DONI DELLO SPIRITO SANTO

 

[Dom Guéranger: “Anno liturgico”, vol II]

Durante tutta questa settimana dovremo esporre le diverse operazioni dello Spirito Santo nella Chiesa e nelle anime dei fedeli; ma è necessario, fin da oggi, anticipare l’insegnamento che abbiamo a presentare. Ci sono dati sette giorni per conoscere e studiare il Dono supremo che il Padre e il Figlio hanno voluto inviarci, e lo Spirito, che procede dai due, si manifesta in sette modi nelle anime. È dunque giusto che ogni giorno di questa settimana sia consacrato ad onorare ed a raccogliere questo settenario di benefici, per mezzo dei quali dovrà operarsi la nostra salvezza e la nostra santificazione. I sette doni dello Spirito Santo sono sette fonti di energia che Egli degna deporre nelle nostre anime, quando vi penetra con la grazia santificante. Le grazie attuali mettono in movimento, simultaneamente o separatamente, quelle potenze divinamente infuse in noi, ed il bene soprannaturale e meritorio per la vita eterna si produce col consenso della nostra volontà. – Il Profeta Isaia, guidato dall’ispirazione divina, ci aveva fatto conoscere questi sette doni, nel brano in cui, descrivendo l’operazione dello Spirito Santo sull’anima del Figlio di Dio fatto uomo, che ci rappresenta come il fiore uscito dal ramo Verginale nato dal tronco di Jesse, ci dice: « Si poserà sopra di lui lo Spirito del Signore, Spirito di saviezza e discernimento. Spirito di consiglio e fortezza, Spirito di conoscenza e di pietà, e nel timore del Signore è la sua ispirazione » (Is. IX, 2-3). Niente di più misterioso che queste parole; ma si sente che ciò che esse esprimono non è una semplice enumerazione dei caratteri del divino Spirito, ma la descrizione degli effetti che opera nell’anima umana. Così l’ha compresa la tradizione cristiana, ed enunciata negli scritti degli antichi padri, e formulata con la teologia. – L’umanità sacra del Figlio di Dio incarnato è il tipo soprannaturale della nostra, e ciò che lo Spirito Santo ha operato in lei deve proporzionalmente aver luogo in noi. Egli ha deposto nel Figlio di Maria quelle sette forze che descrive il profeta; i medesimi doni sono stati preparati all’uomo rigenerato. Notiamo la successione che si manifesta nella loro serie. Isaia nomina prima lo Spirito di sapienza e finisce con quello del timor di Dio. La Sapienza è effettivamente, come vedremo, la più elevata delle prerogative alla quale possa giungere l’anima umana, mentre il Timor di Dio, secondo la profonda espressione del Salmista, non è che il principio e l’abbozzo di questa divina qualità. Si capisce facilmente che l’anima di Gesù chiamata a contrarre l’unione personale con il Verbo, sia stata trattata con una dignità particolare, in modo che il dono della Sapienza debba essere stato infuso in essa in una maniera primordiale, mentre il dono del Timor di Dio, qualità necessaria ad una natura creata, sia stata posta in lei soltanto come complemento. Per noi, al contrario, fragili e incostanti come siamo, il Timor di Dio è la base di tutto l’edificio ed è per mezzo suo che ci eleviamo di grado in grado fino a quella Sapienza che ci unisce a Dio. É dunque nell’ordine inverso di quello segnalato da Isaia nei riguardi del Figlio di Dio incarnato, che l’uomo s’innalza alla perfezione, per mezzo dei doni dello Spirito Santo, che gli sono stati conferiti nel Battesimo e che gli vengono resi nel Sacramento della riconciliazione, se ha avuto la sventura di perdere la grazia santificante per il peccato mortale. Ammiriamo con profondo rispetto l’augusto settenario, di cui troviamo l’impronta in tutta l’opera della nostra salvezza e della nostra santificazione. Sette sono le virtù che rendono l’anima gradita a Dio; per mezzo dei suoi sette Doni, lo Spirito Santo la conduce al suo fine; i sette Sacramenti le comunicano i frutti dell’Incarnazione e della Redenzione di Gesù Cristo; e, finalmente, dopo trascorse sette settimane dalla Pasqua, lo Spirito è mandato sulla terra per stabilirvi e consolidarvi il regno di Dio. Dopo tutto questo, noi non ci meraviglieremo che satana abbia cercato di fare una parodia sacrilega dell’opera divina, opponendole l’orribile settenario dei sette peccati capitali, per mezzo dei quali egli si sforza di perdere l’uomo che Dio vuole salvare.

IL DONO DEL TIMORE

L’orgoglio per noi è l’ostacolo al bene. È l’orgoglio che ci porta a resistere a Dio, a mettere il nostro fine in noi stessi; in una parola, a perderci. Solo l’umiltà può salvarci da un sì grande pericolo. Chi ce la darà? Lo Spirito Santo, infondendo in noi il dono del Timor di Dio. – Questo sentimento riposa sull’idea che la fede ci dà della maestà di Dio, in presenza del quale non siamo che un nulla; della sua Santità infinita, davanti alla quale non siamo che indegnità e sozzura; del giudizio sovranamente equo che dovrà esercitare su noi all’uscire da questa vita; e del pericolo di una caduta, sempre possibile, se non corrispondiamo alla grazia che non ci manca mai, ma alla quale possiamo resistere. – La salvezza dell’uomo si opera, dunque, « con timore e tremore », come c’insegna l’Apostolo (Fil. II, 12); ma questo timore, che è un dono dello Spirito Santo, non è un sentimento rudimentale che si limita a gettarci nello spavento al pensiero dei castighi eterni. Esso ci mantiene nella compunzione del cuore, anche quando i nostri peccati fossero da molto tempo perdonati; c’impedisce di dimenticare che siamo peccatori, che dobbiamo tutto alla misericordia divina, e che non siamo ancora salvi che in speranza (Rom. VIII, 24). – Questo timor di Dio non è dunque un timore servile, ma diviene, al contrario, la fonte dei sentimenti più delicati: può allearsi con l’amore, non essendo più che un sentimento filiale che teme il peccato a causa dell’oltraggio che reca a Dio. Ispirato dal rispetto della maestà divina, dal sentimento della sua santità infinita, colloca la creatura nel vero suo posto, e S. Paolo c’insegna che, purificandosi così, ci aiuta, « compiendo l’opera della nostra santificazione » (II Cor. IX, 27). È per questo che il grande Apostolo, che era stato rapito fino al terzo Cielo, ci confessa che è rigoroso verso se stesso « al fine di non essere condannato » (I Cor. IX, 27). – Lo spirito di indipendenza e di falsa libertà che regna oggi, contribuisce a rendere più raro il timor di Dio, ed è questa una delle piaghe del nostro tempo. La familiarità con Dio tiene troppo spesso il posto di questa disposizione fondamentale della vita cristiana, ed è allora che ogni progresso si arresta, l’illusione si introduce nell’anima, ed i sacramenti, che nel momento del ritorno a Dio avevano operato con tanta forza, divengono press’a poco sterili, E ciò accade perché il dono del timore è stato soffocato sotto la vana compiacenza dell’anima in se stessa. L’umiltà si è spenta; un orgoglio, segreto e universale, è venuto a paralizzare i movimenti di quell’anima, che arriva, senza accorgersene, a non conoscere più Iddio, per il fatto stesso che non trema più davanti a Lui. – Conservaci, dunque, o divino Spirito, il dono del timor di Dio, che hai diffuso in noi nel nostro Battesimo. Questo timore salutare ci assicurerà la perseveranza nel bene, arrestando il progresso dello spirito d’orgoglio. Che esso sia, dunque, come un dardo che attraversi la nostra anima da parte a parte, restandovi fissato sempre a nostra salvaguardia. Che esso abbassi la nostra alterigia, che ci strappi alla mollezza, rivelandoci, senza tregua, lo splendore e la santità di Colui che ci ha creati e che ci deve giudicare. Sappiamo, o divino Spirito, che questo beato timore non soffoca l’amore; ma, ben lungi da ciò, toglie, invece, gli ostacoli che impedirebbero il suo sviluppo. Le potenze celesti vedono ed amano ardentemente il Sommo Bene, e se ne sono inebriate per l’eternità; e, nondimeno, tremano di fronte a quella temibile maestà: « tremunt Potestates ». E noi, ricoperti dalle cicatrici del peccato, pieni d’imperfezione, esposti a mille insidie, obbligati a lottare contro tanti nemici, non sentiremo, forse, che dobbiamo stimolare con un forte timore filiale, nello stesso tempo, la nostra volontà che si addormenta così facilmente e il nostro spirito assediato da tante tenebre? Veglia sulla tua opera, o divino Spirito! Preserva in noi il dono prezioso che ti sei degnato di farci; insegnaci a conciliare la pace e la gioia del cuore con il timor di Dio, secondo questo avvertimento del Salmista: « Servite a Dio con timore e rendetegli omaggio con tremore» (Sai. II, 11).

PREGHIAMO

O Dio, che oggi hai ammaestrati i cuori dei fedeli con la luce dello Spirito Santo, donaci di gustare nello stesso Spirito la verità e di godere sempre della sua consolazione. 

IL DONO DELLA PIETÀ

Il Dono del Timor di Dio è destinato a guarire in noi la piaga dell’orgoglio; il dono della Pietà viene diffuso dallo Spirito Santo nelle nostre anime per combattere l’egoismo che è una delle cattive passioni dell’uomo decaduto, ed il secondo ostacolo alla sua unione con Dio. Il cuore del cristiano non deve essere né freddo né indifferente; bisogna che sia tenero e pronto alla dedizione; altrimenti non potrebbe elevarsi nella via nella quale Dio, che è amore, si è degnato di chiamarlo. Lo Spirito Santo produce, dunque, nell’uomo il dono della Pietà, ispirandogli una reciprocità filiale verso il suo Creatore. « Avete ricevuto lo Spirito d’adozione filiale, per il quale esclamiamo: Abba! o Padre! » (Rom. VIII, 15). Questa disposizione rende l’anima sensibile a tutto ciò che tocca l’onore di Dio. Fa sì che l’uomo coltivi in se stesso la compunzione dei peccati, vedendo l’infinita bontà di Colui che si è degnato di sopportarlo e perdonarlo, e pensando alle sofferenze ed alla morte del Redentore. L’anima iniziata al dono della Pietà desidera costantemente la gloria di Dio; vorrebbe condurre tutti gli uomini ai suoi piedi, e gli oltraggi che egli riceve sono particolarmente dolorosi per essa. La sua gioia è di vedere il progresso delle anime nell’amore, e gli atti di dedizione che esso ispira loro verso Colui che è il sommo bene. Piena di sottomissione filiale verso questo Padre universale che è nei Cieli, ella si tiene pronta per fare in tutto la sua volontà, e si rassegna di cuore a tutte le disposizioni della sua provvidenza. – La sua fede è semplice e viva. Ella resta amorosamente sottomessa alla Chiesa, sempre pronta a rinunciare anche alle sue idee più care, se dovessero scostarsi in qualche cosa dai suoi insegnamenti o dalle sue pratiche, avendo un orrore istintivo della novità e dell’indipendenza. Questo sentimento di dedizione a Dio che ispira il dono della Pietà, unendo l’anima al suo Creatore con affetto filiale, la unisce con affetto fraterno a tutte le creature, poiché esse sono l’opera della potenza di Dio e Gli appartengono. In prima linea, tra le affezioni del cristiano, animato dal dono della Pietà, si pongono quelle verso le creature glorificate, delle quali Dio gode eternamente e che, a loro volta, godono pure per sempre di Lui. Egli ama teneramente Maria, è geloso del suo onore; venera amorosamente i Santi; ammira con effusione il coraggio dei martiri, e gli atti eroici di virtù compiuti dagli amici di Dio; si diletta dei loro miracoli, e onora devotamente le loro sacre reliquie. Ma la sua affezione non si limita solamente alle creature già coronate nel cielo; quelle che sono ancora sulla terra tengono pure un gran posto nel suo cuore. Il dono della Pietà gli fa trovare in esse lo stesso Gesù. La sua benevolenza verso i fratelli è universale. Il suo cuore è disposto al perdono delle ingiurie, a sopportare le altrui imperfezioni, alla scusa verso i torti del prossimo. Egli è compassionevole verso i poveri, sollecito verso gli infermi. Una affettuosa dolcezza rivela il fondo del suo cuore; e nei rapporti con i suoi fratelli della terra lo si vede sempre disposto a piangere con quelli che piangono, a rallegrarsi con quelli che sono nella gioia. – Tali sono, o divino Spirito, le disposizioni di coloro che coltivano il dono della Pietà, che hai riversato nelle anime loro. Per mezzo di questo ineffabile favore, neutralizzi quel triste egoismo che sciuperebbe il loro cuore, li liberi da quell’odiosa aridità che rende l’uomo indifferente verso i suoi fratelli, e chiudi la sua anima all’invidia e all’odio. Per tutto ciò non è stata necessaria che questa pietà filiale verso il creatore; essa ha intenerito il suo cuore, ed il cuore si è impregnato di una viva affezione per tutto ciò che è uscito dalle mani di Dio. Fa’ fruttificare in noi un sì prezioso dono; non permettere che esso venga soffocato con l’amore di noi stessi. Gesù ci incoraggia dicendoci che il Padre celeste « fa sorgere il suo sole sopra cattivi e buoni » (Mt. V, 45). Non permettere, o divino Paracleto, che una tale paterna indulgenza sia un esempio perduto per noi, e degnati di sviluppare nelle anime nostre questo seme di dedizione, di benevolenza e di compassione che vi hai posto nello stesso momento in cui ne prendevi possesso per mezzo del Santo Battesimo.

IL DONO DELLA SCIENZA

L’anima che è stata distaccata dal male mediante il timor di Dio, ed aperta ai nobili affetti dal dono della pietà, sente il bisogno di sapere con quali mezzi eviterà ciò che forma l’oggetto della sua paura e potrà trovare ciò che deve amare. Lo Spirito Santo viene in suo aiuto; e le porta quanto desidera, diffondendo in essa il dono della scienza. Con questo dono prezioso, le appare chiaramente la verità, capisce ciò che Dio domanda e ciò che Dio riprova, ciò che deve cercare e ciò che deve fuggire. Senza la scienza divina, con la nostra vista corta, rischiamo di perderci, a causa delle tenebre che troppo spesso oscurano in tutto od in parte l’intelligenza dell’uomo. Queste tenebre, prima di tutto, provengono dal fondo di noi stessi, che portiamo ancora le tracce troppo reali della nostra decadenza. Esse hanno anche, come causa, i pregiudizi e le massime del mondo, le quali, ogni giorno, falsano spiriti, che pur si credevano fra i più retti. E finalmente l’azione di satana, il principe delle tenebre, esercitata in gran parte con lo scopo di circondare la nostra anima di oscurità, o di perderla coll’aiuto di falsi miraggi. La fede, che ci è stata infusa nel Battesimo, è la luce dell’anima nostra. Per mezzo del dono della scienza, lo Spirito Santo fa rilucere questa virtù di vividi raggi, atti a dissipare tutte le tenebre. – Si schiariscono allora i dubbi, svanisce l’errore, e la verità appare in tutto il suo splendore. Si vede ogni cosa sotto la vera luce, che è quella della fede. Si scoprono i deplorevoli errori che si diffondono per il mondo, che seducono un sì gran numero di anime, e dei quali, forse, noi stessi siamo stati a lungo le vittime. Il dono della scienza ci rivela il fine che Dio si è proposto nella creazione, quel fine, all’infuori del quale gli esseri non saprebbero trovare né il bene né il riposo. C’insegna l’uso che noi dobbiamo fare delle creature, che ci sono state date, non per essere uno scoglio, ma per aiutarci nel cammino verso Dio. Manifestandoci così il segreto della vita, la nostra strada diventa sicura, non esitiamo più; e ci sentiamo disposti a ritirarci da ogni via che non ci conduce verso tale fine. – È a questa scienza, dono dello Spirito Santo, che l’Apostolo si rivolge quando, parlando ai cristiani, dice loro: « Un tempo eravate tenebre, ora invece siete luce nel Signore: diportatevi da figlioli della luce » (Ef. V, 8). Da essa viene quella fermezza, quella sicurezza della condotta cristiana. L’esperienza può mancare qualche volta, e il mondo si meraviglia all’idea dei passi falsi che sono da temere; ma il mondo conta senza il dono della scienza. « Il Signore conduce il giusto per le vie rette, e per assicurare i suoi passi gli ha dato la scienza dei santi » (Sap. X, 10). – Questa lezione ci viene data ogni giorno. Il cristiano, per mezzo della luce soprannaturale, sfugge a tutti i pericoli, e, se non ha esperienza propria, ha quella di Dio. – Sii benedetto, divino Spirito, per questa luce che diffondi su di noi, che ci mantieni con sì amabile perseveranza. Non permettere che ne cerchiamo mai un’altra. Ella sola ci basta; e all’infuori di essa non vi sono che tenebre. Proteggici dalle tristi conseguenze, alle quali molti si lasciano andare imprudentemente, accettando oggi la tua guida e abbandonandosi l’indomani ai pregiudizi del mondo; camminando così in una doppia via che non soddisfa né il mondo né Te. Ci occorre, quindi, l’amore di questa scienza, che ci hai dato affinché fossimo salvi; questa scienza salutare rende geloso il nemico delle anime nostre, che vorrebbe sostituire le sue ombre. Non permettere, divino Spirito, che riesca nel suo perfido disegno, ed aiutaci sempre a discernere ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è giusto da ciò che è ingiusto. Che, secondo la parola di Gesù, il nostro occhio sia semplice, affinché il corpo, ossia l’insieme delle nostre azioni, dei nostri desideri e dei nostri pensieri, resti nella luce (Mt. VI, 23); e salvaci da quell’occhio che Gesù chiama cattivo e che rende tenebroso l’intero corpo.

IL DONO DELLA FORTEZZA

Il dono della scienza ci ha insegnato ciò che dobbiamo fare e ciò che dobbiamo evitare per essere conformi al disegno di Gesù Cristo, nostro divino Capo. Bisogna adesso che lo Spirito Santo stabilisca in noi il principio dal quale poter attingere l’energia che dovrà sostenerci nella via che ci ha indicato poco fa. Infatti noi sappiamo che incontreremo certamente degli ostacoli, ed il gran numero di quelli che soccombono basta a convincerci della necessità che abbiamo di essere aiutati. Questo soccorso ci viene dallo Spirito divino che ci comunica il dono della fortezza, per mezzo del quale, se noi saremo fedeli a servircene, ci sarà possibile, ed anche facile, trionfare di tutto ciò che potrebbe arrestare il nostro cammino. – Nelle difficoltà e nelle prove della vita, l’uomo ora è portato alla debolezza e all’abbattimento, ora è spinto da un ardore naturale che ha la sua sorgente nel temperamento o nella vanità. Questa doppia disposizione porterebbe raramente la vittoria nella lotta che l’anima deve combattere per la sua salvezza. Lo Spirito Santo ci porta dunque un elemento nuovo: questa forza soprannaturale, talmente propria in Lui, che il Salvatore, istituendo i sacramenti, ne ha stabilito uno che ha per oggetto speciale di darci questo divino Spirito come principio di energia. È fuori dubbio che, dovendo lottare durante questa vita contro il demonio, il mondo e noi stessi, ci occorre ben altro per resistere che la pusillanimità o l’audacia. Abbiamo bisogno di un dono che moderi in noi la paura, e, nello stesso tempo, che temperi la fiducia che noi saremmo portati a mettere in noi stessi. L’uomo, modificato così dallo Spirito Santo, vincerà sicuramente; poiché la grazia supplirà in lui alla debolezza della natura e, nel medesimo tempo, correggerà la sua foga. – Due necessità si incontrano nella vita del cristiano: egli deve saper resistere e deve saper sopportare. Che potrebbe opporre alle tentazioni di Satana, se la forza del divino Spirito non venisse a ricoprirlo di un’armatura celeste e ad agguerrire il suo braccio? Il mondo non è forse anche il suo avversario terribile, se si considera il numero delle vittime che fa ogni giorno con la tirannia delle sue massime e delle sue pretese? Quale deve essere, dunque, l’assistenza del divino Spirito, quando si tratta di rendere il cristiano invulnerabile ai dardi che uccidono e che fanno tante rovine intorno a lui? Le passioni del cuore dell’uomo non sono un ostacolo minore alla sua salvezza ed alla sua santificazione: ostacolo tanto più temibile in quanto è più intimo. Bisogna che lo Spirito Santo trasformi il cuore, che lo trascini anche a rinunziare a se stesso, quando la luce celeste c’indicherà una via diversa da quella verso la quale ci spinge l’amore della ricerca di noi stessi. Quale forza divina ci vuole, per « odiare la propria vita », quando Gesù Cristo lo esige (Gv. XII, 25), quando si tratta di fare la scelta tra due padroni il cui servizio è incompatibile? (Mt. VI, 24). Lo Spirito Santo fa ogni giorno questi prodigi per mezzo del dono che ha diffuso in noi, se noi non lo disprezziamo, se non lo soffochiamo nella nostra viltà e nella nostra imprudenza. Insegna al cristiano a dominate le passioni, a non lasciarsi condurre da queste cieche guide, a non cedere ai suoi istinti che quando essi sono conformi all’ordine che Dio ha stabilito. – Qualche volta questo divino Spirito non domanda solamente al cristiano di resistere interiormente ai nemici dell’anima, ma esige che protesti apertamente contro l’errore ed il male, se il dovere di stato o la sua posizione lo reclamano. È allora che bisogna affrontare quella specie d’impopolarità che spesso si riversa sul cristiano, e che non dovrà sorprenderlo, ricordandosi le parole dell’Apostolo: « Se io cercassi di piacere agli uomini non sarei servo di Cristo » (Gal. I, 10). Ma lo Spirito Santo non manca mai, e quando Egli trova un’anima risoluta ad usare della forza divina di cui Egli è la sorgente, non solamente le assicura il trionfo, ma ordinariamente la stabilisce in quella pace, piena di dolcezza e di coraggio, che ci porta la vittoria sulle passioni. – Tale è la maniera con la quale lo Spirito Santo applica il dono della fortezza nel cristiano, quando questi è obbligato alla resistenza. Abbiamo detto che questo prezioso dono ci dà nello stesso tempo l’energia necessaria per sopportare le prove che formano il prezzo della nostra salvezza. Vi sono degli spaventi che agghiacciano il coraggio e possono trascinare l’uomo alla perdizione. Il dono della fortezza li dissipa; li rimpiazza con una calma ed un senso di sicurezza sconcertanti per la natura. Guardate i martiri, e non solamente S. Maurizio, capo della legione Tebea, abituato alle lotte del campo di battaglia; ma una Felicita, madre di sette figli, una Perpetua, nobile dama di Cartagine, per la quale il mondo non aveva che favori; una Agnese, fanciulla di tredici anni, e tante altre migliaia, e dite se il dono della fortezza è sterile nei sacrifici. Dov’è andata la paura della morte, il cui solo pensiero qualche volta ci opprime? E quelle generose offerte di tutta una vita immolata nella rinuncia e nelle privazioni, per trovare unicamente Gesù e seguirne le tracce più da vicino! E tante esistenze nascoste agli sguardi distratti e superficiali degli uomini, esistenze in cui l’elemento principale è il sacrificio, in cui la serenità non si lascia mai vincere dalla prova, in cui la croce, che si moltiplica sempre, sempre viene accettata! Quali trofei per lo Spirito di fortezza! Quali atti di dedizione al dovere Egli sa generare! E se l’uomo, per se stesso è poca cosa, come cresce in dignità sotto l’azione dello Spirito Santo! È ancora Lui che aiuta il cristiano a superare la brutta tentazione del rispetto umano, elevandolo al di sopra delle considerazioni mondane che gli detterebbero un’altra condotta. È Lui che spinge l’uomo a preferire la gioia di non aver violato i comandamenti del suo Dio, a quella frivola di seguire gli onori del mondo. È questo Spirito di fortezza che fa accettare gli infortuni quali altrettanti disegni misericordiosi del Cielo; che sostiene il coraggio del cristiano nella perdita così dolorosa di esseri cari, nelle sofferenze fisiche che gli renderebbero la vita pesante, se non sapesse che esse sono le visite del Signore. È Lui, finalmente, come lo leggiamo nella vita dei Santi, che si serve delle stesse ripugnanze della natura, per provocare quegli atti eroici in cui la creatura umana sembra aver sorpassato il limite del suo essere per elevarsi al rango degli spiriti impassibili e glorificati. – Spirito di fortezza, resta sempre più in noi, e salvaci dalla mollezza di questo secolo. In nessun’altra epoca l’energia delle anime è stata più debole, lo spirito mondano ha maggiormente trionfato, il sensualismo si è fatto più insolente, l’orgoglio e l’indipendenza più pronunciati. Saper essere forti contro se stessi, è una rarità che eccita lo stupore in coloro che ne sono testimoni: tanto le massime del Vangelo hanno perduto terreno. Trattienici su questo pendio che, come tanti altri, ci trascinerebbe al male, o divino Spirito! Permetti che noi ti indirizziamo, in forma di domanda, quei voti che Paolo formulava per i cristiani di Efeso, e che noi osiamo reclamare dalla tua generosità, l’armatura di Dio che ci permetterà di tener duro nel giorno cattivo e di rimanere perfetti in tutte le cose. Cingi i nostri fianchi con la verità, rivestici della corazza della giustizia, e calzaci i piedi con l’alacrità che dà il Vangelo di pace. Armaci dello scudo della fede, col quale potremo estinguere i dardi infuocati del maligno; metti sul nostro capo l’elmo della speranza per la salvezza e nelle mani la spada dello Spirito, che è la parola di Dio (Cfr, Ef. VI, 11-17), con l’aiuto del quale, come il Signore nel deserto, noi possiamo riportare la vittoria su tutti i nostri avversari. Spirito di fortezza, fa’ che così sia.

IL DONO DEL CONSIGLIO

Il dono della fortezza di cui abbiamo riconosciuto la necessità nell’opera di santificazione del cristiano, non sarebbe sufficiente per assicurare questo grande risultato, se il divino Spirito non avesse preso cura di unirlo ad un altro dono che lo segue e che previene da ogni pericolo. Questo nuovo beneficio consiste nel dono del consiglio. – La fortezza non si potrebbe lasciare abbandonata a se stessa; le è necessario un elemento che la diriga. Il dono della scienza, non potrebbe esserlo, perché, se illumina l’anima sul suo fine e sulle regole generali della condotta che deve tenere, non porta una luce sufficiente sulle applicazioni speciali della legge di Dio e sulla direzione della vita. Nelle diverse situazioni in cui potremmo essere posti, nelle decisioni che potremmo aver bisogno di prendere, è necessario che sentiamo la voce dello Spirito Santo, ed è per mezzo del dono del consiglio che questa voce divina arriva fino a noi. Essa ci dice, se vogliamo ascoltarla, ciò che dobbiamo fare e ciò che dobbiamo evitare; ciò che dobbiamo dire e ciò che dobbiamo tacere; ciò che possiamo conservare e ciò cui dobbiamo rinunziare. Per mezzo del dono del consiglio, lo Spirito Santo agisce sulla nostra intelligenza, nello stesso modo che, col dono della fortezza, agisce sulla nostra volontà. Questo dono prezioso deve essere applicato durante tutta la nostra vita; perché continuamente ci dobbiamo decidere per un partito o per l’altro; e deve essere causa di una grande riconoscenza verso lo Spirito divino il pensiero che Egli non ci lascia mai abbandonati a noi stessi finché siamo disposti a seguire la direzione che ci imprime. Quanti agguati può farci evitare! quante illusioni può distruggere in noi! quante realtà ci fa scoprire! ma, per non perdere le sue ispirazioni, bisogna che ci salvaguardiamo dalle attrattive naturali che, troppo spesso, influiscono sulle nostre decisioni: dalla temerità che ci trascina secondo il piacere delle passioni; dalla precipitazione che ci rende troppo solleciti nel giudicare e nell’agire, anche quando non abbiamo ancora visto che un lato delle cose; e, finalmente, dall’indifferenza che fa sì che noi decidiamo a caso, per timore di affaticarci nella ricerca di ciò che sarebbe per il meglio. Lo Spirito Santo, col dono del consiglio, strappa l’uomo a tutti questi inconvenienti. Corregge la natura così spesso eccessiva, quando non è apatica. Mantiene l’anima attenta a ciò che é vero, a ciò che è buono, a ciò che le è veramente vantaggioso. Le insinua questa virtù, che è il complemento ed il nutrimento necessario per far sviluppare tutte le altre; intendiamo dire la discrezione, di cui ha il segreto, per mezzo della quale le virtù si conservano, si armonizzano e non degenerano in difetti. Sotto la direzione del dono del consiglio il cristiano non ha nulla da temere; lo Spirito Santo prende su di sé la responsabilità di tutto. Che importa, dunque, che il mondo condanni o critichi, che si stupisca o si scandalizzi? Il mondo si crede saggio; ma non ha il dono del consiglio. Per questo accade spesso che le risoluzioni prese sotto la sua ispirazione portano ad un fine ben diverso da quello che si era proposto. E doveva essere così; poiché è adesso che il Signore ha detto: « non quali i miei pensieri sono i pensieri vostri, né quale la vostra condotta è la mia » (Is. LV. 8).Domandiamo, dunque, con tutto l’ardore del nostro desiderio, il dono divino che ci preserverà dal pericolo di guidarci da noi stessi. Ma comprendiamo pure che questo dono non abita che in coloro che lo stimano abbastanza, per rinunciare a se medesimi in sua presenza. – Se lo Spirito Santo ci trova staccati dalle idee umane, convinti della nostra fragilità, si degnerà di essere il nostro Consiglio, mentre se ci credessimo savi di fronte ai nostri occhi, ritirerebbe la sua luce e ci lascerebbe a noi stessi. Non vogliamo che ci accada questo, o divino Spirito! Per esperienza sappiamo troppo che non ci è di vantaggio di correre i rischi della prudenza umana, e abdichiamo sinceramente, di fronte a Te, le pretese del nostro spirito, così pronto ad abbagliarsi e a farsi delle illusioni. Conserva e degnati di sviluppare in noi, in piena libertà, questo dono ineffabile che ci hai concesso nel Battesimo: sii per sempre il nostro consiglio: « Facci conoscere le tue vie, e insegnaci i tuoi sentieri. Dirigici nella Verità e ci istruisci; poiché è da te che ci verrà la salvezza, ed è per questo che noi ci attacchiamo alla tua condotta » (Sal. CXVIII). Noi sappiamo che saremo giudicati su tutte le nostre opere e su tutte le nostre intenzioni; ma sappiamo anche che non avremo niente da temere finché saremo fedeli alla tua guida. Staremo, dunque, attenti « ad ascoltare ciò che dice in noi il Signore nostro Dio » (Sal. LXXXIV, 9), lo Spirito del Consiglio, sia che egli ci parli direttamente sia che ci rimandi all’istrumento che avrà scelto per noi. Sii dunque benedetto. Gesù, che ci hai inviato lo Spirito per essere la nostra guida, e benedetto sia questo divino Spirito, che si degna di darci sempre la sua assistenza, e che le nostre resistenze passate non hanno allontanato da noi!

