TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (51a.)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (51a)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -IX a-

J. DIO SANTIFICANTE MEDIANTE I SACRAMENTI.

J 1 1. I Sacramenti prima dell’istituzione della Chiesa.

Tra le leggi del Vecchio Testamento esistevano anche i Sacramenti (1310) 1348 1602.

Questi sacramenti differivano dai nt Sacramenti drl N.T. in quanto non producevano la grazia, ma significavano che essa sarebbe stata solo in futuro da Cristo. 1310 1602.

La Circumcisione come sacramento rimetteva il peccato originale 780.

Dopo l’avvento di Cristo i Sacramenti del Vecchio T. cessarono ed il loro uso, promulgato ill Vangelo divenne peccato punibile 1348.

J 2 Sacramenti del Nuovo Testamento in genere.

J 2a. a. — ESSENZA DEI SACRAMENTI.

I Sacramento sono segni sensibili ed efficienti della grazia invisibile (1310 1606) 3315 3858; sono simbolo di cosa sacra e forma visibile della grazia invisibile 1639; riprov.: [I S. sono nudi simboli o segni esterni della fede praticata] 1602 1606 3489.

Nel rito dei Sacramenti si distingue la parte essenziale (materia e forma) e la parte cerimoniale 3315.

Tre sono le cose che producono un Sacramento: (una cosa tq.) materia, (le parole tq.) forma (nella persona del suo ministro) l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa. 1262 1312 1998 2536 3126 CdIC 742, § 1; l’essenza del sacramento è costituita dalla materia e dalla forma 1671.

La materia di per sé non è parte determinata (onde determinare la forma) 3315;

Pertanto l’imposizione della mano usata per sé non designa nulla di definito negli Ordini sacri, alla Confermazione, alla a.riconciliazione a110 a123 a127 a183 211 316 320 3315.

La forma dece significare l’effetto sacramentale 3315.

J 2b. b. — ORIGINE DEI SACRAMENTI.

2ba. Origine remota cioè,l’istituzione di Cristo. a.Tutti i Sacramenti del N.T. sono stati istituiti da Cristo 1864 2536 CdIC a731, § 1; si riprovano le asserzioni dei modernisti circa l’origine dei Sacram. 3439s.

I Sacramenti sono sette 860 1310 1601 1603 1864 2536.

2bb. Origine prossima o amministrazione. La Chiesa è originalmente ed universalmente dispenatrice dei Sacramenti: Cristo battezza per mezzo della Chiesa, sacrifica etc. 3806; crede nella remissione dei peccati, in resurrezione, nella vita eterna attraverso la Chiesa 21s.

Potestà della Chiesa nei Sacramenti. La Chiesa non ha il diritto di mutare ciò che attiene alla sostanza (o all’ a.integrità e al necessitare dei Sacramenti a1061 1699 1728 3556 3857.

Nel dispensare i Sacramenti la Chiesa ha il diritto di stabilire o mutare ciò che giudica meglio indicato per i tempi, i luoghi, la varietà delle cose, salvo la loro sostanza 1728.

Il Ministro dei Sacramenti ne è causa strumentale 1314.

La potestà del ministro e l’effetto dei Sacramenti non dipendono dalla probità (morale) del ministri 580 644s 793s 912 914 1019 1154 (1208) 1211-1213 1219//230 1262 1612 1684; add. condizioni del ministro del Battesimo, penit, ordin., J 3b 6b 8b.

Riprov. gli errori circa l’ambito dei ministri [Tutti i Cristiani possono amministrare i Sacramenti] 1610; [qualsiasi Sacerdote può conferire qualunque Sacramento] 1136; [la restrizione del potere di conferire i Sacramenti ai semplici Sacerdoti è stata fatta per il lucro e l’onore dei Vescovi] 1178.

Uno stesso ministro deve usare la materia e pronunziare la forma 2524.

Per l’efficienza dei Sacramenti è necessaria l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa 1262 1312 1315 1611 1617 (2536) 3126; si riprova l’opposta asserzione dell’esteriorismo 2328; chi usa la debita materia e forma, si presume abbia l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa 3318 3874:

Errore circa l’effetto del Sacramento (a. anche professato pubblicamente) per se non esclude l’intenzione di fare ciò che la Chiesa fa (3100-3102) a.3126; in questo principio è compresa la dottrina circa la validità del battesimo degli eretici (cf. J 3b), in qualunque modo sia conferito il rito cattolico ; contra, mutato il rito, si dubita circa la retta intenzione 3318.

Qyando i Sacramenti siano da conferire in forma condizionale

CdIC 941; ved. ai singoli Sacramenti.

Si riprova l’asserzione più lassa circa l’applicazione del probabilismo nell’amministrazione dei Sacramenti. 2101.

Rito e cerimonie della Chiesa non sono condannati senza peccato, se disprezzati o mutati per qualsiasi motivo 1255 1613 1811; il S. Pontefice può tollerare diversi riti fermo che siano di necessità di Sacramento 1061.

Si rivendica la legittimità di certi riti, ctr. i denigratori 1062 1864 2631-2633.

J 2c. c. — FINI, EFFETTO, STIMA DEI SACRAMENTI.

2ca. Fini. I Sacramenti sono mezzi specifici di salvezza e santificazione 2536

CdIC “731, § 1; si riprovano errori circa il fine 1605 3441 3489.

2cb. Effetto. I Sacramenti conferiscono (o aumentano) la grazia quando a.non si pone ostacolo (b.degnamente ricevuti) b1310 a1451 a1606 1602//1608 1864 2536 a3714 (a3845) CdIC a1110.

L’efficacia dei Sacramenti è ex opere operato, cioè i Sacramenti hanno virtù da se stessi come azioni di Cristo medesimo. 3844-3846.

Alcuni Sacramenti , a.cioè. batt., confermazione, ordine, imprimono un carattere, b.pertanto non possono ripetersi 781 ab1313 a1609 a1767 a1864 2536 CdIC ab732, § 1; il carattere è un segno spirituale indelebile nell’anima 1313 1609; dunque non è il Verbo di Dio 3228; il carattere è impresso quando non è ostacolato dalla volontà contraria 781; si imprime anche nella finta ricezione del Sacramento 781.

2cc. Necessità. I Sacramenti non sono superflui 1604 1864; senza i Sacramenti reali o di desiderio, . L’uomo non è giustificato, riprovata l’asserzione: [l’uomo è giustificato dalla sola fede senza Sacramento] 1604 1605s 1608 CdIC 737.

§ 1; in certi aggiunti effetti necessari per ottenere la salvezza si può col solo voto o desiderio (a.anche implicito) (1524 1543) 3869 a3870-3872; o per la fede del Sacramento 121.

Non tutti i Sacramenti sono necessari ai singoli uomini 1604 18642536.

2cd. Dignità. Non senza peccato i Sacramenti sono disprezzati o negletti. 1259 1699 1718 1775 2523 CdIC 944.

Tra i Sacramenti del N.T. vi è diversità di dignità 1603; l’Eucarestia eccelle sopra i restanti Sacramenti 1639s (3847).

J 2d. d. – SOGGETTO DEI SACRAMENTI.

Soggetto legittimo non è l’eretico o lo scismatico anche se errante in buona fede e se non chiede di essere riconciliato CdIC 731, § 2.

Il soggetto deve avere in qualche modo l’intenzione di ricevere il Sacramento CdIC 752, § 3 754, § 3; contradicendo l’accoglienza non si riceve né l’oggetto né il carattere del Sacramento 781; per i dormienti e dementi non si ha l’effetto del Sacramento anche se prima di questo stato consentirono o contraddissero 781.

3. Sacramento del Battesimo.

J 3a. a. ESSENZA DEL GIUDICETIA BATTESIMO.

Il Battesimo è un sacramento 761 777 860 1310 1314 1601 1864 2536; succede alla circumcisione 780.

La materia (remota) è l’aqua a.naturale 802 903 1082 a1314 a1615 CdIC a737, § 1; è lecito mescolare un siero antisettico 3356; materia invalida -: saliva 787; -: birra 829.

La materia prossima è l’abluzione (per mezzo di a.immersione b.infusione o c.aspersione) a229 a589 a757 CdIC 737, § abc758.

Si riprova: [Materia essenziale del battesimo è l’acqua, il crisma, l’eucaristia] 1016.

La forma è l’invocazione del nome della Trinità divina 111 (cap. 9) 123 176s 214 445 580 582 (588) 589 592 (637) 644 646 757 802 903.

Il Battesimo “in nomine Christi” (a.resta in ambiguo, b.ammesso, c. riprovato) a111 (cap. 8) a211 c445 b646; non è valido il Battesimo nel nome degli Angeli 176.

Le parole (espressione dell’azione) “ego te baptizo” sono necessarie per la validità 757; vale la loro forma attiva e passiva 1314; la falsa pronunzia per mera ignoranza o per difetto di lingua non invalida il battesimo 588 592; asserzioni riprovate circa la forma 2327s 2627.

J 3b. b. – ORIGINE DEL BATTESIMO.

Il ministro deve essere diverso dal soggetto battezzato (non si può battezzare se stesso) 788.

Il minister del Battesimo solenne (ordinario) è solo il Sacerdote 1315 CdIC 738; min. del bpt. straordinario è il diacono CdIC 741; in caso di necessità può essere ministro-: qualsiasi uomo, che in qualche modo conservi la forma della Chiesa ed intenda fare ciò che fa la Chiesa 1315 2536 CdIC 742,

§ 1; – anche un laico 120 1315 1349 (2536); – : anche uno scismatico 356; – : eretico 110s 123 127s 183 211 214 305 315s 320 478 1315 1617 (2536) 2567-2570 3126; -: giudeo 646; -: pagano 646 1315 (2536).

La qualità morale del ministro non influisce sulla validità 580 644.

L’errore del ministro circa l’effetto del battesimo non esclude l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa 3100-3102; laddove si possa veramente dubitare circa l’intenzione, si deve conferire il Battesimo condizionato 2838; in caso di battesimo ricevuto nell’eresia non sempre è di principio il battesimo condizionato, ma è da indagare e distinguere 3128; nel dubbio è da battezzare 319 582; in qualunque caso di Battesimo condizionato si disserta 2835-2839 3128

CdIC 746, § 2-5 747-749 752, § 3; formula del Battesimo condizionato da usarsi 758.

Rito del Battesimo da tollerare ed abolire 830.

J 3c. c. — FINE, EFFETTO, VALORE DEL BATTESIMO.

3ca. Effetto. Si riceve la grazia di Cristo (a.infusione della grazia informante e delle virtù, b. l’abito della fede) 111 a780 a904 b2567; riprov.: [il Battesimo di Cristo ha la stessa virtù del battesimo di Giovanni Battista ] 1614.

Il Battesimo produce —: la rinascita spirituale (a.nuova creatura) 219(239) 1311 a1672. – : un membro della Chiesa cattolica 1314 1671 2567-2570 3685 CdIC 87 737, § I;

Il battezzato ottiene tutti i diritti ed i doveri del membro, se non oppone un ostacolo (censura), un vincolo che impedisce la comunione CdIC 87; —: membro del Corpo mistuco di Cristo 1314 1671.

— : la remissione dei peccati (a.pecc. originale, b.dei peccati attuali) (3s) 41//48 (51) 60 150 a223s a231 a239 a247 308 ab325 575 a637 a685 a741 777 a780 ab794 ab1076 ab1316 a1514s 1672 a2559; tale remissione è piena, integra 1672; i peccati non solo da imputare 1515; il Battesimo elimina egualmente a tutti il peccato orig. 637; si riprov. gli errori circa l’effetto: [è tolto solo il reato alla pena] 1957; [già il solo ricordo del Battesimo e la sua fede rimette i peccati dopo il Battesimo o li muta in veniali] 1623.

— : la remissione di ogni pena (pertanto a.ai battezzati non è da imporre nessuna soddisfazione) a1316 1543.

— l’impressione del carattere (anche nel Battesimo a.degli eretici ed b.in quello ricevuto fittiziamente). b781 1998 a2566 CdIC 732, § 1; pertanto non è lecito ritardate il Battesimo 183 316 319s (478) 580 (582) 644 758 810 855 1081 1624 1671 CdIC 732, § I: da qui la fede in un soloBattesimo 3s 41//5 I 150 319 684; riprov. l’errore circa il carattere 3228.

Sequele per la vita morale: la grazia del Battesimo per sé sola non è sufficiente ad assicurare la salvezza, ma si richiede un ulteriore ausilio della grazia e la cooperazione unana. 241, 397; il Battesimo non libera dagli obblighi della legge di Dio, della Chiesa, dei voti 1620-1622; ol Battesimo pt. non dissolve i matrimoni degli infedeli (ma conferisce solo il diritto ad un nuovo matrimonio in forza del privil. Paolino) 777 2582 2585 CdIC 1126.

3cb Necessità. Il Battesimo è un mezzo prescritto da Cristo 219; è necessario o in forma o almeno a.come voto (o desiderio), questo è il Battesimo di b.fiamma (121) 184 231 b741 a1524 1672 2536 a3869 CdIC ‘737, § I; add. luoghi del Battesimo degli infanti: J 3d.

In caso di necessità il Battesimo può essere amministrato in ogni tempo, anche nella Chiesa antica, nella quale era lecito solo nei giorni di Pasqua e di Pentecoste 184; in tal caso giustifica anche la fede senza Sacramento 121.

3cc. Dignità. Il Battesimo è il primo di ogni Sacramento ed il a.loro fondamento 1314 CdIC a737, § 1; è la a.porta di entrata nella Chiesa, b.dei Sacramenti, c.della vita spirituale c1314 a1671 a3685 CdIC b737, § 1.

J 3d. d. — SOGGETTO DEL BATTESIMO.

Il soggetto del Battesimo è solo ogni uomo viatore non ancora battezzato CdIC 745; è legittimato il Battesimo degli infanti 184 219 223 (224 247) 718 780 794 802 903 1349 1514 1625-1627; il Battesimo degli infanti (richiesto) di genitori acattolici, sotto quali condizioni sia lecito 2552-2562 3296 CdIC 750s;

Ugualmente il Battesimo conferito ai moribondi adulti infedeli 3333-3335.

Nell’adulto è richiesta per una valida ricezione a.l’intenzione, per una lecita disposizione b.la fede e c.la penitenza b2380s bc2835-2839 ab3333-3135.

4. Sacramento della confermazione.

J 4a. – ESSENZA DELLA CONFERMAZIONE.

Il battezzato deve essere condotto a: a.la benedizione b.l’imposizione della mano del Vescovo b120 a121 b123; c.il crisma sulla fronte, i. e. b.l’imposizione della mano è la confermazione a785 ab794 a831 b860 a1990 a2522 CdIC 780 781, § 2.

La confermazione è un Sacramento (785 794) 860 1310 1317 1601 1628 1864 2536.

La materia (remota) è il crisma (a.dal balsamo ed olio di olivo) b. benedetto dal Vescovo a831 a1317s b1992 CdIC 734, § 1 b781, § 1.

Forma delle parole della confermazione 1317.

J4b. b. – ORIGINE DELLA CONFERMAZIONE.

Si riprova l’asserzione dei Modernist. circa l’origine remota della confermazione 3444.

Il ministro a.ordinario è (solo) il Vescovo 120 123 183 187 215 320 785 794 831 860 a1069 a1318 a1630 1768 1777 a2588 CdIC .782, § 1; ministro straordinario può essere il semplice Sacerdote (a.ma non il diacono) b.fornito di facoltà della Sede Ap. a187 215 b10705 b1318 b2522 b2588 CdIC 781, § 2 a782, § 2; in mancanza di tale delega, proibita ed invalida è la confermazione del semplice Sacerdote 1990s 2522.

Ministro del crisma è solo il Vescovo, questo pure per a.ministro straord., il crisma deve essere benedetto d Vescovo (catt.) 187 215s 1068 (1071) 1317 a1318 (a1992) a2588 (CdIC .781, § 1).

Si riprovano le asserzioni circa il ministro 866 1178 3556.

Riti tollerati nella preparazione del crisma nella confermazione 831.

J 4c. c.0- FINE, EFFETTO, VALORE DELLA CONFERMAZIONE.

Si conferisce lo Spirito Santo 215 785 831 1318s; si dà come un aumento di grazia ed un rinforzo della fede 785 1311 1319.

Si imprime un carattere, pertanto la confermazione a.non si può ripetere 1313 1609 1767 CdIC a732, § 1; riprovato: [al cresimati non è da attribuire alcuna potenza] 1629.

La Confermazione non è un mezzo necessario alla salvezza 2523 CdIC 787; ma il trascurarlo non è senza peccato 1259.

J 4d. d. – SOGGETTO DELLA CONFERMAZIONE.

Soggetto è qualsiasi battezzato CdIC 786.

Per una lecita e fruttuosa ricezione si richiede lo stato di grazia. CdIC 786.

FESTA DEL CUORE IMMACOLATO DI MARIA (2023)

FESTA DEL CUORE IMMACOLATO DI MARIA (2023)

22 Agosto

(doppio di II classe)

LA FESTA. – Il 22 agosto è consacrato, secondo il decreto della S. Congregazione dei riti del 4 maggio 1944, al Cuore Immacolato di Maria anziché all’ottava dell’Assunzione. E’ festa doppia di 2a classe. La festa è stata introdotta a ricordo della consacrazione del mondo al Cuore Immacolato di Maria (8 dicembre 1942) affinché sia data, con l’aiuto della Madre di Dio, a tutti i popoli la pace, alla Chiesa di Cristo la libertà. È un caso raro nella liturgia che l’ottava di una festa sia consacrata ad un’altra seconda festa di contenuto quasi uguale. Come Cristiani docili accogliamo volentieri questo arricchimento del calendario e, dal punto di vista liturgico cerchiamo anche di conoscere meglio il significato di questa festa. Innanzitutto non ci dobbiamo preoccupare per il fatto che vengono sempre introdotte nuove feste. Infatti non passa quasi anno che non ci sia una nuova festa. Che cosa ne è del tranquillo ritmo dell’anno? Non si cagiona con feste così molteplici un po’ di disagio spirituale?

DALLA MESSA (Adeamus). – La Messa contiene una serie di testi propri che di solito non si trovano nelle Messe mariane. L’introduzione è un vero Introito: ci presentiamo con fiducia davanti al trono della grazia. L’Epistola è il bel brano tolto da Gesù Sirach: « Io sono la madre del bell’amore… ». Il Vangelo ci conduce ai piedi della croce: Gesù affida Giovanni alla Madre sua. Questo passo è ripetuto al Communio con alcuni versetti del Magnificat.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
M. Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Hebr IV:16.
Adeámus cum fidúcia ad thronum grátiæ, ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio opportúno.

[Accostiamoci al trono delle grazie con piena e sicura fiducia, per avere misericordia e trovare grazia che ci soccorrano al tempo opportuno.]

Ps XLIV:2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea regi.

[Vibra nel mio cuore un ispirato pensiero, mentre al Sovrano canto il mio poema.

Adeámus cum fidúcia ad thronum grátiæ, ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio opportúno.

[Accostiamoci al trono delle grazie con piena e sicura fiducia, per avere misericordia e trovare grazia che ci soccorrano al tempo opportuno.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui in Corde beátæ Maríæ Vírginis dignum Spíritus Sancti habitáculum præparásti: concéde propítius; ut ejúsdem immaculáti Cordis festivitátem devóta mente recoléntes, secúndum cor tuum vívere valeámus.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

[O Dio onnipotente ed eterno, che nel cuore della beata Vergine Maria hai preparato una degna dimora allo Spirito Santo: concedi a noi di celebrare con spirito devoto la festa del suo Cuore immacolato e di vivere come piace al tuo cuore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
R. Amen.]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XXIV:23-31
Ego quasi vitis fructificávi suavitátem odóris: et flores mei, fructus honóris et honestátis. Ego mater pulchræ dilectiónis, et timóris, et agnitiónis, et sanctæ spei. In me grátia omnis viæ et veritátis: in me omnis spes vitæ, et virtútis. Transíte ad me omnes qui concupíscitis me, et a generatiónibus meis implémini. Spíritus enim meus super mel dulcis, et heréditas mea super mel et favum. Memória mea in generatiónes sæculórum. Qui edunt me, adhuc esúrient: et qui bibunt me, adhuc sítient. Qui audit me, non confundétur: et qui operántur in me, non peccábunt. Qui elúcidant me, vitam ætérnam habébunt.
R. Deo grátias.

[Come una vite, io produssi pàmpini di odore soave, e i miei fiori diedero frutti di gloria e di ricchezza. Io sono la madre del bell’amore, del timore, della conoscenza e della santa speranza. In me si trova ogni grazia di dottrina e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù. Venite a me, voi tutti che mi desiderate, e dei miei frutti saziatevi. Poiché il mio spirito è più dolce del miele, e la mia eredità più dolce di un favo di miele. Il mio ricordo rimarrà per volger di secoli. Chi mangia di me, avrà ancor fame; chi beve di me, avrà ancor sete. Chi mi ascolta, non patirà vergogna; chi agisce con me, non peccherà; chi mi fa conoscere, avrà la vita eterna.]

Graduale

Ps XII:6
Exsultábit cor meum in salutári tuo: cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi.

[Il mio cuore esulta nella tua salvezza. Canterò al Signore perché mi ha beneficato, inneggerò al nome del Signore, l’Altissimo]

Ps XLIV:18
Mémores erunt nóminis tui in omni generatióne et generatiónem: proptérea pópuli confitebúntur tibi in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[Ricorderanno il tuo nome di generazione in generazione, e i popoli ti loderanno nei secoli per sempre. Alleluia, alleluia.]
Luc 1:46; 1:47

Magníficat ánima mea Dóminum: et exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo. Allelúja.

[L’anima mia magnifica il Signore, e si allieta il mio spirito in Dio, mio Salvatore. Alleluia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Glória tibi, Dómine.
Joann XIX: 25-27
In illo témpore: Stabant juxta crucem Jesu mater ejus, et soror matris ejus María Cléophæ, et María Magdaléne. Cum vidísset ergo Jesus matrem, et discípulum stantem, quem diligébat, dicit matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus. Deinde dicit discípulo: Ecce mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua.
R. Laus tibi, Christe.
[In quel tempo, stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Maria Maddalena. Gesù, dunque, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che amava, disse a sua madre: «Donna, ecco tuo figlio». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

Omelia

(Sac. E. Campana: Maria nel dogma cattolico, VI Ed. Marietti ed., 1946)

IL CUORE DI MARIA

VI. — Di madre, Maria non ha soltanto la dignità e le funzioni auguste, ma, soprattutto, Ella ha il cuore! Il cuore di una madre! Quale abisso imperscrutabile di amore, tenero, delicato, preveggente, operoso, inestinguibile! Ogni cuore è fatto per amare, ma nessuno come quello di una madre conosce il segreto delle affezioni sublimi ed eroiche. Studiate i caratteri che rendono santo, prezioso, insuperabile un affetto, e voi li troverete tutti nel sentimento onde palpita un cuore materno. L’amor materno non conosce egoismo, ma vuol donare senza riserve; non indietreggia di fronte a nessuna ingratitudine, ma è sempre pronto al perdono di qualunque offesa ricevuta dal figlio; non si spaventa di nessun ostacolo, ma insiste, insiste nelle sue espansioni, finché non ha ottenuto lo scopo. Anche quando un figlio scellerato cercasse di soffocare sotto un torrente di maltrattamenti la propria madre, il cuore di lei avrebbe sempre ancora dei palpiti, e palpiti di tenerezza per il suo figlio. Tale è il cuore delle madri terrene: ebbene, molto migliore ancora è il cuore della nostra Madre celeste Maria. Ella ci ama in una maniera di cui noi, finché siamo pellegrini sulla terra, non arriveremo mai a formarcene neanche la più pallida idea. Appunto perché è nostra Madre adottiva, Ella ci ama più intensamente che qualunque altra madre naturale. Giacché quando voi dite madre adottiva, indicate una maternità che nasce dall’amore, riposa nell’amore, perdura sostenuta dall’amore. Perché madre adottiva, Maria sente di essere la Madre dell’amore, mater pulchræ dilectionis. Quando Dio la costituiva Madre universale di tutti gli uomini, le dava anche un cuore fatto apposta per amarci: metteva in quel cuore un tesoro inesauribile di bontà, di benignità, di misericordia, di compatimento a nostro riguardo. E come potrebbe Maria non amarci? Il suo amore verso di noi è una conseguenza necessaria dell’amore ch’Ella porta a Dio: « Quella medesima carità, scrive S. Francesco di Sales, che produce gli atti di amore verso Dio, produce ancora nel tempo stesso quelli dell’amore verso il prossimo. E come vide Giacobbe che una medesima scala toccava il cielo e la terra, servendo egualmente agli Angeli per discendere e per salire, così noi sappiamo, che una medesima dilezione si estende ad amar Dio ed il prossimo, sollevandoci all’unione amorosa coi prossimi » (Tratt. dell’amor di Dio, 1. X, c. XI.) – Come dunque è intensissimo l’amor divino, che arde nel cuor di Maria, così senza raffronto, dev’essere l’amore che porta a noi, che di Dio siamo stati fatti ad immagine e somiglianza. « Chi più di Maria, scrive S. Alfonso, ha già amato Dio? Ella ha amato più Dio nel primo momento del suo vivere, che non l’hanno amato tutti i Santi e tutti gli Angeli nel corso della loro vita… Pertanto, siccome non vi è tra gli spiriti beati chi più di Maria ami Dio, così noi non abbiamo, e non possiamo avere chi, dopo Dio, ci ami più di questa nostra amorosissima Madre » (Glorie, p. I, c. 1, § 3). – L’amore di Maria per noi è alimentato ancora dall’amore che Ella porta a Gesù. L’amore di Maria per Gesù! Chi mai oserebbe pretendere di descriverlo? Gesù per Lei era tutto. Ogni pensiero della sua mente, ogni parola della sua lingua, ogni palpito del suo cuore era per Gesù! Tutte le sue azioni erano dirette a compiacere Gesù. Ora, è suprema legge psicologica per ogni madre, di amare tutto ciò che è amato dal figlio, tutto ciò che anche lontanamente lo ricorda. E quindi, in forza dell’amore che Maria sente per il suo Gesù, deve amare ancor noi, che con Lui abbiamo rapporti tanto stretti, tanto indistruttibili. Noi formiamo con Gesù come una cosa sola; siamo ossa delle sue ossa, carne della sua carne, perchè siam con Lui un sol corpo, del quale Egli è il capo e noi siamo le membra. Maria lo sa: Ella comprende l’unione che abbiamo col Salvatore, più di quello che arriviamo a comprenderla noi. Per questo non ci può separare nel suo cuore, per questo stende fino a noi, suoi figliuoli spirituali, quell’amore che porta al suo Primogenito. Soprattutto il sangue che Gesù sparse per il nostro riscatto è ciò che costringe Maria ad amarci. Cediamo la parola a S. Alfonso, il quale scrive: « Noi siamo tanto amati da Maria, perché vede che noi siamo il prezzo della morte di Gesù Cristo. Se una madre vedesse un servo ricomprato da un suo figlio diletto coi patimenti di venti anni di carcere e di stenti, per questo solo riguardo, quanto stimerebbe ella questo servo? Ben sa Maria che il Figlio non è per altro venuto in terra, che per salvare noi miserabili, com’Egli stesso protestò: Venni a salvare quei che si erano perduti. E, per salvarci, si è accontentato di spenderci anche la vita. Se Maria dunque poco ci amasse, poco dimostrerebbe di stimare il sangue del Figlio, che è il prezzo della nostra salute) (1. c.). – La prova poi che deve toglierci ogni dubbio intorno all’immenso amore che ci porta Maria, nostra Madre, sono i dolori atroci che soffrì. Ella, a causa dei suoi dolori, è giustamente chiamata la Regina dei martiri. Il suo dolore, a detta del profeta Simeone, fu come una spada che trapassò inesorabile il suo cuore. Il racconto dei dolori di Maria, è qualche cosa che fa rabbrividire: è solo Maria che li provò, solo Dio, che sa tutto, potrebbero farcene una relazione esatta. Ebbene, per chi soffrì Maria? forse a causa dei suoi peccati, in espiazione delle proprie colpe? No davvero: perché Ella non fu mai contaminata neanche dalla più leggera ombra di qualsiasi difetto morale. Fu sempre l’amica tutta bella ed immacolata dello Sposo celeste. Maria sofferse per noi, in espiazione dei nostri peccati; e questi suoi dolori sono, lo ripetiamo, la prova sacra ed ineluttabile dell’affetto che ci porta. Chi non ama, non sa soffrire per gli altri; mentre il sacrificio per la persona amata, nella misura della sua grandezza, indica infallibilmente la generosità dei palpiti che sente per la persona in cui vantaggio si sobbarca al sacrifizio. – L’eterno Padre ci amò infinitamente, destinando per noi alla morte il suo Figlio unigenito: Gesù non ci dimostrò un amore inferiore, immolando se stesso. Maria partecipò all’amore dell’eterno Padre, consentendo alla morte di Gesù, ed all’amore di Gesù, compatendo con Lui. Ed a causa dei dolori sofferti per noi da Maria, giustamente si può affermare di Lei, quanto S. Paolo dice di Gesù. Il grande Apostolo scrive di Lui : « Dovette in tutto assomigliarsi ai suoi fratelli, per diventar misericordioso. — Debuit per omnia fratribus assimilari ut misericors fieret » (Hebr., II, 17). E così anche Maria si sentì maggiormente sollecitata dai sentimenti di misericordia in nostro favore, dopo che ebbe comuni con noi i patimenti. Anche se Maria non avesse patito, sarebbe stata la nostra Madre piena di amore. Ma dopo che fu immersa nei patimenti, dopo che trangugiò Ella pure il calice delle più ripugnanti amarezze, il suo amore acquistò come una certa tenerezza, una certa sollecitudine ed intensità, che non avrebbe avuto altrimenti; acquistò insomma quella raffinata delicatezza che può nascere solo dal ricordo di aver pure un giorno conosciuto il dolore. Già vedemmo altrove i caratteri che distinguono l’intercessione per noi di Maria da quella degli altri Santi. Ebbene, quei caratteri gloriosi sono l’indice luminoso dell’intenso affetto di cui arde il cuore di Maria per i suoi figli ancora pellegrini sulla terra. E nell’effusione del suo amore, Maria abbraccia tutti: abbraccia i giusti ed i peccatori. Ella ama i giusti, perché vede risplendere in essi, piena di sovrannaturale fulgore, l’immagine di Gesù. E poi ama immensamente anche i peccatori, non nel senso che abbia piacere di vederli imbrattati della colpa, ma nel senso che è sempre pronta a stender loro generosa la sua mano soccorritrice, affin di farli risorgere dal pantano morale, in cui miseramente si dibattono, per rivestirli un’altra volta della veste nuziale della grazia.

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Luc 1:46; 1:49
Exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo; quia fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus.

[L’anima mia esulta perché Dio è mio Salvatore, perché il Potente ha operato per me grandi cose e il Nome di Lui è Santo.]

Secreta

Majestáti tuæ, Dómine, Agnum immaculátum offeréntes, quǽsumus: ut corda nostra ignis ille divínus accéndat, cui Cor beátæ Maríæ Vírginis ineffabíliter inflammávit.

[Offrendo alla tua maestà l’Agnello immacolato, noi ti preghiamo, o Signore: accenda i nostri cuori quel fuoco divino che ha infiammato misteriosamente il cuore della beata Vergine Maria.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitate beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepì il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesù Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtúù celesti e i beati Serafini la celebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann 19:27
Dixit Jesus matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus: deinde dixit discípulo: Ecce mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua.

[Gesù disse a sua Madre: «Donna, ecco il Figlio tuo». Poi al discepolo disse: «Ecco la Madre tua». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

Postcommunio

Orémus
Divínis refécti munéribus te, Dómine, supplíciter exorámus: ut beátæ Maríæ Vírginis intercessióne, cujus immaculáti Cordis solémnia venerándo égimus, a præséntibus perículis liberáti, ætérnæ vitæ gáudia consequámur.

[Nutriti dai doni divini, ti supplichiamo, o Signore, a noi che abbiamo celebrato devotamente la festa del suo Cuore immacolato, concedi, per l’intercessione della beata vergine Maria: di essere liberati dai pericoli di questa vita e di ottenere la gioia della vita eterna.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (14)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (14)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo QUINTO (3)

III. — IL CRISTIANO E L’AVIDITA’ DELLE RICCHEZZE.

Si attribuisce ad Alessandro Magno un detto curioso: « In una città assediata difficilmente potrà penetrare un filo di paglia; entrerà, però, sempre un asino con un carro carico d’oro ».

L’auri sacra fames fa scoppiare un nuovo conflitto. Tra l’Amore infinito di Dio e le ricchezze, l’uomo resta spesso esitante e poi molte volte si decide per l’idolo seducente del denaro. Né illudiamoci. Il ladruncolo della strada e l’elegante ladro della Borsa; il truffatore rinchiuso nel carcere ed altri imbroglioni che passeggiano fuori, e magari son decorati, il mercante o l’industriale che rubano all’ingrosso e l’oste che truffa al minuto con la subdola ripetizione del miracolo di… Cana (perchè, dopo tutto, anche egli… converte l’acqua in vino); i retroscena di certi fallimenti, di certe réclames giornalistiche, di crak improvvisi e di improvvise fortune; in una parola, le innumerevoli violazioni del settimo comandamento, nelle loro forme più svariate, dall’usura alla mancanza di onestà di una domestica, non costituiscono gli unici casi quotidiani in cui la battaglia viene perduta. – Siccome non siamo puri spiriti ed abbiamo tutti i nostri bisogni economici, la tentazione è sempre presente. È facile che il nostro cuore, quasi senza che ce ne accorgiamo, palpiti non per il Padre che è nei cieli, ma per il portafoglio che è nella tasca o per la cassaforte che è nell’ufficio. – Carlo Marx ha senza dubbio esagerato, quando con la sua concezione materialistica della storia ha sostenuto che in ultima istanza ogni fatto storico si spiega per via della sottostante struttura economica; ed i suoi discepoli hanno esagerato più ancora, sino al ridicolo, quando hanno voluto ridurre la storia e la vita ad una Magenfrage, ad una questione cioè puramente di stomaco. Sarebbe come un ridurre il poema dantesco all’inchiostro col quale è stato scritto. Tuttavia, chi può negare che un’anima di vero vi sia nel materialismo storico? La potenza del denaro domina, s’impone, tiranneggia; nazioni e individui, dinanzi ad essa, dondolano ed ondeggiano, si chinano e cedono. – Guerre di popoli e inimicizie personali, atteggiamenti politici e condotta individuale sono spesso influenzati e determinati anche e soprattutto dalla avidità del denaro. Del resto, la questione sociale che agita il mondo non ha forse anche un carattere economico? Ed allora i problemi s’impongono: com’è possibile essere praticamente Cristiani? Dobbiamo forse per seguire la morale di Cristo, che dichiara « beati i poveri », distruggere l’economia mondiale, o rovinare l’industria ed il commercio nazionale? I popoli han bisogno di ricchezza; povertà significherebbe la negazione della civiltà. La famiglia e gli individui debbono cercare d’arricchire; altrimenti verrebbe meno una fonte di progresso. Oh che vorreste convertire la terra in un ampio convento? A queste difficoltà s’aggiunge l’altra domanda: qual è la tattica che il Cristianesimo ci prescrive di fronte alla ricchezza? Come si vede, il problema storico, la questione sociale e la condotta individuale sembrano allearsi, per rendere più ardua la lotta, più oscura la risposta.

1. – Il principio fondamentale.

Bisogna sempre partire dal principio fondamentale: Dio è il centro della realtà e tutte le cose dipendono da Lui e debbono essere a Lui subordinate. Perciò non è lecito capovolgere l’ordine e porre a centro di tutto il denaro. O si riconosce come Essere supremo Iddio e il suo Amore infinito: altrimenti cadiamo nell’idolatria. « Non si può servire a Dio e a Mammona », ammonisce Cristo. E tutto lo spirito della sua predicazione contro l’abuso delle ricchezze è riassunto in tale concetto. Perché mai volete rifiutare Dio e rendervi schiavi dell’oro? « Badate e guardatevi da ogni cupidigia, perché la vita d’alcuno non stà nella ridondanza de’ beni che possiede ». Il valore d’un uomo non si misura dalla sua condizione economica; anzi, sovente la « seduzione delle ricchezze soffoca la buona semente della parola divina e la rende infrutuosa ». a Quelli che vogliono arricchire, commenta poi san Paolo, scrivendo a Timoteo, cadono nella tentazione e nel laccio del diavolo ed in molti desideri inutili e nocivi, che sommergono gli uomini nella morte e nelle perdizioni. Radice, infatti, di tutti i mali è la cupidigia ». I beni terreni non sono sicuri: “Non cercate, quindi, di accumulare tesori sulla terra, dove ruggine e tignola consumano e dove i ladri dissotterrano e rubano. Ma accumulatevi dei tesori nel cielo… ». Inoltre sono beni che bisogna un giorno abbandonare con la morte, come rammenta la parabola: « A un uomo ricco fruttava bene la campagna; e andava ragionando fra sè: — Come farò, che non ho dove riporre la mia raccolta? — E disse: — Farò così: demolirò i miei granai e ne fabbricherò di più vasti e ci metterò tutti i miei prodotti e i miei beni; e dirò all’anima mia: o anima, tu hai messo da parte i beni per molti anni: riposati, mangia, bevi e godi. — Ma Dio gli disse: — Insensato, questa notte ti si richiederà l’anima tua; e quanto apprestasti, di chi sarà? — Così, chi tesoreggia per sè e non arricchisce avanti a Dio». – Ecco, dunque, la base essenziale: dobbiamo amare Dio sopra ogni cosa, non il denaro; chi vive per il denaro, praticamente rinnega Dio e lo sostituisce con un idolo di oro.

2. – Ciò che non insegna la morale cristiana.

