare la vostra anima; e giacché la penitenza è l’unico mezzo che vi resta per meritare la salute, abbracciatela con piacere ed assicuratevi l’amicizia del nostro Dio con i gemiti di un cuor contrito e con i santi rigori di una vita mortificata e paziente; ma riflettete che la minima dilazione o una negligente indolenza può perdervi. Sia dunque pronta la vostra penitenza, sia sincera; a questa prontezza, a questa sincerità della vostra penitenza è annessa l’amicizia del vostro Dio.

1.° Punto. Egli è ben raro trovar peccatori talmente ostinati nel male che non vogliano giammai convertirsi. Perciò non ve n’è alcuno che non si proponga di far un giorno penitenza dei suoi peccati; ma il più gran numero rimette questa penitenza ad un tempo avvenire. Non vorrebbero rinunziare alle delizie eterne, ma nemmeno vogliono interdirsi i piaceri della vita. Così dimorano nei loro peccati per godere dei piaceri di quaggiù, e contano sopra una penitenza differita per avere parte ai piaceri del cielo. Ma quanto è ingiuriosa a Dio questa dilazione! quanto è funesta pel peccatore! Poiché differire la propria conversione è ad un tempo abusarsi della bontà divina, da cui prende baldanza per continuare nel disordine e disprezzare l’ira di Dio, la quale accerta l’impenitenza e la dannazione all’anima che differisce la sua conversione. – E per farvi subito comprendere l’ingiuria che voi fate a Dio allorché differite la vostra penitenza, vi prego a considerare qual sia la bontà di Dio a prevenire, a ricercare il peccatore nei suoi traviamenti: lo stimola, l’invita a ritornare a Lui, la sua misericordia gli stende le braccia per riceverlo. Venite a me, dice ai peccatori questa divina misericordia, voi tutti che carichi siete, ed io vi alleggerirò del peso che vi opprime: Venite ad me, omnes qui laboratis et onorati estis, et ego reficiam vos (Mat. XI). Convertitevi a me, ed Io mi convertirò a voi, vi renderò la mia amicizia, che voi avete col peccato perduta: Convertimini ad me, et ego convertar ad vos (Zach. 1). Ma che ne avviene? Lungi di arrendersi a quei teneri inviti e di lasciarsi persuadere, insensibile il peccatore alle finezze della bontà di Dio, se ne allontana, disprezza le ricchezze della sua grazia,  ricusa la sua amicizia; quale ingratitudine! Che direste voi di un suddito divenuto nemico del suo principe e condannato a soffrire una morte vergognosa e crudele, il quale disprezzasse le offerte che il Principe gli facesse di rendergli la sua grazia ed amicizia; e non si degnasse di neppur ascoltarlo, quando quegli si abbassasse egli stesso sino a venir in persona a cercar quel colpevole nella oscura prigione dove sta rinchiuso? Il disprezzo di una sì grande indulgenza non vi sembra degno di tutta l’ira di sì buon principe? Tal è il vostro ritratto, o peccatori ribelli alla voce del vostro Dio che vi offerisce il perdono. Questo Dio di maestà infinitamente più elevato sopra di voi che il più gran re della terra sopra l’ultimo dei suoi sudditi, si degna abbassarsi sino a voi, vuole liberarvi dalle catene che prigioni vi tengono sotto l’impero del demonio; e voi tocchi punto non siete dai suoi modi di procedere, sordi siete alla sua voce, insensibili alle finezze del suo amore! Una tale ingratitudine non merita forse che una sì grande bontà vi abbandoni, che si cangi in una giustizia rigorosa, la quale vi opprima col peso delle sue vendette? E perciò aspettarvi dovete di provarle per vostra disgrazia, mentre, in tal modo abusandovi di questa bontà, di questa pazienza di Dio, vi accumulate, come dice l’Apostolo, un tesoro d’ira, di cui sentirete tutto il rigore nel giorno delle sue vendette: Thesaurizas tibi tram in die iræ (Rom. II). Voi vi lusingate che la grande bontà di Dio vi aspetterà e vi darà tempo e grazia per far penitenza; speranza vana e fallace! No, fratelli miei, voi non avrete né quel tempo né quella grazia: voi disprezzate con queste dilazioni questo Dio di bontà, e vi disprezzerà Egli pure; voi lo rigettate al presente che vi cerca, anch’Egli rigetterà voi quando lo cercherete: Vocavi et renuistis; ego quoque in interitu vestro ridebo et subsannabo (Prov. 1). Sì, peccatori,se voi differite ancora la vostra conversione, voi morrete nel vostro peccato e cadrete in un abisso di miserie, perché non vi sarete approfittati del tempo della misericordia: In peccato vestro moriemini (Jo VIII). Egli è dunque di vostro interesse altrettanto che della gloria di Dio il fare una pronta penitenza. Perciocché differendola, quali perdite non fate e di quali rischi non siete voi minacciati? Oimè! quel poco bene che fate nello stato di peccato è interamente perduto pel cielo: voi pregate, digiunate, fate limosine, adempite molti doveri che la Religione v’impone, assistete alle Messe, ai divini uffizi, rendete al vostro prossimo qualche servizio di carità: poiché non vi è alcuno, dice S. Agostino, la cui vita sia così sregolata che resti interamente spoglia di ogni azione virtuosa. – Ora tutte le buone opere che voi fate essendo nemici di Dio non sono di alcun merito per l’eternità; avrete la fatica della virtù senza averne la ricompensa. É vero che quelle buone opere vi possono procacciar grazie per la conversione per rientrare nell’amicizia di Dio da voi perduta; ma a che vi serviranno quelle grazie, se non vi cooperate e se morite nell’impenitenza finale? Non serviranno esse che a farvi condannare con più rigore. Inoltre siete voi l’arbitro dei vostri giorni?

l.° La morte non può forse sorprendervi, come ha sorpreso tanti altri che avevano fatto come voi il progetto di convertirsi e che non hanno avuto il tempo di eseguirlo? 2.° Quando ben anche aveste il tempo di far penitenza, ve ne darà Iddio forse la grazia, dopo avergli sì lungo tempo resistito? Non dovete temere all’opposto che Dio non punisca colla sottrazione delle sue grazie l’abuso che ne avreste fatto? Ma abbiate pure il tempo e la grazia di far penitenza, voi non la farete a cagione della gran difficoltà che vi troverete e che nascerà dell’abito del peccato che avrete contratto. – Imperciocché l’abito del peccato è l’effetto ordinario della dilazione della penitenza; un peccato commesso di cui uno non si corregge ne tira un altro, questo un terzo; si cade d’abbisso in abisso, Abyssus abyssum invocat (Psal. XLI), ed insensibilmente si forma la catena fatale delia riprovazione del peccatore. Da che una volta impegnati ci troviamo nell’abito del peccato, quest’abito diventa in noi una seconda natura, che è quasi impossibile di cangiare. Si forma bensì qualche progetto di conversione, ma si rimette sempre all’indomani; sono desideri inefficaci e superficiali che non mettonsi mai in esecuzione: si portano questi desideri sino alla morte: si muore con questi desideri e si comparisce al giudizio di Dio senza aver altra cosa a presentargli che vani progetti che consumano la dannazione. Ah! fratelli miei, giacché Dio vi offerisce nel giorno d’oggi il perdono, profittatevi di un benefizio che forse domani non sarà più in vostro potere: la grazia ha i suoi momenti; guai a chi li lascia passare senza profittarsene. Di più, non avvi alcun ostacolo che superar non possiate con l’aiuto del cielo.  Le pratiche, le corrispondenze peccaminose che avete con certe persone, voi le abbandonereste pure, se si trattasse della vostra fortuna; e la vostra eterna salute non sarà un motivo forte abbastanza per staccarvene? Quei legami sono forse maggiori di quelli che legata tenevano altre volte la Maddalena al mondo? Ora, tosto che la luce della grazia risplendette ai suoi occhi, non rinunziò ella generosamente a tutti i piaceri del secolo? Non stette a deliberare, non esitò punto di andare a trovar Gesù Cristo, l’Autore della salute. Perciò la remissione de’ suoi peccati seguì da vicino la sua penitenza: grazia che forse non sarebbe più stata in tempo di ricevere, se ella avesse lasciata fuggire l’occasion favorevole che se le presentava. – Del resto, fratelli miei, per scusare le vostre colpevoli dilazioni, invano alleghereste l’impaccio e l’impedimento degli affari in cui impegnati vi trovate: mentre, ditemi, ve ne prego, avete voi un più grande affare di quello della vostra salute? E a che vi servirebbe l’esser riusciti in tutti gli altri, se mancate in questo? Ma le mie passioni sono sì vive, dite voi; lo saranno forse meno col tempo, quando gli abiti invecchiati le avranno fortificate e dato loro un impero assoluto sopra di voi? Queste passioni sono forse più veementi di quella da cui dominato era Saulo allorché andava a perseguitare i Cristiani? Con tutto ciò, tosto che la voce di Gesù Cristo si fece udire alle sue orecchie, depose l’armi, umiliato, prostrato a terra chiese al suo vincitore: Signore, che cosa volete che io faccia? Domine, quid me vis facere (Act. 1)? Il persecutore della Chiesa ne diventa lo zelante difensore.

Pratiche. Felici disposizioni, in cui dovreste, fratelli miei, entrare in questo momento che la grazia vi fa intendere la sua voce e vi sollecita darvi a Dio. Signor, dovete dirgli, che cosa volete che io faccia? Domine quid me vis facere? Volete che, cessando dal peccare, io cessi dal farvi la guerra, che io rinunzi a quell’oggetto che m’incanta e mi perde: sì, in questo momento io abbandono quel peccato, rinuncio a quell’occasione in cui la mia virtù ha fatto tante volte naufragio, bandisco dal mio cuore quell’idolo indegno di occuparlo. Signore, che cosa volete che io faccia? Domine, etc. Voi volete ch’io mi corregga di quel cattivo abito in cui marcisco da sì lungo tempo: sì, me ne correggerò ed mi applicherò alla pratica della virtù che gli è contraria. Voi volete che io restituisca quella roba che conservo contro i rimorsi della mia coscienza; sì, la restituirò e risarcirò tutti i danni che ho cagionati al mio prossimo. Voi volete ch’io mi riconcili con quel nemico che da tanto tempo perseguito: sì, quest’oggi il farò, andrò a trovarlo per far con lui la pace: Domine, etc.Voi volete che io sia assiduo a frequentare i Sacramenti, che sia il buon esempio della famiglia, che divenga più umile, più modesto, più mansueto, più paziente, più vigilante sopra di me, più esatto, più fervente ad adempier i miei doveri: la risoluzione è presa sin da questo momento, o mio Dio: Dixi hunc cæpi. Io voglio cominciar l’opera, voglio correggere quel cattivo umore che mi rende insopportabile agli altri; non sarò più sensibile sul punto d’onore, non sarò più amante dei miei agi e dei miei comodi, sarò più mortificato, più ritenuto, più fedele ad evitare sino la minima apparenza di male, riformerò in me tutto ciò che vi conoscerò d’irregolare, per non seguire altra regola che la vostra volontà: la mia penitenza sarà non solo pronta, ma sincera ancora e vera.