IL DONO DELL’INTELLETTO

Questo sesto dono dello Spirito Santo fa entrare l’anima in una via superiore a quella nella quale si è intrattenuta fin qui. I cinque primi doni tendono tutti all’azione. Il timor di Dio rimette l’uomo al suo posto, umiliandolo; la pietà apre il suo cuore agli affetti divini; la scienza gli fa discernere la via della salvezza dalla via della perdizione; la fortezza lo arma per la lotta; il consiglio lo dirige nei pensieri e nelle opere; egli dunque adesso può agire e proseguire nella sua strada con la speranza di arrivare al termine. Ma la bontà del divino Spirito gli riserva anche altri favori. Ha risolto di farlo godere, fin da questo mondo, di un preludio della felicità che gli riserva nell’altra vita. Sarà il mezzo per rendere sicuro il suo cammino, per animare il suo coraggio, per ricompensare i suoi sforzi. D’ora in avanti gli sarà dunque aperta la via della contemplazione, ed il divino Spirito ve lo introdurrà per mezzo dell’Intelletto. A questa parola di « contemplazione », forse molte persone si agiteranno, persuase, a torto, che l’elemento che significa non potrebbe incontrarsi che nelle rare condizioni di una vita passata nel ritiro e lontana dal commercio degli uomini. É un grave e pericoloso errore, che troppo spesso arresta lo slancio delle anime. La contemplazione è uno stato nel quale viene chiamata, in una certa misura, qualunque anima che cerchi Iddio. Essa non consiste nei fenomeni che lo Spirito Santo si compiace di manifestare in alcune persone privilegiate, e che destina a provare la realtà della vita soprannaturale. Essa è, semplicemente, quella relazione più intima che si stabilisce tra Dio e l’anima che gli è fedele nell’azione; a quest’anima, se non mette ostacoli, sono riservati due favori, di cui il primo è il dono dell’Intelletto, che consiste nell’illuminazione dello spirito rischiarato ormai da una luce superiore. Questa luce non toglie la fede, ma rischiara l’occhio dell’anima, fortificandola, dandole una più estesa visuale delle cose divine. Molte nubi svaniscono, perché provenivano dalla debolezza e dalla grossolanità dell’anima, non ancora iniziata. Si rivela la bellezza, piena d’incanto, di quei misteri che non si sentivano che vagamente; appariscono ineffabili armonie, che non si supponevano neppure esistere. Non è il vedere a faccia a faccia, cosa riservata per il giorno eterno; ma non è già più quel debole barlume che dirigeva i nostri passi. Un insieme di analogie, di convenienze, che successivamente si mostrano all’occhio dello spirito, vi portano una dolce certezza. L’anima si dilata a questo chiarore che arricchisce la fede, accresce la speranza e sviluppa l’amore. Tutto le sembra nuovo; e, quando essa volge indietro lo sguardo, fa il paragone, e vede chiaramente che la verità, sempre la stessa, è adesso da lei afferrata in una maniera incomparabilmente più completa. – La narrazione dei Vangeli l’impressiona assai più; trova un sapore per lei sconosciuto fino allora nelle parole del Salvatore. Comprende assai meglio il fine che si è proposto istituendo i sacramenti. La Sacra Liturgia la commuove con le sue formule così maestose ed i suoi riti così profondi. La lettura della Vita dei Santi l’attira, niente la meraviglia nei loro sentimenti e nei loro atti. Gusta i loro scritti più che tutti gli altri, e sente un accrescimento di benessere spirituale, avvicinando questi amici di Dio. Circondata dei più disparati doveri, la fiaccola divina la guida per adempierli tutti. Le virtù così diverse che deve praticare si conciliano nella sua condotta; l’una non è mai sacrificata all’altra, perché vede l’armonia che deve regnare fra di esse. Vive lontano dallo scrupolo, come dal rilassamento, ed è sempre pronta a riparare i falli che ha potuto commettere. Qualche volta il divino Spirito l’istruisce anche con una parola interiore che la sua anima comprende e che le serve a chiarire la sua situazione con una nuova luce. D’ora in avanti il mondo e i suoi vani errori vengono apprezzati per quel che valgono, e l’anima si purifica dai resti di quell’attaccamento e di quella compiacenza che poteva ancora conservare al riguardo. Ciò che è grande e bello secondo la natura, sembra vile e misero a quest’occhio che lo Spirito Santo ha aperto agli splendori ed alle bellezze divine ed eterne. Un solo lato riscatta ai suoi occhi questo mondo esteriore, che forma l’illusione dell’uomo sensuale: è che la creatura visibile, che porta la traccia della beltà di Dio, è suscettibile di servire alla gloria del suo Autore. L’anima impara ad usarne, unendovi atti di ringraziamento, rendendola soprannaturale, glorificando col Re-Profeta colui che ha lasciato l’impronta dei suoi tratti e della sua bellezza in questa moltitudine di esseri che servono così spesso alla perdita dell’uomo, mentre sono chiamati a divenire la scala che lo dovrebbe condurre a Dio. – Il dono dell’Intelletto diffonde anche nell’anima la conoscenza della propria via. Le fa comprendere quanto sono stati saggi e misericordiosi i disegni superni che, qualche volta, l’hanno spezzata e trasportata là, ove non contava di andare. Ella vede che, se fosse stata padrona di disporre della sua esistenza, avrebbe mancato al suo fine, e che Dio ve l’ha fatta arrivare nascondendole in principio i disegni della sua paterna sapienza. Adesso è felice, poiché gode la pace, ed il suo cuore non sa come ringraziare adeguatamente Iddio che l’ha condotta al termine, senza consultarla. Se capita che sia chiamata a dare consigli, ad esercitare una direzione, per dovere o per motivi caritatevoli, possiamo affidarci a lei; il dono dell’Intelletto l’illumina per gli altri come per se stessa. Non si ingerisce, però, a dare lezioni a coloro che non gliene domandano; ma se viene interrogata, risponde, e le sue risposte sono luminose come la fiaccola che la rischiara. Tale è il dono dell’Intelletto, vera illuminazione dell’anima cristiana, che si fa sentire ad essa in proporzione della fedeltà che ha nel far uso degli altri doni. Questo si conserva con l’umiltà, la moderazione dei desideri ed il raccoglimento interiore. Una condotta dissipata ne arresterebbe lo sviluppo e potrebbe anche soffocarlo. – Quest’anima fedele può conservarsi raccolta pure in una vita occupata e riempita da mille doveri, pure in mezzo a distrazioni obbligatorie, alle quali l’anima si presta senza abbandonarvisi. Che essa sia dunque semplice, che sia piccina ai suoi propri occhi e, quel che Dio nasconde ai superbi e rivela ai piccoli (Lc. X, 21), le sarà manifestato e dimorerà in essa. Nessun dubbio che un tale dono sia un aiuto immenso per la salvezza e la santificazione dell’anima. Noi dobbiamo dunque implorarlo dal divino Spirito con tutto l’ardore del nostro desiderio, essendo ben convinti che lo raggiungeremo più sicuramente con lo slancio del cuore, che non con lo sforzo dello spirito. È vero che la luce divina, che è l’oggetto di questo dono, si diffonde nell’intelligenza; ma la sua effusione proviene soprattutto dalla volontà, riscaldata dal fuoco della carità, secondo la parola di Isaia: « Credete, e voi avrete l’intelligenza » (3). Rivolgiamoci allo Spirito Santo e, servendoci delle parole di Davide, diciamogli: « Apri i nostri occhi, e noi contempleremo le meraviglie dei tuoi precetti; concedici l’intelligenza e avremo la Vita» (Sal. CXVIII). Istruiti dall’Apostolo, esporremo la nostra domanda in modo anche più insistente, facendo nostra la preghiera che egli rivolge al Padre Celeste in favore dei fedeli di Efeso, quando implora per essi lo « Spirito di Sapienza e di rivelazione col quale si conosce Iddio, mentre gli occhi del cuore, illuminati, scoprono l’oggetto della nostra speranza e le ricchezze della gloriosa eredità che Dio s’è preparata nei suoi Santi » (Ef. 1, 17-18).

IL DONO DELLA SAPIENZA

Il secondo favore che lo Spirito Santo ha destinato all’anima che Gli è fedele nell’azione, è il dono della sapienza, superiore anche a quello dell’intelletto. Tuttavia è legato a quest’ultimo, nel senso che l’oggetto mostrato nell’intelletto viene gustato e posseduto nel dono della sapienza. Il Salmista, invitando l’uomo ad avvicinarsi a Dio, gli raccomanda di assaporare il Sommo Bene: « Gustate e vedete come è buono il Signore » (Sal. XXXIII, 9). La Santa Chiesa, nel giorno della Pentecoste, domanda per noi a Dio il favore di gustare il bene, recta sapere, perché l’unione dell’anima con Dio è piuttosto l’esperimento fatto per mezzo del gusto che per mezzo della vista, ciò che sarebbe incompatibile col nostro stato presente. La luce data col dono dell’intelletto non è immediata, rallegra vivamente l’anima e dirige il suo senso verso la verità; ma tende a completarsi col dono della sapienza che ne è il fine. L’intelletto è dunque illuminazione, e la sapienza è unione. Ora, l’unione col Sommo Bene si compie per mezzo della volontà, ossia per l’amore che risiede in essa. Noi rimarchiamo questa progressione nelle gerarchie angeliche. Il Cherubino scintilla d’intelligenza, ma al di sopra di lui vi è ancora il Serafino fiammante. L’amore è ardente nei Cherubini, nello stesso modo che l’intelligenza rischiara con la sua viva luce il Serafino; ma l’uno si differenzia dall’altro per la qualità predominante, ed il più elevato è quello che raggiunge più intimamente la Divinità per mezzo dell’amore, quello che gusta il Sommo Bene. – Il settimo dono è decorato del bel nome di Sapienza, ed esso gli viene dalla Sapienza eterna alla quale tende di assomigliarsi con l’ardore dell’affetto. Questa Sapienza increata, che si degna di lasciarsi gustare dall’uomo in questa valle di lacrime, è il Verbo divino, quello stesso che l’Apostolo chiama « lo splendore della gloria del Padre e la forma della sua sostanza » (Ebr. I, 3). È lui che ci ha mandato lo Spirito per santificarci e ricondurci ad esso, di modo che l’operazione più elevata di questo divino Spirito è di procurare la nostra unione con chi, essendo Dio, si è fatto carne e si è reso per noi obbediente fino alla morte e alla morte di croce (Fil. II, 8). Per mezzo dei misteri compiuti nella sua umanità. Gesù ci ha fatto penetrare fino alla sua Divinità con la fede rischiarata dall’intelletto soprannaturale: « Noi fummo spettatori della sua gloria, gloria quale l’Unigenito ha dal Padre, pieno di grazia e di verità » (Gv. I, 14); e nello stesso modo che si è fatto partecipe della nostra umile natura umana, si dona fin da questo mondo per essere gustato. Lui, Sapienza increata, a questa sapienza creata che lo Spirito Santo forma in noi come il più sublime dei suoi doni. Felice dunque colui nel quale regna questa preziosa sapienza che rivela all’anima il gusto di Dio e di ciò che è di Dio! « L’uomo animale non gusta le cose dello Spirito di Dio », ci dice l’Apostolo (I Cor. II, 14); per godere di questo dono bisogna che divenga spirituale, si presti docilmente al desiderio dello Spirito, e allora vi arriverà, come hanno fatto altri che, dopo aver vissuto schiavi della vita sensuale, sono stati affrancati con la docilità verso lo Spirito divino che li ha cercati e ritrovati. Anche l’uomo meno rozzo, ma abbandonato allo spirito del mondo, è ugualmente impotente a comprendere ciò che forma l’oggetto del dono della sapienza e ciò che rivela quello dell’intelletto. Egli giudica coloro che hanno ricevuto questi doni e li critica; ed è una fortuna se non mette loro degli impedimenti, se non li perseguita! Gesù ce lo dice espressamente: « Il mondo non può ricevere lo Spirito di verità, perché non lo vede, né lo conosce » (Gv. XIV, 17). Che quelli, dunque, che hanno la felicità di desiderare il Sommo Bene, sappiano che è necessario essere completamente staccati dallo spirito profano, che è il nemico personale dello Spirito di Dio. Affrancati dalle sue catene, potranno elevarsi sino alla sapienza. È proprio di questo dono procurare un grande vigore all’anima e di fortificare le sue potenze. Tutta la vita ne viene risanata, come accade a coloro che fanno uso di alimenti adatti. Non vi è più contraddizione tra Dio e l’anima ed è questa la ragione per la quale l’unione si rende facile. « Dove è lo Spirito del Signore, ivi è libertà », dice l’Apostolo (II Cor. III, 17). Sotto l’azione dello Spirito di Sapienza, tutto diviene facile all’anima. Le cose che sembrano dure alla natura, ben lungi dallo stupire, sono rese dolci, ed il cuore non si spaventa più tanto della sofferenza. Non solamente si può dire che Dio non è lontano da un’anima che lo Spirito Santo ha messo in questa disposizione, ma è evidente che gli è unita. Che vegli tuttavia nell’umiltà; poiché l’orgoglio può ancora riaffacciarsi in lei, e allora la caduta sarebbe tanto più profonda quanto più la sua elevatezza era stata grande. – Insistiamo presso il. divino Spirito e preghiamolo di non rifiutarci questa preziosa sapienza che ci condurrà a Gesù, Sapienza infinita. Un savio dell’antica legge aspirava già a questo favore, quando scriveva le seguenti parole, di cui solo il cristiano può avere la perfetta intelligenza: « Ho pregato, e mi fu dato il senno; ho supplicato, e venne a me lo spirito di sapienza » (Sap. VII, 7). Bisogna dunque domandare con insistenza questo dono. Nella nuova Alleanza, l’Apostolo S. Giacomo ci sollecita con le sue esortazioni più fervorose: « Se poi tra voi vi è qualcuno che ha bisogno di sapienza, la chieda a Dio che dà a tutti abbondantemente e non rimprovera; e gli sarà data. Chieda però con fede, senza per nulla esitare» (Giac. 1, 5). Osiamo prendere per noi questo invito dell’Apostolo, o divino Spirito, e ti diciamo: « O Tu che procedi dalla Potenza e dalla Sapienza, concedici la sapienza. Colui che è Sapienza ti ha inviato a noi per riunirci a Lui. Toglici a noi stessi, e ci unisci a Colui che si è unito alla nostra debole natura. Sacro mezzo dell’Unità, sii il vincolo che ci legherà per sempre a Gesù, e Colui che è Potenza e Padre ci adotterà quali ” eredi di Dio, coeredi di Cristo ” » (Rom. VIII, 17).

 

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -VIII- di mons. J. J. Gaume [capp. XXVII-XXIX]

CAPITOLO XXVII.

L’AMERICA DEL NORD. — HAITI. — IL MESSICO.

I.

Fin qui abbiamo dimostrata l’esistenza del sacrificio umano, nelle tre parti conosciute del mondo antico: l’Asia, l’Europa e l’Africa. Il fatto è universale e permanente. Non è dunque un affare di razza, di clima, di longitudine, di latitudine, d’una barbarie più o meno grossa o d’una civiltà più o meno progredita; è un affare di culto universale e permanente. II sacrificio umano ha dunque una causa universale e permanente. Questa causa non è nei lumi della ragione, né nelle tendenze della natura, né nella volontà di Dio. A meno che non si voglia rimanere a bocca aperta dinanzi a questo fatto spietato, non può altrimenti spiegarsi che per la parte che vi prese universalmente e permanentemente il grande omicida. Un altro fatto, non meno universale e non meno permanente, è la cessazione del sacrificio umano ovunque il Cristianesimo è predicato ed abbracciato.

II.

Poiché il mondo moderno s’è arricchito d’un nuovo continente, rimane a visitare, per completar la dimostrazione, questa nuova terra, che America s’appella. Per andarvi, attraversiamo il mare delle Antille, ed arrestiamoci alla grande isola d’Haiti, dove è avvenuto di recente un fatto che ha ottenuto una pubblicità giudiziaria. Nel mese di dicembre 1803, a Bizoton, alle porte della capitale d’Haiti, un tal Congo Pelle ricevette dal dio Vandoux [Il dio serpente adorato da Vandoux] l’ordine di fargli un sacrificio umano; era a questo prezzo che la fortuna visitar doveva la povera sua dimora. D’accordo colla sua sorella, Giovanna Pelle, risolse d’immolare al serpente la sua propria nipote, Chiarina di otto anni.

III.

La fanciulla fu condotta il 27 dicembre presso un tal Giuliano Nicolas, il quale, secondato da altri adepti, Floréal, Guerrier, e dalla donna Byard, le legò le braccia e le gambe. Chiarina fu allora trasportata nella casa di Floréal e posta in un luogo misterioso, che nel linguaggio degl’iniziati era detto Humfort. Vi rimase per quattro giorni, e il mercoledì, 30 dicembre, alle dieci di sera, la vittima fu di nuovo condotta presso Congo Pelle. L’ora del sacrificio era suonata.

IV.

Giovanna Pelle afferrata pel collo la sua nipotina, la strangolò, mentre che Floréal le comprimeva i fianchi e Guerrier le teneva stretti i piedi. Disteso per terra il cadavere, Florèal ne tronca con un coltello la testa, e lo scortica. Appena terminata questa operazione, Giovanna Pelle, Florèal, Guerrier, Congo, Nerina moglie di Florèal, Giuliano Nicolas, e le donne Roseide e Beyarv si precipitano sulla vittima, divorano le sue carni palpitanti, e ne bevono il sangue ancor caldo.

V.

Dopo quest’ orribile banchetto, i cannibali si recano in casa Floréal con la testa della povera Chiarina, la fanno bollire cogl’ignami e ne mangiano le parli carnose. Il cranio cosi spogliato è posto sopra un altare. Giovanna suona una campanella, e gli adepti eseguono una danza religiosa, girando attorno l’altare e cantando una canzone sacra, che probabilmente non era altro che il famoso inno: Eh! eh! bomba! ben! ben! Conga Bafio sé! Cinga manne de li, Cinga de ki la. Conga li!

VI.

Terminata che fu la cerimonia, la pelle e le viscere di Chiarina furono sotterrate presso la casa di Florèal. Si era già raccolto nei vasi il sangue che restava della vittima, il quale doveva essere preziosamente conservato. Quanto alle ossa, furono ridotte in polvere, perché la cenere doveva essere egualmente conservata. – L’ opera santa era compiuta, e gli adoratori del serpente si separarono scambiandosi lo a rivederci per il 6 di gennaio, giorno dei re, in cui dovevano fare un nuovo sacrificio. La vittima, celata in casa Florèal, non attendeva che il coltello sacro. La era una giovane figlia, chiamata Losanna, che Nereina avea involata sulla strada di Leogane. Avventuratamente ne fu dato parte alla giustizia; e gli antropofagi condannati a morte dal giurì, sono stati impiccati il 6 febbraio 1864. [Monitenr haitien. 13 marzo 1864].

VII.

Rimbarchiamoci ora, e navighiamo verso il Messico, per vedere quel che esso era avanti la predicazione del Clericalismo. Sul suolo messicano s’immolavano un gran numero di teocallis, o case degli dèi. Cotali Teo-callis avevano tutti la medesima forma, benché con dimensioni diversissime. Erano molti filari di piramidi, che si levavano a una grande altezza, nel mezzo d’un vasto ricinto quadrato, ed attorniato da un muro. Questo ricinto conteneva giardini, fontane, le abitazioni dei sacerdoti, e qualche volta anche magazzini d’armi.

VIII.

Sulla sommità d’una piramide troncata, a cui ascendevasi per una grande scala, si trovavano una o due cappelle in forma di torre, che rinchiudevano gl’idoli colossali della divinità, alla quale il Teocalli era dedicato. Era là finalmente che i sacerdoti mantenevano il fuoco sacro. Per effetto di questa disposizione dell’edificio, il sacrifìcio poteva essere veduto da una gran moltitudine di popolo.

IX.

Or sulla sommità di dette piramidi aveva luogo l’immolazione delle vittime umane. Da tempo immemorabile, gli Aztechi rendevano questo culto sanguinario, sopratutto al dio della guerra, chiamato lo Spavento. Era rappresentato con un dardo nella mano destra, uno scudo nella mano sinistra, colla testa coperta d’un elmo ornato di foglie verdi. L’altipiano centrale del Messico fu il primo teatro sul quale gli Aztechi cominciarono ad immolar gli uomini. Le loro guerre continue fornivano un sì gran numero di vittime, che i sacrifici umani furono offerti senza eccezione a tutte le loro divinità. Gli Aztechi non si contentarono di tingere di sangue i loro giganteschi idoli, essi divoravano una parte del cadavere, che i sacerdoti, dopo averne strappato il cuore, gettavano ai piedi della scala del Teocalli.

X.

Tale orrenda carneficina sorpassa tutte le proporzioni conosciute. Nel 1447, meno d’un secolo avanti la conquista spagnola, ebbe luogo, al Messico, la dedicazione d’un Teocalli o tempio in onore del dio della guerra, per opera di Ahuitzoll, re del Messico. Mai in alcun paese così spaventevole strage erasi compiuta per onorare il grande omicida. Gli storici indigeni, che non possono per questa parte esser accusati né d’ignoranza né di parzialità, portano a ottantamila il numero delle vittime umane immolate in questa festa, di cui danno la descrizione seguente.

XI.

Il re ed i sacrificatori montarono sul terrazzo del tempio. Il monarca messicano si colloca accanto la pietra dei sacrificio, su di una sedia ornata di pitture orribili. Al segno, dato da una musica infernale, gli schiavi incominciarono a salire i gradini del Teocalli, coperti d’abiti festivi e la testa ornata di piume.

XII.

A misura che arrivavano alla sommità, quattro ministri del tempio, con le facce tinte in nero e le mani in rosso, afferravano la vittima, e la stendevano supina sopra la pietra collocata a pie del trono reale. Il re si prostrava voltandosi successivamente verso i quattro punti cardinali [Parodia del segno della Croce]; quindi le apriva il petto da cui strappava il cuore, che mostrava palpitante verso i medesimi punti, e lo rimetteva in seguito ai sacrificatori. Questi andavano a gettarlo nel quanhaicalli, specie di truogolo profondo, destinato a tal uso sanguinoso. Compievano la cerimonia spargendo ai quattro punti cardinali il sangue che restava loro nelle mani.

XIII.

Dopo avere immolato cosi una moltitudine di vittime, il re stanco presentò il coltello al gran sacerdote, il quale lo porse a un altro, e cosi di seguito lino a che le loro forze fossero spossate. Raccontano che il sangue colava lungo i gradini del tempio, come l’acqua durante gli acquazzoni procellosi dell’inverno; e si sarebbe detto che i ministri fossero rivestiti di scarlatto.

XIV.

Questa spaventevole ecatombe durò quattro giorni, aveva luogo alla medesima ora e con lo stesso cerimoniale, nei principali templi della città; e i più grandi personaggi della corte vi compivano, in un coi sacerdoti, le funzioni stesse che Ahuitzotl al santuario del dio della guerra. I re tributari e i grandi, che avevano assistito ai sacrifici, vollero imitarlo nella dedicazione di alcuni templi. Il sangue umano non fu risparmiato: un autore messicano, Ixtlilxochitl, porta a più di centomila il numero delle vittime che s’immolarono in quell’anno.

XV.

Il fiume di sangue umano che in certe circostanze diventava un gran lago, non cessava mai di scorrere. A somiglianza de’ Greci, dei Romani, dei Galli, e degli altri popoli dell’antichità, i Messicani avevano pur essi le loro Targelie. In mezzo ad una fitta foresta, si trovava il sotterraneo consacrato a Pétéla, principe dei tempi antichi. Sotto quelle cupe volte, il viaggiatore contempla con stupore la bocca spalancata d’un abisso senza fondo, dove si precipitano mugghiando le acque d’una riviera. Quivi appunto nei momenti di prova, erano condotti con pompa coloro che erano fatti schiavi o prigionieri a tal fine. Ricoperti di fiori e di ricchi vestimenti, erano precipitati nell’ abisso in mezzo a nuvole d’incenso offerto all’idolo.

XVI.

Tutti i mesi dell’ anno venivano contrassegnati con sacrifici umani. Quello che corrisponde al nostro mese di febbraio, era consacrato ai Genii delle acque. Si compravano, per sacrificarli ad essi, dei fanciullini, che i padri offrivano sovente da se stessi, per ottenere nella prossima stagione l’umidità necessaria alla fecondazione della terra. Questi fanciullini erano portati in cima delle montagne, e là immolati; ma se ne riservavano sempre alcuni, per sacrificarli al cominciar delle piogge. Il sacerdote apriva loro il petto, e ne strappava il cuore, che era offerto in propiziazione alla divinità, e i corpicciuoli venian quindi apprestati in un banchetto da cannibali, ai sacerdoti ed alla nobiltà.

XVII.

Un altro mese era appellato lo Scorticamento umano. Il suo patrono era Aipé, il calvo o lo scorticato, altrimenti detto Totec, morto giovane e di morte infelice. Contraffazione diabolica di Nostro Signore, tanto più che questa divinità ispirava a tutti estremo orrore. Gli si attribuiva il potere di mandare agli uomini le malattie più gravi e schifose [Altro mezzo infernale di far detestare il Crocifisso]. Onde gli si offrivano ancora giornalmente sacrifìci umani!

XVIII.

Le vittime condotte ai suoi altari eran sollevate pei capelli, sino al terrazzo superiore del Teocalli. Cosi sospese, i sacerdoti le scorticavano vive, si rivestivano della loro pelle sanguinante e se n’andavano per la città accattando ad onore del dio. Quei che presentavano queste vittime erano tenuti a digiunare venti giorni anticipatamente, dopo di che si dividevano la carne delle medesime [Histoire des nations civìlisees du Mexique, t. Ili, p. 341, 503, ecc., dell’abate di Bourburg. — M. di Bourboug ha passato più di trenta anni in America, occupato alla ricerca delle antichità messicane. È senza dubbio l’uomo che meglio conosce il Messico. È stato anche posto alla testa della spedizione scientifica mandata in questo paese negli ultimi tempi dell’impero di Napoleone III. Vedi anche de Humboldt, Tue des Cordillères, t. II, p. 250, e t. I, p. 267, ecc.]. – Ecco quel che facevasi nel Messico avanti la predicazione del Clericalismo! Ed oggi vogliono sterminarlo, e dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

CAPITOLO XXVIII.

L’AMERICA DEL NORD

(Contiuuazione. )

I.

Al racconto delle crudeltà messicane che siam venuti tracciando, al quadro di quelle onde saremo testimoni in tutte le parti del nuovo mondo, una riflessione sorge naturalmente nel nostro animo. Molto si sono biasimate le crudeltà commesse dagli Spagnoli contro le popolazioni americane. Siamo lontani dall’approvarle; ma si può dire che esse furono un giusto castigo delle loro iniquità. Gli spagnoli trattarono questi popoli assetati di sangue e coperti di delitti secolari, come fecero gli Ebrei a riguardo dei popoli di Chanaan. Dio, dice un proverbio, non paga sempre il sabato!

II.

Continuiamo la nostra visita nell’America del Nord. Eccoci nell’Honduras, importante contrada conquistata da Ferdinando Cortez. Timidi schiavi del grande omicida, gl’idolatri di questo paese gareggiavano in barbarie coi Messicani, se pur non li superavano. Tre Dei principali, vale a dire tre demoni, erano l’oggetto del loro culto. Avevano loro innalzato tre grandi templi.

III.

Ogni anno, in giorni designati, venivano essi in gran pompa a sacrificarvi i loro padri e i loro figliuoli: ogni tempio era servito da un sacerdote, che presiedeva a questi empi sacrificii, e dava i responsi degl’idoli. Questo sacerdote si chiamava papa, come se il demonio avesse voluto usurpare pei suoi ministri il titolo che i cristiani danno al loro capo [Wadding, ar. 1527, n. 13].

IV.

Giunse finalmente per questo popolo l’ora della misericordia. I figli di san Francesco penetrarono coraggiosamente in questo paese, abbatterono i templi, e spezzarono gl’idoli. Non ha guari scosso il giogo dello spirito delle tenebre, gli stessi sacerdoti vedendo la debolezza dei loro dèi, abbracciarono la fede cristiana; e il sacrificio divino rimpiazzò il sacrificio umano.

V.

Verso il medesimo tempo, nel 1528, un figlio di san Domenico, Bernardino da Minaya, non meno zelante e non meno coraggioso dei figliuoli di san Francesco, si portò a Tepeaca, città situata non lungi da Messico. Già il culto esteriore degl’idoli eravi stato abolito dagli Spagnoli. Ma gli abitanti nascondevano attentamente i loro idoli per onorarli in segreto. Il missionario, saputo ciò, comandò a due giovani Indiani cattolici, di frugare per le case e di rompere gl’idoli. Eglino obbedirono, ma costò loro la vita.

VI.

Non era né per devozione e fede che questi poveri idolatri adoravano i loro dèi, e loro offrivano in sacrificio quanto avevano di più caro; ma unicamente per paura. Un religioso, testimone oculare, s’esprime cosi: « Essi non agiscono mai per un principio di virtù, ma per paura; Non fanno il crudele sacrificio dei loro figliuoli, per amore che portino ai loro falsi dèi, ma per la paura che hanno di riceverne del male. – « Questi falsi dèi sono tanti e sì diversi che neppur essi, gl’idolatri, ne sanno il numero; ne assegnano uno a ciascuna cosa, al fuoco, all’ aria, alla terra, agli uomini, alle donne, ai fanciulli, e pressoché ad ogni creatura [Alterazione diabolica della credenza negli angeli]. D’ordinario danno loro nomi di serpenti A chi sacrificano il cuor degli uomini, a chi il sangue, a chi offrono incenso, carta e diverse altre cose, secondo che dagli idoli stessi vien loro ordinato.

VII.

« Né oserebbero farne a meno, per timore che questi dèi sanguinari e carnivori non avessero ad ucciderli subito e divorarli. Così, per evitare la morte, onde credonsi minacciati, lor fanno a gara il sacrificio di ciò che hanno di più caro. Quest’idoli sono serviti da alcuni sacerdoti, i quali son riveriti come santi, e non si nutrono che della carne e del sangue che immolano» [Hist. gèn. des miss. cath., t. I parte 2 p. 402]. Sacrifici umani e antropofagia sotto tutte le forme, ecco quel che avveniva a Tepeaca e nei dintorni, avanti la predicazione del Clericalismo! E oggi vogliono sterminarlo! e dicono, che tutte le religioni sono egualmente buone!

VIII.

