IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (VII)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (VII)

CATECHISMO POPOLARE O CATTOLICO

SCRITTO SECONDO LE REGOLE DELLA PEDAGOGIA PER LE ESIGENZE DELL’ETÀ MODERNA

DI

FRANCESCO SPIRAGO

Professore presso il Seminario Imperiale e Reale di Praga.

Trad. fatta sulla quinta edizione tedesca da Don. Pio FRANCH Sacerdote trentino.

Trento, Tip. Del Comitato diocesano.

N. H. Trento, 24 ott. 1909, B. Bazzoli, cens. Eccl.

Imprimatur Trento 22 ott. 1909, Fr. Oberauzer Vic. G.le.

PRIMA PARTE DEL CATECHISMO:

FEDE (4).

4. LA SANTISSIMA TRINITÀ.

Le tre Persone divine sono state rivelate nel battesimo di Cristo: il Padre, voce dal cielo, il Figlio battezzato, lo Spirito Santo sotto forma di colomba. (S. Math. III, 16).

1. LA SANTISSIMA TRINITÀ È UN DIO IN TRE PERSONE. LE TRE PERSONE SI CHIAMANO: Padre, Figlio e Spirito Santo.

Il numero 3 si trova spesso nei misteri della religione. Ci sono 3 soggiorni delle anime dopo la morte, 3 parti principali della Messa; 3 elementi in ogni Sacramento; 3 persone nella Sacra Famiglia. Gesù Cristo ha passato 3 ore sulla croce, 3 giorni nel sepolcro; la sua vita pubblica è durata 3 anni; Egli è rivestito della triplice dignità sacerdote, re e profeta. Il numero 3 compare anche in alcuni fenomeni della natura. Ci sono 3 regni nella creazione (minerale, vegetale e animale); 3 stati di corpi (solido, liquido, gassoso); 3 divisioni del tempo (passato, presente, futuro). – I mistici commentano anche il numero 4 nei misteri: ci sono 4 Vangeli, 4 virtù cardinali, 4 fiumi in paradiso, 4 punti cardinali da cui gli Angeli chiameranno l’umanità al giudizio; l’umanità ha atteso il Salvatore per 4 secoli; il tempio di Gerusalemme aveva 4 lati, ecc.. – Lo stesso vale per il numero 7: ci sono 7 giorni della Creazione, 7 sacramenti, 7 opere di misericordia, 7 virtù morali, 7 doni dello Spirito Santo, 7 ordini ecclesiastici, 7 richieste nel Pater, 7 parole di Cristo sulla croce, ecc. ecc., misteri che contribuiscono alla nostra somiglianza o unione con Dio. Il 7 si ritrova anche nel simbolismo della natura, ad esempio i 7 colori dello spettro, i 7 toni della scala musicale. – Il numero 3 è il numero divino; il numero 4, il numero della creazione (4 punti cardinali); il numero 7 rappresenterebbe l’unione del Creatore e della creatura.

2. È IMPOSSIBILE PER NOI CON LA NOSTRA DEBOLE RAGIONE COMPRENDERE QUESTA VERITÀ; PER QUESTO MOTIVO È CHIAMATO IL MISTERO DELLA SANTISSIMA TRINITÀ.

È impossibile per noi capire come tre Persone divine possano essere un solo Dio, quindi l’apparente identità di tre e uno! La Trinità è incomprensibile e inesprimibile (4 Conc. Lat.). S. Agostino racconta che abbia incontrato un bambino che attingeva l’acqua dal mare versandola in un piccolo buco. Egli espresse il suo stupore per questo e il bambino rispose: “Giungerò piuttosto a mettere il mare in questo buco, prima che tu possa afferrare il mistero della Santa Trinità”. – Chi fissa il sole rimane abbagliato, e chi continuerebbe a fissarlo perderebbe la vista. È lo stesso con i misteri della Religione: chi vuole capirli, rimane abbagliato e chi si ostina a scrutarli perderebbe completamente la fede. (S. Aug.). Chi si rifiuta di credere in questo mistero con il pretesto di non capirlo sarebbe come un cieco che contesta l’esistenza del sole perché non riesce a vederlo. Del resto, ci sono molte cose nella natura stessa che non siamo in grado di spiegare. Cos’è la luce, l’elettricità, il magnetismo? la crescita delle piante, eccetera, eccetera? Non lo sappiamo. E che cos’è in confronto ai 430 trilioni di vibrazioni che si dice l’etere produca al secondo quando percepiamo il colore rosso, e il doppio quando percepiamo il colore violetto? E si noti che per contare un singolo trilione ci vorrebbero 20.000 anni. Quanto di più siamo incapaci di comprendere ciò che riguarda Dio. “Tu sei grande, Signore, e impenetrabile ai nostri pensieri” (Ger. XXXII,19). Noi non potremmo comprendere Dio se non a condizione che fossimo noi stessi Dio. – Ma possiamo, per mezzo della ragione illuminata dalla fede, arrivare ad una conoscenza molto utile dei misteri, considerando alcune analogie della natura. (Concilio Vaticano: III, 4). Il sole si vede nel cielo, nell’acqua e nello specchio; vediamo quindi tre soli anche se ce n’è uno solo. Il raggio bianco può essere scomposto in rosso, giallo e blu; è quindi sia uno che triplice. L’ametista, dice S. Isidoro, brilla in tre colori diversi, a seconda del lato: essa è porpora, viola e rosa, pur essendo che una sola pietra. L’acqua è solida, liquida e gassosa in momenti diversi. L’acqua della sorgente, del ruscello o del fiume è la stessa acqua, ma ha nomi diversi. (S. Denys. Alex.). La superficie luminosa del sole, i raggi da esso emanati e il calore da esso prodotto sono tre cose in una (S. Cyr. Al.). L’anima ha in essa la trinità dell’essere, della conoscenza e della volontà: tre uomini possono avere la stessa idea. – Gli increduli semisapienti fanno la seguente obiezione: è impossibile che tre facciano uno e che uno sia tre; queste persone fraintendono l’intelligenza della Chiesa. Essi bestemmiano ciò che non conoscono (S. Giuda 10), perché la Chiesa non dice: che tre Persone siano una sola Persona, ma che tre Persone siano una sola sostanza.

3. LETRE PERSONE DIVINE HANNO HANNO IN COMUUNE SOSTANZA, QUALITÀ ED OPERE

Non ci sono quindi tre dèi, ma un solo Dio.

Il Padre è quindi effettivamente un altro rispetto al Figlio, perché si differenzia per la Persona; ma non è un altro essere, perché non ha un’altra sostanza. (4 Conc. Lat.).

Ciascuna Persona è dunque eterna, onnisciente, onnipotente, perfetta, come le altre.

È vero che Cristo, parlando del suo ritorno al Padre, ha detto: “Il Padre è più grande di me” (S. J. XIV, 28); ma parlava della sua umanità.

LA CREAZIONE DEL MONDO, LA REDENZIONE E LA SANTIFICAZIINE DELL’UMANITÀ SONO SRATRE REALIZZATE IN COMUNE SALLE TRE PERSONE.

Tuttavia, si usa dire: Dio Padre ha creato il mondo; Dio Figlio ha salvato gli uomini, Dio Spirito li santifica. Ne spiegheremo la ragione più avanti.

4. LE TRE PERSONE DIVINE NON SI DIISTINGUONO CHE PER LA LORO ORIGINE.

Il tronco dell’albero deriva dalla radice ed il frutto da entrambe. La stesso è delle tre Persone divine.

Il Padre non ha origine e non procede da nessun’altra Persona, ma il Figlio procede dal Padre e lo Spirito Santo da entrambi. (Cat. di Bellarmino).

Per designare l’ordine della processione, il Padre è chiamato prima Persona, il Figlio la seconda, lo Spirito Santo la terza. Ma va notato che non si tratta di una successione nel tempo; il Figlio procede dal Padre da tutta l’eternità e allo stesso modo la processione dello Spirito Santo dall’uno e dall’altro è eterna. Perché se il tempo producesse qualcosa in Dio, Egli non sarebbe più immutabile e cesserebbe di essere Dio. – Il Figlio è generato dall’essere eterno del Padre prima di ogni creazione. (Sal. CIX, 3) nel modo seguente: Dio con la conoscenza di se stesso ha generato un’immagine consustanziale, proprio come il nostro pensiero produce un’immagine, un’idea nella nostra mente. I seguenti paragoni ci aiuteranno a capire: il Fuoco genera il bagliore e quest’ultimo appare contemporaneamente al fuoco; se ci fosse un fuoco eterno ci sarebbe uno splendore eterno (S. Aug.). Ora, dice la Scrittura, il Figlio è lo splendore della luce eterna (Sap. VII, 26), lo splendore della gloria del Padre (Eb. i, 3). Quando gli studenti si appropriano perfettamente della scienza dell’insegnante, hanno la stessa scienza, ma con la differenza che la scienza del maestro è la scienza originale e quella degli allievi una scienza comunicata; allo stesso modo il Padre e il Figlio hanno la stessa sostanza (sapienza), con la differenza che quella del Figlio le è stata comunicata da tutta l’eternità. (Cl. d’Al.). Una fiaccola può essere accesa con un’altra fiaccola senza che quest’ultima perda nulla del suo splendore; allo stesso modo il Figlio procede dal Padre senza prendere nulla di Lui. (Tatiano). Il Figlio di Dio è chiamato anche il suo Verbo (S. Giovanni 1,1), perché è la parola parlata e parlante della sostanza divina. La parola è l’espressione fedele del pensiero, e Dio Figlio è l’immagine consustanziale del Padre. – Il Figlio procede per via di conoscenza e lo Spirito Santo per via di amore. Se qualcuno si guarda in uno specchio, crea la propria immagine; se ne percepisce la bellezza, ama se stesso. Dio si vede nello specchio della sua divinità e genera l’immagine consustanziale di sé. (Heb.I, 3); l’amore reciproco del Padre e di questa immagine, consustanziale, cioè del Figlio, è lo Spirito Santo (S. Aug., S. Anselmo, S. Thom. di Aq.). Lo Spirito Santo può essere considerato a maggior ragione come uno Spirito d’amore, perché produce nei nostri cuori l’amore per Dio e per il prossimo. La parola spirito (respiro) è ben scelta, perché designa la l’inclinazione reciproca, il movimento dell’amore. (S. Thom. d’Aq.) – Cristo stesso dice che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figli; una volta dice che il Padre manderà lo Spirito (S. Giovanni XIV, 26); un’altra volta, che sarà Lui stesso a mandarlo. (Ibid. XVI, 7). Lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio come il calore viene dal sole e dal raggio (S. Thom. d’Aq ), come il frutto viene dalla radice e dal tronco. (Tert.).

QUESTA DIFFERENZA DI ORIGINE È IL MOTIVO PER CUI AL PADRE SI ATTRIBUISCONO LE OPERE DELL’ONNIPOTENZA, AL FIGLIO QUELLE DELLA SAPIENZA, ALLO SPIRITO SANTO QUELLE DELLA BONTÀ.

In realtà, queste opere hanno una certa analogia con le proprietà personali relative alla loro origine. Il Padre genera il Figlio, e per questo gli viene attribuita anche la produzione di esseri contingenti dal nulla, cioè la creazione. (Symb. Ap ) Gli sono attribuite anche le opere di misericordia, perché accoglie i peccatori penitenti come suoi figli. S. Paolo lo chiama il Padre di misericordia (2 Cor. I, 3). – Il Figlio è la conoscenza eterna del Padre, la Sapienza. Per questo motivo, il magnifico ordine della creazione è attribuito a Lui. “Tutto è stato fatto da lui” (S. Giovanni I, 3). Così come l’artista disegna il piano della sua opera con un atto della sua intelligenza, allo stesso modo in cui il Padre ha creato l’ordine del mondo per mezzo del Figlio, il Figlio è anche il primo ad essere stato creato. Al Figlio spetta anche il merito di aver ristabilito l’ordine con la redenzione, e ciò è tanto più vero in quanto Egli ha assunto la natura umana per questo scopo. – Lo Spirito Santo è l’amore reciproco del Padre e del Figlio; è a Lui, quindi, che vengono attribuiti tutti i benefici di Dio, in particolare la comunicazione della vita nella creazione. Come l’uccello si posa sulle uova, per vivificare il germe con il calore, allo stesso modo lo Spirito di Dio aleggia sulle acque (S. Ger.) Lo Spirito Santo è quindi anche la comunicazione della vita soprannaturale per la grazia, cioè la santificazione degli uomini. È chiamato il dito di Dio in quanto autore dei miracoli; è Lui che ha operato il più grande atto dell’amore divino, l’Incarnazione: “La bontà di Dio ha sempre riempito il cuore dell’uomo di benefici ma la misura è debordata quando con l’Incarnazione del Verbo la misericordia è scesa sui peccatori, la verità su coloro che erravano, la vita sui morti (S. Leone M.).

5. LA SANTA TRINITÀ CI È STATA RIVELATA DALLE PAROLE DI GESÙ CRISTO.

Non possiamo conoscere la Trinità attraverso la creazione, perché Dio vi ha agito attraverso le perfezioni comuni a tutte le Persone.: onnipotenza, sapienza, bontà, ma non da ciò che differenzia le tre Persone. C’è qui un’analogia con il sole; esso agisce solo su due sensi: la vista ed il tatto, ma non sull’orecchio, sull’olfatto o sul gusto. Lo percepiamo quindi solo attraverso i primi due sensi, gli altri tre non possono darci alcuna idea del sole; allo stesso modo la nostra ragione non percepisce la Trinità, perché la Trinità non agisce su di essa. (S. Efrem.) Noi possiamo avere conoscenza della Santa Trinità solo attraverso la rivelazione. Nessuno, dice Gesù Cristo, nessuno conosce il Padre se non il Figlio e coloro ai quali il Figlio vuole rivelarlo (S. Math, XI, 27). Ora, Gesù Cristo ordinò ai suoi Apostoli, al momento della sua ascensione, di “andare e insegnare a tutte le genti e di battezzarle nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. (S. Math. XXVIII, 19). – L’Antico Testamento aveva già una vaga idea del mistero della Santissima Trinità. I sacerdoti ebrei dovevano, quando benedicevano il popolo, invocare il nome di Dio per tre volte (Numeri VI, 23). Isaia ci dice: (VI, 3) che i serafini cantano in cielo: Santo, santo, santo è il Dio degli eserciti. Si noti soprattutto lo strano plurale utilizzato da Dio nella creazione dell’uomo: Facciamo l’uomo a nostra immagine (Genesi I, 26). E Davide scrisse nel Salmo CIX: “Il Signore ha detto al mio Signore: siedi alla mia destra. Sebbene circondata da ombre, la rivelazione della Trinità era stata fatta nell’antico Testamento in modo che il Nuovo Testamento, dove questa rivelazione sarebbe stata chiara, non sembrasse contraddirla. (Bellarmino) – La Chiesa conosce questo mistero, la sinagoga lo rifiuta, la filosofia lo ignora. lo rifiuta, la filosofia lo ignora (S. Ilario).

6. LA FEDE IN QUESTO MISTERO È PROFESSATA PUBBLICAMENTE NEL SEGNO DELLA CROCE, NEL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI, NEL BATTESIMO E NEGLI ALTRI SACRAMENTI, NELLE CONSACRAZIONI E CON LA FESTA DELLA SANTA TRINITÀ.

Questo mistero è il fondamento della religione cristiana. Senza di esso, è impossibile concepire la redenzione attraverso il Figlio di Dio. Sforziamoci quindi di produrre spesso degli atti di fede, soprattutto con la recita frequente della bella preghiera: Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, come era in principio, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Così sia. Indirizziamo a Dio questa lode, non solo quando ci inonda con le sue benedizioni, ma anche quando ci manda delle prove!

5. LA STORIA DELLA CREAZIONE.

La storia della creazione ci è stata raccontata da Mosè.

La storia della Creazione non è una favola; è un racconto vero, registrato da Mosè, ispirato dallo Spirito Santo; egli scriveva la parola di Dio, che potrebbe avergli mostrato i dettagli della creazione in una visione. – Il racconto di Mosè è pienamente in linea con le scoperte scientifiche. Gli scavi della crosta terrestre hanno dimostrato che gli esseri organici vi sono apparsi nell’ordine indicato dalla Genesi. Tutti i grandi scienziati hanno quindi ammirato questa storia di 3000 anni. – Questo racconto, inoltre, si riferisce solo all’attività creativa sul nostro pianeta.

1. IN PRINCIPIO DIO CREÒ IL MONDO SPIRITUALE ED IL MONDO CORPOREO (Concilio Vaticano III, i).

In principio, cioè all’inizio del tempo, quando all’infuori di Dio non esisteva nulla. Il tempo è iniziato con il mondo; non c’era quindi durata prima che Dio lo creasse. (S. Aug.) La Scrittura non dice quando il mondo sia stato creato, dice solo che non sia eterno e che sia stato fatto. Il mondo potrebbe quindi essere esistito milioni di anni prima della comparsa dell’uomo [qui siamo nel mondo delle ipotesi fantasiose antibibliche, degli pseudoscienziati copernicani eliocentristi, alle quali, purtroppo, è legato l’autore del catechismo, deviato dalla falsa (pseudo)scienza astronomica ndr.-]. – Ma noi non sappiamo, e mai sapremo, come lo spirito di Dio abbia prodotto la materia e le sue forze. – Invece del mondo spirituale e del mondo corporeo, S. Paolo dice: “le cose invisibili e le cose visibili”. (Col. 1,16). Mosè scrisse: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Genesi 1, 1). Sotto questo termine di cielo non si intende il firmamento, perché la creazione di questo è riportata solo nei versetti 6-8, 14-19, ma la dimora degli Angeli e degli eletti. (Solo i pagani avevano l’abitudine di confondere i due tipi di cielo; ponevano i loro eroi nelle stelle). Mosè chiama il mondo corporeo terra, perché per gli uomini è la parte principale della creazione visibile. Non dimentichiamo che queste prime parole della Bibbia: “In principio Dio creò il cielo….”. dovrebbero ricordarci che il cielo è la nostra destinazione finale nell’eternità.

IL MONDO SPIRITUALE COMPRENDE GLI ANGELI, LA CUI DIMORA È IL CIELO.

Poiché gli Angeli sono stati creati prima della terra, per così dire all’alba, nella Scrittura vengono talvolta chiamati “stelle del mattino” (Giobbe XXXVIII, 7). – L’inferno non è stato come il cielo creato fin dall’inizio (S. Math. XXV, 34), Dio lo ha creato solo dopo la caduta degli angeli.

IL MONDO CORPOREO È COMPOSTO DA TUTTE LE COSE CONTENUTE NELL’UNIVERSO VISIBILE.

Gli uomini sono un composto di materia e spirito; essi furono creati solo per ultimi. (4 Concilio Lateranense).

2. IN PRINCIPIO IL MONDO MATERIALE ERA CAOS, SENZA FORMA NÉ LUCE.

Dio all’inizio creò solo la materia prima da cui formò tutti i corpi.

(S. Aug.) La scienza attuale riconosce circa 70 corpi semplici. Mosè dà a questa materia primitiva il nome di acque (S. Ger., S. Ambr.). Questi corpi erano all’inizio in uno stato di mescolanza, come la sabbia del deserto, senza forma e senza luce. (I Mosè 1, 2). Era quasi il nulla, perché mancava qualsiasi forma, eppure era un essere reale, perché questa materia poteva ricevere una forma. Questa materia primitiva creata da Dio è stata modificata per effetto delle leggi naturali da Lui stabilite, ma la ragione primaria di tutta questa evoluzione non risiedeva nell’essenza della materia, ma nella volontà di Dio, nella parola creatrice: “Fiat”. La scienza sostiene che questa materia primitiva creata da Dio era allo stato gassoso e riempiva tutto lo spazio. (Newton, Laplace, Kant). Non c’è nulla che ci impedisca di ammettere questa opinione, perché tutti i metalli e i minerali portati ad una temperatura sufficiente si volatilizzano e di conseguenza riempiono uno spazio più ampio;

Inoltre, l’analisi spettrale ha dimostrato che il sole, i pianeti e le stelle fisse sono composti dagli stessi elementi della Terra, il che porta alla conclusione di un’origine comune.

3. DIO HA DATO AL MONDO MATERIALE LA SUA FORMA ATTUALE NELLO SPAZIO DI SEI GIORNI. (Genesi, 3 -31).

Questi 6 giorni sono probabilmente lunghi periodi di diverse migliaia di anni (S. Cip.); infatti il settimo giorno, il giorno del riposo, durerà fino al giudizio ultimo, il che è un periodo enorme. Inoltre, prima del quarto giorno, quando il sole fu creato, non potevano esistere giorni di 24 ore. La parola giorno è stata impiegata perché la settimana della creazione doveva essere il tipo della settimana umana.

IL PRIMO GIORNO DIO CREÒ LA LUCE.

Mosè racconta che Dio disse: “Sia la luce, e la luce fu” (Genesi 1,3). Dio creò quindi una speciale forza luminosa o ignea (quando la Scrittura dice: Sia tale cosa, si produca tale cosa, si deve ammettere che sia stata aggiunta una nuova forza agli elementi primitivi). Il fluido luminoso, chiamato anche etere, trasmette la luce come l’aria trasmette il suono. La forza luminosa è indipendente dal sole, poiché esiste una luce al di fuori del sole (aurora boreale, ecc.). La scienza (su pure congetture fantastiche indimostrabili – ndr.-) ci dice che la nebulosa primitiva era caotica, cioè senza movimento e senza forza.. Dio ha introdotto una nuova forza, la gravità o gravitazione, in virtù della quale gli atomi esercitavano una forza gli uni sugli altri, si mettevano in movimento e si sono condensati in alcuni nuclei. Questo movimento, questo attrito questa condensazione produssero la luce ed infine il fuoco. (Questo fenomeno si verifica quando due pezzi di legno si sfregano tra loro). Il primo giorno, le masse in movimento presero fuoco, producendo così la luce; l’universo si trasformò così in una massa ignea.

II SECONGO GIORNO DIO CREÒ IL FIRMAMENTO.

Dio disse anche: “Si faccia il firmamento (una cosa solida) in mezzo alle acque e separi le acque dalla terra … e Dio chiamò il firmamento col nome di cielo. (Genesi 1, 6-8). Questo secondo giorno viene solitamente spiegato in termini di separazione, ordinamento e solidificazione delle masse create. Queste masse, originariamente unite furono divise in parti di diversa costituzione e dimensione, separate in in direzioni diverse con velocità proprie ed entrarono nelle orbite che Dio aveva tracciato per loro e dove le conserva. Questa solidificazione delle masse cosmiche nello spazio in orbite siderali è chiamata firmamento o cosa ferma. Poiché queste orbite si trovano nello spazio celeste, si usa chiamare questo spazio stesso, firmamento. “E Dio chiamò il firmamento: cielo” (Genesi I, 8); questo è il nome che gli diamo anche noi. Questo cielo è la volta stellata in contrapposizione al cielo degli spiriti. Dio riservò una parte di queste masse cosmiche alla terra, che è quindi composta dagli stessi elementi degli astri. – Mosè continua: “E Dio fece il firmamento e separò le acque che erano sotto il firmamento da quelle che erano sopra il firmamento” (ibid. v. 7). Senza dubbio lo scrittore sacro intendeva dire che Dio separò le masse siderali dai corpi destinati a riempire gli spazi intermedi.

– La scienza (la scienza della fantasia antibiblica – ndr. -) ci dice (senza prove – ndr – ) che la condensazione dei nuclei della nebulosa primitiva ha prodotto masse gassose ignee di diverse composizioni e dimensioni, che si sono attratte l’una con l’altra, entrando così in orbite specifiche. Secondo questa teoria, anche la nostra Terra era una massa incandescente, un piccolo sole che diffondeva calore e luce nello spazio e che è stato attirato nell’orbita del sole stesso.

IL TERZO GIORNO DIO CREÒ IL SUOLO E LE PIANTE.

Le stelle, staccatesi dalla massa primitiva, non rimasero come erano entrate nelle loro orbite, ma continuarono a formarsi. Mosè tratta solo della terra, senza dirci nulla delle stelle se non ciò che ci interessa in modo particolare [qui l’autore si lancia in spericolate fantasiose teorie scientifiche, rigorosamente antibibliche, con l’intento di conciliare la fede scritturale con la pretesa scienza dell’epoca. Noi naturalmente le eliminiamo perché veramente non compatibili con la dottrina cattolica che qui vogliamo studiare – ndr.-] (….) Dio è stato anche in grado, fin dall’inizio, di comunicare alla materia le forze necessarie per produrre gli esseri organici. Ma gli atomi inorganici non avrebbero mai potuto combinarsi per produrre esseri organici per generazione spontanea. Tutti gli scienziati dell’universo non sarebbero in grado di produrre una pianta o un animale con delle combinazioni. Inoltre, è impossibile che corpi così mirabilmente organizzati si siano formati da soli; anche una macchina inerte non si produce da sola, ma nasce dall’intelligenza umana. –

IL QUARTO GIORNO DIO CREÒ IL SOLE, LA LUNA, LE STELLE.

In questo giorno Dio stabilì definitivamente la relazione tra le stelle e la terra. [Qui continuano le elucubrazioni pseudoscientifiche dell’autore che non considera minimamente l’onnipotenza divina che poteva creare in un solo attimo dal nulla ed in modo stabile e definitivo tutte le cose, dando poi all’uomo la possibilità di migliorare se stesso ed il proprio habitat naturale. Ndr. -]. – Dio non ha soluzione al problema della pluralità dei mondi abitati, perché non è di alcuna utilità per la salvezza delle nostre anime. Sappiamo solo che la creazione delle stelle ha reso felici gli angeli. (Giobbe XXXVIII, 7) e che le stelle sono state create per rivelarci la maestà di Dio (Rom. I, 20). – (omissis). Dio ha fatto la terra veramente bella! e noi gli dobbiamo un profondo ringraziamento.

IL QUINTO GIORNO DIO CREÒ PESCI E UCCELLI.

IL SESTO GIORNO DIO CREÒ GLI ANIMALI DELLA TERA FERMA ED INFINE L’UOMO.

Gli animali sono stati creati per proclamare la gloria e la potenza del Creatore con il loro numero, la loro varietà, le loro dimensioni, la loro forza, la loro agilità; esistono anche per il beneficio dell’uomo. Vengono utilizzati per il cibo, il vestiario, le medicine, ecc. Per la qualità più caratteristica del loro istinto, la maggior parte degli animali è simbolo di una virtù o di un vizio. (La volpe è il simbolo dell’astuzia; il cane della fedeltà; la pecora della pazienza, ecc.). L’uomo è l’ultimo degli esseri viventi, ma li supera tutti in grandezza; è il coronamento della creazione. Dio ha creato l’uomo per ultimo per onorarlo. Quando un sovrano arriva in una città, viene preceduto da tutti i suoi servitori per preparare il suo ingresso. È così che Dio ha creato prima ciò che era necessario per il mantenimento dell’uomo e poi solamente l’uomo (S. Giov. Chr.). Il re doveva apparire solo dopo che il regno fosse stato organizzato (S. Grég. Naz.). Dio ha costruito prima il palazzo per poi introdurvi il re (Latt.). L’onore reso all’uomo da Dio si manifesta anche nelle parole della creazione. Alla creazione dell’uomo Egli non disse: “Sia l’uomo”, ma tenne. Per un consiglio con se stesso, per così dire.

4. IL SETTIMO GIORNO DIO SI RIPOSÒ (Genesi 2).

Il riposo di Dio non è come quello di un artigiano stanco: consiste semplicemente nel non creare nessuna nuova specie, cioè nessun essere che non sia già contenuto nell’opera dei sei giorni. (S. Thom. d’Aq.) Il riposo di Dio non è altro se non la sua volontà di mantenere l’ordine esistente (Clém. d’Al.). Tuttavia

Dio non cessa di agire (S. Giovanni V, 17), perché se l’azione di Dio cessasse, la creazione cesserebbe di esistere. – Seguendo l’esempio di Dio, un giorno riposeremo in Lui quando il nostro lavoro sarà finito. (S. Aug.).

Il racconto della creazione ci mostra che Dio ha fatto il mondo secondo un piano preciso.

Dio procede dall’imperfetto al più perfetto. Egli crea prima gli esseri di cui avranno bisogno quelli che li seguono: dapprima le piante, poi gli animali che se ne nutrono. – Nei primi tre giorni, Dio separa gli esseri l’uno dall’altro, nei tre successivi abbellisce ciò che esiste. – C’è un legame tra le due serie di giorni: il primo giorno creò la luce, il quarto un corpo luminoso; nel secondo separò le acque dall’atmosfera, nel quinto popolò l’una di pesci e l’altra di uccelli; nel terzo creò la terraferma e nel sesto pose gli animali.

Il racconto della creazione ci mostra anche che il mondo non è eterno.

Nella sua preghiera dopo l’Ultima Cena, Cristo disse: “Padre, glorificatemi pressi di Voi con la gloria che avevo in Voi prima che il mondo fosse (S. Giovanni XVII, 5). I pagani immaginavano che il mondo si fosse formato dall’incontro casuale di atomi eterni, cioè di corpuscoli molto tenui e indivisibili. (teoria di Epicuro). Si può replicare che non possono esistere più esseri eterni; che un essere eterno non può essere dipendente da un altro essere, il che sarebbe il caso degli atomi che si uniscono; che gli atomi non possono né incontrarsi da soli, né formare, da un incontro fortuito il magnifico ordine dell’universo. Una massa di lettere gettate insieme a caso non formerà mai un libro. L’esistenza degli atomi non è impossibile, ma non possono essere eterni o muoversi con le proprie forze. – Altri pensavano che il mondo fosse stato formato dalla materia eterna dagli angeli o da Dio., che quindi non sarebbe il Creatore, ma solo l’architetto dell’universo. (La teoria di Aristotele e di alcuni materialisti moderni). La materia, tuttavia, essendo mutevole e divisibile, non può essere eterna; non può essere la fonte dello spirito né della vita degli esseri organici. – Altri pensavano che la terra sia lo sviluppo dell’Essere divino stesso, come la farfalla emerge dal bruco, e che tutto l’essere sia Dio (teoria degli antichi saggi indiani e dei moderni panteisti). Ma se il mondo fosse Dio, dovrebbe essere indivisibile ed immutabile, o almeno che ogni parte fosse eterna, il che è contraddetto dai fatti. In questa ipotesi, l’uomo sarebbe Dio, indipendente da tutti gli altri uomini, il che rovinerebbe la società. Anche gli animali sarebbero Dio, e infatti gli Egizi li adoravano. Anche le rane, le mosche e le formiche sarebbero Dio, il che è semplicemente ridicolo (Latt.). In questa teoria, solo questo è vero: tutto ha origine da Dio, tutto si è sviluppato successivamente e tutto ciò che è, esiste in Dio, come abbiamo spiegato quando abbiamo parlato della sua ubiquità; ma tutto ciò che esiste è totalmente distinto da Dio.

Da questo, perché e per quale scopo Dio ha creato il mondo?

1 . DIO HA CREATO IL MONDO DAL NULLA; SOLO LA SUA VOLONTÀ È SUFFICIENTE.

Gli uomini possono agire solo sulla materia preesistente: ma Dio ha fatto la materia stessa, con la quale ha formato tutte le cose (S. Iren).

Gli uomini hanno bisogno di strumenti per il loro lavoro, e vi dedicano tempo e fatica. Dio ha solo voluto e tutto è esistito (Sal. CXLVII, 5), la parola che gli viene attribuita non è altro che la sua volontà. – Dio ha portato l’universo e tutte le sue meraviglie. – Dio si è limitato a dire: Fiat e subito il cielo e la terra sono esistiti. Epicuro obietta che nulla è fatto dal nulla; questo è verissimo, ma noi non diciamo che la terra sia fatta dal nulla, ma che sia stata fatta da Dio dal nulla.

Tutto ciò che Dio aveva fatto è molto buono.

Dio stesso lodò le sue opere (Genesi, I, 31). L’universo era buono, perché nulla era contrario alla volontà divina e tutto era conforme ad essa (S. Amb.). Dio stesso lodava la sua opera, perché noi e tutte le creature siamo incapaci di lodarla adeguatamente (S. Giov. Chr.); almeno dobbiamo imitare i tre giovani che lodavano le opere di Dio nella fornace. (Dan. III.) Ciò che è cattivo era diventato tale per l’abuso che le creature hanno fatto del loro libero arbitrio. Tuttavia, nessun essere può diventare cattivo nella sua essenza; ogni essere è necessariamente buono sotto qualche aspetto (S. Aug.).

2. DIO È STATO PORTATO DALLA SUA BONTÀ A CREARE IL MONDO. Egli ha voluto rendere felici le creature ragionevoli. Un buon padre mostra ai suoi figli belle immagini per deliziarli e farli amare. Dio ha voluto mostrare la sua gloria agli esseri ragionevoli per darci gioia e felicità. per darci gioia e felicità. “Noi siamo, perché Dio è buono” (S. Aug.). La sua bontà, che ha voluto comunicare agli altri, è il motivo della creazione (S. Th. Aq.) Quindi tutto l’universo esiste per il nostro bene: alcuni esseri per la nostra conservazione: la terra, le piante, gli animali; altri per la nostra istruzione: le stelle: altri per il nostro piacere: i colori, i profumi, la musica; altri, infine, per metterci alla prova: la povertà altri per metterci alla prova: la povertà, le malattie, le disgrazie, le bestie cattive. “Mio Signore e mio Dio – dobbiamo gridare – tutto ciò che vedo mi dice che l’avete fatto Voi. per il mio bene e mi dice di amarti. (S. Aug.). -Dio non è stato costretto da nulla a creare l’universo, non ne aveva bisogno (Atenagora). E proprio per dimostrare che ha agito secondo il suo beneplacito, ha creato gli esseri non tutti insieme, ma in successione. (Bossuet).

3. LO SCOPO DELLA CREAZIONE È QUELLO DI RIVELARE ALLE CREATURE RAGIONEVOLI LA GLORIA DI DIO.

L’opera doveva elogiare l’autore per la sua perfezione, come una bella tela dà la gloria ad un pittore. È importante distinguere tra lo scopo dell’operaio (il motivo che lo spinge ad agire) e lo scopo dell’opera (ciò a cui una cosa sia destinata); l’orologiaio fa un orologio per guadagnarsi da vivere, ma la funzione dell’orologio è quello di segnare le ore. In Dio, il motivo del suo atto creativo è la sua bontà, lo scopo della sua opera è di glorificarlo e di rendere felici le sue creature ragionevoli. – L’innumerevole quantità e l’immensa varietà, piante e animali, l’enorme numero di stelle (Sal. XVIII, 1) esistono solo perché gli angeli e gli uomini possano riconoscere e ammirare la maestà divina. “Ciò che vedo grida: “O Dio, quanto siete grande, quanto siete buono.” – Da parte loro, gli Angeli e gli uomini esistono solo per riconoscere e glorificare la maestà divina. Sappiamo anche che gli Angeli santi contemplano Dio e lo lodano incessantemente (ls. VI, 3); e S. Agostino dice dell’uomo: “Tu sei un uomo, un uomo, un uomo”. Agostino dice dell’uomo: “Voi ci avete creati per Voi, Signore! e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Voi!”- Anche i diavoli sono obbligati a contribuire alla gloria di Dio, perché con i loro tormenti mostrano la grandezza della santità e della giustizia di Dio, e Dio trasforma tutte le loro astuzie nella sua gloria e nella salvezza degli uomini. – I reprobi non sottraggono a Dio la sua gloria; essi glorificheranno la giustizia di Dio per tutta l’eternità. mentre gli eletti proclamano la sua misericordia (Marie Lataste). Il Signore ha creato tutto per sé stesso (Prov. XVI, 4); ha creato per la sua gloria tutti coloro che invocano il suo nome (Is. XLIII, 7). Tuttavia, non ha creato l’universo per accrescere la sua gloria o per procurarsela (Conc. Vat. I, 3), perché Egli è sovranamente beato e non ha bisogno di nulla; né è ambizioso, perché pretende solo l’onore che gli spetta.

Poiché esistiamo per la glorificazione di Dio, noi dobbiamo agire con questa intenzione in ogni cosa.

S. Paolo ci comanda, quindi, “qualsiasi cosa facciamo, sia che mangiamo sia che beviamo, di fare tutto a gloria di Dio” (1 Cor. X, 31). Niente di più facile, perché le più piccole azioni possono essere offerte a Dio per questa intenzione. (S. Giov. Chr.). – Non dimentichiamo di fare il buon proposito al mattino e di rinnovarlo spesso durante la giornata. (Il catechista farà recitare qui il voto della buona intenzione).

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (17)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (17)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo SESTO

LA MORALE CRISTIANA E LA VITA

Fra voli e cadute, tra canti di gloria e gemiti di disfatte, fra ideali sognati, sforzi compiuti e l’infrangersi spesso di propositi generosi al contatto della dura realtà, passa la vita umana. Perché essa non appaia mai una farsa da godere o una tragedia da maledire, bensì un’alta missione da svolgere, gioverà riguardare il valore della vita nostra in sé, in rapporto alla famiglia ed in relazione allo Stato, sempre alla luce della morale cristiana.

1. – La vita.

In sé considerata, la vita è un grande tesoro, sia nell’ordine naturale, sia nell’ordine soprannaturale. Purtroppo molti non apprezzano l’importanza della loro esistenza e la sciupano miseramente. Si appagano di mirare ai loro anni, prescindendo ,da Dio e dal suo Amore; ed allora la vita necessariamente appare come l’attimo fuggente, come l’onda rapida e fugace, come il fiore che sboccia, appassisce e muore. Il pessimismo e lo scetticismo morale sono in questo caso inevitabili; ed il sorriso beffardo del gaudente o il gesto folle del suicida ne sono la conseguenza. Ma chi non dimentica che la vita nostra non è l’Assoluto, ma dev’essere sempre, in ogni istante, posta in rapporto con Dio e con l’Amore divino, supera gli egoismi del dilettantista e del pessimista, coglie in sé il valore divino della vita umana ed utilizza i suoi giorni con cristiana sapienza.

2. – La vita nell’ordine naturale

Ragioniamo con tutta semplicità. Se si parte dall’esistenza di Dio e, perciò, dalla sua centralità nell’universo, subito, per la forza dell’evidenza più abbagliante, dobbiamo ammettere tre principi ricchi di pratiche applicazioni.

1. Ogni uomo che viene al mondo ha una missione particolare, a lui affidata da Dio. L’universo è un poema, in cui ciascuna creatura rappresenta una lettera. E come ogni lettera alfabetica in un libro ha una funzione da compiere, così ogni essere e specialmente ogni uomo ha un compito da assolvere. Guai se in una pagina, dove si dice che « il nostro Dio è il centro della realtà », io togliessi il D, ne risulterebbe che « il nostro io è il centro della realtà ». E se in una parola volessi aggiungere qualche lettera in più, imiterei quel bravo tedesco, che studiava a Firenze la lingua di Dante e che, essendo stato stupito nel trovare per la strada uno spazzino con tanto d’occhiali, riferiva ai suoi ospiti il fatto, narrando loro d’aver visto « uno spazzolino con gli occhiali ». Era un semplice ol che egli aveva graziosamente aggiunto, ma era un’appendice inutile, anzi.., un’appendicite che esigeva un’operazione chirurgica. Non sono soltanto gli Eroi di Carlyle, che costituiscono la storia; ogni persona, da Napoleone alla povera vecchierella del villaggio, concorre a scrivere il volume delle umane vicende. E se nessuno disprezza le lettere maiuscole, — volevo dire gli uomini grandi, — non si debbono però trascurare nemmanco gli uomini piccoli, le lettere minuscole, le virgole ed i punti fermi. Dio non sarebbe la suprema Ragione, se dovesse creare un essere senza che questo avesse uno scopo preciso, una finalità concreta nell’ordine totale. Non sappiamo, è vero, con esattezza e con completezza qual è il valore della nostra attività; ma anche il soldato, durante il conflitto mondiale, in uno dei punti del fronte, non conosceva il motivo e l’importanza della sua azione: solo il generale vedeva il valore delle singole mosse ed anche la necessità talvolta di sacrifici, che all’eroe che li compiva potevano sembrare irrazionali, mentre tali non apparivano e non erano all’occhio di colui che considerava l’esercito nel complesso organico della sua avanzata e della sua difesa. Bisogna ben persuadersi di questa verità, troppo trascurata. Bisogna, soprattutto nelle ore difficili del combattimento e del dolore, ricordare a sé che la nostra vita è una missione, assegnataci dall’amore di Dio e che non rappresenta qualcosa di superfluo, ma di utile nel piano provvidenziale.

2. Ogni vita particolare, ogni missione individuale è una « nota » nella musica universale. La vita nostra, se ha un rapporto con Dio, lo ha pure coi nostri simili. È il filo d’una tela: sottilissimo, se volete; ma guai se voi lo togliete! Imitereste il ragionamento di un gruppo d’amici, i quali si avvicinassero a me, e ciascuno, con la scusa che un capello è una piccola cosa, me ne strappasse uno. In poco tempo la mia testa diverrebbe pelata completamente, simile ad una piazza senza neppure un monumento! Non rinchiudiamoci nel nostro piccolo io oscuro: apriamo le finestre della nostra anima: tendiamo l’orecchio: sentiremo la musica della storia e comprenderemo come la nostra debole voce entra anch’essa nel grande coro. La realtà è un tutto sistematico. Non è un’accozzaglia di esseri, simile a pezzi separati e sconnessi, atomisticamente indipendenti. No. Nella natura e nella storia noi troviamo un’unità, quasi d’un organismo. Persino una goccia dell’oceano esiste, ed esiste come oggi è, perché tale e non diverso fu lo svolgimento della nebulosa primitiva, della terra, dell’atmosfera e via dicendo. Così ciascuno di noi è legato al tutto con un’intima solidarietà. La civiltà nostra ha le sue sorgenti nella civiltà dei secoli scorsi; la nostra vita presente ha le sue radici nella profondità dei millenni; e la libera attività coopera allo svolgersi degli avvenimenti. Una relazione intima collega la generazione attuale alle tombe del passato e alle culle dell’avvenire; e non è solo « il naso di Cleopatra », accennato dal Pascal, che può dare un indirizzo nuovo alla storia, ma ogni azione nostra influenza più o meno profondamente il corso degli eventi. – Come nella costruzione d’un palazzo ogni muratore porta il suo contributo, così ogni uomo è un muratore del palazzo della storia, è un cooperatore della storia della sua famiglia, della sua città, della sua patria, del mondo in cui vive.

3. Soddisfare a questa missione assegnataci da Dio e contribuire al bene comune non è un compito che possiamo impunemente trascurare. Noi non siamo i padroni assoluti della vita nostra, ma solo i depositari: liberamente traffichiamo i talenti ricevuti e di essi dovremo un giorno rendere ragione. È quindi una colpa, innanzi tutto, il suicidio, fosse pure quello di Catone, che non volle sopravvivere alla perduta libertà della patria, o di Lucrezia, che non volle sopravvivere ad un’onta. Nessuna ragione può giustificare il gesto di chi fugge dal campo di battaglia, dove il dovere lo ha posto. Nessun pretesto deve diminuire l’orrore che suscita in noi la giovanetta ingoiante pastiglie di sublimato corrosivo; il disperato, che si spara un colpo di rivoltella; Roberto Ardigò che a novant’anni afferra il rasoio, si taglia la gola e mormora: « A che serve la vita? »; o qualsiasi Petronio, più o meno in sessantaquattresimo, che a mensa, tra musiche e profumi, leva in alto la coppa murrina, vi beve, la scaraventa a terra in polvere e frantumi, e poi porge il braccio al medico, perché v’apra le vene, e muore esangue. No. La vita non è una coppa, che si possa lecitamente scagliare al suolo. E come è un delitto il suicidio, così è un peccato lo sciupio del tempo. « Fugit irreparabile tempus », ammoniva già Virgilio. Chi rifletta all’immenso numero di ore, di giorni e di anni sciupati con inqualificabile leggerezza da molti, esclama con Schiller, in una delle sue Kleine Gedichte, intitolato: Der Samann: « Guarda: pieno di speranza tu affidi alla terra il seme dorato e nella primavera aspetti lieto che esso germogli. Solo nei solchi del tempo sarai tu esitante a gettare azioni buone, che, seminate dalla saggezza, fioriscano tranquillamente per l’eternità? ». – La preziosità del tempo e l’obbligo del lavoro sono proclamati dalla stessa morale naturale. I santi del Cristianesimo ci hanno dato poi in questo gli esempi più luminosi: sant’Alfonso aveva fatto voto di non perdere mai neppure un istante; san Filippo Neri non lasciava inutilizzata nemmeno una piccola particella di tempo; san Camillo de Lellis si fermava dinanzi alle tombe e si chiedeva: « Cosa farebbero questi morti per la vita eterna, se potessero ritornare in vita? ». In una parola, vi sono Santi protettori del lavoro, come un san Benedetto; vi sono i patroni dei sarti, dei calzolai, dei giornalisti e così via; ma il santo protettore dell’ozio non è mai esistito. Tutto questo è vero anche dal punto di vista dell’ordine naturale. E la vita, concepita in tal modo, fu, persino dagli Stoici, dichiarata la vita che glorifica il Creatore. Che posso far io, vecchio e zoppo, se non cantare la gloria di Dio? — diceva Epitteto nei suoi Discorsi. — Se io fossi usignolo, farei la parte di usignolo; se fossi un cigno, la parte del cigno. Io sono un essere ragionevole e debbo innalzare un canto a Dio. Ecco la mia parte, ed io la farò, finché potrò; ed invito voi tutti a cantare con me ». È l’espressione, questa, della stessa ragione umana. La rivelazione la conferma e soggiunge che la vita nostra non solo deve essere vissuta a gloria di Dio, ma a gloria del Dio uno e trino, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

3. – La vita nell’ordine soprannaturale.

Nell’ordine soprannaturale, nulla di quanto abbiamo accennato viene distrutto; al contrario, tutto è consacrato e sublimato.

1. La vita del Cristiano è una missione, che il Padre affida al Figlio. Non schiavi, non pure creature, ma figli di Dio mediante la grazia che eleva la nostra natura umana e ci fa partecipi della natura divina, quando noi viviamo senza il peccato mortale la vita nostra è un Pater noster recitato con l’attività quotidiana.

Il vero Pater noster non è quello che biascichiamo tante volte distrattamente, ma è il grido d’amore che al Padre rivolgono i figli fedeli, mentre compiono il suo volere nel mondo. Sono i nostri atti, dalle preghiere che pronunciamo, ai sacrifici generosamente accettati, che glorificano il Signore e gli ripetono: Sanctificetur nomen tuum. Sono essi che concorrono alla realizzazione del suo regno: adveniat regnum tuum. È mediante tutta la nostra vita cristiana,più che a fior di labbra, che noi pronunciamo veramente legrandi parole: fiat voluntas tua. Ed il buon Padre ci fornisceil pane soprasostanziale, che vivifica le anime e l’altropane, che nutre i corpi; ci perdona i peccati nostri, comandandocidi perdonare le offese ricevute; ci mette in guardiadalle tentazioni e dal male, ossia dalla colpa, che potrebbe,se mortale, farci perdere la grazia ed in tal modo rovinarela nostra vita. Ogni azione buona, fatta senza la grazia, nonparte da un’anima divinizzata, ha quindi un valore puramenteumano e non merita un premio soprannaturale; è unaazione, insomma, senza l’amore. La vita nostra, al contrario,dev’essere l’attuazione della nostra missione umana, volutada Dio e svolta con la grazia santificante. Noi, ad imitazionedel beato de La Colombière, dobbiamo essere fautori del« momento presente santificato » e con lui ognuno deve proporsiquesto programma: « Se anche tutta la terra si dovesserivoltare contro di me, biasimarmi, canzonarmi, compassionarmi,bisogna che io faccia tutto quello che Dio comanda,tutto quello che Dio mi ispira per la sua gloria ».

2. Il Padre non ci lascia soli: ci unisce, ci incorpora al Figlio suo unigenito, Cristo Gesù, e mediante il « primo tra i fratelli », ci unisce a tutti gli altri fratelli, nel corpo mistico della Chiesa. Allora la vita nostra, cristianamente vissuta, non solo è divinamente preziosa in sé, ma giovevole anche per tutti. È amore a Cristo, col quale formiamo un unico organismo; è amore al prossimo, col quale comunichiamo nella Comunione dei Santi; è un portare un sassolino a quella cattedrale, che è dedicata alla Regalità del Salvatore; è apostolato; è missione d’amore fraterno. Gesù è insieme con noi. Pone il suo capo sul nostro cuore e ci incita al dovere, al sacrificio, all’amore. Se cadiamo, ci solleva; se siamo tristi e stanchi, ci ripete: « Venite a me voi tutti che siete affranti e affaticati, ed io vi ristorerò »; se soffriamo, raccoglie le nostre lagrime; se lavoriamo, santifica la nostra fatica; se preghiamo, unisce la nostra alla sua preghiera e la offre al Padre. La disperazione del suicida è impossibile in questo caso: lo sperpero del tempo costituisce un rimorso; il sudore quotidiano si tramuta in gioia soprannaturale; e la nota che poniamo nella musica della vita è una nota di amore.

3. Sarebbe, del resto, possibile una diversa ipotesi, quando si pensa che lo Spirito Santo è l’anima della Chiesa e perciò l’anima della nostra anima? Spesso nei nostri templi festosamente si canta: « Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto »; e noi forse non riflettiamo che simile dossologia è solo una eco della gloria al Signore uno e trino, quale s’innalza da ogni vita cristiana e da tutta la vita della Chiesa. Abbiamo perduto molte volte il senso del soprannaturale. L’esistenza ha smarrito il Sole che doveva illuminarla e resta immersa nelle tenebre sconsolate dei dolori, dei pettegolezzi e delle meschine umane miserie. Ed allora la vita non è più una gloria alla Trinità, ed il suo valore non lo si percepisce. – Se Montalembert un giorno si volgeva ai giovani, e, per scuoterli dal loro torpore ed animarli ad opere egregie, diceva loro: « Dateli a me i vostri vent’anni, se non sapete che farne », anche noi potremmo ripetere lo stesso appello ad una gioventù, spesso fiacca ed inconcludente, che tratta la vita come una sigaretta… Quattro volute di fumo; e, poi, le tombe raccolgono i mozziconi. No. Ciò non è da tollerarsi. Ripetiamolo ancora che ognuno di noi (il pensiero geniale è di san Francesco di Sales) si può paragonare al musico valentissimo, che divenne completamente sordo. Il suo orecchio non percepiva un suono. Tuttavia, egli continuò a cantare e a suonare con mano delicata il suo liuto per accontentare il suo principe. Ed anche quando il principe non gli testimoniava il suo gradimento, continuava nel canto. – Anche noi, a questo mondo, siamo sordi. Non percepiamo, cioè, tutto il significato ed il valore della vita; non sappiamo quale influenza essa avrà, per volere di Dio, nel trionfo di Cristo; non possiamo comprendere la bellezza soprannaturale d’una esistenza, magari in sé umile e nascosta, ma preziosa agli occhi del Signore. Non importa. La nostra vita dev’essere sempre bella come un inno e come la musica d’un liuto, toccato non già da una mano qualsiasi, ma dallo Spirito divino.

4. – La famiglia, la scuola ed i problemi sociali

Con lo stesso principio, la morale cristiana risolve i grandi problemi sociali, cominciando dalla famiglia. L’individuo non esiste isolato; il concepirlo in tal modo è fior di astrattismo. E neppure vive insieme con gli altri, come un essere accanto ad altri esseri uguali. La realtà concreta è ben diversa.. L’essere individuale è membro d’una famiglia, come le famiglie sono membra dello Stato, come gli Stati sono membra della grande famiglia umana. L’amore del prossimo non può prescindere da questa costituzione sociale. E sarebbe stolto chi volesse amare i suoi genitori come ama i beduini lontani e sconosciuti, oppure la patria sua come può amare il Capo di Buona Speranza. Siccome l’amore del prossimo si ispira all’amore di Dio, noi dobbiamo amare gli altri come vuole Dio; e siccome la volontà divina si esprime nella concretezza della realtà creata con le sue determinate ed essenziali esigenze, ne risulta che non si amerebbe Dio se non si amasse la famiglia, la patria e lo Stato. In una unità armonica di visione e di conseguenze pratiche, anche la famiglia (come la patria e lo Stato) è da concepirsi in funzione del concetto di amore. Il matrimonio non è un contratto qualsiasi, fatto in base ad interessi volgari; ma è un patto di amore ed appunto per questo, dallo stesso punto di vista naturale, è indissolubile. Il vero amore non è un « contratto a scadenza », ma è eterno e non conosce se non queste due parole: « Tu solo e per sempre ». Due cuori che, in un momento grande della loro esistenza, si stringono in un santo vincolo, dal quale dipende la trasmissione della vita e la conservazione del genere umano, non si amerebbero, se non si giurassero a vicenda un affetto eterno. Quale amore sarebbe il loro, se dovessero dirsi: « Sì, noi ci ameremo solo per due anni »? Le passioni, che hanno creato il divorzio sono la negazione dell’amore; sono l’egoismo schietto; e sono, di conseguenza, la rovina della famiglia e dei popoli. Il matrimonio indissolubile — e monogamico — è il solo che attua il concetto di amore nella formazione della nuova famiglia; il solo che di due esseri fa quasi una sola personalità mediante il mutuo affetto e li può rendere capaci, qualora gli sposi comprendano il valore della loro unione — di compatirsi nei bisogni, nelle debolezze, nelle malattie, nelle disgrazie; il solo che riguarda la famiglia in relazione al frutto dell’amore, i figli, e che mediante la legge dell’amore, rende possibile l’educazione. – Cristo, come vedemmo, ben lungi dal ripudiare questo amore santo, l’ha santificato con la grazia e con la grandezza d’un Sacramento. La famiglia cristiana è quella che è tutta pervasa di amore, è quella in cui l’amore è la sorgente, l’atmosfera, il vincolo, lo scopo. La prima manifestazione della carità verso il prossimo la si deve avere nella famiglia, negli sposi fra loro, fra i genitori od i figli, fra i figli ed i genitori. – Se ben si osserva, ogni peccato che può essere commesso in una famiglia è una violazione dell’amore. Dall’infedeltà alla parola giurata, all’egoismo brutale che profana il Sacramento ricevuto; dalla trascuratezza o dalle mancanze nell’educazione della prole, a qualsiasi insubordinazione dei figli verso il padre o la madre, non è possibile immaginare una colpa nell’ambiente familiare, che non sia contro l’amore. E la famosa antitesi tra libertà ed autorità scompare al soffio dell’amore: la correzione ed il castigo, quando non sono abbandonati all’impeto passionale dell’istante, ma sono ispirati e diretti dalla ragione, dal cuore e dal proposito di « formare Cristo » (come dice San Paolo) nelle anime dei figli, non sono un’autorità che schiaccia ed uccide, bensì che libera e vivifica. – Questi semplici concetti dovrebbero essere svolti a proposito delle relazioni fra maestro e scolaro, fra padroni ed operai, fra sovrani e sudditi. Nella concezione cristiana tutto si colorisce d’amore. Anche, ad es., i rapporti fra il padrone ed i lavoratori da lui dipendenti non sono regolati da un semplice criterio di giustizia. Persino alle stesse esigenze della giustizia si deve rispondere in nome dell’amore fraterno, il cui frutto è l’equità. Persino le stesse forme economiche, che dall’economia a schiavi al capitalismo attuale sono andate evolvendosi e che sempre, sia pur gradatamente, si trasformeranno, non sono altro se non un reale e progressivo perfezionamento dell’amore. Né, senza questa idea fondamentale, è possibile una soluzione della questione sociale: non già nel senso che basti per il grande problema una dichiarazione di principi ideali, ma nel senso che la stessa realtà economica dev’essere realizzazione del precetto divino della carità.

5. – Lo Stato

Anche lo Stato dev’essere riguardato con identico occhio dal Cristiano. Non soltanto la Chiesa, l’organismo spirituale, vivificato dallo Spirito Santo, ma lo Stato stesso è la « società degli spiriti chiamati all’amore ». Cosa significa « lo Stato »? Significa che nessuno di noi è stato creato per vivere egoisticamente, per proprio conto, ma che Dio ci ha creati in modo che fosse per noi di necessità naturale l’essere riuniti nella società familiare e statale. Non è la volontà nostra, come favoleggiava Rousseau, che costituisce lo Stato; ed in esso non dobbiamo mai vedere qualcosa di formato da noi e che dipenda dal nostro arbitrio individualistico. Nello Stato dobbiamo scorgere la volontà di Dio ed appunto per questo dobbiamo avere rispetto, venerazione, obbedienza alla maestà dello Stato. Ciò facendo, noi amiamo Dio. Soggiungiamo: amiamo anche il prossimo. Non è forse vero e doveroso amore del prossimo l’attività di coloro che governano, quando non proclamano paganamente con Luigi XIV: « Lo Stato sono io », ma quando tendono con ogni sforzo al bene comune, che è appunto il fine dello Stato? E non è vero e doveroso amore dei fratelli la disciplina del cittadino, il suo ossequio all’autorità, il rispetto alle leggi, la cooperazione volonterosa e quotidiana alla prosperità dello Stato, il sacrificio di sé, quando occorre, sino alla completa immolazione della vita? Ciò facendo, il Cristiano non fa altro se non il suo dovere; e non sarebbe Cristiano agendo diversamente, perché calpesterebbe il precetto della carità. Per noi, quindi, lo Stato ha sempre avuto un carattere etico e la Chiesa ha condannato le teorie liberali dello Stato agnostico, dello Stato neutro, dello Stato che protestava di non avere una morale, quasi che di fronte ad un tale mostro di Stato non fosse logico il cittadino che, al di sopra di tutte le cose degne di sprezzo, poneva l’autorità dello Stato. – Il carattere etico dello Stato non implica affatto che lo Stato crei una sua morale. Come la vita individuale ha un valore etico, non in quanto ognuno di noi si foggia una norma di condotta a proprio talento, ma in quanto osserviamo la morale; così anche lo Stato ha un valore morale, non in quanto elabora un nuovo decalogo in cui, ad esempio, si dica: « Disprezza il padre e la madre; uccidi; ruba » e via dicendo, ma in quanto si riconosce nella sua costituzione essenziale come qualcosa che dipende non dall’arbitrio umano, ma da Dio, ordinatore e legislatore; in quanto nella sua attività si ispira al bene generale dei sudditi; in quanto rispetta e fa rispettare le norme etiche, che, sole, possono condurlo ad una vera grandezza. Di qui appare l’indissolubilità fra il Cristiano ed il buon cittadino: è un binomio, in cui l’uno dei termini implica l’altro. Di qui, anche l’assurdo d’un Cristiano che non ami la patria sua. Di qui la ridicolaggine d’un astrattismo vacuo e dannoso di utopie umanitaristiche, che propugnano il sogno d’un’umanità senza patrie, sogno che potrebbe stare alla pari dell’altro d’uno Stato senza famiglie o di un organismo senza diversità di membra. Certo: le necessità ogni giorno più limpide, persuasive, fatali, di legare i popoli in rapporti sempre più stretti di fraternità e di comuni interessi per garantirne, con la pace, la prosperità; il logico sviluppo di questi nuovi vincoli internazionali, che dai primi nuclei più omogenei, andranno abbracciando successivamente, per connessione spirituale, altri popoli, altre terre, altre forze, porteranno un giorno ad una futura unione organica di Stati, ciascuno dei quali non si ispirerà più unicamente al proprio egoismo, ma coopererà al bene di tutti. Questo giorno bisogna prepararlo con tutte le energie e con tutti i sacrifici; ma esso sarà solo possibile, attraverso la vita, il rispetto e lo sviluppo delle unità nazionali.

6 . Conclusione

Nei sepolcri dei vecchi Faraoni, furono trovati grani di frumento, che, dopo tanti secoli, gettati in buon terreno, hanno dato ancora una spiga. La morale cristiana mi pare assomigli a quei grani di frumento. L’hanno nascosta nei bui ipogei della dimenticanza e del disprezzo e gli individui, le famiglie, le scuole, le officine, gli Stati hanno mangiato il pane dell’egoismo. Ne derivano mille danni alla vita individuale e familiare, all’educazione, all’economia, alla vita civile delle nazioni. Suicidi e divorzi, limitazione della prole e formazione spirituale mancata, lotta di classe e conflitti di popoli indicano i tristi effetti dell’abbandono del Cristianesimo. Al sepolcro di Cristo, che ha racchiuso la vittima dell’Amore, ,dobbiamo recarci per riprendere l’antico granello di frumento, che sempre conserva il fremito della vita. Solo il pane della carità può essere la salvezza delle genti; solo questo pane può essere mutato nel cibo soprannaturale di vita eterna.

Riepilogo.

La vita è una missione ed ha un divino valore, sia che la si riguardi in sé, sia che la si consideri in rapporto alla famiglia od in relazione allo Stato.

a) In sé, la vita di ognuno ha uno scopo speciale, che forma una nota nella musica dell’universo, che deve cantare l’amore a Dio ed ai fratelli e deve esser di gloria al Padre, al Figlio ed allo Spirito Santo. Perciò è un delitto il suicidio; è una colpa lo sciupio del tempo; è un dovere il lavoro.

b) In rapporto alla famiglia, la morale cristiana propugna la concezione della vita come amore, sia che affermi l’unità e l’indissolubilità del matrimonio e proibisca il divorzio, sia che comandi l’affetto fra i coniugi o l’amore dei figli ai genitori. c) Anche lo Stato è per la morale cristiana la società degli spiriti chiamati all’amore. Portando rispetto ed ubbidienza alla maestà dello Stato noi amiamo Dio, che non ci ha creati per vivere egoisticamente, ma ha voluto che fosse per noi di necessità naturale costituire lo Stato; inoltre, amiamo il prossimo, lavorando e tendendo al bene comune, sia con l’attività di coloro che governano, sia con la collaborazione devota ed ossequiente del cittadino. Di qui anche il dovere per il Cristiano d’amare la sua patria.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (18)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (51b)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (51b.)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -IX a-

5. Sacramento dell’Eucaristia.

J 5a. a. – INSTITUZIONE DA CRISTO.

Cristo istituì: a.il Sacramento o b.Sacrificio eucar. c.nell’ultima Cena ac846 ac1637 ac1727 bc1740-1742 b1752; si riprova l’asserzione dei Modernisti 3445.

J 5b. b. – L’ESSENZA DEL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA.

5ba. Indole sacramentale. L’Eucar. è un Sacramento 718 761 846 860 1310 1320 1601 1635-1637 1727 1864 2536.

Nell’Eucaristia il pane e il vino è “Sacramento e non cosa”, carne e sangue di Cri. “sacram. e cosa”, effetto sacramentale “cosa e non sacramento” 783.

Materia è il pane di frumento (783) 860 1320 CdIC 814, § 1; e il vino di vite (783) 1320 CdIC 815, § 2; il pane presso i latini è azimo, preso i Greci fermentato 860 1303 CdIC 816; precauzioni ctr. corruzione del vino della Messa 3198 3264 3312s.

La Forma sono le parole consacratorie di Cristo 1321 1352; l’epiclesi non ha alcuna capacità consecratoria 1017 2718 3556; nella concelebrazione di più Sacerdoti si richiede la comune pronuncia delle parole della consacr. 3928.

5bb. Presenza eucaristica di Cristo. Le parole di Cristo Sono consecratorie non in senso tropico, ma sono presentate in senso proprio 1637.

Per la consacrazione si opera la conversione di a.tutta la sostanza in corpo di Cristo e di a.tutta la sostanza del vino in sangue di Cristo. 1321 1352 a1642 a1652 a1866 a2535 a2629 a2718; questa conversione si chiama transustanziazione 782 802 860 1352 1642 1652 1866 2535 2629; post dopo la consacrazione si separano le specie (forma) del pane e del et vino, è creduta la verità della carne e del sangue di Cristo 782s, ovvero: nel sacram. dell’altare è contenuto il corpo e il sangue di Cristo a.veramente, b.realmente, c.sostanzialmente, d.essenzialmente sotto le specie del pane e del vino 690 700 794 a802 (846) abd849 abc1636 1640 abc1641 a1651 abc1866 abc2535 abc2629.

Tutto il Cristo è contenuto sotto qualunque specie (b.sia per la virtù delle parole sia per la naturale connessione e concomitanza) e c. sotto qualunque parte della specie dopo la separazione a1199 a1257 ac1321 ab1640 ac1641 a.1651 ac1653 (a1729 a1733) a1866 ac2535.

Cristo eucaristicamente presente è lo stesso Cristo nato e crocifisso 1083 1256; nell’Eucar. è contenuto il corpo e sangue di Cristo insieme all’anima e divinità di Cristo  (a.in virtù dell’unione ipost.) a1640 1651 1866 2535; Cristo è eucaristicamente presente sotto le specie, localmente (a.sec. modo di esistere naturale) è in cielo 849 a1636.

Riprov. l’asserzione negante la transustanziazione 849 1018 1151-1153 1256 (1652) 1654 3891; si riprovano le sinistre spiegazioni 3121-3124 3229-3231 3891; si disputa per come l’acqua mista al vino della Messa si trasformi in sangue 784 798.

La presenza eucaristica di Cristo non si limita al tempo di volubilità 834; remane per i giorni che restano le specie 1101-1103.

Al Sacramento dell’Eucaristia si deve il culto di latria 1643s 1656 CdIC 1255, § 1.

La presenza di Cristo in tal senso è dirsi come mistero liturgico della Chiesa 3855.

J 5c. c. — DIGNITÀ DELL’EUCARISTIA.

L’Eucaristia è come il capo e centro della religione cristiana 3847; è come l’anima della Chiesa (per questo i vari gradi del sacerdozio, sono diretti all’Euch.) 3364; pertanto la Chiesa ha tanti beni, virtù, gloria 3364.

J 5d d. — EUCARISTIA COME SACRIFICIO.

5da. Sacrificio della Messa come tale. Cristo nell’Eucaristia è sacerdote et sacrificio 802.

Nella Messa si offre il a.vero, b.proprio, c.visibile sacrificio a1740-1742 a1741 c1764 ba1866 ab2535 b3847.

Il Sacrificio eucar. è l’incruenta rappresentazione del sacrificio cruento in Croce e sua memoria 1740s 1743 3847s (S3339); le specie eucar. figurano la cruenta separazione del corpo e del sangue 3848; ita Cristo è significato nello stato di vittima 3848 3852; ill sacrificio della Messa non si discosta dal sacrificio della croce 1743 1754 7S3339.

La Messa è offerta al solo Dio (benché in onore e per l’intercessione dei Santi) 1744 1755.

Si Riprovano le asserzioni: [la Messa non è stabilita nel Vangelo] 1155; [la Messa è la nuda commemorazione del sacrificio della Croce] 1753 3316 3847 S3339; [la Messa non è sacrificio se non generale in cui di sacrifica ogni opera che si debba compiere per unirsi a Dio nella santa società 1945.

5db. Ministro. Per consacrare è richiesta la persona (ministro), la forma (le parole) e l’intenzione nel proferirle 794.

Ministro del sacrificio è solo a.il presbitero ordinato dal Vescovo (b.non il diacono c.non il laico) d.avente la debita intenzione 794 ab802 c1084 d1352 CdIC bd802; il sacerdote consacrante parla in persona Christi 1321; quando sia lecita la concelebrazione di più sacerdoti (3928) CdIC 803.

La Messa in cui si comunica il solo sacerdote non è illecita 1747 1758 3854.

La Consacrazione della materia fuori dalla Messa è illecita anche in estrema necessità.. CdIC 817. Per la lecita celebrazione della Messa è richiesto lo stato di grazia, mancando il quale il sacerdote ha urgente necessità di confessarsi quanto prima 1647 2058s CdIC 807.

5dc. Partecipazione dei fedeli alla Messa e loro sacerdozio. 3849-3853; si riprova l’asserzione -circa la partecipazione alla vittima 2628; -: circa la concelebrazione dei fedeli 3850; circa la Messa privata senza popolo 3853.

5dd. Rito dell’offerta. Sii rivendica la legittimità delle cerimonie della Messa 1746 1757 5dd 1759; si rivendica la libertà da errori (dogmatici) del canone della Messa 1745 1756.

Il vino della Messa va mescolato a un poco d’acqua 822 834 (784 798) 1320 1748 1759 CdIC 814.

Uso della lingua latina, restrizione della lingua volgare 1749 1759 CdIC 819.

5de. Effetto del sacrificio della Messa. La sua efficacia è – : ex opere operato 3844;

– la stessa del sacrificio della Croce S3339; -: non dipende dalla probità del Sacerdote 794.

La Messa è sacrificio propiziatorio per i vivi ed i defunti 1743 1753. 1866 2535 CdIC 809; si riflettono i peccati quotidiani 1740; vale per impetrare ed espiare S3339; si riprova l’asserzione circa l’applicazione del frutto speciale della Messa. 2630; applicazione per coloro il cui cadavere sia stato cremato. 3277.

J 5c. c. – EUCARISTIA COME COMUNIONE.

5ea. Modo e rito ministrante.

a.ai laici la comunione è somministrata dal Sacerdote, b.il Sacerdote comunica se stesso ab1648 b1660 CdIC a845, § 1; il diacono è ministro straordinario CdIC 845, § 2.

La Comunione sotto una sola specie del pane (non solo sotto entrambe a. Riprovata dai riformatori, b.deliberata nel Cc. Trid.) è legittima 11981200 1258 1466 a1731s 1726-1734 ‘1760 CdIC 852; questa non è non defraudata per qualche grazia necessaria 1729 1733; i laici e i chierici che non celebrano non sono obbligati alla comunione con entrambe le specie 1726s 1731s.

Si legittima la conservazione dell’Eucaristia (riprovato tuttavia l’a.abuso presso i Greci) a834 1645 1657 CdIC 1265.

5eb. Fine. Nell’Eucar. si fa grata memoria del Salvatore 846 1322 (1637) 1638; il fine non è precipuamente, procurare l’onore del Signore o per prendere quasi un premio delle virtù (ma è da cogliersi dagli effetti) 3375-3378.

5ec. Effetto. Va distinta tanto l’assunzione sacramentale, tanto spirituale sacramentale simultaneamente et spirituale 1648 (1658); si riprova: [Cristo nell’Eucaristia, è mangiato non realmente ma spiritualmente] 1658.

Il Cristo eucar. è vita dei fedeli 3360; è cibo dell’anima 847 1311 1638 3360; pertanto l’Eucaristia ha per la vita spirituale lo stesso analogo effetto del cibo materiale 1322.

Effetto singolo — remissione dei peccati 1020; (più accuratamente:) liberazione dalle lievi colpe quotidiane 1638 3375; —: attenuazione delle pene 1020; —: preservazione dai peccati mortali (846 1322) 1638 3375; —: soppressione della libidine 3375; —:  846 1020 1322; —: incremento della grazia, incremento delle virtù 846; —: unione e conformazione con Cristo 802 847 1320 1322; —: unità e carità 783 1635 (1638 1649) 3362; —: pegno della futura gloria 1638; si riprova l’asserzione che restringe l’effetto solo alla remissione dei peccati 1655.

5ed. Necessità della comunione eucaristica. Si raccomanda la comunione frequente (a.anche ai piccoli) 1649 1747 2090 (2093s) 3361 3375s 3379 3383 a3534 3854 CdIC 863; reprobatur vero: [la Com. eucar. quotidiana è di diritto divino] 2095 3377.

È comandata la comunione annuale da fare a pasqua (a.anche i bambini adulti giunti all’età della siscrezione) 812 1659 a3533 Cd1C a859; questo precetto non viene soddisfatto da una comunione sacrilega 2155 CdIC 861.

I piccoli non sono obbligati alla comunione 1730 1734 CdIC 854, § 1; il viatico deve essere preso in pericolo di morte (a.anche i piccoli dopo aver raggiunto l’uso della ragione) 121 212 1645 1657 a3536 CdIC a854, § 2 864, § I.

5ee.Soggetto della comunione eucaristica. Gli atti alla prima comm. dei piccoli 3530 (3533) 3535; dopo aver raggiunto l’uso della ragione anche ai piccoli è da dare il viatico 3536 CdIC 854, § 2; riprov. l’asserzione circa la comunione eucar. dei defunti 3232.

Disposizione e preparazione alla com. in genere: sono, riprovate simultaneamente le affermazioni a.rigoristiche e b.piu blande b1661 2090-2092 b2156 a2322s a3376-3378 3382; in specie la lecita ricezione suppone lo stato di grazia

(a.confessione, non solo acquistata con la contrizione) e b.proposito di non peccare successivamente mortalmente a1647 a1661 3379 b3381 CdIC 856; si richiede anche la retta intenzione 3379s.

Cognizione religiosa richiesta nei piccoli e nel neofito è quella di saper discernere il corpo di Cristo dal cibo comune e di adorarlo 2382 353 l s CdIC 854, § 2.

6. Sacramento della penitenza.

J 6a. a. — ESSENZA DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA.

6aa. Indole sacramentale. La confessione dei peccati ossia penitenza è un sacramento

761 (794) 860 1310 1323 1601 1667 (-1693) 1701 18642536; riprov.:

[Il potete di rimettere i peccati è rimessa solo dalla potestà di dichiarare i peccati ossia di predicare la parola di Dio] 1670 1685 1709; [la penitenza, onde ricevere grazia, è Sacramento di natura, non legge V. N.T.1 1418.

6ab. Parti della penitenza in genere. Mediante la penitenza, la confessione e le opere soddisfattorie sono rimessi i peccati 794; quasi-materia sono gli stessi atti di penitenza, cioè la contrizione, la confessione, la soddisfazione (riprovata l’asserzione negante il fondamento biblico) 1323 1455 1673 1704; riprov.: [le Parti della penit. sono terrori o una fede in una coscienza mortificata] 1675 1704.

6ac. La contrizione è il dolore del peccato commesso con il proposito di non peccare ancora a.contenente anche l’odio della vita precedente) 1323 a1676.

La contrizione è necessaria per la remissione dei peccati 1676s 3334; riprovate le asserzioni deroganti dalla contrizione. [tra le altre: la contrizione rende ancor più peccatori. 1455-1457 1461s I464s 1678 (1685) 1705.

La contrizione perfetta riconcilia l’uomo già prima di ricevere il Sacramento della penitenza, includendone tuttavia il voto (1260) 1677 1971;

riprov.: [la contrizione rende superflua la confessione esteriore] 1157 1412.

È da distinguere la contrizione in carità perfetta è la contrizione imperfetta o attrizione 1677s; la attrizione, se esclude la volontà di peccare, con la speranza di perdono, è dono di Dio a.disponendo al Sacramento della penit. 1678 a1705; infatti questa richiede l’atto di amore di Dio liberamente esposto 2070; riprov.l’asserzione a.più lassa e b.rigorista circa l’attrizione a2157 b2314s (b2462-2467 a2625 ) b2636.

6ad. Confessione dei peccati. Oggetto: si richiede la confessione integrale dei peccati (a.secondo l’istituzione di Cristo) 1323 1679-1681 1706; cioè di tutti i peccati mortali dei quali il penitente è conscio 1085 1680 1682 1707; sono da accusare anche i peccati occulti 1680 1707; -: peccati mortali commessi anche di pensiero (a.non è sufficiente il solo dispiacere). a1413 1680 1707.

I peccati sono da dichiararsi- : distintamente, nella specie, singolarmente, spiegando le circostanze (mutanti la specie) 813 1085 1411 1679 a1681 a1707 2158 CdIC .a901; : sec. il numero 1707.

I peccati omessi per dimenticanza si intendono inclusi nella confessione 1682; sono tuttavia da accusare nella prossima confessione 2031 3835.

Si enumerano le cause scusanti dall’integrità 3834; si riprova l’asserzionecontro l’integrità 1458s 1682 2192 2247s 2259s.

La confessione dei peccati veniali in confessione è: a.lecita, (recando sufficiente materia), b.utile ma c.non necessaria ab14585 bc1680 a1707 b2639 b3818 CdIC ac902.

La reiterata confessione dei peccati già debitamente rimessi è directe remissorum è lecita, raccomandata, ma non necessaria 880 CdIC 902.

Modo di confessarsi: la confessione segreta è legittima, la pubblica anche, quando non vietata, ma non è raccomandata 323 1414 1683s 1710.

Nel Sigillo sacramentale al confessore è proibito l’uso della scienza con il rivelare il penitente 814 1989 2195 CdIC 889s; al sigillo sono tenuti anche tutti colore ai quali siano pervenuti in qualunque modo notizie della confessione CdIC 889, § 2: ugualmente è proibita anche la rivelazione del nome del complice 2543s CdIC 888, § 2.

La Confessione può essere fatta anche con un interprete CdIC (889, § 2) 903; in caso di necessità, sono sufficienti i segni del penitente è degli astanti testimoni 310; non è lecita la confessione di un sacerdote assente né l’assoluzione a distanza 1994s.

6ac. La soddisfazione è imposta ai penitenti perché a.da sè sia adempiuta 308 16891692 1714s a2035 CdIC a887; si spiega la sua ragione 1543 1692.

La Soddisfazione deve corrispondere alla qualità e al numero dei peccati

(riprovato l’uso più blando e l’uso della falsa penitenza, o parziale) 717 1692 CdIC 887: si propongono come soddisfazione (sec. l’arbitrio del sacerdote) preghiere, digiuni, elemosine, altri esercizi di pietà 1323 1543;

modo di soddisfare: è mitigato dalla Chiesa dai modi antichi e non è da ripristinarsi 129 212 231602322: come soddisfazione valgono anche (oltre alle sacramentali) le pene temporali inflitte da Dio 1693; l’abuso dell’unzione del penitente in soddisfazione 832.

Riprov. asserzione dell’efficacia della soddisfazione umana adeguata 1959 1977; riprov. (Come insufficiente): [Nuova vita è ottima penitenza] 1457 1692 1713.

6af. Assoluzione. La forma del Sacramento della penit. sono le parole dell’assoluzione 1323 1673;

Le altre preghiere non sono di necessità del Sacramento CdIC 885.

L’assoluzione è un atto giuridico 1671 1679 1685 1709 CdIC 870 888, § I; riprov. l’uso della formula deprecatoria 1013; riprovato: [l’Ass. non è se non una dichiarazione che i peccati sono rimessi] 1685 1703 1709; si riprovano le asserzioni circa l’efficacia dell’assoluzione rispetto alla sola fede del penitente 1460-1465.

Quando è lecita l’assoluzione plurima simultanea 3832-3837; formula da impiegare in tal caso 3837; riprovata l’assoluzione dimezzata in occasione di grande concorso 2159.

Al disposto non va differita l’assoluzione CdIC 886; non è da negare la riconciliazione in pericolo di morte 129 136 212 309s (325); si riprovano le asserzioni più blande ed in parte più rigide 2160s 2164 2638.

J 6b. b. — ORIGINE DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA.

6ba. Origine remota. Prima di Cristo non vi fu il Sacramento della penitenza 1670.

Il Sacramento della penit. è istituito a.dopo la resurrezione 308 348s a1542 a1670 1679 (1706); è un altro sacramento, distinto dal battesimo 1668 1702.

Il potere di rimettere i peccati a fu conferita agli Apostoli e ai loro successori nel sacerdozio 308 348 1670 1679 1764 1771; questo potete si estende ad ogni peccato: vd. D 2eb.

Si riprovano le affermazioni dei modernisti circa l’origine della penitenza 3443 3446s.

6bb. Ministro è solo il Vescovo o il Sacerdote 1260 1323 1684 1706 1710 CdIC 871; non il laico 866 1260 1463 1684 1710; mancando il Sacerdote la remissione è procurata dalla contrizione 1260; add. J 6ac.

Il Ministro deve possedere (oltre il potere dell’Ordine) giurisdizione 1323 1686 2637 CdIC 872; il potere di giurisdizione di vari ambiti ha diverso grado 1261 1265.

Il potere del ministro non dipende dalla sua probità 912 914 (1019 1262) 1684 1710.

Non è più necessario fare la Confessione, come a.un tempo dal proprio sacerdote o da altro solo su suo permesso a812 921923 1085 CdIC 905; riprov. l’asserzione negante agli Ordini mendicanti la facoltà di udire Confessioni 921-924; riprov. l’ass. lassa circa la giurisdizione dei confessori 2032s 2036 (2056 2064).

È diritto del Vescovo riservarsi dei casi 1687 1711 CdIC 893-900; in pericolo di morte la riserva è nulla 1688 CdIC 882; riprov. l’asserzione ctr. la riserva dei casi 1136 2023s 2032 2064 (2594) 2597 2644s.

6bc. Ordine della penitenza.

La maggior rigidità della Chiesa non è più ripristinabile (soprattutto il negare l’assoluzione prima della completa soddisfazione) : cf. 129 212 1415 2316//2322 2487-2489 2634s.

J 6c. c — FINE, EFFETTO, VALORE DELLA PENITENZA.

6ca. Fine è la guarigione spirituale 1311; il sacram. della penit. è più laborioso rispetto al Battesimo 1672.

6cb. Effetto. “Fatto ed effetto” è la riconciliazione con Dio 1674; il sacram. della penit. è il rimedio dei peccati commessi dopo il Battesimo 308 348s 802 855 1323 1542 1579 1668 1680 1701 CdIC 870; la remissione non avviene con la sola fede 1685 1709.

Insieme alla colpa, viene rimessa anche la pena eterna 1543; non sempre è rimessa anche tutta la pena temporale 838 1010 1543 1580 1689 1712 1715; si riprova: [Elimina solo la pena] 1957s.

La legittima assoluzione libera dalle censurr CdIC (2247) 2248 (2249).

6cc. Necessità di mezzo. Il Sacramento della penitenza ai peccatori dopo il Battesimo è necessario di a.diritto divino 1542s 1668s 1670 1672 a1679 a1706 679 CdIC 901;

è la seconda tavola dopo il naufragio della perdita della grazia 1542; in caso di necessità è sufficiente il voto della penitenza (121) 1543 3869; add. J 6ac (circa la contrizione perfetta).

N. di precetto, sci. la confessione almeno annuale 812 1683 1708 CdIC 906;

a questo precetto non soddisfa la confessione sacrilega o volontariamente nulla (2033) 2034 CdIC 907.

J 6d d. – SOGGETTO DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA.

Il potere della Chiesa di rimettere i peccati si restringe agli uomini viventi, non ai morti 348.

Già i bambini sono obblianti alla confessione 3533; una volta che con l’età abbiano acquisito una conoscenza religiosa 3530s 3533.

Quando l’assoluzione sia lecita allo scismatico moribondo 3635s.

7. Sacramento dell’unzione degli infermi.

J7a. a. – ESSENZA DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI.

L’U. degli infermi o Estrema u. è un Sacramento 794 (833) 860 1310 1324 1601 1694 1716 1864 2536; si riprova l’asserzione ctr. l’indole sacramentale 1699 1716s 3448.

La materia è l’unzione con l’olio di ulivo benedetto dal Vescovo (a.non dal semplice Sacerdote, b.se non ne ha facoltà dalla Sede Ap.) 216 1324 1695 a2762s CdIC 734, § 1 937 ab1945.

La forma sono le parole della formula 1324 1695.

In caso urgente è lecita l’unica unzione con una formula speciale brevissima 3391 CdIC 947, § I.

J 7b. b. – ORIGINE DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI.

L’U. degli infermi è instituita da Cristo 1694 1695 (1699) 1716.

Il Ministro è (a.solo ed ogni) Sacerdote 216 1325 1695 1697 1719 CdIC a938, § I.

L’unzione può essere fatta da uno o più ministri, purché ognuno simultaneamente usi la materia e pronunzi la forma 2524.

J7c C. c. – FINE, EFFETTO E VALORE DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI.

Fine . l’U. degli inferm. è ordinata -: alla guarigione spirituale e, se riesce, alla corporale 7ca 620 1311 1325 1696; -: a fortificare l’uscita dalla vita 1694.

7cb. Effetto. Conferisce la grazia che è a.la remissione dei peccati, b.la pulizia dei peccati residui, c.conforto all’anima del malato a620 abc1696 ab1717.

7cc. Necessità. Per sé l’u. degli infermi non è necessità di mezzo CdIC 944; peccato è in vero disprezzarla 1259 1718.

7dd. d. – SOGGETTO DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI.

Sogge è l’uomo infermo a.dopo aver raggiunto l’uso della ragione in pericolo do morte.

1324 1698 a3536 CdIC 940.

L’Unzione può essere ripetuta ogni volta che l’uomo dopo la guarigione, ricada in pericolo di vita 1698 CdIC 940, § 2.

È richiesta nel soggetto la conoscenza religiosa e l’intenzione 2382; per se suppone lo stato di grazia: infatti un tempo era negata al non riconciliato nella Chiesa antica l’unzione degli infermi 620.

Quando sia lecito somministrare agli inf. scismatici moribondi l’unzione degli infermi 3635s.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (51c.)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (16)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (16)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo QUINTO (5)

V. – REDENZIONE E VITTORIA.

Col procedimento abituale dell’impostura, gli avversari della morale cristiana, mentre plaudono al piacere, al vizio, all’oro ed a tutte le affermazioni del proprio io in opposizione a Dio, sono poi pronti a disprezzare coloro che nella colpa trovano la rovina ed a mettere alla gogna il credente che cade in un peccato. Ecco la grande morale, essi declamano col sussiego dello sprezzo ironico, che parla di altezze e di voli. Eccola nella storia con Papi che si chiamano Alessandro VI, con ecclesiastici simili a quelli del Rinascimento, con brutture che si rinnovano di tempo in tempo. E quasi che nell’etica importasse solo il fatto, e non già anche la giustificazione ed il valore intimo del fatto stesso, vanno cianciando di una morale senza religione e d’un « galantomismo ateo. – Nella concezione del Cristianesimo, finora descritta, nessuno, invece, si scandalizza neppure se cadono i cedri del Libano. Uniti a Cristo e fortificati dalla grazia, noi dobbiamo combattere, come vedemmo, giorno per giorno, ora per ora. Se vien meno la nostra cooperazione a quell’aiuto divino, che non manca mai, noi caschiamo a terra, vinti dall’ignominia d’una piccola o d’una grave disfatta. Si può essere Cristiani; ma se in una triste e malaugurata occasione deponiamo le armi, il nemico trionfa. Noi non ci stupiamo di ciò, sapendo per esperienza personale come la lotta è dura e continua. Se colui che è stato il primo Pontefice, san Pietro, ha rinnegato il Maestro divino; se uno degli Apostoli, Giuda, lo ha venduto per trenta denari; se in mezzo al popolo fedele talvolta dobbiamo piangere il dilagare della corruzione, noi non concludiamo stoltamente: « Dunque Cristo non è nel vero; dunque la morale cristiana è inutile ». Sarebbe come se volessimo negare il valore della matematica, per gli sbagli che si commettono da chi ne applica le regole. Anzi, in ogni errore scorgiamo una conferma della verità: come lo sbaglio in un’operazione di aritmetica è tale, perché si sono calpestate le regole, così una colpa è tale, appunto perchè si è praticamente rinnegata la norma etica. Se questa fosse stata seguita, non avremmo avuto la sconfitta, ma la vittoria. Del resto, ognuno di noi, guardando non al proprio io, ma all’organismo divinamente santo al quale apparteniamo, alla Chiesa, esclama col cardinal Maffi: « Uomini, abbiamo noi pure le miserie e le debolezze che natura impone, che però cerchiamo ogni dì di correggere e di dominare; ma pur ammettendo qualche caduta in noi, non per questo abbiamo cessato, non cessiamo di essere, lo diciamo francamente, all’avanguardia della dottrina, del progresso, della virtù, della bontà. È torta anche la torre di Bonanno, eppure è la gloria nostra: anche l’Eneide ha dei versi rotti, eppure è il capolavoro dell’epica latina: è imperfetto anche il sepolcro di Giulio II, eppure vi siede Michelangelo e vi trionfa col Mosè. Se diritta la sua torre, Pisa perderebbe un miracolo dell’arte e della statica e la meraviglia che è la prerogativa della sua corona; se tutto il clero, se tutta la Chiesa anche sulla terra fosse di santi, forse ai nostri occhi così evidenti non risplenderebbero i misteri della grazia e del libero arbitrio e i trionfi e l’opera del Signore; ma, data pure un’inclinazione alla terra, quasi pendenza della torre, guardatelo questo clero, guardatela questa Chiesa che si slancia nel cielo e con la voce delle sue campane, come con la sua vita e con la dottrina dei suoi sacerdoti, a quanti l’intendono è rapimento ed ammirazione ». La differenza tra Cristo ed i farisei di tutti i tempi sta qui. Questi, in nome delle loro passioni, egoisticamente sfruttano persone e cose, gettano nel fango la creatura di Dio e poi la disprezzano e la vogliono lapidare. Cristo, al contrario, pur condannando la colpa, perdona il colpevole, lo rialza e gli dà, per i meriti del suo Sangue purificatore, un nuovo paio di ali: Egli è il Dio della speranza che s’avvicina al caduto, gli porge la destra e lo redime.

1. – La dottrina della redenzione.

Forse mai come in questo punto le coscienze nostre comprendono che la morale cristiana è morale di amore. Con occhi gonfi di pianto i peccatori hanno sempre riletto nel Vangelo la parabola del buon Pastore — che lascia le novantanove pecore al sicuro e va alla ricerca della pecorella smarrita — e l’altra, così semplice e sublime ad un tempo, del figliol prodigo, che ritorna alla casa paterna, accolto dalla gioia del Padre. I cuori commossi hanno appreso da Gesù che Egli è venuto non per i giusti, ma per i peccatori, perché non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma gli ammalati; hanno appreso con stupore che si fa più festa in cielo per il peccatore il quale si converte, che non per novantanove giusti che non abbisognano di penitenza. E durante i secoli i brani evangelici, salutati con spirito riconoscente, furono sempre quelli che ritraggono la ineffabile bontà di Gesù verso le anime peccatrici. Al paralitico di trentotto anni, risanato con una parola, Egli ha detto: « Non peccare più oltre, perchè non ti avvenga di peggio ». – Della donna colta in adulterio Gesù ha assunto la difesa: « Chi è di voi senza peccato, scagli la prima pietra »; e scriveva in terra. E quando, consapevoli delle proprie colpe e spaventati dinanzi alla sua maestà soave e imponente, gli accusatori se ne furono andati, riprese: « Nessuno ti ha condannato? ». « Nessuno, o Signore ». « Neppure io ti condannerò; va in pace e non peccare più oltre ». Maddalena si gettò ai suoi piedi e pianse gli scandali della sua vita. Il fariseo si scandalizzò di questo, ma Gesù annunciò che molto a quella donna « era perdonato, perchè molto aveva amato ». E la volle ai piedi della sua Croce, vicino al candore dell’Immacolata ed alla verginità di Giovanni; e le diede la precedenza nelle apparizioni ai discepoli dopo la sua risurrezione. E sarà la Samaritana, mutata da peccatrice in una santa; sarà sulla via di Gerico, la città delle rose, Zaccheo, capo dei gabellieri e ladro, che da un tratto di divina generosità di Gesù si tramuta in un suo discepolo e dà subito metà dei suoi beni ai poveri; sarà Pietro, convertito con un’occhiata divinamente dolce e mesta, che piangerà tutta la vita; sarà persino sul Calvario, nelle ore estreme e fra gli strazi dell’agonia, il buon ladrone, che si sentirà dire: « Oggi tu sarai con me in paradiso ». E cos’è il Golgota, cosa significa il Crocefisso, se non il perdono, la redenzione, la « remissione dei peccati »? Tutto questo è un poema d’amore; e chi non ne resta rapito, non giungerà mai a sapere la vera natura della morale cristiana. Qualsiasi senso di disperazione è riprovato; ad ognuno, anche se si trattasse dell’uomo più infame e del più scellerato che il sole abbia mai visto, Gesù, il Salvatore, con divina tenerezza parla di perdono, di riabilitazione, di ripresa, di rivincita, di speranza; ad ognuno mostra il suo Cuore che invita ed attende. Cosa sono mai gli uomini grandi del mondo, i condottieri di eserciti, i re, i grandi ministri, i sapienti, i filosofi, gli scienziati, dinanzi a Cristo? Nessuno di loro potrebbe rigenerare le anime, mutare i cuori, infondere in noi la forza per risorgere e per iniziare una vita nuova: nessuno potrebbe dirci: « I tuoi peccati ti sono rimessi: il tuo passato l’ho distrutto nel mio Sangue; io ho sofferto per te; per te sono morto…». Gesù Cristo soltanto ha fatto ed ha parlato così; solo un Dio poteva insegnare una simile morale, che tutti, ignoranti e dotti, vecchi o fanciulli, barbari o popoli civili avrebbero compreso. Ad ognuno di noi Egli ha perdonato e chi si prostra davanti a Lui non si umilia, ma si sente consolato ed innalza il canto della gratitudine al Dio dell’Amore.

2. – La confessione e l’amore. Noi sappiamo che la condizione del perdono venne fissata da Gesù nella confessione sacramentale dei propri peccati. Perché? E perché alcuni sentono una viva ripugnanza ad accostarsi al tribunale della misericordia? Il motivo è semplicissimo: si guarda alla confessione conn l’occhio di Lutero, che la definiva « la carneficina delle anime., non con l’occhio della morale cristiana, che non potrebbe interpretare il Sacramento della penitenza se non alla luce dell’amore. Oltre l’esame di coscienza, senza del quale non ci sarebbe possibile conoscere lo stato di fatto della nostra vita, per ben confessarci occorre, innanzi tutto, un vivo dolore delle colpe commesse, col proposito di non commetterle più in avvenire. Noi sappiamo che Benedetto Spinoza, nella sua Ethica, dichiara: « Il pentimento non è una virtù, ossia non sorge dalla ragione: ma colui che si pente è misero due volte, ossia è impotente. Poichè dapprima si lascia vincere dalla prava cupidità, poi dalla tristezza ». Ed il Cristianesimo appariva a lui come la dottrina dell’inutile morte. Ma sappiamo altresì che questo filosofo non conosceva il catechismo. Il dolore ed il proponimento non mirano ad altro se non ad un atto di amore a Dio, quando, come avviene nella contrizione, non includano lo stesso amor di Dio. Col peccato avevamo preferito le cose di quaggiù, avevamo negato l’amore a Dio, eravamo andati verso la morte; col pentimento, restituendo l’ordine turbato, noi ci rivolgiamo ancora a Dio, gli chiediamo scusa del male compiuto, lo assicuriamo che lo ameremo sempre e più non tradiremo il suo Amore: in una parola, ci incamminiamo alla vita. È vero: basta per la confessione l’atto di attrizione, ossia il dolore delle colpe ispirato dall’amore imperfetto, e non è necessaria la contrizione, ossia il rincrescimento suggerito dall’amore perfetto; ma l’amore di Dio, almeno implicito nell’atto sincero dell’attrizione, è indispensabile. Ecco perché una confessione senza dolore o senza proponimento, anche se fatta in punto di morte, anche se accompagnata da un’accusa sincera delle proprie mancanze, non dà mai, in nessun caso, il perdono dei peccati: essa non ci orienta verso l’Amore di Dio abbandonato e tradito, e ci lascia ancora rivolti verso la sua negazione. Il crede firmiter et pecca fortiter di Lutero può essere comodo per le umane passioni, ma è un’enormità morale, nonostante la pretesa imputazione giuridica dei meriti di Cristo a noi, mediante la sola fede. Come possiamo essere giustificati, se continuiamo a restare in opposizione a Dio? Come possiamo amare Dio, se pecchiamo, ossia se calpestiamo il suo Amore? Si noti: Gesù Cristo avrebbe potuto concederci la remissione delle colpe mediante questo unico atto di dolore e di proposito interno, sommo, soprannaturale; ma Egli ha voluto obbligarci a manifestare i nostri peccati al Sacerdote, perché l’assoluzione è conclusione di un giudizio e poi perché, fra l’altro, noi viviamo nella Chiesa. Non siamo individui isolati, bensì uniti nella grande società cristiana. In una concezione atomistica del Cristianesimo, quale fu propugnata dai protestanti, si capisce come l’anima voglia intendersela direttamente con Dio; ma nella vera concezione cristiana, che è in acuta opposizione con l’atomismo sociale, era conveniente, per sorvolare su altre ragioni, che noi ritornassimo all’amore di Dio mediante la Chiesa ed i suoi rappresentanti autorizzati, ai quali Cristo ha detto: « Saranno rimessi i peccati a coloro ai quali voi li rimetterete; saranno ritenuti a coloro ai quali voi li riterrete ». Noi andiamo al Padre non direttamente, ma per mezzo di Gesù Cristo, che vive nella sua Chiesa, la quale altro non è se non il Cristo completo, come abbiamo veduto. Non è davanti ad un uomo che ci rechiamo; ma davanti a Cristo rappresentato da quell’uomo. Come magnificamente scrisse Alessandro Manzoni nella sua Morale Cattolica, « noi, cioè tutti i Cattolici, e laici e sacerdoti, principiando dal Papa, ci inginocchiamo davanti ad un sacerdote, gli raccontiamo le nostre colpe, ascoltiamo le sue correzioni e i suoi consigli, accettiamo le sue punizioni. Ma quando un Sacerdote, fremendo in ispirito della sua indegnità e dell’altezza delle sue funzioni, ha steso sul nostro capo le sue mani consacrate; quando, umiliato di trovarsi il dispensatore del Sangue dell’alleanza, stupito ogni volta di proferire le parole che danno la vita, peccatore ha assolto un peccatore, noi alzandoci da’ suoi piedi, sentiamo di non avere commesso una viltà. C’eravamo forse stati a mendicare speranze terrene? Gli abbiamo forse parlato di lui? Abbiamo forse tollerato una positura umiliante per rialzarcene più superbi, per ottenere di primeggiare sui nostri fratelli? Non s’è trattato tra di noi che d’una miseria comune a tutti, e d’una misericordia di cui abbiamo tutti bisogno. Siamo stati a’ piedi d’un uomo che rappresentava Gesù Cristo, per deporre, se fosse possibile, tutto ciò che inclina l’anima alla bassezza, il giogo delle passioni, l’amore delle cose passeggere del mondo, il timore dei suoi giudizi; ci siamo stati per acquistare la qualità di liberi e di figlioli di Dio. Anche in questo caso si verifica la legge della morale cristiana: bisogna morire per vivere: bisogna umiliarsi per balzare in alto; bisogna accettare per amore il sacrificio del nostro orgoglio e del nostro piccolo io, perchè solo così possiamo ricevere il bacio divino del perdono.

3. – Il problema della conversione.

Se l’indole di questo Sillabario lo permettesse, potremmo qui esaminare il problema della conversione. Cos’è il convertito? Forse un ragionatore, che a furia di sillogismi è arrivato logicamente alla conclusione della verità cristiana? Potrà essere anche questo; ma non può essere solo questo. La conversione può avere mille forme; anzi, si può soggiungere che in ogni convertito assistiamo ad una speciale e caratteristica forma di ritorno a Dio. V’è chi si incammina verso Cristo sulla strada della filosofia; altri batte la via della beneficenza, dell’arte, delle disillusioni umane; altri d’improvviso, sulla strada di Damasco, vien colpito dalla luce fino ad allora negata: e così via. Un elemento solo si trova in tutte le conversioni: l’amore, anche quando l’amore è nato dal timore o dalla vergogna di se stesso. La fiamma dell’amore sarà diversamente preparata dalla grazia divina; ma guai se essa non divampasse! Non per nulla coloro che vivono col cuore attaccato alle miserie ed alle frivolezze non si preparano alla conversione: essi sono lontani dall’amore di Dio e dalla vita del Cristiano.

4. – Le campane di Pasqua.

Un giorno Federico Nietzsche, ancora fanciullo, passeggiando col padre da Liitzen a Roecken, fu sorpreso a mezza strada dal rombo festoso delle campane, salutanti la festa di Pasqua. « Quel suono — egli scrisse — ha echeggiato spesso nel mio cuore ». Ma Nietzsche non ha compreso il senso di quella musica di vita, di quell’annuncio di risurrezione. Anche oggi, ogni volta che ritorna la solennità pasquale, la Chiesa fa suonare le sue campane per ricordare a tutti il suo precetto di « confessarsi almeno una volta all’anno e di comunicarsi almeno alla Pasqua ». E nell’attuale rinascita di fede, molti di coloro che da tempo non frequentavano i Sacramenti, ritornano alla casa del Padre, implorano il suo perdono e si cibano delle carni immacolate dell’Agnello, che entra nel cuore nostro, per trasformarci sempre più in Lui. Che il precetto pasquale da nessuno sia trascurato! E che la confessione di Pasqua non si riduca ad una semplice formalità! Alla primavera della natura risponda la primavera delle anime. Il grido lieto: « Christus Dominus resurrexit » esprima la splendida realtà di figli pentiti, che iniziano una vita novella, la vita dell’amore cristiano

Riepilogo

Se diamo uno sguardo ad alcune fra le battaglie principali, che si svolgono nelle coscienze per l’attuazione della legge morale, constatiamo che esse non sono altro se non un conflitto fra l’amore per Dio e l’amore per ciò che non è Dio (ossia l’amore al nostro io, ai piaceri, alle ricchezze, ecc.).

I. L’EGOISMO DELLO SPIRITO. – Contro il precetto di Cristo, l’egoismo dello spirito ci grida: « Ama il tuo io sopra ogni cosa e tutto il resto solo per il tuo io.. Innumerevoli sono i fenomeni di questo orientamento: superbia, invidia, ambizione, ridicolaggini, aspirazioni ad una gloria da conquistarsi con qualsiasi mezzo, ecc. Uomini grandi, come Petrarca, ed uomini piccoli, come ogni minuscolo studente, sono vittime dell’egocentrismo, che conduce a conseguenze dannose ed a disillusioni amare.

Si noti: l’umiltà cristiana non distrugge il nostro io e le energie individuali, ma le considera in rapporto a Dio ed allora non solo tutto vede nella sua vera entità e ne usa esattamente, ma tutto potenzia con la forza divina e soprannaturale, che ci fa esclamare: « Posso ogni cosa in Colui che mi conforta. ». Anche, la morale autonoma, oggi tanto acclamata, è una forma di questo amore di sé, Morir all’amore di Dio; essa:

a) dimentica che nè il nostro essere, né il nostro pensiero, né il nostro volere sono il centro della realtà;

b) dimentica che noi non creiamo, ma riconosciamo e dobbiamo liberamente applicare la legge del dovere;

c) dimentica che, al di sopra del dovere c’è l’amore

II. L’EGOISMO DEI SENSI. – Anche il gregge d’Epicuro parla e ciancia di amore; anzi accusa l’etica cristiana d’essere … la nemica dell’amor. Purtroppo il gregge d’Epicuro conosce soltanto l’egoismo furioso dei sensi. E’ solo la morale di Cristo che santifica l’amore, in quanto:

a) considera il matrimonio (e la famiglia) come qualcosa di sacro

nello stesso ordine naturale e come un sacramento nell’ordine soprannaturale;

b) indica nella verginità la vetta più sublime dell’amore. La verginità, infatti, non consiste solamente nell’assenza di colpe, quanto soprattutto in ciò che nessuna fibra del cuore non vibri che per Dio. Questo spiega che con la verginità furono sempre congiunte nei secoli le opere della carità, sia nel campo spirituale, come nel campo dei bisogni materiali.

III. L’AVIDITA A DELLE RICCHEZZE. – Un altro conflitto si sviluppa tra l’amore all’oro e l’amore di Dio.

E’ errore enorme riporre il fine supremo nelle ricchezze, le quali non dànno la gioia, sono incerte e debbono essere abbandonate al momento della morte.

La morale cristiana non condanna la ricchezza, ma solo l’abuso di essa; non giustifica la trascuratezza dei doveri che ognuno ha a proposito delle sue necessità economiche, ma solo esclude il capovolgimento dei valori, ossia la sostituzione del dio danaro al Dio amore. Ecco perché Cristo proclama beati i poveri di spirito, quelli cioè che non hanno il cuore legato all’oro, ma a Dio; e chiama perfetti coloro che, per motivo di carità, rinunciano effettivamente a tutto. Nel primo, e specialmente nel secondo caso, la povertà evangelica — comandata o consigliata — si riduce ad un atto di amore per Dio e per il prossimo.

IV. LE SCONFITTE. – In queste ed in altre battaglie tra l’amore di Dio e l’amore alle creature, vi sono spesso sconfitte dolorose, che si possono dividere in tre classi:

a) il peccato mortale, o violazione della legge morale in cosa grave, fatta con piena avvertenza della mente e col consenso deliberato della volontà. Il peccato mortale è la negazione dell’amore divino e ci toglie la grazia, facendoci degni dell’inferno;

b) il peccato veniale, o violazione della legge morale in cosa lieve, il che implica un raffreddamento nell’amore;

c) l’imperfezione, che non è un’offesa formale a Dio, ma consiste o nella trasgressione d’un consiglio, o nella violazione non colpevole d’un precetto.

Ogni peccato colpisce l’Amore, poiché: a) è la ribellione dei figli all’amore del Padre; b) è un’offesa all’amore di Gesù per noi; c) è una negazione dell’amore del prossimo; d) ed anche una negazione dell’amore che dobbiamo a noi stessi.

Vari sono i mezzi per evitare il peccato, specie la pratica della virtù, la mortificazione, la preghiera, i Sacramenti, la meditazione e l’esame di coscienza.

V. REDENZIONE E VITTORIA. – Nella lotta aspra tutti possiamo cadere per colpa nostra e solo il fariseismo impostore può indignarsi a freddo per i cosiddetti « scandali clericali Anche in questo caso doloroso, l’amore di Dio per noi:

a) non ci parla di disperazione, ma di redenzione, di perdono, di misericordia;

b) ha istituito il Sacramento della confessione;

c) esulta per la conversione del peccatore.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (17)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. BENEDETTO XV – “PRINCIPI APOSTOLORUM PETRO”

Questa lettera Enciclica descrive la vita, le opere ed i meriti del diacono Efrem Siro dichiarato subito dopo dottore della Chiesa universale perché autore di importanti opere scritte in difesa della pura fede cattolica ed a gloria di Dio, nell’esaltazione della Vergine, dei Santi e del Vicario di Cristo in terra, fonte inesauribile per irrobustire la fede ortodossa cattolica con la sana e vera dottrina di Cristo. È certamente per i veri Cattolici modello ed ispirazione di pii e devoti pensieri onde animare lo spirito di carità languente attualmente in uno stato tanto penoso.

LETTERA ENCICLICA

PRINCIPI APOSTOLORUM PETRO

DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XV
AI PATRIARCHI, PRIMATI,
ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA
CHE PROCLAMA SANT’EFREM IL SIRO,
DOTTORE DELLA CHIESA UNIVERSALE
 

Venerabili Fratelli,
salute e Apostolica Benedizione.

Il divino Fondatore della Chiesa ha affidato a Pietro, Principe degli Apostoli, unito a Dio da una fede immune da ogni errore come « capo del coro Apostolico » e maestro e guida di tutti gli uomini, la missione di pascere il gregge di Colui che ha fondato la sua Chiesa sull’autorità del magistero visibile, perpetuo e sicuro dello stesso Pietro e dei suoi successori. Su questa mistica roccia, cioè sul fondamento di tutto l’ edificio della Chiesa, come su un cardine e un centro, deve poggiare la comunione della fede cattolica e della carità cristiana. – Che l’ufficio singolare del Primato conferito a Pietro sia quello di diffondere ovunque, e di difendere in tutti gli uomini il tesoro della carità e della fede, è attestato molto bene da Ignazio Teoforo, vissuto poco tempo dopo la generazione degli Apostoli. Nella mirabile lettera che durante il viaggio mandò alla Chiesa di Roma, e nella quale annunciava il suo arrivo nell’Urbe per subirvi il martirio nel nome di Cristo, diede una bellissima testimonianza del primato di quella Chiesa su tutte le altre, definendola « colei che presiede l’assemblea universale della carità. Con ciò intendeva dire che la Chiesa universale va guardata non solo come immagine della carità divina, ma anche che il beatissimo Pietro, unitamente al suo primato, ha lasciato in eredità alla Sede di Roma il suo amore verso Cristo, affermato con una triplice confessione, per poter infiammare dello stesso fuoco le anime di tutti i fedeli. – Profondamente convinti di questa doppia caratteristica propria dell’Autorità pontificia, i primi Padri, specialmente quelli che occupavano le cattedre più celebri dell’Oriente, ogni qual volta erano travagliati da ondate di eresie o da discordie intestine erano soliti ricorrere a questa Sede Apostolica, la sola capace di assicurare la salvezza in situazioni estremamente critiche. È noto che così hanno agito Basilio Magno e il grande difensore della fede di Nicea, Atanasio, e così pure Giovanni Crisostomo. Questi Padri, messaggeri della fede ortodossa, dai concìli dei Vescovi si appellavano al supremo giudizio dei Romani Pontefici, secondo le prescrizioni degli antichi canoni. Chi potrebbe dire che questi Pontefici abbiano mancato in qualche punto al mandato ricevuto da Cristo di confermare i fratelli? Anzi, per non mancare a questo loro dovere, alcuni sono partiti senza paura per l’esilio, come Liberio, Silverio e Martino; altri hanno coraggiosamente difeso la fede ortodossa ed i suoi sostenitori, che si erano appellati al Pontefice per rivendicare la memoria di coloro che erano morti. Sia di esempio Innocenzo I, il quale ordinò ai Vescovi d’Oriente d’inserire nuovamente il nome di Crisostomo nei dittici liturgici, e di citarlo insieme ai Padri ortodossi durante il santo Sacrificio. – Noi, che abbracciamo i popoli Orientali con non minore sollecitudine e affetto dei Nostri Predecessori, Ci rallegriamo che non pochi di essi, dopo una guerra spaventosa, abbiano recuperato la libertà e sottratto la religione al potere dei laici. Mentre questi popoli cercano di riorganizzare la loro vita politica, ciascuno secondo le proprie caratteristiche nazionali e secondo le istituzioni tradizionali, Noi siamo del parere che compiremmo un gesto molto adatto al momento ed alla loro situazione se proponessimo alla loro attenta imitazione e al loro fervente culto uno splendido esempio di santità, di dottrina e di amor patrio. Intendiamo parlare di Sant’Efrem il Siro, che Gregorio Nisseno paragona opportunamente al fiume Eufrate perché, « irrigata dalle sue acque, la moltitudine dei Cristiani ha prodotto centuplicato il frutto della fede ». Parliamo di quell’Efrem, che i messaggeri di Dio e i Padri e i Dottori ortodossi, da Basilio, Crisostomo e Girolamo a Francesco di Sales e Alfonso de’ Liguori sono unanimi nell’esaltare. Ci è gradito aggiungere la Nostra voce a quella dei citati annunciatori della verità, i quali, benché diversi fra loro per carattere e distanti per tempi e luoghi, formano tuttavia un coro armonioso di cui potresti facilmente riconoscere come direttore « l’unico e il medesimo Spirito ». – Venerabili Fratelli, se la presente Enciclica segue a breve distanza l’altra che vi abbiamo indirizzata in occasione del XV centenario della nascita di San Girolamo, la ragione è che i due grandi geni concordano in più punti. Infatti, Girolamo ed Efrem furono quasi contemporanei, entrambi monaci, entrambi abitanti della Siria, entrambi insigni per la conoscenza e l’amore dei Libri Sacri. A buon diritto potresti definirli « due luminosi candelabri », propriamente destinati da Dio ad illuminare l’uno i paesi occidentali, l’altro quelli orientali. Il contenuto dei loro scritti è intriso della stessa soavità e dello stesso spirito; di conseguenza, come in loro brilla la stessa e immutabile dottrina dei Padri latini e orientali, così i loro meriti e la loro gloria s’intrecciano e si fondono in un’unica corona. Non è ben certo quale delle due città, un tempo famosissime, Nisibi ed Edessa, abbia dato i natali al beato Efrem. Con certezza egli, congiunto nel sangue ai martiri dell’ultima persecuzione, ha ricevuto un’educazione cristiana dai suoi genitori. I quali, se non avevano avuto le comodità di una vita agiata, avevano però un titolo di gloria più nobile e magnifico, perché « avevano confessato Cristo in tribunale ». Da adolescente, Efrem — come si rammarica egli stesso nell’opuscolo delle sue Confessioni — resistette piuttosto debolmente e in modo troppo fiacco alle passioni che tormentano di solito quell’età; era di carattere focoso, facile all’ira, amante di litigi, piuttosto sbrigliato di mente e di lingua. Ma, essendo stato messo in carcere per un crimine non commesso, cominciò a disprezzare i beni e le vane attrattive del mondo. Così, appena si fu discolpato davanti al giudice, subito vestì l’abito del monaco e si diede tutto agli esercizi di pietà e allo studio delle Sacre Scritture. Essendosi guadagnato la simpatia di Giacomo, Vescovo di Nisibi (uno dei 318 Padri del Concilio di Nicea), il quale aveva fondato nella sua diocesi una scuola molto celebre di esegesi, Efrem non solo realizzò, ma superò le speranze del suo protettore nell’assiduo e penetrante commento della Bibbia, e in breve tempo divenne il più esperto di tutti gli esegeti di quella scuola, meritandosi il nome e la fama di «Dottore dei Siri ». Poco dopo, costretto ad interrompere gli studi delle Sacre Scritture a causa della minaccia sulla città da parte delle truppe persiane, esortò con tutte le sue forze i concittadini alla resistenza. Il pericolo, scongiurato una prima volta per le preghiere del Vescovo Giacomo, si ripresentò più grave dopo la sua morte. Assediata nuovamente, la città cadde in mano ai Persiani nel 363. Efrem, preferendo l’esilio al giogo degli infedeli, emigrò ad Edessa, dove si consacrò con grande zelo e quasi esclusivamente al compito di dottore della Chiesa. La casa dove abitava, posta su un colle alla periferia della città, fiorì presto, a guisa di una celebre accademia, per la grande celebrità di studiosi avidi di conoscere i Libri Sacri. Da lì uscirono quei sapienti interpreti delle Scritture, i quali formarono i loro discepoli nella stessa disciplina: Zenobio, Maraba, Sant’Isacco di Amida, che meritarono, per la profondità e il numero dei loro scritti, l’appellativo di «Grandi ». – Da quel ritiro si diffuse la fama della dottrina e della santità di Efrem, tanto che quando egli si recò a Cesarea per conoscere di persona Basilio Magno, questi, appresa la notizia del suo arrivo per ispirazione divina, lo accolse con grandi segni di riverenza, ed ebbe con lui dolcissimi colloqui su cose divine. Si dice che in quell’occasione Basilio l’abbia ordinato diacono con l’imposizione delle mani. -,Dal ritiro di Edessa Efrem non usciva mai, se non nei giorni stabiliti per rivolgere al popolo quei forti discorsi con cui difendeva i dogmi della fede contro le eresie di quel tempo. Per umiltà non osò aspirare al sacerdozio, ma preferì imitare alla perfezione Stefano nel grado inferiore del diaconato. Insegnava instancabilmente le Scritture e si dedicava alla predicazione della parola di Dio; educava nella salmodia le vergini consacrate a Dio; ogni giorno scriveva commentari per la spiegazione della Bibbia e per celebrare la fede ortodossa; aiutava i suoi compatrioti, soprattutto i poveri e i miserabili; metteva per primo in pratica, meglio che gli era possibile, ciò che doveva insegnare agli altri, per offrire in se stesso quel modello di santità che Ignazio Teoforo propone ai leviti quando li chiama soltanto Diaconi, cioè « comando di Cristo », dicendo che essi esprimono « il mistero della fede in una coscienza pura ». – Quanto grande e quanto attiva carità mostrò ai fratelli durante la grave carestia, benché fosse carico di anni e spossato dalle fatiche! Abbandonò la casa dove per tanti anni aveva vissuto una vita più celeste che umana e corse ad Edessa. Con parole severissime — che a Gregorio Nisseno sembrarono « come una chiave abilmente forgiata in modo divino » per aprire i cuori e gli scrigni dei ricchi — rimprovera coloro che avevano nascosto il frumento e li prega insistentemente di andare incontro almeno col superfluo al bisogno dei fratelli. Più che dalla necessità dei concittadini, i ricchi furono scossi dalla sua autorità. Col denaro raccolto Efrem preparava i letti per chi era distrutto dalla fame, allestendoli sotto i portici di Edessa; rifocillava coloro che erano sfiniti; soccorreva i pellegrini che arrivavano da ogni parte in città, in cerca di pane. Davvero si sarebbe detto che la Provvidenza l’avesse messo a difesa della patria! Non ritornò alla sua solitudine che l’anno seguente, quando il raccolto della nuova messe aveva assicurato l’abbondanza di viveri. – Assolutamente degno di menzione è il testamento da lui lasciato ai suoi concittadini, nel quale chiaramente risultano la sua fede, la sua umiltà e il suo singolare amore verso la patria. « Io, Efrem, sto per morire. Con timore e rispetto vi scongiuro, o abitanti della città di Edessa, di non permettere che io sia sepolto nella casa di Dio o sotto l’altare. Non è conveniente che un verme, che cola purulenza, sia sepolto nel tempio e nel santuario di Dio. Avvolgetemi nella mia tunica e nel mantello che ho sempre portato. Accompagnatemi con i salmi e con le vostre preghiere, e degnatevi di fare spesso delle offerte per la mia piccolezza. Efrem non ha mai avuto né borsa, né bastone, né bisaccia, né argento od oro, né mai ha acquistato o posseduto beni sulla terra. Come miei discepoli, mettete in pratica i miei precetti e il mio insegnamento, perché non veniate meno alla fede cattolica. Siate saldi specialmente nei riguardi della fede; guardatevi dagli avversari, cioè dagli operatori di iniquità, dagli spacciatori di vuote parole, e dai seduttori. E sia benedetta la città in cui abitate. Edessa, infatti, è città e madre di saggi ». Così Efrem cessò di vivere; ma non si spense il suo ricordo, che rimase sempre in benedizione in tutta la Chiesa universale. Perciò, da quando Efrem cominciò ad essere ricordato nella sacra liturgia, Gregorio Nisseno poté affermare: « Lo splendore della sua vita e della sua dottrina si irradiò sul mondo intero: infatti egli è conosciuto in quasi tutte le regioni dove splende il sole ». -Non è il caso di esporre qui in dettaglio tutto ciò che un uomo così grande ha scritto: « Si dice, d’altra parte, che abbia scritto 300 miriadi di versi, se si vogliono contare tutti ». I suoi scritti abbracciano pressoché tutta la dottrina della Chiesa; di lui ci restano i commentari sulla Sacra Scrittura e sui misteri della fede; le omelie sui doveri e sulla vita interiore; riflessioni sulla sacra liturgia; inni per le feste del Signore, della Beata Vergine e dei Santi, per le solennità dei giorni di preghiera e di penitenza, e per le cerimonie funebri. -;Tutti questi scritti testimoniano la sua candida anima, che giustamente si può definire lampada evangelica « che arde e splende », perché, illuminando la verità, ce la fa amare e professare. Anzi, Girolamo attesta che ai suoi tempi si usava leggere in pubblico, nelle assemblee liturgiche, gli scritti di Sant’Efrem non diversamente che le opere dei Santi Padri e dei Dottori ortodossi; e afferma ancora, parlando della traduzione delle opere del Santo dall’originale siriaco in greco, che « la stessa traduzione gli ha permesso di scoprire l’acutezza di un genio eccezionale ». – In verità, se va ad onore del santo Diacono di Edessa l’aver voluto che la predicazione della parola di Dio e la formazione dei discepoli poggiassero sulla Sacra Scrittura, interpretata secondo lo spirito della Chiesa, non minore gloria egli si è acquistata nella musica e nella poesia sacra; infatti era così esperto in queste arti, da essere chiamato « cetra dello Spirito Santo ». Da lui, Venerabili Fratelli, si può imparare con quali arti vada promossa nel popolo la conoscenza delle cose sante. Efrem infatti viveva in mezzo a popolazioni dal temperamento ardente, particolarmente sensibili alla dolcezza della musica e della poesia, tanto che fin dal secondo secolo dopo Cristo gli eretici si erano molto abilmente serviti di questi richiami per seminare i loro errori. Perciò, come il giovane David aveva ucciso il gigante Golia con la sua spada, Efrem oppone l’arte all’arte, veste la dottrina cattolica di versi e di musica, e così la insegna alle fanciulle e ai fanciulli, perché a poco a poco diventi familiare a tutto il popolo. Così egli non solo perfeziona la formazione dei fedeli nella dottrina cristiana e favorisce e nutre la loro pietà secondo lo spirito della sacra liturgia, ma contrasta anche con grande successo le eresie che andavano serpeggiando. -Quanta dignità abbia conferito alle sacre cerimonie il fascino di queste arti nobilissime, lo apprendiamo da Teodoreto, e ne troviamo conferma nell’ampia diffusione, sia tra i greci, sia tra i latini, della metrica propagata dal nostro Santo. Infatti, a quale altro autore potrebbe essere attribuita l’antifonia liturgica, con i suoi canti e con le sue solennità, importata da Crisostomo a Costantinopoli, da Ambrogio a Milano, e che poi si è diffusa in tutta Italia? E se questo « uso orientale», che nella capitale lombarda ha commosso così vivamente Agostino ancora catecumeno, e che, ritoccato da Gregorio Magno, è arrivato, perfezionato, fino a noi, non lo si deve in un certo qual modo, secondo il giudizio di critici competenti, al beatissimo Efrem, in quanto proviene dall’antifonia siriaca da lui diffusa? – Non c’é quindi da meravigliarsi se i Padri della Chiesa tengono in gran conto l’autorità di Sant’Efrem. Il Nisseno così scrive delle sue opere: « Scorrendo tutta la Scrittura, il vecchio e il nuovo Testamento, e scrutandone come nessun altro il senso profondo, l’ha interpretata con estrema acutezza parola per parola; dalla creazione del mondo fino all’ultimo libro della grazia, egli, illuminato dallo Spirito, nei suoi commentari ha chiarito i punti oscuri e difficili ». Il Crisostomo, aggiunge: « Il grande Efrem ha svegliato le anime intorpidite, consolato gli afflitti, formato, diretto ed esortato i giovani; specchio dei monaci, guida dei penitenti, spada e freccia contro gli eretici, scrigno delle virtù, tempio e luogo di riposo dello Spirito Santo ». In verità non è possibile lodare di più un uomo, che si riteneva così insignificante da chiamarsi l’ultimo di tutti e il più miserabile dei peccatori. – Dio, che « ha esaltato gli umili », onora con gloria eccelsa il beato Efrem e lo propone al nostro secolo come dottore di sapienza divina e modello delle più elette virtù. Ed oggi è il momento più opportuno per presentare questo modello, in quanto, finita la terribile guerra, pare stia per nascere un nuovo ordine di cose per le nazioni e particolarmente per i popoli dell’Oriente. Davvero un compito immenso, Venerabili Fratelli, e pieno di difficoltà s’impone a Noi, a ciascuno di voi e a tutti gli uomini di buona volontà, quello di restaurare in Cristo quanto rimane della civiltà umana e sociale, e di ricondurre a Dio e alla Chiesa santa di Dio l’umanità deviata: alla Chiesa cattolica, vogliamo dire, che, mentre si sfasciano le istituzioni del passato e regna una confusione generale in seguito a sconvolgimenti politici, è la sola a non vacillare e a guardare con fiducia all’avvenire: la sola nata immortale, fondata sulla parola di Colui che disse al beatissimo Pietro: « Su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa ». – Possano camminare sulle orme di Sant’Efrem tutti coloro che nella Chiesa hanno il compito d’insegnare agli altri; possano imparare da lui con quale instancabile zelo essi devono impegnarsi nella predicazione della dottrina di Cristo; la pietà dei fedeli non può infatti portare nessun frutto duraturo, se non è profondamente ancorata nei misteri e nei precetti della fede. Coloro, poi, che hanno l’incarico ufficiale di insegnare le scienze sacre, imparino dall’esempio del Dottore di Edessa a non distorcere, secondo l’arbitrio delle loro personali idee, le Sacre Scritture, e a non allontanarsi di un’unghia nei loro commentari dal senso tradizionale della Chiesa, perché « nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio ». E lo Spirito che ha parlato agli uomini per mezzo dei profeti è lo stesso che agli Apostoli « aprì la mente all’intelligenza delle Scritture », e costituì la Chiesa messaggera, interprete e custode della rivelazione, perché fosse « colonna e sostegno della verità ». – Coloro poi sui quali maggiormente si riflette la gloria di Efrem, portino, come si conviene, il peso di tale onore. Vogliamo parlare dell’illustre Famiglia dei monaci, la quale, nata in Oriente con Antonio e Basilio, si è estesa poi per molteplici rami nei paesi dell’Occidente e per tanti titoli è molto benemerita della società cristiana. I seguaci della perfezione evangelica non cessino mai di fissare il loro sguardo sull’anacoreta di Edessa e di imitarlo. Il monaco infatti tanto più sarà utile alla Chiesa, quanto più, davanti a Dio e agli uomini, mostrerà in se stesso ciò che il suo abito significa, cioè se, come hanno detto gli antichi Padri d’Oriente, sarà « il figlio della promessa » e se sarà, come bene lo definisce il beato San Nilo il Giovane, « l’Angelo, le cui opere sono la misericordia, la pace e il sacrificio di lode ». – Infine tutti coloro ai quali voi, Venerabili Fratelli, siete preposti, sia del clero sia dei fedeli, devono imparare dal beato Efrem che l’amore verso la patria terrena — i cui doveri si fondano sulla pratica della dottrina cristiana — non deve essere disgiunto dall’amore verso la patria celeste, e tanto meno anteposto: di quella patria, diciamo, che altro non è che il dominio intimo di Dio nelle anime dei giusti: dominio che qui inizia e che sarà perfetto nel cielo. Di tale patria la Chiesa Cattolica è veramente l’immagine mistica, perché, senza distinzione di nazioni e di lingue, accoglie tutti i figli di Dio in una sola famiglia sotto un solo Padre e Pastore. – Inoltre questo santissimo uomo insegna a cercare le sorgenti della vita interiore là dove Cristo le ha poste, cioè nei Sacramenti, nell’osservanza dei precetti evangelici e nel molteplice esercizio della pietà che la stessa liturgia presenta e l’autorità della Chiesa propone. A questo proposito, Noi vogliamo, Venerabili Fratelli, offrire alla vostra meditazione alcuni pensieri del nostro Efrem sul Sacrificio dell’Altare: « Il sacerdote pone con le sue mani Cristo sull’altare perché diventi cibo. Poi si rivolge al Padre come a un servo dicendo: Dammi il tuo Spirito, perché discenda sull’altare e santifichi il pane che vi è deposto perché diventi il Corpo del tuo Figlio unigenito. Il sacerdote gli racconta la passione e la morte di Cristo e gli mette sotto gli occhi le percosse; e Dio non si vergogna delle percosse del suo Figlio primogenito. Il sacerdote dice al Padre invisibile: Ecco, colui che è appeso alla Croce, è tuo Figlio, e le sue vesti sono cosparse di sangue, e il suo fianco è trafitto dalla lancia. Il sacerdote gli ricorda la passione e morte del suo Figlio diletto, come se se ne fosse dimenticato, e il Padre ascolta ed esaudisce le sue preghiere ». Di ciò che Efrem scrive sulla condizione dei giusti dopo la morte, niente si armonizza meglio con la dottrina costante della Chiesa, definita più tardi dal Concilio di Firenze: « Il defunto è condotto dal Signore ed è già introdotto nel regno dei cieli. L’anima del defunto è accolta in cielo ed è inserita come una perla nella corona di Cristo. E ora già dimora presso Dio e i suoi Santi ». – Ma chi potrebbe mettere in risalto la devozione di Efrem verso la Vergine Madre di Dio? «Tu, Signore, e tua Madre », esclama in un inno di Nisibi, « siete i soli che avete una bellezza perfetta sotto ogni riguardo: in Te, mio Signore, non c’é macchia, nella tua Madre non c’é alcun peccato ». Mai questa « cetra dello Spirito Santo » dà suoni più delicati che quando si propone di cantare le lodi di Maria, o la sua immacolata verginità o la sua divina maternità o il suo patrocinio sugli uomini pieno di misericordia. -‘Da non minore entusiasmo si lascia trasportare quando, dalla lontana Edessa, si volta a guardare verso Roma per esaltare con lodi il primato di Pietro: « Vi saluto, o santi re, o Apostoli di Cristo », così saluta il coro degli Apostoli, « Salute a voi, luce del mondo… La lampada è Cristo, il candelabro è Pietro, l’olio è il dono dello Spirito Santo. Salve, o Pietro, porta dei peccatori, lingua dei discepoli, voce dei predicatori, occhio degli Apostoli, custode del cielo, il primo di coloro che portano le chiavi ». E altrove: «Tu sei beato, Pietro, capo e lingua del corpo dei tuoi fratelli, di quel corpo, dico, che è composto di discepoli, i cui occhi sono figli di Zebedeo. Beati sono anche loro, perché contemplano quel trono del Maestro, che hanno chiesto per sé. Si sente la vera voce del Padre in favore di Pietro, che diventa una pietra irremovibile ». In un altro inno così fa parlare il Signore Gesù al suo primo Vicario in terra: « Simone, mio discepolo, Io ti ho costituito fondamento della santa Chiesa, ti ho chiamato in anticipo pietra perché tu sostenga tutto il mio edificio. Tu sei il sorvegliante di coloro che mi edificano la Chiesa sulla terra. Se volessero edificare qualcosa contro le regole, tu, che sei stato posto da me come fondamento, riprendili. Tu sei la sorgente di quella fontana a cui si attinge la mia dottrina; tu sei il capo dei miei discepoli; per mezzo tuo disseterò tutte le genti. È tua quella dolcezza vivificante, che io elargisco. Ti ho scelto perché tu fossi, nei miei disegni, come il primogenito e l’erede dei miei tesori. Ti ho dato la chiave del mio regno, ed ecco ti faccio signore di tutti i miei tesori . – Mentre ripensavamo nel Nostro intimo tutte queste cose, pregavamo con lacrime Iddio infinitamente buono affinché riconduca al seno e all’abbraccio della Chiesa Romana gli Orientali che una separazione ormai troppo lunga, contro la dottrina dei loro stessi antichi Padri che abbiamo ricordati, tiene miseramente lontani da questa Sede del beato Pietro. Con questa Sede, come testimonia Ireneo che dal suo maestro Policarpo aveva appreso le dottrine tramandate dall’Apostolo Giovanni, « è indispensabile che in virtù della sua supremazia ogni Chiesa sia in comunione, e così pure i fedeli di tutto il mondo ». – Intanto Ci è giunta una lettera con la quale i Venerabili Fratelli Ignazio Efrem II Rahmani, Patriarca Antiocheno dei Siri, Elia Pietro Huayek, Patriarca Antiocheno dei Maroniti, e Giuseppe Emanuele Thomas, Patriarca Babilonese dei Caldei, adducendo ragioni di grande rilievo, Ci chiedono con insistenza di voler accordare e confermare con la Nostra autorità Apostolica a Sant’Efrem il Siro, Diacono di Edessa, il titolo e gli onori di Dottore della Chiesa universale. A questa supplica si sono aggiunte anche lettere postulatorie di alcuni Cardinali della Santa Romana Chiesa, di Vescovi, di Abati e di Superiori di Istituti religiosi di rito greco e latino. Trovammo che la richiesta, in linea anche con i Nostri desideri, meritava di essere presa prontamente in considerazione. Sapevamo infatti che i Padri Orientali, che abbiamo citato, hanno sempre ritenuto il beato Efrem maestro di verità, messaggero di Dio e Dottore della Chiesa Cattolica. Sapevamo anche che la sua autorità, fin dall’inizio, aveva avuto grandissimo peso non solo presso i Siri, ma anche presso i popoli vicini: Caldei, Armeni, Maroniti e Greci. Tutti questi hanno tradotto, ciascuno nella propria lingua, le opere del Diacono di Edessa e sono soliti a leggerle nelle loro assemblee liturgiche e a rileggerle volentieri privatamente in casa, così che capita di trovare ancor oggi i suoi inni presso gli Slavi, i Copti, gli Etiopi e perfino presso i Giacobiti e i Nestoriani. Abbiamo pure considerato che quest’uomo prima d’ora è stato tenuto in grande onore dalla Chiesa Romana. Infatti, fin dai tempi antichi essa commemora il beato Efrem nel martirologio il 1° di febbraio, elogiando in particolare la sua santità e la sua dottrina; ma a Roma stessa, verso la fine del secolo XVI fu eretta sul Viminale una Chiesa in onore della Beatissima Vergine e di Sant’Efrem. D’altra parte, è un fatto noto e incontestabile che i Nostri Predecessori Gregorio XIII e Benedetto XIV, verso i quali gli Orientali hanno più di un motivo per essere riconoscenti, si sono adoperati affinché, prima il Voss e poi l’Assemani, raccogliessero con la maggior diligenza possibile le opere di Sant’Efrem e le pubblicassero e le divulgassero per illustrare la fede cattolica ed alimentare la pietà dei fedeli. Passando poi a fatti più recenti, il Nostro Predecessore Pio X, di santa memoria, nel 1909 approvò la Messa e l’Ufficio proprio in onore del Santo Diacono di Edessa scegliendo in gran parte dalla liturgia siriaca, e ne fece la concessione ai monaci Benedettini del Priorato Gerosolimitano dei Santi Benedetto ed Efrem. Considerate attentamente tutte queste cose, per supplire a ciò che ancora sembrava mancare alla gloria del grande anacoreta e nello stesso tempo per dare ai popoli dell’Oriente cristiano una testimonianza della carità apostolica con la quale pensiamo al loro interesse e al loro onore, Noi, con un recente atto ufficiale abbiamo affidato alla Congregazione dei Riti il compito di espletare secondo le prescrizioni dei sacri canoni e della disciplina attuale la richiesta esposta nella lettera citata. La proposta ebbe un così felice esito, che i Cardinali preposti a quella sacra Congregazione dichiararono per mezzo del loro Prefetto, il Nostro Venerabile Fratello Antonio Vico, Cardinale della Santa Romana Chiesa, Vescovo di Porto e di Santa Rufina, che anche loro desideravano ciò e umilmente Ci chiedevano la stessa cosa che gli altri avevano domandato con le lettere supplicatorie presentate. – Perciò, dopo aver invocato lo Spirito Paraclito, Noi, con la Nostra suprema autorità, conferiamo e confermiamo a Sant’Efrem il Siro, Diacono di Edessa, il titolo e gli onori di Dottore della Chiesa Universale, e stabiliamo che la sua festa, fissata il 18 giugno, sia celebrata dovunque allo stesso titolo con il quale viene celebrato il giorno della nascita degli altri Dottori della Chiesa Universale. – Pertanto, Venerabili Fratelli, mentre Ci rallegriamo di aver conferito questo aumento di gloria e di onore al Santo Dottore, confidiamo nello stesso tempo che in questi momenti così difficili la famiglia universale dei fedeli Cristiani trovi in lui un intercessore e protettore attivissimo e appassionato presso la divina clemenza. I Cattolici orientali avranno in questa decisione una nuova testimonianza della sollecitudine e dell’interessamento tutto particolare che i Romani Pontefici hanno verso le Chiese separate, e Noi, come i Nostri Predecessori, vogliamo che le loro legittime usanze liturgiche e le regole canoniche rimangano per sempre integre e intoccabili. Possano, con l’aiuto di Dio e la protezione di Sant’Efrem, cadere finalmente quelle barriere che con dolore vediamo tener divisa una notevole parte del gregge cristiano dalla mistica pietra, sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa. Spunti, quanto prima, quel giorno beato in cui nei cuori di tutti siano « come pungoli e come chiodi piantati profondamente » le parole della verità evangelica, « che mediante la schiera dei maestri ci sono state date da un unico pastore .

Intanto, come auspicio dei favori celesti e come testimonianza del Nostro amore paterno, impartiamo con affetto a voi, Venerabili Fratelli, a tutto il clero e al popolo a voi affidato l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 5 ottobre 1920, nel settimo anno del Nostro Pontificato.

 BENEDICTUS PP. XV

DOMENICA XIII DOPO PENTECOSTE (2013)

DOMENICA XIII dopo PENTECOSTE (2023)

La Chiesa ci fa leggere in questo tempo nel Breviario il principio del libro dell’Ecclesiaste: « Vanità delle vanità, dice l’Autore sacro, tutto è vanità. Si dimentica ciò che è passato, e le cose che debbono ancora venire non lasceranno ricordi presso quelli che verranno più tardi. Io ho vedute tutte le cose che avvengono sotto il sole, ed ecco che sono tutte vanità e afflizione dell’anima. I perversi difficilmente si correggono e infinito è il numero degli insensati » (7° Nott.). « Dopo che Salomone poté contemplare la luce della vera sapienza, dice S. Giovanni Crisostomo, uscì in questa esclamazione sublime e degna dei cielo: « Vanità delle vanità, tutto è vanità! ». A vostra volta, se volete, potete rendere simile testimonianza. È vero che nei secoli passati, Salomone non era tenuto a una diligente ricerca della sapienza, poiché l’antica legge non considerava vanità il godimento dei beni superflui; tuttavia, malgrado questo stato di cose, si può vedere quanto siano vili e dispregevoli. Ma noi, chiamati a virtù più perfette, saliamo a cime più alte, ci esercitiamo in opere più difficili. Che dire di più se non che ci è stato comandato di regolare la nostra vita su virtù celesti, che non hanno nulla di materiale e che sono tutta intelligenza? » (2° Nott.). Queste virtù celesti sono per eccellenza, le tre virtù teologali: « fede, speranza, carità » che l’Orazione ci fa chiedere a Dio affinché noi « non amiamo se non quello che Egli ci comanda ». Ed è per questo motivo che la Chiesa fa leggerenin questo giorno l’Epistola di S. Paolo ai Corinti, che ha per oggettonla fede in Gesù Cristo, fede che agisce mediante la carità e che ci fa mettere, come già Abramo, la nostra speranza nel divino Salvatore. Infatti, solo per questa fede operante e confidente, le anime coperte dalla lebbra del peccato vengono guarite come ci mostra il Vangelo. I dieci lebbrosi che rappresentano in qualche modo le trasgressioni fatte dagli uomini ai dieci comandamenti, scorgono il loro divino Medico e, ponendo subito in Lui ogni speranza:« Maestro, abbi pietà di noi! » gridano. La fede loro è operante,bperché quando Cristo li mette alla prova dicendo: « Andate, mostratevi ai sacerdoti », essi vanno senza esitare e, andando, sono guariti. Ma questa guarigione è confermata da uno solo di quelli che tornò indietro per mostrare la sua riconoscenza a Gesù « Quando uno di essi si vide guarito, tornò sui suoi passi, glorificando Dio ad alta voce e cadendo con la faccia a terra ai piedi di Gesù, lo ringraziò ». Gesù allora gli disse: « Va, la tua fede ti ha salvato ». Questo mostra che è la fede in Gesù che salva le anime. Ora se è la fede in Gesù che salva le anime, la Chiesa ha precisamente ha da Gesù la missione di far penetrare nelle anime questa fede mediante la predicazione e la lettura. Questo passo del Vangelo ci indica anche l’espulsione dei Giudei che sono stati ingrati verso Colui che era venuto per guarirli, mentre i Gentili gli sono stati fedeli. Dei dieci lebbrosi infatti nove erano Giudei e uno solo non lo era, ed è a questo solo — che era Samaritano, e tornò indietro a ringraziare il Salvatore —che Gesù dice: La tua fede t’ha salvato. Da ciò si vede non essere soltanto ai figli d’Abramo secondo il sangue che è stata fatta questa promessa, ma ancora a tutti coloro i quali sono suoi figli perché partecipi della sua fede in Gesù Cristo. Infatti, è per questa fede che la promessa di vita eterna fatta ad Abramo si estende a tutti i popoli. Così l’Orazione della III Profezia del Sabato Santo dice che « col Battesimo, Dio, moltiplicando i figli della promessa stabilisce Abramo, suo servo, padre di tutte le genti secondo la profezia ». « Fate, soggiunge la quarta Orazione, che tutti i popoli della terra diventino figli d’Abramo e partecipino della grandezza toccata in sorte al popolo d’Israele ». I Gentili occupano dunque il posto dei Giudei. « I nove, commenta S. Agostino, gonfi d’orgoglio, credevano di umiliarsi col ringraziare; non ringraziando sono stati riprovati e rigettati dall’unità che si trova nel numero dieci (vi erano dieci lebbrosi), mentre l’unico che ringrazia è approvato dall’unica Chiesa. — Così per il loro orgoglio, i Giudei perdettero il regno dei cieli dove regna la più grande unità; mentre il Samaritano, sottomettendosi al re col suo ringraziamento, ha conservata l’unità del regno per la sua devozione piena di umiltà » (Mattutino). I Giudei entreranno in massa nel regno dei cieli alla fine del mondo, allorché crederanno in Gesù, ed è a ciò cui fa allusione l’Introito quando essi chiedono che la loro esclusione dalla Chiesa non sia irrevocabile: « Ricordati, o Signore, della tua alleanza, non abbandonare le anime dei poveri alla fine.  Perché, o Dio, ci hai rigettati? Perché la tua collera si è accesa contro le pecore del tuo ovile? ». E la Chiesa chiede a Dio « d’essere propizio al suo popolo, e, placato dal sacrificio che gli viene offerto, di perdonare la sua ingratitudine » (Secr.). Quanto ai Gentili, essi dicono a Gesù che ripongono in Lui tutta la loro speranza (Off.) perché si è fatto loro rifugio di generazione in generazione (All.) e li nutre del suo pane celeste, come fece per gli Ebrei nel deserto, allorché dette la manna che conteneva ogni sapore ed ogni dolcezza (Com.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et te, pater, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXIII: 20; 19; 23
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te.

[Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le anime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Ps LXXIII: 1

Ut quid, Deus, repulísti in finem: irátus est furor tuus super oves páscuæ tuæ?

[Perché, o Signore, ci respingi ancora? Perché arde la tua ira contro il tuo gregge?]

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te.

[Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, da nobis fídei, spei et caritátis augméntum: et, ut mereámur asséqui quod promíttis, fac nos amáre quod prǽcipis.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

[Onnipotente e sempiterno Iddio, aumenta in noi la fede, la speranza e la carità: e, affinché meritiamo di raggiungere ciò che prometti, fa che amiamo ciò che comandi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti S. Pauli Apóstoli ad Gálatas.

[Gal. III: 16-22]

“Fratres: Abrahæ dictæ sunt promissiónes, et sémini ejus. Non dicit: Et semínibus, quasi in multis; sed quasi in uno: Et sémini tuo, qui est Christus. Hoc autem dico: testaméntum confirmátum a Deo, quæ post quadringéntos et trigínta annos facta est lex, non írritum facit ad evacuándam promissiónem. Nam si ex lege heréditas, jam non ex promissióne. Abrahæ autem per repromissiónem donávit Deus. Quid igitur lex? Propter transgressiónes pósita est, donec veníret semen, cui promíserat, ordináta per Angelos in manu mediatóris. Mediátor autem uníus non est: Deus autem unus est. Lex ergo advérsus promíssa Dei? Absit. Si enim data esset lex, quæ posset vivificáre, vere ex lege esset justítia. Sed conclúsit Scriptúra ómnia sub peccáto, ut promíssio ex fide Jesu Christi darétur credéntibus”.

[“Fratelli: Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua discendenza. Non dice la scrittura: E ai suoi discendenti, come si trattasse di molti; ma come parlando di uno solo: E alla tua discendenza; e questa è Cristo. Ora, io ragiono così; un’alleanza convalidata da Dio non può, da una legge venuta quattrocento anni dopo, essere annullata, così da rendere vana la promessa. Poiché, se l’eredità viene dalla legge, non vien più dalla promessa. Ma Dio l’ha donata ad Abramo in virtù d’una promessa. Perché dunque la legge? È stata aggiunta in vista delle trasgressioni, finché non venisse la discendenza a cui era stata fatta la promessa, e fu promulgata per mezzo degli Angeli per mano di un mediatore. Ora non si dà mediatore di uno solo, e Dio è uno solo. Dunque la legge è contraria alle promesse di Dio? Niente affatto. Se fosse stata data una legge capace di procurarci la vita, allora, sì, la giustizia verrebbe dalla legge. Ma la Scrittura ha racchiuso tutto sotto il peccato, affinché la promessa, mediante la fede in Gesù Cristo, fosse data ai credenti»”.

UNO SGUARDO AL CROCIFISSO

S. Paolo aveva insegnato ai Galati che la giustificazione non dipende dalla legge di Mosè, ma dalla fede in Gesù Cristo, morto per noi in croce. Ma Gesù Crocifisso, dipinto tanto vivamente dall’Apostolo ai Galati, era stato ben presto dimenticato da essi, lasciatisi affascinare da coloro che insegnavano dover noi attendere la nostra salvezza dalla legge. S. Paolo, rimproverata la loro stoltezza, nota come Gesù, morendo sulla croce, maledetta dalla legge, libera i Giudei dalla maledizione, e conferisce a tutti, Giudei e Gentili, che si uniscono nella fede in Gesù Cristo, lo Spirito promesso. Passa poi a far osservare come vediamo nell’epistola di quest’oggi, che la promessa dei beni celesti, fatta ad Abramo e alla sua discendenza, cioè al Cristo, nel quale si sarebbero unite tutte le nazioni a formare un solo popolo, essendo incondizionata, fatta ad Abramo direttamente da Dio, e da Dio confermata, aveva tutto il carattere d’un patto irremissibile. Non poteva, quindi, venir indebolita o modificata dalla legge di Mosè venuta 430 anni dopo, con un contratto temporaneo. La legge, del resto, non escludeva la promessa, dal momento che essa non poteva giustificare e dare la vita, come fa la promessa. E neppure fu inutile; perché, facendo conoscere i numerosi doveri da compiere, senza porgere l’aiuto necessario, metteva l’uomo nella condizione di dover sperimentare tutta la propria debolezza e di sentir la necessità d’un Redentore; e di riconoscere, per conseguenza, che le celesti benedizioni non possono essere effetto della legge, ma della promessa, e che non si ottengono che con la fede in Gesù Cristo. Gesù Cristo, che morendo in croce, adempie le promesse fatte da Dio, sarà l’argomento di questa mattina. – Gesù Cristo Crocifisso, così presto dimenticato dai Galati, fermi la nostra attenzione.

 [A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

Graduale

Ps LXXIII:20; 19; 22.

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum: et ánimas páuperum tuórum ne obliviscáris in finem.

[Signore, abbi riguardo al tuo patto: e non dimenticare per sempre le ànime dei tuoi poveri.]

Exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam: memor esto oppróbrii servórum tuórum. Allelúja, allelúja

[V. Sorgi, o Signore, e difendi la tua causa e ricordati dell’oltraggio a Te fatto. Allelúia, allelúia].

Alleluja

Ps LXXXIX: 1
Dómine, refúgium factus es nobis a generatióne et progénie. Allelúja.

[O Signore, Tu fosti il nostro rifugio in ogni età. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XVII: 11-19

In illo témpore: Dum iret Jesus in Jerúsalem, transíbat per médiam Samaríam et Galilaeam. Et cum ingrederétur quoddam castéllum, occurrérunt ei decem viri leprósi, qui stetérunt a longe; et levavérunt vocem dicéntes: Jesu præcéptor, miserére nostri. Quos ut vidit, dixit: Ite, osténdite vos sacerdótibus. Et factum est, dum irent, mundáti sunt. Unus autem ex illis, ut vidit quia mundátus est, regréssus est, cum magna voce magníficans Deum, et cecidit in fáciem ante pedes ejus, grátias agens: et hic erat Samaritánus. Respóndens autem Jesus, dixit: Nonne decem mundáti sunt? et novem ubi sunt? Non est invéntus, qui redíret et daret glóriam Deo, nisi hic alienígena. Et ait illi: Surge, vade; quia fides tua te salvum fecit.”

[“In quel tempo andando Gesù in Gerusalemme, passava per mezzo alla Samaria e alla Galilea. E stando por entrare in un certo villaggio, gli andarono incontro dieci uomini lebbrosi, i quali si fermarono in lontananza, e alzarono la voce dicendo: Maestro Gesù, abbi pietà di noi. E miratili, disse: Andate, fatevi vedere da’ sacerdoti. E nel mentre che andavano, restarono sani. E uno di essi accortosi di essere restato mondo, tornò indietro, glorificando Dio, ad alta voce: e si prostrò per terra ai suoi piedi, rendendogli grazie: ed era costui un Samaritano. E Gesù disse: Non sono eglino dieci que’ che son mondati? E i nove dove Sono? Non si è trovato chi tornasse, e gloria rendesse a Dio, salvo questo straniero. E a lui disse: Alzati, vattene, la tua fede ti ha salvato”]

OMELIA

 (G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

LA CONFESSIONE

Gli uomini del mondo hanno una grande smania di piacere alle creature. Molta cura pongono nei profumi, nei capelli, nell’eleganza del loro vestire: vanno ricercando le stoffe più delicate, vanno seguendo le fogge più strane per adornare l’esteriore del loro corpo, che spesso divien lo scandalo del prossimo. Oh, se avessimo almeno altrettanta cura di piacere a Dio!… invece, no. E mentre sospirano dietro la bellezza materiale e sciocca dei corpi, trascurano la vera bellezza che è nell’anima. E mentre anche con sofferenza sanno usare tutti i soccorsi della vanità per rendersi avvenenti, non vogliono ricorrere al facile e divino espediente che rende bella e graziosa l’anima: la confessione [in assenza di un vero Sacerdote, l’esame di coscienza con contrizione perfetta, il proposito di non più peccare e la penitenza, col desiderio implicito della confessione sacramentale appena possibile -ndr. -]. Questo è appunto il senso mistico del Vangelo di oggi. Nelle folte campagne di una borgata giudaica viveva un gruppo di dieci lebbrosi, tra cui uno almeno era samaritano. Ma il male aveva sopito tra loro ogni dissidio nazionale, curvandoli tutti sotto la medesima piaga, il medesimo destino. Con occhi terribilmente dilatati, e non protetti più dalle sopracciglia ch’erano cadute a pelo a pelo, con orecchie ingrossate e deformi, con dita smozzicate, e con tutto il corpo in tormento, andavano per quella terra dolorando, quando Gesù passò di là. Tutti, senza avvicinarsi, ché la gente li avrebbe lapidati, levarono a Lui un grido straziante: « Gesù! pietà di noi ». Gesù si volse a quelle carni martoriate, a cui d’umano non restava niente fuor che la voce crucciosa, e disse: « Andate, presentatevi ai sacerdoti ». Ite: ostendite vos sacerdotibus. Andando, un nuovo flusso di sangue ascese per le loro vene; ogni piaga stagnò; tessuti corrosi si rinnovarono subitamente: per virtù di miracolo furono mondati e tornarono belli. Nel mondo c’è pure un’altra lebbra che fa strage, non nei corpi, ma nelle anime: il peccato. Il peccato, infatti, ci priva d’ogni bellezza e ci rende cancrenosi e fetenti davanti a Dio. E come gli immondi di lebbra erano scacciati fuori dalle città e dai paesi con sassi e con ingiurie, così gli immondi di peccato sono scacciati via dal paradiso, via da Dio e dagli Angeli suoi, e solo il demonio hanno compagno. È strano però che gli uomini, che non sapevano sopportare nelle loro case la puzza della lebbra, sanno tenere nel loro cuore marcio il fetore del peccato. Eppure, è soprattutto per la lebbra spirituale che Gesù disse: ostendite vos sacerdotibus. Andate, aprite tutte le vostre miserie al Sacerdote nella confessione, poiché la confessione guarisce e preserva dalla lebbra del peccato. – 1. LA CONFESSIONE GUARISCE DAL PECCATO. Nelle vite dei Padri c’è un’espressiva leggenda che a tutti piaceva sentire, in quei primi tempi. In una certa città viveva un uomo peccatore. Quantunque i richiami al bene non gli fossero mancati, pure s’era pazzamente buttato nel vortice della colpa, suscitando intorno uno scandalo rumoroso. Un Vescovo santo, nel vederlo passare, corse al suo cammino e cominciò a piangere amarissimamente per ciò ch’egli, più sollecito a piacere al mondo che a Dio, non si curava della rovina della sua anima piena di peccati, come il corpo di un lebbroso è pieno di piaghe. Mentre il Vescovo pregava e piangeva sulla nuda terra, vide venire verso lo sciagurato una cornacchia nerissima. Il santo, levandosi, la prese e l’immerse nell’acqua: l’uccello subito si tramutò in candida colomba. Il giorno dopo il peccatore, che aveva pur visto il miracolo, venne ai piedi del Vescovo con le lacrime agli occhi; e colui che prima era nerissimo per tanto peccare, fu lavato dalla confessione e divenne candido come una colomba e la sua anima divenne candida come l’anima da lebbrosa divenne, agli occhi di Dio, graziosissima. Ecco un simbolo della confessione che guarisce l’anima dalle nere brutture del peccato. Se gli uomini potessero, così facilmente, con la sola confessione guarire i malati del corpo, chi sa come sarebbero sempre affollati i confessionali!… Invece, siccome si tratta dell’anima, gli uomini preferiscono trattenere la lebbra in cuore, vivere nella maledizione di Dio e degli Angeli, ma non presentarsi al Sacerdote. Non è l’anima da più del corpo, infinitamente? « Non ho bisogno di confessarmi davanti a un uomo, forse più colpevole di me,  — si dice: so intendermela direttamente con Dio ». Allora rispondetemi: a chi tocca stabilire le condizioni del perdono? All’offeso o all’offensore? senza dubbio, all’offeso. Ma l’offeso è Dio. E quel Dio ha voluto guarire i lebbrosi nel corpo solo mandandoli ai sacerdoti, ha stabilito di guarire i lebbrosi nell’anima solo per il ministero dei suoi Sacerdoti. « È tanta — si dice — la vergogna che sento! » È appunto questa umiliazione che vi renderà meno indegni del perdono divino. —. Ma il mio peccato è troppo grande per aver perdono… ». Non bestemmiate, così come Caino, la misericordia del Signore. Se il vostro peccato è grande, la bontà di Dio è più grande ancora. – 2. LA CONFESSIONE PRESERVA DAL PECCARE. S’era presentato a S. Filippo Neri un giovane sfiduciato. Il santo lo raccolse tra le sue braccia, lo riscaldò col suo palpito di padre, e gli disse tante parole incoraggiandolo a cominciare una vita nuova. Il giovane, ad occhi chiusi, ascoltò fino alla fine, poi rispose: « È inutile, padre ». « Perché dici così? ». – « Perché non so resistere: ho già tentato altre volte, ed ho fatto sempre peggio. Adesso non voglio nemmeno formare un proposito; per non aver poi il rimorso di trasgredirlo ». S. Filippo gli sorrise, raggiando fuori da quei suoi occhi grandi la luce ed il calore della sua anima santa. « Non disperare. C’è un rimedio che fa per te, è facile. Prometti a Dio che ti forzerai con tutta l’energia a non cadere per un giorno, e torna domani. » Al domani il giovane torna. « E così? » gli dice, sorridendo, S. Filippo. « E così, risponde il giovane, oggi non sono caduto. Solo un momento d’incertezza; ma fu un attimo. Pensai che dovessi tornare qui, stasera, a confessarmi e respinsi la tentazione. Ma io ho paura per domani, per dopo… ». Non temere: prega e torna domani e dopo. E quel giovane torna domani e dopo, e poi torna tutti gli otto giorni, sempre più lieto, con l’anima pura e preservata dai peccati. Davvero che la confessione è un freno meraviglioso a reprimere i nostri istinti e i cattivi desideri! Il solo pensiero di confessare il peccato, e confessarlo presto, ci trattiene spesse volte sull’orlo dell’abisso. Ma quando l’uomo ha scosso il giogo della confessione, e non si confessa che una volta sola all’anno (povera confessione pasquale!) che meraviglia se di volta in volta si ripetono i medesimi peccati, o si aumentano? Credetelo: non si può essere buoni Cristiani senza la confessione e frequente confessione. Essa è ciò che c’è, praticamente, di più utile nella Religione. E perché, allora, nessuna pratica religiosa è più trascurata, più calunniata, più odiata di questa? Perché c’è di mezzo il demonio. Ma voi volete dar ascolto al demonio? – Le vie, le piazze, il sagrato della cattedrale di Tours erano assai frequentati dalla gente disgraziata. Alcuni, rasenti il muro, ciechi; altri, seduti nella polvere, sciancati: donne con grucce e fanciulli cenciosi: tutti ostentavano la propria miseria e i propri stracci alla pietà e, più ancora, alla borsa dei cittadini. Talvolta, tutta questa umanità pezzente si spaventava improvvisamente, come se passasse una folata di vento a ruzzolarsi sul selciato: chi si nascondeva dietro le porte, chi imbucava un vicolo vicino, e, chi poteva, fuggiva lontano. « Che c’è? ». « Viene Martino, il Vescovo della città ». « E per questo? ». Ma è un santo: che fa miracoli…  « Oh fortuna! ». « Oh disgrazia! Se ci prende, ci risana: e allora più nessuno ci farà la carità; e saremo costretti a lavorare ». – Ci sono altre persone che fan miracoli nelle anime: e sono i Sacerdoti che guariscono dalla lebbra del peccato. E c’è una turba d’uomini che fugge via da loro che non li vuol vedere, che non si vuol confessare. La Messa alla festa, sì; qualche offerta a S. Antonio, pure; qualche lumino per la Madonna, anche. Ma la confessione, no, no! Perché? Perché se si confessano dovranno promettere di non peccare più; di restituire, di lasciare quella compagnia. Invece queste cose non piacciono a loro. –IL SACERDOTE. Ite: ostendite vos sacerdotibus. Gesù, che da solo aveva guarito il sordomuto, che da solo aveva dato la vista al cieco nato, che col solo comando della sua voce destò Lazzaro da morte, perché ha voluto che i dieci lebbrosi andassero dai sacerdoti? Fu per insegnarci il grande potere che dovevano avere i Sacerdoti della nuova legge, di cui quelli giudaici erano una figura. Gesù non doveva rimanere sempre sulla terra: eppure le anime nostre avrebbero sempre sentito bisogno di Lui, della sua parola viva che risuona alle nostre orecchie sensibili, del suo ministero. Ed allora Gesù istituì il Sacerdozio: e mandando i dieci lebbrosi ai sacerdoti di Gerusalemme per essere guariti, ci voleva insegnare come ogni potere sopra le anime nostre Egli avrebbe affidato ai suoi Sacerdoti. Ite: ostendite vos sacerdotibus. Il Sacerdote, dunque, è colui che visibilmente perpetua Cristo nei secoli; è un altro Cristo. Alter Christus. Allora avrà la medesima sorte: sarà anch’egli il segno della contraddizione; ed anch’egli come il Maestro avrà gioia ed umiliazione, dignità e disprezzo; molta gioia e molto dolore. – 1. DIGNITÀ DEL SACERDOTE. L’uomo più grande di tutto il Vecchio Testamento è, senza dubbio, Mosè. Giovanetto ancora pascolava la greggia sul monte, quando vide un roveto che ardeva e che gli affidò tutto il popolo da condurre. Sul Sinai il Signore gli darà le tavole della legge e quando scenderà dal monte due raggi di luce circonderanno la sua fronte. Ebbene: il Sacerdote è il Mosè del Nuovo Testamento, ma più grande, ma più divino: a lui Dio ha affidato la nuova Legge e il nuovo popolo, e attorno alla sua fronte brillano tre raggi di luce che rappresentano il triplice potere di cui è insignito: istruire, nutrire, guarire le anime. a) Istruire: quando Gesù risuscitò da morte apparve agli Apostoli e disse loro: « Andate in tutto il mondo e predicate la mia dottrina a tutte le genti ». Da quel giorno i Sacerdoti furono i maestri della terra, e la luce che, splendendo sul candelabro, rischiara tutti coloro che sono nella casa. Rischiara i piccoli: e i Sacerdoti, con pazienza ed umiltà, si consacrano ad innestare in quelle piccole anime il germoglio che li farà onesti cittadini e sinceri Cristiani. Rischiara i giovani: è il Sacerdote che negli oratorii e nei circoli insegna alla gioventù le prime battaglie della vita, è dal Sacerdote che imparano ad essere puri e forti. Rischiara i popoli: dal pulpito, ogni festa e più spesso, insegna la via che ognuno nella sua condizione deve percorrere se vuol raggiungere il paradiso. « Uno solo è il Maestro » sta scritto nel Vangelo, ed è Gesù Cristo. Ma Gesù Cristo insegna per la bocca de’ suoi Sacerdoti. Quindi: « Uno solo è il Maestro » possiamo ripetere noi, ed è il Sacerdote. b) Un altro potere, e più grande, fu dato ai Sacerdoti, quello di nutrire le anime. Quaggiù sulla terra noi siamo come il vecchio Elia: siamo perseguitati dal demonio e dalle nostre passioni, abbiamo tanto da patire in questa valle di lagrime; talvolta, come il vecchio profeta ci sentiamo scoraggiare e dal labbro ci sfugge il grido di angoscia: « Signore, fammi morire che sono troppo stanco ». Ma ecco l’Angelo di Dio: è il Sacerdote che alle nostre anime stanche e sfinite dona un pane misterioso: la Santa Comunione. È il Sacerdote che ogni giorno sull’altare rinnova l’ultima cena di Gesù Cristo e sopra la bianca ostia ripete le parole della consacrazione e Dio alla sua voce discende suoi nostri altari e si fa cibo alle anime nostre. c) Infine al Sacerdote fu dato il potere di sanare le anime dai peccati: ed ogni giorno al confessionale si rinnova il miracolo dei dieci lebbrosi. « Ma chi può perdonare i peccati! » esclamavano un giorno i Giudei scandalizzati, « chi può perdonare i peccati se non Dio? ». Ed il Sacerdote non ha poteri divini? Egli è un altro Cristo: Alter Christus. – 2. DOLORE DEL SACERDOTE. Se il Sacerdote è la dignità più grande sulla terra, Dio gli ha però riserbati i sacrifici più duri. Gesù ai due figliuoli di Zebedeo che volevano diventare suoi ministri, uno alla destra ed uno alla sinistra, domandò: «Potete voi bere il calice di dolori ch’io berrò? ». « Possiamo! ». Questa parola ogni Sacerdote la ripete presentandosi alla sacra ordinazione: Dominus pars hæreditatis meæ et calicis mei. Ed ecco che la tonsura, quasi corona di spine, gli segna la testa; e la stola quasi fune gli avvince il collo, e la pianeta quasi croce gli viene addossata; e così s’incammina all’altare come Cristo al Calvario. Sul Calvario Cristo si sacrificò per il popolo, e il Sacerdote deve sacrificare la sua vita per il popolo. Pro hominibus constituitur (Hebr., V, 1). Forse che gli uomini lo ricompensarono con amore? Troppo spesso il mondo perseguita il Sacerdote come un giorno ha perseguitato Gesù. Il discepolo non è da più del maestro. I primi preti tutti subirono il martirio: e chi fu messo in croce e chi fu gettato in pasto alle belve, e chi fu immerso nell’olio bollente, e a chi fu stroncata la testa. E poi, giù nei secoli, la storia del Sacerdozio fu una storia di dolore. Noi sappiamo che dalla Francia, non molti anni or sono, furono scacciati: ed essi lasciarono le loro opere d’amore e di bene ed esulando si volgevano a benedire e a pregare per la patria che li maltrattava. – Durante la persecuzione messicana (1927), un sacerdote fu martirizzato. Si chiamava Librando Arreola. « Perché m’imprigionate? ». « Perché sei un prete ». « È forse un delitto esserlo? ». Ma era l’odio contro Cristo che li inferociva sopra quella santa creatura. E nell’oscurità della prigione, con la scure, gli tagliarono via tutte e due le mani. E ghignando gli dissero: « Così non dirai più la Messa… ». Egli allora nello spasimo atroce alzò i moncherini grondanti, ed asperse i carnefici col suo sangue: « O Dio, perdona… ». E poiché si sentiva morire per il dissanguamento, raccolse le ultime forze, nell’agonia esclamò: « O America, ascoltami: io muoio, ma Dio non muore.. ». – Un uomo, abbandonato a tutti i vizi e tormentato dal demonio, avendo sentito che S. Domenico era in Bologna, corse a vederlo, ascoltò la sua Messa, e poi si presentò a lui per baciargli la mano. Appena diede il bacio, ne sentì un tal profumo di paradiso, quale mai aveva gustato in vita sua fino allora. Meravigliosamente si spense in lui il fuoco della lussuria, e si convertì a una vita cristiana. Ite: ostendite vos sacerdotibus. O Cristiani, quando le tentazioni vi sopraffanno, quando il demonio tormenta nei peccati l’anima vostra, presentatevi anche al Sacerdote per ascoltare la S. Messa o meglio per confessarvi. Anche voi come quell’uomo di Bologna sentirete un profumo di paradiso, anche voi come i dieci lebbrosi sarete mondati.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXXIII:15-16
In te sperávi, Dómine; dixi: Tu es Deus meus, in mánibus tuis témpora mea.

[O Signore, in Te confido; dico: Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono le mie sorti.]

Secreta

Popitiáre, Dómine, pópulo tuo, propitiáre munéribus: ut, hac oblatióne placátus, et indulgéntiam nobis tríbuas et postuláta concedas.

[Sii propizio, o Signore, al tuo popolo, sii propizio alle sue offerte, affinché, placato mediante queste oblazioni, ci conceda il tuo perdono e quanto Ti domandiamo.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias
ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Sap XVI: 20
Panem de cælo dedísti nobis, Dómine, habéntem omne delectaméntum et omnem sapórem suavitátis.

[Ci hai elargito il pane dal cielo, o Signore, che ha ogni delizia e ogni sapore di dolcezza.]

Postcommunio

Orémus.
Sumptis, Dómine, coeléstibus sacraméntis: ad redemptiónis ætérnæ, quǽsumus, proficiámus augméntum.

[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, ricevuti i celesti sacramenti, progrediamo nell’opera della nostra salvezza eterna.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (266)

LO SCUDO DELLA FEDE (266)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (9)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO IX.

RELIGIONE

I. Un galantuomo non cambia di religione.

Certe massime sono come le mode del vestire che in breve tempo fanno il giro del mondo. Quella che ho messa in fronte a questo capo, che un galantuomo non cambia di religione, è proprio una di esse. I protestanti, non meno che certi Cattolici, gli scismatici, non meno protestanti, l’hanno spesso sul labbro. In certe conversazioni poi è la rima obbligata, in cui vanno a finire tutti i discorsi di controversia o di notizie religiose; né manca perfino qualche Cattolico, al tutto indegno del nome che porta, il quale, per parere spregiudicato, la fa sentire all’occasione che altri riferisca qualche conversione dal protestantismo o dallo scisma alla cattolica verità. E ciò non ostante quel detto, per quanto volgarmente ricevuto, al modo con cui s’intende comunemente, non è altro che un gravissimo errore. – Volete vederlo? Se è vero universalmente che un galantuomo non cambia di religione, dovrà esser vero per tutti i paesi dell’universo. La verità non si muta col variare dei meridiani o dell’altezza polare: dunque il galantuomo cinese non dovrà mai lasciare la religione del suo Confucio, il galantuomo indiano dovrà starsene sempre attorno al suo Budda, il galantuomo maomettano intorno al suo Maometto, il galantuomo giudeo dovrà continuare a disconoscere ed a bestemmiare Gesù Cristo, e così andate dicendo; tutti gli idolatri, tutti i Gentili, benché sprofondati nel baratro delle più schifose superstizioni, non dovranno mai allontanarsi un passo dai loro errori. E come no? Se è vero che un galantuomo non cambia di religione, tutte quelle conseguenze sono innegabili. Più, tutto l’Apostolato stabilito da Gesù Cristo è affatto inutile. Andate, disse Egli ai suoi Apostoli, ed insegnate a tutte le genti che osservino quello che ho detto a voi. Ma gli Apostoli avrebbero dovuto rispondere prontamente: Signore, ed a qual fine ci mandate? E non sapete voi che mai non potremo rivolgerci ai galantuomini; perché questi non cambiano di religione? Scusate adunque se non vi possiamo servire. Che se essi sono andati senza questa replica, bisogna tutti condannarli senza riparo. E dietro a loro bisogna condannare tutti i successori di S. Pietro, che spedirono in tutti i secoli i loro inviati per far cambiare ai popoli gentili la religione, bisogna condannare i più gran Santi della Chiesa, i quali con tanto zelo si adoperarono per ottenere quel cambiamento, bisogna condannare tutti i Martiri, i quali sostennero al prezzo del loro sangue quel cambiamento improvvido. Bisognerebbe perfino (inorridisco a dirlo) condannare lo stesso Gesù, il quale, venuto sulla terra e presentatosi al popolo giudeo, sostituì all’antica la nuova legge, alle figure le verità, con un cambiamento né piccolo, né leggero. Eppure, se è vera quella premessa, l’illazione è innegabile. Il fatto è però che è falsissima quella premessa. Imperocché l’intelletto dell’uomo è fatto per aderire al vero, come il cuore per posarsi nel bene, e dove ei lo trovi è obbligato ad abbracciarlo. Quando poi si tratti del vero religioso è molto più grave un tal obbligo, quantoché il vero religioso non è solo perfezionamento dell’uomo nella vita presente, ma è anche mezzo unico per la beatitudine avvenire; e non solo riguarda il bene della creatura, ma principalmente la gloria del Creatore. Non può dunque l’uomo, quando Iddio gli rappresenti il vero, non abbracciarlo, senza fare un gravissimo danno a sé stesso. Danno a sé, perché, non abbraccia la verità conosciuta, in questo caso rinunzia all’ultimo suo fine: torto a Dio, perché chiudendo, come suol dirsi, le finestre in faccia al sole, ricusa di glorificare quel Dio che ha la degnazione immensa di farsi da lui conoscere. – Che se alcuno limitasse quel detto solo a coloro, i quali professano alcuna delle sette cristiane, neppure così schiverebbe l’empietà che qui si riprende. Imperocché forse delle varie società, che vantano d’appartenere a Gesù Cristo, ve ne può essere più d’una che possegga la verità? Se la verità non può essere in due proposizioni contraddittorie, in due sette che si avversano, in dottrine che a vicenda si escludono; convien dire che non possano essere tutte vere’. Se la verità è quella sola che fu rivelata da Gesù Cristo, e Gesù Cristo non ha fatto altro che una rivelazione, quella sola adunque, che possederà la rivelazione da Lui fatta, possederà il vero. Pertanto, ricorre la ragione Medesima “toccata di sopra, che dove alcuno abbia la ventura di conoscere dove sia la verità, è obbligato ad abbracciarla. – Sapete in qual caso solo si verifica che un galantuomo non cambia di religione? Quando si parla del cattolico, poiché egli ha tal moltitudine di ragioni e testimonianze in suo favore, che, per cambiare religione, bisogna che prima rinunzi alla stessa ragione. Solo la Chiesa cattolica sfolgora di tanta luce, che non può subito non riconoscersi per la fonte d’ogni verità. Ella sola ha quella perfettissima unità di dottrina data da Gesù Cristo per tessera della sua Chiesa; essa sola ha per suo fondamento la rocca, sopra cui Gesù Cristo protestò d’edificarla; essa sola ha quella pienissima santità che le fu lasciata in dote dal suo sposo divino; essa sola ha i doni straordinarii dei miracoli e dei carismi, che l’accompagnano; essa sola ha vedute tutte le potestà della terra avventarsele .contro, senza che abbiano mai potuto nulla a sterminarla; essa sola ha veduto tutte le eresie levatesi nel suo seno, l’una dopo l’altra cadere affrante ai piedi; essa sola, veleggiando tranquilla in mezzo a tutte le burrasche che le hanno saputo eccitare contro le passioni degli uomini congiurate con le furie dei demoni, i nemici estrinseci d’accordo cogl’interni traditori, non ha mai urtato nelle secche, non ha mai patito naufragio. Ed avendo essa sola queste ed altre infinite ragioni umane e divine in suo favore, chi vive nel suo seno, non può al certo, senza rinunziare all’aperta verità, cambiare di religione. Ma che un protestante, un anglicano possa dire altrettanto, questo è il più portentoso errore che mai siasi immaginato. – Essi sono nati ieri e ripetono la loro origine dagli uomini più sordidi e scellerati della terra. Colle stragi e col sangue hanno conquistato paesi e seguaci. Appena nati si divisero in tante sette, quanti sono i cervelli, con sempre nuove divisioni ogni giorno. Essi senza tradizione che risalga al Capo divino Gesù Cristo, senza miracoli che confermino la loro dottrina, senza carismi spirituali che la illustrino; essi che non formano una Chiesa, perché non hanno unità di credenza; che non formano una società religiosa, perché non hanno un’autorità infallibile che li levi di dubbio; essi che se sanno quel che credono quest’oggi, non sanno quel che porterà la dimane di nuove credenze; che essi in tal condizione debbano dire che un galantuomo non cambia di religione, chi può sopportarlo? Dunque, neppure se sfolgorasse loro limpida e serena la luce della verità non dovrebbero ammetterla? Ed un Cattolico può, per parere spregiudicato, accordar loro una tale assurdità? – Per buona sorte che vi sono tali verità che, malgrado tutti i sofismi, se si possono oscurare, non si possono togliere di mezzo. E questa è appunto una di quelle. Imperocché si è riconosciuto apertamente che dove un Cattolico è passato al protestantismo, era tutt’altro che un uomo onesto; e per converso quelli che tra di loro sono venuti a noi, sono tutt’altro che disonorati. Ne abbiamo esempi sì chiari e solenni che non si possono non riconoscere. I Desanctis, gli Achilli, i Bonavini, i Gavazzi, che cosa son eglino? Son uomini che abbiano abbracciato il protestantismo per menare una vita più pura, più perfetta, più santa? Né essi il credono, né noi, quando la loro vita è sì abominevole, che i protestanti medesimi di qualche onestà li hanno a schifo. – Come pel contrario quei protestanti che hanno cambiato religione e si sono fatti Cattolici in questi ultimi tempi, forse hanno perduta la fama di persone oneste? Tutto l’opposto. L’Europa intiera li ha ammirati, mentre i protestanti stessi, se ne hanno provato dolore, non han potuto metterli in dispregio, giacché le loro virtù li mettevano al coperto da ogni calunnia. Abbiamo veduti principi e principesse della Germania, che sono diventati lo specchio d’ogni virtù. Abbiamo veduti nobili signori dell’Inghilterra, i quali colla fede, carità ed esempii di ogni maniera sono diventati il sostegno dei poverelli e l’edificazione persino dei protestanti nelle loro contrade. L’università di Oxford, ed in parte anche quella di Cambridge, ha mandati i suoi più profondi dottori, i suoi oratori più eloquenti, i suoi Ministri più esemplari alla Chiesa cattolica, e l’Europa ha veduto nella rinunzia, che dovettero fare anche molti di loro di ogni terreno interesse, la sincerità delle loro conversioni. – E per verità le virtù che esercita chi cambia religione in tal modo, sono sì cospicue, sì chiare, che meritano ogni ammirazione. Il protestante che torna al seno della cattolica Chiesa, vince la vergogna che, soprattutto in persone di buona nascita, di civile educazione, e molto più di lettere, è grandissima a dichiararsi vissuto sino a quel punto in errore; si sottomette ad un’autorità, che era avvezzo fino dalle fasce a considerare come avversaria: deve superare le difficoltà, che oppongono bene spesso gl’interessi, e sempre i congiunti, gli amici, i parenti; deve abbattere gli ostacoli che frappongono le abitudini della vita, passate ad esser quasi una seconda natura. Il far tutto ciò richiede tanta elevatezza di sentimenti, tanta grandezza di cuore, un amore alla verità così sincero che con ragione forma l’ammirazione d’ognuno che sia capace di comprenderlo. Le quali cose essendo così, chi non vede il torto che hanno quelli che pur proclamano che un galantuomo non cambia di religione? – È vero che alcuni pronunziano quella sentenza senza comprendere forse tutta la malizia, e chi sa che non anche per un cotal sentimento di compassione verso di loro: ma ciò non si può fare a spese della carità e della verità. Se volete compatire quei miseri son nati senza lor colpa nell’errore, e che pur troppo vi si convolgono per entro, compatiteli pure, e nella vostra compassione rivolgere a Dio un atto di ringraziamento, perché senza alcun merito ne abbia preservato voi. Andate anche più oltre: raccomandateli con tutto il fervore al Padre della misericordia, a Gesù che illumina ogni UOMO che viene nel mondo, affinché sia loro di scorta a conoscere il vero, e di virtù per abbracciarlo: e se a tanto vi basta la conoscenza della vostra religione e lo zelo della salvezza dei vostri prossimi, adoperatevi anche con industria per illuminarli, e questa sarà verissima compassione degna di cattolico. Ma il dar loro coraggio a perseverare nell’ errore, sul pretesto che un valent’uomo non cambia di religione, non solo non è compassione, ma è crudeltà: poiché è uno sviare dal bene, un confermare nel male, e uno stabilire sempre più il pessimo di tutti i disordini che è la indifferenza in fatto di religione.

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (VI)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (VI)

CATECHISMO POPOLARE O CATTOLICO SCRITTO SECONDO LE REGOLE DELLA PEDAGOGIA PER LE ESIGENZE DELL’ETÀ MODERNA

DI

FRANCESCO SPIRAGO

Professore presso il Seminario Imperiale e Reale di Praga.

Trad. fatta sulla quinta edizione tedesca da Don. Pio FRANCH Sacerdote trentino.

Trento, Tip. Del Comitato diocesano.

N. H. Trento, 24 ott. 1909, B. Bazzoli, cens. Eccl.

Imprimatur Trento 22 ott. 1909, Fr. Oberauzer Vic. G.le.

PRIMA PARTE DEL CATECHISMO:

FEDE (3).

10. Il simbolo degli Apostoli.

Oltre al Simbolo degli Apostoli, che viene recitato al momento del Battesimo, la Chiesa utilizza anche il simbolo di Nicea (composto dal Concilio di Nicea 325 e completato dal Concilio di Costantinopoli 381) e i simboli dei Concili di Trento (questo simbolo fu pubblicato da PIO IV nel 1564 e contiene la dottrina definita dal Concilio di Trento. Fu completato del Concilio Vaticano nel 1870.) Il simbolo viene pronunciato durante la Messa prima dell’offertorio; la professione di fede del Concilio di Trento è obbligatoria per l’assunzione di un incarico ecclesiastico e per la conversione di un eretico.

1.IL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI CONTIENE IN FORMA ABBREVIATA CIÒ CHE OGNI CATTOLICO DEVE SAPERE E CREDERE.

2. Queste poche parole contengono tutti i misteri (Sant’Isidoro). Questo simbolo assomiglia al corpo di un bambino, che è piccolo, ma ha tutte le membra, oppure a un seme che, nonostante la sua piccolezza, contiene l’intero albero con tutti i suoi rami. – Si chiama simbolo, segno che serve a distinguere qualcuno, perché nella Chiesa primitiva era usato per distinguere i Cristiani. Per poter partecipare alla messa, si. doveva conoscere il simbolo, pena l’esclusione. Inoltre era vietato comunicarlo a chi non era battezzato, proprio come è vietato in tempo di guerra comunicare la parola d’ordine.

È CHIAMATO SIMBOLO DEGLI APOSTOLI, PERCHÉ RISALE AGLI APOSTOLI.

Gli Apostoli, secondo S. Agostino, erano sul punto di separarsi, e stabilirono una regola sicura di predicazione, affinché, nonostante la loro separazione, fossero sempre uniti nella dottrina. Questo non significa che le parole stesse provengano dagli Apostoli; è una questione di sostanza. Fino al VI secolo sono state aggiunte varie spiegazioni, ad esempio, alla parola Padre, quella di Creatore…, alla parola Gesù, quella di concepito dallo Spirito Santo…, alla parola santa Chiesa, quella di cattolica… etc.; erano motivati dall’apparizione di certi eretici. Ma come l’uomo non acquisisce nessuna nuova membra attraverso la crescita, così il simbolo non ha ammesso nessuna nuova verità. S. Pietro ha esercitato un’influenza decisiva sulla stesura del simbolo, perché in esso troviamo i pensieri fondamentali dei suoi discorsi a Pentecoste, in occasione della guarigione del paralitico nel tempio, e le sue due difese davanti al Sinedrio. Nella Chiesa primitiva, il simbolo era semplicemente una formula di professione di fede, che doveva essere recitata dagli Apostoli e riassumeva l’istruzione religiosa che l’aveva preceduta.

.2. IL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI È INNANZITUTTO SI DIVIDE IN TRE PARTI PRINCIPALI.

La prima tratta di Dio Padre e della Creazione.

La seconda tratta di Dio Figlio e della Redenzione.

La terza tratta di Dio Spirito Santo e della nostra santificazione.

3. SI PUÒ ANCHE DIVIDERE IL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI IN 12 ARTICOLI.

Articolo significa membro di un insieme; essi sono così chiamati per la loro intima connessione. Come le dita della mano sono articolate in falangi, così le tre parti principali del simbolo hanno le loro suddivisioni. Una catena si spezza non appena se ne estrae un anello, e la fede si distrugge non appena si rimuove un singolo articolo. – Nell’A.T. troviamo le seguenti figure di questi 12 articoli: il Sommo Sacerdote indossava un pettorale (efod) con 12 pietre preziose che riportavano questa iscrizione: Luce e verità (Lev. VIII, 8); c’erano 12 pani da esposizione sulla tavola d’oro all’ingresso del tabernacolo (ib. XXIV, 6); 12 pietre furono prese per costruire un altare all’ingresso della Terra Promessa (Dent. XXYII, 5). I 12 articoli sono in realtà dodici gioielli che diffondono la luce e la verità e che dobbiamo portare nel nostro cuore, cioè credere; sono il pane spirituale che ci viene offerto all’ingresso della Chiesa, cioè al Battesimo; trasformano il nostro cuore in un altare su cui offriamo a Dio le nostre preghiere e le nostre opere buone.

La divisione in 12 articoli indica che il simbolo contiene le verità predicate dai 12 Apostoli.

Ogni Cristiano è tenuto a conoscere a memoria il Credo degli Apostoli (S. Aug.). Chi trascura di impararlo, si rende gravemente colpevole (S. Th. d’Aq.). La Chiesa primitiva non battezzava coloro che non avevano fatto questa professione di fede, e coloro che non potevano provare di essere Cristiani non potevano partecipare alla Messa.. Recitate il vostro simbolo ogni giorno mattino e sera per rinfrescare la vostra fede. (S. Aug.) Il simbolo è il rinnovamento del patto fatto con Dio nel Battesimo (S. Pietro Crisol.); è una corazza che ci protegge dai nostri nemici (S. Ambr.). Il cibo corporeo è nutriente solo quando viene assunto frequentemente; anche la fede sostiene la vita dell’anima solo quando le sue azioni sono ripetute frequentemente.

I. Articolo del simbolo: Dio.

I. L’ESISTENZA DI UN ESSERE SUPREMO.

1. GLI ESSERI CREATI CI INSEGNANO CHE ESISTE UN ESSERE SUPREMO. (Rom. I, 19, Sap. XIII, 5).

Non vediamo l’anima, ma ne deduciamo l’esistenza dagli atti ragionevoli dell’uomo.

dell’uomo; allo stesso modo concludiamo dalle opere di Dio che Egli esiste (S, Theoph. d’Ant.).

Infatti la terra con le sue creature, né gli astri nel cielo possono essersi prodotti da soli; così come le stelle né i corpi celesti possono muoversi con le proprie forze.

Solo l’esistenza degli astri ci permette di concludere che Dio esiste. Come l’arabo conclude dalle tracce sulla sabbia e noi dalle tracce sulla neve il passaggio di un viaggiatore; allo stesso modo concludiamo dall’esistenza degli astri che Dio esista.

È improbabile che le stelle siano sorte da sole come è improbabile che una città si sia costruita da sola. L’astronomo Athan. Kirchner, aveva un amico che dubitava dell’esistenza di Dio; fece costruire un bellissimo mappamondo che mise nel suo studio. Quando il suo amico gli chiese da dove venisse, rispose: “Questo mappamondo si è costruito da solo”. “L’amico si mise a ridere e Kirchner gli disse: “Questo mappamondo avrebbe potuto farsi da solo più facilmente di quegli astri lassù (Mehler 1.72). Una torcia non si accende da sola, e quando viene accesa si spegne dopo poche ore. Il firmamento brilla come una torcia luminosa, il sole, e i secoli non hanno diminuito il suo splendore. In una notte limpida possiamo vedere migliaia e migliaia di stelle. Chi le ha accese tutte e chi mantiene la loro meravigliosa luce? (Alb. Stoltz). Per questo Davide ha esclamato: “I cieli annunciano la gloria di Dio e il firmamento pubblica le opere delle sue mani”. (Sal. XVIII, 1), e Newton si scopriva e chinava il capo ogni volta che sentiva il Nome di Dio.

Anche gli esseri terrestri ci permettono di concludere che Dio esiste. “Chiedete agli animali agli uccelli dell’aria e ve lo mostreranno. Parlate alla terra e vi risponderà, e i pesci del mare ve lo diranno. Chi non sa che la mano di Dio ha fatto tutto questo?”. (Giobbe XII, 7-9). L’immenso universo è dunque un libro in cui leggiamo l’immensa gloria di Dio. (S. Antoine Erm.) Se si trovasse su un’isola deserta una bellissima statua di marmo, si direbbe senza esitazione; di qua sono passati gli uomini. E se qualcuno dicesse che la pioggia e il vento abbiano staccato un masso dalla montagna e gli abbiano dato quella forma, verrebbe chiamato pazzo. Ma è ancora più folle pretendere che questo meraviglioso universo non abbia un creatore. (Corneille de la Pierre).

L’ordine mirabile dell’universo ci porta a concludere che ci sia un organizzatore di intelligenza superiore.

E prima di tutto, è il meraviglioso ordine della volta celeste che ci porta a concludere che c’è questo organizzatore. Quando una nave si dirige sicura verso il porto, noi non abbiamo alcun dubbio che sia guidata da un abile pilota, e dall’ordine abbagliante dell’universo noi concludiamo che sia guidata da una saggezza infinita. (S. Theoph. d’Ant.) Sostenere che gli astri descrivano le loro orbite da soli, significa sostenere la follia che una nave europea possa lasciare un porto senza equipaggio né pilota, fare il giro del mondo e tornare al punto di partenza. Già Cicerone diceva: “Quando consideriamo il firmamento, veniamo a sapere che esso è governato da un’intelligenza eminentemente superiore. – Anche la terra presenta uno spettacolo di sorprendente ordine. L’alternarsi del giorno e della notte, le stagioni, l’ammirevole struttura del più piccolo insetto, della più piccola pianta e soprattutto del corpo umano, che Basil definisce un piccolo mondo, fa concludere per un organizzatore superiore. Infatti, la più piccola casa presuppone un architetto dotato di ragione e il più semplice orologio un abile orologiaio. Le lettere di un libro, come la Bibbia, non possono essere state assemblate in questo modo per caso, e di conseguenza l’ordine delle lettere non può essere stato stabilito dal caso, e di conseguenza l’ordine ammirevole dell’universo può essere molto meno ancora costruitosi da se stesso.

Tutti i popoli sono intimamente convinti dell’esistenza di un Essere Supremo.

Presso tutti i popoli, anche i più abbrutiti, troviamo l’omaggio a una o più divinità. Ci sono città senza mura, senza re, senza lettere, senza monete, senza leggi, ma non c’è città senza tempio, senza preghiera, senza sacrificio. (Plutarco), e, dice Cicerone, ciò in cui la natura di tutti gli uomini concorda deve essere la verità. L’omaggio alla divinità non è il risultato di un’apparenza come la rotazione del sole intorno alla terra, ma la testimonianza della coscienza umana. “La conoscenza di Dio è, per così dire, nata con ogni uomo” (S. Giovanni Dam.) cioè ogni uomo vi giunge facilmente.

Solo gli stolti dicono: non c’è Dio.

Quelli che parlano così vedendo le meraviglie del creato sono uomini “che hanno occhi per vedere e non vedono, orecchie per ascoltare e non sentono” (S. Marco IV, 12). Chi nega l’esistenza di Dio è maturo per un manicomio (Schneider). Si chiama ateo. Ci sono atei solo tra le menti orgogliose o tra gli uomini di cattiva morale. “Credendosi saggi, sono diventati stolti” (Rom. I, 22). Nega Dio solo colui che ha interesse che non esistesse. (S. Aug.) Inoltre, gli atei parlano contro la loro stessa convinzione, perché in caso di grandi pericoli invocano Dio. Una volta un locandiere si prese gioco degli ospiti credenti, ma la sera stessa invocò Dio perché lo aiutasse quando scoppiò un incendio nei dintorni. (Mehler I 79). Gli atei sono come i bambini che fischiano al buio per paura dei fantasmi, per far credere che non hanno paura. Un giorno Dio prenderà gli atei in parola; mostrerà loro che per essi non esiste un Dio buono e non c’è felicità eterna. (Marie Lat.) Basta ricordare come Dio abbia preso in parola gli Ebrei, quando, nonostante tutti i miracoli, disperavano dell’aiuto di Dio contro i Chananiti. e desideravano morire nel deserto.(Numeri XIV).

2. LA RIVELAZIONE CI INSEGNA L’ESISTENZA DI IUN ESSERE SUPREMO.

Dio ha parlato agli uomini in tempi e modi diversi (Eb. I, 1). per farsi conoscere da loro. È apparso a Mosè nel roveto ardente e si è chiamato Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Per distinguersi da tutti gli altri esseri si definì l’unico esistente, dicendo: “Io sono colui che è” (Esodo IJJ, 14). Dando la legge sul Sinai, Dio ha ripetuto: “Io sono il Signore tuo Dio*…, non avrai altri dei all’infuori di me… non li adorerai e non li servirai. (Deut. V, 6-9). Per dimostrare la sua esistenza, Dio ha compiuto molti miracoli, ad esempio sul Monte Carmelo, dove 450 sacerdoti di Baal chiesero invano al loro idolo di inviare il fuoco dal cielo per consumare la loro vittima, mentre il profeta Elia fece la stessa richiesta al vero Dio e fu immediatamente esaudita (III Re, XY11I). Dio rivelò la sua esistenza anche attraverso i miracoli durante la cattività babilonese, ad esempio la liberazione dei tre giovani dalla fornace, di Daniele dalla fossa dei leoni.

2. La natura di Dio.

Apprendiamo ciò che Dio è, in parte dalle creature, ma più chiaramente attraverso la rivelazione divina.

La natura invisibile di Dio è diventata conoscibile attraverso le cose create, dice S. Paolo (Rom. I, 20). Le creature sono uno specchio in cui il Creatore si mostra (s. Vincenzo F.) Dalla bellezza delle creature possiamo dedurre che Colui che le ha fatte debba essere ancora più bello. (Sap. XIII. 1.). Dall’immensa grandezza dei corpi celesti possiamo dedurre la potenza infinita di Colui che li sostiene; dall’ordine mirabile, dall’armonia dell’universo si evince la sua saggezza. – Ma questo percorso non ci porta a un’idea chiara di Dio. Da un bel dipinto possiamo trarre conclusioni sul talento del pittore, ma non sulla sua morale, sulla sua origine, sul suo paese, sul suo nome. Le creature ci mostrano la sapienza e la potenza di Dio, ma le altre perfezioni rimangono nell’ombra (Louis de Gr.). Attraverso le creature riconosciamo Dio come in uno specchio poco chiaro (I Cor. XIII, 12); Dio si riflette in esse come il sole in un torrente veloce. Poiché gli uomini prima della venuta di Cristo erano molto corrotti, la loro ragione era molto offuscata ed erano meno capaci di riconoscere Dio nelle sue opere. (Sap. IX, 16) Per questo Dio si è rivelato parlando ripetutamente agli uomini attraverso i Patriarchi, i Profeti ed infine attraverso suo Figlio Gesù Cristo (Ebr. I.1). Le indicazioni più chiare sulla natura di Dio ci sono state date da Lui, gli altri non potevano parlarcene altrettanto chiaramente, perché non avevano mai visto Dio (S. Giovanni 1,18).

Tuttavia, non siamo in grado di spiegare in modo approfondito la natura di Dio, perché Dio è infinito, mentre noi siamo esseri limitati.

Non possiamo racchiudere l’oceano in una piccola imbarcazione e non possiamo, con la nostra limitatezza, comprendere l’immensa maestà di Dio. “Sappiate che Dio è grande”, dice Giobbe (XXXVI, 26), “e supera la nostra scienza”. Nessuno conosce ciò che è in Dio se non lo Spirito di Dio (I Cor. II, 11). Non è possibile definire Dio, perché, dice Sant’Agostino, non si può esprimere in parole ciò che l’intelletto non può cogliere. – Una volta il filosofo Simonide fu interrogato dal re di Siracusa, Gerone, sulla natura di Dio. Chiese un giorno, poi due giorni di riflessione, e così via, raddoppiando sempre il tempo; alla fine disse al re: non posso rispondere alla domanda, più ci penso e più diventa oscura. (Cic.) È più facile dire ciò che Dio non è, che dire ciò che è; né la terra, né il mare, né l’aria, né i loro abitanti, né il sole, né la luna, né le stelle, sono Dio (S. Aug.).

Chi vuole scrutare la maestà di Dio sarà confuso. Chi mangia troppo miele, dice Salomone, soffrirà, e chi esamina la maestà di Dio sarà schiacciato dalla sua gloria. (Prov. XXV, 27). I Greci raccontano che Icaro si è messo delle ali di cera per volare verso il cielo: quando si avvicinò al sole, la cera si sciolse ed egli cadde in mare. Questa è l’immagine di qualcuno che presume di capire Dio; viene gettato da queste altezze nel mare del dubbio e dell’incredulità. Fissare il sole per qualche istante significa essere abbagliati, e ancor più fissare la maestà divina. Anche gli Angeli si velano il volto davanti all’Altissimo (Ezech. I, 23), e i più perfetti di loro sono incapaci di comprendere la sua grandezza. Essi vedono Dien, ma solo nella misura in cui lo comprendono. (S. Cyr. Jer.) Assomigliano a un uomo che contempla il mare da un’alta vetta; vede il mare ma senza vederlo in tutta la sua estensione. E ciò che gli Angeli non possono, lo potremmo noi?

Quindi possiamo solo dare le seguenti nozioni imperfette ed incomplete di Dio.

1. DIO È UN ESSERE CHE È IN SÉ DI UNA INFINITA BELLEZZA, PERFEZIONE E FELICITÀ, CREATORE E SOVRANO SIGNORE DI TUTTO L’UNIVERSO.

Quando Dio apparve a Mosè nel roveto ardente e questi gli chiese il suo nome, rispose: “Io sono colui che è” (Esodo III, 14), cioè io solo sono. Tutti gli altri esseri, che esistono solo attraverso Dio, non esistono, per così dire in confronto a Lui. Così Davide grida: Il mio essere è davanti a te come un nulla (Sal. XXXVIII, 6), e Isaia dice anche: Tutti i popoli sono come un nulla davanti a lui (XL, 17). Da qui il nome Jehovah, cioè Colui che è, che gli ebrei diedero a Dio.

Dio è bellezza sovrana. Se la bellezza delle cose create è stata capace di sedurre gli uomini fino al punto di adorarle come divinità, quanto più bello deve essere il Creatore di quella bellezza (Sap. XIII, 3). Se non la possedesse in un grado eminente non poteva comunicarla agli altri. Platone stesso diceva che Dio è il bene supremo, la fonte di ogni bontà e bellezza. (Sof.)

Dio è perfezione sovrana. Vediamo diversi gradi di perfezione negli esseri. Alcuni hanno solo l’esistenza senza vita: le pietre; le piante hanno un elemento vitale, perché crescono; gli animali hanno anche sensazione e movimento; l’uomo ha persino una vita spirituale, perché ha intelligenza e amore. Eppure, al di sopra dell’uomo c’è un’innumerevole gerarchia di puri spiriti, ognuno dei quali è un’entità che ha un’anpossiede una speciale perfezione. Questa gerarchia non progredisce all’infinito, perché può essere divisa e classificata, mentre l’infinito non può essere diviso, altrimenti l’infinito sarebbe imperfetto, il che è assurdo. Dobbiamo quindi arrivare a un Essere infinitamente perfetto, che ha tutte le perfezioni immaginabili. (Scheeben). Tutto ciò che noi notiamo essere perfezione nelle creature è solo un riflesso dell’infinita perfezione di Dio. (Scupoli). Dio è l’Essere più perfetto che si possa immaginare. (S. Ans.) Dio è il meglio che si possa immaginare (S. Aug.). Dio è ineffabilmente superiore a tutto ciò che è, a tutto ciò che possa essere immaginato al di fuori di Lui. (Concilio Vaticano). –

Dio è sovranamente felice (I Tim. VI, 15). Dio vive perennemente in una felicità infinita, mai turbata dalla minima sofferenza. Nessuna creatura è capace di aumentare o diminuire la felicità di Dio (Giobbe XXXV, 6); Dio non ha bisogno di nessuna delle sue creature (Act. Ap. XVII, 6). Il sole non ha bisogno di luce, dato che viene da lui, e Dio può fare a meno di noi, dato che tutti i beni che potremmo offrirgli li abbiamo solo da lui (S. Aug.). Cristo ci promette una felicità simile a quella cheLlui possiede (S. Giovanni XVII, 24). Dio è il Creatore di tutte le cose, perché ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che essi contengono. (Act. XIV, 14). Egli è anche il sovrano, il signore, il re di tutto l’universo. Perché ha sottoposto a leggi fisse tutti gli esseri che esistono al di fuori di Lui. Tutti i corpi celesti si muovono necessariamente secondo le sue leggi. La terra è costretta a girare per 365 giorni intorno al sole e a ruotare ogni volta intorno al suo asse (questa è la concezione eliocentrica che non è dottrina biblica, ma suggestione umana pseudoscientifica – ndr.-). La luna è costretta a girare sopra la terra in 27 giorni e un terzo. Queste leggi sono osservate dagli astri con tale rigore che possiamo prevedere le eclissi solari e lunari ed altri fenomeni astronomici con anni di anticipo. La luce si propaga secondo leggi fisse, (42.000 miglia al secondo) e il suono (333 metri) che raggiungono i corpi, (lo spazio percorso è proporzionale al quadrato della velocità). La crescita dei corpi organici, piante o animali, è anch’essa soggetta a leggi immutabili. Non è possibile fare a meno dell’aria, così come i pesci non possono fare a meno dell’acqua, e così via. Pure gli esseri ragionevoli sono anch’essi soggetti a leggi o comandi fissi. Ma poiché sono dotati di libertà possono trasgredire questi Comandamenti, e questa trasgressione è a sua volta punita secondo leggi fisse. Dio è quindi giustamente chiamato Re (Ps. XCIV, 3). Egli è il Re dei re (I, Tim. VI, 15), il Re dell’eternità. (Tob. XIII, 6). La maestà dei governanti della terra non è che un’ombra della maestà di Dio. – Poiché Dio è il nostro signore sovrano, gli dobbiamo obbedienza. (Act. Ap. V, 23). Dio sottometterà tutti gli esseri alla sua volontà, sia loro malgrado, e questa sarà la loro disgrazia, o con il loro consenso, il che produrrà la loro felicità.