II. Punto. Richiede la giustizia che siavi l’uguaglianza tra la soddisfazione che si rende e i diritti che si sono violati. Bisogna dunque che la penitenza abbia una proporzione coll’ingiuria che il peccato fa a Dio, ch’essa ripari tutto il disordine del peccato, che faccia dell’uomo peccatore un uomo tutto nuovo, riformando il suo cuore e le sue azioni; e perciò bisogna ch’essa prenda la sua origine nel cuore e che si manifesti con le opere. Due condizioni essenziali per rendere la penitenza sincera, che l’apostolo s. Paolo ha perfettamente spiegate allorché esortava i fedeli a rinnovarsi nello spirito interiore: Renovamini spiritu mentis vestræ (Eph. IV). E diceva loro di far servire alla propria giustizia e santità i membri che servito avevano all’iniquità e alla colpa: Sicut exhibuistis membra vestra servire immunditiæ et iniquitati, ita nunc exhibete membra vestra servire iustitiæ (Rom. 6)..La prima funzione della penitenza si è la riforma del cuore. Questa è la prima soddisfazione che la giustizia di Dio chiede dal peccatore. Convertitevi a me, dice Iddio, in tutto il vostro cuore:  Converiimini ad me in toto corde vestro. (Joel. 2). Spezzate i vostri cuori piuttosto che le vostre vestimenta: Scindite corda vestra et non vestimenta vestra. Se voi m’aveste richiesti sacrifizi, diceva a Dio il santo Re Profeta, io ve ne avrei dati: Sacrifìcium dedissem utique (Psal.50); ma so, o mio Dio, che ogni altro sacrificio, fuorché quello di un cuor contrito ed umiliato, è incapace di calmare la vostra giustizia, e che questo sempre la disarmerà: Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies. E perciò, offrendovi il mio cuore infranto dal dolore, spero offerirvi un sacrificio che non avete mai rigettato: Cor contritum et humiliatum non despicies. Ma perché mai chiede Iddio a preferenza il sacrificio del cuore? Perché, dicono, i santi Padri e i teologi, si è nel cuore che consiste tutta la malizia del peccato, mentre il peccato, dice s. Tommaso, è un movimento del cuore che si stacca da Dio per unirsi alla creatura: Peccatum est aversio a Deo et conversio ad creaturam. Se le azioni dell’uomo sono peccati, è il cuore che loro comunica la sua malizia. Dal cuore, dice Gesù Cristo, vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i latrocini, i falsi testimoni, le bestemmie; non vi sarebbe mai peccato alcuno nelle azioni dell’uomo, se il cuore non vi avesse parte. Or da ciò che si conchiude, se non che, per fare una vera penitenza, convien primieramente cangiar il cuore, farne uno tutto nuovo: Cor mundum crea in me, Deus. E siccome col peccato il cuore ha dato la preferenza alla creatura sopra il suo Dio, così con la penitenza deve dare la preferenza a Dio sopra la creatura. Odiar deve ciò che amava, amare ciò che odiava. Ecco, dice s. Agostino, il vero carattere della penitenza, l’odio del peccato e l’amor di Dio: Pœnitentiam non facit nisi odium peccati et amor DeiMa notate, fratelli miei, che quest’odio del peccato non è soltanto una semplice avversione che si concepisce della sua bruttezza: i più gran peccatori odiano il peccato e nel tempo stesso che corrono dietro ai piaceri, che appagar possono le loro passioni, non hanno in mira, dice s. Agostino, di far alcun male; vorrebbero eziandio che nessun peccato vi fosse nella ricerca del piacere o del bene che si propongono. Ma sono sempre colpevoli, perché sanno che non possono possedere quel bene, godere de’ piaceri che la legge del Signore loro proibisce, senza ribellarsi contro questa divina legge; ed è in questa ribellione che consiste il disordine del peccato, di modo che non basta per essere vero penitente odiare semplicemente il peccato, ma bisogna ancora odiare e detestare ciò che è stato la cagione e la materia del peccato; bisogna staccarne il suo cuore per unirlo a Dio. Perciò, fratelli miei, voi sarete veri penitenti, se, dopo aver abbandonato il vostro cuore a quell’oggetto che era l’idolo della vostra passione, ve ne separerete interamente e per sempre, se rinunzierete ad ogni società con quella persona che vi piace e che con le sue funeste lusinghe ha sedotto il vostro cuore. Voi sarete veri penitenti, se, dopo aver posseduto quella roba che non v’apparteneva, la renderete al suo legittimo padrone; se dopo di aver attaccato il vostro cuore alla roba ancora che è vostra propria ed il cui amore eccessivo vi rendeva insensibile alle miserie dei poveri, piangerete quel troppo grande attacco, e sovverrete all’indigenze dei vostri fratelli. In una parola, fate a Dio un generoso sacrificio di tutto ciò che è stato per voi causa ed occasione di peccato; cangiate sentimenti ed inclinazioni per gli oggetti che avete amati e ricercati in pregiudizio dell’amore che dovevate a Dio: senza questo cambiamento interiore, senza questa riforma di cuore, ogni altra penitenza è vana ed ipocrita, dice S. Agostino; mentre bisogna, dice questo santo Padre, che la penitenza cangi l’uomo prima di cangiare le sue opere: Prius mutandus est homo, ut opera mutentur . Ma contentarsi di una semplice rinnovazione di spirito e di cuore senza cangiar di costumi e di condotta, senza espiare il peccato con opere esteriori di penitenza, non è che far una penitenza dimezzata; si è anche render sospetta la penitenza del cuore, la quale per esser sincera e vera deve produrre dei frutti: Facite fructus pœnitentiæ. Ora questi frutti consistono primieramente in una intera riforma che il peccatore deve fare dei suoi costumi e delle sue azioni, in una esatta fedeltà a compiere tutti i suoi doveri: mentre non basta per far penitenza cessar dal far il male, dice il concilio di Trento; bisogna ancora far il bene. Non basta lasciar le strade dell’iniquità, bisogna ancora camminare nei sentieri della giustizia, bisogna adempiere le sue obbligazioni riguardo a Dio, al prossimo e a se stesso: riguardo a Dio rendendogli l’onore, l’amore ed il rispetto che sono dovuti alla sua suprema maestà, alla sua bontà infinita. Come adunque ci persuaderete, fratelli miei, che vi siete corretti delle vostre negligenze nel servizio di Dio, che avete ripigliati sentimenti di pietà e di religione, quando non sarete maggiormente assidui all’orazione né ai divini uffizi né agli altri esercizi di pietà, quando non vedremo in voi che alienazione per la parola di Dio e per tutto ciò che riguarda il divin culto? La vostra penitenza è vana, dice Tertulliano, poiché non avvi alcun cangiamento nella vostra condotta. Conviene inoltre adempiere le vostre obbligazioni riguardo al prossimo: dovere di carità per soccorrere il povero, dovere di giustizia per rendere a ciascuno quanto gli è dovuto, per vegliare sopra le persone di cui avete la cura, per edificare con le vostre virtù quelli che avete scandalizzati coi vostri disordini. Ora potremo noi dire, e voi medesimi potrete pensarlo, che siete veri penitenti, quando vedremo sempre in voi la medesima durezza per i poveri, la medesima avidità nell’usurpare i beni altrui, la medesima negligenza nel mantenere i vostri figliuoli, i vostri servi in buon ordine, sempre i medesimi scandali che davate per lo addietro? Finalmente voi avete dei doveri che vi sono personali: doveri di sobrietà, di carità e di penitenza. Ma qual apparenza che queste virtù risiedano in un uomo collerico, bestemmiatore, intemperante, libero nelle sue parole, dissoluto nelle sue azioni? Le vostre parole e le vostre opere palesano quel che voi siete; e se è vero il dire con s. Agostino che, cangiato il cuore, si cangiano ancora le azioni : muta cor, et mutabitur opus, non bisogna forse conchiudere per ragion dei contrari che se non evvi alcun cangiamento nelle azioni, niuno avvenne anche nel cuore? Aggiunsi che, per fare degni frutti di penitenza, convien espiare il peccato con opere esteriori, che obbligano ad uno stesso tempo e l’anima ed il corpo del penitente. Infatti, giacché il corpo è stato il complice del peccato, deve anche aver parte nella penitenza; se ha goduto dei piaceri vietati dalla legge di Dio, deve anche soffrirne la pena; se ha servito all’ingiustizia e all’iniquità, deve anche servire alla santità e alla giustizia: Sicut exhibuistis membra vestra servire immunditiæ et iniquitati, ita nunc exhibete membra vestra servire iustitiæ. Tale è stato in tutti i secoli il sentimento e la pratica della Chiesa e dei santi; quindi quelle penitenze severe, quei digiuni lunghi e rigorosi che s’imponevano nella primitiva Chiesa a certi peccatori, che ammessi non erano alla partecipazione de’ santi misteri se non dopo aver lungo tempo pianto e portato il peso della pena ai loro peccati dovuta. È vero che la Chiesa per condiscendenza verso i suoi figliuoli si è molto rilassata di sua antica disciplina; ma non ha essa preteso di distruggere lo spirito di penitenza, il quale, secondo la testimonianza del Vangelo, è spirito di mortificazione, di crocifiggimento della carne, d’annegazione di se stesso; senza questo non possiamo lusingarci di essere Cristiani, molto meno di esser penitenti. Infatti la penitenza, dicono i ss. Padri, è un Battesimo laborioso: dunque nella penitenza è necessaria una santa severità; deve l’austerità farne il carattere; dopo il naufragio convien farsi violenza per giungere al porto: quindi il peccatore pretender non può alla felicità eterna, se non punisce sé stesso a proporzione del piacere che ha gustato nel peccato. Ora, io vi domando, un peccato è egli assai punito, detestando solamente la sua vita passata, cessando di malfare? E potremo noi persuaderci che un ubriacone, per esempio ed un impudico siano assai puniti perché recitano alcune preci o fanno qualche limosina, se non aggiungono opere soddisfattorie e penose, se non mortificano i loro corpi per espiare le commesse dissolutezze? No certamente. Altrimenti la riconciliazione del peccatore con Dio non sarebbe sì difficile, come ci dicono i libri santi. Con tutto ciò, oh cosa strana! Sono i più gran peccatori quelli che vogliono essere trattati con più riguardo; il solo nome di penitenza li spaventa, oppure non vogliono che penitenze comode e conformi alla loro inclinazione, penitenze che non li molestino e che raddolcir sappiano con temperamento che l’amore proprio loro suggerisce. Vogliono essere penitenti, ma non vogliono che lor ne costi pena. Ah! non così hanno fatto penitenza i santi: datisi ai lodevoli rigori di una vita mortificata e penosa, s’interdicevano i piaceri più permessi; sempre in guerra con se stessi si dinegavano sino le cose le più necessarie alla vita, e l’unica consolazione che gustavano era di vivere sulla croce con Gesù Cristo, e dimorarvi sino alla morte.