A conferma del racconto che si è letto, il venerabile vescovo di Messico, Giovanni di Quinarraga, scriveva il 12 giugno 1531 al capitolo generale de’ Francescani dell’Osservanza, riunito a Tolosa: « Miei reverendissimi Padri, noi lavoriamo con assiduità alla conversione degl’Indiani, e la grazia di Dio dà un felice successo alle nostre fatiche. I nostri religiosi hanno già battezzato più d’un milione di questi infedeli, demolito cinquecento loro templi, e fatto bruciare più di ventimila idoli. Abbiamo fatto fabbricare delle chiese e delle cappelle in più luoghi, dove la santa Croce è adorata. »

IX.

« La cosa più degna d’ammirazione si è che, in questa città dove non ha molto, era il costume di sacrificar tutti gli anni più di venti mila cuori di giovanetti o di giovanette, i religiosi hanno sì felicemente modificato queste crudeli e sacrileghe immolazioni, che tutti i cuori umani non sono più offerti oggi che al vero Dio, e solamente per sacrifìci di lode. È così che la divina Maestà vien servita con amore dai suoi figli senza che siano essi obbligati di pagarle il tributo inumano che il demonio esige da loro. »

X.

Ecco quel che avveniva in questa grande città di Messico, avanti la predicazione del Clericalismo. Ascoltiamo ciò che accadeva dopo. Il medesimo vescovo continua: « Questi piccoli innocenti, giovani garzoni e giovani zitelle, liberate dal timore d’essere immolate al demonio, digiunano spessissimo, sono assidui alla preghiera accompagnata dalle loro lacrime. Si confessano spesso, ricevono la santa Comunione con gran fervore, e spiegano esattissimamente ai loro genitori le istruzioni apprese. Si alzano a mezzanotte per dire l’officio della santa Vergine, per la quale hanno una devozione particolare.

XI.

« Ricercano con non poca diligenza gl’idoli nascosti, e li portano ai religiosi. Parecchi han guadagnato la corona del martirio per questo atto di zelo; e sono stati i loro proprii genitori che li han fatti crudelissimamente perire. Questi fanciulli sono assai umili, modesti, casti, ingegnosi, specialmente nella pittura, ed amano i loro padroni, come i loro proprii padri» [Waduing, anno 1531. n. 1]. E oggi vogliono sterminare il Clericalismo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

CAPITOLO XXIX

L’AMERICA DEL NORD

(Continuazione);

I.

Non lungi dalla diocesi messicana di Chiapa, che ebbe la fortuna d’avere a vescovo l’illustre Bartolomeo di Las Casas, si trovava il paese di Puchutta, dove il sacrificio umano era in uso come in tutte le contrade circonvicine. Gli abitanti, tanto superstiziosi quanto guerrieri, vedevano con pena i loro vicini dell’antica Terra di guerra, rinunziare al culto degl’idoli per abbracciare il Cristianesimo. Si credettero obbligati di vendicare i loro dèi sterminando coloro che rifiutavano di tributare ad essi la fede e i sacrifici dovuti.

II.

Quindi si riunirono nel 1555, formarono un’armata numerosa, e invasero la Terra di guerra, risoluti di non risparmiare né Spagnoli né indigeni, se non acconsentivano ad adorare gl’idoli. Poiché non erano quelli in stato di resistere, essi s’avanzarono fino alla provincia di Chiapa, bruciando per ogni dove le Chiese dei cristiani, spezzando le immagini, rovesciando le croci e sacrificando i fanciulli al sole o ai loro idoli, sugli stessi altari dove l’Agnello divino s’offriva al Padre suo [Fontana, Monumenta Dominikana, e Touron, Hist. gen. de l’Amerlque, t. VI, p. 120]. Cosi dappertutto il sangue umano, e sempre il sangue più puro, offerto al demonio. Ecco, non bisogna lasciare di ripeterlo, quel che si vede in tutte le parti del mondo avanti la predicazione del clericalismo! Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

III.

Entriamo ora nella Florida. Questa bella provincia dell’America del Nord deve il suo nome europeo al giorno in cui essa fu scoperta dagli Spagnoli. Questo giorno fu la domenica delle Palme, appellata Pasqua de fiori. Sembrava che il sole fosse la sola divinità degl’indigeni. Tutti i templi erano ad esso consacrati. Il modo di sacrificio più comune consisteva in gettare nel fuoco l’oblazione o la parte della vittima offerta al sole, dopo avergliela presentata con una allocuzione in forma di preghiera. Gli abitanti della Florida riguardavano i loro capi come figli del sole. In questa qualità, rendevano loro gli onori divini, e loro facevano il sacrificio dei primogeniti. I francesi, succeduti agli Spagnoli, furono anch’essi spettatori di questa triste cerimonia. E ciò avvenne nel 1569. Un testimone oculare la descrive in tali termini:

IV.

« L’è una costumanza di quei popoli offrire al re i primogeniti in sacrificio. Scelto il giorno di questa offerta, ed accettato dal principe, questi portasi nella piazza dove si deve fare tale solennità. Quivi è preparato a lui uno scanno per trono. Nel mezzo della piazza si pone un ceppo di due piedi di diametro e della medesima altezza. Dinanzi a questo ceppo recasi la madre del fanciullo, che dev’essere immolato, e siede in terra, nascondendo la faccia fra le ginocchia, e deplorando la sorte di quella vittima infelice.

V.

« Una donna, delle più considerevoli fra i parenti o fra le amiche di questa madre infelice, prende il fanciullo e lo presenta al re. Tutte le altre donne incominciano allora una ridda, nel mezzo della quale danza ancor quella che tiene in braccio il fanciullo, cantando qualche canzone in onore del principe. -« Durante questa danza religiosa, sei scelti Indiani stanno a un canto della piazza, avendo in mezzo a loro il sacrificatore, armato d’una mazza e magnificamente ornato. Terminata la danza e le altre armonie, che sono in uso in tal sorta di circostanze, egli prende il fanciullo, lo pone sul ceppo, e lo ammazza » [Relazione di Iacopo di Moyne, incaricato a disegnare le coste della Florida, nell’ Hist. gen. Des Miss.,, t. I. pari. 2 p. 539].

VI.

Gli abitanti della Florida non si contentavano d’immolare i loro fanciulli al demonio. In tempo di guerra, dopo avere uccisi i loro nemici, strappavano loro dalla testa la pelle con tutti i capelli. Nelle feste che seguivano la vittoria, erano le donne d’età avanzata quelle che, abbellite di queste capigliature, guidavano i crocchi dei ballerini e delle ballerine. Si contentavano di ridurre in ischiavitù le femmine ed i fanciulli presi alla guerra; ma gli uomini erano immolati al sole, e riguardavasi come dovere di religione mangiar la carne di queste vittime. – Ecco quel che accadeva nella Florida avanti la predicazione del Clericalismo! Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

 

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -VII- di mons. J. J. Gaume [capp. XXIII-XXVI]

CAPITOLO XXIII

AFRICA OCCIDENTALE.

I.

Dalle isole del Capo Verde sino al Congo, le coste occidentali d’Africa su d’una larghezza di venti a quaranta leghe, e forse più, rosseggiano continuamente di sangue umano; e ciò da’ secoli i più remoti. Allorché alla fine del decimoquinto secolo, verso il 1481, gli Europei approdarono alle coste occidentali d’Africa, trovarono il regno di Benin in pieno potere dei sacerdoti de fetisci. Questi sacerdoti, oracoli della nazione, vantavano familiari rapporti col demonio, e l’arte di penetrare nell’avvenire, per mezzo d’un vaso che portava tre fori, onde traevano un certo suono. Erano consultati dai negri in tutti gli affari di Religione, e tutto si faceva secondo i loro consigli.

II.

Regolatori del culto, essi avevano stabiliti molti giorni consacrati al servizio degli dèi. Il giorno di riposo aveva luogo ogni cinque giorni. Veniva celebrato con offerte e con sacrificio I grandi immolavano vacche, montoni e capre, in quella che il popolo contentavasi di sacrificar cani, gatti e polli. – Nella festa anniversaria, celebrata ad onore dell’ultimo re defunto, si sacrificavano non solo un gran numero d’animali, ma molte vittime umane; ed erano d’ordinario rei condannati a morte, riservati per questa solennità, giusta il consueto in numero di venticinque.

III.

Quando non arrivassero a questo numero, gli officiali del re dovevano percorrere le vie di Benin, durante la notte, e portar via indistintamente chiunque avessero incontrato senza lume. Era permesso ai ricchi di riscattarsi, ma i poveri erano immolati senza pietà. Gli schiavi d’un grande potevano essere riscattati dal loro padrone, purché apprestasse altre vittime. [Walkenarer, Hist. gen. dos. Voy., t 4, p. 91].  

IV.

Dopo la scoperta degli Europei, il regno di Bènin non ha punto rimesso della sua ferocia. Come uno de’più potenti Stati della Nigrizia marittima, estendesi da Lago sino a Bonny, e conta tra i suoi vassalli i regni d’Avissia, di Kosia, e la repubblica di Bonny. Anche oggidì i suoi abitanti feroci e guerrieri, immolano vittime umane, vendono quel che non uccidono, e riguardano il loro re siccome un dio, che vive senza nutrirsi. Un pozzo profondo serve di sepoltura a questo capo, e precipitano sopra il suo corpo una folla di persone, specialmente i favoriti da lui. Nel 1648 il loro numero giunse alcune volte fino a trecento.

V.

La repubblica di Bonny si distingue per un’atrocità tutta propria. Ogni anno in una certa stagione, gettasi all’imboccatura del Niger, fiume del paese, una gran quantità di carne, per attirare i pesci. Si prende in seguito una fanciulla di sei a sette anni, e si pone in una piccola piroga ornata di foglie. La calano all’imboccatura del fiume, tra mille grida selvaggie e al suono del tam-tam. Giunta al luogo indicato, fan capovolgere la piroga, e cosi la povera fanciulla cade in mezzo ai pesci, che ne fan loro pasto. Il sacrificio di quest’innocente vittima si fa al genio del fiume, collo scopo d’attirarvi i commercianti. Questa ributtante crudeltà non fa più meraviglia, quando si sa che un grosso serpente appellato nel Gabon, Guelè-Toppia, è il dio degli abitanti. Ecco quel che accade tuttavia nel regno di Benin, che ancora non ha ricevuta la predicazione del Clericalismo. E oggidì vogliono sterminare il Clericalismo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone! [Lettera del R, P. Deforme, miss, al Gabon, 7 sett. 1876].

VI.

Costeggiando verso il sud, la parte occidentale d’Africa, arriviamo al Congo. Nel quindicesimo secolo l’antica idolatria vi regnava con pieno potere, e senza misura esigeva dai poveri negri il doppio tributo del corpo e dell’anima. Scoperto nel 1487 dal capitano portoghese Diego Cans, questo paese vide giungere, due anni dopo, i primi missionari cattolici. Allorché gli apostoli della buona novella posero il piede su questa sventurata terra furono testimoni de’ seguenti barbari riti.

VII.

Il negro che voleva offrire un sacrificio a qualunque delle numerose divinità, di cui é pieno il paese, ne dava avviso al ministro dell’idolo. Questi non perdeva l’occasione di esagerar l’importanza del servigio domandato, e di esortare il negro a non mostrarsi avaro nelle oblazioni prescritte. Minacciavate della collera dell’idolo, che saprebbe prender vendetta della sua avarizia. – Il negro, rientrato nella sua casa, faceva venire i migliori musici della contrada, affin di pubblicar l’ora in cui avrebbe luogo la cerimonia. Nel giorno stabilito ritornava, accompagnato dai suoi parenti e dai suoi amici, alla casa del sacerdote, e lo supplicava di voler intervenire qual suo mediatore appresso l’idolo.

VIII.

Questi seduto in circolo coi suoi colleghi, si levava all’avvicinarsi del negro, correva alla porta, esaminava la presentata mercede; e se la trovava maggiore della convenuta, atteggiandosi a gravità diceva al negro, che acconsentiva rendergli un tal servigio. Seguito da’ suoi colleghi, portavasi all’abitazione dell’idolo, dove entrava battendo le mani, in segno di gioia. Diceva ad alta voce il nome e il grado di colui che offriva il sacrificio, il numero ed il valore delle oblazioni; quindi deponendole sull’altare con aria di profondo rispetto, pregava l’idolo di conservare in pace ed in salute quegli, che, offrendo il sacrificio, nulla risparmiava per onorarlo.

IX.

Fatta questa preghiera, ecco scoppiare col più terribile fracasso la musica dei barbari concertisti, miscuglio di grida e di suono che si riproducevano di lontano. Questo violento esercizio non si sarebbe potuto continuar lungo tempo dai musici, se il negro non avesse loro dato da bere; ma prodigava ad essi i liquori più forti del paese, e li riscaldava talmente che il frastuono andava crescendo sino a che il sacerdote non lo facesse cessare.

X.

Dopo tre ore di questo orribile strepito, si recavano alla casa del negro, attorno alla quale i canti, la musica e la danza duravano tre giorni e tre notti. Il quarto giorno, che era propriamente quello del sacrificio, tutto il rumoroso corteggio andava di nuovo all’abitazione dell’idolo. Vi si conducevano gli uomini e le bestie che dovevano essere immolati. Il sacerdote li presentava al nume, e li scannava. Il numero delle vittime umane era proporzionato alla qualità dell’idolo, la cui figura era subito imbrattata del sangue fumante, che tutti si davano premura di bere. Quando il sangue delle vittime infelici cessava di scorrere; si tagliavano in pezzi i corpi; si mettevano in sul fuoco; e senza aspettar nemmeno che fossero cotti, gli assistenti vi si gettavano sopra e li divoravano avidamente. Quelli che erano tanto insensati da far tali dispendiosi sacrifici, d’ordinario impoverivano totalmente, altro loro non rimanendo che il vano onore d’essere impoveriti per cotal festa abominevole. [Relazione storica dell’Etiopia occidentale, del P. Labat, t. I, p. 312]. Ecco quel che accadeva nel Congo, prima della predicazione del Clericalismo. Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

CAPITOLO XXIV

AFRICA OCCIDENTALE (Continuazione.)

I.

Non men tristo era lo stato dei vicini regni di Cacongo e d’Angoy. Alle superstizioni più crudeli e ridicole aggiungevasi il sacrificio umano. I negri di questo paese credevano che l’uomo lasciasse, morendo, una vita miserabile, per entrare in un’altra piena di felicità; e si tenevano a questa credenza per affrettar la morte ai malati. Si vede qui la gran malignità del demonio, che travolge a barbari atti il domma più consolante del Cristianesimo.

II.

Laonde i parenti d’un negro agonizzante gli tiravano con tutta forza il naso e le orecchie; gli davano pugni nel viso, gli agitavano con violenza le braccia e le gambe, e gli chiudevano la bocca per più presto soffocarlo. Altri il prendevano per i piedi e per la testa; e dopo averlo alzato in alto il più possibile, lo lasciavano di botto cadere; altri ancora ponevano le ginocchia sul suo petto e lo premevano tanto da schiacciarlo. Facevano questo, dicevano, per compassione, per togliere all’agonizzante i dolori d’una lunga lotta e liberarlo senza indugio dalle pene della vita terrestre. [Ecco da dove prende origine la nobile e civile EUTANASIA! –ndr.-.]

III.

Morto che era il malato, i suoi schiavi, i suoi parenti e i suoi amici si radevano affatto la testa in segno di duolo, e ungendosela ben bene di olio, si ricoprivano di polvere di differenti colori, mista a piume e foglie secche triturate. I funerali cominciavano col sacrificio di qualche pollo, del cui sangue si spruzzava la casa di dentro e di fuori. Poscia si gettava lo scheletro sul letto, ad impedire che l’anima del morto non facesse il Zumbi, ossia non tornasse ad impaurire gli abitanti con apparizioni; imperocché credevano che chiunque vedesse l’anima d’un morto, cadrebbe morto anch’egli all’istante.

IV.

Dopo la cerimonia dei polli, si continuavano i lamenti sul cadavere. Allorché si era pianto e gridato per qualche tempo, si passava ad un tratto dalla tristezza alla gioia, banchettando a spese de’ più prossimi parenti del defunto. Il banchetto finiva con la danza, terminata la quale, si procedeva alla sepoltura.

V.

Il cammino doveva farsi in linea retta, e se si incontrava qualche muro, ed anche qualche casa per via, non s’esitava punto di abbatterla. L’uso ordinario (bell’uso veramente!) era di seppellir nella medesima tomba, per servizio del morto, qualche persona viva con una provvisione di viveri e di liquori. Questo accadeva nei regni di Cacongo e di Angoy prima della predicazione del Clericalismo. Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

VI.

Veniamo ad un’altra parte considerevole dell’Africa: la Guinea o le due Guinee. Questo vasto paese è compreso fra la colonia inglese di Sierra-Leone al Nord, ed il capo Lopez al sud. Gli spagnoli e i portoghesi lo scoprirono successivamente negli anni 1446 e 1484. Siccome tutte le altre parti della costa, essi trovaron questo paese sotto la dominazione sanguinaria ed assoluta del demonio. Intanto l’ora della misericordia giunse per questo povero popolo, che i figli del venerabile Padre Libermann continuano anche ai nostri giorni ad evangelizzare con eroico sacrificio.

VII.

Nel 4605, il celebre missonario gesuita Balthazar Barreira, sbarcò sulla costa di Guinea. Erasi imbarcato a Lisbona con molti de’ suoi fratelli. Tutti arrivarono felicemente all’isola di Sant-Iago, la principale dell’Arcipelago del Capo Verde. Era questa come il deposito generale degl’infelici schiavi negri, i quali v’eran condotti dall’interno della Guinea, per esser esportati lontano. Il primo benefico atto dei mis-sionari fu d’aprire gli occhi a questi poveri negri sui prestigi dei loro indovini, che sotto colore di rendere la sanità ai malati, nuocevano egualmente ai loro corpi ed alle loro anime.

VIII.

Un altro male non men deplorabile, si è che gli appaltatori, impazienti di guadagno, facevan battezzare frettolosamente gli schiavi, talvolta a truppe di seicento uomini, affin di trasportarli al più presto in differenti contrade del mondo. I Padri ottennero la libertà per un gran numero di questi sventurati, che venivano con violenza strappati dalla patria e dalla famiglia. Per tutti essi ottennero la dilazione che richiedeva l’insegnamento della religione, che si faceva abbracciare loro.

IX.

Avanzandosi nell’interno delle terre, il Padre Barreira arrivò a Quinola, il 7 gennaio 1605; ma non potè abboccarsi col vecchio re di Bissan che avevagli date speranze di conversione. Solamente ottenne dal ministro protezione pel Cristianesimo, e la promessa di non macchiar di sangue umano i funerali del re; imperocché era uso di quel popolo di scannare sulla tomba del loro principe le sue donne, i suoi principali servitori, e il suo cavallo di battaglia, affinché, nell’altro mondo, potesse presentarsi con un corteggio reale. [Du Iarric, Storia delle cose più memorabili, t. III, p. 377]. – Nel 1607, il generale dei gesuiti spedì molti ausiliari al Padre Barreira, fra gli altri il Padre Emmanuele Alvarez. Questo coraggioso missionario s’internò nelle terre, e sua prima cura fu di raddolcire i costumi degli abitanti. Ottenne la soppressione dei sacrifici umani, accompagnati da circostanze atroci, con le quali i negri pretendevano onorare i loro principi defunti. Il re di Quinola abolì questa barbara usanza, e domandò il battesimo. Ecco quel che accadeva nella Guinea prima della predicazione del Clericalismo! Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone! [Du Iarric. Storia delle cose più meviorabili, t. III, p. 377].

CAPITOLO XXV

AFRICA OCCIDENTALE

(Continuazione.)

I.

Continuiamo il nostro viaggio sulle coste africane. Il 18 ottobre 1801 un dei nostri missionari venuto a Parigi dopo dodici anni di dimora nelle diverse parti dell’Africa occidentale, ne diceva, e più tardi ne scriveva quanto segue: « Era il mese di settembre 1850. Io stesso mi trovava nei luoghi, dove si compì il sacrificio di cui voglio parlarvi. È da notare che questo non è già un fatto unico, perché tal sorta di sacrifici son d’un uso frequentissimo. La vittima era un bel giovane, preso da una popolazione vicina. Per quindici giorni, fu legato mani e piedi ad un tronco d’albero, in mezzo alle case del villaggio.

II.

«.L’infelice conscio del destino che lo attendeva, fece, durante la notte del quattordicesimo al quindicesimo giorno, un ultimo sforzo per sciogliersi dai suoi legami; e vi riuscì. Sbalordito giunse avanti giorno ad una posta francese. Non intendendo alcuno la sua lingua, fu preso per uno schiavo fuggitivo; e senza difficoltà fu consegnato ai negri, che, essendosi posti ad inseguirlo, non tardarono a reclamarlo. Ricondotto al villaggio, il sacrificio fu stabilito pel medesimo giorno, che era di venerdì, ed ebbe luogo nel modo usato.

III.

« La vittima vien legata su di una pietra che ha forma d’altare, nel centro della gran piazza. Attorno alla piazza son collocate sul fuoco pentole piene di acqua. Una musica assordante accompagnata da numerosi tamburi, occupa una delle estremità della piazza, e attende il segnale. La popolazione del villaggio e dei villaggi vicini, sovente in numero di tre a quattro mila persone, vestite de’i oro abiti di festa, si dispone in circolo attorno la vittima. È in piccolo un anfiteatro Romano.

IV.

« Dato che è il segno, la musica, i tamburi, le grida della folla riempiono l’aria d’uno strepito infernale: è questo l’annunzio del sacrificio. I sacrificatori s’approssimano alla vittima, armati di coltelli», e danno mano all’atroce ministero. La vittima deve essere, secondo il rito, fatta a pezzi ancor viva. « Incominciasi dalla mano diritta che viene staccata dal braccio, tagliando l’articolazione del polso. Quindi si passa al piede sinistro che vien reciso disotto la noce; poi si viene alla mano sinistra e al piede destro. Dai polsi passano ai gomiti, dai gomiti ai ginocchi, dai ginocchi alle spalle, dalle spalle alle cosce, alternando sempre fino a che resti il solo busto, sormontato dalla testa. In tal guisa fu immolato quel giovane infelice.

V.

« A misura che vengono recise, le membra della vittima son portate nelle caldaie piene di acqua bollente. Si pone fine all’operazione troncando, o meglio, segando la testa che gettasi nel mezzo della piazza. Allora comincia uno spettacolo di cui mai si potrebbe dare una debole idea; gli astanti sembrano presi da un furore diabolico. « Al suono d’una musica orribilmente assordante, allo schiamazzo di fiere vociferazioni, le donne scapigliate, e gli uomini presi da non so qual diabolica frenesia, s’abbandonano a certe danze, o piuttosto a contorsioni orrende. La ridda infernale obbliga ciascun danzatore di batter col piede, ballando continuamente, la testa della vittima, che si fa cosi rotolare su tutti i punti della piazza; di prender con un coltello, mentre passano vicino alle caldaie, un pezzo di carne, e mangiarlo colla voracità della tigre. Credono così di placare il fetisco adirato.» [Lettera di Mons. Duret, vic. apost. della Senegambia].

VI.

Ascoltiamo ora il racconto d’un altro missionario, testimone oculare del fatto che ci racconta. « Da qualche mese, la febbre infieriva in una delle nostre tribù, e mieteva un gran numero di vittime. Il re si porta a trovare il sacerdote del serpente, e: Non hai tu, gli dice, un mezzo di far cessare il flagello? — Gli dèi sono irritati, risponde il sacerdote, e chiedono del sangue. — Vai, gli dice il re, scegli nella tribù la gioventù più bella e più pura, e tu stesso la scorticherai viva. »

VII.

« All’indomani, nell’uscir io di mia casa, ahi! quale scena spaventevole non mi s’offrì alla vista: un corpo rosseggiante ancora di sangue, ond’esalavano ineffabili singhiozzi, coi piedi avvinti da un nodo scorritoio, trascinato con lunga fune, da una folla delirante, attraverso i bronchi della foresta. Era una giovanetta stata da poco scorticata, e la madre era li che dietro la traccia del sangue e dei brani di carne attaccati alle spine, seguiva il corpo della figlia, immolala al demonio! »

VIII.

I fatti seguenti, d’una data affatto recente, poiché sono accaduti nel mese di dicembre 1874, e nel mese d’aprile 1875, mostrano l’ostinata persistenza del sacrificio umano, sulla disgraziata terra dell’Africa. – « Messi, re di Porto-Nuovo, scrivono i nostri missionari, é morto vittima della dissolutezza e della crapula. Nella notte seguente alla sua morte, si è scavata in una parte isolata della sua dimora una larga fossa. A mezzanotte, le vittime imbavagliale e mezzo ebbre, in numero di sei, son portate via dal migan, o carnefice. Queste vittime sono il confidente, la prima donna del re, il suo piccolo schiavo, la donna addetta a rinfrescare il re con un largo ventaglio, quella che distende la stoia sotto i suoi piedi e quella che tiene l’ombrellino.

IX.

« Posto sull’orlo della fossa, il capo delle Bottiglie (il Gogan) le presenta al sacrificatore che le riceve e le offre agli dèi, spargendo sopra d’esse un po’ d’olio d’oliva mescolato a farina di formentone. Poscia s’accordano alle vittime, come ultima consolazione, alcune gocce d’acquavite. Le tre prime avvinte e inginocchiate ricevono il colpo fatale, e le loro teste cadono sotto la sciabola del fetiscio. « Le altre tre, distese nella fossa, son battute alla nuca con un bastone rotondo e liscio. I carnefici prendono il sangue caldo e fumante, che esce in abbondanza dalla bocca e dal naso delle vittime, e lo spargono sul fondo e sulle pareti della fossa. Ricevono dalle mani del capo delle Bottiglie, trecce e stoffe, e le stendono su questo letto di sangue.

X.

« Ai primi raggi del sole, la bara reale è discesa nella fossa. A un lato avvolti in una stuoia si depongono i cadaveri della prima donna del re e del piccolo schiavo, e la fossa si ricopre di terra. Gli altri cadaveri son gettati in una fossa a parte. « Tre mesi dopo, han luogo i funerali solenni. Son dessi occasione d’orribili sacrifici umani, che si succedono per lo spazio di nove giorni, con incredibile barbarie. La testa del re, tratta di nuovo fuor della fossa, vien portata alla casa fetiscia di Mezé, e i funerali si compiono in un boschetto vicino, celebre per secolari delitti. Questi secondi funerali sono l’apoteosi del re, che addiviene allora fetiscio.

XI.

« Per rialzare lo splendor di sua corte nel suo nuovo regno, gli s’inviano alcuni ministri e un gran numero di donne e di schiavi, che sono immolati con gran cerimonia. Queste povere vittime, riccamente vestite, portano le insegne degli alti personaggi che esse rappresentano. Lo schiavo o il capo del palazzo porta il nome e le decorazioni del suo padrone; è condotto al sacrificio tenente nelle sue mani una pelle di leopardo ed un piatto. La vittima del secondo ministro arriva al rogo funebre, traendo un cavallo per la briglia. « I principi delle campagne conducono pur essi i loro schiavi destinati al sacrifizio. Le principesse ancora offrono al re defunto una giovane e bella negra, per danzare e cantare avanti a lui.

XII.

« A mezzanotte cominciano le uccisioni, e continuano fino a giorno. Si compiono nella corte del palazzo, presso una capanna di bambù. Vi è prima condotto uno sventurato che vedendosi fra le mani brutali dei carnefici, comprende che dev’essere immolato, e manda fuori grida di dolore: « Aiuto! mi vogliono uccidere! che ho io fatto? Bianchi, soccorretemi. » Ma invano, perché nessuno può intervenire sotto pena di morte. Intanto non viene imbavagliato, per dargli prima di spirare commissioni per l’altro mondo.

XIII.

« Il sangue della vittima vien raccolto in una zucca; si recide al cadavere una mano e si sospende alla porta del fetiscio; si distacca abilmente la pelle dalle reni, per farne un tamburo che servirà alle prossime festiscerie. I grumi di sangue si spargono qua e là, misti allo sterco di vacca, e se ne strofina il suolo della capanna. Quanto agli ultimi pezzi di carne, vengono strascinati e vergognosamente esposti dinanzi al palazzo, alla vista di tutto il popolo.

XIV.

« Si conduce quindi una nuova vittima. È un giovane che ignora del tutto quanto l’attende. Vien menato alla capanna, e mentre è invitato a sonar la trombetta, è afferrato dagli esecutori, che gli danno le usate commissioni per 1’altro mondo, lo gettan per terra e l’ammazzano sotto una grandine di colpi di bambù. Il suo sangue è raccolto per finir d’asperger la casa. Nella maniera stessa furono per tre giorni immolate le altre vittime.

XV.

«Avvicinandosi il nono giorno, tutta la città rimbomba di grida, di canti, d’urli, di strepito di moschetterie. Si passa così la mattina in festa. Si ripartiscono le vittime, di cui la maggior parte ignora la sorte che l’attende. Verso le due pomeridiane, si preparano all’ultima cerimonia. Tutti gli sgherri del Porto-Nuovo si dispongono in battaglioni nella piazza, vicino ai loro capi di guerra, i quali hanno il loro parasole. Si pongono in marcia, al suono lugubre del tamburo, formato colla pelle della vittima immolata il primo giorno.

XIV.

« Dalla casa della missione possiamo vedere tutto ciò che sia per accadere. In faccia a noi, a cinquanta passi fuor del bastione, s’innalza nel mezzo della pianura un boschetto sacro, di forma rotonda, foltissimo. I negri vi aprirono nella vigilia a colpi di sciabole, un largo e tortuoso sentiero, che conduce ai piedi di un grande albero, ove si debbono immolare le vittime. Una lunga schiera d’uomini armati giunge colle bandiere spiegate, e viene ad ordinarci in battaglione da ciascun canto del boschetto. Ecco la prima vittima: è bianco vestita, e conduce un cavallo per la briglia; è dessa il rappresentante del capo delle scuderie del re. Cammina d’un passo accelerato e par felice; gli è un giovane d’in su ì venti anni.

XVII.

« Il palafreniere capo gli dice alla vigilia: « Desidero far presente d’un cavallo al re; vuoi tu condurglielo là in quella boscaglia, ove va a ricrearsi?» Il giovane accetta. «Bene, dice il palafreniere, va a lavarti e torna, mangia e bevi assai. Domani tu condurrai il cavallo, e porterai al re le commissioni che ti si daranno. » – « Ed ecco avanzarsi il povero giovane. Giunto dinanzi al boschetto, si ferma col cavallo, e trova in sull’entrata l’esecutore, e più lungi i suoi figli e i suoi schiavi, armati di sciabole e di bastoni.

XVIII.

« Arriva la seconda vittima, vestita come il capo che rappresenta, e tenente un parasole sopra la testa. Piantasi un sedile fuori del boschetto. La vittima vi s’asside, e i negri vengono a prostrarsele dinanzi ed a complimentarla. A vedere l’infelice che parla, gestisce, sorride, si siede e s’alza, parrebbe fosse un vero capo. « Tosto arrivano due uomini e quattro donne che debbono portare nel boschetto le teste delle vittime immolate al palazzo. Infelici! ignorano che vanno a preparare l’altare che deve divorarli.

