SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (6)

F. CAYRÉ:

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (6)

Trad. M. T. Garutti – Ed. Paoline – Catania

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Catania, 7 Marzo 1957 P. Ambrogio Gullo O. P. Rev. Eccl.

Imprimatur

Catanæ die 11 Martii 1957 Can. Nicolaus Ciancio Vic. Gen.

CAPITOLO VI.

MISTICI E MAESTRI DELLA VITA INTERIORE-L’INTIMITÀ CON DIO

I primi mistici cristiani

Chiamiamo mistici, nel senso stretto della parola, i Cristiani che trovano nel loro battesimo le basi di una vera intimità con Dio, presente in essi mediante la grazia santificante. Questa intimità è 1’elemento specifico del vero misticismo. Essa comporta, oltre la fede nelle tre Persone, una stretta unione con Loro per mezzo di atti di speranza e di carità così intensi da permettere di godere in qualche modo della loro presenza. Tali atti, frutto della grazia e del modo  personale di ognuno di corrispondere alle sue ispirazioni sono attribuiti in modo speciale allo Spirito Santo che abita nel battezzato nel nome di Cristo. Questi elementi fondamentali sono già presenti nell’Epistola di San Clemente di Roma, ma sono evidentissima le lettere di Sant’Ignazio d’Antiochia. Abbiamo gia fatto notare i testi più salienti dell’autore, al principio di questo lavoro; testi veramente eloquenti e illuminanti circa questo aspetto caratteristico dei Padri (Cap. IV). Sant’Ireneo non ha l’ardore di Sant’Ignazio, ma la sua opera, erudita e calda, testimonia del suo alto ideale di vita cristiana. Nella sua dottrina, come in quella di S. Paolo, lo Spirito Santo occupa un posto importante. Egli distingue, nel battezzato, oltre il corpo e l’anima, lo spirito indicando con quest’ultimo termine sia la parte superiore dell’anima che lo stesso Spirito Santo, inabitante nell’anima del Cristiano docile alla sua azione. La perfezione dell’uomo, che comincia con la prima effusione dello Spirito Santo e che sarà perfetta e consumata soltanto in cielo, si realizza già in questo mondo nell’unità armoniosa dei tre elementi, quando l’uomo aderisce allo Spirito Santo ed è docile alle sue ispirazioni. Ancora, già fin da questo mondo, tale vita dello Spirito deve tradursi nello sforzo di acquisire una vera sapienza. Il Cristiano, formato alla scuola dello Spirito, saprà giudicare ogni cosa; distinguerà la follia dei pagani e degli eretici; si legherà con tutta l’anima a Dio, a Gesù Cristo, alla sua Chiesa; riconoscerà nella vita del Verbo incarnato la realizzazione delle profezie suggerite dallo Spirito; ritroverà la sua azione nelle presenti generazioni, che devono essere guadagnate al Verbo. Questa profonda dottrina era, per il vescovo di Lione, il fondamento spirituale di una progressiva divinizzazione. Egli la collegava a torto ad una teoria millenarista — teoria falsa ma che la Chiesa non aveva ancora condannata a quel tempo — tuttavia questo legame non compromette l’insieme della sua opera. Molto più pericoloso era il rnontanismo, che annunciava una nuova incarnazione divina, quella dello Spirito Santo, realizzatasi in Frigia, nella persona di Montano, alla fine del II secolo: illuminismo aggravatogli dall’eresia. Intervennero i Vescovi dell’Asia, sostenuti dai Papi. A Roma d’altra parte questi illuminati ebbero partigiani che San Vittore dovette combattere. Essi fecero proseliti persino in Africa, e Tertulliano si lasciò conquistare da loro: egli poi morì nella setta, senza pentimento, tanto questa falsa mistica lo aveva abbacinato. Questa caduta era tanto più penosa in quanto il prete cartaginese, brillante apologista e formidabile controversista, sembrava dotato per un’azione potente, di portata generale. Egli si isolò nella sua rivolta e morì, ignorato, in età avanzata. La decade di puro cattolicesimo che aveva seguito la sua conversione, verso il 195, fu fecondissima in opere di grande valore. Una di queste è consacrata alla preghiera, e vi si trova uno dei primi commenti conosciuti sul Pater. San Cipriano vi si ispirò più tardi nel suo opuscolo su « La preghiera del Signore » (De oratione dominica). Questo tema della preghiera è uno di quelli che caratterizzano meglio la spiritualità antica ed i Padri più famosi per scienza e pietà sono sulla stessa linea dei semplici pastori. A dispetto delle apparenti differenze fra i semplici fedeli ed i Cristiani colti, tra gli autentici membri della Chiesa, vi fu sempre una vera comunità di anime. La Didachè, anonima e popolare, che è forse il più antico documento della patristica, e la Tradizione Apostolica di Sant’Ippolito (al principio del III secolo), danno largo posto alla preghiera comune pubblica, dimostrando bene che il Cristiano si unisce a Dio nell’ambito di una società e per mezzo di questa, ma questo non esclude la preghiera personale, che viene presa anch’essa in considerazione, per lo meno incidentalmente, alla fine del trattato. L’autore del III secolo che ha esaltato l’orazione con più penetrazione è il grande esegeta alessandrino, Origene, scrittore mistico nel senso letterale della parola. Le sue omelie dimostrano perfettamente che, per lui, la preghiera comporta una vera intimità personale con il Dio cristiano in tre Persone. Egli si compiace di trovarne gli annunci profetici nell’Antico Testamento e le manifestazioni nel Nuovo, attraverso Cristo e lo Spirito Santo. Le lacune della sua teologia trinitaria sono colmate dalle intuizioni della sua vita contemplativa. Di questa egli pone le basi in un eccellente lavoro d’insieme sulla preghiera: egli espone anzitutto la dottrina generale, e la completa con una spiegazione particolareggiata del Pater. Ma i suoi innumerevoli commenti della Sacra Scrittura e le sue omelie dimostrano il mistico orientamento del suo pensiero, che si appoggia appena sulla lettera, sorpassa rapidamente persino la morale, per arrivare alla contemplazione dei misteri divini, in cui indugia, per una specie di istinto superiore, segno e frutto delle sue contemplazioni. Egli ha forse esagerato talvolta; ma non si può negare il valore del principio e l’eccellenza delle applicazioni, prendendole nel loro insieme. È in lui che il misticismo cristiano prende pienamente coscienza e delle sue vere fonti, gli scritti sani illuminati da una profonda ispirazione divina, e della sua missione, che è di portare alla vita perfetta i Cristiani docili allo Spirito Santo.

I Mistici del grande secolo in Oriente

In tutti i periodi di questo grande secolo, che comprende in realtà 150 anni di intensa attività cristiana, troviamo veri uomini di preghiera che possiamo raggruppare intorno a due Dottori eminenti in questo campo come in altri, San Giovanni Crisostomo, che incarna l’Oriente, e Sant’Agostino, per l’Occidente. Lo splendore della loro azione spirituale, al centro dell’epoca studiata, non deve tuttavia farci dimenticare i loro precursori o i loro continuatori. Sant’Atanasio, incarnazione viva della fede di Nissa nel IV secolo, fu tanto un lottatore che un uomo di preghiera, nel senso letterale della parola, e la sua amicizia con Sant’Antonio, del quale egli poi scrisse la vita, ne è il simbolo, se non la prova. A questa sorgente si alimenta la sua lotta dottrinale per la divinità di Cristo. I negatori erano filosofi, ferventi discepoli di Platone o di Aristotele, di Zenone o di Plotino. Lungi dal seguirli nelle loro sottigliezze, Atanasio conosce un libro solo, la Scrittura, un solo maestro, lo Spirito Santo, ed una sola guida, la Chiesa (v. cap. II). Tutto questo però non è realizzato veramente su un piano vitale, che per mezzo dell’azione della grazia, nella preghiera. Per Atanasio, i nomi di Padre, Figlio e Spirito Santo, non sono soltanto parole, neppure semplici idee; sono vere e grandi realtà, concrete, vitali, nelle quali Dio vive e con le quali noi viviamo in Dio. A queste sole parole, tutto il suo essere vibra di emozione religiosa. Tale emozione dipende dalla profonda coscienza ch’egli ha della nostra unione, per mezzo dell’amore, con queste divine realtà, le quali si degnano, attraverso la grazia, di associarci alla loro vita trascendente, nel Verbo che si è fatto carne affinché noi diventassimo figli di Dio, secondo la parola di San Giovanni. Per Atanasio non si tratta di una semplice verità dottrinale da ammettere per mezzo dello spirito; si tratta di una realtà vissuta, sperimentata nella preghiera. E questa esperienza è come la sintesi vivente di due saggezze: la Saggezza eterna che si abbassa fino a noi nella grazia, e la saggezza creata che è la risposta del Cristiano al dono di Dio. È da puro mistico che Atanasio risponde agli eretici del suo tempo: « Dio non ha bisogno di noi: Egli possiede la propria vita in se stesso, nella eterna generazione del Figlio. Tuttavia, gratuitamente, Dio ci avvicina a tal punto a Lui da farci entrare nel più intimo della sua vita. Non solo Egli ci ha creati allo scopo di unirci tutti al Figlio unico, ma, contemplandolo eternamente, ci contempla in questa unione che il tempo deve perfezionare al punto che Egli stesso non lo vede più separatamente da noi. Nella visione integrale che il Padre ha delle cose. Sapienza divina e Sapienza creata non si confondono, come vorrebbero gli ariani, bensì si sposano » (L. Bouyer; « L’incarnation et l’Église », p. 145). I Cappadoci, che continuarono l’azione dottrinale di Sant’Atanasio contro gli Ariani, non ne sottolinearono con altrettanta cura l’aspetto mistico, pur senza trascurarlo. È soprattutto a proposito dello Spirito Santo ch’essi intervennero, valorizzando l’azione divinizzatrice, azione che suppone nel suo autore la divinità. San Gregorio di Nissa, fratello di San Basilio, il più mistico dei tre dottori del gruppo, ha spesso descritto le tappe interiori dell’ascesa dell’anima verso Dio, presente in lei per mezzo della grazia. Toccava a Sant’Agostino riprendere la dottrina di Sant’Atanasio sull’unione interiore alle divine Persone, che è la base della sapienza mistica della Chiesa. Il Vescovo di Nissa è attirato molto di più dall’aspetto psicologico delle ascensioni dell’anima verso Dio. Egli appoggia volentieri la sua dottrina sull’Antico Testamento: « La vita di Mosè » gli fornisce la materia per una classifica delle vie interiori in tre tappe: il Cespuglio ardente ne rappresenta la partenza; il Nembo, i progressi interiori fino alla contemplazione; la Tenebra del Sinai, i vertici della vita mistica. Le omelie sui Salmi, sull’Ecclesiaste, sul Cantico, conducono il Santo a precisazioni nuove. La stessa dottrina è ripresa nelle otto omelie sulle Beatitudini, e nelle cinque consacrate al Pater. Tali insistenze dimostrano bene l’orientamento dell’autore; egli doveva essere uno dei maestri del misticismo orientale. La sua influenza in Oriente fu considerevole, soprattutto a Bisanzio, dove egli beneficiava d’altronde del prestigio senza eguale del suo amico, San Gregorio Nazianzeno, con il quale fu scambiato spesso. – San Giovanni Crisostomo, gloria della Chiesa di Antiochia, fu meno attirato dal misticismo che non i maestri di Alessandria e persino quelli di Cappadocia, anche se in molte delle sue opere se ne possono trovare tracce evidenti. Il suo apostolato fu soprattutto pratico e moralizzatore, ma si basava su un alto concetto di Dio che costituiva il centro unificatore della sua vita e dava tanta forza alla sua parola. Ora questa idea vivente di Dio, questa « teologia », era il frutto dei suoi anni di vita solitaria, consacrati alla preghiera e alla meditazione della Sacra Scrittura, di San Paolo soprattutto che sarà sempre il suo autore preferito. In ogni suo discorso si richiama alla potenza ed alla saggezza di Dio, alla sua misericordia e al suo amore; ha proclamato la sua giustizia e le sue volontà; ha difeso magnificamente i suoi diritti. I suoi migliori impeti oratori sono stati forse ispirati da questo pensiero della grandezza di Dio e della fragilità delle creature, come testimoniano le omelie sulla caduta di Eutropio. Il senso della vanità dei beni del mondo, che vi si rivela con tanta forza, ha come punto di appoggio necessario la perfetta intelligenza del tutto di Dio: Dio è il porto che non conosce tempesta, la vera città, lontani dalla quale noi siamo solo viaggiatori che soggiornano un giorno in un albergo e poi se ne vanno. – San Cirillo di Alessandria, al principio del secolo V, rappresenta egli pure, a modo suo, una forma evidente di misticismo, ed è forse proprio in questa che bisognerebbe cercare il segreto della forza che lo ispirò nella sua lotta contro il dualismo nestoriano. Questa eresia minava l’essenza stessa del Cristianesimo. Ciò che Sant’Atanasio aveva fatto nel IV secolo per difendere la divinità del Verbo in quanto Persona, anche prescindendo dalla sua Incarnazione, il suo successore nel V secolo lo farà per difendere l’unità di questa Persona del Verbo nella sua Incarnazione. Egli vi era indotto dalla tradizione dottrinale della sua Chiesa e di quella Scuola di Alessandria che aveva sempre posto al primo piano delle sue ricerche dottrinali i principii concernenti la divinità, considerata non solo nei suoi diritti di natura, ma fin nelle sue alte relazioni personali. Un certo misticismo tradizionale ad Alessandria, fin da Origene, induceva i teologi di questa chiesa a porre in primo piano nel loro pensiero la divinità, le Persone divine, lo Spirito Santo, con i suoi doni più elevati. Si devono attribuire tali doni a San Cirillo? Non lo sappiamo. In ogni caso, per rifiutarglieli, non basta rimproverare l’energia della sua resistenza a Nestorio, poiché questa stessa energia ha potuto avere una altissima ispirazione, che fu provvidenziale e che troppo spesso è dimenticata da certi storici. –

I mistici del grande secolo in Occidente

Per citare ancora soltanto dei grandi nomi, ci limiteremo a due personalità di primo piano, Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, i quali si incontrarono nella loro vita terrestre, e si ricongiunsero nel loro misticismo, nonostante le diversità di carattere e di formazione.

Sant’Ambrogio, figlio d’un prefetto dell’impero romano, egli stesso consigliere degli imperatori verso la fine del IV secolo, spesso è conosciuto soltanto per il ruolo politico nella sua vita di uomo di Chiesa; tuttavia, per quanto grande sia stato, questo ruolo rimane subordinato a quello del Pastore o del moralista, educatore del popolo cristiano, e a quello dell’asceta che trascina le anime sulla via della perfezione. Quest’ultimo tratto è fortemente marcato fino al misticismo. Ciò traspare molto bene negli scritti che trattano della Verginità, ch’egli ha più di tutti esaltata, paragonandola ad un vero « matrimonio con Cristo », matrimonio che impone degli oneri, ma che comporta molti privilegi: privilegi del tutto spirituali, poiché è un dono divino e la sua patria è nel cielo. Essa ha un modello incomparabile in Maria, che ne è l’iniziatrice e l’esemplare perfetto fino alla fine dei tempi. Tale è il tema del più commovente dei suoi quattro trattati sull’argomento, quello che ha per titolo: La formazione di una vergine (« De institutione virginis », scritto verso il 392.). Ma il vero criterio, la base solida del misticismo del santo è la profonda unione con Dio; esso è evidente principalmente nel senso ch’egli ha della presenza di Cristo nell’anima cristiana e nel modo con il quale la descrive in uno dei suoi primi trattati sulla Verginità: « Noi abbiamo tutto in Cristo — egli dice — Volete guarire una ferita? Egli è medico. Bruciate per la febbre? Egli è fontana. Vi opprime l’iniquità? Egli è giustizia. Aspettate un aiuto? Egli è forza. Temete la morte? Egli è Vita. Desiderate il cielo? Egli è la Via. Fuggite le tenebre? Egli è Luce. Desiderate il cibo? Egli è alimento. Provate dunque e vedete quanto soave è il Signore. Beato colui che spera in lui » (XVI, 96). Cristo è il principio di ogni virtù. In una lettera al Vescovo Felice che egli ha consacrato, Ambrogio descrive con emozione le ricchezze del santuario cristiano, in cui si trova, con le Scritture che contengono la dottrina della sapienza, il tabernacolo santo dove risiede Cristo, che ci parla e nel quale noi abbiamo tutto (Dove è Cristo, vi è tutto). Ambrogio continua ancora: i doni spirituali non vengono che da lui; la pace e la giustizia sono un segno che Cristo è presente (Dove c’è la pace, lì c’è Ciisto). Cristo è nell’anima; anzi, Egli la muove con il suo Spirito, con la sua santa azione; colui che lo riceve e lo riconosce con amore depone in qualche modo sui suoi piedi un bacio devoto. Questa freschezza di sentimenti, che annuncia da lontano un San Bernardo, sorprende nel serio consigliere così ascoltato dagli imperatori del grande secolo cristiano. Essa è normale in un mistico la cui anima rimane ben fissa in Dio, qualunque siano le attività che lo occupano quaggiù. Troveremo la stessa nota, e ancora più pronunciata, nel Vescovo di Ippona. È nell’operadi Sant’Agostino che si trova, in Occidente, la dottrina mistica più completa e più profonda di tutta l’antichità, pura eco di San Paolo e di San Giovanni. La filosofia è qui ben subordinata al soprannaturale, malgrado certe apparenze che non possono ingannare. L’emozione sentita da Agostino a 19 anni, al tempo della scoperta della sapienza alla lettura di un libro di Cicerone, l’Hortensius, era filosofica più che religiosa, ma la religione vi aveva già la sua parte che diverrà predominante nel fecisti nos ad Te. del primo capitolo delle Confessioni, scritte a 42 anni: « Ci hai fatti per te, Signore! e il nostro cuore è inquieto fino a quando non riposa in te ». Agostino non godette di questo riposo che a 32 anni, al momento della sua conversione. Il primo appello alla sapienza, ricevuto aventi anni, porterà solo più tardi i suoi frutti. Il giovane fu immediatamente disorientato dalla sua adesione alla setta manichea, che contrapponeva in modo brutale il bene e il male, come princìpi eternamente in lotta in ognuno di noi; rimase avviluppato per dieci anni in questa eresia. Verso i trent’anni fu tratto dall’errore dal neoplatonismo, che gli insegnò il predominio di un principio unico, essenzialmente buono nel quale il Verbo aveva un ruolo principale. Però questa filosofia, per quanto grande e pura fosse o pretendesse essere sul piano morale e religioso, gli parve presto aridissima. Egli doveva poi utilizzarne i princìpi per tutta la sua vita; però ne sentì profondamente e amaramente le lacune, sul piano religioso, morale e spirituale. Tutto ciò è, ai suoi occhi, strettamente legato al mistero dell’Uomo-Dio. – Agostino non dimenticò mai il primo orientamento verso la devozione a Cristo, ereditato dalla madre. Tuttavia ne scoprì tutta l’importanza solo quando entrò nella prima maturità religiosa, verso i trent’anni: so: sostenne la sua reazione contro l’arida speculazione platonica che rischiava allora di perderlo. È soprattutto per mezz|o di San Paolo ch’egli arrivò alla luce completa sui misteri cristiani: il mistero del peccato, che è morte, quello della grazia, che è vita, la vita di Dio in noi ricevuta per mezzo del battesimo e sviluppata dall’azione dello Spirito Santo. Ecco la sola forza che ci strappa all’esilio del peccato e ci conduce alla patria ove Diiìr|p|ci attende. t L’apostolo San Paolo rimarrà per lui il vero maestro che lo ha introdotto nelle profondità del Cristianesimo; dopo averlo strappato al peccato, gli insegnerà a vivere in unione con Dio per mezzo di una carità ardente e luminosa, di cui lo Spirito Santo è il principio e l’animatore. E questa dottrina sboccerà nella contemplazione del Verbo di cui fu rivelatore San Giovanni, e di cui i suoi scritti sono la manifestazione progressiva. Nei commenti che ne ha fatto, Sant’Agostino dimostra bene che, con San Paolo, il suo maestro preferito, è il discepolo prediletto da Gesù. – Il tratto più saliente forse della devozione di Agostino, è l’interiorità. Egli concepisce Dio presente nell’uomo: intimus cordis est! E questo vale anche sul piano naturale, poiché gli piace innalzarsi razionalmente al Creatore attraverso la vita dello Spirito. Tuttavia quel punto di vista filosofico, così vero, così profondo, non gli basta. La fede gli rivela un’altra presenza di Dio nell’anima cristiana, presenza che ha due aspetti: da un lato, essa è temibile, tanto Iddio è santo; dall’altro lato, essa è mistero ineffabile di condiscendenza e di amicizia. Frutto interiore della grazia, essa è tutta soprannaturale. È conosciuta dalla fede, ma non diventa perfetta che con la speranza e la carità, e nella misura in cui queste hanno reale presa sull’anima. Esse devono trascinare nel loro movimento tutta l’attività interiore ed esteriore del Cristiano. Questa è la vera perfezione dell’uomo, sapienza eminente, profondamente soprannaturale, contemplativa e operante ad un tempo quando è sbocciata in pienezza. – Per poter realizzare questa perfezione, Sant’Agostino fa assegnamento soprattutto sui doni dello Spinto Santo. Questi doni rispondono ad un intervento superiore della grazia nell’anima, intervento che si amplifica a mano a mano che questa si libera dai sensi e si spiritualizza. I doni di timore e di devozione, rappresentano gli inizi interiori di questa importante azione divina, di cui gode il Cristiano generoso e docile alla grazia. Lo sostengono nei suoi rapporti con il prossimo la forza ed il consiglio, mentre la scienza e l’intelligenza gli danno, sulle creature e su Dio stesso, lumi relativi, ma penetranti, che preparano lo schiudersi della sapienza. La sapienza: ecco il dono mistico per eccellenza, vera unione a Dio, profondissima, unitiva e pacificante fino al grado possibile quaggiù. La funzione di questa sapienza, dono dello Spirito Santo, è descritta ampiamente nel lavoro sulla Trinità (nel libro XIV). Essa si confonde con quella devozione mediante la quale l’anima cristiana diventa una immagine vivente di Dio in tre Persone, Padre, Figlio e Spirito Santo. Questa immagine esiste solo alla punta estrema dell’anima cristiana, quando, avendo appresi per mezzo della fede che è figlia di Dio, l’anima « realizza » in spirito questa verità con un amore disinteressato che l’afferra tutta intera e consuma l’unione con Dio. L’immagine in questione, che i teologi osservano come oggetto di studio, è utilizzata dall’anima orante, non per sapere, ma per possedere quel Dio che si degna di darsi in godimento a coloro che lo amane! Là dove il teologo analizza e distingue per osservare il reale, il santo si limita ad amare guardando quel Dio trascendente e presente, Uno e Trino: Padre, Figlio e Spirito Santo. Questa contemplazione è il frutto precipuo delle virtù teologali e dei doni dello Spirito Sante! È il punto culminante della mistica agostiniana, in cui il Cristo resta la via, per mezzo della sua umanità, ma introduce le anime oranti e umili nella verità piena e nella vita, attraverso l’unione alle Tre Persone. – La mistica di Sant’Agostino, pura eco di San Paolo e San Giovanni, non dimentica la santità di Dio tanto proclamata dall’antica Legge. Essa ne precisa perfino le esigenze, moltiplicandone però le forze interiori che permettono al Cristiano di rispondervi, nel quadro delle virtù teologali, poiché tale è l’atmosfera in cui si spiegano le grandi energie. Queste forze rendono generose le anime capaci di innalzarsi a mezzo della fede al disopra delle preoccupazioni terrestri, per permettere loro di vivere già in qualche modo nel cielo, con una salda speranza ed una generosa carità.

Altri mistici antichi

Accanto ai veri maestri della preghiera che abbiamo indicato altri nomi possono essere segnalati che, per titoli diversi, hanno una certa parentela con la loro ispirazione. Non tanto quelli dei poeti cristiani, come Efrem Siro, Paolino da Nola e Prudenzio: la loro religiosità è purissima, ma la loro ispirazione non propriamente mistica, quanto quelli di due personaggi meno noti e che non sono venerati come santi: Diadoco, il più antico, Vescovo di Fotiké, in Epiro, all’epoca di San Leone e Giuliano Pomere, monaco e prete di Arles nel V secolo. Ambedue hanno una mistica solida e persuasiva. Il primo ha lasciato una bella esposizione « sulla perfezione » cristiana in cui insiste, più degli altri antichi maestri spirituali, sopra un senso interiore o un gusto spirituale che strappa l’anima alle dolcezze terrestri e la incammina verso una esperienza vitale di Dio legata alla sapienza. Questa è d’altronde legata strettamente ad una « teologia », che è meno uno studio che una « contemplazione », vale a dire una misteriosa unione a Dio, frutto della grazia e della carità. Il secondo, spirito colto, filosofo e asceta, è conosciuto solo per l’unico suo scritto conservato, La vita contemplativa, che tratta d’altronde più di Pastorale che di Mistica. La vita spirituale viene considerata dall’autore in due tappe, una attiva, in cui domina lo sforzo per acquistare la perfezione; l’altra contemplativa, in cui l’anima assapora qualcosa delle realtà eterne e vi trova forze per l’apostolato interiore, di cui Pomere sembra avere avuto il gusto maggiore. – È alla fine dello stesso secolo che appare, in Oriente, l’opera d’un puro mistico che si spaccia per « Dionigi l’Areopagita ». Lasciamogli questo nome, anche se egli non è altro che uno pseudo-Dionigi. Egli credeva di esporre una dottrina conforme alla tradizione — e lo è sostanzialmente — anche se la forma è nuova. L’autore scriveva fra il 480 ed il 520. Questo misterioso personaggio è, senza alcun dubbio, un Vescovo palestinese di Maiouma, nella regione di Gaza, Pietro detto l’Iberiano, dal nome del suo paese di origine, l’Iberia o la Georgia. L’impiego del nome del convertito di San Paolo (Dionigi, vescovo di Atene, secondo gli antichi. La tradizione che ne fa il primo Vescovo di Parigi è più recente lo confonde con il Dionigi mandato in Gallia dal papa San Fabiano, nel III secolo) mirava probabilmente ad accreditare, se non una nuova dottrina, almeno una nuova presentazione delle verità cristiane correnti. – L’opera « aeropagitica » utilizza abbondantemente in effetti, la filosofia neo-platonica di Proclo, in onore della scuola di Gaza alla fine del V secolo. Essa comprende una breve Teologia mistica (in cinque capitoli e tre grandi opere di teologia generale: i Nomi divini la Gerarchia celeste e la Gerarchia ecclesiastica. L’aver ricorso al plotinismo nell’esposizione, non vizia queste tesi che, nell’insieme, riposano su una base rivelata abbastanza solida. – La nota mistica è dovunque molto accentuata nell’opera di « Dionigi », il quale ha goduto di una larga autorità nel Medio Evo. L’aspetto dottrinale, tuttavia sempre presente, anche nelle pagine consacrate all’esperienza religiosa più alta che è la contemplazione. Questa è considerata, ora sotto un aspetto negativo (silenzio, tenebre), ora sotto un aspetto positivo (conoscenza di Dio, di origine superiore, e quindi divina); il mistico riceve più di quanto non guadagni con lo studio (non solum discens sed et patiens divina). Le gerarchie stabilite dall’autore riposano sulla contemplazione. Questa produce « un costante amore verso Dio e le cose divine… la visione e la scienza della verità sacra; una partecipazione divina alla semplice perfezione di Colui che è sovranamente semplice, il godimento della contemplazione, che nutre lo spirito e deifica chiunque è innalzato fino a lui » (Gerarch. eccl. I, 3). La « teologia » che « Dionigi » ha soprattutto di vista, è una semplice e profonda presa di possesso di Dio, indipendente da ogni elaborazione attiva dello spirito, ricevuta da Dio come una partecipazione soprannaturale alla vita divina. È, in una parola, una profonda vita teologale, più celeste che terrestre. – La « Teologia » di « Dionigi l’Areopagita » fu introdotta negli ambienti spirituali latini e bizantini da San Gregorio Magno (+ 604) e San Massimo il Confessore (+ 662). La forte personalità di questi grandi discepoli attenuò quanto vi era di troppo filosofico nell’opera dionigiana. Essi ne moderarono l’aspetto teorico con una felice insistenza sulle condizioni pratiche della perfetta vita cristiana. – San Gregorio Magno ha lasciato nelle sue omelie, e soprattutto nei Moralia, delle ricchissime trattazioni riguardanti la contemplazione, che è soprattutto sapienza soprannaturale, capace di dare una certa percezione di Dio, sotto forme d’altronde molto diverse. Egli la paragona ora ad una visione lontana, come nella notte, ora a una parola, o meglio, a un mormorio. Essa è rapida, e talvolta non dura che un istante: semplice preludio (initia) della visione beatifica. Tuttavia i suoi effetti sono possenti: umiltà profonda, pentimento efficace, pace e gioia celesti, ardore generoso nella ricerca di Dio.

San Massimo il Confessore (580-662) mette l’accento su due punti che hanno poco rilievo nell’opera dionigiana: Cristo da una parte, la carità dall’altra. Cristo occupa, in lui, un posto centrale, principalmente sul piano della vita cristiana. Non solo è l’autore della grazia, ma è il nostro modello per eccellenza: l’imitazione di Cristo è la grande legge della vita cristiana nella lotta contro il male, nella preghiera e nella contemplazione, nell’esercizio delle virtù, principalmente la carità. Questa è la regola della vita perfetta. E include evidentemente l’amore del prossimo, ma nella sua essenza, l’amore di Dio, principio della forza come dei suoi privilegi. È la carità che deifica veramente le anime, dando loro i sentimenti che si pone la filiazione adottiva, unendole moralmente a Dio fino a quell’intimità rivelata dal titolo « di sposa». È da Cristo che vengono tutti questi doni; egli abita infatti nelle anime per mezzo della fede, e con lui vi sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza, e se tanti Cristiani non li scoprono è perché sono pigri e negligenti nella loro vita spirituale.

LA GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (58)

GNOSI TEOLOGIA DI SATANA (58)

[Augusto Nicolas: L’ARTE DI CREDERE, Parma, P. Fiaccadori, 1868- vol. II]

CAPO V.

Ateismo, Teismo, Deismo, Cristianesimo. (2)

§2

Ho detto in secondo luogo, che l’argomento, di cui la ragione s’accontenta per credere al Teismo ed al Deismo s’applica con egual forza al Cristianesimo, senza accennare ad altri argomenti che ne sono propri.

I. Conviene rendere giustizia a Voltaire; esiste una verità, sulla quale non ha mai piatito, ed è quella dell’ esistenza di Dio. Egli la stabilisce e la difende in molti passi dei suoi scritti con quel suo buon senso quanto raro, altrettanto ristretto e superficiale. Il suo argomento, se non è profondo, è per altro sufficiente:

L’Univers m’embarrasse, et je ne puis songer

Que cette horloge existe, et n’ait point d’horloger

(L’idea dell’universo m’impaccia, al pensier solo

Che senza oriolajo sussista l’oriolo).

È l’argomento delle cause finali che determinava Socrate, ed al quale non si saprebbe rispondere. Voltaire lo fa spiccare sovente con un grande sfoggio di stile, e con una specie d’entusiasmo di ragione, Egli va fino al punto di prendersela colla parola natura, e fa osservare, che invece di questa parola bisognerebbe adoprare quella di arte; dappoiché tutto, assolutamente tutto è arte in ciò che si chiama natura « l’arte di non saprei quale grand’Essere ben polente, e ben industrioso, che si nasconde, e la fa comparire. – Bisogna dunque, egli conclude, che vi sia un Artefice infinitamente abile, e che sia appunto quello, che i savi chiamano Dio (Dict. philosophique, t. XXXI. p. 166, édit. Benchot — Dialogues d’Evhémère t. L, p. 156).

II. Non è già questa verità che gli sembri scevra di difficoltà. Senza esaminarla a fondo, sente tutto ciò che racchiude d’incomprensibile. Tuttavia non si ritrae dallo acconciarvisi, e la difende anzi sovra quel terreno dell’incomprensibile contro un Ateo, che vi attinge le sue obiezioni. Brevi sono le risposte di lui, quasi che temesse di compromettersi oltre misura, e di offerire delle armi contro la sua incredulità per gli altri misteri. Però si possono proporre come un manuale dell’arte di’ credere. Il seguente dialogo è fittizio. É Voltaire, che risponde al barone d’Holbach.

L’Ateo. « Conviene avere qualche concetto della natura divina ».

Voltaire. » E della nostra? »

L’ateo. « La nozione di Dio non entrerà mai nello spirito umano ».

Voltaire. « Interamente ».

L’Ateo. « Come mai si giunse a persuadere, che la cosa più impossibile a comprendersi fosse la più essenziale? »

Voltaire. « Una cosa si può dimostrare, ed essere ad un tempo incomprensibile: 1’eternità, gli incommensurabili, le assintoti, lo spazio …»

L’Ateo. « Come è possibile la sincera convinzione d’un ente, di cui si ignora la natura? »

Voltaire. « Eppure è così. Se qualche cosa esiste, dunque qualche cosa esiste da tutta 1’eternità. Questo mondo è fatto con intelligenza, dunque per mezzo d’una intelligenza. E quindi  rigorosamente provato, che esiste un Ente necessario da tutta 1’eternità. È parimente stabilito, esservi nel mondo una intelligenza. Mi attengo a questo (Rémarques sur le bon sens, t. L , p. 568). »

D’ Holbach muoveva a Voltaire delle obiezioni di altra natura, che non trovano scioglimento salvo nel Cristianesimo. Esse erano tolte non più dall’incomprensibile, ma dall’inconcepibile e dall’assurdo. Egli gli diceva: « Vedete il male fisico, vedete il male morale, che affliggono il mondo, e dopo ciò credete ancora in Dio »! Voltaire non si disanima per quella obiezione: fa sua fede resiste ad ogni prova, ed è rimarchevole la ragione, che ne adduce: « L’idea d’un Dio carnefice, che forma delle creature per tormentarle è orribile ed assurda… Ma se viene a darsi la prova a una verità, forse che questa verità tralascia di esistere, perché trae con sé delle consequenze inquietanti? Esiste un Ente necessario, eterno, fonte di tutti gli altri. Esisterà forse meno, perché noi soffriamo? Esisterà meno, perché io sono incapace di spiegare la ragione, per cui noi soffriamo (Dialogues d’Euhemère, p. 1S9.)? »

Una simile fede è più che sufficiente pel Cristianesimo: io la chiamerei anzi scandalosa per la sua rassegnazione a difficoltà, che farebbero ribrezzo ad un umile fedele, e che lo stesso Voltaire qualifica, come orribili e scandalose, mentre le divora. A parte questo eccesso, il suo ragionare è eccellente. Per completare questo manuale ad uso dei credenti, aggiungiamo una professione di fede di Gian Giacomo Rousseau, la quale non è meno esemplare:

« . . . Ho un bel dirmi: Dio è così; io lo sento, e me lo provo. Non giungo meglio a concepire,  come Dio possa essere così. Insomma più mi sforzo a contemplare la sua essenza infinita, meno la concepisco: ma desta è, E ciò mi basta; memo la concepisco, e più l’adoro. Mi umilio, e gli dico: Ente degli enti, io sono perché tu sei, ed è un sollevarmi alla tua sorgente questo meditarti senza posa. L’uso più degno della mia ragione è quello d’annientarsi dinanzi a te; è quello che rapisce il mio spirito, ed inebria la mia debolezza; è quello di sentirmi vinto dalla tua grandezza (Emilio)…. » – Anche questa è una fede eccessiva, che noi altri Cristiani, cui si dà la colpa di far troppo buon mercato della ragione, potremmo anche giudicare riprensibile. Di fatti noi non diremo mai d’alcun nostro mistero, meno lo concepisco, più lo adoro; ma meno lo comprendo. Noi adoriamo l’incomprensibile, ma non l’inintelligibile. Tutti i dommi della nostra fede sono al contrario ciò che v’ha di più intelligibile, e di più definito. Così noi non croderemmo al mistero della Trinità, se 1’unità e la trinità si riferissero allo stesso soggetto; se Dio fosse in pari tempo uno e tre in essenza, ovvero uno e tre in persona. Noi non comprendiamo sicuramente in qual modo uno in essenza sia in tre persone, ma in grazia dell’addotta distinzione noi lo concepiamo nella stessa guisa che concepiamo un’anima sola in parecchie facoltà ed in parecchie potenze.

III. Comunque sia, e salva quella riserva in favore della ragione, l’argomentare di Rousseau e di Voltaire non è dissimile da quello della fede cristiana, e però possiamo rivolgerlo contro gli increduli. Che cosa si oppone infatti alla fede, se non è quella triviale pretesa, che si debba soltanto ammettere ciò che si comprende; e che nulla siavi di vero, tranne ciò che è evidente, ecc. ecc.? — Lo stesso Rousseau non viene forse a dirci, quando si tratta dei misteri del Cristianesimo:

« Il Dio. che io adoro, non è già un Dio di tenebre, né mi dotò d’un intelletto per interdirmene l’uso: se dicessi a me stesso di sottomettere la mia ragione (si noti che aveva detto poc’anzi che il miglior modo di usarne era quello di annientarsi), crederei di oltraggiarne l’autore, Egli non tiranneggia la mia ragione, ma la illumina, ecc. (Emilio). » Rispondiamo a tutte quelle declamazioni con queste sentenze del buon senso rivolte contro l’Incredulo: Noi non sapremmo comprendere la natura divina, noi che non comprendiamo punto la nostra — la nozione di Dio non può entrare nello spirito umano completamente, ma proporzionamente, e ciò basta per la credenza —• una cosa può dimostrarsi, ed essere ad un tempo incomprensibile: l’eternità, gli incommensurabili, le assintoti, lo spazio, ecc. — se si fornisce la prova d’una verità, come sarebbe quella dei nostri misteri per mezzo della parola rivelatrice di Gesù Cristo provata a sua volta dai suoi miracoli, ecc. questa verità esiste forse meno perché trae con sé delle conseguenze inquietanti? massima questa che noi non spingiamo tant’oltre come voi. — Finalmente lungi che l’incomprensibile debba arrestarci, ne deve determinare: perché il più degno uso della mia ragione è quello di annientarsi dinanzi a Dio; è quello che rapisce il mio spirito ed inebria la mia debolezza, per cui mi sento oppresso dalla grandezza di lui, e soprattutto dal suo amore e dalla sua misericordia. – In una parola, qualunque sia la credenza, il mistero non deve mai fermare; deve in un certo senso determinare. – Dico in un certo senso, perché lo spirito umano non può e non deve mai determinarsi, tranne per mezzo della ragione. Bisogna dunque che vi sia ragione di credere, e che la verità, oggetto della credenza, sia provata non dalla sua evidenza intrinseca, cosa che non potrebbe darsi, ma dalla forza dell’autorità, e dallo splendore del testimonio. Se non che, dove trovare maggiori prove, e ragioni di tal genere se non nel Cristianesimo? ragioni e prove che diciotto secoli di critica e di discussione non riuscirono ad iniziare, e che l’Incredulità oggi ci abbandona per ritrarsi nella negazione non solamente di Gesù Cristo, ma di Dio medesimo; in tal modo essa proclama, e professa anzi apertamente, come già l’abbiamo veduto, che si può essere teista senza essere cattolico.

IV. Facendo astrazione da tutte quelle ragioni e da tutte quelle prove cento volte potrei stabilire la divinità di Gesù Cristo sovra il solo argomento, di cui si serve Voltaire per dimostrare l’esistenza di Dio: quello delle cause finali. Nello stesse modo, che questo argomento prova Dio nell’ordine fisico, così prova Gesù Cristo nell’ordine morale e storico. « Dio – dice Bossuet – ha fatto un’opera in mezzo a noi, che, indipendente da ogni altra causa, e venuta solo da lui, riempie tutti i tempi e tutti i luoghi, e spande su tutta la terra colla impressione della sua mano il carattere della sua autorità; e sono Gesù Cristo, e la sua Chiesa (Orazione funebre à Anna di Gonzaga). » – Ora non possiamo noi dire di quell’opera ciò che Voltaire ha detto della natura?

Celle oeuvre m’embarasse, et je ne puis songer que celle horloge existe, et n’ait point d’horloger (L’idea dell’universo m’impaccia, al pensier solo Clic senza oriolajo sussìsta l’oriolo). Ed invero per chi l’osserva profondamente, la cosa non può essere diversa, in quanto che la natura non è altro che arte, e per la stessa cagione l’opera di cui parlo non è che grazia, virtù divina, azione sovranaturale « di qualche grande Artefice, che si nasconde, e la fa comparire. — Questo mondo è fatto con intelligenza, dice Voltaire, a dunque per mezzo d’ una Intelligenza. »

— L’ Opera di Gesù Cristo è fatta da mano divina, dirò io a mia posta, e spande sovra tutta la terra colla impressione di quella mano il carattere della sua autorità, come si esprime Bossuet: « Gli è, afferma l’empietà medesima, il più bel codice della vita perfetta, la Religione assoluta, non solamente per questa terra, ma per gli altri pianeti, se hanno degli abitanti dotati di ragione e di moralità (Renan precitato);» — « la più pura, la più completa, la più splendida manifestazione dell’Essenza divina (Proudhon precitato). » Dunque essa emana da Dio al pari della natura, però con questa superiorità, che i suoi elementi, cioè le nostre volontà e le nostre passioni, essendo libere e refrattarie, anzi scatenate e ribelli, quando Gesù Cristo vi mette la mano, attestano nell’azione che esercitano, maggior potere degli elementi inerti e servili nell’ordine fisico della creazione. È quindi rigorosamente dimostrato, per parlare ancora con Voltaire, esservi un’azione divina nel Cristianesimo e nella Chiesa, come è dimostrato esservi una intelligenza nel mondo. Mi attengo a questo (La presenza invisibile, e l’azione divina di Gesù Cristo nella Chiesa, in conformità della sua parola, cominciarono a svelarsi quando Egli disparve. Solo dopo la sua morte il Cristianesimo si manifestò; il perché non è più Gesù Cristo vivente, ma Gesù Cristo morto che cambiò il mondo. È questa una prova della sua divinità. Ciò che la fa risaltare, ed obbliga a credere nella Resurrezione del Crocifisso, e nella sua azione sovranaturale nella Chiesa si è, che dopo la sua morte niuno gli succede umanamente nella sua Autorità, ed influenza personale, per continuarne ostensibilmente l’impresa. Noi non veggiamo un capo, e direttore degli Apostoli, giacché Pietro non lo era che spiritualmente, e la sua inferiorità umana, considerando sempre le cose naturalmente, gli toglie ogni iniziativa atta a spiegare l’unità. Era un esercito senza generale, e quale impresa! Era, rimarcatelo bene, un esercito che non aveva obbedito al suo generale, quand’era vivo. Come si spiegherà questo, se non coll’assistenza soprannaturale di Gesù Cristo, generale invisibile dell’esercito apostolico, secondo quel detto: quando sarò sollevato dalla terra trarrò tutto a me! e secondo quest’ altro: Sarò con voi sino alla fine dei tempi. Questa meraviglia si sparsa in tutto l’universo, sussiste da diciotto scoli. Ne deriva per noi una prova forse maggiore di quella che fu per gli Apostoli la vista stessa di Gesù Cristo, perché di tutti i miracoli quello è il più grande. Essi videro l’Artefice, o credettero all’opera. Noi vediamo l’opera, e non crediamo all’Artefice) dopo la morte di Gesù Cristo, il progredire della Religione dall’origine del mondo fino a quella data; il popolo ebreo, le profezie, le rivoluzioni degli imperi tendenti all’unità dell’impero romano, che si sfascia; l’espettazione universale d’un Riparatore divino in quell’epoca; l’apparizione di Gesù Cristo in un tempo ed in un luogo determinati; la sua persona, la sua dottrina, i suoi miracoli; il trionfo della sua croce; la rapida conversione dell’universo alla voce di dodici navicellai; lo stabilimento del Cristianesimo sulle rovine del paganesimo per mezzo del sangue dei martiri; la Chiesa che mantiene e spiega l’unità della sua dottrina in mezzo a tutte le sottigliezze e le violenze delle eresie: i Santi di tutti gli ordini adattati ai bisogni dei tempi: il Papato sempre osteggiate e sempre stabile sovra le rovine di tutte le altre istituzioni; la civiltà moderna, i costumi, le leggi, le lettere, le arti spiccanti dal Cristianesimo, come i frutti dall’albero; questi frutti, che vivificano tutte le generazioni che se ne nutriscono, e la morte che diviene la sorte di quelle che li ripudiano; tutto ciò in esecuzione letterale di quanto fu predetto nel Vangelo da quella Parola, che risale al primo giorno del mondo per mezzo della promessa, e procede fino all’ultimo per mezzo del suo complemento; e per dirla in una sola frase, il mondo cristiano; ecco ciò che Gesù Cristo soltanto ci spiega; ecco quindi ciò che Gesù Cristo ci prova. – I Deisti, che non si piegano a sì fatta conclusione, sono, rispetto ai Cristiani, ciò che sono gli Atei rispetto ai Deisti. Spiegateci il mondo fisico senza Dio, dicono costoro ai primi: spiegateci, diciamo noi ai richiedenti, il mondo morale senza Gesù Cristo Dio; spiegateci ciascuna di quelle meraviglie, che vi ho testé indicato, e l’accordo di esse senza un intervento sovrannaturale di Dio. Voi vi provaste, e soccombeste all’impresa; e l’ultimo tentativo provocò sovra di voi l’universale riprovazione. Per confutarvi e confondervi, non abbiamo bisogno che di voi medesimi. Voi non fate che urtarvi contro gli altri, come gli uomini usciti dai denti del dragone di Cadmo: Paulus è confutato da Strauss, Strauss da Salvador, Salvador da Cohen, Cohen da Renan, e Renan da sé medesimo.

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (5)

F. CAYRÉ:

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (5)

Trad. M. T. Garutti

Ed. Paoline – Catania

Nulla osta per la stampa – Catania, 7 Marzo 1957

P. Ambrogio Gullo O. P. Rev. Eccl.

Imprimatur

Catanæ die 11 Martii 1957 Can. Nicolaus Ciancio Vic. Gen.

CAPITOLO V

I PROMOTORI DI VITA CRISTIANA

Grandi educatori

Il nome di Clemente di Alessandria si presenta qui spontaneamente alla memoria. La sua apologia, detta Protreptico, contiene già l’abbozzo di un piano di formazione morale, indirizzato ai pagani per avviarli alla vita cristiana. Ma il Pedagogo è molto più adatto a questo scopo: il suo titolo lo indica; il vero educatore dell’umanità è Cristo, e questo titolo la vince sui molti altri evocati dall’autore, poiché Gesù, ai suoi occhi, è anche medico e generale e pilota. Per quanto alte siano queste ultime funzioni, che in parte vanno oltre il corpo, cedono alla sapienza che Cristo, vero Pedagogo, dona di persona a chi lo segue. Tale è l’essenza della seconda opera della Trilogia clementina e merita davvero di essere meditata da vicino, in quanto pone le basi di una educazione completamente cristiana. Gli Stremata ne espongono le grandi leggi, fino ai più alti Vertici, con una ampiezza sorprendente per quel tempo. Clemente aveva una vasta cultura letteraria, filosofica e religiosa. Egli mise tutto questo a frutto, abbondantemente, in quello studio monumentale il cui titolo indica da solo la portata dei soggetti trattati e la varietà dei toni: Straniata significa «tappezzeria», ed il contenuto risponde all’insegna. Una quantità importante di elementi classici, tratti dai poeti e dai filosofi antichi, viene qui messa a profitto per innalzare l’anima, a tappe, ad una eminente vita spirituale, fino ad un grado altissimo di perfezione. I sette Straniata non hanno nulla in comune con le Sette dimore del Castello dell’anima che un giorno Santa Teresa descriverà, attenta anzitutto a esperienze religiose intime. Il punto di vista di Clemente è del tutto diverso, malgrado alcuni incontri occasionali. La caratteristica dominante è la fede, una fede illuminata al punto da essere chiamata Scienza (gnosi), una scienza del divino; scienza legata d’altronde alla carità e di cui bisogna ben rilevare tutti i tratti distintivi, poiché essi si imporranno nella teologia come nella spiritualità dell’Oriente. – Questo punto verrà precisato nel seguente capitolo. Limitiamoci qui a qualche osservazione sul piano pedagogico, molto vicina al soggetto che trattiamo. La « gnosi », che è, per Clemente, l’ideale di ogni educazione cristiana impegnata, è la sintesi di una cultura religiosa animata dalla carità, secondo il consiglio di San Paolo (L’Apostolo raccomanda ai Galati « la fede che agisce per mezzo della carità » – Gal. V, 6), e di una certa cultura naturale, particolarmente filosofica, che può benissimo servirle di base, ma che non può da sola raggiungere la sua perfezione, neppure sul piano umano, senza quest’appoggio del soprannaturale più elevato. Questa visione profonda, per certi riguardi veramente geniale, dell’armonia di due ordini, era troppo nuova per non dover incontrare resistenze, e per presentarsi con tutte le sfumature desiderabili, che non verranno messe a punto se non dopo secoli di esitazione e di ricerche. Non era per questo meno preziosa e doveva incitare i migliori spiriti verso una profonda cultura, morale e religiosa quanto dottrinale e intellettuale. Tutto l’alessandrinismo cristiano vi era contenuto in germe. – Origene doveva riprendere l’opera di questo iniziatore e darle una nota religiosa più sentita. Nato poco dopo il 180, era troppo giovane quando il suo maestro lasciò Alessandria, nel 201, per poter aver ricevuto da lui poco più di un orientamento di base. Esso fu decisivo ma abbastanza largo per permettergli di avere la propria personalità, la quale doveva essere molto accentuata, più ancora forse di quella del suo brillante precursore. Egli fu pienamente uomo sia di preghiera che di studio, e particolarmente esegeta, votato interamente alla meditazione della Sacra Scrittura. Il suo pensiero fu dominato dal soprannaturale che vi si esprime, ed egli ne penetrò le ricchezze fino al misticismo. La sua esegesi fu pervasa soprattutto dalla ricerca ostinata dello spirito al di là della lettera, e ciò allo scopo di formare dei Cristiani perfetti, poiché, sull’esempio del suo maestro, egli fu un grande educatore, con un carattere ancora più marcato dalla fede di quello di Clemente. Il campo in cui si alimenta il suo pensiero e sul quale esso si espande, è la parola di Dio, contenuta nei Libri Santi; ma non si può fare di lui un puro esegeta, sia pure spiritualista. Egli vuole formare Cristiani completi, nel significato letterale della parola, non solo naturale, ma soprattutto cristiano, ed il suo ideale racchiude un vero misticismo. La gnosi è veramente l’eco di quella del suo maestro, con qualcosa forse di più divino ancora. L’origenismo è caratterizzato precisamente dall’amore della Scrittura e dalla ricerca del senso spirituale, il quale viene scoperto con il ricorso all’allegoria, con una ostinazione che diventa caratteristica: origenismo doveva essere sinonimo di allegorismo. Ma bisogna aggiungervi una sfumatura molto suggestiva: l’insistenza sulla vita spirituale realizzata nei membri della Chiesa nei quali si continua Cristo quaggiù, a partire dalla Pentecoste. Questo misticismo, che prolunga all’infinito quello dei tipi biblici presentati dalla Scrittura, è basato sopra un largo richiamo ai doni dello Spirito Santo. In questo campo Origene aveva avuto precursori: San Giustino, Sant’Ireneo, Clemente; ma egli li supera tutti per l’uso che ne fa nella spiegazione della perfetta vita cristiana. Dopo questi due eccellenti maestri di una superiore vita cristiana, la cui azione fu tanto felice quanto decisiva malgrado le inevitabili lacune, basterà accennare a qualche altra guida importante delle anime elette, in cerca di perfezione, nell’antichità cristiana. Queste guide furono anch’esse, a modo loro e nel senso più ampio della parola, educatrici per mezzo della sapienza della Scrittura più che della scienza dei pedagoghi ufficiali.

Forse San Cipriano (210-285) potrebbe venir posto vicino ai grandi, come maestro cristiano, in quell’Africa latina ch’egli illustrò nel III secolo è segnò profondamente nonostante la rapidità del suo passaggio. La maggior parte dei suoi scritti possono essere classificati in questo genere, persino i quattro opuscoli apologetici nei quali predomina sempre la preoccupazione morale. Questa preoccupazione è ancora più sentita in un’altra serie di opuscoli, soprattutto quelli che sono imitati da Tertulliano cui egli segretamente si ispirava e del quale attenuava saviamente le esagerazioni, preparando da lontano una riammissione dell’opera di questo grande uomo nell’alveo della vita cattolica. Egli non ebbe il suo genio, ma fu egualmente uomo di valore e di misura, qualità queste essenziali dei veri educatori. È senza dubbio per questo ch’egli fu più grande, di una grandezza coronata dal prestigio del suo martirio. – Si potrebbero citare in questa serie di educatori molti grandi nomi nel IV secolo, ma essi saranno meglio collocati altrove per il carattere generale della  azione nell’antichità. Alcuni tuttavia si impongono, soprattutto in Oriente, ricordiamo in particolare i tre Cappadoci: San Basilio, San Gregorio Nazianzeno, San  Gregorio di Nissa, di altissima cultura, certo molto diversi l’uno dall’altro, ma bene uniti dalla loro fratellanza spirituale più ancora che dai vincoli di famiglia (il secondo Gregorio era un fratello minore di Basilio). I due primi ebbero un senso molto acuto dei valori della cultura classica, e San Basilio, in uno scritto celebre (Omelia 22 – P. G., 31 -: forse bisogna vedervi un trattato (Logos) piuttosto che una omelia), insiste sulla sua utilità, non soltanto sul piano estetico, ma per la formazione morale e la comprensione della Scrittura stessa. San Giovanni Crisostomo gli fece eco, pochi anni dopo, nella vicina provincia Antiochia, ed il suo esempio giovò ancor più delle teorie. Nell’Occidente latino, la Provvidenza suscitata nella stessa epoca, imitatori di qualità, come Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Girolamo soprattutto, il quale conservò fino alla fine la preoccupazione della forma, senza danno però per la dottrina. Per la maggior parte furono oratori sacri ed è l’aspetto principile della loro azione che dobbiamo ricordare: la preoccupazione pastorale non è che domina soltanto nella catechesi, ma in tutta l’eloquenza dei Padri.

Catecheti e predicatori d’Oriente

Il catecheta per eccellenza dell’antichità cristiana in Oriente è San Cirillo di Gerusalemme. Indubbiamente il suo contemporaneo, San Gregorio di Nissa, ha scritto un « Discorso catechetico » che è celebre, ma che è un’esposizione sommaria della religione cristiana, piuttosto che un appello alla vita di preghiera. Ciò è realizzato solo in parte dal « Sacramentario » di Serapione, Vescovo di Thmuis, in Egitto, (IV secolo), il quale raccoglie preghiere di cui egli non è forse l’autore, o almeno il solo autore; in ogni caso, si limita a delle formule, senza dubbio preziose, concernenti i riti sacri, ma insufficienti. – Le Catechesi di San Cirillo (313-386), vescovo di Gerusalemme sono, al contrario, un’esposizione completa degli elementi dottrinali che servono di base diretta alla vita cristiana. I dati della fede contenuti nel simbolo (Cat. 4-18) non sono mai completamente staccati dalle applicazioni morali, al contrario formano la base di un sano insegnamento morale; ugualmente lo studio dei riti che inquadra queste esposizioni (1-3 e 19-23) non è soltanto speculativo ma pratico (Gli ultimi citati sarebbero, secondo l’attuale critica, di un successore di Cirillo a Gerusalemme, di nome Giovanni, che ha, in effetti, parlato e scritto verso la fine del IV secolo). Senza dubbio egli mette in guardia i neofiti contro gli errori correnti del suo tempo, quelli dei pagani, ebrei, samaritani, eretici, manichei. Ma ciò che più colpisce alla lettura di queste pagine è la vita di fede che vi si afferma con un accento molto affascinante. Egli è il testimonio per eccellenza della pietà palestinese nel IV secolo. Sant’Efrem (+ 373), il dolcissimo dottore siro, semplice diacono ma grandissimo oratore e poeta dall’ispirazione inesauribile, rifugiato dalla Persia a Edessa (Siria nord-orientale) negli ultimi dieci anni della sua vita, rappresenta il puro Cattolicismo tradizionale, prima delle deviazioni che produrranno nel secolo seguente le razioni cristologiche; per dei secoli, nestoriani e monofisiti si contenderanno i tronconi di quella sfortunata cristianità. Sant’Efrern è per tutti un legame con la Chiesa cattolica, di cui egli rimane la gloria più pura come asceta e moralista, e ancor più come mistico molto devotamente attaccato a Cristo Uomo-Dio, a sua Madre Maria e alla Chiesa, sua mistica sposa. Eccoci infatti le grandi linee della sua teologia vivissima e pratica. Malgrado la sua abbondanza, questa opera preziosa, per la penetrazione della dottrina ed il fervore della pietà. – Un altro siriano, occidentale questo, antiocheno, di nobile famiglia e di profonda cultura, San Giovanni Crisostomo, fu il maestro per eccellenza della predicazione cristiana in Oriente ed in tutto l’Impero. Alla sua completa formazione ellenica egli aggiunse, da una parte, la vita solitaria da lui condotta per parecchi anni sulle montagne vicino ad Antiochia, e dall’altra lo studio delle Scritture, Antico e Nuovo Testamento, particolarmente San Paolo, che gliene rivelò il senso profondo. Il Trattato del Sacerdozio, ove condensa, ancora giovane, le sue vedute sull’azione pastorale, soprattutto oratoria, dimostra ch’egli l’aveva lungamente meditata nei suoi principi: egli mette sempre alla base dell’apostolato cristiano la preghiera e lo studio. Trascurare ciò, sarebbe falsare la sua dottrina. Segnaliamo d’altronde il pericolo d’un doppio scoglio. Bisogna star attenti anzitutto a non fare del santo un erudito, perché è di Antiochia, oppure uno speculativo, perché è Orientale. In verità, egli ha un senso dottrinale assai acuto: saprà, all’occasione, confondere i filosofi ariani, le cui arguzie rovinano la fede. Bisognerà evitare d’altra parte di attribuirgli una esclusiva preoccupazione dell’azione che ne faccia una guida empirica, senza profondità dottrinale, ciò che sarebbe un tradimento della sua personalità. – Evidentemente San Crisostomo ha un senso morale molto acuto, ma fondato sopra una dottrina profonda e viva. Egli è un gran discepolo di San Paolo, ed i suoi commenti, sempre luminosi e affascinanti, sono richiami incomparabili alla vita di fede. Senza dubbio egli ripete in termini propri o equivalenti, che Dio è ineffabile o impenetrabile, ciò che conduce all’adorazione rispettosa, più che all’intimità affettiva. La venerazione è, in lui, associata al sentimento generale provocato dalla grandezza di Dio, oggetto tanto di ammirazione quanto di amore. Essa è accompagnata dallo stupore, dall’angoscia, dalla vertigine, dal timore, dal tremore, dal terrore; altrettante formule familiari al Santo. La natura divina ch’egli predica, non ha nulla dell’astrazione; è posta molto in alto, al di sopra del creato, in una vera trascendenza e tuttavia « sperimentata come una presenza terribilmente reale » (Otto). Queste tendenze sono d’altronde temperate da altri sentimenti familiari all’oratore d’Antiochia, in particolare la giustizia e la bontà: essi sono descritti con altrettanta poesia e calore e sono difese con energia contro i manichei. La dottrina paolina della grazia è meno precisa che presso Agostino, ma è ben chiara, fino alla distinzione di due volontà in Dio a proposito dei peccatori: una è che non periscano (volontà prima); l’altra ch’essi siano puniti (volontà seconda). Questo pastore e grande maestro di vita cristiana aveva il dovere di insistere sui riti sacramentali: i sacramenti principali difatti, sono largamente raccomandati, l’eucaristia soprattutto che occupa largo posto nella sua opera, tanto che lo si è potuto chiamare « Dottore eucaristico ». Il suo realismo in questo campo è persino ardito, quasi esagerato: « Non vedremo soltanto il nostro Salvatore, ma lo prenderemo addirittura nelle nostre mani, lo mangeremo, stritoleremo la sua carne, ci uniremo a lui nel modo più intimo… Ciò che il Salvatore in Croce non ha sofferto (sentite lo spezzarsi totale delle sue ossa), Egli lo soffre ora nel Sacrificio per amor vostro, e si lascia ridurre in briciole per saziarci tutti ». S. Giovanni Crisostomo supera di molto, su questo tema la catechesi di S. Cirillo di Gerusalemme e persino quella di S. Gregorio di Nissa. Bisogna tuttavia tener presente che in questi testi l’oratore mira meno ad esporre il mistero quanto a stimolare i fedeli già istruiti della dottrina corrente. – Dal V secolo la Chiesa Bizantina ha coltivato l’omelia più della catechesi, e si possono segnalare in modo particolare le omelie mariali, di cui, nel XX secolo, sono stati pubblicati molti testi nuovi. Esse sono i testimoni di un reale progresso della devozione verso Madre di Dio: la sua Immacolata Concezione e la sua Assunzione vi sono insegnate in modo chiaro, benché implicito il più delle volte. Fra gli oratori più in vista in questo campo, bisogna citare quelli dell’VIII secolo, particolarmente San Germano, patriarca di Costantinopoli, Sant’Andrea di Creta, metropolita di Gortyne, San Giovanni Damasceno, prete di Gerusalemme, l’ultimo dottore della Chiesa orientale, difensore delle immagini e del culto mariano. – Un grande monaco bizantino, San Teodoro Studita, alla fine dell’VIII secolo ed al principio del IX, fece eco a tutti, su un piano catechetico superiore, poiché egli nelle sue Catechesi, la Piccola come la Grande, si rivolgeva ad una élite di monaci. Meno dottrinale degli antichi, peoccupato soprattutto del progredire spirituale dei monaci, e dei fedeli, che allora si mantenevano in intima comunione con essi, egli è un’eco prolungata della vita cristiana bizantina, alla vigilia del ripiegamento che sta per prodursi laggiù, con pregiudizio della piena cattolicità, gloria dell’antica Chiesa d’Oriente.

Oratori e Pastori in Occidente

Il maestro per eccellenza della catechesi latina, teorica e pratica, è sempre Sant’Agostino, e bisogna riavvicinarlo a San Giovanni Crisostomo, del quale egli fu, in Occidente, il pio emulo, se non l’eco, poiché non lo conobbe bene che sul tardi. S. Agostino ha scritto sulla formazione dei neofiti (De Catechizandis rudibus) dopo avere, da un punto di vista più generale, trattato del modo di predicare la parola di Dio, nel primo libro della Dottrina cristiana. Secondo lui l’eloquenza è secondaria: ciò che conta anzitutto è la fede viva nel Dio in tre Persone, che esce dalla sua alta trascendenza per darsi a noi nella creazione, nell’Incarnazione redentrice, e nella Chiesa animata dallo Spirito Santo; a condizione che tutto sia vissuto da noi nella Carità, di cui egli espone i principi all’inizio dell’operetta sulla Dottrina cristiana. I tre libri che seguono la completano sotto diversi punti di vista: ma è l’attività oratoria di Sant’Agostino che ne è il miglior commento, un commento dalle ricchezze infinite. Limitiamoci a qualche sguardo d’insieme. – Le sorgenti della dottrina di Agostino devono spesso essere cercate nell’Antico Testamento, che gli ha fornito il tema per 50 prediche generali e per le 200 omelie sui salmi (Enarrationes), vere esposizioni di vita cristiana intensa, forse le più ricche della sua opera oratoria. Tuttavia le omelie su San Giovanni (Tractatus: 124 sul Vangelo, e 10 sulla prima Epistola) sono più accessibili. Bisogna aggiungervi le innumerevoli prediche ordinarie (più di 500) su un tema particolare, sia dell’Antico Testamento che del Nuovo (circa 150), sia della liturgia o dei santi, sia dei più diversi soggetti dottrinali. – La predicazione agostiniana ha come propria caratteristica l’insistenza sulla fede come principio di vita. Per questo Dottore, la sorgente per eccellenza di insegnamento è la fede, vale a dire la Santissima Trinità, Cristo, la Chiesa sotto ogni aspetto: è la teologià, in una parola, se si lascia a questo termine il significato degli antichi, meno preoccupati di ricerche speculative che di applicazioni vitali. La formazione alla devozione è in lui inseparabile dal dogma e in particolare dal Cristo vivente nella Chiesa. I suoi commenti sui Salmi, opera dell’Antico Testamento, sono illuminanti a questo riguardo; con maggior ragione si troverà questa nota nei trattati su San Giovanni, Vangelo dottrinale per eccellenza, in cui il santo unisce alla perfezione i doni speculativi e le preoccupazioni morali, spinte d’altronde fino all’ascesi, con una purissima ed altissima e soavissima nota mistica. – Un elemento domina l’insieme di quest’opera pastorale: l’amore di Dio. Di tutti i titoli che sono stati dati a Sant’Agostino, il più importante forse, e il più popolare, è quello di Dottore della carità, generalmente espresso da un cuore dal quale scaturiscono fiamme. La carità appare molte volte nelle esposizioni dottrinali precedenti. Essa si manifesta ancor più nella morale di cui è l’anima, sia che si considerino le comuni regole, oggetto della Morale propriamente detta, sia che si ricerchino i mezzi speciali per mirare alla perfezione (Ascetismo), e ancor più i doni superiori concessi per compiere l’opera di perfezione (Mistica); quest’ultimo titolo è il più importante, e l’argomento verrà ripreso nel capitolo seguente. – Per quanto grande egli sia stato, Sant’Agostino non può farci dimenticare altri pastori che furono potenti maestri di vita cristiana in Occidente. Sant’Ambrogio è il più conosciuto e senza discussione il più eminente. Egli fu il padre di Agostino nella fede: il suo insegnamento pubblico a Milano fece impressione sul retore scettico e diffidente che vi arrivò nel 384 e che, due  anni più tardi, era pienamente trasformato, grazie a quella parola forte e illuminante, che andava diritta al cuore dei grandi problemi dottrinali e morali che lo tormentavano. Ambrogio era anzitutto un uomo di azione e un moralista. Non era chiuso alla filosofia, particolarmente a quella di Plotino, che pareva dare allora le ali allo stoicismo trionfante negli ambienti romani colti dell’epoca. Era pure attratto dalla speculazione orientale di un Origene, ma metteva sempre l’accento sulla nota morale, che conveniva al suo carattere e alla sua missione; egli ebbe una funzione provvidenziale: quella di fornire all’Occidente una dottrina cristiana sicura e viva nel campo morale, tanto necessaria in quell’epoca di transizione. Egli preparava così la via a Sant’Agostino, il quale era destinato ad approfondire quest’opera e a fissarla, estendendola in ogni campo, alla vigilia dei grandi cataclismi che si annunciavano al centro dell’Impero. – Nel secolo seguente San Leone Magno rappresenterà la catechesi cristiana sotto la più alta forma, quella dell’insegnamento dato dal Pastore supremo: poiché le prediche che ci rimangono di quel grande Pontefice, un centinaio, hanno tutte come scopo diretto quello di arricchire e rafforzare la fede dei fedeli, sia che li spinga all’ascesi (digiuni), sia che esalti i misteri, sia che evochi i privilegi della Chiesa romana ch’egli ha la missione di governare nel nome di Cristo, col titolo di successore di Pietro. – La vita e la passione del Salvatore sono normalmente l’essenza delle sue esposizioni dottrinali, opere di pastore più che di teologo speculativo. I soggetti morali l’attirano d’istinto. Si citano di lui molte pagine sull’esame di coscienza, il demonio, la concupiscenza, la preghiera, la fede e la carità, queste due ali del Cristiano (predica 45, 2), l’infanzia spirituale (predica 37, 3). Egli non dimentica certo la grazia, della quale parla in molte pagine alla maniera di Sant’Agostino, ma senza trascurare il dovere di cooperare alla grazia, di amare e di cercare Colui che, per primo ci ha amati e cercati. Il suo zelo si traduce spesso in incalzanti esortazioni alla lotta contro le passioni ed all’azione per amore di Dio. Egli ha formulato la grande legge del progresso così spesso ripresa dai direttori spirituali: « Chi non avanza indietreggia e chi non acquista nulla, perde qualcosa » (qui non proficit deficit et qui non acquirit, non nihil perdit). – Almeno due oratori contemporanei di San Leone che onoravano pure la Chiesa d’Italia con la loro eloquenza apostolica, devono essere citati qui: San Pietro Crisologo, del quale rimangono 176 prediche,  San Massimo di Torino, che ne ha lasciate circa 270. – Ma i più conosciuti fra quelli che esercitarono una grande influenza pastorale, fra San Leone e San Gregorio il Grande, è San Cesario di Arles, che fu per 40 anni (503-543), vescovo di questa sede primaziale del sud della Gallia. Più che uno speculativo, egli fu un organizzatore e un uomo di azione. Si ispira dovunque a Sant’Agostino, particolarmente nelle sue prediche che spesso citano letteralmente il grande dottore africano; perciò dai primi editori sono state fatte molte confusioni. Il suo stile, senza essere scorretto, è dei più   semplici; l’oratore non indietreggia davanti alle espressioni rozze, perché, egli spiega, tutto « il gregge del Signore possa ricevere il nutrimento celeste in un linguaggio semplice, e poiché gli ignoranti non possono sollevarsi all’altezza dei sapienti, bisogna che i sapienti si degnino abbassarsi all’ignoranza dei loro fratelli. » Le prediche sui misteri, le omelie sulla Scrittura sono di un tono più elevato, ma l’insieme della sua predicazione mantiene un carattere pratico molto accentuato. – San Gregorio Magno (540-604) fu, a suo tempo un’eco lontana delle grandi voci di Sant’Agostino e di San Leone Magno, un’eco lontana sotto tutti i punti di vista, ma ben percettibile, malgrado il caos nel quale si dibatte l’Italia, tutto l’Occidente, in quel tempo. Egli si ispira ad Agostino per la dottrina, sui punti che possano illuminare opportunamente, in un’epoca di terrore come la sua, le grandissime verità dogmatiche sulle quali riposa la morale cristiana tradizionale con tutte le sue esigenze. Egli insiste non solo sulle dottrine di base, ma su quelle di un alto ideale spirituale. Durante i suoi quattordici anni di pontificato (590-604) si adoperò costantemente per presentare questo ideale cristiano in modo tangibile a tutta la Chiesa, non solo all’Occidente che lavora a convertire i barbari, ma all’Oriente imperiale ostacolato da uno statalismo sempre più invadente. Su uno o sull’altro piano, egli è stato un vero promotore di vita cristiana intensa nel suo tempo. – La sua predicazione, conosciuta attraverso una sessantina di omelie, su vari testi di Ezechiele e dei Vangeli, mostra, nel Papa, eletto da poco, la preoccupazione predominante di edificare i fedeli, illuminandoli. Questa preoccupazione spirituale si afferma ancor più nelle Moralia, vasto trattato d’ascesi e di mistica fondato sul testo di Giobbe, ma tratto, in effetti, dall’esperienza dei santi e dallo zelo apostolico del Pontefice. I fatti e i testi sono sempre orientati verso applicazioni pratiche, destinate a condurre le anime generose ad una vera contemplazione, in cui Dio si mostra all’anima per innalzarla a un amore purissimo o a un servizio divino sempre più generoso. In verità San Gregorio fu, con questi scritti, un animatore della vita perfetta, tanto nei preti, ch’egli ha specialmente in vista nel suo Pastorale, quanto nei monaci, che egli raggruppa, come meglio può, intorno a San Benedetto, al quale dedica un libro intero dei suoi Dialoghi così popolari. – Ancora in Italia, poco prima di San Gregorio si era distinto alla corte di Teodorico, vicino a Boezio e più a lungo di lui, Cassiodoro, una specie di ministro dell’interno, erudito in storia, grande educatore dei Goti, stabilitisi sul suolo dell’impero. A 60 anni, nel  540, egli si ritirò in un monastero da lui fondato, e fino alla sua morte (570) continuò la sua opera di educatore, in profondità, dei barbari insediati in Italia. Morì in odore di santità; tuttavia non è mai stato oggetto di un vero cullo, come Boezio a Pavia. È piuttosto la figura di un erudito che di un santo. Con il gusto delle lettere si avvicina a Boezio, dal quale si distingue per tutto il resto. Mentre Boezio è un filosofo e uno speculativo, Cassiodoro è, anzitutto, pratico. È meno preoccupato delle idee astratte che della formazione intellettuale c morale, utilizzando, d’altronde, per raggiungere il suo scopo, tanto gli antichi scritti degli autori pagani quanto le opere ecclesiastiche. Egli le ha spesso citate, le une e le altre, ed i servizi che ha reso cosi alla cultura medioevale sono immensi. –  Sant’Isidoro, arcivescovo di Siviglia (+ 636), è certamente il più grande scrittore spagnolo dell’antichità. – Egli ebbe un’influenza nazionale, decisiva nei concili di ordine religioso e politico. Fu un restauratore degli studi, dopo l’insediamento dei nuovi popoli nel paese. Scrittore instancabile, tratta di tutto in innumerevoli opere, alcune delle quali sono vere cnciclopedie. Molte sono consacrate alla Scrittura, alla storia, alla Chiesa. Egli è più erudito che pensatore originale, ma da questo punto di vista la sua funzione fu decisiva e lo colloca tra i grandi educatori del medioevo. Tutta  la sua scienza gli viene dal passato; da Sant’Agostino e da San Gregorio ha attinto la sua dottrina teologica ed ascetica, come ha attinto a piene mani nei tesori delle letterature antiche. Egli era, d’altronde, straordinariamente dotato per questa funzione di compilatore, e forse è stato addirittura il più grande che sia mai esistito. Ad una intelligenza molto aperta e ad una memoria sicura, egli univa una grande facilità di esposizione chiara e rapida; e benché adoperi una lingua, corrotta da un enorme apporto di parole straniere, ha spesso dato definizioni di una precisione meravigliosa, meritando di’essere dichiarato Dottore della Chiesa. In Inghilterra, Beda il Venerabile nel secolo seguente ha ottenuto lo stesso titolo, con meriti molto diversi. All’infuori di qualche scritto didattico, la sua opera è profondamente e prevalentemente religiosa; persino la sua storia della nazione inglese, risente di queste preoccupazioni. Notissimi i suoi commenti sul Nuovo e Antico Testamento che spiegò quasi per intero. Egli fu un vero promotore di vita cristiana prima nei monasteri, e poi al di fuori di essi: è spesso l’eco fedele di Sant’Agostino o di San Girolamo. Altrove, egli è più personale con quella tendenza al misticismo che lo rese famoso e popolare nel medioevo. Egli è l’ultimo degli antichi dottori dell’Occidente.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (57)

GNOSI TEOLOGIA DI SATANA (57)

[Augusto Nicolas: L’ARTE DI CREDERE, Parma, P. Fiaccadori, 1868- vol. II]

CAPO V.

Ateismo, Teismo, Deismo, Cristianesimo. (1)

I. L’uomo è un ente pensante; senza spogliarsi della sua qualità d’uomo egli non può non rendersi conto delle cose per mezzo del pensiero e della riflessione: e noi misureremo più tardi tutto ciò che questa noncuranza animale avrebbe d’inutile e di pericoloso. – Ora, dal punto che l’uomo pensa, si trova alle prese col mistero. La sua propria essenza, ed il mondo, in mezzo al quale è affondato, sollecitano e sconcertano ad un tempo il suo pensiero. Egli è obbligato, anche suo malgrado, dalla forza e dalla debolezza della sua ragione, di avere delle credenze, di ammettere delle cose che punto non comprende. I1 mistero è come un oceano, nel quale egli naufragò, e donde bisogna che si tolga cogli avanzi e coi soccorsi che qualunque siano non esimono mai da quell’abisso, sul quale conviene necessariamente navigare colla credenza; credenza naturale che si forma, o credenza sovrannaturale che si riceve; ma credenza inevitabile e soccorribile, la quale figura come un apparecchio di salvamento che ci è necessario come sostegno, e dobbiamo quindi abbracciare. – Laonde, se per scegliere fra tutte quelle credenze che non si oppongono alla nostra scelta, ci lasciamo guidare dal desiderio naturale di sottrarci il più possibilmente al mistero, non v’ha luogo ad esitare; gli è al Cristianesimo che bisogna affidarsi. Ciò essendo, si deve ammettere, che l’obiezione che si fa alla religione, in opposto alle dottrine umane, di obbligarci al mistero, è molto infelice. Ora non è cosa da rivocarsi in dubbio. I sistemi umani espongono ad un maggior mistero, obbligano a maggiori credenze della religione, anzi, a misteri più gravosi ed a credenze più occulte. – Più ci allontaniamo dalla religione, più ci affondiamo nel mistero della natura, e più ci anneghiamo dentro e vi ci perdiamo. Né havvi un solo degli argomenti, che si fanno valere a fine di rassegnazione, che non sia della stessa natura di quelli che si respingono, quando si tratta di religione; con questo divario, che i primi sono assai meno giustificati, e ben più gratuitamente la ragione li accetta. – Quindi è che la rivendicazione della ragione, la quale ci fa respingere la religione, è precisamente quella che dovrebbe ad essa guidarci; che è perciò più difficile di non credere che di credere, e che con molto senso un gran spirito, Antonio di Fussal, dopo aver bene esaminato tutte le sette filosofiche, diceva: « Nulla trovai di meglio, che credere « in Gesù Cristo: » e finalmente che la rivendicazione piuttosto della nostra debolezza, anzi che della nostra ragione, è quella che ci tiene lontani dalla fede rivelata. Riconosciamo almeno la verità del nostro affanno; e confessiamo, che la nostra posizione non ci permette d’essere superbi, e che ogni partito sul quale ci arrestiamo sarà sempre, e cento volte più pericoloso per la ragione e pel nostro destino di quel gran partito della fede cristiana, cui opponiamo tante difficoltà. – Ecco ciò che mi propongo di dimostrare in questa conferenza.

II. Ateismo, Teismo, Deismo, Cristianesimo, tali sono i quattro grandi partiti di dottrina, che si offrono allo spirito umano. Ed ecco il significato, che intendo di dare a siffatte designazioni.

Ateo è colui che non ammette Dio, e crede in un mondo senza autore, in un capo d’arte meraviglioso senza l’artefice, in un effetto immenso e continuato senza causa.

Teista è colui che ammette un Dio ordinatore della natura, macchinista dell’universo: ma che crede lo stesso Dio senza provvidenza per l’umanità da lui abbandonata a tutti i mali, a tutti i delitti, a tutti i disordini, a tutte le aspirazioni confuse, a tutti gli istinti buoni o malvagi a cui è esposta; e nulla curantesi di questo caos morale, mentre fa brillare la più alta sapienza e la più divina morale nell’ordine fisico.

Deista è colui che riconosce un Dio ordinatore della natura, provvidenza dell’umanità; ma crede che questa provvidenza si limiti alle manifestazioni della coscienza, ed alle ricompense della virtù senza castigo pel delitto, in un ordine ulteriore; che il disordine umano sia naturale senza che provochi perciò l’intervento di Dio, al quale risalirebbe per la sua origine; che Dio violerebbe anzi le proprie leggi se ne facesse cessare la violazione; che noi abbiamo maggior libertà di rovesciarle che Egli di ristabilirle; che noi possiamo perderei senza che Egli possa salvarci; che del resto Egli è troppo grande per commuoversi delle nostre miserie, e noi siamo troppo piccoli per interessarlo alle nostre religioni; che è meno sollecito di ricevere i nostri omaggi, che noi di fargliene l’offerta; insomma che è meno religioso di noi.

(Le definizioni del Deismo e del Teismo, in ciò che hanno di distinto, sono ben difficili a precisare. Però il Teismo è generalmente inteso come una semplice affermazione di Dio contro l’Ateismo, mentre il Deismo involve ama professione più ricca di Dio in apparenza, ma più direttamente negativa del Cristianesimo). –

Il Cristianesimo è la dottrina di Dio Creatore dell’universo, Provvidenza dell’umanità, e Grazia di questa medesima umanità colpevole — il quale, Onnipotente, ha tratto tutte le cose dal nulla; Giustissimo, ha creato l’uomo nella probità; Sapientissimo, lo abbandonò al proprio consiglio; Buono per eccellenza, non lo dimenticò, né lo abbandonò nei suoi traviamenti; Misericordiosissimo, ebbe pietà della sua degradazione e della sua caduta; Santissimo, ha posto il nostro riscatto al prezzo d’una grande espiazione; Amorosissimo, ebbe ad amare a tal segno il mondo da dargli l’unico suo Figlio: non disdegnò di salvare ciò che erasi degnato di creare; per rispetto ed amore verso la dignità di un’anima fatta a sua immagine e rassomiglianza, non volle forzarla col terrore, ma guadagnarla colla persuasione: ne sopportò tutti i rifiuti e tutti gli oltraggi; in questa lotta tra la sua luce e le nostre tenebre, tra il suo amore e le nostre ribellioni ci donò il più grande di tutti i testimoni, la più grande di tutte le lezioni, il suo Sacrificio nella nostra umana natura, che Egli aveva rivestito per immolarla, e per far brillare in questa immolazione tutti i caratteri della sua natura divina: e vincitore finalmente in quel gran combattimento ci riapri le porte del cielo, dove riascese per prepararci dei troni, non senza lasciare sulla terra una Chiesa depositaria della sua dottrina, dispensatrice delle sue grazie, e madre feconda delle anime generose che si sdegnano del male, ed aspirano al bene. – Ecco ciò che si dispregia e non si vuol credere, per abbracciare il Deismo, il Teismo o l’Ateismo. Poniamo in evidenza tutta la sragionevolezza di tale condotta.

III. Valendomi delle distinzioni già stabilite nel capo precedente, non considerando quelle dottrine che in sé medesime, e facendo astrazione dalle prove estrinseche che imprimono sul solo Cristianesimo un sigillo divino, dirò essere tutte incomprensibili, né esservene alcuna fra quelle, e fra quante immaginare si possano, che non porti confusione nella ragione. Mi propongo di assegnare subito a ciascuna la parte sua.

Nulla dirò dell’Ateismo, salvo che gli ritolgo interamente il carattere d’incomprensibile per sostituirvi il solo, che realmente gli spetti, d”inconcepibile. L’Ateismo è puramente inconcepibile. Non sorpassa la ragione, ma la urta. Sarebbe rendergli un onore, a cui non ha diritto, se si dicesse che è misterioso: è evidentemente falso. E nell’Ateismo mi permetto di comprendere ogni diversa specie di Panteismo, che tenta prodursi ai dì nostri, e vorrebbe, se fosse possibile, predominare sulla semplice falsità dell’Ateismo con una falsità maggiore, quella cioè che il mondo sia senza una causa intelligente, senza Dio, e sia esso stesso la causa d’un effetto, che sarebbe… Dio, il quale sarebbe a sua volta… l’uomo, l’umanità. Lo si vede chiaramente. L’Ateismo, per quanto sia falso, non è tale che per metà: è il falso negativo, il Panteismo compisce il circolo, e ci rappresenta il falso, se così mi posso esprimere, in tutta la sua rotondità, il falso positivo. E dire, che vi sono degli spiriti, che superbi anzi tutto di trovarsi Dio, non sanno guari cosa pensarne, e stanno sul punto di lasciarsi accalappiare! Spiriti di tal fatta devono respingere i misteri del Cristianesimo, perfetto contrapposto dell’Ateismo e del Panteismo.

Quanto al Teismo ed al Deismo hanno alcun che di più serio, ed hanno dritto alla discussione. Questa discussione la divido in quattro parti.

1. ° Sì fatte dottrine confondono la ragione con sì opprimente mistero, che quelli del Cristianesimo diventano un conforto ed una liberazione.

2. ° L’argomento di cui si mostra paga la ragione per credere a quelle dottrine, si applica con eguale valore al Cristianesimo, e non giova alla ragione, se non giova pure alla fede.

3. ° All’incomprensibile il Teismo ed il Deismo aggiungono l’inconcepibile, al vero il falso; e la lotta che vi si combatte tra il vero ed il falso, tra l’incomprensibile e l’inconcepibile, non permette di fcrmarvisi e di riposarvisi: conviene retrogradare all’Ateismo, od avanzare fino al Cristianesimo.

4.° Finalmente quelle dottrine non possono essere che opinioni, in quanto che non hanno altra base  che i dati della ragione umana, e mancano di conoscenza e di certezza, privilegi esclusivi e decisivi del Cristianesimo. – Nel tenore di queste proposizioni comprendo pure il Teismo ed i1 Deismo, ma avrò l’occasione di assegnar loro un posto distinto in alcune parti della discussione.

§I .

Anzitutto il Teismo ed il Deismo impongono alla ragione un mistero che la opprime: il mistero dei misteri, il mistero che in certo modo è unico: Dio. Lo spirito che tanto s’adopra per credergli (e vi è costretto dalle proprie leggi sotto pena di cader nell’assurdo) divora maggiori difficoltà di quanto ne offrano dappoi tutti i misteri della Rivelazione, rigettando i quali altro anzi non fa che accrescere il mistero di Dio, ed annientarvi sempre più la propria ragione.

Ed invero:

I. Dire che un Ente esiste per sé stesso, e che non ebbe mai un principio! … gli è avanzare una proposizione vuota di senso ed assurda. Lo spirito s’impenna, l’immaginazione divaga, la ragione s’arretra dinanzi a questo abisso . . . E ciò nulla ostante vi è ricondotta dalla forza delle cose, dal peso, per così dire, dell’Universo, che reclama e proclama un Autore, il quale non saprebbe averne un altro, oppure avendolo (cosa che si potrebbe indarno immaginare) non avrebbe che sé medesimo per averne ancora un altro, e così di seguito sino all’infinito, ciò che stordisce assai più dello arrestarsi ad un primo Ente senza autore, senza principio, senza età … Che se per evitare tale vertigine si sopprime Dio, il mistero non cessa per ciò di esistere; perocché se esiste qualche cosa, ne consegue che qualche cosa ha sempre esistito; ed allora se non si vuole che Dio, è dunque la materia che è eterna; e si cade dall’abisso dell’incomprensibile in quello dell’inconcepibile. Di fatto, non solamente abbiamo allora dinanzi a noi l’arte infinita dell’universo senza un artefice; ma attribuiamo alla materia, inferiore a quella intelligenza, che noi concepiamo come causa operatrice dell’universo, anzi inferiore alla nostra propria intelligenza; noi attribuiamo alla materia perpetuamente mutabile, la quale si direbbe che non è quella spaventevole prerogativa (che non abbiamo noi medesimi, e che torremmo ad una Suprema Intelligenza) d’essere sempre stata… — Il mistero del senza principio, dell’Infinito è dunque inevitabile, e non ci resta che a scegliere tra l’inconcepibile, se ne dotiamo la materia, e l’incomprensibile, se lo riferiamo a Dio.

II. Nè qui sta il tutto. Quell’Ente che noi imprigioniamo in quella parola: Dio, ma che è indefinibile salvo mercè la designazione, che la fede rivelata gli attribuisce, e che è degna di lui: Sum qui sum: « Colui che è », per qual motivo egli è? … Ecco la terribile questione, che altre parecchie ne contiene della stessa tempra; cioè come disponeva Egli del proprio ente nella sua eternità, prima che gli piacesse di creare 1’universo, in quella solitudine infinita, ed in quell’eterno silenzio dello spazio vuoto d’ogni altra esistenza che non era la sua? A che attendeva egli mai? Come poteva bastare a sé medesimo?… Misteri, ed abissi sempre. L’anima resta soffocata, per cosi dire, da questa idea, senza fondo, della Vita di Dio, durante quella eternità d’esistenza, priva di fondo essa pure.

III. Poscia, e per qual cagione è Egli uscito da quel riposo, ossia da quella vita sua propria? Chi lo lodasse a creare l’universo, e questo universo a preferenza d’un altro, e nel tempo in cui lo ha creato, piuttosto che in un altro? Il suo Ente solitario, l’idea del quale è così gravosa relativamente a questo universo prima che fosse creato, rende a sua volta gravosa sì fatta creazione rispetto a quella esistenza solitaria, che se ne era dispensata da tutta 1’eternità. Perocché io non concepisco alcun cambiamento, né successione in un Ente di tal fatta, né so come riferire 1’idea del tempo a quella dell’eternità; non so, né dove né come fissare la creazione nel suo atto, o nel suo decreto rispetto a lui. Che cosa ne avviene dunque, se considero quella creazione in se stessa? Tutto ciò che esiste tratto dal nulla! … Ecco un altro mistero, che non posso evitare senza cadere nella inconcepibile idea di qualche materia prima, eterna e fin d’allora indipendente, della quale Dio avrebbe disposto a suo grado.

IV. Finalmente perché Egli mi ha creato con questa mente così audace per fare tali questioni, e così miseramente impotente a risolverle; con questa curiosità tanto invincibile, che mi pare d’avere un dritto ai suoi segreti, ed una voce nei suoi consigli; con questa fiera pretesa d’interrogarlo, e chiedergli conto del suo Ente, e tutto ciò senza ottenere altra risposta che il terribile silenzio, nel quale si compiace di rimanere?  Se fossi almeno felice, mi consolerei forse d’ignorare il segreto del suo Ente, e gli perdonerei quella sua indipendenza ed onnipotenza in ragione della felicità di cui gli sarei debitore, e che reputerei ampiamente compensata dalla mia sommessione; tanto è vivo in me quel sentimento della proprietà del mio ente, per misero che sia ! tanto è potente quell’orrore dell’arbitrario, anche nel benefizio d’una esistenza che non ho invocato, e che non mi fu possibile di rifiutare! Ma come! l’umanità cui appartengo, è la preda di mille mali e di mille disordini; da ogni parte il dolore, da ogni parte il delitto concorrono ad accoppiare al mistero dell’esistenza il mistero del destino; non so donde vengo, dove sono, dove vado; si dispone di me senza di me: tutto ciò che so si è di nulla sapere, di soffrire e d’inclinare al male: e so infine, che una mano misteriosa ed inesorabile mi spinge dal nulla alla morte, nel tragitto d’una vita miserabile: e con questa strana complicazione d’un invincibile istinto di felicità, d’un indistruttibile ideale di giustizia, d’ ordine, di grandezza, di bellezza, di perfezione e di durata, che mi rendono superiore a ciò che sono, e migliore, parmi, del disegno di cui sono pure fattura. Tali sono in parte le difficoltà del Teismo. Esse sono formidabili, a tal che per accettarle si richiede una fede robusta. Chi le divorasse si troverebbe in mal punto per addentrarsi nei misteri del Cristianesimo. – Si risolvono questi ultimi in un mistero solo: Dio; di modo che si potrebbe dire che sono fatti da Lui. Tutto si può credere, quando si giunge al punto di credere a quello.

V. Se non che i misteri cristiani sono ben più credibili, e più facili a comportare per molte ragioni, fra le quali primeggia quella, che ci scaricano e ci liberano da quell’orribile incubo del mistero di Dio nella natura e nella umanità, sciogliendolo dalle sue oscurità le più affliggenti, soddisfacendo alle nostre più legittime curiosità ed ai nostri più imperiosi bisogni, e rispondendo alle nostre grida di abbandono. Che cosa si prova infatti sotto il peso di quel mistero? Che cosa si chiede? Che cosa si invoca? — Una spiegazione! uno schiarimento! Una Rivelazione! … O Dio, fatevi conoscere! O Essere incomprensibile, eppur necessario, uscite dalla vostra eternità, dalla vostra notte, e dal vostro silenzio! O Voi, che siete il mio supplizio, per questa sete di curiosità e di aspirazione che avete posto in me per trarmi a Voi, e pel fatale ostacolo d’ignoranza, e d’ impotenza, che mi respinge e mi fa ricadere in me medesimo, spiegate Voi a me! spiegate me stesso a me! Ah! se i Cieli potessero aprirsi! Se voi degnaste di discenderne!

(Utinam dirumperes cælos, et descenderes! Esclamava tutta l’antichità consecrata dalla voce d’Isaia, « Ch’ei si venga » gridava l’antichità profana per bocca di Platone.

« Spezza la vòlta, o Dio, che tue grand’opre

Arcanamente copre;

Squarcia del mondo i veli;

Mostrati, o buono, o giusto autor de’ cieli!

E questo il grido universale della natura umana. – Alfred de Musset Espoir en Dieu.).

Se fosse in voi di non schiacciarmi con quella comunicazione, che imploro e pavènto, piegandovi alla mia debolezza sotto tale aspetto, che non l’annientasse! O sogno d’un desiderio, che non ardisco d’esprimere: se voi veniste a me sotto una forma umana, semplice, adatta a me, dolce, pacifica, ma pure improntata da una divinità, che non potessi disconoscere ai segni ed alle opere, che nessun uomo saprebbe eguagliare! Se voi veniste a trattare per tal modo con me intorno al mistero del vostro Ente, della vostra eternità, della vostra vita divina, dei vostri disegni a mio riguardo, dell’enimma di miseria e di grandezza di cui sono l’abisso, del mio futuro destino, e della vita che devo seguire per raggiungerlo, e avverare tutti i bisogni della mia natura, e tutte le celesti tendenze, che sento dentro di me! Se voi mi precedeste in questa via, come mio modello e mio capo, come mia luce e mia forza! Avrò alfine il coraggio di dirlo? Se voi mi donaste tale un pegno del vostro amore, che non potessi mai più dubitarne, e che mi giovasse in qualche modo come un’arme contro di Voi, che eccitando la mia confidenza non esaltasse la mia presunzione; e dove mi si affacciassero come riassunti, conciliati in una meravigliosa economia, tutti gli attributi della vostra natura nelle loro attinenze colla mia, la vostra Giustizia, la vostra Santità, la vostra Potenza, la vostra Sapienza, la vostra Maestà, e soprattutto la vostra Misericordia ed il vostro Amore; o Dio! o Ente infinito! Se mai cosi operaste! Se vi faceste mio Liberatore, mio Salvatore, mio Redentore; come vi benedirei, come vi riconoscerei, come vi crederei sotto i veli così chiariti del vostro mistero impenetrabile, veli luminosi, misteri trasparenti, che ecciterebbero la mia fede per ciò appunto che confonderebbero la mia ragione, poscia che non la confonderebbero mai nelle tenebre, nel terrore, negli enimmi, nella fatalità muta e disperante come il Dio del Teista; ma nella luce, nella dolcezza, nella sapienza, nella grazia, nella ricchezza di condiscendenza e d’amore; né la sorpasserebbero che entusiasmandola!

VI. Ecco i misteri cristiani. Misteri che non possono non essere misteri, per ciò solo che hanno per oggetto l’Ente infinito; misteri che sono più numerosi, perché più numerose e più alte sono le verità che rivelano; misteri perciò, che acquistano la loro profondità dall’intera luce che mandano, mentre sono a loro volta rischiarati dal riflesso di quella luce che li circonda. –

« Una ignoranza assoluta vi avrebbe liberato da ogni mistero — dice un Magistrato filosofo —ma l’ignoranza assoluta, in ciò che si riferisce a Dio, non è propria dell’uomo, ma del bruto. L’uomo è una creatura ragionevole chiamata a mettersi in relazione col suo Creatore; è un essere intelligente capace di elevarsi fino alla contemplazione dell’Infinito: solo questa capacità risiedendo in un soggetto limitato non ha mai potuto diventare lei medesima infinita; ond’è che nel contemplare la Maestà divina, e nello studiarne la natura e le perfezioni, l’uomo non ha potuto elevarsi fino all’altezza del suo oggetto. Oltracciò l’uomo avendo avuto la disgrazia di decadere, la luce lo abbandonò, e sarebbe rimasto nella ignoranza e nell’errore, se Dio pure lo avesse abbandonato. Ma Dio non perdette interamente di vista la sua creatura; la seguitò di lontano in mezzo ai suoi falli, e quando venne il tempo fissato scese a trarla dall’abisso in cui era caduta. Per tal modo Dio, che era il Creatore dell’uomo, ne divenne anche il Redentore. Allora le oscurità, che nascondevano l’uomo a sé medesimo, si dissiparono; allora le grandi verità che formano il merito della Religione si disvelarono. L’uomo conobbe la sua natura, i suoi doveri, la sua fine: conobbe l’origine delle sue miserie, e la causa delle sue contrarietà; conobbe il bisogno che aveva d’ un Mediatore; la nascita, i patimenti, la morte, la risurrezione e l’ascensione del Verbo incarnato; il dono dello Spirito Santo; la Trinità delle persone in Dio; in una parola tutto quel corpo ammirabile delle verità, che costituiscono, i grandi misteri della Religione. Gli è perché vede più da vicino la verità, e perché è ammesso ad una conoscenza più intima della propria natura e di quella di Dio, che il Cristiano ha un maggior numero di misteri. Se Dio non si fosse avvicinato all’uomo colpevole, questi andrebbe ancora vagando nelle tenebre dell’idolatria; ignorerebbe  ciò che è egli stesso; non avrebbe che delle idee false sulla Divinità, e non sospetterebbe forse l’esistenza d’una sola fra quelle verità sublimi, che comprende l’Infinito. Se Dio, nello avvicinarsi all’uomo, non si fosse a lui mostrato che sotto le apparenze d’un Dio creatore e conservatore, tutti quei segreti meravigliosi, che hanno tratto alla conoscenza della natura umana e della Redenzione, sarebbero sepolti. Anche l’uomo stupefatto nella incertezza del suo essere s’adoprerebbe in ogni modo per conciliare le contraddizioni che sono in lui; cercherebbe di indovinare il posto che gli viene riservato nel mondo morale, e farebbe degli inutili sforzi per mettersi in armonia con tutto ciò che lo circonda. Ma essendosi manifestato Iddio all’uomo come Creatore e come Redentore, ne derivò che l’uomo conobbe non solo i misteri, che si riferiscono all’idea d’un Dio onnipotente, creatore ed ordinatore di tutte le cose, ma anche quelli che si riferiscono all’idea d’un Dio tutto misericordia, che prende la forma e la natura dell’uomo, e muore per riscattarlo (Le Président. de Riambourg, Oevres publiées par M. Foisset, édit. de Migne p. 150). »

VII. Si mena scandalo di questo mistero, perché Dio ai nostri occhi troppo s’abbassa. Ma non si vede dunque che appunto per tale motivo Egli acquista maggior pregio, perché controbilancia il primo mistero del Dio dell’universo, che ai nostri occhi troppo s’innalza? il perché non si contesterebbero (se non è troppo ardita 1’espressione), a quell’Ente indiscutibile, né l’onnipotenza di sua natura mercé 1’uso che ne fa, né l’infinità della sua altezza mediante l’infinità del suo abbassamento? Il quale abbassamento è poi sublime, posciaché è l’abbassamento dell’amore, che si svolge nella Redenzione, come si svolge la potenza nella Creazione, che compie l’abisso scavato tra Dio e noi per la nostra caduta, e l’abisso inoltre che esiste naturalmente tra l’Infinito ed il finito, tra Dio ed il mondo, uniti e rappattumati per sempre dalla grazia del Verbo incarnato. – Noi resistiamo alla seduzione d’un soggetto così interessante. Lo studio dei misteri cristiani, che fu il frutto de’ precedenti nostri lavori (Etudes philasophiques sur le Christianisme, 5″ volume — le Pian divin.), offre una occasione inesauribile d’ammirazione. Questi misteri,ai quali dovremmo prestar fede a fronte delle sole prove della divinità di Gesù Cristo, guarentigia infallibile della verità loro, lasciano travedere tante bellezze, che avrebbero dritto alla nostra credenza anche senza quella guarentigia, mentre nel reagire sovr’essa le restituiscono in certo modo quel divino testimonio che ne ricevono. Mercé quello studio i misteri non si ricordano più, tante sono le chiarezze, tante le relazioni con cui si manifestano,così che non restano misteri che per la sublimita’ loro. Sono abissi di sapienza e di scienza, che provocano ad ogni istante l’esclamazione di San Paolo:

O altitudo divitiarum sapientiæ, et scientiæ Dei! – Queste riflessioni fecondate da quelle del lettore basteranno intanto per giustificare la nostra prima proposizione, cioè che il Teismo in quanto ha di vero, confonde la ragione col mistero dei misteri,rispetto al quale quelli del Cristianesimo sono il conforto e l’incanto dello spirito umano.

(Non eccettuo manco il terribile domma della Eternità delle pene, che da sé solo indispone però molti spiriti a credere tutto il resto che si riferisce alla Religione: quasi che un domma così strettamente legato a tutti gli altri potesse essere falso, veri essendo gli altri! Noi gli abbiamo dedicato uno studio speciale, che riuscì ad una prova, se non affatto comprensibile (né ciò poteva essere), scevra per altro da ogni contraddizione, e piena di razionale convenienza. La pretesa di misurarlo alla debole bilancia del nostro debole ingegno dovrebbe arrestarsi dinanzi a questa semplice riflessione di Platone, che  « l’uomo non potendo mai vedere altro, che gli accidenti dell’individuo e del tempo, vale a dire ciò che è parziale e passeggero, non potrebbe essere giudice dei disegni di Dio, che deve necessariamente subordinare il particolare al generale, ed il tempo alla Eternità ». Sotto questa giudiziosa riserva, noi abbiamo svelato il vizio di tutte le obiezioni che si fanno a quel mistero Qual meraviglia! Esse sano ispirate dal senso cristiano, vale a dire da quelle nozioni della Giustizia e della Bontà di Dio, che il Cristianesimo ci ha portato, e che noi rivolgiamo a suo danno! Ciò dovrebbe bastare per mostrarne l’impotenza, dappoiché non sono basate che sopra gli elementi d’una fede che le esclude! Tuttavia opporremo loro alcuni cenni di risposta in aggiunta allo studio più ampio che abbiamo fatto altrove. La giustizia si rivolta, si dice, contro la sproporzione tra il peccato d’un momento, ed una eternità di pena; e la Bontà non è meno incompatibile con una severità tanto inesorabile.

Rispondo, che l’Inferno risulta assai meno da un decreto di Dio imputabile alla sua condotta verso l’uomo, che dalla condotta dell’uomo verso sé medesimo, e verso Dio: il che non solamente disimpegna la Giustizia e la Bontà divine, ma non potrebbe impegnarle senza contraddizione. Diffatti, ed in primo luogo, l’uomo è di sua natura inesterminabile, immortale; egli esisterà sempre; l’eternità gli appartiene. In secondo luogo è libero: non c’è potenza che valga a forzarlo al bene, se vuole il male, in terzo luogo il male porta inevitabilmente seco la sventura; è la pena di sé medesimo. Da ciò ne deriva, che l’uomo è l’artefice del proprio destino, il quale essendo eterno, fa sì che egli è eternamente cattivo, se tale vuol essere, epperò eternamente sventurato. La natura delle cose produce da sé questa conseguenza, e bisognerebbe distruggerla perché fosse diversamente. Queste conseguenze tuttavia sono diverse in questo mondo e nell’altro; la qual differenza dipende tutta dalla bontà di Dio. Naturalmente, quando l’anima commette un delitto, questo delitto, momentaneo quanto all’atto, è eterno quanto allo stato. Gli anni sì numerosi che si succedono sovra l’anima una volta delittuosa, una volta morta, a nulla valgono. La macchia dell’anima, dice Cicerone, non può scomparire col tempo, e tutti i fiumi del mondo non basterebbero a lavarla. « Animi labes nec diuturnitate evanescere, nec omnibus ullis elui potest! De Legibus II. 10): ciò che equivale a dire con San Tommaso, che il peccatore  è mortale di sua natura, e che la morte, per sé sola, non ha un potere di risorgimento. Tuttavia questa potenza di risurrezione morale venne introdotta sovranaturalmente nel mondo, ed è la Grazia. La morte spirituale fu vinta dalla virtù espiatrice del sangue di Cristo, una sola goccia del quale basterebbe a lavare tutti i delitti dell’Universo. I delitti inespiabili non si danno più, perché vi concorre una condizione, che deriva parimente dalla natura medesima delle cose, vale a dire, che l’anima colpevole si appropri la grazia mediante il pentimento. Diversamente lo spregio, il rifiuto, di questa grazia prodigiosa, ne aggrava lo stato. Ora questo mondo le è conceduto per pronunciarsi a tale riguardo. Essa può passare e ripassare dal male al bene: vi è invitata, sollecitata sino all’importunità. Due cose per altro impongono un termine a sì fatto sperimento, a quella tregua: l’ordine, il quale non permette mai che l’uomo, per quanto sia libero, sia indipendente, o piuttosto che l’Ente sovrano sia dipendente e trastullo dell’uomo; l’interesse dell’uomo, il quale non farebbe che accrescere il suo delitto, e quindi anche la sua sventura, collo spregio continuato della grazia di Dio. È Dio, che lo scarica del peso crescente di questa grazia, e le conseguenze funeste del mal volere dell’uomo, sospese dalla misericordia di Dio, riprendono per sempre il corso loro. L’anima passa nell’ordine immutabile ed assoluto della sua eternità, tal quale lo trova colla scelta sua propria. Ed allora donde pensate voi che gli provenga il suo inferno? Dai colpi, con cui Dio lo percuote? No certamente. Da lei medesima. La giustizia di Dio consiste nell’abbandonarlo al suo senso riprovato, al disordine del suo antagonismo col Bene, la serena vista del quale, libera da tutte le illusioni di questa vita di prova, forma il castigo dei cattivi, e la felicità dei buoni. — Virtutem vìdeant, intabescantque relicta! — dice un poeta pagano: » Veggano costoro la virtù, e si consumino dall’affanno per averla abbandonata! L’Inferno non è che il peccato stesso, dice Bossuet. Lo stato involontario, inveteralo ed eterno del peccato; l’odio del bene, di Dio, che l’anima ha contratto, e di cui forma il supplizio. Tanto basta. Dio c’entra per nulla; ed è appunto per ciò che quello stato è spaventevole. Lo dirò io? L’Inferno è l’impunità! Si, l’impunità, e secondo Platone l’inviolabilità nel delitto, per cui niun castigo salva il reo, ed è per se stessa il più terribile dei castighi; il castigo di Caino, sol quale Dio stampò mm segno, onde niuno lo avesse ad uccidere (Genesi c. IV, 15). Ah! se Dio potesse colpire i reprobi! Li solleverebbe cogli stessi colpi, come solleva le anime del purgatorio, e li esonererebbe di tutto ciò che soddisfarebbe la sua giustizia. Ma la paterna sua mano non trova dove colpire sovr’essi. Inguaribili per la condizione volontaria che si fecero, e nella quale si rinserrano, non offrono i mezzi per risanare, e poiché non ne ricevono alcuno dalla mano di Dio, quindi si rendono carnefici di sé medesimi, e sono così spaventosamente ed irremissibilmente infelici. Perché non sono dessi in grado di esclamare con quel fanciullo, che noi abbiamo inteso dire a sua madre: « Castigatemi, ma perdonatemi! » No. Più del supplizio nuocerebbe loro il perdono, e preferiscono l’Inferno: « Prova terribile della degradazione originale » ha detto in qualche tratto lo sfortunato sig. di Lammenais, — e queste parole parole mi fanno tremare la mano, che le scrive — quando il Cielo non domanda in certo modo, che di schiudersi per accogliere il colpevole, se costui ha la facoltà coll’obbedire di assicurarsene il possesso, v’è qualche cosa in lui che sceglie, e vuole l’Inferno. » Ora ho io bisogno di dire, che la Bontà di Dio non è meno sciolta della sua giustizia in quel terribile domma? Quella bontà consiste infatti nel renderci felici: felici della sua propria felicità, che non può essere che la felicità dell’ordine. Una bontà, che fosse in opposizione coll’ordine andrebbe contro l’oggetto suo proprio: la felicità. Essa non formerebbe la felicità dei cattivi; e distrurrebbe quella dei buoni. L’odio volontario del Bene nei reprobi, essendo dato come una condizione del mistero, non si concepisce la bontà d’un perdono, che non solamente sarebbe respinto, ma diventerebbe, qualora potesse essere imposto, un supplizio più grande della pena medesima, il Cielo sarà peggiore dell’Inferno pei dannati, e tale essi lo renderebbero per gli stessi Eletti. La Bontà di Dio, tanto riguardo agli uni, come riguardo agli altri, reclamerebbe per conseguente, al pari della Giustizia, contro un disordine tanto inconcepibile. In una parola la libertà del male nella eternità della sorte, e la sventura inerente al male che se lo infligge a sé stesso, tali sono gli elementi logici di quel formidabile mistero, che la ragione appena distingue, inchinandosi dinanzi alle solenni affermazioni della fede, e gettandosi in seno della divina misericordia.).

LA GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (58)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. LEONE XIII – “PASTORALIS VIGILANTIÆ”

In questa lettera Enciclica, il Sommo Pontefice Leone XIII, esprime il suo compiacimento per i risultati del Convegno di Braga, in Portogallo, tenuto da prelati e laici cattolici. Tra le altre, vi sono espressioni di grande forza utili anche agli scellerati governanti attuali dei Paesi un tempo Cristiani, oggi apostati manifesti dalla fede Cattolica, e particolarmente a quelli del nostro Paese che indubbiamente ha tenuto il peggior comportamento possibile nei confronti della Chiesa – defraudata dei suoi territori e dei suoi beni – e del suo vero Vicario di Cristo, estromesso, cacciato e sostituito da un « fantoccio » precursore dell’anticristo, espressione delle logge fin dal 28 ottobre del 1958 « … È per questo motivo che si provvede in modo saggio e accorto al bene dello Stato quando si permette alla Chiesa di avvalersi di quella libertà d’azione che essa rivendica a buon diritto, e le si apre benevolmente la strada perché possa ampiamente far valere la sua benefica influenza e mettere a disposizione del bene comune tutti i mezzi di cui è dotata. » La monarchia italiana è stata cancellata e travolta dall’ignominia, dallo scandalo vergognoso e dallo stesso esilio a cui aveva costretto il Santo Padre circa un secolo prima. La Repubblica costuzional-massonica, tentacolo della piovra mondialista, farà una fine ancor peggiore, proprio quando crederà di aver trionfato sulla Chiesa e sul Cristianesimo. « … Tutte le persone assennate ed oneste sono infatti concordi nel riconoscere che non esiste un rimedio più sicuro e più valido della Dottrina Cattolica contro i mali che affliggono il nostro tempo ed i pericoli che incombono, sempreché essa sia accettata completa ed integra, e gli uomini uniformino il loro modo di vivere alle norme che la stessa propone. » … ergo, le persone dissennate e disoneste (… cioè le marionette mai elette) attuano una politica sociale imposta dalle conventicole di perdizione, cioè un massonismo pratico, ateo e luciferino in combutta con la setta della « bestia che sembra uccisa ma è risorta », quella quinta colonna infiltrata e poi dominante sull’orbe ipocrito-cattolico. Ma tanto peggio per loro, a noi Cattolici del pusillus grex, tocca pure il dovere di rispettarli come per volontà divina a nostro castigo e punizione per le infinite colpe di cui ci siamo macchiati noi ed i nostri padri. Ma tutto questo un giorno finirà e si avvieranno i superstiti perseveranti con pazienza del pusillus grex verso la Gerusalemme celeste, e gli orgogliosi ipocriti servi del maledetto serpente primordiale allo… stagno di fuoco eterno, preparato per essi, il falso profeta ed il diavolo, e là sarà pianto e stridor di denti…

Leone XIII

Pastoralis vigilantiæ

Lettera Enciclica

La Lettera, oltremodo gradita, che annunciava la felice conclusione del nobile Convegno svoltosi di recente a Braga, a Noi inviata da quanti, tra voi, vi hanno presenziato, Ci ha procurato una nuova e significativa testimonianza dello zelo pastorale con il quale vi impegnate nel difendere e nel promuovere la religione. – Durante la lettura siamo stati pervasi da sentimenti di gioia, sia per lo zelo e la dedizione del Pastore della città che ha accolto i membri del Convegno e ha assunto in prima persona il compito di organizzarlo e di gestirlo in modo da poterne trarre gli auspicati frutti, sia per l’impegno e la pietà dei Vescovi che l’affiancarono, o che inviarono al loro posto uomini degni di stima che li rappresentassero al Convegno, sia infine per l’imponente affluenza di uomini tra i più rappresentativi del clero e del popolo fedele, segnalati per la dottrina, per la virtù e per il prestigio. – Codesto Convegno Ci tornò ancor più gradito, perché vi ha preso forma un mirabile accordo su decisioni particolarmente utili alla grandezza della Chiesa e al successo del Cattolicesimo. Né vogliamo passare sotto silenzio il fatto che, tra le altre cose opportunamente approvate con voto unanime, tenendo conto della condizione del tempo e del luogo, Ci hanno procurato conforto quei capitoli che attestavano la piena deferenza dei convenuti verso questa Sede Apostolica, e il loro ardente desiderio di vederla onorata come richiede la sua dignità e per nulla sminuita nel suo onore e nei suoi diritti. Nutriamo senz’altro la lieta speranza che quanto è stato deliberato e definito in codesta sede, se sarà attuato con impegno e costanza, produrrà una grande abbondanza di frutti salutari, senza tuttavia dimenticare che resta ancora un vasto terreno che rivendica la vostra attenzione e la vostra operosità. Per questo motivo, anche se in una lettera a voi inviata poco tempo fa vi abbiamo parlato della situazione religiosa nel regno del Portogallo e della linea di condotta da adottare per potervi opportunamente far fronte, Ci torna tuttavia gradito aggiungere al contenuto di quella lettera alcune cose che vale la pena di farvi sapere, anche perché, essendosi presentata un’occasione per scrivervi, non corriamo il rischio di essere venuti meno, per pigrizia al Nostro dovere. – Non vi sfugge certo, diletti Figli e Venerabili Fratelli, come nel Convegno di Braga sia emerso, in tutta chiarezza, che si è giunti al punto in cui la fede stessa è messa in pericolo presso molti, e s’impone quindi l’obbligo di impedire, per quanto è possibile, che l’ignoranza e la rilassatezza la estirpino dagli animi o la lascino illanguidire, ma occorre impegnarsi perché resti ben fissa nei cuori e dia vita ad una consolante quantità di opere buone e di perfetta virtù, nonché alla dolcezza dei frutti più eccelsi. Ci si deve opporre ai tentativi dei nemici della verità, perché non abbia a diffondersi il malefico contagio che si sprigiona dai loro cattivi esempi e dalle loro idee disseminate per ogni dove. Ci sono da sanare molte ferite che il loro nefasto operare e la malvagità dei tempi hanno inferto nei greggi affidati alle vostre cure; molte sono le cose che giacciono inerti da far rivivere; molti sono ancora i bisogni che assillano le anime e che, se non possono essere del tutto rimossi, occorre almeno lenire. Tutto questo che reclama, come abbiamo ricordato, le vostre cure e la vostra sollecitudine, potrà essere attuato con maggiore efficacia e con più facilità se la concordia tra i Vescovi diventerà ogni giorno più profonda e se questi, di comune intesa, opereranno per scoprire i bisogni del clero e dei fedeli, per proporre suggerimenti e prendere, con le decisioni, che tutti insieme vedranno meglio accordarsi con le situazioni delle singole diocesi, anche quelle di più ampia portata e di maggior peso per provvedere alla prosperità e alla salvezza dell’intero popolo. L’opportunità di un più stretto raccordo tra i Vescovi non sfuggì alla saggezza di chi si riunì a Braga. Trovano quindi la Nostra piena approvazione le decisioni prese in quel nobile Convegno con il proposito di favorire quest’unità di intenti, capace di garantire al popolo cristiano i più importanti e duraturi benefìci che si ripromette dai suoi Presuli, che sono le sue guide e i suoi pastori. – Ma per rendere veramente stabile questo rapporto, non vi è mezzo più efficace del ricorso alla consolidata prassi, già recepita in altre regioni, di tenere ogni anno, in aggiunta alle riunioni che prevedono la presenza anche dei laici (di tal fatta era il Convegno di Braga), speciali adunanze di Vescovi. È un’usanza che sta prendendo piede anche presso di voi; un’usanza che vi sta a cuore e che Noi auspichiamo con tutte le forze perché, come testimoniano le numerose e documentate esperienze, è possibile trarne benefìci per la religione. – Di sicuro, con la frequente convocazione di tali assemblee prende anzitutto forma, come abbiamo ricordato, il più rilevante e unanime concorso di energie che può garantire esiti positivi alle iniziative intraprese, ma ravviva anche l’entusiasmo ad agire dei Vescovi convenuti, rafforza la fiducia e illumina le menti con il confronto delle idee e con lo scambio vicendevole del frutto della saggezza. Con queste assemblee si apre come una strada sia per tenere Sinodi diocesani e provinciali, sia per riunire un Convegno nazionale, la celebrazione del quale – notiamo con grande gioia – fa parte dei vostri desideri. La ripetuta esperienza dei vantaggi derivati da Convegni similari già svolti, li consiglia con forza, e le disposizioni dei Sacri Canoni le raccomandano con sincera convinzione. Inoltre alle menzionate assemblee annuali dei Vescovi farà seguito un evento di somma importanza. I laici infatti, spinti da nuovi stimoli, si sforzeranno di proseguire con più decisione sulla strada intrapresa; si riuniranno a loro volta in assemblee; confronteranno le loro idee e, facendo leva sulle energie collegate, si adopereranno per difendere la comune causa della religione e, seguendo le indicazioni dei loro Pastori, metteranno in pratica gl’insegnamenti e gl’incoraggiamenti ricevuti. – Per la verità, nelle riunioni annuali che farete non mancheranno i problemi ai quali dedicare il vostro zelo e le vostre energie. Infatti, oltre i problemi specifici che eventualmente riguarderanno le singole diocesi e che potranno essere più adeguatamente risolti con l’apporto chiarificatore della comune esperienza, sarà oggetto del vostro prudente esame un vasto campo di decisioni e di deliberazioni relative ai mezzi maggiormente idonei per dar vigore all’impegno dei sacerdoti che già lavorano nella vigna del Signore, per educare i giovani che un giorno dovranno risplendere nella casa di Dio per la luce di una solida dottrina, per il merito di uno schietto spirito ecclesiastico e per il corredo di tutte le virtù sacerdotali. – La vostra paterna vigilanza si farà anche carico di una meticolosa ricerca su tutto ciò che è sommamente utile per trasmettere correttamente al popolo i rudimenti della fede, per correggerne i costumi, per divulgare scritti atti a seminare la sana dottrina e a inculcare i principi della virtù, per dar vita ad istituzioni che diffondano i benefìci della carità e per rendere ancor più fiorenti quelle già istituite. – Un ultimo importantissimo punto, che dovrà essere oggetto delle vostre decisioni, vi sarà offerto dall’opportunità di fondare e di accogliere nel Regno del Portogallo delle Congregazioni religiose. Al riguardo abbiamo notato con gioia quanto fosse forte l’impegno di tutti i presenti al Convegno di Braga. – Queste Congregazioni, infatti, non solo potranno offrire al clero, che nelle vostre diocesi si è votato alla sacra milizia di Cristo, delle forze per così dire, ausiliarie, ma saranno anche in grado, ed è ciò che più conta, di preparare uomini animati da spirito apostolico che si faranno carico del ministero missionario nelle regioni d’oltremare soggette al dominio portoghese. L’assolvimento di questo compito, mentre contribuirà all’ampliamento del Regno di Cristo sulla terra, darà anche lustro e onore al Portogallo. Si sono veramente procurati una gloria imperitura i vostri Principi e i vostri antenati quando, con l’aiuto e il favore della Sede Apostolica, portarono la luce della dottrina evangelica e una forma di vita più civile in tutte le vostre terre scoperte. – Occorre dunque, per mantenere vive la natura e la forza delle iniziative intraprese e per non lasciarle decadere dal primitivo stato di persistente floridezza, far leva sulla costante vigilanza e sulle virtù di uomini pienamente affidabili che, mentre si oppongono, pieni di spirito divino, agli ostili attacchi degli acattolici, indirizzino tutta la loro attenzione e la loro energia a far sì che i beni giunti dal Portogallo in quelle contrade non vadano completamente perduti, ma riprendano vita come per nuovo vigore. – Sarà compito di questi uomini che, chi già crede in Dio, sia confermato nella fede, e chi vi è ben ancorato possa anche distinguersi per l’onestà dei costumi, per la pratica della religione, per la scrupolosa osservanza dei doveri, affinché chi è ancora nelle tenebre si disponga ad accogliere la luce del vangelo. – Le Congregazioni religiose potranno senz’altro offrire molti di questi uomini ardenti di santo zelo, poiché i loro membri, sulla scorta del giudizio di persone assennate confermato da testimonianze di tutti i tempi, seppero sempre svolgere questo compito con impegno ed efficacia. Infatti il sistema e la disciplina delle Congregazioni in cui sono inseriti, nonché la pratica costante della virtù che ognuno si impone, li rendono più adatti di ogni altro a svolgere un così importante lavoro. – Siamo pienamente convinti che il Governo del Portogallo, accogliendo con favore le vostre proposte e attribuendo grande valore a quei beni che sopravanzano gli altri, si deciderà anche a rimuovere gli ostacoli che intralciano la libertà dei Sodalizi religiosi e, con la sua autorità, favorirà i vostri propositi che mirano a restituire il pieno vigore e a far rifiorire doviziosamente, con la gloria degli antenati, la religione cattolica in Portogallo e in tutti i paesi sottoposti al suo dominio. – Questa Nostra convinzione è resa più forte dal fatto che nessuno ormai ignora, e anche voi ne avete piena coscienza, quali siano al riguardo i Nostri sentimenti e i Nostri auspici, che sono sicuramente rivolti al bene della religione, ma si propongono anche la piena prosperità del popolo portoghese. Sono questi il compito e la funzione che il Divino Fondatore ha assegnato alla Chiesa: porsi nel cuore della società umana come vincolo di pace e garanzia di salvezza.

La Chiesa non toglie nulla all’autorità di chi è posto a capo dello Stato e ne detiene il potere, anzi lo difende e lo rafforza, affiancando alle leggi emanate l’obbligo religioso dell’osservanza, riconducendo il dovere di sottostare alle pubbliche autorità nell’ambito degli obblighi voluti da Dio, esortando i cittadini a tenersi lontano dai moti sediziosi e da ogni altra forma di sovvertimento dello Stato, insegnando a tutti di coltivare la virtù e di assolvere con cura tutto ciò che richiede il proprio stato e la propria condizione. La Chiesa è dunque il migliore censore dei costumi; la sua salutare disciplina prepara uomini retti, onesti, devoti verso la patria, fedeli e pienamente solidali con i principi, tali cioè da costituire un solido sostegno del pubblico ordinamento degli Stati, in grado di mettere a loro disposizione indomite energie per affrontare imprese ardue e gloriose. È per questo motivo che si provvede in modo saggio e accorto al bene dello Stato quando si permette alla Chiesa di avvalersi di quella libertà d’azione che essa rivendica a buon diritto, e le si apre benevolmente la strada perché possa ampiamente far valere la sua benefica influenza e mettere a disposizione del bene comune tutti i mezzi di cui è dotata. – Anche se un simile assunto riguarda tutte le genti, esso si rivela particolarmente indicato per il popolo portoghese, presso il quale la Religione cattolica svolse un ruolo di primaria importanza nel plasmare, da molto tempo, i costumi e le menti degli uomini, nel promuovere gli studi delle scienze, delle lettere e delle arti, nell’infiammare gli animi a compiere ogni sorta di imprese memorabili in pace e in guerra, quasi da sembrare la madre e la nutrice, donata dal cielo, per generare e far crescere tutto ciò che di splendido prese forma, in tale popolo, nel campo della civiltà, della dignità e della gloria. – Ci siamo intrattenuti più diffusamente con voi su questo argomento nella citata Lettera enciclica che vi abbiamo recentemente indirizzata. Ora però è bene ricordare questa sola cosa: la forza e il valore della Religione non possono in alcun modo venir meno, perché i principi dottrinali che essa trasmette, in quanto voluti da Dio, non sono condizionati dalle leggi del tempo e dello spazio, ma sono rivolti alla salvezza e al conforto di tutti i popoli. Per questo motivo, allo scopo di favorire il benessere e la prosperità della vostra nobilissima gente, la Religione è ancora in grado di fornire quegli straordinari benefìci e quei validi aiuti che mise a disposizione in passato. Specialmente in questo tempo malvagio, nel quale la debolezza e il turbamento degli animi si sono fatti così grandi che i fondamentali principi che garantiscono l’ordine e la pace della società umana non solo vengono messi in dubbio, ma sono apertamente avversati, non vi è nessuno che non comprenda la necessità di far ricorso all’aiuto della Religione e ai suoi sacri precetti e insegnamenti. Tutte le persone assennate ed oneste sono infatti concordi nel riconoscere che non esiste un rimedio più sicuro e più valido della dottrina cattolica contro i mali che affliggono il nostro tempo e i pericoli che incombono, sempreché essa sia accettata completa ed integra, e gli uomini uniformino il loro modo di vivere alle norme che la stessa propone. – Per tutto questo, Diletti Figli Nostri, Venerabili Fratelli, non dubitiamo che, in forza dello zelo pastorale che vi distingue, vi affretterete, con animo deciso e con impegno costante, all’opera che vi abbiamo raccomandato. Sarà per voi, dediti al lavoro, un titolo di sommo onore e di meritata riconoscenza, l’aver potuto conseguire altissime benemerenze verso la Religione, che assorbe tutto il vostro interesse, verso la patria e verso il vostro popolo, per il quale auspicate, con un’intensità non inferiore alla Nostra, una stabile pace e un futuro rispondente alle attese. – Mentre eleviamo la Nostra supplica a Dio perché vi colmi dei suoi doni e assecondi le vostre iniziative, impartiamo, con sincero affetto nel Signore, la Benedizione Apostolica, testimonianza del Nostro paterno amore, a voi, al clero e ai fedeli affidati alle vostre cure.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 giugno 1891, quattordicesimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA I DOPO L’EPIFANIA (2021)

DOMENICA I DOPO EPIFANIA (2021)

FESTA DELLA SACRA FAMIGLIA.

Doppio maggiore. – Paramenti bianchi.

« Non conviene forse – dice Leone XIII – celebrare la nascita regale del Figlio del Padre Supremo? Non forse la casa di David, e i nomi gloriosi di questa antica stirpe? È più dolce per noi ricordare la piccola casa di Nazaret e l’umile esistenza che vi si conduce: è più dolce celebrare la vita oscura di Gesù. Lì il Fanciullo Divino imparò l’umile mestiere di Giuseppe e nell’ombra crebbe e fu felice di essere compagno nei lavori del falegname. Il sudore – Egli dice – scorra sulle mie membra, prima che il Sangue le bagni; che questa fatica del lavoro serva d’espiazione per il genere umano. Vicino al divino Fanciullo è la tenera Madre; vicino allo Sposo, la Sposa devota, felice di poter sollevare le pene agli affaticati con cura affettuosa. O voi, che non foste esenti dalle pene e dal lavoro, che avete conosciuto la sventura, assistete gl’infelici che l’indigenza affligge e che lottano contro le difficoltà della vita  » (Inno di Mattutino). – In questa umile casa di Nazaret Gesù, Maria e Giuseppe consacrarono, con l’esercizio delle virtù domestiche, la vita familiare (Or.). Possa la grande Famiglia che è la Chiesa ed ogni focolare cristiano, esercitare in terra le virtù che esercitò la Sacra Famiglia, per meritare di vivere nella sua santa compagnia in cielo (Or.). – Benedetto XV, volendo assicurare alle anime il beneficio della meditazione e dell’imitazione delle virtù della Sacra Famiglia, ne estese la solennità alla Chiesa universale e la fissò alla Domenica fra l’Ottava dell’Epifania o al sabato che la precede.

Incipit

In nómine Patris, ✝ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Prov XXIII: 24; 25
Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te.

[Esulti di gàudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato].


Ps LXXXIII: 2-3
Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit et déficit ánima mea in átria Dómini.

 [Quanto sono amabili i tuoi tabernacoli, o Signore degli eserciti: anela e si strugge l’ànima mia nella casa del Signore]

Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te.

[Esulti di gàudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato].

Oratio

Orémus.
Dómine Jesu Christe, qui, Maríæ et Joseph súbditus, domésticam vitam ineffabílibus virtútibus consecrásti: fac nos, utriúsque auxílio, Famíliæ sanctæ tuæ exémplis ínstrui; et consórtium cónsequi sempitérnum:

[O Signore Gesú Cristo, che stando sottomesso a Maria e Giuseppe, consacrasti la vita domestica con ineffabili virtú, fa che con il loro aiuto siamo ammaestrati dagli esempii della tua santa Famiglia, e possiamo conseguirne il consorzio eterno].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII: 1-5
Fratres: Obsecro vos per misericórdiam Dei, ut exhibeátis córpora vestra hóstiam vivéntem, sanctam, Deo placéntem, rationábile obséquium vestrum. Et nolíte conformári huic sǽculo, sed reformámini in novitáte sensus vestri: ut probétis, quæ sit volúntas Dei bona, et benéplacens, et perfécta. Dico enim per grátiam, quæ data est mihi, ómnibus qui sunt inter vos: Non plus sápere, quam opórtet sápere, sed sápere ad sobrietátem: et unicuique sicut Deus divísit mensúram fídei. Sicut enim in uno córpore multa membra habémus, ómnia autem membra non eúndem actum habent: ita multi unum corpus sumus in Christo, sínguli autem alter alteríus membra: in Christo Jesu, Dómino nostro.
[Vi esorto, o fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi in sacrificio vivo, santo, accettevole a Dio: ad offrire il vostro culto ragionevole. Non vi conformate a questo secolo; anzi riformatevi, rinnovando il vostro spirito, affinché conosciate quale sia la volontà di Dio buona, accettevole e perfetta. Perciocché in virtù della grazia concessami, io dico a tutti voi di non farla da savi più di quello che conviene, ma di essere savi con modestia secondoché Dio dà a ciascuno la misura della fede. Poiché come in un corpo abbiamo molte membra, ma non tutte le membra hanno la stessa operazione, così in molti siamo un corpo solo in Cristo, e ciascuno è membro l’uno dell’altro „]

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

COME SI TRATTA IL CORPO.

… Le parole con cui San Paolo esorta i Romani a trattare il loro corpo per trattarlo cristianamente sono tali da stupire più di uno fra coloro che le leggono per la prima volta o per la prima volta le ascoltano. « Vi scongiuro, o fratelli, in nome della misericordia che Dio ci ha usata, di offrire i vostri corpi come un’ostia viva, santa, che piace al Signore ». E in realtà queste parole senza essere menomamente strane, sono mirabilmente nuove nella storia del pensiero morale dell’umanità. La quale non ha mai potuto e non può eliminare il problema del corpo, della materia. Che fare di questo povero corpo? come trattarlo? C’è un trattamento igienico del corpo che non si può dire epicureo, che non si può neanche dire vizioso e non è virtuosamente eroico, eroicamente virtuoso. Consiste nel far star bene il corpo nel conservarlo sano. « Mens sana in corpore sano ». È un programma tutt’altro che ignobile. Fu il programma classico dell’antichità. Noi lo ripetiamo ancora talvolta ai nostri giovani. E Dio volesse che la preoccupazione almeno della salute, dell’igiene, fosse sempre viva e vittoriosa nell’anima della nostra gioventù! Quanti peccati e quante vergogne essa ci risparmierebbe. Ma quando la preoccupazione dello star bene, igienicamente bene, diventi suprema; diventa la grande ispiratrice, la sola e non ci solleva molto in alto, può anche essere egoisticamente bassa. Siamo in un epicureismo sottile e cauto, senza la imprudenza dell’epicureismo volgare: più intelligente dunque dell’epicureismo comune, non più nobile. Più cristiana certo l’austerità scettica di cui abbbiamo una traccia, una formula, anche in San Paolo quando ci dice: « castigo corpus meum et in servitutem redigo ». Voglio dominare, è fiero, dignitoso, alto. Programma imperiale, non dell’imperialismo di esportazione, dell’imperialismo di importazione; non esteriore, ma intimo, che è il più vero. E il mezzo è bellicoso: tratto male il mio corpo: lo picchio, lo fo digiunare, gli misuro avaramente la bevanda dolce, gli interdico il più inebriante (abstinuit vino). E’ tutto un decalogo austero che sa di stoicismo. Non è stoico nel senso che lo riassorbe anche il Cristianesimo, è stoico nel senso che anche lo stoicismo ci era giunto e vi ci si era fermato. Il Cristianesimo va più in su. Arriva al misticismo. Il corpo penetrato di spiritualità ma in nome e per amore di Dio. Lì è la discriminante, nella finalità suprema, definitiva. Perché siano salvi i diritti dell’uomo, è la finalità stoica. Perché sia salva la dignità dell’uomo la quale non si salva per certo capovolgendo i rapporti tra il corpo e lo spirito, condannando questo alla schiavitù, verso di quello. Bella figura umana la figura di chi serve collo spirito alla carne! di chi si anticipa con quella attitudine la morte! Il corpo deve servire, esso deve spiritualizzarsi, e non lo spirito materializzarsi, ma, nel Cristianesimo tale processo deve compiersi nel nome e per la gloria di Dio. Per offrire a Lui in questo corpo radiosamente spiritualizzato un’Ostia nuova, Ostia viva e non come quella dei vecchi sacrifici che erano carogna, cadavere: Ostia santa, qualche cosa di più che semplicemente buona; santa, tale da piacere a Dio. Il trattamento religioso, divino del corpo! Non si può andare né più in là, né più in su. E tutto questo non riservato a pochi eletti, ma messo alla disposizione di tutti… ecco il Cristianesimo. Ma è il nostro, fratelli?…

Graduale

Ps XXVI: 4
Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ.
 [Una sola cosa ho chiesto e richiederò al Signore: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita.]

Alleluja

Beáti, qui hábitant in domo tua, Dómine: in sǽcula sæculórum laudábunt te. Allelúja, allelúja,

[Beati quelli che àbitano nella tua casa, o Signore, essi possono lodarti nei secoli dei secoli. Allelúia, allelúia.]

Isa XLV: 15
Vere tu es Rex abscónditus, Deus Israël Salvátor. Allelúja.

[Tu sei davvero un Re nascosto, o Dio d’Israele, Salvatore. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
S. Luc II: 42-52
Cum factus esset Jesus annórum duódecim, ascendéntibus illis Jerosólymam secúndum consuetúdinem diéi festi, consummatísque diébus, cum redírent, remánsit puer Jesus in Jerúsalem, et non cognovérunt paréntes ejus. Existimántes autem illum esse in comitátu, venérunt iter diéi, et requirébant eum inter cognátos et notos. Et non inveniéntes, regréssi sunt in Jerúsalem, requiréntes eum. Et factum est, post tríduum invenérunt illum in templo sedéntem in médio doctórum, audiéntem illos et interrogántem eos. Stupébant autem omnes, qui eum audiébant, super prudéntia et respónsis ejus. Et vidéntes admiráti sunt. Et dixit Mater ejus ad illum: Fili, quid fecísti nobis sic? Ecce, pater tuus et ego doléntes quærebámus te. Et ait ad illos: Quid est, quod me quærebátis? Nesciebátis, quia in his, quæ Patris mei sunt, opórtet me esse? Et ipsi non intellexérunt verbum, quod locútus est ad eos. Et descéndit cum eis, et venit Názareth: et erat súbditus illis. Et Mater ejus conservábat ómnia verba hæc in corde suo. Et Jesus proficiébat sapiéntia et ætáte et grátia apud Deum et hómines.

[Quando Gesù raggiunse i dodici anni, essendo essi saliti a Gerusalemme, secondo l’usanza di quella solennità, e, passati quei giorni, se ne ritornarono, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, né i suoi genitori se ne avvidero. Ora, pensando che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, dopo di che lo cercarono tra i parenti e i conoscenti. Ma non avendolo trovato, tornarono a cercarlo a Gerusalemme. E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio, mentre sedeva in mezzo ai Dottori, e li ascoltava e li interrogava, e tutti gli astanti stupivano della sua sapienza e delle sue risposte. E, vistolo, ne fecero le meraviglie. E sua madre gli disse: Figlio perché ci ha fatto questo? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, ti cercavamo. E rispose loro: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi di quel che spetta al Padre mio? Ed essi non compresero ciò che aveva loro detto. E se ne andò con loro e ritornò a Nazareth, e stava soggetto ad essi. Però sua madre serbava in cuor suo tutte queste cose. E Gesù cresceva in sapienza, in statura e in grazia innanzi a Dio e agli uomini].

OMELIA

[Mons. A. Feruglio, Vescovo di Vicenza: Omelie di Natale – Soc. An. Tipogr. fra Cattolici Vicentini, 1914 – imprim. 1913]

1. Gesù si diporta come vero figlio di Maria e di Giuseppe.

A chi chiedesse perché mai il Redentore abbia voluto comparire bambino, per passare gradatamente nei diversi stadi della vita umana, sarebbe facile il rispondere che così era decretato dall’infinita sapienza dell’Eterno. Però, se è vero che Iddio, di alcune sue disposizioni ne tiene occulti i motivi e perciò sarebbe temeraria stoltezza il volerli scandagliare, è vero eziandio che di altre si compiace renderli accessibili all’umano intelletto, affinché invitati a considerarli, ci sentiamo attirati ad ammirare la sua sapienza, potenza e bontà, ed a seguirne i pietosi disegni. E tale appunto è la grande opera dell’Incarnazione del Verbo. Nessuna necessità, osserva S. Agostino, costringeva il Verbo a nascere di donna, per farsi vero uomo (Aug. contra Faust, lib. 26, c. 7). Che, se diciamo che era conveniente s’incarnasse nel seno della Vergine, per assumere un corpo come gli altri uomini derivante dal comun padre Adamo, qual necessità v’era che venuto alla luce non comparisse tosto uomo di età matura? Perché presentarsi impotente bambino, bisognoso di tutto, incapace di muoversi e di parlare? Perché insomma assoggettarsi a tutti gli inconvenienti che circondano l’età infantile? Così ci diede esempio, è vero, di umiltà e di pazienza, ma tali esempi poteva darceli, come ce li diede, in età perfetta. Sembrerebbe dunque inesplicabile il motivo per il quale ci apparve bambino, tanto più che la sua anima sarebbe già stata adatta ad un corpo nel suo pieno sviluppo, capace di tutti gli atti d’un uomo giunto a perfetta età. Difatti mentre gli altri bambini sono in istato di perfetta ignoranza che andrà man mano dileguandosi, Egli fin dal suo concepimento fu sì ricolmo di tutti i tesori della sapienza e della scienza, che, a suo confronto, il più dotto tra gli uomini sarebbe un povero ignorante. Perché dunque volle comparire in tale condizione? – La fede c’insegna che Gesù venne al mondo per restaurare ogni cosa. Instaurare omnia quæ in terris sunt (Eph. 1, 10). Il peccato aveva guastata l’opera di Dio sotto ogni rapporto. Era quindi necessario che il Redentore, come coi suoi meriti e colla sua dottrina così col suo esempio, risanasse tutto l’uomo. Perciò non bastava si rendesse modello delle virtù riguardanti l’uomo individualmente considerato, ma poiché l’uomo è per natura socievole, conveniva che Gesù col suo esempio gli si facesse maestro di virtù anche nei suoi rapporti con la società. Conveniva insomma che coll’individuo risanasse la società stessa. Ora, o dilettissimi, perché l’uomo viva rettamente qual membro della società, è requisito essenziale l’ossequio alla autorità. — Ed oh! quali e quanti solenni esempi ci ha dato il Redentore in età adulta, di sommissione all’autorità dichiarando che essa viene da Dio. Ma poiché la società fondamentale, da cui dipende il benessere di ogni altra società, è la famiglia, il Verbo fatto uomo dispose di essere membro d’una famiglia dalla quale dispensa gli esempi delle più perfette virtù domestiche e sociali. — Volle pertanto convivere con Maria, sua vera Madre, sino al tempo della sua vita pubblica; e benché la sua generazione fosse per opera dello Spirito Santo e non di padre terreno, volle tuttavia che l’autorità paterna dirigente la sua famiglia fosse un nomo, non avventizio, ma congiunto per intimo naturale legame alla medesima, perché San Giuseppe fu vero marito dell’intemerata e purissima tra le Vergini. Fu dunque per nostro ammaestramento che il Salvatore si degnò di apparir pargoletto, di passare dall’infanzia ai successivi stadi della vita umana, come pure di richiedere le cure della sua santissima Madre e del suo putativo Padre. Infatti qual necessità vi era che essi gli procurassero l’alimento, mentre Egli è Colui che dà l’essere, la vita e l’alimento a tutte le creature? Forse non era sua quella provvidenza per cui Giuseppe e Maria trovavano di che nutrirlo e vestirlo? Qual bisogno aveva Egli della loro tutela? Non poteva Egli, come fece in altra età, sottrarsi prodigiosamente ai suoi nemici persecutori? Non poteva comandare ai venti ed alle procelle, camminar sulle onde, frenare gli spiriti d’abisso, disporre a suo piacimento di tutto il creato? — Qual bisogno che altri lo guidasse, se Egli è la Sapienza increata che infonde l’intelligenza e l’accorgimento in quelli che devono dirigerlo? — Ah! sì, è un tratto d’immensa carità, che ben meditato non può non riempirci d’indicibile stupore, l’abbassarsi di Gesù alla condizione di bambino, di figlio di famiglia, per essere nostro modello. – Né si pensi, soggiunge Sant’Agostino, che di tale abbassamento abbia solo in apparenza mostrato di provare, ma provò in realtà la debolezza, le privazioni, le ripugnanze e tutti gli inconvenienti che ne conseguono. Humanæ conditionis affectus non simulavit sed exhibuit, non necessitate conditionis, sed magisteri voluntate (Aug. contra Faust, lib. 26, c. 7). Pertanto, con vera dipendenza, quale si addice a figlio verso i genitori, s’assoggetta a Maria e a Giuseppe. — È da sottrarsi alla persecuzione di Erode, o, defunto quest’empio dopo sette anni, è da far ritorno a Nazareth? Gesù non fa cenno, non parla. Un Angelo illuminerà Giuseppe il capo della famiglia, e da questi dipenderà la fuga ed il ritorno. Né questa soggezione ha fine coll’infanzia. Ben poco ci narrano gli Evangelisti della vita di Gesù fino alla sua predicazione. Ma la risposta data a Maria e a Giuseppe quando, a dodici anni, rimase a loro insaputa nel tempio, ben ci fa comprendere ch’Egli non voleva disporre di sé, ma dipendere in tutto dai loro cenni. Non sapevate, disse, che dove mi chiama il Padre mio, io devo trovarmi? Nesciebatis quia in iis quæ Patris mei sunt oportet me esse? (Luc. II, 49). — Quasi dicesse: la straordinarietà stessa di quest’incidente dovea rendervi accorti che una volontà superiore mi obbligava a derogare alla rigorosa soggezione che costantemente vi professo. — E perché da tal fatto non si potesse pensare che la sua dipendenza da Maria e Giuseppe non fosse perfetta, l’Evangelista s’affretta a soggiungere che ritornò con loro a Nazareth e se ne stava soggetto ad essi. Et erat subditus illis (Luc. II, 51). Deh! qual lezione, o dilettissimi! Il Padrone dell’universo, per insegnarci il rispetto all’autorità, s’assoggetta per tal modo a coloro ai quali Egli stesso comunica l’autorità. Qual confusione per quei figli che non si conformano a questo divino esemplare, mentre è assoluta disposizione di Dio che devano star soggetti ai loro genitori; per figli, dico, tanto bisognosi di direzione, perché non hanno quell’esperienza che s’acquista solo coll’avanzar degli anni, e perciò sono tanto esposti alle illusioni ed alle seduzioni. — Qual rimprovero per tutti coloro che acciecati dalla superbia non venerano nei superiori l’autorità di Dio, ma se vi si adagiano, lo fanno solo per motivi umani, pronti a trasgredirne i comandi per quanto giusti, ed a ribellarsi alla legittima podestà, appena il possano senza danno. Deh! quanti guai non affliggono ai dì nostri la società e ne minacciano la rovina, appunto perché si disconosce il fonte dell’autorità che è Dio. — Contro quegl’infelici il mitissimo San Bernardo indicando l’esempio di Gesù fanciullo esclama: Confonditi, o uomo, confonditi superba polvere. Un Dio si umilia e tu ti esalti? Un Dio si assoggetta agli uomini e tu anelando a sollevarti sopra gli uomini, t’innalzi al di sopra del tuo Facitore? O uomo, se sdegni d’imitare un altro uomo, non deve sembrarti cosa indegna imitare il tuo Creatore (S. Bern. Hom. I super Missus). – Ma fissiamo ancora il pensiero sul fanciullo Gesù. Se in tutte, anche le minime cose, Egli pende dai cenni di Maria e di Giuseppe, quando tale dipendenza è in opposizione alla volontà del celeste Padre, non la osserva. — Un atto di sublime missione affidatagli dal Padre, richiede la sua presenza nel tempio. Egli allora s’apparta da Maria e da Giuseppe, permettendo l’affanno che ne deriverebbe a quei santi Personaggi, appunto per dimostrare come ogni terreno affetto deve farsi tacere, di fronte alla certa e precisa volontà dell’Eterno. Ah! non sia mai che la soggezione all’uomo ci porti a violare i voleri di Dio. Ciò non sarebbe un assoggettarsi alla autorità di Dio che risiede nell’uomo, ma un turpe assoggettarsi alla creatura in onta al Creatore. Quindi Pietro e Giovanni al Sinedrio, che ingiungeva loro di smettere l’esercizio dell’apostolato, rispondevano: Giudicate voi stessi se dinanzi al Signore sia giusto l’obbedire a voi anziché a Dio (Act. IV, 19). – Non sia mai che i figli trascurino una manifesta vocazione di dedicarsi interamente a Dio, o senza vocazione si avventurino in uno stato al quale Egli non li ha destinati, per non contristare i genitori. Dell’amore ai parenti, che fa preferire la loro volontà a quella di Dio, Gesù Cristo ha pronunciata questa terribile sentenza: Chi ama suo padre e sua madre più di me, non è degno di me: non est me dignus (Matth. X, 37). Eccovi, o figli dilettissimi, le splendide lezioni che ci porge il divin Salvatore, il quale per darcele si degnò di cominciare coll’infanzia la sua mortale carriera. Ecco perché, come predisse Isaia ci apparve pargoletto, e, come scrive S. Luca, fu trovato bambino circondato dalle cure della sua Genitrice e del suo padre putativo. Invenerunt Mariam et Joseph et ìnfantem positum in præsepio Luc. II. 16 — Non si creda tuttavia che colle considerazioni fatte finora si sieno posti in rilievo tutti gli esempi e gli ammaestramenti che risultano dalla circostanza che ha dato argomento ai nostri riflessi. Ben altri ne rimangono, e della più alta importanza: noi contentiamoci di considerarne un altro ancora.

2. Maria e Giuseppe trattano con Lui da veri genitori.

Il Redentore volle sulla terra essere membro d’una famiglia, perché da quella emanassero gli esempi di tutte le domestiche virtù. In essa Egli offrì sé stesso perfetto modello di figlio, rispettoso ed ossequente ai genitori. — Ma quali poi dovevano essere gli uffici ed i rapporti di Maria e di Giuseppe verso di Lui? — Dovevano alimentarlo, vestirlo, circondarlo di tutte quelle cure, che richiede il benessere corporale di un figlio. Così han fatto con la più affettuosa ed instancabile sollecitudine. Ma ciò che maggiormente attira la mia attenzione e che mi infonde quasi un senso di sgomento, è che sopra di Lui quei santi personaggi esercitavano veramente l’autorità paterna. E come mai, si potrà dire, essi per quanto grandi, per quanto santi, sapendo chi era Gesù, osavano sorvegliarlo quasi che ne abbisognasse, tenerlo soggetto e comandargli? – Ah! dilettissimi, se l’uomo ragiona con le sue corte vedute, si troverà dinanzi un inesplicabile mistero. Ma se per poco ci eleviamo a superiori considerazioni, troveremo che appunto perché illuminati e santi, appunto perché conoscevano bene Gesù, facevano così. — Essi, ripieni delta spirito divino, compresero che, posti a capo di una famiglia di cui Gesù volle essere figlio, era nei disegni dell’Eterno che con Lui esercitassero le parti di genitori, facendo tacere la ripugnanza derivante dalla profonda venerazione che per Lui nutrivano. Non erano guidati da umane considerazioni, per quanto nobili e plausibili, ma dalla sola volontà di Dio, manifesta e per l’ufficio cui furono assunti e per la condizione in cui il divin figlio si degnò di figurare. Per questo non esitano a sottoporlo alla dolorosa ed umiliante cerimonia della circoncisione. Nessuno meglio di loro sapeva che Egli non vi era soggetto, ma sapevano pure che il loro Gesù, si degnò d’apparir figlio di quella nazione nella quale i pargoletti per legge divina dovevano sottostare a tale cerimonia. — Per la stessa ragione, pargoletto di quaranta giorni, lo presentano al tempio per offrirlo al Signore e quindi riscattarlo, come per tutti i primogeniti prescriveva la legge mosaica, legge che certamente non poteva riguardare l’Uomo-Dio. – E che dirò poi della vigilanza e dell’impero esercitati da Maria e da Giuseppe sul fanciullo Gesù? L’Evangelio ci dice tutto con dire che se ne stava soggetto a loro. — Che a Nazareth s’occupasse di questa o di quella cosa, che si recasse in questo o quel luogo, pendeva dai loro cenni. — E poiché è compito dei genitori di educare i figli alle osservanze religiose, giunto ai dodici anni, lo conducono al tempio per la solennità della Pasqua, come era prescritto dalla legge per tutti i maschi, incominciando da quell’età. Vi era forse tenuto? Sarebbe follia ed empietà il pensarlo. Ma tant’è; la volontà di Dio, per rapporto ai genitori è tale, ed essi vi si conformano con tutta esattezza. — Quanto poi s’interessassero di averlo sempre in custodia, lo dicono le affannose ricerche, quando di ritorno a Nazareth, per un inevitabile equivoco, non lo trovarono in loro compagnia. Lo dicono le dolci ma accorate rimostranze della Vergine, allorché finalmente lo ritrovarono nel tempio. – Ma basti, o dilettissimi. Ora sia lecito domandare: Se a sì scrupolosa vigilanza si tennero obbligati Maria e Giuseppe, non perché Gesù ne abbisognasse, ma solo perché lo richiedeva il loro officio secondo i voleri del Cielo, quale sarà il dovere dei genitori verso i figliuoli? Ve ne sono molti di quelli che sanno sacrificarsi pel benessere fisico e materiale dei figli, perché civilmente educati ed istruiti riescano a ben figurare nel mondo, ad occupare posti luminosi e lucrosi, ad acquistare rinomanza e vantaggi terreni, ma quanto pochi si curano della vera educazione che consiste essenzialmente nell’indirizzarli al gran fine per cui furano creati, che è quello di servire il Signore e salvare l’anima. — Quanto raramente parlano ai figliuoli di Dio e dei loro doveri verso di Lui! — Quanto poco si curano d’infervorarli nelle pratiche di religione e di metterli in guardia contro i pericoli e le seduzioni del mondo: — Quanto spesso, per una stolta fiducia, rallentano la vigilanza massime per riguardo a certi ritrovi, a certe compagnie, a certe letture di libri e di giornali, allora più funesti, quando sotto la larva di cattolicismo e di pietà, nascondono il veleno dell’empietà! — E non si tratta già del figlio di Maria, impeccabile, ricolmo di tutti i tesori della grazia, vero Dio. Si tratta di miseri figli d’Adamo colle conseguenze della colpa d’origine, inclinati al male, accessibili a tutte le seduzioni dell’errore e del vizio. Mio Dio! quale spaventoso rendiconto al tribunale di quel Gesù, che se oggi consideriamo pargoletto, è pur giudice supremo degli uomini. Di quel Gesù che a costo di tanta pena, per la sua santissima Genitrice e per il casto Sposo di Lei, volle che per nostro ammaestramento esercitassero su di Lui scrupolosamente l’autorità e la vigilanza di genitori. Che risponderanno coloro che nell’educazione dei figli si prefiggono viste puramente mondane, e non l’adempimento della volontà di Dio, e quindi la vita religiosamente morale dei medesimi? Deh! piaccia al Signore che a quanti m’ascoltano sia dato di fissare a cuor tranquillo la capanna di Betlemme, nella coscienza di aver ricopiati gli esempi derivanti dalla condizione del Pargolo divino. — Piaccia al Signore che tali esempi vengano imitati da tutti. Per tal modo la società, funestata da tanti guai, perché il giusto concetto dell’autorità è troppo spesso disconosciuto e da chi deve esercitarla e da chi deve sottostarvi, mentre si dimentica che essa è da Dio e non da altri, la società, dico, si risanerà col vero culto della autorità nel fondamento della medesima che è la famiglia. Ed a questi miei voti infonda efficacia la benedizione coll’indulgenza plenaria che a nome e per concessione del Sommo Pontefice sto per impartirvi.

Credo.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
S. Luc II: 22
Tulérunt Jesum paréntes ejus in Jerúsalem, ut sísterent eum Dómino.

[I suoi parenti condussero Gesú a Gerusalemme per presentarlo al Signore.]

Secreta

Placatiónis hostiam offérimus tibi, Dómine, supplíciter ut, per intercessiónem Deíparæ Vírginis cum beáto Joseph, famílias nostras in pace et grátia tua fírmiter constítuas.

[Ti offriamo, o Signore, l’ostia di propiziazione, umilmente supplicandoti che, per intercessione della Vergine Madre di Dio e del beato Giuseppe, Tu mantenga nella pace e nella tua grazia le nostre famiglie.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

S. Luc. II: 51
Descéndit Jesus cum eis, et venit Názareth, et erat súbditus illis.

[E Gesú se ne andò con loro, e tornò a Nazareth, ed era loro sottomesso.]

Postcommunio

Orémus.
Quos cœléstibus réficis sacraméntis, fac, Dómine Jesu, sanctæ Famíliæ tuæ exémpla júgiter imitári: ut in hora mortis nostræ, occurrénte gloriósa Vírgine Matre tua cum beáto Joseph; per te in ætérna tabernácula récipi mereámur
.

[O Signore Gesú, concedici che, ristorati dai tuoi Sacramenti, seguiamo sempre gli esempii della tua santa Famiglia, affinché nel momento della nostra morte meritiamo, con l’aiuto della gloriosa Vergine tua Madre e del beato Giuseppe, di essere accolti nei tuoi eterni tabernacoli.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (143)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (10)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA

1861

DISCUSSIONE XI

Il Celibato ecclesiastico: i Voti monastici.

Prot. Sta bene pertanto, che la Chiesa abbia ed eserciti una piena potestà per imporre ai fedeli precetti disciplinari, purché si contenga entro i limiti di una conveniente moderazione. Ma la Cattolica Chiesa, o come voglia dirsi, il Papa, passa veramente agli estremi; imperocché ha stabilito una certa qualità di digiuni, di vigilie, che io credo contrari non meno alla parola di Dio che alle sante leggi della natura. Mi spiego: Ella ha ordinato che tutti i Sacri Ministri del culto vivano e muoiano nel celibato: che tutti i claustrali Monaci, Frati e Monache si leghino con voto perpetuo di castità! È questo un eccesso inaudito d’iniquità, essendo certo che Gesù Cristo o S. Paolo hanno di tal maniera disapprovato, e dissuaso questo infelicissimo stato, che il vivere nel celibato per piacere a Dio è una vera empietà: i voti fatti a tale oggetto sono empi, irriti e nulli. (Lutero. Lib. de Votis monastici!- Calvino: Lib. 4. Instit, cap. 3.- Confess. Augustana, Art. 27. etc.)

Bibbia. Dice Gesù Cristo : « V i sono degli eunuchi che si sono fatti eunuchi da loro stessi per amore del regno de’ cieli…, » Chi può capire capisca…. » Capisci tu o no? Se non capisci ascoltane dal medesimo una spiegazione. «Chiunque avrà lasciata la moglie per amor del mio nome, riceverà il centuplo, e possederà la vita eterna. (Matt. XIX, XII. 29)  » Ascolta adesso S. Paolo. « È cosa buona per l’uomo non toccar donna…. Bramo che voi tutti siate qual son io; ma ciascuno ha da Dio il suo dono, uno in un modo, uno in un altro. A quei che non hanno moglie, e alle vedove io dico, che è bene per loro che se ne stiano così come anch’io (sto così). Intorno poi alle vergini non ho comandamento dal Signore: ma ne do consiglio come avendo ottenuto dal Signore misericordia, perché io sia fedele…. Sei tu legato a una moglie? Non cercar di essere sciolto. Sei tu sciolto dalla moglie? Non cercar di moglie. Chi è senza moglie (N. B.) ha sollecitudine delle cose del Signore, del come piacere a Dio. Chi poi è ammogliato ha sollecitudine delle cose del mondo, del come piacere alla moglie, ed è diviso. E la donna non maritata, e la vergine ha pensiero delle cose del Signore, affine di esser santa di corpo e di spirito. La maritata poi ha pensiero delle cose del mondo, del come piacere al marito. – Chi ha risoluto fermamente nel suo cuore, non essendo astretto da necessità, ed è padrone della sua volontà, e ha determinato in cuor suo di serbare la sua vergine, ben fa. Dunque chi marita la sua vergine fa bene, e chi non la marita fa meglio. Ma sarà più beata se resterà così, secondo il mio consiglio: penso poi di avere io pure lo spirito di Dio. » (I. a’ Cor. VII, 1, 7, 8, 25 e seg.) – Finalmente sta scritto: « E udii una voce del cielo…. quasi di citaristi che suonavano le loro cetre, e cantavano come un nuovo cantico dinanzi al trono :… e niuno poteva dire quel cantico, se non quei cento quaranta quattro mila, i quali furono comperati di sopra la terra. Questi son quelli (N. B.) che non si sono macchiati con donne; imperocché sono vergini. Questi seguono l’Agnello dovunque vada. Questi sono comprati di tra gli uomini, primizie a Dio, e all’Agnello. (Apoc. XIV, 2 e seg) » – « Vi scongiuro, o fratelli, per la misericordia di Dio, che offriate i vostri corpi ostia viva, santa, gradevole a Dio, (che è) il razionale vostro culto. » (Rom. XII, 1) – Eccoti dunque dichiarato per divina sentenza che lo stato del celibato è migliore e assai più perfetto dello stato matrimoniale: che non solamente è da Gesù Cristo promessa la eterna vita in premio del celibato; ma che i vergini sono in Paradiso i suoi prediletti, che sempre, ovunque vada, lo seguono quali sue care primizie, e che la castità corporale tanto a Dio piace che l’ha per una specie di sacrifizio, di culto divino grandemente a lui accetto. Dopo ciò oserai dire ancora che – i voti sono empj, che chi li fa per piacere a Dio commette un’empietà? – È vero che Dio non avendo costretto alcuno a vivere in perpetuo celibato, la Chiesa non può costringere chicchessia ad abbracciare lo stato ecclesiastico, o monacale a cui tale obbligo è annesso; ma è pure altrettanto vero che poté annettere a tale stato quest’obbligo stesso per chiunque si sente di volontariamente abbracciarlo, per la potentissima ragione che i soli celibi sono veramente atti a servire Iddio, ed esercitare il culto divino; perché i soli celibi – hanno pensiero, sollecitudine delle cose del Signore, del come piacere a Dio, mentre i legati in matrimonio, hanno pensiero, sollecitudine delle cose del, mondo, e del come piacere alla comparte. –

58. Prot. Se la Chiesa ha questa potestà, perchè gli Apostoli non ne han fatto uso? Forse che il Papa ne sa più di essi? Qui ti voglio!

Bibbia. Chi ti ha detto che non ne han fatto uso? Ascolta. « La vedova si elegga di non meno di sessant’anni…. Ricusa le vedove più giovani; imperocché dopo che hanno lussuriato contro di Cristo, vogliono maritarsi: avendo condannazione, perché  hanno rotta la prima fede. (I. a Tim. V, 9, 11, 12) » Dimmi adesso, cos’è questa prima fede rotta rimaritandosi, se non la violazione del voto di perpetua castità? Che se altra cosa significasse, come avrebbe potuto dire S. Paolo che tali vedove maritandosi avevano la dannazione; mentre il medesimo altrove insegna che la vedova è libera di maritarsi con chi le piace? « La moglie è legata alla Legge tutto il tempo che vive il marito: che se muore il marito, ella è in libertà: sposi chi vuole: purché secondo il Signore. (I Cor. VII, 39) » Che ne dici? Su via da bravo: rispondi.

59. Prot. « Io vi confesso che non posso leggere questi passi: vi sono eunuchi che si son fatti tali pel regno de’ cieli: chi può intenderlo lo intenda. – Io vi dico in verità che chi avrà lasciato padre, o madre, o moglie, etc. pel mio nome, etc. Quegli che sta fermo in cuor suo, e non avendo alcuna necessità, ma ha potestà sul proprio volere, ed ha così stabilito nell’animo suo di serbare la sua vergine, fa bene. – Io dico: non posso legger questi ed altri passi senza riconoscere, che, sebbene il matrimonio non solo è permesso, ma onorevole, anzi Nostro Signore ha santificato colla sua presenza il rito nuziale, sollevandolo ad un mistero, e ad un’immagine della sua unione con la Chiesa, nondimeno una via più eccellente è indicata a quelli a’ quali ciò è dato. Egli è il carattere stesso della fede che mentre nobilita l’uso del benefizio promesso da Dio, addita a quelli che posson riceverla una strada più sublime, coll’andar loro innanzi. Così dichiara che ogni creatura di Dio è buona, e la consacra a nostro uso con la parola di Dio e l’orazione, eppure mostra una via più eccellente nel digiunare – Quegli che vede in segreto vi ricompenserà in palese. – Essa insegna che le nostre terre sono in poter nostro, eppure promette il centuplo a quelli che abbandonano case e terre per amor del suo nome e del Vangelo…. Ma perché gli uomini, precipitando le cose, dovranno saltare al lato opposto, ed esercitar la tirannia in senso contrario sulle coscienze degli uomini? Perché diffamare e spregiare come papistico ciò che è primitivo? Perché non dovrebbe il celibato usarsi da quelli a cui è dato per legare più fermamente gli affetti del cuore a Nostro Signore, anziché a Roma?

« La Scrittura dice: Quegli che non è maritato pensa alle Cose che sono di Dio: perché dunque recidere le aspirazioni di quelle anime più ardenti, che speran così di attendere al loro Signore senza distrazione? Perché non esser riconoscenti pei beni che godiamo, senza contendere a quelli che li hanno lasciati per amor di Dio la benedizione annessa alla propria annegazione, affinché possano darsi al meglio, totalmente a queste cose e al servizio del loro Signore?… Perché noi (protestanti) invece delle nostre società visitatrici non dovremo avere le nostre Suore della Carità, la cui immacolata religiosa purezza fosse il lor passaporto in mezzo alle scene della miseria e del vizio, recando intorno a se quel rispetto che anche il peccato sente verso l’illibatezza, e imprimendo un salutar senso di vergogna alla colpa colla loro stessa presenza? 1(L’anglicano dott. Pusey: Lettera al vescovo protestante di Oxford, 1839) ». – « I voti  (monastici) formano (nella vita monastica) una parte del culto divino.  (Melantone, Professione di fede, citata (V. n. 38) Art. X.) ». Sentite come ne scrissi una volta a certi miei seguaci: « Vi amo voi altri Wittemberghesi, allorché vi vedo assalire con tanto coraggio il Papa; ma i vostri matrimoni di Monache e di Frati sono veri incesti. (Lutero: Epist. ad Munzer: Ved. Audin, Storia della vita di Lutero, T. 1. p. 81. ediz. di Milano 1842.) »

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (28)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (28)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

TESTIMONIANZE DEI CONCILI ECUMENICI DEI ROMANI PONTEFICI, DEI SANTI PADRI E DELLE SACRE CONGREGAZIONI ROMANE CHE SI CITANO NEL CATECHISMO

DOMANDA 543a

S. Agostino, In Epist. Joannis ad Parthos, VIII, 1:

« Le opere di misericordia, i sentimenti d’amore, la retta devozione, la purezza di castità, la moderazione della sobrietà, sempre devon essere praticate…. son tutte virtù interiori. E chi è in grado di enumerarle tutte? È come un esercito del condottiero, che risiede nell’anima tua. Ebbene, a quel modo che un condottiero fa per mezzo dell’esercito quel che gli pare, così Gesù Cristo Signore, nel metter dimora nell’uomo, vale a dire nell’anima, per la fede (Agli Efes., III, 17) si vale, come coadiutori suoi, di codeste virtù ».

(P. L., 35, 2035 ss.).

DOMANDA 547a

S. Ambrogio, De Mysteriis, 42:

« Hai ricevuto l’emblema spirituale, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di prudenza e fortezza, spirito di scienza e di pietà, spirito di timor santo: e tu conserva quel che hai ricevuto. T’ha contrassegnato il Padre, t’ha confermato Cristo Signore e ti ha dato pegno in cuore lo Spirito ».

(P. L., 16, 419).

Il medesimo, De Sacramentis, III, 8:

« Segue (il Battesimo) contrassegno spirituale…. perché dopo esso, rimane il perfezionamento, quando per invocazione del sacerdote viene infuso lo Spirito Santo, Spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di prudenza e fortezza, spirito di scienza e pietà, spirito di timor santo: quasi le sette virtù dello Spirito ».

(P. L., 16, 453).

DOMANDA 549a.

Leone XIII, Encicl. Divinum illud munus, 9 mag. 1897:

« All’uomo giusto, inoltre, se cioè vive la vita della grazia divina ed esercita colle virtù, per così dire, le sue facoltà, occorrono assolutamente que’ sette cosidetti doni dello Spirito Santo, grazie a’ quali l’anima è armata e fortificata, sicché più facilmente e più prontamente obbedisce a’ suoi cenni e impulsi. Perciò questi doni hanno tanta efficacia da sollevarlo alla vetta della santità e sono così eccellenti da sussistere tali e quali, benché in modo più perfetto, nel regno de’ cieli ».

(Acta Leonis XIII, XVII, 141).

DOMANDA 552a.

Leone XIII, Encicl. Divinum illud munus, 9 mag. 1897:

« E per opera appunto di tali carismi l’animo è destato e trasportato a desiderare e conseguire le beatitudini evangeliche, le quali, come i fiori della primavera, son segno e annunzio dell’eterna beatitudine ».

(Ibid.).

DOMANDA 566a.

S. Girolamo, Adv. Jovinianum, II, 30:

« Ci son peccati leggeri e ci sono i gravi. Altro è il debito di diecimila talenti, altro quello d’un quadrante…. Tu vedi perché otteniamo perdono, se l’imploriamo per peccati piccoli, mentre è difficile ottenerlo per peccati gravi: vedi che c’è gran distanza tra peccati e peccati ».

(P. L., 23, 327).

S. Cesario d’Arles, Serm. 104, 2:

« E, benché l’Apostolo enumeri parecchi peccati capitali, noi però diciamo in breve quali sieno, per non sembrar di ridurre a disperazione: il sacrilegio, l’omicidio, l’adulterio, la falsa testimonianza, il furto, la rapina, la superbia, l’invidia, l’avarizia; e, se a lungo covata, l’ira; e l’ubbriachezza abituale è pur computata nel numero di essi. Difatti chiunque sa d’essere schiavo di qualcuno di essi, se non si corregge degnamente e, avendo tempo, non ne fa assai lunga penitenza e non abbonda in elemosine e non si astiene da essi per l’appunto, non potrà purgarsi soltanto in quel fuoco transitorio, di cui parla l’Apostolo, ma lo tormenterà senza rimedio l’eterna fiamma. È utile anche, benché a tutti sia noto quali sieno, accennare alcuni almeno de’ peccati veniali, che dirli tutti sarebbe troppo lungo. È peccato veniale prender cibo e bere più del necessario, parlare senza misura o tacere più di quel che occorre…. Non crediamo che all’anima rechino morte simili peccati; però la contaminano con una specie di pustole e di orribile scabbia, sicché non può presentarsi che a stento, o almeno con grande confusione, all’abbraccio dello Sposo celeste… Se poi non ci ricordiamo di ringraziar Dio nella tribolazione, nè di redimere i peccati colle buone opere, staremo al purgatorio fino a quando que’ peccati veniali, come legna, stoppia o fieno, sien consumati. Ma qualcuno potrebbe dire : Non m’importa quanto vi starò, purché giunga alla vita eterna. Nessuno dica così, fratelli carissimi, perchè quel fuoco purgativo sarà più doloroso d’ogni pena che a questo mondo si può pensare, o vedere, o sentire ».

(P. L., 39, 1946).

DOMANDA 570a.

S. Pio V, Costit. Ex omnibus afflictionibus, 1 ott. 1567, prop. 20 tra quelle condannate di Baio:

Non c’è alcun peccato che di natura sua sia veniale; ma ogni peccato merita la pena eterna ».

(Du Plessis, 1. c. III, II, 110)

DOMANDA 583a.

S. Basilio M., Homilia in Psalm 33:

« Quando t’invade bramosia di peccato, vorrei che pensassi al terribile e intollerabile tribunale di Cristo, nel quale siederà il giudice sopra un altissimo trono e assisteranno tutte le creature, tremando alla gloriosa vista di lui. Vi sarem condotti anche ciascuno di noi, a rispondere delle azioni compiute in vita. Ai grandi peccatori si faranno subito intorno angeli terribili e deformi, con facce infiammate e spiranti fuoco, palesando così la crudeltà del proposito e del volere, simili in volto alla notte, per il dolore e l’odio contro il genere umano. Inoltre vorrei tu pensassi al baratro profondo, alle fitte tenebre, al fuoco senza splendore, capace di bruciare, ma privo di lume; poi una specie di vermi che inoculan veleno e divoran le carni, non mai sazii di rodere e per la furia del rodere intollerabilmente tormentosi. Finalmente, supplizio più di tutti molesto, quell’ignominia e confusione senza fine. Temi queste cose e preso da questo timore poni un freno nell’anima e reprimi il desiderio del peccato.

(P. G., 29, 370-1).

DOMANDA 585a.

Concilio di Trento : Vedi D. 74.

DOMANDA 586a.

Benedetto XII; Vedi D. 62.

S. Agostino, De anima, II, 8:

« Insomma ignoravi proprio quel che (Vincenzo Vittore) crede giustamente e salutarmente cioè che le anime son giudicate all’uscir da’ corpi, prima di presentarsi a quel giudizio, dov’esse dovranno esser giudicate, dopo rivestito il proprio corpo, e o patire o gioire in quella carne, colla quale han vissuto? Chi insordì contro il Vangelo con tanta ostinazione della mente da non intendere o non credere intese tali verità nel povero che, dopo morte, fu accolto in seno ad Abramo e nel riccone, di cui è descritto il tormento giù nell’inferno? »

(P. L., 44, 498).

DOMANDA 588a

Concilio di Firenze, Decretum prò Græcis:

« Similmente, le loro anime son purificate dalle pene del purgatorio, se muoiono davvero pentiti nell’amor di Dio, prima d’aver sodisfatto con degne opere di penitenza ai peccati in opere ed omissioni; e che, per esser alleviate da tali pene, giovano loro i suffragi de’fedeli che sono ancora in vita, cioè le S. Messe, le preghiere e le elemosine e le altre opere di pietà, che, secondo le norme della Chiesa, sogliono farsi da’ fedeli per gli altri fedeli. Inoltre son subito accolte in cielo a contemplare apertamente Dio uno e trino, com’è, l’uno più perfettamente dell’altro in proporzione de’ meriti, l’anime di quelli, che dopo ricevuto il battesimo non si macchiarono affatto di colpa, oppure si son purificate o in vita o, spoglie de’ loro corpi, come s’è detto quassù. Ma l’anime di quelli, che muoiono in peccato mortale attuale o nel peccato originale soltanto, subito scendono agl’inferi per una punizione però diversa ».

(Mansi, XXXI, 1031).

S. Giovanni Damasceno, De fide ortodoxa, IV, 27:

« Dunque risorgeremo coll’anima ricongiunta di nuovo al corpo, esente ormai da corruzione, e ci presenteremo dinanzi al tremendo tribunale di Cristo, e allora il diavolo e i suoi ministri e l’uomo suo, cioè l’Anticristo, e gli uomini empii e delittuosi saran dannati al fuoco eterno; fuoco, cioè, non a somiglianza del nostro, ma quale Dio sa. Invece quelli che hanno fatto bene rifulgeranno come il sole in compagnia degli Angeli nella vita eterna, col Signor nostro Gesù Cristo, per vedere ed esser veduti sempre e godere perciò d’una gioia che non verrà mai meno, lodandolo col Padre e collo Spirito Santo per infiniti secoli di secoli. Così sia ».

(P. G., 94, 1228).

DOMANDA 589a.

Concilio IV di Laterano: Vedi d. 179;  Concilio di Firenze, d. 585; Benedetto XII, d. 62; Pio IX, d. 162.

Papa Vigilio, Adv, Origenem, can. 9:

« Sia scomunicato chi dice o pensa ch’è temporaneo il castigo de’ demonii e degli empii e che avrà una fine, oppure che avverrà la riabilitazione e la reintegrazione de’ demonii e

degli empii ».

(Mansi, IX, 534).

DOMANDA 59la.

Concilio di Firenze : Vedi D. 588.

S. Gregorio Magno, Dialogus, IV, 43:

« Unico è il fuoco dell’inferno, ma non tormenta nelmodo medesimo tutti i peccatori, perchè laggiù ciascuno patisce tanto quanto esige la sua colpa ».

(P. L., 77, 401).

S. Agostino, De Fide, spe et caritate, 3:

« Dopo la risurrezione, compiuto i l giudizio universale, avranno fine le due città, cioè quella di Cristo e quella del diavolo, quella de’ buoni e quella de’ cattivi, l’una e l’altra però di angeli e insieme di uomini. Agli uni mancherà il volere, agli altri il poter peccare, o qualsiasi mezzo di morire; e gli uni vivranno davvero una vita perpetuamente felice, gli altri saranno per sempre infelici nell’eterna morte senza poter morire, perchè vivranno gli uni e gli altri senza fine. Ma gli uni godranno della felicità l’uno meglio dell’altro, gli altri patiranno l’uno meno dell’altro ».

(P. L., 40, 284).

DOMANDA 592a.

Concilio II di Lione (1274): Professio fidei Michaelis Paleologi:

« …. Che se davvero moriranno pentiti nell’amore, prima d’aver sodisfatto alle colpe commesse o alle omissioni con degne opere di penitenza, le anime di essi dopo morte son purificate dalle pene del purgatorio, come ci ha spiegato il fratello Giovanni: e ad esse giovano, per sollievo da siffatte pene, i suffragi de’ fedeli che sono ancora in vita, cioè le S. Messe, le preghiere e le elemosine e le altre pratiche di pietà che, secondo le norme della Chiesa, sogliono i fedeli fare per altri fedeli ».

(Mansi, XXIV, 70).

Concilio di Firenze: Vedi D. 588.

Concilio di Trento, sess. XXV, Decretum de Purgatorio:

« Siccome la Chiesa Cattolica, ammaestrata dallo Spirito Santo, ha insegnato, sulla scorta delle sacre scritture e dell’antica tradizione de’ Padri, tanto ne’ Sacri Concilii quanto recentemente in questo sacrosanto Sinodo, che il purgatorio esiste e che le anime ivi relegate aiutate co’ suffragi de’ fedeli, specie poi col sacrificio dell’altare, il Santo Sinodo prescrive ai Vescovi di curare con ogni premura che sia creduta e professata da’ fedeli cristiani e insegnata e predicata dappertutto la sana dottrina intorno al Purgatorio, com’è tramandata da’ sacri Padri e da’ sacri Concilii…. Procurino inoltre i Vescovi che si adempiano con pietà e devozione i suffragi de’ fedeli vivi, cioè le sante Messe, le preghiere e le elemosine e le altre pratiche di pietà che, secondo le norme della Chiesa, sogliono i fedeli fare per altri fedeli; e quelle che son d’obbligo per essi, secondo le disposizioni testamentarie o per altro titolo, siano compiute con cura e diligenza, non per burocrazia, da’ sacerdoti della Chiesa e dai ministri e dalle altre persone che vi son obbligate ».

Benedetto XII; Vedi D. 62.

Leone X, Costit. Exsurge Domine, 15 giug. 1520, propp. 37-40 tra le condannate, contro gli errori di Martin Lutero:

a 37. I Purgatorio non può esser dimostrato in base a sacra Scrittura, compresa nel canone.

« 38. Le anime nel Purgatorio non son sicure della loro salvezza, almeno tutte: e non è dimostrato da alcuna ragione o da passi scritturali qualsiasi ch’esse son fuori dalla condizione di meritare o di accrescer la carità.

« 39. Le anime in Purgatorio peccano ininterrottamente ogni volta che invocano riposo e inorridiscono delle pene.

« 40. Le anime liberate dal Purgatorio per i suffragi de’ viventi godono minor beatitudine che se avessero sodisfatto per conto proprio »

(Bullarium Romanum, 1. c. 751).

Pio IV, Costit. Injunctum nobis, 13 nov. 1564, Professione di Fede Tridentina:

« Fermamente credo che c’è il Purgatorio e che le anime ivi relegate sono aiutate co’ suffragi de’ fedeli; similmente che si devono venerare e invocare i Santi che regnano insieme con Cristo e ch’essi presentano a Dio preghiere per noi e che devono esser venerate le loro reliquie. Affermo con sicurezza che si devon tenere e conservare le imagini di Cristo e della Madre di Dio sempre Vergine, nonché degli altri Santi, e che ad esse deve tributarsi debito onore e riverenza; inoltre che da Cristo fu lasciata alla Chiesa la facoltà delle Indulgenze e l’uso di esse è oltremodo salutare al popolo cristiano».

(Mansi, XXXIII, 221 s.).

S. Gregorio Magno, Dialogus, IV, 39:

« Ognuno, quale si parte dal mondo, tale si presenta al giudizio. Si deve credere però che prima del giudizio vi è un fuoco purificatore di certe colpe lievi, in forza di quel che dice la Verità che non sarà perdonato nè in questo nè nel mondo futuro (Matt. XII, 32) chi bestemmierà contro lo Spirito Santo. Da questa espressione si può capire che certe colpe si possono cancellare in questo mondo, certe altre invece all’altro mondo. È logico infatti che, se qualcosa si nega di uno, s’intenda concessa per altri. Però, come ho detto, s’ha da credere che ciò può accadere per i piccoli e minimi peccati ».

(P. L . , 77, 396).

DOMANDA 595a;

S. Agostino, De Civitate Dei, XXI, 13, 16:

« Alcuni scontano le pene temporali solamente in questa vita, altri dopo morte, altri in questa vita e dopo morte, ma prima di quel severissimo ed ultimo giudizio patiscono. Non vanno però tutti alle pene eterne, che ci saranno dopo quel giudizio, coloro che dopo morte scontano quelle temporali. « Si creda pure che non ci saranno pene purificative, tranne che prima dell’ultimo e tremendo giudizio. Però non si deve negare che lo stesso fuoco eterno, a seconda delle colpe, sarà per gli uni meno, per gli altri più tormentoso, sia che ne varii la forza e l’ardore in proporzione alla pena, sia che pur ardendo egualmente per tutti, non tutti sentano eguale tormento ».

(P. L . , 41, 728, 731).

DOMANDA 596a.

Concilio IV di Laterano: V. D. 179; Concilio di Firenze, D. 585; Benedetto XII, D. 62.

Concilio di Vienna (1311-12) contro gli errori dei Beguardi e delle Beghine:

« 5. Ogni natura intellettiva è in sè stessa naturalmente beata e l’anima non ha bisogno del lume di gloria che la elevi a veder Dio e a goderne beatamente ».

(Mansi, XXV, 410).

DOMANDA 597a.

Concilio di Firenze: Vedi D. 588; Concilio di Trento, D. 282.

S. Gregorio Magno, Moralia, IV, 70:

« Poiché in questa vita c’è per noi discernimento di opere, nell’altra ci sarà senza dubbio un discernimento di dignità sicché chi nel merito supera qui un altro, lassù lo superi nel premio. Perciò dice la Verità nel Vangelo: In casa del Padre mio son molte le dimore (Gio. XIV, 2). Ma proprio nella diversità delle dimore sarà in qualche senso concorde la diversità stessa de’ premii; perchè in quella pace ci unisce tal forza che uno gioisce d’aver ricevuto in altri quel che non ha egli stesso ricevuto. Per questo ricevono egualmente un denaro tutti senz’aver lavorato egualmente nella vigna (Matt., XX, 10). In verità presso il Padre le dimore son molte e pure lavoratori differenti ricevono il medesimo denaro; perchè c’è un’unica beata letizia per tutti, benché non identica per tutti sia l’altezza di vita ».

(P. L., 75, 677).

Afraate, Demonstrationes, XXII, 19:

« Ascolta ora l’Apostolo che dice: Ognuno riceverà il premio a norma della sua fatica (I ai Cor., III, 8). Chi avrà lavorato poco, riceverà secondo la fatica sostenuta. Chi avrà corso mólto, avrà premio in misura della sua corsa…. E dice ancora l’Apostolo: Una stella supera l’altra di splendore; così sarà pure la risurrezione de’ morti (I ai Cor., XV, 41-2). Sappi perciò che, anche quando gli uomini entreranno nella vita, una mercede sarà pure più grande dell’altra e più insigne una gloria dell’altra e più cospicuo un premio dell’altro ».

(Patrologia Syriaca, I, I, 1030).

S. Efrem, Hymni et Sermones, 11:

« Chi avrà ben operato, entrerà in un luogo pieno di beni; rimarranno invece nell’inferno i cattivi per esser pasto al fuoco e in balìa delle fiamme, sicché ciascuno se n’andrà al suo posto; qui uno sarà immerso nel fango, donde più non si solleverà, là un altro sarà immerso nel fuocc per rimanervi in eterno; chi sarà avvolto nelle tenebre e non vedrà mai lume; chi scenderà nell’abisso e non lo risalirà più; chi ancora entrerà in luogo santo per rimanervi sempre. Chi siederà sul secondo gradino, chi sul terzo, altri saran levati fino al qunto, altri al decimo, altri al trentesimo, altri più su…. perché ciascuno avrà dalla divina giustizia in proporzione della sua fatica ».

(Lamy, o. c, II, 424).

S. Girolamo, Adv. Jovinianum, II, 32, 33, 34:

« Tocca a noi prepararci premii differenti secondo il differente sforzo…. Se dovessimo essere uguali nel cielo, inutilmente qui ci umilieremmo per poter essere là più grandi…. Perchè perseverano le vergini? perchè s’affaticano le vedove? Perchè sono continenti le maritate? Per quanto tutti abbiam peccato, tuttavia dopo il pentimento saremo come gli Apostoli ».

(P. L., 23, 329, 330, 333).

S. Girolamo, Adv. libros Rufini, I , 23 :

« Come non è detto arcangelo se non chi è primo tra gli angeli, così non si direbbero principati podestà e dominazioni se non vi fossero altri al disotto di loro e di grado inferiore…. Come anche tra gli uomini l’ordine delle dignità è diverso a seconda della diversa fatica, avendo il vescovo e il prete e ogni dignità della Chiesa il suo posto, pur essendo tutti uomini; così (sappia) che ci son meriti diversi fra gli angeli, e tuttavia tutti appartengono alla dignità angelica ».

(P. L., 23, 416-17).

S. Agostino, Sermo, 87, 6:

« Saremo dunque uguali in quel premio, primi gli ultimi e ultimi i primi; perchè il famoso denaro (Matt., XX, 2) è la vita eterna e tutti saranno uguali nella vita eterna. Splenderanno sì uno più, uno meno secondo i meriti diversi; ma, in ordine alla vita eterna, tutti saranno uguali ».

(P. L., 38, 533).

Il medesimo, In Joannem, LXVII, 2:

« Uguale per tutti è quel denaro, che il padre di famiglia comanda di dare a tutti gli operai della vigna, senza distinguere tra chi ha lavorato di più e chi meno (Matt., XX, 9); ora con quel denaro si allude alla vita eterna dove nessuno vive più di un altro, perchè nell’eternità non è diversa la misura del vivere. Ma le molte dimore (Gio., XIV, 2) alludono alla diversa ricompensa de’ meriti nell’unica e identica vita eterna ».

(P. L., 35, 1812).

ALCUNI PUNTI DISCUSSI CHE S’INCONTRANO NEL CATECHISMO

(PER I CATECHISTI CHE SPIEGANO IL TERZO CATECHISMO)

I.

DOMANDA 112a.

Discutono i teologi a proposito degli uomini che saran vivi nell’ultimo giorno. Alcuni ritengono che non moriranno prima del giudizio universale, ma saranno giudicati da vivi: e s’appoggiano tanto alle parole del Simbolo « di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti » quanto a quelle dell’Apostolo Ia ai Cor., XV, 51, che si leggono in molti codici greci: « Non tutti dormiremo, ma tutti saremo trasformati ». Però i più pensano che anch’essi moriranno per risorgere subito e poi subire, insieme con tutti gli altri, il giudizio universale. Difatto la Scrittura insegna: La morte passò in tutti gli uomini, perchè in lui tutti peccarono (Paolo, Ai Rom., V, 12); come in Adamo tutti muoiono, così pure tutti torneranno a vita in Cristo (I ai Cor., XV, 22). Giustamente ritengono più sicura e più probabile questa sentenza S. Tommaso, la, IIæ, q. 81, a. 3, ad I um; il Billot, De novissimis, tesi XII: P. Hugon, De novissimis, q. 1, n. 4; il Lépicier, De novissimis, p. 19 segg. Se la competente autorità dichiarerà certa la seconda opinione, nella risposta alla cit. Dom. 112 sarà facile, dopo le parole: ancor vivi aggiungere: per morir subito.

II.

DOMANDA 151a.

Se la Chiesa sia con giudizio solenne sia per ordinario e universale insegnamento propone da credere a tutti una verità come divinamente rivelata è certo per tutti (Dom. 148) a) che la Chiesa è infallibile nel proporre questa verità in questo modo; 6) che tutti devono accettare, e per fede divina e cattolica questa verità; (La parola cattolica sembra dal Concilio Vaticano aggiunta per significare che è necessaria tal fede se uno vuol esser membro della Chiesa cattolica, perchè chi nega o dubita d’una di queste verità con ostinazione è eretico e perciò più non appartiene alla Chiesa cattolica.) c) che perciò è un eretico chi la nega o ne dubita con ostinazione. Se la Chiesa, nel modo sopraddetto, propone da credere a tutti una verità per sè stessa non rivelata, ma connessa con quelle rivelate, come sono i fatti dogmatici e le censure contro le proposizioni che dalla Chiesa sono state proscritte e proibite (Dom., 150, 151) tutti del pari ammettono a) che la Chiesa è infallibile nel proporre anche questa verità in questo modo; b) che tutti debbono accettare, con interiore consenso, questa verità, sicché chi la nega o ne dubita con ostinazione commette peccato grave; c) che però costui non è in senso stretto eretico. Dunque noi accettiamo questa verità per fede, benché non cattolica, ma per qual fede? I più sostengono che l’accettiamo per fede ecclesiastica, perchè le verità di cui si parla non sono dette da Dio, ma soltanto dalla Chiesa, sotto l’assistenza di Dio (Il Card. Billot, De Ecclesia thes. 18 e De virtutibus infuses thes. 13; P. Palmieri, P. Schultes….). – Altri insegnano che accettiamo anche tal verità per fede divina, inquantochè l’accettiamo per l’infallibilità della Chiesa; ma siccome l’infallibilità della Chiesa poggia sulla parola di Dio che le promette la sua assistenza, primo e ultimo fondamento della nostra fede è la parola di Dio; e questa è fede divina. Altri, con altre parole, intendono questa fede (P. Schiffini S. J . , De virtutibus infusis, disp. III, sez. IV; P. Marin Sola O. P., La evolución homogénea, cap. V.)

Noi tralasciamo nel catechismo questa controversia de’ teologi, come si può vedere nella risposta alla cit. dom. 151.

III.

DOMANDE 158a . E SEGG.

Si domanda se la scomunica, massima tra le pene spirituali, comporti l’esclusione dal corpo della Chiesa, sicché lo scomunicato più non sia un membro della Chiesa.

Ci son tre pareri:

Il primo è affermativo per tutti gli scomunicati, non soltanto pei vitandi, ma pure pei tollerati. Sembrano appoggiar questo parere le parole della sacra Scrittura in Matt., XVIII, 17: Se non ascolterà la Chiesa, sia per te come un gentile e un pubblicano e quelle di parecchi santi Padri e Dottori e le formole della scomunica e dell’assoluzione, applicate a tutte le scomuniche.

Il secondo è negativo per i tollerati, affermativo per i vitandi: parere più in voga presso i moderni teologi, che intendono il riferito argomento d’autorità soltanto per i vitandi.

Finalmente il terzo è negativo per tutti gli scomunicati, anche pei vitandi, perchè nel Codice di D. C. can. 2257-2267, dove sono elencate tutte le pene contro gli scomunicati, non si legge nemmeno a proposito de’ vitandi questa gravissima pena, cioè l’esclusione dal corpo della Chiesa.

Noi abbiamo seguito il secondo, più in voga, come si è detto, presso i teologi moderni; ma se la competente autorità dichiarerà che il primo o il terzo hanno almeno una qualche probabilità, sarà facile correggere quel ch’è stato detto alle dom. 158 e segg.

IV.

DOMANDE 175a 296a.

Si domanda se possiamo pregare le anime del Purgatorio affinchè intercedano per noi dinanzi a Dio. L’opinione affermativa non soltanto è più accetta presso i teologi, specie moderni, ma è anche conforme, cosa più importante, alla pratica ordinaria de’ fedeli, alla quale fin qui la Chiesa in nessun modo ha contraddetto. Son contrari però teologi autorevoli, alcuni de’ quali citano in favore della loro opinione anche S. Tommaso, il quale insegna nella 2.a, 2æ, q. 83, art. 11, a l3° punto che le anime del Purgatorio non sono in condizione di pregare, ma piuttosto che si preghi per esse. Ma pure fra i tomisti non mancano quelli che intendono in altro senso le parole di S. Tommaso, cioè nel senso che il S. Dottore nega alle anime del Purgatorio una preghiera meritoria, quale risponde al nostro stato di vita, e la preghiera d’intercessione propriamente detta, che ha origine dallo stato di gloria, non però la preghiera che compete a tutti quelli che hanno carità e consegue alla comunione de’ Santi.

Noi riteniamo certa l’opinione affermativa, soprattutto perchè, come s’è detto, è conforme alla pratica dei fedeli, alla quale non mai contraddisse la Chiesa; di qui la risposta alle dom. 175 e 296. Che se la competente autorità dichiarerà erronea o in qualche modo dubbia quest’opinione, sarà facile correggere le citate risposte.

V.

DOMANDA 359a

A proposito de’ bambini, che muoiono col solo peccato originale, la dottrina insegnata nel catechismo è oggi comune, vale a dire che son privi della beatifica visione di Dio e così subiscono la pena del peccato originale, cioè quella del danno, non invece la pena del peccato personale, cioè quella del senso. Ciò posto, si domanda se abbiano cognizione della mancanza della visione beatifica e, se sì, patiscano o no dolore per questa consapevolezza. Qui son discordi i teologi.

Viene dapprima l’opinione di S. Tommaso. L’Angelico in 2. dist. 33, q. 2, a 2, aveva insegnato che le anime dei bambini conoscono d’esser prive della vita eterna e la cagione di essere così escluse e che tuttavia non se ne affliggono affatto. Ma poi nel De Malo, q. 5, a. 3 mutò parere, benché rimanga tal quale la conclusione, cioè che le anime dei fanciulli son punite unicamente colla privazion della visione beatifica e che per cagion d’essa, da loro ignorata, non hanno affatto dolore. « Le anime dei bambini non mancano, peraltro, della cognizione naturale, qual è propria dell’anima separata conforme alla sua natura, ma non hanno la soprannaturale, innestata qui in noi dalla fede, perché qui essi non ebbero in atto la fede, nè ricevettero il Sacramento della fede. Orbene appartiene alla cognizione naturale che l’anima sappia d’essere stata creata per la felicità e che la felicità consiste nel conseguire il bene perfetto. Ma è al disopra della cognizione naturale il sapere che quel bene perfetto, per cui è fatto l’uomo, consiste nella gloria, che i Santi possiedono. Perciò dice l’Apostolo che occhio non vide, nè orecchio udì, nè in cuor d’uomo fu capito mai quel che Dio ha preparato per chi lo ama e poi soggiunge: A noi fu rivelato da Dio per mezzo dello Spirito Santo; ora questa rivelazione riguarda la fede. Dunque le anime dei bambini non sanno d’esser private di tal bene e perciò non ne hanno dolore, ma possiedono senza dolore ciò che hanno per natura ». Quest’opinione non fu accettata da altri teologi. Così il Bellarmino De omissione gratiæ et statu peccati t. VI, cap. 6 pensa come probabile che « i bambini, morendo senza Battesimo, avranno dolore nell’anima perchè capiranno d’esser privi della felicità, esclusi dalla compagnia de’ fratelli e genitori giusti, relegati al Limbo, come in una prigione, e destinati a vivere nel buio sempiterno; però che questo dolore è in loro leggerissimo e mitissimo…». E i Virceburgensi Theol. Dogm., De Pecatis, n. 134 e segg., espongono queste tesi: i bambini, morendo senza Battesimo, son puniti colla privazione della felicità soprannaturale — son puniti anche colla privazione della felicità naturale — sembra più probabile che non sieno puniti colla pena del senso — son tristi per la privazione della felicità. Tralasciamo altre più severe opinioni di teologi. — In questa controversia noi, nel catechismo, insegniamo quel che è comunemente ammesso da’ teologi, appoggiati all’autorità di Innocenzo III, Pio VI, Pio IX.

VI.

DOMANDA 513a,

Per tutti è certo che le virtù teologali (fede, speranza, carità) sono infuse da Dio, com’è affermato espressamente nel catechismo, dom. 513, e che per via naturale non si possono conseguire. E delle virtù morali? C’è discussione tra i teologi; ma per ben intenderla bisogna notare alcune cose. Non si discute degli atti di virtù morale diretti a ottenere un fine d’ordine naturale; perché tutti ammettono che per compiere questi atti basta la virtù morale naturale, anzi nemmeno è necessario l’aiuto della grazia attuale. Così pure tutti ammettono che gli atti di una virtù morale diretti a ottenere un fine di ordine soprannaturale — per es. quando uno fa il digiuno per castigare e render docile il suo corpo — se si è in istato di peccato mortale, possono esser compiuti per la virtù morale naturale sotto l’influsso delle virtù teologiche (fede e speranza) e coll’aiuto della grazia attuale; e che a compierli non occorre una virtù morale infusa; però questi atti non son meritorii di vita eterna, per quanto dispongano alla giustificazione. Ma, e se si ha la grazia santificante? Allora questi atti hanno merito di vita eterna, donde il dubbio se anch’essi possono compiersi per virtù morale naturale sotto l’influsso delle tre virtù teologali, e col sussidio della grazia attuale, oppure occorra una virtù morale infusa. I Tomisti dicono che per compiere questi atti occorrono assolutamente le virtù morali infuse e che queste sono infuse insieme colla grazia santificante e insieme pure si perdono per causa del peccato. S’appoggiano all’autorità di Innocenzo III e del Catechismo per i parroci e alla ragione teologica. (Innoc. III in cap. 3 Majores, Sul Battesimo: Non tutti concedono in senso assoluto ciò che dicono gli objettanti che cioè la fede o la carità e le altre virtù non sono infuse ai bambini, in quanto non consentono: perchè a tal proposito si disputa fra i dottori di teologia. Alcuni affermano che in forza del Battesimo è rimessa la colpa ai bambini, ma non è concessa la grazia; altri dicono che son rimessi i peccati e infuse le virtù, possedendole quanto all’abito, non quanto all’uso, fino a che giungano a età competente. Il catechismo per i parroci, p. II, c. II, n. 51: « Allora sopraggiunge (nel Battesimo) il nobilissimo corteggio di tutte le virtù, che sono in fuse all’anima da Dio insieme colla grazia »). – Difatti le potenze dell’anima, benché agiscano sotto l’influsso delle virtù teologali e col sussidio della grazia attuale, non possono, abbandonate alle forze di natura, compiere atti proporzionati a quel bene soprannaturale, ch’è la vita eterna. È dunque necessario che Dio infonda nelle potenze dell’anima gli abiti operativi di quegli atti; ora tali abiti son le virtù morali infuse. Questa opinione dei tomisti è la più comune tra i teologi. Invece i scotisti pensano che non sia necessario ammettere, nel caso presentato, le virtù morali infuse da Dio. S’appoggiano all’autorità del Concilio di Trento sess. VI, cap. 7, dove il Concilio insegna che nella giustificazione s’infondono le virtù teologali, senza far cenno delle morali; e c’è anche la ragione teologica. Non si può dubitare, dopo conseguita la giustificazione, che l’uomo giusto può, sotto l’influsso delle virtù teologali e col sussidio della grazia attuale, compiere questi atti colle forze di natura; se infatti poteva ciò prima della giustificazione, cosa ammessa da tutti, lo potrà anche meglio dopo la giustificazione. Che, inoltre, dopo la giustificazione questi atti sieno meritevoli di vita eterna si deduce dal Con. di Trento, sess. VI, can. 32 (Tra le Testimonianze vedi questo canone tridentino, dom. 282 e le parole di S. Agostino, dom. 66) e dalla dottrina teologica sulla grazia santificante. – Difatti in virtù della grazia santificante l’uomo è sollevato a tal’altezza da diventar membro vivo di Gesù Cristo, tempio dello Spirito Santo, partecipe della divina natura, figlio di Dio (adottivo). « E se figlio, dice Paolo, ai Gal., IV, 1, anche erede per bontà di Dio » (La stessa cosa ripete l’Apostolo, Ai Rom., VIII, 16 ss.); ossia quegli atti, in virtù della grazia santificante, sono atti ormai di figlio; e, se son atti di figlio, sono atti di erede della gloria celeste; e, se son atti di erede della gloria celeste, sono anche atti meritevoli della vita eterna. Tutti i catechismi non fanno parola di tal questione (e di parecchie altre, circa le virtù acquisite o infuse, in discussione presso i teologi).

VII.

DOMANDA 583 E SEGG.

Non sarà fuor di proposito toccar qui brevemente de’ varii insegnamenti e opinioni sui Novissimi, segnatamente sull’Inferno e sul Purgatorio. Dell’Inferno s’ha da credere per fede divina:

1) C’è l’Inferno, costituito dai demonii e da quelli che son morti nel peccato mortale, anche se commesso una volta sola.

2) Nell’Inferno i dannati son puniti con doppia pena, cioè quella del danno e quella del senso, specialmente del fuoco.

3) Sono eterne, nè avranno mai fine o sollievo, le pene sofferte all’Inferno dai dannati.

4) Tuttavia non sono identiche per tutti, ma differenti conforme al numero e alla gravità de’ peccati, che meritarono l’eterna dannazione. È certo di certezza teologica, benché non sia di fede, che il fuoco, da cui son puniti nell’Inferno i dannati, è fuoco reale, ossia fisico, non metaforico. Il P. Hugon, De novissimis, q. 3, I, n. 7:

« Non c’è una definizione della Chiesa sulla natura del fuoco, ma l’insegnamento de’ teologi sul fuoco non metaforico, bensì reale, è talmente accettato nella Chiesa che sarebbe gravissima temerità pensare il contrario ». Così ripete il Lépicier. De novissimis, q. 4, a. 2; e il Card. Billot, De novissimis, q. 3, tesi 4. Si cita pure una risposta della S. Penitenzieria, che alla domanda « se si debbano assolvere i penitenti, che ammettono nell’Inferno soltanto un fuoco metaforico, ma non reale » rispose il 30 aprile 1890 « che siffatti penitenti bisogna con cura istruirli e gli ostinati non si devono assolvere ». Finalmente c’è libera discussione fra i teologi come possa un fuoco reale tormentar puri spiriti, quali sono i demonii e le anime de’ dannati prima della risurrezione; di qual natura è il fuoco d’Inferno, dove si trova l’Inferno, se sulla terra, o sotto, se è un luogo, oppure una condizione…

Riguardo al Purgatorio è di fede:

1) Che esiste il Purgatorio, dove son prigioniere l’anime di coloro, che morirono senza peccato mortale, ma debbono ancora espiare qualche debito di pena temporale.

2) Che nel Purgatorio le anime son punite sia colla pena del danno sia con quella del senso, cioè colla temporanea esclusione della visione di Dio beatifica e con altre gravi pene.

3) Che son differenti le pene delle anime in Purgatorio, riguardo alla durata e all’asprezza, a seconda del debito di pena temporale, che ciascuno deve scontare.

4) Che le lor pene possono esser fatte e più brevi e più miti coi suffragi che si offrono per esse. Non è di fede che le anime nel Purgatorio son punite con fuoco reale ossia fisico e non metaforico. Il Concilio di Firenze non ha voluto definir questo punto, perchè i Greci eran del parere che in Purgatorio le anime soffrano la pena del senso e non per fuoco reale e fisico, ma piuttosto per le tenebre e la tristezza del soggiorno… Anche oggi nella Chiesa Orientale tutti i catechismi non parlano di fuoco purificatore, così nella Chiesa latina il catechismo di PP. Pio X e molti altri. Ma d’altra parte il senso comune de’ fedeli nelle Chiese latine e l’insegnamento teologico (Cfr. il P. Hugon, 1. c. 9 q, a. 5, n. 3; Lépicier 1. e, q. 5, a. 2, n. 1; Billot, 1. e, tesi 7, col Bellarmino, col Suarez…. ) accettano la pena del fuoco reale, sull’autorità di S. Gregorio M. e di S. Gregorio Nisseno (S. Gregorio M., Dialogus IV, 39: « Però si deve credere che c’è prima del giudizio un fuoco purgativo per certe colpe lievi – P. L., 77, 396 -. S. Gregorio di Mssa, Orat. de mortuis: lo spirito «uscito dal corpo non potrà diventar partecipe della divinità, se non avrà tolto le macchie il fuoco purgativo inflitto all’anima » – P. G., 46, 530 -).

Così stando le cose, anche noi nel nostro catechismo (dom. 590) non parliamo del fuoco purificatore; ma se l’autorità competente giudicherà che si debba credere alla sua esistenza, sarà facile aggiungerne menzione alla citata risposta.

C’è libera discussione, finalmente, se, data l’esistenza del fuoco purificatore, esso sia della stessa natura del fuoco infernale, benché abbia minor violenza di tormento; come possano esserne toccate le anime separate dal corpo; dove si trovi il Purgatorio; se sia un luogo, oppure una condizione; se i peccati veniali sian rimessi, riguardo alla colpa, in virtù del fuoco purificatore. Il Dottore Angelico, De Malo, q. 7, a 11 insegna, a tal proposito, che i peccati son rimessi non in virtù del fuoco, ma d’un atto di carità verso Dio con detestazione de’ peccati veniali commessi in questa vita.

Il nostro catechismo, in conformità di quanto è detto nel Prœmio, tace completamente di tutte queste discussioni agitate liberamente fra i teologi. Piuttosto di consumar tempo nella disamina di tali questioni, sforziamoci con tutto l’impegno, come s’addice ai Cristiani, di evitare col viver bene, i castighi dell’inferno e, per quanto ce lo permette l’umana fragilità, colle penitenze e con le opere di misericordia sfuggire, o almeno abbreviare e mitigare, anche le pene del Purgatorio.

F I N E

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (4)

F. CAYRÉ:

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (4)

Trad. M. T. Garutti

Ed. Paoline – Catania

Nulla osta per la stampa

Catania, 7 Marzo 1957

P. Ambrogio Gullo O. P. Rev. Eccl.

Imprimatur Catanæ die 11 Martii 1957

Can. Nicolaus Ciancio Vic. Gen.

CAPITOLO IV

I CONTEMPLATORI DEI «GRANDI MISTERI»

Iniziatori alla vita profonda.

Tutte le verità rivelate sono dei « misteri », in quanto la ragione da sola non può stabilirne l’esistenza; esse non sono conosciute che attraverso la rivelazione. Questo è il primo significato della parola e delle realtà dette « Misteri »: Dio solo può accordarli ed anche rivelarli con i mezzi che Egli giudica bene impiegare e che sono infinitamente vari. Da una parte, queste verità non ci sono accessibili fino in fondo; lo sono tuttavia in parte, ed è per questo motivo che siamo invitati a prenderli come temi delle nostre riflessioni e dei nostri studi in vista della preghiera. – Tutte le verità rivelate sono atte ad alimentare in qualche modo la vita cristiana. Alcune tuttavia hanno a questo riguardo uno speciale valore, ed è per ciò quindi che noi le chiamiamo grandi misteri; grandezza relativa, fondata sulle nostre lacune, e grandezza reale proporzionata alle aspirazioni del cuore verso l’infinito, aspirazioni che i grandi misteri colmano con una abbondanza superiore, divina. Dottori che troviamo nel grande secolo patristico furono appunto attirati, più che in altri tempi, per un’azione della Provvidenza, verso quelle grandi realtà divine, non per vana curiosità, ma per la profonda comprensione che ne ebbero: essa fu molto penetrante, anche se relativa. Per scoprire tutta l’importanza di questi misteri nella nostra vita, ci vuole un particolarissimo dono divino. Fra coloro che in quel tempo beneficiarono di tale dono, i migliori furono Vescovi, ed aggiunsero di fatto, senza cercarlo, al loro titolo di Pastori, quello di Maestri nelle scienze divine, poiché vissero intensamente la dottrina nella preghiera. Si può dire di tutti i più grandi Dottori che furono dei «contemplativi » dei più alti misteri, prima di esserne i propagatori. – Sant’Ireneo (+ 201) fu in questo campo un vero iniziatore. Prima di lui, senza dubbio, Sant’Ignazio di Antiochia aveva dimostrato una profonda conoscenza di Cristo, ma non gli fu dato di esporre le ricchezze di questo mistero alla maniera dei Dottori. Egli fu un mistico ed un uomo di azione più che un maestro del pensiero. Da questo punto di vista, il Vescovo di Lione, venuto anche lui dall’Oriente, aprì ben più vasti orizzonti al nascente pensiero cristiano. Asiatico, venne in Gallia come missionario, succedendo nel 178 a San Potino, anch’egli venuto dall’Oriente. Egli consacrò la maggior parte del suo tempo, fino alla sua morte, avvenuta verso il 201, a combattere gli gnostici. La gnosi eretica veniva anch’essa dall’Oriente; seguiva dappertutto il movimento cristiano e lavorava a penetrarlo delle sue teorie dualiste, colorate di religione. Ireneo scriveva soprattutto in greco, sua lingua materna, e la sua opera principale, Contro le eresie (« Adversus hæreses », o « Contra hæreses » – II sec.-) è da distinguere bene da « Hæreses » (Panarion) di Sant’Epifanio (IV sec.), uno dei monumenti della letteratura cristiana in questa lingua. L’opera comprende cinque libri. Lo stile semplice, ma l’informazione è abbondante e di prima qualità; il trattato rimane per noi la principale delle nostre informazioni sulla gnosi eretica d’Occidente, le sue origini e le sue forme. Egli svolge contro di essa una argomentazione serrata nei tre ultimi libri di quest’opera, compiendo nello stesso tempo una magnifica esposizione di tutto il mistero cristiano. San’Ireneo sarebbe stato iscritto nella prima fila della lista ufficiale dei Dottori della Chiesa, se il suo titolo di Martire, liturgicamente superiore, non vi fosse finora opposto. Questo carattere dottrinale del Vescovo di Lione è ancora rinforzato, da cinquant’anni a questa parte, dalla scoperta di una: Dimostrazione della predicazione apostolica, in cui il santo espone, senza polemica, la fede tradizionale, con il solo scopo di istruire e di edificare. Si ritrova qui la sostanza del primo, ed i teologi vi si richiamano, senza dimenticare però il grande trattato contro le eresie che, dal punto di vista dottrinale, rimane l’opera capitale di quel tempo. – Il III secolo ne vedrà apparire altre dovunque, ed alcune di vasta portata, ma quasi tutte testimoniano, con qualche palese lacuna, che la cultura religiosa dell’epoca è ancora in formazione. I pensatori cristiani cercano la loro via e bisognerà aspettare il IV secolo perché appaiano, in ogni campo, opere definitive dal loro punto di vista. Queste prime esposizioni dottrinali mostrano che le sfumature del pensiero non sono ancora esattamente servite da quelle di una lingua tecnica ben adeguata al soggetto. Talvolta, anche, bisogna dirlo, i Padri di quel tempo non hanno ancora potuto accorgersi dei possibili abusi di una formula felice dal loro punto di vista, ma equivoca per altri spiriti meno provveduti. Da ciò molte debolezze di dettaglio, corrette però da una leale visione dell’insieme. – Queste lacune sono clamorose in Tertulliano, una delle più grandi figure del III secolo cristiano. Fin dalla sua conversione, egli s’impegna a fondo nell’apologetica, e ancora di più nella controversia dottrinale nonché nell’azione morale o spirituale. Egli ha intuizioni geniali e tratti folgoranti, ma troppo spesso l’equilibrio fa difetto a quest’uomo, che è così grande e che sa di esserlo. Ricordiamo qui solo le sue posizioni dogmatiche essenziali. La base è salda: la rivelazione contenuta nei Libri santi di cui riserva, con energia, tutto il controllo alla gerarchia. La sua tesi acquista un rigore giuridico imponente nella Prescrizione (contro) gli eretici: solo la Chiesa può dire della Scrittura: « Essa mi appartiene; da lungo tempo la possiedo; ho la priorità; ho solide basi, che risalgono ai primi proprietari. Io sono l’ereditiera degli apostoli » (c. XXXVII). – Gli eretici non hanno che il diavolo ed i suoi ministri per garanti. Questi princìpi sono invocati soprattutto contro gli gnostici di ogni colore, e in modo particolare contro i partigiani di Marcione, Ermogene e Valentino. Tertulliano raggiunge e completa Sant’Ireneo, ma in modo tutto diverso, nella lotta per mantenere l’unità di Dio compromessa da questo paganesimo rinnovato dalla speculazione orientale, abbastanza forte per poter invadere l’Occidente. Il dottore africano affronta anche il problema trinitario, che era rimasto in secondo piano nelle discussioni, preoccupati come si era di assicurare innanzitutto la vittoria del monoteismo sull’idolatria, ma che non poteva sfuggire alla curiosità di taluni spiriti. I più audaci spiegavano la diversità delle persone in Dio, particolarmente quella del Padre e del Figlio, come semplici divergenze di punti di vista (modalità), il Figlio essendo soltanto un modo speciale di considerare Dio, unico nella persona come nella natura: le persone, dicevano essi con Sabellio, sono aspetti diversi della stessa natura, non vere realtà. Questo modalismo fu spesso chiamato Sabellianesimo, dal nome di Sabellio, il suo principale promotore. Tertulliano fu particolarmente duro nelle sue reazioni contro Prassea, uno dei grandi rappresentanti della setta in Occidente, e trovò, per reagire contro di essa, delle formule splendide, ingegnose e accorte. Il pensiero latino ne doveva beneficare più tardi, e, per mezzo di esse affrontare nel secolo seguente, con più decisione dell’Oriente, le sottigliezze ariane. Il maestro africano si accanì tanto più in questa discussione in quanto vi trovava impegnata una dottrina che gli era particolarmente cara, ma in cui egli stesso cominciava a divagare, per un attaccamento eccessivo alla persona dello Spirito Santo.

Grandi dottori in Oriente

Per grandi che siano, i maestri del III secolo non sono che dei precursori, paragonati a quelli dei secoli successivi, decisivi in un certo senso per il cristianesimo. I dogmi fondamentali saranno messi in causa da grandi spiriti, più ragionatori che credenti. Questa prova di forza metterà precisamente in più viva luce l’importanza capitale di quelle verità, sulle quali ripossa, in definitiva, non soltanto il credo cristiano, ma tutta la vita cristiana. – Il caso di Sant’Atanasio, da questo punto di vista è particolarmente suggestivo. Egli non ha nulla dello specialista che si ferma su un punto preciso per approfondirlo con una riflessione solitaria. Ha tuttavia, di fatto, quasi da solo, a un dato momento, tenuto in scacco tutto l’arianesimo coalizzato contro il concilio di Nicea, poiché aveva capito la funzione capitale che aveva, nella fede cristiana, la presenza di un Uomo-Dio, nel senso letterale del termine; egli seppe mantenere tale dottrina con una forza invincibile, contro tutti gli avversari che tentavano di intaccarla. Manifestamente Dio sosteneva la sua azione. Egli afferma anzitutto, o piuttosto venera, tre Persone in Dio, e proclama la sua fede con una forza fino ad allora ineguagliata: Tre Persone ben distinte, senza detrimento tuttavia per la loro fondamentale unità, in una sostanza indivisa. Basandosi sulla Scrittura, senza alcuna riserva speculativa, da lui ritenuta superflua in tale campo, e in presenza di pensatori orgogliosi e sottili che nulla riuscirà mai a metter d’accordo, egli ripete senza posa i dati della fede negli stessi termini della Scrittura o con l’aiuto di paragoni familiari nell’ambiente alessandrino. Non è l’homoousios che è il punto unificatore della sua dottrina, né il Verbo, e nemmeno il Verbo incarnato preso in se stesso; è il Verbo incarnato in quanto si prolunga in questa umanità rigenerata che San Paolo chiama « corpo del Cristo » (Corpus Christi: I Cor., XII, 27). Tale dottrina è la sostanza del De incarnatione, in cui si trova questa dichiarazione: « Il Verbo si è fatto uomo perché noi diventassimo dei », e ciò deve intendersi in senso letterale, « poiché noi siamo nel Cristo tanto realmente quanto il Verbo è nella nostra natura a partire dell’Incarnazione ». – Questa audacissima tesi intuita prima ancora di diventare Vescovo, Atanasio la approfondisce nei suoi Discorsi contro gli ariani, e si può dire che sia l’anima della sua predicazione. Egli associa strettamente, fisicamente, l’Incarnazione del Verbo e la nostra divinizzazione. Ciò che proverà la divinità del Verbo incarnato, è che noi siamo per suo mezzo divinizzati. In Gesù il Verbo penetra l’umanità della sua divinità. « Per questo, egli la assume con tutti i suoi mali, ma, per il fatto stesso che è lui che la assume, ne trionfa, poiché essi non provenivano che dalla sua separazioni da lui ». Gli uomini gli sono strettamente legati: « In essi come in Lui, grazie alla partecipazione del suo essere dovuta al fatto che sono “concorporati a Gesù”, l’incarnazione e la divinizzazione si uniscono come due aspetti complementari di una stessa realtà ». D’altronde, « per il fatto stesso che l’Incarnazione del Verbo in Gesù e la nostra divinizzazione in Lui sono, non solo tanto solidali, ma fondamentalmente unite, l’Incarnazione e la redenzione lo sono egualmente ». Il secondo e il terzo discorso confermano questa dottrina. La conclusione generale di questi dati è molto precisa: la Chiesa, corpo del Cristo, è la sola spiegazione valida:. del fatto che in Gesù il Verbo fatto uomo ci abbia tutti « verbificati »; 2. del fatto che la redenzione appaia come inclusa nell’Incarnazione, senza affatto dissolvervisi. – I Cappadoci riprenderanno alla fine del IV secolo l’opera cominciata all’inizio dal patriarca di Alessandria. Andranno diritti al grande mistero trinitario, tanto per approfondirlo in se stesso, quanto per esporlo senza equivoci, essendovi impegnata la vita cristiana. – Per rifare l’unità compromessa dalla secessione dei semi ariani, così numerosi al suo tempo in Oriente, San Basilio adottò e finì col fare adottare anche da altri la formula ipostasi nel senso di persona, a dispetto dell’etimologia, che evoca piuttosto la sostanza. Si scartava così, il modalismo sabelliano, che aveva tanto turbato l’Oriente, e l’eventuale pericolo della parola persona, che poteva anche condurre al modalismo. Ma, al di là di queste questioni speculative, è il fondo vitale della religione che il Vescovo di Cesarea intende salvaguardare, poiché la pietà riposa fondamentalmente su questo mistero. La nostra santità non è reale se non nel misura in cui la divinizzazione che essa implica è realizzata in e per mezzo di una persona che è veramente essa stessa Dio. Evita la parola « Dio » per non portare delle innovazioni; ma la rende necessaria con tutta la sua esposizione: il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo Dio con il Padre. – Il fratello di San Basilio, San Gregorio di Nissa, gli fa eco, nelle sue teorie e meglio ancora nei suoi trattati spirituali, tutti legati al grande mistero trinitario. – Il loro amico comune, San Gregorio Nazianzeno, condensa tutto il pensiero di questo gruppo scelto di pensatori, nei suoi cinque mirabili « discorsi » detti « teologici », ma « trinitari » di fatto, che mostrano come la nostra vita cristiana sia intensamente legata al mistero del Dio in tre Persone. La religione è sospesa a questa rivelazione, che si prolunga nel senso che ciascuno deve applicarsi a tradurre nella sua pietà qualche cosa delle realtà divine di cui il mistero è l’espressione. San Cirillo d’Alessandria sarà, nel V secolo, per il Verbo incarnato, ciò che fu Sant’Atanasio nel IV secolo per la Trinità. È un altro aspetto del grande mistero cristiano che si presenta qui. Già, fin dalla fine del IV secolo, un vecchio amico di Sant’Atanasio, Apollinare, l’aveva abbordato e vi aveva fallito, rifiutando al Cristo un’anima umana completa, per paura di compromettere la sua unità personale: un’umanità completa, pensava, sarebbe una persona. Era un errore: un’umanità completa è una natura. La persona, è il possessore della natura; e nel caso del Cristo, il possessore è il Verbo, il quale, con l’incarnazione, assunse l’umanità, un’umanità completa. – Appunto per meglio mantenere questo carattere completo del Cristo sul piano umano, Nestorio, rigido antiocheno, arrivò a distinguere troppo nettamente, in lui, l’uomo e Dio, al punto di affermare che Maria era « madre dell’uomo », ma non « madre di Dio » (Teotokos). Da Antiochia egli portò tale dottrina a Costantinopoli, quando ne divenne vescovo, nel 428. Fin dalla fine dell’anno vi scoppiava una crisi e, lontano successore di S. Atanasio, San Cirillo, patriarca di Alessandria, prese immediatamente posizione contro di lui con lettere in Egitto, a Bisanzio e a Roma. Il Papa gli diede mandato per agire e approvò attraverso i suoi legati, a Efeso, nel 431, le iniziative prese dal Santo fin dalle prime riunioni. San Cirillo fu il provvidenziale difensore dell’unità personale del Cristo, unità che è, di fatto, il fondamento dell’Incarnazione. Egli ebbe, più di chiunque altro, il senso del mistero e della sua importanza capitale nella vita cristiana, incarnando al tempo stesso la cattolicità in Oriente, in un’epoca decisiva della storia della Chiesa (v. cap. precedente).

Grandi Dottori in Occidente

L’Occidente ebbe anch’esso mirabili contemplatori dei grandi misteri nel IV secolo; ricordiamo specialmente Sant’Ilario. Doveva essere il Sant’Atanasio latino. Come questi, egli fu un uomo di fede viva e un lottatore più che uno speculativo. La sua grande opera sulla Trinità è più che una raccolta di testi scritturali; è la testimonianza di un Vescovo, esiliato per la fede tradizionale e preoccupato, non soltanto di difenderla, ma di ricercarne le basi, specialmente nel grande mistero del Dio in tre persone. Dopo la sua conversione, dovuta alla meditazione del Prologo di San Giovanni sul Verbo e sulla sua Incarnazione (De Trin. I, 10 sq), egli fu costantemente ossessionato dal grande mistero trinitario; egli può separare dal Padre e dal Figlio lo Spirito Santo, che « riceve » tutto da Questi e quindi anche dal Padre. Non è la stessa cosa ricevere dal Figlio e procedere dal Padre? « Ciò che riceverà lo Spirito Santo, sia il potere, o la virtù, o la dottrina, il Figlio dichiara che lo Spirito Santo lo riceverà da lui e dichiara al tempo stesso che lo riceverà anche dal Padre » (ibid, VIII, p. 20). Di conseguenza egli dichiara che lo Spirito procede e dal Figlio e dal Padre. Ora, tale dottrina non è solo per lui un dogma di fede da ammettere d’autorità, ma una regola di vita da realizzare nella propria condotta con un vero amore cristiano. Sant’Ilario aveva presentito ciò che il «più grande dottore dell’Occidente doveva sviluppare con una abbondanza che nessuno ha finora eguagliato. – Sant’Agostino superò tutti i Padri, non soltanto dell’Occidente ma dell’Oriente, per la sua profonda contemplazione dei grandi misteri, grazie alla eminente pietà che acuiva il suo sguardo. Il Cristo è indubbiamente il punto di partenza, il sostegno e il termine, ma non lo è e non può esserlo che grazie alla sua personalità divina; Egli è veramente Figlio di Dio, al tempo stesso che Uomo-Dio e Re nel significato più alto del termine. – Il presentimento della natura di Dio che Agostino ebbe a 19 anni mentre studiava a Cartagine, in seguito alla lettura dell’Ortensio, aprì la sua anima a un grande ideale: ma non fu che un lampo nella tempesta. Dieci anni più tardi, dopo l’uragano, egli ebbe altre illuminazioni dello stesso ordine a Milano, attraverso la scoperta del platonismo, ma più ancora al contatto con il vero Cristianesimo, largamente aperto e vivo, rappresentato da S. Ambrogio. Senza trascurare gli apporti della saggezza umana, optò definitivamente, a 32 anni, per il Dio che sentiva nella sua anima, insieme trascendente come verità e presente per mezzo della grazia. – L’insistenza su questa duplice « interiorità » di Dio, una naturale, l’altra soprannaturale, è forse il tratto più saliente della dottrina di S. Agostino. L’elemento naturale è d’altronde secondario: l’essenziale, ai suoi occhi, è di ordine soprannaturale; un Dio unico e trascendente, ma in Tre Persone. Queste si sono manifestate l’una dopo l’altra; si sono rivelate progressivamente, l’una e l’altra: il Padre attraverso la Creazione e l’Antico Testamento; il figlio con l’Incarnazione e la Redenzione, lo Spirito Santo attraverso la Chiesa e la santità dei fedeli in cammino verso il cielo. Solo là si compirà la città di Dio in formazione sulla terra. – Questo mistero della SS. Trinità è davvero per Sant’Agostino il culmine della realtà cristiana, il punto più alto, al di là e al di sopra della realtà naturale. Una simile trascendenza della Santissima Trinità, non la rende inaccessibile all’uomo? Sì, se si parla dell’uomo naturale; no, se si tratta della fede. Questa realtà si presenta in termini comprensibili per noi che possiamo, grazie ad essi, afferrare molti aspetti del mistero, anche se non penetriamo nel suo fondo, I Dottori della Chiesa hanno avuto precisamente, quale missione, di esprimerne qualcosa per nutrirne le anime. Sant’Agostino è colui che ha fatto di più in tal senso, nella sua grande opera sulla Trinità, che corona in modo magistrale le ricerche di parecchi secoli. Nei primi sette libri fa la sintesi di quanto è stato rivelato su questo punto, aggiungendovi una teoria suggestiva sulla relazione, fondamento della persona in Dio. Nei sette libri seguenti (VIII – XIV), egli si sforza di costituire una serie di immagini del grande mistero, immagini che vanno dall’esteriorità all’interiorità dell’uomo, risalgono dal sensibile allo spirituale secondo la natura, poi allo spirituale divino o soprannaturale, fino al punto più alto, alla perfetta sapienza teologale. Questa, frutto dei doni dello Spirito Santo, può realizzare una purissima unione a Dio nella preghiera dei santi (libro XIV, c. XIII, 15), e può anche condurre indirettamente a una scienza eminente del grande mistero; ed è coll’esposizione di questa scienza e dei suoi più alti vertici che si compie, nel libro XV, questo capolavoro di fede, di preghiera e di sapienza. – Mentre approfondiva il grande dogma cristiano, Sant’Agostino ne doveva seguire le partecipazioni create che sono la base del mistero della Grazia, nella sua lotta contro Pelagio e i suoi difensori, dal 411 fino alla sua morte. Il fondamento della sua dottrina in questo campo è un’altra trascendenza di Dio, ma tale che non possa essere raggiunta senza una vera condiscendenza da parte sua, si tratti di adozione divina o di collaborazione umana: la prima è un puro dono di Dio, e la seconda è inconcepibile senza un appoggio costante ed efficace della sua mano, che previene e sostiene l’azione della creatura in ogni campo. Questo appoggio divino è particolarmente necessario nell’ordine della grazia, che è, per essenza, un dono di Dio, in vista della santità e della vita eterna. Lungi dall’escludere lo sforzo personale della creatura, esso la richiede e la sostiene. – Gli uomini « sono spinti ad un’azione, e non per averne qualcuna personalmente », dice Sant’Agostino. L’influenza divina viene da lui chiamata « azione », piuttosto che mozione; essa è molto efficace (efficacissima), ma adeguata al soggetto (congrua) per mezzo di un adattamento che è non esterno ma interiore, profondo, come tutto ciò che è divino, più profondo anche del godimento che ordinariamente l’accompagna, ma che non si confonde con essa. Lungi dal compromettere la libertà (libertas), la grazia l’amplifica, avvicinando l’anima a Dio, ad immagine del quale essa è fatta e verso il quale essa tende. Questo cammino verso Dio è garantito e facilitato precisamente da grazie speciali, che Sant’Agostino ricollega ai sette doni dello Spinto Santo, i quali rappresentano le modalità più alte dell’azione divina nelle anime sante: timore filiale e pietà anzitutto; forza e consiglio in seguito, poi scienza e intelligenza; infine, la sapienza che completa il tutto in una sintesi vivente della fede, della speranza e della carità. Solo un’azione particolarissima dello Spirito Santo può realizzare questo nelle anime sensibili alla grazia e abbastanza generose e docili allo Spirito. Coloro che parlano del pessimismo di Santo, a proposito della sua dottrina della grazia, insistono troppo, manifestamente, sui punti secondari, a detrimento delle basi fondamentali, che sono quelle dei migliori testimoni della vita cristiana al tempo dei Padri. La Chiesa non ha mai mutato su tali punti, anche se talvolta alcuni dottori più recenti li hanno dimenticati. –  San Leone Magno, Papa dal 440 al 461, fu provvidenzialmente destinato a dirimere d’autorità le controversie sollevate, alla morte di Sant’Agostino, dal problema della grazia, e soprattutto da quello della personalità del Cristo, problema che si pose quando San Cirillo di Alessandria denunciò l’errore di Nestorio al Papa San Celestino, il quale, di fatto, aveva condannato la dualità cristologica. Ma si abusò di certe formule del patriarca di Alessandria, e sorse allora in crisstologia un monofisismo, sia reale, sia verbale, molto pericoloso, che negava o diminuiva la natura umana del Salvatore. Il Papa intervenne e al concilio di Calcedonia fece emettere dai suoi rappresentanti la formula dottrinale che si impose definitivamente nella Chiesa: « un solo e medesimo Cristo (contro il dualismo nestoriano), Figlio, Signore, Figlio unico, in due nature, senza mescolanza, senza trasformazione, senza divisione, senza separazione » (contro il monofisismo eutichiano o altro). San Leone, che si ispirava largamente a Sant’Agostino, dovette superare certe formule del santo Dottore per affrontare le nuove eresie che minacciavano il mistero cristiano per eccellenza, l’incarnazione del Verbo. La pietà cristiana trovava là il suo punto d’appoggio totale: non solo il Cristo è Uomo-Dio, ma, per il fondamento unico del suo essere, è una sola Persona. Nella sua personalità trascendente troviamo dunque miracolosamente associate e la sua immutabile natura divina, e una natura umana espressamente creata per essere un legame permanente fra Dio e gli uomini, che, quaggiù, attendono una vita eterna di cui il soggiorno terrestre è la preparazione provvidenziale. Ecco il mistero cristiano per eccellenza, quello che dona alla vita dell’uomo il suo orientamento decisivo, su tutti i piani, ma anzitutto sul piano della vita eterna. Tale è la dottrina essenziale di cui i Padri furono, fin dall’origine, i più ardenti promotori.

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (27)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (27)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

TESTIMONIANZE DEI CONCILI ECUMENICI DEI ROMANI PONTEFICI, DEI SANTI PADRI E DELLE SACRE CONGREGAZIONI ROMANE CHE SI CITANO NEL CATECHISMO

DOMANDA 469°

Concilio di Lione (1274), Professio fidei Michaelis Paleologi:

« La medesima Santa Chiesa Romana crede inoltre ed insegna che son sette i Sacramenti della Chiesa…. un altro l’Estrema Unzione, che, secondo la dottrina del beato Giacomo, si amministra agl’infermi ».

(Mansi, XXIV, 70).

Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis:

« Il quinto Sacramento è l’Estrema Unzione, materia del quale è l’olio d’oliva benedetto dal Vescovo. Questo Sacramento non si deve dare che all’infermo, di cui si teme la morte: e l’infermo si deve ungere sugli occhi per la vista, sulle orecchie per l’udito, sulle narici per l’odorato, sulla bocca per il gusto o la parola, sulla mani per il tatto, sui piedi per i passi, sulle reni per il diletto che lì ha sede. Ecco la forma di questo Sacramento: Per questa santa unzione e la sua pietosissima misericordia il Signore ti perdoni tutto ciò che per la vista etc. E similmente sulle altre membra. Ministro di questo Sacramento è il sacerdote; e l’effetto è la salute dell’anima e, in quanto è giovevole, anche del corpo. Dice di questo Sacramento l’Apostolo Giacomo: S’ammala alcuno di voi? Chiami i preti della Chiesa perché preghino per lui ungendolo coll’olio nel nome del Signore; e la preghiera salverà l’infermo e il Signore lo consolerà; e, se è in peccato, gli sarà rimesso.

(Giac, V, 14 ss.).

(Mansi, XXXI, 1058).

Concilio di Trento, Sess. XIV. Dottrina dell’Estrema Unzione, cap. 1:

« Ora questa sacra Unzione degli’infermi fu istituita come vero e proprio Sacramento, da Cristo nostro Signore; e ve n’è cenno già in Marco; Giacomo poi, Apostolo e fratello del Signore, lo raccomanda e promulga ai fedeli, dicendo: S’ammala alcuno tra voi? Mandi a chiamare i sacerdoti della Chiesa affinché preghino per lui nel nome del Signore; e la preghiera salverà l’infermo e il Signore lo consolerà; e. se è in peccato, gli sarà rimesso. (Giac, V, 14 ss.). la Chiesa con queste parole, come per tradizione apostolica imparò, insegna la  materia, la forma, il ministro competente e l’effetti di questo salutare Sacramento, intendendo che materia è l’olio benedetto dal Vescovo (difatti l’unzione significa benissimo la grazia dello Spirito Santo, da cui è invisibilmente imbalsamata l’anima dell’infermo); forma son poi quelle parole: per questa unzione, etc. ».

Innocenzo III, Epist. Eius exemplo 18 dic. 1208, Professione di fede ai Valdesi:

« Veneriamo l’unzione degl’infermi coll’olio consacrato ».

(P. L., 215, 1512).

Pio X, Decreto Lamentabili, 3 lug. 1907. Prop. 48 tra le condannate:

« Giacomo nella sua epistola (Giac, V, 14 ss.) non intende promulgare un Sacramento di Cristo, ma raccomandare una pia pratica; e se, in questa pratica vede un veicolo della  grazia, non lo considera nel senso rigoroso dei teologi, che stabilirono la definizione e il numero dei Sacramenti ».

(Acta Apostolicæ Sedis, XL. 473).

Concilio di Trento, Sess. XIV, Dottrina sul sacramento dell’Estrema, Unzione, cap. 2:

« La sostanza e l’effetto di questo Sacramento è dunque spiegato da quelle parole: E la preghiera salverà l’infermo e il Signore lo consolerà; e, se è in peccato, gli sarà rimesso. Infatti questa essenza è la grazia dello Spirito Santo, perché l’unzione sua deterge, se ancora ce n’è, i peccati e le reliquie de’ peccati e consola e conforta l’anima del malato coll’eccitarne la fiducia nella divina misericordia; sicché l’infermo, come più agevolmente sopporta i disturbi e gli affanni della malattia, così resiste più facilmente alle tentazioni del demonio, che insidia al calcagno, e talvolta ottiene la salute del corpo, se conviene a quella dell’anima ».

S. Cesario di Arles, Sermo CCLXV, 3:

« Ogni volta che sopravviene qualche infermità, il malato riceva il corpo e il sangue di Cristo e poi riceva sul suo corpo l’unzione, di modo che s’adempia quel che sta scritto: Cade malato alcuno? etc. (Giac, V, 14, ss.). Riflettete, fratelli, che chi ricorrerà alla Chiesa nella sua infermità, merita di ricuperar la salute del corpo e di ottenere il perdono de’ peccati ».

(P. L., 39, 2238).

DOMANDA 473a.

Concilio di Trento: Vedi D. 470.

DOMANDA 479a.

Concilio II° di Lione (1274), Professio fidei Michaelis Paleologi:

« La medesima Santa Romana Chiesa crede inoltre ed insegna che son sette i Sacramenti della Chiesa…. un altro è il Sacramento dell’Ordine ».

(Mansi, XXIV, 70).

Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis:

«Sesto è il Sacramento dell’Ordine: sua materia è ciò per la cui consegna vien conferito l’Ordine: come il Presbiterato si amministra porgendo il pane col vino e la patena col pane; e il Diaconato colla consegna de’ Vangeli; e il Suddiaconato colla consegna del calice vuoto con sopra la patena vuota; e così per gli altri, cioè colla consegna degli oggetti che spettano al loro conferimento. La forma del Sacerdozio è: Ricevi la potestà di offrire il sacrifìcio nella Chiesa per i vìvi e per i morti, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. E così è delle forme degli altri ordini, com’è detto largamente nel Pontificale Romano. Ministro ordinario di questo Sacramento è il Vescovo. Effetto è l’accrescimento di grazia sicché uno sia idoneo ministro ».

(Mansi, XXXI, 1058).

Concilio di Trento, Sess. XXIII, Del Sacramento dell’Ordine, can. 3:

« Chi afferma che l’Ordine, o la sacra Ordinazione non è vero e proprio Sacramento istituito da Cristo Signore, o che è un’invenzione umana di uomini malpratici di cose di Chiesa, e solamente un rito qualsiasi di eleggere i ministri del verbo di Dio e de’ Sacramenti: sia scomunicato ».

Pio X, Decreto Lamentabili, 3 lug. 1907, propp. 49-50 tra le condannate:

« Quelli, ch’eran soliti presiedere alla Cena, assumendo essa a poco a poco la natura dì azione liturgica, acquistarono carattere sacerdotale.

« Gli anziani, che nell’adunanza de’ Cristiani avevano incarico d’invigilare, furono dagli Apostoli costituiti sacerdoti e vescovi per provvedere al necessario buon ordine delle crescenti comunità, non propriamente per continuare in perpetuo la missione e l’autorità Apostolica ».

(Acta Apostolicae Sedis, XL, 473).

DOMANDA 480a

Concilio di Trento, sess. XXIII, Del Sacramento dell’Ordine:

« Can. 2. Sia scomunicato chi afferma che, oltre al Sacerdozio, non ci sono nella Chiesa Cattolica altri Ordini, tanto maggiori quanto minori, per i quali, come per gradini, si sale al Sacerdozio ».

« Con. 6. Sia scomunicato chi afferma che nella Chiesa Cattolica non v’è una gerarchia istituita per divina ordinazione, che consta di Vescovi, di Preti, di Ministri ».

« Cann. 7. Sia scomunicato chi afferma che i Vescovi non sono superiori ai Preti o che non hanno potestà di cresimare e di ordinare, o che l’hanno in comune co’ Preti; o che siano invalide le ordinazioni da loro conferite, senza consenso o appello del popolo o del poter secolare; oppure che sono legittimi ministri della parola e de’ Sacramenti quelli, che non furono validamente ordinati, nè incaricati dalla ecclesiastica e canonica autorità, ma vengono d’altronde ».

DOMANDA 482a.

Pio XI, Lett. Officiorum omnium, 1 ag. 1922:

« Di tutti i compiti santissimi compresi nell’ampia missione Apostolica, nessuno davvero è più singolare nè più vasto che pensare e procurar di garantire alla Chiesa un numero agevole di buoni ministri pel disimpegno de’ suoi divini ufficii. Esso è infatti di tal natura che non solo si connette strettamente con la dignità e la vita stessa della Chiesa, ma della massima importanza per la salvezza del genere umano; in quanto che gl’immensi beneficii, guadagnati da Cristo Gesù Redentore per il mondo, non vengono partecipati agli uomini se non per mezzo de’ ministri di Cristo e dispensatori de’ misteri divini ».

(Acta Apostolicae Sedis, XIV, 449).

DOMANDA 487a.

Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis:

« Settimo è il sacramento del Matrimonio, simbolo dell’unione di Cristo con la Chiesa, secondo le parole dell’Apostolo; Questo Sacramento è grande; ma in Cristo e nella Chiesa, dico io (Agli Efes., V, 32). Causa efficiente del Matrimonio è il reciproco consenso espresso di presenza con parole. Triplice il beneficio del Matrimonio. Anzitutto la figliuolanza da allevare ed educare al culto di Dio. Secondo la dovuta fedeltà scambievole de’ coniugi. Terzo l’indivisibilità del Matrimonio, perchè appunto significa l’unione indivisibile di Cristo con la Chiesa. Per motivo di adulterio è lecita la separazione di letto, ma non è lecito contrarre un altro Matrimonio, perchè il vincolo d’un Matrimonio, contratto legittimamente, è perpetuo ».

(Mansi, XXXI, 1058 s.).

Concilio di Trento: Vedi D. 325.

Il medesimo, sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio, can. 1:

« Sia scomunicato chi afferma che il Matrimonio non è veramente e propriamente uno dei sette Sacramenti della legge evangelica, istituito da Cristo Signore, ma un’invenzione degli uomini, e che non conferisce la grazia ».

Leone XIII, Encicl. Arcanum divinae sapientiae, 10 feb. 1880:

« Si devono riportare all’insegnamento apostolico le verità che « i Padri nostri, i Concilii e la tradizione della Chiesa universale sempre insegnarono » (Concilio di Trento, sess. XXIV, a pr.): e cioè che Cristo Signore elevò a dignità di Sacramento il Matrimonio e insieme fece sì che i coniugi, coll’aiuto e la custodia della grazia celeste, guadagnata per suo merito, raggiungessero la santità propria nel matrimonio; che inoltre perfezionò in esso, modellato mirabilmente sul mistico suo connubbio colla Chiesa, l’amore, che è consentaneo a natura, e col vincolo della carità divina strinse più fortemente l’unione indivisibile per sua stessa natura dell’uomo e della donna ».

(Acta Leonis XIII, II, 16).

S. Cirillo d’Alessandria, In Joan. Evang., II, 1:

« Alla celebrazione delle nozze, naturalmente caste e decorose, è presente la Madre del Salvatore, ma egli pure interviene, invitato, insieme co’ suoi discepoli, non tanto per banchettare quanto per operare il miracolo e santificare inoltre il principio, per sè tutto carnale, dell’umana generazione ».

(P. G., 73, 223).

DOMANDA 488a.

Leone XIII, Encicl. Arcanum divinæ sapientiæ, 10 feb. 1880:

« Nè alcuno si lasci muovere da quella distinzione tanto decantata dai Regalisti, in forza della quale separano il contratto nuziale dal Sacramento con l’intenzione invero, di lasciare il contratto in arbitrio dei capi dello Stato, riservando alla Chiesa le ragioni del Sacramento. Non si può infatti approvare una siffatta distinzione, o più veramente separazione, essendo chiaro che nel matrimonio cristiano il confratto non può scompagnarsi dal Sacramento: e però non può darsi un vero e legittimo contratto, che non sia al tempo stesso Sacramento. Il matrimonio infatti venne arricchito della dignità di Sacramento da Cristo Signore; e il matrimonio è lo stesso contratto, quando sia fatto secondo le norme volute…. Perciò è chiaro che ogni giusto matrimonio tra Cristiani è in sè e per sè sacramento: e nulla è più contrario alla verità di questo che il sacramento sia un certo ornamento aggiunto, od una proprietà estrinseca, la quale si possa ad arbitrio degli uomini disgiungere e separare dal contratto »

(Acta Leonis XIII, II, 25-26).

DOMANDA 491a.

Leone XIII, Encicl. Arcanum divinæ Sapientiæ, 10 feb. 1880:

« Affinchè rispondesse meglio ai sapientissimi consigli di Dio quella prima unione dell’uomo e della donna, essa ebbe fin da quel momento sopratutto due nobilissime qualità, profondamente impresse, per così dire, e scolpite, cioè l’unità e la perpetuità…. Ciò vediamo chiaramente dichiarato e confermato dal Vangelo per la divina autorità di Gesù Cristo, il quale dinanzi a’ Giudei e agli Apostoli proclamò che, per sua stessa istituzione, il Matrimonio deve esistere soltanto tra due, cioè l’uomo e la donna; che dei due si forma, per così dire, una sola carne e che il vincolo nuziale, per volontà di Dio, è così intimamente e fortemente stabilito che da nessun uomo può essere disciolto nè spezzato. L’uomo starà unito alla sposa sua e saranno due in una carne sola. Dunque non son più due, ma una sola carne…. (Matt., XIX, 5-6).

(Acta Leonis XIII, II, 12-13).

S. Agostino, De nuptiis adulterinis, I, 9:

« Dunque, se dicessimo: Pecca di adulterio chiunque sposerà una donna respinta dal marito, senza motivo di adulterio — certamente diciamo la verità, senza però assolvere da colpa chi sposasse la donna respinta per motivo di adulterio; anzi non dubitiamo per nulla che sono ambedue adulteri. Alla stessa stregua dichiariamo adultero chi, senza motivo d’adulterio, respinge la moglie e ne sposa un’altra, senza però difendere dall’imputazione di questa colpa colui, che, sia pure per motivo di adulterio, respinta la moglie, ne sposa un’altra. Riconosciamo che ambedue sono adulteri, benché l’uno più gravemente dell’altro ».

(P. L., 40, 456).

Il medesimo, De nuptiis et concupiscentia, I , 10:

« Se ai fedeli sposati si raccomanda non soltanto la fecondità, di cui è frutto la prole, nè soltanto la pudicizia, di cui è vincolo la fedeltà, ma pure un Sacramento del matrimonio, come dice l’Apostolo: Uomini, amate le vostre mogli, come anche Cristo amò la Chiesa (Agli Efes., V, 25); senza dubbio essenza di questo Sacramento è che maschio e femmina, congiunti dal matrimonio, seguitino uniti finché vivono, nè sia lecito, tranne il caso d’adulterio, separar coniuge da coniuge (Matt., V, 32)… Se qualcuno fa ciò, secondo la legge evangelica (e non secondo la legge positiva di questo mondo, la quale, ammesso il ripudio, permette che si possano celebrare senza peccato altre nozze, come per testimonianza del Signore, Mosè lo permise agli Israeliti per la durezza del loro cuore) commette adulterio; così pure la donna quando passi ad altre nozze. Così rimane tra loro vivi un vincolo coniugale che non può essere tolto nè da separazione nè da unione con altri. Ma rimane per rimprovero della colpa, non per legame di contratto; come l’anima dell’apostata, ritraendosi, per così dire, dalle nozze di Cristo, non perde, anche se perduta è la fede, il Sacramento della fede, ricevuto nel lavacro di rigenerazione ».

(P. L., 44, 420).

DOMANDA 492a

Concilio di Trento, Sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio, can. 2:

« Sia scomunicato chi afferma che a’ Cristiani è lecito aver più mogli e che ciò non è proibito da nessuna legge divina ».

Innocenzo III, Epist. Gaudeamus in Domino, princ. Del 1201, al Vescovo di Tiberiade:

« Siccome i pagani dividono l’affetto coniugale contemporaneamente fra più mogli, non a torto si affaccia il dubbio se, convertiti, possono conservarle tutte oppure quale di tutte. Cosa assurda e contraria alla fede cattolica se pensiamo all’unica costa cangiata in unica donna e al detto della Scrittura divina: perciò l’uomo abbandonerà padre e madre e starà unito a sua moglie e saranno due in una sola carne (Gen. II, 24; Matt., XIX, 5; agli Efes., V, 31). Non ha detto tre o più, ma due; nè ha detto starà unito alle mogli, ma alla moglie. Non fu mai lecito ad alcuno d’aver più mogli, se non a chi fu permesso per divina rivelazione; ciò talvolta è ritenuto un costume, talvolta persino pratica legittima; in forza di essa com’è scusato da menzogna Giacobbe e Israele da furto e Sansone da omicidio, così pure tanto i Patriarchi quanto altri uomini giusti, di cui si legge ch’ebbero più mogli, sono scusati da adulterio. Per certo questa sentenza riceve conferma di verità dalla testimonianza della Verità, che dice nel Vangelo: Chiunque respinge la moglie sua, (se non) per causa di adulterio, e ne prenda un’altra, è adultero (Matt., XIX, 9; Marc. X, 11). Dunque, se non è lecito, respinta la moglie, prenderne un’altra, meno ancora, se si ritiene anche la prima; di qui è evidente che in materia di Matrimonio la pluralità deve essere esclusa per ambo i sessi, che non si giudicano a differente stregua. Chi d’altra parte ha ripudiato, secondo la sua religione, la moglie legittima, non potrà mai, viva questa, prenderne un’altra, nemmeno dopo convertito alla fede di Cristo, a meno che, dopo la sua conversione, quella ricusi di coabitare con lui o, se pure consente, non senza offesa del Creatore o per tirarlo a peccato mortale. In questo caso si rifiuterebbe la restituzione a chi la esige, benché risultasse ingiusta la spogliazione. È parola dell’Apostolo: A questo proposito nè fratello nè sorella è soggetto a schiavitù (I ai Cor., VII, 15). Se invece, anch’essa convertita, segue il marito convertito alla fede, prima ch’egli, per le ragioni predette, prenda una moglie legittima, bisognerà costringerlo ad accoglierla. Ancora, sebbene sia adultero chi sposa una ripudiata (Matt., XIX, 9), secondo la verità del Vangelo, non potrà però chi l’ha respinta obiettare l’adulterio della respinta, per il fatto che ha sposato un altro, dopo il ripudio; se d’altronde non abbia commesso adulterio ».

(P. L., 216, 1269 ss.).

DOMANDA 493a

Concilio di Trento, sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio.

« Can. 6. Sia scomunicato chi afferma che il matrimonio rato, non consumato, non si sciolga per la solenne professione religiosa dell’uno dei coniugi ».

« Can. 7. Sia scomunicato chi afferma che la Chiesa è in errore quando insegnò ed insegna, secondo la dottrina evangelica ed Apostolica, che per l’adulterio d’uno dei coniugi non può assere sciolto il vincolo del matrimonio e che ciascun coniuge, anche innocente, non avendo dato occasione all’adulterio, non può, vivo l’altro, contrarre nuovo matrimonio, e ch’è adultero chi, ripudiata l’adultera, ne sposa un’altra, e adultera colei che, ripudiato l’adultero, ne sposa un altro ».

Pio IX, prop. 67 delle condannate nel Sillabo:

« Per diritto di natura non è indissolubile il vincolo del matrimonio e in casi svariati dall’autorità civile può essere sancito il divorzio vero e proprio ».

(Acta Pii IX, I, III, 103).

Leone XIII, Encicl. Arcanum divinæ Sapientiæ, 10 feb. 1880:

« Inoltre richiamò il matrimonio alla primitiva dignità di origine, sia col rimproverare agli Ebrei i lor costumi, perché abusavano tanto della facoltà del ripudio quanto del numero delle mogli; sia sopratutto col prescrivere che nessuno s’attentasse di sciogliere il vincolo perpetuo stretto da Dio stesso. Perciò, liquidate tutte le opposizioni, frapposte dalle istituzioni mosaiche, così volle sancire, con autorità di supremo legislatore, a proposito dei coniugi: Ora io dico a voi, che chiunque ripudierà sua moglie, se non per motivo d’adulterio, e ne sposerà un’altra, è adultero; ed è adultero chi sposa la ripudiata (Matt. XIX, 9) »..

(Acta Leonis XIII, II, 15).

DOMANDA 497a.

Concilio di Trento, sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio, can. 4:

« Sia scomunicato chi afferma che la Chiesa non poteva costituire gli impedimenti dirimenti del matrimonio: o errò nel costituirli ».

DOMANDA 507a.

Concilio di Trento, sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio, can. 12:

« Sia scomunicato chi afferma che le cause di matrimonio non sono di competenza dei giudici ecclesiastici ».

DOMANDA 514a

Concilio di Trento, Sess. VI, Decretum de justificatione, cap. 7:

« Perciò, proprio nell’atto della giustificazione, l’uomo riceve, per l’unione con Gesù Cristo, insieme colla remission de’ peccati, queste virtù infuse tutte a un tempo, fede speranza e carità. Difatti la fede, senza speranza e carità, non ci unisce perfettamente a Cristo, nè ci fa membra vive del suo corpo. In questo senso con tutta verità si dice che la fede senza le opere è morta e inutile ».

Clemente V, Costit. De Summa Trinitate et fide catholica, nel Concilio di Vienna, 1311, contro gli errori di Pier Giovanni Oliva:

« Quanto all’effetto del Battesimo ne’ fanciulli s’incontrano alcuni maestri di teologia d’opinione contraria. Gli uni sostengono che, per virtù del Battesimo, vien sì rimessa la colpa, ma non è conferita la grazia ai bambini; gli altri invece che, come vien loro cancellata la colpa nel Battesimo, così sono infuse le virtù e la grazia santificante, almeno come abito, se non come uso, per quell’età. Ora noi, riflettendo all’efficacia generale della morte di Cristo, che grazie al Battesimo è applicata parimenti a tutti i battezzati, abbiamo deciso, coll’approvazione del sacro Concilio, di scegliere, come più probabile e più consentanea e concorde all’espressioni de’ santi e dottori moderni di teologia, la seconda opinione, cioè che nel Battesimo è conferita ai bambini non meno che agli adulti la grazia informante e le virtù.

(Clement., I , 1).

S. Policarpo, Epist. ad Philippenses, 3:

« (Paolo) da lontano vi scrisse lettere, comprendendo le quali resterete edificati nella fede che v’è stata data e che è madre di tutti noi (ai Gal., IV, 29) seguita dalla speranza, preceduta dalla carità verso Dio e Cristo e il prossimo. Difatti chi si tiene in queste virtù, ha adempiuto al suo compito di santificazione, perchè chi possiede la carità è lontano da ogni peccato ».

(P. G., 5, 1007).

S. Giovanni Crisostomo, In Actus Apostolorum, XL, 2 :

« Nel Battesimo abbiamo la sorgente de’ beni: abbiamo cioè ricevuto la remissione de’ peccati, la santità, la partecipazione dello Spirito, l’adozione, la vita eterna. Che volete di più? I segni? Ma son cessati. Hai la fede, la speranza, la carità che sopravvivono: queste chiedi: queste son superiori ai segni. Niente pareggia la carità: prima fra tutte, la carità ».

(P. G., 60, 285).

DOMANDA 516a.

Benedetto X III; Vedi D. 62.

S. Clemente Romano, Epist. ad Corinthios, I, 49:

« Chi può esprimere il vincolo della carità di Dio? chi, come conviene, sa perfettamente parlare della stupenda sua bontà? È indicibile l’altezza, cui trasporta la carità. La carità c’immedesima con Dio, la carità copre il cumulo dei peccati (I di Piet., IV, 8), la carità tutto sostiene tutto sopporta con pazienza: nella carità non c’è sordidezza nè superbia; la carità non ammette divisioni, non suscita sedizioni, ma compie tutto in concordia; nella carità raggiungono la perfezione tutti gli eletti di Dio e senza carità niente a Dio è gradito. Il Signore ci sollevò a sè nella carità; per la sua carità verso noi il Signor nostro Gesù Cristo, con atto di volontà divina, versò per noi il suo sangue e la sua carne per la nostra carne e l’anima sua per la nostra ».

(P. G., I , 310 s.).

DOMANDA 517a,

Alessandro VII, prop. la condannata il 24 sett. 1665:

« L’uomo non è obbligato in nessun momento della sua vita a esprimere un atto di fede, di speranza, di carità, in forza de’ precetti divini riguardanti tali virtù ».

(Du Plessis, III, II, 321).

Innocenzo XI, propp. 6, 7, 16, 17 tra le condannate il 2 marzo 1679:

« Prop. 6. È probabile che il precetto dell’amore verso Dio non obbliga per sè stesso rigorosamente nemmeno ogni quinquennio.

« Prop. 7. Obbliga solo quando siam tenuti a giustificarci e non abbiamo per giustificarci altro mezzo,

« Prop. 16. La fede non si considera che cada sotto precetto speciale a sè.

« Prop. 17. Basta che Fatto di fede sia espresso una volta in vita ».

DOMANDA 518a.

Concilio Vaticano, Costit. Dei Filius, c. 3, De fide:

«Siam obbligati a prestar con fede pieno ossequio di mente e di volontà a Dio rivelante, perchè l’uomo dipende totalmente da Dio come suo creatore e Signore e la ragione creata è affatto suddita della Verità increata. La Chiesa Cattolica professa che questa fede, principio dell’umana salvezza, è virtù soprannaturale, per la quale crediamo vere colla grazia di Dio che ispira e aiuta, le cose da Lui rivelate non in virtù d’una verità intrinseca in esse conosciuta col lume naturale della ragione, ma per l’autorità di Dio stesso che rivela e che non può nè ingannarsi nè ingannare. Dice infatti l’Apostolo: Fede è sostanza delle cose sperate e argomento delle non apparenti (Agli Ebr., XI, 1) ».

S. Leone Magno, Sermo, XXVII, 1:

« Accostandoci a intendere il mistero della natività di Cristo, perchè nacque da una madre vergine, allontaniamo da noi la nebbia dei ragionamenti umani, e dallo sguardo della fede illuminata il fumo della mondana sapienza; perché è divina l’autorità, alla quale crediamo, e divino l’insegnamento che seguiamo ».

(P. L., 54, 216).

S. Giovanni Crisostomo : Vedi D. 373.

DOMANDA 519a.

Innocenzo XI, propp. tra le condannate dalla S. Congregazione del S. Ufficio, il 12 mar. 1679:

« Prop. 22. Di necessità di mezzo sembra necessaria la fede soltanto in Dio uno, non esplicitamente in Dio Rimuneratore.

« Prop. 64. È capace di assoluzione l’uomo, quantunque ignori i misteri di fede e benché per negligenza, sia pure colpevole, non sappia il mistero della SS. Trinità e dell’Incarnazione del Signor nostro Gesù Cristo ».

(Du Plessis, 1. c).

S. Congregazione del S. Ufficio, Decreto del 25 gennaio 1703:

« 2. Si domanda se, prima di dare il Battesimo a un adulto, il ministro sia in obbligo di spiegargli tutti i misteri della nostra fede, specie se moribondo, che in tal caso gli turberebbe l’anima. Non potrebbe bastare che il moribondo promettesse, superata la malattia, di procurarsi l’istruzione per tradurre in pratica i precetti impostigli?

« Al 2. Non basta la promessa, ma il missionario è in obbligo di spiegare all’adulto anche moribondo, che non sia incapace del tutto, i misteri della fede, che son necessari per necessità di mezzo, quali principalmente i misteri della Trinità e dell’Incarnazione ».

(Codicis iuris canonici Fontes IV, 41-42).

DOMANDA 520a.

Concilio Vaticano, Costit. Dei Filius, c. 4, De fide et ratione:

« Ma, benché la fede sia sopra la ragione, non vi può mai esser vero contrasto tra fede e ragione, perché il medesimo Dio, che svela i misteri e infonde la fede, ha acceso il lume della ragione nell’animo umano. Ora Dio non potrebbe negar sè stesso nè la verità contraddire mai la verità. Ebbene, l’inconsistente apparenza di siffatta contraddizione nasce specialmente perchè o i dogmi della fede non sono stati compresi od esposti secondo il pensiero della Chiesa, oppure si stimano per buone ragioni i trovati delle varie opinioni, Dunque definiamo affatto falsa ogni asserzione contraria alla verità della fede illuminata ».

DOMANDA 521a .

Concilio Vaticano: Vedi D. 520.

Pio IX, Encicl. Qui pluribus, 9 nov. 1846:

Sapete purtroppo, Venerabili Fratelli, che questi accaniti nemici del nome cristiano, trascinati come da un cieco impeto di pazza empietà, a tal punto di avventatezza giungono nel ragionare che, aprendo la lor bocca alle bestemmie contro Dio (Apoc. XIII, 6) con affatto inaudita audacia, non arrossiscono d’insegnare in pubblico e apertamente che sono storielle, invenzioni umane i sacrosanti misteri della nostra santa religione, che la dottrina della Chiesa contrasta il bene e i vantaggi della civiltà umana; anzi non si peritano di rinnegare Cristo stesso e Dio. E per illudere più facilmente i popoli e ingannare sopratutto gl’incauti e gl’ignoranti e travolgerli seco nell’errore, danno a intendere di conoscer essi soli i mezzi della prosperità e non dubitano di attribuirsi la nomea di filosofi, come se la filosofia, che consiste tutta nell’investigare la verità di natura, dovesse respingere quel che Dio stesso, clementissimo e supremo autore proprio di tutta la natura, s’è degnato manifestare agli uomini per singolare beneficio e misericordia allo scopo ch’essi raggiungessero la vera felicità e salvezza. « Perciò non cessano mai, con ragionamento impertinente affatto e falsissimo d’invocar la forza e l’eccellenza della umana ragione, di esaltarla contro la fede santissima di Cristo; anzi blaterano con tutta impudenza che contraddice all’umana ragione. Non si può immaginare o escogitare nulla di più strambo, di più empio, di più ripugnante proprio alla ragione. Difatti, benché la fede sia superiore alla ragione, tuttavia non si può mai trovar tra loro vero contrasto, vero dissidio; perchè tutt’e due sgorgano dall’unica e medesima sorgente della verità immutabile ed eterna, cioè Dio ottimo massimo: anzi talmente s’aiutano tra loro che la retta ragione dimostra la verità della fede, la custodisce, la difende; e a sua volta la fede libera la ragione da ogni errore e l’illumina meravigliosamente nella cognizione del divino, la rafforza, la perfeziona. « E certamente non minore inganno commettono, Venerabili Fratelli, codesti nemici della rivelazione esaltando esageratamente il progresso umano, che vorrebbero con atto di audacia temeraria e davvero sacrilega introdurre nella Religione Cattolica, quasi che proprio la Religione non fosse opera di Dio, ma degli uomini oppure una qualsiasi elucubrazione filosofica suscettibile di perfezione, per vie puramente umane. Contro costoro, che così miserabilmente delirano, cade opportuno davvero il giusto rimprovero di Tertulliano a’ filosofi del suo tempo « i quali misero in voga un cristianesimo stoico e platonico e dialettico » (De Præscript. c. 8). E invero, poiché la nostra santissima Religione fu non invenzione di mente umana, bensì rivelazione di Dio clementissimo agli uomini, ognuno può facilmente comprendere che per l’appunto la Religione attinge dall’autorità del medesimo Dio, che parla, tutta la sua forza, nè può esser mai dedotta o perfezionata dalla ragione umana. « Proprio la ragione umana, per non ingannarsi e sbagliare in cosa di tanta importanza, bisogna che indaghi con ogni cura il fatto della rivelazione divina, sicché si accerti che Dio ha parlato e si presti, secondo l’insegnamento sapientissimo dell’Apostolo, un ragionevole ossequio (Ai Rom., XII, 1). Chi difatti ignora o può ignorare che a Dio, quando parla, bisogna prestar fede intera e che nulla è più consentaneo precisamente alla ragione quanto consentire e creder con fermezza alle cose rivelate da Dio, che non può nè ingannarsi nè ingannare, se tali constano?

« Ma quanti e splendidi e meravigliosi argomenti per convincere a luce meridiana la ragione ch’è divina la Religione di Cristo e che « ogni principio de’ nostri dogmi ha radice lassù nel Signore de’ cieli » (S. Giovanni Crisost., Om. I in Isa.), e che perciò non esiste nulla di più certo, di più sicuro, di più santo della fede, nè di più ben fondato. Questa fede, maestra di vita, insegna di salvezza, nemica d’ogni vizio, madre feconda e provvida di virtù, confermata dalla nascita e dalla vita, morte, risurrezione, dalla sapienza, dai prodigii, dalle profezie di Gesù Cristo suo divino fondatore e perfezionatore, tutta circonfusa dallo splendore della celeste dottrina e arricchita dai tesori delle celesti ricchezze, dalle predizioni di tanti profeti, dalla luce di tanti miracoli, dalla costanza di tanti martiri, splendentissima e famosa per la gloria di tanti Santi, che squaderna le leggi salutari di Cristo e persino dalle più crudeli persecuzioni attinge forza, coll’unico vessillo della Croce penetrò in tutto il mondo per terra e per mare, da oriente a occidente e, abbattuta l’idolatria, dissipata la nebbia dell’errore e sgominati nemici d’ogni sorta, riempì di luce divina e sottomise al giogo soavissimo di Cristo, annunciando a tutti pace e bene (Isa. LII, 7), tutti i popoli, le genti, le nazioni per quanto barbare e crudeli, per quanto diverse di carattere, di costumi, di leggi, d’istituzioni. E questo fatto splende di tanta sapienza e potenza divina da persuadere ogni mente, ogni pensiero che la fede cristiana è opera di Dio. « Pertanto la ragione umana conoscendo, da questi argomenti fulgidi e insieme solidissimi, con chiarezza e manifestamente che Dio è autore della fede medesima, non può procedere oltre, ma — messo da parte affatto ogni difficoltà e dubbio — conviene che presti intero l’omaggio alla fede, tenendo ben fermo che, quanto la fede propone da credere e da operare agli uomini, è rivelazione di Dio ».

(Acta Pii IX, I, 1 6-9).

DOMANDA 522a.

Concilio di Laterano V, Vedi D. 60.

Concilio Vaticano, Costit. Dei Filius, c. 4, De Fide et rottone:

« E non soltanto fede e ragione non possono mai tra loro discordare, ma si recano vincendevole aiuto, perchè la retta ragione dimostra i fondamenti della fede e illuminata dalla sua luce coltiva la scienza delle divine verità, mentre la fede libera e protegge dagli errori la ragione e l’arricchisce di molteplici cognizioni. Perciò la Chiesa non è contraria alla scienza delle arti e discipline umane, tutt’altro; anzi la promuove ed aiuta in molti modi. Difatti non ignora o disprezza i vantaggi che ne provengono alla vita umana; anzi ammette che esse come sono venute da Dio, Signor delle scienze, così a Dio conducono, con l’aiuto della sua grazia, se rettamente si studiano. E in verità essa non proibisce a queste discipline di adoperare, ciascuna nel suo ambito, principii e metodi proprii; ma, riconoscendo questa giusta libertà, sta bene attenta che, riluttanti all’insegnamento divino, non incappino negli errori, oppure, violando i proprii confini, invadano e turbino il campo della fede ».

DOMANDA 527a.

Benedetto XII; Vedi D. 62a

S. Giovanni Crisostomo, In Epist. ad Romanos, XIV, 6:

« Che cosa dunque t’ha salvato? la sola speranza in Dio e l’aver fede in lui per le promesse fatte e i benefici compartiti: nè alro hai avuto da offrire. Se dunque t’ha salvato questa fede, anche adesso conservala: essa, che ti ha procurato tanti beneficii, senza dubbio non si smentirà in avvenire. Essa difatti d’un morto, d’un perduto, d’un prigioniero e d’un nemico ha fatto un amico, un figlio, un libero, un giusto e un erede e l’ha favorito tanto quanto nessuno avrebbe potuto aspettarsi: or come non ti proteggerà in futuro, dopo così liberale benevolenza?… Che cos’è dunque la speranza? È un confidare nelle cose future ».

(P. G., 60, 532).

DOMANDA 530a.

S. Gregorio Magno, In Evangelia, II, 30, 1, 2:

« Ma ecco: se ciascun di voi fosse richiesto se ama Dio, risponderebbe con tutta fiducia e sicura coscienza: Io l’amo. Ora, proprio a principio della lettura avete udito quel che dice la Verità: Se uno mi ama, osserverà la mia parola (Gio., XIV, 23). La prova dunque dell’amore è la pratica delle opere. Perciò il medesimo Giovanni dice nella sua lettera: Chi dice: Amo Dio e non ne osserva i comandi è bugiardo (I di Gio., II, 4). In verità noi amiamo Dio, se ci sappiamo trattenere dai nostri piaceri a norma de’ suoi precetti. Chi difatti è ancora naufrago de’ suoi illeciti desideri, certo non ama Dio, perchè nella sua volontà è in contrasto con Lui. « …. Chi dunque ama Dio davvero e ne osserva i precetti, il Signore entra nel cuore di lui e vi fa dimora, perchè talmente lo penetra l’amor di Dio che non se ne distacca poi al momento della tentazione. Dunque ama davvero colui, che non si lascia vincere a consentir coll’anima nel cattivo compiacimento. Infatti tanto più ci si distacca dall’amore, quanto più si accoglie il basso compiacimento. Perciò è anche detto subito dopo: Chi non mi ama non osserva i miei precetti (Gio., XIV, 24) ».

(P. L., 76, 1220 ss.).

DOMANDA 535a.

Concilio di Trento, Sess. VI, Decretum de justificatione, cap. 15:

« Bisogna affermare, contro le sottili trovate di certa gente, che con dolci parole e le lusinghe ingannano la coscienza degli innocenti, questa verità: che si perde la grazia ricevuta della giustificazione, non soltanto col peccato contro la fede, che distrugge la fede stessa, ma con qualunque peccato mortale, pur non perdendo la fede. Bisogna difender l’insegnamento della legge divina, che respinge dal regno di Dio non solamente gl’infedeli, ma pure i fedeli colpevoli di fornicazione, d’adulterio, di sensualità, di sodomia, di furto, di avarizia, di ubbriachezza, di maldicenza, di violenza e così via, perchè da siffatti peccati mortali possono astenersi coll’aiuto della grazia e a cagione di essi si separano dalla grazia di Cristo.

Can. 27. Sia scomunicato chi afferma che non v’è peccato mortale se non quello contro la fede; oppure che la grazia, una volta ricevuta, non si perde per nessun altro peccato, sia pur grave ed enorme quanto si vuole, se non per quello contro la fede ».

« Can. 28. Sia scomunicato chi afferma che, perduta col peccato la grazia, sempre si perde insieme anche la fede; oppure che la fede superstite non è vera fede, per quanto non sia più viva: oppure che non è Cristiano chi ha fede senza la carità ».

DOMANDA 537a.

Innocenzo XI, propp. 10, 11 tra le condannate dalla S. Congregazione del S. Ufficio, il 2 marzo 1679:

« Prop. 10. Non siamo in obbligo di amar il prossimo con atto interno e formale ».

« Prop. 11. Possiamo sodisfare al precetto di amar il prossimo con i soli atti esterni ».

(Du Plessis, III, II, 348).

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (28)