LA GRAZIA E LA GLORIA (27)

LA GRAZIA E LA GLORIA (27)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO VI.

LA NOSTRA FILIAZIONE NEL SUO RAPPORTO CON LA TERZA PERSONA DELLA TRINITÀ

CAPITOLO PRIMO

Cosa sia lo Spirito Santo in se stesso. Come Esso sia in proprio l’Amore personale.

È impossibile formarsi delle idee chiare e precise sulla relazione che abbiamo, come figli adottivi, con lo Spirito Santo, la terza Persona dell’adorabile Trinità, se non sappiamo prima che cosa sia in sé e che cosa gli sia proprio; in una parola, che cosa lo distingua dalle altre Persone. Ora, sia che io interroghi le nostre Sacre Lettere, sia che studi i Padri ed i maestri della scienza, trovo tre caratteri principali propri a questo Spirito divino: Esso è l’Amore personale, il Dono per eccellenza, la Santità ipostatica e santificante; e tutti questi nomi si riassumono in quello di Spirito Santo. Questo sarà il tema delle nostre meditazioni.

1. – Cominciamo con l’Amore: è dunque in questo titolo che gli altri due hanno le loro radici e la loro ragion d’essere. « Dio è amore, Deus charitas est » (I Giovan, IV, 8). Esso è l’amore perfetto, l’amore tutto in atto, l’amore infinito: perché l’atto con cui ama se stesso non è, come nella creatura intelligente, un’operazione distinta da se stesso, così come la sua potenza di amare non è una proprietà distinta dalla sua sostanza. Esso è il suo amare, come è il suo conoscere, la sua essenza e il suo essere. Di conseguenza, lo Spirito Santo, pur essendo Dio, deve essere Amore, così come il Padre e il Figlio sono amore; uno stesso amore eterno e sostanziale, che è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ma se è necessariamente comune alle altre due Persone l’essere l’amore essenziale, Esso ha questo di particolare, che è anche l’amore personale. Entriamo con trepidazione nel più intimo Santuario dell’insondabile Trinità per cercare qualche idea di questo mistero. Dio, spirito puro e sovranamente immateriale, è per sua natura l’archetipo e il Supremo di tutti gli spiriti. Quindi, studiando me stesso in questa parte del mio essere attraverso la quale mi avvicino a Dio, devo trovare in me l’immagine, un’immagine indebolita senza dubbio, ma comunque reale, di ciò che sia in Lui. Ma cosa succede quando mi ripiego su me stesso e mi faccio io stesso l’oggetto del mio pensiero? È che io mi esprimo e riproduco me stesso in un concetto, parola interiore, immagine intelligibile in cui contemplo e mi dico ciò che penso di me stesso (« Habet igitur mens rationalis, cum se cogitando intelligit, secum imaginem suam ex se natam, id est, cogitationen Sui ad suam similitudinem, quasi sua impressione formatam… quæ imago ejus verbum ejus est ». S. Anselmo, Monol. c. 33). Questo concetto, figlio del mio pensiero (proles mentis intelligentis), è ciò che la mia parola articolata dovrà significare, se parlo di me stesso; ed è per questo che la si è chiamata il Verbo, la parola del cuore resa sensibile dalla parola uscita dalla bocca: « Verbum cordis, Significatum verbo oris » (S. Thom. I p. a. 27, à, 1). – Dio, dunque, che è spirito, Dio che si conosce eternamente, deve anche pronunciare in se stesso una parola misteriosa in cui si dice tutto ciò che sa della sua infinita bellezza. Questa parola interiore, che procede da Dio per via di intelligenza, è la Verbo di Dio. Verbo unico: perché Dio, avendo un solo pensiero che non è altro che Egli stesso, può avere un solo Verbo, termine adeguato di questo pensiero. Verbo eterno, perché un Dio senza Verbo sarebbe quella mostruosità che faceva orrore ai Padri, un Dio senza intelligenza e senza pensiero. (Agli ariani che negavano il Verbo eterno e consustanziale e non credevano che la Parola fosse eterna e consustanziale al Padre, essi rispondevano: se il Padre non ha concepito da tutta l’eternità un Verbo uguale a se stesso, è senza intelletto: perché una intelligenza divina deve essere in atto, e questo atto non può procedere senza un Verbo.  – Petav. de Trinit., L. VI, c. 9). Verbo infinito: perché l’abisso di verità che rappresenta adeguatamente e il pensiero di cui è il termine perfetto, sono entrambi ugualmente infiniti. Verbo infine, consustanziale a Dio, suo principio: perché ha queste due cose che fanno la consustanzialità, l’unità quanto alla sostanza e la distinzione quanto all’ipostasi. È che questo Verbo non è, come in noi, una qualità puramente accidentale e distinta dalla natura; e che, d’altra parte, è distinto da Dio suo principio, poiché procede da esso. E questo Verbo, Dio da Dio, è anche Figlio di Dio: infatti, in virtù del suo modo di procedere per via d’intelligenza, è l’immagine sostanziale e perfetta del Padre, lo splendore della sua gloria e il carattere della sua sostanza (II Cor. IV, 4; Hebr., 1, 3), primo e ultimo nato di Dio, nel quale il Padre ha posto le sue indulgenze eterne (S. Thom., c. Gent., I, IV, c. 11). – Ma non si arresta là il ciclo della fecondità divina, né l’evoluzione della nostra vita spirituale si limita al pensiero. L’oggetto che brilla nella parola interiore, è amabile, o almeno è rappresentato come tale, la volontà si sente attratta verso di Lui. Il movimento che ci porta verso questo oggetto, per unirlo a noi e noi stessi unirci a Lui, è l’amore; amore che emana sia dallo spirito che ama, sia dal verbo in cui lo spirito possiede in sé, presente e conosciuto, l’oggetto che ama; l’amore, dunque, distingue tra spirito e verbo. Riconosciamo ancora, in questo specchio della creatura intelligente un’immagine imperfetta del mistero che è in Dio. Lo spirito increato e il suo Verbo, il Padre e il Figlio, nell’infinita compiacenza che hanno per la loro comune bellezza, producono per via della volontà come un impulso d’amore, il termine e il frutto della loro reciproca dilezione; e questo movimento dell’amore divino è uno, senza limiti, eterno, consustanziale al suo principio, allo stesso modo in cui il Verbo è con il Padre. È lo Spirito Santo, lo Spirito d’amore, Amore ipostatizzato o Personale (S. Thom, De Potent., q. 9, s. 9; c. Gent, L. IV, c. 19). Perciò l’Angelo della Scuola, dovendo parlare del Verbo di Dio, ci insegna, seguendo Sant’Agostino, « che non è un verbo qualsiasi, ma un Verbo il cui soffio è amore ». Filius autem est Verbum non qualecunque; sed spirans amorem (S. Thom. 1 p., q. 43, a. 5, ad 2.). Da ciò segue che questa Verbo è, in tutta verità, la Sapienza generata. Generato perché procede dal Padre; sapienza, perché è una conoscenza, un Verbo principio e fonte di amore. – Tuttavia, non immaginiamo nello Spirito Santo un doppio amore: l’amore essenziale che Esso è in ragione della sua divinità, e l’amore personale che sarebbe in virtù della sua processione. Questa sarebbe un’illusione pericolosa, che non farebbe altro che distruggere l’intera economia del mistero. Lo Spirito Santo è amore, perché è il fine dell’infinita compiacenza del Figlio per il Padre e del Padre per il Figlio: e c’è un solo amore, infinitamente uno, infinitamente unico. Tuttavia, lo Spirito Santo rimane l’Amore perenne, perché solo Lui possiede la divinità a tal punto da riceverla formalmente, per il suo particolare modo di Processione, in quanto è amore. In altre parole, il Padre e il Figlio gli comunicano tutta la loro essenza, ed è per questo che Esso è Dio; ma questa ineffabile comunicazione si opera a titolo di dilezione, ed è per questo che diciamo che è, in modo singolare, amore, l’Amore personale. – Una bella pagina di San Francesco di Sales ci aiuterà, spero, ad afferrare meglio un così alto insegnamento. « L’eterno Padre – dice il santo Dottore – vedendo l’infinita bellezza e bontà della sua essenza così vividamente, essenzialmente e sostanzialmente espressa nel Figlio suo, e il Figlio vedendo reciprocamente che la sua stessa essenza, bontà e bellezza è originariamente in suo Padre, come nella sua fonte e fontana; eh! Poteva essere mai che questo Padre divino e suo Figlio non si amassero con amore infinito, dato che la loro volontà con cui si amano e la loro bontà per cui si amano sono infinite in entrambi? – L’amore non trovandoci uguali, ci uguaglia; non trovandoci uniti, ci unisce. Ora, essendo il Padre e il Figlio non solo uguali e uniti, ma uno stesso Dio, una stessa essenza e una stessa unità, quale amore non debbano avere l’uno per l’altro! Ma questo amore non è come l’amore che le creature intelligenti hanno tra loro o per il Creatore. Poiché l’amore creato è fatto da molti e vari slanci, sospiri, unioni e legami, che si susseguono e producono la continuazione dell’amore con una dolce vicissitudine di movimenti spirituali. Ma l’amore divino del Padre eterno verso il Figlio suo, si esercita in un solo Sospiro reciprocamente emesso dal Padre e dal Figlio, che in questo modo rimangono uniti e legati insieme. Sì, mio Teotimo: Poiché la bontà del Padre e del Figlio non è che una bontà unicissima, comune ad entrambi, l’amore di questa bontà non può essere che un solo amore, perché anche se ci sono due amanti, cioè il Padre e il Figlio, tuttavia non c’è che la loro unica bontà unicissima che è amata, e la loro unicissima volontà che ama. .. – E siccome il Padre e il Figlio che sospirano (questo amore comune), hanno un’essenza ed una volontà infinita con cui sospirano, e la bontà per cui sospirano è infinita, è impossibile che il sospiro non sia infinito. E siccome non può essere infinito se non è Dio, allora questo Spirito, sospirato dal Padre e dal Figlio, è vero Dio. E poiché non ci può essere che un solo Dio, Esso è un solo vero Dio con il Padre e il Figlio. Ma ancor più, poiché questo amore è un atto reciproco del Padre e del Figlio, non può essere né il Padre né il Figlio da cui procede, anche se ha la stessa bontà e sostanza del Padre e del Figlio: piuttosto, deve essere una terza Persona divina, che con il Padre e il Figlio non è che un solo Dio. E nella misura in cui questo amore si produce per modo di sospiro o ispirazione, si chiama Spirito Santo » (S. Franç. de Sales, Traité de l’amour de Dieu, L. III, c. 13). – Altrove aveva detto più brevemente, ma con un linguaggio altrettanto gradevole e profondo: « Il Padre e il Figlio gettando da una sola e medesima volontà, da una sola e medesima amicizia, da un solo e medesimo coraggio, gettando, dico, da una sola e medesima bocca, un sospiro, un soffio, uno spirito d’amore, hanno prodotto, hanno emesso un soffio che è lo Spirito Santo » (S. Franc. de Sales: Sermon. per la Pentecoste) – Misteri grandi e sublimi che la ragione da sola non potrebbe mai raggiungere. Infatti, sebbene le sue stesse luci le mostrino in Dio la conoscenza e l’amore della sua eterna bellezza, esse non la conducono al punto in cui questa conoscenza e questo amore si realizzino. Ne darò solo questa ragione principale: è che la produzione di questi due termini è necessaria allo spirito creato, perché non è un atto da se stesso. Altra è la sua natura, altre le operazioni in cui Esso dispiega la sua attività vitale, così come altro è l’albero, altri i fiori e i frutti di cui l’albero si corona. Ma Dio, cioè l’Essere a cui nulla manca e che per la sua essenza è l’atto puro, l’atto infinito, che bisogno può avere di perfezionamento per conoscere e amare se stesso? Pertanto, ciò che rende questi termini necessari per noi tenderebbe ad escluderli da Dio, se non procedessero in Lui da una incomprensibile sovrabbondanza. Così tutti i nostri ragionamenti sarebbero vani, se la Rivelazione non fosse lì per servire da fondamento e da guida.

2. – È infatti essa che, attraverso le Scritture e la Tradizione, ci mostra nello Spirito Santo l’effusione naturale e l’amore infinito di Dio Padre per suo Figlio e di Dio Figlio per suo Padre. Il nome stesso di Spirito Santo, Spirito del Figlio, che porta nelle nostre Lettere Sante, ne è la prova. Questa è l’osservazione fatta dai teologi ed abilmente sviluppata dall’illustre Petau (Petav. De Trinit., l. VII, c. 12, n. 7). Infatti, nulla è più frequente, soprattutto nel linguaggio poetico, dell’uso delle parole respiro, respirazione, sospiro (πνεῦμα [= pneuma], Spiritus), per esprimere l’amore che scaturisce dal cuore e ciò che si riferisce all’amore. L’amore sacro, non meno dell’amore profano, non parla che di sospiri ardenti. Non voglio ricordare qui né la parola “sospirante”, perché è troppo banale, né l’espressione « respirare l’amore », perché è troppo conosciuta. Ma non è forse nel soffio della nostra bocca che si trattano gli affetti più intimi del cuore? Greci e Latini facevano lo stesso uso di questa nostra metafora. L’amore, l’amante e l’amato sono espressi nella poesia greca da sostantivi presi in prestito dai verbi respirare, esalare un respiro (είσπνεῖν [= eispnein], άῆναι [= aenai]). Come noi, i latini dicevano di respirare l’amore, e come noi rendevano con le parole sospiro e sospiri i più teneri movimenti del cuore. – Se dunque è piaciuto allo stesso Spirito Santo, autore dei Libri Sacri, di manifestarsi sotto il nome di Spirito, è perché ha voluto rivelarsi a noi come un soffio proveniente dal cuore di Dio, come l’effusione e il fine dell’amore con cui il Figlio arde eternamente per suo Padre, e il Padre per il Figlio della sua dilezione. Non dimentichiamo che lo Spirito Santo non è solo Spirito, ma che è lo Spirito del Padre, lo Spirito di verità, vale a dire del Figlio: e queste espressioni non sono scritte o ripetute senza motivo. Questo per dire che è un procedere dell’uno e dell’altro, quindi, che Esso è distinto da loro, e che non può essere amore in qualità di spirito senza essere l’Amore personale (Lc. III, 22; Matth. III, 16). – Oltre alla parola che lo afferma, il Vangelo ci ha dato il simbolo che lo rende sensibile. Infatti, non è stato senza mistero che San Giovanni vide, al battesimo di Gesù Cristo, lo Spirito Santo scendere e posarsi su di Lui sotto forma di colomba. « Ecco la Trinità che rivela il suo mistero, Cristo è in piedi nell’acqua, la voce del Padre tuona dal cielo, e lo Spirito Santo scende attraverso la colomba » (San Paolino, Nol., ep. 83, n. 10). – La colomba è per eccellenza, nell’opinione comune, il simbolo dell’amore ideale, fecondo, semplice e puro. L’arte cristiana non ha immaginato nessun’altra figura per rappresentare visibilmente questo Spirito divino agli occhi dei fedeli. Si trova fin dai primi giorni del Cristianesimo. È soprattutto nei battisteri che questa immagine è invariabilmente riprodotta in pittura, scultura e in mosaico (vedi Martigny, Dict. des antiq, chrét. alle parole Colomba e Spirito Santo). La più bella di queste rappresentazioni iconografiche è, senza dubbio, quella che mostra lo Spirito di Dio sotto la figura della colomba, che si libra sopra il Padre e il Figlio, ad ali spiegate, in un movimento immobile, ed esprime con i suoi sospiri ardenti le ineffabili delizie e la santità del loro amore. E ciò che corona la perfezione del simbolo è che sembra emanare dal loro eterno e reciproco bacio. La storia e la leggenda ci ricordano costantemente questo grazioso simbolismo. Quante volte si sono viste anime pure, tutte consumate dal santo amore, liberarsi dal loro involucro terreno e sfrecciare verso la patria della carità divina, sotto l’emblema vivente di una colomba! Questo prodigio è stato raccontato dal grande martire S. Policarpo e da una moltitudine di servi e serve di Dio. Prudenzio la cantò in versi dedicati a Santa Eulalia di Merida. « Quando il fuoco le salì alla testa e le bruciò i capelli, la martire aprì la bocca come per bere la fiamma, e una colomba bianca come la neve fu vista scivolare tra le sue labbra e librarsi in cielo. Era l’anima di Eulalia » (Pruden., Hymn. in honor. S. Eulaliæ, P. Lat. t. 60, p. 352). Se pur tra tanti esempi, registrati nelle vite dei Santi, molti non hanno un carattere sufficientemente storico, questo prova ancora di più quanto profondamente il simbolismo di cui parliamo fosse penetrato nell’anima cristiana e popolare (P. Cahier, S. J., Les caractéristiques des saints, art. Colomba).

3. – Sopra ho parlato di una rappresentazione simbolica in cui lo Spirito Santo ci appare librandosi sopra il Padre e il Figlio in forma di colomba. È necessario ritornare su di essa per considerarla più dettagliatamente: perché è di grande importanza nella presente questione. Qui la colomba ci si mostra come il bacio e il legame del Padre e del suo amato Figlio. colomba, bacio, legame: tre parole e tre figure che vanno a mostrarci nello Spirito Santo l’amore che procede dalle altre due Persone, l’Amore ipostatico. Ho già detto che la colomba è l’emblema dell’amore puro; non è forse per questo che lo Sposo del Cantico chiama l’amata, la mia colomba, « columba mea »; come se dicesse: « amore mio »? Cos’è il bacio? Mettiamo ancora una volta da parte tutti i pensieri bassi, e vedremo in esso solo l’espressione sensibile del santo amore, il pegno e il frutto della carità divina. Fu per questo che il Salvatore Gesù lo ricevette e lo diede in mezzo ai suoi discepoli; per questo che Pietro e Paolo lo raccomandano alla fine delle loro lettere e che la santa Chiesa lo ha consacrato nella sua Liturgia. (« Paolo – scrive Origene – in osculo sancto » – Rom. XVI, 16), rivolge un doppio avvertimento ai fedeli: primo, che i baci dati nelle chiese siano casti; secondo, che siano liberi dalla simulazione. – « Dopo la preghiera domenicale – continua  Sant’Agostino – noi diciamo: “La pace sia con voi“, e i Cristiani si danno il santo bacio, simbolo della pace. Che ciò che è significato dall’unione delle labbra abbia luogo nella coscienza. Come le tue labbra si posano sulle labbra del tuo fratello, così il tuo cuore non si allontani dal suo cuore » – Sermone 227, al. 83, de div. – Nessuno ignora che nel Medioevo il pegno più sacro di una riconciliazione, cioè dell’unione dei cuori dopo la disunione, era il bacio dato e ricevuto. Ne troviamo un esempio molto singolare nella vita di San Tommaso di Canterbury (R. P. Dom. À. L’Huillier, t. 2. cap. 16). Il re d’Inghilterra, Enrico II, che aveva costretto il santo a fuggire dal suo paese, sollecitato dal Sovrano Pontefice a restituirlo alla sua sede, voleva ingannare il grande Vescovo con vane promesse e concedergli solo una pace mendace. Ci fu in un colloquio che ebbe luogo a Ghanmont, tra Blois e Amboise. Il re, con questa intenzione, diede al Primate il benvenuto più affabile; ma voleva a tutti i costi evitare di dargli il bacio della pace. Non era una cosa facile da fare, perché essi dovevano assistere insieme al Santo Sacrificio. Un amico del re, per salvarlo dall’imbarazzo, gli consigliò di far celebrare una Messa da Requiem, nella quale si esclude il bacio di pace. Ma il santo prelato sapeva essere operoso e trovare l’occasione per reclamare dal re ciò che quest’ultimo non voleva concedere in alcun modo. « Sire – gli disse – secondo le vostre promesse, concedetemi il bacio della pace ». « Non in questo momento – rispose il re – ma un’altra volta, quando voi vorrete ». L’Arcivescovo non rispose, ma capì che la rottura era senza rimedio. – Sul significato del bacio, vedi Martigny: Dict. des Antiquités chrét. alla parola bacio; de Maistre, Soirées de St Pétersb. 10 colloquio; – S. Frans. de Sales, Traité de l’amour de Dieu, L. I c. 9; 8. Giovanni Crisostomo, in Romani, XVI, 16; 8. Sant’Ambrogio, Esæm, L. VI, c.. 9, n. 68, ecc.) – Ecco perché San Bernardo vede nel bacio un’immagine dello Spirito Santo. « Alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo. Certamente è stato un bacio del Signore. Un bacio, il respiro corporeo? No, ma lo Spirito invisibile, dato dal Signore sotto il simbolo esterno di un soffio, affinché si possa comprendere che lo Spirito procede dal Figlio e dal Padre come un vero bacio che è loro comune » (S. Bernardo, in Cant., serm. 8, n. 2) Lo Spirito Santo, essendo il bacio comune del Padre e del Figlio, è dunque il loro amore espresso, il termine, il frutto perfetto della loro eterna e perfetta dilezione. – S. Bernardo, nel testo appena citato, lo chiama ancora « la pace indisturbata del Padre e del Figlio, il loro amore, il legame che li incolla in un’unità indivisibile ». E questa dottrina l’aveva appresa dagli antichi Padri, e specialmente da Sant’Agostino. Perché nulla è più frequente in quest’ultimo che i titoli di « comunione, carità sostanziale, unità del Padre e del Figlio » dati allo Spirito di Dio. Questo è ciò che ci dice la colomba che si libra su queste due Persone divine, immobile tra il Padre e il Figlio; ed è anche ciò che ci assicura che questo Spirito divino sia la loro carità sostanziale, e come abbiamo detto, il termine immanente e il pegno della loro reciproca compiacenza, poiché la natura propria della carità è quella di unire (S. August. de Trinit., L. V, c. 15 et alibi passim; Petav, de Trinit, L. VII, c. 12, n. 7, segg.). – Qui, alcune spiegazioni sono necessarie per evitare una falsa interpretazione di questi testi e di altri simili. S. Atanasio ha scritto: « Non spetta allo Spirito Santo unire il Verbo al Padre, poiché Egli stesso riceve dal Figlio » (S. Atanasio, Orat. 4, c. Arian. P. Gr., t. 26). Niente è più vero di queste parole del grande patriarca di Alessandria. Lo Spirito Santo, nell’ordine delle processioni divine, non sta nel mezzo, se è permesso usare questo termine, tra il Padre, primo principio, e il suo Verbo. Non è nel nome del Padre, dello Spirito Santo e del Figlio che il Salvatore ha voluto che il Battesimo fosse conferito dagli Apostoli e dai loro successori. Ma Dio non voglia che i Padri occidentali abbiano insegnato qualcosa di contrario a questo ordine necessario delle Persone divine. Non abbiamo forse sentito il più illustre di loro, Sant’Agostino, rappresentare la Sapienza, immediatamente generata dal Padre e dal suo Verbo, come il principio dell’Amore, cioè dello Spirito Santo? Ciò che essi intendono è che questo stesso Spirito che, come Dio, è uno con il Padre e il Figlio, e che, come Persona distinta, fa il glorioso coronamento delle Processioni eterne: è, dico, che questo stesso Spirito, poiché è il termine immanente e l’espressione perfetta del loro Amore, basterebbe a fare di loro un solo cuore, una sola anima, anche se queste Persone divine fossero distinte, come noi, dalla loro essenza individuale. « Immaginate – dice San Bonaventura – due sposi così uniti nell’affetto che dal loro unico amore nasce un figlio che è amore » (San Bonaventura, In 1, D. 10, a 1, q. 1 e 2). Quanto crescerebbe la loro unione, e non si potrebbe dire di questo bambino che egli è la loro unità, la loro comunione, la mille volte amata catena che li lega inseparabilmente l’uno all’altro? Questa è un’immagine del ruolo che assegniamo allo Spirito Santo nella Trinità. « Non è dunque vano che in questa Trinità ci sia solo il Figlio da chiamare Verbo di Dio, e lo Spirito Santo da chiamare Dono di Dio… Come l’unico Verbo di Dio porta il nome di sapienza, anche se il Padre e il Figlio sono anch’essi sapienza, così lo Spirito Santo conserva il nome di carità, anche se il Padre e il Figlio sono per essenza carità » (S. August, de Trin., LXV, n. 39, segg.).

4. – I Padri orientali ignoravano forse questa dottrina, o almeno la tenevano in minor considerazione di quelli dell’Occidente?  Ci sono alcuni che sembrano averlo pensato; ammetterò, se si vuole, con Petau (Petav., de Trinit., L. VII, c. 12, n. 1), che questi Padri più raramente usano le parole amore e carità per indicare lo Spirito Santo con nomi propri ad Esso. Ma, in mancanza di queste espressioni, essi hanno altre formule che le sono pienamente equivalenti, come vedremo tra poco, sul tema della santità. – La causa principale del loro relativo silenzio si trova, se non mi sbaglio, nella natura stessa dei loro scritti. Se hanno trattato esplicitamente dello Spirito Santo, è quasi sempre per rivendicare la sua divinità contro gli attacchi dell’errore. Era dunque necessario che mettessero in evidenza, in questo Spirito divino, le caratteristiche con cui si rivela più chiaramente come Dio. E poiché questi nomi di amore e carità non sembrano a prima vista essere così direttamente diretti allo scopo come altri, anche se esprimono le stesse idee nella sostanza, è per questo che sono stati usati meno spesso da questi Dottori. – Vi si trovano tuttavia; testimonia questa invocazione di S. Teodoro Studita allo Spirito Santo: « O tu, vita, amore, luce » (Apud Petav., l. c., n. 2). Ne è testimone ancora questo passo di S. Ireneo: « È la Dilettazione di Dio che attraverso il Verbo ci conduce alla conoscenza del Padre » (S. Iren….. cont. Hæres., L. IV, c. 20, n.4 e 5. P. Gr.: t. 7, p. 1054.). Il Diletto di Dio, cioè lo Spirito Santo, come egli spiega in un altro testo, quando dice che « attraverso lo Spirito noi risaliamo al Figlio e per mezzo del Figlio al Padre » (Id. L. V, c. 36, n. 2, P. Gr. t. 7, p. 1223). Riconosciamo la stessa idea quando questi Padri rappresentano lo Spirito Santo come un fiume di fuoco che, partendo dal Padre e passando per il Figlio, tende ad attraversare le frontiere della divinità per diffondersi sulle creature e trasformarle. Ricordavano le lingue di fuoco che simboleggiavano la discesa dello Spirito Santo sui discepoli nel grande giorno di Pentecoste. Ricordarono anche che il Signore aveva detto: « Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che risplendesse » (Luca, XII, 49). Ora, cos’è il fuoco in queste ed altre formule simili, se non l’amore, di cui è scritto: « L’amore è forte come la morte… le sue lampade sono lampade di fuoco e fiamma » (Cant, VIII, 6). L’ebraico dice: « Il suo ardore è come il fuoco; è una fiamma di Jehovah ». Sembra essere un’anticipazione della grande parola di San Giovanni: Dio è carità. Perciò, se i Greci attribuiscono allo Spirito Santo il simbolo del fuoco, è perché Esso è per loro, come per i loro fratelli latini, l’Amore personale e sostanziale, e cantano con loro con lo stesso cuore ed una voce comune. « Vieni, Spirito Creatore… Fuoco, carità, Ignis, charitas! » Inoltre, cos’altro possono significare i nomi di bontà, di benignità, di soavità del Padre e del Figlio, così spesso usati da essi per designare lo Spirito Santo? Posso aggiungere che per loro Esso è un olio aromatico che sgorga dalla sostanza del Padre e del Figlio; un soffio che esala dal cuore di Dio; il buon odore della divinità; un calore divino che emana dal focolare eterno: tutte figure che non hanno un significato preciso, se non esprimessero una processione di amore (Petav. de Trinit., L. VI, c. 5, n. 6, sq 4.: Frazelin, de Deo trino, th. XXI. Simeon, Jun., Divin. Amor. P. G.. t. 120 p: 592). Non voglio qui negare che, tra i Padri più antichi, ce ne sono diversi che designano espressamente lo Spirito Santo col nome di Sapienza (S. Iren., L. III c. 8, n.3; Theoph. Ant., ad Autolyc. L. II, c. 10: Clem. Alex. Strom., L. VII, ecc.), e sembrano con ciò contraddire in anticipo la dottrina contenuta in questo capitolo. Si potrebbe innanzitutto rispondere che questi Padri sono molto pochi, e che hanno contro di loro l’uso comune di tutti gli altri e quello della Chiesa stessa: perché soprattutto il nome di sapienza è per appropriazione il Nome del Figlio e quello di Sapienza generata, il Nome proprio dello stesso Figlio. Ma, alla fine, questi antichi Padri non sono, per quanto sembri, in disaccordo con la Dottrina comune; perché c’è un significato per la parola saggezza che la riporta all’amore. In effetti, la saggezza appartiene in gran parte alla volontà. Se, tra i doni dello Spirito Santo, quello dell’intelletto nasce immediatamente dalla fede, il dono della sapienza ha come principio la carità. La sapienza giudica tutte le cose per mezzo della carità divina e nella carità (S.Thom. 2, 2, q. 45, a. 2); non tanto con la ragione, anche se illuminata dai lumi della fede, quanto dal cuore infiammato dall’amore divino. Senza dubbio, presuppone l’intelligenza, ma è soprattutto l’amore che si rivela nelle sue operazioni. Così lo Spirito di Dio, che per la sua natura ed intelligenza infinita, e per la sua modalità di processione, l’Amore ipostatico, può essere chiamato come minimo Sapienza, senza che questo titolo escluda la proprietà che lo rende Amore personale (Petav. de Trinit., L. VII, c. 12).

LA GRAZIA E LA GLORIA (28)

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (24)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (24)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Ultimi consigli di vita interiore (**)

(**) In questa risposta, scritta l’11 settembre 1906 (qualche settimana prima di morire) ad una amica d’infanzia, traspare tutta la sua esperienza della vita interiore, formulata alla maniera dei Santi: con la semplicità del Vangelo.

« Voglio rispondere alle tue domande ».

« Ecco che finalmente Elisabetta viene, con la matita, a porsi vicino alla sua Fr… cara; dico: con la matita, perché col cuore ti sono sempre vicina, e da tanto tempo ormai, non è vero? e sempre restiamo strettamente unite l’una all’altra. Come sono belli i nostri promessi incontri della sera! Sono come il preludio di quella comunione che si stabilirà fra le anime nostre dal cielo alla terra. Mi sembra di starmene reclinata su di te come una mamma sulla sua figlioletta prediletta. Alzo gli occhi, guardo il Signore, poi li abbasso ancora su di te, e ti espongo ai raggi del suo amore. Non gli dico nulla, ma Egli mi comprende anche meglio senza parole, e preferisce il mio silenzio.

Mia figliola cara, vorrei essere santa per poterti fin d’ora aiutare quaggiù, in attesa di farlo lassù, in cielo. Che cosa non vorrei soffrire per ottenerti quella forza, quelle grazie di cui hai bisogno!

Voglio rispondere, ora, alle tue domande. Parliamo prima di tutto dell’umiltà. Ho letto su questo argomento delle parole magnifiche. Un pio autore dice che « nulla può turbare l’umile; esso possiede la pace inalterabile, perché si è sprofondato in un tale abisso, che nessuno andrà a cercarlo così in basso ». Dice ancora che « l’umile trova la più saporosa dolcezza della sua vita nel sentimento della propria impotenza di fronte a Dio ». Ma l’orgoglio, sai, non è un nemico che si possa atterrare con un bel colpo di spada. Senza dubbio, certi atti di umiltà eroica come ne vediamo nella vita dei Santi, lo colpiscono, se non mortalmente, in modo almeno da indebolirlo di molto; ma bisogna farlo morire ogni giorno. « Quotidie morior », diceva san Paolo, « io muoio ogni giorno » (1 Cor. XV, 31). Questa dottrina del « morire ogni giorno a se stessi» è divenuta legge per ogni anima cristiana, dal momento che Gesù ha detto: « Se qualcuno vuol seguirmi, prenda la sua croce e rinneghi se stesso » (S Matteo XVI, 24); sembra così austera, ed è di una soavità ineffabile, se si considera qual è il termine di questa morte. È la vita; la vita di Dio che si sostituisce alla nostra vita di miserie e di peccati. E proprio questo voleva dire san Paolo quando scriveva: « Spogliatevi dell’uomo vecchio e rivestitevi del nuovo, secondo l’immagine di Colui che lo ha creato » (Col. III, 20). Questa immagine è Dio stesso. E ricordi come Egli esprime formalmente questa Sua volontà nel giorno della creazione, quando dice: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza »? (Gen. I, 26).

Oh, credimi; se pensassimo di più alla nostra origine, le cose della terra ci sembrerebbero così puerili, che non potremmo più stimarle. San Pietro, poi, scrive in una delle sue epistole che « siamo fatti partecipi della natura Divina » (II S. Piet. I, 4). E san Paolo ci raccomanda di « conservare salda sino alla fine questa base » (Ebr. III, 14), inizio del suo Essere, che Egli ci ha dato.

L’anima che ha coscienza della sua grandezza entra in quella santa libertà dei figli di Dio (Rom. VIII, 21), di cui parla l’Apostolo, cioè supera tutte le cose ed anche se stessa.

Mi sembra che l’anima più libera sia quella che più si dimentica; e se mi si chiedesse il segreto della santità, direi: non fare nessun conto di sé, rinnegare il proprio io, sempre. Ecco un buon sistema per uccidere l’orgoglio: farlo morire di fame. L’orgoglio è amore di noi medesimi; ebbene: l’amore di Dio cresca tanto e sia così forte da estinguere ogni altro amore in noi.

Dice sant’Agostino che in noi abbiamo due città: quella di Dio e quella dell’« io »: in proporzione dell’affermarsi della prima, sarà demolita la seconda. Un’anima che vivesse di fede sotto lo sguardo di Dio, che avesse quell’« occhio Semplice » di cui parla Gesù nel Vangelo (S. Matt. VI, 22)), cioè quella purezza d’intenzione che mira a Dio solo, una tale anima mi pare che vivrebbe anche nella umiltà: saprebbe riconoscere i doni ricevuti da Lui, perché l’umiltà è verità, ma non si approprierebbe nulla, riferendo tutto a Dio, come faceva la Vergine santa. I movimenti di orgoglio che senti in te non divengono colpevoli se non quando la volontà se ne fa complice: altrimenti, potrai soffrire molto, ma non offenderai il Signore. Le colpe di questo genere che ti sfuggono come tu dici, senza neppure rifletterci, denotano certamente un fondo di amor proprio; ma questo, mia povera cara, fa parte in qualche modo del nostro essere. Quello che il Signore vuole da te, è che non ti fermi mai volontariamente in un pensiero di orgoglio qualunque esso sia, e che tu non compia mai un atto ispirato da questo stesso orgoglio, perché faresti male; ma se anche tu dovessi poi riconoscere di avere agito così, non scoraggiarti, perché l’irritarsi è ancora segno di orgoglio; deponi invece la tua miseria ai piedi del Maestro come faceva la Maddalena, e chiedigli che te ne guarisca; gli piace tanto vedere che l’anima riconosca la propria impotenza! Allora, come diceva una grande santa, « l’abisso dell’immensità di Dio si trova di fronte all’abisso del nulla (Sant’Angela da Foligno).

Figliola mia, non è orgoglio pensare che tu non vuoi saperne di una vita facile; anch’io ritengo che il Signore vuole davvero che la tua vita si svolga in una sfera dove si respira aria divina. Credi; sento una compassione profonda per le anime che non vivono più in su della terra e delle sue volgarità; mi sembrano schiave, e vorrei dir loro: Scuotete il giogo che pesa su di voi; perché vi trascinate con cotesti lacci che vi incatenano a voi stesse ed a cose inferiori a voi? Io ritengo che i felici, quaggiù, siano quelli che sanno tanto disprezzare e dimenticare se stessi, da scegliersi in retaggio la croce; quando sa trovare la gioia nel dolore, che pace deliziosa! « Io completo nella mia carne ciò che manca alla Passione di Gesù Cristo per il suo corpo che è la Chiesa » (Col. I, 24): ecco ciò che formava la felicità dell’Apostolo. Questo pensiero non mi abbandona mai; e ti confesso che provo una gioia intima e profonda nel vedere che Dio mi ha scelta per associarmi alla passione del suo Cristo. Questa via del Calvario che salgo ogni giorno mi sembra piuttosto la strada della beatitudine. Hai visto mai quelle immagini rappresentanti la morte che miete con la falce? È quanto accade in me; e la sento che si avvicina. La natura ne freme di pena, talvolta; e ti assicuro che, se mi fermassi lì, non esperimenterei che la mia viltà nel dolore; ma questo è lo sguardo umano, e subito « apro l’occhio dell’anima al lume della fede »; questa fede mi dice che è l’amore che mi consuma lentamente, che mi distrugge; e allora provo una gioia immensa e mi abbandono a Lui come sua preda.

Per raggiungere la vita ideale dell’anima, io credo che sia necessario vivere nel soprannaturale, cioè non agire mai « naturalmente ». Bisogna sapere e pensare che Dio è in noi, nell’intimo del nostro essere, e agire sempre con Lui; allora non si diventa mai volgari, neppure compiendo le azioni più ordinarie, perché non si vive in queste cose, ma si oltrepassano. Un’anima soprannaturale non discute mai con le cause seconde, ma si volge a Dio solo; e come è semplificata la sua vita, come si accosta a quella degli spiriti beati, come è sciolta da se stessa e da qualsiasi cosa! Tutto, per lei, si riduce all’unità, a quell’« unico necessario » (S. Luc. X, 42) di cui il Maestro parlava alla Maddalena; ed allora è veramente grande, veramente libera, perché ha « racchiusa la sua volontà in quella di Dio ».  Come appaiono spregevoli le cose visibili, quando si contempla la nostra predestinazione eterna! Ascolta san Paolo: « Quelli che Dio ha predestinati, li ha anche voluti conformi all’immagine del Figlio suo ». Ma questo non è ancor tutto; ed egli ti dirà che tu sei anche nel numero dei predestinati: « Quelli che ha predestinati, li ha pure chiamati ». È il Battesimo che ti ha resa figlia di adozione, che ti ha segnata col suggello della santissima Trinità. « E i chiamati li ha anche giustificati ». Quante volte sei stata giustificata anche tu dal sacramento della penitenza e da tutti quei tocchi di Dio nella tua anima, che ti hanno purificata senza che neppure te ne accorgessi! « Coloro che ha giustificati, poi, li ha anche glorificati » (Rom. VIII, 28-30). È ciò che ti attende nell’eternità; ma ricordati che il nostro grado di gloria corrisponderà al grado di grazia nel quale Dio ci troverà in punto di morte. Lasciagli dunque compiere in te l’opera della tua predestinazione, e segui san Paolo che ti dà un programma di vita: « Camminate in Gesù Cristo, radicati ed edificati in Lui, fortificati nella fede e crescendo in essa sempre più con rendimento di grazie » (Col. II, 6-7).

Sì, figliolina dell’anima mia, cammina in Gesù Cristo; hai bisogno di questa via larga e spaziosa; non sei fatta, tu, per gli angusti sentieri della terra. Sii radicata in Lui, quindi sradicata da te; cioè, ogni volta che incontri il tuo io, contrarialo e santificalo. Sti edificata in Lui, molto in alto, al di sopra di tutto ciò che passa, lassù dove tutto è puro, tutto è luminoso. Sti ben ferma nella fede, non agire che secondo la luce di Dio e mai le tue impressioni o la tua fantasia; credi che Egli ti ama, che vuole aiutarti nelle tue lotte e difficoltà; oh sì, credi al suo amore, al suo « amore troppo grande » (Efes. II, 4), come dice san Paolo. Nutri la tua anima dei grandi pensieri di fede che ci rivelano le nostre vere ricchezze e il fine per cui Dio ci ha creati. Se vivrai di queste verità, la tua pietà non sarà una esaltazione nervosa, come temi, ma sarà soda e vera; è così bella la verità, la verità dell’amore! « Egli mi ha amato e si è dato per me » (Gal. II, 20). Ecco, bambina mia, che cosa vuol dire essere veraci nell’amore. E poi, finalmente, cresci nell’azione di grazie; è l’ultima parola del programma e non ne è che le conseguenze. Se camminerai radicata in Gesù Cristo, forte nella. tua fede, vivrai nella azione di grazie, nella dilezione dei figli di Dio.

Mi domando come è mai possibile che non sia lieta sempre, in qualsiasi pena, in qualunque dolore, l’anima che ha sondato l’amore che c’è « per lei » nel cuore di Dio. Ricordati che « Egli ti ha eletta in Lui, prima della creazione, perché tu sia pura e immacolata al suo cospetto, nell’amore » (Ef. I, 4): è ancora san Paolo che te lo dice. Quindi non temere la lotta, la tentazione. « Quando sono debole — esclamava l’Apostolo — allora sono forte perché la virtù di Gesù Cristo si trova in me » (I Cor. XII, 9).

Che cosa penserà la nostra reverenda i Madre quando vedrà questa lunga lettera? Ella non mi permette quasi più di scrivere, perché sono di una debolezza estrema, e ad ogni momento mi sento mancare. Ma sarà forse l’ultima lettera della tua Elisabetta; ci son voluti molti giorni per scriverla, e questo ti spiegherà la sua incoerenza; eppure, stasera, non so ancora decidermi a lasciarti. Sono le sette e mezzo; la comunità è in ricreazione, ed io sono qui, nella solitudine della mia celletta, e mi sembra di essere già un po’ in paradiso; sono qui, sola con Lui solo, portando la croce con Lui, il mio Maestro diletto. La mia gioia cresce in proporzione delle mie sofferenze; se tu sapessi quale dolcezza si cela in fondo al calice preparato dal Padre dei Cieli!

A Dio, Fr… cara; non posso continuare; ma nei nostri silenziosi incontri, tu sentirai, tu comprenderai tutto quello che non potrò dirti. Ti abbraccio, ti amo come una mamma ama la sua figliolina. Addio, mia piccola cara. Che all’ombra delle sue ali Egli ti custodisca da ogni male ».

Suor Maria Elisabetta della Trinità

« Laudem gloriæ »

Questo sarà il mio nome nuovo in cielo…

http://DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA 25

LA GRAZIA E LA GLORIA (26)

LA GRAZIA E LA GLORIA (26)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO V

LA FILIAZIONE ADOTTIVA CONSIDERATA NELLA SUA RELAZIONE CON CIASCUNA DELLE PERSONE DIVINE. LA RELAZIONE CON IL PADRE E IL FIGLIO.

CAPITOLO V.

Rapporti tra i figli adottivi e la seconda Persona. Il Figlio di Dio, celeste sposo delle anime.

2. – Tuttavia, so che nella sacra Liturgia è alle vergini, e specialmente alle vergini dedicate a Dio per la professione religiosa, che sono specialmente applicati il titolo e l’onore della sposa e della fidanzata di Cristo. Ne vedo come garanti le preghiere recitate dal Pontefice, i canti che le accompagnano e le altre cerimonie di consacrazione delle vergini. Così, per esempio, nel dare loro l’anello, il Vescovo dice: « Io ti fidanzo a Gesù Cristo, il Figlio del Padre Supremo… Ricevi dunque questo anello come il sigillo dello Spirito Santo, affinché, se rimani fedele al tuo Sposo celeste, tu possa essere eternamente incoronata ». E le vergini cantano: « Eccomi qui, fidanzata sposa a Colui che gli Angeli servono, a Colui la cui bellezza il sole e la luna ammirano; il mio Signore Gesù Cristo mi ha legato a Lui con il suo anello, ed Egli mi ha adornata con una corona come sua sposa ». E il Vescovo, in un magnifico Prefatio, esalta ancora « la beata verginità che, riconoscendo il suo Autore, e la santa gelosia dell’integrità degli Angeli, si riserva al talamo immacolato di Colui che è insieme lo Sposo e il Figlio della perpetua verginità” (Pontificale Rom. de Consecr. Virginum. Dell’antichità di questi riti ci si può convincere leggendo: Muratori, Liturg. Rom. vet. t. 1, p. 444; t. 2 p. 701). – Ma celebrare il privilegio delle vergini cristiane in questo modo non significa negare che ogni anima in stato di grazia abbia diritto al titolo di sposa, non più di quanto chiamando con il nome di religiosi quelle persone specialmente dedicate al culto di Dio, noi non pretendiamo di negare il significato di questa parola al resto dei Cristiani. Che cosa facciamo, dunque, o meglio, che cosa fa la Chiesa, quando attribuisce singolarmente a certe persone o il nome di sposa o quello di religiosa? Essa consta che esse hanno un diritto speciale per portare l’uno o l’altro titolo: perché nello stato che abbracciano, devono realizzare il suo significato in modo più glorioso e completo. Queste Vergini, che rinunciano per sempre al diritto di appartenere a sposi terreni per appartenere a Gesù Cristo, dedicandogli senza alcuna condivisione, anche legittima, tutto ciò che hanno e che sono, non meritano forse di portare singolarmente questo nome benedetto che le distingue? – Al di là di questa unione delle vergini, la teologia mistica ci mostra nella vita dei Santi altri fidanzamenti, un altro e ancora più intimo matrimonio spirituale tra Cristo e le anime privilegiate, come lo furono Santa Teresa, Santa Gertrude, Santa Caterina da Siena e tante altre. – Il piano di quest’opera non mi permette di entrare nella spiegazione di questi favori straordinari (Vedi su questo argomento Santa Teresa, Castello int., 7° dim.; Giovanni della Croce, Cantici spirituali, 19° cant.; S. Bern., in Cant. Serm. 83, ecc.) Ci basterà notare che qui non c’è nulla che contraddica la dottrina precedentemente esposta. « Questo matrimonio spirituale e casto del Verbo e dell’anima » (San Lorenzo Giustin., de Spirituali et casto Verbi animæque connubio.) non è, in fondo, che un’alleanza fondata sulla grazia, ma con una manifestazione talvolta sensibile del Verbo che si rivela all’anima come Sposo, un sentimento molto vivo, intimo e quasi abituale della sua presenza, una trasformazione più profonda dell’essere umano sotto le effusioni della luce divina e i tocchi sacri dello Sposo. – Con questi favori straordinari Nostro Signore fa, per certi membri del suo Corpo mistico, qualcosa di analogo a ciò che fece per il Suo corpo naturale, quando si mostrò trasfigurato sul Tabor. Non era questa la glorificazione finale della sua santa umanità, ma un preludio, una prova temporanea di ciò che sarebbe stato un giorno, dopo l’uscita dalla tomba. Così gli piace dare un assaggio, nelle anime scelte, dell’unione che sarà consumata nella gloria. E come lo splendore riversato sul corpo del mio Maestro nell’ora della trasfigurazione veniva dall’interno, come una rivelazione della divinità latente sotto le apparenze della nostra miseria, così le prerogative eccezionali che ammiriamo nei Santi sono lo svolgimento più pieno e l’irradiazione esteriore del mistero che è al fondo di tutte le anime santificate dalla grazia. Ed è da questo punto di vista che, senza essere lo stato normale della nostra attuale unione con Gesù Cristo, esse contribuiscono nella loro parte a gettare una maggiore luce su questa mirabile alleanza.

1 – Quando si parla della santa Chiesa, i titoli di corpo e sposa di Cristo Gesù sono così intimamente uniti che l’uno sembra fondersi con l’altro. Aprite l’epistola di San Paolo agli Efesini; vi leggerete che tra Cristo e la sua Chiesa c’è la stessa unità che tra uomo e donna. Un’unione molto più stretta e profonda, poiché l’unione dei coniugi cristiani, santificata com’è dal Sacramento della nuova alleanza, deve rappresentare quella di Cristo con la Chiesa come suo esemplare divino. Questo è ciò che l’Apostolo dichiara quando dice del Matrimonio cristiano: « Questo è un grande sacramento, io dico in Cristo e nella Chiesa » (1 Ef., V, 32). Ora, tra l’uomo e la donna non esiste una qualsiasi unità: « Essi saranno due – dice la Scrittura – ma in una sola carne », tanto intima deve essere la loro società, tanto sacri sono i diritti che hanno l’uno sull’altra. Così il marito deve amare la moglie come il proprio corpo, in modo che il suo amore per lei sia lo stesso del suo amore per se stesso (Ibid., 28, 29). Vediamo ora, che non è l’unità puramente morale che risulta da un’amicizia reciproca, ma una certa unità fisica che richiede l’unità dell’amore e deve essere consacrata da essa. E questo è ciò che ammiriamo, ma con una perfezione superiore, nell’archetipo delle unioni umane, cioè nell’unione di Gesù Cristo e della sua Chiesa. Il Verbo di Dio, nel suo immenso desiderio di unirsi più strettamente a noi, si è rivestito della nostra natura, affinché in essa e attraverso di essa potesse contrarre quel misterioso matrimonio con la sposa. E questa sposa, perché non fosse meno indegna di Lui, la trasse dal suo fianco, dal suo cuore aperto sulla croce. Da lì è uscita, vivificata dalla nascita dal sangue dello Sposo; da lì ha ricevuto tutto ciò che la rende ciò che è, gloriosa, santa, immacolata: carne della sua carne e osso del suo osso. Questa è la Sposa e questo è il Corpo di Cristo; lo Sposa perché è il Corpo, e il Corpo perché è la Sposa (Ef., V, 30, 31. « Sponsus in capite, sponsa in corpore », dice sant’Agostino). Abbiamo sentito le Sacre Scritture parlarci in venti luoghi del Corpo Mistico di Gesù Cristo, che è la Santa Chiesa di Dio. Esse non proclamano né meno spesso, né meno eloquentemente, la qualità della sposa. Uno dei libri dell’Antico Testamento, il Cantico dei Cantici, non ha altro scopo che rappresentare in un’allegoria poetica le nozze spirituali di Cristo con la sua Chiesa, ed il sacro amore con cui essi ardono l’uno per l’altro (P. Gietmann, Comment. in Cant. De Allegoria Cantici (in Cursu Script. S., auctore Cornely, etc. p. 388, seq.). Anche il V Concilio, tra le altre opere di Teodoro di Mopsuesta, respinse con orrore uno scritto in cui questo precursore e maestro di Nestorio sosteneva che i Cantici sono una scrittura profana, e « non contengono l’annuncio dei beni futuri della Chiesa ». (Labbe Concil., t, VI, p. 64). – La stessa alleanza ci è promessa nei Profeti: « In quel giorno, dice il Signore, il mio popolo mi chiamerà mio sposo e non più mio Signore; e io vi sposerò per sempre, e vi sposerò in giustizia e misericordia… e fedeltà » (Os. 1:16, 19-20; cfr. Is., LIV, 5, 6 – testo ebraico – . Il Nuovo Testamento è venuto a fare piena luce su queste promesse divine ed a mostrarci il loro adempimento. Cristo è lo Sposo che si rallegra per la sua presenza, e la cui assenza porterà digiuni e lacrime; è il Figlio del grande Re, i cui servi vanno per tutti i crocicchi e le strade invitando la gente al banchetto di nozze (Matt. IX: 15; XXII:2 suqq.). Giovanni Battista, l’amico dello Sposo, sentì la voce di Colui che possiede la sposa, e ne fu felicissimo (Giov., II, 29.3). Giovanni Evangelista, nelle sue visioni di Pathmos, contemplò la solennità nuziale in cui la Sposa splendidamente adornata si presenta, alla chiamata dello Sposo, per sedersi accanto a Lui sul trono della sua gloria (Apoc., XIX, 7-9; XXI,2; XXII, 16). Più di un lettore potrebbe volermi fermare qui per dire: non abbiamo dubbi che Gesù Cristo sia veramente uno sposo per la Chiesa, poiché è il Capo di cui Ella stessa è il corpo. Ma non è solo per la Chiesa che dovete rivendicare questo titolo; è in particolare per l’anima di ciascuno dei figli di Dio. Sono così inconsapevole di questo, e così poco dimentico di questo, che tutto ciò che precede, contiene il germe della verità di cui devo dare la prova e la spiegazione. A questo proposito, non ho già sottolineato che, per la Chiesa, il titolo di Corpo e quello di Sposa sono inseparabili? Pertanto, poiché il primo titolo mi unisce a Gesù Cristo come membro nell’unità di questo stesso Corpo, perché il secondo non dovrebbe appartenere a me, che sono nella Sposa? Si può obiettare che, se l’unità del corpo e la molteplicità delle sue membra non siano incompatibili sotto uno stesso capo, questo non è più il caso per la qualità della Sposa: poiché lo Sposo è unico, la Sposa deve essere come Lui. Ecco perché il crimine dello scisma e dell’eresia, da un lato, e il divorzio e la poligamia tra i Cristiani, dall’altro, sono ugualmente ingiuriosi per la misteriosa alleanza di Cristo e della sua Chiesa: perché entrambi tendono a moltiplicare la Sposa, o dividendola da se stessa o distruggendo l’unità indissolubile nel tipo umano che la simboleggia. – A S. Paolo risolvere l’obiezione! Egli certamente conosceva questa necessaria unicità della Sposa; e tuttavia egli stesso prese come sua missione di affidare ciascuna delle Chiese particolari a Cristo, l’unico Sposo, e di presentargliele come una vergine pura (1 Cor. XI, 2). Ha voluto moltiplicare il numero delle spose, quando non ha risparmiato né sforzi né sangue per aumentare il numero di queste chiese? No, senza dubbio. Perché no? Poiché le Chiese particolari formano nel loro insieme armonioso la Chiesa universale, l’unica Sposa del re Davide: in un salmo incomparabile, egli ha cantato questo Re Salvatore Re, e la Regina, cioè la Chiesa, in piedi alla sua destra, con vesti tutte splendenti d’oro e di ricami; ma le figlie dei Re, vergini come Ella, la accompagnano, presentate in letizia e condividendo la gloria e l’amore dello Sposo, perché sono una cosa sola con Ella (Salmo, XLIV, 10, 15,). « Ecco Roma, ecco Cartagine, ecco altre città e altre ancora; tante figlie di re che sono le delizie del Re Gesù nello splendore della sua gloria; ma di tutte se ne fa una sola regina. Et ex omnibus fit una quædam regina », dice S. Agostino nella sua interpretazione di questo passo (Enarr. in ps. XLIV, n. 23). Così, sebbene il numero di regine e fanciulle sia infinito, c’è solo una colomba per lo Sposo: « Una est columba mea » (Cant., VI, 7-8). Perciò, avvicinatevi, anime sante, compagne della Chiesa, sue figlie e membra, che vivete nel suo seno e della sua vita, non temete che lo Sposo vi respinga: perché abbracciandolo tra le sue braccia, è anche voi che Egli abbraccia, voi che Egli stringe al suo cuore. (Sant’Agostino si chiede come i fedeli, che sono figli della Chiesa, possano essere spose nella Chiesa, sposa e madre. « Nei matrimoni umani e carnali – egli dice – la sposa è diversa dai figli, ma nella Chiesa di Dio la Sposa non è distinta dai figli, quæ uxor, ipsi filii… Essere nella Chiesa è essere sposa nella misura in cui se ne è membri. (Enarr. In psalm. CXXVII, n° 12). Inoltre, i santi Padri non hanno mai cessato di descriverci l’unione soprannaturale di Gesù Cristo con le anime giuste sotto il simbolo di una purissima unione tra sposi. Chi non conosce l’eloquente esclamazione di San Gregorio di Nazianzo nel panegirico di sua sorella Gorgonia: « O purezza meravigliosa, e conservata senza macchia dal Battesimo! O anima, sposa di Gesù Cristo, in un corpo immacolato per un letto nuziale – in puro corporis thalamo » (S. Gregor. Naz. P. Gr. t. 35, p. 805.)! – Un altro Gregorio, quello a cui i posteri hanno dato il nome di Magno, ci mostra lo Sposo divino « riposare con amore nei cuori dei fedeli, e nutrirsi lì a mezzogiorno, cioè nel fervore della carità, sul pascolo verdeggiante delle loro virtù » (S. Gregor. M. sup. Cant ,c. I, 6). – Questa dottrina è troppo conosciuta per aver bisogno di accumularla tra i testi. Diciamo in una parola che, tra la legione di eminenti interpreti e santi mistici che, da Origene fino a tempi recenti, hanno scritto sul Cantico, non ce n’è uno che non abbia visto in questa sublime allegoria non solo la Chiesa, la sposa di Gesù Cristo, ma anche ogni anima santa con Ella. Diciamo ancor più; è di questo ancor più che di quell’altro di cui parlano nei loro commenti: testimone ne è questo passo di San Bernardo: « La sposa è ogni anima che ama (« Sponsæ nomine censetur anima quæ amat » – San Bernardo. In Cant. 7, n. 3) » . Inoltre, niente potrebbe essere più naturale di questa alleanza, poiché queste anime sono la parte migliore della Chiesa; poiché sono unite nell’unità della stessa fede, nello stesso desiderio, nella stessa intenzione e nello stesso cuore, esse formano la colomba unica.

3. – Cristo è l’esemplare e il fratello, il capo e lo sposo dei figli di Dio. Perché tutti questi titoli e come si armonizzano tra loro? Bossuet, dopo S. Basilio il Grande (S. Basilio, de Spir. s. ad Amphiloc., c. 8), ce ne darà la risposta: « È necessario – dice questo grande uomo – adorare la sacra economia con cui lo Spirito Santo ci mostra la semplice unità della verità attraverso la diversità delle espressioni e delle figure. È l’ordine della creatura di poter rappresentare solo attraverso la pluralità raccattata l’immensa unità da cui proviene. Così, nelle sacre sembianze che lo Spirito Santo ci dà, dobbiamo notare in ognuna il tratto particolare che porta, per contemplare nell’insieme riunito l’intero volto della verità rivelata. In seguito, dobbiamo passare sopra tutte le figure (e tutte le analogie) per sapere che c’è qualcosa di più intimo nella verità, che le figure, né unite né separate, non ci mostrano: ed è lì che dobbiamo perderci nella profondità del segreto di Dio, dove non si scorge più nulla, se non il vedere le cose così come sono. Tale è la nostra conoscenza, quando siamo guidati dalla fede » (Bossnet, Lettera a una giovane donna di Metz). – Riconosciamo qui, senza bisogno di farlo rimarcare, quel metodo generale di elevarci alla concezione delle cose divine, insegnato dal grande Areopagita, e così meravigliosamente applicato dal Dottore Angelico, San Tommaso d’Aquino (San Tommaso, de Pot., q. 7, a 5 et alibi passim). L’intelligenza dell’uomo non ha alcun pensiero per concepire, né alcuna parola per esprimere come merita, l’unione fatta dalla grazia tra il figlio adottivo e il Figlio per natura. Saremo ridotti al silenzio, o lo Spirito Santo dovrà rinunciare a darci un’idea di questa benedetta unione? No, senza dubbio. Cosa farà allora? Egli sceglierà dal linguaggio umano tutti i termini che possono, da diversi punti di vista, rappresentare i legami più forti e i commerci più intimi, in modo che, riunendo come in un unico fascio tutti questi raggi sparsi, possiamo formare una debole immagine di questa alleanza per sempre benedetta. Da qui vengono questi nomi di sposa e di sposo, dopo quelli che abbiamo studiato alla luce della rivelazione. Cristo è lo Sposo delle anime e ciascuna di esse, nella misura della sua grazia, è una sposa. – Queste ultime espressioni tendono a tracciare per noi più espressamente diversi caratteri dell’unione della grazia con Gesù Cristo Nostro Signore. Questo ci sarà facile da capire se meditiamo su come si formi l’alleanza dello Sposo con la sposa, e quali siano i beni propri di questa unione. In primo luogo, è evidente che non è la natura che fa l’unione del matrimonio; anzi, tenderebbe a metterla da parte quando i legami naturali sono più stretti. Qui è la libera scelta che decide tutto. Un uomo sceglie una moglie per amore, e la moglie così scelta si dà a sua volta, non per costrizione ma per scelta: una società formata nel cuore prima di essere esternamente espressa in atti autentici. – Non è così che Gesù Cristo si unisce alle anime? Quale amore, quale premura, quale ricerca? Lo vedo scendere dal cielo alla terra, andare da Betlemme alla croce, stare in mezzo a noi nel suo tabernacolo, chiamare le anime, moltiplicare i suoi passi, bruciare d’amore e in qualche modo spirare amore. Ed è quando le anime così avvertite, chiamate e cercate rispondono con amore all’amore, che l’alleanza si conclude definitivamente. (Occorre leggere S. Agost. nel suo commento al versetto 12 del Salmo XLIV, che egli traduce secondo una versione antica: « Quoniam concupivit rex speciem tuam. Quam speciem, inquit, nisi qua mille fecit? Rex tuus et ipse est sponsus tuus; regi nubis Deo, ad illo dotata, ad illo decorata, ad illo redempta, ad illo sanata. Quiquid habes unde illi placeas, ad illi habes. » In h. Salmo, n. 26). Ma che differenza tra le unioni umane e questa unione soprannaturale del Verbo con la sua creatura, se la guardiamo soprattutto dal lato dello Sposo! E quale grande idea di ciò è data dall’esortazione di San Paolo ai coniugi cristiani: « O uomini, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa, e si è offerto per essa, al fine di santificarla, purificandola nel battesimo d’acqua mediante la parola di vita, – per preparare per sé una chiesa gloriosa….., santa e immacolata » (Ef. V., 25-28). Bisogna aggiungere che, se la premura dello Sposo delle anime è infinitamente più grande, il suo amore è ancora più incomparabilmente gratuito: poiché Egli si è riservato il privilegio di dare tutto, senza aspettarsi nulla che non venga da Lui: tutto, dico, non solo fino al suo nome, ma fino all’amore che riceve, fino alla bellezza che rende la Sposa piacevole ai suoi occhi. – È dunque una catena d’amore, la carità divina, che ci viene rivelata da questi nomi di Sposo e di sposa. L’amicizia è certamente una grande cosa, quando l’amico è il Creatore, e l’amica, la sua povera creatura. Tuttavia, i due titoli che stiamo meditando hanno qualcosa che mi tocca ancora di più. A parte il fatto che contengono qualcosa di più dolce e tenero, esprimono più fortemente la comunione molto intima che debba esistere tra l’anima e Dio (San Bernardo, in Cant. Serm. 7 n. 2). È, da parte di quest’ultimo, la condivisione dei suoi infiniti tesori con la sposa che si è fatto; da parte di quella, la conformità dei giudizi, delle volontà, dei gusti, con i giudizi, le preferenze ed i più piccoli desideri dell’amato. La fusione di due anime e due cuori in una sola anima e un solo cuore, il cuore e l’anima dell’Amato. Un dono reciproco, in cui l’uno comunica abbondantemente ciò che ha, mentre l’altra, non avendo nulla di proprio, non vuole altra vita, né altri interessi che quelli dello Sposo celeste. (Che questi siano gli effetti e i caratteri di questa divina alleanza, lo apprendiamo da ciò che i Santi hanno scritto delle nozze mistiche e spirituali, cioè di un’analoga, ma più perfetta, dell’unione tra Gesù Cristo e certe anime privilegiate. Ascoltiamo Santa Teresa che parla di se stessa: « Nostro Signore, mostrandosi a me nell’intimo della mia anima attraverso una visione immaginaria, come aveva fatto spesso, mi dice: “Guarda questo chiodo; è il marchio e il pegno che sarai la mia sposa”. Fino ad ora, non lo avete meritato. D’ora in poi, ti prenderai cura del mio onore, non solo vedendo in me il tuo Creatore, il tuo Re e il tuo Dio, ma anche vedendoti come mia vera sposa. Da questo momento, il mio onore è il tuo e il tuo onore è il mio. » Poi aggiunge: « Mentre stavo fondando il monastero di Siviglia, la Madonna mi disse: ‘Tu conosci il matrimonio spirituale che esiste tra noi: in virtù di questo legame, ciò che io possiedo è tuo; e così ti do tutti i dolori e le fatiche che ho sopportato. In virtù di questo dono tu puoi chiedere al Padre mio come se tu domandassi il tuo proprio bene » – Santa Teresa. Aggiunte alla sua vita da lei stessa, tradotte da P. Bouix, p. 592, 593. Lo stesso contratto è stato stipulato tra la Madonna e la Beata Margherita-Maria, e gli effetti sono gli stessi come si può leggere nella Vita di B. scritta dai suoi contemporanei (Vita ed Opere della S., Marg. Maria, 3° ed., t. 1, p. 15, 15).