XIX.

Finalmente si pone fuoco al rogo. Gli esecutori snudano le loro armi, e si precipitano sopra le vittime, che vengono così immolate. Frattanto un giovine si svincola da’carnefici, slanciasi nel bosco e cerca di porsi in libertà. Una fila d’uomini gli interdice il passo; riceve un colpo di fuoco alla testa, e vien tratto al supplizio. Nella confusione prodotta da questo accidente, la giovane che le principesse spedivano al re per cantare e danzare avanti a lui poté sfuggirsela nel bosco. La sventurata, bentosto raggiunta, manda fuori grida, che il tumulto c’impedisce d’intendere. Coloro che eran più d’accosto l’hanno intesa gridare: « Soccorso! Soccorso! » Molti curiosi spaventati son fuggiti. Altre vittime han mandato questo grido che io ho udito : « Ou pa mi ó ! mi uccidono. » Malgrado le sue lacrime e le sue supplicazioni, la giovine è sacrificata siccome pure il conduttore del cavallo ed un gran numero d’altre vittime, i cui corpi ancora palpitanti sono gettati sul rogo. « L’orribil sacrificio è consumato. I colpi di fuoco, in segno di festa, continuano ancora per due ore, e ciascuno riprende il cammino di sua casa. – « Io non so se gl’ Inglesi lasceranno impunite queste crudeltà, ovvero chiederanno riparazione della violazione del trattato che hanno fatto con Sungi padre di Toffa, e che questi non ha rispettato. » [Annal. de la Prop. de la foi, n. 98i, Gennaio 1876]. – Tali sono gl’ incredibili orrori che si commettono tuttavia sulle coste occidentali della malavventurata terra di Cam. La ragione n’è perché il Clericalismo non v’è stato predicato. Ed oggidì vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

CAPITOLO XXVI.

L’AFFRICA OCCIDENTALE. — IL DAHOMEY.

I.

Entriamo finalmente nel terribil regno del Dahomey, le cui principali città sono Abomey, Cana, e Widah sul lido del mare. Il sangue umano vi scorre tuttavia, non in ruscelli, ma a torrenti. In ciascun anno vi si celebra una festa solenne, appellata la festa delle Costumanze. Ecco qui la relazione di questa festa, scritta, nel 1860, da un viaggiatore europeo, testimone oculare di ciò che riferisce.

II.

« Il 16 luglio è presentato al re, successore e figlio del re defunto, un prigioniero tutto imbavagliato. Il re gli dà commissioni per suo padre, gli fa dare pel viaggio una piastra ed una bottiglia d’acquavite, e quindi lo spediscono. Due ore dopo, quattro altri messaggieri partivano colle stesse condizioni. Il 23, io assistei alla nomina di ventitré officiali e musici, che dovevano esser sacrificati per entrare al servizio del re defunto. Il 28, immolazione di quattordici prigionieri, le cui teste son portate su differenti punti della città, al suono d’una campanella. – « Il 29, si preparano ad offrire alla memoria del re Ghezo le vittime d’uso. I prigionieri portano un bavaglio a forma di croce, che li fa oltremodo soffrire; poiché gliene applicano in bocca la punta aguzza sulla lingua, ciò che impedisce di muoverla e per conseguenza di gridare. Questi infelici han quasi tutti gli occhi schizzanti fuori delle occhiaie. I canti non cessano, siccome le uccisioni. Durante la notte del 30 e del 31 son cadute a terra più di cinquecento teste. Moltissimi fossati della città sono colmi d’ossa umane. Nei giorni seguenti, continuazione de’ medesimi massacri. – « La tomba d’un ultimo re è una gran fossa, scavata nella terra. Ghezo è nel mezzo di tutte le sue donne, le quali, prima d’avvelenarsi, si sono disposte attorno a lui, secondo l’ordine che occupavano alla corte. Queste morti volontarie possono ammontare a seicento.

III.

« II 4 agosto, esibizione di quindici donne prigioniere, destinate a prender cura del re Ghezo, nell’altro mondo. Saranno uccise questa notte con un colpo di pugnale nel petto. Il 5 è riservato alle oblazioni del re; quindici donne e trentacinque uomini vi figurano, imbavagliati e legati, colle ginocchia ripiegate sino al mento, le braccia attaccate al basso delle gambe, e posti ciascuno in un paniere che è portato in testa; lo sfilare ha durato più d’un’ ora e mezzo. Era uno spettacolo diabolico il vedere i gesti, i contorcimenti di tutti quei negri.

IV.

« Dietro a me vedevo quattro magnifici negri, far l’ufficio di cocchieri attorno una piccola carrozza, destinata ad essere spedita al defunto, insieme coi quattro infelici. Essi ignoravano la sorte loro. Allorché furono chiamati, s’avanzarono, tristemente, senza profferir parola. Uno di loro aveva due grosse lacrime che luccicavano come perle sulle sue guancie. Sono stati uccisi tutti e quattro qual polli, dal re in persona.

V.

« Dopo l’immolazione, il re è salito su d’un palchetto, ha acceso la pipa e ha dato il segnale del sacrificio generale; e ad un tratto si cavarono fuori le scimitarre, e caddero le teste. Il sangue scorreva da ogni parte; i sacrificatori ne erano ricoperti, e gli infelici che attendevano il loro turno, ai piedi del palco reale, erano anch’essi tinti di sangue. – « Queste cerimonie dureranno ancora un mese e mezzo, dopo il qual tempo il re si porterà in campagna per fare nuovi prigionieri, e ricominciare la festa delle Costumanze. Verso la fine d’ottobre vi saranno eziandio sette ad otto cento teste abbattute. [L’autore di questo racconto non è un missionario cattolico. Abbiamo veduto un missionario che ci ha confermato tutti i particolari, aggiungendo che da dodici anni che è in Africa, si può, senza esagerazione portare a 46.060 il numero delle vittime umane, immolate nel regno di Dahomey, che conta quasi un milione d’abitanti. Vedi il Voyage del Stg. Repin, medico di Marina, e Annales de la Prop. de la Foi, Marzo 4664, p. 422 e seg.]. « Al re Ghezo è succeduto suo figlio, il principe Badon. L’ascensione al trono del novello monarca è stato il trionfo delle antiche leggi, che hanno ripreso tutto il vigor sanguinario reclamato dai sacerdoti fetisci. » Non bisogna credere che la carneficina umana si limiti alle grandi feste. Neppur una ne passa senza che qualche testa cada sotto la scure del fanatismo. Ultimamente l’Europa fremette al sapere che il sangue di tremila creature umane aveva innaffiato il sepolcro di Ghezo. Oimè! altro che tremila. [Annales, maggio 4862].

VI.

Infatti, non solamente a Cana, città santa del Dahomey, ma ancora ad Abomey, capitale del regno, han luogo queste sanguinose tragedie. « Chiamati al palazzo del re, scrive recentemente un viaggiatore, vedemmo novanta teste umane troncate la mattina stessa: il loro sangue scorreva ancora per terra. Questi spaventevoli avanzi erano esposti a ciascun lato della porta, di maniera che il pubblico potesse bene osservarli.

VII.

« Tre giorni dopo, novella visita al palazzo, e lo stesso spettacolo. Settanta teste di fresco recise, disposte come le prime, in ciascun canto della porta, e tre giorni più tardi, ancora trentasei. Il re aveva fatto costruire, sulla piazza del mercato principale, quattro terrazzi, donde gettò al popolo dei cauris, conchiglie che passavano per monete, e sui quali fece ancora immolare sessanta vittime umane.» [le tour du Monde, N. 163, p. 107].

 

VIII.

Ecco quale fu la forma di questo nuovo sacrifìcio: « Si portarono grandi zane o ceste, contenenti ciascuna un uomo vivo, di cui solo la testa sporgeva fuori. Furon allineati per un istante sotto gli occhi del re, poscia precipitati, l’un dopo l’altro, dall’alto dei terrazzi sul lastrico della piazza, dove la moltitudine danzando, cantando e urlando, se ne disputavano gli avanzi come in altre contrade i fanciulli si disputano i confetti del battesimo. « Ogni Dohomyese, a cui arridesse la sorte di afferrare una vittima e segarle la testa, poteva cambiare al momento stesso questo trofeo in una collana di cauris, circa LI. 2,50. Io non potei tornare a casa, se non dopo che l’ultima vittima fu decollata, e due sanguinosi mucchi, l’una di teste, 1’altra di busti, furono innalzati alle.due estremità della piazza. » [Le tour du Monde, ibid., p. 410].

IX.

E dei cadaveri che ne fanno? La storia ci dice che sempre e dappertutto la manducazione, sotto una forma o sotto un’altra, accompagna il sacrificio. Che accade dunque dei corpi delle innumerevoli vittime del Moloch Dahomyese? « Io ho spesso, scrive un viaggiatore, posta questa questione ai Dahamyesi di diverse classi, e giammai ho potuto ottenere una risposta categorica. Non credo antropofagi gli abitanti del Dahomey. Potrebbe accadere nondimeno che essi ammettessero qualche idea superstiziosa alla consumazione di questi avanzi, e che questi servissero ad occulte e ributtanti agapi; ma, lo ripeto, i miei su ciò non sono che sospetti fatti nascer nel mio animo dall’esitazione e dall’imbarazzo dei negri, da me interrogati su tal affare. » [Le tour du Monde, ibid., p. 110].

X.

A giudicare dalla tirannia assoluta che il grande Omicida esercita su questo sventurato paese, è probabilissimo che i sospetti del viaggiatore non tarderanno a diventare una spaventevole realtà. Coll’odio dell’uomo e colla sete del suo sangue, questa tirannia si rivela da un ultimo fatto. « In Abomey trovasi la tomba dei re, vasto sotterranea scavato da mani d’uomo. Quando un re muore, gli si erige, nel centro di questa tomba, una specie di cenotafio attorniato da sbarre di ferro e sormontato da un feretro, cementato col sangue d’un centinaio di prigionieri, provenienti dalle ultime guerre, e sacrificati per servire di guardie al sovrano nell’altro mondo. Il corpo del monarca è deposto in questo feretro, colla testa riposante sui crani dei re vinti. Come altrettante reliquie della sovranità defunta, si deposita ai piedi del cenotafìo, quanto si può di crani e d’ossa.

XI.

« Terminati tutti i preparativi, si apre la porta del sepolcro, e vi si fanno entrare otto Abaies, ballerine della corte, in compagnia di cinquanta soldati; ballerine e soldati, che muniti d’una certa quantità di provvisioni, sono incaricati di accompagnare il loro sovrano nel regno delle ombre: in altri termini, sono offerti vivi in sacrificio ai mani del re morto.

XII.

« Diciotto mesi dopo, per l’ascensione al trono del novello re, il feretro è aperto, ed il cranio del re morto n’è tratto fuori. Il reggente prende questo cranio nella mano sinistra, e, tenendo una piccola accetta colla mano destra, la presenta al popolo, proclama la morte del re e l’innalzamento al trono del suo successore. Coll’argilla impastata nel sangue di vittime umane, formasi un gran vaso, in cui il cranio e le ossa del defunto re sono definitivamente suggellate. Non v’è altro caso in cui la sete di sangue del Moloch africano tanto si manifesti quanto in questa solennità. Migliaia di vittime umane sono immolate, sotto pretesto di mandare al defunto re la nuova dell’incoronazione del suo successore. » [Le tour da Monde, p. 103-104].

XIII.

Tutti questi orrori si commettono a qualche centinaio di leghe dalle coste di Francia. E 1’Europa cristiana, che ha migliaia di soldati per fare la guerra al Papa, non ne ha pur uno a far rispettare le più sante leggi dell’umanità! Una sola cosa ha liberata 1’Europa da crudeltà simili, una sola cosa ne impedisce il ritorno; il Cristianesimo. E si trovano oggi in Europa migliaia d’uomini che non han voce se non per insultare al Cristianesimo e chiederne lo sterminio; che non han penne se non per calunniarlo; non han mani se non per flagellarlo! Ingrati! che, senza il Cristianesimo, sarebbero forse stati offerti vittime a qualche Ghezo d’una volta, o bruciati vivi in un paniere di vinchi in onore di Teutate!

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -VI- di mons. J. J. Gaume [capp. XX-XXII]

CAPITOLO XX

L’ AFRICA ANTICA.

I.

Portiamoci adesso nell’Africa, in questa gran fabbrica della schiavitù, e che porta tuttavia la pena del peccato di Cam. Gli storici antichi ed i viaggiatori moderni han provalo che la memoria del peccato del loro antico avo si è conservata in modo chiarissimo nelle molteplici tribù di questo infelice paese. – « Le popolazioni Africane, scrive Charlevoix [Hist. de l’ile espagnole, t. Il, p. 385.], le quali abitano fra il capo Bianco e il capo Nero, confessano schiettamente che un sentimento intimo loro dice esser essi una razza maledetta. I più istruiti, come quei del Senegal, hanno appreso da una tradizione, la quale perpetuasi fra di essi, che questa disgrazia è un effetto del peccato del loro Papa-Tarn (Cam) che si fece beffe del padre suo.»

II.

Un dotto viaggiatore che ha esplorato l’Africa, non è meno esplicito. « il negro ha una coscienza quasi commovente della sua inferiorità. Questa coscienza posa su una tradizione vera, benché un poco alterata. Nel Mozambico, presso la potente tribù dei Machnas, è voce che in principio gli Africani erano intelligenti quanto gli Europei. – « Ma un giorno Maluka (il buon Dio) essendosi ubriacato, cadde in mezzo alla strada con le vesti in disordine. Gli Africani che passavano, risero della sua nudità; gli Europei al contrario ebbero pietà di lui: colsero dei fiori, e rispettosamente lo ricoprirono. Perciò Dio punì gli Africani. La medesima tradizione esiste nella Guinea e nell’interno del continente. Dapertutto i negri si dichiarano diseredati e sotto il peso d’una maledizione divina [l’Afrique nouvelle, par Alfred Jacobs. Parigi, 1863] .»

III.

Ne è da poco tempo che il sacrificio umano si pratica nell’Africa; ma in questa parte del mondo come nelle altre rimonta alla più alta antichità. Si é presi da spavento in pensare alle moltitudini innumerabili di vittime umane, che in tutta l’estensione della terra e durante migliaia di secoli, sono state immolate al demonio. Questo calcolo, matematicamente impossibile, può nondimeno servire a misurar l’odio implacabile che il grande omicida porta all’uomo, perché fratello del Verbo incarnato.

IV.

Penetriamo nella Libia. In questo paese dei leoni si offriranno alla vista selvaggi più feroci delle fiere abitatrici degli ardenti suoi deserti. « I barbari della Libia avevano, dice Porfirio, imitato i sacrifici dei Taurini [Abitanti del Chersoneso o Crimea, famosi per la loro ferocia e per i loro continui sacrifici umani] , e mangiavan la carne degli uomini sacrificati. Fatto questo odioso pasto, montavano in furore contro loro stessi, mordendosi scambievolmente; e non cessarono di nutrirsi del sangue, se non quando i demoni, i quali avevano introdotto questa specie di sacrifici, ebbero distrutta la loro razza. » [De abstin., lib. Il, 4, 56 ediz. Didot., pag. 45]. – Rifacciamoci sui nostri passi ed entriamo a Cartagine. La Roma africana è la patria dei grandi uomini di guerra. Essa è popolata da ricchi negozianti e da abili navigatori. Questo incivilimento materiale la sottrarrà alle esigenze tiranniche del demonio? Per rispondere, assistiamo allo spettacolo di cui fu essa un giorno testimone. – « Dopo la morte di Alessandro Macedone, e vivendo il primo Tolomeo, scrive Diodoro di Sicilia, i Cartaginesi furono assediati da Agatocle, tiranno della Sicilia. Vedendosi ridotti all’estremo, supposero che Saturno fosse loro contrario. Il loro sospetto si fondava su ciò, che avendo pel passato avuto in costume d’immolare a questo Dio i fanciulli delle migliori famiglie, più tardi compratene clandestinamente, li allevavano per sacrificarli. Fecero una ricerca, e si scopri che molti dei fanciulli immolati erano stati supposti.

VI.

« Prendendo in considerazione questo fatto, e vedendo il nemico accampato sotto le loro mura, furono assaliti da un terrore religioso, per aver trascurato di rendere gli onori tradizionali ai loro dèi. A riparare al più presto questa omissione, scelsero, per via di suffragi, duecento fanciulli delle migliori famiglie e gl’immolarono in un sacrificio solenne. Poscia, quelli stessi che il popolo accusava d’aver frodati gli dèi, offrirono spontaneamente i loro figli in numero di trecento. [“Primum quidem eximios communibusque lectus suffragis adolescentes, omnino ducentos, pubblice immolarunt. Deinde vero alii præterea, qui violatæ relìgionis suspecti vulgo erunt, ultro sese ac sponte obtulerunt, trecentis haud panciores”. Hist., lib. XX.]. – Anche il modo del sacrificio era ordinato dagli oracoli. Nulla v’ha che meglio provi la presenza dello spirito infernale, quanto la maniera onde compivasi l’uccisione abominevole di cui abbiamo parlato. In un tempio di Cartagine, si trovava una statua colossale di Saturno, la quale era di bronzo. Aveva le braccia stese e inclinate a terra; a’suoi piedi una voragine di fuoco. Il fanciullo posto sulle braccia dell’idolo, non essendo rattenuto da cosa veruna, sdrucciolava nella fornace, dove era consumato fra lo strepito di canti e di suoni „ [Diod. Sicul., ibid.].

VIII.

Sotto nomi diversi, questa statua omicida esisteva in Oriente ed in Occidente, presso gli Ebrei e presso i Galli. Essendo l’Africa assai poco conosciuta dagli antichi, ci mancano i documenti del sacrificio umano esistente nelle diverse parti della vasta penisola. Sappiamo solamente che l’Egitto, la contrada più incivilita del paese, offriva vittime umane. Da questo si può giudicare di ciò che accadeva altrove. E lo si può con gran sicurezza, in quanto che nei tempi moderni, i missionari e i viaggiatori hanno trovato il sacrificio umano in pieno esercizio nell’interno e su tutte le coste orientali e occidentali della terra di Cam. Lo vedremo nei capitoli seguenti.

 

CAPITOLO XXI.

L’AFRICA ORIENTALE. — I CONDÌ, POPOLO DELL’INDIA.

— AFRICA ORIENTALE

I.

La costa orientale d’Africa si estende dal canale Mozambico, passando pel Zanguebar, fino al capo dei Profumi: vale a dire per uno spazio di più che cinquecento leghe. Su questa immensa costa e nelle tribù dell’interno più o meno vicine, il sacrificio umano è tuttora in uso, anche presso certi popoli maomettani. « Vicino alla costa orientale della nostra Africa, scriveva non ha guari uno dei nostri missionari, in una città araba, città ch’io conosco, visitai la casa dove furono immolate, quattro anni or sono, tre giovani vergini per allontanare una disgrazia che minacciava la contrada. « Questa barbarie non era commessa da un solo, ma per decisione presa in consiglio dai grandi del paese. So da fonte sicura, e potrei addurre i testimoni, che queste disgraziate vittime della superstizione mussulmana sono state fatte a pezzi, e le loro membra portate e sotterrate in diversi luoghi del territorio minacciato. » [Annal. de la Pr. de la Foi, n. 138, p. 399, 480].

II.

Riportiamo qui un fatto simile che avvenne nell’India inglese. Colà s’ingrassano dei fanciulli, che si scannano a centinaia nella primavera, e il cui sangue sparso sulle praterie, credesi avere la virtù di renderle fertili. In data 6 settembre 1850, il vescovo di Olenia, Vicario apostolico di Visigapalam (India inglese), scrive: « Il governo inglese ha creduto di dover portare la guerra sino ai lari de’ Condi. La ragione è che i sacrifici umani sono ancora in uso presso quel popolo infelice. In occasione d’una festa o d’una calamità, al tempo delle seminagioni specialmente, immolano fanciulli dell’uno e dell’altro sesso. A tal fine, si fan dei depositi di queste innocenti vittime da servire per le diverse circostanze. Basta un qualunque pretesto per fare una tale strage, come un pubblico flagello, una grave malattia, una festa di famiglia.

III.

«Otto giorni avanti il sacrificio, lo sgraziato fanciullo o giovanetto che deve subirlo, è preso, e gli si dà a bere ed a mangiare tutto quel che brama. Durante questo intervallo, i villaggi vicini sono invitati alla festa, e vi accorrono in gran numero. Allorché tutti sono riuniti, si conduce la vittima al luogo del sacrificio. In generale, si ha cura di metterla in istato di ebbrezza.

IV.

«Legata che è, ecco la moltitudine danzarle attorno; e dato il segnale, ciascuno degli spettatori strappa alla vittima un pezzo di carne e il porta via, in modo che la sbranano ancor viva. Il pezzo che ciascuno strappa per proprio conto, deve essere palpitante e, tuttora caldo e sanguinolento, portasi con tutta fretta sul campo che si vuol fecondare. Tal’è la sorte riservata a coloro che mi parlavano, e frattanto danzarono una gran parte della notte.» [Annal., de la Prop. de la foi, n. 438, p. 402 e segg.; vedi anche Annales, marzo 1863, p. 132; ibid., n. 138, p. 377, 380 ibid., n. 116, p. 49, etc.].

V.

Torniamo all’Africa orientale. Uno dei nostri più celebri missionari, il Reverendo padre Homer, superiore della missione di Zanzibar, cui dirige da tredici anni con ammirabile successo, ci dà i particolari più certi e più tristamente notevoli sul sacrificio umano. Egli scrive: « Fra i costumi religiosi dei Vazaramo, tribù vicina alla costa, ve ne sono di quelli che fanno orrore. Se si teme la guerra, il Mganga (indovino) ispeziona il sangue e le ossa d’un pollo scorticato affin di conoscere l’esito della lotta. Cosi facevano i Greci e i Romani, questi popoli tanto vantati e sì follemente ammirati.

VI.

« Se la vittoria è dubbia, il mago si fa portare un fanciullo, l’uccide e Io scortica. Poi fattone distendere il cadavere insanguinato attraverso la strada maestra del villaggio, ordina ai guerrieri di passarvi sopra per assicurarsi della vittoria. – « Se si tratta di conoscere il momento preciso in cui debbon cominciare le ostilità, il ministro del grande omicida pianta sul fuoco una graticola, e attaccavi un fanciullo vivo ed un pollo. Se questi dopo un certo dato tempo trovansi morti, la guerra debbo esser differita; se trovansi vivi, le ostilità cominciano immediatamente.» [Voyage à la côte urient. d’Afrique, p. 99].

VII.

Presso gli Ounyamouezi, altra tribù della costa orientale, la sepoltura di alcuni grandi capi è accompagnata da orribili circostanze. Velato d’una pelle di bestia e coperto da un mantello di cuoio, il corpo è depositato in un sepolcreto murato, seduto e coll’arco in mano. Tre schiave, l’una davanti a lui, l’altra alla sua destra e la terza alla sua sinistra, sono seppellita vive, per risparmiare al capo le noie della solitudine. Mentre si chiude il mausoleo, si fanno con grande strepito copiose libazioni, a fine, senza dubbio, di distrarre queste tre malarrivate vittime, la cui sorte fa rabbrividire [Voyage à la còte orient. d’Affrique. p.154].

VIII.

L’intrepido capitano inglese, Speke, riferisce il fatto seguente, di cui fu testimone. Essendo morto Dagara, re del Karagué, il suo corpo fu portato sopra una montagna. Invece di sotterrarlo, il popolo costruì una capanna per ricoprirlo; vi fecero entrare a forza cinque giovanotte e cinquanta vacche, e chiuse fortemente tutte le uscite, ve le lasciarono morir di fame. [Tour du monde, n. 322]. Povere figliuole di Eva! Quando sarà che cesserete d’essere schiave dell’uomo, e vittime prescelte delle crudeli superstizioni di satana? quando diverrete le figlie di Maria!

CAPITOLO XXII.

AFFRICA ORIENTALE

(Continuazione.)

I.

Presso la maggior parte delle tribù africane, è opinione che un capo od anche un uomo libero, non muore mai di morte naturale; si suppone sempre che sia dovuto soccombere ad un avvelenamento o a qualche maleficio. Fra i Mouezi, tribù vicina a Vazaramo, questo errore dà luogo ad abominevoli crudeltà. – Se uno dei grandi capi cade malato, subito chiamasi il mganga. Il mèdium, come è chiamato in Europa, prende una gallina, le fa inghiottire un filtro misterioso, la uccide, la sventra, e ne esamina le viscere. Tolte alcune circostanze accessorie, tale era, nella bella antichità, la condotta di tutti i sacerdoti di satana. Se la carne dell’uccello presenta qualche difetto nelle ali, son convinti di delitto i fanciulli e gli altri parenti. Una macchia nella colonna vertebrale accusa di reità la madre e l’ava; la coda accusa la sposa; le cosce incolpano le concubine, e le gambe gli schiavi.

II.

Finito l’esame, si riuniscono i pretesi colpevoli; e prestata la medicina ad una seconda gallina, il mganga la getta sugli accusati: l’infelice, sul quale cade l’animale, è dichiarato colpevole. Subito gli si pone la testa fra due tavole, che strette fortemente a forza di corde, ne fanno schizzar fuori le cervella. – Queste orribili immolazioni, si rinnovano ogni giorno, sino alla morte o alla guarigione del capo. Ne segue, che se la malattia si prolunga, un gran numero di disgraziati sono vittime di questa spaventevole superstizione; ma se il capo muore, il mago è seppellito insieme con l u i . [Voyage, etc. p. 163].

III.

« Passati sei giorni a Bagamoyo, continua il Padre Horner, navigammo verso il nord passando dinanzi l’imboccatura del Kmgani. Questo bel fiume separa il paese dei Vazaramo, da quello dei Vadoè: quest’ ultima tribù è essenzialmente antropofaga. Arrivati a Kipombouy, incontrammo alcuni Vadoè, che sembrano demoni. – « Gli uomini e le donne ti presentano, come ornamento, due larghe cicatrici nel volto; alla loro bocca mancano i due incisivi della mascella superiore, che essi hanno cura di sradicare. Le loro vesti di pelli gialle finiscono di compiere il loro selvaggio aspetto.

IV.

« Oltre le armi proprie di tutti gli Africani, gli uomini portano un gran coltello a doppio taglio, una mazza, un’accetta da guerra, uno scudo di pelle di rinoceronte, e, quel che è spaventevole, crani umani per bere. « Allorché un uomo libero muore, si sotterrano vivi insieme con lui due schiavi di sesso diverso. L’uno armato di un’accetta, deve tagliar le legna e farne fuoco per riscaldare il suo padrone nell’umida regione dei morti; l’altro è destinato a sostenere la testa del defunto.» 1. [Voyagc, ecc. pag, 169.]

V.

Ascoltiamo ora un officiale inglese, incaricato dal viceré d’Egitto d’una spedizione in alcune parti dell’Africa, vicino al Nilo. È questi il Signor Samuele While Baker, il quale ha pubblicato la relazione del suo viaggio nel 1875. « Arrivato colla mia truppa nel paese d’ Ounyoro, io non cessavo di discorrere coi diversi capi. Ottenni da loro il racconto delle cerimonie funebre, che avevano avuto luogo alcuni mesi innanzi, al sotterramento del re Kamrasi. Quando un re dell’Ounyoro muore, il cadavere vien deposto sopra una tavola quadrata di legno verde, simile a una gigantesca graticola, al di sopra di un lento fuoco che lo va man mano disseccando; e mummificato che è, l’avvolgono in una tela di fresche scorze, e lo espongono in una gran capanna costruita appositamente.

VI.

« I suoi figli si disputano il trono. La guerra civile può prolungarsi per lo spazio di alcuni anni; ma durante questo periodo d’anarchia, il corpo del re defunto rimane insepolto. Infine, quando la vittoria si è decisa in favore dell’uno dei figli, il vincitore va a visitare la capanna, dove si trova il corpo di suo padre. S’approssima al cadavere, pianta in terra la sua lancia, e ve la lascia così fissata presso la mano destra del re; il che è un simbolo di vittoria. Asceso che è sul trono, primo suo dovere dev’esser quello dei funerali a suo padre.

VII.

« Scavasi una fossa ben grande, capace a contenere parecchie centinaia d’individui, tutta guarnita di lisce scorze. In fondo sono assise molte donne del re defunto, sulle ginocchia delle quali riposa il cadavere. « Nella vigilia dei funerali, durante la notte, le guardie del cadavere del re attorniano alcuni villaggi, e si impadroniscono indistintamente degli abitanti, a misura che costoro escono all’alba fuori delle loro capanne. Questi prigionieri son condotti all’orlo della fossa, e indi spezzate loro braccia e gambe, son precipitati nella fossa, dove cadono sul gruppo delle donne che sostengono il corpo del re.

VIII.

« I suoni dei corni, dei tamburi e degli zufoli, misti agli urli d’una folla frenetica, soffocano le grida di questi infelici. L’immensa fossa è tosto ripiena, calcata dai piedi della moltitudine, e si innalza al di sopra un mucchio di terra.» [Ismaelia, e. XVIII, p. 201]. Ecco in quale stato trovasi ancora l’Africa orientale, che non ha punto ricevuta la predicazione del Clericalismo. E oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone! – Da tutti gli orrori che abbiam descritti sia dell’Africa che delle Gallie; da tutti i sotterramenti di vittime viventi che abbiamo veduti compiersi per accompagnare e servire i defunti nell’altro mondo, risulta un fatto costantemente avveratosi nel corso dell’umanità; la credenza voglio dire all’immortalità dell’anima, che mette al di sotto dei selvaggi i moderni materialisti, per i quali l’uomo non è che un mucchio di fango: corruptio optimi pessima.

ASCENSIONE

ASCENSIONE

Et cum hæc dixisset, videntibus illis, elevatus est: et nubes suscepit eum ab oculis eorum. Cumque intuerentur in cælum euntem illum, ecce duo viri astiterunt juxta illos in vestibus albis, Qui et dixerunt: Viri Galilæi, quid statis aspicientes in cælum? Hic Jesus, qui assumptus est a vobis in cælum, sic veniet quemadmodum vidistis eum euntem in cælum. [Act. I, 9-11.]

 “… Perciò i beatissimi Apostoli e tutti i discepoli, ch’erano sgomenti per la morte (di Gesù) sulla croce ed avevano esitato sulla fede nella sua risurrezione, furono talmente confermati dall’evidenza della verità, che, lungi dall’essere rattristati al vedere il Signore ascendere nelle altezze dei cieli, furono al contrario ripieni di grande gioia. E certo, c’era là una grande ed ineffabile causa di gioia, allorquando in presenza di questa santa moltitudine, una natura umana s’innalzava al di sopra della dignità di tutte le creature celesti, per sorpassare gli ordini Angelici, per essere elevata più alto degli Arcangeli, e non arrestarsi nelle sue elevazioni sublimi che allorquando, ricevuta nella dimora dell’eterno Padre, ella sarebbe associata al trono e alla gloria di colui alla natura del quale si trovava già unita nel Figlio.”

