DOMENICA V DOPO PASQUA (2021)

DOMENICA V DOPO PASQUA (2021)

Semidoppio. – Paramenti- bianchi.

La liturgia continua a cantare il Cristo risorto e ci invita, in questa settimana delle Rogazioni, ad unirci a quella preghiera con la quale il Salvatore ha chiesto a Dio di far partecipe, con l’Ascensione, la propria umanità di quella gloria che, come Dio, possiede fin dall’eternità (Off.). Anche noi possederemo un giorno questa gloria, poiché ci ha liberati dal peccato con la virtù del Suo Sangue (Intr., Comm.). Poiché Gesù Cristo partendosi da noi ci ha lasciato come consolazione « di poter pregare in nome suo, onde la nostra gioia sia perfetta », cosi domandiamo a Dio « per nostro Signore » di non rimanere senza frutto nella conoscenza di Gesù, affinché, credendo alla sua generazione da parte del Padre, (Vang.) noi meritiamo di entrare con Lui nel Regno di suo Padre.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Isa. XLVIII: 20

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiate usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja.

[Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

Ps LXV: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: dà a Lui lode di gloria].

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja

[Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

 Orémus.

Deus, a quo bona cuncta procédunt, largíre supplícibus tuis: ut cogitémus, te inspiránte, quæ recta sunt; et, te gubernánte, léadem faciámus.

[O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi súpplici di pensare, per tua ispirazione, le cose che son giuste; e, sotto la tua direzione, di compierle.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli.

Jac. I: 22-27

Caríssimi: Estóte factóres verbi, et non auditóres tantum: falléntes vosmetípsos. Quia si quis audítor est verbi et non factor: hic comparábitur viro consideránti vultum nativitátis suæ in spéculo: considerávit enim se et ábiit, et statim oblítus est, qualis fúerit. Qui autem perspéxerit in legem perfectam libertátis et permánserit in ea, non audítor obliviósus factus, sed factor óperis: hic beátus in facto suo erit. Si quis autem putat se religiósum esse, non refrénans linguam suam, sed sedúcens cor suum, hujus vana est relígio. Relígio munda et immaculáta apud Deum et Patrem hæc est: Visitáre pupíllos et viduas in tribulatióne eórum, et immaculátum se custodíre ab hoc sæculo.

“Carissimi: Siate osservanti della parola, e non uditori soltanto, che ingannereste voi stessi. Perché se uno ascolta la parola e non l’osserva, egli rassomiglia a un uomo che contempla nello specchio il suo volto naturale. Contemplato, se ne va, e subito dimentica come era. Ma chi guarda attentamente nella legge perfetta della libertà, e persevera in essa, diventando non un uditore smemorato, ma un operatore di fatti, questi sarà felice nel suo operare. – Se alcuno crede d’essere religioso, e non frena la propria lingua, costui seduce il proprio cuore, e la sua religione è vana. Religione pura e senza macchia dinanzi a Dio e al Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni, e conservarsi incontaminati da questo mondo”.

STUDIO E CURIOSITA”.

L’esposizione cristiana — ed è il Cristianesimo che noi, sulle orme degli Apostoli veniamo esponendo in queste spiegazioni — oscilla tra le verità più alte, trascendenti addirittura ed i concetti più umili, più pratici. Qualche volta il pensiero apostolico vola, tal altra cammina per vie piane, quasi trite. Abbiamo volato con Paolo, camminiamo oggi con S. Giacomo. Il quale è molto preoccupato dei pericoli della speculazione pura, anche religiosa. È facile illudersi e credere, per illusione, che il parlare molto di una cosa, o il meditarla profondamente, lo specularvi d’intorno voglia dire amarla per davvero. Illusione funesta sempre; ma più funesta quando la materia della illusione, sia religiosa; quando si creda religiosità o religione perfetta la speculazione teologica la più sottile e più alta. La speculazione ci vuole, perché noi uomini, anche nel campo religioso siamo esseri intelligenti, razionali: vogliamo capire. È un bisogno ed un dovere, è un ossequio a Dio: l’ossequio dell’intelligenza. Ma non basta, ma non è la cosa più importante. Perciò l’Apostolo dice ai fedeli: siate osservanti della Legge, non solo curiosi di essa. Mettetela in pratica, non appagatevi di conoscerla a perfezione. E continua osservando che il fare diversamente, il preferire la speculazione curiosa all’osservanza pratica, il guardare e sentire al fare, ancora il separare quello da questo, è un’illusione, un auto inganno. – E dopo avere insistito su questo concetto fondamentale, non con l’abilità del sofista, ma collo zelo dell’apostolo, conclude in un modo e con una formula anche più severamente e modestamente pratica, che per le sue qualità apparenti, può anche scandalizzare, ma che importa rammentare sempre per fare del buon Cristianesimo, fare della religione autentica. La quale consiste, dice l’Apostolo (e adopera la parola « religione pura ed immacolata presso Dio e il Padre ») nel « visitare i pupilli e le vedove tribolate ed oppresse, custodendo il proprio cuore senza macchia fra la corruttela del nostro secolo ». Visitare i pupilli e le vedove tribolate, oppresse; notoriamente i deboli sono stati il bersaglio della perversità vile. E nessuno è così tipicamente debole come la vedova coi suoi orfanelli. Le anime pagane approfittano di queste debolezze per opprimerle e spogliarle ed angariarle: prendono quel poco che c’è, spogliano di quel nulla che è rimasto. Le anime pagane… le quali proprio così, proprio in questo assalto ostile, cupido avido al poco benessere di questi deboli, si rivelano tali: pagane. Ed è inutile che ostentino così facendo, così trattando il prossimo, sentimenti buoni di adorazione, di amore per il loro Dio, per Iddio. L’abito religioso su queste anime egoistiche è una maschera, che non inganna nessuno, certo non inganna Dio. La pietà verso di Lui si rivela e traduce in modo irrefragabile solo nella carità operosa, benefica verso i poveri, anzi verso quei poveri che non sono più poveri, verso quelli dei quali chi fa il bene non ha nulla da umanamente ripromettersi, tanto sono poveri e miseri! I pupilli e le vedove, bersagliati, oppressi. Il linguaggio apostolico è di una singolare chiarezza. Senza questa carità o attuta, o almeno sinceramente voluta, non c’è religione, c’è una lustra di Cristianesimo. Ma basta questa carità, perché si possa dire religiosa un’anima? Basta? Delicato problema, ma a cui si può sicuramente rispondere: Se c’è in un’anima carità sincera, senza secondi fini, senza alterazioni innaturali, c’è la religione, almeno embrionalmente. Non c’è ancora la pienezza, c’è già il principio: non c’è ancora l’albero, c’è già il germe. Non siamo all’arrivo; siamo alla partenza per… verso la religione, verso Dio. Ecco perché noi possiamo predicare a tutti i nostri uditori, a quelli che hanno ancora la fede e a quelli che non l’hanno forse mai avuta, che forse l’hanno disgraziatamente perduta: siate caritatevoli, cioè fate la carità, e avrete nell’anima l’aurora e il meriggio di Dio.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Alleluja

Allelúja, allelúja.

Surréxit Christus, et illúxit nobis, quos rédemit sánguine suo. Allelúja.

[Il Cristo è risuscitato e ha fatto sorgere la sua luce su di noi, che siamo redenti dal suo sangue. Allelúia.]

Joannes XVI: 28

Exívi a Patre, et veni in mundum: íterum relínquo mundum, et vado ad Patrem. Allelúja.

[Uscii dal Padre e venni nel mondo: ora lascio il mondo e ritorno al Padre. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann XVI:23-30

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Amen, amen, dico vobis: si quid petiéritis Patrem in nómine meo, dabit vobis. Usque modo non petístis quidquam in nómine meo: Pétite, et accipiétis, ut gáudium vestrum sit plenum. Hæc in provérbiis locútus sum vobis. Venit hora, cum jam non in provérbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiábo vobis. In illo die in nómine meo petétis: et non dico vobis, quia ego rogábo Patrem de vobis: ipse enim Pater amat vos, quia vos me amástis, et credidístis quia ego a Deo exívi. Exívi a Patre et veni in mundum: íterum relínquo mundum et vado ad Patrem. Dicunt ei discípuli ejus: Ecce, nunc palam loquéris et provérbium nullum dicis. Nunc scimus, quia scis ómnia et non opus est tibi, ut quis te intérroget: in hoc crédimus, quia a Deo exísti.

[“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: In verità in verità vi dico, che qualunque cosa domandiate al Padre nel nome mio, ve lo concederà. Fino adesso non avete chiesto cosa nel nome mio: chiedete, e otterrete, affinché il vostro gaudio sia compito. Ho detto a voi queste cose per via di proverbi. Ma viene il tempo che non vi parlerò più per via di proverbi, ma apertamente vi favellerò intorno al Padre. In quel giorno chiederete nel nome mio: e non vi dico che pregherò io il Padre per voi; imperocché lo stesso Padre vi ama, perché avete amato me, e avete creduto che sono uscito dal Padre. Uscii dal Padre, e venni al mondo: abbandono di nuovo il mondo, e vo al Padre. Gli dissero i suoi discepoli: Ecco che ora parli chiaramente, e non fai uso d’alcun proverbio. Adesso conosciamo che tu sai tutto, e non hai bisogno che alcuno t’interroghi: per questo noi crediamo che tu sei venuto da Dio”].

Omelia

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla preghiera.

“Amen, amen dico vobis si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis.”

(JOAN. XVI, 23).

Fratelli miei, nulla è più consolante per noi quanto la promessa che Gesù Cristo ci fa nell’Evangelo, assicurandoci che qualunque cosa domanderemo in nome suo al Padre, Egli ce la concederà. E non solo ci permette di domandargli ciò che vogliamo: ma ce lo comanda, ce ne prega. Egli diceva ai suoi Apostoli:  « Son già tre anni che mi trovo con voi, e voi non mi domandate nulla. Domandate dunque, affinché la vostra gioia sia piena e perfetta. » E questo ci mostra come la preghiera sia la sorgente di tutti i beni e di tutta la felicità che noi possiamo sperare sulla terra. Perciò, o F. M., se siamo così poveri, così privi della Luce e dei beni della grazia, questo avviene perché non preghiamo o preghiamo male. Ahimè! diciamolo piangendo: una gran parte di voi non sa nemmeno che cosa sia pregare, ed altri non hanno che una grande ripugnanza per un esercizio, che è sì dolce e sì consolante per un buon Cristiano. Alle volte vediamo alcuni che pregano, ma che non ottengono nulla; vuol dire ch’essi pregano male: cioè, senza prepararsi, e senza sapere nemmeno ciò che domandano a Dio. Ma per meglio farvi sentire, F. M., la grandezza dei beni che la preghiera attira su di noi, vi dirò che tutti i mali che ci colpiscono sulla terra, non vengono se non da ciò che noi non preghiamo, o preghiamo male; e, se volete saperne la causa, eccola. Se avessimo la fortuna di pregare il buon Dio come si deve, ci sarebbe impossibile cadere nel peccato; e se fossimo esentati dal peccato, ci troveremmo, per così dire, come Adamo prima della sua caduta. Per eccitarvi, F. M., a pregare spesso e a pregar bene, vi mostrerò: 1° che senza la preghiera è impossibile salvarsi; 2° che la preghiera è onnipotente presso Dio; 3° vi dirò quali sono le qualità che deve avere la preghiera per essere accetta a Dio e meritoria per chi la fa.

I. Per mostrarvi, F. M., il potere della preghiera e le grazie ch’essa attira dal cielo, vi dirò che, solo per la preghiera i giusti hanno avuto la fortuna di perseverare. La preghiera è per la nostra anima ciò che è la pioggia per la terra. Concimate un terreno quanto volete, se manca la pioggia, il vostro lavoro servirà a nulla. Così, fate opere buone quante volete; se non pregate spesso e come si deve, non vi salverete mai; perché la preghiera apre gli occhi della nostra anima, le fa sentire la grandezza della sua miseria, la necessità di ricorrere a Dio e la fa temere per la sua debolezza. Il Cristiano fa conto su Dio solo e niente su se stesso. Sì, F. M., per la preghiera tutti i santi hanno perseverato. Infatti, chi ha spinto i santi a fare grandi sacrifici, abbandonare tutte le loro ricchezze, i parenti, le comodità, per andar a finire la vita nelle foreste a piangere i loro peccati? F. M., fu la preghiera che accese nel loro cuore il pensiero di Dio, il desiderio di piacergli, e di vivere unicamente per Lui. Vedete Maddalena, qual è la sua occupazione dopo la sua conversione? Non è la preghiera? Vedete san Pietro; vedete ancora S. Luigi, re di Francia, che nei suoi viaggi, invece di passare la notte in letto, la passava in chiesa a pregare, domandando a Dio il prezioso dono della perseveranza nella grazia. Ma senza andare così lontano, F. M., non vediamo noi stessi che quando trascuriamo la preghiera perdiamo subito il gusto delle cose celesti: non pensiamo più che alla terra; e, se riprendiamo la preghiera, sentiamo rinascere in noi il pensiero ed il desiderio delle cose celesti? Sì, F. M., se abbiamo la ventura d’essere in grazia di Dio; o ricorriamo alla preghiera, o siamo sicuri di non perseverare lungamente nella via del cielo. In secondo luogo, affermo, o F. M., che tutti i peccatori devono, senza un miracolo straordinario, il quale non avviene che rarissimamente, la loro conversione alla preghiera. Vedete che cosa fa S. Monica, per domandare la conversione del figlio: ora ai piedi del suo crocifisso prega e piange; ora a persone dabbene domanda il soccorso delle loro preghiere. Vedete S. Agostino stesso, quando volle seriamente convertirsi; vedetelo in un giardino che attende alla preghiera e si abbandona alle lagrime per commuovere il cuore di Dio e cambiare il suo. Sì, F. M., per quanto peccatori noi siamo, se ricorressimo alla preghiera e se pregassimo come si deve, saremmo sicuri che Dio ci perdonerebbe. Ah! F. M., non stupiamoci perché il demonio fa ogni sforzo per non farci fare le nostre preghiere o per farcele far male; egli sa meglio di noi quanto la preghiera sia terribile per l’inferno, e che è impossibile che Dio possa rifiutarci ciò che gli domandiamo colla preghiera. Oh! quanti peccatori uscirebbero dal peccato se avessero la fortuna di ricorrere alia preghiera! – In terzo luogo, affermo, che tutti i dannati si sono dannati perché non hanno pregato o hanno pregato male. E da questo concludo, F. M., che senza la preghiera ci perderemo irreparabilmente per tutta l’eternità, mentre colla preghiera ben fatta siamo sicuri di salvarci. Sì, F. M. tutti i santi erano così convinti che la preghiera era assolutamente necessaria per salvarsi, che non si accontentavano di passare i giorni a pregare, ma vi passavano altresì le notti intere. E perché, F. M., noi abbiamo tanta ripugnanza per un esercizio così dolce e confortante? Ahimè! o  F.M., è perché facendolo male, non abbiamo mai provato le dolcezze che provavano i santi. Vedete sant’Ilarione, che pregò senza cessare per cent’anni, e i suoi cento anni di preghiera furono così corti che la vita gli sembrò passata come un baleno. Infatti, F. M., una preghiera ben fatta è un olio imbalsamato che si spande sulla nostra anima, e che sembra farle pregustare la felicità che godono i beati nel cielo. E questo è sì vero, che leggiamo nella vita di S. Francesco d’Assisi che, spesso, quando pregava, cadeva in estasi al punto che non si poteva distinguere se egli era sulla terra o coi beati in cielo. E questo perché egli era infiammato dal fuoco divino che la preghiera accendeva nel suo cuore, fuoco che gli comunicava un calore sensibile. Un giorno trovandosi in chiesa provò uno slancio d’amore così violento che si mise ad esclamare ad alta voce: “Mio Dio, non posso più reggere.„ — Ma, penserete in cuor vostro, questo va bene per quelli che sanno pregar bene e dire delle belle preghiere. F. M., Dio non guarda alle preghiere lunghe né alle preghiere belle; ma a quelle che son fatte col cuore, con un grande rispetto ed un vero desiderio di piacere a Lui. Eccone un bell’esempio. Si narra nella vita di S. Bonaventura, che era un grande dottore della Chiesa, che un religioso, uomo semplicissimo, gli disse: “Padre, pensate voi, che io sì poco istruito, possa pregar bene Iddio ed amarlo?„ S. Bonaventura gli rispose: “Ah! amico, sono principalmente coloro che somigliano a voi quelli che il buon Dio ama di più e che gli sono assai cari… Il buon religioso, stupito d’una sì buona notizia, si mise alla porta del monastero, dicendo a tutti quelli che vedeva passare: « Ascoltate, amici, ho una buona notizia da darvi: il dottor Bonaventura m’ha detto che noi, sebbene ignoranti, possiamo amare Dio come i sapienti. Che felicità per noi poter amare Dio e piacergli anche senza essere istruiti!„ E dopo questo, F. M., vi dirò che niente è più facile quanto il pregare Dio, e che non vi è nulla di più consolante. La preghiera è un’elevazione del cuore a Dio. Dirò meglio, F. M., è una dolce conversazione del figlio col padre, del suddito col re, del servo col padrone, dell’amico coll’amico in seno al quale depone i suoi affanni e le sue pene. Per spiegarvi ancor meglio questa felicità: è una vile creatura che il buon Dio riceve nelle sue braccia per prodigarle ogni sorta di benedizioni. E che vi dirò di più, o F. M.? È l’unione di tutto ciò che vi è di più umile con tutto ciò che vi è di più grande, di più potente, di più perfetto. Ditemi, F. M., ci occorre di più per farci sentire la gioia della preghiera e la sua necessità? Vedete dunque, che se vogliamo piacere a Dio e salvarci, ci è assolutamente necessaria la preghiera. D’altra parte, noi sulla terra non possiamo trovare altra felicità che amando Dio, e non possiamo amarlo che pregandolo. Vediamo che Gesù Cristo per incoraggiarci a ricorrere spesso alla preghiera, ci promette che nulla mai ci rifiuterà, se lo preghiamo come si deve. Ma, senza tanti giri di parole, per intendere che dobbiamo pregare spesso, non avete che da aprire il vostro catechismo, e vi vedrete che il dovere di un buon Cristiano è quello di pregare alla mattina ed alla sera e spesso durante il giorno: vale a dire sempre. Alla mattina, un Cristiano che desidera salvare la propria anima, deve, appena svegliato, fare il segno della santa croce, dare il suo cuore a Dio, offrirgli tutte le sue azioni, disporsi a fare la sua preghiera. Non bisogna mai mettersi al lavoro prima di aver fatto orazione e sta bene farla in ginocchio, dopo aver preso l’acqua santa, e davanti al crocifisso. Non perdiamo mai di vista, F. M., che è alla mattina che il buon Dio ci prepara tutte le grazie che ci sono necessarie per passare santamente la giornata; poiché il buon Dio conosce tutte le occasioni di peccare che ci si presenteranno, tutte le tentazioni che il demonio durante il giorno ci muoverà; e, se preghiamo in ginocchio e come si deve, ci dà tutte le grazie di cui abbiamo bisogno per non soccombere. E per questo che il demonio fa ogni sforzo per farcela tralasciare o per farcela far male; convintissimo, come confessò un giorno per bocca d’un ossesso, che se può avere il primo momento della giornata, è sicuro d’avere tutto il resto. Chi di noi, F. M., potrà udire senza piangere di compassione, quei poveri Cristiani che osano affermare di non aver tempo per pregare? Non avete tempo! poveri ciechi; qual è l’azione più preziosa: lavorare per piacere a Dio e salvare la propria anima, ovvero andare a dar da mangiare alle bestie che sono nella stalla, oppure chiamare i figli od i servi per mandarli a smuovere la terra od il letame? Dio mio, quanto è cieco l’uomo!… Non avete tempo! ma, ditemi, ingrato, se Dio questa notte vi avesse fatto morire, avreste lavorato? Se Dio vi avesse mandato tre o quattro mesi di malattia avreste lavorato? Via, miserabile, meritate che il Signore vi abbandoni al vostro accecamento e che vi lasci perire. Ci par troppa cosa concedere a Lui qualche minuto per ringraziarlo delle grazie che ci concede ad ogni momento! — Bisogna attendere al proprio lavoro, mi dite. — Ma, amico, v’ingannate grandemente, non avete altro lavoro che procurar di piacere a Dio e salvare la vostra anima, tutto il resto non è vostro lavoro: se non lo fate voi, lo faranno altri; ma se perdete la vostra anima, chi la salverà? Andate, siete un insensato: quando sarete nell’inferno imparerete ciò che avreste dovuto fare; e che, disgraziatamente, non avete fatto. – Ma, mi direte, quali sono dunque i vantaggi che ricaviamo dalla preghiera che dobbiamo sì spesso fare? F. M., eccoli. La preghiera fa che le nostre croci siano meno pesanti, essa mitiga le nostre pene, e ci fa meno attaccati alla vita, attira su di noi lo sguardo della misericordia di Dio, fortifica la nostra anima contro il peccato, ci fa desiderare la penitenza e ce la fa praticare con piacere, ci fa sentire e comprendere quanto il peccato oltraggia il buon Dio. Dirò di più, F. M., colla preghiera piacciamo a Dio, arricchiamo le nostre anime e ci assicuriamo la vita eterna. Ditemi, F. M., occorre ancor di più per indurci a far sì che la nostra vita non sia che una preghiera continua per la nostra unione con Dio? Quando si ama uno, si ha bisogno di vederlo per pensare a lui? No, senza dubbio. Così, se amiamo il buon Dio, la preghiera ci sarà familiare come il respiro. Tuttavia, F. M., vi dirò che per pregare in modo d’attirare su di noi tutti questi beni, non basta impiegarvi un momento, o farla in fretta, e con precipitazione. Dio vuole che vi impieghiamo un tempo conveniente, quanto basta per domandargli le grazie che ci sono necessarie, per ringraziarlo dei benefizi ricevuti e per piangere i nostri falli passati domandandogliene perdono. – Ma, mi direte, come possiamo dunque pregare senza cessare mai? F. M.,niente di più facile: occupiamoci di Dio, di quando in quando durante il nostro lavoro; ora con un atto d’amore, per testimoniargli che l’amiamo perché è buono e degno d’essere amato; ora con un atto d’umiltà, riconoscendoci indegni delle grazie di cui Egli ci ricolma continuamente; ora con un atto di confidenza, perché, sebbene miserabili, sappiamo ch’Egli ci ama e che vuol renderci felici. Talvolta pensiamo alla morte od alla passione di Gesù Cristo, seguendolo in ispirito nell’orto degli Olivi, quando è incoronato di spine, quando porta la croce, quando su di essa viene crocifisso; oppure ripensiamo la sua incarnazione, la sua nascita, la sua fuga in Egitto; oppure riflettiamo alla morte, al giudizio, all’inferno e al cielo. Facciamo qualche breve orazione prima e dopo il pasto: quando suona la campana, che ci ricorda la fine che ci attende, risuoni sulle nostre labbra l’Angelus e riflettiamo che ben presto non saremo più sulla terra. Questo vi porterà a non attaccarvi troppo il cuore e a non restare nel peccato, per timore che vi colga la morte. Ecco, F. M., quanto è facile pregare incessantemente. Ecco, in che modo i santi pregavano sempre.

II. — Un secondo motivo che deve indurci a ricorrere alla preghiera, è che il vantaggio è tutto nostro. Dio vuole la nostra felicità, e sa che solo colla preghiera possiamo procurarcela. D’altra parte, F. M., quale grande fortuna per una vile creatura, come noi, che Dio voglia abbassarsi fino ad essa e con lei intrattenersi come fa un amico coll’amico? Vedete la sua bontà per noi concedendoci di metterlo a parte dei nostri affanni, delle nostre pene. E questo buon Salvatore si dà premura di consolarci, di sostenerci nelle prove. Ditemi, F. M., non è lo stesso che voler rinunciare alla nostra salute ed alla nostra felicità sulla terra, il rinunciare alla preghiera? giacché, senza la preghiera non possiamo essere che disgraziati, e colla preghiera siamo sicuri di ottenere tutto quanto ci è necessario per il tempo e per l’eternità? Miei cari, tutto è promesso alla preghiera; la preghiera ottiene tutto, quand’è ben fatta. È questa una verità che Gesù Cristo ci ripete ad ogni pagina dell’Evangelo. La promessa che Gesù Cristo ci fa è formale: « Domandate ed otterrete, Egli dice: cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto. Tutto ciò che domanderete al Padre mio in mio Nome, se lo fate con fede, l’otterrete ». – Gesù Cristo non si accontenta di dirci che la preghiera ben fatta ottiene tutto. Per meglio ancora convincercene, ce rassicura con giuramento: « In verità, in verità vi dico, tatto ciò che domandate al Padre mio in mio Nome, l’otterrete. » Dopo le parole di Gesù Cristo, mi sembra, F . M. che sarebbe impossibile dubitare del potere della preghiera. Del resto, di dove potrebbe venire la nostra diffidenza? Forse dalla nostra indegnità? Ma Dio sa che noi siamo peccatori e colpevoli, e che contiamo unicamente sulla sua bontà che è infinita, e che preghiamo in suo Nome. E la nostra indegnità non è forse coperta, e come nascosta dai suoi meriti? Forse perché i nostri peccati sono troppo orribili e troppo spaventosi? Ma a Lui non è ugualmente facile perdonare mille peccati come uno solo? Non ha Egli dato la vita principalmente per i peccatori? Ascoltate ciò che ci dice il santo Re-profeta: « Si è mai visto alcuno che abbia pregato il Signore, e la sua preghiera non sia stata esaudita ? (Questo testo non è tolto dai Salmi, ma dall’Ecclesiastico: Quis invocavit eum, et despexit illum? (Eccl.. II, 12). « Sì, egli soggiunge, tutti quelli che invocano il Signore, e che ricorrono a Lui, hanno provato gli effetti della sua misericordia. » Vediamolo con degli esempi, il che vi persuaderà di più. Vedete, Adamo dopo il suo peccato domanda misericordia. Non solo il Signore perdona a lui, ma altresì a tutti i suoi discendenti; gli promette che il suo Figlio s’incarnerà, soffrirà e morirà per riparare il suo peccato. Vedete i Niniviti, tanto colpevoli che il Signore mandò loro il profeta Giona per avvertirli che li avrebbe fatti perire nel modo più spaventoso piovendo su di loro fuoco dal cielo (Giona, predicando a Ninive diceva: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta…” senza indicare per qual castigo (Jon. III, 4). Forse il Beato confonde la distruzione di Ninive con la rovina di Sodoma annunciata da un angelo a Lot e che è così descritta nella Genesi: « Il Signore fece cadere dal cielo una pioggia di zolfo o di fuoco su Sodoma e Gomorra » – (Gen. XIX, 21). Essi si danno alla preghiera, ed il Signore perdona. Anche quando Dio era disposto a sommergere la terra nelle acque del diluvio universale, se quei peccatori avessero ricorso alla preghiera, sarebbero stati sicuri del perdono del Signore. Continuando, vedete Mosè sulla montagna mentre Giosuè combatte i nemici del popolo di Dio. Finché egli prega, gli Israeliti sono vittoriosi; ma quando cessa di pregare, essi sono vinti. Vedete ancora lo stesso Mosè che domanda grazia al Signore per trentamila colpevoli che Dio aveva risoluto di far perire: colle sue preghiere, obbligò, per modo di dire, il Signore a perdonar loro. « No, o Mosè, non domandar grazia per quel popolo, non voglio perdonargli. » Mosè continua, ed il Signore è vinto dalle preghiere del suo servo e perdona. Che fa Giuditta per liberare la sua patria dall’odiato nemico? Si mette a pregare, e, piena di confidenza in Colui che pregava, va da Oloferne, gli taglia la testa e salva così la patria sua. Vedete il re Ezechia, al quale il Signore manda il suo profeta per avvertirlo di mettere in ordine le sue cose giacché deve presto morire. Egli si prostra davanti al Signore pregandolo di non toglierlo allora da questo mondo. Il Signore commosso dalla sua preghiera gli dà ancora quindici anni di vita. Andate più innanzi, vedete un pubblicano che, riconoscendosi colpevole, va nel tempio a pregare il Signore perché gli perdoni. E Gesù Cristo stesso ci dice che i suoi peccati gli furono perdonati. Vedete la peccatrice che, ai piedi di Gesù Cristo, lo prega con lagrime. Gesù Cristo non le dice: « Ti son rimessi i tuoi peccati? » Il buon ladrone, sebbene carico dei più enormi delitti, prega sulla croce: non solo Gesù Cristo gli perdona; ma, per di più, gli promette che quel giorno stesso sarà con Lui in paradiso. Sì, F. M., se occorresse citarvi tutti coloro che per la preghiera sono stati perdonati, bisognerebbe ricordarvi tutti i santi che sono stati peccatori; poiché solo per la preghiera hanno avuto la fortuna di riconciliarsi con Dio, che si lasciò commuovere dalle loro preghiere.

III. — Ma voi, forse, pensate: Perché dunque, malgrado tante preghiere, siamo sempre peccatori e mai progrediamo? Amico, la nostra disgrazia nasce da questo, che non preghiamo come si deve, cioè preghiamo senza prepararci e senza il desiderio di convertirci; spesso anche senza sapere ciò che vogliamo domandare al buon Dio. È veramente così, F. M., poiché tutti i peccatori che hanno domandata al buon Dio la loro conversione l’hanno ottenuta, e tutti i giusti che hanno domandato a Dio la perseveranza, hanno perseverato. — Ma forse mi direte: Siamo troppo tentati. — Siete troppo tentato, amico? Potete pregare e siete sicuro che la preghiera vi darà la forza di resistere alla tentazione. Avete bisogno di grazia? Ebbene! la preghiera ve l’otterrà. Se ne dubitate, ascoltate ciò che ci dice S. Giacomo, che colla preghiera comandiamo al mondo, al demonio ed alle nostre inclinazioni. Sì, F. M., in qualunque pena ci troviamo, colla preghiera, avremo la fortuna di sopportarla con rassegnazione alla volontà di Dio; e per quanto forti siano le nostre tentazioni, se ricorriamo alla preghiera, le vinceremo. Ma che fa il peccatore? Ecco. È persuasissimo che la preghiera gli è assolutamente necessaria per fare il bene e fuggire il male, e per uscire dal peccato, quando ha la disgrazia d’esservi caduto; ma, intendete, se lo potete, il suo accecamento: o non fa quasi mai preghiera o la fa male. Non è vero forse? Vedete come il peccatore fa la sua preghiera, dato che la faccia: poiché la maggior parte dei peccatori non ne fanno; ahimè! si alzano e si coricano come le bestie. Ma esaminiamo quel peccatore mentre fa la sua preghiera: Vedetelo appoggiato ad una sedia o contro il letto; prega vestendosi o spogliandosi, camminando o vociando, e fors’anche bestemmiando coi suoi servi o coi suoi figli. Che preparazione vi reca egli? Ahimè! nessuna. Spesso o quasi sempre, questi uomini finiscono la loro pretesa preghiera, non solo senza sapere ciò che hanno detto, ma anche senza pensare davanti a chi si trovavano e che cosa avevano fatto e domandato. Osservateli nella casa di Dio; fanno morire di compassione! Pensano essi che sono alla presenza del Signore? Niente affatto: guardano chi entra e chi esce, parlano l’un l’altro, sbadigliano, dormicchiano, s’annoiano, fors’anche si arrabbiano perché le funzioni, secondo loro, sono troppo lunghe. Attingendo l’acqua santa mostrano, press’a poco la stessa devozione di quando prendono nel secchio acqua per bere. Appena piegano il ginocchio a terra, e sembra loro gran cosa curvare un poco la testa durante la Consacrazione o la Benedizione. Vedeteli vagare i loro sguardi per la chiesa anche su oggetti che possono portarli al male; e non sono appena entrati che vorrebbero esserne già fuori. Quando escono li sentite gridare come persone tolte di prigione e messe in libertà. I bisogni del peccatore sono grandi, voi lo sapete, M. F. Ma egli prega al modo che v’ho detto: dobbiamo dunque stupirci se resta sempre nel suo peccato, e per di più, se vi persevera? Ho detto, che i vantaggi della preghiera derivano dal modo in cui s’adempie questo dovere:

1° Perché una preghiera sia accetta a Dio e vantaggiosa per chi la fa, bisogna che chi la compie sia in istato di grazia od almeno in una buona risoluzione di uscire prontamente dal peccato; perché la preghiera d’un peccatore che non vuol uscire dal peccato è un insulto fatto a Dio. Poi, perché una preghiera sia buona, bisogna che chi la fa sia preparato. Ogni preghiera fatta senza preparazione è una preghiera mal fatta; e questa preparazione consiste, nel pensare almeno un momento a Dio prima di mettersi in ginocchio, pensare a ciò che dovete dire, a ciò che dovete domandargli. Ahimè! quanto è scarso il numero di coloro che vi si preparano, e per conseguenza quanto pochi pregano come si deve, cioè in modo d’essere esauditi! D’altra parte, F. M., che cosa volete che Dio vi conceda, se non volete nulla e non desiderate nulla? Dirò di più: chi prega così somiglia ad un povero che non vuol elemosina, ad un ammalato che non vuol guarire, ad un cieco che vuol restare nel suo accecamento; ad un dannato, finalmente, che non vuol il cielo ed acconsente di andare all’inferno.

2° In secondo luogo ho detto, che la preghiera è l’elevazione del nostro cuore verso Dio, è un dolce e caro colloquio della creatura col suo Creatore. Dunque, F. M., non preghiamo Dio come si deve, se durante la preghiera pensiamo ad altre cose. Non appena ci accorgiamo che il nostro spirito si distrae, dobbiamo subito ritornarlo alla presenza di Dio, umiliarci davanti a Lui, e non lasciar mai la preghiera anche se nel farla non sentiamo alcun gusto; dobbiamo anzi riflettere che più ne proviamo disgusto e più la nostra preghiera è meritoria davanti a Dio, se continuiamo sempre nel pensiero di piacere a Lui. Si racconta nella storia che un giorno un santo diceva ad un altro santo: « Perché mai quando si prega il buon Dio, il nostro spirito si riempie di mille pensieri estranei, ai quali, spesso, se non si fosse occupati nella preghiera non si penserebbe? » E l’altro gli rispose: « Amico, non c’è da stupirsi: prima di tutto il demonio prevede le grazie abbondanti che colla preghiera possiamo ottenere, e per conseguenza dispera di guadagnare una persona che prega come si deve; e poi, più noi preghiamo con fervore e più lo rendiamo furibondo. » Un altro a cui apparve il demonio, gli domandò perché era continuamente occupato a tentare i Cristiani che stanno pregando. Il demonio, di sua bocca, rispose che egli non poteva tollerare che un Cristiano, tante volte peccatore, potesse colla preghiera ottenere il perdono; e che egli perciò fin che vi sarebbero Cristiani dediti alla preghiera, li avrebbe tentati. Chiese poi come li tentava:ecco ciò che il demonio rispose: « Ad alcuni metto un dito in bocca per farli sbadigliare; altri li addormento; di altri faccio correre la fantasia di città in città. » Ahimè! F. M., questo pur troppo è vero: noi proviamo ogni giorno tutto questo ogni volta che ci troviamo alla presenza di Dio per pregarlo. Si racconta che il superiore d’un monastero vedendo uno dei suoi religiosi che prima di cominciare le preghiere, faceva certi movimenti e sembrava parlare con qualcheduno, gli domandò di che s’occupasse prima di cominciare le sue preghiere. « Padre, rispose, prima di cominciare le mie preghiere, chiamo tutti i miei pensieri ed i miei desideri dicendo loro: Venite tutti, ed adoreremo Gesù Cristo nostro Dio. » — « Ah! F. M., ci dice Cassiano, com’era bello veder pregare i primi fedeli! Essi avevano un sì grande rispetto della presenza di Dio, che sembravano morti, tant’era grande il silenzio; in chiesa tremavano; non vi erano né sedie né banchi; stavano prostrati come colpevoli che aspettano la loro sentenza. Ma come il cielo si popolava presto, e come si viveva bene sulla terra! Ah! immensa felicità di quelli che vissero in quei tempi beati! »

3° In terzo luogo ho detto che le nostre preghiere devono esser fatte con confidenza, e colla ferma speranza che il buon Dio può e vuole accordarci ciò che gli domandiamo, se lo domandiamo come si deve. In tutti i luoghi in cui Gesù Cristo ci promette di accordare tutto alla preghiera, mette sempre questa condizione: « Se la fate con fede. » Quando qualcheduno gli domandava la sua guarigione od altre cose, non mancava di dir loro: « Vi sia dato secondo la vostra fede. » Del resto, F. M., che cosa potrà farci dubitare, giacché la nostra confidenza è appoggiata sull’infinita onnipotenza di Dio, sull’illimitata sua misericordia e sugli infiniti meriti di Gesù Cristo, in nome del quale preghiamo? Quando preghiamo in nome di Gesù Cristo, non siamo noi che preghiamo, ma è Gesù Cristo stesso che prega il Padre suo per noi. L’Evangelo ci dà un bell’esempio della fede che dobbiamo avere pregando, nella donna soggetta a perdite di sangue. Essa diceva tra se: « Se io arrivo anche solo a toccare l’orlo della sua veste io sono guarita. » Vedete com’essa credeva fermamente che Gesù Cristo poteva guarirla: aspettava con grande confidenza una guarigione che ardentemente desiderava. Infatti, passando il Salvatore vicino a lei, si gettò ai suoi piedi, gli toccò la veste, e sull’istante fu guarita. Gesù Cristo vedendo la sua fede, la guardò con bontà dicendole: « Va in pace, la tua fede t’ha salvata.  Sì, M. F., tutto è promesso a questa fede, a questa confidenza.

4° In quarto luogo dico che quando si prega, bisogna avere purità d’intenzione in tutto ciò che domandiamo, e non domandar nulla che non possa tornare a gloria di Dio e a salute nostra. « Potete domandare cose temporali, ci dice S. Agostino; ma sempre col pensiero che ve ne servirete per la gloria di Dio e per la salute della vostra anima, o per quella del vostro prossimo: altrimenti, le vostre domande non nascono che dall’orgoglio e dall’ambizione: e se, in questo caso, il buon Dio rifiuta di accordarvi ciò che gli domandate, è perché non vuol contribuire alla vostra rovina spirituale. Ma che facciamo nelle nostre preghiere? Ci dice ancora S. Agostino. Ahimè! domandiamo una cosa e ne desideriamo un’altra. Recitando il Pater, diciamo: Padre nostro, che siete nei cieli; cioè: Dio mio, distaccateci da questo mondo; fateci la grazia di disprezzare tutto ciò che appartiene alla vita presente; concedetemi che tutti i miei pensieri e tutti i miei desideri non siano che pel cielo ! „ Ahimè! saremmo invece ben dolenti se il buon Dio ci facesse questa grazia; certamente un gran numero di noi lo sarebbe, confessiamolo! – Dobbiamo pregare spesso, F. M., ma dobbiamo raddoppiare le nostre preghiere nelle prove e nelle tentazioni. Eccone un bell’esempio. Leggiamo nella storia che al tempo dell’imperatore Licinio, si volle che tutti i soldati sacrificassero al demonio. Fra questi ve ne furono quaranta che si rifiutarono, dicendo che i sacrifici sono dovuti solo a Dio e non al demonio. Si fece loro ogni sorta di promesse. Vedendo che nulla poteva vincerli, dopo molti tormenti, furono condannati ad esser gettati nudi in uno stagno d’acqua gelata, di notte, nel rigore dell’inverno; affinché morissero pel freddo. I santi martiri, vedendosi così condannati, si dissero l’un l’altro: « Amici, che ci resta ora, se non abbandonarci nelle mani di Dio onnipotente, da cui solo dobbiamo aspettare la forza e la vittoria? Ricorriamo alla preghiera, e preghiamo senza interruzione per attirare su di noi le grazie del cielo: domandiamo a Dio d’avere la bella sorte di perseverare tutti. „ Ma per tentarli si mise là vicino un bagno caldo. Disgraziatamente uno d’essi, perdendo il coraggio, abbandonò il combattimento, e andò a mettersi nel bagno caldo; ma, entratovi appena, vi perdette la vita. Colui che li custodiva, vedendo trentanove corone discendere su di essi dal cielo, ed una sola restar sospesa: « Ah! esclamò, è di quell’infelice che ha abbandonato gli altri! » E si mise al suo posto, ricevette la quarantesima corona e fu battezzato nel proprio sangue. Il giorno dopo, siccome respiravano ancora, il governatore ordinò che fossero gettati nel fuoco. Vennero posti tutti su di un carro, ad eccezione del più giovane, che si sperava di poter guadagnare. La madre, che era presente, esclamò: “Ah! figlio mio, coraggio! un momento di dolori, ti varrà un’eternità di gioie. „ Preso il figlio, lo collocò sul carro cogli altri: e piena di gioia, lo condusse come in trionfo, alla gloria del martirio. Per tutto il tempo del loro martirio non cessarono di pregare, tanto erano persuasi che la preghiera è il mezzo più potente per attirare su di noi gli aiuti del cielo. – Sappiamo che S. Agostino, dopo la sua conversione, si ritirò per lungo tempo in un luogo romito, per domandare la grazia di perseverare nelle buone disposizioni. S. Vincenzo Ferreri, che ha convertite tante anime, diceva che nulla è tanto potente per convertire i peccatori, quanto la preghiera; essa è simile ad un dardo che ferisce il cuore del peccatore. Sì, F. M, possiamo dire che la preghiera fa tutto: ci fa conoscere i nostri doveri, lo stato miserabile della nostr’anima dopo il peccato, ci dà le disposizioni che ci sono necessarie per ricevere i Sacramenti: ci fa comprendere quanto la vita ed i beni del mondo siano poca cosa, il che ci porta a non attaccarvici; imprime vivamente il timore salutare della morte, dell’inferno e della perdita del cielo. Ah! F. M., se avessimo la fortuna di pregare come si deve, saremmo ben presto santi penitenti! Vediamo che S. Ugo, vescovo di Grenoble, nella sua malattia, non si stancava di ripetere il Pater noster. Gli si disse che ciò poteva contribuire ad aggravare il suo male. « Ah! no – rispose loro – invece mi solleva. » – Ho detto, F. M., che la terza condizione, perché la nostra preghiera sia gradita a Dio, è la perseveranza. Vediamo spesso che il Signore non ci accorda con prontezza ciò che gli domandiamo: lo fa per farcelo desiderare di più, o per meglio farcelo apprezzare. Questo ritardo non è un rifiuto, è una prova che ci dispone a ricevere con più abbondanza ciò che domandiamo. Vedete S. Agostino che per cinque anni domanda a Dio la grazia della sua conversione. Vedete S. Maria Egiziaca che, per diciannove anni, domanda al buon Dio la grazia di liberarla da cattivi pensieri. Ma che hanno fatto i santi? Sentite. Hanno sempre perseverato nel domandare, e per la loro perseveranza hanno sempre ottenuto ciò che avevano domandato. Noi, invece, che siamo coperti di peccati, quando il buon Dio non ci accorda subito ciò che gli domandiamo, pensiamo che Egli non vuol esaudire le nostre domande, e, subito, lasciamo la preghiera. No, F. M., i santi non si comportavano così quanto al perseverare: essi hanno sempre pensato ch’erano indegni d’essere esauditi, e che, se Iddio lo faceva, ascoltava la sua misericordia e non i loro meriti. Io dico dunque che quando preghiamo, sebbene sembri che il buon Dio non ascolti le nostre preghiere, non bisogna tralasciar di pregare; ma anzi continuare sempre. Se il buon Dio non ci concede ciò che gli domandiamo, ci concede un’altra grazia che ci è più vantaggiosa di quella che noi domandiamo. Abbiamo un esempio del modo con cui dobbiamo perseverare nella preghiera nella persona di quella donna cananea, che si indirizzò a Gesù Cristo per domandargli la guarigione di sua figlia. Vedete la sua umiltà e la sua perseveranza… Ecco un altro a mirabile esempio della potenza della preghiera. Leggiamo nella storia dei Padri del deserto, che i Cattolici erano andati a vedere un santo la cui riputazione si spargeva molto lontano, per pregarlo di venir a confondere un certo eretico, i cui discorsi seducevano molta gente; essendosi il santo messo in disputa con quell’infelice, senza poterlo convincere che aveva torto e ch’era un disgraziato, nato soltanto per rovinare le anime; e vedendo che colle sue lungaggini, voleva far credere che non aveva torto; gli disse: « Disgraziato, il regno di Dio non consiste in parole, ma in opere: andiamo tutti e due con tutta questa gente, che testimonierà, andiamo al cimitero, là invocheremo il buon Dio sul primo morto che ivi troveremo, e le nostre opere faranno vedere la nostra fede. » L’eretico sbigottì a questa proposta, e non osò accettare l’invito: domandò al santo d’aspettare fino al giorno seguente: il santo vi acconsentì. Il dì dopo, il popolo che desiderava ardentemente sapere come finirebbe la cosa, venne in gran folla al cimitero. Si attese l’eretico fino alle tre di sera; ma si annunciò al santo che il suo avversario durante la notte aveva preso la fuga e s’era ritirato in Egitto. Allora S. Macario condusse al cimitero tutto quel popolo che aspettava l’esito della loro conferenza, e soprattutto quelli ingannati da quel disgraziato. Fermatosi su di una tomba, in loro presenza s’inginocchiò, pregò per qualche tempo, e volgendosi al cadavere che da maggior tempo era sepolto in quel luogo, disse: « O uomo! ascoltami: se quell’eretico fosse venuto con me, e, davanti a lui, avessi invocato il nome di Gesù Cristo mio Salvatore, non ti saresti alzato per testimoniare la verità della mia fede? » A quelle parole, il morto si alzò ed in presenza di tutti, disse che, come lo faceva adesso, l’avrebbe fatto anche presente l’eretico. S. Macario gli disse: « Chi sei? in quale anno hai vissuto? Conosci Gesù Cristo? » Il morto risuscitato rispose che aveva vissuto al tempo degli antichi re; e che non aveva mai sentito il nome di Gesù Cristo. Allora Macario, vedendo che tutti erano convintissimi che quel disgraziato eretico era un impostore, disse al morto: « Dormi in pace fino all’universale risurrezione. » E tutti si ritirarono lodando Dio, che aveva sì bene fatto conoscere la verità della nostra santa Religione. S. Macario poi ritornò nel suo deserto a continuarvi la penitenza (Vita dei Padri del deserto, vol. III – S. Macario d’Egitto). Vedete, F. M., la potenza della preghiera, quando è ben fatta? Non riconoscerete dunque con me che se non otteniamo ciò che domandiamo al buon Dio, è perché non preghiamo con fede, con un cuore abbastanza puro, con una confidenza abbastanza grande, o che non perseveriamo abbastanza nella preghiera? No, F. M., Dio non ha mai rifiutato e non rifiuterà mai nulla a quelli che gli domandano, come si deve, qualche grazia. Sì, la preghiera è la sola via che ci resta per uscire dal peccato, per perseverare nella grazia, per commuovere il cuore di Dio, per attirare su di noi ogni benedizione del cielo, per l’anima ed anche per le cose temporali. – Di qui concludo che se restiamo nel peccato, se non ci convertiamo, se ci troviamo così disgraziati nei dolori che Dio ci manda, è perché non preghiamo o preghiamo male. Senza la preghiera, non possiamo frequentare degnamente i Sacramenti. Senza la preghiera, non conosceremo mai lo stato a cui Dio ci chiama. Senza la preghiera non può toccarci che l’inferno. Senza la preghiera, non gusteremo le dolcezze che possiamo gustare amando Dio. Senza la preghiera le nostre croci sono senza merito. Oh! quante dolcezze, F. M., proveremmo pregando, se avessimo la ventura di pregare come si deve! Non preghiamo dunque mai senza pensar bene a Chi parliamo e a ciò che vogliamo domandare a Dio. Preghiamo soprattutto con umiltà e confidenza, e con questo, avremo la bella sorte d’ottenere ciò che desideriamo, se le nostre domande sono secondo ciò che Dio vuole da noi. È quello che vi auguro…

Credo …

IL CREDO

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps LXV: 8-9; LXV: 20

Benedícite, gentes, Dóminum, Deum nostrum, et obœdíte vocem laudis ejus: qui pósuit ánimam meam ad vitam, et non dedit commovéri pedes meos: benedíctus Dóminus, qui non amóvit deprecatiónem meam et misericórdiam suam a me, allelúja.

[Popoli, benedite il Signore Dio nostro, e fate risuonare le sue lodi: Egli che pose in salvo la mia vita e non ha permesso che il mio piede vacillasse. Benedetto sia il Signore che non ha respinto la mia preghiera, né ritirato da me la sua misericordia, allelúia].

Secreta

Súscipe, Dómine, fidélium preces cum oblatiónibus hostiárum: ut, per hæc piæ devotiónis offícia, ad cœléstem glóriam transeámus.

[Accogli, o Signore, le preghiere dei fedeli, in uno con l’offerta delle ostie, affinché, mediante la pratica della nostra pia devozione, perveniamo alla gloria celeste].

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XCV: 2

Cantáte Dómino, allelúja: cantáte Dómino et benedícite nomen ejus: bene nuntiáte de die in diem salutáre ejus, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore, allelúia: cantate al Signore e benedite il suo nome: di giorno in giorno proclamate la salvezza da Lui operata, allelúia, allelúia].

Postcommunio

Orémus.

Tríbue nobis, Dómine, cæléstis mensæ virtúte satiátis: et desideráre, quæ recta sunt, et desideráta percípere.

[Concedici, o Signore, che, saziati dalla forza di questa mensa celeste, desideriamo le cose giuste e conseguiamo le desiderate.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

TUTTA LA MESSA (L’UNICA “VERA” CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (1)

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “SULLA PREGHIERA”

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla preghiera.

“Amen, amen dico vobis si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis.”

(JOAN. XVI, 23).

Fratelli miei, nulla è più consolante per noi quanto la promessa che Gesù Cristo ci fa nell’Evangelo, assicurandoci che qualunque cosa domanderemo in nome suo al Padre, egli ce la concederà. E non solo ci permette di domandargli ciò che vogliamo: ma ce lo comanda, ce ne prega. Egli diceva ai suoi Apostoli:  « Son già tre anni che mi trovo con voi, e voi non mi domandate nulla. Domandate dunque, affinché la vostra gioia sia piena e perfetta. » E questo ci mostra come la preghiera sia la sorgente di tutti i beni e di tutta la felicità che noi possiamo sperare sulla terra. Perciò, o F. M., se siamo così poveri, così privi della Luce e dei beni della grazia, questo avviene perché non preghiamo o preghiamo male. Ahimè! diciamolo piangendo: una gran parte di voi non sa nemmeno che cosa sia pregare, ed altri non hanno che una grande ripugnanza per un esercizio, che è sì dolce e sì consolante per un buon Cristiano. Alle volte vediamo alcuni che pregano, ma che non ottengono nulla; vuol dire ch’essi pregano male: cioè, senza prepararsi, e senza sapere nemmeno ciò che domandano a Dio. Ma per meglio farvi sentire, F. M., la grandezza dei beni che la preghiera attira su di noi, vi dirò che tutti i mali che ci colpiscono sulla terra, non vengono se non da ciò che noi non preghiamo, o preghiamo male; e, se volete saperne la causa, eccola. Se avessimo la fortuna di pregare il buon Dio come si deve, ci sarebbe impossibile cadere nel peccato; e se fossimo esentati dal peccato, ci troveremmo, per così dire, come Adamo prima della sua caduta. Per eccitarvi, F. M., a pregare spesso e a pregar bene, vi mostrerò: 1° che senza la preghiera è impossibile salvarsi; 2° che la preghiera è onnipotente presso Dio; 3° vi dirò quali sono le qualità che deve avere la preghiera per essere accetta a Dio e meritoria per chi la fa.

I. Per mostrarvi, F. M., il potere della preghiera e le grazie ch’essa attira dal cielo, vi dirò che, solo per la preghiera i giusti hanno avuto la fortuna di perseverare. La preghiera è per la nostra anima ciò che è la pioggia per la terra. Concimate un terreno quanto volete, se manca la pioggia, il vostro lavoro servirà a nulla. Così, fate opere buone quante volete; se non pregate spesso e come si deve, non vi salverete mai; perché la preghiera apre gli occhi della nostra anima, le fa sentire la grandezza della sua miseria, la necessità di ricorrere a Dio e la fa temere per la sua debolezza. Il Cristiano fa conto su Dio solo e niente su se stesso. Sì, F. M., per la preghiera tutti i santi hanno perseverato. Infatti, chi ha spinto i santi a fare grandi sacrifici, abbandonare tutte le loro ricchezze, i parenti, le comodità, per andar a finire la vita nelle foreste a piangere i loro peccati? F. M., fu la preghiera che accese nel loro cuore il pensiero di Dio, il desiderio di piacergli, e di vivere unicamente per Lui. Vedete Maddalena, qual è la sua occupazione dopo la sua conversione? Non è la preghiera? Vedete san Pietro; vedete ancora S. Luigi, re di Francia, che nei suoi viaggi, invece di passare la notte in letto, la passava in chiesa a pregare, domandando a Dio il prezioso dono della perseveranza nella grazia. Ma senza andare così lontano, F. M., non vediamo noi stessi che quando trascuriamo la preghiera perdiamo subito il gusto delle cose celesti: non pensiamo più che alla terra; e, se riprendiamo la preghiera, sentiamo rinascere in noi il pensiero ed il desiderio delle cose celesti? Sì, F. M., se abbiamo la ventura d’essere in grazia di Dio; o ricorriamo alla preghiera, o siamo sicuri di non perseverare lungamente nella via del cielo. In secondo luogo, affermo, o F. M., che tutti i peccatori devono, senza un miracolo straordinario, il quale non avviene che rarissimamente, la loro conversione alla preghiera. Vedete che cosa fa S. Monica, per domandare la conversione del figlio: ora ai piedi del suo crocifisso prega e piange; ora a persone dabbene domanda il soccorso delle loro preghiere. Vedete S. Agostino stesso, quando volle seriamente convertirsi; vedetelo in un giardino che attende alla preghiera e si abbandona alle lagrime per commuovere il cuore di Dio e cambiare il suo. Sì, F. M., per quanto peccatori noi siamo, se ricorressimo alla preghiera e se pregassimo come si deve, saremmo sicuri che Dio ci perdonerebbe. Ah! F. M., non stupiamoci perché il demonio fa ogni sforzo per non farci fare le nostre preghiere o per farcele far male; egli sa meglio di noi quanto la preghiera sia terribile per l’inferno, e che è impossibile che Dio possa rifiutarci ciò che gli domandiamo colla preghiera. Oh! quanti peccatori uscirebbero dal peccato se avessero la fortuna di ricorrere alia preghiera! – In terzo luogo, affermo, che tutti i dannati si sono dannati perché non hanno pregato o hanno pregato male. E da questo concludo, F. M., che senza la preghiera ci perderemo irreparabilmente per tutta l’eternità, mentre colla preghiera ben fatta siamo sicuri di salvarci. Sì, F. M. tutti i santi erano così convinti che la preghiera era assolutamente necessaria per salvarsi, che non si accontentavano di passare i giorni a pregare, ma vi passavano altresì le notti intere. E perché, F. M., noi abbiamo tanta ripugnanza per un esercizio così dolce e confortante? Ahimè! o  F.M., è perché facendolo male, non abbiamo mai provato le dolcezze che provavano i santi. Vedete sant’Ilarione, che pregò senza cessare per cent’anni, e i suoi cento anni di preghiera furono così corti che la vita gli sembrò passata come un baleno. Infatti, F. M., una preghiera ben fatta è un olio imbalsamato che si spande sulla nostra anima, e che sembra farle pregustare la felicità che godono i beati nel cielo. E questo è sì vero, che leggiamo nella vita di S. Francesco d’Assisi che, spesso, quando pregava, cadeva in estasi al punto che non si poteva distinguere se egli era sulla terra o coi beati in cielo. E questo perché egli era infiammato dal fuoco divino che la preghiera accendeva nel suo cuore, fuoco che gli comunicava un calore sensibile. Un giorno trovandosi in chiesa provò uno slancio d’amore così violento che si mise ad esclamare ad alta voce: “Mio Dio, non posso più reggere.„ — Ma, penserete in cuor vostro, questo va bene per quelli che sanno pregar bene e dire delle belle preghiere. F. M., Dio non guarda alle preghiere lunghe né alle preghiere belle; ma a quelle che son fatte col cuore, con un grande rispetto ed un vero desiderio di piacere a Lui. Eccone un bell’esempio. Si narra nella vita di S. Bonaventura, che era un grande dottore della Chiesa, che un religioso, uomo semplicissimo, gli disse: “Padre, pensate voi, che io sì poco istruito, possa pregar bene Iddio ed amarlo?„ S. Bonaventura gli rispose: “Ah! amico, sono principalmente coloro che somigliano a voi quelli che il buon Dio ama di più e che gli sono assai cari… Il buon religioso, stupito d’una sì buona notizia, si mise alla porta del monastero, dicendo a tutti quelli che vedeva passare: « Ascoltate, amici, ho una buona notizia da darvi: il dottor Bonaventura m’ha detto che noi, sebbene ignoranti, possiamo amare Dio come i sapienti. Che felicità per noi poter amare Dio e piacergli anche senza essere istruiti!„ E dopo questo, F. M., vi dirò che niente è più facile quanto il pregare Dio, e che non vi è nulla di più consolante. La preghiera è un’elevazione del cuore a Dio. Dirò meglio, F. M., è una dolce conversazione del figlio col padre, del suddito col re, del servo col padrone, dell’amico coll’amico in seno al quale depone i suoi affanni e le sue pene. Per spiegarvi ancor meglio questa felicità: è una vile creatura che il buon Dio riceve nelle sue braccia per prodigarle ogni sorta di benedizioni. E che v i dirò di più, o P. M.? E l’unione di tutto ciò che vi è di più umile con tutto ciò che vi è di più grande, di più potente, di più perfetto. Ditemi, F. M., ci occorre di più per farci sentire la gioia della preghiera e la sua necessità? Vedete dunque, che se vogliamo piacere a Dio e salvarci, ci è assolutamente necessaria la preghiera. D’altra parte, noi sulla terra non possiamo trovare altra felicità che amando Dio, e non possiamo amarlo che pregandolo. Vediamo che Gesù Cristo per incoraggiarci a ricorrere spesso alla preghiera, ci promette che nulla mai ci rifiuterà, se lo preghiamo come si deve. Ma, senza tanti giri di parole, per intendere che dobbiamo pregare spesso, non avete che da aprire il vostro catechismo, e vi vedrete che il dovere di un buon Cristiano è quello di pregare alla mattina ed alla sera e spesso durante il giorno: vale a dire sempre. Alla mattina, un Cristiano che desidera salvare la propria anima, deve, appena svegliato, fare il segno della santa croce, dare il suo cuore a Dio, offrirgli tutte le sue azioni, disporsi a fare la sua preghiera. Non bisogna mai mettersi al lavoro prima di aver fatto orazione e sta bene farla in ginocchio, dopo aver preso l’acqua santa, e davanti al crocifisso. Non perdiamo mai di vista, F. M., che è alla mattina che il buon Dio ci prepara tutte le grazie che ci sono necessarie per passare santamente la giornata; poiché il buon Dio conosce tutte le occasioni di peccare che ci si presenteranno, tutte le tentazioni che il demonio durante il giorno ci muoverà; e, se preghiamo in ginocchio e come si deve, ci dà tutte le grazie di cui abbiamo bisogno per non soccombere. E per questo che il demonio fa ogni sforzo per farcela tralasciare o per farcela far male; convintissimo, come confessò un giorno per bocca d’un ossesso, che se può avere il primo momento della giornata, è sicuro d’avere tutto il resto. Chi di noi, F. M., potrà udire senza piangere di compassione, quei poveri Cristiani che osano affermare di non aver tempo per pregare? Non avete tempo! poveri ciechi; qual è l’azione più preziosa: lavorare per piacere a Dio e salvare la propria anima, ovvero andare a dar da mangiare alle bestie che sono nella stalla, oppure chiamare i figli od i servi per mandarli a smuovere la terra od il letame? Dio mio, quanto è cieco l’uomo!… Non avete tempo! ma, ditemi, ingrato, se Dio questa notte vi avesse fatto morire, avreste lavorato? Se Dio vi avesse mandato tre o quattro mesi di malattia avreste lavorato? Via, miserabile, meritate che il Signore vi abbandoni al vostro accecamento e che vi lasci perire. Ci par troppa cosa concedere a Lui qualche minuto per ringraziarlo delle grazie che ci concede ad ogni momento! — Bisogna attendere al proprio lavoro, mi dite. — Ma, amico, v’ingannate grandemente, non avete altro lavoro che procurar di piacere a Dio e salvare la vostra anima, tutto il resto non è vostro lavoro: se non lo fate voi, lo faranno altri; ma se perdete la vostra anima, chi la salverà? Andate, siete un insensato: quando sarete nell’inferno imparerete ciò che avreste dovuto fare; e che, disgraziatamente, non avete fatto. – Ma, mi direte, quali sono dunque i vantaggi che ricaviamo dalla preghiera che dobbiamo sì spesso fare? F. M., eccoli. La preghiera fa che le nostre croci siano meno pesanti, essa mitiga le nostre pene, e ci fa meno attaccati alla vita, attira su di noi lo sguardo della misericordia di Dio, fortifica la nostra anima contro il peccato, ci fa desiderare la penitenza e ce la fa praticare con piacere, ci fa sentire e comprendere quanto il peccato oltraggia il buon Dio. Dirò di più, F. M., colla preghiera piacciamo a Dio, arricchiamo le nostre anime e ci assicuriamo la vita eterna. Ditemi, F. M., occorre ancor di più per indurci a far sì che la nostra vita non sia che una preghiera continua per la nostra unione con Dio? Quando si ama uno, si ha bisogno di vederlo per pensare a lui? No, senza dubbio. Così, se amiamo il buon Dio, la preghiera ci sarà familiare come il respiro. Tuttavia, F. M., vi dirò che per pregare in modo d’attirare su di noi tutti questi beni, non basta impiegarvi un momento, o farla in fretta, e con precipitazione. Dio vuole che vi impieghiamo un tempo conveniente, quanto basta per domandargli le grazie che ci sono necessarie, per ringraziarlo dei benefizi ricevuti e per piangere i nostri falli passati domandandogliene perdono. – Ma, mi direte, come possiamo dunque pregare senza cessare mai? F. M.,niente di più facile: occupiamoci di Dio, di quando in quando durante il nostro lavoro; ora con un atto d’amore, per testimoniargli che l’amiamo perché è buono e degno d’essere amato; ora con un atto d’umiltà, riconoscendoci indegni delle grazie di cui Egli ci ricolma continuamente; ora con un atto di confidenza, perché, sebbene miserabili, sappiamo ch’Egli ci ama e che vuol renderci felici. Talvolta pensiamo alla morte od alla passione di Gesù Cristo, seguendolo in ispirito nell’orto degli Olivi, quando è incoronato di spine, quando porta la croce, quando su di essa viene crocifisso; oppure ripensiamo la sua incarnazione, la sua nascita, la sua fuga in Egitto; oppure riflettiamo alla morte, al giudizio, all’inferno e al cielo. Facciamo qualche breve orazione prima e dopo il pasto: quando suona la campana, che ci ricorda la fine che ci attende, risuoni sulle nostre labbra l’Angelus e riflettiamo che ben presto non saremo più sulla terra. Questo vi porterà a non attaccarvi troppo il cuore e a non restare nel peccato, per timore che vi colga la morte. Ecco, F. M., quanto è facile pregare incessantemente. Ecco, in che modo i santi pregavano sempre.

II. — Un secondo motivo che deve indurci a ricorrere alla preghiera, è che il vantaggio è tutto nostro. Dio vuole la nostra felicità, e sa che solo colla preghiera possiamo procurarcela. D’altra parte, F. M., quale grande fortuna per una vile creatura, come noi, che Dio voglia abbassarsi fino ad essa e con lei intrattenersi come fa un amico coll’amico? Vedete la sua bontà per noi concedendoci di metterlo a parte dei nostri affanni, delle nostre pene. E questo buon Salvatore si dà premura di consolarci, di sostenerci nelle prove. Ditemi, F. M., non è lo stesso che voler rinunciare alla nostra salute ed alla nostra felicità sulla terra, il rinunciare alla preghiera? giacche, senza la preghiera non possiamo essere che disgraziati, e colla preghiera siamo sicuri di ottenere tutto quanto ci è necessario per il tempo e per l’eternità? Miei cari, tutto è promesso alla preghiera; la preghiera ottiene tutto, quand’è ben fatta. È questa una verità che Gesù Cristo ci ripete ad ogni pagina dell’Evangelo. La promessa che Gesù Cristo ci fa è formale: « Domandate ed otterrete, Egli dice: cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto. Tutto ciò che domanderete al Padre mio in mio nome, se lo fate con fede, l’otterrete ». – Gesù Cristo non si accontenta di dirci che la preghiera ben fatta ottiene tutto. Per meglio ancora convincercene, ce rassicura con giuramento: « In verità, in verità vi dico, tatto ciò che domandante al Padre mio in mio nome, l’otterrete. » Dopo le parole di Gesù Cristo, mi sembra, F . M. che sarebbe impossibile dubitare del potere della preghiera. Del resto, di dove potrebbe venire la nostra diffidenza? Forse dalla nostra indegnità? Ma Dio sa che noi siamo peccatori e colpevoli, e che contiamo unicamente sulla sua bontà che è infinita, e che preghiamo in suo nome. E la nostra indegnità non è forse coperta, e come nascosta dai suoi meriti? Forse perché i nostri peccati sono troppo orribili e troppo spaventosi? Ma a Lui non è ugualmente facile perdonare mille peccati come uno solo? Non ha Egli dato la vita principalmente per i peccatori? Ascoltate ciò che ci dice il santo Re-profeta: « Si è mai visto alcuno che abbia pregato il Signore, e la sua preghiera non sia stata esaudita ? (Questo testo non è tolto dai Salmi, ma dall’Ecclesiastico: Quis invocavit eum, et despexit illum? (Eccl.. II, 12). « Sì, egli soggiunge, tutti quelli che invocano il Signore, e che ricorrono a Lui, hanno provato gli effetti della sua misericordia. » Vediamolo con degli esempi, il che vi persuaderà di più. Vedete, Adamo dopo il suo peccato domanda misericordia. Non solo il Signore perdona a lui, ma altresì a tutti i suoi discendenti; gli promette che il suo Figlio s’incarnerà, soffrirà e morirà per riparare il suo peccato. Vedete i Niniviti, tanto colpevoli che il Signore mandò loro il profeta Giona per avvertirli che li avrebbe fatti perire nel modo più spaventoso piovendo su di loro fuoco dal cielo (Giona, predicando a Ninive diceva: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta…” senza indicare per qual castigo (Jon. III, 4). Forse il Beato confonde la distruzione di Ninive con la rovina di Sodoma annunciata da un angelo a Lot e che è così descritta nella Genesi: « Il Signore fece cadere dal cielo una pioggia di zolfo o di fuoco su Sodoma e Gomorra » – (Gen. XIX, 21). Essi si danno alla preghiera, ed il Signore perdona. Anche quando Dio era disposto a sommergere la terra nelle acque del diluvio universale, se quei peccatori avessero ricorso alla preghiera, sarebbero stati sicuri del perdono del Signore. Continuando, vedete Mosè sulla montagna mentre Giosuè combatte i nemici del popolo di Dio. Finché egli prega, gli Israeliti sono vittoriosi; ma quando cessa di pregare, essi sono vinti. Vedete ancora lo stesso Mosè che domanda grazia al Signore per trentamila colpevoli che Dio aveva risoluto di far perire: colle sue preghiere, obbligò, per modo di dire, il Signore a perdonar loro. « No, o Mosè, non domandar grazia per quel popolo, non voglio perdonargli. » Mosè continua, ed il Signore è vinto dalle preghiere del suo servo e perdona. Che fa Giuditta per liberare la sua patria dall’odiato nemico? Si mette a pregare, e, piena di confidenza in Colui che pregava, va da Oloferne, gli taglia la testa e salva così la patria sua. Vedete il re Ezechia, al quale il Signore manda il suo profeta per avvertirlo di mettere in ordine le sue cose giacché deve presto morire. Egli si prostra davanti al Signore pregandolo di non toglierlo allora da questo mondo. Il Signore commosso dalla sua preghiera gli dà ancora quindici anni di vita. Andate più innanzi, vedete un pubblicano che, riconoscendosi colpevole, va nel tempio a pregare il Signore perché gli perdoni. E Gesù Cristo stesso ci dice che i suoi peccati gli furono perdonati. Vedete la peccatrice che, ai piedi di Gesù Cristo, lo prega con lagrime. Gesù Cristo non le dice: « Ti son rimessi ituoi peccati? » Il buon ladrone, sebbene carico dei più enormi delitti, prega sulla croce: non solo Gesù Cristo gli perdona; ma, per di più, gli promette che quel giorno stesso sarà con lui in paradiso. Sì, F. M., se occorresse citarvi tutti coloro che per la preghiera sono stati perdonati, bisognerebbe ricordarvi tutti i santi che sono stati peccatori; poiché solo per la preghiera hanno avuto la fortuna di riconciliarsi con Dio, che si lasciò commuovere dalle loro preghiere.

III. — Ma voi, forse, pensate: Perché dunque, malgrado tante preghiere, siamo sempre peccatori e mai progrediamo? Amico, la nostra disgrazia nasce da questo, che non preghiamo come si deve, cioè preghiamo senza prepararci e senza il desiderio di convertirci; spesso anche senza sapere ciò che vogliamo domandare al buon Dio. È veramente così, F. M., poiché tutti i peccatori che hanno domandata al buon Dio la loro conversione l’hanno ottenuta, e tutti i giusti che hanno domandato a Dio la perseveranza, hanno perseverato. — Ma forse mi direte: Siamo troppo tentati. — Siete troppo tentato, amico? Potete pregare e siete sicuro che la preghiera vi darà la forza di resistere alla tentazione. Avete bisogno di grazia? Ebbene! la preghiera ve l’otterrà. Se ne dubitate, ascoltate ciò che ci dice S. Giacomo, che colla preghiera comandiamo al mondo, al demonio ed alle nostre inclinazioni. Sì, F. M., in qualunque pena ci troviamo, colla preghiera, avremo la fortuna di sopportarla con rassegnazione alla volontà di Dio; e per quanto forti siano le nostre tentazioni, se ricorriamo alla preghiera, le vinceremo. Ma che fa il peccatore? Ecco. È persuasissimo che la preghiera gli è assolutamente necessaria per fare il bene e fuggire il male, e per uscire dal peccato, quando ha la disgrazia d’esservi caduto; ma, intendete, se lo potete, il suo accecamento: o non fa quasi mai preghiera o la fa male. Non è vero forse? Vedete come il peccatore fa la sua preghiera, dato che la faccia: poiché la maggior parte dei peccatori non ne fanno; ahimè! si alzano e si coricano come le bestie. Ma esaminiamo quel peccatore mentre fa la sua preghiera: Vedetelo appoggiato ad una sedia o contro il letto; prega vestendosi o spogliandosi, camminando o vociando, e fors’anche bestemmiando coi suoi servi o coi suoi figli. Che preparazione vi reca egli? Ahimè! nessuna. Spesso o quasi sempre, questi uomini finiscono la loro pretesa preghiera, non solo senza sapere ciò che hanno detto, ma anche senza pensare davanti a chi si trovavano e che cosa avevano fatto e domandato. Osservateli nella casa di Dio; fanno morire di compassione! Pensano essi che sono alla presenza del Signore? Niente affatto: guardano chi entra e chi esce, parlano l’un l’altro, sbadigliano, dormicchiano, s’annoiano, fors’anche si arrabbiano perché le funzioni, secondo loro, sono troppo lunghe. Attingendo l’acqua santa mostrano, press’a poco la stessa devozione di quando prendono nel secchio acqua per bere. Appena piegano il ginocchio a terra, e sembra loro gran cosa curvare un poco la testa durante la Consacrazione o la Benedizione. Vedeteli vagare i loro sguardi per la chiesa anche su oggetti che possono portarli al male; e non sono appena entrati che vorrebbero esserne già fuori. Quando escono li sentite gridare come persone tolte di prigione e messe in libertà. I bisogni del peccatore sono grandi, voi lo sapete, M. F. Ma egli prega al modo che v’ho detto: dobbiamo dunque stupirci se resta sempre nel suo peccato, e per di più, se vi persevera? Ho detto, che i vantaggi della preghiera derivano dal modo in cui s’adempie questo dovere:

1° Perché una preghiera sia accetta a Dio e vantaggiosa per chi la fa, bisogna che chi la compie sia in istato di grazia od almeno in una buona risoluzione di uscire prontamente dal peccato; perché la preghiera d’un peccatore che non vuol uscire dal peccato è un insulto fatto a Dio. Poi, perché una preghiera sia buona, bisogna che chi la fa sia preparato. Ogni preghiera fatta senza preparazione è una preghiera mal fatta; e questa preparazione consiste, nel pensare almeno un momento a Dio prima di mettersi in ginocchio, pensare a ciò che dovete dire, a ciò che dovete domandargli. Ahimè! quanto è scarso il numero di coloro che vi si preparano, e per conseguenza quanto pochi pregano come si deve, cioè in modo d’essere esauditi! D’altra parte, F. M., che cosa volete che Dio vi conceda, se non volete nulla e non desiderate nulla? Dirò di più: chi prega così somiglia ad un povero che non vuol elemosina, ad un ammalato che non vuol guarire, ad un cieco che vuol restare nel suo accecamento; ad un dannato, finalmente, che non vuol il cielo ed acconsente di andare all’inferno.

2° In secondo luogo ho detto, che la preghiera è l’elevazione del nostro cuore verso Dio, è un dolce e caro colloquio della creatura col suo Creatore. Dunque, F. M., non preghiamo Dio come si deve, se durante la preghiera pensiamo ad altre cose. Non appena ci accorgiamo che il nostro spirito si distrae, dobbiamo subito ritornarlo alla presenza di Dio, umiliarci davanti a Lui, e non lasciar mai la preghiera anche se nel farla non sentiamo alcun gusto; dobbiamo anzi riflettere che più ne proviamo disgusto e più la nostra preghiera è meritoria davanti a Dio, se continuiamo sempre nel pensiero di piacere a Lui. Si racconta nella storia che un giorno un santo diceva ad un altro santo: « Perché mai quando si prega il buon Dio, il nostro spirito si riempie di mille pensieri estranei, ai quali, spesso, se non si fosse occupati nella preghiera non si penserebbe? » E l’altro gli rispose: « Amico, non c’è da stupirsi: prima di tutto il demonio prevede le grazie abbondanti che colla preghiera possiamo ottenere, e per conseguenza dispera di guadagnare una persona che prega come si deve; e poi, più noi preghiamo con fervore e più lo rendiamo furibondo. » Un altro a cui apparve il demonio, gli domandò perché era continuamente occupato a tentare i Cristiani che stanno pregando. Il demonio, di sua bocca, rispose che egli non poteva tollerare che un Cristiano, tante volte peccatore, potesse colla preghiera ottenere il perdono; e che egli perciò fin che vi sarebbero Cristiani dediti alla preghiera, li avrebbe tentati. Chiese poi come li tentava:ecco ciò che il demonio rispose: « Ad alcuni metto un dito in bocca per farli sbadigliare; altri li addormento; di altri faccio correre la fantasia di città in città. » Ahimè! F. M., questo pur troppo è vero: noi proviamo ogni giorno tutto questo ogni volta che ci troviamo alla presenza di Dio per pregarlo. Si racconta che il superiore d’un monastero vedendo uno dei suoi religiosi che prima di cominciare le preghiere, faceva certi movimenti e sembrava parlare con qualcheduno, gli domandò di che s’occupasse prima di cominciare le sue preghiere. « Padre, rispose, prima di cominciare le mie preghiere, chiamo tutti i miei pensieri ed i miei desideri dicendo loro: Venite tutti, ed adoreremo Gesù Cristo nostro Dio. » — « Ah! F. M., ci dice Cassiano, com’era bello veder pregare i primi fedeli! Essi avevano un sì grande rispetto della presenza di Dio, che sembravano morti, tant’era grande il silenzio; in chiesa tremavano; non vi erano né sedie né banchi; stavano prostrati come colpevoli che aspettano la loro sentenza. Ma come il cielo si popolava presto, e come si viveva bene sulla terra! Ah! immensa felicità di quelli che vissero in quei tempi beati! »

3° In terzo luogo ho detto che le nostre preghiere devono esser fatte con confidenza, e colla ferma speranza che il buon Dio può e vuole accordarci ciò che gli domandiamo, se lo domandiamo come si deve. In tutti i luoghi in cui Gesù Cristo ci promette di accordare tutto alla preghiera, mette sempre questa condizione: « Se la fate con fede. » Quando qualcheduno gli domandava la sua guarigione od altre cose, non mancava di dir loro: « Vi sia dato secondo la vostra fede. » Del resto, F. M., che cosa potrà farci dubitare, giacché la nostra confidenza è appoggiata sull’infinita onnipotenza di Dio, sull’illimitata sua misericordia e sugli infiniti meriti di Gesù Cristo, in nome del quale preghiamo? Quando preghiamo in nome di Gesù Cristo, non siamo noi che preghiamo, ma è Gesù Cristo stesso che prega il Padre suo per noi. L’Evangelo ci dà un bell’esempio della fede che dobbiamo avere pregando, nella donna soggetta a perdite di sangue. Essa diceva tra se: « Se io arrivo anche solo a toccare l’orlo della sua veste io sono guarita. » Vedete com’essa credeva fermamente che Gesù Cristo poteva guarirla: aspettava con grande confidenza una guarigione che ardentemente desiderava. Infatti, passando il Salvatore vicino a lei, si gettò ai suoi piedi, gli toccò la veste, e sull’istante fu guarita. Gesù Cristo vedendo la sua fede, la guardò con bontà dicendole: « Va in pace, la tua fede t’ha salvata.  Sì, M. F., tutto è promesso a questa fede, a questa confidenza.

4° In quarto luogo dico che quando si prega, bisogna avere purità d’intenzione in tutto ciò che domandiamo, e non domandar nulla che non possa tornare a gloria di Dio e a salute nostra. « Potete domandare cose temporali, ci dice S. Agostino; ma sempre col pensiero che ve ne servirete per la gloria di Dio e per la salute della vostra anima, o per quella del vostro prossimo: altrimenti, le vostre domande non nascono che dall’orgoglio e dall’ambizione: e se, in questo caso, il buon Dio rifiuta di accordarvi ciò che gli domandate, è perché non vuol contribuire alla vostra rovina spirituale. Ma che facciamo nelle nostre preghiere? Ci dice ancora S. Agostino. Ahimè! domandiamo una cosa e ne desideriamo un’altra. Recitando il Pater, diciamo: Padre nostro, che siete nei cieli; cioè: Dio mio, distaccateci da questo mondo; fateci la grazia di disprezzare tutto ciò che appartiene alla vita presente; concedetemi che tutti i miei pensieri e tutti i miei desideri non siano che pel cielo! „ Ahimè! saremmo invece ben dolenti se il buon Dio ci facesse questa grazia; certamente un gran numero di noi lo sarebbe, confessiamolo! – Dobbiamo pregare spesso, F. M., ma dobbiamo raddoppiare le nostre preghiere nelle prove e nelle tentazioni. Eccone un bell’esempio. Leggiamo nella storia che al tempo dell’imperatore Licinio, si volle che tutti i soldati sacrificassero al demonio. Fra questi ve ne furono quaranta che si rifiutarono, dicendo che i sacrifici sono dovuti solo a Dio e non al demonio. Si fece loro ogni sorta di promesse. Vedendo che nulla poteva vincerli, dopo molti tormenti, furono condannati ad esser gettati nudi in uno stagno d’acqua gelata, di notte, nel rigore dell’inverno; affinché morissero pel freddo. I santi martiri, vedendosi così condannati, si dissero l’un l’altro: « Amici, che ci resta ora, se non abbandonarci nelle mani di Dio onnipotente, da cui solo dobbiamo aspettare la forza e la vittoria? Ricorriamo alla preghiera, e preghiamo senza interruzione per attirare su di noi le grazie del cielo: domandiamo a Dio d’avere la bella sorte di perseverare tutti. „ Ma per tentarli si mise là vicino un bagno caldo. Disgraziatamente uno d’essi, perdendo il coraggio, abbandonò il combattimento, e andò a mettersi nel bagno caldo; ma, entratovi appena, vi perdette la vita. Colui che li custodiva, vedendo trentanove corone discendere su di essi dal cielo, ed una sola restar sospesa: « Ah! esclamò, è di quell’infelice che ha abbandonato gli altri! » E si mise al suo posto, ricevette la quarantesima corona e fu battezzato nel proprio sangue. Il giorno dopo, siccome respiravano ancora, il governatore ordinò che fossero gettati nel fuoco. Vennero posti tutti su di un carro, ad eccezione del più giovane, che si sperava di poter guadagnare. La madre, che era presente, esclamò: “Ah! figlio mio, coraggio! un momento di dolori, ti varrà un’eternità di gioie. „ Preso il figlio, lo collocò sul carro cogli altri: e piena di gioia, lo condusse come in trionfo, alla gloria del martirio. Per tutto il tempo del loro martirio non cessarono di pregare, tanto erano persuasi che la preghiera è il mezzo più potente per attirare su di noi gli aiuti del cielo. – Sappiamo che S. Agostino, dopo la sua conversione, si ritirò per lungo tempo in un luogo romito, per domandare la grazia di perseverare nelle buone disposizioni. S. Vincenzo Ferreri, che ha convertite tante anime, diceva che nulla è tanto potente per convertire i peccatori, quanto la preghiera; essa è simile ad un dardo che ferisce il cuore del peccatore. Sì, F. M, possiamo dire che la preghiera fa tutto: ci fa conoscere i nostri doveri, lo stato miserabile della nostr’anima dopo il peccato, ci dà le disposizioni che ci sono necessarie per ricevere i Sacramenti: ci fa comprendere quanto la vita ed i beni del mondo sono poca cosa, il che ci porta a non attaccarvici; imprime vivamente il timore salutare della morte, dell’inferno e della perdita del cielo. Ah! F. M., se avessimo la fortuna di pregare come si deve, saremmo ben presto santi penitenti! Vediamo che S. Ugo, vescovo di Grenoble, nella sua malattia, non si stancava di ripetere il Pater noster. Gli si disse che ciò poteva contribuire ad aggravare il suo male. « Ah! no – rispose loro – invece mi solleva. » – Ho detto, F. M., che la terza condizione, perché la nostra preghiera sia gradita a Dio, è la perseveranza. Vediamo spesso che il Signore non ci accorda con prontezza ciò che gli domandiamo: lo fa per farcelo desiderare di più, o per meglio farcelo apprezzare. Questo ritardo non è un rifiuto, è una prova che ci dispone a ricevere con più abbondanza ciò che domandiamo. Vedete S. Agostino che per cinque anni domanda a Dio la grazia della sua conversione. Vedete S. Maria Egiziaca che, per diciannove anni, domanda al buon Dio la grazia di liberarla da cattivi pensieri. Ma che hanno fatto i santi? Sentite. Hanno sempre perseverato nel domandare, e per la loro perseveranza hanno sempre ottenuto ciò che avevano domandato. Noi, invece, che siamo coperti di peccati, quando il buon Dio non ci accorda subito ciò che gli domandiamo, pensiamo che Egli non vuol esaudire le nostre domande, e, subito, lasciamo la preghiera. No, F. M., i santi non si comportavano così quanto al perseverare: essi hanno sempre pensato ch’erano indegni d’essere esauditi, e che, se Iddio lo faceva, ascoltava la sua misericordia e non i loro meriti. Io dico dunque che quando preghiamo, sebbene sembri che il buon Dio non ascolti le nostre preghiere, non bisogna tralasciar di pregare; ma anzi continuare sempre. Se il buon Dio non ci concede ciò che gli domandiamo, ci concede un’altra grazia che ci è più vantaggiosa di quella che noi domandiamo. Abbiamo un esempio del modo con cui dobbiamo perseverare nella preghiera nella persona di quella donna cananea, che si indirizzò a Gesù Cristo per domandargli la guarigione di sua figlia. Vedete la sua umiltà e la sua perseveranza… Ecco un altro a mirabile esempio della potenza della preghiera. Leggiamo nella storia dei Padri del deserto, che i Cattolici erano andati a vedere un santo la cui riputazione si spargeva molto lontano, per pregarlo di venir a confondere un certo eretico, i cui discorsi seducevano molta gente; essendosi il santo messo in disputa con quell’infelice, senza poterlo convincere che aveva torto e ch’era un disgraziato, nato soltanto per rovinare le anime; e vedendo che colle sue lungaggini, voleva far credere che non aveva torto; gli disse: « Disgraziato, il regno di Dio non consiste in parole, ma in opere: andiamo tutti e due con tutta questa gente, che testimonierà, andiamo al cimitero, là invocheremo il buon Dio sul primo morto che ivi troveremo, e le nostre opere faranno vedere la nostra fede. » L’eretico sbigottì a questa proposta, e non osò accettare l’invito: domandò al santo d’aspettare fino al giorno seguente: il santo vi acconsentì. Il dì dopo, il popolo che desiderava ardentemente sapere come finirebbe la cosa, venne in gran folla al cimitero. Si attese l’eretico fino alle tre di sera; ma si annunciò al santo che il suo avversario durante la notte aveva preso la fuga e s’era ritirato in Egitto. Allora S. Macario condusse al cimitero tutto quel popolo che aspettava l’esito della loro conferenza, e soprattutto quelli ingannati da quel disgraziato. Fermatosi su di una tomba, in loro presenza s’inginocchiò, pregò per qualche tempo, e volgendosi al cadavere che da maggior tempo era sepolto in quel luogo, disse: « O uomo! ascoltami: se quell’eretico fosse venuto con me, e, davanti a lui, avessi invocato il nome di Gesù Cristo mio Salvatore, non ti saresti alzato per testimoniare la verità della mia fede? » A quelle parole, il morto si alzò ed in presenza di tutti, disse che, come lo faceva adesso, l’avrebbe fatto anche presente l’eretico. S. Macario gli disse: « Chi sei? in quale anno hai vissuto? Conosci Gesù Cristo? » Il morto risuscitato rispose che aveva vissuto al tempo degli antichi re; e che non aveva mai sentito il nome di Gesù Cristo. Allora Macario, vedendo che tutti erano convintissimi che quel disgraziato eretico era un impostore, disse al morto: « Dormi in pace fino all’universale risurrezione. » E tutti si ritirarono lodando Dio, che aveva sì bene fatto conoscere la verità della nostra santa Religione. S. Macario poi ritornò nel suo deserto a continuarvi la penitenza (Vita dei Padri del deserto, vol. III – S. Macario d’Egitto). Vedete, F. M., la potenza della preghiera, quando è benfatta? Non riconoscerete dunque con me che se non otteniamo ciò che domandiamo al buon Dio, è perché non preghiamo con fede, con un cuore abbastanza puro, con una confidenza abbastanza grande, o che non perseveriamo abbastanza nella preghiera? No, F. M., Dio non ha mai rifiutato e non rifiuterà mai nulla a quelli che gli domandano, come si deve, qualche grazia. Sì, la preghiera è la sola via che ci resta per uscire dal peccato, per perseverare nella grazia, per commuovere il cuore di Dio, per attirare su di noi ogni benedizione del cielo, per l’anima ed anche per le cose temporali. – Di qui concludo che se restiamo nel peccato, se non ci convertiamo, se ci troviamo così disgraziati nei dolori che Dio ci manda, è perché non preghiamo o preghiamo male. Senza la preghiera, non possiamo frequentare degnamente i Sacramenti. Senza la preghiera, non conosceremo mai lo stato a cui Dio ci chiama. Senza la preghiera non può toccarci che l’inferno. Senza la preghiera, non gusteremo le dolcezze che possiamo gustare amando Dio. Senza la preghiera le nostre croci sono senza merito. Oh! quante dolcezze, F. M., proveremmo pregando, se avessimo la ventura di pregare come si deve! Non preghiamo dunque mai senza pensar bene a Chi parliamo e a ciò che vogliamo domandare a Dio. Preghiamo soprattutto con umiltà e confidenza, e con questo, avremo la bella sorte d’ottenere ciò che desideriamo, se le nostre domande sono secondo ciò che Dio vuole da noi. È quello che vi auguro…

LO SCUDO DELLA FEDE (155)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (24)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA

DISCUSSIONE XXI

Necessità delle opere buone.

124. Prot. Fin qui ho dovuto cedere in tutto alla Chiesa, Cattolica, e ritirarmi colle pive nel sacco; ma vengo adesso a riferirvi certi suoi mostruosi errori (principal causa della mia separazione da essa), pei quali sarà certamente da voi condannata, esecrata, maledetta. Insegna pertanto, 1.° Che per salvarsi, oltre la fede, necessarie sono, per gli adulti, le opere buone : 2.° Che per quanto un fedele sia giusto e, in grazia di Dio, perde infallibilmente la sua giustizia, e nuovamente diviene nemico di Dio, se gravemente pecca, se fa opere, gravemente cattive! Io però, attenendomi alla vostra santa dottrina, rigetto e condanno questi detestabili errori; e costante, al mio solito, nella verità, credo ed insegno: 1.° Che basta la sola fede per esser salvi, e perciò necessarie non sono al conseguimento della salute le opere-buone. 2° Che siccome la sola fede giustifica, per la quale ci è applicata la-stessa giustizia di Gesù Cristo, coprendo Egli per tal modo i nostri peccati; così se non si perde la fede, è impossibile si perda la giustizia, la grazia di Dio, quand’anche si commettessero tutte le scelleratezze del mondo. Onde dico a’ miei seguaci: « Niuna cosa può nuocere all’uomo fedele, purché tenga ferme le promesse che apprende colla fede. » (Melantone, Loci theologic. P- 92… « L’uomo cristiano, anche volendo, non può perdere la sua salute per quanti peccati commetta, purché non cessi di credere; imperocché verun peccato lo può condannare, fuorché la sola infedeltà! Sii peccatore e pecca fortemente, ma credi più fortemente, e rallegrati in Cristo che è il vincitor del peccato, della morte e del mondo. Finché siamo qui, dobbiamo peccare. Questa vita non è l’abitazione della giustizia; ma aspettiamo, dice Pietro , cieli nuovi e terra nuova. Basta che abbiamo conosciuto, per le ricchezze della gloria di Dio, l’Agnello che toglie’ i peccati del mondo. Da questo Agnello non può separarci il peccato, ancorché fornichiamo, o uccidiamo mille volte il giorno. » (Lutero, Lib. De Captivit. Babylonic. Cap. de Baptismo.) — « Se fosse possibile commettere un adulterio nella fede, non sarebbe peccato. » (Lutero, Epist. Ad Melanth.) Questa è la mia sana dottrina, perché io seguo il puro Vangelo. Ed oh! se sapeste quanto a moltissimi piace, singolarmente poi a certi apostati, che vengono a me dal Cattolicismo. Essi sarebbero inclinati alla religione maomettana, ma è troppo rigorosa, perché non accorda di rubare, né di aver donne che a proprie spese, e però eglino preferiscono la mia Santa Riforma, perché io dico loro: « Desidera alcuno la moglie del suo prossimo? Se la goda, se può…. Si rapiscano pure colla forza o colla frode le fortune dei prossimi, imperocché nulla prende che non voglia ed approvi Iddio » (Calvino, Instruc. Cont. Lutheranos, cap. 13). «Sebbene io vituperi coloro che dicono: – pecchiamo, affinché in noi abbondi la grazia: – pure ciononostante, l’adulterio, l’incesto, l’omicidio mi rendono più santo in terra, e più glorioso in cielo. » (Flechter Duybeny, Guide in the Church, p. 82). – Perciò poi che riguarda la preghiera, proibisco le superstiziose orazioni papistiche ed assegno loro la seguente. « O Dio! Per vostra bontà provvedeteci di abiti, di cappelli. e di mantelli; di vitelli ben grassi, di capretti, di montoni e di vitelle; di molte femmine e di pochi figli. ben mangiare è il vero mezzo di non ammalarsi. » (Lutero. Che questa brutta orazione sia di Lutero, non osa negarlo neppure il furioso Bust nel suo Appel, né vi ha chi ne dubiti.)

125. Bibbia. Empio, scellerato! Questa tua dottrina è dottrina è dottrina del diavolo, se pure il diavolo è mai arrivato a tanto … È vero che senza fede nessuno può salvarsi, essendo la fede il principio, il fondamento dell’umana salute, e la radice di ogni giustificazione. – Imperocché sta scritto: « Senza la fede è impossibile piacere a Dio » (Hebr. XI, 6). Ma basta per salvarvi la sola fede senza le buone opere, ed ancorché facciate d’ogni erba un fascio? Ascolta. «Venite benedetti dal mio Padre, possedete il regno preparato a voi fin dalla fondazione del mondo: imperocché ebbi fame, e mi deste da mangiare: ebbi sete, e mi deste da bere: ero pellegrino e mi ricettaste: ignudo, e mi vestiste: ammalato, e mi visitaste; carcerato, e veniste da me :… Allora dirò anche a coloro che saranno alla sinistra: Via da me, maledetti, al fuoco, eterno, imperocchè ebbi fame, e non mi deste da mangiare: ebbi sete e non mi deste da bere: era pellegrino, e non mi recettaste, ignudo, e non mi vestiste: ammalato e carcerato, e non mi visitaste, E andranno questi all’eterno supplizio, e i giusti alla vita eterna. » (Matth. XXV, 34 e segg.). – Or ben vedi che Gesù Cristo non dà il Paradiso agli eletti perché ebbero la sola fede, né condanna all’inferno i reprobi perché abbiano mancato di fede; ma gli uni e gli altri trattati sono secondo le opere loro.

« Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi forse profetato nel nome tuo, e non abbiamo noi nel tuo nome cacciato i demoni, e non abbiamo noi nel nome tuo fatti molti miracoli? E allora io protesterò ad essi: Non vi ho mai conosciuti: ritiratevi da me tutti voi che operate l’iniquità. » (Matth. VIII, 22, 23). Questi avranno certamente avuta la vera fede; poiché avranno operato miracoli.

«Che pro, miei fratelli, se uno dica di aver la fede e non ha le opere? Potrà forse salvarlo la fede? La fede, se non ha le opere è morta in sé stessa. Anzi qualcuno dirà: tu hai la fede io ho le opere. Mostrami la tua fede senza le opere, ed io ti farò vedere colle opere la mia fede. – Tu credi che Dio è uno: ben fai, anche i demoni credono e tremano. 

« Ma vuoi tu conoscere, o uomo vano, come la fede senza le opere é morta? Abramo padre nostro non fu egli giustificato per via delle opere, avendo offerto sull’altare Isacco suo figlio? Tu vedi come la fede cooperava alle opere di lui: e per mezzo delle opere fu conosciuta la fede, e si adempì la Scrittura, che dice: Abramo credette a Dio, e fugli imputato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. – Vedete come per le opere è giustificato l’uomo e non per la fede soltanto? Imperocché siccome il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede sola senza le opere è morta. » (Giacom. II, 14 e segg.). « Se non farete penitenza, tutti similmente morirete » (Luc. XIII, 3) —

« Il Figliuolo dell’uomo verrà nella gloria del Padre co’ suoi Angeli;- e allora renderà a ciascheduno secondo le opere sue » (Matth. XXVI, 27).

«Usciranno fuori quelli che avranno fatto opere buone, in resurrezione di vita. Quelli poi che avranno fatto opere male, in resurrezione di condannazione » (ivi, VII, 22, 23). – Hai capito?

Protest. S Paolo dice: « Noi pensiamo che l’uomo è giustificato  per la sola fede senza le opere della Legge. » (Rom,. III, 28)

Bibbia. Oltre che non dice – per la solo fede, – come dici tu, tosto soggiunge: « Distruggiamo noi dunque la legge con la fede? Mai no: anzi confermiamo la legge (ivi, v. 31). Dice ancora:

« Non gli uditori della legge sono giusti dinanzi a Dio, ma quei… (N. B.) che osservano la legge saranno giustificati. » (ivi, II, 13). S. Paolo dunque distrugge la legge, poiché ne scarta le opere e nel tempo 0stesso conferma la legge: dice non esser necessarie alla salute le opere della legge, e poi le asserisce necessarie? Si certamente.  Come ciò può spiegarsi? Ascoltalo.

« Ma adesso in Gesù Cristo voi che eravate una volta lontani, siete divenuti vicini … Imperocche Egli è la nostra pace…. abolendo (N. B.) co’ (suoi) decreti la legge dei precetti. » (Ephes.- II, 13, 14). Dunque S. Paolo rigettò le opera della legge abolita da Gesù Cristo, cioè i precetti legali, i riti della legge Mosaica; e conferma la legge istituita da Gesù Cristo co’ suoi decreti, cioè, la legge Evangelica, le opera (ossia osservanza) della quale dice esser necessarie alla salute. Ed infatti in quel capitolo, da cui hai preso quel passo, parla contro la necessità della circoncisione. E quindi altrove dice: « In Cristo Gesù né la circoncisione, né il prepuzio ha qualche valore, ma la fede operante per la caritas » (Gal. II, 6) « La circoncisione è nulla, il prepuzio è nulla: ma (il tutto) l’osservanza dei comandamenti di Dio. » (I Cor. VII, 19). « Quando avessi tutta la fede, talmente che trasportassi le montagne; se non ho la carità, sono un niente: nulla mi giova » (I Cor. XIII, 23) 

Prot. Quando dico che basta la sola fede, non intendo quella che opera miracoli, ma quella che equivale ad una ferma fiducia che Dio tutto ci perdonerà, e ci darà il Paradiso senza the facciamo opera buone e quand’anche non volessimo fare che dei peccati. Bibbia. Questa non è fede, è un’empietà. Ma chiamala come tu voi, già ti ho risposto, e se non ti basta, ascolta ancora S. Paolo al quale ti sei appellato. « Noi siamo figliuoli di Dio; se figliuoli, anche eredi: eredi di Dio, e coeredi di Cristo: se però patiamo con Lui per essere con Lui glorificati. » (Rom. VIII, 16-17).

« Gesù Cristo…. diede se stesso per noi, affine di riscattarci da ogni nequizia, e per purificarsi un popolo accettevole, zelatore delle opere buone. »

« Non sapete voi che gl’ingiusti non saranno eredi del regno di Dio? Badate di non errare: né i fornicatori, né gli adulteri, né gli effeminati, né quelli che peccano contro natura, nè i ladri, né gli avari, né gli ubriaconi, né i maledici, né i rapaci erediteranno il regno di Dio. » (I. a’ Cor. VI, 9-10).  

« Quelli che credono in Dio, procurino di stare intenti alle opere buone. » (Tit. III, 8).  « Iddio renderà a ciascuno secondo le opere sue … Ira, indignazione, affanno ed angustia per l’anima di qualunque uomo che opera male: gloria, onore e pace a chiunque opera bene. » (Rom. II, 5 e segg.). Ne vuoi più?

126. Prot. Ne ho abbastanza. Credo come voi: ascoltatemi. –

« Non deve negarsi che si possa esser giustificati per le insegna S. Giacomo; poiché Dio renderà a ciascuno secondo le opere. La questione non è dei meriti, noi non li rigettiamo di alcuna sorta, e noi medesimi riconosciamo che si merita la vita eterna, secondo questa parola del Signore: – Colui che abbandonerà tutto per amor di me, avrà il centuplo in questo mondo, e la vita eterna. » (Bucero, Resp. ad Abrinc.).

 « Quando si parla della fede che giustifica, s’intende quella che opera per la carità (Lutero Comment. in Epist. ad Galat. T. 3. p. 213). »  

« L’errore, in cui taluni avevan la dottrina che le opere buone devono aver merito agli occhi di Dio, e che i pellegrinaggi a certi luoghi santi e le penitenze, e punizioni che c’imponiamo devono essere ricevute in espiazione dei nostri peccati, li fece cadere nell’errore degli antichi gnostici. Insegnarono quindi la dottrina della giustificazione mediante la sola fede, contradicendo così l’Apostolo Giacomo (Whately attuale Arcivescovo anglicano di Dublino, Introduzione alla Storia del Culto Religioso: Lez. IX, §9).

« Se Giacomo contradicesse in questo a Paolo, certamente non dovrebbe rigettarsi Giacomo, il quale apertamente insegna, ciò che insegna la legge di natura, cioè ciò che in ogni luogo insegna la Santa Scrittura ed altrove inculca lo stesso S. Paolo; ma rigettare si dovrebbero quelle Epistole di Paolo, nelle quali conterrebesi un dogma opposto. Ma se rettamente consideriamo la cosa, non vi è tra Giacomo e Paolo contrarietà  di sorta; essendoché Giacomo parla della legge di natura, e della legge di Cristo, e Paolo parla della legge ed economia di Mosè. » (Lutero, presso Bayle, Dictionar. Crit. Art. Luther. – Lo stesso dicono Rosenmüller, Scholia in Epist. Jacob.; e il Michelis, Introd. Au Noveau Testam. Genève 1822, T. 4, cap. 25, sect. 2 e 6) –

« L’eresia degli antichi gnostici “antinomi” fui condannata dagli Apostoli. Dottrine simili sono esistiti in tutte le età della Chiesa, e tale è, per esempio la seguente: – Perché siamo salvati per grazia mediante la fede (Efes. II. 8.): e questo non vien da noi, imperocché è dono di Dio (Rom. VI. 7.): possiamo con sicurezza vivere in peccato, perché la grazia soprabbonderà. – O quest’altra: che certuni possono considerare se stessi come persone scelte, cioè, come popolo di Dio, e che sono certi di ottenere l’eterna salute, sebbene non abbandonino le loro male abitudini, perché il Signore non imputerà loro a peccato, che non debbono affliggersi di aver peccato…. Tutte queste assurdità, tanto contrarie alle dottrine cristiane, furono ad esse commiste dalla depravità degli uomini…. L’altra dottrina altresì – che nulla di tutto ciò che possiamo fare può procurarci l’eterna salute è vera nel senso che niuna opera nostra buona può di per sè sola esser meritoria agli occhi di Dio, come pure nel senso, che non possiamo da per noi stessi menare una vita di veri Cristiani, senza l’aiuto dello Spirito Santo. » (Whatly sudd. Op. cit. lez. VII, a n. 5, n. 5, §6).

« Vi sono altri che insegnano che l’obbedienza di Gesù Cristo alla legge divina è imputata come meritoria a quelli che credono in Lui, cosicché le opere buone che Egli fece in terra, sono riguardate da Dio come fatte dai fedeli suoi. – Tale dottrina non è autorizzata dalle Sante Scritture. » (il medes., ivi, §7).

« Tutto quello che in questo caso possiamo inferire da ciò che sta scritto nella Bibbia, si è che non ci è negato di sperare; ma le promesse fatte dalle Scritture sono per coloro, che producono frutti di penitenza.3 » (Il medes. ivi, §5 n. 3).

« Sappiamo che una religione falsa può demoralizzare i suoi seguaci; e quindi ci immaginiamo che chi abbia abbracciata la vera fede, e sia inoltre di un carattere religioso, diverrà necessariamente uomo di moralità perfetta, in conseguenza della religione che professa, e che sarà giusto nel cospetto di Dio. Eppure, sarà così nel caso soltanto in cui osservi diligentemente l’avviso di Paolo, che … quelli che credono a Dio procurino di stare intenti nelle opere buone: e con sollecitudine adoprandosi, come esorta Pietro (II di Piet. I. 3), uniscano alla fede la virtù, alla virtù la scienza. » (Il medes. ivi, §4).

« Le buone opere sono degne di grandi elogi, esse sono necessarie, e meritano delle ricompense. La carità quando si esercita merita l’accrescimento della carità. E per questo le genti dabbene intendono le vere opere buone; e come elleno piacciano o Dio. c come sien meritorie. (Conf. Ausburg, Art. 6, cap. de bon. operib. p. 20).

« Poiché Dio giudicherà ciascuno secondo le opere, non deve negarsi che le buone opere fatte per la grazia di Gesù Cristo, le quali Egli stesso opera ne’ suoi servi, meritino la vita eterna; poiché è a tali opere che la Scrittura promette la ricompensa della vita eterna, la quale per questo non è meno una grazia, per un altro riguardo, cioè, perché queste buone opere, alle quali si dà si grande ricompensa, sono doni di Dio.» (Bucero, in disput. Lipsica, ann. 1539).

« Quelli che cadono in peccato mortale, non sono giusti. È necessario resistere alle malvagie inclinazioni: coloro che le secondano contro i comandamenti di Dio, e operano contro la coscienza, sono ingiusti, e non hanno lo Spirito Santo. » (Confess. Ausburg. Cap. de bon. Operib.).

« È proprio di un petto cristiano avere in orrore quei dogmi che nuocciono alla pietà quale è quello propugnato da taluni: Pecca fortemente, ma credi più fortemente, e niente ti nuoceranno cento omicidi, e mille stupri. – Sono questi i frutti naturali di quei dogmi, che uno debba credere che gli è imputata la giustizia di Cristo, quasi che esso (individuo) l’avesse operata: che è certo di perseverare: che certamente gli è destinata la salute: che i peccati dei fedeli, per quanto grandi e gravi esser possano, non sono loro imputati, per la fede che hanno in Gesù Cristo: che cader possono nel delitto di lesa maestà, nell’omicidio; nell’adulterio, etc., e nientedimeno esser eglino sicuri che mai totalmente e finalmente cadranno dalla carità di Dio verso di sé medesimo » (Grossio, Discuss. Apolog. Riveti.).

« Noi detestiamo con tutto il cuore questi dogmi empii, contrari ai buoni costumi (e alla fede), che tutto giorno si spandono tra i popoli, cioè, – che i veri fedeli non posson cadere in peccati di malizia, ma solamente in peccati d’ignoranza e di debolezza: che non possono perder la grazia … che lutti i peccati passati presenti e futuri sono già loro preventivamente rimessi. » (Il sinodo naz. prot. di Dordrech, Sess. 34, art. 7).

« Noi condanniamo gli Anabattisti, i quali negano che possa perdersi lo Spirito Santo quando siamo una volta giustificati. » (Confess. Ausburg, citaz. Ibid. p. 20).

« Ecco che tutto ho accordato alla Chiesa Cattolica, e se ancor non vi basta, vi presenterò in compendio i miei sentimenti, in ritrattazione di quanto ne ho detto di male sino al presente.

 « La Chiesa di Gesù, Cristo, custode vigilante dei dogmi che le sono stati dati in deposito, nulla cangia giammai: Ella niente diminuisce, niente aggiunge: Ella niente  toglie delle cose necessarie: Ella punto ne aggiunge delle superflue. Tutto il suo tra-vagliò è di pulire le cose che anticamente le furon date, di confermare quelle che sono state sufficientemente spiegate, di custodire quelle che sono state confermate e definite, di consegnare in iscritto alla posterità ciò che Ella ha ricevuto per la sola Tradizione. Tutto questo (insegnato da Vincenzo Lerinese) è preciso, e niente può aggiungersi da vantaggio: La Chiesa niente aggiunge di nuovo: Ella dunque, non fa nuovi articoli di fede. I Concilj confermano ciò che è sempre stato insegnato. (M Jurieu, Livr. De l’unité. Tr. VII, cap. 4 p. 626. – Questa confessione è preziosa, perché è di uno de’ primarii e più fanatici Ministri della Riforma protestante).

Bibbia. Ottimamente; ma se di tutto ciò eri persuaso, perché sempre e in tutto hai contradetto alla Chiesa Cattolica?

127. Prot. Il perché non oso dirvelo apertamente, ma potrete ben dedurlo dalle mie seguenti dichiarazioni.

« Se un Concilio ordinasse, o permettesse le due specie (nella Comunione), noi (N. B.) in dispetto del Concilio non ne prenderemmo che una, o non prenderemmo né l’una né l’altra, e malediremmo coloro che le prendessero in virtù di tale ordinanza. » (Lutero, Formul.  Miss. T. 2).

« Si può conservare la elevazione come una testimonianza della presenza reale e corporale; poiché il farla è dire al popolo: Vedete Cristiani, questo è il Corpo di Gesù Cristo, che è stato dato per noi. Che se io ho atterrato la elevazione, è stato solamente in dispetto del Papato; e se l’ho ritenuta sì lungo tempo, è stato in dispetto di Carlostadio. Insomma, si deve ritenere quando è rigettata come empia e si deve rigettare quando è comandata come necessaria. » (Il medes. Parva confess. N, 21).

« Egli è vero, io credo sia un errore il dire che il pane vi resti (nell’Eucaristia), sebbene questo errore siami sembrato sin qui di poca importanza. Ma poiché adesso con tanta forza mi pressano a rigettar questo errore, senza l’autorità della Scrittura; in dispetto dei Papisti voglio credere che vi restano il pane e il vino » (Il medes. Epist. De Argentinens, 1522)-. » Avete ben capito?

Bibbia. Iniquo!… Dunque, per puro capriccio, per far dispetto neghi e combatti ferocemente i dogmi più sacrosanti della cristiana fede, e insieme con essi la Chiesa di Cristo?… Iniquo!… – Né qui si è arrestata la tua empietà! Anche contro di me hai esercitato l’eretico tuo furore, e ben ne sento le crudeli ferite! Sì tu gonfio di orgoglio, perché contrari al tuo ereticale sistema di religione, come tu medesimo l’hai pur confessato (n. 74), hai combattuti e rigettati tanti miei libri divini, e frazioni di essi, che dal solo Antico Testamento hai tolte e strappate ben ventimila sentenze!… Ne qui si è tampoco arrestato la tua empietà! …  Non contento di avere strappati tanti libri divini, (ved. n. 69) dell’Antico e del Nuovo Testamento, anche tutto il resto hai manomesso, interpolando, mutilando, corrompendo tutti quelli innumerevoli testi che ti condannano, spacciando per tal modo ai popoli da te ingannati, l’eretica tua parola, per parola di Dio! … E dopo di ciò hai pure l’inverecondia di appellarti alla Bibbia?… Iniquo! Senti adesso dalla Bibbia qual sia di ciò la tua giusta mercede.

« Io protesto ad ognuno che ode le parole di profezia di questo libro, che se alcuno aggiungerà a queste cose, porrà Dio la porzione di lui dal libro della vita, e della santa città, e dalle cose che sono scritte in questo libro. » (Apoc. XXII, 18, 19).

128. Protest. Signora Bibbia! … non alzate con me tanto la cresta … Capite? Non vi dimenticvate che avete da farla col Protestantesimo … Udite un poco adesso quello che dico a voi, e a tutto il Papismo da voi difeso.

«Ancorché i Papisti riportino una gran quantità di luoghi della Scrittura, nei quali si prescrivono le buone opere, io non di meno non mi curo di tutti i detti della Scrittura (capite?) ancorché ne recassero eziandio ancorché di più. Tu papista, te ne prendi gran fastidio, e ti rendi feroce con la Scrittura, la quale è tuttavia al di sotto di Cristo. Io pertanto per tutto questo non mi muovo. Su via, dunque, appoggiati al servo quanto puoi. Ma io mi appoggio a Cristo vero Maestro e superiore alle Scrittura. A questo io consento, e so che Egli non sarà per mentire e trarmi in errore. Amo meglio onorar Lui e credergli, anziché per tutti i detti della Scrittura soffrire di muovermi neppur di un’unghia dalla mia sentenza. » (Lutero, Præfat. Ad cap. 2, in Epist. Ad Galat. Item, Comm. In cap. 3, ad Galat. Annot. 36).

Mi rimproverate che io corrompo la parola di Dio! Signora Bibbia! chi vi ha fatta parola di Dio? È vero che S. Paolo dice: « Tutta la Scrittura (è) divinamente ispirata » (II Tim. III, 16). Ma io avendo il gran privilegio d’intender tutto a mio piacimento, rispondo che il vero senso di quelle parole è questo: « Ogni bene spettante all’anima ha Dio per autore, è da Dio quasi ispirato » (Teller, presso Rosenmüller, in cap. II ad Tim., v, 5, 13). Insomma quelle parole – non contengono che una generale sentenza, cosicché non sembrano riferirsi né al Vecchio, né al Nuovo Testamento. » (Errico Heurichs, presso Kopp, Nov. Test, Græc. Perpet, annal. Illustr.: Gotting.1768). Intendetemi bene:

« Questa idea dell’ispirazione divina non è che un mito (una favola), contenuto, come, tanti altri, nei nostri libri Sacri. » (Bauer, Mitologia Ebraica, p. 23)- Mi rimproverate di aver combattuto la Chiesa di Cristo. E che per questo? «Il Cristo non è mica un individuo: è un’idea, o un concetto simbolico dell’umanità. » (Il dottore Federico Strauss, la vie de Jesus, ou examen critique de son histoire: trad, Paris 1839, T. 1, pag. 35-105.) Concludiamo.

« Lungi dalla ipocrisia, noi dichiariamo la guerra a tutto ciò che esiste, una guerra di decomposizione a tutte le religioni stabilite…. Quanto all’ateismo, se noi non lo proclamiamo ancora, noi possiamo antecedentemente provarci a demolire a poco a poco il sentimento religioso. Il critico esamina i racconti scritturali, considera, il Cristianesimo nella sua essenza; egli stabilisce (N. B.) che questi racconti sono favolosi: che questa essenza è ristretta: egli vuole innalzar gli uomini fino all’ateismo; perché allora soltanto essi saranno liberi … Convien liberar l’uomo dalla coscienza, e alla Germania, paese il più essenzialmente protestante in fra tutti, si appartiene di adempiere questa nobile missione. » (Il Giornale: Die Berliner monaschift n. 1).  

Or avrete capito, Signora Bibbia. So fare a meno di voi, di Dio, dell’Uomo-Dio, e di quanto ne viene di conseguenza. Sono il Protestantismo: rammentatevene: a rivedervi!

IL SACRO CUORE (42)

IL SACRO CUORE (42)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero”, 1919]

PARTE SECONDA.

CAPITOLO III

L’ATTO PROPRIO DELLA DEVOZIONE AL SACRO CUORE

Una divozione sì specifica sopra tutto per il oggetto; ma è pur sempre un insieme un insieme di idee, di sentimenti, di pratiche, in relazione con quell’oggetto. Per conoscerla sempre meglio, vi bisogna dunque studiarla anche da questa parte, domandandosi quale è l’atto proprio della devozione al Sacro Cuore. La risposta può dedursi  dall’oggetto e dal fine della devozione, questo fine essendo determinato dalla natura dell’oggetto. Ma, per non procedere unicamente a priori, dovremo pure esaminare i testi ed i fatti (V. sopra – I parte, c. III § 2 – i testi della santa, sullo spirito della devozione). – La questione dell’atto proprio potrebbe esprimersi benissimo così: Quali sono il carattere e lo spirito proprio della devozione al sacro Cuore, quali ne sono le pratiche speciali, secondo quale spirito e questo carattere? Si può riferir tutto a questi due capi: fine e atto proprio delle devozione, spiegandone lo spirito, le pratiche e il carattere.

I.

SCOPO DELLA DEVOZIONE AL SACRO CUORE

L’amore vuole amore. L’amore sconosciuto vuole amore riparatore.

Quando Gesù mostrava alla beata Margherita Maria il suo cuore infiammato d’amore per gli uomini e, incapace di contenere più a lungo quelle fiamme che lo consumavano, e desideroso di far parte a, tutti delle ricchezze del suo cuore, che cosa voleva? Attirare l’attenzione degli uomini su questo amore, indurli a rendergli omaggio, invitarli ad attingere in questo cuore infinitamente ricco. Se, al dire della santa, Egli si compiace grandemente di essere onorato sotto la figura del suo Cuore di carne, che scopo vuole che ci proponiamo nel rendergli questo onore? Si tratta del fine preciso e prossimo della divozione, non già del fine ultimo e generale che è, evidentemente, la gloria di Dio e la santificazione delle anime. Egli vuole che ci proponiamo di onorare il suo amore e di corrispondergli, rendendo amore per amore. La manifestazione del sacro Cuore alla beata Margherita Maria è la ma-nifestazione dell’amore. Si può dunque collegare tutta la devozione a questo. Da una parte, un amore che reclama corrispondenza d’amore, un amore tenero, esuberante, che vuole ricambio proporzionato d’amore; dall’altra parte l’amore che risponde all’invito dell’amore, l’amore desideroso di non essere troppo al disotto dell’amore immenso che l’ha prevenuto e lo provoca. Se la divozione al sacro Cuore, secondo la parola di Pio VI, ci conduce a venerare l’immensa vita e il prodigo (effusum) amore di nostro Signore per noi, è evidente che ciò serve ad accendere il nostro amore a questo focolare dell’amore. Il ehe è evidente. Ricorderò qualche testo soltanto per mostrare che è proprio così. La beata scriveva al P. Croiset: « Mi si mostrava di continuo un cuore che gettava fiamme da ogni parte, con queste parole Se tu sapessi quanto io abbia sete d’essere amato dagli uomini tu non risparmieresti nulla per questo…. Io ho sete, io ardo dal desiderio d’essere amato » (Lettres inédites, VI, p. 18o rivedute su G. c. XXXV, 600). E precedentemente aveva scritto alla madre de Saumaise: « Egli vivrà malgrado i suoi nemici, e si farà padrone e possessore dei nostri cuori e ne prenderà possesso; perché il fine principale di questa divozione è di convertire le anime all’amor suo » (Lettres, 1, VII (LIX); t. Il, p. II (132); G. LXV, 355). E ancora al P. Croiset: « Egli mi fece vedere che il suo ardente desiderio d’essere amato dagli uomini…. gli aveva suggerito il desiderio di manifestare il suo cuore agli uomini con tutti i tesori d’amore, di misericordia, di grazia, di santificazione e salute che conteneva, affinché tutti coloro che volessero rendergli e procurargli l’onore, l’amore e la gloria che potessero, fossero arricchiti con abbondanza e profusione di questi divini tesori del Cuore di Dio che ne è la sorgente e che si deve onorare sotto la figura di questo Cuore di carne …. Questa devozione è come un ultimo sforzo dell’amor suo che voleva favorire gli uomini in questi ultimi secoli, con questa redenzione amorosa…. per metterci sotto la dolce libertà dell’impero del suo amore, che voleva stabilire nel cuore di tutti coloro che vorrebbero abbracciare questa devozione » (Lettres IV, p. 142 rivedute su G. CXXXIII, p. 568). È ben così che l’intendevano i promotori della divozione: « Il fine della nuova divozione, diceva il postulatore del 1697, è di pagare un tributo d’amore alla sorgente stessa dell’amore » (Memoriale citato da Nilles, 1.a parte, 2.a C. 11, C. 1, p. 338.). – « Il primo fine che si ha in vista, diceva il P. Galliffet, postulatore nel 1727, è di corrispondere all’amore di Gesù Cristo » (Citato da NILLES, CC. cit. p. 340). – E il P. Croiset: « Non si trova qui, per parlare propriamente, che un esercizio d’amore: l’amore ne è l’oggetto, l’amore ne è il motivo principale, ed è l’amore che deve esserne il fine » (1.a parte, c. I, p. 3-4. Mons. DE PRESSY si esprime presso a poco nello stesso modo: « Il suo oggetto, tanto corporale che spirituale, non si riferisce che alla carità, i suoi motivi non respirano che la carità, le sue pratiche e il suo fine non tendono che ad esercitare e perfezionare la carità ». Lettera pastorale per stabilire la divozione al sacro Cuore, I c., col. 1032). – È ben così che l’intende la Chiesa. Essa dice nell’inno alle Laudi: Quis non amantem redamet? Quis non redemptus diligat? ». E nella segreta della Messa Egredimini prega cosi: « Noi vi supplichiamo, Signore che lo Spirito Santo c’infiammi dell’amore che Nostro Signore Gesù Cristo ha fatto scaturire dal suo amore sulla terra, e che ha voluto tanto vedere accendersi ». – Quando Pio IX, nel 1856, estendeva la festa del Sacro Cuore a tutta la Chiesa, fu per « fornire ai fedeli un’incitamento (incitamenta) per amare e ripagare in amore (ad amandum et redamandum) il cuore di Colui che ci ha amato ed ha lavato col suo sangue le nostre colpe » (in: NILLES, 1. 1, parte 1, c. IV, § 1, t. I, p. 167). E, quando lo stesso Pontefice innalzò la festa a un rito superiore, lo fece perché la devozione d’amore al Cuore del nostro Redentore si propagasse sempre di più e penetrasse più addentro nel cuore dei fedeli, affinché « la carità che si è raffreddata, in molti, si rianimi al fuoco del divino amore » (Ibid, p. 170). Si dice pure nel breve di beatificazione di Margherita Maria: « Gesù non ha nulla così a cuore come di accendere nel cuore degli uomini quella fiamma d’amore di cui il suo proprio cuore è infiammato. Per meglio riuscirvi, ha voluto che si stabilisse e si propagasse nella Chiesa, il culto del suo sacratissimo cuore (In: NILLES, 1. 1, parte 2, C. Il, § 2, t. I, p. 346.). La medaglia commemorativa della beatificazione, coniata a Roma nel 1864, rappresenta Gesù che mostra il suo cuore, con questa leggenda: Cor, ut redametur exhibet » (Vedi: NILLES, I. 1, p. 3a , C. 111, t. 1, p; 468.). –

Leone XIII ha ripetuti) gli stessi insegnamenti nella Enciclica del 28 giugno 1889. Egli scrive: « Gesù non ha desiderio più ardente che di vedere acceso nelle anime il fuoco d’amore da cui il suo proprio cuore è consumato. Andiamo dunque a Colui che non ci domanda altro come prezzo della sua carità, che corrispondenza d’amore ». Tutta la lettera è piena di questa idea. È qui, d’altronde, che ci riconducono sempre i documenti che si riferiscono al sacro Cuore, e nulla è più frequente che incontrare, citata in questo senso la parola del Divin Maestro: « Sono venuto a portare il fuoco nella terra, e che cos’altro desidero se non che si accenda ». Aggiungiamo che, siccome la divozione è un compenso d’amore all’amore sconosciuto e oltraggiato, così quest’amore si presenta naturalmente come un amore di riparazione. Così come vedremo, i documenti ci parlano in pari tempo e di riparazione e d’amore.

II.

L’ATTO PROPRIO DELLA DEVOZIONE

L’atto proprio della divozione al sacro Cuore; l’atto. d’amore; il suo spirito, il carattere, le pratiche. tutto si riferisce all’amore. La riparazione.

È questa una questione su la quale è discusso qualche volta. Per noi è stata già risolta da quel che precede; l’atto proprio della divozione, è, evidentemente, l’atto d’amore. Gesù ci dà il suo cuore per avere il nostro. La divozione all’amore è, essenzialmente, una divozione d’amore. La sua divisa è: Nos ergo diligamus Deum quoniam ipse prior dilexit nos (I Giov., IV, 19). E ancora: Sic nos amantem quis non redamaret? All’amore, rispondiamo con l’amore. Ma, notiamolo bene, per questo appunto che si presenta come una risposta all’amore, quest’amore ha dei caratteri speciali, determinati in gran parte dall’amore che vuol riconoscere rispondendo ad esso. – Io non parlo del colore indescrivibile che gl’imprime il sentimento sempre presente della distanza fra noi e l’Amico divino, la cognizione di ciò che Egli è e di quel che noi siamo; Egli ci mette, a suo riguardo, in una attitudine analoga a quella degli Apostoli dopo la risurrezione, al mattino della pesca miracolosa. Mangiando sotto i suoi sguardi la piccola refezione che Egli stesso aveva preparato loro non osavano domandargli chi fosse ben sapendo che era Gesù. Egli addolcisce tutte le relazioni fra Lui e noi per fondere insieme la condiscendenza infinita che senza abbassarsi discende alla più intima famigliarità, e il rispetto affettuoso che osa amare semplicemente, senza dimenticare l’audacia di rivolger in alto i propri affetti. Voglio indicare certi tratti più speciali di questo amore, tali come li richiede la divozione. È un amore reciproco che non dimentica mai d’essere amato. Se si fosse tentati di dimenticarlo, uno sguardo al sacro Cuore, ce lo ricorderebbe subito. Quest’amore reciproco è, malgrado le distanze, un amore d’amicizia, un amore di famigliarità. di fratellanza intima e tenera. Ciò dipende in parte, senza dubbio, dal fatto che l’amore del sacro Cuore per noi si presenta come un amore umano, sotto forme sensibili, alla misura, per così dire, del nostro cuore. Ma ciò dipende sopra tutto dal fatto che questo amore, essendo quello di Gesù, del Verbo incarnato, non possiamo dimenticare che Egli ha voluto immedesimarsi nella nostra famiglia per immedesimarci nella sua, e che, essendo Dio, ha voluto farsi uomo per fare dell’uomo un Dio. Quest’amore reciproco, pertanto, non dimentica che una parte ha prevenuto, che Gesù ha fatto i primi passi e che non ci resta che corrispondere. Si ferma dunque a studiare questo amore che previene e tutto quello che ha fatto; cerca, pur sapendo di non arrivar mai, di corrispondere alla tenerezza e all’ardore di quest’amore, con tutta la sua potenza di tenerezza e di ardore, alla sua generosità, con tutta la sua forza di abnegazione, disinteressata, ecc…. In una parola si sforza, in una lotta ineguale, di rispondere con la perfezione dell’amore, all’amore perfetto che l’ha prevenuto. Ma l’amore di Gesù, come si è rivelato alla beata Margherita Maria, è un amore sconosciuto e oltraggiato. Ed è questo che dà tutta la sua importanza all’atto di riparazione, al culto del sacro ‘Cuore. Questo posto fatto alla riparazione è tale che, qualche volta, sembra presentarsi come il primo atto e il più essenziale della divozione. E pertanto non è così. Prima di tutto, la riparazione, tale come ci apparisce qui, è una riparazione d’amore, non già una riparazione di giustizia e di espiazione, e si traduce per mezzo dell’ammenda onorevole che si rivolge precisamente all’amore sconosciuto e oltraggiato. L’amore è messo dunque in prima linea. Ag-giungiamo che paranco nei testi la riparazione è sempre messa al secondo posto. Vi si dice che il fine principale della divozione è l’amore; la riparazione vien dopo, e come atto speciale d’amore verso l’amore riconosciuto e oltraggiato. L’amore, la consacrazione, o dono amoroso di sé al sacro Cuore, la vita tutta per lui, e in lui, hanno un’importanza infinitamente maggiore negli scritti e nelle preoccupazioni di beata Margherita Maria, che non ne abbiano la riparazione e l’ammenda onorevole. E, se anche fosse altrimenti, non bisognerebbe, per questo, invertire l’ordine. Per la forza stessa delle cose, la riparazione non vien che dopo e come prova speciale di amore. – Altri atti, altre pratiche son care ai devoti del sacro Cuore: Comunione riparatrice, divozione all’Eucaristia, Ora santa, divozione alla Passione, ecc. Care al loro amore perché chieste espressamente da Gesù ai suoi amici fedeli, nella persona della sua amante prediletta, perché praticate o indicate da lei stessa come gradite al cuore del Divino Amico perché manifestazioni spontanee d’un amore tenero, delicato, generoso. Tutto questo proviene naturalmente dalla natura propria di questa divozione. Sono gli aspetti dell’amore. Niente è estraneo all’amore di quel che è rivelazione, traduzione ne d’amore. Ma tutto quello che si fa, tutto quello che si soffre, non si riferisce all’amore come alla sua sorgente e al suo termine. Leggete quello che dice san Paolo della carità (I Cor. XIII, 5 e segg.). Vi trovate come una descrizione della vera divozione al sacro Cuore, poiché vi trovate la descrizione del vero amore. Lo spirito della divozione è dunque uno spirito d’amore. Tutte le pratiche ne sono animate, tutte ci guidano a lui. – Dappertutto dove incontriamo la divozione al sacro Cuore incontriamo questo carattere dell’amore. – È per amore che si stringe a Gesù per studiarvi il suo amore, dalla culla al Calvario; non arrestandosi ai fatti o esteriori che per ricercarvi le tracce dell’amore. È per meglio amarlo che cerca di meglio conoscerlo. È pure per amare che compatisce alle sue pene, che gli rende omaggio vedendolo sconosciuto, che gode delle sue gioie e dei suoi trionfi come se fossero suoi, che vive di lui, infine, e si sforza di piacergli, amandolo sempre più, per innestargli il proprio amore e rendendosi sempre più amabile ai suoi occhi per soddisfare questo amore. È, a dir vero, ai predicatori e agli autori ascetici che appartiene sviluppare tutte queste considerazioni, ma era pur necessario accennarle per farsi un’idea più giusta e vera della divozione. – Le anime di vote troveranno nella loro divozione stessa di che nutrirsene e penetrarsene. Ed è a misura che se ne nutrono e se penetrano, che la loro divozione cresce e diviene in loro una sorgente inesauribile di considerazioni amorose e di amore sempre più tenero, sempre più operoso.

LA PARUSIA (2)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (2)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE. Rue de Rennes, 117; 1920

ARTICOLO SECONDO

LA PRESENTE GENERAZIONE NON PASSERÀ, PRIMA CHE TUTTE QUESTE COSE NON SI SIANO COMPIUTE »,

in San Matteo (xxiv XXIV, 34) e San Marco (XIII, 30), da un lato; S. Luca dall’altro (XXI, 32).

Cominciamo col concedere audacemente che la parola generatio hæc, (ἠ γενεά αὓτη – [e ghenea aute]) significa, in senso naturale e ovvio, il tempo dei contemporanei di Gesù, la generazione di quel tempo in opposizione a quelle che la seguiranno, e di conseguenza, il periodo di tempo che, valutato all’estrema durata della vita umana, si concluderà con il primo secolo della nostra era. – Non sembra esserci alcun dubbio a questo proposito. È vero che diversi interpreti hanno creduto di poter uscire d’imbarazzo dando alla parola γενεά [ghenea] il senso di posterità, discendenza, razza, o addirittura “tutta la durata del genere umano” in generale, o del popolo giudaico in particolare, così da tradurre: « Questa generazione (cioè il genere umano, o se si vuole, la razza giudaica) non finirà finché tutte queste cose non saranno compiute. » In questo modo, la difficoltà che sta per occuparci scomparirebbe subito, e radicalmente, e ciò non potrebbe essere più chiaro; ma aggiungiamo rapidamente che scomparirebbe solo per farne posto ad un’altra incomparabilmente più grave, o per meglio dire, inestricabile in ogni modo. – Infatti, una tale interpretazione del testo evangelico, gli toglierebbe ogni credibilità ed è del tutto inammissibile. Innanzitutto perché farebbe parlare Gesù per niente dire. Perché se intendiamo questa generazione, con “tutto il genere umano”, il significato sarebbe: “In verità, vi dico, la fine del mondo non verrà finché non avverranno tutte le cose che ho predetto sulla fine del mondo stesso”, il che si ridurrebbe ad una solenne affermazione che la fine non verrà prima che venga la fine: una tautologia assurda e ridicola. E se si intende la razza peculiare del popolo giudaico, il significato, identico nella sostanza, aggiungerebbe solo l’assicurazione della durata futura di questo popolo fino all’ultimo giorno, una cosa senza dubbio estremamente notevole e degna di nota, soprattutto in considerazione delle condizioni molto particolari in cui esso si trovava, ma che non ha alcun tipo di connessione o legame con l’oggetto della presente questione. – In secondo luogo, l’espressione ἠ γενεά αὓτη (e ghenèa aute) ricorre fino a sedici altre volte nei Vangeli, sia di San Matteo, sia di San Marco, sia di San Luca, e sempre, costantemente, invariabilmente, significa la generazione favorita dalla presenza, dagli insegnamenti e dai miracoli di Gesù. È la generazione che è come i bambini seduti al mercato, che gridano ai loro compagni: « Abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; abbiamo cantato un lamento per voi e non vi siete battuti il petto. Giovanni non è venuto né a mangiare né a bere, e dicono: “È posseduto dal demonio”. Il Figlio dell’uomo è venuto mangiando e bevendo, e dicono che è un uomo allegro e un bevitore di vino » (Matth., XI, 16; Luca, VII, 31), Questa è ancora la generazione che chiede un segno, e alla quale sarà dato solo il segno del profeta Giona (Matth, XII, 39; Marco, VIII, 12; Luca, XI, 29); la generazione che sarà condannata nel giorno del giudizio dagli uomini di Ninive che fecero penitenza alla voce di Giona, così come la regina del Sud che venne dai confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone, mentre a questa generazione, fu mandato più di Giona e più di Salomone (Matth, XII, 41; Luca, XI, 31); la generazione, infine, dalla quale il sangue di tutti i profeti e di tutti i giusti fu versato fin dall’inizio, perché doveva rendere completa la misura crocifiggendo il Figlio di Dio stesso, e mettendo a morte i suoi Apostoli e i suoi ministri (Matth., XXIII, 36; Luca, XI, 50): tanti i caratteri che sono appropriati alla generazione contemporanea a Gesù, ed appropriati solo ad essa. Infine, non è evidente che dicendo: “Questa generazione non passerà finché tutte queste cose non saranno compiute“, Gesù intendeva rispondere alla domanda posta in precedenza dai discepoli, e posta in questi termini precisi: « Dicci quando avverranno queste cose, dic nobis quando hæc erunt? ». E non è ancora più evidente ancora che, intendendo ἠ γενεά αὓτη – ghenea aute – come “razza umana” o razza giudaica fino alla fine dei secoli, la risposta non sarebbe più una risposta, poiché lascerebbe il tempo degli eventi, in tutti i punti e lungo tutta la linea, completamente indeterminato? Non rifacciamo dunque i testi a nostro piacimento per amore di una causa, ma prendiamoli così come sono, con il significato dato loro dal valore naturale delle parole, dalle esigenze del contesto, dall’analogia dei passi paralleli e dal modo comunemente usato nel linguaggio umano. Gesù, interrogato sul tempo degli eventi, ha detto: “Questa generazione non passerà finché essi non saranno compiuti“. Questo era per dire ai suoi contemporanei che li avrebbero visti, che ne sarebbero stati testimoni, che addirittura, come appare dai termini di questa profezia e da diversi altri luoghi del Vangelo, avrebbero avuto una parte molto terribile in essi. E infatti, se veniamo ora all’evento, troveremo piena e completa conferma del senso naturale e ovvio delle parole ascoltate dagli Apostoli sul Monte degli Ulivi, alla vigilia della Passione. Una cosa è ovvia dall’inizio, e deve essere concessa prima di ogni ulteriore esame dell’oracolo evangelico. Non era ancora passato mezzo secolo, anzi meno, cioè quarant’anni, e tutto ciò che nella predizione è descritto in primo piano, aveva ricevuto da punto a punto, fino all’ultimo dettaglio, con una sorprendente precisione, il più brillante adempimento. Ho detto, tutto ciò che è descritto in primo piano, perché qui, come è evidente dal più semplice sguardo al testo dei tre evangelisti, siamo davvero in una di quelle profezie con doppio oggetto, e di conseguenza, con doppio piano, di cui abbiamo parlato nell’articolo precedente. È impossibile sbagliarsi. Due grandi catastrofi, distinte l’una dall’altra per come è possibile, sono chiaramente annunciate. La prima riguarda Gerusalemme, che sarà investita dalle armate, assediata, saccheggiata e calpestata dai Gentili; l’altra, incomparabilmente più grande, riguarda l’universo, che, scosso fino al suo fondo, sarà nelle convulsioni dell’agonia, mentre gli uomini si prosciugheranno dal terrore nell’attesa di ciò che accadrà al mondo (Luca, XXI, 20, segg.; 25, segg.). L’una più vicina, quando i Giudei saranno messi a ferro e fuoco e condotti in cattività tra tutte le nazioni, l’altra più lontana, che verrà solo dopo che il Vangelo sarà stato predicato su tutta la terra ed i tempi dei Gentili saranno stati compiuti (Luc. XXI, 24; Matt. XXIV, 14). – L’una che può essere evitata con la fuga, grazie ai segni dati in anticipo, l’altra che verrà all’improvviso, che sorprenderà come una rete tutti gli abitanti della terra, senza che sia possibile sfuggirvi, se non preparandosi ad essa con una vigilanza continua ed una preghiera perseverante (Matth., XXIV, 15; Luc, XXI, 35). L’una, infine, il cui tempo non cade sotto l’impenetrabile segretezza in cui è nascosto invece il tempo della seconda (Matth., XXIV, 36), e che, a differenza della seconda, occupa veramente quello che abbiamo chiamato il primo piano e per così dire il proscenio del quadro profetico dipinto da Nostro Signore. – Vediamo dunque, prima di ogni altra cosa, come questa profezia del primo piano, nella quale, notiamo già (perché questo è ciò che è importante osservare qui, e sul quale torneremo più avanti), l’oggetto del fondo stesso sia in qualche modo compreso, secondo che la cosa rappresentata si possa dire compresa nella figura, e la realtà rappresentata dall’immagine, nell’immagine che la rappresenta: Vediamo, dico, come si fosse realizzata da punto a punto, ed in ogni suo dettaglio, prima che fosse passata la generazione di cui Gesù aveva detto, non præteribit generatio hæc, donec omnia hæc fiant. Colpisce la presentazione fatta da Bossuet nel Discorso sulla storia universale. Ci basta trascrivere qui (salvo alcune lievi aggiunte, abbreviazioni e trasposizioni) i passaggi principali, a cominciare dall’enumerazione delle sventure segnalate negli anni precedenti l’assedio della sfortunata Gerusalemme (Bossuet, Hist. univ. II° parte, c. XXI – XXII). In primo luogo, Gesù aveva annunciato epidemie, carestie e terremoti, e infatti le storie testimoniano che mai queste cose erano state più frequenti e più notevoli di quanto lo fossero in questi tempi. Negli ultimi sette anni di Nerone, la terra, si può dire letteralmente, tremò da tutte le parti. Nel 61 e 62 d.C. i terremoti scossero l’Asia, l’Acaia e la Macedonia; le città di Hierapolis, Laodicea e Colossi furono particolarmente colpite (Tacito, Ann., XIV, 27.). Nel 63 passarono in Italia; la campagna di Napoli già ardeva di quei terribili incendi che, sedici anni dopo, portarono alla prima storica eruzione del Vesuvio. Si sono manifestati in scosse sotterranee. Napoli e Nocera furono colpite, Pompei fu quasi rasa ak suolo, Ercolano parzialmente distrutta: e questo era ancora solo il preludio alla loro rovina. Il terrore in Campania fu universale, gli uomini divennero folle per lo stacento (Tacit. Ann. XIV, 22). Il terreno sembrava scosso ovunque, e i Cristiani ricordarono le parole del Salvatore: Et terræ motus magni erunt per loca. L’anno 66 vide un altro tipo di disgrazia. La sfortunata Campania fu afflitta questa volta da venti torrenziali che devastarono case, arbusti e coltivazioni. Queste tempeste raggiunsero Roma, e nella città stessa, senza alcun disturbo visibile dell’atmosfera, una malattia pestilenziale spopolò tutti i ceti della società. Secondo Tacito (Ann., XVI, 13) e Svetonio (in Ner. 39), le case erano piene di corpi morti, le strade di convogli funebri. Uomini e donne, bambini e vecchi, schiavi e liberi, perirono allo stesso modo. In un solo autunno il tesoro di Venere Libitina registrò trentamila morti (De Clinmpagny, Rome et la  Judée, t. 1, c,11). Con il pronostico delle catastrofi naturali, si adempì anche il pronostico annunciato, di apparizioni spaventose nel cielo, e di segni straordinari: terroresque de cœlo, et signa magna erunt. Giuseppe: de Bello jud., l. VII, c. 12) e Tacito (Hist, v, 13), ci dicono che per un anno intero si vide planare una sinistra meteora a forma di spada, e (cosa che secondo Giuseppe sembrerebbe una favola inverosimile, se non fosse garantita da una moltitudine di testimoni oculari), che in quel momento si vedevano in tutto il paese, un po’ prima dell’alba, squadroni di cavalieri armati, che sfondavano le nuvole, correvano nell’aria e venivano ad accamparsi intorno alla capitale. « È anche una tradizione costante attestata nel Talmud, e confermata da tutti i rabbini, che circa quarant’anni prima della catastrofe, costantemente nel tempio sono state viste cose strane. Ogni giorno apparivano nuove prodigi, così che un famoso rabbino un giorno gridò: “Tempio, tempio, cosa ti muove e perché ti spaventi? Cosa c’è di più marcato di quel terribile rumore che fu udito dai sacerdoti nel santuario il giorno di Pentecoste, e questa voce che usciva dalle profondità di quel luogo Sacro: “Andiamo via da qui, andiamo via da qui! E se questo prodigio fu visto solo dai sacerdoti, qui ce n’era un altro manifesto agli occhi di tutto il popolo. Quattro anni prima della dichiarazione di guerra, un contadino di nome Gesù, detto Giuseppe, si mise a gridare: “Una voce uscì dall’oriente, “Una voce uscì dall’ovest, “Una voce uscì dai quattro venti: Una voce contro Gerusalemme e contro il tempio, una voce contro gli sposi e le spose, una voce contro tutto il popolo. Da allora non cessò mai di gridare: « Guai a Gerusalemme! » E nei giorni di festa gridava ancora più forte. E nessun’altra parola usciva dalla sua bocca; perché quelli che lo compiangevano, quelli che lo maledicevano e quelli che provvedevano a lui, non udirono da lui che questa terribile parola: « Guai a Gerusalemme! » Fu preso, interrogato e condannato alla fustigazione dai magistrati: ad ogni colpo e ad ogni richiesta, rispondeva senza mai lamentarsi: « Guai a Gerusalemme! » Fu rinviato come un pazzo, e corse per tutto il paese ripetendo continuamente la sua triste previsione. Per sette anni continuò a gridare in questo modo, senza rallentare e senza che la sua voce si indebolisse mai. Al momento dell’ultimo assedio, si rinchiuse nella città, girando instancabilmente intorno alle mura e gridando con tutta la sua forza: « Guai al tempio, guai alla città, guai a tutto il popolo! » Alla fine aggiunse: “Guai a me!” e allo stesso tempo fu colpito da una pietra lanciata da una macchina. » Questo per quanto riguarda i presagi di cui è stato detto: “Ci saranno apparizioni spaventose nel cielo e grandi segni”. Per quanto riguarda i disordini, le voci di guerra e l’insorgere di nazione contro nazione e regno contro regno: « Questo fu verificato alla lettera negli ultimi anni di Nerone, quando l’impero romano, così pacifico dopo la vittoria di Augusto e sotto il potere degli imperatori, cominciò a scuotersi, e le città della Gallia, della Spagna e tutti i regni di cui l’impero era composto, furono improvvisamente agitati: quattro imperatori (Galba, Ottone, Vitellio, Vespasiano) si sollevarono quasi contemporaneamente contro Nerone e tra loro; le coorti del pretorio, gli eserciti della Siria, della Germania e tutti quelli che erano sparsi in Oriente e in Occidente, che si scontrarono e attraversano il mondo da un’estremità all’altra, per decidere la loro dispute con battaglie sanguinose. In ventidue mesi, l’Italia fu invasa due volte, Roma presa due volte, la seconda con un assalto; guerra sul Reno, guerra sul Danubio, guerra sul Mar Nero, guerra ai piedi dell’Atlante, contemporaneamente sul Tevere; mai forse, per tante cause diverse, tante nazioni erano state agitate, tante terre avevano sofferto, tanti uomini erano morti. E questo doveva essere solo l’inizio dei dolori ». Badate a voi stessi, aveva aggiunto Gesù, intendendo che anche la Chiesa, sempre afflitta fin dalla sua prima costituzione, avrebbe visto accendersi contro di essa la furia dell’inferno, più violenta che mai. Vi consegneranno alle torture, vi faranno morire, sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Questo si compì punto per punto, e in particolare a Roma, dove Nerone scatenò la prima delle dieci grandi persecuzioni di cui Tacito ha descritto gli orrori, e mise a morte i principi degli Apostoli, San Pietro e San Paolo. Ma era sui Giudei che dovevano cadere le più grandi calamità: sui Giudei che, con la loro turbolenza e il loro furore, stavano preparando la loro stessa rovina, alla quale sarebbero stati irrimediabilmente precipitati dai falsi Cristi e dai falsi profeti che Gesù aveva annunciato: “Sorgeranno molti falsi Cristi e falsi profeti – aveva detto – e inganneranno molte persone. Infatti, non ne sono mai apparsi così tanti come nel periodo successivo alla sua morte. “Soprattutto al tempo della guerra di Giudea, e durante il regno di Nerone che la iniziò, Giuseppe ci mostra un numero infinito di questi impostori che attiravano il popolo nel deserto con vani prestigi e segreti di magia, promettendo loro una pronta e miracolosa liberazione. Infatti, uno dei segni più terribili dell’ira divina è quando, come punizione per i nostri peccati precedenti, essa ci consegna al nostro senso reprobo, così che siamo sordi a tutti i saggi avvertimenti, ciechi alle vie di salvezza che ci vengono mostrate, veloci a credere a tutto ciò che ci perde, purché ci lusinghi, e audaci a intraprendere tutto senza mai misurare la nostra forza con quella dei nostri nemici che irritiamo. E questo è ciò che doveva accadere ai Giudei, perché sebbene la loro ribellione avesse attirato su di loro le armi romane, Tito non li avrebbe persi, anzi, spesso offrì loro il perdono, non solo all’inizio della guerra, ma anche quando non potevano più sfuggire alle sue mani. Aveva già costruito un lungo ed esteso muro intorno a Gerusalemme, con torri e ridotte forti come la città stessa, quando mandò loro Giuseppe, un loro concittadino, uno dei loro capitani, uno dei loro sacerdoti, che era stato catturato in questa guerra mentre lasciava il suo paese. E cosa non aveva detto loro per smuoverli? Quante forti ragioni aveva dato loro per tornare all’obbedienza! Ma, sedotti dai loro falsi profeti, non ascoltarono nulla, e furono ridotti allo stremo; la fame ne uccise più che la guerra, e le madri mangiarono i loro figli. E Tito, da parte sua, era toccato dai loro mali, e prese i suoi dei come testimoni che non era lui la causa di tanti orrori, ed essi diedero ancora credito alle false predizioni che promettevano loro l’impero dell’universo. Ancor più, la città era presa, il fuoco era già appiccato da ogni parte, e questi insensati credevano ancora sempre ai falsi profeti che dicevano loro che il giorno della salvezza era arrivato, per cui avrebbero dovuto resistere fino alla fine e non ci sarebbe stata pietà per loro. » – Ma veniamo ora ai segni che Gesù diede al suo popolo per tirarlo fuori dalle disgrazie che dovevano colpire Gerusalemme. « Dio, naturalmente, non dà sempre al suo popolo fedele tali segni, e in questi terribili castighi che fanno sentire la sua potenza a intere nazioni, spesso colpisce i giusti con i colpevoli, perché ha mezzi migliori per separarli, di quelli che appaiono ai nostri sensi. Ma nella desolazione di Gerusalemme, affinché l’immagine dell’ultimo giudizio fosse più esplicita e la vendetta divina più pronunciata sui miscredenti, Egli non volle che i Giudei che avevano ricevuto il Vangelo si confondessero con gli altri, e Gesù diede ai suoi discepoli certi segni con cui avrebbero potuto sapere quando era il momento di lasciare quella città reproba. Si basò, come era sua abitudine, sulle profezie antiche, e guardando indietro al luogo dove l’ultima rovina di Gerusalemme fu mostrata così chiaramente a Daniele così chiaramente a Daniele: “Quando vedrete l’abominio della desolazione che Daniele ha profetizzato, colui che legge ascolti; quando l’avete visto posto nel luogo santo, oppure, come dice San Marco, nel luogo dove non dovrebbe essere, allora coloro che sono in Giudea, fuggano verso le montagne. San Luca racconta la stessa cosa con altre parole: Quando avrete visto gli eserciti circondare Gerusalemme, sappiate che la sua desolazione è vicina; allora quelli che sono in Giudea si ritirino sui monti. Uno degli evangelisti spiega l’altro, e mettendo insieme questi passaggi è facile per noi sentire che questo abominio predetto da Daniele è (in parte almeno) la stessa cosa degli eserciti intorno a Gerusalemme, κυκλουμένη ὑπό στρατοπέδων Ίερουσαλήμ [kokloumene upo stratopedon Ierousalem]. I santi Padri l’hanno intesa così, e la ragione ci convince, perché la parola abominio nell’uso della Scrittura, significa idolo, e tutti sanno che gli eserciti romani portavano sulle loro insegne le immagini dei loro dei e dei loro Cesari che erano i più rispettati tra tutti i loro dei. Queste insegne erano un oggetto di culto per i soldati, e poiché gli idoli, secondo gli ordini di Dio, non dovevano mai apparire in terra santa, le insegne romane ne erano bandite. Così vediamo nelle storie che, finché i romani ebbero qualche riguardo per i Giudei, non lasciarono mai apparire le insegne romane in Giudea. Permettevano che gli stendardi delle legioni entrassero a Gerusalemme solo velati; a volte, addirittura, facevano marciare le loro truppe senza insegna, come quando Vitellio attraversò la Giudea per portare la guerra in Arabia. Inoltre, secondo Giuseppe (Antiq. XVI, 2), essi arrivarono al punto di esentare i giovani dal servizio militare, affinché non fossero costretti a seguire stendarti contrassegnati da immagini idolatriche e a subire cose così contrarie alla loro legge. Ma all’epoca dell’ultima guerra giudaica, i romani non risparmiarono un popolo che volevano punire. Così, quando Gerusalemme fu assediata, era circondata da tanti idoli, quante erano le insegne romane, e [l’abominio] non apparve mai dove non doveva essere, cioè in terra santa e intorno al tempio (Questo è detto senza pregiudizio di un’interpretazione più completa di cui parleremo più tardi, secondo la quale l’abominazione della desolazione predetta dal profeta Daniele, segnò la profanazione del luogo santo da entrambe le parti in una volta sola. Da parte degli assedianti, con l’esposizione di insegne idolatriche e il culto che veniva reso loro sotto le mura stesse del tempio. Ma soprattutto e prima di tutto, dalla parte degli assediati, dagli eccessi degli Zeloti che, stabiliti nel tempio come in una fortezza, lo insozzarono durante quattro anni consecutivi, con crimini inauditi e forzature esecrabili che la penna si rifiuta di descrivere, come si dirà a suo luogo). – « Ma, si dirà, è questo il grande segno che Gesù doveva dare? Era il momento per fuggire quando Tito pose l’assedio a Gerusalemme e chiuse i viali così strettamente che non c’era modo non c’era modo di scappare? È qui la meraviglia della profezia. Gerusalemme fu assediata due volte in questi tempi: la prima da Gestio Gallo, governatore della Siria, nell’anno 66 d.C.; la seconda da Tito, quattro anni dopo. Nell’ultimo assedio, non c’era modo di scappare. Tito condusse questa guerra con troppo zelo, e l’accerchiamento impenetrabile che fece intorno alla città non diede speranza ai suoi abitanti. Ma non ci fu nulla del genere nell’assedio di Gestio; egli era accampato a cinquanta stadi da Gerusalemme; il suo esercito era sparso tutt’intorno, ma senza fare alcuna trincea, e fece la guerra con tanta negligenza da perdere l’occasione di prendere la città, le cui porte gli furono aperte dal terrore, dalle sedizioni e persino dalla sua stessa intelligenza. Inoltre, Gestio levò prontamente l’assedio e ordinò una ritirata che si trasformò in un disastro per i romani. Ecco perché, durante la tregua di quattro o cinque mesi che trascorse fino all’invasione dell’esercito di Vespasiano (cioè dall’autunno del 66 alla primavera del 67), lungi dall’essere impossibile la fuga, la storia registra espressamente che molti si ritirarono. « Dopo la sconfitta di Cestio – dice Giuseppe – (Joseph., 1. II de Bello jud., c. XXV), molti fuggirono da Gerusalemme come si fugge da una nave che affonda. » Quindi Gesù aveva distinto molto chiaramente i due assedi: uno in cui la città sarebbe stata circondata da trincee, “circumdabunt, te inimici tui vallo, et coangustabunt te undique” (Luca, XIX, 43); l’altro dove sarebbe stato investita dalle armate, cum videritis circumdari ab exercitu Jerusalem (Luca XXI, 20). Era allora che occorreva fuggire e ritirarsi sulle montagne; questo fu il segnale che Nostro Signore aveva dato ai suoi. E infatti i Cristiani obbedirono alla parola del loro Maestro. – Sebbene ce ne fossero migliaia a Gerusalemme e in Giudea, non leggiamo in Giuseppe o in altre storie che ce ne fossero nella città quando essa fu presa. Al contrario, i monumenti antichi mostrano che si ritirarono nella piccola città di Pella in un paese montuoso vicino al deserto, ai confini tra la Giudea e dell’Arabia. Il resto è noto; sono noti gli orrori dell’assedio, di cui Gesù disse: “Ci sarà allora una così grande angoscia come non c’è stata dall’inizio del mondo, né ci sarà mai. (1(I) Niente può dare un’idea dell’angoscia di quei giorni terribili come il resoconto dato da Giuseppe nel terzo libro della sua Storia Ecclesiastica, che è tradotto come segue: “Una donna di nome Maria, della regione al di là del Giordano, distinta sia per la sua nascita che per la sua ricchezza, si era rifugiata a Gerusalemme, dove fu tenuta rinchiusa con il resto della moltitudine. Già i terroristi che facevano tremare la città, come Gerusalemme, pressata da tutti i lati dai romani, era lacerata all’interno da tre fazioni ostili. “E anche se l’odio che queste fazioni avevano verso i romani arrivava fino al furore, non erano meno feroci l’una contro l’altra. Le battaglie all’esterno costarono ai Giudei meno sangue di quelle all’interno. Un momento dopo gli assalti sostenuti contro lo straniero, i cittadini ripresero la loro guerra interna; la violenza e il brigantaggio regnavano ovunque nella città. Nel frattempo, la città stava languendo, e tutto il bagaglio che aveva potuto portare con sé nella sua precipitosa ritirata era stato saccheggiato, e i loro sbirri la stavano gradualmente derubando degli ultimi resti della sua fortuna, e in particolare, di tutto il cibo che era possibile procurarsi. Questo portò al culmine l’indignazione di questa donna, che, stanca di preparare per gli altri un cibo che non le era permesso di toccare, e non avendo alcun mezzo per trovarlo, fu torturata dalla fame fino al fondo delle sue viscere, e ascoltando solo i sinistri consigli del furore e del bisogno estremo, finì per ribellarsi alla natura. Prendendo in mano suo figlio, che stava ancora allattando, gli disse: “Misero bambino, per chi o per cosa ti riserverei in mezzo ai terribili mali che ci sovrastano? I mali dell’assedio, i mali della carestia, i mali dell’atroce guerra civile! Cadendo nelle mani dei romani, se abbiamo la nostra vita, cosa possiamo aspettarci se non la servitù? Ma prima della schiavitù, ecco, è venuta la fame, e peggio di entrambe sono gli uomini faziosi che ci opprimono. Diventa dunque per me un cibo, per i nostri tiranni una furia, per il resto degli uomini la loro favola, poiché tu sei l’ultima cosa che ancora manca alle calamità degli ebrei!” Detto questo, taglia la gola a suo figlio, lo cucina, poi ne mangia la metà, e mette da parte l’altra metà che coprendola accuratamente. Nello stesso tempo, arrivarono gli sbirri che, attratti dall’odore dell’esecrabile arrosto, minacciarono la donna di morte se non avesse mostrato immediatamente il piatto che aveva preparato. E lei rispose che aveva riservato una buona metà per loro e che gliela avrebbe mostrata. Ma a una tale vista i briganti indietreggiano con orrore. E la donna riprese: “Questo è mio figlio, e questo è anche il mio crimine. Quindi mangiate, gente, visto che io stesso ne ho mangiato, e non date l’impressione di essere più sensibili di una donna, più teneri di una madre. Se, per scrupoli religiosi, siete riluttanti a mangiare la mia vittima, allora bene, lasciate che io, che ho già consumato la prima metà, ne abbia pure la seconda!” A queste parole gli sbirri si ritirarono tremando di orrore, non osando disputare tal piatto con una madre. E la notizia di un così grande delitto si diffuse subito in tutta la città, dove tutti si sentirono agghiacciati dall’orrore, e chiamarono beati coloro che la morte aveva preso prima che fossero stati testimoni oculari o auricolari di tali estremi mali » (Josephus, apud Euseb., Hist.,1, III, c. VI – Migne, P. G., t. XX, col. 231). – Si sa come Gerusalemme, pressata da ogni parte dai romani, fosse ormai solo un grande campo coperto di cadaveri, eppure i capi delle fazioni vi combattevano per l’impero. Non era questa un’immagine dell’inferno, dove i dannati si odiano l’un l’altro non meno di quanto odiano i demoni che odiano i demoni che sono i loro comuni nemici, e dove tutto è   di orgoglio, confusione e rabbia? » Ma alla fine il giorno fatale era arrivato, il giorno in cui Gerusalemme, una volta presa d’assalto, avrebbe visto il compimento della profezia di Gesù: Non relinquetur hic lapis super lapidem qui non destruatur. « Era il decimo giorno di agosto, che, secondo Giuseppe, si vedeva bruciare il tempio di Salomone. Nonostante la proibizione di Tito, e nonostante l’inclinazione naturale dei soldati, che doveva portarli piuttosto a saccheggiare che a dilapidare tanta ricchezza, un soldato, ispirato da un’ispirazione divina, si fece issare dai suoi compagni ad una finestra e diede fuoco al tempio. A questa notizia, Tito accorse, Tito ordinò che fosse subito spenta la fiamma incipiente. Ma l’ordine contrario era venuto dall’alto; la fiamma prese piede ovunque in un baleno, e in meno di qualche ora questo superbo edificio veniva ridotto in cenere. Così si consumò la più spaventosa catastrofe che la storia ricordi. Quale città ha mai visto perire un milione e centomila uomini in quattro mesi e in un solo assedio? Questo è ciò che i Giudei hanno visto nell’ultimo assedio di Gerusalemme. Non c’è da stupirsi, quindi, che il vittorioso Tito non ricevesse le congratulazioni dei popoli vicini, né le corone che gli mandavano per onorare la sua vittoria. Tante circostanze memorabili, l’ira di Dio così marcata e la sua mano così presente, lo tenevano in un profondo stupore, ed è questo che gli fece dire che egli non era il vincitore, e che era solo un debole strumento della vendetta divina » (Bossuet, passim, ubi supra).  – Questi sono gli eventi memorabili con cui tutte le predizioni di Gesù sulla città e sul tempio si sono adempiute con sorprendente precisione. Cominciati verso la fine del regno di Nerone, finirono sotto Tito nell’anno 70, quando, senza dubbio, non era ancora passata la generazione che nell’anno della predizione, cioè della passione (33 d.C.), fu chiamata “questa generazione”, ἠ γενεά αὓτη – ghênea aute. Infatti, molti dei contemporanei di Gesù ne erano stati testimoni e molti di loro vi erano morti. Molti, dico, e non solo tra i convertiti al Cristianesimo, che una speciale disposizione della Provvidenza aveva portato in salvo, ma anche, a quanto pare, di quelli che, dopo il sacco della città, furono ridotti in servitù e portati in cattività per tutta la terra. Ancora tutte queste cose non possono essere messe in dubbio perché hanno la notorietà che le dà la grande luce della storia. Inoltre, esse non sono l’oggetto principale della dimostrazione da dare al momento, dato che riguardano ancora solo quella parte della profezia che abbiamo chiamato sopra dell’avanti scena o primo piano, dove il culmine della difficoltà e del dibattito. – Così ora dobbiamo venire a quello che guarda lo sfondo, il fondo della prospettiva: il sole oscurato, la luna senza luce, le stelle che cadono dal cielo, l’intero universo in sussulto, il Figlio dell’Uomo che viene nella sua maestà, i suoi Angeli che raccolgono i suoi eletti dai quattro venti, da un capo all’altro del cielo, e il resto che si riferisce indiscutibilmente all’ultimo giorno del mondo. Vogliamo dire, forse, che anche di tutto questo sia testimone oculare la stessa generazione? Pretendiamo che non sia passata senza che anche tutto questo abbia ricevuto il suo compimento? O, una volta ammesso, come deve essere, che sarebbe inutile cercare un altro significato ragionevole per “generatio hæc” rispetto a quello che è stato stabilito, dovremo forse concedere di buon grado o forzati alla scuola modernista la validità della parola “generatio hæc” che essa attribuisce come un errore a Gesù Cristo? La risposta a tutte queste domande è più semplice e più ovvia di quanto sembri; ma prima di entrare nella spiegazione che lo metterà nella giusta luce, notiamo attentamente i due modi in cui si dice che un evento profetizzato si sia realizzato, nello stile delle Scritture. In primo luogo, in se stesso, cioè nella propria realtà. In secondo luogo, prima di realizzarsi in sé, in un evento precursore, la sua immagine e la sua figura. È vero che questo secondo modo, poiché non è letterale e materiale come il primo, non cade così direttamente sotto i sensi, ma è forse, per tutto questo, meno fondato nella verità? Niente affatto. E questo per la ragione già indicata, che la figura come tale contiene già in qualche modo la cosa che rappresenta, e le dà una specie di esistenza anticipata: soprattutto se la figura e la cosa rappresentata sono state prima unite nell’unità della stessa profezia, e che, di conseguenza, la realizzazione esatta dell’una può essere concepita solo come infallibilmente legata alla realizzazione integrale e completa dell’altra. Non dobbiamo stupirci di vedere questo stesso modo comunemente ricevuto, ammesso e assunto dagli stessi scrittori sacri, non meno che dai loro interpreti più autorizzati. Isaia, per esempio, profetizza il parto della Vergine e lo dà ad Achaz e a tutta la casa di Davide come segno della protezione di Dio contro la cospirazione di Phaceo, re di Samaria, e Rasin, re di Siria. « Ascolta ora, o casa di Davide, egli dice – Dio stesso ti darà un segno: ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio e si chiamerà Emmanuele; ed egli mangerà panna e miele finché saprà gettare via il male e scegliere il bene; e prima che il bambino sappia gettare via il male e scegliere il bene, il paese di cui i due re ti spaventano, sarà devastato (Isaia, VII, 13-16). » Indubbiamente, qui si parla del Messia, colui che unirà a questo bel nome di Emmanuele gli altri non meno magnifici, elencati nel capitolo seguente, di mirabile consigliere, Dio forte, padre dell’eternità, principe della pace (Isaia, IX, 6). Ma cosa? Isaia credeva allora nell’adempimento immediato del suo oracolo, e quindi nella venuta immediata del Messia, per calcolare così l’età del meraviglioso bambino, nel tempo in cui la Giudea sarebbe stata liberata dall’attacco dei due re congiurati, e il paese nemico (Siria e Samaria, Damasco ed Efraim) devastato e distrutto? O forse dovremmo deviare dal loro significato naturale queste significative parole: Quia antequam sciat puer reprobare malum et eligere bonum, derelinquetur terra quant tu detestaris, a facie duorum regum suorum? Ma distinguiamo l’adempimento dell’oracolo nella persona del vero Emmanuele dal suo precedente adempimento nella persona dell’Emmanuele figurato. Perché qui c’è un altro bambino misterioso che sarà concepito, che nascerà, al quale sarà dato un nome simbolico, garantendo alla casa di Davide la liberazione dal pericolo di cui è minacciata, prima che sia giunto il tempo del primo balbettio del neonato. Questo è il bambino di cui il profeta dice qualche riga più sotto: “E mi avvicinai alla profetessa ed ella concepì e partorì un figlio. E il Signore mi disse: “Chiamalo Mecher-Shalal-Chasch-Baz, perché prima che il bambino possa gridare: “Padre mio, madre mia! … le ricchezze di Damasco e il bottino di Samaria saranno portati davanti al re. degli Assiri. Et dixit Dominas ad me: voca nomen ejus, accelera spolia detraheri. Quia antequam sciât puer vocare patrem suum et matrem suam, auferetur fortitudo Damasci, et spolia Samariœ coram rege Assyriorum (Isai. VIII, 3-4). “Ed in lui, in questo bambino, l’oracolo dell’Emmanuel il primo adempimento, un sicuro segno del secondo, che lo avrebbe avuto solo diversi secoli dopo, non più all’ombra di una figura questa volta, ma nella pienezza della realtà, « il Messia che egli (Isaia) annuncia in termini così magnifici, non deve apparire di persona se non più tardi, ma nascerà ora in figura; il mistero della sua nascita si svolgerà davanti ad un intero popolo per risvegliare la sua fede nella promessa. Nascerà così un figlio di Isaia, e il nome simbolico datogli prima del suo concepimento, segnerà la prossima devastazione di Damasco ed Efraïm, o, in un senso più alto l’inferno sconfitto e spogliato dal Messia. La madre di questo bambino si chiama profetessa, non perché è la moglie di un profeta, e si cercherebbe invano nella Bibbia un’analogia che giustifichi questo significato, ma perché essa profetizza effettivamente, con un parto che è l’immagine, molto cruda senza dubbio, del parto verginale di Maria » (Le Hir, Profeti d’Israele, sez. 1, art. 2). E sarebbe facile moltiplicare gli esempi di queste profezie con un doppio adempimento di cui la Scrittura abbonda (come la profezia di Malachia (IV, 5) sul ritorno di Elia, e quella del Salmo LXXI, sulle glorie del regno di Gesù Cristo, entrambe le quali dovevano realizzarsi una prima volta, l’una nella persona di Giovanni Battista (Matth., IX, 14, e XVII, 12), l’altra nella persona di Salomone, “tamquam in umbra et imagine veritatis“, secondo l’espressione di San Girolamo in Dan, c. XI), e strettamente legati come sono all’economia già esposta degli eventi figurativi, che la Sapienza divina ha destinato ad essere di epoca in epoca come tante prime rappresentazioni e attuazioni anticipate dei misteri della nostra Religione. Detto questo, dico ora che nella profezia di cui ci stiamo occupando, tutto ciò che si riferisce all’ultimo giorno del mondo ebbe senza difficoltà, nella rovina di Gerusalemme, e di conseguenza, prima che fosse passata la generazione contemporanea di Gesù, un primo adempimento del tipo di cui abbiamo appena parlato: un adempimento in forma di figura, senza dubbio, o, se volete, solo in effigie, ma sufficiente, secondo l’uso della Scrittura, ad autorizzare l’espressione, donec omnia fiant. Dico e ripeto che in questa stessa catastrofe si realizzarono come in un quadro vivente, ed una grandiosa rappresentazione delle cose, tutti i tratti dell’oracolo relativi alla consumazione dei secoli – cioè i segni nel sole, nella luna e nelle stelle furono rappresentati allora dagli straordinari prodigi che abbiamo riportato da Giuseppe e Tacito; che il raduno degli eletti da un capo all’altro della terra fu marcata dalla conservazione dei fedeli in rifugi sicuri, e separati dalla massa dei reprobi, che, rinchiusi all’interno delle mura della città, stavano per diventare la preda di tutte i flagelli uniti; che lo scuotimento, lo sconvolgimento di tutta la natura era la figura di questo disastro inaudito che, secondo testimonianze storiche, gettò Tito in uno stupore così profondo e lo fece inchinare davanti ad un agente misterioso, una forza superiore, una potenza irresistibile, per cui si diceva essere strumento irresponsabile ed involontario. E così, se Cristo, in questo spaventoso “finimondo” – per prendere in prestito dalla lingua italiana un’espressione che si adatta molto bene al nostro soggetto – non si è mostrato agli occhi del corpo con i suoi Angeli sulle nuvole del cielo nella gloria e nella maestà, la sua presenza, tuttavia, il suo intervento, la sua azione era così evidente che era sentito e riconosciuto dai pagani stessi, al punto da costringere l’imperatore romano, nel bel mezzo di una vittoria, a confessare che non era lui il vincitore, ma che ad un altro andavano le acclamazioni e le corone. Ora, queste semplici citazioni sarebbero già sufficienti a risolvere ogni difficoltà. Sì, è vero: tutto doveva essere realizzato, e tutto è stato compiuto in effetti, prima che fosse passata la generazione di allora, generatio hæc, fosse passata: tutto, compresa la parte della fine del mondo, nel modo che è stato spiegato, e che è in tutti i punti in accordo con quella che fa legge qui, cioè il linguaggio ricevuto e consacrato nella Scrittura. Non avremmo quindi che solo la lezione di San Luca, che dice tutto, senza aggiungere nulla, senza determinare nulla, senza specificare nulla: Amen dico vobis, non præteribit generatio hæc donec omnia fiant (XXI, 32), e saremmo autorizzati a concludere che Gesù aveva annunciato che dovevano accadere durante la vita della sua generazione, eventi che sarebbero stati almeno un’immagine ed una bozza profetica della catastrofe suprema; non saremmo in alcun modo giustificati nel dire che aveva predetto questa catastrofe, considerata in sé, come prossima. – Ma questa non è ancora che solo una prima risposta. Se non avessimo altro da opporre all’affermazione modernista, dovremmo rinunciare al vantaggio di ridurre l’avversario convincendolo della falsità, poiché è probabile che le considerazioni precedenti, per quanto vere e fondate possano essere, lo sfiorerebbero appena; inoltre, rimarrebbero completamente al di fuori della sua comprensione, essendo i dati su cui poggiano, di natura tale che non potrebbe ammetterli senza smentire o negare se stessi. Questo, dunque, è il difetto essenziale ed insanabile dell’esegesi razionalista che, non riconoscendo il carattere trascendente e senza pari della Scrittura, manca di tutti i criteri necessari per penetrarne i misteri. Ma in questo caso, non c’è bisogno di penetrare nei segreti chiusi al profano; basta seguire la critica sul suo stesso terreno, per mostrare che sta operando su testi troncati, e quindi distorti, cosa imperdonabile sempre e ovunque, ma in particolare a coloro che si vantano di una scienza così positiva, e fanno tanta mostra della loro documentazione rigorosa. Ecco la lezione di San Matteo e di San Marco, che, letta fino in fondo, chiarisce e spiega quella di San Luca, ed esclude apertamente, chiaramente, categoricamente la fine del mondo, considerata in sé, dal numero degli eventi annunciati come da compiersi nel corso della presente generazione. Ma, ripeto, deve essere letto nella sua interezza, senza separare il primo membro dal secondo, al quale si oppone, e dal quale dipende necessariamente, in virtù dell’opposizione che limita e circoscrive la comprensione del soggetto. Così leggiamo in San Matteo: Amen dico vobis, quia non præteribit gêneraito hæc donec omnia hæc fiant. Ma non è qua la pausa, non è questo il punto in cui dobbiamo fermarci, perché le parole, cœlum et terra transibunt, verba autem mea non præteribunt, che seguono immediatamente, sono solo una parentesi, dopo la quale viene subito la proposizione opposta, determinativa della prima: de die autem illo et hora nemo scit, neque angeli cœlorum, nisi solus Pater. La stessa cosa in San Marco, lo stesso contrasto, la stessa opposizione tra questa generazione, queste cose, e questo giorno, quest’ora. Questo dà, parola per parola, come traduzione dell’uno e dell’altro evangelista: « In verità vi dico che questa generazione non finirà finché tutte queste cose non saranno compiute; ma per quel giorno e quell’ora nessuno lo conosce, nemmeno gli Angeli del cielo, né alcuno, né altri che il Padre mio. » Se dunque la profezia contrappone, da un lato, questa generazione, queste cose, e dall’altro, quel giorno e quell’ora; se, inoltre, segna chiaramente il tempo in cui queste cose si compiranno, e si ricusa riguardo a quel giorno, dicendo che nessuno sa quando verrà, né gli Angeli del cielo, né il Figlio (come uomo, e di conoscenza comunicabile), ma il Padre solo; Se, infine, quel giorno e quell’ora sono visibilmente il giorno e l’ora della parusia, come tutto il seguito del discorso dimostra troppo bene, perché sia necessario, non dico dimostrarlo, ma addirittura affermarlo: Ma quale fronte ci porterà questo testo, che sostenga che le dichiarazioni di Gesù sulla prossimità della catastrofe, non lasciano spazio ad equivoci? « Qui – dice Bossuet in modo eccellente – ci sono due tempi ben marcati, hæc e illa, in greco come in latino, segnare due tempi opposti, uno più vicino, l’altro più lontano. Questa generazione vedrà tutte queste cose compiute: generatio hæc, omnia hæc, omnia ista. Ma per quel giorno, per quell’ora, de die autem ille et hora, nessuno lo sa. È come se avesse detto: “Vi ho parlato di due cose: della rovina di Gerusalemme e della rovina di tutto l’universo al giudizio, di cosa debba succedere nella generazione in cui viviamo, e di cui gli uomini viventi devono essere testimoni, ne segno il tempo e questa generazione non passerà finché non si sarà adempiuto. Questo è per l’evento che stiamo toccando. Ma per quanto riguarda il giorno, questo giorno in cui verrò a giudicare il mondo, nessuno ne sa niente, ed Io non devo rendervelo noto. È chiaramente indicato che la caduta di Gerusalemme era vicina, e la Chiesa doveva saperlo. Ma per quel giorno, quell’ultimo giorno in cui l’intero universo sarà in subbuglio, e il Figlio dell’Uomo verrà in persona, nessuno ne sa niente, non sappiamo se sia lontano o vicino, e il segreto è impenetrabile, e agli Angeli del cielo, e alla Chiesa stessa, benché venga insegnato dal Figlio di Dio (Bossuet, Meditazioni sul Vangelo, l’ultima settimana del Salvatore, 76° giorno). » E con questa sola osservazione, senza nemmeno contare nessuna delle ragioni precedenti, va in fumo l’intera costruzione modernista sul testo: Amen dico vobis, non præteribit generatio hæc, donec omnia haec fiant.

LA PARUSIA (3)

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (12)

G Dom. Jean de MONLÉON Monaco Benedettino

Il Senso Mistico dell’APOCALYSSE (12)

Commentario testuale secondo la Tradizione dei Padri della Chiesa

LES ÉDITIONS NOUVELLES 97, Boulevard Arago – PARIS XIVe

Nihil Obstat: Elie Maire Can. Cens. Ex. Off.

Imprimi potest:  Fr. Jean OLPHE-GALLIARD Abbé de Sainte-Marie

Imprimatur: LECLERC.

Lutetiæ Parisiorum die II nov. 194

Copyright by Les Editions Nouvelles, Paris 1948

Sesta Visione

L’ORA DELLA GIUSTIZIA

SECONDA PARTE

VITTORIA DEL CRISTO SULL’ANTICRISTO

Capitolo XIX – (1-21)

“Dopo di ciò udii come una voce di molte turbe in cielo, che dicevano: Alleluja: salute, e gloria, e virtù al nostro Dìo: perché veri e giusti sono i suoi giudizii, ed ha giudicato la gran meretrice, che ha corrotto la terra colla sua prostituzione, ed ha fatto vendetta del sangue dei suoi servi (sparso) dalle mani di lei. E dissero per la seconda volta: Alleluia. E il fumo di essa sale pei secoli dei secoli. E i ventiquattro seniori e i quattro animali si prostrarono, e adorarono Dio sedente sul trono, dicendo: Amen: alleluja. E uscì dal trono una voce, che diceva: Date lode al nostro Dio voi tutti suoi servi: e voi, che lo temete, piccoli e grandi. E udii come la voce di gran moltitudine, e come la voce di molte acque, e come la voce di grandi tuoni, che dicevano: Alleluia: poiché il Signore nostro Dio onnipotente è entrato nel regno. Rallegriamoci, ed esultiamo, e diamo a lui gloria: perché sono venute le nozze dell’Agnello, e la sua consorte sì è messa all’ordine. E le è stato dato di vestirsi di bisso candido e lucente. Perocché il bisso sono le giustificazioni dei Santi. E mi disse: Scrivi; Beati coloro che sono stati chiamati alla cena delle nozze dell’Agnello: e mi disse: Queste parole di Dio sono vere. E mi prostrai ai suoi piedi per adorarlo. Ma egli mi disse: Guardati dal farlo: io sono servo come te e come i tuoi fratelli, i quali hanno testimonianza di Gesù. Adora Dio. Poiché la testimonianza di Gesù è lo spirito di profezia. E vidi il cielo aperto, ed ecco un caval bianco, e colui che vi stava sopra si chiamava il Fedele e il Verace, e giudica con giustizia, e combatte. I suoi occhi erano come fiamma di fuoco, e aveva sulla testa molti diademi, e portava scritto un nome, che nessuno conosce se non egli. Ed era rivestito d’una veste tinta di sangue: e il suo nome si chiama Verbo di Dio. E gli eserciti, che sono nel cielo, lo seguivano sopra cavalli bianchi, essendo vestiti di bisso bianco e puro. E dalla bocca di lui usciva una spada a due tagli, colla quale egli percuota le genti. Ed egli le governerà con verga di ferro: ed egli pigia lo strettoio del vino del furore dell’ira di Dio onnipotente. Ed ha scritto sulla sua veste e sopra il suo fianco: Re dei re e Signore dei dominanti. E vidi un Angelo che stava nel sole, e gridò ad alta voce, dicendo a tutti gli uccelli che volavano per mezzo il cielo: Venite, e radunatevi per la gran cena di Dio: per mangiare le carni dei re, e le carni dei tribuni, e le carni dei potenti, e le carni dei cavalli e dei cavalieri, e le carni di tutti, liberi e servi, e piccoli e grandi E vidi la bestia, e i re della terra, e i loro eserciti radunati per far battaglia con colui che stava sul cavallo, e col suo esercito. E la bestia fu presa, e con essa il falso profeta, che fece davanti ad essa, prodigi, coi quali sedusse coloro che ricevettero il carattere della bestia, e adorarono la sua immagine. Tutti e due furono gettati vivi nello stagno di fuoco ardente per lo zolfo: e il restante furono uccisi dalla spada di colui che stava sul cavallo, la quale esce dalla sua bocca: e tutti gli uccelli si sfamarono delle loro carni.”

§ 1 – Azioni di grazia della Chiesa trionfante e della Chiesa militante.

La condanna dei servi del mondo, menzionata nel capitolo precedente, sarà controbilanciata all’ultimo giudizio dalla gioia di tutti coloro che si vedranno al sicuro dalle pene dell’inferno. Mentre i re ed i mercanti della terra piangeranno, mentre diranno “” davanti al crollo delle loro ricchezze, delle loro ambizioni, della loro vita di piacere, gli abitanti del cielo canteranno: Alleluia, una parola intraducibile, destinata proprio da questo fatto a far capire che la felicità degli eletti supera ogni linguaggio umano. Essi proclameranno la loro gratitudine al Dio che ha riservato loro una tale ricompensa e una tale gioia: « A Lui – diranno – appartiene tutto il merito della nostra salvezza, perché senza di Lui non avremmo potuto fare nulla; è Lui che è degno di tutta la gloria per le opere meravigliose che ha compiuto attraverso la sua Parola; è Lui solo che ha abbattuto l’inferno con la sua potenza. Rendiamo grazie a Lui, perché i suoi giudizi sono veri e giusti. Egli ha mantenuto fedelmente le promesse fatte a coloro che avrebbero ascoltato i suoi comandamenti, così come ha applicato senza debolezza i castighi con cui aveva minacciato i trasgressori della sua Legge. Così la sua condanna contro la grande prostituta è sovranamente giusta, e questo per due ragioni: perché l’esempio dei suoi disordini aveva corrotto tutta la terra, e perché aveva versato il sangue dei Santi con le sue stesse mani. » – E dissero di nuovo: Alleluia, per mostrare che la lode di Dio sarà continuamente rinnovata ed eterna, come il fumo che sale dal fuoco dove si consuma Babilonia, e cioè come la punizione dei dannati, sarà eterna. Questa opposizione tra una felicità ed una disgrazia che non avrà fine è un invito a fare tutto il possibile per meritare la prima, ed evitare la seconda. E i ventiquattro vegliardi, cioè i Padri dell’Antico e del Nuovo Testamento, i dodici Profeti ed i dodici Apostoli, si prostrarono con la faccia a terra, ed i quattro animali, che rappresentano – come abbiamo già visto – tutti i predicatori del Vangelo; e tutti insieme adorarono Dio che siede sul suo trono, in mezzo alla Chiesa trionfante, dicendo: Amen, Alleluia: Amen, per indicare il loro assenso ai giudizi pronunciati da Dio; Alleluia, perché non potevano reprimere la gioia di cui il loro cuore traboccava. Queste due parole, come ha osservato Sant’Agostino, riassumono tutta l’occupazione dei beati: la prima esprime la continua meraviglia della loro intelligenza alla presenza dell’ineffabile e sempre nuova Verità, che brilla davanti a loro; la seconda, l’entusiasmo del loro cuore davanti al possesso di un tale bene. Allora – scrive questo grande Dottore, – contempleremo la Verità senza minimamente annoiarci, e con una felicità che non verrà mai meno; noi la vedremo in uno splendore che non lascerà spazio ad alcun dubbio. Inoltre, pieni d’amore per questa medesima Verità, ci attaccheremo intimamente ad essa, l’abbracceremo, per così dire, per darle un bacio tanto dolce quanto casto e spirituale; e, con una voce non meno felice, loderemo Colui che è la Verità stessa, cantando: Alleluia. Sì, nel trasporto della loro gioia e nell’ardore della carità che li infiammerà gli uni per gli altri e soprattutto per Dio, tutti gli abitanti di questa Città benedetta saranno spinti a lodare Dio con lo stesso amore e ripeteranno: Alleluia, e si ripeteranno: Amen (Sermone 362; della Risurrezione dei morti). Dopo queste acclamazioni dei beati, San Giovanni udì una voce proveniente dal trono. Questa voce si rivolgeva agli abitanti della terra e diceva loro: Cantate la gloria di Dio, voi che siete i suoi servi, voi che lo temete, grandi e piccoli. Perché sono degni di lodare Dio, solo questi che vivono secondo i suoi comandamenti, che temono di offenderlo. Dio non accetta la lode dei peccatori, che cantano la sua gloria con le labbra, ma il cui cuore è corrotto. Al contrario, Egli ascolta con piacere i canti dei suoi servi, non solo quelli dei grandi, cioè dei Dottori, delle anime favorite da grazie speciali, ma anche quelli dei piccoli, degli ignoranti e dei semplici. Allora il concerto degli eletti si alzò di nuovo nel cielo, come il rumore delle grandi acque ed il fragore del tuono. Queste espressioni hanno lo scopo di farci capire che siamo ancora sulla terra l’eccellenza della lode divina, di quell’« opera di Dio » che San Benedetto ha posto al centro della sua Regola, e alla quale ha voluto che « nulla vi fosse preferito ». San Giovanni la paragona alle grandi acque per l’effetto purificatore che ha sulle anime che vi si dedicano con devozione, e che vi si immergono come in un diluvio di grazia; e al fragore del tuono per la paura che ispira al diavolo.

§ 2 – Motivi di gioia per i Santi.

I beati cantarono di nuovo: Alleluia, perché il Signore nostro Dio ha stabilito il suo regno. Sulla terra, infatti, non si può dire che Dio regni veramente. Sebbene sia presente in tutte le cose con la potenza, come dicono i teologi, non esercita questo potere ovunque; sospende costantemente la sua azione per rispettare la libertà umana, dando così a ciascuno la possibilità di meritare o demeritare; ed è per questo che tollera il male, il peccato, l’attività del demonio. Nella vita futura, al contrario, Egli stabilirà il suo regno, perché permetterà a questa stessa potenza di avere il suo pieno effetto, e questo potere, avvolgendo gli eletti, li proteggerà da tutto ciò che potrebbe danneggiarli. In questo capitolo, notiamo che la parola “Alleluia” è usata quattro volte. I santi dottori che hanno commentato l’Apocalisse non hanno pensato che questo fosse invano: vi hanno visto un’allusione ai quattro motivi principali che i beati avranno per lodare Dio, e che l’autore indica discretamente dicendo che Egli è il Signore, il nostro Dio onnipotente. Infatti, dobbiamo lodarlo perché è il Signore, cioè il Creatore, al quale dobbiamo la nostra vita; perché è Dio, la somma di tutti i beni, l’unico oggetto capace di calmare l’ansia del nostro cuore; perché si è degnato di farsi Nostro, nel mistero dell’Incarnazione e nella Santa Eucaristia; perché, infine, Egli è onnipotente, e solo Lui può strapparci dalla morsa del diavolo, dall’abisso della morte e del peccato, per condurci alla gloria eterna. « Abbandoniamoci dunque alla gioia più completa – cantavano gli eletti – e rendiamogli gloria per tutti i beni che si è degnato di concederci, per la vittoria che ci ha permesso di ottenere con lui, per tutta la felicità di cui ci inonda: poiché è arrivato il giorno delle nozze dell’Agnello, e la sua sposa si è adornata con i suoi abiti; ha messo da parte i vizi dell’uomo vecchio, si è rivestita non dei propri meriti, ma con i doni che Dio le ha dato, per andare a Lui. Essa ha ricevuto, per coprirsi e per piacere al suo Sposo, una veste di puro lino lucente e ouro. » Il lino rappresenta le giustificazioni dei santi: per sua natura, infatti, questa pianta è color terra, ma molteplici lavaggi e manipolazioni la portano gradualmente ad un candore immacolato; allo stesso modo l’anima dei Santi, come quella degli altri uomini, nasce con il colore terroso del peccato originale e della concupiscenza: ma a poco a poco, le prove e gli esercizi della vita spirituale la portano ad una purezza senza macchia, scintillante di carità  Mentre i Santi continuavano i loro inni di gioia, San Giovanni vide un Angelo davanti a sé, che gli disse: Scrivi: Beati coloro che sono stati invitati alle nozze dell’Agnello, come per dire: « incidi profondamente nel tuo cuore, e in quello dei fedeli che ti ascoltano, questa verità, che la vera felicità non appartiene ai ricchi, non ai sani, non ai potenti di questo mondo; ma a coloro che una vita pura rende degni di essere chiamati un giorno a quelle nozze ineffabili, dove l’anima è unita a Dio per l’eternità! » E il messaggero celeste aggiunse, per sottolineare ancora di più l’importanza di ciò che aveva appena detto: « Queste parole di Dio sono assolutamente vere. » San Giovanni, pieno di gratitudine, cadde ai piedi dell’Angelo, come se avesse voluto adorarlo. Ma l’Angelo lo fermò immediatamente: « Guardati dal fare questo – disse – io sono solo un servo, come te, come tutti i tuoi fratelli che testimoniano Gesù con la loro fede e le loro opere. » Parlando così, l’Angelo rende omaggio non solo alla dignità dell’Apostolo, ma a quella della natura umana in generale. Dice: Io sono un servo, come te, perché gli Angeli e gli uomini non hanno che un solo Signore, Gesù Cristo. Nell’Antico Testamento gli Angeli permisero talvolta agli uomini di prostrarsi davanti a loro, per rendere loro il culto di dulia a cui hanno diritto; come, per esempio, quello che apparve a Giosuè, davanti alla città di Gerico (Jos., V, 15): ma dopo il compimento del mistero dell’Incarnazione, da quando la natura umana si è seduta alla destra di Dio, sul trono stesso della Sua Maestà, nella persona di Cristo, non lo permettono più, per rispetto alla Santissima Umanità del nostro Salvatore. Perciò colui di cui ci occupiamo aggiunge, sempre rivolgendosi a San Giovanni: « Adora Dio, che solo è degno di  esserlo, e non me, perché lo spirito di profezia di cui sei animato costituisce, per te e per coloro che ti conoscono, una sicura garanzia che tu sei un figlio di Dio come Gesù stesso. »

§ 3 – Il Verbo di Dio.

In una seconda scena di questa stessa visione, San Giovanni assiste alla condanna della Bestia. Lo riferisce qui, ma insiste soprattutto sull’ammirazione suscitata in lui dalla vista di Colui che ha trionfato su di esso, cioè il Salvatore. Il cielo si aprì ai suoi occhi, per permettere alla sua intelligenza di penetrare più profondamente nel segreto dei misteri divini, e gli apparve un cavallo bianco. Abbiamo già incontrato questa figura nella visione dei sette sigilli (Cap. VI, 2), e abbiamo detto allora che era il simbolo dell’Umanità immacolata di Cristo, che era come montato del Verbo, durante il suo soggiorno sulla terra. Il cavaliere portato da questo cavallo era chiamato Fedele e Verace. Nostro Signore fu davvero il modello di fedeltà sia verso suo Padre, perché eseguì perfettamente tutte le sue volontà, sia verso gli uomini, perché non mancò mai di mantenere le promesse che fece loro. Egli è sovranamente verace, al contrario degli altri uomini che sono tutti bugiardi, come insegna il Profeta reale (Ps. CXV, 11). Mai nessuna considerazione lo ha fatto deviare dalla pura verità, mai ha chiamato male ciò che è bene, né bene ciò che è male. Giudica con giustizia e combatte per i suoi amici. I suoi occhi sono come la fiamma del fuoco: quando si fermano su un’anima, il loro sguardo consuma la ruggine del peccato in essa, scioglie il ghiaccio del suo cuore, la illumina sulla via da seguire e la infiamma con l’ardore della carità. – Il Salvatore portava molti diademi sulla sua testa, che rappresentano le molte vittorie che ha riportato sul diavolo, sul mondo, sui suoi nemici. Egli è dotato di un potere a cui nulla può resistere, perché porta, inciso sul suo Essere, il nome di Gesù, in cui Dio ha condensato tutta la sua misericordia; quel Nome che è al di sopra di tutti i nomi, e la cui saggezza, dolcezza e potenza nessuno conosce tranne Egli stesso. Era vestito con una veste colore del sangue; questa veste è la carne umana di cui la divinità si coprì nel mistero dell’Incarnazione, e che fu immersa, reimmersa, rotolata e rivoltata nel suo stesso sangue al momento della passione. Eppure, questo diluvio di dolore, oppressione e sofferenza non ha offuscato nemmeno per un momento la meravigliosa brillantezza del Nome con cui deve essere designato, cioè quello del Verbo di Dio.

§ 4 – Cristo e il suo esercito entrano in campo.

Dietro di Lui andò l’esercito dei martiri e di tutti coloro che sono nel cielo, non solo quelli che vi regnano, ma anche quelli che vi vivono già con i loro desideri, e che combattono agli ordini di Cristo con le armi della povertà, dell’umiltà e della carità. Lo seguirono, montati su cavalli bianchi e vestiti di puro lino bianco. I cavalli bianchi simboleggiano la castità dei loro corpi, il lino designa la giustizia con cui sono adornati, secondo la spiegazione che abbiamo dato sopra. Il candore esprime la cura con cui i Santi si guardano da ogni errore nel campo della fede; la sua purezza, quella con cui evitano i minimi moti della concupiscenza. Dalla bocca di Cristo uscì una spada affilata su entrambi i lati. Questa immagine non deve essere presa in un senso materiale, come se Nostro Signore si fosse realmente mostrato all’Apostolo con una spada tra i denti. Essa rappresenta in forma simbolica la parola che esce dalla bocca del Salvatore, e la paragona ad una spada affilata, perché questa parola ha un meraviglioso potere di tagliare ciò che è superfluo, di separare il bene dal male, di uccidere i vizi, e di penetrare anche i pensieri più segreti e raggiungere la divisione dell’anima e dello spirito.  Essa è affilata sui due lati, perché colpisce i buoni e i cattivi: i buoni per potarli, i cattivi per punirli e staccarli dal Corpo Mistico di Gesù Cristo. Essa raggiungerà tutte le nazioni, perché da un lato Nostro Signore vuole e cerca veramente la salvezza di tutti gli uomini, e dall’altro non c’è nessuno che possa sfuggire alla Sua giustizia. Egli li governerà con una regola di ferro: perché, anche per i migliori, la legge di Dio è inflessibile. Non permette che si trascuri nemmeno il più piccolo iota dagli obblighi che impone; tutte le infrazioni saranno materia di punizione se non sono state cancellate dalla penitenza. Senza dubbio, la misericordia di Dio è infinita; fornisce a ciascuno mezzi di salvezza sovrabbondanti, è pronta a perdonare i più grandi crimini; ma non va mai contro la giustizia. Nessuno può approfittare della bontà di Dio col disprezzare i suoi comandamenti o per trascurare qualcuno dei doveri che è tenuto a rendergli. È in questo senso che si dice qui che Cristo ci governerà con una regola di ferro. Ed ha il diritto di farlo: da un lato, perché ha assunto su di sé i rigori della giustizia divina, e dall’altro, perché è il Re dei re. Nella sua passione e risurrezione, ha calpestato il torchio dell’ira del furore di Dio onnipotente; queste espressioni ripetute hanno lo scopo di farci capire che il castigo meritato dai peccati del mondo è una cosa terribile: Dio, in vista di essi, sembra dimenticare ogni misura e comportarsi come un uomo violento che viene stravolto dall’ubriachezza. Ma Nostro Signore, subendo senza debolezza l’uragano di questa collera, trionfando sulla morte e sul diavolo, ha messo, per così dire, i diritti della giustizia divina sotto i suoi piedi. Ha pagato il debito di tutto il genere umano, ed è per questo che ora appartiene a Lui giudicare tutti gli uomini. È anche perché Lui è il Re dei re e il Signore dei signori. Invano i Giudei rifiutarono di riconoscere la sua regalità: Egli porta questo titolo scritto nella stessa trama della sua veste ed inciso sulla sua carne; la sua dignità di Re universale aderisce alla sua Umanità con la stessa forza della divinità, così che nulla può diminuire il suo diritto di governare tutte le creature e di ricevere i loro omaggi, come il profeta aveva annunciato: I re di Tarso e delle isole gli offriranno dei doni, i re d’Arabia e di Saba gli porteranno dei doni. E tutti i re della terra lo adoreranno, e tutte le nazioni gli saranno soggette (Ps. LXXI, 10, 11). – Dopo aver così contemplato il Salvatore nella sua potenza, Giovanni vide un Angelo in piedi nel sole, personificando con ciò i predicatori che annunciano coraggiosamente il Vangelo, aureolati con il fulgore della verità e come inondato dalla luce del Cristo. Questi gridò ad alta voce, cioè parlò liberamente, apertamente e senza paura, e diceva a tutti gli uccelli che volavano in mezzo al cielo: “Venite, radunatevi intorno alla grande cena di Dio“. Queste parole sono veramente rivolte ai veri discepoli di Gesù Cristo, a coloro che si elevano al di sopra delle cose terrene e che prendono il loro modello da quegli uccelli che Nostro Signore ha proposto come esempio; a quegli uccelli che non seminano né filano, che non si preoccupano di ammassare denaro, ma che si affidano interamente al Padre che è nei cieli (Mt., VI, 26). Questi, quando il Signore li chiama, non esitano a dire: Mi scusi, ho comprato una villa, o: ho comprato cinque paia di scarpe, o: mi sono appena sposato e non posso venire (Lc., XIV, 18-20). Essi vivono più in alto di queste preoccupazioni umane; il loro cuore, sollevato sulle ali delle virtù, va incessantemente per il centro del cielo, cercando, con la Sposa del Cantico, tra i cori angelici e le schiere dei Santi, Colui che la loro anima ama (Cant., III, 2, 3). Ecco perché il divino Maestro li invita alla grande cena di Dio, alla festa delle nozze eterne. E li invita a trarre da questo pensiero lo zelo e la forza di cui hanno bisogno per mangiare la carne dei re, nel senso in cui a San Pietro fu comandato di mangiare i serpenti e gli animali impuri che gli furono mostrati in visione e che erano la figura dei Gentili (Atti. X.); vale a dire, per portarli nella Chiesa, per incorporarli a Cristo. Essi non dovranno trascurare nessuno: si attaccheranno ai re, ai tribuni, cioè gli uomini che hanno autorità sugli altri; ai potenti, che hanno la forza materiale nelle loro mani; ai cavalli, cioè quei personaggi generosi e impetuosi pronti a dedicarsi e a mettersi al servizio di individui che li sanno sfruttare, che qui sono rappresentati da coloro che li cavalcano; si attaccheranno agli uomini liberi, che si ritengono liberi dalla legge di Dio, e a quelli che sono schiavi del peccato; ai piccoli e ai grandi.

§ 5 – Sconfitta e dannazione dell’Anticristo.

Mentre i giusti si preparavano alla battaglia, vidi – continua l’autore sacro – la Bestia e i re della terra, cioè l’Anticristo e i suoi luogotenenti, riuniti nel loro esercito, per ingaggiare battaglia contro Colui che cavalcava il cavallo bianco e l’esercito dei suoi discepoli. E la Bestia fu sottomessa, catturata ed incatenata; e con lui tutta la compagnia degli pseudo-profeti, che avevano fatto miracoli nel suo nome, per ingannare gli uomini affinché accettassero di portare il segno della Bestia ed adorare la sua immagine, per strapparli alla fede cattolica e portarli sulla via del peccato. Entrambi, cioè l’Anticristo e i suoi profeti, saranno gettati vivi nel lago di fuoco di zolfo ardente, e puniti in modo particolarmente severo, a causa della gravità dei loro crimini. Quanto agli altri, quelli che li avevano seguiti, sebbene la loro colpa fosse minore, tuttavia furono puniti con la dannazione eterna, dal giudizio di Cristo; e tutti gli uccelli furono saziati della loro carne, tutti i giusti applaudirono la loro punizione.

TERZA PARTE

IL CASTIGO DEL DEMONIO

Capitolo XX (1- 15)

“E vidi un Angelo che scendeva dal cielo, e aveva la chiave dell’abisso, e una grande catena in mano. Ed egli afferrò il dragone, il serpente antico, che è il diavolo e satana, e lo legò per mille anni, e lo cacciò nell’abisso, e lo chiuse e sigillò sopra di lui, perché non seduca più le nazioni, fino a  tanto che siano compiti i mille anni: dopo i quali deve essere sciolto per poco tempo. E vidi dei troni, e sederono su questi, e fu dato ad essi di giudicare : e le anime di quelli che furono decollati a causa della testimonianza di Gesù, e a causa della parola di Dio, e quelli i quali non adorarono la bestia, né la sua immagine, né ricevettero il suo carattere sulla fronte o sulle loro mani, e vissero e regnarono con Cristo per  mille anni. Gli altri morti poi non vissero, fintantoché siano compiti i mille anni. Questa è la prima risurrezione. Beato e santo chi ha parte nella prima risurrezione : sopra di questi non ha potere la seconda morte: ma saranno sacerdoti di Dio e di Cristo, e regneranno con lui per, mille anni. E compiti i mille anni, satana sarà sciolto dalla sua prigione, e uscirà, e sedurrà le nazioni che sono nei quattro angoli della terra, Gog e Magog, e le radunerà a battaglia, il numero delle quali è come la rena del mare. E si stesero per l’ampiezza della terra, e circondarono gli accampamenti dei santi e la città diletta. E dal cielo cadde un fuoco (spedito) da Dio, il quale le divorò: e il diavolo, che le seduceva, fu gettato in uno stagno di fuoco e di zolfo, dove anche la bestia, e il falso profeta saranno tormentati dì e notte pei secoli dei secoli. E vidi un gran trono candido, e uno che sopra di esso sedeva, dalla vista del quale fuggirono la terra e il cielo e non fu più trovato luogo per loro. E vidi i morti grandi e piccali stare davanti al trono; e si aprirono i libri: e fu aperto un altro libro che è quello della vita: e i morti furono giudicati sopra quello che era scritto nei libri secondo le opere loro. E il mare rendette i morti che riteneva dentro di sé: e la morte e l’inferno rendettero i morti che avevano: e si fece giudizio di ciascuno secondo quello che avevano operato. E l’inferno e la morte furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte. “E chi non si trovò scritto nel libro della vita, fu gettato nello stagno di fuoco.”

§ 1 – La prima sconfitta del Diavolo.

E vidi – dice – un Angelo che scendeva dal cielo, cioè Cristo che veniva, per così dire, dal seno di Suo Padre e scendeva sulla terra attraverso il mistero dell’Incarnazione. Egli teneva in mano, cioè a libera disposizione della Sua Santissima Umanità, la chiave dell’abisso, quella chiave che il profeta Isaia Lo aveva visto portare sulla sua spalla, e che non è altro che la Sua croce; una chiave che Gli permette di aprire senza che nessuno possa chiudere, e di chiudere senza che nessuno possa aprire (Is., XXII, 22): cioè di trarre fuori dalle grinfie dell’inferno chi gli piace, e di rinchiudere il diavolo al contrario, per impedirgli di fare del male come vorrebbe. Teneva anche una grande catena, segno del potere che ha di legare eternamente i buoni alla sua gloria e i malvagi ai loro supplizi. Per mezzo di questo potere si impadronisce del drago, l’antico serpente che è anche il diavolo e satana: questi diversi epiteti sono destinati a manifestare i caratteri nefasti dello stesso personaggio: egli è forte come un drago, astuto come un serpente, esperto come uno che ha osservato gli uomini fin dalla più remota antichità; è il diavolo, cioè colui che per primo è uscito dall’unità, per introdurre nel mondo la dualità e, quindi, il disordine; è infine satana, parola che significa l’avversario, e quindi il nemico per essenza di ogni bene. – E lo ha legato per mille anni: con la sua Passione, Nostro Signore ha infatti, per così dire, legato il diavolo, lo ha messo fuori dallo stato di nuocere, indubbiamente non in modo assoluto, ma almeno per quanto questo spirito impuro vorrebbe. Egli ci ha dato nella sua dottrina, nei suoi esempi, nei suoi sacramenti, dei mezzi infallibili per trionfare su di lui, se siamo disposti a farne uso. Questo è per mille anni, cioè fino alla fine del mondo, fino al regno dell’Anticristo, che precederà di poco il secondo avvento del Salvatore. Questo numero di mille anni è dunque da prendere, come molti altri nel libro dell’Apocalisse, in senso simbolico e non a rigor di termini: esso significa la durata che deve intercorrere tra la Passione del Salvatore, dove il diavolo fu incatenato, e l’avvento dell’Anticristo, dove egli riceverà nuovamente una maggiore libertà di esercitare la sua malvagità, come sarà detto nei versetti seguenti. Se questo periodo è designato da un numero simbolico, è perché la sua durata esatta deve rimanere sconosciuta agli uomini e persino agli Angeli – dice nostro Signore – fino alla fine dei tempi; è anche perché rappresenta, nel piano divino, qualcosa di perfetto, poiché mille è per lo scrittore sacro il numero perfetto per eccellenza. Il Salvatore, dunque, dopo averlo legato saldamente, lo gettò nell’abisso: lo ha lasciato libero solo di regnare sui cuori degli uomini malvagi che non vogliono credere in Lui; lo ha rinchiuso entro limiti ristretti, per il potere delle chiavi lasciate in eredità alla Sua Chiesa; lo ha sigillato sotto il segno della croce, che permette a tutti i Cristiani di trionfare su di lui quando vogliono; affinché non ingannasse più le nazioni, né si facesse adorare con riti sacrileghi sotto i nomi di Giove, Apollo o Venere, finché non si fossero consumati i mille anni, cioè fino agli ultimi giorni del mondo. Perché in quel tempo deve, per volontà di Dio, essere sciolto di nuovo per un po’ di tempo, il tempo in cui l’Anticristo trionfante dominerà tutta la terra, per tre anni e mezzo. Perché Dio permetterà allora questo scatenamento delle forze del male? Per quanto possiamo scandagliare i misteriosi disegni della Sua Sapienza, possiamo discernere almeno due ragioni per questo: la conversione dei tiepidi, il fiorire di un’alta santità. Se Dio, già tante volte, nel corso della storia del mondo, ha permesso a uomini pieni di vizi, di inganno, crudeltà, orgoglio e menzogna di diventare padroni dei popoli e di soddisfare i loro istinti criminali sull’umanità, è prima di tutto per far uscire dalla loro apatia spirituale la massa di coloro che vivono alla giornata, senza mai guardare alla loro eternità; È così che, presi dalla paura o dal dolore per il trionfo dell’ingiustizia, per la minaccia di morte, per la perdita di tutto ciò che era la loro ragione di essere quaggiù, possano tornare al Dio che avevano abbandonato, al Dio che è il loro Padre e il Padre delle misericordie; così che possano cercare rifugio e protezione presso di Lui, e accettare dalla sua mano quelle penitenze necessarie che non avrebbero mai acconsentito a imporsi da soli. Ma è anche – dice San Paolo – per mostrare le ricchezze della sua gloria verso i vasi di misericordia che ha preparato per la sua gloria (Rom., IX, 23.), è per modellare a suo agio questi vasi purissimi, queste anime privilegiate, che non prendono l’alta perfezione della loro forma, i loro colori, la loro brillantezza che nel crogiolo della tribolazione. Senza persecutori, non ci sarebbero stati martiri e la Chiesa sarebbe stata privata dei più bei gioielli della sua corona. La fine dei tempi vedrà dunque l’emergere di una falange di uomini e donne santi, sotto la violenza della persecuzione, che non sarà inferiore a quella dei primi secoli del Cristianesimo.

§ 2 – Il regno dei mille anni.

Tuttavia, all’annuncio di queste terribili eventualità, non ci lasciamo andare ad un vivo timore. Questa terribile persecuzione durerà solo per poco tempo. Nostro Signore stesso ci promette che i giorni saranno accorciati a causa degli eletti. E fino ad allora, la Chiesa avrà conosciuto, dalla vittoria del suo Fondatore, una pace molto apprezzabile, di cui San Giovanni abbozza un’immagine dicendo: “Ed io vidi – mentre il drago era legato – la pace di cui godevano sia la Chiesa militante che la Chiesa trionfante: E vidi delle sedi sulla terra, cioè le sedi episcopali della cristianità, che, raggruppate gerarchicamente intorno a quella di Roma, costituiscono l’armatura della Chiesa. E su queste sedi sedettero degli uomini ai quali Dio diede il potere di giudicare. Perché la Sua saggezza assiste i Vescovi in modo molto speciale nell’insegnamento e nel governo del popolo fedele. Ho visto, invece, in cielo, le anime di tutti coloro che sono stati torturati per aver dato testimonianza a Gesù Cristo, per aver riconosciuto in Lui il Salvatore del mondo e confessato che Egli era il Verbo di Dio; di coloro che non hanno voluto adorare la Bestia, cioè l’Anticristo, né la sua immagine, cioè i suoi ritratti o le sue statue; o piuttosto, in senso figurato, né le sue creature, che lo rappresentano a capo di paesi, province o città; ho visto le anime di coloro che hanno rifiutato di ricevere il suo sigillo sulle loro mani, cioè di imitare le sue opere, né sulla loro fronte: Questo suggerisce che l’Anticristo avrà la pretesa di imporre ai suoi sudditi un rito simile a quello del Battesimo, dove i nuovi Cristiani sono segnati sulla fronte con il sigillo di Gesù Cristo. Tutti questi servi che rimasero fedeli a Dio nonostante le persecuzioni, morirono, è vero, agli occhi degli uomini: ma, in realtà, appena varcarono le porte dell’altro mondo, trovarono, nell’unione delle loro anime con il loro Creatore, una nuova vita molto più perfetta di quella di questo mondo. E regnarono mille anni con Cristo. Queste ultime parole richiedono qualche spiegazione, perché è su di esse che si è innestata la dottrina nota come millenarismo; una dottrina rifiutata dalla Chiesa per secoli, e che tuttavia vede, di tanto in tanto, sorgere nuovi campioni in suo favore, sotto il pretesto fallace di avere dalla loro parte l’opinione di diversi Padri autenticamente ortodossi. I suoi sostenitori, i millenaristi, chiamati anche chiliasti, sostengono che molto prima del giorno della risurrezione generale, i giusti riprenderanno i loro corpi, e così risorti, regneranno mille anni su questa terra, nella Gerusalemme restaurata, con Cristo. Poi verrà l’ultima rivolta di satana, il combattimento supremo condotto contro la Chiesa da Gog e Magog, lo schiacciamento dei ribelli da parte di Dio, e infine la resurrezione universale seguita dal Giudizio Universale. Ci sarebbero quindi due resurrezioni successive, separate da un intervallo di mille anni: prima quella dei Martiri, poi quella del resto dell’umanità. La teoria del millenarismo aveva le sue radici nella letteratura giudaica, che era sempre ossessionata dall’idea di un Messia che regnasse gloriosamente sulla terra. Fu ripresa ai tempi di San Giovanni dall’eresiarca Cerinto, ed è vero che nei secoli II e III dell’era cristiana, alcuni Padri, e non dei più infimi, la adottarono in forme diverse e più o meno attenuate. Tra questi possiamo citare San Giustino, Sant’Ireneo, Tertulliano, ecc. – Ma il sentimento di questi scrittori non può in alcun modo essere considerato come rappresentante la credenza della Chiesa: perché la testimonianza di diversi Padri sia considerata come l’espressione della Tradizione cattolica, è necessario, dicono i teologi, « che non sia contestata da altri ». (Cfr. per esempio Hurler, Theologia dogmatica, T. I, Tract. II, Tesi XXVI); Questa condizione non esiste nel presente caso: già San Giustino riconosceva che la teoria millenarista era lontana dall’essere accettata da tutti; Origene la rimproverava e la chiamava sciocchezza giudaica. San Girolamo è deliberatamente in contrario con essa: « Noi – scrive – non ci aspettiamo, secondo le favole che i Giudei decorano con il nome di tradizioni, che una Gerusalemme di perle e d’oro scenda dal cielo; non dovremo sottometterci di nuovo all’ingiuria della circoncisione, offrire montoni e tori come vittime e dormire nell’oziosità del sabato. Ci sono troppi dei nostri che hanno preso sul serio queste promesse, in particolare Tertulliano, nel suo libro intitolato: La speranza dei fedeli; Lattanzio, nel suo settimo libro delle Istituzioni; il vescovo Vittoriano di Pettau, in numerose dissertazioni e, recentemente, il nostro Sulpizio Severo nel dialogo a cui ha dato il nome di Gallus. Per quanto riguarda i greci, mi limiterò a citare il primo e l’ultimo, Ireneo e Apollinare (Commento al profeta Ezechiele, L. XI. Bareille, vol. VII, col. 311a). – Sant’Agostino si pronuncia nello stesso senso: se all’inizio mostra qualche esitazione, lo vediamo poi, nella Città di Dio, condannare chiaramente il chiliasmo, e questa opinione è quella che prevale ormai, tanto in Oriente che in Occidente, nella Chiesa. Dal quarto secolo in poi, non si trova alcuno scrittore cattolico degno di considerazione che difenda il millenarismo, e il sentimento unanime dei teologi, tra i quali spiccano San Tommaso e San Bonaventura, lo rifiuta risolutamente (Cfr. su questo argomento: Franzelin, De divina traditione, tesi XVI, p. 186): « senza dubbio, nel Medioevo – scrive padre Allô –  Gioacchino de Flore ora e la sua scuola insegnavano una dottrina che era una specie di semi-millenarismo spirituale, ma che non deve essere confusa con l’antico chiliasmo. Quest’ultima è rimasta solo tra alcuni luterani o in oscure sette protestanti; pochissimi esegeti cattolici si prendono ancora la briga di rinnovarla in una forma attenuata e conciliabile con l’ortodossia. Sebbene il Chiliasmo non sia stato ritenuto un’eresia, il sentimento comune dei teologi di tutte le scuole vede in esso una dottrina erronea a cui certe condizioni delle età primitive possono aver condotto alcuni degli antichi Padri » (Op. cit. XXXVII, P. 296). – L’espressione: “Essi regnarono mille anni con Cristo” deve quindi, come abbiamo già indicato, essere intesa in senso mistico. I mille anni designano tutto il periodo che si estende tra il giorno in cui Cristo, con la sua risurrezione, ha riaperto il regno dei cieli, passando attraverso le sue porte con la sua santissima umanità, ed il giorno in cui, grazie alla risurrezione generale, i corpi degli eletti vi entreranno a loro volta. Ma le anime dei beati sono già lì, strettamente unite a Colui che è la loro vera vita; partecipano alla gloria di Cristo, costituiscono la sua corte, regnano con Lui.

§ 3. L’assalto di Gog e Magog e la loro sconfitta.

Dopo aver parlato della pace che la Chiesa ha goduto sulla terra e in cielo mentre il diavolo era in catene, l’autore ci mostrerà ora l’ultimo assalto di quest’ultimo, e poi la sua condanna e la punizione finale: Quando questi mille anni saranno compiuti, satana sarà liberato dalla sua prigione e gli sarà permesso di attaccare gli uomini con più forza in questi ultimi giorni. Egli uscirà, cioè si manifesterà allo scoperto, passerà dalla tentazione occulta alla persecuzione aperta, sedurrà le nazioni che abitano ai quattro angoli della terra, cioè Gog e Magog. Cosa significano esattamente questi due nomi, che già ricorrono nel profeta Ezechiele (XXXIX). Naturalmente, abbiamo cercato di identificarli con quelli fra i popoli le cui grandi invasioni hanno di volta in volta desolato la terra nel corso della storia. Ma Sant’Agostino – e la sua opinione è stata seguita da tutti i dottori delle epoche successive – dichiara espressamente nella Città di Dio (L. XX, cap. XI), che non si tratta qui di nazioni definite, come per esempio, dice, dei Gesti e dei Massagesti, come alcuni immaginano a causa delle prime lettere di questi nomi, o di qualche altra razza sconosciuta e non soggetta alla legge romana. È abbastanza chiaro che i nemici verranno da tutta la terra, poiché è detto: “Le nazioni che abitano ai quattro angoli della terra“. Cioè nei quattro punti cardinali. Dobbiamo dunque prendere queste parole nel loro significato mistico: Gog, che significa tectum, cioè: ciò che copre, o ciò che nasconde, e rappresenta, sempre secondo Sant’Agostino, gli uomini sensuali per i cui istinti grossolani, abilmente eccitati dal diavolo, lo hanno servito, o lo servono come copertura per attaccare e perseguitare la Chiesa; Magog, invece, che significa : de tecto, cioè: ciò che esce da sotto una coperta, rappresenta il demonio stesso e tutti i nemici segreti di Gesù Cristo, che nascosti finora e agendo al di sotto, getteranno la maschera e attaccheranno allo scoperto. Il diavolo riunirà così, per questo combattimento supremo, tutti gli avversari della Chiesa, quelli che combattono allo scoperto e quelli che combattono nell’ombra. San Giovanni paragona il loro numero ai granelli di sabbia del mare, per farci capire che sono innumerevoli, è vero, ma allo stesso tempo impotenti e sterili. Si solleveranno contro di essa con orgoglio, su tutta la superficie della terra in una volta sola: la persecuzione sarà universale. Avvolgeranno i campi trincerati dei Santi, cioè attaccheranno e aggireranno i servitori di Dio da ogni parte, e queste roccaforti spirituali non saranno sfondate; e la diletta città di Dio sarà pressata da ogni parte. Ma questo periodo di estrema angoscia non durerà che un tempo: Dio uscirà improvvisamente dalla riserva in cui sembrava essersi rinchiuso, e la sua ira, scendendo dal cielo come un fulmine, schiaccerà in un istante questo esercito di persecutori. Il diavolo, che li guidava, dopo averli ingannati e presi nelle sue insidie, sarà gettato con loro nel lago di fuoco e di zolfo, aumentando così l’orrore di quella dimora con la sua presenza; e anche la folla e gli pseudo-profeti, cioè l’Anticristo ed i suoi complici, vi saranno gettati, e tutti vi saranno tormentati giorno e notte senza interruzione e senza fine per i secoli dei secoli.

§ 4 – La punizione della morte e dell’inferno.

E vidi un trono pieno di maestà e di splendore, sul quale Uno era seduto. L’autore non nomina questa Persona, e il suo silenzio è più eloquente di qualsiasi parola: nessuno potrà ignorare chi sia, quando verrà, con tanta nobiltà e splendore, a giudicare i vivi e i morti. Il trono su cui Egli siederà rappresenta la Chiesa, in mezzo alla quale Egli regna e che apparirà allora in tutta la sua dignità e bellezza come la Sposa di Dio. A questo spettacolo, il cielo e la terra scomparvero. Il Vangelo ci dice che il cielo e la terra passeranno, il che non significa che saranno annientati, ma che saranno completamente trasformati e rinnovati. La superficie del pianeta sarà divorata da un diluvio di fuoco, in cui tutte le opere delle mani dell’uomo scompariranno; le più grandi città, i monumenti più belli, i libri più rari, gli oggetti più preziosi di ogni genere, tutto sarà ridotto in cenere senza pietà. Il cielo, non quello che Dio abita con gli Angeli e gli Eletti, ma quello che le stelle attraversano, sarà sconvolto in un caos spaventoso. E non ci sarà posto nel nuovo universo per questi elementi, almeno come erano nel loro primo stato. E vidi i morti, cioè i peccatori, gli uomini privati della vita della grazia, li vidi, piccoli e grandi, che, ripresi i loro corpi, stavano davanti al trono di Dio per essere giudicati. E furono aperti i libri, i libri delle coscienze, nei quali sono scritti giorno per giorno, ora per ora, secondo per secondo, i pensieri che ciascuno cova nel suo interno. Ogni uomo sarà così in grado di leggere chiaramente ciò che è successo nella coscienza degli altri in ogni momento della loro vita. – Ma un altro libro sarà aperto nello stesso tempo, che è il libro della vita, cioè di Colui che è la Vita. In esso si vedrà con piena luce perché gli eletti furono salvati, perché i dannati furono riprovati. E i morti furono giudicati secondo le cose scritte nei libri, secondo la testimonianza della loro coscienza, che divenne visibile a tutti, e secondo le loro opere, secondo le opere enunciate nel Vangelo, con le pene che ne derivano: Allora il Re dirà a quelli che sono alla sua destra: Venite, voi, benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno preparato per voi fin dall’inizio del mondo. Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere, ecc. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: “Partite da me, maledetti, e andate al fuoco eterno, che è stato preparato per il diavolo e i suoi angeli; perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ecc. (Mt. XXV, 34 e seguenti). Nessuno potrà sfuggire a questo giudizio: non solo la terra dovrà restituire tutti i corpi sepolti nel suo seno nel corso dei secoli e ora ridotti in polvere, ma il mare stesso dovrà restituire quelli che sono stati immersi nelle sue onde, divorati dai pesci, dispersi nei suoi abissi in parti non componibili. Tutti i corpi, quindi, per quanto decomposti, rinasceranno alla vita. Nello stesso tempo, la morte e l’inferno ridaranno i morti che contenevano: la morte designa qui l’autore della morte, cioè il diavolo, poiché la Sapienza ci insegna che è lui che, con la sua gelosia, l’ha introdotta nel mondo (II, 24). – Dovrà restituire le anime che sono state affidate alle sue cure e che tiene nelle prigioni dell’Inferno, affinché, riunite ai loro corpi, vengano a comparire davanti al Re dei Cieli per essere giudicate secondo le loro azioni, come è stato detto sopra. E quando la sentenza finale sarà stata pronunciata, senza lasciare spazio ad appelli o speranze, la morte, cioè il principe delle tenebre, e con lui l’inferno, cioè tutte le potenze infernali, tutti i demoni, saranno gettati nel lago di fuoco, nell’abisso spaventoso dal quale è impossibile fuggire, dal quale è bandita ogni speranza, e dove arde quel fuoco spaventoso, al quale i più feroci fuochi della terra non possono essere paragonati. Questa è la seconda morte, la dannazione, la separazione irrevocabile ed eterna da Dio. E in questo lago saranno gettati anche tutti coloro che non hanno fatto penitenza, tutti coloro i cui nomi non saranno trovati scritti nel Libro della Vita nell’ultimo giorno. – Al contrario, gli altri morti, tutti coloro che hanno aderito all’Anticristo, non hanno vissuto fino a quando i mille anni non furono compiuti. Perché non hanno vissuto fino a quando i mille anni sono stati compiuti? – Per capire cosa intenda l’autore sacro, dobbiamo ricordare che l’uomo, per sua natura, è oggetto di una doppia vita: la vita spirituale e la vita naturale. La prima ha come principio l’unione della sua anima con Dio; la seconda, l’unione della sua anima con il suo corpo. Ora, abbiamo appena visto che, per mille anni, cioè durante tutto il periodo che è iniziato con la risurrezione del Salvatore e terminerà alla fine del mondo, gli eletti, se sono privati di questa seconda vita, godono della prima in cielo. I dannati, invece, essendo separati sia da Dio che dai loro corpi, non possiedono nessuno delle due; sono doppiamente morti, e questo fino al giorno del Giudizio, quando ritroveranno la vita naturale riprendendo i loro corpi, ma per un’eternità di sventura. Non conosceranno la gloria e le gioie ineffabili della seconda risurrezione, perché non hanno saputo realizzare la prima. Se, dunque, vogliamo evitare di condividere il loro destino, impegniamoci a prepararci per questo. In cosa consiste questa prima risurrezione? È uscire dallo stato di peccato per mezzo della penitenza; liberarsi dalla morte spirituale, recuperare la vita della grazia (È per marcare questa necessità di una risurrezione spirituale come preludio alla risurrezione generale, che nella liturgia benedettina, l’Ufficio delle Lodi, che è destinato a celebrare il mistero della risurrezione, inizia anche la domenica con il Salmo Miserere, il più noto dei Salmi Penitenziali).

Coloro che sapranno nell’ora di giustizia partecipare e perseverare in essa, saranno un giorno beati e Santi: beati, perché otterranno la beatitudine quando lasceranno questo mondo; Santi, perché saranno stabiliti e confermati nella gloria, in modo tale che la seconda morte, cioè la dannazione eterna, non avrà più alcun potere su di loro. Saranno sacerdoti di Dio e di Cristo, offrendo senza sosta il sacrificio di lode a Dio, Autore di ogni bene, e a Cristo, operatore della nostra redenzione; e le loro anime regneranno in cielo con Lui per mille anni, cioè fino al giorno in cui i loro corpi saranno loro restituiti.

LA PARUSIA (1)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE Rue de Rennes, 117 ; 1920

PREMESSA

Le pagine che presentiamo al pubblico sono solo la riproduzione degli articoli sulla Parousia, apparsi ne “gli Studi”, negli anni 1911, 1918 e 1919. Molti di voi hanno espresso il desiderio di averli tutti in un unico volume, così abbiamo pensato di dover aderire alla richiesta. Inoltre, per abbreviare e semplificare il lavoro di ripubblicazione, abbiamo mantenuto la forma originale, senza altre preoccupazioni che adattarle meglio alla cornice e alla struttura di un libro. Sono quindi ancora presentati sotto forma di articoli e non troveranno modifiche o aggiunte degne di nota. Tuttavia, speriamo che questo modesto lavoro contribuisca a illuminare alcune anime di buona volontà, a dissipare i dubbi che le recenti controversie hanno sollevato, a risolvere una delle principali obiezioni della critica modernista al Vangelo, e infine a far luce su tutta la verità assoluta delle nostre Sacre Scritture, così temerariamente negata dalla nuova scuola.

Roma, 2 ottobre 1919, nella festa dei Santi Angeli Custodi, L. BILLOT S . J .

INTRODUZIONE

C’è un punto del Vangelo su cui i critici modernisti si sono particolarmente concentrati, ritenendolo un argomento decisivo per la loro opera di demolizione della Religione cristiana come Religione trascendente e rivelata di Dio. Questo è il punto relativo alla Seconda venuta di Gesù Cristo, comunemente chiamata dagli scrittori neotestamentari parusia [παρουσία] (letteralmente: presenza, arrivo, venuta), da cui è stato tratto il nome parousîa, ora accettato in senso escatologico, se non nel dizionario dell’Accademia, almeno nel linguaggio abituale e comune dell’esegesi biblica.  È abbastanza noto quale posto centrale nell’economia della rivelazione cristiana sia occupato dalla prospettiva di questa seconda venuta del Signore, da Lui così spesso e così solennemente annunciata, come quella che, con la fine e la palingenesi del mondo, con la trasformazione dei cieli e della terra di oggi, con la risurrezione dei morti e il giudizio generale, dovrà portare alla definitiva affermazione del regno di Dio nella sua consumazione finale e nella sua definitiva perfezione. – È sufficiente in effetti aprire un po’ il Vangelo, per riconoscere subito che la parusia è veramente l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine, la prima e l’ultima parola della predicazione di Gesù; che è la chiave, la fine, la spiegazione, la ragione d’essere, la sanzione; che è l’evento supremo a cui tutto il resto è legato, e senza il quale tutto il resto crolla e scompare. Ne consegue che convincere Gesù della falsità di un punto così essenziale è stato allo stesso tempo porre fine alla leggenda della sua divinità, è stato togliergli la trascendenza, è stato rimetterlo nei ranghi e ridurlo alle proporzioni degli altri fondatori di religioni emerse nel corso dei secoli dal seno dell’umanità. Il modernismo lo ha capito subito. Così, basandosi su vari testi del Vangelo, interpretati in modo superficiale, si è applicato a mettere in circolazione questa affermazione audace: che la coscienza della vocazione messianica era germogliata in Gesù insieme alla convinzione che la fine del mondo stava arrivando; che il regno per la cui organizzazione Egli stesso diceva di venire nella gloria e nella maestà, portato sulle nuvole del cielo, aveva creduto proprio alla vigilia della sua istituzione; molto di più, che era esclusivamente in vista di questa prossima e immediata consumazione di tutte le cose, che aveva predicato il completo distacco dalle ricchezze, preteso dal suo popolo un assoluto disprezzo per i beni terreni, raccomandato la povertà volontaria, proclamato l’eccellenza dello stato di verginità, ecc. Insomma, che l’idea fissa della catastrofe suprema aveva talmente ossessionato la sua mente e influenzato tutto il suo insegnamento e la sua condotta che, dopo la sua morte, era necessario rielaborare profondamente l’intero Vangelo per accogliere al meglio un mondo che fosse duraturo, ciò che in origine era stato detto di un mondo che doveva essere vicino alla fine. In tutto questo, inoltre, i modernisti si limitavano a divulgare idee precedentemente portate alla luce dalla critica razionalista. Già nella sua Vita di Gesù, Renan aveva scritto: “Le sue dichiarazioni (di Gesù) sulla vicinanza della catastrofe (finale) non lasciano spazio all’ambiguità. La generazione attuale, ha detto, non passerà senza che tutto questo sia stato realizzato (Mt., XXIV, 34). Molti dei presenti non proveranno la morte senza aver visto il Figlio dell’uomo venire nel suo regno (Mt., XVI, 28). Egli rimprovera chi non crede in lui perché non sa leggere la prognosi del futuro regno. Quando vedi il rosso della sera”, diceva, “prevedi che andrà tutto bene; quando vedi il rosso del mattino, preannunci la tempesta. Come potete voi, che giudicate l’aspetto del cielo, non saper riconoscere i segni dei tempi? (Matth., XVI, 2-4.). Tali dichiarazioni formali hanno preoccupato la famiglia cristiana per quasi settant’anni. “E più in basso: “Se la prima generazione cristiana ha avuto un credo profondo e costante, questo era che il mondo stava per finire (Atti II, 17; I Cor. XV: 23-24; I Tess. III: 13, IV, 14; II Tess. II: 18; I Tim. VI: 14; II Tim. IV: 1; Jacob. V, 3-8; II Petr. passim; Apoc.., I, 1, II, 5, ecc.), e che la grande rivelazione di Cristo avrà presto luogo. Questo vivace annuncio: È il tempo che apre e chiude l’Apocalisse, quel richiamo che si ripete incessantemente: Chi ha orecchie, che ascolti! sono le grida di speranza e il richiamo di ogni pagina apostolica. Un’espressione siriaca, Maranatha (I Cor., XVI, 22), “Nostro Signore sta arrivando!”, è diventata una specie di parola d’ordine che i credenti usavano dirsi per rafforzare la loro fede e le loro speranze. L’Apocalisse, scritta nell’anno 68 della nostra era, fissa il termine a tre anni e mezzo, XV, 2; XII, 14. (Questo è l’insieme dei testi sui quali i nemici della nostra fede basano la loro tesi che il Vangelo sia nato da un errore, da un’allucinazione, da una vana credenza, da tempo ridotta a nulla e solennemente messa in mora dai fatti più visibili e suggestivi del mondo. – Renan, Vita di Gesù, cap. XVII). – D’altra parte, non si può negare che questi stessi testi, presentati artificiosamente e da essi abilmente sfruttati, non siano di natura tale da impressionare, o addirittura da disturbare profondamente, le menti non bene informate secondo le modalità proprie della Scrittura nel campo della profezia in generale, e in quello escatologico in particolare. Lo scopo di questi articoli è quindi quello di far luce, all’interno delle modeste risorse dell’autore, sulle difficoltà che l’affermazione modernista avrebbe lasciato nella mente di molti, richiamando alcuni principi e spiegando alcune regole che è necessario avere sotto gli occhi per una esatta comprensione dei passaggi in questione. Questi passaggi devono essere sottoposti ad un esame approfondito e, più in particolare, quello in cui le difficoltà di tutti gli altri sono riunite e condensate, e che, una volta adeguatamente chiarito in ciascuna delle sue parti, fornirà, anche per tutti gli altri, gli elementi di soluzione necessari. Questo è il discorso che riempie il capitolo XXIV di San Matteo, unito ai luoghi paralleli di San Marco e San Luca, e che, considerato prima di tutto nel suo insieme, si presenta avente come oggetto indiviso la caduta di Gerusalemme e l’ultimo giorno del mondo.

ARTICOLO PRIMO

LA ROVINA DI GERUSALEMME E LA FINE DEL MONDO PREDETTE INSIEME, E DA UN’ALTRA PROSPETTIVA NEL DISCORSO ESCATOLOGICO. (MATTH. XXIV, MARC. XIII, LUC. XXI).

– LA DIFFERENZA TRA LA PROFEZIA E LA STORIA. – Era la sera del martedì prima dell’ultima Pasqua. Gesù aveva appena finito la sua predicazione pubblica con un avvertimento supremo dato a Gerusalemme, omicida dei profeti e assassina di coloro che le sono inviati,e mentre lasciava il tempio, per non farvi più ritorno, l’attenzione dei discepoli si concentrava sulle grandiose costruzioni di questo superbo edificio. Questo non era il primo tempio costruito da Salomone e distrutto dagli Assiri sotto Nabucodonosor. Era il secondo, ricostruito dopo la cattività sotto Zorobabele, ma rifatto successivamente dal primo Erode, il quale, per conquistare le grazie della nazione, come si legge in Giuseppe (Flavio), aveva intrapreso questa grande opera, e l’aveva intrapresa con l’intenzione di superare in magnificenza tutto ciò che si era visto fino ad allora. Infatti, non furono risparmiati né uomini, né risorse economiche, né spese di alcun genere, così che dopo quarantasei anni di lavoro ininterrotto (Joann. II, 20), questo tempio era diventato una delle meraviglie, per non dire la meraviglia, dell’universo. Guardate, Maestro – disse uno dei discepoli – guardate che pietre e che struttura! Ma Gesù disse: « Tu vedi tutte queste grandi costruzioni? Non resterà pietra su pietra che non sarà buttata giù ». Fu dunque con i gravi pensieri che questa risposta doveva aver suscitato nelle loro menti che il piccolo gruppo, dopo aver superato prima il tempio e poi le mura della città, attraversò la valle del Cedron, salì il versante occidentale del Monte degli Ulivi e si diresse verso Betania per passarvi la notte. Ma fecero una sosta a metà strada sulla collina. San Marco racconta che quando Gesù arrivò a un certo punto della montagna, si fermò e si sedette proprio davanti al tempio, la cui mole imponente si stagliava contro il cielo, che era infuocato dagli ultimi raggi del sole al tramonto. Era dunque il momento, o mai più, di ottenere un chiarimento della risposta precedente, ed ecco i quattro discepoli più familiari, Pietro, Giacomo, Giovanni ed Andrea, desiderosi di porre la domanda: Diteci, quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo? – Certamente queste richieste andavano ben oltre i limiti della predizione che le aveva originate, se questa fosse stata ridotta ai semplici termini in cui ci è stata trasmessa dagli evangelisti. In ogni caso, un tale ampliamento della questione non ci sorprenderebbe se considerassimo che le idee che gli Apostoli, ancora impregnati di pregiudizi giudaici, avevano di Gerusalemme e del suo tempio, erano da sole più che sufficienti a spiegare come e perché la rovina della città santa fosse legata nel loro pensiero alla fine stessa del mondo.La domanda dei discepoli, quindi, riguardava sia il tempo della distruzione del tempio che i segni precursori della parusia e della catastrofe suprema. Anche la risposta del Maestro tratterà gli stessi argomenti, salvo che questa congiunzione di eventi, così indipendenti l’uno dall’altro, facilmente spiegabile nella domanda dei discepoli, diventerà ora un argomento di obiezione nella risposta del Maestro. Infatti, se Gesù unisce nella stessa descrizione, se raffigura nella stessa immagine, se presenta nella stessa prospettiva la fine di Gerusalemme, la fine del mondo e la sua venuta, e se Gesù unisce nella stessa descrizione, se raffigura nella stessa immagine, se presenta nella stessa prospettiva la fine di Gerusalemme, la fine del mondo, e la sua venuta di gloria, non è forse perché anche Egli condivida l’opinione, o piuttosto il terrore di coloro che lo interrogano? … la stessa opinione che abbiamo appena notato tra gli Apostoli? E già solo per questo, il modernismo non è forse sufficientemente fondato nell’attribuirglielo? Questa è almeno l’obiezione che si pone fin dall’inizio, che sorge spontaneamente nella mente prima di qualsiasi esame dettagliato del testo evangelico, e la cui soluzione deve servire come base per tutte le spiegazioni successive. Ma ora, questa prima soluzione che, per la portata che deve avere, è di particolare importanza, da dove la dedurremo? Da nient’altro che dalla natura stessa del genere a cui appartiene la risposta di Gesù. È perché questa risposta appartiene al dominio riservato della profezia, ed allora il discorso profetico non deve essere confrontato con gli altri. Esso ha un modo proprio, una maniera propria, un fascino particolare che prende in prestito dal modo in cui il futuro è visto dall’alto dell’eternità divina: un insieme di condizioni che lo collocano in una categoria assolutamente trascendente, non avendo nulla che gli si avvicini nella letteratura profana, o anche in qualsiasi altra branca della letteratura sacra. Questo è ciò che viene comunemente dimenticato, e questa è anche la ragione della presente difficoltà. Vogliono applicare alla previsione di eventi futuri le regole che governano il racconto di eventi passati. In altre parole, il modo e lo stile della profezia si confondono con il modo e lo stile della storia, due generi così assolutamente diversi l’uno dall’altro che nulla di più radicale o chiaro potrebbe essere immaginato in termini di differenze. Questa è la confusione in cui erano caduti negli ultimi anni quelli della scuola larga, i quali, con il pretesto che la Bibbia non è un manuale di storia, ma un codice di religione, volevano che gli scrittori sacri fossero molto a loro agio con i fatti che riportavano, al punto di non farsi scrupolo di modificarli, amplificarli e sistemarli artificialmente, al meglio del loro scopo dogmatico o morale che si proponevano.   Questa era una strana teoria, contro la quale cozzava tutto ciò che c’è di più profondo nella mente di chiunque creda ancora nell’ispirazione della Scrittura, ma che essi pretendevano di autorizzare dal modo in cui questi stessi scrittori sacri si erano comportati riguardo all’avvenire. Non hanno forse riunito nella stessa vista profetica, come se fossero stati consecutivi, eventi che dovevano tuttavia essere separati da lunghi intervalli di tempo? Non parlavano di cose future come di cose presenti o già passate, e, al contrario le cose presenti o passate come cose da continuare in un futuro senza fine? E poi, è stato chiesto, dov’è la ragione per cui tali libertà sarebbero state appropriate nella descrizione profetica, per poi cessare di esserlo nella narrazione storica? In che modo la verità della Scrittura sarebbe impegnata se, per esempio, si ammette che il Levitico ci dà, come istituzione mosaica, ciò che in realtà avrebbe avuto un’origine molto più tardiva, mentre non lo era più quando Isaia chiamava Ciro come già presente, quando Geremia profetizzava che Gerusalemme sarebbe stata per sempre il centro della religione, quando l’Angelo predisse che il figlio nato da Maria avrebbe regnato sulla casa di Giacobbe e avrebbe occupato per sempre il trono di Davide suo padre, quando Gesù stesso mescolò in uno stesso disegno le due catastrofi, quella di Gerusalemme, che sarebbe avvenuta in capo ad appena quarant’anni, e quella dell’universo, che sarebbe avvenuta solo alla consumazione dei tempi. Questo è certamente un modo insolito di ragionare, e sembra che non sia mai venuto alla mente di esegeti seri. Ma di tanti sofismi accumulati come a piacere, questo solo deve occuparci qui, e che consiste nel confondere insieme i due generi, il genere profetico ed il genere storico, nonostante le evidenti differenze che li distinguono, e che ridurremo a tre punti principali.

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E prima di tutto, se paragoniamo la profezia alla storia, vedremo che si differenzia da essa da quello che potremmo chiamare il punto di prospettiva. Il punto di vista della storia è diverso da quello della profezia. Il primo è preso dal piano stesso dove si svolgono gli eventi di questo mondo, l’altro è al di fuori di tutto ciò che si misura con il tempo. Ora, chi non sa che il raggruppamento e l’assemblaggio degli oggetti nella stessa porzione del campo visivo dipende essenzialmente dal punto di osservazione, e varia anche secondo la variazione di quel punto stesso? Quando, per esempio, gli astronomi riuniscono le stelle dell’Orsa Maggiore, o del Capricorno, o del Toro, nella stessa costellazione, e le raggruppano rispettivamente sotto una denominazione comune, non intendono, immagino, attribuire loro negli spazi celesti le stesse relazioni di vicinanza e di apparente coordinazione che hanno nel campo visivo dell’osservatore terrestre. E senza bisogno di andare così lontano, non è evidente che gli stessi oggetti si presentino in modo diverso, a seconda che siano visti dal piano, uno dopo l’altro, a tutte le distanze, o, al contrario, in linea d’aria da un’alta cima, e ad una angolazione tale che, nonostante le distanze che li separano, sono uniti dall’occhio nei limiti di una stessa inquadratura, e si fondono nell’unità di uno stesso quadro? Così è, in proporzione, con l’ottica della profezia rispetto a quella della storia. La storia ha il suo punto di osservazione sulla pianura; segue gli eventi passo dopo passo nel loro svolgimento. È un cinematografo che, avendo prima registrato la marcia e la successione degli eventi, li presenta poi in ordine, uno dopo l’altro, senza mai passare per le fasi intermedie, in tante immagini corrispondenti e distinte. Ma la profezia, al contrario, si trova su quelle alte vette che dominano l’intero corso del tempo, illuminate come sono dall’unico sole della prescienza di Dio. Questo fa dire ai teologi che, a differenza della storia, la profezia vede gli avvenimenti nello specchio dell’eternità, cioè in idee che rappresentano quella durata eterna di Dio, alla cui luce gli intervalli più lunghi sono un istante, mille anni come un solo giorno, e soprattutto, non dimentichiamolo, tutto ciò che per noi è ancora nel futuro o già nel passato, non è né passato né futuro, ma indifferentemente e indistintamente in un rapporto immutabile di presente a presente. Cosa c’è da stupirsi, allora, se la descrizione profetica non sia soggetta alle stesse regole della narrazione storica? Che salti talvolta le tappe che in rapporto a noi segnano la strada dell’avvenire? E che spesso, attraversando come in un salto tutti gli avvenimenti intermedi, unisca in uno stesso quadro eventi che dovrebbero tuttavia essere separati tra loro da lunghe serie di giorni, anni, persino secoli? Tutto questo è dovuto alle condizioni particolari del punto di vista, come è stato detto, e le ragioni intrinseche da un lato, e le analogie del mondo fisico dall’altro, sembrerebbero concordare nel fornire una prova sufficiente. Ma questo non è tutto, non è ancora abbastanza. Qui c’è una seconda differenza tra la profezia e la storia, che è senza dubbio strettamente connessa alla prima, ma che tuttavia è distinta da essa, e che è molto importante avere innanzi agli occhi come complemento necessario alla considerazione precedente. Non si prende più dal punto da cui parte la prospettiva, ma dall’oggetto al quale termina: dall’oggetto, dico, che nella profezia si presenta con un orizzonte diversamente esteso che nella storia. Infatti, se la storia conosce gli eventi solo attraverso gli eventi e negli eventi stessi, li conosce solo nella loro particolare individualità, direi, nella loro nuda materialità, senza mai andare oltre, se non forse con congetture, induzioni, opinioni o precisazioni, appartenenti, se si vuole, alla filosofia della storia, ma non entrando nella prospettiva della storia stessa. Ne consegue che l’oggetto prossimo della storia è anche il suo proprio e unico oggetto; che questo oggetto è necessariamente limitato ai nudi fatti, così come sono accaduti, nell’ordine stesso in cui sono accaduti; e che, infine, per quanto riguarda la connessione degli eventi tra loro, la storia come tale non conosce altro che la pura e semplice connessione dell’ordine cronologico. Ma la condizione dell’oggetto della profezia è molto diversa ora. L’oggetto della profezia, come tale, è nel futuro, e il futuro è assolutamente inconoscibile in se stesso. L’avvenire, come abbiamo già detto, non può essere letto che nell’infinita prescienza di Dio, nei piani della sua sovrana provvidenza, nelle disposizioni della sua sapienza ordinatrice, in quelle ragioni eterne che misurano tutta l’evoluzione dei secoli e che, dalle profondità divine in cui sono nascoste, si proiettano, per così dire, e si riflettono nello spirito del profeta. E se questo è l’ambiente in cui la profezia trova e raggiunge il suo oggetto, che meraviglia che essa lo presenti anche nelle condizioni adatte a questo stesso ambiente, cioè non più nella sua nuda e semplice individualità, ma con i pro e i contro che le sono dati dall’ordine del piano provvidenziale? Ora, in questo ordine del piano provvidenziale, in questa disposizione della Sapienza infinita in cui tutta l’economia delle cose è disposta con una maestria e un’arte incomprensibili, gli eventi sono tenuti insieme e collegati in un modo diverso dalla semplice continuità o simultaneità cronologica. In particolare, essi hanno una modalità di collegamento che sarebbe vanamente cercata altrove, perché scaturita della sola potenza divina; una modalità che viene anche in primo piano nel soggetto che abbiamo davanti, perché appartiene essenzialmente al genere profetico di cui costituisce una categoria speciale. È il modo che tutta la Tradizione, fondata peraltro sulla Scrittura, riconosce tra i fatti appartenenti alle diverse fasi della religione, dal suo primo inizio nell’Antico Testamento alla sua ultima consumazione nella gloria: un modo di connessione che consiste in una relazione tra la figura e la cosa rappresentata, che rende gli eventi precedenti a quelli successivi ciò che l’ombra è per il corpo, ciò che la silhouette è per il profilo, ciò che l’immagine è per la realtà, ciò che lo schizzo e il contorno mostrato in anticipo, è per la grande opera, completa e definita, che deve venire dopo. San Paolo non dice forse che ciò che accadde al popolo giudeo accadde loro sotto forma di immagine? E ancora, che nell’antica legge c’era un’ombra delle cose a venire, ma che la realtà si trova in Cristo? E ancora, che Gesù Cristo era ieri, è oggi e sarà per sempre? nei secoli dei secoli? Sì, certo, oggi e domani e nei secoli dei secoli, ma anche ieri, e come? Da coloro che lo rappresentavano nell’antico popolo di Dio; dalle misteriose rappresentazioni della sua venuta e della sua salvezza, di cui sono pieni gli annali di quello stesso popolo: rappresentazioni che sono state molto giustamente paragonate a quei misteri della passione e della vita di Cristo che i nostri antenati recitavano nel Medioevo sulla scena, sebbene, naturalmente, differissero essenzialmente da essi, in quanto non erano né artificiali né fittizi, ma facevano parte del tessuto della storia, o piuttosto costituivano la storia stessa di Israele nei suoi personaggi più illustri e nei suoi eventi più importanti. (Le Hir, Études bibliques, les Prophètes d’Israël, Sez. 1. art. 2.) Dobbiamo leggere il libro XII di Sant’Agostino contra Faustum, per vedervi in che misura questi eventi sono stati, dall’inizio fino alla fine, una predizione in atto della vita, della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, e per avere un’idea di ciò che abbiamo appena chiamato il loro dentro e fuori nell’ordine e nell’armonia del piano provvidenziale. E se ora, dalla persona stessa di Gesù Cristo, passiamo alle opere della sua misericordia o giustizia, non è sempre la stessa economia che ci si rivela? Questo è il regno di Dio, che avrà la sua consumazione finale solo alla risurrezione dei morti, nella vita dell’epoca futura; ma ha già avuto il suo primo stabilimento sulla terra, principalmente attraverso la predicazione del Vangelo e dalla fondazione della Chiesa; e questo primo stabilimento è stato a sua volta preceduto da una preparazione e un abbozzo di lunghi secoli di durata. Ora, tra questo lontano abbozzo e la realizzazione compiuta nella pienezza del tempo, non è facile vedere e notare la stessa connessione di cui sopra? Quando, per esempio, l’arca dell’alleanza andò nel deserto in testa alle dodici tribù, coperta dalla nuvola in cui Dio nascondeva la sua presenza, quando si fermò per dare l’alt, e il popolo si accampò intorno ad essa in quell’ordine perfetto, così ben descritto da Bossuet nel suo immortale exordium del sermone sull’unità della Chiesa, quando Balaam, contemplando questo spettacolo dalle alture di Moab, esclamò con estasi: Come sono belle le vostre tende, o figli di Giacobbe, come sono belli i vostri padiglioni, o Israeliti! Non è vero che Israele era già il il regno di Dio in figura? – E quando, più tardi questa stessa arca, riconquistata dai Filistei, fu portata con grande pompa di sacrifici e cerimonie al Monte di Sion, , non era l’immagine del Signore che prendeva possesso del suo trono in mezzo ai suoi? (Le Hir, loc. cit.). E da una parte come dall’altra, la magnificenza delle descrizioni, l’esuberanza dell’entusiasmo, l’esagerazione anche del lirismo profetico ci avvertono che la prospettiva del profeta si estendeva ben oltre l’evento materiale del momento, fino a quelle realtà ancora lontane di cui era l’immagine e l’annuncio? Infine, la stessa osservazione può essere fatta sulle grandi manifestazioni della giustizia, che sono le alte opere di Dio. Il giudizio definitivo e solenne contro il mondo e l’inferno è differito fino all’ultimo giorno, questo è chiaro. « Ma il mondo ne sta già sentendo l’avvicinarsi nel rovesciamento della sua grandezza, e soprattutto nella distruzione dei superbi imperi e delle città che sono nemiche di Dio. Di là, quindi, queste immagini apparentemente esagerate, che sono spesso nella descrizione di queste catastrofi: il sole e le stelle si oscurarono, la terra scossa nelle sue fondamenta, le stelle che cadono dal cielo e i cieli che rotolano via come un libro. Queste metafore audaci sono piene di appropriatezza e precisione, non appena lo sguardo si estende alla futura rovina dell’universo, disegnato sotto proporzioni minori in quello di un regno limitato » (Le Hir, ibid.).  Questo, dunque, come l’oggetto della profezia, proprio perché è visto dal profeta nello specchio dell’eternità, e contemplato da lui nelle armonie del piano provvidenziale, si presenta spesso con un’estensione di prospettiva che non è affatto presente al centro della storia. Questo spiega la singolarità, a prima vista così strana, eppure così frequente nella Scrittura, della fusione in una stessa predizione di eventi, fatti e personaggi che non dovrebbero avere alcuna connessione tra loro, né sulla base della cronologia, né nell’ordine della catena naturale di cause ed effetti. Che se nella narrazione storica l’oggetto conserva sempre e necessariamente la sua stretta unità, e si dispiega su un unico piano che racchiude un solo orizzonte, succede, al contrario, che nell’oracolo profetico l’oggetto si scinde e si divide in due distinti, uno più distante, dove avviene l’evento principale e di primaria importanza, occupando come tale lo sfondo della prospettiva, l’altro più vicino, di cui l’evento, che potrei chiamare di avanti scena, è anteriore a quello principale secondo l’ordine del tempo, ma disposto da Dio nelle prospettive della Sua provvidenza, per essere la figura, il tipo, lo schizzo, e quindi anche il preludio vivente. Questo è ciò che osserva San Girolamo a proposito di una profezia di Daniele (XI-XII), relativa, per vicinanza di tempo, ad Antioco Epifane, ma in prospettiva lontana rivolta all’anticristo. « La consuetudine della Scrittura è quella di precedere, con delle figure di cose, la verità degli  eventi futuri. Così il Salmo LXXI è intitolato in Solomonem, eppure tutto ciò che vi si dice non può convenire a Salomone, ma la profezia si realizzerà in Salomone come nell’ombra e nell’immagine della verità, da realizzare poi più perfettamente nel Salvatore » (Hieron., in Dan, C. XI, Migne, P. L., XXV, col. 503.). E questo sarà meglio compreso da un elegante confronto fornito da uno dei principi dell’esegesi moderna, da cui abbiamo già preso in prestito molte delle considerazioni precedenti. « Immaginate – egli dice – due palazzi di dimensioni disuguali, ma che offrono la stessa distribuzione di stanze, cortili, corridoi, ecc . Il più piccolo, più vicino a voi, è situato in modo tale che, se fosse trasparente come il cristallo, il vostro occhio coglierà i contorni e le linee corrispondenti al più vasto posto dietro. Se, al contrario, questa trasparenza è velata, irregolare e intermittente, avrete bisogno di qualche combinazione per completare nella vostra mente l’immagine del grande edificio, del quale non potreste dubitare dell’esistenza, né della sua disposizione principali. Così è per un oracolo con un oggetto doppio. L’oggetto prossimo a volte sembra svanire per lasciare che il fatto più importante e più grande, che occupa lo sfondo della prospettiva, risplenda con tutta la sua brillantezza; pertanto, le prime linee sono più opache e velano parzialmente quelle di dietro. Ma la ragione, guidata dall’analogia, restituisce facilmente a ciascuno degli oggetti ciò che l’occhio scopre solo confusamente. » Ecco, appunto, presentato in un’immagine molto accurata, l’ordine del discorso escatologico, l’oggetto di questo studio, dove due cose sono previste simultaneamente e sotto la stessa prospettiva, due rovine di grandezza ineguale: la prossima rovina di Gerusalemme, come punizione per il crimine dei deicidi che non volevano ricevere né riconoscere Cristo, e la suprema rovina, ancora nascosta in un futuro impenetrabile, come punizione per il crimine del mondo apostata, che, dopo averlo conosciuto, lo ha infine respinto. A tutto questo si obietterà, forse, che un tale modo di mescolare insieme eventi così diversi e distanti tra loro non può che portare a confusione e oscurità nelle profezie, il cui vero significato diventerà da questo punto di vista, se non impossibile almeno molto difficile da capire. Si obietterà, ma invano, e penso che la difficoltà, ridotta alle sue vere proporzioni, si risolverebbe agli occhi di chiunque abbi poco riflettuto sulla condizione e la ragion d’essere delle profezie, sullo scopo assegnato loro, sui fini che Dio si propone nel dettarle. Ed infatti, qui di nuovo, guardiamoci dal confondere la profezia con la storia; non dimentichiamo le profonde differenze tra di loro, e consideriamo che, oltre a quelli che sono già state esposte, che una terza differenza ora se ne aggiunge, non più del punto da cui parte la prospettiva, né dell’oggetto a cui finisce, ma dalla quantità relativamente piccola di chiarezza la quantità relativamente piccola di chiarezza che la rivelazione del il futuro comporta. Perché l’avvenire, per molte altre ragioni che è facile capire, deve sempre in una certa misura, esserci chiuso: così che, se alla storia appartiene il grande giorno e la piena luce, al profezia, che l’evento non è ancora venuto a chiarire e spiegare, sarà sempre appropriato, converrà sempre, su qualche lato almeno, il chiaro scuro e la penombra. Infatti, le profezie non sono date agli uomini per soddisfare in loro una vana curiosità, ma  per scopi degni di Dio, che ne è il solo e unico autore. Sarà a volte per avvertirci di un evento futuro di cui dobbiamo essere informati: sia che Dio voglia che vi ci prepariamo, o perché possiamo salvarcene, ed in entrambi i casi, è sufficiente che l’evento sia conosciuto in anticipo nelle sue generalità, al massimo nei suoi segni precursori: non è affatto necessario che sia conosciuto nelle sue modalità circostanze, nelle sue particolarità. Sarà soprattutto, sarà sempre, per fornirci una prova eclatante della credibilità della rivelazione cristiana, così come un argomento perentorio dell’impero che Dio esercita sul mondo morale, non meno universale e non meno efficace di quello che esercita sul mondo fisico: un impero in virtù del quale non succede nulla né piccolo né grande, che non sia previsto, organizzato, voluto da Lui: voluto, dico? in vari modi della volontà, secondo la qualità degli oggetti, ma parlando in assoluto, sempre voluto. – Ora, per ottenere questo risultato, è sufficiente che, una volta che gli eventi si siano verificati, se ne possa riconoscere l’annuncio certo nella profezia che li ha preceduti, senza che sia stato necessario averli visti distintamente all’inizio. Inoltre, una visione anticipatrice potrebbe avere in vari casi un inconveniente considerevole che indebolirebbe singolarmente la forza della prova: quella di lasciare la porta aperta al sospetto che l’adempimento della predizione fosse l’effetto di volontà determinate a conformarsi ad essa, e quindi il puro e semplice risultato dell’industria umana. Invece, il più delle volte, le stesse persone in cui le profezie si realizzano, e anche coloro che le realizzano, non capiscono il loro mistero, né l’opera di Dio in loro. E così si prepara una prova della divinità della profezia, tanto più convincente quanto più sarà inartificiale e naturale, garantita contro ogni sospetto, per quanto remoto, che l’inganno dell’uomo possa avervi avuto una certa parte (Bossnet, Prefazione sull’Apocalypse, XVII-XX). – Da tutte queste considerazioni, ne consegue che una certa ombra di mistero deve avvolgere la maggior parte delle profezie. Ne consegue anche, e a titolo di conseguenza, che se la scissione dell’oggetto nel modo spiegato sopra è la causa di qualche oscurità, l’obiezione che si pretenderebbe di trarne, lungi dall’essere valida, sarebbe del tutto falsa. Ma ciò che noi dobbiamo osservare soprattutto qui, è che ciò che è già vero in una tesi generale, e fatta astrazione di ogni caso a cui si fa riferimento più in particolare, lo è ancora di più, non appena la domanda si pone la questione del giorno del giudizio e della consumazione dei secoli; perché allora, alle ragioni comuni che si applicano indifferentemente ad ogni velatura dell’avvenire, si aggiungono ragioni speciali, molto espressamente marcate nel Vangelo. Infatti, vediamo nel Vangelo, figurato come elemento morale di primaria importanza, così come l’assoluta certezza di questo ritorno futuro, quando Gesù Cristo tornerà nella gloria e nella maestà per giudicare il mondo, la completa incertezza del tempo, del giorno e dell’ora in cui esso avrà luogo. Questo è qualcosa che, per espresso disegno di Dio, deve rimanere nascosto e racchiuso in un impenetrabile segreto a tutte le creature, anche agli Angeli del cielo: Nemo scit, neque angeli cœlorum, nisi solus Pater. Ecco perché, quando i discepoli interrogarono il loro Maestro dicendo: Raccontaci quando queste cose accadranno, e qual è il segno della tua venuta e della fine dei tempi, confondendo la rovina di Gerusalemme con quella del mondo, provocarono una risposta che, senza confermarli positivamente nel loro errore, non li distolse da esso, né diede una chiara determinazione della distanza tra i due eventi l’uno dall’altro; una risposta che, basandosi su ciò che questi stessi eventi dovevano avere in comune, piuttosto che sulle loro peculiarità dislocanti, lascerebbe volutamente il campo aperto a tutte le congetture. – E tale fu infatti la risposta che ricevettero di tal mirabile maestria e arte, in cui, come è già stato detto, Gesù fondeva le due rovine in una sola cornice, un po’ come quei pittori che, dopo aver dipinto, con colori vivaci, quello che è il soggetto principale del loro quadro, vi tracciano ancora, in una distanza oscura e confusa, altre cose più lontane da questo oggetto. Oppure meglio ancora, e per parlare con rigore di precisione, alla maniera dei profeti dell’Antico Testamento, che ha tracciavano in una predizione un’altra predizione più profonda, proponendo l’evento figurativo prossimo, in unione con l’evento figurativo, non importa quanto fosse lontano nel futuro, e sempre per ragioni diverse da qualsiasi connessione tra il tempo o l’epoca dell’uno e il tempo o l’epoca dell’altro. È quindi del tutto sbagliato basarsi su questa unione delle due catastrofi nel discorso che, nei sinottici, chiude la predicazione di Gesù, ed è quindi sbagliato concludere, con i modernisti, che Egli le riteneva entrambe simultanee, e che, di conseguenza, persuaso che stava arrivando il momento in cui il tempio sarebbe stato distrutto, sarebbe stato ugualmente convinto che il mondo stesse per finire. Le spiegazioni precedenti sembrano averlo dimostrato a sufficienza, anzi in modo sovrabbondante, e non c’è bisogno di tornarci sopra. Tuttavia, siamo, per tutto questo, solo all’inizio del nostro compito. Infatti, se non si può stabilire l’accusa di errore e di falsità sulla semplice congiunzione dei due oggetti nella stessa previsione, qui cercheremo di farlo su un’altra base, almeno in apparenza, più solida. Niente è brutale come un fatto, come siamo soliti dire, ma niente è brutale come un’affermazione categorica. Ma non è questo il caso? A che cosa, si chiederanno, servono tante considerazioni su ciò che il genere profetico comporti o non comporti, se, dopo così lungo girovagare, ci vediamo, volenti o nolenti davanti ad un’affermazione come quella con cui Gesù termina: « In verità vi dico che questa generazione non passerà non passerà senza che tutte queste cose si compiano. » ? “Tutte queste cose”, omnia hæc cioè, apparentemente, tutte le cose appena descritte, e non solo l’ultima desolazione di Gerusalemme, ma anche l’oscuramento del sole, il turbamento delle stelle, la commozione dell’intero universo e delle potenze celesti preposte alla sua condotta, l’apparizione in cielo del segno del Figlio dell’uomo, la discesa del Figlio dell’uomo stesso in gloria e maestà per convocare tutta l’umanità al suo giudizio: di nuovo, tutto questo per essere realizzato prima della fine della contemporanea generazione! Ora tutto questo è chiaro, ed è sufficiente a ribaltare tutto i ragionamenti del mondo fatti a priori. Ecco, dice Renan, ciò che non lascia spazio ad equivoci. Questo è ciò che sarà necessario esaminare nell’articolo seguente.

LA PARUSIA (2)

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (11)

G Dom. Jean de MONLÉON

Monaco Benedettino

Il Senso Mistico dell’APOCALYSSE (11)

Commentario testuale secondo la Tradizione dei Padri della Chiesa

LES ÉDITIONS NOUVELLES 97, Boulevard Arago – PARIS XIVe

Nihil Obstat: Elie Maire Can. Cens. Ex. Off.

Imprimi potest:  Fr. Jean OLPHE-GALLIARD Abbé de Sainte-Marie

Imprimatur:

Lutetiæ Parisiorum die II nov. 1947

Copyright by Les Editions Nouvelles, Paris 1948

Sesta Visione

L’ORA DELLA GIUSTIZIA

PRIMA PARTE

IL CASTIGO DI BABILONIA

Capitolo XVIII. (1-24) “E dopo di ciò vidi un altro Angelo, che scendeva dal cielo, e aveva grande potestà: e la terra fu illuminata dal suo splendore. E gridò forte, dicendo: È caduta, è caduta Babilonia la grande: ed è diventata abitazione di demoni, e carcere di ogni spirito immondo, e carcere di ogni uccello immondo e odioso: Perché tutte le genti bevettero del vino dell’ira della sua fornicazione: e i re della terra fornicarono con essa: e i mercanti della terra si sono arricchiti dell’abbondanza delle sue delizie. E udii un’altra voce dal cielo, che diceva: Uscite da essa, popolo mio, per non essere partecipi dei suoi peccati, né percossi dalle sue piaghe. Poiché i suoi peccati sono arrivati sino al cielo, e il Signore si è ricordato delle sue iniquità. Rendete a lei secondo quello che essa ha reso a voi: e datele il doppio secondo le opere sue: mescetele il doppio nel bicchiere, in cui ha dato da bere. Quanto si glorificò e visse nelle delizie, altrettanto datele di tormento e di lutto, perché dice in cuor suo: Siedo regina, e non sono vedova: e non vedrò lutto. Per questo in uno stesso giorno verranno le sue piaghe, la morte, e il lutto, e la fame: e sarà arsa col fuoco: perché forte è Dio, che la giudicherà. E piangeranno e meneranno duolo per lei i re della terra, i quali fornicarono con essa e vissero nelle delizie, allorché vedranno il fumo del suo incendio: Stando da lungi per tema dei suoi tormenti, dicendo: Ahi, ahi, Babilonia, la città grande, la città forte: in un attimo é venuto il tuo giudizio. – E i mercanti della terra piangeranno e gemeranno sopra di lei: perché nessuno comprerà più le loro merci: le merci d’oro, e di argento, e le pietre preziose, e le perle, e il bisso, e la porpora, e la seta, e il cocco, e tutti i legni di tino, e tutti 1 vasi d’avorio, e tutti i vasi di pietra preziosa, e di bronzo, e di ferro, e dì marmo, e il cinnamomo, e gli odori, e l’unguento, e l’incenso, e il vino, e l’olio, e il fior di farina, e il grano, e i giumenti, e le pecore, e i cavalli, e i cocchi, e gli schiavi, e le anime degli uomini. E i frutti desiderati dalla tua anima se ne sono partiti da te, e tutte le cose grasse e splendide sano perite per te, e non si troveranno mai più. I mercanti di tali cose che da essa sono stati arricchiti, se ne staranno alla lontana per tema dei suoi tormenti, piangendo, e gemendo, e diranno: Ahi, ahi, la città grande, che era vestita di bisso, e di porpora, e di cocco, ed era coperta d’oro, e di pietre preziose, e di perle: Come in un attimo sono state ridotte al nulla tante ricchezze. E tutti i piloti, e tutti quei che navigano pel lago, e i nocchieri, e quanti trafficano sul mare, se ne stettero alla lontana, e gridarono guardando il luogo del suo incendio, dicendo: Qual città vi fu mai simile a questa grande città? E si gettarono polvere sul capo, e gridarono piangendo e gemendo: Ahi, ahi, la città grande, delle cui ricchezze si fecero ricchi quanti avevano navi sul mare, in un attimo è stata ridotta al nulla. Esulta sopra di essa, o cielo, e voi, santi Apostoli e profeti: perché Dio ha pronunziato sentenza per voi contro di essa. Allora un Angelo potente alzò una pietra come una grossa macina, e la scagliò nel mare, dicendo: Con quest’impeto sarà scagliata Babilonia, la gran città, e non sarà più ritrovata, e non si udirà più in te la voce dei suonatori dì cetra, e dei musici, e dei suonatori di flauto e di tromba: e non si troverà più in te alcun artefice dì qualunque arte: e non sì udirà più in te rumore di macina: e non rilucerà più in te lume di lucerna: e non sì udirà più in te voce di sposo e di sposa: perché i tuoi mercanti erano i principi della terra, perché a causa dei tuoi venefìcii furono sedotte tutte le nazioni. E in essa si è trovato il sangue dei profeti, e dei santi, e di tutti quelli che sono stati uccisi sulla terra.”

§ 1. – La rovina di Babilonia.

Con questo capitolo XVIII inizia la sesta visione di San Giovanni. In esso, l’autore descrive, sotto le immagini simboliche che gli sono abituali, il giudizio di Dio alla fine dei tempi. Vedremo prima la dannazione di Babilonia, o della grande prostituta, cioè di tutti i reprobi, come si compirà quando risuoneranno queste terribili parole: “Andate, maledetti, nel fuoco eterno”. Nei capitoli seguenti, vedremo quello dell’Anticristo e del diavolo. E per associare più strettamente la profezia che segue con quelle che il divino Maestro ha fatto su questo argomento nel Vangelo, lo Spirito Santo, parlando per bocca dell’Apostolo, mette Cristo stesso sulla scena fin dall’inizio. Parla della sua venuta sulla terra nel mistero dell’Incarnazione e dei suoi avvertimenti sui terribili giudizi di Dio. Infatti, l’angelo che San Giovanni vide scendere dal cielo con grande potenza, e che illuminò tutta la terra con la sua gloria, rappresenta il Salvatore del mondo, quando venne ad abitare in mezzo a noi, e gli Apostoli videro la sua gloria, una gloria tutta simile a quella dell’unico Figlio del Padre (Jo. I); la luce della sua dottrina illuminò il mondo intero, e la potenza di cui era rivestito rovinò l’impero del diavolo. Durante la sua permanenza sulla terra, ha gridato a gran voce, ha insegnato la verità con una voce che nulla poteva fermare o coprire, e che era quella del suo amore. Non cessò di annunciare il giudizio del mondo attuale, del suo principe, dei suoi servi: È caduto, disse, è caduto, la grande Babilonia; cioè: « Periranno infallibilmente, anima e corpo, i sudditi della grande cortigiana; i peccatori ostinati che hanno permesso volentieri ai demoni di stabilire la loro tana nei loro cuori, in quel cuore che è stato dato loro per essere il tempio di Dio; periranno perché hanno conservato in se stessi, invece di cacciarli con l’umile confessione, tutti gli spiriti ripugnanti e tutti gli uccelli immondi, tutti i pensieri vergognosi e tutti i peccati di orgoglio, che li hanno resi abominevoli agli occhi di Dio. » Il mondo cadrà perché ha scatenato contro di sé le tre concupiscenze: la concupiscenza della carne, designata qui dal vino della fornicazione; la concupiscenza della vita, rappresentata dai re della terra; e la concupiscenza degli occhi, rappresentata dai mercanti. L’autore sacro, dunque, annuncia il castigo del mondo, perché tutte le nazioni, cioè, in senso mistico, tutti coloro che non sono stati rigenerati spiritualmente, tutti coloro che vivono secondo le leggi della carne, hanno bevuto del vino della sua fornicazione, e così hanno provocato l’ira di Dio, dando libero sfogo ai loro amori impuri; perché i re della terra, cioè i superbi, coloro che non sono rigenerati e coloro che vivono secondo le leggi della carne, hanno bevuto del vino della sua fornicazione: i superbi, quelli posseduti dallo spirito di dominio, hanno peccato con essa; hanno portato tutti i loro desideri in questo mondo presente, e hanno sacrificato tutto per esserne padroni; infine, perché i mercanti, gli uomini avidi e cupidi di denaro, si sono arricchiti offrendo agli altri i mezzi per godere delle delizie della carne, e aumentando così senza misura il numero dei peccati.

§ 2 – Esortazioni ai fedeli.

Ma nello stesso tempo in cui annunciava i castighi riservati ai malvagi, Nostro Signore esortava tutti coloro che lo ascoltavano a rinunciare al mondo e a convertirsi. Ecco perché San Giovanni sentì un’altra voce, che era quella della misericordia, dopo quella della giustizia, e che gridava: Uscite da lì, popolo mio, come Lot uscì da Sodoma per sfuggire alla distruzione di quella città; uscite da lì, voi che vivete per la vita eterna, per non avere parte nei crimini di Babilonia, ed evitare così le mali che la minacciano, perché la sua rovina è inevitabile, i suoi peccati hanno raggiunto il cielo; hanno superato ogni misura, hanno costretto il Signore a lasciare la pazienza con cui sopporta, come se non li vedesse, l’ingratitudine e i crimini dell’umanità. » – Per punire il mondo per aver perseguitato i santi, l’Onnipotente li farà sedere sul suo stesso tribunale e li inviterà a pronunciare essi stessi la sentenza dei peccatori. Questa è la scena descritta ora dall’autore sacro: « Giudicate a vostra volta – dice Dio ai suoi servi – coloro che vi hanno giudicato. E infliggete loro un castigo doppio di quello che hanno inflitto a voi, perché hanno potuto colpire solo i vostri corpi: voi manderete a morte eterna sia i loro corpi che le loro anime. Puniteli con pene commisurate alle loro azioni, e nel calice che hanno preparato per voi, preparate per loro una doppia bevanda; cioè condannateli agli stessi tormenti che hanno inflitto a voi, ma aggiungendo alle sofferenze esterne il fuoco interiore e il rimorso della disperazione. Quanto più hanno cercato la gloria umana, tanto più li coprirete di vergogna e di confusione; e quanto più si sono crogiolati nelle delizie della carne, tanto più li punirete nei loro corpi. »

§ 3. Il reclamo dei re della terra.

Babilonia si credeva invulnerabile, come sempre accade ai peccatori incalliti; diceva in cuor suo: « Non temo nulla, sono sicura come una regina; non sono una povera vedova, priva di sostegno e di consolazione, e non vedrò quei guai che gli apostoli di Cristo mi hanno predetto ». Per questo, a causa di quell’orgoglio che fa sì che, non contenta di peccare, si glorifichi del suo peccato, si vedrà piovere addosso in un solo giorno i castighi che le sono dovuti: la morte, perché pensava di essere forte; il dolore, perché pensava di essere felice; la carestia, perché pensava di essere ricca. E questa sentenza sarà infallibilmente adempiuta, perché Dio è forte e nessuno può resistergli, e non sarà scosso da minacce o preghiere nel Giorno del Giudizio. I re della terra, i grandi e i fortunati di questo mondo, faranno cordoglio quando vedranno il fumo del fuoco che la consumerà. Piangeranno e si lamenteranno della propria rovina, sapendo che saranno inghiottiti con lei, che sono stati corrotti dai suoi piaceri e che hanno vissuto nei piaceri che essa ha offerto alla loro sensualità. E stando lontano per paura dei tormenti che sopporta… queste parole non devono essere prese alla lettera: gli uomini in questione sarebbero troppo felici di assistere da semplici spettatori al castigo del mondo, al quale si erano dati interamente! San Giovanni vuole semplicemente dire che i loro cuori, che aderivano con tutte le loro forze alle gioie di questo mondo, saranno ora molto lontani da esso; lo odieranno quando vedranno il prezzo che dovranno pagare al tribunale di Dio, e quando penseranno, con una paura che decuplicherà l’orrore dei loro tormenti, che questi sono eterni. – Tuttavia, notiamo di passaggio che in senso morale i re della terra sono qui presi nella buona parte; essi designano uomini che sanno dominare se stessi, che sono riusciti a dominare le loro passioni, e che, pieni di dolore al ricordo delle loro colpe passate, deplorano il tempo in cui erano schiavi dei piaceri del mondo. Ma torniamo al significato letterale della profezia, cioè alla descrizione anticipata del Giudizio Universale. I re della terra, dunque, vedendo il mondo cadere nel cataclisma che ne segnerà la fine, grideranno: Guai, guai a questa grande città di Babilonia! Guai a noi che abbiamo riposto la nostra fiducia in lei, perché sembrava essere potente, ma in realtà era solo forte nel fare il male; perché non è stata in grado di allontanare il fuoco che ora viene su di lei, infatti, è bastata un’ora perché il suo giudizio si compisse! » Quando il grande fuoco che deve purificare l’universo sarà acceso, sarà una cosa terribile per gli amanti di questo mondo vedere le fiamme divorare in un istante tutte le ricchezze, tutti i tesori, tutti i capolavori, tutto ciò che l’attività umana aveva prodotto di bello, grandioso, utile o piacevole dalla creazione, e il caos dell’inferno rimarrà la loro unica porzione.

§ 4 – La denuncia dei mercanti.

E i mercanti della terra piangeranno e gemeranno per la rovina di Babilonia, perché non ci sarà ancora nessuno che compri le merci. Invano si sono procurati, a costo di tanta fatica, i beni d’oro, d’argento, le pietre preziose, le perle, il lino, la porpora, la seta, lo scarlatto; i legni delle specie più rare, gli oggetti d’avorio, i vasi ornati di pietre preziose e fatti di bronzo, ferro o marmo; spezie, profumi, unguenti, incenso, vino, olio, farina, grano, bestiame, pecore, cavalli, carrozze, schiavi e uomini le cui stesse anime erano in vendita. Queste ultime parole denotano gli schiavi che hanno prontamente abbracciato la religione dei loro padroni, in opposizione a quelli che hanno mantenuto la loro religione personale. – Enumerando questa varietà di oggetti che facevano la fortuna dei mercanti, San Giovanni vuole farci capire che il ricordo delle cose della terra rimarrà terribilmente preciso nella memoria dei dannati: il rimpianto dei molteplici piaceri di cui facevano le loro delizie quaggiù li perseguirà contemporaneamente, ma distintamente. Allo stesso tempo, la voce della loro coscienza ricorderà loro costantemente il carattere irrevocabile della loro rovina: « Gli oggetti dei desideri della tua anima – dirà loro – sono stati portati via da te; tutte le cose in cui ponevi le tue delizie e la tua gloria sono finite per te, mai più si troveranno in tuo possesso. » Ma va da sé che ognuna delle parole che appaiono nell’enumerazione che si è appena fatta ha un significato simbolico e che, molto più della ricchezza materiale, rappresenta un valore spirituale. Spiegheremo brevemente le interpretazioni comunemente date su questo argomento dai Dottori e dai commentatori autorizzati dell’Apocalisse. I mercanti sono gli eretici e gli ipocriti, tutti coloro che fingono di essere virtuosi per comprare non la gloria eterna, ma la gloria di questo mondo. Pretendono di possedere nei loro tesori l’oro della saggezza divina, l’argento dell’eloquenza ispirata, la pietra preziosa che è Cristo stesso, e la perla del regno dei cieli, per la quale si deve vendere e lasciare tutto. Lasciano intendere che la loro anima è bianca come il lino per la cura con cui si purifica dalla minima contaminazione, rossa come la porpora per l’ardore con cui desidera il martirio, luminosa e leggera come la seta per la sua verginità, splendente come lo scarlatto per la sua carità. Il legno di Thuja, che è imputrescibile, simboleggia la loro perseveranza, che nulla può spezzare; l’avorio, la loro castità; il bronzo, la loro resistenza; il ferro, la loro pazienza, perché questo metallo, quando è posto sul fuoco, invece di essere consumato, si spoglia delle sue scorie, diventa flessibile e può essere modellato per tutti gli usi. La loro umiltà li lascia freddi come il marmo davanti alle lodi degli uomini. La penitenza dà alla loro vita un aroma piacevole come quello della cannella; lo spirito di preghiera profuma le loro anime, e lo Spirito Santo le riempie con la sua unzione. L’incenso esprime la loro devozione; il vino, la loro compunzione; l’olio, la loro misericordia per il prossimo; la farina e il grano, la purezza e la qualità della loro dottrina. La loro devozione al servizio degli altri è tale che possono essere paragonati a bestie da soma, che accettano tutti i pesi; a pecore, che si lasciano tosare senza mormorare; a cavalli, che portano impetuosamente e generosamente i loro padroni in battaglia; a carrozze, perché aiutano a fare il viaggio di questa vita senza fatica; a schiavi, infine, perché si fanno servi di tutti, sia nello spirituale che nel temporale. Gli ipocriti, dunque, pretendono di avere tutte queste qualità, e vendono le loro opere in cambio della lode degli uomini. Ma nel giorno del giudizio, i frutti che desiderano, cioè proprio questa gloria umana, sfuggiranno loro completamente, e tutta la virtù di cui si credevano pieni, tutto lo splendore di cui si erano falsamente adornati, svaniranno senza speranza di ritorno.

§ 5. La denuncia di marinai e piloti.

Che si tratti dunque, in senso letterale, degli uomini dediti alla ricerca delle ricchezze mondane, o, in senso morale, degli ipocriti che avranno ingannato gli uomini con le loro virtù simulate, tutti loro, in quel giorno d’ira, assisteranno con disperazione alla rovina di questo mondo, piangendo, gemendo e dicendo: Guai! Guai! La parola: , che la Scrittura usa per esprimere il dolore dei dannati, è intraducibile: significa che questo dolore supera tutte le locuzioni, tutti i concetti umani, come fa, al contrario, la parola Alleluia, che canta la gioia ineffabile dei beati. « Guai – allora, diranno – a noi che abbiamo confidato in questa magnifica città. Essa era vestita di lino, porpora e scarlatto, era adornata d’oro, di pietre preziose e di perle. Ed ecco, è bastata un’ora per inghiottire tutte queste ricchezze. » E tutti i piloti, tutti quelli che navigavano sul lago, i marinai e quelli che lavorano in mare gridarono di dolore, mentre vedevano l’incendio della città. Queste espressioni, anche se in senso letterale, possono essere intese come gli uomini che affrontano i pericoli di viaggi lontani per arricchirsi, sono rivolte soprattutto ai cattivi prelati, ai cattivi sacerdoti, ai cattivi predicatori, a tutti coloro che Gesù aveva scelto, come San Pietro, Sant’Andrea, San Giacomo e San Giovanni, per essere pescatori di uomini, per guidare la barca della sua Chiesa, e che si sono fatti servi del mondo. Tutti questi, improvvisamente sobri, odieranno improvvisamente quelle prelature, gli onori e le ricchezze che hanno desiderato così ardentemente. Quando vedranno il luogo dove sarà consumata dal fuoco, e quel luogo è l’Inferno, dove essi stessi saranno caduti, diranno: « Chi è come questa città? Chi avrebbe potuto credere che un destino così tragico attendesse questa città, che sembrava così felice e potente? » E si metteranno la polvere sul capo: faranno penitenza, ma sarà troppo tardi. Nella loro disperazione riconosceranno la vanità di tutto ciò che hanno perseguito così ardentemente, e confesseranno di aver sacrificato tutto per un po’ di polvere. Grideranno con lacrime e gemiti: « Guai, guai, a questa grande città ». Tutti coloro che avevano navi nel mare, cioè tutti coloro che possedevano i beni di questo mondo, si arricchirono con le sue ricchezze, invece di cercare di conquistare il regno dei cieli. Ed ecco, in un’ora essa è stata annientata! »

§ 6. – Come i santi devono rallegrarsi di aver evitato la sventura della dannazione.

San Giovanni, dopo aver mostrato la rovina degli empi, si rivolge ora ai Santi. Li esorta a rallegrarsi, perché il Giudizio, che segnerà l’ora del castigo per i malvagi, sarà l’ora della ricompensa per i giusti. Dice loro: « Rallegratevi della distruzione di Babilonia, voi il cui cuore è come un cielo, perché Dio vi abita; voi che avete lavorato per il Vangelo, come i santi Apostoli, e annunciato il regno che viene, come i Profeti. Rallegratevi, perché il Signore l’ha chiamata a rispondere della condanna che aveva portato contro di voi. » E ora arriva l’esecuzione della sentenza. Allora l’Angelo, il Re degli Angeli, Gesù Cristo in persona, prese la pietra che era come una grande macina e la gettò nel mare, dicendo: Questa è la potenza con cui questa grande città di Babilonia sarà scaraventata nel mare. La pietra rappresenta qui la massa dei dannati: l’autore vuole farci capire che, nonostante la loro durezza e la loro ostinazione nel peccato, Nostro Signore li getterà senza sforzo nell’inferno, quando dirà: Andate, maledetti, nel fuoco eterno. E cadranno come la pietra che, gettata con forza nell’acqua, non rimane un attimo in superficie, ma va dritta sul fondo e non appare più. Saranno sprofondati per sempre nell’abisso della disperazione e della desolazione. Non sentiranno mai più le voci dei suonatori di cetra, dei cantori, dei suonatori di flauto o di tromba, o di qualsiasi altra cosa che incantava le loro orecchie qui sulla terra: essi sentiranno eternamente solo le grida dei demoni e gli ululati dei dannati. Nell’inferno non ci saranno artigiani di nessuna arte, nessun lavoro utile, nessun mezzo per provvedere ai bisogni della natura umana; non si sentirà il rumore della macina per fare il pane, né quello di nessun altro mestiere. E la voce dello Sposo e la voce della Sposa taceranno per sempre, perché non ci sarà più amore, non ci saranno più matrimoni, non ci saranno più feste, non ci saranno più i piaceri che rendono la vita sopportabile. Questo è il destino che attende Babilonia, perché invece di scegliere principi saggi, si è affidata a mercanti. Essi hanno lavorato per i beni della terra senza preoccuparsi della vita eterna, si sono arricchiti, hanno ricevuto la loro ricompensa, e ora arrivano a mani vuote al giudizio di Dio. Inoltre, i loro cattivi esempi hanno corrotto tutte le nazioni, e quindi sono responsabili del sangue dei Profeti, del sangue dei Santi e dell’omicidio di tutti coloro che sono stati uccisi ingiustamente sulla terra.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. BENEDETTO XIV – “

Questa breve lettera, come già nella precedente Inter omnigenas, il S. Padre Benedetto XIV, ricorda ai Cristiani residenti in paesi infestati dalla barbarie musulmana e turca, nello specifico l’Albania e le regioni balcaniche, di non assumere nomi musulmani per evitare le tassazioni ed immunità ivi vigenti o i commerci liberi, imitando all’inverso i costumi che i marrani iberici avevano già tenuto in altri tempi nei confronti dei Cristiani, poiché «… questa simulazione comporta una menzogna in materia gravissima, e comprende una virtuale negazione della Fede con grandissima offesa a Dio e scandalo al prossimo: per cui si offre ai Turchi stessi l’occasione propizia di considerare tutti i Cristiani ipocriti e ingannatori, tali che vanno a buon diritto e giustamente perseguitati… » Naturalmente oggi, la questione dei nomi non si pone solo nei confronti dei musulmani, ai quali è stato permesso libero accesso nelle Nazioni un tempo cristiane, ed oggi apostate dalla fede in Cristo, ma pure nei confronti degli “idoli” comunisti, atei, dei buffoni dello spettacolo d’oltreoceano, e senza che ci sia nessun pretesto se non il gusto di essere anticristiani, perché moderni, progressisti e “tolleranti”, il tutto favorito da conniventi giullari in talare che si atteggiano a “santoni” e guide spirituali … certo, ma guide per il fuoco eterno. Oramai i nomi imposti ai Cristiani in onore dei grandi santi, dei martiri della fede, delle vergini cristiane o della Santa Vergine nei suoi attributi, sono praticamente spariti dalla circolazione, conservandosene l’oso solo in famiglie o comunità tradizionali, sostituiti da nomignoli spesso ridicoli od impronunciabili, solo perché alla moda e secondo i modelli falso culturali attuali. E molti vengono pure battezzati accompagnando ipocritamente questi obbrobri con nomi di Santi che hanno più che altro un sapore di sacrilegio, e che gli interessati spesso non conoscono neppure.

Benedetto XIV
Quod provinciale

Il Concilio Provinciale della vostra Provincia di Albania, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, celebrato l’anno 1703 sotto il Papa Clemente XI di felice memoria, nostro Predecessore, aveva santissimamente stabilito, fra le altre cose, al canone terzo, che nel Battesimo non fossero imposti né ai bambini né agli adulti nomi Turchi o Maomettani, e che i Cristiani non tollerassero di essere chiamati con nomi Turchi o Maomettani che mai erano stati loro imposti, per qualunque esenzione da tributi o immunità, o per facilitazioni nel commerciare liberamente, o per evitare pene. Raccomandando anche Noi le stesse cose, le confermammo, e comandammo di osservarle nella nostra Lettera Enciclica che inizia con le parole Inter omnigenas, edita per il Regno di Serbia e regioni vicine, su diversi punti di Religione e di disciplina, il giorno 11 febbraio 1744, anno quarto del Nostro Pontificato.

Quanto fu stabilito con sapienza e religione dai vostri Predecessori fu veramente provvidenziale e salutare, esempio luminoso della Fede Cattolica e della Vostra sincera pietà Cristiana, da essere indicato ad esempio agli altri e da Noi prescritto perché sia rigorosamente osservato, a maggior gloria e prestigio della Vostra Provincia e a maggiore utilità per conseguire l’eterna salvezza delle anime: tanto che se per caso capitasse che venisse trascurato, ridonderebbe a maggior disonore della vostra stessa Provincia e ad aperto danno delle anime.

1. Quindi Noi, che nella predetta nostra Lettera proclamammo quell’abuso una turpe occultazione della Fede cristiana, somigliante all’infedeltà, abbiamo appreso, col più grande dolore del nostro animo Pontificale, che moltissimi di codesta Provincia, trascurato il pensiero dell’eterna salvezza, continuano ad adoperare i medesimi nomi Turchi o Maomettani, non solo per essere considerati immuni e liberi da quei tributi e oneri che furono imposti ai Cristiani, ma anche con lo scopo che non si creda che essi stessi o i loro parenti abbiano apostatato dalla religione Maomettana, e non siano puniti con le pene inflitte in questi casi. Infatti tutte queste cose, anche se la Fede di Cristo viene conservata nel cuore, non si possono fare, senza la simulazione degli errori di Maometto, contraria alla sincerità Cristiana; questa simulazione comporta una menzogna in materia gravissima, e comprende una virtuale negazione della Fede con grandissima offesa a Dio e scandalo al prossimo: per cui si offre ai Turchi stessi l’occasione propizia di considerare tutti i Cristiani ipocriti e ingannatori, tali che vanno a buon diritto e giustamente perseguitati.

2. Si aggiunge inoltre ad aumentare sempre più il nostro dispiacere e dolore, che alcuni di Voi stessi, Venerabili Fratelli, e anche alcuni di Voi, diletti figli Parroci e Missionari, non badando affatto ad una simulazione tanto malvagia e detestabile, ma anzi conniventi, e spinti da motivazioni che non sono sufficienti a scusare i peccati, non hanno timore di ammettere alla partecipazione ai Sacramenti, senza nessun travaglio di coscienza e con pubblica offesa dei buoni Cristiani, quei fedeli affidati alle vostre cure che assumono i suddetti nomi Turchi o Maomettani e procurano di farsi chiamare così.

3. Ne consegue che Noi, che (per la sollecitudine di tutte le Chiese a Noi imposta, e per la soprintendenza suprema del Sacrosanto Apostolato), siamo obbligati a ricondurre tutti i Cristiani sulla via della salvezza e a presentarli a Dio puri, sinceri, procedenti in spirito e verità e senza macchia, dopo avere ascoltato su questo argomento i nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa Inquisitori generali contro la malvagità eretica, col loro consiglio, rinnovando dapprima il lodato Canone del Concilio Albanese della vostra Provincia, colla nostra Apostolica autorità, a tenore della presente Lettera lo confermiamo, e comandiamo che sia osservato rigorosamente. Colla stessa autorità e tenore estendiamo anche alla Vostra Provincia, e comandiamo che siano ugualmente osservati, i decreti della ricordata nostra Lettera. Quindi proibiamo rigorosamente che qualunque Cristiano, per qualunque motivo o pretesto o in qualsivoglia immaginabile circostanza, osi assumere i medesimi nomi Turchi o Maomettani per farsi credere Maomettano.

4. Inoltre, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, vi preghiamo ed esortiamo nel Signore affinché, considerando seriamente il vostro ministero e i conti severi che dovrete rendere al Supremo Principe dei Pastori ed Eterno Giudice Gesù Cristo sulle pecore affidate a ciascuno di Voi, Voi stessi curiate di assicurare la vostra elezione colle vostre buone opere, e non omettiate (la qual cosa non può avvenire senza gravissima Vostra colpa di incuria e negligenza) di rimproverare, scongiurare e sgridare con ogni pazienza e dottrina i medesimi Cristiani della vostra Provincia affinché, tenendo un buon comportamento fra i Pagani, in ogni cosa si mostrino esempio di buone opere, perché coloro che sono avversari, si vergognino, non avendo niente di male da dire su di loro, quasi fossero malfattori: essi, che per turpe guadagno parlano diversamente da come pensano. Se alcuni poi non ubbidiscono alle vostre esortazioni e ai nostri ordini, secondo la norma della disciplina Apostolica, devono essere obbligati con le maniere forti: su di loro devono essere applicate interamente le sanzioni e le pene del vostro Sinodo Albanese e della suddetta nostra Lettera, e sia loro dichiarato che non potranno ricevere, in vita, i Sacramenti, e dopo la morte, se saranno deceduti senza ravvedersi, i suffragi. Quelle pene Noi rinnoviamo e infliggiamo di nuovo, per quanto ce n’è bisogno, e vogliamo e ordiniamo che siano mandate a debita esecuzione da Voi. Questo poi non deve sembrare odioso a nessuno di voi, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, poiché se la Vostra giustizia non supererà quella degli Scismatici ed Eretici, nessuno dei quali osa prendere un nome Maomettano, non entrerete nel Regno dei Cieli.

5. Infine, coloro che si sono fatti Cristiani dal Maomettanesimo, o che sono figli di convertiti, nel caso in cui diffidino della propria costanza nella Fede e abbiano timore di incorrere nelle pene dei loro Governanti se lasciano i nomi Turchi, e abbiano paura di subirle, esortateli seriamente ad abbandonare di nascosto quelle regioni e a venire a rifugiarsi nelle terre dei Cristiani, nelle quali non mancheranno ad essi né Dio che dà il cibo ad ogni vivente, né la carità dei fedeli, specialmente se saranno muniti di lettere di raccomandazione dei Vescovi.

Frattanto a Voi, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, doniamo affettuosamente la Benedizione Apostolica, la quale vogliamo che sia data a Nostro nome ai Cristiani di retta fede da ogni Venerabile Fratello Vescovo nella sua Diocesi.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 1° agosto 1754, anno quattordicesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA IV DOPO PASQUA (2021)

DOMENICA IV DOPO PASQUA (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La liturgia di questo giorno esalta la giustizia di Dio (Intr., Vang.) che si manifesta col trionfo di Gesù e l’invio dello Spirito Santo. « La destra del Signore ha operato grandi cose risuscitando Cristo da morte » (All.) e facendolo salire al cielo nel giorno dell’Ascensione. È bene per noi che Gesù lasci la terra, poiché dal cielo Egli manderà alla sua Chiesa lo Spirito di verità (Vang.), per eccellenza, che viene dal Padre dei lumi (Ep.). Lo Spirito Santo ci insegnerà ogni verità (Vang., Off., Secr.), esso « ci annunzierà » quello che Gesù gli dirà e noi saremo salvi se ascolteremo questa parola di vita (Ep.). Lo Spirito Santo ci dirà le meraviglie che Dio ha operate per il Figlio (Intr., Off.) e questa testimonianza della splendida giustizia resa a Nostro Signore consolerà le anime nostre e ci sarà di sostegno in mezzo alle persecuzioni. Siccome, secondo quanto dice S. Giacomo, «la prova della nostra fede produce la pazienza e questa bandisce l’incostanza e rende le opere perfette », noi imiteremo in tal modo la pazienza del nostro Dio « e del Padre nostro », nel quale « non vi è né variazione né cambiamento » (Ep.), e « i nostri cuori saranno allora là dove si trovano le vere gioie » (Or.). Lo Spirito Santo convincerà inoltre satana e il mondo del peccato che hanno immesso mettendo a morte Gesù (Vang., Comm.) e continuando a perseguitarlo nella sua Chiesa.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCVII:1; 2
Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.

]Ps XCVII: 1
Salvávit sibi déxtera ejus: et bráchium sanctum ejus.

[Gli diedero la vittoria la sua destra e il suo santo braccio.]

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui fidélium mentes uníus éfficis voluntátis: da pópulis tuis id amáre quod prǽcipis, id desideráre quod promíttis; ut inter mundánas varietátes ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gáudia.

[O Dio, che rendi di un sol volere gli ànimi dei fedeli: concedi ai tuoi pòpoli di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti; affinché, in mezzo al fluttuare delle umane vicende, i nostri cuori siano fissi laddove sono le vere gioie.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli
Jas I 17-21
Caríssimi: Omne datum óptimum, et omne donum perféctum desúrsum est, descéndens a Patre lúminum, apud quem non est transmutátio nec vicissitúdinis obumbrátio. Voluntárie enim génuit nos verbo veritátis, ut simus inítium áliquod creatúræ ejus. Scitis, fratres mei dilectíssimi. Sit autem omnis homo velox ad audiéndum: tardus autem ad loquéndum et tardus ad iram. Ira enim viri justítiam Dei non operátur. Propter quod abjiciéntes omnem immundítiam et abundántiam malítiæ, in mansuetúdine suscípite ínsitum verbum, quod potest salváre ánimas vestras.


[Caríssimi: Ogni liberalità benéfica e ogni dono perfetto viene dall’alto, scendendo da quel Padre dei lumi in cui non è mutamento, né ombra di vicissitudine. Egli infatti ci generò di sua volontà mediante una parola di verità, affinché noi siamo quali primizie delle sue creature. Questo voi lo sapete, miei cari fratelli. Ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare e lento all’ira. Poiché l’uomo iracondo non fa quel che è giusto davanti a Dio. Per la qual cosa, rigettando ogni immondezza e ogni resto di malizia, abbracciate con ànimo mansueto la parola innestata in voi, la quale può salvare le vostre ànime.]

L’Apostolo S. Giacomo, detto il Minore, era venuto a conoscere che tra i Cristiani convertiti dal Giudaismo e disseminati fuori della Palestina serpeggiavano gravi errori, nell’interpretazione della dottrina loro insegnata, specialmente rispetto alla necessità delle buone opere. Inoltre, in mezzo alle tribolazioni cui andavano soggetti, c’era pericolo che riuscissero a farsi strada le vecchie abitudini. Per premunire contro l’errore questi suoi connazionali dispersi, e per richiamarli a una vita più austera, S. Giacomo scrive loro una lettera. In essa si insiste sulla necessità che alla fede vadano congiunte le buone opere. Si danno, poi, varie norme, perché tanto nella vita privata, quanto nelle relazioni sociali siano guidati da uno spirito veramente cristiano; e vengono confortati nelle loro tribolazioni. L’Epistola è tolta dal cap. 1 di questa lettera. Da Dio deriva ogni bene. Da Lui abbiamo avuto il dono inestimabile della vita della grazia, per mezzo della predicazione del Vangelo, parola di verità. Questa parola di verità ciascuno deve accogliere con prontezza, con semplicità, con spirito di mansuetudine.

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps CXVII:16.
Déxtera Dómini fecit virtútem: déxtera Dómini exaltávit me. Allelúja.

[La destra del Signore operò grandi cose: la destra del Signore mi ha esaltato. Allelúia.]
Rom VI:9
Christus resúrgens ex mórtuis jam non móritur: mors illi ultra non dominábitur. Allelúja.[Cristo, risorto da morte, non muore più: la morte non ha più potere su di Lui. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem

Joannes XVI: 5-14

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Vado ad eum, qui misit me: et nemo ex vobis intérrogat me: Quo vadis? Sed quia hæc locútus sum vobis, tristítia implévit cor vestrum. Sed ego veritátem dico vobis: expédit vobis, ut ego vadam: si enim non abíero, Paráclitus non véniet ad vos: si autem abíero, mittam eum ad vos. Et cum vénerit ille, árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício. De peccáto quidem, quia non credidérunt in me: de justítia vero, quia ad Patrem vado, et jam non vidébitis me: de judício autem, quia princeps hujus mundi jam judicátus est. Adhuc multa hábeo vobis dícere: sed non potéstis portáre modo. Cum autem vénerit ille Spíritus veritátis, docébit vos omnem veritátem. Non enim loquétur a semetípso: sed quæcúmque áudiet, loquétur, et quæ ventúra sunt, annuntiábit vobis. Ille me clarificábit: quia de meo accípiet et annuntiábit vobis.

[In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Vado a Colui che mi ha mandato, e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Ma perché vi ho dette queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ma io vi dico il vero: è necessario per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito, ma quando me ne sarò andato ve lo manderò. E venendo, Egli convincerà il mondo riguardo al peccato, riguardo alla giustizia e riguardo al giudizio. Riguardo al peccato, perché non credono in me; riguardo alla giustizia, perché io vado al Padre e non mi vedrete più; riguardo al giudizio, perché il príncipe di questo mondo è già condannato. Molte cose ho ancora da dirvi: ma adesso non ne siete capaci. Venuto però lo Spirito di verità, vi insegnerà tutte le verità. Egli infatti non vi parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito: vi annunzierà quello che ha da venire, e mi glorificherà, perché vi annunzierà ciò che riceverà da me.]

OMELIA

(OMELIE PANEGIRICI E SERMONI DEL PREVOSTO PAROCO IN SANTO STEFANO DI MILANO FRANCESCO MARIA ZOPPI – Томо II. – MILANO – TIPOGRAFIA DI GIUDITTA BONARDI – POGLIANI MDCCCXLII.)

VANTAGGI CHE APPORTO’ AL MONDO LA PARTENZA DI GESÙ CRISTO.

Ogni volta che il divin Redentore parlava a’ suoi discepoli della sua partenza, questi si mostravano curiosissimi di sapere dove egli se ne andasse, non avendo essi ancora inteso che volesse significare la misteriosa partenza di Lui. Quindi allorché disse loro, Figliuoli miei, mi resto ancora un poco con voi, ma poi mi cercherete, e dove Io vo, voi non potete venire; l’apostolo san Pietro si fece tosto ad interrogarlo, dicendo, Signore, dove andate? E quando tornò a dir loro, Io vo a prepararvi il luogo, e dove Io vado, voi lo sapete, e non ne ignorate la strada; l’apostolo s. Tommaso gli rispose subito, Signore, noi ignoriamo dove ve ne andate, e come possiamo saperne la strada? Ma poiché ebbero inteso che la partenza del divin Maestro volea significar prima la morte, indi l’ascensione di Lui al cielo; poiché ebbero pensato che così sarebbero rimasti orfani e privi dell’amata presenza di Lui; poiché ebbero ascoltato dalla sua bocca medesima, che dopo di Lui sarebbero stati essi pure com’Egli aspramente perseguitati, fu sì grande la tristezza onde sono stati compresi, che più non lo interpellarono ove se ne andasse. Tanto è vero, o miei dilettissimi, che sono ben rari coloro che amino la croce, o che non si rattristino quando se la vedono avvicinare. Epperò Gesù Cristo, quasi rimproverandoli dolcemente, disse loro, come si legge nell’odierno Vangelo: Ora Io me ne vado a chi mi ha mandato, e nessuno di voi mi domanda, dove Io me ne vada? ma perché  vi ho detto queste cose, vi lasciate occupare il cuore dalla tristezza. Nunc vado ad eum qui misit me, et nemo ex vo bis interrogat me, Quo vadis? sed quia hæc locutus sum vobis, tristitia implevit cor vestrum. Ma il divin Maestro non si lagna così della tristezza de’ cari suoi discepoli, che loro non ne porga prontissima e molta la consolazione. Vi dico la verità, così prosegue a parlar loro, torna bene per voi ch’Io me ne vada; perché se Io non me ne vo, non verrà a voi il Consolatore; che se io me ne andrò, ve lo manderò: Sed ego veritatem dico vobis: expedit vobis ut ego vadam; si enim non abiero, Paraclitus non veniet ad vos; si autem abiero, mittam eum ad vos. – Ecco come li consola, riflette s. Giovanni Crisostomo: Non vi parlo in modo lusinghiero, e quantunque vi rattristiate fuor di modo, fa d’uopo che ascoltiate ciò che è espediente; ed è proprio di chi ama veramente, il non aver riguardo al desiderio degli amati, quando così conviene, ma l’essere piuttosto sollecito di ciò che può tornare a loro vantaggio. Quando Egli sarà venuto, prosegue a dire Gesù Cristo, convincerà il mondo, Arguet mundum; insegnerà a voi tutte le verità, Docebit vos omnem veritatem; e glorificherà me stesso Ille me clarificabit. Eccovi tre vantaggi: l’uno del mondo, l’altro degli Apostoli e il terzo di Gesù Cristo; ed eccovi tutto il Vangelo d’oggi. Sarebbe di troppo il volere in oggi parlare di tutti partitamente: lasciando dunque per ora quello degli Apostoli e di Cristo, accontentiamoci di esaminare sulle tracce del santo Vangelo in che consista quello del mondo che ci riguarda. – Venuto che sarà il Paraclito, convincerà il mondo, Cum venerit ille, arguet mundum. Intorno a che cosa il convincerà, o dilettissimi? Il convincerà intorno al peccato ed alla giustizia ed al giudizio, Arguet de peccato et de justitia et de judicio. Di quale peccato, di quale giustizia e di qual giudizio? chi sia il peccatore, chi il giusto, chi il giudicato, onde qui parla Gesù Cristo, varii essendo i sentimenti de’ santi Padri, a quello mi attengo che sembrami il più conveniente ed il più utile a nostra istruzione. Il mondo tutto era in peccato anziché Gesù Cristo venisse a liberarnelo: tutti aveano peccato in Adamo, ed al peccato di origine quant’altri ne aggiungevano enormissimi de’ proprj e personali? Fa orrore il leggere nelle sacre Scritture a quale eccesso fosse arrivata la universale corruzione degli uomini: fa orrore il pensare che per punire i peccati degli uomini ha dovuto Dio Creatore, quando o colle guerre o colla peste o colla fame distruggere intere nazioni, quando col fuoco consumare città popolatissime, quando sommergere nell’acque il mondo tutto, e pentirsi d’aver fatta la migliore delle sue creature: fa orrore l’ascoltare l’apostolo s. Paolo, che dichiara, essere stati allora gli uomini ripieni d’ogni iniquità, di malizia, di fornicazione, di avarizia; pieni d’invidia, di omicidio, d’inganno; maligni, seminatori di falsi rapporti, detrattori e nemici di Dio; contumeliosi, superbi, altieri, inventori di sempre nuove maniere di far male; indocili, insensati, senza regola e senza affezione; senza patti, senza sentimento di compassione e di umanità: il quadro è tutto dell’Apostolo. Ma pure quanto erano più perversi di cuore, erano altrettanto più ciechi di mente; e mentre erano pieni di delitti da capo a piedi, non sapevano persuadersi d’essere in peccato, e ricusavano di riguardarsi come peccatori. E così pur troppo avviene tuttavia di chiunque è guasto di cuore. Al venire di Gesù Cristo doveansi poi diradare queste nubi, doveano questi ciechi aprire gli occhi alla luce vivissima che Gesù Cristo veniva a spargere per tutto il mondo: l’esemplare santità della sua vita, l’alta sapienza di sua dottrina, la luminosa evidenza de’ suoi miracoli doveano finalmente disingannarli. Ma quanto pochi furono coloro che siansi dati convinti delle loro colpe, e, credendo in Gesù Cristo, lo abbiano riguardato come il loro liberatore! Voi sapete che per lo contrario il tradussero per un indemoniato, per un impostore, per un peccatore, per un trasgressore della legge, e lo trattarono quale il più perverso ed il più infame de’ malfattori. È d’uopo adunque ch’egli si tolga dagli occhi di questi uomini materiali e carnali, e mandi lo Spirito Santo a convincerli del loro peccato. Erano allora sufficienti le opere di Lui a chiuder loro la bocca – dice san Giovanni Crisostomo – ma quanto più convinti saranno e condannati, quando vedranno rinnovarsi le opere stesse dallo Spirito Santo, e rendersi più perfetta e chiara la dottrina, ed operarsi miracoli più strepitosi, e tutte e sì grandi cose farsi in nome di Lui, ch’essi hanno sì barbaramente trattato! Quanto più manifesta si renderà la gloriosa risurrezione di lui! Finora, prosegue lo stesso santo Dottore, potevano riguardarlo come il Figliuolo del falegname, come quello di cui conoscevano il padre e la madre, e non curarlo, vilipenderlo anzi e maltrattarlo: ma quando vedranno sciogliersi i vincoli della morte, sanarsi le malattie, mandarsi in fuga i demonj, emendarsi i vizj della natura e diffondersi un’immensa pienezza di spirito, e tutte queste cose operarsi coll’invocare soltanto il nome di Gesù, che cosa diranno, Quid dicent? Come il Padre (è sempre lo stesso santo Dottore che parla) ha reso testimonianza di Lui, così la rende lo Spirito Santo; e sebbene l’abbia resa sino dal principio, or pure la renderà, e convincerà il mondo di peccato, Arguet de peccato: non gli lascerà cioè alcun appiglio, e dimostrerà che ha peccato senza che v’abbia luogo a scusa alcuna: Hoc est, omnem auferet excusationem, et sine venia peccasse demonstrabit. Al vedere pertanto le opere meravigliose dello Spirito Santo, forz’è che il mondo si riconosca legato ancora dai vincoli antichi del suo peccato; forz’è che confessi, che non poteva essere sciolto fuorchè dalle mani di Gesù Cristo; forz’è che pianga di non esserne stato da lui liberalo per non avere creduto in Lui: Arguet de peccato, quia non cre diderunt in me. Non tardò diffatti il mondo a darsi per convinto e per colpevole. Investito appena l’apostolo s. Pietro dello Spirito Santo, insegna altamente e pubblicamente a tutta la casa d’Israele, che Cristo, quello stesso ch’essi hanno poco prima messo in croce, è il solo . Salvatore, il vero Messia. Un siffatto parlare dovea concitargli contro l’odio di tutti: tutte le passioni de’ Giudei ne venivano fortemente irritate,e si sarebbe creduto che Pietro dovesse restar vittima di quell’odio stesso che di fresco avea sacrificato il suo divin. Maestro. Ma no, dilettissimi: parla Pietro, ma non è Pietro che parla, è lo Spirito Santo che parla in Lui, e talmente illumina e muove chi lo ascolta, che già si danno per rei, e computi nel cuore e premurosi di riparare il loro delitto, e a Lui e agli altri Apostoli si rivolgono affannosi, dicendo, Fratelli, fratelli, che cosa abbiamo a fare: Quid faciemus, viri Fratres? Predica Pietro per la prima volta, e predica la penitenza e predica il battesimo in nome dell’odiato Gesù; ma non è Pietro che predica, è lo Spirito santo che predica in Pietro, e porta a’ piedi di lui ben tremila persone, che, sinceramente pentite, domandano é ricevono il santo battesimo nel nome di Gesù. Predica Pietro per la seconda volta, e la parola di lui diviene più feconda di prima, ma è lo Spirito Santo che dà la forza e l’efficacia alla parola di Pietro, e penetrando nel cuore di altre ben cinquemila persone, le fa credere in quel Gesù ch’elleno stesse hanno crocifisso.Ma non erano queste che le prime prove della vittoria che lo Spirito Santo anto riportava sul cuore degli uomini: non meno efficace della predicazione di Pietro fu la predicazione di tutti gli altri Apostoli ripieni dello stesso divino Spirito. Si sparsero questi per tutto il mondo, e dappertutto predicarono la stessa fede, lo stesso Vangelo, Gesù Cristo, e questo crocifisso; ed a fronte di ostacoli e molti e fortissimi ei insormontabili, la fede e la religione di Cristo si sparse, si stabilì dappertutto rapidamente, e tutto il mondo confessò il suo peccato di non aver creduto in Gesù Cristo, riconobbe in lui il suo liberatore, e rese pienissima testimonianza col fatto siccome allo Spirito Santo che operava questo grandissimo prodigio, così a Gesù Cristo che lo avea predetto: Arguet de peccato, quia non crediderunt in me. Che se lo Spirito santo così convince il mondo intorno al suo peccato, perché non ha creduto in Gesù Cristo, il convince nello stesso tempo e per la stessa ragione intorno alla santità e giustizia di Gesù Cristo, nel quale non hanno creduto: Arguet de justitia. E qual prova può aggiungere più convincente di quella di andarsene egli al Padre suo e togliersi per sempre agli occhi loro? Quia vado ad Patrem, et jam non videbitis me. Imperciocchè, come osserva il nostro santo Padre, erano soliti i Giudei di accusare Gesù Cristo,che non venisse da Dio, e che fosse però un peccatore, un trasgressore della legge, e tale il credevano, e così bassamente pensavano di Lui, perché il vedevano affatto simile ad ogni altro uomo, vestito della stessa carne, soggetto alle stesse infermità, perché conversavano con ogni confidenza con Lui,e trattavano con Lui come con chicchessia: avranno quindi detto fra loro … Possibile che costui, in tutto simile a noi, sia il Figliuol di Dio, il Salvator del mondo, il vero Messia? Ma ascendendo egli ne’ cieli, e togliendosi per sempre agli occhi loro, conviene che ogni calunnia sia rimossa e confusa: Hinc omnis calumnia amovebitur. – Perocchè, così continua ragionando il santo Padre, se per ciò il credono trasgressore della legge, perchè non sia egli da Dio, quando lo Spirito Santo avrà dimostrato che se ne è da qui partito ed è asceso al cielo non già per un’ora, ma per rimanervi per sempre, come il significa con quelle parole, Già più non mi vedrete, Jam non videbitis me; che cosa mai diranno? Quidnam dicent? Può egli un peccatore restarsene per sempre con Dio Padre? Ecco come con questi due argomenti si toglie dall’animo de’ Giudei ogni mal concepito sospetto. Imperciocchè un peccatore non può operare miracoli a suo capriccio; i miracoli sono un effetto soltanto della virtù di Dio, della quale non vuole e non può usarne ad inganno degli uomini: un peccatore non può restarsene per sempre appresso Dio; anzi non può essere con Lui neppure per un momento, essendo riservata la beata presenza di Lui ad essere il premio e la felicità eterna de’ giusti: Ne que enim peccator miracula facere, neque esse apud Deum perpetuo protest. Dunque lo Spirito Santo li convincerà chi io mi sia, né possono più chiamarmi peccatore, e dirmi ch’io non venga da Dio: Quare non possunt me amplius peccatorem et a Deo non esse dicere: li convincerà ch’Io sono l’Agnello di Dio, l’Agnello senza macchia, quale sono stato loro predicato dal mio precursore Giovanni; che sono il Figliuol di Dio, il Salvatore del mondo, quale Io stesso mi sono dichiarato e confermato sempre sino sulla croce; li convincerà ch’egli stesso è mandato da me di là, dove sono ritornato, e ch’Io siedo alla destra di mio Padre; li convincerà finalmente ch’Io sono il santo, il giusto, la santità, la giustizia stessa; e non solo il santo, il giusto, ma la sola sorgente d’ogni santità e giustizia, Arguet de justitia. Imperciocchè non mi vedranno essi più; e tolta sarà dagli occhi loro quella carne inferma, di cui hanno voluto prendersi scandalo, Jam non videbitis me; ma dalle opere dello Spirito santo che io manderò, conosceranno ch’io non sono, quale appariva agli occhi loro, uomo infermo e peccatore, ma Dio onnipotente e giusto, quale il Padre appresso cui sono asceso, Arguet de justitia, quia vado ad Patrem. Vedranno rozzi pescatori parlare le lingue tutte e confondere i saggi del secolo; uomini timidi ed inermi affrontare l’alterigia e le minacce de tiranni, e farli impallidire; uomini deboli ed impotenti comandare alla natura, cangiarne le leggi a loro arbitrio ed operare non mai più veduti prodigi. Ma per virtù di chi, o dilettissimi, se non per virtù di Lui, che prima di ascendere al cielo, già li avea mandati per il mondo a predicare il Vangelo, e muniti d’ogni sua podestà, e costituiti a stabilire il suo regno e la sua fede sulle rovine di tanti imperi e di tanti errori? Vedranno il mondo tutto cangiare in breve tempo maniera di pensare, cangiare costume e abbracciare la religione di Cristo , cui, siccome contraria ai pregiudizi dell’educazione, agli impegni del partito, alle mire della prudenza carnale e a tutte le passioni, avea prima sommamente abborrita e contraddetta. Ma per forza di chi? se non per forza di Lui che già avea predetto, che non lo avrebbero più veduto, ma spedito avrebbe il suo Spirito a rinnovare la faccia della terra? Arguet de justitia, quia vado ad Patrem, et jam non videbitis me. S’alzerà questo mondo e il principe di lui; s’alzerà quel mondo, come riflette sant’Agostino, di cui sta scritto che non lo conobbe, Et mundus eum non cognovit, gli infedeli, cioè, onde tutto il mondo è pieno, hoc est, homines infideles, quibus toto orbe terrarum mundus est plenus: s’alzerà il principe di questo mondo, che dall’Apostolo S. Paolo si appella il principe di queste tenebre, cioè degli infedeli: Princeps tenebrarum harum, hoc est, infidelium: il demonio, in una parola, si alzerà contro questi alti disegni della divina Sapienza. E quanto già prevalse la forza e l’insidia di lui contro Gesù Cristo! Ei gli sovvertì un apostolo e glielo cangið in un traditore; ei gliene avvilì un altro e lo rese uno spergiuro; egli pervertì il cuore de’ sacerdoti, de’ seniori, de’ Giudei, e li rese ingiusti contro di lui e sacrileghi violatori delle leggi e della religione; egli concitò contro Lui l’odio ed il furore del popolo, che poc’anzi lo avea proclamato suo Re, e lo convertì in carnefice, in crocifissore di Lui; egli finalmente arrivò a conficcarlo su di una croce. Poteva sopra di Lui dimostrare potenza maggiore e menare maggior trionfo? Ma ora appunto che sembra giunto al colmo del suo potere e delle sue vittorie, lo Spirito Santo convincerà il mondo intorno al giudizio, alla condanna pronunziata contro di Lui, Arguet de judicio, e dimostrerà ch’Egli è debellato, vinto, giudicato: Arguet de judicio, quia Princeps hujus mundi jam judicatus est. Imperciocchè al solo segno di quella croce, che già fu il grande trofeo di Lui, non daranno più risposta gli idoli, muti si renderanno gli oracoli, e fugati saranno i demonj non solo da’ corpi degli ossessi, ma fuori da tutta la terra, e cacciati negli eterni abissi; e la voce sola di un discepolo di Gesù crocifisso farà rovinare i tempi, rovesciare gli altari degli déi fallaci, e più non si rammenterà l’impero del principe di questo secolo che con fremito e con orrore. Egli si opporrà alla forza ed alla sapienza dello Spirito Santo vincitore, e contro Lui dai profondi abissi, ov’egli è irrevocabilmente cacciato, adoprerà potere ed arte; userà della propria seduzione, userà del ministero di quanti seguaci egli ha nel mondo, ma vani saranno gli sforzi, inutili gli attentati di lui: contro tutte le passioni del cuore, ch’egli risveglierà e ravviverà più che mai, si promulgherà e si abbraccerà la morale evangelica di Gesù Cristo, che ne impone il freno e la mortificazione: sotto la spada onde armerà egli i tiranni per sacrificare nella sua culla, dirò così, la Chiesa di Cristo ancor bambina, crescerà questa vigorosa, e moltiplicherà i suoi figliuoli senza numero: la violenza di ostinate fierissime persecuzioni, colle quali egli si sforzerà di distruggere ne’ suoi principj la Religione di Gesù Cristo, gioverà anzi a stabilirne e dilatarne l’impero; e la crudeltà de’ persecutori, di cui egli si servirà a terrore de’ Cristiani, diverrà pe’ Cristiani – come dice Tertulliano – un allettamento: In christianis crudelitas illecebra facta est; e quanto più ne mieterà colla falce dei tiranni dal campo della Chiesa, diverrà questo tanto più fertile e coperto di messe sempre più abbondante: Quo plures metimur, eo plures efficimur. Stabilita così e dappertutto estesa la santa Chiesa di Gesù Cristo per virtù dello Spirito Santo da dodici pescatori, contro gli sforzi di questo mondo congiurato, e del principe di lui, resterà convinto il mondo, che il demonio co’ suoi seguaci già è giudicato, condannato, e, come dice sant’Agostino, irremissibilmente destinato al giudizio del fuoco eterno, Judicio ignis æterni irrevocabiliter destinatus est; che ogni potere di lui è distrutto, annientato ogni impero, e che verificandosi va la promessa di Gesù Cristo a Pietro, che le porte dell’inferno non prevaleranno giammai contro la sua Chiesa: Arguet de judicio, quia princeps hujus mundi jam judicatus est. Ormai l’opera grande dello Spirito Santo è compiuta. Siamo noi, o dilettissimi, convinti di tutto ciò di cui venne Egli a convincere il mondo? Io non dubito che alcuno di noi non lo sia. Ma dimostriamo poi tutti di esserlo coi fatti? Ahi! che forse non pochi sono bensì convinti e confessano, come dice l’Apostolo, di conoscere Dio, ma lo negano co’ fatti, e colla vita loro smentiscono la loro fede, la loro persuasione: Confitentes se nosse Deum, factis autem negant. Guardinsi costoro, conchiude sant’Agostino, guardinsi dal giudizio che li aspetta, perché, imitando essi il principe di questo mondo già giudicato, devono a tutta ragione temere di non essere con lui condannati: Caveant futurum judicium, ne cum mundi principe damnentur, quem judicatum imitantur.

IL CREDO

Offertorium


Orémus.
Ps LXV:1-2; LXXXV:16
Jubiláte Deo, univérsa terra, psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja.

[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: venite e ascoltate, tutti voi che temete Iddio, e vi narrerò quanto il Signore ha fatto all’ànima mia, allelúia.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes effecísti: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.

[O Dio, che per mezzo degli scambi venerandi di questo sacrificio ci rendesti partecipi dell’unica somma divinità: concedici, Te ne preghiamo, che come conosciamo la tua verità, così la conseguiamo mediante una buona condotta.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann XVI:8
Cum vénerit Paráclitus Spíritus veritátis, ille árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício, allelúja, allelúja.

[Quando verrà il Paràclito, Spirito di verità, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, allelúia, allelúia]

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, Dómine, Deus noster: ut per hæc, quæ fidéliter súmpsimus, et purgémur a vítiis et a perículis ómnibus eruámur.

[Concédici, o Signore Dio nostro, che mediante questi misteri fedelmente ricevuti, siamo purificati dai nostri peccati e liberati da ogni pericolo.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA