DA SAN PIETRO A PIO XII (10)

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

CAPO XII.

LE CONDIZIONI DELLA CHIESA NEI SECOLI IX E X

1) L’elezione del Papa — 2) Il sacro romano impero

3) Lo spavento dell’anno 1000

1 – L’ELEZIONE DEL PAPA PREAMBOLO

Eletto dal clero e dal popolo

Essendo il Papa anzitutto capo della comunità romana, era naturale che questa, a somiglianza delle altre chiese, partecipasse alla scelta del proprio pastore. Sicché anche a Roma si osservava il cànone apostolico « Oportet episcupum testimonium habere bonum ab his qui foris sunt » (I Tim. III, 7), cioè « è necessario che il Vescovo abbia, buona riputazione presso gli estranei », e il Papa alla stregua della disciplina comune era eletto dal clero e dal popolo e confermato dai Vescovi suburbicari, che a tale scopo convenivano a Roma. Cipriano agli scismatici Noviziani mostra come Cornelio fosse eletto in piena regola nel 251. Due secoli dopo, a testimonianza di Papa Leone Magno, l’elezione importava sempre « vota civium, testimonia populorum, honoratorum arbitrium, electio clericorum ». – In seguito vollero calamitosamente interferirvi imperatori e fazioni nobiliari, finché fu esclusivamente riservata al Collegio dei Cardinali (1179). E con ciò continua la disciplina antica del Papa eletto dal clero romano : perché i Cardinali, anche se stranieri, sono titolari d’una chiesa dell’Urbe e perciò fanno parte del clero romano’.

D. Chi aveva diritto ad eleggere il Papa?

— Il clero di Roma.

D. Che cosa pretesero i nobili romani dopo la costituzione dello Stato Pontificio?

— Dopo la formazione dello Stato Pontificio i nobili romani pretesero di prender parte anch’essi all’elezione del Papa.

D. Per qual motivo?

— Perché il Papa era il loro sovrano temporale giuridicamente riconosciuto, perciò ritenevan giusto che nella sua elezione avessero anch’essi da far sentire la loro voce, come i principali cittadini del suo Stato.

D. Chi vi si oppose?

— Il clero; e la storia posteriore gli diede piena ragione, poiché i potenti del mondo, nell’elezione del Papa, si lasciarono spesso guidare non dagl’interessi della religione, ma da passioni di parte e da interessi familiari e politici, per cui qualche volta furono eletti degli incapaci o indegni.

PREAMBOLO

2 – IL SACRO ROMANO IMPERO

Restaurazione

Adriano I, morto nel 795, era stato dato per successore Leone III di illustre famiglia romana. Un’audace fazione prese ad avversarlo in tutti i modi, ne esitò a ricorrere anche ad un infame attentato. Di fatti nel giorno di S. Marco (25 aprile), durante la processione delle Rogazioni, alcuni sediziosi s’impadronirono della persona del Papa, e, dopo averlo malmenato, lo chiusero in carcere. Il popolo accorse a liberarlo, ma Leone, non sentendosi sicuro, ricorse a colui che, essendo stato investito del titolo di Patrizio, aveva il diritto e il dovere di tutelare i diritti della S. Sede e la dignità, del Pontefice. Andò dunque in Francia presso il re Carlo. Sei mesi dopo Leone III rientrava in Roma accompagnato dai delegati del re, che dovevano procedere contro gli autori del criminoso attentato. Carlo stesso poco dopo venne a Roma per sanzionare i provvedimenti presi. – Leone approfittò per restaurare in Carlo la maestà dell’Impero Romano fatto cristiano.

D. In che circostanza Leone III incoronò Cario Magno quale Imperatore del Sacro Romano Impero?

— Nel Natale del 799, mentre il re assisteva alle solenni funzioni inginocchiato dinanzi all’altare del Principe degli Apostoli.

D. Che fece il Papa?

— Prese la corona imperiale, e dopo la benedizione di rito, la pose sul capo del re dei Franchi, mentre il popolo festante ripeteva: « A Carlo, augusto coronato da Dio, grande e pacifico Imperatore dei Romani, vita e vittoria».

D . L’atto compiuto dal Papa doveva essere solo una vuota cerimonia ?

— No, ma la base di nuovi rapporti tra l’autorità civile e religiosa, il fondamento di un nuovo importantissimo edificio politico. Leone III, sostituendosi al Senato nel proclamare Carlo M. imperatore, e consacrandolo con il sacro Crisma, come un giorno il sommo sacerdote faceva con i re d’Israele, dava al nuovo Impero un carattere essenzialmente cristiano.

D. Qual era in quest’Impero la missione dell’Imperatore?

— L’Imperatore veniva chiamato ad esercitare la sua azione accanto a quella stessa del Papa; egli doveva essere il capo temporale di un’alleanza fraterna fra i popoli Cristiani, a quella guisa che il Papa n’era il capo spirituale. Per questo titolo Carlo Magno veniva ad acquistare una preminenza su tutti gli altri principi, anzi sullo stesso Imperatore di Costantinopoli.

D. A che doveva servirsi di tale potere?

— Per rinforzare l’azione della Chiesa sopra la società, per diffondere il Cristianesimo in mezzo ai popoli barbari, per tutelare i diritti e l’autorità del Pontefice.

D. Che intendeva inoltre il Papa con tale creazione?

— Intendeva affrancarsi definitivamente dalla supremazia politica dell’Impero di Bisanzio, che più d’una volta era stato alla mercé di audaci avventurieri o di qualche rozzo guerriero; e più d’una volta i suoi imperatori avevano creato alla Chiesa Cattolica gravi difficoltà o facendosi fautori di eresie, o mostrandosi impotenti od incuranti nel recarle aiuti in circostanze difficili. Tutti poi angariavano l’Italia con estorsioni e balzelli, quasi fosse un paese di conquista.

D. Che fece Carlo Magno divenuto imperatore del S.R.I.?

— Spiegò nell’interesse della Chiesa e del Papato la più ammirabile sollecitudine.

D. Come furono regolate le relazioni tra i due poterli

— Per via di amichevoli accordi, come lo attestano vari documenti. Le monete romane portano insieme con il nome del Papa anche quello dell’Imperatore, e i Romani prestavano giuramento di fedeltà all’Imperatore ugualmente che al Papa; a questi come loro sovrano, all’Imperatore come a loro protettore ed avvocato.

D.Che cosa doveva ingenerare tuttavia questa confusione di poteri?

— Questa mancanza di severa distinzione dei diritti reciproci fra i due poteri, doveva a non lungo andare ingenerare deplorevoli equivoci e odiosi dissensi.

D.Quando cominciarono questi dissensi!

— Con i successori di Carlo Magno, che, considerandosi come legittimi eredi di Augusto, di Costantino, di Teodosio, venivano ad esercitare la loro azione anche sulla stessa disciplina della Chiesa, indipendentemente dal Papa, il quale, secondo loro, non dava all’autorità imperiale che una sanzione religiosa.

D. A che valsero le rimostranze del Papa?

— A nulla, per cui tra non molto si accenderà con la lotta delle investiture in un duello terribile che si protrarrà per secoli.

3 – LO SPAVENTO DELL’ANNO 1000

PREAMBOLO

Meschine fantasie

L’inglése Robertson, il francese Michelet, il ginevrino Sismondi. arrivati con le loro storie alla seconda metà del sec. X, s’indugiano a descrivere la società come pervasa « dalla spaventosa speranza della fine del mondo », annunziata per la notte di San Silvestro dell’anno 999. Gli uomini di quel tempo erano nella condizione del reo che udì la sentenza e attende l’esecuzione. Mille e non più mille. Il testo dell’Apocalisse (XX, 1-7), le parole di S. Paolo che dicevano imminente la venuta del Signore a rapir seco i morti e i vivi nell’aere, il presentimento del giudizio finale prossimo, che compare con tanta frequenza negli scritti di Gregorio Magno, tutti questi terrori, come nubi diverse che aggruppandosi fanno temporale, confluirono sulla fine del sec. X in una sola e immane paura E che grido di gioia salì al cielo dalle turbe raccolte in gruppi silenziosi intorno ai manieri feudali, accasciate e singhiozzanti nelle chiese tenebrose e nei chiostri, sparse con pallidi volti e sommessi mormorii per le vie e i campi, quando il sole, fonte di luce e di vita, si levò trionfale la mattina dell’anno mille!…

D. Quale fondamento ha tutta cotesta descrizione?

—  Nessuno. Lo mostrò il padre Plaine fin dal 1873. Falso che si aspettasse universalmente il finimondo per il S. Silvestro del 999; falso che si citasse a sostegno il XX, 1-7 dell’Apocalisse; falso che il clero alimentasse la diceria per impinguarsi dei beni lasciati dai fedeli « prò remedio animæ ».

D. Non ci fu qualche cenno sulla fine del mondo fra il 960 e 970?

— Sì, e sparso da qualche fanatico, ma negli anni successivi fino al 1000 non troviamo un testo, un cenno, un’allusione a simile credenza; non nelle 150 bolle papali di quel trentennio, non in bolle posteriori, non in atti conciliari, non in strumenti privati. Si trova anzi il contrario, per es. il concilio romano del 998 impone a Roberto il Pio, re di Francia, una penitenza di 7 anni, e papa Silvestro II, proprio il 31 dicembre 999, conferma i privilegi del Monastero di Fulda e della chiesa di Reims.

D. A che si riduce dunque tutto lo spavento all’avvicinarsi dell’anno 1000?

— A un curioso errore storico. Accenni alla prossima fine del mondo si trovano in tutti i secoli, prima e dopo i l mille; e quindi anche nel sec. X. Il mondo, però, continuò ad andare avanti senza accorgersi di questo errore.

D. E tutte le dicerie contro la Chiesa al riguardo?

— Non vengono ad avere nessuna consistenza storica; hanno servito puramente all’anticlericalismo per gracidare contro la Chiesa.

L’IDEA RIPARATRICE (2)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (2)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO I

Perché riparare?

CAPO SECONDO

LA RIPARAZIONE: DESIDERIO ESPLICITO DI NOSTRO SIGNORE.

La necessità della riparazione s’impone a ciascuno di noi non soltanto, come abbiamo visto fin qui, quale conseguenza legittima dei più saldi principii della nostra fede cattolica e in particolare della dottrina del Corpo Mistico di Gesù e del dogma della Redenzione, ma ancora per un obbligo esplicitamente inculcato e ripetuto dallo stesso nostro Divin Redentore. Apriamo il Santo Vangelo, consultiamo gli altri libri divinamente inspirati, ad ogni tratto noi troviamo che il Salvatore si mostra desideroso di trovare delle anime che sappiano rinnegare se stesse e mettere a profitto della gran causa della gloria divina e della salvezza di molti la propria abnegazione. – Incominciamo dai Santi Vangeli. La legge che più di ogni altra vi si ricorda è il dovere della penitenza riparatrice: e i testi sovrabbondano. Il divin Maestro manda innanzi a sé il Battista; quale la sua predicazione? — « Un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati » . — Sulle rive del Giordano, ove verrà a lui lo stesso divin Salvatore per incominciare la sua missione, che ripete nelle sue lunghe giornate? — « Fate penitenza, perché si avvicina il Regno di Dio ». Ed egli stesso colla sua vita precede dandone l’esempio: poiché le sue vesti sono un rozzo cilicio, suo cibo le locuste del campo, suo compagno il silenzio del deserto. Vengono a lui le turbe e l’interrogano: « Tu chi sei? ». Ed egli risponde loro: « Chi io mi sia, lo volete sapere? Sono la voce che grida nel deserto: Raddrizzate le vie del Signore ». Voi siete fuori di strada, avete sbagliato il cammino, convien ritornare sulla buona via — riparare. E quando gli si accostano degli ipocriti, poco desiderosi certo di cambiar vita, e mostrano di voler esser purificati col suo battesimo, Giovanni li accoglie colle ben meritate invettive: « Razza di vipere, ipocriti! il vostro pentimento non è sincero. Il Signore esige frutti di penitenza proporzionati alla gravità delle vostre colpe. La scure è alla radice dell’albero. Quella pianta che non porta buoni frutti sarà tagliata e gittata al fuoco. Non tardate più oltre. V’ha chi deve venire — anzi Egli è già in mezzo a voi — e voi nol conoscete ancora. Avete presso di voi del buon grano? Egli lo raccoglierà per i suoi granai: non avete che della paglia? egli la butterà tra le fiamme che mai non si estingueranno ». Può darsi forse parola più decisa e più vibrata per inculcare la necessità della pena compensatrice, l’obbligo di ritornare sulla retta via, di riparare i propri errori, di sollecitare il perdono coll’offerta di una penitenza proporzionata ai propri falli? Ed ora sottentra lo stesso divin Salvatore ed incomincia la sua predicazione col digiuno di quaranta giorni nel deserto. Agli Apostoli che chiama alla sua sequela più intima Egli dice: « Abbandonate ogni cosa »; e alle turbe che si affollano intorno a Lui: Rinnegate voi stessi » . S. Matteo ce lo fa notare appositamente: « Da quel punto incominciò a predicare dicendo: Fate penitenza »; quasi per farci comprendere che tale insegnamento, molto frequente poi in appresso, Egli lo proponeva fin dal principio come un pensiero che gli era caro ed un tema che preferiva ad ogni altro. Anzi Egli passerà tutta la sua vita pubblica nello sviluppare questo tema: la rinunzia di sé stessi e la penitenza dei peccati. « Se voi avete due tuniche, vendetene una. Non vi turbate in vita vostra pel cibo e vestito necessario. Che importa il denaro? Quel che conta è il tesoro ammassato pel Cielo » . Lo sentirete continuamente fulminare di anatema quanti battono la via larga e invitare i pellegrini di quaggiù a preferire la via stretta. « Guai a voi, o ricchi! Guai a voi, o ipocriti, guai a voi! E chi sarà beato? Quelli che non posseggono nulla, i mansueti, quelli che piangono, gli assetati della giustizia, i misericordiosi, i puri, i pacifici, i perseguitati! Ecco: seriamente, volete voi impegnarvi al mio servizio, venire dietro di me? Un passo s’impone: Risolvete di rinnegare voi stessi e prendete a due mani la vostra croce. Altrimenti tutto è inutile ». E il Salvatore non ha sole parole. Se Iddio avesse tracciato soltanto delle formole, pochi avrebbero compreso. Ma la parola si mutò in atto, la parola ha preso corpo: Et Verbum caro factum est, il Verbo si è fatto carne. Così quanto poteva giungere soltanto agli orecchi nostri diventò visibile agli occhi di tutti. Il consiglio si cambiò in esempio. Il Salvatore farà consistere l’intera sua vita in una continua ostia per insegnare a noi l’immolazione. Fin dal suo primo ingresso nel mondo — ingrediens mundum — dichiara la natura della sua impresa. — Dicit: hostiam et oblationem noluisti. Tunc dixi: ecce venio. Poiché le vittime offerte fino a questo giorno non vi sono gradite, o Padre Celeste, ecco da questo momento, accettatemi, sarò io stesso la vittima. Nel seno di Maria, Gesù non fa altro che le prime prove di quella vita di ostia che Egli poi continuerà attraverso ai secoli nei chiusi tabernacoli sparsi sulla faccia della terra. Egli viene alla luce: il presepio, Betlemme, la stalla. Egli è ostia. A parto virgineo effectus hostia, dirà Tertulliano. E dopo la nascita da Maria SS. la serie dei sacrifizi si continua: la circoncisione, la fuga in Egitto, l’esilio; nulla manca. Il Saldatore doveva dire più tardi: « Beati quelli che soffrono, beati quelli che sono spogliati di ogni cosa ». Se Egli possedesse qualche cosa, se fosse nato in mezzo alle comodità, gliel’avrebbero rinfacciato. Oh! no, Egli sarà più di tutti noi povero e disgraziato. A Nazareth la vita nascosta. Senza di essa, predicando Egli più tardi l’umiltà, noi non avremmo accolte le sue parole: sono così pochi quelli che lo fanno anche dopo il suo esempio così eloquente! Noi amiamo tanto comparire… ed Egli si nasconde per trent’anni. Per ogni sorta di orgoglio, è conveniente un’ammenda speciale. Egli si nasconde e lavora ed il suo lavoro è faticoso. Holman Hunt, pittore inglese, in un quadro intitolato « L’ombra della morte nella bottega di Nazareth », ha dipinto il Cristo operaio che sospende per un istante il lavoro, si rizza sulla persona e stende le sue braccia per riposarsi dalla fatica. L’ombra della sua persona si proietta sul muro bianco attraversato orizzontalmente da un asse a cui sono appesi gli utensili da falegname. L’illusione è perfetta. Si direbbe un uomo che spicca in rilievo sopra una croce. Poi viene la vita pubblica colle sue faticose peregrinazioni in cerca di anime, il Cristo assetato domanda un po’ d’acqua alla Samaritana, le notti passate in preghiera, l’Apostolato infaticabile. Le volpi hanno una tana, gli uccelli un nido, il Figlio dell’uomo, nulla. Non un tetto per ricoverarsi. Egli sconta per tutti quelli che si perdono dietro alle vanità, per gli adoratori del vitello d’oro, per i figli di Dio che dimenticano o trascurano di ricorrere a Lui, per i seminatori di zizzania, e per quanti non accolgono o ricevono invano il seme divino. Al cominciar del suo ministero Giovanni Battista lo addita alle turbe chiamandolo semplicemente : « L’Agnello di Dio che porta i peccati degli uomini ». Comprendiamo bene: Ecco la vittima universale e silenziosa per cui il mondo avrà salvezza. Con pazienza veramente divina, per ben tre anni il Cristo cercherà di far comprendere ai suoi Apostoli che Egli dovrà sacrificarsi alla morte. Essi non ne saranno persuasi finché dai nascondigli in cui avranno potuto rifugiarsi ben dentro alla città di Gerusalemme, non lo scorgeranno lontano sulla vetta del Calvario confitto sopra la Croce. Finalmente ecco la Passione di Gesù: in essa specialmente il divin Salvatore si mostra l’ostia per eccellenza. Egli accetta di essere tradito, rinnegato, insultato, battuto, oltraggiato, inchiodato e sospeso al patibolo della Croce per insegnare a noi di soffrire com’Egli fece, nel nostro onore, nella nostra riputazione, nella nostra carne, nelle nostre affezioni e poi — perché necessaria la riparazione alla giustizia divina — per tutti quelli che se la godono e che si divertono, per tutti quelli che tradiscono il loro battesimo e la loro fede, pei rinnegati e quanti insultano il Crocefisso e perseguitano la religione, per quelli che schiaffeggiano la Chiesa, il suo capo e i suoi ministri, per tutti quelli insomma che per il loro svergognato egoismo non sanno sostenere la vista della Croce del Signore. È sì grande l’amore di Cristo per la riparazione che la glorifica nella Maddalena, la pubblica peccatrice, la quale in virtù del suo pentimento sincero e del suo grande amore è diventata la Maddalena di Betania — « Il Maestro è là che ti cerca — e la Maddalena del Golgota… Ai piedi della Croce sul Calvario scorgiamo tre persone — come avviene sempre quando c’è da soffrire — un uomo e due donne. Maria SS., S. Giovanni, la Maddalena: tra due innocenze intatte, un’innocenza ricostruita… », ricostruita a prezzo di riparazione così cenerosa, col doppio spezzarsi dell’alabastro dei profumi e del suo proprio cuore— ricostruita di maniera che la peccatrice di una volta ora sarà la prima creatura a cui, dopo che alla Vergine SS., Gesù si mostri risorto — la Maddalena del mattino di Pasqua. Per conoscere meglio il pensiero di Cristo sulla riparazione dopo averlo studiato nei Santi Vangeli, vediamolo illustrato nelle grandi rivelazioni della Storia. Paray le Monial, Lourdes, La Salette, Pellevoisin, Pontmain… sono eloquenti. Si direbbe che Nostro Signore nelle sue apparizioni a Santa Margherita-Maria Alacoque non avesse altro scopo che mendicare delle immolazioni riparatrici. « Ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini e in compenso non riceve che ingratitudini e amarezze. Io domando quindi da te riparazione » (Autobiografia, p. 365). « Il S. Cuore — dice la Santa — cerca delle anime riparatrici che gli rendano amore per amore e che con profonda umiltà domandino perdono a Dio per tutte le ingiurie che gli si fanno ». – « È un fatto, mia diletta figlia, che il mio Cuore mi ha spinto a sacrificare tutto me stesso per gli uomini senza che ne avessi da parte loro corrispondenza alcuna. E questa una pena che mi addolora più di ogni altra da me sofferta nella mia Passione; essi non hanno che freddezza e ripulsa per quanto mi adoperi a far loro del bene… tu almeno recami questo piacere di supplire per la loro ingratitudine… » (Lettere 44, 30, 126). Verso il termine del febbraio 1669, nei giorni del Carnevale, la Santa scrive alla Madre De Saumaise: « Questo Cuore amabilissimo, se non erro, mi rivolse la seguente domanda: Vuoi tu farmi compagnia sulla Croce in questi giorni in cui sono cotanto afflitto per la sete del piacere che inebria il mondo? Io ti farò provare tali amarezze che tu potrai in qualche modo raddolcire quelle che i peccatori versano abbondanti nel mio Cuore: e tu coi tuoi gemiti incessanti uniti alle mie pene otterrai misericordia perché i peccati degli uomini non passino oltre l a misura » (M. Gathey: Vita ed opera della B. Margh. T. 2, p. 425). Allo stesso fine, la riparazione. Nostro Signore domanda l’istituzione di una festa speciale in onore del suo Cuore divino, la Comunione dei primi venerdì del mese. anzi la Comunione anche più frequente coll’approvazione dell’obbedienza, la pratica dell’Ora Santa, ecc. Quasi sempre nelle sue comunicazioni colla diletta discepola del suo Cuore, Gesù ha di mira il formare essa — e per mezzo di essa, ciascuno di noi — allo spirito della riparazione. Per l’Ora Santa, a mo’ d’esempio, il Signore domanda: « Ogni notte dal giovedì al venerdì io ti metterò a parte di quella tristezza mortale che io ho provato nell’Orto di Getsemani. Tu ti leverai dalle undici ore a mezzanotte: ti prostrerai per quell’ora vicino a me, la faccia a terra, sia per placare la giustizia divina domandando misericordia pei peccatori, sia per addolcire in qualche modo l’amarezza ch’io provai per l’abbandono dei miei apostoli che non avevano potuto vegliare un’ora vicino a me » (Autob. N. 57). – E sulle intenzioni del divin Maestro non è possibile andar errati. La prima volta che il divin Cuore si manifesta alla Santa, il 27 dicembre 1673, le si mostra sull’altare, luogo del sacrifizio, e con sembiante afflitto. L’immagine che suggerisce alla Santa perché venga disegnata ed esposta alla venerazione, deve rappresentare un cuore ferito, sormontato da una croce, e circondato da una corona di spine. Si spiegano quindi le parole piene di ardore nella Santa: « Se voi sapeste — scriveva essa — quanto il mio Sovrano mi spinge perché lo ami d’un amore di conformità alla sua vita dolorosa! Io non vedo che possa addolcire la lunghezza della vita fuorché il soffrire sempre per amore. Soffriamo dunque amando senza lamentarci mai, e riputiamo come perduti quei momenti passati senza dolore » . La vita della Santa si compendia in un inno alla Riparazione, un ardente invito ad amare Gesù « con un amore di conformità alla sua vita dolorosa ». È inutile continuare le citazioni della sua vita e delle sue opere: conviene scorrerle tutte quante. – Il P. Terrien, nell’opera piena di dottrina sulla Divozione al S. Cuore (L. 3, cap. 3), si esprime categoricamente così: « Riparare è la stessa cosa che amare, ma è soprattutto soffrire sacrificarsi interamente amando » (2).

(2) [Il che non toglie affatto l’orrore che si ha istintivo pel dolore. Nostro Signore diceva a S. Teresa: « Mia figlia, tu chiedi il dolore e poi ti lamenti quando te lo concedo ». Ma poi aggiungeva: « Tuttavia io non lascio di esaudirti assecondando così non già le ripugnanze della tua natura, ma i desiderii della tua volontà » (Autobiografia di S. Teresa, p. 169). Insistiamo sulle parole Ttua volontà. La vera pietà non è fatta di sentimento, specialmente la pietà riparatrice. I nostri lettori non dimentichino mai questa osservazione mentre continuano scorrere le pagine seguenti]. – E altrove aggiunge: « Conviene attingere nel Cuore di Gesù quella preziosa perfezione della Carità che sola può rendere a Lui pienamente gradite le nostre riparazioni ». Gesù batte alla porta dei nostri cuori per averne le nostre riparazioni, ma quel po’ di elemosina che noi gli possiamo dare non ha valore alcuno se non passa come attraverso al suo Cuore divino. È come un flusso e riflusso di benedizione. Il suo amore ci chiama partendo da quel centro e il nostro amore non può efficacemente rispondere senza ritornare a quello stesso centro. – Davide diceva: « Ho trovato il mio cuore per pregare il Signore » . Noi abbiamo di meglio: lo stesso Cuore di Dio. S. Bonaventura non desiderava di meglio che di prendere in esso stabile dimora e rimpiangeva la cecità degli uomini che non sanno penetrare nel loro Gesù attraverso alle sue ferite, specialmente a quella del suo Costato. Diciamo dunque ancor noi: « Umile sì. ma risoluto, andrò fino all’altare del Signore. Introibo ad altare Dei ».

Nell’inno alle Lodi per la festa del Sacro Cuore si canta: « O Cuore, altare sul quale il Cristo Sacerdote ha offerto e offre ogni giorno il Sacrifizio cruento e mistico, chi non vi adorerà, chi non vi amerà, chi non vi sceglierà come dimora per abitar in esso eternamente? ». Questo suo Cuore, in cui Gesù di continuo rinnova il suo sacrifizio, sarà il mio asilo benedetto, in esso io offrirò la mia modesta partecipazione all’opera della Redenzione. E come il farò.” Cercando di unire i miei sentimenti a quelli di questo Cuore adorabile, seguendo, per esempio, l’indirizzo dell’Apostolato della Preghiera — non è questo l’unico modo di farlo, ma è certo uno dei migliori.

Quali sono questi sentimenti del Cuor di Gesù?

« Ecce venio: eccomi. Signore, io mi offro, mi dono a voi » . La vita di Gesù è un ecce perpetuo, una continua conferma dell’immolazione del primo giorno. Ecce rex, ecco le Palme: Ecce homo, ecco la Passione; Ecce Agnus, ecco Gesù del Giordano e dell’Eucaristia. Maria SS., fedele imitatrice di Gesù, anch’essa nella sua lunga vita non fece che ripetere quel suo: « Ecce, ecce ancilla Domini. Eccomi, io mi abbandono al vostro volere ».

Dal Cuore di Gesù erompe di continuo un duplice desiderio: — una fame divorante di compiere la volontà del Padre; — una sete ardente d’esser battezzato nel proprio sangue per strapparci dalla morte. Orbene, questo doppio desiderio pervade in Gesù tutto quello che gli appartiene. Di fatto, al presente, Gesù anche nella Umanità sua propria non è più passibile di umiliazione né di patimento; ma gli restiamo noi, suo Corpo mistico. Ed è per ciascuno di noi in particolare che Egli desidera l’abbandono totale ai voleri divini, per ciascuno di noi ha sete di quelle immolazioni che debbono unirci al suo Sacrifizio. Gesù non può più umiliarsi in se stesso, lo può fare in noi: non può più in se stesso soffrire, soffre in noi. Noi siamo in qualche modo Lui stesso: questa è la ragione per la quale aspetta la nostra partecipazione e le nostre offerte. Ahimè! troppo pochi son quelli che s’accorgono dei desideri di Gesù, meno ancora quelli che vi corrispondono. Tuttavia a questo tende la divozione al S. Cuore di Gesù: meglio, questo appunto ne costituisce l’essenza. Chi la giudica altrimenti la diminuisce o la falsa del tutto. Inoltre per farci comprender meglio le sue intenzioni, il divin Salvatore ha voluto rimanere in mezzo a noi sotto la figura di ostia. Sotto i veli eucaristici Gesù non può di fatto soffrire pei sacrilegi e per l’indifferenza, per la ribellione e per l’orgoglio, per la sensualità e le immodestie degli uomini. Ma un tempo, mentre viveva mortale quaggiù, per tutti questi oltraggi alla sua Maestà divina e per così crudele dimenticanza della sua legge, Egli ha già provato nel suo cuore e nel suo corpo indicibili tormenti. Egli tutto ha previsto, scoperto e penetrato fino al fondo e per ciascun delitto in particolare ha sofferto la corrispondente pena. Egli ci domanda un po’ di compassione che lo compensi, che lo conforti in quella sue agonie di Cuore, e poiché ha scelto di perpetuare nell’Eucaristia il Sacrifizio compiuto già sulla Croce, non potremo fare di meglio che perpetuare ancor noi insieme con; mesto suo sacrifizio, il che vuol dire diventare con Lui altrettante ostie viventi. Ancora: poiché nel Sacramento di amore si prolunga misticamente la fame divorante che il Salvatore prova di compiere in tutto la volontà del Padre e la sete ardente che ha di soffrire per nostra salvezza, non potremo fare di meglio che entrare ancor noi in quei sentimenti che animano di continuo il Prigioniero dei nostri tabernacoli. – Più innanzi, quando dimostreremo come un’anima riparatrice deve amare l’Eucaristia, ritorneremo sull’argomento. Per ora fermiamoci qui. Chi comprende bene il S. Cuore fa consistere la vita eucaristica nell’unione di due ostie in un solo perfetto abbandono al volere divino; chi comprende bene la vita eucaristica, cioè l’unione con Gesù Ostia, mette praticamente l’amore al Cuore di Gesù in uno sforzo energico per spogliarsi di se medesimo, e diventare come una « specie sensibile » sotto la quale solo vivrà Gesù. Una « specie sensibile » che nelle mani di Gesù, sarà come uno strumento per continuare a compiere la sua opera, una « specie sensibile » che Egli sacrifica incessantemente con se stesso, nell’unità di un medesimo sacrifizio, alla gloria dell’Adorabile Trinità e alla salute delle anime. Noi ci siamo un po’ dilungati, e se ne comprende facilmente la ragione, su Paray e sulla divozione al S. Cuore di Gesù. Ma anche nelle grandi apparizioni della S. Vergine in Francia, nel secolo XIX, per non dir che di quelle, noi troviamo sempre l’intento divino di richiamarci al nostro dovere della vita di riparazione. – A Bernardetta si rivolge Maria lamentando che gli uomini si abbandonino sempre più al peccato e le domanda una doppia compensazione: Si preghi e si faccia penitenza. Ella fa recitare alla fanciulla il Santo Rosario, vuole si edifichi un tempio ove il Signore sia glorificato, si promuovano pellegrinaggi per cui le folle vengano a portare in un’epoca fredda e blasfema, l’omaggio delle loro pubbliche adorazioni, delle loro infuocate acclamazioni, della loro fede vendicatrice. Ma sovra ogni altra cosa Maria insiste domandando: ce Penitenza! Penitenza! Penitenza! » (24 febbr. 1858). – A Pellevoisin, a Pontmain, alla Salette la Vergine benedetta non domanderà niente di più, ma ancora una volta domanderà appunto quello stesso: La preghiera e la penitenza, in espiazione di tutti i delitti che si commettono. « Pregate, pregate, ragazzi miei! ». « Fate penitenza!…  Ai due pastorelli della Salette la Regina del Cielo fa sapere che ormai non può più trattenere il braccio vendicatore del suo divin Figliuolo. I peccati si moltiplicano, la bilancia sta per dare il tracollo: « Se il mio popolo non vuole sottomettersi io finirò per dover lasciar libera la mano di mio Figlio. Essa è sì grave e sì pesante ch’io non la posso più sostenere. È già lungo tempo ch’io soffro per voi; se voglio ottenere che Gesù non vi abbandoni io debbo continuamente rivolgergli la mia preghiera. E voi? e voi non ci badate punto ». E la Santa Vergine versava calde lacrime. – E poi continuò: « Io vi ho lasciato sei giorni pei vostri lavori e mi sono riserbato soltanto il settimo e voi non volete accordarmelo ». Qui la Vergine parla la persona di suo Figlio, e Melania racconta che a queste parole apparve, come vivente, sul petto di Maria SS. tutta in lagrime, Gesù Crocifisso, il quale in segno di approvazione inclinò il suo capo. – Dopo aver richieste riparazioni per la violazione delle feste di precetto, la Madonna aggiunge nuove domande riguardo al vizio della bestemmia: « I mulattieri, i carrettieri non sanno più parlare senza frammettere ai loro detti il nome del mio divin Figliuolo. La bestemmia e la violazione della festa sono le due iniquità che rendono così pesante il braccio del mio Figliuolo ». – È necessario un contrappeso sulla bilancia altrimenti la giustizia divina, che francamente non può più esser trattenuta, scatterà. – Quale lezione per noi! Anime, anime ci vogliono che si dedichino alla riparazione. Iddio è irritato. Guai a noi se sull’altro piatto della bilancia divina non vi gettano le loro immolazioni compensatoci delle anime generose.

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DA SAN PIETRO A PIO XII (9)

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

CAP. IX

LE ORIGINI DELLA SOVRANITÀ TEMPORALE DEI PONTEFICI

PREAMBOLO

La forza delle cose

In mezzo alle agitazioni interminabili provocate dalle dominazioni barbariche, in mancanza di un potere centrale fortemente costituito, i Papi, per una conseguenza necessaria della loro stessa condizione morale, si videro obbligati a provvedere ad una tale molteplicità di faccende, da potersi considerare veri prìncipi temporali. Nessuno ormai crede più al famoso Atto di donazione di Costantino, a cui accenna [l’eretico gnostico – n.dr.] Dante (Parad. XX, 57), per cui quest’Imperatore, ritirandosi a Bisanzio nel 330, avrebbe ceduto al Pontefice Silvestro I, la città di Roma e tutta la parte occidentale dell’Impero. Tale documento, a cui si accenna nelle decretali pseudo isidoriane e negli atti apocrifi di Silvestro Papa, è dimostrato essere una finzione del sec. VIII. E’ certo però che l’atteggiamento di Costantino il Grande conciliò al Papato un certo splendore esterno. Con il trasferimento della residenza imperiale da Roma a Costantinopoli, il Papa divenne di fatto la suprema autorità politica, sebbene di diritto l’Imperatore continuasse a dominare, per oltre quattro secoli ancora, la città di Roma. – Ma la dominazione bizantina diverrà per l’Italia più insopportabile che quella dei barbari. Le angherie del fisco, le ingerenze della corte nel campo religioso finiranno, ai tempi di Liutprando, per sollevare le popolazioni. L’alleanza dei Papi con la Casa di Heristal e le donazioni fatte da Pipino il Breve alla Santa Sede verranno a costituire, come vedremo, uno stato autonomo, di cui sarà riconosciuto sovrano il Pontefice. Questo potere temporale, sorto per la forza stessa delle cose, contribuì allora efficacemente ad assicurare alla Santa Sede quel prestigio che le era necessario per il disimpegno della sua alta, missione civile, religiosa e morale in mezzo ai popoli.

D. Nel doloroso periodo delle invasioni barbariche chi aiutò gli Italiani?

— Gli unici che dessero un aiuto veramente efficace furono i Sommi Pontefici, poiché gl’imperatori di Costantinopoli si ricordavano dell’Italia quasi soltanto quando si trattava di spillar denaro. I Papi, invece, e con la loro autorità e con la loro beneficenza riuscirono, nei limiti del possibile, a difendere e a soccorrere le popolazioni prostrate da così gravi sciagure.

D. Quale conseguenza portò questo fatto?

— In ogni sventura, come guerra, carestia, pestilenza, i Romani erari sicuri di trovare nel Papa un padre pronto a soccorrerli con tutti i mezzi a sua disposizione; perciò, abbandonati come si trovarono di fatto dagli imperatori di Costantinopoli, cominciarono a vedere nel Papa il loro unico difensore e il loro vero sovrano.

D. Il Papa ha mai cercata e domandata tale sovranità?

— No, ma è nata dal diritto che avevano i Romani di scegliersi un difensore. Tuttavia qualche debole legame con l’impero bizantino rimase ancora di fatto sino all’anno 754, quando ogni vincolo si ruppe.

D . Che avvenne in detto anno?

— I Longobardi, in avanzata verso Roma, avevano giurato di mettere ogni cosa a ferro e a fuoco e di troncar la testa a tutti i Romani. Questi ricorsero, come al solito, inutilmente, all’imperatore di Costantinopoli. Allora il Papa valicò le Alpi nel cuore dell’inverno, «per salvare Roma », e ottenne l’aiuto necessario dal re dei Franchi, Pipino, che scese due volte in Italia e sconfisse il re dei Longobardi.

D. Che fece Pipino dei territori tolti ai Longobardi?

— Li donò al Papa.

D. Che cosa formarono essi?

— Roma con i suoi dintorni, dove il Papa era già da tempo riconosciuto come sovrano, e i territori donati da re Pipino, formarono il « Patrimonio di S. Pietro » o Stato Pontificio.

D. Quanto durò lo Stato Pontificio?

— Attraverso vari e vicende, che sarebbe troppo lungo narrare, si mantenne per più di mille e cento anni, cioè fino al 1870, quando le truppe di Vittorio Emanuele II entrarono in Roma.

D. Il Papa, a Roma, si può dire che avesse una posizione come quella d’un vescovo qualunque?

— L’asserirlo sarebbe una puerilità. Difatto egli non era suddito dell’imperatore; infatti non era l’imperatore a nominarlo, né a dargli prestigio, ma la successione di Pietro, l’autorità di S. Pietro, la tomba di S. Pietro.

D. Come mai allora lo si vede immischiato in affari terreni… ?

— È vero, ora è intento a operazioni di guerra, ora a negoziare trattati, in nomine di funzionari, nella custodia delle finanze dello Stato, in intraprese di carattere municipale, come in restauri delle fortificazioni e degli acquedotti, in servizio di vettovagliamento pubblico… Ma tutto questo, non per ingerenza sua, ma per la fiducia che si aveva nella sua autorità morale, nella sua esperienza, nel suo personale d’amministrazione, nella solidità delle sue finanze. S’invocò il suo soccorso; egli non lo rifiutò.

D . Che cosa crearono questi servizi domandati e resi?

— Un territorio sacro intorno al santuario apostolico, che ne originò lo Stato.

D. Difendendo l’autonomia di Roma, il Papa non ha impedito la unificazione d’Italia per opera dei Longobardi?

— Sì, ma fu il sentimento nazionale degl’Italiani di Roma ad opporsi a tale unificazione.

D. E perché mai?

— Perché i Romani non volevano essere Longobardi e il loro capo morale — il primo tra loro —, il Papa, non poteva voler essere longobardo. Si era lottato tanto tempo per conservare l a qualità di Romani, di membri della repubblica santa, di sudditi di un uomo che, nonostante tutto, era l’erede di Augusto e di Costantino. Questa qualità era diventata cosa sacra e intangibile.

D . Chi erano i Longobardi?

— Erano dei barbari; sul loro conto si diffondevano racconti di ogni specie sulle loro inferiorità. Le loro leggi e i loro costumi non quadravano con quelli dei Romani; il diritto longobardo era fortemente improntato a tradizioni germaniche, mentre il Romano era piamente conservato dalle Dodici Tavole fino a Giustiniano. Dove arrivava il longobardo, bisognava vestire e portare i capelli e barba come lui; un Romano non l’avrebbe mai fatto, come un inglese non si rassegnerebbe mai a portare il codino dei cinesi e i loro abiti ondeggianti.

CAPO XI.

LO SCISMA GRECO

PREAMBOLO

Incompatibilità di carattere

Nel sec. IX, la Chiesa Orientale, che faceva capo a Costantinopoli, si separò dalla Chiesa Occidentale, che faceva capo a Roma. – Diverse ragioni d’indole morale, culturale, politica avevano lentamente scavato un profondo solco tra l’Europa medio-occidentale e l’Impero d’Oriente. Dalla diversità di carattere, esistente tra gli Occidentali e gli Orientali era nata un’avversione reciproca tra Greci e Latini, avversione che si accrebbe soprattutto durante la dominazione romana. – I Greci, che avevano raggiunto il primato nella filosofia, nell’arte, nella cultura, sentivano il giogo di Roma più di ogni altro popolo. In seguito, il trasferimento della capitale a Bisanzio diede ai Patriarchi di questa città l’illusione che vi fosse stato trasferito anche il Primato dell’Autorità spirituale e, se non osarono mai esprimere chiaramente quest’idea, praticamente lasciarono spesso comprendere che ambivano di rendersi indipendenti dal Pontefice Romano.

D. Per quali cause nacquero dissidi tra greci e latini?

— Per risentimenti nazionalistici con relative mutue incomprensioni, e per l’ambizione dei patriarchi di Costantinopoli.

D. Che cosa pretendevano i patriarchi di Costantinopoli?

— Pretendevano che dopo che questa città era diventata la capitale dell’Impero, fosse riservato ad essi un posto speciale di onore e di comando.

D. Che cosa accordarono loro i Papi?

— Il titolo di Patriarca, cioè di capo ecclesiastico per alcune Provincie, ma non la denominazione di « ecumenico », cioè «universale », ch’essi si arrogarono. Per questo videro nel Papa di Roma il perpetuo ostacolo alla gloria della « nuova Roma », come chiamavano Costantinopoli.

D. Che cosa contribuì a rendere più vivo questo malanimo!

— La serie di errori di religione che sorsero nella Chiesa orientale, e che costrinsero spesso il Papa a intervenire in difesa della vera Fede, e a lottare anche contro gli imperatori greci, che pretendevano di sentenziare su cose di fede, come se fossero essi i capi della Chiesa.

D. Che cosa portarono questi interventi pontifici?

— A ferire l’orgoglio degli orientali assai vivamente, tanto più che essi per gli occidentali conservavano il più burbanzoso disprezzo. Era per loro umiliante ammettere di essere caduti nell’eresia, tanto più poi doverlo riconoscere per l’intervento di un occidentale, quale era il Papa. Gli occidentali per loro erano nient’altro che barbari.

D. Ci furono atti di ribellione all’autorità del Papa?

— Ce ne furono anche prima del secolo IX, ma il più grave fu lo scisma promosso da Fozio nel sec. IX.

D. Chi era Fozio?

— Un greco assai dotto, segretario dell’imperatore Michele III, e scomunicato dal santo patriarca di Costantinopoli, Ignazio, per i suoi scandali.

D. Che fece Fozio!

— Brigò per far cacciare illecitamente Ignazio e poi approfittò della di lui assenza forzata per andare al suo posto. Era semplice laico, in soli sei giorni si fece conferire tutti gli ordini sacri, fino all’episcopato, e, sostenuto dall’imperatore, si mise a perseguitare i vescovi che non lo volevano riconoscere e rimanevano fedeli al legittimo patriarca Ignazio.

D. A chi si rivolse Ignazio per aver giustizia?

— A Roma, ma Fozio ne fece intercettare le lettere, poi scrisse lui stesso presentando i fatti in modo completamente alterato.

D. Che fece il Papa!

— Il grande Papa Nicola I, conosciuti gli inganni di Fozio, prese risolutamente le parti della giustizia, depose Fozio e dichiarò legittimo Ignazio.

D. Come si diportò Fozio?

— Non si volle sottomettere al giudizio del Papa e si ribellò; anzi cercò di trascinare alla ribellione tutta la Chiesa greca, impugnando la supremazia della Santa Sede di Roma.

D . Quali accuse portava contro i latini!

— Ne portava delle ridicole, ad es che i preti latini si radevan la barba (presso gli orientali la barba è segno di dignità, ed esserne privi è uno dei più gravi sfregi) : … che i latini a Pasqua mettono sull’Altare un agnello per sacrificarlo con il Corpo di Gesù Cristo: cosa che nessuno s’è mai sognato di fare. Ma la più grave fu che i latini fossero caduti in eresia, perché nel Credo dicevano: « Credo nello Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio », mentre gli antichi dicevano solo « dal Padre ».

D . Che risposero i latini?

— … che l’aggiunta non falsava, ma chiariva, il senso della Scrittura e il pensiero dei Padri.

D. Accettarono i greci la spiegazione ?

— No, ritennero vera l’accusa di Fozio e si servirono anche di essa per consumare lo scisma definitivo di due secoli dopo.

D. Che diceva Fozio nella sua lettera del Primato del Papa !

— Lo negava, in quanto il Vescovo di Roma sarebbe stato capo della Chiesa fino a che Roma fu capitale dell’Impero, ma ormai che la capitale era Costantinopoli, il capo della Chiesa era il Vescovo di Costantinopoli.

D. È giusto l’argomento di Fozio?

— No, perché il Papa non è il capo della Chiesa perché anticamente

Roma era capitale del mondo ; ma soltanto perché il legittimo successore di San Pietro principe degli Apostoli, morto vescovo di Roma.

D. Che avvenite nell’ottavo Concilio Ecumenico (Costantinopolitano IV)!

— La condanna di Fozio e la riconciliazione della Chiesa Orientale con Roma (anno 869).

D. Fu vera riconciliazione!

— Esternamente sì; negli animi però i rancori non erano scomparsi. Dopo 200 anni di pace apparente, nel 1054, per opera di Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli, scoppiò di nuovo lo scisma e questa volta fu permanente.

D. Come cominciò l’attacco?

— Michele ordinò la chiusura delle chiese e monasteri latini; scrisse contro i latini incolpandoli di eresia: proibì la Comunione amministrata dai latini, perché consacravano il pane azimo e non fermentato come gli orientali; fece persino calpestare l’Eucarestia dei latini.

D. A che valse l’ intervento del Papa?

— A nulla: i legati suoi non furono neppur ricevuti. Era l’anno 1054.

L’IDEA RIPARATRICE (1)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (1)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO I

Perché riparare?

DUE PAROLE DI PRESENTAZIONE AI LETTORI ITALIANI

L’opuscolo che offriamo a pascolo delle anime pie della nostra Italia, fu scritto più che dalla penna dal cuore di un apostolo infiammato di amore verso Dio e verso il prossimo, mentre Cappellano militare dell’armata francese nell’ultima guerra, seguiva i suoi amati poilus sui diversi campi di battaglia della Francia. Non è a stupire quindi se la trattazione di un soggetto così simpatico all’autore si presenti con un apparato di guerra: tutto è fiamma e fuoco; quindi anche il successo incontrato in patria… la prima edizione del 1918 fu esaurita in poche settimane; nel 1921, ( « nel breve giro di due anni, l’opuscolo ha raggiunto la nona edizione » (Civ. Catt.,1921.  Vol. I . p. 156). La nostra versione italiana è fatta sulla 25a francese del 1923.

 Questa rapida diffusione è senza dubbio un elogio assai lusinghiero e significativo, – contìnua l’autorevole periodico citato – per un libro che svolge un argomento a cui le passioni non possono fare buon viso. L‘idea riparatrice è la negazione più recisa dell’amor proprio. Ma le anime accese di carità sono irresistibilmente condotte alla riparazione. Dirigere queste anime, stimolarle, accenderle, dopo averle solidamente istruite intorno alle basi teologiche e dogmatiche della riparazione, è l’intento di questa operetta. Il che fa l’autore con sana e profondadottrina, con doviziosa messe di esempi e di testimonianze. – Siamo certi che anche in Italia non mancano « anime accese di carità », vere devote del SS. Cuore di Gesù, desiderose di praticare intensamente la riparazione. Leggano, meditino queste pagine ardenti; le facciano leggere e meditare anche da altre, da molte anime. Crescano in fervore e si moltiplichino le anime riparatrici ce n’è tanto bisogno nel mondo e il S. Cuore di Gesù non aspetta altro per versare sulla terra le sue benedizioni sempre più abbondanti.

L’EDITORE.

NOTA DELL’AUTORE ALLA 3a EDIZIONE FRANCESE

Quest’opuscolo, scritto durante la guerra, a sbalzi, in fondo alle trincee o nei posti avanzati della fronte nei brevi tempi liberi dalle funzioni di cappellano militare, si risente qualche poco dell’agitazione dell’armi. Male, si dirà? — Potrebbe essere.  Ce ne spiace, ma un pensiero viene a consolarci. Se la vita d’ogni Cristiano già per se stessa viene detta un combattimento, quanto più lo dovrà essere quando l’Idea Riparatrice la pervada tutta quanta. Vogliamo quindi sperare che l’andatura un po’ marziale di questo scritto non ne diminuisca per nulla la desiderata unzione, anzi vi aggiunga ancora qualche po’ di forza e di persuasione che ci auguriamo irresistibile, vittoriosa.

PREFAZIONE

Chi vuole riparare?

Quest’invito, come le pagine che seguono, è per quelli che hanno due occhi aperti in fronte e un cuore ardente in petto. Per essi soli e non per altri. Chi non si sentisse di esser generoso è meglio chiuda il libro, non legga più innanzi. Noi parliamo a quelli che hanno visto mettere in croce Gesù Cristo, la sua Chiesa, anzi le stesse nazioni nostre; non già a quelli che di questa triplice crocifissione non si sono accorti per nulla. A quelli che dinanzi ad una simile scena di morte hanno compreso la necessità di uno sforzo per tornare alla vita; non già a quelli che dinanzi a questo spettacolo, al cadavere di un Dio, ai milioni di cadaveri di anime, a tutta una distesa di cadaveri non hanno sentito una voce che li interrogava, che li rimproverava, come già un tempo Elia: « Quid hic agis, Elia? Elia, versogna!che fai tu là?… Tanta desolazione…e tu rimani inerte, indifferente, immobile?Et vos, hic sedebitis? ».Van der Meer de Walcheren, nel suo Journal d’un Converti, così descrive un Revival a Londra: Due missionari giunti dall’America per parlare a grandi masse di popolo, hanno preso in affitto l’immenso Albert-hall. Più di quindici mila persone si affollano colà per ascoltarli. Uno dei predicatori, dopo aver spiegato come chiunque sentisse il desiderio di venir a Dio avrebbe dovuto scender nel bel mezzo dell’arena, con voce altissima rivolge a tutti il grande invito: « Who will come to theLord? Chi vuol venire a Dio? ». A tutta prima un lungo, ansioso e impressionante silenzio domina tutto lo sterminato uditorio; poi un primo grido echeggia tra la folla: « I will. Io lo voglio ». E immediatamente da ogni banda si ripete il medesimo grido: « I will, I will, I will. Io lo voglio, io lo voglio, io lo voglio ». E mentre discendono lentamente verso l’arena quelli che già avevano risposto, i missionari vanno ripetendo a gran voce il loro invito e protendendo le loro braccia ai mille e mille che rispondono senza interruzione: « I will, I will, I will. Io lo voglio, io lo voglio, io lo voglio ».

Siffatte arti più o meno teatrali non fanno per noi. Abbiamo l’invito di Gesù Cristo: « Si quis vult. Se il volete » . . . e ci basta. Si cercano dei « volontari ». Vogliam dire delle anime che scendano spontaneamente in campo e sul campo della lotta non sappiano indietreggiare. O Gesù, fatene spuntar molte di queste anime illuminate dalla fede sì che comprendano la natura e la necessità della Riparazione, e nobili di cuore tanto da dedicarsi ad essa interamente, ciascuna secondo il suo potere. – Ve n’hanno già di queste anime e non poche. Ma il loro numero deve raddoppiarsi, triplicarsi, moltiplicarsi al possibile. Allora il mondo avrà pace quando in mezzo a noi sia proporzionato al bisogno il numero delle anime riparatrici. Prima, non è possibile. V’ha dunque chi si presenta?… Rifletta che se v’hanno imprese meno nobili di questa a cui dedicarsi, non ve n’ha certo che sia più oscuramente gloriosa e più imperiosamente necessaria.

« Si quis vult venire… Se alcuno vuol venire… ». C’è chi veramente il voglia? — « Eccomi, o Signore. I will! Io lo voglio! Datemi luce, datemi forza. Fin d’ora io sono ai vostri cenni. Io lo voglio! ».

Dal campo, nella festa nell’Addolorata.

22 marzo 1918.

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INTRODUZIONE

Riparare vuol dire rimettere in buono stato; un edilizio cade in rovina e diventa inabitabile: ripararlo vorrà dire ricostruirlo. Accade talora che la cosa danneggiata per ciò stesso sia ridotta al nulla: riparare in tal caso ha il senso di compensare, restituire una cosa equivalente. – Nell’ordine morale, per riparare un’ingiustizia fatta, l’equivalente non potrà darsi dall’offensore che per mezzo della sua stessa persona. Nessun oggetto materiale può compensare un danno morale: come si ristabilirà l’ordine? con una pena che subirà o che s’imporrà chi ha recato il danno. Egli si era procurata una soddisfazione indebita, anormale, ingiusta. È giusto — come ognuno può comprendere anche senzaentrare nella questione teorica sollevata dal problema della giustizia vendicativa — che come castigo gli si infligga una pena proporzionata che ristabilisca l’equilibrio. Questo equivalente verrà detto espiazione e potrà esser offerta dal delinquente stesso, come nel caso precedente, o da altri che, innocente del delitto, accetta di mettersi al posto del colpevole.

Riparare nel senso cristiano della parola, significato nel quale noi sempre l’adopreremo, comprende le tre suddette applicazioni: ristorare, compensare, espiare.

Ricordate così queste nozioni generali, noi vorremmo dimostrare brevemente:

1° Perché dobbiamo riparare;

2° Chi deve riparare;

3° Come si debba riparare.

LIBRO I

Perché riparare?

Per tre ragioni:

— è un obbligo fondamentale per ogni Cristiano;

— è un desiderio espresso di N. S. Gesù Cristo;

— è una necessità ineluttabile nelle presenti circostanze.

CAPO PRIMO

LA RIPARAZIONE, OBBLIGO FONDAMENTALE PER OGNI CRISTIANO.

Perché venne sulla terra Cristo Nostro Signore? Per riparare, non per altro. Per rimettere la sua opera divina in quello stato dacui era decaduta pel peccato dell’uomo; per restituire all’uomo la vita soprannaturale ch’egli aveva perduta; per compensare per mezzo dei suoi meriti infiniti l’ingiuria recata al Padre nel Paradiso terrestre e le altre ingiurie che la malizia degli uominiva ripetendo e moltiplicando ogni giorno; espiare colle sue sofferenze — il presepio, la vita nascosta, la Croce — l’amore disordinato di se stessi che domina fra gli uomini fin da principio attraverso ai secoli.Nostro Signore poteva compiere quest’opera di Riparazione senza di noi: i suoi meriti hanno valore infinito. Invece volleavere dei cooperatori e questi sono tutti gli uomini senza eccezione, prima d’ogni altro ciascun Cristiano, ciascuno di noi. Questo è il punto che noi dobbiamo ben comprendere, la base di tutta la dottrina della Riparazione.S. Paolo, spiegando ai primi Cristiani la loro dignità sovreminente per esser fatti partecipi della stessa vita del Figlio di Dio, diceva loro: « Una stessa vita, la vita del Padre celeste passa in Gesù ed in voi, in Gesù per natura poiché Egli è il capo, invoi per adozione poiché voi siete, le membra

che dal capo ricevono la vita, dal capo il quale in virtù del suo sacrifizio vi ha divinizzati ». Non vi ha perfetta unione senza la continuità tra le membra ed il capo, tra il capo e le membra. La Persona di Gesù Cristo, ecco il capo; ciascuno di voi le membra, il suo corpo mistico. Questa è la dottrina cattolica secondo le parole dell’Apostolo — e dello stesso divin Salvatore: Io sono la vite e voi i tralci… — Il Cristo personale, cioè la Persona adorabile di N. S. Gesù Cristo che visse un tempo a Betlemme, a Nazaret, a Gerusalemme, che ora è nei santi tabernacoli sotto i veli eucaristici, e in cielo nella gloria dei suoi eletti alla destra del Padre, non forma, così volendo Egli stesso, un Cristo completo. Il Cristo completo risulta dall’unione della sua Umanità, il Cristo personale, il capo, con ciascuno di noi, sue membra, suo corpo mistico. -Da una stretta unione della nostra vita con quella di Gesù Cristo viene per legittima conseguenza la nostra intima collaborazione con Lui nella sua impresa, unico scopo della sua venuta fra noi, la Redenzione. Diciamolo ancora una volta: il Salvatore tutto avrebbe potuto fare senza di noi. Egli non ha bisogno di noi per aggiunger forza ai suoi propri meriti, ma vuol servirsi di noi per aumentare i meriti nostri. Egli è il Cristo e noi Cristiani — come altrettante ripetizioni di Lui — alter Christus. Convien che lavoriamo uniti. La Redenzione non si compirà che per il volere del Salvatore, il Cristo principale, preso insieme al volere di ciascuno dei Cristiani, gli altri Cristi. Certo il valore delle parti spettanti a Lui e a ciascuno di noi è ben lungi dall’esser uguale: la sua ha per se stessa un peso infinito, quindi più che sufficiente allo scopo. La nostra non era affatto necessaria. Egli ce la domanda soltanto perché ci ama. – All’offertorio della S. Messa il celebrante, dopo aver posto nel Calice il vino da consacrarsi, deve aggiungere, sotto pena di colpa grave, qualche goccia di acqua. Ecco un simbolo che ci può far meglio comprenderela relazione che passa tra le parti nostre e quelle di N. Signore nella riparazione, il valore relativo del nostro concorso al suo fianco. Il solo vino per sé è la materia della Consacrazione: è obbligato però il Sacerdote ad aggiungervi le gocce d’acqua che con tutto il resto, in forza delle parole divine, saranno poi mutate nel Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo. La parte che ci spetta nella redenzione del mondo è certo infinitesimale — che volete che valga una goccia d’acqua? — ma il Signore la vuole, e questo piccolo atomo, unito all’offerta infinita di Cristo, Egli lo transustanzierà. Questo « nulla » diventerà onnipotente, della potenza stessa che Dio gli comunica (Il paragone non va preso con rigore. La goccia d’acqua non è richiesta per la validità, ma solo per la liceità del Sacrifizio della Messa – però se non c’è liceità, si commette sacrilegio! Ndr.-). In virtù di questo « nulla » diventato qualche cosa, le anime sono riscattate dalla colpa. Senza di questo « nulla », insignificante per sé ma prezioso per la sua unione con Cristo, le anime, forse molte anime, andranno perdute. Il mondo ha bisogno di tutti i suoi salvatori, di Gesù che è il primo di tutti, il Salvatore per eccellenza, e di ciascuno di noi chiamati a collaborare con Lui nel riscatto del genere umano: « Il quale — dice Lacordaire (Conf. 66 sulla riparazione) — non si era perduto che per ragione di solidarietà, per effetto cioè di comunanza sostanziale e morale con Adamo suo capostipite: era dunque conveniente che potetesse esser salvato nella misura e nella maniera della sua rovina, cioè per ragione di solidarietà… Là dove la solidarietà del male aveva recato la rovina, la solidarietà del bene apporti il rimedio, la ristorazione ». Chi non conosca questo nostro dovere di partecipare all’opera redentrice per renderla efficace, si può ben dire che ignora il meglio della grandezza del Cristiano. Chi conoscendolo cerca di sfuggire dall’obbligo, vien meno ad un suo dovere non meno nobile che indispensabile. – Ma conviene entrare ancor più addentro nella nostra considerazione. Qual è il mezzo scelto da Cristo per compiere la riparazione?

Il dolore, il sacrifizio.

Ma questo è un mistero! Il Figlio di Dio per riparar le rovine del peccato — instaurare omnia — non era tenuto ad imporsi una vita stentata, disprezzata, afflitta da ogni sorta di dolori. Eppure Egli quella ha voluto scegliere per sé e non altra. Riparare col soffrire. Tenuti a partecipare alla sua missione per la nostra solidarietà con Lui nell’unità del Corpo mistico, eccoci tenuti a partecipare alla sua passione, e cosi si spiega perché l’Apostolo nell’inculcarci la necessità di collaborare all’opera redentrice di Gesù Cristo, non dice « compiere la missione », ma « la passione sua: adimpleo ea quæ desunt passioni Jesu Christi ». L’una cosa è impossibile senza dell’altra; le due cose si confondono in una stessa. Noi dobbiamo riparare unitamente a Gesù Cristo, e non dobbiamo credere di poterlo fare altrimenti che col nostro sacrifizio unito al suo. « Gesù Cristo — dice Bossuet (Serm. Per la Purific. della V. SS.) — per salvare gli uomini ha voluto esserne la vittima. Or per l’unità del Corpo mistico col Capo che si è immolato, tutte le membra debbono esser “ostie viventi” ».

Abbiamo quindi la progressione — si direbbe più esattamente l’equazione —: esser Cristiani, esser salvatori, esser « ostie ». E non sembri nuova o strana la parola « ostia ». È questa una dottrina antica quanto il Vangelo, che costituisce la sostanza stessa della predicazione di S. Paolo, dei primi Padri e di tutta la Chiesa attraverso ai secoli, predicazione che l’Apostolo riassumeva in questa frase abbastanza chiara ai Cristiani di Roma: « Obsecro vos, io vi scongiuro; fate dei vostri corpi altrettante ostie viventi, sante, gradite a Dio, ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem» (Rom. XII, 1) (Pratt: Théol. de St. Paul, passim). Dirsi Cristiano e cercar di condurre una vita di comodità al termine della quale si passi tranquillamente e senza urti dalla terra, ove si ebbe felice dimora, al cielo ove si troverà una condizione perfettamente beata, ad un cielo meritato con una vita in cuila principale cura fu di lasciare ad altri il pensiero laborioso di faticare con Gesù Cristo alla redenzione del mondo, è cosa che non può darsi. Col Vangelo del Maestro non si concilia un siffatto programma ed è ben altro quello che Bossuet definisce: « Terribile serietà della vita umana ». – « È un fatto purtroppo — scrive nel consueto suo tono amaro, e questa volta ben giustificato, l’autore dell’introduzione Journal d’un Converti, da noi già citato nella Prefazione -— è un fatto noto il trovarsi in gran numero certi animali detti ragionevoli che hanno tutta l’apparenza di vivere sessanta e anche ottant’anni e poi si portano al cimitero prima che mai siano usciti dal loro nulla… Si contentano delle cose sensibili, tutto il resto non esiste per essi ». Per fortuna — aggiunge poi — abbiamo anche dei « veri uomini, veri viventi, quelli che non hanno ricevuto invano l’anima propria ». E il convertito alla sua volta — egli era allora in cammino verso il bene — : « Io sono sempre più meravigliato nel vedere che quasi tutti gli uomini continuino a vivere tranquilli, senza inquietarsi, senza spaventarsi di nulla, un bel sorriso brilla sui loro volti paffuti e non s’accorgono degli abissi che ci stanno ai fianchi » (J. d’un converti, di P. Van der Meer de Walcheren). Si, abbiamo presso di noi degli abissi, l’abisso del peccato dell’uomo e l’abisso dell’amore del Salvatore: questo secondo collocato da Dio vicino al primo. E noi posti in mezzo all’uno e all’altro con un incarico imperioso, urgente e del tutto preciso. Il vero discepolo di Gesù Cristo si riconosce a questo segno: che egli si è accorto di questi abissi e in conseguenza vive agitato sotto l’impero d’una inquietudine che non sa frenare, l’inquietudine della salvezza del mondo, dell’efficacia del sangue di Cristo frustrata, e della propria parte di responsabilità nella storia della vita divina in mezzo agli uomini.

Necessità di riparare insieme con Nostro Signore venuto sulla terra unicamente a questo fine, poiché con Lui noi formiamo una cosa sola. Necessità di riparare nel modo che Egli stesso ha preferito, cioè nel dolore. Son purtroppo numerosi i Cristiani che di questa duplice necessità pare neppure sospettino l’esistenza e si direbbero convinti — almeno nella pratica — che propriamente due sono le maniere di comprendere la sua legge: l’una che accetta la sofferenza,l’altra che fa di tutto per evitarla;l’una che si organizza per lasciarsi mortificare,l’altra che si mette in posizione di difesa contro ogni sorta di pena. In unaparola, un Cristianesimo facile, comodo ealla buona per la moltitudine; e un Cristianesimo grave ed austero pei pochi, per le anime di carattere più cupo o guadagnate da un’attrattiva speciale, per altro strana, di perfezione. Che un Sacerdote santo come il Curato d’Ars scriva: « Tutto ci parla della Croce. Noi stessi siamo fatti a forma di croce. La croce trasuda balsamo e traspira dolcezze: più ci uniamo ad essa, più la stringiamo tra le mani e contro il petto e più ne spremeremo l’unzione di cui è colma; essa è il libro più dotto che noi possiamo leggere; quelli che non lo conoscono questo libro sono degli ignoranti quand’anche conoscessero tutti gli altri libri; non sarà veramente dotto se non chi lo ami, lo consulti, lo studi a fondo. Benché amaro, questo libro, non v’ha maggior gaudio che nell’immergersi nelle sue amarezze; quanto più si va alla sua scuola, tanto più a lungo vi si vorrebbe trattenere: il tempo passa senza noia alcuna ». — Che in siffatta maniera parli un Curato d’Ars, non c’è a stupirne, è un santo! – Nel noviziato delle Suore Francescane di Maria SS. al Canada si cercano sei religiose per la cura dei lebbrosi in Cina. Quaranta sono le novizie e quaranta rispondono desiderose di partire. — Oh! si dice, questa è la loro vocazione! E questi esempi che dovrebbero muovere i Cristiani e far loro comprendere che, se non si domanda loro un siffatto eroismo, almeno qualche cosa di simile anch’essi sono tenuti a fare, questi esempi diventano per loro un futile pretesto per credersi liberi da ogni obbligazione. – V’hammo monaci e religiose che passano la notte a’ pie’ degli altari o si alzano alle due del mattino?… Ecco una buona ragione per restar essi tranquillamente e a lungo tra le coltri d’un letto ben soffice. — Quelli danno molto tempo alla preghiera?… questo appunto li dispensa da un obbligo noioso sovra ogni altro. — Quelli si privano del cibo?… così sarà loro concesso di godersi ogni sorta di ghiottoneria nei loro pasti.

— Quelli si contentano d’una cella povera, disadorna, i cui mobili, come al Carmelo, si riducono ad un Crocifisso, un acquasantino, un teschio e una disciplina?… tutto questo perché essi possano adornare i loro appartamenti con mille oggetti superflui e procurarsi tutte le comodità moderne. — Quelli si privano del necessario riscaldamento?… si è per concedere ad essi una dolce temperatura procurata con ingegnosi metodi di riscaldamento delle camere e dei corridoi. — Quelli dormono sugli assi o sopra un duro saccone?… per questo essi dovranno negarsi le molli coperte di seta e le soffici trapunte ricamate? — Quelli posseggono un solo gioiello, la Croce?… essi potranno quindi portare ciondoli, collane di perle preziose a profusione. È vero che alla vita religiosa si addice un lusso di austerità a cui non è tenuta la vita ordinaria del Cristiano. Ma come si potrà supporre che questa vita anche ordinaria, quando sia illuminata e sincera, si concili con la …a ricercatezza irrequieta e del tutto pagana delle comodità della vita, quali un tristo materialismo moderno cerca di imporre — e riesce pur troppo e con gran facilità ad imporre — a tanti discepoli del Salvatore? – E che? forse il Cristo non è per tutti il medesimo? Nonne divisus est Christus? Ve ne sarebbero forse due. L’uno crocifisso, che non si può seguire senza crocifiggere se stessi; l’altro tutto comodità, che si seguirà facilmente anche senza negarci delizia e piacere alcuno? S. Paolo diceva di non conoscere che un solo Cristo, il Crocifisso. Christum et hunc crucifixum. Da S. Paolo a noi ci fu tempo a cambiare. Ora se ne conoscono due. Il primo, il vero, non era più sufficiente e se n’è inventato un secondo. Un Cristo senza Croce, senza teorie austere, senza quelle due traverse di legno che gettano un’ombra che atterrisce, che impressiona; un Cristo le cui massime si risolvono finalmente nel motto: venite pure a vostro piacimento io vi prometto l’intera eternità a questa sola condizione, che nell’ultimo istante della vostra esistenza mi concediate « l’adesione di un « pensiero incerto, il pentimento d’una volontà illanguidita e la carità del vostro ultimo respiro »  (1).

(1) [Quanti Cristiani abbiamo noi purtroppo che seguono praticamente un siffatto programma di vita! Claudio Lefilleul (alias: Filippo Gonnard, professore al Liceo di Lione, caduto poi in guerra), nelle sue Réflexions et Lectures, p. 204, con fine ironia bolla a fuoco una simile condotta: « All’ultimo istante anche voi vi convertirete come tanti altri; voi speculerete sulla bontà di Dio eDio è sì buono che forse la vostra speculazione riuscirà ed Egli vi riceverà, in quell’estremo momento, in compenso d’una povera lagrima di pentimento, per una lagrimetta, come disse già il nostro antico Dante. Ma siete ben certi che il colpo riuscirà? E poi, io vi domando,dov’è la vostra generosità la vostra fierezza… scroccare così a buon prezzo la vostra eternità? A Dio che vi ha concesso anche qui in terra tante profonde soddisfazioni (anche più profonde se voi avete fede), a Dio chese voi non vi frapponete ostacolo vuol ricolmarvi di felicità per tutta una eternità, è forse generoso il dare incompenso per parte vostra non altro che l’adesione diun vago pensiero, il pentimento di una volontà illanguiditae la carità del vostro ultimo respiro? »]. Un siffatto Cristo, ad uso dei Cristiani che rifuggono dal dolore, non esiste. Il discepolo non è più grande del Maestro. Il divin Salvatore ha tanto sofferto. Se non vuol rinnegare il proprio nome di Cristiano, venire meno ai suoi impegni, ogni battezzato non potrà non essere in una qualunque maniera — che noi meglio diremo in seguito — un amico del dolore necessariamente e per sempre.Un celebre uomo di Stato del Belgio aveva preso come suo monito : Riposo? Non qui, ma più innanzi. Verrà il giorno della felicità, e un tal giorno, che forse non è lontano, non avrà più fine. Il tempo che ci separa da un tal giorno ci è dato per meritare « il gaudio del Signore — Intra in gaudium Domini tui ». Entrerà nel gaudio del Signore solo chi avrà avuto il coraggio di mettersi quaggiù a parte dell’olocausto del Signore. Gesù Cristo pel primo ha voluto soffrire per entrar poi nella gloria. « Il Golgota non è soltanto una figura di retorica ». Per noi è la legge che non transige. Oportuit… pati, et ita intrare in gloriam.[è necessario patire, e così entrare nella gloria]. Vogliamo essere con Lui nel trionfo? Siamo prima con Lui nel combattimento.

Laborare mecum, fa dire a Gesù S. Ignazio nella « Contemplazione del Regno di Cristo ». Pizzarro, uno dei conquistatori dell’America del Sud, presa terra, getta la sua

spada sul terreno e grida ai suoi soldati: « Se alcuno di voi ha paura, resti al di qua di questa spada, i coraggiosi vengano con me! » Queste parole sono dure e benché la teoria sia chiarissima, di fatto alla presenza di una vita di rinunzia, che si impone come un’obbligazione sacra per ogni Cristiano, molti dànno indietro.

— « Oh! quanto spavento m’incutono quelle due traverse in croce che si drizzano sul Calvario! Vorrei piuttosto nascondermi dietro di esse che lasciarmi configgere sopra di esse ».

— « Oh sì! il legno è duro. Ma oltre il legno che non vedete? Su quelle traverse voi scorgete confitto un uomo. Il legno non sa che di morte, ma chi è confitto sul legno è ben vivo. Guardate attentamente — come si conviene — e le due traverse svaniscono, scompaiono, non si veggono più, e vi resta sotto il vostro sguardo unicamente quel corpo sospeso e nel bel mezzo di esso raggiante di luce attraverso ad una ferita il Cuore. Lo dicono: Il Crocifisso. Non è esatto; par si voglia indicare un oggetto. Conviene dire: Colui che è confitto in Croce, così si indica un uomo ».

« Un uomo?… Sì, un uomo e nello stesso tempo un Dio. Oh! mio Dio, e siete voi ch’io vedo su questa Croce? ».

— Sì, son io, il tuo Dio ».

—  Mi pare d’incominciare a comprendere meglio… anzi comprendo quasi consuetamente… io soffrirò insieme con Voi, Signore, ma Voi soffrirete con me. Con Voi non avrò paura, andrò innanzi risolutamente ».

— « Per animarti a maggior coraggio ancora, mettiti ai piedi della Croce e getta uno sguardo sul mondo. Mira questa gente che scende dalla vetta del Calvario, sono i miei carnefici; e a Gerusalemme, sepolta nel sonno, le turbe che non s’accorgono di nulla. Ho bisogno dei tuoi sacrifizi per far giungere fino a loro la mia Redenzione. Così io voglio aver bisogno di te: ti chiamo in mio aiuto e con te posso tutto, come posso nulla senza di te. Vuoi tu che insieme uniti salviamo il mondo? o preferisci andartene e passare anche tu tra quelle turbe, coi miei carnefici? ».

— « E voi parlate così a me, Signore? Non sapete voi chi sono io? ».

— Tu sei uno dei miei cari. Non basta forse perché io ti inviti a faticare con me, a soffrire con me? Tu lo vedi, l’impresa è immensa. Credilo, val la spesa per essa incontrare qualche sacrifizio, fosse pure questo sacrifizio — nella condizione e stato di vita in cui ti ha posta la mia Provvidenza — una intera oblazione di te quale ostia vivente… con me ».

— « Se voi credete che io lo possa fare… Con voi, Signore, in ostia vivente oh! sì, con tutta l’anima eccomi, prendetemi ».

https://www.exsurgatdeus.org/2020/07/29/lidea-riparatrice-2/

UN’ENCLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “RESPICIENTES EA”

La Chiesa di Dio, dalla sua origine fino a questi tempi, fu più volte travagliata e più volte liberata. Il suo grido è: “spesso mi espugnarono fin dalla mia gioventù, ma non riuscirono mai contro di me. I peccatori fabbricarono sopra il mio dorso e prolungarono la loro iniquità”. E neppure ora il Signore lascerà prevalere la verga del peccatore sulla sorte dei giusti. La mano di Dio non si è accorciata, né resa impotente a salvarci. Libererà anche in questo tempo, non v’è dubbio, la Sposa sua che redense col suo sangue, dotò del suo spirito, adornò con doni celesti ed arricchì in pari tempo con quelli terreni” … con questa citazione di San Bernardo si chiude questa Lettera Enciclica che è di una gravità eccezionale nei confronti dei persecutori, invasori ed usurpatori dello Stato Pontificio, in particolare del governo piemontese e del re ipocrita che affettava devozione ed obbedienza, ma era un fantoccio delle sette di perdizioni, attive già da tempo contro la Chiesa di Cristo ed il suo Vicario. La scomunica “ipso facto” lanciata dal Santo Padre contri i sacrileghi ed infami figuri, a qualsiasi titolo coinvolti, oltre agli effetti spirituali di condanna eterna, ebbero, ed tuttora hanno, effetti anche temporali, come quelli di una bomba ad orologeria a ripetizione cadenzata: quella dinastia regale, un tempo benemerita per la Chiesa, è miseramente fallita e fu cacciata con sua somma vergogna, dalla nazione italiana dopo una guerra disastrosa; il suo rappresentante con la propria famiglia ignominiosamente relegato in un lontano esilio, dal quale non è mai più tornato, e dal quale mai più torneranno i suoi discendenti macchiatisi nel frattempo di fatti abominevoli ed esecrandi. Lo Stato usurpante, dopo due guerre mondiali e di occupazione in Africa, ampiamente perse queste pure nei confronti di popoli inferiori per numero di uomini e di armamenti, mostrando al mondo intero la propria insipienza ed incapacità, dopo una dittatura fascista ed una successiva comunista, poi colonia americana di fatto, dopo esser caduta preda delle sette di perdizione, ancora oggi è lo zimbello del mondo intero, asservito ad un potere dispotico e tirannico mascherato da potere finanziario, da democrazia europea, ed oggi mondialista, sotto l’egida dell’organizzazione massonica definita O. N. U. [nazioni unite contro il Cristo e la sua Chiesa], la cui fine prossima, sarà ancor più vergognosa di quella del re codardo ed infame, ingannatore del Vicario di Cristo. Ancora una volta il motto d’oltralpe “Qui mange le Pape meurt” ha mostrato tutta la sua veridicità. Di quel potere usurpato ancora oggi godono gli esponenti delle sette del baphomet, ma la loro fine, già tante volte sperimentata da personaggi ben più importanti degli attuali “burattini” impagliati, è segnata da sempre … Imparino dalla storia antica e da quella più recente dell’ottocento e del novecento, … credono forse che diversa sarà la loro sorte? Tutti saranno gettati nello stagno di fuoco quali membri della “bestia” dell’Apocalisse, insieme al “falso profeta” [cioè alla falsa chiesa dell’uomo ed ai suoi adepti] per l’eterno castigo, là ove sarà … pianto e stridor di denti. Et IPSA conteret caput tuum.

ENCICLICA
RESPICIENTES EA
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO IX

A tutti i Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi ed altri Ordinari aventi grazia e comunione con la Sede Apostolica.
Il Papa Pio IX. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Considerando tutto ciò che il Governo Subalpino fa già da parecchi anni, con continue macchinazioni, per abbattere il Principato civile concesso per singolare provvidenza di Dio a questa Apostolica Sede, affinché i successori del beato Pietro avessero la piena libertà e la sicurezza necessarie nell’esercizio della loro giurisdizione spirituale, Ci è impossibile, Venerabili Fratelli, non sentirci il cuore commosso da profondo dolore per così grande cospirazione contro la Chiesa di Dio e contro questa Santa Sede, in questo luttuoso momento, nel quale lo stesso Governo, seguendo i consigli delle sette di perdizione, compì contro ogni legge, con la violenza e con le armi, quella sacrilega invasione, che già da gran tempo meditava, dell’alma Nostra città e delle altre città di cui ancora Ci rimaneva il dominio dopo la precedente usurpazione. Mentre Noi, umilmente prostrati davanti a Dio, ne veneriamo gli arcani disegni, siamo costretti a prorompere in quelle parole del profeta: “Io sto piangendo e l’occhio mio sta spargendo lacrime, perché lungi da me andò il consolatore che ristora l’anima mia; i figli miei divennero smarriti, perché prevalse il nemico” (Lam. 1,16). – Per certo, Venerabili Fratelli, fu da Noi esposta sufficientemente, e già da gran tempo manifestata al mondo cattolico, la storia di questa nefanda guerra, e ciò facemmo con parecchie Nostre Allocuzioni, Encicliche e Brevi, fatti o dati in diverso tempo, cioè nei giorni 1 novembre 1850, 22 gennaio e 26 luglio 1855, 18 e 28 giugno e 26 settembre 1859, 19 gennaio 1860, e con la Lettera Apostolica del 26 marzo 1860, poi con le Allocuzioni del 28 settembre 1860, 18 marzo e 30 settembre 1861, e 20 settembre, 17 ottobre e 14 novembre 1867. Dalla serie di questi documenti si chiariscono e si comprendono le gravissime ingiurie recate all’autorità Nostra suprema e di questa Santa Sede dal Governo Subalpino già prima della stessa occupazione del dominio ecclesiastico, incominciata negli anni passati; ingiurie recate sia con le leggi sancite contro ogni diritto naturale, divino ed ecclesiastico, sia con l’aver sottoposto ad indegna vessazione i sacri ministri, le famiglie religiose e gli stessi Vescovi, sia col rompere l’accordo stipulato con solenni patti stretti con questa Apostolica Sede, e negandone ostinatamente l’inviolabile diritto, in quello stesso tempo in cui manifestava di voler aprire con Noi nuovi negoziati. Dagli stessi documenti appare pienamente, Venerabili Fratelli – e tutta la posterità vedrà –, con quali arti e con quanto astute ed indegne macchinazioni il medesimo Governo arrivò ad opprimere la giustizia e la santità dei diritti di questa Sede Apostolica; ed insieme si conoscerà quali cure avessimo per rintuzzare, per quanto potevamo, la sua audacia crescente ogni giorno di più, e per difendere la causa della Chiesa. Ben conoscete che nell’anno 1859 dalla stessa potestà subalpina le città principali dell’Emilia vennero eccitate alla ribellione con segreti scritti, cospirazioni, armi e danaro; e poco dopo, intimati i comizi del popolo e comprati i suffragi, si fece un plebiscito, e con quella simulazione e sotto tale pretesto si strapparono, invano ripugnandone i buoni, dal Nostro paterno impero le Nostre province poste in quella regione. È pure noto che l’anno seguente lo stesso Governo, al fine di impadronirsi di altre province di questa Santa Sede poste nel Piceno, nell’Umbria e nel Patrimonio, addotti fallaci pretesti, con improvviso impeto circondò con grandi truppe i Nostri soldati ed una schiera volontaria di gioventù cattolica che, mossa da spirito di religione e da pietà verso il comune Padre, era accorsa da tutto il mondo a Nostra difesa; e, mentre nulla sospettavano di così improvvisa irruzione, li oppresse in sanguinosa battaglia, da essi però impavidamente combattuta per la Religione. – Nessuno ignora la grande impudenza e l’ipocrisia dello stesso Governo, con cui, a diminuire l’onta di questa sacrilega usurpazione, non esitò a proclamare che aveva invaso quelle province per restaurarvi i principi dell’ordine morale, mentre invece di fatto favorì dappertutto la diffusione ed il culto di ogni falsa dottrina, ovunque allentò le briglie alle passioni ed all’empietà, punendo altresì immeritatamente quei sacri prelati, personaggi ecclesiastici di qualunque grado, che cacciò in carcere e lasciò vessare con pubbliche contumelie, mentre frattanto consentiva l’impunità ai persecutori ed a coloro che non risparmiavano neppure la dignità del supremo Pontificato nella persona dell’umiltà Nostra. È noto inoltre che Noi, adempiendo al Nostro dovere, non solo Ci opponemmo sempre ai replicati consigli e alle domande fatteci, con cui si voleva che Noi, vergognosamente, tradissimo l’ufficio Nostro abbandonando e consegnando i diritti e i domini della Chiesa, o stipulando con gli usurpatori una nefanda conciliazione, ma, di più, Noi, a questi iniqui ardimenti e misfatti perpetrati contro ogni diritto umano e divino, opponemmo solenni proteste davanti a Dio e agli uomini, e dichiarammo incorsi nelle censure ecclesiastiche i loro autori e fautori, e, quando fu necessario, li fulminammo con le stesse censure. – Infine è certo che il predetto Governo nondimeno persistette nella sua contumacia e nelle sue macchinazioni, e fece in modo di promuovere, senza darsi mai tregua, la ribellione nelle restanti Nostre province, e specialmente in Roma, mandandovi perturbatori con arti d’ogni genere. Ma, poiché tutti questi tentativi non riuscivano mai al loro scopo per l’inconcussa fedeltà dei Nostri soldati, e per l’amore e la riverenza solennemente e costantemente dimostratici dai Nostri popoli, scoppiò infine nell’anno 1867 contro di Noi quel furioso turbine, allorché nell’autunno furono rovesciate sui Nostri confini e su questa città schiere d’uomini scelleratissimi, infiammate da empietà e furore e aiutate coi sussidi dello stesso Governo; parecchi di tali uomini già prima si erano occultati in questa città, sicché Noi e i Nostri dilettissimi sudditi dovevamo temere dalla loro violenza, dalla loro crudeltà e dalle loro armi ogni più duro e sanguinoso misfatto, come chiaramente era manifesto, se Dio misericordioso non avesse reso vani i loro attacchi sia col valore delle Nostre truppe, sia col valido aiuto di soldati mandatici dall’inclita nazione francese. – Ma in tanti combattimenti, in tanta serie di pericoli, di sollecitudini e di amarezze, la divina Provvidenza Ci recava una grandissima consolazione con la segnalata vostra pietà e riverenza, che voi, Venerabili Fratelli, e i vostri fedeli costantemente manifestaste verso Noi e questa Apostolica Sede con insigni e pubbliche dimostrazioni e con opere di carità cattolica. E quantunque i gravissimi pericoli nei quali Ci trovavamo Ci lasciassero appena qualche po’ di tregua, mai, per il divino conforto, trascurammo alcuna cura che riguardasse il mantenimento della prosperità temporale dei Nostri sudditi; e quante fossero presso di Noi le ragioni di tranquillità e di pubblica sicurezza, quale la condizione d’ogni più importante scienza ed arte, quale la fedeltà e l’affetto dei Nostri popoli verso di Noi, fu noto facilmente a tutte le nazioni, dalle quali in ogni tempo vennero a frotte in questa città moltissimi forestieri, specialmente in occasione di parecchie commemorazioni e solennità che abbiamo celebrato. – Orbene, stando così le cose e godendo i Nostri popoli di una pace tranquilla, il Re subalpino e il suo Governo, approfittando della grandissima guerra accesa fra due potentissime nazioni d’Europa, con una delle quali avevano fatto patto di conservare inviolato il presente Stato del dominio ecclesiastico e di non permettere che tale patto si violasse dai faziosi, repentinamente deliberarono d’invadere il resto delle terre del Nostro dominio e questa stessa Nostra Sede e di ridurla in loro potere. Ma perché questa ostile invasione, quali motivi se ne adducevano? Certamente sono notissime a tutti quelle cose che si dicono nella lettera del Re, mandataci in data dell’8 settembre scorso e consegnataci dal suo inviato, nella quale con lungo e ingannevole giro di parole e di frasi, ostentando i nomi di figlio amoroso e di uomo cattolico, con falso pretesto di salvare l’ordine pubblico, lo stesso Pontificato e la persona Nostra, domandava che Noi non volessimo considerare come un ostile misfatto la distruzione del Nostro potere temporale, e che inoltre cedessimo la Nostra stessa potestà, confidando nelle futili promesse da lui medesimo fatte, con le quali si concilierebbero i voti, come egli diceva, dei popoli d’Italia col supremo diritto e con la libertà spirituale del Romano Pontefice. – Noi certamente non potemmo fare a meno di meravigliarci assai vedendo con quale pretesto si voleva coprire e dissimulare la violenza che si stava per muovere contro di Noi, né potemmo non dolerci nel più profondo dell’animo della sorte dello stesso Re, che, spinto da iniqui consigli, arreca sempre nuove ferite alla Chiesa, e tenendo più conto degli uomini che di Dio, non pensa esservi in cielo il Re dei Re, ed il Dominatore dei Dominanti, il quale non “risparmierà chicchessia, e non avrà riguardo alla grandezza di alcuno, perché Egli fece il piccolo e il grande, ed ai maggiori maggior supplizio sovrasta” (Sap 6,8-9). – In quanto a ciò, poi, che riguarda le domande che Ci sono state poste, non credemmo di dovere esitare neppure un istante a seguire – obbedendo alle leggi del dovere e della coscienza – gli esempi dei Nostri Predecessori, e specialmente di Pio VII di felice memoria, i sentimenti del cui animo invitto, da lui espressi in situazione del tutto simile alla Nostra e a Noi comuni, qui Ci giova prendere a prestito e manifestare: “Ricordavamo con sant’Ambrogio [De Basilica tradenda, n. 17] la storia di quel sant’uomo di Naboth, che possedeva una vigna, al quale il re aveva chiesto di cedergliela affinché – tagliate le viti – vi potesse seminare il vile cavolo; ed egli rispose: “Lungi da me che io ceda l’eredità dei miei padri””. Noi ritenemmo che non Ci fosse assolutamente lecito abbandonare un’eredità tanto sacra e tanto antica (ossia il temporale dominio di questa Santa Sede, posseduto non senza un evidente disegno della Divina Provvidenza in così lunga serie di secoli dai Nostri Predecessori) né accettare col silenzio che qualcuno s’impadronisse della principale città del mondo Cattolico per poi (una volta sovvertita e distrutta la santissima forma di governo che Gesù Cristo affidò alla sua Chiesa, e che fu strutturata sui sacri canoni emanati dallo Spirito di Dio) introdurvi un codice contrario e ripugnante non solo ai sacri canoni ma agli stessi precetti evangelici; insomma, trasferirvi, come è d’abitudine, un nuovo ordine delle cose che tende palesemente ad uniformare e a confondere la Chiesa Cattolica con tutte le altre sette e superstizioni. – “Naboth difese le sue vigne col proprio sangue”[De Basilica tradenda, n. 17]. Potevamo dunque Noi, qualunque cosa stesse per capitarci, tralasciare di difendere i diritti ed i possessi di Santa Romana Chiesa, a conservare i quali, per quanto sta in Noi, siamo obbligati dalla solennità di un giuramento? Ovvero, potevamo non rivendicare la libertà della Sede Apostolica, strettamente legata alla libertà ed alla utilità della Chiesa universale? – “E quanto grande sia l’opportunità di questo dominio temporale e quanto esso sia necessario per garantire al Capo supremo della Chiesa il libero e sicuro esercizio dell’attività spirituale, la cui responsabilità gli fu affidata dal cielo per tutto il mondo, anche se altre ragioni mancassero, lo dimostra fin troppo chiaramente ciò che sta accadendo adesso” [Litt. Apost. 10 Iun. 1809]. Aderendo dunque a questi sentimenti, che in molte Nostre Allocuzioni abbiamo già espressi, nella Nostra risposta data al Re riprovammo le ingiuste sue domande, in modo tuttavia da mostrare l’acerbo Nostro dolore congiunto alla paterna carità, che non sa allontanare dalla sua sollecitudine neppure gli stessi figli che imitano il ribelle Assalonne. Non era ancora recata questa lettera al Re, che già furono occupate dal suo esercito le città finora lasciate intatte e tranquille di questo Nostro dominio pontificio, con facile vittoria sui soldati di guarnigione, dove questi tentavano di resistere. Poco dopo spuntò quell’infausto giorno 20 dello scorso settembre in cui vedemmo assediata da molte migliaia d’armati questa città, sede del Principe degli Apostoli, centro della Religione Cattolica e rifugio di tutte le genti. È stata fatta una breccia alle mura. Abbiamo dovuto compiangere la città spaventata dal terrore delle bombe ed espugnata con la forza e con le armi, per ordine di colui che poco prima così altamente aveva dichiarato di nutrire un filiale affetto verso di Noi e un animo fedele verso la Religione. – Che cosa di più doloroso in quel giorno poté riuscire a Noi e a tutti i buoni? Giorno in cui, essendo entrati i soldati in Roma ripiena d’una gran moltitudine di faziosi stranieri, vedemmo subito turbato e rovesciato l’ordine pubblico, vedemmo nella Nostra umile persona, con empie voci, insultata la dignità e santità dello stesso supremo Pontificato; vedemmo le fedelissime schiere dei Nostri soldati ingiuriate con ogni sorta di contumelie, vedemmo dominare dappertutto la sfrenata licenza e la petulanza dove poco prima risplendeva l’affetto dei figli desiderosi di confortare l’afflizione del Padre comune. Da quel giorno in poi avvennero sotto gli occhi Nostri tali cose che non si possono ricordare senza una ben giusta indignazione di tutti i buoni; cominciarono ad offrirsi a poco prezzo ed a spargersi libri nefandi ripieni di menzogna, di turpitudine e d’empietà; a pubblicarsi molti giornali per corrompere le menti e gli onesti costumi, per disprezzare e calunniare la Religione, per eccitare contro di Noi e questa Sede Apostolica l’opinione pubblica; a spacciarsi sconce ed indegne immagini ed altre simili caricature, con le quali vengono esposte alla pubblica irrisione e vien fatto ludibrio d’ogni cosa e persona sacra. – Furono decretati onori e monumenti a coloro che in virtù delle leggi e dei magistrati avevano subìto gravissime pene per i loro delitti; i ministri della Chiesa, contro i quali si aizza ogni invidia, furono fatti segni d’ingiurie e alcuni proditoriamente feriti; alcune case religiose assoggettate ad ingiuste perquisizioni; fu violata la Nostra casa del Quirinale, e da questa, dove aveva sede, uno dei Cardinali della Santa Chiesa, obbligato ad uscirne prontamente e repentinamente con violento comando, ed altri ecclesiastici e familiari Nostri furono licenziati e molestati; furono pubblicati leggi e decreti che manifestamente offendono e conculcano la libertà, l’immunità e i diritti di proprietà della Chiesa di Dio: mali gravissimi che vediamo con dolore ancora progredire, se Dio non vi frappone pietosamente rimedio. Frattanto Noi, impediti dal ripararvi in qualsiasi modo per la condizione in cui Ci troviamo, ogni giorno sempre più restiamo avvertiti di quella prigionia che Ci colpì, e della mancanza di quella piena libertà che, con mendaci parole, si dice al mondo di averci lasciato nell’esercizio del Nostro ministero apostolico, e l’intruso Governo si vanta di voler confermare, com’esso dichiara, con le necessarie garanzie. – Né qui possiamo tralasciare l’enorme misfatto che voi certamente conoscete, Venerabili Fratelli. Infatti, quasi che potessero rimettere in discussione e in dubbio i possedimenti e i diritti della Sede Apostolica, per tanti titoli sacri ed inviolabili, e quasi che le gravissime censure nelle quali (ipso facto e senza alcuna nuova dichiarazione) incorrono i violatori dei predetti diritti e possedimenti, potessero perdere la loro efficacia per la ribellione e l’audacia del popolo, per giustificare la sacrilega spoliazione che abbiamo patito, in dispregio del comune diritto di natura e delle genti, si cercò quel dispositivo e quella beffarda forma di plebiscito già altre volte usata nelle province a Noi sottratte. Coloro che sogliono esultare per le cose pessime, in quest’occasione non arrossirono di portare per le città d’Italia, quasi con pompa trionfale, la ribellione ed il disprezzo delle censure ecclesiastiche, contro i fraterni sensi della grande maggioranza degli italiani, alla cui Religione, devozione e fede verso Noi e la Santa Chiesa s’impedisce di manifestarsi liberamente, comprimendole in mille modi. – Frattanto Noi, che da Dio fummo preposti a reggere e a governare tutta la Casa d’Israele e fummo stabiliti vindici supremi della Religione e della giustizia e difensori dei diritti della Chiesa, al fine di non essere rimproverati di aver taciuto davanti a Dio ed alla Chiesa, e col silenzio Nostro aver prestato l’assenso a sì iniqua perturbazione di cose, rinnovando e confermando quello che nelle succitate Allocuzioni, Encicliche, Brevi altre volte solennemente dichiarammo, ed ultimamente nella protesta, che per Nostro ordine ed in Nostro nome il Cardinale preposto ai pubblici affari lo stesso 20 settembre mandò agli inviati, ministri e incaricati d’affari delle nazioni straniere, accreditati presso Noi e questa Santa Sede, nel modo più solenne che possiamo, di nuovo davanti a voi, Venerabili Fratelli, dichiariamo essere Nostra intenzione, Nostro proposito e Nostra volontà che tutti i domini di questa Santa Sede e i diritti della stessa restino integri, intatti, inviolati e si trasmettano ai Nostri successori; che qualunque loro usurpazione, eseguita tanto ora che prima, è ingiusta, violenta, nulla, irrita; e che fin da ora vengono da Noi condannati, rescissi, cassati e abrogati tutti gli atti dei ribelli e degli invasori, sia quelli che finora si commisero, sia quelli che forse per l’avvenire si opereranno a confermare in qualunque modo la suddetta usurpazione. Dichiariamo inoltre e protestiamo davanti a Dio e a tutto il mondo Cattolico che Noi siamo in tale cattività da non potere affatto esercitare con sicurezza, speditezza e libertà la Nostra suprema autorità pastorale. – Infine, obbedendo a quell’avvertimento di San Paolo “Quale comunanza della giustizia coll’iniquità? O quale società fra la luce e le tenebre? Quale patto tra Cristo e Belial?” (2Cor VI, 14-15) apertamente e chiaramente manifestiamo e dichiariamo che Noi, memori del Nostro ufficio e del solenne giuramento che Ci lega, non prestiamo, né mai presteremo, l’assenso a qualunque conciliazione, che in qualunque modo distrugga o scemi i diritti Nostri, e quindi di Dio e della Santa Sede; parimenti proclamiamo che, pronti certamente con l’aiuto della Divina grazia nella Nostra grave età a bere sino alla feccia per la Chiesa di Cristo il calice che Egli per primo si degnò di bere per la medesima, mai sarà che Noi aderiamo e Ci pieghiamo alle inique domande che Ci faranno. Infatti, come il Nostro predecessore Pio VII diceva: “Far violenza a questo supremo dominio della Sede Apostolica, separare la sua temporale potestà dalla spirituale, disgiungere, svellere, scindere gli uffizi del Pastore e del Principe, null’altro è che voler distruggere e rovinare l’opera di Dio, nulla fuorché sforzarsi che la Religione abbia un danno grandissimo, nulla fuorché spogliarla d’un efficacissimo aiuto, affinché il suo sommo Rettore, Pastore e Vicario di Dio non possa conferire ai cattolici, sparsi in ogni angolo della terra e di là bisognosi di forza e di aiuto, quei soccorsi che si chiedono dalla spirituale potestà di lui, e che nessuno deve impedire” [Alloc. 16 marzo 1808]. – Siccome poi i Nostri avvisi, le domande e le proteste furono vani, perciò con l’autorità di Dio Onnipotente, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e con la Nostra, a voi, Venerabili Fratelli, e per mezzo vostro dichiariamo a tutta la Chiesa che tutti coloro, forniti di qualsiasi dignità, anche meritevole di specialissima menzione, i quali compirono l’invasione, l’usurpazione, l’occupazione di qualunque provincia dei Nostri Stati e di questa alma città, o fecero alcune di tali cose; e parimenti i loro mandanti, fautori, aiutanti, consiglieri, aderenti od altri, quali che siano, che procurarono l’esecuzione dei fatti predetti o l’eseguirono essi stessi in qualsivoglia modo, o sotto qualunque pretesto, incorsero nella scomunica maggiore e nelle altre censure e pene ecclesiastiche inflitte dai sacri Canoni, dalle Costituzioni apostoliche e dai decreti dei Concilii generali, principalmente da quello Tridentino [sess. 22, cap. 11, De Reformat.], e vi incorsero secondo la forma e il tenore espressi nella suddetta Nostra lettera apostolica del 26 marzo 1860. – Memori però Noi di tenere qui in terra le veci di Colui che venne a cercare ed a salvare coloro che erano periti, nulla più vivamente desideriamo che di poter abbracciare con paterno affetto i figli traviati che ritornano a Noi; perciò, levando al Cielo le Nostre mani, nell’umiltà del cuore, mentre a Dio rimettiamo e raccomandiamo la causa giustissima, più Sua che Nostra, Lo preghiamo e Lo supplichiamo per le viscere della Sua misericordia che Ci soccorra prontamente col Suo aiuto, che soccorra la Sua Chiesa, e, misericordioso e propizio, faccia sì che i nemici della Chiesa, pensando l’eterna rovina che si preparano, cerchino di placare la Sua formidabile giustizia prima del giorno della vendetta e, convertiti, consolino il pianto della Santa Madre Chiesa e la Nostra afflizione. Affinché possiamo conseguire così insigni benefici della clemenza divina, vi esortiamo caldamente e vivamente, Venerabili Fratelli, perché con i fedeli affidati alle cure di ciascuno di voi congiungiate le vostre fervide preghiere ai Nostri voti, e tutti insieme accorrendo al trono di grazia e di misericordia, interponiamo la intercessione dell’Immacolata Vergine Maria Madre di Dio, e dei beati apostoli Pietro e Paolo. “La Chiesa di Dio, dalla sua origine fino a questi tempi, fu più volte travagliata e più volte liberata. Il suo grido è: “spesso mi espugnarono fin dalla mia gioventù, ma non riuscirono mai contro di me. I peccatori fabbricarono sopra il mio dorso e prolungarono la loro iniquità”. E neppure ora il Signore lascerà prevalere la verga del peccatore sulla sorte dei giusti. La mano di Dio non si è accorciata, né resa impotente a salvarci. Libererà anche in questo tempo, non v’è dubbio, la Sposa sua che redense col suo sangue, dotò del suo spirito, adornò con doni celesti ed arricchì in pari tempo con quelli terreni” [San Bernardo, Ep. 244 al re Corrado]. – Frattanto, augurando di cuore, Venerabili Fratelli, i fecondissimi frutti delle grazie celesti a voi ed a tutti i chierici e laici affidati da Dio alla vostra vigilanza, affettuosamente impartiamo a loro ed a voi, diletti figli, dall’intimo del cuore l’Apostolica Benedizione, pegno del Nostro speciale amore.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 1° novembre 1870, anno venticinquesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi

Durante la festa di Pentecoste la Chiesa ha ricevuto la manifestazione dello Spirito Santo e la liturgia di questo giorno ce ne mostra le felici conseguenze. Questo Spirito ci rende figli di Dio, tanto che possiamo dire in tutta verità: Padre nostro; siamo quindi assicurati dell’eredità del cielo (Ep.): ma per questo bisogna che, vivendo per opera di Dio, noi viviamo secondo Dio (Oraz.) lasciandoci indurre in tutto dallo Spirito di Dio (Ep.), cosi Egli ci accoglierà un giorno nei tabernacoli eterni (Vang.). Sta qui la vera sapienza di cui ci parla la storia di Salomone, della quale in questa settimana si continua la lettura nel Breviario; qui sta la grande opera alla quale il re dedicò tutta la sua vita. – Salomone costruì il Tempio del Signore nella città di Gerusalemme, secondo la volontà di David suo padre, che non aveva potuto edificarlo egli stesso per le continue guerre che i nemici gli avevano mosso contro. Salomone impiegò tre anni a preparare il materiale, cioè le pietre che ottantamila uomini estraevano dalle cave di Gerusalemme e il legno di cedri e cipressi che trentamila uomini abbattevano sul Libano nel regno dell’Iram (V. Domenica prec.). – Quando tutto fu pronto si cominciò, nel 480° anno dopo l’uscita dall’Egitto, la costruzione che durò sette anni. Pietre da taglio, legno e fregi ornamentali erano stati così esattamente misurati prima, che i lavori si compivano nel più grande silenzio. Nella casa di Dio non si sentiva colpo di martello, né ascia, né altro strumento di ferro durante il tempo che si edificava. Salomone prese come piano quello del tabernacolo di Mosè; ma gli diede proporzioni più vaste e vi accumulò tutte le ricchezze che poté. I soffitti e i pavimenti di legni preziosi erano rivestiti da placche di oro, gli altari e le tavole erano ricoperti di oro, i candelabri e i vasi erano di oro massiccio. Tutte le mura del tempio erano ornate da cherubini e da palmizi coperti di oro. A lavori terminati, Salomone consacrò con grande solennità questo Tempio al Signore. In presenza di tutti gli Anziani di Israele e di un popolo immenso appartenente alle dodici tribù, i sacerdoti trasportavano l’Arca dell’alleanza nella quale si trovavano le tavole della legge di Mosè, sotto le ali spiegate di due cherubini, ricoperte di oro e alte dieci abiti, che si innalzavano nel santuario. Si immolarono anche migliaia di pecore e di buoi e, quando i sacerdoti uscirono dal Sancta Sanctorum, una nube riempì la casa del Signore. Allora Salomone levando gli occhi verso il cielo, domandò a Dio di ascoltare le suppliche di tutti quelli, Israeliti o estranei, che sarebbero venuti in differenti circostanze, felici o infelici, nella loro vita, a pregarlo in questo luogo che era stato a Lui consacrato. Gli domandò anche di esaudire tutti quelli che, con la faccia rivolta verso Gerusalemme e verso il Tempio, gli avrebbero indirizzato le loro suppliche, per mostrare che Egli aveva scelta questa casa per sua residenza e che non vi era in nessun luogo altro Dio, che quello d’Israele. – Le feste della Consacrazione del Tempio durarono quattordici giorni in mezzo a sacrifici e banchetti sacri. E il popolo se ne tornò benedicendo il re e sentendo riconoscenza per tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele dal giorno dell’alleanza sul Sinai. Il Signore apparve allora una seconda volta a Salomone e gli disse: « Ho esaudita la tua preghiera, ho scelto e benedetto il tempio che mi hai innalzato; là saranno sempre i miei occhi e il mio cuore per vegliare sul mio popolo fedele ». Nella Messa di questo giorno la Chiesa canta alcuni versetti di sei Salmi differenti che riassumono tutti i pensieri espressi da Salomone nella sua preghiera: « Il Signore è grande e degno di lode nella città del nostro Dio, sulla sua montagna santa » (l’Intr., Alt.). « Chi è dunque Dio se non il Signore?» (Off.). È nel suo tempio che si riceve la manifestazione della sua misericordia » (Intr.) e che « si prova e si sente quanto il Signore sia dolce » (Com.), poiché Egli è « per tutti quelli che sperano in Lui, un Dio protettore e un luogo di rifugio » (Grad.), — Come il regno di Salomone fu una specie di abbozzo e di figura del regno di Cristo (2° Nott.), cosi il tempio che egli innalzò a Gerusalemme non fu che una figura del cielo nel quale Dio risiede ed esaudisce le preghiere degli uomini. È sulla montagna santa e nella città di Dio (All.) che noi andremo un giorno a lodarlo per sempre. L’Epistola ci dice che se noi vivremo di Spirito Santo, facendo morire in noi le opere della carne saremo figli di Dio, e che da quel momento, eredi di Dio e coeredi di Cristo, entreremo nel cielo che è il luogo della nostra eredità. Ed il Vangelo completa questo pensiero dicendoci, sotto forma di una parabola, quale sia l’uso che dobbiamo fare delle ricchezze d’iniquità per assicurarci l’entrata nei tabernacoli eterni. Un fattore infedele, accusato di aver dissipato i beni del padrone, si procura degli amici con i beni che questi gli aveva affidato, per avere, dopo essere stato cacciato, « persone pronte ad accoglierlo nelle proprie case ». I figli della luce, dice Gesù, contendano per zelo coi figli del secolo, e, imitando la previdenza di questo fattore, utilizzino i beni, che Dio ha messi a disposizione loro per venire in aiuto dei bisognosi e si facciano amici nel cielo, perché quelli che avranno sopportato cristianamente le privazioni sulla terra entreranno lassù e renderanno testimonianza ai loro benefattori nel momento in cui tutti dovranno rendere conto al divino Giudice della loro amministrazione (Vang.)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLVII: 10-11.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Ps XLVII: 2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus.

[Grande è il Signore, e degnissimo di lode nella sua città e nel suo santo monte.]

Ps XLVII: 10-11 Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Oratio

Orémus.

Largíre nobis, quǽsumus, Dómine, semper spíritum cogitándi quæ recta sunt, propítius et agéndi: ut, qui sine te esse non póssumus, secúndum te vívere valeámus.

[Concedici propizio, Te ne preghiamo, o Signore, di pensare ed agire sempre rettamente; così che noi, che senza di Te non possiamo esistere, secondo Te possiamo vivere.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII: 12-17

Fratres: Debitóres sumus non carni, ut secúndum carnem vivámus. Si enim secúndum carnem vixéritis, moriémini: si autem spíritu facta carnis mortificavéritis, vivétis. Quicúmque enim spíritu Dei aguntur, ii sunt fílii Dei. Non enim accepístis spíritum servitútis íterum in timóre, sed accepístis spíritum adoptiónis filiórum, in quo clamámus: Abba – Pater. – Ipse enim Spíritus testimónium reddit spirítui nostro, quod sumus fíli Dei. Si autem fílii, et herédes: herédes quidem Dei, coherédes autem Christi.

(“Fratelli: Non abbiam alcun debito versa la carne per vivere secondo la carne. Se, pertanto, vivrete secondo la carne, morrete; se, al contrario, con lo spirito farete morire le opere della carne, vivrete. Poiché, quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Invero, non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, ma avete ricevuto lo spirito di adozione in figliuoli, per il quale gridiamo «Abba! (o Padre)». E lo Spirito Santo stesso attesta al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. Ora, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo”).

OMELIA I.

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,

DIGNITÀ’ DEL CRISTIANO

 (Rom. VIII, 12-17).

L’Epistola è tolta dal cap. VIII della Lettera ai Romani. Lo Spirito Santo è come l’anima della vita cristiana. La carne non ha, dunque, più nulla da reclamare dal cristiano per trascinarlo a seguire le cattive inclinazioni, che danno la morte all’anima. Egli, deve, invece, mortificare le voglie della carne, mediante le opere dello Spirito, se vuol pervenire alla vita soprannaturale. Veri figli di Dio son coloro che si lasciano guidare dallo Spirito di Dio, seguendo docilmente i suoi impulsi. Questo Spirito, poi, non ci deve incutere timore, come se fossimo servi, ma ci deve ispirare un amore filiale; poiché è lo Spirito della filiazione adottiva, il quale attesta la nostra adorazione a figli di Dio e, per conseguenza, eredi di Lui e coeredi di Gesù Cristo. – Quanto insegna qui S. Paolo, fa pensare alla grande dignità del cristiano, della quale non sarà fuor di luogo dire due parole. Il Cristiano:

1. È figlio di Dio,

2. È l’abitazione dello Spirito Santo,

3. È l’erede del regno celeste.

1.

Quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio.

 Il Cristiano che, ricevuta la grazia dello Spirito Santo vi coopera, cercando di condurre una vita virtuosa, lontana dal peccato, è veramente figlio di Dio. Per mezzo della grazia santificante che riceviamo nel Battesimo, veniamo incorporati a Gesù Cristo. Questa mistica unione è così intima, che diveniamo «membra del corpo di Lui, della carne di Lui e delle ossa di Lui» (Eph. V, 30). E in lui siam fatti figli di Dio. Egli è il Figlio naturale del Padre, il Figlio unigenito; noi siamo i figli adottivi, ma pur sempre figli.Dio è nostro Creatore. Egli ha ci cavato dal nulla. Perciò siamo fattura di Lui. Ma Egli non è solamente Creatore nell’ordine naturale; è Creatore anche in un ordine più elevato; nell’ordine soprannaturale. «Infatti — dice. l’Apostolo — siamo fattura di Lui creati in Gesù Cristo» (Eph. II, 10). Quando noi siamo battezzati in Gesù Cristo diventiamo una nuova creatura, un uomo nuovo, diventiamo «partecipi della natura divina» (ll Pietr. I, 4), diventiamo figli di Dio per mezzo di una generazione spirituale. S. Giovanni ci richiama alla considerazione di tanta dignità, a cui Dio ci ha elevati: «Osservate quale carità ci ha dato il Padre, che siamo chiamati e siamo figli di Dio» (1 Giov. III, 1). Sarebbe già dimostrazione di grande amore da parte di Dio se ci avesse concesso di poterlo chiamare col nome confidenziale di Padre. Ma Egli non si è accontentato d’esser Padre solamente all’apparenza; ma volle essere nostro Padre in realtà; così che noi siamo veramente suoi figli, non di nome, ma anche di fatto. Il Salmista, che invita Israele a lodar Dio per i benefici che ha fatto a Gerusalemme e a tutto il popolo, termina il suo cantico con questa constatazione: «A nessun altro popolo fece altrettanto» (Salm. CXLVII, 20). Nella nuova legge noi possiam dire con tutta verità, che fece altrettanto e molto più al popolo cristiano. I Cristiani, essendo stati adottati a figli di Dio, sono veramente, ben più che il popolo d’Israele: «stirpe eletta, sacerdozio regale, gente santa, popolo di acquisto» (I Pt. II, 9). – «Comprendi, cristiano, la tua dignità? associato alla divina natura non ritornare per una indegna compiacenza alle vergogne del passato» (S. Leone M. Serm. 21, 3) «Quanto è turpe offendere un tal padre!» (S. Zenone. Lib. 2, Tract. 22, 3).

2.

E lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che noi siam figli di Dio.

Lo Spirito Santo a coloro, che si lasciano guidare da Lui, attesta con voci interne la consolantissima verità che sono figli di Dio. Queste voci interne sono molteplici. L’esser spinti a chiamar con fiducia e con affetto filiale Dio con il dolce nome di Padre, l’orrore al peccato, l’amor di Dio, la prontezza nei seguir le buone ispirazioni. La pace e la tranquillità della coscienza sono echi di questa voce interna.Questo linguaggio interno dello Spirito Santo suppone che Egli sia presente nell’anima nostra, che sia «abitante in noi» (Rom. VIII, 11). È una verità insegnata ripetutamente da S. Paolo. e da lui richiamata con energia alla mente dei Corinti: «Non sapete che siete il tempio di Dio. e che lo Spirito di Dio abita in voi? »  (I Cor. III, 16). Veramente, tutto il creato è tempio di Dio. La terra, con tutta la sua varia magnificenza, è come lo sgabello del suo trono, gli astri sono come la sua corona. Se noi potessimo sollevarci alle più eccelse altezze, vi troveremmo Dio; se potessimo  portarci dall’uno all’altro confine del mondo, sentiremmo di essere sotto la sua destra; se discendessimo nei più profondi abissi dovremmo confessare col salmista : « ivi tu sei » (Ps CXXXVIII, 8). Se tutto il creato è tempio di Dio, Dio stesso volle scegliersi dei templi particolari. Egli dice sul monte a Mosè: «Ordina ai figli d’Israele che levino per me un contributo… E mi facciano un santuario, si che Io abiti in mezzo a loro» (Es. XXV, 2-8). E quando l’opera è compita, ecco, che una nube vi scende sopra, a significare che Dio prende possesso del tabernacolo, e vi pone la sua dimora (Es. XL, 32, segg.). Più tardi Salomone, in luogo del tabernacolo mobile di Mosè, costruisce sul modello del medesimo, ma in proporzioni e con magnificenza maggiori, un tempio stabile. Di nuovo, nel giorno della consacrazione, una nuvola miracolosa riempie il tempio ad attestare la presenza di Dio (3 Re. VIII, 10). – Ma oltre questi tempi Dio se ne sceglie degli altri. Quando l’anima del Cristiano è purificata nel Battesimo, diventa tempio dello Spirito Santo, il quale, per così dire, vi prende possesso e ne forma la propria dimora: diciamo meglio, forma la dimora della SS. Trinità, perché ove è una Persona divina, ci sono anche le altre. Di chi, mediante la carità, è tempio dello Spirito Santo, dice Gesù Cristo: «Il Padre mio lo amerà, e verremo da lui, a faremo dimora presso di lui» (Giov. XIV, 23). – Sulle case ove abitarono uomini illustri, si mettono delle lapidi commemorative, che ricordano al passante, che quella casa ebbe l’onore d’essere stata l’abitazione del tale o del tal altro personaggio. Talune vengono curate con somma diligenza, perché non vadano soggette a deperimento; altre vengono dichiarate monumento nazionale, perché nessuno osi toccarle, deteriorarle, distruggerle. Sull’anima del Cristiano, che non ha perduto la grazia santificante possiamo leggere un’iscrizione di maggior valore: « Tempio dello Spirito Santo ».

3.

Per mezzo del Battesimo i Cristiani sono divenuti figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo. Ora, se siam figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo. Procediamo di meraviglia in meraviglia. La gloria che attende il cristiano sorpassa ogni intendimento. Gesù Cristo è re della gloria. I Cristiani, fratelli di Gesù Cristo, vengono pure a partecipare della sua dignità regale, poiché « il segno della croce rende re tutti coloro che sono rigenerati in Gesù Cristo » (S. Leone M. Serm. 4, 1). Anche l’eredità che spetta al cristiano sarà un’eredità regale. A lui è concesso da Dio il diritto di « sedere in cielo con Gesù Cristo » (Eph. II, 6). Quando Davide vede avvicinarsi gli ultimi giorni, dichiara suo successore Salomone. Questi viene unto re, e sale il trono del regno. Quei della corte si rallegrano col re Davide, dicendo: «Dio renda il nome di Salomone più grande del tuo nome, e magnifichi il suo trono sopra il tuo trono» (3 Re I, 47). – Il regno dove i Cristiani sederanno con Gesù Cristo, sarà, senza confronto, più magnifico del regno di Salomone. Il regno ereditato da Salomone andò presto diviso, ed ebbe la sua fine. « Il magnifico regno è il bellissimo diadema che riceveranno dalla mano del Signore » (Sap. V, 17), i Cristiani che rimarranno intatti. Quel regno «è una eredità che non impiccolisce pel numero dei coeredi; ma rimane intera tanto per molti, quanto per pochi; tanto per ciascuno quanto per tutti» (S. Agost. Enarr. in Ps. XLIX). La Chiesa, celebrando la gloria d’un santo martire con le parole del Salmista, esclama: «Hai posto, o Signore, sul suo capo una corona di pietre preziose» (Ps. XX, 4). Questa corona di pietre preziose Dio pone non solo sul capo dei martiri, ma sul capo di tutti i giusti. E questa corona non passerà ai successori. Non sarà mai tolta dal capo, su cui Dio l’ha posta. A considerare la grandezza dell’eredità che ci attende, il nostro animo s’accende della brama di andarvi in possesso. Ma per arrivare al possesso di questa eredità è necessario di non rendersene indegni. Le leggi umane contemplano i casi di indegnità, che potrebbero privare un figlio dall’eredità che gli spetta. Per i Cristiani questa indegnità c’è quando si commette il peccato. Quando si commette un peccato grave, lo Spirito Santo, che dimorava nell’anima come amico, consigliere, maestro, se ne parte con tutti i suoi doni, e con lui se ne partono anche il Padre e il Figlio, e l’uomo peccatore rimane privato dal diritto all’eredità. Per arrivare al possesso dell’eredità eterna occorre la grazia di Dio, che noi dobbiam procurare di non perdere mai. In paradiso non ci si va in carrozza. Noi saremo «eredi di Dio e coeredi di Gesù Cristo, se però soffriamo con Lui affine di essere anche con Lui glorificati » (Rom. VIII, 17). «Non si può pervenire ai grandi premi, senza grandi fatiche. Perciò Paolo, eccellente predicatore dice: Non sarà coronato se non chi avrà combattuto secondo le leggi» (S. Gregorio M. Hom. 37, 1). E tutti sappiamo qual è questo combattimento secondo le leggi: nelle molteplici circostanze della vita diportarci secondo l’esempio datoci da Gesù Cristo: osservare con fedeltà i suoi comandamenti.

Graduale

Ps LXX: 1 V. Deus, in te sperávi: Dómine, non confúndar in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[V. O Dio, in Te ho sperato: ch’io non sia confuso in eterno, o Signore. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XLVII:2

Alleluja, Alleluja.

Magnus Dóminus, et laudábilis valde, in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. Allelúja.

[Grande è il Signore, degnissimo di lode nella sua città e sul suo santo monte. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. (Luc XVI: 1-9)

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: jam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii hujus saeculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula

 (“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Eravì un ricco, che aveva un fattore, il quale fu accusato dinanzi a lui, come so dissipato avesse i suoi beni. E chiamatolo a sé, gli disse: Che è quello che io sento dire di te? Rendi conto del tuo maneggio; imperocché non potrai più esser fattore. E disse il fattore dentro di sé: Che farò, mentre il padrone mi leva la fattoria? non sono buono a zappare; mi vergogno a chiedere la limosina. So ben io quel che farò, affinché, quando mi sarà levata la fattoria, vi sia chi mi ricetti in casa sua. Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, disse al primo: Di quanto vai tu debitore al mio padrone? E quegli disse: Di cento barili d’olio. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo; mettiti a sedere, e scrivi tosto cinquanta. Di poi disse a un altro: E tu di quanto sei debitore? E quegli rispose: Di cento staia di grano. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo, e scrivi ottanta. E il padrone lodò il fattore infedele, perché prudentemente aveva operato: imperocché i figliuoli di questo secolo sono nel loro genere più prudenti dei figliuoli della luce. E io dico a voi: Fatevi degli amici per mezzo delle inique ricchezze; affinché, quando venghiate a mancare, vi dian ricetto ne’ tabernacoli eterni”).

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

– Sopra l’abuso delle grazie –

(Redde rationem villicationis tuæ).

Luc. XVI.

In qual imbarazzo, fratelli miei, non si ritrova un uomo il quale, avendo un gran conto da rendere, non ha di che pagare, e si vede obbligato per la sua cattiva condotta a lasciare un posto, che gli era vantaggioso, senz’aver altronde alcun rifugio nella sua disgrazia, non osando neppure chieder limosina per aver onde vivere? Sotto questa parabola Gesù Cristo ci rappresenta nell’odierno Vangelo lo stato di un’anima, che non avrà posto a profitto i talenti che Dio le ha confidati, che avrà abusato dei beni e delle grazie che le ha date. Noi tutti siamo gli economi di Dio supremo padrone delle creature; noi abbiamo ricevuto da Lui dei beni nell’ordine della natura ed in quello della grazia. Ricchezze, sanità, facoltà dell’anima e del corpo, ecco i beni naturali, che ci ha confidati e che vuole facciamo valere per sua gloria e nostra salute. Se noi li abbiamo impiegati in altri usi, Egli ce ne farà rendere un conto terribile: Redde rationem. Ma il più gran conto che noi abbiamo a rendere, fratelli miei, sarà quello dei beni soprannaturali, dei beni della grazia, che ci sono dati per meritar quelli della gloria; beni che sorpassano infinitamente tutti gli altri, il cui malvagio uso renderà il nostro conto molto più terribile. Se noi non abbiamo fatto valer questi beni, se abbiamo abusato di queste grazie, Dio ci dirà come fu detto a quell’economo del Vangelo: Redde rationem, rendetemi conto della vostra amministrazione; ci sarà tolta questa amministrazione, e ci ritroveremo nel medesimo imbarazzo, ed anche più grande che  l’economo del Vangelo; oltre che non potremo più faticare per la nostra salute al momento della morte, che sarà il tempo in cui renderemo conto; non troveremo amici, come quell’uomo, che ci servano di rifugio nella nostra disgrazia; noi saremo condannati con l’ultimo rigore a cagion dell’abuso che avremo fatto delle grazie di Dio. Di questo abuso delle grazie, vengo io quest’oggi a farvi sentire, se si può, tutta la colpa e la disgrazia, per indurvi a fare un santo uso della grazia e a prevenire il conto, che dovrete rendere un giorno a Dio, se non ne avrete profittato. Qual è la colpa d’un’anima, che si abusa della grazia di Dio? Primo punto. Qual è la sua disgrazia? Secondo punto.

I. Punto. Quanto più un bene, che si presenta ci è necessario, tanto più siamo degni di condanna nel ricusarlo. Più questo bene è prezioso in se stesso e gratuito dalla parte di chi l’offre, più si sente egli offeso dell’abuso che se ne fa. Su questa regola, fratelli miei, egli è facile di giudicare quanto sia colpevole un’anima quando rigetta e si abusa della grazia del suo Dio. – Nulla, infatti, è più necessario, nulla è più prezioso della grazia, ossia che si consideri in se stessa, ossia che si riguardi il fine per cui questa grazia data, ossia che facciasi attenzione a quel che costò a Gesù Cristo per meritarcela, e al modo con cui essa ci è data. – Che cosa è dunque la grazia di cui sentite sì sovente parlare, e che è l’oggetto dei vostri desideri e delle vostre preghiere? Ah! se voi conosceste il dono di Dio, si scires donum Dei, quale stima non ne fareste voi, e qual sarebbe la vostra premura di metterlo a profitto! Per spiegarvi, fratelli miei, la natura e l’eccellenza di questo dono prezioso, che ci viene dal cielo, convien qui richiamarvi ciò, che la Religione c’insegna, cioè che noi siamo tutti creati per esser felici della felicità di Dio medesimo, che dobbiamo posseder nel cielo con una chiara visione delle sue adorabili perfezioni. Tale è il fine soprannaturale, a cui Dio ci ha elevati per una disposizione affatto gratuita della sua provvidenza. Siccome questo fine non ci era dovuto, e noi non potevamo arrivarvi con le nostre forze naturali, ci è stato necessario per questo un aiuto soprannaturale, cioè un aiuto che gli fosse proporzionato. Questo aiuto è quello, che noi chiamiamo la grazia di Dio, che supplisce alla nostra debolezza e alla nostra impotenza dandoci non solamente il potere di fare il bene, ma ancora il volere di farlo, come dice il gran Padre della Chiesa s. Agostino. – Or questa grazia ci è così necessaria per meritare la felicità cui Dio ci ha destinati, che senza di essa noi non potremmo giammai arrivarvi, mentre per meritare la vita eterna convien credere in Gesù Cristo, osservare i suoi comandamenti, il che non si può fare senza la grazia di Dio. Niuno può venire a me, dice Gesù Cristo, che non sia tratto da mio Padre. Senza di me, ci dice Egli ancora, voi nulla potete fare: Sine me nihil potestis facere (Jo. XV). Il vostro fondo è così sterile che non è neppur capace di produrre un buon pensiero, l’Apostolo; tutto il nostro potere viene da Dio: Non sumus sufficientes cogitare aliquid a nobis, quasi ex nobis, sed suffìcientia nostra ex Deo est (II. Cor.3). Or se noi non siamo capaci di aver un buon pensiero pel cielo, a più forte ragione non possiamo da noi medesimi superare tutti gli ostacoli, che si trovano nella via della salute né praticare le opere meritorie della vita eterna. Noi abbiamo bisogno per questo della grazia di Dio: simili ad infermi, che non possono reggersi in piedi, noi cadremmo ad ogni passo se Dio non ci aiutasse col suo soccorso, né arriveremmo giammai al beato termine della nostra felicità. – Ma come mai la grazia di Dio perfeziona in noi la grand’opera della nostra predestinazione? Questo è quanto convien ancora dirvi per farvene conoscere l’eccellenza, e per una conseguenza necessaria, la colpa di coloro che ne abusano. Questa grazia, dice s. Agostino, ha due prosperità: essa illumina le nostre menti e muove i nostri cuori; Illuminando le nostre menti, essa c’insegna ciò che non sappiamo: ut innotescat quod latebat. Movendo i nostri cuori, ci fa amare ciò, che non ci piaceva: et suave fiat quod non delectabat, gratiæ Dei est. Sì, fratelli miei, è la grazia di Dio, che dissipa le tenebre della nostra ignoranza  che ci scopre le insidie dei nostri nemici, i pericoli della salute, e c’istruisce dei nostri doveri. – Sono buoni pensieri, che Dio ci ispira, lumi che sparge nella nostra anima, quelli che ci fan conoscere il male che dobbiamo evitare ed il bene, che dobbiamo fare. Questa grazia opera altresì sopra i nostri cuori, sopra le nostre volontà, prevenendole, sollecitandole, aiutandole a fuggir il male e a far il bene, che conoscono. Il che voi provate, fratelli miei, in mille occasioni, allorché sentite dentro di voi quei buoni movimenti, che vi portano al bene; allorché dopo la lettura d’un buon libro, dopo una viva esortazione, allorché alla vista d’ una morte subitanea, d’un avvenimento funesto, o anche indipendentemente da qualche causa straniera, vi sentite stimolati, sollecitati interiormente a lasciar il peccato, a rinunciare alle occasioni, a staccarvi dai beni, dai piaceri del mondo, praticar la virtù, e fare una limosina, una mortificazione, ed accostarvi ai sacramenti; è la grazia di Dio, che produce in voi queste sante inspirazioni, questi pii movimenti: e quando vi arrendete ai suoi inviti, ella è ancora che vi aiuta a fare ciò che domanda da voi, e che non potreste fare da voi medesimi senza il suo aiuto. Finalmente, fratelli miei, è la grazia di Dio, che converte il peccatore, che fa perseverare il giusto, che corona i santi: niente di tutto ciò si farebbe senza di essa. Quanto sono dunque colpevoli coloro, che chiudono gli occhi alla luce della grazia e resistono alle sue inspirazioni! – Dio, per un puro effetto della sua bontà, vuol rendere felici gli uomini di cui Egli poteva star senza, cui poteva lasciar nel nulla. Conferisce loro la sua grazia per meritare il posto che loro ha apparecchiato nel suo regno, dove essi non possono giungere senza l’aiuto di questa grazia; e questi uomini ingrati verso Dio, ciechi ed insensibili sopra i loro veri interessi, dispregiano il dono celeste, rigettano il rimedio che Dio loro offre per guarirli, il pane che loro dà per poter cibarli, la luce che fa risplendere per rischiararli; essi calpestano i doni, che la liberalità d’un Dio sparge su loro per arricchirli; preferiscono le tenebre alla luce, beni transitori a beni eterni, uno stato di morte e di miseria ad uno stato di vita e di felicità. Qual ingratitudine verso la bontà di un Dio sì liberale per miserabili creature! Dio ha avuto la bontà di cavare un povero dalla polvere e dal fango ove era immerso, a fine d’innalzarlo sopra un trono di gloria, suscitat de pulvere egenum; e questo povero non vuol profittare della sua buona sorte. Questo verme della terra non si degna di ascoltare il Creatore che lo chiama, dice s. Bernardo: egli ama meglio restar nel fango che uscirne. Questo peccatore insensibile alla voce del suo Dio attende ai divertimenti del secolo, alle follie del mondo; egli antepone la schiavitù del demonio alla felice libertà dei figliuoli di Dio. Lo ripeto, qual oltraggio quale infedeltà verso chi l’ha tanto amato! – Eppure tale è la vostra ingratitudine o peccatori, che mi ascoltate, allorché voi soffocate quei buoni pensieri, resistete a quei buoni movimenti, che vi stimolano, che vi sollecitano a ritornare a Dio, a rompere quelle corrispondenze malvage, che vi tengono allacciati al mondo, ai piaceri, all’oggetto d’una cieca passione, a restituire quei beni mal acquistati, a correggervi di quell’abito in cui marcite da sì lungo tempo, a riconciliarvi con quel nemico, che non potete vedere né soffrire. – Oimè! forse nell’istante ch’io vi parlo, il Signore vi porge la mano per aiutarvi onde vi rialzate: exurge a mortuis (Eph.), voi, ben lungi di porgergli la vostra per aiutarvi da voi medesimi ad uscir dall’abisso, non vi degnate neppure di ascoltar la sua voce, non siete né tocchi dalle sue carezze, né intimoriti dalle sue minacce, voi soffocate i rimorsi della coscienza che vi fa sentire la vostra disgrazia; voi dispregiate gli avvisi dei predicatori, per cui mezzo Dio vi fa intendere la sua voce, mentre questi sono i mezzi di cui servesi Dio per avvertirvi, per rimettervi sul buon sentiero. – Insensibili a tutte queste voci, con cui Dio vi parla, voi restate nell’inazione e nella trascuratezza, e con una ostinata resistenza alla grazia lo combattete, come i Giudei, con un cuor duro ed incirconciso. Schiavi d’una vile creatura, cui voi date la preferenza sul vostro Creatore, amate meglio perdervi con essa, che salvarvi abbandonandola. Voi amate meglio perdere la vostra anima, rinunciare al cielo e dannarvi, che privarvi d’un piacere che passa, d’un bene fragile che non vi appartiene, e che non potete portar con voi. Ah! non meritate voi forse, e con ragione, i rimproveri, che s. Stefano faceva altre volte ai Giudei sopra la loro continua resistenza alla grazia? Vos semper Spiritui Sancto resistitis (Act.). Voi resistete sempre allo Spirito Santo, allontanate da voi questo divino Spirito, che vuol fare in voi la sua dimora; voi profanate un tempio, che Egli ha consacrato, calpestate le sue ricchezze, onde ha adornato il vostro interiore, sia perdendo la sua grazia con il peccato, sia ricusando i mezzi che Egli vi offerisce per ricuperarla: Vos semper Spiritui Sancto resistitis. – Ma perché, o peccatori, vi abusate voi in tal modo della grazia del vostro Dio? Forse non ne conoscete il prezzo? Non sapete voi, che essa ha costato il sangue di un Dio, che è il frutto della sua passione e della sua morte, che è un bene che non vi è dovuto? E questo è ciò, che rende ancora più colpevole l’abuso, che voi ne fate. Sì, fratelli miei, la grazia è il frutto della passione e della morte d’un Dio. Essa non ha potuto essere accordata agli uomini, che a questo prezzo. Fu necessario, per meritarcela, che un Dio si umiliasse, si annientasse, divenisse ubbidiente sino alla morte di croce; cioè a dire, fratelli miei, che la grazia ha costato a Dio più che il mondo intero; poiché la creazione del mondo non gli costò che una parola, laddove la grazia gli ha costato il sangue e la vita. Cioè a dire ancora che la grazia vale più che tutti i tesori e le ricchezze della natura. L’oro e l’argento, paragonati ad essa, non sono che fango. Qual delitto non è dunque dispregiare la grazia, rigettarla, abusarne? Gli è dispregiare i patimenti e la morte di un Dio; è come calpestare il suo sangue adorabile; è un rivolgere contro Dio medesimo i suoi propri benefizi e servirsene per oltraggiarlo. Calpestare il sangue di un Dio! Questo pensiero vi fa orrore; ecco nulladimeno ciò, che voi fate quando rendete inutili le ispirazioni della grazia, quando resistete ai suoi movimenti, per seguire i moti d’una natura corrotta, che vi porta ai piaceri da Dio vietati, quando ricusate di fare il bene, che la grazia v’inspira; mentre tutto questo si è abusar della grazia. Vi pensate voi, fratelli miei? E se vi pensate, come potete voi risolvervi a rendervi colpevoli d’un attentato così enorme come quello dei Giudei, che non ebbero orrore di bagnar le loro mani sacrileghe nel sangue di un Dio ch’essi spargevano senza profittarne? Voi avete sparso, come essi, quel sangue prezioso con i vostri peccati e con le vostre resistenze alla grazia; voi ve la rendete inutile, siccome essi hanno fatto con la loro ostinazione a non voler riconoscere per Messia colui che han crocifisso. E a che serve, che Gesù Cristo sia morto per meritarvi tante grazie, giacché voi non ne profittate più dei Giudei e degli infedeli medesimi che non conoscono il dono di Dio? Nel che voi siete più colpevoli di quegl’infedeli, voi che nel seno del Cristianesimo, ove avete avuta la bella sorte di nascere, ricevete una più grande abbondanza di grazie, che quelli che non vi sono. Grazie della divina parola, che v’istruisce dei vostri doveri, che vi fa vedere la bellezza delle sue ricompense, i rigori dei suoi castighi; e voi non volete ascoltare questa divina parola, vi annoiate, ve ne disgustate quando vi si annunzia. Quanti anche ve ne ha, che non penserebbero giammai a udirla! Grazie di buoni esempi, che dovrebbero portarvi al bene; e voi similmente li dispregiate per non seguire che i cattivi, il torrente, i costumi del mondo. Grazie dei Sacramenti, che sono come i canali di quell’acqua salutevole, che scaturisce per la vita eterna e voi non li frequentate, voi ve ne allontanate, come se fosse una disgrazia l’accostarvisi; o se ad essi vi accostate, si è per profanarli col sacrilegio. – Ah! Cristiani, ciechi in mezzo della luce che vi rischiara, cuori insensibili alle attrattive della grazia, voi meritate d’esser trattati al giudizio di Dio con molto più rigore che un’infinità di popoli, i quali non hanno ricevuto tante grazie come voi. Guai a te, Betsaida, dice Gesù Cristo nel Vangelo, guai a te, Corozaim, perché se Tiro e Sidone avessero veduti i medesimi prodigi che voi, avrebbero fatta penitenza; un’infinità di pagani si convertirebbe, guadagnerebbe il cielo, se avesse, non dico già tutte le grazie, ma una parte solo di quelle che avete ricevute voi; se essi fossero istruiti come voi, se avessero come voi i buoni esempi, i Sacramenti, diverrebbero santi. E tutte queste grazie non hanno ancora potuto fare di voi un buon Cristiano! Che però, dice Gesù Cristo, questi popoli saranno vostri giudici e saranno trattati con meno rigore che voi, perché voi siete più colpevoli di essi, per l’abuso, che voi fate delle grazie, che essi non ebbero. – Ciò che rende ancora molto colpevole questo abuso, si è che Dio non vi deve in alcun modo la sua grazia: sebbene la dia a tutti, perché vuol salvare tutti gli uomini, non lo deve però ad alcuno; ella dipende dalla sua pura liberalità, altrimenti non sarebbe un dono gratuito. Molto meno Egli la deve a voi, o peccatori, che ve ne rendete indegni coi vostri peccati; con le vostre continue resistenze alla sua grazia. Voi meritereste che Dio vi abbandonasse alla vostra infelice sorte, che vi lasciasse nella schiavitù del demonio, che vi lasciasse perire eternamente. – Con tutto ciò questo Dio di bontà non vi tratta come meritate. Egli vi cerca ancora nel tempo medesimo che voi lo fuggite; Egli vi offerisce il suo soccorso per aiutarvi ad uscire dall’abisso ove siete caduti; vi stimola, vi sollecita di ritornare a Lui. Per meglio guadagnarvi, la sua grazia si accomoda, per così dire, alle vostre inclinazioni: ella prende , dice l’Apostolo s. Pietro, tante forme diverse, quante trova disposizioni proprie a secondare i suoi disegni: multiformìs gratia Dei (1 Pet. IV). Per disgustarvi dei piaceri, ella vi sparge amarezze: per farvi amar la virtù, ella ve ne fa gustar le dolcezze. Se voi temete di soffrire, essa v’intimorisce con la vista dei castighi che la giustizia di Dio apparecchia ai peccatori: se amate il premio, essa vi attrae con la vista di quelli che la sua bontà riserba agli eletti. Qui vi procura un mezzo di conversione in un buon avviso o in un buon esempio d’una persona che frequentate. Là in una disgrazia che vi accade, ed in mille altre congiunture favorevoli, che vi presenta, essa vi attrae nel modo più proprio a farvi diventare sua conquista. Qual gratuità! Qual circospezione dalla parte d’un Dio, che vuol salvare la sua creatura! Ma quale ingratitudine, quale infedeltà dalla parte di questa creatura, la quale corrisponde sì poco ai favori del suo Dio, che, invece di metterli a profitto, ne fa un perverso abuso! Non merita essa forse i più severi castighi? E il soggetto del secondo punto.

II. Punto. Siccome è proprio della grazia il rischiarar la mente e muover il cuore, per un effetto del tutto contrario, l’abuso, che se ne fa cagiona l’accecamento della mente e la durezza del cuore. Il peccatore, chiudendo gli occhi ai lumi della grazia, induce Dio a privarlo di quella grazia che lo illuminerebbe; il che fa il suo accecamento. Il peccatore, resistendo agl’impulsi della grazia, contrae una funesta insensibilità, che lo riduce al punto da non essere più commosso: il che fa la sua ostinazione. Terribil castigo dell’abuso delle grazie, che deve indurci a farne un santo uso! – Ella è una giusta pena del peccato, dice s. Agostino, che il peccatore sia privato del bene di cui non ha voluto profittare, e che, non essendosi servito delle cognizioni, che aveva per adempiere i suoi doveri, quando poteva farlo, sarà egli talmente accecato che non saprà più ciò che deve fare quando lo vorrebbe. – Questa sottrazione dei lumi e delle grazie, con cui Dio punisce il peccatore, ci è così chiaramente manifestata nelle Sante Scritture, che non si può leggere senza spavento ciò, che lo Spirito Santo ce ne ha rivelato. Or si è un abbandono ove Dio lascia il peccatore; or sono dense tenebre, che si spandono nella sua mente, e che gli impediscono di vedere la verità. Si è un accecamento con cui Dio lo percuote, un allontanamento, che lo separa dal suo cuore e dalla sua rimembranza. Io ho fatto tutto ciò, che ho potuto, dice Dio per uno de’ suoi profeti, per guarir Babilonia, e questa città ingrata non ha voluto profittare delle mie cure: l’abbandono adesso al suo fatale destino: Curavìmus Babylonem, et non est sanata, derelinquamus eam (Jer. LI). Questo abbandono ci è ancora rappresentato sotto la figura d’una vigna che Dio non vuol più coltivare. Che cosa poteva fare, dice Egli, alla mia vigna, che non abbia Io fatto, per farle portar frutti buoni? Io l’aveva piantata in buon terreno; ne aveva tolte le pietre e i triboli; aveva innalzato una torre in mezzo per difenderla dai suoi nemici; l’aveva fatta attorniare d’una forte siepe per renderla impenetrabile ai ladri; dopo tutte queste precauzioni ho creduto che essa porterebbe del frutto. Ho aspettato un anno, due anni, tre anni, e dopo tutto questo tempo, essa non ha prodotto che lambrusche: expectavi, ut faceret uvas, et fecit lambruscas (Isai: V). Ma poiché questa vigna ingrata non ha corrisposto alla mia aspettazione, ecco il trattamento ch’Io le farò: l’abbandonerò, farò tagliar la siepe che la difendeva, auferam sepem eius; e quindi diverrà la preda dei suoi nemici, erit in direptionem; essa sarà rovinata, e fuori di stato di portar buoni frutti; non vi alligneranno più che triboli e spine. – Riconoscete, peccatori, sotto questa sensibile figura, qual è la vostra disgrazia, e quale n’è la cagione; Dio vi ha coltivati, come una vigna che gli era cara. Egli ha piantata questa vigna in un buon terreno, facendovi nascere nel seno della Chiesa; Egli l’ha innaffiata con le acque salutari della sua grazia, l’ha riscaldata coi raggi del sole di giustizia; l’ha fortificata contro i suoi nemici con i potenti aiuti, che le ha dati, con i Sacramenti e con tutti i mezzi di salute che le ha potuto procurare, e voi, invece di produrre buoni frutti, invece di corrispondere alla grazia di vostra vocazione con la pratica delle buone opere e delle virtù cristiane, voi non avete prodotto che frutti d’iniquità. Dio non vede in voi che triboli e spine, funesti rampolli delle passioni da cui vi lasciate predominare. I neri vapori, i fuochi perversi, che eccitano in voi queste passioni v’impediscono di vedere la luce del sole che v’illumina: super cecidit ignis, et non viderunt solem (Ps. XXXVII.) – Ma apprendete qual sarà la vostra sorte.Dio non farà più risplendere su di voi il suo sole; dense tenebre s’impadroniranno della vostra anima, che le faran perdere di vista il fine per cui ella è stata creata, e i mezzi di per venirvi. Dio non farà più cadere su di voi la rugiada celeste della grazia, e la vostra anima non sarà che una terra arida, che non porterà alcun frutto; esposta alle occasioni pericolose, non ne conoscerà gli scogli; abbandonata alle tentazioni del demonio, alla tirannia delle sue passioni, essa ne diverrà lo scherno, ne seguirà tutte le vie inique, cadrà di abisso in abisso, e dall’abisso del peccato nell’abisso dell’inferno.Tali sono, fratelli miei, le funeste estremità, a cui conduce l’abuso, che si fa delle grazie di Dio; si è la disgrazia, che Gesù Cristo ci rappresenta nel suo Vangelo sotto la figura di Gerusalemme distrutta ed abbandonata al furore dei suoi nemici. Ah! se tu avessi conosciuto, diceva questo Dio salvatore piangendo nell’avvicinarsi a questa città, e se in questo giorno , ch’io ti parlo tu conoscessi ancora ciò che può far la tua pace! Ma tutte le cose sono al presente nascoste ai tuoi occhi, verrà un tempo, infelice, per te, in cui i tuoi nemici ti circonderanno, ti assedieranno e ti chiuderanno da tutte le parti; spianeranno le tue case, stermineranno i tuoi abitanti, e non lasceranno pietra sopra pietra, perché tu non hai conosciuto il tempo della tua visita: eo quod non cognoveris tempus visitationis tuæ (Luc. XIX) Questi tempi infelici sono venuti; le predizioni di Gesù Cristo si sono verificate; l’ingrata Gerusalemme, che Dio aveva governata con le sue leggi, che aveva ricolma dei suoi favori, è stata distrutta e rovesciata dai fondamenti, perché non ha conosciuto Colui che veniva per sua felicità, ha chiusi gli occhi alla luce che la illuminava, e non ha voluto ricevere il Messia che le era inviato da Dio. – Or non era tanto la distruzione della città di Gerusalemme, il rovesciamento delle sue case, che cavavan le lagrime dagli occhi di Gesù Cristo, quanto l’accecamento in cui eransi immersi i suoi abitanti, non volendo riconoscerlo, e lo stato di tenebre e di desolazione in cui doveva cadere nella serie dei secoli quella nazione incredula. Il che possiamo noi osservare in quelle parole in cui Egli le dice, che i misteri, che era venuto a rivelare sono al presente nascosti ai suoi occhi: nunc ascondita sunt oculis tuis. Le aveva Egli anche predetta questa disgrazia allora quando le annunciava che i figliuoli del regno sarebbero scacciati e gettati nelle tenebre esteriori, mentre ali stranieri verrebbero a prendere il loro posto nel cielo con Abramo, Isacco e Giacobbe: Filii regni eiicientur in tenebras exteriores. Si è veduto e si vede tuttora l’adempimento della sua profezia nella riprovazione dei Giudei, e nella vocazion dei gentili. I Giudei erano figliuoli del regno, erano il popolo eletto di Dio, ricolmi delle sue benedizioni e dei suoi favori; ma perché non hanno ricevuta la visita del Signore, sono stati percossi d’accecamento; essi sono esclusi dal regno di Gesù Cristo, ove i gentili, gl’infedeli sono stati ammessi. Siete voi, Cristiani miei fratelli, presentemente i figliuoli di questo regno; voi siete, che Dio ha chiamati per una grazia speciale alla sua ammirabil luce. Ma se, come i Giudei, voi chiudete gli occhi a questa luce, se non profittate della visita del Signore, Egli vi toglierà quelle grazie di cui avrete abusato, per darle ad altri, che ne faranno un miglior uso. Gli stranieri occuperanno i posti che Egli vi aveva apparecchiati nel suo regno. Verrà il tempo, anima infedele alla grazia, che tu sarai come Gerusalemme, circondata, assediata dai tuoi nemici; e il demonio, il mondo, la carne, ti daranno l’assalto: e perché non avrai conosciuta la visita del tuo Dio, ed avrai dispregiate le sue grazie, tu sarai privata dei celesti aiuti; i tuoi nemici s’impadroniranno delle tue ricchezze, rovesceranno l’edificio spirituale della tua salute e ti precipiteranno nel profondo delle disgrazie. – Temete, fratelli miei, un castigo sì rigoroso della divina giustizia; castigo molto più terribile che non le perdite dei beni, le malattie, i sinistri accidenti con cui Dio affligge gli uomini; poiché questi mali possono essere, con il farne buon uso, mezzi di salute e di predestinazione, laddove la sottrazione delle grazie non può condurre che alla riprovazione eterna. Ah! Signore, dovete voi dire, punitemi piuttosto in tutt’altro modo; toglietemi i beni, la riputazione, la sanità piuttosto, che allontanarvi da me con la sottrazione delle vostre grazie. Io sono risoluto, per evitare questa sciagura, di esser fedele a questa grazia, di metterla a profitto sino alla minima parte, di nulla trascurare di ciò, che questa divina grazia mi inspirerà di fare per la mia salute. Voi lo dovete tanto più, fratelli miei, perché se trascurate questa grazia di Dio, se le resistete, dall’accecamento della mente cadrete nella durezza del cuore; altro effetto dell’abuso delle grazie. – Benché severa sia la giustizia di Dio nella sottrazione delle grazie con cui ella punisce il peccatore che ne abusa, essa non porta per altro la sua severità sino a privarnelo affatto. In qualunque stato sia il peccatore, può e deve sperare la salute. Egli ha per conseguenza gli aiuti necessari per salvarsi; il suo male non viene dunque tanto dalla sottrazione della grazia, quanto dalla fatale insensibilità che si contrae resistendovi. Mentre, a supporre, come noi dobbiamo credere, che Dio dà al peccatore medesimo che abusa della grazia, quelle che gli sono necessarie, esse a nulla gli servono, perché non fanno su di lui veruna impressione. E perché non fanno impressione alcuna su quel peccatore? Perché, a forza di resistervi, nulla più lo commuove. Simile ad un infermo, che a forza di prendere rimedi vi si avvezza finalmente, e non ne riceve alcun sollievo, il peccatore con la sua ostinazione distrugge tutta la virtù della grazia, che è il rimedio allo sue passioni. Indurito e come pietrificato nella colpa, egli è sordo alla voce di Dio, in qualunque guisa se gli faccia essa intendere: Impius, quum in profundum venerit, contemnit (Prov. XVIII). Se egli ascolta la divina parola, non è punto commosso, perché nulla gli si dice che non abbia già molte volte udito, e di cui non abbia profittato. Vede egli buoni esempi, e non ne diventa migliore; frequenta i Sacramenti, e non ne riceve il frutto, perché non vi arreca le disposizioni necessarie; li profana all’opposto senza scrupolo e senza rimorso, perché ne ha già più volte abusato. In una parola, il peccatore che abusa della grazia di Dio, non è ammollito da alcuna pratica di divozione né intenerito dalla solennità dei misteri né commosso dalle preghiere né spaventato dalle minacce, né allettato dalle ricompenso; egli non ha né timor di Dio, né carità per il prossimo; egli dispregia tutti gli avvisi che gli si danno, non si corregge per le avversità, si perde nelle prosperità, si fa una fronte di bronzo, che non arrossisce delle cose più vergognose. – Tale è il ritratto che fa s. Bernardo di un cuore indurato. E non è forse quello di un gran numero di coloro, che mi ascoltano? Quanti vediamo noi al giorno d’oggi Cristiani duri ed insensibili a tutto ciò, che si può loro dire per rimetterli nelle vie della salute, che viver vogliono a modo loro? Essi non vorrebbero alcun esercizio di religione né preghiere né parola di Dio né Sacramenti; vanno sino a tal segno di accecamento, di ostinazione, che giustificar vogliono la condotta più sregolata a far credere i più gravi disordini come cose permesse. Donde viene questo male, fratelli miei? Dall’abuso, che han fatto delle grazie di Dio; essi si sono con la loro ostinazione ridotti in tale stato da non essere più spaventati dai pericoli che li minacciano, e da non voler prendere alcuna precauzione per evitarli. Sono tanti Faraoni ostinati, che vedrebbero i miracoli dell’onnipotenza di Dio senza esserne punto commossi. Le pietre e le rupi si spaccherebbero più tosto che questi cuori insensibili alla voce dei ministri del Signore, che loro parlano”. Ed è ciò, che è riferito nella Scrittura d’un re d’Israele, cui Dio inviò un profeta per riprenderlo dell’empietà scandalosa, che l’aveva spinto a salire sull’altare per offrir incenso agli idoli. Il profeta non indirizzò la parola al re, ma all’altare, che si aprì infatti alla voce del profeta, mentre il cuore del re rimase stupido. – Ecco lo stato deplorabile dei peccatori che abusano della grazia; si sono induriti ai suoi colpi più penetranti. Oh quanto è a compiangere questo stato! Se questo e il vostro stato, peccatori che mi ascoltate, piangete voi medesimi la vostra disgrazia, e prendete tutte le precauzioni per uscirne, mentre v’è ancor tempo di ripararla. Dio si degna ancora farsi udire a voi non vogliate dunque indurire più oltre i vostri cuori alla sua voce: Hodie si vocem..

Pratiche. Non dispregiate davvantaggio le ricchezze della sua bontà e della sua pazienza per timore d’ammassar un tesoro d’ira, che cadrà su di voi nel giorno delle sue vendette. Profittate del tempo delle misericordie; aprite gli occhi alla luce, che vi rischiara, per uscir dalle tenebre del peccato e rientrar nelle vie della giustizia. Egli è sì lungo tempo, che la grazia vi stimola a riformar i vostri costumi per seguire un sentiero diverso da quello che sinora seguiste. Non differite dunque a fare quel che dovreste già aver fatto da così lungo tempo. Profittate della grazia che vi è data, la quale forse non ritornerà più. La grazia è un lampo che passa; bisogna profittar senza dilazione della sua luce. A voi, giusti, come a voi, peccatori, s’indirizza questo avviso. Non contate punto sopra una grazia avvenire, che non vi è in alcun modo dovuta; mettete a profitto quella, che vi è data: se voi cooperate a questa grazia, Dio ve ne darà un’altra in ricompensa della vostra fedeltà, che deciderà della vostra conversione, se siete peccatori, o della vostra perseveranza, se siete giusti. Ma se voi abusate di questa grazia, forse quella che deve decidere della vostra eterna sorte, non ritornerà più, Imperciocchè evvi una certa misura di grazie, passate le quali il Signore non dà più quello di scelta e di predilezione, che rendono la predestinazione certa. Egli è dunque molto importante il mettere a profitto le grazie, che Dio vi dà, perché ve ne ha alcune, che decidono della nostra felicità eterna, e forse saranno quelle che trascurerete. – Questo è ciò, che deve, fratelli miei, vivamente eccitare la vostra vigilanza e la vostra attenzione a corrispondere alle grazie di Dio, in qualunque stato voi siate. Mentre conviene osservare, che non sono solamente i gran peccatori, che abusano della grazia, ma sono ancora quei Cristiani indolenti e codardi, che non si credono troppo colpevoli, perché non cadono in grandi disordini e non fanno ingiuria ad alcuno, ma non fanno buone opere, né mettono a profitto le occasioni che hanno di far del bene. Sono ancora quei Cristiani vili e tiepidi, che commettono senza scrupolo piccoli mancamenti, che menano una vita tutt’altro che penitente e mortificata, che accordano alla natura tutte le soddisfazioni che domanda, che trascurano le pratiche di pietà proprie a mantener il fervore; in una parola che resistono a molte grazie, che li leverebbero ad una virtù più perfetta. A forza di resistere a queste grazie, cadono insensibilmente nella colpa, in una specie d’accecamento e di durezza di cuore, in qualche modo più difficile a guarire, che quella dei gran peccatori. – Degnatevi, o Signore di spargere sul vostro popolo qui radunato, quelle grazie forti e potenti che lo tocchino e lo cavino dalla sua miseria. Benché induriti siano i peccatori, la sorgente delle grazie non è esausta per essi; se sono sensibili ai tratti della vostra misericordia si convertiranno, cangeranno di costumi e di condotta, i tiepidi diverranno più ferventi, più umili, più mortificati. Tale è il frutto, ch’io mi propongo di trarre da questa istruzione. – Per assicurarvi, fratelli miei, queste grazie di scelta e di predilezione, cui i giusti medesimi non hanno alcun dritto, siate fedeli ad evitare sino i mancamenti più leggieri, che sono un ostacolo a quelle grazie, e che le allontaneranno da voi. Siate puntuali ad adempiere i più piccoli doveri del vostro stato, le pratiche di pietà che debbono regolare la vostra vita, perché Dio ha annesse grazie particolari alla fedeltà nelle più piccole cose. Iddio ci domanda poco per darci molto. Una preghiera fatta nel tempo notato, una lettura, un esercizio di divozione, una visita al ss. Sacramento, una piccola limosina data ai poveri, una mortificazione leggera, ci possono ottenere grazie speciali di predestinazione. Così, benché la grazia sia indipendente dai nostri meriti, la nostra salute è sempre nelle nostre mani, perché non dipende che da noi, cooperando alle grazie, che Dio ci dà, di attirarne delle più abbondanti, delle più forti, che rendano certa la nostra felicità eterna; non manchiamo, dunque più alla grazia, e la grazia non ci mancherà. Seguitiamo tutte le inspirazioni, che ci vengono dal cielo; lasciamoci condurre dallo spirito di Dio, che ci farà vivere, dice s. Paolo, e non ascoltiamo punto la carne, che ci farà morire. Se noi siamo docili agli impulsi dello Spirito Santo, siamo sicuri d’essere figliuoli di Dio: Quicumque spiritu Dei aguntur , ti sunt filii Dei (Rom. VIII). E se siamo figliuoli di Dio, noi saremo eredi del suo regno, che divideremo con Gesù Cristo suo figliuolo: Hæredes quidem Dei, cohæredem autem Christi (ibid.) Il che io vi desidero.

Credo …

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Offertorium

Ps XVII: 28; XVII: 32

Pópulum húmilem salvum fácies, Dómine, et óculos superbórum humiliábis: quóniam quis Deus præter te, Dómine?

[Tu, o Signore, salverai l’umile popolo e umilierai gli occhi dei superbi, poiché chi è Dio all’infuori di Te, o Signore?]

Secreta

Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera, quæ tibi de tua largitáte deférimus: ut hæc sacrosáncta mystéria, grátiæ tuæ operánte virtúte, et præséntis vitæ nos conversatióne sanctíficent, et ad gáudia sempitérna perdúcant.

[Gradisci, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che noi, partecipi dell’abbondanza dei tuoi beni, Ti offriamo, affinché questi sacrosanti misteri, per opera della tua grazia, ci santífichino nella pratica della vita presente e ci conducano ai gaudii sempiterni.]

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Communio

Ps XXXIII: 9 Gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus: beátus vir, qui sperat in eo.

[Gustate e vedete quanto soave è il Signore: beato l’uomo che spera in Lui.]

Postcommunio

Orémus.

Sit nobis, Dómine, reparátio mentis et córporis cæléste mystérium: ut, cujus exséquimur cultum, sentiámus efféctum.

[O Signore, che questo celeste mistero giovi al rinnovamento dello spirito e del corpo, affinché di ciò che celebriamo sentiamo l’effetto.]

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https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

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LO SCUDO DELLA FEDE (121)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXXIII.

Della necessità di una vera religione, e del modo di scorgerla tra le false.

I . Se vi ha un Dio nell’universo, v’ha provvidenza. Se v’ha provvidenza, l’anima dunque è immortale. E se l’anima è immortale, forza è che vi sia qualche religione, e religion vera, la quale da tale anima si professi. Eccovi una bella catena d’oro tratta da ciò che si è discorso finora per arrestare i pensieri insolenti degli ateisti.

I.

II. Rimane solo di mostrar loro quest’ultima verità, cioè a dire, la necessità di una vera religione da professarsi (È un fatto di esperienza, che di religioni se ne danno parecchie, diverse ed opposte, come è un pronunciato di ragione, che fra le contrarie religioni dall’umanità professate, una sola può essere la vera e questa necessaria). Ma questo è facile. Conciossiachè, se quella divinità che riconosciamo, non è addormentata, ma provvida, conviene che ella abbia qualche bersaglio a cui ordini l’universo, non intendendosi altro per provvidenza, che una ragione d’indirizzar saggiamente i suoi mezzi al fine. Or questo bersaglio dove ha rimirato Dio nella formazion delle cose non può essere altro che Egli medesimo, il quale, com’è il primo principio di tutte loro, così debb’esserne ancora l’ultimo fine. Non già perché da ciò mai risulti alla sua natura divina alcun pregio intrinseco (non potendo Egli, che è abisso di perfezione, né crescere, né calare dentro di sè), ma perché gliene ridondi bensì qualche onor estrinseco, in virtù di cui soddisfaccia a quella soave inclinazione che Egli ha di essere amato dalle sue creature, e riconosciuto quale lor benevolo autore. Sicché il formar questo mondo non fu altro alla fine, che l’alzare un tempio sontuoso al suo Nome: ed il moltiplicarvi lo creature ragionevoli, non altro fu, che un moltiplicarvi gli adoratori. Ma se è così, fu conseguentemente di espressa necessità, che manifestasse anche agli uomini in qual maniera Egli amasse più di venir da loro adorato in così bel tempio; e con qual culto, con quali cerimonie, con quali riti si dovesse procedere in dargli omaggio. Stabilire ciò fu appunto stabilire la religione di cui si cerca: mentre la religione altro non è che una virtù, che ci tiene legati a Dio con quell’ossequio speciale, che Egli da noi chiede, qual principio dell’esser nostro, e qual fine (S. Th. 2. 2. q. 31. a 1).

III. Che se la bontà divina ha per costume di accoppiare continuamente alla gloria propria l’utilità delle creature, e massimamente di quelle che son capaci di conoscere il loro Autore, e di amarlo, quali sono le ragionevoli; anche per questo capo non potea non esservi qualche vera religione, in virtù di cui divenissero gli uomini più perfetti (Ib. a. 7. in e). E chi non sa che la perfezione di qualunque cosa inferiore consiste in soggettarsi del tutto alla superiore, come si scorge nell’aria, che allora diventa più sincera e più splendida quando si lascia più dominare dal sole? Convenne adunque che a voler essere gli uomini più perfetti si sottoponessero bene a Dio, sì con l’anima, sì col corpo: il che allora accade, quando il corpo co’ riti esterni accompagni l’anima nelle protestazioni interne che tra sé rende alla divina maestà: protestazioni sempre di nuovo merito per la fede, che l’uomo sempre rinnova in esercitarle.

IV. Questa religione poi, che è un beato composto, e d’insegnamenti ad onorar Dio, e di mezzi da guadagnarselo, era parimente di somma necessità al vivere scambievole delle genti in tranquilla unione. Perché, quantunque la giustizia terrena, qualor armata ella va di pene e di premi, sia qualche poco abile a raffrenarle, non è abbastanza; mentre chi occultamente sapesse condurre a fine i suoi disegni perversi di rubare, di ammazzare, di adulterare, si riderebbe di tutte le leggi umane, le quali possono strepitare bensì contra falli noti, ma che possono fare contra i nascosti? Al perfetto governo della repubblica era pertanto necessario anche più il timore di leggi non disprezzabili quali sono le divine. E queste appunto son quelle che intuona al cuor di ciascuno la religione, armata anch’essa e di premi e di pene, ma di altro peso, da compartirsi nella vita di là, che non ha mai fine.

V. Quindi è che la religione parve ad alcuni invenzione sagace della politica, tanto vale al ben governare: Nulla res multitudinem efficacius regit, quam superstitio (Curtius). Ma non considerarono questi sciocchi che la politica non può a veruno fare mai credere fermamente sopra ogni cosa ciò che non gli può dimostrare. Vi vuole a tanto quella grazia interiore, la quale non è potere della politica. Questa al più al più potrà fare tenere per verisimili quegli articoli, che ella va ordinando a capriccio, ma non potrà mai farli indubitatamente tener per veri. E l’opinione ben può fino a certo segno contenere i popoli in freno, ma debolmente, mentre a lei vacilla la mano. Piuttosto da ciò mi giova ritorcere l’argomento in sì fatta guisa. Se affìn di contenere i popoli a freno, è buona una religione anche immaginata, quanto migliore dunque sarà una reale? E se la reale è migliore, chi potrà per questo medesimo dubitar ch’ella non vi sia? Ne ha da sapere un uomo più che Dio stesso ad architettarla? E pur sarebbe così, quando non Dio, ma l’uomo fosse colui il quale avesse inventato un morso sì forte al vizio, e un incentivo sì nobile alla virtù; e ad un tal uomo più dovrebbe il genere umano per lo conseguimento del suo ben vivere, di quello che dovesse al medesimo Creatore per lo conseguimento del puro vivere.

VI. Di poi chi avrebbe potuto la prima volta fingere al mondo una religione non vera, se non a similitudine di una vera che già vi fosse? La copia presuppone l’originale. Il corpo è più antico dell’ombra. Né mai fu prima il ladro a formar la moneta falsa: fu prima il principe a fabbricarne la vera.

VII. Finalmente come potrebbe mai la natura umana, ch’è ragionevole, cavare il suo prò maggiore dalla bugia, che è il maggior nimico ch’ella abbia? La ruggine non perfeziona il ferro, ma lo consuma. E così veggiamo che le religioni bugiarde, non solamente non hanno aiutata mai la natura umana ad operar da quella che ella è, cioè a dire da ragionevole: ma l’hanno fatta degenerare in brutale, come chiaramente si scorge dai tanti vizi, e di alterigia e di senso e di spietatezza che sotto quelle hanno sempre in lei dominato, più che tiranni. Quella religione che riesce giovevole al buon governo è la vera sola, cioè quella la quale fa che l’uomo in terra conosca il suo primo principio, e per conseguente anche il suo ultimo fine, e che a lui si unisca. Onde come i tempi più sontuosi valgono molto ad adornar le città, benché non siano di primaria intenzione eretti per adornarle, ma siano eretti per rendere culto al cielo; così la religione, benché di sua natura sia stabilita ad omaggio del Creatore, giova di riflesso alla vita civile incredibilmente.

VIII. Ripigliando dunque da capo: se Dio v’è, e v’è provvido, e v’è possente, tocca dunque a Lui di vedere come gli piaccia di rimanere onorato dagli uomini in su la terra, non tocca agli uomini di determinare come abbiano ad onorarlo (S. Th. 2. 2. q. 81. art. 2. ad 3). E posto ciò, non vi può esser religìon sussistente, la qual non sia da Dio rivelata di bocca propria (Suarez de fide disp. 4. sect. 1): non già ad ogni uomo il quale a mano a mano entri al mondo, che saria troppo; ma solo da principio ad alcun di loro che l’abbia poi con le sue debite prove trasmesse ai posteri. Che però tutto il nostro studio ha da consistere in questo, in ravvisare la religion da Dio rivelata. Fatto ciò non altro più ci rimane, che andare incontro a quell’unica, e genuflessi baciarle i piedi con intimo sentimento di cattivare ogni nostro orgoglio a’ suoi detti, come a’ divini.

II.

IX. Dove son però quegli audaci, i quali arrivano a dire per loro gloria che non veggono ancora terreno fermo su cui fondare la loro instabil credenza: e perciò riposandosi agiatamente sopra una tale ignoranza, benché supina, come sopra una coltrice di saviezza giacciono in alta notte d’infedeltà, ostentando ancora ad altrui questo loro tenebre, assai più di quegli abissini, tra cui si vanta, quasi più chiaro di volto, chi l’ha più nero? Ah che troppo è bestiale cotesto loro riposo, e troppo ancora è mortale! È bestiale, perché è da bestia non volersi chiarir di una verità così rilevante, che non si può non trovare da chi la cerchi con animo disappassionato, tante sono le faci acceso a scoprirla. Ed è mortale, perché siccome la vera Religione si regge su la vera fede, così la vera speranza della salute si regge su la vera Religione. Dove manchi un tal fondamento, non si può alzare altra molo che rovinosa.

X. Chi però ebbe sorte di nascere in grembo alla vera fede ne ringrazi Dio giornalmente. Chi non ebbela, che ha da fare? Vadane in cerca: né si dia pace finché non giunga a trovarla. Quel Dio, che come prima verità ha manifestati all’uomo gli articoli che egli ha da tenere, e che come prima santità gli ha palesate le virtù parimente che egli ha da esercitare, se vuol salvarsi, non ha favellato di modo che non si possa il suo linguaggio capire da chiunque, sciolto da qualunque perversa anticipazione, cerchi con piena sincerità, non di convincere altri, ma sé medesimo; non di cavillare, ma di credere; non di contendere, ma di capacitarsi. Un panno inzuppato nell’acqua non è atto a imbevere la grana; ma si asciughi ben bene, e la imbeverà.

XI. Oltre a ciò il medesimo Dio sta sempre pronto ad aggiungere nuovi lumi alla fiacca mente, nuovo calore alla fiacca volontà, per cui più soavemente ci affezioniamo allo sue voci, come a veridiche, e alle sue leggi, come a vitali; purché riconoscendo la legittima fede qual dono sommo di Lui, ci forziamo con umilissime suppliche di ottenerlo dalle sue mani, con intenzione di volergliene vivere sempre grati. Non lasciò mai di trovar Dio chi cercollo sinceramente: giacché quanto Egli si nasconde a’ superbi, amatori di se medesimi, tanto si scopre agli umili amatori non di sé ma del vero, il quale alla fine altro non è che Dio stesso: Abscondisti hæc a sapientibus et a prudentibus: et revelasti ea parvulis.

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA BUGIA

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla bugia.

Attendite a falsis pròphetis.

(MATTH. VII, 15).

Guardatevi bene, ci dice Gesù Cristo, dal frequentare quelli che usano astuzia nelle loro parole e nelle loro azioni. Infatti, miei Fratelli, vediamo che nulla è più indegno di un Cristiano, il quale dev’essere un fedele imitatore del suo Dio, che è la rettitudine e la verità per essenza, quanto il pensare una cosa e dirne un’altra. Per questo Gesù Cristo ci raccomanda, nel Vangelo, di non mentire mai: “Dite sì o no. secondo che la cosa è o non è.„ (Matth V, 37). S. Pietro ci dice che dobbiamo essere simili ai piccoli fanciulli, i quali sono semplici e sinceri, nemici d’ogni menzogna e dissimulazione.„ (II Petr. II, 2).Sì, M. F .; se volessimo esaminare le funeste conseguenze della doppiezza e della menzogna, vedremmo che esse sono la fonte di un’infinità di mali che desolano il mondo. Fermiamoci. M. F.. sopra un punto morale sì poco conosciuto e pur tanto necessario. Sì, M. F., non c’è vizio così diffuso nel mondo come la doppiezza e la menzogna: ed è appunto in questo senso che si dice che quasi tutti gli uomini son mentitori. Se vogliamo piacere a Dio, dobbiamo temere assai di contrarre una sì malvagia abitudine, che è tanto più dannosa perché tutto la favorisce e fomenta. Per farvene concepire tutto l’orrore, che dovete averne, vi mostrerò: 1° che cos’è la menzogna e la doppiezza; — 2° quanto Dio stesso l’abbia in orrore; — 3° quanto egli la punisca anche in questo mondo.

I . Se domandassi a un fanciullo che cosa s’intenda per mentire, mi risponderebbe: “Mentire, signor Parroco, è parlare contro il proprio pensiero, dire cioè una cosa e pensarne un’altra.„ Ma, domanderete voi, in quanti modi si può mentire? — Eccolo, M. F.: ascoltate bene. Si mente: 1° per orgoglio, quando si racconta ciò che si è fatto o detto e lo si accresce (Mentire per orgoglio, dice il Beato, è raccontare ciò che si è fatto o ciò che si è detto, aumentandolo. „ E più innanzi aggiunge: “Mentire per orgoglio, dicendo, per farci stimare, più di quello che abbiamo fatto o detto, è peccato mortale.„ Perché ci sia peccato mortale in questa circostanza bisogna che lo cose accresciute, ampliate, scandalizzino gravemente gli astanti, o che il sentimento di orgoglio sia estremamente grave nel cuore di colui «he pronuncia la menzogna). quando insomma si dice più di quello che è;

— 2° per danneggiare il prossimo, dicendo male o della sua persona, o delle sue merci, o quando si dicono cose false per vendetta;

— 3° per piacere al prossimo, e ciò avviene quando nascondiamo certi difetti che dovremmo far conoscere, come fanno quei domestici e quei figliuoli che vedono altri di casa derubare i padroni e interrogati, sostengono che non è vero, che non li hanno mai visti; — ovvero quando, chiamati in giudizio, non diciamo la verità per non far condannare quelli che amiamo ; — 4° per vendere più caro o comprare a miglior mercato, ciò che facciamo per avarizia; — 5° per ischerzare qualcuno, o per far ridere e divertire la compagnia; — 6° nel confessarci. Ecco, M. F., le bugie più comuni e che dobbiamo spiegar bene nelle nostre confessioni, poiché vedete che diversi sono i sentimenti nelle diverse bugie. — Sì, M. F., da qualunque parte vogliamo considerare la menzogna e la doppiezza, esse ci si mostreranno infinitamente odiose. Anzitutto, da parte di Dio, che è la verità stessa, nemico d’ogni menzogna. Ahimè, M. P., quanto poco conosciamo che cosa sia questo peccato! Quanti peccati sono bugie mortali, danno perciò la morte all’anima, e ci tolgono il cielo per sempre! Infatti, M. P., mentire per orgoglio, dicendo, per farci stimare, più di quello che abbiamo fatto o detto, è peccato mortale. Mentire in giudizio è pure peccato mortale, se si nasconde la verità; così mentire per vendetta; mentire in confessione poi è un sacrilegio. Ahimè! quante anime, mio Dio, la menzogna conduce all’inferno! Ma supponiamo, M. F., che tutte, o almeno il maggior numero delle vostre bugie, non sieno che peccati veniali. Ebbene? Abbiamo noi ben compreso che cosa sia il peccato veniale? Scorrete tutte le varie circostanze della passione e della morte di N . S. Gesù Cristo fino al Calvario, esaminate tutto ciò che ha sofferto e potrete farvi un’idea della gravità della menzogna e dell’oltraggio che reca a Dio. Voi dite che la bugia non dà la morte all’anima, né a Gesù Cristo. Ah! sciagurati voi dunque non contate per nulla la sua agonia nel giardino degli ulivi, quando fu preso, legato, maltrattato da’ suoi nemici? voi dunque contate per poco la flagellazione, la coronazione di spine, in cui il suo povero corpo fu ridotto tutto sanguinoso? per poco i tormenti sofferti in tutta quella notte orribile, in cui gli si fece patire tutto ciò che né mente d’uomo né d’angelo non potranno comprendere mai? Per nulla gli orrori che gli si fecero subire mentre portava la croce sul Calvario? Ebbene, M. P., ecco i tormenti che la bugia procura a Gesù Cristo. Vale a dire che ogni bugia che noi diciamo, secondo che è più o meno grave, conduce N. S. Gesù Cristo fino sul Calvario. Dite, F. M., avreste voi creduto di trattare Gesù Cristo, il nostro amabile Salvatore, in un modo sì indegno, ogni volta che avete detto una bugia? Ahimè! quanto è vero che chi pecca ignora quel che si faccia!

II. — Se consideriamo la bugia riguardo a noi stessi, vedremo quanto ci allontani da Dio, quanto affievolisca in noi la sorgente delle sue grazie, vedremo come essa porti il buon Dio a diminuirci i suoi benefizi. Ahimè! quanti Cristiani hanno cominciato la loro dannazione con questi peccati e ora piangono nell’inferno — Ma consideriamola sotto un altro punto di vista; consideriamola in rapporto colla nostra dignità di Cristiani. Noi, o F., che, per mezzo del Battesimo, siamo diventati templi vivi dello Spirito Santo, che è nemico d’ogni menzogna, ahimè! dal momento che abbiamo la disgrazia di mentire, lo Spirito Santo se ne va, ci abbandona, e al suo posto entra il demonio e diventa nostro padrone. Ecco, M. F., i tristi effetti, ecco la rovina spaventosa che la menzogna produce in colui che è sì cieco da commetterla. Eppure, M. F., quanto sono comuni questi peccati nel mondo! Vedete quei padri e quelle madri che continuano tutto il giorno a ripeterle ai loro figliuoli col pretesto di tenerli a bada e farli star quieti. Ahimè! questi poveri infelici non vedono che attirano la maledizione sui loro poveri figliuoli e cacciano lo Spirito Santo dai loro cuori dando loro l’abito di mentire. — Ma, mi diranno questi padri e queste madri, che non hanno mai conosciuto il loro dovere; è per aver un po’ di pace; ci son sempre attorno…; del resto ciò non fa male a nessuno. — Ciò non fa male a nessuno? Ma, amici miei, non contate per nulla l’allontanare da voi lo Spirito Santo, il diminuire in voi la sorgente delle grazie per la vostra salvezza? Non contate per nulla voi l’attirare la maledizione del cielo sopra i vostri poveri figliuoli? non contate per nulla il prendere voi Gesù Cristo stesso e condurlo fino al Calvario? Mio Dio! come conosciamo poco la rovina che il peccato produce in colui che ha la sventura di commetterlo! Bisogna però convenire che le bugie più ordinarie e più perniciose sono quelle che dite nel vendere e nel comprare che fate tra voi: sul che trovo una bella espressione nella santa Scrittura: “La bugia, dice lo Spirito Santo, è tra il venditore e il compratore come un pezzo di legno stretto fra due pietre; „ vale a dire, il guadagno sarà di colui che è più scaltro e astuto e che ha meno buona fede. Vedete il compratore: non c’è bugia che non dica per abbassare il prezzo della merce che compera; vi trova mille difetti, grandi o piccoli. Vedete il venditore: a sua volta, inventa ogni sorta di falsità per elevare il prezzo. E, cosa strana, M. F., colui che ha appena comperato e un minuto fa diceva tanto male della merce, e vi trovava mille difetti, ora che ne è lui il padrone, non c’è menzogna che non dica per elevarne il prezzo e farla valere di più di quello che vale; e, per garantire che dice la verità, quanti giuramenti, quante astuzie, quante parole inutili! E donde ciò, M. F.? dal desiderio d’aver beni o danaro, che ci fa preferire un bene perituro alla salute dell’anima nostra e al godimento di Dio. Ahimè! chi potrà mai comprendere quanto siamo infelici nel vendere l’anima nostra, il cielo, Dio stesso per sì piccola cosa. Ma, mi direte voi, è pur permesso lodare la propria merce. — Sì, senza dubbio, amico, ma quando non si dice che la pura verità…; ma mentire per ingannare il vostro prossimo è permesso? No, senza dubbio; e lo sapete benissimo. Se uno v’ha ingannato in qualche affare, dite subito che è uno scaltro, un birbante, che voi non avreste mai fatto questo a lui;  e voi, alla prima occasione, ne ingannate, se potete, un altro: e credereste con ciò di diventare un galantuomo? Capite, M. F., fino a qual punto l’avarizia v’acceca? Ma, insisterete voi, quando si vende qualche cosa, si è forse obbligati di farne conoscere i difetti? — Senza dubbio; quando vendete qualche cosa che ha difetti nascosti in modo che il compratore non può né vederli né conoscerli, voi siete obbligati a farglieli conoscere, altrimenti sareste tanto, e anche più, colpevoli quanto se gli rubaste il danaro in tasca, perché là diffiderebbe di voi, mentre qui si fida e voi lo ingannate. Se ciò avete fatto, dovete restituire e riparare la perdita che gli avete causato. Se ciò avvenne in una fiera, per cui non conosciate affatto né la persona, né i suoi parenti, siete obbligati di darlo ai poveri, affinché il buon Dio benedica colui ne’ suoi beni per compensarlo del torto che gli avete fatto. Né credete, M. F., che Dio lasci passare tutto questo: vedrete che al giudizio ritroverete tutte le ingiustizie commesse nelle vostre compere o nelle vostre vendite: persino quelle di un soldo. Ma, direte ancora voi, anch’io sono stato ingannato, e, quando sono stato ingannato, nessuno mi ha mai restituito niente: io faccio agli altri ciò che gli altri hanno fatto a me: tanto peggio per chi si lascia imbrogliare. — Sì, senza dubbio, F . M., ecco il linguaggio del mondo, di quelli, cioè, che non hanno religione. Ma ditemi, F. M., siete proprio ben persuasi che, quando comparirete davanti al tribunale di Gesù Cristo, Egli vi farà buone tutte queste piccole scuse? Che cosa vi dirà? “Miserabili, perché gli altri facevano male, si dannavano e mi facevano soffrire, si dovevano imitare?„ Eppure, a sentir voi, le vostre bugie non fanno male a nessuno. Ma avete riflesso bene a ciò che dite? Prendete tutti i vostri contratti, tutte le vostre vendite, e, una dopo l’altra, ripassate nella vostra memoria tutte le bugie che avete detto. Non è forse vero che non avete mai mentito a vostro svantaggio? e che invece, tutte le volte che avete mentito, fu per ingannare il vostro prossimo, e quindi recargli danno? Quante volte, F. M., vendendo le vostre merci, o le vostre bestie, o altre cose, avete detto che ne avevate trovati tanti …, mentre, il più delle volte, non era vero. Se ciò vi ha fatto vendere di più, esaminatevi, e, nel caso, non mancate di far la restituzione, alla persona, se la conoscete, ai poveri, se non la conoscete. So bene che non lo farete; ma io vi dirò sempre ciò che dovete fare; che se non opererete bene, non per questo io andrò dannato, ma soltanto se non vi facessi conoscere i vostri doveri. Ma, insisterete voi, io non ho fatto più male degli altri, i quali m’ingannano appena lo possono. — Ma se gli altri si dannano, non è proprio necessario che vi danniate anche voi per sì poca cosa. Lasciate che si perdano, poiché non potete impedirneli; ma voi cercate di salvare la povera anima vostra; poiché N. S. Gesù Cristo ci dice che se vogliamo salvarci dobbiamo proprio fare tutto il contrario di ciò che fa il mondo. — Faccio come gli altri, dite voi. — Ma se vedeste uno correre in un precipizio, perché ci va lui, ci andreste anche voi? No, senza dubbio. Dite piuttosto adunque che non avete fede, che poco v’importa ingannare il prossimo, purché vi troviate il tornaconto e di che saziare la vostra avarizia. Ma, domanderete, come dobbiamo dunque diportarci nelle nostre compere e nelle nostre vendite? — Come, M. F.? Ecco ciò che dovete fare, ma che non fate quasi mai. Quando vendete, dovete mettervi al posto di colui che compera; e, quando comprate, al posto di colui che vende; e non mai approfittare della buona fede o dell’ignoranza degli altri per vendere più caro o comprare a miglior mercato. — Ma, direte, malgrado tutte le precauzioni che si prendono, tante volte si resta gabbati. — Eppure, M. F., io devo dirvi che, se davvero desiderate il cielo, benché altri v’inganni, voi non potete servirvi di questo pretesto per ingannare gli altri. — Allora, conchiuderete voi, dato il modo di condursi della maggior parte dei commercianti, credo che ve ne saranno ben pochi di salvi. — E ciò non è che troppo vero; ma pure, benché abbiano a essere pochissimi coloro che si salvano, noi dobbiamo procurare di salvarci. Dobbiamo preferire piuttosto di non esser tanto ricchi, di fare qualche perdita e ingannare meno che possiamo, anziché perdere il cielo.

III. — Ed ora, M. F., per concepire un grande orrore contro la menzogna, non abbiamo che da percorrere la santa Scrittura e vedremo quanto grandi sono i castighi con cui Dio punisce, anche in questa vita, quelli che si rendono colpevoli di questo peccato; e, nello stesso tempo vedremo come i santi hanno preferito e amato tutti i tormenti, anche i più rigorosi, anche la stessa morte, anziché dire una semplice bugia. Lo Spirito Santo ci dice: “Non mentir mai né ingannare alcuno. „ (Eccli. VII, 14). Il Profeta ci dice che “il Signore farà perire tutti quelli che osano mentire.„ (Ps. V, 7). Sì, M. F., i santi ci dicono che sarebbe meglio che tutto il mondo perisse anziché dire una sola bugia. Ci dicono che, quand’anche una sola bugia bastasse a liberare tutti i dannati dai loro tormenti e condurli al cielo, non dovremmo dirla. Leggiamo nella vita di S. Antimo, che essendo egli cercato dagli arcieri dell’imperatore con l’ordine di togliergli la vita, essendosi questi indirizzati a lui senza conoscerlo, egli fece loro far buon’accoglienza. Quand’ebbero conosciuto dalle sue parole chi egli era, non ebbero il coraggio di farlo morire dopo tanta bontà. “No, gli dissero, noi non abbiamo il coraggio di farti morire, tu ci hai accolti troppo bene; resta: all’imperatore diremo che non ti abbiamo trovato. . — ” No, miei fratelli, disse loro il santo, non è mai permesso mentire; io preferisco mille volte morire ch’essere causa di una vostra bugia.„ E se ne va con loro per soffrire la morte più crudele (Ribadeneira, Le vite dei Santi, al 27 aprile). Leggiamo nella storia (Ibid.. t. III, 5 marzo) che l’imperatore aveva mandati uomini armati per impadronirsi di un certo giardiniere, chiamato Foca, con l’ordine di farlo morire; ma, siccome non lo conoscevano neppure, incontratolo, domandarono a lui stesso se conoscesse un certo Foca, giardiniere, aggiungendo ch’essi venivano da parte dell’imperatore per farlo morire. Egli, con voce ferma e tranquilla, rispose di sì,  s’incaricava lui di questo. Intanto che gli sgherri mangiavano, egli scavò una fossa nel suo giardino. Il domani si presentò loro dicendo: “Vedete, quel Foca che cercate sono io.„ Ma i soldati, stupiti, “E come, gli dissero, potremo noi farti morire dopo che ci hai trattati con tanta bontà e liberalità? No, è impossibile: diremo all’imperatore che, malgrado tutte le nostre ricerche, non ti abbiamo trovato.„ — “No, miei amici, disse loro il santo, non mentite; preferisco morire anziché lasciarvi dire una bugia. „ Essi gli tagliarono la testa e lo seppellirono nel suo giardino, dove egli stesso s’era scavato la fossa. — Dite, M. F., questi santi comprendevano sì o no la gravità del male che fa il menzognero? Mio Dio, quanto è misero chi ha perduto la fede, poiché non comprende bene tutto il male che fa il peccato. Lo Spirito Santo ci dice che “ogni bocca che mentisce dà morte all’anima (Sap. I, 11). E nostro Signore diceva ai Giudei “ch’erano figli del demonio, perché in essi non era la verità.„ (Giov. VII, 44). Perché, M. F.? Perché il demonio è il padre della menzogna. — Leggiamo nella vita del santo Giobbe che un giorno il Signore domandò a satana donde venisse. “Torno, rispose il demonio, dal fare il giro del mondo. „ – “Non hai trovato, soggiunse il Signore, il mio buon servo Giobbe, quell’uomo semplice che opera con gran rettitudine di cuore, teme il Signore, ha cura di evitare il male ed è nemico della menzogna e d’ogni sorta di doppiezza? „ (Giob. I) Vedete, M. F., come il buon Diosi compiace di far l’elogio d’una persona semplice e retta in tutte le sue azioni? — Vedete ancora che cosa avvenne ad Aman, favorito del re Assuero, per aver mentito, facendo passare i Giudei per dei perturbatori. Avendo fatto innalzare un patibolo per impiccarvi Mardocheo, vi fu appeso egli stesso. Vedete quel paggio della regina Elisabetta che. per aver mentito contro un altro paggio, fu bruciato sul posto. Leggiamo nell’Apocalisse che S. Giovanni vide, in una visione, nostro Signore che assiso su un trono sfolgorante di gloria, gli diceva: Io rinnoverò ogni cosa. „ (Apoc. XXI, 6). Egli fece vedere la celeste Gerusalemme che era d’una bellezza ineffabile, e gli disse che chi dominerà se stesso e vincerà il mondo e la carne possederà quella bella Gerusalemme; ma che gli omicidi, i fornicatori, gli adulteri e i menzogneri saranno gettati in uno stagno di zolfo e di fuoco, che è una seconda morte. Nostro Signore ci dice che i mentitori avranno nell’inferno la stessa punizione dei fornicatori. Ditemi, F. M., potremo noi considerare come poca cosa o come fallo leggiero ciò che Dio punisce così rigorosamente, anche in questo mondo? Vedete ciò che avvenne ad Anania e a Saffìra sua moglie, colpiti da morte improvvisa per aver mentito a S. Pietro. Leggiamo nella santa Scrittura che, avendo venduto un podere, vollero tenersi una parte del prezzo e portare il resto agli apostoli perché lo distribuissero ai poveri, facendo credere che davano tutto. Volevano parer poveri e restar ricchi; ma Dio fece conoscere a S. Pietro ch’essi lo ingannavano. S. Pietro disse loro: “Come mai lo spirito di satana vi ha ripieno il cuore fino al punto di farvi mentire contro lo Spirito Santo? Non è agli uomini che avete mentito, ma a Dio.„ Appena Anania ebbe udite queste parole, cadde a terra morto. Tre ore dopo venne Saffira, sua moglie, ignara di ciò ch’era capitato al suo marito, e si presentò davanti agli apostoli. S. Pietro le disse: “È  vero che avete venduto il podere per questo prezzo?„ — “Sì, rispose la donna, non abbiamo preso di più.„ Allora riprese S. Pietro: “Come tuo marito, anche tu ti sei accordata per ingannare lo Spirito del Signore. Ma credete forse di poter ingannare lo Spirito di Dio? Tu sarai punita della tua menzogna come tuo marito. Ecco quelli che tornano dall’aver seppellito tuo marito, e presto seppelliranno anche te. „ Appena detto ciò, ella cadde morta, e fu portata via dagli stessi uomini (Act. XV). Tuttavia, M. F., possiamo dire che le bugie più gravi sono quelle che diciamo in confessione, al tribunale della penitenza. Allora non solo disprezziamo il comando che ci impone d’essere sinceri, ma profaniamo altresì il Sangue adorabile di Gesù Cristo; cambiamo in veleno mortale ciò che dovrebbe rendere la vita alla povera anima nostra, e oltraggiamo Dio nella persona de’ suoi ministri, che sono postisul trono della sua misericordia; facciamo rallegrare l’inferno, contristando tutto i1 paradiso; mentiamo a Gesù Cristo che vede e conta tutti i moti del nostro cuore. Voi capite benissimo. M. F., che se aveste mentito in confessione e vi accontentaste d’accusarvi d’aver mentito, non varrebbe niente. Io dico inoltre, M. F., che noi mentiamo col nostro silenzio o con qualche segno che facciamo credere il contrario di ciò che pensiamo. Leggiamo nella storia un esempio che ci fa vedere come Dio punisca rigorosamente i mentitori. Si racconta nella vita di S. Giacomo, vescovo di Nisibi in Mesopotamia, vissuto nel quarto secolo, che, mentr’egli passava per una città, due poveri vennero a domandargli danaro dicendogli ch’era morto un loro compagno e non avevano nulla per farlo seppellire. Sapendo essi ch’egli era molto caritatevole, avevano suggerito a uno dei loro di fingersi morto, ch’essi sarebbero andati dal vescovo a domandargli danaro per poi divertirsi. Infatti quello si getta a terra come se fosse morto davvero. Il santo, pieno di carità, diede loro ciò che poté. Pieni di gioia, ritornarono dal compagno per fargli parte del danaro del vescovo, e lo trovarono morto davvero. Il santo vescovo si era messo a pregare per domandar perdono dei peccati di quel povero uomo. Pregava ancora quando vide ritornare quei due tutti in lacrime, per essere stati puniti della loro menzogna. Essi si gettarono ai piedi del santo e lo pregarono di perdono, dicendo che, se lo avevano ingannato, a ciò li aveva spinti la miseria; e lo scongiurarono, per pietà, di pregare il buon Dio perché risuscitasse il loro compagno. Il santo invece di rimproverarli imitò la carità del suo divin Maestro; acconsentì di cuore alla loro domanda, pregò per lui e il buon Dio rese la vita a chi la menzogna aveva dato la morte. “Perché, figliuoli miei, disse loro il santo, avete voi mentito? dovevate chiedermi semplicemente ciò che volevate; i o ve l’avrei dato, e il buon Dio non sarebbe stato offeso ,, (RlBADENEIRA, 15 Luglio). No. M. P., non è permesso mentire, come lo credono certuni, ignoranti e senza religione, per evitare il baccano in casa; non ai figli verso i genitori, non ai domestici verso i padroni. Sarà sempre meno male lasciar gridare il marito, la moglie o il vicino, che mentire. Non è meglio che le sopportiate voi le umiliazioni invece di farle sopportare a Dio stesso? E non dobbiamo neppur mentire per nascondere le nostre opere buone. Quando qualcuno vi domanda se avete fatto qualche opera buona e siete obbligato di parlare, dite di sì, perché la vostra bugia offenderebbe di più il Signore di quello che lo glorifichi la vostra opera buona. Eccone un bell’esempio. Si racconta che un santo, chiamato Giovanni, era andato a visitare un monastero. Quando i religiosi furono riuniti insieme (c’era tra essi un diacono, il quale per umiltà, temendo gli si usasse qualche riguardo non aveva mai detto di esserlo) questo santo domandò se in mezzo a loro non ci fosse qualche ecclesiastico. Tutti risposero di no. Ma il santo volgendosi dalla parte del giovine e prendendolo per una mano, “Ma ecco qui, disse, uno che è diacono!„ — “Padre, gli rispose il superiore, egli non l’ha detto che a uno solo. „ Allora il santo, baciandogli la mano, disse al diacono: “Amico, guardatevi bene dal negare la grazia che Dio v’ha fatta, affinché non vi capiti la disgrazia, che l a vostra umiltà non vi faccia cadere nella bugia. Mentire non si deve mai, non solo con uno scopo cattivo, ma neppure col pretesto del bene. „ Il diacono lo ringraziò, né più nascose ciò ch’egli era (Vita dei Padri del deserto). S. Agostino ci dice che mentire non è permesso assolutamente mai, neppure quando si trattasse di sottrarre qualcuno alla morte, e narra che v’era nella città di Tagaste in Africa, un vescovo chiamato Firmino. Un giorno andarono a lui uomini inviati da parte dell’imperatore, a domandargli un uomo ch’egli teneva nascosto presso di sè. Egli rispose a quelli che l’interrogavano che non poteva né mentire né dire dove l’altro fosse. Al suo rifiuto, quelli lo presero e gli fecero soffrire tutto ciò che la loro crudeltà poté ad essi inspirare. Quindi lo condussero dinanzi all’imperatore; ma questi ne fu sì commosso, che non solo non lo fece morire, ma concesse la grazia a quegli che stava nascosto presso di lui. Ahimè, F. M.! se Dio ci mettesse a tali prove, chi di noi non soccomberebbe? Quanto piccolo sarebbe il numero di quelli che imiterebbero questo santo vescovo, il quale preferì la morte piuttosto che mentire per salvare la propria vita e quella dell’amico. Ahimè, M. F.! è perché questo santo comprendeva tutto l’oltraggio che la menzogna arreca a Dio, e quanto sia meglio soffrir tutto e perdere anche la vita, anziché farsene rei; mentre noi, con il nostro accecamento, riguardiamo come nulla ciò che è tanto grave agli occhi di Dio e ch’Egli punisce così rigorosamente nell’altra vita. Sì. F. M., sarebbe molto meglio perdere, supponiamo la vostra salute, i vostri beni, la vostra riputazione, la vita stessa, anziché offendere Dioe perdere il cielo. Tutti i beni sono per il tempo presente: Dio e l’anima nostra sono per l’eternità. – Abbiamo visto quanto la menzogna e la doppiezza siano comuni nel commercio; non lo sono meno nelle conversazioni nelle conversazioni e nei ritrovi, Se il buon Dio ci concedesse di scoprire e vedere i cuori di quelli che compongono un ritrovo o una compagnia, vedremmo che quasi tutti i pensieri sono diversi dalle parole che escon loro di bocca. Si sa benissimo conciliare assieme il linguaggio e tutte le esteriorità della stima, della benevolenza e dell’amicizia coi sentimenti di odio e di disprezzo che si nutron nel cuore contro quelli coi quali si chiacchiera. Se entrate in una casa e vi presentate a una conversazione dove si è occupati a diffamare la vostra riputazione, d’un tratto tutti cambiano viso, e vi si riceve e vi si accoglie con fare grazioso e quasi vi si soffoca di gentilezze. Non siete ancora uscito, che ricominciano le risa e le maldicenze sul vostro conto. Dite, M. F., è possibile trovare qualche cosa di più falso, di più indegno per un Cristiano? Eppure, ahimè! nulla di più comune al mondo. Gran cosa, M. F.questo mondo ingrato ha un bell’ingannarci, noi possiamo ben essere il suo zimbello; eppure noi lo amiamo, eppure siamo infinitamente felici d’esserne amati! O accecamento del cuore umano, e fino a quando ti lascerai sedurre? fino a quando aspetterai di rivolgerti al tuo Dio, il quale non ti ha mai ingannato, e abbandonerai questo falso mondo ipocrita, il quale non può che renderti infelice e in questa e molto più nell’altra vita? Ahimè, M. F.! quanto è stolto chi gode d’esserne amato e applaudito, poiché questo mondo è sì bugiardo e ingannatore. Chi mai potrà far assegnamento su tutte le astuzie, su tutti gli inganni che si usano nel mondo? E vedete anche, M. F., il vostro linguaggio riguardo a Dio. “Mio Dio, dice quell’avaro quando prega, io vi amo sopra tutte le cose e disprezzo le ricchezze poiché esse non sono che fango in confronto dei beni che ci promettete nell’altra vita.„ Ma, ahimè! quest’uomo, finita appena la preghiera o uscito di chiesa, non è più lo stesso; questi beni, che nella preghiera erano sì vili, ora egli li preferisce a Dio e all’anima sua; egli non si dà pensiero né dei poveri né degl’infermi, e, forse forse li schiva per timore che gli domandino qualche cosa. Direste voi, M. F., che questi è ancor quell’uomo che or ora diceva a Dio ch’egli era tutto suo? — Fate la stessa riflessione per il vendicativo. ” Mio Dio, vi amo, nel suo atto di carità, e con voi amo tutti gli uomini,, ; e non ha ancor fatto due passi, e dice tutto il male possibile del suo vicino. Vedete quell’ambizioso. “Signore, dice nella sua preghiera,s’io ho il bene di amarvi, sono ricco abbastanza, non bramo di più: e un momento dopo si dispera se vede qualcuno fare un guadagno che avrebbe potuto fare lui. E quell’impudico che vi fa i più bei elogi della santa virtù della purezza? Fra qualche minuto vomiterà  ogni sorta di laidezze o vi s’avvoltolerà. Quell’ubbriacone, biasimerà tutti quelli che si danno al vino e perdono la ragione sperperando sì male il loro danaro; e fra un’ora forse, alla prima compagnia, con cui s’imbatterà, si lascerà trascinare all’osteria e s’abbandonerà al vino. Dite altrettanto, F. M. di tutti coloro che sanno mettere assieme le pratiche esterne della religione e le loro cattive inclinazioni. In chiesa, vicino a Dio, sono tutti buoni Cristiani, almeno in apparenza: fuori, sparsi nel mondo, non sono più gli stessi, non si riconoscono più. Apriamo gli occhi. M. F ., e riconosciamo quanto tutte queste menzogne, tutte queste astuzie sono indegne dei figli di quel Dio, che è la carità, la verità in persona. Sì, M. F., siamo sinceri, in tutto ciò che facciamo per Dio e per il prossimo, facciamo per gli altri ciò che vorremmo che gli altri facessero per noi, se non vogliamo camminare sul sentiero della perdizione. In terzo luogo, spesso alla bugia si aggiungono giuramenti e maledizioni. Ciò avviene quasi tutti i giorni. Se qualcuno non vi vuol credere, voi dite subito: “Se ciò non è vero, non possa neppur muovermi. E tanto vero quanto è vero che Dio vi vede, che questa merce è buona, che questa bestia non ha difetti.„ — Guardatevi bene, M. F., dall’aggiungere giuramenti alla menzogna; mai, neppure per attestare una cosa vera. Gesù Cristo lo proibisce. “Quando vorrete garantire una cosa dite solamente: è così, o, non è così; sì, o, no; l’ho fatto, o, non l’ho fatto. Tutto ciò che dite di più, viene dal demonio (Matth. V, 37).„ Persuadetevi bene, M. F., che non sono né le vostre bugie né i vostri giuramenti che vi fanno vendere di più, né danno fede a ciò che dite: anzi, tutto il contrario. Prendete esempio da voi stessi e vedete se vi lasciate gabbare da tutti giuramenti che vi fanno, da tutte le bugie che vi dicono quelli dai quali comprate. Per conto vostro dite: “So che i giuramenti e le bugie non costano loro niente: non hanno altro in bocca!„ Eppure il mondo dice: “Se non mento nel vendere, non venderò quanto gli altri.„ Grosso errore! Più si vede uno accumular menzogne per vendere la sua merce, più lo si sente giurare; e meno gli si crede e più se ne diffida. Ma se, vendendo o comperando, usate il  timor di Dio, comprerete venderete quanto gli altri; con la differenza in più che voi avrete la felicità di salvare l’anima vostra. E d’altra parte, M. F. , non dovremmo noi preferire di perdere qualche cosa piuttosto che perdere l’anima nostra, il nostro Dio, il nostro Paradiso? Alla nostra morte, a che ci serviranno tutte quelle astuzie, tutte quelle doppiezze che avremo usato in vita? Qual rammarico, aver perduto il cielo per sì poca cosa!… – Sentite ciò che narra il cardinal Bellarmino. C’erano in Colonia due mercanti, che, per vendere le loro merci, quasi non dicevano parola senza mentire e giurare. Il loro pastore li consigliò a smettere questa cattiva abitudine, perché tutte queste bugie e tutti questi giuramenti facevano loro male; e si diceva persuaso che, se dicessero semplicemente la verità, Dio non mancherebbe di benedirli. Essi non volevano saperne; pure, per obbedire al loro pastore, finalmente si decisero, e a tutti quelli che venivano per comperare dicevano semplicemente quanto volevano senza mentire, né giurare. Dopo qualche tempo, il pastore domandò se avessero fatto ciò che aveva loro detto. Gli risposero di sì. Allora domandò anche se vendessero meno di prima. “ Signore, dissero quelli, dacché abbiamo smesso l’abitudine di mentire e di giurare, vendiamo più di prima. Ora ci accorgiamo davvero che tutte quelle menzogne e tutti quei giuramenti non sono che astuzie del demonio per ingannare e perdere i mercanti. Ora che la gente sa che non giuriamo né mentiamo più, vendiamo il doppio di prima, e vediamo che Dio benedice la nostra casa in un modo visibile, e tutto ci riesce bene. „ Ah, M. F.! se avessimo la fortuna d’imitare quei mercanti nelle nostre vendite e nelle nostre compere, quanti peccati di meno, quanti timori di meno per l’avvicinarsi della morte quando, nessuno ne dubita, bisognerà pur renderne conto, poiché Gesù Cristo stesso ci dice che dovremo rendere conto anche di ogni parola oziosa» (Matt. XII, 36). Ma, no; a tutto non si pensa. Non doveste anche vendere per un soldo, appena vi si offre l’occasione, voi mentite. Nessun timore, né di far soffrire il buon Dio, né di perdere la vostr’anima, purché guadagniate due soldi, voi siete contenti: il resto non importa. Ma soprattutto guardatevi bene, F. M., dall’aggiungere mai il giuramento alla menzogna. Vedete che cosa avvenne davanti a S. Edoardo re d’Inghilterra. Essendo a mensa col conte Gondovino, suo suocero, oltremodo orgoglioso e gelosissimo fino al punto di non poter soffrire alcuno accanto al re, questi gli disse che sapeva benissimo ch’egli aveva contribuito alla morte di suo padre. “Se ciò è vero, giurò il conte, che questo boccon di pane mi soffochi. „ Orrore! Appena messolo in bocca, gli si fermò nella gola e lo soffocò. Il misero cadde morto vicino al re (Ribadeneira, 13 ottobre)— E vero: Dio non ci castiga sempre in modo così terribile, ma non per questo siamo meno colpevoli dinanzi ai suoi occhi. Che cosa concludere da tutto questo? Eccolo, F. M.: Non avvezzarsi mai a mentire; perché, una volta presa l’abitudine, non se ne può più correggere. Dobbiamo essere sinceri, veritieri in tutto ciò che diciamo o facciamo. Se non ci si vuol credere, pazienza! Non costringete mai altri a mentire; ci sono di quelli soliti a questionare tanto che quasi vi costringono o a dir bugie o andar in collera. Questi sono ancor più colpevoli di chi mente, perché, senza di essi egli non avrebbe mentito. In confessione bisogna precisar bene le bugie che abbiamo dette, poiché avete visto che ce n’è di quelle che possono essere peccati mortali, secondo l’intenzione che si ha nel dirle. D’altra parte, M. F., come mai potremmo adoperare a mentire la nostra lingua che più volte fu irrorata del Sangue preziosissimo di Gesù Cristo; la nostra bocca che tante volte ha servito da tabernacolo al Corpo adorabile del Signore? Mio Dio, se pensassimo bene a tutto questo, dove troveremmo tanto coraggio? M. F., beato colui che opererà sempre con schiettezza e dirà sempre la verità! È la felicità ch’io vi auguro di cuore…

DA SAN PIETRO A PIO XII (8)

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

CAP. IX

CRISTIANIZZAZIONE DEI POPOLI BARBARI

PREAMBOLO

Opera materna

Crollato l’Impero, non rimaneva, erede di esso, se non la Chiesa. Come la madre, alla morte del padre, governa la casa, difende e nutre i figli, conserva come può il patrimonio dilapidato, così la Chiesa, disarmata e indifesa, assunse, come poté con i suoi mezzi e con la sua autorità, il governo dell’Europa Occidentale. I Vescovi, prima di tutto si opposero alle nefandezze dei barbari; difesero i popoli inermi, mantennero le leggi civili. Poi presero l’amministrazione di terre, il governo di città, qualche volta anche il comando d’eserciti.

« Episodi del genere si ripeterono, e in proporzioni ampie — giacché si prestarono non solo i Vescovi, ma anche presso che tutti i Parroci — negli infausti anni della guerra 1940-1945 particolarmente in Italia ». E i barbari, dinanzi all’ augusta autorità del Papa, dinanzi alla paterna fermezza dei Vescovi, dinanzi alla severa autorità dei Monaci, spesso piegarono la fronte e le ginocchia.

D. Vinto il politeismo greco-romano, a che si trovò di fronte la Chiesa?

— All’invasione dei barbari, che a guisa di incontenibili valanghe s’abbatterono su tutta l’Europalatina e l’Africa settentrionale.

D. Quale fu la sorte dell’Italia?

— … di vedersi invasa prima dagli Eruli guidati da Odoacre, poi dagli Ostrogoti di Teodorico, infine dai Longobardi.

D. E la sorte della Chiesa?

— Se non fosse istituzione divina, avrebbe fatto la fine dell’Impero; invece fu la Chiesa a vincere i barbari, guadagnandoli a Cristo e al Vangelo.

D . Come si regolò la Chiesa con i barbari?

— Essa accettò da loro tutto ciò che poteva essere accettato e condannò in loro tutto ciò che era contrario alla legge di Dio.

D. Quale potrebbe essere un esempio?

— Questo: secondo il costume barbarico, i giovani venivano iniziati all’arte delle armi con riti e prove solenni. La Chiesa cristianizzò queste iniziazioni e cercò di elevare il valore militare a legge più alta.

D . Che cosa ne nacque?

— La Cavalleria Cristiana, che dal secolo VII al XIV forma il ceto più caratteristico della società feudale e che ha dato contributi sì alti alla civiltà, alle arti, al costume.

D. Chi è il Cavaliere?

— Non è più il milite che va a cavallo o, come a Roma, una classe di appaltatori; è il tipo dell’uomo, educato dalla fanciullezza alle armi, scelto tra i cadetti ( = figli non primogeniti) delle famiglie nobili, libero combattente del diritto e del capriccio.

D. Quali difficoltà incontrò la Chiesa per conseguire la sua vittoria sui barbari?

—- La più grave fu quella di trovare una parte di barbari infetti di arianesimo, propagato da Costantinopoli, nemica di Roma. Tuttavia con lavoro paziente e costante vinse anche i più gravi ostacoli.

D. Quali furono i popoli guadagnati?

— I Franchi, il cui re Clodoveo ricevette il battesimo a Reims nel 496 dalle mani di S. Remigio;

la Scozia e l’Irlanda per opera di S. Patrizio;

l’Inghilterra per opera di S. Gregorio Magno, che v’inviò S . Agostino di Canterbury con 40 monaci;

i Longobardi, attratti al Cattolicesimo dall’esempio e dall’opera della loro regina Teodolinda;

la Germania, guadagnata nel 700 da S. Bonifacio;

gli Slavi, convertiti dai fratelli S. Cirillo e S. Metodio;

i Magiari, conquistati alla Chiesa dal re S. Stefano.

LETTURA

IL CAVALIERE IDEALE

Nel grande poema « La canzone dì Rolando » e raffigurata mirabilmente

in questo eroe il tipo del cavaliere ideale del secolo XI. La formazione di lui è attribuita a Carlo Magno (Rolando, infatti, è nipote di lui) che così parla al figlio Luigi:

— Tu che finora non hai conosciuto altra legge che il tuo arbitrio, ti sottometterai ai comandi della Chiesa e proteggerai i templi e i monasteri. Tu che hai disprezzato i deboli e i poveri diventerai il protettore dì essi, il difensore dei fanciulli, delle vedove, dei malati.

« Verso i poveri ti dovrai umiliare ». Tu che finora sei stato mancatore di parola e sprezzatore di ogni diritto, sarai invece fedele alla parola, leale, generoso: « Senza macchia e senza paura ».

Quattro secoli dopo — quando il compito storico della Cavalleria sta per tramontare — la madre dì Pietro du Terrail, signore di Baiar do (e perciò detto « Boiardo ») benedice suo figlio che va in guerra. Pietro le dice:

— Madre, benedite vostro figlio affinché, lontano da voi, non commetta errori.

E la madre dice:

— Pietro mio caro, tu stai per allontanarti da me! Quanto posso io ti raccomando tre cose: « La prima è che sopra tutto ami e serva Dio senza offenderlo mai, perché Lui ti fa vivere e ti salverà. Tutte le mattine e tutte le sere, raccomandati a Lui. Egli ti aiuterà. La seconda è che tu sii dolce e cortese con i tuoi compagni d’armi. Non sii orgoglioso con quelli che sono da meno di te: non disubbidire ai tuoi superiori. La terza è che tu sii generoso e puro e che dei tuoi doni faccia profittare quelli che ne sono sprovvisti. Dare in nome di Dio non impoverisce ».

Il buon cavaliere rispose commosso, ma risolutamente :

— Madre mia, dei vostri insegnamenti vi ringrazio! E spero che, grazie a Dio, sarete contenta di me. Baiardo combatté da eroe (morì in Italia nella battaglia di Romagnano nel 1524) e la storia lo chiamò « cavaliere senza macchia e senza paura ».

La Chiesa, facendo cristiana la Cavallerìa, dava alla giovinezza una scuola di energia e di ideale; fondendo l’antico e il nuovo, la Chiesa dava modo ai giovani dì realizzare le virtù dell’atleta e del soldato in perfetta combinazione con le virtù più alte, con la lealtà e la generosità, il rispetto alla donna e la protezione dei deboli, il sentimento dell’onore e del sacrificio, la difesa del diritto e della Fede. L’educazione del cavaliere s’iniziava a sette anni, con l’esercizio di giuochi e di prove, che oggi diremmo ginniche e sportive; dopo qualche anno, veniva ammesso in qualità di paggio in un castello baronale e qui, insieme con le abitudini di corte (la « cortesia ») sì dava ai cimenti della caccia, dell’ippica, della scherma; divenuto poi scudiero, serviva alla tavola i signori del castello, e seguiva quale aiutante il suo cavaliere ai giuochi d’ arme e alla guerra; finalmente, alla maggiore età, era fatto cavaliere. – La Chiesa mentre cristianizzava la istituzione, interveniva alla cerimonia del conferimento della spada, che in origine era laica e militare; a poco a poco, la Chiesa benedice la spada, fa precedere il conferimento con una veglia di anni nella quale si celebra la Messa, e finalmente fa consegnare la spada da un sacerdote.

IL FENOMENO ISLAMICO

ISLAMISMO – Da Islam, abbandono fatalistico a un Dio rivelante la sua volontà in Maometto suo profeta. – Dal giorno in cui Maometto, unificate le genti dell’Arabia, le catapulta contro il mondo degl’infedeli con la guerra santa, fin verso il sec. IX, l’Islam realizza un’immensa unità territoriale, dall’India e dal centro dell’Asia a tutta l’Africa del Nord e alla Spagna. Sarà disgregata dall’interno e colpita dall’esterno; l’impero ottomano ricostruirà, fino a un certo punto, l’unità antica, per cadere poi fradicio sotto i colpi dell’Europa e dar luogo alle autonome sistemazioni moderne. Entro questa sua storia l’Islam fu ed è una delle massime civiltà mondiali. Qui interessa sopra tutto il suo contenuto religioso ed umano.

Il suo dogma dominante ne fa un rigoroso monoteismo, strumento definitivo ed esclusivo del quale è la rivelazione personale di Maometto e la sua legge coranica, sanzionata per i fedeli dal dogma di una vita futura, con pene e premi adeguati ad una mentalità spiritualmente non depurata dal senso e dalla fantasia. La sua morale riprende motivi naturaliter christiani [– ereditati dagli ebioniti – ndr.], sostanzialmente presenti anche nei quattro precetti delle cinque preghiere quotidiane, del digiuno del Ramadan, della elemosina (imposta) e del pellegrinaggio alla Mecca. La sua legge, che dal Corano scende sempre più concreta e particolareggiata alla Sunna (tradizione), poi all’igmà (fissazione canonica di leggi) e, infine, al gijas (interpretazione giuridica degli ulema), colloca tutto lo sviluppo del diritto sotto il segno della religione; solo che l’umanità infedele che ne viene esclusa non ha altra scelta che l’accettazione integrale dell’ Islam o la guerra di sterminio, o — se si tratta di Ebrei o Cristiani — il tributo del sottomesso. [Oggi sappiamo da ricerche storiche approfondite, che in realtà il Corano – non essendo stata mai dimostrata la presenza di comunità giudaiche a La Mecca con presenza di rabbini, né la storica esistenza di Maometto – è l’opera di monaci ebioniti, ebrei cristianizzati a metà, legati al vecchio Testamento e feroci nemici di san Paolo e della sua teologia – ndr. -].

La sua gerarchia di Muftì non ha carattere di sacerdozio organico, ma di magistratura religiosa; il che esclude senz’altro il concetto di Chiesa. Nel complesso abbiamo, dunque, non uno strumento di salvezza spirituale e universale visibilmente concretato in una Chiesa, ma una concezione religiosa, organica, sì, e nobile in se, ma di cui l’esclusivismo particolaristico connaturato, non solo, ma potenziato dalla proclamata religiosità dell’odio verso gl’infedeli e sanzionato dalla morte comminata agli apostati, fa uno strumento squisitamente politico; e ciò prova tutta la storia dell’Islam, anche se i punti spirituali di contatto con il Cristianesimo siano evidenti, e facciano dell’Islam la religione più vicina — dopo l’ebraica — a quella di quel Gesù che i musulmani venerano insieme con Mosè come profeta precursore.

D . Mentre in Occidente si affermavano le conquiste della Chiesa, che avveniva in Oriente?

— In Oriente si addensava la nube minacciosa dell’Islam.

D. Che cos’è l’Islam?

— È la dottrina di Maometto e significa « abbandono i n Dio ».

D. Chi è Maometto?

— Un solitario e contemplativo, nato in Arabia nel 570, [in realtà non esiste nessun documento storico e nessuna testimonianza valida in tal senso… -ndr.-] che prese a fondere insieme tutte le disunite tribù arabe,dando loro una religione comune, che gli aveva suggerito, così dava ad intendere, l’Arcangelo Gabriele.

D. Qual è la sua dottrina?

— Questa: esiste un solo Dio e Maometto è il suo profeta. Abramo e Cristo furono profeti veri e quindi da venerarsi, ma Maometto è a loro superiore.

D. Quali sono i precetti dell’Islam?

— Preghiera 5 volte al giorno;

— digiuno nel mese di Ramadan;

— elemosina;

— pellegrinaggio alla Mecca da farsi almeno una volta in vita;

— guerra santa.

D . La morale dell’Islam s’accorda con il Cristianesimo?

— Affatto. Per trovare aderenti, Maometto permette pieno sfogo alle passioni umane, approvando la poligamia, insinuando l’odio contro i Cristiani, insegnando il fatalismo, affermando che chi muore in battaglia contro i nemici dell’Islam ha il massimo grado di gloria in paradiso e un paradiso sensuale.

D. Che fecero questi brutali insegnamenti?

—- Fecero degli Arabi un vero serio pericolo per la cristianità e la civiltà.

— Contro di esso si eressero i Papi, specialmente con le Crociate,

e combatterono fin che fu abbattuto.

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (4)

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (4)

[E. Hugon: Le mérite dans la vie spirituelle, – LES ÉDITIONS DU CERF JUVISY — SEINE-ET-OISE – 1935]

VII.

L’ENTITÀ DEL MERITO

San Tommaso (Ia, IIa, q. 114, a. 8) stabilisce il principio che il merito si estenda anche oltre la nozione soprannaturale che Dio usa per condurci al nostro fine. Ora, l’ “impulso” del motore celeste ci è dato non solo per il fine supremo, ma per tutta la marcia, per tutta la durata e tutto il progresso del movimento: il fine è la gloria; la marcia ed il progresso sono l’aumento della grazia. In altre parole, il merito dà il diritto alla gloria ed all’incremento di gloria per la patria, alla grazia e all’incremento di grazia anche quaggiù. Il Concilio di Trento ha definito che il merito dell’uomo giusto si estenda a tutto questo: “L’aumento della grazia, la vita eterna, il possesso di quella felicità se si muore in amicizia divina, e l’aumento della gloria” (Sess. VI, can. 32). Nel dichiarare che il merito cresce attraverso ciascuno degli atti che si ripetono sotto l’influenza della grazia, bonis operibus quæ per Dei gratiam fiunt, il Concilio indica sia che è richiesta la grazia, sia che il merito cresce tanto più spesso quanto noi facciamo il bene. Pensiamo, dunque, che ogni nostra buona azione ci dà diritto ad un nuovo grado di gloria per l’eternità e, quaggiù sulla terra, ad un nuovo grado di grazia per la nostra anima. Meravigliosa fertilità della vita spirituale! Ma, d’altra parte, la dottrina cattolica predica la vigilanza: se cadiamo, le nostre giustizie saranno dimenticate: «  Ma se il giusto si allontana dalla giustizia e commette l’iniquità e agisce secondo tutti gli abomini che l’empio commette, potrà egli vivere? Tutte le opere giuste da lui fatte saranno dimenticate; a causa della prevaricazione in cui è caduto e del peccato che ha commesso, egli morirà » (Ezechiele, XVIII, 24), e non potremo meritare che Dio ci ripari dopo la nostra caduta, poiché la mozione divina, indispensabile al merito, viene fatalmente interrotta e fermata dall’atto stesso del peccato (S. Tommaso, 1a, IIa, q. 114, a. 7). Ciò che dobbiamo chiedere a Dio in ciascuna delle nostre preghiere è di tenerci per mano, di non lasciarci mai separare da Lui dall’offesa mortale e, se questa sventura estrema dovesse colpirci, di sollevarci subito per la sua misericordia. Ne consegue anche che la perseveranza finale non rientra nel merito proprio (cfr Concilio di Trento, sess. VI, can. 16 e 32, e cap. 16). Perseverare è unire lo stato di grazia con la morte; solo questo, quindi, può assicurarci questo successo definitivo, che è del sovrano Padrone della morte e della grazia, il nostro Creatore e Redentore divino. Non possiamo, con le nostre azioni, assicurarci che la nostra morte arrivi esattamente nel momento in cui godiamo dell’amicizia divina: tutto questo va al di là della portata dei nostri sforzi. Poiché la perseveranza è l’effetto proprio della predestinazione, è ovvio che essa sfugge, come quella, alla sfera del merito; ma, d’altra parte, cade in qualche modo nell’ambito dell’impetrazione, perché Nostro Signore l’ha promessa a tutti coloro che la chiedono nel suo Nome con le necessarie disposizioni, con umili e costanti suppliche: supplicibus precibus emerci, come dice Sant’Agostino (De dono persever…), c. V, n. 10, P. L., XLV, 999). – È in questo modo di impetrazione, che sembra bisogni ricondurre la grande promessa fatta dal Sacro Cuore a Santa Margherita Maria. La pratica della Comunione consecutiva durante i primi nove venerdì del mese non dà diritto alla perseveranza finale, in quanto abbiamo diritto a ciò che rientra nel merito propriamente detto; ma Nostro Signore, per l’eccessiva misericordia del suo Cuore e per puro amore, promette questo immenso favore a coloro che degnamente soddisfano le condizioni prescritte. L’efficienza viene dalla promessa divina; non siamo più nell’ambito del merito e della giustizia, ma in quello dell’impetrazione e della bontà (a questo proposito, vedi P. Bainvel, La dévotion au Sacré-Coeur, Paris, Beauchesne, e art. du Dict. Théol. P. Vermeersch, S. J., Pratique et doctrine de la dévotion au Sacré-Coeur, Casterman, Tournai, 1908; Van der Meersch, De gratia, p. 377). – Qualunque siano le spiegazioni, è sovranamente opportuno meditare sulle belle parole di San Bernardo: « La perseveranza è la figlia del Re sovrano, la fine delle virtù e la loro incoronazione, la sintesi di tutti i beni, la virtù senza la quale nessuno vedrà Dio » (San Bernardo, Serm. de diversis, XLI, P. L. CLXXXIII, 658). Senza di essa, né il combattente otterrà la vittoria, né il vincitore avrà la palma. Essa è la sorella della pazienza, la figlia della costanza, l’amica della pace, il nodo delle amicizie, il vincolo della concordia, il baluardo della santità (Idem., epist. 129 (al. 35a), P. L. CLXXXII, 283- 284). È ad essa che viene restituita l’eternità, ed è essa sola che restituisce l’eternità all’uomo (Idem., De considera, I, V. v. XIV, n. 31, P. L. CLXXXII, 806). – Le altre grazie sono l’effetto della Provvidenza ordinaria e sono distribuite alla folla; procedono da una Provvidenza molto speciale e sono riservate all’amato, allo scelto, all’eletto. – Chiediamo al Sacro Cuore quando lo possediamo al momento della Comunione; che non ci permetta mai di separarci da Lui: numquam me a te separari permittas!

VIII.

IL PAGAMENTO DEL MERITO

È ovvio che la gloria sarà pagata solo in cielo. L’aumento della grazia potrebbe essere conferito qui sulla terra, se le nostre disposizioni fossero abbastanza perfette e se i nostri atti superassero in intensità l’abitudine stessa. Così si ammette che nella Beata Vergine l’impulso iniziale sia stato trasmesso con una forza tale che Ella lo moltiplicava ogni volta; la prodigiosa somma dell’origine è stata raddoppiata nel secondo atto e così via all’infinito, senza limiti e senza sosta. Ma nei giusti ordinari, è così? San Tommaso dice molto chiaramente: « La grazia non viene aumentata immediatamente, ma a suo tempo, cioè quando l’uomo è sufficientemente disposto a riceverne l’aumento: Nec gratia statim augetur, sed suo tempore, cum scilicet aliquis fuerit dispositus ad gratiæ augmentum. (Vedi, per la teoria di San Tommaso, i commentatori in Ia, IIæ, q. 114, a. 8, i Salmanticenses, disp. VI, n. 81; Billuart, De caritate, diss. 1, 3; per l’altro opinione: Suarez, lib. IX, n. 232; Began, III P., tr. Io, Cap. XXII, q. III). – (Ia, IIæ q. 114, a. 8, ad 3). Al contrario, Suarez e i suoi discepoli credono che tutti i gradi di grazia che ci meritiamo, anche con i nostri atti più deboli, siano conferiti all’anima senza indugio. – Non è questo il luogo per affrontare in profondità una questione metafisica molto interessante, ma le anime pie trarranno beneficio dal conoscere i sentimenti di San Tommaso, in modo che possano scegliere il modo più sicuro di comportarsi e dare più fervore e più slancio alla loro vita. – Il principio tomistico che regola tutte le questioni è questo: una qualità, una perfezione, non può essere introdotta in un soggetto se il soggetto non è portato a suo livello, cioè sufficientemente disposto, degnamente preparato. Se, nell’ordine fisico, per aumentare di un grado il calore dell’acqua, è necessario una nuova attività, allo stesso modo, nell’ordine spirituale, per elevare la vita soprannaturale ad un livello superiore, è necessaria un’energia che superi in intensità l’ordine precedente. Altrimenti la grazia, anche se dovuta alle nostre buone opere, non sarà conferita immediatamente; ciò che la ferma e la tiene in sospeso è l’imperfezione dell’atto o la sua mancanza di intensità. La grazia sacramentale è certamente immediatamente riversata nell’anima dall’efficacia stessa del rito sacro, ex opere operato; ma l’incremento che si fa per via del merito, richiede un atto più vigoroso che l’abitudine preesistente. Quando l’ostacolo cade, quando l’anima, per esempio, lasciando il suo corpo compie l’atto di carità perfetta, il pagamento ritardato si completa in un istante, la grazia finora sospesa e trattenuta come da una barriera si riversa nell’anima a fiotti sospinti. – La conclusione che emerge molto chiaramente e che sarà accettata da tutte le scuole è che uno dei più formidabili nemici del merito è la tiepidezza e che uno dei nostri migliori titoli nell’aumento della grazia è il fervore e la generosità. Questo è il vero modo di imitare la Santa Vergine in cui si realizza la perfezione del merito: continuità delle azioni, dignità della persona, eccellenza delle opere, rese ancora più grande dall’influsso dei doni e dal tocco divino dello Spirito Santo. Grazie a Maria, c’è stata nell’umanità una creatura  che ha praticato alla lettera il consiglio dell’Apostolo: «Tutto ciò che fate sia a gloria di Dio ». – Il nostro modesto studio avrà dimostrato ai nostri lettori che il merito è la vera corona del libero arbitrio, l’apice dell’attività umana ed angelica, la vera vita spirituale, la vita feconda, la vita intensa, poiché è vita piena di immortalità e di eternità.