Non si deducano da un simile principio elementare conseguenze che nulla hanno a che fare con esso. 1. La morale di Cristo non condanna la ricchezza, in quanto ricchezza. Non proviene forse anch’essa da Dio? Non è forse uno dei doni che il suo Amore infinito fa all’umanità? L’uso della ricchezza è santo; solo l’abuso viene stigmatizzato. Nessuna meraviglia, quindi, se Gesù entra nelle case dei ricchi, se si asside alla loro mensa, se ha fra i suoi amici persone facoltose. Il fatto di Zaccheo (convertito da una visita gentile del Maestro) che restituisce con generosità ciò che aveva rubato, ma non dà tutte le sue sostanze, e che pure sente la bella assicurazione: « Oggi la salvezza si è fatta per questa casa », è significativo. E quando dovrà istituire l’Eucaristia, Gesù vorrà un cenacolo riccamente addobbato, che preludeva alla ricchezza dei suoi templi e delle basiliche cristiane, dove, essendo essa subordinata a Dio ed al suo servizio, l’ordine è rispettato. Ma non sembra — si chiederà qualcuno — che Cristo abbia condannato non solo l’abuso, ma anche l’uso della ricchezza? Non leggiamo noi forse in san Luca: « Guai a voi, o ricchi, perché avete ricevuto la vostra consolazione? ». No, Il vae vobis divitibus non è l’esclusione del ricco dalla Chiesa, ossia dal regno de’ cieli; ma è l’ammonimento dei pericoli che il denaro porta con sé. L’affetto sregolato ai beni che si possiedono sorge in noi facilmente e ci rende febbricitanti, come nota il santo di Ginevra; simili a chi è divorato dalla febbre e beve acqua con avidità, così il denaro ci comunica la febbre di una avarizia mai sazia. Inoltre, la fame dell’oro suggerisce mezzi illeciti per procurarselo e per conservarlo. E l’ansia per tale conquista e per tale difesa fa dimenticare i beni più alti e la vita morale. Se l’animo non è staccato dall’oro, osserva san Vincenzo de’ Paoli, somiglia ad una persona legata mani e piedi ad un albero, la quale non può né fuggire, né recarsi a domandar soccorso, e che pure si crede libera. Il denaro è spesso una chiave ingannatrice: essendo dorata, tutti la guardano e la bramano; e non sanno che essa ci rinchiude nella prigione dell’egoismo, dove più non si pensa ad amare Dio, più non ci si preoccupa del povero Lazzaro, ricoperto di piaghe, che invano sospira le briciole della mensa. t solo per questa antitesi tra l’egoismo e l’amore a Dio ed ai fratelli che Gesù dichiara: « È più facile che un cammello passi per la cruna d’un ago, che un ricco entri nel regno de’ cieli ». E chi riflette a tutti gli sfruttamenti compiuti nei secoli dagli Epuloni, comprende e conclude: è giusto. O si ama Dio e il prossimo, e si è Cristiani; o il dio nostro è il denaro, ed allora non lo siamo più. – Certo, può essere Cristiano il ricco, che usa delle sue ricchezze, ispirandosi al precetto dell’amore. Vorrete forse rifiutare il nome di « Cristiano a Leone Harmel, che a Valdebois fu il bon père dei suoi operai e che mostrò a fatti come anche l’atmosfera industriale può essere resa ottima dall’ossigeno dell’amore? Il ricco, non egoista, che nell’uso dei beni terrestri non viola il piano divino, non merita di sentirsi un giorno rivolgere da Cristo la terribile sentenza: « Avevo fame e non mi desti da mangiare… ». Egli, non solo con l’elemosina, ma con tutte le iniziative che la funzione sociale della ricchezza può suggerire in una determinata epoca e nelle circostanze concrete in cui vive, ama veramente Dio e il prossimo; ossia è veramente Cristiano.

2. Il Cristianesimo non giustifica la trascuratezza nei doveri che ognuno ha a proposito delle sue necessità economiche. Potrebbe, ad esempio, dire d’essere fedele al comando dell’amore un padre di famiglia che non si curasse dei bisogni della sua casa, o una mamma che sciupasse somme forti nel lusso ed in spese superflue, col pretesto che non bisogna avere il cuore attaccato al denaro? Il vero precetto non è negativo, ma è positivo: amare Dio e il prossimo. Lo sciupio del denaro, la noncuranza del risparmio, il criminoso disinteresse di fronte alle necessità dei propri cari, cosa sono in ultima analisi se non l’egoismo, ossia la negazione assoluta della morale cristiana? Chi profonde somme pazze nel gioco; chi sperpera il salario all’osteria; chi fa debiti per divertirsi e per condurre una vita di lusso sproporzionata alle proprie entrate, è egoista sempre. Non cerca Dio, ma se stesso, e resta nel disordine. Gesù Cristo, al contrario, c’insegna a preoccuparci anche delle cose economiche, ispirandole col senso del retto amore. Dinanzi alla folla immensa, che attratta dalla sua divina parola, l’aveva seguito nel deserto, ha forse esclamato: « Beati i poveri, perchè possono morire di fame »? No. Ha pronunciato, piuttosto, la sua sublime esclamazione: « Misereor super turbam » ed ha sfamato il povero popolo. È moralmente doveroso, quindi, ed è un’applicazione evidente del precetto dell’amore, interessarsi dell’economia propria, dell’economia domestica, delle finanze nazionali e dell’economia sociale. Oh, non è forse un amare il prossimo anche il procurare il benessere economico dello Stato, il promuovere la legislazione sociale, il contribuire all’organizzazione sindacale, cristianamente animata, del proprio Paese? – L’unica cosa che il Cristianesimo esclude è il capovolgimento dei valori. Quando, ad es., si asserisce che tutto è una questione di stomaco, la morale cristiana protesterebbe; ma quando si dovesse concludere: « Dunque il Cristiano non deve preoccuparsi dell’economia », si direbbe uno sproposito. Anche la Magenfrage si trasforma per noi in un problema morale, che dev’essere risolto non come lo potrebbe fare un bruto, non come lo potrebbe fare un economista puro, ma come ha il dovere di scioglierlo un economista discepolo dell’Amore. Queste due parole: economia e Cristianesimo non fanno a pugni. Quantunque la missione di Gesù sia stata di ordine essenzialmente spirituale e quantunque sia vano ricercare nel Vangelo un trattato di economia politica od un programma di riforme economiche, tuttavia è chiaro che la morale cristiana dev’essere l’anima ispiratrice anche del movimento economico. È la grande idea, che nella Rerum Novarum Leone XIII, contro le negazioni della scuola liberale e della corrente socialista, ha illustrato col suo genio, col suo cuore, con la sua autorità di Pontefice e di Padre.

3. – La povertà di spirito.

Nel discorso della Montagna, con una espressione semplicissima e divinamente profonda, Gesù Cristo ha espresso la sua dottrina riguardo alla ricchezza, proclamando beati i poveri di spirito. Chi sono i « poveri di spirito »? Forse gli imbecilli, come ha interpretato qualche scemo? Per null’affatto! La morale cristiana vuole che noi abbiamo compassione dei deficienti, ma non li propone a modello; bensì ci invita ad invocare, fra i doni dello Spirito Santo, quello della sapienza, della scienza, dell’intelletto…

I « poveri di spirito » sono coloro che, possedendo o non possedendo ricchezze, non hanno il cuore legato ad esse; che, quindi, riconoscono praticamente la centralità di Dio, e non adorano il dio Quattrino. Può essere « povero di spirito» un milionario, che usa le sue fortune secondo il comandamento della carità, non solo beneficando il prossimo, ma utilizzando i suoi capitali in opere che ridondano a vantaggio sociale. E può essere « ricco di spirito » un indigente, che, non avendo nulla, è minato dalla cupidigia e non aspira se non al denaro, invidiando chi lo possiede. È insomma il distacco dell’animo e del cuore dai beni del mondo, che esige Gesù Cristo; è lo spogliamento affettivo, anche se non è reale; è la condanna sia della ricchezza eretta a divinità, sia della povertà subita a malincuore. La prima delle Beatitudini si riferisce, quindi, ad ogni persona, ai ricchi ed ai poveri. È qui che bisogna allora distinguere, fra il comando della povertà evangelica, imposto a tutti, ed il consiglio rivolto solo a coloro che tendono allo stato di perfezione.

4. – Il comando della povertà.

A tutti è comandato di essere « poveri di spirito», senza eccezione. Tutti, pur servendosi del denaro, non debbono esserne schiavi. Non noi per il denaro, ma il denaro per noi, per il prossimo, per Dio: ecco la norma obbligatoria della vita cristiana. Chi calpesta una simile legge, nega l’amore d Dio, perchè lo pospone ed un bene creato; causa disastri sociali, che sono in opposizione all’amore del prossimo; rovina se stesso, perché si prepara mille disillusioni. – Mai, come in punto di morte, colui che ha vissuto per il denaro coglie tutta la verità della morale cristiana. Nella propria giovinezza, forse, era giunta la benedizione di Dio: gli affari erano prosperati, il benessere economico aveva recato il suo sorriso nella casa e la ricchezza aveva portato il proprio bacio. Invece di essere riconoscenti al Datore di ogni bene, forse il nuovo ricco si è dimenticato di Lui. Arricchirsi e allontanarsi da Dio è sempre stata la storia di molti, in ogni secolo, ma specialmente nel secolo nostro. L’attivitànfebbrile nel mondo degli affari assorbe tutte le facoltà dell’animo: qualche operazione fruttuosa, ma poco scrupolosa, viene a celebrare i funerali dei vecchi precettuzzi di morale; il problema più importante lo si trova enunciato ogni giorno nel costo del cotone, della seta, dei cereali o nel listino di Borsa. Alle antiche preghiere del mattino si sostituisce lo sguardo avido alle oscillazioni nel prezzo delle azioni, alla media dei consolidati e dei cambi, alle notizie dei fallimenti e dei concordati. E gli anni passano a questo modo.., ed a questo modo arriva un’indisposizione ed una malattia. Dapprima la cosa pare trascurabile; qualche giorno di riposo e tutto sarà riparato… Poi, si aggiungono le complicazioni…

L E fra una ricetta e l’altra, fra una visita del medico e quattro parole con un amico, par di sentire il rumore di un passo, come di chi s’avvicini alla camera nostra. Che c’è?nNulla… È la signora Morte, in cammino,.. Ma come? Chi l’ha chiamata? Non ha essa rispetto per gli uomini d’affari? Ahimè! Che volete? La Morte non ha mai avuto tempo di leggere il Galateo di monsignor della Casa… Nel frattempo la malattia s’aggrava. Il medico curante ed i familiari suggeriscono un « consulto ». Si telegrafa, si telefona. E giungono gli uomini della scienza; visitano accuratamente, gentilmente; sussurrano le loro strane parole mezzo greche e mezzo italiane, che al profano destano l’impressione di pietose etichette utilissime per velare la dotta ignoranza. Che volete? Se l’organismo si sfascia, il « professore » anche più celebre potrà se mai esprimervi il fenomeno in termini scientifici; ma potete esigere da lui qualcosa di più? È allora, in qualche momento di quiete, che la signora Morte comincia a mostrare la sua faccia. Dapprima un sospetto lontano, un’idea pallida, un baleno improvviso e rivelatore. Ma è sufficiente per turbare, per provocare un sussulto d’angoscia, di terrore e di raccapriccio… – Officine? stabilimenti? campi? palazzi? ville? depositi alle Banche? ricchezze?… Tutto questo che giova? Bisognerà provvedere al testamento; ma nel testamento si ripete insistente un unico verbo; lascio, lascio, lascio… E nulla più. – L’esame della propria vita s’impone. In quella ricca stanza elegante, di notte, quando il sonno ristoratore tarda a venire, mentre qualcuno veglia al capezzale, d’improvviso il quadro della propria esistenza si affaccia alla mente dell’infermo. Dopo tanti bilanci a fine d’anno e a fine del semestre è purtroppo giunto il momento in cui bisogna pensare al bilancio della propria vita. Il Dio dei primi anni innocenti riappare. Forse riappare accanto alla figura della vecchia mamma, morta pregando e che come un giorno ha congiunto le manine del bimbo, sembra che oggi voglia riunire in atto di preghiera le mani del figlio morente… – La speranza, ultima dèa, tenta sorridere; ma ormai quel pallido sorriso appare bugiardo. Le forze sfuggono. Nell’animo agitato, sconvolto, il dramma prosegue. Ricordi di colpe, proteste di deboli, obblighi di restituzioni, rimorsi oscuri, quasi personaggi viventi, balzano nella coscienza, minacciano e scompaiono. La vanità di una esistenza intera, assorbita nel danaro e ad esso sacrificata, s’impone allo sguardo. È il crollo d’un meraviglioso palazzo, illuminato di illusioni; là, sulle rovine, sta lei, vendicatrice, la signora Morte… E guai se allora non giunge, col Ministro del perdono, il conforto di Dio dimenticato negli anni della prosperità e ritrovato nell’amaro e desolato tramonto…

5. – Il consiglio evangelico della povertà.

Al giovane, che l’interrogava sul modo di salvarsi, Gesù — ce lo riferisce il Vangelo di san Matteo — rispose: « Se brami di arrivare alla vita, osserva i comandamenti ». Ed il giovane a Lui: « Ho osservato tutto questo dalla mia giovinezza; che mi manca ancora? ». Allora Gesù: « Se vuoi essere perfetto; va, vendi ciò che hai e distribuiscilo ai poveri; ed avrai un tesoro nel cielo; e vieni, e seguimi ». A tutti la morale cristiana impone di non esser adoratori del denaro; alla schiera di chi vuol tendere alle alte vette, suggerisce e consiglia la rinuncia reale e l’abbandono effettivo, non solo affettivo, d’ogni ricchezza, uno spettacolo meraviglioso quello che Cristo ci offre. – In questo mondaccio, dove per un soldo moltissimi son pronti ad abdicare ad ogni senso di onestà e di pudore, quell’espressione del Vangelo è bastata per suscitare eserciti di anime, che hanno preso la Povertà in isposa. E passano dinanzi al memore pensiero i Monaci e gli Eremiti, tutti gli Ordini antichi e moderni, le Congregazioni e le Famiglie religiose. Son folle sterminate di persone, che con un gesto sorprendente, dànno un addio ai beni, alle comodità, all’oro, per condurre una vita di mortificazioni e di penitenze. Era opportuno che simile scena si rinnovasse nel succedersi dei tempi. La povertà evangelica, in mezzo alle cupidigie umane, è un rimprovero, un mònito, un appello. Se la sua voce oggi risuona per tante anime come una lingua incomprensibile, la ragione è che la morale cristiana non è conosciuta. Poichè, lo si noti bene, la vera povertà evangelica si riduce ad un atto di amore per Dio e per il prossimo. Non è solo il poverello d’Assisi che dalla povertà fu condotto all’Amore e che dall’Amore fu condotto al più alto grado della povertà; ma in ogni anima consacrata a Dio, che a Lui si lega con un voto, si verifica lo stesso fenomeno. Chi volontariamente si spoglia di quanto legittimamente gode, dice al Signore, con l’eloquenza del fatto: « Per tuo amore, o Signore, io rinuncio a tutto; il mio gesto è un gestond’amore per Te. Io voglio Te solo, in questo e nell’altro mondo, perchè Tu sei il mio Dio e la mia felicità ». Colui che è perfetto nella povertà, ama Dio sopra ogni cosa in modo evidente; e si capisce come debba amare anche i fratelli suoi, più di ogni e qualsiasi altra persona. Il suo cuore non è occupato da ossessioni per i beni terreni; perciò resta aperto a tutti i bisognosi. Chi mai, per portare un piccolo esempio, ama di più il suo prossimo, di quelle vergini spose di Cristo e della povertà che si consumano silenziosamente negli ospedali? E nella storia dell’economia qual è quell’anticlericale così ignorante, che possa cancellare l’influsso esercitato dagli Ordini religiosi sullo sviluppo sociale avvenuto col passaggio dall’economia a schiavi all’economia dei servi della gleba ed ai liberi cittadini del Comune medievale? – Sono esilaranti alcuni economisti, che indicano il Cristianesimo quasi fosse fautore di una trasformazione del mondo in un grande chiostro. No. C’è bisogno a questo mondo della prosa e della poesia. E guai se dovessimo abolire la prosa! Guai, se per comperare un po’ di pane o un po’ di prosciutto, la buona massaia dovesse parlare in versi col prestinaio o col salumiere! Così anche nella questione della ricchezza: occorre la prosa dell’economia e la bella poesia della povertà assoluta. Oh chel vorreste distruggermi Dante, perchè nelle vicende della giornata voi parlate non componendo terzine? State tranquilli. Di Alighieri non ne nascono dodici al giorno: e di persone che si consacrano alla povertà evangelica e che cantano la poesia del distacco dal denaro, non ve ne saranno mai troppe. Sia benedetta la poesia e sia benedetta la prosa! Ciò che importa è che, nell’una e nell’altra, non si commettano errori di grammatica, di sintassi, o di senso… Non basta indossare un saio per essere perfetti: e le degenerazioni di alcuni Ordini, come gli Umiliati, ce lo ricordano. Nessuno è da riprovarsi, se resta nel mondo e utilizza i suoi averi; solo si richiede che non cada in certi sbagli, per i quali, invece di servirsi del denaro, lo serve indecorosamente ed ignobilmente.

6. – Il cristiano e la ricchezza.

La vittoria completa nella lotta contro la cupidigia dei beni terreni il Cristiano la raggiunge con l’unione a Cristo. Basta risvegliare in noi questo senso della incorporazione nostra col Maestro divino, che volle nascere in una stalla, che volle vivere poveramente, che scelse come suoi Apostoli uomini privi di fortuna, per rendere sempre più vigile la coscienza riguardo al distacco del denaro. Basta riflettere che vive in noi quel Gesù, che soccorreva e provvedeva ad ogni miseria, per capire l’ammonimento della prima lettera di san Giovanni: « Se alcuno ha de’ beni del mondo e vede che il suo fratello ne ha bisogno e gli chiude le sue viscere, come può rimanere l’amor di Dio in lui? Figlioletti miei, non amiamoci con parole e con la lingua, ma con opere e in verità ». È questo dogma dell’unione mistica di Cristo con noi, che deve farci scorgere Gesù nei poveri e deve caratterizzare la elemosina cristiana: la quale è per definizione, come vedemmo, il soccorso nostro non al povero, ma a Cristo vivente nel povero. È questo il pensiero che anima gli scritti dei Padri e la vita dei Santi, e che un venerdì santo induceva Bossuet a dimenticare quasi il Redentore, per non parlare che del povero: « Non vi domando — egli esclamava dinanzi al suo uditorio — che voi contempliate qualche dipinto di Gesù crocifisso; io ho un’altra pittura da proporvi, pittura viva, che ha l’espressione naturale di Gesù morente. Sono i poveri… In essi Gesù soffre, langue e muore di fame. In essi Gesù è abbandonato, disprezzato ». – Finalmente l’unione di Cristo con noi ci ricorda Giuda, la sua battaglia, la sua sconfitta, il suo tradimento. Uniti a Cristo come lui, anche ad ognuno di noi si propone il dilemma: o l’amore fedele al nostro Dio, o trenta denari infami. “Non si creda che Giuda sia scomparso dalla terra. Egli rivive in molti Cristiani, che ripetono la sua offerta: « Quanto mi volete dare, perchè io ve lo consegni?». Ed il turpe mercato si rinnova e ancora si vende il Figlio dell’uomo… Unica differenza fra Giuda ed i suoi successori è che questi ultimi talvolta sono pronti a tradire per una somma minore di trenta denari… Ma anche se i Giuda divenissero sempre più numerosi, anche se il vile mercimonio continuasse e si diffondesse, Giuda, simbolo dell’avidità dell’oro, ha torto e la morale nostra conserva i suoi sacri ed imprescrittibili diritti.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. BENEDETTO XV – “PACEM DEI MUNUS PULCHERRIMUM”

Subito dopo la fine del primo conflitto mondiale che aveva procurato morte, devastazioni, rovine immense, S.S. sente il bisogno di indicare la via della riconciliazione e del perdono tra popoli non più belligeranti, ma che ancora covavano in cuore odio e rancore. Da par suo il Sommo Pontefice Vicario di Cristo, ricorda la dottrina insegnata da Cristo ed illustrata dagli Apostoli nei Vangeli, nelle Lettere ai fedeli, e dai Padri nei loro scritti cattolici. Il richiamo ai valori autentici cristiani fondati sull’amore di Dio e delle creature a sua immagine, gli uomini, è quanto mai urgente ed è l’unica vera soluzione all’odio tra fratelli che dovrebbero mirare tutti all’eterna beatitudine e all’incontro con Dio, compresi nel comune Corpo mistico del Redentore. Questo appello è ancor più urgente oggi in queste divisioni, lotte, ribellioni di popoli che funesta nazioni ed interi continenti, tra centinaia di focolai bellici fomentati dall’odio sparso tra le genti dal nemico dell’umanità. I rimedi sono sempre gli stessi, quelli mostrati dal Cristo e dalla dottrina della Chiesa qui riassunta dal Pontefice, e la preghiera con la pressante richiesta della pace che solo Dio può dare.

Benedetto XV
Pacem, Dei munus pulcherrimum

Lettera Enciclica

23 maggio 1920

Una vera pace è fondata sulla riconciliazione e sulla carità

1. La pace, gran dono di Dio, di cui – come dice S. Agostino – nessuna tra le cose mortali è più gradita, nessuna è più desiderabile e migliore; la pace per più di quattro anni così vivamente implorata dai voti dei buoni, dalle preghiere dei fedeli e dalle lagrime delle madri, finalmente ha cominciato a risplendere sui popoli, e Noi per i primi ne godiamo. Senonché troppe ed amarissime ansie conturbano questa gioia paterna; poiché, se quasi dovunque la guerra in qualche modo ebbe fine e furono firmati alcuni patti di pace, restano pur tuttavia i germi di antichi rancori; e voi comprendete, o Venerabili Fratelli, come nessuna pace possa aver consistenza né alcuna alleanza aver vigore, quantunque escogitata in diuturne e laboriose conferenze e solennemente sanzionata, se insieme non si sopiscano gli odi e le inimicizie per mezzo di una riconciliazione fondata sulla carità vicendevole. Intorno a questo argomento adunque, che è della più alta importanza per il bene comune, vogliamo Noi intrattenervi, o Venerabili Fratelli, e nel tempo stesso mettere in guardia i popoli che sono affidati alle vostre cure.

Azione senza sosta del Papa per la ricerca della pace.

2. Veramente fin da quando per arcano disegno di Dio fummo assunti a questa Sede di Pietro, mai Noi abbiamo tralasciato, finché divampò la guerra, di adoperarci senza sosta affinché tutte le nazioni del mondo riprendessero tra di loro al più presto cordiali relazioni. Perciò non cessammo di pregare, di rinnovare esortazioni, di proporre vie di accomodamento, di esperire insomma ogni tentativo per vedere di aprire, col divino aiuto, una qualche apertura ad una pace che fosse giusta, onorevole e duratura; e frattanto rivolgemmo ogni Nostra paterna premura per lenire ovunque quel cumulo immenso di dolori e di sventure d’ogni sorta che accompagnavano l’immane tragedia. Orbene, come fin dall’inizio del Nostro laborioso Pontificato la carità di Gesù Cristo Ci indusse ad adoperarci sia per il ritorno della pace, sia per mitigare gli orrori della guerra, così ora che una qualche pace è stata finalmente conchiusa, egualmente è la stessa carità che Ci spinge ad esortare tutti i Figli della Chiesa, o meglio, tutti gli uomini dell’universo, perché vogliano deporre gli inveterati rancori e dar luogo al reciproco amore ed alla concordia.

Il messaggio del Cristianesimo è stato chiamato “Evangelo dl pace”

3. Non occorre che Ci dilunghiamo troppo a dimostrare come l’umanità andrebbe incontro ai più gravi disastri, se, pur essendo conchiusa la pace, continuassero tra i popoli latenti ostilità ed avversioni. Non parliamo dei danni di tutto ciò che è frutto della civiltà e del progresso, come dei commerci e delle industrie, delle lettere e delle arti, le quali cose fioriscono soltanto in seno alla tranquilla convivenza dei popoli. Ma, ciò che più importa, ne verrebbe colpita la vita stessa del Cristianesimo che è essenzialmente fondato sulla carità, essendo chiamata la predicazione stessa della legge di Cristo “Evangelo di pace”. – Infatti, come voi ben sapete e più volte Noi abbiamo già ricordato, nessuna cosa fu così spesso e con tanta insistenza trasmessa dal divino Maestro ai suoi discepoli, quanto questo precetto della carità fraterna, come quello che in sé racchiude tutti gli altri e Gesù Cristo chiamò nuovo e suo un tale precetto e volle che esso fosse come la tessera di riconoscimento dei Cristiani, per cui si potessero facilmente distinguere dagli altri. Né diverso infine fu il testamento che Egli morendo lasciò ai suoi seguaci, quando pregò che si amassero fra loro, ed amandosi si sforzassero di imitare quella unità ineffabile che si riscontra tra le Persone della SS.ma Trinità: “Che siano tutti una sola cosa… come una sola cosa siam noi.., affinché siano consumati nell’unità”. – Gli Apostoli pertanto, seguendo le orme del divin Maestro, ed ammaestrati dalla viva sua voce, erano di una assiduità meravigliosa nell’esortare così i fedeli: “Sopra tutto poi abbiate perseverante fra voi stessi la mutua carità”. “E sopra tutte queste cose conservate la carità, la quale è il vincolo della perfezione”. “Carissimi amiamoci l’un l’altro; perché la carità è da Dio”. A questi avvertimenti di Gesù Cristo e degli Apostoli erano ben ossequenti quei nostri fratelli di tempi antichi, i quali, sebbene appartenenti a diverse nazioni talvolta in lotta tra loro, tuttavia, cancellando il ricordo delle contese con volontario oblio, vivevan in perfetta concordia. E veramente contrastava non poco una così intima unione di mente e di cuore da quelle mortali ostilità che allora divampavano in seno al consorzio umano.

Amare anche i nemici secondo il comandamento dl Gesù.

4. Ora, quanto si è detto fin qui per imprimere il precetto della carità, vale anche per il perdono delle offese, non meno solennemente comandato dal Signore: “Ma io vi dico: Amate i vostri nemici; fate del bene a coloro che vi odiano: e pregate per coloro che vi perseguitano e vi calunniano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli: il quale fa che si levi il suo sole sopra i buoni e sopra i cattivi”. Di qui quel gravissimo monito dell’Apostolo S. Giovanni: “Chiunque odia il suo fratello, è omicida. E voi sapete, che nessun omicida ha la vita eterna abitante in se stesso”. Finalmente, Gesù Cristo ci ha insegnato a pregare il Signore in modo che noi stessi domandiamo di essere perdonati a patto di perdonare agli altri: “E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Che se talvolta riesce troppo ardua e difficile l’osservanza di questa legge, a vincere ogni difficoltà, lo stesso Redentore del genere umano non solo ci assiste con la sua divina grazia ma anche col suo mirabile esempio, poiché mentre pendeva dalla croce, scusò presso il Padre coloro che così ingiustamente e iniquamente lo tormentavano, con quelle parole: “Padre, perdona loro: giacché non sanno quel che si fanno”. Noi pertanto, che per i primi dobbiamo imitare la misericordia e la benignità di Gesù Cristo, di cui, senza alcun merito, teniamo le veci, a suo esempio Noi perdoniamo di gran cuore a tutti e singoli i Nostri nemici che consapevoli o inconsci ricoprirono o coprono anche ora la persona e l’opera Nostra con ogni sorta di ingiurie, e tutti abbracciamo con somma carità e benevolenza non tralasciando alcuna occasione per beneficarli quanto più possiamo: e ciò stesso son tenuti a praticare i Cristiani veramente degni di tal nome, verso coloro dai quali, durante la guerra, ricevettero offesa.

Il triste spettacolo delle miserie derivanti dalla guerra.

5. Infatti la carità cristiana non si limita a non odiare i nemici e ad amarli come fratelli, ma vuole ancora che facciamo loro del bene; seguendo in ciò le orme del nostro Divin Redentore, il quale “compì la sua carriera, facendo del bene e sanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo” e terminò il corso della sua vita mortale, spesa tutta nel beneficare immensamente gli uomini, versando per essi il suo sangue. Per cui disse S. Giovanni: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: poiché Egli ha dato la sua vita per noi: e noi pure dobbiamo dare la vita per i fratelli. Chi avesse dei beni di questo mondo, e vedesse il suo fratello in necessità, e gli chiudesse il suo cuore, come può essere in costui l’amore di Dio? Figlioli miei, non amiamo in parole e con la lingua, ma con le opere e con verità”. Mai però vi fu tempo in cui si dovessero più “dilatare i confini della carità” quanto in questi giorni di universale angustia e dolore; né mai forse come ora ebbe bisogno l’umanità di quella comune beneficenza che fiorisce dal sincero amore per il prossimo e che è piena di sacrificio e di fervore. Poiché, se volgiamo lo sguardo dovunque la guerra ha imperversato furibonda, ci si parano innanzi immense regioni desolate e squallide, moltitudini ridotte a tale estremo da mancare di pane, di indumenti e di letto; vedove ed orfani innumerevoli nell’attesa di un qualche soccorso; infine un’ingente schiera di esseri debilitati, specialmente bambini e fanciulli, i quali attestano nei loro corpicciuoli miseri l’atrocità della guerra.

La Chiesa ha sempre operato come il buon Samaritano.

6. A chi contempla tal quadro di miserie, da cui è oppresso il genere umano, s’affaccia spontaneo alla mente il ricordo di quel viandante evangelico, il quale, recandosi da Gerusalemme a Gerico, s’imbatté negli assassini, che, spogliatolo e copertolo di ferite, lo abbandonarono semivivo sulla via. I due casi si assomigliano grandemente; e come a costui si avvicinò pieno di compassione il Samaritano che versatogli sulle ferite olio e vino lo fasciò, lo condusse all’albergo e si prese cura di lui; così a risanare le ferite del genere umano è necessario che vi appresti la sua mano Gesù Cristo, di cui il Samaritano era figura ed immagine. – Tale appunto è l’opera ed il compito che la Chiesa per sé reclama come erede e custode dello spirito di Gesù Cristo; la Chiesa, diciamo, la cui intera esistenza è tutta intessuta di una mirabile varietà di benefici: essa, infatti, “quale vera madre dei Cristiani, ha tali tenerezze di amore per il prossimo che per tutti i vari malanni che travagliano l’anima col peccato, ha pronta ogni specie di medicina”; onde “tratta ed ammaestra puerilmente i fanciulli, i giovani con fortezza, i vecchi con placida calma, secondo che ciascuno è tale non solo di corpo ma anche di animo”. Questi modi cristiani di comportarsi poi, raddolcendo gli animi, sono di una straordinaria efficacia per ricondurre i popoli alla tranquillità.

Invito a tutti i cattolici, religiosi e laici, ad operare per ristabilire la concordia.

7. Perciò vi preghiamo, o Venerabili Fratelli, e vi scongiuriamo nelle viscere di carità di Gesù Cristo, adoperatevi pienamente non solo per stimolare i fedeli a voi affidati a deporre gli odi e a condannare le offese, ma anche per promuovere con più intensità tutte quelle opere di cristiana beneficenza, che siano di aiuto ai bisognosi, di conforto agli afflitti, di presidio ai deboli, che arrechino insomma un soccorso opportuno e molteplice a tutti coloro che hanno riportato dalla guerra una più grave disgrazia. Desideriamo che voi esortiate specialmente i vostri Sacerdoti, come ministri di pace, affinché siano assidui in questo che è il compendio essenziale della vita cristiana, cioè nell’inculcare l’amore verso i prossimi, anche se nemici, e “fatti tutto a tutti” in modo da essere di luminoso esempio, combattono ovunque contro l’inimicizia e l’odio, ben sicuri di fare cosa gratissima al Cuore amantissimo di Gesù e a Colui che, sebbene indegnamente, ne sostiene le veci qui in terra. A questo proposito si devono pure caldamente esortare e pregare i giornalisti e scrittori cattolici, perché “come eletti di Dio, santi ed amati”, vogliano rivestirsi “di viscere di misericordia e di benignità”, esprimendola nei loro scritti, con l’astenersi non solo dalle false e vane accuse, ma ancora da ogni intemperanza e asprezza di linguaggio, la quale, mentre è contraria alla legge cristiana, non farebbe altro che riaprire piaghe non ancora risanate, tanto più che gli animi già inaspriti da recenti ferite mal sopportano ogni più lieve ingiuria.

È necessaria la ripresa di relazioni amichevoli fra i popoli già in guerra fra loro.

8. Quanto noi abbiamo qui ricordato ai singoli circa il dovere che essi hanno di praticare la carità, intendiamo che sia pure esteso a quei popoli che hanno combattuto la grande guerra, affinché, rimossa, per quanto è possibile, ogni causa di dissidio e salve naturalmente le ragioni della giustizia, riprendano tra di loro relazioni amichevoli. Poiché non è affatto diversa la legge evangelica della carità tra gli individui da quella che deve esistere tra gli Stati e le nazioni, non essendo esse infine che l’insieme dei singoli individui. Dal momento poi che la guerra è cessata, non solo per motivi di carità ma anche per una certa necessità di cose, si va delineando un legame universale di popoli, spinti naturalmente ad unirsi fra loro da mutui bisogni, oltreché da vicendevole benevolenza, specialmente ora con l’accresciuta civilizzazione e con le vie di comunicazione mirabilmente moltiplicate.

Tolto il divieto ai Sovrani cattolici di venire a Roma in forma ufficiale.

9. E veramente questa Sede Apostolica non si stancò mai d’inculcare durante la guerra, come dicemmo, un tale perdono delle offese e la fraterna riconciliazione dei popoli, conformemente alla legge santissima di Gesù Cristo e secondo le stesse esigenze del consorzio civile; né permise che questi principi morali fossero dimenticati anche in mezzo alle rivalità e agli odi; ed ora, dopo i trattati di pace, questi principi li propugna e li proclama ancor più altamente; come ha fatto poc’anzi nella lettera ai vescovi della Germania e nell’altra indirizzata all’Arcivescovo di Parigi. E poiché a mantenere ed accrescere questa concordia tra le genti non poco contribuiscono le visite che i capi degli Stati e dei Governi usano reciprocamente farsi per sbrigare gli affari di maggiore importanza, Noi, considerando le mutate circostanze dei tempi e la piega pericolosa degli eventi, pur di cooperare a questo affratellamento dei popoli, non saremmo alieni dal mitigare in qualche modo il rigore di quelle condizioni che, abbattuto il Governo civile della Santa Sede, furono giustamente stabilite dai Nostri antecessori ad impedire la venuta dei Sovrani cattolici a Roma in forma ufficiale. Però nel tempo stesso solennemente proclamiamo che questa Nostra remissività, consigliata, o meglio voluta, come pare, dalla gravità di tempi che corrono, non si deve affatto interpretare quale una tacita rinunzia ai sacrosanti diritti, quasi che la Santa Sede si contenti dello stato anormale in cui si trova al presente. Che anzi “le proteste che i Nostri Predecessori fecero più volte, non affatto mossi da interessi umani ma dalla santità del dovere, per difendere cioè la dignità e i diritti di questa Sede Apostolica. Noi qui, in questa circostanza, le rinnoviamo per le identiche ragioni”, chiedendo ripetutamente e con maggior insistenza che, mentre si è pattuita la pace tra le nazioni, “cessi anche per il Capo della Chiesa questa condizione anormale, che gravemente nuoce, e per più motivi, alla stessa tranquillità dei popoli”.

Invito a costituire una Lega delle nazioni.

10. Ristabilite così le cose, secondo l’ordine voluto dalla giustizia e dalla carità, e riconciliate tra di loro le genti, sarebbe veramente desiderabile, o Venerabili Fratelli, che tutti gli Stati, rimossi i vicendevoli sospetti, si riunissero in una sola società o meglio famiglia dei popoli, sia per garantire la propria indipendenza, sia per tutelare l’ordine del civile consorzio. E a formar questa società fra le genti è di stimolo, per tacere molte altre considerazioni, il bisogno stesso generalmente riconosciuto di ridurre, se non è dato di abolire, le enormi spese militari che non possono più oltre essere sostenute dagli Stati, affinché in tal modo si impediscano per l’avvenire guerre così micidiali e tremende e si assicuri a ciascun popolo nei suoi giusti confini l’indipendenza e l’integrità del proprio territorio.

La Chiesa nei secoli passati ha sempre operato per l’unione dei popoli.

11. E una volta che questa Lega tra le nazioni sia fondata sulla legge cristiana, per tutto ciò che riguarda la giustizia e la carità, non sarà certo la Chiesa che rifiuterà il suo valido contributo, poiché, essendo essa il tipo più perfetto di società universale, per la sua stessa essenza e finalità è di una meravigliosa efficacia ad affratellare tra loro gli uomini, non solo in ordine alla loro eterna salvezza, ma anche al loro benessere materiale; li conduce cioè attraverso i beni temporali, in modo da non perdere gli eterni. Perciò sappiamo dalla storia, che da quando la Chiesa pervase del suo spirito le antiche e barbariche genti d’Europa, cessarono un po’ alla volta le varie e profonde contese che le dividevano, e federandosi col tempo in una unica società omogenea, diedero origine all’Europa cristiana, la quale, sotto la guida e l’auspicio della Chiesa, mentre conservò a ciascuna nazione la propria caratteristica, culminò in una compatta unità, fautrice di prosperità e di grandezza. Molto bene a questo proposito dice S. Agostino: “Questa città celeste, mentre vive esule quaggiù in terra, chiama a sé cittadini di ogni nazione, e compone di tutte le genti una sola società pellegrinante; non si cura di ciò che vi è di diverso nei costumi, nelle leggi e nelle istituzioni; cose tutte che, mirando alla conquista e al mantenimento della pace terrena, la Chiesa, invece di ripudiare o distruggere, gelosamente conserva; poiché, quantunque esse variino secondo le nazioni, vengono tutte indirizzate allo stesso fine della pace terrena, purché non impediscano l’esercizio della Religione che insegna ad adorare l’unico sommo e vero Dio” (20). E lo stesso Santo Dottore così parla alla Chiesa: “Tu, i cittadini, le genti e gli uomini tutti, rievocando la comune origine, non solo li unisci tra loro ma ancora li affratelli”.

Esortazione finale a tutti i popoli.

12. Noi pertanto, rifacendoci al principio del Nostro discorso, Ci rivolgiamo con affetto a tutti i Nostri figli e li scongiuriamo nel nome di Nostro Signor Gesù Cristo perché vogliamo dimenticare le reciproche rivalità ed offese, e stringersi nell’amplesso della carità cristiana, dinanzi a cui non vi sono stranieri; esortiamo inoltre vivamente tutte le nazioni affinché, sotto l’influsso della benevolenza cristiana, s’inducano a stabilire tra loro una vera pace e a collegarsi in un’unica alleanza, che, con l’aiuto della giustizia, sia duratura; infine facciamo appello a tutti gli uomini e popoli della terra perché aderiscano con la mente e con il cuore alla Chiesa Cattolica, e per la Chiesa, a Cristo Redentore del genere umano: così che possiamo loro rivolgere con tutta verità quelle parole di S. Paolo agli Efesini: “Ma adesso in Cristo Gesù, voi che eravate una volta lontani, siete diventati vicini, mercé il Sangue di Cristo. Poiché egli è nostra pace, egli che delle due cose ne ha fatta una sola, annullando la parete intermedia di separazione… distruggendo in se stesso le inimicizie. E venne ad annunziare la pace a voi, che eravate lontani, e pace ai vicini”. Né sono meno a proposito quelle parole che il medesimo Apostolo indirizzava ai Colossesi: “Non mentite più l’uno verso dell’altro, essendovi spogliati dell’uomo vecchio e di tutte le opere di lui, ed essendovi rivestiti del nuovo, di quello, il quale, si va rinnovando in proporzione della conoscenza, conformandosi all’immagine di colui che lo creò: dove non c’è Greco e Giudeo, circonciso e incirconciso, Barbaro e Scita, servo e libero: ma Cristo in ogni cosa ed in tutti”.

Frattanto, confidando nel patrocinio della Vergine Immacolata che testé volemmo fosse universalmente invocata “Regina della pace”, come pure in quello dei tre novelli Santi, umilmente imploriamo il divino Spirito Paraclito, perché “conceda propizio alla sua Chiesa il dono dell’unità e della pace” e con ulteriore effusione di carità, diretta alla comune salvezza, rinnovi la faccia della terra…

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2023)

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2023).

Semidoppio.- Paramenti verdi.

Nell’ufficio divino si effettua in questo tempo la lettura delle Parabole o Proverbi di Salomone. « Queste parabole sono utili per conoscere la sapienza e la disciplina, per comprendere le parole della prudenza, per ricevere l’istruzione della dottrina, la giustizia e l’equità affinché sia donato a tutti i piccoli il discernimento e ai giovani la scienza e l’intelligenza. Il savio ascoltando diventerà più savio e l’intelligente possederà i mezzi per governare! (7° Nott.). Salomone non era che la figura di Cristo, che è la Sapienza incarnata come leggiamo nel Vangelo di questo giorno: « Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete, poiché io ve lo dico, molti profeti e re hanno voluto vedere quello che voi vedete e non hanno potuto; e ascoltare quello che voi ascoltate e non hanno inteso ». « Beati, dice S. Beda, gli occhi che possono conoscere i misteri del Signore, dei quali è detto: « Voi li avete rivelati ai piccoli ». Beati gli occhi di questi piccoli, ai quali il Figlio degnò rivelarsi e rivelare il Padre. Ed ecco un dottore della legge che ha pensato di tentare il Signore e l’interroga sulla vita eterna (Vang.). Ma il tranello che tende a Gesù Cristo mostra come era vero quello che il Signore aveva detto rivolgendosi al Padre: « Tu hai nascoste queste cose ai saggi e ai prudenti e le hai rivelate ai piccoli » (2° Nott.). — « Figlio mio, dice Salomone, il timor di Dio è il principio della sapienza. Se i peccatori vogliono attirarti non acconsentir loro. Se essi dicono: Vieni con noi, tendiamo agguati all’innocente, inghiottiamolo vivo e intero com’è inghiottito il morto che scende nella tomba; noi troveremo ogni sorta di beni preziosi, riempiremo le nostre case di bottini; figlio mio, non andare con loro, allontana i tuoi passi dal loro sentiero. Poiché i loro passi sono rivolti al male ed essi si affrettano per versar sangue. E s’impadroniscono dell’anima di coloro che soggiogano » (7» Nott.). — Cosi i demoni agirono col primo uomo, poiché quando Adamo cadde nel peccato, lo spogliarono di tutti i suoi beni e lo coprirono di ferite. Il peccato originale, infatti, priva l’uomo di tutti i doni della grazia e lo colpisce nella sua stessa natura. La sua intelligenza è meno viva e la sua volontà meno ferma, poiché la concupiscenza che regna nelle sue membra lo porta al male. Per fargli comprendere la sua impotenza — poiché, dice S. Paolo, la nostra attitudine a intendere viene da Dio (Ep.) — Jahvé stabilì la legge mosaica che gli dava precetti senza dargli la forza di compierli, ossia senza la grazia divina. Allora, l’uomo comprendendo che gli bisognava l’aiuto di Dio per essere guarito, per volere il bene, per realizzarlo e per perseverare in esso fino alla fine, rivolse il suo sguardo al cielo: « O Dio, gridò, e non deve giammai cessare di gridare: O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, affrettati a soccorrermi! Siano confusi coloro che cercano l’anima mia » (Intr.). — « Signore, Dio della mia salute, io ho gridato verso di te tutto il giorno e la notte » (All.). E Dio allora risolse di venire in aiuto dell’uomo e poiché i sacerdoti ed i leviti dell’antica legge non avevano potuto cooperare con Lui, mandò Gesù Cristo, che si fece, secondo il pensiero di S. Gregorio, il prossimo dell’uomo, rivestendosi della nostra umanità per guarirla (3° Nott.). Questo è quanto ci dicono l’Epistola e il Vangelo. La legge del Sinai, scolpita in lettere su pietre, spiega S. Paolo, fu un ministero di morte perché, l’abbiamo già visto, non dava la forza di compiere ciò che comandava. Così l’Offertorio ci mostra come Mosè dovette intervenire presso Dio per calmare la sua ira provocata dai peccati del suo popolo. La Legge della grazia è Invece un ministero di giustificazione, perché lo Spirito Santo che fu mandato alla Chiesa nel giorno della Pentecoste, giorno in cui la vecchia legge fu abrogata, dava la forza di osservare i precetti del decalogo e quelli della Chiesa. Cosi S. Paolo dice: « La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica » (Ep.). E il Vangelo ne fa la dimostrazione nella parabola del buon Samaritano. All’impotente legge mosaica, rappresentata in qualche modo dal sacerdote e dal levita della parabola evangelica, il buon Samaritano che è Gesù, sostituisce una nuova legge estranea all’antica e viene Egli stesso in aiuto dell’uomo. Medico delle nostre anime, versò nelle nostre ferite l’unzione della sua grazia, l’olio dei suoi Sacramenti e il vino della sua Eucaristia. Per questo la liturgia canta, in uno stile ricco di immagini, la bontà del Signore, che ha fatto produrre sulla terra il pane che fortifica l’uomo, il vino che rallegra il suo cuore, e l’olio che dona al suo viso un aspetto di gioia (Com.). « Io benedirò, dice il Graduale, il Signore in tutti i tempi: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra ». Noi dobbiamo imitare verso il nostro prossimo quello che Dio ha fatto per noi e quello di cui il Samaritano è l’esempio. « Nessuna cosa è maggiormente prossimo delle membra che il capo, dice S. Beda: amiamo dunque colui che è fratello del Cristo, cioè siamo pronti a rendergli tutti i servizi sia temporali che spirituali di cui potrà aver bisogno » (3° Nott.). Né la legge mosaica, né il Vangelo separano l’amore verso Dio dall’amore di chi dobbiamo ritenere come prossimo: amore soprannaturale nella sua origine, poiché procede dallo Spirito Santo; amore soprannaturale nel soggetto perché è Dio nella persona dei nostri fratelli. Il prossimo di questo uomo ferito non è, come pensavano i Giudei, colui che è legato per vincoli di sangue, ma colui che si china caritatevolmente su di esso per soccorrerlo. L’unione in Cristo, che giunge fino a farci amare quelli che ci odiano e perdonare a quelli che ci hanno fatto del male, perché Dio è in essi, o è chiamato ad essere in essi, è il vero amore del prossimo. Perfezionati dalla grazia, noi dobbiamo imitare il Padre nostro del cielo, che, calmato dalla preghiera di Mosè, figura di Cristo, colmò di beni il popolo che l’aveva offeso (Off., Com.). — Uniti dunque con Cristo, [Questa unità dei Cristiani e del Cristo fa sì che si chiami Gesù il Samaritano, cioè lo straniero, per indicare che i Gentili imiteranno Cristo mentre i Giudei increduli lo disprezzeranno], curviamoci con Lui verso il prossimo che soffre. Questo sarà il miglior modo di diventare, per la misericordia divina, atti a servire Dio onnipotente, degnamente e lodevolmente, e di ottenere che, rialzati dalla grazia, noi corriamo, senza più cadere, verso il cielo promesso (Oraz.) . « Gesù, dice S. Beda, il Venerabile, mostra in maniera chiarissima che non vi è che un solo amore, il quale deve essere manifestato non solo a parole ma con le buone opere, ed è questo che conduce alla vita eterna ». (3° Nott.). – La gloria del ministero di Mosè fu assai grande: raggi miracolosi brillavano sul volto del legislatore dell’antica legge, allorché discese dal Sinai. Ma questo ministero era inferiore al ministero evangelico. Il primo era passeggero: il secondo doveva surrogarlo e durare per sempre. Il primo era scritto su tavole di pietra, era il ministero della lettera; il secondo è tutto spirituale, è il ministero dello spirito. Il primo produceva spesso la morte spirituale spingendo alla ribellione con la molteplicità dei suoi precetti difficili ad adempirsi; il secondo è accompagnato dalle grazie dello Spirito d’amore, che gli Apostoli distribuiscono alle anime. L’uno è dunque un ministero che provoca i terribili giudizi di Dio, e l’altro è un ministero che giustifica gli uomini davanti a Dio, perché dona ad essi lo Spirito che vivifica. – « Quest’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico, dice S. Beda, è Adamo che rappresenta il genere umano. Gerusalemme è la città della pace celeste, della beatitudine dalla quale è stato allontanato per il peccato. I ladri sono il demonio e i suoi angeli nelle mani dei quali Adamo è caduto nella sua discesa. Questi lo spogliarono di tutto: gli tolsero la gloria dell’immortalità e la veste dell’innocenza.. Le piaghe che gli fecero, sono i peccati che, intaccando l’integrità dell’umana natura, fecero entrare la morte dalle ferite aperte. Lo lasciarono mezzo morto, perché se lo spogliarono della beatitudine della vita immortale, non riuscirono a togliergli l’uso della ragione colla quale conosceva Dio. Il sacerdote e il levita che, avendo veduto il ferito, passarono oltre, indicano i sacerdoti e i ministri dell’Antico Testamento che potevano solamente, con i decreti della legge, mostrare le ferite del mondo languente, ma non potevano guarirle, perché era loro impossibile – al dire dell’Apostolo – cancellare i peccati col sangue dei buoi e degli agnelli. Il buon Samaritano, parola che significa guardiano, è lo stesso Signore. Fatto uomo, s’è avvicinato a noi con la grande compassione che ci ha mostrata. L’albergo è la Chiesa ove Gesù stesso conduce l’uomo, ponendolo sulla cavalcatura perché nessuno, se non è battezzato, unito al corpo di Cristo, e portato come la pecora sperduta sulle spalle del buon Pastore, può far parte della Chiesa. I due danari sono i due Testamenti sui quali sono impressi il nome e l’effigie del Re eterno. La fine della legge è Cristo. Questi due denari furono dati all’albergatore il giorno dopo, perché Gesù il giorno seguente la sua risurrezione aprì gli occhi dell’intelligenza ai discepoli di Emmaus e ai suoi Apostoli perché comprendessero le sante Scritture. Il giorno seguente, infatti, l’albergatore, ricevette i due danari, come compenso delle sue cure verso il ferito perché lo Spirito Santo, venendo sulla Chiesa, insegnò agli Apostoli tutte le verità perché potessero istruire le nazioni e predicare il Vangelo » (Omelia del giorno).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et te, pater, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam.
Ps 69:4

Avertántur retrórsum et erubéscant: qui cógitant mihi mala.

[O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]
[Vadano delusi e scornati coloro che tramano contro di me.]

V. Glória Patri, et …..
Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam.

[O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 2 Cor III: 4-9.

“Fratres: Fidúciam talem habémus per Christum ad Deum: non quod sufficiéntes simus cogitáre áliquid a nobis, quasi ex nobis: sed sufficiéntia nostra ex Deo est: qui et idóneos nos fecit minístros novi testaménti: non líttera, sed spíritu: líttera enim occídit, spíritus autem vivíficat. Quod si ministrátio mortis, lítteris deformáta in lapídibus, fuit in glória; ita ut non possent inténdere fili Israël in fáciem Moysi, propter glóriam vultus ejus, quæ evacuátur: quómodo non magis ministrátio Spíritus erit in glória? Nam si ministrátio damnátionis glória est multo magis abúndat ministérium justítiæ in glória.

[“Fratelli: Tanta fiducia in Dio noi l’abbiamo per Cristo. Non che siamo capaci da noi a pensar qualche cosa, come se venisse da noi; ma la nostra capacità viene da Dio, il quale ci ha anche resi idonei a essere ministri della nuova alleanza, non della lettera, ma dello spirito; perché la lettera uccide ma lo spirito dà vita. Ora, se il ministero della morte, scolpito in lettere su pietre, è stato circonfuso di gloria in modo che i figli d’Israele non potevano fissare lo sguardo in faccia a Mosè, tanto era lo splendore passeggero del suo volto; quanto più non sarà circonfuso di gloria il ministero dello Spirito? Invero, se è glorioso il ministero di condanna, molto più è superiore in gloria il ministero di giustizia”].

TUTTO E NIENTE.

Alessandro Manzoni ha colto ancora una volta perfettamente nel segno quando parlando di Dio, come ce Lo ha rivelato N. S. Gesù Cristo, come noi Lo conosciamo alla sua scuola, ha detto che Egli atterra e suscita; due gesti contradditori, all’apparenza, ed entrambi radicali. Quando fa le cose sue, Dio non le fa a mezzo: se butta giù, atterra, inabissa; e se tira su, suscita, sublima: a questo radicalismo, e a questa completezza d’azione divina corrisponde anche quello che s. Paolo dice nella lettera d’oggi, messo a riscontro di ciò che afferma altrove. Ecco qua: oggi San Paolo dice ciò che è verissimo che, cioè, noi da soli siam buoni a nulla: neanche a formare un piccolo pensiero. Nel concetto di San Paolo e di tutti, è la cosa a noi più facile, assai più facile volere che fare. Il pensiero è il primo gradino della scala, il più ovvio, il più semplice. Non importa: neanche quello scalino l’uomo può fare da sé, proprio da sé, ci vuole l’aiuto di Dio. Il quale dunque, è tutto Lui e noi di fronte a Lui siamo un bel niente, uno zero. È un fiero e giusto colpo assestato al nostro orgoglio che ci fa credere di essere un gran che e di potere fare noi, proprio noi, chi sa che cosa. L’uomo ha degli istinti orgogliosamente, dinamicamente, mefistofelici. Noi vorremmo essere tutto: noi ci illudiamo di poter fare tutto. E invece ogni nostra capacità viene da Dio: « sufficientia nostra ex Deo est. » Il che non vuol dire che questa capacità (sufficientia) non ci sia. C’è ricollegata con Dio. E allora San Paolo appoggiato a Dio, immerso nell’umile fiducia in Lui, tiene un tutt’altro linguaggio, che par una negazione ed è invece un’integrazione del precedente. «Omnia possum in Eo qui me confortat » io posso tuto in Colui che mi conforta; dal niente siamo passati al tutto. Lo stesso radicalismo. Prima, nessuna possibilità e adesso nessuna impossibilità. Prima l’uomo buttato a terra, proprio umiliato (humus, vuol dire terra), adesso esaltato fino alle stelle, proclamato in qualche modo onnipotente. La contraddizione non c’è perché chi dice così non è lo stesso uomo che viene considerato, non è lo stesso uomo di cui si parla. L’uomo che non può tutto, che è la stessa impotenza, è l’uomo solo o piuttosto l’uomo isolato da Dio, lontano effettivamente ed affettivamente da Lui: ramo reciso dal tronco, tralcio separato dalla vite, ruscello a cui è stata tolta la comunicazione colla sorgente e che perciò non ha più acqua. L’uomo isolato così è sterile, infecondo nel bene, può scendere, non può salire. Ma riattaccatelo a Dio, mettetelo in comunicazione viva, piena, conscia, voluta, e la situazione si modifica dalla notte al giorno. L’anima che sente questo contatto nuovo, sente un rifluire in se stessa di nuove, sante, inesauste energie. Non poteva nulla senza il suo Dio, adesso può tutto unita a Lui. « Omnia possum in Eo quì me confortat. » E’ il grido magnanimo e non ribelle dei Santi, appunto perché la loro onnipotenza la ripetono da Dio, tutta e solo da Lui. Solo realizzando spiritualmente quel nientee quel tutto, solo vivendo tutta quella umiltà e tutta questa fede, si raggiunge l’equilibrio tra la sfiducia e la presunzione.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XXXIII: 2-3.

Benedícam Dóminum in omni témpore: semper laus ejus in ore meo.

[Benedirò il Signore in ogni tempo: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra.]

V. In Dómino laudábitur ánima mea: áudiant mansuéti, et læténtur.

[La mia anima sarà esaltata nel Signore: lo ascoltino i mansueti e siano rallegrati.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps LXXXVII: 2

Dómine, Deus salútis meæ, in die clamávi et nocte coram te. Allelúja.

[O Signore Iddio, mia salvezza: ho gridato a Te giorno e notte. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.

Luc. X: 23-37

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Beáti óculi, qui vident quæ vos videtis. Dico enim vobis, quod multi prophétæ et reges voluérunt vidére quæ vos videtis, et non vidérunt: et audire quæ audítis, et non audiérunt. Et ecce, quidam legisperítus surréxit, tentans illum, et dicens: Magister, quid faciéndo vitam ætérnam possidébo? At ille dixit ad eum: In lege quid scriptum est? quómodo legis? Ille respóndens, dixit: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo, et ex tota ánima tua, et ex ómnibus víribus tuis; et ex omni mente tua: et próximum tuum sicut teípsum. Dixítque illi: Recte respondísti: hoc fac, et vives. Ille autem volens justificáre seípsum, dixit ad Jesum: Et quis est meus próximus? Suscípiens autem Jesus, dixit: Homo quidam descendébat ab Jerúsalem in Jéricho, et íncidit in latrónes, qui étiam despoliavérunt eum: et plagis impósitis abiérunt, semivívo relícto. Accidit autem, ut sacerdos quidam descénderet eádem via: et viso illo præterívit. Simíliter et levíta, cum esset secus locum et vidéret eum, pertránsiit. Samaritánus autem quidam iter fáciens, venit secus eum: et videns eum, misericórdia motus est. Et apprópians, alligávit vulnera ejus, infúndens óleum et vinum: et impónens illum in juméntum suum, duxit in stábulum, et curam ejus egit. Et áltera die prótulit duos denários et dedit stabulário, et ait: Curam illíus habe: et quodcúmque supererogáveris, ego cum redíero, reddam tibi. Quis horum trium vidétur tibi próximus fuísse illi, qui íncidit in latrónes? At ille dixit: Qui fecit misericórdiam in illum. Et ait illi Jesus: Vade, et tu fac simíliter.”

[“In quel tempo Gesù disse a’ suoi discepoli: Beati gli occhi che veggono quello che voi vedete. Imperocché vi dico, che molti profeti e regi bramarono di vedere quello che voi vedete, e no videro; e udire quello che voi udite, e non l’udirono. Allora alzatosi un certo dottor di legge per tentarlo, gli disse: Maestro, che debbo io fare per possedere la vita eterna? Ma Egli disse a lui: Che è quello che sta scritto nella legge? come leggi tu? Quegli rispose, e disse: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuor tuo, e con tutta l’anima tua, e con tutte le tue forze, o con tutto il tuo spirito; e il prossimo tuo come te stesso. E Gesù gli disse: Bene hai risposto: fa questo e vivrai. Ma quegli volendo giustificare se stesso, disse a Gesù: E chi è mio prossimo? E Gesù prese la parola, e disse: Un uomo andava da Gerusalemme a Gerico, e diede negli assassini, i quali ancor lo spogliarono; e avendogli date delle ferite, se n’andarono, lasciandolo mezzo morto. Or avvenne che passò per la stessa strada un sacerdote, il quale vedutolo passò oltre. Similmente anche un levita, arrivato vicino a quel luogo, e veduto colui, tirò innanzi: ma un Samaritano, che faceva suo viaggio, giunse presso lui; e vedutolo, si mosse a compassione. E se gli accostò, e fasciò le ferite di lui, spargendovi sopra olio e vino; e messolo sul suo giumento, lo condusse all’albergo, ed ebbe cura di esso. E il dì seguente tirò fuori due danari, e li diede all’ostiere, e dissegli: Abbi cura di lui: e tutto quello che spenderai di più te lo restituirò al mio ritorno. Chi di questi tre ti pare egli essere stato prossimo per colui che diede negli assassini? E quegli rispose: Colui che usò ad esso misericordia. E Gesù gli disse: Va’, fa’ anche tu allo stesso modo.”]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

L’ELEMOSINA

Tra Gerusalemme e Gerico, narra S. Gerolamo, v’era un immenso deserto che gli Ebrei chiamavano « Adommin », cioè il luogo del sangue. Nessuno si lasciava sorprendere dalla notte in quelle vicinanze, e chi vi passava da lungi, guardando in quella parte, tremava. Il misero viandante ch’era costretto ad attraversarlo da solo, spesso non ne usciva più: aggressori di strada, assassini sfuggiti al carcere, là vi trovavano rifugio con le belve e coi serpenti, sempre vigili a mal fare. A quei tempi doveva essere appena accaduto un fattaccio di sangue, tanto che Gesù ne desunse i particolari della sua parabola. « Un uomo faceva la strada che da Gerusalemme discende in Gerico quando incappò negli assassini che, spogliatolo di tutto, lo abbandonarono in mezzo alla strada, più morto che vivo.  « Or avvenne che un sacerdote e un levita passarono proprio per quella strada, guardarono fors’anche con occhio di compassione il viandante insanguinato, ma lo lasciarono là ad aspettare che la morte gli facesse grazia. « Per fortuna che di là passò anche un Samaritano pietoso; si avvicinò al ferito, lavò le piaghe con olio e vino, e le fasciò con amore. Poi caricandolo sulla sua cavalcatura, lo portò ad un albergo e n’ebbe cura di lui.  « Al dì seguente, non potendo più rimanere, lo presentò all’oste e tirando fuori due danari, gli disse:  « Tieni. Non lasciarlo mancare di nulla, al mio ritorno ti soddisferò di ogni disturbo ». – C’è della gente che per le sventure e le miserie e i bisogni del prossimo ha sempre un mondo di belle parole, di gentili espressioni che servono a nulla: tutti complimenti. Quando si tratta poi di venire a qualche cosa di più sodo, a privarsi di qualche comodo per aiutare gli indigenti, a toccare il proprio borsellino, allora cominciano a ritirarsi, a borbottare, a inviperirsi. Vedono un povero sulla via. « Poverino! esclamano, chissà che vita, che patimenti! E forse avrà una famiglia, dei bambini… ». Ma dalle loro tasche non spremono fuori nulla, piuttosto spremerebbero fuori dagli occhi una lagrimetta sterile. Essi sanno che il Papa ha bisogno dell’obolo dei fedeli, sanno che le Missioni non possono progredire senza offerte, comprendono la necessità in Italia dell’Università Cattolica, ma quando giunge la giornata del Papa, delle Missioni, dell’Università, essi non fanno che impazientirsi, e se pur offrono un soldo l’accompagnano con parecchie maledizioni. Non è questa la carità che Gesù Cristo ci ha voluto insegnare con la parabola di questa domenica. Il Samaritano non ebbe soltanto sguardi lagrimosi, o paroline di consolazione, ma adoperò il suo olio e il suo vino, offrì la sua cavalcatura, diede una giornata di tempo, e non gli rincrebbe tirar fuori i due danari e farsi garante di ogni spesa. E quando ebbe fatto tutto questo non squillò le trombe, non ne menò vanto, ma andò via semplicemente compreso in cuor suo di non aver fatto niente di più che un suo stretto dovere. Non fatevi delle illusioni: la elemosina non è un semplice consiglio, ma un precetto positivo, come quello di santificar la festa e di onorare il padre e la madre. Ed è appunto questo il pensiero più importante che ricaveremo dal santo Vangelo;  e poi rifletteremo quanto sia utile per noi osservare questo precetto. – 1. L’’ELEMOSINA È UN PRECETTO.  È terribile la maniera con cui l’Evangelista S. Matteo descrive lo svolgersi del giudizio finale. Gesù Cristo, dall’alto nella gloria e nel terrore, griderà: « Via da me, o maledetti, nel fuoco eterno ». « Perché, o Signore, — diranno aspramente i reprobi, — perché ci scacci in dannazione così? ». « Perché, — risponderà il Signore, — ho avuto fame, e non mi deste da mangiare. Esurivi enim, et non dedistis mihi manducare. Perché sono stato ammalato ed in prigione e non mi visitaste. Infirmus et in carcere, et non visitastis me. Perché ero nudo e non mi vestiste. Nudus, et non cooperuistis me » (Mt., XXV). « Ma quando, o Dio, tu fosti affamato, ammalato, nudo, e non ti facemmo carità? ».  « Ogni volta che un povero aveva bisogno di voi e non l’aiutaste ». E Vedete, osserva S. Giovanni Crisostomo, sembra quasi che al finir dei secoli Gesù Cristo non venga per altro che a condannare la durezza e la crudeltà dei ricchi verso i poveri. Bisogna dunque concludere che la elemosina sia un grave precetto, altrimenti per la sua trasgressione Iddio non ci condannerebbe all’inferno. Su che cosa si fonda il precetto dell’elemosina? Sopra l’assoluta sovranità di Dio verso i nostri beni. È Lui il padrone vero d’ogni nostra ricchezza, noi non ne siamo che i dispensieri e gli economi. Infatti, al momento della morte chi è capace di portarsi via qualche cosa con sé? Tutto dobbiamo lasciare quasi scadesse un contratto d’affitto. Ma come l’economo deve consegnare una parte dei frutti al padrone, così noi dobbiamo offrire a Dio una parte di quei beni che Egli ci ha dati. E a Dio glielo offriamo per le mani dei poveri. Al tempo di Abele e dei patriarchi al suo Nome si bruciavano i frutti dei campi o le pecore del gregge; ma ora il Signore comanda che questa parte a Lui dovuta si distribuisca ai poveri. Un ricco adunque che nega al povero l’elemosina è un suddito che si ribella al suo sovrano, è un fattore che rifiuta di riconoscere il suo padrone. Da qui ne deriva un’altra conseguenza, che l’elemosina deve essere proporzionata ai beni che si posseggono e alla loro quantità. Avete poche sostanze? Dio da voi pretende una moderata elemosina. Siete invece nell’abbondanza? dovete dar molto. Non crediate di ingannar la coscienza col dare poco quando si è ricevuto moltissimo. Non est eleemosyna pauca largiri (S. AMBROGIO). Noi troviamo danari per il lusso esagerato delle vesti, per i divertimenti, per ogni comodità della vita, e per i poveri e per i bisognosi non troviamo nulla. E spesso le persone più generose non si trovano tra i ricchi, ma tra quegli stessi che hanno meno. Ricordiamoci però che quello che diamo ai poveri e alle opere buone è dato a Cristo, e quello che ai poveri e alle opere buone noi neghiamo, potendo dare, è negato a Cristo. S. Gregorio Magno ad un povero che bussava alla sua porta, non avendo più danaro, regalò un piatto d’argento. Dopo qualche giorno, gli apparve mentr’era seduto a tavola un giovane bellissimo. Lo guardò fisso: era Gesù e teneva nelle mani il suo piatto d’argento. Quando dopo questa vita Cristo apparirà anche a noi, che cosa avrà nelle mani? E se avrà nulla quale scusa balbetteremo? « Ti ho promesso il cielo — dirà — e tu non mi hai dato un pane né un soldo. « Ti ho illuminato col mio sole, ti ho ristorato con la mia acqua, ti ho nutrito con le mie creature e tu m’hai lasciato languire di fame e di sete. « Ti ho dato perfino il mio Corpo e il mio Sangue prezioso e non mi ricompensasti neppure con un bicchier d’acqua ». – 2. UTILITÀ DELL’ELEMOSINA. Qualsiasi precetto del Signore è sempre in nostra utilità. E quanto è più gravoso, tanto è più utile. Quelli, dunque, che non osservano i comandamenti di Dio non fanno i propri interessi, e piangeranno un giorno. Una gentile leggenda indiana dice che un povero era uscito lungo il sentiero del villaggio a mendicare. Ed ecco lo strepito di un cocchio regale sopraggiungere verso di lui. Egli credette che fosse giunto, finalmente, il giorno della sua fortuna. Invece dal cocchio usci una nobile mano che si stese a lui in atto di chiedere: « Che cosa hai da darmi? ». Quale ironia: stendere la mano per chiedere l’elemosina a un povero! Pure, confuso ed esitante, il mendico tirò fuori dalla bisaccia un chicco di grano e glielo diede. Ma quale fu la sua sorpresa quando, finito il giorno, vuotando sul pavimento la bisaccia, trovò nello scarso mucchietto un chicco d’oro! Pianse amaramente ed esclamò: « Perché non ebbi io il cuore di darti tutto il mio possesso? ». Alla sera di questa vita, quando rovesceremo davanti a Dio la bisaccia delle nostre opere per essere giudicati, ci accorgeremo come le mani del povero ci hanno cambiato in oro eterno quello che abbiamo elargito in elemosina. E piangeremo forse, per non aver dato o per aver dato troppo poco. In quattro maniere Dio ricompensa i caritatevoli: Primo: con la remunerazione temporale che è l’abbondanza delle cose. Col Signore è un bel trattare; dà sempre sette volte di più di quel che gli diamo. Da Altissimo, quoniam Dominus retribuens est: et septies reddet tibi (Eccl., XXXV, 12). Secondo: con la remunerazione corporale che è la sanità del corpo. Se facciamo offerte non solo riceveremo l’abbondanza dei frutti ma anche la sanità del corpo. Si decimas dederis non solum abundantiam fructuum recipies sed etiam sanitatem corporis consequeris (S. AGOSTINO). Terzo: con la remunerazione spirituale che è la remissione dei peccati. « Cancella i tuoi peccati con le elemosine » diceva Daniele al re scellerato di Babilonia: Peccata tua eleemosynis redime (IV, 24). Quarto: con la remunerazione eterna che è il paradiso. « Avevo fame e mi sfamaste, avevo sete e mi dissetaste… Venite, benedetti, e possedete il regno dei cieli ch’è vostro ». Venite…, possidete paratum vobis regnum (Mt., XXV, 34). – Mentre conducevano a morte il diacono S. Lorenzo, poiché si sapeva ch’egli era il tesoriere del Vescovo, i soldati cominciarono ad angariarlo per conoscere dove avesse nascosto i suoi tesori. Egli allora chiamò i poveri e disse: « Ecco i miei tesori ». Ed aveva ragione perché tutto quello che si dà ai poveri diventa tesoro nostro per l’eternità. Manus pauperis; gazophylacium Dei (SAN PIER CRISOLOGO). — OLIO E VINO SULLE FERITE. Doveva essere un momento di grande entusiasmo. Ritornavano proprio allora i discepoli mandati a predicare e ciascuno raccontava al Maestro quanto aveva fatto. Gesù stesso si sentiva commosso. Il pensiero delle anime a cui era giunta la buona novella, la vista dei suoi che eran contenti di aver predicato il Suo Regno di amore, gli inondava il cuore di santa letizia. « Beati — esclamò — beati gli occhi che vedono le cose che voi vedete! ». Un uomo, istruito nella legge, che non era però del numero di quei discepoli che avevano lavorato per il bene del prossimo, vedendo il Signore far tanta festa ai suoi, dovette sentire un po’ d’invidia, poiché domandò subito a Gesù: « Ed io per salvare l’anima che debbo fare? ». « La legge cosa dice? ». « Ama Dio con tutte le forze ed il prossimo come te stesso ». « Benissimo! fa così ed avrai la vita ». Per rispondergli bene Gesù raccontò questa parabola del samaritano. Ecco chi è il prossimo e come, in pratica, lo si ama. Per aver la vita eterna bisogna proprio amarlo così. Lo dice chiaramente Gesù nel Vangelo di oggi. Ferite materiali forse ne troveremo poche, ma quanti fratelli, nel cammino della vita, hanno le ferite della sventura e del dolore, hanno le ferite del peccato e dell’errore. Tocca a noi versar sulle prime l’olio che conforta e solleva, versar sulle altre il vino che disinfetta e toglie la corruzione. – 1. CONFORTARE NEL DOLORE. A 24 anni, nel fior della giovinezza, un male strano lo incoglie e lo costringe a letto. Si tratta di qualche cosa di grave e Pier Giorgio Frassati ha la sensazione che l’ultima sua ora è vicina. Ricco di censo, figlio di senatore, alla vigilia della laurea di ingegnere, si vede d’un tratto la morte davanti ma non ha paura: per il giusto la morte non è mai improvvisa. Accorrono i medici, fanno consulto, fan venir da Parigi un siero rarissimo, ma… la sua mente è nei suoi pensieri santi. È venerdì: il giorno dedicato ai suoi poveri che andava a visitare di casa in casa e si ricorda che doveva portare ad una famiglia una scatola di iniezioni. Chiama la sorella che vada nello studio a prendere la sua giacca; trae il portafoglio, ne toglie una polizza e vuole che subito si compri la medicina. Quando gliela portano è tutto raggiante. Invano i suoi cari gli vogliono strappare la penna di mano. Raccoglie le forze e con stento indicibile riesce a scrivere l’indirizzo dei poveri a cui era destinata. Quella mano che sempre si era allargata per fare del bene voleva irrigidirsi in un atto di carità. Aveva lui bisogno di estremi rimedi, eppure pensava non a sé ma agli altri. – In Pier Giorgio però questo atto non era eroismo: era coerenza, nient’altro che coerenza a tutta la sua vita. Aveva capito che fare il Cristiano vuol dire essere degli altri. Per questo gli era sembrato la cosa più naturale far parte alle conferenze di S. Vincenzo per il soccorso ai più poveri; per questo non aveva vergogna a stender la mano; per questo gli pareva un delitto sciupare il denaro. Il Cristianesimo, se è davvero vissuto, vi vuole così. Il ricco è fratello, è ministro del povero. L’uomo deve asciugare le lagrime di colui che piange. Studiate il Vangelo, leggete S. Paolo; vi persuaderete che il Cristianesimo vero è questo. – Gesù Cristo è morto per tutti, ha voluto essere l’amico dei poveri, ha consacrato la sofferenza e il dolore. All’ombra della Croce sorgono gli Ospedali ed i ricoveri pii, si raccolgono gli orfani ed i malati. E noi le comprendiamo queste cose, o di Cristiani non abbiamo che il nome? Quando la morte getta lo schianto in una famiglia non ci assentiamo; facciamoci vedere. Una parola di conforto la dobbiamo sempre dire. Se lungo la strada ci stendono la mano a chiederci un soldo, facciamo volentieri la nostra elemosina. Se la sventura colpisce i nostri fratelli e possiamo dar loro un po’ di sollievo, diamolo subito con tanto cuore. Potremo noi darci ai divertimenti e al lusso, quando vicino alle nostre case, nelle nostre vie, nel nostro paese ci sono di quelli che piangono e non hanno il necessario? Non ama Cristo chi non ama i poveri e quelli che soffrono! – 2. CORREGGERE DELL’ERRORE. Pietro e Giovanni ascendevano al Tempio nell’ora della preghiera. Sulla porta Speciosa trovarono un Uomo che era storpio fin dalla nascita. Tutti i giorni lo mettevano là perché, stendendo la mano, raccogliesse il necessario per vivere. Sentirono, gli Apostoli, una gran compassione, e Pietro avvicinandolo disse « Senti: non ho né oro né argento. Ti do quanto posso: In Nome di Gesù di Nazaret sorgi e cammina ». E presagli la destra lo sollevò da terra tutto risanato. Contento come mai era stato, entrò con essi nel Tempio a lodare il Signore. Ci sono di quelli che non hanno bisogno d’argento e d’oro, ma di qualche cosa di assai più importante. Sono incapaci di muovere un passo nella vita del bene perché si trovano avvolti nella colpa. Hanno difetti che potrebbero correggere, ma perché non c’è nessuno che sa loro parlare, menano una vita che è senza gusto. Sono… alla porta del Tempio, cioè con poco potrebbero amare il Signore di più ed invece sono sempre allo stesso luogo: ci vuole qualcuno che dia loro una spinta e li faccia rialzare. Perché a queste anime non possiamo dire una parola di dolce rimprovero o di ammonizione fraterna? Se uno, per isbaglio, portasse il mantello rovesciato od avesse sul volto una macchia, non è forse creanza renderlo avvisato? Quando dunque un fratello sbaglia noi dovremmo correggerlo in bella maniera, fargli capire il male che ha fatto. Invece troppe volte gli si mormora dietro le spalle e si propalano i suoi difetti ai quattro venti. Che dire poi se i genitori od i superiori che hanno l’obbligo grave di correggere i figli e i dipendenti diventassero « cani muti che non sanno latrare? ». Sventure a loro perché dovranno rendere a Dio uno strettissimo conto. Che anche un’anima sola si perda per nostra colpa è tale un pensiero da farci tremare. – Un giorno, al convento di S. Benedetto, si presentò un povero a chiedere per carità un po’ di olio. Il frate portinaio si lasciò prendere dall’avarizia e con una bugia rispose che di olio in convento non ce n’era più: le anfore erano vuote. Di lì a pochi giorni lo seppe l’Abate e andato in cucina buttò giù dalla finestra tutto l’olio che ancor rimaneva. Se i nostri fratelli hanno bisogno dell’olio del conforto o del vino della correzione diamolo sempre e per amore di Cristo soltanto. Se facessimo l’avaro il Signore ci potrebbe castigare.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Exod XXXII: 11;13;14

Precátus est Moyses in conspéctu Dómini, Dei sui, et dixit: Quare, Dómine, irascéris in pópulo tuo? Parce iræ ánimæ tuæ: meménto Abraham, Isaac et Jacob, quibus jurásti dare terram fluéntem lac et mel. Et placátus factus est Dóminus de malignitáte, quam dixit fácere pópulo suo.

[Mosè pregò in presenza del Signore Dio suo, e disse: Perché, o Signore, sei adirato col tuo popolo? Calma la tua ira, ricordati di Abramo, Isacco e Giacobbe, ai quali hai giurato di dare la terra ove scorre latte e miele. E, placato, il Signore si astenne dai castighi che aveva minacciato al popolo suo.]

Secreta

Hóstias, quǽsumus, Dómine, propítius inténde, quas sacris altáribus exhibémus: ut, nobis indulgéntiam largiéndo, tuo nómini dent honórem.

[O Signore, Te ne preghiamo, guarda propizio alle oblazioni che Ti presentiamo sul sacro altare, affinché a noi ottengano il tuo perdono, e al tuo nome diano gloria.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.


Communis
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessione dicéntes

(È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode:)

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CIII: 13; 14-15

De fructu óperum tuórum, Dómine, satiábitur terra: ut edúcas panem de terra, et vinum lætíficet cor hóminis: ut exhílaret fáciem in oleo, et panis cor hóminis confírmet.

[Mediante la tua potenza, impingua, o Signore, la terra, affinché produca il pane, e il vino che rallegra il cuore dell’uomo: cosí che abbia olio con che ungersi la faccia e pane che sostenti il suo vigore.]

 Postcommunio

Orémus.
Vivíficet nos, quǽsumus, Dómine, hujus participátio sancta mystérii: et páriter nobis expiatiónem tríbuat et múnimen.

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che la santa partecipazione di questo mistero ci vivifichi, e al tempo stesso ci perdoni e protegga.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (265)

LO SCUDO DELLA FEDE (265)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (8)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO VIII.

RELIGIONE

I. Basta far bene. II. Io non rubo, io non ammazzo. III. È un uomo onesto, gli manca solo un poco di religione.

Oltre la religione del cuore ve n’ha un’altra, alla quale ricorrono non pochi a questi giorni, sempre in cerca d’ evitare quanto possono l’esercizio verace del Cristianesimo. Potrebbe chiamarsi questa la religione del far bene. Che necessità, dicono essi, di rompersi il capo e di angustiarsi il cuore a fare tanti studi, ed a distillarsi l’ingegno in una moltitudine di verità che non s’intendono, e di esercizi che annoiano, quando a Dio basta tanto meno? Faccia io bene, e Dio si terrà per soddisfatto, e non può domandare altro un Padre sì buono alle sue creature. Per quanto sia inetto questo aforisma, per quanto sia vano, non lascia a certi cervelli leggerissimi di fare qualche forza e di persuaderli a trascurare tutto il culto. Vediamo dunque se esso regga punto al martello della discussione.