[S. Leone Papa, Sermon. 1 de Ascensione Domini]

[J.-J- Gaume: “Catechismo di perseveranza”, Torino, 1881 – vol. IV]

I. Ascensione. — Abbiamo veduto il Figlio di Dio sceso dal cielo nascere, vivere e morir per redimere e restaurare l’opera propria, danneggiata dal peccato originale. Erano quaranta giorni dacché il divino Riparatore aveva provato ai più increduli la propria risurrezione. Per riposarsi dai patimenti della sua umanità, egli avrebbe potuto rimanere minor tempo sopra la terra; ma il suo amore per noi lo tratteneva lontano dagli Angeli. Sarebbesi detto un reale proscritto, il cui bando era stato tolto, ma che non voleva tornare subito alla propria patria, perché durante il suo esilio Ei si era abituato ad amare gli uomini coi quali aveva sofferto. S’Ei si allontana in questo giorno è questo parimente un segno d’amore. Il nobile vincitore va a prender possesso del regno acquistato col proprio sangue e a collocare l’umanità sul trono della gloria immortale. Volete voi essere testimoni di questo mistero che corona l’opera della redenzione? Partiamo per Gerusalemme. Eccovi il Salvatore attorniato dai suoi discepoli; eccolo presso Betania, borgo da voi tutti ben conosciuto, fabbricato sul declive del monte Oliveto, a circa quindici stadii da Gerusalemme, da dove l’Uomo-Dio era partito per fare il suo ingresso trionfale nella città deicida. Con essi Egli salì quella montagna, poco fa testimone della sua agonia. Essa vi si presenta sulla via che va da Gerusalemme a Gerico, è la più elevata collina attorno alla città di David, i lati sono coperti di verdura, la cima è coronata di viti e di olivi. Giunti alla sommità il Figlio di Dio si ferma e dice ai suoi discepoli situati in cerchio attorno a Lui: « E stata a me conferita tutta la podestà in cielo ed in terra, istruite tutte le genti battezzandole nel nome del Padre del Figliuolo e dello Spirito Santo; insegnando loro di osservare tutto quello che Io vi ho comandato, ed ecco che Io sono con voi in ogni tempo fino alla consumazione dei secoli ». – Nel tempo stesso Egli aprì loro l’intelletto affinché comprendessero, affinché intendessero le Scritture e vedessero che tutto ciò ch’era stato annunziato dai profeti a proposito di Gesù Cristo si era adempiuto nella persona di Lui. « Testimoni voi di tutte queste cose, Ei soggiunge, non dovete obliarle. Io sto per mandare sopra di voi il dono del Padre mio che vi è stato promesso; ma fino a qual momento restate nella città finché non siate stati rivestiti della forza di lassù». – Per consolarli della sua partenza e per mostrar loro che tutti i suoi passi erano guidati dall’amore di loro: « È per voi vantaggioso, diss’Egli, ch’Io me ne vada; se Io non me ne vo, lo Spirito non verrà in voi ». E che, mio Salvatore? Dunque la vostra presenza sensibile è un ostacolo alle comunicazioni dello Spirito Santo? Ciò sembrano indicare le vostre parole: ora quale ne è il significato? – In principio fu necessario distaccare gli Apostoli dall’amore delle cose sensibili col mezzo dell’amore della presenza sensibile del Figlio di Dio nella nostra carne. Ma ilSalvatore non volle affezionarli per un certo tempo alla sua presenza visibile fuorché per abituarli insensibilmente all’amore della giustizia, della verità, della carità, dell’umiltà e di tutte le altre virtù di cui dava loro tanti mirabili precetti e tanti illustri esempi. L’amore di Gesù Cristo è utile ed anche necessario a coloro che incominciano, ma sarebbe finalmente nocivo a quelli che debbono transitare dall’infanzia spirituale ad una età e ad una condizione più perfetta, nelle quali essi debbono amare Gesù Cristo come Dio, come eterna verità, come incorruttibile giustizia e santità. Ecco perché fu necessario che Gesù Cristo salisse al cielo, senza di che gli Apostoli non avrebbero potuto amarlo di amore puramente spirituale, e non avrebbero per conseguenza potuto ricevere il suo Spirito Santo. Ma è giunto ormai il momento supremo; il precettore dell’uman genere sta per privare il mondo della sua presenza visibile; la bocca divina che ha istruito l’universo è per chiudersi. Era giorno di giovedì, verso il meriggio, il dì quarantesimo dopo la risurrezione, quando il Salvatore gettando per l’ultima volta i suoi sguardi su la sua santa Madre e sopra i discepoli, stese le mani, li benedisse e fu rapito di mezzo a loro. Come nella sua risurrezione egli era uscito dalla tomba per suo proprio potere, così si alzò del pari nella sua ascensione senza abbisognare, a guisa di Elia, di carro di fuoco, né di Angeli, né di alcuno estraneo soccorso. Una splendida nube, simbolo della sua gloria, lo avvolse, e questo nuovo carro trionfale lo tolse ben presto alla loro vista. – Mentre erano tutti intenti a considerarlo, due Angeli, simili a due bei giovani, apparvero loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state mirando verso il cielo? Quel Gesù, il quale tolto a voi è stato assunto in cielo, cosi verrà, come l’avete veduto andare in cielo». – Avendolo dunque i discepoli adorato, prostrandosi con la faccia per terra, e avendo baciato le orme dei suoi tornarono giubilanti a Gerusalemme rimasero aspettando l’adempimento della promessa che aveva fatta loro il Signore e rimpiegando il tempo dell’aspettativa a lodare Iddio, a prepararsi coll’orazione al grande avvenimento. – Ecco pertanto narrata in succinto la partenza del Cristo da questa terra, che la sua mano potente aveva creata nel dì che trasse le cose dal nulla, e che aveva in seguito bagnata del proprio sangue nel giorno della redenzione.

II. Vestigie dei piedi di Nostro Signore. — Dal punto più elevato del monte degli Olivi il Salvatore sali al cielo, e quivi lasciò le vestigie de’ suoi piedi divini, impressi nel posto ove egli toccò la terra per l’ultima volta. Molti secoli le hanno vedute, le hanno baciate con rispetto e bagnate di lagrime di pentimento e d’amore. San Girolamo, san Sulpizio Severo, san Paolino di Nola, sant’Ottato, sono testimoni irrefragabili di questo fatto miracoloso; e alla loro autorità si aggiunge quella di sant’Agostino. « Si va in Giudea, dice l’illustre vescovo d’Ippona, per adorare le vestigia de’ piedi di Gesù Cristo che si vedono nel luogo dove Ei salì al cielo ». [“Ibi sunt vestigia cius, modo adorantar ubi novissime stetit, unde ascendit in coelum. S. Aug. XXXVII in Joan.]. – Nel tempo dell’assiedio di Gerusalemme fatto da Tito, l’esercito Romano stette molto tempo accampato sul monte degli Olivi, senza che né il movimento dei soldati, né lo scalpitare dei cavalli, né i lavori dell’accampamento, pei quali non si poteva a meno di rivoltare la terra, potessero scancellare quelle sacre vestigia. – Si scorgevano tanto bene al tempo dell’Imperatrice Elena, madre del gran Costantino, che quando quella pia principessa fece edificare la basilica dell’Ascensione, nel luogo stesso della montagna, da dove si sapeva che Gesù Cristo era salito al cielo, si volle lastricare e coprire di marmo l’orma dei piedi egualmente che il resto di quella magnifica chiesa, ma giammai si poté venirne a capo. Tutto quanto vi si poneva sopra era rigettato da una forza invisibile, e fu di mestieri lasciare il sito scoperto e nello stato in cui siera trovato. Fin da quel tempo divenne uno dei dei grandi oggetti di devozione per i cristiani che, pellegrinando da tutte le Provincie dell’impero e di tutte le nazioni straniere, si recavano a visitare i luoghi santi. – San Girolamo racconta a questo proposito un altro splendido miracolo: «Quando vollero, dice il gran dottore, finire il tetto della Basilica dell’Ascensione fu impossibile chiudere la volta che corrispondeva perpendicolarmente al posto delle vestigia del Signore. Furono costretti a lasciar libero e scoperto lo spazio dal quale Egli era innalzato da terra e veniva accolto dalle nubi; il che permetteva ai fedeli di contemplare il sentiero che Gesù Cristo aveva preso per salire al cielo ». – Le cose erano tuttavia in questo stato verso la fine del settimo secolo, quando un vescovo di Francia, chiamato Arnolfo, visitò i luoghi santi. Nel medio evo l’edificio fu distrutto dai Saraceni; finalmente un viaggiatore che giunse da poco tempo dalla Palestina, il reverendo padre de Geramb, parla in tal guisa: «Sulla sommità del monte degli Olivi si trova una moschea, sul ripiano della quale era anticamente una chiesa della più gran magnificenza, fabbricata da sant’Elena nel luogo dal quale Gesù Cristo salì al cielo dopo la risurrezione. Questa moschea che minaccia rovina è circondata da miserabili casupole abitate da Turchi. Nel centro, in una specie di cappella, si vede l’orma impressa nel masso dal piede sinistro di Nostro Signore nel momento di lasciare la terra per salire al cielo. Si assicura che i Turchi hanno sottratto l’impronta del piede diritto e l’hanno sotterrata per poi trasportarla nella moschea dal tempio. Quanto all’impronta del piede sinistro, ella esiste in modo da non lasciare alcun dubbio, quantunque sia ora alquanto consunta dagl’innumerabili baci che da più secoli i pellegrini non cessano d’imprimervi, e fors’anche da qualche devoto furto, che un’attenta vigilanza non ha potuto impedire ».

III. Ingresso trionfale nei cieli di nostro Signore Gesù Cristo. — Il Figlio di Dio che aveva lasciata sul masso l’impronta dei suoi piedi, come un monumento eterno del suo passaggio sopra questa terra, che Egli aveva santificata col proprio sangue, si avanzava rapidamente verso la Gerusalemme celeste. Ma quale armata invisibile, quali carri di fuoco plaudono al suo trionfo? Ecco Egli è accompagnato dagli antichi patriarchi, dai profeti e da tutti gli uomini virtuosi, ai quali il cielo era stato fino allora chiuso, e che Egli innalzava allora seco Lui, menando schiava la stessa schiavitù. Tutti quegli schiavi, ora liberati, seguivano il loro Redentore nel suo trionfo, cantando la vittoria dì Gesù che dopo averli sottratti alla podestà del demonio, gli traeva seco al cielo come trofei della propria vittoria, come ricche spoglie tolte al nemico, come prezzo del suo sangue adorabile, come l’ornamento e la gloria del suo trionfo. « Qual grande qual brillante processione, esclama san Bernardo, alla quale gli apostoli non erano ancora degni d’assistere! » [Serm. II in Ascens., n. 8].Ad un tratto si schiudono le porte eterne. Chi potrà narrare lo stupore degli angeli al vedere la natura umana di Gesù Cristo innalzata al di sopra di loro e collocata a destra di Dio medesimo? Al vedere Gesù Cristo che come uomo era stato ignominiosamente condannato e messo a morte sulla terra ora riconosciuto come il Signore di tutto il creato e come il supremo Giudice degli uomini?E in questo giorno la Chiesa della terra unendosi alla Chiesa del Cielo palesa il proprio entusiasmo per celebrare il trionfo del suo Sposo e del suo capo; l’uffizio dell’Ascensione spira la più viva gioia ed è accompagnato da una processione particolare. Essa è stata instituita col disegno di figurare la gita degli Apostoli da Gerusalemme a Betania, e di là al monte degli Olivi per vedervi nostro Signore salire al cielo, e il loro ritorno a Gerusalemme, per ivi prepararsi nella solitudine a ricevere lo Spirito Santo, ecco il perché essa non deve farsi che dopo terza, cioè dopo le ore nove. In fatti in quel momento il Salvatore, accompagnato dai suoi discepoli, salì la santa montagna. Deh! nel giorno dell’Ascensione richiami alla mente ciascuno di noi le circostanze di questo viaggio: pensiamo tutti che siamo noi medesimi che accompagniamo il Salvatore; abbandoniamo il cuor nostro ai sentimenti della fede; sopra tutto non dimentichiamo che diciotto secoli ci precedono nella celebrazione di questa festa gli esempi, la divozione, le lagrime pie, i santi desideri dei padri nostri ci tornino al pensiero, e allora credetemi, questa festa, questa processione non ci saranno più indifferenti.

IV. Mezzi di celebrare degnamente la festa dell’Ascensione. — Frattanto questo mistero, sì idoneo a svegliare l’allegrezza degli spiriti beati, non deve essere un soggetto di duolo per noi che rimaniamo orfani sulla terra? « Qual parte ho io a queste solennità? dice san Bernardo? » [Serm. III in Ascen. Dom.]. – E che? Obliate voi, o gran santo che tutti i passi di nostro Signore sono inspirati dall’amor suo? Ecco i motivi del vostro giubilo. – 1° Gesù Cristo sale al cielo a prender possesso della sua gloria, e godere dei frutti delle sue umiliazioni e dei suoi patimenti. Per un figlio pietoso si potrebbe mai aver soggetto più grande di gioia, che il vedere suo padre trionfante e ricco delle spoglie dei nemici suoi, entrare al possesso di quel riposo e di quella gloria guadagnatosi con lunghe fatiche e molte battaglie, e vederselo onorato, esaltato, benedetto da tutto l’universo? – 2° Gesù Cristo sale al cielo per inviarci lo Spirito consolatore, quello Spirito che doveva rigenerare il mondo intero a quel modo che fecondò il caos nel giorno della creazione. “Se io non me ne vo, dice Gesù Cristo, non verrà a voi il paraclito”. Se il Padre nostro ci priva della sua presenza sensibile, ciò non fa per lasciarci orfani, ma per riempire i nostri cuori dei doni preziosi dello Spirito Santo. Preghiamo dunque e sospiriamo, affinché il divino Consolatore ci trovi degni delle sue i nfrazioni; preghiamo che rischiari il nostro intelletto e che purifichi il nostro cuore. Il serpente di Mosè divorò tutti i serpenti dei maghi; lo spirito deve egualmente consumare tutte le nostre propensioni e tutti i nostri appetiti sensuali. In questo gran giorno diciamo al Salvatore per noi e per il mondo intiero: Inviate il vostro spirito, e tutto sarà creato, e voi rinnoverete la faccia della terra; ella ne ha gran bisogno!!! – 3° Gesù Cristo sale al cielo per aprircene le porte e prepararvi il nostro luogo. La vittoria di Gesù Cristo è completa. Nuovo Adamo Egli apre al genere umano il cielo chiuso dai peccati del primo Adamo. Qual nobile orgoglio deve far palpitare il mio cuore! Io ho un seggio nel cielo: si, io povera e meschina creatura, io sebbene coperto di cenci, io mendicante, io umile pastore, io oscuro agricoltore, io debole fanciullo, io sconosciuto, forse disprezzato da tutti, io ho un seggio nel cielo! Demonio invidioso della felicita dei nostri primi padri, oh! tu sei vinto! Osserva, la nostra natura era maledetta e condannata all’obbrobrio, e ad un tratto ella è esaltata, e il cielo le è aperto; noi eravamo indegni della vita e siamo chiamati all’immortalità; in Gesù Cristo, questa umana natura, che tu avevi contaminata, occupa il primo posto in cielo; e ciò che fu l’oggetto dei tuoi sarcasmi sacrileghi è adorato dagli Angeli; osserva bene, questa stessa umana natura perseguitata dal tuo furore, di cui tu credevi aver cagionata la perdita, è adesso coronata in cielo, essa occupa il tuo posto e quello dei tuoi angeli maledetti; essa è nel cielo e tu sei nell’inferno, dopo ciò ti rallegra, se puoi, della tua invidia e delle tue menzogne. – Così in Gesù Cristo nostro capo noi siamo oggi in possesso del cielo; egli vi è salito in qualità di foriero; il foriero suppone qualcuno che viene dietro a lui; e questo qualcuno sei tu, sono io, è tutto il genere umano, perché Gesù Cristo è morto per lutti gli uomini.

4° Gesù Cristo sale al cielo per conservarci i nostri posti. Non contento di averci sgombrata la via della Gerusalemme celeste, di averne schiuse le porte, di averci preparato dei posti, Gesù Cristo vuole assicurarcene il possesso. Che fa Egli nel cielo? Come avvocato Ei patrocina incessantemente la nostra causa. Miei figli, diceva il discepolo prediletto, io vi scrivo queste cose, affinché voi non pecchiate: ma se qualcuno ha peccato non si disanimi; noi abbiamo un avvocato presso il Padre ed è Gesù Cristo il giusto, Egli che ha sparso il proprio sangue non solamente per i nostri peccati ma anche per quelli del mondo intero. Pontefice eterno, Ei ci riconcilia col Padre suo, presentandogli le stimmate delle proprie piaghe rimaste nelle sue mani e nei suoi piedi adorabili; poi, continuando sopra la terra il Sacrificio del proprio corpo e del proprio sangue, Ei l’oppone costantemente come un infallibile parafulmine alle folgori della divina vendetta. Primogenito dei suoi fratelli (e i suoi fratelli siamo noi) Ei fa valere a nostro favore i suoi titoli sacri al paterno retaggio. Come Dio, Ei vi ha diritto per natura: come uomo Ei vi ha diritto pel suo sangue; il cielo è sua conquista, ed Ei lo ha conquistato per noi.

V. Armonia di questa festa con la stagione in cui ricorre. — Seguiamo dunque l’aquila generosa che si lancia oggi verso il cielo: noi siamo i suoi aquilotti; Egli stende le proprie ali, e ci invita a posarci su di esse per seco trasportarci. « Ma rammentiamoci, dice sant’Agostino, che l’orgoglio non sale al cielo insieme col Dio dell’umiltà, né l’avarizia col Dio povero, né la mollezza col Dio dei dolori, né l’impurità col figlio della Vergine, né i vizi col padre delle virtù ». Solleviamo i cuori; solleviamoci; strappiamoci alle affezioni che ci degradano; si salga; si salga sempre; tutta la natura c’invita; sembra che ella pure voglia salire al cielo. Osservate in qual modo, al tempo dell’Ascensione, tutte quelle miriadi di giovani augelletti che escono dai loro nidi provano il primo loro volo verso il cielo! Osservate le piante che spingono i loro deboli germogli verso il cielo; osservate gli alberi che slanciano i loro nascenti rami verso il cielo. In alto, in alto i cuori! egli è questo l’invito dell’intera natura. – Sant’Agostino scorge di più un’altra armonia tra la festa di questo giorno e la stagione in cui ella viene celebrata. « Autore della natura e della grazia, Dio ha voluto, dice questo gran dottore, mettere qualche analogia tra i misteri del Figlio suo e le stagioni dell’anno. Il Redentore viene al mondo quando i giorni sono più brevi e incominciano a crescere, per significare che Ei trova il mondo nelle tenebre e che Ei vi reca la luce; e muore e risuscita nel plenilunio del primo mese. Allora quell’astro, che per le sue variabilità è l’emblema delle cose caduche, è totalmente oscurato nella sua parte che guarda il cielo, e non ha luce e bellezza che nella parte che guarda la terra; però Ei comincia a rivoltarsi dalla terra e a ravvicinarsi al sole per non ricever luce e chiarezza che dalla parte del cielo. « Questo spettacolo è in perfetta armonia con la morte e con la risurrezione del Salvatore; per mezzo delle quali noi volgiamo verso il sole di giustizia tutta la propensione che avevamo verso la terra. Il Figlio di Dio è salito al cielo ed ha inviato il fuoco del suo santo spirito verso il tempo in cui il sole è nel suo apogeo, cioè nella sua più grande elevazione, nella sua maggiore distanza della terra; nuova armonia che ci rammenta che dopo essersi sollevato dalla terra, Gesù Cristo ha sparso nel mondo le più vive fiamme della sua carità » – Questi mirabili rapporti, di cui la mente abituata a riflettere conosce tutta la realtà, si provano assai bene per l’analogia delle leggi divine. Infatti poiché l’autore della grazia è anche il Creatore della natura, non era forse conveniente che Ei ponesse armonia tra queste due grandi opere, affinché i cambiamenti che accadono nella natura, egualmente che lo spettacolo dell’universo, anziché distrarci richiamassero il nostro spirito ai pensieri della religione? Se si aggiunga a questa osservazione quello che abbiamo detto circa la storia del genere umano nella quale Iddio ha anche voluto scrivere a grandi caratteri la verità della Religione cristiana, noi dovremo concludere che la natura, la storia universale del genere umano e l’economia della Chiesa sono tre libri meravigliosi, tra i quali regna una straordinaria armonia: libri ad un tempo semplici e sublimi, che si rendono testimonianza l’uno altro ed ove Dio ha scolpito a caratteri di fuoco tutto ciò che è necessario per distaccare da questo mondo i nostri pensieri e le nostre affezioni e per innalzarle al cielo insieme con Gesù Cristo

VI. Origine di questa festa. — La festa dell’Ascensione risale ai tempi apostolici, e le prime età della Chiesa videro istituirsi la processione che oggi pure si compie in memoria del viaggio di nostro Signore e degli apostoli sul monte de. Olivi, dove il divino Maestro benedisse i discepoli e in loro presenza abbandonò la terra! Questa festa è il complemento di tutte le solennità di nostro Signore e il felice termine del suo viaggio sopra la terra. Laonde così pure deve avvenire di noi tutti; noi siamo figli di Dio, e dobbiamo ritornare a Lui; egli è questo il fine ultimo della vita.

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio che siate salito al cielo per aprirmene la porta e prepararmi un posto; fatemi grazia ch’io quivi mi riunisca a voi. – Mi propongo d’amar Dio sopra tutte le cose e il prossimo come me stesso, per amor di Dio, e in prova di questo amore, io guarderò spesso il cielo, dicendo: colà vi ha un posto che mi attende.

 

 

 

VIGILIA DELL’ASCENSIONE

Dopo i giorni delle rogazioni, ci accingiamo alla …

VIGILIA DELL’ASCENSIONE

[Dom Guéranger, l’anno liturgico, vol. II]

Il terzo mattino delle Rogazioni è passato; si ode ormai l’ora del mezzogiorno che viene ad aprire l’ultima giornata che il Figlio di Dio passerà insieme agli uomini sulla terra. Potrebbe sembrarci di aver perduto di vista, durante questi tre giorni, il momento così vicino della separazione; ma i sentimenti della perdita che ci minaccia viveva in fondo al nostro cuore, e le suppliche che presentavamo al cielo, in unione con la santa Chiesa, ci preparavano a celebrare l’ultimo dei misteri dell’Emmanuele.

I discepoli al Cenacolo.

Ora i discepoli sono tutti uniti a Gerusalemme, stretti intorno a Maria nel Cenacolo e aspettano l’ora in cui il Maestro si manifesterà per l’ultima volta. Raccolti e silenziosi rivivono nei loro cuori tutte le prove di bontà e di condiscendenza che egli ha loro prodigato in questi quaranta giorni, e gli insegnamenti che hanno ricevuto dalla sua bocca. Adesso lo conoscono, sanno che è venuto da Dio; da Lui hanno appreso quale sia la missione, alla quale li ha destinati: saranno loro, uomini ignoranti, che istruiranno tutti i popoli della terra. Ma ormai. Egli si prepara a lasciarli: « ancora un poco e più non mi vedrete » (Gv. XVI, 16).

Preghiera.

O Gesù, nostro Creatore e fratello nostro, noi ti abbiamo seguito fin dalla tua nascita con gli occhi e con il cuore; nella Liturgia abbiamo celebrato ciascuno dei tuoi passi da « gigante » (Sal. XVIII, 6) con speciali solennità; ma osservando la tua continua elevazione, nell’opera redentrice, dovevamo prevedere il momento nel quale saresti andato a prendere possesso del solo posto che ti conviene, del trono sublime dove starai eternamente assiso alla destra del Padre. Lo splendore che ti circondava dopo la resurrezione, non era di questo mondo; e Tu non puoi più restare con noi. In questi quaranta giorni, ti sei trattenuto con noi soltanto per consolidare la tua opera; e domani, la terra, che ti possedeva da trentatré anni, sarà priva di Te. Noi ci rallegriamo del trionfo che ti aspetta insieme con Maria tua Madre, ai discepoli che ti sono sottomessi alla Maddalena ed alle sue compagne; ma alla vigilia di perderti permetti anche ai nostri cuori di provare un sentimento di tristezza poiché Tu eri l’Emmanuele, il « Dio con noi », e d’ora in avanti sarai l’astro divino che aleggerà su noi e non potremo più né vederti né toccarti con le nostre mani, o Verbo di Vita! (I Gv. i, i). Tuttavia diciamo ugualmente: a Te sia gloria e amore! poiché ci hai trattati con una misericordia infinita. Tu non ci dovevi niente, noi eravamo indegni di attirare i tuoi sguardi, e sei sceso su questa terra macchiata dal peccato, hai abitato tra noi, hai pagato il nostro riscatto con il sangue, ristabilendo la pace tra Dio e gli uomini. Sì, adesso é giusto che Tu ritorni a Colui che Ti ha mandato (Gv. XVI, 5). – Noi sentiamo la voce della Chiesa che accetta il tuo esilio, e che non pensa che alla tua gloria: « Fuggi diletto mio, ed imita la gazzella o il cerbiatto sul monte degli aromi » (Cant. VIII, 14). Potremmo noi, peccatori come siamo, non imitare la rassegnazione di colei che é, allo stesso tempo, tua Sposa e nostra Madre?

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -V- di mons. J. J. Gaume [capp. XVI-XIX]

CAPITOLO XVI

EUROPA.

I.

I privilegi di cui godevano i Druidi, attiravano loro una infinità di discepoli che venivano da tutte parti. Gli uni erano mandati dai genitori; gli altri venivano da per loro stessi. Tutti, durante i loro studi, menavano una vita separata dal mondo; perché i Druidi tenevano le loro scuole, e dimoravano nelle foreste di querce, e qualche volta negli antri.

II.

II loro insegnamento religioso consisteva in quattro punti principali: l’adorazione degli dèi, l’immortalità dell’anima, il divieto di far male ad alcuno, e l’obbligo d’essere coraggiosi. Quanto alle dottrine umane, insegnavano la medicina, l’astronomia, il corso della luna, e insegnavano a conoscere dal moto degli astri la volontà degli dèi. La dottrina dell’immortalità dell’anima faceva che i Galli, in bruciare i loro morti, mettessero nel rogo o nell’urna funerea, un conto esatto degli affari del defunto, affinché se ne potesse servire per essere più felice nel cielo, o meno infelice nell’inferno. Era anche una costumanza assai ordinaria fra essi quella di prestarsi l’argento in questo mondo, con obbligazione di restituirlo nell’altro. Di più scrivevano lettere ai morti, convinti che i defunti le avrebbero lette nei loro ozi.

III.

Le loro lezioni, come quelle dei Germani, consistevano principalmente nel fare imparare a memoria ai loro discepoli una gran quantità di versi senza scriverli. Ciò richiedeva molto tempo, e non si permetteva di mettere in iscritto alcuna cosa. Così alcuni dei loro discepoli passavano sino a venti anni, occupati unicamente in questo genere di studi. – « Io credo, dice Cesare, che essi proibiscano di scrivere per due ragioni; la prima, affinché la loro dottrina non fosse conosciuta da nessuno, e sembrasse più misteriosa. La seconda, affinché coloro che sono obbligati ad apprendere questi versi, non avendo l’aiuto dei libri, siano più solleciti nel coltivare la loro memoria. »

IV.

Oltre alcune verità apprese dalla tradizione, i Druidi insegnavano delle superstizioni, che aveva comunicato loro il padre della menzogna. Ne riferiamo qui due ridicole e celebri sia l’una che l’altra. I Galli si servivano della verbena per trarre le sorti e formare i responsi. I Druidi erano pressoché pazzi per quest’erba. Pretendevano che stropicciandosela addosso, si ottenesse tutto ciò che si voleva, che fugasse le febbri, riconciliasse i nemici, e guarisse ogni sorta di malattie. – Ma bisogna coglierla nel momento della canicola, avanti il levar del sole e della luna, e dopo aver offerto alla terra fave e miele in sacrificio espiatorio. Bisognava nel coglierla scavar la terra all’intorno con un coltello nella mano sinistra, facendo saltare la terra per aria; quindi far seccare all’ombra stelo, foglie e radice, separatamente.

V.

Questo relativamente alle guarigioni. Quanto poi al successo degli affari, i Druidi vantavano soprattutto una specie d’uovo, conosciuto da essi soli e dai loro iniziati. Quest’uovo, dicevano, era formato da una quantità prodigiosa di serpenti, i quali vi deponevano sopra della bava e della schiuma che usciva loro dal corpo. Gli si dava perciò il nome d’anguinum. – Al sibilo dei serpenti, l’uovo si sollevava in aria, e bisognava raccoglierlo per aria, per timore che non cadesse a terra. Quegli che aveva avuto il bene di raccoglierlo, doveva prender tosto un cavallo e fuggire, perciocché i serpenti correvano tutti dietro a lui, fino a che fossero arrestati da una fiumana che loro impedisse il cammino.

VI.

Per farlo valere sempre più, i Druidi dicevano che bisognava raccoglierlo in un dato giorno della luna. Colui che aveva la gran fortuna di soddisfare a tutte queste condizioni, era sicuro di vincere in tutte le liti, e d’aver sempre libero l’accesso ai re. Il demonio, sempre geloso di farsi onorare nel serpente, aveva, pare incredibile, messo in voga questa superstizione, e le aveva conciliato credenza. « L’è una superstizione sì grande, dice Plinio il naturalista, che l’imperatore Claudio fece morire un cavaliere romano del Delfinato, solo perché portava uno di queste uova in seno per vincere una causa. »

VII.

Ogni anno i Druidi tenevano un’assemblea generale in un luogo sacro del paese di Chartres, il qual luogo era un’immensa ed oscura foresta di querce. I Galli vi si portavano da tutte le provincie, per sottometter le loro liti ai Druidi che le giudicavano senza appello. Siccome Dio ha lasciato sempre qualche testimonianza di se, i Druidi furono alcune volte quel che erano le Sibille dell’Oriente: annunziarono cioè alcuni dei grandi misteri dell’avvenire. È più che probabile aver essi in una di queste riunioni generali in mezzo alle oscure foreste di Chartres, che fu come il loro quartier generale, annunziato il divin parto della santissima Vergine. E infatti tra quei boschi famosi, fu trovata la celebre iscrizione: « Virgini parituræ, Druides: Alla Vergine che deve partorire, i Druidi. »

VIII.

