I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (II)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (II)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A  TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN; DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica – 1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

PRIMO PRINCIPIO FONDAMENTALE: LA PREGHIERA

La preghiera è il principio d’ogni bene nell’uomo. Cosicchè imparar a pregare, stimare, amare e praticare fervorosamente e come si deve la preghiera, è un tesoro inapprezzabile pel tempo e per l’eternità.

CAPITOLO I.

Che cosa è pregare.

1. Pregare è la cosa più semplice che si dia sulla terra e nella vita umana. Basterebbe a provarlo la necessità così grande che abbiamo della preghiera.

2. Per pregare non è necessario essere scienziato, eloquente, stimato, né ricco; e non è nemmeno necessaria una divozione sensibile. Questa ordinariamente non è che una compagna ed accessoria della preghiera. Dipende forse da noi la dolcezza? No, è Dio che la concede, e dobbiamo riceverla con riconoscenza, Essa rende soave il pregare; ma non è indispensabile, e ad ogni modo, vi sia o non vi sia dolcezza, si può e si deve sempre pregare.

3. Per pregare basta unicamente conoscere Dio e conoscere sé medesimi: sapere chi è Dio e chi siamo noi, quanto infinita è la bontà di Dio e quanto profonda la nostra miseria. Per pregare ci vuole la fede ed il catechismo; la necessità nostra dev’essere quella che incammina le nostre parole. L’unica cosa che si richiede è d’aver alcuni pensieri, il minor numero possibile, alcuni desiderî e finalmente alcune parole, che partano dal cuore, altrimenti non si ha preghiera. Potrà trovarsi un uomo che non sia capace di pensare e desiderare qualche cosa? Orbene, qui abbiamo quanto si richiede per questo nobile esercizio della preghiera: riguardo alla grazia, Iddio la concede profusamente a tutti ed a ciascuno in particolare.

4. Pregare non è altro che parlare con Dio, adorarlo, lodarlo, ringraziarlo. e chiedergli mercè e perdono delle proprie colpe. Vorrebbero alcuni maestri di perfezione che la preghiera fosse un discorso rivolto a Dio o una udienza che si ottiene da Lui. Ciò sembra una cosa troppo elevata. Non sanno molti preparare un discorso ordinato, e l’idea d’udienza apparisce come una specie d’etichetta. Nella preghiera dobbiamo comportarci come in una conversazione famigliare con un buon amico che amiamo sinceramente. ed a cui confidiamo con semplicità e candore quanto ci passa nell’interno: le nostre tribolazioni e dolcezze, i nostri timori e le nostre speranze, e dal medesimo riceviamo, per quanto gli è possibile, consigli ed incoraggiamenti, conforti ed aiuti. E quando non potremo far questo? Fra noi anche gli affari di maggiore importanza li trattiamo con semplicità, fossimo pur aridi e senza una scintilla di sentimento e d’emozione. e sempre riescono se lo facciamo con serietà e riflessione. Così dobbiamo comportarci con Dio nella preghiera: quanto più saremo semplici tanto meglio, a condizione che tutto esca dall’intimo dell’anima.

5. Spesso noi guastiamo la preghiera e la rendiamo difficile e scipita, perché non sappiamo farla come conviene, né formarci un retto concetto di essa. Diciamo a Dio quello che passa nel nostro cuore e tal com’è, e la preghiera sarà buona. Tutte le vie conducono a Roma, dice il proverbio; ora, allo stesso modo, mediante qualunque pensiero, si può arrivare a Dio. È buona quella preghiera che si fa con semplicità. Possiamo noi forse presentarci a Dio con concetti elevati e pieni di squisitezza? Se dunque non possiamo fare altrimenti, diciamogli che non sappiamo nulla e che nulla ci si presenta alla mente; poiché anche questa è una maniera di pregare e di onorar Dio: e conseguire le sue grazie.

CAPITOLO II.

Quanto grande ed eccellente è la preghiera.

1. I nostri pensieri sono il ritratto dell’anima nostra; quanto quelli sono più elevati e nobili, altrettanto e più nobile ed elevata è questa. Fintantoché lo spirito nostro s’occupa soltanto di ciò che è terreno, di ciò che entra per gli occhi, di ciò che è creato, l’anima nostra trovasi come relegata dentro i limiti del finito e perituro; avviene il contrario se pensa a Dio, in quanto che partecipa della grandezza della divinità. Solo l’Angelo e l’uomo possono pensare a Dio, e certamente che il pensar bene a Lui è ciò che di più eccellente possa fare lo spirito creato. Un essere superiore a Dio non può concepirsi. Orbene; è appunto nella preghiera che l’uomo co’ suoi pensieri si eleva sino a Dio e si occupa di Lui. A nessuna cosa l’uomo è tanto intimamente unito quanto all’immagine de’ suoi pensieri, e questa allora è precisamente Dio, massima grandezza, massima bellezza e massima nobiltà che siavi in cielo e sulla terra. Non v’è nulla. Eccettuata la S. Comunione, che sì strettamente ci unisca a Dio come la preghiera. Poter pensare a Dio è per l’uomo un onore singolarissimo: imperocché trattare con uomini che possono vedersi e udire, non è nessuna meraviglia; ma mettersi in rapporto con l’Essere purissimo e invisibile è qualche cosa di più; e mantenere questo rapporto convenientemente ed in modo opportuno, è, senza dubbio, una nobile ed elevata perfezione dell’anima, e quasi una specie di vita divina. L’umile servo di Dio che mediante la preghiera sa tenersi in comunicazione con la divina Maestà, ha diritto di presentarsi alla porte di tutti i regnanti ed imperatori del mondo. Il motivo per cui agli uomini generalmente suol riuscire pesante e dura la preghiera, è la noia; questa non deriva dalla preghiera, ma dall’uomo, che è terreno e non ha idee veramente elevate. L’annoiarsi, quindi, nella preghiera, non è per noi un buon segno; al contrario piuttosto, nella facilità e nel fervore trovasi la vera vittoria dello spirito sopra ciò che v’è di sensibile e terreno nel nostro essere. Per questo dobbiamo tenere fermamente fisso nella mente, ed essere pienamente convinti, che non possiamo fare qui sulla terra nulla di più elevato e sublime della preghiera.

2. È un onore per l’uomo poter elevare la sua mente a Dio mediante la preghiera; ma è ancor più onorifico per lui che Dio si abbassi graziosamente all’uomo. Noi siamo molto giù qui sulla terra; Iddio è molto più su in cielo; il ponte d’oro pel quale Ei discende sino a noi è la preghiera. Non si può dubitar che non sia un’ammirabile e commovente manifestazione della liberalità e dell’amore di Dio all’uomo, della sua bontà e degnazione il dirgli: « Domanda quanto desideri, vieni a me quando vuoi; appressati, annunziato o no, ché sarai sempre il ben venuto; tutto quello che ho ed Io stesso sono a tua disposizione ». – Questa confidenza senza limiti che ci offre Dio nella; preghiera, non è forse una vera prova che noi stiamo vicini a Lui, che siamo stati creati per metterci in comunicazione con Lui, che siamo famigliari e figli suoi? Quale degnazione! Che gran Signore è Dio, e tuttavia nessuna avarizia in Lui del suo tempo! E per rendersi vieppiù ammirabile, lo lascia tutto a nostra disposizione; nessuno ci offre un’accoglienza più pronta e più affettuosa e cordiale che Dio; Egli è veramente la prima e perpetua nostra patria; in nessun luogo ci troviamo nel nostro centro come in Lui.

3. Che prerogative eccelse quelle dell’uomo, e con tutto questo tenute in sì poco pregio! Se Iddio distribuisse pane e ricchezze, tutti correrebbero a Lui come gli Ebrei, dopo la moltiplicazione dei pani fatta loro dal Salvatore; ma poiché Egli ci facilita l’onore di avvicinarlo e parlare con Lui, molti non ne fan caso. E, peggio ancora, non pochi si vergognano di pregare. E non è questo per l’uomo un vergognarsi di Dio e rinunciare alle più alte sue prerogative? Oh! se sapesse colui che disprezza e trascura la preghiera, il danno e l’ignominia che si trae dietro!

CAPITOLO III.

Il precetto della preghiera.

1. Iddio ci ha concesso la preghiera, e il farne uso è in nostro diritto; ma ce la prescrisse inoltre, ed abbiamo l’obbligo di farla.

2. Questo precetto della preghiera trovasi inserito tra le leggi delle due tavole, che, per verità, sono così antiche quant’è antico l’uomo, nel cui cuore fu scolpito dalla legge naturale. La prima tavola contiene le leggi che riguardano la religione ed il culto di Dio. È un dovere questo che l’uomo porta con sé entrando nel mondo, dovere fondato nella subordinazione da lui dovuta a Dio qual suo Creatore, a Cui, come tale, deve riconoscenza e adorazione, e per questo il mondo non fu mai senza religione, fatto questo che ne dimostra realmente la soggezione e dipendenza.

3. Neppure ci fu mai religione senza preghiera. La preghiera è stata sempre essenzialmente un atto religioso, ed il suo fine è di tributare a Dio il culto dovutogli. Ma è più ancora: è l’esercizio principale della religione, è, quasi diremmo, l’anima sua; su di essa si basa tutta la religione. e per essa, sia pubblica, sia privata, vigoreggia e si conserva.

4. Regolare, quindi, la preghiera, vale quanto regolare la religione. Vi pensò anche il Redentore, e non contento di confermare l’antico precetto della preghiera, la insegnò, coll’esempio e colle parole, e ci lasciò un modello di essa. Dobbiamo essere riconoscenti alla sua Chiesa se ci è dato di sapere con esattezza come compiere questo grande precetto naturale, che c’impone un così stretto obbligo. Il nostro Dio è un Dio vivente, il quale, sostenendoci e conservandoci, rinnova continuamente in noi la sua potenza creatrice, ed esige che mediante la preghiera Gliene siamo riconoscenti. Per questo l’umanità ha sempre pregato, e ciò vale a scorgere quanto in essa vi sia di divino. Ed a misura che Iddio va estendendo la sua potenza creatrice, va dilatandosi altresì il circolo della preghiera.

5. Le ragioni che costituiscono la base di questo precetto divino della preghiera le troveremo sia da parte di Dio sia da parte nostra. Non è necessità da parte di Dio che Lo faccia esigere da noi il tributo della preghiera, poiché Egli non ha bisogno di nulla, ma lo richiedono la sua giustizia e santità. Egli è nostro Padrone, nostro Padre e Sorgente del nostro bene, e non può assolutamente rinunziare a questi titoli cedendo ad altri l’onor suo. – Ma nella creatura la trascuranza della preghiera corrisponde a una diserzione da Dio. Di modo che per quanto Lo riguarda, dovette Dio imporci la preghiera. – Per quello che Spetta a noi, la prescrisse, non tanto per ricevere da noi qualche cosa, quanto per darcene e potercene dare. Siccome non sempre siamo degni dei doni di Dio, né ci troviamo convenientemente preparati a riceverli dobbiamo disporci e metterci in istato di conseguirli, e questo appunto è quello che fa la preghiera, che, come s’è già detto, costituisce essenzialmente un atto proprio della virtù della religione. Consapevolmente o inconsapevolmente nella preghiera, noi ci proponiamo di riconoscere ed onorare Dio, come un dovere fondato nell’intima natura della preghiera che non possiamo cambiare. Orbene: questo riconoscimento che mediante la preghiera tributiamo a Dio è grande e nobile: pregando riconosciamo nello stesso tempo la nostra miseria, necessità e impotenza, il potere di Dio, la sua bontà e fedeltà alle sue promesse e ci mettiamo senza restrizioni nelle sue mani. Colla preghiera noi serviamo Dio in cuor nostro, ci santifichiamo, attiriamo su di noi il compiacimento del Signore e ci disponiamo a ricevere le sue grazie. Ciò che con esso propriamente conseguiamo non è il muovere Iddio a darci i suoi doni, quanto di disporre noi medesimi a riceverli. La differenza che esiste tra le suppliche che indirizziamo agli uomini e quelle che eleviamo a Dio è questa: che con quelle disponiamo gli uomini dai quali desideriamo qualche cosa; con le seconde disponiamo noi medesimi. È anche sommamente giusto ed a noi utilissimo esporre e manifestare con umiltà dinanzi a Dio le nostre miserie e necessità ed avere un’altissima stima de’ suoi doni. Ora, tutto questo ha luogo nella preghiera.

6. La preghiera come esercizio del culto e della religione è per noi non solo un mezzo onde ottenere da Dio ciò che domandiamo, ma anche un fine, ed il fine prossimo della nostra vita. Siamo stati creati da Dio per lodarlo, adorarlo e servirlo. Sotto questo aspetto, quindi, noi non potremo mai pregare abbastanza. Il fine nostro ed oggetto principale, per quanto è possibile raggiungere quaggiù, è riposto nella preghiera. Questa idea è quella che ha dato vita agli Ordini contemplativi, ed anche il Paradiso sarà una perpetua preghiera. Ciò che tien vivo il dominio di Dio nel mondo è la preghiera, e dove questa sparisce sparisce parimente il regno di Dio dal cuore degli uomini. Che danno enorme ha cagionato il distacco dalla Chiesa di certe Nazioni! Vi sono intere regioni nelle quali sparirono il divin Sacrificio e la Salmodia, che si offrivano e si elevavano a Dio nei chiostri. Un modo di più per noi cattolici di mantener viva la preghiera, alfine di compensare tale perdita nel regno di Dio.

7. Stando così le cose, chi si meraviglierà che tutti gli uomini di coscienza e quanti fra i Cattolici sanno apprezzare come si deve la Religione preghino, preghino con costante perseveranza? Per essi nessuna cosa è al di sopra della Religione, e per conseguenza nulla di più importante della preghiera. Noi Cattolici, come il popolo eletto, siamo un popolo di preghiera. L’antico patto possedette la vera preghiera, e con essa la vera cognizione e culto di Dio. La religione  nostra Cattolica ha avuto il suo principio colla preghiera nel cenacolo di Gerusalemme. I pagani facevano le meraviglie sul frequente pregare del popolo cristiano, le cui chiese, come lo sono ancora, erano i veri centri di preghiera, mentre essi non giunsero nemmeno a comprendere che cosa fosse pregare. – Questo è il primo e più elevato senso della preghiera. Si tratta della religione, bene il più nobile e degno di stima che vi sia nel mondo, Così fù riconosciuto sempre dal fiore dell’umanità; e contro questa  testimonianza nulla vale quella dei panteisti, i quali non pregano perché divinizzano se stessi, credendosi  porzione della divinità: né quella dei materialisti, le cui idee non vanno più su del fango della terra; né quella dei Kantiani, che si credono dispensati dalla preghiera perché non comprendono o non vogliono comprendere le prove dell’esistenza di Dio; né, finalmente, quella dei seguaci di Schleiermacher, i quali aspettano sempre per pregare non so quale sentimento solenne dell’anima. Ma che vale tutto questo, di fronte all’unanime testimonianza di tutti i tempi, della ragione e della fede che proclamano il dovere della preghiera?

CAPITOLO IV.

Il gran mezzo per conseguire la grazia.

Luce, calore, alimento. ecco le tre cose senza le quali è impossibile vivere. Lo stesso si deve dire della preghiera in relazione alla vita spirituale; poiché questa senza quella non esiste. La preghiera è l’indispensabile e gran mezzo per conseguire la grazia: se vogliamo salvarci bisogna che preghiamo.

1. È d’uopo ricordare qui alcuni principî indiscutibili e riconosciuti veri. Senza la grazia non c’è salvezza, e senza la preghiera, trattandosi dell’adulto, non c’è grazia. Dio ha istituito i Sacramenti quali mezzi per conseguire la grazia; ma sotto molti aspetti la preghiera è assai più importante dei Sacramenti. Questi comunicano certe e determinate grazie; la preghiera può, in date circostanze, ottenerle tutte; i Sacramenti non sempre sono alla mano, la preghiera sì. Per questo suol dirsi con molta verità: « sa ben vivere, chi sa ben pregare ». Mediante la preghiera l’uomo ottiene tutto quello che gli è necessario a ben vivere. Posto ciò, si possono stabilire le seguenti verità, che ne inchiudono molte altre: Nessuna cosa si deve sperare, se non è per la preghiera; tutta la fiducia che non è basata sulla preghiera è vana: Dio nulla ci deve, se non è mediante la preghiera, poiché è a questa; ch’Egli ha promesso tutto; ordinariamente, Dio non concede nessuna grazia se non Gli si domanda, e quando la concede è grazia della preghiera.

2. Queste sono verità generali; nella vita cristiana ci sono inoltre parecchie cose particolari, per le quali è indispensabile la preghiera. La prima di tutte, sono i Comandamenti, che fa d’uopo osservare, se vogliamo salvarci. Orbene, noi soli non li possiamo osservare tutti senza la grazia: più ancora, possiamo affermare che non Sempre abbiamo grazia sufficiente per poterli osservare con. sicurezza. « Dunque, mi dirai, non posso osservarli, né lasciare di osservarli ». No, perché può avvenire in realtà che tu non abbia ancora la grazia per osservare i Comandamenti, ma ben l’hai per chiederla; Per cui vedrai che Dio non comanda nulla d’impossibile poiché o ti concede direttamente la grazia, o per lo meno la preghiera con cui tu possa conseguirla. – Vengono in secondo luogo le tentazioni. che nemmeno possiamo sempre vincere naturalmente. Ma la tentazione non è mai così forte, che c’impedisca di pregare. Se siamo deboli, è perché non preghiamo; i santi riuscivano vittoriosi perché pregavano, altrimenti anch’essi avrebbero dovuto soccombere al pari di noi. Ciò che si è detto. Vale soprattutto contro le tentazioni impure, poiché sono quelle che più accecano tanto da non lasciar vedere le fatali conseguenze del peccato; ci fanno dimenticare i buoni propositi, e ci tolgono perfino il timore del castigo. Senza la preghiera non c’è altra via che soccombere. – Per ultimo, non possiamo salvarci senza la grazia della perseveranza finale: ed è un benefizio particolarissimo che Iddio ci mandi la morte quando ci troviamo in istato di grazia. E che la morte per tal modo ci sia un Messaggio dell’eterna beatitudine. In questo consiste la perseveranza finale, dono così grande e straordinario, che – al dire di S. Agostino – non possiamo noi meritare, ma ricevere mediante l’umile preghiera. Ma il non chiederla mai. manifesta che ne siamo indegni. Con ciò resta dimostrata l’assoluta necessità della preghiera. Risulta che dobbiamo pregare anche per le cose d’ordine temporale; quanto più dobbiamo farle per le eterne! Scegliamo: o pregare, o perire inesorabilmente.

3. Questa è la legge della vita. Ma, perchè volle Dio estendere a tutto la necessità della preghiera? Non potrebbe Egli versare su di noi i suoi doni senza obbligarci a pregare? Questa domanda è superflua. Non si tratta di sapere ciò che Dio avrebbe potuto fare, ma ciò che ha fatto; e ciò che ha fatto è di porre la preghiera come mezzo per conseguire la grazia. E con tutto diritto, poiché Egli è libero e padrone di essa e come tale può a sua volontà determinare la via ed i mezzi per conseguirla. Stabilì come mezzo la preghiera: dunque a noi non resta che di conformarvici. Tuttavia anche l’uomo è libero e deve provare la sua libertà con fatti, e cooperare alla propria salvezza. E la preghiera dimostra tutt’e due le cose: la libera cooperazione dell’uomo, e la libertà di Dio nel determinare i mezzi e le vie da tenersi per ciò. La libertà di Dio e quella dell’uomo entrano nel gran disegno della provvidenza; così Dio e l’uomo, ciascuno per par sua, al modo d’una potente causa, contribuiscono allo sviluppo e al buon esito di questo disegno generale: la felicità dell’uomo e la glorificazione di Dio. Solo per questa cooperazione l’uomo è degno e meritevole dell’eterna sua felicità, E la preghiera è il minimo che Dio poteva da lui esigere: colui che si rifiuta di farlo si chiude volontariamente le porte della grazia e del cielo.

4. Le sentenze della Sacra Scrittura e dei Santi Padri sulla necessità della preghiera sono così chiare e perentorie, che da esse si potrebbe dedurre esse questa l’unico mezzo per conseguire la grazia, non solo perché Dio ha voluto così, ma perché deriva necessariamente da una legge naturale. È certo che Gesù-Cristo non diede alcun precetto positivo all’infuori di quelli che hanno relazione colla fede, speranza, carità ed uso dei Sacramenti. Se prescrive, quindi, la preghiera apertamente e con tanta insistenza, non v’ha dubbio che bisogna dare a questo precetto un posto tra quelli che per legge naturale si richiedono all’eterna salute. Infatti, supposto che Dio voglia operare per quanto sia possibile col concorso delle cause seconde, e che l’uomo debba, giusta le sue forze, cooperare alla propria salvezza, certamente Dio non poté trovare un mezzo più naturale della preghiera per salvare gli uomini. È il caso, infatti, e non senza ragione, di domandare se vi sia qualche altro mezzo all’infuori della preghiera, ora che da un’estremo all’altro della terra non regna che lo spirito mondano, il dissipamento esteriore, la dimenticanza di Dio, un infievolimento e indifferentismo religioso senza precedenti, L’epoca nostra patisce un’infermità grave e mortale, ed è il raffreddamento del Cuore per ciò che riguarda Dio ed il Soprannaturale. Che inganno crudele quello dell’uomo mondano che va qua e là errando, finché colto dalla morte cade vittima del sonno eterno, come l’infelice viandante delle Alpi coperte di neve e di gelo! Chi scuoterà questo infelice dal suo mortale letargo? La preghiera; questa è il buon Angelo che lo fa ritornare in sé, gli restituisce la conoscenza, lo induce a riflettere ed esaminare le sue azioni, risveglia nel suo cuore la primitiva aspirazione ora assopita, la nostalgia di altra patria molto più felice di questa terra, la nostalgia di Dio, del Padre che abbandonava e dimenticava. La preghiera! Questa è l’Angelo che indica al figliuol prodigo la via alla Casa paterna. Così la preghiera cancella e distrugge il peccato e la dimenticanza che v’è di Dio nel suo regno. Vi sono inoltre in questo mondo tante avversità, inganni e disgrazie, che per non cadere in disperazione, l’uomo deve manifestare candidamente proprie pene ed i propri turbamenti. E qual miglior confidente per l’anima nostra che Dio? E dove lo troveremo se non nella preghiera, che è un intrattenimento e conversare con Lui? La preghiera è come un espirare le nostre necessità, le miserie nostre, e i nostri travagli, ed aspirare la grazia, la consolazione, e la luce. Benedetto sia Iddio, che non ha rigettato la mia preghiera, né allontanato da me la sua misericordia. (Sal. LXV, 20).

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (III)

NORME ATTUALI PER UN MATRIMONIO CATTOLICO “VERO”, VALIDO E LECITO, NON SACRILEGO.

NOLITE TIMERE PUSILLUS GREX…

La Santa Madre Chiesa nella sua immensa sapienza e preveggenza, ha definito dottrine che sono adatte ai tempi di prosperità e libertà di culto cattolico, e canoni e definizioni dottrinali per i tempi di persecuzione e per la Chiesa “eclissata” o delle catacombe. Al giorno attuale così, il Matrimonio Cattolico tra i pochi, ostinati fedeli Cattolici, è possibile pure nella difficoltà pratica, per i più, di reperire un sacerdote o prelato cattolico in comunione con il Santo Padre Gregorio XVIII, capace quindi di fornire dei Sacramenti validi e leciti, e nello specifico di rendere possibile l’acquisizione della grazia santificante e particolare relativa ai fini del Sacramento stesso, in questo caso, del Matrimonio. In effetti i fedeli Cattolici che vogliono ad ogni costo evitare – giustamente – le sette acattoliche, e soprattutto la setta del falso profeta della sinagoga di satana [la cosiddetta setta del “Novus ordo” di istituzione massonico-kazara!] oggi usurpante il Vaticano e tutti gli edifici di culto un tempo appartenenti alla Chiesa Cattolica, con le relative false funzioni che, lungi dall’apportare grazia, assicurano la “disgrazia” personale, familiare e sociale, hanno perplessità ed indecisioni nell’approcciarsi correttamente al matrimonio senza commettere una serie di gravi sacrilegi e peccati che comprometterebbero il cammino di salvezza per sé, il coniuge, i parenti ed i partecipanti a funzioni invalide ed illecite e – soprattutto – alla futura prole che verrebbe generata in regime di peccato mortale e fuori dalla Chiesa Cattolica, complicando in tal modo tutta la loro vita di grazia, di redenzione e di salvezza.

Ma … nessun problema, la Santa Madre Chiesa, la parte militante del Corpo mistico di Cristo, guidata infallibilmente dallo Spirito Santo e che opera da “Maestra delle genti” attraverso il Magistero apostolico Ordinario e Universale esercitato dal Sommo Pontefice Romano e della sua Gerarchia, ha pensato proprio a voi in difficoltà, in questri tempi di apostasia e di impostura dottrinale e canonica, spianandovi la strada al Matrimonio cattolico, se ci è lecito così definire … delle catacombe. – Sovvenendoci, quindi, delle esortazioni del profeta Isaia: … « Confortate le braccia infiacchite e le ginocchia vacillanti rinfrancate. Dite ai pusillanimi: Coraggio, non temete; ecco il vostro Dio… verrà… », possiamo ricorrere in tutta certezza e sicurezza al Motu Proprio: « De disciplina Sacramenti Matrimonii pro Ecclesia orientali di S. S. Pio XII » del 22 febbraio 1949 (festa della Cattedra di S. Pietro). – Ferme restando tutte le altre disposizioni (ivi dettagliatamente riportate) in materia di impedimenti, dispense e preparazione al Matrimonio cattolico (per noi la retta vera dottrina, una pratica di vita cristiana, la frequentazione di “veri” Sacramenti materiali e formali – se possibile – o almeno spirituali: severo e sincero esame di coscienza, contrizione perfetta con implicito desiderio di Confessione sacramentale appena possibile, Comunione spirituale …), un canone in particolare concerne le situazioni estreme che riguardavano allora i fedeli orientali, ma che oggi sono ubiquitarie e riguardano praticamente l’intero pianeta, in riferimento alla disponibilità di un sacerdote o prelato cattolico della “vera” Chiesa “una cum Papa nostro Gregorio”.

Il Canone rinuncia esplicitamente alla presenza di un sacerdote alla celebrazione del matrimonio in determinate circostanze straordinarie, ma non rinuncia, anche in questo caso, alla richiesta che il matrimonio sia celebrato davanti ad almeno due testimoni. Il matrimonio è validamente celebrato davanti ai soli testimoni comuni (naturalmente Cattolici), quando è impossibile per le parti avere o avvicinare un Sacerdote autorizzato, purché si verifichi una di queste condizioni:

1) una delle parti parte è in pericolo di morte,

2) si prevede che non sarà disponibile alcun sacerdote autorizzato per almeno un mese.

In situazioni estreme per il matrimonio non è richiesto il sacerdote!!!

Nota: «Sebbene i Canoni non concedano esplicitamente nessun’altra rinuncia alla celebrazione, c’è la dispensa all’obbligo della legge che richiede l’assistenza attiva di un sacerdote autorizzato e l’assistenza di testimoni, almeno nel caso di estrema difficoltà che colpisce l’intera comunità. Il Sant’Uffizio ha dichiarato che i Cattolici della Cina non sono tenuti ad osservare la legge sulla forma del matrimonio finché continuano le circostanze create dal regime rosso ». (H. BOUSCAREN, CANON LAW DIGEST, III Ed. p. 408).

(Due importanti notifiche del “Noli Timere” sono contenute in questo Canone,

– primo, che in pericolo di morte il matrimonio può essere contratto senza un sacerdote ma davanti a due testimoni, e …

– secondo, che nei luoghi dove non si può avere un sacerdote o le parti non possono recarvisi, non hanno bisogno di aspettare un mese intero, se c’è una buona ragione per giudicare che le stesse condizioni continueranno per un mese).

Riportiamo il canone succitato:

ACTA APOSTOLICAE SEDIS

COMMENTARIUM OFFICIALE

ANNUS XXXXI – SERIES II ~ VOL. XVI

TYPIS POLYGLOTTIS VATICANIS

MDCCCCXLIX

MOTU PROPRIO

DE DISCIPLINA SACRAMENTI MATRIMONII PRO ECCLESIA ORIENTALI

PIUS PP. XII

DE SACRAMENTO MATRIMONII

CAPUT VI

De forma celebrationis matrimonii

Can. 89

Si haberi vel adiri nequeat sine gravi incommodo parochus vel Hierarcha

vel sacerdos cui facultas assistendi matrimonio facta sit ad normam

canonum 86, 87:

1° In mortis periculo validum et licitum est matrimonium contractum coram solis testibus ; et etiam extra mortis periculum, dummodo prudenter prævideatur eum rerum statum esse per mensem duraturum;

In utroque casu, si præsto sit quivis alius catholicus sacerdos qui adesse possit, vocari et, una cum testibus, matrimonio assistere debet, salva coniugii validitate coram solis testibus.

Se vi sia un grave incomodo per il parroco, o gerarca o sacerdoti con facoltà nell’assistere al matrimonio fatto a norma dei canoni 86, 87:

.1° in pericolo di morte è valido e lecito il matrimonio contratto davanti ai soli testimoni; ed anche fuori dal pericolo di morte, quando stando le cose per cui si preveda prudentemente che si protraggano per un mese;

2 ° In entrambi i casi in cui non si possa al più presto chiamare un altro sacerdote cattolico che possa venire ed assistere al matrimonio con i testimoni, salvo la validità dei coniugi, [il matrimonio è valido e lecito… validum et licitum est matrimonium contractum …] davanti ai soli testimoni.

Allora, giovani Cattolici, rincuoratevi, il vostro matrimonio celebrato in tempi in cui entro un mese non sia possibile ottenere la presenza di un vero sacerdote cattolico “una cum” il vero Papa legittimamente e canonicamente eletto Gregorio XVIII (successore di S. S. Gregorio XVII – Giuseppe Siri), celebrato nei modi e con le intenzioni cattoliche, è VALIDO E LECITO (soprattutto!!!), e quindi foriero di grazia matrimoniale santificante per coi, i vostri cari partecipanti al rito da voi officiato con i testimoni, e per i vostri figli cattolici. Cosa aspettate? Il mondo ha bisogno di nuovi Cristiani, ed il cielo ha ancora disponibili posti per tantissimi Santi.

Poi naturalmente occorrerà ratificare il legame matrimoniale al cospetto di un’autorità civile.

IL RITO NUNZIALE

(ex Rituale Romano)

Il Parroco, o chi per lui … si porta davanti agli sposi e domanda il consenso, dicendo:

N. Vis accipere N, hic præsentem in tuam legitimam uxorem iuxta ritum sanctæ matris Ecclesiæ?

[N. Sei contento di prendere N. qui presente, come tua legittima sposa, secondo il rito di Santa Madre Chiesa?]

Lo sposo risponde:

Volo. [lo voglio]

Quindi si interroga la sposa:

N. Vis accipere N. hic præsentem in tuum legitimum maritum iuxta ritum sanctæ matris Ecclesiæ?

[N. Sei contenta di prendere N. qui presente, come tua legittimo marito, secondo il rito di Santa Madre Chiesa?]

La sposa risponde:

Volo.

(lo voglio)

Il Sacerdote (o chi per esso) comanda agli sposi di darsi la destra e dice:

Ego coniugo vos in matrimonium in nomine Patris et Filii, et Spiritus Sancti. Amen.

Si aspergono gli sposi e gli anelli nunziali con acqua benedetta (se è possibile averla benedetta da un “vero” Sacerdote o Prelato Cattolico).  

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (I)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (I)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN. DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA

Società Anonima Tipografica

1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

I. M, Viviani, Vic. Gen

A DON FILIPPO RINALDI

TERZO SUCCESSORE DEGNISSIMO DEL VEN. GIOVANNI BOSCO DI CUI È IL MOTTO

«DA MIHI ANIMAS CÆTERA TOLLE»

L’UMILE TRADUTTORE OFFRE QUESTO LIBRO TRIPLICE FUNICELLA CHE AVVINCE LE ANIME A DIO

INDICE

PRIMO PRINCIPIO FONDAMENTALE

 La Preghiera

I. Che cosa è pregare

II. Quanto grande ed eccellente è la preghiera

III. Il precetto della preghiera

IV. Il gran mezzo per conseguire la grazia

V. Efficacia illimitata della preghiera

VI. Come deve farsi la preghiera

VII. La preghiera vocale

VIII, Modelli di preghiera

TX. L’orazione mentale

X. Le divozioni della Chiesa

XI. Lo spirito di preghiera

SECONDO PRINCIPIO FONDAMENTALE

La vittoria di se stesso

I. Retta idea dell’uomo

II. Che cosa sia il rinnegare se stessi

III. Perché dobbiamo mortificarci

IV. Proprietà dell’abnegazione propria

V. Alcune obiezioni

VI. Mortificazione esterna

VII. Mortificazione interna

VIII. La mortificazione dell’intelletto

IX. La: mortificazione della volontà

X. Delle passioni

XI. La pigrizia

XII. La paura

XIII. L’ira e l’impazienza

XIV. La superbia

XV. Antipatia e simpatia

XVI. La passione dominante »

XVII. Ricapitolazione e fine »

TERZO PRINCIPIO FONDAMENTALE

L’amore a nostro Signor Gesù Cristo

I. L’amore.

II. Cristo-Dio.

III. Dio-Uomo.

IV. Dio-Bambino.

V. Il migliore Maestro e Direttore delle anime

VI. Il Figliuolo dell’Uomo.

VII. L’Operatore di meraviglie.

VIII. Il libro della vita.

IX. Era buono.

X. Passione e morte.

XI. Vita gloriosa.

XII. Il Santissimo Sacramento.

XIII. L’ultimo mandato.

PREFAZIONE

Un libro del P. Meschler non ha certamente bisogno di raccomandazione, mentre a tutti è nota la competenza di questo illustre Padre, in tutto ciò che risguarda l’ascetica cristiana, che per lui è stata arricchita di molti pregevolissimi libri. Ma poiché il valente traduttore dell’operetta presente ci ha gentilmente pregato di scrivere una parola in proposito, non possiamo fare a meno di encomiare altamente questo libro, ché si può ben definire un sugoso compendio di tutta l’ascetica cristiana. (Meschler: «Drei Grundlehren» – Herder, Freiburg.). Come dice molto sapientemente l’A. nel Prologo quanto più l’anima si accosta a Dio, suo Fine Supremo, tanto più sente il bisogno di ridurre tutto ad unità e semplicità, cioè a quella beata unità e semplicità che trovasi in Dio stesso e che, pregustata quaggiù dischiude, al dire del Kempis, il segreto della pace tranquillità perfetta. Perciò l’A. si è prefisso, in quest’Opera. di ridurre tutta l’ascetica cristiana a pochi e semplici principi che sono le basi fondamentali di ogni vera santità e perfezione. E la sapienza dell’A. illustre vegliardo ormai consumato nello studio e nella pratica della vera ascetica cristiana, si rivela appunto nella elezione, che Egli ha saputo fare, di questi principi fondamentali. Essi sono: La Preghiera, La vittoria di se stesso e L’Amore di N. S. Gesù Cristo. Che a questi principî veramente si riduca tutta l’ascetica cristiana, appare manifestamente dal S. Vangelo stesso, dagli insegnamenti dei Padri e dei Dottori della Chiesa, e finalmente dalla dottrina e dalla pratica di tutti i Santi. Chiunque, nella via della perfezione, si scostò anche solo menomamente da questi principi, incorse fatalmente nei più gravi errori e nelle depravazioni più funeste. Chi al contrario si attenne fedelmente a questi tre principi, raggiunse in breve la più alta santità, La Preghiera senza la vittoria di se stesso dà luogo alle fatue aberrazioni del sentimentalismo; la Vittoria di se stesso senza la preghiera è per sé stessa impossibile e può degenerare in quelle ipocrite e false austerità, che satana ha saputo e sa suggerire agli stessi pagani per meglio avvincerti nelle sue ignominiose catene. Finalmente tanto la Preghiera come la Mortificazione non è possibile senza un amore vero, sodo, generoso, costante a N. S. Gesù Cristo, il quale dalla Croce ha compendiato tutte le sublimi sue lezioni che risguardano il culto che l’uomo deve al suo Dio. – Mirabile è poi lo svolgimento delle singole parti. Là dove parla della Preghiera, l’A. ne mostra in brevissimi tratti l’eccellenza, l’efficacia, la pratica; con tocchi rapidi e magistrali insegna il modo di pregare così vocalmente come mentalmente. Nessuno che legga queste pagine potrà giustificare la propria ripugnanza alla preghiera, mentre l’A. ne mostra tutta la facilità e la soave bellezza. Là dove parla della mortificazione, ossia della vittoria di se stesso, l’A., senza perdersi nel campo delle astrazioni e della teoria, dopo di averne dimostrata la necessità, scende a mostrare praticamente il modo col quale si devono mortificare le varie potenze dell’anima e del corpo e le principali passioni che sono la ragione di ogni disordine nell’uomo. – Finalmente la parte più bella del libro, a nostro modesto giudizio, è quella in cui l’A. parla dell’amore di N.S. Gesù Cristo. La pittura che egli fa del nostro adorato Maestro, nei Misteri principali della sua vita, nei punti culminanti dei suoi insegnamenti e dei suoi atti è così bella nella sua semplicità, che non può non attrarre ogni anima ben fatta, ogni cuore che sente sete ardente di un ideale di purezza, di bellezza, di santità e di grazia infinita. Leggendo queste semplici pagine, non sì può fare a meno di conchiudere con quelle sublimi parole dell’Apostolo: « Chi non ama N. S. Gesù Cristo sia maledetto! » – Tale il disegno e l’orditura del libro. È un’ascetica da borsellino, come modestamente dice l’A. Ma felici le anime le quali sapranno fare acquisti di questa ascetica e sapranno tradurla nella vita pratica! Essi avranno trovato il segreto delle gioie più pure in questa vita, il pegno più bello della felicità e gioia eterna. Nel desiderio, dunque, della gloria di Dio e della salvezza di un gran numero di anime, noi auguriamo questo libro la più larga diffusione, mentre non possiamo trattenerci dal ringraziare il valente Traduttore, il quale con tanta maestria ha saputo renderlo nella nostra lingua, sì che non sembra traduzione, ma piuttosto un libro dettato da esperta penna italiana.

GIUSEPPE M. PETAZZI, S. J.

PROLOGO

Visse in Persia un Principe amantissimo delle scienze, il quale raccoglieva per la sua biblioteca ogni genere di scritti, e se li portava dietro ovunque andasse. Non andò guari che questo prese a riuscirgli grave incomodo; per cui diede l’incarico ad alcuni sapienti di compendiargli la scienza di tutti quei libri in un dato numero di volumi, da poterli comodamente trasportare ne’ suoi viaggi sopra un cammello. Ma, vedendo col tempo che nemmeno ciò era possibile, li fece riassumere in uno solo, e finì più innanzi di ridurre anche quest’unico in una massima fondamentale e pratica per la vita, conseguendo così di aver seco tutta la sua scienza senza nessuna fatica e disturbo, anzi con molta facilità e vantaggio. Ora, questa è altresì l’idea su cui si basa quest’operetta. Libri che trattano della vita spirituale ce n’è a josa e voluminosi. Chi potrebbe numerarli e trascriverne solo il titolo? Ma benedetto sia Dio per quest’abbondanza, poiché mai si potrà scrivere e leggere bastantemente intorno alla vita spirituale, essendo essa come lo è in realtà, ciò che v’ha di meglio e di più eccellente per l’uomo su questa terra. Però chi è che si metta a leggere tanti libri e tenerli a mente? Non v’è dubbio; è un guadagno e vantaggio grande conoscere e possedere la scienza dello spirito e dei santi in modo ristretto e breve, e ciò senza pregiudicare al tempo stesso la materia. – D’altra parte, questo è altresì lo spirito dell’epoca nostra: riunire e disporre in maniera semplice, ristretta e pratica tutto ciò che è necessario alla vita. È ciò si verifica pure in noi stessi, poiché coll’andar del tempo tendiamo ad unificare tutto straordinariamente, tanto che il nostro sapere si riduce ad un principio unico che domina nell’anima nostra e dirige tutte le nostre azioni. Quanto più andiamo avvicinandoci a Dio, nostro ultimo fine e mèta, vieppiù partecipiamo della sua divina semplicità, finché Egli sarà per noi l’unico e solo bene. Ora, lo stesso avviene della verità divina che è unica ed abbraccia tutto; e questa sola, compresa seriamente e messa in pratica, basta a farci santi. È così che si presenta in questa operetta la vita spirituale, semplificata e ridotta a tre punti principali, senza i quali non gioverebbe a nulla la più elevata e vasta ascetica, poiché le mancherebbe ciò che è più necessario e sostanziale, e non potrebbe conseguire il suo fine. Regolandoci invece secondo questi principî, e conformandovi la nostra condotta, coll’aiuto di Dio, arriveremo alla vera perfezione. E se nel corso della nostra vita spirituale dovessimo constatare che le cose non camminano bene, esaminiamoci alla luce di questi tre principî e vediamo se praticamente ci siamo attenuti alle loro conseguenze, certi che con questo mezzo troveremo dove siamo deficienti e non ci resterà, per giungere alla perfezione, che di rimetterci con costanza a subordinarvi la nostra condotta. – Scienza di borsellino chiamò i suoi insegnamenti circa la vita comune uno scrittore di spirito. Ascetica di borsellino potremmo chiamare noi questo libro, poiché in esso si contiene la quintessenza della vita spirituale ed è, come dire, l’ascetica in miniatura, compendiata in tre soli principî. Una cordicella a tre fila difficilmente si rompe, dice la Scrittura (Eccle. IV, 12): per questo si dànno qui tre massime fondamentali che, intrecciandosi, unificandosi e sostenendosi a vicenda. formano l’anello della sapienza, nel quale è incastonata la perla della perfezione cristiana, pel cui possesso il saggio mercatante, avido d’una merce così preziosa qual è la perla, reputa bene impiegati tutti i travagli e fatiche, e giunge persino a vendere quanto ha. (Matt. XIII, 46).

Lussemburgo, 8 Agosto 1919.

L’AUTORE

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (II)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. PIO IX – “MAXIMÆ QUIDEM”

Questa breve Lettera Enciclica, con la quale il Santo Padre Pio IX, elogia l’operato dei Vescovi bavaresi nel difendere la sana dottrina cattolica, nel rivendicare i sacrosanti diritti della Santa Sede, e nel difendere il pensiero cristiano nelle scuole superiori dalle ignobili e false ideologie che fin da allora infestavano le menti di giovani destinati a diventare guide del popolo intero, merita particolare attenzione per il contenuto encomiabile sotto il profilo sociale e dottrinale che costituisce ancor oggi in modello da cui apprendere la sapienza necessaria nella conduzione retta e apportatrice di benessere per il popolo, il clero, la Chiesa tutta. Certamente oggi i modelli sociali sono quelli imposti dalla élite formata nelle scuole ideologicamente gnostico-massoniche (in Italia ad esempio ce ne sono numerose di livello universitario, tutte oggetto di propaganda opportunamente manipolata e guidate da notissimi esponenti di sette di perdizione d’oltreoceano e nostrane), ove il Cristianesimo, addirittura ridicolizzato da menti bacate e prive di ogni retta sapienza, è sostituito da filosofie prive di ogni fondamento razionale e di pura fantasia, o meglio delirio, che con linguaggio brillante ma falso ed ingannevole hanno modellato (o meglio deformato), e tuttora modellano (leggi: deformano) giovani poi destinanti, con la compiacenza di pseudo-autorità statali, a guidare ministeri, governi, l’intera Nazione. Ideologie blasfeme, astratte, fantasiose, (“ciò che penso è” … diceva il panteista Cartesio, fondando il falso metodo scientifico moderno) ma che hanno tutte in comune un feroce attacco al Cristianesimo. Eccone qualche tratto emblematico … « perché i fedeli, affidati particolarmente alla Vostra vigilanza, seguano con somma e dovuta riverenza e obbedienza Noi e la stessa Cattedra di Pietro, che è il centro della unità cattolica e non solo il Capo di tutte le Chiese, ma altresì la Madre e la Maestra, colei che allontana da ogni dove le tenebre dell’errore ed è porto sicuro per chi è agitato dai flutti (….) difendano la libertà della Chiesa Cattolica, che fu generata dal sangue del Figlio Unigenito di Dio, sposo della stessa Chiesa, e che si battano virilmente per tutti i venerandi diritti della Chiesa stessa, ad essa divinamente elargiti … ben sapete che una volta rimosse da queste scuole la dottrina, l’autorità e la vigilanza che provengono dalla Chiesa, più gravi danni e mali deriveranno, dal momento che saranno contagiati da errori e da false dottrine gli uomini del ceto più qualificato, che sono destinati a ricoprire pubblici incarichi di governo e che di solito contribuiscono a formare lo spirito della società civile. » Chi parla più così, in questa nostra società paganizzata, o meglio luciferina, con i pastori apostati e usurpanti che danno in pasto ai lupi gli agnelli loro affidati, e di cui spolpano i rimasugli eduli? … i mercenari fuggono alla vista del lupo, questi invece li attraggono e gli preparano lauti banchetti. Ma … state sereni, pagherete tutto fino all’ultimo spicciolo … dice il divin Maestro nel Vangelo … un poco di tempo e ci sarete (apparentemente vivi ma già morti dentro), un altro poco e ci sarete viventi ma nello stagno di fuoco ed … in eterno.

ENCICLICA
MAXIMÆ QUIDEM
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO IX

Ai Venerabili Fratelli Gregorio, Arcivescovo di Monaco e di Frisinga, Michele, Arcivescovo di Bamberga, e ai loro Vescovi suffraganei in Baviera.
Il Papa Pio IX. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Assai consolante fu per Noi, afflitti da gravissime preoccupazioni ed angustie, la Vostra graditissima Lettera che Ci inviaste il 20 luglio, Venerabili Fratelli, durante il congresso da Voi tenuto a Bamberga per confrontare le Vostre opinioni e per stabilire quei provvedimenti che, soprattutto in questi tempi calamitosi, possono concorrere a tutelare la causa, la dottrina, i diritti della Chiesa Cattolica e a preservare ogni giorno di più la salute dei Vostri fedeli. Infatti nella stessa Lettera rifulgono in ogni passo la Vostra eccelsa e riconosciuta fede verso di Noi e verso questa Cattedra di Pietro, l’amore, l’obbedienza e il mirabile zelo che Vi pervade nel far di tutto perché i fedeli, affidati particolarmente alla Vostra vigilanza, seguano con somma e dovuta riverenza e obbedienza Noi e la stessa Cattedra di Pietro, che è il centro della unità cattolica e non solo il capo di tutte le Chiese, ma altresì la madre e la maestra, colei che allontana da ogni dove le tenebre dell’errore ed è porto sicuro per chi è agitato dai flutti. Pertanto proviamo una grande gioia per questa Vostra eminente virtù episcopale e Ci congratuliamo di vero cuore con Voi, Venerabili Fratelli, poiché con la Vostra azione e con le lettere pastorali indirizzate ai fedeli affidati alla Vostra cura, avete fatto conoscere, con le dovute e meritate lodi, quella strettissima e ammirevole unità di tutte le Sacre Gerarchie dell’intiero mondo cattolico che sopravvive, in questi tempi luttuosi, col Vicario di Cristo in terra e con questa Apostolica Sede per singolare grazia di Dio e che rifulge ogni giorno di più per tante splendide azioni. E ancor più Ci rallegriamo del convegno che avete tenuto a Bamberga nel quale Voi tutti, Venerabili Fratelli, con intenti pienamente concordi, in ragione del severo impegno richiesto dal Vostro ministero episcopale, avete adottato quelle decisioni che, soprattutto in questi tempi, avete ritenute più idonee a tutelare la causa della Chiesa, a far valere le sue ragioni e a reprimere gli empi tentativi dei nemici che bisogna sconfiggere con l’unanime, costante e vigilante impegno dei Vescovi. E certamente, fra l’altro, spetta ai Vescovi (come già avete compreso) combattere fieramente contro i nemici della nostra santissima Religione, particolarmente in questa nostra funesta epoca. – Pertanto i Vescovi, forti del divino ausilio, devono con assidua sollecitudine alzare la loro voce episcopale e predicare il Vangelo a tutti, annunciare, trasmettere, spiegare e inculcare le eterne verità della nostra fede, la dottrina, i precetti e i dogmi dell’augusta religione ai sapienti e agl’ignoranti. Con altrettanto zelo gli stessi preposti ai sacri riti hanno l’obbligo di esporre e mostrare sia ai Sommi Principi, sia ai Governi, i mali e i danni (assai funesti e mai abbastanza deplorati) che ricadono sui popoli e sugli stessi Principi quando, come oggi, si disprezza la Religione: e prevale l’incredulità che, suggerita dalle tenebre sotto l’ingannevole apparenza di progresso sociale, si rafforza e domina ogni giorno di più a gravissimo detrimento della comunità cristiana e civile e perverte e corrompe in modo miserando le menti e gli animi degli uomini. Perciò fu motivo di sommo gaudio per Noi apprendere che Voi, Venerabili Fratelli, avete inviato una Lettera a codesto carissimo in Cristo Figlio Nostro, l’illustre Re di Baviera, perché siano difesi la nostra santissima Religione e i suoi diritti, e Ci sostiene la speranza che lo stesso Serenissimo Principe, per la pietà, la giustizia e l’equilibrio del suo animo, si adoperi di assecondare volentieri i vostri giustissimi desideri e le vostre richieste. – Certamente non ignorate, Venerabili Fratelli, che vi è un altro dovere che i Sacri Pastori devono compiere con ogni più tenace sforzo. È necessario che essi, con costante coraggio, difendano la libertà della Chiesa Cattolica, che fu generata dal sangue del Figlio Unigenito di Dio, sposo della stessa Chiesa, e che si battano virilmente per tutti i venerandi diritti della Chiesa stessa, ad essa divinamente elargiti. Inoltre è necessario che i Vescovi, con la parola e con gli scritti, non desistano mai dal richiamare alla memoria di tutti che la Chiesa è sempre esistita ed esiste perché è salvifica la forza della sua dottrina e sapientissime sono le sue leggi e le sue istituzioni; perché non solo è madre e maestra di tutte le virtù e persecutrice di tutti i vizi, ma è anche colei che fonda e modera, tra tutte le genti, la vera umanità, l’onestà, la civiltà, la libertà, il progresso, la prosperità, la tranquillità; essa sola può saldamente consolidare e salvare l’ordine pubblico dell’umano consorzio che dovunque in questi giorni è tanto violentemente sconvolto dall’empietà e dalla ribellione. Vi rivolgiamo dovute e meritate lodi, Venerabili Fratelli, perché con la Vostra Lettera inviata a codesto Governo – oltre che solleciti del bene e della guida delle scuole popolari – avete difeso in proposito la dottrina, l’autorità e i diritti della Chiesa Cattolica con ogni argomento, con forza e con intelligenza, fedeli allo spirito con cui Noi nella Nostra Epistola inviata al Venerabile Fratello Ermanno, Arcivescovo di Friburgo in Brisgovia, il giorno 14 luglio di quest’anno, fummo costretti a tutelare e rivendicare i diritti della Chiesa, al riparo dai tentativi e dalle macchinazioni dei nemici che nel Granducato di Baden giunsero al punto di proporre leggi atte a distruggere del tutto l’indirizzo cristiano delle scuole. Sebbene Noi teniamo in gran conto le ragioni per cui, Venerabili Fratelli, vi siete preoccupati tanto di difendere i diritti della Chiesa per quanto riguarda le scuole popolari, tuttavia non possiamo, in questa occasione, trattenerci dal sollecitare con insistenza l’insigne Vostro zelo episcopale affinché operiate in modo attivo e combattivo, così che siano riconosciuti e preservati gli stessi diritti della Chiesa circa le scuole superiori di lettere e delle più severe discipline. Infatti, in virtù della Vostra saggezza, ben sapete che una volta rimosse da queste scuole la dottrina, l’autorità e la vigilanza che provengono dalla Chiesa, più gravi danni e mali deriveranno, dal momento che saranno contagiati da errori e da false dottrine gli uomini del ceto più qualificato, che sono destinati a ricoprire pubblici incarichi di governo e che di solito contribuiscono a formare lo spirito della società civile. – A questo punto, Venerabili Fratelli, Vi supplichiamo di tenere presente quanto Noi esponemmo al Venerabile Fratello Gregorio, Arcivescovo di Monaco, con la Nostra Epistola del 21 dicembre dello scorso anno, circa la diffusione delle discipline filosofiche e teologiche, e Vi esortiamo vivamente a dedicare senza tregua tutte le Vostre cure e i Vostri pensieri a promuovere ogni giorno di più l’accurata formazione e l’educazione del Clero, e a non lasciare nulla di intentato, in modo che il Vostro Clero riceva quella piena e solida formazione che, attinta da pure e incontaminate fonti e sorretta dal comune insegnamento della Chiesa Cattolica, allontani tutti quei pericoli di cui sono evidentemente colpevoli gli odierni nuovi metodi d’insegnamento, fondati sulla libertà (o piuttosto sulla licenza) del sapere, e tanto ostentati. Perciò, Venerabili Fratelli, desideriamo ardentemente che vogliate richiamare alla memoria ed applicare tutte quelle disposizioni che già altre volte comunicammo e caldamente raccomandammo a tutti e ai singoli del Vostro Ordine episcopale circa la costruzione e la direzione dei Seminari per i Chierici in conformità delle sagge prescrizioni del Concilio Tridentino. – Siamo poi fermamente persuasi che Voi, Venerabili Fratelli, in virtù della Vostra esemplare religiosità e del Vostro zelo episcopale, difenderete energicamente gli altri diritti della Chiesa che non sono ancora pienamente riconosciuti in Baviera, e per i quali i Vescovi della Baviera non omisero di elevare le loro proteste soprattutto nel convegno di Frisinga. Perciò di tutto cuore approviamo la Vostra decisione di convocare ogni anno il Vostro congresso. Ciò, tuttavia non deve impedire in alcun modo che Voi, Venerabili Fratelli, facciate ogni tentativo perché possiate quanto prima concelebrare i Sinodi provinciali (come è nei Nostri voti) secondo la prescrizione dei Sacri Canoni, come hanno fatto in Germania altri Vescovi nelle loro province ecclesiastiche, con sommo gaudio dell’animo Nostro e a beneficio dei loro fedeli. Sicuramente nulla a Noi sarà più gradito che recare a Voi, in questa circostanza, ogni aiuto e soccorso. – Vogliamo infine che abbiate per certa la benevolenza particolare con cui Vi seguiamo. Di tale benevolenza ricevete, come sicuro pegno, l’Apostolica Benedizione che dal profondo del cuore impartiamo a Voi stessi, Venerabili Fratelli, a tutti i Sacerdoti e ai fedeli Laici affidati alla cura di ciascuno di Voi.

Dato a Castel Gandolfo, il 18 agosto 1864, nell’anno decimonono del Nostro Pontificato.

DOMENICA III DOPO PENTECOSTE

DOMENICA NELL’OTTAVA DELLA FESTA DEL SACRO CUORE e III DOPO LA PENTECOSTE. (2021)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La liturgia di questo giorno esalta la misericordia di Dio verso gli uomini: come Gesù « che era venuto a chiamare non i giusti, ma i peccatori », cosi lo Spirito Santo continua l’azione di Cristo nei cuori e stabilisce il regno di Dio nelle anime dei peccatori. Questo ricorda la Chiesa nel Breviario e nel Messale. — Le lezioni del Breviario sono consacrate quest’oggi alla storia di Saul. Dopo la morte di Eli gli Israeliti si erano sottomessi a Samuele come a un nuovo Mosè; ma quando Samuele divenne vecchio il popolo gli chiese un re. Nella tribù di Beniamino viveva un uomo chiamato Cis, che aveva un figlio di nome Saul. Nessun figlio di Israele lo eguagliava, nella bellezza, ed egli sorpassava tutti con la testa. Le asine del padre si erano disperse ed egli andò a cercarle e arrivò al paese di Rama ove dimorava Samuele. Ed egli disse: « L’uomo di Dio mi dirà, ove io le potrò ritrovare ». Come fu alla presenza di Samuele, Dio disse a questi: « Ecco l’uomo che io ho scelto perché regni sul mio popolo ». Samuele disse a Saul: « Le asine che tu hai perdute da tre giorni sono state ritrovate ». Il giorno dopo Samuele prese il suo corno con l’olio e lo versò sulla testa di Saul, l’abbracciò e gli disse: « Il Signore ti ha unto come capo della sua eredità, e tu libererai il popolo dalle mani dei nemici, che gli sono d’attorno ». « Saul non fu unto che con un piccolo vaso d’olio, – dice S. Gregorio – perché in ultimo sarebbe stato disapprovato. Questo vaso conteneva poco olio e Saul ha ricevuto poco, perché  la grazia spirituale l’avrebbe rigettata » (Matt.). « In tutto – aggiunge altrove – Saul rappresenta i superbi e gli ostinati » (P. L. 79, c. 434). S. Gregorio dice che Saul mandato « a cercare le asine perdute è una figura di Gesù mandato da suo Padre per cercare le anime che si erano perdute » (P. L. 73, c. 249). « I nemici sono tutt’intorno in circuitu », continua egli; lo stesso dice il beato Pietro: « Il nostro avversario, il diavolo, gira (circuit) attorno a voi ». E come Saul fu unto re per liberare il popolo dai nemici che l’assalivano, cosi Cristo, l’Unto per eccellenza, viene a liberarci dai demoni che cercano di perderci. – Nella Messa di oggi il Vangelo ci mostra la pecorella smarrita e il Buon Pastore che la ricerca, la mette sulle spalle e la riporta all’ovile. Questa è una delle più antiche rappresentazioni di Nostro Signore nell’iconografia cristiana, tanto che si trova già nelle catacombe. L’Epistola ci mostra i danni ai quali sono esposti gli uomini raffigurati dalla pecorella smarrita. « Vegliate, perché il demonio come un leone ruggente cerca una preda da divorare. Resistete a lui forti nella vostra fede. Riponete in Dio tutte le vostre preoccupazioni, poiché Egli si prende cura di voi (Ep.), Egli vi metterà al sicuro dagli assalti dei vostri nemici (Grad.), poiché è il difensore di quelli che sperano in lui (Oraz.) e non abbandona chi lo ricerca (Off.). Pensando alla sorte di Saul, che dapprima umile, s’inorgoglisce poi della sua dignità reale, disobbedisce a Dio e non vuole riconoscere i suoi torti, « umiliamoci avanti a Dio » (Ep.) e diciamogli: « O mio Dio, guarda la mia miseria e abbi pietà di me: io ho confidenza in te, fa che non sia confuso (Int.); e poiché senza di te niente è saldo, niente è santo, fa che noi usiamo dei beni temporali in modo da non perdere i beni eterni (Oraz.); concedi quindi a noi, in mezzo alle tentazioni « una stabilità incrollabile » (Ep.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV: 16; 18 Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus.

[Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

Ps XXIV: 1-2 Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam.

[A te, o Signore, elevo l’ànima mia: Dio mio, confido in te, ch’io non resti confuso.]

Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus.

[Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

Oratio

Orémus.

Protéctor in te sperántium, Deus, sine quo nihil est válidum, nihil sanctum: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, te rectóre, te duce, sic transeámus per bona temporália, ut non amittámus ætérna.

[Protettore di quanti sperano in te, o Dio, senza cui nulla è stabile, nulla è santo: moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché, sotto il tuo governo e la tua guida, passiamo tra i beni temporali cosí da non perdere gli eterni.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet V: 6-11 “Caríssimi: Humiliámini sub poténti manu Dei, ut vos exáltet in témpore visitatiónis: omnem sollicitúdinem vestram projiciéntes in eum, quóniam ipsi cura est de vobis. Sóbrii estote et vigiláte: quia adversárius vester diábolus tamquam leo rúgiens circuit, quærens, quem dévoret: cui resístite fortes in fide: sciéntes eándem passiónem ei, quæ in mundo est, vestræ fraternitáti fíeri. Deus autem omnis grátiæ, qui vocávit nos in ætérnam suam glóriam in Christo Jesu, módicum passos ipse perfíciet, confirmábit solidabítque. Ipsi glória et impérium in sæcula sæculórum. Amen”.

(“Carissimi: Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti nel tempo della visita. Gettate ogni vostra sollecitudine su di lui, poiché egli ha cura di voi. Siate temperanti e vegliate; perché il demonio, vostro avversario, gira attorno, come leone che rugge, cercando chi divorare. Resistetegli, stando forti nella fede; considerando come le stesse vostre tabulazioni sono comuni ai vostri fratelli sparsi pel mondo. E il Dio di ogni grazia che ci ha chiamati all’eterna sua gloria, in Cristo Gesù, dopo che avete sofferto un poco, compirà l’opera Egli stesso, rendendoci forti e stabili. A lui la gloria e l’impero nei secoli dei secoli”).

LE PERSECUZIONI.

Non più l’Apostolo della carità Giovanni, oggi parla l’Apostolo dell’autorità, il Duce, San Pietro. Odor di battaglia intorno al capo e ai gregari, quell’odor di battaglia che è così frequente nella storia della Chiesa… « Tu, che da tanti secoli soffri, combatti e preghi…» Il Duce rincuora la sua truppa, la rincuora a modo suo, ma la rincuora in modo e forma che sarà utile sempre. Sotto la raffica resistono meglio talvolta gli alberi che invece di irrigidirsi superbi, piegano e flettono. Sotto la raffica del vento, sotto la tempesta della persecuzione il Cristiano deve umiliarsi con un gesto che non è umiliazione, è prudenza, è dignità, perché deve umiliarsi non agli uomini, ma a Dio: « sub potenti manu Dei » dice il testo, di quel Dio che se non vuole, permette le tribolazioni della sua Chiesa, dei suoi figliuoli più cari; potente anche quando agli occhi superficiali Egli sembra debole; di quel Dio che vigila anche quando pare agli increduli, ai cattivi, che Egli dorma. – Lo pensavano forse che Dio dormisse alcuni di quei neofiti, di quei poveri Cristiani della prima ora che entrati appena nella barca di San Pietro in cerca di tranquillità, di sicurezza, la vedevano così terribilmente sbattuta dalle onde. Dorme Dio, dicevano, ci ha abbandonati. Ai quali l’Apostolo della autorità, il Duce ricorda che Egli è sollecito, da buon Padre amoroso, dei suoi figli, «ipsì est cura de vobis». Veglia non visto. Il che però, se deve sgombrar la viltà dell’animo dei fedeli perseguitati, non vi deve accendere il fuoco fatuo della presunzione. – Visti, vigilati, aiutati da Dio, appunto perciò, i fedeli devono combattere con tutte le loro forze, come se Dio li avesse lasciati soli a se stessi. Sobrii e attenti; ecco il programma che il Duce traccia ai suoi militi nella aspra guerra spirituale in cui sono impegnati. Sobrii perché la carne non frenata con la sobrietà, vince essa lo spirito e vigili, per non essere sorpresi, per non cader vittime di una imboscata qualsiasi. Il gran nemico, da buon condottiero, qual è anche lui, colla sua genialità malefica, questo tenta e vorrebbe: sorprendere coloro che vuol abbattere. Veglino e tengano desta con maggior diligenza la fede. « Fortes in fide». La fede è per essi, pei Cristiani, l’«ubi consistam» della loro vittoriosa resistenza. Credenti, sono forti; scettici, dubbiosi sono vinti. Che importa se alla loro fede si fa guerra? guerra nella loro piccola comunità? guerra al loro piccolo gruppo? No, la guerra non è così ristretta: è mondiale, dappertutto dove la fede cristiana si afferma, la lotta pagana si impegna, vincolo nuovo di tutta la grande fraternità, confraternità. – Il Duce lo rammenta con una specie di santo orgoglio, perché la Chiesa non cerca la lotta, ma neanche la teme, non la teme neanche quando essa prende estensioni inaudite: il mondo intero. Tutto questo fa pensare ad una persecuzione imperiale da parte di Roma pagana. Il Duce è forte, coraggioso, audace, senza ombra di spavalderia, perché sa di poter contare sull’appoggio indefettibile di un altro Duce. Egli, Pietro, è un Vicario, un sostituto, un facente funzione di… il Capo reale, invisibile è Gesù Cristo. Ed Egli ha il suo stile. Lascia soffiar la tempesta sui suoi per un po’ di tempo: «modicum ». Le tribolazioni della vita sono tutte brevi: le persecuzioni dei malvagi passano, anche quelle che paiono ai pazienti più lunghe, anche quelle che i carnefici, i persecutori, credono eterne: passano, sono temporanee, La Chiesa ha per sé l’eternità. La “vera” Chiesa non muore… E quando il vento impetuoso che pareva eterno è passato, inesorabilmente passato, si trova che invece di scalfire il gran monumento che è la Chiesa, l’ha spolverato, invece che fracassare i cieli, li ha purificati. Lezione magnifica, buona sempre, opportuna per chi temesse le persecuzioni, opportuno per chi desiderasse scatenarle…

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. (Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)]

Graduale

Ps LIV: 23; 17; 19 Jacta cogitátum tuum in Dómino: et ipse te enútriet.

[Affida ogni tua preoccupazione al Signore: ed Egli ti nutrirà.]

V. Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam ab his, qui appropínquant mihi. Allelúja, allelúja.

[Mentre invocavo il Signore, ha esaudito la mia preghiera, liberandomi da coloro che mi circondavano. Allelúia, allelúia]

Ps VII: 12 Deus judex justus, fortis et pátiens, numquid iráscitur per síngulos dies? Allelúja.

[Iddio, giudice giusto, forte e paziente, si adira forse tutti i giorni? Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.

S. Luc. XV: 1-10

“In illo témpore: Erant appropinquántes ad Jesum publicáni et peccatóres, ut audírent illum. Et murmurábant pharisæi et scribæ, dicéntes: Quia hic peccatóres recipit et mandúcat cum illis. Et ait ad illos parábolam istam, dicens: Quis ex vobis homo, qui habet centum oves: et si perdíderit unam ex illis, nonne dimíttit nonagínta novem in desérto, et vadit ad illam, quæ períerat, donec invéniat eam? Et cum invénerit eam, impónit in húmeros suos gaudens: et véniens domum, cónvocat amícos et vicínos, dicens illis: Congratulámini mihi, quia invéni ovem meam, quæ períerat? Dico vobis, quod ita gáudium erit in cœlo super uno peccatóre pœniténtiam agénte, quam super nonagínta novem justis, qui non índigent pœniténtia. Aut quæ múlier habens drachmas decem, si perdíderit drachmam unam, nonne accéndit lucérnam, et evérrit domum, et quærit diligénter, donec invéniat? Et cum invénerit, cónvocat amícas et vicínas, dicens: Congratulámini mihi, quia invéni drachmam, quam perdíderam? Ita dico vobis: gáudium erit coram Angelis Dei super uno peccatóre pœniténtiam agénte”.

(“In quel tempo andavano accostandosi a Gesù de’ pubblicani e de’ peccatori per udirlo. E i Farisei e gli Scribi ne mormoravano, dicendo: Costui si addomestica coi peccatori, e mangia con essi. Ed Egli propose loro questa parabola, e disse: Chi è tra voi che avendo cento pecore, e avendone perduta una, non lasci nel deserto le altre novantanove, e non vada a cercar di quella che si è smarrita, sino a tanto che la ritrovi? e trovatala se la pone sulle spalle allegramente; e tornato a casa, chiama gli amici e i vicini, dicendo loro: Rallegratevi meco, perché ho trovato la mia pecorella, che si era smarrita? Vi dico, che nello stesso modo si farà più festa per un peccatore che fa penitenza, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza. Ovvero qual è quella donna, la quale avendo dieci dramme, perdutane una, non accenda la lucerna, e non iscopi la casa, e non cerchi diligentemente, fino che l’abbia trovata? E trovatala, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi meco, perché ho ritrovata la dramma perduta. Così vi dico, faranno festa gli Angeli di Dio, per un peccatore che faccia penitenza”).

Omelia

[DISCORSI DI SAN G. B. M. VIANNEY CURATO D’ARS Vol. III, Marietti Ed. Torino-Roma, 1933]

Visto nulla osta alla stampa. Torino, 25 Novembre 1931.

Teol. TOMMASO CASTAGNO, Rev. Deleg.

Imprimatur: C. FRANCISCUS PALEARI, Prov. Gen.]

Sulla misericordia di Dio.

Erant autem appropinquantes ei publicani et peocatores, ut audirent illum.

(Luc. XV, 1).

La condotta di Gesù Cristo, durante la sua vita mortale, ci mostra la grandezza della sua misericordia verso i peccatori. Vediamo infatti che tutti vengono presso di Lui: ed Egli, anziché rigettarli o allontanarsi da essi, cerca invece tutti i modi possibili di trovarsi con loro, per attirarli al Padre suo. Li va cercando coi rimorsi della coscienza, li riconduce colle attrattive della sua grazia e li guadagna coi suoi modi amorevoli. Li tratta con tanta bontà, che li difende perfino contro gli scribi ed i farisei che volevano biasimarli e non potevano soffrirli vicino a Gesù Cristo. Giunge anche più oltre; vuol giustificarsi della sua condotta a loro riguardo con una parabola, che dipinge, come meglio non si potrebbe, la grandezza del suo amore pei peccatori, in questo modo: “Un buon pastore, che aveva cento pecore, avendone perduta una, lascia tutte le altre per correr dietro a quella che s’è smarrita: ed avendola trovata, se la mette sulle spalle per evitarle la fatica della strada: riportatala all’ovile, invita i suoi amici a rallegrarsi con lui d’aver trovato la pecora che credeva perduta. „ Aggiunge anche la parabola della donna, che possedendo dieci dramme., ed avendone perduta una, accende la lampada per cercarla in tutti gli angoli di casa sua, e trovatala invita le amiche a rallegrarsene. “Così, disse loro, il cielo tutto gioisce pel ritorno d’un peccatore che si converte e fa penitenza. Non son venuto pei giusti, ma per i peccatori: i sani non hanno bisogno del medico, bensì gli ammalati. „ E Gesù Cristo applica a se stesso queste vive immagini della grandezza della sua misericordia verso i peccatori. Ah! Fratelli miei, qual felicità per noi il sapere che la misericordia di Dio è infinita! Qual forte desiderio non dobbiam sentire nascere in cuore di gettarci ai piedi d’un Dio che ci riceverà con tanta gioia! F. M., se ci danneremo non avremo scuse, quando Gesù Cristo stesso ci mostrerà che la sua misericordia fu sempre grande abbastanza per perdonarci, per quanto fossimo colpevoli. E per darvene un’idea, oggi vi mostrerò: 1° la grandezza della misericordia di Dio verso i peccatori; 2° ciò che dobbiamo fare da parte nostra, per meritarci la fortuna di ottenerla.

I. — F. M., tutto è consolante, tutto è incoraggiante nella condotta di Dio verso di noi. Quantunque colpevoli, la sua pazienza ci attende, il suo amore ci invita ad uscir dal peccato per ritornare a Lui, la sua misericordia ci riceve fra le sue braccia. Colla pazienza, dice il profeta Isaia, Dio ci attende per usarci misericordia. Appena commesso il peccato, meritiamo d’essere puniti. Niente è più dovuto al peccato quanto la punizione. Dacché l’uomo s’è ribellato al suo Dio, le creature tutte domandano vendetta, dicendo: Signore, volete facciam perire quel peccatore che v’ha oltraggiato? Volete, gli dice il mare, ch’io l’inghiottisca nei miei abissi? E la terra: Signore, debbo aprire le mie viscere per farlo discendere vivo nell’inferno? E l’aria: Signore, mi permettete di soffocarlo? Ed il fuoco: Ah! di grazia lasciatemelo abbruciare. E così tutte le altre creature domandano vendetta ad alte grida. I lampi ed i fulmini vanno avanti al trono di Gesù Cristo domandandogli licenza di annientarlo e divorarlo. — Ma no, risponde il buon Gesù, lasciatelo sulla terra sino al momento stabilito dal Padre mio; forse avrò la fortuna di convertirlo. Se il peccatore si svia ognor più, questo tenero Padre piange su di lui, e non lascia di perseguitarlo colla sua grazia, facendo in lui nascere violenti i rimorsi della coscienza. ” O Dio delle misericordie, esclama S. Agostino, quand’era peccatore m’allontanavo da voi sempre più; i miei passi e le mie azioni tutte erano altrettante nuove cadute nel male; le passioni s’infiammavano ognor più vivamente; eppure avevate pazienza, e m’aspettavate. O pazienza del mio Dio! son tanti anni che vi offendo, e non mi avete ancora punito: donde può venire questa lunga attesa? Davvero, o Signore, è perché volete ch’io mi converta, e ritorni a voi colla penitenza. „ È possibile, F. M., che nonostante il desiderio del buon Dio di salvarci, noi ci perdiamo così deliberatamente? Sì, F. M., se vogliamo percorrere le differenti età del mondo, vediamo la terra ricoperta dappertutto delle misericordie del Signore, e gli uomini avvolti nei suoi benefizi. Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli perdono; ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore, e lo fa ritornare a sé. Ne volete un bell’esempio? Vedete come fece con Adamo dopo il suo peccato. Invece di punirlo, come si meritava, per quella ribellione contro il suo Creatore, che avevagli concesso tanti privilegi, che l’aveva ornato di tante grazie e destinato per un fine così beato: quello d’esser suo amico e di non morir mai; Adamo, dopo il peccato, fugge la presenza di Dio: ma il Signore, come un padre desolato che ha perduto il figliuol suo, corre a cercarlo, e lo chiama quasi piangendo: “Adamo, Adamo, dove sei? Perché fuggi la presenza del tuo Creatore? „ (Gen. III, 9). Desidera tanto di perdonargli, che neppure gli dà tempo di domandar perdono: subito gli annuncia che vuol perdonargli, che manderà il Figliuol suo, il quale nascerà da una Vergine e riparerà il danno che il peccato ha cagionato a lui ed ai suoi discendenti, e che questa riparazione si farà in un modo ammirabile. Infatti, F. M., senza il peccato di Adamo, mai avremmo avuto la fortuna d’aver Gesù Cristo per Salvatore, né di riceverlo nella santa Comunione, e neppure di possederlo nelle nostre chiese. Nei lunghi secoli durante i quali l’eterno Padre attese di mandare sulla terra il Figliuol suo, Egli non cessò di rinnovare queste consolanti promesse per bocca dei patriarchi e dei profeti. O carità di Dio, quanto sei grande pei peccatori! Vedete, F. M., la bontà di Dio pel peccatore? Potremo ancora disperare del nostro perdono? Giacché il Signore mostra tanto il desiderio di perdonarci, se restiamo nel peccato è tutta colpa nostra. Vedete che cosa fece con Caino, dopoché questi uccise il fratello. Va a trovarlo per farlo rientrare in se stesso, e potergli perdonare: perché bisogna necessariamente domandargli perdono, se vogliam che ce lo dia. Ah! mio Dio, è troppo! “Caino, Caino, che hai fatto? Domandami perdono, perché io possa perdonarti. „ Caino non vuole, dispera della sua salvezza, si ostina nel peccato. Eppure vediamo il buon Dio che lo lascia a lungo sulla terra per dargli tempo, se avesse voluto, di convertirsi. Vedete ancora la sua misericordia verso il mondo, quando i delitti degli uomini avevano ricoperto la terra infangandola nelle più infami passioni: il Signore era costretto a punirli: ma prima di decidersi, quante precauzioni, quanti avvertimenti, quanti indugi! Li minaccia molto tempo prima di punirli, per iscuoterli e farli rientrare in se stessi. Vedendo che i delitti andavano sempre aumentando, mandò loro Noè, al quale comandò di costruire un’arca, impiegandovi cento anni, e di dire a tutti quanti glielo domandassero, il perché di quella costruzione; che, cioè il Signore voleva far perire il mondo intero, con un diluvio universale, ma che se volevano convertirsi e fare penitenza, cambierebbe il suo decreto. Infine però, vedendo che a nulla servivano tutti questi avvertimenti e che gli uomini si ridevano delle sue minacce, fu obbligato di punirli. E tuttavia sappiamo che il Signore disse che si pentiva d’averli creati: il che ci mostra la grandezza di sua misericordia. E come se avesse detto: Preferirei non avervi creati piuttosto che vedermi costretto a punirvi (Gen. VI). Ditemi, F. M., poteva Egli, quantunque Dio, spingere più lungi la sua misericordia? F. M., cosi Egli aspetta i peccatori a penitenza e ve li invita coi movimenti interiori della sua grazia, e la voce dei suoi ministri. Vedete ancora come si diporta verso Ninive, questa grande città peccatrice. Prima di punirne gli abitanti, comanda al suo profeta Giona, d’andare da parte sua ad annunciar loro che fra quaranta giorni li avrebbe puniti. Giona, invece d’andare a Ninive, fugge in altro luogo. Vuol attraversare il mare: ma Dio, invece di lasciare i Niniviti senza avviso prima di punirli, fa un miracolo per conservare il suo profeta durante tre giorni e tre notti nel seno d’un cetaceo, che al terzo dì miracolosamente lo rigetta sul lido. Allora il Signore dice a Giona: “Va ad annunciare alla grande città di Ninive che fra quaranta giorni sarà distrutta. „ Non mette condizioni. Il profeta, andatovi, annuncia a Ninive che fra quaranta giorni sarebbe perita. A questa notizia, tutti si danno alla penitenza ed alle lagrime, dal contadino fino al re. “Chi sa, dice loro il re, che il Signore non abbia ancora pietà di noi?„ Il Signore, vedendoli ricorrere alla penitenza, sembrò gustare la gioia di perdonarli. Giona, vedendo passato il tempo del castigo, si ritirò fuori della città, per aspettare che il fuoco del cielo cadesse su di essa. Vedendo che non cadeva: “Ah! Signore, esclama, mi fate forse passare per un falso profeta? fatemi piuttosto morire. Ah! io so bene che siete troppo buono; non cercate che di perdonare!” — Ecchè, Giona! gli disse il Signore; vorresti ch’Io facessi perire tante persone, che si umiliarono davanti a me? Oh! no, no, Giona, non ne avrei il coraggio: invece li amerò e li conserverò (Jon. I-IV) .„ Ecco precisamente, F. M., quanto fa Gesù Cristo a nostro riguardo: alcune volte sembra voglia punirci senza misericordia: ma al più piccolo pentimento ci perdona e ci rende la sua amicizia. Vedete, quando volle far discendere il fuoco dal cielo sopra Sodoma, Gomorra e le città vicine. Sembrava non potervisi risolvere senza consultare il suo servo Abramo; quasi per sentire che cosa dovesse fare. “ Abramo, dissegli il Signore, i delitti di Sodoma e Gomorra giunsero sino al mio trono; non posso più soffrirli quegli uomini; li farò perire col fuoco del cielo. — Ma, Signore, risponde Abramo, punirete i giusti insieme ai peccatori? — Oh! no, no, gli dice il Signore. — Ebbene! soggiunge Abramo: se vi fossero trenta giusti in Sodoma, la punireste, o Signore ? — No, disse, se ne trovo trenta, perdono a tutta la città per amore dei giusti. „ (Gen. XVIII). Arrivò sino a dieci. Ahimè! in una città sì grande non si trovavano dieci giusti! Vedete che il Signore sembrava gioisse di consultare il suo servo su quanto voleva fare. Vedendosi costretto a punirli, mandò subito un Angelo a Lot per dirgli di uscire lui e tutta la sua famiglia, per non andar puniti coi colpevoli (idem XIX). Ah! mio Dio, quale pazienza! quanti indugi prima dell’esecuzione! Volete sapere qual peccato obbligò il Signore a far piombar sulla terra tanti castighi? Ahimè! è il maledetto peccato dell’impurità, di cui la terra era tutta coperta. Volete vedere come Dio tarda a punire? Vedete che cosa fece per castigar Gerico (Gios. VI) . Ordinò a Giosuè di far portare in processione l’arca dell’alleanza, oggetto sacro che mostrava la grandezza della misericordia di Dio. Volle che fosse portata dai sacerdoti, depositari di sua misericordia. Comandò di fare per sette giorni il giro delle mura della città, facendo suonare le medesime trombe che servivano ad annunciare l’anno del giubileo, che era un anno di riconciliazione e di perdono. Eppure vediamo che le stesse trombe destinate ad annunciare loro il perdono, fecero cadere le mura della città, per mostrarci che se non vogliamo approfittare delle grazie che Dio vuol accordarci, diventiamo perciò più colpevoli: ma che se abbiamo la fortuna di convertirci, Egli ne prova una gioia sì grande da dirci che ci dà il perdono con maggior prontezza di quella con cui una madre estrae il suo bambino dal fuoco. Vedemmo, F. M., che dal principio del mondo, sino alla venuta del Messia, tutto è misericordia, grazia, benefizi. Eppure possiamo dire che sotto la legge di amore i benefizi, di cui Dio ha colmato il mondo, sono ancor più abbondanti e preziosi. Quale misericordia nell’eterno Padre il quale non ha che un Figlio, ed acconsente che perda la vita per salvarci tutti! Ah! F. M., se percorressimo tutta la storia delle sofferenze di Gesù Cristo con cuore riconoscente, quante lagrime non verseremmo! Vedendo il tenero Gesù nella culla, ecc.. Vedete che la misericordia del Padre non può andar oltre, poiché avendo un sol Figlio, che è la cosa sua più cara, lo sacrifica per salvarci. Ma se consideriamo l’amore del Figlio, che cosa ne diremo noi? Egli acconsente volontariamente di soffrire tanti tormenti, ed anche la morte per procurarci la felicità del cielo! Ah! F. M., che cosa non ha Egli fatto durante i giorni di sua vita mortale? Non contento di chiamarci a Lui colla sua grazia, e di fornirci tutti i mezzi per santificarci, vedete come corre dietro le pecorelle smarrite: vedete come attraversa le città e le campagne per cercarle e ricondurle nel luogo della sua misericordia: vedete come lascia gli apostoli per aspettare la Samaritana presso il pozzo di Giacobbe, dove sapeva sarebbe venuta: la previene Lui stesso; comincia a parlarle, perché la sua parola piena di dolcezza, unita alla sua grazia, la tocchi e la commuova: le domanda acqua da bere, perché ella stessa gli chieda qualche cosa di più prezioso, la sua grazia. Fu così contento d’aver guadagnato quell’anima che quando gli apostoli lo pregarono di cibarsi: “Oh! no, disse loro.„ Sembrava dicesse: “Ah! no, no, io non penso al cibo del corpo, tanto gioisco d’aver guadagnata un’anima al Padre mio! „ (Giov. IV) Vedetelo nella casa di Simone il lebbroso: non vi si reca per mangiare, ma perché sapeva che vi verrebbe una Maddalena peccatrice: ecco, F. M., che cosa lo conduce a quel banchetto. Osservate la gioia che mostra in volto, vedendo Maddalena a’ suoi piedi, bagnarli di lagrime ed asciugarli co’ suoi capelli. Ma il Salvatore, dal canto suo, la ricompensa: versa a piene mani la grazia nel cuore di lei. Vedete come prende le sue difese contro chi se ne scandalizza (Luc. VI) . Giunge tant’oltre che non contento di perdonarle tutti i peccati e cacciare i sette demoni che aveva in cuore, vuol anche sceglierla per una delle sue spose: vuole che l’accompagni in tutto il corso di sua passione, e che “ … dove sarà predicato il Vangelo, si racconti quanto ella fece per Lui (Matt. XXVI, 13):„ non vuole che si parli de’ suoi peccati, perché son già tutti perdonati coll’applicazione anticipata dei meriti del suo sangue adorabile, che Egli deve spargere. Vedetelo prender la via di Cafarnao per andar a trovare un altro peccatore al suo banco; era S. Matteo, di lui voleva fare uno zelante apostolo (Matt. IX). Domandategli perché prende la via di Gerico; soggiungerà che v’è un uomo chiamato Zaccheo, il quale è in voce di pubblico peccatore; vuol andarlo a trovare per salvarlo, per farne un perfetto penitente. Fa come un buon padre, che ha perduto il suo figliuolo, lo chiama: “Zaccheo, gli dice, discendi, perché oggi voglio venire in casa tua, e vengo per concederti la mia grazia. „ È come se Egli dicesse: “Zaccheo, lascia questo orgoglio e quest’attaccamento ai beni del mondo: discendi, cioè scegli l’umiltà e la povertà.„ Per ben farlo comprendere a quanti erano con Lui, aggiunge: “Questa casa oggi riceve la salute. ,,

1. — O mio Dio! quant’è grande la vostra misericordia pei peccatori! Domandategli ancora perché passò per quella piazza pubblica. “Ah! vi dirà, perché aspetto una donna adultera, che vien condotta alla lapidazione: ed io prenderò la sua difesa contro i suoi nemici, la commuoverò e convertirò.„ Vedete il tenero Salvatore vicino a quella donna, come si comporta, come prende le sue difese? Vedendola circondata dal popolaccio che aspettava solo il segnale per lapidarla, il Salvatore sembra dir loro: “Un momento, lasciatemi fare, poi toccherà a voi. „ Si piega verso terra, scrive, non la sentenza di morte, ma la sua assoluzione. Rialzatosi li guarda. Non sembra dir loro: “Ora che questa donna è perdonata, non è più peccatrice, ma una santa penitente: chi di voi è uguale ad essa? Se siete senza peccato, gettatele la prima pietra.„ Tutti quegli ipocriti, vedendo che Gesù il Cristo leggeva nella loro coscienza, si ritirarono; primi i più vecchi che certamente erano i più colpevoli, poi gli altri. Gesù Cristo, vedendola rimasta sola, le disse con bontà: “Donna, chi ti ha condannato?„ come per dirle: dopo che Io ti ho perdonato, chi avrebbe osato condannarti? ,, Ah! Signore, risposegli la peccatrice, nessuno. — Ebbene! va, e bada di non più peccare (Giov. VIII).„ Vedete ancora che bontà Egli rivela per quella donna che da dodici anni soffriva perdita di sangue. Essa si getta umilmente a’ suoi piedi: “perché, pensava, se posso toccar soltanto il lembo del suo manto, son certa di guarire.„ Gesù Cristo, voltandosi con aria di dolcezza, dice: “Chi mi tocca? Andate, figlia mia, abbiate fiducia, siete guarita nell’anima e nel corpo. „ (Matt. IX). Vedetelo come ha compassione di quel padre, che gli presenta il figlio posseduto dal demonio sin dall’infanzia (Marc. IX)… Vedetelo piangere avvicinandosi a Gerusalemme, che era la figura dei peccatori, che non voglion lasciarsi toccare il cuore. Vedete come piange sulla sua rovina eterna. “Oh! quante volte, ingrata Gerusalemme, volli io ricondurti al seno di mia misericordia, come una chioccia raccoglie i pulcini sotto le ali: ma tu non volesti. O ingrata Gerusalemme che hai ucciso i profeti, e fatto morire i servi di Dio! oh! se almeno volessi ricever la grazia che ti porto! „ (Matt. XIII). Vedete, F. M., come il buon Dio piange la perdita delle anime nostre, quando vede che non vogliamo convertirci? Ora che vediamo quanto Gesù Cristo ha fatto per salvarci, come potremmo disperare della sua misericordia, giacché il suo più grande piacere è di perdonarci: e, per quanto numerosi siano i nostri peccati, se vogliamo lasciarli e pentircene siamo sicuri del perdono? Quand’anche le colpe nostre uguagliassero il numero delle foglie della foresta, saremo perdonati, se il nostro cuore è veramente pentito. Per convincervene, eccone un bell’esempio. Leggiamo nella storia che un giovane, chiamato Teofilo, sacerdote, fu accusato presso il suo Vescovo, e deposto dalla sua dignità. Questa pena lo infuriò talmente, che chiamò il demonio in suo soccorso. Lo spirito maligno gli apparve, promettendogli di fargli ricuperare la sua dignità, a patto che rinnegasse Gesù e Maria. Accecato dal furore, lo fece; e diede al demonio una rinuncia scritta di sua mano. Il giorno dopo il Vescovo, riconosciuto il suo errore, lo chiamò in chiesa, gli domandò perdono d’aver troppo facilmente creduto a quanto gli era stato detto, e lo ristabilì nella sua dignità. Il sacerdote. allora si trovò in grave imbarazzo: per lungo tempo si sentì straziato dai rimorsi della coscienza. Gli venne il pensiero di ricorrere alla Vergine Ss., sentendosi troppo indegno di domandar perdono a Dio. E andò a prostrarsi dinanzi ad un’immagine della Ss. Vergine, pregandola di ottenergli perdono dal suo divin Figliuolo, e a tal fine, digiunò quaranta giorni, e pregò continuamente. Dopo i quaranta giorni, la Vergine gli apparve, dicendogli che gli aveva ottenuto il perdono. Fu consolato da questa grazia: ma gli restava ancora una spina ben profonda da togliersi: era lo scritto dato al demonio. Pensò che Dio non rifiuterebbe questa grazia alla sua Madre: continuò per tre giorni a pregarla, e, finalmente, svegliatosi trovò la carta sul suo petto. Pieno di riconoscenza va in chiesa, e, davanti a tutti, pubblica la grazia che il buon Dio gli aveva concessa per intercessione della sua santa Madre. Facciamo altrettanto: se ci troviamo troppo colpevoli per domandar perdono a Dio, indirizziamoci alla Ss. Vergine, e stiam sicuri del perdono. Ma per incoraggiarvi ad aver gran confidenza nella misericordia di Dio che è infinita, eccone un esempio che il Vangelo ci mette innanzi, il quale ci fa intendere che la misericordia di Dio è senza confini: è quello del Figliuol prodigo, che dopo aver domandato al padre suo quanto gli poteva spettare, andò in paese straniero. Ivi dissipò tutta la sua sostanza, vivendo da libertino e scostumato. La sua cattiva condotta lo ridusse in tal miseria che diventato guardiano di porci, stimavasi troppo fortunato di potersi sfamare colle loro ghiande, sebbene non ne avesse quante la sua fame esigeva. Riflettendo un giorno sulla grandezza della sua miseria, diceva al padrone presso il quale era custode degli immondi animali. “Datemi almeno quanto mangiano le vostre bestie.„ Quale miseria, F. M,, è paragonabile a questa? Eppure nessuno lo soccorreva. Vedendosi ridotto a morir di fame, e vivamente commosso del suo infelice stato, apre gli occhi, e si ricorda di avere un padre tanto buono e che tanto l’amava. Risolve di ritornare alla casa paterna, dove i più umili servi avevano pane più del bisogno. Diceva a se stesso: “Ho errato assai abbandonando il padre mio che tanto mi amava: ho dissipato tutto il mio, menando una vita cattiva: sono tutto lacero e sucido; come potrà il padre mio riconoscermi per suo figlio? Ma mi getterò ai suoi piedi, glieli bagnerò di lagrime: gli domanderò di mettermi solo nel numero dei suoi servi. „ Eccolo che si alza e parte, tutto preoccupato dello stato infelice a cui l’aveva ridotto il suo libertinaggio. Il padre, che ne piangeva da lungo tempo la perdita, vedendolo da lungi venire, dimenticò la tarda età sua, e la cattiva condotta del figlio, si gettò al suo collo per abbracciarlo. Il povero giovane, commosso dell’amore del padre suo: “Ah! padre mio, esclama, ho peccato contro di te e contro il cielo! non merito più d’essere chiamato tuo figliuolo, mettimi solo nel numero dei tuoi servi. — No, no, figlio mio, grida il padre pieno di gioia per la felicità di aver ritrovato il figliuolo che credeva perduto: no, figlio mio, tutto è dimenticato, non pensiamo che a rallegrarci. Gli si porti l’antica veste per ricoprirlo, gli si metta un anello al dito, ed i calzari ai piedi: si uccida un vitello ben pingue, e si faccia festa: perché mio figlio era morto ed è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato.„ (Luc. XV). Bella immagine, F. M., della grandezza della misericordia di Dio per i più sventurati peccatori! Infatti, allorché abbiam la sventura di peccare ci allontaniamo da Dio, e ci riduciamo, seguendo le nostre passioni, ad uno stato più miserabile dei porci, gli animali più immondi. O mio Dio! quanto il peccato è spaventoso! come si può commetterlo? Ma, per quanto siamo colpevoli, da quando risolviamo di convertirci, al primo segno di conversione le viscere di sua misericordia sono mosse a compassione. Questo tenero Salvatore colla sua grazia va innanzi ai peccatori, li previene favorendoli di consolazioni le più deliziose. Infatti, mai un peccatore prova maggior piacere di quando lascia il peccato per darsi a Dio: gli sembra che niente potrà arrestarlo: né preghiera, né penitenza: niente gli appar troppo duro. O momento delizioso! O quanto saremmo felici, se avessimo la fortuna di comprenderlo! Ma ahimè! non corrispondiamo alla grazia, e quindi questi felici momenti si dileguano. Gesù Cristo dice al peccatore per bocca dei suoi ministri: – Si indossi a questo Cristiano convertito il primo suo abito, che è la grazia perduta del battesimo: lo si rivesta di Gesù Cristo, della sua giustizia, delle sue virtù e meriti tutti.„ Ecco, F. M., il modo con cui ci tratta Gesù Cristo quando abbiam la fortuna di abbandonare il peccato per darci a Lui. Ah! F. M., qual motivo di confidenza per un peccatore, anche se assai colpevole, il sapere che la misericordia di Dio è infinita!

II. — No, F. M., non è la gravità dei nostri peccati, né il loro numero che ci devono spaventare; ma solo le disposizioni che dobbiamo avere. Eccovi, F. M., un altro esempio che ci mostra, che, per quanto colpevoli, siamo sicuri del perdono se vogliamo domandarlo a Dio. Leggiamo nella storia che un gran principe nella sua ultima malattia fu attaccato da una tentazione orribile di diffidenza nella bontà e misericordia di Dio. Il sacerdote che l’assisteva, vedendo che perdeva la confidenza, faceva il possibile per ispirargliela, dicendogli che mai il buon Dio negò il perdono a chi glielo domandò. “No, no, disse l’ammalato, non v’ha più perdono per me, ho fatto troppo male.„ Il sacerdote non trovando altra risorsa, si mise a pregare. In quel mentre Dio gli pose sulle labbra quelle parole che il santo Re profeta pronunciò prima di morire: “Principe, dissegli, ascoltate il profeta penitente; siete peccatore come lui, dite sinceramente con lui: Signore, avrete pietà di me, perché i miei peccati sono grandi, ed è appunto la gravità dei miei peccati il motivo che vi impegnerà a perdonarmi. „ A queste parole il principe svegliandosi come da un profondo sonno, stette un momento come in un trasporto di gioia, e mandando un sospiro profondo: “Ah! Signore, proprio per me furono pronunziate queste parole! Sì, mio Dio, appunto perché ho fatto molto male avrete pietà di me! „ Si confessa, e riceve tutti i Sacramenti versando torrenti di lagrime: fa con gioia il sacrificio di sua vita, e muore con in mano il crocifisso che inonda di lagrime. Infatti, F. M., che cosa sono i nostri peccati, se li paragoniamo alla misericordia di Dio? un granellino in confronto ad una montagna. O mio Dio! come si può acconsentire di andar dannati, mentre costa sì poco il salvarsi, e Gesù Cristo desidera tanto la salvezza nostra? – Però, F. M., se Dio è sì buono da attenderci e riceverci, non bisogna stancare la sua pazienza: se ci chiama, ci invita di venire a Lui, dobbiamo andargli incontro: se ci riceve, dobbiamo essergli fedeli. Invece, F. M., sono forse più di cinque o sei anni che il buon Dio ci chiama: perché restiamo nei nostri peccati? Egli è sempre pronto ad offrirci la grazia, perché non lasciamo il peccato? Infatti, M. F., S. Ambrogio ci dice: “Dio, per quanto buono e misericordioso, non ci perdona se non gli domandiamo perdono, se non uniamo la nostra volontà a quella di Gesù Cristo. „ Ma quale volontà, F. M., domanda Dio da noi? Ecco: è una volontà che corrisponda alle sante sollecitazioni della sua misericordia, che ci faccia dire con S. Paolo: “Voi avete sentito raccontare quali furono la mia condotta e le mie azioni prima che Dio mi facesse la grazia di convertirmi. Perseguitavo la Chiesa di Gesù Cristo con tanta crudeltà, che ne ho orrore io stesso ogni volta che vi penso. Chi avrebbe creduto che appunto questo momento aveva scelto Gesù Cristo per chiamarmi a Lui? In quell’istante fui circondato da una luce: udii una voce che mi disse: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? „ (Gal. I, 13-15). Ah! F. M.! quante volte il buon Dio non ci ha fatto la medesima grazia? Quante volte in peccato, o vicini a cadervi, udimmo una voce interna che ci gridava: Ah! figlio mio, perché vuoi farmi soffrire, e perdere l’anima tua? „ Eccone un bell’esempio. Leggiamo nella storia che un figlio incollerito, uccise il padre suo. Ne concepì un rimorso tale, che sembravagli udir continuamente una voce che gli gridasse: “Ah! figlio mio, perché mi hai ucciso? „ Ne soffriva tanto che egli stesso andò a denunziarsi al giudice. Non solo, F. M., dobbiamo abbandonare il peccato, perché Dio è tanto buono di perdonarci: ma dobbiamo anche piangere di riconoscenza. Ne abbiamo un bell’esempio nel giovane Tobia, guidato e ricondotto dall’Angelo (Tob. XII): il che ci mostra quanto piaccia a Dio essere ringraziato. Leggiamo che quella donna, che da dodici anni soffriva di perdita di sangue, guarita da Gesù Cristo, per riconoscenza e per mostrare a tutti la bontà di Dio con lei, fece erigere vicino alla casa sua una bella statua rappresentante una donna davanti a Gesù Cristo che l’aveva guarita. Parecchi autori ci dicono che attorno vi nasceva un’erba sconosciuta, che quando arrivava alla frangia del vestito della statua guariva ogni sorta di malattie. Vedete S. Matteo, per ringraziar Gesù Cristo della grazia che gli aveva fatto l’invitò a casa sua. e resegli tutti gli onori possibili. Vedete il lebbroso samaritano: vedendosi guarito ritorna su’ suoi passi, si getta ai piedi di Gesù Cristo per ringraziarlo della grazia che gli aveva fatta (Luc. XVII, 16). S. Agostino ci dice che il miglior rendimento di grazie è che l’anima vostra sia sinceramente riconoscente verso la bontà di Dio, dandosi tutta a Lui con tutti i suoi affetti. Vedete il Salvatore quando ebbe guarito i dieci lebbrosi, vedendo che uno solo ritornava a ringraziarlo: “E gli altri nove, dissegli Gesù, non furono parimente guariti? „ (Luc. XVII, 17). Come se avesse detto: Perché gli altri non vengono a ringraziarmi? S. Bernardo ci dice che bisogna essere assai riconoscenti verso il buon Dio, perché ciò lo impegna ad accordarci molte altre grazie. Davvero, F. M.! quante grazie non dobbiam rendere a Dio, di averci creati, di averci redenti colla sua passione e morte, di averci fatto nascere nel seno della sua Chiesa, mentre tanti altri vivono e muoiono fuori del suo seno. Si, F. M., poiché la bontà e la misericordia di Dio sono infinite, procuriamo di ben approfittarne, e così avremo la ventura di piacergli e di conservar le anime nostre nella sua grazia: il che ci procurerà la felicità d’andar un giorno a godere la sua santa presenza con tatti i beati in cielo. Ecco quanto vi auguro.

IL CREDO

 Offertorium

Orémus: Ps IX: 11-12 IX: 13 Sperent in te omnes, qui novérunt nomen tuum, Dómine: quóniam non derelínquis quæréntes te: psállite Dómino, qui hábitat in Sion: quóniam non est oblítus oratiónem páuperum.

[Sperino in te tutti coloro che hanno conosciuto il tuo nome, o Signore: poiché non abbandoni chi ti cerca: cantate lodi al Signore, che àbita in Sion: poiché non ha trascurata la preghiera dei poveri.]

 Secreta

Réspice, Dómine, múnera supplicántis Ecclésiæ: et salúti credéntium perpétua sanctificatióne suménda concéde.

[Guarda, o Signore, ai doni della Chiesa che ti supplica, e con la tua grazia incessante, fa che siano ricevuti per la salvezza dei fedeli.]

COMUNIONE SPIRITUALE

 Communio

Luc XV: 10. Dico vobis: gáudium est Angelis Dei super uno peccatóre poeniténtiam agénte.

[Vi dico: che grande gaudio vi è tra gli Angeli per un peccatore che fa penitenza.]

 Postcommunio

Orémus.

Sancta tua nos, Dómine, sumpta vivíficent: et misericórdiæ sempitérnæ praeparent expiátos. [I tuoi santi misteri che abbiamo ricevuto, o Signore, ci vivifichino, e, purgandoci dai nostri falli, ci preparino all’eterna misericordia.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA MISERICORDIA DI DIO

DISCORSI DI SAN G. B. M. VIANNEY

CURATO D’ARS

[Vol. III, Marietti Ed. Torino-Roma, 1933

Visto nulla osta alla stampa. Torino, 25 Novembre 1931.

Teol. TOMMASO CASTAGNO, Rev. Deleg.

Imprimatur.

C . FRANCISCUS PALEARI, Prov. Gen.]

Sulla misericordia di Dio.

Erant autem appropinquantes ei publicani et peocatores, ut audirent illum.

(Luc. XV, 1).

La condotta di Gesù Cristo, durante la sua vita mortale, ci mostra la grandezza della sua misericordia verso i peccatori. Vediamo infatti che tutti vengono presso di Lui: ed Egli, anziché rigettarli o allontanarsi da essi, cerca invece tutti i modi possibili di trovarsi con loro, per attirarli al Padre suo. Li va cercando coi rimorsi della coscienza, li riconduce colle attrattive della sua grazia e li guadagna coi suoi modi amorevoli. Li tratta con tanta bontà, che li difende perfino contro gli scribi ed i farisei che volevano biasimarli e non potevano soffrirli vicino a Gesù Cristo. Giunge anche più oltre; vuol giustificarsi della sua condotta a loro riguardo con una parabola, che dipinge, come meglio non si potrebbe, la grandezza del suo amore pei peccatori, in questo modo: “Un buon pastore, che aveva cento pecore, avendone perduta una, lascia tutte le altre per correr dietro a quella che s’è smarrita: ed avendola trovata, se la mette sulle spalle per evitarle la fatica della strada: riportatala all’ovile, invita i suoi amici a rallegrarsi con lui d’aver trovato la pecora che credeva perduta. „ Aggiunge anche la parabola della donna, che possedendo dieci dramme., ed avendone perduta una, accende la lampada per cercarla in tutti gli angoli di casa sua, e trovatala invita le amiche a rallegrarsene. “Così, disse loro, il cielo tutto gioisce pel ritorno d’un peccatore che si converte e fa penitenza. Non son venuto pei giusti, ma per i peccatori: i sani non hanno bisogno del medico, bensì gli ammalati. „ E Gesù Cristo applica a se stesso queste vive immagini della grandezza della sua misericordia verso i peccatori. Ah! Fratelli miei, qual felicità per noi il sapere che la misericordia di Dio è infinita! Qual forte desiderio non dobbiam sentire nascere in cuore di gettarci ai piedi d’un Dio che ci riceverà con tanta gioia! F. M., se ci danneremo non avremo scuse, quando Gesù Cristo stesso ci mostrerà che la sua misericordia fu sempre grande abbastanza per perdonarci, per quanto fossimo colpevoli. E per darvene un’idea, oggi vi mostrerò: 1° la grandezza della misericordia di Dio verso i peccatori; 2° ciò che dobbiamo fare da parte nostra, per meritarci la fortuna di ottenerla.

I. — F. M., tutto è consolante, tutto è incoraggiante nella condotta di Dio verso di noi. Quantunque colpevoli, la sua pazienza ci attende, il suo amore ci invita ad uscir dal peccato per ritornare a Lui, la sua misericordia ci riceve fra le sue braccia. Colla pazienza, dice il profeta Isaia, Dio ci attende per usarci misericordia. Appena commesso il peccato, meritiamo d’essere puniti. Niente è più dovuto al peccato quanto la punizione. Dacché l’uomo s’è ribellato al suo Dio, le creature tutte domandano vendetta, dicendo: Signore, volete facciam perire quel peccatore che v’ha oltraggiato? Volete, gli dice il mare, ch’io l’inghiottisca nei miei abissi? E la terra: Signore, debbo aprire le mie viscere per farlo discendere vivo nell’inferno? E l’aria: Signore, mi permettete di soffocarlo? Ed il fuoco: Ah! di grazia lasciatemelo abbruciare. E così tutte le altre creature domandano vendetta ad alte grida. I lampi ed i fulmini vanno avanti al trono di Gesù Cristo domandandogli licenza di annientarlo e divorarlo. — Ma no, risponde il buon Gesù, lasciatelo sulla terra sino al momento stabilito dal Padre mio; forse avrò la fortuna di convertirlo. Se il peccatore si svia ognor più, questo tenero Padre piange su di lui, e non lascia di perseguitarlo colla sua grazia, facendo in lui nascere violenti i rimorsi della coscienza. ” O Dio delle misericordie, esclama S. Agostino, quand’era peccatore m’allontanavo da voi sempre più; i miei passi e le mie azioni tutte erano altrettante nuove cadute nel male; le passioni s’infiammavano ognor più vivamente; eppure avevate pazienza, e m’aspettavate. O pazienza del mio Dio! son tanti anni che vi offendo, e non mi avete ancora punito: donde può venire questa lunga attesa? Davvero, o Signore, è perché volete ch’io mi converta, e ritorni a voi colla penitenza. „ È possibile, F. M., che nonostante il desiderio del buon Dio di salvarci, noi ci perdiamo così deliberatamente? Sì, F. M., se vogliamo percorrere le differenti età del mondo, vediamo la terra ricoperta dappertutto delle misericordie del Signore, e gli uomini avvolti nei suoi benefizi. Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli perdono; ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore, e lo fa ritornare a sé. Ne volete un bell’esempio? Vedete come fece oon Adamo dopo il suo peccato. Invece di punirlo, come si meritava, per quella ribellione contro il suo Creatore, che avevagli concesso tanti privilegi, che l’aveva ornato di tante grazie e destinato per un fine così beato: quello d’esser suo amico e di non morir mai; Adamo, dopo il peccato, fugge la presenza di Dio: ma il Signore, come un padre desolato che ha perduto il figliuol suo, corre a cercarlo, e lo chiama quasi piangendo: “Adamo, Adamo, dove sei? Perché fuggi la presenza del tuo Creatore? „ (Gen. III, 9). Desidera tanto di perdonargli, che neppure gli dà tempo di domandar perdono: subito gli annuncia che vuol perdonargli, che manderà il Figliuol suo, il quale nascerà da una Vergine e riparerà il danno che il peccato ha cagionato a lui ed ai suoi discendenti, e che questa riparazione si farà in un modo ammirabile. Infatti, F. M. , senza il peccato di Adamo, mai avremmo avuto la fortuna d’aver Gesù Cristo per Salvatore, né di riceverlo nella santa Comunione, e neppure di possederlo nelle nostre chiese. Nei lunghi secoli durante i quali l’eterno Padre attese di mandare sulla terra il Figliuol suo, Egli non cessò di rinnovare queste consolanti promesse per bocca dei patriarchi e dei profeti. O carità di Dio, quanto sci grande pei peccatori! Vedete, F. M., la bontà di Dio pel peccatore? Potremo ancora disperare del nostro perdono? Giacché il Signore mostra tanto il desiderio di perdonarci, se restiamo nel peccato è tutta colpa nostra. Vedete che cosa fece con Caino, dopoché questi uccise il fratello. Va a trovarlo per farlo rientrare in se stesso, e potergli perdonare: perché bisogna necessariamente domandargli perdono, se vogliam che ce lo dia. Ah! mio Dio, è troppo! “Caino, Caino, che hai fatto? Domandami perdono, perché io possa perdonarti. „ Caino non vuole, dispera della sua salvezza, si ostina nel peccato. Eppure vediamo il buon Dio che lo lascia a lungo sulla terra per dargli tempo, se avesse voluto, di convertirsi. Vedete ancora la sua misericordia verso il mondo, quando i delitti degli uomini avevano ricoperto la terra infangandola nelle più infami passioni: il Signore era costretto a punirli: ma prima di decidersi, quante precauzioni, quanti avvertimenti, quanti indugi! Li minaccia molto tempo prima di punirli, per iscuoterli e farli rientrare in se stessi. Vedendo che i delitti andavano sempre aumentando, mandò loro Noè, al quale comandò di costruire un’arca, impiegandovi cento anni, e di dire a tutti quanti glielo domandassero, il perché di quella costruzione; che, cioè il Signore voleva far perire il mondo intero, con un diluvio universale, ma che se volevano convertirsi e fare penitenza, cambierebbe il suo decreto. Infine però, vedendo che a nulla servivano tutti questi avvertimenti e che gli uomini si ridevano delle sue minacce, fu obbligato di punirli. E tuttavia sappiamo che il Signore disse che si pentiva d’averli creati: il che ci mostra la grandezza di sua misericordia. E come se avesse detto: Preferirei non avervi creati piuttosto che vedermi costretto a punirvi (Gen. VI). Ditemi, F. M., poteva Egli, quantunque Dio, spingere più lungi la sua misericordia? F. M., cosi Egli aspetta i peccatori a penitenza e ve li invita coi movimenti interiori della sua grazia, e la voce dei suoi ministri. Vedete ancora come si diporta verso Ninive, questa grande città peccatrice. Prima di punirne gli abitanti, comanda al suo profeta Giona, d’andare da parte sua ad annunciar loro che fra quaranta giorni li avrebbe puniti. Giona, invece d’andare a Ninive, fugge in altro luogo. Vuol attraversare il mare: ma Dio, invece di lasciare i Niniviti senza avviso prima di punirli, fa un miracolo per conservare il suo profeta durante tre giorni e tre notti nel seno d’un cetaceo, che al terzo dì miracolosamente lo rigetta sul lido. Allora il Signore dice a Giona: “Va ad annunciare alia grande città di Ninive che fra quaranta giorni sarà distrutta. „ Non mette condizioni. Il profeta, andatovi, annuncia a Ninive che fra quaranta giorni sarebbe perita. A questa notizia, tutti si danno alla penitenza ed alle lagrime, dal contadino fino al re. “Chi sa, dice loro il re, che il Signore non abbia ancora pietà di noi?„ Il Signore, vedendoli ricorrere alla penitenza, sembrò gustare la gioia di perdonarli. Giona, vedendo passato il tempo del castigo, si ritirò fuori della città, per aspettare che il fuoco del cielo cadesse su di essa. Vedendo che non cadeva: “Ah! Signore, esclama, mi fate forse passare per un falso profeta? fatemi piuttosto morire. Ah! io so bene che siete troppo buono; non cercate che di perdonare! — Ecchè, Giona! gli disse il Signore; vorresti ch’Io facessi perire tante persone, che si umiliarono davanti a me? Oh! no, no, Giona, non ne avrei il coraggio: invece li amerò e li conserverò (Jon. I-IV) .„ Ecco precisamente, F. M., quanto fa Gesù Cristo a nostro riguardo: alcune volte sembra voglia punirci senza misericordia: ma al più piccolo pentimento ci perdona e ci rende la sua amicizia. Vedete, quando volle far discendere il fuoco dal cielo sopra Sodoma, Gomorra e le città vicine. Sembrava non potervisi risolvere senza consultare il suo servo Abramo; quasi per sentire che cosa dovesse fare. “ Abramo, dissegli il Signore, i delitti di Sodoma e Gomorra giunsero sino al mio trono; non posso più soffrirli quegli uomini; li farò perire col fuoco del cielo. — Ma, Signore, risponde Abramo, punirete i giusti insieme ai peccatori? — Oh! no, no, gli dice il Signore. — Ebbene! soggiunge Abramo: se vi fossero trenta giusti in Sodoma, la punireste, o Signore? — No, disse, se ne trovo trenta, perdono a tutta la città per amore dei giusti. „ (Gen. XVIII). Arrivò sino a dieci. Ahimè! in una città sì grande non si trovavano dieci giusti! Vedete che il Signore sembrava gioisse di consultare il suo servo su quanto voleva fare. Vedendosi costretto a punirli, mandò subito un Angelo a Lot per dirgli di uscire lui e tutta la sua famiglia, per non andar puniti coi colpevoli (idem XIX). Ah! mio Dio, quale pazienza! quanti indugi prima dell’esecuzione! Volete sapere qual peccato obbligò il Signore a far piombar sulla terra tanti castighi? Ahimè! è il maledetto peccato dell’impurità, di cui la terra era tutta coperta. Volete vedere come Dio tarda a punire? Vedete che cosa fece per castigar Gerico (Gios. VI) . Ordinò a Giosuè di far portare in processione l’arca dell’alleanza, oggetto sacro che mostrava la grandezza della misericordia di Dio. Volle che fosse portata dai sacerdoti, depositari di sua misericordia. Comandò di fare per sette giorni il giro delle mura della città, facendo suonare le medesime trombe che servivano ad annunciare l’anno del giubileo, che era un anno di riconciliazione e di perdono. Eppure vediamo che le stesse trombe destinate ad annunciare loro il perdono, fecero cadere le mura della città, per mostrarci che se non vogliamo approfittare delle grazie che Dio vuol accordarci, diventiamo perciò più colpevoli: ma che se abbiamo la fortuna di convertirci, Egli ne prova una gioia sì grande da dirci che ci dà il perdono con maggior prontezza di quella con cui una madre estrae il suo bambino dal fuoco. Vedemmo, F. M., che dal principio del mondo, sino alla venuta del Messia, tutto è misericordia, grazia, benefizi. Eppure possiamo dire che sotto la legge di amore i benefizi, di cui Dio ha colmato il mondo, sono ancor più abbondanti e preziosi. Quale misericordia nell’eterno Padre il quale non ha che un Figlio, ed acconsente che perda la vita per salvarci tutti! Ah! F. M., se percorressimo tutta la storia delle sofferenze di Gesù Cristo con cuore riconoscente, quante lagrime non verseremmo! Vedendo il tenero Gesù nella culla, ecc.. Vedete che la misericordia del Padre non può andar oltre, poiché avendo un sol Figlio, che è la cosa sua più cara, lo sacrifica per salvarci. Ma se consideriamo l’amore del Figlio, che cosa ne diremo noi? Egli acconsente volontariamente di soffrire tanti tormenti, ed anche la morte per procurarci la felicità del cielo! Ah! F. M., che cosa non ha Egli fatto durante i giorni di sua vita mortale? Non contento di chiamarci a Lui colla sua grazia, e di fornirci tutti i mezzi per santificarci, vedete come corre dietro le pecorelle smarrite: vedete come attraversa le città e le campagne per cercarle e ricondurle nel luogo della sua misericordia: vedete come lascia gli apostoli per aspettare la Samaritana presso il pozzo di Giacobbe, dove sapeva sarebbe venuta: la previene Lui stesso; comincia a parlarle, perché la sua parola piena di dolcezza, unita alla sua grazia, la tocchi e la commuova: le domanda acqua da bere, perché ella stessa gli chieda qualche cosa di più prezioso, la sua grazia. Fu così contento d’aver guadagnato quell’anima che quando gli apostoli lo pregarono di cibarsi: “Oh! no, disse loro.„ Sembrava dicesse: “Ah! no, no, io non penso al cibo del corpo, tanto gioisco d’aver guadagnata un’anima al Padre mio! „ (Giov. IV) Vedetelo nella casa di Simone il lebbroso: non vi si reca per mangiare, ma perché sapeva che vi verrebbe una Maddalena peccatrice: ecco, F. M., che cosa lo conduce a quel banchetto. Osservate la gioia che mostra in volto, vedendo Maddalena a’ suoi piedi, bagnarli di lagrime ed asciugarli co’ suoi capelli. Ma il Salvatore, dal canto suo, la ricompensa: versa a piene mani la grazia nel cuore di lei. Vedete come prende le sue difese contro chi se ne scandalizza (Luc. VI) . Giunge tant’oltre che non contento di perdonarle tutti i peccati e cacciare i sette demoni che aveva in cuore, vuol anche sceglierla per una delle sue spose: vuole che l’accompagni in tutto il corso di sua passione, e che “ … dove sarà predicato il Vangelo, si racconti quanto ella fece per Lui (Matt. XXVI, 13):„ non vuole che si parli de’ suoi peccati, perché son già tutti perdonati coll’applicazione anticipata dei meriti del suo sangue adorabile, che Egli deve spargere. Vedetelo prender la via di Cafarnao per andar a trovare un altro peccatore al suo banco; era S. Matteo, di lui voleva fare uno zelante apostolo (Matt. IX). Domandategli perché prende la via di Gerico; soggiungerà che v’è un uomo chiamato Zaccheo, il quale è in voce di pubblico peccatore; vuol andarlo a trovare per salvarlo, per farne un perfetto penitente. Fa come un buon padre, che ha perduto il suo figliuolo, lo chiama: “Zaccheo, gli dice, discendi, perché oggi voglio venire in casa tua, e vengo per concederti la mia grazia. „ È come se Egli dicesse: “Zaccheo, lascia questo orgoglio e quest’attaccamento ai beni del mondo: discendi, cioè scegli l’umiltà e la povertà.„ Per ben farlo comprendere a quanti erano con Lui, aggiunge: “Questa casa oggi riceve la salute. ,,

1. — O mio Dio! quant’è grande la vostra misericordia pei peccatori! Domandategli ancora perché passò per quella piazza pubblica. “Ah! vi dirà, perché aspetto una donna adultera, che vien condotta alla lapidazione: ed io prenderò la sua difesa contro i suoi nemici, la commuoverò e convertirò.„ Vedete il tenero Salvatore vicino a quella donna, come si comporta, come prende le sue difese? Vedendola circondata dal popolaccio che aspettava solo il segnale per lapidarla, il Salvatore sembra dir loro: “Un momento, lasciatemi fare, poi toccherà a voi. „ Si piega verso terra, scrive, non la sentenza di morte, ma la sua assoluzione. Rialzatosi li guarda. Non sembra dir loro: “Ora che questa donna è perdonata, non è più peccatrice, ma una santa penitente: chi di voi è uguale ad essa? Se siete senza peccato, gettatele la prima pietra.„ Tutti quegli ipocriti, vedendo che Gesù il Cristo leggeva nella loro coscienza, si ritirarono; primi i più vecchi che certamente erano i più colpevoli, poi gli altri. Gesù Cristo, vedendola rimasta sola, le disse con bontà: “Donna, chi ti ha condannato?„ come per dirle: dopo che io ti ho perdonato, chi avrebbe osato condannarti? ,, Ah! Signore, risposegli la peccatrice, nessuno. — Ebbene! va, e bada di non più peccare (Giov. VIII).„ Vedete ancora che bontà Egli rivela per quella donna che da dodici anni soffriva perdita di sangue. Essa si getta umilmente a’ suoi piedi: “perché, pensava, se posso toccar soltanto il lembo del suo manto, son certa di guarire.„ Gesù Cristo, voltandosi con aria di dolcezza, dice: “Chi mi tocca? Andate, figlia mia, abbiate fiducia, siete guarita nell’anima e nel corpo. „ (Matt. IX). Vedetelo come ha compassione di quel padre, che gli presenta il figlio posseduto dal demonio sin dall’infanzia (Marc. IX)… Vedetelo piangere avvicinandosi a Gerusalemme, che era la figura dei peccatori, che non voglion lasciarsi toccare il cuore. Vedete come piange sulla sua rovina eterna. “Oh! quante volte, ingrata Gerusalemme, volli io ricondurti al seno di mia misericordia, come una chioccia raccoglie i pulcini sotto le ali: ma tu non volesti. O ingrata Gerusalemme che hai ucciso i profeti, e fatto morire i servi di Dio! oh! se almeno volessi ricever la grazia che ti porto! „ (Matt. XIII). Vedete, P. M., come il buon Dio piange la perdita delle anime nostre, quando vede che non vogliamo convertirci? Ora che vediamo quanto Gesù Cristo ha fatto per salvarci, come potremmo disperare della sua misericordia, giacché il suo più grande piacere è di perdonarci: e, per quanto numerosi siano i nostri peccati, se vogliamo lasciarli e pentircene siamo sicuri del perdono? Quand’anche le colpe nostre uguagliassero il numero delle foglie della foresta, saremo perdonati, se il nostro cuore è veramente pentito. Per convincervene, eccone un bell’esempio. Leggiamo nella storia che un giovane, chiamato Teofilo, sacerdote, fu accusato presso il suo Vescovo, e deposto dalla sua dignità. Questa pena lo infuriò talmente, che chiamò il demonio in suo soccorso. Lo spirito maligno gli apparve, promettendogli di fargli ricuperare la sua dignità, a patto che rinnegasse Gesù e Maria. Accecato dal furore, lo fece; e diede al demonio una rinuncia scritta di sua mano. Il giorno dopo il Vescovo, riconosciuto il suo errore, lo chiamò in chiesa, gli domandò perdono d’aver troppo facilmente creduto a quanto gli era stato detto, e lo ristabilì nella sua dignità. Il sacerdote. allora si trovò in grave imbarazzo: per lungo tempo si sentì straziato dai rimorsi della coscienza. Gli venne il pensiero di ricorrere alla Vergine Ss., sentendosi troppo indegno di domandar perdono a Dio. E andò a prostrarsi dinanzi ad un’immagine della Ss. Vergine, pregandola di ottenergli perdono dal suo divin Figliuolo, e a tal fine, digiunò quaranta giorni, e pregò continuamente. Dopo i quaranta giorni, la Vergine gli apparve, dicendogli che gli aveva ottenuto il perdono. Fu consolato da questa grazia: ma gli restava ancora una spina ben profonda da togliersi: era lo scritto dato al demonio. Pensò che Dio non rifiuterebbe questa grazia alla sua Madre: continuò per tre giorni a pregarla, e, finalmente, svegliatosi trovò la carta sul suo petto. Pieno di riconoscenza va in chiesa, e, davanti a tutti, pubblica la grazia che il buon Dio gli aveva concessa per intercessione della sua santa Madre. Facciamo altrettanto: se ci troviamo troppo colpevoli per domandar perdono a Dio, indirizziamoci alla Ss. Vergine, e stiam sicuri del perdono. Ma per incoraggiarvi ad aver gran confidenza nella misericordia di Dio che è infinita, eccone un esempio che il Vangelo ci mette innanzi, il quale ci fa intendere che la misericordia di Dio è senza confini: è quello del Figliuol prodigo, che dopo aver domandato al padre suo quanto gli poteva spettare, andò in paese straniero. Ivi dissipò tutta la sua sostanza, vivendo da libertino e scostumato. La sua cattiva condotta lo ridusse in tal miseria che diventato guardiano di porci, stimavasi troppo fortunato di potersi sfamare colle loro ghiande, sebbene non ne avesse quante la sua fame esigeva. Riflettendo un giorno sulla grandezza della sua miseria, diceva al padrone presso, il quale era custode degli immondi animali. “Datemi almeno quanto mangiano le vostre bestie.„ Quale miseria, F. M,, è paragonabile a questa? Eppure nessuno lo soccorreva. Vedendosi ridotto a morir di fame, e vivamente commosso del suo infelice stato, apre gli occhi, e si ricorda di avere un padre tanto buono e che tanto l’amava. Risolve di ritornare alla casa paterna, dove i più umili servi avevano pane più del bisogno. Diceva a se stesso: “Ho errato assai abbandonando il padre mio che tanto mi amava: ho dissipato tutto il mio, menando una vita cattiva: sono tutto lacero e sucido; come potrà il padre mio riconoscermi per suo figlio? Ma mi getterò ai suoi piedi, glieli bagnerò di lagrime: gli domanderò di mettermi solo nel numero dei suoi servi. „ Eccolo che si alza e parte, tutto preoccupato dello stato infelice a cui l’aveva ridotto il suo libertinaggio. Il padre, che ne piangeva da lungo tempo la perdita, vedendolo da lungi venire, dimenticò la tarda età sua, e la cattiva condotta del figlio, si gettò al suo collo per abbracciarlo. Il povero giovane, commosso dell’amore del padre suo: “Ah! padre mio, esclama, ho peccato contro di te e contro il cielo! non merito più d’essere chiamato tuo figliuolo, mettimi solo nel numero dei tuoi servi. — No, no, figlio mio, grida il padre pieno di gioia per la felicità di aver ritrovato il figliuolo che credeva perduto: no, figlio mio, tutto è dimenticato, non pensiamo che a rallegrarci. Gli si porti l’antica veste per ricoprirlo, gli si metta un anello al dito, ed i calzari ai piedi: si uccida un vitello ben pingue, e si faccia festa: perché mio figlio era morto ed è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato.„ (Luc. XV). Bella immagine, F. M., della grandezza della misericordia di Dio per i più sventurati peccatori! Infatti, allorché abbiam la sventura di peccare ci allontaniamo da Dio, e ci riduciamo, seguendo le nostre passioni, ad uno stato più miserabile dei porci, gli animali più immondi. O mio Dio! quanto il peccato è spaventoso! come si può commetterlo? Ma, per quanto siamo colpevoli, da quando risolviamo di convertirci, al primo segno di conversione lo viscere di sua misericordia sono mosse a compassione. Questo tenero Salvatore colla sua grazia va innanzi ai peccatori, li previene favorendoli di consolazioni le più deliziose. Infatti, mai un peccatore prova maggior piacere di quando lascia il peccato per darsi a Dio: gli sembra che niente potrà arrestarlo: né preghiera, né penitenza: niente gli appar troppo duro. O momento delizioso! O quanto saremmo felici, se avessimo la fortuna di comprenderlo! Ma ahimè! non corrispondiamo alla grazia, e quindi questi felici momenti si dileguano. Gesù Cristo dice al peccatore per bocca dei suoi ministri: – Si indossi a questo Cristiano convertito il primo suo abito, che è la grazia perduta del battesimo: lo si rivesta di Gesù Cristo, della sua giustizia, delle sue virtù e meriti tutti.„ Ecco, F. M., il modo con cui ci tratta Gesù Cristo quando abbiam la fortuna di abbandonare il peccato per darci a Lui. Ah! F. M., qual motivo di confidenza per un peccatore, anche se assai colpevole, il sapere che la misericordia di Dio è infinita!

II. — No, F. M., non è la gravità dei nostri peccati, né il loro numero che ci devono spaventare; ma solo le disposizioni che dobbiamo avere. Eccovi, F. M., un altro esempio che ci mostra, che, per quanto colpevoli, siamo sicuri del perdono se vogliamo domandarlo a Dio. Leggiamo nella storia che un gran principe nella sua ultima malattia fu attaccato da una tentazione orribile di diffidenza nella bontà e misericordia di Dio. Il sacerdote che l’assisteva, vedendo che perdeva la confidenza, faceva il possibile per ispirargliela, dicendogli che mai il buon Dio negò il perdono a chi glielo domandò. “No, no, disse l’ammalato, non v’ha più perdono per me, ho fatto troppo male.„ Il sacerdote non trovando altra risorsa, si mise a pregare. In quel mentre Dio gli pose sulle labbra quelle parole che il santo Re profeta pronunciò prima di morire: “Principe, dissegli, ascoltate il profeta penitente; siete peccatore come lui, dite sinceramente con lui: Signore, avrete pietà di me, perché i miei peccati sono grandi, ed è appunto la gravità dei miei peccati il motivo che vi impegnerà a perdonarmi. „ A queste parole il principe svegliandosi come da un profondo sonno, stette un momento come in un trasporto di gioia, e mandando un sospiro profondo: “Ah! Signore, proprio per me furono pronunziate queste parole! Sì, mio Dio, appunto perché ho fatto molto male avrete pietà di me! „ Si confessa, e riceve tutti i Sacramenti versando torrenti di lagrime: fa con gioia il sacrificio di sua vita, e muore con in mano il crocifisso che inonda di lagrime. Infatti, F. M., che cosa sono i nostri peccati, se li paragoniamo alla misericordia di Dio? un granellino in confronto ad una montagna. O mio Dio! come si può acconsentire di andar dannati, mentre costa sì poco il salvarsi, e Gesù Cristo desidera tanto la salvezza nostra? – Però, F. M., se Dio è sì buono da attenderci e riceverci, non bisogna stancare la sua pazienza: se ci chiama, ci invita di venire a Lui, dobbiamo andargli incontro: se ci riceve, dobbiamo essergli fedeli. Invece, F. M., sono forse più di cinque o sei anni che il buon Dio ci chiama: perché restiamo nei nostri peccati? Egli è sempre pronto ad offrirci la grazia, perché non lasciamo il peccato? Infatti, M. F., S. Ambrogio ci dice: “Dio, per quanto buono e misericordioso, non ci perdona se non gli domandiamo perdono, se non uniamo la nostra volontà a quella di Gesù Cristo. „ Ma quale volontà, F. M., domanda Dio da noi? Ecco: è una volontà che corrisponda alle sante sollecitazioni della sua misericordia, che ci faccia dire con S. Paolo: “Voi avete sentito raccontare quali furono la mia condotta e le mie azioni prima che Dio mi facesse la grazia di convertirmi. Perseguitavo la Chiesa di Gesù Cristo con tanta crudeltà, che ne ho orrore io stesso ogni volta che vi penso. Chi avrebbe creduto che appunto questo momento avevascelto Gesù Cristo per chiamarmi a Lui? In quell’istante fui circondato da una luce: udii una voce che mi disse: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? „ (Gal. I, 13-15) Ah! F. M.! quante volte il buon Dio non ci ha fatto la medesima grazia? Quante volte in peccato, o vicini a cadervi, udimmo una voce interna che ci gridava: Ah! figlio mio, perché vuoi farmi soffrire, e perdere l’anima tua? „ Eccone un bell’esempio. Leggiamo nella storia che un figlio incollerito, uccise il padre suo. Ne concepì un rimorso tale, che sembravagli udir continuamente una voce che gli gridasse: “Ah! figlio mio, perché mi hai ucciso? „ Ne soffriva tanto che egli stesso andò a denunziarsi al giudice. Non solo, F. M., dobbiamo abbandonare il peccato, perché Dio è tanto buono di perdonarci: ma dobbiamo anche piangere di riconoscenza. Ne abbiamo un bell’esempio nel giovane Tobia, guidato e ricondotto dall’Angelo (Tob. XII): il che ci mostra quanto piaccia a Dio essere ringraziato. Leggiamo che quella donna, che da dodici anni soffriva di perdita di sangue, guarita da Gesù Cristo, per riconoscenza e per mostrare a tutti la bontà di Dio con lei, fece erigere vicino alla casa sua una bella statua rappresentante una donna davanti a Gesù Cristo che l’aveva guarita. Parecchi autori ci dicono che attorno vi nasceva un’erba sconosciuta, che quando arrivava alla frangia del vestito della statua guariva ogni sorta di malattie. Vedete S. Matteo, per ringraziar Gesù Cristo della grazia che gli aveva fatto l’invitò a casa sua. e resegli tutti gli onori possibili Vedete il lebbroso samaritano: vedendosi guarito ritorna su’ suoi passi, si getta ai piedi di Gesù Cristo per ringraziarlo della grazia che gli aveva fatta (Luc. XVII, 16). S. Agostino ci dice che il miglior rendimento di grazie è che l’anima vostra sia sinceramente riconoscente verso la bontà di Dio, dandosi tutta a Lui con tutti i suoi affetti. Vedete il Salvatore quando ebbe guarito i dieci lebbrosi, vedendo che uno solo ritornava a ringraziarlo: “E gli altri nove, dissegli Gesù, non furono parimente guariti? „ (Luc. XVII, 17). Come se avesse detto: Perché gli altri non vengono a ringraziarmi? S. Bernardo ci dice che bisogna essere assai riconoscenti verso il buon Dio, perché ciò lo impegna ad accordarci molte altre grazie. Davvero, F. M.! quante grazie non dobbiam rendere a Dio, di averci creati, di averci redenti colla sua passione e morte, di averci fatto nascere nel seno della sua Chiesa, mentre tanti altri vivono e muoiono fuori del suo seno. Si, F . M., poiché la bontà e la misericordia di Dio sono infinite, procuriamo di ben approfittarne, e così avremo la ventura di piacergli e di conservar le anime nostre nella sua grazia: il che ci procurerà la felicità d’andar un giorno a godere la sua santa presenza con tatti i beati in cielo. Ecco quanto vi auguro.

LO SCUDO DELLA FEDE (160)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (28)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA – 1861

SECONDA PARTE.

Genuino prospetto del Cattolicismo, e del Pretestantismo, delineato dai Protestanti.

PRATTENIMENTO III

Prospetto del Protestantesimo

PUNTO II.

Effetti e orride dottrine della Riforma: putrefazione e disfacimento del Protestantismo.

44. « Le conseguenze di ciò, per rispetto alla morale del popolo, furono tali quali dovevano necessariamente aspettarsi. Tutti gli storici convengono in asserire, che: vizj d’ogni genere, ed i misfatti d’ogni maniera non erano mai per l’addietro avvenuti né così orribili, né così numerosi. Ciò venne altresì confessato dagli stessi maestri della Riforma, e tuttora i protestanti hanno magnificato questo regno come il regno della coscienza e della Religione! Egli era così evidente che il cangiamento era iniquo, che gli uomini non poterono procedere per errore! » (Cobbet, Ivi, Lett. 7, § 201)

45. « Sin dal principio i Protestanti cominciarono ad esser fra se stessi discordi; ma tutti sostenevano, che la sola fede bastava ad assicurare la salvezza; mentre i Cattolici sostenevano che le opere buone pur anco son necessarie. Il più malvagio degli uomini, il più brutale e sanguinario de tiranni esser puote (secondo questa dottrina) uno zelatore credente, poiché gli stessi diavoli credono: ed è perciò che a prima giunta, sembraci veramente cosa strana, che Enrico VIII non divenisse subito uno zelator protestante, vale a dire uno de’ più devoti discepoli di Lutero. Egli lo sarebbe stato senza dubbio; ma Lutero cominciò la sua Riforma alcuni anni troppo presto pel Re… Se cominciato avesse dodici anni dopo, il Re sarebbe divenuto ad un tratto protestante, nel vedere specialmente che questa novella religione permetteva a Lutero e a sette altri de’ suoi fratelli, fautori della Riforma, di accordare di loro propria autorità una licenza al Langravio di Assia, di aver due mogli ad un tempo stesso!!… Una religione sì compiacente e sì tollerante senza dubbio sarebbe stata, ed era precisamente secondo il gusto del Re all’epoca del divorzio; ma ebbe luogo dodici anni troppo presto per lui.  » (Il medes: Op, cit. Lett, 3, § 10). Insomma, ritornando al punto …

« I Riformatori differivano l’uno dall’altro nella più parte delle cose, come i colori dell’iride; ma essi tutti accordavansi in questo, cioè che le opere buone non eran necessarie alla salvezza, e che i Santi (come avean la modestia di chiamar sè stessi) non potevan perdere il lor diritto al cielo per quantunque peccati, comunque molti ed enormi si fossero.! » (Cobbet ivi, Lett. XI, § 328)

« La nostra Chiesa, seguendo il corso del tempo, che cosa ella mai divenne, se non una nuova e vera Babilonia?? » (Giul. di Mueller, nel periodico: La Chiesa Cristiana nella sua idea, T, 1, p. 59).

« Fra tanti dicitori non ve ne son neppur due, i quali sieno d’accordo fra loro. In quella guisa stessa che ciascuno ha la sua peculiare fisonomia, ciascuno in pari tempo ha un’opinione tutta sua propria e speciale. Non sarebbe in verità cosa soverchiamente meravigliosa, se noi banditori di religione fossimo annoverati nella cerchia di quegli antichi aruspici, i quali per avventura incontrandosi insieme, e non sapendo che dirsi, scambievolmente si deridevano. E Tullio che così li descrive. » (I. H. Tiestrunk, Critica del dogma cristiano protestante, 1799, T, 1, prefazione).

« Ecco poi perché il popolo fa le risa e si burla di essi, come farebbe di falsi profeti; ecco perché in esso l’apatia e l’indifferenza s’intromette in luogo di un fervoroso e sublime amore alla religione. Ciò è un gran motivo di sofferenza per il nostro stato ecclesiastico. Quanto per lo meglio si può, fannosi le beffe de’ predicatori, perché non veggono in essi che falsi profeti » (Luedke, Dialoghi sull’abolizione dello stato ecclesiastico).

« Si scorge facilmente, e questo è cagione di non poca meraviglia, che nel breve spazio di due leghe si vuol far credere a quattro, cinque ed eziandio a più sorte di Vangeli; ed il popolo che esamina attentamente, ben se ne avvede…. Egli molto se ne querela, e disprezza e non cura i suoi maestri; che anzi con male parole li vilipende e li umilia;… niun’altra stima egli ne ha che di uomini di pessima fiducia», o per lo meno ignorantissimi… Il popolo semplice, secondo che è, crede esser la verità una sola, e non cape nell’intelletto, per beneficio della Provvidenza, come mai ciascuno di cotali signori si abbia una sua propria e speciale verità. » (Fischer, Introduzione alla dogmatica della Chiesa evangelico-protestante. Tubinga 1828, p. 210.) Nè questo è il peggio! Ascolta.

46. « Le Confessioni protestanti si sono dilungate dalla Chiesa (Cattolica). Perocchè appellando esse alla Scrittura come ad unico fondamento, hanno rinunziato al Divin Paracleto, e all’influenza che Egli si ha nella Chiesa universale che tanto vale fin nella stessa Scrittura, che ne è anzi il fondamento. E se per avventura l’ammettono, ciò non addiviene altrimenti, se non perché gli danno una certa azione entro di sé medesimi soggettivamente. Però togliendo via a questo modo l’ordine statuito dal Fondatore, con propria autorità, é avvenuto che lo Spirito Santo non gli ha più assistiti col divino suo lume. » (Binder, Il discioglimento completo del protestantismo, T. I, p. 10, Sciaffusa 1844).

« La Scrittura salì in quel grado medesimo di autorità che per l’avanti l’antica gerarchia avea posseduto, e questa in un colla sua forza ordinatrice ed unitiva venne meno e scomparve dalla Chiesa (protestante)… Se con buona volontà, con retta fede e con mano esperta si fosse purgata la Chiesa, in vece di rovinarla, ben avrebbe potuto ringiovanire la fede, levare in alto i sentimenti e dar novella e giusta vita all’obbedienza. » (Enrico Steffens, Op. cit., p 14, Nota 1, p. 298).

« L’unione della fede e della libertà, che i Riformatori volevano porre in effetto, non ha resistito; e l’età a noi più vicina ha cacciato fuori l’una appresso l’altra le pietre, delle quali si compone l’edificio della Chiesa. » (Hullmann, Studi teologici, cc. 1832).

« Moltissime prediche fatte dai così detti sopraintendenti e sopraintendenti generali della Corte, si potrebbero convenevolmente e con efficacia tenersi dinanzi alle Sinagoghe degli Ebrei, e dalle Moschee de’ Turchi! Né vi mancherebbe altro, se non torne la parola – Cristianesimo, – e il nome venerando di Cristo, che quivi veramente si trovano per causa di disonore nominati !… e sostituirvi, indovinando così la mente degli uditori, dettati ed insegnamenti de’ più savi fra i pagani, come a cagion di esempio Socrate, Platone, Confucio, Zoroastro, Maometto, ed altri di tal guisa. » (Corrispondenza omiletica, liturgica del 1830, N. 116.). Ma vi è ancora di peggio!… Ascolta.

47. « Niuno sale i pergami, o monta sulle cattedre, che uomo vile o vendereccio non ‘sia, o incredulo mercenario, o parassita, o cane mutolo, o lima sorda! » (H. Dietz, Sermone in onora della festa tresecolare della Riforma, 1830).

« La nostra scuola popolare, per quello che si appartiene principalmente alle istituzioni primarie, è pagana. Il principio cristiano o è del tutto scientemente sbandito, o pure per non curanza scomparisce; e se in qualche maniera se ne fa cenno, lo si fa per guisa accidentale, e toccandogli il primo, gli si dà l’ultimo posto. Le nostre scuole sono profanate. Sono istituti intesi a metter la gioventù per entro gli artifizii e gli addestramenti, cui si crede menar diritto a’ guadagni terreni, all’industria ed alle arti; e ciò facendo, si spera di formar buoni cittadini, quasi che potesse altri essere un vero e buon cittadino di uno Stato cristiano, senza esser Cristiano, ovvero che il Cristianesimo non fosse il fondamento e la colonna de nostri Stati cristiani e della loro Costituzione.! » (F. A. Krummacher, Sermoni di vario argomento, p. 81).

« L’anticristianesimo si vede e si ode chiaramente; perocché a voce alta se ne leva la troppo subita fama. Avevamo noi la Bibbia, ed era essa il fondamento della nostra fede; ma adesso non oso dirlo, né lo potrei dire; giacché essa s’interpreta per modo, che là dove le nostre Università spingano più innanzi, per questo riguardo, io temo forte che da sé stesse si scavino la fossa, e si procaccino la loro estrema rovina. » (2 Giul. di Mueller, nel foglio periodico del Archenholz, intitolato. La Minerva, Luglio 1809, p. 67).

» Tanto è il novero di quei tali che spiegano naturalmente i miracoli del Nuovo Testamento nella Chiesa protestante, che senza tema di dare in fallo si può chiamare una legione, sicché i loro seguaci sono innumerabili come le stelle del firmamento. » (Op. Sulla Bibbia ed i libri liturgici 1798, Coburgo, p. 21) « Non vi ha dogma del Cristianesimo Evangelico-protestante, come che sia fondamentale, contro del quale non si volga in istile ed in modo oltre ogni credere pungente una copia abbondevolissima di scritti. » (I. R. Piderit, Considerazioni in difesa e schiarimento del Canone della Scrittura Etc. , Erlangen, 1775, p. 85.).

« Che diremo oggimai dei libri protestanti in fatto di cristiana morale? Che vi ha in essi che pur sappia, sia pur debolmente; di cristianesimo oltre il titolo? » (De Wette, Almanacco della Riforma 1819)

«Se vi fosse una legge pur tale, che mediante la sua censura desse proibizione di stampare cosa alcuna contro la Chiesa, converrebbe dichiarare proscritta tutta intiera la moderna letteratura teologica, se già non se n’accettassero alcuni trattatelli.! » (H. Hase, Gnosis, ossia, Dottrina evangelica per gli uomini colti, 1829, 1-3,).

« Si può anche tenere, che Lucifero stesso caduto a basso creda assai più che parecchi. di questi nostri espositori della Sacra Scrittura, e che Maometto sia di più gran lunga di costoro migliore. » (Ewald, Considerazioni sopra le parabole di Gesù Cristo, Annover).

« Il Maomettano crede pur anco ai miracoli di Cristo, e per conseguente più si avvicina ai Cristiani che questi moderni dottori protestanti. » (Trembley, Sur l’Etat present du Christianisme, P. 13).

« In mezzo a’ Turchi (incredibile a dirsi!) non è dato di bestemmiare a chicchesia, né così alla sfacciata e senza alcun timore di pena; il nome di Cristo, di Abramo e di Mosè, come per una rea usanza fra i Cristiani Evangelici, e nei loro scritti continuamente arcade! » (E F, de Marees, Lettere nuove in difesa della fede.)

48. « La Chiesa protestante è presso ad esser ridotta in fascio. Conciossiachè talmente sia guasta, da tornar vana ed inutile qualunque opera di ristorazione  o di puntello si opponga alla rovina di lei. » (F. Boll, nella Gazzetta ecclesiastica di Darmstadt 1831, N. 150).

« L’altezza di questo edificio a vero dire, è già crollata, e la religione Evangelica è pur ridotta in un punto da cui più non si  risorge. » (Di Woltmann, Storia della Riforma etc. 1800, T. 1, prefazione, p. 13.).

« E facendoci fin dalle prime a veder tritamente in che consista, e d’onde abbia avuto principio cotanta corruzione della Chiesa, ben si scorge chiaramente che l’idea del Cristianesimo non solamente in mezzo ai predicatori, ma eziandio per entro le recenti coetanee generazioni si è ecclissata e si è spenta. Insieme alla forma già travalicata nella vecchiezza, essa ha perduto anche lo spirito, e la Vita, e le luci; che perfino non si presta credenza ed ossequio a un Dio personale, cosicché appena si osa pronunziar colle labbra tremanti questo nome!!! Da tutto ciò che andiamo discorrendo si pare chiaro che non vi ha fondamento alcuno, per poco buono e saldo che sia, su cui posarsi. » (Zimmermann, nella Gazzetta ecclesiastica universale di Darmstadt; 1851, N. 70).

49. « Non vi occorrono dimostrazioni, tanto la cosa è facile, ed è stata messa le mille volte in luce: il Protestantismo non può metter bene addentro le radici, e produrre ed allargare i suoi rami in altro terreno che di razionalismo non sia. Perocchè appunto su questo sì reggono e si fondano î protestanti. » (Sittig, nella stessa Gazzetta, 1830, n. 66).

« Oltre chè il razionalismo ben si pare una continua manifestazione dell’Anticristo. » (GA Rudelbach, La natura del razionalismo, 1830).

«Non vi è angolo di terra della Germania protestante, il quale di novelli panteisti non sia fecondissima. Il panteismo è la religione dei nostri più grandi pensatori, dei più eccellenti fra gli artisti. Nessuno si prova di farne parola, ma non vi ha neppur uno che non sappia il panteismo essere nella Germania il mistero pubblico, la segreta religione della Germania » (Heine, Sala di conversazione. Lipsia 1845, T. 2 p. 17)

« Sarà il mondo presente giunto a sì alto acume ed a così sublime raffinamento, da reputar cosa ridevole il credere in un Dio, come è ridicola la fede dell’esistenza degli spettri ? » (Lichtemberg. Opere varie, T. 1, p. 166).

« O protestantismo!… o protestantismo!…ove mai ti sei condotto ? Non ti accorgi che i medesimi tuoi seguaci al cospetto delle intelligenze protestano contro qualunque religione ? » (H. Jenisch. Sull’adorazione di Diop e sulle riforme ecclesiastiche, 1803).

« Lutero edificò la sua Chiesa; noi ci riuniamo insieme come per tributarne lodi e grazie senza fine a Dio: ma ohimè! Mentre preghiamo, essa già non esiste più. »

FESTA DEL SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ (2021)

FESTA DEL SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ (2021)

VENERDÌ DOPO L’OTTAVA DEL CORPUS DOMINI.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Doppio di Ia cl. con Ottava privilegiata di 3° ordine. – Param. bianchi.

Il Protestantesimo nel secolo XVI e il Giansenismo nel XVIII avevano tentato di sfigurare uno dei dogmi essenziali al Cristianesimo: l’amore di Dio verso tutti gli uomini. Lo Spirito Santo, che è spirito d’amore, e che dirige la Chiesa per opporsi all’eresia invadente, affinché la Sposa di Cristo, lungi dal veder diminuire il suo amore verso Gesù, lo sentisse crescere maggiormente, ispirò la festa del Sacro Cuore. L’Officio di questo giorno mostra « il progresso trionfale del culto del Sacro Cuore nel corso dei secoli. Fin dai Primi tempi i Padri, i Dottori, I Santi hanno celebrato l’amore del Redentore nostro e hanno detto che la piaga, fatta nel costato di Gesù Cristo, era la sorgente nascosta di tutte le grazie. Nel Medio-evo le anime contemplative presero l’abitudine di penetrare per questa piaga fino al Cuore di Gesù, trafitto per amore verso gli uomini » (2° Notturno). — S. Bonaventura parla in questo senso: « Per questo è stato aperto il tuo costato, affinché possiamo entrarvi. Per questo è stato ferito il tuo Cuore affinché possiamo abitare in esso al riparo delle agitazioni del mondo (3° Nott.). Le due Vergini benedettine Santa Geltrude e Santa Metilde nel XIII secolo ebbero una visione assai chiara della grandezza della devozione al Sacro Cuore. S. Giovanni Evangelista apparendo alla prima le annunziò che « il linguaggio dei felici battiti del Cuore di Gesù, che egli aveva inteso, allorché riposò sul suo petto, è riservato per gli ultimi tempi allorché il mondo invecchiato raffreddato nell’amore divino si sarebbe riscaldato alla rivelazione di questi misteri (L’araldo dell’amore divino. – Libro IV c. 4). Questo Cuore, dicono le due Sante, è un altare sul quale Gesù Cristo si offre al Padre, vittima perfetta pienamente gradita. È un turibolo d’oro dal quale s’innalzano verso il Padre tante volute di fumo d’incenso quanti gli uomini per i quali Cristo ha sofferto. In questo Cuore le lodi e i ringraziamenti che rendiamo a Dio e tutte le buone opere che facciamo, sono nobilitate e diventano gradite al Padre. — Per rendere questo culto pubblico e ufficiale, la Provvidenza suscitò dapprima S. Giovanni Eudes, che compose fin dal 1670, un Ufficio e una Messa del Sacro Cuore, per la Congregazione detta degli Eudisti. Poi scelse una delle figlie spirituali di S. Francesco di Sales, Santa Margherita Maria Alacoque, alla quale Gesù mostrò il suo Cuore, a Paray-le-Monial il 16 giugno 1675, il giorno del Corpus Domini, e le disse di far stabilire una festa del Sacro Cuore il Venerdì, che segue l’Ottava del Corpus Domini. Infine Dio si servì per propagare questa devozione, del Beato Claudio de la Colombière religioso della Compagnia di Gesù, che mise tutto il suo zelo a propagare la devozioni al Sacro Cuore». (D. GUERANGER, La festa del Sacro Cuore di Gesù). – Nel 1765, Clemente XIII approvò la festa e l’ufficio del Sacro Cuore, e nel 1856 Pio IX l’estese a tutta la Chiesa. Nel 1929 Pio XI approvò una nuova Messa e un nuovo Officio del Sacro Cuore, e vi aggiunse una Ottava privilegiata. Venendo dopo tutte le feste di Cristo, la solennità del Sacro Cuore le completa riunendole tutte in un unico oggetto, che materialmente, è il Cuore di carne di un Uomo-Dio, e formalmente, è l’immensa carità, di cui questo Cuore è simbolo. Questa festa non si riferisce a un mistero particolare della vita del Salvatore, ma li abbraccia tutti. È la festa dell’amor di Dio verso gli uomini, amore che fece scendere Gesù sulla terra con la sua Incarnazione per tutti (Off.) che per tutti è salito sulla Croce per la nostra Redenzione (Vang. 2a Ant. dei Vespri) e che per tutti discende ogni giorno sui nostri altari colla Transustanziazione, per applicarci i frutti della sua morte  sul Golgota (Com.). — Questi tre misteri ci manifestano più specialmente la carità divina di Gesù nel corso dei secoli (Intr.). È « il suo amore che lo costrinse a rivestire un corpo mortale » (Inno del Mattutino). È il suo amore che volle che questo cuore fosse trafitto sulla croce (Invitatorio, Vang.) affinché ne scorresse un torrente di misericordia e di grazie (Pref.) che noi andiamo ad attingere con gioia (Versetto dei Vespri); un acqua, che nel Battesimo ci purifica dei nostri peccati (Ufficio dell’Ottava) e il sangue, che, nell’Eucaristia, nutrisce le nostre anime (Com.). E, come la Eucaristia è il prolungamento dell’Incarnazione e il memoriale del Calvario, Gesù domandò che questa festa fosse collocata immediatamente dopo l’Ottava del SS. Sacramento. — Le manifestazioni dell’amore di Cristo mettono maggiormente in evidenza l’ingratitudine degli uomini, che corrispondono a questo amore con una freddezza ed una indifferenza sempre più grande, perciò questa solennità presenta essenzialmente un carattere di riparazione, che esige, la detestazione e l’espiazione di tutti i peccati, causa attuale dell’agonia che Gesù sopportò or sono duemila anni. — Se Egli previde allora i nostri peccati, conobbe anche anticipatamente la nostra partecipazione alle sue sofferenze e questo lo consolò nelle sue pene (Off.). Egli vide soprattutto le sante Messe e le sante Comunioni, nelle quali noi ci facciamo tutti i giorni vittime con la grande Vittima, offrendo a Dio, nelle medesime disposizioni del Sacro Cuore in tutti gli atti della sua vita, al Calvario e ora nel Cielo, tutte le nostre pene e tutte le nostre sofferenze, accettate con generosità. Questa partecipazione alla vita eucaristica di Gesù è il grande mezzo di riparare con Lui, ed entrare pienamente nello spirito della festa del Sacro Cuore, come lo spiega molto bene Pio XI nella sua Enciclica « Miserentissimus » (2° Nott. dell’Ott.) e nell’Atto di riparazione al Sacro Cuore di Gesù, che si deve leggere in questo giorno davanti al Ss. Sacramento esposto

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXXII: 11; 19
Cogitatiónes Cordis ejus in generatióne et generatiónem: ut éruat a morte ánimas eórum et alat eos in fame.

[I disegni del Cuore del Signore durano in eterno: per strappare le ànime dalla morte e sostentarle nella carestia.]


Ps XXXII: 1
Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.

[Esultate nel Signore, o giusti, la lode conviene ai retti.]

Cogitatiónes Cordis ejus in generatióne et generatiónem: ut éruat a morte ánimas eórum et alat eos in fame.

[I disegni del Cuore del Signore durano in eterno: per strappare le ànime dalla morte e sostentarle nella carestia.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui nobis in Corde Fílii tui, nostris vulneráto peccátis, infinítos dilectiónis thesáuros misericórditer largíri dignáris: concéde, quǽsumus; ut, illi devótum pietátis nostræ præstántes obséquium, dignæ quoque satisfactiónis exhibeámus offícium.  

[O Dio, che nella tua misericordia Ti sei degnato di elargire tesori infiniti di amore nel Cuore del Figlio Tuo, ferito per i nostri peccati: concedi, Te ne preghiamo, che, rendendogli il devoto omaggio della nostra pietà, possiamo compiere in modo degno anche il dovere della riparazione.]


Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios. Eph III: 8-19

Fratres: Mihi, ómnium sanctórum mínimo, data est grátia hæc, in géntibus evangelizáre investigábiles divítias Christi, et illumináre omnes, quæ sit dispensátio sacraménti abscónditi a sǽculis in Deo, qui ómnia creávit: ut innotéscat principátibus et potestátibus in cœléstibus per Ecclésiam multifórmis sapiéntia Dei, secúndum præfinitiónem sæculórum, quam fecit in Christo Jesu, Dómino nostro, in quo habémus fidúciam et accéssum in confidéntia per fidem ejus. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis ei in terra nominátur, ut det vobis, secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis, quæ sit latitúdo, et longitúdo, et sublímitas, et profúndum: scire étiam supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem Dei.

[Fratelli: A me, minimissimo di tutti i santi è stata data questa grazia di annunciare tra le genti le incomprensibili ricchezze del Cristo, e svelare a tutti quale sia l’economia del mistero nascosto da secoli in Dio, che ha creato tutte cose: onde i principati e le potestà celesti, di fronte allo spettacolo della Chiesa, conoscano oggi la multiforme sapienza di Dio, secondo la determinazione eterna che Egli ne fece nel Cristo Gesù, Signore nostro: nel quale, mediante la fede, abbiamo l’ardire di accedere fiduciosamente a Dio. A questo fine piego le mie ginocchia dinanzi al Padre del Signore nostro Gesù Cristo, da cui tutta la famiglia e in cielo e in terra prende nome, affinché conceda a voi, secondo l’abbondanza della sua gloria, che siate corroborati in virtù secondo l’uomo interiore per mezzo del suo Spirito. Il Cristo abiti nei vostri cuori mediante la fede, affinché, ben radicati e fondati nella carità, possiate con tutti i santi comprendere quale sia la larghezza, la lunghezza e l’altezza e la profondità di quella carità del Cristo che sorpassa ogni concetto, affinché siate ripieni di tutta la grazia di cui Dio è pienezza inesauribile.]

Graduale

Ps XXIV:8-9
Dulcis et rectus Dóminus: propter hoc legem dabit delinquéntibus in via.
V. Díriget mansúetos in judício, docébit mites vias suas.

[Il Signore è buono e retto, per questo addita agli erranti la via.
V. Guida i mansueti nella giustizia e insegna ai miti le sue vie.]
Mt XI: 29

ALLELUJA

Allelúja, allelúja. Tóllite jugum meum super vos, et díscite a me, quia mitis sum et húmilis Corde, et inveniétis réquiem animábus vestris. Allelúja.

[Allelúia, allelúia. Prendete sopra di voi il mio giogo ed imparate da me, che sono mite ed umile di Cuore, e troverete riposo alle vostre ànime. Allelúia

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joannes XIX: 31-37
In illo témpore: Judǽi – quóniam Parascéve erat, – ut non remanérent in cruce córpora sábbato – erat enim magnus dies ille sábbati, – rogavérunt Pilátum, ut frangeréntur eórum crura, et tolleréntur. Venérunt ergo mílites: et primi quidem fregérunt crura et alteríus, qui crucifíxus est cum eo. Ad Jesum autem cum veníssent, ut vidérunt eum jam mórtuum, non fregérunt ejus crura, sed unus mílitum láncea latus ejus apéruit, et contínuo exívit sanguis et aqua. Et qui vidit, testimónium perhíbuit: et verum est testimónium ejus. Et ille scit quia vera dicit, ut et vos credátis. Facta sunt enim hæc ut Scriptúra implerétur: Os non comminuétis ex eo. Et íterum alia Scriptúra dicit: Vidébunt in quem transfixérunt.

[In quel tempo: I Giudei, siccome era la Parasceve, affinché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era un gran giorno quel sabato – pregarono Pilato che fossero rotte loro le gambe e fossero deposti. Andarono dunque i soldati e ruppero le gambe ad entrambi i crocifissi al fianco di Gesù. Giunti a Gesù, e visto che era morto, non gli ruppero le gambe: ma uno dei soldati gli aprì il fianco con una lancia, e subito ne uscì sangue e acqua. E chi vide lo attesta: testimonianza verace di chi sa di dire il vero: affinché voi pure crediate. Tali cose sono avvenute affinché si adempisse la Scrittura: Non romperete alcuna delle sue ossa. E si avverasse l’altra Scrittura che dice: Volgeranno gli sguardi a colui che hanno trafitto.]

OMELIA

[Mons. Bonomelli: Misteri cristiani vol. IV, Queriniana ed. Brescia, 1896]

RAGIONAMENTO VIII

Il Sacro Cuore di Gesù

Gesù Cristo è l’autore e l’oggetto della nostra fede, il fondamento ed il fine della nostra speranza, la sorgente e il termine della nostra carità: tutto viene da Lui e tutto ritorna a Lui, principio e fine, primo ed ultimo, alfa ed omega d’ogni cosa, come insegnano i Libri Santi; e perciò è verissimo il dire: « Christus tota religio – La Religione tutta si riduce a Cristo ». Egli per la Sinagoga, pei Profeti, pei riti Sacri, pei patriarchi, per le tradizioni antiche risale ad Adamo: per la Chiesa discende giù giù per la serie dei secoli fino all’ultimo uomo, che vivrà sulla terra. – La Chiesa, l’erede delle sue ricchezze e delle sue glorie, la Sposa sua fedele, che vive solo per Lui e di Lui, colla parola, coi Sacramenti, colla preghiera, colla pompa sacra del culto, in mille modi, richiama senza tregua le menti e i cuori dei fedeli a Lui, che è il suo Capo e suo Sposo: Essa lo fa Vivere continuamente in mezzo agli uomini nelle verità, nella grazia, che sgorgano da Lui, e soprattutto nel mistero Eucaristico, pel quale è veramente e realmente presente tra loro. Considerate l’arte divina, con cui la Chiesa tien sempre viva tra suoi figli la memoria e l’azione di Gesù Cristo. Si apre l’anno ecclesiastico col sacro Avvento: e la Chiesa, se così posso dire, ponendosi nei tempi, che precedettero la venuta di Cristo e, confondendosi coi patriarchi, coi Profeti e con Mosè, lo invoca e lo saluta da lungi suo Salvatore: poi raccoglie tutti i suoi figli presso la culla di Lui e lo adora e nella letizia delle feste Natalizie canta: – Vi annunzio una grande allegrezza: è nato il Salvatore del mondo -. Poi ce lo mostra nell’atto di Versare le prime stille del suo sangue, principio del sacrificio della Croce: è il mistero della Circoncisione. Poi ci invita a vedere i Magi, primizie dei Gentili, prostrati ai piedi del divino Infante: è il mistero della Epifania. E poi nelle Domeniche che seguono, ce lo mette innanzi bambino, riconosciuto e proclamato Salvatore del mondo tra le braccia del venerando Simeone, profugo in Egitto, reduce a Nazaret, fanciullo a 12 anni nel tempio di Gerusalemme, giovane, operaio volontariamente sepolto nella officina paterna. Poi ce lo addita nel deserto, che nel digiuno e nella preghiera si prepara alla vita pubblica; è il tempo Quadragesimale. Poi ci fa assistere alla sua passione e alla sua morte crudele di croce nella settimana che a ragione dicesi Santa. – Poi ci vuole testimonii della gloriosa sua risurrezione nella Pasqua, del suo trionfale ingresso in cielo, nella Ascensione. Ecco l’Anno Liturgico, che ci spiega sotto gli occhi la vita di Gesù Cristo dal dì del suo Nascimento a quello della sua Ascensione. – Ma, chiuso il periodo della vita di Gesù Cristo, comincia quello, che nel suo Nome e nella virtù della sua parola deve continuare fino al termine dei tempi per opera della Chiesa: eccovi la Pentecoste. Ma la vita e la forza della Chiesa tutta deriva da Gesù Cristo. Ed Egli dov’è? In cielo letizia di sé i beati e sulla terra nel Sacramento dei Sacramenti, l’Eucaristia, illumina, nutre, santifica la Chiesa: eccovi la festa del Corpo di Cristo. – Quale magnifico spettacolo ci svolge essa la Chiesa sotto gli occhi nel corso dall’anno! La storia della vita e delle opere di Cristo e con essa inseparabilmente congiunto il richiamo dei dogmi capitali della nostra fede ci passano dinanzi in guisa che tutti, dotti e indotti, li debbono conoscere, direi quasi loro malgrado. La liturgia della Chiesa è la perenne e più efficace predicazione delle divine verità, della vita e delle opere di Gesù Cristo. – Ora, una domanda, o fratelli. Questa serie stupenda delle verità e delle opere di Cristo, che si svolgono dall’Avvento al Corpus Domini, donde derivano? Da qual fonte promanano? Non esito un istante a rispondere: – dalla smisurata carità di Gesù Cristo -. E questa smisurata carità di Cristo dove si adombra perfettamente? Quale ne è lo strumento e l’organo? E dove ci conduce essa? Il Cuore adorabile di Gesù è il simbolo più perfetto dell’amore di Dio: ne è l’organo e lo strumento naturale: è il termine, a cui ci conduce. E sono queste le tre verità, che mi studierò di mettere in luce in questo Ragionamento. – Forse non avrete mai posto mente ad una verità semplicissima per sé stessa e che è pure la prima ragione del culto al Sacro Cuore di Gesù Cristo, culto oggi mai universale nella Chiesa di Dio: la verità è questa: qualunque culto, qualunque devozione praticata e riconosciuta nella Chiesa ha un doppio oggetto, l’uno sensibile e materiale, l’altro invisibile e spirituale, il qual secondo è assai più nobile ed eccellente del primo, perché ne è il fine; noi, per ragione d’esempio, prestiamo culto alla croce, ai chiodi, alla lancia, alle spine, al sudario, agli strumenti tutti, che furono santificati dall’immediato contatto del sangue e del corpo adorabile del Salvatore. Questi strumenti e queste sante memorie della passione di Gesù Cristo costituiscono l’oggetto immediato, visibile e materiale del nostro culto: l’oggetto invisibile ed immateriale, a cui principalmente vuolsi tener volto lo sguardo, è l’amore divino manifestatoci per questi strumenti stessi, è Dio medesimo, che si degnò usare di codesti mezzi e impreziosirli nell’opera della umana redenzione. Ciò stesso avviene nel culto al Cuore sacratissimo di Gesù Cristo. Il Cuore di Lui è primamente oggetto visibile e materiale del nostro culto, perché questo Cuore è il simbolo e la prova della infinita carità di Gesù Cristo verso dell’uomo, come canta la Chiesa: « Hoc sub amoris symbulo -….. Christus sacerdos obtulit – Cristo, sacerdote in eterno offre il suo Cuore qual simbolo della sua carità ». Ciò che altrove la Chiesa in forma solenne dichiara e conferma: «Ut charitatem Christi patientis et pro generis humani redemptione morientis …… fideles sub Sanctissimi Cordis symbulo devotius et ferventius recolant ». Che fu un dire: – La Chiesa venera ed adora il Cuore di Gesù a fine di celebrare e glorificare più devotamente e più fervidamente quella carità che lo condusse alla croce e alla morte per noi, carità che tutta e mirabilmente ci viene simboleggiata nel suo santissimo Cuore -. Vedete, o fratelli, ciò che si fa nel mondo profano: il simbolo od emblema lo trovate dovunque e sempre. Veggo un leone alato, che stringe nelle zampe un Vangelo: saluto la Regina dell’Adria, Venezia. Veggo ondeggiare al vento una bandiera e in essa dipinto un leopardo: riconosco la Regina dei mari, l’altera Albione. Veggo uno scudo e in esso con le ali aperte, stringente nelle unghie una spada, un’aquila incoronata, dalla doppia testa, ed esclamo: Ecco l’Austria. Voi non trovate una nazione, una società qualunque, una famiglia, che si reputi nobile, la quale non si onori del suo segno o simbolo, d’una bandiera, in cui compendia il suo nome e le sue glorie. Guai a chi fa oltraggio a quel simbolo, a quella bandiera! È un nemico! Amico è chi l’onora! – Il somigliante avviene nella Chiesa. Tutto in essa è figura e simbolo: è il suo linguaggio più caro e più eloquente. Qui la colomba vi ricorda lo Spirito Santo, là l’agnello, il pellicano vi rammentano l’Uomo-Dio; altrove il giglio vi rappresenta la purezza, la nave adombra la Chiesa, l’aquila simboleggia l’Evangelista Giovanni, il leone raffigura l’Evangelista Marco e andate dicendo: nella liturgia, nella pittura e scultura, nel linguaggio della Chiesa tutto è simbolico. Essa coi segni, colle figure più svariate parla e ammaestra il popolo, che la intende a meraviglia: dirò anzi che il popolo ama e preferisce questo linguaggio dei segni e delle figure al linguaggio comune, perché meglio gli mette innanzi le cose e le verità. Egli, il popolo, all’udire preferisce il vedere e le cose e le verità, ch’egli riceve per gli occhi, si stampano nella sua mente più assai che quelle, che gli giungono per la via delle orecchie. Ora qual simbolo, qual figura più viva e più naturale dell’amore quanto il simbolo e la figura del cuore? Appena i miei occhi cadono su quella figura vermiglia; appena veggono quella ferita stillante sangue, quella corona di spine, che l’avvolge, quelle fiamme che dal suo vertice si elevano, la mia mente corre a Gesù, pensa all’amor suo per gli uomini tutti, ricorda la sua passione, la sua morte, tutta la storia della sua vita; il mio cuore a quella vista si commuove, si accende e sente che l’amore di Gesù domanda amore ed io l’amo con tutte le forze dell’anima mia. È dunque ragionevole e santa cosa onorare il cuore di Gesù come figura convenzionale e naturale la più espressiva della sua smisurata carità. Tacciano dunque e arrossiscano coloro che volevano sbandito dalla Chiesa il culto del Cuore di Gesù Cristo, questo sì caro e sì perfetto emblema del divino amore e ne faceano bersaglio de’ loro motti sarcastici e delle loro insolenti facezie. Perché non levavano essi la voce con eguale e maggior ragione contro il culto della Croce e degli istrumenti tutti della passione? Perché non condannavano i libri ispirati, che tante volte parlano della carne e del sangue di Gesù Cristo, che sono parte della sua umanità, come parte nobilissima ne è il suo cuore? Allorché parliamo del cuore di Gesù e lo adoriamo, la nostra mente si fissa nel cuore di Gesù, non separato dal corpo e dall’anima sua benedetta, ma nel cuore congiunto a Lui ipostaticamente, nel cuore vivente, formante parte della sua umanità gloriosa. – Ma sarebbe troppo grave errore considerare il cuore di Gesù Cristo come un semplice e nudo simbolo della sua carità, perché esso ne è lo strumento e l’organo materiale. Il cuore di Gesù, o fratelli miei, si ha da adorare non solamente perché ebbe ed ha immediato ed esterno contatto col Verbo divino, come l’ebbero i chiodi, e gli strumenti della passione, ma perché esso fu assunto, vivificato, posseduto, divinizzato, fatto proprio del Verbo Istesso, tantoché esso è veramente e rigorosamente cuore di Dio: cuore in cui Dio stesso vive, sente, ama e si comunica agli uomini. Seguitemi col vostro pensiero. – Nell’uomo convien distinguere due essenzialissime facoltà o potenze, cioè la facoltà o potenza di intendere e ragionare, e la facoltà o potenza di volere ed amare. Come queste due facoltà o potenze sono distinte tra loro e tanto distinte che talora sono opposte, così hanno sede distinta nel corpo: l’intelligenza si attua più propriamente nel capo, la volontà e l’amore riseggono e si svolgono più propriamente nel cuore (Io non voglio entrare in questioni fisiologiche, né seguire gli antichi nelle loro ricerche intorno alla sede dell’anima. Essa è tutta in tutto il corpo, perché semplice: ma come riceve le sensazioni per mezzo dei sensi, così gli atti intellettivi si manifestano nei nervi del cervello, e gli atti affettivi nel cuore. Questo è il fatto, non mi occupo della Spiegazione scientifica); onde chi pensa e ragiona accenna al capo, chi ama accenna al cuore; e chi pensa e medita a lungo e intensamente, prova una molesta, sensazione al capo, e chi ama fortemente sperimenta una scossa gagliarda e una viva commozione al cuore. Allorché voi volete indicare che un uomo è dotato d’alto ingegno, dite: È un uomo di gran testa: se volete indicare che è uomo caritatevole, generoso, amorevole, dite: Ha un bel cuore: è  uomo di cuore eccellente. Come noi vediamo cogli occhi, udiamo colle orecchie, parliamo colla lingua, lavoriamo colle mani, gustiamo col palato, così amiamo col cuore, che si agita, che ci martella in petto, che si dilata, si accende proporzionatamente alla intensità dell’amore. Non è dunque accidentale convenzione di linguaggio quella che indusse tutti gli uomini a scegliere il cuore per simboleggiare l’amore, ma la voce della natura, il grido stesso della verità a talché se noi fossimo vissuti fuori di società, per significare l’amor nostro ad una persona avremmo sempre usate queste o simili espressioni: – Io vi sento, io vi tengo, io vi porto nel mio cuore: io ho scritto il vostro nome nel mio cuore: il mio cuore è vostro: datemi il vostro cuore: il mio cuore arde per voi! – Sì: il cuore è il centro della vita! (Fisiologicamente il centro primo della vita è il cervello, il secondo è il cuore: di là il moto dei nervi e col moto la vita: di qui il moto del sangue, che alimenta i nervi e tutto il corpo. L’uno non vive senza dell’altro. Al mio scopo bastano queste verità e sarebbe superfluo addentrarci in altre questioni.): da esso muove, ad esso ritorna il sangue per rifarsi e vivificarsi e proseguire il misterioso e ammirabile suo giro, ed esso è lo strumento dell’amore, la sede delle affezioni tutte, come il cervello è lo strumento e la sede della intelligenza e del pensiero. – Ora, o fratelli, non vi può essere dubbio, ciò che avviene naturalmente in ogni uomo deve avvenire eziandio in Gesù Cristo, perché Egli è vero e perfettissimo uomo in ogni cosa a noi eguale, del peccato e delle conseguenze del peccato infuori, come insegna la fede; se dunque in noi il cuore è lo strumento e l’organo materiale, per cui dispiegasi la fiamma amorosa, è forza affermare, che anche il cuore di Gesù, dal Verbo personalmente assunto e da Lui inseparabile, sia lo strumento e l’organo materiale dell’amor suo infinito. Come Gesù Cristo vedeva cogli occhi e udiva con le orecchie, così Egli amava col suo cuore. Chi potrebbe dubitarne? È una conseguenza del mistero dell’incarnazione. – Ben è vero che il Verbo anche prima di farsi uomo amava tutte le opere delle sue mani, e l’uomo soprattutto dopo l’Angelo: ben è vero che allora l’amor suo era affatto indipendente da qualsivoglia strumento corporeo, perché incorporeo e sovranamente spirituale era la sua natura; ma dall’istante ch’Egli si fece uomo, ama e deve amare eziandio col cuore materiale, che assunse, per la ragione che questo cuore, congiunto inseparabilmente alla Persona divina del Verbo, nulla opera, né può sperare senza il concorso immanente del Verbo stesso, come osserva acutamente San Anselmo. Dal che segue questa stupendissima verità, che l’amore eterno del Verbo verso gli uomini si riverbera incessantemente in questo amore sacrosanto, che tutto si avviva sotto i cocenti suoi raggi, e fedelmente risponde a Lui come un’arpa armonica appena è tocca dalla mano di un esperto suonatore. Il sole splende sempre egualmente nel mezzo dei cieli e la sua luce è candida: sotto a quei raggi collocate un prisma ed i suoi raggi d’un tratto vestono tutti i colori dell’iride; il sole è il Verbo divino; il prisma meraviglioso che rifrange i suoi raggi e li colora è il cuore assunto; esso è l’organo dell’amor divino, anzi intrecciando ineffabilmente fa scintillare l’amore, e il candore dell’eterna luce si confonde col vermiglio e purpureo di questo cuore benedetto. – E chi varrà mai a spiegare le ricchezze nascoste in questo divinissimo cuore? Chi potrà spingere gli sguardi nei suoi penetrali, accessibili solo agli sguardi di Dio e agli impeti della sua infinita carità? Chi potrà mai nonché descrivere, ma anche solo da lungi immaginare gli infuocati palpiti di questo cuore, che è, badate bene, cuore veramente di Dio? Quando io mi ingegno di concepire in qualche modo i tesori di amori racchiusi nel cuore di Gesù, non trovo immagine più acconcia di questa: immagino un mare, sul quale per quantunque l’occhio si spazii non scopre le sponde e si perde su quella immensa stesa delle acque e in quella non meno immensa vòlta de’ cieli, che sembra circoscriverla; penso che questo cuore sia simile all’amore divino, che da nessuno si comprende; poi immagino che questo mare sterminato sbocchi per un ampio fiume, che solo dà sfogo perenne alle sue acque e per cui solo dilaga e feconda le sottoposte pianure. Così mi sembra possiamo fornirci qualche idea del divino amore, che immensurato ed immensurabile in se stesso, non potendo quasi capire in sé pel cocentissimo desiderio, che lo punge e muove ad effondersi e comunicarsi alle sue creature, si precipita quanto vi cape nel cuore di Gesù, lo riempie, lo inonda e nella sua piena trabocca d’ogni Parte. Per tal modo Questo cuore diviene la sorgente unica, il fiume vastissimo e sempre rigonfio, che a noi tutti  in terra ed in cielo, agli uomini ed agli Angeli deriva le acque della vita,  possiamo ripetere: il fiume della Vita, nella sua piena rallegra la città di Dio – Fluminis impetus lætificat civitatem Dei -. Sì, sì, fratelli miei! Questo cuore è Veramente la fonte, il fiume delle acque della vita, onde verdeggia, fiorisce e fruttifica il campo della Chiesa: è la porta e la via, per la quale Dio stesso discende e viene a noi, Lo volete vedere? Udite e fatemi ragione. – Dio viene a noi e a noi si comunica coll’istruirci, col soffrire e morire per noi: viene a noi col versare nello anime nostre i tesori delle sue grazie, con tutte quelle opere prodigiose, ch’Egli compì per noi sulla terra e che nei sacramenti e nella sua Chiesa durano e dureranno fino al termine dei secoli. – Scorrete col pensiero tutta la vita di Gesù Cristo, cercate ad una ad una tutte le sue opere che germinò quel fiore nel seno verginale di Maria fino all’istante che sulla croce esalò l’estremo anelito: numerate, se potete, tutte le sue fatiche, i suoi affanni, i suoi dolori: contate tutte le sue parole, tutti i suoi passi, tutti i suoi viaggi: mettete insieme tutti i suoi pensieri, tutti i suoi affetti, tutti i suoi desiderii: rammentate l’istituzione di tutti i sacramenti, rivi inesauribili di grazie e di vita: ricordate soprattutto il mistero eucaristico, che lo imprigiona sui nostri altari e lo fa spuntare, vero albero di vita, su tutti i punti del pianeta: pensate alle catene, ai fagelli, alle spine, agli insulti, agli schiaffi, alla sentenza di morte, alla croce, ai chiodi, all’aceto, al fiele, alle agonie, all’abbandonamento desolato del Calvario: considerate Gesù Cristo qual è, quale ci è presentato dal Vangelo, con tutto ciò che ha fatto, che fa, che farà fino all’ultima ora dei secoli: aggiungete tutto quel di più ch’Egli era pronto a fare per noi e non fece, cioè gli ardori di quella carità, che l’avrebbero portato a patire e morire tante volte quante sono le anime da salvare, a tollerare tormenti a mille doppi maggiori di quelli che tollerò, se tutto questo fosse stato necessario. Mio Dio! quali e quante opere d’infinito valore! Quali prove di ineffabile carità! Che poteva fare e non ha fatto per noi questo amabile Gesù? Ora vi domando: tutte queste opere compiute da Gesù per l’uomo e che riempiono lo spazio e si distendono coi secoli, da qual fonte sgorgano? Dove furono prima concepite, maturate, consumate? Tutte, tutte, senza eccezione, rampollano dall’amore divino: Propter nimiam charitatem, qua dilexit. E l’amore divino,dopo l’incarnazione dove risiede? Dove si attua? L’amore divino risiede e si attua in questo Cuore santissimo: tutte spuntano, tutte si spandono da questo cuore, come i rami dalla radice, i ruscelli dal fonte, tutte sono faville dell’incendio beato onde arde questo cuore amoroso. È desso che, raccogliendo in sé tutto il sangue, che è vita divina, coi suoi palpiti lo spinge per le arterie e per le vene e per le ferite aperte in tutto il corpo, a stille a stille lo fa piovere su tutte le anime, le purifica, le risana, le vivifica, le abbellisce, le fa sante. -Se dunque dal divino amore discendono a noi tutti i beni e se i raggi del divino amore per il mistero della Incarnazione si appuntano e si incentrano tutti nel Cuore di Gesù, in cui hanno principio e compimento le azioni tutte (Nella mente splende la verità, norma delle opere: la luce della verità scende come raggio nella volontà, che risiede nel cuore: qui la luce della Verità, quasi scintilla elettrica, accende la fiamma dell’amore e l’amore determina l’opera: perciò ogni opera comincia nella mente e si compie nella volontà, ossia nell’amore, che è quanto dire nel cuore), ne conseguita a tutta evidenza, che questo Cuore è veramente la fontana perenne e vivace d’ogni grazia: ne conseguita che in questo Cuore noi troviamo ogni cosa, che in esso sono scritte a caratteri incancellabili l’opere tutte dell’Uomo-Dio, e che in esso possiamo vedere come nel loro Principio e nel germe tutto ciò che Cristo svolse nei giorni di sua vita mortale. E qui pure non vi spiaccia, seguirmi per pochi momenti. Metto sulla palma della mia mano un granello di frumento, il seme d’un abete, il germe d’un cedro: da quel granello un giorno uscirà una spiga, da quel seme verrà un abete, da quel germe svolgerassi un altissimo cedro: dunque in quel granello è racchiusa la spiga, in quel seme si contiene l’abete, in quel germe esiste il cedro: s’io avessi l’occhio sì acuto da penetrare ogni punto, ogni atomo di quel grano, di quel seme, di quel germe, certamente vi scorgerei in embrione la spiga, l’abete, il cedro, che un giorno germoglieranno, spiegando alla luce del sole le loro foglie e i loro rami. Chi mai potrebbe dubitarne? Ebbene: nel Cuore di Gesù si racchiudono come nel loro germe tutti gli atti di quell’amore, che man mano nel corso della sua vita fioriscono nelle opere, che va compiendo: dunque in quel Cuore si precontiene tutta la serie delle sue opere, figlie tutte del suo amore: in quel Cuore pertanto io posseggo e adoro tutta quanta la meravigliosa economia della Redenzione, perché tutta scaturisce da esso come dal suo principio. Ah! dunque questo Cuore, canterò colla Chiesa, è il santuario della nuova Alleanza (Cor, Sanctuarium novi Intemeratum fœderis); è il tempio senza confronto più santo dell’antico (Templum vetusto sanctius); è il velo, che nasconde il Santo de’ santi (Velumque scisso utilius); è l’Arca, in cui l’uman genere fu salvo dalle acque inondatrici della colpa (Hoc ostium Arcæ in latere est Genti ad salutem positum) [Inni del Sacro Cuore]; è la tavola su cui Dio ha scritto la legge di grazia e di amore: è l’altare, su cui fu offerta l’Ostia di pace e di perdono e l’umanità tutta espiata e riconciliata con Dio; è il talamo in cui Cristo consumò le nozze con la sua Sposa immacolata, la Chiesa, è la porta dei cieli. – Se non che a Gesù Cristo non bastava far distillare dal suo cuore la rugiada fecondatrice dei doni celesti; Egli voleva aprire l’erario dei suoi tesori, voleva spalancarne le porte, affinchè tutti potessero entrarvi liberamente e arricchirsene a talento. E perciò, grida Agostino, ecco che il novello Adamo, punto dall’amore, che l’arde, sale il suo talamo: « Ascendat sponsus noster thalami sui lectum »; sale cioè il letto si doloroso della croce; morendo vi si addormenta: « Dormiat Morendo ». E mentre è immerso nel sonno profondo della morte, voluta per amore, gli si  apre il fianco, gli si fende il Cuore; « Aperiatur eius latus ». E che n’esce? Ne esce, qual Vergine sposa, la Chiesa a Lui inanellata nel dolore e nel sangue: « Et Ecclesia prodeat Virgo ». Così come dal fianco del primo uomo addormentato nel giardino di delizie si formò la madre dei viventi, Eva, dal fianco squarciato di Cristo addormentato sulla croce, che si innalza sul Calvario, si formò la Chiesa, la madre dei viventi secondo lo spirito: « Ut quomodo Hæva facta est ex latere facta est ex latere Christi in cruce pendentis » Graziosissima immagine ricordata da altri Padri e che la Chiesa tradusse in un linguaggio poetico che merita di essere riportato: « Dal Cuore lacerato di Cristo nasce la Chiesa che a Lui si disposa. Da questo cuore a guisa di settemplice fiume scorre perenne la grazia; affinché nel sangue dell’Agnello imbianchiamo le nostre stole »). E S. Giovanni Crisostomo, contemplando questo Cuore aperto e stillante ancora vivo sangue, rivolto al popolo, un impeto di carità, esclama: « Guarda donde emanano principalmente le acque della fede e della grazia: guarda da qual fonte derivano: esse provengono dalla croce, zampillano dal fianco, dal costato trafitto del nostro Gesù » (In Jann., Hom. 19). E veramente allorchè si aperse questo Cuore, parve atterrato l’ argine, che conteneva l’impeto del fiume d’amore, che traboccò, gittando le ultime gocce di sangue e di acqua, che doveano lavare e nutrire la Chiesa. – Ah! rispondete, o fratelli, questo amorosissimo Gesù svenato poteva più eloquentemente testimoniare la sua carità? Il suo Cuore lo trasse a patire: lo fece correre alla obbrobriosa morte della croce: ve lo conficcò, ve lo tenne, ve lo fece spirare: questo Cuore avea già cessato di palpitare e patire: non avea più filo di vita; era già freddo: ma non avea cessato di amare, anzi più che mai ardeva delle fiamme amorose, già morto vuol essere trapassato da crudel lancia per aprirvi larghissima porta e dare, sarei per dire, l’ultimo sfogo all’affocata sua carità. – Ma il Cuore di Gesù com’è per noi lo strumento e la porta, per cui esce l’amor divino e si spande incessantemente sopra tutti gli uomini, così è anche il termine, a cui noi dobbiamo tendere, la via e la porta per unirci a Dio, il punto, nel quale le anime nostre debbono stringere con Gesù Cristo il loro santo connubio: è la fonte, dice S Bonaventura, delle acque della vita e tu vi accosta le labbra e ti disseta. Ogni cosa tende necessariamente e incessantemente a ricongiungersi alla sua origine. Il pellegrino, che viaggia per terra straniera, sospira di rivedere la patria: il raggio, che batte sullo specchio, torna dritto più su al punto onde si parte: i fiumi discendono al mare donde per altre vie ritornano alle sorgenti: il fiore si volge al sole, che gli apre il seno e lo colora e il sangue, che il cuore spinge e preme per tutto il corpo, al cuore ritorna. L’amore divino a noi discende dal Cuore di Gesù, che ne è la bocca e la porta, come dicevamo: i nostri cuori adunque, attratti dal divino amore, quasi da celeste calamita, devono muoversi verso il Cuore di Gesù e in esso quietarsi come nel naturale lor centro. Io vorrei paragonare il divino amore ad un filo d’oro, col quale Gesù Cristo lega e tira dolcemente a sé i cuori degli uomini: ma questo filo d’oro donde a noi si cala? Dal Cuore di Gesù, perché esso ne è il centro e l’organo: è dunque naturale che gli uomini, legati da questo filo, siano soavemente e fortemente tirati al Cuore di Gesù e a Lui si uniscano. Né è da tacere un’altra verità, che conferma a meraviglia il mio pensiero. È cosa indubitata e manifesta per la quotidiana esperienza, che mezzo sovra ogni altro efficace per muovere altri ad amarci è il mostrar loro che noi gli amiamo: « Amor che nullo amato amar perdona », disse sapientemente il poeta filosofo e teologo: l’amore domanda amore, anzi provoca l’amore in quella stessa misura con cui si ama, Ora in qual guisa e in qual misura ci ha Egli amato Gesù Cristo? Questo Cuore ve lo dice: col suo muto, ma eloquente linguaggio ci chiama, ci invita ad accostarci a Lui, ad entrare in Lui per quella stessa via, per la quale si è dato a noi, come scrive un Santo. Quel Cuore ci narra tutta la storia dell’amore divino e col mostrarcisi ci ripete le bibliche parole: « Figliuolo, dammi il tuo cuore – fili, præbe mihi cor tuum ». E in vero per qual altra ragione Gesù Cristo ci avrebbe dischiusa la porta del suo Cuore se non per mostrarci la via della legge, l’ingresso del cielo? Gesù Cristo nel Vangelo chiama se stesso via e porta: « Ego sum via – Ego sum ostium ». So che Gesù Cristo, appropriandosi quelle parole, designava tutto se stesso e non il solo suo Cuore: so pure che tutte le piaghe della sua sacrosanta Umanità diconsi e sono porte a salvezza nostra aperte: ma so ancora, che se tutta l’Umanità di Gesù Cristo si può e si deve chiamar via e porta degli uomini, lo si dee dire eziandio del Cuore, organo precipuo della vita e membro fra tutti nobilissimo del corpo istesso. Se tutte le ferite del corpo di Gesù sono bocche e porte di misericordia e salute, come non lo è quella del suo Cuore? – Ed io credo che non senza altro mistero Gesù Cristo volesse che l’ultima delle sue ferite fosse quella del Cuore per significare, che tutte le altre erano state aperte dal suo Cuore istesso, ma che sembravano troppo anguste alla sua carità e che questa del Cuore era la via regia, che rimaneva aperta a tutti gli uomini e introduceva nel santuario stesso dell’amore. Gesù ha fatto come colui, che riserba per ultimo il dono più caro e più prezioso, qual compimento e  corona di tutti gli altri. – Qual meraviglia, pertanto, che la Chiesa riconosca adombrato il Cuore di Gesù in quella porta che Noè per ordine di Dio aperse nel fianco dell’Arca noetica, per la quale entrò il Patriarca con tutta la sua famiglia e fu salvo dalle acque del diluvio? Qual meraviglia che i Santi a gara ci esortino ad entrare in questo Cuore per unirci a Dio e santificarci? Essi lo chiamano il tempio della Divinità, il santuario della grazia, come S. Bernardo: lo chiamano l’erario e la miniera inesausta dei doni più eletti, il porto del paradiso, come S. Bonaventura. Essi lo paragonano al nido, in cui la Chiesa qual tortorella gemente ripone e assicura contro le insidie del nemico i suoi teneri nati, finché mettano l’ali e venga il tempo d’inviarli al cielo; così S. Tommaso da Villanova. Essi lo appellano la dimora dei vergini, la rocca in cui si riparano le anime fuggiasche dal mondo, l’asilo della pace, della speranza, il rifugio dei peccatori. – Ah! esclamerò con Agostino: « Longino, il soldato che trafisse il fianco di Gesù, colla sua lancia mi aperse il cuore di Lui; io vi entrerò e vi riposerò sicuro e tranquillo – Longinus mihi aperuit latus Christi et ego intravi et requiesco securus ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps LXVIII: 21

Impropérium exspectávi Cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni

[Obbrobrii e miserie si aspettava il mio Cuore; ed attesi chi si rattristasse con me: e non vi fu; cercai che mi consolasse e non lo trovai.]

Secreta

Réspice, quǽsumus, Dómine, ad ineffábilem Cordis dilécti Fílii tui caritátem: ut quod offérimus sit tibi munus accéptum et nostrórum expiátio delictórum.

[Guarda, Te ne preghiamo, o Signore, all’ineffabile carità del Cuore del Tuo Figlio diletto: affinché l’offerta che Ti facciamo sia gradita a Te e giovi ad espiazione dei nostri peccati].

Præfatio
de sacratissimo Cordis Jesu

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui Unigénitum tuum, in Cruce pendéntem, láncea mílitis transfígi voluísti: ut apértum Cor, divínæ largitátis sacrárium, torréntes nobis fúnderet miseratiónis et grátiæ: et, quod amóre nostri flagráre numquam déstitit, piis esset réquies et poeniténtibus pater et salútis refúgium. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes: Sanctus.

 [È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che hai voluto che il tuo Unigenito, pendente dalla croce, fosse trafitto dalla lancia del soldato, così che quel cuore aperto, sacrario della divina clemenza, effondesse su di noi torrenti di misericordia e di grazia; e che esso, che mai ha cessato di ardere d’amore per noi, fosse pace per le anime pie e aperto rifugio di salvezza per le ànime penitenti. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine: Santo …]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joannes XIX: 34

Unus mílitum láncea latus ejus apéruit, et contínuo exívit sanguis et aqua.

[Uno dei soldati gli aprì il fianco con una lancia, e subito ne uscì sangue e acqua.]

Postcommunio

Orémus.
Prǽbeant nobis, Dómine Jesu, divínum tua sancta fervórem: quo dulcíssimi Cordis tui suavitáte percépta;
discámus terréna despícere, et amáre cœléstia:

[O Signore Gesù, questi santi misteri ci conferiscano il divino fervore, mediante il quale, gustate le soavità del tuo dolcissimo Cuore, impariamo a sprezzare le cose terrene e ad amare le cose celesti:]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ACTUS REPARATIONIS ET CONSECRATIONIS

Iesu dulcissime, cuius effusa in homines caritas, tanta oblivione, negligentia, contemptione, ingratissime rependitur, en nos, ante altaria [an: conspectum tuum] tua provoluti, tam nefariam hominum socordiam iniuriasque, quibus undique amantissimum Cor tuum afficitur, peculiari honore resarcire contendimus. Attamen, memores tantæ nos quoque indignitatis non expertes aliquando fuisse, indeque vehementissimo dolore commoti, tuam in primis misericordiam nobis imploramus, paratis, voluntaria expiatione compensare flagitia non modo quæ ipsi patravimus, sed etiam illorum, qui, longe a salutis via aberrantes, vel te pastorem ducemque sectari detrectant, in sua infìdelitate obstinati, vel, baptismatis promissa conculcantes, suavissimum tuæ legis iugum excusserunt. Quæ deploranda crimina, cum universa expiare contendimus, tum nobis singula resarcienda proponimus: vitæ cultusque immodestiam atque turpitudines, tot corruptelæ pedicas innocentium animis instructas, dies festos violatos, exsecranda in te tuosque Sanctos iactata maledicta àtque in tuum Vicarium ordinemque sacerdotalem convicia irrogata, ipsum denique amoris divini Sacramentum vel neglectum vel horrendis sacrilegiis profanatum, publica postremo nationum delicta, quæ Ecclesiæ a te institutæ iuribus magisterioque reluctantur. Quæ utinam crimina sanguine ipsi nostro eluere possemus! Interea ad violatum divinum honorem resarciendum, quam Tu olim Patri in Cruce satisfactionem obtulisti quamque cotidie in altaribus renovare pergis, hanc eamdem nos tibi præstamus, cum Virginis Matris, omnium Sanctorum, piorum quoque fìdelium expiationibus coniunctam, ex animo spondentes, cum præterita nostra aliorumque peccata ac tanti amoris incuriam firma fide, candidis vitæ moribus, perfecta legis evangelicæ, caritatis potissimum, observantia, quantum in nobis erit, gratia tua favente, nos esse compensaturos, tum iniurias tibi inferendas prò viribus prohibituros, et quam plurimos potuerimus ad tui sequelam convocaturos. Excipias, quæsumus, benignissime Iesu, beata Virgine Maria Reparatrice intercedente, voluntarium huius expiationis obsequium nosque in officio tuique servitio fidissimos ad mortem usque velis, magno ilio perseverantiæ munere, continere, ut ad illam tandem patriam perveniamus omnes, ubi Tu cum Patre et Spiritu Sancto vivis et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione, sacra Communione et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitatione, si quotidie per integrum mensem reparationis actus devote recitatus fuerit.

Fidelibus vero, qui die festo sacratissimi Cordis Iesu in qualibet ecclesia aut oratorio etiam (prò legitime utentibus) semipublico, adstiterint eidem reparationis actui cum Litaniis sacratissimi Cordis, coram Ssmo Sacramento sollemniter exposito, conceditur:

Indulgentia septem annorum;

Indulgentia plenaria, dummodo peccata sua sacramentali pænitentia expiaverint et eucharisticam Mensam participaverint (S. Pæn. Ap., 1 iun. 1928 et 18 mart. 1932).

[Indulg. 5 anni; 7 anni nel giorno della festa – Plenaria se recitata per un mese con Confessione, Comunione, Preghiera per le intenzioni del Sommo Pontefice, visita di una chiesa od oratorio pubblico. –

Nel giorno della festa del Sacratissimo Cuore di Gesù, 7 anni, e se confessati e comunicati, recitata con le litanie de Sacratissimo Cuore, davanti al SS. Sacramento solennemente esposto: Indulgenza plenaria].

LA PARUSIA (10)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (10)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE – Rue de Rennes, 117 – 1920

ARTICOLO DECIMO

Ci si può chiedere, così come sono state spiegate le cose nell’articolo precedente, da dove possa essere venuta l’opinione, così antica e così diffusa, che vedeva e vede ancora, nell’Apocalisse, solo un quadro profetico della fine del mondo e dei suoi prodromi. A questo risponderei che hanno avuto qui la loro influenza molte cause di vario genere, ma che se vogliamo risalire all’origine, troveremo due ragioni principali, alle quali le altre si possono facilmente ridurre. La prima aveva solo il valore di un pregiudizio. Consisteva nella persuasione per cui i destini del mondo erano legati a quelli di Roma; in altre parole, che l’Impero Romano non poteva avere altra fine che quella dell’universo. Ecco perché, essendo la rovina dell’Impero così chiaramente prevista nell’Apocalisse, si concluse naturalmente che i tempi apocalittici non potevano essere che quelli del declino definitivo, e dell’ultima fine delle cose (« Tutto ci mostra – scriveva Lattanzio, in De divin, instit. Lib., VII, c. 25 – che la rovina suprema non è lontana: e che non sembra essere da temere finché Roma è in piedi. Ma appena questa testa del mondo è caduta, chi può dubitare che essa non sia arrivata? Illa, illa est civitas quæ adhuc sustentat omnia. » E tale è anche il sentimento di Tertulliano, di Sant’Ottato, di San Girolamo e di molti altri. È perché lo splendore di Roma, la loro patria, si era imposto su di loro in tal modo da far loro credere che ci fosse un legame necessario tra il mantenimento della civiltà quaggiù e la conservazione dell’Impero; che la rovina dell’Impero non poteva che essere la distruzione dei quadri della società umana ed il segnale della decomposizione universale; e di conseguenza, che l’Impero che teneva il mondo sotto il suo potere, era precisamente il misterioso ostacolo alla venuta dell’Anticristo di cui parla San Paolo nella Seconda ai Tessalonicesi, quando dice (II, 6): Et nunc quid detineat scitis, ecc., Vedi Bossuet, Prefazione su l’Apocalisse, n. 22.). –  Ma a questa prima ragione se ne aggiunse una seconda, che, tratta dal testo stesso della profezia, doveva sopravvivere alla smentita che gli eventi hanno da tempo preso a dare alla prima. Dall’inizio alla fine delle predizioni di San Giovanni, troviamo, mescolati alle visioni che si svolgono una dopo l’altra come le varie scene di un unico dramma, quadri e descrizioni che sembrano riferirsi, volenti o nolenti, al giudizio finale ed al crollo totale del mondo. Così, per esempio, proprio all’inizio, subito dopo l’apertura dei primi sei sigilli (VI, 12-17), le grandi calamità, i cui dettagli saranno sviluppati nei capitoli seguenti, non appena sono mostrate in modo confuso e come a grandi linee, il sole diventa già nero come un sacco di crine, la luna come di sangue, le stelle cadono dal cielo come i fichi verdi cadono da un fico scosso da un forte vento; il cielo scompare come un libro arrotolato, e tutti i monti e le isole sono sradicati dai loro posti; i re della terra, i principi, gli ufficiali di guerra si nascondono nelle caverne e dicono ai monti: “Cadete su di noi e nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello”. – Più avanti (XI, 18), al suono della settima tromba, mentre, secondo noi, San Giovanni non farebbe che descrive solo le persecuzioni romane, quella di Diocleziano in particolare, che avrebbero portato su Roma i grandi castighi che abbiamo visto, sentiamo i ventiquattro anziani adorare Dio dicendo: Ti ringraziamo, Signore Dio Onnipotente, che sei e che eri, che ti sei rivestito della tua grande potenza… Le nazioni sono adirate ed è venuto il tempo della tua ira, il tempo di giudicare i morti, di dare la ricompensa ai profeti tuoi servi e a quelli che temono il tuo nome, e di distruggere coloro che hanno corrotto la terra. Più avanti (XVI, 18-21), quando, con la settima coppa, viene il tempo dell’esecuzione della grande Babilonia, tutte le isole fuggono, le montagne scompaiono, ed enormi massi di grandine del peso di un talento cadono dal cielo sugli uomini. Così è sempre e ovunquelo stesso cataclisma completo e universale: tutto perisce, tutto crolla, tutto va in rovina, e l’immagine funerea del grande giorno dell’ira che apre e chiude la prospettiva, si proietta anche da un capo all’altro, su tutto il quadro. Come non vedere chiaramente indicato da questo il vero soggetto delle predizioni dell’Apocalisse? Così, almeno, ne giudicheranno facilmente coloro che non sono molto versati nella lettura dei profeti, e che non hanno molta familiarità con il genere proprio della Scrittura, limitandosi alla pura e semplice materialità della lettera. Ma un’esegesi ben informata non avrà difficoltà a riformare questo giudizio, e per ridurre i testi citati al loro vero valore, basteranno alcune brevi osservazioni. – Bisogna considerare prima di tutto che le immagini più forti usate qui da San Giovanni sono prese dagli antichi profeti, specialmente da Isaia ed Osea, nelle loro descrizioni delle calamità, certamente ben distinte dalla suprema catastrofe mondiale, che Dio doveva scatenare contro i nemici di Israele, o contro Israele stesso. Così, nell’annuncio della futura devastazione di Babilonia da parte dei Medi e dei Persiani, noi leggiamo (Isaia, XIII, 10): « Ecco, il giorno del Signore è venuto a fare un deserto della terra e a sterminarne i peccatori; perché le stelle del cielo non brilleranno più, il sole si è oscurato al suo sorgere e la luna non darà più la sua luce… Ecco, io solleverò i Medi contro di loro… e Babilonia, la gloria dei superbi Caldei, sarà come Sodoma e Gomorra… » E più avanti, nel giudizio contro gli Idumei (Isaia, xxxiv, 4): « I loro morti saranno gettati via senza sepoltura e le montagne si scioglieranno nel loro sangue. I cieli saranno arrotolati come un libro, e tutto il loro esercito cadrà come cade la foglia appassita e avvizzita del fico; perché la mia spada si è ubriacata nei cieli, ed ecco, essa scende su Edom, che ho votato  allo sterminio per giudicarlo. E nell’annuncio del castigo che Israele si era procurato con le sue idolatrie (Osea, x, 8): « Gli alti luoghi dell’idolo di Bethel, il peccato d’Israele, saranno distrutti; allora diranno ai monti: Coprici, e alle colline: Cadici addosso. » La stessa cosa in Ezek. xxvi, 15-18, e XXXII, 7-8. Lo stesso in Gioele, II, 10-11, anche se sia nell’uno che nell’altro è sempre una questione di disastri particolari, come la rovina di Tiro, o dell’impero dei Faraoni, o del regno di Giuda sotto Nabucodonosor. Questi tipi di dipinti di grandi calamità pubbliche, per quanto sproporzionati al loro oggetto possano sembrarci, erano nel gusto e nel genio dell’Oriente, e quando San Giovanni, il profeta del Nuovo Testamento, dipinge con gli stessi colori le piaghe che dovevano preparare o accompagnare il ristabilimento del Cristianesimo nel mondo, non farà altro che continuare la maniera dei suoi predecessori, i profeti del Vecchio Testamento. – Ma ecco una seconda osservazione che deve essere aggiunta alla precedente per completarla e chiarirne meglio il significato. Dicendo che le descrizioni di cui sopra si riferivano direttamente e immediatamente a catastrofi che la storia ha registrato da tempo nei suoi annali, non intendiamo in alcun modo negare che esse si riferissero anche in qualche modo a quel grande giorno che porrà fine all’esistenza terrestre dell’umanità e a tutto l’attuale ordine dell’universo. La ragione di ciò risiede nell’abitudine costante della Scrittura, che è stata sottolineata più volte nel corso di questo studio, di unire le cose figurate alle loro figure: di tracciare, per esempio, schizzi del futuro giudizio del mondo attraverso il reticolo di eventi che, nel corso dei secoli, dovevano esserne le immagini; inoltre, e questo è qualcosa che non sarà mai sottolineato abbastanza, di vedere in questi stessi eventi una prima esecuzione del grande e terribile dramma rappresentato da essi e in essi. Non ci sarà dunque ragione di mettere in dubbio il significato, precedentemente stabilito su prove solide, della prima e principale parte delle predizioni apocalittiche, sotto il pretesto che vediamo qua e là, mescolate incidentalmente, allusioni più o meno trasparenti al giudizio finale, o addirittura, in uno dei tre passi citati sopra (XI, 18), la menzione formale ed espressa della sua venuta. Ma l’unica conclusione da trarre sarà quella a cui la maniera abituale della Scrittura conduce naturalmente, e che è confermata dall’accordo dei suoi interpreti più autorizzati: « San Giovanni – ci diranno – unisce l’ultimo giudizio a quello che doveva essere esercitato su Roma, come Gesù Cristo aveva fatto nel predire la rovina di Gerusalemme. È l’abitudine della Scrittura di unire le figure alla verità. » Infine, bisogna notare, come tesi ancora più generale, che una stessa profezia può avere diversi significati: uno, vicino e immediato, già realizzato; l’altro, lontano e mediato, ancora nascosto nelle profondità del futuro. Abbiamo visto esempi di questo sopra, sia nella profezia di Daniele sulla persecuzione di Antioco (Dan., XI, 30 segg.), o in quella di Nostro Signore stesso sull’abominio della desolazione posto nel luogo santo (Matth., XXIV, 15 segg.), e niente sarebbe più facile che estendere la lista all’infinito. Ma senza bisogno di fare qui un maggior dispendio di erudizione, chi non avrebbe presente nella sua memoria la risposta di Gesù ai suoi discepoli che lo interrogavano sulla venuta di Elia, predetta dal Signore, e chi non avrebbe potuto ricordare la risposta di Gesù ai suoi discepoli che lo interrogavano sulla venuta di Elia, predetto da Malachia nell’ultima pagina degli oracoli del Vecchio Testamento (IV, 5-6)? « È vero –  disse loro – che Elia deve venire e che ristabilirà tutte le cose; ma io vi dico che Elia è già venuto ed essi non lo hanno conosciuto. » Così, con l’adempimento di una stessa profezia, Elia era già venuto e … doveva ancora venire. Egli era già venuto nella persona di San Giovanni Battista: questo è il primo senso già adempiuto, come vediamo nel Vangelo di San Luca (Luca, I:17: « Egli (Giovanni Battista) convertirà molti dei figli d’Israele al Signore loro Dio, ed egli stesso lo precederà nello spirito e nella potenza di Elia…, per preparare al Signore un popolo perfetto »). Egli doveva venire ancora: questo è il secondo significato, il cui mistero solo gli ultimi giorni del mondo potranno chiarire (Vedi Bossuet, Prefazione sull’Apocalisse, n. 15, 2). Se, dunque, l’esistenza nella Scrittura di profezie con significati multipli è così ben provata, che meraviglia sarebbe se anche la profezia di San Giovanni appartenesse a questa categoria? Che meraviglia se, fermo restando il significato primordiale precedentemente stabilito, avesse anche un altro significato, strettamente escatologico, il cui compimento sarebbe riservato all’estrema fine dei secoli? Certamente, troverà in esso dei difetti solo chi non ha un’idea corretta della capacità di comprensione di un libro che i Padri ci danno come pieno di segreti ammirevoli, e molto più, come contenente, secondo la forte espressione di San Girolamo, infiniti misteri del futuro, infinita futurorum mysteria continentem (S. Gerolamo, L. I contr, Jovin., n, 26). Per questo Bossuet, il cui modo di vedere le predizioni apocalittiche è ben noto, non manca di aggiungere: « Tuttavia, Dio non voglia che qualcuno immagini che con questa spiegazione (quella che propone, e che noi stessi abbiamo seguito), abbiamo esaurito il significato di un libro così profondo. Non dubitiamo che lo Spirito di Dio abbia saputo rintracciare in una storia ammirevole (delle prime sofferenze della Chiesa), un’altra storia ancora più sorprendente (delle sue ultime lotte), e, in una predizione, un’altra predizione ancora più profonda. Ma lascio la spiegazione a coloro che vedranno più da vicino il regno di Dio, o a coloro ai quali Dio darà la grazia di scoprirne il mistero. » Questa è una riserva saggia e prudente, come possiamo vedere, e alla quale faremo bene ad attenerci, senza affermare nulla su questo significato futuro, ma senza nemmeno negare nulla, attaccandoci esclusivamente a ciò che è importante per i nostri scopi, cioè il primo significato, prossimo e immediato, che può essere considerato come dimostrato e acquisito, qualunque altra cosa possiamo pensare o congetturare sull’altro. – E questo senso ci presenta, dal capitolo VI al capitolo XIX compreso, tutta la successione dei giudizi di Dio sui primi persecutori: Giudei animati dall’odio di Colui che avevano crocifisso, o Gentili che sostenevano l’idolatria con cui Satana teneva il mondo soggetto alle sue leggi. Mette davanti ai nostri occhi la nascita lunga e dolorosa di questo figlio maschio del capitolo XII, che doveva governare tutte le nazioni con uno scettro di ferro, e non era altro che il Cristianesimo emergente e vigoroso, Un grande prodigio apparve in cielo: una donna (figura della Chiesa)… Era grassa e gridava per i dolori della morte. Un’altra meraviglia apparve in cielo: un grande drago rosso (figura del diavolo)… E questo drago stava davanti alla donna che stava per partorire, per divorare suo figlio appena partorito. Ed ella partorì un figlio maschio, ecc. “. Infine, ci offre il quadro degli eventi attraverso i quali Dio, per una provvidenza ammirevole, ha condotto la sua Chiesa ai suoi inizi, per farla trionfare, dopo la grande prova del battesimo di sangue, “non solo in cielo, dove ha dato gloria immortale ai suoi martiri, ma anche sulla terra, dove l’ha stabilita con tutto lo splendore che le era stato promesso dai profeti (Isaia, XIX, 2 3; LX, 1-6; Dan., n, Vi, ecc.) “Ed è di tutte queste cose che San Giovanni disse molto giustamente ed esattamente che sarebbero avvenute presto (i, i, e XXII, 6), perché in effetti la sequenza di eventi qui profetizzata, pur estendendosi molto nel futuro, avrebbe tuttavia cominciato a svolgersi dal giorno dopo, per così dire, la rivelazione apocalittica: cioè, come già detto, dal regno di Traiano, l’immediato successore di Domiziano, dal quale il santo Apostolo era stato condannato alla pentola di olio bollente, e dopo la sua miracolosa conservazione, all’esilio. Sulla vera data dell’Apocalisse, che i razionalisti, contro la testimonianza di tutta l’antichità, fanno risalire all’anno 69 della nostra era, prima della rovina di Gerusalemme, vedi Bossuet, Apoc, 1, versetto. 9). Da ciò consegue, infine, che l’argomento che i critici modernisti pretendevano di derivare da quæ oportet fieri cito, cade di per sé come partendo da un immaginario presunto, e andrà così ad ingrossare la lista delle ragioni precedentemente confutate, le cui apparenze speciose non potrebbero che far meglio emergere la vera inanità.

L’ultima difficoltà che rimane sono le ripetute assicurazioni di una prossima venuta, poste alla fine sulla bocca di Gesù o, il che equivale alla stessa cosa, sulla bocca dell’Angelo che parla in nome e nella persona di Gesù: “Ecco, io vengo presto” (XXII, 7); “Sì, io vengo presto” (XXII, 20); “Io vengo presto, e la mia ricompensa è con me per rendere ad ogni uomo secondo le sue opere” (XXII, 12). È vero che dopo tante spiegazioni già date sui due modi in cui la Scrittura è solita prevedere la parusia, o nel giudizio generale dell’umanità nell’ultimo giorno del mondo, o prima, nel giudizio particolare di ogni individuo nell’istante immediatamente successivo alla sua morte, la difficoltà dovrebbe essere considerata come ormai classificata, risolta, e definitivamente svuotato. Tuttavia, non ci dispiace riportare un’ultima precisazione che, presa in prestito dallo stesso libro dell’Apocalisse, avrà il doppio vantaggio di combattere l’obiezione con la fonte stessa da cui è tratta, e di distruggere sempre più radicalmente le fallacie dell’esegesi razionalista in materia escatologica.

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Il luogo principale, tornando al nostro argomento, è in questo capitolo XX, dove, dopo la caduta della grande Babilonia, i tempi della pace della Chiesa sono sommariamente descritti a grandi linee, come è stato detto prima, così come il regno dei suoi martiri, la cui gloria celeste non manca di essere prolungata sulla terra dagli onori che sono resi loro e dai miracoli che Dio opera per mezzo della loro intercessione. – San Giovanni ci ha appena mostrato un Angelo che scende dal cielo, afferra il dragone, il serpente antico che è il diavolo e satana, lo lega per mille anni e lo rinchiude nell’abisso, per togliergli il potere di sedurre le nazioni come era riuscito a fare ai tempi del dominio universale dell’idolatria. Dopo di che continua (XX, 4-6): Ho visto anche dei troni sui quali sedevano coloro ai quali era stato dato il potere di giudicare; ho visto le anime di coloro ai quali è stato tagliato il capo per aver reso testimonianza a Gesù e per la parola di Dio…, ed essi han vissuto e regnato mille anni con Gesù Cristo. Gli altri morti non hanno avuto vita fino al compimento dei mille anni. Questa è la prima resurrezione. Beato e santo è colui che partecipa alla prima risurrezione; la seconda morte non avrà potere su di loro, ma saranno sacerdoti di Dio e di Cristo, e regneranno con lui per mille anni. Tale è l’immagine che San Giovanni ci presenta della gloria e della felicità dei Santi, ancora allo stato di anime separate, durante il periodo ora in corso, intermedio tra la loro partenza da questo mondo e il giudizio finale. Ho detto, nello stato di anime separate. Infatti, ciò che è importante notare prima di ogni altra cosa in questo quadro è che sono le anime ad esserne il soggetto: anime senza corpo, le anime dei decapitati, ai quali sono attribuiti troni, e questo per significare che già da ora, dai giorni presenti, mentre i loro resti giacciono ancora nelle profondità dei loro sepolcri – e quindi, molto prima che sia giunta la consumazione dei tempi – essi sono associati alla beatitudine e alla gloria di Gesù Cristo, così come ai giudizi che nel corso dei secoli, Egli esercita sul mondo: et vidi sedes. …et animas decollatorum… et vixerunt et regnaverunt eum Christo mille annis – (Questo, per dirlo di sfuggita, è già sufficiente a distruggere l’errore dei millenaristi, i quali, basandosi su questo passo dell’Apocalisse, dove vediamo dal principio alla fine, regnare con Gesù Cristo, solo le anime, ammettevano prima della resurrezione generale della carne nell’ultimo giorno del mondo una resurrezione anticipata per i martiri, ed un regno visibile di Gesù Cristo con loro per mille anni sulla terra, in una Gerusalemme ricostruita con nuovo splendore, che essi credevano essere la Gerusalemme descritta da San Giovanni nel capitolo XXI; « Papias, un autore molto antico, ma di mente molto piccola, avendo considerato troppo grossolanamente certi discorsi degli Apostoli che i loro discepoli gli avevano riferito, introdusse nella Chiesa quel regno di Gesù Cristo per mille anni in una Gerusalemme terrena magnificamente ricostruita, dove la gloria di Dio avrebbe brillato in modo mirabile, dove Gesù Cristo avrebbe regnato visibilmente con i suoi martiri risorti, dove alla fine tuttavia i santi sarebbero stati attaccati, e i loro nemici consumati dal fuoco del cielo, dopo di che la resurrezione generale e l’ultimo giudizio avrebbero avuto luogo ». Così Bossuet parla di un opinione che Sant’Agostino dalla sua parte, nella sua Città di Dio. libro XX, c, 7, tratta giustamente come un equivoco scritturale, poi trasformato in ridicole favole: De duabus resurrectionibus, dice, Joannes in libro Âpocalynsis, eo modo locutus est, ut earum prima a quibusdam nostris non iniellecta, insuper etiam in quasdam ridicutus fabulas verieretur. Infatti, chiunque legga ciò che i migliori e più rispettabili dei suoi sostenitori hanno scritto, come per esempio Sant’Ireneo (liv. V, c. 33, P, G., t. VII, col. 1213 sqq.), e Lattanzio (liv. VII De divin. Instit. c, 24, 25, 26, P. L., t. vi, col. 808-814) dovrà concordare sull’intera correttezza della censura. Perciò la suddetta opinione non poté resistere a lungo alla critica illuminata, e scomparve così tanto « nella grande luce del quarto secolo » che non se ne vede quasi più traccia. Ma fu riservato ai protestanti del XVII secolo il compito di farla risorgere dalle sue ceneri, e fu l’odio della Chiesa romana che li determinò a farlo. Infatti, poiché nell’Apocalisse, il regno millenario viene dopo il giudizio e l’esecuzione della grande meretrice, che secondo loro non era altro che la Chiesa romana in persona, essi pensavano di fare una cosa meravigliosa resuscitando l’antica favola millenarista, per l’opportunità che dava loro di promettere ai loro aderenti il futuro più luminoso, dopo la caduta del Papato, che annunciavano come prossima. Che i cattolici, dunque, nei quali si è risvegliato ai nostri giorni il gusto per le prodigiose fantasie di Fapias, notino di sfuggita “in quale bottega” (ci si perdoni la parola che la bella lingua di Bossuet non ha ripudiato), sono stati raccolti e rimessi in onore i resti di essa. Inoltre, il millenarismo, comunque lo si spieghi, sia con Papias che con Cerinto, è un grave errore che è apertamente condannato dai dati più formali della Scrittura. Infatti la Scrittura ci insegna: primo, che il cielo debba contenere Gesù Cristo fino all’ultimo giudizio (Atti, III, 21); secondo, che il giorno della seconda venuta e quello della fine del mondo sono uno stesso giorno (Matth, XXIV, 29-31; Marco XIII, 24-26, ecc.); in terzo luogo, che tutti i morti, e specialmente tutti i Santi, tutti i giusti, tutti gli eletti, risorgeranno allo stesso tempo, cioè in novissimo die (Joan, VI, 39, 44, 55), al suono dell’ultima tromba (I Cor, XV, 51), al segnale dato, alla voce dell’Arcangelo, mentre il Signore stesso scende dal cielo (1 Thess., IV, 16), Così che sarebbe più che giusto lasciare agli interpreti protestanti, se ce ne sono rimasti, quei “resti delle opinioni giudaiche”, che la luce della Chiesa ha interamente dissipato negli ultimi sedici secoli.) – Di conseguenza, la prima resurrezione di cui è detto, hæc est resurrectio prima, deve anche essere intesa come una resurrezione che può essere adatta solo alle anime: cioè, la resurrezione che ha avuto inizio con la giustificazione, secondo le parole dell’apostolo agli Efesini: « Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti, e Cristo ti darà la luce », è completata, perfezionata e consumata alla fine di questa vita presente, dall’ingresso nella vita eterna nella visione di Dio. (Sulla resurrezione delle anime, vedi S. Agostino, Città di Dio, lib. XX, c. 10, dove mostra cosa si debba rispondere a coloro che pensano che la resurrezione è detta solo dei corpi, e non possa convenire alle anime). E questa risurrezione è chiamata la prima, perché deve essere seguita, ma solo nell’ultimo giorno del mondo, da una seconda risurrezione, quella della carne, secondo quanto è detto più avanti, nella tavola del giudizio generale che chiude tutta la serie delle predizioni apocalittiche (« La seconda risurrezione, cioè la risurrezione dei corpi che avrà luogo alla fine dei tempi », dice Sant’Agostino, loc. cit. c. 6, in accordo con Apocalisse XX, 12-13, dove si legge … poi vidi un grande trono pieno di luce e Colui che era seduto su di esso… E vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono. E i libri furono aperti, e fu aperto un altro libro, che è il libro della vita; e i morti furono giudicati secondo ciò che era scritto nei libri, secondo le loro opere. Il mare consegnò i suoi morti, la morte e l’inferno consegnarono i loro, e furono giudicati ciascuno secondo le proprie opere.). Per di più, i mille anni che il regno dei Santi deve durare prima che i loro corpi siano ripresi, non devono essere considerati come un numero preciso e determinato di anni. No – dice Sant’Agostino – il numero di mille è usato qui per esprimere la totalità del tempo che deve passare fino alla fine dei secoli, ed è preso nello stesso senso riportato in quel luogo del Salmo CIV, versetto 8, dove si dice che Dio si ricorda eternamente della sua alleanza e della parola che ha dato « per mille generazioni »; cioè, senza difficoltà, per tutte le generazioni che si succederanno nel futuro (Sant’Agostino, loc. cit., c., 7, n. 2). Se, infine, la prima risurrezione è particolarmente attribuita ai martiri, la ragione è, come osserva sempre Sant’Agostino, che i martiri che hanno combattuto per la verità fino allo spargimento del loro sangue ne hanno naturalmente la parte principale. Ma secondo la figura retorica che consiste nel prendere la parte, specialmente la parte più eccellente e riconosciuta, per il tutto, dobbiamo senza dubbio intendere nella persona dei martiri, l’universalità dei morti che la voce che scende dal cielo designava poco più sopra (XIV, 13), come « morenti nel Signore » (S. Agostino, loc. cit., c. 9, n, 2). Tutti, infatti, appartengono ugualmente a Cristo; tutti sono diventati la sua eredità e il suo regno per sempre; tutti anche, e allo stesso modo, sono separati dai caeteri mortuorum del versetto 5: i quali, esclusi dalla prima risurrezione, saranno di conseguenza esclusi anche dalla seconda, essendo la risurrezione dell’ultimo giorno per loro solo una risurrezione di condanna, aggiungendo la dannazione del corpo a quella dell’anima, e gettando così l’intero uomo in quella che qui è giustamente chiamata la seconda morte (Come la prima risurrezione è quella in cui i Santi sono glorificati nell’anima, e la seconda quella in cui sono glorificati sia nel corpo che nell’anima; così la prima morte è quella in cui le anime sono sepolte con il “malvagio ricco” nell’inferno, e la seconda, quella che seguirà la risurrezione, in cui l’uomo intero, in corpo e anima, andrà, come è detto in San Matteo, XXV, 46, al tormento eterno). – Perciò San Giovanni, dopo aver detto: « Beato e santo colui che partecipa alla prima risurrezione », aggiunge immediatamente: « La seconda morte non avrà alcun effetto su  di loro »: La seconda morte non avrà alcun potere su di loro, implicando che si sfugge alla seconda morte, che non è altro che la morte consumata ed eterna, solo a condizione di aver partecipato alla prima risurrezione, e che di conseguenza i partecipanti alla suddetta risurrezione sono tutti i giusti, tutti gli eletti di Dio, in quanto, avendo completato il loro cammino, entrano nella loro eternità – (In questa descrizione della prima risurrezione, si fa sempre astrazione dai ritardi che possono essere richiesti dalle espiazioni del purgatorio, per due ragioni principali: la prima è che sono i martiri l’obiettivo principale del testo di San Giovanni, e che solo loro sono esplicitamente designati in esso; ma per i martiri non si può parlare di purgatorio. La seconda è che la prima risurrezione deve essere considerata qui, non secondo le condizioni accidentali, contingenti, infinitamente variabili di persone particolari, ma solo secondo la regola stabilita dalla volontà antecedente di Dio, che afferma che dopo la consumazione della nostra redenzione mediante la passione di Gesù Cristo, le anime dei Giusti, sono ammesse alla vita eterna subito dopo la fuoriuscita dal corpo, salvo impedimento da parte loro, cosa che significa che è in questo momento che deve essere considerato, come tesi assoluta nel Nuovo Testamento, l’ingresso dei Santi nella beatitudine qualunque possano essere sia i ritardi più o meno lunghi imposti in casi particolari, per colpe che non sono state sufficientemente espiate nella vita presente da degni frutti di penitenza). – Perciò San Giovanni, dopo aver detto: « Beato e santo colui che partecipa alla prima risurrezione », aggiunge immediatamente: « La seconda morte non avrà alcun effetto su  di loro »: La seconda morte non avrà alcun potere su di loro, implicando che si sfugge alla seconda morte, che non è altro che la morte consumata ed eterna, solo a condizione di aver partecipato alla prima risurrezione, e che di conseguenza i partecipanti alla suddetta risurrezione sono tutti i giusti, tutti gli eletti di Dio, in quanto, avendo completato il loro cammino, entrano nella loro eternità – (In questa descrizione della prima risurrezione, si fa sempre astrazione dai ritardi che possono essere richiesti dalle espiazioni del purgatorio, per due ragioni principali: la prima è che sono i martiri l’obiettivo principale del testo di San Giovanni, e che solo loro sono esplicitamente designati in esso; ma per i martiri non si può parlare di purgatorio. La seconda è che la prima risurrezione deve essere considerata qui, non secondo le condizioni accidentali, contingenti, infinitamente variabili di persone particolari, ma solo secondo la regola stabilita dalla volontà antecedente di Dio, che afferma che dopo la consumazione della nostra redenzione mediante la passione di Gesù Cristo, le anime dei Giusti, sono ammesse alla vita eterna subito dopo la fuoriuscita dal corpo, salvo impedimento da parte loro, cosa che significa che è in questo momento che deve essere considerato,, come tesi assoluta nel Nuovo Testamento, l’ingresso dei santi nella beatitudine qualunque possano essere sia i ritardi più o meno lunghi imposti in casi particolari, per colpe che non sono state sufficientemente espiate nella vita presente da degni frutti di penitenza). – Questo, dunque, è ciò che l’Apocalisse ci insegna su questa fase di transizione in cui i Santi, e specialmente i martiri, morendo sulla terra, inizieranno prima una nuova vita in cielo come anime benedette. Qui abbiamo sollevato un angolo del velo che nascondeva le condizioni misteriose della loro esistenza postuma da questo momento fino alla resurrezione finale. Non si ragiona, dunque, come se non ci fosse altra venuta di Gesù con la sua ricompensa se non quella che avverrà nella gloria e maestà alla consumazione dei tempi, o come se fosse di questa venuta che la parola contestata sarebbe necessariamente da intendere: « Ecco, io vengo presto, e la mia ricompensa è con me, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. » Ma no! L’Apocalisse suppone una prima venuta di Gesù, segreta e invisibile, per il giudizio e la ricompensa delle anime secondo i meriti delle loro opere, appena lasciano il corpo. Il quadro che abbiamo appena visto, in cui i Santi sono già ammessi da Gesù a condividere il suo regno, già accolti per sedere sul suo trono, già messi in possesso della beatitudine celeste, testimonia apertamente questo, salvo il complemento finale della resurrezione del corpo ed una certa gloria accidentale, riservata all’ultimo giorno. Hæc est resurrectio prima. Questa è la prima resurrezione mostrata a San Giovanni nella famosa visione del regno dei mille anni.

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Ma questo non è l’unico posto nell’Apocalisse dove viene menzionata questa prima venuta di Gesù con la sua ricompensa. All’inizio del libro, tra gli avvertimenti che San Giovanni riceve l’ordine di scrivere alle chiese, Gesù dice all’Angelo della chiesa di Smirne, in previsione della persecuzione che doveva venire (II, 10): « Sii fedele fino alla morte, e senza indugio, appena sarà giunta la fine della tua prova, ti darò la corona della vita. » Dice ancora, poche righe più giù, nel passo parallelo dell’epistola alla chiesa di Tiatira (II, 26-28): « A colui che conserva le mie opere fino alla fine, io darò la stella del mattino. » E cos’è la stella del mattino? Apparentemente, la beatitudine della gloria eterna, anche se non ancora nella sua pienezza, dove sarebbe paragonata al sole di mezzogiorno, ma nella sua fase iniziale, e per così dire, mattutina, cioè prima del giudizio generale e dell’ultima risurrezione. E questa beatitudine iniziale prima del giudizio generale e della risurrezione finale, propria delle anime ancora separate dai loro corpi, San Giovanni non si stanca di portarla alla nostra attenzione. – Vi ritorna costantemente, e in così tanti modi diversi, che dobbiamo vedere in esso uno dei punti più salienti di questo libro divino dell’Apocalisse, e uno dei suoi tratti più caratteristici. Vi ritorna in particolare nel capitolo VI, ai versetti 9-11, dove ci si presentano le anime (e si noti che sono sempre anime), le anime dei martiri, animas interfectorum, alle quali, in attesa che sia fatta giustizia ai loro persecutori, vengono date vesti bianche, simbolo della gloria che già godono in cielo. «Vidi – dice – sotto l’altare le anime di coloro che erano stati sacrificati per la parola di Dio e per rendergli testimonianza…, e a ciascuno di loro fu data una veste bianca, dicendo loro che aspettassero il resto, finché fosse completato il numero di coloro che servivano Dio come loro, ed il numero dei loro fratelli che dovevano soffrire la morte come loro. » Vi ritorna di nuovo nel capitolo successivo (VII, 9-17), dove ci mostra questi … stessi martiri con le loro vesti bianche e le palme in mano, in piedi davanti al trono di Dio, servendolo giorno e notte nel suo tempio, senza più fame, sete o alcun tipo di disagio, perché l’Agnello che è in mezzo al trono sarà il loro pastore, e li condurrà alle fonti delle acque vive, e Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. – Torna su questo, e ancora più espressamente, ancora nel capitolo XIV, dove ci fa sentire la voce che lui stesso ha sentito, la voce dal cielo che dice: « Beati i morti che muoiono nel Signore: d’ora in poi, dice lo Spirito, si riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono. Amodo jam dicit Spiritus ut requiescant et laboribus suis. D’ora in poi, dice, come per combattere formalmente e direttamente l’idea che Gesù sarebbe venuto con la sua ricompensa solo alla fine dei secoli. No, no! amodo: già da ora, da subito dopo la morte, dal giudizio particolare: che già giustifica ampiamente la venio cito, venio velociter, dell’ultima pagina del libro, pur lasciando, come si vede, il campo assolutamente libero a tutte le ipotesi possibili circa il tempo dell’arrivo in gloria e maestà sulle nuvole del cielo, per la chiusura dei tempi e la resurrezione generale dei morti, per la solennità delle grandi assise dell’umanità, per il giudizio pubblico del mondo, per la consumazione finale dei castighi e delle ricompense, in breve … per il completamento ed il regolamento finale di tutte le cose e gli affari di quaggiù. Questo è detto senza pregiudicare un altro significato, dove il venio cito si riferirebbe anche all’ultima venuta che realizzerà, con l’ultimo giudizio, il rinnovamento universale del cielo e della terra di cui parla San Pietro nella sua seconda epistola c. III, 10-13. (Ma in questo caso, il termine cito sarebbe preso, ovviamente, non in relazione alla durata degli individui, ma alla durata totale del mondo dalle sue prime origini. E anche per questo motivo, si troverà facilmente che mille anni sono come un giorno). Questo, se non ci sbagliamo, è molto più di quanto sia necessario per mostrare quanto infondate, quanto contrarie ai dati più solidi della Scrittura, siano le famose posizioni dei modernisti sulla parusia, la pietra angolare di tutto il loro sistema di interpretazione del Vangelo. Questo era quello che volevamo dimostrare. E se, concludiamo con l’autore del secondo libro dei Maccabei, la presentazione degli argomenti è stata ciò che serviva per generare convinzione nella mente del popolo, avremo raggiunto lo scopo dei nostri sforzi. Se, invece, essa è rimasto imperfetta e difettosa, possiamo solo incolpare l’inabilità del dimostrante.

F I N E

L’INFALLIBILITA’ DEL PAPA (II)

UNA LEZIONE DI CATECHISMO: L’INFALLIBILITÀ DEL PAPA (II)

H. MONTROUZIER. S. J.

[Lettera sul futuro Concilio ecumenico. In Rév. Des  Sc. Eccl. 3a SERIE, T. I.  — APRILE 1870.]

III.

D. Come mai, però, diversi Pontefici sono accusati di aver sbagliato nella definizione delle questioni di fede?

R. « La costante applicazione dei nemici dell’autorità dei sovrani Pontefici si è sempre esercitata nel trovare errori nelle loro definizioni: ma essi non hanno mai potuto scoprire alcun errore contro i dogmi, che sia stato enunciato da alcun Romano Pontefice, come Pontefice e Dottore della Chiesa. » Così dice S. Liguori (P. Jacques, op. cit., p. 171). Non potendo seguire il santo Vescovo nello sviluppo delle sue prove, mi limito ad una breve riflessione sui Pontefici più gravemente incriminati, che sono i Papi San Liberio, Vigilio e Onorio. – Ora, la caduta di Papa San Liberio è così incerta che Bossuet non credeva di poterne trarre un argomento contro l’infallibilità. Inoltre, è stato dimostrato mille volte che il santo Papa non ha mai disertato l’ortodossia. Deve essere menzionato il magnifico lavoro di M. Edouard Dumont nella Revue des questions historiques. – Per quanto riguarda Papa Vigilio, non solo non ha sbagliato nella fede, ma il famoso Pierre de Marca, poco sospettabile di parzialità a favore dei Papi, ha composto una dissertazione per stabilire l’alta prudenza di cui il Pontefice fece prova negli atti per i quali è così duramente rimproverato.  – Per quanto riguarda Onorio, il vescovo di Grenoble ha recentemente dichiarato al suo clero (20 luglio 1868). « Che né la fede cattolica, né la dottrina dell’infallibilità del Papa, che definisce ex Cathedra, e nemmeno la fede personale di Onorio sono in discussione nei dibattiti sollevati in occasione del sesto Concilio. San Alfonso de’ Liguori, che tratta molto bene la questione di Onorio, giunge alla conclusione: « Egli doveva tranciare l’errore dal principio, ed è sotto questo aspetto che ha mancato (ibid., p. 179. Si veda la notevole dissertazione di Pierre de Marca nella Patrologia del Migne, t . LXIX, p. 127 e seguenti). » – Perché non dire di sfuggita che tutti coloro che predicano la moderazione oggi raccomandano ai Padri del Concilio di imitare la condotta che essi rimproverano così duramente nel Papa? Se Onorio ha prevaricato tacendo sull’errore che osava mostrarsi, perché i Padri del Concilio non dovrebbero “prevaricare” a loro volta tacendo anche sugli errori che pervadono il nostro secolo? Avviso a P. Gratry! (il p. Gratry ritrattò poi completamente la sua posizione fallibilista – ndr. -) Ma torniamo indietro. Che valore ha l’obiezione dedotta dagli errori più o meno numerosi commessi dai Papi nell’esercizio della loro suprema autorità? Rispondo che questa obiezione non ha alcun valore, finché non si portano fatti positivi e incontestabili. Ora, questi fatti non saranno mai portati. I critici più maligni si sono consumati senza successo. Tournély concorda volentieri sul fatto che le presunte colpe dei Papi non esistono e non provano nulla; arriva a rammaricarsi che si screditi la causa gallicana volendola sostenere con argomenti così speciosi (De Ecclesia, t. II., p. 183 ss.). E ora, cosa si può dire di quegli uomini che passano il loro tempo a ripetere calunnie che sono state confutate già mille volte? È la loro ignoranza o la loro malafede che deve essere stigmatizzata? – Che dire, soprattutto, dell’impudenza che insulta la Chiesa universale imputandole la falsificazione calcolata del suo libro di preghiere; così che, per tre secoli, la Chiesa, che è la colonna della verità, ha costretto i suoi sacerdoti ad aprire ogni giorno la bocca per recitare odiose menzogne? È una follia, una bestemmia? O Dio, vendicate la vostra Chiesa!

D. Bisogna convenire che l’infallibilità difficilmente può essere concepita in uomini viziosi, come purtroppo sono stati troppi Papi.

R. Prima di tutto, vi prego di osservare che il numero dei Papi viziosi è stato molto sopravvalutato; tanto che oggi i protestanti onesti sono essi stessi i vendicatori dei nostri Pontefici ingiustamente calunniati. Nientemeno che pure Papa Alessandro VI è stato in qualche modo riabilitato dall’anglicano Roscoë! Ma dopo tutto, cosa dimostra l’obiezione? Se potesse avere una qualche forza, essa proverebbe che un sacerdote indegno è, per il fatto stesso della sua indegnità, privato del potere di amministrare validamente le cose sante. Eccoci dunque in piena eresia di Wicleff, e nella Chiesa invisibile dei luterani, come il Vescovo di Rodez osservò con perfetta precisione al Vescovo Maret, autore dell’obiezione. – Una volta per tutte, dobbiamo essere convinti che le grazie concesse da Nostro Signore ai suoi ministri per la guida delle anime sono indipendenti dalle disposizioni del soggetto che le riceve. L’infallibilità del Romano Pontefice non gli è data per il suo bene, così come il potere di perdonare i peccati non è dato al sacerdote per il suo bene. Il Papa è infallibile, e il sacerdote è investito di poteri soprannaturali solo a beneficio dei fedeli. Sono in tutti i casi strumenti di Dio. Che siano santi o no, lo Spirito Santo continuerà a servirsi di loro per la dispensazione delle sue grazie. Egli è, infatti, il primo Autore dei prodigi da loro compiuti, e questo musicista celeste produrrà la sua divina armonia con una lira d’oro così come con una lira di legno il più grezzo.  Ancora una volta, l’infallibilità del Papa non è né il suo talento né la sua virtù; è lo Spirito Santo che assiste la debolezza del suo ministro. Ecco come, quante difficoltà svaniscono così!

IV.

D. Se l’infallibilità del Papa è una verità così profondamente radicata nella tradizione, perché la Chiesa non l’ha ancora definita solennemente?

R. « È vero. Gesù Cristo non ha affermato nulla con più amore e ricchezza di espressione nel Vangelo che i due dogmi che possono essere chiamati il cuore e il capo della sua Chiesa: il dogma dell’Eucaristia e il dogma del sovrana potenza, e quindi della fallibilità di Pietro. È vero che nella Chiesa, come nel Vangelo, nell’opera vivente come nell’opera scritta, nulla brilla con un bagliore più divino del Tu es Petrus e di Ego sum panis vivus qui de cœlo descendi (Lettera di Mons. Dechamps di Malines a Mons. Dupanloup.). » Tuttavia, bisogna osservare, con l’Arcivescovo di Malines, che « la Chiesa definisce i dogmi solo quando sono negati dall’eresia o contestati dalla buona fede. » (Ibid.) Questo spiega perché il dogma dell’Immacolata Concezione sia stato proclamato così tardi. La Chiesa non ha sempre creduto nella gloriosissima prerogativa di Maria?  « Ora, la Chiesa ha sempre vissuto della fede dell’infallibilità del Romano Pontefice, e l’ha vissuta ovunque, anche dove è stata contestata in buona fede. (Ibid.) » Testimoni sono le eresie che, durante i primi tre secoli, sono state soppresse dal solo braccio del Papa; testimoni il Giansenismo ed il Quietismo e mille altri errori che, negli ultimi tre secoli, sono stati soppressi dalla Santa Sede; testimoni quelle dichiarazioni dottrinali e persino quelle definizioni dogmatiche che più di una volta la Chiesa ha pregato il Pontefice di pronunciare. Non è questo un vivere della fede nell’infallibilità? E la Chiesa avrebbe dovuto ritenersi obbligata a formulare una definizione dogmatica, quando vedeva tutta la società cristiana unanime nel riconoscere nel Papa la regola vivente della fede? Al Concilio di Trento, si trattò di opporre una definizione di infallibilità a qualche raro dottore che la contestava: ma i Padri ritennero giustamente di dover disprezzare questi dissidenti, come avevano fatto con i pochi oppositori dell’Immacolata Concezione… Ora che il clamore è più forte, la Chiesa può alzare la sua grande voce. Chi sa se non sia suonata l’ora della sentenza suprema?

D. Un’altra domanda. Se la Chiesa crede nell’infallibilità del Papa, perché convoca i Concili?

R. La ragione è abbastanza semplice. Benché dotato di infallibilità, il Papa è tuttavia tenuto a circondarsi di tutte le precauzioni che la prudenza umana suggerisce a chiunque voglia trovare la verità. Lo Spirito Santo assiste il Papa non per rivelargli la dottrina, ma solo per impedirgli di ingannare se stesso e gli altri. È quindi naturale che il Papa consulti i suoi fratelli nell’Episcopato, e si avvalga così dei loro lumi e della loro saggezza: questo viene fatto soprattutto nei Concili Generali.  Ascoltiamo la risposta di San Alfondo de’ Liguori a Febronio: « Ma, si dirà, se i giudizi del Sommo Pontefice sono infallibili, e se la sua autorità è suprema e indipendente, a che servono i Concili? La risposta è che servono a diversi scopi molto importanti. Servono a far sì che i Vescovi si applichino più energicamente per soffocare i dissensi; servono a reprimere le contese; servono, infine, a farli aderire più scrupolosamente ai dogmi della fede, come scrive San Vincenzo di Lerino: Qual risultato – egli dice – ha ottenuto la Chiesa con i decreti dei Concili, se non quello di far ammettere CON MAGGIORE IMPRESSIONE ciò che prima era oggetto di semplice credenza? « Aggiungiamo che talvolta i sovrani Pontefici convocano i Concili per essere più illuminati dallo Spirito Santo attraverso la discussione in un Concilio su qualche dubbio in materia di fede: perché, dice il Cardinale Du Perron, l’infallibilità del Papa non consiste nel suo ricevere sempre dallo Spirito Santo la luce necessaria per decidere tutte le questioni di fede, ma nel suo pronunciare un giudizio libero da errori su quelle questioni in cui si sente sufficientemente illuminato da Dio. Quanto alle questioni in cui non si sente sufficientemente illuminato, le rimanda alla decisione del Concilio, per pronunciare in seguito il proprio giudizio.  Ma non fraintendiamo il significato di queste ultime parole. « – dice Monsignor Dechamps – il Papa rimette certe questioni al Concilio, non come ad un tribunale superiore, ma per essere illuminato dal giudizio dei Vescovi, e per confermare il giudizio di questi vari giudici, se lo ritiene opportuno, con il proprio giudizio supremo » (Lettera al vescovo Dupanloup).

CONCLUSIONE.

Questo è ciò che tutti i fedeli dovrebbero sapere. Si dovrebbe inculcare loro una completa e pronta obbedienza ai giudizi della Santa Sede, che, secondo San Vincenzo de’ Paoli, è il miglior mezzo per discernere i veri figli della Chiesa dagli ostinati. – Essi dovrebbero essere persuasi che, lungi dal meritare il rimprovero di un’adulazione servile del Papa, i difensori dell’infallibilità servono soprattutto i loro propri interessi; perché se il Papa è infallibile, è perché noi possiamo essere infallibili; se egli ha il potere di non ingannare, è perché noi abbiamo il diritto di non essere ingannati (Mons. Berteaud, discorso predicato a S. Eustachio il 19 novembre 1864).  – Infine, si dovrebbe far loro apprezzare il vero valore del triste coraggio « di alcuni uomini rancorosi e schiavi che sognano una Chiesa separata dal suo Capo; mostrandoci così, con una contraddizione piuttosto strana, un corpo mutilato che può fare a meno della vita per giudicare, e i cui giudizi non hanno forza perché mancano di vita; mostrandoci con compiacenza la Chiesa costruita su Pietro, convocando Pietro al suo tribunale per condannarlo, perché probabilmente non sarà stato un fondamento abbastanza solido per essa, nonostante le preghiere e le promesse di Gesù Cristo. Figli ingrati ed ingenerosi, che rivendicano, come un diritto inalienabile, la libertà di contraddire il loro padre, e di contestare il suo diritto di mantenere la pace in casa e la subordinazione all’interno della famiglia. Dottori inquieti e irrequieti, sempre pronti a chiamare il Papa al Concilio, e quindi a distruggere il capo della Chiesa, o a crearne due, poiché un appello al Concilio implicherebbe che il Concilio è il capo della Chiesa. Senza entrare in ulteriori discussioni con loro, rispondiamo con Sant’Avito, Vescovo di Vienne, parlando a nome dei Vescovi delle Gallie, che non c’è nessuna legge o ragione per sottoporre il capo della Chiesa ai suoi inferiori, e che se il Vescovo della città di Roma è chiamato in giudizio, non è un Vescovo che è minacciato, ma l’intero Episcopato che è scosso.  (Istruzione pastorale di Mons. de Donald, Vescovo di Le Puy, per il periodo quaresimale del 1838, sul Capo visibile della Chiesa. In questo magnifico scritto, l’infallibilità del Papa è mirabilmente stabilita. Sarebbe auspicabile che l’opera del venerabile Cardinale fosse ancora una volta data alle stampe. Sarebbe un meritato omaggio alla memoria di una persona che tutta la Chiesa considererà sempre come una delle sue luci più vive.

 (H. MONTROUZIER. S. J.)