Pratiche. Sopra tal santi esempi dobbiamo noi d’or innanzi regolare la nostra condotta. Iddio nella sua misericordia ci attende; ci ama ancora benché peccatori, ma rimette i suoi diritti nelle nostre mani. Se abbiamo ancora qualche amore per questo Dio di bontà, vendichiamolo degli oltraggi che ha da noi ricevuti e proporzioniamo la nostra penitenza al numero e all’enormità dei nostri misfatti. Laonde, fratelli miei, voi che avete fatto danno al vostro prossimo, non vi contentate di restituire la roba mal acquistata, date ancora del vostro ai poveri. A voi che vi siete abbandonati all’impurità, all’intemperanza, convien digiunare, mortificarvi, privarvi a mensa di qualche vivanda che più lusinghi il vostro appetito; troncate almeno certe soperfluità le quali non servono che a nutrire la delicatezza e sono sorgente di peccati. Voi che siete stati liberi nelle parole, che avete macchiata con le vostre maldicenze la riputazione del vostro prossimo, condannate la vostra lingua ad un volontario silenzio. Voi, voluttuosi, allontanate i vostri sensi dagli oggetti che possono lusingarvi, riteneteli nel contegno e nella soggezione per punire la libertà che loro avete data ed il cattivo uso che avete fatto del vostro corpo. Voi che avete frequentate case sospette, amicizie pericolose, evitate queste società, condannatevi al ritiro, ovvero se uscite, ciò sia soltanto per andar a visitare Gesù Cristo nel suo santo tempio, oppure nei suoi membri che soffrono. Se la vostra penitenza non uguaglia nella sua severità l’enormità dei vostri mancamenti, le sia almeno proporzionata nella durata; vale a dire, passate tutta la vostra vita nel far penitenza di peccati che hanno meritato di essere puniti per una eternità; voi dovete tanto più perseverare nella pratica della penitenza, perché senza di essa non terrete giammai le vostre passioni in freno; esse si ribelleranno di nuovo, e voi ricadrete nel vostro primo stato. Ricordatevi che questa penitenza, per lunga ch’ella sia, è leggerissima in paragone di quella che fareste nell’inferno, e non dimenticate mai la felicità che vi è riserbata nel cielo. Cosi sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Luc 1: 28
Ave, María, gratia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

Secreta

Sacrifíciis pæséntibus, quǽsumus, Dómine, placátus inténde: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno alle presenti offerte: affinché giovino alla nostra devozione e alla nostra salvezza.]

Comunione spirituale: https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Is. VII: 14
Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium: et vocábitur nomen ejus Emmánuel. [Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio: e si chiamerà Emanuele.]

Postocommunio

Orémus.
Sumptis munéribus, quǽsumus, Dómine: ut, cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Assunti i tuoi doni, o Signore, Ti preghiamo, affinché frequentando questi misteri cresca l’effetto della nostra salvezza.]

Preghiere leonine https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Ordinario della Messa https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (91)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (2)

CAPO II.

Quanto sieno indegni di credito gli ateisti.

I.

I . Non par possibile, che l’uomo introdotto in questo mondo, quasi in un tempio, affinché in nome di tutte le creature offerisca alla divinità sacrifizio di lode eterna, degeneri poi del suo grado sì enormemente, che di’ sacerdote si rivolga in ribelle, né solo contenda al suo sovrano l’omaggio, ma infino l’essere. Eppur così non prevaricasse più d’uno! Dixit insipiens in corde suo: Non est Deus(Ps. XIII. I ). Vero è, che se all’uomo è difficile l’avanzarsi al più alto della virtù, non gli è forse meno difficile l’difficile l’arrivare al più profondo del vizio. Ond’è che innanzi che uno divenga ateista vi vuole assai: dovendo egli a tal effetto, non solo perdere il senno, ma voler perderlo. Ora, perché il rinvenire l’origine de’ malori è gran parte della lor cura, facciameli a rinvenir quella dell’ateismo, per pura brama di convertire, a chi ne sia per sorte infetto, la vipera in medicina.

II.

II. La sorgente più consueta della vertigine non è nel cerebro, come la gente si crede, ella è nello stomaco, il quale pieno di maligni umoracci, manda alla testa quegli aliti impetuosi che, sconvolgendola, le danno insino a stimare che i monti ballino. Tanto accade nel caso nostro. La origine di questa incredulità sì caliginosa non si ha da cercare immediatamente nell’intelletto alterato, ma nella volontà, la qual carica di ogni fracidume di vizio, solleva dal suo seno lumi nerissimi, per cui viene alla mente quel capogiro che non le lascia tenere per saldo e stabile né anche il primo motore (Talvolta la corruzione discende dal cervello al cuore, tal’altra monta dal cuore al cervello. Le passioni della volontà ed i traviamenti dell’intelligenza sì rispondono mutuamente, e si dividono amichevolmente il dominio dell’anima).

III. Io certamente non so chi vi siate voi che avete pigliato a scorrere queste carte. Mi giova credere, che senza fallo voi siate fedele a Dio. Ma se foste uno di quei che neppur lo ammettono, deh contentatevi, che da solo a solo io vi chiegga in segreto sommo (giacché qui parliamo a quattr’occhi!, come avete mai fatto a scancellare dal fondo della vostra anima quei sentimenti più pii che vi stimolavano a riconoscere un Fabbricatore supremo dell’universo, ed a venerarlo (Queste parole ci ricordano quelle altre ragguardevoli di Tertulliano: « Oh! testimonium animæ naturaliter christianæ! »)? Non potete già dire, che siate nato ateista; vi siete fatto, e fatto, se si consideri, a poco a poco. Confessatemi dunque per quella divinità, cui non date fede: quali sono quei gradi per cui veniste a cadere in sì gran delirio? Non credo io già, che la integrità de’ costumi, la continenza, la carità, la pazienza, e molto meno la mortificazione indefessa di voi medesimo vi abbiano persuaso, che Dio non v’è (Un animo morigerato, e casto, ed adorno di elette virtù non può non sentire Iddio, che è santità e purezza infinita, ed in sentirlo ne riconosce e ne adorala viva presenza. Un cuore ben fatto non fu ateo giammai). Ve l’ha persuaso la vaghezza di vivere, come fan le bestie, a capriccio. E una dottrina sì misera, che si apprende unicamente nel lezzo e ne’ lupanari, sarà la vera? Dove mai si trovò, che a penetrar a più bella di tutte le verità fosse di mestieri mettersi sotto i piedi la temperanza? Anzi fu perpetuo parere di tutti i saggi, che ad indagare qualunque verità, non pure alta, ma comunale, nulla giovi più che l’avere libero il cuore dalle passioni troppo abili ad ingombrarlo (Come le passioni ci presentano le cose ben altre da quel, che sono, ossia alterate, così la mente spassionata non può non vedere gli oggetti quali sono effettivamente in se stessi, ed accogliere la schietta luce della verità). E come dunque chi più si lasci dominare dall’ira, dall’ambizione, dall’astio e dalle dissolutezze più vergognose, più ancora intende di ciò che appartiene a Dio? – Quando a contemplar meglio il cielo sarà più spediente ad un astronomo il chiudersi in una stufa colma di fumo, che non sarebbe l’uscire in campagna aperta: allora si potrà giudicare, che la vita menata fra mille crapule e mille carnalità vi abbia dato a vedere, che sulle stelle non v’è quel Dio che si pensa la gente credula. E se così è, permettetemi dunque, che io vi soggiunga: Qual quiete d’animo volete voi mai promettervi in una setta, nella quale avete sì forte la presunzione di non apporvi, dal mirar solamente chi siate voi?

III.

IV. Ma quando anche foste di vita non sì perversa, su che fondamento stabilite voi quella torre di confusione, dalla cui cima vi affacciate a trasmetterci sì gran nuova, che Dio non v’è? Non est Deus (Come Iddio è il primo essere, cagione dì tutti gli altri esseri, ed il primo Vero, ragione di tutti gli altri veri, cosi il Non est Deus dell’ateo nell’ordine della realtà mena al nullismo, perché senza Dio niente più sussiste, e nell’ordine del sapere riesce al massimo degli errori e degli assurdi, perché si risolve in questo pronunciato: l’essere, che non può non esistere (Deus), non esiste (non est); ossia il necessario è nulla). Aspetto, che mi diciate con quegli sciocchi già confutati da Tullio, (De nat. Deor.) che Dio non v’è, perché non è visibile agli occhi nostri. Ma da quando in qua si ha da curare la testimonianza degli occhi in cercar Dio? Si veggono con gli occhi le cose soggette agli occhi, quali son le corporee: le spirituali s’intendono, non si veggono. Di poi, perché state a dirmi di non vederlo? Noi vedete in sé, ve ‘l concedo; ma lo vedete (se non volete accecarvi da voi medesimo) ne’ suoi effetti. Ditemi un poco. Come vedete voi l’anima di quell’uomo che vi è presente? La vedete forse in se stessa? No certamente. Voi la vedete nelle sue operazioni. Eppure queste vi fanno abbastanza credere, ch’ella v’è: né mai vi cade in pensiero di sospettare, che il corpo di quell’artefice il quale intaglia, scrive, stampa, dipinge per eccellenza, non sia corpo animato, sia corpo morto da mandare alla sepoltura. Che sciocchezza dunque è mai questa? dalle operazioni del corpo conoscere che v’è l’anima da cui sgorgano; e dalle operazioni di tanto cose create non sapere conoscere, che v’è Dio! Stulte(diceva appunto il grande Agostino (In Ps. LXXIII) ad un uomo del taglio vostro) Stulte, ex operibus corporis agnoscis vicentem, ex operibus creaturæ non potes agnoscere Creatorem? Questo è il sapere arguir da’ suoi giri il rivo, e non sapere arguire dal rivo il fonte. I postumi mai non videro il loro padre, eppur di lui sono certi, né solo ne son certi, ma di più l’amano nei ritratti, l’amano nelle rendite, l’amano nella casa di tanto costo da lui fabbricata per essi non anche nati. E a voi non basta mirar quanto Dio vi diede, e quanto vi dà, per credere che ei vi sia, se non per amarlo? Voi dunque non crederete (se così è) né tanto che vi è noto per pura autorità di persone degne di fede, che ve lo affermano, come è, che il sole sia mille e mille volte maggior di tutta la terra (purtroppo anche il Segneri non credeva alle parole della Bibbia, quando riportava l’esempio degli eliocentristi dediti al culto di Mitra, che immaginavano – essi sì – che il sole fosse mille volte più grande della terra, senza avere avuto mai uno straccio di prova, ma solo per  argomentare contro le parole di Dio delle sacre Scritture – Errore grave di tutti i chierici sette-ottocenteschi ed oltre, che evidentemente non credevano al dogma dell’inenarranza biblica!); né crederete tanto altro che la ragione vi sforza a credere con le sue violente illazioni.

IV.

V. A questi due tribunali voglio io pertanto citarvi per vostro bene: a quello dell’autorità, ed a quello della ragione (Autorità e ragione tornano entrambe necessarie allo studio non della Religione soltanto, ma di qualsiasi ramo dello scibile umano. Il discente non può muover un passo senza piegar docile l’intelletto alla parola autorevole del maestro, perché non est discipulus supra magistrum; ed il dotto anch’esso mal può penetrare più addentro nelle profondità della scienza sua, se non piglia ad imprestito dalle altre scienze, senza punto discuterli e dimostrarli, quei principii, di cui come di postulati abbisogna la propria). E se ad ambo voi rimarrete convinto, che Dio vi sia, come più fissarvi a contenderlo? Sarebbe questo un non volere altra regola in giudicar delle cose, che il proprio orgoglio. Onde potremmo conchiudere, che se la corruzion della volontà, è la madre, come si disse, dell’ateismo; l’orgoglio dell’intelletto ne è il vero padre. Tale è l’origine degli animali più vili. Sono eglino schiusi in vero dalla putredine, ma non senza il concorso di quel poco di spirito che ivi intorno se ne va volando per l’aria. Quindi è l’osservare in ogni ateista un cervello, non pure altero, ma indomito, tanto che recansi fino a sapienza l’errare, ed a sapienza massima l’errar soli, singolarmente dappoi che l’amore della novità gli ha impegnati a stimarsi tanto più liberi, quanto più se ne vanno fuori di strada. Allora, crescendo in essi per la libertà l’alterezza, divengono incorreggibili. Imperciocché siccome nel calore della battaglia non si accorge taluno di esser ferito; cosi essi non si accorgono di quei colpi che dà loro la verità per ridurli in via, né se ne risentono, o sia l’autorità quella che più li percuote, o sia la ragione. Non vorrei già, che voi dimostraste esser uno di questi miseri. Però arrendetevi in prima all’autorità.

SALMI BIBLICI: ” NOTUS IN JUDEA, DEUS” (LXXV)

SALMO 75: “NOTUS IN JUDÆA DEUS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 75

[1] In finem, in laudibus. Psalmus Asaph, canticum ad Assyrios.

[2] Notus in Judæa Deus;

in Israel magnum nomen ejus.

[3] Et factus est in pace locus ejus, et habitatio ejus in Sion.

[4] Ibi confregit potentias arcuum, scutum, gladium, et bellum.

[5] Illuminans tu mirabiliter a montibus æternis;

[6] turbati sunt omnes insipientes corde. Dormierunt somnum suum, et nihil invenerunt omnes viri divitiarum in manibus suis.

[7] Ab increpatione tua, Deus Jacob, dormitaverunt qui ascenderunt equos.

[8] Tu terribilis es; et quis resistet tibi? ex tunc ira tua.

[9] De cælo auditum fecisti judicium: terra tremuit et quievit

[10] cum exsurgeret in judicium Deus, ut salvos faceret omnes mansuetos terrae.

[11] Quoniam cogitatio hominis confitebitur tibi, et reliquiæ cogitationis diem festum agent tibi.

[12] Vovete et reddite Domino Deo vestro, omnes qui in circuitu ejus affertis munera terribili,

[13] et ei qui aufert spiritum principum; terribili apud reges terræ.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI,Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXV

Profezia della vittoria che sopra Sennacherib riportò Ezechia; e di quella che gli eletti di Dio riporterannosopra tutti i loro nemici visibili ed invisibili.

Per la fine: per lodare; salmo di Asaph;cantico sopra gli Assiri.

1. Dio è conosciuto nella Giudea; in Israello è grande il suo nome.

2. E sua sede è nella pace, ed ha sua abitazione in Sionne.

3. Ivi egli ha distrutta la forza degli archi, lo scudo, la spada e la guerra.

4. O tu, che spandi mirabilmente tua luce dalle alte montagne, son rimasti conquisi tutti gli stolli di cuore.

5. Dormirono il loro sonno, (1) e nulla trovarono nelle loro mani questi uomini tesoreggiatiti.

6. Al tuono delle tue minacce, o Dio di Giacobbe, si addormentarono i cavalieri.

7. Terribile se’ tu, e chi a te farà resistenza? L’ira tua è antica.

8. Dal cielo facesti sentire il tuo giudizio; tremò la terra, e si tacque;

9. Allorché Dio si levò su per far giudizio, per tutti salvare i mansueti della terra.

10. L’uomo che rifletterà, darà a te laude; e la fine de’ suoi pensieri sarà di onorarli con giorni festivi. (2)

11. Offrite voti al Signore Dio vostro, e scioglieteli, o voi tutti, che stando intorno a lui gli presentate dei doni;

12. A lui terribile, a lui che toglie lo spirito ai grandi, a lui che è terribile a’ re della terra.

(1) « Essi hanno dormito il loro sonno », il sonno della morte: essi furono sterminati durante la notte, e dormirono senza discontinuità passando dal sonno naturale al sonno della morte. – « Coloro che cavalcavano i cavalli » per esprimere l’orgoglio degli Assiri, che confidavano nella loro numerosa cavalleria.

(2) Nell’ebraico si legge: « Quoniam ira hominis confitebitur tibi », etc., vale a dire gli uomini che si erano irritati contro di te, i nemici, si convertiranno e ti loderanno; coloro tra essi che tu non avrai distrutto, i resti dei tuoi nemici celebreranno una festa in tuo onore (Weitenauer e Le Hir.). – Questo versetto molto oscuro può ricevere questo altro senso. Il Profeta viene giustamente a parlare di Dio, e ne considera qui il risultato: il pensiero dell’uomo renderà gloria al Signore nel giorno di questo giudizio, e ciò che resta di questo pensiero del ricordo della liberazione del popolo di Dio, e non cesseranno di celebrare le grandezze di questo Essere supremo.

Sommario analitico

Questo salmo, in cui l’autore ispirato predice la vittoria dei Giudei contro Sennacherib, contro gli Assiri e, in seguito alla vittoria, una pace perfetta in Gerusalemme, può essere considerato, in senso non meno vero, come un canto trionfale della Chiesa cristiana, vittoriosa dei suoi nemici.

I. Il profeta celebra i frutti di questa vittoria che sono:

1° La conoscenza e la gloria di Dio, diffusa dappertutto (1),

2° L’affermazione della pace in seno alla Chiesa (2);

3° L’idolatria e l’eresia vinta (3);

4° La dottrina celeste che chiarisce tutti gli spiriti con la sua luce divina (4).

II.- Enumera gli effetti prodotti da questa vittoria sui nemici.

1° Essi saranno turbati a causa del loro follia (5);

2° spogliati a causa della loro avarizia (5);

3° rovesciati ed abbattuti a causa del loro orgoglio (6);

4° spaventati e ridotti in silenzio davanti al giusto Giudice, tuonante dall’alto dei cieli, che fa tremare la terra, reprimendo gli empi, giudicando tutti gli uomini e salvando i giusti (7-9).

III. Celebra il ricordo di così grandi benefici;

1° Con una pubblica confessione e con delle feste di gioia (10);

2° con voti fatti e compiuti con dei doni (11);

3° per il timore di un Dio così terribile, anche per i potenti della terra (12).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-4.

ff. 1. – Dio è conosciuto nella Giudea, e noi lo diremo con i Giudei, se essi sapessero comprendere che cosa sia questa Giudea. Coloro che ora si glorificano del nome di Giudei, e che ne hanno perso le opere, hanno degenerato rispetto ai loro padri, e per questo restano Giudei secondo la carne e pagani secondo il cuore. Nell’avvicinarsi la venuta del Signore, il regno dei Giudei fu sconvolto e tolto ai Giudei. Ora essi non hanno più un regno perché si rifiutano di riconoscere il vero Re. Vedete se essi debbano essere considerati ancora Giudei. Ora non si può più chiamarli con questo nome, essi stessi vi hanno rinunciato, sebbene non meritino più di essere chiamati Giudei, se non secondo la carne. In quale momento si sono separati da se stessi da questo nome? Nel momento stesso in cui con il loro grido assassino, hanno operato contro il Cristo, essi la razza di Giuda, contro la discendenza di Davide; nel momento in cui hanno risposto a Pilato: « noi non abbiamo altro re che Cesare » (Giov. XIX, 15).  O voi che siete chiamati figli di Giuda e che non lo siete, se non avete altro re che Cesare, Giuda cessa dunque dal darvi un re? Colui che è l’erede delle promesse è dunque venuto? Costoro piuttosto hanno il diritto di essere chiamati Giudei, che da Giudei sono divenuti Cristiani. Gli altri Giudei che non hanno creduto al Cristo hanno meritato di perdere anche questo nome. La vera Giudea è dunque la Chiesa di Cristo, che cede a questo Re, venuto dalla tribù di Giuda dalla Vergine Maria … Noi dobbiamo interpretare il nome di Israele come quello di Giudeo, e dire che i Giudei non sono più il vero Israele ed i veri Giudei. In effetti chi è che merita di portare il nome di Israele? Colui che vede Dio. E come essi hanno visto Dio, questi uomini in mezzo ai quali Dio è vissuto nella carne e che, non avendolo scambiato che per un uomo, lo hanno crocifisso? D’altra parte, dopo la sua Resurrezione, Egli non ha manifestato la sua divinità che a coloro a cui è piaciuto mostrarsi? Costoro sono dunque degni di essere chiamati col nome di Israele, questi che hanno meritato di comprendere che il Cristo, nella sua carne mortale, era Dio; di modo che essi non hanno disprezzato quello che vedevano in Lui, ma al contrario hanno adorato ciò che non vedevano (S. Agost.). –  La conoscenza di Dio è stata per lungo tempo il privilegio del popolo giudeo, essa fu la sua gloria, in mezzo all’accecamento di tutte le altre nazioni. Essa ritornerà sua eredità, quando infine aprirà gli occhi alla luce pura del Vangelo. Fino a questa epoca gloriosa, che sembra avvicinarsi, è alla Chiesa cristiana, alla Chiesa dei gentili che si applica questo semplice e magnifico elogio del santo Profeta: « il Signore è conosciuto nella Giudea ».  La “conoscenza di Dio”: queste due parole racchiudono tutti i tesori della scienza, tutti i segreti della felicità, tutti gli splendori della gloria; ed è la ciò che Dio aveva dato ai Giudei, a preferenza di tutte le altre nazioni; è là che Egli ha dato, con più grande magnificenza ai Cristiani, ciò che Egli donerà agli eletti con una generosità smisurata ed infinita. (Rendu). – Tutto il dovere dell’uomo, tutto il suo soggetto, tutta la sua natura, tutta la sua Gloria è il conoscere Dio. Ecco la parola del Signore: « che il saggio non si glorifichi per la sua saggezza, che l’uomo forte non si glorifichi per la sua forza, che il ricco non si glorifichi delle sue ricchezze; ma colui che vuole glorificarsi, si glorifichi unicamente nel conoscermi, perché Io sono il Signore, ed è a me che appartiene il fare misericordia e giustizia » (Gerem. IX, 23, 24).  – Questa verità, così semplice, così chiara, così essenziale, che è una delle prime che la Chiesa Cattolica insegna ai suoi figli, è quasi sconosciuta ora alla maggior parte dei Cristiani. Conoscere Dio è il minore dei suoi pensieri, e l’ultima delle sue occupazioni. – Dai tempi più remoti, ma soprattutto dai giorni di Abramo, Dio e la verità non erano stati conosciuti sulla terra che in seno ad una sola famiglia, ad una sola discendenza, che ben presto era diventata una nazione. Ora tutte le pagine della Scrittura avevano annunciato come uno dei più importanti avvenimenti dell’avvenire, il ritorno del resto dell’universo alla verità, alla conoscenza del vero Dio. – Dunque, ciò che il Profeta reale diceva della Giudea e di Israele, noi possiamo dirlo a maggior ragione della Chiesa della legge nuova, della Chiesa Cattolica Universale. – Il Dio è conosciuto, là il suo nome è riverito e glorificato, là è acclamata la sua Regalità, la sua legge osservata, in una parola, secondo la bella definizione del Concilio di Trento spiegando l’inizio della Orazione domenicale, « il regno di Dio e del Cristo, è la Chiesa »,  Regnum Christi est Ecclesia  (Mgr PIE, Disc, et Instr. t. VI, 445; III, 445.).

ff. 2. – La Chiesa Cattolica è il luogo della vera pace; fuori dal suo seno, non c’è che turbolenza, tumulto e confusione. – Il cuore dei giusti è esente da turbamenti, dal tumulto e dall’agitazione delle passioni, è un vero luogo di pace che Dio ha scelto per sua dimora. Se noi vogliamo diventare luogo dell’abitazione del Signore, suo tabernacolo e suo tempio, siamo vigilanti all’esempio dei Santi, ed applichiamoci a conservare la pace. (S. Gerol. Ep. XXXVI).

ff. 3. –  « Là Egli ha distrutto la potenza degli archi e lo scudo e la spada e la guerra ». Dove li ha distrutti? In questa pace eterna, in questa perfetta pace. E da ora, coloro che hanno una fede perfetta vedono come non debbano presumere di essi stessi, e distruggano, con l’aiuto di queste fede, tutta la potenza delle minacce che sentono in se stessi e tutto ciò che non ha in sé armi capaci di nuocere, e tutto ciò che essi considerano prezioso per preservarsi dai mali temporali, e la guerra che sostengono contro Dio difendendosi dai loro peccati: Dio ha distrutto tutto in Sion (S. Agost.). –  la pace costituisce il carattere della dimora dell’Altissimo: pace nell’antica Israele, finché essa sappia stimare il vantaggio di appartenere a Dio; pace nell’anima dei Cristiani, fintanto che si tengano uniti a Gesù-Cristo infine, pace eterna ed inalterabile negli abitanti del cielo, perché essi sono stabiliti nel soggiorno in cui non c’è più né timore, né lutto, né dolore. (Berthier). – I nemici della Chiesa, come la maggior parte dei Cristiani sono terribili e formidabili, sono numerosi e forti, si uniscono con la forza per perderci; ma poiché Dio ha scelto la Chiesa e l’anima del giusto, né gli archi, né le spade sono capaci di cacciarlo; e se la guerra non cessa completamente in questa vita, la pace perfetta essendo solo per il cielo, Nostro Signore ci ha dato l’assicurazione che annienterà tutta la forza dei nostri nemici e vincerà in noi il mondo ed il principe del mondo, come lo ha vinto Egli stesso (Duguet).

ff. 4. – Quali sono queste montagne eterne dall’alto delle quali Dio diffonde una luce ammirabile? Quelli che Dio ha reso eterni; coloro che sono le grandi montagne, i predicatori della verità. Voi diffondete la luce, ma per le vostre eterne montagne. Le alte montagne ricevono per prime la vostra luce, e tutta la luce è ben presto inondata dalla luce che le montagne ricevono. Gli Apostoli sono le alte montagne che hanno ricevuto la luce, gli Apostoli hanno ricevuto come i primi fuochi di questa luce al suo levarsi (S. Agost.). –  E ciò che essi hanno ricevuto lo hanno tenuto per sé? No, esso li hanno diffuso nell’intero universo: « Voi spandete una luce ammirabile con le eterne montagne ». Attraverso coloro che avete reso eterni, Voi avete promesso agli altri la vita eterna. È con giustezza e magnificenza che il Profeta ha detto: «  Voi spandete » affinché nessuno si possa dire illuminato dalle sole montagne. La luce che viene da queste montagne è una luce riflessa e bisogna attaccarsi alla Luce primitiva, a Colui che ha illuminato queste montagne (S. Agost.). – La preghiera, il mezzo più semplice ed il più facile per dissipare l’oscurità da cui la nostra anima è spesso avvolta. Che fa il sole per dissipare le nuvole? Si mostra, e si fa luce. Allo stesso modo, nei dubbi che attraversano l’animo, preghiamo invece di dissertare, ed un raggio di grazia cambierà il crepuscolo in una luce serena. Attacchiamoci a Dio con amore, e l’intelligenza troverà sempre tanta luce. I chiarori non mancheranno mai ai cuori puri, in questi sentieri che conducono alle montagne dell’eternità, ed in ogni anfratto oscuro, la verità brilla sempre per coloro che non hanno interesse a sviarsi.  (Mgr. LANDRIOT, Prière I, 25)

II. — 5-9.

ff. 5, 6. – « Tutti coloro il cui cuore è insensato, sono stati turbati ». La verità è  stata predicata, la vita eterna è stata annunciata, si è insegnato che esiste un’altra via che non appartiene a questo mondo; gli uomini illuminati dalle montagne che Dio aveva rischiarato, hanno disprezzato la vita presente ed amato la futura, al contrario coloro il cui cuore è insensato sono stati turbati. Da cosa? Dalla predicazione del Vangelo. Che cos’è dunque la vita eterna? Chi dunque è resuscitato dai morti? Gli ateniesi si sono meravigliati, si sono turbati quando S. Paolo ha parlato loro della resurrezione dai morti, ed essi hanno creduto che egli raccontasse loro non so qual favola (Act. XVII, 18-22), perché diceva che c’era un’altra vita che l’occhio non può vedere, e l’orecchio sentire, e le cui gioie non sono entrate nel cuore dell’uomo (1 Cor. II, 9) – (S. Agost.). – Vi sono due tipi di follie: la follia dello spirito e la follia del cuore: la prima fa che si vedano delle cose diversamente da come sono, la seconda fa che conoscendo il prezzo dei veri beni, non li si lasciano per preferire loro degli altri che non li valgono. « Gli uomini di ricchezza hanno dormito il loro sonno e non hanno trovato nulla nelle loro mani ». Essi hanno amato le cose della vita presente, e vi si sono addormentati e queste cose sono divenute per loro deliziose. Ugualmente, colui che vede in un sogno che ha trovato un tesoro, è ricco finché non si svegli: il sogno lo fa ricco, il risveglio lo fa povero. Forse il sogno si è manifestato in lui quando era steso a terra, coricato sul duro, quando era povero e mendicante; in sogno, quest’uomo si è visto disteso su di un letto d’oro o di avorio, su cumuli di mollezze; nel sonno, egli dorme deliziosamente, ma al risveglio si ritrova sul duro giaciglio, così come quando il sonno lo aveva colpito. È lo stesso di questi ricchi: essi sono venuti in questa vita ed i piaceri e le cupidigie temporali li hanno addormentati. Essi si sono lasciati prendere dalle vane ricchezze e da un fasto passeggero che ben presto è sparito. Essi con hanno compreso qual buon uso potevano fare di queste ricchezze; perché essi non avevano conosciuto l’altra vita e si erano fatti un tesoro dei beni che periranno quaggiù (S. Agost.). – Terribile risveglio è quello della morte: essi tenderanno le mani a tutto ciò che li circonda, non stringeranno che fantasmi, una fumata che si dissipa, e che non lascia nulla di reale nelle mani. – Il supplizio dei grandi e dei ricchi della terra, così fieri dei loro cavalli e dei loro equipaggi, è il dormire nella loro grandezza immaginaria, e di esserne sorpresi nella morte. È con ragione che il salmista dice: « gli uomini di ricchezze – e non le ricchezze degli uomini – per dimostrarci che essi non possiedono le loro ricchezze, ma che le loro ricchezze in realtà li possiedono ». In effetti, il posseduto deve appartenere al possessore e non il possessore a ciò che è posseduto. Colui dunque che non usa del suo patrimonio come di un bene che possiede, che non sa darne ad un povero, è schiavo piuttosto che padrone delle sue ricchezze: egli le considera come un servitore guarda i beni che non gli appartengono, e non come ne userebbe un padrone. E parlando di tali uomini, noi diciamo che questi sono gli uomini delle loro ricchezze, e non che le ricchezze appartengono loro (S. Ambrogio-De Nab.). – I peccatori si sono addormentati, ecco l’assopimento delle coscienze criminali; ed in questo stato, arriva loro ciò che succede ogni giorno ad un uomo che dorme: povero com’è, immagina talvolta delle ricchezze immense di cui diviene possessore, aumenta le sue tenute, accumula tesori su tesori; ma tutto questo non è che un’idea, perché al suo risveglio si ritrova con le mani vuote, e più povero che mai. Lo stesso avviene al peccatore: il peccatore, praticando le buone opere, crede di arricchirsi davanti a Dio, e tuttavia nulla gli è di profitto. Egli è assiduo al servizio divino, è caritatevole verso i poveri, è duro con se stesso; ma, nel sonno del peccato in cui è sepolto, tutto questo non è che un sogno, e quando viene la morte, che è come il risveglio dell’anima, egli non stringe nulla nelle sue mani  (Bouan., Etat du péché et état de grâce).

ff. 7-9.« Voi siete terribile e chi vi resisterà nel momento della vostra collera? »Essi dormono ora e non sentono che Dio è irritato; ma il loro sonno anche è effetto della sua collera. Ciò che essi non sentono, ora che dormono, lo sentiranno alla fine; perché allora il Cristo apparirà come Giudice dei viventi e dei morti: « … E chi vi resisterà al momento della collera? ». Ora, in effetti, essi dicono ciò che vogliono; essi disputano contro Dio e dicono: cosa sono i Cristiani? O ancora, … che cos’è il Cristo? … quanto insensati sono coloro che credono ciò che non vedono, che abbandonano le delizie che vedono, e mettono la loro fede in delle cose che non appaiono ai loro occhi? Voi dormite, vi divagate sognando, voi dite contro Dio tutto ciò che vi viene nello spirito. « Fino a quando Signore, fino a quando i peccatori si glorificheranno? Fino a quando risponderanno e parleranno il linguaggio dell’iniquità » (Ps. XLIII, 3). Quando cesseranno di parlare se non quando saranno costretti a rivoltarsi contro se stessi, come è predetto nel libro della Sapienza (V, 3)? Essi diranno, vedendo la gloria dei Santi: « Ecco coloro che noi prendevamo in giro ». E voi che  avete dormito un sonno profondo vi svegliate ora e vi trovate le mani vuote. Voi vedete quanti di coloro che voi burlate per la loro pretesa povertà, hanno le mani piene della gloria di Dio (S. Agost.). –  San Paolo insegna la stessa verità del Profeta: « … è terribile cadere nelle mani del Dio vivente » (Ebr. X, 32). Nessuna potenza, nessuna forza creata può darci l’idea della giusta collera di Dio e degli effetti che essa opera. La stessa Parola che ha fatto uscire l’universo dal nulla distrugge tutto ciò che è oggetto delle sue vendette. Lo spettacolo della collera di Dio si esercita sul proprio Figlio, sul Calvario: questo è il mezzo più grande che noi abbiamo di giudicare del rigore dei giudizi dell’Essere infinito. Si – potremmo dire ai piedi di questa croce – Voi siete terribile Signore, ed il vostro Figlio stesso, che vi è uguale in dignità ed in potenza, non vi resisterà (Berthier). – « Signore, Voi siete terribile, chi potrà resistervi? » Senza dubbio in nostro potere è il cancellare in noi l’immagine di Dio, e detronizzarlo lontano da noi; noi siamo liberi di avvilirlo oltraggiando la sua bontà, di corromperci violando la sua rettitudine, e di rivolgere contro di Lui questo magnifico dono che è la libertà che Egli ci ha dato a nostra perfezione e per sua gloria. Ma Lui, che è tutta forza e tutta santità, avrà senza dubbio il diritto di vendicare il suo onore, e non soffrire che la sua volontà santa sia vinta dalla volontà ribelle dell’uomo. E che? Tutto nella natura è docile sotto la sua mano, e l’uomo solo avrebbe il diritto di essere ribelle! No, no, non è affatto così: se l’uomo peccatore non vuole sottomettersi a Lui per amore, gli si sottometterà con la forza; egli scuote il giogo della legge benefattrice, cadrà nell’ordine della giustizia rigorosa. (De Boulogne, Sur la justice de Dieu). « Dall’alto del cielo, voi avete fatto intendere il vostro giudizio, la terra ha tremato, e poi è restata a riposo ». La terra si agita e si scuote ora, essa parla molto, fa dei progetti senza numero, ma verrà il momento in cui, colta da paura e da tremore, sarà obbligata o far silenzio alla presenza del sovrano Giudice. Meglio varrebbe per essa che si occupasse di meditare nel silenzio questo giudizio così terribile, e di prevenirne i soggetti con un ritorno sincero a Dio che tutto conosce e che chiederà conto di tutto (S. Agost.).

III. — 10 – 12.

ff. 10. – Il primo pensiero salutare che è come il primo atto della conversione, è quello del peccatore che condanna la sua vita passata e prende la risoluzione di rinunciarvi. Il resto di questi pensieri sono come il ricordo di questi grandi benefici, ricordo pieno di riconoscenza che l’uomo giustificato conserva con cura, e che lo porta ad onorare Dio con dei giorni di festa, vale a dire con delle azioni di grazie continue. Il primo pensiero è dunque quello che ci porta alla confessione delle nostre colpe ed all’abbandono della nostra vecchia vita … questo primo pensiero non deve dissolversi nel nostro spirito; le conseguenze di questo pensiero devono restare profondamente incise nella nostra memoria. In effetti il Cristo ci ha rinnovato, ci ha rimesso tutti i nostri peccati e noi ci siamo convertiti: se noi dimentichiamo ciò che ci sia stato perdonato e Chi lo abbia perdonato, noi dimentichiamo ciò che ha fatto il Salvatore: ed infatti al contrario – se noi ne conserviamo il ricordo – non è il Cristo che si immola per noi tutti i giorni? Il Cristo è stato immolato una sola volta per noi, quando noi abbiamo creduto; allora noi abbiamo avuto il primo pensiero. Ora le conseguenze di questo pensiero primario sono quelle di ricordarci Chi è Colui che è venuto a noi, e quali sono le colpe che ci abbia rimesso; e l’effetto di queste conseguenze del pensiero primario, o l’effetto del nostro stesso ricordo, è che il Cristo è tutti i giorni immolato per noi, come se ci rinnovasse per così dire ogni giorno, dopo averci rinnovato con la sua prima grazia … Se oggi non c’è più il pensiero primario che è in voi, abbiate almeno in voi le conseguenze del vostro primo pensiero, per paura che il ricordo di Colui che vi ha guarito non sfugga alla vostra memoria; perché se obliate le vostre antiche piaghe, il resto, le conseguenze del pensiero primario, non saranno più in voi (S. Agost.).

ff. 11, 12. – Che ognuno faccia i voti che sono in suo potere e se ne appaghi. Non abbiate timore di fare questi voti; perché non è con le vostre forze che li compirete. Voi cadrete se presumete di voi stessi; ma se mettete la vostra fiducia in Colui al quale si indirizzano i vostri voti, fateli, sicuri di potervene acquistare.  « Fate dei voti al Signore nostro Dio, e compiteli ». Quali sono i voti che tutti indistintamente devono fargli? Di credere in Lui, di sperare da Lui la vita eterna, di ben vivere secondo la regola comune. C’è in effetti una regola comune a tutti: il voto, ad esempio, non è una cosa proibita alla vergine consacrata a Dio e permessa alla donna sposata. Ugualmente è impedito a tutti l’ubriachezza, abisso in cui l’anima si perde, peccato con il quale essa sporca in sé il tempio di Dio. È a tutti prescritto di non inorgoglirsi. A tutti è prescritto similmente di non commettere omicidio, di non odiare il proprio simile e non voler nuocere a nessuno. Ecco tutte le cose che noi dobbiamo evitare senza riserva. Ci sono poi dei voti propri di ciascuno. Ognuno faccia quel voto che vorrà, ma una volta fatto il voto stia attento ad acquistarne fedelmente. Qualunque voto si faccia a Dio, è una gran colpa guardarsi indietro (S. Agost.). – Non mancare di parola a Colui che è terribile nei suoi giudizi e del quale è scritto: « Non vi ingannate, non ci si burla impunemente di Dio » (Galat. VI, 7). Egli non è solo terribile allo sguardo dei particolari, ma pure al riguardo dei principi e dei re che sono terribili per gli altri uomini, e a cui Dio toglie la vita  quando a Lui piace, con la stessa facilità che agli ultimi dei suoi soggetti (Duguet). – È soprattutto negli ultimi giorni che Dio apparirà terribile ai re ed ai grandi della terra.

DIO IN NOI (4)

DIO IN NOI (4)

[Versione p. f. Zingale S. J. – L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923 Can. Francesco Duvina]

LIBRO TERZO

Il peccato mortale e l’inimicizia con Dio in noi

Un modo di concretare i nostri privilegi soprannaturali consiste nel domandarci quali doveri c’incombono, allorquando, per il peccato mortale, disprezziamo questi doni e li rigettiamo lungi da noi, come fardello inutile. Abbiamo considerato l’Abitazione di Dio in noi, dal punto di vista positivo; — studiamola adesso in che consista dal punto di vista negativo — di che cosa viene privato chi non la possiede. In virtù della grazia, Dio vive in noi, Dio Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Vediamo ciò che il peccato mortale è capace di produrre nelle nostre relazioni:

Col Padre,

Col Figlio,

Con lo Spirito Santo.

Faremo così un passo innanzi nello studio del mistero adorabile di cui ci occupiamo.

CAPO I.

L’inimicizia con Dio Padre.

Un ricco incontra un giorno un fanciullo povero sulla via. Lo raccoglie, l’adotta, lo educa, lo nutrisce, lo circonda di cure. Il fanciullo ha diritto di partecipare alla stessa mensa di famiglia, alle gioie della famiglia, profitta delle relazioni della casa e di tutti i vantaggi che la sua posizione di « figlio di Re » gli procura. Più tardi, se resterà fedele, sarà ammesso dal padre adottivo all’eredità. La condizione è una sola: non deve abbandonare il focolare domestico, né tradire la persona o gl’interessi del benefattore al quale egli deve l’educazione e la nobiltà. – Il fanciullo divenuto grande, si lascia persuadere di abbandonare il padre adottivo e rifiuta i beni e l’eredità promessagli. Fa anche peggio. Cerca disfarsi di suo padre, per assumerne la dignità, volendo così divenire padrone. Il tentativo dello sciagurato non riesce. Conseguenze: il padre conserva i suoi titoli, la sua potenza e i beni di fortuna, ma il figlio adottivo è cacciato per sempre dalla famiglia: « Va’ via, non ti riconosco più! ». Questo esempio descrive assai bene quello che la teologia chiama l’Adozione divina, e il modo in cui l’uomo corrispose all’adozione, fondata nell’amore infinito di Dio. In principio Dio gratifica l’uomo della vita soprannaturale, dono meraviglioso aggiunto a quelli di natura; gli promette l’eredità celeste, da conseguirsi più tardi, se sarà fedele, e la possibilità di godere, fin da questa vita, l’usufrutto dei favori divini. Ma l’uomo ingannato dal demonio: « eritis sicut dìi », aspira a scoronare Dio col preferire il suo capriccio all’obbedienza. Il suo gesto audace lo caccia dal paradiso terrestre e lo priva di tutti i doni divini. – Monsignor de Ségur, nelle Semplici Storie, racconta questo fatto: Un padre in una fiera smarrisce sua figlia. Lungo tempo la cerca, ma invano. Quattro anni dopo, a Londra, riprendendo le indagini, scorge sopra un palco di lottatori una fanciulla. Non ha dubbio alcuno: è sua figlia! Penetra nel palco… « Figlia mia » le dice; ma la piccina, guasta per il soggiorno prolungato coi saltimbanchi, contaminata dai loro cattivi discorsi, aveva dimenticato i suoi primi anni. Risponde senz’altro: « Voi, mio padre?… Non vi conosco! Il mio vero padre è questo qui ». E accennava a un sinistro ciarlatano, che voleva intervenire per non lasciarsi sfuggire la preda. Quante volte accade anche all’uomo, attirato da una curiosità colpevole e da una gioia di bassi istinti, ingannato dal demonio, grande ladrone di anime, di abbandonare la dolce casa del padre di famiglia. Divenuto preda del demonio, si lascia trascinare lungi, molto lungi, sforzandosi di sfuggire alle ricerche di Dio. Non già che Dio non sappia dove trovarci; ma diciamo che quando Egli batte alle porte del cuore e chiama con la voce del rimorso o le esortazioni del sacerdote, il demonio raddoppia le suggestioni, insinua i suoi orpelli, cattiva l’attenzione, paralizzando la volontà. – Se almeno l’uomo rinunziasse alla amicizia di Dio per un oggetto degno di stima! Ma no, per una bagatella la riflessione cede; ci lasciamo sedurre da un nonnulla: uno sguardo, una lettura, una parola, un desiderio. « Che stranezza, dice S. Agostino al peccatore: tu basti a Dio, e Dio non ti basta. Sufficis Deo et Deus non sufficit tibi? Tu cerchi fuori di te il nulla, cerca piuttosto dentro di te il sommo bene! » (Quid vagaris o homuncio, quærendo diversa corporis et animæ bona, quære summam bonum quod in te est). – In te; ecco ciò che rende più gravi le nostre colpe. Offendere da lontano è un’ipocrisia, ma un’ipocrisia che infine si spiega facilmente. Offendere però in faccia, offendere qualcuno, intimamente unito a noi, che vive ed è tutt’uno con noi è una colpa così strana, che il sentimento di onore più elementare dovrebbe preservarcene. Non solo il sentimento dell’onore, ma anche quello dell’amore. La fanciulla rubata non era responsabile. Aveva potuto conoscere appena il vero padre. Ma noi quale scusa potremo addurre? Diremo che Dio era un incognito? che non era buono abbastanza? Dal momento in cui un’anima si è svincolata dalle sue braccia, Dio ne va alla ricerca. Segue questa disgraziata che non vuole più saperne del suo amore. Moltiplica gli appelli, ripete gli inviti. Sa bene in quali braccia miserabili ci siamo abbandonati, a quale tiranno ci siamo affidati; si aggira attorno a noi, aspettando il momento del ritorno. Eccolo con le mani aperte, con le braccia tese; Egli ci chiama,ci sollecita in tutte le maniere. Dentro e fuori ci grida: « Figliuolo mio, eccomi, sono io,tuo Padre. Ritorna, te ne supplico! Oh, se sapessi quanto io bramo di riaverti come mio figliuolo! ».Che magnifico raffronto presenta, con la parabola del Figliuol prodigo e i passi che questi fa per ritornare al padre, la storia di quell’altro padre e le sue ricerche per ritrovare la figlia! E tuttavia l’esempio addotto non riproduce che in modo lontano la sollecitudine del Padre divino in cerca dell’anima che lo fugge.Nella misericordiosa tenerezza del Padre celeste nulla è più significativo, quanto il suo modo di agire col popolo prediletto nell’antico Testamento. Questo popolo miserabile rifiuta continuamente le premure affettuose dell’Altissimo. Dio cerca di richiamarlo al dovere, ora con gli avvisi, ora con premurose sollecitudini,ora con minacce. Qualche volta Israele si arrende, ma quanto raramente! Accade più spesso che si ostina nel suo peccato, ovvero, pentitosi cade e ricade fino a non più intendere la voce di Dio e dei Profeti. Iawè si attrista profondamente, di una tristezza che giunge fin alla nausea, vedendo la poca gloria che il suo popolo gli procura. Allora esclama, stanco:« Basta, o Israele, fino adesso ti ho chiamato mio popolo; ormai tu non sei più il mio popolo ». Si volta la pagina della Scrittura, credendo di leggervi la collera di Iawè; invece si nota il perdono. Israele mostra di correggerli dei suoi falli e Dio non ha la forza di restar fedele al suo proposito. Vuole perdonare il suo popolo. E questo non una volta, ma dieci, cento tutte le volte…Nostro Signore moltiplica le similitudini per descrivere la sollecitudine angosciosa del Padre di famiglia nel voler ritrovare il figlio che si è da Lui allontanato peccando. Quando una donna perde una moneta, si affretta a cercarla dappertutto! Accende la lampada, cerca sotto i mobili, spazza tutti gli angoli. E il pastore, eh cosa non fa quando una sua pecorella si è smarrita? Parte subito, fruga i cespugli, interroga, ne segue le tracce sulla montagna, attraverso i precipizi, si stanca senza darsi vinto…, finché non l’abbia ritrovata accanto ad un macigno lungi dal pascolo, tremante di paura. Con quanta gioia la chiama col suo nome, la raccoglie, se la pone sulle spalle e la riconduce all’ovile! È una felicità tale che Nostro Signore, per esprimerla, usa parole che si direbbero quasi di una esagerazione singolare. « Si fa più festa in cielo per un solo peccatore che si converte, che per novantanove giusti i quali perseverano nel bene ».- Ecco come Dio agisce per renderci la vita divina. Un bravo operaio, dopo una predica sulla parabola del Buon Pastore, andato a trovare il predicatore per confessarsi, gli dice:« Questa storia del Buon Pastore che va in cerca della sua pecorella mi ha commosso. Io ho detto fra me: la pecora smarrita sono io ».Sì, ciascuno di noi è la pecora smarrita, allorché ha abbandonato il Padrone del gregge.

CAPO II.

L’inimicizia col Figlio di Dio.

Il peccato mortale è un’immensa ingratitudine nei riguardi del Padre. Ma nei riguardi di Nostro Signore è un tradimento e uno spergiuro. Non mantenere un impegno, violare liberamente un trattato, si tratti di una nazione verso un’altra, dello Stato verso la Chiesa, dell’uomo verso Dio, è grande fellonia.Ora noi abbiamo assunto impegni solenni e sacrosanti con Nostro Signore!Il giorno della prima comunione promettemmo che volevamo rinunziare a satana perseguire Gesù Cristo. Ma quanto tempo intendevamo restare fedeli a questa promessa? Forse un giorno, una settimana, un anno, fino a vent’anni, fino al matrimonio? No. Noi promettemmo:« Io mi unisco a Gesù Cristo per sempre». Per sempre; dunque per tutta la vita, per tutta l’eternità. Passano alcuni giorni in cui si resta fedeli. Ma l’ora della prima tentazione suona. E, io suppongo, si soccombe… mortalmente. Avevamo stabilito con Dio un contratto bilaterale. Chi lo straccia? Un giorno avevamo affermato:« Rinunzio a satana. Mi unisco per sempre a Gesù Cristo». E adesso: «Rinunzio a Gesù Cristo, e aderisco a satana. Non voglio più saperne di Gesù. Lo rinnego. Voglio satana,che da questo momento scelgo come mio padrone ».E’ vero che, a meno di una malizia straordinaria,nessuno dice esplicitamente: «Aderisco a satana per sempre », ma praticamente si fa così. Nel momento della colpa grave, fra Gesù e il suo nemico si sceglie, con un gesto netto e reciso, il nemico di Gesù Cristo.Quale grande angoscia non sarà per il peccatore, dover rispondere del delitto di alto tradimento! Quando la mobilizzazione generale delle coscienze sarà suonata, quando, non più in un angolo della trincea e per alcuni solamente,ma su tutta la terra, senza eccettuare un solo vivente o un solo cadavere rintronerà la parola tremenda: « Levatevi, o morti! » che. tremito per tutti coloro la cui vita cristiana fu un tessuto di bassezze! Tutte le debolezze consentite e non riprovate riceveranno la triste ricompensa: « O Cristiano, hai degradato te stesso. Sia fatta la tua volontà. Fiat voluntas tua, homo, in æternum! Mi hai cacciato per sempre. Io ratifico: per sempre. E ormai vattene! Non ti riconosco! L’impronta divina tu l’hai strappata. In te non vi è altri che te solo, mentre dovremmo esservi tu e Io. Rimani quello che sei. Custodisci quello che hai, cioè te solo. Io me ne vado, o piuttosto, resto lontano poiché tu lo hai voluto! ». Nei primi tempi del Cristianesimo, per imprimere nella mente dei nuovi battezzati il ricordo degli obblighi contratti, si adottò questo rito: Il neofita indossava una veste bianca che portava durante i primi otto giorni della sua ammissione nella Chiesa. Quest’uso antichissimo la sacra liturgia lo rammemora, imponendo la stola bianca sul capo del fanciullo che è stato battezzato. Nell’atto di fare il gesto simbolico, il sacerdote pronunzia una prescrizione severa e ad un tempo una raccomandazione affettuosa che è la seguente: « Accipe vestem candidam quam immaculatam perferas ante tribunal D. N. Jesu Christi. Ricevi la veste dell’innocenza. Ma riportala senza macchiaimmaculatam — al tribunale di Dio ». Nel giorno della prima comunione la veste candida o il nastro bianco che si porta al braccio, hanno lo stesso significato. Che cosa abbiamo fatto della nostra purezza promessa in quelle dati solenne? La stoffa allora era senza macchia. L’abbiamo custodita Immacolata? Durante la persecuzione dei Vandali, l’apostata Elpidoro perseguitava un diacono rimasto fedele. Irritato dalla condotta d’Elpidoro, il diacono prese con sé la veste, di cui l’aveva rivestito il giorno della sua ammissione nella Chiesa e gli andò incontro. Davanti a lui spiegala veste, l’agitò come un vessillo ed esclamò: «Prendi, guardala: riconosci quest’abito! oggi tu lo profani. Esso ti accuserà il giorno del giudizio. Pensa bene a quello che fai! ». Se quegli che viene sacrificato con una disinvoltura così maligna, per noi non fosse altro che una persona alla quale si è data la parola, non vi sarebbe gran male. Invece è quel Dio al quale dobbiamo tutto il nostro essere, quel Dio che ha dovuto soffrire per ridurci allo stato in cui ci troviamo. Abbiamo già considerato il prezzo della nostra Redenzione e quale parte di torture essa rappresenta. Tutti i dolori del Cristo, il Sangue sparso sulla croce, le angosce della Passione, diventano inutili per il peccato! Diciamo meglio, e in un senso molto reale: i dolori di Gesù sono rinnovati dal peccato! I veri carnefici di Gesù non sono i soldati romani, dalle maniche rovesciate, che nel corpo di guardia della città della Antonia flagellano le spalle del Cristo, gli sputano in viso, lo vestono di un manto di porpora, ovvero percuotono a colpi di canna la testa trafitta di spine, gl’inchiodano le mani e i piedi sul Calvario. I veri carnefici del Cristo siamo noi.In una parrocchia un grande crocifisso dimissione minacciava staccarsi dal legno; il curato chiama un fabbro per fare ribadire i chiodi che sostengono l’immagine sacra del Salvatore.Il fabbro appoggia la scala alla parete, e sale.Giunto al Crocifisso subito sente risvegliarsi quella fede che da molto tempo non aveva praticata, e prova un senso di rammarico. Il dolore invade il suo cuore, gli si gonfiano gli occhi di lagrime, e la mano, con cui sostiene il martello rimane inerte: « Signor Parroco — esclama, voltandosi verso il sacerdote rimasto a pie’ della scala — non posso; no, veramente non posso ».Se nell’ora della tentazione fosse vivo nella nostra mente il pensiero delle sofferenze di Gesù Cristo, le nostre cadute sarebbero meno numerose.Una vecchia biografia di S. Domenico riferisce il seguente fatto: Una donna di costumi dubbi, contrariamente alle sue abitudini, una sera trovavasi sola in casa. A un tratto sente bussare alla porta. Va ad aprire. Un uomo di bellissimo aspetto, ma in preda a una tristezza profonda, le chiede ospitalità. La donna gli offre parte della sua cena. L’uomo accetta. Ma ecco che sui panni dell’ospite, sulla sedia dove è seduto, appariscono macchie di sangue. La donna cambia il tovagliolo; ma dopo alcuni istanti esso è di nuovo coperto di sangue. Allora la misera capisce. L’uomo seduto non è un essere ordinario; è il Crocifisso del Golgota; e il sangue che gli scorre… è il prezzo del peccato.Fatto vero o leggenda? Importa poco! Reale o simbolico, ha in ogni caso, un senso molto vero. Il peccato mortale, nei riguardi di Nostro Signore, è uno spergiuro e una crudeltà.

CAPO III.

L’inimicizia con lo Spirito Santo.

Il Sacramento che ci rende figli di Dio e ci mette in possesso dell’Abitazione divina, è il Battesimo. Si « attuerebbe » meglio la presenza di Dio in noi per la grazia, se qualche volta meditassimo il rito del Sacramento che ci unisce al Cristo. Abbiamo accennato a una parola molto eloquente della sacra liturgia. Altre ve ne sono non meno ricche di sante riflessioni. Il bambino è condotto alla Chiesa; ma gli è interdetta l’entrata e deve aspettare nell’atrio, perché egli è sempre « fuori della Chiesa ». Ma ecco il sacerdote rivolgergli domande importantissime, le cui risposte, date dal padrino e dalla madrina, manifestano la volontà esplicita del futuro « figlio di Dio ». L’affettuoso interrogatorio si svolge così: «Volete essere battezzato? » — «Lo voglio», ecc. Allora il ministro di Dio dice al demonio: « Va via, spirito immondo, esci da questo fanciullo, per lasciare il posto allo Spirito Santo. Exi ab eo, immunde spiritus, et da locum Spiritui Sancto». Forse nessuna parola, qui, come nella consacrazione e nell’assoluzione, rivela meglio la potenza del sacerdote. Quanta forza nella sua affermazione, per la certezza d’essere ubbidito! Parallelismo commovente. Vi è qualcuno che abita nell’anima del bambino a causa del peccato originale. Il suo nome è satana, il demonio. Ma questo nome non muove ancora tanto al disprezzo che merita; bisogna che pubblicamente venga chiamato col nome che per eccellenza caratterizza il suo modo di agire, la liturgia non indietreggia: «Va via spirito immondo, immunde spiritus». « Vattene e lascia il posto » — a chi? « allo Spirito Santo! E nell’istesso momento, in virtù di questa parola divina, splendida come tutte le parole creatrici, satana fugge, e lo Spirito Santo penetra per abitare in eterno nell’anima, in quanto dipende da Lui: « Veniemus et mansionem apud eum faciemus. Noi verremo… e resteremo » S. Luigi, re di Francia, amava sottoscriversi Luigi di Poissy dal luogo in cui aveva ricevuto il Sacramento che aveva in lui messo la vita di Dio. Chi ha ragione, noi che pensiamo così poco al nostro Battesimo, ovvero i Santi che pensano con tanto amore? Il demonio giudica meglio di noi. Non ha preso la fuga senza guardare indietro. È partito; non poteva fare a meno: l’ordine era formale, imperioso. Ma ritornerà, appena gli sarà possibile. Adesso lo Spirito Santo regna da padrone in questo fanciullo; ma satana non avrà requie finché non sarà riuscito, con la connivenza di colui che oggi abbandona, a riavere il domicilio che stima sua possessione. Non può fare torto a Dio nella sua natura. Può combatterlo nel suo «dominio» umano; e suo unico ideale è di allontanare lo Spirito Santo dal cuore dell’uomo, perché riesca a possedere le nostre anime e ad abitarvi da padrone. Qual è lo scopo della lotta fra satana e Dio? I nostri privilegi soprannaturali, la vita di Dio in noi, né più né meno. E consideriamo bene che il demonio si dichiara pronto a rubarci questa ricchezza divina che portiamo in noi. Sperando d’indurre al peccato lo stesso Figliuolo dell’Uomo, lo trasporta, dice il Vangelo, sopra un’alta montagna, e là, mostrandogli, con un gesto l’universo intero: «Tutto questo io ti darò, gli dice, se cadendo a terra, mi adorerai ». E queste promesse seducenti non le fa alle sole anime straordinarie, come era quella di Gesù Cristo, ma a tutte. Per acquistare un’anima, o meglio, i tesori che l’anima possiede, il demonio è pronto a dare, in cambio, i beni materiali. Non può essere altrimenti, perché, in fondo, la mancanza di proporzione è completa, ed egli sa di guadagnare (Notiamo pertanto che il demonio promette, ma è deciso di mancare alle promesse. In ogni tentazione presenta il miraggio di un paradiso terrestre: « Consenti alla colpa… proverai quanti piaceri ti procurerò ». — E dopo commesso il peccato, l’uomo s’accorge che quest’universo, hæc omnia, il paradiso di piaceri era pochissima cosa — meno del nulla! L’oggetto è lo stesso prima e dopo che s’è consentito alla tentazione; ma la stima che se ne ha è proprio la stessa?). – Supponiamolo vincitore un momento. Si cadens una colpa rappresenta sempre una caduta. L’anima è caduta gravemente. All’esterno nulla apparisce. Di due persone che si vedono passare per la strada, l’una è in grazia, l’altra in peccato mortale; ma chi vede la differenza? Nessuno. In realtà essa è immensa! In questo interno oscuro, ma reale, del fondo dell’anima, è avvenuta una strana rivoluzione. Dopo il ribollimento delle passioni, gl’istinti, trionfando sulle ragioni della fede e incatenando la volontà, sono stati causa d’una sentenza di espulsione. Mentre al Battesimo il prete aveva detto: « Va’ fuori, spirito immondo, lascia il posto allo Spirito Santo », il peccatore rivoltando la frase che l’aveva reso Cristiano, pronunzia: « Va’ via, Spirito Santo! Vattene, io non voglio più nulla aver da fare con te! Va’ via, io ti caccio, esci di qui, allontanati da me!… cedi il posto ». — A chi, Dio benedetto!… — «Cedi il posto allo spirito immondo! ». Appunto, il demonio sarà lo strano usurpatore che dimorerà là, dove Dio regnava. – Le ossessioni manifeste del demonio, all’epoca nostra e nei nostri paesi, sono rare. Solo i missionari, nei paesi infedeli, le constatano qua e là. Le manifestazioni esterne della presenza del diavolo nell’anima del peccatore, Dio le permette unicamente per ragioni eccezionali. Ma questo poco importa. A rigore di termini, chi commette un peccato grave è posseduto dal demonio. Non vogliamo dire ossesso, giacché l’ossessione ha un senso specialissimo; ma diciamo – poiché ciò è assolutamente vero, e non ne saremo mai convinti abbastanza — preda del demonio (satana entra nell’anima del peccatore non sostanzialmente, ciò che appartiene a Dio, ma per mezzo della sua azione, cioè per le cattive suggestioni. Questa è la dottrina di S. Tommaso, quando commenta l’introiuit in eum Satanasdel Vangelo (Giov. XIII, 27). Contra Gentes, lib. iv, cap. XVIII. Il P. FROGET scrive: « È privilegio esclusivo e inalienabile di Dio… poter penetrare, sostanzialmente, fino al più intimo dell’essere. Quanto al demonio può penetrare nel corpo, muoverne le membra, malgrado la resistenza della volontà, come avviene agli energumeni, ma non potrebbe invadere l’intimo del nostro essere, né penetrare, almeno direttamente, nel santuario dell’intelligenza e della volontà; se dunque entra nel cuore di qualcuno, non lo fa sostanzialmente, ma per gli effetti della sua malizia: suggerendo pensieri cattivi e atti colpevoli che riesce spesso a far compiere ». De l’Habitation du St. Esprit dans les ames justes, p. 59). Il penoso periodo di tempo in cui lo Stato aveva prescritto gl’Inventari — fu il periodo « della grande miseria della Chiesa di Francia— tristo gesto di alcuni senza coscienza, che forzarono all’esilio Dio, facendolo uscir fuori di parecchie chiese, col demolirne le porte a colpi di scure, ed espellerne i fedeli, riunitisi per difenderla — meritò il nome di profanazione».Ma non meno tragica è la profanazione di colui che fa un gesto per scacciare Dio non da un tempio inanimato, da una Chiesa fatta di pietre e calce, ma da un tempio vivente, dall’anima propria! – Lo Spirito Santo non è meno degno di adorazione che il Corpo santissimo di Nostro Signore. Delle due presenze reali, quella della Terza Persona della Santa Trinità, non è al certo meno reale dell’altra, di Gesù nel Tabernacolo. La facilità con cui noi lasciamo saccheggiare, e saccheggiamo noi stessi, il tabernacolo santo del nostro cuore, non è forse indizio della dimenticanza disastrosa e incomprensibile della verità che, più d’ogni altra, San Paolo inculcava ai primi Cristiani, per persuaderli a condurre una vita pura, santa, per rendere odioso e direi impossibile, agli occhi loro, il peccato, verità espressa in queste parole: «Dio vive in noi, noi siamo le chiese di Dio »? (Quest’idea dell’anima, considerata come tempio, era familiarissima ai primi cristiani. L’Epistola attribuita a S. Barnaba, consola coloro che rimpiangono la distruzione del Tempio di Gerusalemme, ricordando che se il tempio fu distrutto, non è più; ma vi è un altro tempio di Dio. Prima di abbracciare la fede, il nostro cuore rassomigliava veramente ai templi elevati dalla mano degli uomini, dimora di corruzione e di debolezza. Dedicati al culto degli dei erano il soggiorno del demonio. In essi tutto era ostile a Dio. Ma ecco che il Signore si è costruito un tempio, degno della sua magnificenza. Per la remissione dei peccati noi siamo divenuti uomini nuovi, creazione del tutto nuova. Di modo che Dio abita veramente in noi, nel tempio del nostro cuore… Ecco il tempio spirituale che il Signore si è costruito ». – Cap. XVI). Ci resta adesso da esaminare, non più in qual  modo la conoscenza dell’Abitazione divina, aiutandoci a schivare il peccato, ci permetta l’intimità fondamentale; ma in qual modo il pensiero di « Dio in noi », aiuti, nel grado più elevato, lo sviluppo della stessa intimità. Questo è il soggetto che ci studieremo di svolgere, insistendo sulle particolarità che può assumere la nostra famigliarità con gli Ospiti divini dell’anima nostra, a seconda che si scelga di preferenza l’uno o l’altro aspetto della presenza divina, l’una o l’altra Persona della Trinità santa che abita in noi per la grazia.

LIBRO QUARTO

La grazia e le nostre relazioni possibili con Dio in noi

Dal poco che abbiamo detto fin qui, si prevede già che noi possiamo, che noi dobbiamo avere per il Signore, il quale in virtù della grazia abita in noi, una familiarità avida di parlargli, sempre e dovunque. Il libretto dell’Imitazione di Cristo non ha difficoltà di chiamarla: « familiarità eccessiva», degna di quella che conviene a Dio, familiaritas stupenda nimis. Come abbiamo notato sopra, non intendiamo occuparci di quelle relazioni che appartengono all’unione mistica. Trattiamo soltanto delle relazioni normali — o che dovrebbero essere tali — di ogni anima cristiana con l’Ospite divino che vive in lei. E per evitare confusioni determiniamo il senso della parola: mistico. Limitandoci alla materia che trattiamo, mistico può avere due significati: Che le nostre facoltà, in virtù di un’elevazione miracolosa, vengono rese capaci di percepire, in modo eccezionale, l’Abitazione divina e in tal caso la presenza di Dio in noi sarà normale, se riconosciuta semplicemente dalla fede; sarà mistica se si ottiene per una conoscenza diretta, più o meno viva e duratura, più o meno elevata. Oppure che Dio, presente in noi per la grazia nel modo che abbiamo spiegato, si manifesta come presente in altra maniera, per esempio con la sua Umanità. – Da ciò risulta, che sarà mistico ogni fenomeno il quale ha per oggetto di intensificare in maniera eccezionale la presenza normale o di modificarla, aggiungendo ad essa e sempre in via eccezionale, un’altra presenza. Noi prescindiamo da questi casi (Per rendere chiaro il soggetto e trovare paragoni adatti, qualche volta abbiamo citato esempi in cui la presenza divina era del tutto speciale, extra-normale. Ma in questo caso, abbiamo sempre menzionato quello che appariva come straordinario.): tuttavia facciamo notare che se in teoria la linea di divisione si stabilisce facilmente tra la devozione ordinaria e lo stato straordinario, in pratica la vita mistica, almeno in principio, non sarà che l’efflorescenza della vita di grazia, comune a tutte le anime esenti di peccato mortale; in altri termini, un’anima non sarà, il più delle volte, mistica perché possiede qualche cosa che noi non abbiamo, ma perché possiede meglio, e in grado più eminente, l’Ospite divino. – La vita di Dio in noi è base della pietà normale e base ugualmente della pietà mistica. « Supponiamo, nota i l P. L. de Grandmaison, un Cristiano in grazia che coi suoi mezzi naturali riesca a darsi una specie d’intuizione intellettuale dell’anima sua; godrebbe di una visione, simile, materialmente, a quella che è l’aurora dello stato mistico, ma senza scorgerne la dolcezza e i benefizi soprannaturali » (Recherches de Sciences religieuses, t. I, 1910 p. 204 in nota). Premesse queste considerazioni, esaminiamo quali sono le relazioni normali che ogni Cristiano può e deve mantenere:

Col Padre,

Col Figlio,

Con lo Spirito Santo.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/12/24/dio-in-noi-5/