4. – La teologia ci insegna, seguendo sant’Agostino, che ci sono tre beni principali da considerare nel matrimonio: la fedeltà, l’indissolubilità e la fecondità, « fides, sacramentum et proles » (sant’Agostino, De Nuptiis et concup., c. 11). O Gesù, amabilissimo Sposo delle anime, proprio ora stavo ammirando come il vostro amore di Sposo superi gli affetti umani di tutta l’altezza che si addice al loro ideale. Ora lasciatemi contemplare, per istruirmi nei miei doveri, per lodarvi e per confondermi, come da parte vostra i tre beni che ho appena enumerato, superino immensamente quelli delle unioni mortali. Fedeltà. È una dottrina di fede che non si abbandona mai un’anima, a meno che essa stessa non vi costringa, con il vostro abbandono, a ritirarvi da essa. Cosa devo dire? Anche l’abbandono non vi respinge. Non siete Voi il buon Pastore che va alla ricerca della pecorella smarrita? Non c’è posto nel focolare umano per la sposa sleale che l’ha disonorato con la sua infamia. Ma Voi, Signore, non conoscete questi rifiuti, per quanto legittimi possano essere. Ho letto in Geremia, il vostro Profeta, la descrizione spaventosa che egli dà, sotto l’ispirazione del vostro Spirito, delle infedeltà di Israele e di Giuda, entrambi il tipo di anime che hanno violato la fede che vi hanno giurato. Ma ciò che mi conforta tanto quanto le vostre minacce mi spaventavano, sono i teneri inviti che rivolgete a queste spose colpevoli: « Ritornate – dite loro attraverso lo stesso Profeta – convertitevi a me, guida della vostra verginità, perché Io sono vostro Sposo. E siccome io sono la santità stessa, Io guarirò il male che la vostra fuga e le vostre defezioni hanno causato ». (Gerem. III, passim). È là, se lo comprendiamo bene, che Dio Nostro Signore ha il diritto di mostrarsi meno inesorabile delle sue creature: puro nell’essenza, Egli può restituire un candore verginale alle anime più disonorate dalla macchia del vizio; lo può con un’efficacia tanto più certa, poiché ha fatto del suo sangue versato a torrenti un bagno salutare per lavare tutte le nostre macchie. – E che per oscurare lo splendore di una fedeltà ineguagliabile, non si parli di un amore condiviso, con il pretesto che lo Sposo celeste vorrebbe, per quanto è in sé, comunicarsi a tutte le anime. Se questa condivisione avesse realmente luogo, il bene e l’amore che Egli dà a ciascuno sarebbe incomparabilmente al di sopra dei loro meriti, e richiederebbe ancora delle azioni di grazie eterne. Ma Dio non voglia che sia così. « Gesù Cristo nella sua interezza è così interamente tuo che può darti dei compagni e mantenerti in una fedeltà inviolabile. Esse sono distinte da Te nella sostanza, ma sono uno con Te per la carità. Perciò, quando le ama, è ancora Te che Egli ama; così che, lungi dal diminuire per ciascuno, a causa della moltitudine, come avviene negli affetti umani, il suo amore ne riceve piuttosto un nuovo aumento. » Così parlò alla sua anima un autore pio e dotto, le cui opere ci sono state conservate sotto il nome di San Tommaso d’Aquino (Opusc., de Dilect. Dei, c. 12). Perciò, o mio Salvatore, non è della vostra fedeltà che dubito. Ma chi mi assicura la mia, in mezzo a tante tentazioni e tanti fallimenti? Voi solo, per la forza della vostra destra; e il trionfo della vostra fedeltà, come quello del vostro amore, sarà di salvaguardare la fedeltà delle vostre spose e di tenerle per sempre fissate nel santo amore. Ma per coloro che sanno misurare le cose per il loro valore, quale crimine sarebbe per un’anima tradire un Dio così amorevole e così gentile; e quali tormenti non dovrebbe essere disposta a subire, piuttosto che rendersi, anche solo una volta, infedele ad uno sposo così fedele! – Io ho parlato della prima cosa buona di questa felice unione, e sulla seconda non farò che due o tre osservazioni: perché non abbiamo detto quasi nulla della fedeltà che non possa essere in gran parte legata all’indissolubilità. Il legame del matrimonio umano, sebbene indissolubile per natura, è interrotto dalla morte. Non è questa la condizione dell’unione contratta dal Verbo con l’anima che ha scelto come sua sposa. La mano della morte, che scioglie gli altri nodi, verrà a dare a questo, con la suprema perfezione, il carattere immutabile dell’eternità, poiché la sposa sarà allora, come lo Sposo, immortale nella vita della grazia e della gloria, cioè nell’unione consumata. È solo in questa vita che il matrimonio divino può essere sciolto, non dallo Sposo, ma dalla Sposa, le cui gravi colpe la porterebbero alla morte. Ora, a questo proposito, c’è una grande differenza tra il matrimonio soprannaturale e l’unione comune. Infatti, questa morte spirituale che rompe l’alleanza tra l’anima e Dio è nel potere della sposa di sfuggirvi con l’assistenza dello Sposo divino; inoltre, con la stessa assistenza, essa può lasciare la tomba e rinnovare la catena d’oro che la lega a Cristo Gesù. – Quanto è bella e gloriosa, dunque, l’unione significata dai titoli di Sposo e sposa! Ma anche qual è la sua fecondità! Questo è il terzo bene che dobbiamo considerare in essa. Innalziamo le nostre menti e i nostri cuori al di sopra dei pensieri volgari, e non lasciamo che nulla di vile o terreno entri nella contemplazione dei frutti di questa unione divina. L’anima, sposa del Verbo, diventa madre, e la posterità che la tenerezza dello Sposo le dà attraverso il suo Spirito, sono i meriti nel tempo e la gloria nell’eternità. Io lo so, che anche per questo misterioso parto, la pena e la sentenza pronunciata contro la prima donna, “Tu partorirai nel dolore“, ha la sua controparte nell’ordine dello spirito; ed è per questo che ogni opera santa che è un merito è allo stesso tempo soddisfazione per il peccato. – Ma anche che le consolazioni che seguono questa generazione di opere buone superano la gioia che fa tremare le madri secondo natura, « al pensiero che un uomo sia venuto nel mondo » (Gv. XVI, 20-21). D’ordinario i figli non si aggiungono numerosi al focolare senza qualche danno per la madre: talvolta c’è il pericolo di morte; la salute può avere delle menomazioni; oserei dire che certi fiori di bellezza fisica, questo tesoro che le donne vanitose stimano al di sopra delle glorie della maternità, possono appassire nel duro lavoro di modellare gli uomini. Non c’è nulla di simile da temere nella maternità spirituale. Più feconda è la sposa e più numerose sono le nascite, più vigorosa diventa l’anima, più viva e più radiosa è la sua bellezza. Qui non ci sono limiti alla fecondità. Infatti, tutto ciò che può contribuire non solo a prolungarla ma ad esaltarla, cresce in proporzione ai frutti che ha prodotto: l’amore reciproco, la forza, lo splendore della giovinezza, il desiderio; e, come conseguenza naturale, i frutti stessi sono tanto più belli quanto maggiore è il numero di quelli che li hanno preceduti. – Ma per un’anima completamente posseduta dall’amore del suo Dio, i meriti personali, per quanto grandi possano essere, non basterebbero. Essa ama, adora; nell’ardore del suo zelo, brucia per acquisire per l’amato nuovi figli che lo adorino e lo amino con essa. Né il dolore, né la fatica le costano quando si tratta di farlo conoscere e di conquistare cuori per Lui. Dove sono i Santi che, contenti di essere Santi per se stessi, non abbiano lavorato, secondo la misura e l’estensione delle loro forze, per propagare il regno di Dio sulle anime? È il privilegio incomunicabile delle spose di Cristo di cercare delle compagne, tanto più felici e orgogliose quanto possano portarne di più numerose, di più belle e meglio adornate all’unico Sposo, il Re Gesù (Psalm., XLIV, 14, seg.).

5. – Per coronare queste considerazioni su uno dei titoli più cari alle anime particolarmente devote a Gesù Cristo Nostro Signore, mostriamo, in poche parole, la catena di verità sviluppata in quest’ultimo libro. Per noi, il punto più importante è la paternità dell’adozione che ci consegna al Padre come suoi figli. Come figlio di Dio, posso dire al Figlio eterno: fratello mio. Se Gesù Cristo è ancora il Capo del corpo di cui sono membro, se vuole che la mia anima stia con Lui in una relazione sponsale, queste due verità, lungi dal contraddire la prima, la confermano. Perché lo fanno? Perché entrambi i titoli mi danno un nuovo diritto di guardare a Dio come mio Padre. – Come membro del Corpo mistico di cui Cristo è il capo, appartenendo così strettamente alla sua Persona che non mi separa da Lui nei suoi misteri, in Lui e attraverso di Lui partecipo alla sua filiazione divina. Non vi partecipo meno, grazie al titolo di sposa. Con l’alleanza nuziale, infatti, la sposa, che fino ad allora era stata estranea alla famiglia del marito, prende posto in essa; e non un posto qualsiasi, ma il posto di una figlia agli occhi del padre e della madre di colui che l’ha resa, sposandola, carne della sua carne e osso del suo osso,secondo l’espressione energica delle nostre Scritture. Ed è ciò che il Cantico esprime con adorabile semplicità quando mette questa apostrofe sulle labbra dello Sposo: « Tu hai ferito il mio cuore, sorella, mia sposa, soror mea sponsa (Cant., IV, 9-10). Sorella mia, perché diventando mia sposa, sei diventata la figlia di mio Padre; sorella mia anche perché per aspirare alla mia mano dovevi essere della mia stirpe: perché Cristo non si mescola. Ed è così che nei nostri misteri tutto è richiamato e tenuto insieme; così anche tutte le nostre relazioni con l’unico Figlio di Dio contribuiscono a far risplendere maggiormente la nostra filiazione adottiva.

(Su questo titolo di sposo e sposa, si leggerà con frutto Riccardo di San Vittore nel prologo della sua spiegazione del Cantico dei Cantici, e nel cap. 7 dove descrive i misteriosi colloqui dello Sposo con la sposa – P. L. t. 196 -; idem per Bossuet, Discorso sull’unione di Gesù Cristo con la sua sposa. – Si noti anche questo bel passaggio di San Bernardo: « Sponsa vero nos ipsi sumus, si non vobis videtur incredibile; et omnes simul una sponsa, et animæ singulorum quasi singulæ sponsæ… Multum haec sponsa sponso suo inferior est genere, inferior specie, inferior dignitate. Attamen propter Aethiopissam istam de longinquo Filius æterni Regis advenit, et, ut sibi desponsaret illam, etiam mori pro ea non timuit… Unde tibi, aninia humana, unde tibi hoc? Unde tibi tam inaestimabilis gloria ut ejus sponsa merearis esse in quem angeli ipsi desiderant prospicere? Unde tibi hoc ut ipse sit sponsus tuus cujus pulchritudinem sol et luna mirantur; ad cujus nutum omnia mutantur? Quid retribues Domino pro omnibus quæ retribuit tibi, ut sis socia mensæ, socia regni, socia denique thalami, ut introducat te Rex in cubiculum suum? Vide jam quibus brachiis vicariæ charitatis redamandus et amplectendus si qui tanti te aestimavit, imo qui tanti te fecit? De latere enim suo deformavit, quando propter te obdormivit in cruce, somnium mortis excepit. Propter te a Deo Patre exivit, et matrem Synagogam reliquit ut adhærens ei unus cum eo spiritus efficiaris. Et tu ergo..… desere carnales affectus, sæculares mores dedisce.., Jam enim desponsata es illi, jam nuptiarum prandium celebratur: nam cœna quidem in cœlo et in aula æterna paratur. » – Serm. 2 in dom. 1 post octav. Epiph., n. 2, sgg. P. L. t. 183, p. 158, sq.; cfr. serm.74 et 83 in Cantica).

21 SETTEMBRE (2022), FESTA DI SAN MATTEO APOSTOLO ED EVANGELISTA

S. MATTEO

Otto HOPHAN: GLI APOSTOLI

(Traduz. dal tedesco di Mons. G. SCATTOLON – Marietti ed. TORINO, 1951; Impr. Treviso, 1. x. 1949, A. Mantiero, Vescovo di Treviso.)

La Chiesa latina celebra la festa dell’apostolo ed evangelista Matteo il giorno 21 settembre, quando il giorno e la notte si succedono l’uno all’altra divisi in parti uguali: abbiamo l’impressione che questa data sia simbolica per Matteo quanto lo è per il suo collega e vicino Tommaso il giorno 21 dicembre, che è il giorno più corto dell’anno e la traiettoria percorsa dal sole è la più bassa; il posto stesso, ch’egli occupa nei quattro cataloghi degli Apostoli, ci rivela in lui l’uomo del centro, il ponte quasi, che congiunge la prima alla seconda metà dei Dodici: centro e misura d’oro caratterizzano pure la sua natura e l’opera sua. L’arte cristiana gli ha decretato per simbolo, in quanto è evangelista (*), un uomo con le ali, perché il suo Vangelo comincia con la genealogia umana di Gesù Cristo; or questo simbolo va anche più oltre, esso dice l’indole di Matteo: era una persona, che conosceva forse meglio d’ogni altro Apostolo tutti gli aspetti dell’umano, non escluso il peccato; una persona però alata, perché con l’ala della propria buona volontà e con quella ancor più robusta della grazia si elevò al di sopra dell’umano e del troppo umano.

(*) I quattro simboli: l’uomo alato, il leone, il toro e l’aquila, che nell’Antico Testamento vide il profeta Ezechiele (1, 5 ss.), furono accolti anche da Giovanni nell’Apocalisse: « Dinanzi al trono e intorno al trono v’erano quattro esseri, pieni di occhi davanti e di dietro. Il primo essere era simile a un leone, il secondo somigliava a un toro, il terzo aveva un volto come un uomo, il quarto assomigliava a un’aquila volante » (IV, 6 ss.). L’arte cristiana, sin dai tempi di Costantino, applicò questi quattro simboli ai quattro Evangelisti, sebbene in principio non sempre e ovunque uniformemente; l’attuale designazione cominciò ad affermarsi con Girolamo e dal secolo settimo è divenuta definitiva; si tenne conto dell’inizio dei quattro Vangeli; così Matteo ebbe quale simbolo caratteristico l’uomo alato = albero genealogico di Gesù Cristo, Marco il leone = predicazione del Battista nel deserto, Luca il toro = sacrificio di Zaccaria, Giovanni l’aquila, che si lancia nelle altezze = « In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Iddio, e il Verbo era Iddio ».

IL GABELLIERE

Matteo, nome derivato probabilmente dall’ebraico « mattai = dono di Dio », portava il doppio nome Matteo-Levi. Con questo secondo nome lo introducono nel Vangelo Marco e Luca; Matteo invece si chiama apertamente col suo nome conosciuto fra i Cristiani « Matteo »; di qui la questione, se il pubblicano chiamato dal Signore a Sè, che nei Vangeli di Marco e Luca ha il nome di Levi, mentre nel primo Vangelo ha quello di Matteo, sia un unico individuo o non piuttosto due. Il confronto però delle tre sezioni: Matteo 9, 9-13, Marco, 2, 13-17, Luca 5, 27-32, come pure le informazioni evangeliche, che precedono e seguono la vocazione del pubblicano, tolgono ogni dubbio sulla identità di « Matteo » e «Levi »:: si tratta della medesima persona; il contenuto infatti e la cornice dei vari racconti s’accordano perfettamente; del resto Matteo stesso sembra alludere a un suo secondo nome nella relazione della vocazione, perché si presenta come « Matthaîon legémenon » *, « il così detto Matteo », come potremmo anche rendere l’espressione greca. – Girolamo, nel suo commento al Vangelo di Matteo, ha un’ottima osservazione su questa diversa attribuzione di nome in Marco e Luca da una parte e in Matteo dall’altra: « Gli altri Evangelisti non vollero chiamare Matteo col suo nome comunemente conosciuto per venerazione e rispetto verso di lui, ma dissero “Levi”; l’Apostolo stesso si chiama ” Matteo” e ” pubblicano”: con questo egli vuol mostrare ai iettori che nessuno deve disperare della salvezza, se si converta a una vita migliore; lui stesso fu improvvisamente cambiato da pubblicano in Apostolo ». Potremmo anche pensare che Matteo, dopo la sua conversione, preferiva chiamarsi col nome significativo « Matteo = dono di Dio » anziché con quello di « Levi », che oggi ancora puzza di denaro e di affari; Isodad de Merw anzi, attingendo a un’antica tradizione orientale, può informarci che « questo cambiamento di nome avvenne consapevolmente e volutamente, perché il Signore intendeva di allontanare da Matteo il pregiudizio dei Giudei, che potevano pensarlo un truffatore e un nemico di Dio ». – L’’evangelista Marco chiama Matteo-Levi « figlio di Alfeo ». Questa precisazione ha indotto parecchi ad affermare che Matteo era fratello di Giacomo Minore, ch’era pure figlio d’un Alfeo; lo stesso San Giovanni Grisostomo ritiene i due Apostoli fratelli e tutti e due gabellieri; in tutto il Vangelo però non occorre mai un’ulteriore allusione a simile parentela; si tratta solo di uguaglianza di nomi nei due padri. Con Matteo entra nel Collegio apostolico un uomo dall’indole tutta propria, che si distanzia considerevolmente dagli Apostoli precedenti per formazione, per posizione sociale e per ricchezza. A dir vero, il Vangelo ci nega ogni notizia nei riguardi della vita precedente del nostro Apostolo; egli entra in scena, apparentemente almeno, d’improvviso, senza prima picchiare; la relazione nondimeno della sua vocazione ci consente sicure induzioni. È verosimile che Matteo superasse gli altri anche per l’età, perché un posto, quale egli deteneva, dev’essere conquistato a prezzo di lotta paziente. Egli, il primo Evangelista, li superava certamente tutti per istruzione; d’or innanzi potrà essere chiamato, come qualcuno ebbe a scrivere, « il più quotato di tutti i Dodici »; perché la sua professione di ricevitore delle tasse presuppone un eccellente tirocinio; egli dovette imparare a scrivere, a leggere e anche quello ch’è più noioso di tutto: a far di conti, a calcolare molto, soprattutto a calcolare e quasi solo a calcolare! Più tardi dovette portare pure tabelle, esporre tariffe, conoscere i prezzi, i prezzi delle biade e dell’olio, del pesce che gli portavano i figli di Zebedeo e delle perle, che anche il Signore ricordò nel Vangelo. Povero Matteo! In quei bei giorni, nei quali Pietro e Andrea, Giovanni e Giacomo, con i loro padri Giovanni e Zebedeo, potevano uscir fuori al sole e alle tempeste del lago, il vecchio Alfeo condannava il suo ragazzo all’aula scolastica e a starsene ricurvo sui libri e sulle carte. Non v’è dubbio che per questa via divenne avveduto e, come si suol dire, « idoneo alla vita », e che realizzò maggiori progressi che non i candidi pescatori sul lago; anche se il mestiere di costoro poté loro fruttare una discreta agiatezza, non poterono però competere con Matteo, che con i suoi affari realizzò dei vistosi guadagni, sino a raggiungere una considerevole ricchezza; all’atto della sua comparsa nel Vangelo, egli è in possesso di due case, del negozio cioè con l’esattoria alle porte della città, « al posto della dogana », e della casa privata dentro in Cafarnao; quest’ultima poi doveva essere una villa grande e spaziosa, perché in essa « poterono sedere a mensa una gran folla di pubblicani e altra gente con Gesù e i suoi Discepoli ». Proprio così: « Una gran folla di pubblicani e altra gente », poiché Matteo si distanzia dai suoi colleghi d’apostolato tanto semplici anche per le sue molte e influenti relazioni sociali; andava regolarmente alla corte principesca di Erode in Tiberiade per liquidare i conti col suo sovrano, ed ivi veniva a conoscenza degli intrighi politici e degli scandali piccoli e grossi dei grandi; chissà quanti nobili e potenti signori, che si dibattevano in difficoltà pecuniarie, furono tolti d’impaccio da lui, ed egli se n’ebbe in cambio inchini manierati o fuggevoli sorrisi di dame. Or che ne sapevan Pietro, Giovanni, Filippo di questo « bel mondo »? Matteo invece ne sapeva anche troppo! Giacché per il denaro anche i più ricchi signori ballano la loro danza. Ma qui certo comincia pure la pagina oscura della vita di Matteo. Era gabelliere, e solo Iddio sa com’era giunto a quella esecranda professione; forse l’aveva abbracciata su ingiunzione del padre, o forse per nativa inclinazione, se non forse anche per la maledetta avidità del denaro; noi del secolo ventesimo non possiamo formarci un’idea precisa di quello che fosse allora lo screditato mestiere dell’esattore, se non pensando alle esistenze più equivoche; per poter valutare quindi a dovere l’elevazione del gabelliere Matteo da parte di Cristo ci è necessario illuminare la situazione del tempo. La riscossione delle imposte nell’Impero romano non avveniva direttamente, per mezzo di impiegati, che fossero a servizio e agli stipendi e sotto… il controllo dello stato; questo invece appaltava i suoi diritti in fatto di tasse e tributi a coloro, che in cambio gli facevano le migliori offerte; ed era assai esigente nelle somme d’affitto richieste; gli appaltatori da parte loro si rendevano personalmente garanti del loro pagamento. Spesso, specialmente quando si trattava di appaltare un territorio molto esteso, la somma d’appalto richiesta era tanto ingente, che un solo individuo non se la sentiva di addossarsela; avveniva così che frequentemente gli appaltatori si univano in società, ch’era la società-azienda delle tasse. Erano questi i veri e propri appaltatori delle imposte, e spesso provenivano dal ceto della ricca nobiltà, nell’Impero romano. Per la riscossione dei tributi, essi subaffittavano il loro territorio a impiegati, esattori e gabellieri, i quali a loro volta stavano rispetto all’appaltatore in uguali rapporti di dipendenza di questi rispetto allo stato e si comprende facilmente che un simile sistema di imposte, se in realtà liberava lo stato dal fastidio della riscossione, spalancava però le porte a tutti gli abusi; v’erano le tariffe fissate dallo stato stesso, è vero, ma esse non bastavano a frenare efficacemente la cupidigia, i raggiri e le estorsioni degli appaltatori; d’altra parte un ricorso agli uffici statali era per lo più illusorio e infruttuoso, perché quegli uffici stavano in segreto accordo con gli appaltatori. Ci spieghiamo. quindi l’atteggiamento popolare nei riguardi dei ricevitori delle imposte, ch’erano visti con astio e rabbia, ritenuti quali « orsi e lupi dell’umana società »; « gabelliere » e « ladro » erano termini che si equivalevano. Cicerone scrive che il pubblico non criticava tanto le imposte in se stesse, quanto piuttosto il metodo della loro riscossione, e dice l’esattoria la peggiore di tutte le professioni. Il nostro buon Matteo esercitava proprio questa infamata professione. – Ma presso i Giudei era inerente al mestiere del gabelliere un’altra e del tutto speciale ignominia: il ricevitore delle tasse e l’impiegato della dogana riscuotevano il denaro a vantaggio del dominio pagano dei Romani, ch’era l’odiato potere di occupazione straniera; e così un giudeo succhiava fino all’ultimo un altro giudeo e per di più a favore di stranieri e pagani; non era questo soltanto una truffa e un furto, qui v’era un crimine di lesa patria e di lesa religione. Ora comprendiamo come un giudeo coscienzioso dovesse persino proporsi il problema, se gli fosse anche semplicemente lecito pagare le tasse all’imperatore, e che cosa quindi gli passasse per la testa, in tale stato d’animo, quando venivano a lui quei miserabili quei « collaborazionisti », come oggi noi diremmo con vocabolo non troppo bello, traditori della patria, e avevano l’ardire di riscuotere le tasse, per sordida fame di guadagno, dallo stesso popolo di Dio. –  Il disprezzo per i gabellieri nei libri talmudici appare manifesto e implacabile in non poche disposizioni: nei processi i gabellieri non potevano fungere né da giudici né da testimoni; le loro famiglie erano tenute in disonore, e nessun giovane israelita, che menasse vita onesta, conduceva in moglie la figlia d’un pubblicano; era persino interdetto di accettare l’elemosina da un esattore o di farsi cambiare da lui il denaro, perché il giudeo onesto riteneva di macchiarsi con quel denaro, ch’era il frutto dell’ignominia; si dubitava anzi dell’affare più serio di tutti: se un gabelliere cioè fosse capace di pentimento e quindi della sua eterna salvezza. Così i pubblicani restavano esclusi, almeno di fatto, dalla comunità popolare e religiosa; dinanzi ai giudei ortodossi essi passavano come dei paria, come la quinta classe; nei loro discorsi, venivano accomunati con i delinquenti, con gli assassini, con i ladri e le meretrici; di fronte a loro tutto era permesso: era lecito abbindolarli con bugie e truffarli e derubarli; non era che la giusta vendetta del popolo, da loro ingiustamente vessato. Il disprezzo dei Giudei per i pubblicani risulta anche da non pochi testi del Vangelo: «Se uno non ascolta la Chiesa, sia per te come un pagano e un pubblicano »; « Pubblicani e meretrici persino vi precederanno, o Farisei, nel regno di Dio »; e anche Giovanni Battista s’era rivolto ai gabellieri col monito caratteristico: « Non esigete di più di quanto vi è stabilito » (Matt. XVIII, 17). –  Non ci nascondiamo che per il pubblicano Matteo-Levi vale l’attenuante ch’egli non stava agli stipendi dei Romani, perché questi, al tempo del Signore, esercitavano il loro dominio diretto solo lassù in Giudea e Samaria per mezzo del governatore, mentre Matteo sedeva al posto della dogana laggiù a Cafarnao, che probabilmente era pure la sua patria, e quindi era sottomesso al monarca della Galilea, Erode; era però quell’Erode, che, nonostante tutte le adulazioni che gli tributava, il popolo giudaico respingeva con tutto il cuore quale intruso dall’Idumea, e che nella storia del Nuovo Testamento si palesa figura spregevolissima perché adultero e uccisore del Battista e dileggiatore di nostro Signore il Venerdì Santo. Non è impossibile che Matteo abbia provato almeno qualche volta un’intima nausea, quando, per la resa dei conti, sedeva a fianco di quel principe delinquente, il quale con gli occhi lascivi e avvinazzati gli faceva cenno di portare un’altra volta una borsa ancor più gonfia. Si sarà insudiciato anche il nostro Matteo con beni indebiti? Nel Vangelo non troviamo nessuna prova sicura al riguardo; di lui non leggiamo neppure quella fatale e rivelatrice — scusarsi significava accusarsi! — assicurazione, che diede al Signore il suo collega e capo dei pubblicani, Zaccheo, a Gerico: « Ecco, o Signore, la metà del mio patrimonio la do ai poveri e, se a qualcuno ho tolto troppo, glielo restituisco quadruplicato ». Matteo, d’altra parte, doveva essere pure un uomo profondamente religioso, perché dal Vangelo ch’egli scrisse più tardi, così ricco di citazioni dal Vecchio Testamento, è lecito dedurre ch’egli avesse una grande familiarità con la Parola di Dio. E tuttavia dovette essere certamente difficile per lui il conservarsi del tutto immacolato, esercitando una professione così pericolosa, circondato com’era dai cattivi esempi. Le stupende espressioni, che il Signore ebbe per gli ammalati bisognosi del medico, in occasione del convito in casa di Matteo e delle quali diremo presto, sembrano valere anche per il nostro pubblicano. Nel suo commento al Vangelo di Matteo, il Grisostomo ammette senza esitare che « i cibi imbanditi a quel convito erano stati acquistati con ingiustizia e cupidigia ». Comunque però stessero le cose nella coscienza di Matteo, il popolo da parte sua non faceva sottili distinzioni; per lui un gabelliere valeva quanto un altro, era cioè un ladro, un truffatore, un traditore; qualunque pubblicano era in cattiva fama; per questo gli evangelisti Marco e Luca, nei loro cataloghi degli Apostoli, passano sotto silenzio la precedente professione di Matteo, vogliono usargli un’attenzione, e quando ne riferiscono la vocazione dal telonio, velano il collega chiamandolo col nome di Levi. Egli dovette certo soffrire della sua condizione. Spesso, quando rincasava a sera con le tasche piene, si metteva a sedere, chinava il capo e lo posava fra le mani, e respirava affannosamente; riandava alle occhiate irate, ai pugni serrati e alle monete, che lungo il giorno gli avevan gettate sul tavolo, come le avessero gettate dinanzi a un cane; che gli giova tutto quel cumulo di denaro, se frattanto il popolo lo mette al bando? E anche un’altra parola, ch’egli più tardi consegnerà nel suo Vangelo, gli saliva dal fondo dell’anima: « E che cosa giova all’uomo guadagnare tutto il mondo, se intanto perde l’anima? che cosa può dare l’uomo come cambio per la sua anima? » (Matt. XVI, 26). La sua anima! Matteo forse pianse. Oh, potesse cominciare da capo! Quanto sarebbe contento con una povera barca e… una buona coscienza, lui, il povero uomo ricco! Ma non v’è stretta da cui ci si possa svincolare con maggiore difficoltà che quella infausta del denaro; e poi, alla fin fine, lo si terrebbe una volta per sempre quale un pubblicano e un criminale; tutti i « giusti » ormai l’hanno eternamente estromesso e condannato a vivere insieme ai colleghi di professione, autentici bricconi, per i quali il vero dio erano gli affari e i denari; gli è impossibile sottrarsi. E così la sua anima anelante svolazzava, come un uccello in gabbia con le ali scorciate. Oh, vi fosse in aiuto della sua buona volontà un’altra ala, con la quale uscir fuori e lanciarsi al di sopra di se stesso per ascendere sino alle vette! – Là, nel suo ufficio daziario, dove tutte le chiacchiere si davan convegno, s’era parlato, e gli pareva di aver capito bene, d’un nuovo profeta, di Gesù di Nazareth, e con una frequenza sempre maggiore negli ultimi mesi. « La sua fama s’era diffusa in tutta la Siria. Si portavan a Lui tutti i sofferenti, tormentati dalle infermità più disparate e da mali dolorosi, anche ossessi, lunatici e paralitici, ed Egli li guariva. Grandi folle di popolo dalla Galilea e dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e dalla Transgiordania Lo seguivano ». Da alcune settimane anzi questo Profeta nuovo, che correva per le bocche di tutti, s’era persino stabilito nella stessa Cafarnao e andava e veniva dalla casa del pescatore Simone, figlio di Giovanni; e alcuni giorni prima era accaduto quello che Matteo non potrà dimenticare mai più: quel Gesù, seguito da numerosa folla, era passato dinanzi all’ufficio doganale; come fosse avvenuto, Matteo non se lo sapeva spiegare nemmeno ora, ma di fatto Gesù e lui si trovarono d’improvviso, per un istante, l’uno di fronte all’altro; oh! quegli occhi rilucenti, come la luce del sole in una stanza polverosa, l’avevano penetrato sino nel profondo dell’anima; sì, come un sole l’avevano colpito quegli occhi, tanto erano splendidi e deliziosi; se…! – Ma che gli frulla per la testa! Egli sa troppo bene che cosa pensano e devono pensare di lui, il pubblicano, i profeti e i teologi! Proprio mentre si va svolgendo dentro di lui quest’intima lotta di sentimenti, si scuote, si mette in ascolto; il suo orecchio pratico di gabelliere ha percepito ancora una volta un rumore indistinto di passi lontani e di molte voci, che s’avvicinano. O Dio, il Profeta! Matteo, sebbene calmo, trema, si sbaglia trattando col suo cliente e confonde le monete. Ed ecco che Gesù ascende già, si ferma dinanzi a lui, lo guarda e gli rivolge due parole, due parole solamente, le quali però bastano, perché agli occhi di Matteo il mondo intero appaia in tutt’altra luce: « Segui… Me! ». Nel Vangelo, che Matteo scrisse più tardi, leggiamo alcune proposizioni, che interessano l’attività di Gesù del tempo press’a poco in cui avvenne la chiamata del pubblicano, e leggendole abbiamo l’impressione ch’esse riflettano, sebbene velatamente, un episodio personale e siano quasi l’eco riconoscente per quella chiamata del Signore, nonostante il primo Vangelo abbia come nota caratteristica l’oggettività: «Il popolo, che siede nelle tenebre, vede una luce splendida. Su coloro che abitano nella regione dell’ombra di morte s’irradia una luce ». E ancora: « Si adempì la parola del profeta Isaia, che dice: “Egli ha preso su di Sé le nostre infermità”» (Matt. IV, 16) Così scrivendo, l’Evangelista non avrà pensato a sé? Che la nostra descrizione dello stato d’animo del pubblicano Matteo, prima della sua vocazione, non sia una vuota congettura, lo prova lo stesso suo contegno al momento della chiamata. « Gesù gli disse: “SeguiMi”; e quegli s’alzò, abbandonò tutto e Lo seguì ». Con mossa subitanea e festante respinse la sedia, sulla quale stava inchiodato da anni; chiuse con forza il cassetto, tanto che la cassa risuonò; sgualcì e stracciò tutta la carta importante e inutile, che gli stava dinanzi, con mano elettrizzata dall’onda della gioia, e « seguì Lui », precisamente Lui, che non aveva nulla, che non aveva « dove potesse solo posare il suo capo » ! (Matt. VIII, 20), egli, Matteo, il ricco esattore, ch’era vissuto nell’abbondanza: un uomo e specialmente un uomo dell’età e dell’equilibrio di Matteo non avrebbe agito a quel modo, se egli non avesse sentito la chiamata alla nuova vita come una vera liberazione; doveva averla preceduta un intimo tormento, che l’aveva preparato all’ingresso della grazia. Risponde al vero l’osservazione del Grisostomo sulla grazia, che con sapienza e con pazienza attende la sua ora: « Cristo chiamò Matteo quando sapeva che sarebbe venuto; perché non lo chiamò subito fin da principio, quando l’accesso al suo cuore era ancora troppo difficile, ma solo dopo ch’Egli aveva compiuti innumerevoli miracoli e la sua fama s’era diffusa anche nelle terre lontane e quando lo sapeva più propenso a obbedire ». –  La fuga fortunata dal denaro per passare al Vangelo, la felice conversione da pubblicano a discepolo del Signore riempì Matteo di tale giubilo, ch’egli festeggiò con un sontuoso banchetto il suo addio alla vita sino allora vissuta. Egli veramente nel suo Vangelo tace umilmente quella profusione lieta e pia, ma gliela divulga il buon Luca: « Levi Gli preparò nella sua casa un grande convito; una folla numerosa di pubblicani e altra gente sedevano a tavola con loro » (Luc. V, 29). Neppur Pietro o Andrea, non i figli di Zebedeo, nemmeno Filippo o Bartolomeo avevano festeggiato così solennemente la loro vocazione, come invece Matteo; certo non l’avrebbero neppure potuto, anche volendolo. Neppure alle nozze di Cana s’era giunti a tanto di splendore come a quelle « primizie » di Matteo; oh, quelle povere nozze! Il Signore non dovette far appello a dei miracoli per procurare il vino, da mettere innanzi alle folle di ospiti, che onoravano il convito nella casa di Levi. Questi sedeva a mensa felice, ultrafelice, ché il Signore l’aveva redento e redento dal denaro! Solo una mano divina può redimere un uomo, anche un uomo di buona volontà, dalla schiavitù del denaro e regalargli le ali per elevarsi verso le cime. La bella testa del Matteo del Rubens guarda commossa e riconoscente verso l’alto, come una povera anima del Purgatorio guarda all’Angelo, ch’è venuto a prenderla per introdurla in Paradiso: per Matteo il purgatorio tormentatore era stato l’esattoria, ma la mano del Signore l’aveva misericordiosamente preso e l’aveva condotto al paradiso della vita evangelica. – Strano, ma nel Collegio apostolico la cassa non la teneva Matteo, ch’era la persona abile ed esperta in campo d’affari, ed era felicissimo d’esserne stato esonerato, ma la teneva Giuda. Matteo e Giuda! Tutti e due questi Apostoli ebbero a che fare col denaro, eppure quanto diverse le vie che corsero! Matteo lascia il denaro per seguire il Signore, mentre Giuda tradisce il Signore per guadagnare del denaro, trenta monete d’argento; Matteo è unico fra gli Evangelisti, che le computi esattamente (XXVI, 15). Il suo Vangelo fa rilevare più chiaramente degli altri come il denaro divenne fatale per Giuda: dal momento di quell’esecrando commercio sino all’ora, nella quale gli ipocriti sacerdoti raccattarono dal pavimento del Tempio la borsa, abbandonata dal suo padrone, per comperare con essa un luogo di sepoltura per gli stranieri, Matteo segue con occhio attento quelle orrende monete d’argento. Che avesse previsto lui, il pubblicano, che sarebbe capitato così? Può essere che, con la profonda intuizione dell’uomo che conosce il denaro, avesse osservato la tendenza di Giuda ad esso e gli avesse pure suggerito, quasi sorvolando, qualche parola buona e seria in proposito. Matteo, a differenza Giovanni, scrive di Giuda senza veemenza; forse aveva osservata in lui, rabbrividendo, la propria sorte, qualora la misericordia del Signore non l’avesse strappato dall’ufficio della dogana; senza dubbio egli, a differenza di Giuda, aveva afferrato con immensa gratitudine quella mano tesa del Signore. – Nel suo Vangelo sta scritto più diffusamente che negli altri anche dell’uso del denaro. Il denaro è buono solo quando viene adoperato per il bene, per l’esercizio della carità e ancor prima per l’esercizio, ancor più urgente, della giustizia. Le parole, che nostro Signore ebbe a dire intorno al denaro, dovettero lasciare in Matteo un’impressione particolarmente profonda: « Quando tu dai l’elemosina, non deve sapere la tua sinistra quello che fa la tua destra, affinché la tua elemosina rimanga nel segreto; il Padre tuo che vede nel segreto te la ricompenserà ». – « Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tarlo e ruggine li consumano, dove ladri sfondano e rubano; accumulatevi piuttosto tesori nel Cielo, dove né tarlo né ruggine li consumano, dove nessun ladro sfonda e ruba. Perché ov’è il tuo tesoro, ivi è pure il tuo cuore ». « Non potete servire a Dio e a mammona » (Matt. VI, 3). La vocazione del pubblicano Matteo ebbe però anche un altro aspetto: quello che riguardava il Signore. Quella chiamata era una grave offesa alle opinioni della società del tempo, una inaudita provocazione per tutti i « migliori » ambienti; chiamando a Sé Matteo, Gesù prese su di Sé la responsabilità d’un rischio eroico; a Voler giudicare umanamente, nessuno fra tutti i suoi Discepoli, nemmeno Giuda, era compromettente come Matteo; è lecito pensare che gli stessi Discepoli precedenti siano stati colpiti da una penosa impressione, quando il Maestro pose al loro fianco quel gabelliere; ché tutti loro erano della gente onesta, provenivano da famiglie rispettabili! I Farisei non poterono trattenere la loro sdegnosa sorpresa; erano già prima eccitati per il fatto, che aveva preceduto quella chiamata, a causa cioè della remissione dei peccati concessa al paralitico: « Egli bestemmia Iddio! Chi può rimettere i peccati se non Iddio solo? ». Ed ora Egli osa chiamare nel suo minuscolo seguito un pubblicano e peccatore, non teme anzi di sedere alla stessa mensa con quella gentaglia. I pubblicani, infatti, di tutti i dintorni, alla notizia di quel miracolo della grazia, come fiere cacciate dai loro nascondigli, erano strisciati fuori alla luce del sole; in Matteo si sentivano tutti chiamati e nobilitati. « Dissero allora i Farisei e gli Scribi indignati ai suoi Discepoli: “Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?”». E Gesù diede loro una risposta così saggia e importante, che tutti e tre i Sinottici ritennero di doverla consegnare in iscritto: « Gesù sentì questo e disse loro: “Non han bisogno del medico i sani, ma gli ammalati. Non son venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” ». E poi una terza espressione, che solo Matteo ha ricordata: « Andate e imparate che cosa vuol dire: “Voglio misericordia, non sacrificio” ». Queste poche sentenze sono come un preludio dell’attività di Gesù, l’accordo fondamentale di tutto il Vangelo e anche l’anticipazione dell’incantevole capitolo decimoquinto del vangelo di Luca, di quella trilogia della divina misericordia, che ben a ragione è detta il cuore del Vangelo. Queste tre brevi proposizioni dissero tutto a tutti: dinanzi ai Farisei valsero a giustificare Gesù e il rifiuto dei loro principi; invitarono i pubblicani all’emendazione della loro vita, non ne diedero l’approvazione; e ai Discepoli posero in mano la norma suprema per la loro opera apostolica. La vocazione dunque del pubblicano Matteo-Levi è d’un’importanza veramente fondamentale e universale; in essa si manifesta lo spirito del Vangelo; questo gabelliere, come un glorioso monumento della divina misericordia, deve annunziare « ai pubblicani e peccatori » di tutti i tempi che nessuno, per quanto possa avere traviato, deve perdersi d’animo o, peggio, disperare, poiché il Signore « è venuto » precisamente « per i peccatori »; il senso più recondito del peccato sta proprio qui: da esso prende le mosse la misericordia e, lo si sa, qualora il peccatore vi s’opponesse, la giustizia di Dio. Parecchi mesi più tardi Gesù propose la parabola del fariseo e del pubblicano: « Due uomini salirono al Tempio; uno era un fariseo, l’altro un pubblicano. Il fariseo se ne stette e pregò fra sé: “O Dio, io ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, truffatori, adulteri e come questo pubblicano…”. Il pubblicano invece si fermò di lontano e non osava neppure levare i suoi occhi al Cielo, ma si percuoteva il petto e pregava: “O Dio, sii propizio a me peccatore”. Io vi dico: Questi se n’andò a casa giustificato, quegli no ». Pensava il Signore a Matteo, mentre diceva questa parabola? e che cosa dovette passare per la mente di Matteo nell’udirla? I suoi occhi si sciolsero in lacrime e nel suo cuore giurò di non rendersi indegno di tanta misericordia. Dopo la sua vocazione, il Vangelo ricorda ancora Matteo un’unica volta, all’elezione degli Apostoli, che ebbe luogo non molte settimane più tardi; in quell’occasione egli, sebbene pubblicano, divenne uno dei Dodici, non solo un discepolo come cento altri, ma uno degli Apostoli, che « dovettero essere costantemente accanto a Lui (Gesù), i quali Egli voleva mandare a predicare, e che dovevano aver anche il potere di guarire malattie e di cacciare i demoni ». Il discorso, che il Signore tenne ai suoi Apostoli in precedenza alla loro prima missione, è stato riferito da Matteo più ampiamente che non dagli altri Evangelisti: « Predicate: “Il regno dei Cieli è vicino; guarite malati, risuscitate morti, mondate lebbrosi, cacciate spiriti cattivi!” ». Segue poi un’espressione, che soltanto lui, il gabelliere, ha tenuto a mente e ci fa sorridere: « Gratis avete ricevuto, gratis dovete dare! Non vogliate procurarvi nella vostra cintura nè oro né argento né moneta di rame! » (Matt. X, 7). Che discorsi si saran fatti in giro per la regione, quando quegli, ch’era stato il famoso e scaltro Levi, metteva piede sulla soglia delle case, qual pio Apostolo, e salutava: « Pace a questa casa! », proprio lui, che un giorno in passato, per amore del maledetto e vilissimo denaro, s’era reso colpevole di innumerevoli discordie e irritazioni! Eppure dovremo ammettere ch’egli abbia assolto molto bene il suo compito in quella missione condotta a titolo di saggio; giacché precisamente l’esattoria gli aveva fornita l’occasione di far molte conoscenze ed esperienze di uomini e cose, come scuola preparatoria all’apostolato non era stata meno eccellente della professione del pescatore. Osservando un po’ i cataloghi degli Apostoli, notiamo con sorpresa che Matteo era uno dei pochi isolati nel gruppo; a eccezione infatti di Tommaso e di Giuda, erano tutti legati fra di loro da relazioni di parentela o di amicizia. Il Signore forse ha messi vicini Matteo e Tommaso, perché l’uno avesse nell’altro un buon compagno e specialmente l’oppresso Tommaso nel tranquillo Matteo. Nelle loro liste apostoliche Marco e Luca collocano Matteo prima di Tommaso, Matteo invece nel suo Vangelo si mette modestamente dopo Tommaso. – Della vita seguente dell’Apostolo Matteo non abbiamo purtroppo nessuna notizia, perché gli Atti degli Apostoli non ne hanno affatto e la tradizione ne ha solo di troppo incerte; è certo soltanto, come per gli altri Apostoli, ch’egli lavorò per parecchi anni, dopo la risurrezione del Signore, fra i Giudei, ch’erano il suo popolo; non ci è possibile calcolare con esattezza per quanto tempo, essendo l’informazione trasmessaci da Eusebio abbastanza vaga; Clemente Alessandrino però direbbe per quindici anni. Questi scrive pure d’una vita del nostro Apostolo asceticamente assai rigida; non avrebbe mai mangiato carne, ma solo legumi, semi e frutta; forse qui però l’antico scrittore ecclesiastico scambia l’apostolo Matteo con l’Apostolo Mattia, che, secondo la testimonianza di Eusebio, avrebbe certamente predicato l’astinenza dalla carne; questo scambio fra i due Apostoli fu frequente in passato e lo è forse anche oggi; se Matteo, l’ospite felice, fosse poi divenuto asceta così severo, ci sembra che non avrebbe scritto nel suo Vangelo con tanta disinvoltura la parola del Signore: « Non quello che entra per la bocca rende l’uomo immondo ». Quanto alla regione, nella quale Matteo svolse la sua opera apostolica, negli Atti apocrifi leggiamo notizie così disordinate e aggrovigliate, da non poterle conciliare. (*) Ci son pervenuti il Martirio gnostico di Matteo nel Ponto; gli Atti etiopici di Matteo in Kahanat; una leggenda di Matteo partica; il Martirio di Matteo coptico (etiopico); una leggenda locale di Gerapoli; la leggenda di Matteo etiopica, in relazione con la leggenda indiana di Bartolomeo; e finalmente la « Passio Matthæi » latina. Da tutte queste leggende, spesso in contradizione fra di sé, non si può ricavare che ben poco di storico. All’apostolo Matteo è attribuito pure uno scritto: « Della nascita della Beata Vergine Maria e dell’infanzia del Redentore »; si tratta d’un’opera apocrifa del quinto secolo). – La tradizione più antica ricorda, come suo campo missionario, l’Arabia, la Persia e anzitutto l’Etiopia, l’odierna Abissinia, e per il giorno della sua festa il Breviario romano fa sua questa sentenza. La tradizione più recente lo fa Apostolo dei Parti e anche dei Macedoni. Negli Atti di Andrea si fa menzione del Ponto, dove Matteo avrebbe lavorato insieme ad Andrea e da questi sarebbe stato salvato dalle mani « degli antropofagi », che lo volevano divorare. È incerto anche il genere della sua morte; se prestiamo fede a una nota dello gnostico Eracleone, della metà del secondo secolo, che ci viene trasmessa da Clemente di Alessandria e alla quale questi aderisce, Matteo non sarebbe comparso « dinanzi ai giudici per rendere testimonianza », il che significa che non sarebbe morto martire, ma, come gli apostoli Filippo e Tommaso, di morte naturale; al contrario, le varie leggende, che non meritano d’essere qui addotte, sono prolisse spesso nel descrivere il martirio per lapidazione o abbruciamento o, ancor più spesso, per mezzo della decapitazione del nostro Matteo. Il Breviario romano ha accolto la « Passio Matthæi » latina, abbastanza tardiva, che è una dettagliata esposizione della leggenda di Matteo etiopica, secondo la quale egli avrebbe convertito, operando il miracolo della risurrezione della figlia del re, la famiglia reale e l’intero territorio; Irtaco però, il fratello e il successore del re convertito Eglippo, avrebbe fatto uccidere Matteo con la spada all’altare, durante la celebrazione dei santi Misteri, perché l’Apostolo s’era opposto al suo progetto di condurre in sposa la figlia del re precedente, Ifigenia, ch’era una vergine consacrata a Dio. Le reliquie del Martire dall’Etiopia sarebbero state trasportate prima a Pesto, città italiana nel golfo di Salerno, e nel decimo secolo nella stessa Salerno, dove sono onorate anche oggi. – Queste notizie intorno alle vicende dell’apostolo Matteo, dopo la Pentecoste, ci lasciano insoddisfatti, è vero, l’opera però, ch’egli compì e che gli sopravvisse per i secoli, è assai importante; per essa egli è asceso nella gerarchia degli Apostoli, tanto che lo si può ritenere il più grande fra i Dodici dopo Pietro e Giovanni: egli ci ha regalato il primo Vangelo, che Renan ha detto « il libro più importante della storia del mondo ». Il gabelliere, l’uomo della scrivania, inclinato per naturale disposizione e preparato dalla professione alla redazione scritta degli eventi, era quanto mai adatto per la divina Ispirazione, che voleva scrivere della vita e della dottrina di Gesù; ed egli volle prestare al Signore in giuliva riconoscenza quel servizio, al quale proprio come gabelliere era particolarmente abilitato. Così ci è dato di cogliere il misericordioso mistero della sua vocazione sotto un’altra luce e un altro significato: un giorno il pubblicano Matteo, fermo al sacro scrittoio, stenderà sulla carta le parole e le azioni, ch’egli ha visto ed ascoltato, con dignità ed esattezza, divenendo splendido modello e glorioso patrono di tutti coloro, che, per benigna provvidenza di Dio, potranno scrivere di nostro Signore Gesù Cristo.

L’EVANGELISTA

Del Vangelo di Matteo abbiamo una testimonianza esplicita dello stesso Papia, verso l’anno 110: « Matteo ha messo in ordine, in lingua ebraica, i discorsi del Signore — “tà légia” —. Ciascuno li tradusse — “herméneusen” — meglio che potè ». A questa testimonianza Ireneo aggiunge la sua, con un’indicazione cronologica veramente un po’ elastica: « Matteo pubblicò fra gli Ebrei, nella loro lingua, una scrittura del Vangelo, quando Pietro e Paolo annunziavano — oralmente — il lieto messaggio a Roma e vi fondavano la Chiesa ». Un particolare interessante conosce Panteno, il direttore e maestro della scuola catechetica di Alessandria, che verso l’anno 200 migrò nell’« India », vale a dire nell’Arabia Felice, l’odierna Arabia meridionale: « Il Vangelo scritto in lingua ebraica dall’evangelista Matteo fu portato a loro agli “Indiani” — dall’apostolo Bartolomeo ». Tracce di una cooperazione apostolica fra Matteo in Etiopia e Bartolomeo nell’« India esterna », limitrofa all’Etiopia, si riscontrano, come abbiamo già visto nel capitolo su Bartolomeo, nella leggenda etiopica di Matteo. Il coltissimo scrittore ecclesiastico Origene restringe le tradizioni intorno al Vangelo di Matteo nelle parole: « Io ho appreso dalla tradizione circa i quattro Vangeli, che soli sono riconosciuti senza discussione nella Chiesa universale di Dio, che il primo Vangelo fu scritto da Matteo, prima pubblicano e poi Apostolo di Gesù Cristo. Egli lo compose nella lingua ebraica per i Giudei convertiti alla fede ». I Padri sono unanimi nell’attestare che Matteo fu il primo dei quattro Evangelisti a scrivere un Vangelo; non è certo possibile stabilire l’anno esatto della composizione; dovette scrivere sicuramente prima dell’anno 70, che segnò il tramonto di Gerusalemme e la dispersione del popolo giudaico in tutto il mondo; un’antica tradizione orientale dichiara: «Matteo scrisse il suo Vangelo nel primo anno di governo dell’imperatore Claudio, nell’anno 42, nove anni dopo l’ascensione del Signore ». – La testimonianza di Papia addotta più sopra — « Matteo ha messo in iscritto i discorsi del Signore » — dal razionalismo è detta valere per una semplice « collezione di sentenze », che doveva essere ben diversa dall’odierno primo Vangelo; ma un pacato esame di essa mostra quanto a torto si dia questa interpretazione. Di fatto l’espressione greca «tà légia» = discorsi, sentenze, nell’uso letterario degli scrittori ecclesiastici del tempo significa tanto discorsi quanto anche fatti; lo stesso Papia, ad esempio, dichiara il contenuto del Vangelo di Marco dicendo una volta: « I discorsi e le azioni del Signore », un’altra invece dicendo brevemente « logia »; per lui « légia » è lo stesso che Vangelo. In realtà tutta l’antichità cristiana non seppe mai nulla d’una « collezione di sentenze » redatta da Matteo, diversa dal nostro primo Vangelo; d’altra parte già Ireneo e più tardi anche Eusebio intesero esplicitamente con quella espressione di Papia il Vangelo odierno di Matteo; del resto v’è anche una ragione intrinseca che autorizza di chiamare questo Vangelo « légia », discorsi o sentenze del Signore, perché contiene più degli altri Vangeli sinottici i discorsi di Gesù e fa che anche le azioni sue, in un modo o nell’altro, si concludano con la dottrina. L’originale ebraico o anche aramaico del Vangelo di Matteo andò presto perduto; e questo si comprende facilmente, poiché sulle comunità giudeocristiane, alle quali l’Evangelista aveva dedicato il suo Vangelo, ben presto infuriarono le tempeste della guerra giudaica e poi delle prime eresie, così che, tragicamente, proprio nella terra dei suoi natali il Cristianesimo non uscì mai da una breve primavera; falsificato però dalle leggende, quell’originale sopravvisse ancora sino al quinto secolo in quello, che fu chiamato « Vangelo degli Ebrei » (Il «Vangelo degli Ebrei » ebbe questo nome perché fu usato dai giudeocristiani della Palestina, che parlavano la lingua ebraica o aramaica; probabilmente era il testo originale aramaico del Vangelo di Matteo, rielaborato ed ampliato; a noi ne è giunta notizia soltanto attraverso i brevi frammenti citati da Girolamo; l’opera però era certamente sorta già prima del 150.) o anche « dei Nazarei », che il grande studioso della Bibbia Girolamo, morto nel 419 o 420, poté ancora vedere in due esemplari. In compenso di questa sorte infelice, il Vangelo di Matteo ebbe la fortuna d’un eccellente traduttore greco, che seppe trasfondere l’originale aramaico in una lingua greca sciolta ed elegante; la versione dovette essere ultimata prima del volgere del primo secolo, perché se ne incontrano tracce negli scritti ecclesiastici sorti prima che esso finisse. – Non conosciamo il traduttore greco del Vangelo aramaico di Matteo; « chi sia stato, non è sicuro », scrive Girolamo; chiunque però sia, egli poté consultare i Vangeli greci di Marco e di Luca, apparsi verso il sessanta; si comprende facilmente ch’egli li tenesse sott’occhio nel preparare la sua versione, specialmente per le parti, che avevano in comune col Vangelo, che traduceva; certe particolarità linguistiche, infatti, del Vangelo greco di Matteo accennano una dipendenza stilistica dal vangelo di Marco. Il 19 giugno 1911 la Pontificia Commissione Biblica dichiarò, con un suo decreto, che la versione greca concorda « sostanzialmente » col testo originale aramaico, e questa era già la persuasione di tutta l’antichità cristiana; i più antichi manoscritti della Bibbia, come anche tutte le sue antiche versioni, senza eccezione, attribuiscono il nostro primo Vangelo all’evangelista Matteo; numerosi suoi testi e allusioni ad esso ricorrono già nella « Didaché », dottrina dei dodici Apostoli, opera veneranda scritta verso l’anno 100, come pure nelle opere dei Padri apostolici Clemente Romano, che scrisse verso il 95, Ignazio di Antiochia, morto nel 107, del martire Policarpo verso il 156 e soprattutto dell’apologeta e martire Giustino; è un vero mosaico, che testimonia l’altissima stima, di cui godette il primo Vangelo fin dall’epoca postapostolica. Ma lo stesso Vangelo di Matteo depone a suo favore. Lo si apra in qualunque punto, anche alla prima pagina, e ci si farà incontro a ogni piè sospinto il gabelliere e calcolatore Matteo. Tradisce il suo autore anche il modo dimesso, col quale il primo Vangelo parla del nostro Apostolo: solo in questo Vangelo egli è detto pubblicano, sta dopo Tommaso, il convito è solo accennato. Inoltre, la conoscenza minuziosa delle condizioni geografiche, storiche, politiche e religiose nella Terra Santa al tempo del Signore, come la ricca conoscenza della Sacra Scrittura del Vecchio Testamento esigono come autore un giudeocristiano, contemporaneo di Gesù. È vero che la presentazione della sua vita nel nostro Vangelo è alquanto smorta e prosaica, mancante spesso di più precise indicazioni di tempi e di luoghi, senza vivaci descrizioni delle circostanze secondarie, senza riferimento di particolari interessanti; Marco scrive con maggiore perspicuità e tempra, Luca è più caldo e più intimo. Si confronti, ad esempio, la relazione della risurrezione della figlioletta di Giairo in Matteo e Marco: Matteo racconta un po’ scolorito: « Mentr’Egli parlava loro, venne un capo, cadde a terra dinanzi a Lui e disse: “Mia figlia è morta or ora; ma vieni, posa la tua mano su di lei, e vivrà” ». Marco invece descrive lo stesso episodio, che Matteo riferisce solo nella sua parte essenziale, nella cornice delle sue precise circostanze: « Quando Gesù fu partito di nuovo con la barca verso l’altra riva, radunò intorno a Lui una grande folla; giunse allora un archisinagogo di nome Giairo; questo Lo scorse, Gli cadde ai piedi e Lo pregò supplichevole: “La mia figlioletta sta agli ultimi respiri; ma vieni, e metti su di lei le mani, affinché sia salva e resti in vita” ». Oppure si confronti il racconto della fuga dei Discepoli sul Monte degli Olivi: in Matteo è detto: «Poi i discepoli Lo abbandonarono e fuggirono »; Marco invece aggiunge ancora un particolare: « Poi tutti Lo abbandonarono e fuggirono. Ma un giovanetto, che indossava sul nudo corpo soltanto un panno di lino, Lo seguiva » (Marc. XIV, 50). Questa indole del Vangelo di Matteo, poco circostanziato e molto impersonale nelle sue relazioni, ha indotto il razionalismo a sospettare; se l’autore fosse veramente un teste oculare e auricolare degli eventi, concludono i razionalisti, avrebbe redatto le notizie con più colorito e vivacità. Ma non abbiamo precisamente in questa oggettività una prova intrinseca, anche se indiretta, della genuinità del primo Vangelo? Non ogni scrittore dispone la materia con lo stesso colore e fantasia, ed è bene che sia così; lo stesso si dica degli scrittori biblici; giacché il carisma della divina ispirazione si adatta dolcemente e sapientemente al carattere dell’autore umano, senza concedergli necessariamente la perfezione naturale; e così anche a Matteo fece scrivere da Matteo: egli era stato per l’addietro un gabelliere, un uomo delle realtà fredde, un individuo dei calcoli e dei numeri; or chi non sa che di solito gli uomini della matematica e delle finanze si limitano all’essenziale e all’obiettivo, mentre non vedono volentieri le descrizioni? Appunto dunque questa maniera di scrivere poco ricca di fantasia, che osserviamo nel primo Vangelo, ci fa pensare che il gabelliere Matteo ne sia l’autore. Nelle sue informazioni evangeliche, egli tralascia parecchi particolari di ornamento e di quando in quando abbrevia tanto le descrizioni che esse ci riescono oscure; frattanto però il suo Vangelo è riuscito pure efficacemente misurato, solenne e dignitoso, a tal punte che in parecchi capitoli ci richiama le immagini rigidamente ieratiche di Bisanzio o una sacra funzione liturgica con corale calmo e maestoso. Quanto alle sue cose personali, Matteo nel suo Vangelo ha voluto essere molto riservato; tuttavia, non v’è riuscito in un settore, e cioè in quello… finanziario; il gabelliere Matteo, contro sua volontà, è tradito dalla conoscenza di denari e di affari, di cui si mostra ornato l’autore del primo Vangelo; come nel Vangelo di Luca le notizie di ammalati e guarigioni, così nel Vangelo di Matteo le « notizie di denaro » ricorrono più frequenti e più circostanziate; si capisce che le istruzioni di Gesù intorno a questa materia restarono impresse in modo particolarmente profondo nella memoria del pubblicano d’un tempo. Matteo scrive di denaro e di monete in dodici passi del suo Vangelo, mentre Giovanni soltanto in due. Il pubblicano… e l’aquila! Matteo menziona « l’oro » sin dal presepio di Gesù Bambino a Betlemme; è unico fra gli Evangelisti a riferire anche la riscossione e il pagamento miracoloso dell’imposta per il Tempio da parte di Cristo e di Pietro; solo nel suo Vangelo si leggono le parabole del « tesoro, che giaceva nascosto in un campo », e del « commerciante, che cercava delle perle nobili; quand’ebbe trovata una perla preziosa, andò e vendette tutto quello che possedeva e la comperò »; nel riferirle Matteo forse ripensò alla propria vocazione al regno dei Cieli; solo lui racconta dell’immisericordioso « servo, cui il re, alla resa dei conti, condonò dieci mila talenti, il quale però all’uscita acciuffò uno dei suoi conservi, che gli doveva cento denari »; degli « operai, che il padre di famiglia prese a giornata per la sua vigna, e pattuì con loro un denaro per giornata »; dei « talenti, che il padrone affidò ai suoi servi, al primo cinque, al secondo due, al terzo uno, a ciascuno secondo la sua capacità »; « al servo pigro il padrone rispose: “Avresti dovuto investire il mio denaro presso i banchieri e io, al mio ritorno, avrei potuto ritirare il mio con l’interesse” ». Comprendiamo bene che tali discorsi del Signore dovettero avere una risonanza particolare proprio in Matteo. Anche Marco e Luca, non v’è dubbio, quando è necessario, scrivono di affari e di denari; ma un confronto con loro, anche nei brani comuni a tutti e tre i Sinottici, mostra precisamente che Matteo si esprime con maggiore esattezza, con distinzioni più accurate. Così, ad esempio, quando riferisce il discorso detto dal Signore prima della missione degli Apostoli in Palestina, non rende quell’ordine: « Non prendetevi denaro per la via » così semplicemente come Luca, ma più particolareggiato: « Non procuratevi né oro né argento né rame »; nella questione del tributo dovuto a Cesare, Cristo, secondo l’informazione di Matteo, non richiede indeterminatamente « un denaro », come leggiamo in Marco e Luca, ma: « MostrateMi la moneta del tributo ». Per lui, ch’era stato esattore, non è indifferente che si dica una moneta o l’altra o semplicemente « denaro »; nessuno degli Evangelisti è come lui specializzato, vorremmo dire pedantemente esatto nel riferire il valore monetario; il suo orecchio, abituato al tintinnio delle monete, ascolta attento anche quando parla il Signore, s’Egli dica un «talento » o un « siclo », uno « statere » oppure un « didramma », un « asse », equivalente a tre centesimi, oppure solo un « quadrante », un centesimo! Nel suo Vangelo mostra di conoscere le monete più di tutti gli altri, perché ne menziona dieci specie diverse, mentre Marco ne ricorda solo cinque e Luca sei. Il primo Vangelo dunque porta evidente l’impronta del suo autore, del pubblicano e calcolatore Matteo. Nel suo Vangelo è pure manifesta la predilezione dei Giudei per i numeri sacri 3, 7, 8, 14, che vi ricorrono con tanta frequenza facilmente discernibili. Fin dal primo capitolo, che si direbbe alquanto studiato, ci incontriamo con gli antenati di nostro Signore Gesù Cristo secondo la natura umana, ch’egli enumera in tre gruppi di quattordici generazioni; il numero 14, secondo il metodo usato dagli Ebrei per indicarlo con le lettere dell’alfabeto, dà per risultato il nome « David »: D= 4 W=6; D = 4. La storia della vita di Gesù Cristo prima della sua comparsa in pubblico si articola intorno a sette profezie, il discorso al lago consta di sette parabole, il « Padre nostro » risulta di sette petizioni. Nell’ottavo e nono capitolo riferisce i miracoli spartiti in tre gruppi di tre miracoli, inserendo fra un gruppo e l’altro due richieste di Gesù. Questi rilievi ci consentono una visione panoramica della costruzione di tutto il Vangelo: è sistemato secondo determinate proporzioni, precisamente come solevano esporre i Giudei e in generale i Semiti; inoltre l’autore ama accostare quello ch’è omogeneo, tutto quello che per sostanza e forma è affine; Matteo ordina la materia sacra seguendo, almeno nel lungo tratto intermedio, dal capitolo 4, 17 al 18, 35, uno schema piuttosto logico, a differenza di Luca, che si propone di narrare « secondo ordine ». Può essere che questa propensione a scrivere secondo uno schema e sistema, per non dire con criterio matematico, quale si manifesta nel Vangelo, sia in Matteo un’eredità della sua precedente professione di esattore; comunque, percorrendo il libro, abbiamo la percezione del suo bisogno di condurre innanzi anche il Vangelo ordinatamente, con bella disposizione, come doveva fare prima con i suoi rotoli nell’ufficio della dogana. Così nella sezione centrale dell’opera raccoglie insieme i discorsi del Signore in cinque gruppi maggiori, dei quali il più importante è il discorso sul monte; e proprio nel discorso sul monte egli congiunge, in una mirabile composizione unitaria, discorsi pronunciati dal Signore in circostanze diverse, come risulta da un confronto col vangelo di Luca; in modo analogo unisce pure i miracoli di Gesù in racconti continuati, legandoli leggermente insieme coll’indeterminato « téte = dopo questo ». Ogni lettore intelligente comprende facilmente che questo metodo d’informazione evangelica, più logico che cronologico, non compromette per nulla la verità storica dei fatti; esso invece conferisce al Vangelo di Matteo chiarezza eccellente e dignitosa compattezza. In esso si distinguono chiaramente tre parti: 1. Preparazione 1, 1-4, II: albero genealogico e storia dell’infanzia; l’opera del Battista; battesimo e tentazione di Gesù. – 2. Decisione e separazione 4, 12-18, 35: Cristo offre al popolo la salvezza messianica: inizi dell’attività in Galilea; predica sul monte; prova dei miracoli; elezione e invio degli Apostoli. Il popolo rifiuta la salute: ambasciata del Battista; lamento e minaccia di Gesù; offensiva dell’ostilità farisaica. Cristo separa i credenti dai non credenti e li raduna nella Chiesa: parabole del regno dei Cieli; decollazione di Giovanni; ritorno di Gesù ai fedeli; fondazione della Chiesa su Pietro; istruzione degli Apostoli. – 3. Fine 19, 1-28, 20: Gesù in Giudea e a Gerusalemme; domenica delle Palme; contese e parole di punizione nel Tempio; la storia della Passione; Pasqua. – Come appare da questo disegno e dalle esplicite testimonianze dei Padri della Chiesa, Matteo scrisse questo Vangelo per i « Giudei », sia per quelli, che già erano passati al Nuovo Testamento, sia anche per gli altri, che ancora persistevano nel Testamento Antico; bisogna badare a questa destinazione del libro, perché giova alla sua intelligenza, giacché esso, il primo libro della Scrittura neotestamentaria, riecheggia il Vecchio Testamento. Ci si presenta subito il primo capitolo con l’albero genealogico di Gesù Cristo; agli uomini d’oggi fa l’impressione d’essere tanto arido; eppure è il venerabile vestibolo del Nuovo Testamento, è come una commovente processione delle personalità dell’Antico che muovono verso il Cristo: « Abramo generò Isacco; Isacco generò Giacobbe; Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli… ». Matteo rimanda continuamente alle rapide luci delle predizioni profetiche, ch’erano guizzate nell’orizzonte del Vecchio Testamento; appunto esse dovevano illuminare agli occhi dei Giudei la via che mena a Cristo: « Tutto questo è avvenuto perché avesse compimento quello, che il Signore aveva detto per mezzo del Profeta… »; « allora s’adempì la parola del Profeta, che dice… ». Nel vangelo di Matteo sono state contate non meno di settanta di queste citazioni e allusioni al Vecchio Testamento, mentre in Marco se ne contano solo diciotto, in Luca diciannove, in Giovanni dodici. Lo stesso senso di riguardo verso i destinatari giudei consigliò a Matteo di stendere nel suo Vangelo i discorsi del Signore circa la sua posizione di fronte alla legge del Vecchio Testamento, che Marco e Luca invece tralasciano: « Non crediate ch’Io sia venuto a togliere la Legge e i Profeti… Avete udito che è stato detto agli antichi… Ma Io vi dico…». Seguendo i Libri Santi del popolo giudaico, Matteo nel suo Vangelo cercò di persuaderlo che Gesù era il Messia promesso dalla Legge e dai Profeti, e che la Chiesa da Lui fondata era il regno messianico ardentemente atteso. Dall’abbondante materiale evangelico egli sceglie instancabile anche quelle frasi di Gesù, che si opponevano alle aspettative messianiche errate e travisate in senso terreno e nazionalistico dei Giudei: « Beati i poveri di spirito! Beati gli afflitti! Beati i mansueti… ». « Ti glorifico, o Padre, Signore del Cielo e della terra, perché Tu hai nascosto queste cose ai sapienti e ai potenti, ma le hai rivelate ai piccoli… » « Il regno dei Cieli è simile a un grano di senapa, ch’è più piccolo di tutte le altre sementi… È simile a un tesoro, che giaceva nascosto nel campo ».. Gesù è il Messia previsto dai Profeti nonostante la sua povertà e nonostante lo scandalo della croce; forse in nessun altro Vangelo ritorna tanto spesso il chiaroscuro della sua vita e ne è così percettibile il rapido cambiamento, come nel Vangelo di Matteo: Gesù è perseguitato da Erode, ma adorato dai gentili; viene battezzato come un peccatore, ma glorificato dal Padre; è tentato dal demonio, ma servito dagli Angeli; viene crocifisso come un delinquente, ma dalla natura e dagli uomini è attestato « vero Figlio di Dio ». – Matteo deve inoltre dare una ragione del doloroso mistero, per il quale anche Paolo lotta nei capitoli 9-11 della lettera ai Romani: perché il popolo eletto, nella sua maggioranza, abbia respinto Gesù qual Messia. Matteo documenta nel corso della sua storia quello, che Paolo afferma afflitto nella citata lettera: «In ogni tempo stendo le mie mani a un popolo, ch’è caparbio e restio »; e così leggiamo nel primo Vangelo della colpevole indifferenza dei capi già dinanzi al Neonato, della loro gelosia verso il Maestro, del loro odio infernale contro il Morente, della loro ultima malizia contro il Risorto. Si deve a questo motivo se Matteo, sebbene sia l’evangelista calmo, non ha avuto riguardo di consegnare allo scritto anche quel giudizio del Signore contro i suoi nemici, che, come uno scrosciante temporale, s’abbatté « sulle cieche guide dei ciechi »: « Guai a voi, Scribi e Farisei… », e per otto volte « Guai a voi»! Sembrano un’eco terrificante delle otto beatitudini all’inizio del vangelo. Ma nemmeno il popolo è senza colpa: « Il regno di Dio sarà tolto a voi e verrà dato a un popolo, che dà i suoi frutti » (XXI, 43); e Matteo è ancora il solo a notare quell’orrido grido del popolo giudaico, che rintronò mentre il pagano Pilato si lavava le mani: « Il suo Sangue scenda su di noi e sui nostri figli », e da allora rintronò in tutti i tempi e nel nostro secolo ha avuta l’eco più spaventosa. Un Vangelo scritto per i Giudei del primo secolo potrebbe sembrare per la nostra generazione sorpassato; non è però così, anche il Vangelo di Matteo trascende i tempi, anzi esso tenne sempre il primo posto fra i Vangeli sinottici e non solo in ordine di tempo, ma anche di importanza; esso può dire la sua parola precisa anche agli uomini d’oggi per la sua pacata obiettività, a motivo della quale è stato pure detto il « Vangelo accademico ». Il valore intrinseco per la cristianità moderna, tutto proprio di questo Vangelo, sta nelle sue trattazioni sul regno messianico: di contro a un regno messianico terreno, che oggi irrompe da tutte le parti e pretende da Cristo, come il Giudaismo d’un tempo, un paradiso sulla terra, è il Vangelo di Matteo che sottolinea la spiritualità del vero regno messianico; col riferire più diffusamente degli altri Evangelisti la predicazione di Gesù intorno al suo regno, Matteo è divenuto l’evangelista anche della… Chiesa, a quel modo che Giovanni è l’evangelista particolarmente della divinità di Gesù. – E in questo suo pregio, non altrove, si nascondono i veri motivi delle obiezioni contro di esso: è « il Vangelo della Chiesa », come ebbe a dirlo con caratteristica espressione il Renan; la Chiesa fondata da Cristo in esso si manifesta più chiaramente che non negli altri; le parole: « Tu sei Pietro! Su questo Pietro — Roccia — Io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non la supereranno. Ti darò le chiavi del regno dei Cieli » risuonano lungo tutto il Vangelo. È significativo che la leggenda dei dodici articoli del Credo ponga in bocca a Matteo quello della Chiesa: « Credo in sanctam Ecclesiam catholicam — credo nella santa Chiesa Cattolica »; il suo Vangelo è il Vangelo « cattolico », cattolico nel senso più ampio della parola, anche perché, e qui sta il suo ultimo pregio particolare per la nostra straziata età, esso annunzia a tutti i popoli, i quali si sentono « eletti », che la salute messianica è comune a tutte le razze e classi e caste, è « cattolica », appartiene a tutti, tutti abbraccia, tutti concilia, tutti unisce. Com’è profondamente simbolico il fatto, che nel Vangelo di Matteo s’incontrino fin da principio dei pagani, che genuflettono dinanzi « al neonato Re dei Giudei », e nell’ultimo capitolo Cristo ordini ai suoi Discepoli: « Andate e ammaestrate tutti i popoli » (Matt. XXVIII, 19). Matteo, il pubblicano! Matteo, l’evangelista! I due momenti sono espressi vigorosamente e magnificamente dalla sua statua al Laterano: l’Apostolo, risoluto e sprezzante, mette il suo piede sopra il sacco dei denari, che scoppia, mentre il suo occhio e il suo cuore sono per il Libro Santo, che gli sta dinanzi sulle ginocchia grande e largo: esempio e monito a tutti, perché nessuno si renda schiavo delle cose di quaggiù, perché tutti camminino al di sopra della materia e divengano degni del santo Vangelo, conformino la propria vita ad esso, che ha avuto il primo redattore in Matteo. Poiché « l’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola, che esce dalla bocca di Dio » (Matt. IV, 4).

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (23)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (23)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

EPILOGO

LA SUA MISSIONE

1) «La mia missione sarà quella di mantenere le anime in questo grande silenzio interiore »

2) « Vi lascio questa vocazione che fu la mia in seno alla Chiesa: Lode di gloria della Trinità Santa ».

1) Il grande silenzio interiore — 2) Lode di gloria della Trinità.

 I grandi servi di Dio, mentre stavano per lasciare la terra, sentivano che la loro attività apostolica al servizio della Chiesa, lungi dal cessare con la morte, avrebbe anzi potuto espandersi soprattutto quando l’anima loro fosse giunta in seno a Dio. Non avevano essi l’esempio e il ricordo della promessa del Maestro agli Apostoli: « È bene per voi che io me ne vada. Quando sarò ritornato al Padre, vi manderò lo Spirito »? – San Paolo ci ha lasciato la descrizione dell’attività eterna di Cristo sempre vivo dinanzi al Volto del Padre, per adorarlo e glorificarlo, ma anche «per intercedere continuamente in nostro favore » (Ebr. VII, 25). – E chi oserebbe pensare che, dopo la sua gloriosa assunzione, la Madre degli uomini si sia disinteressata delle nostre terrene miserie e che nel suo mistero eterno, frai gaudî della visione, la Madre di Dio non sia sempre occupata di questi altri suoi figli, intercedendo per loro? Che non sia sempre china su di essi tutti quanti, per « generarli al Cristo », più madre che mai? – Non è raro trovare sulle labbra dei grandi fondatori di Ordini, parole simili a quelle di san Domenico ai suoi figli che piangevano intorno a lui morente: « Vi sarò più utile di lassù ». Il mondo intero ha udito il desiderio della « santa più grande dei tempi moderni » (Pio X, ad un Vescovo missionario.), Teresa di Gesù Bambino: « In cielo, io non starò inattiva. Voglio passare il mio cielo a fare del bene sulla terra ». E la sua umile sorella di Digione ha lasciato erompere dall’anima lo stesso grido apostolico: « Non dubitate: lassù, nella sorgente dell’Amore, io penserò attivamente a voi; e chiederò per voi una grazia di unione, di intimità col divino Maestro: è quella che ha resa la mia vita un paradiso anticipato ». Qualche giorno prima di morire, mossa dallo Spirito Santo. tracciò in matita, con mano tremante, questa frase celebre, indirizzata ad una povera sorella conversa: « Mi sembra che la mia missione, in cielo, sarà quella di attirare le anime nel raccoglimento interiore, aiutandole a uscire da loro stesse per aderire a Dio, mediante un movimento semplicissimo e tutto d’amore; e di mantenerle in quel grande silenzio interiore che permette a Dio di imprimersi in esse e di trasformarle in Sé ». Parole profetiche. E la propagazione rapida e mondiale dei « Ricordi » ce ne fa constatare la realizzazione.

1) In cielo, i santi hanno ciascuno la loro missione in armonia col piano della redenzione e in ricompensa dei meriti acquistati sulla terra. E sino alla fine del mondo, essi continuano a lavorare per l’estensione del regno di Dio e per la formazione del « Cristo totale »; tutti: la Madre del Verbo Incarnato come Mediatrice universale di tutte quante le grazie, senza eccezione; gli altri Santi, chi più chi meno, ciascuno nella propria linea, secondo il loro posto nell’economia provvidenziale. Così, i patriarchi degli ordini religiosi vegliano particolarmente sui membri del loro istituto, una santa Giovanna d’Arco sulla sua patria, un Vescovo sulla sua diocesi, un curato sulla sua parrocchia, un padre o una madre sui figli. La missione affidata dalla Provvidenza a suor Elisabetta della Trinità non è di intervenire luminosamente nella direzione del mondo, ma di attirare le anime nelle vie del silenzio e del raccoglimento, per la gloria della Trinità. « Credo che la mia missione, in Cielo, sarà quella di attirare le anime nel raccoglimento…» … « aiutandole a uscire da loro stesse ». È la grazia delle grazie. Quante anime « labirinti » non riescono mai ad uscire da loro stesse, attraverso ai dedali innumerevoli del proprio « io »! Le più ferventi ne gemono e si desolano; ma invano cercano di liberarsi coi loro proprî sforzi; non vi riescono, perché è compito che supera le forze umane: ci vuole la grazia di Dio. È dunque grazia preziosissima quella che promette la cara serva di Dio a tutte le anime interiori che sono imprigionate nel loro « io ». Dal Cielo, il suo aiuto silente le conduce a quella liberazione totale che le getta « pienamente in Cristo ». – Ma l’anima non si distacca che per unirsi, « per aderire a Dio ». È l’aspetto positivo della missione di suor Elisabetta della Trinità. I suoi scritti spirituali hanno portato già tanti tato già tanti frutti negli ambienti cattolici più diversi, perché il suo invito al raccoglimento interiore si rivolge a tutte le anime della Chiesa di Dio. Tuttavia — bisogna riconoscerlo — la silenziosa Carmelitana di Digione sembra aver ricevuto una missione tutta particolare da svolgere presso le anime contemplative, per strapparle a loro stesse e qualche volta ai loro poveri « cenci », e rapirle nella grande corrente della vita divina che conferisce loro potenza di redenzione sul Cuore di Dio. Ma, per un gran numero di queste anime interiori, quante complicazioni nella pratica della loro vita spirituale! Alcune cercano Dio nelle mortificazioni eccessive, altre in una fedeltà minuziosa troppo attaccata alla lettera, troppo meccanica, troppo poco attenta al soffio dello Spirito. A tutte queste anime di buona volontà, qualche volta male illuminate, suor Elisabetta ricorda che bisogna andare a Dio « con un movimento semplicissimo, tutto di amore ». Soltanto l’amore dona la semplicità. Un’anima che in ogni cosa non cerca che la gloria divina, con amore perfetto, è un’anima che va diritta a Dio. – « Deus ignis consumens »: il nostro Dio è un fuoco consumante, cioè un fuoco d’amore che distrugge, che trasforma in Sé tutto ciò che tocca. Per le anime che, nel loro intimo, sono tutte abbandonate alla Sua azione, la morte mistica di cui parla san Paolo diviene tanto semplice, tanto soave! Esse pensano molto meno al lavoro di spogliamento e di distruzione che rimane loro da compiere, che non ad immergersi nel fuoco d’amore che arde in loro e che è lo Spirito Santo, quello stesso Amore che, nella Trinità, è il vincolo di unione fra il Padre e il suo Verbo. La fede ve le introduce; e là, semplici e quiete, sono da Lui stesso trasportate in alto, più in alto delle cose tutte, dei gusti sensibili, fino alla « tenebra sacra », e sono trasformate nell’immagine divina. Esse vivono, secondo l’espressione di san Giovanni: « in società » con le Tre adorabili Persone; la loro vita è in comune: è la vita contemplativa » («Il paradiso sulla terra» – 6° orazione). – Allora, l’anima è custodita « in quel grande silenzio interiore » così caro a suor Elisabetta della Trinità e centro in cui converge tutta la sua dottrina spirituale. Dopo il capitolo consacrato all’Ascesi del silenzio, non c’è più bisogno di insistere su questo punto importantissimo. Oggi, nel mondo, tutto è assorbito da un’attività dinamica; e non si pensa che all’azione esteriore. Le anime non sanno più tacere per ascoltare Dio. In questo mondo moderno che si agita rumorosamente c’è forse una missione più urgente di quella affidata dalla Provvidenza alla santa Carmelitana di Digione? Ricondurre, cioè, le anime nella via del raccoglimento e « custodirle in quel profondo silenzio interiore che permette a Dio di imprimersi in loro, e di trasformarle in Se medesimo ». Lei stessa ci ha insegnato « che un’anima che si riserba ancora qualche cosa nel suo regno interiore, un’anima le cui potenze non sono tutte « raccolte » in Dio, non può essere una perfetta lode di gloria… Un’anima che scende a patti col proprio « io », che si occupa delle sue sensibilità, che va dietro ad un pensiero inutile, a un desiderio qualsiasi, quest’anima disperde le proprie forze, non è concentrata in Dio; la sua arpa non vibra all’unisono; e quando il Maestro divino la tocca, non può trarne armonie divine. Vi è incora troppo di umano » (Ultimo ritiro – II giorno.). Tutto deve tacere in noi: i sensi esteriori alle cose della terra, le potenze interiori a tutti i rumori del di dentro: silenzio dello sguardo, silenzio dell’immaginazione della memoria, silenzio del cuore soprattutto. « Perché nulla mi distolga da questo bel silenzio interiore, sono necessarie sempre le stesse condizioni, lo stesso isolamento, stesso distacco, lo stesso spogliamento. Se i miei desiderî, i miei timori, le mie gioie, i miei dolori, se tutti i movimenti che derivano da queste quattro passioni non sono perfettamente ordinati a Dio, io non sarò silenziosa, vi sarà del tumulto in me; occorre dunque la quiete, il sonno delle potenze, l’unità dell’essere » (Ultimo ritiro – X giorno). Anche le facoltà spirituali più elevate devono, a loro volta, entrare in questo « alto silenzio interiore »: silenzio dell’intelligenza; nessun pensiero inutile; silenzio del giudizio, così radicalmente opposto allo spirito moderno. Critico per eccellenza; silenzio della volontà soprattutto, che produce nell’anima il grande silenzio dell’amore. Questo « alto silenzio interiore » quando si sia profondamente affermato nelle anime, « permette a Dio di imprimersi in esse e di trasformarle in Se medesimo ». Si realizza, allora. lo scopo supremo di ogni vita umana: l’unione trasformante. « Ormai il Signore è libero: libero di effondersi, di donarsi « a suo beneplacito ». e l’anima così semplificata, unificata, diventa il trono dell’Immutabile, poiché l’unità è il trono della santa Trinità » (Ultimo ritiro – II giorno.).

2) Un documento postumo, di straordinaria importanza, ci rivela un altro aspetto ancora più essenziale della missione provvidenziale della serva di Dio. Dopo la sua morte, fu trovata una piccola busta, accuratamente sigillata con ceralacca rossa che recava questo indirizzo: « Segreto per la nostra Madre ». Confidenza suprema, nell’ora in cui i Santi vedono tutte le cose alla luce dell’eternità. « Madre mia. quando leggerete queste righe, la vostra piccola « lode di gloria » non canterà più sulla terra, ma sarà inabissata in seno all’Amore… L’ora è così grave. Così solenne! e non voglio indugiarmi a dirvi cose che mi sembrerebbe di diminuire volendo esprimerle con la parola… Ma la vostra figliola vuol rivelarvi quello che sente o, per essere più esatta. quello che il suo Dio le ha fatto comprendere nelle ore di raccoglimento profondo, di contatto unificante… Madre venerata, Madre per me consacrata fin dall’eternità, a Voi, partendo, io lascio in eredità quella vocazione che fu la mia in seno alla Chiesa militante e che, d’ora innanzi, adempirò incessantemente nella Chiesa trionfante: « lode di gloria della Santa Trinità ». La gloria della Trinità: ecco il testamento supremo della santa Carmelitana a tutte le anime che vorranno seguirla nel cammino della vita interiore. Questa « lode di gloria della Trinità » che fu « la sua vocazione fin dall’esilio », e rimane il « suo ufficio per la eternità » alla presenza della maestà di Dio, risponde al più sublime disegno divino riguardo a tutte le creature. Sì; tutto, nell’opera di Dio, è ordinato a questa gloria. – « Universa propter se operatus est Dominus » (Prov., XVI, 4.). Se ha mandato nel mondo il Figlio suo, è stato prima di tutto per riparare questa gloria offesa dal peccato. Gesù stesso riassumeva in una parola la sua missione sulla terra: « Padre, non ho cercato che la tua gloria: Glorificavi Te, Pater » (San Giovanni, XVII, 4.). Ormai possiamo abbracciare in tutta la sua ampiezza la dottrina mistica di suor Elisabetta della Trinità. La Trinità adorabile è il Bene supremo al quale tendono tutte le anime e il mondo dei puri spiriti; e proprio per farci entrare « in società » con le Persone divine, il Padre ha creato l’universo ed ha « inviato il Figlio suo ». Tutto il mistero della Chiesa e della Madre di Dio, Mediatrice di grazia, è di condurre il « Cristo totale » alla contemplazione della Trinità. « La visione della Trinità nell’Unità: questo è il sublime destino dell’uomo » (Cfr. san Tommaso, I Sent. I, II, 1 Expositio textus: « Cognitio Trinitatis in Unitate est fructus et finis totius vitæ nostræ ».). – Egli cammina penosamente sulla terra, in Cristo, il « Crocifisso per amore », ma per giungere a perpetuarsi in Dio. E attraverso tutte le croci, tutte le notti, tutte le morti della Chiesa militante, continua la silenziosa ascesa delle anime verso l’immutabile e beatificante Trinità. Ma giungono alla visione divina che è « la consumazione nell’unità » quelli soltanto che, in questa ascesa, hanno il coraggio di abbandonare tutto ciò che è estraneo a Dio, per gioire di Lui, nel suo isolamento, nella sua semplicità, nella sua purezza; di Lui, l’Essere da cui tutto dipende, a cui tutto mira, dal quale deriva l’essere, la vita, il pensiero. « C’è un Essere che è l’Amore, e che vuol farci vivere in società con Lui » (Lettera alla mamma – 20 ottobre 1906). « Questo Amore infinito che ci avvolge e ci penetra vuole associarci, fin da questa vita, alla sua beatitudine. Riposa in noi tutta la Trinità, questo mistero che sarà, in Cielo, la nostra visione » (Lettera a G. de G. 20 agosto 1903.). – Come sembra vano tutto il resto all’anima che ha intravisto, mediante la fede, questi splendori trinitarî. Essa è cosciente di possedere in sé un Bene, così grande, dinanzi al quale ogni altro bene illanguidisce e scompare. « Tutte le gioie che le sono concesse sono per lei come altrettanti inviti a gustare il Bene che possiede, preferendolo a tutto perché nessun altro bene può essergli paragonato » (« Il paradiso sulla terra » – 11° orazione.). E quale amore, quale desiderio di unirsi a Lui, nell’anima fortunata che ha incontrato questo Bene! Lo ama di un amore « più forte della morte », lo vuole con brama ardente, si disillude di ogni altro amore, trascura le altre bellezze che per un istante avevano potuto sedurla. La privazione di tutto il creato non è una sofferenza per chi possiede Dio; infelice è soltanto chi è privo della visione di questa suprema Bellezza. Bisogna, dunque, lasciare tutto per possedere questa ricchezza ineffabile, svincolarsi completamente dal fascino delle bellezze fugaci che potrebbero distogliere l’anima dal suo fine; bisogna non voler sapere più nulla della terra, fuggirsene « sola col Solo », estranea a tutto. La vera patria dell’anima è là, in seno alla Trinità beata, nel silenzio e nel raccoglimento. « La Trinità: ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa paterna donde non dobbiamo uscire mai» (« Il paradiso sulla terra » – 1° orazione). – Una fase superiore di vita spirituale si realizza nell’anima quando, trionfando del suo « io », e « dimenticandosi interamente », essa non vive più che per Dio, come i beati in cielo, nell’« incessante lode di gloria ». « In ogni suo movimento, in ogni sua aspirazione, come in ogni sua azione per quanto ordinaria sia, quest’anima è, per così dire, un « Sanctus » perpetuo, una continua « lode di gloria » (Ultimo ritiro – VIII giorno.). Comincia nel tempo il suo « ufficio della eternità »; ma sempre raccolta nel fondo del suo essere, nell’intimo santuario dove si è ritirata col suo Dio. – « O la più bella delle creature, anima che desideri ardentemente di conoscere il luogo dove si trova il tuo Diletto, per cercarlo e unirti a Lui, sei tu stessa il rifugio dove Egli si ritira, la dimora in cui si nasconde. Il tuo Diletto, il tuo tesoro, l’unica tua speranza, ti è così vicino, che anzi, abita in te; e, senza di Lui, tu non puoi nemmeno esistere » (San Giovanni della Croce – « Cantico spirituale, strofa 1°.). Si ricordi però, quest’anima, che Dio abita in lei non per lei soltanto, per la sola sua gioia, ma prima di tutto per la propria gloria. « La Trinità brama ritrovare nelle sue creature la propria immagine e somiglianza ». Ecco quindi che la gloria della Trinità deve elevare alfine l’anima al di sopra di se stessa e della sua propria gioia. propria gioia. « Poiché l’anima mia è un cielo in cui vivo aspettando la celeste Gerusalemme, questo cielo deve cantare la gloria dell’Eterno, niente altro che la gloria dell’Eterno » (Ultimo ritiro – VII giorno.). A questo, in ultima analisi, la dottrina spirituale di suor Elisabetta della Trinità vuole condurre le anime: « Vivere in un eterno presente ad immagine dell’immutabile Trinità, sempre adorandola per Lei stessa, e divenire, mediante uno sguardo sempre più semplice, più unitivo, lo splendore della sua gloria o, in altre parole, l’incessante lode di gloria delle sue adorabili perfezioni » (Ultimo ritiro – XVI giorno). – Mentre santa Teresa di Gesù Bambino ha suscitato schiere di anime che l’hanno seguita nella sua offerta di vittima all’Amore misericordioso, suor Elisabetta della Trinità sembra aver ricevuto la missione di suscitare nella Chiesa una moltitudine di « Lodi di gloria » alla Trinità: Vi lascio in eredità questa vocazione che fu la mia in seno alla Chiesa militante e che adempierò d’ora innanzi incessantemente nella Chiesa trionfante:

« Lode di gloria

della Santissima Trinità».

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (24)

NOVENA ALL’ARCANGELO S. MICHELE (Inizia il 20 settembre; festa il 29 settembre)

NOVENA ALL’ARCANGELO SAN MICHELE (Inizia il 20 settembre; festa il 29 settembre)

I. Gloriosissimo Arcangelo S. Michele, che pieno di fede, di umiltà, di riconoscenza, d’amore, lungi dall’aderire alle suggestioni del ribelle Lucifero, o di intimidirvi alla vista degl’innumerabili suoi seguaci, sorgeste anzi pel primo contro di lui, ed animando alla difesa della causa di Dio tutto il restante della Corte celeste, ne riportaste la più completa vittoria, ottenetemi, vi prego, la grazia di scoprire tutte le insidie, e resistere a tutti gli assalti di questi angeli delle tenebre, affinché, trionfando a vostra imitazione dei loro sforzi, meriti di risplendere un giorno sopra quei seggi di gloria da cui furono essi precipitati per non risalirvi mai più. Gloria.

II. Gloriosissimo Arcangelo S. Michele, che destinato alla custodia di tutto il popolo Ebreo, lo consolaste nelle afflizioni, lo illuminaste nei dubbj, lo provvedeste in tutt’i bisogni, fino a dividere i mari, a piover manna dalle nubi, a stillar acqua dai sassi; illuminate, vi prego, consolate, difendete, e sovvenite in tutt’i bisogni l’anima mia, affinché, trionfando di tutti gli ostacoli che ad ogni passo s’incontrano nel pericoloso deserto di questo mondo, possa arrivare con sicurezza a quel regno di pace e di delizie, di cui la terra promessa ai discendenti di Abramo non era che una smorta figura. Gloria.

III. Gloriosissimo Arcangelo S. Michele, che costituito capo e difensore della cattolica Chiesa, la rendeste sempre trionfatrice della cecità dei gentili colla predicazione degli Apostoli, della crudeltà dei tiranni colla fortezza dei Martiri, della malizia degli eretici colla sapienza dei Dottori, e del mal costume del secolo colla purità delle Vergini, la santità dei Pontefici e la penitenza dei confessori, difendetela continuamente dagli assalti de’ suoi nemici, liberatela dagli scandali de’ suoi figliuoli, affinché, mostrandosi sempre in aspetto pacifico e glorioso, ci teniamo sempre più fermi nella credenza de’ suoi dogmi e perseveriamo sino alla morte nell’osservanza de’suoi precetti. Gloria.

IV. Gloriosissimo Arcangelo S. Michele, che state alla destra dei nostri altari per portare al trono dell’Eccelso le nostre preghiere e i nostri sacrifizj, assistetemi, vi prego, in tutti gli esercizj della cristiana pietà, affinché compiendoli con costanza, con raccoglimento e con fede, meritino d’essere di vostra mano presentati all’Altissimo, e da Lui ricevuti come l’incenso in odore di grata soavità. Gloria.

V. Gloriosissimo Arcangelo S. Michele che, dopo Gesù Cristo e Maria, siete il più potente mediatore fra Dio e gli uomini, al cui piede s’inchinano confessando le proprie colpe le dignità le più sublimi di questa terra, riguardate, vi prego, con occhi di misericordia la miserabile anima mia dominata da tante passioni, macchiata da tante iniquità, ed ottenetemi la grazia di superare le prime, e detestare le seconde, affinchè, risorto una volta, non ricada mai più in uno stato sì indegno e luttoso. Gloria.

VI. Gloriosissimo Arcangelo S. Michele, che, come terrore dei demonj, siete dalla divina bontà destinato a difenderci dai loro assalti nell’estrema battaglia, consolatemi, vi prego, in quel terribile punto colla dolce vostra presenza, ajutatemi col vostro insuperabile potere a trionfare di tutti quanti i miei nemici, affinché, salvato per mezzo vostro dal peccato e dall’Inferno, possa esaltare per tutti i secoli la vostra potenza e la vostra misericordia. Gloria.

VII. Gloriosissimo Arcangelo S. Michele, che con premura più che paterna discendete pietosamente nel tormentoso regno del Purgatorio per liberarvi le anime elette, e seco voi trasportare nella eterna felicità, fate, vi prego, che, mediante una vita sempre santa e fervorosa , io meriti di andare esente da quelle pene sì atroci. Che se, per le colpe non conosciute, o non abbastanza piante e scontate, siccome già lo preveggo mi vi andassi condannato per qualche tempo, perorate in allora presso il Signore la mia causa, movete tutti i miei prossimi a suffragarmi, affinché il più presto possibile voli al Cielo a risplendere di quella luce santissima che fu promessa ad Abramo ed a tutti i suoi discendenti . Gloria.

VIII. Gloriosissimo Arcangelo S. Michele, destinato a squillare la tromba annunziatrice del gran Giudizio, ed a precedere colla croce il Figliuolo dell’uomo nella gran valle, fate che il Signore mi prevenga con un giudizio di bontà e di misericordia in questa vita, castigandomi a norma delle mie colpe, affinché il mio corpo risorga insieme coi giusti ad una immortalità beata e gloriosa, e si consoli il mio spirito alla vista di quel Gesù che formerà il gaudio e la consolazione di tutti quanti gli eletti. Gloria.

IX. Gloriosissimo Arcangelo S. Michele, che costituito governatore di tutta l’umana natura, siete in modo speciale il Custode della cattolica Chiesa , e del visibil suo Capo, riunite al seno di questa eletta Sposa di Gesù Cristo, tutte le pecore erranti, gli infedeli, i turchi, gli ebrei, gli scismatici, i peccatori, affinché, adunati tutti in un sol ovile, possano cantare unitamente per tutti i secoli le sovrane misericordie: sostenete nella via della santità, e difendete da tutti i nemici l’infallibile interprete de’ suoi voleri il suo Vicario sopra la terra, il Romano Pontefice, affinché obbedendo sempre alla voce di questo Pastore universale, non mai si allontanino dai pascoli della salute, ma crescano anzi ogni giorno nella giustizia così i sudditi come i magistrati, cosi i popoli come i Re, e compongano su questa terra quella società concorde, pacifica e indissolubile, che è l’immagine, il preludio e la caparra di quella perfetta ed eterna che comporranno con Gesù Cristo tutti i beati nel cielo. Gloria.

OREMUS.

Da nobis, omnipotens Deus, beati Michaëli Arcangeli honore ad summa proficere; ut cujus in terris gloriam prædicamus, ejus quoque precibus adjuvemur in cælis. Per Dominum, etc.

[G. Riva: Manuale di Filotea; XXX Ed. – Milano, 1888]

LA GRAZIA E LA GLORIA (25)

LA GRAZIA E LA GLORIA (25)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO V

LA FILIAZIONE ADOTTIVA CONSIDERATA NELLA SUA RELAZIONE CON CIASCUNA DELLE PERSONE DIVINE.

LA RELAZIONE CON IL PADRE E IL FIGLIO.

CAPITOLO III

La relazione dei figli adottivi con il Figlio di Dio. MGesù Cristo, il nostro fratello primogenito.

1. – Poiché il Padre è nostro padre, e noi siamo fatti secondo il Figlio come secondo il nostro modello, niente è più naturale a prima vista che chiamarlo con il dolce nome di fratello. Eppure la Sacra Scrittura sembra proibirci di dargli questo titolo. Infatti, Egli non solo è nato dal Padre, ma è l’unigenito Figlio del Padre; e lo Spirito di Dio, per mostrarci tutta la forza e la verità di quest’ultimo nome, lo ha fatto registrare almeno cinque volte negli scritti dell’evangelista S. Giovanni. Ora, chi dice unico, esclude ogni fratello dalla casa dell’unico. Ma, d’altra parte, le stesse Scritture ci insegnano a guardare questo medesimo Figlio unigenito come un fratello; perché leggo in San Paolo: « Egli non si vergognava di chiamarli fratelli, dicendo: Proclamerò il tuo nome ai miei fratelli » (Ebr., II, 11; cfr. Salmo, XXI, 26.). Gli Apostoli si contraddirebbero a vicenda, l’uno negando ciò che l’altro conferma? Dio non voglia! Inoltre, la stessa Scrittura in cui abbiamo letto espressioni così apparentemente opposte, le concilia in una parola: Il Figlio unigenito è il primogenito del Padre, “Primogenitus” (Hebr. I, 6); il primogenito tra molti fratelli, « Primogenitus in multis fratribus » (Rom. VIII, 29). – Primogenito, non solo perché esiste prima di tutti gli altri, ma soprattutto perché è di un ordine, di un grado e di una maestà a cui nessuno degli altri può aspirare; ed è questo che gli merita anche il nome di Unico. Così la prerogativa di essere l’unico Figlio è in armonia con la moltitudine dei fratelli, così come la semplicissima unità di Dio nell’essenza è in armonia con il numero sempre crescente di dei divinizzati. Ecco perché l’Apostolo nella sua epistola agli Ebrei, dove tratta magnificamente della nostra fratellanza con Cristo, ha potuto scrivere del Verbo incarnato, il nostro grande Pontefice,  … « che Egli è tanto più esaltato sopra gli Angeli perché ha ricevuto un Nome molto più diverso dal loro. Perché a quale Angelo Dio ha mai detto: “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”? E ancora: “Io sarò suo Padre ed Egli sarà mio Figlio? » (Hebr. I, 4-5). Angeli e uomini, in virtù della loro nascita soprannaturale, sono elevati all’onore di essere fratelli di Cristo, ma fratelli che lo riconoscono come loro Dio, loro principio e il loro Re. È davvero il vero Giuseppe, amato da suo padre più di tutti i suoi figli, che può veramente dire loro: « Ascoltate la visione che ho avuto: mi sembrava che stessimo legando dei covoni nel campo, e ho visto il mio covone in piedi, e tutto intorno i vostri covoni che lo adoravano » (Gen. XXXVII, 4-8). Inginocchiandoci davanti a Lui, meditiamo ancora su questo nome di primogenito, per gustare pienamente e nella loro totalità tutti i significati che contiene. