UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. PIO XI – “RITE EXPIATIS”.

Questa volta, è una celebrazione di un Santo speciale ad indurre la composizione di questa Enciclica: San Francesco di Assisi. Il Sommo Pontefice ne fa una sapiente descrizione dando preminenza al fatto che questo insigne umilissimo personaggio abbia iniziato la ricostruzione di una Chiesa indebolita e di una società lontana da una pratica evangelica fervida e vivificante. Tra i tanti aspetti, il Santo Padre ne sottolinea uno che di solito viene taciuto di questo Santo poderoso nella sua opera di rivitalizzazione del culto, della morale e della povertà evangelica illanguidita in una civiltà la cui carità veniva sempre più raffreddandosi, e nella quale si infiltrava sempre più il desiderio delle attrattive del mondo e del peccato. Questo elemento è appunto l’attaccamento alla Sede apostolica del Romano Pontefice del Santo serafico e degli Ordini religiosi da lui costituiti. Questo è il vero segreto della santità a Dio gradito come atto di sottomissione – e quindi di amore – alla sua volontà, onde poi praticare le virtù ed i consigli evangelici. Ecco perché il demonio ha attaccato il Trono di Pietro con i suoi occupanti, fino a porvi un suo rappresentante nel tentativo, se mai fosse possibile, di distruggere la Chiesa e la società cristiana da essa modellata. Il paganesimo pratico che così ne è scaturito, imperniato sull’ideologia massonica dell’ecumenismo indifferentista, del culto rosa+croce del signore dell’universo, della messa maya e dell’idolo pachamana, sta minando alla base l’impianto della cristiana fede e della morale bimillenaria della Chiesa, scuotendo e confondendo le anime dei deboli, dei tiepidi, dei falsi e dei colpevoli ignoranti la dottrina. Ma ancora una volta i demoni non praevalebunt sulla vera Chiesa di Cristo, ma semmai solo sugli ipocriti finti cristiani di convenienza e di apparenza. Preghiamo il Santo serafico di Assisi perchè torni a restaurare il suoo Ordine così infangato dalla melma del modernismo, e la Chiesa tutta perchè si rinnovi nella sua bellezza, integrità morale, e luminosità per i popoli tutti dell’umanità.

LETTERA ENCICLICA
RITE EXPIATIS

 DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA, NEL SETTIMO CENTENARIO DELLA MORTE
DI SAN FRANCESCO D’ASSISI

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Il grande Giubileo celebratosi in Roma, e che è stato esteso al mondo intero per tutto il corso di quest’anno, è servito di purificazione delle anime e di richiamo per tanti ad un più perfetto tenore di vita. Ad esso sta ora per aggiungersi, quale compimento dei frutti o già ricavati o sperati dall’Anno Santo, la solenne commemorazione con cui da ogni parte i Cattolici si accingono a celebrare il settimo centenario del felice passaggio di San Francesco di Assisi dall’esilio terreno alla patria celeste. Orbene, avendo l’immediato Nostro predecessore assegnato all’Azione Cattolica quale Patrono questo Santo, donato dalla divina Provvidenza per la riforma non solo della turbolenta età in cui egli visse ma della società cristiana di ogni tempo, è ben giusto che quei Nostri figli, i quali lavorano in tal campo secondo i Nostri ordinamenti, di concerto con la numerosa famiglia francescana procurino di ricordare ed esaltare le opere, le virtù e lo spirito del Serafico Patriarca. In tale opera, rifuggendo da quell’immaginaria figura che del Santo volentieri si formano i fautori degli errori moderni o i seguaci del lusso e delle delicatezze mondane, cercheranno di proporre alla fedele imitazione dei Cristiani quell’ideale di santità che egli in sé ritrasse derivandolo dalla purezza e dalla semplicità della dottrina evangelica. Nostro desiderio dunque è che le feste religiose e civili, le conferenze e i discorsi sacri che si terranno in questo centenario mirino a che si celebri con manifestazioni di vera pietà il Serafico Patriarca, senza farne un uomo né totalmente diverso né soltanto dissimile da come lo formarono i doni di natura e di grazia, dei quali si servì mirabilmente per raggiungere egli stesso e per rendere agevole ai prossimi la più alta perfezione. Che se altri temerariamente paragona tra di loro i celesti eroi della santità, destinati dallo Spirito Santo chi a questa, chi a quella missione presso gli uomini — e tali paragoni, frutto per lo più di passioni partigiane, non riescono di nessun vantaggio e sono ingiuriosi verso Dio, autore della santità — tuttavia sembra potersi affermare non esservi mai stato alcuno in cui brillassero più vive e più somiglianti l’immagine di Gesù Cristo e la forma evangelica di vita che in Francesco. Pertanto, egli che si era chiamato l’« Araldo del Gran Re », giustamente fu salutato quale « un altro Gesù Cristo », per essersi presentato ai contemporanei e ai secoli futuri quasi Cristo redivivo; dal che derivò che come tale egli vive tuttora agli occhi degli uomini e continuerà a vivere per tutte le generazioni avvenire. Né è meraviglia, dato che i primi biografi contemporanei al Santo, narrandone la vita e le opere, lo giudicarono di una nobiltà quasi superiore all’umana natura; mentre quei Nostri predecessori che trattarono familiarmente con Francesco, non dubitarono di riconoscere in lui un aiuto provvidenziale inviato da Dio per la salvezza del popolo cristiano e della Chiesa. E perché, nonostante il lungo tempo trascorso dalla morte del Serafico, si accende di nuovo ardore l’ammirazione, non solo dei Cattolici, ma degli stessi acattolici, se non perché la sua grandezza rifulge alle menti di non minore splendore oggi che nel passato, e perché s’implora con ardente brama la forza della sua virtù, tuttora così efficace a rimediare ai mali della società? Infatti, l’opera sua riformatrice tanto profondamente penetrò nel popolo cristiano che, oltre a ristabilire la purità della fede e dei costumi, fece sì che i dettami della giustizia e della carità evangelica informassero più intimamente e regolassero la stessa vita sociale. – L’imminenza dunque di così grande e felice avvenimento Ci consiglia, servendoci di voi, Venerabili Fratelli, che della Nostra parola siete nunzi ed interpreti, di ridestare nel popolo cristiano quello spirito francescano, che non differisce punto dal modo di sentire e dalla pratica evangelica, richiamando alla memoria, in così opportuna congiuntura di tempo, gl’insegnamenti e gli esempi della vita del Patriarca d’Assisi. Ci piace così entrare come in gara di devozione coi Nostri predecessori, i quali non si lasciarono mai sfuggire nessuna commemorazione centenaria dei principali fasti della sua vita, senza proporne la celebrazione ai fedeli illustrandola con l’autorità del magistero apostolico. A questo proposito ben volentieri ricordiamo — e con Noi ricorderanno certo quanti sono ormai innanzi cogli anni — l’ardore acceso nei fedeli di tutto il mondo verso San Francesco e l’opera sua dall’Enciclica « Auspicato » scritta da Leone XIII quarantaquattr’anni fa, nella ricorrenza del settimo centenario della nascita del Santo; e come allora l’ardore concepito si manifestò in molteplici dimostrazioni di pietà e in una felice rinnovazione di vita spirituale, così non vediamo perché ugual esito non debba coronare la prossima celebrazione ugualmente importante. Anzi, le presenti condizioni del popolo cristiano lasciano sperare assai di più. Per una parte, infatti, nessuno ignora che oggi i valori spirituali sono dalla massa meglio apprezzati e che i popoli, ammaestrati dall’esperienza del passato a non dover attendersi pace e sicurezza se non tornando a Dio, guardano ormai alla Chiesa cattolica come ad unica sorgente di salvezza. D’altra parte, l’estensione a tutto il mondo dell’Indulgenza Giubilare coincide felicemente con questa commemorazione centenaria, che non può andare disgiunta dallo spirito di penitenza e di carità. – Sono ben note, Venerabili Fratelli, le aspre difficoltà dei tempi in cui ebbe a vivere Francesco. È verissimo che allora la fede era più profondamente radicata nel popolo, come testimonia il sacro entusiasmo con cui non solo i soldati di professione, ma gli stessi cittadini di ogni classe portarono le armi in Palestina per liberare il Santo Sepolcro. Tuttavia nel campo del Signore si erano man mano infiltrate e serpeggiavano eresie, propagate o da eretici manifesti o da occulti ingannatori, i quali, ostentando austerità di vita e una fallace apparenza di virtù e disciplina, facilmente trascinavano le anime deboli e semplici; pertanto si andavano spargendo tra le moltitudini perniciose faville di ribellione. E se alcuni si credettero, nella loro superbia, chiamati da Dio a riformare la Chiesa, alla quale imputavano le colpe dei privati, a non lungo andare, ribellandosi all’insegnamento e all’autorità della Santa Sede, manifestarono apertamente da quali intenti fossero animati; ed è notorio che la maggior parte di costoro ben presto finirono nella libidine e nella lussuria e persino nel turbamento dello Stato, scuotendo i fondamenti della religione, della proprietà, della famiglia e della società. In una parola, avvenne allora ciò che spesso si vide qua e là nel corso dei secoli; cioè, la ribellione mossa contro la Chiesa andava di pari passo con la ribellione contro lo Stato, aiutandosi a vicenda. Ma quantunque la fede cattolica vivesse nei cuori o intatta o non del tutto oscurata, venendo però meno lo spirito evangelico la carità di Cristo si era tanto intiepidita nella società umana da parere quasi estinta. Infatti, per tacere delle lotte impegnate, da una parte dai fautori dell’Impero, dall’altra dai fautori della Chiesa, le città italiane erano lacerate da guerre intestine, o perché le une volessero reggersi liberamente da sé sottraendosi alla signoria d’un solo, o perché le più forti volessero sottomettere a sé le più deboli, o per le lotte di supremazia tra i partiti di una stessa città; di tali contese erano frutto amaro stragi orrende, incendi, devastazioni e saccheggi, esilii, confische di beni e di patrimoni. Iniqua era poi la sorte di moltissimi, mentre tra signori e vassalli, tra maggiori e minori, come si diceva, tra padroni e coloni, correvano relazioni troppo aliene da ogni senso di umanità, e il popolo imbelle veniva impunemente vessato e oppresso dai potenti. Coloro poi che non appartenevano alla più misera categoria dei plebei, lasciandosi trasportare dall’egoismo e dall’avidità di possedere, erano stimolati da un’insaziabile ingordigia di ricchezze; senza badare alle leggi qua e là promulgate contro il lusso, facevano ostentatamente pompa di un pazzo splendore di abiti, di banchetti e di festini di ogni genere; povertà e poveri disprezzati; i lebbrosi, allora così frequenti, aborriti e trascurati nella loro segregazione; e ciò ch’è peggio, da tanta avidità di beni e di piaceri non andavano nemmeno esenti — benché molti del clero fossero commendevoli per austerità di vita — coloro che più scrupolosamente avrebbero dovuto guardarsene. Era perciò invalso l’uso di accaparrarsi e di ammucchiare ciascuno grandi e lauti guadagni da qualunque parte si potesse; non solo dunque con l’estorsione violenta del danaro o con l’esosità dell’usura, ma molti aumentavano ed impinguavano il patrimonio col mercimonio delle cariche pubbliche, degli onori, dell’amministrazione della giustizia e persino dell’impunità procurata ai colpevoli. La Chiesa non tacque, né risparmiò le punizioni; ma con qual giovamento, se perfino gli Imperatori, con pubblico cattivo esempio, si attiravano gli anatemi della Santa Sede e contumaci li disprezzavano? Anche l’istituzione monastica, che pure aveva condotto a maturità tanto lieti frutti, offuscata ora di polvere mondana, non era più così in grado di resistenza e di difesa; e se il sorgere di nuovi Ordini religiosi arrecò un po’ di aiuto e di forza alla disciplina ecclesiastica, occorreva però molto più fervida fiamma di luce e di carità per riformare la travagliata società umana. – Orbene, ad illuminare siffatta società e a ricondurla al puro ideale della sapienza evangelica, ecco apparire per divino consiglio San Francesco di Assisi, il quale, come cantò l’Alighieri, rifulse qual Sole, o come aveva già scritto, servendosi di simile figura, Tommaso da Celano, « brillò come fulgida stella nella notte caliginosa e quasi mattino che si distende sulle tenebre ». – Giovane d’indole esuberante e fervida, amante del lusso nel vestire, usava invitare a splendidi banchetti gli amici che si era scelto tra i giovani eleganti ed allegri e girava per le strade lietamente cantando, pur allora però facendosi notare per integrità di costumi, castigatezza nel conversare e disprezzo delle ricchezze. Dopo la prigionia di Perugia e le noie di una malattia, sentendosi non senza meraviglia intimamente trasformato, tuttavia, come se volesse sfuggire dalle mani di Dio, andò nella Puglia per compiervi imprese di valore. Ma durante il cammino, da un chiaro comando divino si sentì ordinare di ritornarsene ad Assisi per apprendere che cosa dovesse poi fare. Indi, dopo molti ondeggiamenti di dubbio, per divina ispirazione e per aver inteso alla messa solenne quel passo evangelico che riguarda la missione e il genere di vita apostolico, comprese di dover vivere e servire a Cristo « secondo la forma del Santo Vangelo ». Fin d’allora pertanto cominciò a congiungersi strettamente a Cristo e a renderglisi simile in tutto; e « tutto il suo impegno, sia pubblico sia privato, si rivolse alla croce del Signore; e fin dai primi tempi in cui cominciò a militare per Cristo, rifulsero intorno a lui i diversi misteri della croce ». E veramente egli fu buon soldato e cavaliere di Cristo per nobiltà e generosità di cuore; tanto che per non discordare in nulla, né egli né i suoi discepoli, dal suo Signore, oltre che ricorrere come ad oracolo al libro dei Vangeli quando doveva prendere una deliberazione, diligentemente conformò la legislazione degli Ordini da lui fondati con lo stesso Vangelo e la vita religiosa dei suoi con la vita apostolica. Perciò in fronte alla Regola giustamente scrisse: «Questa è la vita e la regola dei frati Minori, di osservare cioè il santo Vangelo di nostro Signor Gesù Cristo». Ma per stringere più dappresso l’argomento, vediamo con quale preclaro esercizio di virtù perfette si apparecchiasse Francesco a servire ai consigli della misericordia divina e a rendersi strumento idoneo della riforma della società. – Anzitutto, se non è difficile immaginare con la mente, crediamo impresa assai ardua descrivere a parole di quale amore avvampasse per la povertà evangelica. Nessuno ignora com’egli fosse per indole portato a soccorrere i poveri, e come, al dire di San Bonaventura, fosse pieno di tanta benignità, che « non sordo uditore del Vangelo » aveva stabilito di non mai negare soccorso ai poveri, massime se questi nel chiedere « allegassero l’amor di Dio»; ma la grazia spinse al culmine della perfezione la natura. Pertanto, avendo una volta respinto un povero, subito pentitosene, per intimo impulso divino si diede tosto a ricercarlo e ad alleviarne la miseria con ogni bontà ed abbondanza; un’altra volta, andandosene con una comitiva di giovani dopo un allegro convito cantando per la città, all’improvviso si fermò come attratto fuori di sé da una soavissima dolcezza spirituale, e tornato in se stesso ai compagni che l’interrogavano se allora avesse pensato a prender moglie, subito rispose con calore che avevano indovinato, perché egli veramente si proponeva di condurre una sposa, di cui non si troverebbe altra o più nobile o più ricca o più bella; intendendo con tali parole o la povertà o una religione che poggiasse specialmente sulla professione della povertà. Egli infatti da Cristo Signore, che si fece povero per noi, pur essendo ricco, affinché noi divenissimo ricchi della sua povertà, apprese quella divina sapienza, che non potrà mai essere cancellata dai sofismi della sapienza umana, e che sola può santamente rinnovare e restaurare tutto. Certo Gesù aveva detto: « Beati i poveri in spirito ». « Se vuoi essere perfetto, va, vendi quanto hai e donalo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi ». Siffatta povertà che consiste nella rinuncia volontaria di ogni cosa, fatta per amore e per ispirazione divina e che è del tutto contraria alla povertà forzata, arcigna e affettata di alcuni filosofi antichi, fu da Francesco abbracciata con tanto affetto, che la chiamava con riverente amore signora, madre e sposa. In proposito scrive San Bonaventura: «Nessuno fu mai così avido dell’oro com’egli della povertà, né più geloso nella custodia di un tesoro quanto egli di questa perla evangelica ». E lo stesso Francesco, raccomandando e prescrivendo ai suoi nella Regola dell’Ordine il particolare esercizio di questa virtù, manifesta la stima ch’egli ne aveva e quanto la amasse con queste chiarissime parole: «Questa è la sublimità dell’altissima povertà che costituisce voi carissimi fratelli miei, eredi e re del regno dei cieli; vi fece poveri di cose, vi sublimò di virtù. Questa sia la vostra porzione, a cui aderendo totalmente, null’altro vogliate avere in eterno sotto il cielo per il nome del Signor nostro Gesù Cristo ». La ragione per cui Francesco amò particolarmente la povertà, fu perché la considerava come familiare della Madre di Dio, e perché Gesù Cristo sul legno della croce, più che familiare, se la scelse a sposa, benché poi dagli uomini fosse dimenticata e riuscisse al mondo troppo amara ed importuna. Al che spesso ripensando, soleva prorompere in gemiti e lacrime. Orbene, chi non si commuoverà a questo insigne spettacolo di un uomo, che tanto s’innamorò della povertà da parere agli antichi compagni di divertimento e a molti altri uscito di senno? Che dire poi dei posteri, i quali, anche se lontanissimi dall’intelligenza e dalla pratica della perfezione evangelica, furono compresi per sì ardente amante della povertà di un’ammirazione, che ognora aumentando riesce ancora a colpire gli uomini dell’età nostra? Questo senso di ammirazione dei posteri precorse l’Alighieri con quel canto dello sposalizio tra Francesco e la Povertà, dove non sapresti se più ammirare la grandiosa sublimità delle idee o la dolcezza e l’eleganza del verso. – Ma l’alto concetto e il generoso amore che della povertà nutrivano la mente e il cuore di Francesco, non potevano restringersi soltanto alla rinunzia dei beni esterni. Chi infatti riuscirebbe ad acquistare, sull’empio del Signor nostro Gesù, la vera povertà, se non si facesse povero in ispirito e piccolo per mezzo della virtù dell’umiltà? Ciò ben comprendendo Francesco, non disgiungendo mai l’una dall’altra virtù, ambedue così insieme calorosamente saluta: « Santa Signora povertà, il Signore ti salvi con la sorella santa umiltà… La santa povertà confonde ogni cupidigia e avarizia e ansietà di questo secolo. La santa umiltà confonde la superbia e tutti gli uomini di questo mondo e le cose tutte che sono nel mondo ». – Così per dipingere Francesco in una parola, l’autore dell’aureo libro «Dell’Imitazione di Cristo », lo chiama « l’umile ». «Quale è ciascuno innanzi ai tuoi occhi (o Signore), tanto vale e non più, dice l’umile San Francesco ». Egli ebbe infatti soprattutto a cuore di comportarsi con umiltà, come il minimo e ultimo di tutti. Perciò, fin dal principio della sua conversione, desiderava con ardore di essere schernito e deriso da tutti; e poi, sebbene fondatore, legislatore e Padre dei Frati Minori, si prendeva qualcuno dei suoi per superiore e padrone, da cui dipendere; indi, appena fu possibile, senza lasciarsi piegare da preghiere e da pianti dei suoi, volle deporre il governo supremo dell’Ordine « per osservare la virtù della santa umiltà » e restare « quindi innanzi suddito fino alla morte, vivendo più umilmente che qualsiasi altro »; offertagli spesso da Cardinali e da magnati ospitalità generosa e splendidissima, la ricusava recisamente; mentre agli altri mostrava maggiore stima e rendeva ogni onore, metteva se stesso in dispregio fra i peccatori, facendosi come uno di loro. Si credeva infatti il più grande peccatore, usando dire che se la misericordia usatagli da Dio fosse stata fatta a qualche altro scellerato, questi sarebbe riuscito migliore dieci volte tanto, e a Dio solo doversi quindi attribuire, perché da Dio unicamente derivato, quanto si trovava in lui di bello e di buono. Per questa ragione occultava con ogni studio i privilegi e carismi che potevano procacciargli la stima e la lode degli uomini, e anzitutto le stimmate del Signore impresse nel suo corpo; e se talora in privato o in pubblico veniva lodato, non solo si reputava e protestava degno di disprezzo e vituperio, ma se ne contristava, tra sospiri e lamenti, con incredibile rammarico. – Che dire poi dell’essersi stimato tanto indegno da non volere ordinarsi sacerdote? Su questo medesimo fondamento dell’umiltà egli volle che si appoggiasse e consolidasse l’Ordine dei Minori. E se con esortazioni di una sapienza meravigliosa ammaestrava ripetutamente i suoi come non potessero gloriarsi di nulla, e molto meno delle virtù e grazie celesti, ammoniva soprattutto, e secondo l’opportunità rimproverava quei frati che per i loro officii andavano esposti al pericolo di vanagloria e di superbia, come i predicatori, i letterati, i filosofi, i superiori dei conventi e delle province. Sarebbe lungo scendere ai particolari, ma basti questo solo: San Francesco dagli esempi e dalle parole di Cristo derivò l’umiltà nei suoi, quale distintivo proprio dell’Ordine; volle infatti che i suoi fossero chiamati « minori », e « ministri » fossero detti tutti i prelati del suo Ordine, e « ciò per usare il linguaggio del vangelo ch’egli aveva promesso di osservare, sia perché suoi discepoli dallo stesso nome capissero di essere venuti alla scuola dell’umile Cristo per imparare l’umiltà ». – Abbiamo veduto come il Serafico per l’ideale stesso che aveva in mente della povertà più perfetta, si faceva tanto piccolo ed umile da ubbidire con semplicità di bambino ad un altro o meglio, possiamo aggiungere, a quasi tutti, perché chi non rinnega se stesso e non rinunzia alla propria volontà, certo non può dirsi o che si sia spogliato di tutte le cose, o che possa divenire umile di cuore. San Francesco, pertanto, col voto di obbedienza consacrò di buon animo e sottomise interamente al Vicario di Gesù Cristo la libertà della volontà, questo dono sopra tutti eminente da Dio conferito alla natura umana. Oh, quando male fanno e quanto vanno lungi dalla cognizione dell’Assisiate coloro che, per servire alle loro fantasie ed errori, s’immaginano, (cosa incredibile!) un Francesco intollerante della disciplina della Chiesa, noncurante degli stessi dogmi della Fede, precursore anzi e banditore di quella molteplice e falsa libertà, che si cominciò ad esaltare sul principio dell’età moderna, e tanto disturbo recò alla Chiesa ed alla società civile. Ora, con quanta intimità aderisse alla gerarchia della Chiesa, a questa Sede Apostolica e agli insegnamenti di Cristo, il banditore del gran Re può bene insegnare nei suoi mirabili esempi ai Cattolici ed agli acattolici tutti. Consta infatti dai documenti storici di quell’età, i più degni di fede, che egli « venerava i sacerdoti e con estremo affetto abbracciava tutto l’Ordine ecclesiastico »; da « uomo cattolico e tutto apostolico » insisteva principalmente, nella sua predicazione, « che si mantenesse inviolabile la fedeltà alla Chiesa, e per la dignità del Sacramento del Signore, che si compie per ministero dei sacerdoti, si tenesse in riverenza somma l’ordine sacerdotale. E parimenti insegnava doversi in gran maniera riverire i maestri della legge divina e tutti gli ordini del Clero ». E ciò che insegnava dal pulpito al popolo, inculcava molto più caldamente ai suoi frati, cui soleva anche avvisare di tempo in tempo — come nel suo famoso testamento e in punto di morte li ammonì con gran forza — che nell’esercizio del sacro ministero obbedissero umilmente ai prelati ed al clero, e si portassero con essi quali figliuoli della pace. – Ma il punto più capitale in questo argomento è che appena il Serafico Patriarca ebbe formata e scritta la Regola propria del suo Ordine, non indugiò un istante a presentarla personalmente, con i primi undici discepoli, ad Innocenzo III perché l’approvasse. E quel Pontefice d’immortale memoria, mirabilmente commosso dalle parole e dalla presenza dell’umilissimo Poverello divinamente ispirato, abbracciò con grande amore Francesco, sancì con l’autorità apostolica la Regola da lui presentata ed ai nuovi operai diede inoltre la facoltà di predicare la penitenza. A questa Regola poi di poco ritoccata, come ci attesta la storia, Onorio III aggiunse nuova conferma su preghiera di Francesco. Il Serafico Padre volle che la Regola e la vita dei Frati Minori fosse questa: osservare « il santo Vangelo del Signor Nostro Gesù Cristo vivendo in obbedienza, senza cosa propria e in castità », né già a capriccio proprio o secondo una propria interpretazione, ma al cenno dei Romani Pontefici, canonicamente eletti. Quanti poi anelano a « ricevere questa vita… siano esaminati diligentemente dai Ministri intorno alla fede cattolica ed ai sacramenti della Chiesa, e se credono tutte queste cose e intendono confessarle e osservarle fermamente sino alla fine; coloro poi che siano incorporati nell’Ordine, non se ne allontanino per nessun conto « secondo il mandato del Signor Papa ». Ai chierici si prescrive che celebrino i divini offici, « secondo l’Ordine della Chiesa Romana »; ai frati in generale, che non predichino nel territorio di un Vescovo senza suo comando, e non entrino, anche per causa di ministero, nei conventi delle religiose senza facoltà speciale dell’Apostolica Sede. Né minore riverenza e docilità verso la Sede Apostolica ci mostrano le parole che usa Francesco nel prescrivere che si domandi un Cardinale protettore: « Per obbedienza ingiungo ai Ministri che domandino al Signor Papa qualcuno dei Cardinali della Santa Chiesa Romana che sia guida, protettore e correttore di questa Fratellanza; affinché, sempre subordinati e soggetti ai piedi della stessa Santa Chiesa Romana, stabili nella fede cattolica, osserviamo il santo Vangelo del Signor nostro Gesù Cristo ». – Ma non si può tacere di quella « bellezza e mondezza di onestà » che il Serafico « singolarmente amava », cioè di quella castità di anima e di corpo che egli custodiva e difendeva con l’asperrima macerazione di se stesso. E l’abbiamo pure veduto giovane, festoso ed elegante, aborrire da qualsiasi bruttura anche di parole. Ma quando poi rigettò i vani piaceri del secolo, cominciò tosto a reprimere con ogni rigore i sensi, e se mai gli accadeva di sentirsi agitato da moti sensuali, egli non esitava o a ravvolgersi fra gli spinosi roveti, o ad immergersi nelle gelide acque del più crudo inverno. – È, infatti, noto che il nostro Santo, studiandosi di richiamare gli uomini a conformare la loro vita agli insegnamenti del Vangelo, soleva esortare tutti « ad amare e temere Dio ed a far penitenza dei proprii peccati », ed a tutti si faceva predicatore di penitenza col suo stesso esempio. Infatti cingeva alle carni un cilicio, vestiva una povera e ruvida tonaca, andava a piedi nudi, prendeva riposo appoggiando il capo a una pietra o ad un tronco, si nutriva quel tanto solo che bastasse a non morire d’inedia, e al suo cibo mescolava acqua e cenere per togliergli ogni gusto; anzi, passava quasi interamente digiuno la maggior parte dell’anno. Inoltre, sia che fosse sano o infermo, trattava con dura asprezza il suo corpo, ch’egli soleva paragonare ad un asinello; e non s’indusse a concedere al suo corpo qualche sollievo o riposo, neanche quando, negli ultimi anni della sua vita, fatto a Cristo similissimo per le Stimmate, quasi inchiodato alla Croce, era tormentato da molte infermità. Né trascurò di avvezzare i suoi all’austerità ed alla penitenza, benché — ed in ciò soltanto « la lingua fu diversa dall’opera del santissimo patriarca » — li ammonisse di moderare l’eccessiva astinenza e afflizione del corpo. – Chi non vede quanto manifestamente tutto ciò procedesse dal medesimo fonte della carità divina? Infatti, come scrive Tommaso da Celano, « ardendo sempre di amore divino, bramava di dar mano ad opere forti, e camminando di gran cuore nella via dei comandamenti divini, anelava a raggiungere la somma perfezione ». Secondo la testimonianza di San Bonaventura, « tutto quanto… quasi brace ardente, sembrava consumarsi nella fiamma dell’amore divino »; onde vi erano taluni che si scioglievano in lacrime « vedendolo sì rapidamente levato a tanta ebbrezza di divino amore ». E siffatto amore di Dio si effondeva talmente verso il prossimo, che egli, vincendo se stesso, abbracciava con particolare tenerezza i poveri, e tra essi i più miseri, i lebbrosi, dai quali aveva tanto aborrito nella sua giovinezza; e dedicò ed obbligò tutto se stesso e i suoi alle loro cure e al loro servizio. Né minor carità fraterna volle regnasse tra i suoi discepoli: onde la francescana famiglia sorse come « un nobile edificio di carità, nel quale pietre vive, radunate da ogni parte del mondo, vengono edificate in abitacolo dello Spirito Santo ». – Ci è piaciuto, Venerabili Fratelli, trattenervi alquanto più a lungo nella contemplazione di queste altissime virtù, appunto perché, nei nostri tempi, molti, infetti dalla peste del laicismo, hanno l’abitudine di spogliare i nostri eroi della genuina luce e gloria della santità, per abbassarli ad una specie di naturale eccellenza e professione di vuota religiosità, lodandoli e magnificandoli soltanto come assai benemeriti del progresso nelle scienze e nelle arti, delle opere di beneficenza, della patria e del genere umano. Non cessiamo perciò dal meravigliarci come una tale ammirazione per San Francesco, così dimezzato e anzi contraffatto, possa giovare ai suoi moderni amatori, i quali agognano alle ricchezze e alle delizie, o azzimati e profumati frequentano le piazze, le danze e gli spettacoli o si avvolgono nel fango delle voluttà, o ignorano o rigettano le leggi di Cristo e della Chiesa. Molto a proposito cade qui quell’ammonimento: « A chi piace il merito del Santo, deve altresì piacere l’ossequio e il culto a Dio. Perciò, imiti quel che loda, o non lodi quella che non vuole imitare. Chi ammira i meriti dei Santi, deve egli stesso segnalarsi nella santità della vita ». Pertanto Francesco, agguerrito dalle forti virtù che abbiamo ricordate, è provvidenzialmente chiamato all’opera di riforma e di salvezza dei suoi contemporanei e di aiuto per la Chiesa universale. – Nella chiesa di San Damiano, dove era solito pregare con gemiti e sospiri, per tre volte aveva udito scendere dal cielo una voce: «Va’, Francesco, restaura la mia casa che cade. Egli, per quella profonda umiltà che lo faceva credere a se stesso incapace di compiere qualsiasi opera grandiosa, non ne comprese l’arcano significato; ma bene lo scoprì Innocenzo III chiaramente argomentando quale fosse il disegno del misericordiosissimo Iddio da una visione miracolosa in cui gli si presentò Francesco in atto di sostenere con le sue spalle il tempio cadente del Laterano. Il Serafico Santo, dunque, fondati due Ordini, uno per uomini, l’altro per donne, aspiranti alla perfezione evangelica, prese a percorrere rapidamente le città italiane, annunziando, o da se stesso o per mezzo dei primi discepoli che si era associati, e predicando al popolo la penitenza, in un modo di dire breve e infocato, raccogliendo da tal ministero, e con la parola e con l’esempio, frutti incredibili. In tutti i luoghi ove egli si recava a compiervi Ministeri apostolici, si facevano incontro a Francesco il clero e il popolo, processionalmente, tra suoni di campane e canti popolari, agitando in aria rami di olivo. Persone di ogni età, sesso e condizione gli si affollavano attorno, e assiepavano di giorno e di notte la casa ove abitava, per vederlo uscire, toccarlo, parlargli, ascoltarlo. Nessuno, per quanto invecchiato in una continua consuetudine di vizi e di peccato, poteva resistere alla sua predicazione. Quindi moltissime persone, anche di età matura, abbandonavano a gara tutti i beni terreni per amore della vita evangelica, e interi popoli d’Italia, rinnovati nei costumi, si ponevano sotto la direzione di Francesco. Anzi, era cresciuto a dismisura il numero dei suoi figliuoli, e tale era l’entusiasmo di seguire le sue orme suscitato ovunque, che lo stesso Serafico Patriarca spesso era costretto a dissuadere e a stornare dal proposito di lasciare il secolo uomini e donne già disposti anche a rinunziare all’unione coniugale e alla convivenza domestica. Intanto il desiderio che principalmente animava quei nuovi predicatori di penitenza era di ricondurre la pace fra individui, famiglie, città e terre, sconvolte e insanguinate da discordie interminabili. E si deve attribuire alla virtù sovrumana dell’eloquenza di quegli uomini rozzi, se ad Assisi, ad Arezzo, a Bologna e in tante altre città e terre si poté efficacemente provvedere ad una generale pacificazione, confermata talvolta con solenni convenzioni. A tale opera di generale pacificazione e riforma molto giovò il Terz’Ordine: istituzione che, con esempio nuovo fino allora, mentre ha lo spirito di Ordine religioso, non ha obbligo di voti, e si propone di somministrare a tutti, uomini e donne anche viventi nel secolo, i mezzi non solo di osservare la legge di Dio, ma di raggiungere la perfezione cristiana. Le Regole del nuovo sodalizio si riducono ai seguenti capi: Non accettare se non persone di schietta fede cattolica, e pienamente ossequenti alla Chiesa; modo di accettare nell’Ordine i candidati dell’uno e dell’altro sesso; ammissione alla professione, compiuto l’anno di noviziato, previo il consenso della moglie per il marito e del marito per la moglie; rispetto dell’onestà e della povertà nell’uso degli abiti, e modestia degli abbigliamenti muliebri; che i Terziari si astengano dai conviti, dagli spettacoli immodesti e dai balli; astinenza e digiuno; confessione da farsi tre volte l’anno, e altrettante la comunione, avendo cura di porsi in pace con tutti e di restituire la roba altrui; non indossare le armi se non in difesa della Chiesa Romana, della fede cristiana, e della propria patria, oppure con il consenso dei propri ministri; recita delle ore canoniche ed altre preci; dovere di dettare il legittimo testamento prima che scada un trimestre dall’entrata nell’Ordine; ricondurre quanto più presto si può la pace dei confratelli fra loro o con esterni, ove fosse turbata; che fare nel caso che i diritti o i privilegi del sodalizio fossero impugnati o violati; non prestar giuramento se non per urgente necessità riconosciuta dalla Sede Apostolica. Alle norme riferite se ne aggiungono altre di non minore importanza sul dovere di ascoltare la messa, sulle adunanze da convocare in tempi determinati, sulle sovvenzioni da prestarsi da ciascuno secondo le proprie forze in aiuto dei poveri e specialmente degli infermi e per tributare gli estremi offici ai soci defunti, sul modo di farsi scambievoli visite in caso di malattia, od anche di riprendere e ricondurre sulla buona via coloro che cadono e sono ostinati nel peccato, sul dovere di non ricusare gli uffici e i ministeri che vengono assegnati, e non adempierli trascuratamente; sulla risoluzione delle liti. – Ci siamo trattenuti su queste cose partitamente, affinché si veda come Francesco, sia col vittorioso apostolato suo e dei suoi, sia con l’istituzione del Terz’Ordine, gettò le fondamenta di un rinnovamento sociale operato radicalmente in conformità dello spirito evangelico. Omettendo pure ciò che riguarda, in tali Regole, il culto e la formazione spirituale che pure sono di primaria importanza, ognuno vede come dalle altre prescrizioni dovesse risultare tale ordinamento di vita privata e pubblica da formare del civile consorzio non soltanto una specie di convivenza fraterna, consolidata dalla pratica della perfezione cristiana, ma anche uno scudo al diritto dei miseri e dei deboli contro gli abusi dei ricchi e dei potenti, senza pregiudizio dell’ordine e della giustizia. Dalla consociazione infatti dei Terziari col clero, necessariamente risultava la felice conseguenza che i nuovi soci venivano a partecipare delle medesime esenzioni e immunità delle quali questo godeva. Così fin d’allora i Terziari non prestarono più il così detto solenne giuramento di vassallaggio, né venivano chiamati ai servizi militari o di guerra, né indossavano armi, perché essi alla legge feudale opponevano la regola del Terz’Ordine, alla condizione servile l’acquisita libertà. Ed essendo perciò molto vessati da chi aveva tutto l’interesse a far sì che le cose tornassero alle condizioni di prima, essi ebbero a loro difensori e patroni i Pontefici Onorio III e Gregorio IX, i quali sventarono quegli ostili attentati, anche comminando severe pene. Da qui quell’impulso di una salutare riforma dell’umana società; da qui la vasta espansione e l’incremento preso fra le nazioni cristiane dalla novella istituzione che aveva Francesco quale Padre e istitutore, ed insieme con lo spirito di penitenza il rifiorire dell’innocenza della vita; da qui quell’ardente fervore, onde fu dato vedere, non solo Pontefici, Cardinali e Vescovi, ricevere le insegne del Terz’Ordine, ma anche re e prìncipi, fra cui alcuni anche saliti in gloria di santità, i quali con lo spirito francescano s’imbevevano della evangelica sapienza; da qui le più elette virtù ritornate in pregio ed onore presso la società civile; da qui in una parola il mutarsi « la faccia della terra ». – Senonché Francesco « uomo cattolico e tutto apostolico », come attendeva in modo mirabile alla riforma dei fedeli, così si adoperava personalmente ed ordinava ai suoi discepoli di impiegarsi con alacrità alla conversione degli infedeli alla fede e alla legge di Cristo. Non occorre con molte parole rammentare una cosa a tutti ben nota, come cioè il Nostro, mosso dall’ardente brama di propagare il Vangelo e sostenere il martirio, non esitasse a recarsi in Egitto ed ivi comparire, animoso e ardito, alla presenza del Sultano. E nei fasti della Chiesa non sono registrati con parole di sommo onore quei numerosi banditori del Vangelo i quali sin dai primordi, e per così dire nella primavera dell’Ordine minoritico, trovarono il martirio in Siria e nel Marocco? Tale apostolato nel corso dei tempi fu poi dalla molteplice famiglia francescana proseguito con tanto zelo, e non senza largo spargimento di sangue, che sono moltissime le regioni d’infedeli le quali, per disposizione dei Romani Pontefici, si trovano affidate alle loro cure. – Nessuno vorrà quindi meravigliarsi che, per tutto il passato periodo di ben settecento anni, la memoria dei tanti benefizi da lui derivati né in alcun tempo né in alcun luogo si sia mai potuta cancellare. Anzi, vediamo come la vita e l’opera di lui, la quale non da lingua umana, ma, come scrive l’Alighieri, « meglio in gloria del ciel si canterebbe », di secolo in secolo si è imposta e tramandata al culto ed all’ammirazione in modo che egli non solo grandeggia alla luce del mondo cattolico per l’insigne gloria della santità, ma splende anche con un certo culto e gloria civile onde il nome di Assisi è divenuto familiare ai popoli di tutto il mondo. Era passato infatti poco tempo dalla sua morte, che presero a sorgere in ogni parte, per voto di popolo, chiese dedicate in onore del Serafico Padre, mirabili per magistero di architettura e di arte; e fra i più insigni artefici fu come una gara a chi fra loro riuscisse a ritrarre con maggior perfezione e bellezza l’immagine e le gesta di Francesco in pittura, in scultura, in intaglio, in mosaico. Così a Santa Maria degli Angeli, in quella pianura, dalla quale Francesco « povero ed umile entrò ricco nel cielo », come al luogo del sepolcro glorioso, sul colle di Assisi, concorrono, e d’ogni parte affluiscono pellegrini, quando alla spicciolata, quando a schiere, per ravvivare insieme, a vantaggio dell’anima, la memoria di un così gran Santo, ed insieme ammirare quegli immortali monumenti di arte. Inoltre, a cantare l’Assisiate sorse, come abbiamo veduto, un lodatore che non ha pari, Dante Alighieri, e dopo di lui non mancarono altri che illustrarono le lettere in Italia e altrove, esaltando la grandezza del Santo. Ma specialmente ai nostri giorni, studiati più a fondo dagli eruditi gli argomenti francescani e moltiplicate in gran numero le opere a stampa in varie lingue, e ridestati gl’ingegni dei competenti a compiere lavori ed opere artistiche di gran pregio, l’ammirazione verso San Francesco divenne fra i contemporanei smisurata, quantunque non sempre bene intesa. Così altri presero ad ammirare in lui l’indole naturalmente portata a manifestare poeticamente i sentimenti dell’animo, e il «Cantico » famoso divenne la delizia della erudita posterità, la quale vi ravvisa un vetustissimo saggio del volgare nascente. Altri rimasero incantati dal suo gusto della natura, ond’egli sembra preso dal fascino non solo della natura inanimata, del fulgore degli astri, dell’amenità dei monti e delle valli umbre, ma, al pari di Adamo nell’Eden prima della caduta, discorre con gli animali stessi, quasi legato ad essi da una certa fratellanza, e li rende obbedientissimi ai suoi cenni. Altri ne esaltano l’amor di patria, perché a lui deve l’Italia nostra, che vanta il fortunato onore d’avergli dati i natali, una fonte di benefizi più copiosa che qualsiasi altro paese. Altri infine lo celebrano per quella sua veramente singolare comunanza di amore, che tutti gli uomini unisce. Tutto ciò è vero, ma è il meno, e da doversi intendere in retto senso: poiché chi si fermasse a ciò come alla cosa più importante, o volesse torcerne il senso a giustificare la propria morbidezza, a scusare le proprie false opinioni, a sostenere qualche suo pregiudizio, è certo che guasterebbe la genuina immagine di Francesco. Infatti, da quella universalità di virtù eroiche delle quali abbiamo fatto breve cenno, da quell’austerità di vita e prediazione di penitenza, da quella molteplice e faticosa azione per il risanamento della società, risalta in tutta la sua interezza la figura di Francesco, proposto non tanto all’ammirazione, quanto all’imitazione del popolo cristiano. Essendo Araldo del Gran Re, egli volse le sue mire a far sì, che gli uomini si conformassero alla santità evangelica e all’amore della Croce, non già che dei fiori e degli uccelli, degli agnelli, dei pesci e delle lepri si rendessero soltanto sdilinquiti amatori. – Che se egli verso le creature sembra trasportato da una certa tenerezza di affetto, e « per quanto piccole » le chiama « coi nomi di fratello o di sorella » — amore, peraltro, che quando non esca dall’ordine non è proibito da nessuna legge — non da altra causa che dalla sua stessa carità verso Dio egli si muove ad amare le dette creature, le quali « sapeva avere con lui uno stesso principio e nelle quali guardava la bontà di Dio; giacché « da per tutto egli va seguendo il Diletto sulle orme impresse nelle cose, di tutte le cose si fa scala per giungere al trono di Lui. Quanto al resto, che cosa proibisce agli italiani di gloriarsi dell’Italiano, il quale nella stessa liturgia è chiamato « luce della Patria »?. Che cosa impedisce ai fautori del popolo di predicare quella che fu la carità di Francesco verso tutti gli uomini, specialmente poveri? Ma gli uni si guardino per lo smoderato amore verso la propria nazione, di vantarlo quasi segno e vessillo di questo acceso amore nazionale, rimpicciolendo il « campione cattolico »; gli altri si guardino dal gabellarlo per un precursore e patrono di errori, dal che egli era lontano, quant’altri mai. D’altra parte tutti quelli che non senza qualche affetto di pietà prendono gusto a queste lodi minori dell’Assisiate e si affaticano con fervore a promuoverne le feste centenarie, piacesse al cielo che come sono degni del nostro encomio, così dalla stessa fausta ricorrenza traessero forte stimolo a esaminare più sottilmente l’immagine genuina di questo grandissimo imitatore di Cristo, e ad aspirare ai migliori carismi. – Intanto, Venerabili Fratelli, Noi abbiamo un bel motivo d’allegrezza, nel vedere come per la concorde mira di tutti i buoni a celebrare la memoria del Santo Patriarca, lungo l’anno sette volte secolare dalla sua morte, si vanno allestendo in tutto il mondo solennità religiose e civili, ma specialmente in quelle contrade, che egli vivente nobilitò con la presenza e con la luce della santità e con la gloria dei miracoli. Nel che vediamo con molto piacere andare voi innanzi, con l’esempio, ciascuno al proprio clero e gregge. E già fin d’ora si presentano all’animo Nostro, anzi quasi agli occhi Nostri, le foltissime schiere di pellegrini che andranno a visitare Assisi e gli altri vicini Santuari della verde Umbria, o gli scoscesi gioghi della Verna o i colli sacri che guardano sulla valle di Rieti; luoghi nei quali Francesco sembra ancora vivere e darci esempio delle sue virtù, e dei quali i pii visitatori non potranno non tornare a casa più imbevuti di spirito francescano. Infatti — per usare le parole di Leone XIII — « bisogna ben persuadersi che gli onori che si preparano a San Francesco torneranno particolarmente accetti a lui, cui sono indirizzati, se riusciranno fruttuosi a chi li rende. Ora, il più sostanziale e non passeggero profitto consiste in questo: che gli uomini prendano qualche tratto di somiglianza dalla sovrana virtù di colui che ammirano, e procurino di rendersi migliori imitandolo ». – Taluno forse dirà che a restaurare la società cristiana ci vorrebbe oggi fra noi un altro Francesco. Nondimeno, fate che gli uomini con rinnovato zelo prendano l’antico Francesco a maestro di pietà e di santità; fate che essi imitino e ritraggano in sé gli esempi che egli lasciò, come colui che era « specchio di virtù, via di rettitudine, regola di costumi »; non avrà questo tanta virtù ed efficacia che basti a sanare ed a troncare la corruzione dei nostri tempi?

In primo luogo, dunque, debbono ricopiare in sé l’immagine insigne del Padre e Legislatore i tanti suoi figli dei tre Ordini; i quali essendo « stabiliti in tutto il mondo » — come Gregorio IX scriveva alla beata Agnese, figlia del re di Boemia — « ogni giorno in essi l’Onnipotente è reso in molti modi glorioso » [33]. E con i religiosi del Primo ordine, quale che sia il loro nome francescano, da una parte Ci congratuliamo vivamente che dalle indegnissime vessazioni e spogliazioni, come oro passato nel crogiuolo, riprendano ogni giorno più l’antico splendore; e dall’altra sinceramente desideriamo che con l’esempio della propria penitenza ed umiltà levino quasi alte proteste contro la concupiscenza della carne e la superbia della vita così ampiamente diffusa. Sia ufficio loro richiamare il prossimo ai precetti evangelici del vivere: il che meno difficilmente conseguiranno, quando osservino scrupolosamente la Regola, che il Fondatore chiamava « libro della vita, speranza della salute, midolla del Vangelo, via della perfezione, chiave del paradiso, patto dell’eterna alleanza » [34]. Il Serafico Patriarca poi non cessi di assistere ed aiutare dal cielo la mistica vigna, che egli con le sue mani piantò, e la molteplice propaggine talmente nutrisca e corrobori dell’umore e del succo della fraterna carità, che tutti, divenuti « un cuore e un’anima sola », s’adoperino con ogni zelo al rinnovamento della famiglia cristiana.

Le sacre vergini, poi, del Secondo Ordine, partecipi « della vita angelica, che per Chiara divenne chiara », continuino a diffondere, quali gigli piantati nelle aiuole dell’Orto del Signore, il più soave olezzo e a piacere a Dio col niveo candore dell’anima. Per le loro preghiere, sì, avvenga che i peccatori, in molto maggior numero, ricorrano alla clemenza di Cristo Signore, e la Madre Chiesa senta crescere mirabilmente il proprio gaudio per i figli restituiti nella divina grazia e nella speranza dell’eterna salute. Infine Ci rivolgiamo ai Terziari, sia uniti in comunità regolari, sia viventi nel secolo, perché si adoperino anch’essi col proprio apostolato a promuovere il profitto spirituale del popolo cristiano. Il quale apostolato, se al principio li fece degni di essere chiamati da Gregorio IX soldati di Cristo e novelli Maccabei, può anche oggi riuscire di non minore efficacia per la comune salute, purché essi, quanto sono cresciuti di numero su tutta la terra, altrettanto, fatti simili al loro Padre San Francesco, diano prova d’innocenza e d’integrità di costumi. E quel che scrissero i Nostri antecessori Leone XIII nella Lettera « Auspicato », e Benedetto XV nell’Enciclica « Sacra propediem », significando a tutti i vescovi dell’orbe cattolico ciò che sarebbe loro piaciuto grandemente, questo stesso, Venerabili Fratelli, Noi Ci ripromettiamo dallo zelo pastorale di tutti voi: che cioè favorirete in tutti i modi il Terz’Ordine francescano, ammaestrando il gregge — o da voi stessi o per l’opera di sacerdoti colti e idonei al ministero della parola — sugli scopi di quest’Ordine di uomini e di donne secolari, e quanto sia da stimarsi, e come riesca spedito l’ingresso nel Sodalizio e facile l’osservanza delle Sante Regole, e quale l’abbondanza delle indulgenze e dei privilegi di cui i Terziari fruiscono; infine, che grande utilità ridondi dal Terz’Ordine sui singoli e sulla comunità. Coloro che non ancora abbiano dato il nome a questa gloriosa milizia, lo diano quest’anno su vostro incitamento; e coloro che ancora non lo possono dare per ragione dell’età, si iscrivano candidati cordiglieri, sì che da fanciulli s’avvezzino a questa santa disciplina. – E poiché dai salutari avvenimenti offertisi così spesso a celebrare, sembra Iddio benignamente volere che il nostro Pontificato non trascorra senza i più lieti frutti nel popolo cattolico, vediamo con gran piacere apparecchiarsi questa solenne celebrazione centenaria di San Francesco, il quale « mentre visse rifondò la casa, e ai suoi tempi fu ristoratore del tempio » [35]; tanto più che sin dal fiore degli anni lo venerammo Patrono con grande devozione e fummo già annoverati tra i suoi figli, prendendo le insegne del Terz’Ordine. In quest’anno dunque, che è il settecentesimo dalla morte del Padre Serafico, il mondo cattolico e la nostra nazione in particolare ricevano per intercessione di San Francesco, tanta dovizia di benefìci, che sia un anno da rimanere nella storia della Chiesa perpetuamente memorabile.

Intanto, Venerabili Fratelli, in auspicio dei celesti doni e a testimonianza della Nostra benevolenza, a voi, al clero e al popolo vostro di tutto cuore impartiamo nel Signore l’Apostolica Benedizione.

 Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 aprile dell’anno 1926, quinto del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2023)

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani,

comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La storia di Tobia che si legge nell’Officio divino a questa epoca, coincide spesso con questa Domenica. Sarà dunque cosa utile, continuare a studiare la Messa in relazione col biblico racconto. Tobia sarebbe vissuto, sembra, sotto il regno di Salmanasar, verso la fine del secolo VIII prima di Cristo, al tempo della deportazione degli Israeliti in Assiria. Come Giobbe, questo santo personaggio, diede prova di costanza e di fedeltà a Dio in mezzo a tutte le sue afflizioni. « Non abbandonò mai la via della verità, distribuendo ogni giorno quanto poteva avere ai fratelli e a quelli della sua nazione, che con lui erano in prigionia e, quantunque egli fosse il più giovane nella tribù di Nephtali, nulla di puerile riscontravasi nei suoi atti ». I l Salmo dell’Introito può essergli applicato, poiché parla di un adolescente che fin dai suoi più teneri anni ha camminato nella legge del Signore. Fino dagli anni della sua fanciullezza, dice la Sacra Scrittura, « Tobia osservava ogni cosa conformemente alla legge di Dio. Sposata una donna della sua tribù, per nome Anna, ne ebbe un figlio cui diede il proprio nome e al quale insegnò fin dall’infanzia a temere Iddio e ad astenersi da ogni peccato. Condotto prigioniero a Ninive, Tobia di tutto cuore si ricordò di Dio, visitando gli altri prigionieri e dando loro buoni consigli, consolandoli e distribuendo a tutti del proprio avere, secondo quello che poteva. Nutriva chi aveva fame, vestiva quelli che erano nudi, e seppelliva con cura quelli che erano morti o che erano stati uccisi ». Dio permise che venisse cieco, affinché la sua pazienza servisse di esempio alla posterità come quella del sant’uomo Giobbe. « Avendo sempre temuto il Signore fin dalla sua infanzia ed avendo osservato i suoi comandamenti, non si rattristò contro Dio per essere stato colpito da questa cecità, ma rimase fermo nel timore di Dio, rendendogli grazie tutti i giorni della sua vita ». « Noi siamo figli dei santi, soleva dire, e attendiamo quella vita che Dio deve dare a coloro che non hanno mai cambiato la loro fede verso di Lui ». E poiché sua moglie insultava alla sua disgrazia, Tobia proruppe in gemiti e cominciò a pregare con lagrime (Allel.), dicendo parole che sono identiche a quelle dell’Introito: «Tu sei giusto, Signore, tutti i giudizi tuoi sono equi e tutti i tuoi disegni sono misericordiosi. Ed ora, o Signore, trattami secondo la tua volontà ». E, parlando a suo figlio Tobia, disse: « Figlio mio, abbi sempre in mente Dio tutti i giorni della tua vita, e guardati bene dall’acconsentire ad alcun peccato. Fa’ elemosina dei tuoi beni e non distogliere il tuo volto dal povero. Sii caritatevole in quel grado che puoi e quello che ti dispiacerebbe fosse fatto a te, guardati bene dal farlo ad altri ». Questo precetto dell’amore di Dio e del prossimo e la sua attuazione sono inculcati dall’Epistola e dal Vangelo: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, tutta l’anima tua e tutto il tuo spirito, e il prossimo tuo come te stesso » (Vang.). « Camminate in umiltà, dolcezza e pazienza, sopportandovi a vicenda con carità, sforzandovi di mantenere l’unità di spirito nei vincoli della pace » (Ep.). Tobia mandò suo figlio presso Gabelo a Rages, sotto la guida dell’Arcangelo Raffaele. Per via, l’Angelo disse a Tobiolo di prendere un pesce che lo aveva voluto divorare e di serbarne il fegato per scacciare ogni specie di demoni e gli indicò inoltre il mezzo per prendere in moglie Sara, senza che il demonio, che aveva già uccisi i suoi primi sette mariti, potesse fargli del male. « Il demonio, spiegò l’Arcangelo, ha potere su coloro che nel contrar matrimonio bandiscono Dio dal loro cuore e ad altro non pensano se non a soddisfare la loro passione ». L’Orazione prega Iddio di dare al suo popolo la grazia di evitare i contatti diabolici, « affinché possa con puro cuore essere unito a te solo che sei il suo Dio ». « Come figli di Dio, noi non possiamo, dissero Tobia e Sara, sposarci come pagani, che non conoscono Dio », e « pregarono insieme istantemente il Signore che ha fatto il cielo e la terra, il mare, le sorgenti ed i fiumi con tutte le creature che contengono ». E Dio « benedisse il loro matrimonio, come aveva benedetto quello dei patriarchi, affinché essi avessero dei figli della stirpe di Abramo » (Graduale). Tobia ritornò con Sara e guarì suo padre dalla cecità e questi allora intonò un cantico di ringraziamento, una specie di Benedictus o di Magnificat, nel quale scoprì le grandiose aspettative messianiche: « Gerusalemme tu castigata per le sue opere malvagie, ma essa brillerà di fulgida luce e si rallegrerà nei secoli dei secoli. Dai lontani paesi verranno verso lei le nazioni, portandole delle offerte e adoreranno in essa il Signore. Maledetti saranno coloro che la disprezzeranno e quelli che la bestemmieranno saranno condannati. Beati, continua egli, coloro che ti amano! lo sarò felice se qualcuno della mia stirpe sopravvivrà per vedere lo splendore di Gerusalemme. Le sue porte saranno di zaffiri e di smeraldi e tutta la cinta delle sue mura sarà di pietre preziose. Tutte le pubbliche piazze saranno lastricate di pietre bianche e pure e nelle stradi si canterà: Alleluia. La rovina di Ninive è vicina, poiché la parola di Dio non resta senza effetto ». È questo il « cantico nuovo che troviamo nel Salmo del Graduale « Dio è fedele alla sua parola; Egli dissipa i progetti delle nazioni e rovescia i consigli dei principi. Beato il popolo che Egli ha scelto per suo retaggio. Palesa, o Signore, la tua misericordia su di noi, secondo la speranza che abbiamo posta in te ». E il Salmo del Communio aggiunge: « Dio ha infranto tutte le forze nemiche, i re superbi sono stati abbattuti e i loro eserciti distrutti. Offrite dunque sacrifizi di ringraziamento a questo Dio terribile », poiché, continua l’Offertorio, « Egli ha gettato uno sguardo favorevole sul popolo in favore del quale il suo Nome è stato invocato ». – Gerusalemme, ove il popolo di Dio regna e ove affluiscono tutte le nazioni per lodare il Signore, è il regno di Dio, è la Gerusalemme celeste. Tutti vi sono chiamati con una comune vocazione a formarvi « un solo corpo », la Santa Chiesa, che è una nuova creazione, dice S. Gregorio Magno, e che è animata da « un solo Spirito, una sola speranza, un solo battesimo e una sola fede in un solo Signore » (Epistola). È Gesù Cristo, Figlio di Dio e Figlio di David, che il « Dio unico e Padre di tutti gli uomini, ha fatto sedere alla sua destra fino al giorno in cui tutti i suoi nemici, vinti, saranno sgabello ai suoi piedi ». Questo Dio « sia benedetto nei secoli dei secoli » (Epistola). – L’unità della nostra fede, del nostro battesimo e delle nostre speranze, come pure dello Spirito Santo, di Cristo e di Dio Padre, dice S. Paolo, fa a tutti noi un dovere di essere uniti dai vincoli della carità, sopportandoci a vicenda.

Il comandamento di Dio di amare il prossimo è simile a quello che ci fa amare Dio, poiché è per amor suo che amiamo il prossimo. « Doppio è il comandamento, dichiara S. Agostino, ma una è la carità ». E per consolidare il suo insegnamento agli occhi dei farisei, Gesù Cristo dà loro, in un testo di David, una prova della sua divinità. Dobbiamo dunque, nella fede e nell’amore, essere uniti a Cristo Gesù. « Interrogato circa il primo comandamento, Gesù rivela il secondo, che non è inferiore al primo, facendo loro comprendere che lo interrogavano soltanto per odio, poichéla carità non è invidiosa » (I Cor. XIII, 4). Egli dimostra inoltre il suo rispetto per la legge ed i profeti. Dopo aver risposto, Cristo interrogò a sua volta, e dimostra che pur essendo figlio di David, ne è il Signore, essendo Egli il Figlio unico del Padre, e li spaventa dicendo che un giorno avrebbe trionfato su tutti coloro che si oppongono al suo regno, poiché Iddio farà dei suoi nemici sgabello ai suoi piedi. Con ciò dimostra la concordia e l’unione che esiste fra Lui e il Padre » (S. Giov. Crisostomo – Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps CXVIII: 137;124
Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secúndum misericórdiam tuam.

[Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.

[Beati gli uomini retti: che procedono secondo la legge del Signore.]

Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secundum misericórdiam tuam.

[Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.
Oratio

Oremus.
Da, quǽsumus, Dómine, populo tuo diabólica vitáre contágia: et te solum Deum pura mente sectári.

[O Signore, Te ne preghiamo, concedi al tuo popolo di evitare ogni diabolico contagio: e di seguire Te, unico Dio, con cuore puro.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 1-6

 “Fatres: Obsecro vos ego vinctus in Dómino, ut digne ambulétis vocatióne, qua vocáti estis, cum omni humilitáte et mansuetúdine, cum patiéntia, supportántes ínvicem in caritáte, sollíciti serváre unitátem spíritus in vínculo pacis. Unum corpus et unus spíritus, sicut vocáti estis in una spe vocatiónis vestræ. Unus Dóminus, una fides, unum baptísma. Unus Deus et Pater ómnium, qui est super omnes et per ómnia et in ómnibus nobis. Qui est benedíctus in sæcula sæculórum. Amen.”

[“Fratelli: Io prigioniero nel Signore vi scongiuro che abbiate a diportarvi in modo degno della vocazione, cui siete stati chiamati, con tutta umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi con carità scambievole, solleciti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Un sol corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati a una sola speranza per la vostra vocazione. Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutti, che opera in tutti, che dimora in tutti. Egli sia benedetto nei secoli dei secoli. Così sia.”]

LA VOCAZIONE.

Come sono solenni e dense di significato le poche battute con cui si apre il brano domenicale della Epistola agli Efesini! Vi scongiuro, — dice l’Apostolo, e perché lo scongiuro sia più efficace e commovente, si chiama prigioniero di Dio (in Dio), — a camminare degnamente in quella che è la vostra vocazione. E il pensiero corre subito alla «vocazione » di Cristiani, quali erano proprio e tutti i suoi primi, immediati lettori. C’è sotto alle parole dell’Apostolo, una grande, una nobilissima idea di questa vocazione cristiana. È Iddio che chiama i suoi figli dalle tenebre del paganesimo, dalla penombra della religione naturale, alla luce del Cristianesimo. Ogni Cristiano è un chiamato da Dio. Molti lo hanno dimenticato, lo dimenticano. Credono che l’essere Cristiani sia la cosa più naturale del mondo: che si nasca Cristiani come si nasce bimani o bipedi, che la vocazione sia un privilegio di pochi, e precisamente di quei pochi che si avviano al Sacerdozio, oppure entrano in un Monastero. Idee piccole e false. Dio ci ha chiamati, tutti e ciascuno, noi Cristiani alla Religione nostra, al Cristianesimo, al Vangelo che è e rimane una grazia! Ci vuole Lui Cristiani. Manda i Suoi apostoli a battezzarci, a istruirci, a convertirci. Nobilissima vocazione, perché Dio ci chiama nel Cristianesimo mercè del Battesimo, ci chiama ad essere suoi figlioli: «ut fili Dei nominemur et simus. » Basta pronunciare bene, sillabando, meditando, questa parola fili Dei, per capire l’altezza di questa dignità e la gravità degli obblighi che ne conseguono. Bisogna rendersi, in qualche modo, degni del nome e del carattere di figli, ricevuti nel Santo Battesimo, con la bontà delle opere. Bisogna vivere da figli di Dio; vivere veramente da buoni Cristiani. C’è qui tutto un programma, riassunto ancor più largamente nelle parole di un Santo Pontefice, grande anima romana e cristiana, San Leone Magno: — Riconosci, o Cristiano, la tua dignità, e, diventato partecipe della natura divina (non è forse il figlio della stessa natura del padre?) non volere con una condotta degenere tornare all’antica bassezza e viltà. — Sentiamola questa dignità di Cristiani oggi meglio d’allora, oggi dopo quasi duemila anni di esperienza, dopo che, con la loro vita, milioni di Santi e di Eroi, ci hanno mostrato che cosa può produrre di eroico il Vangelo in un’anima, in una società. Diventare Cristiani col Battesimo, oggi, vuol dire ricevere una eredità gloriosa di bene, inserirsi in una corrente luminosa, calda, satura di ciò che vi è al mondo di più sacro e più augusto. E ciò non toglie che ciascuno di noi abbia anche una vocazione, una destinazione, una destinazione provvidenziale in un altro senso. Perché ognuno è chiamato poi dal Padre a servirLo in modo speciale.

Nella Casa del Padre, ci sono molte mansioni, o funzioni, come in tutte le case bene ordinate, e ciascuno ha la sua, e tutte sono materialmente diverse ma tutte sono spiritualmente belle e nobili, perché nulla è ignobile nella casa del Padre Celeste, Iddio. E noi dobbiamo stare al nostro posto, fedeli e valorosi come soldati che montano la guardia, e lavorano, e combattono, sapendo di contribuire veramente a una sola, grande vittoria: la vittoria di Dio.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XXXII: 12;6
Beáta gens, cujus est Dóminus Deus eórum: pópulus, quem elégit Dóminus in hereditátem sibi.

[Beato il popolo che ha per suo Dio il Signore: quel popolo che il Signore scelse per suo popolo.]

Alleluja

Verbo Dómini cœli firmáti sunt: et spíritu oris ejus omnis virtus eórum. Allelúja, allelúja

[Una parola del Signore creò i cieli, e un soffio della sua bocca li ornò tutti. Allelúia, allelúia]
Ps CI: 2
Dómine, exáudi oratiónem meam, et clamor meus ad te pervéniat. Allelúja.

[O Signore, esaudisci la mia preghiera, e il mio grido giunga fino a Te. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. XXII: 34-46

“In illo témpore: Accessérunt ad Jesum pharisæi: et interrogávit eum unus ex eis legis doctor, tentans eum: Magíster, quod est mandátum magnum in lege? Ait illi Jesus: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo et in tota ánima tua et in tota mente tua. Hoc est máximum et primum mandátum. Secúndum autem símile est huic: Díliges próximum tuum sicut teípsum. In his duóbus mandátis univérsa lex pendet et prophétæ. Congregátis autem pharisæis, interrogávit eos Jesus, dicens: Quid vobis vidétur de Christo? cujus fílius est? Dicunt ei: David. Ait illis: Quómodo ergo David in spíritu vocat eum Dóminum, dicens: Dixit Dóminus Dómino meo, sede a dextris meis, donec ponam inimícos tuos scabéllum pedum tuórum? Si ergo David vocat eum Dóminum, quómodo fílius ejus est? Et nemo poterat ei respóndere verbum: neque ausus fuit quisquam ex illa die eum ámplius interrogare”.

[“In quel tempo, accostandosi i Farisei a Gesù, avendo saputo com’Egli aveva chiusa la bocca ai Sadducei, si unirono insieme: e uno di essi, dottore della legge, lo interrogò per tentarlo: Maestro, qual è il gran comandamento della legge? Gesù dissegli: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, e con tutta l’anima tua, e con tutto il tuo spirito. Questo è il massimo e primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti pende tutta quanta la legge, e i profeti. Ed essendo radunati insieme i Farisei, Gesù domandò loro, dicendo: Che vi pare del Cristo, di chi è egli figliuolo? Gli risposero: di Davide. Egli disse loro: Come adunque Davide in ispirito lo chiama Signore dicendo: Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, sino a tanto che io metta i tuoi nemici per sgabello ai tuoi piedi? Se dunque Davide lo chiama Signore, come è Egli suo figliuolo? E nessuno poteva replicargli parola; né vi fu chi ardisse da quel dì in poi d’interrogarlo”.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

CHE VE NE PARE DI CRISTO?

I sadducei e i farisei erano giunti a tentare Gesù. Il Maestro, con poche ma ardenti parole, ribatté ogni loro ragionamento, poi, Egli stesso rivolse a’ suoi tentatori una terribile domanda: « Che ve ne pare di Cristo? Di chi è Figlio? ». Qualcuno ardì rispondere: « Di Davide ». Gesù incalzò: « Di Davide, tu dici? Allora, e perché Davide lo chiama suo Signore? ». Più nessuno osò fiatare. A noi, venuti venti secoli dopo, il Maestro rivolge la medesima domanda: « Quid vobis videtur de Christo? ». Cosa che fa stupire: oggi, in cui si parla di fratellanza universale; in cui, senza filo, possiamo comunicare da un estremo altro della terra; in cui, sorpassato ogni confine di monte e di mare, l’uomo in poche ore vola sopra le nazioni e congiunge i continenti, basta rivolgere questa domanda: « che ve ne pare di Cristo » per mettere gli uomini in contraddizione tra loro. Aveva ragione, il candido vecchio che nel tempio aveva consumato la sua vita aspettando il Messia, quando, stringendolo tra le braccia, esclamava: « Ecco il segno della contraddizione: e molti avranno per lui la vita, e molti avranno per lui la morte ». Gesù stesso dirà di sé la medesima cosa: « Venni al mondo per un giudizio: quei che non hanno la vista l’acquisteranno, quei che hanno la vista la perderanno » (Giov. IX, 39). E voleva dire che le anime umili saranno da Cristo illuminate, mentre i superbi da lui saranno accecati. Il crocifisso che domina il mondo, che domina i troni e le potenze della terra, come già una volta sul Calvario è il segno della divisione. Chi lo bestemmia, chi lo ignora, chi lo contempla con amore. « Quid vobis videtur de Christo? ». A questa domanda gli uomini rispondono in un triplice modo: odio, ignoranza, amore. – 1. ODIO. Un giorno del 1797, un ufficiale, passando non lontano dalla città d’Aosta, incontrò nel fondo di una torre in rovina, un disgraziato che vi dimorava da anni, privo d’ogni compagnia. « Che fate qui? » disse il militare. « Sono gli uomini, che non mi possono vedere » gemette l’infelice. Dopo aver scambiate alcune parole, l’ufficiale gli domandò il suo nome. « Il mio nome? » rispose il solitario « ah, il mio nome è terribile. Mi chiamano il Lebbroso ». Cristiani! Io conosco qualcuno che fin nell’ultimo villaggio trascorre i suoi giorni nella solitudine, dove l’odio degli uomini cerca di confinarlo. Se domandate il suo nome, quello che un Angelo portò dal cielo per lui, è Gesù; ma in terra, l’hanno chiamato con un nome terribile: il Lebbroso. Tale, infatti, lo vide il profeta… putavimus eum quasi leprosum. (Is., LIII, 4). E della sua storia si può dire quanto l’ufficiale diceva di quello d’Aosta: « È una lacrima, una lacrima continua ». — In antico, quando all’alba un lebbroso si lasciava sorprendere presso l’abitato, tutti, urlando, lo cacciavano a sassate. Ed a sassate i nemici della religione hanno cercato d’allontanare Cristo dalla società. E lo hanno cacciato dai comuni, ove insegnava a reggere i popoli: e via l’hanno cacciato dalle scuole ove benediceva la crescente gioventù; e via l’hanno cacciato dai tribunali, ove insegnava la giustizia. Perfino dagli ospedali l’hanno cacciato via, dove gli infermi lo cercavano sulle squallide pareti perché lenisse il loro dolore. — In antico, quando un lebbroso s’avvicinava, per bisogno, agli uomini, doveva segnalare la sua venuta col suono della raganella, e chiunque lo udiva, correva lontano, temendo il contagio. Oggi, quando Gesù esce come Viatico dei morenti nelle vie dei nostri paesi, e il chierichetto davanti l’annunzia col suono del campanello, ecco ripetersi l’antica scena di obbrobrio; tutti fuggono, tutti deviano, tutti, se possono, si nascondono dietro i portoni, per non vederlo, per non salutarlo: il Lebbroso! — « Le mie delizie sono tra i figliuoli degli uomini » ha detto il Signore; ma i figliuoli degli uomini ripetono l’urlo di Voltaire: « schiacciamo l’infame »; e i figliuoli degli uomini l’hanno scomunicato dalla loro società. E Gesù è costretto a ritirarsi in solitudine, perché le bestemmie e il turpiloquio offendono pubblicamente le sue sante orecchie, perché una moda sfacciata e scandalosa, ad ogni passo, offende la sua purissima pupilla, quella che pur guardando convertiva i cuori; è costretto a ritirarsi dalle nostre case e dai nostri cuori perché sono diventati luoghi di peccato. « Quid vobis videtur de Christo? ». — Via! via! crucifiggilo — rispondono gli uomini. – 2. IGNORANZA. Quando Giovanni cominciò a battezzare sulle rive del Giordano, a tutti balenò il sospetto ch’egli fosse il Messia. I Giudei da Gerusalemme mandarono una legazione di sacerdoti e di leviti a interrogarlo. Ma il Battista rispose: « Ecco il Messia è già tra voi: e non lo sapete ». Medius vestrum stetit quem vos nescitis (Giov., I, 26). Questo è il rimprovero che meriterebbero ancora non pochi Cristiani. Dite a loro: « Che ve ne pare di Cristo? ». Sgranerebbero gli occhi come a rispondere: « E che ce ne importa? ». Vivono perciò nell’indifferenza della religione, e quando hanno soddisfatto alle brame del loro corpo, non desiderano più nulla. Cristo è venuto sulla terra e per trent’anni col suo esempio, e per tre anni con la sua parola ci ha istruiti: e ci ha detto chi è Dio e quanto ci ama e che vuole da noi e come si fa ad amarlo e servirlo. Ma gli uomini, che pur sanno tante e tante cose per il loro corpo, non sanno nulla per la loro anima. E non desiderano di sapere, anzi non vogliono sapere; e il solo pensiero di ascoltare una predica, una spiegazione della dottrina cristiana, li fa morir di noia. Ignorano Cristo, perché ignorano il suo Vangelo. Cristo è venuto sulla terra nostra e ha istituito mirabili sacramenti, tra cui il sacramento del perdono, che da colpevoli ci ritorna innocenti, da maledetti ci fa figliuoli di Dio. Ha pure istituito il sacramento che nutrisce l’anima di un cibo soprasostanziale, che fortifica e santifica: questo cibo è la carne stessa, il sangue vero di Cristo nell’Eucaristia. Eppure, gli uomini non lo sanno, non vengono mai a confessarsi, a comunicarsi; solo qualche volta all’anno, e malamente. Ignorano Cristo, perché ignorano i suoi sacramenti. Cristo è venuto sulla terra nostra debole e bambino avvolto in panni, Lui che è Dio d’eserciti; è venuto nel freddo e nelle tenebre, Lui che ha creato il sole ed ogni fuoco; e pativa fame e sete, Lui che ha cibo per ogni uccello dell’aria e per ogni giglio della valle. E poi si lasciò tradire, e volle essere umiliato, crocefisso. Eppure, gli uomini ignorano tutto questo, perché non amano che i piaceri dei sensi, le ricchezze del mondo, il cibo e le vesti. Ignorano Cristo, perché non sanno quanto Cristo ha patito per loro. Perciò ha detto bene S. Giovanni (I, 10) in principio del suo Vangelo: « In mundo erat et mundus eum non cognovit ». – 3. AMORE! Fortunatamente però ci furono e ci sono anime che alla domanda: « Quid vobis videtur de Christo », rispondono: « Amore ». Da quel giorno che Pietro ruppe in quel grido: « Tu sei il Cristo, Figlio di Dio, » una lunga schiera d’anime sante hanno saputo rendere a Cristo testimonianza vera, con sacrificio e con sangue, e soprattutto con amore. Furono dapprima i martiri che morivano per Lui; pallidi e sanguinanti, tra la vita e la morte, il loro ultimo palpito era, sempre l’amore di Cristo. È santa Caterina d’Alessandria che davanti ai sapienti parla di Gesù; e poiché tentavano di persuaderla ch’era follia, lei ricca e giovane, adorare un povero ed oscuro Nazareno, la coraggiosa fanciulla gridò: « Cristo è Dio; e chi crede in Lui vivrà anche se muore ». E porse il suo vergine corpo ai tormenti del martirio. Vennero poi i vergini e le vergini che per amore di Gesù, rinunziarono ad ogni amore terreno. È sant’Agnese che alla profferta di un giovane nobile e potente rispose ch’ella amava il Signore con tanta forza che più non le restava amor di creatura. È S. Filippo Neri che nella festa di Pentecoste fu preso da un impeto d’affetto così forte per Gesù Cristo, che il suo cuore non seppe contenersi e ruppe due coste. È S. Teresa che nel monastero d’Avila vide un serafino che le punse il cuore con un dardo d’oro dalla punta infuocata: e da quel giorno non visse che per celeste ardore. Desiderava di morir mille volte per convertire i peccatori; piangeva sulla iniquità degli uomini e si flagellava per ripararle; era insaziabile di dolore e ripeteva sotto i portici del chiostro: O patire o morire. In fine, consumata dal fuoco divino in Alba di Termez morì d’amore per Cristo. Anche ai nostri tempi vivono di queste anime generose e sante, e non sono appena frati e monache; ma anche giovani, come Domenico Savio che preferiva la morte ma non il più piccolo peccato; ma anche uomini, come il professore Contardo Ferrini che si ebbe gli onori dell’altare. E noi, noi che cosa ne pensiamo di Cristo? A parole, certo, tutti diciamo che è Figlio di Dio: ma coi fatti, con la vita nostra quotidiana, che cosa pensiamo di Cristo? – Nella notte della passione, il principe dei sacerdoti osò domandare a Cristo cosa egli pensasse di sé. « Ti scongiuro, per Dio vivo, se tu sei figlio di Dio, dillo! ». E Gesù rispose: « L’hai detto ». Allora il principe dei sacerdoti si stracciò i vestimenti. Cristo aggiunse: « Verrà giorno e mi vedrai, seduto alla destra di Dio, giudicare dalle nubi i vivi ed i morti ». In questa vita, come già l’ipocrita Caifa, possiamo pensare quel che vogliamo noi di Cristo. È libero calunniarlo; è libero avvoltolarci nella polvere e nel fango dei vizi, stracciare coi peccati la veste dell’anima che è la grazia santificante. Ma quando lo vedremo sulle nubi, nella maestà, tra gli Angeli, calare verso noi a giudicarci, che cosa potremo pensare di Lui, allora? — CHI È GESÙ CRISTO. Questa volta, con una domandetta, Gesù mette in imbarazzo i farisei ed i sapientoni della legge che erano venuti in frotta per tentarlo. « Che cosa pensate del Cristo — domandò il Maestro divino. — Di chi è figlio? « Di Davide. — risposero ad una voce. — È un discendente della stirpe di Davide ». « Ditemi, allora — soggiunse Gesù, — se è figlio di Davide, perché Davide, pensando a lui non ancor nato, lo ha chiamato: mio Signore? ». Tutti tacevano smarriti nella difficoltà, che non era difficoltà da poco: un monarca indipendente, come era Davide, non riconosceva nessun signore o padrone fuori di Dio. Come mai aveva dato il titolo di Signore a un suo discendente?… I Farisei, i sapientoni della legge, silenziosi e mogi chinarono la testa, e da quel giorno, dice il Vangelo, furono più guardinghi nell’interrogare Gesù! Ma non è questa l’unica figura inflitta alla superbia e all’ignoranza di simil gente. Diceva un’altra volta Gesù: « Il padre vostro Abramo ha sospirato di vedermi nascere: la mia esistenza gli fu manifestata, mi vide e ne tripudiò ». A sentirlo parlare così, i Giudei restarono sbalorditi. « Son secoli e secoli che Abramo è morto, e tu, che non hai cinquant’anni, hai veduto Abramo? ». « In verità ve lo dico: io esisto prima ancora di Abramo ». Per la rabbia i Giudei non ci videro più: gli risposero a sassate come fosse un bestemmiatore. Ma chi è questo Cristo? È figlio di Davide; e Davide lo chiama suo Signore. È nato molti secoli dopo Abramo; ed esiste prima d’Abramo. Nasce da una donna, ma questa donna è, e rimane, vergine. Gli fa da cuna la greppia d’una stalla come fosse figlio di zingari; ma sopra la stalla viene un astro che guida tre re dall’Oriente a’ suoi piedi. Cresce nella bottega d’un falegname, ma, dodicenne appena, ne sa da meravigliare i dottori di Gerusalemme. Si fa battezzare nel Giordano da Giovanni Battista come fosse un peccatore; ma dal cielo discende la voce di Dio: — È il mio figlio diletto. Cammina come un pellegrino per le strade dei paesi. È stanco lui ma fa camminare gli storpi e i paralitici; ha gli occhi pieni di polvere lui, ma dà la vista ai ciechi; ha fame lui, ma dà pane e companatico a tutta una folla. Va in barca sul lago come un pescatore: non ne può più dal sonno e s’addormenta mentre i suoi discepoli lottano contro la burrasca: un momento dopo si sveglia e con un gesto appiana il lago e spezza le ali del vento. Davanti al cadavere d’un suo amico, anche lui piange lacrime amare! Ma poi con un grido lo risuscita. Nel giardino degli ulivi si lascia legare da una turma di soldati e di servi; ma prima li rovescia al suolo, senza toccarli; pronunciando il suo Nome. Sulla croce muore spasimando, come un uomo qualsiasi: ma il sole si oscura, la terra trema, il velo del tempio si scinde da un capo all’altro; s’aprono le tombe e i morti camminano. Chi è dunque Cristo? È Dio?… Ma Dio non nasce, perché è eterno. Dio non si stanca, non può aver fame, non può aver sete, non può soffrire, non può morire. È uomo?… Ma gli uomini non danno la vista ai ciechi, non guariscono subitamente la lebbra, non gettano a terra con una parola una compagnia di soldati, non placano i temporali, non fanno tremare la terra, non risuscitano, dopo tre giorni, dal sepolcro. Ma chi è dunque Cristo? Ciò che i Giudei non sapevano spiegare, ciò che nella loro superbia non volevano credere, noi Cristiani lo sappiamo e lo crediamo: Gesù Cristo è Dio e Uomo; vero Dio e vero uomo; Dio uguale al Padre Eterno e allo Spirito Santo. Uomo uguale a ciascuno di noi fuor che nel peccato. Come Dio è Signore di Davide, esisteva prima di Abramo; come Uomo è figlio di Davide, è nato dopo Abramo. Sono forse un po’ difficili da capire queste cose; ma è necessario saperle; e s’io non ve le predicassi farei ingiuria alla bontà di Dio che s’è degnata rivelarcelo. Ma si può forse essere Cristiani, senza conoscere chi è Gesù Cristo? Lasciate adunque che vi parli del nostro Redentore e vi dica: — Gesù Cristo è il Figlio di Dio che si è fatto Uomo, perché l’uomo si facesse figlio di Dio (Galat., IV, 4-5). – 1. FIGLIO DI DIO SI È FATTO UOMO. a) Il Figlio di Dio. Dio è uno solo: eterno, immenso, perfettissimo, Creatore e Signore dell’Universo. In questo unico Dio ci sono tre Persone distinte e uguali: il Padre da cui è generato il Figlio; dal Padre e dal Figlio spira un Amore infinito che è lo Spirito Santo. Padre, Figlio, Spirito Santo sono un Dio solo. O beata Trinità, io vi adoro! Offeso da Adamo, Dio maledisse tutti gli uomini e più nessuno doveva salvarsi. Era necessario che qualcuno chiedesse perdono a Dio ed espiasse per gli uomini! Espiare! L’ingiuria di Dio era infinita ed esigeva un’espiazione infinita che l’uomo non può dare: ci voleva dunque un Dio. Espiare! Qualsiasi espiazione avviene attraverso il patimento che Dio non sa provare perché eternamente beato: ci voleva dunque un uomo; ma un Uomo che fosse anche Dio. Ed allora ecco il Figlio di Dio prendere la nostra carne e farsi uomo. Gesù il Dio-Uomo: come Uomo poteva patire, e come Dio il suo patimento acquistava valore di una espiazione infinita. b) Si è fatto Uomo. Quando giunse la pienezza dei tempi, un Angelo discese in una cittaduzza di Galilea, e si diresse verso un’umile casa dove una fanciulla era entrata sposa da poco. E quella fanciulla si chiamava Maria. « Ave, o piena di grazia: il Signore è teco, benedetta tu fra le donne. Concepirai un Figlio che è Figlio dell’Altissimo ». « Come è possibile, se io non conosco uomo? ». « Per opera dello Spirito Santo, e non d’uomo diverrai Madre di Dio; e resterai sempre vergine ». Or udite un esempio della Storia Sacra. Un giorno afoso di mietitura, ad una donna di Sunam portarono in casa l’unico figliolo suo moribondo. « Mi duole il capo! — Mi duole il capo » gemeva in deliquio e morì. La madre presa da turbine di dolore, fugge al monte Carmelo in cerca del profeta Eliseo. « Viva il Signore, e viva l’anima tua! — singhiozzava la madre — io non ti lascerò se non vieni con me ». Il profeta la segue a casa, dove era il fanciullo morto. Entrato, chiuse la porta dietro di sé e pregò il Signore; poi ascese sul letto si distese sopra il fanciullo; pose la sua bocca sulla bocca di lui, i suoi occhi sugli occhi di lui, le sue mani sulle mani di lui, tutto il suo corpo vivo su quel corpo morto. La carne del fanciullo si riscaldò. Chiamò la donna di Sunam e le disse « Prendi, il tuo figlio è vivo » (IV Re, IV). Il fanciullo morto è immagine dell’umanità dopo il peccato originale, morta alla grazia e alla vita soprannaturale. Il profeta Eliseo è immagine del Figlio di Dio che viene a risuscitarla. L’unione di Dio con l’umanità avvenne nel seno verginale di Maria. Fu là che il Verbo si è fatto carne, che il Figlio di Dio si è fatto Figlio dell’uomo: fu là che l’Infinito si è ristretto sopra le piccole membra d’un bambino; l’Altissimo si è curvato sopra il morto che giaceva: ha posto i suoi occhi che avevano visto lo splendore del Padre sopra gli occhi umani senza luce, ha posto la sua bocca divina sopra la bocca umana muta, ha posto le sue mani creatrici del cielo e delle stelle, sopra le piccole mani peccatrici dell’umanità. Insomma, nel seno di Maria la Natura Divina si è misteriosamente congiunta alla natura umana, restando però sempre una sola Persona, la seconda Persona della Santissima Trinità. Ecco Gesù Cristo chi è. S. Bernardo passava delle giornate meditando questo mistero dell’Incarnazione e si trovava l’anima piena di dolcezza. Suaviter rumino ista, et replentur viscera mea. Noi non ci pensiamo mai. – 2. PERCHÈ L’UOMO SI FACESSE FIGLIO DI DIO. Sono figli di un padre quelli che hanno ricevuto la vita dal padre, assomigliante a lui, sono gli eredi di lui. Ebbene Gesù Cristo ci ha portato la vita di Dio, la somiglianza con Dio, l’eredità di Dio. Con la sua Redenzione ha meritato per noi la grazia, la quale è una virtù misteriosa e divina che ci fa partecipi della vita del Signore, rende l’anima così bella che pare un ritratto del Signore, e ci dà il diritto di avere in morte le ricchezze del Signore, che sono in paradiso. Dunque, siam figli di Dio, Dio è nostro Padre. « Padre nostro che sei in cielo… ». Ma S. Giovanni dice che non tutti gli uomini divengono figli di Dio, ma solo quelli che ricevono Gesù Cristo. Quotquot autem receperunt eum… Gesù è la via, la verità, la vita; bisogna dunque accoglierlo come via, verità, vita. a) Ego sum via. L’uomo sapeva che il suo destino era di amare Dio e di andare al cielo. Ma come si doveva fare per amarlo, e quale strada si dovesse scegliere per arrivare a salvamento? Gesù con i suoi esempi ce l’ha insegnato. Ricordate il fatto di Venceslao re di Boemia? Camminava una notte, a piedi nudi, per una strada coperta di neve e dietro si conduceva un fidatissimo servo. Costui ad un tratto, intirizzito dal gelo, non ne poté più, e stava per cadere disperatamente. Ma il Re gli disse: « Metti i tuoi piedi dove io imprimo l’orma nella neve ». Così fece il servo, sentì assai meno il freddo, e poté giungere dove erano incamminati. Così ha fatto con noi Gesù: « Mettete i vostri piedi dove io ho messo i miei e non sbaglierete, perché Io sono la via ». Non nell’avarizia, non nella superbia, non negli odi, non nei piaceri dei sensi, il nostro Redentore ha messo i piedi divini!… E i nostri dove li mettiamo? b) Ego sum veritas. « Maestro, — gli diceva S. Pietro — tu solo hai parole di verità ». E l’Eterno Padre ha gridato a noi dal cielo: « Questo è il mio figlio diletto: ascoltatelo ». Gesù parla nelle prediche, insegna nella spiegazione della dottrina cristiana: l’ascoltiamo noi? Gesù parla per la bocca del Papa; solo il Papa e i Vescovi uniti con lui hanno le parole della verità: e noi trascuriamo di leggere e di sapere le parole del Papa e del Vescovo per ascoltar libri, giornali, persone piene di menzogne e di calunnie e di oscenità. c) Ego sum vita. « Io sono venuto a portare la vita e a portarne tanta ». Gesù parla qui, non della vita naturale, ma della vita soprannaturale, che ci renderà capaci di vedere e godere Dio. Ebbene se vogliamo questa vita divina dobbiamo stare uniti a Cristo come il tralcio sta unito alla vite, come i membri stanno uniti al capo. Quando bambini fummo portati a Battesimo, noi fummo inseriti nel corpo di Cristo, e la sua vita cominciò a fluire nell’anima nostra. Ma quando cadiamo in peccato mortale noi diventiamo fronde tagliate via dall’albero, diventiamo braccia tagliate dal corpo:… inaridire, marcire, bruciare, ecco il destino di coloro che sono staccati da Cristo. Con qual coraggio, Cristiani, si resta in così orribile condizione per mesi, per anni? – Chi è Gesù Cristo? è tutto; è via, è verità, è vita. Senza di Lui c’è lo smarrimento, c’è l’oscurità, c’è la morte. Una notte, tornando da Mattutino, santa Teresa e sua sorella Maria, attraversavano le viuzze oscure di Avila. Ad un tratto Teresa, in pieno buio, esclamò: « O sorella mia, sapessi quale cavaliere ci accompagna ne rimarresti incantata! ». « Chi dunque? » domandò la sorella. « Nostro Signore Gesù Cristo che porta la croce… ». Lo vedesse in quel momento o no, l’episodio ci dimostra come Gesù era tutto nella vita di questa santa. E deve essere anche nella nostra vita, altrimenti siamo falsi Cristiani. Nelle vie del dolore, nelle vie della gioia, nelle ore di fervore e in quelle di tentazione, da giovani e da vecchi, sempre in ogni circostanza ci accompagni il ricordo di Nostro Signore Gesù Cristo che porta la croce per la nostra salvezza.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Dan. IX: 17;18;19
Orávi Deum meum ego Dániel, dicens: Exáudi, Dómine, preces servi tui: illúmina fáciem tuam super sanctuárium tuum: et propítius inténde pópulum istum, super quem invocátum est nomen tuum, Deus.

[Io, Daniele, pregai Iddio, dicendo: Esaudisci, o Signore, la preghiera del tuo servo, e volgi lo sguardo sereno sul tuo santuario, e guarda benigno a questo popolo sul quale è stato invocato, o Dio, il tuo nome.]

Secreta

Majestátem tuam, Dómine, supplíciter deprecámur: ut hæc sancta, quæ gérimus, et a prætéritis nos delictis éxuant et futúri

[Preghiamo la tua maestà, supplichevoli, o Signore, affinché questi santi misteri che compiamo ci liberino dai passati e dai futuri peccati.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXV: 12-13
Vovéte et réddite Dómino, Deo vestro, omnes, qui in circúitu ejus affértis múnera: terríbili, et ei qui aufert spíritum príncipum: terríbili apud omnes reges terræ.

[Fate voti e scioglieteli al Signore Dio vostro; voi tutti che siete vicini a Lui: offrite doni al Dio temibile, a Lui che toglie il respiro ai príncipi ed è temuto dai re della terra.]

 Postcommunio

Orémus.
Sanctificatiónibus tuis, omnípotens Deus, et vítia nostra curéntur, et remédia nobis ætérna provéniant.

[O Dio onnipotente, in virtù di questi santificanti misteri siano guariti i nostri vizii e ci siano concessi rimedii eterni.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (270)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (13)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO XIII.

MISTERI

I. La mia ragione non può ammettere misteri. II. Involgono contraddizione. III. Che ragione può esservi per ammetterli?

La fede presenta varie sorta di verità da credere: alcune alle quali l’uomo non giungerebbe o giungerebbe a stento, ma che, dopo che sono rivelate, non hanno nulla che ripugni alla ragione, come sono, a cagione di esempio, le perfezioni di Dio, la creazione, i principii eterni della giustizia e della moralità: altre alle quali non solo mai giungerebbe l’uomo lasciato a sé stesso, ma che a che dopo rivelate non si possono intendere e si debbono solo credere piegando l’intelletto in ossequio della fede. Tali sono, a cagion di esempio, l’Unità e Trinità di Dio, l’Incarnazione del divin Verbo, la presenza reale di Cristo nel Sacramento, ed universalmente tutti quelli che chiamiamo misteri. Ora intorno alle verità di primo ordine, dicono alcuni, potremmo anche adattarci, ma quanto alle seconde, cioè ai misteri, chi potrebbe sottomettervisi? Queste non hanno scopo, non potendo tornar di verun giovamento il credere quello che non s’intende, senza dir poi che la ragione non può mancare a sé stessa come farebbe ammettendo contraddizioni. Di che s’impuntano fieramente e non vogliono saperne e rigettano tutto quello che ha del misterioso. E tuttavia credete voi che abbiano veramente ragione di così fare? Come hanno torto quei che ricusano la fede, così hanno torto marcio quei che ficcano di stenderla fino ai misteri. Il primo l’abbiamo veduto nel capo antecedente, l’altro il vedremo qui.

I. La mia ragione non può ammettere misteri. Cominciamo dai dritti sempiterni della povera umana ragione tanto debole da un lato, e tanto superba dall’ altro. E perché non può la vostra ragione ammettere i misteri? Abbiamo detto di sopra che noi per fede crediamo sull’ autorità di Dio che parla, dopo che abbiamo posto in sodo, con ogni genere di dimostrazione, che è veramente Iddio quello che ha parlato. Ma se è così, che importa che Dio parli cose intelligibili o non intelligibili? Iddio non è sempre infallibile nella sua parola? Non ha sempre gli stessi diritti sopra di noi? Non può esigere il sacrificio anche del nostro intelletto? Che vale adunque iI dire io non comprendo quello che Egli propone? Avete almeno compreso che è un Dio quello che lo propone? Se avete compreso questo, che non può non comprendersi, avete compreso quanto basta perché siate legato di mani e di piedi, e perché non possiate più fiatare in contrario, se pure non ignorate al tutto quello che sia Dio, la sua padronanza, la sua sapienza, la sua veracità. I vostri diritti son belli e buoni, ma credo che anche Dio possa avere qualche diritto sulle sue creature, e quando voglia farlo valere, come ha fatto nel nostro caso, credo che non avrete diritti contro di Dio. Questa ragione non ammette replica e basta da sé sola a sciogliere ogni difficoltà. – Ciononostante, per trattare con maggior condiscendenza la vostra difficoltà, perché dite che la vostra ragione rimane offesa dai misteri? Non v’avvedete che i miccini hanno già aperto gli occhi e già sanno quello che significano certe frasi, tolte ad imprestito da chi le ha inventate per darsi un po’ d’aria filosofica, quando appunto gli mancava la filosofia? Se il credere quello che non intendete offende la vostra ragione, potete andarvi a riporre, perché questo mondo sublunare non fa per voi. Qui ad ogni momento avrete da credere cose che non comprendete, e vi converrà toglierlo con pazienza, se già non vi mettete all’impresa di fabbricarvi un mondo a bella posta per voi, dove tutto sia chiaro ed intelligibile. E che? Comprendete voi tutti i misteri della natura che avete sempre sotto gli occhi? Di grazia, non credete voi che i venti soffino, benché sapete come essi soffiano; che la luce illumini, benché non ne conosciate l’intima natura; che esista l’etere, benché non apprendete di che sia costituito? Entrate in una famiglia, dove saranno forse sei figliuoli, l’uno savio, l’altro discolo, il terzo sempre gaio, il quarto sempre piangoloso; quegli intende tutto appena avete aperto bocca per parlare, l’altro, per quanto facciate, non in nulla, e sono tutti figliuoli di uno stesso padre, d’una stessa madre. Donde tanta diversità? Ne comprendete voi il mistero? Se siete mai entrato un poco innanzi nella fisica, nella metafisica, nella medicina, od in qualche altra scienza anche naturale, voi non potete ignorare che sono misteriosi nelle loro cagioni i fatti che abbiamo più comunemente sott’occhio, e tuttavia la ragione di nessuno rimane offesa ad ammetterli. Il celebre P. Lacordaire a un cotale che non poteva credere, fece questa interrogazione: sapete voi come avvenga che il fuoco, il quale strugge il burro, induri le uova? Eppur tuttoché non lo intendiate, credete benissimo alla frittata: pensate adunque se debbano offendere la ragione i misteri divini proposti da un Dio! Io vi dirò di più: siccome questi misteri riguardano Iddio, la nostra ragione tanto non resta offesa da essi, che anzi prima ancora che si metta ad investigare le cose divine, già debba aspettarseli. Chi si getta attraverso un oceano per passarlo, deve spettarsi correnti e scogli e venti e burrasche, perché così lo richiede la natura del mare. Così chi si fa a considerare le cose di Dio, deve aspettarsi profondità, sublimità, immensità inarrivabili a mente umana, cioè misteri. – Se Dio, la sua natura, le sue perfezioni, le sue opere potessero esser comprese dall’uomo, sì che egli le adeguasse col suo intelletto, una delle due: o l’uomo sarebbe pari a Dio, o Dio scenderebbe fino alla meschinità dell’uomo. Dire il primo sarebbe un orgoglio pari a quello dello spirito reprobo che disse: Sarò simile all’Altissimo; l’altro sarebbe una bestemmia non ancora venuta in mente, che si sappia, a veruno dei demoni. Il perché la religione vera sarà sempre una religione di misteri, e tanto è falso che il mistero sia indizio di falsità, che anzi vi sarebbe subito da sospettare falsità dove non fosse mistero. – Né solo per ragione dell’oggetto che è Dio, diventa facile la credenza dei misteri, ma ancora (cosa veramente ammirabile!) per l’inclinazione soavissima che ad ammetterli Iddio ha collocata nella natura dell’uomo, dalla quale siamo portati naturalmente a tutto quello che è misterioso sino ad esserne passionati. E vaglia il vero, donde quell’avidità che hanno i giovanetti di essere messi a parte di cose occulte e segrete e di misteriosi avvenimenti? Donde l’ascoltarli con tanta avidità e farne tesoro quando anche sanno che sono finzioni, se non dall’allettamento che ha per noi il mistero? Donde sono sbucate le notturne congreghe, le divinazioni, i sortilegi e tante altre superstizioni perseguitate sì vivamente non solo dalla Chiesa, ma pur dalle leggi civili? Donde l’avventarsi a dì nostri con tanta furia a tutte le mirabilità del magnetismo, delle tavole parlanti, dello spiritualismo, se non per quel carattere misterioso che esse presentano? Noi abbiamo un affetto inestinguibile, al vero, ma come scambiamo spesso il reale coll’apparente, ne nasce l’errore; noi abbiamo un amor invincibile al bene, ma come ci atteniamo spesso all’ombra invece del corpo, ne nasce la colpa: similmente l’inclinazione che abbiamo al mistero fa sì che quando non abbiamo i veri ed i santi, ci appigliamo ai fallaci ed agli irreligiosi. – E ciò è sì vero, che nel secolo scorso in Francia, quando giunta al colmo l’incredulità, ed abolito il Cristianesimo, ed adorata la ragione, furono tolti di mezzo i santi misteri della fede, il popolo si precipitò con tanta furia nei misteri nefandi dei vizio e della superstizione, che non vi fu più modo di dar corso ai processi. Il Portalis testifica che, nella Biblioteca nazionale di Parigi, non si chiedevano più altri libri che di cabala e di magia; il Roubies, bibliotecario pubblico a Lione, mostrò al medesimo le prove autentiche di misteri abominandi che si celebravano periodicamente in notturne assemblee e di tanto orrore, che a petto di essi erano un nulla le più svergognate superstizioni del paganesimo. Ed ai nostri giorni negli Stati Uniti ed in Ginevra quelli che, per non ammettere la divinità di Cristo, negano il mistero dell’Incarnazione, si assidono intorno ad una tavola che loro parla; e credono colla miglior fede del mondo che gli Angeli, gli Arcangeli e Gesù Cristo stesso si trattengono in petto ed in persona con loro sin quando parlano da libertini. Tant’è; bisogna che il mistero santo e religioso occupi convenientemente il nostro spirito, o esso si gitterà ai misteri tenebrosi e svergognati del vizio e della superstizione. – E del dover essere così vi è una ragione chiarissima. Nel mistero vi ha alcun che di maraviglioso, e noi siamo tratti naturalmente quel che desta la meraviglia; nel mistero v’ha del grande e del sublime, e noi siam tratti naturalmente all’immenso ed all’infinito; nel mistero v’ha qualche cosa di augusto e di venerando, e noi, se non facciamo violenza alla nostra natura, siamo portati alla religione ed alla pietà. Non sappiamo spesse volte render ragione delle nostre tendenze, ma non possiamo sottrarci alla forza di quelle inclinazioni che Dio ci pose nel cuore. Il perché tanto è falso che la nostra ragione rimanga offesa dai misteri, che anzi se ne trova mirabilmente giovata e confortata.

II. I misteri, continuano, involgono contraddizioni, ed allor… Non andate oltre. Se voi faceste questa difficoltà ad un putto di dieci anni ben ammaestrato nel catechismo, vi accoglierebbe con una risata, e poi vi risponderebbe che non sono contrari alla ragione, ma superiori: e che però la contraddizione non è reale ma solo apparente. Vedetelo in un esempio: Se, parlando del mistero della SS.Trinità, si dicesse che vi è un Dio solo e che vi sono tre Dei, questa sarebbe una vera contraddizione, e quindi un vero impossibile, perché non si può verificare tutto insieme che Dio sia un solo e che siano tre gli Dei: ma se si dica solamente quel che dice la fede, che Dio è uno solo, sebbene questo Dio solo sussista in tre Persone, non vi è contraddizione veruna. La divinità è una sola sebbene in tre Persone. Resta solo in ciò il mistero che non comprendiamo come Dio possa avere una triplice sussistenza. Ma perché non lo comprendiamo, può forse la nostra ragione Dire che non sia possibile? Per affermarlo bisognerebbe prima che avessimo tale cognizione della natura divina e di tutte le sue proprietà, che potessimo dire tutto quello che le conviene, e tutto quello che le disdice. Il che, come ognun vede, sarà sempre impossibile alla nostra limitatissima capacità, e quindi sempre falsissimo che essa trovi delle contraddizioni nel mistero. E quello che io vi ho detto di questo mistero, e voi applicatelo a tutti gli altri. Non comprendo come Gesù Cristo possa essere tutto insieme e Uomo e Dio: si, ma avete voi mai letto nel profondo dell’essenza di Dio tutte le maniere onde una Persona divina può congiungersi ad una creatura? Non comprendo come Gesù Cristo possa trovarsi sotto le specie sacramentali nella Eucaristia: sì, ma avete scrutati tutti i segreti della sapienza e potenza divina per definire tutti i modi di esistere che essa può dare ad un corpo? Non comprendo come la Madonna possa essere tutto insieme e Vergine e Madre: sì, ma avete voi dunque penetrati tutti i segreti della infinita virtù di Dio, perché possiate accertare che non si stende a quell’effetto? Definite prima tutto ciò e poi potrete parlare. Non vedete che per poter dire che il mistero è impossibile, e contraddittorio, vi bisognerebbe conoscere prima l’essenza, l’infinità, l’onnipotenza, l’immensità di Dio, e che essendo ciò impossibile, perché l’uomo finito non è capace dell’infinito, sarà anche eternamente impossibile il trovare ed il dimostrare nel mistero una contraddizione?

III. Se non che replicano tuttavia: Qual motivo può aver avuto Iddio a porporci dei misteri da credere? Quello che non s’intende non può produrre in noi nessun bene. Poteva dunque guidarci per altra via. Questa domanda sarebbe ridicola, se non fosse sacrilega.Imperocché e chi siamo noi, che domandiamo a Dio perché abbia fatto così? Non basta che ciò sia ordinato da un’infinita sapienza,perché debba curvarlesi prontamente dinanzi ogn’intelletto?E tuttavia non è così difficile il rintracciarne delle ragioni molto soddisfacenti. L’uomo si è perduto per la colpa onde nonvolle credere a Dio là nel paradiso terrestre: è dunque convenientissimomodo di espiazione, che ora creda a Dio senza comprenderequello che crede. In questo modo è mirabilmente ragguagliatala pena alla colpa. Inoltre, qual è il sacrifizio più grandeche l’uomo possa fare alla divinità? Non sono le vittime chepuò scannare, né le oblazioni che può offrire. Per l’intellettol’uomo si differenzia dai bruti ed emula l’angelica natura: or dunquenell’esercizio della fede sacrifichi quello che ha di più splendido,di più angusto, cioè il suo intelletto, e questo sarà sacrifiziodegno dell’uomo, e meno indegno di Dio. Finalmente qual è ilbene che noi aspettiamo come ultimo e preziosissimo frutto dellanostra religione? Il veder Dio faccia a faccia e goderlo svelato:ma dunque quale disposizione è più proporzionata a tal premio, chequella della fede, per cui ora si comincia a credere con merito quello che un giorno si vedrà svelatamente per ricompensa? Anchequeste sole ragioni bastano ad appagare chi con sincerità cerchiil vero. – Né seguita poi quello che affermano gli irreligiosi, che dal mistero non se ne ritragga veruna cognizione.. Imperocché i misteri sono come quella nuvola maravigliosa che guidava il popolo d’Israele nel deserto, la quale se era tutta tenebre da un lato, dall’altra poi spandeva una vivissima a luce. Così i misteri, mentre sono da una parte il nostro intelletto, e servono per esercizio allanostra fede, dall’altra lo illustrano con sovrane verità. In primo luogo, tuttoché non si comprenda quello che forma il mistero,non è da credere che, sotto quelle parole che lo annunziano, non siracchiuda una cognizione. Da quella sacra caligine sempre si traeuna verità sublimissima. Io non intendo come nel mistero. Della SS. Trinità, un Dio sussista in tre Persone distinte, né come nell’Incarnazione due nature sussistano in una sola Persona: mafrattanto ho queste due notizie intorno a Dio ed a Gesù Cristo:notizie di tanto pregio che mi fanno conoscere di Dio, della sua grandezza ed immensità più che non ne seppero naturalmente ipiù profondi pensatori che abbia avuto il mondo.Inoltre, ammessi che siano sulla divina parola i misteri spargonosulle altre verità una vivissima luce. Stando sempre all’esempioallegato, appena posto in sicuro che Dio è Uno e Trino, sispiega come il divin Figliuolo, assumendo la nostra umanità, abbiapotuto dare al Padre una piena soddisfazione. Le grandezzedivine di Cristo, il suo sacerdozio, il suo sacrifizio, i suoi meriti, itesori di confidenza che dobbiamo avere in Lui, la fonte donde ciperverranno tutte le grazie ed altre innumerabili verità che daquel mistero discendono, restano illustrate mirabilmente, sì che ilnostro intelletto se ne appaga. Dite lo stesso della presenza realedi Gesù Cristo nella Eucaristia. Noi non intendiamo come Gesùstia nell’Ostia, ma una volta creduto questo mistero sulla paroladi Gesù, ci si discoprono tutte le ricchezze dell’amor divino versodi noi, tutte le degnazioni, tutte le finezze di Gesù e l’esaltamentonostro e la incomparabile dignità in lui. E quello che si dicedi questi misteri, intendetelo pure di tutti. Sono essi una caliginesacra, è vero; ma una caligine da cui partono raggi di tantaluce, che a petto loro sono tenebre tutte le umane scienze. -E per verità i Padri di santa Chiesa ed i sacri Dottori, contemplandoa lungo quei santi misteri, ne traggono torrenti di vivaluce. Mettete S. Agostino e S. Ilario a speculare sovra il misterodella Trinità sacrosanta, e vi addenseranno volumi sopra volumidi verità al tutto maravigliose; S. Tommaso vi farà lo stesso sulladivina Eucaristia; S. Cirillo e S. Attanasio sulla divina Incarnazione;S. Ambrogio e S. Bernardo sulla Verginità di Maria, e cosìdi tutti i divini arcani, tutti i santi Dottori, mostrando col fatto diquanta luce siano fecondi i misteri, tuttoché oscuri, della santafede. -Sapete quello che solo si richiederebbe in chi muove tante difficoltà contro i misteri, per vedersele tutte sciolte in un punto?Un poco di buona fede, e che si cercasse sinceramente la verità.Ma il fatto è ben altrimenti: si grida contro i misteri, perché ciò sipuò fare senza parerne un animale; ma non sono i misteri quelli nella nostra religione principalmente dispiacciono, sono invece i comandamenti. Si dice che la ragione, la grande, la nobileragione, non consente che si credano tali veri, ed è invece la carne, l’ignobil carne, che non consente che si ammettano tali precetti.Ed io do in pegno l’esperienza di tutti i savii, che, dove Iddio si contentasse di abrogare un paio di comandamenti, per esempio,il sesto ed il settimo, questi nostri filosofi ammetterebbero dibuon grado duecento misteri: ed appena conceduto quel poco dilibertà al senso., la lor ragione non avrebbe più di che turbarsi, esarebbe ristabilita pienamente la pace fra tutti i miscredenti ed i fedeli.Il solo male è che Dio non accetta la condizione.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (53)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (53)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -X-

L. — DIO PREMIANTE E CASTIGANTE.

L 1. 1. Morte dell’uomo.

A morte dell’uomo occorse a causa del peccato, non per necessità di natura 146 222 372 1512 2617.

La fine della sua vita umana è anche la fine della condizione per meritare: non é da mettere in dubbio che le anime nel purgatorio siano fuori dallo stato di meritare 1488; add. il testo circa la sorte dell’uomo dopo la morte L 3 6; l’uomo che differisce la conversione alla fine della vita non trova spazio per la riconciliazione 310.

Cristo a.risorgendo sottomissione l’impero della morte 72 a485 3901.

L 2 2. Il giudizio particolare dell’uomo.

Il giudizio particolare da subirsi, si suppone precedere la destinazione al cielo, al purgatorio, all’inferno (857s 1002 1304-1306): ugualmente indirettamente si distrugge l’asserzione riprovata (ritrattata) di Giovanni XXII [i dannati non andranno alla pena eterna prima dell’ultimo giudizio] 990°.

3. Sorte dell’uomo avviato alla beatitudine: Beatitudine celeste.

L 3a. a. — ESSENZA DELLA BEATITUDINE CELESTE

3aa. Beatitudine essenziale (finale) consiste nella a.fruizione dell’essenza divina, b.nella visione e dilezione di Dio a1000 bc1067 c1316; è chiamato “cielo”, paradiso caeleste, patria sempiterna 839 991 1000.

3ab. Visione dell’essenza divina. I Beati vedono — l’essenza divina 990s 1000 1316; —: Dio uno e trino, e le a.processioni divine 1305 a3815;

— : visione a.intuitiva e b.di faccia b9905 ab1000 b1067; — : l’essenza nuda, chiaramente ed apertamente 1000 1305; —: immediatamente, cioè, senza alcuna mediazione di creatura che sarebbe oggetto di visione; anche le anime separate dai corpi vedono l’essenza nella visione facciale per quanto la loro condizione lo permetta 991.

Riprov. gli errori: [la beatitudine consiste nella visione della sola chiarezza di Dio da Esso emanante] 1009; [Dio può comunicare la sua essenza anche ad entità finite col lume della gloria nel solo modo accomodato di comunicare, cioè in quanto autore di opere ad extra] (3227) 3238-3240.

La visione di Dio evacua l’atto di fede e di speranza in quanto virtù teol. 1001;, non esclude i casto timore 735; riprov. l’asserzione: [nella vita eterna non dobbiamo essere soggetti a Dio come un servo sotto al padrone]; riprov. l’asserzione [nella vita eterna saremo trasformati totalmente in Dio] 960.

3ac. Beatitudine del corpo. Gli uomini davanti al Giudice compaiono con i corpi per ricevere col proprio corpo quanto fanno fatto in vita di bene 574 1002.

3ad. Consorti degli Angeli. Ad essi si aggregano gli uomini beati 443 991 1000. 3ad

L 3b. b. — PROPRIETÀ DELLA BEATITUDINE.

3ba. Soprannaturalità. La beatitudine è dovuta alla grazia di Dio 377 443; il beando manca del lume di gloria elevante 895; reprob.: [l’uomo in questa vita può conseguire la beatitudine finale secondo ogni grado di perfezione] 894.

L’immediata cognizione di Dio all’anima umana non è congenita o essenziale o identica al lume intellettuale 2841 2844s 3237; riprov.: [Dio non può produrre esseri intelligenti senza ordinarli alla visione beatifica] 3891.

3bb. Ineguaglianza della beatitudine. Per la diversità dei meriti c’è un più alto il grado di perfezione 1305 (582);

Si riprov. tuttavia: [le anime liberate dal purgatorio grazie ai suffragi degli altri, sono meno felici che se avessero soddisfatto da soli] 1490.

3bc. Sicurezza della beatitudine. L’uomo è beato senza timore di errare 443; cf. anche il falso presupposto nell’asserzione riprovata [le anime preesistono e stanche della contemplazione divina fecero poi defezione] 403.

3bd. Eternità della beatitudine. I beati vedono Dio in eterno a.senza interruzione 1000 a1001; Cristo fa participi gli uomini della sua immortalità 413; il premio delle opere buone è la perpetua felicità perpetua, la vita eterna 76 377 443 485 802 1545s 1638; add. testo circa la fede nella vita eterna: L 7e; gli uomini buoni risorgono alla gloria sempiterna 801; raggiungono il regno della beatitudine senza fine, la patria sempiterna 574 839.

L 3c. c. — AMMISSIONE ALLA BEATITUDINE.

L 3c. Condizioni da parte dell’anima. La morte nelle stato di grazia o in carità 839 1546

1582; l’accesso è aperto alle anime — di coloro che dopo il battesimo non hanno commesso assolutamente alcun peccato 857 925 1305; —: di coloro che sono state purificate da una a.piena purgazione o soddisfazione (in terra o in purgatorio) 857 925 a990s 1000 1067 a1074 1305; —: i fanciulli morti dopo il battesimo prima dell’uso della ragione (794) 839 a1000 1316.

3cb. Condizioni da parte del tempo. Il Regno della beatitudine era chiuso per tutti fino alla morte di Cristo 780 1000; l’ingresso fu dischiuso all’ascensione di Cristo 1000;

si riprov.: [i santi soggiornavano in paradiso prima del tempo della Redenzione] 337.

La beatitudine finale non può essere acquisita già in questa vita 894.

Le anime purgate a.subito (b.immediatamente) dopo la morte, pervengono alla beatitudine anche c.prima della resurrezione dei corpi e il giudizio universale b857 a925 ac991 ac1000 ac1067 a1305 b1316; riprov. l’asserzione opposta: [Anima separata ha la visione della divinità non prima della resurrezione dei corpi 990° 1009.

L 3d. d. — COMUNICAZIONE TRA CHIESA TRIONFANTE E MILITANTE.

3da. La Comunione dei santi è la mutua comunicazione tra fedeli di ausili, espiazioni, preghiere, benefici, o dei giunti nella patria celeste o ancora immersi nel fuoco espiatorio o ancora peregrinanti in terra, in una unica città 3363; fede dei symbol. della fede nella comunione dei Santi 19 26-30; i Santi offrono orazioni per gli uomini 1821 1867 2187; patrocinio dei Santi 3363.

3db. Culto dei Santi. Vd. K 2dd; ogni culto liturgico prestato agli Angeli e agli uomini ridonda e finisce come culto alla Ss. Trinità (675 1824s) 3325.

4. Sorte dell’uomo purgante: il purgatorio.

L 4a. a. — ESISTENZA ED ESSENZA DEL PURGATORIO.

Purgatorio o catartario è il nome del luogo di purgazione degli uomini 838 856.

Si tivendica l’esistenza del purgatorio 1010 1487 1820 1867 3554.

Al Purgatorio è destinato l’anima degli uomini deceduti in grazia, che non hanno pienamente soddisfatto ai loro peccati 838 856 1066 1304 1398 1580.

Il Purgatorio è concepito come fuoco a.transitorio temporaneo) 8838 a1067 1398 3363.

Si riprovano le asserzioni circa le anime in Purgatorio peccanti e non sicuri della propria salvezza 1488s.

L4b. b. — COMUNICAZIONE TRA LA CHIESA MILITANTE E LA PENITENTE

Le anime purganti partecipano alla comunione dei Santi 3363; da se stessi non possono meritare e quindi hanno bisogno dei suffragi degli altri 1398 1405; ad essi possono essere utili i suffragi dei fedeli viventi: a.il Sacrificio della Messa, b.le orazioni, le c elemosine, d.altri benefici ed esercizi di pietà (a583) a741 acd797 abcd856 abcd1304 bc1405 a1743 a1753 a1820 a1866s a2535 a3363.

Le indulgenze possono applicarsi alle anime purganti per modo di suffragio 1398 1405 1448 CdIC 911; nella misura in cui si giudicano applicate ai bisogni dei defunti 1448 2750; riprov. le ass. neganti applicabilità o l’utilità delle indulgenze per i defunti 1010 1416 1472 1490 2642s;

riprov.: [l’Anima liberata in virtù dei suffragi è meno beata di quanto avesse soddisfatto da sé stessa] 1490.

L 5. 5. Sorte del defunto col solo peccato originale: il limbo.

La pena del peccato originale è la mancata visione di Dio (184 219) 780; add. circa le sequele D 3bd; non esiste un luogo di mezzo della beatitudine tra il regno di Dio e la dannazione, nel senso dell’intelletto pelagiano 0 (184) 224 2626; si riprova.: [L’anima dei bambini nati da genitori cristiani morti senza bpt. vanno nel paradiso terrestre, l’anima dei bambini nati sa genitori non Cristiani, vanno nei luoghi in cui si trovano i loro genitori] 1008.

Le anime decedute col solo peccato originale discendono nell’inferno, dove tuttavia, sono puniti in modo diverso 858 a926 1306; sono puniti con la pena del danno senza la pena del fuoco 2626; il luogo in cui stazionano è chiamato di solito limbo 2626; si riprova: [il picccolo deceduto senza battesimo avrà in odio Dio] 1949.

6. Sorte dell’uomo dannato: inferno.

L 6a. a. — ESISTENZA DELL’INFERNO DI PENE.

L’anima deceduta in peccato attuale mortale discende nell’inferno. (338 342) 839 858 926 1002 1075 1306; Christo (con la sua passione) non distrusse l’inferno inferiore, riprovato: [distrusse totalmente l’inferno] 1011 1077.

L 6b. b. — NATURA DELL’INFERNO.

Pena dell’inferno è designata con le parole a.supplizio, b.cruciato, et massimamente c.fuoco (ardore)

c76 c.338 c342 a443 a485 c575 b780 (c2626); questa pena è eterna (a.fuoco inestinguibile) 72 76 212 342 a443 486 574 596 630 780 801 839; riprov. l’asserzione circa la futura crocifissione redentrice di Cristo per i demoni e circa la reintegrazione dei demoni e degli uomini dannati p0409 411.

L 6c. c. — CAUSE DELLA DANNAZIONE.

Gli uomini si dannano per l’arbitrio della propria volontà 443; per peccati capitali 342; per la morte a.senza penitenza nello stato di peccato b.mortale c.attuale c627 c780 ab839 c1002 b1075 bc.1306.

7. La sorte finale del mondo.

L 7a. a. — AVVENTO DI CRISTO GIUDICE.

Fede (nei symbol.) nell’avvento di Cristo a.gloriosa b.nella sua carne a6 10-30 a40-42 a44 ab46 ab48 50s 55 a60 61-64 76 125 a150 b167 325 414 443 485 492 681 b791 801 852; questioni eseget. 3433 3628-3630.

Si riprova l’asserzione del Millenarismo o Chiliasmo: [Cristo prima del giudizio finale verrà visibilmente su questa terra per regnarvi] 3839; si riprova:

[L’avvento0 alla fine dei secoli si può attribuire al Padre] 737.

L 7b. b. — RESURREZIONE DEI MORTI.

Fede (dei symbol.) nella resurrezione della carne (ossia dei morti) 2 5 10-30 36

41//51 55 60 63 76 150 190 200 540 574 684 797 854; tutti risorgono 443 493 540 801 859 1002.

L’uomo riceve col proprio corpo quanto meritato 443 574 1002; l’uomo risorge —: nella medesina carne con cui visse 23 72 76 325 485 684 797 801 854;

—: non in una qualsiasi carne 540 574 797; —: non in a.aerea o b.nell’ombra di una visione fantastica a540 ab574; si riprovano gli errori circa la costituzione dei corpi dopo la resurrezione 407 1046.

La glorificazione del corpo del capo mistico di Cristo è da aspettarsi nell’avvento della futura gloria dei membri (358) 414 (485); Cristo (a.vivificante i morenti) resuscita i morti 72 a369 485; si riprova tuttavia: [la Risurrezione dei morti è da attribuire solo ai meriti di Cristo] 1910.

L 7c. c GIUDIZIO OUNIVERSALE.

Fede (dei Simboli) nel futuro giudizio di Cristo 10-30 40//51 55 60-64 76 125 150 325 414 443 485 492 540 574 681 791 801 852 859 1549; gli uomini rendono ragione dei loro atti 76 859 1002.

il giorno del giudizio è sconosciuto agli Angeli ed agli uomini, anche a.a Paolo Apostolo (non ostante certe espressioni) 474s a3629; solo Cristo conosce questo giorno per potenza divina 474-476.

L 7d. d. FINE DEL MONDO.

Si riprova la spiegazione della fine del mondo materiale. 1361.

L 7e. e. – IL REGNO ETERNO DI DIO E DI CRISTO.

I beati vivono senza fine 443; fede dei symb. nella vita eterna 3s 11° 15 18-30 36 41 //51 60 72 76 150 854; la vita eterna è il frutto della giustificazione, gratuito e mercede delle buone opere 72 443 485 540 1351 1545-1547 (1522) 1576 1582.

la Chiesa transiterà nel regno celeste 493; fede dei Symb. Nel regno dei cieli 3s 44 46 48 60 63; Cristo fa partecipi i fedeli del suo regno 540; la Chiesa, i Santi, i fedeli regneranno con Cristo a.in perpetuo a.550 s575 1821 2187 3363; il regno di Cristo non avrà fine 41s 44 56 48 60 150.

IL MONDIALISMO SATANICO BENEDETTO DALL’ANTIPAPA RONCALLI.

Il mondialismo satanico benedetto dall’antipapa Roncalli

Da un’intervista ad un sedicente arcivescovo (facilmente reperibile in rete) leggiamo:

D. Ritiene (…) che il globalismo sia essenzialmente satanico? 

R. L’essenza del mondialismo è satanica, e l’essenza del satanismo è mondialista. Perché il piano di Satana è di instaurare il regno dell’Anticristo, dandogli modo di parodiare la vita terrena di Cristo, imitare i Suoi miracoli con grotteschi prodigi, trascinare le folle non con la semplicità della Verità ma con l’inganno e la menzogna. Il mondialismo costituisce, per così dire, l’allestimento scenico, il copione e la sceneggiatura che devono preparare l’umanità all’ascesa politica dell’Anticristo, al quale i governanti del mondo – suoi servi – cederanno le sovranità nazionali perché egli diventi una sorta di tiranno mondiale. – Ma il regno dell’Anticristo non si crea dal nulla: prima occorre cancellare quel che rimaneva del regno di Cristo nelle istituzioni, nella cultura e nella quotidianità dei cittadini. La dissoluzione morale è una delle vie più semplici per soggiogare le masse, incoraggiandole al vizio e deridendo la virtù; e ovviamente distruggendo la famiglia naturale, cellula fondamentale della società, eliminata la quale i figli diventano commodity, prodotti che chi ha soldi può ordinare su internet, alimentando una rete criminale vastissima e sempre più fiorente, senza parlare dell’industria della maternità surrogata. Divorzio, aborto, eutanasia, omosessualismo e pansessualismo, mutilazioni per la transizione di genere si sono dimostrati efficaci strumenti per eliminare non solo la Fede rivelata, ma anche i più sacri principi della Legge naturale. – Ed è di fatto una religione, quella che va instaurandosi con l’ideologia woke; una religione che come quella vera, ma con scopi diametralmente opposti, intende imporsi nella società, permeare con i propri dogmi le istituzioni, le leggi, l’istruzione, la cultura, le arti, le attività umane. – I globalisti applicano i principi cattolici della «regalità sociale», ma proclamano satana re delle società: Te nationum præsides honore tollant publico: colant magistri, judices; leges et artes exprimant. Te delle nazioni i Principi manifestino Re con pubblico onore: Te adorino i maestri, i giudici; le leggi e le arti esprimano. Sono le parole dell’inno di Cristo Re, ma le vediamo blasfemamente applicate dai sacerdoti del Nuovo Ordine Mondiale al loro re, il Principe di questo mondo, e all’Anticristo a suo tempo.  – Attenzione, però: il globalismo, come emanazione del pensiero massonico e rivoluzionario, apparentemente proclama la democrazia e condanna i regimi assoluti; ma di fatto sa benissimo che la Monarchia di diritto divino è la migliore forma di governo possibile, perché assoggetta tutti – anche lo stesso Re, che è vicario di Cristo nelle cose temporali – a una legge trascendente cui tutti devono obbedienza.  – La censura delle notizie non allineate alla narrazione ufficiale, compiuta con la complicità delle piattaforme social e dei media, è la stessa censura che i liberali dell’Ottocento condannavano sui loro fogli clandestini, quando veniva però applicata per impedire la diffusione di errori filosofici e dottrine contrarie alla vera Religione cattolica. – E non è un caso se la finzione democratica ricorre a mezzi di repressione violenta delle proteste popolari che in una libera democrazia dovrebbero portare alle barricate, e alla esecrazione internazionale – penso tra gli altri a Macron, allievo dello Young Leaders for Tomorrow del World Economic Forum di Klaus Schwab. – Non basta chiamare «democrazia» una dittatura, perché lo diventi d’incanto, soprattutto quando il consenso dei cittadini per chi interpreta il loro stato d’animo e le loro aspettative costituisce una pericolosa minaccia alla sopravvivenza di questi parassiti eversori. (…). – Il paradosso appare nella sua evidenza quando vediamo accusare di estremismo un partito cattolico francese e allo stesso tempo inviare armi e aiuti al regime di Zelens’kyj, sostenuto da gruppi neonazisti che praticano la pulizia etnica contro i propri cittadini russofoni, perseguitano i ministri della Chiesa Ortodossa Russa (e anche di quella Cattolica di rito orientale, sul versante ungherese), ostentano svastiche e simboli hitleriani, inneggiano al criminale Bandera e celebrano lo sterminio degli ebrei di cui costui fu responsabile in Ucraina. – Ripeto: se la democrazia funzionasse, non lascerebbero i cittadini a baloccarsi con la farsa delle elezioni e con l’illusione di essere rappresentati in Parlamento. Se la permettono, è perché l’oligarchia massonica sa di poterla controllare tramite i suoi emissari, piazzati ovunque. – D’altra parte, l’Anticristo sarà re, non presidente; eserciterà il potere in forma assoluta, totalitaria, dittatoriale. E chi avrà creduto alla favola della democrazia scoprirà troppo tardi di essere stato ingannato. …

Fin qui le “giuste” e condivisibili parole del sedicente “arcivescovo”, (falsamente ed invalidamente ordinato dall’antipapa e teatrante teosofo comunista Woitiła) il 3 aprile del 1992 con il blasfemo ed eretico rito montiniano (inventato dal sedicente Paolo VI) totalmente invalido ed atto a consacrare al demonio un “eletto manicheo”, parole che hanno un fondo di verità mutuato dalle dichiarazioni di ben documentati “antisistemisti”. Apprezziamo le dichiarazioni del sedicente arcivescovo con tutte le riserve del caso circa un aderente alla “chiesa dell’uomo” di cui è stato esponente non di secondo piano con gli importanti ruoli ricoperti presso organizzazioni mondialiste, oggi apparentemente recitante il ruolo di “pentito”, in realtà scismatico dalla “vera” Chiesa eclissata e dal suo “legittimo” capo, il Vicario in terra di Cristo, quindi fuori dalla Chiesa Cattolica, oltretutto aderente a colui che egli considera il Papa e nei cui confronti rilascia dichiarazioni infamanti che nessun vero Cattolico potrebbe mai rivolgere ad un legittimo Vicario di Cristo. Ma l’evidente ipocrisia si manifesta nell’occultare la “benedizione” che al pensiero ed all’azione mondialista diede a suo tempo il primo antipapa dell’era moderna della sinagoga di satana insediata in Vaticano il 26 ottobre del 1958, il Cardinale della quinta colonna massonica Angelo Roncalli, (sedicente Giovanni XXIII, stesso nome di B. Cossa, ugualmente antipapa del quattrocentesco scisma d’Occidente). Senza volerci inoltrare in considerazioni personali di scarsa importanza e che potrebbero portarci ad una mancanza di carità, passiamo direttamente a citare alcune parti della pseudo-enciclica mondialista dell’usurpante antipapa (Papa dell’epoca era S.S. Gregorio XVII, G. Siri), la Pacem in terris, dell’aprile 1963, due mesi prima della sua morte (grassetti e sottolineature sono nostre):

…. Segni dei tempi

75. Come è noto, il 26 giugno 1945, venne costituita l’Organizzazione delle Nazione Unite (ONU); alla quale, in seguito, si collegarono gli istituti intergovernativi aventi vasti compiti internazionali in campo economico, sociale, culturale, educativo, sanitario. Le Nazioni Unite si proposero come fine essenziale di mantenere e consolidare la pace fra i popoli, sviluppando fra essi le amichevoli relazioni, fondate sui principi della uguaglianza, del vicendevole rispetto, della multiforme cooperazione in tutti i settori della convivenza. – Un atto della più alta importanza compiuto dalle Nazioni Unite è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata in assemblea generale il 10 dicembre 1948. Nel preambolo della stessa dichiarazione si proclama come un ideale da perseguirsi da tutti i popoli e da tutte le nazioni l’effettivo riconoscimento e rispetto di quei diritti e delle rispettive libertà. – Su qualche punto particolare della dichiarazione sono state sollevate obiezioni e fondate riserve. Non è dubbio però che il documento segni un passo importante nel cammino verso l’organizzazione giuridico-politica della comunità mondiale. In esso infatti viene riconosciuta, nella forma più solenne, la dignità di persona a tutti gli esseri umani; e viene di conseguenza proclamato come loro fondamentale diritto quello di muoversi liberamente nella ricerca del nell’attuazione del bene morale e della giustizia; e il diritto a una vita dignitosa; e vengono pure proclamati altri diritti connessi con quelli accennati.

Auspichiamo pertanto che l’Organizzazione delle Nazioni Unite — nelle strutture e nei mezzi — si adegui sempre più alla vastità e nobiltà dei suoi compiti; e che arrivi il giorno nel quale i singoli esseri umani trovino in essa una tutela efficace in ordine ai diritti che scaturiscono immediatamente dalla loro dignità di persone; e che perciò sono diritti universali, inviolabili, inalienabili. Tanto più che i singoli esseri umani, mentre partecipano sempre più attivamente alla vita pubblica delle proprie comunità politiche, mostrano un crescente interessamento alle vicende di tutti i popoli, e avvertono con maggiore consapevolezza di “essere membra vive di una comunità mondiale.” …

Ovviamente, non troviamo nessun accenno a Dio o a Cristo, o alla vera unica Religione divina o alla retta morale del Cristianesimo, ma un auspicio a che il mondo intero sia governato da un’autorità unica come si sta palesando oggi in tutta la sua mostruosa identità. Il diritto di Dio e della Chiesa sono totalmente obliati, come anche quelli della salvezza eterna dell’uomo, mentre si applaude ai diritti laici dell’uomo sganciati dalle fede e dal soprannaturale; tante altre considerazioni potrebbero farsi, ma le lasciamo alla sensibilità dei lettori. Come mai il (canonicamente falso arcivescovo e fallibilista circa l’operato di colui che riconosce essere “papa” – quindi scomunicato ipso facto secondo il codice canonico -) non ricorda ai suoi accoliti questo documento in cui è sdoganato senza remore il mondialismo che oggi è sulla bocca e nella penna di tutti? Non vogliamo infierire ulteriormente, lasciamo a chi possieda ancora un criterio morale retto ed una sana attività intellettuale, il compito di prendere atto ed agire – almeno spiritualmente – di conseguenza. Il Fabianesimo in atto, agisce con lentezza, ma da “buona tartaruga” va avanti come un lupo travestito da agnello. Gesù Cristo ce lo ha detto fin dall’inizio della sua predicazione evangelica. Crediamogli, finché siamo in vita.

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (X)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (X)

CATECHISMO POPOLARE O CATTOLICO SCRITTO SECONDO LE REGOLE DELLA PEDAGOGIA PER LE ESIGENZE DELL’ETÀ MODERNA

DI

FRANCESCO SPIRAGO

Professore presso il Seminario Imperiale e Reale di Praga.

Trad. fatta sulla quinta edizione tedesca da Don. Pio FRANCH Sacerdote trentino.

Trento, Tip. Del Comitato diocesano.

N. H. Trento, 24 ott. 1909, B. Bazzoli, cens. Eccl.

Imprimatur Trento 22 ott. 1909, Fr. Oberauzer Vic. G.le.

PRIMA PARTE DEL CATECHISMO:

FEDE (6).

2-7 Art. del Simbolo: Gesù Cristo.(1)

I. La redenzione.

GESÙ CRISTO, NOSTRO SALVATORE, CI HA LIBERATO DELLE CONSEGUENZE DEL PECCATO ORIGINALE.

L’uomo decaduto era incapace da solo di riacquistare la santità e la giustizia primitive, così come i beni che ne dipendevano. Un uomo morto non può risorgere il suo corpo, ed un’anima morta spiritualmente non può tornare di sua spontanea volontà alla vita. “Se già l’uomo con la grazia di Dio, non ha potuto mantenere se stesso nello stato di rettitudine in cui è stato creato, quanto più non può tornare ad esserlo senza la grazia di Dio (S. Aug.). L’uomo, dopo il peccato originale, assomiglia ad un malato che può muovere le braccia e le gambe, ma non può alzarsi dal letto senza un aiuto esterno, né trasportarsi verso il luogo della sua destinazione. (S. Th. Aq.). Ciò che il Buon Samaritano fu per l’ebreo caduto nelle mani dei ladri, Cristo è è per l’umanità ferita dalle astuzie del diavolo e spogliata dei suoi doni soprannaturali. Cristo è perciò chiamato il Salvatore (guaritore) dell’umanità, perché ha portato il rimedio a questa umanità rovinata dal peccato (Sailer – gesuita bavarese, poi secolarizzato, professore di teologia ad Ingolstadt e Landshut, poi Vescovo a Ratisbona, 1751-1832).

Prima di tutto, Cristo ha liberato la nostra anima dalle conseguenze del peccato originale: ha illuminato la nostra ragione con la sua dottrina, ha inclinato la nostra volontà al bene con i suoi comandamenti e le sue promesse, ha preparato per noi con il suo sacrificio sulla croce le grazie (i soccorsi) di cui abbiamo bisogno per ottenere la grazia santificante, per tornare ad essere figli di Dio ed eredi del cielo.

Cristo ha quindi svolto una triplice funzione: quella di Profeta o di magistero dottrinale; quella di Re o di governo pastorale; quella di Pontefice o di ministero sacerdotale. Cristo è dunque il nostro Maestro, il nostro Re ed il nostro Pontefice. A queste funzioni corrispondono le tre parti del catechismo: nella prima, Cristo ci insegna, nella seconda ci governa, nella terza si sacrifica per noi. – Il Cristo usa diverse figure per designare questa triplice funzione. Egli si definisce la luce del mondo, perché illumina la nostra comprensione con il suo insegnamento. (S. Giovanni XII, 46). Una torcia nell’oscurità illumina e fa vedere gli oggetti lontani, così Gesù Cristo ci fa vedere ciò che è più lontano: l’aldilà e l’eternità. – Davanti a Pilato Egli si dichiara re di un regno che non è di questo mondo (S. Giovanni XVIII, 36); si definisce anche il buon pastore che dà la vita per le sue pecore (id. X, 11); si paragona spesso ad una guida e ci esorta a seguirlo (id. XIV, 6; S. Matth. X, 38). “Noi siamo viaggiatori su questa terra che non hanno una dimora fissa, ma che cercano la dimora del futuro. Il cammino è accidentato, ripido, fiancheggiato da precipizi, e ci sono molti che per ignoranza si smarriscono e periscono. Ma abbiamo una guida che dice di sé: “Io sono la via, la verità e la vita”. (San Giovanni XIII). Se seguiamo questa guida e non abbandoniamo i suoi passi, non possiamo smarrirci. (L. de Gren.) – S. Paolo chiama Cristo il grande Pontefice (Eb. II, 17), che non ha dovuto sacrificarsi prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo (id. VII, 27), che non offrì il sangue di animali, ma il proprio corpo una volta per tutte (id. Xi), e che è entrato nei cieli (id. IV, lô). Con la sua obbedienza ha espiato la disobbedienza di Adamo (Rom. V, 19), poiché è stato obbediente fino alla morte di croce (Fil. II, 8). – Poiché Cristo ha dischiuso con il suo sacrificio le fonti della grazia, la Messa e i sacramenti, attraverso i quali possiamo recuperare la santità e la filiazione divina (Gai. IV, 5) e i nostri diritti al cielo (ibid.), diciamo che il Salvatore ci ha riaperto il paradiso. È proprio per questo che alla sua morte si è squarciato il velo del tempio che chiudeva il Santo dei Santi. (S. Matth. XXVII, 51). Abbiamo la speranza certa di entrare nel Santo dei Santi, cioè in cielo, attraverso il sangue di Gesù Cristo (Eb. X, 19). La croce è la chiave del cielo. (S. G. Cris.).

Cristo ha liberato il nostro corpo dalle conseguenze dannose del peccato.: morendo per noi, ci ha fatto guadagnare la risurrezione, ci ha insegnato con i suoi insegnamenti e il suo esempio come vivere felicemente in questo mondo come in cielo, e come dominare il mondo; infine, ci ha mostrato i mezzi per tenere il diavolo lontano da noi e per vincerlo.

Cristo era libero da ogni peccato, anche dal peccato originale. Per questo Egli non era soggetto alla morte che è la punizione per quel peccato. È morto liberamente per noi. Perciò è giusto che ci venga restituita la vita e che risorgiamo. Un paragone ci aiuterà a comprendere questa verità. Se dobbiamo una somma di denaro e un amico paga questo debito nello stesso momento in cui noi lo paghiamo, è giusto che ci vengaa restituito il danaro. Il Cristo è la risurrezione e la vita; (S. Giovanni XI, 2) e con la sua stessa risurrezione ha voluto darci un pegno della nostra. (I Cor. XV). La morte è venuta attraverso un uomo, la risurrezione dei morti deve venire se osserviamo la dottrina di Cristo, otterremo la vera felicità (si vedano le parole di Cristo alla Samaritana – S. Giov. IV) e godremo del paradiso terreno già in questa vita. – Praticando le virtù che Gesù Cristo ha insegnato e praticato, in particolare l’umiltà, la mitezza, la liberalità, la castità, praticando i consigli evangelici, possiamo respingere gli assalti del diavolo, nella misura in cui sono dannosi per la nostra salvezza. Cristo ha solo spezzato il potere di satana (Apoc. XII, 8), non lo distruggerà completamente se non all’ultimo giorno. (I Cor. XV, 24). – È per aver gettato satana dall’alto del suo potere che Gesù Cristo disse: “Ho visto Satana cadere come un fulmine dal cielo” (S. Luc. X, 18). – Con Gesù Cristo, nostro Salvatore, abbiamo più o meno riacquistato tutti i doni persi a causa del peccato. Senza dubbio, rimanevano molte conseguenze: concupiscenza, malattie, morte. Ma grazie ai meriti di Gesù Cristo, siamo stati compensati con doni più grandi e più numerosi di quelli che ci sono stati tolti dalla gelosia del diavolo. (S. Leone M.) Dove c’era abbondanza di peccato” c’era allora una sovrabbondanza di grazia. (Rom. V, 20). O colpa felice – esclama S. Agostino – che ci ha portato un Salvatore così grande e glorioso!

2. LA PROMESSA DEL REDENTORE.

Dio, che non aveva perdonato gli angeli caduti, perdonò i nostri primi avi perché erano meno colpevoli. Essi non lo conoscevano molto bene e sono stati sedotti dal diavolo. Inoltre, gli uomini avevano, almeno in parte confessato e si erano pentiti del loro peccato (non avrebbero dovuto però dare la colpa agli altri). Infine, Dio non voleva per la colpa di uno solo far sprofondare l’intera umanità in una disgrazia irreparabile.

1. SUBITO DOPO LA CADUTA, DIO HA PROMESSO ALL’UMANITÀ UN SALVATORE. DIO DISSE AL SERPENTE INFERNALE:

Porrò inimicizia tra te e la donna, e tra il tuo seme e il suo; ella ti schiaccerà la testa“. (Gen. ni, 15).

Questo è il significato di queste parole: porrò inimicizia tra satana e la Vergine Maria, tra i settari di satana e Cristo, il figlio della Vergine (Gal, III, 16); la Vergine Maria darà alla luce Colui che annienterà il potere del demonio, cioè Colui che libererà la razza umana che si è sottomessa alla sua influenza a causa del peccato originale. È un errore credere che con queste parole Dio abbia voluto solo ispirare all’uomo l’avversione, l’orrore del serpente; Dio le pronunciò contro il seduttore e non contro il suo semplice strumento. – Queste parole sono comunemente considerate il Provangelo, (primo) Vangelo, cioè la prima buona notizia del Redentore.. – Tuttavia, il Redentore non venne subito, perché gli uomini diventarono troppo sensuali e quindi incapaci di ricevere una grazia così grande. Egli fu invece costretto a punirli molto severamente con il diluvio, la distruzione di Sodoma e Gomorra e la dispersione presso la Torre di Babele.

2. 2000 ANNI DOPO, DIO PROMISE AD ABRAMO CHE IL REDENTORE SAREBBE STATO UNO DEI SUOI DISCENDENTI.

All’inizio Abramo viveva a Ur (città del fuoco) in Caldea, poi ad Haran in Mesopotamia; circondato da idolatri, aveva mantenuto la sua fede nel vero Dio. Il Signore allora gli ordinò di lasciare la sua famiglia e di andare in Chanaan o Palestina. Come ricompensa per questa obbedienza, Dio gli promise che in lui sarebbero state benedette tutte le generazioni della terra. (Gen. XlI, 23). Gli promise anche una numerosa discendenza. (Abramo è il padre spirituale di tutti i credenti. Rom. IV, 11). e diede a lui e ai suoi discendenti la fertile terra di Palestina (Gen. XII, 7). – Dio rinnovò questa promessa quando venne con due angeli a fargli visita nella sua tenda. (Gen. XVIII) e quando, per obbedienza, Abramo si preparò a sacrificare suo figlio Isacco. (Gen. XXII).

Questa promessa fatta ad Abramo, Dio la rinnovò ad Isacco, Giacobbe e circa 1000 anni dopo al re Davide.

Dio apparve a Isacco quando, spinto dalla carestia, volle attraversare la Palestina (Gen. XXVI, 2); a Giacobbe, quando fuggì dalla casa paterna e vide la visione della scala misteriosa (id. XXVIII, 12). Davide (re dal 1055 al 1015) ricevette da Dio, attraverso il profeta Natan, che uno dei suoi discendenti sarebbe stato il Figlio di Dio e avrebbe fondato un regno eterno. (II Re VII, 12). – Gli uomini dalla cui stirpe è nato il Salvatore sono chiamati Patriarchi. Ci furono 10 patriarchi prima del diluvio, da Adamo a Noè, e 12 da Shem ad Abramo, Isacco e Giacobbe.

Tutti i patriarchi vissero fino all’età matura: prima del diluvio raggiunsero un’età di quasi 1000 anni, dopo il diluvio, da 400 a 450 anni. Questa longevità può essere spiegata in parte dalla semplicità dei loro costumi, dalla loro vita all’aria aperta, dalle condizioni atmosferiche più favorevoli prima del diluvio, ma soprattutto dai disegni della Provvidenza, che attraverso questa ininterrotta tradizione ha voluto educare il genere umano; ciò che la Sacra Scrittura e l’insegnamento della Chiesa sono per noi, i Patriarchi lo furono per le generazioni primitive.

3. IN SEGUITO DIO INVIÒ I PROFETI E FECE LORO PREDIRE MOLTE E DETTAGLIATE COSE SULLA VENUTA, LA PERSONA, LE SOFFERENZE E LA GLORICIZIONE DEL MESSIA.

I Profeti erano uomini illuminati da Dio (uomini di Dio) che erano stati incaricati da Lui di parlare agli israeliti in suo nome. Il ruolo principale dei Profeti era quello di impedire a Israele di peccare (di rimproverarli quando avevano peccato) e di prepararli alla venuta del Messia (cioè di profetizzare su di Lui). – Dio scelse profeti di diversa estrazione (Isaia era di stirpe reale; Amos era un pastore; Eliseo era stato chiamato dall’aratro) e concesse loro il dono dei miracoli e della profezia (predire le punizioni e gli eventi futuri della vita del Messia), cosicché furono immediatamente considerati come inviati di Dio. La maggior parte di loro conduceva una vita molto penitente; alcuni rimasero celibi (Elia, Eliseo, Geremia). – I Profeti parlavano con grande audacia ed erano molto stimati dal popolo. Tuttavia, tutti furono perseguitati e alcuni messi a morte (S. Matth. XXIII, 20). In tutto, i profeti furono circa 70. Mosè stesso era un grande profeta (Dent. XXXIV3 10); il più grande fu Isaia, che parlò così chiaramente del Salvatore, che noi potremmo – dice San Girolamo – chiamarlo evangelista. L’ultimo Profeta fu Malachia (intorno al 450 a.C.). Diversi profeti hanno lasciato degli scritti (4 grandi e 12 piccoli Profeti).

I. SULLA VENUTA DEL MESSIA I PROFETI HANNO PREDETTO:

1. Che sarebbe nato a Betlemme.

“E tu, Betlemme chiamata Efrata, dice Michea, sei piccola tra le città di Giuda; ma da te uscirà Colui che dovrà regnare in Israele, la cui generazione è fin dal principio, da tutta l’eternità. “(Michea V, 2). – Così i re Magi furono informati che il Salvatore dovesse nascere a Betlemme. (S. Matth. II, 5).

2. Che il Messia sarebbe venuto finché fosse rimasto il 2° tempio.

Quando i Giudei, al ritorno dalla cattività, cominciarono a ricostruire il tempio, gli anziani che avevano visto l’antico tempio piansero amaramente, perché videro fin dall’inizio che il nuovo tempio non avrebbe eguagliato la grandezza e la bellezza di quello antico. Il Profeta Aggeo venne allora a consolarli, dichiarando che il Salvatore sarebbe entrato nel tempio che stava per essere costruito. Il Salvatore sarebbe entrato in questo tempio che avrebbe prevalso in gloria sul primo (Agg. II, 8-10). – Ora, questo tempio fu distrutto da Tito nel 76 (d.C.) e non fu mai più ricostruito.

3. Che il Messia sarebbe venuto quando i Giudei sarebbero stati privati della sovranità (potere regale).

Prima di morire Giacobbe benedisse i suoi figli e disse a Giuda: “Lo scettro (la sovranità, l’autonomia) non uscirà da Giuda fino all’arrivo di Colui che le nazioni attendono. (Gen. XLIX, 10). Da quel momento in poi, la tribù di Giuda conservò la sovranità. All’uscita dall’Egitto e sotto i Giudici, essa fu la tribù dominante (Num. II, 3-9; Giud. I, 3; XX, XVIli). Il re Davide apparteneva alla tribù di Giuda (l Par. II, 16), così come i suoi successori fino alla cattività, e Zorobabele, che riportò il popolo (Esdr. I, 8). E mentre i Giudei erano sottomessi a re stranieri, i governatori che in Oriente hanno il potere assoluto, erano Giudei. In seguito, il popolo giudaico riacquistò la libertà ed ebbe re nazionali della famiglia dei Maccabei. Ma nel 39 a.C. i re giudei persero il loro trono, perché in quell’anno uno straniero pagano, Erode il grande (nato l’anno 3 dopo Gesù Cristo), fu nominato re dai Romani. – In quel periodo il Salvatore era davvero atteso in tutta la Giudea; infatti, Erode tremò quando i Magi gli chiesero dove fosse nato il Salvatore (S. Matth. 11, 3); i Giudei credettero addirittura che Giovanni Battista nel deserto fosse il Cristo (S. Luc. IIl, 15). – Anche la Samaritana al pozzo di Giacobbe parla della venuta del Messia (S. Giovanni IV, 25). Il sommo sacerdote esorta Gesù a dirgli se è Lui il Messia (S. Matth. XXVI, 63); infine più di 60 impostori ingannarono il popolo facendosi passare per il Cristo. – Anche i pagani all’epoca di Gesù Cristo si aspettavano un dominatore del mondo, originario della Giudea (Tacito, Svetonio); il poeta Orazio lo chiamava figlio della vergine celeste, che sarebbe tornato in cielo. (Odi I, 2).

4. Che Daniele (605-530) dalla ricostruzione delle mura di Gerusalemme (453) alla vita pubblica del Messia, ci sarebbero state 69 settimane di anni, e fino alla sua morte, 69 e mezzo.

Questa profezia gli fu comunicata dall’Arcangelo Gabriele, mentre alle 3 del pomeriggio “offriva il sacrificio della sera e pregava per la liberazione dalla cattività babilonese”. (Dan. IX, 21). – Ora, Ciro nel 636 concesse ai Giudei prigionieri solo il permesso di ricostruire la città ed il tempio, ma in nessun modo di costruire fortificazioni; altrimenti non si capirebbe perché siano stati accusati presso il re di Persua di costruire le mura di Gerusalemme (I Esdr. IV, 12). – Fu solo Artaserse, che nel 20° anno di regno (453) diede a Neemia, il suo coppiere, l’autorizzazione di fortificare Gerusalemme e di dotarla di porte (II Esdr. II, 2,1-8). Ora, se al numero 452 aggiungiamo 69 volte 7, ossia 483 anni o 69 e mezzo volte 7, ossia 486 e mezzo, arriviamo all’anno 30 e 33 dopo Gesù Cristo. Che mirabile profezia!

5. Che il Messia sarebbe nato da una Vergine della razza di Davide.

Dio fece dire ad Isaia al re Achaz (VII, 15) di chiedergli un segno della sua onnipotenza. Ma il re rifiutò: “Perciò – disse il Profeta – il Signore ne darà uno di sua iniziativa”. Ecco, una vergine concepirà e partorirà un figlio, e il suo nome sarà Emmanuele (Dio con noi). – Da parte sua, Geremia ha detto: “Susciterò per Davide un discendente giusto; egli regnerà come re e il suo nome sarà: Il Signore nostro Giusto (Ger. XXIII,5-6).

6. Che il Messia avrebbe avuto un precursore, che avrebbe predicato nel deserto e avrebbe condotto una vita angelica.

“Abbiamo udito – dice Isaia, (XL, 3) – la voce di uno che grida nel deserto: Preparate le vie del Signore, raddrizzate i sentieri del nostro Dio. Tutte le valli saranno riempite e ogni monte e colle sarà abbassato. Io vi manderò – dice Malachia (III, 1), “il mio angelo che preparerà la mia via davanti alla mia faccia, e subito il sovrano che cercate… verrà al suo tempio”. Questo precursore era San Giovanni Battista.

7. Che una nuova stella sarebbe sorta con il Messia.

L’indovino Balaam profetizzò davanti al re dei Moabiti quando arrivarono gli Israeliti figli di Mosè: “Lo vedo, ma non ancora; lo vedo, ma non da vicino. Una stella uscirà da Giacobbe, uno scettro sorgerà in Israele” (Numeri XXIV, 17).

8. Che i re sarebbero venuti da terre lontane per adorarlo e portargli doni. (Sal. LXXI , 10).

9. Che al momento della nascita del Messia, molti bambini sarebbero stati uccisi.

“Un brusio – dice Geremia (XXXI, 16) di lamentele, gemiti e pianti si è alzato sulla collina. Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non ci sono più”. Rachele, la madre della tribù più numerosa, rappresenta qui il popolo giudaico. Rachele morì e fu sepolta a Betlemme (Gen. XXXV, 19).

10. Che il Messia sarebbe fuggito in Egitto (Is. XIX, 1) e che sarebbe tornato. (Os. XI, 11).

11. Della Persona del Messia i Profeti hanno annunciato:

1. Che il Messia sarebbe stato il Figlio di Dio.

Dio annunciò il Salvatore a Davide attraverso il profeta Natan e disse: “Io sarò suo Padre ed egli sarà mio Figlio.” (Rm VII, 10). Nel Salmo II Dio dice al Messia: “Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato”.

2. Che sarebbe stato allo stesso tempo Dio e uomo.

“Un bambino è nato per noi, dice Isaia (IX, 6), un figlio ci è stato dato, e il suo nome sarà

(cioè sarà Lui stesso): Consigliere mirabile, Dio”. “Dio verrà di persona e vi salverà”. (Ibid. XXXV, 6).

3. Che sarà un grande operatore di meraviglie.

“Dio stesso verrà e vi salverà. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi,

gli orecchi dei sordi; gli zoppi salteranno come cervi e la lingua dei muti sarà sciolta. (Is. XXXV, 6).

4. Che sarebbe stato un sacerdote come Melchisedec.

Secondo Davide, Dio parlò al Messia in questi termini: “Tu sei sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchisedec”. (Ps. CIX, 4.) – Gesù Cristo ha offerto il pane ed il vino nell’Ultima Cena e lo fa ancora ogni giorno attraverso le mani dei Sacerdoti.

5. Che sarebbe stato un grande profeta o dottore.

Dio aveva già promesso a Mosè che “avrebbe suscitato per gli Israeliti un profeta come lui tra i loro fratelli”. (Deut. XVIII, 18). Così i Giudei lo chiamarono semplicemente il Messia, “il profeta che deve venire”. (S. Giovanni VI, 14). – Come profeta, il Salvatore doveva insegnare e profetizzare. Doveva anche essere il maestro dei Gentili. (Is. XLIX, 1-6).

6. Che sarebbe stato il sovrano di un nuovo regno (Ger. XXIII, 6) indistruttibile e comprendente tutti i regni della terra. (Dan. II, 44).

Questo regno è la Chiesa Cattolica o universale. – Ecco perché Cristo davanti a Pilato si è definito Re (S. Matth. XXVII). 11). Egli aggiunge però questo: “Il mio regno non è di questo mondo”, cioè il mio regno è tutto spirituale (S. Giovanni XVIII, 36).

III. Per quanto riguarda la Passione del Messia, i Profeti avevano predetto:

1. Che il Messia farebbe la sua entrata in Gerusalemme su di un asino. (Zac. IX, 9).

2. Che sarebbe stato venduto per trenta pezzi d’argento.

Mi fecero pagare, dice Zaccaria (XI, 12), trenta pezzi d’argento; e il Signore disse: “Gettalo al vasaio, l’alto prezzo che mi hanno fatto pagare”. E io presi i 30 denari e li gettai nel tesoro della casa del Signore. – I fatti rispondono a questa profezia: Giuda gettò il denaro del tradimento nel tempio ed i sacerdoti comprarono il campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri. (S. Matth. XXVII, 5-7).

3. Che sarebbe stato tradito dal suo commensale (Sal. XL, 10).

Giuda lasciò la tavola e tradì subito il suo Maestro (S. Giovanni XVIII, 15).

4. Che nella sua passione i suoi discepoli lo avrebbero abbandonato“.(Zac. XIII, 7).

Quando Gesù fu preso, tutti i suoi discepoli lo abbandonarono e fuggirono (S. Marco XIV, 50). Pietro e Giovanni, da soli, lo seguirono da lontano nel cortile del sommo sacerdote. (S. Giovanni XYIII, 15).

5. Che sarebbe stato schernito (Sal. XXI, 7), colpito, disprezzato (Sal.L,.6), flagellato, (Sal. LXXII, 14) coronato di spine, (Cant. III, 11) fatto bere fiele ed aceto (Sal. LXVIII,22).

Coloro che passavano sotto la croce lo maledicevano e scuotevano la testa. (S. Marco XV, 29). I principi dei sacerdoti e gli scribi lo irridevano e dicevano tra di loro: “ha aiutato gli altri; aiuti se stesso”. (S. Marco XV, 31).

– Già davanti al sommo sacerdote Anna, un servo aveva dato uno schiaffo al Salvatore, perché la sua risposta gli era dispiaciuta. (S. Giovanni XVIII, 22). Quando Cristo davanti a Caifa confessò di essere il Figlio di Dio, alcuni gli sputarono in faccia, lo presero a pugni ed altri gli diedero schiaffi (S. Matth. XXVI, 67). Pilato fece flagellare Cristo (S. Giovanni XIX, 1); poi i soldati gli misero una corona di spine, un mantello di porpora, gli colpirono la testa con una canna, gli diedero colpi e lo schernirono (S. Marco XV; S. Giovanni XVIII). Sul Golgotha gli diedero un vino detestabile, mescolato con fiele (propriamente con mirra – S. Marco XV, 21) e dopo averlo assaggiato, rifiutò di berlo. (S. Matth. XXVII, 34).

6 . Che tirassero a sorte la sua veste. (Sal. XXI, 19).

I soldati fecero della veste di Cristo 4 parti e ognuno ne prese una; ma poiché la veste era priva di cuciture e tessuta in un unico pezzo, non vollero tagliarla (S. Giovanni XiX, 23) e lo tirarono a sorte.

7. Che gli venissero trafitte le mani e i piedi. (Sal. XXI, 17).

Gesù Cristo era davvero inchiodato alla croce; così poté mostrare a Tommaso le ferite delle sue mani, dicendogli: “Metti qui le tue dita” (S. Giovanni XX, 27). – Altri che furono crocifissi, come i due ladroni, poi S. Pietro e S. Andrea, non furono crocifissi. Si dice che fossero solo legati alla croce con delle corde.

8. Che sarebbe morto in mezzo ai criminali.

“Gli danno, dice Isaia, il suo sepolcro tra gli empi ed Egli sarà tra i ricchi dopo la sua morte. (Is. LIII, 9). Cristo morì tra due briganti della strada che furono crocifissi con lui (S. Luc. XXIII, 33).

9. Che in mezzo alle sue sofferenze, sarebbe stato paziente come un agnello (Is. LIII, 7) e che avrebbe persino pregato per i suoi nemici. (Ibid. 16).

10. Che avrebbe sofferto liberamente e per i nostri peccati. (Ibid. 4-7).

IV. Per quanto riguarda la glorificazione del Messia, i Profeti annunciano:

1. Che la sua tomba sarebbe stata tra i ricchi (Is. LIII, 9).

Che sarebbe stato addirittura glorioso (Is. XI, 10).

2. Che il suo corpo non sarebbe stato consegnato alla corruzione della tomba. (Sal.. XV, 10).

3. Che sarebbe tornato in cielo (Sal. LXVII, 34) e si sarebbe seduto alla destra di Dio. (Sal. CIX, 1).

4. Che la sua dottrina si sarebbe diffusa da Gerusalemme, dal monte stesso di Sion, a tutta la terra (Is. II, 3).

Il Cenacolo, dove gli apostoli ricevettero lo Spirito Santo, si trovava sul Monte Sion.

5. Che le nazioni di tutto il mondo entrassero nel suo regno e lo adorassero. (Sal. XXI, 28-29).

6. Che il popolo giudaico che lo aveva crocifisso sarebbe stato punito e disperso tra tutti i popoli della terra. (Dent XXVIII, 64).

Gerusalemme sarà distrutta insieme al tempio, i sacrifici e il sacerdozio ebraico, ed il tempio non sarà più ricostruito. (Dan. IX, 26-27; Os. III, 4).

7. Che in tutti i luoghi della terra si offrirà a Lui un sacrificio puro di grano. (Mal. I, 11).

8 . Che un giorno avrebbe giudicato tutti gli uomini (Sal. CIX, 6) e che prima del giudizio avrebbe inviato Elia sulla terra (Mal. IV, 5).

4. La vita del Messia è stata anche preannunciata da molte figure.

Una pianta mostra in anticipo come sarà l’edificio. L’ombra del viaggiatore indica che lo seguirà. L’alba annuncia il giorno. Allo stesso modo, alcune delle azioni dei Patriarchi prefiguravano alcune azioni di Cristo, e molte cerimonie giudaiche prefiguravano alcuni dei misteri del Cristianesimo. (I Col. II, 17). L’Antico Testamento è per il Nuovo, ciò che l’ombra è per la realtà (Eb. X, 1), ciò che l’immagine è per l’originale. Tutto l’Antico Testamento era il velo del Nuovo (S. Aug.). – Il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico e quest’ultimo è illuminato dal Nuovo. (S. Aug.). Le persone o le cose che rappresentano un evento futuro sono chiamate figure o tipi.

Le principali figure del Messia furano Abele, Noè, Melchisedec, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosè, Davide, Giona, l’Arcangelo Raffaele, l’agnello pasquale, il sacrificio espiatorio, il serpente di bronzo, la Manna, ecc.

Abele fu il primo giusto tra gli uomini (Cristo il primo degli eletti); era un pastore e offrì a Dio un sacrificio gradito, fu odiato e ucciso dal fratello e rimase dolce come un agnello (Gen. IV). (Cristo fu ucciso dai Giudei, suoi fratelli). Noè fu l’unico uomo giusto tra tutti i suoi contemporanei (Gesù Cristo è l’unico senza peccato); costruì un’arca mentre ancora predicava (Cristo fondò la Chiesa); salvò l’umanità dalla rovina (Gesù Cristo salva l’umanità dalla morte eterna); offre a Dio un sacrificio gradito a Dio quando uscì dall’arca (Gesù Cristo lo offrì quando uscì dalla vita). Con Noè, Dio ha stretto un’alleanza con l’umanità e ha promesso l’arcobaleno. (Gesù Cristo ha rinnovato l’alleanza e ha dato in pegno il SS. Sacramento). (Gen. VI-IX).

Melchisedec (Gen. XIV), che significa re della giustizia, era re di Salem, cioè della pace. (Gesù Cristo è il re eterno della giustizia e della pace). Re e sacerdote egli offre pane e vino. – Isacco è l’unico figlio amato da suo padre (Gen. XXlI); porta la legna per il suo sacrificio sul monte, si pone obbediente sulla legna, fu restituito al padre (Gesù Cristo è risorto dai morti). – Giacobbe (Gen. XXV-33) fu perseguitato dal fratello ed alla fine si riconciliò con lui. Cristo fu perseguitato dai suoi fratelli, i Giudei, e si riconcilierà con loro alla fine dei tempi. Benché figlio fi un uomo ricco, andò povero in un paese straniero, a trovarsi una sposa pia, (Gesù Cristo è venuto sulla terra per fidanzarsi alla Chiesa); per avere questa sposa, Giacobbe si mmisssw asl lavoro per lunghi anni (Gesù Cristo per la Chiesa ha preso la forma di uno schiavo ed ha servito l’umanità per 33 anni); Giacobbe aveva 12 figli e tra questi un figlio di predilezione, Giuseppe. (Gen. XXV, 33). Gesù Cristo aveva 12 Apostoli e tra essi un amico particolare, Giovanni).  – Giuseppe (Gen. XXXVII-XLV), il figlio prediletto, viene odiato dai fratelli e venduto per meno di 30 denari viene imprigionato tra mezzi criminali, uno dei quali viene graziato e l’altro giustiziato (così Gesù Cristo sulla croce); dopo le sue umiliazioni viene elevato ai più alti onori; con il suo consiglio salvò l’Egitto dalla carestia (Gesù Cristo con il Vangelo, ci salva dalla carestia spirituale), gli araldi ordinano al popolo di inginocchiarsi davanti a Giuseppe (gli Apostoli hanno chiesto lo stesso onore per Gesù). Egli si riconcilia finalmente con i suoi fratelli, come Gesù si riconcilierà con ii Giudei alla fine del mondo. – Mosè (Esodo) sfugge da bambino ai crudeli ordini del faraone. trascorse la sua giovinezza in Egitto, digiunò 40 giorni prima della promulgazione della legge (Gesù Cristo digiuna 40 giorni prima della predicazione del Vangelo); libera gli Israeliti dalla prigionia e li condusse nella Terra Promessa (Gesù Cristo ci ha salvato dalla schiavitù di satana e ci ha portato nella Chiesa); compie miracoli per dimostrare la sua missione divina, prega continuamente per il popolo, appare sul Monte Sinai con un volto raggiante di luce (Tabor), è il mediatore dell’Antica Alleanza, come Gesù Cristo della Nuova. – Davide nacque a Bethlehem e trascorse la sua giovinezza in uno stato molto umile; attaccò il gigante Golia con un bastone e cinque pietre, l’avversario del popolo di Dio e lo sconfisse (Gesù Cristo ha sconfitto satana con il legno della croce e le sue cinque ferite), diventa re, come Gesù, soffre molto, ma trionfa sempre. (I-II Re). – Giona trascorre tre giorni nel ventre del pesce (Gesù Cristo, 3 giorni nel seno della terra. S. Matth. XII, 40); predica la penitenza ai Niniviti come Gesù agli Ebrei. – L’Arcangelo Raffaele scende dal cielo per diventare la guida di un uomo (Gesù-Cristo per diventare la guida dell’umanità), lo accompagna, cura la cecità (Gesù Cristo cura la cecità spirituale) e lo libera dal diavolo (Tob.). – L’agnello pasquale (Es. XIII) viene sacrificato prima dell’uscita dall’Egitto, quindi alla vigilia del grande sabato pasquale; è una vittima ed un cibo, senza difetti, senza macchia, nel fiore della vita; le sue ossa non sono state spezzate; il suo sangue viene messo sulle porte, preserva dalla morte corporea (quella di Gesù, dalla morte eterna), viene mangiato al momento della partenza per la Terra Promessa (Gesù Cristo dona se stesso al momento della partenza per la vostra vita futura); l’agnello è mite, come lo era il Salvatore. – Il grande. sacrificio di propiziazione: Il sommo sacerdote imponeva le mani su un ariete e dopo aver confessato i peccati del popolo, lo spingeva nel deserto per farlo morire (Num. XXIX), anche Gesù Cristo prese su di sé i peccati degli uomini e per questo andò incontro alla morte attraverso il deserto della sua vita mortale. – Il serpente di bronzo (Num. XXI, 6) è collocato nel deserto su una croce; un solo sguardo guarisce dal morso mortale dei serpenti di fuoco. Come Mosè ha innalzato il serpente di bronzo nel deserto, così il Figlio dell’uomo deve essere innalzato, affinché tutti coloro che credono in Lui non periscano, ma abbiano la vita eterna” (S. Giovanni III, 14). – La Manna è una figura di Gesù nel Santissimo Sacramento; è bianca come l’ostia; cadeva ogni mattina, come Gesù scende ogni mattina sull’altare; non cadeva più dopo il soggiorno nel deserto, come Gesù smetterà di essere presente nel Santissimo Sacramento dopo la fine del mondo.

Sacramento dopo la fine del mondo. La manna, secondo Gesù Cristo (S. Giovanni VI, 33) si differenzia dall’Eucaristia in quanto non è il vero pane del cielo, mentre questo (l’Eucaristia) è il vero pane del cielo e dà vita al mondo”.

3. LA PREPARAZIONE DELL’UMANITÀ ALLA VENUTA DEL SALVATORE.

1. DDIO SCELSE UN POPOLO E LO PREPARÒ ALLA VENUTA DEL SALVATORE.

Questo popolo scelto era costituito dai discendenti di Abramo.; è comunemente chiamato popolo israelita o ebreo

La vocazione di Abramo è ben nota (Gen. XII). Il popolo ebraico doveva essere il sacerdozio di tutta l’umanità. (Es. XIX, 6). Questa scelta non era quindi una riprovazione per altri popoli, ma una prova che Dio si prendeva cura di loro. Dio dichiarò che il Redentore avrebbe reso felici tutti i popoli. .

La preparazione del popolo eletto per la venuta del Salvatore consisteva in prove severe, in una legge severa, in numerosi miracoli e nell’insegnamento dei profeti.

Il popolo eletto era molto sensuale; preferiva le pentole dell’Egitto alla libertà. (Es. XVI, 3). Per questo motivo Dio inviò loro delle prove per sradicare questa sensualità: Ad esempio, l’ordine del faraone di uccidere tutti i bambini maschi; la fame e la sete nel deserto; i serpenti di fuoco, gli attacchi dei nemici quando il popolo aveva abbandonato la cattività babilonese e l’oppressione di re crudeli. A causa della rozzezza del popolo Dio diede loro le sue leggi tra lampi e tuoni, accompagnati da minacce e da promesse (S. Giovanni Cris.). Il popolo era anche molto incline alla idolatria, come dimostra l’episodio del vitello d’oro. (Es. XXXII, 1). I miracoli avevano lo scopo di rafforzare la fede e la fiducia nell’unico vero Dii (le piaghe d’Egitto, l’attraversamento del Mar Rosso e del Giordano, la manna, la sorgente della roccia, la caduta delle mura di Gerico, ecc.) – I profeti dovevano anche rafforzare la fede nel vero Dio e mantenere vivo il desiderio della venuta del Redentore.

Ecco un breve riassunto della storia del popolo ebraico.

1. I discendenti di Abramo vissero dapprima in Palestina, poi vennero in Egitto, dove rimasero per 400 anni sotto dura oppressione.

Dio chiamò Abramo intorno al 2000 a.C. e lo condusse in Palestina. Abramo si stabilì a Hèbron (a ovest del Mar Morto); ebbe un figlio, Isacco, che volle sacrificare sul Monte Moriah. Isacco ebbe due figli, Giosuè e Giacobbe (chiamato anche Israele), il quale aveva sottratto al fratello, con l’inganno, la benedizione paterna e la primogenitura; fu costretto a lasciare la casa. Ebbe 12 figli uno dei quali, Giuseppe, divenne re in Egitto, dove chiamò i suoi parenti, 66 in numero, ad est del Delta del Nilo, la fertile terra di Gessen (1900 a.C.). Gli Israeliti – o figli di Israele – si moltiplicarono lì molto rapidamente e furono oppressi dai re d’Egitto.

2. Mosè condusse gli Israeliti fuori dall’Egitto; essi rimasero nel deserto per 40 anni.

Attraversarono il Mar Rosso (1500 a.C.) con 2 milioni di persone, di cui 600.000 guerrieri, e arrivarono nel deserto arabico, dove Dio li nutrì con la manna e diede loro la legge sul Sinai. Dio compì molti miracoli davanti ai loro occhi e Mosè morì sul Monte Nebo.

3. Sotto Giosuè conquistarono la Terra promessa, ma per altri 300 anni furono costretti, sotto la guida dei Giudici a combattere i loro nemici (1450-1100 a.C.).

Giosuè, successore di Mosè, divise la Terra Promessa tra le 12 tribù.

I Giudici erano capi suscitati da Dio in tempi di prova; essi comandavano il popolo in guerra, combattevano i nemici e amministravano la giustizia. I giudici furono Gedeone, Jefte, Sansone e Samuele, che fu l’ultimo giudice.

4. Gli israeliti furono poi governati da re: Saul, Davide e Salomone (1100-975 a.C.). – Saul era un uomo crudele che si uccise in battaglia. – Il suo successore

Davide si distinse per la sua pietà (1055-1015). Compose molti salmi e gli fu promesso da Dio che da lui sarebbe disceso il Salvatore. Egli cadde due grandi crimini, si sottopose a una severa penitenza. Suo figlio Assalonne gli si ribellò, ma senza successo. – Suo figlio Salomone costruì il meraviglioso tempio di Gerusalemme (1012) e fu famoso per la magnificenza della sua corte. Aveva una grande saggezza e scrisse il Libro dei Proverbi.

5. Dopo la morte di Salomone, il regno fu diviso in due parti: il regno di Israele a nord (975-722) e quello di Giuda a sud (975-588).

A Salomone successe il figlio Roboamo, che gravò il popolo di tasse ancora più pesanti del padre, così che le 10 tribù del nord formarono uno scisma e fondarono il regno di Israele. Le due tribù meridionali, Giuda e Beniamino rimasero fedeli a Roboamo e formarono il regno di Giuda.

6. Poiché gli abitanti di questi due regni abbandonarono il vero Dio, i regni furono distrutti e il popolo finì in cattività.

Il regno di Israele ebbe 19 re; essi portarono il popolo all’idolatria per impedire di andare a sacrificare a Gerusalemme. Dio inviò i profeti per minacciarli dei suoi castighi. Infine, nel 722, il re di Assiria, Salmanasar, distrusse il regno e deportò i suoi abitanti (tra cui Tobia) nella cattività assira. Nel 606, dopo la distruzione dell’impero assiro, essi caddero sotto il dominio dei Babilonesi e, nel 538, sotto il re persiano Ciro. – Il regno di Giuda ebbe 20 re e durò più a lungo. Fu solo il re di Babilonia, Nabucodonosor, che lo distrusse; poiché si ribellarono, un gran numero di ebrei (tra i quali Daniele

tra gli altri) furono fatti prigionieri (606 e 599). La città di Gerusalemme e il tempio furono distrutti. Tuttavia, i Giudei continuarono a offrire sacrifici sulle rovine del tempio. (Bar. 1, 10).

7. Dopo il ritorno dalla cattività (536), i Giudei godettero della pace fino al regno del crudele Antioco, re di Siria (203).

Dal 606 i Giudei del regno d’Israele e di Giuda furano soggetti allo stesso governo; vivevano nello stesso paese e presto ebbero relazioni amichevoli. Da questo momento in poi prevalse l’appellativo di Giudei anziché di Israeliti. Il re di Persia, Ciro, che aveva sottomesso l’impero babilonese, permise agli Ebrei di tornare in patria (Balthazar, ultimo re babilonese fu giustiziato la stessa notte in cui aveva profanato i vasi sacri). Nel 536 gli Ebrei tornarono in Palestina e ricostruirono il tempio. Immediatamente 42.000 guidati da Zorobahel tornarono a Gerusalemme e iniziarono a costruire il tempio, che fu completato nel 516. (Adempimento della profezia consolante di Aggeo). Nel 453 i Giudei ricevettero dal re persiano Artaserse il permesso di ricostruire le mura di Gerusalemme (profezia di Daniele sulle 69 settimane di anni). I Giudei rimasero sotto il dominio persiano per quasi 200 anni senza essere perseguitati. Nel 330 passarono sotto il dominio del re di Macedonia, Alessandro Magno, che aveva distrutto l’Impero persiano. Dopo la sua morte, i Giudei passarono sotto diversi sovrani, ma infine divennero (203) sudditi di Antioco Epifane IV. Egli li perseguitò a causa della loro religione: ad esempio, voleva costringere i 7 fratelli Maccabei ed Eleazar a mangiare carni proibite e li fece martirizzare; innalzò idoli nel tempio.

8. Dopo un’aspra guerra, gli Ebrei ottennero la libertà e furono governati per 100 anni da principi Giudei. (140-39 A.C.).

Sotto la guida dei valorosi Maccabei (Mattatia ed i suoi 5 figli), i Giudei iniziarono la guerra d’indipendenza e si liberarono completamente del giogo siriano. (In una di queste battaglie vennero uccisi alcuni giudei, sui quali furono trovati degli idoli. Giuda Maccabeo fece offrire sacrifici per loro). Uno di questi 5 fratelli, Simone, divenne re e sommo sacerdote in Giudea (140). Gli successe sul trono la sua posterità. Nel 64, Pompeo, in spedizione in Asia Minore, si fermò in Giudea e rese i suoi principi vassalli dell’Impero romano.

9. Nel 38 a.C., un pagano di nome Erode, divenne re della Giudea.

Quando i Giudei si ribellarono, i Romani deposero il loro principe e nominarono un pagano, Erode il Grande (39 a. C.). Erode fu il primo re dei Giudei, estraneo alla loro nazionalità. – Fu quindi sotto di lui che il Messia doveva nascere; fu anche lui a far massacrare i bambini di Betlemme. Morì nel 3 d.C. – A Erode successe il figlio Erode Antipa (3-40); fu lui a far uccidere S. Giovanni Battista ed a chiamare “folle” il Salvatore. Gli successe Erode Agrippa, un nipote di Erode il Grande. E. Agrippa fece decapitare Giacomo il maggiore ed imprigionare San Pietro. Egli si inimicò Dio e morì divorato dai vermi (44). – Nel 70 Gerusalemme fu distrutta da Tito ed i Giudei si dispersero in tutto il mondo.

2. Gli altri popoli furono preparati alla venuta del Messia, o dal popolo ebraico, o da uomini pii e saggi o con mezzi straordinari.

I Giudei erano in contatto regolare con i Gentili attraverso un commercio molto esteso. I loro libri sacri divennero presto noti ai Gentili e furono tradotti in diverse lingue. La Provvidenza ha permesso la loro prigionia per metterli a lungo in contatto con i Gentili; attraverso di loro i Gentili conobbero il vero Dio e le profezie sul Redentore. Tobia, illuminato dallo Spirito Santo, gridò: “Lodate il Signore, figli d’Israele! Egli vi ha dispersi tra i pagani che non lo conoscono, perché possiate raccontare le sue meraviglie e proclamare davanti a loro che non c’è altro Onnipotente all’infuori di Lui”. (Tob. X III, 3). – Dio ha anche suscitato uomini saggi e pii, o ne ha inviati alcuni. Socrate in Grecia insegnava un solo Dio, Creatore dell’universo; dimostrò la follia dell’idolatria, si distinse per la sua temperanza, l’altruismo

la dolcezza e l’impavidità, e fu condannato a morte per le sue dottrine. Giobbe in Arabia, Giuseppe in Egitto, Giona a Ninive, Daniele a Babilonia hanno svolto questo ruolo. Le loro straordinarie virtù, l’intrepida confessione della loro fede, i miracoli operati da Dio in loro favore (i tre giovani nella fornace, Daniele nella fossa dei leoni), erano destinati a mostrare ai pagani chi fosse il vero Dio. Di conseguenza, alcuni pagani adottarono la religione ebraica: furono chiamati proseliti. – Dio illuminò anche i Gentili con mezzi straordinari. Avvisò i tre Magi con una stella miracolosa (S. Matth. II,3); il centurione Cornelio da un Angelo (Atti Ap. X, 3), il re Baldassarre dalla misteriosa mano sulla parete sul muro (Dan. V.), il re Nabucodonosor da un sogno miracoloso che riguardava il vero Dio e il Messia (Dan. II), Balaam da un’asina (Num. XXII, 28). Inoltre, come vedremo in seguito, si trova davvero tra i pagani la speranza del Redentore.

3. Prima di inviare il Salvatore, Dio ha lasciato cadere tutti i popoli dell’universo in una profonda miseria, per far sì che desiderassero più ardentemente questo Salvatore e gli preparassero un’accoglienza più gioiosa.

I Giudei erano molto divisi in materia religiosa; tre partiti religiosi o sette si combattevano: i Sadducei, i ricchi del paese, che negavano la vita futura; i Farisei, meticolosi osservatori delle prescrizioni mosaiche; gli Esseni che si lasciavano alle spalle il mondo e conducevano una vita di dura penitenza. – Nonostante la loro filosofia, i pagani erano immersi in un’ignoranza totale delle cose divine e nell’immoralità più sfrenata. Il numero delle loro divinità era così grande che, secondo Esiodo, non è possibile enumerarle tutte. Adoravano statue di uomini viziosi, perfino animali; consideravano i loro dei come protettori del vizio e pensavano fosse meglio onorarli con azioni viziose o immorali, persino sacrifici umani. I pagani riconobbero la loro profonda miseria e chiedevano aiuto. In una delle sue odi, il poeta romano Orazio lamenta le guerre civili e dice: “Vieni finalmente, figlio della nobile vergine, rimani a lungo con il tuo popolo, torna tardi in cielo e trova il piacere di essere chiamato padre e principe”. (Socrate aveva già espresso la speranza che un mediatore sarebbe disceso dal cielo per insegnarci, senza errori, i nostri doveri verso Dio e verso gli uomini.. È quindi ragionevole che Giacobbe morente (Gen. XLIX, 10) e i profeti (Agg. 11, 7) avessero chiamato un tempo il Salvatore, il Desiderato delle nazioni. – Prima della venuta di Gesù Cristo, l’universo era come un malato che gridava al medico, perché sente il suo dolore in modo così acuto, come piante appassite che desiderano una rugiada rinfrescante, come un uomo che è caduto in un pozzo ed ha bisogno di un soccorritore perché, nonostante tutti i suoi sforzi, non riesce a risalire, come il figlio di un re, costretto a vivere nella più grande povertà e sapendo di essere chiamato a destini più alti. (Alb. Stolz). – Dio, nella sua saggezza, continua ad agire nello stesso modo; prima delle ispirazioni dello Spirito Santo, lascia che alcuni uomini cadano molto profondamente: testimonianza, un certo S. Paolo, un S. Agostino. Gli uomini in tale stato di miseria sono molto più disposti a ricevere la grazia di Dio ed a servirlo con zelo dopo la loro conversione.

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (XI)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (52)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (51)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -IX-

K. — DIO PRECETTORE DELLA VITA MORALE.

1. Principi fondamentali della vita morale.

K 1a. a. — CONDIZIONI DELL’ATTO MORALE.

1 aa. Cognizione dell’oggetto della moralità. L’ignoranza può essere invincibile (escludente la volontarietà) e pertanto scusante dal peccato (1485) 1968 2865° 2866;

Tuttavia, non qualsiasi ignoranza scusa 729s.

1 ab. Intenzione dell’oggetto della moralità. La libertà dall’uomo comporta questa dignità, per la quale essa sia in mano del suo consiglio ed ottenga il potere delle proprie azioni 3245; sull’uomo è imposto di adempiere i comandamenti di Dio per libro arbitrio. 227 245;

se esistono fatali necessità si è sollevati dall’imputabilità degli atti umani, dal premio o dalla pena. 283; si rivendica la libertà dall’uomo anche se caduto nello stato di natura: vd. D 3bd; la libertà pure da se sola non è sufficiente a fare il bene. 725.

La bontà morale si raggiunge solo mediante la compartecipazione al Dio buono. 240; non è sufficiente tendere al fine ultimo tanto per congettura 2290;

si riprova l’ipotesi del peccato filosofico 2291; si riprovano le affermazioni più lasse circa l’intenzione (esclusiva) del diletto sensuale 2102s; si riprovano d’altra parte le asserzioni che peccano per eccesso, richiedendo (come necessario per un atto moralmente buono) il motivo soprannaturale di fede, speranza, carità 1925 1934-1938 2307-2313 2444-2459.

Per il peccato attuale si richiede il consenso 870; pertanto (e per assenso dell’avvertenza alla malizia) non si può commettere nemmeno il più piccolo dei peccati attuali 223 780 1514; si riprovano le asserzioni: [Alla ragione del peccato non appartiene la volontarietà; a.l’uomo pecca anche in ciò che fa di necessario] 1946-1949 (1950-1953) 1967.

La violenza scusa dal peccato: applicazioni 1(762) 2715 2758 3634 3718.

Il timore non esclude la volontarietà e l’imputabilità al merito o pena,

applicazioni 1678 1705 2070 2129 2151 2573 3273.

K 1b. b. — FONTI DELLA MORALITÀ.

K1ba. Oggetto. Si fa un opera buona (naturalmente e soprannaturalmente) per l’oggetto e la circostanza 1962.

K 1bb. Sono da indagare dal confessore le circostanze dei peccati 813; in confessione sono da dichiarare quelle che ne mutano la specie (della moralità), 1681 1707 (1962).

K 1bc. Il Fine non giustifica i mezzi (a.in favore della fede; b.per la salute del corpo) b815 ab1254 a1998 b3684.

K 1c. c. — ESTENSIONE DELLA MORALITÀ.

Si Riprovano le asserzioni contro il valore morale e l’imputabilità degli atti esterni 733 739 966-969 (2234) 2240.

K 1d. — NORMA OGGETTIVA DELLA MORALITÀ: LEGGE.

1 da. La legge eterna è la ragione eterna del Creatore 3247; è il fondamento delle l1 dd.eggi della ragione umana quanto è la natura dei beni e dei mali 3248 3781 3973; è il principio del diritto dell’universo 3249.

1dd. La Legge naturale è la stessa legge eterna scolpita negli animi degli uomini che comanda di fare le cose rette vietando di peccare 3247s (3272) 3780s 3956; si rivendica la sua esistenza e conoscibilità (quanto al a.diritto al dominio e alla proprietà, b.diritto di imperare, c.diritto al salario necessario) 2302 b3131 3132 a3133 b3150s 3152 b3165 3170 3248 a3265 c3270 CdIC 6 a1499 a1509, 10°.

Si rigetta la nozione di diritto nel naturalismo, nello stesso luogo sostituito dalla forza materiale 2890; si riprovano le asserzioni circa l’etica atea [le Leggi morali non hanno bisogno della legge divina come fondamento] 2956-2961 (2962-2964); [la Repubblica è fonte e origine di ogni diritto] 2939; [la Volontà del popolo è la legge suprema] 2890.

1dc. La Legge umana stessa consiste nel consociarsi degli uomini secondo la legge naturale come per i singoli uomini 3248; per la legge umana per nome proprio sono prescritte dai poteri civili cose definibili non immediatamente dalla sequela del diritto naturale 3248.

1dd. Autore della legge. Cristo non è solo redentore, ma anche legislatore 1571.

L’autorità eccl. e civile procede immediatamente da Dio 3151 3170; circa il diritto di imperare e degli obblighi nei confronti delle leggi: vd. C 7cc; K 5a c

1dc. Interpretazione della legge. I principi del diritto eccl. in CdIC 17-19. lde

Nella consuetudine nella Chiesa Ecclesia la forza della legge si ottiene unicamente dal potere superiore gerarchico CdIC 25.

K 1e. e. — NORMA SOGGETTIVA DELLA MORALITÀ: LA COSCIENZA.

1ea. Dono della coscienza: all’uomo è comandato di fare e conservare l’ordine morale; come decisione morale si deve applicare la legge obiettiva al caso particolare 3918; si riprova l’etica della situazione giudicante non sec. le leggi obiettive, ma sec. un’intuizione personale 3918-3921.

1eb. Regole della prudenza per agire praticamente, o: sistemi morali. Si riprova il tutiorismo assoluto o rigorismo 2303.

Liberamente si può scegliere un sistema di probabilismo e probabiliorismo 2175-2177; si consente di seguire l’autorità di S. Alfonso nella questione morale, restando tuttavia liberi di conservare le sentenze delle altre autorità 2725-2727.

Si Riprovano a.il principio del probabilismo più lasso e le sue applicazioni (b.maggiormente espresse) 2021-2065 b2046s b2106s a2103 b2104 2105-2165.

K 1f. LE VIRTÙ IN GENERE.

Si riafferma l’esistenza delle virtù naturali (ctr. i Giansenisti) 1916 1925 1936-1938 1962 2307-2309 2444//2467; si riprova d’altra parte il disprezzo delle virtù soprannaturali in favore delle virtù naturali 3343-3345; si riprovano le asserzioni disprezzanti l’esercizio delle virtù come imperfezioni 896 2231 2368.

Dio precipuamente richiede gli atti di fede, speranza, carità (1923) 2188.

Si riprova l’asserzione circa la connessione delle virtù (morali). 1216.

2. Exercizio delle virtù nei confronti di Dio.

(Beni richiesti a Dio)

K 2a. a. — VIRTÙ TEOLOGICA DELLA FEDE.

Circa la natura della fede vd. A 8a; la fede in quanto disposizione alla giustificazione e virtù infusa vd. F 3e 4.

2aa. Necessità di credere. La fede cattolica è necessaria per la salvezza 75s 485; una volta dato l’assenso con giudizio di verità, l’uomo non già è libero fintanto che la voglia abbracciare (2780) 2915; l’uomo pieno della rivelazione è tenuto a prestare assenso di intelletto e di volontà 3008; nell’adulto battezzando c’è la necessità di credere 2836; si riprova: [l’opinione anche la meno probabile che scusa l’infedele contro l’obbligo di credere] 2104; si riprova l’indifferentismo o tollerantismo (negante l’obblig. di credere) 2720 2730s 2785 2865-2867 2915-2918.

I fedeli della Chiesa catt. per giusta causa mai possono mutare o mettere in dubbio la fede 3014 3036; si riprova il dubbio positivo come metodo teol. 2738.

Si riprov. le asserzioni più lasse circa l’obbligo di produrre l’atto di fede 2021 2116. 2165; circa la fermezza dell’assenso alla fide 2119-2121.

La visione dell’essenza di Dio evacua l’atto di fede in quanto la fede è una virtù teologica 1001.

2ab. Verità da credersi. Per fede divina e cattolica è da credersi tutto ciò come che sia divinamente rivelato, contenuto nello scritto del Verbo di Dio, nella tradizione, o che la Chiesa proponga con giudizio solenne o mediante il Magistero ordinario ed universale (1870) 3011 CdIC 1323, § 1; tuttavia una volta dogmaticamente definita nessuna cosa può essere compresa se non espressa manifestamente CdIC 1323, § 3.

Per necessità di mezzo sono da credere:— l’esistenza di Dio, alcuni suoi attributi (Dio remuneratore e vindice), la Persona di Cristo 2381; —la Trinità divina 75 177 2164 2380; —: l’incarnazione del Verbo 76 2164 2380; si riprovano le asserzioni più blande in tali cose 2122s 2164.

Non è lecito distinguere tra capi fondamentali e non-fondamentali, così da permettere il libro assenso diverso dei fedeli 3683; si riprova (nel senso simile) la selezione dei temi nelle conclusioni eccl. 2676-2678.

2ac. Professione della fede. È diritto fondamentale il praticare privatamente e pubblicamente la religione; l’occultazione della fede può essere pecca8monisa se cede allimplicita negazione della fede o in scaldalo al prossimo 2118 CdIC 1325, § 1.

2ad. Conservazione della fede Ctr. la fede pecca particolarmente l’eretico e l’apostata CdIC 1325, § 2 (qui le definizioni di “eretico”, “apostata”); infedeltà puramente negativa non è peccato 1968.

Da fuggire sono pure quegli errori che portano all’eresia CdIC 1324.

Si proibisce di aderire: — alle società clandestine (sette dei Massoni) 2511s 2783 2894 3156-3160 (3278s) CdIC 2335; —: alle società bibliche 2771 2784; — : ai circuli teosofici 3648; —: al partito comunista 2786 3865.

I Libri sono sottoposti alla censura e i nocivi proibiti; vd. H ld.

K 2b. b. — VIRTÙ TEOLOGICA DELLA SPERANZA.

La speranza è la virtù teologica che decade alla visione di Dio 1001.

Si rivendica la legittimità del motivo della speranza ctr. gli errori: vd. F 4; si riprov. l’ass. più blando circa l’obbligo di praticare l’atto di speranza 2021.

C. – VIRTÙ TEOLOGICA DELLA CARITÀ.

Si deve aderire a Dio come al sommo Bene 285.

Si riprov. gli errori del perfetto amore di Dio e circa la rassegnazione di se stesso (a.applicati anche ai peccati commessi) a964s 975 2351-2373.

Si riprov.: [Dio può comandare l’odio di Dio] 1049.

Si riprov. l’ass. più blanda circa l’obbligo di produrre l’atto di carità verso Dio 2021 2105-2107.

Circa l’obbligo di osservare i comandamenti di Dio in genere: vd. F 3fe.

K 2d. d. – CULTO DI DIO IN GENERE.

2de. Preghiera. Si riprov. Le asserzioni detraenti dell’orazione a.vocale ed b.impetratoria come non convenienti all’uomo contemplativo o perfetto b957959 a2181 a2214; la preghiera vale come soddisfazione per i peccati 1713.

Riprov. le asserzioni circa l’applicazione dell’orazione: [le Orazioni applicate per una persona non possono giovare che in generale] 1169; [l’Orazione dei presciti a nulla vale] 1176.

2db. Il Sacrificio è necessario in ogni religione S3339.

2dc. L’uso dei Sacramenti e dei sacramentali anche nei contemplativi deve essere del cuore 2191; non si disprezzano o si dimenticano senza peccato 1259 1699 1718 1775 2523.

2dd. Il Culto dei Santi (degli Angeli e degli uomini) si difende come lecito e si raccomanda come utile 675 1821-1825 1867 CdIC 1276; cf. L 3db ; la Messa in onore dei Santi è nel senso lecito 1744 (1755) 3363.

Ugualmente lecito è il culto delle reliquie 675 (818) 1269 1821-1825 1822 1867 CdIC 1276; si riprova il modo disonesto di agire con le reliquie 818 1825.

Ugualmente lecito è il culto delle immagini 477 581 600//608 653-656 1269 1821 1823 1824s 1867 CdIC 1276.

Alle Reliquie ed alle immagini si deve il culto relativo alla persona alla quale si riferiscono CdIC 1255, § 2; il culto di adorazione (latria) è da attribuire solo a Dio, non alle immagini 477 601; alle immagini non è inerente la virtù per la quale si venerano ma l’onore ad esse tributato si riferisce al prototipo 601 1823; si riprov. “adorare” immagini (il cui termine nondimeno viene infelicemente citato 600//608 653-656: versioni; cf. 612°; ma anche 675) 447 581.

Conviene anche il culto contemplativo delle immagini 2187;

Si riprov. L’asserzione indebitamente limitante il culto delle immagini 2325 2669-2672; si riprovano tuttavia le immagini della B. Maria Vg. abbigliata con vesti sacerdotali 3622.

Si censura l’abuso nel culto dei Santi 818 1825.

2de. Osservanze superstiziose. Si proibisce la divinazione, praticata nei sortilegi, gli auspici, l’astrologia giudiziaria, la chiromanzia etc. 1859 2824; all’astrologia (come scienza) non è da riporre fede 205 283 459s.

Si disapprova lo spiritismo con linterrogare anime o spiriti con l’operato di un “medium” personale 3642; ugualmente il magnetismo con fini soprannaturali 2823-2825.

Magia, veneficio: si riprovano atti e libri loro inerenti. 283 1859.

K 2e. e. – CULTO DI DIO PUBBLICO.

2ea. La Liturgia constituisce il culto pubblico, che il Redentore tributa al Padre e che la società dei fedeli tributa per suo mezzo al Padre (3840) 3841; il culto è pubblico, se esercitato in nome della Chiesa da persona legittimamente a questo deputata e presentata per atto di istituzione della Chiesa a Dio e ai Santi CdIC 1256; il culto deve essere esterno ed interno 3842;

Si riprov. le asserzioni estreme circa l’essenza della liturgia 3843.

Il Sacrificio dell’altare e le preghiere dell’ufficio divino sono un culto pubblico 3757; si riprov. le asserzioni circa l’ordine da osservare nella liturgia 2631-2633 2664s.

Si comanda il Precetto di ascoltare la Messa nei giorni festivi CdIC 1248; si riprova l’asserzione più blanda 2153; la celebrazione simulata della Messa è inganno del popolo 789; si riprova l’asserzione circa la celebrazione delle feste 2152 2673s; è sconveniente celebrare la festa delle singole Persone della Ss. Trinità 3325.

Le Preghiere liturgiche fatte dall’Ufficio a Dio in nome della Chiesa posseggono maggiore forza delle private 3758 3845; tuttavia, non per questo non sono da farsi le private 3819; si rivendica il valore “soggettivo” della pietà ctr. le detrazioni 3845.

Il concetto di anno liturgico è insufficiente ma vero concetto 3855.

Asserzione riprovata circa la lingua liturgica 2486 2666.

L’Ufficio divino dei Chierici: riprov. l’asserzione più blanda circa l’obbligo 2041 2053-2055 2154.

Orationi pubbliche, missioni popolari, esercizi spirituali: asserzioni riprovate 2664s.

2eb. Astinenza dalle opere servili nei giorni festivi. CdIC 1248.

2ec. Penitenza comune digiuno e astinenza da praticare in determinati periodi dell’anno: l’uso Romano non è condannabile 1080; il precetto obbliga anche i contemplativi 2191; le asserzioni più blande sono riprovate 2043 2049-2052.

K 2f. f. — REVERENZA NEI CONFRONTI DI DIO.

2fa. Tentazione di Dio. Si Riprovano le ordalie (ad opera dei ferri roventi, dell’acqua bollente, etc.) 670 695 799 1114; per il duello vd. K 4da.

2fb. Simonia è definita la efficace volontà di comprare o vendere per prezzo temporale una cosa intrinsecamente spirituale, o temporale a quella necessariamente annessa o che costituisce oggetto del contrario CdIC 727, § 1; si può comminare i per denaro, a.lingua, b.ossequio 304 473 586 692 ab707 751 820; si riprova la simonia nel a.conferire gli ordini sacri, nel b.promuovere gli ufficiali, nell’amministrazione del c.battesimo, d.crisma, e.sepoltura. f.sacramentali, g.nel ricevere un monaco nel monastero ab304 a473 a586 a691-694 a701s a705 ab707 cde708 ab710 bdf715 g752 ab820 CdIC a729; delle ordinazioni simoniache vd. J 8bb.

Si considera Simonia —: come riduzione della grazia soggetta a un prezzo 304; — : come vendita di un dono dello Spirito S. 473 586; si riprov. l’asserzione peccante — : per eccesso 1175 (1178); —: per difetto 2145s.

K 2g. g. — FEDELTÀ E VERACITÀ VERSO DIO.

2ga. Voto religioso (professione monacale, voto di verginità perpetua non può essere abbandonata senza peccato 321s; riprov. [Il Voto impedisce la perfezione] 2203.

2gb. È lecito il giuramento (an nel testimoniare davanti ad un giudice) a648 795 1252 a1253;

Lo spergiuro sempre, anche se in favore della fede, è peccato mortale 1254;

Riprovata l’asserzione negante o restringente della più equa liceità del giuramento 913 1193 (1252) 2675; asserzioni peccante per eccesso: [Ctr. Il giuramento non vale altro testimonio] 1110; [Violare il giuramento è lecito in favore della patria] 2964; asserzioni più blande 2030 2124-2126 2128.

3. Esercizio delle virtù verso se stessi.

(Beni chiesti a se stesso.)

K 3a. a. — I BENI RELIGIOSI DELLA PROPRIA ANIMA.

Obbligo di procurare i beni con l’uso dei Sacramenti: vd. sotto i singoli Sacramenti circa l’effetto e la necessità: J 3c 4c 5e 6c 7c; ugualmente il precetto della Confessione e della Comunione almeno annuale; J 5ed 6d.

Si riprov. le asserzioni circa la dismissione dei beni spirituali dell’anima (ad es. dell’amore interessato, delle virtù, della propria perfezione, della propria beatitudine) come requisiti per la perfezione (896) 957-959 2207 2212 2351//2373.

Obbligo delle buone opere 1538s 1545s 1548.

Opere di penitenza e mortificazione: riprov. le asserzioni detrattrici del loro valore 2238-2240 (3344); il digiuno vale come soddisfazione per i peccati 1713; l’uso della Chiesa latina del digiunare non è condannabile. 1080; il digiuno non è da disprezzare dagli uomini perfetti 892.

Obbligo di evitare l’occasione prossima di peccare: asserzione riprovata. 2061 2162s.

K 3b. b. — BENI IMMATERIALI TERRESTRI DELL’ANIMA.

3ba. Libertà personali. Singoli diritti o libertà vd. sotto il luogo proprio tra K.

3bb. Onore e fama propria. Si riprova: difendere o rivendicare il proprio onore —: col duello: vd. K 4da; — con l’uccisione del calunniatore 2037s; —: con una falsa incriminazione 2143s; — con amfibologia 2127; —: con procurato aborto 2134.

K 3c. c. — BENI CORPORALI PROPRI.

Dio concesse all’uomo il diritto dell’integrità della vita e del corpo

(inclusi i a.mezzi necessari ad un onesto genere di vita, b.funzioni sociali in tempo di inopia) a3771 b3774.

La stessa natura delle cose comanda di conservare la vita propria 3268 3270; è proibito esporre la propria vita per legge divina 3272; i suicidi o duellanti sono privati della sepoltura eccl. CdIC 1240, § 1, 3°-4°; circa il duello vd. K 4da.

L’uomo nelle membra del suo corpo non ha altro dominio che quello che è pertinente ai fini naturali 3723; non gli è lecito, danneggiare le sue membra, mutilare, o per altra via rendersi inetto se non quando non si possa provvedere diversamente al bene dell’intero corpo (a.applicando il principio della totalità) 3723 3760 3763 S128a aS128a°; proibita è la castrazione volontario di se stesso 762 S128a.

Integrità sessuale: si riprova la masturbazione direttamente procurata (a.anche per fini medici) 687s a3684; asserzione riprovata della peccaminosità che investe qualunque atto carnale 897 1367 2044s 2109 2148 2149 -2241 2247; si proibiscono i libri lascivi 1857.

K 3d. d. — BENI MATERIALI ESTERNI.

Obbligo di lavorare per procurarsi il vitto 3268-3271; tuttavia, non per questo è riprovevole la mendicità religiosa 1174 (1491);

Il lavoro della madre di famiglia e degli infanti per il salario insufficiente del padre, è un abuso 3735.

K 4. Esercizio delle virtù nei confronti del prossimo.

(Beni del singolo richiesti al prossimo)

K 4a. a. — PRINCIPI GENERALI.

Si rivendica l’obbligatorietà di amare il prossimo con atto interno e formale. 2110s.

Peccati generici ctr. la carità: si riprov. l’ass. più blando a.circa il gaudio dela male altrui, b.il desiderio del male dell’altro, c.la tristezza per il bene altrui abc2113 b2114 a2115.

Lo scandalo al prossimo per l’occultazione della fede CdIC 1325, §4 ; scandalo può sorgere dal modo insano di declamare in pubblico 1405 1820.

Cooperazione al male—: nell’onanismo matrim. 2715 2758 3634 3917a; – : dell’ufficiale cattol. nel divorzio civile 3190-3193; —: nel duello 3162; —: coinvolgere il servo nel peccato 2151; —: nel cremare i cadaveri 3278s: —: nel suffragare i comunisti 3865.

K 4b. b. — I BENI RELIGIOSI DELL’ANIMA.

Si espongono i principi circa l’educazione religiosa. 3685-3690; in qual senso è riprovata l’educazione sessuale 3697s.

K 4c. c. — I BENI IMMATERIALI TERRENI.

4ca. Verità e veracità.

Si riprovano le asserzioni (più blande) —: scusanti la menzogna e l’amfibologia (2124) 2125-2128; – : la testimonianza giuridica dannosa 1112 2046 2102; — circa la detrazione e la falsa incriminazione.

Si Riprova la simulazione della.Messa, b.dei Sacramenti, c.del battesimo a789 b2129 b2560s.

4cb. Fedeltà. Si riprova l’asserzione più blanda circa la fedeltà nella promessa 2030.

4cc. Libertà personale. Dal potere civile di deve assicurare la libertà che richiede la dignità della persona umana 3250.

Tra i diritti fondamentali dell’uomo, spetta la personale libertà in particolare: — la libertà di sequire la coscienza propria, 3250.

— : libertà dalla coercizione nella pratica della fede: nessun recalcitrante è da obbligare al battesimo 647 698 773 781 (1998) 2552-2554 2557 3177; non è lecito battezzare i figli di genitori nolenti 1998 2552-2554 2557;

Cristo non obbliga nessuno ad agire con violenza, ma è riservata l’esortazione alla libertà del proprio arbitrio 698. — : tolleranza della persuasione religiosa degli altri (a.e tutela del culto ctr. i perturbatori), che viene comandata o raccomandata 480 698 772 a773 3176 (3250) 3251s; si riprova: [gli eretici sono da bruciare ctr. la volontà dello Spirito S.] 1483.

Ripugna la libertà Illimitata di pensare, scrivere, insegnare 2731 2850-2859 2875 2979 3252.

Si protegge la Libertà della donna nel matrimonio 3709;

Libertà dalla schiavitù: Empia è la vendita degli uomini per questo si proibisce ctr. I diritti dell’umanità e della giustizia 668 1495 2745s.

Si riprovano I mezzi violenti dell’inquisizione giudiziaria (per estorcere una confessione di crimini); 648; cf. anche le ordalie: K 2fa.

4 cd. L’onore e la fama.

La Confessione è segreta e vi è obbligo del sigillo: vd. J 6ad; asserzioni riprovate circa il danno all’onore degli altri 2143s.

K 4d. d. — BENI CORPORALI

4da. Vita. È vietato dalla legge divina e naturale ferire o uccidere qualcuno all’infuori di una causa pubblica senza essere costretto da alcuna necessità. 3272; il giudizio del sangue è lecito da parte del potere secolare purché non proceda da odio, ma per giudizio e riflessione 795; la milizia può essere innocente 321; si rivendica il diritto di combattere contro gli infedeli (Turchi) 1484; si riprova l’uccisione innocente per ordine della pubblica autorità. 3790.

Si riprova l’ass. scusante l’uccisione — del calunniatore e del falso giudice 2037s 2130; — : del tiranno 1235; — : il ladro per una sola moneta 2131; — : persona che turba la legittima speranza di possesso 2132s; — per adulterio colto i flagranza 2039.

Si riprova l’uccisione del feto o aborto (a.come omicidio) a670 2134s 3258 3298 3337 3719-3721 CdIC 2350, § 1; si giudicano i diversi modi di estrazione del feto: a.accelerazione del parto, b.aborto, c.operazione cesarea, d.laparotonmia, e.craniotomia e3258 be3298 a3336 bc3337 b3338.

Si. riprova il duello (monomachia) ed il a.quasi-duello 799 1111 1113s 1830 2022 2571-2575 3272s 63672 CdIC 1240, § 1 2351; il duello è tentazione a Dio, b.temerarietà nell’esporre la propria vita, b.temerarietà, perversione del diritto come punizione privata a799 bc3272s; non è lecito ad un medico o confessore assistere al duello 3162.

4db. Integrità del corpo. La pubblica autorità non ha diretta potestà sui membri dei sudditi (3272) 3722 3760-3765; questione della liceità quanto —: castrazione e mutilazione 762 S128a; — sterilizzazione 3722 3760-3765 3788; in quanto alla sostanza l’atto non è intrinsecamente illecito, ma lo è per difetto di diritto di agire, se si configura come impedimento alla prole 3760.

4dc. Cura dei corpi dei defunti. Si proibisce la cremazione dei cadaveri (a.ragione addotta) 3188 3195s 3276-3279 a3680 CdIC 1240 §, 1,5°; non è in sé un male e si permette in casi particolari 3680; questione della liceità quanto alla cooperazione 3278s.

Violazione dei cimiteri. Si riprova la dissepoltura dei cadaveri fatta con prava intenzione 773.

K 4e. e. — BENI DELLA VITA SESSUALE.

4ea. Diritto a contrarre il matrimonio (ed istituire una famiglia) 3702 3771.

4cb. Beni che preludono alla prole 3704s; la continenza, consenzienti entrambi i coniugi, può evitare onestamente la prole 3716; il modo di agire dei coniugi che convivono in modo naturale è legittimato dai fini secondari del matrimonio, dal momento che,o per causa naturale, o per il tempo, o a causa di difetti non possa generare la vita. 3718; lecita è l’osservanza dei tempi agenesiaci 3148 3748; si riprova l’onanismo matrimoniale (specialmente indotto con a.strumento, b.coito sodomitico) 2715 2758-2760 2791-2793 a2795 3185-3187 b3634 a3638-3640 3716-3718 ab3917a; si scusa la moglie obbligata al peccato 2715 2758 3634 3718.

Questione della liceità quanto alla —: copula dimezzata 3660-3662; —: ampiesso riservato 3907.

La Fecondazione artificiale è illecita 3323.

4ec. Si disapprova la vita sessuale più libera — : matrimonio a tempo, ad esperimento 3715; —: dissoluzione dell’unione coniugale 283; — divorzio delle presunte vedove da altro marito, al ritorno del primo (creduto morto) 314.

Si riprovano i giudizi più lassi quanto alla peccaminosità degli atti carnali 2060 2109 2148-2150; la fornicazione del soluto con una soluta è peccato a.mortale a835 2148; si riprov. l’asserzione più lassa circa il modo di considerare i peccati sessuali 2044s 2150.

Il Chierico costituito negli ordini sacri e i regolari solennemente professi, contraggono il matrimonio invalidamente 1809 CdIC 1072s (2388, § 1); in cosa di sollecitazione venerea non è ammessa parvità di materia 2013;

asserzione riprovata circa la denunzia della sollecitazione 2026s.

4ed. Istruzione sessuale. L’educazione sessuale in qual senso è riprovata 3697; riprovata l’educazione dei sessi 3698; sono proibiti i libri lascivi 1857.

K 4f. f. — BENI MATERIALI ESTERNI.

4fa Si raccomanda l’Elemosina come opera buona (a.soddisfattoria per i peccati, b.in suffragio per i defunti) b797 9713 b856 9304 b1405; si rivendica il modo di vivere degli ordini mendicanti 844 1170 1174 1184 1491.

L’obbligo all’elemosina non viene dalla giustizia, ma dalla carità, eccetto nelle cose estreme 3267;. I ricchi sono gravemente obbligati a dare da libere donazioni (a.negato il supposto dell’asserzione lassa) a2112 3729.

4fb. Giustizia nell’acquistare e nel possedere. Il diritto al dominio e alla proprietà è fondato sulla legge divina e naturale 3133 3265s 3271 3726 (3728) 3771; si difende come diritto ondamentale specialmente nelle genti oppresse dell’uomo 773 1495 2746; si riprovano le asserzioni che negano al peccatore il diritto alla proprietà civile o all’eredità 1121-1125 11541 1165 1230; la proprietà non impedisce la salvezza dell’uomo 797; il comunismo contrasta il diritto alla proprietà 2786.

Il diritto alla proprietà ha indole individuale e sociale (3267) 3726 3728 3773; da evitare è sia a.l’individualismo quanto il b.collettivismo ab3726 a3741.

Nel possesso occorre distinguere l’uso dei beni 3267 3727; l’uso dei beni materiali riguarda tutti (a.in equa parte) 3267; l’abuso o il non uso non è ammesso nel diritto di proprietà 1126s 1137s 1166 1168 3727;

l’autorità pubblica non può negare il diritto al possesso, ma temperarne l’uso e concorrere al bene comune 3271 3728. Circa il bene comune e la giustizia sociale vd. K 5ca 5cb.

Titoli per acquistare il dominio -: l’occupazione di una cosa di nessuno 3730;

l’industria o la specificazione (così come gli dà una nuova specie o aumento della proprietà) 3730;

– il lavoro personale equo tuttavia non è l’unico titolo legittimo 3265 3268s 3731 .3732 3773; principi del giusto salario: vd. K 4fc;

– diritto all’eredità (a.che nessuno della civile autorità può portar via) 1122s a3728;

– prescrizione, supposta buona fede 816 CdIC 1512.

lesione della proprietà. Il furto e la rapina sono divinamente proibiti 3133;

I rapitori della cose dei naufraghi sono scomunicati come fratricidi 706;

riprov. le ass. più lasse -: favoreggiamento nei furti 1368 2136-2138; -: peccati ctr. la giustizia nel risolvere le obbligazioni ecclesiastiche per lo stipendio ricevuto 2028-2030 2040-2042 2053-2055 2063 2147 (2154);

sentenza del giudice con accettazione di denaro con parti ugualmente probabili 2046; -: ctr. l’obbligo della restituzione 1115 2040 2053 2138s.

4 fc. Giustizia nel contrarre. In forza del prestito, nessuno può percepire un guadagno. 3105: 4fc.

un lucro è legittimato da titoli estrinseci 3106s; principi determinanti la quantità del lucro 3108s.

L’Usura è definita come studio del lucro non germinante dall’uso della cosa, da alcun lavoro, nessun rischio, nessun pericolo 1442 (2546) CdIC 1543; si riprova l’usura (a.e le specie di contratti affini) 280s 716 a753 a764 906 2062 a2140 2141s S747; si condannano i cambi 1981s; cause scusanti ed i contratti scusati (in specie i Monti di Pietà) 828 1355-1357 a1442-1444 2548-2550; usura a solo legis titolo di legge è considerata di dubbia fede 2743.

Locazione dell’opera. Il Salariato di per sé non é ingiusto 3733;

Si raccomanda la temperanza nel contratto dell’opera contro il contratto di società e la partecipazione attiva del lavoratore alle strutture da amministrare 3733

Principi per la mercede diminuita giustamente (tra le quali a.la necessità della famiglia, b.stato economico dell’officina, c.il bene comune) (a3266) 3269s 3271 (a3726) 3733 a3735 3736 c3737 3773.

K 5. Esercizio delle virtù contro la suprema società.

K 5a. a. – BENI RICHIESTI ALLA SOCIETÀ IN GENERE.

5aa. Il diritto di formare una società è dato da Dio 3771.

5ab. Circa la giustizia sociale quale principio economico vd. K 5cb.

I beni sia esterni sia all’anima sono dati all’uomo tanto per la perfezione propria che per l’utilità degli altri 3267.

5ac. L’autorità imperante (in genere).

L’autorità legittima è difesa ctr. i denigratori: [l’uomo perfetto si emancipa dall’obbedienza] 893 2265; [il Popolo arbitrariamente recusante la legge non pecca 2048;] [il Popolo può a suo arbitrio correggere i signori che delinquono] 1167: si riprova il concetto materialistico dall’autorità 2960; il diritto di dominare non si estingue nell’uomo peccatore o prescito 1121 1165 1230.

Ogni autorità umana ha i limiti nella legge eterna 3248s;

K 5b. b. — BENI RICHIESTI ALLA FAMIGLIA.

Il diritto a formarsi una famiglia è dato da Dio 3771; il convito domestico per ragione e cosa è prioritario rispetto alla comunità civile 3728; si riprov.: [la famiglia trae la ragione della sua esistenza dal diritto civile] 2891; l’ordine dell’amore e la sottomissione nella famiglia 3707-3709; il diritto ed il compito della famiglia di educare e procurare l’istruzione 3685 3690 CdIC 1372 1374; questo diritto precede il diritto dello stato 2891s 3690 3693.

Si riprova il lavoro della madre di famiglia e degli infanti obbligati alle officine dalla esiguità del salario paterno 3735 3737; la giusta mercede del lavoro è determinata dal rispetto e dalla necessità della famiglia (3266) 3271 (3726) 3735.

K 5c. c. — BENI RICHIESTI ALLA SOCIETÀ CIVILE.

5ca. Genere di beni provenienti dalla società civile. Beni comuni economici: obbligo di intendere la richiesta del bene comune dall’indole del dominio sociale 3728; questa cura deve estendersi a tutto il mondo (oltre la propria gente); casi speciali ove urge il rispetto al bene comune 3737 3772

Adeguamento degli uomini rispetto ai diritti e ai beni della cultura terrestre (La ragione considera la dignità della persona umana), in specie per ciò che spetta all’indipendenza politica della gente 3255.

Pace – : si spera conservarla —: tra gli ordini dei cittadini: (3170)

5cb. Principi dell’intercessione della potestà civile nella vita sociale. La giustizia sociale è il principio direttivo economico esigente dal singolo quanto sia necessario al bene comune 3732 3737-3741 3774.

Il principio si sussidiarietà deve reggere qualsiasi ordine sociale 3738.

Si riprov. l’ass. circa il diritto assoluto di tassare del potere civile 2939 3782s 3785; principi di resistenza ctr. l’abuso del potere civile (a.dissuadere la sedizione, b.si riprova il tirannicidio) a1235 a3132 a3170 3252s 3775s.

La societas civile ha il diritto di educare, non assoluto ed antecedente il diritto della famiglia 2891s 3685 3690-3596; non ha il diritto di sciogliere in vincolo del matrimonio (a.neppure nei legittimi matrimoni naturali) 2992 (3190-3193) a3724; non può togliere il diritto di proprietà ed eredità 3728.

Ai cittadini compete la facoltà di eleggere o temperare la forma della cosa pubblica 3173 3253s; —di partecipare attivamente ai negozi della repubblica 3174; — di riunirsi in società di lavoratori 3740.

5cc. Sistemi dell’ordine sociale. Si riprende il liberalismo (ed il suo individualismo) 3772.

Il Socialismo (anche a.mitigato) contrasta con i principi cristiani 2892 2918 3742-3744.

Il Comunismo rovescia le necessità dei cittadini e della società 2786 3773; è proibito il suo favireggiamento 3865.

K 5d. d. — BENI RICHIESTI ALLA CHIESA.

Sottomissione all’autorità della Chiesa —: rivendicata in genere 102 161 704 1215 2895; nessun uomo a.giustificato né b.perfetto (o contemplativo) è esente dai precetti della Chiesa b393 a1570 b21895; — dall’insegnamento: vd. H la c 2a-c; — dal riconoscere il primato del S. Pontefice: vd. G 4db; rifiutare la sottomissione al S. Pontefice e ricusare di comunicare con i membri della Chiesa è scismatico 446 468s CdIC 1325, § 2.

Diritto della Chiesa è obbligare e punire i disobbedienti: vd. G 4b; diritto ai beni temporali vd. G 4a.

6. Vita della perfezione cristiana.

K 6a. a. — NATURA DELLA PERFEZIONE CRISTIANA.

6aa. Cooperazione con la grazia divina. Si riprova l’ass. che nega il valore e la necessità dell’umana attività [come: Dio solo vuole operare in noi senza di noi; l’uomo deve annichilare le sue potenze; ogni progresso della virtù deve attribuirsi unicamente all’azione divina] 2201//2255 3817 3846; reprob.: [l’uomo può perfezionarsi a tal punto da non poter più progredire nella grazia] 891.

6aa. Effetto o frutto della vita di perfezione. Riprov. l’ass. esagerante: [si può pervenire alla perfetta libertà dalle passioni, dalla cupidigia, alla morte della sensualità, alla pace imperturbabile] 892 2254-2256 2262s:

[Si può giungere anche alla libertà dal peccato veniale fino ad essere a.impeccabile] a891 2256-2261.

Alle Tentazioni devono resistere anche i contemplativi a192 2217-2224 2237 2241-2253; l’atto e peccato anche per l’uomo perfetto 897 2248 (2241-2253).

L’unione con Dio è da raggiungere in terra, si riprov. l’ass. esagerante: [a.l’uomo si trasforma totalmente in Dio, b.si fa uguale a Dio c.gode la beatitudine e la comunione illimitata con Dio, d.opera una cooperazione comune con Dio] b959s ac9615 c963 b970-972.

6ac. Sottomissione a Dio e alla Chiesa. Anche i contemplativi vi sono tenuti 893 2189s; ad essi non conviene omettere l’atto di riverenza prescritto nei confronti della S. Eucaristia 898.

K6b. b. — VIA DELLA PERFEZIONE CRISTIANA.

6ba L’Esercizio delle virtù conviene pure agli studenti 896 2188 2231 2368; anche l’atto esterni ha valore per la vita di perfezione 966-969.

6bb. Orazione. L’ Orazione contemplativa è riconosciuta legittima ed eccellente 2182 2185 2188; il suo oggetto non è solo la presenza di Dio 2185-2187; l’orazione meditativa e riconosciuta legittima e di valore per la vita di perfezione 2181-2185; negando ad essa la necessità per la salvezza 2192: si rivendica la legittimità dell’orazione discorsiva ctr. le detrazioni 2218-2223 2225 2229 1232 2264 2365-2368; all’uomo perfetto conviene pure l’Orazione impetratoria 957-959 2214; reprob. l’asserzione ctr. la devozione sensibile (2218) 2227//2235 2263.

6bc. Le opere di penitenza e di mortificazione hanno il loro valore anche per i perfetti 2238-2240.

6bd. Rinunzia all’amor proprio. Si riprova l’asserzione esagerata soprattutto circa la necessità della rinuncia all’amore proprio, ai beni spirituali e alla salvezza eterna 957-959 2201-2217 2224s 2232//2253 2351//2373 2433.

6be. Consigli evangelici o voti religiosi. Si rivendica la loro legittimità 321 (381) 797 3345; non impediscono la perfezione 2203; si riprovano le asserzioni esagerate circa la povertà — di Cristo e degli Apostoli 930s 1087//1097; —: forza del voto 908 10871097.

6bf. 6bf lo Stato religioso è il modo stabile di vivere in comune in cui oltre ai precetti comuni si praticano anche i consigli evangelici CdIC 487; si rivendica li stato religioso (ctr. gli avversari) 844 11691174 1181 1184s 1194s 1270 CdIC 487; riprov. le asserzioni circa la riforma dei regolari e dei monacali 2680-2692; si difende come legittimo lo stato dei religiosi mendicanti 841-844 1170 1174 1184 1491.

6bg. Stato di verginità e celibato. Obbligatorio per i chierici (a.negli ordini maggiori)

117° 118s 185 711 a1809 2972 CdIC a132 1072s.

La verginità ed il celibato superando stato matrimoniale 1810 3911s; il mutuo aiuto dei coniugi non è un mezzo di maggior perfezione per la santità come la verginità. 3912.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (53)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (20)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (20)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

CONCLUSIONE.

A chi, dopo d’aver contemplato nel suo spirito animatore l’etica nostra e d’averne sentito l’intimo palpito, ripensa ai vari sistemi filosofici che hanno voluto tracciare all’umanità una norma di vita, ricorre alla memoria l’osservazione di Alessandro Manzoni nella sua Morale Cattolica: «Che, anche dopo il Cristianesimo, alcuni filosofi si siano affaticati per sostituirgliene un’altra, è un fatto pur troppo vero. Simili a chi, trovandosi con una moltitudine assetata e sapendo d’esser vicino a un gran fiume, si fermasse a fare con de’ processi chimici qualche gocciola di quell’acqua che non disseta, hanno consumato le loro cure nel cercare una ragione suprema e una teoria completa della morale, assolutamente distinta dalla teologia: quando si siano abbattuti in qualche importante verità morale, non si sono ricordati ch’era stata loro insegnata, ch’era un frammento o una conseguenza del catechismo; non si sono avvisti che avevano soltanto allungato la strada per arrivare ad essa, e che, invece di avere scoperto una legge nuova, spogliavano della sanzione una legge già promulgata ». – V’è bensì in ogni sistema morale un punto luminoso, un raggio di verità: ed è ciò che attrae, affascina, seduce le menti frettolose. Così ad esempio, quando gli scettici negheranno la serietà della vita, risponderà loro il vanitas vanitatum di Salomone, l’affermazione, cioè, che le cose di quaggiù, separate dall’Assoluto, sono un nulla e ci tuffano nelle onde del relativismo, del dilettantismo, del pessimismo. Persino quando il concetto di utile cercherà di ingoiare e di distruggere il concetto di bene, avremo un lato di verità, che l’utilitarismo illustrerà con tutti gli sforzi: la virtù, infatti, porta la felicità agli individui ed ai popoli. Kant, che si soffermerà con rigoroso esclusivismo sul dovere ed escluderà ogni idea di utilità, non farà altro se non proclamare che il valore morale dell’atto non dev’essere giudicato dall’esterno, ma nell’intimità del suo spirito. Nietzsche, che canterà il Superuomo, esprimerà a modo suo il bisogno profondo che sentiamo di elevarci sopra la nostra miseria e le nostre deficenze, e di aspirare alla divinizzazione. Hegel e gli idealisti, per i quali l’individuo non è se non un momento del Tutto, sottolineeranno il grande errore di una visione atomistica dell’universo e, di conseguenza, dell’orientamento egoistico dell’individuo. Sono tutti « frammenti di vero per dirla col poeta lombardo, misti ad esagerazioni ed a spropositi. Nè bisogna dimenticare il vantaggio che lo studioso può ottenere dalla loro meditazione: giova, infatti, far attraversare un prisma di cristallo da un raggio di sole, per infrangerlo in tanti colori distinti, che dapprima l’occhio nostro non poteva cogliere. Anzi, la futura storia della morale dovrà appunto esser condotta, non già dal semplice punto di vista critico-negativo della confutazione, ma con le preoccupazioni serene di una critica costruttiva, che tutti i raggi di luce raccoglie pazientemente, che tutte le anime di vero organizza sistematicamente, che alla fine mostra come tutti i risultati delle umane ideologie si sintetizzano e vengono infinitamente superati dalla morale divina dell’Amore. Ma la storia della morale, che l’avvenire ci darà, non potrà essere soltanto una disamina filosofica di sistemi: essa sarà necessariamente la storia dell’Amore nei secoli cristiani. Siccome, a differenza dei vari pensatori, Gesù Cristo non si è limitato ad enunciare una dottrina, ammirata da molti, ma praticata da pochi, bensì ha istituito una società, che ormai da due millenni si ispira alla sua morale, è evidente che, per capire la morale dell’Amore bisogna guardarla non tanto nelle formule astratte, quanto nella concretezza della vita vissuta. – Questo piccolo libro non potrebbe avere altra conclusione, se non una traccia, un sommario, un indice di un futuro Sillabario della storia della Chiesa, che indichi come la vita del Cristianesimo è la storia dell’amore e che chiunque non comprende questo, è destinato a non penetrare mai nell’essenza della religione nostra. Il dogma ci ha cantato l’Amore: tutti i precetti della morale li abbiamo visti vivificati dall’Amore; anche il corpo mistico di Cristo, la Chiesa, non è altro, e non può essere altro, se non il trionfo dell’Amore nel tempo, che prepara le vittorie di esso negli anni eterni.

1. – I due metodi storici.

Diciamo subito che due metodi si possono seguire nello studio della storia del Cristianesimo. In genere si considera quest’ultimo nelle sue manifestazioni esteriori ed allora i secoli cristiani li dividiamo in epoche ed ogni epoca in fatti ed in vicende. Abbiamo così il Cristianesimo sotto l’Impero Romano, il Cristianesimo all’epoca dei barbari, il Cristianesimo nell’età di ferro, il Cristianesimo nel Medio Evo, durante l’Umanesimo ed il Rinascimento, nel periodo della Riforma, dell’Illuminismo, dell’Enciclopedia, della Rivoluzione francese, del Romanticismo, nel secolo ventesimo. Questa però non è ancora la vera storia, come io non conoscerei ancora la storia d’una persona, se mi accontentassi di raccogliere un mondo di fotografie, fatte al bimbo in culla, al bambino in fasce, al fanciullo, al giovane e via dicendo, od anche se radunassi in una cronaca scrupolosa tutta la narrazione delle gesta e delle vicende di quell’individuo. Avrei, in questo modo, un materiale ottimo, prezioso, necessario; ma fin quando da esso non riuscissi ad entrare nell’animo e nel cuore di quella persona e mi restasse ignota la fonte unica interiore, da cui sono zampillati tutti gli atteggiamenti esterni nelle varie situazioni di fatto, non avrei dinanzi a me una persona conosciuta, ma un enigma misterioso da decifrare. – La vera storia del Cristianesimo non la si può cogliere se non ponendoci nella sua vita profonda. Gesù è unito ai suoi seguaci e questo mistico organismo, animato dallo Spirito Santo, si sviluppa nei tempi. Più che baloccarsi coi fenomeni esterni, giova scendere nella sorgente soprannaturale vivificatrice, che unisce tutte le anime in Cristo, le fa vivere d’una vita divina, fa giungere ad ognuna di esse la linfa vitale. Noi, insomma, vogliamo la storia del Cristianesimo nella sua intima unità, non solo nella molteplicità delle manifestazioni esteriori. Partendo da quella, si chiariscono anche queste; non si confonde la vita di Cristo nelle Chiesa con le colpe e gli errori di chi, pur essendo battezzato o magari sacerdote o Vescovo o Papa, non vive la vita cristiana; non si spezzetta in mille parti staccate l’unità organica della vite coi suoi numerosi tralci, che, attraverso i secoli, prosegue in una ininterrotta continuità a produrre con incessante ricchezza pampini e frutti.

2. – L’amore di Dio e la storia del Cristianesimo.

Se, non al di fuori, ma nel Cristianesimo stesso noi ci poniamo, consapevoli dell’unione di Cristo con tutti i fedeli, dell’umanità con Dio; se, cioè, vogliamo tratteggiare lo svolgimento di questa pianta maestosa, le cui radici si sprofondano nell’antichità, la storia si può descrivere nel modo seguente.

1. In principio era l’Amore. E solo per amore Dio ha creato l’universo ed ha innalzato l’uomo alla dignità della divinizzazione. Ma l’uomo non ha risposto all’Amore con l’amore; ma col peccato originale ha iniziato la serie delle sue ribellioni all’Amore di Dio. Le civiltà pagane rappresentano lo sforzo dell’uomo a vivere, non secondo la legge dell’amore divino, ma secondo la legge dei diversi egoismi. L’idolatria stessa altro non è se non un mettere al centro del mondo creature, che venivano proclamate divinità, al posto di Dio. Solo il popolo prediletto conservava la visione chiara del male commesso, della riparazione necessaria, del Messia invocato, in una parola dell’Amore di Dio, che ancora avrebbe unito a sè i cuori degli uomini.

2. Nella pienezza dei tempi, apparve in mezzo a noi il Dio salvatore nostro, nella sua benignità e nell’umanità, e, siccome Dio è carità, visse una vita d’amore. La scena della Incarnazione, la mangiatoia di Betlemme, le preghiere della vita privata, i prodigi della vita pubblica, il Cenacolo eucaristico, l’orto degli Olivi, la colonna della flagellazione, la corona di spine, la croce del Calvario, le parole dell’agonia furono un canto divino d’amore. La sua dottrina fu da Lui compendiata in una parola: « Amatevi! ». Amare Dio sopra ogni cosa; amare il prossimo per amore di Dio; pregare Dio chiamandolo col dolce nome dell’amore, ossia « Padre nostro »; essere e vivere tutti nell’amore, l’Amore del figlio incarnato che a sé ci unisce, l’Amore dello Spirito Santo che ci santifica, l’Amore del Padre che col Figlio e con lo Spirito è unito a noi; vivere d’Amore quaggiù per prepararci un’eternità di Amore ineffabile; ecco la dottrina di Cristo.

3. Risorse da morte, perché l’Amore non teme pietre sepolcrali; inviò lo Spirito Paraclito sopra il gruppo dei suoi eletti, ossia sugli Apostoli dell’amore. Fiamme di fuoco, simbolo di questo Amore soprannaturale, trasformarono la piccola Chiesa nascente; e dal Cenacolo uscirono tutti per far echeggiare sino agli estremi confini della terra l’annuncio dell’amore di Dio per noi e l’appello agli uomini perchè tutti amassero Dio. « L’amore di Dio — esclamava nella lettera ai Romani Paolo di Tarso, difensore del principio universalistico dell’Amore, contro i rimasugli egoistici dell’ebraismo — è diffuso nei cuori nostri, per lo Spirito Santo, che è stato dato a noi… ». E parlando prima ai Cristiani di Corinto, aveva detto: « Quand’io parlassi la lingua degli uomini e degli Angeli, se non ho l’Amore, non sono che bronzo che risuona o un cembalo squillante. E se avessi profezia e conoscessi i misteri tutti e tutto lo scibile, ed avessi tutta la fede così da trasportare le montagne, se non ho l’Amore, sono un niente. E quand’anche distribuissi tutto il mio per nutrire i poveri, ed abbandonassi il mio corpo ad essere arso, se non ho l’Amore, non mi vai nulla… Tutto fra voi si faccia nell’Amore… E se alcuno non ama il Signore, sia anatema!… L’amor mio con tutti voi, in Cristo Gesù! ». Ed ai Romani ancora insegnava: « Dio fa risplendere per noi il suo Amore, dacché, mentre ancora eravamo peccatori, Cristo morì per noi… Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, o la angoscia, o la fame, o la nudità, o il pericolo, o la spada?… No: in tutto questo noi più che mai sopravvinciamo, con l’aiuto di Colui che ci ha amato. Io sono certo che nè morte, né vita, né Angeli, né Principati, né presente, né futuro, nè possanza, nè altezza, né profondità, né altra creatura alcuna potrà separarci dall’Amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore ». Ogni parola dell’Apostolo delle genti fu parola d’amore, sia che egli spiegasse il mistero della nostra incorporazione a Cristo, sia che inviasse a Filemone lo schiavo Onesimo, fuggito da quella casa. E San Giovanni incalzò nelle sue Lettere: « Diletti, l’Amore viene da Dio, e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha imparato a conoscere Iddio, perchè Dio è Amore. L’amor di Dio per noi è stato manifestato a questo modo: Iddio ha mandato nel mondo il suo Figliolo unigenito, perchè per mezzo di Lui noi avessimo la vita. E l’Amor suo si vede da questo: non siamo noi che abbiamo amato Iddio, ma è Dio che ha amato noi, ed ha mandato il Figlio suo, quale vittima di propiziazione per i nostri peccati… ». – « Diletti, se Iddio ha così amato noi, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri… Se ci amiamo gli uni gli altri, Iddio dimora in noi ». « Questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri, e non facciamo come Caino… Noi, perchè amiamo i fratelli, sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita. Chi non ama, ri-mane nella morte… Noi abbiamo imparato a conoscere che cosa sia l’amore da questo: che Gesù ha dato la sua vita per noi; e noi pure dobbiamo quindi dar la vita per i fratelli… Questo è il comandamento che abbiamo ricevuto da Lui; chi ama Dio, deve amare anche il fratello ».

4. Era la prima volta, che simili accenti si diffondevano dovunque. Quando le labbra degli Apostoli pronunciavano il nome soave di « fratello », i cuori intuivano che qualcosa di nuovo v’era nel mondo, dinanzi alla quale non reggevano al paragone né l’arte od il pensiero di Atene, nè le aquile di Roma. E cominciò la battaglia: da un lato, il piccolo drappello dell’Amore; dall’altro, tutte le forze umane, ribellate a Dio e sacre all’egoismo. Lo scontro era inevitabile: e vi furono tre secoli di persecuzioni; vi furono i martiri. – « Ecco — esclamava il padre Monsabré — i rosai tagliati, prima che mettano il fiore. — Salvete, cari innocenti, primizia dell’umanità perseguitata! Salvete, piccoli cari, che in questo mondo non conoscete che Cristo e le vostre madri, e fra le braccia loro moriste per Cristo! «Ecco i gigli immacolati. — Salvete, o vergini, amanti fedeli del migliore e del più santo fra gli sposi! Salvete, figli ammirabili, che alla veste della castità aggiungeste il manto regale imporporato del vostro sangue! « Ecco gli olivi fecondi. — Salvete, donne incomparabili, il cui amore materno fu vinto dal sommo degli amori! « Ecco gli uomini della plebe. — Salvete uomini che usciste dal nulla, dall’oscurità e dall’abbiezione e ascendeste fino alla confessione sublime della fede! « Ecco le palme superbe. — Salvete, nobili! Salvete, patrizi! Salvete, o principi di questo mondo, liberamente discesi dalla gloria nell’obbrobio e dalle delizie nei dolori! « Ecco i cedri del Libano. — I cedri, anch’essi son caduti. Salvete, o Sacerdoti! Salvete, o Pontefici! Salvete, o apostoli della buona novella, i più alti nella luce ed i primi nella morte! ». Questa schiera di martiri ha vinto. La parola d’ordine d’ognuno di questi eroi è quella partita dalle labbra della vergine Agnese: « Amo Christum! ». I figli dell’Amore, morendo, vincevano. Invano le Catacombe moltiplicavano i sepolcri. Come a Gerusalemme, dopo tre giorni, risonava lo squillo della resurrezione, così a Roma, dopo tre secoli, l’Amore usciva vittorioso dai corridoi sotterranei; in cielo, l’emblema dell’Amore, la croce, appariva a Costantino e sopra di essa era scritto: In hoc signo vinces. Nell’Amore la vittoria è sicura.

5. Divenne allora più furente una seconda battaglia e gli Eretici presero il posto dei persecutori. La storia delle eresie mostra a luce meridiana la seguente verità: siccome il dogma è la sintesi dell’Amore di Dio per noi, ogni eresia è una negazione di amore. Dai gnostici che volevano sostituire una filosofia inutile ed ingannatrice alla rivelazione dell’Amore eterno, ai Montanisti che opposero il loro dissennato rigore alla bontà di Cristo; dagli Ariani che, colpendo al cuore la divinità del Verbo, venivano a negare il mistero d’amore dell’Incarnazione di Dio, ai Pelagiani che rifiutavano o falsificavano l’amore infinito di Dio manifestantesi nell’elevazione nostra all’ordine soprannaturale; dai Monofisiti e dai Monoteliti ai Giansenisti di questi ultimi secoli, abbiamo sempre questo fenomeno: l’eretico non crede all’Amore.

6. I Padri della Chiesa ci presentano lo spettacolo opposto. Il vero modo di esaminarli e di comprenderli è la chiave dell’Amore. Per capire sant’Agostino, bisognerà definirlo il Padre della Grazia, ossia dell’amore di Dio che ci eleva alla dignità di figli suoi. Per capire l’eloquenza di san Giovanni Crisostomo, occorrerà prendere una sua frase: « Il cuore di Paolo è il Cuore di Cristo » ed applicarla anche a lui. E quando sant’Ambrogio, dopo che i Goti, sbaragliato Valente, fecero un numero enorme di prigionieri, volle provvedere agli infelici divenuti schiavi, e non solo dispose a loro favore dei suoi beni, ma mutò in verghe d’oro i tesori dei templi, inviò una deputazione di cittadini ai barbari ed ottenne il riscatto di molti; quando, al rimprovero del mícrocefalismo, rispose: « E’ meglio che gli altari siano adorni di anime viventi, che non di vasi preziosi », il grande Vescovo di Milano non faceva altro se non ripetere con un gesto il suo insegnamento d’amore.

7. Calarono i barbari, flagello sulle terre cristiane, seminando dovunque rovina e morte. Le spaventose invasioni di quelle orde selvagge, le città distrutte, gli abitanti massacrati o ridotti in schiavitù, gli incendi e le stragi fecero sviluppare sempre più l’antica fiamma della Chiesa. L’Amore di Cristo affrontò i feroci conquistatori, li convertì, li trasformò. San Leone Magno di fronte ad Attila e tutta la serie di Vescovi, da sant’Eusperio a san Lupo, da san Germano a sant’Aurelio, da sant’Egnano a san Geminiano, che sfidarono i barbari, non sono altro se non i simboli dell’Amore cristiano che vince la violenza brutale. In san Remigio, che nella cattedrale di Reims conferisce il battesimo a Clodoveo; in donne nobili ed egregie, come Clotilde e Teodolinda, che tanto fecero per la conversione di re e di popoli; in tutti i generosi che contribuirono alla rigenerazione del mondo barbarico invasore, noi salutiamo l’Amore! E furono ispirazioni dell’Amore cristiano la tregua di Dio, il diritto di asilo, la Cavalleria e cento altre istituzioni sorte nei secoli di odio e di prepotenza, quando bisognava educare le belve umane alla carità di Cristo.

8. Tutta la storia delle Missioni, dai primi tempi della Chiesa ai giorni nostri, si riassume con una parola: l’Amore. San Gregorio Magno, che spediva quaranta monaci in Inghilterra a convertire quelle popolazioni, non mandava solo quaranta uomini, ma con essi inviava l’Amore. Ed anche oggi, ogni volta che un Missionario giunge nel centro dell’Africa od in un villaggio dell’Asia, portando una croce, noi non riusciamo a trovare la spiegazione del suo eroismo oscuro se non in questo segreto, sempre antico e sempre nuovo. Nelle nostre chiese, di notte, brilla sempre una lampada dinanzi al Tabernacolo; nel mondo fra le tenebre della barbarie, abbiamo questi cuori d’apostoli, simili a lampade vive, accese dallo Spirito Santo, che diffondono raggi di luce e di salvezza.

9. Nulla si può scoprire nei secoli dopo Cristo che sia veramente cristiano e non si riduca all’amore di Dio e dei fratelli. La verginità fu ed è un grido d’amore. Gli anacoreti ed i monaci, nei deserti e nei chiostri, fra macerazioni e preghiere, alimentano la fiamma dell’Amore. E se, ad esempio, i figli di san Benedetto seppero compiere prodigi; se i monasteri di Montecassino in Italia, di Fulda in Germania, di san Gallo nella Svizzera, di Cluny in Francia furono oasi di fede e di civiltà, lo si deve all’Amore, che divampava nelle loro anime e faceva loro apprezzare, conservare e svolgere gli stessi valori umani.

10. Si spiega, allora, tutta l’opera di carità individuale e sociale, che sempre ha caratterizzato il Cristianesimo. Si comprende, anche, il vero ed unico metodo cristiano – Per la redenzione degli schiavi, ad esempio, la Chiesa non ha ricorso all’arma della ribellione e dell’odio di classe, ma al principio della carità. Col dogma dell’eguaglianza di tutti gli uomini nei doveri morali e religiosi dinanzi a Dio, trasformò virtualmente la schiavitù: il padrone non ebbe più davanti a sè una cosa, ma una persona, un’anima redenta dal sangue di Cristo; la sua autorità sullo schiavo era quindi limitata; l’uccisione proibita; la santità, la monogamia, l’indissolubilità del matrimonio degli schiavi riconosciuta; il trattamento di essi mitigato. Un rivolgimento interiore fu il lievito della rigenerazione civile, che ne doveva essere la naturale conseguenza; fu la causa delle numerose iniziative private e pubbliche per la cristiana redenzione degli schiavi, dagli atti di spontanea affrancazione in massa da parte dei padroni, al riscatto della beneficenza ed all’obbligo ai chierici di liberarli; dalla vendita dei beni e degli arredi delle Chiese, alla fondazione di Ordini religiosi per redimerli; dalle dignità ecclesiastiche e civili conferite agli schiavi, sino all’opera emancipatrice universale di Papa Gregorio Magno, preparata e seguita da oltre 200 decisioni autorevoli di Concili, di Pontefici e del Diritto Canonico. E quando le oblazioni dei fedeli e le donazioni di terre e case formarono un grande patrimonio ecclesiastico, la Chiesa, ponendo in pratica la sua dottrina della funzione sociale della proprietà, iniziò un nuovo periodo di redenzione delle classi umili. Fu l’enfiteusi, ossia il dominio utile di case, campi, poderi, boscaglie, concesso dalla Chiesa ai privati o per un tempo determinato o generalmente in perpetuo, dietro compenso di esiguo canone annuo. E così tanti lavoratori divennero possidenti ed iniziarono la loro fortuna. Furono i censi, per cui la Chiesa cedeva ai privati case, campi, poderi, dietro un esiguo sborso del prezzo di stima, lasciando loro in mano il rimanente prezzo, con l’obbligo di pagarvi il frutto. Con questo mezzo un individuo poteva diventare possidente, acquistare vari appezzamenti, lavorarli, renderli fertili, ricavarne ottimi prodotti. Furono inoltre gli usi civici, che davano al povero il diritto di raccogliere frutti, far legna e carbone, falciare erba per fieno, cavar pietre, ed inoltre il diritto di pascolo, di seminar terreni non coltivati, di coltivare piccoli appezzamenti e così via. Siccome poi la Chiesa non poteva imporre a tutti i proprietari queste nuove riforme sociali, che essa andava attuando, ricorse ad un altro mezzo di redenzione economica con l’associazione del capitale al lavoro, facendo sorgere le colonie e le mezzadrie, in cui il proprietario poneva fondi, case, bestiame, capitale, macchine, anticipi di spese, mentre il lavoratore poneva la fatica, dividendo poi il frutto a metà. – E non dimenticò neppure gli artigiani, facendo trionfare con essi il principio dell’organizzazione e suscitando quelle Corporazioni d’arti e mestieri, che erano animate dal soffio del Cristianesimo. Non è possibile qui accennare, neppure in succinto, ciò che hanno prodotto i principi cristiani dell’Amore nell’ordine sociale in venti secoli di storia. Tutte le istituzioni di carità, che sorsero in ogni tempo, ispirate e create dalla religione e che sostituirono gli antichi circhi, i Colossei, gli anfiteatri; gli ospedali, i brefotrofi, gli orfanotrofi, gli istituti per la vecchiaia, per i ciechi, per i sordomuti, per i deficienti, per i derelitti, per ogni genere di dolore e di sventura; coloro che, come Vincenzo de’ Paoli, Camillo De Lellis, il Cottolengo, don Orione, don Calabria, hanno promosso mille opere a sollievo degli infelici; le istituzioni stesse economiche e sociali, dai Monti Frumentari e dai Monti di Pietà alle odierne opere di assistenza ed alle diverse organizzazioni per la tutela degli umili, sorte nei vari paesi, tutto questo canta la fecondità dell’Amore cristiano e ci fa comprendere quale importanza essenziale esso conservi per l’avvenire.

11. Come appare chiaramente, il Cristianesimo è l’epopea dell’Amore. E santi sono proclamati coloro che più hanno amato Dio, che più si sono sacrificati per il prossimo, che tutto hanno fatto per amore, che hanno trasformato la loro esistenza in un inno d’amore. Ogni santo ha la sua speciale fisionomia, né vi sono due figure identiche nel cielo della santità; ma l’anima è unica ed è data da questo divino elemento a tutti comune. Uno, anzi, dei modi efficaci per tracciare la storia della Chiesa, potrebbe essere questo: seguire durante i secoli la storia dei Santi, i quali pure hanno vissuto nella loro epoca e del loro tempo, ma che sino in grado eroico hanno esplicato la morale dell’Amore.

12. Se, del resto, altri preferisse un diverso metodo, potrebbe gettare il suo sguardo ai singoli secoli. Ecco, il secolo XIII, aperto da san Francesco, il Santo che, forse, più di tutti, ha amato Gesù Cristo, e da un altro serafico d’amore, Domenico di Guzman. Tommaso d’Aquino giungerà all’amore sulle ali del pensiero, robuste come ali di aquila: e non solo la sua vita, la sua morte, il suo commento sul letto dell’agonia del Cantico dei Cantici resteranno un mistero per chi se lo raffigurerà come un freddo intellettualista, ma anche il suo sistema immortale non sarà intuito nella sua anima da chi prescinderà dall’Amore che gli illuminava la mente sovrana. Bonaventura da Bagnorea, il Dottore serafico, indicherà nell’Amore stesso l’itinerario della mente a Dio. Dai monasteri della Germania risponderà il saluto al Cuore di Cristo di santa Gertrude e delle due Matilde; e saranno canti meravigliosi, vibranti di amore, come sempre lo furono gli accenti dei mistici, belli come le basiliche che con le loro guglie venivano allora lanciate verso l’azzurro a proclamare a Dio l’amore degli uomini. Dante chiude quel secolo col poema dell’Amore. Là « dove l’amor sempre soggiorna » sale con progressiva ascensione il poeta di nostra gente. Lo guida San Bernardo, il grande cantore del divino Amore, che lo aveva estasiato col carme delicato e soave, col commento della Cantica, e che gli suggerì il coronamento della Divina Commedia. « Drizzeremo gli occhi al primo Amore », all’« Amor che muove il sole e l’altre stelle ».

13. Quando nei secoli cristiani l’Amore si afferma e divampa, vi sono periodi di sviluppo, glorie di spirituali conquiste, orizzonti sereni di paradiso. Quando l’Amore impallidisce e s’offusca, abbiamo tramonti foschi e inverni desolati. – I Papi e i Vescovi che s’avviavano al martirio perdonando, benedicendo, amando, facevano fiorire sui loro passi rose primaverilmente fresche e candidi gigli. Ma il giorno in cui, mentre la sinistra impugnava un Pastorale, la destra brandiva una spada, abbiamo avuto la nefandità della simonia e del concubinato, e la lotta per le investiture. – Se l’Umanesimo ed il Rinascimento prepararono la culla della Riforma, fu perchè l’amore delle cose umane e dell’umana grandezza fece troppo dimenticare Dio e l’Amore soprannaturale. Non si creda però che quello sia unicamente il tempo di Alessandro VI: no; fu l’epoca delle Compagnie del divino Amore e dei Santi più accesi d’amore per Cristo e per i fratelli.

Contro Lutero, Dio suscitò Ignazio di Loyola, che alla stolta teoria della giustificazione mediante la sola fede, oppose la solenne affermazione del dovere di tendere a Dio con tutta la nostra attività; e fu questa nota attivistica che non solo ispirò i suoi Esercizi Spirituali, ma animò la Compagnia dei suoi figli valorosi. – Contro Calvino, il negatore dell’amore di Dio, che si foggiava con le solite fantasticherie della predestinazione un Dio feroce, s’alzò Francesco di Sales, col suo Traité de l’amour de Dieu, ad illustrare dolcemente la misericordia, la bontà e la facilità dell’amore divino. Ed intorno a loro vi fu una pleiade di anime grandi. Era il Borromeo, il quale mostrava l’amore del buon Pastore alle sue pecorelle, che egli risanava dall’ignoranza religiosa e dalla morale rilassata, sollevava nei bisogni della carestia, assisteva fra le miserie della peste. Era Filippo Neri, con l’amore alla gioventù; Camillo de Lellis, con l’amore agli infermi; erano i Somaschi, i Teatini, gli Scolopi, i Barnabiti, che si consacravano al popolo, agli orfani, al culto divino, alla gioventù studiosa, alle scuole popolari e via dicendo; questi erano i veri riformatori, che basavano la loro costruzione sull’Amore. Frattanto Giovanni della Croce e Teresa d’Avila intonavano un inno d’Amore, che certo non morrà. – E sorse un altro eretico, ossia un altro nemico dell’Amore: sorsero Giansenio ed i tristi seguaci, che vollero dipingere Iddio come perennemente irritato contro gli uomini, severo nello scrutarne le minime colpe, rigidissimo nella punizione, implacabile nel rifiuto delle grazie; e si raffigurarono un Gesù dalle mani serrate in pugni e minacciose. Non importa. La nazione dove il giansenismo fece le sue avanzate più rapide divenne anche la terra di Maria Margherita e del beato de La Colombière; fu la terra dove Gesù mostrò il suo Cuore, dicendo: « Ecco il cuore che tanto ha amato » e dove implorò amore: dove Alessandro Manzoni doveva ritrovare la fede perduta, per divenire in seguito il cantore della Morale Cattolica. – L’Illuminismo e l’Enciclopedia prepararono la Rivoluzione francese e, mentre funzionava la ghigliottina, le scimmie dell’amore cristiano urlarono: liberté, égalité, fraternité. L’umanitarismo voleva prendere il posto del Cristianesimo; l’Aufkldrung, il Progresso, la Civiltà, la Cultura moderna, la Ragione pretendevano offuscare coi loro splendori l’incendio d’Amore di Cristo. Il secolo XIX, con tutte le armi — dalla storia alla scienza, dalle lettere e dalle arti alla filosofia, dalla democrazia anticlericale alle prepotenze dei governanti, — tentò di continuare l’opera spegnitrice dell’Amore cristiano. Ahimè! Il risultato è stato ben descritto da Giovanni Papini, nel capitolo mirabile che chiude la sua Storia di Cristo. « In nessun tempo, di quanti ne ricordiamo — egli constata — l’abbiettezza è stata così abbietta e l’arsura così ardente. La terra è un inferno illuminato dalla condiscendenza del sole ». Son scoppiati i conflitti mondiali: e dalla melma in cui s’erano tuffati, gli uomini si levarono « frenetici e sfigurati, per buttarsi nel bollor vermiglio del sangue, con la speranza di lavarsi ». Invano. « L’amor bestiale di ciascun uomo per se stesso, di ogni casta per se medesima, di ogni popolo per sé solo, è ancora più cieco e gigante dopo gli anni che l’odio ricoprì di fuoco, di fumo, di fosse e d’ossami la terra. L’amore di sé, dopo la disfatta universale e comune, ha centuplicato l’odio: odio dei piccoli contro i grandi, degli scontenti contro gli inquieti, dei servi padroni contro i padroni asserviti, dei ceti ambiziosi contro i ceti declinanti, delle razze egemoni contro razze vassalle, dei popoli aggiogati contro i popoli aggiogatori… – Negli ultimi anni la specie umana, che già si torceva nel delirio di cento febbri, è impazzita. Tutto il mondo rintrona dal fragore di macerie che rovinano; le colonne sono interrate nel pattume; e le stesse montagne precipitano dalle cime valanghe di pietrisco perché tutta la terra diventi un maligno piano eguale. Anche gli uomini ch’eran rimasti intatti nella pace dell’ignoranza li hanno strappati a forza dalle sodaglie pastorali per rammontarli nel mescolamento rabbioso delle città a inzafardarsi e patire. Dappertutto un caos in sommovimento, un subbuglio senza speranza, un brulicame che appuzza l’aria afosa, una irrequietudine scontenta di tutto e più della propria scontentezza. Gli uomini, nell’ebrietà sinistra di tutti i veleni, consuman se stessi per bramosia di fiaccare i loro fratelli di pena, e, pur di uscire da questa passione senza gloria, cercano, in tutte le maniere, la morte. Le droghe estatiche e afrodisiache, le voluttà che struggono e non saziano, l’alcool, i giuochi, le armi prelevano ogni giorno a migliaia i sopravvissuti alle decimazioni obbligatorie… ». « In nessuna età come in questa abbiamo sentito la sete struggente d’una salvazione spirituale ». Abbiamo bisogno d’Amore! E tutto ciò che ne preannunzia la risurrezione è oggi salutato da coscienze angosciate, trepide ed ansiose. Nessuno più vorrebbe prostrarsi dinanzi alla Dea Ragione; al contrario le folle si recano all’Immacolata di Lourdes ed a Fatima. Basta una piccola anima, come Teresa di Lisieux, che vive d’amore e muore d’amore, perché il mondo intero venga scosso da un fremito soprannaturale. Nelle varie Confessioni protestanti si vanno moltiplicando le voci augurali d’un ritorno all’unità della Chiesa, nell’amplesso dell’Amore. Il movimento missionario si intensifica sempre più. A Roma dall’alto del Vaticano Pio XI fra il plauso del mondo ha inneggiato alla Regalità di Cristo. Ed alla Regina dell’amore Pio XII ha consacrato i cuori dell’umanità. Al Vicario del Dio della Carità si recano in pio pellegrinaggio i popoli della terra, come all’unico che abbia parole di vita eterna. A lui, dopo le disillusioni subite ed i disinganni provati, molti, ancora una volta, rivolgono gli sguardi anelanti. Quando, ogni anno, nella festa dell’Amore Eucaristico, si spalancano le porte di S. Pietro ed esce il Pontefice bianco con l’Ostia della pace, individui e nazioni dimenticano un passato di orgoglio, di miserie e di ribellioni, e si protendono verso un avvenire, che segnerà le glorie di Cristo Re. – Tale è la morale cristiana vissuta; tale è il Cristianesimo, che nei suoi dogmi, nella sua etica, nella sua storia, ci appare sempre come Amore. E non senza un profondo significato, nell’Italia nostra, un’Università cattolica, inaugurando la sua vita e la sua attività, proponendosi di sintetizzare tutto il sapere e di ispirarlo con un’anima cristiana, ha creduto doveroso scrivere a caratteri d’oro sul suo frontone il nome del Sacro Cuore, ossia dell’Amore. Quel nome è un ideale, una speranza, un programma.

3. – Conclusione.

Forse qualcuno, dopo una simile visione, potrà chiederci come mai venti secoli di morale cristiana hanno lasciato nelle coscienze e nei popoli tanti odi e tante bassezze. Ma l’abbiezione è superficiale. Non solo nelle istituzioni sociali e nella vita civile il Cristianesimo ha suggerito in ogni campo, incoraggiato e promosso numerose conquiste; ma è da osservarsi altresì che la morale dell’Amore non è una battaglia che si possa vincere una volta per sempre. Ogni uomo che viene a questo mondo, ogni popolo che si sviluppa, ha il suo problema da porre, da affrontare, da risolvere. Ogni persona ed ogni nazione ha le sue lotte quotidiane, che si rinnovano sempre sotto forme nuove e che in questo Sillabario abbiamo cercato di ritrarre nella loro realtà. In morale, non si è Cristiani una volta per sempre; ma, finché viviamo quaggiù, bisogna conservarsi e divenire ogni giorno più Cristiani. L’educazione degli individui e dei popoli tende appunto a fortificare le anime per questo quotidiano combattimento, svolto con la grazia divina, che, se costituisce il nostro assillo da un lato, forma per noi anche, dall’altro, il merito e la gloria.

Non basta, quindi, essere nati in terra santificata dal sangue dei martiri ed irrorata dalle virtù dei Santi. Non basta aver ricevuto il Battesimo ed essere stati incorporati a Cristo ed alla Chiesa. Ciò sarebbe per noi un titolo di ignominia e di condanna, se non vivessimo cristianamente. È necessario seguire nella vita la morale di Cristo e della sua Chiesa: « Quella morale — chiuderò anch’io col Manzoni — che sola potè farci conoscere quali noi siamo; che sola, dalla cognizione di mali umanamente irrimediabili, potè far pascere la speranza; quella morale che tutti vorrebbero praticata dagli altri, che praticata da tutti condurrebbe l’umana società al più alto grado di perfezione e di felicità che si possa conseguire su questa terra; quella morale a cui il mondo stesso non potè negare una perpetua testimonianza di ammirazione e di applauso.

Riepilogo.

La morale cristiana:

a) sintetizza tutte le anime di verità che si trovano sparse nei vari sistemi filosofici e le completa;

b) non è, come le altre teorie morali, una dottrina puramente speculativa, ma ha avuto un influsso immenso su due millenni di storia, che possono essere definiti la storia dell’amore. Nulla come la storia della Chiesa conferma la divina verità e la soprannaturale efficacia dell’etica insegnata.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. PIO XI – “ECCLESIAM DEI”

Questa lettera Enciclica indirizzata particolarmente ai Vescovi orientali, i così detti “uniati”, celebra le lodi del loro Santo martire S. Josafat nel terzo centenario del suo martirio. È un inno all’unità della Chiesa Cattolica sotto la guida di un unico pastore, il Vicario di Cristo, il successore del Principe degli Apostoli s. Pietro. Cenni storici, riferimenti dottrinali scritturali, momenti apologetici si fondono in un amalgama unitario in cui si sottolinea la natura divina della Chiesa governata da un unico Pastore in unico ovile secondo la volontà del divino fondatore e Redentore che per essa ha versato tutto il suo preziosissimo sangue. Ancora oggi questa lettera per noi è un monito ed un monumento dottrinale prezioso per comprendere la necessità dell’unica guida spirituale resa infallibile dall’opera dello Spirito Santo che la anima sovrannaturalmente. Questa Chiesa che dopo aver perso tanta umanità, anglicani, ortodossi, protestanti, si trova oggi ridotta ad un pugno di anime, il piccolo gregge di evangelica memoria, senza poter contare su di una guida liberamente operante dopo lo scisma della setta apostatica formata dall’eresiarca Montini e dal suo seguito del conciliabolo Vaticano e dell’idolo pachamana …. Castigo maggiore il Signore non poteva comminarci per punire la nostra infedeltà e gli infiniti disprezzi delle grazie elargite alla Chiesa e ai fedeli, nonostante la beatitudine celeste promessa e raggiungibile con uno sforzo minimo. Ritorniamo a Dio, non ad un Dio astratto, ma ad un Dio che ci chiama nella sua vera Chiesa onde operare nel mondo secondo l’autentico Spirito evangelico. Che San Giosafat ci aiuti a ritrovare questo spirito unitario per convogliarci tutti nell’unico ovile sotto un solo Pastore.

LETTERA ENCICLICA

ECCLESIAM DEI
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA,
IN OCCASIONE DEL
TRECENTESIMO ANNIVERSARIO DEL MARTIRIO DI
SAN GIOSAFAT, ARCIVESCOVO DI POLOTSK

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

La Chiesa di Dio, per ammirabile provvidenza, fu costituita in modo da riuscire nella pienezza dei tempi come un’immensa famiglia, che abbracci l’universalità del genere umano, e perciò, come sappiamo, fu resa divinamente manifesta, tra le altre sue note caratteristiche, per mezzo dell’unità ecumenica. Giacché Cristo Signor nostro non si appagò di affidare ai soli Apostoli la missione che Egli aveva ricevuta dal Padre, quando disse: « È data a me ogni potestà in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le genti » [1], ma volle pure che il Collegio apostolico fosse perfettamente uno, con doppio e strettissimo vincolo: intrinseco l’uno, con la stessa fede e carità che « è diffusa nei cuori … dallo Spirito Santo » [2]; l’altro estrinseco col regime di uno solo sopra tutti, avendo a Pietro affidato il primato sugli altri Apostoli come a perpetuo principio e visibile fondamento di unità. Quest’unità, al chiudersi della sue vita mortale, Egli con somma premura raccomandò loro; questa stessa, con ardentissime preci, domandò al Padre, e l’impetrò, « esaudito per la sua riverenza ». Pertanto la Chiesa si formò e si accrebbe in « un corpo unico » animato e vigoroso di un medesimo spirito, del quale poi « è capo Cristo, da cui tutto il corpo è compaginato e connesso per via di tutte le giunture di comunicazione »; e di esso per questa stessa ragione, è capo visibile colui che di Cristo tiene in terra le veci, il Pontefice Romano. In lui, come successore di Pietro, si avvera perpetuamente quella parola di Cristo: « Su questa pietra edificherò la mia Chiesa » ; ed egli, perpetuamente esercitando quell’ufficio che a Pietro fu affidato, non cessa mai di confermare, ove sia necessario, nella fede i suoi fratelli e di pascere tutti gli agnelli e le pecorelle del gregge del Signore. Orbene nessun’altra prerogativa mai « l’uomo nemico » avversò più ostilmente che l’unità di governo nella Chiesa, come quella cui va congiunta, « nel vincolo della pace », l’unità dello spirito; e se il nemico non poté giammai prevalere contro la Chiesa stessa, ottenne nondimeno di strappare dal seno di lei non piccolo numero di figli, e perfino popoli interi. A sì gran danno non poco conferirono sia le lotte delle nazionalità fra di loro, sia le leggi contrarie alla religione e alla pietà, sia anche l’amore soverchio ai beni perituri della terra. – Fra tutte la maggiore e la più lagrimevole fu la separazione dei Bizantini dalla Chiesa ecumenica. Sebbene fosse sembrato che i Concilii di Lione e di Firenze potessero porvi rimedio, tuttavia essa si rinnovò successivamente e perdura tuttora con immenso danno per le anime. Vediamo quindi come furono traviati e andarono, perduti, insieme con altri, gli Slavi orientali, benché questi fossero rimasti più a lungo degli altri nel seno della madre Chiesa. Si sa, infatti, che essi mantennero ancora qualche relazione con questa Sede Apostolica, anche dopo lo scisma di Michele Cerulario: e queste relazioni, interrotte dalle invasioni dei Tartari e dei Mongoli furono riprese successivamente e continuarono sin tanto che non ne furono impediti dalla caparbietà ribelle dei potenti. Ma in questa causa i Romani Pontefici nulla omisero di quanto spetta al loro ufficio; anzi alcuni di essi presero a cuore in modo speciale la salvezza degli Slavi orientali. Così Gregorio VII mandò con benignissima lettera auguri d’ogni celeste benedizione al principe di Kiev, « a Demetrio, re dei Russi ed alla regina sua consorte » negli inizi del loro regno, su richiesta del loro figlio presente in Roma. Così Onorio III inviò suoi legati alla città di Novgorod; e lo stesso fece Gregorio IX e, non molto dopo, Innocenzo IV, il quale vi spedì come legato un uomo di animo grande e forte, Giovanni da Pian del Carpine, lustro della famiglia francescana. Il frutto di tanta sollecitudine dei Nostri Predecessori si vide nell’anno 1255, quando si ebbe il ristabilimento della concordia e dell’unità, ed a celebrarlo a nome del Pontefice, e per sua autorità, il legato di lui, l’abate Opizone, incoronò, con solenne pompa, Daniele, figlio di Romano. E così, secondo la veneranda tradizione e le usanze più antiche degli Slavi Orientali, si ottenne che al Concilio di Firenze, Isidoro, Metropolita di Kiev e di Mosca, Cardinale della Santa Romana Chiesa, anche a nome e nella lingua dei suoi connazionali, promise di conservare santa e inviolata l’unità cattolica nella fede della Sede Apostolica. Pertanto questa restaurazione dell’unità durò a Kiev per molti anni; ma vi si aggiunsero poi nuove ragioni di rottura coi rivolgimenti politici, maturatisi negli inizi del secolo XVI. Senonché fu di nuovo felicemente rinnovata nel 1595, e l’anno successivo, al Concilio di Brest, promulgata per opera del metropolita di Kiev e di altri Vescovi Ruteni. Clemente VIII li accolse con ogni affetto, e pubblicando la costituzione «Magnus Domini » invitò tutti i fedeli a rendere grazie a Dio, « il quale ha sempre pensieri di pace, e vuole che tutti gli uomini siano salvi e pervengano alla conoscenza della verità ». – Ma perché tali unità e concordia si perpetuassero, Iddio, sommamente provvido, le volle consacrare, per così dire, col sigillo della santità e del martirio. Un così grande vanto è toccato a San Giosafat, Arcivescovo di Polotsk, di rito slavo orientale, che a buon diritto va riconosciuto come gloria e sostegno degli Slavi Orientali, poiché a fatica si troverà un altro che abbia dato al loro nome un lustro maggiore, o che meglio abbia provveduto alla loro salute, di questo loro Pastore ed Apostolo, specialmente per aver egli versato il proprio sangue per l’unità della santa Chiesa. Ricorrendo dunque il trecentesimo anniversario del suo gloriosissimo martirio, Ci è sommamente caro rinnovare la memoria di un così grande personaggio, affinché il Signore, invocato dalle suppliche più fervorose dei buoni, « susciti nella sua Chiesa quello spirito, di cui il beato Martire e Pontefice Giosafat era ripieno… tanto che diede la sua vita per le sue pecorelle », così che, crescendo tra il popolo lo zelo nel promuovere l’unità, ne abbia incrementato l’opera che gli fu tanto a cuore, finché si avveri quella promessa di Cristo e insieme il desiderio di tutti i Santi, che « vi sia un solo ovile ed un solo Pastore » . -Egli nacque da genitori separati dall’unità, ma, religiosamente battezzato col nome di Giovanni, incominciò fin dall’età più tenera a coltivare la pietà; e mentre seguiva lo splendore della liturgia slava, cercava soprattutto la verità e la gloria di Dio: e per questo, non per impulso di ragioni umane, si rivolse, fanciulletto ancora, alla comunione della Chiesa ecumenica, cioè cattolica, a cui giudicava di essere già destinato per la stessa validità del suo battesimo. Anzi, sentendosi mosso da ispirazione divina a ristabilire dappertutto la santa unità, comprese che molto avrebbe giovato a ciò il ritenere nell’unione con la Chiesa cattolica il rito orientale slavo e l’istituto monastico Basiliano. Perciò, accolto nell’anno 1604 fra i monaci di San Basilio, e mutato il nome di Giovanni in quello di Giosafat, si consacrò interamente all’esercizio di tutte le virtù, specialmente della pietà e della penitenza, dimostrando sempre un singolare amore per la Croce: amore che fino dai primi anni egli aveva concepito dalla contemplazione di Gesù Crocifisso. Così il metropolita di Kiev, Giuseppe Velamin Rutsky, il quale era a capo di quello stesso monastero in qualità di archimandrita, testimonia che « egli in breve tempo fece tali progressi nella vita monastica da poter esser maestro agli altri ». Sicché, appena ordinato sacerdote, Giosafat si vide eletto a governare il monastero in qualità di archimandrita. Nell’esercizio di tale ufficio non solo si adoperò a mantenere e a difendere il monastero e l’attiguo tempio, assicurandoli contro gli assalti nemici, ma inoltre, avendoli trovati pressoché abbandonati dai fedeli, fece di tutto per farli nuovamente frequentare dal popolo cristiano. E in pari tempo, avendo anzitutto a cuore l’unione dei suoi concittadini con la cattedra di Pietro, cercava da ogni parte argomenti giovevoli a promuoverla e a consolidarla, principalmente studiando quei libri liturgici che gli Orientali, e i dissidenti stessi, sono soliti usare secondo le prescrizioni dei Santi Padri. – Premessa una così diligente preparazione, egli si accinse quindi a trattare, con forza e soavità insieme, la causa della restaurazione dell’unità, ottenendo frutti così copiosi da meritare dagli stessi avversari il titolo di « rapitore delle anime ». Ed è veramente mirabile il gran numero delle anime da lui condotte all’unico ovile di Gesù Cristo, da tutti gli ordini e da tutte le classi sociali, plebei, negozianti, cavalieri, e anche prefetti e governatori di province, come narrano del Sokolinski di Polotsk, del Tyszkievicz di Novogrodesc, del Mieleczko di Smolensk. Ma ad un campo ben più vasto ancora estese il suo apostolato, quando venne nominato vescovo a Polotsk: apostolato che doveva essere di una straordinaria efficacia, mentre egli offriva l’esempio di una vita di somma castità, povertà e frugalità ed insieme di tanta liberalità verso gli indigenti da giungere fino ad impegnare l’omophorion per sovvenire alla loro miseria. Nel frattempo si manteneva rigidamente nell’ambito della religione, non occupandosi minimamente di negozi politici, sebbene a lui non mancassero più d’una volta grandi sollecitazioni ad ingerirsi delle cure e delle lotte civili, mentre infine si sforzava, con lo zelo insigne d’un Vescovo santissimo, ad inculcare senza posa, con la parola e con gli scritti, la verità. Egli infatti pubblicò diversi scritti, da lui redatti in forma del tutto adatta all’indole del suo popolo, quali sul primato di San Pietro, sul battesimo di San Vladimiro, un’apologia dell’unità cattolica, un catechismo fatto sul metodo del beato Pietro Canisio, ed altri simili. Siccome poi insisteva molto nell’esortare alla diligenza del proprio ufficio l’uno e l’altro clero, ridestatosi nei sacerdoti lo zelo del loro ministero, riuscì ad ottenere che il popolo, debitamente ammaestrato nella dottrina cristiana e nutrito da un’appropriata predicazione della parola di Dio, si avvezzasse a frequentare i Sacramenti e le sacre funzioni e si desse ad un tenore di vita sempre più corretta. E così, ampiamente diffuso lo spirito di Dio, San Giosafat consolidò stupendamente l’opera dell’unità, a cui si era dedicato. Ma soprattutto allora egli la consolidò, e consacrò anzi, quando per essa incontrò il martirio, e l’incontrò col più vivo entusiasmo e con la magnanimità più mirabile. Al martirio sempre pensava, spesso ne parlava. Il martirio si augurò in una celebre predica. Il martirio ardentemente domandava a Dio quale singolare beneficio, tanto che, pochi giorni prima della morte, quando fu avvertito delle insidie che gli si macchinavano: « Signore — disse — concedimi di poter versare il sangue per l’unità e per l’obbedienza della Sede Apostolica ». Il suo desiderio fu appagato la domenica 12 novembre 1623 quando, circondato dai nemici che andavano in cerca dell’Apostolo dell’unità, egli si fece loro incontro sorridente e benigno, e pregatili, ad esempio del suo Maestro e Signore, che non toccassero i suoi familiari, si diede da sé nelle loro mani; e mentre veniva crudelissimamente ferito, non cessò sino all’estremo di invocare il perdono di Dio sopra i suoi uccisori. – Grandi furono i vantaggi di un così famoso martirio, soprattutto tra i Vescovi Ruteni che ne trassero vivo esempio di fermezza e coraggio, come essi stessi attestarono, due mesi dopo, in una lettera spedita alla Sacra Congregazione di Propaganda: « Ci offriamo prontissimi a dare il sangue e la vita per la fede cattolica, come la diede già uno di noi ». Inoltre moltissimi, e fra questi gli uccisori stessi del Martire, fecero ritorno, subito dopo, al seno dell’unica Chiesa. – Il sangue dunque di San Giosafat, come tre secoli fa, anche e specialmente ora riesce pegno di pace e suggello di unità: specialmente ora, diciamo, dopo che quelle sfortunate province slave, sconvolte da torbidi e da sommosse, sono state insanguinate da guerre furiose e spietate. E a Noi sembra di udire la voce di quel sangue, « che parla meglio di quello di Abele », e di vedere quel martire rivolgersi ai fratelli Slavi ripetendo, come un tempo, con le parole di Gesù: « Le pecorelle giacciono senza pastore. Ho compassione di questa moltitudine ». E veramente, quanto miseranda è la loro condizione! Quanto terribili le loro angustie! Quanti esuli dalla patria! Quanta strage di corpi e quanta rovina di anime! Osservando le presenti calamità degli Slavi, certamente assai più gravi di quelle ch’ebbe a lamentare il nostro Santo, a stento Ci riesce, per il nostro affetto paterno, di frenare le lacrime. – Ad alleviare sì grande cumulo di miserie, Noi, per parte Nostra, Ci affrettammo, è vero, a recare soccorsi ai bisognosi, senza alcuna mira umana, senza far altra distinzione che non fosse quella della più stringente necessità. Ma la Nostra possibilità non poté arrivare a tutto. Anzi, non potemmo impedire che si moltiplicassero le offese contro la verità e la virtù, col disprezzo di ogni sentimento religioso, con il carcere e con la persecuzione, in più luoghi anche sanguinosa, dei Cristiani e degli stessi Sacerdoti e Vescovi. – Nella considerazione di tanti mali, Ci conforta non poco la solenne commemorazione dell’insigne Pastore degli Slavi, perché Ci porge propizia l’occasione di manifestare i sentimenti paterni che Ci animano verso tutti gli Slavi Orientali e di mettere loro dinanzi, come la sintesi di tutti i beni, il ritorno all’unità ecumenica della santa Chiesa. – Mentre invitiamo i dissidenti a tale unità, desideriamo ardentemente che tutti i fedeli, seguendo le orme e gli insegnamenti di San Giosafat, si studino, ciascuno secondo le proprie forze, a cooperare con Noi. Ed essi intendano bene che tale unità, meglio che con le discussioni e altri stimoli, è da promuovere con gli esempi e le opere di una vita santa, specialmente con la carità verso i fratelli Slavi e verso gli altri Orientali, secondo ciò che dice l’Apostolo, « avendo la stessa carità, una sola anima, uno stesso sentimento, senza nulla fare per ripicca o per vanagloria; ma per umiltà l’uno creda l’altro superiore a sé, badando ognuno non a ciò che torna bene per lui ma a quello che torna bene per gli altri ». A questo fine, come è necessario che gli Orientali dissidenti, deponendo antichi pregiudizi, procurino di conoscere la vera vita della Chiesa, senza voler imputare alla Chiesa Romana le colpe dei privati, colpe che essa per la prima condanna e cerca di correggere; così i Latini cerchino di conoscere meglio e più profondamente la storia e i costumi degli Orientali; perché appunto da quest’intima conoscenza derivò sì grande efficacia all’apostolato di San Giosafat. – Questo fu il motivo per cui cercammo di promuovere con rinnovato ardore l’Istituto Pontificio Orientale, fondato dal compianto Nostro Predecessore Benedetto XV, persuasi che dalla retta conoscenza dei fatti sorgerà il giusto apprezzamento degli uomini e parimenti quella schietta benevolenza, la quale, congiunta alla carità di Cristo, con l’aiuto di Dio, gioverà moltissimo all’unità religiosa. – Animati da tale carità, tutti sperimenteranno quanto l’Apostolo divinamente ispirato insegna: «Non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, perché egli è il Signore di tutti, ricco verso tutti coloro che l’invocano ». E, ciò che più importa, ubbidendo scrupolosamente al medesimo Apostolo, non solo deporranno i pregiudizi, ma anche le vane diffidenze, i rancori e gli odii: in una parola, tutte quelle animosità così contrarie alla carità cristiana, che dividono tra di loro le nazioni. Avverte infatti lo stesso San Paolo: «Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo creatore. Qui non c’è più Gentile e Giudeo … Barbaro e Scita, servo e libero, ma Cristo è tutto in tutti ». – In tal modo, con la riconciliazione degli individui e dei popoli, si otterrà anche l’unione della Chiesa col ritorno al suo seno di tutti quelli che, per qualsivoglia motivo, se ne separarono. E il compimento di tale unione avverrà non già per l’impegno umano, ma per bontà, di quel solo Dio che « non fa preferenza di persone », e che « non fece differenza alcuna tra noi e loro »; e così, uniti tra essi, godranno degli stessi diritti tutti i popoli, di qualunque schiatta o lingua, e quali si siano i loro riti sacri; riti che la Chiesa Romana sempre venerò e ritenne religiosamente, decretandone anzi la conservazione ed ornandosene come di vesti preziose, quasi « regina in manto d’oro con varietà d’ornamenti ». – Ma siccome questo accordo di tutti i popoli nell’unità ecumenica è anzitutto opera di Dio, e perciò da doversi procurare con l’aiuto e l’assistenza divina, ricorriamo con ogni diligenza alla preghiera, seguendo in ciò gli insegnamenti e gli esempi di San Giosafat, il quale nel suo apostolato per l’unità confidava soprattutto nel valore dell’orazione. – E sotto la guida e col patrocinio di lui, veneriamo con culto speciale il Sacramento dell’Eucaristia, pegno e causa principale dell’unità, quel mistero della fede per la quale quegli Slavi Orientali, che nella separazione dalla Chiesa Romana conservarono gelosamente l’amore e lo zelo, riuscirono ad evitare l’empietà delle peggiori eresie. Da qui è lecito sperare il frutto che la santa madre Chiesa domanda con pia fiducia nella celebrazione di questi augusti misteri, cioè che « Iddio conceda propizio i doni dell’unità e della pace, che misticamente vengono simboleggiati nelle oblazioni fatte all’Altare ». E questa grazia unitamente implorano nel santo Sacrificio della Messa i Latini e gli Orientali: questi « pregando il Signore per l’unità di tutti », quelli col supplicare lo stesso Cristo Signor nostro che « riguardando alla fede della sua Chiesa, si degni di pacificarla e unificarla secondo la sua volontà ». – Un altro vincolo di reintegrazione dell’unità con gli Slavi Orientali sta nella loro devozione singolare verso la gran Vergine Madre di Dio, in forza della quale molti si allontanano dall’eresia e si avvicinano maggiormente a noi. E in questa devozione, nella quale si segnalava assai, il nostro Santo altrettanto confidava moltissimo per favorire l’opera dell’unità: onde soleva con particolare venerazione onorare, all’usanza degli Orientali, una piccola icona della Vergine Madre di Dio, la quale dai Monaci Basiliani e dai fedeli di qualsiasi rito, anche in Roma nella chiesa dei santi Sergio e Bacco, è molto venerata con il titolo di « Regina dei pascoli ». Lei, dunque, invochiamo, quale benignissima Madre, con questo titolo specialmente, perché guidi i fratelli dissidenti ai pascoli della salute, dove Pietro, sempre vivente nei suoi successori, come Vicario dell’eterno Pastore, pasce e governa tutti gli agnelli e tutte le pecorelle del gregge di Cristo. – Infine, ai Santi tutti del Cielo ricorriamo come a nostri intercessori per una grazia così grande, a quelli soprattutto che presso gli Orientali maggiormente fiorirono un tempo per fama di santità e di sapienza, e fioriscono tuttora per venerazione e culto dei popoli. Ma primo fra tutti invochiamo a patrono San Giosafat, perché, come fu in vita fortissimo propugnatore dell’unità, così ora presso Dio la promuova e vigorosamente la sostenga. E così Noi lo preghiamo le supplichevoli parole del Nostro antecessore di immortale memoria, Pio IX: « Dio voglia che quel tuo sangue, o San Giosafat, che tu versasti per la Chiesa di Cristo, sia pegno di quell’unione con questa Santa Sede Apostolica, a cui tu sempre anelasti, e che giorno e notte implorasti con fervida preghiera da Dio, somma Bontà e Potenza. E perché tanto si avveri alfine, vivamente desideriamo di averti intercessore assiduo presso Dio stesso e la Corte del Cielo ».

Auspice dei divini favori e a testimonianza della Nostra benevolenza, impartiamo con ogni affetto Venerabili Fratelli, a voi, al clero e al popolo vostro l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro il 12 novembre 1923, anno secondo del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2023)

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2023)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Come Domenica scorsa, la lettura dell’Uffizio divino coincide spesso in questo giorno con quella del libro di Giobbe che si suol fare nella 1a e nella 2a Domenica di Settembre. – Continuiamo quindi a leggere i testi del Messale in corrispondenza con quelli del Breviario. Giobbe è la figura del giusto, che il demonio superbo cerca di umiliare profondamente, affinché si rivolti contro Dio. « Lascia che io lo provi, dichiarò satana all’Altissimo, egli ti bestemmierà ». E Jahvè glielo permise, per fare di Giobbe il modello dell’anima che proclama il supremo dominio di Dio e si sottomette interamente alla sua volontà divina. La gelosia del demonio non conobbe allora più freno e fece piombare sullo sventurato Giobbe, con gradazione sapiente, tutte le calamità che avrebbero potuto abbatterlo. Pure, benché privo di tutto e coricato sul letamaio, Giobbe non maledisse la mano onnipotente di Dio, che permetteva al demonio di accanirsi contro di lui, ma la baciò umilmente. Il Salmo dell’Introito rende mirabilmente la sua preghiera. « Abbi pietà di me, o Signore, Porgi, o Signore, il tuo orecchio, poiché sono misero e povero ». Il Salmo del Graduale è anch’esso « la preghiera del povero quando è nell’afflizione », e i Versetti da 3 a 6: « Sono stato colpito come l’erba, a forza di gemere le ossa mi si sono attaccate alla pelle », sembrano l’eco delle parole di Giobbe che dice: « Le mie ossa si sono attaccare alla pelle, non mi restano che le labbra intorno ai denti » (Vers. 19, 20). Il Salmo dell’Offertorio parla anch’esso « del povero e dell’indigente» che supplica Iddio: « Non allontanare da me le tue misericordie, o Signore, poiché mali senza numero mi hanno circondato. Siano svergognati coloro che insidiano la vita mia » (Versetti 12-14). Infine, l’antifona della Comunione dice: « Piega, o Signore, verso di me, il tuo orecchio! Quante numerose e crudeli tribolazioni mi facesti provare! La mia lingua proclamerà dovunque soltanto la tua giustizia, e questa giustizia mi renderai quando coloro che cercano il mio danno saranno coperti di confusione e di vergogna » (Vers. 2, 20 e 24). Iddio, dicono infatti gli amici di Giobbe, esalta coloro che si sono abbassati, rialza e guarisce gli afflitti. La gloria degli empi è breve e la gioia dell’ipocrita non dura che un momento. Quando anche il suo orgoglio si innalzasse fino al cielo e la sua testa toccasse le nuvole, alla fine egli perirà. Tale è il retaggio che Dio serba agli empi. Essi si sono innalzati per un momento e saranno umiliati. – E Giobbe aggiunge: « Iddio ritirerà il povero dall’angoscia. Dio è sublime nella sua potenza. Chi può dirgli: Hai commesso un’ingiustizia? L’uomo che discute con Dio non sarà giustificato ». Infatti, commenta S. Gregorio, chiunque discute con Dio si mette alla pari con l’Autore di ogni bene; attribuisce a se stesso il merito della virtù, che ha ricevuta, e lotta contro Dio con gli stessi beni di Lui.. È quindi giusto che « l’orgoglioso sia abbattuto e l’umile innalzato » (2° Notturno, 2a Domenica di Settembre). « Chiunque si innalza sarà abbassato e chiunque si umilia sarà rialzato », dice anche il Vangelo di questo giorno. Dio, infatti, dopo aver umiliato Giobbe, lo rialzò, rendendogli il doppio di quanto prima possedeva. Giobbe è una figura di Gesù Cristo, che, dopo essersi profondamente abbassato, è stato esaltato meravigliosamente; è anche figura di tutti i Cristiani, ai quali Iddio darà un posto di onore al banchetto celeste se di tutto cuore avranno praticato la virtù dell’umiltà sulla terra. L’orgoglio, dice S. Tommaso, è un vizio per il quale l’uomo cerca, contro la retta ragione, di innalzarsi al di sopra di quello che egli è in realtà; l’orgoglio è quindi fondato sull’errore e l’illusione; l’umiltà, ha, al contrario, il suo fondamento nella verità, ed è una virtù che tempera e frena l’anima, affinché questa non si innalzi al disopra, super, di quello che è realmente (donde il nome di superbia dato all’orgoglio). L’anima umile accetta in piena sottomissione il posto che ad essa si conviene; quel qualsiasi posto che da Dio, verità suprema ed infallibile, le è assegnato. Umiltà nelle parole, umiltà nelle azioni, umiltà nel sopportare le prove e le contraddizioni, è la virtù che Giobbe ci insegna durante tutta la sua vita e che Gesù Cristo ci raccomanda nel Vangelo della Messa di oggi. « Dopo aver guarito l’idropico, dice S. Ambrogio, Gesù dà una lezione di umiltà » (3° Notturno). Vedendo come i Farisei scegliessero sempre i posti migliori, Egli volle farli accorti della loro malattia spirituale e spingerli a cercarne la guarigione; a questo scopo guarì dapprima uno sventurato, che la malattia aveva fatto gonfiare, e cercò quindi, velando la lezione sotto una parabola, di guarire la spirituale enfiagione che affliggeva i convitati presenti e che purtroppo affligge anche la maggior parte degli uomini. – Il mondo è in balìa di tutte le esaltazioni e di tutte le infatuazioni dell’orgoglio, mentre l’umiltà è la condizione assoluta per entrar nel regno dei cieli, ed è questa la virtù che la Chiesa ci inculca nell’Orazione ove dice che la grazia di Dio deve sempre prevenire ed accompagnarci, e che S. Paolo insegna con energia ai Cristiani nell’Epistola di questo giorno. Senza merito alcuno da parte nostra, spiega l’Apostolo agli Efesini, ma unicamente perché serviamo di strumento di lode alla sua gloria, Dio ci ha eletti in Cristo. Allorché eravamo figli della collera, l’Onnipotente, che è ricco di misericordia, ci ha reso la vita in Gesù Cristo, per l’amore immenso che ci porta. Noi tutti, pagani ed estranei alle alleanze conchiuse da Dio col popolo di Israele, siamo stati riavvicinati e riuniti nel Sangue del Redentore, poiché Egli è la nostra pace, Egli che di due popoli ne ha fatto uno solo e per il quale abbiamo, gli uni e gli altri accesso presso il Padre, in un medesimo Spirito. Non siamo più dunque degli estranei, ma dei membri della famiglia divina. E questo non è opera nostra, ma di Dio, affinché nessuno glorifichi se stesso. Gettiamoci dunque ai piedi del Padre nostro di nostro Signore Gesù Cristo, che è anche Padre nostro, affinché, attingendo nei tesori della sua divinità, sempre di più ci mandi lo Spirito Santo che ha effuso sulla Chiesa nella festa di Pentecoste e che nella fede e nell’amore ci unisce a Gesù, in modo che noi siamo colmati della pienezza di Dio. E chi potrà mai misurare questa carità sconfinata che iddio ci ha manifestata per mezzo del Figlio Suo? Questo amore del Padre per i suoi figli sorpassa infinitamente tutto quello che noi potremmo concepire e domandare a Dio. – A Lui dunque sia gloria in Gesù Cristo e nella Chiesa per tutti i secoli. « Cantiamo al Signore un cantico nuovo, poiché Egli ha operato prodigi » (Alleluia). « Tutte le nazioni temano il nome del Signore tutti i re della terra annunzino la gloria sua », perché  Dio ha stabilito il suo popolo nella celeste Gerusalemme (Graduale). E questo popolo che prenderà parte al gran banchetto della visione beatifica, sarà formato di tutti quelli che, rifuggendo da un’orgogliosa ambizione, saranno sempre stati umili sulla terra: Dio li esalterà nella stessa misura in cui essi si saranno con buon volere sottomessi alla sua santa volontà.- S. Paolo ha ricevuto da Dio la missione di annunziare ai Gentili che essi, al pari degli Ebrei, sono eletti a far parte del popolo di Dio: elezione gratuita che deve riempirli di un’umile riconoscenza verso il Signore e premunirli contro lo scoraggiamento che è una forma di orgoglio. – Per non lasciare un asino o un bue annegare in fondo ad un pozzo, i Giudei non esitavano a fare tutto quello che era necessario per ritirarneli, non ostante il giorno di Sabato in cui ogni opera servile era proibita. Perché dunque il Redentore non doveva poter guarire un ammalato in quel giorno? – « Va, mettiti all’ultimo posto » non vuol dire che il Superiore debba mettersi al di sotto dei suoi subordinati, né esporre la sua dignità al disprezzo; ma egli deve ricordare queste parole dei Sacri Libri: « Quanto più sei grande, tanto più devi mostrarti umile in tutte le cose e troverai grazia davanti a Dio » (Eccl. III, 20).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum in nómine Dómini.

R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.

M. Misereátur nostris omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.

S. Amen.

S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.

R. Amen.

Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXXV: 3; 5
Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.

[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].

Ps LXXXV: 1
Inclína, Dómine, aurem tuam mihi, et exáudi me: quóniam inops, et pauper sum ego.

[Porgi l’orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi, perché sono misero e povero].

Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.

[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
Orémus.
Tua nos, quǽsumus, Dómine, grátia semper et prævéniat et sequátur: ac bonis opéribus júgiter præstet esse inténtos.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios
Ephes III: 13-21

Fratres: Obsecro vos, ne deficiátis in tribulatiónibus meis pro vobis: quæ est glória vestra. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis et in terra nominátur, ut det vobis secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis, quæ sit latitúdo et longitúdo et sublímitas et profúndum: scire etiam supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem Dei. Ei autem, qui potens est ómnia fácere superabundánter, quam pétimus aut intellégimus, secúndum virtútem, quæ operátur in nobis: ipsi glória in Ecclésia et in Christo Jesu, in omnes generatiónes sæculi sæculórum. Amen.

[“Fratelli: Vi scongiuro di non perdervi di coraggio a motivo delle tribolazioni che io soffro per voi. Esse sono la vostra gloria. Perciò io piego i ginocchi davanti al Padre del Nostro Signore Gesù Cristo, dal quale prende nome ogni famiglia, in cielo e in terra, affinché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore: che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori, affinché, profondamente radicati e fondati nella carità, possiate comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità; e d’intendere anche quell’amore di Cristo che sorpassa ogni coscienza, di modo che siate ripieni di tutta la pienezza di Dio. A Lui che, secondo la possanza che opera in noi, può tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo e pensiamo: a Lui sia gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni di tutti i secoli”.]

PIENI DI DIO IN GESU’ CRISTO.

Una delle cose più stupende, e, se volete anche strane, quando ci facciamo a studiare bene l’uomo, è la sua estrema elasticità. Gli animali sono quel che sono, tutti: i buoi tutti lenti, gravi; i cervi tutti veloci; i leoni tutti crudeli, e gli agnelli tutti mansueti. Ma l’uomo… l’uomo è capace di assumere gli atteggiamenti più diversi, più contrari. Può andare da un estremo all’altro. Un trasformismo fenomenale. Possiamo purtroppo abbrutirci, e quanti uomini si abbrutiscono! Potrebbero essere degli uomini e diventano animali e peggio. S. Paolo l’afferma nettamente l’esistenza di questo « animalis homo.» E’ l’uomo che discende la scala dell’abisso. Si abbrutisce nel pensiero, che non è più pensiero, ricerca faticosa, conquista umile della verità, ma schiavitù dei sensi, superficialismo di impressioni molteplici e varie. Pensa e ragiona come una bestia: cioè non pensa, non ragiona più; urla, non parla. Si abbrutisce l’animalis homo, nel cuore corrotto e violento. Nessun battito generoso più, ma bramiti come di belva. Sogni, compiacenze voluttuose: il fango. Oppure la crudeltà: la belva accanto al bruto; col fango il sangue. La guerra e il dopoguerra hanno moltiplicate queste dolorose esperienze di crudeltà feroce, di ferocia bestiale. Abbiam visti uomini capaci di far paura alla bestia. Artigli, zanne, occhi iniettati di sangue. E per queste vie trionfali di discesa, si direbbe non ci sia limite. Si può andare, e si va sempre più in giù, e ci si abbrutisce sempre più. Tutto questo bisognava ricordare, bisogna meditare per comprendere l’altro moto diametralmente contrario. L’uomo può angelicarsi, mi direte voi. Ciò, vi dico con San Paolo, è ancora poco, troppo poco per il Cristiano, il quale, invece, può e deve divinizzarsi. Dal fango a Dio. Sicuro, è il programma del Cristianesimo, di quel Cristianesimo che davvero atterra e suscita questa povera umanità. L’atterra nella polvere davanti a Dio, la umilia profondamente, ci proclama peccatori, guasti; corrotti, figli di ira, vuole che ci mettiamo in ginocchio, che ci mostriamo davanti a Lui. « Venite adoremus. » Ma ci esalta, perché ci scopre la nostra origine e razza divina, ci dà il diritto di chiamarci, e il potere di diventare figli di Dio, di divinizzarci. Meditiamo pure bene, meditiamo spesso questi contrasti. L’umanità è cattiva, peccatrice, ci insegna il Cristianesimo, ed eccoci nella polvere della abbiezione. E, a parte che dobbiamo stare in ginocchio, colla faccia a terra, perché siamo peccatori, dovremmo starci ginocchioni così, prostrati così davanti a Dio, perché siamo uomini, povere creature di Dio, scintille davanti a un incendio, gocce di fronte al mare. È questo il preludio del dramma, non è il dramma. Il dramma è l’esaltazione sino a Dio. L’eritis sicut Dei, che suonò audace bestemmia sulle labbra del demone, suona dolce invito sulle labbra di Gesù Cristo. « Estote perfectì sicut Pater vester coelestis perfectus est. » Gesù non invita all’impossibile; se mai, ci invita all’impossibile, rendendolo possibile. Dobbiamo diventare come Dio in ciò che Dio ha di più tipico, di più suo, di più caratteristico: la bontà.« Nemo bonus nisi unus Deus: » ma anche noi dobbiamo diventare buoni, anzi perfettamente buoni (estote perfecti), come Lui, come Dio. Non si può andare più in là, più in su. MaSan Paolo adopera un linguaggio ancor più espressivo, più enfatico, direi, se la parola enfasi non portasse con sé l’idea della esagerazione.Paolo vuole che ci riempiamo noi Cristiani, ci riempiamo di Dio, anzi, per usare proprio la sua frase, d’ogni pienezza divina. Quanti sono i Cristiani pieni di Dio? Ne conosco tanti pieni di ben altre cose, di vanità, d’orgoglio, di avarizia, di viltà, di invidia… ma pieni di Dio! Cerchiamo di fare noi questo miracolo in noi stessi, coll’aiuto di Dio, nel nome diCristo.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.

[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore, e tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua.

[Poiché il Signore ha edificato Sion e sarà veduto nella sua maestà.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps XCVII: 1
Cantáte Dómino cánticum novum: quia mirabília fecit Dóminus. Allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo: perché Egli fece meraviglie. Allelúia.]

 Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIV: 1-11
In illo témpore: Cum intráret Jesus in domum cujúsdam príncipis pharisæórum sábbato manducáre panem, et ipsi observábant eum. Et ecce, homo quidam hydrópicus erat ante illum. Et respóndens Jesus dixit ad legisperítos et pharisæos, dicens: Si licet sábbato curáre? At illi tacuérunt. Ipse vero apprehénsum sanávit eum ac dimísit. Et respóndens ad illos, dixit: Cujus vestrum ásinus aut bos in púteum cadet, et non contínuo éxtrahet illum die sábbati? Et non póterant ad hæc respóndere illi. Dicebat autem et ad invitátos parábolam, inténdens, quómodo primos accúbitus elígerent, dicens ad illos: Cum invitátus fúeris ad núptias, non discúmbas in primo loco, ne forte honorátior te sit invitátus ab illo, et véniens is, qui te et illum vocávit, dicat tibi: Da huic locum: et tunc incípias cum rubóre novíssimum locum tenére. Sed cum vocátus fúeris, vade, recúmbe in novíssimo loco: ut, cum vénerit, qui te invitávit, dicat tibi: Amíce, ascénde supérius. Tunc erit tibi glória coram simul discumbéntibus: quia omnis, qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.

[“In quel tempo Gesù entrato in giorno di sabato nella casa di uno de’ principali Farisei per ristorarsi, questi gli tenevano gli occhi addosso. Ed eccoti che un certo uomo idropico se gli pose davanti. E Gesù rispondendo prese a dire ai dottori della legge e ai Farisei: È egli lecito di risanare in giorno di sabato? Ma quelli si tacquero. Ed egli toccandolo lo risanò, e lo rimandò. E soggiunse, e disse loro: Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo trae subito fuori in giorno di sabato? Né a tali cose poterono replicargli. Disse ancora ai convitati una parabola, osservando com’ei si pigliavano i primi posti dicendo loro: Quando sarai invitato a nozze, non ti mettere a sedere nel primo posto, perché a sorte non sia stato invitato da lui qualcheduno più degno di te: e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedi a questo il luogo; onde allora tu cominci a star con vergogna nell’ultimo posto. Ma quando sarai invitato va a metterti nell’ultimo luogo, affinché venendo chi ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più in su. Ciò allora ti fia d’onore presso tutti i convitati. Imperocché chiunque si innalza, sarà umiliato; e chi si umilia sarà innalzato”.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

UMILTÀ PRATICA

Nella sala del convito erano rimasti in piedi, con gli occhi sbarrati sul nuovo miracolo che Gesù aveva operato. Un povero idropico gli si era messo davanti sulla soglia invocando la guarigione: il Salvatore l’aveva toccato e sanato in un attimo. Passato il primo stupore, tutti pensarono al banchetto ed ecco molti affannarsi per correre a sedere nei posti migliori. Gesù li osservava. Poi, non tanto per insegnare una regola di civiltà esteriore, quando per inculcare a’ suoi fedeli la fuga dell’ambizione ed esortali, non solo a star contenti degli ultimi posti, ma ad amarli e preferirli con sincera umiltà, disse questa parabola: « Se mai ti capiterà la fortuna di essere invitato ad un pranzo di nozze, non correre a sedere nel primo posto. Può darsi che sia già stato invitato qualcuno più degno di te; e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: — Ritirati indietro. — Che figura allora per te dover lasciare in faccia a tutti il primo posto e andare a sedere in uno degli ultimi! Meglio allora, se t’avverrà d’andare a nozze, che tu ti metta a sedere all’ultimo posto. Il padrone, scorgendoti in luogo umile, ti dirà: — Amico, vieni più in su. — Che onore allora per te, esser condotto dallo stesso padrone, in faccia a tutti, a sedere al primo posto! « Chiunque s’innalza sarà abbassato, concluse Gesù, e chiunque s’abbassa sarà innalzato ». Questa non è soltanto la conclusione della parabola, ma può stare a conclusione di tutto il Vangelo. – La rovina degli uomini venne dalla superbia, quando Adamo in una follìa, che solo il demonio poteva rendere credibile, accettò il frutto proibito sperando di diventar uguale a Dio. La nostra salvezza, dunque, non ci poteva venire che dall’umiltà. Di umiltà fu il primo atto di redenzione: Dio che si fa uomo. Di umiltà la prima parola di Gesù quando dalla montagna promulgò la legge nuova: « Beati i poveri di spirito perché il regno dei cielo è loro ». Di umiltà è il modello che dobbiamo seguire: « Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore ». Non disse, come osserva S. Agostino, imparate da me a fabbricare i cieli e la terra; imparate da me a non mangiare né bere per quaranta giorni; imparate da me a risanar gli infermi, a scacciare i demoni, a risuscitare i morti, o far altre cose prodigiose; ma imparate, disse, da me ad essere mansueti ed umili di cuore. Discite a me quia mitis sum et humilis corde (Mt., XI, 29). Si può fare miracoli, e finire all’inferno; ma nessun umile di cuore verrà escluse dal paradiso, perché il paradiso è dei piccoli. Ma non è della bellezza dell’umiltà, non è de’ suoi vantaggi che io voglio parlarvi; ma è soltanto di alcune contingenze pratiche della vita in cui si distingue chi è umile, da chi è superbo. – 1. VINCERE IL RISPETTO UMANO. A Pollone, paese del Piemonte, durante una Messa festiva, mancando il sacrestano, era passato tra la folla un giovane distintissimo, figlio d’un senatore, studente universitario, con la borsetta a ritirar l’elemosina. Nell’uscir dalla chiesa, mentre i fedeli sfollavano, qualcuno gli si avvicinò e gli disse: « Oh, Pier Giorgio, sei diventato un bigotto! » E quel giovane, che è morto nel fior della vita e nel profumo delle santità, rispose semplicemente: « Non sono diventato niente. Sono rimasto quel che ero: un Cristiano ». Che cosa siamo noi? Ricchi e poveri, sapienti e ignoranti, re e sudditi, tutti siamo creature di Dio. Perché dobbiamo aver vergogna di umiliarci davanti a Lui che ci creò, perché dobbiamo aver rossore di compiere per Lui, anche i più umili uffici? Quei che si lasciano vincere dal rispetto umano sono superbi: ci tengono al giudizio della gente, hanno paura di essere presi come bigotti, come ignoranti, come persone di poco spirito. Per me, Davide non riesce mai così simpatico come quando me lo immagino danzare davanti all’Arca. Si doveva condurre l’Arca dalla casa di Obededon levita fino a Gerusalemme, e Davide organizzò un ingresso trionfale. Sette cori cantavano inni di lode, e ad ogni sei passi s’immolava un bue e un montone. Intanto davanti all’Arca Davide il re, deposte le insegne regali e vestito di un ephod di lino, saltava con tutte le sue forze come un fanciullo. Et David saltabat totis viribus ante Dominum (II Re VI, 14). Quando ritornò a casa, Michol, che l’aveva spiato dalla finestra, gli disse con pungente disprezzo: « Come stava bene oggi il re, danzante in faccia ai suoi sudditi come un buffone! » Ed il re le rispose fieramente: « Al cospetto del Signore, il quale elesse me piuttosto che tuo padre a capo d’Israele, io danzerò ancora di più; ancora di più mi avvilirò e sarò umile! ». Dei Cristiani che ragionano come Michol, ve ne sono ancora. Quanti non vogliono inscriversi alle associazioni e nelle confraternite, per non portare la candela nella processione, per non rivestire la divisa benedetta! Siamo umili, Cristiani! Il mondo ci chiami pure buffoni « Unus de scurris ». Davanti a Dio è gloriosissimo essere anche buffoni. – 2. ACCETTARE LE CORREZIONI. Serapio, il famoso Santo del deserto si vide un giorno comparire un certo monaco che quasi ad ogni parola si chiamava peccatore. Il Santo allora, dopo averlo fatto sedere alla sua mensa ospitale, si permise di fargli alcune osservazioni per il bene della sua anima. « Figliuolo — gli disse con grande dolcezza e carità — sei sulla via giusta. Però se vuoi progredire nella perfezione, non andar troppo in giro di qua e di là: rimani ritirato nella tua cella, attendendo all’orazione, al lavoro, al raccoglimento interno, altrimenti… ». Non poté finire, perché il monaco s’era fatto cupo, e tentava di rispondere malamente come fosse stato insultato. « Fratello mio, — disse al monaco — ti manca tutta l’umiltà ». Provate voi, a far la medesima correzione, ad una donna, ad una fanciulla: « Anima del Signore, sei sempre fuori di casa: di mattina, di mezzogiorno, di sera, sprechi ore e ore oziando, cianciando inutilmente… ». Basta un’osservazione di queste per suscitare una lite in tutta la contrada. Per essere umili non basta aver il coraggio, e ce ne vuol poco in questo caso, di manifestar alcuni nostri difetti, ma bisogna aver il coraggio di sentirseli dire dagli altri, e senza perdere la pazienza, ma con animo tranquillo, anzi riconoscente. Mancano quindi d’umiltà quei Cristiani che, quando il prete fa delle osservazioni nelle prediche, per tutto il giorno e per altri ancora, non fanno che mormorare. Mancano d’umiltà quelle mogli che non accettano correzioni dal marito; quelle nuore che non le accettano dalla suocera. Mancano d’umiltà quei figli, e quelle figlie anche, che, ai genitori che li avvisano in bene, hanno la sfrontatezza di rispondere: « I vostri consigli teneteli per voi, ho la mia età ». – 3. PERDONARE FACILMENTE. AI cominciar della quaresima del 1076, come in tutti gli anni in quel tempo, il Papa Gregorio VII teneva un sinodo. Erano convenuti moltissimi perché si dovevano trattare affari importanti e prendere urgenti deliberazioni contro l’imperatore Enrico IV che perfidamente angariava la Chiesa. Mentre tutti già erano adunati, entrò un messo dell’imperatore, Rolando. Costui aveva offeso più volte e crudelmente il cuore del Papa: lo aveva chiamato odioso tiranno, aveva sparso nel popolo la voce ch’egli non era il sommo pastore di Cristo, ma il lupo feroce. Come lo videro comparire, i presenti, indignati, scattarono e con le spade e i pugnali si lanciarono sopra quel tristo per trafiggerlo: ma il Papa, ch’era un santo, in una mossa fulminea era disceso dal trono e si mise tra le spade e il colpevole, coprendolo con la sua persona. « Rolando » gli diceva in mezzo al tumulto, « son io che ti salvo e ti perdono. E tu pentiti, che ti possa perdonare anche Iddio ». Quanta umiltà d’animo! Il Papa Gregorio VII era stato offeso nel modo più atroce e nel modo più ingiusto: eppure non aspetta che l’altro domandi perdono, è lui il primo che spontaneamente glielo concede, e lo salva dalla morte. Eppure, ci sono moltissimi Cristiani che vivono per anni ed anni, covando in cuore un odio terribile, e desiderando l’ora della vendetta. — Io non posso perdonare, il mio onore non me lo permette — rispondono alcuni. — Ma se perdona anche Iddio? dunque voi vi credete più in alto che Dio stesso. — Ma l’offesa che m’ha fatto è troppo grave. — Considerate con occhi d’umiltà questa vostra offesa, e vedrete che il Signore ne ha perdonato a voi di ben più gravi. È la vostra superbia che vi gonfia come un pallone un torto da nulla. — Sì, io gli perdono, ma deve venire a domandarmi scusa in ginocchio… — Ma questo è un perdono che tutti sanno dare; anche i pagani sanno perdonare così. — Sì, io perdono; ma però il torto che m’ha fatto non lo dimenticherò mai; non avrà più da me una parola. — Tutta superbia: le anime umili perdonano facilmente, dimenticano subito le offese, e beneficano di preferenza quelli da cui ricevettero qualche male. – 4. PREGARE CONTINUAMENTE. Dio è tutto. Noi siamo nulla. Quando Sansone, cedendo alle insidie d’una donna, perse coi capelli la grazie di Dio, divenne debole come un bambino, ed i fanciulli stessi se ne facevano ludibrio. Talvolta lo sorprendevano a dormire, o assorto nel dolore della sua abbiezione, e improvvisamente gridavano: « Sansone, levati! levati! ti sono sopra i Filistei. » Egli si levava, imponente come una torre, credeva di abbatterli tutti con un pugno gli eserciti dei Filistei, e invece s’accorgeva che tutta la sua forza lo aveva abbandonato, e non avrebbe più saputo far male a un passero. E tornava ad accasciarsi disperatamente. Come mai, giovanetto ancora, s’era avventato sopra un leone, e afferrandolo per la gola l’aveva squartato in un colpo? Come mai con un osso d’asino era riuscito a sgominare un esercito armato di spada e di scudo? Come mai un mattino, da solo, aveva sconficcato dai cardini le porte di Gaza e con quelle era corso sul monte? Per la grazia di Dio. E senza la grazia di Dio? Non ha potuto far nulla. Così anche noi, Cristiani. Tutto quello di buono che siamo o che facciamo è solo per la grazia di Dio. Dunque, bisogna continuamente invocarla questa grazia: ogni mattina, ogni sera; quando lavoriamo, quando mangiamo; mentre godiamo, mentre soffriamo; nella preghiera e nella tentazione. – Gesù camminava davanti, solo: forse pregava. Intanto dietro gli Apostoli litigavano, discutendo chi di loro doveva essere il primo nel regno dei cieli. Forse Giovanni, il prediletto, ch’era il più giovane? Forse Andrea che fu uno dei primi a seguire Gesù? Forse Pietro ch’era costituito capo dei dodici? Forse Giuda che teneva il danaro per tutti? Gesù li sentì, e volgendosi disse: « Gli ultimi saranno i primi ». O Cristiani! chi di noi ascenderà più in alto in paradiso? chi di noi sarà il primo nel regno dei cieli? Non il più ricco, non il più sapiente, non il più bello, ma il più umile. — GLI AMMALATI. « Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo estrae subito, anche se è giorno di festa? » Nessuno osò replicare. Quando risplende la luce piena, come appare brutta una lucciola! La giustizia formalistica, vuota dei Farisei, era troppo meschina davanti al soffio vivo, intensa di carità che spirava dal cuore di Gesù. Le infermità fisiche hanno sempre suscitato la compassione del Redentore divino, si direbbe, prima ancora delle infermità spirituali e morali. Apparivano a Gesù come il segno delle miserie più profonde dello spirito, per le quali era venuto propriamente dal Cielo? Voleva Gesù arrivare più efficacemente allo spirito, guarendo i corpi e sorreggendo le nostre molteplici debolezze temporali? Sì, tutto questo. Gli uomini, invece, sono troppe volte ciechi, insensibili per le malattie dell’animo, perché poco badano ai dolori fisici del loro prossimo. Potremmo quasi stabilire una proporzione: tanto più un Cristiano è delicato di spirito, quanto più comprende, ama e cura il dolore e le infermità del suo prossimo. Ai cari malati, dunque, il nostro pensiero: li dobbiamo amare; li dobbiamo curare. – 1. AMARE GLI AMMALATI. I missionari cattolici non trovarono mai campo così difficile da conquistare alla fede, come i Maomettani. Quante esperienze finirono nel sangue! La predicazione aperta fu loro proibita; ma essi scelsero il metodo di praticare soprattutto la carità, prima di insegnare. E davanti ai pionieri del Vangelo che curano gli ammalati e proteggono gli infelici, anche l’orgoglio musulmano si piega all’ammirazione, poi alla fede. Suor Rosalia, figlia della carità, è al lavoro nel suo dispensario. Per cavare i denti a quei poveretti, bisogna vincere il terrore dei ferri e la suora usa le più belle espressioni arabe. « Suvvia mio cuore, mia anima, occhi miei! »; e una povera donna guarita se ne va dicendo: « che Allah conservi le tue mani! ». Alcuni musulmani che aspettano il loro turno ragionano tra loro: « Se tutti gli infedeli (Cristiani) andranno all’inferno, per suor Rosalia si farà un’eccezione ». Quando a Damasco la suora curava un povero ammalato, si sentì dire: « Son ridotto in miseria con mia moglie e i miei figli e nessuno de’ miei pensa a consolarmi. Tu che sei straniera vieni nella mia povera casa ad aiutarmi; la tua religione è migliore della mia ». La luce si avanza in quegli spiriti. Assistendo una giovane musulmana aggravatissima, la suora le aveva dato una medaglia della Vergine che l’ammalata baciò e sospese al collo. La suora si fece coraggio e presentò il Crocifisso. È inaudito per un musulmano baciare il Crocifisso; ma la giovane bacia il Crocifisso; e i parenti e gli amici approvano: « Oh, sì, accetta pure tutto ciò che tocca questa religiosa, perché val più una di queste creature che non tutti i dervisci nostri presi assieme ». Gesù amò gli infermi. Non diede a’ suoi Apostoli come primo programma: « curate gl’infermi, risuscitate i morti, mondate i lebbrosi, scacciate i demoni ? » (Mt., X, 8). Le opere di misericordia corporale e spirituale furono sempre la migliore attuazione pratica del Vangelo e conducono sicuramente a convertire i cuori. I malati sono Gesù stesso, che dolora, che aspetta conforto. Sono la parte più sensibile del Corpo Mistico. L’istinto vivo della propria conservazione, le ansie crescenti per l’inerzia forzata, per i lavori interrotti, per l’abbandono della casa e dei figliuoli, per la lunghezza del male, le speranze sempre più incerte, i timori sempre più cupi, danno al malato un’estrema sensibilità. Non per nulla satana, che conosce tutta la miseria umana, riservò al santo Giobbe la malattia come prova estrema, dicendo al Signore: « Stendi la tua mano, toccalo in viso e nel corpo e vedrai se continuerà a benedirti » (Giobbe, II, 4-5). Si diventa migliori o « più Cristiani » come dice tanta buona gente, quando si sanno raccogliere tutte queste situazioni di dolore nel nostro cuore, e si visitano gli ospedali o si è saliti in qualche tugurio. Che effetti il peccato! Come è vano il mondo! Come costa il paradiso! Che meriti per la gloria! – 2. CURARE GLI AMMALATI. S. Ignazio di Loyola, grande conoscitore degli uomini, per provare la stoffa dei suoi novizi, tra gli esperimenti voleva un mese di servizio negli ospedali speso a consolare e a soccorrere gli ammalati. Stimava, poi, come disposizione speciale di Provvidenza d’aver egli stesso sofferte tante malattie e debolezze corporali, per comprendere e compatire più intimamente le malattie degli altri. Così padrone di sé in tutti gli avvenimenti, quando si trattava di malati, specialmente un po’ seri, non riusciva talora a nascondere la sua commozione, tanto era l’amore per essi, Li visitava personalmente, in tempi determinati, osservava con scrupolo se venivan dati con puntualità i cibi e le medicine, e qualche volta fu visto il Santo superiore a scopare la stanza dell’ammalato, a sbattere e a pulire le lenzuola e prestare anche più umili servigi. Una volta, mancando danaro, dié ordine di vendere stoviglie e biancheria perché gli infermi avessero il necessario. E quando il dispensiere gli fece osservare che c’erano in cassa solo tre monete, sufficienti per la comunità, rispose « si spendano pure per l’ammalato! noi stiamo bene e in caso di necessità ci aggiusteremo con un po’ di pan duro ». I Santi facevano così. Quanti Cristiani, invece, di stile 900, sentono difficoltà, forse ripugnanza, a trattare, a soccorrere, a consolare i malati! È proprio di altri tempi che qualche cuore degenere arrivasse a… maledire, a invocare la morte ai propri malati?! Quante esigenze, invece, per se stessi! E quali smanie per un dolore che ci colpisce! Circondiamo i nostri malati di cure materiali. Nel cerchio della famiglia, un padre, una mamma hanno diritto di vedere ne’ loro figli i migliori e più devoti infermieri. Proprio come i nostri sensi e le nostre membra che partecipano attivamente ai mali del nostro corpo. Non si deve badare a noie, a… spese per procurare ai nostri cari una coscienziosa assistenza. E gli altri ammalati, soprattutto i poveri? Fatta proporzione e fin dove è possibile, ogni cura sarà fatta a Dio. Assistere, vegliare, privarci noi qualche volta anche del necessario oltre che del superfluo, è finezza di carità che il nostro cuore cristiano dovrebbe conoscere. Ciò che ancora più importa sono le cure spirituali. È qui dove possiam distinguerci da un pagano che nelle cure materiali potrebbe superarci. Perché non santificar la festa anche visitando gli ammalati? Certe buone mamme di un tempo andando nella borgata o in città, calcolavano anche una visita all’ospedale. E portavano magari primizie di frutta. Che profumo certe delicatezze di carità! È pur facile iscriversi alle Conferenze di S. Vincenzo, per venir a contatto con miserie impensate. Preghiamo per i malati. Vicino agl’infermi preghiamo con loro, rammentando l’Angelo Custode, il nome, l’esempio della Madonna, il divino modello, Gesù. Prepariamo e procuriamo la visita del Sacerdote. Disponiamo con dolce prudenza, ma con sincerità, per gli ultimi Sacramenti, nei casi gravi. Oh il delitto, il tradimento dei parenti e degli amici, che ritardano, impediscono tali conforti, voluti da Dio e dalla Chiesa per le anime de’ nostri cari! – I miracoli noi non li faremo, come Gesù, ma quanto balsamo verseremo con la nostra carità nel cuore dei sofferenti. Gesù accolse il povero idropico con fine comprensione, Lo vide incerto se chiedere la guarigione; forse per timore che i Farisei gli rimproverassero di profanare il giorno di sabato. Eppure, desiderava, il poveretto, di essere soccorso nel suo imbarazzo e soprattutto nel suo dolore. E Gesù lo previene, lo attira delicatamente a sé, lo tocca, lo guarisce, e lasciatolo partire in mezzo al silenzio attonito di tutti, lo difese, lanciando una sferzata terribile al cuore cattivo di quei paladini della legge che avrebbero posposto un loro fratello ad un… asino od un bue di stalla.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 14; 15
Dómine, in auxílium meum réspice: confundántur et revereántur, qui quærunt ánimam meam, ut áuferant eam: Dómine, in auxílium meum réspice.

[Signore, vieni in mio aiuto: siano confusi e svergognati quelli che insidiano la mia vita per rovinarla: Signore, vieni in mio aiuto.]

Secreta

Munda nos, quǽsumus, Dómine, sacrifícii præséntis efféctu: et pérfice miserátus in nobis; ut ejus mereámur esse partícipes.

[Purificaci, Te ne preghiamo, o Signore, in virtù del presente Sacrificio, e, nella tua misericordia, fa sì che meritiamo di esserne partecipi].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei,

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXX: 16-17;18
Dómine, memorábor justítiæ tuæ solíus: Deus, docuísti me a juventúte mea: et usque in senéctam et sénium, Deus, ne derelínquas me.

[O Signore, celebrerò la giustizia che è propria solo a Te. O Dio, che mi hai istruito fin dalla giovinezza, non mi abbandonare nell’estrema vecchiaia.]

Postcommunio

Orémus.
Purífica, quǽsumus, Dómine, mentes nostras benígnus, et rénova coeléstibus sacraméntis: ut consequénter et córporum præsens páriter et futúrum capiámus auxílium.

[O Signore, Te ne preghiamo, purifica benigno le nostre anime con questi sacramenti, affinché, di conseguenza, anche i nostri corpi ne traggano aiuto per il presente e per il futuro].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA