UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “MILITANTIS ECCLESIÆ”

Militantis Ecclesiae è una lettera Enciclica inviata ai Vescovi tedeschi in occasione del III centenario della morte di S. Pietro Canisio, grande diffusore della verità cattolica presso quei popoli martoriati dalla peste del protestantesimo in atto. Oltre alla vita ed alle opere del Santo, il Santo Padre si dilunga sapientemente sulla didattica scolastica, fruttuosa solo se basata e costruita come solido edificio sulla morale cattolica radicata sul dogma cristiano. Così possiamo vedere la differenza con l’attuale orientamento scolastico dei Paesi “laici”, che si guardano bene dal fornire i mezzi per la conoscenza e la pratica cristiana, imbevuti come sono, fino all’esasperazione, di “massonismo” pseudo ecumenico ed indifferentista, appoggiati da una finta chiesa modernista con cui condividono ideologia e “succulenti prebende”… Godiamoci questa magnifica lettera e, invocando la venuta di un novello Pietro Canisio, preghiamo con pazienza accelerando la venuta del Signore Gesù tutti uniti strettamente nel suo Corpo mistico, di cui sono membri solo i veri Cattolici, perché ripristini le condizioni di vita cristiana ed essi formino un’armata compatta sotto la guida dell’Immacolata contro le falangi infernali operanti in ogni struttura ed in ogni ambito.

Leone XIII
Militantis Ecclesiae

Lettera Enciclica

III centenario della morte del beato Pietro Canisio
(ora santo)

1 agosto 1897

Il bene della Chiesa militante, e così pure il suo onore, esorta a celebrare più spesso con rito solenne la memoria di coloro che per la loro straordinaria virtù e pietà furono innalzati alla gloria della Chiesa trionfante. Mediante questi segni di onore infatti si insinua il ricordo dell’antica santità, cosa sempre opportuna, utilissima poi in questi tempi infausti per la fede e la pietà. E proprio nel presente anno, per la benevolenza della divina provvidenza, è concesso a Noi di rallegrarci per il compiersi del terzo centenario della morte di Pietro Canisio, uomo di eccelsa santità, con l’unico intento di incitare gli animi dei buoni a quelle arti mediante le quali lui stesso venne in aiuto in modo tanto efficace alla società cristiana. Il nostro tempo infatti presenta non poche analogie con i tempi nei quali operò il Canisio, quando la bramosia di novità e l’avvento tumultuoso di una cultura più libera furono seguiti dallo smarrimento della fede e dalla decadenza dei costumi. Ad allontanare questa duplice peste da tutti, ma soprattutto dalla gioventù, si adoperò questo apostolo della Germania, secondo dopo Bonifacio, e non solo con opportune predicazioni o con la sottigliezza delle dispute, ma soprattutto con l’istituzione delle scuole e con la stampa di ottimi libri. Avendo seguito i suoi esempi preclari, anche molti altri uomini volonterosi del vostro popolo, usando le medesime armi contro un genere di nemici per nulla grossolano, mai trascurarono, per la difesa e la dignità della Religione, di custodire ogni nobile disciplina e di perseguire con animo ardente ogni esercizio delle arti oneste, con il favore e l’approvazione dei Romani Pontefici, che sempre si preoccuparono con grande sollecitudine di custodire l’antica grandezza delle lettere, e di far sì che ogni espressione di umana civiltà ricevesse di giorno in giorno sempre nuovi incrementi. E voi ben sapete, venerabili fratelli, che la cosa che sempre Ci è stata più cara è l’educazione corretta e salutare dell’adolescenza; a questo, per quanto Ci è stato possibile, abbiamo sempre guardato con attenzione. Ora poi utilizziamo volentieri la presente occasione, presentando l’esempio del valoroso condottiero Pietro Canisio agli occhi di coloro che negli accampamenti della Chiesa militano per Cristo, affinché, forti del pensiero che alle armi della giustizia si debbano associare le armi della cultura, possano più energicamente e vittoriosamente servire la causa della Religione. – Quanto sia stato gravoso l’impegno assunto da quell’uomo zelantissimo della fede cattolica, appare facilmente a coloro che considerano con attenzione il volto della Germania agli inizi della ribellione luterana. Modificati i costumi, di giorno in giorno sempre più degradati, fu facile il passaggio all’errore; e lo stesso errore poi condusse a maturazione la definitiva rovina dei costumi. Così, a poco a poco, molti si allontanarono dalla fede cattolica; quindi il virus del male si diffuse ampiamente in quasi tutte le province e contaminò uomini di ogni condizione e fortuna, al punto che nella mente di molti si consolidò l’opinione che la causa della Religione in questo regno fosse ormai totalmente perduta, e che non ci fosse ormai più alcun rimedio per curare la malattia. E senza dubbio non ci sarebbe stato più nulla da fare riguardo alle cose supreme, se Dio non fosse intervenuto con efficace soccorso. C’erano ancora in Germania uomini di antica fede, ragguardevoli per la cultura e lo zelo della Religione; c’erano i principi della Casa Bavarese e Austriaca, e soprattutto il re dei romani Ferdinando, primo del suo nome, per i quali era un dato indiscusso la protezione e la difesa con tutte le loro forze della causa cattolica. E Dio donò alla Germania in pericolo un nuovo e di gran lunga il più valido soccorso, la Compagnia di Gesù, nata opportunamente proprio in quella tempesta, e a questa, primo fra i tedeschi, diede il suo nome Pietro Canisio. – Non dobbiamo qui ora ripercorrere tutti gli aspetti dell’esemplare santità di quest’uomo; con quale impegno si sia preso cura della patria lacerata da dissidi e sedizioni, per ricostituire un comune sentire degli animi e l’antica concordia; con quale ardore abbia combattuto nelle dispute con i maestri dell’errore, con quali discorsi abbia incitato gli animi, quali fastidi abbia sopportato, quante regioni abbia percorso, quante faticose missioni abbia intrapreso per la causa della fede. Prendiamo in considerazione soltanto le armi della cultura; con quale costanza le ha esposte, con quale prudenza, con quale senso di opportunità! Quando ebbe fatto ritorno da Messina, dove si era recato come maestro della parola, subito si impegnò con singolare energia ad insegnare le sacre discipline nelle Università di Colonia, Ingolstadt e Vienna, e seguendovi la via regale della scuola cristiana dei dottori di sicura fama, aprì le menti dei tedeschi alla grandezza della teologia scolastica. Dal momento che in quel tempo i nemici della fede da questa si tenevano lontani con supremo disgusto, poiché su di essa si fondava principalmente la fede cattolica, proprio questo metodo di studio cercò di rimettere pubblicamente in auge nei licei e nei collegi della Compagnia di Gesù, che lui stesso aveva contribuito a realizzare con tanta fatica e lavoro. E lui stesso non si vergognò affatto di calarsi dalla sapienza più alta ai primi elementi degli studi letterari, e di accogliere fanciulli da istruire, scrivendo proprio per loro dei libri di letteratura e delle grammatiche. Contemporaneamente, dalle dimore dei principi, nelle quali teneva le sue orazioni, tornava spesso alle prediche al popolo, al punto che, mentre scriveva le cose più alte, sia in ordine a controversie dottrinali che sui costumi, metteva mano anche alla composizione di opuscoli che rafforzassero la fede del popolo e suscitassero e nutrissero la sua pietà. Degna di grande ammirazione per la sua utilità nel preservare dal laccio dell’errore gli inesperti fu la sua pubblicazione di una Summa della dottrina cattolica, opera densa e concisa, chiarissima nel suo limpido latino, non indegna dello stile dei padri della Chiesa. A questa splendida Opera, che fu accolta dai dotti in tutti i regni europei con unanime lode, sono inferiori per la mole, ma non per l’utilità, quei due famosissimi Catechismi, scritti da quel santo uomo ad uso degli indotti, uno per istruire sulla religione i fanciulli, l’altro per istruire su di essa gli adolescenti che si dedicano allo studio delle lettere, Tutti e due, non appena furono pubblicati, conobbero un così grande successo fra i Cattolici, da essere fra le mani di tutti coloro che insegnavano le verità fondamentali della fede cristiana; e non venivano usati soltanto nelle scuole, quasi come latte da sorbirsi dai fanciulli, ma venivano pubblicamente spiegati per l’utilità di tutti nelle chiese. È successo così che il Canisio per trecento anni è stato considerato il maestro comune dei Cattolici di Germania, al punto che nella coscienza del popolo queste due affermazioni avevano lo stesso significato, conoscere il Canisio, e tenere saldamente la verità cristiana. – Questi scritti del nostro santo indicano chiaramente a tutti i buoni la via da seguire. Sappiamo poi, venerabili fratelli, che questa gloria della vostra gente è magnifica: usatela con sapienza e in modo felice per promuovere con intelligenza e passione l’onore della patria e per conseguire il bene privato e pubblico. In verità è del massimo interesse che chiunque fra di voi è sapiente e buono, si adoperi con forza a favore della Religione; diriga al suo decoro e difesa ogni luce della mente e tutte le risorse delle scienze letterarie; e con il medesimo proposito, colga subito e si impadronisca con la conoscenza di qualsiasi cosa che in ogni ambito porti al bene, sia con l’incremento delle arti che della cultura. Infatti, se mai vi fu un tempo in cui, per la difesa del Cattolicesimo, fosse richiesto in modo speciale una grande cultura ed una grande erudizione, questo è proprio il nostro tempo, nel quale un più rapido progresso in ogni campo della cultura umana, offre talvolta ai nemici del nome cristiano lo spunto per combattere la fede. Per respingere l’attacco di costoro, bisogna far ricorso a forze di pari valore; occupare per primi le posizioni e strappare dalle loro mani le armi con le quali si sforzano di spezzare ogni legame fra le cose divine e quelle umane, I cattolici interiormente così preparati e a dovere formati, potranno facilmente dimostrare che la fede divina non solo non si contrappone alla cultura umana, ma è anzi di questa come il coronamento e il fastigio.
Anche in quelle cose in cui maggiore sembra essere la distanza, o in cui sembra esservi opposizione, la fede può molto facilmente accordarsi con la filosofia e ad essa associarsi, al punto di illuminarsi l’una con l’altra in modo sempre più grande; la natura non è nemica, ma compagna e ancella della religione.
Con il suo aiuto non solo tutte le conoscenze si arricchiscono, ma le lettere e tutte le arti ricevono maggiore vigore e vitalità. Quanto poi pervenga alle sacre dottrine di ornamento e di dignità dalle discipline profane, lo può facilmente comprendere chi ben conosce la natura umana, incline a tutto ciò che colpisce piacevolmente i sensi. Perciò, presso i popoli che eccellono sugli altri per la loro cultura, a stento si presta una qualche fiducia ad un sapienza rozza, e soprattutto i dotti non prestano attenzione a quelle cose che non si accompagnino ad una forma bella ed elegante. Ora noi siamo debitori ai dotti non meno che agli ignoranti: dobbiamo stare con i primi nel combattimento, dobbiamo sostenere questi ultimi quando vacillano e rafforzarli.
E’ qui in verità il campo si aprì davanti alla Chiesa con estrema larghezza. Infatti, appena essa riprese vigore dopo le lunghe persecuzioni, vi furono uomini di grande dottrina che con il loro ingegno e la loro scienza illustrarono quella fede che per l’innanzi uomini di grande coraggio avevano suggellato con il loro sangue. In questa lode per primi operarono concordi i padri, e lo fecero con tale vigore, che non potrà mai esserci nulla di più valido; e lo fecero il più delle volte con espressione dotta, degna delle orecchie dei romani e dei greci, Spronati quasi come da aculei dalla dottrina e dall’eloquenza di costoro, molti in seguito si gettarono con tutte le loro forze nello studio delle sacre verità, e raccolsero un patrimonio cosi’ grande di Sapienza cristiana, nel quale, in ogni successivo periodo della Chiesa, gli uomini fossero in grado di trovare tutto quanto potesse loro servire a sradicare le antiche superstizioni, o a distruggere i nuovi flagelli degli errori. In ogni tempo si trovò sempre una grande abbondanza di uomini dotti, anche in quel periodo in cui tutto ciò che vi era di più prezioso fu esposto alla furia e alla rapina dei barbari e quasi cadde nella trascuratezza e nella dimenticanza. Al punto che, se quegli antichi preziosi prodotti della mente e della mano dell’uomo, se quelle cose che un tempo furono in sommo onore presso i romani e i greci non andarono completamente perdute, tutto questo deve essere ascritto a merito del lavoro e della diligenza della Chiesa. – Dal momento che lo studio della scienza e delle arti apporta alla Religione una luce così grande, senza alcun dubbio coloro che si sono totalmente consacrati agli studi è necessario che adoperino tutta la loro solerzia non solo per pensare, ma anche per agire, affinché le loro conoscenze non rimangano chiuse in loro stessi e sterili. I dotti quindi mettano i loro studi a servizio della comunità cristiana e dedichino il loro tempo libero al bene comune, e cosi’ le loro conoscenze non sembreranno restare inconcludenti, ma saranno congiunte con la realtà dell’azione. Questa azione si evidenzia soprattutto nell’educazione dei giovani; e quest’opera è di così grande valore che richiede per sé la maggior parte dell’impegno e della sollecitudine. Proprio per questo, venerabili fratelli, vivamente vi esortiamo affinché vegliate a custodire nelle scuole l’integrità della fede, oppure, qualora fosse necessario, affinché ad essa queste siano con sollecitudine ricondotte; sia quelle di antica fondazione, come quelle che sono state aperte di recente; sia quelle dedicate all’infanzia, sia quelle che vengono chiamate medie ed universitarie. Gli altri Cattolici delle vostre regioni cerchino in primo luogo ed ottengano che nell’educazione degli adolescenti siano garantiti e salvaguardati i diritti propri dei genitori e della Chiesa. – A questo riguardo, bisogna prendersi cura specialmente delle cose che seguono. Prima di tutto, bisogna che i Cattolici abbiano, specialmente per i bambini, delle scuole proprie e non miste [pluriconfessionali], e che siano scelti degli ottimi maestri, assolutamente fidati. L’insegnamento in cui la realtà religiosa è erronea o assente è pieno di pericoli, e vediamo che questo spesso succede nelle scuole che abbiamo chiamato miste. Nessuno si lasci facilmente persuadere che si possa senza pericolo separare la pietà dall’istruzione. Infatti, se nessun periodo della vita umana, sia nelle cose pubbliche che in quelle private, può fare a meno della funzione della Religione, tanto meno può essere privata di quella funzione quell’età inesperta, di fervido ingegno, e posta fra le tante tentazioni della corruzione. Chi dunque organizza l’insegnamento in modo tale che non abbia nessun punto di contatto con la Religione, corrompe gli stessi germi del bello e dell’onesto e prepara non un presidio alla patria, ma la peste e la rovina del genere umano. Chi infatti, tolto di mezzo Dio, potrà ancora trattenere gli adolescenti nel dovere, o ricondurre quelli che hanno deviato dai retti sentieri della virtù e che sono caduti nel baratro dei vizi? – È necessario poi che la Religione venga insegnata ai giovani non soltanto in certe ore, ma bisogna che tutta l’educazione sia impregnata del modo di sentire della pietà cristiana. Se questo viene meno, se questo sacro alito non pervade e non scalda l’anima dei docenti e dei discenti, si raccoglieranno pochi frutti dall’insegnamento; e invece ne deriveranno spesso gravi danni. – Quasi tutte le discipline hanno i loro pericoli, e questi difficilmente potranno essere evitati dagli adolescenti se alle loro menti e alle loro volontà non vengono posti dei freni divini. Bisogna perciò fare molta attenzione affinché non venga posto in secondo piano ciò che è l’essenziale, cioè il culto della giustizia e della pietà; affinché nella gioventù, costretta soltanto alle cose che si vedono con gli occhi, non si atrofizzi ogni vigore di virtù; affinché i maestri, mentre insegnano con grande fatica le pedanterie dell’istruzione e analizzano sillabe e accenti, non siano poi solleciti di quella vera sapienza il cui “inizio è il timore del Signore”, ed ai cui precetti ci si deve conformare in tutti i momenti della vita. La conoscenza delle molte cose abbia perciò unita a sé la cura della perfezione dello spirito; la Religione informi e diriga a fondo ogni scienza, qualunque essa sia, e colpisca con la sua maestà e soavità, da rimanere così come un pungolo negli animi degli adolescenti.
Siccome fu sempre intenzione della Chiesa che ogni genere di studi servisse principalmente alla formazione dei giovani, è necessario che questa materia di studio non solo abbia il suo posto, e un posto speciale, ma è ugualmente necessario che nessuno possa svolgere un insegnamento così importante, se prima non sia stato riconosciuto idoneo a tale insegnamento dal giudizio e dall’autorità della Chiesa stessa. – Ma non è soltanto nelle scuole dei fanciulli che la Teligione reclama i sui diritti. Vi fu un tempo in cui negli statuti di ogni Università, in primo luogo di quella di Parigi, era disposto che tutti gli studi fossero orientati alla teologia, in modo tale che nessuno fosse ritenuto giunto al supremo livello della sapienza, se non avesse conseguito la laurea in questa disciplina. Il restauratore dell’età Augustale Leone X, e dopo di lui gli altri Pontefici Nostri predecessori, vollero che l’Ateneo romano e le altre cosiddette Università degli studi, quando ardevano le empie guerre contro la Religione, fossero come solide fortezze, dove, sotto la guida e l’autorità della sapienza cristiana, venissero istruiti i giovani. Un ordinamento degli studi siffatto, che dava il primo posto a Dio e alle cose sacre, portò ottimi frutti; certamente fece sì che i giovani così istruiti fossero maggiormente fedeli al loro dovere. Questo positivo risultato potrà rinnovarsi anche presso di voi, se voi cercherete con tutte le vostre forze di ottenere che nelle scuole medie, nei ginnasi, nei licei e nelle università, vengano assicurati alla Religione i suoi propri diritti. – Non succeda però mai che anche ottimi consigli siano vanificati, e venga intrapresa una inutile fatica, qualora venisse meno l’accordo degli animi e la concordia nell’azione. Che cosa potranno mai fare le forze divise dei buoni, contro l’impeto unito dei nemici? O a che cosa servirà il coraggio dei singoli, dove venga meno una comune regola di condotta? Per questo vi esortiamo grandemente affinché, tolte di mezzo le inopportune controversie e le contese di parte, che possono con facilità dividere gli animi, tutti consentano in modo univoco a procurare il bene della Chiesa, e, riunite le forze, tendano a quest’unica cosa e manifestino un’unica volontà, “cercando si conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace” (Ef 4,3). – Ci ha persuasi a fare queste ammonizioni la memoria e la commemorazione di un grande Santo; e volesse il cielo che i suoi esempi luminosi si imprimessero negli animi e li muovessero a quel suo amore della sapienza che non può recedere mai dal lavorare per la salvezza degli uomini e dal difendere la dignità della Chiesa, Confidiamo quindi che voi, venerabili fratelli, che in questo avete una particolare sollecitudine, troverete sicuramente tra i dotti numerosi soci e compagni in questo glorioso lavoro. Ma questa nobile impresa, quasi deposta nel loro seno, la potranno soprattutto attuare coloro che sono stati dalla divina .provvidenza incaricati del magnifico compito di istruire la gioventù. Se costoro ricorderanno, cosa cara agli antichi, che la scienza separata dalla giustizia deve essere chiamata astuzia piuttosto che sapienza, o meglio, se presteranno attenzione a quanto dicono le sacre Scritture “vani sono… tutti gli uomini nei quali non c’è la scienza di Dio” (Sap 13,1), impareranno ad usare le armi della scienza non solo per la loro personale utilità, ma per la comune salvezza. Potranno infine sperare di ottenere, dal loro lavoro e dalla loro operosità, i medesimi frutti che ottenne un tempo Pietro Canisio nei suoi collegi e nei suoi istituti, formare cioè dei giovani docili e virtuosi, ornati di buoni costumi, che detestano con forza gli esempi dei cattivi, e che sono solleciti della scienza e della virtù. Quando la pietà avrà posto nell’animo di questi giovani più solide radici, sarà quasi del tutto scomparso il pericolo che essi possano essere intaccati da opinioni perverse o che possano deflettere dalla loro precedente vita virtuosa. E in costoro che la Chiesa e la società civile ripongono le loro migliori speranze essi saranno in futuro illustri cittadini e, con il loro consiglio, la loro prudenza, la loro cultura potranno essere salvaguardati l’ordinamento civile e la tranquillità della vita domestica. – Per il resto, a Dio ottimo massimo, che è il “Signore delle scienze”, alla sua vergine Madre, che è chiamata “Sede della sapienza”, forti dell’intercessione di Pietro Canisio, che per la gloria della sua dottrina ha così bene meritato dalla Chiesa Cattolica, innalziamo le Nostre preghiere, affinché sia possibile essere partecipi dei voti che abbiamo formulato per l’incremento della Chiesa stessa e per il bene della gioventù. Fiduciosi di questa speranza, a voi singolarmente, venerabili fratelli, e a tutto il vostro clero e popolo, auspice dei doni celesti e testimone della Nostra paterna benevolenza, impartiamo di tutto cuore l’apostolica benedizione.

Roma, presso San Pietro, il 1 agosto 1897, ventesimo anno del Nostro pontificato.

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE 2023

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi

Durante la festa di Pentecoste la Chiesa ha ricevuto la manifestazione dello Spirito Santo e la liturgia di questo giorno ce ne mostra le felici conseguenze. Questo Spirito ci rende figli di Dio, tanto che possiamo dire in tutta verità: “Padre nostro; siamo quindi assicurati dell’eredità del cielo (Ep.): ma per questo bisogna che, vivendo per opera di Dio, noi viviamo secondo Dio (Oraz.) lasciandoci indurre in tutto dallo Spirito di Dio (Ep.), cosi Egli ci accoglierà un giorno nei tabernacoli eterni (Vang.). Sta qui la vera sapienza di cui ci parla la storia di Salomone, della quale in questa settimana si continua la lettura nel Breviario; qui sta la grande opera alla quale il re dedicò tutta la sua vita. – Salomone costruì il Tempio del Signore nella città di Gerusalemme, secondo la volontà di David suo padre, che non aveva potuto edificarlo egli stesso per le continue guerre che i nemici gli avevano mosso contro. Salomone impiegò tre anni a preparare il materiale, cioè le pietre che ottantamila uomini estraevano dalle cave di Gerusalemme e il legno di cedri e cipressi che trentamila uomini abbattevano sul Libano nel regno dell’Iram (V. Domenica prec.). – Quando tutto fu pronto si cominciò, nel 480° anno dopo l’uscita dall’Egitto, la costruzione che durò sette anni. Pietre da taglio, legno e fregi ornamentali erano stati così esattamente misurati prima, che i lavori si compivano nel più grande silenzio. Nella casa di Dio non si sentiva colpo di martello, né ascia, né altro strumento di ferro durante il tempo che si edificava. Salomone prese come piano quello del tabernacolo di Mosè; ma gli diede proporzioni più vaste e vi accumulò tutte le ricchezze che poté. I soffitti e i pavimenti di legni preziosi erano rivestiti da placche di oro, gli altari e le tavole erano ricoperti di oro, i candelabri e i vasi erano di oro massiccio. Tutte le mura del tempio erano ornate da cherubini e da palmizi coperti di oro. A lavori terminati, Salomone consacrò con grande solennità questo Tempio al Signore. In presenza di tutti gli Anziani di Israele e di un popolo immenso appartenente alle dodici tribù, i sacerdoti trasportavano l’Arca dell’alleanza nella quale si trovavano le tavole della legge di Mosè, sotto le ali spiegate di due cherubini, ricoperte di oro e alte dieci cubiti, che si innalzavano nel santuario. Si immolarono anche migliaia di pecore e di buoi e, quando i sacerdoti uscirono dal Sancta Sanctorum, una nube riempì la casa del Signore. Allora Salomone levando gli occhi verso il cielo, domandò a Dio di ascoltare le suppliche di tutti quelli, Israeliti o estranei, che sarebbero venuti in differenti circostanze, felici o infelici, nella loro vita, a pregarlo in questo luogo che era stato a Lui consacrato. Gli domandò anche di esaudire tutti quelli che, con la faccia rivolta verso Gerusalemme e verso il Tempio, gli avrebbero indirizzato le loro suppliche, per mostrare che Egli aveva scelta questa casa per sua residenza e che non vi era in nessun luogo altro Dio, che quello d’Israele. – Le feste della Consacrazione del Tempio durarono quattordici giorni in mezzo a sacrifici e banchetti sacri. E il popolo se ne tornò benedicendo il re e sentendo riconoscenza per tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele dal giorno dell’alleanza sul Sinai. Il Signore apparve allora una seconda volta a Salomone e gli disse: « Ho esaudita la tua preghiera, ho scelto e benedetto il tempio che mi hai innalzato; là saranno sempre i miei occhi ed il mio cuore per vegliare sul mio popolo fedele ». Nella Messa di questo giorno la Chiesa canta alcuni versetti di sei Salmi differenti che riassumono tutti i pensieri espressi da Salomone nella sua preghiera: « Il Signore è grande e degno di lode nella città del nostro Dio, sulla sua montagna santa » (l’Intr., Alt.). « Chi è dunque Dio se non il Signore?» (Off.). È nel suo tempio che si riceve la manifestazione della sua misericordia » (Intr.) e che « si prova e si sente quanto il Signore sia dolce » (Com.), poiché Egli è « per tutti quelli che sperano in Lui, un Dio protettore e un luogo di rifugio » (Grad.), — Come il regno di Salomone fu una specie di abbozzo e di figura del regno di Cristo (2° Nott.), cosi il tempio che egli innalzò a Gerusalemme non fu che una figura del cielo nel quale Dio risiede ed esaudisce le preghiere degli uomini. È sulla montagna santa e nella città di Dio (All.) che noi andremo un giorno a lodarlo per sempre. L’Epistola ci dice che se noi vivremo di Spirito Santo, facendo morire in noi le opere della carne saremo figli di Dio, e che da quel momento, eredi di Dio e coeredi di Cristo, entreremo nel cielo che è il luogo della nostra eredità. Ed il Vangelo completa questo pensiero dicendoci, sotto forma di una parabola, quale sia l’uso che dobbiamo fare delle ricchezze d’iniquità per assicurarci l’entrata nei tabernacoli eterni. Un fattore infedele, accusato di aver dissipato i beni del padrone, si procura degli amici con i beni che questi gli aveva affidato, per avere, dopo essere stato cacciato, « persone pronte ad accoglierlo nelle proprie case ». I figli della luce, dice Gesù, contendano per zelo coi figli del secolo, e, imitando la previdenza di questo fattore, utilizzino i beni, che Dio ha messi a disposizione loro per venire in aiuto dei bisognosi e si faccianoamici nel cielo, perché quelli che avranno sopportato cristianamente le privazioni sulla terra, entreranno lassù e renderanno testimonianza ai loro benefattori nel momento in cui tutti dovrann orendere conto al divino Giudice della loro amministrazione (Vang.)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis tuis, perdúcat te ad vitam ætérnam.
S. Amen.
S. Indulgéntiam,
absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

Introitus

Ps XLVII: 10-11.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Ps XLVII: 2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus.

[Grande è il Signore, e degnissimo di lode nella sua città e nel suo santo monte.]

Ps XLVII: 10-11 Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Largíre nobis, quǽsumus, Dómine, semper spíritum cogitándi quæ recta sunt, propítius et agéndi: ut, qui sine te esse non póssumus, secúndum te vívere valeámus.

[Concedici propizio, Te ne preghiamo, o Signore, di pensare ed agire sempre rettamente; così che noi, che senza di Te non possiamo esistere, secondo Te possiamo vivere.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII: 12-17

Fratres: Debitóres sumus non carni, ut secúndum carnem vivámus. Si enim secúndum carnem vixéritis, moriémini: si autem spíritu facta carnis mortificavéritis, vivétis. Quicúmque enim spíritu Dei aguntur, ii sunt fílii Dei. Non enim accepístis spíritum servitútis íterum in timóre, sed accepístis spíritum adoptiónis filiórum, in quo clamámus: Abba – Pater. – Ipse enim Spíritus testimónium reddit spirítui nostro, quod sumus fíli Dei. Si autem fílii, et herédes: herédes quidem Dei, coherédes autem Christi.

(“Fratelli: Non abbiam alcun debito versa la carne per vivere secondo la carne. Se, pertanto, vivrete secondo la carne, morrete; se, al contrario, con lo spirito farete morire le opere della carne, vivrete. Poiché, quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Invero, non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, ma avete ricevuto lo spirito di adozione in figliuoli, per il quale gridiamo «Abba! (o Padre)». E lo Spirito Santo stesso attesta al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. Ora, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo”).

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.]

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Che grande parola ha detto il Cristianesimo agli uomini quando ha detto loro: voi siete figli di Dio! Fuori del Cristianesimo, osservate, l’uomo o è avvilito o è adulato. Gli spregiatori dicono all’uomo: sei una scimmia, appena un poco più perfezionato. Gli adulatori dicono: sei un Dio, sei Dio… E gli uni e gli altri dicono parole che hanno sapore di falsità e riescono moralmente funeste; perché è funesta l’abbiezione del bruto, come è funesto l’orgoglio di un falso iddio, di un idolo. Il Cristianesimo appaga e non solletica i nostri istinti, le nostre aspirazioni di grandezza, quando ci dice: voi siete figli di Dio. Purtroppo noi abbiamo fatto l’abitudine a questa parola, ed essa, che dovrebbe riempirci di gioia e di legittimo orgoglio, per poco non ci lascia indifferenti. – Ma non fu così per le prime generazioni cristiane. San Paolo si esalta, si entusiasma analizzando e quasi assaporando la frase. Per meglio gustarla e illuminarla, Paolo contrappone la sorte nostra, di noi Cristiani, a quella dei Giudei, che furono pure per tutto il mondo antico, e prima che venisse Gesù, i depositari della religione vera. Ma quella loro religione era pervasa da un suo spirito, perché dominata da una sua idea. Lo spirito onde l’anima giudaica era pervasa nel suo momento religioso, ben s’intende, era spirito di timore, anzi di timore servile, perché per il fedele giudeo cresciuto alla scuola di Mosè e della sua Legge, Dio era il Padrone, il grande, il vero padrone, il Re, il Sovrano, alla guisa orientale. L’anima, davanti a quel padrone, temeva e tremava. Era la forza specifica della sua adorazione. San Paolo ne aveva fatta l’esperienza: aveva tremato anche lui e sofferto insieme e goduto di quel timore. Più sofferto che goduto, perché la sua anima avrebbe voluto aprirsi a sensi più nobili, come sono i sensi dell’affetto. Ma la vecchia legge non glielo consentiva. Ed ecco sopraggiungere Gesù, non più semplice profeta, e servo, ma Figlio di Dio veracemente, propriamente. Ed ecco annunziare agli uomini, coll’autorità sua di Figlio, che Dio è per noi e vuole essere Padre « Pater noster; » Padre già per diritto e fatto di creazione, ma assai più e meglio per diritto e fatto di redenzione; Padre dacchè ci ha dato per fratello vero il vero e unico suo Figlio. – Chiamarsi così per noi non è più una usurpazione — come non fu usurpazione per Gesù il dirsi eguale al Padre — o una metafora: è un diritto. Guardate — dirà un altro Apostolo agli stessi primi Cristiani, — quale carità ci ha usato il Signore, dandoci nome e realtà di suoi figlioli: « ut filì Dei nominemur et simus ». Il Cristianesimo ha fatto e fa lievitare in noi, in noi esalta tutti quegli elementi che già costituiscono un fondo di sbiadita rassomiglianza con Dio. Esalta col lume della fede il lume dell’intelletto, orma di Dio nella nostra anima; ci soleva a quelle verità che sono il segreto di Dio, che nessuno dei principi di questo mondo sarebbe arrivato a scoprire. Esalta la nostra coscienza e la spinge a desiderare e volere forme nuove e più atte al bene. È qui anzi, nella fornace dell’amore al bene, della carità, che si compie questa meravigliosa trasformazione del Cristiano, in figlio di Dio, simile — non uguale, privilegio questo di Gesù Cristo — simile al Padre. Trasformazione dovuta alla grazia, ma alla cui completa realizzazione noi dobbiamo collaborare, operando da figli di Dio. I filosofi dicono che l’opera segue l’essere e lo dimostrano. « Operari seguitur esse ». Siamo figli di Dio! E operiamo allora da figli di Dio, non da estranei, non da nemici. Siano divine le nostre opere, sia divina la nostra condotta. Per fortuna, quale sia la divina condotta di un uomo noi lo sappiamo, guardando a N. S. Gesù Cristo, l’Uomo-Dio. Verrebbe voglia di riepilogare con parola evangelica questa condotta divina, superiore sovrannaturale in un binomio: spirito e verità. Seguiamo le ispirazioni dello Spirito e non le suggestioni della carne; queste fanno l’uomo animale, bruto, inferiore, degenere; lo spirito, al contrario, ci dà l’uomo superiore, spirituale. E della verità siamo solleciti ed entusiasti: Dio in ciascuno di noi… Se procederemo così secondo spirito e verità, avremo la soddisfazione arcana e profonda di sentirci davvero figli di Dio: quello che pareva sogno superbo, sarà diventato per noi realtà consolante.

Graduale

Ps LXX: 1V. Deus, in te sperávi: Dómine, non confúndar in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[V. O Dio, in Te ho sperato: ch’io non sia confuso in eterno, o Signore. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XLVII:2

Alleluja, Alleluja.

Magnus Dóminus, et laudábilis valde, in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. Allelúja.

[Grande è il Signore, degnissimo di lode nella sua città e sul suo santo monte. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. (Luc XVI: 1-9)

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: jam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii hujus saeculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula

 (“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Eravì un ricco, che aveva un fattore, il quale fu accusato dinanzi a lui, come so dissipato avesse i suoi beni. E chiamatolo a sé, gli disse: Che è quello che io sento dire di te? Rendi conto del tuo maneggio; imperocché non potrai più esser fattore. E disse il fattore dentro di sé: Che farò, mentre il padrone mi leva la fattoria? non sono buono a zappare; mi vergogno a chiedere la limosina. So ben io quel che farò, affinché, quando mi sarà levata la fattoria, vi sia chi mi ricetti in casa sua. Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, disse al primo: Di quanto vai tu debitore al mio padrone? E quegli disse: Di cento barili d’olio. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo; mettiti a sedere, e scrivi tosto cinquanta. Di poi disse a un altro: E tu di quanto sei debitore? E quegli rispose: Di cento staia di grano. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo, e scrivi ottanta. E il padrone lodò il fattore infedele, perché prudentemente aveva operato: imperocché i figliuoli di questo secolo sono nel loro genere più prudenti dei figliuoli della luce. E io dico a voi: Fatevi degli amici per mezzo delle inique ricchezze; affinché, quando veniate a mancare, vi dian ricetto ne’ tabernacoli eterni”).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

L’ASTUZIA DEI FIGLI DEL SECOLO

C’era un uomo ricco che aveva un fattore. Ma alcuni invidiosi vedevano di mal occhio quel fattore e lo calunniarono presso il padrone. Il padrone lo fece chiamare e gli disse: « Belle cose che so di te! Ed io dormivo tranquillo, e avevo un ladro in casa. È tempo di finirla: tu sei licenziato ». Il fattore rimase fulminato; non tentò nemmeno di scusarsi. Che cosa dovere fare adesso che il padrone lo metteva alla porta? Mestieri non ne sapeva, d’elemosinare non ne aveva il coraggio. « Bene, farò così », decise in fine. E chiamò privatamente i debitori del suo padrone. E disse al primo: « Tu quanto devi pagare? — Cento misure d’olio. « Siedi in fretta; ecco la tua fattura. Facciamo le cose come fossimo in famiglia. Al posto di cento scrivi cinquanta ». Poi disse ad un altro: « E tu quanto devi pagare? ». — Cento pesi di frumento. « Prendi la fattura e scrivi ottanta ». « Ecco della gente, pensava poi contento in cuore, che tra poco mi aprirà volentieri le porte di casa sua ». Chi sa come, il padrone venne a sapere, e quantunque indispettito per la frode non poté non lodare l’astuzia con cui il fattore aveva agito. Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — E questo lamento che sta nella parabola di Gesù, è vero anche per noi. Quanto interesse per le cose mondane e quanto disinteresse per le cose del cielo! Quanta astuzia nel fare il male e quanta trascuratezza nel fare il bene! Impariamo dai figli del secolo. – 1. FIGLI DEL SECOLO E I MISTERI DELLA NATURA. Quando Michele Montgolfier, con un pallone di carta gonfiato d’aria calda dimostrò a Parigi che l’uomo poteva volare nei cieli, un poeta esclamava: « O uomo! che più ti resta? tu hai saputo scoprire le origini del tuono; hai saputo imprigionare il lampo e disperderlo nelle voragini della terra; hai saputo descrivere l’orbita alle stelle e misurare la loro distanza; tutto hai saputo scoprire e domare: la terra, il fuoco, il mare, il cielo, le fiere ». E veramente l’uomo, « con brando e con fiaccola » ascende arditamente alla conquista del mondo anche sacrificando la propria vita. Plinio, soffocato dalle ceneri e dai lapilli ardenti, muore a Stabia per scrutare l’eruzione del Vesuvio. Colombo con tre caravelle si slancia nel mistero tenebroso dell’oceano. Galileo consuma la vista e la vita a scrutare le macchie del sole. Clemente Adler, uno dei primi aviatori, cade in un mattino umido, con le gambe sfracellate sotto l’apparecchio, ma con lo sguardo nei cieli che aveva tentato di violare. È una sete d’ignoto e di conquista che sospinge i figli del secolo. Si può dir così anche dei figli della luce? Anche per essi c’è un mondo da conoscere e da conquistare: il mondo dello spirito. S’incontrano talvolta dei Cristiani che confondono le tre Persone della Sacra Famiglia con le tre Persone della SS. Trinità; che confondono l’Immacolata Concezione con il virginale concepimento di Maria; che non sanno bene che cosa ricevono nella santa Comunione. Eppure, ogni festa, queste sublimi verità si spiegano nella Chiesa. Ma i figli della luce non vengono ad istruirsi, e non hanno vergogna della loro supina ignoranza, mentre arrossirebbero di non sapere certe nozioni d’elettricità. Quanta ammirazione nel mondo per l’uomo che slancia il suo veicolo ad una folle velocità, che in poche ore attraversa l’oceano, che con una forza bestiale di pugno atterra un suo simile. È per l’uomo che sa vincere l’astutissimo demonio, conservarsi nell’equilibrio del bene anche in mezzo a tanto male, volare nei cieli della santità, per l’uomo che in pochi anni, come S. Luigi, S. Stanislao, S. Teresa del Bambin Gesù, sa raggiungere la cima della perfezione cristiana, nulla o fors’anche un sorriso di compatimento. – 2. I FIGLI DEL SECOLO E GLI INTERESSI MATERIALI. È triste la partenza degli emigranti. Con gli occhi lacrimosi, col cuore martoriato da mille sentimenti, ascendono la nave e dalla tolda si rivoltano a salutare. Povera gente che varca i mari verso un destino ignoto! Lasciati i loro cari, la loro casa, il loro campicello, il paese dei loro giuochi e dei loro sogni, la patria, tutto; ma perché? Perché sperano di tornare un giorno ricchi, riabbracciare i loro vecchi e i loro figli cresciuti e passare con loro beatamente gli ultimi giorni. Anche i figli della luce devono pensare al loro avvenire: quando questo mondo finirà, ed entreranno nei regni eterni. Eppure, sono pochi quelli che sanno distaccarsi dai luoghi, dalle persone, dalle cose terrene per accumulare meriti per il cielo. Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — Napoleone per conquistare un regno patì freddo e fame, stanchezza e sonno, e si espose più volte alla guerra. Eppure, il suo regno non fu che una meteora ed egli moriva, lacrimando, sulla scogliera brulla in mezzo al mare. Cesare, sospirando l’impero di Roma, combatté le difficili guerre coi Galli, e le più difficili con i suoi rivali; eppure egli raggiunse appena le soglie del sognato impero, che cadde, pugnalato, ai piedi della statua di Pompeo. Alessandro combatté con una forza di volontà non mai vista sopra la terra e quando ottenne la signoria del mondo lo raggiunse la morte, e con lui si sfasciò il suo impero. Ma se i figli del secolo sanno patire ineffabili tormenti, superare terribili difficoltà per raggiungere il regno d’un giorno, perché i figli della luce non sapranno sopportare piccoli patimenti, combattere le passioni, respingere la lusinga del mondo per conquistarsi un regno eterno di felicità inimmaginabile? Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. – Due principi Romani andarono a far visita al beato Egidio che viveva in una grotta, pregando e macerando il suo corpo. Rimasti alcun poco in colloquio, i due mondani lo salutarono, dicendo: « O Padre! pregate per noi ». – « Che dite mai? — rispose frate Egidio. — Io pregare per voi?! Voi piuttosto pregate per me; voi che non tremate al cospetto di Dio, voi che non sudate per salvare l’anima, voi che fate tanto a fidanza con Dio!… Io?! non vedete come tremo di perdermi, e vado meditando lunghe giornate per sapere il modo di piacere a Dio, mentre voi non trovate difficoltà se non per le cose del corpo? ». I due principi abbassarono la testa, e se ne andarono senza più voltarsi indietro. Se le parole del beato Egidio bruciano anche sulla nostra coscienza, abbassiamo noi pure la testa davanti a Dio, e ritorniamo alle nostre case, oggi, con un fermo proposito. –LE RICCHEZZE E IL LORO USO. Il Signore è paziente e grande nella sua fortezza. Quegli che fa tremare i monti e disseccare gli oceani, un giorno disse a Nahum, suo profeta: « Va a Ninive ed annuncia i castighi di Javé ». Il messo di Dio accorse e predicò sulla piazza ad un popolo numeroso come l’arena del mare. « Voi avete fatto più gran numero d’affari che non sono le stelle del cielo. Ma ecco che il nemico famelico vi tiene d’occhio: e quando vi avrà visto ben pasciuti si getterà sopra di voi come una nube di cavallette sui campi biondi di spighe. Prenderanno l’argento, prenderanno l’oro e non vedranno la fine delle ricchezze nascoste nei vostri vasi. Le case saranno rovinate e le sostanze disperse: dissipata, et scissa et dilacerata » (Nah., II, 10). Quello che disse il Signore al suo profeta, lo dice Gesù a noi: oggi nel Vangelo ch’io vi presento. Che debbono fare i figli della luce? I beni acquistati in eredità, accumulati col guadagno, ottenuti con mezzi forse non del tutto onesti, sono chiamati « mammona di iniquità »: occasione, frutto, mezzo di ingiustizia. Quelli che li hanno a disposizione sono semplici amministratori, come l’economo della parabola: bisogna ch’essi stiano attenti a non defraudare il Padrone che sta nei cieli, ma ad amministrarli bene, a prelevare qualche cosa per i poveri, per essere ricevuti in cielo assieme a loro, che sono gli amici di Dio. Altrimenti la loro furberia sarà quella dei figli del secolo, e se la scamperanno in vita, non la scamperanno in morte: e le sostanze loro saranno et dissipata et scissa et dilacerata. « Ed io vi dico: fatevi degli amici per mezzo delle ricchezze materiali e dei beni di fortuna, affinché, quando veniate a morire, vi diano ricetto nelle tende eterne ».1. L’USO CATTIVO. Seneca, che fu un filosofo pagano, andava torturandosi un dì il cervello per sapere dov’è la vera sapienza. Gli accadde d’incontrarsi con un uomo che mangiava in un piatto d’argilla, ma s’accorse che aveva in cuore tanta brama d’aver vasellame d’oro: concluse che quello non era un uomo saggio. Gli venne poi d’incontrarsi con un uomo che mangiava in un piatto d’argento, beveva in una coppa d’oro; lo interrogò e seppe che mangiava e viveva con tanta semplicità come se il vasellame fosse d’argilla; e concluse: questi è l’uomo saggio. Anche il Signore Gesù aveva detto chi erano i ricchi saggi ed i ricchi stolti, quando distinse due specie di poveri, quelli di spirito e quelli di mezzi. I poveri di spirito sono anche i ricchi, quando non sono attaccati ai beni della terra e non dimenticano quelli del cielo, e vivono in semplicità, con l’animo medesimo con cui vive anche il povero. Quando è così, buone sono le ricchezze, dice S. Agostino, perché sono usate come vuole Dio, per operare il bene. E la Scrittura chiama beato quel ricco « che si è elevato sino alla comprensione del povero e dell’indigente ». Ma quanto è difficile essere savi fra le ricchezze! Sentite ancora Gesù: «In verità vi dico: un ricco entrerà difficilmente nel regno dei cieli. E aggiunge: è più facile per un cammello passar per la cruna d’un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli »: e nel Vangelo di quest’oggi le ricchezze sono da lui chiamate mammona iniquitatis, perché spesso sono frutto, occasione, mezzo di iniquità. La S. Scrittura chiama la cupidigia simulacrorum servitus; ah! quanto è vera l’espressione, quando l’idolo di cui s’è schiavi è la ricchezza! Per l’avidità di possedere, quanti mali acquisti fa l’uomo! speculatore, gioca sul danaro altrui con false notizie; capitalista, sfrutta il bisogno con un interesse da usuraio; industriale, non ripaga equamente l’operaio; commerciante, altera il peso, la misura, la merce; operaio, inganna il padrone. Così le ricchezze sono frutto di iniquità. Quando le ricchezze si hanno, divengono spesso mezzo di peccato: e si pongono nello scrigno avaramente o si spendono all’osteria, nelle sale, nei teatri, per i piaceri, per il fango; così come il ricco Epulone e come il Figliuol Prodigo. Ah, è troppo inumano che il denaro grondi sudore altrui o sprema sangue, ah! è troppo vergognoso che divenga mezzo di peccato. Domandate alle famiglie in dissidio la causa perché son divise, e vi risponderanno: il denaro; domandate alla società la causa dell’odio, delle inimicizie, delle lotte fra il ricco ed il povero, e vi risponderà: il denaro; domandate a quell’uomo perché ha perso la fede, l’onore e vi risponderà: per il denaro; domandate a quell’altro perchè ha dimenticato il suo dovere e vi risponderà: per il denaro. Denaro, sempre denaro; ah! è una ben triste occasione di peccato, il denaro! E se poteste domandare a tanti e a tanti perché sono nell’inferno, ancora con un gesto disperato e con un singulto orribile vi risponderebbero: per il denaro. Morì il ricco e fu sepolto nell’inferno ». La furberia dei figli del secolo non chiude quelle porte di fuoco. – 2. L’USO BUONO. Nell’Antico Testamento vi erano due specie di sacrificio: un sacrificio che uccide la vita e un sacrificio che dona la vita. Noi conosciamo bene il primo: la giustizia divina, che fulmina e scuote e strappa i cedri del Libano, esigeva sacrifici di sangue che spruzzava di rosso l’altare, sacrifici di fuoco che consumava la vittima. Ma vi era l’altro sacrificio di cui parla l’Ecclesiastico: Qui facit misericordiam offert sacrificium. (Eccl., XXXV, 4). Se con sacrificio di sangue si onora la giustizia divina offesa, col sacrificio dell’elemosina si onora la bontà divina, dolce e amabile che vuole la vita del peccatore, che non ha pensieri di afflizione, ma pensieri di pace. « Beati questi misericordiosi, perché otterranno misericordia » disse Gesù nel Nuovo Testamento, e la otterranno più splendida nel dì finale. Nel dì finale il Re dirà a coloro che sono a destra: « Venite benedetti, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; sete e mi avete dato da bere; ero Pellegrino e mi avete ricoverato; nudo e mi avete vestito; malato e mi avete curato, prigioniero e mi avete visitato ». « Quando, o Signore, abbiamo fatto questo? ». – « Ve lo dico in verità, tutto quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me medesimo ». Ora le capite le parole del Vangelo: « Colle ricchezze fatevi amici che vi riceveranno in cielo »; quanti, dopo averle udite e dopo averle meditate, hanno distribuito ai poveri i loro averi, hanno riparato alla ingiustizia, hanno reso la merce defraudata: e si sono fatti amici in cielo. Ora le capite le parole della Sacra Scrittura: « La elemosina copre non solamente i peccati, ma la moltitudine dei peccati »; « come l’acqua estingue il fuoco, così l’elemosina estingue la colpa ». Ora capite che il buon uso delle ricchezze è di colui che non si considera un padrone assoluto, ma nel tempo e secondo i limiti che il Padrone Assoluto Eterno ha stabilito: ora capite che il buon uso delle ricchezze è di colui che, quando ha soddisfatto alla propria necessità, alla convenienza della sua posizione, alla esigenza della sua famiglia, il resto lo dà ai poveri. Ora capite che l’elemosina diviene frutto, mezzo, occasione di giustizia. Chi ha rubato e non trova l’antico padrone, chi ha danneggiato e non può riparare il danno, chi ha ereditato male e non può far più nulla; tutti costoro con l’elemosina convertono mammona iniquitatis in frutti di giustizia che raccoglieranno in cielo. Colui che penetra nel cuore e nell’anima del tapino per diffondere un po’ di luce fra tanto odio, per portare la pace e la grazia del Signore fra tanta miseria e fra tanta colpa, costui conquista anime e fa veramente amici in cielo: l’elemosina è occasione di tanto bene. « Chiudi la limosina nel seno del povero, e questa pregherà per te contro ogni male: essa è come sigillo dinanzi a Dio che segnerà il libro di vita, essa è come pupilla dell’occhio di Dio e irraggerà di luce in cielo » (Eccli., XXIX, 15). –  V’è nella vita del B. de la Colombière questo piccolo episodio autentico. Un ricco gentiluomo di Francia era morto dopo aver vissuto la vita galante di società. Il primo marzo del 1680 un’umile e santa suora della Visitazione lo vede mentre prega in coro e ascolta le sue parole: « Ah! quanto è grande Iddio, e giusto e santo! Nulla è piccolo ai suoi occhi, tutto è pesato, punito, ricompensato ». « Avete ottenuto misericordia? » domanda la suora. « Sì, per le elemosine ai poveri ». E sparve. Costui ha trovato in cielo i poveri suoi amici: e fu salvo. Li troveremo anche noi, che ci spaventiamo, guardando ai nostri peccati e al giudizio di Dio?

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XVII: 28; XVII: 32

Pópulum húmilem salvum fácies, Dómine, et óculos superbórum humiliábis: quóniam quis Deus præter te, Dómine? [Tu, o Signore, salverai l’umile popolo e umilierai gli occhi dei superbi, poiché chi è Dio all’infuori di Te, o Signore?]

Secreta

Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera, quæ tibi de tua largitáte deférimus: ut hæc sacrosáncta mystéria, grátiæ tuæ operánte virtúte, et præséntis vitæ nos conversatióne sanctíficent, et ad gáudia sempitérna perdúcant.

[Gradisci, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che noi, partecipi dell’abbondanza dei tuoi beni, Ti offriamo, affinché questi sacrosanti misteri, per opera della tua grazia, ci santífichino nella pratica della vita presente e ci conducano ai gaudii sempiterni.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.
de Spiritu Sancto
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. Qui, ascéndens super omnes cælos sedénsque ad déxteram tuam, promíssum Spíritum Sanctum hodierna die in fílios adoptiónis effúdit. Quaprópter profúsis gáudiis totus in orbe terrárum mundus exsúltat. Sed et supérnæ Virtútes atque angélicæ Potestátes hymnum glóriæ tuæ cóncinunt, sine fine dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: per Cristo nostro Signore. Che, salito sopra tutti cieli e assiso alla tua destra effonde sui figli di adozione lo Spirito Santo promesso. Per la qual cosa, aperto il varco della gioia, tutto il mondo esulta. Cosí come le superne Virtú e le angeliche Potestà cantano l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXXIII: 9 Gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus: beátus vir, qui sperat in eo.

[Gustate e vedete quanto soave è il Signore: beato l’uomo che spera in Lui.]

Postcommunio

Orémus.

Sit nobis, Dómine, reparátio mentis et córporis cæléste mystérium: ut, cujus exséquimur cultum, sentiámus efféctum.

[O Signore, che questo celeste mistero giovi al rinnovamento dello spirito e del corpo, affinché di ciò che celebriamo sentiamo l’effetto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (261)

LO SCUDO DELLA FEDE (261)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (4)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO IV.

I. Ogni religione è buona. II. Io rispetto ogni religione. III. Volete voi che vadano all’Inferno tutti quelli che non pensano come noi?

Che ci voglia una religione qualunque, sono pochi al mondo che osino negarlo: poiché solo che si riconosca un Dio, ognun vede che non può rifiutarglisi un qualche culto; ma pur troppo non songo pochi quelli che gli ricusano il culto, che Egli avrebbe diritto di riportare. E per potere disobbedire a Dio a man salva hanno dato credito a certi assiomi, i quali, ammessi per veri una volta, mettono in piedi mille disordini. Cominciamo dal principale. Ogni religione è buona, dicono, a che dunque affannarsi in tante ricerche ed in tante dispute di religione? Solo gl’intolleranti disconoscono questa gran verità, e pretendono che tutti pensino secondo il loro modo di vedere. – Questi bei principii li sentirete ripetere così spesso in mezzo al mondo, e talvolta perfino da persone di tal reputazione, che sarà un miracolo se li apprenderete per quelle gravissime iniquità che pare sono. Esaminiamoli un poco.

I. Ogni religione è buona. Questa proposizione racchiude la licenza di commettere il maggior delitto che si possa effettuare sulla terra. Perocché, che cosa vuol essa significare? Che qualunque atto d’idolatria, qualunque errore, in cui possa cadere un uomo rispetto alla divinità, è tanto buono quanto il possa essere l’atto più puro d’ossequio che si faccia alla medesima. Sono religioni quelle dei Giudei, dei Musulmani, dei Bramani, degl’irochesi, dei popoli di Sandwich, i quali rinnegano Gesù Cristo e si prostrano davanti a Maometto, a Buda, a Sciacca o ad un altro idolo qualunque. Se è buono ogni culto, bisogna dire che l’errore è la verità, l’onore di Dio ed il suo biasimo, il conoscerlo o l’ignorarlo, l’adorare Lui o l’onorare il demonio negl’idoli, è la stessa cosa. Quale mostruosità più portentosa di questa? Perché adunque nell’antica legge Iddio vietò con tanti comandi l’idolatria? Perché minacciò tante pene a chi v’incorresse? Perché punì con tanti castighi gl’idolatri, perché sterminò tante nazioni che la praticavano? Perché munì con tante cautele il suo popolo, acciocché non cadesse in quell’eccesso? Si è scoperto ora che è buona ogni religione, e che tutto è istessa cosa! Il popolo giudaico aveva pure una religione, prima che Gesù Cristo venisse sopra la terra; e religione vera, poiché riconosceva l’unico vero Iddio; e religione buona, perché l’onorava con pratiche sante e manifestate e volute dallo stesso Dio. Se ogni religione è buona, perché è venuto Egli a cambiarla e ad abrogarla? Se a Dio fa lo stesso qualunque culto, non vi era ragione di questo cambiamento. – Ma forse vorranno dire che ogni religione, almeno di quelle che in qualche modo riconoscono Gesù Cristo, è buona: se anche limitassero così la loro proposizione, non sarebbe essa meno empia, meno assurda. Contiossiaché chi non sa che le sètte protestanti sono divise in mille differenti partiti? Quelle dottrine, che hanno difeso con tanto ardore da principio, quasi universalmente le rigettano al presente. Quello che tengono i luterani, lo negano i calvinisti: quello che ammettono i calvinisti, lo ricusano gli scozzesi: quello che ammettono gli scozzesi, lo impugnano gli anglicani: quello che difendono gli anglicani, lo rigettano i dissidenti, e così via via. Ogni setta ha quest’oggi il suo simbolo, che invecchiando domani, domani sarà cambiato. Di che avviene, che mentre gli uni stimano rivelata una verità, gli altri non la credono rivelata né punto né poco. Tutto ciò è indubitato. Ora che cosa è il dire che tutte queste religioni sono buone ugualmente? È lo stesso che dire che è buono e vero ugualmente il sì ed il no: che è buono, a cagion d’esempio, adorare il SS. Sacramento nell’altare coi Cattolici, ed è buono, adorandolo, commettere un atto d’idolatria, come pensano i calvinisti: che è buono ricevere l’assoluzione dei peccati nel Sacramento di Penitenza, come vogliono i Cattolici ed è buono il farsene beffe, come usano gli anglicani: che è buono adorare Gesù qual vivo e vero Figliuolo di Dio, come colla Chiesa Cattolica fanno molte sètte, ed è buono lo stimarlo una semplice creatura, come fanno i sociniani e gli unitari. Ma che cosa è mai tutto ciò? È un chiaro beffarsi di Gesù Cristo, perché si viene a dire col fatto o che Gesù Cristo non ha manifestato colla sua rivelazione quello che voleva che si credesse e si praticasse, o che manifestandolo non ha saputo farsi intendere dagli uomini, o che finalmente non gl’importa punto né poco di quel che facciano o credano i suoi seguaci. Il che quanto sia ingiurioso a Gesù Cristo, quanto in sé stesso empio, si può intendere dall’importanza estrema che Gesù Cristo pose nell’istruirci della verità. – L’unigenito Figliuolo di Dio, travalicando una distanza infinita che da noi lo separava, si fa uomo: nella nostra umanità fattosi visibile, predica, insegna, inculca la verità, stabilisce una Chiesa, la fa depositaria della sua dottrina, le dona il suo Spirito, le promette la sua assistenza fino alla consumazione dei secoli, perché mai non cada in errore. Il Figliuolo di Dio manda a tutta la terra i suoi Apostoli, perché annunzino le verità che Egli ha predicate, le stabilisce con ogni maniera di prodigi, miracoli, grazie e virtù: le conferma col sangue più puro dei suoi fedeli: e dopo tanto aver fatto perché tutti gli uomini arrivino al possesso della sua dottrina, traggono avanti questi nuovi maestri e ci fanno sapere, come ci svelassero un gran segreto di perfezione, che a Gesù Cristo non importa nulla quello che altri creda o pratichi di religione: ma se questo non è un farsi gabbo degli insegnamenti divini, che sarà mai? E dopo di essersi beffati di Gesù Cristo, passano a beffarsi eziandio di tutta la Chiesa. Imperocché ergono cattedra contro la Cattedra che Egli ha eretto, insegnano direttamente il contrario di quello che essa insegna. E come no? se è buona ogni religione, non vi ha più eresia di alcuna sorta: eppure l’Apostolo colloca l’eresia insieme all’omicidio ed all’adulterio, vuole ehe l’eretico sia rigettato dai fedeli, afferma che gli eretici non saranno eredi del regno di Dio. Se è buona ogni religione, ebbe torto l’Apostolo san Giovanni, sia nell’ aver prescritto che non si ricevesse in casa l’eretico, sia nel non aver voluto porre il piede in un pubblico bagno, dove trovavasi l’eresiarca Cerinto, come testifica S. Ireneo. – Se è buona ogni religione, son ridicole tutte le raccomandazioni dell’Apostolo di conservare intatto il deposito della fede, e l’esattezza nel modo di favellarne, e son vane tutte le sollecitudini della Chiesa nel premunire i fedeli contro ogni novità nelle credenze. Se è buona ogni religione, furono inutili tanti Concilii e tante lotte sostenute contro gli eretici dai primi secoli della Chiesa infino a noi. Se è buona ogni religione, furono stolidi tanti Vescovi, tanti Sacerdoti e tanti fedeli, i quali sopportarono carceri e spietatissime morti per sostenere o contro gli ariani, o contro i nestoriani, o contro gli scismatici, o contro altri eretici la cattolica verità. Credereste? Se è buona ogni religione, non solo è inutile la vigilanza dei Sacerdoti nell’ammaestrare, nell’istruire; ma è inutile la fondazione della Chiesa, l’assistenza dello Spirito Santo e tutta l’opera di Gesù; poiché, anche prima della sua venuta in terra, vi erano delle religioni. Finalmente se è buona ogni religione, è inutile la predicazione dei ministri protestanti; sono inutili le declamazioni degl’increduli. Imperocché che accade che essi tanto brighino o per far diventar protestanti i Cattolici, o per farli deisti, atei, naturalisti e che so io? Se ogni religione è buona, essi nulla guadagnano ad averli dalla loro, e questi nulla perdono ad essere Cattolici; poiché anche il Cattolicismo è una religione, ed ogni religione è buona. – Di che vede ognuno come quella massima sì assurda è poi finalmente un insulto gravissimo anche alla ragione ed al buon senso degli uomini; poiché è cosa da frenetico e da dissennato l’immaginare che siansi ingannate tutte quante le generazioni degli uomini, perché tutte col loro zelo, col loro operare e perfino colle guerre di religione, mostrarono la persuasione in che erano, del non poter esser buona ogni religione. E per fermo, se altro che una non può essere in sè stessa la verità, se Gesù Cristo non ha fatto altro che una rivelazione, se solo quello, che Egli ha rivelato è vero, bisognerà pur dire che una sola sia la verità, una sola la Religione buona.

II. Che cosa vorrà dire adunque quella parola: io rispetto ogni religione? Vuol dire praticamente io non ne credo nessuna vera, o le stimo tutte dubbiose, o penso che sia questione cui non importi gran fatto il risolvere. Il primo è la negazione di tutta la rivelazione, è un dichiarare sofismi tutte quelle prove che hanno mosse sin qui i popoli ed i principi, i semplici ed i sapienti ad abbracciare il Cristianesimo; il secondo è un atto formale di apostasia, poiché chi dubita della sua fede è già infedele, siccome è noto; il terzo finalmente equivale a dire che è di poco rilievo che l’uomo colga la verità rispetto a Dio, che non importa quello che un Dio ha creduto importante a segno di venire dal cielo per insegnarlo, e finalmente che non monta nulla che l’uomo raggiunga il suo ultimo fine, al quale è rivolta tutta la religione.. Quello che a taluni fa gabbo in quel modo di dire, è una certa apparenza di filosofica sublimità e di tolleranza umanitaria, che i libertini amano grandemente sfoggiare: ma gli è appunto un’apparenza e nulla più, poiché non v’ha cosa più contraria ad ogni buona filosofia e ad ogni vera umanità, che un rispetto sì sciocco a qualunque culto. La filosofia è la prima che se ne risente, poiché chi ha mai udito un vero filosofo insegnare che egli rispetta ugualmente le sentenze contraddittorie? Se la filosofia è l’indagine della verità, l’acquetarsi nell’errore, e peggio giungere sino a rispettarlo, è l’atto meno filosofico che si possa concepire. Ma molto più è contrario ad ogni umanità vera. lmperocché, se l’umanità vera insegna a non disprezzare gli erranti, a compatirli, ad amarli, mai non ha insegnato a sopportare tranquillamente l’errore. Eppure, questo è che importa quel famoso detto. Io rispetto ogni religione: vuol dire io rispetto anche quello che so certamente non poter esser vero, poiché la verità non può trovarsi nelle proposizioni contraddittorie. Se voi diceste: invece io compatisco tutti gli erranti, io li amo, nè, perché sono nelle tenebre, voglio lor male, voi parlereste non solo da uomo ma ancor da Cattolico, di cui è proprietà, come dice S. Agostino, detestare i traviarnenti e compatire i traviati; ma il dire io riguardo i loro errori, le loro follie, le toro aberrazionine le rispetto, è tutt’insieme una balordaggine ed un’empietà. Una balordaggine, perchè è un dire che voi rispettate quello che al mondo merita meno rispetto, cioè la falsità: è un’empietà, perché venite a dichiarare di portare rispetto a quello cui Dio odia infinitamente, e che vorrebbe vedere sterminato dal mondo. Laonde quando d’ora innanzi vi si presenti il caso di udire alcuno di quelli, che affermano con gran presunzione che è buona ogni religione, che egli rispetta ogni religione, e voi osservatelo da capo a piè. Se vi avvedete che sia uno di quei fanciulloni, che, per darsi aria d’uomo spregiudicato, si lascia uscir dalla chiostra dei denti quella sentenza che neppure comprende, e voi, dopo d’averlo compatito sino nel fondo del cuore, se potete, fategli un poco di correzione; se vi avvedete invece che sia uno di quelli più profondamente iniqui, che mettono in campo quella proposizione conoscendone tutto il veleno, allora voltatevegli contro come una vipera, e smascheratelo e svergognatelo per guisa, che non osi più alla vostra presenza fare il filosofo, con disonore di Gesù Cristo ed a spese delle anime da Lui redente.

III. Volete voi che vadano all’inferno, soggiungono poi, tutti quelli che non pensano come noi? Lettore mio, io ho già risposto sopra a questa difficoltà, facendo vedere che non va all’inferno se non chi il vuole, poiché Iddio non manca di provvidenza né coi gentili né cogli eretici. Qui mi contenterò di opporre alla vostra interrogazione un’altra interrogazione. Voi mi domandate, volete voi che vadano all’inferno tutti quelli che non pensano come noi; ed io vi domando a rincontro, volete voi che entrino in paradiso gli uomini qualunque sia il modo in cui pensano? Ma allora perché il Figliuolo di Dio è venuto sulla terra a stabilite una Religione, perché ha abrogate le altre, perché ha dichiarato con solennità che chi non avesse creduto a Lui sarebbe stato condannato? Oh, che? Avrebbe mai Egli fatto tante leggi, minacciate tante pene, e, che più è, incontrate e sopportate tante umiliazioni nel farsi nosiro maestro, per lasciare poi ad ognuno il diritto di fare quel che gli piace? Che cosa ne dite? La fede cattolica insegna ad ognuno che Dio vuole la salute di tutti sinceramente, ma vuole che l’acquistino per quella via che Egli ha tracciata, e dove noi facciano quando il possono, infallibilmente li condannerà. Il solo caso, che, può sottrarli ai fulmini della divina giustizia, è quell’ignoranza che non si può vincere perché non sospettata; ma in questo caso (secondoché abbiamo detto) essi saranno aiutati da Dio, prima perché comincino a fare quello che possono nello stato in cui sono, e poi perché abbiano il potere di fare quello che non possono ora: ma Iddio non salverà il Turco lasciandolo Turco, né l’idolatra lasciandolo idolatra; sebbene colla sua grazia il trarrà fino alla verità che è necessaria alla salute, e chi si arrenderà alla grazia divina, giungerà a salvamento, chi resisterà e si rimarrà infedele, perirà miseramente. – Quindi è che quei che si perdono, non vanno all’inferno perché non pensano come noi, ma perché sono infedeli alle grazie che ricevono, perché per loro colpa non pervengono a pensare rettamente siccome debbono. Né si vuole recare in dubbio questa dottrina per una compassione sciocca, né per un sentimentalismo romantico, né per un umor fantastico di filantropia. Il Signore che ha creato gli uomini e che li ha redenti li ama alcun poco più di noi; e se Egli ha così determinato, non tocca a noi a rifargli i disegni, ed a sostituire le nostre corte vedute alla sua provvidenza. Del resto volete voi vedere dove andrebbe a parare in ultimo questa teoria sentimentale? A distruggere tutta l’opera di Gesù Cristo sopra la terra, ed a fare il passaporto a tutti gli errori. Infatti voi affermate che Dio non può condannare quelli che non pensano come noi, ed applicate questo detto ai protestanti, agli eretici, a quelli che hanno almeno qualche conoscenza di Gesù Cristo: ma chi impedisce ad un altro più compassionevole di applicare quel detto medesimo ai musulmani, agli idolatri? Oh perché non dovranno andar salvi anche loro? Ma stabilito questo principio ed allargato il cuore alla compassione, non si vede perché non si debba stendere la salute anche al razionalista, al panteista, al deista, i quali finalmente non hanno altro torto che di onorare Dio a loro modo. I libertini certo non dovrebbero essere condannati, poiché ancor essi non sono rei di altro che di non pensar come noi. Dirò di più. Nerone, Giuda, gli stessi demonii dell’inferno che cosa hanno fatto? Hanno pensato a loro modo e nulla più. Se la compassione ha da far la legge, è evidente che il Cristianesimo si rende inutile, poiché ognuno che pensi a suo modo ha ugual salute. Lettor mio caro, questo è il colmo dell’assurdità. Iddio è verità, è giustizia, è santità, non è solo misericordia. Gesù Cristo ha pronunziato che chi crederà in lui e sarà battezzalo sarà salvo, e che chi non crederà, sarà condannato, e bisogna che sia così. L’Apostolo ha detto che senza fede è impossibile piacere a Dio: dunque ci vuole la fede. Conformemente a questa dottrina, lo stesso Apostolo collocò l’eresia tra gli omicidii e gli adulterii, ed affermò che chi si nude colpevole di essa non erediterà il regno dei cieli; dunque è chiaro che ne rimarrà escluso. Queste ed altre infinite sentenze delle Scritture, l’autorità della santa Chiesa, la tradizione di tutti i Padri ci assicurano che non vi è salvezza fuori della vera fede di Gesù Cristo: non basta adunque pensare di essere nel vero, quando vi è obbligo e mezzo di non pensare in tal guisa. Che se questo ha luogo per tutti gli uomini, e se anche gl’infedeli, anche gli eretici hanno d’uopo di fare quello che possono per giungere a mano a mano fino alla verità, come saranno scusabili i volteriani, i libertini, i quali vivono in mezzo a noi? Questi rigettano il Cristianesimo dopo d’averlo conosciuto; il rigettano per seguire la corruzione del loro cuore, il rigettano malgrado i rimorsi che provano nella coscienza, e con un affronto indicibile a quel Signore che, per sua pura misericordia, avevali illuminati, e poi pretendono che ad ogni modo li abbia a salvare la divina bontà. – Affè sì che Dio muterà i suoi disegni, renderà fallaci le sue parole, ritirerà le sue minacce, e spalancherà loro le porte del cielo per non privarsi della loro compagnia! Ah presunzione impudentissima di vermi schifosi, i quali poco meno che non credono di essere necessarii alla divinità! Ah si persuada bene ognuno, che non gioverà ad un reo la compassione di un altro reo, dove il giudice protesti di non usar compassione.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (4)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (4)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo secondo (1)

L’ATTIVITA’ MORALE

Dopo d’aver contemplato dalla riva l’oceano dell’Amore nella sua divina bellezza, dobbiamo sfidare le acque. Anche noi col poeta esclamiamo: Necesse est navigare. E per non esser travolti dalle onde, cominciamo ad esaminare la piccola nave, con cui potremo solcare con sicura tranquillità il grande mare della vita. Essa si chiama “l’attività morale”, risultante dalle singole azioni buone, le quali, pur essendo diversissime, concordano tutte nella loro caratteristica essenziale. Se analizziamo accuratamente uno di questi atti morali, in modo da non confonderlo con altri nostri gesti, noi vi distinguiamo con precisione tre aspetti:

1. L’azione morale può essere riguardata in ciò che appare esternamente, nella sua materialità oggettiva, in quanto atto esteriore.

2. Inoltre, la possiamo cogliere nei principi interiori, dai quali procede, in quanto le nostre intime energie spirituali, intellettive e volontarie la producono.

3. Finalmente, possiamo considerare l’elemento soprannaturale, che divinizza il nostro atto morale e lo rende cristianamente buono e soprannaturalmente meritorio. Il bene in sè, l’atto buono, l’atto cristiano: ecco tre problemi, che s’impongono alla attenzione e dalla cui soluzione dipenderà poi la navigazione nostra, ossia la nostra condotta.

I. – IL BENE

Ricordo un episodio, ricco per me di insegnamenti. Tenevo un corso di morale cattolica in un istituto superiore, frequentato da numerosi studenti, che possedevano una cultura generale non del tutto disprezzabile. In una delle prime lezioni, entrato in classe, pregai gli uditori di prendere un foglio di carta, che non doveva portare la firma dello scrivente, e di voler rispondere al seguente problema: « Tutti ammettono che assassinare un amico per derubarlo, bestemmiare Dio, disubbidire ai genitori e così via, sia un male; come, parimenti, tutti riconoscono che è un bene aiutare e soccorrere il povero, ubbidire all’autorità legittima, e via dicendo. Perché mai — secondo il Cristianesimo — alcune azioni sono definite in sé come cattive e poste nella categoria del male, ed altre considerate buone e messe nella categoria del bene?». Raccolsi i fogli, che dovevano rivelarmi in qual modo quel gruppo di studenti mi risolveva la questione. E subito cominciai a leggere ad alta voce ed a commentare le soluzioni proposte. – Uno diceva: « Un’azione è buona in sé o cattiva, perché così la qualifica il Vangelo ». Oh! e perché mai il Vangelo la qualifica in tal modo? forse senza nessun motivo?… E prima che fosse scritto il Vangelo, non si poteva forse distinguere un’azione buona da una cattiva? Un’altra risposta era redatta in questi termini: « Io chiamo buono un atto che la Chiesa mi propone; cattivo un atto che la Chiesa mi proibisce ». Ma, ancora una volta: perché la Chiesa mi comanda o mi consiglia certi atti? e perché me ne vieta altri? Potrebbe forse la Chiesa dichiarare lecito l’omicidio e il furto? Evidentemente no; e perché?… Ed anche quando vieta cose in sé lecite, come il mangiar carne al venerdì, di modo che esse non sono proibite perché cattive, ma son cattive solo perché proibite, per quale motivo la Chiesa fa questo? – Una terza risposta cercava la soluzione nella voce della coscienza: « È la mia coscienza, che mi avverte intorno a ciò che è bene o è male. Ecco la vera norma della moralità. Ed è vero che la voce intima della coscienza mi sussurra: « Assassinare l’amico è un delitto; beneficare questo povero è un bene »; ma perché la coscienza mi dichiara la prima cosa un delitto e la seconda una buona azione? Forse per un istinto cieco ed ingiustificato? O non piuttosto per un’altra ragione? Altri osservava: « Un’azione è in sé buona, se è premiata col paradiso; è cattiva, se è punita con l’inferno ». No, — io esclamai — la verità è semplicemente l’opposto di quanto mi si asserisce: un’azione non è buona, perché è premiata col paradiso; ma è compensata col paradiso, perché in sé è buona; un’azione non è cattiva, perché è punita con l’inferno; ma è punita con l’inferno, perché in sé cattiva. – E frattanto il problema resta. Qualcuno si appellava al consenso universale dei popoli: “Il bene è il bene, e il male è il male, perché tutti ammettono questo ». Oh! e se tutti, domani, con un plebiscito mondiale, dichiarassero lecite la calunnia e la rapina, queste azioni diverrebbero buone? E poi: perché tutti proclamano l’immoralità del calunniatore e del furfante? Qualche altro si rivolgeva al concetto di utilità: « Una leggenda cosa è buona, se è utile a me », oppure « se è utile alla patria e alla società »; in caso contrario è cattiva. Io obbiettavo: che supponete che potessi rubare un milione, senza incappare nelle reti della giustizia; possedere una simile somma, mi sarebbe certo utile; con ciò dichiarerò io il mio furto un bene? Ancora: se una nazione forte e ben agguerrita si trova dinanzi ad una nazione debole, può esser utilissimo alla prima invadere e annettere a sé l’altra terra; battezzeremo noi una tale prepotenza col nome di bene? Per tacere di altre curiosissime risposte, una ve n’era che ricorreva a Dio. « È bene ciò che Dio ha voluto comandarci di fare! È male ciò che Dio ci proibisce’. Chi scriveva questo, quantunque fosse nel vero affermando che Dio è il padrone supremo degli esseri ed in qualche caso può mutare l’ordine delle cose, tuttavia, senza saperlo, aderiva al volontarismo cartesiano, perché, secondo Descartes, la verità degli stessi primi principi e la moralità degli atti dipende dalla volontà divina, la quale avrebbe potuto stabilire che il principio di contraddizione è falso ed il matricidio è una virtù. Ahimè! Tutto ciò ripugna alla nostra ragione ed alla nostra coscienza morale: il matricidio è un male, non perché è stato proibito; ma è stato proibito, perché è un male. Ed il rispetto alla madre è un bene, non solo perché è stato comandato da Dio; bensì è stato comandato, perché è un bene, il quale bene, in ultima analisi, si fonda sull’ordine inteso e voluto da Dio. – Qual è, dunque, la « norma della moralità »? Come si risolve questo problema, che è stato da alcuni chiamato « il Rubicone dell’etica »? Dobbiamo forse dinanzi ad esso ripetere ciò che sant’Agostino confessava a proposito del tempo: « Se non mi chiedi cos’è il tempo, lo so benissimo; ma se me lo chiedi e cerco di spiegarlo, mi confondo »? Per null’affatto. Cerchiamo di elaborare, in modo elementarissimo, tre concetti:

l’Essere, l’essere in quanto è conosciuto e l’essere in quanto è voluto; ed allora vedremo perché un atto è in sé buono o cattivo.

1. – L’Essere e gli esseri.

Nella concezione cristiana, Dio è il centro dell’universo. Da Dio, Essere per essenza, Essere perfettissimo, che è la pienezza dell’essere ed ha in se stesso la ragione della sua esistenza, sgorgano per una libera azione creatrice tutti gli altri esseri. Come da una sorgente zampilla l’acqua, così da quest’unica fonte — Iddio — deriva tutto ciò che esiste. Come da un unico sole discendono innumerevoli raggi, così da Dio provengono tutte le creature. Come in un’unica mente sorgono mille e mille pensieri, così dalla mente divina vengono ideate tutte le cose e la sua volontà decreta il loro passaggio all’esistenza. L’origine di tutti gli esseri dipende quindi dall’Essere; la loro possibilità, la loro esistenza, la loro natura, la loro conversazione, il loro sviluppo ha riferimento all’Essere; il loro fine ultimo è ancora l’Essere, Dio. E si noti. Tutti gli esseri creati non sono ammassati gli uni accanto agli altri in un caotico disordine. Dio è la suprema Ragione e perciò l’ordine è intrinseco a ciò che Egli produce. Gli esseri sono fra loro da concepirsi come le lettere e le parole di un libro, o, se si vuole, come le note in un’opera musicale. La verità delle lettere e delle note, la loro individualità, la loro disposizione, debbono essere riguardate dal punto di vista dell’unico pensiero che le ispira e le vivifica. Quelle lettere, quelle note hanno fra di loro dei rapporti e guai se io turbo l’ordine di essi! Rovino il senso della pagina, o l’armonia della musica. Così anche si dica degli esseri creati: ci si presentano in una splendida coordinazione, che tutti li unifica in Dio. Non c’è nulla al mondo che meriti disprezzo; ogni cosa ha la sua funzione da compiere; ma ogni cosa deve conservare il suo posto. C’è in altre parole, una serie di rapporti fra gli esseri; c’è una gerarchia, derivante dalla loro natura e dal compito che debbono soddisfare; e nessuno ha diritto di turbare e di calpestare questo ordine: nessuno ha diritto di rovesciare ; apporti, perché l’Assoluto, il Necessario, la Causa delle cause, è Dio; noi non siamo se non esseri dipendenti, contingenti, causati, relativi, che veniamo da Lui, esistiamo in Lui, andiamo a Lui. – Questo grande principio della centralità di Dio fu da tutti i secoli cristiani riconosciuto, proclamato ed inculcato.

Paolo di Tarso — come ho rilevato nel mio volume sull’Anima dell’Umanesimo e del Rinascimento — insegnava il suo “nihil sine voce” ed in ogni essere coglieva una parola che orientava l’animo suo a Dio; Agostino d’Ippona concepiva l’universo come una armonia, di cui ogni cosa era una nota osannante alla divinità; Benedetto da Norcia, discorrendo con la sorella Scolastica, si estasiava all’idea di Dio; Francesco d’Assisi, fra il verde della sua Umbria e il gorgheggio degli uccelli, innalzava al cielo il Cantico di Frate Sole; nelle Somme medievali ogni articolo era una pietra di questa stupenda basilica. Poemi quali la Divina Commedia e poemi di marmo come il San Marco di Venezia, il Duomo di Pisa, la chiesa di Amiens, di Chartres e di Strasburgo, il Duomo di Milano e di Colonia; gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio col grido programmatico: Ad maiorem Dei gloriam; tutta la dottrina, insomma, e la vita e le opere grandi del Cristianesimo inculcano ed esprimono la stessa idea: Dio è il centro di tutto e come tale deve essere riconosciuto dagli individui e dalla società.

2. – L’essere in quanto è conosciuto

Se questo è l’essere, cos’è la verità? Noi sappiamo che è il pensiero ciò che distingue l’uomo dal bruto. Anche il bruto è un essere, e vive e si muove fra gli esseri. Ma non conosce ciò che è l’essere. Solo il pensiero può scrutare la realtà, studiare le varie categorie degli esseri, cogliere i loro rapporti, la loro subordinazione, la loro relazione con Dio. In questa indagine paziente, mediante la quale si formano le varie scienze e si giunge poi alla loro sintesi ed alla sapienza, noi possiamo cadere nell’errore, quando la nostra intelligenza non coglie la realtà come essa è ed i rapporti che in essa esistono; siamo nella verità, quando la nostra ragione conosce l’essere come realmente è. La verità, quindi, ci dà l’essere in quanto è conosciuto. E tutta la storia della cultura umana, gli sforzi dei filosofi e dei pensatori e le ricerche degli scienziati ci raccontano la splendida battaglia dell’uomo per strappare all’universo il velo oscuro che lo ricopre e per assurgere da esso a Dio. Come lo studioso che vuol decifrare un’iscrizione comincia a ricostruire i caratteri che la compongono e poi risale al pensiero che vi si nasconde e la spiega, così la ragione nostra, con le sue forze e alla luce della rivelazione, dopo di aver esaminati i diversi caratteri nei quali è scritto il volume del mondo (varie scienze), cerca di interpretarli e di leggere in essi l’idea che Dio vi ha espresso (filosofia e religione). Per il Cristiano, di conseguenza, è ridicola una scienza negatrice di Dio. Ed ogni disciplina scientifica, ogni scoperta, ogni progresso culturale è da benedirsi, perché, in una o in altra forma, ci serve a farci penetrare nell’intimo cuore degli esseri ed a farci risalire all’Essere degli esseri.

3. – L’essere in quanto è voluto Ma noi non siamo solo pensiero; siamo anche volontà e libertà. Conosciamo gli esseri ed i loro rapporti; ed, in seguito, la nostra libera attività si svolge. Quand’è allora che la nostra azione è buona? La risposta è semplicissima: quando noi rispettiamo la natura degli esseri ed i loro rapporti. Quando, dopo di aver conosciuto col pensiero tale natura e tali gerarchie, agiamo praticamente secondo tale ordine, noi facciamo il bene. Se al contrario, conoscendo gli esseri e la loro concatenazione, calpestiamo, rovesciamo, infrangiamo l’ordine, noi commettiamo il male.

Ad esempio: perché il furto è un male? Per questo motivo: la nostra ragione conosce noi e gli altri uomini; vede come vi son fra gli uomini rapporti di giustizia, che non debbono essere violati; chi praticamente disconosce tali rapporti e ruba, è reo d’una cattiva azione. Perché la bestemmia è un male? Per questo motivo: la ragione conosce Dio e l’uomo; vede qual è la natura di Dio, l’Essere perfettissimo, nostro principio, nostro fine e nostro aiuto; vede qual è la natura umana, che dipende da Dio e deve amare il suo Creatore e benefattore. Siccome la bestemmia non riconosce praticamente quest’ordine, ma anzi lo capovolge, è in sè un male. La preghiera, al contrario, è in sè un bene, perché è il riconoscimento dell’Essere e dell’ordine. Così si ripeta di ogni qualsiasi legge etica. La regola, il criterio, la norma con cui giudichiamo la moralità o l’immoralità d’un’azione, il metodo pratico per discernere il giusto dall’ingiusto, il lecito dall’illecito, l’onesto dal disonesto, è sempre quella che san Tommaso in parole limpide e profonde sintetizzava così: « Agisci in modo che il tuo atto sia secondo la retta ragione’, la quale è un riflesso, un’immagine della Ragione divina. « Sic age ut actus tuus sit secundum rectam rationem ».

Perciò un desiderio cattivo acconsentito è un male, perché è contro la retta ragione. E si vada dicendo per ogni qualsiasi atto, che si debba o si voglia compiere. – Si noti: per giudicare se un atto è buono, non basta guardarlo nella sua oggettività astratta, ma occorre altresì considerarlo nelle sue circostanze concrete. Ottima cosa è, ad esempio, pregare tenendo le braccia alzate verso il cielo; e se questo lo si fa nella propria stanza, dove solo il Padre divino vede, può servire ad eccitare maggiore devozione; ma che direste voi di chi nella chiesa parrocchiale del suo paese dovesse fare un simile gesto? È un bene che lo studente abbia a… studiare; ma se, mentre è a pranzo, volesse sfogliare un libro, voi glielo togliereste di mano e gli dareste un cucchiaio o una forchetta. È un atto di carità dar da mangiare agli affamati; ma se si tratta d’un convalescente, che non ha ancora del tutto superato il tifo ed al quale il medico ordina una dieta rigorosa, sarebbe un atto di stoltezza offrirgli del pane o dei dolci, poiché vi sarebbe il pericolo immediato d’una ricaduta. Insomma, non si può prescindere dalle circostanze, per valutare una azione morale, quest’ultima non dev’essere riguardata solo astrattamente, bensì nella sua concretezza. – Ancora. Si capisce perché alcuni popoli barbari o pagani, ed alcuni individui, sbagliano certe volte nel ritenere buona un’azione che in sè è cattiva. La verità è la base della morale; e siccome la loro mente erra nel cogliere la natura dei rapporti fra gli esseri, cosicché non si proporziona alla verità, da Dio stampata nell’ordine delle cose, abbiamo i loro spropositi in fatto di etica. Le passioni e l’ignoranza possono oscurare l’intelligenza umana: l’uomo, in tal caso, agisce non secondo la retta ragione, ma secondo un errore. – Gli antropofagi, perciò, non meritano le difese di Benedetto Croce; non giudichiamo della loro coscienza e della loro responsabilità; diciamo solo che, se anche fossero in perfetta buona fede, l’antropofagia sarebbe un male, derivante da una perversione di giudizio. – La risposta al problema, posto all’inizio di questo capitolo, è, quindi, limpidissima: un’azione è in sé buona, quando risponde all’ordine della retta ragione; è in sè cattiva, quando praticamente non riconosce questo ordine stesso. Dire bene è dire razionalità; dire male è dire irrazionalità. Il bene è il rispetto dell’ordine; il male è il disordine. E si noti: non è la Chiesa, non è lo Stato, non è l’individuo che creano la morale ed i suoi principi; tutti li debbono riconoscere e praticare; solo in tal modo si ammette davvero — e non solo a chiacchiere — l’esistenza di Dio e la sua centralità nell’universo, come ordinatore dei singoli esseri. Dinanzi alla evidenza di simili deduzioni, è superfluo insistere sull’obbligo morale che l’uomo ha di fare il bene e di evitare il male. Noi siamo liberi, è vero, e possiamo scegliere fra il bene ed il male; ma il primo principio morale ci grida nella nostra coscienza che il bene è da fare ed il male è da evitare e noi abbiamo il dovere di praticare il primo e di fuggire il secondo. Questo obbligo, questo dovere proviene dalla stessa natura delle cose. Non siamo noi l’Assoluto, come già avvertimmo, né abbiamo il diritto di rovinare l’ordine e la razionalità del reale. Quando stoltamente agiamo in modo diverso, è un’ingiuria che facciamo non solo a Dio, ma altresì alla ragione nostra che viene da Lui; ed è la rovina nostra ed altrui che procuriamo. Chi batte la via dell’ordine e delfa ragione, è sulla strada della moralità ed anche della felicità; chi batte la via del male, si trova sulla strada opposta.

4. – Il bene e l’amore.

Ripensiamo ora un istante questi supremi principi della filosofia perenne in funzione del concetto cristiano di Amore. Dio è Amore, è bontà infinita; e noi, memori sempre della bella parola di san Tommaso che il bene tende a diffondersi: « Bonum est diffusivum sui », non salutiamo Dio soltanto come centro di ogni essere, ma piuttosto come centro d’irradiazione dell’Amore. Prima che le creature siano, Egli le conosce e le ama. E questo solo vero Dio, mi si permetta di usare le espressioni dei Concili, soprattutto del Concilio Vaticano, per sua bontà e con la sua onnipotente virtù, non per acquistare od aumentare la sua beatitudine, ma solo per manifestare la sua perfezione mediante i beni che conferisce alle creature, liberissimamente ha creato. Ogni essere, ognuno di noi è opera del divino Amore. Dovunque c’è un essere, là palpita l’Amore di Dio. L’Esssere e il Bene coincidono, notavano gli antichi sapienti; e noi Cristiani possiamo soggiungere: coincidono l’Essere e l’Amore. Siccome, poi, gli esseri non vivono isolati, separati, ma fra loro si coordinano; siccome ognuno con grido vibrante di amore, tutto il loro complesso è una sinfonia sublime, dove la voce di ciascuno si fonde con la voce di tutti, in un solo canto di gloria, che non solo nulla fa perdere ai singoli, ma fa sì che ognuno si arricchisca delle vibrazioni del tutto. Dio è il vero Bene, l’Essere supremo, il supremo Amore. Ed appunto perché ci ama non può trascurarci, non può disinteressarsi di noi (come sospettava una ridicola obbiezione di alcuni sofisti), come altresì non può non volere la nostra felicità. Egli quindi, anche per l’amore che porta a noi, vuole che osserviamo l’ordine, che rispettiamo le leggi della ragione, che seguiamo la norma del bene. Se c’impone i comandi categorici della morale, è perché ci ama. Se ci permettesse di trasgredirli, non ci amerebbe, perché ci consentirebbe di cadere in un precipizio. Può un padre, un Dio concederci questo? Siccome il suo divino Amore vuole il bene delle sue creature, deve volere inflessibilmente che noi ci conformiamo alla sua volontà. Insomma, la legge morale e la sua obbligatorietà sono un frutto dell’Amore. – Non dobbiamo, dunque, esitare a definire la norma della moralità in termini di amore. La nostra azione è in sè buona, quando noi seguiamo la retta ragione, quando rispettiamo l’ordine, quando cioè la nostra volontà si conforma alla volontà di Dio. E siccome la volontà di Dio è volontà di amore, la nostra azione è buona, quando all’Amore rispondiamo con l’amore. Il bene è la libera rispondenza umana all’amore divino. Il male è il contrario, ossia è la negazione dell’Amore, anche se non giunge ad essere odio. Cominciamo già fin d’ora a spiegarci il fatto dell’immoralità dilagante. L’uomo dovrebbe tendere al divino Amore, centro dell’universo; Dio dovrebbe essere il centro dell’amore delle creature. Allora avremmo ovunque il bene che trionferebbe ed insieme avremmo la vera gioia. Invece, a centro dell’universo, noi praticamente poniamo il nostro piccolo io, l’amore sregolato per noi stessi e per le cose. – Io non so sottrarmi alla tentazione di riportare un altro brano del Tissot, che tolgo ancora dalla sua opera su La vita interiore semplificata. Mi sembra una pagina degna di meditazione:

« La vita naturale, la vita spirituale, press’a poco tutto in me è ispirato, regolato, diretto, dominato dalla mia soddisfazione… Qual terribile esame di coscienza, s’io volessi penetrare i particolari intimi de’ miei pensieri, de’ miei affetti e delle mie azioni… Come in tutto, dappertutto, sempre, vedrei il maledetto istinto della mia soddisfazione egoista soppiantare più o meno la gloria di Dio!… In tutto! Oh! non saprò mai sino a qual segno la mia vita sia un disordine!… L’io dappertutto il primo… Dio continuamente messo al secondo posto o scartato. In ciò che faccio, in ciò che mi succede, in ciò che ricevo od evito, è l’io che vedo in prima linea. Amo per me: detesto per me…

« Questo è anche il gran male della società. Tutto in essa è organizzato per l’uomo, non per Dio; l’interesse umano domina tutto, ispira tutto, dirige tutto, riassume tutto. Che posto tiene la gloria di Dio nelle famiglie, nelle associazioni, nei corpi costituiti? Dov’è l’idea di Dio nell’industria, nel commercio, nelle scienze, nella politica, nella storia, ecc.? Nelle relazioni umane è l’interesse umano che assorbe universalmente le idee, gli affetti, gli sforzi; tutto converge là. L’idea di Dio e della sua gloria va indebolendosi e dileguandosi. L’uomo scaccia Dio.

« Prendo l’esempio della storia, che è forse il più sorprendente. Essa non dovrebbe essere che il quadro della gloria di Dio attraverso le vicissitudini umane, dell’azione divina in mezzo alle agitazioni umane; eppure, non è più che il quadro scolorito delle convulsioni dell’umanità. Così tutto mentisce alle sue origini e al suo fine. Ecco la grande eresia rivoluzionaria; l’uomo al posto di Dio. – Quale contrasto con ciò che mi mostra la Bibbia! Nella vita dei Patriarchi si sente Dio; il loro Dio è tutto per loro. Egli domina, ispira, dirige efficacemente la loro vita; nella loro storia si sente ad ogni istante passare il soffio di Dio. Lo stesso si verifica in tutta la storia del popolo eletto; è Dio il centro di tutto. Se le passioni umane fanno dimenticare il suo ricordo, i castighi lo richiamano; e, sotto la verga, il grido che sfugge e domanda la vittoria sui nemici è sempre in primo luogo l’onore di Dio: « Per la gloria del Nome vostro, liberateci, o Signore! ». E quando la vittoria è ottenuta, si fa festa dovunque, perché Dio è glorificato. Quando Mosè, Giuditta, Ester vogliono ottenere la salute del loro popolo, lo fanno invocando la gloria del Nome di Dio, e per motivo della sua gloria Dio salva il suo popolo. Nei salmi, poi, qual posto occupa la gloria di Dio! Essa è lo scopo supremo e costante di questi canti sublimi.

« Nelle età e nei paesi di fede, quale posto più pratico e più vivente aveva Dio nelle abitudini dei popoli fedeli! Nulla. Lo esprimeva così vivamente come il linguaggio popolare. È nell’intonazione della conversazione familiare che meglio si riflette lo stato dell’anima. E come si parlava di Dio, nei tempi e nei luoghi in cui le idee della fede avevano il loro impero dominante! Il Nome divino si udiva ad ogni istante con opportunità e verità ammirabili. Con quanta semplicità e profondità si diceva: grazie a Dio, Dio sia benedetto, a Dio mercé, a Dio piacendo, con l’aiuto di Dio, ecc. Gli atti privati erano cominciati col segno della croce, gli atti pubblici stessi in nome della SS. Trinità, le leggi decretate in nome di Dio. L’uso delle primizie, retaggio dell’antica legge, che gli consacrava i primogeniti di tutte le cose; l’autorità paterna, giudiziaria, civile, che agiva come per delegazione divina; il rispetto delle persone, delle solennità e delle cose sante; l’orrore e la punizione della bestemmia, e tanti altri usi, purtroppo da noi lontani, dimostrano praticamente come l’idea divina teneva in tutto il primo posto. Dio era vivo nelle idee e nei costumi, negli usi e nelle istituzioni. La miseria umana s’affermava senza dubbio, perché essa si afferma sempre: ma anche Dio si affermava al di sopra della miseria dell’uomo. Si sentiva che Egli era il re degli animi e dei corpi, degli individui e dei popoli, del tempo e dell’eternità, e la sua regalità restava al di sopra di tutto ». – Perché il bene ritorni a fiorire sulla terra, è necessario che il Sole di Dio risplenda e tutto ancora riscaldi coi suoi raggi d’amore.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (5)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (43): “INDICE DEGLI ARGOMENTI” -II-

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (43): INNDICE DEGLI ARGOMENTI-II

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

A. — DIO CHE SI RIVELA

1. Attitudine del naturale intelletto umano.

A 1a a. — ATTITUDINE ALLA  CONOSCENZA IN GENERE

L’ordine della conoscenza umana è duplice: cognizione della ragione naturale e dalla fede 2856 3015.

Scienza naturale: sua libertà di conoscere 3019 (3457); ma  non è da escludere la ragione della rivelazione. 2859 2914 (3405).

La sola ragione — : può acquisire ogni scienza distinta dalla scienza suprannaturale rivelata, e la verità puramente naturale, razionale, morale. 2766; modo in cui essa si acquisisce (sec. Tomismo) 3618-3620.

— si può difendere il valore della cognizione naturale umana in genere e dei principii metafisici 2767 3892; in specie dei principii della ragione sufficiente, della causalità, finalità 3892; peccano per difetto le asserzioni 1028-1042 1048.

— si può dimostrare la aspiritualità dell’anima umana, l’immortalità, la libertà a-b 2766 a-e. 2812.

Nella scienza dei libri dell’occulto e del futuro nulla è da sperare dall’astrologia, dagli auguri, dai sortilegi e simili: cf. K 2de; libri vietati delle cose proibite 1859; sono riprovati il magnetismo e lo spiritismo in qualunque senso applicati. 2825 3642.

A lb.  b. — ATTITUDINE ALLA CONOSCENZA DELLE VERITA’ RELIGIOSE.

1ba. L’Esistenza di Dio si può conoscere con certezza in modo naturale, perfino dimostrarla astraendo dalla rivelazione e pure dall’ausilio della grazia 2441 .2751 2756 ab 2765 ab2812 a2853 2855 3004 3538 3875 abc. 3890 3892; si riprova l’ateismo, l’agnosticismo, gli avversari della teologia naturale.3021s b3026 a3475.

Via di dimostrazione: non a priori 3622; non si può attaccare la fede ctr. atei (2754) 2812; è da arguire a posteriori: dagli effetti alla causa 3538 3622 (qui i vari modi)

Non si può provocare la cognizione immediata o l’intuizione di Dio col lume intellettuale del viatore 2841s 3201 3205.

1bb. L’Essenza di Dio può essere conosciuta secondo alcuni attributi già dalla sola ragione umana (2441) 2853 3875; tra questi la personalità di Dio 3890 3892;

L’infinita perfezione di Dio 2751; Dio principio e fine di ogni cosa 3004.

lbc si può conoscere con certezza l’Efficienza di Dio dalla ragione naturale, per quanto possibile —: creazione come tale 3004 3875; —: legge naturale morale 2866 3875 3892; —: divinità della rivelazione mosaica e cristiana 2752 2756; —: esistenza di Gesù Cristo ctr. asserzione [Chr. è una finzione mitica] 2907 (3540); —: miracoli e profezie a2753 ab2768 ab2907 ab3009 a 3034 a3428 a3436s; a favore del miracolo della Resurrezione di Cristo, si può arguire dalla tradizione 2754 (2768).

A 2 2. Nozione della rivelazi0ne.

Rivelazione (in senso stretto): è la locuzione di Dio agli uomini 2778 3004; determina il corpo della dottrina applicato alla salute per tutti gli uomini di ogni tempo. (800) 3459.

Si riprova: [Riv. Che sia opera meramente umana, invenzione filosofica] 2777 2781 2904 2907 3541; [riv. è se non in relazione con la coscienza dell’uomo rivolta a Dio] 3420 3464 3541.

3. Possibilità e fatto della rivelazione.

Possibilità della rivelatzone in senso stretto. 3027s.

Fatto storico di tale rivelazione (asserto implicito in tutta la dottrina) edtto più solenne solenne 800 3004s; in questo senso si negano: a .Rationalisti e b. Modernisti (2904) b3475 b3477s.

Questa rivelazione fu finita e completata con gli Apostoli (1501 3070) 3421.

4. Fine ed utilità della rivelazione.

L’intenzione di Dio rivelante è, che l’uomo finalizzi la sua elevazione al commercio soprannaturale con Dio. 2854s.

Necessità della rivelazione: è per intuito il fine assoluto soprannaturale dell’uomo (378) 3005; è per intuito morale della presente condizione dell’uomo la via più spedita per conoscere le verità religiose, che di per sé non sono impervie alla ragion 3005 3876.

Utilità: la fede libera la ragione dagli errori ed istruisce in molteplici cognizioni 2776 3019; rev. è stella direttrice per la scienza naturale. Reprob.: [riv. è inutile, di ostacolo alla r agione, nociva] 2903 2906. 3028.

5. Proprietà delle rivelazioni.

a. — SUPRANNATURALITA’

La rivelazione (in senso stretto d.) è suprannaturale (2854) 3004ss (3547); e non può essere desiderata da meri uomini naturali 2618; fede nella rivelazione, è distinta dalla mera fede naturale 3032; la fede è sopra la ragione

b. — IMMUTABILITÀ

La. Rivelazione (e la fede in essa) è immutabile 2802 2829 3020 3043 . (3626 3893); alla comparsa di nuove dottrine, non è assucurata l’assistenza dello Spirito Santo 3070; reprob. le accommodazioni dei dogmi con odiose mutazioni 3340-3342,• 3458-3465; si riprova: [rivelazione di pari passo con la ragione umana deve progredire da uno stato imperfetto 2905. L’immutabilità della dottrina rivelata non esclude l’evoluzione omogenea dei dogmi: vd. A 9bb.

6. Ambito della rivelazione.

a. — MISTERI IN SENSO LATO

Lee rivelazioni sono dovute anche a delle cognizioni delle cose divine che di per sé non sono impervieall’umana ragione 3005 3876, sunt dogmi che la ragione naturale ha in comune con.la fede. 2851 2853 3136.

b. — MISTERI IN SENSO STRETTO

Sono misteri in senso stretto quelli che si possono percepire dalla sola rivelazione (oppure dalla fede) 2853s 3015 3041.

Transcendono l’intelletto umano 824 2851s 2856 3016 3041; restano oscuri e caliginosi anche dopo la rivelazionem 2856 3016; trascendono anche l’intelligenza naturale degli Angeli. 2856.

Non tuttavia ripugnano alla ragione: numquam per quanto potrebbe esservi vero dissenso tra -:fede e ragione 2776 2811 3017-3019 (3287); —: fede e storia 3544s; —: teologo e fisico, rimanendo nel proprio ambito 3287; pertanto ogni asserzione contraria alla fede è falsa 1441 3017 (3895); causa di apparente contraddizione 3017 (3287).

7. Tradizione della revelatione.

A7a. a.— TRADIZIONE DELLA RIVELAZIONE IN GENERE.

7aa Origine. La tradizione delle rivelazioni si deve a:— Cristo revelante agli Apostoli 1501 3006; Spirito Santo veramente inabitante nella Chiesa e dettante agli Apostolis a600 b1501 b3006; reprob.: [la tradizione non contiene nulla di divino] 3548.

7ab. Il modo di comunicare la rivelazione. La Rivelazione è contenuta in libri scritti ed in tradizioni senza scritti 609 1501 3006 CdIC 1323, § 1.

7ac Riconoscimento della tradizione — : richiesta dalla Chiesa 1100 110 186° 1501 1504 1863 2537 2738s 2771 2784 2879 (3012 3540) 3626.

—: conservatata 542 548 600 602s 609 650-652 654 657 705 1510 1600 1637 1648 1750 1764 1766 1800 1820s 3069.

Criteri della tradizione: Consenso universale della Chiesa 1637: Consenso dei Padri: tradizione dei Padri invocata ed introdotta 271 370 396 399 485 501//520 548 550 575 635 710 824 850 1510 1542 1600 1692 1750 1766 1800 1820s 2090 2830 2855s 3284 3541; in particolar come regola per interpretare la S. Scrittura 1507 1863 2771 2784.

Consenso dei teologi: rappresenta la tradizione 824; pertanto si deve guardare indietro 1407 2879.

A 7b   b. TRADIZIONE DELLA RIVELAZIONE MEDIANTE LA S. SCRITTURA.

Esistenza dei libri inspiratori. Esiste il canone dei libri sacri dallo statuto della Chiesa 179s 186 213 (350°) 1335 1502s; si deve accettare quel canone esclusivo e con ogni parte (come contenuto nella Vulgata) a202 a213 a354 b1504 1863 2538 b3006 b3029.

Ragione della interna canonicità non consiste nell’approvazione di un’opera meramente umana né nella inerranza, ma nell’indole ispirata. 3006 3409 3412s 3415 3490.

Fatto dell’inspirazione. I libri canonici hanno Dio come autore. (800) 3006 3293; in particolare inculcato contro i Manichei che l’Autore del Vecchio e del Nuovo Testamento è il medesimo Dio 198 325 685 790 854 1334 1336 1501.

L’inspirazione è appropriazione dello Spirito Santo dettante 1334 1501 3292 3593; Lo Spirito S. parla nella Legge Mosaica, per mezzo dei Profeti (o nei Profeti), mediante gli Apostoli, o gli Evangelisti (s. nei Vangeli) b41s be 46 abed 48 c60 b150 b682.

Modo descritto per l’inspirazione 3293 3650s; riprov. delle spiegazioni dei Modernismi 3409-3411 3413 3491.

Estensione della inspirazione: da tutti i libri recepiti dalla Chiesa con ogni parte. (1504 3006 3029) 3291s.

Questioni circa la canonicità, l’autore, composizione dei vari libri de delle parti: Citazioni implicite 3372 3654; Pentateuco 3394-3397 3862-3864; Genesi 3512-3519; Psalmi 3521-3528; Isaia 3505-3509; Questione sinottica 3577s: Ev. Mt. 3561-3567; Ev. Mc. Et Lc. 3568-3576; Ev. Jo. 3398-3400; Atti degli Apost. 3581-3586; Lettere Pastorali 3587-3590; Lett. agli Ebr. 3591-3593; Lett. di Giov. 180 1811; Comma Giovanneo 3681s; Apocal. 486 1501°; altri libri 1501°.

7bb  Inerranza della S. Scritture. Tutti i libri contengono indubbia 1065: l’inerranza proviene da questo: dall’inspirazione a3292s 3652-3654; non è lecito concedere che l’autore abbia errato 3291.

Riprov. asserto che detrae l’inerranza e professa il mitologismo a2907 a3034 3414 3887.

La S. Scrittura non vuole insegnare la costituzione delle cose naturali. Che descrivono solo sec. La sensibile apparenza 3288; da ciò nessun vero dissenso tra teologo e fisico 3287.

Interpretazione delle S. Scritture deve seguire la regola — : giudizio del Magistero della Chiesa 1507 1863 2538 3007 3281 3401-3408;

— tradizione unanime dei Padri e dei teologi 1507 1863 2771 2784 3007 3284 3546 3887; non è una vera opera se scaturisce da tutte le opinioni dei singoli 3289;

— analogia della fede 3283 3515 3546 3887.

Scienze ausiliari dell’esegeta sperimentato sono cose elevate di critica letteraria e cognizione di cose naturali 3286s.

La libera investigazione ed interpretazione di dottori privati rimane un campo ampio nonostante le regole suddette 3282 3289 3831; così che possa farsi (eccetto le cose che riguardino la fede ed i costumi) un miglioramento ed un’emendazione dell’interpretazione 3294.

Questioni circa l’interpretazione: Generi letterari nella S. Scr. 3829s; Fonti mitologiche 3899; Applicazione del metodo storico alla S. Scrittura 3290; Parti specialmente storiche 3373; Senso letterale e spirituale 325 3792s 3826-3828 3888s; Genesi cap. 1-11: 3898; Ps. 15,10s: 3750; Vangeli: Mt. 16,26 et Lc. 9,25: 3751; Ev. Io. 3416-3418; Altro avvento di Cristo nelle Lett. Paoline 3628-3630; indole della vera profezia (2907) 3505s 3528 3563 3573; rigettata la discrepanza tra Vecchio e Nuovo Testamento pretesa dai Manichei 198 790 854 1334 1336. Si riprova il metodo di interpretare (in genere) dei Razionalisti, Modernisti e delle Società bibliche acattol.. 2784 3546s; pericolo di errare soprattutto dei laici 770s.

Testi originali e versioni della S. Scrittura. Gli esegeti usino massimamente i codici originali 3280.

Traduzioni in altre lingue comportano il pericolo di errori ed abusi 770s 1853s 2710s; per questo motivo la versione della Vulgata è dichiarata autentica 1506 1853 2710 3280; questa autenticità è solo giuridica, in quanto non esclude difetti di versione b3280 3794s 3825; l’esegeta usi altre versioni 3280; ai fedeli tuttavia non sono permesse versioni senza note ed approvazione eccl. 1508 1863 2772 CdIC 1391; si proibiscono le versioni delle Società bibliche acattoliche. 2771 2784.

Lettura della S. Scrittura raccomandata in genere 770s; non invero è utile a tutti 1853s 2712 2771s; infatti non è per tutti obbligatoria 2479-2485. 2667; la lettura presuppone l’uso di edizioni approvate: vd. A 7bd

8. Accettazione della rivelazione per mezzo della fede

a. — NATURA DELLA FEDE

la fede è la virtù soprannaturale per cui si credono le cose da Deo rivelate sull’autorità di Dio rivelante 3008 3542; l’assenso è libero (obediente per grazia, non è necessaria la forza prodotta dalle argomentazioni) 3010 3035; né tuttavia l’assenso è cieco 3010 3542.

Riprov. del concetto di fede dei Modernisti 3484-3486 3542.

Fede in quanto dono di grazia: vd. F 4; come disposizione alla giustificazione: F 3c

b. — PREREQUISITI PER LA FEDE.

Da parte di Dio si richiede l’ausilio della grazia (illuminazione dello Sp. Sancto) 378 396-400 1553 2813 3010 3014 3035.

Da parte dell’intelletto umano si richiede il giudizio di possibilità e l’obbligo di credere: (che è da chiedere) perché si possa acquisire vera certa nozione dei fondamenti della fede (come del fatto della rivelazione) 2121 2752-2754 2756 2768 a2778 2853 3009 3019 3539 3892; fede (Supposto l’ossequio della ragione consentaneo) deve precedere la ragione (che argomenta di essa) 2751 (2754) 2755 2765s 2812s .3009 (3019).

Si deve conoscere la credibilità dell’esistenza dei segni esterni 3033s 3475 3477 3539; quali motivi di credibilità valgono: vaticini, miracoli (tra i quali la resurrezione di Cristo), l’eroismo dei martiri, la mirabile propagazione della religione crist. La Chiesa in sé stimata (segno elevato) 4772 b2753 be2754 abc2768 . abcde 2779 (°2907) ab3009 et3012-3014 b3034 b3539; non vale la sola ispirazione privata o l’interna esperienza 3033.

Si può infirmare il giudizio di credibilità per gli influssi provenienti dall’esterno  3876; l’uomo può faticare anche per l’errore invincibile della vera religione. 2865° 2866. Da parte della volontà si richiede la libertà della coazione nell’accettare la fede: vd. K 4cc. Obbligo di credere: vd. K 2a.

9. Applicazione della ragione umana alle cose rivelate.

A  9a  a. – UTILITÀ DELLA  RAGIONE E SUOI LIMITI.

La ragione dimostra e difende la fede 2776 3019 3135-3138; prepara in parte all’intelligenza dei misteri 2853 3016 3137 3892.

I limiti della ragione nascono dall’indole sovrannaturali e dalla misteriosa rivelazione degli oggetti: cf. A 6b; infatti non si possono trattare i misteri allo stesso modo degli oggetti della scienza naturale 2854 2856s; né la filosofia è immune da errore 2829; esistono anche questioni più profonde della ragioni quasi insolubili 249.

Ragione umana (filosofia) quindi non deve dominare nelle verità rivelate (o in teologia) 824 2829.

Si riprende l’eccessiva stima della ragione umana (razionalismo) 2732 2775-2777 2828s 2850s 2858-2861 2878 2901-2914; riprov. dei principii dell’autonomia della ragione e della piena indipendenza dalla religione 2860 2903s 2911 2914 3031s; riprov. della tendenza a risolvere (ex toto) gli oggetti della fede ad opera della ragione 824 2732 (2738) 2851s 2908s; con tale pretesa si perde il merito della fede 824.

A 8b  b. – TRATTAZIONE SCIENTIFICA DELLE COSE RIVELATE.

9ba Dono della teologia. La ragione considera la teologia come la trattazione scientifica degli oggetti rivelati. 3135-3138.

L’indole del progresso scientifico è l’evoluzione delle dottrine nel medesimo senso (s. evolutio homogenea) 2802 3020 3043 3541 (3626) 3886; si riprova la concezione (massimamemte del modernismo) circa il progresso teologico e dei dogmi 2905 3020 3043 3422-3424 3426 3458-3465 3483 3488 3541; si respinge l’accusa, che il Magistero ecclesiastici impedisca il progresso della scienza teol. 2912 3457; si nega l’oscurazione delle verità nella Chiesa 2495 2601.

9bb Metodo della teologia. La norma principale per conoscere le verità soprannaturali non è la ragione umana 2738; al teologo non è lecito astrarre dall’indole soprannaturale delle cose rivelate (2854 2856s) 3547. Metodo scolastico (s. “vecchia scuola”) si raccomanda (ma con restrizione). E si difende ctr. il fideismo ed il modernismo 2814 2876 2913 3139 3140 3894. Si difende il metodo apologetico 3499s 3879s. Si rigetta il dubbio positivo come principio di inchiesta teologíca 2738. Si comanda di conservare la terminologia coltivata nella tradizione 824 2831 3881-3883.

Preminenza della teologia sulle altre scienze 824 (2829); ordine dei dottori nella Chiesa è del tutto particolare 771.

Dipendenza della teologia dal Magistero eccl. Subordinazione al Magistero in genere; vd. H 1; conformazione alla tradizione: vd. A 7a; La libertà di insegnare al teologo è legata al Magistero: vd. H lbb.

Si spinge al riconoscimento della singolare autorità dei teologi in genere 1328 2871 Gli autori moderni per quanto preferiscano al Magistero le cose più antiche,  904; non tuttavia sono indipendenti dalla Sede Apostolica e devono essere approvati. 2047 3154s.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (44): “INDICE DEGLI ARGOMENTI -III-“

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (3)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (3)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo primo

IL CRISTIANESIMO E L’AMORE

Senza esitazione io applicherei al Cristianesimo ciò che Goethe scriveva delle poesie: Sono simili a finestre istoriate le Poesie: finestre che, guardate dalla piazza alla chiesa, apron sui muri una fila di buchi nudi e scuri. E le guarda così la buona gente, e dice poi che non ci vede niente. Ma su, una volta alfine, penetrate per la porta del tempio, e là guardate! Ecco, figure e scene, e cielo e mare, tutto nei vetri luminoso appare.

Creature di Dio, semplici e liete, gli occhi allegrate e l’animo pascete!

(Trad. CROCE)

Chi vuol comprendere il Cristianesimo, deve entrare nella nostra cattedrale, ed allora i dogmi ed i precetti morali che, stando al di fuori, gli restavano incomprensibili e gli parevano ciò che di più strano e di più oscuro si potesse immaginare, gli sembreranno luminosamente belli e veri. Solo vivendo in questa divina cattedrale, eretta da Dio, è possibile intuire il principio di unità che, come riduce le varie scene d’un vetro istoriato ad un tutto unico e mirabile e quasi prisma che ricompone i vari raggi colorati nell’unico raggio solare, così collega insieme armonicamente i dati della rivelazione e le norme della condotta, e tutto vivifica con unico soffio, con un’identica anima. Tale principio di unità ha formato l’estasi soprattutto dei santi. I filosofi ed i teologi nostri l’hanno descritto; e mentre alcuni volgevano lo sguardo indagatore specialmente ai singoli elementi molteplici, altri abbracciavano con una occhiata comprensiva lo spettacolo sublime, ad imitazione di san Francesco di Sales, che nella prefazione del suo celebre Tratté de ramour de Dieu esclama: « Tout est l’amour, en l’amour, pour l’amour et d’amour en la sainte Eglise. – Nella Chiesa di Dio tutto appartiene all’Amore, tutto è fondato sull’Amore, tutto si riferisce all’Amore, tutto parla d’Amore ».

Una mistica moderna, la madre Maria Luisa Margherita Claret de la Touche, nel suo Libro dell’amore infinito, ha egregiamente commentato le parole del Vescovo di Ginevra. Non si tratta — ella scrive — di « un amore snervante, senza vigore, che si appoggia sulla sensibilità ed è incapace di fortificare i cuori e di far loro produrre azioni magnanime e forti virtù »; si tratta dell’Amore di Dio, considerato in Dio stesso… Si è parlato molto d’amore, si è scritto molto sull’amore, da secoli. Ma di quale amore? Sovente della corruzione dell’amore carnale; — qualche volta di quel riflesso del vero Amore, che risplende ancora nel cuore della creatura; — raramente del grande e gratuito Amore, che Iddio versa in benefici sopra la medesima creatura; — ben più raramente ancora dell’Amore eterno ed infinito che è la sostanza di Dio e la Divinità stessa. Dall’Amore di Dio, invece, bisogna partire, perchè il Cristianesimo ci appaia in tutta la sua luce piena e per potere in tal modo cogliere l’anima vera anche della morale cattolica. Bisogna, cioè, ben convincersi che tutto nel Cristianesimo è Amore; che l’Amore è la causa universale della creazione, della redenzione e della santificazione; che l’Amore, per dirla con Dante, « muove il cielo e l’altre stelle »; che il Credo, per usare una felice espressione di mons. Baunard, articolo per articolo è la successione della nostra ascesa continua verso Dio sulle ali dell’Amore, che Dio infonde in noi; che ogni colpa non è se non una volontaria ribellione all’Amore. Con questa chiave d’oro — l’Amore divino — si apre la porta di ogni verità rivelata e di ogni precetto dell’etica.cristiana.

1. – Il dogma e l’amore

Un soave Dottore della Chiesa, san Francesco di Sales, nell’opera ora rammentata, richiama gli insegnamenti sull’amore di Dio di san Paolo, « che li aveva appresi dal cielo stesso., e degli altri grandi scrittori nostri che hanno svolto questo soggetto. Gli antichi Padri, egli ricorda, « servendo amorosamente Dio, parlavano anche divinamente del suo amore… San Tommaso ne ha fatto un trattato degno di san Tommaso ». San Bonaventura, Giovanni Gersone, cancelliere dell’Università di Parigi, il cardinal Bellarmino, santa Caterina da.Genova ed Angela da Foligno, santa Caterina da Siena e santa Matilde, santa Teresa e mille altri hanno dedicato a questo argomento pagine ineffabilmente belle. Non è qui possibile riassumere i grandi principi, che mostrano come nel campo dogmatico l’Amore « è l’anima della dottrina cattolica, il suo centro, è la spiegazione di tutti i misteri di nostra fede ». Solo ci appagheremo di rapidi accenni.

Innanzi tutto, chi è Dio?

« Dio è Amore! Egli vuol essere conosciuto così e vuole che questa conoscenza si diffonda nel mondo, lo infiammi e lo rinnovi… Il suo Amore è Lui stesso. – « Mosè, — prosegue la madre Claret de la Touche — il grande legislatore degli Ebrei, il privilegiato, che con la sua dolcezza e forza aveva attirato gli sguardi di Dio, riconoscendo nel roveto ardente del deserto la presenza della Divinità, Gli aveva domandato il suo nome; e Dio aveva risposto dalle fiamme ardenti: « Io sono Colui che sono! ». Risposta profonda, che rivelava Iddio come l’Essere supremo, essenziale, unico, causa e principio degli esseri, di una stabilità e unità assoluta, senza possibilità di mutamento, di diminuzione o accrescimento. Ma risposta misteriosa, come tutte le manifestazioni divine dell’Antico Testamento, che non rivelava il segreto di Dio e teneva l’anima umana sospesa davanti a questo Essere incomprensibile ». Si camminava ancora in mezzo alle ombre; la luce piena della rivelazione era riservata per più tardi. « Spuntarono finalmente i giorni della Redenzione; la seconda Persona della Santissima Trinità s’incarnò, il Verbo divino si fece uomo, soffrì e morì per noi; poi, asceso al cielo, inviò lo Spirito Santo. È allora che sentiamo sgorgare dal cuore infiammato e dalle labbra verginali dell’Apostolo prediletto le parole rivelatrici: « Deus charitas est! », Dio è Amore! – « Iddio vedendo l’uomo purificato dal grande sacrificio del Calvario, rientrato in grazia, ritornato suo Figliuolo sottomesso e l’erede della sua gloria, non ha più segreti per Lui. « Rivelandogli il suo Nome: « l’Amore », si fa da lui conoscere per intero. Nel medesimo tempo gli svela tutti i suoi misteri, il segreto delle sue divine operazioni e la ragione de’ suoi atti ».

I grandi pensatori cristiani, da sant’Agostino a Bossuet, hanno indicato in questo Amore di Dio il perchè di tutti i misteri. Essi hanno inneggiato all’Amore infinito, che passa e ripassa in un flusso e riflusso divino fra le tre Persone della Santissima Trinità; e, come riassume il loro pensiero mons. Baunard, ci hanno dato questa sintesi degli altri dogmi cristiani: « Dio ama: amare è donarsi; e Dio ha tutto donato a noi e si è dato Lui stesso, cominciando dall’esistenza nostra e di tutti gli esseri: ecco la Creazione. «Dio ama: amare è parlare, è farsi comprendere da quelli che si ama, ed ecco la Rivelazione, la Sacra Scrittura e la sua Legge.

« Dio ama: amare è salvare, a qualunque costo, chi si ama, è morire per chi si ama: ecco la Redenzione. « Amare è voler essere continuamente con chi si ama: ecco l’Eucaristia, la presenza reale, l’altare. « Amare è donarsi a ciascuno di coloro che si amano: ed ecco la divina Comunione, la Cena. « Infine, amare è voler rendere felici, con sè e per sempre tutti coloro che si amano, ed ecco l’eterna beatitudine e il Cielo. – « Vasta sintesi dell’amore, che è pure quella di tutta la nostra fede! ».

Non per nulla l’aquila di Meaux, nella sua Oraison funèbre d’Anne de Gonzague, riferiva e commentava da pari suo un’espressione dell’illustre defunta, la quale aveva detto: « Dal giorno che piacque a Dio di mettermi in cuore che il suo amore è la ragione di tutto quello che crediamo, la risposta mi persuade più di tutti i libri ». Non per nulla i Santi e tutte le anime sentitamente cristiane trovano ovunque una delle strofe dell’Amore eterno, che li lancia in un impeto di riconoscenza verso Dio. Cos’è la natura, per il credente? Cosa dicono al suo cuore e alla sua intelligenza le montagne belle, gli oceani immensi ed il sorriso dei fiori? Risponde la mistica citata: « L’Autore Infinito aveva deciso la creazione dell’uomo per potersi effondere in lui. E come una giovane madre prepara con amore, di propria mano, la culla del bimbo che sta per dare alla luce, e si sforza di renderla, non solo dolce e comoda, ma graziosa e lieta, così Dio, che doveva essere padre e madre, preparò con amore la culla dell’uomo, l’universo, e si compiacque di onorarlo ed arricchirlo di tutto ciò che poteva servire all’utilità, al bene e alla gioia della sua creatura prediletta ». Per questo Gesù le diceva: « Dà il tuo cuore alle creature, affinchè esse amino per mezzo tuo e tu ami in loro, fa che esse glorifichino, esaltino, amino il loro Creatore. Ama con l’uccello che canta, con la nube che va vagando nello spazio, con la foglia che freme alla brezza. Dà a tutti questi esseri creati dall’Amore un’anima che conosca, un cuore che palpiti ». Per questo ella soggiungeva: « Mi pare che la creazione sia come uno strumento musicale, un’arpa; se nessuno la tocca, l’arpa non vibra: ma se il cuore dell’uomo, come un abile artista, tocca le corde di quest’arpa d’oro, allora s’innalza un suono armonioso: è un inno di amore, cantato dall’amore in onore dell’Amore infinito,. Cos’è la nostra elevazione alla stato soprannaturale? I Padri, ad una voce, con mille figure rispondono spiegando la parola dell’Apostolo della carità: « Vedete quale amore ci ha dimostrato il Padre, nel far sì che potessimo avere il nome, e fossimo in realtà figli di Dio ». Com’è stato, in ogni tempo, annunciato nella Chiesa il mistero dell’Incarnazione e della Renzione, se non come il mistero di quell’Amore, del quale san Paolo osservava che sorpassa ogni scienza? Dio ha così amato il mondo, ha esclamato il veggente di Patmos, da dargli il suo Figlio unigenito ». E la mistica di Siena, santa Caterina, ispirandosi a questa nota, eleverà la sua voce: « Da qualunque lato mi volgo, trovo ineffabile amore… L’amore fece discendere l’altezza della Deità a tanta bassezza quanta è la nostra umanità… L’amore lo fece abitare nella stalla in mezzo agli animali. L’amore lo fece satollare di obbrobri. E, per amore, il dolce Gesù sommamente si dilettò di portare la croce di molte tribolazioni… L’amore lo fece correre con pronta obbedienza fino all’obbrobriosa morte della croce… Chi l’ha tenuto fermo in croce? Non chiodi, nè pietra, nè terra tenne ritta la croce, perchè non erano sufficienti a tener ritto l’Uomo-Dio; ma l’amore ». E non aveva detto già Gesù Cristo: « Nessuno ha amore piu grande di chi dà la vita per i suoi amici? ». – Anche Dante, discorrendo nel canto VII del Paradiso del decreto della Redenzione, ha magnificamente scritto:

Questo decreto, frate, sta sepulto

Agli occhi di ciascuno, il cui ingegno

Nella fiamma d’amor non è adulto.

Tutto ciò è evidente. E non solo Betlemme e Nazaret, ma anche le parole cadute dal labbro divino di Gesù sotto gli olivi della Giudea e fra le rose di Gerico, i suoi miracoli ed i suoi esempi, ed il Cenacolo, ed il Calvario, e l’Altare, e la Pentecoste, e tutta la storia della Chiesa sono verità chiuse in sepolcro, per chi trascura la « fiamma d’Amor ». Costui non capirà mai che la Chiesa è il regno dell’Amore; non capirà il Sacerdozio, ossia la schiera dei ministri dell’Amore; non capirà la Comunione frequente e quotidiana, alimento ogni giorno dell’Amore; non capirà Paray e la devozione al sacro Cuore e riterrà quest’ultima come una semplice devozione sentimentale, mentre è la sintesi di tutto il Cristianesimo. In breve: qual è il più bell’atto di fede che il dogma rivelato esige da noi? Non io, non un teologo, neppure un santo lo ha recitato la prima volta. Fu il discepolo che Gesù prediligeva e che posò il capo sopra il suo Cuore nell’ultima Cena, che ci insegnò a dire: « Nos credidimus Charitati!… Noi abbiamo creduto, noi crediamo all’Amore! ».

2. – La morale dell’amore

Su un simile stelo, poteva forse sbocciare il fiore di una morale che non fosse la morale dell’Amore? La rivelazione all’uomo dell’Amore infinito di Dio implica come conseguenza la necessità, il dovere, il bisogno di ricondurre a Dio l’amore dell’uomo, perchè — è sempre san Giovanni che lo proclama — « chi non ama, rimane nella morte ». E sempre nei secoli echeggerà il grido delle Confessioni di sant’Agostino: « Ci hai fatto per Te, o mio Dio, ed il nostro cuore non ha pace, finchè in Te non si riposi! ». – Come l’aquila reale, per usare il paragone del Bauthier nel suo volume su il sacrificio nel dogma cattolico e nella vita cristiana, quando è prigioniera, insanguina le ali alle inferriate della sua gabbia, così il cuore, chiuso nell’egoismo, senza i voli dell’Amore, si sente necessariamente tormentato dal rimorso. – Dalla dogmatica cristiana non poteva sorgere se non la morale della carità. Gesù Cristo, come vedremo, riassumerà la sua etica in un comando: « Diliges! Amerai!.». Nè poteva esser diversamente. Ogni precetto, ogni comandamento, ogni norma dell’etica doveva essere nel Cristianesimo ispirata dall’Amore, perchè ogni dogma della fede aveva lo stesso spirito. Gesù Cristo non è venuto al mondo per sciogliere la legge data sul Sinai ed impressa, prima ancora, nella umana coscienza; è venuto per compierla, per perfezionarla, per vivificarla con l’Amore. Come nel dogma, così anche nella morale, questa è la ragione di tutto, il principio vitale che tutto ci spiegherà. Perché dovremo adorare Dio e Dio solo? perchè non dovremo bestemmiarne il Nome e non pronunciarlo invano? Perché Gli dovremo consacrare un giorno della settimana, e si vada dicendo? Per amore, perché dobbiamo amarlo sopra ogni cosa. Perché, ancora, dobbiamo compiere il nostro dovere, non mentire, non ammazzare, non dire il falso, non profanare con l’impurità la nostra mente ed il nostro corpo, non rubare, e così via? — Perché, risponde l’Apostolo san Giovanni, dobbiamo amare il Signore non con le parale e con la lingua, ma con la realtà dei fatti. Perchè negli altri, anche nei nemici, dobbiamo vedere dei fratelli? E perchè ancora, non contenti dei comandi, ci sentiremo spinti ad attuare i grandi consigli della perfezione? Sempre per amore.

Nella casa di Miriam, Sienkiewicz, nel suo Quo vadis?, ha ritratto artisticamente la figura del tribuno romano Vinicio. Stanco delle orge, del vino, del canto, delle cetre, delle ghirlande di fiori, del palazzo di Cesare, col cuore acceso da un puro affetto, Vinicio, attratto sulla via della conversione, si rivolge a Pietro ed a Paolo di Tarso e con accento rapito e commosso implora la luce:

— Vedete! Mi torturo nell’incertezza: Mi dissero che la vostra dottrina distrugge la vita, la felicità, le leggi, la potenza dell’impero. È vero? Mi dissero che siete dissennati. Istruitemi… Mi fu anche detto: la Grecia creò la sapienza e la bellezza, e Roma la forza; che cosa dunque arrecate voi? Se in voi è la luce, fate che un raggio brilli su di me. — Noi rechiamo l’Amore, disse Pietro. E Paolo di Tarso soggiunse: — Conoscessi pure la lingua degli Angeli, senza la carità io non so più parlare e divengo rame sonoro tintinnante. Così è. La sintesi del dogma è l’Amore di Dio in sè e per l’uomo. La sintesi della morale cristiana, e tutto questo Sillabario ne sarà una dimostrazione, non è altro se non l’amore dell’uomo per Dio.

Riepilogo

Prima di esporre la morale cristiana, occorre affermare il principio di unità che la vivifica e che si può esprimere con una parola: L’Amore.

1. – Tutto nel Cristianesimo è amore. Il dogma ci rivela l’Amore infinito di Dio in sè e l’amore suo per noi.

2. – E’ chiaro che la morale cristiana non poteva, di conseguenza, essere altro se non la morale dell’amore, ossia dell’amore dell’uomo per Dio. Per non confondere l’etica di Cristo con altre dottrine, non bisogna mai perdere di vista quest’anima ispiratrice dell’Amore.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (4)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (1)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (1)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

PREFAZIONE

Alcuni anni or sono, io ponevo nelle mani del popolo italiano un primo Sillabario. Il titolo era birichino. Qualche amico ebbe un fremito di spavento e mi consigliò di mutarlo. Non lo feci, perché ero troppo convinto che nella patria nostra non la copertina dei libri, né tanto meno una stupida e menzognera réclame sono un invito a leggere, ma la sostanza ed il pensiero. Il Sillabario del Cristianesimo ebbe fortuna. Dio lo benedisse. Uomini piccoli e uomini grandi lo approvarono. In poco tempo si susseguirono molte copiosissime edizioni. Nessun romanzaccio moderno o contemporaneo ha raggiunto la tiratura del minuscolo volume sul soprannaturale. Anche questo è un segno dei tempi. Oggi le stelle interessano le coscienze, più che non il fango. Sono lieto di constatare un simile fatto, perché non si tratta d’un mio lavoro. Di mio in quel volumetto c’era solo il nome e la stesura materiale. Ma il contenuto non mi apparteneva. Quelle pagine offrivano l’esposizione semplice, nuda, elementare della vecchia ed eterna idea cristiana. E mille e mille ottime persone guardarono; forse alcuni compresero per la prima volta cos’era il Cristianesimo; e tutti si convinsero che per l’insegnamento della Religione occorrono oggi in« sillabari » in questa terra nostra, che pur fu madre di Tommaso e di Bonaventura e l’ispiratrice delle Somme medievali. A quel Sillabario del dogma succede ora logicamente l’altro sulla morale, che suppone il primo e lo sviluppa. Il che è quanto dire che è assurdo comprendere il significato esatto dell’etica di Cristo, se non si è già appreso cosa siano la grazia, l’ordine soprannaturale e le varie verità dogmatiche della rivelazione. Solo Bertoldo poteva illudersi di erigere il secondo piano d’una casa, senz’aver costruito il primo; ed è da augurarsi che, almeno, quando si tratta d’affrontare il problema della vita, Bertoldo non abbia imitatori. – Anche il nuovo Sillabario, che vede ora la sua decima quarta edizione, non è stato di facile compilazione. Nato — non a tavolino, fra dotti volumi — ma nella vita e nella scuola, tra palpiti di cuori e le serene battaglie dell’Azione Cattolica; cresciuto in mezzo alle esperienze quotidiane dello sforzo educativo; elaborato finalmente — dopo quattro anni di tentativi ripetuti con ostinazione — in una Settimana Sociale indetta dalla Gioventù Cattolica Femminile, per iniziare una serie di Corsi per la morale nelle varie regioni d’Italia (La Settimana fu tenuta a Castelnuovo Fogliani, alla fine del luglio 1929. Erano presenti S. E. mons. Ugo Giubbi, Vescovo di San Miniato, mons. Alfredo Cavagna, Assistente Generale della G. F. di A. C., 14 altri sacerdoti e 200 dirigenti della floridissima Associazione, guidate dalla loro presidente, la compianta signorina Armida Barelli), questo piccolo libro ha conosciuto l’oscuro, lento e paziente lavoro delle radici. A me purtroppo torna difficile esporre con semplicità i veri profondi del Cristianesimo, in modo da presentarli all’occhio di tutti, perché lo sguardo colga l’intima natura di essi e non si fermi alla superficie esteriore. – Bisogna arrivare ad un’esposizione limpidissima, che non degeneri nel semplicismo; ad una enunciazione, sostanzialmente completa, dei primi principi della morale nostra, che eviti il linguaggio tecnico della filosofia e della teologia — pane di primo ordine, ma troppo duro per i denti di latte della nostra generazione —; ad una trattazione, la quale non insista tanto sulla morale umana, quanto sulla morale cristiana. Umilmente e fervidamente ho chiesto aiuto per quest’opera, che non aveva nulla di personale, ma aspirava unicamente a far partecipare tutti ai tesori dei misteri di Cristo. E — come già aveva fatto per la prima edizione del Sillabario del Cristianesimo — un dotto gesuita della « Civiltà Cattolica il P. Giovanni Busnelli, volle assumersi il faticoso impegno di revisione e di correzione. Non mi è possibile insistere sulla preziosità di una così alta ed efficace assistenza, non so se più degna di gratitudine o di ammirazione. All’illustre scrittore, che onorò col suo sapere il clero italiano e che oggi ci sorride dal Cielo, va il mio pensiero riconoscente (Anche all’amico carissimo mons. Carlo Figini, professore nel Seminario teologico di Milano, ed a mons. Giuseppe Borghino, un ringraziamento cordiale per la loro collaborazione.). Da quanti, poi, scorreranno le pagine seguenti imploro una preghiera, perché  la nuova crociata, per diffondere sempre più la conoscenza della dottrina morale cristiana, sia ricca di pratici risultati.

Don Olgiati.

INTRODUZIONE (1)

Un celebre romanziere inglese contemporaneo, il Chesterton, in una delle scene suggestive del suo volume La sfera e la croce, si soffermava sul dialogo curioso, svoltosi fra il professor Lucifero ed il monaco Michele. I due noti personaggi si trovavano su d’un vascello volante,.che solcava il cielo di Londra e passava sopra la cattedrale di San Paolo. La croce, ergentesi sul tempio quasi preghiera verso il grande azzurro e come programma per i piccoli mortali, provocò la bestemmia e la parola di disprezzo di Lucifero. E Michele subito gli rispose: — Io ho conosciuto in altri tempi un uomo come te, Lucifero… Anche quell’uomo aveva adottato l’opinione che ilnsegno del Cristianesimo fosse un simbolo di barbarie e di irragionevolezza. Cominciò, naturalmente, col bandire il crocifisso da casa sua, dal collo della sua donna, perfino dai quadri. Diceva, come tu dici, che era una forma arbitraria e fantastica, una mostruosità; e che la si amava soltanto perché era paradossale. Poi diventò ancora più furioso, ancora più eccentrico; e avrebbe voluto abbattere le croci che si innalzavano lungo le strade del suo paese, che era un paese cattolico romano. Finalmente, s’arrampicò sopra il campanile di una chiesa, ne strappò la croce e l’agitò nell’aria, in un tragico soliloquio sotto le stelle. Una sera d’estate, mentre ritornava lungo un viale, a casa sua, il demone della sua follia lo ghermì di botto, agitandolo in quel delirio che trasfigura il mondo agli occhi dell’insensato. S’era fermato un momento, fumando la sua pipa di fronte a una lunghissima palizzata e fu allora che i suoi occhi si spalancarono improvvisamente. Non brillava una luce; non si moveva una foglia; ma egli credette di vedere, come in un fulmineo cambiamento di scena, la lunga palizzata tramutata in un esercito di croci legate l’una all’altra, su per la collina, giù per la valle. Allora, facendo volteggiare nell’aria il suo pesante bastone, egli mosse contro una schiera di nemici. E per quanto era lunga la strada, spezzò, strappò, sradicò tutte quelle che incontrava sul suo cammino. Egli odiava la croce: ed ogni palo era per lui una croce. Quando arrivò a casa, era pazzo da legare. Si lasciò cadere sopra una sedia, ma ribalzò subito in piedi, perché sul pavimento scorgeva l’intollerabile immagine. Si buttò sopra un letto; ma tutte le cose che lo circondavano avevano ormai l’aspetto del simbolo maledetto. Distrusse tutti i suoi mobili, appiccò il fuoco alla casa, perché  anche questa era ormai fatta di croci; e l’indomani lo trovarono nel fiume. – Lucifero guardò il vecchio monaco, mordendosi le labbra — È vera questa storia? — No! disse Michele. È una parabola: la parabola di tutti voi razionalisti e di te stesso. Cominciate con lo spezzare la croce; ma finite col distruggere il mondo abitabile. Quest’ultima frase di Chesterton sintetizza la storia di parecchi secoli. La morale cristiana, simboleggiata dalla croce, fu derisa, combattuta, spezzata, distrutta. Una lotta sistematica, un assalto irrompente, un succedersi di battaglie dirette dai condottieri più diversi, un moltiplicarsi di tentativi concepiti dai più svariati punti di vista e di tattiche spesso in contraddizione fra loro, ma cospiranti al medesimo fine, hanno voluto abolire nel mondo la morale di Cristo, per dichiarare il suo regno finito per sempre. Le conseguenze d’un simile stolto conato sono da tutti conosciute. Non è esagerazione da letterato, o geremiade da predicatore additare il cumulo di rovine nel mondo degli spiriti, che affliggono l’epoca moderna. Individui, famiglie, nazioni, umanità soffrono e potrebbero confessare con Giovanni Papini, che « gli uomini, allontanandosi dall’Evangelo, hanno trovato la desolazione e la morte » – Io mi rivolgo a coloro che scorreranno queste prime linee e li prego di soffermarsi un istante, per rispondere a se stessi, nel silenzio della loro coscienza; — Voi siete proprio contenti della vita vostra, degli anni che avete trascorso, dei giorni che ora passate? Non avete forse la sensazione chiara, netta, precisa d’aver sciupato gran parte della giovinezza, d’esservi pasciuti di illusioni e d’aver invano rincorso la vera gioia, la intima tranquillità, la pace? Il deficiente, che, in ogni epoca, è sempre stato soddisfatto di sé, oggi non si trova con molta facilità. Troppi, invece, sentono l’ « angoscia » d’un animo nauseato, gli spasimi atroci del disinganno, il bisogno d’una vita nuova. Ed è per questo che molti ritornano a Cristo. La morale cristiana suscita nei cuori fremiti nuovi, aspirazioni ed aneliti ardenti. L’etica dell’Amore costituisce una speranza anche per chi non la conosce a perfezione, e che, fra le morse di una esistenza inquieta ed insoddisfatta, la ricerca soltanto col gesto del naufrago che afferra la tavola della salvezza. I credenti, poi, provano la necessità di approfondirla maggiormente e di praticarla con coerenza, con intensità, con fervore. Dopo un’epoca di criminose leggerezze, di superficialità insulsa e di disastri, il problema morale s’impone alla vigile coscienza di tutti, e specialmente delle giovani generazioni, che si affacciano alla vita, decise a creare un avvenire bello e radioso. – Il mio Sillabario vuol essere puramente il piccolo libro per l’una e per l’altra schiera, per coloro che ancora non sono giunti, ma già s’avviano al Cuore di un Dio che li attende e fa sentire ogni giorno più il dolce suo appello imperioso, e per coloro che già respirano, forse con polmoni molto deboli, l’atmosfera buona nella casa del Padre. Perché la lettura riesca proficua, è opportuno accennare ai motivi che rendono oggi ardua l’esposizione dell’etica nostra, ed in pari tempo è necessario sottolineare i criteri che mi hanno ispirato. Difficoltà attuali nello studio della morale cristiana e metodo da seguirsi per poterla comprendere nella sua divina efficacia: ecco ciò che si propongono di mostrare queste pagine introduttive.

I. – Difficoltà attuali nello studia della morale cristiana.

Per tre ragioni ai giorni nostri è ardua impresa enunciare e far capire i principi essenziali dell’etica cristiana. Innanzi tutto, una morale si intuisce meglio, quando ci è insegnata dal libro della vita quotidiana, che non quando si medita su un freddo volume. E, purtroppo, oggi la morale cristiana vissuta si incontra poco di frequente nelle strade, nelle piazze, nelle case, nell’economia, nella letteratura ed in tutte le varie esplicazioni dell’attività umana. Se prescindiamo dalle definizioni filosofiche astratte (le quali con questo Sillabario nulla hanno a che fare, non già perché siano superflue, ma perché non potranno essere apprezzate se non al termine di questo lavoro), possiamo dire subito che la morale del Cristianesimo esige che noi, superando i difetti e le cattive nostre inclinazioni, viviamo come vivrebbe Gesù Cristo. Noi siamo veri seguaci della morale cristiana, quando, in ogni determinata circostanza, pensiamo come vuole Gesù Cristo, quando abbiamo in noi i sentimenti di Gesù Cristo, quando agiamo secondo lo spirito di Gesù Cristo. Un maestro è Cristiano, ad esempio, se nella sua scuola cerca di trattare i fanciulli ed i giovani a lui affidati, come li tratterebbe Cristo. Un padre ed una madre sono Cristiani, se educano i loro figli comenli educherebbe Cristo. Un operaio od un contadino sono Cristiani, quando lavorano come lavorerebbe Gesù, con lo stesso animo, con lo stesso atteggiamento spirituale, chiedendo a sé, ad imitazione di S. Vincenzo de’ Paoli: “Che farebbe Gesù, se Egli fosse al mio posto?”. E subito, a questa prima riflessione tanto naturale e tanto semplice da sembrare lapalissiana, qualcuno, ben consapevole del male a cui si lascia trascinare dalle passioni, avrà un sussulto di spavento e dovrà esclamare: « Allora io non sono Cristiano! Le parole che io pronuncio, soprattuttonnei momenti di rabbia, i discorsi che tengo con gli amici, i metodi che uso nei miei affari, la condotta abituale della mia giornata sono parole che Gesù non avrebbe MAI pronunciato, son discorsi che Egli non avrebbe MAI tenuto, è un metodo di agire che Egli non avrebbe MAI seguìto… ». – Ma non spaventiamoci tanto presto. È certo che il catechismo del card. Bellarmino cominciava con una domanda ed una risposta terribile, anche se per tanti secoli venne dai fanciulli pappagallescamente ripetuta:

— Siete voi Cristiano?

— Sì, sono Cristiano per grazia di Dio.

Ahimè! Se liberiamo il nostro orecchio dal tono monotono della cantilena infantile, e ridiciamo a noi stessi l’interrogazione del Bellarmino, vi scopriamo un significato non sospettato ed insospettabile. Voi siete un mercante, ad esempio. Per realizzare, per caso, un guadagno ragguardevole, imbrogliate il prossimo. E la coscienza vi chiede: « Siete voi Cristiano? ». La cantilena vi muore sul labbro. Il bel « sì, sono Cristiano » dei vostri anni innocenti si è cambiato in una condanna. Voi siete un giovane, un uomo. Non un animale immondo. Ma la passione rugge, insiste, comanda. Vilmente voi cedete. « Siete voi Cristiano ?». La formuletta catechistica è là. Essa vi assolve, o vi rimprovera; vi dà un senso di gioia, o l’assillo d’un fecondo rimorso. Ma, in nome del cielo, nell’anno di grazia che stiamo percorrendo, quanti sono nel mondo che ad ogni istante potrebbero gridare a fronte alta: « Sì, io sono Cristiano »? – Uno scrittore inglese, che col titolo d’un suo romanzo si domandava: « Cosa farebbe il Cristo? » ed immaginava Gesù che, sceso in terra un’altra volta, entrava negli uffici di amministrazione di un giornale di Londra e poi nelle stanze di redazione, ed in nome della sua morale rescindeva contratti di pubblicità, cestinava articoli, mandando al fallimento il giornale, e così press’a poco faceva, portando dovunque la rivoluzione, in altre aziende ed iniziative della attività moderna, poneva un problema che forse sarebbe interessante esaminare. Nella vita dei popoli, delle famiglie e degli individui, possiamo distinguere tre casi a proposito dell’etica nostra.

1. — Spesso la morale di Cristo è simile ad antiche navi, affondate un giorno con preziosi tesori. Occorrono palombari esperti, miracoli di energia e spese ingenti, per riportare sulla terra le vecchie triremi. E se nelle acque di certe coscienze voi doveste frugare e scandagliare il fondo, forse di morale cristiana non trovereste nulla, o quasi, ad eccezione dei resti di un pallido e lontano ricordo, giacenti laggiù come un rimprovero, la cui voce si tenta di soffocare sotto il peso delle colpe quotidiane, sotto le onde delle quotidiane vicende.

2. — Altre volte, frequentissimamente, vedete in pratica una morale, che vi richiama alla memoria il romanzo russo, non certo lodevole nella sua ispirazione, di Demetrio Mereshkowsky: La risurrezione degli Dei. L’umanista paganeggiante Giorgio Merula passava cautamente una spugna umida sui fogli d’una vecchia pergamena sottilissima e delicata; di tratto in tratto raspava con la pomice, lisciava con la lama d’un coltello e col lisciatoio, indi, alzando il foglio contro la luce, lo guardava. Qualche monaco medievale, volendo utilizzare la preziosa pergamena, aveva cancellato le antiche righe pagane e a quelle aveva sovrapposto la sua scrittura, le parole del salterio, le note del canto che accompagnavano i salmi penitenziali. Sopra, si leggeva: « Ascolta, o Signore, le mie preci: ascolta ed esaudiscimi, o Signore. Immerso nel mio dolore, io gemo e sospiro. Il mio cuore freme; ed i terrori della morte invadono l’anima mia ». Sotto, man mano che i caratteri ecclesiastici venivan raspati, comparivano altri caratteri, ombre di antiche lettere, pallide tracce delicate e scolorite, rimaste impresse sulla pergamena: era un inno agli Dei dell’Olimpo ed a Venere: « Gloria al gentil Dionisio, riccamente di pampini cinto… Gloria a te, madre Afrodite, dall’aurato piede, — degli uomini gioia e degli Dei… ». « Vedi? osservava malignamente l’umanista paganeggiante ad un amico Cristiano. Anche tu sei come questa pergamena nella superficie i salmi penitenziali, dentro l’inno ad Afrodite ». – Oh, non è forse questa la storia di molti? Al di fuori una patina di morale cristiana; ma sotto di essa un diavoletto in cuore. E non occorre neppure raspare troppo: i caratteri della superficie di quando in quando scompaiono; la morale pagana appare con tutta la sua fisionomia precisa, fin che un nuovo velo la ricopre ancora… La vita morale di moltissimi è oggi una tale miscela di paganesimo e di Cristianesimo, che vi rammenta la figura del Moro nel romanzo citato, quando, per invocare gli aiuti del Gran Turco, pregò a lungo e con fervore davanti all’immagine d’una Madonna, quell’immagine nella quale la mano di Leonardo da Vinci aveva ritratto le sembianze della contessa Cecilia Bergamini. Oppure, se volete un altro paragone anch’esso di Mereshkowsky, potete pensare a Leonardo, che ideò una colossale statua equestre, il “Cavallo”, in onore di Francesco Sforza, scrivendo sul basamento: « Ecce Deus », e che poi, nel silenzioso refettorio di Santa Maria delle Grazie, aveva dipinto il « Cenacolo ».

— Maestro, balbettò tremando un discepolo, Maestro, perdonate… Io non riesco a capire come avete potuto creare il « Cavallo » ed il « Cenacolo » nello stesso tempo… — Ebbene, che cosa non riesci a capire? — Oh, messer Leonardo! Ma voi, dunque, non lo vedete che è impossibile concepirli insieme?… Insieme! Cristo e un tal uomo, insieme! No, no… — e non trovava parole per esprimere il suo pensiero, si sentiva turbato l’animo all’idea dell’accozzamento di due cose inconciliabili, e non sapeva a chi dei due Leonardo avesse detto con sincerità: « Ecco il Dio! ». – Anche noi non sappiamo a chi tante persone rivolgono il loro « Ecce Deus ». Talvolta ci sembra che lo dicano a Cristo, talvolta all’oro, al piacere, o a qualche altro idoletto, che non riusciamo davvero a conciliare con Dio.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (2)

NOVENA A S. ANNA

NOVENA A S. ANNA

(inizia il 17 luglio, festa il 26 luglio)

[G. Riva: Manuale di Filotea. XXX ed. 1888, Milano.]

La festa, insieme a quella di S. Gioachino, fu instituita da Giulio II nel 1510, e confermata da Gregorio XV nel 1620.

I. Per quell’invitta pazienza con cui pel corso di tanti anni tolleraste, o S. Anna, la vostra penosa sterilità, ottenete a noi pure una costante rassegnazione in tutti i travagli di questa vita. Gloria.

II. Per quella fervorosa ed incessante orazione con cui voi, o sant’Anna, domandavate a Dio di essere consolata colla fecondità, impetrate anche a noi un vero spirito di orazione per poter fecondare il nostro cuore di sante virtù. Gloria.

III. Per quella rigorosa mortificazione che voi, o S. Anna, accoppiaste alle vostre preghiere, ond’essere da Dio più facilmente esaudita, fate che ancora noi a tal fine procuriamo di unire al fervore dell’orazione lo spirito della mortificazione, con cui renderci meritevoli di tutte le grazie celesti. Gloria.

IV. Per quella dolce violenza che faceste al cuore di Dio colle vostre grandi elemosine ed altre opere di carità, impetrate, o S. Anna, anche per noi una carità somigliante alla vostra, onde muovere il Signore ad usare anche a pro nostro le sue infinite misericordie. Gloria.

V. Per quella santa confidenza con cui fermamente speravate, o S. Anna, il compimento dei vostri desideri, impetrate a noi pure una fiducia fermissima con cui ci assicuriamo ogni favore del Cielo. Gloria.

VI. Per quella grande riconoscenza che voi, o S. Anna, mostraste a Dio quando vi vedeste per favore divenuta feconda, fate che ancora noi siamo sempre grati e riconoscenti a Dio pei continui favori che da Lui riceviamo, e così degni ci rendiamo di sempre riceverne dei migliori. Gloria.

VII. Per quel puro e santo amore che voi concepiste, o S. Anna, verso Maria, quando vi vedeste divenuta sua fortunatissima madre, otteneteci di amar sempre questa vostra Figlia sì eccelsa e nostra Madre sì cara, onde meritarci distinta la sua protezione. Gloria.

VIII. Per quel gran sacrifizio che faceste, o S. Anna, della vostra gran Figlia, offrendola fin dai più teneri anni al divino servizio nel tempio, intercedeteci la grazia di poter con santo e nobil coraggio sacrificar a Dio qualunque cosa potesse Egli da noi bramare per acquistarci le sue più distinte beneficenze. Gloria.

IX. Per quella santità fervorosa con cui voi, o S. Anna, serviste a Dio in tutti i giorni di vostra vita, degnatevi di pregar Dio a farci sempre vivere da giusti e da santi sino alla fine dei nostri giorni, e così assicurarci le promesse retribuzioni nel cielo. Gloria.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (42): “INDICE DEGLI ARGOMENTI” -I.-

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (42)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE SISTEMATICO DEGLI ARGOMENTI

1550 = luogo di maggiore solennità.

2001 = luogo rappresentante l’asserto riprovato.

(355) = luogo che contiene solo implicitamente o imperfettamente il presente argomento.

41//51 = serie di luoghi contenenti in pochi numeri (passim) lo stesso argomento presente.

C.d J.C. 1326 = Codice del Diritto Canonico [C.J.C. 1917], Canone 1326.

PROSPETTO DELLE SEZIONI

A. – DIO CHE SI RIVELA

1. Attitudine naturale dell’umano intelletto (a. per la conoscenza in genere. – b. per la conoscenza delle verità religiose). 2. Nozione della rivelazione. – 3. Possibilità e fatto della Rivelazione. – 4. Fine e necessità della rivelazione. – 5. Proprietà della rivelazione (a. Sorannaturalità. – Immutabilità.). – 6. Ambito della Rivelazione (a. Misteri in senso lato. – b. Misteri in senso stretto.). –  7. Tradizione della Rivelazione (a. In genere, – b. S. Scrittura.) – 8. Accettazione della Rivelazione per la fede (a: Natura della fede; b: Prerequisiti alla fede; c: Obbligo della fede v. K 2a). – 9. Applicazione dell’umana ragione alle cose rivelate (a: utilità dell’umana ragione e suoi limiti; b: trattazione scientifica della rivelazione).

B. DIO SUSSISTENTE UNO E TRINO.

1. Dio uno secondo natura (a: essenza divina. – b. Attributi divini). – 2. Dio trino secondo le Persone (a. Esistenza della Trinità delle Persone in Dio. – b: Processioni divine. – c: Persone divine tra loro comparate. – d. Persone divine comparate con l’essenza divina. – e. Operazione di Dio trino ad extra).

C. – DIO CREATORE ED ELEVANTE.

1. Origine del mundo (a: Principiio efficiente del mondo. – b: Modo di produrre il mondo). – 2. Costituzione del mondo (a: Differenza tra il Creatore e la creatura. – b: Ambito e diversità delle creature. – c: Bontà delle creature ed origine) – 3. Causa esemplare del mondo. – 4. Causa finale del mondo. – 5. Governo del mondo. – 6. Angeli. – 7. Uomo (a: Origine del genere umano. – b: Natura individuale dell’uomo. – c: Natura sociale dell’uomo. – d: Fine dell’uomo. – e: Stato dell’integra natura dell’uomo). – 8. Mondo materiale.

D. – DIO PERMETTE IL PECCATO.

1. Peccato angelico (a: Fatto. – b: Nefaste consequenze). – 2. Peccato umano in generale (a: Natura del peccato. – b: Distinzione del peccato. – c: Cause del peccato. – d: Occasioni di peccato. – e: Remissione dei peccati). – 3. Peccato di Adamo (a: Peccato personale. – b: Peccatuo originale).

E. – DIO SALVANTE PER MEZZO DI GESÙ CRISTO.

I. Costituzione del Salvatore Dio-uomo (a: Natura divina. – b: Natura umana. – c: Unione delle due nature). – 2. Conseguenze dell’unione ipostatica (a: Doti di Gesù Cristo. – b: Modo di parlare di Cristo). – 3. Cause dell’ incarnazione (a: Causa efficiente. – b: Causa finale). – 4. Munera Doni o ufficio del Cristo . – 5. Storia della salvezza (a: Salvezza degli uomini prima dell’avvento del Cristo. – b: Vita Gesù Cristo Salvatore). – 6. Parte della B. Maria Vg. nell’opera della salvezza (a: Preparazione dono della Madre del Salvatore. – b: Dono eccellente di Madre del . – c: Dono eccellente per la salvezza degli uomini.. – d: Glorificazione). – 7. Ruolo di S. Giuseppe nella storia della salvezza.

F. – DIO CHE DONA LA VITA DELLA GRAZIA.

I. Grazia in generale (a: Gratuità. – b: Sopannaturalità). – 2. Grazia attuale (a: Natura della grazia attuale. – b: Necessità. – c: Distribuzione delle grazie. – d: Effetto della gratia). – 3. Grazia della giustificazione (a: Natura della giustificazione. – b: Dono efficiente della giustificazione. – c: Cause della giustificazione. – d: Gratuità della giustificazione. – e: Disposizioni per la giustificazione. – f: Stato della natura riparata). – 4. Virtù infuse (Obligo degli atti di fede, speranza e carità, ed. K 2a-c). – 5. Doni dello Spirito Santo. – 6. Merito dell’uomo gíusto.

G. – DIO CHE RIUNISCE LA CHIESA DELLA SALVEZZA.

I. Fondazione della Chiesa (a: Esistenza del ceto dei fedeli in Cristo. – b: Cristo fondatore della Chiesa. – c: Fondamento della Gerarchia della Chiesa: il Collegio Apostolico. – d: Fondamento monarchico: Pietro principe degli Apostoli).

2. Continuazione della Chiesa (a: Perpetuità della Chiesa. – b: Continuazione della Gerarchia . – c: Continuazione della monarchia. – d: Continuazione del popolo di Dio.). – 3. Unità della Chiesa di Cristo. – 4. Constituzione giuridica della Chiesa (a: Perfezione della Chiesa come societa giuridica. – b: Potestà legiferante, giudiziaria, coercitiva. – c: Membra della Chiesa. – d: Ordine del regime: in genere; Sommo Pontefice; Vescovi; funzione dei laici). – 5. Constituzione tio spirituale carismatica della Chiesa (a: Indole suprannaturale. – b: Indolee vitale-mistica). – 6. Fini della Chiesa (a: Chiesa mezzo esterno di salvezza.- b: Destinazione universale della Chiesa. – c: Conoscibilità della vera Chiesa. – d: Relazione della Chiesa con i fini naturali. – e: Relazione della Chiesa con il potere civile).

H. – DIO DOCENTE MEDIANTE IL MAGISTERO DELLA CHIESA.

1. Legge ed ufficio del Magistero ecclesiastico (a: in generale. – b: in quanto all’oggetto. – c: come in persona del Magistero. – d: come modo speciale di esercitare il Magistero). – 2. Certezza del Magistero ecclesiastico (a: in genere. – b: Infallibilità degli atti sollenni. – c: Certezza degli altri atti).

J. – DIO SANTIFICANTE CON I SACRAMENTI DELLA CHIESA.

I. Sacramenti prima della costituzione della Chiesa. – 2. Sacramenti del Nuovo Testamento, in genere (a: Essenza dei Sacramenti. – b: Origine remota e prossima dei Sacramenti. – c: Fine, effetto, valenza dei Sacramenti. – d: Soggetto dei Sacramenti). – 3. Sacramento del Battesimo (a: Essenza. – b: Origine. – c: Fine, effetto, valore. – d: Soggetto. – 4. Sacramento della Confermazione (a-d: come in 3). – 5. Sacramento dell’Eucaristia. (a:. Istituito da Cristo. – b: Essenza del Sacramento dell’Eucaristia. – c: Dignità dell’Eucharistia. – d: Eucaristia come Sacrificio. – e: Eucaristia come Comunione). – 6. Sacramento della paenitenza (a-d: come in 3). – 7. Sacramento dell’unzione degli infermi (a-d: come in 3). – 8. Sacramento dell’Ordine (a-d: come in 3). – 9. Sacramento del Matrimonio (a-d: come in 3). – 10. Sacramentali (a: in generale . – b: Indulgenze).

K. – DIO PRECETTORE DELLA VITA MORALE.

I. Principi fondamentali della vita morale (a: Requisiti dell’atto morale. – b: Fonti della moralità. – c: Estensione della moralità. – d: Norma oggettiva della moralità. – e: Norma soggettiva della moralità: conscienza. – f: Virtù in genere). – 2. Esercizio delle virtù rispetto a Dio, ossia: i Beni richiesti a Dio (a: Virtù teologale della fede. – b: Virtù teol. della speranza – c: Virtù teol. della carità. – d: Culto di Dio in genere. – e: Culto pubblico di Dio. – f: Riverenza verso Dio . – g: Fedeltà e veracità nei confronti di Dio). – 3. Exercizio delle Virtù rispetto a se stesso, ossia: beni richiesti a se stesso. (a: Beni religiosi dell’anima propria. – b: Beni immateriali terrestri dell’animae. – c: Beni corporali. – d: Beni materiali esterni). – 4. Esercizio delle virtù nei riguardi dei singoli prossimi, ossia: Beni perseguiti del prossimo (a: Principi generali. – b: Beni religiosi. – c: Beni immateriali terrestri. – d: Beni corporali. – e: Beni della vita sessuale. – f: Beni materiali esterni). – 5. Exercizio delle Virtù nei confronti delle supreme società, ossia: Beni perseguiti dell’umana società (a: Beni perseguiti della società in genere. – b: Beni perseguiti della famiglia. – c: Beni persegiiti della società civili. – d: Beni perseguiti della Chiesa). – 6. Vita della perfezione cristiana (a: Natura della perfezione cris. – b: Via della perfezione cris.).

I. – DIO RETRIBUENTE E CONDANNANTE.

1. Morte dell’uomo. – 2. Giudizio particolare dell’uomo. – 3. Sorte dell’uomo beato: Beatitudine celeste (a: Essenza. – b: Proprietà. – c: Ammissione alla beatitudine. – d: Comunicazione tra Chiesa trionfante e militante). – 4. Sorte dell’uomo purgante: purgatorio (a: Esistenza ed essenza. – b: Comunicazione tra Chiesa militante e patente.). – 5. Sorte del defunto col solo peccato originale: limbo. – 6. Sorte dell’uomo che si danna: inferno (a: Esistenza della pena dell’inferno. – b: Natura dell’inferno. – e: Cause della dannazione). – 7. Sorte ultima del mondo (a: Avvento di Cristo giudice. – b: Resurrezione dei morti. – c: Giudizio universale. – d: Fine del mondo. – e: Regno eterno di Dio e di Cristo).

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (43): “INDICE DEGLI ARGOMENTI” -II-

UB’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – ” QUÆ AD NOS”

Si tratta ancora una volta di una breve Lettera Enciclica indirizzata ai Vescovi della Boemia e della Moravia, per incitarli ad un’azione comune nella difesa del gregge cattolico attaccato da infedeli, increduli ed adepti di conventicole demoniache. È quanto oggi vediamo in modo amplificato nelle nostre Nazioni ormai divorate dal tarlo del modernismo e dal verme del paganesimo operante in ogni ambito e prossimo all’epilogo descritto da San Giovanni nell’Apocalisse. Il Sommo Pontefice sapeva molto bene a cosa andasse incontro la Chiesa Cattolica e cercava con ogni mezzo di allontanarne i lupi ed i falsi profeti che la dilaniavano, difesa efficace per poco tempo, fino al “colpo si stato” del Conclave del 26 ottobre 1958, quando una falsa chiesa, o meglio la sinagoga demoniaca, cacciando il Santo Padre e relegandolo inoperante ad un ruolo di secondo piano, insediava un agente infernale sul trono di S. Pietro, cosa che proprio Leone XIII aveva visto profeticamente in visione negli ultimi anni del diciannovesimo secolo. Ma non è il caso di avvilirsi, piccolo gregge, sono tempi di pazienza e persecuzione ai quali simo stati chiamati dalla Sapienza eterna ad operare sostenuti dalla nuda fede e dall’operosità “sotterranea”, in ambiente eclissato o catacombale. Così ha disposto la Volontà suprema per darci occasione di redimerci con la penitenza ed acquisire meriti onde aspirare alla salvezza ed alla eterna beatitudine. Profittiamone con gioia per essere stati scelti a sopportare e soffrire ogni sofferenza in nome di Cristo e della sua Chiesa Cattolica, e sostenendo con la preghiera la vita e l’opera del Santo Pontefice impedito… abbiate fede, Io ho vinto il mondo! Parola di Dio.

QUÆ AD NOS
ENCICLICA DI PAPA LEONE XIII 
ALLA CHIESA IN BOHEMIA E MORAVI
A

Al cardinale Skrbensky, arcivescovo di Praga, e agli altri arcivescovi e vescovi di Boemia e Moravia.

Le notizie che quotidianamente ci giungono sullo stato delle vostre diocesi e sull’allontanamento di un gran numero di persone dai riti e dalle pratiche del Cattolicesimo sono per noi motivo di grande tristezza e dolore. Certamente non dubitiamo che voi applichiate strenuamente ogni argomento per riparare le disgrazie del gregge a voi affidato e per evitare che le perdite si aggravino di giorno in giorno. Se i nemici della fede non risparmiano né lavoro né denaro e si sforzano con tutte le loro forze di distruggere il vostro gregge, voi, che Cristo ha voluto come Pastori, non dovete stare con le mani in mano; dovete usare ogni mezzo disponibile per difendere il vostro gregge. Tuttavia, l’entità del pericolo ci spinge a sollecitare i volenterosi. Sappiamo, certo, che non tutte le vostre diocesi si trovano nelle stesse condizioni per quanto riguarda la sicurezza della fede; pertanto, gli stessi mezzi di assistenza per preservare la fede non possono essere applicati ovunque. Tuttavia, poiché il pericolo è comune ed è una patria comune che chiede di essere difesa, pensiamo che la soluzione migliore sia che voi comunichiate tra di voi e con un parere unito per stabilire ciò che deve essere realizzato e ciò che deve essere evitato. Perciò è nostro desiderio che tutti voi Vescovi di Boemia e Moravia vi riuniate al più presto per deliberare sulla difesa della fede tra i vostri connazionali. Naturalmente farete in modo che la natura delle deliberazioni e delle decisioni che avranno luogo sia riferita a Noi, affinché siano sancite dall’approvazione apostolica. Inoltre, non vogliamo lasciar passare questa opportunità senza raccomandarvi ancora una volta con forza che abbiate cura di estirpare totalmente lo zelo di parte che provoca la divisione del clero santo tra di voi; questo divide e snatura le forze di coloro la cui unione è molto necessaria, ora soprattutto, per la difesa della fede. Che l’aiuto della grazia divina sia con voi in questi compiti. In segno del Nostro amore ricevi la Benedizione Apostolica che con grande amore nel Signore impartiamo a te e al tuo gregge.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 22 novembre 1902, nel 25° anno del Nostro Pontificato.

LEO XIII