I. Che cosa vogliono essi significare dicendo che basta far bene? Se nulla vogliono dire, è che la bontà della vita scusa ogni religione. Or la bontà della vita, gli onesti costumi, le maniere savie, la condotta irreprensibile, la purezza del vivere sono certo cose molto lodevoli; ma, di grazia, bastano esse a costituire un uomo veramente buono? La vita buona abbraccia tre parti: la pietà verso Dio, la giustizia verso il prossimo, la sobrietà verso sè stessi; e qualunque di queste parti venga meno, vien meno con essa la bontà. Ora diamo pure per un momento che costoro non facciano torto al prossimo, non rubino, non ammazzino, come se ne vantano; concediamo anche loro che non si lascino trasportare a sfrenatezze, a lascivie, a dissolutezze (di che neppur essi si vantano); accordiamo loro che nulla sia a ridire sulla loro condotta, ma e dunque, il mancare totalmente della pietà verso Dio, degli esercizi del culto, lo stimano un nonnulla siffattamente che non impedisca neppure più l’essere buono? – Abbiamo accennato sopra fino a qual punto sia doverosa la religione; ebbene essi sono buoni, mentre violano quei doveri sì sacrosanti? Iddio impone la religione. con fanti titoli, quanti sono qi suoi attributi, e costoro sono buoni calpestandoli tutti? Iddio la impone con tante ragioni, quante sono quelle della nostra dipendenza e sudditanza, ed essi son buoni col contravvenire a tutte, e tutte porle in non cale? Il Figliuolo di Dio, per ammaestrarci nella religione e stabilirla presso di noi, si degnò di venir sulla terra, facendosi uomo; si compiacque di pubblicarla colla sua bocca divina, di autenticarla co’ suoi miracoli, di allettarvici colle sue’ promesse, di minacciarci con eterni castighi se l’avessimo trasandata, di prometterci eterni premii se vi fossimo stati fedeli; e costoro, disprezzando e conculcando le degnazioni divine, le sue minacce, i suoi premii ed i suoi castighi, le sue proibizioni ed i suoi comandi , si spacciano come buoni, e, se il ciel li salvi, si tengono tali? Bisogna davvero, oltre la fede, avere smarrita ariche la ragione per parlare in tal modo. No, no, non sono buoni costoro, mentre loro manca il primo fondamento della vera bontà, che è la pietà verso Dio, quand’anche avessero nel rimanente la condotta la più pura ed incontaminata.

II. Del resto cotesti, buoni hanno poi almeno questa esemplarità che pur vantano? Non vi abbiate a male, se io alquanto ne dubito. Ponderate i motivi che mi tengono perplesso, e poi risolvete da voi la questione. Costoro per lo più tra loro precetti, non ne contano se non due: non rubare, non ammazzare; e questo, lo accorderete facilmente, è un restringerne un po’ troppo il catalogo. Tra le virtù ne conoscono una sola, ed è la beneficenza; e questo non è senza qualche pregiudizio delle virtù teologali, cardinali, morali. Ridotta tutta la vita a quei doveri sì scarsi, voi vedete che trovano anche luogo molte altre azioni che compromettono un poco il basta essere buono. Trovano ancora luogo tutte le vanità per cui s’idolatra il mondo e non si respira altro che spassi, trastulli, feste, teatri, giuochi, divertimenti. Trovano anche luogo tutti gli eccessi della gola, dell’intemperanza, del viver molle. Trovano luogo le trame, le conventicole delle cospirazioni, delle società segrete. Trovano luogo principalmente tutte le dissolutezze della carne. Ristretti i comandamenti all’io non rubo, io non ammazzo, resta luogo all’insidiare la donna altrui ed al prostituire la propria; resta luogo ai pensieri immondi, ai discorsi laidi, alle scollature indecenti, alle compiacenze ree, a tutte le turpitudini in che si coinvolgono gli animali. Tutte queste abominazioni non sono punto vietate da quel decalogo compendiato. Né un poco di beneficenza corregge gran fatto l’errore, o apre un campo più spazioso all’esercizio della bontà. Non impone l’obbligo di reprimer sé stesso, né di combattere le proprie inclinazioni, né di superare duri contrasti, o di rinnegare il proprio spirito. Per mettere in tutta la sua mostra un po’ di beneficenza, basta anche intervenire solo a qualche ballo umanitario, a qualche rappresentazione teatrale, a qualche accademia di musica, massimamente in quaresima, prendere qualche biglietto di una lotteria, o contentare qualche signora elegante, che graziosamente vi presenta dinanzi un vassoio a stimolare la vostra inesauribile filantropia. Ora non potete negare che anche questo esercizio di bontà non sia la cosa più ardua del mondo. – Ad incalzare questi miei dubbi si aggiunge per noi Cattolici un’altra ragione affatto stringente. Ed è che, senza la grazia divina, noi sappiamo non poter niuno durare lungamente nel bene, specialmente poi in mezzo a pericoli e tentazioni sì gravi, quali son quelle che s’incontrano in mezzo al mondo. Per noi Cattolici questa verità è al tutto fuori di controversia, poiché la fede ce l’intima assai chiaro. Per ottenere poi questa grazia le vie ordinarie sono due senza più, la preghiera ed i sacramenti; tantoché allontanarsi o da questi o da quella, è lo stesso che mettersi disarmato in un campo di battaglia e non volere essere ferito, cioè un impossibile. Or chi riduce la sua religione al non rubare e non ammazzare, non ha consuetudine di pregare, non di confessarsi, non di comunicarsi, e quindi non ha gli aiuti che gli sono di assoluta necessità per resistere alle tentazioni, per superare gli ostacoli che al tutto si hanno da vincere per giungere alla vera bontà. Di che è forza il conchiudere che questi buoni senza religione debbono per necessità cadere in una moltitudine di peccati, secondo le occasioni che lor si presentano. La conseguenza è innegabile. – Aggiungete che, per esser buono alla maniera cattolica, non basta neppure il contentarsi di non far male, bisogna positivamente fare ancora di molto bene. Bisogna (altro che un po’ di beneficenza!) portare rispetto ai superiori anche discoli, amore agli uguali anche inamabili, trattare con mansuetudine anche gl’inferiori, e far del bene ai proprii nemici. Bisogna, non dico, non mormorare il prossimo, ma ricoprirlo, ma aiutarlo, ma assisterlo nelle sue necessità. Bisogna non solo non rapire l’altrui, ma dare il proprio superfluo ai overelli. Bisogna non solo non ispiantar gli emoli e scavalcarli perché fanno uggia, ma serbar l’umiltà nel cuore ed il sentimento giusto del proprio nulla. Queste ed altre simili a queste sono le virtù, senza le quali niuno è buono alla maniera cattolica. Ciò presupposto, sarei io troppo ardito se dubitassi un poco, che tutte queste virtù si trovino in coloro, che gridano tanto: basta esser buono, la mia religione è far del bene? I Santi che mai non restavano dal pregare, dal piangere, dal digiunare, dal faticare in servigio altrui, non osavano vantarsi di esser buoni, e costoro facendo nulla, come tanto si assicurano di aver imbroccata la vera religione? Forse più di un lettore, percorrendo queste ragioni, si riderà nel suo cuore di me che buonamente le adduco. E che? vorrebbe egli dire, non basta la sperienza per dimostrare fino all’evidenza, che cotesta è una maschera, sotto cui covano tutte le malvagità? Se chi legge queste carte fosse di quelli che hanno qualche sperienza del mondo, senza dubbio non avrebbe avuto bisogno di esse; ma v’ha sempre un cotal numero di coloro i quali, o per una leggerezza inarrivabile o per una semplicità miracolosa, sono disposti a credere tutto quello che altri ha il coraggio di profferire: e questi abbisognano di disinganno.

III. E con ciò vorrei correggere eziandio il modo di parlare, che si ode persino sulla bocca di persone non cattive ma incaute, quando di alcuno che ha gettato affatto la religione, solo che abbia conservato nell’esteriore qualche naturale onestà, si fanno elogi sperticati, soggiungendosi al fine, che non gli manca altro che un poco di religione, poiché del resto. . . Come? Ed è un uomo onesto quello a cui manca solo un poco di religione? Ma dunque il grande Iddio è caduto sì basso nell’estimazione dei Cristiani, che il metterlo da parte, il trascurarlo non sia quasi più colpa da farne caso? Non toglie neppur più la fama d’onestà il violare i diritti del Creatore, del Redentore, del Padre, dell’ogni bene che è Dio? Non è neppur più una colpa il distruggere tutti i disegni, pei quali Dio unicamente ci ha collocati sulla tetra, e per cui ci ha forniti di tutte quelle qualità che possediamo? – Che cosa ve ne parrebbe se io vi dicessi d’un uomo che egli è onesto sì, ma che solo ha la tacca che talvolta avvelena il suo prossimo, ché dà qualche pugnalata, e che talora, o per suo diletto o perché è scarso a denari, scanna qualcheduno? Che cosa direste di una donna, della quale vi si predicasse ogni gran bontà sola piccola aggiunta, che le è rimasto il debole di offrirsi sulle pubbliche strade a quanti passano? Vi parrebbe una beffa. E il dire di una persona, che non manca alle convenienze ma solo manca a quelle dovute a Dio, che onora gli uomini e che solamente a Dio non porta alcun rispetto, non vi sembra una beffa molto maggiore? Non vi lasciate dunque mai sfuggire dal labbro che vi sia onestà senza religione, poiché il parlare così toglie l’orrore, che è giusto che tutti abbiano verso quei sepolcri imbiancati e fetenti, che ricoprono con un poco d’onestà naturale un animo senza religione; leva a quegli infelici medesimi lo stimolo che avrebbero a convertirsi dove si vedessero in dispetto a tutti, siccome sarebbe giusto; e soprattutto diminuisce il concetto altissimo che si ha da avere di Dio e della cristiana pietà. – Se non si usassero dal mondo tanti riguardi, come scioccamente si usano verso costoro, le città cattoliche non avrebbero tanti audaci, i quali, con la fronte proterva e col cuore corrotto, menassero vanto di rigettare le credenze cristiane e di calpestarne le pratiche: ma siccome i più, per tema di non essere tacciati d’intolleranza, si rappicciniscono, non osano fiatare, oppure anche peggio per dappocaggine e viltà d’animo li approvano; così quei felloni imbaldanziscono senza misura. Guai però a coloro che non si curano di Dio, se Dio un giorno non si curerà più di loro!

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (50)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (50)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -VIII-

H. – DIO DOCENTE MEDIANTE IL MAGISTERO DELLA CHIESA

  1. Diritto ed ufficio del Magistero ecclesiastico.

H1a. a. – IN GENERE

Cristo affidò il deposito della fede alla Chiesa a. istituendo il Magistero autentico perenne a3305 CdIC 1322, § 1; Cr. È egli stesso che insegna attraverso la Chiesa per giuridica missione 3806.

La Chiesa ha il diritto e l’ufficio di esporre la dottrina rivelata in quanto sua custode e maestra 807 3012 3020 3540 CdIC 1322, § 1; in questo ufficio essa è indipendente dal potere civile CdIC 1322, § 2.

In generale si richiede la sottomissione al Magistero -: 125 2020 2390 2875-2880 3020 3625 3884s; – anche i capi di dottrina che per comune e costante consenso dei Cattolici sono ritenute come verità teologiche e conclusioni certe 2880; -: a pro delle dottrine filosofiche 2860s 2865s 2910 3018.

Esempi di soggezione e riduzione degli autori 807 980 990s 2351 2751 2811 2828.

Affermaz. impugnanti ctr. autorità magistrale della Chiesa 1477-1480 3401-3408.

H1b. b. – DIRITTO ED UFFICIO DEL MAGISTERO QUANTO ALL’OGGETTO.

1ba. Ambito della competenza del Magistero. Oggetto è la dottrina rivelata, il deposito della fede (a. giudizio circa il vero suo senso) a1507 a1863 3012 3018 3071).

Col Magistero nulla di nuovo si aggiunge al deposito della fede, ma o si chiarisce ciò che in precedenza poteva sembrare oscuro o si stabilisce di considerare per fede ciò che si dibatteva in controversia 3683; al S. Pontefice con assistenza dello Spirito Santo non è dato di annunciare nuove dottrine 3070.

Si rivendica anche l’autorità dottrinale della Chiesa -: in ambito filosofico 2860s 2865s 2910 3018; add. proposizioni in tal caso giudicate (passim); -: in ambito economico e sociale come regola di costumi 3725 3938 3997.

La Chiesa giudica circa la santità in ordine alla canonizzazione 675.

La Chiesa non giudica circa la mente o l’intenzione (ossia a. di cosa occulta) in quanto vi sia di interiore a1814 a2266s 3318; solo deve giudicare fin dove appare all’esterno 3318; la Chiesa giudica fino al senso delle parole degli autori 2010-2012 2020 2390.

1bb. Al Magistero è affidata la libertà di intendere ed insegnare. Ambito degli oggetti: gli oggetti rivelati non ammettono libertà di sentenza 3042; questa è ristretta alle cose ove non si interiore il giudizio della Sede Apostolica 3625 3667 (3885).

Questa libertà si evidenzia-: in questione circa l’ausilio della grazia 1997 2008 2509s 2564s.(2679) S1997; -: in qu. circa un attrito 2070; – Circa la separazione del sangue di Cristo dalla divinità nel triduo della passione 1385; -: in qu. circa sistematiche morali 2175-2177 (2679) 2726: -: quanto a sentenze della scuola tomistica 21671 2509 36010 3667; —: vietando libri “censurati” per mezzo della Cgr. dell’Indice” 3154s; nell’investigare questioni bibliche 3831.

Tutela dalla libertà di investigazione scientifica da non sospetti di spirito e dalla cieca opposizione a qualunque novità, ma da giudicare con somma carità 3831.

In cose di libera disputa non è lecito in questa sospettare circa la fede per degli avversari o arguire di non buona disciplina 3625; a nessuno è lecito imprimere la censura teologica 142612167 2665 2679.

H1c. c. — DIRITTO ED UFFICIO DEL MAGISTERO SULLE SINGOLE PERSONE.

1ca. Il Summo Pontefice è il sommo dottore della Chiesa 1307 3059 3068 3074 (CdIC 218); la sua autorità dottrinale è pienamente legata al primato vd. G 4db, ancor più nello specifico 181s 217 221 235 343 353 365 1064 3065-3073 3074s; la stessa è riconosciuta dai Concili 218 306 398-400 402 (444) 664 1848; per questo la Chiesa (essa è la Sede) Romana è chiamata “maestra” 774 1850 1868.

Il S. Pontefice ha il diritto di definire le questioni di fede 861 3067 3885; —: di interpretare i decreti dei Concili 447 1849s 3067.

Nel S. Pontefice è distinguere il dottore della Chiesa universale nella libertà di favorire delle scuole, e il dottore privato favorevole all’opinione tra varie lecite 2565.

Circa i decreti del S. Pontefice (a.ove dati come opera data sentenza) non è lecito ritrattarli o liberamente disputare né si ammettono divagazioni 182 217s 221 232 235 343 353 2331 a3885; ctr. la dottrina del S. Pontefice non vale la sentenza di Agostino 2330.

1cb. Vescovi, anche singoli, sono veri dottori dei loro sottoposti CdIC 1326; ad esse compete il giudizio circa la fede 761.

1cc. Concili generali. La loro autorità — affermata 343 352 (364) 517s 521s 550 575 587 1869 2526-2539; —: riconosciuta e convocata a teste 402 412 (433) 436-438 444 472 548 640 652 686 1986s.

Il Concilio generale o ecumenico rappresenta l’intera Chiesa 1247s; la suprema Potestà prevale sulla Chiesa tutta CdIC 228, § 1; pertanto non è superiore al Papa (così da a. potersi appellare contro il Papa)

233 115100 a1375 (2935s) a3063 CdIC a228, § 2: ciò che stabilisce il Conc. gen. In materia di fede e di morale, deve essere da tutti osservato 1248-1251; si riprovano le asserzioni circa la facoltà di dissentire 587 1479.

Si riprovano le asserzioni che esagerano l’autorità del sinodo diocesano o nazionale e dei loro atti sinodali 2609-2611 2693 2936.

1cd. Congregazioni curiali. Si esclude dalla loro autorità 2880 2912 3408 3503.

H 1d. d. — MODALITÀ SPECIALI DI ESERCITARE IL MAGISTERO.

Tra i mezzi del Magistero si recensiscono precipuamente i concili generali ed i sinodi particolari 3069.

Il Magistero procede in modo straordinario e più solenne, quando deve evidenziare gli errori e vuole spiegare in modo più efficace e sottile i capi della sacra dottrina 3683.

Il Magistero stabilisce ed approva le professioni di (a. come il principio, a cui tutti i fedeli devono convenire) 398 400 a1500.

Il Magistero sottopone alla sua censura ed approvazione gli scritti circa le cose di fede e di morale, proibendo libri nocivi 202 213 353s 686 807 980 1851- 1861 2065 2668 CdIC 1384-1405.

Il Magistero proscrive le sentenze della fede e dei costumi non consentanee, infliggendo anche al bisogno censure teologiche sia globali sia a.in particolare 721-739 840-844 891-899 a921-924 941-946 a951-979 1028-1049 a1087-1097 1101-1103 1110 1116 1121-1139 1151-1195 1201-1230 1361-1369 1391-1396 1411-1419 1451-1492 1901-1980a2001-2006 2021-2065 2101-2166 2170s 2201-2268 2281-2285 a2290-2292 2301-2332 2351-2374 2400-2502 2571-2575 a2601-2685 a2791-2793 3201-3241 3401-3465.

Censure specifiche (qualificazioni) illustrate con l’esempio di proposizioni per le quali sono giudicate in un determinato modo: proposizione —: eretica 951-965 977s 1087 1089-1091 1093 1095s 2001-2005 2203 2213-2215 2241-2253 2290 2602-2604 2615 2659 2693; —: prossima all’eresia 2221 2223 2257 2260s; che sa di eresia (ossia a.sospetta eresia) 2202 2204-2210 2212 2216-2219 2231s 2235s 2255s 2258 a2618 a2620

2622 2628; —: scismatica 2606 (2607s) 2693; —: falsa 1087-1093 1095-1097 2004s 2609-2613 2616 2619//2630 2635-2637 2640//2653 2661//2668 2673-2680 26823 2793; —: temeraria 2001 2005 2170s 2211 2214s 2217-2220 2223s 2226s 2230-2235 2238s 2241-2268 2291 2331s 2358 2360 2365-2370 2372 2609-2614 2617 2625-2627 2630// 2648 2651-2654 2662//2673 2676-2679 2683 2763; —: erronea 1087 1089-1091 1095-1097 11145 2204-2206 2208-2210 2213-2219 2221s 2224 2232 2235 2241-2253 2258 2291 2351-2357 2360s 2363 2367-2369 2372s 2606//2612 2622 2628 2637 2646s 2664 2677s 2791; —: scandalosa 1092 1391-1395 2021-2065 2101-2165 2206s 2209-2211 2214- 2220 2224s 2230-2252 2254 2258-2260 2263s 2266 2291 2357 2360 2362 2369-2371 2619 2634 2643 2664 2668 2673s 2678 2681 2791s SI309; —: blasphema 2001 2005 2210 2214s 2241-2253 2260; —: empia 2001 2005 2619 SI309; —: offensiva per le orecchie pie 2206 2230 2258 2291 2358 2368 2633 2642s 2662 2671 2678; —: risuonante malamente 2354- 2356 2373 2644 2665; —: perniciosa 2352 2364 2367 2612 2614 2623 2625 2629s 2637 2639 2644 2646 2649 2662 2664s 2670 2678 2680 2692.

2.. Certezza del Magistero ecclesiastico.

H 2a. a. — IN GENERE.

La Chiesa di Cristo esponendo la dottrina rivelata gode dell’assistenza dello Spirito Santo CdIC 1322; il S. Pontefice ed i Concili richiamano lo Spirito S. congregante, illuminante 102 265 444 631 702 707 115100 1500s 1600 1635 1667 1726 1738 1820 1848.

Alla Chiesa (in genere) è attribuita l’infallibilità 2922 3020: alla Sede Apostolica si rivendica l’inerranza 363 775 1064 1807s 2329 2923 3066; si riprovano le proposizioni implicitamente asserenti che la Chiesa possa errare [sci. accusa circa l’ingiusta condanna degli articoli, circa l’ingiusta scomunica, l’oscuramento delle verità] 1225 1480 2491-2501 2601 2612-2614.

La sentenza magistrale del dubbio senso continente è da prendere sempre in quel senso in cui la locuzione sia veramente intesa. 1407.

Per altra parte i libri non riprovati dalla Sede Ap. o “lasciati passare” e da sé stessi consentiti non sono da considerare liberi da errore 2047 3154s.

H 2b. b. — INFALLIBILITÀ DEGLI ATTI SOLENNI.

2ba. Soggetto dell’infallibilità. Il giudizio solenne circa la fede divina e cattolica da credere compete al Rom. Pontefice parlando ex cathedra e dal concilio ecumenico CdIC 1323, § 2.

Dal S. Pontefice è rivendicata l’infallibilità (221 353) 2329s 2539 2781 3069s 3074s CdIC 1323, § 2.

2bb Natura e condizioni dell’infallibilità. Il dono dell’infallibilità consiste a.non in una qualche nuova rivelazione, ma sed in nell’assistenza dello Spirito Santo, perché la rivelazione tramandata dagli Apostoli sia fedelmente esposta a3070 3074 (3116).

Il S. Pontefice pertanto è infallibile, sia se funge per la sua suprema autorità quale dottore di tutti i fedeli, sia se parla ex cathedra 3074 CdIC 1323, § 2.

L’infallibilità è legata e alla dottrina della S. Scrittura e alle definizioni già pronunciate 3070 3074 a3116; non è riferita alle questioni di governo del S. Pontefice 3116.

La definizione dogmatica è solamente ciò che come tale sia stato dichiarato, CdIC 1323, § 3.

Le definizioni del S. Pontefice, dal momento che sono infallibili, sono irreformabili di per sé indipendentemente dala consenso della Chiesa 3074.

Il dono dell’infallibilità non dispensa il Pontefice dall’obbligo di usare i mezzi naturali di operazione: a.deliberazione, b.inquisizione, c.discussione, d.consiglio per gli altri a182 c810 c844 d899 c904 c974 c930s ac1848 b2011; add. I detti in diverse note di introduzione a proposizioni condannate.

2bc. Accettazione dei decreti infallibili. A tutte le cose che si propongono a credere, sia per solenne giudizio, sia per il Magistero ordinario e universale, sia rivelazioni, si deve una fede divina e cattolica 2879 2922 3011 (3885) CdIC 1323, § 1; il silenzio ossequioso non soddisfa i decreti dottrinali 2390. Circa l’obbligazione a credere cf. anche K 2a.

H 2c. c . — CERTEZZA DI CERTI ATTI DEL MAGISTERO.

I decreti della Sede Ap., che sono mutabili in meglio o sono aggiunti temporaneamente od ordinati per necessità (mutabili) 641; anche può accadere che siano soppressi dalla Sede Ap. 641.

Anche ai decreti non infallibilmente proposti (tra i quali si tratta di materia per sé non infallibile, di numerose lettere encicliche e prescrizioni di errori) si deve l’assenso 2922 3407 3885; tuttavia il tale assenso non può essere assoluto (in quanto in cosa che non ha vigore dell’infallibilità immune dall’errore), ma solo condizionato, revocabile in favore della decisione o evoluzione successiva in altro senso, rese illegittime ed illecite; o che possano indurre in contraddizione con altre parole, dissolto l’assenso assoluto, incondizionato a qualunque documento dottrinale della Sede Ap., come per istruzione di esempi storici, —: gli atti di Papa Liberio nella causa dei Semiariani (138-143), soprattutto la condanna di S. Attanasio, facilmente poterono indurre in detrimento della fede Nicena e generare una venerazione prestata da tutti i fedeli al propugnatore di questa fede; —: Le parole di Leone I Magno 294: “Assunta è dalla madre del Signore la natura, non la colpa”, per cui gli intelletti sono stati giacenti per secoli sotto questa sentenza un tempo comune, il cui assenso accettato, precludeva la via alla definizione dell’Immacolata Concezione della B. Maria Vg. 2800s5; —: Si discosta il giudizio circa l’ortodossia di Teodoreto e Ibe: sono condannati (riprovati nel Sinodo Efesino da Leone I M. come “latrocinio”) nel Conc. Costantinopolítano II, da Gregorio I M. e nel Libro diurno, riconosciuti ortodossi nel Conc. Calcedonense e da Pelagio I cf. 300°° 436s 444 472;

—: Nella causa di Onorio I Papa (la cui ortodossia fu attaccata solo dagli Orientali) si discosta dal giudizio circa il modo di agire di Onorio con in capi dei Monoteliti tra Giovanni IV di lui benevolmente interpretando e proteggendone l’onore e Leone II al Concilio Costantinopolitano III scusandolo per la condanna acritica, mentre Martino I con il Sinodo Lateranense, condannando i Monoteliti lasciò nel silenzio Papa Onorio: cf. 487s 496-498 518 550 552 561° 563; — :

Nicolò I oltre alla forma trinitaria del Battesimo validò espressamente anche la forma: “In nomine Christi“, a cui specialmente contraddice la dottrina posteriore: cf. 646! (211) compar. con 123 176s 214 445! 478- 580 589 592 644 757 802 903; —: nella questione circa la validità delle ordinazioni dei simoniaci nessun decreto si oppone alla sentenza già da secoli comunemente riportata: cf. 691-694 701s! 705 710; —: Circa l’ambito del privilegio Paolino dissentono Celestino III e Innocenzo III: cf. 768;

—: Circa l’effetto del consenso matrimoniale Alessandro III dissente da alcuni predecessori 756; — : Tra i casi illustrissimi vi è la sentenza di Giovanni XXII circa la beatitudine ottenuta nel solo modo imperfetta ottenuta dopo la morte fino al giorno del giudizio generale, alla quale cardinali ed il re della Gallia, non solo non diedero assenso, ma vi resistettero contro, inducendo il Papa alla revoca e a sancire la sentenza opposta: cf. 990s 1000ss.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (51).

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (13)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (13)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo QUINTO (2)

II. – IL CRISTIANO E L’EGOISMO DEI SENSI

Ricorda Giosuè Carducci nelle sue Prose che « gli abitanti d’una città greca, alla rappresentazione d’un dramma d’Euripide, invasi di sacro entusiasmo, deliraron tre giorni, tre giorni aggiraronsi per la città ricantando i versi del coro, che celebrava la potenza d’amore ». Non tre giorni, ma 365 giorni all’anno, e 366 negli anni bisestili, mi pare che in questo mondo si celebri la potenza di amore. Parlano forse e pensano ad altro gli uomini? si chiede il Gratry nella Connaissance de l’ame. Di che discorre la giovinezza e che cosa rimpiangono i vecchi? aggiunge Bossuet. Si entri in un teatro. Drammi, tragedie, commedie, persino le farse, sono tutte intessute con un identico filo. Si visiti un cinema, uno dei molti cinema che nelle città e nei paesi sono rigurgitanti di folle avide. Quando non è una scena di furto, è uno spettacolo più o meno immorale, che attira la gente, la incatena, la soggioga. Si passeggi in una strada, o si entri in un salotto. La moda con le sue stranezze e con le sue impudenze; i balli coi loro capricci e con le diverse novità; le edicole dei giornalai con le riviste, le pubblicazioni ed i romanzi a dispensa; i discorsi con frasi a doppio senso, attestano sempre il medesimo fenomeno. Quante copie si venderebbero dei romanzi moderni, se non trattassero d’amore e non fossero espressioni di lussuria?… Ovunque gli appelli del piacere si alzano, in mille toni, con mille sfumature. Tutto ormai sembra divenuto lecito. La figliola disgraziata, che nell’aprile dei suoi anni ha distrutto la sua primavera; le povere creature del peccato, che portano sul volto lo stigma della colpa; il giovanotto libertino, incapace di arrossire o dimentico d’ogni più elementare rispetto che dovrebbe a sé ed agli altri, sono fatti così frequenti, che quasi più non sorprendono. Anzi, come diceva Lacordaire nelle sue Conférences de Notre Dame, un omicida è riprovato dal mondo; ma il profanatore dei giuramenti più santi, il violatore del santuario domestico, l’adultero passa a fronte alta e viene riverito. Guardo alla letteratura ed alla storia. Giovanni Boccaccio, scapolo e nemico dell’amore regolato, s’avanza con spensierata giovialità. Mentre Dante unisce il mondo sacro e profano per spiritualizzare quest’ultimo, egli sbattezza tutto l’universo e tutto materializza. Il suo Decamerone, ben fu scritto, è la nuova Commedia, non la divina, ma la umana Commedia. Il mondo dello spirito se ne va; viene il mondo cinico e malizioso della carne; e l’Italia lo segue. La dissolutezza, che anticamente aveva templi e sacerdoti, dilaga; le vecchie divinità, incarnazioni del vizio, e le vecchie infamie risorgono, avvolte nei veli dell’arte e nel fascino della bellezza; la corruzione penetra ovunque, anche nel santuario e tutto profana: bianche vesti di Papi, porpore di Cardinali, mitre di Vescovi, anime di preti e di vergini sono macchiate di fango, fra lo sghignazzare osceno dell’incoscienza e gli splendori abbaglianti della superficialità. La storia si sarebbe svolta ben diversamente, se la cosiddetta « potenza d’amore » troppo spesso non ne avesse avuto nelle mani le redini. Se Lutero non ne fosse stato dominato, ci avrebbe portato un’altra Riforma, non certamente quella che si ispirò al programma del « crede firmiter et pecca fortiter » e che lo condusse non solo al suo, ma al « matrimonio universale », per usare l’ironica frase di Erasmo. La faccia attuale d’Europa non sarebbe quella che è, se i Riformatori fossero stati padroni dei loro sensi ed avessero inculcato a tutti il dominio delle proprie passioni. Il Maomettanesimo non esisterebbe più, se non avesse annientato la legge morale, lasciando libero sfogo agli istinti brutali. E, senza soffermarsi sulla storia, credo che da nessuno sarà messo in dubbio che la vita individuale di moltissime persone avrebbe avuto un orientamento diverso dal presente ed una differente fisionomia, se una.., malattia di cuore non le avesse tormentate. – Il contrasto tra la morale cristiana e la vita non mai si fa così stridente, come su questo terreno. Un rimprovero, un’accusa, una condanna vengono scagliati, come frecce contro l’etica del Vangelo: « Voi, ci si dice, siete i fautori d’una esistenza malinconica e tetra, senza gioia. Siete i nemici della vita… Ci parlate continuamente di sacrificio, di rinnegazione, di morte. Oh, lasciateci amare! Noi vogliamo l’amore ». – Un’altra battaglia dev’essere, dunque, da noi contemplata. Ognuno la può trovare in sé, prima ancora, e più ancora che nel mondo. E la lotta diventa accanita e feroce, specialmente perché le due bandiere portano scritto nelle loro pieghe la stessa parola programmatica: Amore. Bisogna scegliere; bisogna decidere. Dov’è il vero amore?

1. – Il gregge d’Epicuro e l’amore.

Il gregge d’Epicuro ciancia d’amore, ma non ama. La sacra parola ricopre solo l’egoismo furioso dei sensi. Non l’affetto per un altro essere, ma il proprio piacere, ma il proprio godimento, ma la propria soddisfazione qui impera e comanda, sacrifica e calpesta, danza ed irride. Io non ho giammai incontrato anime che sapessero veramente amare, fra i dissoluti, esclamava un giorno nella cattedrale di Parigi Lacordaire: « Quando, infatti, ci si abitua alle emozioni violente, come volete che il cuore, pianta così delicata che si nutre di qualche goccia di rugiada caduta qua e là dal cielo per lui; che si scuote ad un leggero soffio, che è felice per giorni interi al ricordo d’una parola detta, d’uno sguardo lanciato, d’un incoraggiamento dato dalle labbra d’una madre o dalla mano d’un amico; il cuore, il cui battito è così calmo nella sua vera natura, quasi insensibile a cagione della sua stessa sensibilità e per paura che si sarebbe spezzato ad una sola goccia di amore, se Dio l’avesse fatto meno profondo; come mai, dico, volete voi che il cuore opponga le sue dolci gioie delicate al godimento grossolano ed esagerato del senso depravato? Questo è egoista: il cuore è generoso. L’uno vive di sé; l’altro fuori di sé; e tra queste due tendenze, una deve prevalere. Se il senso depravato vince, il cuore avvizzisce a poco a poco, non sente più la forza delle gioie semplici, non va verso altri, e finisce per non battere più se non per dare il suo corso al sangue e per segnare le ore d’un tempo ignominioso, del quale la dissolutezza precipita la fuga. E cosa v’è di più abbietto dell’uccidere il cuore nell’uomo? Che resta dell’uomo, quando il suo cuore non vive più? ». Il gregge d’Epicuro non sa amare. Il cuore, per dirla con una forte espressione biblica, diventa cenere. « Le risorse dell’amore elevato, nota il Gratry, le poesie dell’adolescenza pronte a sbocciare, gli entusiasmi della giovinezza, il senso dell’infinito, le forze future della ragione virile, la sapienza promessa all’autunno della vita, tutto è perduto anticipatamente… Quest’uomo si suicida ». – Che importa a lui l’abbrutimento nauseante, la rovina della sua anima, le viltà che per avvoltolarsi nel fango bisogna compiere, le malattie che contrae, le conseguenze in genere che nella intelligenza, nella volontà, nell’organismo sono gli effetti tristi della caduta? Il mortale egoismo del senso perverso è il suo Dio ed il suo tiranno: a parole ama; in realtà vuol godere, brutalmente, animalescamente. Si avvicina, è vero, ad un’altra creatura; nasconde il suo egoismo sotto il gesto dell’amore e sotto promessa della fedeltà; poi passata l’ora dell’ebbrezza folle, va, abbandona, tradisce, in cerca di altre soddisfazioni egoistiche, sempre nascoste sotto le bugiarde dichiarazioni dell’amore. Nel gregge d’Epicuro non si ama. Osservatela la signorina moderna, alla caccia del marito. Uno qualsiasi, purché venga, purché domani la vita sia bella e piacevole e si possa godere!… E tutte le reti tese, e tutti i lacci posti qua e colà sapientemente distribuiti, e tutte le debolezze volute ed incoraggiate, e le abdicazioni anche al senso più elementare della propria dignità e del pudore, e tutti gli episodi che si succedono finché « si è trovato il merlo », son battezzati col nome dell’amore! Guardate il giovanotto moderno, che assicura di voler amare. Egli s’incretinisce nel vizio; il centro dei suoi sentimenti, delle sue preoccupazioni, dei suoi discorsi è il godimento egoistico. Beve, dirò ancora col Gratry, i veleni mortali che la natura mescola alle sue gioie colpevoli, senza pensare alla futura famiglia, ma pensando solo a sé ed alla sua soddisfazione. Che gl’importa dei contagi velenosi e delle loro tracce indelebili, trasmissibili per eredità? Questi lebbrosi della dissolutezza, che restano segnati con piaghe vive o con cicatrici sempre terribili, portano poi, con la perfida impudenza dell’egoismo, una simile loro dote in dono alla fidanzata verginale ed in eredità imprevista ai figli. E tutto questo lo chiamano amore! Vigliacchi! E chi potrà far credere che, in nome dell’amore, le grandi nazioni hanno introdotto nelle loro leggi il divorzio? La donna, dopo qualche anno di matrimonio, la si butta via, come un limone spremuto; ed il problema dei figli lo si risolve in qualche modo. Mentre si mormora che il nemico della donna e dell’amore è il Cristianesimo, senza posa la voluttà criminale va alla ricerca di nuovi calici, ai quali spegnere la sete inestinguibile dell’egoismo più abbietto. Il gregge d’Epicuro non sa amare. Se qualcuno non è convinto, vada e scriva la parola profanata dell’amore sulle case del disordine… Mai si è così poco amato come ai giorni nostri e mai così scarso è stato il sorriso della pace e della gioia: l’egoismo dei sensi ha come ineluttabile conseguenza la « tristezza atroce della carne immonda ». Invece della vita, si ha l’abisso della morte. Se l’autore del Decamerone, dinanzi al frate inviatogli dal certosino Piero Petroni, si pentì della sua vita dissoluta, si commosse, si spaventò, si convertì; mille e mille altri, anche se non ritornano al Cuore dell’Unico che sa e dona l’Amore, al termine della loro vita, debbono confessare a se stessi le disillusioni più gravi ed il disgusto più amaro; è la disfatta completa non dell’amore ma dell’egoismo.

2. – La morale cattolica e l’amore.

Esponiamo, ora, i principi della morale cattolica, con esattezza, con precisione, con la tranquilla serenità della ragione e della fede, che nulla hanno a che fare con la torbida irrequietezza del senso e della passione.

1. Iddio tutto crea santamente. E tutto è razionale nell’organicità del tutto. La natura tende sempre ad un fine giusto, determinato ed efficace. Anche gli istinti del senso, perciò, non sono da riguardarsi in sè come un male. Il male, come diremo, dipende dall’abuso che noi possiamo fare, dopo che la colpa originale ha rotto la subordinazione del senso alla ragione, cosicché tale subordinazione è oggi non una dolce necessità, ma il risultato d’uno sforzo e d’una personale vittoria. Perché mai Dio permette che noi sentiamo così fortemente il fremito della carne? Perché, anche in anime sante e nobili, abbondano « le tentazioni » e la fantasia diventa una piazza, dove pensieri, immaginazioni, desideri cattivi si rincorrono e s’avvicendano? Perché persino un san Paolo deve esclamare: « Sento un’altra legge nelle mie membra, che ripugna alla legge della mia coscienza »? Perché nel deserto della Calcide ed a Betlemme vediamo un san Gerolamo, con un sasso tra le mani, che si batte il petto e cerca di allontanare da sé i ricordi osceni di Roma, in parte ancora pagana? Perché  san Benedetto ed il Santo d’Assisi si gettano nudi fra le spine, ed insanguinano le loro carni pure? La ragione è semplicissima. Dio ha posto in noi queste tendenze, per indurre l’uomo e la donna alla costituzione della famiglia. Ciò che noi chiamiamo l’ « istinto », ciò anche che suscita nella mente della fanciulla sogni e speranze, ciò che fa commuovere un’anima giovanile dinanzi ad una culla ed alla poesia dei riccioli biondi, è questa forza, che spinge l’umanità alla sua conservazione. – L’importanza della famiglia per la società corrisponde ai sacrifici che essa costa. La procreazione e l’educazione dei figli, fine primario ed essenziale della famiglia, è un compito nobilissimo, ma ricchissimo di responsabilità, di dolori, di abnegazioni. Si rifletta un istante all’abnegazione d’una mamma… Noi potremo ridere dinanzi ad una qualsiasi signorina, soprattutto se ha i capelli alla bébé e se si presenta a noi dopo una laboriosa toilette con un viso imbellettato; ma non ridiamo mai, non possiamo ridere dinanzi ad una mamma. La mamma è qualcosa di grande e di sacro. Non si dica che il Cristianesimo è nemico della donna. Una Vergine Madre rifulge in alto e proclama da un lato la grandezza della maternità e dall’altro la bellezza della verginità. Certo, per noi, la donna è la figlia, è la sorella, è la madre; non è un essere anfibio, più o meno mascolinizzato, che non sa più quale segreto scoprire per diventare ridicolo; non è la sciagurata che dimentica di avere un’anima, per vendere, magari anche in una forma elegante e perciò più obbrobriosa, la sua dignità. La vera donna, cioè, andiamo a cercarla nel focolare domestico, non nella Dea Ragione della Rivoluzione francese e nelle altre sue seguaci.

2. Di tutto, però, noi possiamo abusare, specialmente quando si tratta di questi sensi nostri, che, invece di essere un mezzo, tendono a diventare fine a se stessi. Come il bisogno della nutrizione è ragionevole e necessario per la conservazione dell’individuo, ma produrrebbe mille mali quando noi non mangiassimo per vivere, ma vivessimo per mangiare, così l’istinto dei sensi nostri ci conduce ad una serie di disastri, quando non viene riguardato come un mezzo — ragionevole e necessario — per il fine altissimo della famiglia e per la conservazione della società, ma quando, al contrario, anela ad una soddisfazione indipendente da ogni bene che gli conferisce l’utilità e la santità. E come l’abuso della gola sregolata, invece che alla nutrizione ed alla vita, incammina verso la malattia e la morte, così questa ammirabile facoltà può sviluppare in noi un uragano, o, per dirla col libro di Giobbe, un fuoco che tutto consuma, e che brucia la vita in tutti i suoi germi ed in tutte le sue radici.

Che il Cristianesimo giustamente combatta questo abuso, bisogna esser ciechi per non ammetterlo. « Non avete voi incontrato, vi chiede Lacordaire, qualcuno di quegli uomini, che sul fiore dell’età, appena onorati dai segni della virilità, portano già le ferite del tempo; che, degenerati prima d’aver raggiunto lo sviluppo totale dell’essere, con la fronte carica di rughe precoci, con gli occhi incerti ed infossati, con le labbra impotenti ad esprimere la bontà, trascinano sotto un sole sempre giovane una esistenza caduca? Chi ha fatto questi cadaveri? Chi ha colpito questo figliuolo? Chi gli ha rubato la freschezza dei suoi anni? Chi ha posto sul suo volto secoli di vergogne? Non è forse questo senso, nemico della vita degli uomini? Vittima della sua depravazione, il disgraziato ha vissuto solitario, non ha aspirato se non a scosse egoiste ed a spaventevoli pulsazioni, che l’uomo o il cielo non vogliono vedere; ed eccolo, se ne va, inebbriato dal vino della morte e con passo sprezzante, a portare il suo corpo alla tomba, ove i suoi vizi dormiranno con lui e disonoreranno la sua cenere sino all’ultimo dei giorni ». L’egoismo dei sensi non si ferma a queste devastazioni. S’aggiungono, come abbiamo già accennato, le depravazioni del cuore; il dispotismo ignobile, che la passione esercita sopra le sue vittime; i misfatti che la gioia omicida della gioventù esige e reclama; e sono matrimoni infelici; son le famiglie senza figli; son le patrie spopolate, tremanti dinanzi alle case che non il sorriso dei bimbi, ma solo conoscono i calcoli piccini dell’egoismo e preparano i tramonti delle nazioni. – Ripeto: bisogna esser folli, per non approvare la morale cristiana nei suoi sforzi contro questa fiumana di fango e di danni. Bisogna esser pazzi per non scorgere come non vi siano che due vie: o le conseguenze descritte, ovvero l’intransigenza assoluta: ogni pensiero, ogni sentimento, ogni affetto, ogni desiderio, ogni lettura, ogni sguardo, ogni azione che non è nell’ordine, debbono essere respinti inesorabilmente. Illudersi di venir a transazioni in questo campo, sarebbe come pretendere di gettarsi sì dall’alto della montagna nel precipizio, ma di fermarsi poi dopo due metri. O si sta sulle altezze, o si cade in fondo. La realtà, del resto, ce lo insegna con la sua logica schiacciante.

3. Solo con tale intransigenza l’amore vero nasce, sboccia, si sviluppa, è fecondo e diventa virtù. Qui, contro il Boccaccio sorge Alessandro Manzoni; e di fronte al Decamerone salutiamo i Promessi Sposi e la pagina immortale dell’addio ai monti di Lucia, in cui si enuncia la tesi cristiana. Gli altari di Dio non sono la condanna dell’amore, ma ne sono la consacrazione: è là dove « il sospiro segreto del cuore » è « solennemente benedetto. e l’amore viene « comandato » ed è chiamato « santo ». – Cos’è la famiglia per noi? Un affetto gentile, che si apre come il calice d’un fiore nella primavera d’una giovinezza buona e che è reso santo dalla rugiada di Dio; due anime, che si donano l’una all’altra per l’eternità, con l’unica parola consentita dall’amore vero, ossia con un sì eterno; due cuori, consapevoli che nella vita non v’è solo esultanza di festa e sereno di allegrezza, ma non mancano sacrifici e dolori, e che per esser fedeli alla severa poesia del dovere si stringono le destre e nel nome del Signore procedono verso l’avvenire; la fecondità dell’unione, coi teneri esseri, splendido coronamento dell’amore; una casa, cioè, resa bella da pampini verdi e dalla gioia dei figli, simili a rampolli d’ulivo intorno alla mensa; tutto questo, nello stesso ordine naturale, fa del matrimonio e della famiglia qualcosa di sacro e di ineffabilmente grande. Gesù, poi, suggellando il matrimonio col dono soprannaturale e la spirituale aureola d’un Sacramento, sublimandolo dal mondo della natura al mondo della grazia e rendendolo simbolo delle Sue mistiche nozze con la Chiesa, conferì alla famiglia una nuova e divina bellezza; il Vangelo, le Epistole paoline, così luminose e limpide, tutta la tradizione cattolica di venti secoli, ce lo rammentano. – Cos’è la famiglia per noi? Ce lo ha detto Enrichetta Blondel, quando un giorno nella villa di Brusuglio mostrò al suo Alessandro, che tanto amava la moglie sua, due virgulti, da lei piantati ed attorcigliati insieme, sussurrando soavemente al poeta lombardo: « Vedi? Questi due virgulti rappresentano i nostri due cuori insieme uniti ». Il Manzoni allora pianse e volle che là intorno si facesse un’aiola, non più dimenticata. E con lui s’intenerisce ogni nobile anima. – Cos’è la famiglia cristiana per noi? Essa è chiamata a concorrere all’opera creatrice di Dio, a plasmare le coscienze, a popolare il paradiso. Da essa zampillano le acque rinnovatrici della società. Da essa tanto si attende la patria, perchè, come ha notato il Bismarck, la grandezza delle nazioni riposa sulle ginocchia delle madri. E solo con la rinnovazione di questa cellula sociale potranno prepararsi le glorie future della Chiesa santa di Cristo. In una graziosissima poesia intitolata Les deux anges gardiens, Federico Ozanam esprimeva le sue idee a proposito della famiglia: due angeli, che erano sempre stati amici in cielo, domandano a Dio di amarsi anche in terra a fianco di due giovani, che si giurano fede di sposi. E quando la sua casa fu allietata dalla nascita della prima bambina, così egli ne dava l’annuncio al Foisset: « Avevamo pregato assai, e preghiamo anche ora, perchè mai come adesso abbiamo avuto bisogno dell’assistenza divina. Siamo stati esauditi oltre ogni nostra speranza. Ah, che momento fu quello in cui intesi il primo vagito della mia creatura, quando vidi quella creaturina, così piccola eppure immortale, che Dio affidava alle mie mani, che mi apportava tanta consolazione ed insieme tanti obblighi! Le abbiamo dato il nome di Maria, che era quello di mia madre e in memoria della possente Patrona, all’intercessione della quale noi attribuiamo questa nascita fortunata. Ora la madre, quasi del tutto ristabilita, ha la consolazione di dare il latte alla bambina; e questo è un piacere molto costoso, ma pieno di soddisfazioni. In tal modo non perderemo i sorrisi del nostro angioletto e potremo incominciare tosto l’educazione. Frattanto rifaremo da capo la nostra, perché  credo che il Cielo ce l’abbia mandata per insegnarci molto e per renderci migliori. Io non posso contemplare quella dolce figura, piena di innocenza e di purezza, senza scorgervi la sacra immagine del Creatore meno velata che in noi. Non posso pensare a quest’anima immortale di cui dovrò un giorno render conto, senza che mi senta maggiormente penetrato dei miei doveri. Come, infatti, potrei insegnarle ciò che io non pratico per il primo? Poteva Iddio scegliere un mezzo più amabile per istruirmi, per correggermi, per mettermi sul cammino del Cielo? – Solo nella concezione cristiana l’amore non è parola vuota di senso, non è una menzogna, non è ad ogni istante turbato da temporali e da nubi. Dove si pratica la morale di Cristo, si ama. Anche quando insieme si piange, il raggio di sole conforta, abbellisce, santifica la lagrima umana. E la stessa purezza giovanile, l’illibato candore dell’animo, e non solo dei sensi, è in relazione all’amore della futura famiglia. Nessuno, come la giovane anima pura, conosce l’intensità e la freschezza dell’affetto. In questo amore cristiano palpita senza dubbio l’amore di Dio; ma non è ancora la vetta più alta dell’amore. Qui si va a Dio attraverso l’amore di una creatura quantunque si tratti d’un amore casto, nobile, giusto, subordinato a Dio. – Tale potenza d’amore si può sublimare; si può anche in questo caso, morire ai sensi, per vivere d’un amore perfetto nello spirito. È il consiglio evangelico della verginità. Nella sua intima natura, la verginità non implica solo la assenza di ogni macchia che possa offuscare il candore; anche un tavolo non commette nessun peccato, eppure nessuno discorrerà della verginità del legno. Dire verginità è dire amore, ed amore perfetto di Dio, in quanto l’anima verginale con fedeltà e con generosità consacra tutto il suo essere, anima e corpo, e tutte le fibre del suo cuore, tutto il suo affetto a Gesù Cristo. « L’uomo animale non percepisce le cose che sono proprie dello Spirito di Dio », avverte san Paolo. Nè, quindi, c’è da stupirsi se il mondo non sospetti neppure questa riduzione del concetto di verginità al concetto di amore perfetto. Eppure in quel gioiello di poesia ispirata che è il Cantico dei cantici l’idea è enunciata ad ogni parola con vigore impareggiabile: Il mio Diletto è sceso nel suo giardino fra le aiuole di balsamo a pascersi tra i giardini, a cogliere gigli. Io sono del mio Diletto ed Egli è mio: Lui, che si pasce fra i gigli. Potente al par della morte è l’amore. I suoi sprazzi son sprazzi di fuoco. Le sue fiamme, fiamme divine. È essenzialmente diversa la verginità materialmente conservata d’una Vestale pagana e la verginità cristiana, vivificata dall’Amore divino. Ed è per questo che, dai primi decenni del Cristianesimo nascente ai giorni nostri, fu la verginità che scrisse nella storia della Chiesa le pagine più fulgide di amore a Cristobed ai fratelli. Il grido di Agnese, il canto di Cecilia, il velo di Marcellina ce lo assicurano; ce lo dicono i candidi eserciti verginali che san Vincenzo de’ Paoli ed altri Ordini religiosi hanno disperso negli asili del dolore, nelle corsie degli ospedali, fra le tetre mura d’un carcere, in tutte le case che raccolgono orfani, vecchi, derelitti, bisognosi. Le anime verginali sanno amare; sanno sacrificarsi, affrontano le imprese più difficili, superano gli ostacoli più gravi, salvano le anime, beneficano i corpi, asciugano lagrime, dànno ali a tutti per i voli della fede e dell’amore. Per ogni miseria del mondo, è stato ben detto, la morale cristiana ha preparato una verginità che ne doveva essere la madre e la sorella. – Cos’è una vocazione alla verginità? È una vocazione ad amare. La verginità cristiana, perciò, è feconda e non la si può concepire senza una famiglia; la famiglia infinitamente più grande e più bella della famiglia naturale, la sacra famiglia delle anime. – Ai giovani, che aspirano al sacerdozio, la Chiesa comanda di amare. Debbono rinnegare se stessi, far tacere il grido dei sensi, mortificarsi, per amore dei fratelli. Viene un giorno, ha cantato Lacordaire, che la Chiesa prende questa giovinezza ardente e la getta bocconi per terra nelle sue basiliche: « Ed andranno poi, andranno questi giovani per tutto il mondo, sotto la guardia della loro virtù; penetreranno nel santuario dei santuari, quello delle anime; ascolteranno confidenze terribili: vedranno tutto, sapranno tutto; mille tempeste passeranno sul loro cuore. Questo cuore resterà di fuoco per la carità, di granitonper la castità. È a questo segno che i popoli riconoscerannonil prete ». Ecco, quindi, la spiegazione del sacerdote, del missionario cattolico, delle Suore di carità, di ogni Ordine, di ogni Congregazione e di ogni Famiglia religiosa, sia che si dedichi ad un’intensa attività quotidiana, sia che si consacri alla contemplazione. La verginità e l’apostolato son sempre congiunti, appunto perchè la verginità è amore. Il divino fascinatore delle giovani coscienze verginali, che è venuto sulla terra a predicare l’Amore, non per nulla si è circondato di gigli. Il « figlio della Verginità », come l’ha salutato san Bernardo, che volle anime verginali come Madre, come Padre putativo, come precursore, come discepolo prediletto, sempre, in ogni tempo, ha rivolto il suo appello ad una schiera di puri e di forti, dagli occhi sfavillanti di luce, pronti alle dedizioni totali per l’amore di Dio e per l’amore del prossimo. «Dunque, si domanda Cesare Angelini nei suoi Commenti alle cose con animo di poeta, ancora nascono gigli su questa terra, ove i figli degli uomini han rinunciatona ogni candidezza per un gusto di fragile peccato?… Ogni volta che gli Angeli e i Santi han fatto le loro comparse (rade!) fra noi, non han scelto altro bastone che il giglio per appoggiarsi nel loro andare terreno. Così, esso risplende in lor diafane mani, nelle tele immortali dei pittori. E che senso di eterna frescura dà all’anima e all’occhio che lo vagheggia! Par di sentir in lontananza non so che aria di Paradiso. – « Intanto noi abbiamo il dono di saperci incantare innanzi al giglio vero e alla sua immagine perfetta. Snello, elegante come un candeliere di argento che il cesello di Benvenuto non seppe mai atteggiar così bene, il giglio ride sul popolo dei fiori che, sospendendo la loro conversazione, gli fanno festa, estatici; poichè, se anche hanno gala di colori per la meraviglia degli occhi, riconoscono che il bianco del giglio non è più colore, ma è luce.

Di candor lucidoso

riluce la sua vesta.

a Poteva il Bianco da Siena prestarci due versi più belli per salutare la creatura del divino biancore? Pur nel nome è qualcosa che diletta. Giglio è parola che ride tutta, tant’è ricca di suoni limpidi e sottili. Giglio è un nome perlaceo, anzi, è già una perla trovata in certi gentili giardini del cielo e lasciata cadere in dono, ma per breve stagione, sulla terra… ». Ed il poeta si rivolge ai gigli e dice loro: « Gigli, che vi innalzate limpidi e quasi gloriosi della vostra castità gentile, ad ammonirmi, con la forza del simbolo, che il casto è il vittorioso del mondo e la sua aria è quella del vincitore; gigli, che tornate a fiorire alti e lontani forse per dirmi che tutto ciò che nasce di terra deve dare un fiore per il cielo, e insegnarmi che la carne non è la vera ricchezza della vita, ma è un peso, e la sola ricchezza è lo spirito che s’eleva al cielo; gigli, nostalgie di immacolatezze perdute, perchè richiamate alla memoria con un misto di tenerezza e di accoramento i versi di Saffo: “Verginità, verginità, dove sei mai fuggita? “. Questi versi non sono la parola definitiva della storia. Il fango ci circonda, è vero; ma ogni volta che Cristo nella storia risorge, sorridono nuove fiorite di gigli, in cui « nel pudor del prepuscolo » sbocciano i gigli delle anime verginali. Sempre, finchè il sole rifulgerà nel cielo, « soccorrendo due gocce di rugiada, i bei petali lisci si disinvolgeranno con grazioso scompiglio e guarderanno, estatici e meravigliati d’essere fioriti così bianchi su dalla terra così nera. E poichè i petali son puri, tutto lo stelo sarà limpido e puro. Il paese d’intorno resterà preso nell’incanto e nell’ebbrezza di quel loro fulgore spalancato e di quella fragranza che è passione e vibrazione… ». E sempre, fra i gigli, passeggerà vittorioso il Re dell’Amore.

3. – Conclusione.

Rileggiamo, insieme, alcuni versi dell’Odissea, al canto decimo. Omero racconta le avventure d’un gruppo di compagni di Ulisse, che Circe mutò in animali immondi:

Edificata con lucenti pietre

Di Circe ad essi la magion s’offerse,

Che vagheggiava una feconda valle.

Montani lupi e leon falbi, ch’ella

Mansuefatti aveva con sue bevande,

Stavano a guardia del palagio eccelso.

Né lor già s’avventavano: ma invece

Lusingando scotean le lunghe code,

E sull’anche s’ergeano. E quale i cani

Blandiscon il signor, che dalla mensa

Si leva, e ghiotti bocconcelli ha in mano,

Tal quelle di forte unghia orride belve

Gli ospiti nuovi, che smarriti al primo

Vederle s’arretriro, van blandendo.

Giunti alle porte, la deessa udiro

Dai ben torti capei, Circe, che dentro

Canterellava con leggiadra voce,

Ed un’ampia tessea, lucida, fina,

Meravigliosa, immortal tela, e quale

Dalle man delle dive uscir può solo.

Polite allor, d’uomini capo, e molto

Più caro e in pregio a me, che gli altri tutti

Sciogliea tai detti: — Amici, in queste mura

Soggiorna, io non so ben se donna o diva,

Che tele oprando, del suo dolce canto

Tutta fa risentir la casa intorno.

Voce mandiamo a lei. — Disse, e a lei voce

Mandaro: e Circe di là tosto, ov’era,

Levossi, e aprì le luminose porte,

e ad entrare invitavali. In un gruppo

La seguian tutti incautamente, salvo

Euriloco, che fuor, di qualche inganno

Sospettando, restò. La Dea li pose

Sovra splendidi seggi: e lor mescea

Il pramnio vino con rappreso latte,

Bianca farina e mel recente: e un succo

Giungeavi esizial, perchè con questo

Della patria l’oblio ciascun bevesse.

Preso e votato dai meschini il nappo,

Circe batteali d’una verga, e in vile

Stalla chiudeali: avean di porco testa,

Corpo, setole, voce: ma lo spirito

Serbavan dentro, qual da prima, integro.

Veramente, era superfluo che ci soffermassimo su questa scena. In ogni tempo, il gregge d’Epicuro è così numeroso, che non val la pena di disturbare Omero. Apriamo, piuttosto, il Vangelo: ad una festa nuziale, a Cana di Galilea, Gesù compie il suo primo miracolo e santifica l’amore dei giovani sposi. La famiglia è a Lui cara; Egli va, visita, porta gioia e salvezza, in una parola, benedice e sublima l’amore. Il mondo non dev’esser un’immensa stalla di Circe. L’amore deve trionfare nelle case, come pur deve sorridere sulle alte cime, ricoperte di bianca neve.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (14)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (V)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (V)

CATECHISMO POPOLARE O CATTOLICO

SCRITTO SECONDO LE REGOLE DELLA PEDAGOGIA PER LE ESIGENZE DELL’ETÀ MODERNA

DI

FRANCESCO SPIRAGO

Professore presso il Seminario Imperiale e Reale di Praga.

Trad. fatta sulla quinta edizione tedesca da Don. Pio FRANCH Sacerdote trentino.

Trento, Tip. Del Comitato diocesano.

N. H. Trento, 24 ott. 1909, B. Bazzoli, cens. Eccl.

Imprimatur Trento 22 ott. 1909, Fr. Oberauzer Vic. G.le.

PRIMA PARTE DEL CATECHISMO:

FEDE (2)

4. LA SACRA SCRITTURA E LA TRADIZIONE.

1. LA SACRA SCRITTURA O BIBBIA È COMPOSTA DA 72 LIBRI SCRITTI, ALCUNI PRIMA, ALTRI DOPO GESÙ CRISTO, DA UOMINI ILLUMINATI DA DIO SU MOZIONE E PER ISPIRAZIONE, DELLO SPIRITO SANTO E CHE SONO RICONOSCIUTI DALLA CHIESA COME PAROLA DI DIO.

Lo Spirito Santo ha agito su questi autori in modo particolare; li ha spinti a scrivere, li ha diretti e illuminati: per questo ciò che hanno scritto è parola di Dio. Le Sacre Scritture sono state create da Dio (II Tim. III. 16). Questo è chiaro da molte espressioni di Gesù Cristo (Mt XV, 3; Mc XII, 36) e dalle decisioni dei Concili. Il Concilio di Trento (1546) e il Concilio Vaticano (1870) hanno dichiarato espressamente che Dio è l’Autore di tutte le Scritture. È, dice sant’Agostino, come se la mano di Cristo avesse scritto i Vangeli. – La Scrittura è un’epistola di Dio alle sue creature. (S. Grég.) – La Scrittura è come una lettera che il nostro amato Padre ci ha inviato dalla nostra patria. (S. Ant. l’Erm.). Questa lettera ci dice cosa dobbiamo fare per tornare nella nostra patria. ed esservi eternamente felici. È stato lo Spirito Santo a parlare attraverso gli autori della Sacra Scrittura. (S. Agos.) Questi autori erano come una lira suonata dallo Spirito Santo (S. Giustino). Lo Spirito Santo si è servito di essi come il musicista usa l’organo o il flauto (Athénag.). Tuttavia, questi autori non erano strumenti passivi; tutti loro potevano mostrare le loro qualità personali nei loro libri. Erano come i pittori che vedono un edificio alla luce del giorno e lo copiano fedelmente, ma in modo diverso a seconda del loro maggiore o minore talento secondo la varietà degli strumenti a loro disposizione. – La Sacra Scrittura è quindi priva di errori. Tuttavia, dobbiamo prestare attenzione non tanto alle parole quanto al loro significato. (S. Ger.) La verità non è tanto nelle parole quanto nelle cose. (S. Aug.) Non dobbiamo quindi appoggiarci su espressioni come: il sole sorge. – È perché la Sacra Scrittura contiene la parola di Dio che le portiamo sempre grande rispetto; ci alziamo in piedi quando viene letto il Vangelo, giuriamo sul Vangelo; la Chiesa, durante le Messe solenni, fa incensare il Vangelo circondato da accoliti con torce, e lo fa baciare dal Sacerdote. Il Concilio di Trento ha decretato delle sanzioni contro coloro che abusano delle Scritture per scherzi o altri scopi profani (4. Sess.). I Giudei avevano già grande venerazione per la Sacra Scrittura; hanno sopportato il martirio piuttosto che agire in modo contrario alle leggi registrate nei Libri sacri (Giuseppe), per esempio i Maccabei ed Eleazaro.

I 72 LIBRI DELLA SCRITTURA SI DIVIDONO IN 45 LIBRI DELL’ANTICO TESTAMENTO E 27 LIBRI DEL NUOVO TESTAMENTO.

Ciascuna di queste due parti è ulteriormente suddivisa in libri storici, sapienziali e profetici.

Antico Testamento : I libri storici contengono principalmente narrazioni. Si tratta, ad esempio, dei libri di Mosè, che raccontano le origini dell’umanità, le vite dei patriarchi, la storia del popolo ebraico fino al suo ingresso nella Terra Promessa il Libro di Giosuè racconta la conquista; i Libri dei Re raccontano le vicende dei re ebrei; il libro di Tobia contiene la biografia di Tobia durante la prigionia; i libri dei Maccabei sono le prove del popolo sotto Antioco e la loro lotta per la libertà, ecc. – I libri sapienziali contengono generalmente una dottrina edificante. Come ad esempio il libro di Giobbe, che predica la pazienza; i Salmi, ossia 150 inni, composti per lo più da Davide, che venivano cantati nel tempio; il libro dei Proverbi di Salomone. – I libri profetici contengono soprattutto predizioni sul Salvatore: i 4 grandi profeti, Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele, e i 12 profeti minori, Giona, Abacuc, ecc.

Il Nuovo Testamento: I libri storici sono i 4 Vangeli e gli Atti degli Apostoli. – I libri sapienziali sono le 21 Lettere degli Apostoli, di cui 14 di San Paolo. – Il libro profetico, l’Apocalisse (rivelazione di S. Giovanni, che la scrisse durante il suo esilio sull’isola di Patmos). Questo libro è molto difficile da comprendere e descrive i destini della Chiesa. – Per quanto riguarda la lingua in cui sono stati scritti questi libri, bisogna notare che prima di Gesù Cristo sono stati scritti per lo più in ebraico, e quelli scritti dopo Gesù Cristo, per lo più in greco. Una traduzione latina delle Scritture, accuratamente riveduta e corretta da San Girolamo per ordine del Papa (intorno al 400), si è diffusa in tutta la Chiesa ed è quindi chiamata VuIgata, cioè la più diffusa. Il Concilio di Trento la dichiarò la traduzione autentica (ufficiale) del testo primitivo della Scrittura.

I LIBRI PIÙ IMPORTANTI DELLA SCRITTURA SONO I 4 VANGELI DI SAN MATTEO, DI SAN MARCO, DI SAN LUCA E DI SAN GIOVANNI E GLI ATTI DEGLI APOSTOLI DI SAN LUCA.

I 4 santi Vangeli ci raccontano la vita e la dottrina di Gesù Cristo; gli Atti ci raccontano in particolare dell’apostolato dei principi degli Apostoli SS. Pietro e Paolo. –

Il numero quaternario dei Vangeli è un simbolo dei quattro punti cardinali verso i quali il Vangelo deve essere predicato (S. Aug.).

Due di loro erano Apostoli: S. Matteo (dapprima pubblicano) e S. Giovanni, discepolo prediletto del Salvatore, al quale il Salvatore predisse una morte naturale; egli raggiunse un’età molto avanzata e morì come Vescovo di Efeso S. Marco fu discepolo di Pietro; S. Luca, all’inizio medico, fu il primo a morire. Luca, inizialmente medico, fu compagno di San Paolo.

Origine e scopo dei Vangeli. – S. Matteo scrisse il suo Vangelo per gli ebrei della Palestina, in lingua ebraica, quando stava per lasciare quel Paese, vuole dimostrare che Gesù era il Messia atteso, e cita in ogni momento le profezie che si sono realizzate in Gesù Cristo – S. Marco scrisse il suo Vangelo, che è breve, per i fedeli di Roma; esso probabilmente contiene un riassunto delle storie di San Pietro. Marco rappresenta Gesù Cristo come Figlio di Dio. – S. Luca compose il suo Vangelo per un nobile romano, Teofilo, per istruirlo sulla vita e sugli insegnamenti di Gesù Cristo. Il suo libro è senza dubbio un riassunto dei discorsi di San Paolo. Dobbiamo a San Luca ciò che sappiamo della vita della Beata Vergine e le più belle parabole di Nostro Signore. Anche gli Atti degli Apostoli sono indirizzati a Teofilo. – S. Giovanni scrisse il suo Vangelo, quando era molto anziano, per provare contro gli eretici del suo tempo che Gesù Cristo è Dio stesso. Egli riporta principalmente i discorsi pronunciati da Cristo che fanno comprendere la sua divinità.

Epoca della composizione dei Vangeli. – Gli Evangelisti hanno probabilmente scritto nell’ordine in cui i loro libri appaiono nella Bibbia: S. Matteo, intorno all’anno 40;

S. Marco e S. Luca qualche anno prima della rovina di Gerusalemme, cioè prima del 70; S. Giovanni intorno all’anno 90. Ma non furono riuniti in un unico libro fino al II secolo.

LE CARATTERISTICHE INTRINSECHE DEI VANGELI PROVANO CHE ESSI SIANO STATI SCRITTI DAI DISCEPOLI DI GESÙ CRISTO E CHE SIANO VERITIERI. Possiamo dimostrare con le copie, le traduzioni, le citazioni più antiche che nulla sia stato cambiato (È questa la prova dell’autenticità, veridicità, integrità dei Vangeli).

Le caratteristiche intrinseche dei Santi Vangeli ci mostrano che sono stati scritti dai discepoli di Gesù Cristo. Se esaminiamo il testo greco, possiamo vedere che sia stato scritto da ebrei; infatti lo stile presenta molte tracce di ebraismo. Per esempio, si dice: Lé Maestro vide (udì) il rumore (S. Marc, V. 38); chiamano il corpo umano carne (S. Giovanni, YI, 52); l’anima, respiro; la coscienza, cuore (Rom. II 15). Se gli autori fossero stati Greci, non si sarebbero permessi questi ebraismi. – Gli autori scrissero prima della rovina di Gerusalemme (70); essi hanno una conoscenza molto esatta della topografia, delle persone e degli eventi. Scrittori del II sec, cioè di un’epoca in cui Gerusalemme era stata distrutta, in cui tutta la Palestina era stata devastata dalla guerra, non potevano possedere queste nozioni. Inoltre, i primi tre Vangeli non menzionano la presa di Gerusalemme. – Gli autori erano degli illetterati; la loro narrazione è in uno stile semplice, proprio degli uomini del popolo. – Gli autori hanno visto ed ascoltato essi stessi ciò che raccontano; poiché raccontano in modo vivido e pittoresco. Citano i loro stessi nomi. – L’autenticità dei Vangeli si basa anche su prove estrinseche. I più antichi scrittori ecclesiastici parlano di questi Vangeli e ne citano alcuni passi, così come fanno gli eretici. Infine, abbiamo la testimonianza delle chiese più antiche. – Anche le caratteristiche intrinseche dei Santi Vangeli provano la veridicità dei loro autori. Infatti, essi raccontano la storia con calma e spassionatezza (non mostrano né animosità verso i nemici di Cristo, né si stupiscono dei suoi miracoli, ecc.) non nascondono i propri insuccessi; raccontano fatti che avrebbero portato loro persecuzioni, persino la morte (e chi mente a proprio svantaggio?); tutti ci mostrano lo stesso volto di Cristo, anche se scrivono in tempi e luoghi diversi; le apparenti contraddizioni (sull’ora della crocifissione, per esempio, gli Aangeli al sepolcro, il centurione a Cafarnao) mostrano che non fossero tra loro d’accordo; infine, è assolutamente impossibile immaginare un personaggio ideale come quello del Salvatore. – Nel corso dei secoli nulla è stato cambiato nei Vangeli. Tutti i manoscritti (esistono quasi 700 copie del testo originale, molte delle quali risalgono al IV secolo) e tutte le prime versioni (la Peschito in siriaco, l’Itala in latino, del II secolo; la traduzione gotica del vescovo Ulfilas, ora a Upsala, del 370) concordano tutte perfettamente con il nostro testo attuale. Quindi non ci sono stati cambiamenti per diciassette secoli. – Né ci sono stati prima del II secolo, perché a quell’epoca i Vangeli venivano letti durante le assemblee liturgiche (secondo S. Giustino, 138) e lì erano strettamente controllati. Del resto, chi avrebbe potuto corrompere i manoscritti dell’intero universo nello stesso momento e nello stesso modo? – Inoltre, gli scrittori cristiani dei primi secoli riportano così tante citazioni dalla Scrittura che potremmo quasi ricostruire i Libri Santi. Ora, tutte queste citazioni sono conformi al nostro testo attuale. – L’Antico Testamento, in particolare, non avrebbe potuto essere corrotto, poiché era contemporaneamente nelle mani degli Ebrei, i cui scrupoli si spingevano fino a contare le lettere. – Il Dio onnipotente che ha ispirato la Bibbia provvederà anche alla sua conservazione. “Dio, che per 6.000 anni ha preservato la luminosità del sole, ha anche il potere di preservare la fiaccola della fede che ha acceso nei Libri santi. Così come ha creato il sole per i nostri primi genitori, così non di meno ha fatto scrivere la Bibbia solo per i Cristiani primitivi.”. (Deharbe.)

La lettura della Bibbia è lecita per i Cattolici ed anche molto utile; ma la traduzione deve essere approvata dal Papa e corredata di spiegazioni. (Benedetto XIV, 13 giugno 1757.)

“Tutto ciò che è scritto è scritto per la nostra istruzione”. (Rom. XV, 4.) Nella Bibbia impariamo a conoscere Dio con esattezza; vediamo la sua onnipotenza (il racconto della creazione, molti miracoli), la sua sapienza (il governo del genere umano e la vocazione di alcuni uomini in particolare), la sua bontà (l’Incarnazione e la Passione del Figlio di Dio), ecc. Include i migliori esempi di virtù (Abramo, Giuseppe, Mosè, Tobia, Giobbe e soprattutto Cristo), e di conseguenza siamo fortemente stimolati a fare il bene. La Bibbia è quindi come la tromba che suscita il coraggio del soldato (S. Efrem); ci indica la via del cielo, come un faro in mezzo alla tempesta, indica al pilota l’ingresso del porto. – La Bibbia ci mostra le pericolose conseguenze del vizio e ci mette in guardia dal peccato.

(La caduta dei nostri primi genitori, la rovina di Sodoma, il diluvio, la fine deplorevole dei figli di Eli, Assalonne, Giuda, Erode e altri). Vediamo i nostri vizi come in uno specchio e impariamo a correggerci. (S. Ger.) L’amore per le Scritture fa scomparire l’amore carnale. (S. Jer.) La lettura delle Scritture produce anime sante. (S. Jér.) Tutto ciò che l’uomo può trovare altrove utile alla sua salvezza, lo trova nella Bibbia, lo trova in abbondanza e trova anche ciò che non trova da alcun altra parte (S. Aug.). Così pure non si finisce mai di studiare la Scrittura; per quanto la rileggiamo, vi scopriamo sempre cose nuove, perché molti dei suoi passaggi contengono molteplici significati. Secondo S. Efrem, somiglia ad un campo la cui messe non può mai essere completamente raccolta, e quindi non è mai vuoto o deserto, e secondo S. J. Chrys., ad una sorgente sempre viva che sgorga tanto più abbondantemente quanto più vi si attinge. È un pascolo grasso: se assaggiamo spesso ciò che contiene, saremo nutriti e confortati. (S. Ambr.) – Ma chi vuole leggere e capire la Bibbia deve avere dentro di sé la spirito che ha ispirato i suoi autori, altrimenti non riuscirà a penetrare il senso delle parole (S. Bern.). È lo Spirito Santo che deve aprire la loro intelligenza. (S. Luc. XXIV, 45.)

ECCO LE RAGIONI CHE PROIBISCONO DI LEGGERE LA BIBBIA NEL PRIMO TESTO CHE SI PRESENTA:

Le vere Scritture e la loro vera interpretazione si trovano solo nella Chiesa cattolica;

La Bibbia è generalmente molto difficile da capire.

Solo nella Chiesa cattolica si trova la Bibbia nella sua integrità e nella sua esatta interpretazione. (Conc. di Tr. IV); perché è solo agli Apostoli ed ai loro successori, i Vescovi, cioè alla Chiesa Cattolica, che Gesù Cristo ha promesso lo Spirito Santo (S. Giovanni XIV); è solo ad essa che ha promesso che le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. (S. Matth. XVI, 18.) Anche la Bibbia, da cui la Chiesa trae la sua dottrina, non può essere corrotta. Gli eretici, al contrario, hanno distorto la Bibbia in una direzione favorevole ai loro errori ed hanno persino soppresso passi e libri che li infastidivano: Lutero, per esempio, soppresse l’epistola di S. Giacomo perché dice che la fede è morta senza le opere. Nessun Cattolico dovrebbe leggere una Bibbia protestante. – La Bibbia è generalmente difficile da capire. Pochissime persone possono dire di capire le Epistole lette nel sermone domenicale. S. S. Pietro stesso dice delle epistole di San Paolo che sono difficili da capire (Il S. Piet. III, 16). Anche S. Agostino ci dice: ci sono più passaggi che non capisco che quelli che capisco”. Né i profeti né Cristo hanno enunciato tutti i misteri divini in modo tale da essere compresi da tutti. (Clém. d’Al.) Così i dottori pure differiscono nell’interpretazione di uno stesso passo. La Chiesa deve quindi spiegare il significato dei passaggi difficili. “Tutti i codici presuppongono un’autorità che li interpreti nei casi dubbi; l’autorità istituita da Dio per la custodia e l’interpretazione della Bibbia è la Chiesa”. (Deharbe.) È alla Chiesa che Dio ha dato lo Spirito (S. Giovanni, XIV e XVI.). “Allo stesso modo, dice S. Efrem, di un bambino che porti alla madre la noce che ha trovato e le chiede di aprirla per lui, il Cristiano chiede alla Chiesa di spiegargli la Scrittura”. Sta alla Chiesa di decidere il vero significato, di dare l’esatta interpretazione della Scrittura (Conc. di Tr. IV); per questo il fedele deve leggere solo una Bibbia con note approvate, cioè che contenga l’interpretazione della Chiesa.

II. LE VERITÀ RIVELATE DA DIO NON CONTENUTE NELLA BIBBIA, MA TRASMESSE ORALMENTE AI POSTERI SONO CHIAMATE TRADIZIONE.

Gli Apostoli non ricevettero da Cristo l’ordine di mettere per iscritto le sue dottrine, ma di predicarle (S. Matth. XXVIII, 19). Solo pochi tra essi scrivevano e furono costretti a farlo dalle circostanze. Questi scritti sono molto incompleti; essi riportano piuttosto le azioni e i miracoli di Cristo che la sua dottrina. Gli autori sacri dichiarano espressamente di non aver messo tutto per iscritto e di aver comunicato ai fedeli solo oralmente. (II S. Giovanni, II; I Cor. XI, 2.) “Gesù”, dice formalmente San Giovanni alla fine del suo Vangelo, “fece molte altre cose”; e se dovessimo raccontarle in dettaglio, non credo che il mondo non potrebbe contenere i libri che verrebbero scritti su di esse (S. Giovanni XXI, 25.). – Per questo ci rimanda alla tradizione orale.. Attraverso la tradizione orale sappiamo, per esempio, che il Cristo abbia istituito sette Sacramenti, che la domenica debba essere santificata, che ci sia un purgatorio, che sia permesso il Battesimo dei bambini; solo da essa sappiamo quali libri facciano parte della Bibbia, e così via. Quando i protestanti affermano di aderire solo alle Scritture, si contraddicono con la santificazione della domenica; perché la Bibbia parla di santificazione non della domenica, ma del sabato. – Questo è sempre stato osservato in tutta la Chiesa ed è di origine apostolica (S. Vinc. Lér.). Se non troviamo un dogma nella Scrittura, lo troveremo sicuramente attraverso la tradizione. Così come chi ha le tubature che non danno più acqua, risale alla fonte per trovare le tracce del corso d’acqua, allo stesso modo possiamo trovare le prove storiche delle credenze dei secoli passati e sicuramente troveremo le tracce del dogma in questione. (S. Cypr.).

LA TRADIZIONE È REGISTRATA SOPRATTUTTO NEGLI SCRITTI DEI SANTI PADRI, NELLE DECISIONI DEI CONCILI, NEI SIMBOLI E NELLA LITURGIA DELLA CHIESA.

I Santi Padri sono scrittori cristiani dei primi1 secoli che si sono distinti per la loro scienza e la loro santità: il filosofo San Giustino, di Roma, zelante apologeta del Cristianesimo (+ 166); sant’Ireneo, vescovo di Lione (+ 202); San Cipriano, Vescovo di Cartagine (f 258), ecc. – Alcuni di loro erano discepoli degli Apostoli e sono chiamati sacerdoti apostolici: Sant’Ignazio, Vescovo di Antiochia (+ 107), e San Policarpo, Vescovo di Smirne (+ 167), ecc. – Uomini illustri che sono vissuti più tardi sono chiamati Dottori della Chiesa; ci sono 4 grandi Dottori nella Chiesa greca e 4 nella Chiesa latina. I Padri greci sono: S. Attanasio, Vescovo di Alessandria (f 373); S. Basilio, Vescovo di Cesarea in Cappadocia (+ 378); S. Gregorio, vescovo di Nazianzo in Cappadocia (+ 389); S. Giovanni Crisostomo, (bocca d’oro, Vescovo di Costantinopoli (+ 407). I Padri latini sono: S. Ambrogio, Vescovo di Milano (+ 397); S. Agostino, Vescovo di Ippona in Africa settentrionale, (+ 430); S. Girolamo, sacerdote traduttore della Bibbia (+ 420); San Gregorio Magno, Papa e riformatore del canto liturgico (+ 604). – Nel Medioevo ci furono anche 4 grandi dottori: S. Anselmo, Arcivescovo di Canterbury in Inghilterra (+ 1189); S. Bernardo, abate di Chiaravalle grande servitore della Madre di Dio (+ 1153); San Tommaso d’Aquino, domenicano (+ 1274) e S. Bonaventura, francescano (+ 1274) – In epoca moderna, si sono distinti i seguenti personaggi: S. Francesco di Sales, Vescovo di Ginevra (+ 1622); S. Alfonso M. de Liguori, Vescovo di S. Agata presso Napoli, fondatore dei Redentoristi (f 1787). – La Chiesa conferisce il titolo di Dottore ad alcuni studiosi illustri per la loro santità (così anche ai SS. Padri), di cui approva gli scritti; d’altra parte, a studiosi famosi la cui vita o la cui vita o l’ortodossia lasciavano a desiderare, sono chiamati semplicemente scrittori ecclesiastici. Tali erano Origene, il maestro della scuola catechetica di Alessandria (+ 254); Tertulliano, sacerdote di Cartagine (f 240) ecc. Per i Concili, vedi sotto il capitolo sulla Chiesa, per i simboli, il capitolo sulla fede. – Le preghiere liturgiche si trovano nel Messale e nei Rituali che vengono utilizzati per l’amministrazione dei Sacramenti e dei sacramentali. I Messali, ad esempio, dimostrano che si è sempre pregato per i defunti durante la Messa: la conclusione è ovvia.

5. LA FEDE CRISTIANA.

LA FEDE CRISTIANA È LA FERMA CONVINZIONE ACQUISITA PER GRAZIA DI DIO, DELLA VERITÀ DI TUTTO CIÒ CHE GESÙ CRISTO HA RIVELATO E CHE LA CHIESA CATTOLICA CI INSEGNA IN SUO NOME.

Nell’Ultima Cena Gesù Cristo disse ai suoi Apostoli: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue. Anche se dovevano aver visto con i loro occhi che questo è il pane e questo è il vino, erano fermamente convinti della realtà di ciò che Gesù Cristo stava dicendo loro. Infatti, la santità della vita di Cristo, il gran numero dei suoi miracoli, l’adempimento di alcune profezie che aveva fatto, avevano dimostrato agli agli Apostoli l’evidenza della sua filiazione divina e, di conseguenza, l’impossibilità di dubitare della verità delle sue parole. – Abramo aveva ricevuto da Dio prima la promessa e poi il comando di sacrificare il suo unico figlio. Egli non esitò a eseguire l’ordine, fermamente convinto che, nonostante tutto, la promessa di Dio si sarebbe realizzata (Eb. XI, 19; Rm. IV, 9). Paolo chiama la fede una ferma convinzione di ciò che non vediamo (Eb. X, 1).

La fede cristiana è sia una questione di mente che di volontà. Prima di credere, esaminiamo se ciò che dobbiamo credere siaa stato realmente rivelato. Dio vuole questa indagine, perché esige un’obbedienza ragionevole (Rm XII, 1) e si considera uno stolto chi presta fede troppo in fretta e senza esame (Esod. XIX, 4). Ma l’intelletto ha acquisito la certezza che la dottrina proposta sia rivelata da Dio? Se la dottrina proposta è rivelata da Dio, la volontà deve immediatamente sottomettersi alla parola divina, anche se la ragione non la comprende. La volontà può resistere e poi non arriva alla fede. “Non si crede se non si vede”. (S. Agos.)

1. LA FEDE CRISTIANA SI RIFERISCE A MOLTE DOOTTRINE CHE NON CADONO SOTTO I NOSTRI SENSI E CHE LA NOSTRA RAGIONE NON COMPRENDE DA SÉ.

La fede è la ferma convinzione di ciò che non vediamo (Eb XI, l).

Noi crediamo nell’esistenza di Dio e non lo vediamo; crediamo nell’esistenza degli Angeli, che non vediamo. Crediamo nella risurrezione dei corpi, senza capire come avverrà; lo stesso vale per i misteri della S. Trinità, del SS. Sacramento. Queste verità non possono essere comprese o dimostrate direttamente dalla ragione. (Conc. del Vat.). È proprio per questo motivo che la fede sia meritoria e gradita a Dio, come disse Gesù Cristo a san Tommaso: Beati quelli che non vedono, ma credono. (S. Giovanni XX, 29) Anche il B. Clemente Hofbauer ripeteva: Se potessi vedere i misteri della nostra santa Religione con gli occhi aperti, li chiuderei per non perdere i meriti della mia fede.

È UN ERRORE CREDERE CHE PER QUESTO MOTIVO LA DOTTRINA DI CRISTO E DELLA CHIESA SIA IN CONTRADDIZIONE CON LA RAGIONIE O CON LR SCOPERTE DELLA SCIENZA.

Senza dubbio molte verità rivelate, la Trinità, l’Incarnazione, la Presenza Reale, sono in contraddizione con la ragione.(Conc. del Vat.) Dio è la fonte delle verità rivelate. e delle verità razionali; e Dio non può contraddirsi. L’apparente contraddizione deriva da una falsa nozione di dogma, da una mancanza di riflessione. (Conc. del Vat. 3, 4) Bacone diceva quindi giustamente: “Un po’ di filosofi allontana da Dio, molta filosofia riconduce a Lui”. Allo stesso modo, il poeta Weber ha detto: “La mezza scienza porta al diavolo, la scienza completa porta a Dio”. La fede non contraddice le conclusioni della scienza più di quanto lo faccia la ragione. Infatti, come può essere che proprio i più grandi scienziati, che hanno meglio meritato per l’umanità con le loro invenzioni, fossero in genere di fede e pietà infantili: Newton, Keplero, Copernico, Linneo, ecc. e recentemente Pasteur, quello scienziato così famoso per le sue scoperte in campo medico, che sul letto di morte ha reso omaggio alla fede ricevendo devotamente i sacramenti (1895), anche lui dichiarò che attraverso i suoi studi, aveva raggiunto il livello di un contadino bretone. Non bisogna dimenticare che che le scienze naturali sono in parte costituite da ipotesi che, come la moda, scompaiono per essere sostituite da altre. In queste condizioni, come può esserci contraddizione tra scienza e fede? Prendiamo l’esempio delle teorie sul sole. Nell’antichità, la scienza considerava il sole come una massa di ferro (Anassagora) o di oro fuso (Euripide); in epoca moderna, come un grande fuoco (Kant). Da allora, per quasi mezzo secolo, la scienza è stata dell’opinione che la massa solare fosse oscura, forse addirittura abitata, e che sia circondata da un’atmosfera di gas luminosi. Si dice che le macchie solari siano cime di montagne (Herschell). Dal 1868, è stato accettato che l’intera sostanza solare sia gassosa e di bassa luminosità ed alta temperatura provenienti dall’interno del Sole, che costituirebbero le macchie (L’astronomo francese Fay e l’italiano Secchi). Ma quando l’analisi spettrale ha mostrato che queste macchie sono masse collassate e raffreddate, sono state elaborate nuove teorie. Lo stesso vale per molte delle conclusioni delle scienze naturali! E sono proprio questi sistemi che sarebbero in contraddizione con la Religione! Che ridicolo! Non dimentichiamo che, ad eccezione del racconto della creazione e del diluvio, scienza e religione non hanno alcun punto di contatto.

2. AGIAMO IN MODO MOLTO RAZIONALE QUANDO CREDIAMO, BASIAMO LE NOSTRE CREDENZE SULLA VERIDIVITA DIVINA E SAPPIAMO ANCHE PER CERTO CHE LE VERITÀ DI FEDE SIANO RUVELATE DA DIO.

Una persona miope agisce in modo molto razionale quando crede che uno dei suoi compagni con la vista acuta vede che c’è un palloncino in aria, anche se non lo vede. Il cieco crede a un uomo di buona vista che su una carta geografica siano state segnate città, fiumi e montagne, anche se non può vederli né toccarli. Tutti crediamo nell’esistenza di Parigi, Roma e Londra, forse senza esserci mai stati e senza alcuna speranza di andarci. Un re negro dei tropici crede ai missionari che gli dicono che in inverno l’acqua indurisce nel loro Paese e forma un ponte sui fiumi, anche se non può rappresentarsi questo fenomeno. Tutti loro, però, agiscono in modo scientifico; il motivo è ovvio. Eppure si agisce in modo ancora più scientifico quando si crede in Dio; perché gli uomini possono ingannarsi e mentire, Dio no. È quindi Dio il fondamento della nostra fede. – Va da sé che questo presuppone la certezza della realtà della rivelazione di Dio della verità che dobbiamo credere. Questa certezza è in possesso del credente, perché Dio l’ha dimostrata con numerosi fatti divini, in particolare miracoli e profezie (di cui parleremo più avanti) che è Lui a rivelare la verità che dobbiamo credere, che è Lui l’autore della fede. “I buoni troveranno sempre un motivo sufficiente per credere, mentre i malvagi, da parte loro, troveranno sempre scuse per non credere. (Caterina Emmerich). – Noi riponiamo la nostra fede nella parola di Cristo perché Egli è Figlio di Dio, e quindi incapace di sbagliare e di ingannare, e perché ha dimostrato con i miracoli che la sua dottrina sia vera. Sarebbe una blasfemia, dice Agostino, supporre che il nostro Maestro, che è la verità stessa, abbia mentito anche solo in un singolo punto. Se, dunque, crediamo nella parola di Cristo, abbiamo una certezza maggiore che se la percepissimo attraverso i nostri sensi. B. Clém. Hofbauer disse davanti ad un quadro: “Credo più fermamente in un Dio in tre Persone che nell’esistenza di questo quadro su questa parete, perché i miei sensi possono ingannarmi, Dio no. – Cristo stesso si appellava ai suoi miracoli per dimostrare la verità della sua dottrina. Se, dice, (S. Giovanni X, 38) non credete a me (cioè alle mie parole) credete alle mie opere. – Crediamo negli insegnamenti di Cristo. Crediamo nell’insegnamento della Chiesa, perché Gesù Cristo la governa per mezzo dello Spirito Santo e la preserva dall’errore; perché ancora oggi Dio testimonia con i miracoli che la Chiesa Cattolica insegna la verità. Gesù Cristo disse ai suoi Apostoli prima della sua ascensione: “Io sono con voi fino alla fine del mondo”. (S. Matth. XXVII1, 20); e già nell’ultima cena aveva detto: “Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre”. (S. Giovanni XIV, 16). Come il giorno della Pentecoste lo Spirito Santo è ancora nel Cenacolo, cioè nella Chiesa. – Dio ancora opera miracoli nella sua Chiesa nel nostro tempo: gli innumerevoli prodigi che si compiono a Lourdes e quelli su cui si basano i processi di canonizzazione; i corpi intatti dei Santi: Santa Teresa (f 3582) nel Convento delle Carmelitane di Avila, Santa Elisabetta del Portogallo (f 1336) presso le Clarisse a Coïmbra, San Saverio (+ 1552) a Goa Goa, Santa Caterina da Bologna (+ 1463) presso le Clarisse di quella città, San Giovanni della Croce (+ 1591) a Segovia, Santa Maria Maddalena dei Pazzi (+ 1607) a Firenze, la B. Eletta a Praga (+ 1663) nel convento delle Carmelitane. La lingua di San Giovanni Nepomuceno è intatta (da 500 anni si espone a Praga il 25 maggio per 8 giorni) come quella di Sant’Antonio da Padova. Il braccio destro di Santo Stefano d’Ungheria (f 1038), è anch’esso conservato intatto nella cappella di S. Sigismondo nel castello di Ofen. Tuttavia, questi corpi non erano imbalsamati; la maggior parte ha trascorso molti anni nel terreno per molti anni e non hanno mai emanato il minimo odore. Non sono rigidi, ma duttili. Il miracolo di S. Gennaro a Napoli è noto in tutto il mondo. Il sangue in due fiale del sangue del Vescovo S. Gennaro di Benevento, decapitato sotto Diocleziano nel 305. Appena portate queste due fiale insieme al sangue coagulato della testa del Santo contenute in reliquiari d’argento, il sangue comincia a liquefarsi e a bollire. Lontano dalla testa, si coagula di nuovo. Questo miracolo può essere visto più volte all’anno e dura da secoli; ha prodotto molte conversioni di dissidenti, anche di prelati luterani. La fede cristiana è quindi più certa della percezione dei sensi, della vista, ecc., più certa della conoscenza razionale. I nostri sensi e il nostro ragionamento possono ingannarci, ma non Dio: il nostro occhio, per esempio, vede la terra come un disco relativamente piccolo, l’arcobaleno come una materia colorata, il cielo come una materia colorata, il bastone immerso nell’acqua come spezzato. La nostra ragione, turbata dal peccato originale, ci inganna come l’occhio. Proprio come vediamo meglio con un telescopio che ad occhio nudo, meglio alla luce del sole che a quella di una lampada, conosciamo meglio grazie alla fede che con la ragione, – non bisogna confondere il credo con il “sembra”; l’opinione è una scienza senza certezza, la fede è una scienza certa basata sull’infallibilità di Dio.

3. LA FEDE CRISTIANA SI ESTENDE A TUTTE LE DOTTRINE DELLA CHIESA CATTOLICA.

Rifiutare di credere in una sola dottrina della Chiesa significa non avere fede. Infatti, chi ammette alcune parole di Gesù Cristo o della Chiesa e ne rifiuta altre, cessa di credere che Gesù Cristo sia il Figlio di Dio e governi la Chiesa cattolica.

La fede di un tale uomo è come una casa traballante. Avrebbe una fede senza valore chi dicesse: Credo a tutta la dottrina cattolica, ma non all’infallibilità del Papa, cioè quel particolare aiuto dello Spirito Santo concesso al Papa per effetto del quale egli non può né sbagliare né ingannare nelle solenni decisioni dottrinali che egli dà come capo supremo della Chiesa. Quale temerarietà da parte di una creatura di agire con Dio come con un mercante fraudolento di cui non ci fidiamo e da cui rifiutiamo certi beni “Che follia”. La ragione umana, così miope, si erge a giudice di Dio e della Rivelazione e la convoca al suo tribunale. È così per la fede come per certi fenomeni naturali: una campana perde il suo suono per la minima incrinatura; il corpo è malato quando un solo arto soffre, una nota falsa disturba l’armonia; un granello di polvere nell’occhio offusca la nostra visione. Se si rifiuta un solo articolo di fede, la fede viene distrutta. S. Giacomo dice, a proposito della legge, che la trasgressione di un punto rende l’uomo colpevole contro tutta la legge (S. Giacomo VI, 12) si può dire allo stesso modo della fede: Chi rifiuta un solo articolo di essa pecca contro tutti. – Quindi non si può dire che gli eretici possiedano la fede cristiana; il vino artificiale non è tanto vino quanto la fede. La loro fede non è la fede cristiana. Tuttavia, poiché anche gli eretici affermano di avere la fede cristiana, chiamiamo vera fede cristiana, che esiste solo nella Chiesa cattolica, la fede cattolica.

È NECESSARIO CREDERE A TUTTI GLI INSEGNAMENTI DELLA CHIESA CATTOLICA, MA PER ESSERE SALVATI NON È NECESSARIO CONOSCERLI TUTTI NEL DETTAGLIO.

Tuttavia, un cristiano Cattolico deve almeno sapere che c’è un Dio e che questo Dio giudicherà tutti gli uomini in modo giusto; che in Dio ci sono tre Persone e che la seconda Persona si è fatta uomo e ci ha salvato.

Per avvicinarci a Dio”, dice San Paolo, “dobbiamo prima credere che c’è un Dio e che Egli ci ricompensa coloro che lo cercano. (Ebr. XI, 6) La conoscenza, della SS. Trinità non era necessaria prima della venuta di Gesù Cristo, ma era necessario avere una nozione almeno confusa del Redentore. (Lehmkuhl, gesuita tedesco autore di un trattato sulla morale molto apprezzato). Ora è diverso, soprattutto per i Cristiani. Chi ignora queste due verità essenziali non è ammesso né al Battesimo né all’assoluzione; un’eccezione sarebbe possibile soltanto per i moribondi, ai quali mancherebbe il tempo per l’istruzione.

Coloro che hanno la possibilità di conoscere la fede cristiana sono tenuti a conoscere anche: il testo e il significato del Simbolo degli Apostoli, i Comandamenti di Dio e della Chiesa, i punti importanti dei Sacramenti ed il Padre Nostro.

Sono quindi tenuti a conoscere i punti fondamentali del loro Catechismo; Questa è la prescrizione della Chiesa.

4. LA FEDE CRISTIANA È UN DONO DI DIO, PERCHÉ LA FACOLTÀ DI CREDERE VIENE DALLA SOLA GRAZIA.

La fede è un dono di Dio (Ef. II, 8); “Nessuno viene a me”, dice Gesù Cristo, “se non gli viene data dal Padre mio.” (S. Jean VJ, 66) Dio ci dà la fede dal Battesimo, che per questo è chiamato Sacramento della fede. (Conc. di Tr. VI, 7). Egli ci concede infatti, contemporaneamente alla grazia santificante, la facoltà di credere, o la virtù della fede. Finché il battezzato non abbia raggiunto l’età della ragione, non può avvalersi di questa facoltà, e non può tradurre la sua fede in atto. Questa attività non si produce che nell’età della ragione sotto l’influenza della grazia e dell’istruzione religiosa. – Lo stesso vale per il senso della vista nel neonato; finché il suo occhio non è aperto, la sua facoltà visiva non agisce. Ma non appena l’occhio si apre, vedrà, sotto l’influenza della luce, gli oggetti che colpiscono la sua vista. – Il peccatore1 (che ha perso la fede) recupera questa virtù attraverso la penitenza; ma poiché Dio non dà la grazia agli adulti senza la loro cooperazione (Conc. de Tr. VI, 7) il peccatore (i peccati, eccetto quelli contro la fede, lasciano sussistere la virtù della fede come virtù informe) è obbligato a prepararsi ad essa.

Dio concede la grazia della fede soprattutto a coloro che 1° desiderano conoscere la verità; 2° che conducono una vita morale 3° che gli chiedono la grazia della vera fede.

Chi aspira seriamente alla verità arriverà sicuramente alla fede. “Beati quelli – dice Gesù Cristo -che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati”(S. Matth. V, 6); Dio aveva già detto in Geremia (XXIX, 14): “Se mi cercate con tutto il cuore mi troverete” . Giustino il filosofo (+ 166) provò la verità di queste parole; sulle rive del Tevere incontrò un anziano che lo fece avvicinare al Cristianesimo e lo convertì. – La seconda via della fede è una vita pura. Le buone azioni attirano la grazia di Dio e, di conseguenza, l’illuminazione della mente: “Se uno – dice Gesù Cristo, – vuole fare la volontà di Dio, saprà se la mia dottrina viene da lui o se parlo da me stesso” (S. Giovanni VII, 19). Tommaso d’Aquino pensa che anche un selvaggio, che vive nelle profondità delle foreste e con bestie feroci, che secondo i lumi della sua ragione facesse il bene ed evitasse il male, otterrebbe da Dio la grazia della fede, o per mezzo di un’illuminazione interiore o per l’invio di un messaggero celeste (Angelo o missionario). È così che Dio, nella persona di san Pietro, inviò un messaggero a Cornelio, il centurione pagano (At. Ap. X). – Infine, la via più sicura per la fede è la preghiera, come disse Gesù Cristo: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto”. (S. Matth. VII., 8). Il conte protestante Fréd. de Stolberg, (+ 1819) ottenne la fede dopo 7 anni di preghiera e divenne un famoso scrittore cattolico. (Mehler VI, 294). – Nella sua misericordia Dio spesso dona la fede anche a nemici della Religione cristiana. (Conversione di S. Paolo). Ma Egli non dà questa grazia straordinaria che a coloro che hanno aderito all’errore con una retta intenzione. (S. Alf.)

Per dare la grazia della fede, Dio si serve o di un mezzo ordinario, come la predicazione, o di un mezzo straordinario, come il miracolo.

Oltre alla predicazione, i mezzi ordinari comprendono la lettura di libri religiosi, e l’istruzione da parte dei semplici fedeli. S. Agostino giunse gradualmente alla fede attraverso i sermoni di Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano; Sant’Ignazio di Loyola, attraverso la lettura delle vite di Nostro Signore e dei Santi (Mehler I 191); il filosofo S. Giustino il martire, attraverso le lezioni di un vecchio sulle rive del Tevere. – Dio ha usato mezzi straordinari all’inizio del Cristianesimo, e spesso anche oggi. I pastori di Betlemme furono avvertiti da un Angelo della nascita del Salvatore; i Magi furono portati a Cristo da una stella straordinaria, San Paolo da una voce miracolosa e da una luce dal cielo (Atti IX); il carceriere di Filippi per lo scuotimento e l’apertura della prigione (Atti XVI, 16); Costantino il Grande per l’apparizione di una stella luminosa e di una luce dal cielo (a. 312); il famoso missionario Alph. Ratisbonne, un ricco banchiere ed ebreo alsaziano che si convertì grazie a un’apparizione della Beata Vergine nella chiesa di Sant’Andrea a Roma nel 1842 (Mehler I, 20); il poeta incredulo, Clemente Brentano (+ 1842), che in seguito pubblicò le visioni della veggente, Cath. Emmerich, si convertì perché la Provvidenza lo condusse sul letto di morte di lei; l’avvocato parigino cieco Henri Lasserre, il futuro storico dei miracoli di Lourdes, si convertì grazie alla guarigione dei suoi occhi con l’acqua di Lourdes nel 1882. Anche un giovane pagano, Teofilo, si è convertito miracolosamente grazie al martirio di Santa Dorotea (398). Per ironia della sorte, le aveva chiesto di inviargli fiori e frutti dal giardino del suo fidanzato celeste; ed in effetti, dopo l’esecuzione della Santa, fiori e frutti caddero ai suoi piedi; egli si convertì immediatamente e fu martirizzato.

Molti uomini non arrivano mai alla fede cristiana perché mancano di buona volontà e sono troppo orgogliosi.

Molti uomini non credono perché mancano di buona volontà. (S. Aug.) Come Dio dà a tutti la luce del sole, così vuole dare a tutti la luce della fede. (S. Aug.) Cristo, luce del mondo, illumina con lo Spirito Santo ogni uomo che viene in questo mondo. (S. J. I,9.) Ma alcuni uomini rifiutano questa luce; non vogliono credere per non cambiare la loro vita malvagia. Preferiscono le tenebre alla luce, (S. Giovanni III, 19) e così peccano contro lo Spirito Santo. “Se chiudete gli occhi non vedrete nulla”, dice sant’Eutimio, “ma né la luce né gli occhi ne saranno la causa, sarà la vostra volontà” Così agivano i farisei al tempo di Gesù Cristo. – Gli orgogliosi non arrivano alla fede; ecco perché: è il modo di Dio usare mezzi molto semplici per portare le persone alla fede. Lo scandalo che ne prendono i superbi è un ostacolo alla fede. Cristo è apparso nell’abiezione e nella povertà, e volle venire apposta dalla disprezzata città di di Nazareth. “Che cosa può venire di buono da Nazaret? ( S. Giovanni IV, 46), e disprezzarono gli insegnamenti del Messia. Al popolo romano, così fiero, Dio inviò come messaggeri della fede i Giudei, sudditi conquistati e privi di cultura. Ad Erode ed ai principi dei sacerdoti, Dio mandò deliberatamente dei pagani, i 3 Magi, per annunciare la nascita di Cristo. È ancora oggi lo stesso; si lascia la sua Chiesa, dispensatrice di verità, in uno stato di oppressione, di persecuzione. Il tesoro della parola divina è sepolto in un campo ordinario (S. Matth. XIII, 44). Non dobbiamo quindi stupirci se i superbi1 siano confusi. Dio nasconde i suoi misteri ai sapienti ed ai prudenti del mondo (ibid XI, 25), Egli resiste ai superbi (I. S. Pierre. V, 5).

5. LA FEDE CRISTIANA È CONDIZIONE NECESSARIA ALLA SALVEZZA.

La fede assomiglia alla radice dell’albero; come l’albero non può vivere senza radici, così il Cristiano non può vivere senza radici. Senza radici, anche il Cristiano non può senza la fede arrivare alla vita eterna (S. Bern.).

La fede è l’inizio della salvezza, il fondamento e la radice di ogni giustificazione. (Concilio di Tr. VI, 8) La fede è come la chiave che apre le riserve della speranza, carità e delle opere buone (Alban Stoltz). Inoltre, in che considerazione è la grazia della fede! Il pio Alfonso il Saggio, re di Castiglia, era solito dire: Ringrazio incessantemente Dio, non per avermi fatto re, ma per avermi fatto Cattolico: non c’è salvezza al di fuori della fede. Allo stesso Mosè fu rifiutato l’ingresso nella Terra Promessa perché aveva avuto dei dubbi. Chiunque che non crede (S. Marco, XVI, 16), sarà condannato. Chiunque in questa vita non cammina bella fede non raggiungerà la visione nella prossima. (S. Agos.) Senza la fede è impossibile piacere a Dio (Ep. Ad Ebr. XI, 6). S. Pietro sprofondò nell’acqua appena cominciò a dubitare (S. Matth. XIV, 30), e va nell’abisso chi perde la fede. Questa virtù è come una nave: senza di essa non si può attraversare l’oceano, e senza la fede non si può entrare nel porto della salvezza. È anche come la colonna di fumo che guidò gli israeliti attraverso il deserto (Giustino) fino alla Terra Promessa, o alla stella che indicò ai Magi la strada per Betlemme. – Senza fede non ci sono opere meritorie. L’albero senza radici è sterile e l’uomo senza fede non può produrre opere buone (soprannaturali). È una follia immaginare che non importi se si creda o meno, che basta vivere, perché senza la fede è impossibile condurre una vita onesta. nel vero senso della parola. Tuttavia, non intendiamo dire che tutte le azioni che non derivino dalla fede soprannaturale siano peccati; questa è una proposizione condannata da Alessandro VIII. E ciò che diciamo delle opere buone, dobbiamo dirlo delle virtù. È impossibile costruire un edificio materiale senza fondamenta, come è impossibile costruire un edificio di virtù e perfezione senza fede. (S. Bonav.) Al contrario, la vera fede dà l’impulso alle buone opere e alle virtù cristiane. La radice non rimane isolata, ma fa crescere i germogli e la fede produce le opere buone. La fede nella ricompensa dà all’uomo la forza di fare il bene. La fede incrollabile nella risurrezione ha rafforzato i fratelli Maccabei e tutti i martiri, la generosità di Tobia e di altri santi. La fede al momento delle tentazioni allontana il peccato (Giuseppe in Egitto). Il faro fa il pilota attenti agli scogli e lo protegge dal naufragio. La fede ci rende consapevoli della morte eterna a cui siamo precipitati a causa del peccato. La fede, dice San Paolo, è uno scudo contro il quale si spengono tutti i dardi infuocati di satana (Ef. VI, 16) e che ci copre, aggiunge San Bonaventura, come lo scudo copre i combattenti. I fedeli assomigliano (S. J. Chrisost.) a un uomo posto su un’alta torre, dove è al sicuro dalla sorpresa e può difendersi meglio. La fede ci difende dalle tentazioni della disperazione; è un capitale di riserva segreto i cui interessi si riscuotono nel momento del bisogno (Goethe). La misura della nostra fede è anche la misura delle grazie che Dio ci concede, come le guarigioni che ha operato Gesù Cristo. Una fede più viva ha ottenuto una guarigione più veloce. Era la fede la prima cosa di cui Cristo si preoccupava, era la fede che lodava quando diceva: la tua fede ti ha salvato. (S. Matth., IX, 22).

6. LA SOLA FEDE NON BASTA PER ESSERE SALVATI; BISOGNA VIVERE SECONDO LA FEDE E PROFESSARLA PUBBLICAMENTE.

La nostra fede deve essere viva, cioè deve produrre opere buone. “Non tutti quelli che mi dicono: “Signore, Signore” entreranno nel regno dei cieli; ma vi entrerà solo chi farà la volontà del Padre mio che è nei cieli” (S. Matth. VII, 21). Chi non ha fatto opere di misericordia sarà condannato da Cristo all’ultimo giudizio” (ibid. XXV, 41). La sua fede somiglia a quella degli spiriti maligni che credono ma fanno il male (S. Giac. II, 19). La fede che non produce opere buone non è, a rigore, una vera fede. La fede è vera solo quando non si contraddice con le opere ciò che si professa con la bocca. (S. Greg. M.). Il corpo senza anima è un cadavere; la fede senza opere è morta. (S. Giac. II, 26.) La fede senza opere è un albero senza frutto (S.. Chrysost.), una vite sterile (S. Cir. Al.), un pozzo senza acqua, una lampada senza olio, una mandorla senza nocciolo, (S. Greg. M.) Assomiglia ad un uomo ricco che non usa il suo capitale e che muore di fame nonostante i suoi soldi (Mons. Zwerger), ad un viaggiatore che vede la sua meta davanti a sé, ma è troppo pigro per avvicinarsene. – Un semplice atto di Battesimo non è quindi sufficiente per essere salvati. – Le opere meritorie per il cielo, perché queste sono le uniche opere buone, possono essere compiute solo da chi ha la carità, cioè la grazia santificante (vedi il capitolo sulla grazia e le opere buone). Ne consegue che solo la fede unita alla carità portano alla salvezza. Così San Paolo diceva: “Se avessi fede da spostare le montagne e non avessi la carità, non sarei nulla (I. Cor. XIII, 2). Il fedele che non ha avuto la carità sarà dunque dannato. – È inoltre necessario che noi professiamo la nostra fede esteriormente: “perché per essere giustificati bisogna credere di cuore e confessare la propria fede con parole per essere salvat” (Rm X, 10). Si perde poco a poco la conoscenza di una lingua trascurando di usarla; e perdiamo la vita della fede non portandola alla luce attraverso la testimonianza pubblica. (Deharbe.) La fede si perde presto senza la pratica (S. Amb.) L’uomo è composto da un corpo e da un’anima, quindi il culto di Dio deve essere non solo interiore ma anche esteriore.

La natura stessa ci spinge a rivelare ciò di cui siamo interiormente convinti. Coloro che non hanno confessato la loro fede sentiranno il giudizio di Dio: ” Vi dico in verità, Io non vi conosco”. (S. Matth. XXV, 12.) Parleremo più avanti in modo più esplicito della professione di fede.

6. I MOTIVI DELLA FEDE.

1. I MOTIVI PRINCIPALI CHE CI INDUCONO A CREDERE SONO LE PROFEZIE ED I MIRACOLI, PERCHÉ ATTRAVERSO DI ESSI OTTENIAMO LA CERTEZZA ASSOLUTA CHE UNA VERITÀ SIA STATA RIVELATA DA DIO.

In ultima analisi, la veridicità divina è il fondamento della fede; perché accettiamo le verità da Lui rivelate, perché sappiamo che non può ingannare né se stesso né noi. Ma nessun uomo ragionevole ammetterà come divina una verità finché non sappia con certezza che Dio l’ha rivelata. Ecco perché i fatti con i quali Dio certifica di aver parlato sono per noi il motivo principale e la condizione assolutamente indispensabile della fede. Gli Apostoli hanno creduto senza esitare alle parole dell’Ultima Cena: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, perché avevano visto con i loro occhi gli innumerevoli miracoli di Gesù Cristo e perché avevano visto realizzarsi molte delle predizioni di Cristo e dei profeti. 3000 Giudei si convertirono alla fede cristiana il giorno di Pentecoste, alla vista del miracolo delle lingue; altri 2000 alla vista mel miracolo sotto il portico del tempio. I pagani accettarono la fede a causa dei miracoli con cui Dio accompagnò la predicazione degli Apostoli. S. Paolo si è convertito solo grazie al miracolo sulla via di Damasco e Costantino dalla croce che brillava nel firmamento. Quanti uomini si convertirono quando, nell’anno 70, videro realizzarsi la profezia di Gesù Cristo sulla rovina di Gerusalemme! Quanti altri quando videro nel 361 il compimento di un’altra profezia nel fallimento della ricostruzione del tempio! – Ci sono ancora altri motivi di credibilità: il grande numero e la costanza dei martiri; la meravigliosa e perpetuità del Cristianesimo, le quattro note della Chiesa. “La Chiesa stessa è un solido e costante motivo di credibilità (Conc. Vatic. III, 3): basta considerare la sua durata e la sua espansione in mezzo alle persecuzioni. I motivi di credibilità non agiscono tutti allo stesso modo su tutti gli uomini. Alcuni sono toccati dalla costanza dei martiri, altri dalla santità di un predicatore; uno da un miracolo, un altro dalle punizioni che i persecutori del Cristianesimo hanno subito. (S. Aug.)

La maggior parte dei miracoli avveniva all’inizio del Cristianesimo, perché allora erano necessari per la diffusione del Cristianesimo.

Dio è come un giardiniere che innaffia le piante quando sono piccole. Finché la Chiesa era piccola, Dio la innaffiava con il dono dei miracoli (S. Gregorio M.).

2. I MIRACOLI SONO DELLE OPERE STRAORDINARIE CHE NON POTEVANO ESSERE PRODOTTE DA ALCUNA FORZA NATURALE, MA CHE SONO STATE REALIZZATE DALL’AZIONE DI UNA POTENZA SUPERIORE.

Ciò che chiamiamo straordinario è ciò che ci riempie di stupore, perché non l’abbiamo ancora visto o sentito, o perché non riusciamo a spiegarlo. Una ferrovia o un battello a vapore stupirebbero chiunque li vedesse per la prima volta. Siamo stupiti dal fonografo che riproduce i discorsi, brani di musica, ecc. con il loro timbro, e che permetterà di ascoltare le voci di uomini illustri, anche dopo secoli. Tuttavia, tutte queste straordinarie invenzioni non sono miracoli, anche se la loro vista ci fa gridare allo stupore. Questi risultati sono ottenuti con mezzi naturali, con le forze della natura. Solo quegli avvenimenti sono miracolosi e non si possono essere ottenuti con le forze della natura. La resurrezione di un uomo morto, per esempio, è un miracolo, qualcosa che di solito non accade, quindi è una cosa straordinaria. In secondo luogo, gli scienziati e gli operatori più illustri non sono in grado di riportare in vita una persona morta con le forze conosciute della natura. È quindi richiesto l’intervento di un agente superiore. – I miracoli sono deviazioni (fenomeni straordinari) dal corso ordinario della natura; sembrano contraddire le leggi ordinarie naturali, ma non è così. Le leggi della natura non vengono soppresse, la loro azione è semplicemente ostacolata dall’intervento di un’altra forza. Se un libro cade e la mia mano lo tiene, la legge di gravità non viene soppressa; qualcosa di simile accade nel miracolo, ma non possiamo vedere la forza che interviene.

Ci sono miracoli veri, che possono essere grandi o semplici, e miracoli apparenti.

I grandi miracoli sono eventi straordinari che, in qualsiasi circostanza non possono essere l’effetto di cause naturali; per esempio, la resurrezione di un morto, l’incorruttibilità e la morbidezza duratura di un cadavere. I miracoli semplici sono eventi straordinari che non potrebbero assolutamente essere prodotti da cause naturali, ma che nelle circostanze date sarebbero stati impossibili, per esempio la guarigione di un malato con una semplice parola, la conoscenza improvvisa di una lingua straniera. – I miracoli apparenti sono le cose straordinarie che il demonio produce con cause naturali, in modo così abile da ingannare i nostri sensi. (Noi crediamo la realtà di qualcosa che in realtà non c’è). I miracoli apparenti sono come i trucchi dei prestigiatori (ingoiare spade, sputare monete d’oro, ecc.). con la differenza che i demoni superano di gran lunga questi prestigiatori in intelligenza ed abilità. Tali sono i miracoli compiuti con l’aiuto del diavolo dai maghi del Faraone che imitavano i miracoli di Mosè (Esodo VII, 11); da Simone il mago (Act. Ap. VIII, 9). Anche l’Anticristo (II. Tessal. II. 8) opererà apparenti miracoli attraverso l’uso di mezzi naturali (S. Th. d’A.). Allo stesso modo si potrebbero spiegare le presunte sparizioni delle vittime sugli altari dei pagani, la presunta metamorfosi di Ifigenia in cervo, ecc.

Dio produce i miracoli reali solo per la sua gloria e soprattutto come prove della verità.

Dio produce miracoli per i seguenti motivi: per provare la missione divina dei suoi inviati e la verità della loro dottrina; per rivelare la verità della loro dottrina.; per rivelare la santità di una persona deceduta; o per rivelare la sua bontà e la sua giustizia. Dio non può permettere che i miracoli sostengano l’errore. –

Tutti i documenti di autorità hanno un sigillo che ne conferma l’autenticità. Anche Dio ha un sigillo con cui conferma l’origine divina di una cosa. Questo sigillo è il miracolo. Esso ha anche il vantaggio di non poter essere contraffatto. (Abel.). Cristo si è spesso appellato ai suoi miracoli per dimostrare la divinità della sua missione (S. Matth., XI, 4-5; S. Giov. X, 37). Un membro del Direttorio, Laréveilière-Lépeaux, dopo molti studi, aveva immaginato una nuova religione, la Teofilantropia, ma non era riuscito a conquistare seguaci. Egli se ne lamentava con Talleyrand, che gli rispose: “Non mi sorprende il vostro fallimento. Vuoi avere successo? Guarisci i malati, risuscita i morti, fatti crocifiggere e risuscita il terzo giorno. Laréveillère se ne andò confuso. In effetti, i messaggeri di Dio hanno l’obbligo di essere accreditati da miracoli. Dio dimostra anche la divinità della vera Chiesa con i miracoli. (vedi sotto). – Dio dichiara anche la santità dei morti con veri e propri miracoli. Così i miracoli si verificano nelle tombe dei Santi (sulla tomba di Eliseo, IV Re, XIII), nei loro corpi (la loro incorruttibilità) e per loro intercessione. – La Chiesa richiede almeno due miracoli dopo la morte per dichiarare una persona Beata; ne richiede di nuovi per la canonizzazione. Nell’Antico Testamento i Santi hanno compiuto più miracoli durante la loro vita e meno dopo la loro morte; l’opposto è vero nel Nuovo Testamento, ecco perché la Chiesa richiede questi miracoli dopo la morte per la canonizzazione (Ben. XIV). – I veri miracoli servono anche a rivelare la bontà e la giustizia di Dio: ad esempio il miracoloso attraversamento del Mar Rosso e del Giordano degli Israeliti, la manna e l’acqua dalla roccia nel deserto; il diluvio, la pioggia di fuoco e dii zolfo su Sodoma, la morte improvvisa di Anania e Zaffira. I miracoli spesso erano punizioni; servivano a strappare gli israeliti dalle mani degli Egiziani, per mantenerli obbedienti nel deserto, a rivelare ai popoli vicini di Israele la gloria del Dio di Israele. Nel Nuovo Testamento non vediamo miracoli come pena, a parte il disseccamento del fico. Dio cerca piuttosto di ispirare amore. I miracoli dell’A.-T. erano più grandiosi, quelli di Cristo lo sono meno, ma hanno un significato più profondo ed intimo Nell’AT, le acque del Giordano si alzano come due muri per far passare gli Ebrei. Nel Nuovo Testamento questo miracolo è correlato al calmarsi della tempesta, meno grandioso, ma che rappresenta con un simbolismo più perfetto la fine delle persecuzioni ed i trionfi della Chiesa; nell’Antico Testamento, Dio nutre il suo popolo nel deserto con la manna, nel N. moltiplica due volte i pani per diverse migliaia di uomini; nell’AT. vediamo la colonna di fuoco abbagliante nel deserto, nel N. è una luce tranquilla che illumina i campi di Betlemme. – Dio non fa mai veri miracoli a favore dell’errore, perché essi sono sempre un segno dell’operazione divina ed una prova della verità. Se il diavolo fosse in grado di compierli, Dio approverebbe l’errore, cosa che ripugna alla sua bontà (S. Th. d’Aq.). Senza dubbio Dio permette ai demoni o agli empi di operare miracoli apparenti; la giustizia di Dio si serve di essi per punire gli increduli (Suarez) e protegge i giusti con la sua grazia, quando fa loro riconoscere l’inganno (S. Th. d’Aq.). Miracoli di origine demoniaca, e quindi miracoli che non durano (guarigioni effimere), che non servono né al corpo né all’anima, che non servono a rafforzare la fede e la morale, che si compiono con cerimonie ridicole e insensate. (S. Th. d’Aq.)

Di solito Dio si serve di una creatura per compiere un miracolo, spesso anche una creatura indegna.

Le creature possono fare miracoli quando Dio dà loro il potere di farlo. (S. Th. d’Aq.) I Santi hanno sempre operato miracoli con il potere (in Nome) di Dio. Solo Cristo li ha operati nel suo Nome. – Il dono dei miracoli è una grazia gratuita e può essere concessa agli indegni per la salvezza delle anime (S. Matth., VII, 25). Anche i pagani e i miscredenti erano in grado di operare miracoli per corroborare la verità. Se nei giudizi di Dio persone innocenti potevano camminare impunemente sui carboni ardenti o portavano l’acqua attraverso i setacci, Dio avrà voluto persuadere gli uomini della realtà della sua Provvidenza. – Il diavolo può fare veri miracoli quando serve come strumento di Dio per castigare gli empi (S. Aug.); è stato solo il diavolo a provocare le piaghe d’Egitto e la miserabile morte di Erode (Act. XII). In questo caso, i miracoli del diavolo stesso servono a difendere la verità. – Ma non dobbiamo mai proclamare un miracolo quando sia possibile una spiegazione naturale. (S. Aug.).

3. SI CHIAMANO PROFEZIE DELLE PREDIZIONI PRECISE DI EVENTI FUTURI CHE SOLO DIO, ESCLUDENDO ALTRE CREATURE, PUÒ CONOSCERE.

Dio a volte predice eventi futuri che dipendono dalla libera volontà degli uomini, che solo Lui può conoscere. Come ad esempio la previsione del rinnegamento di Pietro, da parte di un Apostolo in cui tutto faceva pensare al contrario (S. Marc. XIV, 31); come anche la previsione di eventi che dipendono dal beneplacito di Dio, per esempio la rovina di Gerusalemme ed i segni della fine del mondo. – Si potrebbero chiamare le Profezie miracoli di onniscienza, in contrapposizione ai miracoli di onnipotenza.. Sono davvero miracoli, perché possono avere solo Dio come autore. Infatti, gli eventi futuri che dipendono unicamente dal libero arbitrio dell’uomo sono conosciuti solo da Dio (Isaia, XLI, 23; XLVI, 10), che sonda i misteri di cuori e menti. (Ger. XVI1, 10). Nessuno conosce ciò che è in Dio se non lo Spirito di Dio. (I Cor. II, 11). – Le profezie si distinguono dagli oracoli pagani in quanto questi ultimi erano generalmente equivoci; ad esempio quando l’oracolo dice di Creso: “Se egli attraverserà il fiume di Halys, distruggerà un grande impero”, ma non dice se si riferisce all’impero di Creso o ad un altro. – Non c’è carattere profetico nelle previsioni del tempo da parte dei meteorologi, le previsioni delle eclissi da parte degli astronomi, l’annuncio dell’imminente guarigione o della morte di un malato da parte di un medico, la previsione di una guerra da parte degli uomini di Stato, ecc. perché sono previsioni di eventi che possono essere previsti da cause preesistenti.

Dio fa pubblicare le sue profezie, in generale, solo dai suoi inviati da Lui o con lo scopo di promuovere la fede o per migliorare gli uomini.

I profeti feceto molte predizioni sul Messia, per far sì che le persone aspettarsero il Salvatore tra gli uomini che vivevano prima della sua venuta e per convincere le epoche successive della verità del Cristianesimo. La previsione del diluvio da parte di Noè aveva lo scopo di convertire gli uomini corrotti. – Di norma, il ruolo di profeta è affidato solo a coloro che sono inviati da Dio; è per eccezione che Dio annuncia il futuro attraverso uomini viziosi e miscredenti e li usa come strumenti per il bene. – Dio annunciò la sua rovina a Baldassarre con l’apparizione della mano che scriveva sul muro (Dan. IV). Balaam annunciò la venuta del Salvatore ai Moabiti e al loro re con la famosa profezia profezia: “Una stella uscirà da Giuda” (Numeri V). Ma di solito Dio concede il dono della profezia solo alle anime scelte (Ben. XIV). Queste conoscono il futuro attraverso un’ispirazione interiore, attraverso una visione (apparizione) o attraverso gli Angeli. Così, durante la cattività babilonese, l’Arcangelo Gabriele annunciò a Daniele le 70 settimane (Dan. IX) dopo le quali sarebbe venuto il Messia. Il dono di profezia si riferisce solo a casi particolari; nessun profeta possiede la capacità permanente di predire il futuro. Solo Gesù Cristo la possedeva. Il profeta più ispirato non può rispondere a tutte le domande (IV. Re IV, 27); Samuele non riconobbe il re designato da Dio finché non gli fu portato Davide (I Re XVI, la).

Le profezie sono quindi generalmente una prova della missione divina del profeta.

Per accreditare qualcuno come inviato da Dio, le profezie devono realizzarsi (Deut. XVIII, 12); che non siano contrarie alla dottrina rivelata (Deut. XIII, 2) o alla santità di Dio. Devono essere edificanti, utili salutari. (1. Cor. XIV, 3) e annunciate con calma e modestia: è la caratteristica dei falsi profeti agitarsi come uomini furiosi (S. Giovanni Chr.).

7. ASSENZA E PERDITA DELLA FEDE CRISTIANA.

La fede cristiana è la via del cielo. Tutto questo non si trova in coloro che camminano in una falsa fede.

I. La fede cristiana non si trova:

1. negli eretici,

2. negli infedeli.

1. Gli eretici sono coloro che rifiutano ostinatamente questa o quella verità rivelata.

Coloro che allontanano gli altri dalla vera fede sono chiamati eresiarchi. Gli eresiarchi sono le tarme che rosicchiano la preziosa veste di Cristo, la Chiesa, (S. Greg. M.). È quasi sempre l’amor proprio ferito a far nascere gli eresiarchi.

(S. Ireneo.) I principali eretici furono Ario, sacerdote di Alessandria, che negava la divinità di Cristo e contro il quale fu convocato il Concilio di Nicea (325); Macedonio, Vescovo di Costantinopoli, che negava la divinità dello Spirito Santo, poi definita dal Concilio di Costantinopoli (381); Giovanni Huss, sacerdote di Praga, che falsificò la dottrina sulla Chiesa (Concilio di Costanza, 1414); Martin Lutero, monaco di Wittemberg, che attaccò principalmente l’istituzione divina del Papato e il Magistero della Chiesa (Concilio di Trento, 1545-63). Enrico V III d’Inghilterra (morto nel 1547) introdusse l’eresia anglicana in Inghilterra (Concilio di Trento, 1545-63), (l’Irlanda resistette) e perseguitò crudelmente i Cattolici per odio verso il Papa che rifiutava di sciogliere il suo matrimonio. Dôllinger, ex professore e prevosto del capitolo di Monaco, famoso per numerose opere di alto valore scientifico, era amareggiato per non essere stato invitato come teologo ai ai lavori preparatori del Concilio Vaticano (1870) e, anche dopo il Concilio, fu scomunicato e morì impenitente (1890). Dôllinger è il principale autore del Vetero Cattolicesimo. Gli eresiarchi erano, ahimè! come possiamo vedere, quasi sempre sacerdoti! Coloro che diffondono false dottrine sono come i falsari che fabbricano denaro falso e lo mettono in circolazione. Sono assassini che allontanano i viaggiatori dalla fede, dalla via della salvezza, verso i sentieri che portano alla morte eterna. (Mons. Zwerger). Il Cristo ci mette in guardia contro di loro: “Guardatevi, dice, dai falsi profeti che si presentano a voi in veste di pecore (cioè che vi lusingano con belle parole) e che in realtà sono lupi rapaci (pieni di malizia). È dalla loro condotta che li riconoscerete. (S. Matth. VII, 15)”. Che sciocchezze vennero pronunciate da Lutero! Di quanti insulti è autore! Solo questo è una prova della mancanza di missione divina. Lo stesso vale per altri cosiddetti riformatori. Per loro non si tratta mai della purezza della fede, ma della soddisfazione delle passioni più basse: l’orgoglio o la sensualità. Le dottrine religiose sono il pretesto dietro il quale perseguono il loro obiettivo peccaminoso. Cercano sempre di sfruttare il lato debole dell’umanità: Lutero consegna le proprietà della Chiesa ai principi, e libera i Sacerdoti dal giogo della castità, e così via. Sono ciò che fu il serpente perEva. – Tra gli eretici ci sono gli scismatici, (i separati), che a rigore rifiutano non solo di riconoscere il capo della Chiesa, ma che cadono sempre nell’eresia. Gli scismatici sono, ad esempio i Greci non uniti, che nel 1053 si staccarono da Roma su istigazione dell’ambizioso patriarca Michele Cerulario; 2° i Russi, che si sono separati dalla Chiesa greca nel 1587 e che dal 1721 sono stati governati spiritualmente dallo zar. La Chiesa ha sempre considerato l’eresia come uno dei più grandi crimini. E se un Angelo dal cielo”, diceva S. Paolo, vi annunciasse un Vangelo diverso dal nostro sia anatema (Gal. I, 8), a cui San Girolamo aggiunge che tra tutte le empietà l’eresia è la più grande. Gli eretici sono esclusi dalla Chiesa, ed è un castigo da cui il Papa solo o chi per lui ne ha ricevuto potere può assolvere (Pio IX, 12 ottobre 1869).

Colui che per scusabile ignoranza vive nell’errore non è eretico davanti a Dio.

Chi, per esempio, è stato educato nel protestantesimo e non ha mai avuto la possibilità di essere istruito seriamente nella Religione cattolica è eretico solo di nome, perché non c’è un’adesione ostinata all’errore. Se è disposto a credere Se è disposto a credere a tutto ciò che Dio ha rivelato, è ortodosso (S. Aug.). Egli non è più eretico di un ladro che in buona fede trattiene la proprietà altrui.

2. Gli increduli sono coloro che vogliono credere solo a ciò che percepiscono con i sensi o che possono capire con la ragione.

Tommaso era un incredulo; non voleva credere nella risurrezione finché non avesse messo le dita nelle ferite delle mani e la sua mano nel costato di Cristo. (S. Giovanni XX, 25). Molti uomini sono come lui: vogliono credere solo a ciò che vedono, toccano e sentono.; rifiutano tutto il resto. Il non credente, dice S. Giov. Cris, è un campo sabbioso che non produce nulla, nonostante la pioggia che riceve. Il miscredente offende il suo Dio, come un suddito offenderebbe un sovrano che si rifiuta di riconoscerlo, pur sapendo che è il re legittimo. (Lehmkuhl). E d’altra parte quante cose il non credente è obbligato a credere per non credere! (Clêm. Hofbauer). L’incredulità ha molto spesso la sua origine nell’immoralità. – Il sole si riflette nell’acqua limpida e calma, ma non nell’acqua fangosa. È così anche per l’uomo: se è di buoni costumi, arriverà facilmente alla fede, ma l’uomo sensuale non percepisce ciò che è dello Spirito di Dio. (I Cor. II, 14). Uno specchio appannato rifletterà male o non rifletterà affatto. L’anima è uno specchio (S. Massimo) che deve essere sensibile alla luce divina e non è in grado di riflettere le verità della fede, quando è appannata dal vizio.

H. La fede cristiana si perde facilmente:

1° quando si è indifferenti alla fede;

2° quando si dubita volontariamente delle verità della fede;

3° quando si leggono libri o giornali ostili alla religione;

4° quando si aderisce ad associazioni antireligiose o si contrae matrimonio misto.

I. Se, per colpevole indifferenza, si cessa di interessarsi alla fede, si diventa incredulo, così come una pianta muore per mancanza di acqua o una lampada si spegne per mancanza di olio. Oh, che sfortuna gli uomini indifferenti alla religione che vivono di giorno in giorno senza Dio, che non pregano mai, che non ascoltano mai un sermone, non leggono mai un libro religioso e si preoccupano solo delle cose temporali! Questi sono gli invitati del Vangelo che rifiutano di andare al banchetto celeste, uno a causa dei suoi buoi, un altro a causa della sua fattoria, il terzo a causa del suo matrimonio. (S. Luc. XIV, 16) Curiosa cosa: queste persone si considerano illuminate e gettano uno sguardo di pietà e disprezzo su coloro che adempiono coscienziosamente ai loro doveri religiosi. Ma sono proprio loro che mancano di cultura e di scienza allo stesso tempo, perché non hanno intelligenza per i beni più preziosi della vita e sono ignoranti nelle questioni più importanti. Molto spesso questi uomini non conducono una vita irreprensibile. Una vite non curata è presto invasa da siepi e rovi, e l’anima che non viene coltivata dall’istruzione religiosa, a poco a poco adotta i costumi di un rozzo campagnolo. (S. Luigi de Grign.). Il corpo ha bisogno di nutrimento o morirà di fame; c’è anche un cibo per l’anima, senza il quale essa muore, e questo cibo è il Vangelo. (S. Aug.) Nella sua conversazione con la Samaritana, Gesù Cristo chiama la sua dottrina “acqua che disseta per sempre l’anima umana” (S. Giovanni IV, 48); nella sinagoga di Cafarnao disse di sé: “Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà mai fame” (S. Giovanni VI, 35). Questo significa morire già qui sulla terra, non curarsi di questo cibo spirituale, di questo pane della vita.

2. Il dubbio deliberato sulle verità di fede porta gradualmente alla perdita della fede. Questi dubbi vengono dal diavolo. Un edificio cade necessariamente se le sue fondamenta sono minate. Ne sono un esempio le città costruite sui bacini carboniferi. Allo stesso modo, la fede si sgretola quando è scossa dal dubbio. Chi dubita delle verità rivelate dispiace a Dio, perché gli nega fiducia. Mosè dubitò della promessa di Dio di dare l’acqua al popolo che mormorava e fu punito con l’esclusione dalla terra promessa (Numeri, XX.); Zaccaria dubitava dell’adempimento della promessa dell’Angelo sulla nascita di San Giovanni Battista: per la sua punizione divenne muto (S. Luc. I.) I dubbi involontari non lo sono. Per non soffermarci su di essi; devono essere combattuti subito con la preghiera: in mezzo alle tenebre del dubbio, essa ci ottiene la grazia della luce. Non è un peccato nemmeno studiare più da vicino i punti sui quali è sorto il dubbio, al fine di rafforzare la nostra fede; anzi, è un atto di prudenza e di saggezza (Marie Lat.). Non dobbiamo però cercare una spiegazione dei misteri; un eccesso di curiosità farebbe perdere la fede, come uno sguardo prolungato al sole farebbe perdere la vista.

3. Si perde la fede anche leggendo libri irreligiosi. Jean Hus, il sacerdote di Praga, che fu bruciato a Costanza nel 1415, aveva letto le opere dell’eresiarca inglese Wicleff; fu per questo che egli stesso divenne un famoso eresiarca e il flagello della Boemia. Fu soprattutto grazie alla lettura degli scritti di Lutero che Zwinglio, predicatore della cattedrale di Zurigo (f 1531), e Calvino di Ginevra (t 1564) caddero nell’eresia. La storia ci racconta anche che l’apostasia dell’imperatore Giuliano non ebbe altra causa che la lettura a Nicomedia delle opere del pagano Libanio. I libri moderni più pericolosi, e purtroppo anche i più diffusi, sono quelli dell’empio Rousseau (f 1778), di Voltaire (f 1778) e di altri filosofi rivoluzionari, più recentemente, quelli di Renan (f 1892) e Zola. Come madre, la Chiesa li indicava ai suoi figli e vietava loro di leggerli, così come lo Stato non concede libertà assoluta di leggere. A questo scopo, nel 1571, ha istituito una congregazione speciale per la censura dei libri, la congregazione dell’Indice, che condanna i libri pericolosi per la fede e la morale in nome della Santa Sede. – Anche la lettura regolare di giornali irreligiosi fa perdere la fede, come ha dimostrato l’esperienza. Per fare più rumore, certi giornali si specializzano nel disprezzare i dogmi, le istituzioni della Chiesa ed i suoi ministri. Questo tipo di lettura mina la fede. Non si dica: il lettore giudicherà da sé. È il caso di applicare il proverbio secondo cui la goccia d’acqua scava la roccia: l’incredulità o l’indifferenza si impadroniscono della mente. Il cibo malsano distrugge a lungo andare la salute corporea più solida; è impossibile che la lettura frequente non produca lo stesso effetto sull’anima. Mettiti nel fuoco dice Isidoro, e anche se siete fatti di ferro, alla fine vi scioglierete. – Di tutte le associazioni antireligiose, la più pericolosa è la Massoneria. Lo scopo principale della Massoneria è quello di minare e distruggere, segretamente o in parte pubblicamente, qualsiasi autorità ecclesiastica o civile e di instaurare la fondazione di una repubblica cosmopolita. La Massoneria fu fondata intorno al 1717 da alcuni liberi pensatori dell’alta società inglese. Poiché assunsero come istituzione i responsabili delle officine architettoniche delle cattedrali del Medioevo, si chiamarono massoni. Chi viene accettato in questa società, partecipa alle sue riunioni o semplicemente le favorisce, è ipso facto scomunicato, cioè cessa di partecipare alle preghiere della Chiesa ed è escluso dai Sacramenti. Il Papa si è riservato l’assoluzione da questa pena, tranne che in articulo mortis. (Clem. XII. 1738; Ben. XIV, 1751; Pio VII, 1821; Leone XII, 1825; Leone XIII, 20 aprile 1884). L’obiettivo finale della Massoneria è conosciuto in generale dai gradi più alti, gli altri pagano soltanto: è come nell’esercito dove i soldati marciano senza sapere nulla del piano del generale. – Nel capitolo sul matrimonio parleremo dei disordini dei matrimoni misti.

Tutti coloro che, per propria colpa, muoiono senza la fede cristiana vanno dannati.

L’infedele, il pagano, è già infelice qui; S. Luc. (I, 79) dice di loro che si trovano nelle tenebre e nelle ombre della morte; prendono le verità della religione per favole (Clém. Hofbauer). Cristo dice espressamente: “Chi crede sarà salvato, chi non crederà sarà condannato (S. Marco XVI, 16); e aggiunge anche: “chi non crede è già giudicato” (S. Giovanni III, 18), e San Paolo (Tt. III, 1) dice che un eretico pronuncia la propria condanna. Pregate dunque ogni giorno, Cristiani, ad imitazione dei Santi per la conversione dei non credenti e degli eretici! B. Clem. Hofbauer (nato a Vienna nel 1820) diceva: “Se solo potessi convertire tutti i miscredenti e gli eretici, li porterei in Chiesa sulle mie braccia e sulle mie spalle” .

8. LA PROFESSIONE DI FEDE ESTERNA.

1. Dio ci chiede di professare la nostra fede esternamente: fate splendere la vostra luce davanti agli uomini, dice Cristo, perché vedano le vostre opere buone e benedicano il Padre vostro che è nei cieli”. (S. Matth. V, 16).

Dobbiamo quindi far sapere agli altri, con le nostre parole e le nostre azioni, che siamo Cristiani e Cattolici e che teniamo alla nostra Religione per intima convinzione.. Secondo Cristo, dobbiamo essere per il mondo quello che una torcia è in un appartamento. Con la professione pubblica della nostra fede, dobbiamo contribuire alla diffusione della conoscenza di Dio tra i nostri simili e all’osservanza più esatta dei comandamenti divini. Un cavallo, anche se debole, si imbizzarrisce quando vede altri cavalli che corrono e quindi i nostri simili ci imiteranno quando vedranno le nostre opere buone. Noi stessi rafforziamo la nostra fede confessandola davanti agli altri. È l’esercizio che fa il maestro. – Molti uomini, ahimè, sono vigliacchi. Per non essere presi in giro da uno dei loro compagni o da un giornale cattivo, di soffrire nella loro carriera, di perdere clienti, ecc. non osano confessare con coraggio la propria fede o opporsi ai suoi nemici; è simile ad un bambino incaricato di una commissione dai genitori che torna senza averla eseguita, perché non ha osato passare davanti ad un cane che abbaia. Gli uomini ci chiamano ipocriti, deboli di mente, sciocchi, fanatici, e così ci lasciamo allontanare dai nostri buoni propositi e dalla via della salvezza. (S. Vinc. Ferr.). Noi siamo come delle lepri tremante, che uno spaventapasseri fatto di vecchi stracci impedisce di pascolare. Eppure sono i nostri insultatori che saranno svergognati nel giorno del giudizio. (Sap. V, 1). Chi non osa difendere l’onore di Dio, è un cane muto che non sa abbaiare. (Is. VI, 10). – Un bell’esempio di professione di fede ci viene dato dai tre giovani nella fornace, che si rifiutarono di nella fornace, che si rifiutarono di adorare la statua di Nabucodonosor (Dan. il.); dal santo vecchio Eleazar, che rifiutò le carni proibite, nonostante le minacce di morte. (2 Macch. VI.) S. Maurizio e la legione tebana (martirizzata presso il lago di Ginevra, 286) si dichiararono Cristiani davanti all’imperatore e rifiutarono di offrire prima della battaglia i sacrifici da lui prescritti. Per la vergogna di tanti Cattolici, i seguaci delle false religioni, ad esempio i maomettani, non esitano a professare il loro culto. È soprattutto nelle processioni che la Chiesa ci dà l’opportunità di professare pubblicamente la nostra Religione.

La professione pubblica della fede, tuttavia, non è richiesta solo quando comporterebbe il disprezzo per la Religione o lo scandalo del prossimo.

Per salvarsi l’anima, non è necessario professare la propria fede sempre e ovunque, è necessario solo se, trascurandola, si toglie l’onore a Dio e al nostro prossimo la edificazione che è dovuta loro. (S. Tom. d’Aq.) – Non dobbiamo quindi rispondere alle domande indiscrete dei non credenti; possiamo farli tacere con una parola o andarcene. In un albergo, un viaggiatore che aveva chiesto un un misero pasto fu ironicamente interrogato sulla sua religione dall’albergatore: “Signore! Signore”, rispose, “si preoccupi del mio stomaco vuoto, non della mia fede. Ma se se siamo interrogati da un’autorità competente, siamo obbligati a rispondere, come Cristo davanti a Caifa, anche sotto minaccia di morte. In questo caso basterebbe attenersi al precetto di Gesù Cristo: “Non temete coloro che possono uccidere il corpo ma non l’anima.”(S. Matth. X, 28.) Fare ciò significa incorrere nell’ira di Dio, dice S. Matth. X, 28. È attirare l’ira di Dio, dice S. Agostino, temere gli uomini più di Dio. – Né è consigliabile iniziare discussioni religiose con i non credenti. Queste dispute diceva San Pietro Canisio, riscaldano gli animi ed aumentano il dissenso. Quando si è costretti a farlo, lo si deve fare con grande modestia (Salviano). La gente comune ha spesso discussioni simili nelle locande; è una cosa da evitare.

2. IL CRISTO PROMETTE UNA RICOMPENSA ETERNA A CHI PROFESSI CON CORAGGIO LA SUA FEDE DAVANTI AGLI UOMINI:

“Chi mi confesserà davanti agli uomini, anch’io lo confesserò davanti al Padre mio che è nei cieli”. (S. Matth. X, 32).

S. Pietro professò coraggiosamente la divinità di Cristo davanti agli altri Apostoli. Gesù Cristo lo chiamò beato e lo nominò capo degli Apostoli. (S. Matth. XVI, 18). Egli esalterà allo stesso modo coloro che lo confessano senza rispetto umano. I tre giovani di Babilonia che confessarono il vero Dio davanti al re e a tutto il popolo furono miracolosamente salvati ed elevati a grandi onori (Dan. III). Rodolfo d’Asburgo che un giorno, andando a caccia, si imbatté in un Sacerdote che portava il viatico e rese omaggio al Santissimo Sacramento. Poco dopo fu eletto re di Germania alla Dieta di Francoforte (1273).

Una ricompensa molto alta in cielo è destinata a chi è perseguitato per la sua fede e a chi sacrifica la sua vita per essa.

Beati voi”, dice Gesù Cristo, “quando gli uomini vi malediranno, vi perseguiteranno e diranno falsamente ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Allora rallegratevi ed esultate, perché una grande ricompensa è in serbo per voi in cielo” (Matteo V, 12). Colui che ha subito grandi prove per la sua fede è chiamato Confessore. – Colui che muore per la sua fede, è chiamato Martire. Il martire si fa infallibilmente Santo, perché Gesù Cristo ha detto: “Chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. (S. Math. X, 39). I martiri sono morti con tanta gioia e letizia. Sant’Andrea abbracciava la sua croce, S. Ignazio di Antiochia si presentò davanti a Traiano! Noi facciamo ingiura a un martire se abbiamo pregato per lui (Innoc. III). I martiri possiedono il più alto grado di carità, perché disprezzano tutti i beni terreni, ed il più preziosa prezioso, la vita. Questa vittoria vale per loro la rappresentazione di.una palma. Tuttavia, non è lecito cercare deliberatamente la persecuzione ed il martirio. Alcuni lo hanno fatto – per esempio quelli che hanno denunciato se stessi, che hanno rovesciato gli idoli ed hanno ceduto alla prova; questi presuntuosi non sono mai stati onorati dalla Chiesa come martiri, perché non è mai permesso incitare qualcuno all’ingiustizia. (S. Thom. d’Aq.) Gesù Cristo ci permette persino di fuggire dalla persecuzione. (S. Matth. X, 23); Egli stesso fuggì, così come gli Apostoli e alcuni Vescovi, come S. San Cipriano e Sant’Atanasio. Solo i pastori sono obbligati a rimanere quando la salvezza del loro gregge rende necessaria la loro presenza. (S. Thom. d’Aq.) Il mercenario lo fa quando arriva il lupo, ma non il buon pastore. (S. Giovanni X, 12.) I pastori possono fuggire solo quando la loro presenza non sarebbe utile o ecciterebbe ancora di più i persecutori. La morte per eresia non è martirio, perché manca la carità senza la quale il martirio stesso è senza merito (1. Cor. XIII, 3). Hus di Praga, che preferiva essere bruciato vivo (1415) piuttosto che rinunciare alla sua eresia, non è quindi un martire. Ma siamo martiri quando siamo feriti a causa della fede e si muore per la ferita; quando, per la propria fede si è condannati alla prigionia perpetua, all’esilio; quando uno viene ucciso per un’altra virtù cristiana, ad esempio San Giovanni Battista, San Giovanni Nepomuceno, perché, dice San Tommaso la virtù cristiana è una certa professione di fede. Il numero dei martiri è stimato in 16.000.000.. – Non è cristiano, dice San Cipriano, chi teme di morire per la propria fede.

3. CHI SI VERGOGNA DELLA PROPRIA FEDE PER PAURA O PER RISPETTO UMANO LA RINNEGHI FORMALMENTE,

si espone alle minacce di Gesù Cristo: “Chiunque rinuncia a mi rinneghi davanti agli uomini, Io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”. (S. Matth. X, 33) “Se qualcuno si vergogna di me e delle mie parole, il Figlio dell’uomo arrossirà anche di lui quando verrà nella sua gloria.(S. Luca, IX, 26.).

Chi arrossisce della propria fede imita Pietro che rinnegò Gesù Cristo (S. Matth. XXVI, 69.) Molti Cristiani fecero lo stesso durante le persecuzioni e sacrificarono agli idoli. Oggi molti uomini si vergognano di fare il segno della croce in Chiesa, di ricevere i Sacramenti, di adorare l’Eucaristia quando incontrano un Sacerdote che porta il viatico, ecc. Altri peccano partecipando agli esercizi religiosi dei dissidenti, quando, ad esempio, contraggono un matrimonio misto davanti a un ministro protestante; quando fanno da padrini e madrine. a dei protestanti, quando vanno con loro a ricevere la Cena del Signore, ecc. (Non è un peccato contro la fede assistere a cerimonie religiose per pura curiosità, o assistere ai loro matrimoni o ai loro funerali. Vergognarsi della propria fede significa anche rendersi disprezzabili agli occhi dei propri simili, perché i vigliacchi non sono rispettati. Costanzo, padre di Costantino il Grande, licenziò dal suo servizio i suoi servi Cristiani ai quali aveva ordinato di sacrificare agli idoli e che gli avevano obbedito (Mehler I, 45.)! – I rinnegati formali sono ancora più disgraziati. Il saggio re Salomone rinnegò il vero Dio e divenne un idolatra per amore delle sue mogli pagane. Giuliano l’Apostata (f 363) rinnegò il Cristianesimo e ne divenne il peggior nemico, come si può vedere dal suo tentativo di ricostruire il tempio di Gerusalemme e dalla blasfemia che pronunciò quando esclamò: Hai vinto, Galileo! Non è raro che i Cattolici passino al protestantesimo o all’Ebraismo, oppure si definiscono liberi pensatori, cioè non appartenenti a nessun culto particolare. In genere, lo fanno per motivi puramente umani, ad esempio per un matrimonio o per esprimere il loro odio verso un Sacerdote. I viziosi rinnegano la loro fede. Non si pensi”, dice San Cipriano, “che i buoni abbandonino la Chiesa. Il vento non porta via il buon grano, ma la pula”. Il vento non sradica gli alberi sani, ma quelli marci. Chi fa apostasia commette un peccato mortale, perché crocifigge di nuovo il Figlio di Dio. Il Papa si è riservato l’assoluzione per questo peccato: il Vescovo può assolvere solo per sua delega (Decreto di Pio IX. 12 ottobre 1869). Ora, chi non ha la Chiesa per madre, non può avere Dio per padre. (S. Cipriano). Non c’è quindi nessuna prova che un Cattolico non debba superare per mantenere la sua fede, deve essere fortemente radicato chi sfida tutte le tempeste, il soldato che anche in guerra non abbandona il suo posto.

9. IL SEGNO DELLA CROCE.

Il Cattolico professa la sua fede soprattutto con il sacro segno della croce.

Il segno della croce è per il Cristiano ciò che l’uniforme è per il soldato o il funzionario pubblico; con esso professa di accettare la dottrina del Salvatore crocifisso. Il segno della croce è per gli ebrei e i pagani oggetto di odio e di disprezzo (I. Cor. I, 23); anche i protestanti rifiutano il segno della croce. È il segno proprio dei Cattolici, e poiché è di origine antichissima e si trova in tutta la Chiesa, è ragionevole pensare che il segno della croce sia in tutta la Chiesa, è ragionevole supporre che sia di origine apostolica. – Ci sono due modi di fare il segno della croce. Il primo è tracciare piccole croci sul viso, sulla fronte, la bocca e sul petto con il pollice della mano destra, tenendo la mano sinistra un po’ sotto il petto. Allo stesso tempo, si dice: “Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo Così sia”. Con ciò noi ci impegniamo a credere, a professare, a seguire la dottrina del Crocifisso. Noi chiediamo che la grazia di Dio illumini la nostra comprensione attraverso la potenza della croce, che nelle tentazioni del rispetto umano possa aprire le nostre labbra per professare la fede e che muova i nostri cuori e le nostre volontà a osservare i comandamenti; noi consacriamo i nostri pensieri a Dio Padre, autore di tutte le cose (segnando la fronte); al Figlio, Verbo che procede dal Padre, le nostre parole (segno sulla bocca); allo Spirito Santo, lo Spirito di carità, tutte le aspirazioni del nostro cuore (segno sul cuore, la sede dell’amore). Questo è chiamato il piccolo segno della croce. (In alcune zone della Germania è chiamato anche segno tedesco, perché è più popolare tra la gente rispetto al segno di croce grande). – Il segno di croce grande, o segno latino, si usa durante la Messa e ci ricorda la nostra unione con la Chiesa attraverso la Croce di Pietro e ci ricorda la nostra unione con la Chiesa romana. Si esegue portando la mano destra sulla fronte, al petto, alla spalla sinistra, poi a destra, tenendo la mano sinistra sul petto. (Si va da sinistra a destra perché Cristo, con la sua redenzione, ci ha posto sul lato destro. Nei Paesi di lingua romana e slava, questo segno è usato anche dai laici. L’importante è non fare mai il segno della croce in modo troppo frettoloso e pensare  di farlo davanti alla maestà dell’Altissimo.

1. FACENDO IL SEGNO DELLA CROCE PROFESSIAMO I DUE MISTERI PRINCIPALI DELLA RELIGIONE: LA TRINITÀ E L’INCARNAZIONE DEL REDENTORE.

Il singolare “nel nome” indica l’unità di Dio; le altre parole le tre Persone divine.

Nel Nome” significa: Per missione di Dio, per la potenza di Dio, con l’aiuto di Dio, alla gloria di Dio.

La croce singola che facciamo sulla fronte, sul petto e sulle spalle simboleggia l’unità di Dio; la triplice croce simboleggia le tre Persone della SS. Trinità.

La forma della croce ci ricorda che il Figlio di Dio fattosi uomo ci ha salvato sulla croce.

Il segno della croce è quindi come un riassunto della Religione cristiana.

Il corpo umano ha la forma di una croce; le linee della figura formano una croce, così come l’uccello che vola, il pesce che nuota, la bella costellazione di questo nome nel cielo meridionale, certi alberi, certi fiori, ecc. ecc.. L’apparizione di una croce nel cielo annuncerà l’arrivo del Giudice al giudizio finale (S. Matth. XXIV, 30). La Chiesa cattolica onora molto il segno della croce. È spesso usato nella Santa Messa e nell’amministrazione dei Sacramenti e delle benedizioni; essa pone la croce su campanili, altari, stendardi e casule, ed è piantata sulle tombe. Molte chiese sono costruite a forma di croce.

2. ATTRAVERSO IL SEGNO DELLA CROCE OTTENIAMO LA BENEDIZIONE DI DIO.

Attraverso il segno della croce noi soprattutto, siamo protetti dal diavolo e da una moltitudine di mali spirituali e temporali.

Il segno della croce non è quindi una cerimonia vana, ma una benedizione di se stessi (un appello a Dio per ottenere aiuto), ed ogni benedizione divina consiste nell’allontanare i mali e procurare il bene. – Il segno della croce mette in fuga il diavolo con le sue tentazioni. Come un cane teme e fugge dal bastone con cui è stato picchiato, così il demonio è terrorizzato e messo in fuga dalla croce, che gli ricorda la sua sconfitta (S. Cyr.) – Si narra che un cervo portasse con sé un piccolo cartello con questa iscrizione in lettere d’oro:

Non toccarmi, sono l’imperatore. Nessun cacciatore osò mai sparargli. Come facciamo il segno della croce, facciamo il segno: Io sono il Salvatore, ed il demonio non potrà raggiungerci. Sul campo, è vietato sparare a coloro – cappellani e medici – che indossano la fascia bianca con la croce rossa; allo stesso modo, al diavolo è vietato fare del male a chi si firma con la croce. – Il segno della croce è stato modellato sul segno tracciato sugli stipiti delle porte, davanti al quale l’Angelo sterminatore dell’Egitto passò senza colpire (S. J. Dam.). Gesù Cristo fu rappresentato (S. Giovanni III, 14) dal serpente di rame (Numeri XXI) innalzato da Mosè nel deserto e che guariva con il suo stesso aspetto le ferite provocate dai serpenti di fuoco; il segno della croce, che rappresenta anche la croce di Gesù Cristo, ci protegge dalle insidie del serpente infernale. Finché Mosè pregava con le braccia tese a guisa di croce, i Chananiti venivano messi in fuga. (Esodo XVII, 12). – Nel 312 Costantino e tutto il suo esercito videro una croce luminosa nel cielo con queste parole: “In hoc signo tnnces“, mise la croce su uno stendardo e fu vittorioso. (Questa è l’origine dei nostri stendardi). Queste parole si applicano anche al segno della croce che facciamo su noi stessi. Il solo ricordo della croce di Gesù Cristo mette in fuga i nostri nemici invisibili e ci rafforza contro i loro attacchi (Sant’Agostino); E così molti Santi, per scacciare i pensieri cattivi, erano soliti segnarsi subito. I primi Cristiani la usavano spesso per abbattere gli idoli. All’epoca dell’invenzione della santa croce da parte dell’imperatrice Sant’Elena, madre di Costantino il Grande, i malati venivano guariti semplicemente toccando il legno sacro (325). Che potere miracoloso! La croce guarisce dalle malattie del corpo ed il segno della croce non è meno potente. Che sollievo hanno ricevuto da Dio alcuni malati quando si segnarono spesso e devotamente. La storia registra che molti martiri si sono segnati prima dei loro supplizi e ne sono usciti sani e salvi.. Di San Giovanni Evangelista si dice che un giorno si fece il segno della croce su una coppa avvelenata e la bevve senza subire alcun danno. La stessa cosa deve essere accaduta a Francesco Saverio, l’Apostolo dell’India. I profeti dell’Antico Testamento avevano già annunciato questa virtù del segno della croce. Una visione mostrò a Ezechiele che in una punizione riservata a Gerusalemme, la morte avrebbe risparmiato coloro che un Angelo aveva prima segnato sulla fronte con la lettera Thau a forma di croce (Ezechiele IX, 4).

Il segno della croce deve essere fatto spesso, soprattutto a letto, prima e dopo le preghiere, prima e dopo i pasti, prima e dopo essere usciti di casa, al momento delle tentazioni e prima di tutte le azioni principali.

Fatevi il segno della croce al vostro risveglio. Così facendo, vi assicurerete la benedizione di Dio per l’intera giornata. Fatelo anche la sera, per allontanare i pensieri cattivi. Prima della preghiera, per scacciare le distrazioni; prima delle grandi imprese, per avere successo, ecc.. Adottando questa abitudine, adempiremo sicuramente al comando dell’Apostolo: “Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi cosa, fate tutto a gloria di Dio” (I. Cor. X, 31). Già i primi Cristiani avevano l’abitudine di segnarsi, secondo Tertulliano (f 240) che dice: “Prima e durante le nostre occupazioni, quando usciamo, quando rientriamo, quando ci vestiamo, prima di dormire, in tutte le nostre azioni ci segniamo la fronte con la croce. – Facciamo il segno della croce in particolare nella Santa Messa: all’inizio, al Vangelo, alla fine della Messa e alla fine della Messa. Facciamo il segno della croce soprattutto nella Messa: all’inizio, al Vangelo, all’Elevazione, alla Comunione e alla benedizione del Sacerdote. Pio IX (28 luglio 1863) assegnò 50 giorni di indulgenza ad ogni segno di croce. Santa Editrice (+ 984), principessa reale d’Inghilterra, si segnava molto spesso: 13 anni dopo la sua morte il suo pollice fu trovato ancora perfettamente conservato. (Mehlex I, 179).

È molto salutare usare l’acqua santa quando si fa il segno della croce. Quest’acqua ha una virtù particolare contro gli assalti del demonio, grazie alla preghiera della Chiesa per benedire l’acqua.

L’uso dell’acqua santa vale ogni volta 100 giorni di indulgenza. (Pio IX, 23 marzo 1866). Si possono trovare acquasantiere in appartamenti e nelle chiese; ma in molti appartamenti l’acquasantiere ahimè sono vuote di acqua santa e piene di polvere.

Siete degli sciocchi; se vi vergognate di farvi il segno della croce, Cristo a sua volta si vergognerà di voi: il diavolo, dice sant’Ignazio di Antiochia, si rallegra se rinnegate la croce, che è la sua rovina e il segno della vittoria sul suo potere.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (12)

Capitolo quinto

SUL CAMPO DI BATTAGLIA

La legge cristiana dell’Amore, la quale si assomma nella virtù praticata nella vita, è un ideale che non basta sognareo salutare con tenere lacrimucce invocatrici, ma, come abbiamo constatato, bisogna realizzarlo in mezzo a difficoltà, a combattimenti, talvolta purtroppo a sconfitte. « Il mondo, il demonio, la carne » — l’ambiente che ci circonda, gli spiriti ribelli, il nostro io — tutto ci trascina lontano dal Sole dell’Amore. Le « tentazioni » si rinnovellano sempre ad ogni momento. Una battaglia perenne si impone, per tradurre in realtà l’ideale divino. L’occasione è sempre pronta ad aspettarci. Guardando al passato, noi scorgiamo come spesso lo sviluppo nostro ed i nostri progressi siano dipesi da circostanze minime, da occasioni che abbiamo preso come palla al balzo. Un istante di forza in un conflitto vi dà un eroe; un attimo di debolezza vi dà un traditore. E le lotte non terminano mai; si succedono, si avvicendano, si cambiano, continuano incessantemente. È la battaglia della vita, che — come ricorda Lacordaire — faceva esclamare a Seneca: « Ecco uno spettacolo degno di Dio » — Ecce par Deo spectaculum — ed a san Paolo: « Siamo stati fatti spettacolo al mondo, agli Angeli ed agli uomini ». Noi non possiamo avere la vana pretesa di descrivere tutte le lotte che si svolgono nell’intimità delle coscienze: solo vogliamo gettare uno sguardo sul campo del combattimento quotidiano, per convincerci che ogni conflitto si riduce, in ultima analisi ad un contrasto tra l’amore per Dio e per ciò che non è Dio.

I. – IL CRISTIANO E L’EGOISMO DELLO SPIRITO.

La prima grande battaglia che ognuno deve sostenere è dal Gratry felicemente definita: « L’egoismo dello spirito ». L’anima nostra dovrebbe essere un santuario, consacrato al Signore; invece, sull’altare del cuore, noi sostituiamo un idolo: il nostro piccolo io. Due norme allora stanno di fronte e cozzano ad ogni momento fra loro: la morale cristiana comanda di amare Dio sopra ogni cosa ed ogni cosa per Dio; l’egoismo dello spirito risponde: ama il tuo io sopra ogni cosa e tutto il resto amalo solo per il tuo io. Ecco la superbia, il primo dei peccati capitali; ecco la vanagloria, l’amar proprio — come dice l’asceta con una meravigliosa parola che esprime l’antitesi accennata. Ed al seguito di tale nemico, v’è un mondo di difetti e di colpe, che ne sono fatali conseguenze.

1. – Il piccolo io e Dio.

Noi siamo nell’egoismo, esclama il Gratry nella sua opera La connaissance de l’ame. Chi può fingere di ignorarlo?… Posso forse non vedere che io mi preferisco agli altri, all’ordine, alla giustizia ed alla verità, di conseguenza a Dio, e che non soltanto mi preferisco ai miei simili, ma che accetto, per un po’ di felicità, una grande sofferenza altrui? Più ancora: posso negare la storia quando mi mostra che certe anime amavano intensificare la loro gioia col dolore degli altri? quando constato questo fatto così generale del sangue umano mescolato alle grandi orge e che mi indica non solo dei proconsoli che facevano massacrare gli schiavi nei loro banchetti, per il piacere loro e delle loro cortigiane, ma ancora popoli interi, ebbri di gioia e di piacere allo spettacolo di gladiatori che si scannavano? Non è questo forse egoismo? « Ciascuno discenda nel proprio cuore. Chi non ha avuto, nella sua vita, qualche ora di feroce passione, in cui si sarebbe accettata la distruzione del genere umano, per vivere nella propria concupiscenza soddisfatta a tal prezzo? Tutti gli uomini hanno potuto sentirsi, in qualche giorno, fratelli di Nerone, che bruciava Roma per il suo piacere, o di Caligola, il quale s’augurava che il genere umano avesse una sola testa per poterla recidere. In quasi tutti i cuori, v’è un Nerone, se non sviluppato, almeno in germe… « Noi nasciamo ingiusti, dice Pascal, perché ciascuno tende a sé. Ciò è contro ogni ordine… L’inclinazione verso di sé è l’inizio d’ogni disordine, in guerra, in politica, in economia. Chiunque non odia in sé questo amor proprio e questo istinto, che lo porta a mettersi al di sopra di tutto, è ben cieco. « Pascal, come Platone, come Michelangelo, e come tutti i veri filosofi, ha visto che noi nasciamo e siamo in uno stato di egoismo assurdo e mostruoso, che consiste nel volere fare di noi in ogni cosa il centro, il principio, il tutto ». Per questa strana, ma possente illusione « quasi tutti gli spiriti che pensano vivono isolati. Ciascuno, al centro della sua sfera, non vede che se stesso; gli altri, da lontano, gli appaiono come astri nella notte che si intravedono senza comprenderli; e quando negli slanci del pensiero attuale il nostro proprio sole si leva e si percepisce direttamente e senza nubi, si eclissano nel nostro cielo anche le deboli tracce dei soli più vicini. Sì: noi siamo il sole; tutti gli altri spiriti sono stelle eclissate dal giorno ». – La punta del nostro naso diviene così il centro dell’universo. All’amore per Dio, che implica l’amore del prossimo e di tutti vorrebbe fare un corpo unico vivente, si sostituisce l’egoismo e, perciò, la disgregazione, la dispersione, il contrasto, l’odio, con i diversi frutti avvelenati che ne conseguono. Saranno le anto incensazioni, per le quali si assomiglia ai vecchi palloni gonfiati, con la minaccia di scoppiare. Saranno le ambizioncelle, di chi sprezza la raccomandazione di san Francesco di Sales: « Non imitare il ragno, che è l’immagine degli orgogliosi, ma imita l’ape, simbolo dell’anima umile. Il ragno tesse la sua tela a vista di tutti, giammai in segreto: la fila nei verzieri da un albero all’altro, e nelle case, alle finestre, ai soffitti, insomma sotto gli occhi di tutti; rassomiglia in questo ai vanitosi ed agli ipocriti, che ogni cosa fanno per essere veduti e ammirati dagli uomini… Le api sono più savie e prudenti: fabbricano il loro miele dentro l’alveare, dove non le può vedere nessuno; oltre a questo si costruiscono ivi tante cellette, in cui conducono avanti il lavoro segretamente; il che ci rappresenta molto bene l’anima umile, sempre chiusa in sè, non vaga di gloria o di lode per le sue azioni, ma studiosa di occultare i suoi divisamenti, contenta che vegga e sappia Iddio quello che essa fa ». Del resto, è logico il procedimento: se non si agisce per amore di Dio, si cerca « di essere veduto dagli uomini », nonostante la condanna di Gesù nel Vangelo. E l’adorazione del proprio io, centro del mondo, assumerà forme svariatissime: arà il culto esagerato della propria bellezza o della propria forza. Sarà il vanto di poter portare ciondoli e gioielli, non ricordando ciò che osservava ancora il mite spirito di Sales: “Forse che il mulo cessa di essere una povera bestia, perchè carico di monili preziosi?”. Saranno gli eccessi della moda ridicola ed oscena. Saranno brame esasperanti di gloria, di onori, di successi. Saranno gelosie che di tutti vorrebbe fare un corpo unico vivente, si sostituisce l’egoismo e, perciò, la disgregazione, la dispersione, il contrasto, l’odio, con i diversi frutti avvelenati che ne conseguono invidie, più o meno abilmente ricoperte da veli benigni. – Pubblicava un giorno il « Mercure de France » un gustosissimo aneddoto. Che Sarah Bernhardt, anche quando era consacrata ormai artista insuperabile e aveva raggiunto il vertice della celebrità, sentisse profonda la gelosia verso tutti quelli che potevano contrastarle il primato che essa deteneva, è cosa da tutti saputa. E si sa anche che gli allori, che attraverso il mondo raccoglieva Eleonora Duse, turbavano i sonni della grande tragica francese, la quale volentieri avrebbe voluto mettere in pratica l’opinione di Medea: « Io sola, e basta ». Questa gelosia di mestiere era in Sarah Bernhardt così profonda, da non riuscire molte volte a dissimularla, come avvenne quando, nel 1897, Eleonora Duse si produsse per la prima volta a Parigi, in una serata di gala per il monumento ad Alessandro Dumas figlio, al teatro della Renaissance. In quella serata, dice il « Mercure de France », la Duse fu semplicemente ammirevole. Sarah era dietro una quinta, spiando con l’occhio attraverso uno strappo della tela i movimenti del pubblico e l’impeto della Duse. Ad ogni istante gli applausi scoppiavano nella sala entusiastici e Sarah Bernhardt se ne mostrava visibilmente urtata, come se un fuoco di fucileria fosse stato diretto contro di lei. Vicino a lei era un gruppo di familiari, i quali per compiacerla affettavano di scrollare le spalle e di sogghignare ogni qualvolta la Duse veniva applaudita. Uno di essi, staccandosi ad un certo momento dal gruppo, si pose a percorrere il retroscena, imitando con grossolana caricatura i gesti della grande attrice italiana, le sue contrazioni del volto, il suo passo alquanto zoppicante. E Sarah, voltatasi, l’approvò con un sorriso, non sapendo, la disgraziata, che un giorno essa avrebbe zoppicato ancora di più, poiché le avrebbero tagliato una gamba. Tuttavia Sarah accolse tra le sue braccia la Duse, quando essa uscì di scena. Ma era per il pubblico. Una gran quantità di gente era venuta sul palcoscenico a felicitare l’italiana: bisognava ben dissimulare il proprio rancore, almeno per orgoglio. Con quella esagerazione, che è la caratteristica della gente di teatro, Sarah Bernhardt la copriva di baci e con effusione diceva: « Divina!… Ah! cara, voi siete stata divina…» E Sarah stringeva così forte la Duse, da far venire in mente ai presenti il verso famoso: « J’embrasse mon rival, mais c’est pour l’étouffer » (abbraccio il mio rivale, ma solo per soffocarlo. Nulla come questo egocentrismo rende ridicoli gli uomini grandi e gli uomini piccoli. Si pensi, ad es., a Cola di Rienzo, piangente perchè più non v’erano i grandi d’un tempo e la loro sublime giustizia, disperato di non esser nato quattordici secoli prima, sicuro d’essere il restauratore di Roma e dell’Italia, il campione della libertà ed il redentore dell’umanità, mentre datava le sue lettere dal Campidoglio nell’anno primo della nuova repubblica e si cingeva la fronte di sei corone: con foglie, cioè, di quercia, di edera, di mirto, di ulivo, di alloro e di argento dorato. Si pensi al nostro grande Petrarca, gloria della letteratura nostra. Persino il cantore d’aura si fece compatire, quando pretese di non andar debitore di nulla ai suoi contemporanei, di non voler essere paragonato a nessuno di essi, di rifiutare ad altri la gloria del suo tempo. Non aveva caro, così almeno fu detto, che gli si parlasse di Dante e della Divina Commedia; trovandosi a Milano, all’inizio della peste, dichiarò stoicamente ad un medico che non si doveva fuggire la morte e poi subito riparò a Padova ed a Venezia; s’irritava dei suoi critici, sentenziando: « Si sono arrogati il diritto di giudicarmi; in verità, io non so chi abbia dato loro un tale diritto ». Erano gli scherzi dell’orgoglio. – E pazienza se si trattasse solo di questo! L’egoismo dello spirito non solo ci copre di ridicolo, come anche per colui che è sempre stato rinchiuso nel proprio villaggio si può dimostrare con esemplificazioni gustose; ma ci conduce anche a mille spropositi, più o meno grossi e grossolani, secondo le mansioni affidate ad una persona. Individui simili ad Icaro, che pretendeva volare con ali di cera; famiglie rovinate da pretese pazzesche, suggerite dall’amor proprio; coscienze perdute, che, pur di soddisfare il loro egoismo superbo, son ricorse a tutti i mezzi, anche ai più indecorosi ed illeciti; ribellioni all’autorità dei genitori e disprezzo di ogni e qualsiasi autorità: simili colpe —e delitti sono le esigenze di questo idolo imperioso ed esigente, che è il nostro io. Soffermiamoci sopra un caso concreto e frequentissimo, che il Gratry illustra: il caso del giovane studente. Frequenta il liceo, o le scuole magistrali, o, se anche si vuole, l’Università; ossia, omincia ad appressare le labbra al calice della cultura. Subito è ubbriaco. Egli vi risolve ogni problema. Per lui non esistono enigmi dell’universo. Non esistono uomini grandi, se non a parole. Vi discute la grandezza di Dante, di Aristotele, persino di Cristo: e vi dice sul serio che non crede più. Scrutate il suo stato d’animo: egli è proprio convinto d’aver maggior luce, maggior conoscenza dell’uomo e di Dio, di sant’Agostino, di san Tommaso, di Dante, di Bossuet, di Pascal, di Manzoni. « Tutto questo gli sembra notte oscura: egli non vi vede nulla; e sulla testimonianza dei suoi occhi, che, non giungendo sin là, in realtà nulla vedono, giudica che tutto questo passato non è che una notte. Chiunque s’è occupato di giovani ed ha ricevuto le loro intime e sincere confidenze, conosce queste cose. Questo ragazzo, adunque, dichiara questo: per lui, maestri, genitori, Chiesa e tradizione, grandi uomini, grandi autori e grandi secoli, tutte queste autorità sono nulle e non avvenute; tutto questo per lui non è che menzogna, stupidità, ipocrisia, superstizione, tenebre; lui solo sa a che cosa deve attenersi e vi si attiene. A ce compte et en ce sens, continua il Gratry e citiamolo in francese, per non offendere nessuno, que d’hommes demeurent écoliers toute leur vie! [Quanti uomini restano studenti tutta la loro vita]. Questo è il fatto. Possiamo ridere, ma dobbiamo confessare che quando eravamo in liceo il compito di risolvere le varie questioni filosofiche o religiose, artistiche o letterarie, non ci atterriva; avevamo in tasca per ogni problema una soluzione netta, precisa, esauriente, infallibile, anzi così infallibile che magari bisognava modificarla e mutarla ogni volta che si cambiava il moccichino; e tuttavia non si dubitava mai del nostro signor io. Dubitare di tutti, sì; era giusto, intuitivo; era il dovere dell’uomo moderno, dopo Cartesio ed il suo dubbio metodico: l’unica cosa di cui eravamo sicuri, di cui non sospettavamo affatto, era questo io benedetto, superbo ed ignorante, nonostante le quattro parole di greco o i quattro concettuzzi che i nostri disgraziati professori a stento appiccicavano alla nostra memoria, come un manifesto sui muri d’una città. E pensare che ci spiegavano il problema della conoscenza!… • accaloravano per farci capire come egualmente Emanuele Kant aveva rinnovato la rivoluzione copernicana: non è più il soggetto che girava intorno all’oggetto, ma è l’oggetto che gira intorno a noi; e noi ci sprofondavamo nel nostro io alla ricerca delle categorie a priori e… l’unica cosa che non conoscevamo era proprio questo… pessimo soggetto, che è l’animo nostro con la sua superbia. Sorvolo sulle conseguenze disastrose dell’egoismo dello spirito e della sostituzione dell’amor proprio all’amore di Dio. Satana, la figura tipica dell’orgoglio, cadde nell’inferno; anche noi per lo stesso peccato, precipitiamo spesso nell’abisso delle disillusioni, delle amarezze, delle inquietudini, delle scimunitaggini. L’egocentrismo ci fa ritenere d’aver maggiori forze, che in realtà non abbiamo, e disprezza le difficoltà che purtroppo esistono. Perciò fin quando celebra i suoi trionfi nel regno dell’immaginazione fantastica, tutto va a pennello: quando, invece, scende sul terreno pratico, son dolori e disastri! E persino nella più rosea delle ipotesi, anche se si riesce ad affermare il proprio io e ad imporne la venerazione agli altri, non si raggiunge la pace dell’animo e la gioia. Anche i pochi che han toccato le alte vette del monte della gloria, ripetono con Cordelia: « Quelle rocce che sembran di diamante e che risplendono ai raggi del sole son formate di lagrime; le sue viscere non sono altro che cuori infranti e sanguinosi ». Non è il caso di rammentare la confessione di un Bismarck, che a Friedrichsruhe nel 1895 diceva ai suoi ammiratori, accorsi a festeggiarlo: « Signori, debbo dirvi che durante la mia vita non sono stato veramente felice neppure ventiquattro ore. La gioia maggiore la provai quando uccisi la prima lepre ». Non è il caso di rievocare il lamento di Goethe, poco tempo prima di morire, e che leggiamo nei suoi Gespriiche mit Eckermann: « La mia vita non è stata in sostanza, che pena e lavoro; posso affermare con sicurezza che in settantacinque anni di vita non ho avuto quattro settimane di vera gioia. È stato come l’eterno rotolare di una pietra, che sempre doveva essere sollevata ». – Poi, da ultimo, viene la morte e dinanzi ad essa l’egocentrismo dilegua, svanisce. Lo ha rivelato persino Pierre Loti, in uno dei suoi libri di viaggio, quando in una cabina del « Redoutable », mentre la nave s’avvicinava a Nagasaki, il 17 gennaio 1901, udì i colpi di cannone, annunciare la morte della regina Vittoria d’Inghilterra. Il cannone aveva tuonato tutto il giorno: « Verso sera, quando il vero crepuscolo s’aggiunge alla penombra delle nubi e della piaggia, il cannone grado grado si calma. A lunghi intervalli qualche ultimo colpo rumoreggia ancora, prolungato dall’eco. Poi un infinito silenzio ricade su questa morte con la notte che giunge: la pagina della storia è voltata; la vecchia dama orgogliosa comincia la sua eterna discesa, forse nella pace, certo nella cenere e nell’oblìo… ». E le iscrizioni sepolcrali, non solo per i grandi, ma persino e soprattutto per i piccoli e i microcefali, potrebbero suonare così: « Qui giace colui — o colei — che credeva essere il centro dell’universo… ».

2. – Un’obbiezione.

No, ci pare di sentire. Mille volte no! Non bisogna distruggerlo questo nostro piccolo io! È ciò che di più necessario e di vital esista! Se non ci fosse la molla di quello che la morale cristiana chiama « orgoglio » od « amor proprio », noi getterermmo la storia in un’atmosfera grigia di stupida tranquillità e di indolenza spirituale. Sono i fremiti dell’ambizione, dell’invidia, della superbia, che scuotono il mondo. Sono le affermazioni superbe del proprio io, che creano energie, suscitano entusiasmi, dànno la forza per affrontare sacrifici, per compiere opere immortali. Una folla di umili sarebbe un branco di scemi. E mi sembra che, « forte e radioso come un sole mattutino », Zarathustra s’avanzi; e non al gregge miserabile degli schiavi, ma si indirizzi agli eletti nelle cui vene scorre sangue divino, alle anime orgogliose intorno alle quali aleggia il profumo dei mari, alle nature forti e titaniche che possono sopportare l’aria delle altezze e che, dotate di coraggio, non conoscono pusillanimi viltà. Compagni egli cerca, e non cadaveri, e neppure mandrie o credenti. Cerca creatori come lui, che scrivano nuovi valori su nuove tavole. Solo a costoro Zarathustra dice: « Io vi insegnerò il Superuomo… Per l’amor mio e la mia speranza, io vi scongiuro: non rigettate l’eroe che è nella vostra anima; credete alla santità della più alta speranza! »; ed innalza un inno alla vita ed alla bellezza, all’esaltazione della propria individualità, al superamento dell’uomo; ad una vita esuberante, lussureggiante, tropicale, che sia continuo sviluppo, progresso illimitato, perpetua tendenza a nuove affermazioni, ad ascensioni più. alte, a conquiste più dolci: ad una vita possente, bella, artisticamente bella; all’azione, all’attività eroica, all’energia, alla Wille zur Macht, alla volontà di dominio, alla forza, in una parola al proprio io. Guai a chi lo tocca!

3. – L’umiltà e l’amore.

Il Superuomo non deve spaventarci. Sulla sua fronte v’è il segno della lebbra. Oh che! Riconoscere che Dio è il centro della realtà, e non il nostro io, equivale forse a condannarci ad una vita di spirituale pigrizia e di viltà, ad annientare le forze individuali, a spegnere la fiamma della conquista e dello sviluppo? Per null’affatto. Anche noi vogliamo l’attività e la vita. Ed è proprio il Dio bestemmiato, io scrivevo altrove, è « il dolente Dio che non ama il sole », che ci ha indicato un Sole infinito di perfezione e ci ha detto: — Imitate! Siate perfetti come il Padre, che a voi sorride dall’azzurro dei cieli. — Il nostro Dio che ci inculca di « fare la propria vita come si fa un’opera d’arte », poiché la vita umana è simile ad un poema, del quale ogni anno scriviamo un canto, ogni giorno componiamo un verso; poema che dev’essere magnifico e bello, ispirato dal soffio dell’amore divino. È il nostro Dio che suscita l’eroismo, perché « nella morale comune, come ben si è osservato, c’è già quanto basta per essere eroi.; c’è quanto basta per dare la propria vita per la patria e per l’ideale, per compiere al tempo della carestia e della peste di Milano i prodigi di Carlo Borromeo (il santo che nel suo stemma e nella sua vita ebbe come parola programmatica: humilitas, o per salpare con. Cristoforo Colombo alla scoperta di nuovi mondi… – Quale differenza, dunque v’è tra il superbo e il Cristiano? Il superbo dice: il vero Dio sono io: tutto dipende da me. Il Cristiano risponde: no, non sono io che ho creato il mondo, che mi sono dato l’esistenza e queste doti che posseggo, questa intelligenza, questa volontà, questa attività che mi divora e mi sospinge. In tutto questo io saluto l’amore di Dio per me. Sarebbe falsa e puerile umiltà quella di non guardare e riconoscere in noi ciò che Dio ci ha dato; sarebbe un’ingiuria all’amore di Dio. Egli ci ha dato un dono che noi non possiamo disprezzare, né negligere. Umiltà è verità; ma, in pari tempo, sarebbe stoltezza il pretendere che quello che ho, sia una creazione mia. « Cos’hai, ci grida Paolo l’Apostolo, che tu non abbia ricevuto? E se così è, perchè ti vai gloriando, come se non l’avessi ricevuto? ». Il superbo dice: io sono qualcosa di grande; se non avessi fede nelle mie forze, nulla farei. Il Cristiano risponde: io sono un complesso di forza e di debolezza, di buone tendenze e di istinti malvagi. Se guardo a me stesso, debbo scrivere le mie Confessioni con Agostino ed esclamare con una santa, che aveva chiesto a Dio la grazia di conoscere la sua anima e n’era stata esaudita: « Signore, basta, altrimenti mi perdo di coraggio! ». È insulsaggine non prendere coscienza delle proprie deficienze ed è molto pericoloso. È vero: ho una volontà preziosa, dalla quale dipende la mia decisione; ed anch’essa è dono dell’Amore di Dio; ma è pur vero che molteplici e gravi sono le difficoltà. Esse, tuttavia, non mi possono atterrire. Io pongo la mia fiducia non nel mio io umano, ma nel mio io divinizzato dalla grazia, fortificato da Dio, ed allora posso esclamare con san Paolo: « Posso tutto in Colui che mi conforta ». Il superbo dice: gli altri esistono per me. Il Cristiano risponde: no; gli altri esistono per Dio ed io li debbo amare come fratelli. Quanti debiti di riconoscenza io ho verso il prossimo! Della vita, della civiltà, della cultura, di mille e mille cose, io sono debitore agli altri. Il superbo dice: io posso schiacciare gli altri con piede inesorabile e servirmene come di sgabello; posso sacrificare gli altri a me. Il Cristiano risponde: no; io non ho diritto di sacrificare nessuno; ma debbo sacrificarmi io stesso per il mio prossimo. Solo a questo modo farò qualcosa di grande per me, per la mia famiglia, per la patria, per la Chiesa. – Ancora una volta: la differenza tra il superbo ed il Cristiano non sta nella volontà di vivere, nell’audacia dell’azione, nella vastità dei programmi, nella saldezza dei propositi, nella generosità degli sforzi. Nessuno dev’essere audace più di chi vive unito a Dio e si sente potente della sua potenza. Nessuno più di chi apre la finestra della sua anima e non sta rinchiuso nel suo egoismo, contempla orizzonti sereni e larghi. La differenza risiede nell’oggetto dell’amore: il superbo ama se stesso; il Cristiano ama Dio, e sé ed il prossimo in Dio. Agendo in tal modo, il Cristiano non va all’annientamento, bensì alla sua grandezza; non si spaventa di nessuna impresa, purché Dio ad essa lo chiami; dà un valore eterno alla sua vita, perchè quest’ultima diventa un contributo positivo di un’opera, dinanzi alla quale, meglio dell’artista antico, egli può asserire: laboro æternitati. In breve: l’umiltà è grandezza di amore e carità; l’orgoglio è l’egoismo dello spirito.

4. – La morale autonoma.

I sacerdoti, però, di quel terribile idolo che è l’egoismo dello spirito non si dànno per vinti. E, soprattutto ai giorni nostri, essi si appellano alla affermazione tante volte ripetuta, da Kant sino agli idealisti contemporanei, della nostra autonomia, come conditio sine qua non dell’etica. Senza far qui una discussione filosofica ed una critica dei vari sistemi, possiamo dire che il pensiero fondamentale che tutti hanno in comune, si può esprimere nei termini seguenti. Qual è il segreto che spiega l’influsso affascinante di Emanuel Kant? Perché, durante la sua vita, molti si recavano in pellegrinaggio a Kónigsberg per vederlo e per consultarlo? Perché anche oggi la corrente idealistica lo saluta come padre e molti sulla tomba di lui si commuovono, ripetendo le celebri parole: « Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me »? Perché l’idealismo, dall’inizio del secolo XIX ai giorni nostri, ha potuto spesso penetrare nelle anime e pretendere di sintetizzare tutta la cultura moderna? È la grandezza e la dignità dell’uomo, che forma il segreto di questi apparenti trionfi. Lo spirito umano è qualcosa di grande ed è artefice a se stesso del suo valore. Un senso innato della propria signoria canta in noi: ciascuno deve conquistarsi da sé la verità che è degno di possedere e tutto il merito delle buone azioni, che è capace di fare. Non da fuori, ma da noi, e da noi soltanto dobbiamo aspettarci tutto: è dallo svolgimento senza posa delle energie operose nostre, è dalla libera nostra ricerca intellettuale, è dalle successive nostre conquiste morali, è dall’uomo, e non da Dio, che dipende la nostra dignità e la nostra spirituale grandezza. Dipende da noi, insisterà Kant, e la sua parola è ancor oggi ripetuta, « l’alto valore che l’umanità si può e si deve procurare mediante la moralità »; e perciò « l’autonomia della volontà è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri che loro corrispondono ». – Non è Dio che mi obbliga ad osservare la legge morale, sono io che mi dò tale obbligazione. Altrimenti io mi sentirei schiacciato da un peso immane, mi sentirei avvilito da un comando tirannico, mi sentirei annullato dal tutto di Dio e dalle sue imposizioni. Dio, ben lungi dall’essere la base della morale, ne sarebbe la negazione assoluta, se io dovessi agire conformemente al dovere, sì, ma per Lui e non semplicemente per il dovere. Solo quando io agisco per puro rispetto alla legge morale mi sento grande, mi sento uomo e non schiavo! – Da questo principio sgorga l’invocazione calda e commossa del filosofo di Kònigsberg al dovere: « Dovere! nome grande e sublime, che non comprendi in te niente di ciò che piace e lusinga, ma reclami l’ubbidienza; che tuttavia per muovere la volontà non hai in te nulla di minaccioso, che non desti un’avversione naturale nè atterrisci, ma poni soltanto una legge; la quale trova da sè accesso nello spirito e guadagna da se, anche malgrado noi, la venerazione (se non sempre l’obbedienza), e davanti la quale tacciono le passioni, per continuare ad agire contro di essa in segreto; quale è la nascita di te degna e dove si trova la radice delle tue nobili origini, che fieramente respinge ogni parentela con le passioni ed è la sola sorgente di quell’unico valore che gli uomini possono darsi da se stessi? ». Ed alla domanda l’idealismo, con Kant, risponde indicando la nostra personalità umana e puramente umana. L’amore di sé, nella forma più austera e più seducente, viene così opposto all’amore di Dio. E l’uomo, postosi su questa strada, è giunto a proclamarsi Dio. Il trascendente ed il soprannaturale sono stati negati. Nella storia della cultura non si era mai verificata una negazione così completa e recisa del Cristianesimo.

5. – Il Cristianesimo e la nostra autonomia.

Alle voci allettatrici di tutte le sirene idealiste, il Cristiano non porge orecchio, perchè osserva a se stesso: « Non illuderti. Non fantasticare. Non farneticare. Non è l’uomo, non sei tu il centro dell’universo. Certo: tu hai un pensiero; hai una volontà libera: puoi svolgere la tua intelligenza e le tue energie; anzi, ne hai il dovere! Guai se tu lasciassi inoperose le forze che possiedi! Verresti meno al compito della tua vita. Ma questa stessa tua intelligenza viene forse da te? La tua volontà l’hai fosse data tu a te stesso? Sono forse un prodotto, una creazione tua? Puoi davvero, sul serio, affermare la autonomia del tuo essere?… Se Dio non ti avesse creato, se i tuoi genitori, strumenti suoi, non ti avessero messo al mondo, la tua persona sarebbe un nulla e resterebbe nel nulla. E domani, nonostante tutte le declamazioni di autonomia che tu puoi fare, basterà un malanno, per mostrarti come non sei tu il padrone della tua esistenza. Un po’ di tempo ancora e poi il tuo cadavere in putrefazione insegnerà a tutti il valore ineffabile delle tue superbe affermazioni. L’autonomia del tuo pensiero!… No. Non è il tuo pensiero che produce la realtà; non è l’atto del tuo pensiero che crea gli Appennini od una minuscola formica! Tu non puoi pensare quello che vuoi. Non puoi pensare, in nome di una pretesa autonomia, che due e due fanno dieci e che le stelle non brillano. La verità non la crei tu; la conquisti e riconosci soltanto … L’autonomia della tua volontà!… Anche qui, ti illudi forse di dare a te stesso la tua legge? Non è il singolo uomo il creatore della norma etica. Noi non creiamo la legge morale; la riconosciamo e la dobbiamo liberamente applicare e seguire. La nostra vera dignità, la nostra vera grandezza non consiste nel creare noi le forme etiche, ma nell’applicarle. Io non posso dare a me stesso imperativi categorici di questo genere: tu « devi rubare; devi uccidere chiunque non ti vada a genio ». E se non lo posso, dove va la mia autonomia? Non rispondermi che è la legge intrinseca del tuo spirito, che ti impone di non essere ladro od assassino; perché è verissimo che sono le leggi intrinseche dell’essere, conosciute dalla coscienza, quelle che ci tracciano la linea della nostra condotta; ma, ancora una volta, le hai forse costituite tu queste leggi intrinseche della realtà? Non è forse Dio il loro autore sapiente ed amorevole? Guai se Dio non esistesse! Io potrei deridere queste leggi; esse mi comandano: « Tu devi »; ed io risponderei: « Io posso fare quello che voglio », anzi farei quello che voglio, se non altro per affermare che nulla v’è che mi lega e mi incatena ». Non è forse a queste esplicite conseguenze che è giunto il pensiero e la letteratura contemporanea? Senza dubbio: bisogna compiere il proprio dovere. E forse non era necessario aspettare che un professore di filosofia lo insegnasse: l’umanità già lo sapeva da secoli parecchi. E sa anche che bisogna agire non solo conformemente al dovere, a anche per il dovere. Perché cos’è il dovere? Non è forse la volontà di Dio e non la nostra volontà? Non basta dire che la legge del dovere ci impone: « Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio d’una legislazione universale; io mi domando: perché la mia massima può divenire legge universale? E rispondo: non già perché ho in me un principio sintetico a priori in una « facoltà misteriosa » che « la ragione umana non potrà mai capire » e che si chiama coscienza; ma perchè il centro della realtà è Dio: da Lui dipendono gli esseri ed i loro rapporti; l’individuo singolo o l’umanità intera debbono inchinarsi a queste leggi intrinseche della realtà, le quali, se osservate, conducono allo sviluppo ed al perfezionamento nostro; se violate, conducono alla catastrofe. – Quando la morale cristiana comanda di fare il dovere non per egoismo, ma per Dio, non insegna forse a compiere il dovere per il dovere? Certo: non è un dovere, che venga fissato da me, ma solo da me riconosciuto; è un dovere, che mi dice la voce di Dio e non solo la voce del mio io; ed è altresì un dovere, una legge che abbraccia solo una parte della attività morale. – Non bisogna illudersi su quest’ultimo punto. L’invocazione al dovere, nome grande e sublime, non ci porta alla vetta più alta della morale. Al di sopra della morale del dovere c’è la morale dell’amore, anche se Kant ed i suoi seguaci non se ne sono accorti. Prendiamo un semplice esempio. I missionari, che dall’Europa vanno fra i lebbrosi dell’America del Sud e si richiudono in quei lazzaretti, dove, pochi anni dopo, muoiono vittime della carità; e tutto l’esercito sterminato di Suore, che sacrifica la propria giovinezza e la vita intera nelle corsie degli ospedali, non sono forse persone che ci parlano di morale non a parole, ma a fatti? Eppure, secondo Kant e gli idealisti, sono persone… immorali!… Non si rida: è la realtà. Per Kant è azione morale solo quella che si compie per il dovere. Ora, quale dovere avevano quei missionari di recarsi in un lebbrosario? E chi di voi potrebbe dire a una figlia, nel fiore degli anni: « Tu hai il dovere di rinunciare alle tue ricchezze, alle tue comodità, alla tua casa, al tuo avvenire, alle gioie d’una famiglia; tu hai il dovere di consacrarti tutta agli infermi; hai il dovere di star là, per tutta la vita in un ospedale? ». Gli eroi della carità non sono spinti dall’imperativo categorico del dovere. C’è un nome più grande e sublime del dovere stesso: è l’amore, nel suo senso più alto e divino, anche quando i suoi consigli non possono divenire « principio di una legislazione universale ». Ed è, anzi, l’amore, che, come vedemmo, fa sì che lo stesso dovere sia compiuto, non per un semplice amore o puro rispetto della « legge », ma per amore del legislatore. Ma allora, si obbietterà, la mia personalità umana è schiacciata! Allora la dignità dell’uomo resta distrutta! Allora dobbiamo subire una legge capricciosa, tirannica, d’un Essere che non è il mio essere e che mi comanda, come il negriero comanda alle sue vittime! Allora abbiamo « l’eteronomia! »… Non è vero. Non giochiamo, innanzi tutto, con le frasi. Pare a qualcuno, quando pronuncia questa parola: « eteronomia », di avere espre o chi sa quale idea mirabilmente profonda, quasi che il problema della vita si potesse risolvere con una parola greca italianizzata o tedeschizzatal La legge morale, nella concezione cristiana, non è mai stata una imposizione capricciosa di un Dio tiranno, nemico della dignità e della grandezza dell’uomo. Abbiamo visto come tale legge pullula dalla realtà stessa ed è il dettame della ragione; perciò non ha nulla di cervellotico, di arbitrario. Non da un tiranno, ma dall’Amore essa proviene e, seguendola, diventiamo non schiavi, bensì liberi. È una legge non asservitrice, ma liberatrice; non ci incatena, ma spezza i ceppi delle passioni e degli istinti irrazionali; non schiaccia, ma vivifica ed innalza. Finiamola di rappresentarci materialisticamente Iddio come qualcosa di esterno a noi. « Dio è più intimo in noi, di ciò che in noi vi è di più intimo », ammoniva sant’Agostino, ripetendo san Paolo ed il Vangelo. Ed anche il soprannaturale, ossia la divinizzazione nostra, non è qualcosa di estrinseco, che pesi sopra di noi e non ci pervada nelle intimità profonde della nostra anima. L’idealismo si balocca con immagini spaziali là dove lo spazio non c’entra, forse per darci un compenso alle negazioni dello spazio, là dove lo spazio esiste. Ciò che importa notare è che dall’amore di Dio, e non dal nostro io, abbiamo l’esistenza, la natura umana e la soprannatura. Se per eteronomia s’intende che noi non abbiamo creato noi stessi e che per il nostro sviluppo spirituale abbiamo avuto bisogno degli altri, dei genitori, dei maestri, della società, e soprattutto di Dio, allora noi siamo difensori di essa; ma crediamo che ogni uomo ragionevole lo sarà con noi. Se, al cont ario, si intende per eteronomia l’oppressione della nostra dignità, della nostra libertà, della nostra grandezza spirituale, nulla di meno eteronomo del Cristianesimo e della morale cristiana. Quest’ultima non trascura Dio e gli altri; ma guarda anche al nostro io. Noi non possiamo porre un atto morale, se non mediante l’attività nostra libera, il nostro libero consenso, il nostro libero atto di amore. E non sta forse qui il merito e la cooperazione umana? Noi siamo uomini; e questa dignità di uomo, questa natura di essere umano non è merito nostro. Noi siamo figli di Dio; e questa dignità di uomini divinizzati, questa soprannatura, non è merito nostro. Tutto ciò lo dobbiamo all’amore di Dio per noi. Ma, per merito nostro, noi rispondiamo all’amore di Dio per noi con l’amore nostro per Lui. Sviluppando le nostre energie spirituali e la nostra personalità morale, agendo liberamente secondo la legge etica, noi cooperiamo alla nostra formazione. Questo contributo personale è essenziale all’atto morale, tanto che non abbiamo moralità se non quando raggiungiamo l’uso della ragione e se non quando agiamo coscienti e liberi. Dio e la sua grazia, in altri termini l’amore di Dio per noi, non annullano, ma potenziano il nostro spirito; non rendono inutile la nostra attività, ma la eccitano, l’aiutano e la sospingono al più alto grado di intensità; non sono l’annegamento del soggetto, ma tendono alla sua più potente affermazione. Le più grandi personalità morali, le più grandi anime, non sono state forse formate dal Cristianesimo?

6. Conclusione.

Quand’era giovane, Enrico Ibsen compose un poema epico, dal titolo significativo: Sulle altezze. Descriveva un cacciatore, che, abbandonata la valle, la madre, la fidanzata ed il campanile, era salito sulla montagna. Lassù, su la cima, aveva incontrato uno straniero venuto da lontano, dagli occhi freddi e profondi, che lo suggestionò, lo conquise, lo dominò. Ogni volta che il cacciatore era tentato di ridiscendere, l’altro lo strappava ai ricordi e lo teneva in alto. Dalla valle la campana della chiesa lanciava alle vette la voce suadente, che pareva un invito dolce al ritorno; ma lo straniero diceva: « Lascia suonare! Il canto della cascata ha un suono più armonioso! ». Il giovane si lasciò convincere; dimenticò tutto per conquistare una sola cosa: la sua libertà. Anche a noi, sul monte dell’orgoglio, appare la visione seduttrice. E ci sembra di essere in alto, di poter svolgere su libere altezze, sfrenata e bella, la vita, e di dare la legge a noi stessi, senza riceverla da nessuno. Ma altri monti non possiamo dimenticare, il monte delle Beatitudini ed il monte dell’amore, il Calvario. Ed Uno, forse per qualcuno dei miei lettori ancora « straniero », ci guarda negli occhi su quelle vette e da quella Croce. È un Dio che ha umiliato se stesso, e che sacrificandosi ci salva, ci divinizza, salva e divinizza il mondo. Nessun canto di cascata ha un suono più armonioso dell’appello che parte da quelle labbra e, meglio ancora, da quel costato trafitto, dal Cuore di quel Crocifisso.