Nelle Gallie, non vi erano solo i Druidi, vi erano anche le Druidesse. Queste vergini o donne ammaestrate dai Druidi, partecipavano alla loro autorità religiosa e civile, e davano dei responsi. Più ancora degli uomini, sottoposte all’influenza del demonio, facevano cose straordinarie, che non si possono negare senza negar la storia. Vi erano tre sorte di Druidesse: le une custodivano sempre la verginità, come quelle dell’isola di Sain sulle coste della Bretagna; altre sebbene maritate, erano obbligate alla continenza ed a restar sempre nei templi, al cui servizio erano addette. Quelle della terza classe non si separavano affatto dai loro mariti, allevavano i loro figliuoli, ed attendevano agli affari della famiglia.

IX.

Secondo che rapporta Tacito, i Germani credevano che le giovani della loro nazione fossero dotate di santità e di conoscere l’avvenire. I Galli avevano la stessa opinione rispetto alle loro. Di qui l’immensa autorità, onde godevano le Druidesse. Vi fu un tempo, anteriore alla conquista romana, in cui le Druidesse decidevano della pace e della guerra, e dei più importanti affari dello Stato. Godevano ancora di questo potere sovrano, e rendevano la giustizia, allorché Annibale passò le Alpi, per portar la guerra in Italia.

X.

Uno degli articoli dell’alleanza conchiusa tra lui e i Galli era, che se un Gallo avesse da lagnarsi d’un Cartaginese, il Gallo porterebbe la sua lagnanza davanti ai magistrati che il senato di Cartagine avrebbe stabiliti in Ispagna; ed allorché un Gallo arrecasse qualche torto a un Cartaginese, la causa sarebbe portata davanti al tribunale delle donne dei Galli. – La reputazione delle Druidesse non era punto ristretta nei confini della Gallia; essa si estendeva dappertutto e faceva sì che le Druidesse rappresentassero una grande figura nel mondo. Tutti premurosamente le consultavano, e tenevano per oracoli le loro decisioni.

XI.

Sacerdotesse degli idoli, le Druidesse avevano il dritto d’offrire sacrifici, ed oimè! offrivano sacrifici umani. Vestite d’una tunica bianca, che attaccavano con borchie, e stringevano con una cintura di rame, con i piedi scalzi accompagnavano gli armati al combattimento. Appena i Galli avevan fatto dei prigionieri, esse attraversavano l’armata, con alla mano una spada snudata, volavano addosso ai prigionieri, li gettavano a terra, li strascinavano a un labrum, che era una vasca della capacità di venti anfore. Vicino al labrum era un rialto, sul quale montava la Druidessa sacrificatrice; immergeva un coltello nella gola di ciascuna vittima, e toglieva i suoi auguri dal sangue che colava nel labrum. A misura che scannava quegl’infelici, altre Druidesse gli afferravano, gli sparavano, frugavano nelle loro viscere, e ne ricavavano predizioni sugli affari della nazione.

XII.

Le Druidesse erano vere maliarde, la cui generazione s’è perpetuata lungo tempo nelle Gallie. Bisogna rimontare ad esse per trovar 1’origine di quelle assemblee notturne, a cielo scoperto, presiedute dal demonio, il cui spirito di lussuria si pasceva di abominazioni tali da far impallidir la luna. Un dotto canonista del dodicesimo e tredicesimo secolo, Burchard, riferisce i numerosi decreti che si erano fatti sino ai suoi giorni, per condannar queste assemblee notturne. Quindi si leva con energia contro le donne del suo tempo, tratte dai demoni, trasformati in uomini, dæmonum turba, in similitudinem hominum transformata, i quali entravano in società con tutte le femmine disposte a seguirli. « Demonii e donne, dice egli, sen vanno durante la notte a cavallo a far grandi corse nell’aria, avendo alla loro testa Diana, da cui bisogna dipendano senza riserva, obbedendole ciecamente. La frotta o società appellasi Olila. Le donne tuttora coricate al fianco dei mariti, escono à porte chiuse, sì sollevati nelle nuvole, attraversano l’aria, uccidono senza arma visibile uomini battezzati e riscattati dal sangue di Gesù Cristo; fan cuocere le loro carni e le mangiano. Queste corse sono alcune volte intraprese per combattere altre donne simili, e ferirsi scambievolmente. Del resto, esse affermano che non possono dispensarsi dal trovarsi a queste assemblee nel modo che è detto: Se affirmant necessario et exprecepto facere debere. »

XIII.

Alcuni statuti manoscritti dell’ antico vescovado di Conserans, del tredicesimo o quattordicesimo secolo, fanno anche menzione delle femmine che facevano il mestiere d’andare a cavallo durante la notte con Diana, e facevano iscrivere i loro nomi nel catalogo di tutte quelle del loro sesso, le quali passavano per dee.

XIV.

Ecco l’origine delle Tregende, la cui realtà è messa fuor di dubbio, non solamente dalle costituzioni dei nostri re, dalle testimonianze dei teologi; ma ancora dalle recenti opere de’ signori de Mireville, Des Mousseux, Bizouard, de Lancre, e particolarmente dal fatto giuridicamente provato, che ha avuto luogo in Isvezia alcuni anni sono. Se affermare non è provare, anche negare non è rispondere; e il negar senza ragione è una stoltezza. [Vedi Relig. des Gaulois t. II. Lib. IV. e. XIII.]

CAPITOLO XVII.

I DRUIDI. — IL VISCHIO.

I.

Due fatti principali distinguevano la religione dei Druidi, e per conseguenza dei Galli: la cerimonia del vischio e il sacrificio umano. Il solo vischio della quercia era l’oggetto del loro culto. Perché e donde questa strana superstizione? Prima di tutto richiamiamo alla mente che la quercia è stata tenuta da tutti i popoli antichi come un albero sacro, e come tale onorato d’un culto fiducioso ad un tempo e terribile. Non è difficile spiegare un mistero di tal fatta.

II.

Satana è la scimmia di Dio. Tutto quel che Dio fa per la sua gloria, egli lo contraffa a suo prò. Oracoli, prestigi, templi, altari, sacrifici, pellegrinaggi, non v’ ha cosa santa, di cui non si sia impadronito. L’antica memoria della quercia di Mambre, all’ombra della quale Abramo accolse, sotto la figura di tre angeli, le tre persone della santa Trinità, era un mezzo favorevolissimo per attirare alla quercia di Mambre prima, e poi alle querce ordinarie, la venerazione de’ suoi ciechi seguaci per non conservarne la memoria.

III.

La quercia di Mambre, che vedevasi ancora al quarto secolo, al tempo di san Basilio, fu da tempo immemorabile oggetto di un gran concorso d’ogni sorta genti che venivano dalle diverse parti del mondo, fin dalle più lontane. Questo concorso si cangiò in fiere; e, per dirlo di passaggio, fu in queste fiere che venne venduta una moltitudine d’Ebrei, i quali s’erano ribellati contro i Romani, al tempo dell’imperatore Adriano. (S. Hier. in Jerem., XXXI; et in Zach. X).

IV.

La venerazione che i cristiani portavano a questa quercia, fu tosto cangiata dai pagani in ree superstizioni ed in abominevoli sacrifici. Non poteva essere altrimenti. Da una parte Satana si sforzava di far profanare quel sacro luogo; dall’altra, tutta la contrada era pagana, anche ai tempi d’Abramo. Onde seguì, mercé le ispirazioni gelose dello spirito di menzogna, che i pagani fecero di quella quercia oggetto principale del loro culto, di cui tutto il fondamento era che il Dio del Cielo s’era mostrato ad Abramo e gli aveva parlato sotto quell’albero. Quindi dal credere al far credere agli altri che il Dio del Cielo abitasse sotto quella quercia, era facile il passo: e questo passo fu fatto.

V.

Col progresso del tempo e dell’idolatria trasformandosi e corrompendosi le nozioni primitive, avvenne che in mancanza della quercia di Mambre, presero il costume di riguardare la quercia ordinaria, gli uni come un albero dove il Dio del cielo si compiaceva di far suo soggiorno: gli altri come la figura del Dio del cielo; ed altri finalmente come un albero consacrato per sua natura al Dio del cielo. Siccome tutte le nazioni pagane convenivano che Giove fosse il Dio del cielo, cosi tutti convennero che la quercia fosse la dimora, o la figura, o l’albero di Giove.

VI.

Cosi spiegasi la religiosa venerazione di tutti i popoli dell’antichità verso la quercia, la quale fu presso i nostri antenati più grande che altrove. Nessun di loro, uomo o donna, osava toccar la quercia colla mano. L’uso costante era di lasciarla infracidire sul suo tronco, di non impiegarla ad uso alcuno, neppure a quello del fuoco, e d’esser presi al suo cospetto da un sacro terrore. Quanto si è detto provasi, tra gli altri, dal fatto seguente. Cesare aveva alcuni Galli nel suo esercito. Un giorno ordinò loro d’abbattere alcune querce. Dovettero obbedire; ma con mani tremanti, e penetrati sì vivamente dalla maestà del luogo, da temere che tutti i colpi dati contro le querce non si rivolgessero contro di loro. (Lucan. Lib. III).

VII.

Ciò non è tutto. I Druidi portavano la loro venerazione alla quercia tant’ oltre, che non osavano offrire alcun sacrificio senza la quercia, o senza le foglie, o senza i rami di essa. Giungevano a tale che appendevano e crocifiggevano alle querce e mai ad altri alberi, se non in mancanza di esse, i prigionieri fatti ai nemici, in modo che il loro supplizio era un sacrifìcio in onore dell’albero sacro.

VIII.

Per sempre più dimostrare il loro rispetto per quest’albero misterioso, i Druidi s’erano, come noi abbiamo già notato, fatta una legge di stabilire la loro dimora nei boschi di querce, di tenervi le loro assemblee, di piantarvi i loro tribunali per render giustizia, d’avervi i loro collegi per l’educazione della gioventù gallica; e tutto ciò col fine di non perder mai di vista la quercia, d’essere ognora in grado di potervi fare i sacrifìci o di meditar con maggior raccoglimento sulla divinità, di cui la quercia era il rappresentante.

IX.

Quindi è che i Galli non avevano altri templi che le foreste, e particolarmente le foreste di quercie. « Essi non hanno, dice Tacito, per tempio che una foresta, dove adempiono tutti i doveri della religione. Niuno può avere ingresso nella foresta, se non porta una catena in testimonianza della sua dipendenza da Dio e del sovrano dominio di Dio su lui. – « Se gli avviene di cadere, non gli è permesso di rialzarsi, né è permesso a chicchessia di prestargli aiuto; fa d’ uopo che si strisci sul suo ventre.» [De morib. Germ.]

X.

Veniamo ora alle cerimonie osservate dai Druidi in cogliere il vischio della quercia. Plinio ce ne ha lasciata la descrizione. « I Druidi, dice egli, che sono presso i Galli quel che sono i maghi altrove, non hanno nulla di più sacro quanto la quercia ed il vischio da essa prodotto. Scelgono dunque sempre un legno di quercia. Hanno di quest’albero una sì alta idea, che non fanno la più piccola cerimonia senza portare una corona di foglie di quercia. Stimano che tutto ciò che nasce su quest’ albero venga dai cieli, e che sia un segno evidente che Dio lo ha scelto.

XI.

« Il vischio è difficilissimo a trovarsi. Quando lo si è trovato, i Druidi vanno a prenderlo con profondo rispetto. E ciò fan sempre nel sesto giorno della luna, giorno sì celebre per loro, che 1’han preso pel principio dei loro mesi, dei loro anni ed anche dei loro secoli, i quali non sono che di trenta anni. La scelta che fanno di questo giorno, viene da ciò che la luna ha allora molta forza, benché non sia giunta al suo completo accrescimento; finalmente sono tanto prevenuti in favore di questo giorno, che gli danno nella loro lingua un nome che significa: medico di tutti i mali.

XII.

« Allorché i Druidi han preparato sotto l’albero quanto serve al sacrificio ed al banchetto che debbono celebrarvi, fanno avvicinare due buoi bianchi, cui per la prima volta legano insieme per le corna. Poscia un sacerdote rivestito di un abito bianco, sale sull’albero, taglia con una falciuola d’oro il vischio e lo riceve in un sagum (tela bianca). Quindi seguono i sacrifici, che i Druidi offrono a Dio, chiedendogli che il vischio formi la felicità di coloro che lo ricevono. – « Perché credono che l’acqua del vischio renda fecondi gli animali sterili, e che sia uno specifico contro ogni sorta di veleni. » [Hist. Nat., lib. XVI, c. XLIV].

XIII.

Pare certo che la cerimonia del vischio non si facesse che nelle foreste del paese di Chartres, e quando v’era l’assemblea generale dei Druidi. Ora i Druidi non si riunivano che una volta all’anno, e nel paese di Chartres. La cerimonia del vischio era la più solenne della religione. E dunque naturalissimo che i Druidi scegliessero, per compierla, il momento in cui i Galli di tutte le provincie eran riuniti. Infine, quanto a quel che dice Plinio, che il vischio della quercia era difficile a trovarsi, non poteva ciò verificarsi che ne boschi del paese di Chartres, dove i Druidi si radunavano, e dove senza dubbio era sì raro, perchè eravi una legge che vietava di prenderlo altrove che là. – Passiamo ora al secondo punto, più importante ancora, della religione dei Galli: il sacrificio.

CAPITOLO XVIII

IL SACRIFICIO UMANO PRESSO I GALLI.

I.

La Santa Scrittura ci dice che tutti gli dèi dei pagani erano demoni: Omnes dii gentium dæmonia (Ps. XCV). Ora i Galli ne adoravano quattro dei principali, ossia quattro grandi demonii, conosciuti sotto i nomi d’Eso, Tettiate, Taranis, e Beleno. Il primo era il più celebre e il più temuto. Come il suo nome lo indica, sembra essere il Zeus, o il Giove, deus pater, dei Greci e dei Romani. In onore di questi quattro demoni, il sangue umano inondò, durante molti secoli, tutte le Provincie Galliche.

II.

La crudeltà era il carattere dei Galli; quindi quel costume barbaro d’offrire agli dèi quasi esclusivamente vittime umane. Tutti gli autori son d’accordo su questo punto. «Quando v’ha deiGalli, dice Cesare, aggravati da malattie, ed avvolti in guerre ed in pericoli, o immolano per vittime altri uomini, o fan voto d’immolarli. Credono essi che gli dèi si compiacciano di tali sacrifici, come più perfetti; e son persuasi non potersi altrimenti placare la possanza degli immortali dèi, se non se col sacrificare per la vita d’un uomo quella d’un altro uomo.

III.

« Hanno essi istituito pubbliche cerimonie, che quando si compiono questi sacrifici vi ha obbligo di osservare. Hanno simulacri di smisurata grandezza, intessuti di vinchi, i quali riempiono d’uomini vivi, a cui mettono fuoco. Le fiamme subitamente si apprendono, e quei miseri tosto soffocati, esalano lo spirito. Il supplizio degli uomini colti in furto, ladroneccio, od altro delitto, il tengono pel più accetto agli dèi immortali; ma, ove non abbiano vittime fra cotale gente, non lasciano di eleggerne anche fra gli innocenti.

IV.

« I funerali, sono magnifici; e tutto ciò che in vita credono essere stato caro agli estinti gettano sul rogo, non esclusi gli animali; anzi anche i servi e clienti, che sapevasi essere stati loro prediletti, erano gettati sul rogo; e si trovavano ancora parenti del defunto che si gettavano volontariamente nel fuoco, sperando vivere con lui nell’ altro mondo. » [De bell. Gall., lib. VI].

V.

Un’altra maniera di sacrificare gli uomini era quella di trafiggerli con frecce, o d’inchiodarli in croce, o di farne un olocausto con un certo numero d’ogni sorta di bestie, che facevano bruciare entro una gran macchina col fieno, attaccata ad un piolo. Alcune volte riservavano i rei per lo spazio di cinque anni. Quindi li attaccavano ai pali, costruivano all’intorno un gran rogo, che coprivano delle primizie dei loro frutti, e facevano d’ogni cosa un sacrificio ai loro dèi [Strab., lib. IV; Diod., lib. VI, c. IX].

VI.

Per garantirsi dalla peste, quando ne erano minacciati o assaliti, prendevano un povero, che presentavasi volontariamente ed lo nutrivano un anno intero molto delicatamente e sontuosamente, a spese del pubblico tesoro. Dopo il qual tempo, lo rivestivano d’ornamenti sacri, l’ornavano di verbene, e dopo averlo condotto per tutta la città caricandolo di maledizioni, e pregando che tutti i mali, da cui erano afflitti o minacciati, cadessero sopra lui, era precipitato dall’alto d’una roccia. Chi può dire quante volte le grandi rocce della cittadella di Besançon furono testimoni di questo spettacolo?

VII.

Non erano sempre i poveri quelli che servivano per siffatte vittime; procuravasi ancora in tutti i modi di guadagnar qualche persona delle più avvenenti e meglio conformate aliquis de elegantissimis, a forza di denaro, di ricompense e con la prospettiva dell’immortalità fra gli dèi, perché si sacrificasse per la salute della città o della provincia. E in tal caso si osservavano le medesime cerimonie che si osservavano per i poveri; ed alla fine d’un anno si ammazzavano fuori le mura a colpi di pietre.

VIII.

I sacrificii che si facevan per la nazione, per la provincia o per la città, si rinnovavano due volte il giorno, a mezzodì ed a mezzanotte. Gli altari erano formati di grandi e larghe pietre or quadrate in tutti i sensi, or più lunghe che larghe. La parte superiore era incavata a guisa di bacino o di canale, per ricevere il sangue delle vittime. Questi altari che si trovano ancora nelle foreste della maggior parte delle nostre provincie, portano il nome di dolmens. Confesso che non si può vederli senza dire: forse su questa pietra venne immolato uno degli avi miei! forse io stesso, senza il Cristianesimo, vi sarei stato disteso, legato e sgozzato dalle mani d’un drudo.

IX.

Ho detto legato; invero se la vittima doveva esser strozzata od accoppata, incominciavansi dal legarla fortemente, per impedirle di muoversi, temendo che il colpo mortale non andasse fallito, perché era essenziale nel sacrificio che le vittime sembrassero volontarie. Erano tanto rigorosi su questo punto, che allorquando tratta-vasi d’immolar fanciulli, le madri li tenevano fra le loro braccia colmandoli di carezze per soffocar le loro grida [Tertull. ApoL, IX]. –

X.

Abbiam veduto i Galli offrire vittime umane, sia in espiazione dei pubblici delitti, sia per allontanare i castighi meritati: eran le Targelie de’ Greci. Non è da far le meraviglie se le troviamo a Marsiglia, fondata da una colonia di Focesi. Solamente un lungo soggiorno nelle Gallie avea lor fatto adottare il dio principale dei Galli. Anche dopo la conquista dei Romani, essi adoravano, più o meno pubblicamente, il terribile Eso, con la sanguinaria superstizione delle primitive età.

XI.

« Fuori del ricinto di Marsiglia, dice Lucano, vi era un bosco sacro, sul quale non si era mai osato portar la scure, sin dall’origine del mondo. Gli alberi coronavano coi loro rami la terra ov’erano piantati; e dappertutto formavano de’pergolati, dove i raggi del sole non potevano penetrare, e dove regnava una frescura ed un’oscurità perpetua. Questo luogo era destinato a barbari misteri. In ogni canto non si vedevano che altari, sui quali si scannavano vittime umane, il cui sangue zampillando sugli alberi metteva ribrezzo.

XII.

« Le quercie, che mai agitansi al soffio d’un leggiero zefiro, infondon nell’animo un sacro orrore, non altrimenti che l’acqua oscura serpeggiante e scorrente pei diversi canali. Le forme del dio che vi si adora sono senz’arte, e consistono in tronchi rozzi ed informi; il muschio giallo che li copre da capo a pie’ ispira quella tristezza, che vedesi impressa sulla loro scorza. È proprio dei Galli non compenetrarsi di rispetto che verso quei dèi che son rappresentati in strane forme, e il loro timore aumenta in proporzione che ignorano gli dèi che adorano.

XIII

« La tradizione vuole, che questo bosco spesso si agiti e tremi; che allora escano dalle caverne voci strepitose; che i tassi abbattuti si raddrizzino; che il bosco sembri andar tutto in fuoco senza consumarsi, e che le querce siano attorcigliate da mostruosi dragoni. Nessun Gallo, pel gran rispetto che ne hanno, oserebbe abitar questo luogo si temuto; essi il lasciano tutto quanto al Dio. Soltanto a mezzogiorno ed a mezzanotte vi si porta un sacerdote tutto tremante per celebrare i suoi terribili misteri ; ei teme ognora che un qualche dio, a cui il bosco é consacrato, gli si abbia a presentar dinanzi» Ecco una foresta come tanti altri luoghi frequentata.

XIV.

Sotto una forma più espressiva ancora, quei di Marsiglia avevano le loro Targelie. In tempo di peste, prendevano un povero e il nutrivano delicatamente durante un intero anno; desso era una vittima che ingrassavano per satana. Alla fine dell’anno, prendevan quel poveretto, lo conducevan per la città; e caricandolo di anatemi, gli dicevano: Sii tu la nostra espiazione: Esto nostrum peripsema, e lo gettavano nel mare. [Vedi CORX. a LAP., in I cor., IV, 13]. – Questo avveniva in Francia, nella nostra cara e bella patria, prima della predicazione del Clericalismo. Ed oggi vogliono sterminare il clericalismo! E dicono, che tutte le religioni sono egualmente buone!

[N.d.r.- Così abbiamo capito anche da dove deriva l’uso di donare il vischio augurale e di quale augurio si tratti, da chi è stato istituito e ripreso! – E poi la quercia divenuta simbolo di partiti politici … è chiaro adesso di chi sono servi, no?]

CAPITOLO XIX.

EDITTI CONTRO IL SACRIFICIO UMANO. — IL SACRIFICIO UMANO PRESSO GL’INGLESI.

I.

L’ecatombe umane, che da tanti secoli duravano nella Gallia, avevano preso tali proporzioni, che gl’imperatori romani Claudio e Tiberio fecero parecchi editti per farli cessare; ma non vi riuscirono completamente. Solo il sacrificio divino poteva abolire il sacrificio umano. Questo continuò dunque ad offrirsi in segreto, non solo presso i Galli, ma a Roma stessa. Il fatto ci vien rivelato da Tertulliano: Sed et nunc in occulto perseverat sacrum facinus, e dagli altri storici cristiani e profani. Tutti affermano, che i sacrifici umani han continuato, e presso i Galli, e presso gli altri popoli, sino al terzo ed anche al quarto secolo: vale a dire sino a che l’influenza del cristianesimo non si fece sentire in una maniera efficace.

II.

Ond’è che provasi non so quale indignazione, al sentire gli scrittori di Roma pagana inveire contro la barbarie dei nostri padri, come se potessero esserne assoluti i Romani. Non solo noi potevano quanto al tempo anteriore, ma soprattutto quanto a quello in cui essi scrivevano. Questo tempo è quello che nei collegi sì chiama il secolo d’oro. I Romani, dicono Tertulliano, Lattanzio, Minuzio Felice ed altri scrittori del secondo e del terzo secolo, non si sono meno abbandonati a tale barbarie che gli altri popoli, perciocché ancora oggi giorno immolano vittime umane a Giove Laziale » [“Nec Latini quidem huius immanitatis expertes fuerunt; siquidem latialis Jupiter etiam nunc sanguine colitur humano”. Apol.tÌX; Scorp., VIII]. E che cosa possono essi addurre per colorire il terribile sacrificio, che Plutarco descrive coi seguenti termini? « All’appressarsi della guerra dei Galli, sotto la condotta di Viridomare, i Romani si videro costretti obbedire a certi oracoli, contenuti nei libri delle Sibille, e si portarono a sotterrar vivi nel mercato dei buoi due Greci, un uomo ed una donna, e due Galli all’istesso modo; e a causa di questi oracoli fanno ancora di presente, nel mese di novembre, sacrifici tenuti occulti agli occhi del popolo. » [In Marcel.].

III.

Tito Livio e Plinio mostransi di assai buona fede, quando confessano, che questo sacrificio fu ordinato e compito più d’una volta nel medesimo luogo, specialmente al cominciar della guerra punica, che segui quella di Viridomare. [Tit. Liv., XXII, c. LVI; Plin. ; lib. XXVIII, c. II]. – Esempi di tal fatta si moltiplicherebbero sotto la mia penna, s’io non dovessi tenermi breve. Per quel che resta all’Europa antica, mi contenterò dunque di parlare del sacrificio umano presso gli Inglesi.

IV.

Secondo antiche tradizioni, l’Inghilterra fu popolata dai demoni e dalle druidesse. Checché sia di ciò, l’Inghilterra addivenne per i Galli, quel che era la Toscana o l’Etruria per i Romani: il focolare dell’idolatria. A quella guisa che i Romani spedivano regolarmente in Etruria taluni figliuoli delle migliori famiglie, per farli istruire nei misteri della religione; così secondo le relazioni di Cesare, i Galli si recavano in folla nell’Inghilterra, a perfezionarsi nella conoscenza della religione.

V.

Come i Galli, gl’Inglesi avevano in gran numero druidi e druidesse. Ma neppur essi, come i Galli, avevan templi. I loro orrendi misteri si compievano nelle oscurità delle foreste. Tacito, descrivendo la discesa dei Romani nell’isola di Mona, oggi Anglesey, così si esprime: «Posciachè i Romani se ne resero signori, loro prima cura fu d’abbattere i boschi che i druidi e le druidesse macchiavano sempre col sangue d’umane vittime.» Se quegl’isolani avessero avuto dei templi, i Romani non avrebbero mancato di distruggerli, per quella medesima ragione onde avevano distrutto i boschi. Or, siccome Cesare non fa menzione dei viaggi dei Galli in Inghilterra, che per mostrare che essi si conformavano agl’Inglesi su tutti i particolari della religione, se ne conchiude a ragione che neppure i Galli avevano templi.

VI.

Abbiamo veduto che i Druidi delle Gallie godevano di grandi privilegi; or non così i Druidi d’Inghilterra, almeno quanto a ciò che concerne la guerra. I Druidi delle Gallie ne erano esenti, quei d’Inghilterra v’erano obbligati. N’è prova il fatto seguente, riportato da Tacito: « Sotto l’impero di Nerone, Paolino Svetonio prese a rendersi padrone dell’isola di Mona, situata al nord della Bretagna. « Egli trovò sul lido un fonte, difeso da uomini ben armati. Nelle loro file correvano qua e là donne scapigliate, con in mano la face, e vestite a lutto.

VII.

« D’altra parte, i Druidi giravano attorno l’armata, levando le mani verso il cielo e vomitando imprecazioni contro i Romani. Questo spettacolo spaventò i nostri soldati, sino a lasciarsi uccidere senza difendersi. Ma alla fine riprendendo coraggio ed animati dalle parole del generale, fanno avanzar le schiere, uccidono quanti si fan loro avanti, e li bruciano. In seguito fu loro imposto un tributo, e distrutto il bosco sacro, perché si recavano a dovere di religione di sacrificarvi i prigionieri e di consultare gli dèi nelle viscere degli uomini. » [Annal., lib. XIV, e. XXX. Per tutti i particolari sopra di ciò, vedi Histoir de la relig. de Gaulois. 1 vol. in 4]. Fa d’uopo aggiungere, che in Inghilterra, come nelle Gallie ed in tutte le parti del mondo antico, il serpente vivo, il serpente in carne ed ossa era religiosamente adorato. Il suo culto stesso era il principio del sacrificio umano. Ecco ov’era arrivata l’Inghilterra avanti la predicazione del Clericalismo. Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

[Nota d. r.: Oggi il sacrificio umano sta riprendendo nuovamente piede, mascherato da integralismo islamico, da attentati suicidi, da omicidi etnici di massa, da sacrifici rituali nelle logge massoniche, da omicidi indotti dalle droghe liberalizzate, da aborto ed eutanasia, reclamati addirittura dai satanisti come diritti … certo hanno ragione: è il diritto che lucifero vanta sui popoli scristianizzati, sui quali domina nuovamente addirittura facendosi adorare nella falsa chiesa come “signore dell’universo”!]

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -IV- di mons. J. J. Gaume [capp. XIV-XV]

CAPITOLO XIV.

EUROPA – I ROMANI

I.

Dopo la nostra rapida escursione nell’antica Asia, dirigiamo il nostro viaggio verso l’Europa. Senza dubbio questa parte del mondo privilegiata fra tutte, non ci offrirà lo spaventevole spettacolo dei sacrifici umani. I Romani almeno, oggetto d’ammirazione per i collegi, per i licei ed anche per certi piccoli seminari, ebbero costantemente in orrore una simigliante barbarie. La educazione classica non li accusa mai d’avervi preso parte, è vero; ma l’educazione classica non è la storia. Questa ci aprirà i sanguinosi annali, e ci mostrerà che cosa fossero, non solo sotto il rapporto dei costumi, ma anche della crudeltà, quei Romani cosi vantati, che un cristiano non teme di scrivere, doversene adorar le reliquie.

II

È noto che i Romani avevan ricevuto dai Greci una parte delle loro istituzioni, tra le quali quella del sacrificio umano. I Romani dunque avevano, come i Greci, i loro pubblici espiatori, vittime, cioè, scelte e consacrate anticipatamente agli dèi. Nelle pubbliche calamità andavano a prenderle, affin di sgozzarle, nel luogo dove erano nutrite, come il beccaio a prendere nel pascolo il bue per condurlo al macello [“Romani et Græci tempore communis pestis aut luis homines pecullares seligebant, eosque nefando diis devuvebant ad cladem avertendam” – Cor. a Lap. in Levit.  c. XVI]

III.

Ecco, secondo Dionisio d’Alicarnasso, in qual modo andavan le cose: « Gli antichi Romani offrivano a Saturno delle vittime conforme a quelle che i Cartaginesi non cessarono di offrire per tutto il tempo che stette in piedi la loro repubblica, e conforme a quelle ancora offerte ai nostri giorni presso i Galli ed altri popoli dell’occidente, cioè a dire immolavano vittime umane, fanciulli. – « Non so per qual ragione, questa specie di sacrificio fu surrogata dalla seguente: invece degli uomini, che legati piedi e mani, erano precipitati nel Tevere per placare la collera degli dèi, fecero delle immagini simili ai medesimi uomini, rivestite nella stessa maniera. Poco dopo l’equinozio della primavera, agli idi di maggio, i pontefici, le vestali, i pretori e quelli che hanno il diritto d’ assistere ai sacrificii religiosi, gettano nel Tevere dall’alto del ponte sacro trenta immagini o fantocci rappresentanti uomini che essi chiamano Argivi o Greci. Quest’uso i Romani han conservato sino a’ tempi miei. » [Dionigi d’Alicarnasso viveva venticinque anni avanti Nostro Signore. Apud Euseb., Præp. vang., lib, IV, c. XVI].

IV.

I Romani non si contentaron mai di questi simboli di vittime umane, né di alcune vittime isolate. Primieramente, ogni volta che davansi nell’anfiteatro i giuochi in onore di Giove Laziale [“Latialis Iupiter et nunc sanguine colitur humano”. De divin. instit., lib. I, 13] o Laziare, la festa cominciava col sacrificio d’una vittima umana. La festa si rinnovava ogni anno, e durava quattro giorni. « Anche adesso, dice Lattanzio, Giove Laziale è onorato col sangue umano. » – Prudenzio, Dione Cassio e Tertulliano testificano il medesimo fatto. Il grande apologista cosi si esprime : « Ecco che in quella religiosissima città dei pietosi figli d’Enea, havvi un certo Giove, cui nei loro giuochi essi bagnano di sangue umano. » [“Ecce in Illa religiosissima urbe Æneadorum piorum est Iupiter quidam, quem Ludis suis humano proluunt sanguine”. Apol, IX]. – S. Cipriano conferma il fatto, e descrive la maniera con cui si fa l’immolazione. Il sacerdote scannava la vittima, ne raccoglieva ancor caldo il sangue in una coppa, e lo gettava in faccia all’idolo sitibondo. [“Cruor etiam de jugulo calidus exceptus patera, cum adirne fervet, et quasi sitienti idolo, in faciem jactatur crudeliter propinatur”. De spectaculis. Vedi le note sopra Euseb., Praep. evang.» lib. IV, c XV, nota 2].

V.

Secondariamente, i combattimenti de’ gladiatori nell’anfiteatro non erano altro che ecatombe umane offerte agli dèi, in rendimento di grazie per qualche vittoria, o per qualche grande avvenimento favorevole alla Repubblica. Era l’adempimento della promessa fatta dai generali romani, allorquando assediavano una città. Loro prima cura era di pronunciar la formula d’evocazione, colla quale pregavano le divinità protettrici della città, d’abbandonarla e di venire nel loro campo. A questa condizione promettevano loro dei templi e dei giuochi, vale a dire, combattimenti d’uomini, ovvero immolazioni di vittime umane. Per render grazie agli dèi della presa di Gerusalemme, Tito diede cinquemila coppie di gladiatori; vuol dire che egli fece immolare, nello spazio di venti giorni, dieci mila vittime umane.

VI.

Ottavio, che fu poi l’imperatore Augusto, gliene aveva dato l’esempio. Dopo la presa di Perugia, offri egli in sacrificio a’ mani di Cesare trecento cavalieri o senatori romani. [“Trecentus ex diditiis electos, utriusque ordinis ad aram divo Iulio extructam, idibus Martìi hustiarum more mactatos”.— Svet., in Octav. n. 10]. E con ciò non faceva che seguir l’esempio dello stesso Cesare, « Dopo i giuochi che fece egli celebrare pel suo trionfo riportato sopra Vercingetorige (che fu scannato), i suoi soldati s’ammutinarono. Il disordine non cessò che allorquando Cesare presentatosi nel mezzo di loro, afferrò di sua mano uno degli ammutinati per darlo al supplizio. Questi fu punito per tal motivo; ma due altri uomini furono inoltre scannati a mo di sacrificio. E furono immolati nel campo di Marte dai pontefici e dal flamine di Marte. Del resto, continua Tito Livio, era permesso al console, al dittatore ed al pretore, quando maledivano le legioni de’nemici, consacrare alla morte non solo sé stessi, ma anche uno de’cittadini scelto in mezzo ad una legione romana.»

VII.

Quel medesimo “spirito” che ordinava un dì nel mondo pagano i sacrifici umani, gli ordina anche oggidì in tutti i paesi, ove esso continua a regnare senza controllo: là sotto il nome di Marte, di Giove e d’Apollo: qui sotto il nome di Fetisci, o di Manitu. Cosi l’antropofagia sotto una o sotto un’altra forma continua il sacrificio. Gli abitatori dell’Oceania mangiano le loro vittime coi denti, mentre ché i Romani le divoravano cogli occhi, e le assaporavano con gusto. Quelli sono selvaggi incolti, questi erano inciviliti. Presso gli uni e presso gli altri tu trovi la sete, naturalmente inesplicabile, di umano sangue.

VIII.

Guardata attraverso la Roma cristiana, dice il Sig. L. Veuillot, la Roma antica ispira subito ribrezzo. Quei grandi Romani, quei padroni del mondo non appaiono che letterati selvaggi. V’ha forse tra i cannibali cosa di più atroce, di più abominevole, o di più abietto che la più parte dei costumi religiosi, politici, o civili dei Romani? V’ha forse una lussuria più sfrenata, una crudeltà più infame, un culto più stupido? Qual differenza, fosse pur di semplice forma, può farsi tra i Fetisci e gli dèi Lari? Qual differenza tra il capo dell’orda antropofaga, che mangia il vinto suo nemico, ed il patrizio che compra dei vinti, perché combattano sotto i suoi occhi, o si uccidano nei banchetti? » – Questo accadeva presso i Romani avanti la predicazione del Clericalismo! Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

CAPITOLO XV.

EUROPA — UNIVERSALITÀ DEL SACRIFICIO UMANO.—

GALLI — DRUIDI.

I.

Per non ripetere nella storia di ciascun popolo i sanguinosi particolari, di cui abbiam rapidamente delineato un quadro, diremo in generale che il sacrificio, siccome l’adorazione del serpente, ha fatto il giro del mondo antico, e che ha duralo fino alla predicazione del clericalismo. Ci basterà studiarlo più a fondo presso i popoli che c’interessano particolarmente: i Galli ed i Germani.

II

Quanto alla generalità del sacrificio umano, satana, re e dio del mondo antico, lo ha voluto su tutta la faccia della terra. La sua sete di sangue umano, insaziabile come il suo odio, non fu giammai spenta. Sotto mille forme differenti, presentasi alle adorazioni dei figli di Adamo, e domanda il loro sangue, il sangue di ciò che essi han di più caro. Per non ripetere nella storia di ciascun popolo i sanguinosi particolari, di cui abbiamo rapidamente delineato un quadro, diremo in generale che il sacrificio, siccome l’adorazione del serpente, ha fatto il giro del mondo antico, e che ha durato fino alla predicazione del Clericalismo. Ci basterà studiarlo più a fondo presso i popoli che c’interessano particolarmente: i Galli ed i Germani. – Gli Ebrei, i Fenici, i Moabiti, i Siri, i Giapponesi, i Tartari, gli Arabi, gli Egiziani, i Ciri, i Cartaginesi, gli Ateniesi, gli Spartani, gl’Ioni, i Pelasgi, gli Sciti, i Traci, i Taurini, i Germani, i Romani, gli Spagnuoli, gl’Inglesi ed i Galli hanno, per lunghi secoli, portati agli altari i loro simili ed i loro proprii figli.

III.

Tutti gli storici, pagani e cristiani, fan testimonianza di questo fatto mostruoso ed affatto inesplicabile al di fuori delle idee cristiane. Possiamo tra gli altri citare Manetone, Sanconiatone, Filone di Biblo, Erodoto, Platone, Pausania, Giuseppe, Filone l’Ebreo, Diodoro di Sicilia, Dionigi d’Alicarnasso, Cicerone, Cesare, Porfirio, Strabone, Macrobio, Plutarco, Quinto Curzio, Plinio, Lattanzio, Arnobio, Minuzio Felice, S. Cipriano; la più parte dei poeti greci e latini: Ennio, Virgilio, Sofocle, Silio Italico ed altri; e di più alcuni Padri della Chiesa: Tertulliano, Lattanzio, S. Agostino, S. Girolamo.

IV.

Veniamo ai Galli. La loro conoscenza ha per noi un interesse particolare, atteso che furono i nostri padri. Nel vedere la sanguinosa barbarie, nella quale essi erano immersi avanti la predicazione del Clericalismo, la parola ci verrà meno per qualificare quei tra i loro discendenti, che grandemente rei contraccambiano oggi con moneta d’ingiurie, d’odio, di calunnie e di persecuzioni, il Cristianesimo, cui son debitori dei lumi, della libertà, della civiltà e fin della vita.

V.

Presso i Galli esisteva una casta famosa, formidabile tanto per la sua potenza, quanto per la sua crudeltà; la casta dei Druidi, che è pregio dell’opera far conoscere. – I Druidi erano i sacerdoti dei Galli. Scelti tra i nobili della nazione, tutto dipendeva da essi. Formavano un corpo numeroso, distribuito in quasi tutte le province della Gallia, dove avevano collegi per istruir la gioventù, sopratutto la più nobile, la quale spesso abbracciava la loro professione. Fra tutti i privilegi di cui godevano, il principale era di creare ogni anno, in ciascuna città, quello che doveva governarla coll’autorità, e qualche volta col titolo di re. Il potere che continuavano ad esercitare sopra di lui era tale che egli niente poteva fare senza di loro, neppure convocare il suo consiglio. Cosicché a vero dire i Druidi regnavano, ed i re, benché assisi su troni d’oro, tra le pareti di superbe magioni, e nutriti splendidamente, non erano che ministri dei Druidi.

VI.

A loro apparteneva esclusivamente il dritto di regolare tutto ciò che riguardava la religione. Essendo la religione presso i Galli, come lo era presso tutti gli antichi, l’anima della vita pubblica non meno che della vita privata, i Druidi esercitavano un’autorità indipendente. Essi erano giudici nati ed arbitri assoluti dei diversi interessi della nazione, sì pubblici, che privati. Se mai insorgeva questione per qualche delitto, uccisione, eredità, i Druidi erano quelli che vi pronunziavano sopra senza appello. Se qualcuno, fosse anche dei più nobili, si rifiutava di stare alla loro sentenza, gli interdicevano i sacrifica, nel che presso i Galli consisteva la maggior pena. Colui che era così scomunicato, veniva ritenuto siccome un empio ed uno scellerato. Non era più ammesso a far da testimonio nelle cause; gli erano interdette tutte le cariche o dignità; ciascuno lo fuggiva, per timore che il suo incontro o la sua conversazione non gli arrecasse disgrazia.

VII.

I Galli non facevano sacrifici, senza chiamare i Druidi che li offrissero. Questo, non solamente perché i Druidi erano per condizione sacrificatori, e sacerdoti; ma eziandio perché erano stimati siccome perfettamente istruiti intorno alla volontà degli dèi, coi quali si credeva tenessero un intimo commercio. Quindi, allorché i Druidi volevano por termine a una guerra, bastava si presentassero. Fosse anche stato in mezzo alla mischia, essi arrestavano immantinente l’ardor dei soldati.

VIII.

Potentissimi ad arrestare i combattimenti, non lo erano meno ad eccitare alla guerra. La storia ne ha conservato un esempio memorabile. I Druidi non potevano soffrire il giogo dei Romani, che avevano fatto perdere alla nazione la libertà, e ad essi l’autorità. La morte dell’imperatore Vitellio parve loro un’occasione favorevole per rialzarsi. Il perché fan sollevare tutta la Gallia, promettendo, sulla fede d’un oracolo, che ricupererebbe la libertà. Oracolo funesto di cui si conobbe la falsità pel triste successo della rivolta.

IX.

Nulladimeno i Druidi non andavano mai alla guerra. Ne erano essi esenti come dai tributi. Ma dipendevano da un capo supremo, o gran sacerdote scelto tra essi e che godeva della piena autorità. Dopo la sua morte il più degno gli succedeva. Se v’erano più concorrenti, l’elezione si faceva per mezzo dei suffragi, dove solamente i Druidi davano il voto. Se accadeva che non si potessero accordare, si veniva alle armi, ed il più forte era nominato.

X.

Pare che i Druidi vestissero di stoffe dorate, rigate di porpora, e portassero collari e braccialetti alle mani ed alle braccia, come tutti i Galli sollevati alle prime dignità. È almeno certo che nelle cerimonie religiose, erano sempre bianco vestiti, con una corona di quercia sul capo, ed ai piedi sandali di legno pentagoni per distinguersi.

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -II- di mons. J. J. Gaume [cap. VI-X]

J. – J. Gaume: MORTE AL CLERICALISMO -II-

CAPITOLO VI

UNA LEZIONE STORICA

I.

Quando i nostri padri del XVIII secolo leggevano negli Atti dei martiri, gli atroci martirii dei primitivi cristiani, ora ricoperti di pelle di bestie e divorati da cani; ora rivestiti d’una camicia infiammabile, tunica incendialis, e bruciati vivi per servire di fiaccole durante la notte; ora distesi su’i cavalletti e sgraffiati con uncini di ferro; ora sbranati negli anfiteatri dai leoni e dalle tigri: i nostri padri dicevano: Non si rivedranno più siffatti orrori.

II.

Essi dimenticavano che fra l’uomo e la bestia feroce, fra l’uomo de’tempi antichi e l’uomo de’tempi moderni, fra Nerone e san Vincenzo dei Paoli, non vi ha separazione che quella la quale è dovuta al cristianesimo; che, cessando il cristianesimo d’ esercitare la sua salutare influenza, l’uomo si ritrova quello stesso che era prima del cristianesimo. – Essi dimenticavano che la colluvie delle dottrine anticristiane, dai filosofi infuse ogni giorno nell’anima del popolo, finirebbero per ammorzare i sentimenti di giustizia e fino quelli d umanità, dovuti all’incivilimento cristiano; che un giorno verrebbe in cui l’uomo scristianizzato, ricadrebbe nella barbarie, riabbracciandone tutti gl’istinti, e commettendone tutti i delitti.

III.

Coloro de’ nostri padri, i quali vissero sino alla fine del XVIII secolo, videro co’ propri occhi la verità pratica di cotesto inesplicabile ragionamento. Essi, ad apprenderci che non bisogna giurar nulla, han raccontato quel che videro: prestiamo per un momento orecchio alle loro parole. – Era la domenica 2 settembre 1792, verso il mezzogiorno, quando un grido d’allarme risuona dentro Parigi. La plebaglia adunasi da tutti i quartieri, e un grido di morte elevasi da ogni parte. In prigione, in prigione! Bisogna uccidere gli aristocratici. Ed ecco un accorrere precipitoso, e uno sgozzar gente in cinque prigioni a un punto. La prigione dell’Abbazia fu testimone d’un massacro, che eguaglia, se non supera, tutte le atrocità pagane. Il sangue scorreva da ogni parte, i cadaveri s’ammucchiavano gli uni su gli altri: l’atrio n’era ripieno. A misura che le vittime erano immolate, i carnefici portavano nell’uffizio della delegazione le insegne, i portafogli, i fazzoletti grondanti di sangue, trovati nelle saccocce dei prigionieri. Jourdan, presidente della delegazione, avendo dimostrato l’orrore, che questi oggetti gl’ispiravano, senti rispondersi da uno dei commissari: « Quel che più diletta gli occhi dei patrioti è il sangue degli aristocratici. »

IV.

Nel medesimo istante entra uno de’carnefici con in mano una sciabola insanguinata: « Io vengo, disse, a domandarvi le scarpe che quegli aristocratici hanno in piedi; i nostri bravi fratelli sono senza scarpe, e debbono partire domani per la frontiera. » — «Niente è più giusto » rispose la delegazione. Dopo del primo, si fa innanzi un altro carnefice, e domanda del vino per i suoi bravi fratelli. Ed avendoglielo la delegazione concesso, furono in mezzo ai cadaveri alzate delle tavole coperte di bottiglie: i manigoldi si mettono a bere, é le loro mani lasciavano sui bicchieri tracce di sangue.

V.

In questo frattempo arrivò Billand-Varennes, sostituto del procuratore del Comune. Attraversa l’atrio, calpestando i cadaveri, e dice agli assassini: « Popolo, tu immoli i tuoi nemici, e fai il tuo dovere. » Eccitati da queste parole i carnefici continuano il macello con più furore; il sangue scorre tutta la notte. Si massacrava al barlume delle torce, e ciascuna vittima cadeva alle grida di Viva la Nazione.

VI.

Intanto l’atrio dell’Abbazia era inondato di sangue, e talmente ingombro di cadaveri, che appena vi si poteva passare. Per renderlo adatto a nuovi massacri : « Ecco, dice l’abbate Sicard testimone oculare, il partito che fu preso. Si fanno venire delle carrette per toglier via i cadaveri; si fa portare della paglia con cui formasi una specie di palco, insieme cogli abiti delle vittime di già immolate, e su di esso si fan salire quelli che rimanevano ad essere strozzati. « Allora lamentandosi un dei sicari che ciascuno di loro non potesse avere il piacere di ferire ciascuna vittima, fu deciso di farle passare ad una ad una in mezzo a due file di carnefici, con la condizione che non dovesse esser percossa che col dosso della sciabola, e che quando essa fosse salita sul palco, l’avrebbe percossa di taglio o di punta, chi prima avesse potuto. Fu ancora deciso di collocare delle panche attorno al palco per quelle donne e per quegli uomini, che avessero voluto vedere da vicino l’esecuzione, e che essi chiamavano i signori e le signore.

VII.

« Tutto questo io l’ho veduto ed inteso. Ho veduto queste Signore del quartiere dell’Abbazia radunarsi attorno al luogo che si preparava per le vittime, prendervi posto, come avrebbero fatto ad uno spettacolo di piacere. Da quel momento le vittime furono portate nel modo che si era stabilito tra gli assassini. » – Billaud-Varennes apparve una seconda volta, e disse: « Rispettabili cittadini, voi avete scannato gli scellerati, voi avete salvata la patria; la Francia vi deve una riconoscenza eterna; il municipio non sa come sdebitarsi con voi. Senza dubbio, le spoglie di questi scellerati appartengono a coloro, che ce ne han liberati. – Ma senza intendere con questo ricompensarvi, sono incaricato d’offrire a ciascun di voi ventiquattro lire, le quali vi saran pagate immantinenti. Rispettabili cittadini, continuate l’opera vostra, e la patria vi dovrà nuovi omaggi. »

VIII.

Quando egli ebbe parlato, tutti i manigoldi si precipitarono nella sala del comitato per richiedere il loro salario. Chi teneva una sciabola insanguinata, chi una picca ricoperta di umane cervella; chi tra le mani un cuore ancor palpitante; tutti levando in aria queste testimonianze dei loro misfatti, ne domandavano il premio. Fu loro pagata la metà della somma promessa, e ritornarono al massacro. – Ai fianchi delle file, tra le quali si facevano passare le vittime, vi erano due Inglesi, e l’uno rimpetto all’altro, con bottiglie e bicchieri, i quali offrivano da bere ai carnefici, e li pressavano apprestando loro il bicchiere alla bocca. – Ecco quel che, non fa ancora un secolo, avveniva in Francia. E’ raccoglievasi ciò che si era seminato. Ed allora le sementi anticristiane erano venti volte meno sparse di quel che lo siano al presente!

[Histoire du clerge de France, etc, t. II, p. 143].

CAPITOLO VII

UNA LEZIONE STORICA

(Continuazione

 I.

E ora dove siam giunti? Dov’ è giunta la Francia? l’Europa? l’antico e il nuovo mondo? L’insurrezione generale contro il clericalismo ci autorizza ella mai, si o no, a dire: Non bisogna giurar nulla? Lo ripetiamo: si raccoglie quel che si semina. Seminate vento, mieterete tempeste. Ogni regno che insorge contro Dio, perirà. Quando il mondo intero avrà ricusato di riconoscere per suo Dio e per suo Re, l’Agnello dominator de’ secoli, Dio lo spezzerà come un vaso, e la sua ultima ora sarà suonata : “Tamquam vas figlili confringes eos”. – Queste leggi dell’ ordine morale non sono meno immutabili delle leggi del mondo fisico: la storia intera n’ è la prova.

II.

In questo, più che nel secolo passato, si può dire: Non bisogna giurar nulla. Eppure, io dico che si può giurar qualche cosa. I nostri padri han veduto tutta la Francia porre sopra gli altari una prostituta, e adorarla; hanno veduto Parigi, la capitale della civiltà, come la chiamano, innalzare nel piano de Campi-Elisi, un tempio a Cibele, e tutte le autorità elette, seguite dai giardinieri, dagli ortolani, dai fornai, venire ad offrire alla dea le primizie dei beni della terra.

III.

E noi stessi che abbiamo veduto? Nel 1830, 1848, 1871, abbiamo veduto a Parigi, come altra volta a Roma, i buoi dalle corna dorate figurare con le teorie greche9 nelle processioni in onore della dea dell’Agricoltura; la dea Ragione, in carne ed ossa riapparire in una processione sacrilega a Parigi, ed a Versailles; migliaia di croci infrante, chiese indegnamente profanate, e numerose vittime strozzate. In quest’ora stessa noi vediamo Roma ricollocare nel Campidoglio, come segno parlante del suo ritorno alla bella antichità, la Lupa di Romolo, ricolmarla d’ onori, e nutrirla a spese dello Stato. Noi vediamo nella più gran parte dell’ Europa lo spiritismo rinnovellar le antiche pratiche demoniache dell’Oriente e dell’Occidente. – Vediamo i principii costitutivi dell’antico paganesimo rientrare a piene vele nel mondo attuale: l’emancipazione della ragione; l’emancipazione de’sensi; il concentramento dei poteri spirituali e temporali nelle mani d’un laico, chiamato presidente, re, imperatore, o Cesare; l’odio neroniano alla Verità; la proclamazione legale dell’ateismo e lo straripamento delle iniquità che n’è l’effetto. Le sepolture civili ed i suicidi] oltrepassano oggi tutte le cifre conosciute fino al presente: 5717, ossia un 16 al giorno.

IV.

Giacche è vero che si raccoglie quel che si semina, e che la messe raccolta è della stessa natura che la semenza; che le nazioni non vanno in corpo nell’altro mondo, ma che esse debbono essere giudicate, ricompensate, o punite quaggiù, si può dunque giurar qualche cosa. Si può, tanto più, che malgrado le grida d’allarme ripetute dalle sentinelle d’Israele, malgrado gli avvertimenti severi della Provvidenza; malgrado i miracoli manifesti che gridano al mondo colpevole d’imitare, sotto pena di morte, Ninive penitente, si ride di tutto, si beffa, s’insulta, s’ostina a chiudere gli occhi per non vedere, gli orecchi per non sentire, a ingolfarsi sempre più nel materialismo; a inondare ogni giorno l’anima dei popoli con torrenti di dottrine antireligiose ed antisociali, ed a nutrirla di scandali.

V.

Che dirò ancora? Quando s’odono le grida selvagge cui mandano da un punto all’altro dell’Europa gli anticlericali, i loro appelli incessanti alla distruzione radicale della religione, della società, della famiglia e della proprietà; le loro minacce a tutti i clericali, preti e laici: non è troppo evidente che si può giurar qualche cosa?

VI.

Questo non è tutto; quando si vedono scrittori reputati maestri della gioventù, riabilitare i più fieri nemici del Cristianesimo, Nerone stesso e Giuliano l’Apostata, che dico? riabilitare satana, chiamarlo con l’accento della compassione, un rivoluzionario infelice, e dirgli per consolarlo: Vieni ch’io t’abbracci, benedetto del cuor mio! Quando le nazioni sempre pronte a venir alle mani, in un’agitazione generale, non sono più nazioni, ma eserciti armati; e che tutta la loro intelligenza è intenta a studiare invenzioni dei migliori mezzi ond’uccidere la maggior parte possibile degli uomini nel minor tempo possibile!

VII.

Quando infine si ricorda ciò che fecero gli anticlericali durante il regno effimero della Comune, che essi chiamano un semplice combattimento d’avanguardia: tutte queste cause riunite permettono di giurare, che, se Dio non vi mette la mano, il mondo rivedrà dell’ecatombe umane, che sorpasseranno quelle dell’antichità pagana; e che se mai gli anticlericali vengono al potere, non dureran fatica per mettere in atto il voto d’uno dei loro antenati: Strangolare l’ultimo re colle budella dell’ultimo prete. – Per giustificare le mie apprensioni e il mio asserto, io ho delle prove che mancano a voi per sostenere la vostra tranquillità e la vostra negazione: le darò nel capitolo seguente.

CAP. VIII.

LE PROVE

I.

La prima prova, che senza dubbio poco importerà a voi, ma che a me importa ben molto, è la parola tre volte venerabile del Vicario di Gesù Cristo. Da molti anni il Veggente d’Israele ripete che il mondo spinto dalla Rivoluzione, ritorna visibilmente al paganesimo. – La seconda è tratta dall’esperienza. Quante volte non ci fu detto che mai più avremmo riveduto gli orrori della prima Rivoluzione; mai più udito le stesse bestemmie; mai più riprodotte le infernali dissolutezze di crudeltà, di lussuria e d’empietà, la cui memoria ci fa ancora arrossire e tremare; che il nostro secolo era troppo civilizzato e di costumi troppo dolci per non rendersene colpevole.

II.

E nondimeno abbiamo veduti gli orrori della Comune, l’incendio, la strage, il saccheggio, i sacrilegi; abbiamo veduti i massacri del Libano; vediamo in Alemagna l’espulsione, la spogliazione, l’imprigionamento di migliaia di preti, di religiosi e di religiose; vediamo il martirio della Polonia; udiamo il rantolo dell’agonia di migliaia di Polacchi, preti e laici, spiranti sotto il bastone moscovita nei deserti gelati della Siberia: in Bulgaria, cento villaggi bruciati, diecimila cristiani massacrati, ed orrori, che la penna rifugge di descrivere.

III.

Che dirò ancora? Non vediamo noi oggi quel che il mondo non aveva giammai veduto, quello che i secoli passati non avevano neppure sospettato, il Vicario di Gesù Cristo, il padre della famiglia cristiana prigioniero nella propria dimora, spogliato di tutto, e obbligato a stender la mano per mangiare il suo pane quotidiano? E ciò che è ben più grave, l’eresia impiantata in Roma, nel centro stesso del Cattolicesimo, fabbricar templi, aprire scuole, donde escono in folla le negazioni e le bestemmie, in opposizione alle affermazioni del Vaticano. Ciò che s’è veduto può dunque rivedersi: e forse peggio.

IV.

La terza prova, fondata sulla ragione, ci dice: La natura umana essendo sempre la stessa, tra l’uomo d’una volta, adoratore degli idoli, e l’uomo d’oggi giorno, adoratore del vero Dio, non v’ha altra separazione che il foglio di carta, che voi chiamate clericalismo, e che noi chiamiamo Cattolicismo; ma se sparisse questo foglio di carta, noi rivedremo tutto quello che vide il mondo pagano, tutto quel che vede ancora il mondo idolatra.

V.

Su questo punto la logica è inesorabile. Perché? Perché l’uomo non è un essere indipendente. Libero di scegliersi un padrone, non può farne senza. Teocrazia, o democrazia; i canoni del Vaticano, o i cannoni delle barricate; l’acqua benedetta, o il petrolio; Gesù Cristo o Belial; adoratore di Dio, o adoratore di satana: non vi è via di mezzo. Tale è del resto, a testimonianza della storia, l’alternativa nella quale il genere umano ha sempre vissuto sin dal principio di sua esistenza.

VI.

La quarta prova è nella stessa natura di satana. Come la tigre pone agguato alla sua preda, così satana notte e giorno spia l’umanità. Egli, secondo la frase di san Pietro, è un leone che senza posa le gira intorno, cercando d’impadronirsene. Si dice con verità: Se Dio esce dalla porta, satana entra dalla finestra. Siccome egli non si muta, né invecchia, entra con tutti gl’istrumenti del regno; voglio dire con tutti gli elementi di menzogna e di odio che caratterizzano il grande Mentitore e il grande Omicida. Passando infallibilmente nell’ordine dei fatti, questi elementi, ogni giorno gli stessi, fanno rivivere, sotto una od altra forma, il paganesimo religioso e sociale.

VII.

Io ammetto che l’uomo è sempre meno cattivo dei suoi principii, e, checché si faccia, resterà sempre nel fondo dell’anima dei popoli battezzati qualche cosa di cristiano, che loro impedirà di attuare in tutta la loro estensione, e sotto le medesime forme, i mostruosi eccessi dell’antico paganesimo, o dell’idolatria moderna; ma ragionando sull’ipotesi del successo completo degli anticlericali e secondo i loro desiderii sì altamente espressi, diciamo noi che tutto è possibile.

VIII.

Si, in questo caso, il ritorno alla schiavitù è possibile; il ritorno all’adorazione del demonio è possibile; il ritorno al sacrificio umano è possibile! Per parlare solamente di quest’ultimo, daremo in quest’operetta un saggio di quello che succedeva, sotto questo rapporto, nella bella antichità, e che succede tuttavia là dove il clericalismo non é conosciuto.

IX.

Questo saggio basterà 1.° per rivelare il grazioso avvenire che gli anticlericali, sapendolo o non sapendolo, preparano alla umanità; 2.° per avvertir noi clericali, di tenerci guardinghi, e di non lusingarci che i lupi scatenati si cambieranno in agnelli; 3.° per distruggere l’assurda, ma pericolosa massima, che l’uomo può far senza religione, o ciò che è lo stesso, che tutte le religioni sono egualmente buone, egualmente vere ed egualmente false. Tale è il triplice scopo del nostro modesto lavoro: il cui assequimento, se non tutto almeno in parte, formerà la nostra ricompensa. – Mi prenderò la libertà di ricordare la sentenza del re Luigi Filippo, che diceva: « Se si continua in questo modo ad avvelenar la gioventù, arriveremo all’antropofagia.

CAPITOLO IX.

POSSIBILITÀ DEL RITORNO AL SACRIFIZIO UMANO.

I.

Il sacrificio è talmente nelle leggi dell’ordine eterno, che é sempre e dappertutto esistito. Il vero Dio lo ha comandato, e lo ha avuto. satana, scimmia di Dio, l’ha comandato, e l’ha avuto. Il vero Dio si è contentato del sacrificio degli animali. satana, divenuto il re e il dio di questo mondo, princeps hujus sæculi, deus hujus mundi, non si è contentato del sacrificio degli animali. Nemico implacabile dell’uomo, ha voluto avere l’uomo per vittima: e l’ha avuto.

II.

Ci volle il sacrificio d’una vittima divina per abolire il sacrificio delle vittime umane. Dovunque la vittima divina non è stata immolata, ha regnato e regna ancora l’immolazione delle vittime umane : e se cessa il sacrificio divino, ricomincia il sacrificio umano.

III.

E vero, lo so, che le nazioni protestanti, ed anche molte nazioni infedeli, presso cui non s’offre più, o non s’è offerto ancora il sacrificio divino, non immolano affatto vittime umane ; ma fa d’uopo riflettere che l’influenza del sacrificio divino continua a farsi misteriosamente sentire presso i nostri fratelli separati, e presso eziandio certi popoli infedeli: l’altare fu sul Calvario, ma il sangue della vittima ha inondato l’universo. – E cosi che la presenza del sole si fa sentire al cieco che non l’ha veduto giammai, come al cieco che non lo vede più. Ma, io lo ripeto, o sacrificio divino o sacrificio umano: l’alternativa è inevitabile, come é inevitabile l’alternativa tra Gesù Cristo e Belial. La ragione lo dice, e la storia Io prova.

IV.

Bisogna soltanto notare che il sacrificio umano si divide in sacrificio indiretto e in sacrificio diretto. Per sacrificio indiretto, devesi intendere l’immolazione che l’uomo, inspirato dal demonio, fa dei suoi simili, sacrificandoli all’Orgoglio, all’Ambizione, alla Voluttà, all’odio della Verità, divinità malefiche divenute suoi idoli. Questo genere di sacrificio, noi lo vediamo, più o meno in tutti i tempi e presso tutti i popoli, perché sempre e dappertutto, sin dalla sua prima vittoria sopra i padri del genere umano, satana ha sempre e dappertutto conservata una parte della sua potenza omicida.

V.

Questa sua potenza fu completa nell’antichità pagana. Allora la guerra, guerra spietata, fu senza tregua in tutta 1’estensione del mondo conosciuto. Durante gli 800 anni della sua bellicosa esistenza, Roma non chiuse che due volte il tempio di Giano. Sarebbe più facile numerare le foglie degli alberi, che misurare la quantità, la larghezza, la profondità dei fiumi di sangue umano, onde la terra fu cosparsa a cagion di cotal guerra, dal diluvio fino all’Incarnazione.

VI.

Al nascer della Chiesa, che cosa furono i milioni di martiri che, per tre secoli, inondarono del loro sangue tutte le parti dell’ Oriente e dell’ Occidente? Che cosa furono i martiri delle età seguenti, sino alle presenti? Non altro che vittime umane, immolate per inspirazione del demonio a difesa del suo regno.

VII.

I conquistatori che, nelle guerre ingiuste, fanno perire milioni d’uomini, che cosa son essi mai, se non grandi ministri di satana, grandi sacrificatori di vittime umane? – Ed il potente filosofo, chiamato Brissot, il quale, verso la fine dell’ultimo secolo, scriveva un libro per domandare l’istituzione di carneficine umane, chi era egli mai se non il promotore dei sacrifici umani?

VIII.

Gli spietati demagoghi del 93, i quali stabilendo queste carneficine su tutti i punti del suolo francese, immolarono, al selvaggio loro odio del trono e dell’ altare, tante migliaia di vittime; e i comunardi di Parigi, i quali, per odio del clericalismo, fucilarono gli ostaggi, che cosa sono essi, se non i ministri di satana che ebbe ed avrà sempre sete di umano sangue? E gli anticlericali dei tempi nostri, che gridano allo sterminio del clericalismo, che cosa sono, se non sacrificatori anticipati di umane vittime?

IX.

Deve poi considerarsi attentamente, che questo sacrificio indiretto di vittime umane non ha luogo, sia da parte dei popoli, sia da parte degli individui, che quando, cessando il sacrificio divino di far sentire la sua influenza vittoriosa, il demonio fa di nuovo sentire la sua. – Ciò in quanto al sacrificio indiretto. Non solamente questo è possibile, ma esiste. Gettando uno sguardo sul mondo attuale, si vede che questo sacrificio minaccia di effettuarsi, un giorno o l’altro, nelle più orribili proporzioni.

X.

Tutte le volte che l’uomo fa guerra a Dio, la fa ai suoi simili. I loro più sacri diritti, i loro più cari interessi, spogliati della guarentigia divina, non sono per lui che mezzi od ostacoli alle sue cupidigie, e si arma per goderne, o per disfarsene. A più forte ragione, allorché un popolo, allorché un mondo intero, come il mondo attuale, fa guerra a Dio, la lotta delle nazioni è inevitabile. Questa lotta sarà universale, come l’insurrezione contro Dio. La prova n’è 1.° che quando Dio è combattuto, e combattuto come è oggidì a oltranza, tutte le barriere veramente protettrici della giustizia, e per conseguenza della pace, sono distrutte. E subito, simili al torrente, che si rovescia dall’alto delle montagne, tutte le passioni scatenate faranno della terra un vasto campo di battaglia. 2.° Bisogna una espiazione dei delitti commessi contro Dio. Le immondezze umane non essendo più lavate nel sangue della vittima divina, il saranno nel sangue dell’ uomo.

XI.

Per incredule che siano, le nazioni attuali sembrano aver l’istinto di ciò che si prepara. Altrimenti, come spiegare il loro timore reciproco; timore universale ed incurabile, malgrado le promesse di pace, malgrado le relazioni scientifiche e commerciali dei popoli tra loro, malgrado la civiltà materiale? Che cosa significano le numerose armate permanenti, mantenute sul piede di guerra? Perché questi armamenti formidabili, sconosciuti eziandio al mondo antico? – Roma nell’apogeo della sua potenza militare non aveva che venticinque legioni, non più cioè, che 200,000 uomini. E non sappiamo noi, che verso la fine de’ tempi, meno lontana forse che non si pensi, vi avranno guerre tali da sorpassare in estensione tutte le altre guerre, ed eserciti, i cui soldati si conteranno a milioni?

XII.

Ho detto che la fine dei tempi è forse meno lontana che non si pensi. Per render non certa, ma sostenibile questa opinione tenuta da uomini eminenti, io non farò appello né alle profezie moderne, né ai calcoli cronologici, né ai commentarii dell’Apocalisse; mi basta indicare un fatto a tutti visibile.

XIII.

Egli è divinanìente certo che verso la fine dei tempi vi sarà un regno anticristiano. Questo regno sarà la più formidabile potenza che si sarà mai levata contro la Chiesa di Dio. I pericoli che farà esso correre perfino agli eletti, saranno tali, che, se i giorni di questo regno diabolico non fossero abbreviati, niuno sarebbe salvo: non salva fieret omnis caro. Egli è poi umanamente certo che questo regno cosi formidabile per la sua estensione, per la sua potenza, per i suoi mezzi di seduzione, non nascerà in un giorno, come il fungo sotto la quercia. Esso avrà una preparazione più o meno lunga, in rapporto alla sua infernale e gigantesca missione. [È chiaro qui che il Gaume stia parlando della giudeo-massoneria trionfante nei nostri giorni! Che profezia attualizzata! –ndt.-]

XIV.

Domando ora a chiunque getti attento uno sguardo sulla faccia della terra: Se, Dio non voglia, tu fossi incaricato di preparare il regno anticristiano, ti comporteresti diversamente da quel che si fa oggidì dall’un capo all’altro dell’antico e del nuovo mondo? Tu predicheresti la negazione radicale di tutti i dommi cristiani; emanciperesti le passioni, spingendole potentemente al materialismo, al lusso, al sensualismo, e cancellando, quanto è possibile, il senso morale.

XV.

Affine di togliere alle nazioni cristiane la loro ragione di essere, tu le renderesti apostate come nazioni. Tu annienteresti l’autorità sociale della Chiesa; concentreresti tutti i poteri fra le mani d’un uomo, dichiarando la politica indipendente dalla religione. Attireresti sui Cattolici e sul clero ogni sorta derisioni, ogni sorta di disprezzi ed odii, allo scopo di poterli sedurre e sterminare. Il tuo grido di guerra sarebbe il motto che risuonò in Gerusalemme alcune ore avanti il supplizio del Redentore, e pochi anni prima la rovina della città deicida, immagine della fine del mondo: “Non vogliamo più che Cristo regni sopra di noi: Nolumus hunc regnare super nos.” Tale è, salvo errore, la condotta che tu terresti per esser logico.

XVI.

Ora, ciò che tu faresti, non si fa forse di presente? Non si è forse già fatto per tre quarti? E quanto all’ultimo quarto, non si cerca forse di attuarlo con un ardore cui nulla rallenta? Si può dunque dire con ragione, che il regno anticristiano è presso a poco bello e formato; per conseguenza la fine de’tempi è forse meno lontana che non si pensi, attesoché il regno anticristiano non sarà di lunga durata. Eppure, io non ho fatto che indicar solo un fatto. Che sarebbe se si volessero mostrare gli altri segni precursori della fine, i quali già appariscono sull’ orizzonte?

XVII.

Così, tutto fa prevedere, in un avvenire più o meno prossimo, guerre immense, e, per conseguenza, ecatombe di vittime umane. E nondimeno, l’uomo del mondo attende la pace, il Cattolico il trionfo della Chiesa. La pace! La pace, in mezzo al rovesciamento di tutte le leggi divine! La pace, allorché tutte le tempeste umane si sono scatenate! No, il mondo non avrà la pace; avrà quello che ha voluto, rivoltandosi contro Dio: la guerra, con tutti i suoi orrori.

XVIII.

Il trionfo della Chiesa! Io posso dire che lo desidero più d’ogni altro; ma spesso ho domandato a me stesso, che s’intenda pel trionfo della Chiesa. Avvi, a me sembra, un trionfo negativo, ed un trionfo positivo. Il trionfo negativo consiste in ciò che la Chiesa uscirà vittoriosa dalla lotta, nel senso che essa non perderà un solo dei suoi dogmi, un solo dei suoi punti di morale, un solo de’ suoi sacramenti; non perderà il suo capo supremo, né le persone essenziali alla sua gerarchia: questo trionfo è sicuro!

XIX.

II trionfo positivo sarebbe la restaurazione sociale dell’autorità della Chiesa, in modo che questa torni ad esser l’oracolo adorato dei governi e dei popoli; la restituzione dei domini rubati alla Santa Sede; il ritorno dei princìpii cristiani nelle leggi e nelle costituzioni dei popoli; la negazione legale d’un diritto qualunque ad ogni errore religioso; in una parola, il ritorno delle nazioni alla fede del loro battesimo. – È troppo evidente che un siffatto trionfo non può essere che l’effetto di un miracolo. Or, la promessa di un siffatto miracolo non trovasi né nella Scrittura, né nella Tradizione. Che, dopo le scosse più o meno violente, vi abbiano pel mondo alcuni anni di respiro, e per la Chiesa alcuni anni di tranquillità, per dare alla nazione giudaica il tempo di convertirsi, ed al Cristianesimo quello di compiere il giro del mondo; questo è molto possibile, ed anche probabile. Tale è il senso, nel quale è permesso di dire che la fine dei tempi è forse meno lontana che non si pensi.

CAPITOLO X.

SACRIFICIO DIRETTO. — QUESTIONE AI RAZIONALISTI. — AUTORE DEL SACRIFICIO UMANO.

(Continuaziono del precedente)

I.

Quanto al sacrificio diretto, che come abbiamo detto è l’immolazione di vittime umane in onore di un uomo e di qualche falsa divinità, esso trovasi in vigore dovunque il Clericalismo non lo ha abolito. Esso fu sempre imposto a nome della religione.

II.

È qui il luogo che bisogna rivolgersi a tutti i nostri fieri razionalisti, i quali pretendono che tutte le religioni sono egualmente buone, e loro domandare una risposta categorica alla questione seguente: Ecco una religione, che dice ad un padre, ad una madre: Dammi quel che hai di più caro al mondo, il tuo figliuolo: lo devo scannare, lo devo bruciar vivo; tanto esigono i miei Dei: guai a te, se ti rifiuti. Ecco un’altra religione che dice: Guardati bene dall’immolare tuo figlio. Al contrario, veglia sulla sua vita, come sulla pupilla degli occhi tuoi. Egli é un deposito sacro, di cui Iddio ti chiederà conto. — Queste due religioni vi sembrano esse egualmente buone?

III.

Se esse non sono egualmente buone, non sono egualmente vere; se non sono egualmente vere, non sono egualmente divine. Non è dunque indifferente di praticar l’una, ovvero 1’altra. Ora il Clericalismo è la sola Religione che ha posto fine al sacrificio umano; che vieta tutt’i delitti, che comanda tutte le virtù; e voi volete sterminare il Clericalismo? Infelici! Se i vostri sforzi riuscissero, voi sareste gli assassini dell’umanità.

IV.

Prima di entrare nella storia del sacrificio umano diretto, fa d’uopo conoscerne l’autore. Gli è stato mille volte dimostrato, che sotto ogni punto di vista, l’idea del sacrificio non può sorgere dalla ragione umana. È impossibile infatti stabilire un rapporto logico tra l’immolazione di una bestia, e l’espiazione di un peccato. Tuttavia l’idea del sacrificio e della sua efficacia è nella natura umana; là vi si trova dall’origine del mondo. Essa dunque non viene dalla natura: i fatti confermano il ragionamento.

V.

Che vediamo noi nella Scrittura? Vediamo, che fra l’immensa varietà di sacrifici offerti nella legge mosaica, non ve n’è uno, di cui l’ordine non sia venuto da un oracolo divino. Vediamo, che nella legge evangelica, l’augusto sacrificio del Calvario, sostituito a tutt’i sacrifici, è una rivelazione divina. Iddio ha parlato, e l’uomo sacrifica.

VI.

Per una ragione analoga, la scimmia di Dio, satana, ha parlato, e l’uomo sacrifica. La parola di Satana è tanto più certa in quanto che l’uomo sacrifica se stesso, sacrificando il suo simile. Lo sacrifica su tutti i punti del globo; la parola di satana è dunque universale. Lo sacrifica, malgrado le ripugnanze più vive della natura; la parola di Satana è dunque assoluta e minacciante. Lo sacrifica dovunque il sacrificio divino non è offerto. Il giudeo stesso appena che abbandona Ièhovah, cade nelle braccia di Moloch, e gli sacrifica i suoi figli e le sue figlie.

VII.

Il sacrificio umano non è dunque né l’effetto della immaginazione, né il risultato d’una deduzione logica, né un affare di razza, di clima, d’epoca, d’incivilimento più o meno avanzato, o di circostanze locali: è un affare di culto. Ogni sacrificio poggia o su di un oracolo divino, o su di un oracolo satanico. Sentiamo la storia.

VIII.

« I sacrifici umani, scrive Eusebio, debbono essere attribuiti agli spiriti impuri, i quali han congiurato la nostra perdita. Non è la nostra voce, ma è la voce di coloro che non professano le nostre credenze, la quale renderà omaggio alla verità. Relativamente ai sacrifica umani, dice Porfirio, non si può nè ammettere che gli dèi li abbiano richiesti, né supporre che i re ed i generali li abbiano offerti spontaneamente» [gli dèi secondo Porfirio, sono gli angeli buoni.] sia consegnando i loro proprii figli ad altri, perché li sacrificassero; sia consacrandoli, ed immolandoli essi stessi. Volevano mettersi al sicuro contra l’ira, e contra il furore di esseri terribili e malefici. ‘ – La storia conferma l’affermazione di Porfirio. Il sacrificio umano è stato sempre il corollario obbligato dell’idolatria, ossia dell’adorazione del demonio, adorato principalmente sotto la forma del serpente.

IX.

Perché mai il demonio ha sempre richiesto il sacrificio umano? Farsi adorare in luogo del Verbo incarnato: questa è stata sin dall’origine la mira invariabile dell’Angelo ribelle, questa sarà pur sempre. « I demoni, continua Porfirio, vogliono esser dèi, ed il capo che loro comanda, aspira a rimpiazzare il Dio supremo. Essi si dilettano delle libazioni e del fumo delle vittime. Si nutrono di vapori e d’esalazioni diversamente, secondo la diversità della loro natura, ed acquistano gagliardia novella dal sangue e dal fumo delle carni bruciate.» 1. [Apud Euseb. Præp. evang, lib. IV., c IV. e XV. e c. XXII].

X.

Agostino e S. Tommaso ne danno il vero senso delle parole di Porfirio, spiegandoci la natura del piacere che i demoni prendono all’odor delle vittime. « Quel che essi stimano nel sacrificio, non è il prezzo della bestia immolata, ma il suo significato. » Ora, il significato è l’onore reso al sovrano signore dell’universo [sottolineiamo qui opportunamente che il “signore dell’universo” del falso rito odierno del “novus ordo” satanico – al quale si offre la Vittima all’offertorio, si osanna nel trisagio e nel te deum– è sempre lo stesso satana, il baphomet lucifero, il “signore dell’universo” –ndr.-]. Quindi, le parole: «I demoni non godono dell’odore dei cadaveri, ma degli onori divini. » [In oblatione sacrificii non pensatur pretium occisi pecoris, sed significatio, qua fit in honoremsummi rectoris totius universi, linde sicut Àugustimis dicit (De Civ. Dei. lib. X, c. XIX, ad fin,: “Dæmones non cadaverinis nidoribus, sed diviuis honoribus gaudent” (S. Th. 2. 2. q, art. 2, ad 2).

XI.

Da ciò che abbiamp detto, si vede perché il demonio domandi il sacrificio in generale. Ma perché domanda a preferenza il sacrificio umano? Il suo odio al Verbo fatto carne è inestinguibile. Non avendo potuto farlo immolare che una volta sul Calvario, vuol farlo immolare nelle sue membra sopra tutt’i punti del globo. Da una parte, questo sacrificio soddisfa al suo odio; dall’altra compie i suoi voti. Il sacrificio é l’atto più elevato del culto dell’idolatria, a cui il demonio, dice S. Tommaso, non ha cessato d’aspirare dopo la sua rivolta: Ascendam, et similis ero Altissimo. Ecco, come abbiam già detto, quale è l’ultima parola di Satana: rivaleggiare con Dio, e godere di tutti gli omaggi dovuti a Dio.

XII.

Non solamente egli vuole vittime umane; ma per un raffinamento di scelleratezza, vuole vittime scelte. I fanciulli e le fanciulle sono sempre state le sue vittime preferite.

XIII.

Cominciamo adesso il nostro viaggio pel mondo antico, e pel mondo moderno. Io nol dissimulo, questo viaggio sarà grandemente doloroso; perciocché cammineremo costantemente nel sangue umano; ma ci sarà utile primamente per le seguenti ragioni: – 1° Facendoci conoscere la profondità dell’abisso, in cui l’umanità é potuta discendere, saremo compresi d’una riconoscenza eterna per quel Dio che ce ne trasse fuori, e che c’ impedisce di ricadérvi. – 2°. Ci inspirerà un’eguale pietà ed un eguale orrore per coloro i quali, volendo sterminare il Cristianesimo, ricondurranno il mondo nello stato in cui era avanti il Cristianesimo. – 3.°Ci riempirà d’uno zelo novello per le tre grandi opere cattoliche della nostra epoca: La Propagazione della fede, l’Opera apostolica, e la Santa Infanzia. [continua …]

[Nota: I grassetti ed il colore è redazionale! Non abbiamo saputo resistere all’evidenziare le storture sataniche adottate nel luciferino rito adottato dal novus ordo, rito spacciato e contrabbandato indegnamente come Messa cattolica! Anatema sit!]

 

 

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO di mons. J. J. Gaume

MORTE AL CLERICALISMO

O

RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO

[mons. J. –J. GAUME, 1878]

PROEMIO

Lo so: il titolo di quest’opera sembrerà strano, e anche assurdo. Si dirà subito: qual rapporto può essere tra la morte del Clericalismo ed il ritorno al sacrificio umano? La spiegazione di questo mistero sarebbe troppo lunga per un proemio: sarà data a suo luogo. Solo prego il lettore di non sentenziare prima d’averlo letto. – In ogni caso la storia del sacrificio umano dall’origine dei secoli, non sarà per lui senza interesse e senza profitto. In verità, essa rivela numerosi e tristi particolari; ma nello stesso tempo elevando, fino all’evidenza di un assioma di geometria, la divinità del cristianesimo, riempie l’anima di nobili sentimenti. – Eterna e più profonda riconoscenza verso quel Dio, che venne ad immolar se stesso per far cessare cotali diaboliche crudeltà. – Indignazione insieme e compatimento verso i forsennati che oggi brandiscono ogni sorta d’arme per oltraggiare, espellere, annientare, se lo potessero, il divino Liberatore, e risuscitare il paganesimo, che essi proclamano l’ideale dell’ umanità. – Ingrati! Dimenticano che devono tutto al Cattolicismo. Senza questo chi sa se, come tante migliaia d’altre creature, non sarebbero stati strappati dal seno delle loro madri, e bruciati vivi in onore di qualche Moloch fenicio, o di qualche Teut germanico? Ciechi volontari non vogliono comprendere che, se Dio li lascia fare, ricondurranno il mondo ai cruenti saturnali della barbarie pagana. Il lettore di questa storia, al quale essi faranno paura e pietà insieme, li compiangerà dal fondo dell’anima, e con la gran vittima del Calvario dirà: Padre, perdona loro, perché non sanno quel che facciano: “Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt”.

MORTE AL CLERICALISMO

CAPITOLO PRIMO.

IL GRIDO DI GUERRA

I.

Morte al Clericalismo! Se non vi fossero che venticinque voci a denunziare il clericalismo siccome il nemico dell’umanità, e basterebbe stringersi nelle spalle, e dire: non è cosi! Ma in queste venticinque voci si fanno ascoltare milioni di voci, che ripetono lo stesso grido.

II.

Morte al Clericalismo! Ecco il grido di guerra che da diciotto secoli di Cristianesimo risuona al presente dall’un capo all’altro dell’Europa. Dal Messico al Brasile, l’eco di tutta l’America lo ripete. Lo ripetono la Turchia, la Cina, la Corea. – Insomma voci d’Oriente, voci d’Occidente, voci di Levante, voci di Ponente, voci de’ quattro venti, non formano che una voce sola: Morte al Clericalismo!

III.

Morte al Clericalismo! Questo grido sanguinario donde parte mai? Parte dai giornali, dagli antri tenebrosi delle società segrete; dalle Camere legislative, dai governi, dalle accademie, dalle officine, dai teatri, dalle città e dalle campagne; e come il ruggito della tigre, o del rumoreggiar della tempesta, levasi tremendo dal fondo della società.

IV.

Morte al Clericalismo! In qual modo preparano essi la sua morte? Incominciano dal salare la vittima: “Omnis victima sale salietur”. La salano, dandole per nome un soprannome che la rende dispregevole: invece di Cattolicismo, la chiamano clericalismo. La salano, ripetendo mille volte il giorno, che il clericalismo è il padre dell’ignoranza, della superstizione, della schiavitù, dell’abbrutimento umano, l’irreconciliabile nemico della società moderna. La salano eccitando contro di essa tutti gli odi, tutte le ire, ogni genere di rifiuto e di maledizioni. – Dopo averla salata, la incatenano, la imprigionano, la spogliano, le negano il suo posto sotto il sole, fino a che ne sgombrino la terra, sterminandola: tale è il loro sogno. Se questo non addiviene una realtà, non è già la volontà che loro manchi.

CAPITOLO II

IL CLERICALISMO

I

Morte al Clericalismo!. Essi hanno un bel negare: le loro parole vengono smentite dalle loro azioni. Il Clericalismo non è che una parola di moda, un fantasma ad uso degli sciocchi, ed a profitto dei mariuoli. Siccome altre volte il vocabolo galilei, e più tardi le parole gesuiti, papisti, oltramontani, oggi giorno i vocaboli clericalismo, clericali, clericale valgono: “Cattolicismo”.

II

Il Cattolicismo è la gran Carta dell’umanità; è l’unica ragione del potere e del dovere; è la Religione discesa dal cielo, la regina della verità, la madre della virtù, la salvaguardia di tutti i diritti, la benefattrice dell’universo. – È la Chiesa coi suoi dogmi, con la sua morale, coi suoi Sacramenti, col suo culto, con le sue istituzioni, con tutto ciò che essa ha fatto, che fa tuttavia, con tutto ciò che le appartiene nel passato, come nel presente. Dessa è il Papa, sono i vescovi, i preti, i religiosi, le religiose, tutti i Cattolici, senza eccezione: ecco il Clericalismo, a cui si altamente gridasi la morte.

CAPITOLO III

CAUSA DELL’ODIO

I.

Morte al Clericalismo! Perchè? Che male v’ha fatto? Non dite che esso è il nemico della società, de’ lumi, della libertà, del progresso, della civiltà? queste parole sono oramai viete e noi non ci contentiamo di parole. Dateci altri motivi. Siate franchi, e se non avete il coraggio di esser tali, lo sarem noi per voi.

II

Morte al Clericalismo! È chiaro: io voglio che muoia, perché s’oppone ai miei desideri. Io voglio disporre della mia vita senza dipendenza e senza controllo; ed esso non vuole. – Io voglio esser libero di credere, di dubitare, o di negare, secondo mi torna; ed esso non vuole. – Io voglio che tutte le religioni siano egualmente buone, egualmente vere, egualmente false per avere il dritto di disprezzarle tutte, e di non praticarne alcuna; ed esso non vuole. – Io voglio rovesciare l’ordine sociale, perciocché non vi trovo il posto che mi conviene: ed esso non vuole. – Io invece di vivere di lavoro, voglio vivere di rendita; invece di camminare a piedi, voglio viaggiare in carrozza; invece di abitare una capanna, od una casuccia, voglio albergare in un palazzo; ed esso non vuole. – Io voglio essere quello che non sono: io operaio, lavoratore, servitore, voglio essere padrone, borghese, prefetto, deputato, senatore; invece d’obbedire, voglio comandare; invece di essere in basso voglio essere in alto; ed esso non vuole. – Io voglio occuparmi esclusivamente della vita presente, e mai della futura; voglio occuparmi sempre del mio corpo; dell’ anima mai; ed esso non vuole. – Io voglio degradarmi al punto di rendermi un mucchio di fango, e di farmi sotterrare come una bestia; ed esso non vuole!

III

Io voglio soddisfare a tutte le mie passioni al più che posso, al più presto che posso, con tutti i mezzi che posso; ed esso non vuole. – Io voglio, qualora mi torni utile, essere un cattivo cittadino, un cattivo sposo, un cattivo padre, un cattivo figlio, un ladro, un libertino, un usuraio; ed esso non vuole. – Insomma io voglio esser mio padrone, mio unico padrone, ed esso non vuole; “dio” di me; ed esso non vuole. Ecco perché io dico e ripeto: “Morte al clericalismo ed ai clericali!”.

IV.

L’anticlericale dice il vero: il segreto del suo odio è nel fondo del suo cuore. Le sue sonore accuse contro il Clericalismo entrano nei suoi interessi. Buone per ammutinare la plebe ignorante e farne strumento cieco della sua colpevole ambizione, egli stesso non ne crede pur una. L’anticlericale che, per sostenere una sola delle sue accuse, si lasciasse tagliare il solo dito mignolo, deve ancora trovarsi!

CAPITOLO IV.

ACCECAMENTO DELL’ODIO 

I

Morte al Clericalismo ! E sia: ma il più terribile castigo onde potesse Iddio punire le vostre bestemmie, i vostri voti insensati, i vostri sforzi colpevoli, la vostra ingratitudine mostruosa, sarebbe quello d’esaudirvi. – Voi ucciderete il clericalismo, lo seppellirete sei piedi sotto terra. Voi, come fecero altra volta i due giganti della persecuzione anticlericale, Diocleziano e Massimiano, alzerete sulla sua tomba una colonna di granito, monumento della vostra vittoria, e vi scolpirete l’iscrizione: « Su-perstitione Christiana ubiqiie deleta; » e non vi sarà più nel mondo questione di Clericalismo: ma allora che cosa avverrà?

II

Non avviene dell’uomo come avviene di una statua: una statua può restare intatta ed in piedi lungo tempo dopo la morte dello statuario. L’uomo, al contrario, non può sussistere neppure un minuto secondo, se Dio ritira la mano, che lo fece sorgere dal nulla, e che gl’impedisce di ricadervi. E così è a dire dell’umanità tutta quanta. Or l’umanità può dire del Clericalismo ciò che Salomone diceva della Sapienza: Tutti i beni mi sono venuti con essa: “Venerant mihi omnia bona pariter cum illa”. È dunque evidente che, morto il Clericalismo, tutti i beni, di cui esso è la sorgente, sparirebbero con esso. La luce del giorno non è più chiara di questa verità.

III

Se ne dubitate, gettate lo sguardo su di un mappamondo: che cosa vedrete voi? Tutte le nazioni presso le quali non ancora ha regnato il Clericalismo, dimorano immerse nella triplice barbarie dello spirito, del cuore e dei sensi. E la Storia, che vi dice ella mai? due cose: tutte le nazioni che abbandonano il Clericalismo ricadono, proporzionalmente a questo abbandono, nella barbarie; e tutte le nazioni che ne sono uscite fuori, lo debbono al Clericalismo, e solo al Clericalismo.

CAPITOLO V

CONSEGUENZA DELL’ODIO

 I.

Morte al Clericalismo! Essendo il Clericalismo, com’è già provato, l’unico civilizzatore del mondo, l’anticlericalismo è il negatore adeguato di tutto ciò che afferma il Clericalismo. “Morte al Clericalismo” vuole dunque dire: morte alla verità, viva l’errore; morte alla luce, vivano le tenebre; morte alla saggezza, viva la follia; morte alla virtù, viva il vizio; morte alla civiltà, viva la barbarie; morte alla libertà, viva la schiavitù; morte alla proprietà, viva il furto; morte alla fratellanza, viva l’odio; morte alla pace, viva la guerra con tutti i suoi orrori; morte alla giustizia, viva il dritto del più forte; viva il saccheggio, la strage, l’incendio, la morale de’ lupi, e la caduta dell’ umanità in un abisso di sangue e di fango; morte a Dio, viva satana; morte al cielo, viva l’inferno; morte al sacrificio divino, viva il sacrificio umano.

II.

“Morte al Clericalismo!” Voi avete un bel fare, non lo farete morire. Re, imperatori, ministri, deputati, senatori, accademici, giornalisti, frammassoni, empii d’ogni colore e d’ogni grado, esso seppellirà tutti voi nella fossa che gli avrete scavata. Insieme coi vostri antecessori, coi persecutori antichi, più potenti di voi, sarete ridotti in polvere, mentr’esso rimarrà in piedi, pieno di giovinezza e di vita. – Esso ha quel che voi non avete, quel che giammai né voi, né i vostri avete mai avuto, quel che non avrete giammai: esso ha delle promesse d’immortalità! Voi potete solamente, in punizione delle loro iniquità, disclericalizzare le nazioni. Non avendo voi, come ha la Chiesa, promesse d’immortalità, esse addiverranno, mercé gli sforzi vostri insensati, quel che erano prima del Clericalismo. E quel che erano, lo diremo quanto prima.

III.

Morte al Clericalismo! Voi tutti che ripetete questa parola senza comprenderla o che la comprendete, non vogliate illudervi. Distrutto il Clericalismo, il mondo ritornerà ad esser quello che era prima del Clericalismo. Essendo sempre la stessa la natura umana, la sola differenza che distingue il mondo d’oggi dal mondo d’altra tolta, si deve al Clericalismo. Or che era mai il mondo prima del Clericalismo? Tre grandi fatti dominano la sua esistenza e gli imprimono il carattere: la schiavitù, l’adorazione del serpente, il sacrificio umano: tre mostruosità che ancora al presente sono in vigore là, dove non regna il Clericalismo. Il Clericalismo ce ne ha liberati, e voi vorreste, sterminandolo, regalarci di nuovo simili orrori! – Gridate sin che vi piaccia all’assurdo ed alla calunnia; protestate come vi pare; giurate che giammai non si rivedrà quel che si è veduto, e che il mondo non ritornerà mai al paganesimo. Io vi rispondo che non bisogna giurar nulla, e vi dirò il perché. [Continua …]