L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (11)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (11)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov. Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA ABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO III

La nostra filiazione divina adottiva. — Analogie e diversità tra l’adozione divina e le adozioni umane.  — Incomparabile grandezza e dignità del Cristiano.

I.

Diventati con la grazia santificante di natura divina, divinæ consortes naturæ (II Petr., I, 4), siamo, per lo stesso motivo, elevati all’incomparabile dignità di figli adottivi di Dio con diritto all’eredità paterna (Rom. VIII, 17) – (S. Th., Ia IIæ, q. CXIV, a. 3.).   Questa verità, che ogni Cristiano dovrebbe sempre avere davanti ai suoi occhi e che non saprebbe mai troppo approfondire, perché questi sono i nostri titoli di nobiltà al presente e la nostra promessa di felicità per il futuro, è registrata in tutte le pagine del Nuovo Testamento, « È per redimerci dalla servitù della legge, dice l’Apostolo, e per comunicare a noi l’adozione dei figli, che Dio ha mandato suo Figlio, nato dalla donna sotto la legge » (Gal IV, 4-5). E poiché siamo suoi figli, Egli ha mandato nei nostri cuori lo Spirito di suo Figlio per ispirarci sentimenti di filiale fiducia nel Padre celeste (Ibid.). « Perciò questo stesso Spirito divino testimonia al nostro spirito che siamo figli di Dio. » (Rom. VIII). Per convincerci che questa non sia una semplice denominazione esterna, un titolo puramente onorifico, ma una filiazione molto reale, che è una partecipazione alla filiazione stessa di Cristo, l’apostolo San Giovanni non esita a dire: « Guardate quale amore il Padre ci ha mostrato concedendoci non solo il titolo, ma anche la vera qualità dei figli di Dio: Videte qnalem caritatemit nobis Pater, ut filii Dei nominemur et simus. ». (1 Giov. III, 1). E come rapito da ammirazione in presenza di tanta grandezza: « Sì, miei cari, ripete, noi siamo fin da ora i figli di Dio; ma ciò che un giorno saremo non appare ancora. Noi sappiamo che quando Dio si mostrerà, noi saremo come Lui, perché lo vedremo così com’è. Chiunque ha questa speranza santifica se stesso, siccome è santo egli stesso. » (Ibid. 2-3). – I Santi Padri celebrano questo glorioso titolo di figli di Dio, ne esaltano le prerogative, ne ripetono i preziosi vantaggi con fede ed amore. Ascoltate il grande Vescovo di Ippona: « Quale non sarebbe la gioia di uno sconosciuto, di qualcuno che non conoscesse i suoi genitori, e che fosse nella miseria, nel dolore e nel duro lavoro, se qualcuno venisse improvvisamente a dirgli: Tu sei il figlio di un senatore, tuo padre gode di un’immensa fortuna che è destinata a te, e io vengo a riportarti da lui. Quali trasporti di gioia non esprimerebbe se potesse credere nella realtà di queste promesse? Ebbene, ecco un Apostolo di Gesù Cristo, la cui parola merita ogni credito, che è venuto a dirci: Perché disperarvi? Perché soffrite e vi consumate dal dolore? Perché vi abbandonate alle proprie concupiscenze e languite nella miseria prodotta da questi piaceri voluttuosi? Voi avete un padre, una patria, un’eredità. Chi è questo Padre? Miei cari, noi siamo figli di Dio » (S. Aug., Enarrat. in Ps. LXXXIV, n. 9.). Agli occhi di san Leone, tutte le altre benedizioni svaniscono di fronte alla grandezza di questa filiazione divina. « Che Dio – egli dice – disse, chiami l’uomo suo figlio, che l’uomo dia a Dio il nome di Padre, e che questo chiamarsi reciproco sia l’espressione della realtà, questo è il dono che supera ogni dono » (S. Leo M. Serm.VI de Nativ.). Ascoltiamo come San Pietro Crisologo espone ai neofiti la suprema dignità del Cristiano: « Così grande – egli dice – è per noi la bontà divina che la creatura non può che ammirarla sempre più: l’abbassamento di un Dio che scende fino alla nostra schiavitù, la dignità alla quale ci eleva condividendo con noi la sua divinità. Padre Nostro che siete nei cieli …. Oh uomo, fino a che punto ti ha elevato arrivando all’improvviso la grazia? Dove ti ha condotto la tua natura celeste? Anche se vivi ancora nella carne e sulla terra, non conosci più la terra e la carne, quando dici: Padre nostro che siete nei cieli. Colui che crede e confessa di essere figlio di un tale Padre, possa condurre una vita in rapporto alla sua origine, conforme a quella del Padre suo; possa affermare nel suo pensiero, nei suoi atti ciò che ha ottenuto con la sua origine celeste » (S. Petr. Chrysol., serm. LXXII in Orat. Domin.). – Per evidenziare la natura della nostra adozione divina, non sarà fuori luogo confrontarla con l’adozione umana e studiarne a sua volta le analogie e le differenze.  Quaggiù, adottare un bambino significa portarlo nella propria famiglia, dandogli liberamente e gratuitamente il titolo e le prerogative di figlio che non gli appartenevano in virtù della sua nascita, compreso il diritto di ereditare dal padre adottivo. – Da ciò si può dedurre che per una vera adozione sia necessaria una triplice condizione: in primo luogo, l’adottato deve essere per origine estraneo alla famiglia che lo introduce nel suo seno, e non ne fa naturalmente parte; in secondo luogo, l’ingresso nella nuova famiglia deve essere il risultato di una libera e gratuita scelta; infine, è necessario che, con il titolo di figlio, l’adottato riceva un diritto rigoroso e legale all’eredità dalla persona che lo adotta. Queste diverse condizioni sono facili da stabilire nel caso in cui sia solo suscettibile di adozione, cosa manifesta; sarebbe una contraddizione adottare il proprio figlio. Come si può dire, infatti, del figlio legittimo, del figlio per natura, che è stato introdotto gratuitamente in una famiglia alla quale non apparteneva per nascita, che ha ricevuto per libera scelta il nome e il diritto di ereditare dal padre? Ma tutto questo gli tocca naturalmente, in virtù anche dalla sua origine. Il figlio legittimo può, è vero, demeritare; può essere cacciato dal tetto paterno per la sua cattiva condotta e per i disordini della sua vita; può anche, in alcune circostanze eccezionali, essere legittimamente diseredato; ma quando, istruito dalla disgrazia e pentito, questo nuovo prodigo ritorna alla casa paterna, riprende il suo posto nella casa di famiglia e non è adottato. Il legame di sangue è indistruttibile, e ci sarà sempre una profonda differenza tra il figlio naturale, qualunque possano essere i suoi torti, e colui che è entrato in famiglia solo per la buona compiacenza del suo capo. Inoltre, l’adozione è essenzialmente volontaria e gratuita: volontaria sia da parte dell’adottante che dell’adottato; gratuita, in quanto non si basa su diritti naturali o acquisiti. È un contratto con il quale due persone, naturalmente indipendenti e libere di disporre l’uno del proprio nome e della sua fortuna, l’altra della propria persona, si impegnano reciprocamente: la prima, per conferire al secondo tutti i diritti di un figlio legittimo, e il secondo, per riconoscere l’autorità del padre adottivo di cui si accettano le liberalità. – Un’ultima condizione finale dell’adozione, che i giureconsulti convengono nel considerare fondamentale, è il conseguente diritto legale della persona adottata a ricevere un giorno la successione dell’adottante.

II.

Se, quindi, la nostra adozione per grazia non è una parola vuota, essa deve soddisfare questa triplice condizione che, data la natura stessa delle cose, si trova necessariamente in ogni vera adozione. Che questo sia davvero  così, è facile da dimostrare. Infatti, vi sono molti estranei che Dio introduce nella sua razza, quando si degna di concedere agli esseri ragionevoli la grazia santificante, e quindi comunicare loro una partecipazione della sua natura e della sua vita. Indubbiamente, « considerato nella sua natura e quanto ai beni dell’ordine naturale, l’uomo non è estraneo a Dio, poiché deve a Lui tutto ciò che possiede; ma per quanto riguarda i beni della grazia e della gloria, egli gli è estraneo; ed è proprio in questo che egli è adottato » (S. Th., III, q. XXIII, a. 1, ad 1). L’uomo della natura, l’uomo privo della grazia, non può quindi essere considerato come uno di quelli ai quali è stato detto: « Voi siete dei e figli dell’Altissimo » (Ps. LXXXI, 6); egli non fa parte della famiglia divina, non ha diritto al possesso dei beni di Dio; egli è veramente un estraneo. Le relazioni che lo uniscono all’Autore del suo essere sono le relazioni di effetto alla causa, dell’opera all’operaio, ed in nessun modo quelle di figlio al padre, dal momento che egli esiste per creazione e non per generazione, che egli procede dal nulla e non dal seno di Dio. Se egli ha, come qualsiasi effetto, una certa somiglianza con la sua causa, non partecipa, tuttavia, alla natura del suo principio; se è stato fatto ad immagine di Dio, pure non vive della vita divina; non ha, nei suoi elementi costitutivi, nulla di veramente divino, né per essenza né per partecipazione.  Indubbiamente, in questo senso ampio e molto improprio, secondo il quale ogni artefice può dirsi, in un certo senso, padre della sua opera, Dio può essere chiamato nostro Padre nell’ordine naturale, e tutte le creature, specialmente le creature intelligenti, che portano in modo più evidente l’impronta della divinità, possono essere chiamate figlie di Dio (« Numquid non ipse est pater tuus, qui possedit te, et fecit, et creavit te? » (Deut., XXXII, 6 – Giob. XXXVIII, 28); ma, per dirla in senso stretto, non lo sono per difetto di questa somiglianza di natura che deve esistere tra il padre ed i figli. Così, la tradizione cattolica ha sempre considerato l’adozione divina come una chiamata di Dio agli esseri che per natura gli sono estranei e che, per la loro condizione originaria, sono per Lui servi, non figli. Ecco come lo spiega San Cirillo d’Alessandria: « Noi che, per natura, siamo creature prodotte e di condizione servile, otteniamo per grazia e al di sopra delle esigenze della nostra natura la dignità di figli di Dio: Nos qui natura censemur effecta servaque creatura, iidem supra naturam et per gratiam nanciscimur præstantiam filiorum Dei » (S. Ciril. Alex In Joan. l. 1). – Sant’Atanasio esprime lo stesso pensiero nei seguenti termini: « Gli uomini, essendo, per loro natura, creature, non possono diventare figli di Dio che ricevendone lo Spirito da Colui che è il vero Figlio di Dio per natura: Nec alio modo possunt filii fieri cum ex natura sua sint creati, nisi Spiritum ejus, qui est naturalis ei verus Filius, acceperint » (S. Athan., Orat. 2 contra Arian). Il Sommo Pontefice Leone XIII non era dunque che l’eco della dottrina tradizionale quando, nella sua bella Enciclica sullo Spirito Santo, diceva: « La natura umana è necessariamente la servente di Dio: Per natura, noi siamo i servi di Dio (S. Cyr. Alex., Thesaur., 1. V, c.5). Inoltre, a causa della comune caduta, la nostra natura è finita in un tale abisso di vizio e vergogna che eravamo diventati nemici di Dio. Nessun potere era in grado di strapparci da questa rovina e di salvarci dalla perdita eterna. Questo compito, Dio, Creatore dell’uomo, lo ha compiuto nella sua sovrana misericordia per mezzo del suo Figlio unigenito, grazie al quale siamo stati restaurati con una maggiore abbondanza di doni in dignità e nobiltà di quanto avessimo perso. È impossibile dire quale sia stata l’opera compiuta dalla grazia divina nell’animo umano; perciò, i Libri Santi e i Padri della Chiesa ci chiamano esseri rigenerati, creature nuove ammesse alla partecipazione della natura divina, i figli di Dio, gli esseri divinizzati e altri titoli simili » (Ex Epist. Encycl. Divinum illud munus Léon. Papæ XIII.). Così, nel momento stesso in cui riceviamo la grazia, avviene in noi un profondo cambiamento; da servi che eravamo in virtù della nostra creazione, diventiamo improvvisamente figli di Dio; da figli del primo Adamo, eredi della sua natura e della sua colpa, diventiamo fratelli del secondo Adamo, Gesù Cristo nostro benedetto Salvatore, che non si vergogna di darci questa gloriosa qualifica (Propter quam causam non confunditur fratres eos vocare. » – Hebr., II, 11.); e sentiamo l’Apostolo pronunciare queste significative parole: « Non siete più stranieri ed ospiti, ma siete concittadini degli Santi e della Casa di Dio: Jam non estis hospites et advenæ, sed estis cives sanctorum et domestici Dei. » (Ephes. II, 19) – Non contento di distruggere in noi il vizio della nostra prima origine, Dio ci comunica un nuovo essere, una nuova vita, una nuova natura; ci genera spiritualmente, non certamente allo stesso modo, né come il Verbo divino, ma a sua somiglianza. Egli è consustanziale con il Padre, che gli comunica la propria natura in tutta la sua pienezza; abbiamo solo una partecipazione finita, un’imitazione analogica di questa stessa natura. Lui è Dio, noi siamo semplicemente divinizzati. La sua generazione è eterna e necessaria; la nostra rigenerazione, che si compie nel tempo, è libera e volontaria. Voluntarie genuit nos verbo veritatis (Giac. I, 18). In breve, il Verbo è Figlio per natura; noi non lo siamo che per benevolenza e adozione, essendo stati divinizzati dalla grazia, senza essere nati dalla sostanza divina: Homines dixit deos, ex gratia sua deificatos, non de substantia sua natos (S. Aug., in Ps. XLIX, n. 2). Ma pur essendo solo figli adottivi, abbiamo comunque diritto all’eredità del nostro Padre celeste. « Se siamo figli – dice san Paolo – siamo anche noi eredi: eredi di Dio e coeredi di Gesù Cristo: Si autem filii, et hæredes: hæredes quidem Dei, cohæredes autem Christi. » (Rom. VIII, 17) . Questo diritto all’eredità paterna è la parte più essenziale dell’adozione; è il suo scopo e il suo fine, così come l’amore ne è il principio. Inoltre, « non appena, per effetto della sua infinita bontà, Dio chiama gli uomini ad ereditare la propria beatitudine, si dice che li adotti » (S. Th., III, q. XXVIII, a. 1). È una grande e sublime vocazione, una benedizione inestimabile, che ha strappato dall’Apostolo san Paolo quel grido di gratitudine e di amore: « Benedetto sia Dio e Padre di Nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha ricolmati in Gesù Cristo di ogni sorta di benedizioni spirituali e celesti, avendoci eletti in Lui prima della costituzione del mondo, perché fossimo santi e immacolati davanti a Lui nella carità. Perché con un favore gratuito ci ha predestinato a diventare suoi figli adottati per mezzo di Gesù Cristo, per la gloria ed il trionfo della sua grazia, con la quale ci ha resi graditi ai suoi occhi nel suo amato Figlio. » (Ephes. I, 3-6).

III.

La grazia soddisfa così tutte le condizioni per una vera adozione, poiché attraverso di essa gli stranieri vengono introdotti liberamente nella famiglia di Dio, di cui diventano eredi. Ma quanto questa adozione differisce dalle adozioni umane! Se ci sono certe analogie, certi tratti di somiglianza tra di loro, tante, d’altra parte, sono le differenze profonde e marcate! Tra gli uomini, l’adozione avviene solo per compensare, in una certa misura, l’assenza di figli legittimi e per popolare una casa che la natura aveva lasciato deserta. Quando due coniugi, privati del beneficio della fertilità, temono che un grande nome si estinguerà e che si disperderà una brillante fortuna, scelgono uno sconosciuto, lo introducono come un figlio nella loro casa, e, trasmettendogli il loro nome e la loro eredità, si consolano nel pensiero che non moriranno del tutto. Ma se i coniugi hanno un figlio, fanno attenzione a non ridurre il suo patrimonio dandogli dei coeredi. « Questo – disse sant’Agostino – è ciò che fanno gli uomini; Dio agisce in modo diverso: Hoc faciunt homines….. No sic Deus » (S. Aug., in Joan., tract, 2, n. 13). Non è per l’indigenza, in assenza di un figlio, che Dio ci adotta; è solo per amore, con l’intenzione di diffondere su altri esseri l’abbondanza delle sue perfezioni. Egli possiede infatti un Figlio uguale a Se stesso, sovranamente perfetto, immortale, erede di tutti i suoi beni (Hebr. I, 2); ma, spinto dalla sua bontà, vuole allargare il cerchio della famiglia divina, ammettere alla condivisione dei suoi beni delle creature che non ne avevano alcun diritto, e conferire loro, adottandoli, una sorta di filiazione che è immagine di quella del Verbo, così come, con l’atto creativo, aveva comunicato a tutti gli esseri usciti dalle sue mani una somiglianza della sua perfezione (Rom. VIII, 29 – S. Th., III, q. XXIII a. 1, ad 2). Di qui le parole dell’Apostolo: « Coloro che Dio conosceva nella sua prescienza, li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo. » (Rom. VIII, 29). Era infatti necessario che, prima di adottarci, Dio cominciasse con il conferirci una partecipazione alla sua natura generandoci spiritualmente, perché la conformità della natura tra chi adotta e chi viene adottato si impone così manifestamente che non si giunge all’idea che un uomo possa prendere come figlio una creatura diversa dall’essere umano. Ora, mentre l’adozione umana suppone questa comunità di natura, l’adozione divina deve crearla, perché la divinità appartiene naturalmente solo a Dio. Inoltre, mentre l’uomo sceglie a piacimento tra i suoi simili colui che vuole fare suo figlio adottivo ed erede, Dio può adottare un essere ragionevole solo se lo divinizza in anticipo informandolo della sua natura. Inoltre, tra gli uomini, l’estraneo adottato può ricevere da se stesso l’eredità che gli è stata devoluta; se non può rivendicarla in virtù della sua nascita, basta una semplice formalità giuridica a costituire per lui un diritto e metterlo in possesso dei beni che gli sono stati lasciati in eredità. Questo non è il caso dell’adozione divina. Invece di limitarsi a designare la persona chiamata a ricevere l’eredità celeste, Dio deve prima creare, nell’eletto, la capacità di entrare in possesso e di godere dei beni divini; perché nessun essere creato, lasciato a se stesso e abbandonato alla sua sola forza, è capace di raggiungere tali altezze; c’è bisogno dell’integrazione della grazia e della gloria (S. Th. III, q. XXIII, a. 1); indubbiamente, non appena l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio e possiede una natura intelligente, ha la potenza radicale di essere elevato alla visione beatifica e alla partecipazione della beatitudine divina, che consiste nel godere di Dio (Ibid.); ma, per ottenere l’effettivo godimento di questa beatitudine suprema, ha bisogno di forze soprannaturali che perfezionino la sua intelligenza e dilatino il suo cuore. Come si vede, l’adozione umana è un atto puramente esterno, una finzione giuridica, che può benissimo cambiare la situazione sociale dell’adottato, ispirargli nuovi sentimenti, stabilire tra lui e colui che lo adotta rapporti di intimità e di affetto, ma che non può fare nulla sulla natura. Il padre adottivo ha dato tutto quello che può trasmettere, quando ha dato il suo nome, la sua eredità e il suo cuore. « Colui che ne prende ora il nome, non appartiene alla razza per questo motivo. Se ha un cuore nobile e riconoscente, sposerà i sentimenti, i pensieri e le tradizioni della sua famiglia adottiva; ad essa dedicherà amore e obbedienza; ma a questa filiazione artificiale e convenzionale mancherà sempre il legame di origine, la consanguineità. Questo non è il caso dell’ordine della nostra filiazione suoprannaturale. Il giorno in cui diventiamo Cristiani, la nostra iniziazione non solo ci conferisce il nome, non solo ci aggrega alla casa, non solo ci impegna alla dottrina di Gesù Cristo: ma imprime nella nostra anima un sigillo di somiglianza, un carattere indelebile; essa ci comunica internamente « lo spirito di adozione dei figli in cui gridiamo; Padre » (Rom. VIII, 15); infine, attraverso l’azione sacramentale del Battesimo e di altri segni, e ancor meglio attraverso il nettare eucaristico, essa insinua il sangue di colui in cui siamo adottati nella parte più intima del nostro essere. Attraverso questo, entriamo autenticamente nella sua razza: ipsius enim et genus sumus (Act. XVII, 28). E siccome siamo della razza di Dio: genus ergo cum simus Dei (Ibid. 29), perché la nostra filiazione non è puramente nominale, ma rigorosamente vera e reale, diventiamo eredi di diritto e di stretta giustizia, eredi del Padre comune che abbiamo con Gesù Cristo, coeredi quindi del primogenito della nostra razza (Rom. VIII, 17): Si filii, et hæredes: hæredes quidem idem Dei, cohæredes autem Christi » (Card. Pie, 3 e Instruct. synod. sur les principales erreurs du temps présent, § XVI).

IV.

Cosa sono, di fronte a queste qualità di figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo, i titoli più fastosi di cui la vanità umana ama adornarsi come di un’aureola? Che cos’è un principe della terra, un capo di stato, un monarca benché si presuma essere così potente, accanto a un erede della corona celeste? Questo aveva perfettamente compreso il nostro grande San Luigi; egli infatti preferiva l’umile nome di Luigi di Poissy, il luogo dove aveva ricevuto il Sacramento della rigenerazione, al nome sì giustamente famoso di Re di Francia. Altri si vantino, se lo desiderano, della nobiltà della loro origine, dell’ampiezza e della profondità della loro conoscenza, dell’abbondanza delle loro ricchezze, della brillantezza dei loro onori: agli occhi della fede, e di conseguenza a giudizio di Dio, nulla di tutto ciò è paragonabile alla dignità di un Cristiano in stato di grazia. Questo giusto non è forse che solo un povero artigiano, che vive a malapena del lavoro delle sue mani, o una donna umile, senza influenza o notorietà, per non parlare di un mendicante misconosciuto e disprezzato, con pochi stracci sordidi per coprire la sua nudità. Ma mentre il felice della terra passa accanto a lui senza degnarsi di guardarlo, tutto il Cielo intero ha gli occhi su di lui; Dio lo contempla con amore, pronto a ripetere per lui le parole che un giorno caddero dalle labbra a lode di Gesù Salvatore: « Questo è il mio amato Figlio, nel quale ho riposto tutte le mie compiacenze » (« Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi bene complacui. » (Matth,, XVII, 5); gli Angeli lo circondano di religioso rispetto e lo coprono della loro protezione, perché vedono in lui un fratello e un coerede della gloria celeste. Questo è ciò che deve essere insegnato e ripetuto frequentemente agli uomini della generazione contemporanea che sono così freddamente indifferenti alle cose della salvezza, così ingrati a Dio, così sprezzanti dei beni della grazia. A questi battezzati che fanno conto del titolo di Cristiani come di una cosa da nulla, quand’anche non se ne umiliano apertamente davanti ai figli del secolo, è necessario ricordare lo splendore della loro nascita spirituale, la dignità del loro Battesimo, l’incomparabile grandezza dei loro destini; è necessario insegnare loro a non arrossire di ciò che li rende gloriosi. Un figlio di famiglia, un giovane di nobile estrazione, arrossisce forse per i nomi dei suoi antenati? Nasconde o dissimula il proprio blasone? Al contrario, egli lo fa risuonare ben in alto, si ingegna nel metterlo bene in evidenza. Ebbene, tutti noi che siamo stati battezzati apparteniamo alla più grande razza del mondo: siamo della razza divina, siamo figli di Dio. « Imparate – diceva san Girolamo alla vergine Eustochio, invitandola a non associarsi alle superbe matrone gonfie per l’importanza dei loro mariti – imparate a concepire qui un santo orgoglio; sappiate  che voi siete migliori di loro: Disce sanctam superbiam; scito te illis majorem. » (S. Girol. Epist. IX). Se l’umiltà cristiana ci si addice come creature, e specialmente in quanto peccatori, non è opportuno avere pensieri mediocri o sentimenti bassi circa le cose della grazia. Un santo orgoglio appare qui appropriato, per colui che rispetta i doni di Dio e si rifiuta di derogare. Che gli uomini estranei alla nostra fede riservino la loro stima per i beni ed i benefici nell’ordine naturale, che esaltino più della ragione le conquiste della scienza, questo è concepibile; poiché « l’uomo animale – secondo l’espressione energica di san Paolo – non conosce le cose che sono dello Spirito di Dio » (« Animalis homo non percipit ea quas sunt Spiritus Dei. » (I Cor., II, 14); quanto al Cristiano, egli non la cede a nessuno quanto alla stima e alla cultura delle scienze naturali e umane – perché, lungi dall’essere una depressione della natura, la grazia è, al contrario, la sua più splendida esaltazione – fa professione di credere in una scienza superiore e più necessaria, la scienza di salvezza. – Ascoltate dunque con quali nobili accenti san Cipriano risponde a tutti quei difensori della natura che hanno costantemente in bocca le grandi parole di “progresso”, “civiltà” e “scoperte moderne”, e che, non contenti di esaltarsi davanti a quelli che chiamano i capolavori del pensiero e le conquiste della scienza, sembrano voler imporre la loro ammirazione agli altri: « Non ammirerà mai le opere umane, chi sa di essere figlio di Dio ». È un discendere dalla vetta della grandezza l’ammirare qualcosa dopo Dio. Nunquam humana operato mirabitur, quisquis se cognoverit filium Dei. Dejicit se culmine generositatis, qui admirari aliquid post Dominum potest. » (S. Cyp., lib. de Spectac., n. IX). E per incoraggiare il Cristiano a rifiutare coraggiosamente la tentazione, l’illustre Vescovo di Cartagine non trova motivo più potente di quello della sua divina figliolanza: « Ogni volta che la carne vi sollecita a piaceri vergognosi, rispondete: Io sono il figlio di Dio, chiamato a un destino troppo alto per farmi schiavo di vili passioni. Quando il mondo vi tenta, rispondete: Io sono il figlio di Dio; mi sono riservate le ricchezze celesti, non è degno di me che io mi leghi ad una zolla di terra. Quando il diavolo cerca di attaccarvi e vi promette onori, ditegli: io sono il figlio di Dio, nato per un regno eterno; ritirati, satana, non confondere mai gli alti pensieri che appartengono ai figli di Dio. « O Cristiano – aggiunge san Leone – riconosci la tua dignità e, divenuto partecipe della natura divina, non ritornare alla tua precedente bassezza con una condotta indegna della tua origine celeste » (« Agnosce, o christiane, dignitatem tuam, et divinse consors factus naturae, noli in veterem vilitatem degeneri conversations redire. » (S. Léo, serm. 1 de Nativ. Domini.)

https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/05/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-12/

SALMI BIBLICI: “CONFITEMINI DOMINO, QUONIAM BONUS … DICANT QUI REDEMPTI” (CVI)

SALMO 106 “Confitemini Domino, quoniam bonus … Dicant qui redempti”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 106

Alleluja.

 [1] Confitemini Domino, quoniam bonus,

quoniam in sœculum misericordia ejus.

[2] Dicant qui redempti

sunt a Domino, quos redemit de manu inimici, et de regionibus congregavit eos,

[3] a solis ortu, et occasu, ab aquilone, et mari.

[4] Erraverunt in solitudine, in inaquoso; viam civitatis habitaculi non invenerunt.

[5] Esurientes et sitientes, anima eorum in ipsis defecit.

[6] Et clamaverunt ad Dominum cum tribularentur, et de necessitatibus eorum eripuit eos;

[7] et deduxit eos in viam rectam, ut irent in civitatem habitationis.

[8] Confiteantur Domino misericordiæ ejus, et mirabilia ejus filiis hominum.

[9] Quia satiavit animam inanem, et animam esurientem satiavit bonis.

[10] Sedentes in tenebris et umbra mortis; vinctos, in mendicitate et ferro.

[11] Quia exacerbaverunt eloquia Dei, et consilium Altissimi irritaverunt.

[12] Et humiliatum est in laboribus cor eorum; infirmati sunt, nec fuit qui adjuvaret.

[13] Et clamaverunt ad Dominum cum tribularentur; et de necessitatibus eorum liberavit eos.

[14] Et eduxit eos de tenebris et umbra mortis, et vincula eorum dirupit.

[15] Confiteantur Domino misericordiæ ejus, et mirabilia ejus filiis hominum.

[16] Quia contrivit portas aereas, et vectes ferreos confregit.

[17] Suscepit eos de via iniquitatis eorum, propter injustitias enim suas humiliati sunt.

[18] Omnem escam abominata est anima eorum, et appropinquaverunt usque ad portas mortis.

[19] Et clamaverunt ad Dominum cum tribularentur; et de necessitatibus eorum liberavit eos.

[20] Misit verbum suum, et sanavit eos, et eripuit eos de interitionibus eorum.

[21] Confiteantur Domino misericordiæ ejus; et mirabilia ejus filiis hominum.

[22] Et sacrificent sacrificium laudis, et annuntient opera ejus in exsultatione.

[23] Qui descendunt mare in navibus, facientes operationem in aquis multis,

[24] ipsi viderunt opera Domini, et mirabilia ejus in profundo.

[25] Dixit, et stetit spiritus procellæ, et exaltati sunt fluctus ejus.

[26] Ascendunt usque ad caelos, et descendunt usque ad abyssos; anima eorum in malis tabescebat.

[27] Turbati sunt et moti sunt sicut ebrius; et omnis sapientia eorum devorata est. [28] Et clamaverunt ad Dominum cum tribularentur; et de necessitatibus eorum eduxit eos.

[29] Et statuit procellam ejus in auram, et siluerunt fluctus ejus.

[30] Et laetati sunt quia siluerunt; et deduxit eos in portum voluntatis eorum.

[31] Confiteantur Domino misericordiæ ejus; et mirabilia ejus filiis hominum.

[32] Et exaltent eum in ecclesia plebis, et in cathedra seniorum laudent eum.

[33] Posuit flumina in desertum, et exitus aquarum in sitim;

[34] terram fructiferam in salsuginem, a malitia inhabitantium in ea.

[35] Posuit desertum in stagna aquarum, et terram sine aqua in exitus aquarum.

[36] Et collocavit illic esurientes, et constituerunt civitatem habitationis;

[37] et seminaverunt agros et plantaverunt vineas, et fecerunt fructum nativitatis.

[38] Et benedixit eis, et multiplicati sunt nimis; et jumenta eorum non minoravit.

[39] Et pauci facti sunt et vexati sunt, a tribulatione malorum et dolore.

[40] Effusa est contemptio super principes; et errare fecit eos in invio, et non in via.

[41] Et adjuvit pauperem de inopia, et posuit sicut oves familias.

[42] Videbunt recti, et lætabuntur; et omnis iniquitas oppilabit os suum.

[43] Quis sapiens et custodiet hæc? et intelliget misericordias Domini?

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CVI

Celebra il Signore, il quale da1 traviamenti, dalle carceri, dalle malattie, e dai pericoli del mare, e da tutti i mali libera coloro, che lo invocano, e gli ricolmadi favori. Sotto tali immagini è adombrata la vocazione delle genti liberate dalla loro cecità, e dalla funesta loro schiavitù per Gesù Cristo:

Alleluja: Lodate Dio.

1.Date lode al Signore, perché egli è buono perché la misericordia di lui è eterna. (1)

2. Lo dicano quelli che dal Signore furon redenti, i quali egli riscattò dal dominio dell’inimico, e gli ha raccolti di tra le nazioni.

3. Dall’oriente e dall’occidente, da settentrione e dal mare.

4. Andaron errando per la solitudine, per aridi luoghi, non trovando strada per giungere ad una città da abitare.

5. Tormentati dalla fame e dalla sete, era venuto meno in essi il loro spirito.

6. E alzaron le grida al Signore, mentr’erano tribolati; e gli liberò dalle loro angosce.

7. E li menò per la via diritta, affinché giungessero alla città da abitare.

8. Diano lode al Signore le sue miserie e le meraviglie di lui in prò dei ligliuoli degli uomini.

9. Perché egli ha saziata l’anima sitibonda e l’anima famelica ha ricolma di beni.

10. Sedevan nelle tenebre, e all’ombra di morte imprigionati o mendichi, e nelle catene.

11. Perchè furon ribelli alle parole di Dio e dispregiarono i disegni dell’Altissimo.

12. E fu umiliato negli affanni il loro cuore, restarono senza forze, e non fu chi prestasse soccorso.

13. E alzaron le grida al Signore, mentre erano tribolati: e liberolli dalle loro necessità.

14. E li cavò dalle tenebre e dall’ombra di morte, e spezzò le loro catene.

15. Lodino il Signore le sue misericordie e le sue meraviglie a prò’ de’ figliuoli degli uomini.

16. Perché egli ha spezzate le porte di bronzo e rotti i catenacci di ferro.

17. L i sollevò dalla via della loro iniquità, dappoiché per le loro ingiustizie furono umiliati.

18.  L’anima loro ebbe in avversione qualunque cibo; e si accostarono fino alle porte di morte.

19. E alzaron le grida al Signore mentre erano tribolati, e gli liberò dalle loro necessità.

20. Mandò la sua Parola, e li risanò; e dalla lor perdizione li trasse.

21. Lodino il Signore le sue misericordie, e le sue meraviglie a prò de figliuoli degli uomini;

22. E sacrifichino sacrifizi dilaude, e celebrino con giubilo le opere di lui,

23. Coloro che solcano il mare sopra le navi, e nelle grandi acque lavorano. (2)

24. Eglino han veduto le opere del Signore, e le maraviglie di lui nell’abisso.

25. Alla parola di lui venne il vento portator di tempesta, e i flutti del mare si alzarono. (3)

26. Salgono fino al cielo, e scendono fino all’abisso: l’anima loro si consumava di affanni.

27. Erano sbigottiti, e si aggiravano come un ubbriaco; e tutta veniva meno la loro prudenza.

28. E alzaron le grida al Signore mentre erano nella tribolazione, e gli liberò dalle loro necessità.

29. E la procella cambiò in aura leggera, e i flutti del mare si tacquero.

30. Ed eglino si rallegrarono perché si tacquero i flutti; ed ei li condusse a quel porto, ch’e’ pur bramavano.

31. Lodino il Signore e le sue misericordie, e le sue meraviglie a prò’ de’ figliuoli degli uomini.

32. E lui celebrino nell’adunanza del popolo; e nel consesso de’ seniori a lui diano laude.

33. Ei cangiò i fiumi in secchi deserti, e le sorgenti dell’acque in terreni assetati.

34. La terra fruttifera cangiò in salsedine per la malizia dei suoi abitatori. (4)

35. I deserti mutò in istagni di acque, e alla terra arida diede sorgenti di acque.

36. E in essa collocò gli affamati, e vi fondarono città da abitarvi.

37. E seminarono campi, e piantaron viti, ed ebher frutti in copia nascenti.

38. E li benedisse, e moltiplicarono grandemente, e accrebbe i loro bestiami.

39. Quantunque e’ fosser ridotti a pochi, efosser vessati da molti affanni e dolori;

40. Il dispregio piovve sopra i potenti, ed ei li fe’ andare fuori di strada, e dove strada non è.

41. Ed egli sollevò il povero nella miseria, e fe’ le famiglie come greggi di pecore.

42. Queste cose le comprenderanno i giusti, e ne avranno allegrezza, e tutta l’iniquità si turerà la sua bocca.

43. Chi è il saggio, che farà conserva di queste cose, e intenderà le misericordie del Signore?

(1) La forma di questo salmo è unica. I primi tre versetti formano una sorta di preludio; poi vengono quattro strofe in cui il pensiero segue regolarmente lo stesso andamento; il quadro seguente farà meglio comprendere questo piccolo capolavoro poetico:

Stato del popolo di Dio in cattività o prova:

I strofa vv. 4, 5. II strofa: vv. 10-12; III strofa: vv. 17, 18; IV strofa: vv. 23-27;

Preghiera a Dio – Liberazione immediata:

I strofa vv. 6, 7. II strofa: vv. 13-14; III strofa: vv. 19, 20; IV strofa: vv. 28-30;

Azioni di grazie:

I strofa vv. 8, 9. II strofa: vv. 15-16; III strofa: vv. 21, 22; IV strofa: vv. 31-32.

Nell’ultima parte, che comincia al versetto 33, la forma non è più la stessa; vi vediamo la rovina di Babilonia, o dei nemici del popolo di Dio, in contrasto con la riedificazione di Gerusalemme. Così i vv. 33, 34 formano un contrasto dirompente con il versetto 35, come il versetto 36-38 con i versetti 39, 40 (P. Emm. Nuovel Essai sur les Psalmes.). Questo salmo era cantato alternativamente da due cori, la maggior parte dal coro dei leviti e dei cantori, ed i versetti intercalari 6, 8, 13, 15, 19, 21, 28, 31, dal popolo

(2) Siccome il mar Mediterraneo circonda la Palestina ad Occidente, ed il livello delle sue rive è meno elevato della terra ferma che le lambisce, il salmista esprime, con la parola “discendere”, ciò che fecero tanti Giudei dopo la presa di Gerusalemme da parte Caldei. Essi fuggirono verso il mare per cercare un rifugio in Egitto, in Africa, in Grecia, in Italia; ma Dio li seguiva dappertutto, essi ebbero a subire le tempeste più spaventose.

(3) La parola “stetit” non significa affatto “si è arrestata” senso che sarebbe in opposizione con il seguito del salmo.

(4) Hengstenberg intende che questi versetti riguardino Babilonia; ma ci sembra più giusto, con Maurer ed altri esegeti, riferirli alla terra di Canaan che, dopo la prigionia dei suoi abitanti, restò incolta ed isolata, e dopo il loro ritorno recuperò la sua bellezza e la sua fertilità.

Sommario analitico

Questo salmo, che si può riportare – in accordo con diversi interpreti – al ritorno dalla cattività, ha tuttavia un intento più esteso. Esso è composto da diverse parti e termina con una strofa intercalare in forma di ritornello cantato dal coro. Esso comprende e dipinge in cinque quadri di un’audacia e di una bellezza ammirevole, cinque classi di persone che devono particolarmente ringraziare Dio. Il Profeta si serve di numerose comparazioni o allegorie per far comprendere la grandezza di questi benefici che, secondo i santi Padri, sono la figura della redenzione del genere umano. Nella numerazione di queste cinque classi, il Profeta, come sottolinea Rosen-Muller, e secondo Schmurrer, segue sempre lo stesso ordine. Egli mette in scena una determinata classe di uomini, espone la grandezza dei loro mali, la loro preghiera, il soccorso dall’alto e l’azione di grazie.

I CLASSE: La prima classe è quella degli uomini erranti ed affamati che hanno trovato un asilo e del pane, ciò che conviene ai gentili o ai peccatori che, in rapporto alla religione ed alla salvezza, sono veramente come degli sbandati e degli affamati, senza fissi principi, senza strada né uscita, senza termine possibile alla loro marcia dolorosa e nello stesso tempo sterile (1-9).

II CLASSE: La seconda classe comprende coloro che, schiavi o caricati da catene, riscoprono la loro libertà e rappresentano lo stato di cecità, di indigenza spirituale  e di dura schiavitù del genere umano alla venuta del Messia (10-17).

III CLASSE: La terza classe, sotto l’immagine delle infermità corporali, comprende tutte le malattie spirituali degli uomini ed il disgusto mortale che essi avevano delle verità eterne (17-22).

IV CLASSE: La quarta classe comprende coloro che sono sfuggiti al naufragio e rappresenta le tempeste eccitate dalle passioni nel tumulto del mondo, o le persecuzioni portate contro la Chiesa nascente (23-32).

V CLASSE: La quinta classe comprende coloro che vogliono tornare all’abbondanza dopo la sterilità, sotto l’immagine di una terra devastata e di un’altra terra feconda e popolata. Taluni vedono qui i Giudei riprovati, lo spirito di vertigine che ingannò i principali tra loro, in opposizione alla vocazione dei gentili e la protezione che Dio accorda alle anime umili e docili (38-41).

VI. – CONCLUSIONE. – Il  Profeta fa osservare:

1° Questa condotta della divina Provvidenza sarà per i buoni fonte di gioia, per i malvagi soggetto di confusione (42);

2° I saggi devono sempre aver presente questa condotta di Dio per comprendere e lodare le sue misericordia (43).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-9

ff. 1-3. – Questi tre versetti sono come la prefazione di questo salmo, nel quale Davide esorta tutti coloro che hanno provato la misericordia del Signore, a proclamare le sue lodi, e proclamarle soprattutto perché Egli è sovranamente buono e misericordioso, e la sua misericordia non fa mai difetto. Egli fa appello innanzitutto ai fedeli che Dio ha riscattato con il sangue del suo unico Figlio, poi  coloro che il Signore ha raccolto in un solo popolo, in una sola Chiesa, in un solo regno, il regno del suo Figlio diletto, che Egli ha radunato non dall’Egitto o da Babilonia, come altre volte gli Ebrei, ma dal levante al ponente, dal Nord e dal Mezzogiorno. (Bellarm.).- Quattro sono i caratteri della misericordia di Dio al nostro riguardo: noi siamo stati riscattati letteralmente; noi siamo stati riscattati dal Signore, al quale apparteniamo oramai a titolo particolare, nel compimento di questa profezia: « Questi dirà: Io appartengo al Signore, quegli si chiamerà Giacobbe; altri scriverà sulla mano: Io appartengo all’Eterno. », (Isai. XLIV, 5). Questi quattro benefici segnalati dalla bontà e dalla misericordia di Dio ci sono richiamati nei primi due versetti: 1° noi siamo stati riscattati; 2° siamo stati riscattati dal Signore; 3° Siamo stati radunati da diversi paesi per formare un’unica Chiesa. – 1° Noi siamo stati riscattati, nel senso rigoroso del termine, secondo l’ammirabile teologia di san Paolo. Agli occhi del grande Apostolo, lo stato del genere umano, effetto del peccato, si presenta come un debito immenso contratto verso Dio, e che l’uomo non poteva ripagare. Il Cristo, conoscendo questo contratto funesto che ci incatenava alla morte, lo cancella con il suo sangue e lo inchioda alla croce come un monumento della sua vittoria e della nostra libertà (Coloss. III, 14). Egli mette fine al vecchio impero del peccato e lo rimpiazza con il decreto di salvezza; (Efes. II, 15); Egli ci riscatta dalla maledizione di questa legge funesta (Gal. III, 13), noi abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue e con essa la piena remissione dei peccati. Ecco il fatto positivo, effettivo, della redenzione del genere umano: liberazione, guarigione, riscatto e remissione del peccato con il suo sangue. – 2° Noi siamo stati riscattati dal Signore, che è il sovrano padrone di tutte le cose, noi che siamo i più miserabili ed indegni tra gli schiavi, noi Gli apparteniamo ora a titolo tutto particolare. « Il Signore riscatterà l’anima dei suoi servi » (Ps. XXIII, 23). « I mortali sapranno che sono Io il Signore che salva, e che il tuo Redentore è il Forte di Israele. » (Isai. XLIX, 26). « Il nostro Redentore è il Dio degli eserciti, il suo nome è il Santo di Israele. » (Isai. XLVII, 4). Compimento di questa profezia: « L’uno dirà: io sono col Signore, l’altro porterà il nome di Giacobbe, un altro scriverà di sua mano: io appartengo all’Eterno. » (Isai. XLIV, 5). – 3° Egli ci ha riscattato dalla potenza del nostro nemico più crudele, cioè la potenza del demonio, – a) Ci ha riscattato con saggezza: « Voi ci avete riscattato, Signore Dio di verità, » (Ps. XXX, 6); – b) Egli ci ha riscattati con forza, incatenando il forte armato, e ci ha liberato dalla tirannia, (Matt. XII); – c) Egli ci ha riscattato con giustizia. « Egli ha inviato la redenzione al suo popolo, » un Redentore ed il prezzo della redenzione. (I Cor. VI, 20). « Voi siete stati riscattati a caro prezzo. » – d) Noi siamo stati riscattati con amore, Egli è stato sacrificato, perché Egli lo ha voluto. » (Isai. LIII, 1). « È così che Dio ha tanto amato il mondo, da dargli il suo unico Figlio. » (Giov III, 16). – 4° Infine Egli ci ha radunato da diverse nazioni, per formare un unico gregge sotto la guida e la direzione di un unico Pastore. – Io mi glorificherò non perché sono giusto, ma perché i miei peccati mi sono stati rimessi; non perché io mi sia reso utile agli altri, o perché mi sia attirato i loro benefici, ma perché il sangue di Cristo è stato sparso per me. Senza le mia prevaricazioni, io non sarei stato riscattato a così caro prezzo. Queste prevaricazioni mi sono state più utili dello stato di innocenza. Nell’innocenza, io ero divenuto orgoglioso, e dopo essere divenuto prevaricatore, io sono rientrato nella sottomissione. (S. Ambr.) – Dio non limita gli effetti della sua misericordia ad un’unica nazione; essa si spande su tutti i popoli. « In verità, io vedo che Dio non fa eccezione di persone; ma che in ogni nazione, colui che lo teme e pratica la giustizia gli è gradito.. » (Act. X, 34, 35).  

ff. 4-9. – Quattro sono le grandi miserie corporali, ed un numero uguale di miserie morali. Le miserie corporali sono innanzitutto la fame e la sete: risultato della sterilità, della siccità, cioè di una causa esteriore qualsiasi e naturale; poi la cattività, che ha la sorgente in una violenza straniera, cioè in una causa esterna e volontaria; viene in terzo luogo la malattia, risultato di una cattiva costituzione, cioè un principio esterno naturale; infine il pericolo di un naufragio, che nasce da un principio esterno naturale, vale a dire dalla direzione dei venti, e da un principio interno volontario, cioè la curiosità dell’uomo che non contento di calpestare la terra solida sotto i suoi piedi, ha voluto tentare il viaggio sulle superfici liquide. Le quattro grandi miserie morali sono quelle che i teologi chiamano le ferite della natura, triste retaggio del peccato originale: l’ignoranza dell’anima, la concupiscenza delle cose, la collera e la malizia dello spirito; le virtù opposte sono la prudenza dell’anima, la temperanza delle passioni, la forza su se stesso e la rettitudine della volontà, che sono dette le quattro virtù cardinali. In questa prima parte, il Profeta canta la misericordia di Dio, che libera dalla prima miseria sia corporale che morale (Bellarm.). – L’ignoranza della salvezza, è la piaga di un gran numero di uomini erranti nel deserto, come fuori della loro vita, che hanno fame di sete e di verità, della fontana della saggezza e della prudenza. Tutti gli uomini aspirano naturalmente al bene; ma il maggior numero – preoccupato da vani pensieri – perseguono sempre il possesso dei beni temporali, cercando la beatitudine ove essa non è; altri scambiano per beatitudine ciò che non ne è che l’ombra, e nella loro ignoranza del fine, ignorano necessariamente la strada che vi conduce. Errando così all’avventura, essi non possono trovare la città della loro vera abitazione (Bellarm.). – Studiamo tutti i tratti di questo quadro oscuro che ci fa il Profeta: 1° « essi hanno errato. » Tutti i peccatori si condannano a questa vita di inganni: – a) nella loro intelligenza, « essi hanno errato come i ciechi nelle strade e sulle pubbliche piazze; » (Thren. IV, 14); « in pieno giorno, essi brancolano come nelle tenebre, e li fa vacillare come se fossero ubriachi, » (Giob. XII, 25); – b) nella loro volontà depravata ed abbassata interamente verso terra, « essi si sono allontanati da me, e si sono ingannati dietro ai loro idoli, » (Ezech. XLIV, 10); – c) nelle loro azioni, « essi errano e si smarriscono, tutti coloro che fanno il male. » (Prov. XIV, 22). Ecco l’immagine della società attuale, che si allontana sempre più da Dio e dalla vera strada che è Gesù-Cristo, perdendosi in una vita senza religione, attraverso contrade lontane, in mezzo a pericoli di ogni tipo, con la triste prospettiva di una morte certa. – 2° ogni peccatore erra nella solitudine: « Essi hanno errato nella solitudine, in un deserto senza acqua, » come un gregge senza pastore, come un orfano senza padre, come un orfano senza tutore, come una vedova priva del suo sposo, come un viaggiatore senza guida. Il Signore è la via; al di fuori di questa via e delle sue cure paterne della sua provvidenza, noi non riscontriamo più che una solitudine arida e sterile che non è mai irrorata dalla rugiada celeste. (S. Greg. di Nyssa, Tract. I in Ps.). – Qual triste sorte quella di questi infelici erranti, incamminati nelle vie deviate in cui li vediamo ogni giorno perdersi, abbandonati ai loro sensi, sballottati ed incerti in seno a tutte le contraddizioni e a tutti gli errori, così lontani dalla celeste patria e dalla vera gioia, che è Gesù-Cristo! Qual solitudine desolante è quella in cui non c’è Dio! In cui l’anima non vede, non sente, non spera più nulla! Qual via di incertezza, di dubbi, di errori, su tutte queste grandi questioni che interessa tanto conoscere all’uomo! – 3° Errando così nella solitudine dei loro pensieri e dei loro desideri, « essi non hanno trovato il cammino della città che dovevano abitare. » L’uomo è errante in questo mondo per tanto tempo, finché non abbia trovato la città di Dio, la città della fede, della speranza e della carità: la Chiesa, che sola può appagare la fame e la sete del suo spirito. I peccatori, gli empi, non trovano la via che conduce a questa città, perché essi non vogliono né riconoscere, né ascoltare Colui che dice loro: « Io sono la via, la verità e a vita, » e si condannano così ad errare quaggiù nelle orribili solitudini del dubbio e dell’errore e più tardi, nelle solitudini ben più desolanti di una espiazione che non avrà altro termine che l’eternità. – 4° Errando nella solitudine, l’anima smarrita muore di fame, e di sete, fame e sete crudele di cui la fame e la sete che torturano il corpo non possono dare che una debole idea. « … Io invierò, dice il Signore, la fame sulla terra, non la fame del pane, né la sete dell’acqua, ma la fame della parola di Dio. »  Ed essi si agiteranno da un mare all’altro, e dopo il settentrione andranno fino al mezzogiorno per cercare la parola di Dio; essi non la troveranno. « In quel giorno, le vergini ed i giovani moriranno di sete » (Amos VIII, 11, 12). Qual tormento quello di un’anima che dopo essere stata, sull’esempio del prodigo del Vangelo, il più lontano possibile dalla casa paterna, in un paese straniero, ove ha dissipato tutte i ricchi tesori, e dato al mondo tutto ciò che Dio voleva avere, è condannato a lanciare il suo grido di angoscia: « Io muoio di fame! » Morir di fame, è quella in effetti la sorte che attende queste anime create per nutrirsi di verità, ma che, avendo rigettato volontariamente questo nutrimento divino delle intelligenze fatte ad immagine di Dio, non hanno più che da aspettare che gli snervamenti prodotti dai loro lunghi errori e gli sfinimenti della morte: « Essi hanno errato nella solitudine, in una terra senza acqua, e non hanno trovato alcuna via verso una città abitabile; affamati, assetati, la loro anima è piombata nella rovina. » – Per garantirsi dalla sventura che dipinge il profeta, i Santi procurano in se stessi una solitudine tutta differente da quella di coloro in cui camminano i peccatori. « Questa solitudine – diceva San Gregorio – consiste nell’escludere dal cuore il tumulto dei desideri della terra, ed a porvi, con la meditazione dell’eternità, l’amore della patria celeste. » I peccatori, errando nei loro deserti, non sanno cosa vogliono, mentre il giusto vede sempre il termine al quale aspira. – Qual mezzo per uscire da queste difficoltà, da queste angosce, dall’errore, dalla solitudine, da questa fame e da questa sete disastrosa? Un solo grido esce dal fondo del cuore verso il Signore, e tutto è cambiato. (S. Greg. di Nyssa, Te. I, in Ps.). – È dal fondo di questo abisso che la misericordia divina viene a riprenderli: « Essi hanno gridato verso il Signore in mezzo alle loro afflizioni, ed Egli li ha tratti dalle loro necessità. » Questo stesso grido che l’anima volge a Dio, è un effetto della grazia divina, perché l’uomo non saprebbe gridare con questo grido possente che ottiene la grazia della sua liberazione, se lo Spirito Santo non formasse in lui questi gemiti ineffabili che sono sempre esauditi da Dio. Dopo questo grande grido lanciato verso Dio, cosa ancora resta da fare! Qual soccorso ha dato loro in ragione del loro smarrimento? Il Profeta ci lo indica in queste parole: « Egli li ha condotti nella retta via. » La loro intelligenza, il loro cuore, la loro volontà, le loro opere, la loro maniera di essere, le loro abitudini, tutto era deragliato, Dio ha ricondotto tutto sulla retta via. Dio li ha condotti nella via retta per farli arrivare ad una città abitabile. Gesù-Cristo solo è il retto cammino che conduce a questa città veramente abitabile, a questa città permanente che ha un fondamento stabile, di cui Dio stesso è il fondatore e l’architetto (Hebr. XI, 10). – Fuori da Gesù-Cristo, l’uomo non cammina che su terre mobili, incapaci di consistenza, che franano da ogni parte e non fanno vedere che spaventosi precipizi. – La fede solo, ponendoci sulla pietra stabile, può condurci verso questa città delle solennità, della Gerusalemme celeste, il soggiorno della pace, questo padiglione che non sarà trasportato in altri luoghi, i cui appoggi non saranno divelti, le cui corde non saranno spezzate; è solo là che il Signore fa apparire tutta la sua magnificenza (Isai. XXXIII). – Dolce e legittimo soggetto di lode che dobbiamo rendere a Dio, sono le sue misericordie. È il cantico che canteremo in eterno, e che bisogna iniziare già fin da questa vita. – Il Profeta non ha ancora detto come Dio li abbia tratti da tutte le loro necessità; ma aspettate, egli lo dirà. « Che sia confessato il Nome del Signore per le sue misericordie, e per le meraviglie che ha fatto in favore dei figli degli uomini. » Ditelo a coloro che non lo hanno ancora provato, voi che siete entrati nella retta via, voi che siete condotti verso la città in cui abiterete, voi infine, che siete già liberati dalla fame e dalla sete; dite che il Signore ha saziato l’anima che era vuota, e colmato di beni l’anima affamata. (S. Agost.). – L’animo del Cristiano ha sempre fame e sete, ma è saziato e sempre ed in modo costante. C’è nella via del bene, nel sentimento del dovere pieno per Dio, una soddisfazione che solo le anime abiette possono negare. Perché nella vita dei Santi si nota una felicità, una gioia, una pace che brillano in tutta la loro fisionomia? … Non siate stupefatti: questi uomini sono sazi, essi hanno le facoltà piene di cose vere, nobili e grandi! Dio stesso sazia la loro fame, estingue la loro sete; e tuttavia man mano che avanzano ne desiderano sempre di più, ma ad ogni desiderio, il Signore accorda nuove grazie e dispensa nuovi benefici. La loro vita trascorre così tra i bisogni soddisfatti dalla liberalità di Dio, e tra i desideri che crescono per ricevere nuovi appagamenti (Mgr LANDRIOT, Beatit. n, p. 222).

II. —10-17

ff. 10-17. – La seconda schiavitù, è la schiavitù della concupiscenza e del peccato.Percorriamo i principali tratti di questa umiliante servaggio. – 1° Il peccatore disteso nelle tenebre in seno alle ombre della morte, come un cadavere è affetto già dalla corruzione della tomba. 2° Il peccatore incatenato nei ferri delle sue passioni e dei suoi disordini – ridotto alla più umiliante servitù ed alla mendicità più completa, nh ed umiliato nei lavori più ignominiosi: « Sono un uomo maledetto, chi mi libererà da questa vergognosa schiavitù? » – « Dio che ha comandato alla luce di brillare dal mezzo delle tenebre (I Cor. IV, 6), fa uscire il peccatore dalle tenebre e dalle ombre della morte, e distrugge tutti i legami del peccato con la forza della sua grazia. – 3° La debolezza, la malattia, la totale astenia del peccatore fuori dalla grazia di Dio, non trovano nessuno che giunga in soccorso. – Il peccato, le abitudini inveterate, la schiavitù delle passioni, sono molto più difficili da infrangere delle porte di bronzo e delle barriere di ferro (Dug.). – Essi sono sotto la schiavitù del mondo e delle loro passioni, e quali legami! Esse sembrano leggeri, ed il loro peso è intollerabile; esse sembrano accompagnate da piaceri, e portano nell’anima un dolore mortale; sotto queste catene, nessun vero riposo, nessun solido benessere, nessuna speranza in grado di consolare. (S. Agost.). – Vediamo come Dio li  liberi da tutte le sue miserie: 1° Dio li estrae dalle loro tenebre con la luce della fede e delle grazie dello Spirito-Santo. « Egli li fece uscire dalle tenebre e dall’ombra di morte. » La prima luce dell’intelligenza, è la fede (S. Pier Dam., L. H. Ep. 5); ogni grazia è una luce. – 2° Dal momento che questa luce ha brillato nei nostri occhi, Dio spezza le catene che tenevano schiavo il nostro cuore: « … ed Egli spezza i loro legami. » Egli rinnova, per il peccatore al quale ha reso la libertà, quello che ha fatto per San Pietro: « Ed ecco che apparve un Angelo del Signore, e la luce brillò nella prigione, e l’Angelo, colpendo san Pietro sul fianco, lo svegliò dicendogli: alzati prontamente, e le catene caddero dalle sue mani » (Act. XII, 7). – 3° Rotti i legami e spezzate le catene, apre loro le porte della prigione, e rende loro la libertà: « Egli ha distrutto le porte di bronzo, e rotto le barre di ferro. » È con le porte che difendiamo il passaggio, è con le barre che fortifichiamo la chiusura delle nostre dimore. Cosa figurano queste porte? La contraddizione. Che significano queste sbarre? La ribellione. Il ferro che rompe tutti i metalli, è il simbolo dell’audacia, ed il bronzo il simbolo della pertinacia. Le porte di bronzo dunque, rappresentano la contraddizione ostinata; le barre di ferro, la ribellione audace. Dio distrugge dunque le porte di bronzo e le sbarre di ferro, quando rompe e spezza – con la compunzione interiore – la ribellione audace ed ostinata di un cuore indurito dal crimine. (Rich. De S. Vict.). 

III. — 17-22

ff. 17 – 22. – La terza classe di uomini dipinta dal Profeta comprende, sotto la figura delle infermità corporali, tutte le malattie spirituali, ma soprattutto l’abbattimento, lo scoraggiamento, la dissolvenza dell’anima, il disgusto di ogni nutrimento. Il corpo che ha disgusto ed orrore per ogni tipo di nutrimento, è senza dubbio molto vicino alla morte; l’anima che prova disgusto, avversione, orrore per le verità celesti, che sono il suo vero nutrimento, è molto vicino alle porte della morte eterna. (Dug.). –  Vi sono tre specie di nutrimento spirituale, per le quali i peccatori hanno disgusto ed orrore: la parola di Dio: « L’uomo non vive solo di pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio; » (Matt. III); « non sono i frutti della terra che nutrono gli uomini, ma la vostra parola che conserva coloro che credono in Voi, » (Sap.,. XVI, 26); il corpo di Gesù-Cristo: « La mia carne è vero cibo, il mio sangue è vera bevanda. »  (Giov. VI, 55); le virtù e le buone opere: « portate al giusto delle parole di pace, ditegli che gusterà il frutto delle sue virtù, » (Isai. III, 10); « I mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha inviato e compiere la sua opera. » (Giov. IV, 34). È questo il triplice nutrimento per il quale il peccatore prova disgusto ed avversione. « Egli ha in orrore il pane, che era l’alimento della sua vita, respinge le vivande che per lui erano in precedenza le più delicate. La sua carne si consuma e si assottiglia, le sue ossa si disseccano e deperiscono. » (Giob. XXXIII, 20, 21). – È questo uno dei caratteri più evidenti dello stato di tiepidezza: la preghiera non ha attrattiva, la Comunione è senza gusto, la parola di Dio una guida inopportuna. Questa terza tentazione è quella della noia, come la chiama Sant’Agostino, che la caratterizza in due parole: il disgusto dei due principali alimenti della vita cristiana, la lettura e la preghiera. Ancor meno, l’uomo colpito da questa malattia potrebbe, in questo triste stato, ricorrere alla meditazione. Egli diviene sempre più incapace di accogliere l’idea del dovere, il pensiero di Dio lo stanca, le verità religiose si oscurano, le pratiche di pietà non gli sembrano che una vana formalità; egli non concepisce come altre volte abbia potuto inginocchiarsi in una chiesa alla vista di un prete, ricevere la cenere sulla fronte al fianco di un uomo del popolo; egli ama di più non attenersi che a ciò che chiama lo spirito della religione: la religione naturale; oramai è il solo culto che voglia seguire. La noia lo ha allontanato dalle sue abitudini; l’orgoglio lo precipita in tutti i pericoli di una libertà senza regole e senza freno (Rendu). – Come la grazia divina libera le anime da questi languori, da questa tiepidezza mortale? 1° il rimedio, da parte nostra, è nella preghiera indirizzata a Dio con fede: « Essi gridano al Signore nel mezzo delle loro afflizioni, ed Egli li libererà dalle loro necessità. Quando la tiepidezza o la noia opprime la vostra anima, non perdete comunque la fiducia, non abbandonate i vostri esercizi spirituali, ma implorate la mani di Colui che può venire in vostro soccorso; ad esempio la Sposa dei Cantici chiede a Dio che la si attiri a Lui, fino a che la sua grazia vi abbia restituito la vostra vivacità ed il vostro primitivo fervore, voi possiate dirgli: « … io ho corso nella via dei vostri comandamenti, quando avete dilatato il mio cuore. » (S. Bern. Serm. XXII, in Cant.). – 2° Il rimedio da parte di Dio è inviare la sua parola: « Egli ha inviato la sua parola e li ha guariti, li ha tratti dalla morte. » Questa parola è il Verbo di Dio, Gesù-Cristo, la Parola eterna con la quale tutte le cose sono state fatte. Questa parola – sono ancora i discorsi dei ministri del Verbo – sono le divine Scritture e le sante ispirazioni che Dio invia nelle anime. Gesù-Cristo, Figlio di Dio, Parola eterna con la quale tutte le cose sono state fatte, è inviato – dice Isaia – per guarire coloro che hanno il cuore oppresso dalla tristezza, per essere la medicina sovrana delle nostre anime, che Egli ha guarito con le sue piaghe. « Era – dice S. Agostin -, il gran medico che doveva avvicinarsi personalmente al grande malato ». – Sotto la mano potente e nello stesso tempo dolce e prudente di questo divino Medico, l’anima oppressa si rialza, sente rinascere le proprie forze e, con le sue forze, la sua salute, il suo fervore, il suo gusto per le cose di Dio. – Guarendo tutto il genere umano dalle sue infermità e dai suoi languori, ha lasciato ancora un fondo di tristezza, ma di tutt’altra natura rispetto a ciò che lo divorava prima della sua guarigione: « … Noi gemiamo – dice l’Apostolo – nell’attesa della nostra dimora che è nel cielo. » (II Cor. V, 4). Ma questa tristezza è l’effetto del prezioso dono della salvezza che Gesù-Cristo ci ha reso. (Berthier). – Vedete allora il male che causa questo disgusto spirituale, vedete a quale pericolo il malato sia destinato da Colui verso il quale ha gridato: « Egli ha mandato la sua parola, li ha guariti, e li ha liberati. » Da cosa? Non dai loro smarrimenti, non dalla fame, non dalle difficoltà di vincere i loro peccati, ma « dalla loro corruzione. » È in effetti una corruzione dello spirito il provare disgusto per ciò che è pieno di dolcezza. Per questo beneficio dunque, come per quelli che lo hanno preceduto, « … che il nome del Signore sia confessato per le sue misericordie e per le sue meraviglie che ha fatto in favore dei figli degli uomini. Gli offrano essi un sacrificio di lode. » Se essi lodano il Signore, gustano così la sua dolcezza; « e rendano pubbliche le sue opere con trasporto di gioia, » senza noia, senza tristezza, senza ansia, senza disgusto ma, al contrario, con trasporto di gioia (S. Agost.).

IV. — 24-32.

ff. 24-32. – La quarta angoscia dell’umanità abbandonata a se stessa ci è dipinta dal salmista sotto l’immagine di un mare in tempesta. Il mondo è questo mare burrascoso al quale gli uomini sono costantemente esposti, battuti dalle onde delle persecuzioni degli uomini, o dalle tentazioni del demonio. Tutti i tratti di questo quadro, possono essere applicati ai peccatori: là essi discendono sul mare su navigli, come Giona fuggente davanti al volto di Dio, abbandonando la terra ferma, cioè il soggiorno nell’umiltà, nella pace, nella grazia; 2° essi lavorano in mezzo a grandi acque, dandosi molta pena per soddisfare nella loro vita delizie e voluttà; 3° essi vedono le opere di Dio con le sante ispirazioni che dà loro; 4° essi vedono le sue meraviglie con lo sguardo della fede che penetra fino alla profondità dell’inferno; 5° il soffio della tempesta si leva con la tentazione del demonio; 6° le onde del mare si sollevano per le diverse calamità da cui sono oppressi; 7° si eleveranno fino al cielo per l’orgoglio dei loro pensieri e delle loro afflizioni; 8° discendono fino negli abissi per la disperazione che avvolge il loro cuore; 9° la loro anima cade nell’astenia per la perdita delle grazie e dei doni dello Spirito-Santo; 10° essi si turbano, ed è questo l’affetto naturale e primario del peccato nell’anima priva di pace, che è – per Sant’Agostino – la tranquillità dell’ordine; 11° essi sono agitati come un uomo che è ubriaco dai desideri insensati che lo dominano e lo trasportano; 12° ogni loro saggezza è abbattuta, divorata. Il pilota del naviglio, cioè l’intelligenza che veglia sul corpo e sull’anima, è piombato a causa del peccato in un sonno profondo: « … voi sarete come un uomo che dorme in mezzo al mare, come un pilota assopito che ha perso il controllo. » (Prov. XXIII, 34). Due cose – dice san Tommaso – impediscono all’anima di vedere la verità: la violenza delle passioni, che allontana l’anima dalle cose spirituali per portarla interamente verso le cose sensibili, e la sollecitudine prodotta dalla preoccupazione delle cose terrene. – La grande ed assoluta dipendenza dell’uomo da Dio, non sembra in alcun luogo più evidente che sul mare, quando si vede su qualche tavola unita, esposto ad ogni furore di questo elemento indomabile, quando vede da vicino che non conosce se non dal racconto dei viaggiatori, la potenza di una tempesta, l’elevazione delle onde, l’immensità e la profondità dei mari, e la morte che gli si presenta da ogni lato. – È questa la demoralizzazione degli uomini in presenza del naufragio, allorché ogni energia, ogni risoluzione li abbandona, ed essi si allarmano fino a perdere lo spirito. – La potenza di Dio è che comanda con autorità ai venti ed alle tempeste: « Egli domina l’orgoglio del mare, ed abbatte i suoi flutti elevati. » (Ps. LXXXVIII, 10). – Quando il vento dell’orgoglio agita il mare del cuore umano, le onde dei desideri si elevano fino al cielo. – « Le sue onde si elevano, salgono fino ai cieli e discendono fino al fondo degli abissi. » Ecco un’agitazione violenta; è un’immagine viva degli spiriti curiosi: i loro pensieri, vaghi ed agitati, si spingono, come flutti, gli uni contro gli altri; si gonfiano, si alzano smisuratamente; non c’è nulla di così elevato nel cielo, né nulla di così nascosto nelle profondità dell’inferno, ove essi non immaginano di poter sprofondare; ed i consigli della sua Provvidenza, le cause dei suoi miracoli, la sequela impenetrabile dei suoi misteri, tutto vogliono essi sottomettere al loro giudizio. Infelici sono coloro che, agitandosi per la loro sorte, non vedono che il loro arrivo come in coloro che sono tormentati dalla tempesta: « Essi sono ondeggianti come degli ubriachi, » la testa gli gira in questi movimenti; tutta la loro saggezza si dissipa e, avendo malauguratamente smarrita la strada, urtano contro gli scogli, si gettano negli abissi (Bossuet, sur l’Eglise, IIe p.), immagine meno viva delle continue vicissitudini alle quali gli uomini sono esposti durante questa vita, subito elevati fino al cielo per la fiducia che ispira la fede, presto abbassati fino al fondo degli abissi dallo scoraggiamento in cui li fa sprofondare la timidezza, la debolezza, la sfiducia. – Il  turbamento, le emozioni causate dalla vista di tanto male, sono come un uomo ebbro, che non sa ciò che fa, né cosa dice. – Dio cambia, quando gli piace, le tempeste più violente, i venti più furiosi, in una brezza dolce e piacevole. Così tutto ad un colpo cadde il furore dei venti e dei flutti, alla voce di Gesù-Cristo che li minacciava; Egli non fa un miracolo minore quando, tra i fragori di una coscienza allarmata ed i dolori dell’inferno, fa sentire ad un’anima pentita, con una viva fiducia, con la remissione dei suoi peccati, questa pace che oltrepassa ogni intelligenza. (Bossuet, Or. fun. D’Anne de G. ). – Sant’Agostino applica tutta questa descrizione alla Chiesa. Questa quarta tentazione ci mette tutti in pericolo. Tutti noi, in effetti siamo sulla stessa barca: gli uni come operai, gli altri come passeggeri: tutti, tuttavia, condividono il pericolo nella tempesta e la salvezza nel porto. « Coloro che scendono sul mare nei navigli e che lavorano in mezzo alle grandi acque, » cioè in mezzo ai popoli numerosi (Apoc. XVII, 15), hanno visto le opere del Signore ed i suoi miracoli nelle profondità delle anime. Che cos’è in effetti più profondo del cuore umano? È da qui che più frequentemente partono gli uragani, che vengono le tempeste delle sedizioni ed i conflitti che agitano il naviglio. E cosa succede allora? Dio, volendo che i piloto ed i passeggeri gridino egualmente verso di Lui, « … Dio ha detto, ed il soffio della tempesta è tenuto buono. » Che vuol dire « Ha tenuto buono? » Egli ha continuato, ha perseverato, agita ancora l’imbarcazione e lo sballotta in ogni senso, ed il suo furore non passa. E cosa succede? « Ed i flutti sono stati sollevati. Essi salgono fino ai cieli, » con il loro coraggio, « e discendono fino al fondo degli abissi » nel loro terrore. Battaglia all’esterno, fragori all’interno. « La loro anima era consumata per i tanti mali. Essi erano turbati e traballavano come un uomo ubriaco. » Coloro che sono seduti al governo e sono fedelmente attaccati alla loro imbarcazione, sentano queste parole: « Essi erano turbati, e traballavano come un uomo ubriaco. » Sicuramente, quando parlano, leggono, spiegano i libri santi, sembrano saggi; ma guai a loro se la tempesta si eleva, « tutta la loro saggezza svanisce. » Talvolta, tutti i consigli degli uomini sono ridotti a nulla; da qualunque lato si girino, le onde muggiscono, la tempesta è furiosa, cadono loro le braccia; da qualsiasi lato volgano la prua, a quale onda presentare il fianco della nave, in quale direzione favorire la corsa, da quale roccia allontanarsi per paura di non perire? Nessuno di quelli che governano la nave riesce a vedere. Quale risorsa resta loro se non questa: « … essi hanno gridato verso il Signore in mezzo alle loro afflizioni, ed Egli li ha liberati dalle necessità in cui si trovavano. » – « Egli ha comandato alla tempesta, ed essa ha tenuto bene; è stata trasformata in un vento piacevole. » Essa ha tenuto bene, non sotto forma di tempesta, ma sotto forma di un vento dolce e favorevole « … ed i flutti del mare hanno fatto silenzio. » Ascoltate su questo soggetto la voce di un pilota esposto a questi pericoli, umiliato e liberato: « Non vogliamo infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci abbia colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita. »  E che, forse Dio abbandona coloro che le loro forze abbandonano? O ai quali le loro forze mancano se non per aumentare la sua gloria? Così l’Apostolo aggiunge: « Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte per imparare a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti. » – « Egli ha comandato alla tempesta, ed essa ha mantenuto bene, trasformata il un vento piacevole. » Già questi uomini, tutta la saggezza dei quali era assorbita, avevano ricevuto in se stessi la sentenza di morte, « ed i flutti del mare hanno fatto silenzio; » e sono stati pieni di gioia per il silenzio dei flutti, ed il Signore li ha condotti nel porto che essi desideravano. Che il Nome del Signore sia dunque confessato, non per i nostri meriti, non per le nostre forze, non per la nostra saggezza, ma « per la sua misericordia. » Amiamo, in tutte le nostre liberazioni, Colui che invochiamo in tutte le nostre sofferenze (S. Agost.).

V. — 33 – 43.

ff. 33 – 38. – In questa ultima parte, il Profeta, dopo aver cantato le misericordie del Signore, che porta rimedio alle Quattro grandi miserie dell’umanità, loda Dio per l’onnipotenza provvidenziale con la quale cambia talvolta la natura delle cose, amandosi rivelare con i suoi cambiamenti, come il solo e vero Creatore e padrone di tutte le cose. – Il salmista qui ha in vista non un fatto particolare al popolo di Dio nel deserto o nella terra promessa, ma i tempi primitivi dell’inizio della propagazione del genere umano dopo il diluvio. Così come Dio cambiò la fertile terra di Sodoma in un deserto arido, così, in altri luoghi, diede nascita a fiumi, a città; Egli fece fiorire la coltura dei campi, piantare delle vigne e moltiplicare gli uomini e gli animali. (Bellarm.). Il deserto è sterile, l’acqua che feconda vi manca; ma è Dio che fa scorrere l’acqua nel deserto, così come è Lui che ritirandola, cambia in deserto il suolo più fertile (Isai. XXV). – Le acque scorrono per il popolo giudaico con l’insegnamento dei Profeti. Oggi cercate i Profeti tra i figli di Israele, non li troverete più; la fede del Cristo, non la troverete più; il sacerdozio non lo troverete più; il sacrificio, il tempio, non lo troverete più. Perché? Perché Dio ha cambiato i fiumi in deserto. Ecco come resiste ai superbi. Ma vedete nello stesso tempo come Egli dia la sua grazia agli umili: Egli cambia il deserto in stagno, e queste terre aride in acque correnti. Dio ha detto a suo Figlio: «Tu sei Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech. » Voi cercate tra i Giudei il sacrificio di Aronne, e non lo troverete da nessuna parte; ma il sacrificio di Melchisedech lo si celebra dappertutto nella Chiesa, dall’oriente all’occaso, si offre una vittima pura al Nome del Signore, al posto delle vittime immonde che sacrificavano le nazioni quando non erano che un deserto; vedete dappertutto in seno alla Chiesa, delle sorgenti, dei fiumi, degli stagni e delle acque correnti: Dio dà la sua grazia agli umili (S. Agost.). – Immagine terribile di un’anima che Dio abbandona dopo che essa per prima lo ha abbandonato. Noi abitiamo ora nel seno di questa Chiesa bagnata dalle acque divine, ma guardiamoci dal ricadere per colpa nostra nell’aridità e nella sterilità dei giudei; e se la corruzione del nostro cuore arresta l’effusione salutare per le acque vivificanti dello Spirito-Santo, volgiamo i nostri occhi verso la bontà e la potenza di Colui che cambia il deserto in mare, e la terra arida in sorgenti di acqua viva. (D’Allioli).

ff. 39-41. – Sulla terra non c’è nulla di perpetuo e di stabile. Gli uomini che Dio ha colmato delle sue benedizioni, dei quali ha moltiplicato la razza, si vedono ben presto colpiti dai loro peccati, diminuiti e ridotti ad un piccolo numero, in preda ad insidie e persecuzioni. – Questi castighi non colpiscono solo i singoli particolari, ma pure i prìncipi. – Castigo terribile è sia per i popoli che per i re, e severa è la condanna quando Dio getta il disprezzo sui principi, cioè quando ha fatto, con la sua Provvidenza, che i principi ed i superiori, sia ecclesiastici che secolari, diventino disprezzabili, perché allora c’è insubordinazione, e la disciplina si rilassa, e tutto questo procede a loro rovina; i capi privi di luci di saggezza e di grazia, camminano all’avventura in percorsi perduti, e non più sulla retta strada, cioè vivono nel vizio, scandalizzano i popoli con i loro cattivi esempi, favoriscono i malvagi e perseguitano le persone dabbene. (Bellarm.). – Nello stesso tempo che Dio abbassa l’orgoglio di questi principi insensati, si compiace di rivelarsi ai poveri ben persuasi della propria povertà e che aspettano tutto da Dio.

ff. 42, 43. – Un cuoreretto gioisce nel vedere la rettitudine della condotta di Dio sugli uomini. – Ora i giusti tacciono in presenza dei malvagi; ma verrà il tempo in cui l’iniquità non oserà più aprire bocca. Attendiamo questi tempi con pazienza. (Dug.). – La Chiesa della terra è e sarà fino alla fine dei tempi, la Chiesa militante. Non è che in seno al regno eterno che la bocca di coloro che vomitano l’iniquità sarà imbavagliata, e sarà dato ai buoni rallegrarsi vedendo che ogni iniquità ha le labbra chiuse. Questa è la triste consolazione lasciata ai figli delle tenebre, di poter contraddire con più o meno libertà ed audacia, secondo che la Religione sia più o meno esposta alla mercé dei loro attacchi, tutto ciò che contribuisce all’avanzamento del regno di Dio. (Mons. Pie, T. II, p. 30, 31). – Vedete come il Profeta termina questo salmo: « Chi è l’uomo saggio? Se è povero conserva le sue cose; se non è ricco, cioè se non è superbo, né gonfio d’orgoglio, conserva le sue cose. Perché? « perché egli comprenderà la misericordia del Signore; » egli comprenderà che non i suoi meriti, non le sue forze, non la sua potenza, ma che le misericordie del Signore, lo hanno ricondotto nella via e nutrito, egli errante e mancante di tutto; poiché Egli lo ha slegato e liberato quando combatteva contro gli ostacoli innalzati dai suoi peccati, ed era lanciato nei legami dell’abitudine; Egli gli ha inviato il rimedio della sua parola e lo ha creato di nuovo quando era disgustato dalla parola divina e moriva di noia; che, strappandolo ai pericoli del naufragio e della tempesta, ha calmato il mare e lo ha condotto fin nel porto; che lo ha posto in seno al popolo ove dà la sua grazia agli umili, e  non al popolo per cui resiste ai superbi; infine che gli si è legato in tal modo che resta del gran numero in seno alla Chiesa, invece di essere del piccolo numero fuor dalla Chiesa. « Ogni uomo saggio terrà presente queste cose. » Come le terrà presenti? Con la sua umiltà e l’intelligenza che avrà delle misericordie del Signore (S. Agost.).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. Pio VI, “DUM NOS”

La lettera enciclica “Dum Nos” di Papa Pio VI, inviata ai prelati e fedeli francesi, si inserisce nella feroce lotta dei rivoluzionari francesi e dei loro falsi usurpanti governanti contro la Chiesa Cattolica, vero bersaglio di questi scellerati servi del demonio orchestrati ad arte dagli “illuminati” e dai cabalisti delle logge massoniche. Il Santo Padre protesta ancora una volta vibratamente contro abusi, violenze, appropriazioni indebite di facinorosi ed empi personaggi che, sostituendosi ai legittimi governanti ed in certi casi persino ad esponenti della gerarchia ecclesiastica, pretendevano di sovvertire l’ordine civile, morale e religioso di un’intera nazione. La barbarie della rivoluzione francese, in nome di una libertà assoggettata ad esponenti del cabalismo mondiale, giungeva all’epoca a sottrarre alla Santa Sede territori e strutture di legittima proprietà, come d’altra parte la barbarie demoniaca ha sempre fatto. La lettera elogia coloro che hanno resistito ed ancora resisteranno impavidi alla violenza sanguinaria di scellerati ed improvvisati giudici e governanti pilotati da passioni abominevoli ed esecrande « … soggetti a tutte quelle persecuzioni che dall’empietà, dallo scisma e dall’eresia poterono mai essere escogitate, così che ai Nostri occhi appare già vicino il momento nel quale ci sarà un nuovo e più crudele pericolo per la vostra religiosità e per la vostra fede », ed ancora: «… non è sufficiente sopportare per un certo tempo le ingiurie soltanto con animo forte, ma è necessario perseverare con la stessa costanza fino alla fine e, se è necessario, sacrificare la propria vita. Infatti, non chi ha incominciato ma “colui che avrà perseverato fino in fondo sarà salvo” » (Mt X,32). La Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica, apostolica e perseguitata in ogni tempo, d’altra parte si gloria per la volontà di rendere almeno in parte quanto deve al suo fondatore e Capo, che ha portato il suo sacrificio fino alla morte, ed alla morte di croce. La Chiesa non troverà pace finché non abbia reso almeno parzialmente la sofferenza e la persecuzione che per Essa sopportò con amore il suo Fondatore, suo Capo e Sposo divino, e nemmeno la morte o la sepoltura potrà mai fermarla, sapendo che così si compiranno i patimenti del Cristo nel suo Corpo mistico, non meno che nel corpo mortale dell’Uomo-Dio. Questa è pure l’idea che la “vera” Chiesa Cattolica attuale persegue, per cui, lungi dal respingere la violenta persecuzione attuata con stratagemma finemente spirituale, da una falsa chiesa, sinagoga di satana, e dalle satelliti sette lefebvriane e sedevacantiste, abbraccia ed abbraccerà fino alla fine, compreso l’eventuale martirio, tutte le sofferenze e le persecuzioni, alle quale sarà ancor più sottoposta. Ma il premio che ci attende, non ha prezzo, vale ogni sacrificio, ogni rinuncia, ogni supplizio, perché è una felicità eterna ed inimmaginabile, che scaturisce dalla diretta visione e godimento di Dio. Chiediamo solo, “pusillus grex” cattolico, di essere sostenuti dal nostro Redentore fino alla morte, e consolati dalla nostra Mamma celeste, alla quale il divin Maestro ci ha affidato dall’alto della croce. Ausilium Chriastianorum, ora pro nobis! Il Cuore di Gesù ci procuri la grazia della perseveranza finale.

Dum nos

Pio VI

All’Arcivescovo di Avignone e i Vescovi di Carpentras, Cavaillon e Vaison, e ai diletti Figli del Capitolo, del Clero e del Popolo della città di Avignone e del Contado Venesino.

1. Mentre Vi scriviamo questa nuova lettera apostolica come pastore universale e vostro sovrano, pensiamo che non vi sia occasione più opportuna e più valida perché Noi possiamo continuare a lodare coloro che fedeli a Dio e al loro sovrano sono accusati e condannati dall’attuale Assemblea Nazionale francese; al contrario, mentre di nuovo ammoniamo ed esortiamo alla penitenza coloro che sono ribelli a Dio e al loro sovrano, la stessa Assemblea francese li esalta con tante lodi, fra l’incredibile stupore di tutte le genti.

2. Dio, dal quale le Nostre colpe e quelle dei popoli sono punite attraverso le tribolazioni, ma che non abbandona mai nessuno di coloro che difendono particolarmente la sua causa, in verità Ci ha consolato con una non trascurabile soddisfazione. Infatti, per opera divina è accaduto che la Nostra precedente lettera ammonitrice che Vi abbiamo inviato il 23 aprile dello scorso 1791 (non per usare la prepotenza o qualche altra difesa propria di quest’epoca, delle quali si avvalgono i potenti del mondo, ma in nome del Signore Dio Nostro) e che Voi, Venerabili Fratelli, guidati da uno spirito non dissimile di bontà, Vi preoccupaste di diffondere, ebbe presso i capitoli, i parroci, il clero, i magistrati e la gente, e anche presso molti fautori della Costituzione francese, tale e tanta forza che a tutto il mese di febbraio di quest’anno furono vani quasi tutti gl’iniqui tentativi degli avversari, tante volte esperiti e con il decreto del 14 settembre dello scorso anno nuovamente ripetuti con i quali l’Assemblea Nazionale – essendo inutilmente riluttante e contraria una gran parte, la più sana, del popolo – tolti di mezzo altri quattro decreti speciali da essa stessa emessi, e cancellato e annullato un altro decreto generale approvato in precedenza che vietava l’occupazione della proprietà altrui, e poste in non cale tutte le leggi umane e divine, nonostante l’indignazione di tutti i sovrani d’Europa osò invadere con la violenza il Nostro territorio di Avignone e del Contado Venesino ed annetterlo al regno di Francia.

3. A comprovare l’ottimo esito che le Nostre precedenti esortazioni avevano conseguito contro tentativi tanto indegni, potremmo enumerare con opportuna orazione le nobili imprese con le quali Voi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, avete onorato soprattutto la vostra Religione, che Ci sta particolarmente a cuore, e successivamente la Vostra fedeltà verso di Noi, sopportando, con ammirevole costanza, taluni la perdita dei beni e delle fortune, altri l’esilio, altri le ingiurie e le persecuzioni, altri il carcere, e altri infine lo sterminio e la morte stessa. Da questo derivò che pochi ecclesiastici e laici seguirono Benedetto Francesco Malierio, pseudo-vicario capitolare della Chiesa di Avignone, che Noi già sospendemmo con precedente lettera dall’esercizio dell’ordine. Si tratta di persone non molto dissimili dai suoi costumi e dalla sua indole, abbastanza noti per la gravità dei delitti compiuti. Egli dovette utilizzare i predetti sia nell’adempimento dei compiti della Chiesa, come si deduce chiaramente dall’editto in lingua volgare pubblicato il 10 giugno 1791, con il quale fu indetta da lui una Supplica per le feste del Corpus Domini, sia delegando alcuni pseudo-parroci, che la maggior parte della popolazione religiosamente e pubblicamente rifiutò di riconoscere, tanto che disprezzò sia il delegante sia i delegati.

4. Sarebbe facile per Noi citare pubblicamente molti altri esempi della vostra religiosità e della vostra fedeltà a maggiore vostra gloria ed onore, ma Ci asteniamo deliberatamente dal ricordarli in quanto uomini assolutamente insospettabili (cioè coloro che chiamano “Comitati delle petizioni e di sorveglianza“) li hanno raccolti in una relazione presentata all’Assemblea francese durante la sessione dell’11 febbraio scorso dedicata alla situazione di Avignone e del Contado Venesino. Dato che la relazione è stata stampata e diffusa largamente, nessuno ignora che lo spirito pubblico è tanto mutato ad Avignone, e molto di più a Carpentras e in altre località del Contado, essendo pochi, e apertamente disprezzati, coloro che sostenevano la Costituzione Gallicana e che i relatori Gallici ricolmano di tante lodi. Per contro è ingente il numero di coloro che essi chiamano sediziosi e seduttori, cioè di coloro che fra gli ecclesiastici, fra i magistrati e fra i laici brillavano per il culto a Dio e per la fedeltà al loro sovrano, tanto che sarebbe prossimo, e non potrebbe assolutamente essere evitato, il ritorno a quello stato nel quale erano prima della ribellione.

5. Rallegratevi ed esultate, Venerabili Fratelli, che allora vi segnalaste per zelo, pietà, carità, e particolarmente tu, Vescovo di Carpentras, che per i tuoi meriti eccezionali ti sei meritato un maggiore elogio. Nello stesso tempo rallegratevi anche voi, diletti Figli, che uniti ai vostri legittimi pastori forniste straordinari motivi della vostra pietà; rallegratevi tutti, diciamo, per le ingiurie che vi vengono indirizzate in quella relazione e che si volgono a vostro onore e decoro, e ricordatevi con Sant’Agostino che “anche il Signore Gesù Cristo fu chiamato seduttore, a conforto dei suoi servi, quando sono detti seduttori“.

6. Se questa è la situazione di Avignone e del Contado Venesino alla data dello scorso febbraio, a buon diritto speriamo che quei pochi che perseverano nell’errore e nell’infedeltà si convertano e seguano la maggioranza, ma non possiamo assolutamente ignorare il nuovo genere di delitto compiuto dall’Assemblea Nazionale con il decreto del 3 marzo scorso. Infatti, con questo decreto essa si è arrogata il diritto di dividere il Nostro territorio di Avignone e del Contado Venesino in due distretti, e di sottometterli al duplice distretto del Rodano e della Druma, che i Francesi chiamano Dipartimento, e al contempo di stabilire che tutte le leggi dell’Impero francese siano valide senza indugi anche nel Nostro territorio, e che le singole Municipalità siano rinnovate. Inoltre, con nuovi decreti subito emessi l’Assemblea comandò che venisse revocata la formazione de la marck, e che ad essa fossero assegnati altri soldati; ché, anzi, fra gli stessi rabbrividenti popoli di Parigi, e con loro meraviglia, giunse al punto di comandare di liberare dalle carceri quei mostri che il 16 ottobre dell’anno scorso si macchiarono di un delitto tanto indegno e tanto volgare; e ciò ordinò per nessuna altra ragione se non perché nei grandi rivolgimenti delle cose non si possono considerare delitti le scelleratezze più gravi che persino le genti barbare e incolte detestano e ne inorridiscono.

7. È tale il furore di cui ardono e da cui sono presi i nemici, che Noi, con immenso dolore del Nostro animo, già vediamo Voi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, soggetti a tutte quelle persecuzioni che dall’empietà, dallo scisma e dall’eresia poterono mai essere escogitate, così che ai Nostri occhi appare già vicino il momento nel quale ci sarà un nuovo e più crudele pericolo per la vostra religiosità e per la vostra fede. Ci è già stata riferita la voce di una nuova persecuzione non solo contro gli uomini ma – ciò che non si può ascoltare senza orrore e che rivela i criminali intendimenti dei persecutori – anche contro le sacre immagini. In questo momento decisivo è necessario che vi sia riferito il Nostro parere.

8. Per quanto riguarda la Religione, non Vi sfugge che non è sufficiente sopportare per un certo tempo le ingiurie soltanto con animo forte, ma è necessario perseverare con la stessa costanza fino alla fine e, se è necessario, sacrificare la propria vita. Infatti, non chi ha incominciato ma “colui che avrà perseverato fino in fondo sarà salvo” (Mt X,32). Quella costanza che finora avete dimostrato Ci spinge a sperare che sarete egualmente costanti in futuro contro qualunque rischio della sorte e anche della vita: il che sarà certamente condiviso da Noi che, sebbene assenti, porteremo i vostri tormenti come fossero Nostri.

9. Affinché, poi, i buoni vengano maggiormente confermati nel loro proposito e sia concesso ai cattivi un nuovo spazio della Nostra benignità per la loro resipiscenza, come già ritenemmo che fosse da estendere ai popoli del Nostro territorio Avignonese e del Contado Venesino la Nostra precedente lettera ammonitrice del 13 aprile 1791 da Noi indirizzata ai diletti Nostri Figli i Cardinali di Santa Romana Chiesa e ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi e ai diletti Figli del Capitolo, del Clero e del popolo del regno di Francia, così ora estendiamo agli stessi popoli la nuova lettera ammonitrice del 19 marzo scorso, indirizzata agli stessi Arcivescovi, Vescovi, Capitoli, Clero e popolo del regno di Francia, con la quale viene fissato lo spazio di sessanta giorni dalla data di essa per la seconda ammonizione, e di altri sessanta giorni per la terza. Ciò è riferito soprattutto a Benedetto Francesco Malierio, pseudo-vicario capitolare della Chiesa Avignonese, ai parroci, ai vicari e agli altri preti che, non delegati dai legittimi pastori, si sono impadroniti della direzione spirituale, e a tutti gli altri ecclesiastici che l’avevano occupata anche in forza della tentata divisione dei Nostri territori, secondo le diverse classi distintamente e chiaramente espresse nell’ultima Nostra lettera della quale, Venerabili Fratelli, vi abbiamo spedito molte copie affinché esse, unite a questa lettera, secondo le vostre possibilità siano mandate in giro ai Capitoli, al Clero e al popolo di Avignone e del Contado. Frattanto sarà Nostra cura provvedere affinché le stesse siano diffuse non solo in codeste regioni, ma anche in quelle vicine, in modo che nessuno le ignori.

10. Guardando la travagliata condizione delle cose francesi, con altra lettera dello stesso 19 marzo Noi concedemmo agli Arcivescovi, ai Vescovi ed agli Amministratori delle diocesi del regno di Francia particolari facoltà in forza delle quali potessero provvedere al bene spirituale della gente. Poiché non meno travagliata è la condizione di Avignone e del Contado Venesino, estendiamo anche a Voi, Venerabili Fratelli, le stesse facoltà, con le stesse condizioni comprese nell’indulto, del quale troverete diverse copie allegate a questa lettera.

11. Queste sono le provvidenze che servono a tenere la Religione riparata e protetta, e a renderne più spedite le norme e le procedure. Per quanto riguarda la fedeltà che Ci spetta quale legittimo sovrano, non ignorate, Venerabili Fratelli e diletti Figli, come in gran parte dimostrano le cose da Voi compiute, da quale stretto vincolo siate tenuti ad osservarla, dal momento che ciascuno è obbligato dal divino precetto “ad ubbidire ai legittimi poteri” (Rm XIII,1; Eb XIII,17), e ciò è richiesto dallo stesso giuramento che Voi, non diversamente dai vostri antenati, avete prestato a questa Sede Apostolica, così che i buoni e i cattivi, secondo le loro possibilità, non debbano omettere nulla di quelle cose che possono sostenere i primi nella fedeltà, e ricondurre i secondi a quella obbedienza dalla quale si distaccarono: ciò per liberare Noi dalla necessità di mettere in uso rimedi più energici e di porre mano alle dovute pene.

12. Abbiamo trattato con gli stessi ribelli come se fossero figli, e nel colmo della sfida abbiamo dato considerevoli aiuti agli uni e agli altri. Sappiamo che l’antico governo di questa Santa Sede, libero ed esente da ogni dazio, suscitò l’invidia di tutti i popoli; assai spesso abbiamo dichiarato che se alcuni, a Nostra insaputa, fossero caduti costà in abusi, immediatamente si sarebbe provveduto da Noi ad allontanarli e a castigarli; non si possono sovvertire gl’imperi ad arbitrio dei popoli e introdurre con leggerezza nuove forme di governo. Perciò nulla è stato tralasciato da parte Nostra, tanto che possiamo sperare per il futuro che gli stessi ribelli, quando si sia calmata un po’ la passione del fanatismo, debbano riconoscere l’orrore dei propri crimini, il peso di nuovi balzelli e servitù, e di tanti altri gravi mali che finora non ebbero ed ai quali, sotto l’aspetto di una simulata e fittizia libertà, saranno senza dubbio contrari, non senza rovina della loro patria se non si ritireranno subito dalla lotta nella quale furono trascinati già da due anni per disobbedienza, corruzione e per ogni genere di violenza.

13. Noi peraltro, restando in quel modo d’agire paterno che abbiamo usato finora con Voi, e nella trasparente giustizia della Nostra causa che con Nostra gioia riconobbero i principi, tutti i re e l’universo mondo, non pensando minimamente di rinunciare in qualunque modo ai Nostri diritti o di trattare qualsiasi compensazione per il principato che i primi decreti dell’Assemblea Nazionale rivendicano da Noi, e che pertanto Ci confermano che il possesso di oltre cinque secoli è titolo legittimo e indiscutibile, Noi qui non solo dichiariamo valido il Nostro chirografo del 5 novembre 1791 con il quale, aderendo alle precedenti proteste ed essendo oltremodo manifesto a tutti la falsità e la calunnia di quegli argomenti che pretendevano di giustificare l’iniqua occupazione, dichiarammo nullo il decreto del 14 settembre dello stesso anno, ma inoltre dichiariamo invalido, irrito e di nessun valore e merito il nuovo decreto del 3 marzo, e tutto ciò che decisero o forse decideranno a danno del Nostro principato, unitamente a tutti gli atti che con temerario ardimento siano già stati perpetrati o verranno perpetrati. Disponiamo e comandiamo che questa Nostra lettera, unitamente a quella del 23 aprile 1791, sia allegata al predetto chirografo e sia conservata a perpetua memoria nell’archivio segreto della Nostra camera.

14. È tanto il Vostro zelo, Venerabili Fratelli e diletti Figli, che riteniamo inutile aggiungere nuove esortazioni. Convertitevi con Noi, confidando con indubbia speranza in Dio; pregatelo incessantemente, così come anche Noi lo preghiamo, perché tenga lontano il rigore della sua giustizia, e con quella misericordia di cui è fornito illumini le menti dei ribelli e dei loro sostenitori, e renda le loro anime ferventi nell’ossequio e nella venerazione verso la sua santa Religione e nello zelo e nello spirito di obbedienza verso questa Sede Apostolica. Accesi da questi desideri, a Voi, Venerabili Fratelli, e a Voi, diletti Figli, impartiamo con grande amore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 19 aprile 1792, nel diciottesimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA I DI QUARESIMA (2020)

DOMENICA I DI QUARESIMA (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Giovanni in Laterano

Semidoppio. – Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

Questa Domenica è il punto di partenza del ciclo quaresima! (Secr.) cosicché l’assemblea liturgica si tiene oggi, fin dal IV secolo a S. Giovanni in Laterano, che è la basilica patriarcale del romano Pontefice edil cui nome rievoca’ la redenzione operata da Gesù, essendo questa Basilica dedicata anche al SS.mo Salvatore. Subito dopo il battesimo, Gesù si prepara alla vita pubblica con un digiuno di 40 giorni, nel deserto montagnoso, che si estende fra Gerico e le montagne di Giuda (Gesù si riparò, dice la tradizione, nella grotta che è nel picco il più elevato chiamato Monte della Quarantena). Là satana, volendo sapere se il figlio di Maria era il figlio di Dio, lo tenta (Vang.). Gesù ha fame e satana gli suggerisce di convertire in pane le pietre. Allo stesso modo opera con noi e cerca di farci abbandonare il digiuno e la mortificazione in questi 40 giorni. È la concupiscenza della carne. – Il demonio aveva promesso al nostro primo padre che sarebbe diventato simile a Dio; egli trasporta Gesù sul pinnacolo del Tempio elo invita a farsi portare in aria dagli Angeli per essere acclamato dalla folla. Tenta noi ugualmente nell’orgoglio, che  è opposto, allo spirito di preghiera e alla meditazione della parola di Dio. È l’orgoglio della vita. – Come aveva promesso ad Adamo una scienza uguale a quelli di Dio, che gli avrebbe fatto conoscere tutte le cose, satana assicura Gesù che gli darà l’impero su tutte le cose se egli prostrato in terra lo adorerà (Lucifero, il più bello degli angeli, si credette in diritto, secondo alcuni teologi, all’unione ipostatica che l’avrebbe elevato alla dignità di figlio dì Dio. Egli cercò di farsi adorare come tale da Gesù, come l’anticristo si farà adorare nel tempio di Dio (II ai Tessal.). Il demonio allo stesso modo, cerca con noi, di attaccarci ai beni caduchi, quando stiamo per sovvenire il prossimo con l’elemosina e le opere di carità. È la concupiscenza degli occhi o l’avarizia. – Il Salmo 90 che Gesù usò contro satana, — poiché la spada dello Spirito, è la parola di Dio  (Agli Efesini, VI, 17).— serve di trama a tutta la Messa e si ritrova nell’ufficiatura odierna. « La verità del Signore ti coprirà come uno scudo », dichiara il salmista. Questo salmo dunque è per eccellenza quello di Quaresima, che è un tempo di lotta contro satana, quindi il versetto 11 : «Ha comandato ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie », suona come un ritornello durante tutto questo periodo, alle Lodi e ai Vespri. Questo Salmo si trova intero nel Tratto e ricorda l’antico uso di cantare i salmi durante la prima parte della Messa. Alcuni dei suoi versetti formano l’Introito col suo verso, il Graduale, l’Offertorio e il Communio. In altra epoca, quest’ultima parte era formata da tre versetti invece di uno solo e questi tre versetti seguivano l’ordine della triplice tentazione riferita nel Vangelo. – Accanto a questo Salmo, l’Epistola, che è certamente la stessa che al tempo di S. Leone, dà una nota caratteristica della Quaresima. S. Paolo vi riassume un testo di Isaia: « Ti esaudii nel tempo propizio e nel giorno di salute ti portai aiuto » (Epist. e 1° Nott.). S. Leone ne fa questo commento: « Benché non vi sia alcuna epoca che non sia ricca di doni celesti, e che per grazia di Dio, ogni giorno vi si trovi accesso presso la sua misericordia, pure è necessario che in questo tempo le anime di tutti i Cristiani si eccitino con più zelo ai progressi spirituali e siano animate da una più grande confidenza, allorché il ritorno del giorno nel quale siamo stati redenti ci invita a compiere tutti i doveri della pietà cristiana. Cosi noi celebreremo, con le anime e i corpi purificati, questo mistero della Passione del Signore, che è fra tutti il più sublime. È vero che noi dovremmo ogni giorno essere al cospetto di Dio con incessante devozione e rispetto continuo come vorremmo essere trovati nel giorno di Pasqua. Ma poiché questa forza d’animo è di pochi; e per la fragilità della carne, viene rilassata l’osservanza più austera, e dalle varie occupazioni della vita presente viene distratta la nostra attenzione, accade necessariamente che la polvere del mondo contamini gli stessi cuori religiosi. Perciò è di grande vantaggio per le anime nostre questa divina istituzione, perché questo esercizio della S. Quaresima ci aiuti a ricuperare la purità delle nostre anime riparando con le opere pie e con i digiuni, gli errori commessi negli altri momenti dell’anno. Ma per non dare ad alcuno il minimo motivo di disprezzo o di scandalo, è necessario che il nostro modo di agire non sia in disaccordo col nostro digiuno, perché è inutile diminuire il nutrimento del corpo, quando l’anima non si allontana dal peccato » (2° Notturno). – In questo tempo favorevole e in questi giorni di salute, purifichiamoci con la Chiesa (Oraz.) « col digiuno, con la castità, con l’assiduità ad intendere e meditare la parola di Dio e con una carità sincera » (Epist.).

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XC: 15; XC: 16

Invocábit me, et ego exáudiam eum: erípiam eum, et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum. [Mi invocherà e io lo esaudirò: lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni.]

Ps XC: 1 Qui hábitat in adjutório Altíssimi, in protectióne Dei cœli commorábitur. [Chi àbita sotto l’égida dell’Altissimo dimorerà sotto la protezione del cielo].

Invocábit me, et ego exáudiam eum: erípiam eum, et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum. [Mi invocherà e io lo esaudirò: lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui Ecclésiam tuam ánnua quadragesimáli observatióne puríficas: præsta famíliæ tuæ; ut, quod a te obtinére abstinéndo nítitur, hoc bonis opéribus exsequátur. [O Dio, che purífichi la tua Chiesa con l’ànnua osservanza della quaresima, concedi alla tua famiglia che quanto si sforza di ottenere da Te con l’astinenza, lo compia con le opere buone.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios. 2 Cor VI: 1-10.

“Fratres: Exhortámur vos, ne in vácuum grátiam Dei recipiátis. Ait enim: Témpore accépto exaudívi te, et in die salútis adjúvi te. Ecce, nunc tempus acceptábile, ecce, nunc dies salútis. Némini dantes ullam offensiónem, ut non vituperétur ministérium nostrum: sed in ómnibus exhibeámus nosmetípsos sicut Dei minístros, in multa patiéntia, in tribulatiónibus, in necessitátibus, in angústiis, in plagis, in carcéribus, in seditiónibus, in labóribus, in vigíliis, in jejúniis, in castitáte, in sciéntia, in longanimitáte, in suavitáte, in Spíritu Sancto, in caritáte non ficta, in verbo veritátis, in virtúte Dei, per arma justítiæ a dextris et a sinístris: per glóriam et ignobilitátem: per infámiam et bonam famam: ut seductóres et veráces: sicut qui ignóti et cógniti: quasi moriéntes et ecce, vívimus: ut castigáti et non mortificáti: quasi tristes, semper autem gaudéntes: sicut egéntes, multos autem locupletántes: tamquam nihil habéntes et ómnia possidéntes.” –  Deo gratias.

OMELIA I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

CORRISPONDENZA ALLA GRAZIA

Fratelli: “Vi esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti: «Nel tempo favorevole ti ho esaudito, e nel giorno della salute ti ho recato aiuto». Ecco ora il tempo favorevole, ecco ora il giorno della salute. Noi non diamo alcun motivo di scandalo a nessuno, affinché il nostro ministero non sia screditato; ma ci diportiamo in tutto come ministri di Dio, mediante una grande pazienza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angustie, nelle battiture, nelle prigioni, nelle sommosse, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con la purità, con la scienza, con la mansuetudine, con la bontà, con lo Spirito Santo, con la carità sincera, con la parola di verità, con la potenza di Dio, con le armi della giustizia di destra e di sinistra; nella gloria e nell’ignominia, nella cattiva e nella buona riputazione; come impostori, e siam veritieri; come ignoti, e siam conosciuti; come moribondi, ed ecco viviamo; come puniti, e non messi a morte; come tristi, e siam sempre allegri; come poveri, e pure arricchiamo molti; come privi di ogni cosa, e possediamo tutto”. (2 Cor VI, 1-10).

L’Epistola di quest’oggi è tolta dal cap. VI della II lettera ai Corinti. Sulla fine del capo precedente l’Apostolo aveva annunciato due grandi verità: a) Gesù Cristo sulla croce era stato personalmente sostituito al peccatore, perché venisse la riconciliazione tra questo e Dio; b) Dio incarica gli Apostoli, quali ambasciatori di Cristo, di promuovere tra gli uomini questa riconciliazione. E ricorda come egli nella sua qualità di ambasciatore abbia veramente imitato Gesù Cristo, compiendo l’opera sua tra numerose privazioni e difficoltà. Così rispondeva anche, in modo indiretto ma efficace, a quei che denigravano il suo ministero. Da questo passo prendiamo occasione per parlare della corrispondenza alla grazia, che dobbiamo:

1 Accogliere a tempo,

2 Rendere fruttuosa,

3 Invocare da Dio.

1.

Nel tempo favorevole ti ho esaudito, e nel giorno della salute ti ho recato aiuto. Sono parole tolte da Isaia che il Signore rivolge al Messia, il quale prega e soffre per la redenzione degli uomini. Esse contengono l’assicurazione, che la preghiera del Messia è stata esaudita, e che il tempo messianico è il tempo dell’abbondanza delle grazie. S. Paolo, richiamate ai Corinti le parole d’Isaia, soggiunge: Ecco ora il tempo favorevole, ecco ora il giorno della salute. E la Chiesa richiama queste parole dell’Apostolo a tutti i fedeli, indicando loro, come tempo specialmente accetto a Dio, il tempo quaresimale nel quale le sue grazie abbondano. « Che cosa — commenta S. Leone M. — è più accetto di questo tempo, che cosa è più salutare di questi giorni, in cui si intima la guerra ai vizi e aumenta il progresso di tutte le virtù? » (Serm. 40, 2). L’invito, però, ad abbandonare i vizi e a progredire nella virtù, se nel tempo quaresimale è più insistente da parte della Chiesa, non manca mai negli altri tempi dell’anno. Fin che l’uomo vive è sempre visitato dalla grazia di Dio. E se la grazia di Dio non sempre opera, è perché l’uomo non l’accoglie. La divina grazia illumina la mente dell’uomo, ora facendogli conoscere la bruttezza del peccato, perché si decida a lasciarlo; ora facendogli vedere la bellezza della virtù, col richiamargli alla mente gli esempi di coloro che sprezzano i piaceri mondani, per servir da vicino gli insegnamenti del Vangelo. Altre volte lo scuote mettendogli innanzi la speranza dei beni futuri, o lo atterrisce col pensiero delle pene eterne. Più spesso lo turba con l’ammonizione del Battista: « Non ti è lecito » (Matt. XIV, 4). Non ti è lecito mantenere quella pratica, non ti è lecito covare nel cuore quell’odio; non ti è lecito ritenere quella roba; non ti è lecito una vita dimentica di Dio e del prossimo; non ti è lecito il cattivo esempio che dài. Ora cerca di attirarlo con i benefici; ora con le tribolazioni o con le croci. Il Crisologo, parlando della vocazione di S. Matteo, dice: « Dio lo vide, affinché egli vedesse Dio » (Serm. 30). Matteo non ebbe paura della vista di Dio, di guardare Gesù che veniva a lui. E quando Gesù gli disse: « Seguimi », Matteo si alzò e lo seguì (S. Matt. IX, 9). Alcuni son pronti come S. Matteo ad accogliere l’invito di Dio, a uscire dalla via del peccato, a lasciare le occasioni, a darsi al servizio del Signore. Ma la maggior parte si merita il rimprovero che leggiamo nei libri santi: « Invitai e vi siete rifiutati, stesi la mano e nessuno si diede per inteso » (Prov. I, 24). Paurosi di sorgere dallo stato in cui si trovano, non accettano l’invito che Dio loro offre. Approviamo pienamente l’atteggiamento di Santo Stefano, che rinfaccia agli Ebrei la loro continua resistenza allo Spirito Santo; e noi continuiamo a resistere agli inviti della grazia. Con quale conseguenza? Quella di attirar su noi l’ira del Signore nel giorno del giudizio, se continueremo a disprezzare le ricchezze della sua benignità. « Poiché coloro che disprezzano la volontà di Dio che invita, sentiranno la volontà di Dio che vendica » (S. Prospero d’Aquit., Resp. ad cap. obiect. vinc. 16).

2.

L’Apostolo a render più efficace l’esortazione, fatta ai Corinti, di non lasciar infruttuosa la grazia, mostra come egli si è diportato nell’adempimento del suo dovere. Noi non diamo alcun motivo di scandalo a nessuno, affinché il nostro ministero non sia screditato; ma ci diportiamo in tutto come ministri di Dio, mediante una grande pazienza nelle tribolazioni. E passa a narrare quanto ha sofferto e operato nel suo ufficio di collaboratore di Dio nell’opera della salvezza. La grazia aveva chiamato Paolo all’apostolato. Come si vede, egli non considera la grazia come un tesoro da nascondere sotto terra. Nessuno potrebbe rimproverargli d’aver ricevuto la grazia di Dio invano. – La grazia di Dio invita gli uomini a operare nello stato, cui ciascuno è chiamato. Non tutti, però, si sentono di operare secondo la volontà di Dio. Ci sono i pusillanimi che hanno paura di sbagliare in tutto, come se fossero abbandonati alle sole proprie forze; come se Dio, che vuole la loro cooperazione, non prestasse la sua assistenza. Costoro non corrispondono a una data vocazione, ricusano di entrare in quello stato, non accettano il tal posto, nel quale potrebbero far tanto bene, avendo avuto da Dio i doni necessari. Ci sono, e questi formano il maggior numero, gli infingardi i quali non fanno il bene che dovrebbero e potrebbero fare, per paura della fatica. Per essi Dio, che domanda la loro cooperazione, è un padrone duro, esigente, che richiede troppo, che vuole ciò che essi non potrebbero dare; e finiscono col non dar niente. E finiranno anche col perdere quello che da Dio han ricevuto. La sorte di costoro è quella del servo della parabola. Egli ha ricevuto dal padrone, che doveva partire, un talento. Scava la terra, e ve lo nasconde. Quando, dopo lungo tempo, il padrone ritorna e fa i conti col servo, questo gli dice: « Signore, sapevo che sei un uomo duro e mieti dove non hai seminato, e raccogli dove non hai sparso: ebbi paura e andai a nascondere il tuo talento sotto terra: eccolo qui ». E il padrone risponde, chiamandolo: « servo iniquo e infingardo »; e dice ai suoi: « Toglietegli il talento che ha, e datelo a colui che ha dieci talenti » (Matth. XXV, 14 segg.). Quelli che non fanno profitto delle grazie che Dio accorda loro, se ne vedranno un giorno privati, e riceveranno il meritato castigo. Al contrario, chi si serve delle grazie prime, cooperandovi diligentemente, ne riceverà delle maggiori. Nessuno confida danaro da trafficare a chi lo rinchiude in un forziere o lo seppellisce sotto terra. Lo si affida a chi sa farlo rendere, di più. È naturale che chi sa far fruttare la grazia ricevuta, ne riceva di sempre maggiori. E così egli va accumulando i meriti che porta con sé la docilità all’azione della grazia; va moltiplicando le azioni virtuose nel rinunciare alle proprie inclinazioni per seguire le ispirazioni della grazia; e nel giorno del rendiconto si vedrà arricchito oltre ogni aspettativa.

3.

La grazia, da alcuni, viene respinta quando Dio l’offre; da altri non si prende in considerazione; altri la perdono dopo averla ricevuta. E allora, avessero pure per il passato imitato San Paolo nello zelo per le opere buone, non possono ripetere con lui, siamo stimati come privi d’ogni cosa e possediamo tutto. Quando si è perduta la grazia si è perduto tutto, in merito alla vita eterna. Ma fin che siamo su questa terra siam sempre in tempo a trar profitto dalla grazia di Dio. Opera della grazia di Dio è il risorgere dal peccato; opera della grazia di Dio è il non cadervi: opera della grazia di Dio è il progredire generosamente nella via della perfezione. Se abbiamo perduta la grazia, dobbiamo implorarla da Colui che ne è la fonte. « Tutti. — dice S. Agostino — con piena fede e certa fiducia, si accostino all’Autore della vita, affinché quelli che hanno la vita vivano d’una vita più piena e perfetta, e quelli che sono morti tornino a vivere » (Serm. 98, 7). Durante questa vita mortale Dio non abbandona mai il peccatore del tutto. Egli torna sovente a invitarlo alla conversione. Preghiamolo ardentemente che ci faccia sentire la sua voce; che ci scuota; che ci dia la forza di accoglierla. Diciamogli con grande fiducia: « Seconda col tuo aiuto i nostri voti, che tu pel primo c’inspiri » (Oremus nella Messa di Pasqua). Se, per nostra fortuna, serviamo fedelmente il Signore, ricordiamoci che « dipende dalla sua misericordia, se noi possiamo perseverare a prestargli servizio » (S. Ilario, Tract. in Ps CXVIII, 10). Rallegrati della grazia del Signore, se la possiedi, « non devi stimare, però, di possedere un dono di Dio, come per diritto ereditario, così da essere sicuro come se non lo potessi mai perdere » (S. Bernardo, In Cant. cantic. Serm. 21,5). Anche qui c’è bisogno dunque della preghiera. Dobbiamo rivolgerci a Dio e supplicarlo che ci tenga sempre lontani da ciò che è nocivo, e che ci diriga con la sua grazia. Anche coloro che s’adoperano sul serio a render fruttifera la grazia di Dio, vanno soggetti a momenti di stanchezza e di sfiducia. Sarà sempre quella che è chiamata l’arma dei deboli, che bisogna usare in quei momenti. « Quando adunque ti senti abbattere dalla tiepidezza, dall’accidia e dalla noia, non devi sfiduciarti o desistere dall’esercizio spirituale, ma chiedi la mano di Colui che aiuta » (S. Bern. 1. c.). Se la voce di Dio non l’abbiamo ascoltata per il passato, ascoltiamola ora. Essa verrà ancora a scuoterci. Camillo de Lellis sente a 18 anni la voce della grazia che lo invita a lasciare il mondo, quando, rimasto orfano di padre, con una piaga al piede che lo rende inabile al servizio militare, edificato dal contegno di due cappuccini, fa voto di entrare nel loro ordine. Ben presto, però, dimentica il proposito. Scacciato dall’ospedale degli incurabili a Roma pel suo carattere rissoso e insubordinato, si dà alle armi. Guarito per virtù dei sacramenti da un’infermità che lo riduce in fin di vita, si getta a nuove avventure, mettendosi al servizio della Spagna. Giunto a Napoli, dopo esser stato liberato da una terribile tempesta per la protezione della Vergine, si dà così pazzamente al giuoco, da perdervi armi e abiti. Costretto dalla necessità a condur calce nella costruzione di un convento in Manfredonia tra gli insulti e gli scherni, egli il discendente di nobile prosapia, che era andato in cerca di celebrità e gloria nella professione delle armi, non si decide ancora a ritornare a Dio. Un giorno, lungo una via deserta che conduce al convento di Manfredonia, ripensa alle gravi parole udite la sera innanzi da uno zelante padre cappuccino. Dio gli manda un raggio splendente della sua grazia, e Camillo, novello Saulo, sceso dal giumento, si getta a terra ed esclama : « O me infelice! Perché non ho conosciuto prima il mio Dio e non l’ho servito?… Perché ho sempre resistito ostinatamente alla sua grazia?…» (Der heil. Kamillus T. Lellis und sein Orden. Freiburg, 1914, p. 11). Se, come Camillo De Lellis, per il passato abbiam sempre resistito ostinatamente alla grazia del Signore, pieghiamoci finalmente come lui e diamoci vinti. Meglio tardi che mai. Rinunciamo oggi stesso, in questo momento, al peccato. Cominciamo oggi stesso, in questo momento, nelle circostanze in cui ci ha posti la Provvidenza, a servir Dio. Mettiamoci subito a fare quanto avremmo voluto aver fatto in punto di morte. Con la Chiesa preghiamo Dio che ci faccia docili. « La tua grazia, te ne preghiamo o Signore, ci preceda sempre e ci segua: e ci conceda di esser sempre occupati in opere buone » (Oremus della messa della Dom. XVI di Pentecoste).

 Graduale

Ps XC, 11-12

Angelis suis Deus mandávit de te, ut custódiant te in ómnibus viis tuis.

In mánibus portábunt te, ne umquam offéndas ad lápidem pedem tuum.

[Dio ha mandato gli Ángeli presso di te, affinché ti custodíscano in tutti i tuoi passi. Essi ti porteranno in palmo di mano, ché il tuo piede non inciampi nella pietra.]

Tractus.

Ps XC: 1-7; XC: 11-16

Qui hábitat in adjutório Altíssimi, in protectióne Dei cœli commorántur.

V. Dicet Dómino: Suscéptor meus es tu et refúgium meum: Deus meus, sperábo in eum.

V. Quóniam ipse liberávit me de láqueo venántium et a verbo áspero.

V. Scápulis suis obumbrábit tibi, et sub pennis ejus sperábis.

V. Scuto circúmdabit te véritas ejus: non timébis a timóre noctúrno.

V. A sagitta volánte per diem, a negótio perambulánte in ténebris, a ruína et dæmónio meridiáno.

V. Cadent a látere tuo mille, et decem mília a dextris tuis: tibi autem non appropinquábit.

V. Quóniam Angelis suish mandávit de te, ut custódiant te in ómnibus viis tuis.

V. In mánibus portábunt te, ne umquam offéndas ad lápidem pedem tuum,

V. Super áspidem et basilíscum ambulábis, et conculcábis leónem et dracónem.

V. Quóniam in me sperávit, liberábo eum: prótegam eum, quóniam cognóvit nomen meum,

V. Invocábit me, et ego exáudiam eum: cum ipso sum in tribulatióne,

V. Erípiam eum et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum, et osténdam illi salutáre meum.

[Chi abita sotto l’égida dell’Altissimo, e si ricovera sotto la protezione di Dio.

Dica al Signore: Tu sei il mio difensore e il mio asilo: il mio Dio nel quale ho fiducia.

Egli mi ha liberato dal laccio dei cacciatori e da un caso funesto.

Con le sue penne ti farà schermo, e sotto le sue ali sarai tranquillo.

La sua fedeltà ti sarà di scudo: non dovrai temere i pericoli notturni.

Né saetta spiccata di giorno, né peste che serpeggia nelle tenebre, né morbo che fa strage al meriggio.

Mille cadranno al tuo fianco e dieci mila alla tua destra: ma nessun male ti raggiungerà.

V. Poiché ha mandato gli Angeli presso di te, perché ti custodiscano in tutti i tuoi passi.

Ti porteranno in palma di mano, affinché il tuo piede non inciampi nella pietra.

Camminerai sull’aspide e sul basilisco, e calpesterai il leone e il dragone.

«Poiché sperò in me, lo libererò: lo proteggerò, perché riconosce il mio nome.

Appena mi invocherà, lo esaudirò: sarò con lui nella tribolazione.

Lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni, e lo farò partécipe della mia salvezza».]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Matthaeum.

Matt IV: 1-11

“In illo témpore: Ductus est Jesus in desértum a Spíritu, ut tentarétur a diábolo. Et cum jejunásset quadragínta diébus et quadragínta nóctibus, postea esúriit. Et accédens tentátor, dixit ei: Si Fílius Dei es, dic, ut lápides isti panes fiant. Qui respóndens, dixit: Scriptum est: Non in solo pane vivit homo, sed in omni verbo, quod procédit de ore Dei. Tunc assúmpsit eum diábolus in sanctam civitátem, et státuit eum super pinnáculum templi, et dixit ei: Si Fílius Dei es, mitte te deórsum. Scriptum est enim: Quia Angelis suis mandávit de te, et in mánibus tollent te, ne forte offéndas ad lápidem pedem tuum. Ait illi Jesus: Rursum scriptum est: Non tentábis Dóminum, Deum tuum. Iterum assúmpsit eum diábolus in montem excélsum valde: et ostendit ei ómnia regna mundi et glóriam eórum, et dixit ei: Hæc ómnia tibi dabo, si cadens adoráveris me. Tunc dicit ei Jesus: Vade, Sátana; scriptum est enim: Dóminum, Deum tuum, adorábis, et illi soli sérvies. Tunc relíquit eum diábolus: et ecce, Angeli accessérunt et ministrábant ei.”

[Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. E avendo digiunato quaranta giorni e quaranta notti, finalmente gli venne fame. E accostatoglisi il tentatore, disse: Se tu sei Figliuol di Dio, di’ che queste pietre diventino pani. Ma egli rispondendo, disse: Sta scritto: Non di solo pane vive l’uomo, ma di qualunque cosa che Dio comanda. Allora il diavolo lo menò nella città santa, e poselo sulla sommità del tempio, e gli disse: Se tu sei Figliuolo di Dio, gettati giù; imperocché sta scritto: che ha commesso ai suoi angeli la cura di te, ed essi ti porteranno sulle mani, affinché non inciampi talvolta col tuo piede nella pietra. Gesù disse: Sta anche scritto: Non tenterai il Signore Dio tuo. Di nuovo il diavolo lo menò sopra un monte molto elevato; e fecegli vedere tutti i regni del mondo, e la loro magnificenza; e gli disse: Tutto questo io ti darò, se prostrato mi adorerai. Allora Gesù gli disse: Vattene, Satana, imperocché sta scritto: Adora il Signore Dio tuo, e servi lui solo. Allora il diavolo lo lasciò; ed ecco che gli si accostarono gli Angeli, e lo servivano” (Matth. IV, 1- 11).]

OMELIA II.

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sulla tentazione che è la cagione del peccato.

“Ductus est Jesus in desertum a spiritu, ut tentaretur e diabolo”. Matth. IV.

Quale strano spettacolo, fratelli miei, si è questo che l’odierno Vangelo ci rappresenta, Vi si vede Gesù Cristo, la santità stessa, alle prese col tentatore. L’avreste mai creduto, che il padre della menzogna osasse misurare le sue forze con quelle di un Dio, e avesse intrapreso di sollecitare al peccato Colui che di sua natura è impeccabile? Tale è nondimeno il progetto che la sua temerità gl’inspira. Questo nemico comune della gloria di Dio e della salute degli uomini, vedendo Gesù Cristo estenuato da un digiuno di quaranta giorni, si accosta a Lui e gli dice: se voi siete il Figliuolo di Dio, dite che queste pietre divengano pani. Non dipendeva senza dubbio che dal Salvatore il fare quel miracolo per soccorrere la sua santa umanità, come ne fece molti altri in favore di coloro che a Lui s’indirizzavano nei loro bisogni. Ma non volle in ciò soddisfare il suo nemico; si contenta di rispondergli che l’uomo non vive solamente di pane, ma della parola di Dio. Il demonio, vinto da questa risposta, fece un altro tentativo; lo trasportò, dice il Vangelo, nella santa città, ed avendolo posto sul tetto del tempio, gli disse di gettarsi in giù, perché è scritto che Dio ha comandato ai suoi Angeli di prendersi cura di lui. È anche scritto, ripigliò Gesù Cristo « Tu non tenterai il Signore tuo Dio ». Il tentatore, vinto per la seconda volta, doveva, mi pare, ritirarsi, ma non si disamina punto per questa seconda sconfitta. Egli trasporta ancora Gesù Cristo su di un alto monte, e mostrandogli i regni del mondo: io vi darò tutte queste cose, gli dice, se voi v’inginocchiate avanti di me per adorarmi. Ritirati, satanasso, replicò Gesù Cristo, perché è scritto: tu adorerai il Signore tuo Dio e non servirai che a Lui solo. Questo racconto, fratelli miei, vi sembrerebbe incredibile, se non fosse riferito così fedelmente nel santo Vangelo. Non ne siamo sorpresi, mentre tutto ciò che Gesù Cristo ha sofferto l’ha sofferto per noi; Egli ha permesso al demonio di tentarlo per impedirci, dice s. Agostino, di esser vinti dalla tentazione. Egli era nostro capo ed ha voluto con ciò impegnarci e darci i mezzi a vincere la tentazione. Noi non abbiamo, dice s. Paolo, un pontefice che non possa compatire alle nostre infermità, poiché Egli ha provato ogni sorta di tentazioni, trattone il peccato. Non è dunque un male l’essere tentati, poiché Gesù Cristo e i santi lo sono stati; ma il sommo male dell’uomo è il soccombere alla tentazione. Bisogna dunque apprendere a resistervi, e perciò conoscere le diverse tentazioni cui l’uomo è maggiormente soggetto; primo punto: quali sono i mezzi di vincerle; secondo punto.

I. Punto. La vita dell’uomo sulla terra è una tentazione, una guerra continua, dice il santo Giobbe; egli è assalito in ogni parte, in ogni tempo, in ogni luogo; egli è obbligato di combattere, di resistere. Concepito nell’iniquità, porta dentro di sé un principio di corruzione e di peccato: ora sente ne’ suoi membri una legge che combatte contro quella dello spirito; ora trova nelle creature oggetti che irritano ed infiammano la funesta concupiscenza che gli resta del peccato originale; e sempre il demonio, che procura di trar vantaggio dalle sue debolezze, gira intorno di Lui, come un leone che ruggisce, per divorarlo. Non v’è né età né sesso né stato di vita, sebben perfetto, che sia sicuro dai suoi assalti; le solitudini eziandio più impenetrabili, i luoghi più santi non sono inaccessibili a questo nemico comune della salute degli uomini. Non v’ha né astuzie né artifizi che egli non impieghi per perdergli; senza mai scoraggiarsi per le sue sconfitte, pianta sempre nuove batterie contro quei medesimi che l’hanno vinto, Quanto e dunque a piangere la sorte dell’uomo, fratelli miei, in questa misera vita, ove egli è sempre in rischio di perire! Ma ciò che deve consolarci si è, che Dio, il quale non permette la tentazione che per nostro vantaggio, ci dà tutti gli aiuti necessari per resistervi. Combatte Egli stesso con noi per farci riportar la vittoria. Si, fratelli mici, è per nostro bene che Dio permette che siamo tentati, perché la tentazione ci dà occasione di umiliarci e di ricorrere a Dio; ella serve a provare la nostra virtù, ella ci fa meritare la corona che Dio ci ha promessa. Tali sono i vantaggi che potete ricavarne. Qual cosa più propria infatti ad umiliar l’uomo che la tentazione, la quale gli fa conoscere la sua miseria, quel che è, e di che è egli capace? Da questa ne viene che l’uomo, conoscendosi cotanto debole e si ripieno di miserie, ricorre a Dio: sente il bisogno che egli ha del suo aiuto, senza cui nulla può; gli chiede con confidenza la grazia di trionfare nelle sue battaglie. Tali furono, fratelli miei, i vantaggi che il grande Apostolo ricavò dagli assalti umilianti che egli risentiva per parte d’una carne ribelle alla legge del suo Dio: per tema, dice egli che la grandezza delle mie rivelazioni non mi faccia insuperbire, lo stimolo della carne mi è stato dato, come un angelo di satanasso. E perciò ho pregato tre volte il Signore d’allontanarlo da me: propter quod ter Dominum rogavi (2 Cor. XII). La tentazione serve ancora a provare a purificare le virtù dell’uomo. Siccome conosce nella guerra il valore del soldato, cosi nella tentazione il Cristiano mostra l’affetto ch’egli ha pel suo Dio. Ed in vero quando è mai che si producono atti di virtù più eroiche e più ferventi? Non è forse quando si combattono i vizi che loro sono contrari? Quando si resiste alle tentazioni che ne assaltano? Quando è mai che la vostra fede è divenuta più viva, la vostra speranza più ferma, la vostra carità più ardente, la vostra purezza più soda? Non è forse quando avete resistito ai combattimenti che il nemico della salute vi ha dati per rapirvi queste virtù? Avreste voi acquistati tanti meriti, riportate tante vittorie, se la tentazione non vi avesse animati a combattere? Voi avete trovata la vostra salute nelle guerre che i vostri nemici vi hanno suscitate, e le vostre vittorie vi hanno assicurata la corona che Dio promette a coloro che avranno legittimamente combattuto. Perciocché per meritare questa corona convien vincere; per vincere convien combattere, e per combattere, convien esser assalito; non è che dopo aver resistito agli assalti e riportata la vittoria che voi sarete coronati. Gran motivo di consolazione, fratelli miei, per le anime timide e poco sperimentate nella via della salute, che inquietano e s’affliggono nelle tentazioni, che credono tutto perduto quando sono tormentate da pensieri importuni, da rappresentazioni ridicole, da movimenti contrari alla legge di Dio. Non vi conturbate, si può dire loro dopo Gesù Cristo, la virtù non consiste nell’essere esente da tentazioni; ma si a vincere le tentazioni; si è questa vittoria che ha fatti i santi e che renderà santi voi medesimi. Ma quali sono le tentazioni ordinarie che avete a combattere? – Tra le varie tentazioni cui è soggetta la vita dell’uomo io ne osservo tre principali di cui il demonio si serve il più sovente per perdere gli uomini, cioè la tentazione del piacere, la tentazione della vanagloria, la tentazione dell’interesse; tali furono i tre oggetti che lo spirito maligno propose a Gesù Cristo per tentarlo nel deserto: io li rammento in poche parole per applicarli al mio soggetto. Il demonio tentò Gesù Cristo con l’attrattiva del piacere allorché gli disse di cangiare pietre in pane per ristorare la fame che l’aveva estenuato. Lo tentò di vanagloria e presunzione, come osserva s. Cipriano, eccitandolo a gettarsi giù dal tempio, sulla fidanza che gli Angeli lo sosterrebbero nell’aria, e che perciò diverrebbe Egli al popolo oggetto d’ammirazione. Finalmente tentò di vincerlo con mire d’interesse e con lo splendore delle ricchezze, promettendogli i regni del mondo in ricompensa degli omaggi che gli domandava. Tali sono, fratelli miei, le attrattive funeste di cui si serve il demonio per fare cadere gli uomini nei suoi lacci. Sono quelle tre sorgenti della corruzione generale di cui parla il diletto discepolo nella sua prima epistola: tutto ciò che è nel mondo, ci dice, si riduce alla concupiscenza della carne, alla concupiscenza degli occhi e alla superbia della vita. Per la cupidigia della carne, egli intende l’amore dei piaceri peccaminosi; per la cupidigia degli occhi, l’avidità che si ha per le ricchezze; finalmente la superbia della vita è il desiderio d’innalzarsi agli onori. Ecco i nemici formidabili, che noi abbiamo a combattere e di cui servesi il demonio per tentarci e per vincerci. Possiamo noi conoscerne tutti gli artifizi e tutta la forza, per metterci al coperto da’ loro colpi e riportare su di essi un intera vittoria! Il nemico più a temersi che noi abbiamo è l’allettamento del piacere. Egli è tanto più pericoloso per noi, quanto che simpatizza, per cosi dire, con la nostra natura. Noi portiamo dentro di noi un peso che vi ci strascina e contro cui e ben difficile difenderci; mentre, essendo noi composti di una natura sensibile, cerchiamo volentieri ciò che può lusingarla, e siccome troviamo nei piaceri di che soddisfare i nostri sensi, vi ci abbandoniamo facilmente, quando a noi si presentano. Inoltre ciò che accresce la nostra miseria si è, che per la caduta del nostro primo padre, la nostra natura è stata talmente disordinata che, in vece di contentarsi dei piaceri permessi, essa si porta al presente anco ai piaceri vietati; noi proviamo dentro di noi medesimi una funesta cupidigia che si ribella incessantemente contro la legge dello spirito, che ci allontana dal bene che vorremmo fare e ci sollecita al male che far non vorremmo Ed è perciò ancora che il demonio, il quale conosce la nostra debolezza, ci assalta il più sovente, come un conquistatore che, per impadronirsi di una piazza pianta le sue batterie dalla parte meno fortificata, e se ne rende padrone quando gli abitanti sono con lui d’intelligenza per dargliela: così il demonio, che conosce la nostra propensione per li piaceri vietati, irrita le nostre passioni, e con l’intelligenza ch’egli ha, con esse si assicura la conquista del nostro cuore. Nel che egli è molto più a temere, dice s. Agostino, di un nemico che ci attacca a forza aperta, mentre noi stiamo più sulle difese con chi ci perseguita con furore che contro chi ci tradisce con le carezze. Or quante vittorie questo nemico sì pericoloso non ha egli di già riportati e non riporta ancora ogni giorno in questa maniera sul debole cuor dell’uomo? Non è forse con l’attrattiva del piacere che il serpente infernale è venuto a capo di sedurre i nostri primi parenti, facendo loro mangiare il frutto vietato? Non è altresì per questo mezzo che fece perire gli abitanti dalla terra col diluvio universale, che fu il castigo con cui Dio punì i piaceri d’una carne che aveva corrotto le sue vie e che non meritava più di possedere lo spirito di Dio? Cinque grandi città sono ridotte in cenere per essere state imbrattate dei piaceri brutali che furono la conseguenza della crapula e dell’ubriachezza in cui i loro abitanti s’erano immersi. Un Davide, un Salomone, quei personaggi sì ripieni dello spirito di Dio, cadono in gran disordini per essere stati vinti dagli allettamenti di un piacere che ha irritate le loro passioni. – Ma non cerchiamo, fratelli miei, altre prove delle impressioni funeste che la lusinga del piacere fa sul cuore, e i delitti e i disordini che regnano al giorno d’oggi tra gli uomini. Non si cercano che i piaceri d’una vita molle e sensuale, ed è per contentarsi su questo punto che si formano tante partite di sollazzo nel mondo, che si stringono tanti rei commerci, che si fanno tante brigate, tanti giuochi, tanti banchetti, tanti spettacoli. Ma quali ne sono le conseguenze? Voi lo sapete, fratelli miei, per una trista esperienza. Non è forse ricercando i vostri piaceri in quelle compagnie, in quei conviti, in quegli spettacoli, che vi siete resi colpevoli di mille disordini? Non è forse ivi che la morte è entrata nella vostr’anima per altrettante finestre quanti sono i vostri sensi che hanno avuto i loro piaceri? Non è forse per contentare questi sensi, e principalmente quello del gusto che vi siete abbandonati ad eccessi d’intemperanza in quei banchetti in cui l’abbondanza e la delicatezza dei cibi irritavano un appetito che voi non avete saputo moderare? Cosi è che servesi il demonio delle lusinghe del piacere per accecare e pervertire gli uomini; o piuttosto cosi è che gli uomini, accecati da passioni che non cercano che il piacere, cadono nei lacci del demonio; poiché, bisogna confessarlo, benché potente, benché formidabile sia questo nemico della nostra salute per tentare e perdere gli uomini non ne verrebbe mai a capo, se gli uomini non volessero pur da sé stessi cedere alla tentazione. E non solamente gli uomini soccombono facilmente alla tentazione che si presenta, ma vanno ancor a cercarla non è necessario che il demonio li solleciti a gettarsi nel precipizio, come tentò Gesù Cristo di gettarsi giù dal tempio: Mitte te deorsum; vi corrono da sé stessi e si fanno incontro al pericolo, esponendosi all’occasione di offender Dio nella falsa speranza che avranno aiuti o per sostenersi o per rialzarsi dalla loro caduta, facendone penitenza. – Ah! fratelli miei, non basta forse che voi abbiate fieri combattimenti a sostenere dalla parte delle podestà dell’inferno, senza che aumentiate la loro forza con la vostra facilità a cercare l’occasione di perdervi? Dovete voi stessi essere i vostri propri tentatori, precipitandovi a bella posta nei lacci che vi sono tesi dai vostri nemici? Ah! siate più vigilanti su di voi medesimi per evitarli e non esporvi temerariamente al rischio di perire. – Un altro scoglio molto pericoloso che allontana gli uomini dai sentieri della salute e a cui la virtù più soda fa sovente naufragio, è la Vanagloria. Per essa l’angelo ribelle perdettesi, volendo uguagliarsi a Dio; e per essa altresì si sforza egli di perdere gli uomini: non dice già loro, come a Gesù Cristo, di gettarsi giù; l’incita al contrario a sollevarsi in su del pinacolo, a cercare la gloria, a chieder gli onori, gl’impieghi di cui non sono capaci, perché sa benissimo che queste persone attorniate di gloria, innalzate a quegl’impieghi, a quelle dignità, non potranno sostenere quell’alto grado a cui saranno innalzate, e cadranno da se stesse, oppresse dal peso di cui saranno aggravate: Deiecisti eos dum allevarentur (Psal. LXXI). Che fa dunque il demonio, o piuttosto che fanno gli uomini per sollevarsi alla gloria, agli onori cui aspirano? Si persuadono d’avere il merito e i talenti necessari per coprire un posto distinto nel mondo; in questa persuasione tentano tutti i mezzi immaginabili per pervenirvi. Sono essi venuti a capo dei loro disegni? Abbagliati dalla gloria che li circonda, perdono di vista il nulla e le miserie che dovrebbero umiliarli; non pensano a compiere i doveri di cui sono incaricati: non essendone capaci, nemmeno procurano di diventarlo; quindi i mancamenti considerabili che commettono nel loro impiego, e dei quali l’orgoglio loro non permette di accorgersi. Questo stesso orgoglio che li ha elevati fa loro rimirar con disdegno quelli che sono al di sotto di essi; e gonfi di un merito che credono avere, non hanno che del disprezzo per gli altri; quindi quell’aria altera che affettano riguardo a coloro che sono in una condizione inferiore; quelle vendette che meditano contro quelli da cui si credono insultati o che loro non rendono gli onori che s’avvisano meritare. Così l’ambizione e la vanagloria perdono gli uomini, che si lasciano accecare da quei falsi splendori che il demonio loro presenta per guadagnarli. Lo credereste, fratelli miei? Questo veleno della vanità è sì sottile che fa sovente cadere la virtù stessa più soda. Che fa il nemico della salute per far perdere agli uomini il merito delle loro migliori azioni? Loro procura encomi ed applausi da parte di coloro che li conoscono; l’induce a fare le loro azioni con questa mira o per lo meno a compiacersi negli elogi che loro si tributano, affinché perdono la ricompensa che Dio loro promette. Ah quante virtù han fatto naufragio in questo scoglio fatale della vanagloria. Quanti digiuni, limosine, orazioni hanno perduto il loro merito e la loro corona, perché l’amor proprio ne era il principio! di modo che conviene star sulle guardie nel tempo medesimo che si fanno le migliori azioni. – Finalmente la terza origine della depravazione del cuor dell’uomo è la tentazione dell’interesse. Chi è infatti che non si lasci abbagliare dallo splendore delle ricchezze, che non cerchi del bene quando non ne ha, o che non si affezioni a quello che ha? Quis est hic, et laudabimus eum (Eccli. LI). L’interesse è il motivo della maggior parte delle azioni degli uomini. Si vuole aver roba, per qualunque verso, sia egli giusto o ingiusto, poco importa: si vuole vivere nel mondo in una maniera agiata e comoda: si vogliono stabilire vantaggiosamente i figliuoli, e per questo è necessaria della roba. Se non se ne ha se ne vuole acquistar molta ed in poco tempo, ma per arrivarvi quante ingiustizie verso del prossimo! Bisogna opprimere la vedova e il pupillo, usar vessazioni contro i deboli; si presenta l’occasione d’impadronirsi dell’avere altrui, d’ingrandire la sua eredità col pregiudizio degli altri, di comprare a vilissimo prezzo a cagione dell’altrui necessità, d’aumentare il capitale con gli interessi di un danaro imprestato, d’impiegare in somma tutti gli artifizi che la cupidigia può ispirare, la cui numerazione non finirebbe mai? Tutto si mette in opera, purché si accumuli roba e si faccia la sua fortuna. A quanti disordini non conduce questa perversa avidità? Quanti neri attentati non fa ella commettere? Di quanti iniqui intrighi, di quante disonestà il danaro non è allettamento e sostegno? Non è forse sovente in vista di un sordido interesse, di un preteso stabilimento, che altri sacrifica il suo onore, la sua virtù, la sua salute? Quante volte la debole virtù si è veduta soccombere sotto la lusinghiera speranza di un compenso che le si è promesso e con cui si è pagata la sua malvagia facilità ad abbandonarsi all’iniquità? Hæc omnia tibi dabo. Ma si è principalmente con l’amor della roba che il demonio tiene l’avaro schiavo nelle sue catene. Che non gli fa egli fare per averne? Hæc omnia tibi dabo, si procidens adoraveris me. Egli adora il demonio in quel danaro di cui fa il suo idolo, l’affetto ch’egli ha per questo gli fa trasgredire in mille occasioni la legge del Signore, lo rende insensibile alle miserie dei poveri, che gli domandano da parte di Dio la porzione che loro è dovuta. Preferisce egli adunque il suo danaro al suo Dio, ed ecco ciò che si chiama adorar il demonio in vista del bene e dal danaro: hæc omnia. Schiavo infelice di un padrone sì crudele, tu pagherai ben caro gli omaggi che gli rendi, tu sarai ridotto alla più orribile indigenza nell’inferno, che sarà la tua abitazione. – Molte cose avrei ancora a dirvi, fratelli miei, sulle diverse tentazioni che il demonio suscita agli uomini. Egli tenta gli uni di disperazione della loro salute e gli altri di presunzione; distoglie questi dai loro doveri coi cattivi esempi e consigli perniciosi dei ministri di cui si serve per pervertirli, addormenta quelli nel peccato perché non hanno alcun vizio enorme a rimproverarsi: e quante volte non si trasforma egli in angelo di luce per far prendere il falso pel vero in materia di devozione? Ma egli è tempo d’insegnarvi i mezzi di resistere alla tentazione.

II. Punto, Io l’ho detto, fratelli miei, benché potente sia il nemico della nostra salute per tentarci e perderci, noi non siamo mai vinti che per colpa nostra: noi possiamo uscir sempre con vantaggio dalla tentazione. Dio è fedele, dice l’apostolo s. Paolo, e non permette giammai che siamo tentati al di sopra delle nostre forze; Egli proporziona il suo aiuto alle forze del nostro nemico; siccome non permette la tentazione che per provare la nostra virtù, il tentatore non ha potere su di noi che quanto Dio conosce in noi più o meno di forze per resistergli: Non patietur tentare vos supra id quod potestis (1 Cor. X). E perciò s. Agostino paragona il demonio ad un cane incatenato, che può bensì abbaiare e fare strepito, ma non può mordere, se non coloro che gli si avvicinano: latrare potest, mordere non potest nisi volentem. Può ben sollecitarci al male, ma non può costringervici. Tutti i demoni anche uniti insieme contro di noi per perderci, non saprebbero riuscirvi, se noi vogliamo. – La nostra sorte è sempre nelle nostre mani; sostenuti dalla grazia del nostro Dio, non possiamo scoprire tutte le loro astuzie, resistere a tutti i loro sforzi; Omnia possum in eo qui me confortat (Phil. IV). Noi siamo facili, è vero, ad esser sorpresi, fiacchi a resistere, dice s. Bernardo, ma non abbiamo che a cooperare alla grazia che sostiene la nostra fiacchezza, e non saremmo giammai vinti. Quali sono dunque questi mezzi? Due sono i principali, a cui ridurre si possono tutti gli altri, la vigilanza cioè e l’orazione. Vegliate e pregate, dice Gesù Cristo, per non entrare in tentazione, cioè, come spiega s. Girolamo, per non soccombervi: Vigilate et orate ut non intretis in tentationem (Matth. XXVI). In che consiste questa vigilanza sì necessaria a non esser sorpreso e vinto dalla tentazione? Ella consiste, fratelli miei, a prepararci alla tentazione, ad allontanarci dagli oggetti della tentazione, a reprimere, a mortificare le nostre passioni, che somministrano l’armi ai nostri nemici per vincerci. Tali sono i mezzi che Gesù Cristo c’insegna nell’odierno Vangelo col suo ritiro nel deserto, con l’allontanamento dal mondo, col digiuno di quaranta giorni che vi praticò. – Il primo dovere della vigilanza cristiana è di prepararsi alla tentazione; si è quello che lo Spirito Santo stesso c’insegna quando ci avverte di perseverare nella giustizia e nel timore, e di preparare la nostr’anima alla tentazione: fili, accedens ad servitutem Dei, sta in iustitia et timore, et præpara animam tuam ad tentationem (Eccl. II). – Che vuol dir dunque prepararsi alla tentazione? Si è temerla e nello stesso tempo tenersi fermo contro i suoi assalti: sta in iustitia et timore. Per prepararsi alla battaglia, bisogna temere e diffidar di se stesso, ma non bisogna perdersi di coraggio. Il timore ed il vigore sono ugualmente necessari: l’uno arresta la temerità e l’altro scaccia la pusillanimità, l’uno c’impedisce di attaccare di fronte il nemico, e l’altro di soccombere quando egli ci assale. Bisogna temere la tentazione, diffidar delle proprie forze, tenersi in guardia quando ella viene; tutto ci consiglia questo timore: il genere di combattimento, la nostra propria debolezza, la forza dei nostri nemici, l’importanza della vittoria. Quando in una guerra si tratta di una piazza importante e si ha a fare con potenti nemici, si teme con ragione. di perdere la vittoria: chi occupa questa piazza non va già il primo alla battaglia, si tiene soltanto sulla difesa se è assalito, per non perdere ciò che possiede. Lo stesso convien fare nelle guerre della salute; tanto più, fratelli miei, che  non si tratta qui di perdere una città,una provincia, un regno, ma la salute eterna che vale più che tutte le corone della terra. Noi abbiamo a fare con potenti nemici, mentre non solamente abbiamo a combattere contro la carne ed il sangue, dice l’Apostolo, ma contro i principati e le potenze dell’inferno, contro i padroni di questo mondo, di questo luogo di tenebre, contro i maligni spiriti che sono nell’aria: Non est nobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes et potestàtes, adversus mundi rectores tenebrarum harum (Eph. VI), Ah quanto sono potenti questi nemici, quanto sono astuti, quanto sono formidabili per la loro malizia ed il loro numero! Guai a chi li andasse assalire di fronte, non potrebbe aspettarsi che una vergognosa sconfitta. Diffidiamo dunque di noi medesimi; convinti di nostra debolezza, contentiamoci di tenerci sulle difese: quando Dio non domanda assalti da noi, ci basta allora di resistere coraggiosamente e di armarci di coraggio per difenderci contro i loro sforzi, come dice l’Apostolo, Confortamini in Domino et in potentia virtutis eius (ibìd.). Benché potenti siano nei loro assalti, non temiamo; possiamo trionfare con l’aiuto di Dio, che non ci manca giammai. Se noi combattessimo soli, non avremmo alcuna speranza di trionfare dei nostri nemici, ma il Dio che ha vinto per noi combatte ancora con noi; Egli ci sostiene con la forza del suo braccio onnipotente; e se Dio è per noi, chi potrà essere contro di noi? Si Deus prò nobis, quis contra nos? Verità ben consolante, fratelli miei, che deve incoraggiarci, rallegrarci nelle guerre che abbiamo a sostenere per parte del demonio. Noi possiamo resistergli, dispregiarlo, calpestarlo con la stessa facilità, dice s. Gregorio, che faremo d’una formica; basta, per sconcertarlo, mostrargli risoluti facendogli vedere che siamo sempre pronti a difenderci e che non lo temiamo. In tal guisa convien prepararci alla tentazione; e siccome la nostra forza viene principalmente dalla grazia di Dio che ci sostiene, convien meritarla questa grazia con l’allontanamento da tutto ciò che può portarci alla tentazione: secondo dovere della vigilanza che Gesù Cristo ci ha insegnato con la sua fuga nel deserto.Questo Dio Salvatore non aveva bisogno di ritirarsi nella solitudine: poteva egualmente vincere il tentatore nel mondo; non aveva Egli a temere le malvagie impressioni degli oggetti che vi si vedono e che portano alla tentazione; ma siccome era venuto per essere nostro modello e conosceva la nostra debolezza, Egli ha voluto apprenderci col suo esempio a fuggire le occasioni del peccato per non essere vinti. Imperciocché indarno, fratelli miei, pretendereste trionfare del vostro nemico, se vi esponete al rischio di esser vinti. Dio vi ha promesso per verità di sostenervi nelle tentazioni inseparabili dal vostro stato, che la malizia dei vostri nemici vi suscita e che Dio permette per provare la vostra virtù. Ma credere che vi sosterrà in quelle cui vi abbandonerete di vostra spontanea volontà, e che comanderà ai suoi Angeli di aver cura di voi allorché vi getterete nel precipizio, è una illusione, è una presunzione che ne ha perduti molti e che perderà voi, se non vi pensate. Osservate, fratelli miei, che quando il demonio sollecitò Gesù Cristo a gettarsi giù dal tempio sulla speranza che gli Angeli avrebbero cura di Lui, Gesù Cristo gli rispose che non conveniva tentare Dio: Non tentabis Dominum (Matth. IV). Or ecco ciò che fa il peccator temerario esponendosi all’occasione di cadere. Egli tenta Dio, aspettando un aiuto di cui la sua temerità lo rende indegno, a che Dio gli ha fatto intendere che non gli darebbe. E certamente qual grazia dovete sperare in quelle tentazioni che dipende dalla volontà vostra di evitare? – È una grazia il fuggire: fuggite dunque, non v’è altro mezzo per vincere il vostro nemico: Fuge et vicisti. Perocché se voi vi accostate troppo da vicino al lupo infernale, benché sia incatenato, vi morderà, e voi diverrete sua preda. Quante volte non avete voi già provata questa disgrazia? La maggior parte dei vostri peccati non derivano che dalla vostra facilità di esporvi al pericolo e all’occasione di offender Dio. Sì, fratelli miei, se volete dir il vero, confesserete che non avete perduta la grazia del vostro Dio se non perché avete frequentate quelle persone che sono state uno scoglio funesto alla vostra virtù: converrete che se voi siete caduti in quel disordine e se avete contratto un tal abito, si è per aver voluto essere di quelle partite di piacere ove avete trovati oggetti che hanno sedotto il vostro spirito e corrotto il vostro cuore. Fuggite dunque, fratelli miei, fuggite, e così riporterete la vittoria sulla tentazione: Fuge, et vicisti. Ma questa vittoria non sarà ancora compita, se voi non mortificate le passioni che vi portano al peccato. Voi potete fuggire i nemici stranieri, ma questi sono nemici domestici che non potete evitare; bisogna dunque contenerli, arrestarne gl’impeti con una mortificazione costante: al che v’obbliga ancora la vigilanza cristiana. – Questa è anche la lezione che Gesù Cristo ha voluto darci, preparandosi con un digiuno di quaranta giorni al combattimento e alla vittoria che riportò sullo spirito tentatore. Non già ch’Egli avesse bisogno di fare quest’astinenza rigorosa per vincere il suo nemico: ma siccome volle con l’esempio del suo ritiro apprenderci il segreto d’evitare i colpi dei nemici esterni, così ha voluto con quello della mortificazione insegnarci il mezzo di trionfare dei nemici interni. Questi nemici, come voi sapete, sono le nostre passioni, è la nostra carne soggetta alla concupiscenza, che la porta continuamente a ribellarsi contro la legge di Dio, unusquisque tentatur a concupiscentia sua (Jiac. I). Convien dunque mortificare queste passioni, castigare questa carne e ridurla in schiavitù, affinché non abbia alcun ascendente su lo spirito, poiché il mezzo di vincere un nemico si è d’indebolirlo, noi non indeboliremo le nostre passioni che mortificando la nostra carne e trattandola con rigore. Voi lo sapete, fratelli miei, per una fatale esperienza; quando accordate alle vostre passioni tutto ciò che esse vi domandano, quando nulla ricusate al vostro corpo di tutto ciò che può contentare i suoi appetiti, allora è che la tentazione fa sentirsi con più violenza: una carne impinguata e nutrita delicatamente è molto più propria a secondare i disegni del demonio che quella indebolita con le austerità della penitenza; perché lo stimolo di questa carne immortificata gli serve di strumento per accendere il fuoco delle passioni: impinguatus recalcitrabit (Deut.XXXII). Volete voi dunque indebolire il demonio? indebolite la vostra carne, il cui troppo grande vigore gli somministra armi contro di voi; con questo mezzo voi troverete la vostra forza nella fiacchezza medesima. Si è per darvi questa forza che la Chiesa, proponendovi l’esempio del nostro divin maestro, v’ordina questo digiuno di quaranta giorni, che deve servirvi di rimedio contro i vizi e d’alimento per tutte le virtù: Vitia comprimit, mentem elevat, virtutem largitur et præmia. Niun mezzo più proprio per sostenervi contro le ribellioni della carne che domarla col digiuno. Quindi il demonio nulla teme cotanto (dice s. Agostino, che sperimentato l’aveva), quanto i digiuni, le preghiere, le austerità dei servi di Dio: Credite mihi experto; pertimet satanas recte viventium vigilias, orationes, jejunia. Entrate dunque con piacere in questa santa Quaresima, e passatela in tutto il fervore di cui sarete capaci. Questo è un tempo favorevole per la salute, come la Chiesa ce lo annunzia nell’epistola di s. Paolo: Ecce nunc tempus acceptabile. Impiegate momenti sì preziosi a gemere sulle vostre iniquità, fatene penitenza ed osservate il digiuno prescritto, senz’ascoltare le doglianze d’una natura sempre ingegnosa a trovar pretesti per dispensarsene. Provate le vostre forze, vedrete che sono più grandi che non pensate: Exhibeamus noi in vigiliis, in jejuniis. Se la malattia e qualche altra scusa legittima ve ne dispensa, siate più assidui all’orazione: in orationibus. Offrite a Dio tutte le pene annesse al vostro stato, sopportate pazientemente le tribolazioni della vita: in tribulationibus, in multa patientia. Supplite al digiuno che sostenere non potete con le limosine che farete ai poveri: multos locupletantes. Date alla carità, dice s. Paolo, ciò che sottraete alla cupidigia: tamquam nihil habentes. Staccatevi da tutto ciò che possedete; con questo riporterete la vittoria sull’amore dei beni della terra. Ma il digiuno più salutevole e da cui non è alcuno esente si è quello delle passioni. Fate morire queste passioni, privandole dei piaceri che le nutriscono e degli oggetti che le lusingano: quasi morientes, ut castigati. Questo è un mezzo sicuro di riparar i colpi dei vostri nemici e di vincere le tentazioni. Vegliate sopra tutti i vostri sentimenti per renderli inaccessibili ad ogni oggetto pericoloso; mortificate i vostri occhi con la modestia, la vostra lingua col silenzio, le vostre orecchie chiudendole ai discorsi degli empi e dei maldicenti: quando avrete ridotti con la mortificazione tutti i vostri sentimenti in schiavitù, potrete lusingarvi d’aver riportata un’intera vittoria sui vostri nemici esterni ed interni. Gli esterni non potranno avvicinarsi a voi per nuocervi, e gl’interni non troveranno mezzo per darvi in preda agli oggetti lusinghieri che sono nel mondo e sottomettervi al loro impero. Studiate principalmente le vostre inclinazioni predominanti per arrestarne gl’impeti e i movimenti mentre queste sono quelle che il demonio studia egli stesso particolarmente per tentarvi e perdervi. Vi presenta oggetti che lusingano il vostro umore, vi conduce in occasioni dove fa che vi lasciate vincere; se voi amate la gloria e l’onore, vi offrirà i mezzi di acquistarli: ma per vincerlo in questo punto, siate, come dice il grande Apostolo, così indifferenti per la gloria, come pel disprezzo: sicut qui ignoti vel cogniti. Se voi vi lasciate possedere dal desiderio delle ricchezze e dall’amore dei piaceri, egli ne presenterà alla vostra cupidigia e per soddisfarla vi farà trasgredire la santa Legge del vostro Dio. Ma per preservarvi dalle sue astuzie e dalle sue insidie, che dovete voi fare? Ricorrere a questa santa sua legge, come Gesù Cristo ce lo insegna nel Vangelo: scriptum est. – Se voi siete tentati di dare il vostro cuore ad altri che a Colui che l’ha formato, leggete, meditate la legge, dove è scritto che Dio solo convien amare con tutto cuore; Scriptum est: Diliges Dominum Deum tuum (Matth. XXVII). – Siete sollecitati, minacciati anche come la casta Susanna? Vi vedete ridotti a difficili estremità o di peccare contro Dio o d’esser esposti alla calunnia dei malvagi? – Se voi non soccombete alla passione di quel dissoluto, o se voi non violate in qualche altro punto i Comandamenti di Dio, in questa critica circostanza qual condotta tenere? Leggete la legge; voi troverete che è meglio cadere nelle mani degli uomini che in quelle del Dio vivente, incorrere la disgrazia degli uomini che quella di Dio. – Siete voi tentati da uno spirito d’orgoglio d’innalzarvi al di sopra degli altri? Ma è scritto, scriptum est, che Dio umilia i superbi, e dà la sua grazia agli umili. – Siete voi tentati da uno spirito d’interesse di arricchirvi anche con grave danno del vostro prossimo? Ma è scritto, scriptum est, che beati sono i poveri, e che non s’entra nel cielo con la roba altrui. – L’odio s’impossessa del vostro cuore, e l’ira vi trasporta a vendicarvi d’un nemico? Ma è scritto scriptum est, che beati sono i pacifici, e che Dio non perdonerà che a coloro che avranno perdonato. – Pensieri contrari alla sana virtù conturbano la vostra immaginazione? Sentite lo stimolo mortale che vi porta a piaceri vietati? Ma è scritto, scriptum est, che bisogna aver il cuor puro per veder Dio: Beati mundo corde, quonìam ipsi Deum videbunt (Matth. V). Così, fratelli miei, dovete diportarvi riguardo a tutte le vostre passioni; bisogna loro sempre opporre le verità eterne come uno scudo invincibile, che vi metta al coperto di tutti i loro colpi e che ne arresti gl’impeti. Bisogna soprattutto resistere ai primi assalti: s’uccide molto più facilmente il serpente quando è piccolo che quando è in tutta la sua forza; dacché il suo capo è entrato, è difficile di farlo uscire, dice s. Gregorio Nisseno. S’estingue più agevolmente una scintilla che un incendio che ha di già invaso tutta la casa. Abbiate dunque gran cura di soffocare le prime scintille delle vostre passioni, di rinunziare alle inclinazioni nascenti, di resistere ai primi desideri ed anche al primo pensiero, che è sempre peccato quando è volontario. Ma invano, fratelli miei, combatterete, se il Signore non combatte con voi; invano veglierete, vi porrete in guardia contro la tentazione, se il Signore non vi dà il suo aiuto per riportarne vittoria: Nisi Dominus custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam (Ps. CXXVI). Bisogna dunque chiedergli questo soccorso con ferventi preghiere; voi dovete, come il profeta, innalzare i vostri occhi verso il santo monte, per trarre su di voi quelle grazie potenti che vi renderanno vittoriosi nella battaglia. Levavi oculos meos ad montes unde veniet auxilium mihi (Ps. CXX). Il Signore è prontissimo ad aiutarvi, Egli si è anche impegnato a tenervi sotto l’ombra delle sue ali per mettervi al coperto dal furore dei vostri nemici: scapulis suis obumbrabit tibi. Ma sotto qual condizione vi promette il suo aiuto? A condizione che voi glielo domanderete con viva fiducia e che leverete la vostra voce verso lui per invocare il suo santo nome: Clamabit ad me, et ego exaudiam eum (Ps. XC). Il che anche Gesù Cristo ci ha appreso nell’orazione che ci ha insegnata per mezzo dei suoi Apostoli. Et ne nos inducas in tentatìonem; non permettete, o Signore, che noi soccombiamo alla tentazione. Oimè! fratelli mici se voi avete provata la vostra debolezza in tante occasioni, se avete ceduto a tale o tal altra tentazione, prendetevela contro la vostra negligenza a pregare: egli è impossibile evitare il peccato e vivere santamente, se non siete assidui all’orazione. Bisogna pregare prima della tentazione per prepararvi al combattimento, pregare durante la tentazione per sostenervi in essa, pregare passata la tentazione per ringraziar Dio delle vittorie riportate. Bisogna dunque pregar sovente per vincere il tentatore. Ma in che consiste l’esercizio dell’orazione sì necessario per riportar questa vittoria?

Pratiche. Consiste 1. nel richiamarvi alla memoria sovente la presenza di Dio. Ricordatevi nelle tentazioni che Dio vi vede, ch’Egli ètestimonio dei vostri combattimenti e che ne sarà la ricompensa; questo pensiero, Dio mi vede, è efficacissimo per impedirvi di cedere alla tentazione; molti Santi se ne sono serviti utilmente: diventiamo bentosto perfetti quanto abbiamo il costume di camminare alla presenza di Dio: Ambula coram me, et esto perfectus (Gen. XVII).

2. Pensate spesso ai novissimi, che sono la morte, il giudizio, l’inferno, il paradiso, e voi non peccherete giammai! Memorare novissima tua et in æternum non peccabis [Ecc. VII). Potreste voi infatti risolvervi a commettere quell’azione peccaminosa, quell’ingiustizia, se pensate seriamente che, dopo averla commessa, la morte può sorprendervi in quello stato, e che se moriste in istato di peccato, voi sareste per sempre perduto?

3. Alzate sovente nella tentazione il vostro cuore a Dio, secondo le circostanze in cui vi trovate ed il genere di peccato onde siete tentati: rendetevi familiari le orazioni giaculatorie. Nelle tentazioni contro la fede, protestate a Dio che voi credete fermamente tutto ciò che vi ha rivelato per mezzo della sua Chiesa. Siete voi tentati da cattivi pensieri contro la purità? Chiedete a Dio quel cuor puro che gli domandava il re profeta: Cor mundum crea in me Deus (Psal. L). Siete voi presi da moti di collera? Ricordatevi la penitenza di Gesù Cristo nei dolori ch’Egli ha sofferti per voi, e ditegli con gli Apostoli: calmate, o Signore, questa tempesta; salvatemi, mentre altrimenti io perirò: Domine, salva nos, perimus: Così di tante altre. Tenetevi soprattutto attaccati ai piedi di Gesù Cristo, abbracciateli strettamente strettamente e ditegli spesso che voi non volete lasciarli: rinnovate questa protesta altrettante fiate, quante ritornerà la tentazione; dopo essergli stati uniti sulla terra, voi lo sarete eternamente nel cielo: dopo aver riportata la vittoria, riceverete la corona immortale. Così sia.

 Credo

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus Ps XC: 4-5:

Scápulis suis obumbrábit tibi Dóminus, et sub pennis ejus sperábis: scuto circúmdabit te véritas ejus. [Con le sue penne ti farà schermo, il Signore, e sotto le sue ali sarai tranquillo: la sua fedeltà ti sarà di scudo.]

Secreta

Sacrifícium quadragesimális inítii sollémniter immolámus, te, Dómine, deprecántes: ut, cum epulárum restrictióne carnálium, a noxiis quoque voluptátibus temperémus.

[Ti offriamo solennemente questo sacrificio all’inizio della quarésima, pregandoti, o Signore, perché non soltanto ci asteniamo dai cibi di carne, ma anche dai cattivi piaceri.]

Comunione spirituale:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps XC: 4-5

Scápulis suis obumbrábit tibi Dóminus, et sub pennis ejus sperábis: scuto circúmdabit te véritas ejus.

[Con le sue penne ti farà schermo, il Signore, e sotto le sue ali sarai tranquillo: la sua fedeltà ti sarà di scudo.]

Postcommunio

Orémus.

Qui nos, Dómine, sacraménti libátio sancta restáuret: et a vetustáte purgátos, in mystérii salutáris fáciat transíre consórtium. [Ci ristori, o Signore, la libazione del tuo Sacramento, e, dopo averci liberati dall’uomo vecchio, ci conduca alla partecipazione del mistero della salvezza.]

Ultimo Evangelio e preghiere leonine:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA DEL MESE DI MARZO 2020

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: MARZO 2020

MARZO è il mese che la S. Chiesa Cattolica dedica a San Giuseppe, padre putativo di Gesù, e protettore della Chiesa Cattolica.

“È comune e pia credenza dei fedeli, che i Santi in Paradiso abbiano uno zelo ed una potenza particolare di ottenerci quelle medesime grazie, di cui essi furono favoriti mentre si trovavano ancora su questa terra. Ed è perciò che noi ricorriamo, per esempio, a S. Luigi Gonzaga per ottenere la virtù della santa purità, a S. Maria Maddalena per acquistare lo spirito di penitenza, a S. Tommaso d’Aquino per conseguire la scienza delle cose celesti, a S. Bernardo per accrescere in noi la divozione a Maria, e così ad altri Santi per altre grazie. Ora, sebbene, come abbiamo già detto, S. Giuseppe sia stato da Dio favorito di ogni genere di grazie, è certo tuttavia che una delle più singolari fu per lui la grazia di fare una morte tanto preziosa e beata tra le braccia di Gesù e di Maria. E perciò senza dubbio, dopo la Vergine, nessun altro Santo è più zelante di ottenere una simil grazia a noi e più potente ad acquistarcela dal suo caro Gesù, di quello che lo sia S. Giuseppe. Che non faremo adunque per procacciarci una santa morte! Alla fin fine è questa la grazia delle grazie, perché se moriremo bene, in grazia di Dio, saremo salvi per tutta l’eternità, ma se invece moriremo male, senza la grazia del Signore, saremo eternamente perduti. Raccomandiamoci pertanto a questo possente protettore dei moribondi S. Giuseppe. Non lasciamo passar giorno senza ripetere a lui, a Gesù ed a Maria, con tutto il fervore dell’anima, queste ardenti preghiere: Gesù, Giuseppe e Maria assistetemi nell’ultima agonia; Gesù, Giuseppe e Maria spiri in pace con voi l’anima mia. – Ma ricordiamoci bene, che raccomandarsi a questo Santo per una buona morte è cosa certamente utile e bella, ma non del tutto sufficiente. Conviene che anzi tutto facciamo quanto sta in noi per menare una vita veramente cristiana, perché in generale la morte non è che l’eco della vita stessa. Conviene che subito riandiamo con la nostra coscienza per vedere se caso mai vi fosse il peccato mortale, affine di prontamente detestarlo e cancellarlo mediante una buona confessione. Conviene che subito ci mettiamo ad amare e servire Iddio di più e più alacremente del passato, perché ripariamo così al tempo perduto e ci affrettiamo ad accumulare quelle sante opere, le quali soltanto ci conforteranno nell’ultimo istante di nostra vita. Oh sì; se noi ci adopreremo con tutte le nostre forze per vivere veramente da buoni Cristiani, possiamo nutrire la dolce speranza di fare anche noi una santa morte: una morte, in cui Gesù verrà a confortarci per un’ultima volta colla sua reale presenza, anzi colla comunione di se stesso; una morte in cui Maria scenderà amorosa al nostro fianco per combattere e cacciare lontano da noi l’infernale nemico; una morte, in cui l’amatissimo nostro S. Giuseppe si troverà a noi dappresso per stenderci amorosamente la mano ed aiutarci a fare felicemente e lietamente i gran passo alla eternità.”

[A. Carmignola: S. Giuseppe. Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1896]

Per le Indulgenze: https://www.exsurgatdeus.org/2018/03/19/nella-festa-di-san-giuseppe-2018/

Queste sono le feste del mese di MARZO 2020

1 Marzo Dominica I in Quadr    Semiduplex I. classis

4 Marzo S. Casimiri Confessoris    Feria

          Feria Quarta Quattuor Temporum Quadragesimæ   

6 Marzo Ss. Perpetuæ et Felicitatis Martyrum    Feria

               I Venerdì

          Feria Sexta Quattuor Temporum Quadragesimæ   

7 Marzo S. Thomæ de Aquino Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Feria

               I Sabato

           Sabbato Quattuor Temporum Quadragesimæ   

8 Marzo Dominica II in Quadr    Semiduplex I. classis

9 Marzo S. Franciscæ Romanæ Viduæ    Duplex

10 Marzo Ss. Quadraginta Martyrum    Feria

12 Marzo S. Gregorii Papæ Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

15 Marzo Dominica III in Quadr    Semiduplex I. classis

17 Marzo S. Patricii Episcopi et Confessoris    Duplex

18 Marzo S. Cyrilli Episcopi Hierosolymitani Conf. et Eccl.  Doctoris    Duplex

19 Marzo S. Joseph Sponsi B.M.V. Confessoris    Duplex I. classis *L1*

21 Marzo S. Benedicti Abbatis    Duplex majus *L1*

22 Marzo Dominica IV in Quadr    Semiduplex I. classis

24 Marzo S. Gabrielis Archangeli    Duplex majus *L1*

25 Marzo In Annuntiatione Beatæ Mariæ Virginis  Duplex I. classis *L1* 

27 Marzo S. Joannis Damasceni Confessoris    Duplex *L1*

28 Marzo S. Joannis a Capistrano Confessoris    Semiduplex

29 Marzo Dominica I Passionis    Semiduplex I. classis *I*

LO SCUDO DELLA FEDE (101)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (11)

CAPO XI.

La considerazione della terra ci innalza a conoscere Dio.

I. Discendiamo ora dal mondo superiore a questo inferiore, e ad imitazione di coloro che lungo tempo hanno affaticata la vista in ricami d’oro, ristoriamo alquanto nel verde di tante piagge e di tanti prati le pupille abbagliate dallo splendore di quelle sfere che vincono ogni chiarezza. Lasciamo il cielo, e con una forma di contemplazione più adattata alla gravezza de’ sensi fermiamoci in sulla terra. Avanzarsi alla cognizion del vero, mentre qualunque strada, o alta o bassa che tengasi, là ci mena: basta volere arrivarvi. Gli antichi maestri, per un arcano di profonda filosofia solean dire che padre di tutte le cose era il cielo, madre la terra. E di fatto veggiamo che come il cielo è in continuo moto per nostro prò, così parimente la terra è in continuo parto. Onde avendo noi pigliato a ristringere il molto in poco, potremo osservare in questa madre due pregi segnalatissimi: la fecondità nel numero della prole: la grazia nella bellezza: pregi che unitamente ci saran guida a ritrovare altresì la prima cagione, sorgente inesausta di tutto il buono e di tutto il bello, che è Dio, il quale, invisibile in sé, vuole altrettanto rendersi a noi visibile nei suoi effetti: Ita rerum naturarti instruxìt, ut ipse invisibìlis ex operibus suis agnosceretur (Àthanas. cantra idol.).

I.

II. Non è però se non bene, che prima di ammirare la figliolanza, diamo un’occhiata alla madre. Non vi è cosa nella natura che sembri fatta più a caso, che la disposizion della terra. E però, se anche in essa noi rinverremo una sapienza ammirabile, converrà pure cedere al vero, e gridare sin dal profondo: Quali saranno gli studi e le squisitezze, se sono tanto cariche di artifizio le negligenze? Ditemi dunque: chi tien sospesa in mezzo all’aria una macchina così vasta, qual è la terra; o se niuno v’ha che la tenga, su che si posa? Scavate pure giù, sprofondatevi, inabissatevi, e sappiate dirmi ove sieno le fondamenta di un edificio sì bene stante, che in. capo a centinaia di lustri ne pure ha mai fatto pelo. Appunto, direte voi. Qua non servono fondamenta. L’avere la terra il centro della sua gravità nel mezzo di se medesima è l’unica cagion della sua fermezza. Chi ve lo nega? Ma non vedete, come questo istesso dimostra a chi ha fior di spirito, che ella è formata a disegno , non a capriccio? Facciansi pure innanzi coloro che si argomentano di rifondere tutto l’ordine delle cose nella necessità della materia, e se dà loro il cuore espongano un poco da qual necessità di materia provenga mai, che questa gran mole penda tutta in se stessa, e così librata si riposi e si regga immobile ad ogni scossa?  Sicuramente non può dirsi, che fosse una tal materia quella che a sé diede una tale necessità: altrimenti sarebbe ella stata la formatrice di se medesima, che è appunto ciò che si provoca le fischiate da tutti i saggi. Adunque donde l’ebbe ella, se non da quello che fu l’inventor del tutto? Ogni principio passivo necessariamente suppone un principio attivo che quasi lo sottometta (S. Th. 1. p. q. 44. art. 1. ad 2).

III. Oltre a ciò: qual necessità di materia richiedea mai, che 1’acqua dimorasse dentro la terra a formar l’oceano, e non piuttosto la circondasse intorno intorno, come fa l’aria? da che tale è la situazion naturale dovuta all’acqua, se si consideri solo quale elemento. Ebbe la terra forse mani a scavare nelle sue viscere quella fossa sì sterminata, che è detta mare, ed ebbe forze ad abbracciarlo in se stessa con tanti seni, per gli utili che ne acquista? È ben cieco di mente chi non conosce, che a. tutto ciò si richiede la virtù di una intelligenza suprema, la quale ad agevolare il commercio umano, ridusse tutte l’acque in un lato, e volle che la terra ove si curvasse in gomiti, ove si sporgesse in capi, ove si schierasse in coste, ove si sfogasse in ispiagge; in un luogo desse angustissima entrata all’onde, per far canali; in altro si allargasse senza confine: tutto al bisogno della navigazione; per cui volle ancora, che di tratto in tratto spiccassero in mezzo all’acque isole fruttuose per opportuno riposo de’ naviganti, per ricovero, per rinfresco, e per additar loro, a guisa di termini fìtti in mare le miglia dei loro viaggi.

IV. Qual cosa noi a primo aspetto più trascurata, che la positura de’ monti? Eppure quei che appariscono uniti a caso, sono disposti con ordine sì perfetto, che i fiumi calando da essi a fecondare le valli truovano sempre fra l’uno e l’altro in tante giravolte che fanno la strada aperta, senza incontrare in sì lungo pellegrinaggio verso l’oceano lor patria, né un clivo, che non dia loro il passo cortesemente, ma si attraversi villanamente al cammino. La terra, secondo l’inclinazione particolare della sua natura, non richiedea varietà di monti e di piani: e posto ciò, a che vedersi un tale elevamento nelle sue parti, che queste a poco a poco salendo dalle spiagge più basse, sorgano sempre finché divengano gioghi? Chi ciò richiese fu la comodità del genere umano, che brama monti, dove a riparo da’ caldi, dove a ricreazione di cacce, dove a difesa da’ venti impetuosi. E chi ciò concedette, fu quella sapienza infinita, la quale avendo il braccio pari al consiglio, non solamente con quella diversità di pianure e di. vette, di pendici e di valli, fa più vago questo edificio, quasi con risalti di maestevole dissonanza; ma di più feconda questo gran corpo con tanti rivi che prima occultamente gli passano per le viscere, e poi manifestamente gli scorrono su pel dosso, con un moto somigliantissimo al moto del sangue umano: sicché, come il sangue correndo dal cuore per le arterie più di nascosto, s’insinua per tutti i membri, e da’ membri più apertamente ritorna al cuore medesimo per le vene; così l’acque del mare s’innoltrassero di soppiatto in seno alla terra per segreti canali, e poscia a vista di ognuno ritornassero al mare per fiumi aperti. Ed oh! così procurasse ogni uomo di meritarsi quel bel titolo, tanto stimato da Tertulliano, di scolare della natura, discipulus naturæ (Tert. de resur. car. c. 2 ): che dotte lezioni di sovrumana sapienza non ne verrebbe ad apprendere! Credete a me, che egli in breve vergognerebbesi di aver comune la specie con questi abortivi, o piuttosto mostri, che al tempo stesso son uomini, e negan Dio.

II.

V. Eppure tutta l’arte divisata fin ora così in iscorcio sul puro sito che fu dato alla terra appena serberà il nome d’arte, paragonata a quella mirabilissima Intelligenza, che arricchisce la medesima terra di tanta prole. Gli antichi ci dipingevano la natura sotto il sembiante d’un’Isidi, tutta mammelle, per allevare gli innumerabili parti che dava in luce. Bene sta. Ma chi ha empite di latte quelle mammelle che mai non restano, e chi ha colmate di spirito quelle viscere che non isteriliscono mai? Conviene pur ricorrere ad un primo essere, principio di tutto il bene, che è fuor di lui, edin tal considerazione forza è darsi per vinto sui primi passi, confessando con schiettezza, che assai, più facile alla natura sia fare, che all’uomo narrare il fatto: Facìlius est naturæ facere, quam homini recensere. Conciossachè a chi darà giammai l’animo di raccorre il numero grande delle erbe, delle piante, dei fieri, delle frutta, de’ semi, e di tanti animali, de quali la terra, se non è madre, almeno è nutrice, apparecchiando a tutti il lor cibo, qual mensa comune, pubblicamente imbandita dalla natura? A fare la rassegna generalissima, non dico degl’individui che sono in terra, ma sin delle spezie sole, sarebbe insufficiente la forma che tenne Serse ad annoverare il suo esercito, quando lo contò a schiere a schiere, dentro un gran cerchio. Fu pur dunque possente quell’alta voce che chiamò dal nulla ad un tratto tante gran cose, e che tuttor le sostenta: da che questa ancor non è minor meraviglia: mentre essendo tutte le cose terree da sé manchevoli, non hanno minor bisogno della prima cagione per mantenersi, di quel che ne avessero per uscire da principio al luce (S. Th. 1. p. q. 104. art. 1). – Ora in tante mutazioni, in tante morti, in tante rovine, ne regnano su la terra, non si è fin ora dopo tanti secoli spenta mai veruna di quelle specie, che sul nascere del mondo sorsero al cenno del divino volere: onde questa medesima osservazione sì diligente della natura viene a testificare quel gran padrone che dall’alto la regge incessantemente, e che ne tien cura.

VI. Aggiungete alla numerosità de’ parti la lor bellezza, e dite poi, se può rimanere alcun dubbio, che non sia ciascuno fattura di man celeste. Mi piacque sempre il sentimento di una grande anima, la quale viaggiando di primavera su spiagge erbose, smaltate di aghi fiori, a guisa di stelle, andava di tratte in tratto, con quel baston da viaggio che aveva in mano, battendo or uno di quei germogli, or un altro, e dicendo loro: Non gridare sì forte. Capiva egli con quale altezza di voi ciascuno di quei fiori veniva a significare, quanto più bello fosse di loro quel Dio che gl’avea creati: e però pareva che volesse dire: vi ho intesi, non più, non più, so ciò che volete avvisarmi. E a dire il vero, quantunque noi di tutto il bello sensibile non ne veggiamo in veruna cosa altro mai, che la superfice; contuttociò questa superficie medesima cosi degna, che basta a renderci attoniti di stupore: siccome attoniti ci rende appunto 1a pura superficie del mare, quando attorno attorno il miriamo da un alto scoglio. Date di mano a qualsiasi germoglio che vengavi colto il primo, sia erba, sia fiore, sia frasca, sia ramoscello; e mirandolo attentamente solo di fuori, notate un poco se poteva lavorarsi più acconciamente! Io son certo , che chi ne intenda il disegno, nulla troverà da emendarvi. Pensate dunque poi, che sarebbe se l’occhio potesse essere testimonio dell’ordine che han tra sé le parti più interne, e degli ordini occultissimi di cui si vale quella tal ombra di vita a nutrirsi, a conservarsi, a crescere, a generare un altro simile a sé.

VII. Ma perché parliamo più ai sensi, che all’intelletto, facciam così: restringiamoci solamente a considerare la varietà delle maniere che appaiono in queste creature sì basso, che la terra o genera, o allieva. Le angustie dell’ingegno umano, che pur è maggior del mondo, non permettono a verun artefice, che egli ecceda in qualunque pregio. Mirate i pittori soli. Altri sono eccellenti nel colorire, altri nel disegnare, altri nel disporre, altri nel finire le opere interamente. Chi non ha pari nel rappresentare battaglie, chi nel figurare paesi, chi nel fingere prospettive, chi nel porre dinanzi mari in tempesta, chi fiori, chi frutta, chi fiere, chi notti folte; senza che mai siasi trovato veruno, che in tutti questi generi insieme riporti il vanto. Eppure qui non si tratta, se non che di una semplice imitazione delle apparenze, note ad un guardo. Ora qual mente sarà pertanto mai quella che è perfettissima al pari non solo nel lavorare le apparenze di creature infinite, ma le sostanze, senza che possa trovarsi mai né che aggiungere ai suoi lavori, né che levarne? Quale sarà la fecondità di quelle idee che tuttavia dee ritenere in se stessa, se tanto prodigioso è quel numero che ne ha schierato in scena dinanzi a noi quasi per ischerzo? Io mi riporto alla considerazion delle foglie, che sono il meno che noi possiamo proporre nella moltitudine di tante tessiture più fine. Chi mai sarà che ridicami in queste sole la varietà, la vaghezza, i lineamenti che vi si scorgono; perché io mi vi perdo d’intorno? Altre larghe, altre lunghe, altre tonde, altre attorcigliate, altre aguzze, altre trinciate in più lati per bizzarria, altre molli più che velluto, altre piane senza ruggine, altre pari senza risalti, altre ricce come felpa, altre sode, altre scarne, altre coperte di sottilissima pelle, tutte distinte con ammirabili vene, fortificate da vari nervi, fornite di varia polpa, e tanto tra sé diverse, che (non dirò nelle fattezze, ma nel solo colore, in ciascuna verde) si ritroveranno dissimili, come dissimili sono le piante, cui servono di ornamento: Etiam quæ similia videntur, cum cantuleris, diversa sunt(Sen.). O sapienza infinita! sono io ben sordo, se tante lingue che mi favellan di te non arrivano a risvegliarmi! Sogliamo nelle festività più solenni seminar di frondì le vie che ci conducono ai tempii. Ora non ha il Creatore fatto altrettanto per invitarci alla cognizione di sé? Eppure si troverà uomo sì poco meritevole di tal nome, che non si lasci guidare a termine sì beato per una strada lastricata, non pur di l’rondi o di fiori, ma di altre creature ancor senza numero, che rabbelliscono il seno di questa gran madre nostra, la terra: mentre passeggiando fra continui miracoli, non li reputiamo degni de’ nostri guardi, non che de’ nostri stupori! Così cammina talora un rozzo bifolco per una collina piena di semplici eletti, senza riguardo, calpestando con pie’da giumento tante erbe che dan salute: mentre dall’altra banda un medico vi cammina con guardo attento, ammirator della virtù che quelle a gara racchiudono in poca spoglia.

SALMI BIBLICI: “CONFITEMINI, DOMINO … QUIS LOQUETUR” (CV)

SALMO 105: CONFITEMINI DOMINO, quis loquetur”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 105

Alleluja.

[1 ] Confitemini Domino,

quoniam bonus, quoniam in sæculum misericordia ejus.

[2] Quis loquetur

potentias Domini, auditas faciet omnes laudes ejus?

[3] Beati qui custodiunt judicium, et faciunt justitiam in omni tempore.

[4] Memento nostri, Domine, in beneplacito populi tui; visita nos in salutari tuo:

[5] ad videndum in bonitate electorum tuorum, ad lætandum in lætitia gentis tuæ, ut lauderis cum hæreditate tua.

[6] Peccavimus cum patribus nostris; injuste egimus, iniquitatem fecimus.

[7] Patres nostri in Aegypto non intellexerunt mirabilia tua; non fuerunt memores multitudinis misericordiæ tuæ. Et irritaverunt ascendentes in mare, mare Rubrum;

[8] et salvavit eos propter nomen suum, ut notam faceret potentiam suam.

[9] Et increpuit mare Rubrum, et exsiccatum est; et deduxit eos in abyssis sicut in deserto.

[10] Et salvavit eos de manu odientium, et redemit eos de manu inimici.

[11] Et operuit aqua tribulantes eos; unus ex eis non remansit.

[12] Et crediderunt verbis ejus, et laudaverunt laudem ejus.

[13] Cito fecerunt, obliti sunt operum ejus; et non sustinuerunt consilium ejus.

[14] Et concupierunt concupiscentiam in deserto, et tentaverunt Deum in inaquoso.

[15] Et dedit eis petitionem ipsorum, et misit saturitatem in animas eorum.

[16] Et irritaverunt Moysen in castris, Aaron, sanctum Domini.

[17] Aperta est terra, et deglutivit Dathan, et operuit super congregationem Abiron.

[18] Et exarsit ignis in synagoga eorum, flamma combussit peccatores.

[19] Et fecerunt vitulum in Horeb, et adoraverunt sculptile.

[20] Et mutaverunt gloriam suam in similitudinem vituli comedentis foenum.

[21] Obliti sunt Deum qui salvavit eos, qui fecit magnalia in Ægypto,

[22] mirabilia in terra Cham, terribilia in mari Rubro.

[23] Et dixit ut disperderet eos, si non Moyses, electus ejus, stetisset in confractione in conspectu ejus, ut averteret iram ejus, ne disperderet eos.

[24] Et pro nihilo habuerunt terram desiderabilem; non crediderunt verbo ejus.

[25] Et murmuraverunt in tabernaculis suis; non exaudierunt vocem Domini.

[26] Et elevavit manum suam super eos ut prosterneret eos in deserto.

[27] Et ut dejiceret semen eorum in nationibus, et dispergeret eos in regionibus.

[28] Et initiati sunt Beelphegor, et comederunt sacrificia mortuorum.

[29] Et irritaverunt eum in adinventionibus suis, et multiplicata est in eis ruina.

[30] Et stetit Phinees, et placavit, et cessavit quassatio.

[31] Et reputatum est ei in justitiam, in generationem et generationem usque in sempiternum.

[32] Et irritaverunt eum ad Aquas contradictionis; et vexatus est Moyses propter eos;

[33] quia exacerbaverunt spiritum ejus, et distinxit in labiis suis.

[34] Non disperdiderunt gentes quas dixit Dominus illis;

[35] et commisti sunt inter gentes, et didicerunt opera eorum;

[36] et servierunt sculptilibus eorum, et factum est illis in scandalum.

[37] Et immolaverunt filios suos et filias suas daemoniis.

[38] Et effuderunt sanguinem innocentem, sanguinem filiorum suorum et filiarum suarum, quas sacrificaverunt sculptilibus Chanaan. Et infecta est terra in sanguinibus;

[39] et contaminata est in operibus eorum, et fornicati sunt in adinventionibus suis.

[40] Et iratus est furore Dominus in populum suum, et abominatus est hæreditatem suam.

[41] Et tradidit eos in manus gentium; et dominati sunt eorum qui oderunt eos.

[42] Et tribulaverunt eos inimici eorum; et humiliati sunt sub manibus eorum;

[43] sæpe liberavit eos. Ipsi autem exacerbaverunt eum in consilio suo; et humiliati sunt in iniquitatibus suis.

[44] Et vidit cum tribularentur, et audivit orationem eorum.

[45] Et memor fuit testamenti sui, et pœnituit eum secundum multitudinem misericordiæ suæ;

[46] et dedit eos in misericordias, in conspectu omnium qui ceperant eos.

[47] Salvos nos fac, Domine Deus noster, et congrega nos de nationibus; ut confiteamur nomini sancto tuo, et gloriemur in laude tua.

[48] Benedictus Dominus Deus Israel, a sæculo et usque in sæculum; et dicet omnis populus: Fiat! fiat!

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CV.

Dio è da lodarsi per la sua misericordia verso i disobbedienti ; che egli ricevè ancora in quando fecero penitenza.

Alleluja: Lodate Dio.

1. Date lode al Signore, perché egli è buono, perché eterna ell’è la sua misericordia

2. Chi potrà ridire le possenti opere del Signore? chi rappresenterà con parole lodi di lui?

3. Beati quelli che osservano la rettitudine, e in ogni tempo praticano la giustizia.

4. Sovvengati di noi, o Signore, secondo la buona tua volontà verso il tuo popolo: vieni visitarci colla tua salute; (1)

5. Affinché noi veggiamo i beni de’ tuoi eletti e ci rallegriamo dell’allegrezza del popol tuo, affinché tu sii glorificato nella tua eredità.

6. Abbiano peccato co’ padri nostri: abbiamo operato ingiustamente, abbiam commesso iniquità. (2)

7. I padri nostri nell’Egitto non considerarono le tue meraviglie, non si ricordarono della molta tua misericordia. (3)

8. E te irritarono quando stavano per entrare nel mare, nel mare Rosso,

9. Ed ei li salvò per amor del suo nome, per far conoscere la sua potenza.

10. E fé’ minaccia al mar Rosso, ed ei si asciugò; e li menò per gli abissi come per un arido terreno.

11. E li salvò dalle mani di quei che gli odiavano, e li riscattò dal poter del nimico.

12. E sommerse nelle acque i loro persecutori: un solo di essi non si salvò. (4)

13. Ed essi ebber fede alle sue parole, e cantarono le sue lodi.

14. Ma fecer presto a scordarsi delle opere di lui e non aspettarono l’esito dei suoi consigli.

15. E desiderarono cose voluttuose nel deserto, e tentarono Dio in quel luogo senza acqua.

16. E diede loro quel che chiedevano, e saziò i loro appetiti.

17. E irritarono negli alloggiamenti Mosè, e Aronne il santo del Signore.

18. Si aperse la terra, e ingoiò Dathan, e assorbì la sequela di Abiron.

19. E il fuoco divampò nelle loro tende; la fiamma abbruciò i peccatori.

20. E fecero un vitello in Horeb; e adorarono una statua di getto.

21. E la gloria loro cambiarono per l’immagine di un vitello che pasce l’erba.

22. Si dimenticaron di Dio, che li salvò e fece cose grandi in Egitto, cose mirabili nella terra di Cham, cose terribili nel mare Rosso.

23. E avea parlato di sterminarli, se Mosè suo eletto non si fosse piantato alla breccia di contro di lui,

24. Affine di distornare l’ira di lui perché non gli sterminasse. Quelli però non si curarono di quella terra desiderabile;

25. Non credettero alla parola di lui e mormorarono ne’ loro alloggiamenti; non ascoltaron la voce del Signore.

26. E alzata la mano contro di essi, giurò di sperdergli nel deserto,

27. E di avvilire la loro stirpe tra le nazioni, e di disperderli in questa e in quella regione.

28. E si consacrarono a Beelphegor, e mangiarono dei sacrifizi dei morti.

29. E lui irritarono coi loro ritrovamenti; si fe’ più grande la loro rovina.

30. E si levò su Phinees, e lo placò; e la piaga cessò.

31. E ciò fugli imputato a giustizia, di generazione in generazione fino in sempiterno.

32. E lui irritarono alle acque di contraddizione; e patì Mosè della loro colpa, (5)

33. perché avevano perturbato il suo spirito. E fu dubbioso nel suo parlare.

34. Essi non dispersero le nazioni, com’egli avea loro intimato.

35. E si mischiarono colle genti, e impararono i loro costumi, e rendetter culto ai loro idoli; e ciò divenne per essi pietra di inciampo.

36. E immolarono i loro figliuoli e le loro figliuole ai demoni.

37. E sparsero il sangue innocente, il sangue de’ propri figliuoli e delle figliuole sacrificate da loro agl’idoli di Chanaan.

38. E fu infettata la terra per lo spargimento del sangue, e fu contaminata dalle opere loro e si prostituirono a’ loro ritrovamenti.

39. E il Signore si accese d’ira e di furore contro il suo popolo, e prese in abominio la sua eredità. (6)

40. Eli diede in potere delle nazioni ed ebber dominio di essi quei che gii odiavano.

41. Ei loro nemici li trattarono duramente, e sotto il potere di questi e’ furon umiliati: sovente Dio ne li liberò. (7)

42. Ma eglino lo esacerbarono co’ loro consigli, e furon umiliati per le loro iniquità.

43. E li rimirò quando erano nella tribolazione, e udì la loro orazione.

44. E si ricordò di sua alleanza, e per la molta sua misericordia si ripentì.

45. E fe’ che trovasser misericordia presso tutti quei che gli avevano fatti schiavi.

46. Salvaci, o Signore Dio nostro, e raccoglici di tra le nazioni,

47. Affinché confessiamo il tuo santo nome, e ci gloriamo in te, degno di ogni laude.

48. Benedetto il Signore Dio d’Israele ab eterno e in eterno; e dirà tutto il popolo: Cosi sia, così sia. (10)

(1) In beneplacito, a causa della benevolenza che portate al vostro popolo.

(2) Nelle grandi calamità, c’era  l’uso di fare la confessione pubblica dei peccati. (I Esdr. ix, 6, 7; Tob. III, 3, 4; Judith, VII, 19; Baruch. I, 15-20; II, 5-8; Dan. ix. 6).

(3) Allusione al mormorio che precedette il passaggio del mar Rosso.

(4) Allusione al cantico di Mosè.

(5) Se Mosè non fosse stato sulla breccia per arrestarlo, se Mosè non si fosse presentato davanti a Dio per intercedere in loro favore. L’immagine è presa da un muro preso d’assalto, nel quale si è fatto breccia, e dove un soldato valoroso si presenta per respingere coloro che si precipitano sul posto. Qui è Dio il nemico venuto a penetrare, Mosè il difensore che si tiene sulla breccia e chiede grazia.

(6) Et elevavit può significare che Egli giurò di farli cadere morti nel deserto come gli uomini giurano alzando la mano; si attribuisce qui questo atto a Dio. (Ex. VI, 8).

(7) Mosè dubitò se fosse possibile a Dio far uscire acqua dalla roccia; egli fu punito per questo dubbio morendo senza entrare nella terra promessa.

(8) La fornicazione è qui il culto di un falso dio.

(9) V. 41 e segg. Questi versetti sono relativi ai tempi dei Giudici.

(10) questo versetto indica che il popolo doveva qui rispondere: Amen, Alleluja.

Sommario analitico

Questo salmo è come la controparte del precedente. Il salmista vi ripercorre la storia del popolo ebraico dopo l’uscita dall’Egitto fino ai tempi dei Giudici, e considera i benefici di cui Dio li ha ricolmati, malgrado la loro ingratitudine, le sue lamentele ed infedeltà. – Niente impedisce di attribuire a Davide la composizione di questo salmo o, secondo gli esegeti più autorizzati, lo stile non risente di alcuna traccia di epoca più recente (Le Hir.). Alcuni altri hanno pensato che questo salmo potesse essere ricondotto ai tempi della cattività e, in questa ipotesi, l’autore avrebbe copiato a Davide i versetti 1, 46, 47 di questo salmo che si leggevano nel I libro dei Paralipomeni. L’autore del versetto 48 sembrava loro evidentemente posteriore alla cattività.

I. – Il Re-Profeta esorta tutti gli israeliti a lodare Dio:

1° proclamando la sua bontà e la sua misericordia (1);

2° Rendendo pubblica la sua bontà e la sua misericordia (2);

3° Imitandone la giustizia e la santità (3);

4° Chiedendo è per tutto il popolo la grazia e la salvezza che devono tornare a gloria di Dio (4, 5);

5° Riconoscendo e confessando le loro offese a Dio (6).

II.  Egli espone alternativamente le infedeltà degli israeliti ed i castighi che sono stati la giusta punizione e la bontà di Dio nei loro riguardi:

1° All’uscita dall’Egitto: – a) il loro peccato di ignoranza, di oblio e di mormorio (7); – b) la bontà di Dio nel passaggio miracoloso del mar Rosso (8-10); – c) la vendetta messa a punto contro gli Egiziani in favore degli Ebrei (11-12).

2° Alla loro entrata nel deserto: – a) il loro peccato di ingratitudine e di piacere sensuale (13, 14); – b) la bontà di Dio che accordava loro ciò che desideravano, ed il castigo che seguì al compimento dei loro desideri (15);

3° Nel viaggio attraverso il deserto: – a) il loro peccato di invidia e di ambizione contro Mosè ed Aronne (10); – b) la vendetta che Dio fece del crimine di Dathan ed Abiron, permettendo che la terra inghiottisse loro ed i loro compagni (17, 18); 

4° Nel loro soggiorno nel deserto: – a) l’adorazione del vitello d’oro e l’oblio di Dio, il castigo con il quale Dio voleva colpirli e sospeso da Mosè (19-23); – b) i loro nuovi mormorii e la punizione che ne scaturì (24- 27); – c) i loro disordini ed il culto reso a Belphagor punito dalla morte di un gran numero, e la vendetta di Dio arrestata dall’intervento di Phineèes (28-31); – d) la loro impazienza e le loro contraddizioni che provocarono la giustizia di Dio anche contro Mosè (32-33);

5° Dopo la loro entrata nella terra promessa: – a) la loro tolleranza colpevole verso i Cananei, la partecipazione al loro culto sacrilego ed ai loro abomini (34-39); – b) la giusta punizione dei loro crimini da parte dei nemici che li ridussero in schiavitù e devastarono le loro contrade (40-43); – c) la misericordia di Dio che si ricorda della sua alleanza e modera la durezza dei loro vincitori (43-46). 

III. Egli termina: 1° Chiedendo a Dio la liberazione del suo popolo, per celebrare le sue lodi e la sua gloria (47);

2° Cominciando questo cantico di lode ed esortando il popolo di Dio a riunirsi a lui. (48).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-6.

ff. 1-6. – Questo salmo ed il precedente sono strettamente legati tra loro, poiché il primo ci segnala il popolo di Dio nei suoi eletti, dalla cui parte non si è levato alcun pianto, e che sono del numero di coloro nei quali Dio si è compiuto (I Cor. X, 5), ed il secondo ci segnala gli uomini del popolo le cui rimostranze hanno provocato in Dio amarezza senza che però la sua misericordia li abbia abbandonati. Il salmista parla a nome di coloro tra i quali che, essendo convertiti, hanno implorato il loro perdono, e riporta degli esempi di peccatori verso i quali ha manifestato la divina misericordia, ricca pure verso coloro che l’offendono (S. Agost.). – Ci sono taluni che lodano il Signore che è potente; ci sono altri che lo lodano perché è buono al loro sguardo, ci sono altri che lo lodano assolutamente, perché è buono. – I primi sono degli schiavi che lo temono; i secondi sono mercenari che non pensano che ai loro interessi; i terzi sono dei figli che rendono onore al loro Padre. (S. Bern., Ep. XI). – Dopo aver invitato tutto il suo popolo ad esaltare il Signore, e rendere pubblici i prodigi della sua misericordia, il Profeta, ripiegandosi in qualche modo su se stesso, considera che nessuno sia capace di esaltare, come si conviene, la  potenza della misericordia divina. (Berthier). – « Chi è in grado di raccontare le sue opere? Chi sonderà le sue meraviglie? Chi potrà ritrarre la grandezza della sua potenza, o chi intraprenderà a raccontare la sua misericordia. Non si può né diminuire, né accrescere, né conoscere la grandezza di Dio. » (Eccl. XVIII, 2-5). Dio è invisibile, ineffabile, infinito; ogni discorso è ridotto al silenzio per esprimere le sue grandezze, ogni intelligenza condannata all’impotenza per sondare le sue divine perfezioni e concepirle. (S. Hil.). – Ma se qualcuno è degno di celebrare le meraviglie della potenza del Signore in modo che a Lui piaccia, sono coloro che osservano le regole della giustizia, e che fanno, in ogni tempo ed in tutte le occasioni, ciò che è giusto, perché è buono lodarlo con i nostri discorsi, ma è meglio lodarlo con le nostre opere e con la pratica della giustizia. –  Ora, non è sufficiente essere giusti ad intervalli: l’osservanza della giustizia è un dovere di ogni età, di tutti i tempi, di tutte le condizioni, di tutte le situazioni. « Amate il Signore vostro Dio, osservate i suoi precetti, le sue leggi, i suoi ordini in tutti i tempi. (Deut.). – In ragione del significato vicino delle due parole, giudizio e giustizia, sembra che si possa impiegarle indifferentemente; tuttavia se si vogliono prendere nel loro senso proprio, io non dubito che non ci sia tra esse una differenza, e non si debba dire di colui che giudica bene che egli osserva il giudizio, e di colui che agisce bene, che pratichi la giustizia. – « Visitateci con la salvezza che voi ci date. » Si tratta qui del Salvatore stesso, in Nome del quale i peccati sono rimessi e le loro anime guarite, affinché i giusti possano osservare il giudizio, e praticare la giustizia. (S. Agost.). – « Affinché vediamo la bontà di cui colmate i vostri eletti. » I beni della terra, i piaceri, gli onori, le ricchezze, sono per l’ordinario, l’eredità del malvagi e dei riprovati; i soli veri beni sono i beni degli eletti, quelli che Dio riserva ai loro amici. Sono questi che bisogna desiderare di vedere. « Affinché vediamo i beni promessi ai vostri eletti. » La beatitudine piena e perfetta consiste nella visione di Dio: « io sarò saziato, quando apparirà la vostra gloria. » (Ps. XVI, 15). Dio stesso sarà per noi l’unione di tutti i beni. Avaro, cosa desideri ricevere? Cosa può domandare a Dio colui al quale non è sufficiente Dio? (S. Agost., Serm. 7° sur div.). – Noi gioiremo nel cielo con Dio e tutti i santi, « per gioire della gioia che è propria al vostro popolo. » La ragione per la quale noi dobbiamo gioire in Dio scaturisce dalla sua infinita perfezione, alla quale partecipa, divenendogli simile, colui che lo vede faccia a faccia e lo gusta nella pienezza della sua anima. Molti vogliono rallegrarsi, ma pochi cercano la gioia propria del popolo di Dio. – Questa è la falsa gioia del mondo alla quale non bisogna prendere alcuna parte. – Basta solo bearsi della sola gioia propria del popolo di Dio. 

II. — 7-33.

ff. 7-12. – Cosa significano queste parole. « I nostri padri non hanno compreso le vostre meraviglie, » se non che essi non hanno compreso ciò che volete dare loro compendo queste meraviglie? Che cosa è se non la vita eterna e non un bene temporale, bensì un bene immutabile che bisogna attendere con pazienza? Ora, nella loro impazienza, essi hanno mormorato, si sono dati all’amarezza del loro cuore, hanno cercato la felicità nei beni della vita presente, beni fuggitivi ed ingannatori. « Essi non si sono ricordati dell’abbondanza della vostra misericordia. » Il profeta indirizza i suoi rimproveri alla loro intelligenza per rendersi conto dei beni eterni ai quali Dio li chiamava in mezzo a questi beni temporali e memori per non obliare almeno i miracoli che Dio aveva operato nel tempo, e credere con piena confidenza che Dio li liberasse dalla persecuzione dei loro nemici, con la potenza di cui avevano già avuto prova (S. Agost.). – Notiamo soprattutto che la Scrittura ha voluto accusare i Giudei di non aver compreso ciò che essi dovevano comprendere, e di non essersi ricordati di ciò che dovevano conservare nella loro memoria: due cose che gli uomini non vogliono che si imputino loro come colpe. E questo per essere meno supplichevoli, meno umili davanti a Dio, perché avrebbero dovuto confessare ciò che essi sono, anziché ciò che, per il suo soccorso, essi potevano diventare e che non lo sono. (S. Agost.). – « Egli ha minacciato il mar Rosso ed esso si è disseccato. » Il Profeta chiama con il nome di “minaccia” la potenza divina che ha fatto questo miracolo. C’è una forza molto segreta, nascosta, con la quale i Signore agisce in tal modo che anche gli esseri privi di sentimento obbediscano immediatamente alla sua volontà. (Idem). –  Ci si meraviglia dell’insensibilità, o piuttosto della stupidità degli antichi Israeliti, che non avevano intelligenza delle meraviglie operate sotto i loro occhi, e di cui non si ricordavano, che irritavano Dio nel tempo in cui li ricolmava di benefici. – Ma quale ragione ben più forte di meravigliarsi e nello stesso tempo condannare un gran numero di Cristiani ai quali Gesù-Cristo, i suoi misteri, i suoi insegnamenti, sono quasi sconosciuti, dopo tanti secoli di predicazione, di istruzioni e di miracoli! – Dio non salva i peccatori che per manifestare la gloria del suo Nome e per far meglio conoscere la grandezza della sua potenza, che sembra effettivamente più grande proprio per questa opposizione della miseria, della malizia e della corruzione di coloro che Egli salva. (Duguet).

ff. 13-15. – Ingratitudine e incostanza del cuore umano, è quella per cui talvolta serve e loda Dio per umore e capriccio, e che lascia ben presto di ricorre a Lui se Dio non gli accorda subito ciò che chiede. – Niente di più odioso di questa precipitazione, che sembra imporre delle leggi a Dio nel stesso momento che si implora il suo soccorso, e che cambia in una specie di servitù questa bontà tutta gratuita con la quale promette di soccorrerci. – Esempio terribile di ciò è il dolore di coloro che si disgustano delle cose spirituali e sospirano dopo i piaceri del secolo che uccidono e non saziano le anime. – Sovrano dolore ed ultimo effetto della collera di Dio, quando sembra esaudire queste domande sregolate che non servono che a soddisfare le passioni. (Duguet). Essi erano in un luogo arido, secco e senza acqua, perché non riconoscevano la rugiada divina che era stata preparata dallo Spirito-Santo nella colonna di nubi che li precedeva. (S. Gerol.). – L’intemperanza è la causa di tutti i vizi. 1° essa è la causa dell’incostanza della virtù: « Essi si stancarono ben presto. » 2° essa porta ad un oblio completo di Dio: « essi dimenticarono le opere di Dio. » Essa sostituisce al culto di Dio, il culto di un’altra divinità, di cui San Paolo ha detto nel suo linguaggio energico: « Il loro Dio è il loro ventre » (Filip. III, 19). Essa è impaziente e senza freno, e si lascia andare a lamentele contro Dio: « Essi non attesero il tempo dei suoi consigli. » 4° L’intemperanza è insaziabile: « Essi desiderarono ardentemente di mangiare carne nel deserto. »

ff. 16-18. – Fu un castigo terribile dell’indipendenza ambiziosa che questi maledetti ribelli affettarono nei riguardi di Dio, il rifiuto di sottomettersi a coloro che avevano messo al di sopra di essi. – Immagine viva, benché imperfetta del fuoco dell’inferno, che non si spegnerà mai e brucerà una infinità di maledetti riprovati senza mai consumarli (Dug.). – « La loro sorte infelice – dice l’Apostolo San Pietro – non dorme mai. » Quanto terribile è questa parola! La pazienza di Dio è formidabile. Noi non vediamo più uomini puniti come gli Israeliti mormoratori nel deserto; ma il nostro Dio ha segnato un giorno in cui i peccatori berranno il calice del suo furore; è questo giorno che bisogna meditare incessantemente! (Berthier).

ff. 19-33. – Piacque a Dio che questo crimine dell’adorazione del vitello d’oro ebbe fine con i loro autori, e che non fu rinnovato tutti i giorni dai Cristiani che si adorano da se stessi, che non si levano ogni giorno se non per giocare e divertirsi, e dei quali l’ozio, il buon cibo, il piacere, i divertimenti riempiono tutta la vita. – « Dio dichiara che li avrebbe fatti perire se Mosè, suo eletto, non si fosse levato davanti a Lui offrendosi ai suoi colpi. » Questa è una prova di quanto vale presso Dio l’intercessione dei Santi. Mosè, certo che la giustizia di Dio non potesse colpirlo, ha ottenuto misericordia per dei colpevoli che Dio poteva colpire secondo giustizia. (S. Agost.). –  Fin dove giunge l’accecamento del cuore dell’uomo, quando ha rinunciato volontariamente alla luce di Dio per abbandonarsi alle sue tenebre! (Dug.). – « Essi ritennero un nulla la terra che dovevano desiderare. » Ma l’avevano essi vista? Come dunque hanno potuto ritenere un nulla una terra che essi non avevano visto, se non come spiega il seguito? « Essi non credettero alle sua parole. » Sicuramente, se questa terra, dove si diceva colasse il latte ed il miele, non fosse stata la figura di una grande cosa, e se da questo segno visibile essa non avesse condotto alla grazia invisibile ed al regno dei cieli, coloro che comprendevano le meraviglie di Dio, gli Israeliti non sarebbero accusati di aver ritenuto un nulla questa terra … Ma ciò che rende soprattutto la oro incredulità colpevole, è che essi abbiano ritenuto un nulla questa terra così desiderabile, perché non hanno creduto alle parole di Dio, che dalle piccole cose li conduceva alle grandi; e perché, affrettandosi nel gioire dei beni temporali che gustavano secondo la carne, non hanno atteso pazientemente come detto più in alto, l’esecuzione dei disegni di Dio. (S. Agost.). – Che un uomo abbia l’insolenza di disdegnare ciò che Dio stima, di disprezzare ciò che Dio promette, è già uno stravolgimento strano di tutte le idee sane e veritiere, e non dobbiamo meravigliarci se il disprezzo che fecero gli Israeliti di una contrada che Dio aveva loro dipinto come deliziosa sia stato punito severamente; a maggior ragione Dio punirà il disprezzo che gli uomini avranno fatto, fino alla fine della loro vita, dell’eterno e glorioso soggiorno promesso ai suoi fedeli servitori. (Bellarm.). – Quanti, tra i Cristiani, professano infedeltà simili a quelle degli Israeliti? Quanti rifiuti di ascoltare la voce interiore e la parola esteriore di Dio? Quanti mormorii segreti nelle nostre tende, cioè nel nostro cuore, e forse anche all’esterno, sulle difficoltà pretese di conquistare questa terra che ci viene promessa, e sul rigore delle condizioni alle quali queste promesse sono legate? (Duguet). – Ventiquattromila uomini del popolo uccisi per ordine di Dio per l’espiazione del crimine di idolatria. Ma chi potrebbe dire il numero di coloro che Dio immola ogni giorno alla sua giustizia per questo stesso peccato? « L’inferno si è allargato, ha aperto le sue immense voragini, e tutto ciò che c’è di potente, di illustre e di glorioso in Israele vi scenderà in folla, confuso con il popolo. » (Isai. V, 14). – Peccato leggero di diffidenza di Mosè, e che appena si sarebbe percepito, se Dio non l’avesse severamente punito. –  Dio chiede molto a coloro ai quali ha dato molto. – (Idem) « Essi immolarono i loro figli e le loro figlie ai demoni. » In senso morale, essi immolarono i loro sensi e le facoltà della loro anima (S. Gerol.). 

III. — 34-48.

ff. 34-46. – Gran danno per un Cristiano è lasciar vivere le sue passioni, le sue cattive inclinazioni, e non sterminare ciò che Dio comanda di distruggere. – Pericolo ancora più grande è il mischiarsi con un certo mondo che è pieno di idoli. – Si impara ben presto ad agire come esso: si adorano i suoi idoli, le ricchezze, gli onori, i piaceri: si entra facilmente nelle sue massime: con tante occasioni di scandalo e di caduta. – Immolare i propri figli e le proprie figlie al demonio, è la idolatria più comune. – Tutte le creature gemono del fatto che i malvagi abusano di loro, e li inducono agli usi contrari al fine per il quale Dio li ha creati. « La terra si trova infetta e sporca delle opere criminali delle quali ogni giorno è teatro. » Nulla di più giusto che coloro che scuotono il giogo di Dio che li ama, cadano sotto il giogo degli uomini che li odiano. – Essi lo hanno amareggiato nuovamente con i loro disegni. » Il Profeta dice giustamente: « essi lo irritarono, lo amareggiarono con i loro disegni, » perché in effetti il male che noi facciamo viene dalla debolezza naturale del libero arbitrio e non da Dio. (S. Girol.). – Essi lo hanno amareggiato con i loro disegni. L’uomo compie i propri disegni a suo detrimento, quando cerca i propri interessi e non gli interessi di Dio … Chiunque, in questo esilio sulla terra, desidera fedelmente ed ardentemente la società dei Santi, si abitua a preferire il bene comune al proprio bene ed a cercare non i propri interessi, ma quelli di Gesù-Cristo; perché egli temerebbe, amandosi e cercando se stesso, di irritare Dio con questa condotta. Mettendo al contrario, la sua speranza nei beni invisibili, disdegna di cercare la felicità nei beni visibili; egli attende con pazienza l’eterna ed invisibile beatitudine, e non forma disegni che secondo le promesse di Colui del quale implora il soccorso nelle prove. (S. Agost.). – « Egli è pentito, secondo la grandezza della sua misericordia. » In verità tutto è ordinato, tutto è immutabile in Dio: Egli non farebbe mai, con immediata risoluzione, una cosa che non avrebbe già previsto fin dall’eternità … Egli ha dunque fatto ciò  che aveva previsto in precedenza, ma ciò che sapeva anche nell’accordare al pentimento ed alla preghiera, perché questa preghiera, quando ancora non esisteva, quando era ancora da pervenire, non sfuggiva in alcun modo alla presenza di Dio (S. Agost.). – « Egli ha fatto trovar loro misericordia davanti a coloro che li tenevano prigionieri. » Coraggio, chiunque voi siate che leggete questo salmo, che conoscete la grazia di Dio, con l’aiuto del quale siamo riscattati per la vita eterna dal Signore Nostro Gesù-Cristo, e che la conosce dalla lettura delle lettere apostoliche e dallo studio approfondito delle profezie; voi che vedete l’Antico Testamento svelato nel Nuovo, ed il Nuovo velato nell’Antico, ricordate ciò che dice l’Apostolo San Paolo del principe dell’aria, « che opera nei figli dell’incredulità. » (Efes. II, 2)… Ricordate ancora quelle stesse parole dello stesso Apostolo: « Rendiamo grazie al Padre che ci ha strappato alla potenza delle tenebre e trasferiti nel regno del Figlio del suo amore. » (Coloss. I, 13). Perché Dio ha fatto trovare misericordia ai suoi predestinati di fronte a coloro che li tenevano prigionieri. Questi nemici, il diavolo ed i suoi angeli, tenevano dunque prigionieri coloro che erano predestinati al regno ed alla gloria di Dio; ma il nostro Redentore ha scacciato questi vincitori che, altrimenti, dominavano interiormente degli infedeli e che, oggi attaccano esteriormente dei fedeli. Ma essi attaccano e non vincono coloro che si rifugiano in Dio, come in una torre inespugnabile eretta di fronte al nemico. (S. Agost.).

ff. 47, 48. – « Salvateci Signore, e radunateci, etc. » Dopo aver scacciato i demoni che ci tenevano prigionieri, il Cristo finisce con il guarirci; anche il Profeta termina questo salmo pregando Dio perché completi la guarigione di coloro che ha liberato. « … Salvateci, Signore, etc. » – In tutto il corso dei secoli, Dio raduna così i suoi eletti. L’Angelo della morte batte incessantemente il richiamo, ed essi si slanciano verso la patria celeste, per lodarvi per sempre il suo Nome santo, e per glorificarsi nella sua gloria. Ma queste parole del santo Profeta avranno soprattutto il loro intero compimento quando la tromba dell’ultimo giorno avrà risuonato, e tutte le nazioni saranno comparse davanti all’augusto tribunale. (Rendu).

FINE DEL LIBRO IV

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (10)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (10)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°)

P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov. Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA INABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO II

La nostra giustificazione per mezzo della grazia è una vera deificazione. – Come la grazia santificante, sia una partecipazione fisica e formale della natura divina.

I.

Un altro effetto della missione invisibile dello Spirito Santo e della sua presenza in noi è la nostra divinizzazione per mezzo della grazia. « Sarete come dei: Eritis sicut dii », l’antico serpente, l’infernale tentatore, aveva detto ai nostri primi genitori per portarli a raccogliere il frutto proibito. « Dal giorno in cui mangerete questo frutto, i vostri occhi si apriranno e sarete come dei, conoscenti il bene e il male » (Gen. III, 5). E, cedendo ad un orgoglio insensato, portarono il frutto fatale alle loro labbra, e i loro occhi si aprirono effettivamente, ma per contemplare con orrore l’abisso dove la loro disobbedienza li aveva appena precipitati. Al posto della scienza universale e della divinizzazione promessa, essi persero per se stessi e per tutti i loro posteri la giustizia originaria nella quale erano stati creati, nonché le magnifiche prerogative che ne erano la sequela. In seguito a questa terribile caduta, l’uomo nacque peccatore; ancor prima di aver potuto commettere una colpa personale, egli è, per il semplice fatto della sua discendenza da Adamo, un nemico di Dio e un figlio dell’ira, cosicché chi ci genera ci dà la morte, perché ci trasmette solo una natura disonorata, dimezzata, priva della grazia santificante, che è la vita della nostra anima. Aggiungete a questa le altre conseguenze del peccato originale, l’ignoranza, la concupiscenza, il dolore e la necessità di morire, e avrete un’idea della triste eredità che troviamo quando entriamo in questo mondo. Ma, oh meraviglia della bontà divina! Questa divinizzazione, la cui promessa era solo un’esca sulle labbra di satana, ci viene proposta ancora una volta, ma questa volta da Dio stesso, non solo come qualcosa che possiamo legittimamente pretendere, ma anche come una meta che noi dobbiamo raggiungere. Ed è per renderci possibile questa suprema esaltazione, è per meritare questo insigne beneficio, che il Figlio di Dio si è degnato di umiliarsi fino a noi e di rivestirsi della nostra umanità. « Si è fatto uomo – dice sant’Atanasio – per farci come dei. » (S. Ath., serm. IV, contra Arianos.). « Egli è disceso – aggiunge sant’Agostino – per farci salire; e, pur conservando la sua natura, ha voluto prendere la nostra, affinché, pur rimanendo noi stessi nella nostra natura, potessimo partecipare alla sua: con questa differenza, però, che la partecipazione alla nostra natura non lo ha fatto decadere, mentre la comunicazione nella sua natura ci eleva singolarmente. » (S. Aug., Epis t. CXL, ad Honoratum, cap. IV, n. 10). Che se, abbagliati da tanta grandezza, qualcuno non può accettare il pensiero che una semplice creatura possa essere chiamata da Dio a destini così alti, gli diremo con san Giovanni Crisostomo: « Esitate a credere che tali onori possano essere di vostra condivisione? Imparare dall’abbassamento del Verbo Incarnato per ammettere ciò che vi viene insegnato sulla vostra sublime dignità.  Perché, infine, per quanto la ragione umana possa essere arbitra di queste cose, è molto più difficile che un Dio divenga uomo, che un uomo sia costituito figlio di Dio. Quando sentite dire allora che il Figlio di Dio è diventato figlio di Davide e di Abramo, non dubitate più che voi, figlio di Adamo, non dobbiate essere figlio di Dio.  Perché non è invano e senza risultato che il Verbo sia sceso così in basso, ma questo avvenne perché Egli doveva innalzarci alla sua altezza. Egli è nato secondo la carne per farvi nascere secondo lo spirito; è nato dalla Donna perché voi non siate più semplicemente figlio della donna » (S. Joan. Chrys., Homil. II in Matth. n. 2.). – Per quanto sorprendente possa sembrare questa dottrina della nostra esaltazione soprannaturale, essa è nondimeno una verità di fede, insegnata dal Principe degli Apostoli in termini così chiari, sì formali e sì espliciti da non lasciare il minimo dubbio. « Per mezzo di Gesù Cristo – egli dice – Dio ci ha comunicato le grandi e preziose grazie che aveva promesso, rendendoci partecipi della natura divina: Ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ » (2 Petr. I. 4). Questa partecipazione della natura e della vita di Dio non è altro che la grazia santificante, cioé il dono che ci giustifica, ci divinizza allo stesso tempo, e questa giustificazione è una vera divinizzazione. – Questo è ciò che il grande Vescovo di Ippona esplicita chiaramente. commentando queste parole del salmista: « Io ho detto: Voi siete dei e figli dell’Altissimo »; egli si esprime così: « Chi è che ci giustifica è lo stesso che ci divinizza: Qui autem justificat, ipse deificat, perché giustificandoci, ci rende figli di Dio… Ora, se siamo figli di Dio, siamo per la stessa ragione degli dei, non senza dubbio per via di una generazione naturale, ma per grazia di adozione. Perché unico in effetti è il Figlio di Dio, un solo Dio con il Padre, nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo….. Gli altri che diventano dèi lo diventano per la sua grazia; essi non nascono dalla sua sostanza per essere ciò che Egli è, ma giungono fino a Lui per un beneficio della sua liberalità » (S. Aug., in Ps. XLIX, n. 2). Nessuno sarà sorpreso di sentire i santi Dottori dichiarare che la giustificazione è il capolavoro del potenza divina. San Tommaso, sempre così esatto nelle sue valutazioni, non ha paura di affermare che essa è superiore alla stessa creazione, se non per quanto riguarda il modo d’azione, ma almeno per quanto riguarda l’effetto prodotto; perché l’atto creativo, sebbene di natura esclusivamente divina, porta alla fine solo alla produzione di una sostanza soggetta a cambiamenti, mentre la giustificazione ha come termine la partecipazione alla natura divina, e fa di un peccatore un essere divino, un figlio di Dio, un erede della beatitudine eterna (S. Th., Ia IIæ, q. CXIII, a. 9). Parlando così, l’angelico Dottore si limitava a riprodurre il pensiero di sant’Agostino, che aveva detto già, otto secoli prima: « Giustificare un peccatore è una cosa più grande che creare il cielo e terra; perché il cielo e la terra passeranno, ma la giustificazione e la salvezza dei predestinati non passerà. »  (S. Aug., in Joan. tract, LXXII, n. 3.).

II.

Cerchiamo di penetrare ulteriormente nella conoscenza di questi magnifici segreti e di scrutare, per quanto possibile qui sulla terra, il mistero della nostra divinizzazione mediante la grazia. E innanzitutto, come si opera questa divinizzazione? Con quale meraviglioso processo è inoculata la vita di Dio alla creatura ragionevole? Essa si compie regolarmente attraverso il Battesimo e costituisce una vera generazione che ha per termine una vera nascita. – È questa nuova generazione che viene così spesso menzionata nelle Lettere sante, questa seconda nascita così celebrata dai Padri e così spesso ricordata nella Santa Liturgia: generazione incomparabilmente superiore alla prima, poiché, invece di una vita naturale e tutta umana, ci trasmette una vita soprannaturale e divina; è una nascita mirabile che fa di ciascuno di noi « questo uomo nuovo di cui parla l’Apostolo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità » (Giov. I, 13) generazione tutta spirituale e pertanto vera, il cui principio non è né la carne, né il sangue, né la volontà dell’uomo, ma la libera volontà di Dio: la voluntarie genat nos verbo veritatis (Giac. I, 18); nascita misteriosa che non proviene da un seme soggetto a corruzione, ma da un seme incorruttibile mediante la parola di Dio: Renati non ex semine corruptibili, sed incorruptibili per verbum Dei (1 Petr. I, 23); generazione e nascita altrettanto indispensabili per vivere della vita di grazia, come la generazione e la nascita carnale per vivere della vita della natura – Perché è la Verità stessa che ha detto: « Chi non rinasce dall’acqua e dallo Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio. Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è Spirito » (Givan,. III, 5-6). E dice il Concilio di Trento: « È soltanto a condizione di rinascere in Gesù Cristo che si può essere giustificati, poiché questa seconda nascita è il frutto della grazia che giustifica. » (Trid. Sess. VI, c. 3).  Ma qual è la natura di questo elemento divino e rigenerativo che il Battesimo deposita nelle nostre anime e che ci rende esseri deiformi? In cosa consiste questo principio radicale di vita soprannaturale che un Sacramento ci comunica e che altri segni sacri sono destinati a nutrire, sviluppare e a resuscitare se abbiamo la sventura di perderlo? E poiché questo dono prezioso, causa formale della nostra giustificazione e della nostra divinizzazione, non è altro che la grazia santificante, cos’è la grazia che ci santifica? – Nostro Signore e Redentore Gesù Cristo si degnò spiegarlo un giorno in favore di un peccatore che voleva convertire. Abbiamo già nominato la donna samaritana. Solo che, invece di una definizione colta, che sarebbe rimasta inevitabilmente fraintesa, il buon Maestro approfittò della circostanza che questa donna, venuta a rifornirsi dell’acqua materiale al pozzo di Giacobbe, per poterle parlare della grazia sotto l’emblema di un’acqua misteriosa, dalle proprietà ammirevoli. Egli cominciò chiedendole da bere, perché, secondo il testo sacro, era stanco di camminare ed era l’ora in cui il caldo della giornata era più opprimente; poi, vedendo questa donna sorpresa da una tale richiesta, per il fatto che gli Ebrei non avevano alcun rapporto con i Samaritani, aggiunse: «Se voi conosceste il dono di Dio! Si scires donum Dei! Se voi conosceste il dono di Dio e sapeste chi è Colui che vi chiede di bere, forse voi stessi preghereste ed Egli vi darebbe l’acqua viva » (Giov. IV, 10). Donum Dei, il dono di Dio … questo è davvero il vero concetto della grazia.  Essa è un regalo, quindi qualcosa di gratuito, qualcosa che ci viene concesso senza alcun diritto o merito da parte nostra. È vero che tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che noi siamo, il nostro corpo, la nostra anima, le nostre facoltà, i nostri atti, i nostri beni esterni … tutto, in una parola, ci viene da Dio e può essere chiamato dono della sua liberalità, secondo la parola dell’Apostolo: « Che cosa avete che non abbiate ricevuto? Quid habes quod non accepisti? » (1 Cor. IV, 7). Ma se ogni cosa, ogni perfezione è, nel vero senso, un dono di Dio, non è però “il” dono di Dio. Il dono di Dio per eccellenza, quello davanti al quale tutti gli altri spariscono, è la grazia. La grazia, infatti, è il dono più prezioso, il più magnifico, il più necessario, il più gratuito di tutti i doni. – Ma perché la grazia è paragonata all’acqua? Perché produce spiritualmente tutti gli effetti dell’elemento liquido nell’ordine materiale. L’acqua purifica, rinfresca, disseta e feconda. Purifica ciò che è sporco, e ne restituisce la chiarezza, la lucentezza e la bellezza primaria: simbolo dell’intima purificazione operata dalla grazia, che non solo rimuove le macchie prodotte dal peccato e restituisce all’anima il suo naturale splendore, ma aggiunge alla sua bellezza originaria un fascino incomparabile, che delizia il cuore di Dio e gli strappa queste parole: « Tu sei tutta bella, o mia cara, non c’è macchia in te…. ». L’acqua tempera il calore, raffredda l’atmosfera che un sole ardente aveva trasformato in una fornace, allevia le nostre stanche membra: simbolo della grazia, questa rugiada celeste smorza l’ardore delle passioni e diminuisce gradualmente, senza riuscire a spegnerla però completamente qui sulla terra, la febbre della concupiscenza. L’acqua che disseta e spegne la sete, è immagine della grazia che spegne la sete inestinguibile del cuore umano. Creato per la felicità, l’uomo la cerca costantemente con insaziabile avidità, e non c’è nulla che non faccia per raggiungerla. Ma troppo spesso, purtroppo, cerca la felicità nei beni terreni e passeggeri, nei piaceri sensibili che stimolano solo la sua sete, invece di placarla. Questo è ciò che Nostro Signore voleva far intendere alla samaritana quando, mostrandole l’acqua materiale, figura dei beni effimeri di questo mondo, le diceva: « Chiunque beve quest’acqua avrà ancora sete; ma chi beve l’acqua che Io gli darò non avrà mai più sete » (Giov. IV, 13). Ma cosa significa questa espressione di acqua viva, aquam vivam (Giov. IV, 10), quando il Salvatore la usa per designare la grazia? Ordinariamente – dice sant’Agostino – si dà il nome di acqua viva, in opposizione all’acqua stagnante delle cisterne o delle paludi, all’acqua che sgorga dal terreno, che scorre, che si muove, pur rimanendo in comunicazione con la sua sorgente, e che offre così l’aspetto della vita. Se quest’acqua, pur provenendo da una fontana, viene raccolta in un serbatoio, se il suo flusso viene interrotto, viene separata dalla sorgente, non può più essere chiamata acqua viva. (S. Aug., In Joan., tract, XV, n. 12). Ora, qual è la fonte della grazia, se non lo Spirito Santo? Se si chiama acqua viva, allora è, secondo la riflessione di san Tommaso, perché non si separa dal suo principio, cioè dallo Spirito Santo, che abita nel cuore dei veri fedeli. (S. Th., In Joan., VII, lect. 5.) – Un’ultima proprietà dell’acqua, che non possiamo ignorare, è la sua meravigliosa fecondità. Dove l’acqua abbonda, la terra è ricoperta da un ricco manto di vegetazione, si sviluppano germi, i fiori sbocciano come per magia, i frutti si moltiplicano, i raccolti si susseguono numerosi e variegati; dove è assente, tutto si prosciuga, tutto dissecca, tutto muore: è il deserto con le sue sabbie aride, con la sua triste monotonia. Elemento indispensabile di tutta la vita fisica, l’acqua è una mirabile figura della grazia, con la quale la nostra anima produce una ricca messe di virtù e di meriti, ma senza la quale la virtù lasciata alle sue sole risorse è radicalmente incapace di produrre qualsiasi frutto di salvezza, e rimane per sempre sterile per il cielo. Non è che la natura stessa decaduta non possa, con le proprie forze, produrre alcun bene nell’ordine naturale; ma queste azioni umane, queste virtù di ordine inferiore, simili alle acque della valle, non hanno in sé il potere di elevarsi al cielo. Solo le opere e le virtù cristiane, che procedono dalla grazia e ricevono il loro impulso dallo Spirito Santo, possono portare l’anima fino alle alture della Gerusalemme celeste; discese dalle montagne eterne, esse risalgono come da sole al loro punto di partenza. Per questo Nostro Signore diceva, parlando della grazia: « L’acqua che Io darò diventerà in colui che la riceve una fonte di acqua viva che sgorga nell’eternità » (Giov. IV, 14).  « Quanto amo questo luogo del Vangelo” – diceva santa Teresa – fin dalla più tenera infanzia, senza comprendere il prezzo di ciò che chiedevo, chiedevo spesso al divino Maestro di darmi quest’acqua meravigliosa; e ovunque mi trovavo, avevo sempre un quadro che mi rappresentava questo mistero, con queste parole scritte sotto: Domine, da mihi hanc aquam: Signore, datemi di quest’acqua »  (Vita di santa Teresa scritta da se stessa, cap. XXX). – Purificare, rinfrescare, dissetare: sono le proprietà della grazia medicinale: gratiæ naturam sanantis (S. Th. Ia IIæ, q. CIX, a. 3. — Cf. etiam, aa. 2 et 9), come le chiama san Tommaso; elevare le nostre facoltà ed azioni al di sopra delle esigenze e delle forze della natura, rendere le nostre opere meritorie della vita eterna, diventare in noi il principio di una vita superiore e divina, è il frutto di una grazia propriamente soprannaturale, gratiæ elevantis. – Nello stato originale di giustizia, la grazia non doveva produrre il primo tipo di effetti, perché la purificazione implica la sozzura, il bisogno di ristoro è indice di un eccesso di calore, e la sete, quando brucia, è una sofferenza che può diventare molto acuta. Tuttavia, nello stato d’innocenza, non c’era né sozzura, né profanazione, né disordine, né pena. La grazia non doveva quindi guarire una natura che non era malata, ristabilire un equilibrio che non si era rotto, riparare delle rovine che non c’erano ancora; il suo ruolo in questo ordine di cose si limitava a prevenire. Ma, dopo la caduta, la grazia è prima di tutto un rimedio per guarire le nostre ferite, un bagno salutare dove dobbiamo immergerci per purificarci, un potente tonico la cui virtù deve restituire all’anima le forze morali che il peccato le aveva sottratto. In entrambi gli stati, nello stato attuale di decadenza come nello stato di innocenza, la grazia santificante è la vera forma di santità, la causa della nostra divinizzazione, il principio della vita soprannaturale e divina, in breve, è quella fonte di acqua viva che sfocia nell’eternità fons aquæ salientis in vitam æternam (Giov. IV, 14).

III.

Spiegare la natura della grazia con i suoi effetti è il processo, se non il più profondo, almeno il più popolare, diciamo, l’unico veramente popolare, perché è alla portata di tutte le intelligenze; per questo Nostro Signore l’ha usato nelle circostanze che abbiamo appena citato. Tuttavia, nessuno non troverà cattivo che i Cristiani d’élite, gli uomini colti, i teologi, cerchino di penetrare ulteriormente nell’intimità delle cose. – A coloro che, mossi non da una vana curiosità ma dal lodevole desiderio di conoscere meglio i benefici di Dio, ci chiederanno che cosa sia la grazia santificante in sé, risponderemo, con la Scuola, che essa è un dono soprannaturale e permanente, insito nella nostra anima, una partecipazione della natura e della vita divina, che fa dell’uomo un giusto ed un figlio di Dio. Essa è un dono soprannaturale, cioè, talmente al di fuori e al di sopra delle esigenze e delle aspirazioni della natura, che non potrebbe appartenere a nessun essere creato, né come costituente o porzione integrante della sua natura, né come sviluppo normale delle sue facoltà, né gli vien dato ad alcun titolo. La grazia è quindi qualcosa di essenzialmente gratuito, un extra divino per cui la natura non solo si rafforza e si perfeziona nella propria sfera, ma anche si allarga e si eleva ad una sfera superiore. Inoltre, è un dono permanente. A differenza della grazia attuale, che è un soccorso passeggero, un’illuminazione dell’intelligenza, un impulso dato alla volontà, insomma, una mozione transitoria per farci produrre un atto superiore alle forze della natura, la grazia propriamente detta o santificante è un dono stabile e permanente, che, ricevuto nell’essenza stessa dell’anima, diventa in essa come una seconda natura di un ordine trascendente, un principio di vita soprannaturale, la radice fissa di atti meritori. Non era appropriato, infatti, come osserva l’angelico Dottore, che noi fossimo meno provvisti nell’ordine della Grazia che nell’ordine della Natura, che ci fosse qui un principio stabile di operazione, delle forme, delle potenze sempre presenti e pronte all’azione, mentre là tutto si sarebbe limitato ad un aiuto concreto che innalzasse le nostre facoltà e le applicasse ad una determinata azione per sparire poi con essa. (S. Th., Ia IIæ, q. CX, a. 2). – Ma, sebbene la grazia svolga nell’ordine soprannaturale il ruolo dell’anima in quello della natura, pur essendo principio di vita, seme divino, secondo l’espressione di san Giovanni (Giov. III, 9), la quale dimora in noi per preservarci dal peccato e farci portare dei frutti di santificazione e di salvezza, sarebbe sbagliato considerarlo come un essere sussistente  in se stesso, una specie di sostanza o almeno un elemento sostanziale che Dio aggiungerebbe alla nostra anima, perché, secondo l’osservazione di san Tommaso, la sostanza di un essere si fonde con la sua natura (S. Th., Ia IIæ , q. CX, a. 2, ad 2). Ora, la grazia è qualcosa di essenzialmente superiore non solo alla natura umana, ma a qualsiasi natura creata e creabile. Essa non può quindi essere una sostanza o una forma sostanziale (Ibid.). Tuttavia, resta un accidente soprannaturale, una forma non sussistente (Ibid.), una qualità di ordine divino insita nella nostra anima, secondo la nozione che ci è stata data dal Catechismo del Concilio di Trento, una specie di luce, di splendore, come riflesso della bellezza di Dio che cade sulle anime e le rende tutte belle e tutte splendenti (Catech. Rom., part. II, c. II, n. 50). Da qui queste parole di san Tommaso: « Ciò che è in Dio esiste sostanzialmente sotto forma di accidente nell’anima che partecipa alla bontà divina: Id quod substantialiter è in Deo, accidentaliter fit in anima participant divinam bonitatem » (S. Th., Ia IIæ, q. ex, a. 2, ad 2). Si trattava di esprimere in altre parole ciò che il capo del Collegio Apostolico aveva già detto quando chiamava la grazia una partecipazione della natura divina (« Maxima et pretiosa nobis promissa donavit, ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ. » – II Petr., I, 4). – Ma in cosa consiste questa partecipazione? Sarebbe, come vogliono alcuni teologi, una semplice partecipazione morale consistente in una rettitudine di volontà, in virtù della quale l’uomo si allontana dal male, compie fedelmente i comandamenti divini e conduce una condotta retta, giusta e santa, proprio come Dio è santo in tutte le sue vie? Se così fosse, la nostra divinizzazione sarebbe puramente nominale, e saremmo solo figli di Dio in modo metaforico, come chiamiamo i figli di Abramo, quelli che imitano la fede di questo Patriarca senza però discendere da lui, e i figli di satana, imitatori della sua malizia. Anche altri teologi – e sono al tempo stesso i più numerosi e i più raccomandabili per sapienza e virtù – considerando da un lato che, lungi dal sopravvalutare i suoi doni e dall’usare, quando ne parlano, un linguaggio iperbolico, come uomini che esaltano in termini magnifici doni spesso di scarsa entità, Dio rimane sempre al di sotto della realtà; e ricordando, d’altra parte, le testimonianze così formali con cui lo Spirito Santo dichiara, qui, per bocca di San Pietro, che la grazia è un dono molto grande e prezioso, maxima et pretiosa nobis promissa, che ci rende partecipi della natura divina, ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ; là, per l’organo di San Giovanni, che siamo figli di Dio, non solo di nome ma in realtà: filii Dei nominamur e sumus (1 Giov. III, 1), essendo nato da lui: ex Deo nati sunt (Giov. I, 13), credono in una comunicazione reale, fisica, formale, della natura divina; non probabilmente in una comunicazione simile a quella per mezzo della quale Dio Padre trasmette al suo Figlio unigenito la propria sostanza, ma in una comunicazione analogica della natura divina per una certa partecipazione di somiglianza, che consiste in un dono creato, distinto da questa natura, di cui egli è comunque immagine viva (S. Th., III, q. 11, a. 10, ad 1. — Cf. etiam Ia IIæ, q. CXII, a. 1). Questa è pure la dottrina dei Padri. « È falso – dice san Cirillo d’Alessandria – che non possiamo essere una cosa sola con Dio se non attraverso un accordo di volontà. Perché al di sopra di questa unione ce n’è un’altra più sublime e molto più alta, che avviene attraverso una comunicazione della divinità all’uomo, il quale, pur conservando la propria natura, si trasforma per così dire in Dio; così come il ferro immerso nel fuoco diventa igniforme, e, pur rimanendo ferro, sembra essersi trasformato in fuoco. Ecco la via dell’unione con Dio attraverso l’accoglienza in Esso e la partecipazione della divinità che Nostro Signore chiede per i suoi discepoli ». – « In questo modo Dio trasforma le anime umane in Se stesso, in un certo senso, stampando, incidendo in esse un’immagine e una somiglianza della sua sostanza. » (S. Cyr. Alex., in Joan., 1. XI). – Questa comparazione tra il ferro incandescente rivestito delle proprietà del fuoco, quella simile del cristallo illuminato da un raggio di sole e trasformatosi improvvisamente in un fuoco luminoso la cui brillantezza è difficilmente sopportabile, si ritrova spesso sulle labbra dei Padri, quando espongono ai fedeli il mistero della nostra divinizzazione soprannaturale. Ciò che essi propongono con queste analogie è di farci capire che la grazia ci fa veramente deiformi, che abbellisce e trasforma le anime in modo non meno meraviglioso e non meno profondo della luce e del fuoco per i corpi su cui lavorano; ma non pretendono che il modo di operare sia identico da entrambe le parti. Perché c’è un vero splendore dal fuoco al ferro; il primo comunica al secondo parte del suo calore e della sua luminosità, mentre Dio non comunica nulla di se stesso, della sua sostanza o delle sue perfezioni alle creature, né nell’ordine soprannaturale né in quello della natura.

IV.

Ma allora, in cosa consiste questa partecipazione alla natura divina, questo consorzio di nature divine, che è la grazia? Per cogliere a fondo questa risposta, il lettore faccia riferimento nel pensiero a quanto detto in un precedente capitolo (Cap. II), per mostrare come ogni essere creato sia una partecipazione dell’essere increato, ogni perfezione creata è una partecipazione alla perfezione infinita, non un’emanazione, non un flusso di una realtà esistente in Dio e che passerebbe parzialmente all’esterno, bensì una riproduzione per modo di similitudine o di immagine di ciò che è in Dio. Poiché, allora, la grazia è un’entità reale e fisica, e non solo una denominazione esterna o una semplice denominazione esteriore o un favore estrinseco di Dio, come sostenevano i protestanti, la cui affermazione fu colpita con un anatema dal Concilio di Trento, ne consegue che essa è, come ogni altra perfezione verificabile, una partecipazione reale; per maggiore chiarezza,  diciamo, un’imitazione fisica ma finita di una perfezione che è in Dio nello stato infinito. – Essa ne è persino una partecipazione formale. Per comprendere appieno il significato di questa espressione, dobbiamo ricordare il modo in cui le perfezioni create esistono in Dio. Poiché non può esserci nulla di buono in un effetto che non si trovi nella sua causa, e poiché Dio è la causa universale ed efficace di tutto ciò che esiste, è ovvio che le perfezioni delle creature devono preesistere tutte in Lui. Ma non tutte vi si trovano allo stesso modo.  Vi sono, infatti, alcune perfezioni il cui concetto non implica alcun difetto: come la scienza, che è una conoscenza delle cose nelle loro cause; la giustizia, che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto, ecc. ecc. ecc.; ve ne sono altre, al contrario, come la vita organica, la facilità di ragionare, etc. che si mescolano essenzialmente con l’imperfezione; poiché, se è una cosa eccellente possedere in se stessi il principio dei propri movimenti, è invece un grave difetto dipendere necessariamente dalla materia nell’esercizio della propria attività; così come, se è un privilegio molto apprezzabile dell’essere ragionevole di poter raggiungere la verità, è un segno di imperfezione arrivarvi solo attraverso lunghi circuiti, con l’aiuto di deduzioni  penose e multiple. Anche l’Angelo, più perfetto di noi, non ragiona; egli vede, legge nel principio tutte le conclusioni in esso contenute. Questo avviene a maggior ragione per Dio. Le perfezioni di questa seconda categoria, chiamata dai filosofi miste, non possono esistere formalmente in Dio, cioè, secondo la loro ragione specifica, ma solo in modo più evidente. Così la ragione non esiste in Dio come facoltà discorsiva, ma si trova solo nel più perfetto stato di pura intelligenza. Per quanto riguarda le perfezioni propriamente e strettamente dette, nulla impedisce loro di essere formalmente in Dio. Ora, la grazia è di questo numero, perché essa non implica alcuna imperfezione: nullam in sui ratione imperfectionem importat (S. Th., Ia IIæ, q. CXI, a. 3, ad 2). Così la grazia è partecipazione ad una perfezione che si trova formalmente in Dio; non in nessuna di quelle perfezioni che possono essere comunicate naturalmente alle creature, come l’essere, la vita, l’intelligenza, ma in una perfezione soprannaturale e specifica di Dio, come elevata al di sopra di ogni creatura esistente o possibile; nemmeno di una perfezione soprannaturale, come ad esempio della conoscenza di Dio di se stesso e del suo amore per se stesso – questo è il segno distintivo della fede e della carità – ma di una partecipazione, che è imitazione di quella perfezione primordiale e fondamentale che, secondo il nostro modo di concepire, è la radice, la fonte, il principio delle operazioni e degli attributi divini; insomma, è una partecipazione formale della natura divina stessa (S. Th., Ia IIæ, q. CX, a. 4). E deve essere proprio così; perché – dice san Tommaso, affidandosi all’autorità di San Dionigi – se, per poter produrre operazioni spirituali, è necessario avere una natura spirituale; e, per parlare universalmente, se non si possono esercitare le operazioni di una natura senza partecipare a questa natura, come si può agire divinamente se non a condizione di possedere, almeno per partecipazione, la natura divina? (S. Th., De Verit. , q. XXTII, a. 2.)  Ora, la grazia ha proprio l’effetto di elevare la nostra anima ad un essere divino che la renda adatta alle operazioni proprie di Dio (S. Th., Sent, 1. II, dist. XXVI, q. 1, a. 5): operazioni che consistono nel conoscersi, nel vedersi così come si è in se stesso, nell’amarsi di un amore beatifico. – Se, allora, Dio vuole, nella sua infinita bontà, permetterci di compiere tali operazioni in modo connaturale, se vuole che un giorno possiamo vederlo, amarlo, come vede e ama se stesso, possederlo, goderlo, e trovare in questo possesso e godimento la nostra felicità suprema, deve comunicarci una partecipazione della sua stessa natura. Da qui queste parole di San Cirillo: “Poiché abbiamo la stessa operazione con Dio, è necessario che partecipiamo alla sua natura – Eamdem operationem connaturaliter habentes, necesse est ejusdem esse naturæ. » (S. Cyril. Alex., Thesaur., 1. 2, c. 2). – Questo è ciò che è la grazia che ci santifica: una partecipazione reale, fisica, formale alla natura di Dio; è la sua vita intima liberamente comunicata alle creature ragionevoli; è l’inizio, l’alba della vita eterna: quoedam inchoath gloriæ in nobis (S. Th., Ia IIa, q. XXIV, a. 3, ad 2). –  Parlando in questo modo, san Tommaso era solo un’eco del grande Apostolo, che avevo detto da lungo tempo: “La grazia di Dio è la vita eterna, quaggiù nel suo germe, lassù nel suo pieno sviluppo: Gratia Dei vita æterna. » (Rom. VI, 23). Questo germe può sembrare piccolo, questo profilo imperfetto, questa alba non molto luminosa; tuttavia, è verità che la grazia del cammino contiene quasi tutta la felicità del cielo, che ci comunica la sostanza dei beni che speriamo, che con essa, in una parola, e attraverso di essa, il cielo è già nei nostri cuori. La gloria, infatti, non sarà uno stato sostanzialmente diverso da quello della grazia; sarà solo l’apogeo, la realizzazione, il pieno sviluppo. « Sarà la quercia spuntata della ghianda, il raccolto invece del seme, il mezzogiorno pieno invece dell’alba (Mgr. Gay, Sermons d’Avent); ma da questa vita è iniziata già l’opera della nostra divinizzazione, e noi possediamo con lo Spirito Santo, il deposito della nostra beatitudine.  Ah, se conoscessimo il dono di Dio, se comprendessimo il prezzo della grazia! Con quali ardenti suppliche reindirizzeremmo anche la parola della donna samaritana: « Signore, dammi quest’acqua! Domine, da mihi hanc aquam! (Giov. IV. 15). E perché portiamo questo tesoro in vasi fragili (« Habemus thesaurum istum in vasîs fictilibus. » (II Cor., IV, 7.) e basta un solo passo falso per compromettere tutto, con quale sollecitudine eviteremmo tutto ciò che potrebbe esporci a perderlo! Con quale fretta cercheremmo subito di recuperarlo dopo averlo perso! – Come ci sforzeremmo di accrescerlo con i nostri meriti! Come ci sembra semplice, ovvia, luminosa, la parola dell’angelico Dottore che afferma che il più piccolo atomo di grazia vale più dell’intero universo « Bonum gratiæ unius majus est quam bonum naturæ totius universi. » (S. Th., Ia IIæ, q. CXIII, a. 9, ad 2).

V.

E tuttavia non abbiamo ancora detto tutto completamente, – E chi potrebbe farlo? – abbiamo a malapena toccato quelle che l’Apostolo chiama le imperscrutabili ricchezze di Cristo: investigabiles divitias Christi (Ephes. III, 8). Questa grazia, che sembra un fine così prezioso, è solo un mezzo; questo obiettivo è solo un punto di partenza. Versando nell’anima del Cristiano questo meraviglioso dono che lo purifica, lo giustifica e lo trasforma in una nuova creatura, in un essere deiforme che è oggetto delle divine compiacenze, Dio lo prepara solo per un dono ancora più sublime, ad una più completa divinizzazione. – Per quanto così grande, anzi, così supremo in sé stesso sia il bene della grazia, non è l’ultimo termine dell’amore divino quaggù, né la più alta effusione del cuore di Dio; questa è solo una preparazione al Bene supremo, un modo per avviarsi verso il dono per eccellenza, una disponibilità  preliminare alla comunicazione dello Spirito Santo che entra di Persona nell’anima giusta in compagnia del Padre e del Figlio, ed unendosi ad essa in modo ineffabile come oggetto della sua conoscenza e del suo amore. Per prendere possesso di Dio, qui sulla terra in modo reale benché oscuro, in attesa dell’ora in cui potremo contemplarlo faccia a faccia, ecco l’ultimo fondo della grazia e ciò che in definitiva ne fa tutto il prezzo. L’opera della nostra divinizzazione comprende quindi un doppio elemento: l’uno creato, che serve in qualche modo come legante, un legame tra Dio e l’anima, e che pone quest’ultima in possesso delle Persone divine: è il ruolo della grazia (S. Th., I, q. XLIII, a. 3, ad 2.); l’altro creato, che costituisce il coronamento della nostra perfezione, il termine delle nostre aspirazioni, il bene il cui godimento iniziale è già un anticipo del cielo: ed è Dio stesso che si dona a noi, unendosi a noi, venendo ad abitare nei nostri cuori, secondo la parola del divino Maestro: « Se qualcuno mi ama … mio Padre lo amerà, e noi verremo a lui, e stabiliremo in lui il nostro soggiorno. » (Giov. XIV, 23). Così i teologi distinguono due tipi di partecipazione alla natura divina – duplex natures divinæ consortium: – l’uno, formale e analogico, con cui Dio ci fa comunicare alla sua natura attraverso una certa partecipazione di somiglianza con lui, per quamdam similitudinis participationem (S. Th., Ia IIæ, q. cCXII, a. 1.); l’altro, termine e scopo del primo, che consiste in un’intima unione delle nostre anime con Dio. San Dionigi riassume questo insegnamento in una formula tanto breve quanto espressiva: « La nostra deificazione, dice, consiste in un’assimilazione ed una unione con Dio la più perfetta possibile: Est autem hæc deificatio, ad Deum, quanta fieri potest, assimilatio et unio ». (S. Dionys., Hirarch. ecceles., c. 1, n. 3). Questa unione, comparata nella Sacra Scrittura a quella del marito e della moglie, è indicata dai mistici col nome di matrimonio spirituale. Questo dimostra quanto sia stretta, dolce e feconda. Un’unione stretta, intima, profonda, inspiegabilmente superiore a quella che esiste tra l’uomo e la donna, perché la natura è solo l’ombra della grazia. Da un lato, in effetti, c’è solo il riavvicinamento dei corpi; dall’altro, c’è la compenetrazione dell’anima da parte di Dio. E se è vero dire che gli sposi umani sono due in una stessa carne, erunt duo in carne una (Gen. II, 24), l’Apostolo dichiara che aderendo a Dio attraverso l’amore, l’anima giusta diventa con Lui uno spirito unico: Qui adhæret Domino, unus spiritus efficitur (1 Cor. VI, 17). -Un connubio pieno di dolcezza e soavità. Rispetto a questa santa unione, l’unione matrimoniale non è che freddezza ed amarezza. Qui la contentezza è breve, il piacere basso e grossolano; là tutto è grande, elevato, duraturo: c’è la gloria, c’è la purezza, c’è la tenerezza, ci sono delizie ineffabili che il linguaggio umano non è in grado di esprimere, ed il cuore dell’uomo è troppo stretto per contenerle. –  Infine, un’unione feconda, da cui nascono pensieri santi, affetti generosi, sforzi audaci e tutte queste perfette opere, chiamate beatitudini e frutti dello Spirito Santo. Cominciata in terra, questa unione benedetta sarà consumata solo in cielo. Già, senza dubbio, secondo la parola dell’Apostolo, l’anima santa è fidanzata al Cristo (II Cor. XI, 2); già essa è la sposa dello Spirito Santo, che le ha dato la sua fede come anello simbolo della loro alleanza (« Ànnulo suo subarrhavit me. » (Ex offic. S. Agnetis.), l’ha rivestita di grazia e carità come una veste di broccato dorato (Ibid.), l’ha adornata di doni e di virtù infuse come delle pietre preziose (Ibid.), e gli si è dato Egli stesso, seppur in modo oscuro, come pegno di eterna felicità. Ora rimane che il divino Marito completi la sua opera e concede alla sua sposa questa dote ineffabilmente ricca che si chiama visione, comprensione, fruizione: la visione che deve succedere alla fede, la comprensione che le farà capire questo bene sovrano che ella ha perseguito qui sulla terra con desideri così ardenti, la fruizione che finalmente consumerà la sua beatitudine (S. Th., I, q. XIIa. 7, ad 1. — Supplem., q. XCV, a. 5). Allora finirà quest’opera di trasformazione soprannaturale che costituisce la trama della vita del Cristiano in questo mondo, essendo ormai perfetta l’assimilazione divina. Divinizzata nella sua essenza dalla grazia, nella sua intelligenza dalla luce della gloria, nella sua volontà dalla carità consumata, l’anima contemplerà senza veli, e possiederà nella pienezza della gioia, Colui che è la Verità sussistente ed il bene sovrano. È nel momento in cui Dio ci apparirà così in tutto lo splendore della sua gloria che noi saremo pienamente simili a Lui, perché lo vedremo così com’è: Scirnus quoniam, cum apparuit, similes ei erimus: quoniam videbimus eum sicut est (1 Giov. III, 2). Vivremo la sua vita, condivideremo la sua beatitudine, perché la vita di Dio consiste nel conoscere e amare se stesso, la sua beatitudine nel godere di se stesso. Allora il desiderio dell’Apostolo, quando scrisse agli Efesini, si realizzerà: “Inchino le ginocchia davanti al Padre di Nostro Signore Gesù Cristo……”. perché siate riempiti di tutta la pienezza di Dio: Ut impleamini in omnem plenitudinem Dei. » (Ephes. III, 19).

SALMI BIBLICI: “CONFITEMINI DOMINO, ET INVOCATE NOMEN EJUS” (CIV)

SALMO 104: “Confitemini Domino, et invocate nomen ejus”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 104

Alleluja.

[1] Confitemini Domino, et invocate nomen ejus;

annuntiate inter gentes opera ejus.

[2] Cantate ei, et psallite ei; narrate omnia mirabilia ejus.

[3] Laudamini in nomine sancto ejus; lætetur cor quærentium Dominum.

[4] Quærite Dominum, et confirmamini; quærite faciem ejus semper.

[5] Mementote mirabilium ejus quae fecit, prodigia ejus, et judicia oris ejus.

[6] Semen Abraham, servi ejus; filii Jacob, electi ejus.

[7] Ipse Dominus Deus noster; in universa terra judicia ejus.

[8] Memor fuit in sæculum testamenti sui; verbi quod mandavit in mille generationes;

[9] quod disposuit ad Abraham, et juramenti sui ad Isaac;

[10] et statuit illud Jacob in præceptum, et Israel in testamentum æternum:

[11] dicens: Tibi dabo terram Chanaan, funiculum hæreditatis vestræ;

[12] cum essent numero brevi, paucissimi et incolæ ejus.

[13] Et pertransierunt de gente in gentem, et de regno ad populum alterum.

[14] Non reliquit hominem nocere eis; et corripuit pro eis reges.

[15] Nolite tangere christos meos, et in prophetis meis nolite malignari.

[16] Et vocavit famem super terram; et omne firmamentum panis contrivit.

[17] Misit ante eos virum; in servum venundatus est Joseph.

[18] Humiliaverunt in compedibus pedes ejus; ferrum pertransiit animam ejus;

[19] donec veniret verbum ejus, eloquium Domini inflammavit eum.

[20] Misit rex, et solvit eum; princeps populorum, et dimisit eum.

[21] Constituit eum dominum domus suæ, et principem omnis possessionis suæ;

[22] ut erudiret principes ejus sicut semetipsum, et senes ejus prudentiam doceret.

[23] Et intravit Israel in Ægyptum; et Jacob accola fuit in terra Cham.

[24] Et auxit populum suum vehementer, et firmavit eum super inimicos ejus.

[25] Convertit cor eorum, ut odirent populum ejus, et dolum facerent in servos ejus.

[26] Misit Moysen, servum suum, Aaron quem elegit ipsum.

[27] Posuit in eis verba signorum suorum, et prodigiorum in terra Cham.

[28] Misit tenebras, et obscuravit; et non exacerbavit sermones suos.

[29] Convertit aquas eorum in sanguinem, et occidit pisces eorum.

[30] Edidit terra eorum ranas in penetralibus regum ipsorum.

[31] Dixit, et venit cœnomyia, et ciniphes in omnibus finibus eorum.

[32] Posuit pluvias eorum grandinem, ignem comburentem in terra ipsorum.

[33] Et percussit vineas eorum, et ficulneas eorum, et contrivit lignum finium eorum.

[34] Dixit, et venit locusta, et bruchus cujus non erat numerus;

[35] et comedit omne foenum in terra eorum; et comedit omnem fructum terræ eorum.

[36] Et percussit omne primogenitum in terra eorum, primitias omnis laboris eorum.

[37] Et eduxit eos cum argento et auro, et non erat in tribubus eorum infirmus.

[38] Lætata est Ægyptus in profectione eorum, quia incubuit timor eorum super eos.

[39] Expandit nubem in protectionem eorum, et ignem ut luceret eis per noctem.

[40] Petierunt, et venit coturnix, et pane cœli saturavit eos.

[41] Dirupit petram, et fluxerunt aquae, abierunt in sicco flumina;

[42] quoniam memor fuit verbi sancti sui, quod habuit ad Abraham, puerum suum.

[43] Et eduxit populum suum in exsultatione, et electos suos in lœtitia.

[44] Et dedit illis regiones gentium, et labores populorum possederunt:

[45] ut custodiant justificationes ejus, et legem ejus requirant.

SALMO CIV

Titolo del Salmo è Alleluia “lodate il Signore”, come lo è degli altri due Salmi che seguono; poiché in questi si narrano i beneficii di Dio al suo popolo, pei quali è Dio degno di ogni lode. Presso gli Ebrei l’Alleluia è in finti del Salmo superiore. — Ma i LXX e la Chiesa, a ragione, lo pongono in capo dei Salmi suddetti.

Alleluja, (cioè) lodate il Signore,

1. Date lode al Signore, e invocate il suo nome; annunziate le opere di lui tra le genti.

2. Cantate la gloria di lui sugli strumenti di musica, raccontate tutte le sue meraviglie.

3. Gloriatevi nel santo nome di lui; sia nell’allegrezza il cuore di quelli che cercano il Signore.

4. Cercate il Signore, e fatevi forti; cercate mai sempre la sua presenza.

5. Ricordatevi delle meraviglie che egli fece: de’ suoi prodigi, delle leggi ch’ei pronunziò di sua bocca,

6. O voi seme di Abramo, servi di lui; o voi figliuoli di Giacobbe, gli eletti di lui.

7. Egli il Signore Dio nostro; i giudizi di lui sono noti a tutta quanta la terra.

8. Egli si è ricordato sempre della sua all’alleanza: della parola fermata da lui per mille generazioni.

9. Della parola ch’ei diede ad Abramo, e del giuramento suo ad Isacco.

10. Giuramento ch’ei confermò quasi legge a Giacobbe, e ad Israele qual patto sempiterno;

11. Dicendo: A te darò la terra di Chanaan, divisa come vostra eredità.

12. Benché e’ fossero in piccol numero, pochissimi di numero, e in essa stranieri:

13. E passarono da una nazione ad un’altra, e da un regno ad un altro popolo. (1)

14. Non permise che uomo facesse loro alcun male, e per essi castigò de’ re. (2)

15. Non toccate i miei cristi, e non malignate contro de’ miei profeti.

16. E chiamò sulla terra la fame, e tolse tutto il sostegno del pane. (3)

17. Mandò avanti di lui un uomo: Giuseppe fu venduto per ischiavo. (4)

18. Lo umiliarono inceppandogli i piedi; il ferro trapassò l’anima di lui,

19. fino a tanto che si adempisse la sua parola. La legge del Signore lo avea messo nel fuoco;

20. il re mandò a scioglierlo: il principe de’ popoli lo liberò.

21. Lo costituì padrone della sua casa, e principe di quanto ei possedeva.

22. Affinché egli sua sapienza comunicasse ai suoi grandi, e al senato di lui insegnasse prudenza. (5)

23. E Israele entrò nell’Egitto, e Giacobbe pellegrinò nella terra di Chain.

24. E (Dio) moltiplicò grandemente il popol suo, e lo rendette più forte de’ suoi nemici.

25. Ei cangiò il cuor di coloro, perché prendesser in odio il popol suo e facesser soverchieria a’ suoi servi.

26. Spedi il suo servo Mosè, e Aronne, cui pur egli elesse.

27. E pose nelle lor mani i suoi miracoli, e i prodigi da farsi nella terra di Cham.

28. Mandò le tenebre, e tutto fu oscurità; ed egli non rendette vane le sue parole. (6)

29. Cangiò in sangue le loro acque, e uccise i loro pesci.

30. La terra mandò fuora i ranocchi nelle più segrete stanze de’ regi stessi.

31. A una sua parola venner le mosche e i mosconi per tutto quanto il loro paese.

32. Mutò in grandine le loro pioggia: piovve sulla loro terra un fuoco divoratore.

33. E percosse le loro viti e le loro e fece in pezzi le piante delle loro re.

34. A una parola di lui venne la lo il bruco, ed erano senza numero;

35. E mangiaron tutta l’erba de’ lor reni, e mangiarono tutti i frutti dei loro campi.

36. E percosse tutti i primogeniti nel terra, le primizie di lor robustezza.

37. E menò via Israele coll’argento l’oro; e nelle lor tribù non era un malato.

38. Si rallegrò della loro partenza l’Egitto perché era sopraffatto dal timore che aveva di essi.

39. Stese una nuvola che li coprisse e fe’ che il fuoco gl’illuminasse di notte.

40. Chiesero e venner le quaglie; e li iniziò con pane del cielo.

41. Fendette la pietra, e scorser le sgorgaron fiumi in un luogo di siccità.

42. Perché  egli ebbe memoria di questa santa parola, detta ad Abramo suo servo.

43. E il suo popolo trasse fuora tutto esultante, e i suoi eletti pieni di allegrezza.

44. E diede loro i paesi delle nazioni, furon padroni delle fatiche dei popoli,

45. Affinché  osservino i suoi comandamenti e amino la sua legge.

(1) De gente in gentem, dalla Palestina in Egitto.

(2) Allusione al modo in cui Dio libererà Sara dalle mani di Abimelech e del faraone e Rebecca dalle mani di Abimelech.

(3) In ebraico: Omnem baculum panis, il pane è chiamato bastone, perché sostiene coloro che se ne nutrono, come il bastone sostiene coloro che vi si appoggiano.

(4) Egli fu gettato ai ferri finché non si fu compiuta la profezia che aveva fatto al gran panettiere, ed al gran coppiere del faraone.

(5) In modo tale che rese tutti I suoi principi dipendenti di Giuseppe, e Giuseppe formò in saggezza tutti gli anziani del faraone.

(6) Non exacerbavit, significa: Dio non ha annullato le sue parole.

(7) In tutte le tribù di Israele non si trovò un solo malato che fosse obbligato a restare in Egitto.

Sommario analitico

Questo salmo, che è come il seguito del salmo CIII, il salmista, dopo aver raccontato le meraviglie della creazione, mostra quelle della Provvidenza nel governo del popolo di Dio; il Profeta, ricorda la condotta paterna e provvidenziale di Dio nei riguardi del suo popolo. (I Paralip. ,XVI, 8-23) – [I primi quindici versetti di questo salmo si leggono nel primo libro dei Paralipomeni (XVI, 8-23); vi sono riportati come cantati alla traslazione dell’arca. È dunque probabile che siano stati composti da Davide stesso. Quanto al resto del salmo, non è certo che sia dello stesso periodo e dello stesso autore. Tuttavia, malgrado l’opinione di qualche esegeta che ne sposta la composizione a dopo la cattività, crediamo che l’uniformità dello stile sia una ragione per credere che sia interamente del medesimo autore.]

I. – Esorta gli israeliti a lodare, a celebrare Dio:

1° In parole, – a) per la confessione e la riconoscenza del suo sovrano ambito; – b) con l’invocazione del suo nome (1); – c) annunciando in pubblico le sue opere (2);

2° Nelle loro opere, – a) praticando delle virtù degne di lui; – b) applicandosi a cercare Dio con generosità (3, 4);

3° Nei loro pensieri: – a) conservando un vivo ricordo dei suoi benefici e dei suoi precetti (5).

II. – Gli fa conoscere le ragioni di questo dovere, che invita ad adempiere, che sono cioè i benefici di Dio:

1° Prima della loro entrata in Egitto: – a) l’alleanza fatta con Dio l’Onnipotente, con Abramo, Isacco e Giacobbe e la loro posterità, e la promessa che fece loro di donare la terra di Canaan (6-12); – b) la protezione con cui li ricoprì durante il loro viaggio (13-25); – c) la cura con la quale provvide alla sussistenza dei patriarchi durante la carestia, con la venuta di Giuseppe, la sua prigionia e la sua elevazione in Egitto (16-22);

2° Durante il loro soggiorno in Egitto: – a) la libertà che fu loro data dello stabilirsi in Egitto, la loro crescita, ed infine i prodigi operati da Mosè, la libertà che ottiene di uscire dall’Egitto con le ricchezze degli Egiziani (23-38);

3° Dopo la loro uscita dall’Egitto, – a) il loro viaggio miracoloso attraverso il deserto; – b) i prodigi operati in loro favore, la colonna di nubi e fuoco, il nutrimento che venne loro dal cielo, e l’acqua che zampillò miracolosamente dalla roccia, per la ragione di questi benefici passati e a venire, che è la promessa fatta ad Abramo (39-42);

4° Nella loro entrata nella terra di Chanaan: – a) Dio li mette in possesso di questa terra, tra i trasporti della più viva allegrezza (43-44). Il disegno di Dio, colmando così il suo popolo di benefici, era di renderlo fedele alle leggi che Egli gli donava (45).

Spiegazioni e Considerazioni (1)

I. — 1-5.

(1) N. B. Questo salmo ed i due seguenti, essendo per lo più una enumerazione dei benefici di Dio al suo popolo, dei suoi lamenti, della sua ingratitudine, della sua idolatria e dei suoi castighi che ne furono la giusta punizione, non hanno bisogno se non di un’analisi ragionata alla quale ci contentiamo di aggiungere qualche riflessione che sono un riassunto sommario della dottrina dei Padri.

ff. 1-5. – Tre sono i grandi oggetti dei nostri doveri: Dio, noi stessi, ed il nostro prossimo.  1° Noi dobbiamo offrire a Dio il tributo delle nostre lodi; 2° dobbiamo chiedergli le sue grazie; 3° dobbiamo far conoscere agli altri i doni di Dio. Noi compiamo il primo dovere con la fede, il secondo con la speranza, la terza con la carità. Aggiungiamo uno zelo puro e disinteressato, che non ci faccia cercare la nostra gloria, ma quella di Dio. Tale è il soggetto del salmo, come enunciano i primi tre versetti. – C’è una specie di gradazione in questo invito del Profeta: riconoscere dapprima la grandezza di Dio, e concepire delle idee sublimi della sua potenza, della sua maestà, della sua eternità, di tutto il suo essere. – Questo primo esercizio ci condurrà facilmente ad invocare il suo santo Nome, perché la conoscenza del bisogno che noi abbiamo della sua protezione ci porterà senza sforzo ad implorare il suo soccorso. Ma lo zelo della sua gloria e l’amore che dobbiamo ai nostri simili non ci permetteranno di mantenere il silenzio sulle opere della potenza divina; di là scaturisce l’obbligo di rendergli un culto pubblico nell’assemblea dei fedeli, di aggiungere i nostri canti di lode e le azioni di grazie a quelle dei ministri del santuario. – Alla lode succede ordinariamente l’invocazione, nella quale il peccatore forma come un fascio di tutto ciò che desidera; è così che l’orazione domenicale comincia con una breve lode a Dio, così concepita: « Padre nostro che sei nei cieli. » (S. Agost.). Glorificatevi non per le vostre virtù, né per il vostro coraggio, ma nel Nome di Dio che vi è stato predicato, secondo questa parla dell’Apostolo: « Chi si glorifica, si glorifichi nel Signore. » (I Cor., XI). – Nessuna vera gloria che c’è se non quella che si trova in Dio; nessuna vera gioia che quella che si gusta nel cercarlo (Dug.). – Che cos’è la faccia del Signore, se non la sua presenza? Ma che significa: « Cercate sempre il volto del Signore ? ». Con la parola “sempre”, il Profeta ha voluto dire che durante tutta la nostra vita quaggiù, come la viviamo dal momento in cui sappiamo che dobbiamo cercare Dio, noi dobbiamo cercarlo ancora dopo averlo trovato. Perché la fede lo ha già trovato, ma la speranza lo cerca ancora; e la carità che l’ha già trovato con la fede, cerca di possederlo con la visione nella quale Egli sarà sì pienamente trovato e che ci sarà sufficiente, e non avremo più da cercarlo. … Cercare il Signore significa che si ama il Signore, l’averlo trovato non ci impedirà di cercarlo ancora; ed al contrario, non facendo che accrescersi l’amore di Dio, la ricerca di Dio non farà che accrescersi pure, anche dopo che si sarà trovato (S. Agost.) – Nessuno si avvicina di più alla conoscenza della verità, di colui che comprende nelle cose divine in cui già ha fatto grandi progressi, ché restano ancora molte cose da cercare, da acquisire. (S. Leon, Serm. IX de Nativ.). – Per noi è un dovere cercare Dio sempre nelle nostre azioni senza far nulla senza la sua guida; di cercarlo sempre nella preghiera che deve essere continua, per essere uguale ai nostri bisogni; di cercarlo con il ricordo dei suoi giudizi e dei suoi benefici; di cercarlo sempre finché non godremo della chiara visione dei cieli. –  Noi dobbiamo sempre cercare la presenza di Dio ed applicarci con zelo perseverante affinché Dio ci conceda di gioire in sua presenza e non si allontani da noi. Durante questa vita, è la fede che cerca la presenza di Dio, la speranza che lo trova; ma è la carità che lo ottiene pienamente nella vita eterna, là dove l’amore della vera presenza non può né diminuire né estendersi. (S. PROSPER, in hunc psalm.).

II — 6-22.

ff. 6-22. – Il Profeta lascia l’entusiasmo ardente delle sue lodi e scende a parole proporzionate alla nostra intelligenza, per nutrire il nostro amore ancora debole e per così dire ancora da lattanti, per lo spettacolo delle meraviglie che Dio ha operato nei tempi. « o voi, razza di Abramo; o voi, figli di Giacobbe, ricordatevi delle meraviglie che Egli ha operato, dei suoi prodigi e dei giudizi della sua bocca. » Ma il salmista non vuole lasciar credere che egli si indirizzi alla sola nazione di Israeliti secondo la carne, senza comprendere di preferenza nella razza di Abramo i figli della promessa, piuttosto che i figli della carne (S. Agost.). – Questi figli di Giacobbe, che Dio ha cercato fin dall’eternità, e che sono i figli della promessa, sono soprattutto coloro che devono ricordarsi delle meraviglie che Dio ha operato, di ciò che Egli ha fatto e di ciò che fa tutti i giorni a favore degli uomini; dei prodigi di grazia che ha compiuto per farli uscire dal vero Egitto, che è il peccato; dei giudizi di giustizia e di misericordia che Egli esercita su chi gli piace. – Sono questi i sentimenti e le disposizioni dei veri Israeliti, che non hanno altro Dio che il Signore, e che adorano con profondo rispetto ed intera sottomissione, i giudizi che Dio esercita sulla terra quali essi siano. –  Dio non dimentica mai l’alleanza che ha concluso con gli uomini. La promessa di Dio non è soggetta a cambiamenti, come quelle degli uomini; essa non si affievolisce con la lunghezza dei tempi, ma si estende per tutte le età future. – Dio fa un giuramento, come per imporre a se stesso la necessità di eseguire ciò che ha promesso e di farne un decreto irrevocabile. – Terra di Canaan, eredità degli Israeliti, secondo la carne. – Felicità del cielo, vera terra dei viventi, eredità degli Israeliti secondo lo spirito. Piccolo gregge di eletti scelti nell’universalità delle nazioni, figura terribile del piccolo numero di coloro che devono possedere l’eredità del cielo. – La vita errante dei Patriarchi, è figura dei Cristiani che non hanno dimora fissa e stabile sulla terra, ove sono pellegrini e stranieri. (Dug. – Bellarm.). – Questa Chiesa antica era debole ed ancor giovane; dei pastori erranti ne erano i rappresentanti, e tuttavia Dio aveva con essa tutto il suo cuore, faceva riposare in essa tutte le sue speranze e far brillare per esse prodigi di ogni sorta. I castighi spaventosi con cui Dio puniva il re d’Egitto ed il suo popolo, quando da protettori degli Israeliti ne divennero i persecutori accaniti, sono i preludi ed i simboli degli spaventosi castighi che la giustizia divina ha fatto piombare sui numerosi persecutori che, secolo dopo secolo, hanno cercato di opprimere la Chiesa. – « Badate di non toccare coloro che sono consacrati con la mia unzione santa, e di esercitare malignità sui miei profeti. – Giudicare severamente i nostri fratelli è un disordine universalmente condannato da Dio; ma è condannabile in particolar modo quando ci attacchiamo alle potenze stesse; che noi osiamo giudicare da noi stessi coloro dai quali dipendiamo, coloro che Dio ha stabilito per condurci, che ci ha dato per pastori e maestri: i prelati ed i ministri della Chiesa. Perché? Perché in essi c’è un carattere che dobbiamo singolarmente rispettare e del quale non possiamo toccare senza ledere Dio fin nella pupilla del suo occhio, secondo questa parola di Zaccaria; « colui che vi tocca la pupilla del mio occhio. » (Zacc. II, 8). Ecco perché ci fa ancora questa divieto sì espressivo: non toccate coloro che sono gli unti del Signore, e guardatevi dall’esercitare su di essi la malignità dei vostri giudizi. Disordine essenziale opposto a questa subordinazione di cui Dio è l’Autore, e di conseguenza il conservatore ed il vendicatore, poiché, dal momento che censuro la vita e la condotta di chiunque sia al di sopra di me, mi elevo al di sopra di lui, mi faccio giudice del mio giudice, e pertanto inverto l’ordine in cui Dio mi ha posto, e mi espongo alle infelici sequele che l’Apostolo ci fa temere per una tale inversione. Disordine che indebolisce e che snerva; diciamo meglio: che rovina e che annienta l’obbedienza degli inferiori; perché è impossibile che questa facilità nel giudicare e nel giudicare male, non produca mano a mano un segreto disprezzo di colui anche di cui si giudica, e che questo disprezzo non faccia nascere la contraddizione, i lamenti, le rivolte dello spirito e del cuore; da ciò si arriva, anche nelle società più regolate, per lo più ad una obbedienza esteriore, un’obbedienza politica, un’obbedienza senza merito; perché questa non è un’obbedienza cristiana (Bourd. sur le jug. tém.). – « Essi sono passati da una nazione all’altra e da un regno all’altro. Egli ha chiamato la fame sulla terra, ha distrutto ogni forza del pane ». Non dimentichiamo l’esame dei termini impiegati dalla Sante Scritture: « Egli ha chiamato la fame sulla terra, » come se la fame fosse un personaggio o un corpo animato, o uno spirito capace di obbedire a colui che lo chiamasse, mentre che la fame non è che causa di distruzione provocata dalla mancanza di nutrimento, che diviene come una malattia per coloro che la provano … « Egli ha chiamato la fame, » nel senso che ha ordinato che la fame servisse, di modo che chiamare, significa nominare, e nominare significa dire, e dire significa ordinare; perché Egli ha chiamato la fame, « Egli che chiama le cose che non sono, come quelle che sono. » (Rom. IV, 17). Dio ha chiamato la fame. Vale a dire che ha fatto scoppiare questo flagello che già esisteva in una disposizione segreta della sua volontà (S. Agost.). – Fame spirituale delle anime tanto più spaventosa quando è meno sensibile. – Dio rimuove la forza del pane con la sua parola, quando permette che la verità sia annunciata in maniera sì umana, da divenire inutile a coloro che l’intendono. – « Egli ha mandato un uomo davanti ad essi. » Quale uomo? Giuseppe. Come lo ha inviato? « Giuseppe è venduto per essere schiavo. » Sicuramente questa vendita è stata il crimine dei fratelli di Giuseppe, e tuttavia Dio ha inviato Giuseppe in Egitto. Egli ci fa ben comprendere questa grande verità, che Dio estrae il bene dal male che gli uomini fanno, come gli uomini estraggono del male da ciò che di bene Dio fa … il ferro che secondo il Profeta, ha trapassato la sua anima, rappresenta la sofferenza di una dura necessità e l’afflizione di Giuseppe fino a che la sua parola fu compiuta e l’avvenimento fu giustificato dalla sua interpretazione dei sogni (S. Agost.). – Cosa delle più infelici, quella di Giuseppe, se si giudicano le sue prove con lo spirito del mondo; ma cosa molto felice se si giudicano con le regole della saggezza di Dio! – Noi vediamo nella missione di Giuseppe le caratteristiche principali della missione data ai pastori delle anime, al predicatore del Vangelo: – 1° bisogna che sia “inviato”, “misit”; – 2° egli deve camminare davanti agli altri con il buono esempio che da loro, “ante eos”; – 3° deve essere dotato di una forza poco comune, di una forza virile “virum”; – 4° deve essere umile, fino a diventare il servitore, lo schiavo di tutti, « in servum venundatus est Joseph »: – 5° deve avere una pazienza a tutta prova e sopportare, se Dio lo permette, i trattamenti peggiori e più rudi, « umiliaverunt in compedibus pedes ejus »; – 6° deve essere pieno di zelo e di fervore, « eloquiam Domini inflammavit eum »; – 7° deve considerarsi come posto alla testa della casa di Dio, « costituit cum Dominum domus suæ »: – 8° deve istruire tutti coloro che vi sono sottomessi, anche i re ed i grandi della terra, « ut erudiret principes sicut semetipsum ». – Sant’Ambrogio considera Giacobbe come il modello di tutti coloro che vogliono vivere felici sulla terra. – Che può mancare in effetti a colui che è sempre accompagnato dalla virtù? In quale situazione non sarà potente? In quale stato di povertà non sarà ricco? In quale oscurità non sarà brillante? In quale inazione non sarà laborioso? In quale infermità non sarà vigoroso? In quale debolezza non sarà pieno di forza? In qual solitudine non sarà accompagnato? Egli avrà per compagna la speranza di una vita felice; per vestito la grazia dell’Altissimo, per ornamento le promesse della gloria (S. AMBR., de Jacob et vita beata.). – « Egli cambiò il loro cuore affinché prendessero il suo popolo in odio ». Bisogna prendere questa parola alla lettera e credere che Dio cambia il cuore dell’uomo perché commetta il peccato? O forse questa non era una colpa, o una colpa leggera odiare il popolo di Dio ed eliminare l’inganno contro i suoi servi? Non senza dubbio, gli Egiziani non erano buoni prima di odiare il suo popolo; essi erano al contrario molto malvagi ed empi da portare facilmente invidia verso il benessere degli stranieri stabiliti presso di loro. Moltiplicando il suo popolo, Dio, per questo stesso beneficio, indusse questi malvagi all’invidia. In effetti l’invidia è l’odio del benessere degli altri; è così che Egli portò il loro cuore all’odio verso il suo popolo con l’invidia ed a sopraffare i suoi servitori con mille inganni. Non è quindi facendo del male, ma facendo del bene al suo popolo che egli eccitò all’odio il cuore degli Egiziani, già malvagi di per se stessi. Non ha pervertito un cuore retto, ma ha diretto verso l’odio per il suo popolo il loro cuore già di per sé malvagio, alfine da estrarre il bene dal male che essi avrebbero fatto (S. Agost.).   

III. — 23-45.

ff. 23-45. – La mirabile moltiplicazione del popolo di Dio nell’Egitto, è figura della Chiesa che agli inizi era ridotta a poche persone, e che il Signore ha moltiplicato al punto in cui la vediamo ora. – Impossibile era per i veri servi di Dio essere per lungo tempo d’accordo con gli Egiziani, cioè con i mondani: essi li odieranno sempre, perché non possono soffrire né le loro massime, né la loro condotta, e non mancheranno mai di trovare mille artifici per sopraffarli. Missione divina, quella di Mosè ed Aronne. – più una missione è nuova e straordinaria , più essa ha bisogno di essere confermata da miracoli straordinari. – Piaghe d’Egitto- (V. Ps, LXXXVIII). – Uscita trionfante degli Israeliti. – Uscire da una dura prova caricati di enormi ricchezze, qual inestimabile felicità! – Nessuna malattia corporale nelle tribù d’Israele; né alcuno che non sia malato nell’anima e in Israele ed anche tra i Cristiani. – Era per paura e non per coscienza e per amore, che gli Egiziani diedero la libertà agli Israeliti: immagine troppo fedele delle disposizioni di tanti Cristiani che non fanno nulla se non per timore interessato, sempre pronti a rivoltarsi contro Dio, senza mai cedere se non con colpi tanto sensibili, o almeno alle minacce della sua rigorosa giustizia. – « Il Signore fece uscire gli Israeliti con molto oro ed argento, » perché non erano ancora capaci di disprezzare il salario temporale, senza dubbio, ma legittimo, dovuto ai loro lavori. Ora, se gli Israeliti hanno ingannato gli Egiziani, prendendo loro dell’oro e dell’argento, non bisogna credere che Dio comandi simili trucchi a coloro il cui cuore è rivolto al cielo, o che li approvi se li mettono in opera. In effetti Dio, secondo queste parole, ha permesso piuttosto che prescrivere questa azione a questo popolo del quale vedeva il cuore e del quale conosceva l’avarizia. Tuttavia delle anime carnali potrebbero allegare come motivo di approvazione per la condotta degli Israeliti, che gli Egiziani non hanno sofferto per parte loro ciò che avrebbero meritato e che, se gli Israeliti hanno impiegato l’inganno, non hanno fatto altro che riprendere da uomini ingiusti il salario che era loro dovuto. Ma rispondiamo semplicemente che Dio si è servito tanto dell’ingiustizia degli Egiziani, che della debolezza degli Israeliti, per figurare e predire con questi fatti le cose che un giorno avrebbe compiuto. (S. Agost.). – Provvidenza di Dio su di un popolo nel deserto, benefici nuovi, ragione di questi benefici, e fine che Dio si proponeva; – la densa nube che Egli stende per proteggerli, è figura della fede e dei due rapporti che la caratterizzano: la sua oscurità e la sua luce. Essa è oscura perché ha Dio per oggetto; luminosa perché è data all’uomo; oscura perché l’uomo è limitato; luminosa perché è ragionevole; oscura per non confonderla con le verità che ingannano sotto i sensi; luminosa per distinguerla dall’errore; oscura alfine perché deve sottometterci, e luminosa, perché deve confonderci (Mgr. De Boulog. “sur la Foi”). – « E diede loro in possesso i paesi delle nazioni, e li fece entrare in possesso dei lavori dei popoli. » Come se noi comandassimo quale è il valore di questi beni dati agli Ebrei, e nel timore che non si pensi che questa felicità temporale accordata da Dio al suo popolo sia il sovrano bene, il Profeta ci porta di seguito alla ricerca del sovrano Bene, e ci segnala nel corpo del salmo, l’anima che vi si trova in qualche modo nascosta: « affinché – egli dice – essi riguardino le sue ordinanze piene di giustizia e ricerchino la sua legge. » Bisogna concludere che se i servi e gli eletti di Dio, figli della promessa, vera e legittima razza di Abramo ed imitatori della sua fede, ricevono da Dio i suoi beni terreni, non è perché sprofondino nel lusso, e si intorpidiscano in una colpevole sicurezza. Essi devono, al contrario, possedere questi beni che la misericordia divina ha preparato loro e nella ricerca dei quali potrebbero lasciarsi assorbire da laboriose preoccupazioni, in modo tale che si applichino alla ricerca di ciò che può loro procurare il Bene eterno, cioè che attendano ai suoi ordini e ricerchino la sua legge. (S. Agos.).

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: MERCOLEDI’ DELLE CENERI: SULLA PENITENZA

MERCOLEDÌ DELLE CENERI

[Discorsi di san G. B. M. VIANNEY, curato d’Ars – Vol. I, Quarta Ed.; Torino – Roma, Marietti Edit. 1933 –

Nihil obstat Torino, 25 Nov. 1931

 Teol. Tommaso Castagno, Rev. Deleg.;

Imprimatur

C. Franciscus Paleari, Prov. Gen.]

[Si diffidano i fedeli Cattolici dalla lettura di versioni dubbie e senza alcuna garanzia di autenticità, dei Sermoni del Curato d’Ars presenti su Siti eretico-Modernisti o proposte da Case edit. Moderniste, senza che siano indicate le fonti originali, e soprattutto prive di nihil obstat ed imprimatur indispensabili, secondo le regole imposte dalla Cost. Ap. “Officiorum ac munerum” di S. S. Leone XIII e dall’Encicl. Pascendi di S. S. Pio X, la cui violazione comporta scomunica latæ sententiæ, riservata in modo speciale alla Sede Apostolica]

Sulla Penitenza

Pœnitemini igitur, et convertimini, ut deleantur peccata vestra.

(Act. III, 19).

Ecco, M. F.,  il solo spediente che S. Pietro annuncia ai Giudei colpevoli della morte di Gesù Cristo. Sì, loro dice questo grande Apostolo, il vostro delitto è orribile, perché avete rigettato la predicazione del Vangelo e gli esempi di Gesù Cristo, perché avete disprezzato i suoi benefizi e i suoi prodigi, e perché non contenti di tutto ciò, voi l’avete rinnegato e condannato alla morte più crudele e più infame. Dopo un tal delitto, quale spediente può restarvi, se non quello della conversione e della penitenza? A queste parole, tutti coloro che erano presenti ruppero in pianto ed esclamarono: « Ah! che faremo noi, grande Apostolo, per ottenere misericordia? » S. Pietro per consolarli disse loro: « Non gettatevi alla disperazione, il medesimo Gesù Cristo che voi avete crocifisso è risuscitato, e ciò che maggiormente importa è diventato il salvamento di tutti coloro che sperano in lui; Egli è morto per la remissione di tutti i peccati del mondo. Fate penitenza, e convertitevi, e i vostri peccati saranno cancellati. » Ecco lo stesso linguaggio che la Chiesa tiene a tutti i peccatori che sono commossi della gravezza dei loro peccati e che desiderano di ritornare sinceramente a Dio. Ah! M. F., quanti di noi sono assai più colpevoli dei Giudei, perché costoro hanno fatto morire Gesù Cristo per ignoranza! Quanti che hanno rinnegato e condannato Gesù Cristo alla morte col disprezzo della sua santa parola, con la profanazione che abbiamo fatto dei suoi misteri, con l’omissione dei nostri doveri, con l’abbandono dei Sacramenti e con una profonda dimenticanza di Dio e del salvamento della povera anima nostra! Ora, M. F., qual rimedio può restarci in questo abisso di corruzione e di peccato, in questo diluvio che contamina la terra e provoca la vendetta del cielo? Non altro che quello della penitenza e della conversione. Ditemi, non sono troppi gli anni passati nel peccato? Non basta l’essere vissuto per il mondo e per il demonio? Non è giunto il tempo per vivere per il buon Dio e per assicurarci una eternità felice? Che ciascuno di noi si rimetta la propria vita davanti agli occhi, e noi vedremo che tutti abbiamo bisogno di far penitenza. Ma per determinarvi a far ciò, io voglio dimostrarvi quanto le lagrime che noi spargiamo sopra i nostri peccati, il dolore che noi ne proviamo e le penitenze che ne facciamo, ci consolano e ci rassicurano all’ora della morte; in secondo luogo, noi vedremo che dopo di aver peccato, noi dobbiamo farne penitenza in questo mondo o nell’altro; in terzo luogo esamineremo in qual modo un Cristiano può mortificarsi per fare penitenza.

I . — Noi diciamo che nulla vi è che ci procuri consolazione in questa vita e ci rassicuri all’ora della morte quanto le lagrime che noi spargiamo sopra i nostri peccati, quanto il dolore che ne proviamo e la penitenza che ne facciamo; ciò che è facile da comprendere, perché è con ciò che noi abbiamo la sorte di espiare i nostri peccati, con altre parole, di soddisfare alla giustizia di Dio. Sì, M. F., è con ciò che noi meriteremo nuove grazie per avere la sorte di perseverare. S. Agostino scrive, che assolutamente è necessario che il peccato sia punito o da colui che lo ha commesso o da colui contro il quale è stato commesso. Se voi non volete che il buon Dio vi punisca, punitevi voi medesimi. Noi vediamo che Gesù Cristo medesimo, per dimostrarci quanto la penitenza ci è necessaria dopo il peccato, Egli medesimo si mette nel ceto dei peccatori (S. Marc. II, 16). Egli ci dice che, senza il Battesimo, nessuno entrerà nel regno dei cieli (S. Giov. III, 5); e, in altro luogo, che se non facciamo penitenza, noi tutti periremo (S. Luc. XIII, 3, 5). Ciò è facilissimo da comprendere. Dopo che l’uomo ha peccato, tutti i suoi sensi si sono ribellati contro la ragione; e quindi, se noi vogliamo che la carne sia sottomessa allo spirito ed alla ragione, è necessario mortificarla; se noi vogliamo che il nostro corpo non muova guerra all’anima nostra, è necessario mortificarlo con tutti i suoi sensi; se noi vogliamo andare a Dio, è necessario mortificare l’anima nostra con tutte le sue potenze. E se voi bramate di essere convinti della necessità della penitenza, non avete che da aprire la santa Scrittura, e voi vedrete che tutti coloro che hanno peccato ed hanno voluto ritornare al buon Dio, hanno versato lagrime, si sono pentiti dei loro peccati ed hanno fatto penitenza. – Vedete Adamo: dacché ebbe peccato egli si consacrò alla penitenza onde poter placare la giustizia di Dio. La sua penitenza durò più di novecento anni (Gen. III, 17; V, 5); ed una penitenza che fa fremere, tanto sembra superiore alle forze della natura. Vedete Davide dopo il suo peccato: egli faceva risuonare il suo palazzo delle sue grida e dei suoi singhiozzi; e spinse i suoi digiuni ad un tale eccesso, che i suoi piedi non potevano più sostenerlo (Genua mea infirmata sunt a jejunio. Ps. CXVIII, 24). Quando si voleva consolarlo dicendogli che, poiché il Signore l’aveva assicurato che il suo peccato gli era perdonato, egli doveva moderare il suo dolore, egli esclamava: Ah! infelice, che cosa ho fatto? Io ho perduto il mio Dio, ho venduto l’anima mia al demonio; ah! no, no, il mio dolore durerà quanto la mia vita, discenderà con me nella tomba. Le sue lagrime piovvero dagli occhi suoi in tanta copia che era temprato il suo pane e ne era bagnato il suo letto(Ps. CI, 10; VI, 7).

S. Pietro … (« S. Pietro  » Questa parola collocata in margine indica che il Beato pensava di raccontare la penitenza del Principe degli Apostoli, il quale « pianse amaramente » il suo triplice rinnegamento tutti i giorni della sua vita.)

Perché sentiamo tanta ripugnanza per la penitenza, e che proviamo sì poco dolore dei nostri peccati? Ah! perché non conosciamo né gli oltraggi che il peccato reca a Gesù Cristo, né i mali che ci prepara per la eternità. Noi siamo appieno convinti che dopo il peccato è necessario fare penitenza. Ma ecco quello che facciamo: noi rimandiamo tutto ciò ad un tempo lontano, quasi noi fossimo padroni del tempo e delle grazie del buon Dio. Ah! M. F., chi di noi non tremerà, poiché non abbiamo un momento di sicuro? Ah! chi di noi non fremerà, pensando che vi ha una misura di grazie, oltre la quale il buon Dio altre non ne concede? Chi non fremerà pensando che vi ha una misura di misericordia dopo di che tutto è finito ? Ah! chi di noi non fremerà, pensando che occorre un certo numero di peccati, dopo il quale il buon Dio abbandona il peccatore in balia di se medesimo? Ah! M. F., quando la misura è colma, è necessario che trabocchi. Sì, dopo che il peccatore ha ripiena la misura, è necessario che sia punito e che cada nell’inferno non ostante le sue lagrime e il suo dolore… Vi avvisate voi, che dopo di essere vissuti un numero d’anni nel peccato non ostante tutti i rimorsi che la vostra coscienza ha eccitati per muovervi a ritornare a Dio; avvisate voi, che dopo di essere vissuti da empi e da libertini, disprezzando tutto ciò che la Religione ha di più santo e di più sacro, vomitando contro di essa tutto ciò che la corruzione del vostro cuore ha potuto produrre; avvisate voi, che quando vorrete dire: Mio Dio, perdonatemi, voi avrete fatto ogni cosa, che voi non avrete più che da entrare in cielo? No, no, non siamo così temerari, né così ciechi per sperar ciò. Ah! M. F., è precisamente in questo momento che si compie questa terribile sentenza di Gesù Cristo il quale ci dice: « Voi mi avete disprezzato nel corso della vostra vita, voi vi siete riso delle mie leggi, ma ora che voi avete ricorso a me, che mi cercate, Io vi volgerò le spalle per non vedere le vostre sciagure (Ger. XVIII, 17); Io mi chiuderò le orecchie per non udire le vostre grida; io fuggirò lontano da voi per non lasciarmi commuovere dalle vostre lagrime. » Ah! per essere convinti di tutto ciò, non abbiamo che da aprire la santa Scrittura e la storia dove sono consegnatele azioni di questi famosi empi; noi vedremo che tutti questi castighi sono più terribili che non potete pensare. – Ascoltate l’empio Antioco tra gli altri famoso. Vedendosi colpito in modo visibile dalla mano dell’Onnipotente, si umilia, piange, dicendo: « È giusto, o Signore, che la creatura riconosca il suo creatore » (II Macc. IX, 12)  Egli promette a Dio di far penitenza, di riparare tutti i mali che ha fatti nel corso della sua vita, tutti i mali che ha cagionati a Gerusalemme, e che elargirà dei grandi beni per conservare il culto del Signore, che si farà giudeo; finalmente che tutta la sua vita non sarà che una vita rispettosa della legge di Dio. Se voi l’aveste udito, voi avreste detto con gioia: Ecco un peccatore che è un santo penitente. Tuttavolta noi udiamo lo Spirito Santo dirci: « Questo empio domanda un perdono che non gli sarà concesso; egli piange, ma piangendo discende nell’inferno. » Ma perché essere più particolari per trovare degli esempi spaventevoli della giustizia di Dio verso il peccatore che ha disprezzato la grazia di Dio? Vedete lo spettacolo che ci hanno presentato gli empi, quegli increduli e quei libertini dell’ultimo secolo: vedete la loro vita empia, incredula e libertina. Non sono sempre vissuti da empi, con la speranza che il buon Dio loro perdonerebbe quando piacesse loro di domandar perdono? Vedete Voltaire. Tutte le volte che cadeva ammalato, non diceva: Misericordia? Non domandava perdono a quel medesimo Dio che insultava quando godeva buona salute, contro il quale non cessava di vomitare tutto ciò che la corruzione del suo cuore poteva produrre? D’Alembert, Diderot e Rousseau, come tutti i suoi compagni di libertinaggio, credevano che quando sarebbe di lor gusto domandare perdono a Dio, sarebbero perdonati; ma noi possiamo dir loro quello che lo Spirito Santo disse ad Antioco: « Questi empi domandano un perdono che non sarà loro concesso. E perché questi empi non hanno ottenuto il perdono nonostante le loro lagrime? Perché il loro dolore proveniva non dal rammarico dei loro peccati, né dall’amore di Dio, ma solamente dal timore del castigo. Ah! per quanto terribili e spaventose siano queste minacce, esse non fanno aprire gli occhi a coloro che battono la stessa via. Ah! M. F., che colui che, essendo peccatore ed empio nutra la speranza che un giorno egli cesserà di esserlo, quanto è infelice e cieco! Ah! quanti il demonio ne conduce all’inferno in questo modo! la giustizia di Dio li colpisce nel momento che essi punto non vi pensano. Vedete Saulo, egli non sapeva che ridendosi degli ordini che gli dava il profeta, egli metteva il suggello alla sua riprovazione e ad essere abbandonato da Dio (I Reg. XV, 23). Vedete Amano, se egli pensava che preparando il patibolo a Mardocheo, egli medesimo vi sarebbe appeso per perdervi la vita (Esth.VII, 9). Vedete il re Baldassare, se egli pensava che il delitto che commetteva bevendo nei vasi sacri che il padre suo aveva involati a Gerusalemme, era l’ultimo delitto che Dio doveva lasciargli commettere Dan. V, 23). Vedete ancora i due infami vecchiardi, se essi menomamente dubitavano che tentando la casta Susanna sarebbero lapidati e cadrebbero nell’inferno (Dan. XIII, 61). No, certamente. Tuttavia questi empi e questi libertini benché nulla sappiano di tutto questo, essi non lasciano di arrivare al punto nel quale i loro delitti essendo giunti al colmo devono essere necessariamente puniti. Ora, che cosa pensate voi di tutto ciò, voi segnatamente che forse avete concepito il disegno spaventevole di rimanere nel peccato ancora alcuni anni, forse fino alla morte? Tuttavolta, sono questi esempi terribili che hanno mossi tanti peccatori ad abbandonare il peccato, per far penitenza, che hanno popolato i deserti di solitari, riempito i chiostri di santi religiosi e che hanno fatto salire tanti martiri sui patiboli, con gioia più grande che non i re sui loro troni, per il timore di provare gli stessi castighi. Se voi ne dubitate, ascoltatemi un istante, e se voi non siete indurati a questo punto nel quale il buon Dio abbandona il peccatore in balia di se stesso, voi sentirete i vostri rimorsi di coscienza risvegliarsi e straziarvi l’anima. S. Griov. Climaco ci racconta (La Scala Santa, quinto grado) che si recò un giorno in un monastero; i religiosi che lo abitavano avevano talmente la grandezza della giustizia divina impressa nel loro cuore, essi avevano un timore tale di essere arrivati a quello stato nel quale i nostri peccati hanno stancato la misericordia di Dio, che la loro vita sarebbe stata per voi uno spettacolo capace di farvi morire di spavento; essi conducevano una vita così umile, così mortificata e così crocifissa; essi sentivano talmente il peso delle loro colpe; le loro lagrime erano così copiose e le loro grida così strazianti, che quando si avesse avuto il cuore più duro delle pietre, non si sarebbe potuto trattenere di versar lagrime. Quando ebbi aperta la porta del monastero – così il medesimo Santo – io vidi delle azioni veramente eroiche; io udii delle grida capaci di fare violenza al cielo; vi erano dei penitenti che si condannavano di restare tutta la notte sulla punta dei loro piedi; e quando il loro povero corpo cadeva per debolezza, essi si rimproveravano la loro viltà: « Infelice, dicevano a se stessi, se hai così poco coraggio per soddisfare alla giustizia di Dio, in qual modo potrai soffrire le fiamme vendicatrici dell’altra vita? » Altri, avendo sempre gli occhi e le mani innalzate al cielo, mandavano grida capaci di farvi rompere in pianto, siffattamente erano penetrati della gravezza dei loro peccati; altri si facevano legare le mani al dorso come colpevoli; essi si consideravano come indegni di guardare il cielo e si gettavano col volto contro terra: « Ah! mio Dio, esclamavano, ricevete, se così a voi piace, le nostre lagrime, i dolori nostri. » Ve ne erano che erano siffattamente coperti di ulceri, il loro povero corpo era così consunto ed esalava un odore così ributtante che era impossibile rimanere vicino a loro senza morire. Ve ne erano che non bevevano dell’acqua che per non morire; essi avevano sempre l’immagine della morte davanti agli occhi, e si dicevano gli uni gli altri: « Ah! che cosa diventeremo noi? Credete voi che noi progrediamo qualche poco nella virtù? Corriamo, miei amici, nella via della penitenza, uccidiamo questi sciagurati corpi come essi hanno ucciso le nostre povere anime. » Ma quello che era più spaventoso, è, quando uno di essi era vicino ad uscire da questo mondo; tutti i religiosi erano vicini al morente con un volto abbattuto, cogli occhi bagnati di lagrime, si volgevano a lui, dicendogli: « Che pensate di voi stesso ora che siete sul punto di morire? Sperate, credete che le lagrime vostre, il dolor vostro e le vostre penitenze vi abbiano meritato il perdono? Non temete di udire queste terribili parole cadere dalla bocca di Gesù Cristo medesimo: « Ritiratevi da me, maledetto, andate al fuoco eterno? »Ah! rispondevano questi poveri morenti, chi sa se le nostre lagrime hanno placato la giusta collera di Dio? Chi sa se i nostri peccati sono scomparsi dagli occhi di Dio? Che possiamo fare? Abbandonarci alla giustizia di Dio. Essi pregavano il loro superiore di non dar loro sepoltura, ma di gettarli nel mondezzaio, per servire di cibo alle bestie selvagge. – S. Giov. Climaco ci dice che questo spettacolo lo aveva siffattamente spaventato che non poté restare che un mese nel monastero; egli non poteva più vivere. « Quando fui di ritorno – così egli – il mio superiore vide che io ero così cangiato che appena poteva riconoscermi. Or bene! mio fratello, voi avete veduto le fatiche ed i combattimenti dei nostri generosi soldati. Io non potei rispondergli che con le lagrime, tanto questo genere di vita mi aveva spaventato e aveva reso il mio corpo debole e macilento. » – Ora, M. F., ecco Cristiani come noi e meno peccatori di noi; ecco penitenti che non aspettavano che il medesimo cielo di noi, che non avevano che un’anima da salvare come noi. Perché dunque tante lagrime, tanti dolori e tante penitenze? Perché sentivano la gravezza del peso dei loro peccati, e come l’oltraggio che il peccato reca a Dio sia orribile; ecco quello che hanno fatto coloro che hanno compreso la grandezza della sventura di perdere il cielo. O mio Dio! essere insensibili a tante e tante sciagure, non è la più grande di tutte le disgrazie? O mio Dio! Cristiani che mi ascoltano e che hanno la coscienza carica di peccati e che non hanno altra sorte da aspettare che quella dei riprovati! Mio Dio! Possono essi vivere tranquilli? Ah! quanto è sventurato colui che ha smarrita la fede!

II. — Noi diciamo che necessariamente dopo il peccato bisogna far penitenza in questo mondo o nell’altro. Se la Chiesa ha stabilito i giorni di digiuno e di astinenza, è per richiamarci alla mente che essendo peccatori, noi dobbiamo fare penitenza, se vogliamo che il buon Dio ci perdoni; e molto più noi possiamo dire che il digiuno, la penitenza, hanno cominciato col mondo. Vedete Adamo; vediamo Mose che digiunò quaranta giorni. Noi vediamo pure Gesù Cristo il quale era la stessa santità, restare quaranta giorni in un deserto senza bere né mangiare, per addimostrarci che la nostra vita deve essere una vita di lagrime, di penitenza e di mortificazione. Ah! M. F., dacché un Cristiano abbandona le lagrime, il dolore dei suoi peccati e la mortificazione, è cosa fatta per la religione. Sì, per conservare in noi la fede, è necessario che noi siamo sempre occupati a combattere le nostre tendenze ed a gemere sopra le nostre miserie. – Ecco un esempio che assoda come dobbiamo stare sull’avviso per non concedere alle nostre inclinazioni tutto quello che domandano. Noi leggiamo nella storia che eravi uno sposo unito in matrimonio con una moglie molto virtuosa ed un figlio che camminava sopra le sue tracce. Essi facevano consistere tutta la loro felicità nella preghiera e nella frequenza dei Sacramenti. I santi giorni di domenica, dopo gli uffici, non avevano altra occupazione ed altro piacere che di fare del bene; essi si recavano a visitare gli ammalati e fornivano loro tutti i soccorsi che era nel loro potere. Essendo in casa, passavano il loro tempo a fare delle letture di pietà capaci di animarli nel servizio di Dio. Essi in tal modo nutrivano la loro anima nella grazia di Dio, ciò che formava tutta la loro felicità. Ma come il padre era un empio e un libertino, non cessava di biasimarli e di ridersi di loro, dicendo che il loro genere di vita gli recava grande dispiacere e che un tal modo di vivere non poteva convenire che a persone ignoranti; egli procurava di mettere sotto i loro occhi i libri i più infami e meglio capaci di allontanarli dalla strada della virtù che essi battevano. La povera madre piangeva udendo questo linguaggio e il figlio dalla parte sua ne gemeva. Ma, a forza di vedersi perseguitati, trovando continuamente questi libri davanti a sé, sventuratamente, vollero vedere quello che contenevano; e, ah! senza avvedersene, presero gusto per queste letture che traboccavano di lordure contro la Religione e i buoni costumi. Ah! i loro poveri cuori, altra volta affezionati al buon Dio, si volsero ben presto al male; il loro modo di vivere cangiò interamente; cominciarono ad abbandonare tutte le loro pratiche; non fu più questione né di digiuno, né di penitenza, né di confessione, né di Comunione, di guisa che essi abbandonarono affatto i doveri di Cristiani. Il marito che si avvide, fu contento di vederli voltarsi da questa parte. Come la madre era ancora giovane, tutta la sua occupazione fu di adornarsi, di frequentare i balli e le commedie e prender parte ai piaceri che poteva trovare. Il figlio, dalla parte sua, seguiva le tracce della madre; diventò quindi un grande libertino che scandalizzò il paese che prima aveva edificato. Si abbandonò interamente ai piaceri ed allo stravizzo, di guisa che la madre e il figlio facevano spese enormi e le loro sostanze furono ben presto assottigliate. Il padre, vedendosi indebitato, volle sapere se i suoi beni potrebbero bastare a lasciar loro continuare questo genere di vita di cui egli medesimo era l’autore; ma fu ben sorpreso quando vide che i suoi beni non potevano nemmeno far fronte ai suoi debiti. Allora una specie di disperazione si impadronì di lui; un bel mattino si alza, a mente fredda, ed anzi con riflessione, carica tre pistole, entra nella camera della moglie, e le brucia le cervella; passa nella camera del figlio, gli scarica contro il secondo colpo, l’ultimo fu riserbato per se. Ah! padre sventurato, avesti almeno lasciato questa povera moglie e questo povero figlio nella preghiera, nelle lagrime e nella penitenza, sarebbero esistiti per il cielo, mentre li hai gettati nell’inferno cadendovi tu stesso. Ora, M. F., quale fu la causa di questa grande sciagura, se non perché avevano cessato di praticare la nostra santa Religione? Ah! M. F., qual castigo può essere paragonato a quello di un’anima, alla quale il buon Dio toglie la fede in punizione dei suoi peccati? Sì, M. F., se noi vogliamo salvare le anime nostre, la penitenza ci è necessaria per perseverare nella grazia di Dio come il respiro per vivere, per conservare la vita del corpo. Sì, siamo ben persuasi che, se noi vogliamo che la nostra carne sia sottomessa al nostro spirito ed alla ragione, è necessario assolutamente mortificarla con tutti i suoi sensi: se noi vogliamo che l’anima nostra sia sottomessa a Dio, è necessario mortificarla con tutte le sue potenze. – Noi leggiamo nella S. Scrittura che quando il Signore comandò a Gedeone di combattere contro i Madianiti, gli ordinò di comandare a tutti i suoi soldati timidi e paurosi di ritirarsi. Parecchie migliaia si ritirarono. Ne rimanevano ancora dieci mila. Il Signore disse a Gedeone: « Tu hai ancora troppi soldati; fa una piccola rivista, ed osserva tutti coloro che bevono attingendo l’acqua nel cavo della mano, ma senza fermarsi; sono questi che tu condurrai al combattimento. » Di diecimila non ne rimasero che trecento (Giud. VII, 6). Lo Spirito Santo presenta questo esempio per farci vedere come esiguo è il numero delle persone che praticano la mortificazione e che saranno salve. E vero, M. F., che la mortificazione non consiste tutta nella privazione del bere e del mangiare, benché sia necessario di non conceder tutto ciò che il nostro corpo domanda, dicendoci S. Paolo: « Io tratto duramente il mio corpo per tema che dopo di aver predicato agli altri, io non sia riprovato. »  – Ma è parimente certo, che una persona che ama i suoi piaceri, che cerca i suoi comodi, che fugge l’occasione di patire, che si inquieta, che mormora e che s’impazienta per la menoma cosa che non riesce secondo i desideri suoi e la sua volontà, non ha che il nome di cristiana; essa non è atta che a disonorare la sua Religione, perché Gesù Cristo ci dice: « Che colui che vuol essere mio discepolo prenda la sua croce e mi segua; che rinunci a se stesso; che prenda la sua croce tutti i giorni della sua vita e mi segua. » (S. Luc. IX, 23). Non occorre dire, M. F., che una persona sensuale non avrà mai quelle virtù che ci rendono accettevoli a Dio e ci assicurano il cielo. Se noi vogliamo avere la più bella di tutte le virtù, che è la castità, sappiamo che è una rosa che non si coglie che fra le spine; e quindi che non si incontrerà, come tutte le altre virtù, che in una persona mortificata. Noi leggiamo nella santa Scrittura (Dan. IX, 3, 22) che l’Angelo Gabriele, essendo apparso al profeta Daniele, gli disse: « Il Signore ha ascoltata la tua preghiera, perché è stata fatta nel digiuno e nella cenere: »; la cenere indica l’umiltà. Noi leggiamo nella storia che due missionari gesuiti (Questi due missionari sono S. Francesco Borgia ed il Padre Bustamante.), essendo a dormire insieme, ve ne ebbe uno che, essendo colto da infreddatura, sputò tutta la notte sopra il suo compagno senza saperlo. Il mattino, vedendo l’altro che si lavava, ne fu sommamente addolorato, e gli domandò perdono. L’altro gli disse: « Mio amico, voi non potevate sputare in un luogo più vile che sputando sopra di me. » Ecco, M. F., un esempio che dimostra fino a qual grado questo buon Padre spingeva la mortificazione.

III. — Ma, mi direte voi, quante sorta di mortificazioni vi sono? — Ecco, ve ne sono due: 1’una è interna, l’ultra è esterna, ma vanno sempre associate. Per la mortificazione esterna, essa consiste nel mortificare il nostro corpo in tutti i suoi sensi:

1° Noi dobbiamo mortificare i nostri occhi; non guardar nulla per curiosità, né diversi oggetti che potrebbero risvegliare in noi cattivi pensieri; né leggere libri che non siano capaci che farci praticare la virtù, e che all’opposto possano allontanarci ed estinguere il resto di fede che abbiamo.

2° Noi dobbiamo mortificare le nostre orecchie; non ascoltare con piacere tutte quelle canzoni, quei discorsi che possono adularci e che a nulla approdano: è sempre un tempo mal speso e rapito alle cure che dobbiamo consacrare alla nostra anima; mai prender piacere ad ascoltare le maldicenze e le calunnie. Sì, M. F., noi dobbiamo mortificarci in tutto questo e non essere nel numero di quelle persone curiose le quali vogliono saper tutto quello che si è detto, quello che si è fatto.

3° Noi diciamo che dobbiamo mortificarci nel nostro odorato: mai provar piacere nel sentire ciò che può soddisfare il nostro gusto. – Noi leggiamo nella vita di S. Francesco Borgia che egli non ha mai sentito i fiori, ma che all’opposto si metteva spesso in bocca delle pillole e le masticava(Catapotia dentibus eadem de caussa mandere solitus: « Egli aveva il costume di masticare delle pillole con i denti, per mortificarsi. » Vita di S. Franc. Borgia, cap. xv, Act. SS. t. V oct..,286) onde punire se medesimo del piacere che poteva aver provato sentendo qualche buon odore o mangiando cibi delicati.

4° In quarto luogo, dico che noi dobbiamo mortificare la nostra bocca; non devesi mangiare per golosità, né più del necessario; non bisogna concedere al corpo nulla che possa eccitare le passioni, non mangiare fuori di pasto senza una necessità. Un buon Cristiano non prende mai il suo cibo senza mortificarsi in qualche cosa.

5° Un buon Cristiano deve mortificare la sua lingua non parlando che in quanto sia necessario per adempiere il proprio dovere e per la gloria di Dio e il bene del prossimo. Vedete Gesù Cristo: per dimostrarci quanto il silenzio sia una virtù che gli è aggradevole e per muoverci ad imitarlo, Egli ha conservato il silenzio per il volgere di trent’anni. Vedete la Ss. Vergine: il Vangelo ci fa vedere che non ha parlato che quattro volte solamente, quando la gloria di Dio e il salvamento del prossimo lo domandavano. Ella parlò quando l’Angelo le annunziò che sarebbe Madre di Dio (S. Luc. I, 34-38) parlò quando si recò a visitare la sua cugina Elisabetta, per metterla a parte della sua felicità (ibid.., 46); parlò al suo Figlio, quando lo ritrovò nel tempio (ibid. II, 48); parlò quando intervenne alle nozze di Cana, rappresentando al suoi Figlio il bisogno di quella gente (S. Giov. II, 3). Noi vediamo pure che, in tutte le comunità religiose, un gran punto delle loro regole è il silenzio; per la qual cosa S. Agostino scrive che colui che non pecca colla lingua è perfetto. (Questa parola è altresì dell’apostolo S. Giacomo: Si quis in verbo non offendit, hic perfeclus est vir. S. Giac. III, 2). Noi dobbiamo segnatamente mortificare la nostra lingua quando il demonio ci inspira di dire cattive ragioni,di cantare cattive canzoni, di lasciarci cadere di bocca delle maldicenze e delle calunnie contro il prossimo, di non pronunciare giuramenti e parole triviali.

6° Io dico che dobbiamo mortificare il nostro corpo non concedendogli tutto il riposo che esige, è una virtù di tutti i santi. Mortificazione interna. In secondo luogo, abbiamo detto che dobbiamo praticare la mortificazione interna. E dapprima, mortifichiamo la nostra immaginazione. Non bisogna lasciarla vagare qua e là, né lasciare che si riempia di cose inutili, segnatamente non lasciarla aggirarsi sopra cose che possano condurre al male, come pensare a certe persone che hanno commesso qualche turpe peccato contro la santa virtù della purità, come pure pensare ai giovani che si maritano; tutto ciò non è che un’insidia che il demonio ci tende per trascinarci al male. Quanti di questi pensieri si presentano è necessario discacciarli. Neppure bisogna lasciarci occupare l’immaginazione, che cosa diventerei, che cosa farei, se fossi… se avessi questo, se mi si concedesse quello, se potessi guadagnare quest’altro. Tutte queste cose a nulla giovano se non a farci gettare un tempo nel quale potremmo pensare a Dio ed al salvamento dell’anima nostra. E necessario, all’opposto, occupare la nostra immaginazione nel pensare ai nostri peccati per gemerne e per correggerci; spesso pensare all’inferno, per studiare di evitarlo; spesso pensare al cielo, per vivere in modo da meritarlo; spesso pensare alla morte e alla passione di nostro Signore Gesù Cristo, per aiutarci a sopportare i mali della vita in ispirito di penitenza. – Noi dobbiamo di giunta mortificare il nostro spirito: mai voler esaminare se la nostra Religione non è buona, né voler cercare di comprendere i misteri, ma solamente ragionare! nel modo più sicuro col quale condurci per piacere a Dio e salvare l’anima nostra. Poscia noi dobbiamo mortificare la nostra volontà, cedendo sempre alla volontà degli altri quando la nostra coscienza non corra pericolo. E farlo senza mostrare che ciò reca pena; all’opposto essere contenti di trovare un’occasione di mortificarci per poteri espiare i peccati della nostra volontà. Eccole, M. F., in generale, le piccole mortificazioni che possiamo praticare ad ogni istante, comi pure di sopportare i difetti e le sconvenienze di coloro coi quali viviamo. Egli è certo che le persone che non cercano che di accontentarsi nel bere e nel mangiare e nei piaceri che il loro corpo e il loro spirito possono desiderare non piaceranno a Dio, perché la nostra vita deve essere una imitazione di Gesù Cristo. Io vi domando quale rassomiglianza si potrà trovare tra la vita di un ubbriacone e quella di Gesù Cristo, il quale ha passato la sua vita nel digiuno e nelle lagrime; tra quella d’un impudico e la purità di Gesù Cristo; tra un vendicativo e la carità di Gesù Cristo e via dicendo. Ah! che sarà di noi quando Gesù Cristo confronterà la nostra vita con la sua? Facciamo almeno qualche cosa che possa essere capace di piacergli. Abbiamo detto, cominciando, che la penitenza, le lacrime ed il dolore de’ nostri peccati ci consolano grandemente al punto della morte, e di ciò non è a dubitare. Qual felicità per un Cristiano, in quell’estremo momento, in cui egli si esamina per bene  a coscienza, di ricordarsi d’aver non solo osservato i comandamenti di Dio e della Chiesa, ma d’aver trascorsa la sua vita nelle lacrime e nella penitenza, nel dolore de’ suoi peccati e in una continua mortificazione di tutto quanto poteva contentare i suoi gusti. Se noi abbiamo qualche timore, non potremmo dire, come S. Ilarione: « Di che temi, anima mia? sono molti anni che lavori a fare la volontà di Dio e non la tua! abbi fiducia, il Signore avrà pietà di te! » (Vita dei  Padri del deserto, t. V, pag. 208) Per meglio farvelo comprendere vi citerò un bell’esempio: Narra S. Giovanni Climaco (La scala santa), ch’eravi un giovane il quale aveva concepito un gran desiderio di passare la sua vita nella penitenza e di prepararsi in tal modo alla morte; egli non pose alcun limite alle sue penitenze. Allorché la .morte giunse, fece chiamare il suo superiore, e gli disse: « Ah! padre mio, qual felicità per me! Oh! quanto sono lieto d’aver vissuto nelle lacrime, nel dolore dei miei peccati e nella penitenza! Il buon Dio, che è sì buono, mi ha promesso il cielo. Addio, padre, io vado a riunirmi al mio Dio del quale ho procurato d’imitare la vita per quanto mi fu possibile: addio, padre mio, io vi ringrazio d’avermi incoraggiato a camminare per questa fortunata strada. » Qual contento per noi, M. F., in quell’istante d’aver vissuto per il buon Dio; d’aver fuggito e temuto il peccato, di esserci privati non solo dei cattivi e vietati piaceri, ma altresì dei piaceri leciti ed innocenti; d’aver frequentato sovente e degnamente i Sacramenti dove abbiamo trovato tante grazie e virtù per combattere il demonio, il mondo e le nostre inclinazioni. Ma ditemi, M. F., che si può sperare in quello spaventoso momento in cui il peccatore vede davanti ai suoi occhi una vita che non fu che una sequela di delitti? Che si può sperare per un peccatore che ha vissuto come se non avesse avuto un’anima da salvare e che credeva che quando fosse morto tutto sarebbe finito; che non ha quasi mai frequentato i Sacramenti, e che, ogni volta che li ha frequentati, non ha fatto che profanarli con cattive disposizioni; un peccatore che, non contento di aver deriso e disprezzato la sua Religione e coloro che avevano il bene di praticarla, fece ogni sforzo per indurre gli altri a battere la sua via d’infamia e di libertinaggio? Ah! qual fremito di disperazione per questo povero disgraziato di riconoscere allora ch’egli non è vissuto che per far soffrire Gesù Cristo, perdere l’anima sua e piombare nell’inferno! Dio mio, quale sventura! tanto più che egli sapeva benissimo che poteva ottenere il perdono de’ propri peccati purché lo avesse voluto. Dio mio, che disperazione per tutta l’eternità! Ecco un ammirabile esempio che ci fa vedere che, se noi siamo dannati, si è perché non abbiamo voluto salvarci. Narrasi nella Storia  (Vita dei Padri, t. I , cap. xv, S. Pafnuzio.) che S. Taide era stata nella sua giovinezza una delle più famose cortigiane che avesse sopportata la terra: nullameno essa era cristiana. Sprofondossi in tutto ciò che il suo cuore, che altro non era che un braciere di fuoco impuro, potesse desiderare; profanò nella crapula tutto ciò che il cielo l’aveva favorita di spirito e di bellezza; la stessa sua madre fu lo strumento di cui l’inferno si servì per gettarla con spaventevole furore in ogni sorta di laidezze, di modo che la sua povera giovinezza trascorse nelle sregolatezze più infami e disonorevoli per una donna. Gli uni si rovinarono per farle dei regali, molti si pugnalarono per non averla potuto possedere. Insomma le sregolatezze di questa commediante formavano lo scandalo di tutta la provincia e motivo di lamento per tutti i buoni. Potete immaginarvi il male che essa faceva, le anime che perdeva, gli oltraggi che infliggeva a Gesù Cristo per le anime che induceva al peccato. Nella sua infanzia era stata bene istruita, ma i suoi disordini e la violenza delle sue passioni avevano estinto in essa tutte le verità della Religione. Nonostante, il buon Dio volle manifestare la grandezza delle sue misericordie, ben sapendo che la sua conversione ne produrrebbe altre; e, gettando su di essa uno sguardo di compassione, andolla a cercare Lui stesso in mezzo alle lordure più infami. Per compiere questo gran miracolo della sua grazia si servì d’un santo solitario al quale fece conoscere questa famosa peccatrice con tutti i suoi disordini. Il Signore gli comandò di andare a trovare questa cortigiana. Questo solitario era S. Pafnuzio. Egli assunse l’abito di cavaliere, si fornì di denaro, e partì per alla volta della città ove essa abitava. Siccome egli era guidato da Dio stesso, giunse direttamente ove ella stava, e chiese di parlarle. Taide che nulla sapeva di tutto ciò, lo condusse in una camera remota e magnificamente arredata. Allora il santo le domandò se essa non ne aveva altra più remota ove potesse sottrarsi agli occhi di Dio medesimo. « Eh! state sicuro, gli disse la cortigiana, che nessuno verrà: ma se voi temete la presenza di Dio, non è ch’Egli è da per tutto? »  Il santo fu grandemente meravigliato a sentirla parlare del buon Dio: « Come! le disse, conoscete voi il buon Dio? » — « Sì, rispose ella; ed oltre a ciò, io so che vi è un paradiso per coloro che lo servono fedelmente, ed un inferno per coloro che lo disprezzano. » — « Ma come va – soggiunse il santo – che con tutte queste conoscenze potete vivere nel modo che vivete, e da molti anni, preparandovi a voi stessa un inferno? » Queste sole parole del santo, avvalorate dalla grazia del buon Dio, furono come un colpo di fulmine che abbatterono la nostra cortigiana come S. Paolo sulla via di Damasco. Ella si gettò ai suoi piedi profondendosi in lacrime e pregandolo in grazia di aver pietà di lei, di impetrare misericordia per essa dal Signore. Si protestò pronta a compiere tutto quanto ordinasse, per provare se il buon Dio volesse ancora perdonarla. Non domandò che una dilazione di tre ore per metter ordine alle sue faccende: dopo si recherebbe nel luogo da lui assegnato per non pensare più ad altro che a piangere i propri peccati. Avendole il santo concesso tal dilazione, radunò ella quanti poté dei libertini che si erano profondati con essa nel peccato, li condusse sulla pubblica piazza, e là, in loro presenza, si spogliò di tutti i suoi vezzi: fece portare i mobili acquistati con l’oro delle sue infamie, ne fece una catasta e vi appiccò il fuoco, senza nulla dire perché così operasse. Dopo ciò lasciò la piazza per recarsi presso il santo che l’aspettava, il quale la condusse in un monastero di donzelle. Egli la chiuse in una cella di cui suggellò la porta, e pregò una religiosa di portarle qualche pezzo di pane e un po’ d’acqua. Taide domandò al santo qual preghiera dovesse fare nel suo ritiro per muovere il cuore di Dio. Il santo le rispose: « Tu non sei degna di pronunziare il nome di Dio, né di innalzare le tue mani impure al cielo. Ti basti di volgerti verso l’oriente e dire con tutto il dolore del tuo cuore e nell’amarezza dell’anima tua: « O voi che mi avete creata, abbiate pietà di me. » Ecco tutta la preghiera ch’ella fece pel corso di tre anni che rimase in quel bugigattolo, durante i quali non perdette mai di memoria i suoi peccati. Ella pianse sì tanto, maltrattò sì crudelmente il suo corpo, che quando S. Pafnuzio andò a consultare S. Antonio per sapere da lui se il buon Dio le avesse usato misericordia, S. Antonio, dopo aver passata la notte in orazione co’ suoi religiosi per tal fine, gli disse, che il buon Dio aveva rivelato a uno dei suoi religiosi, il quale era S. Paolo il Semplice, che uno splendido trono stava preparato in cielo per la penitente Taide. Allora il santo pien di gioia e d’ammirazione che in così poco tempo avesse ella soddisfatto alla giustizia di Dio, andolla a trovare per dirle che i suoi peccati le erano perdonati, e che doveva lasciare la sua cella. Il santo le domandò ciò ch’essa avesse fatto in questi tre anni. Ella rispose: « Padre mio, io misi i miei peccati al mio cospetto come un mucchio, e non ho cessato di piangerli e d’invocar misericordia. » — « Ed è appunto per questo – ripigliò S. Pafnuzio – che tu hai conquistato il cuore di Dio, e non per altre tue penitenze. » Avendo abbandonata la sua cella per recarsi in un monastero, ella non sopravvisse che quindici giorni, dopo i quali andò a cantare in cielo la grandezza della divina misericordia. – Da quest’esempio, M. F., noi vediamo quanto presto possiamo guadagnare il cuore di Dio, purché il vogliamo, senza ricorrere a grandi penitenze. Qual rimpianto pel volgere dell’eternità per non aver voluto farci alquanta violenza per abbandonar il peccato! Sì, M. F., noi lo vedremo un giorno che noi avremo potuto soddisfare alla giustizia di Dio con null’altro che con le piccole miserie della vita, che siamo costretti a sopportare nella condizione a cui il buon Dio ci ha posti, se noi vorremo nello stesso tempo aggiungere qualche lacrima ed un sincero dolore de’ nostri peccati. Qual rammarico d’esser vissuti e d’esser morti nel peccato, allorché vedremo che Gesù Cristo ha tanto patito per noi e che tanto desiderava di perdonarci, se gli avessimo domandato perdono! Dio mio, quanto è cieco e sventurato il peccatore! Noi abbiamo timore della penitenza. Ma osservate, M. F., come si comportavano coi peccatori ne’ primordi della Chiesa. Coloro che volevano riconciliarsi col buon Dio si recavano nel mercoledì delle Ceneri alla porta della chiesa cogli abiti sucidi e laceri. Entrati in chiesa si spargeva loro la testa di cenere, si dava loro un cilizio cui dovevano portare tutto il tempo della loro penitenza. Dopo ciò si imponeva loro di prostrarsi contro terra, mentre si cantavano i sette salmi penitenziali per implorare sur essi la misericordia di Dio; poscia si faceva loro un’esortazione per indurli a praticar la penitenza con tutto lo zelo possibile, sperando che forse il buon Dio si lascerebbe placare. Dopo tutto ciò erano avvisati che sarebbero scacciati dalla chiesa con ignominia, come Dio scacciò Adamo dal paradiso terrestre dopo il suo peccato. Non appena usciti si chiudeva sopra di loro la porta della chiesa. Ma se desiderate sapere in qual modo passavano questo tempo, quanto durava questa penitenza, eccolo: primieramente erano obbligati a vivere ritirati, oppure ad occuparsi in lavori penosi; avevano alcuni giorni nella settimana in cui dovevano digiunare a pane ed acqua, secondo la gravità de’ loro peccati; lunghe preghiere durante la notte prosternati con la faccia contro terra; si coricavano sopra tavole; si alzavano più volte la notte per piangere i loro peccati. Si facevano passare per vari gradi di penitenza; le domeniche comparivano alla porta della chiesa vestiti di cilicio, col capo cosparso di cenere, rimanendo fuori esposti all’intemperie; si prosternavano dinanzi ai fedeli che entravano in chiesa, scongiurandoli con le lacrime agli occhi di pregare per loro. A capo di un certo tempo, era loro concesso di ascoltare la parola di Dio, ma appena fatta l’istruzione erano cacciati di chiesa; molti non erano ammessi alla grazia dell’assoluzione se non in punto di morte; e ciò era ancora tenuto per un gran favore che faceva loro la Chiesa, dopo aver passati dieci o vent’anni o più ancora nelle lacrime e nella penitenza. Ecco, M. F., come la Chiesa si comportava altra volta verso i peccatori che volevano davvero convertirsi. Se ora desiderate sapere chi erano coloro che si sottomettevano a queste aspre penitenze, vi dirò che erano tutti, dal mandriano all’imperatore. Se ne volete un esempio, eccone uno che abbiamo nella persona dell’imperatore Teodosio. Costui avendo peccato più per sorpresa che per malizia, S. Ambrogio gli scrisse, dicendogli: « Questa notte ho avuto una visione in cui il buon Dio m’ha fatto conoscere che voi venivate alla chiesa, e mi comandò di non lasciarvi entrare. » Leggendo questa lettera, l’imperatore pianse amaramente; tuttavia egli andò a prostrarsi, come al solito, alla porta della chiesa con la speranza che le sue lacrime e il suo pentimento commuoverebbero il santo vescovo. Quando S. Ambrogio lo vide avanzarsi, gli disse: « Fermatevi, o imperatore, voi non siete degno di entrare nella casa del Signore. » L’imperatore a lui: « È vero, ma anche Davide peccò, ed il Signore lo ha perdonato. » — « Ebbene, replicò gli S. Ambrogio, poiché voi lo avete imitato nel peccato, seguitelo nella penitenza. » A tali parole l’imperatore si ritira, senza nulla dire, nel suo palazzo, si toglie le insegne imperiali, si prosterna con la faccia contro terra e si abbandona a tutto il dolore di cui era capace il suo cuore. Per ben sette mesi non mise più piede nella chiesa. Allorché vedeva andarvi i suoi famigliari, mentre a lui era proibito, lo si udiva gridare in modo tale da commuovere i cuori più induriti. Quando poi gli si permetteva di assistere alle pubbliche preghiere, egli stava, non come gli altri, in piedi o in ginocchio, ma col volto prosternato a terra, nella maniera la più commovente, battendosi il petto, strappandosi i capelli ed amaramente piangendo. Per tutta la vita non dimenticò il suo peccato; non poteva pensarvi senza spargere lacrime. E così, M. F., voi vedete ciò che fece un imperatore che non volle perdere l’anima sua. – Che dobbiamo conchiudere, M. F.? Ecco: Giacché è assolutamente necessario piangere i nostri peccati, farne penitenza o in questo mondo o nell’altro, scegliamo la meno rigorosa e la meno lunga. Qual rammarico, F. M., giungere al punto di morte senza nulla aver fatto per soddisfare alla giustizia di Dio! Quale sventura l’aver non curato tanti mezzi che abbiamo di patir qualche miseria, che se noi le avessimo sopportate in pace per amor del buon Dio, ci avrebbero meritato il perdono! Quale sventura l’aver vissuto nei peccato, sperando sempre che lo avremmo lasciato, e morire senza averlo fatto! Prendiamo, F. M., un’altra strada che vantaggiosamente ci consolerà in quel momento; lasciano ilmale, cominciamo dal piangere i nostri peccati e tolleriamo tutto ciò che il buon Dio a  lui piacerà d’inviarci. Che la nostra vita sia che una vita di rimordimenti, di pentimento de’ nostri peccati e d’amor di Dio, finché noi abbiamo la felicità d’unirci a Lui per tutta l’eternità. E quanto vi auguro.