2. NOI NON POSSIAMO VEDERE DIO PERCHÉ EGLI È UNO SPIRITO, CIOÈ UN ESSERE INCORPOREO ED IMMORTALE, DOTATO DI IINTELLIGENZA E VOLONTÀ.

Gesù Cristo ha detto: “Dio è spirito e deve essere adorato in spirito e verità”. (S. Giovanni IV, 24). Dio, essendo spirito, aveva proibito agli ebrei qualsiasi immagine della divinità. (Es. XX, 4). – Dio non può essere visto da nessun uomo (I Tim. VI, 16). Tra i nostri occhi e lui c’è come un velo (S. J. Chrys.) Anche di giorno le stelle sono nel cielo e noi non le vediamo; le vediamo solo la sera, quando il cielo è sereno. Allo stesso modo non possiamo vedere Dio finché duri il giorno della nostra vita terrena (Es. XXXIII, 21); lo vedremo solo dopo la nostra morte (I, S. Giovanni III, 2), se la nostra anima è libera da ogni peccato grave. Dio è uno spirito nascosto (Is. XLV, 15) e abita in una luce inaccessibile (I, Tim. VI, 16).

Ma Dio si è talvolta mostrato in forme visibili.

Sotto forma di viandante (ad Abramo), di colomba (al battesimo di Gesù Cristo), di lingue di fuoco (a Pentecoste). In nessuno di questi casi, però, Dio si mostra così come è. I nostri pensieri, che sono nascosti nella nostra mente, diventano manifesti attraverso il suono, ed è così che Dio è apparso; ma come il suono non è il pensiero, così la forma dell’apparizione non è Dio in persona (S. Aug.). – Non dobbiamo nemmeno scandalizzarci del fatto che la Bibbia parli degli occhi, delle orecchie, delle mani… di Dio.; queste espressioni sono usate solo per farci capire meglio le perfezioni di Dio. Gli uomini non riescono ad afferrare Dio se non con immagini corporee (S. Fulg.). Queste espressioni ci rendono più facile comprendere che Dio vede, ascolta, agisce, ecc. (S. Ephrem).

3. NON C’È CHE UN DIO SOLO. (Deut. v. 6).

L’essere sovranamente perfetto è necessariamente unico, proprio come un singolo albero può essere più alto di tutti gli altri. L’ordine dell’universo ci porta a concludere che ci sia un unico autore. Non possono esserci diversi dèi come non possono esserci diversi piloti su una nave e diverse anime in un corpo (Lact.). Anche i pagani onoravano una divinità come la più alta: i Romani, Giove; i Greci, Zeus. Nel momento del pericolo, al momento del giuramento, nelle congratulazioni e nei ringraziamenti, questi antichi erano soliti invocare un unico dio. La loro anima, al dire di Tertulliano, era naturalmente cristiana. – Il politeismo nasce dal fatto che gli uomini prendevano per Dio stesso le operazioni di Dio nella natura e le forze naturali che li riempivano di terrore. (Fulmini, tuoni, fuoco, ecc.). Consideravano anche gli Angeli, buoni o cattivi, come divinità minori e li adoravano. Infine, la loro corruzione li ha portati a guardare e adorare le creature come il bene sovrano.

3. Le perfezioni di Dio.

NOI ATTRIBUIAMO A DIO DIVERSE PERFEZIONI PERCHÉ LA SUA UNICA PERFEZIONE SI RIFLETTE NELLE CREATURE IN MODI DIVERSI.

Quando il sole sorge, a volte è viola e a volte pallido; eppure ha una sola e unica luce., i cui colori però variano a seconda dei vapori che si alzano dalla terra e si frappongono tra il sole e il nostro occhio. Anche Dio ha una sola e medesima perfezione, non c’è varietà in Lui, ma le sue opere ci mostrano questa perfezione in modi diversi. (S. Fr. de S.) Un paesaggio, pur rimanendo lo stesso, appare in modo diverso a seconda del punto di vista. Le perfezioni di Dio sono quindi le varie denominazioni di un’unica e indivisibile perfezione divina o natura divina indivisibile. In Dio, dunque, tutte le perfezioni che gli attribuiamo, sono una sola e medesima realtà: la sua bontà è onnipotenza; la sua onnipotenza è saggezza; la sua saggezza è giustizia, e così via. Le qualità di Dio e la sua perfezione sovrana sono la stessa cosa: Dio è eternità, è onnipotenza, è sapienza, è onnipresenza, ecc. È quindi improprio dire: Dio possiede l’eternità, l’onnipotenza. Dio è infatti l’Essere della perfetta semplicità, senza alcuna composizione. Le perfezioni sono divise solo dall’operazione della nostra ragione. Per le creature è diverso: le loro qualità sono in realtà diverse e divise.

La nostra ragione distingue le perfezioni divine in perfezioni dell’essere, dell’intelligenza e della volontà di Dio.

Le perfezioni dell’essere sono l’eternità (l’infinità rispetto alla durata) la ubiquità (l’infinità rispetto allo spazio), l’immutabilità- Le perfezioni dell’intelligenza sono: l’omniscienza e la saggezza sovrana. – Le perfezioni della volontà sono: l’onnipotenza, la suprema bontà e di conseguenza la pazienza e la misericordia, la santità infinita, la giustizia, la veridicità e la fedeltà.

1. DIO È ETERNO, CIOÈ DIO È SEMPRE STATO E SEMPRE SARÀ (s. Greg. Naz.).

Anche le parole di Dio a Mosè: “Io sono Colui che è” (Es. III, 14) esprimono la sua eternità. – Dio non ha mai avuto inizio come gli uomini; non può essere stato creato da nessuno, perché non esiste alcun essere che non sia Dio o che non sia stato fatto da Dio. Sarebbe assurdo dire che Dio si è fatto da solo, perché, dice S. Efrem, se qualcuno potesse crearsi, esisterebbe prima di diventare. Dio esisteva prima dell’universo (Sal. LXXXIX, 2), come l’architetto esiste prima della casa, come l’orologiaio esiste prima dell’orologio. Dio non finirà mai, come il destino degli uomini (Sal. CI, 28). Per questo è chiamato il Dio vivente (S. Matth. XVI, 16), il Dio immortale (I, Tim. I, 17). Dio era prima del tempo, rimarrà nell’eternità. Davanti a Dio non c’è né passato né futuro, c’è solo un presente permanente (S. Aug.). Dio vede tutte le cose come presenti (S. Grég. M.), anche quelle che noi chiamiamo passato o futuro. Nella vita di Dio non c’è una successione di eventi, ai suoi occhi non c’è tempo. Un solo giorno”, dice San Pietro (Ep. III, 8) è davanti al Signore come mille anni e mille anni come un giorno. Quindi uno spazio di tempo, per quanto grande, non è una parte dell’eternità. Il tempo enorme che un uccellino impiegherebbe per esaurire l’oceano goccia a goccia, non sarebbe nulla in confronto all’eternità. E se da una roccia alta come il firmamento dovessimo rimuovere un di polvere ogni mille anni e questa immensa serie di anni fosse l’eternità, i dannati gioirebbero per la fine dei loro tormenti. (S. Bernardino). Se volete la felicità eterna, attaccatevi a Colui che è eterno (S. Aug.).

2. DIO È DOTATO DII UBIQUITA’, CIOÈ DIO È OVUNQUE.

Quando Giacobbe ebbe la visione della scala misteriosa in mezzo al campo, esclamò: “Veramente Dio è in questo luogo e io non lo sapevo (Gen. XXXVIII, 16); Queste parole si applicano ad ogni luogo. – Ma Dio non è ovunque solo per la sua potenza (come il sole è presente sulla terra per la sua influenza), ma riempio e penetra tutto; Dio riempie il cielo e la terra (Ger. XXIII, 24), lo spirito di Dio riempie l’universo. (Sap. I).

1. DIO È PRESENTE OVUNQUE, PERCHÉ TUTTE LE CREATURE SONO IN DIO.

L’universo è nella mente di Dio come un pensiero è nella nostra mente. Questo pensiero è un prodotto della nostra anima, così come l’universo è prodotto da Dio. Ora, la nostra anima è più grande del nostro pensiero e Dio è più grande dell’intero universo, e come la nostra anima penetra tutto il nostro pensiero, così Dio penetra l’intero universo, da cui le parole di San Paolo all’Areopago: In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (Atti XVII, 28). Nessun luogo è senza la presenza di Dio ed ogni luogo è in Dio (S. Ilario). Nondimeno non c’è commistione tra Dio e le creature. Dio rimane Dio e le creature rimangono creature. Dio è completamente distinto da loro (Conc. Vatic.).

2. DIO TUTTAVIA NON È LIMITATO DA ALCUN LUOGO, E NEMMENO DALL’UNIVERSO, PERCHÉ EGLI STESSO NON CONOSCE LIMITI.

Alla consacrazione del tempio, Salomone esclamò: “Poiché il cielo e i cieli dei cieli non possono contenerti, quanto più lo farà la casa che ho costruito per te (III, Rois VIII, 27.). L’infinito non può stare in uno spazio misurabile. spazio misurabile. (Origene). Colui che contiene tutto in sé non può essere contenuto in un luogo. (San Pietro Crisol.) Solo i corpi sono racchiusi in un legame; gli spiriti, al contrario, non sono racchiusi in un solo luogo, ma non possono agire in più luoghi: le loro operazioni sono limitate ad un luogo specifico. Non è così per Dio. – Dio è ovunque (poiché è in tutti i luoghi) e in nessun luogo (poiché non è limitato da nessun luogo) (S. Bernardo). È vicino a noi e lontano da noi, dentro di noi eppure fuori di noi; tutta la creazione è in Lui eppure Egli non è in essa (Sant’Efrem).

3. TUTTAVIA DIO È SENZA ESTENSIONE NELLO SPAZIO E QUINDI SI TROVA NELLA SUA INTEREZZA IN OGNI LUOGO.

Sebbene Dio sia più grande di tutto l’universo, la sua grandezza non assomiglia alla distanza dal cielo alla terra, che deve ancora essere estesa. Dio è senza estensione. Egli non si estende nello spazio, come se fosse per metà in cielo e per metà sulla terra. (S. Aug.). È ovunque e ovunque intero. È interamente in cielo e sulla terra. Tutto solo in cielo e tutto in ogni luogo del cielo e della terra (S. Aug.). Anche l’anima umana riempie l’intero corpo; è interamente in ogni parte del corpo e tuttavia non ha estensione nello spazio.

4. DIO È PARTICOLARMENTE PRESENTE IN CIELO, NEL SS. SACRAMENTO E NELLE ANIME DEI GIUSTI.

In cielo Dio è visto faccia a faccia, nel SS. Sacramento l’Uomo-Dio è presente sotto le specie del pane e del vino, nelle anime giuste Dio vi abita attraverso lo Spirito Santo. – Sebbene i re della terra abitino il loro intero palazzo, hanno una sola sala del trono dove tengono solennemente udienze e distribuiscono pubblicamente i loro favori. Dio fa lo stesso.

5. NON C’È LUOGO OVE DIO NON SIA.

Gli occhi del Padrone sono in ogni luogo; vedono il bene e il male. (Prov. XV, 8). Nelle chiese, spesso sopra l’altare, c’è un’immagine chiamata Occhio di Dio. Questa immagine ci ricorda che Dio è presente ovunque. Nessuno può nascondersi da Dio (Ger. XXIII, 23); ne abbiamo la prova nella storia del peccato originale. Che vi piaccia o no”, dice sant’Agostino, “Dio vi vede e non potete sfuggire al suo sguardo”. Nessuno, quindi, può sfuggire a Dio, sia che salga in cielo, sia che scenda all’inferno, o fugga fino alle estremità più lontane dell’oceano. (Ps. CXXXVIII,7). Giona cercò di fuggire da Dio senza riuscirci. – Dobbiamo quindi evitare ogni peccato. Se si viene colti da un uomo in un’azione vergognosa, si prova onta; ma quell’uomo ha la faccia di abbandonarsi ai vizi più terribili alla presenza di Dio. Che sciocco! (S. Aug.)

QUINDI NOI DOBBIAMO SEMPRE PENSARE CHE DIO SIA VICINO A NOI.

Ricordati ovunque che Dio è vicino. Come non smettiamo di respirare non dobbiamo smettere di pensare a Dio (Curato d’Ars). Non c’è un momento in cui non godiamo delle benedizioni di Dio, non ci deve essere un solo momento in cui il pensiero di Dio scompaia dal nostro cuore. (S. Aug.). Beato, dice S. Efrem, chi conserva sempre il ricordo di Dio, è come un Angelo del cielo sulla terra. È a lui che si applicano le parole di Gesù Cristo: “Beato il servo che il padrone trova sveglio al suo ritorno (S. Luc. XII, 37).

L’ESERCIZIO COSTANTE DELLA PRESENZA DI DIO CI DÀ GRANDI VANTAGGI: ci tiene efficacemente lontani dal peccato, ci mantiene in grazia di Dio, ci anima alle buone opere e ci rende intrepidi.

L’esercizio della presenza di Dio ci dà forza nelle tentazioni e ci tiene lontani dalla china del peccato, come Giuseppe in casa di Putifarre. I soldati combattono più valorosamente sotto gli occhi del loro re, proprio perché, per la sua presenza, possono essere premiati o puniti. (S. Alfonso) Con quale dignità non ci comportiamo davanti a un principe? Tanto più quando si sa di essere alla presenza di Dio. (S Giov. Chris.) Chi pensa alla presenza di Dio non peccherà mai (S- Th. Aq.); cadrà nel peccato tanto poco quanto colui che cade in esso aggrappandosi ad un oggetto solido. – Questo esercizio è quindi il modo migliore per perseverare nella grazia di Dio: chi cammina sempre alla presenza di Dio, non perderà mai l’amore di Dio; (S. Th. Aq.) lo perderà poco come si perde un oggetto prezioso che stringeva fortemente nella mano. (S. Fr. de S.) – Questo esercizio aumenta anche il nostro zelo per il bene, e di conseguenza porta a tutti le virtù. Il pensiero che Dio ci guardi, agisce su di noi, come l’occhio del padrone ci fa compiere i nostri doveri con maggiore zelo e precisione. Più siamo vicini alla sorgente, più l’acqua è limpida; più il fuoco è vicino, maggiore è il calore, e quanto più Dio è vicino a noi con un continuo ricordo della sua presenza, tanto più saremo perfetti; finché il ramo è unito al tronco, porta frutto, e finché il Cristiano è spiritualmente unito a Dio, produrrà frutti per la vita eterna. – Questo esercizio ci rende finalmente impavidi. S. Giovanni Chr. rispose all’imperatrice Eudossia, che lo minacciava di esilio: “Potresti farmi paura solo se riuscissi a mandarmi in un luogo dove Dio non ci sarebbe. E Davide diceva: “Anche se dovessi camminare nell’ombra della morte (cioè in pericolo di vita), non. temerò alcun male, perché tu sei con me”. (Sal. XXII, 4). Se, dunque, avete paura di andare da qualche parte da soli, ricordate che Dio è presente ovunque. Quando un uomo timido ha un compagno vicino a sé, cessa di avere paura, e noi, che sappiamo che il Signore onnipotente è con noi, avremmo paura (S. Rosa da L.), senza la cui volontà nessun essere vivente si muove?(S. Franç. de S.) – Purtroppo è molto facile dimenticare la presenza di Dio. Ci comportiamo come un cieco a tavola, quando gli si fa notare la presenza di un ospite di riguardo, lui si alza rispettosamente, e pochi istanti dopo si comporta di nuovo male, perché non vede l’ospite e dimentica subito la sua presenza. (S. Franç. de S.)

3. DIO È IMMUTABILE, CIOÈ RIMANE SEMPRE LO STESSO. (Ps. CI, 28).

Dio non aumenta né diminuisce (Eccl. XLIX, 22), non diventa né migliore né peggiore, non ritira mai la sua parola, ecc. (Numeri XXIII, 19). Dio non può perdere nulla, e non abbisogna di nulla che non possieda già; quindi, non c’è alcun cambiamento in Lui. La creazione stessa non ha cambiato Dio. Egli aveva decretato da tutta l’eternità che avrebbe creato l’universo nel tempo. I decreti di Dio per una nuova opera non sono nuovi, sono eterni. (S.Agost.). Dio cambia le sue opere, non cambia la sua volontà (id.) L’Incarnazione ha solo cambiato l’uomo, che è diventato migliore; ma la divinità non ha ricevuto nulla, perché possedeva tutte le perfezioni; non ha perso nulla, come il sole quando è nascosto da una nuvola (S. Ambrogio). Il nostro pensiero non cambia manifestandosi nella parola e Dio non è cambiato rivestendosi di umanità. – Né Dio cambia punendo i peccatori; non è Dio che cambia, è l’uomo. Finché Adamo ed Eva non peccavano, erano felici. Dopo il peccato erano cambiati, divennero tristi, ma Dio era rimasto lo stesso (S. Aug.). Quando il cuore è buono, percepisce Dio nella sua infinita carità e amabilità. Quando il cuore è cattivo, percepisce nell’immutabile Dio il giudice iracondo e vendicativo. (id.) Il sole agisce allo stesso modo sugli occhi: la luce rallegra l’occhio sano, ma ferisce l’occhio malato: non è il sole, ma l’occhio che è cambiato. Lo specchio vi riflette in modo a seconda che lo si guardi con un viso arrabbiato o con un viso sereno. Lo specchio è rimasto lo stesso, ma non l’uomo. Quando il sole splende attraverso un vetro colorato, i suoi raggi prendono in prestito i colori; il sole in sé non è cambiato, solo i suoi raggi sono diventati diversi. Dio non cambia nemmeno quando ricompensa; Dio non cambia i suoi decreti, l’uomo ha cambiato le sue opere. Quando la Scrittura dice che Dio si è pentito di aver fatto l’uomo, che Dio sia arrabbiato, ecc. non fa che adattarsi al nostro modo di parlare.

4. DIO È ONNISCIENTE, CIOÈ SA TUTTO: IL PASSATO, IL PRESENTE E IL FUTURO, ANCHE I NOSTRI PENSIERI PIÙ SEGRETI.

Dio sapeva che Adamo ed Eva avevano mangiato del frutto proibito; Gesù Cristo conosceva in anticipo il rinnegamento di Pietro, la rovina di Gerusalemme e molti altri eventi. Egli conosceva i pensieri di Simone il fariseo, che si era scandalizzato nel vederlo accogliere così cordialmente una peccatrice (S. Luc. VII, 40). La divinità assomiglia a uno specchio di infinita grandezza e chiarezza; tutte le nostre operazioni si riflettono in esso. (Santa Teresa). Dio guarda dal cielo, dice il Salmista (XXXI, 13), e vede tutti i figli degli uomini. I suoi occhi sono più luminosi del sole (Eccl. XXIII, 26). Chi ha fatto l’orecchio non udrebbe e chi ha fatto l’occhio non vedrebbe? (Sal. XXXIX, 9). Nessuna creatura è nascosta alla sua vista (Eb. IV, 13); Egli vede ciò che faccio molto meglio di me stesso. (S. Aug.) Dio vede il passato, il presente e il futuro allo stesso tempo, proprio come dalla cima di una montagna vediamo l’intero paesaggio con uno sguardo. Davanti a Dio il futuro è già realizzato. (Ger.) – Non ne consegue che l’uomo farà inevitabilmente il male che Dio prevede. È lo stesso, quando da lontano vediamo un uomo che si uccide; lo vediamo perché lo fa. ma non lo fa perché lo vediamo. Il passato che è nella mia memoria non è accaduto a causa di essa; allo stesso modo ciò che Dio vede nel futuro non è accaduto a causa di Lui. Che Dio veda nel futuro, non significa che una cosa accada fatalmente, perché Egli lo prevede. (S. Aug.) Quando Dio prevede la dannazione degli uomini, non ne è la causa. Anche il medico, secondo il decorso della malattia, che prevede la morte del paziente, non ne è la causa. Il dotto francescano Duns Scoto passò una volta davanti ad un contadino che bestemmiava orribilmente; lo pregò di non esporsi con tanta leggerezza all’inferno. Dio – rispose il contadino – sa tutto; se ha deciso di mandarmi in paradiso, ci arriverò, se invece ha deciso di dannarmi, niente potrà aiutarmi”. “Bene – rispose Duns Scoto – allora lascia anche il tuo campo non arato. Se Dio ha deciso di darti il raccolto, lo avrai anche senza lavoro, e se ha deciso di non dartelo, il tuo lavoro è inutile”. Il contadino riconobbe allora che le azioni dell’uomo, e non la prescienza di Dio, sono la causa della sua salvezza o della sua dannazione. (Overberg).

DIO SA ANCHE COSA CI ACCADREBBE IN DERERMINATE CIONDIZIONI; È PER QUESTO CHE A VOLTE CI MANDA DEI MALI PER EVITARNE DI PIÙ GRANDI.

Gesù Cristo sapeva che Tiro e Sidone si sarebbero convertite se avessero visto i miracoli grandi come quelli di Corozain e Betsaida. (S. Matth. XI, 21). – Dio prevede che un uomo così giusto sarebbe stato corrotto dal mondo, se non lo avesse richiamato prematuramente dalla vita. (Sap. IV, 11). Dio prevedeva che la permanenza in paradiso avrebbe nuociuto molto ai nostri primi genitori, per questo li ha cacciati (S. Giovanni Cris.) Dio prevedeva che un tale avrebbe abusato delle ricchezze con i suoi vizi: gli mandò la povertà: affinché un altro perda la sua strada con una vita comoda e tranquilla, lascia che i malvagi lo perseguitino (S. Greg. Gr.). È dunque per bontà verso gli uomini che li mette alla prova. Questo pensiero ci farà accettare le croci con rassegnazione. Poiché Dio sa tutto in anticipo, sarebbe inappropriato prendere alla lettera l’espressione “Dio mette alla prova i giusti” perché sa come si comporteranno i giusti. Sarebbe più corretto dire: Dio offre al giusto l’opportunità di mostrare la sua virtù.

Il Dio onnisciente porterà alla luce tutto ciò che è nascosto.

Nulla è così nascosto – dice Gesù Cristo – che non sarà manifestato, e nulla è così segreto che non sarà conosciuto e rivelato”. (S. Luc. VIII, 17).

Dio onnisciente manifesterà nel grande giorno tutto ciò che è nascosto.

Nulla è così occulto – dice Gesù- che non sarà manifestato, e nulla do così segreto che non sarà conosciuto e rivelato (Luca VIII, 17). Dio rivelerà e manifesterà tutta la nostra vita soprattutto al momento della morte e nell’ultimo giorno. Il sole che sorge illumina tutte le cose e mostra il loro vero aspetto, così Gesù Cristo, il sole di giustizia, illuminerà, cioè, giudicherà tutto con la luce della sua onniscienza. Tutte le nostre preghiere, le nostre elemosine, i nostri digiuni, i nostri atti di castità per Dio, sono iscritti (nel libro della vita). (S. Cris. Jer.)

Dobbiamo quindi pensare spesso all’onniscienza di Dio, soprattutto nel momento della tentazione e poi quando soffriamo ingiustamente.

Un giorno un bambino entrò in una casa. Pensando di essere solo, fu tentato dalle mele che si trovavano lì. “No – gridò dopo – quando gli venne in mente l’onniscienza di Dio, non lo farò. Dio mi vede. – Prendine quante ne vuoi”, rispose qualcuno nascosto dietro la stufa. Possiamo vedere quanto questo pensiero fosse vantaggioso per il bambino. (Mehler I, 106.) Colui che sa di essere osservato, evita tutti i difetti; sapendo di essere osservati, manteniamo la nostra anima pura. Vivete come se al mondo ci foste solo voi e Dio (S. Alf.). – Giobbe, deriso dalla moglie e abbandonato dagli amici, si consolava con il pensiero che Dio sapeva tutto (Giobbe, XVI, 16); allo stesso modo la casta Susanna. (Dan. XIII, 42). Dio mostrerà la sua giustizia come la luce e la sua rettitudine come il sole mezzogiorno (Sal. XXXVI, 6).

5. DIO È INFINITAMENTE SAGGIO, CIOÈ SA COME PRENDERE MEZZI INFALLIBILI PER RAGGIUNGERE I SUOI FINI.

Il fine di Dio non è altro che la sua gloria ed il bene delle sue creature. Quando un agricoltore vuole raccogliere un ricco raccolto, ara con cura il suo campo, lo concima, sceglie i semi migliori e li semina al momento giusto: si dice che è saggio (prudente) perché usa i mezzi migliori per raggiungere i suoi scopi. Dio fa lo stesso. Guardate con quanta saggezza ha disposto tutto per preparare gli uomini alla venuta del Salvatore: la vocazione di Abramo, il viaggio dei figli di Giacobbe in Egitto, la purificazione degli Ebrei attraverso un destino molto duro in Egitto e nel deserto, la missione dei profeti, la cattività babilonese per l’istruzione dei pagani, ecc. La sapienza di Dio può essere vista anche nella vita di alcuni individui, Giuseppe in Egitto, Mosè, San Paolo, per esempio, così come nella condotta di popoli e degli imperi. “Oh profondità dei tesori della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto sono incomprensibili i suoi giudizi!” (Rom. XI, 33).

1. La sapienza di Dio si mostra soprattutto nel fatto che Egli fa servire il male al bene.

Lo si può vedere nella vita di Giuseppe in Egitto. Ciò che spesso consideriamo come un grande male è, secondo il piano di Dio, di grande utilità. Dio ha detto: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri e le mie vie non sono le vostre vie”. (Is. LV, 8). L’uomo propone e Dio dispone. “Quando un uomo ignorante entra nello studio di un artista, vede un artista, vede una miriade di strumenti che, a suo dire, sono inutili e inadatti all’uso. Il maestro sorride e continua il suo lavoro. Nella loro ignoranza gli uomini considerano inutile, addirittura dannoso, ciò che impiega per la realizzadei suoi progetti l’architetto dell’universo. L’uomo pretende di di capire meglio del sapiente Dio del cielo. (S. Aug.). Una volta un bambino vide le pecoreche lasciavano un po’ di lana tra i rovi di una siepe, e pregò il padre di tirarla fuori; ma pochi istanti dopo vide gli uccelli che cercavano questa lana per il loro nido, e si convinse dell’utilità della siepe. Quanti uomini sono come questo bambino!

2. La saggezza di Dio si manifesta anche nel fatto che Egli si serva di cose di minore apparenza per glorificare il suo Nome.

Dio, dice S . Paolo (I Cor. I, 27), ha scelto i deboli secondo il mondo per confondere i potenti. Tra tutti gli astri, Dio ha scelto la piccola terra come scenario delle sue rivelazioni, la Palestina come culla del Cristianesimo, una povera vergine come madre, un povero falegname come padre. adottivo, semplici pescatori come messaggeri del Vangelo, e innalzò ad alte dignità uomini poco apparenti (Giuseppe, Mosè, Davide; Daniele, ecc.) Dio evangelizza i poveri. (S. Matth. XI, 5) e nasconde le verità del Vangelo ai saggi e ai prudenti (Id. ibid. 25). Dà grazia agli umili e resiste ai superbi (S. Giacomo IV, 6). Usa spesso i mezzi più vili per aiutarci nel bisogno. S. Félice di Nola (+ 310) in fuga dai suoi persecutori, si era rifugiato nella fessura di un vecchio muro. Un ragno stese la sua tela dietro di lui, e i persecutori, non credendo che qualcuno potesse essere entrato, passarono oltre. (Mehler I, 185). La protezione di Dio dà la forza di un muro alla tela di un ragno, e senza questa protezione un muro non è migliore di una tela di ragno (S. Paolino). – Una povera vedova doveva pagare un debito già saldato dal marito, e cercò invano l’almanacco dove aveva scritto i suoi conti. Alla vigilia del processo pregò ferventemente con con i suoi figli fino a notte fonda, e poi una lucciola entrò dalla finestra dietro un armadio. Il figlio più piccolo desiderava ardentemente vedere l’insetto, la madre spostò un po’ indietro l’armadio e l’almanacco, così a lungo cercato, cadde a terra. Questi sono i modi molto semplici in cui Dio ci aiuta. – Infine, Dio vuole che raggiungiamo la virtù e il cielo attraverso le tentazioni (II Cor. XII, 9). Quando un’impresa utile incontra molte opposizioni e ostacoli, è un chiaro segno che viene da Dio. segno che viene da Dio. S. Filippo Néri rifiutò un’impresa perché non incontrava ostacoli. Un’opera – diceva- che inizia in modo così brillante sicuramente non ha Dio come autore. Quanti ostacoli ha incontrato Cristoforo Colombo quando partì per il suo viaggio di scoperta nel 1492! Quanti pericoli sopportò in mare all’andata e al ritorno! Quanta ingratitudine ricevette dal mondo! La conclusione è ovvia.

3. La sapienza di Dio si mostra finalmente nel bell’ordine dell’universo.

Tutti gli esseri visibili sono intimamente legati gli uni agli altri, si condizionano a vicenda. Come un orologio si ferma quando un ingranaggio viene rimosso o spostato, allo stesso modo ci sarebbe un disturbo nell’universo se un particolare essere venisse rimosso o cambiato. (S. Giov. Cris.) Se gli uccelli fossero sterminati, gli insetti si moltiplicherebbero in modo spaventoso. L’equilibrio della natura verrebbe sconvolto. Gli esseri che servono da cibo agli altri si moltiplicano enormemente, mentre i carnivori: leoni, aquile, ecc. hanno una prole molto meno numerosa. Come tutto è mirabilmente disposto, dice S. Basilio! Nulla sulla terra è senza scopo o senza utilità, anche se a prima vista non percepiamo questa utilità. Quanto è utile, ad esempio, l’alternarsi del sole e della pioggia, del giorno e della notte, delle diverse stagioni! Quanto è vantaggiosa la diversità dei talenti, delle carriere, ecc. Queste sono cose che uniscono le persone. L’armonia presuppone toni alti e bassi; così l’armonia sociale è prodotta dalla diversità dei talenti. (S. Aug.). Il più piccolo insetto, per quanto orrendo o scomodo, è utile. Gli insetti assorbono i gas che infesterebbero l’atmosfera. Gli avvoltoi divorano i cadaveri degli animali, che con la loro corruzione, soprattutto ai tropici, ammorberebbero l’aria. Anche i fenomeni che sono effettivamente dannosi per molti, come i fulmini, la grandine, le inondazioni, i terremoti, le pestilenze, ecc. non ci sembreranno più tali, se teniamo presente che Dio li usa per salvare le anime dalla dannazione eterna. Inoltre, questi stessi fenomeni hanno una certa utilità per l’uomo: per esempio, le inondazioni del Nilo. Le tempeste e i temporali contribuiscono alla vegetazione: pensiamo che la natura distrugga, invece lavora e fertilizza. Quanto è splendido il movimento e la marcia delle stelle! I movimenti del sole e della luna è degli astri esistono solo per rendere la terra un luogo piacevole in cui vivere. E se qualcuno si scandalizza per le lunghe notti polari, pensi all’aurora boreale. I toni piacevoli e l’armonia ammirevole di una cetra ci costringono a concludere che sia stata suonata da un abile artista; a maggior ragione il bellissimo ordine dell’universo, ci rivela l’infinita saggezza e arte di Colui che lo governa. (S. Greg Naz.). “O Signore, quanto sono meravigliose le tue opere!” dice il Salmista (CIII, 24), “hai fatto tutto con saggezza”.

6. DIO È ONNIPOTENTE, CIOÈ PUÒ FARE TUTTO QUELLO CHE VUOLE, E QUESTO SOLO CON LA SUA VOLONTÀ.

Dio può fare tutto, anche ciò che a noi sembra impossibile: per esempio, il salvataggio dalla fornace. Casi simili si verificarono durante le grandi persecuzioni. Con Dio, dice Gesù Cristo, tutto è possibile. (Matteo XIX, 26). E Gabriele disse a Maria: “A Dio nessuna opera è impossibile”. (S. Luc.I, 37). Dio non sarebbe Dio se non potesse fare tutto ciò che vuole (S. Pietro Crisol.). – Dio può fare tutto ciò che vuole, ma non vuole tutto ciò che può (Teod.). Dio non può e non vuole fare ciò che ripugna alle sue infinite perfezioni, ad esempio mentire, ingannare. Né Dio vuole tutto ciò che potrebbe fare; si accontenta di ciò che ritiene sufficiente (ibid.). Quindi Dio potrebbe creare un universo più bello, altri universi, altre creature. – Quando le creature vogliono intraprendere un’opera, sono obbligate a rispettare le leggi stabilite dal Creatore e di mantenersi entro limiti definiti: Dio non è vincolato da nulla. Tutto ciò che deve fare è volere, e immediatamente le cose sono fatte. Dio ha parlato e le cose sono state fatte; ha comandato e le cose sono state create. (Sal. CXLV1II, 5).

L’onnipotenza divina si rivela soprattutto nella creazione, nei miracoli di Gesù Cristo e nei miracoli che lo hanno preceduto e seguito per dimostrare la verità della Religione cristiana.

La terra ha una superficie di 5.400 miglia, quindi è immensa. Ma il sole è più grande (sempre secondo la falsa scienza astronomica antibiblica – ndr.-); esistono, tuttavia, astri celesti più grandi, (ancche se nessuno li ha mai visti… qui seguono false considerazioni astronomiche di stampo eliocentrico e antibiblico, che riteniamo di omettere perché non conformi alla dottrina biblico-cattolica – ndr. -). Dobbiamo aggiungere i miracoli di Gesù Cristo: la risurrezione di Lazzaro, il placarsi della tempesta, la liberazione dei tre giovani dalla fornace; gli innumerevoli miracoli di Lourdes; i numerosi corpi intatti dei Santi, ecc. Chi può raccontare le meraviglie del Signore e rendere pubbliche lle sue lodi? (Sal. CV, 2).

Poiché Dio è onnipotente, possiamo sperare nel suo aiuto nelle nostre necessità più urgenti.

Dio ha mille modi per aiutarci. Può, per esempio, mandare un Angelo, come Pietro in prigione, o fare un miracolo, come sul lago di Genezareth; ma, come regola generale, Dio usa i mezzi più deboli per aiutarci. È così che rivela la sua grandezza. Per salvare Giuseppe in Egitto, ha usato un sogno, per salvare Betulia, di Giuditta, una semplice donna. Non è più difficile per lui aiutare con pochi mezzi che con molti (I, Re XIV, 6).

7. DIO È SOVRANAMENTE BUONO, CIOÈ DIO AMA LE SUE CREATURE PIÙ DI QUANTO UN BUON PADRE AMI I SUOI FIGLIUOLI.

Dio ama le sue creature, cioè non vuole loro altro che il bene e non dà loro altro che il bene. Dio è l’amore stesso (I, S. Giovanni IV, 8 ). L’amore è essenziale alla sua natura. La sorgente può che produrre acqua, il sole solo luce! Dio non può non amare ed essere buono. La bontà di Dio è essenzialmente diversa dalla bontà delle creature“, dice Alb. Stoltz, come la luce di un muro illuminato dal sole è diversa dal sole stesso. Il muro è luminoso solo per la luce che comunica, mentre il sole è la luce stessa. Le creature sono buone, piene di amore, solo perché Dio comunica loro bontà e amore. Ma Dio non è solo buono, è la bontà, l’amore stesso. Per questo Gesù Cristo ha detto: “Nessuno è buono se non Dio solo”. (S. Marco X, 18).

1. L’amore di Dio si estende a tutte le creature. (Sap. XI, 25).

Il sole illumina gli immensi spazi del cielo e l’amore di Dio comprende tutte le creature. Neanche gli animali sono esclusi (S. Ephr.). Cristo stesso dice dei passeri: “Nessuno di loro è dimenticato da Dio” (S. Luc. XII, 6).

2. Dio ha un amore speciale per l’umanità, perché gli ha procurato innumerevoli benefici eccezionali, ha persino inviato suo Figlio per salvarl

I benefici che abbiamo ricevuto da Dio sono numerosi e degni di nota. “La sua bontà”, dice San Leone, “si riflette in noi come in uno specchio. Quali meraviglie ha messo nel nostro corpo: ci ha donato i sensi e il linguaggio, ha dotato la nostra mente di molte facoltà: intelligenza, libertà e memoria. Non ci ha forse dato per il nostro corpo: cibo, bevande, riparo, vestiti, salute, ecc.? Con quale bellezza non ha forse rivestito la terra per noi! La luce, il calore l’aria, il fuoco, l’acqua, le piante con i loro variegati frutti, gli innumerevoli animali, i pesci, gli uccelli, ecc. – Tutto questo lo ha creato per il nostro uso e godimento. E qual varietà c’è sulla terra: il susseguirsi delle stagioni, l’alternarsi del giorno e della notte, della pioggia e del sole. Quali forze Dio ha messo nella natura per usarle a nostro vantaggio: il magnetismo, l’elettricità, il vapore! Quali tesori ha nascosto per secoli nel seno della terra per l’umanità, giacimenti di carbone, miniere di sale, pietre e metalli preziosi, ecc.! Dio ha fatto veramente dell’uomo il Signore della creazione (Gen. I, 26), e così facendo ha dimostrato quanto lo ama. – Dio ci ama molto più di quanto amiamo noi stessi (S. Ign. L).

Il suo amore supera persino l’amore materno (Is. XLIX, 15), e l’amore di tutte le creature messe insieme non si avvicina all’amore di Dio per noi. La fonte del suo amore è sempre inesauribile, e rimane la stessa anche quando milioni di uomini la respingono. (S. Fr. S.). – Ma l’amore di Dio si manifesta soprattutto nel fatto che ci ha dato suo Figlio. “Dio ha tanto amato il mondo – ha detto Gesù Cristo – che ha dato il suo Figlio unigenito” (S. Giov. III, 16). Abramo ha dato a Dio la prova più eclatante del suo amore offrendogli un figlio. Dio ha fatto lo stesso per noi. Non c’è amore più amore più grande, dice Gesù Cristo, che dare la vita per i propri amici. (S. Giovanni XV, 13) e Cristo ha voluto soffrire sulla croce per mostrarci l’eccesso del suo amore. Tutto il comportamento del Crocifisso dimostra il suo grande amore per noi. Egli ha inclinato il capo come per baciarci, ha steso le braccia come per abbracciarci, ha aperto il suo cuore per racchiuderci nel suo amore (S. Aug.). Nel SS. Sacramento Gesù Cristo ha voluto anche perpetuare la sua presenza tra noi, nella Santa Comunione, vuole unirsi intimamente a noi. Infine Gesù Cristo ha promesso nella sua bontà di esaudire tutte le preghiere fatte nel suo nome (S. Giovanni XIV, 14).

3. Tra tutti gli uomini, Dio mostra il suo amore di preferenza per i giusti.

Un’anima perfetta è preferita da Dio a mille imperfette (S. Alf.). O quanto il Dio d’Israele è buono con i retti di cuore (Sal. LXXII, I). Li visita con grandi consolazioni interiori (Sal. XXX, 20); fa sì che i giusti abbiano successo in tutto. (Rom. VIII,28). Il Padre e il Figlio vengono ad abitare in loro per mezzo dello Spirito Santo (S. J. XIV, 23). Dio ricompensa le buone opere dei giusti ben oltre i loro meriti, li ricompensa al centuplo (S. Matth. XIX, 29), li ama, nonostante i loro piccoli difetti e le loro imperfezioni. Eegli è come una madre che ama il suo bambino con tenerezza e compassione, nonostante la sua debolezza e la sua cattiva salute. (S. Fr. de S.).

4. Dio testimonia il suo amore anche ai peccatori.

Fino all’ultimo respiro li ricopre di favori, nonostante le loro malefatte; fa splendere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e la sua pioggia cade sui giusti e sui peccatori. (S. Matth. V, 45). Se li fa soffrire, è per amore. Dio è un medico che taglia e brucia solo per guarire (S. Aug.). Dio ama i peccatori solo perché tutti hanno ancora qualcosa di buono in loro e possono essere convertiti prima di morire. Ma l’amore di Dio per i peccatori non è facile da mostrare; una calamita attira tutti i pezzi di bontà del mondo. Se la calamita attira le particelle di ferro vicino a sé, ma se c’è un oggetto tra di essa, la sua forza può ancora estendersi a quell’oggetto ma le particelle non lo toccheranno. – L’amore di Dio si rifiuta solo ai demoni e ai reprobi. Si manifesta anche all’inferno, perché i dannati soffrono molto meno di quanto meritino. (S. Th. d’Aq.) L’amore di Dio da loro rifiutato è proprio la fonte dei loro tormenti. Diranno: Ah, se Dio non mi avesse amato così tanto, l’inferno sarebbe sopportabile. Ma essere stato amato così tanto! Che tormento! (Il Curato d’Ars). Poiché Dio è così buono con noi, dobbiamo amarlo sopra ogni cosa (S. Giov. IV, 19). Non dobbiamo tremare davanti a Lui come davanti all’Onnipotente, né temerlo come degli schiavi, ma avvicinarci a Lui con fiducia filiale (Rom. VIII, 15). – E poiché Dio è così buono con noi, dobbiamo esserlo anche per i nostri simili e persino per tutte le creature (Efes. IV 92). Dio ci ha quindi dato i seguenti comandamenti: l’amore di Dio, l’amore per il prossimo, l’amore per i nemici, il compimento delle opere di misericordia, le opere di misericordia che siamo tenuti a compiere anche verso gli animali. – La bontà di Dio si manifesta in particolare con la sua longanimità e la sua misericordia.

8. DIO È INFINITAMENTE PAZIENTE, CIOÈ LASCIA AL PECCATORE IL TEMPO DI CONVVERTIRSI.

Gli uomini sono soliti punire immediatamente, ma non Dio. Egli sopporta lungamente la ribellione delle sue creature ed il disprezzo delle sue grazie, “non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva “. (Ezechiele XVIII, 27). Per questo ha spesso predetto i suoi castighi con molto anticipo, ed è solo con lentezza, come con esitazione, che li ha eseguiti

. Egli ha lasciato ai contemporanei di Noè 120 anni per la loro conversione, 40 giorni ai Niniviti, 37 anni agli abitanti di Gerusalemme. (S. Matth. XXIII, 37). I castighi di Dio cadono come una folgore, non da un cielo sereno, ma da un cielo che prima era coperto di nuvole e mostrava i segni di una tempesta. – Dio dimostra la sua longanimità con la parabola del fico sterile (S. Luc. XIII). Se Dio non fosse Dio sarebbe ingiusto per la sua eccessiva pazienza con i peccatori. (S. Aug.). L’attività di Dio è l’opposto di quella dell’uomo: a questi ci vuole molto tempo per costruire e un attimo per distruggere; Dio, al contrario, crea in un batter d’occhio, ma è lento a distruggere; ha creato il mondo in 6 giorni e ha assegnato 7 giorni alla rovina di Gerico. (S. Giov. Chr.) Anche l’uomo non demolisce subito la sua casa se vi trova un difetto, la lascia in piedi e cerca di ripararla: Dio agisce così con l’uomo (S. Bern.).

Dio è così paziente perché ha pietà della nostra debolezza, e perché vuole rendere più facile la conversione del peccatore.

Dio agisce come una madre con il suo bambino recalcitrante. Invece di colpirlo, lo stringe più forte al suo cuore e lo accarezza fino a quando non sia calmato (Hunolt). – Dio ti risparmia perché tu possa convertirti, non perché tu rimanga nel tuo peccato (S. Aug.). Non sapete che la bontà di Dio vi porta alla penitenza? alla penitenza! (Rom. II, 4). Dio ha pazienza per noi solo perché vuole vederci tutti fare penitenza (II, S. Pietro III, 9.) Molti peccatori non hanno abusato della longanimità di Dio, perché tanti grandi peccatori si sono convertiti e sono diventati grandi Santi: Maria Maddalena, Agostino, Maria egiziaca e così via. Dopo la loro conversione hanno fatto più opere di giustizia di quante ne avessero fatte prima di aver commesso iniquità. (S. Aug.). Ma nonostante la pazienza longanimità di Dio, alcuni peccatori non si convertono; lo stesso raggio di luce solare agisce in modo diverso su oggetti diversi: ammorbidisce la cera e dissecca l’argilla mattone, e così la pazienza di Dio fa tornare alcuni e indurisce altri. – Se Dio non fosse paziente, pochi si salverebbero. Se Dio non fosse paziente, pochi si salverebbero, perché noi siamo tutti peccatori e se alcuni impiegano più tempo di altri a lasciare il peccato, noi tutti ci mettiamo molto a correggerci completamente. Se Dio eliminasse subito i peccatori, lo serviremmo meno per amore che per timore (Sant. Brig.) – Anche se Dio è misericordioso, è molto pericoloso rimandare la conversione, perché l’ira scoppia all’improvviso (Ecclesiastico V. 9) come nella parabola del fico. (S. Luc, XIII). Il ritardo causato dalla pazienza è compensato dalla severità della punizione. Più la punizione è ritardata, più è violenta, così come l’arco scocca la freccia con tanta più forza quanto più a lungo è stata legata la corda. (S. Aug.). Ne vediamo un esempio nella terribile fine del crudele Antioco Epifane (II, Maccab. IX).

9. DIO È INFINITAMENTE MISERICORDIOSO, CIOÈ PERDONA VOLENTIERI LE NOSTRE COLPE QUANDO CE NE PENTIAMO SINCERAMENTE.

Questa grande misericordia è rappresentata da Gesù Cristo nella bellissima parabola del figliol prodigo. (S. Luc. XV). Non appena Davide, sotto l’ammonimento del Profeta, Nathan, aveva confessato il suo crimine, Nathan gliene annunciò la remissione. (II Re XII, 13). Non appena il dolore di aver peccato si impadronisce del peccatore, il Signore è soddisfatto (S. Lor. Giustin.) È proprio di Dio avere pietà e perdonare. (Messa per i defunti). La misericordia di Dio è infinita: l’oceano ha dei limiti,

ma la misericordia di Dio non conosce limiti. (S. Giov. Cr.) Dio ci chiede di perdonare il nostro prossimo settanta volte sette; quanto deve essere grande la sua misericordia!

Dio manifesta la sua misericordia ricercando il peccatore con la sofferenza ed i benefici, ed accogliendo amorevolmente i più grandi peccatori, e mostrando loro più amore dopo la loro conversione che prima.

Dio è il buon pastore che segue la pecora smarrita finché non la ritrova. (S. Luc. XV). Dio manda la sofferenza al figliol prodigo; a Davide, un profeta; Gesù Cristo guarda Pietro per commuoverlo e parla con la Samaritana al pozzo di Giacobbe per convertirla. Dio assomiglia a un pescatore o a un cacciatore che escogita ogni sorta di trucchi ed esche per attirare i pesci o gli uccelli nelle sue reti. (L. de Gren). – Dio perdona i più grandi peccatori: “Se. – Egli dice – i vostri peccati fossero come scarlatto, io li farei diventare bianchi come la neve; e se fossero rossi come la porpora, li farei diventare bianchi come la lana.” (Is. I, 18). Quanto più grande è il peccato, più il Signore è accogliente, se il peccatore vuole convertirsi. Così diceva Davide: Signore siatemi propizio, perché numerosi sono i miei peccati (Sal. XXIV, 11). Dio è come un pescatore la cui gioia aumenta con la grandezza dei pesci che prende. Egli trae maggior onore dal perdono concesso agli uomini che, a causa del numero e la gravità dei loro peccati sembrando quasi indegni. “Nessuno è dannato per aver fatto troppo male, ma molti sono all’inferno per un solo peccato di cui non hanno voluto fare ammenda”. (Curato d’Ars). Fate tutto ciò che potete, Dio farà tutto ciò che può per riconciliarsi con voi. (S. Giov. Cr.). Anche Giuda sarebbe stato perdonato, se avesse voluto. – Dio a volte perdona all’ultimo momento, come dimostra il Buon Ladrone. Ma nessuno deve rimandare la sua conversione fino ad allora: Dio ha giustificato uno di loro all’ultimo momento perché nessuno si disperasse, ma solo uno perché nessuno rimandasse la sua conversione fino alla morte. (S. Aug.). Le conversioni sul letto di morte sono sempre dubbiose, perché l’esperienza ci insegna che in quel momento i peccatori promettono e, appena guariti, non mantengono nulla: è il caso dell’empio Voltaire. In punto di morte i peccatori difficilmente si convertono se non loro malgrado. Essi sono come i marinai che in caso di pericolo di naufragio, gettano in mare il loro carico per necessità, ma non per repulsione per il carico stesso. “È ridicolo chi, forte e giovane, si è rifiutato di combattere e poi, debole ed impotente, vuole finalmente essere portato sul campo di battaglia. Dio accoglie con amore il peccatore pentito. Quale non fu la bontà di Gesù Cristo verso la Maddalena nella casa di Simone (S. Luc. VIl), nei confronti della donna peccatrice che i farisei gli portarono nel tempio (S. Giov. VIII), verso il buon ladrone (S. Luc. XXIII)! Quanto affettuosa l’accoglienza riservata al figliol prodigo dal padre: e quel padre è Dio (Lc. XV). Dio è più pronto a perdonare il peccatore che il peccatore a ricevere il perdono. (S. Aug.). Prima che il supplicante si avvicini alla porta, Lui già l’apre. Signore, prima che egli si prostri davanti a Voi, gli avete già teso la mano (S. Ephr.). Dio si rallegra anche della conversione del peccatore; in cielo, dice Gesù Cristo, c’è più gioia nella conversione di un peccatore che nella perseveranza dei giusti che non hanno bisogno di perdono (S. Luc. XV, 7). Questa gioia deriva dal fatto che i peccatori convertiti di solito servono Dio con più zelo e lo amano con più ardore (S. Gregorio Magno). – Dio di solito tratta il peccatore dopo la conversione con più benevolenza di prima. Il padre del figliol prodigo fece preparare per lui un sontuoso banchetto al suo ritorno; questo padre è Dio (S. Luc. XV). Dio visita ogni convertito con consolazioni interiori. Lo riempie di grazie come S. Paolo che fu rapito al 3° cielo. (II Cor. XII, 2.). Quando gli uomini perdonano coloro che li hanno offesi, non li amano più come prima. Dio agisce in modo diverso. Stima di più colui che torna a Lui che colui che rimane indietro. (S. P. Dam.) Per questo S. Aug. chiama il peccato originale una colpa felice.

10. DIO È INFINITAMENTE SANTO, CIOÈ AMA IL BENE E DETESTA IL MALE. (Prov. XV.).

I pagani immaginavano i loro dèi come pieni di difetti e protettori dei vizi. Non è così per il vero Dio: Egli è puro da ogni macchia ed odia ogni tipo di male nelle sue creature. La santità di Dio non è altro che il suo amore per le sue infinite perfezioni. – Chi ama la pulizia cerca di essere lui stesso libero da ogni macchia e di mantenere pulito tutto ciò che lo circonda (la sua casa, la sua stanza, la sua i suoi libri, ecc.). Lo stesso vale per Dio: egli è puro da tutto e vuole che anche le sue creature lo siano. Quanto è puro l’azzurro del cielo che non è turbato da alcuna nube. Quanto è pura una veste candida senza un granello di polvere. Eppure Dio è ancora più puro. La santità di Dio degli Angeli e dei Santi è come la luminosità del sole rispetto alla luce di una lampada. Dio trova macchie anche negli Angeli (Giobbe, IV, 18).

La nostra giustizia, Signore, è davanti a te come un telo impuro” (Isaia LXIV, 6). Gli stessi Angeli del cielo lodano la santità di Dio (Isaia VI, 3), e la santa Chiesa dice giustamente nelle sue preghiere: “Tu solo, Signore, sei santo! – Dio vuole che anche noi, sue creature, siamo liberi da ogni contaminazione. Siate santi”, ci dice, “come io sono santo”. (III Mos. XI, 14). Per questo ha la legge naturale nell’anima di ogni uomo (coscienza); per questo ha rivelato la sua volontà agli uomini sul Monte Sinai e ha attribuito felici conseguenze alle buone azioni e conseguenze infelici alle azioni cattive. Per purificare gli uomini dalle loro colpe, manda loro delle sofferenze; è come il giardiniere che pota la vite per farla fruttificare. (S. Giovanni XV, 2). Inoltre li purifica anche nel purgatorio, perché nulla di impuro può entrare nel cielo. (Apoc. XXI, 27). I Santi e gli Angeli sono rappresentati con vesti bianche come la neve ed anche i neobattezzati sono vestiti di bianco. – Siate santi e puri e sarete i preferiti di Dio.

11. DIO È INFINITAMENTE GIUSTO, CIOÈ RICOMPENSA TUTTO CIÒ CHE È BUONO. E PUNISCE TUTTO CIÒ CHE È CATTIVO.

o è infinitamente giusto, cioè ricompensa tutto ciò che è buono e punisce tutto ciò che è cattivo.

ricompensa tutto ciò che è buono e punisce tutto ciò che è

male.

La giustizia di Dio non è altro che la sua bontà. Dio punisce l’uomo solo per renderlo migliore, cioè più felice. “Dio è giusto perché è buono”. (Clém. AL).

1. Dio premia e punisce gli uomini in parte già quaggiù, ma la sua giustizia si perfeziona solo dopo la morte.

Già quaggiù, le buone azioni danno all’uomo onori, ricchezza, salute e coscienza tranquilla, (Salmo CXVIII, 165). Le azioni cattive producono il contrario. Noè, Abramo e Giuseppe hanno già ricevuto parte della loro ricompensa qui sulla terra; i figli di Eli e Assalonne hanno ricevuto la loro punizione. La giustizia perfetta si esercita solo nel giudizio successivo alla morte. Dopo la risurrezione, il corpo stesso parteciperà alla ricompensa o al castigo. – Se Dio punisse tutte le colpe commesse già in questa vita, gli uomini crederebbero che nulla è riservato per l’ultimo giudizio, e se non ne punisse nessuna, non crederebbero nella sua provvidenza (S. Aug.).

2. Dio premia la più piccola azione buona e punisce il più piccolo dei peccati.

Cristo promette di ricompensare un bicchiere d’acqua fresca dato ad uno dei suoi. (S. Marco IX, 40). Dio ricompensa persino uno sguardo alzato verso di Lui (Ste Teeresa).

“Vi dico – dichiara Cristo – che nel giorno del giudizio gli uomini renderanno conto di ogni parola inutile”. (S. Matteo XII, 36).

3. Dio punisce generalmente l’uomo là dove ha peccato.

Ciò che è stato usato per il peccato sarà usato per il castigo. (Sap. XI, 17) “Sarete ripagati”, dice Cristo, nella misura con cui avrete trattato gli altri” (S. Math. VII, 2). Assalonne era orgoglioso dei suoi capelli; fu la causa della sua caduta. Il cattivo uomo ricco peccò di più con la lingua, è questa che viene punita di più all’inferno. Il re d’Egitto aveva costretto gli Israeliti a gettare tutti i loro figli maschi nel Nilo e questo stesso re d’Egitto perì tra le onde del Mar Rosso con tutti gli uomini in grado di portare le armi. Il re Antioco, che aveva fatto uccidere Eleazar e i 7 fratelli Maccabei per la loro fedeltà alla religione, fu divorato dai vermi (II Mach. IX, 6). Ai due ladroni crocifissi con N. S. che erano stati assassini, furono spezzate le gambe. Aman, il ministro del re di Persia, aveva voluto impiccare lo zio di Ester, perché si era rifiutato di inchinarsi a lui, e il re fece impiccare Aman proprio sul patibolo che aveva preparato. (Ester V.) Le madri di Betlemme rifiutarono l’ospitalità alla Madre di Dio: fu una crudeltà contro il Figlio di Dio, presto punita dalla crudeltà di Erode contro i loro stessi figli. (S. Matth. II, 16). Nell’anno 70, gli abitanti di Gerusalemme furono puniti per le torture che avevano inflitto a Cristo. Molte migliaia di ebrei furono crocifissi dai soldati romani. (Quasi 500 furono giustiziati ogni giorno per 6 mesi). E 2.000 ebrei furono trasportati a Roma da Tito, vestiti con le vesti bianche dei pazzi. Napoleone 1° subì quanto aveva inflitto a Pio VII e fu prigioniero due volte. Molti dicono: “Si tratta di semplici coincidenze”, ma il Cristiano fedele vi riconosce il dito di Dio. (S. Aug.).

4. Nei suoi castighi e nelle sue ricompense, Dio prende in considerazione le situazione di ogni uomo, soprattutto delle sue intenzioni e dei suoi talenti.

Chi fa il bene per essere lodato dagli uomini non sarà ricompensato da Dio. (S. Math. VI, 2). Gli uomini giudicano secondo le apparenze, ma Dio guarda il cuore (I Re XVI 7). – Ecco perché la povera vedova che gettò 2 denari nel tesoro del tempio ha avuto un merito maggiore davanti a Dio rispetto a tutti i ricchi che avevano gettato il superfluo (S. Luc. XXI). Lo schiavo che, avendo conosciuto la volontà del suo padrone fa il male, riceverà più colpi dello schiavo che l’ha ignorava (S. Luc. XII, 47); cioè quanto più perfetta è la conoscenza di Dio, tanto più grave è il peccato.

5. Dio non ha riguardo per le persone (Rm II).

Molti di coloro che erano primi sulla terra saranno ultimi nell’altra vita. (S. Math. XIX, 30). È la storia del ricco malvagio e del povero Lazzaro.

Anche gli angeli furono riprovati. Molti di coloro ai quali oggi vengono erette statue, saranno infelici dopo la loro morte. Molti uomini hanno i loro nomi brillantemente scritti nel libro della storia, che saranno cancellati dal libro della vita custodito da Dio.

Essendo Dio sovranamente giusto, dobbiamo temerlo.

Temete colui – ci dice Cristo – che è in grado di gettare anima e corpo nel fuoco dell’inferno”. (S. Math. X, 18). Un solo peccato, il peccato originale, è la causa della morte e della sofferenza di tutta l’umanità e la dannazione eterna di molti. Da questo possiamo concludere quanto Dio sia giusto e quanto siano terribili le pene del Purgatorio. Possiamo trarre la stessa conclusione dalla crocifissione di N. S.. Chi dunque non teme Dio? – Ma il nostro timore di Dio non deve essere servile, ma filiale (Rom. VIII, 15), cioè dobbiamo temere meno di essere puniti da Dio che di offenderlo. “Chi fa il bene solo per paura del castigo, non ha ancora abbandonato completamente il peccato”. (San Gregorio Magno). Il timore filiale si trova solo con un grande amore per Dio, perché l’amore perfetto scaccia il timore servile. (San Giovanni, IV, 18). 11 Tuttavia, per paura del castigo occorre fare ciò che non facciamo ancora per amore della santità (S. Aug.).

Il timore di Dio ci dà grandi vantaggi: ci tiene lontani dal peccato, ci conduce alla perfezione e ci conduce alla felicità temporale ed eterna.

Il timore di Dio elimina il peccato (Sap. I, 27). Ha impedito al vecchio Eleazar di toccare le carni proibite. “Se”, disse, “ora sfuggissi ai tormenti degli uomini, non potrei sfuggire né vivo né morto alla mano dell’Onnipotente”. (II Macc. VI, 26). Chi teme il Signore, sfugge agli inseguimenti dello spirito maligno (S. Ephr.). Chi teme il Signore non teme nulla (Sap .. XXXIV, 16); abuserà dei suoi sensi tanto poco quanto un uomo crocifisso non si muove per paura di aumentare le sue sofferenze (S. Bas). Il vento disperde le nubi e il timore di Dio, la concupiscenza della carne (San Bernardo). Chi teme Dio si libera delle preoccupazioni del mondo, come un marinaio getta in mare il suo carico per paura del naufragio (S. Greg. M.). – Il timore di Dio preserva la virtù come il muro di cinta protegge la vite. (Luigi de Gr.). Essa è la gioia della virtù ed è simile alla

sentinella armata che sorveglia una casa per timore dei ladri (S. Giov. Chris.). Come l’ago buca il tessuto e apre la strada al filo di seta, così il timore di Dio apre la strada all’amore. (S. Aug. S. Fr. de S.). – Il timore del Signore è l’inizio della sapienza (Sal. CX, 10). Il timore degli uomini è misto ad amarezza, quello di Dio è pieno di dolcezza; questo rende l’uomo schiavo, l’altro lo rende libero (Cassiod.). Il timore di Dio è accompagnato da onore e gloria. Esso è coronato da gioia e letizia, rallegra il cuore e la mente. (Sap. 1, 11). Felice l’uomo che teme il Signore (Sal. CXI, 1). Dio sarà tanto meno da temere nel giudizio se lo abbiamo temuto in questa vita (S. Greg. Gr.).

Il timore di Dio è una grazia molto speciale.

Io, dice il Signore, metterò il mio timore nei loro cuori, affinché non si allontanino da me. (Ger. XXXII, 40). Preghiamo dunque come Davide: “Signore! Trafiggete la mia carne con il timore del vostro volto” (Sal. CXVill, 120). Il timore di Dio è uno dei sette doni dello Spirito Santo.

12. DIIO È INFINITAMENTE VERITIERO, CIOÈ EGLI RIVELA SOLO LA VERITÀ. (s. Giovanni VIII, 26).

Dio non può ingannare se stesso né può ingannare noi. Egli non può sbagliare, perché è onnisciente. Non può mentire, perché è infinitamente santo. “Colui che ha proibito così severamente la menzogna, non può commetterla” (S. Clém. Rom.). Dio non è come un uomo capace di mentire; non è come il figlio dell’uomo capace di cambiamento (Numeri XXIII, 19). Dobbiamo quindi credere alla Parola di Dio, anche alle verità che la nostra debole ragione non può afferrare, ad esempio i misteri della nostra santa Religione: la Santa Trinità, l’Incarnazione, la Presenza Reale.

13. DOO È INFINITAMENTE FEDELE, MANTIENE TUTTE LE SUE PROMESSE E COMPIE TUTTE LE SUE MIINACCE.

La fedeltà di Dio non è altro che la sua veridicità rispetto alle sue promesse.. – Le minacce di Dio nel Paradiso (Genesi II, 17) sono state adempiute alla lettera, così come è stata adempiuta alla lettera la promessa del Redentore. (ibid. III, 15); allo stesso modo, la minaccia di Gesù Cristo contro Gerusalemme si è realizzata alla lettera nell’anno 70. (S. Math. XXIV). Il suo tempio secondo Daniele (IX, 27) non deve essere ricostruito fino alla fine dei tempi. Ora, Giuliano, l’apostata, iniziò la ricostruzione nell’anno 361, ma dei terremoti distrussero le prime fondamenta e le fiamme che si alzavano dal suolo dispersero gli operai. – Dio spesso usa promesse e minacce per smuovere la nostra volontà indebolita. Gesù Cristo ci mostra continuamente la ricompensa o la punizione eterna. Le nature sensuali e rozze hanno bisogno di queste minacce, esse si lasciano guidare solo dalla paura, proprio come certi animali si lasciano domare solo dalla frusta. Dio, invece, minaccia solo per bontà. Un uomo che grida “Attenti!” dimostra con questo che non vuole colpirvi. Dio fa lo stesso: minaccia di punire per non essere obbligato a punire. (S. Aug.).

Tutto ciò che Cristo e i Profeti hanno predetto, e che non si è ancora avverato, si compirà.

Non ci sarà quindi mai un momento in cui la Chiesa non esisterà più, in cui il Papato sarà distrutto. (S. Math. XVI, 18). Il tempio di Gerusalemme non sarà mai ricostruito (Dan. IX, 27). Gli Ebrei si convertiranno alla fine dei tempi (Sal. III, 5). Il Giudizio Universale sarà preceduto da terrificanti prodigi in cielo e in terra (S. Math. XXiV, 29). Cristo risorgerà un giorno (S. Giov. V, 28) e ci giudicherà. (S. Math. XXV, 32). Inoltre il Cristo ci ha detto: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. (S. Math. XXIV, 35). Se ci fidiamo di un uomo perché ha messo la sua firma su un documento, quanto più dovremmo confidare in Dio che ha riempito con le sue promesse tutta la Santa Scrittura. (S. Pt. Cris.).

24 AGOSTO: SAN BARTOLOMEO APOSTOLO.

SAN BARTOLOMEO APOSTOLO.

(Otto HOPHAN: Gli Apostoli, Marietti Ed., Torino, 1951)

Il nome e la figura dell’Apostolo Bartolomeo sono circonfusi di sole, perchè Natanaele-Bartolomeo — questo è il suo nome completo — nel Collegio apostolico fu uno dei più contenti e dei più allegri, una vera primavera, se non vediamo errato; il Signore stesso sollevò gli occhi e alzò le braccia in segno di letizia quando si pose al suo seguito questo giovanotto; e noi pure oggi, al sentire il suo nome, ci immaginiamo un uomo tutto armonia e serenità, un uomo illuminato dal sole, un fiore di primavera. – Nei quattro elenchi degli Apostoli, che abbiamo nella Sacra Scrittura, viene presentato col nome di « Bartolomeo »; segue immediatamente, al sesto posto, l’amico suo Filippo; soltanto nel catalogo degli Atti fra lui e Filippo è inserito Tommaso. Bartolomeo e Tommaso! Il Signore assegnò questi due Apostoli allo stesso gruppo. La Provvidenza frammischia sapientemente gli uomini! Il gaio deve accompagnarsi al triste, il tormentato dal dubbio e molestato dalla nebbia deve stare accanto al condiscepolo del sole e della primavera. La loro unione fu di benedizione per tutti e due: Tommaso trovò in Bartolomeo un sollievo, Bartolomeo ebbe in Tommaso un ritegno nei pericoli del cuor contento. È strano che l’Evangelista Giovanni, in tutto il suo Vangelo, non faccia mai menzione d’un Apostolo col nome di Bartolomeo; racconta, in cambio, d’un Natanaele, che però ai tre Evangelisti precedenti sembra sconosciuto. Giovanni scrive di Natanaele nel primo ed ultimo capitolo; Natanaele dunque fu con i Dodici « tutto il tempo, nel quale il Signore Gesù entrò e uscì, dal battesimo di Giovanni sino al giorno dell’Ascensione », proprio come Pietro esige, quale condizione indispensabile, per chi debba essere Apostolo. I due testi citati di Giovanni sembrano provare con certezza che Natanaele appartenne veramente al gruppo dei Dodici: tanto nel primo che nell’ultimo capitolo egli sta fra gli Apostoli noti e riconosciuti; la sua vocazione é riferita con tanta chiarezza e ricchezza di particolari, che non se ne saprebbe assegnare il motivo, se non si trattasse d’un vero Apostolo. Ma se Natanaele del quarto Evangelista fu uno dei Dodici, non può essere che quell’Apostolo, che nei quattro cataloghi è introdotto col nome di Bartolomeo. In questi cataloghi infatti tutti gli altri Apostoli hanno il loro nome proprio; soltanto Bartolomeo, che in essi è chiamato dal nome del padre Bar-Tholmai, figlio di Tholmai, lascia aperta la possibilità ad un altro nome, al suo cioè personale. Nel Vangelo però abbiamo degli indizi anche più chiari: nelle quattro liste degli Apostoli Bartolomeo occupa il sesto posto; ora lo stesso posto è assegnato anche a Natanaele nel Vangelo di Giovanni; inoltre nel quarto Vangelo chi conduce Natanaele a Gesù è Filippo; ma Filippo è messo in relazione con Bartolomeo anche dagli altri tre Evangelisti. Con buone ragioni dunque la sentenza comune ritiene che Bartolomeo e Natanaele siano nomi del medesimo Apostolo. È vero che negli antichi secoli cristiani Agostino e Gregorio Magno difesero l’opinione contraria, ma per motivi che oggi non possiamo riconoscere validi. (Così, per esempio, nei suoi trattati sul Vangelo di Giovanni, Agostino scrive; « Dobbiamo considerare che Natanaele era dotto e competente nella Legge. Per questo il Signore non volle annoverarlo fra i Discepoli; Egli infatti scelse degli ignoranti al fine di confondere, per mezzo di loro, il mondo » Tract. 7, 17 (ML 35, 1446). Non ci è possibile rintracciare le ragioni, che indussero Giovanni a chiamare questo Apostolo col suo nome proprio di “Natanaele” e gli altri Evangelisti invece col nome del padre « Bar-Tholmai »; abbiamo solo parecchi esempi biblici, che provano l’uso diffuso fra i Giudei di designare un figlio col nome di suo padre o di aggiungere questo al nome proprio di lui: Simone, Bar-Jona; Bar-Timeo; Bar-naba; Barsaba, e altri ancora.

L’UOMO ALLEGRO.

Introducendoci a scrivere di Bartolomeo, dovevamo necessariamente provare la sua identità con Natanaele anche perché di questo Apostolo conosciamo solo quello che ci riferisce Giovanni nei pochi versetti, che trattano di Natanaele; gli altri tre Evangelisti, eccettuato il nome del padre, non ci dicono di lui sillaba. Il padre suo, il vecchio Tholmai — questo nome significa « aratro » — era forse una persona tanto nota e ragguardevole, che si potè indicare il figlio di lui semplicemente col suo nome, e una tale ipotesi è avvalorata da una leggenda su Bartolomeo, che si legge in Pietro de Natalibus verso l’anno 1372: dice infatti che il nostro Apostolo era un siro, di famiglia aristocratica e anzi regale; e « la storia della passione di Bartolomeo », opera molto più antica, sorta fra il quinto e sesto secolo, dopo la descrizione del simpatico aspetto dell’Apostolo, ne mette in luce la nobiltà dell’abbigliamento: « Bartolomeo aveva capelli neri, arricciati; gli orecchi coperti dai capelli del capo; colorito della pelle splendente; occhi grandi; naso regolare, diritto; una statura proporzionata, non troppo piccola nè troppo grande. Portava un abito bianco e guarnito di porpora, un mantello pure bianco, le cui estremità erano ornate di rosse gemme ». La leggenda posteriore spende parole per dirci persino che Bartolomeo, nell’atto di entrare nel seguito di Gesù, si sarebbe riservato di poter indossare anche per l’avvenire il suo prezioso abbigliamento purpureo. Questi e altri simili dati, che ci forniscono gli apocrifi e le leggende, non sono evidentemente probativi, ma forse contengono qualche parte di vero, che illumina la figura d’un Apostolo; può ben darsi che Bartolomeo sia cresciuto in luogo aprico. – Ma lasciamo le leggende e passiamo dalle congetture all’aureo e solido terreno del santo Vangelo. La prima notizia, che vi attingiamo, ci dice la patria di Natanaele-Bartolomeo: era di Cana di Galilea; di qui la deduzione di non pochi, e tuttavia senza ulteriori motivi sufficienti, che Bartolomeo fosse lo sposo fortunato delle nozze di Cana. t certo che anch’egli esercitava il mestiere del pescatore; quando infatti Pietro, dopo la risurrezione, si accingeva ad andare a pescare, anche Natanaele gridò con gli altri colleghi: « Veniamo anche noi con te>>. Agostino vede in lui un perito della Legge, perché Filippo lo invitò a Gesù con le parole: « Abbiam trovato Colui, del quale scrissero Mosè nella Legge e i Profeti »; da questo testo però non è lecito trarre tanta conseguenza. Probabilmente anche questo Apostolo era della cerchia del Battista, lo insinua la situazione al momento della sua prima comparsa.nLe poche ma preziose e deliziose righe, che l’Evangelista dedica a Bartolomeo,nce ne fanno penetrare l’anima, sebbene l’informazione sia davvero breve. La Chiesa ha scelto questo tratto evangelico per la Messa votiva dei santi Angeli a motivo del versetto finale; di qui una nuova luce, che si riflette anche sull’Apostolo; sarebbe desiderabile che la Liturgia introducesse la lettura di questo grazioso e solenne brano evangelico anche nel giorno della sua festa. « Filippo incontrò Natanaele », non per caso semplicemente, ma con intenzione cosciente e pia; lo fa intendere il Signore stesso: « Prima ancora che Filippo ti chiamasse, Io ti vidi »; Egli stesso chiamò Natanaele per mezzo di Filippo, come prima aveva pure chiamato Pietro valendosi del fratello suo Andrea. È proprio il metodo della Provvidenza santa: chiama e conduce noi per mezzo di altri; Iddio non vuol operare da solo; la sua sapienza e bontà son così benigne, che vogliono anche noi partecipi della creazione e del governo delle cose. A questo punto entra nel Vangelo Natanaele, ma gli si legge nel viso una ironia sorridente ed uno scherno benevolo; perchè, quando Filippo, che conosciamo un po’ minuzioso e dogmaticamente irretito in difficoltà, lo informò: « Abbiam trovato Colui, del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazareth », egli gli replicò riservandosi e con la furbizia negli occhi: « Di Nazareth? può venire qualcosa di buono da Nazareth? ». Forse gli sfuggì detta quella parola di scherno nei riguardi di Nazareth, perché indotto da quella nota disistima, che spesso vige tra villaggi vicini; Cana, la patria di Natanaele, distava da Nazareth solo quattordici chilometri; ma questo villaggio doveva essere in realtà disprezzato, probabilmente anzi era caduto in cattiva fama presso tutti; l’evangelista Matteo stesso vede le profezie, che riguardavano l’abbassamento e l’abiezione del Messia, adempiute in Gesù, perchè Egli era cresciuto a Nazareth; inoltre in tutti i libri dell’Antico Testamento non si fa mai parola di Nazareth. Era una piccola e insignificante località, come il nome stesso « Nazareth = torre di vedetta » insinua, in contrasto con i grandi centri. Nel Vangelo abbiamo pure dei chiari esempi dell’indole borghesuccia e rozza dei suoi abitanti. Dopo una predica di Gesù a Nazareth, chiedono gelosi e stizziti: « Donde ha costui la sapienza e il potere dei miracoli? Non è il figlio del falegname? … Così non sapevano che cosa pensare di Lui. Gesù allora disse loro: “Un profeta in nessun luogo ha meno onore che nella sua città natale e nella sua casa “. A causa della loro incredulità non operò ivi che pochi miracoli. Luca riferisce anzi un tentativo dei Nazzareni di assassinarLo: «A queste parole — di Gesù — quanti erano nella sinagoga montarono sulle furie; balzaron sù, Lo spinsero fuori della città e Lo condussero sino sul ciglio del monte, sul quale era edificata la loro città, per precipitarLo; ma Egli passò in mezzo a loro e se n’andò ». Eppure Gesù e Maria vissero a Nazareth, in quel villaggio, di cui il mondo nulla diceva, da cui nulla s’aspettava di « buono »! Questo ricordo deve consolare molti uomini, costretti a restarsene e a lavorare in uffici insignificanti e disprezzati o in luoghi sperduti. Nonostante l’atteggiamento di Natanaele, Gesù gli diede un benvenuto che ci stupisce; nessun altro Egli accolse con tanta calda cordialità come lui; il giudizio su Nazareth tornava di pregiudizio allo stesso Maestro, e nondimeno Egli gettò con gioia un ponte fra Sè e quel giovane sostenuto: «Quando Gesù vide venire a Sè Natanaele, disse di lui: “Ecco meramente un israelita, in cui non v’è falsità” ». Su queste parole Agostino osserva: «Una testimonianza preziosa! Quello che fu detto di Natanaele non fu detto né ad Andrea né a Pietro né a Filippo”. Sappiamo infatti quanto alto onore stimassero í Giudei il loro esserenIsraeliti, come ce ne fa fede Paolo nella sua lettera ai Romani e nella seconda ai Corinti “. Nel saluto del Signore però l’accento non è su «Israelita », ma su « Israelita senza falsità » – « Israelita senza falsità » si può interpretare anche nel senso di « Israelita non adulterato »; il testo greco non lo impone, ma lo permette; in questo senso la parola del Signore significherebbe che Natanaele era un Israelita genuino, originario, non ibrido. Preferiamo la spiegazione tradizionale, perché ci sembra più fondata nel testo.

*), il che è elogio per un Israelita davvero singolare!

Basti ricordare che il capostipite degli Israeliti, Giacobbe, pur ricco di virtù, nonnci appare certo come modello d’uomo «senza falsità »; e un’indole aperta e diritta non fu neppure in seguito la virtù nazionale degli Israeliti. Natanaele perònha un carattere limpido, trasparente; « non fa diversamente da quello che afferma >; non ha, « per così dire, due cuori, con uno dei quali scorge la verità, mentre con l’altro crea le bugie > . E di fatto le poche parole, che il Vangelo cinha conservato di lui, sono spontanee e leali, fresche e limpide come una sorgente, che scaturisce dal suolo; in lui non v’è nulla di affettato, di artefatto o di finto. Per questa schiettezza Gesù, l’eterna Verità, amò con affetto tutto particolare questo Israelita senz’ombra d’infingimento e di simulazione. All’udire l’encomio di Gesù, Natanaele sobbalzò più stupito che accarezzato,ne lo manifestò: « Donde mi conosci Tu? »; ma il Signore profittò per dargli una seconda prova, ancor più evidente della prima, della propria divina onniscienza; voleva che in quell’anima gaia, ma forse ancor troppo superficiale, s’infrangesse qualche cosa, qualche cosa colasse a fondo in quel giovane: « Gesù gli rispose:n”Prima ancora che Filippo ti chiamasse, Io ti ho visto sotto il fico” ». Che cosa fosse avvenuto sotto quel fico, rimarrà sempre un segreto di Gesù e di Natanaele; si trattava forse d’una lotta vittoriosamente superata, o d’una decisione definitiva, o forse anche d’una intuizione importante, che gli era brillata in mente qual baleno; si sa che all’ombra degli alberi si amava scrutare la Legge; in qualunquenipotesi, sotto quel fico — gli abitanti di Palestina solevano piantare in prossimità delle loro abitazioni alberi di fico, come noi quasi facciamo col sambuco — era accaduto un fatto grave per l’esistenza di Natanaele. Sentendoselo ora ripeterendal Signore, fu colto da tale sorpresa, che nel suo improvviso entusiasmo esclamò: < Maestro, Tu sei il Figlio di Dio, Tu sei il Re d’Israele! ». Aveva sorriso su Gesù di Nazareth appena un’ora prima; e adesso, a una sola parola della sua onniscienza, Gli rende omaggio con una professione, che per impeto e festosità oltrepassa anche la professione messianica di Andrea e di Filippo. Natanaele è davvero un israelita senza falsità e senza pieghe di cuore!nNon ci è lecito tuttavia sopravvalutare questo omaggio impetuoso; sembranalla pari con la professione messianica di Pietro a Cesarea di Filippo: « Tu sci il

Messia, il Figlio del Dio vivente » ; in realtà però fra il Giordano e Cesarea di Filippo, fra il grido giulivo della primavera e la fede, che solo la calda estate condusse a maturazione, corre un tratto lungo e laborioso. Per i discepoli sulle rive del Giordano Gesù è il Messia nel senso stravolto e terreno delle aspettazioni messianiche giudaiche; per giungere al puro Credo, gli Apostoli dovranno faticosamente aprirsi la via fra molti dubbi e gravi conflitti; soltanto a Pietro il Signore disse: « Beato te, Simone, figlio di Giona! »; adesso non disse: « Beato te, Natanaele, figlio di Tholmai! ». La fede dunque di Bartolomeo presso il Giordano era soltanto la primavera, bella, se vogliamo, ma ancor immatura; per il suo sviluppo e rafforzamento Gesù gli replicò: « Tu credi perchè ti ho detto: Io ti hovisto sotto il fico. Tu vedrai cose maggiori di queste ». E rivolgendosi a tutti continuò: « In verità, in verità vi dico: d’or innanzi vedrete il Cielo aperto e gli.Angeli di Dio ascendere e discendere sopra il Figlio dell’uomo ». Il patriarca Giacobbe, il padre di tutti gli Israeliti, aveva un tempo visti gli Angeli ascendere e.discendere; ora Natanaele e i suoi compagni d’apostolato, che son israeliti senza falsità, potranno essere spettatori del continuo compiersi, in senso spirituale, di quella visione di Giacobbe, contempleranno cioè Gesù in costante e mutua comunicazione col Cielo; le sue parole infatti e i suoi miracoli sono un ascendere e un discendere di potenze celestiali; perchè Egli non è solamente « il figlio di Giuseppe di Nazareth », come falsamente pensava Filippo, pur cogliendo parzialmentennel giusto; non è neppure semplicemente il « Re d’Israele» e lo scrutatore dei cuori, come lo ha acclamato Natanaele; Egli è il Signore del Cielo e il padrone degli Angeli; Bartolomeo con gli altri Apostoli dev’essere avviato a questa fede sublime. Dobbiamo nondimeno rallegrarci per questa splendida professione, che rumoreggia come uno spumeggiante ruscello montano nella primavera di questo primo capitolo di Giovanni; esso comincia: « In principio era il Verbo, e il Verbonera presso Iddio, e il Verbo era Iddio »; ed ora a quest’eterno murmure d’onde risponde festante l’eco terrena: « Maestro, Tu sei il Figlio di Dio, Tu sei il Rend’Israele! ». – L’evangelista Giovanni non continua, purtroppo, il grazioso abbozzo di Natanaele in quel suo primo capitolo, e neppure nel corso del Vangelo dedica a lui piùnuna parola, se si eccettui la breve notizia dell’ultimo capitolo; ma già lo sappiamo, i Vangeli, ispirati dallo Spirito Santo, si limitano alla storia della salute. E tuttavia le loro parche notizie accennano spesso la direzione, nella quale è lecitonalla devota fantasia osare di costruire. Non erriamo quindi certo se, avendo sott’occhio il cordiale incontro di Gesù con Natanaele, ci raffiguriamo quest’Apostolo come persona d’ineccepibile lealtà e come un tipo allegro, capace di sentire entusiasmo e di trasfonderlo pure negli altri; dovette essere ben voluto nel Collegionapostolico, e ben meritava l’affetto dei colleghi, perchè si presentava sempre così limpido, così trasparente e così vero, veramente come l’uomo senza falsità e senzanmalizia. Quando nel Cenacolo Gesù rivelò: « Uno di voi Mi tradirà », a nessuno passò per la mente neppure la minima ombra che quegli potesse essere Bartolomeo. Intorno a lui splendette sempre sole e primavera: quando gli Apostoli percorrevano col Signore le vie lunghe e bruciate ed erano stanchi e polverosi; e quando le moltitudini si stipavano intorno a loro, sicchè non trovavan più temponneppure per mangiare; quando pure alla sera, partecipi della sorte del Maestro, non avevano un posticino, dove poter posare il loro capo, allora era Bartolomeo, che con una frase gaia sollevava l’animo depresso dei suoi camerati; e allora gli occhi del Signore si posavano di nuovo con compiacenza su di lui, come al momento del primo incontro; era il discepolo caro, chiamato per natura e per grazia a rispecchiare la bontà e la benignità del Salvatore nostro “. Più di tutti dovettero beneficiare della sua vicinanza i compagni del medesimo gruppo, Tommaso dall’umor nero, Filippo dall’indole fredda e Matteo tanto realistico; Bartolomeo portava fra di loro luce e vita, un profumo di primavera e anche un tantino di poesia nell’atmosfera, che altrimenti sarebbe stata un po’ troppo fredda, troppo asciutta e anche cupa. La propensione alla letizia è un talento.nch’è donato a vantaggio anche degli altri; non può essere seppellito: Bartolomeondovette alleggerire e rasserenare Tommaso, dovette stuzzicare ed eccitare Filippo, dovette completare e rischiarare Matteo. È bello starsene alla luce del sole, ma è ancor più bello esser luce di sole per gli altri. In questo suo compito però l’Apostolo non oltrepassò i confini delicati della discrezione. È sorprendente la frequenza, con la quale le antiche leggende rimandano alla sua origine e al suo portamento aristocratici; e alla sua tranquilla riservatezza accenna il Vangelo stesso; egli preservò la sua indole allegra dalla effusione e più ancora dalla smoderatezza. Questa simpatica armonia di spontaneità e riservatezza, di allegria e cortesia è indicata anche dal nome completo dell’Apostolon« Natanaele-Bartolomeo »; perchè « Natanaele » etimologicamente vuol dire «dono di Dio », e un uomo allegro per una comunità è davvero un dono di Dio; « Bar-Tholmai » significa «figlio dell’aratro »; ora ogni « Natanaele » dev’esser pure un « Bartolomeo », un aratro, un uomo cioè che va al fondo; e un « Bartolomeo » dev’essere « Natanaele », un dono del Signore solatio, che per le profondità non dimentica il Cielo azzurro, dove gli Angeli di Dio ascendono e discendono. Le notizie, che abbiamo intorno all’attività dell’Apostolo Bartolomeo, sono incerte e in parte anche contradittorie. Non ci sono giunti di lui Atti autentici; quelli che possediamo, ebbero origine in qualche provincia orientale dell’impero bizantino solo fra il quinto e il sesto secolo e risentono dell’eresia nestoriana; un’idea quindi, almeno generica, di quell’attività non ce la possiamo formare con certezza se non di nuovo dal Vangelo: quegli, che fin dalla prima ora aveva proclamatonCristo qual « Figlio di Dio e Re d’Israele », dovette portare con entusiasmo ilnlieto messaggio del Signore Gesù Cristo nel vasto mondo, dopo aver visto « cosenmaggiori », la vita di Gesù, la Pasqua e la Pentecoste.nAtti tramandatici in lingua coptíca, arabica ed etiopica trasportano il campo di lavoro di Bartolomeo nelle « oasi » dell’Egitto; l’omiliario armeno ricorda come meta della prima fra le sue sei spedizioni apostoliche la città di « Eden », l’odierna Aden; Eusebio riferisce che già San Panteno, il fondatore della scuola catechetica di Alessandria, nel suo viaggio in India, verso la fine del secondo secolo, aveva ivi incontrato comunità cristiane costituite dall’Apostolo Bartolomeo; si avverta che in quei tempi sotto il nome di « India» s’intendevano tutte le terre orientali, che non facevan parte dell’impero romano e di quello dei Parti, e quindi non la sola India propriamente detta, ma anche l’Abissinia, l’« Arabia Felice» e la Carmania. Ci colpisce in questi Atti che spesso mettano Bartolomeo in relazione connMatteo; anche l’informazione sopra ricordata di Panteno afferma che il nostro Apostolo avrebbe portato in quelle contrade il vlVangelo ebraico di Manco. Gli Atti però di Filippo, addotti più sopra, ci incamminano per un’altra direzione; vi si legge che Bartolomeo faticò e soffrì nella città della Frigia Gerapoli,nunitamente al suo compagno d’apostolato e suo amico Filippo e la sorella di questinMarianna; da amico fedele, assistette Filippo quando subì il martirio, dopo di che si sarebbe trasferito in Licaonia, che a sud-est confinava con la Frigia. Un’attivitàndi Bartolomeo in quella regione — corrisponde alla parte sud-orientale dell’attualenAsia Minore — è ricordata anche presso i Siri; ivi sarebbe stato anchencrocifisso. Questa tradizione è prevalente nella Chiesa greca; in una predica, ch’ènattribuita a San Giovanni Grisostomo e che ha per argomento i dodici Apostoli, si afferma che Bartolomeo annunziò « l’astinenza ai Licaoni ». Ma gli Atti di Andrea e di Bartolomeo gli assegnano di nuovo un altro campo, la regione litoranea del Mar Nero. Come Matteo negli Atti di Matteo, così Andrea negli Atti di Andrea è presentato come il compagno di Bartolomeo nelle sue fatiche apostoliche. Queste notizie corrisponderebbero di più alle tradizioni e alle persuasioni degli Armeni, che considerano Bartolomeo come il loro Apostolonprincipale. Mosè di Khorene dice: « All’Apostolo Bartolomeo fu assegnata l’Armenia; presso di noi, nella città di Areban, subì pure il martirio ». Secondo una esposizione armena della sua vita e della sua passione, egli avrebbe predicato ilnVangelo dapprima agli « Indi », poi ai Parti, ai Medi, agli Elamiti e in fine aglinArmeni. Nelle lezioni del Breviario romano, che si leggono nel giorno della festandell’Apostolo, abbiamo un compendio di queste diverse e divergenti notizie: « L’apostolo Bartolomeo, ch’era di Galilea, si portò nell’India Citeriore, che gli era stata assegnata per la evangelizzazione al momento del sorteggio per la distribuzione del mondo. Predicò a quei popoli la verità del Signore Gesù secondo il Vangelo di San Matteo. Dopo che in quella regione ebbe convertiti molti a Cristo, sostenendo non poche fatiche e superando molte difficoltà, passò nell’Armenia Maggiore ». – Come le notizie intorno al luogo del suo apostolato, sono contradittorie anche quelle riguardanti il genere di morte. Il Breviario romano, utilizzando delle antiche informazioni, scrive a questo riguardo: « Nell’Armenia Maggiore Bartolomeo portò alla fede cristiana il re Polimio e la sposa di lui e inoltre dodici città; ma queste conversioni eccitarono fortemente l’invidia dei sacerdoti locali, ai quali riuscì di aizzare in tal modo il fratello del re Polimio, Astiage, chenimpartì l’ordine crudele di cavar la pelle a Bartolomeo vivo e poi di decapitarlo.nEgli rese l’anima a Dio in questo martirio ». La tradizione dello scorticamento dell’Apostolo fu diffusa presso Greci, Latini e Siri. Lo scorticamento era un supplizio mortale dei Persiani; esso quindi accennerebbe alla Persia come luogo dell’ultima attività e della morte dell’Apostolo; e di fatto nella parte della Siria, ch’era sottoposta alla sovranità persiana, si conservò una tradizione particolare intorno al suo sepolcro. Ecco perché gli artisti, quali il Ribera e il Rubens, nelle celebri pitture conservate nella Galleria del Prado, attribuiscono come simbolo a Bartolomeo il coltello, oppure, come ad esempio il Bernini nella statua al Laterano, gli sospendono senz’altro alle braccia la pelle detratta, come un mantello; Michelangelo poi nella Cappella Sistina creò argutamente, come autoritratto, un Bartolomeo spellato. L’antichità cristiana tuttavia seppe anche di altri generi di morte: si disse che era morto di morte naturale; secondo un’opinione molto antica e tanto diffusa era stato crocifisso, come quasi tutti i discepoli chiamati sulle rive del Giordano; e infatti anche l’arte e persino gli stessi artisti, che in altri quadri gli assegnano come proprio il coltello dello scorticamento, lo rappresentano in croce; secondo invece una leggenda armena, sarebbe stato ucciso con randelli; e infine una tradizione arabo-giacobita riferisce che, su ordine del re Aghira, sarebbe stato gettato in mare dentro un sacco appesantito con sabbia. Anche le vicende delle reliquie dell’apostolo Bartolomeo sono oggetto di discussione. Una tradizione armena dice che il suo cadavere fu sepolto ad Albanopoli o anche Urbanopoli, una città dell’Armenia, dove l’Apostolo aveva subito il martirio; di lì le reliquie passarono a Nephergerd — Mijafarkin —; verso l’anno 507 l’imperatore Anastasio I le fece trasferire a Daras, dttà della Mesopotamia, e vi fece erigere sopra una splendida chiesa. Nel 580 una parte di quei resti mortali fu forse trasportata nell’isola Lipari, che si stende dinanzi alla Sicilia; la leggenda a questo punto aggiunge che le reliquie, chiuse in un sarcofago, attraversarono il mare a nuoto e toccarono terra sulla costa dell’isola; questo particolare del sarcofago nuotante sul mare ebbe origine forse dall’opinione, secondo la quale Bartolomeo era stato annegato in un sacco gettato in mare. Durante l’invasione dei Saraceni, nell’anno 838 le reliquie furono trafugate a Benevento; e finalmente nel 983, per intervento dell’imperatore Ottone III, giunsero a Roma e ivi furono composte nella chiesa di San Bartolomeo nell’isola tiberina; il cranio però nel 1238 fu portato a Francoforte sul Meno e ora è ivi conservato nel duomo di San Bartolomeo. Dopo il decreto della S. Congregazione dei Riti del 28 ottobre 1913, la festa del nostro Apostolo nella Chiesa latina viene celebrata stabilmente il giorno 24 agosto, presso i Greci invece l’11 giugno; gli Orientali ne celebrano la festa e anche la traslazione delle reliquie in altri giorni: gli Armeni l’8 dicembre e il 25 febbraio, i Copti e gli Etiopi il 18 giugno e il 20 novembre, i Giacobiti il 29 agosto. All’Apostolo Bartolomeo è attribuito pure un vangelo apocrifo. Girolamo ne fa menzione nel suo prologo al vangelo di Matteo 21; oggi non se ne hanno che dei frammenti; contiene delle rivelazioni del Risorto intorno alla sua discesa agli inferi, provocate da interrogazioni di Bartolomeo, e inoltre delle spiegazioni di Maria sul mistero dell’Incarnazione; l’originale greco nacque negli ambienti gnostici dell’Egitto nel secolo III e non ha nulla a che fare con l’Apostolo Bartolomeo. Al termine di queste considerazioni torniamo nuovamente al santo Vangelo, a quell’ora d’intimità, nella quale il giovane Natanaele, con occhio scintillante ed entusiastica parola, proclamò per primo pubblicamente nostro Signore Gesù Cristo « Figlio di Dio e Re d’Israele ». Oh, l’amabile figlio di Tholmai, tutto circonfuso di sole, non presagiva allora quali oneri si sarebbe accollato per amore di quel Figlio di Dio! Nelle rappresentazioni dell’arte egli ci si fa incontro vecchio, incanutito e ricurvo; per il Figlio di Dio ha percorso un mezzo mondo e si è stancato; vi alludono le varie notizie, in parte anche contradittorie, intorno alla sua attività apostolica; e lungo i secoli non fu concessa la quiete del sepolcro neppure alle sue morte ossa. Tiene nelle sue mani floscie l’orribile coltello, col quale fu scuoiato; ma fosse morto anche d’un altro genere di morte, resterebbe vero che per il suo Signore si scuoiò lui stesso nell’intimo del suo essere; questo scorticamento infatti fino alle fibre più riposte è richiesto dal Signore stesso, per quanto dentro nell’anima v’è di ribellione al Figlio di Dio: « Se il tuo occhio destro ti alletta al male, strappalo e gettalo via da te! Se la tua mano destra ti alletta al male, troncala e gettala via da te! ». È per questo che il Cristianesimo viene dipinto come l’indeclinabile e cupo no ad ogni gioia; ma uno sguardo ai suoi rappresentanti più autentici riduce al silenzio tutti i detrattori; perchè proprio coloro, che per il Cristo hanno più duramente lavorato e patito, furono gli individui più irradiati dal sole, dei Natanaele senza la falsità d’un portamento pessimistico o d’un ostentato eroismo. Troviamo espressa questa forte e quasi impossibile tensione dello spirito cristiano nelle parole di Paolo: « Siamo ignoti e però ben conosciuti; morenti ed ecco viviamo; castigati e pur non uccisi; addolorati e tuttavia sempre lieti; privi d’ogni possesso, eppure possediamo tutto >. L’ora di Natanaele nel Vangelo ci fornisce la spiegazione di questo singolare mistero di tristezza e di beatitudine nel medesimo uomo: « Vedrai cose maggiori! I Cieli aperti! E gli Angeli di Dio ascendere e discendere sopra il Figlio dell’uomo ».

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (15)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (15)

FRANCESCO OLGIATI:

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo QUINTO (4)

IV. – LE SCONFITTE

Nei fasti della fede cristiana è rimasta memoranda la vittoria della Serbia contro i Turchi nel 1456. Da quattro mesi Belgrado era assediata ed il Sultano ordinò un supremo e disperato attacco. Dopo ventiquattro ore di lotta accanita, i cittadini, stanchi e sfiduciati, stavano per capitolare, quando un umile francescano, alzando un crocifisso, si mise ad incuorare i vacillanti ed a pregare Dio e la Vergine. Alle parole di san Giovanni da Capistrano, gli assediati ritrovarono le loro energie e con impeto irruente sferrarono un nuovo attacco contro i nemici, che furono sbaragliati. Non quattro mesi di assedio, né un giorno di battaglia, ma una vita intera di combattimento noi dobbiamo sostenere. E se sulle labbra nostre e nel cuore torna sempre fresca la parola d’ordine di Sobieski, che a Vienna, nel 1683, gridava ai suoi soldati: « Andiamo incontro al nemico con piena fiducia nella protezione del cielo », è però anche vero che tutti sentiamo le difficoltà del conflitto continuo e talvolta esasperante. Ed ora v’è una battaglia campale da affrontare, ora una minuscola scaramuccia da vincere. Ora è il canto della vittoria che si eleva, ora è la vergogna della sconfitta che ci rattrista. Spesso, in una sola giornata, si uniscono insieme trionfi e disfatte, tentazioni superate e colpe commesse. A queste ultime dobbiamo dedicare una breve riflessione. -“La morale cattolica le chiama « peccati »; la filosofia cristiana le definisce: « Aversio a Deo et conversio ad creatura », un allontanarsi cioè da Dio ed un volgersi alle creature. Noi perciò, le guarderemo come sono in realtà, vale a dire uno schiaffo all’Amore divino in nome dell’amore dei beni perituri e fugaci.

1. – Diversi generi di sconfitte

Per procedere con ordine, converrà distinguere le nostre

L sconfitte morali in tre categorie: i peccati mortali, i peccati veniali, le imperfezioni. Questa distinzione fu apertamente rifiutata da Lutero e da Calvino, per i quali ogni peccato è di sua natura mortale. Ma essi, evidentemente, esagerano. Tutti comprendono quale differenza vi sia tra un figlio che uccide suo padre, un figlio che disubbidisce in una piccola cosa e un altro che, ad un comando improvviso, risponde con uno scatto inavvertito. Non si possono porre sopra un medesimo piano il parricidio, la disubbidienza e la debolezza di un carattere impulsivo, come non possono essere catalogate insieme, quasi fossero eguali, la morte, una malattia ed una leggera indisposizione. – Per portare un paragone, ricorderemo il fatterello gustoso capitato ad un geniale giornalista ed umorista italiano, Luigi Arnaldo Vassallo, detto Gandolin. Un bel dì un autore inedito riescì a bloccarlo e ad infliggergli la lettura di un voluminoso copione. L’autore tartagliava terribilmente. E Gandolin, dopo d’averlo ascoltato un bel po’, lo interruppe: — Questa di far tartagliare tutti i personaggi è davvero una trovata. Io credo che avrà successo. L’altro, sdegnato, rispose: — Lei si sbaglia. Non sono i personaggi che tartagliano, sono io. — Allora mi dispiace, ma non c’è da sperare niente di buono. Ecco. Il peccato veniale può essere appunto paragonato ad una persona balbuziente. Non è la parola scorrevole e piana, è un balbettio; ma il senso di quanto si dice, c’è ancora; c’è ancora, cioè, il significato cristiano in una vita, quantunque lo si esprima tartagliando. Che una persona balbetti, è un male; ma il male è molto peggiore ed essenzialmente diverso, se dovessimo pronunciare parole senza connessione, come avvenne — è un altro umorista che lo assicura — tra due amici che discorrevano così: — Tu sei miope o scemo? — Io sono di Novara. — Allora siamo contemporanei. Ah, voi ridete?! Eppure quante volte la vostra vita cosiddetta cristiana è un succedersi di azioni, che sono così poco organizzabili fra loro, come le parole di questo dialogo curioso!…

2. – Il peccato mortale e il peccato veniale.

Io non mi soffermerò sulle nozioni elementari del catechismo, il quale ci insegna come il peccato mortale sia una violazione della legge morale in cosa grave, fatta con piena avvertenza della mente e con deliberato consenso della volontà, mentre invece il peccato veniale è una violazione della legge morale in cosa leggera, o anche in cosa per sè grave ma senza tutta l’avvertenza o tutto il consenso. La colpa grave si chiama mortale, perché priva l’anima della grazia soprannaturale che è la sua vita, le toglie i meriti e la capacità di acquistarne dei nuovi, e la rende degna della morte eterna nell’inferno. L’altro genere di peccato, poi, si chiama veniale, cioè perdonabile, perché non toglie la grazia e può aversene il perdono col pentimento e con buone opere, anche senza la Confessione sacramentale. – Ciò che in questi lineamenti di etica cristiana importa sottolineare, è il fatto che col peccato mortale noi ci ribelliamo a Dio e calpestiamo il suo Amore, immolandolo al nostro piacere; la colpa grave, in altre parole, è la negazione dell’amore divino. Il peccato veniale certo è un disordine ed un male, al cui confronto tutti gli altri non meritano il nome di mali, perchè è sempre un’offesa a Dio; è dannoso all’anima in quanto la dispone al peccato grave, come la malattia, pur non togliendo la vita, dispone alla morte; ci procura pene temporali in questo e nell’altro mondo; tuttavia non esclude totalmente l’amore di Dio, ma è soltanto un raffreddamento nell’amore. Come il soldato che si facesse disertore non potrebbe più parlare d’amore di patria, mentre, quando commette una leggera infrazione alla disciplina militare, può asserire ancora di amare il suo paese, quantunque non lo ami con tutto il suo cuore e quantunque sbagli; così noi, militi del grande esercito dell’umanità, possiamo ribellarci al nostro Re supremo (peccato mortale) e possiamo venir meno all’amore pieno che Egli giustamente esige da noi (peccato veniale). – In linea pratica, come si distingue la colpa grave dalla veniale? Soggettivamente, è alla nostra coscienza che bisogna rivolgerci, per vedere se, quando facciamo un’azione cattiva, abbiamo la consapevolezza piena che essa era un peccato mortale e ciononostante l’abbiamo liberamente compiuta. – Oggettivamente, esaminando l’azione in se stessa, spesso non è difficile cogliere la gravità o meno d’una colpa. Così. a tutti appare chiaro che sono peccati mortali la bestemmia, l’odio di Dio e del suo Cristo, l’omicidio, la profanazione del coniugio, le abbominazioni che hanno già fatto piovere fuoco sulla terra prevaricata, il furto di una grossa somma e via dicendo. Talvolta è la Scrittura stessa che dichiara grave un peccato. Sempre poi abbiamo la Chiesa, maestra della morale, che ci guida e ci illumina anche in questo campo. – Per giudicare, comunque, un peccato, bisogna considerare l’azione non in astratto, ma nella sua concretezza, tenendo calcolo delle circostanze e delle contingenze fra le quali essa cresce. – Ad esempio, si prenda il precetto della Chiesa, che, sotto pena di peccato mortale, comanda di assistere alla Messa nelle domeniche e nei giorni festivi. Può, a prima vista, sembrar strano che sia una colpa grave perdere una Messa: eppure, se si esamina il precetto nel complesso della vita cristiana, nulla v’è di più chiaro. « La santificazione del giorno del Signore — spiega il Manzoni nella sua Morale Cattolica — è uno di que’ comandamenti che il Signore stesso ha dato all’uomo. Certo, nessun comandamento divino ha bisogno d’apologia; ma non si può a meno di non vedere la bellezza e la convenienza di questo, che consacra specialmente un giorno al dovere più nobile e più stretto, e richiama l’uomo al suo Creatore. « Il povero, curvato verso la terra, depresso dalla fatica, e incerto se questa gli produrrà il sostentamento, costretto non di rado a misurare il suo lavoro con un tempo che gli manca; il ricco, sollecito per lo più della maniera di passarlo senza avvedersene, circondato da quelle cose in cui il mondo predica essere la felicità e, stupito ogni momento di non trovarsi felice, disingannato dagli oggetti da cui sperava un pieno contento, e ansioso dietro agli altri oggetti de’ quali si disingannerà quando li abbia posseduti; l’uomo prostrato dalla sventura, e l’uomo inebbriato da un prospero successo; l’uomo ingolfato negli affari, e l’uomo assorto nelle astrazioni delle scienze; il potente, il privato, tutti insomma troviamo in ogni oggetto un ostacolo a sollevarci alla Divinità, una forza che tende ad attaccarci a quelle cose per cui non siamo creati, a farci dimenticare la nobiltà della nostra origine e l’importanza del nostro fine. E risplende manifesta la sapienza di Dio in quel precetto che ci toglie alle cure mortali per richiamarci al suo culto, ai pensieri del cielo; che impiega tanti giorni dell’uomo indotto nello studio il più alto e il solo necessario; che santifica il riposo del corpo, e lo rende figura di quel riposo d’eterno contento a cui aneliamo e di cui l’anima nostra sente d’esser capace; in quel precetto che ci riunisce in un tempio, dove le comuni miserie e i comuni bisogni, ci fanno sentire che siamo fratelli. – La Chiesa, conservatrice perpetua di questo precetto, prescrive a’ suoi figli la maniera d’adempirlo più ugualmente e più degnamente. E tra i mezzi che ha scelti, poteva mai dimenticare il rito più necessario, il più essenzialmente cristiano, il Sacrificio di Gesù Cristo, quel Sacrificio dove sta tutta la fede, tutta la scienza, tutte le norme, tutte le speranze? Il Cristiano che volontariamente s’astiene in un tal giorno da un tal Sacrificio può mai essere un giusto che viva della fede? Può far vedere più chiaramente la noncuranza del precetto divino della santificazione? Non ha evidentemente nel cuore un’avversione al Cristianesimo? Non ha rinunziato a ciò che la fede rivela di più grande, di più sacro e di più consolante? Non ha rinunziato a Gesù Cristo? Pretendere che la Chiesa non dichiari prevaricatore chi si trova in tali disposizioni, sarebbe un volere che dimenticasse il fine per cui è istituita, che ci lasciasse ricadere nell’aria mortale del gentilesimo ».

3. – Le imperfezioni.

Da non confondersi col peccato sono le nostre imperfezioni, le quali, per la nostra natura corrotta, ci orientanonbensì verso l’umano, distogliendoci dall’amore divino, ma non sono offese formali di Dio, in quanto si riducono ad una semplice trasgressione non colpevole d’un precetto. Quanti difetti e capricci nostri, quante inclinazioni, curiosità, futilità, quante parole precipitate, quante preferenze e noncuranze, non sono peccati veniali, perchè non ce ne accorgiamo neppure mentre agiamo, e tuttavia sono imperfezioni! – I santi, nel loro amore fervido per Dio, cercavano in tutti i modi di vincerle, a poco a poco; e noi non ci meravigliamo se la grande Capitanio lasciò dopo la sua morte fogli e quaderni con i suoi minuziosi esami di coscienza, rivolti a togliere non i peccati, ma le sue imperfezioni; o se un Lacordaire giunse a usare certi metodi, che possono sembrare esagerati a chi non ha nessuna cura della formazione spirituale. Narra il suo biografo, il padre Chocarne, che un giorno il grande oratore manifestò al Priore del suo convento un difetto. « Ogni volta — gli disse — che vengo interrotto nelle mie occupazioni e mi sento bussare l’uscio non so signoreggiarmi in maniera da non provare un moto spontaneo di dispetto. Vorrei pertanto correggermi. Quando voi giudicherete opportuno, a qualunque ora, entrerete nella mia cella senza picchiare; e se scoprirete sul mio volto un segno di malumore, mi darete la disciplina ». « Sì, Padre farò così ». In quel giorno medesimo, per mettere a prova il suo penitente, il Priore entrò bruscamente in camera di Lacordaire. Questi subito si mise in ginocchio dinanzi a lui. « Ma Padre, io non ho veduto nulla ». « Voi non avete visto la mia impazienza, rispose il colpevole scoprendosi le spalle, ma io l’ho sentita ». E il castigo venne dato. Se simili esempi si meditassero, noi non constateremmo nella società attuale certi caratteri, che sono veramente caratteracci, incapaci di dominarsi e nati per rammentare ai disgraziati che li avvicinano come una delle opere di misericordia spirituale è quella di « sopportare pazientemente le persone moleste ». Sovente la infelicità umana proviene da piccolezze, come i più disastrosi incendi derivano da una scintilla.

4. – Il peccato e l’amare.

Se dovessimo ora approfondire il concetto di « peccato » nella morale cristiana, non dovremmo limitarci ad illustrare i punti di vista, dai quali anche in un ordine puramente naturale converrebbe porsi. È certo, ad esempio, che, dal punto di vista di Dio, il peccato è la ribellione alla volontà divina, è la rottura della razionalità, ossia è la negazione di Dio stesso, ed ha una gravità proporzionata alla divinità offesa; dal punto di vista della società, il peccato è turbamento dell’ordine ed ha conseguenze indefinite, che durano anche dopo la colpa commessa; dal punto di vista nastro, il peccato è la distruzione o la diminuzione della nostra dignità e la nostra rovina. Ma se noi partiamo dalla concezione dell’Amore soprannaturale di Dio verso di noi, l’enormità del peccato è ben più manifesta.

1. Noi, per la grazia che Gesù Cristo ci ha meritato, siamo stati elevati alla dignità di figli di Dio. Uniti a Gesù, nostro capo, vivificati dallo Spirito Santo, che esulta nei nostri cuori, possiamo dire con verità al Padre la dolce parola: Padre nostro. Il peccato distrugge questa nostra grandezza. È la ribellione dei figli all’amore del Padre. È il capolavoro dell’Amore infinito, che viene sciupato.

2. Incorporati a Cristo, costituiamo con Lui un unico organismo e, di conseguenza, come vedemmo, non siamo avulsi dagli altri credenti, ma formiamo con essi un unico corpo mistico, dove se il bene di uno è il bene di tutti (dogma della Comunione dei santi), il male di uno si ripercuote su tutti gli altri. Il peccato, in ultima analisi, è una negazione dell’amore del prossimo.

3. Soprattutto poi è un’offesa all’amore di Gesù Cristo per noi.

Noi siamo uniti a Cristo e viviamo della sua vita. Siamo le membra di Cristo. Quando pecchiamo, — è san Paolo che ce lo proclama, — noi profaniamo Gesù Cristo in noi, e delle membra d’un Uomo-Dio facciamo le membra d’un infame. E prosegue l’Apostolo: « Non sapete voi, dunque, che siete il tempio di Dio e che lo Spirito Santo abita in voi? Se qualcuno violerà il tempio di Dio, Dio lo perderà. Poiché santo è il tempio di Dio e questo tempio siete voi ».

4. È forse necessario aggiungere che col peccato veniamo meno anche all’amore che dobbiamo a noi stessi? Vedremo in seguito la sanzione della colpa e le pene del peccato, temporali ed eterne. Si capisce, quindi, l’orrore dell’anima cristiana per la colpa; si comprende come l’elogio più bello di san Giovanni Crisostomo venga riposto non nelle lodi suscitate dalla sua meravigliosa eloquenza, ma dalla parola del cortigiano di Eudossia all’imperatrice adirata contro il Vescovo di Costantinopoli: « Giovanni Crisostomo non teme nulla, eccetto il peccato mortale »; si spiega il grido della Regina Bianca al piccolo figlio Luigi, destinato a diventare poi il santo Re di Francia: « Vorrei vederti piuttosto morire, che reo d’una colpa grave ».

5. – L’esame di coscienza.

Per rimanere fedeli all’amore di Dio e per non lasciarci lusingare dalle insidie nemiche, l’etica cristiana raccomanda la preghiera ed i Sacramenti, che ci fanno forti d’una forza divina e della grazia; consiglia la meditazione, che, facendoci riflettere all’amore di Dio ed al nulla delle cose, ci prepara alla buona battaglia, ci avvezza alla pratica della virtù, alla vittoria delle nostre passioni e delle cattive tendenze, ne mostra le insidie nemiche; soprattutto, per tacer d’altro, insiste molto sull’esame di coscienza. Già la sapienza pagana raccomandava questa pratica. Seneca, nel De ira, esclamava: « Che cosa v’è di più bello dell’abitudine di esaminare alla sera come abbiamo passato l’intero giorno? Che sonno tranquillo, dopo un buon esame di coscienza! ». Nelle sue Lettere a Lucilio soggiungeva: « Se voglio talora divertirmi con la compagnia d’un pazzo, non ho bisogno d’andare lontano; mi metto a ridere in me stesso. Mia moglie ha una pazza, Arpaste, che tutto ad un tratto ha perduto la vista. Cosa incredibile, ma vera, essa non sa d’essere cieca, e ripetutamente dice alla sua guida di portarsi altrove, perché dice che la casa è troppo oscura. Noi ridiamo di questo: eppure ci accade lo stesso. Nessuno riconosce d’essere avaro, cupido. I ciechi però cercano una guida: noi erriamo senza guida e diciamo: Io non sono ambizioso; ma come si fa in Roma a vivere diversamente? Non amo il lusso: ma la città costringe a tali spese… Perché ingannarci? Il male non è fuori di noi, ma dentro, nelle midolla delle nostre ossa. La difficoltà di guarire sta nel fatto che non ci crediamo ammalati ». La sapienza cristiana ha ripreso questo pensiero e l’ha meditato alla luce del soprannatur0ale. Dai Padri della Chiesa a sant’Ignazio di Loyola è un succedersi di raccomandazioni, ed anche di regole, che giovano praticamente a farne l’esame di coscienza con frutto. Né qui è il luogo di diffonderci su questo problema. Diremo soltanto che, forse, nessuno meglio di Massillon, così squisito nell’analisi psicologica, lo ha illustrato. In uno dei suoi Sermons pour l’Avent, egli descrive il giudizio universale; ed, invece di soffermarsi a tratteggiare la scena esteriore, fissa il suo sguardo su « la manifestazione delle coscienze ». Credo che, anche alla Corte di Luigi XIV, coloro che l’hanno ascoltato han provato in quel giorno un tremito salutare di spavento. – Da un lato Cristo, che tanto ci ha amato, ossia « un Salvatore che ci mostrerà le sue piaghe, per rimproverarci la nostra ingratitudine ». Dall’altro le coscienze, ognuna delle quali sarà esaminata. L’esame si estenderà a tutte le diverse età ed a tutte le circostanze della vita. Debolezze dell’infanzia, colpe della giovinezza, ambizioni e trascorsi d’una età più matura, freddezza e indurimento d’una vecchiaia forse ancora voluttuosa, tutta una storia di miserie che si andrà svolgendo dinanzi ai nostri occhi turbati. Non un’azione, un desiderio, un pensiero, una parola, sarà omessa; tutto rivivrà e apparirà nella sua vera fisionomia. Non solo la storia esteriore dei nostri costumi, ma sarà ricordata anche la storia segreta dei nostri cuori, brame vergognose, progetti ridicoli, gelosie basse e segreti; sentimenti vili, che cercavamo forse di nascondere a noi stessi ricoprendoli con veli pietosi, odi e animosità, intenzioni guaste e viziate, tutta questa vicenda di passioni usciranno d’improvviso come da una imboscata, mentre una luce improvvisa illuminerà l’abisso del nostro io e quel mistero d’iniquità che è il cuore umano. E sarà allora che vedremo come ciò che noi conoscevamo meno era noi stessi. All’esame del male che abbiamo fatto succederà quello del bene che abbiamo tralasciato: omissioni infinite, delle quali la vita nostra è stata piena, occasioni di esercitare la virtù tante volte neglette, anime che avremmo potuto formare e salvare e che abbiamo lasciato perire, indolenze, mollezza, indifferenza, lunga serie di giorni perduti e sacrificati all’ozio… E non basta. Saremo esaminati sulle grazie, delle quali abbiamo abusato; ispirazioni sante non raccolte, prediche e buone parole trascurate, dolori non santificati, doni naturali che avrebbero dovuto essere germi di virtù e furono sorgenti di vizio. E questi sono i peccati nostri. Ma l’esame non si fermerà qui. Si estenderà anche ai peccati altrui, che abbiamo causato e occasionato e che, quindi, ci verranno imputati. Ci saranno presentate le anime tutte, alle quali siamo stati causa di caduta o di scandalo; tutte le anime precipitate all’inferno per i nostri esempi, i nostri discorsi, le nostre immodestie; tutte le anime delle quali abbiamo sedotto la debolezza, corrotto l’innocenza, pervertita la fede, scosso la virtù, autorizzato il libertinaggio, confermato l’empietà. Gesù Cristo, al quale appartenevano, ce le richiederà come una conquista preziosa, che gli abbiamo ingiustamente rapito. Egli ci domanderà il prezzo del suo sangue. Non basta ancora. Le stesse nostre virtù, le opere sante compiute, saranno sottoposte ad una simile discussione rigorosa; intenzioni e motivi nascosti, che guastavano l’azione virtuosa; carità e beneficenze fatte per uno scopo d’ambizione; preghiere recitate senza raccoglimento, Sacramenti profanati, atti di pietà sciupati. Comunioni distratte senza preparazione e senza ringraziamento; vane compiacenze di sè e ricerca perenne di noi stessi anche nelle opere di Dio e del bene; il preteso oro che ci si rivelerà falso… E Massillon, dopo una tale descrizione, gridava con sant’Agostino: « Oh, se già in questo momento potessi vedere coi miei occhi lo stato della mia anima!.. ». L’esame di coscienza può realizzare questo voto dell’autore delle Confessioni; e può e deve essere il mezzo di prevenire e di evitare un simile giudizio divino; nè alcuno vi sia, che si disperi dinanzi ad una visione lugubre d’un passato di vergogne e di cadute. La morale cristiana, se da una parte ci invita a scendere nell’abisso delle nostre miserie, dall’altro ci indica nel Cuore di Cristo l’abisso dell’Amore che perdona e redime. Alla storia delle sconfitte si intreccia la storia delle divine misericordie.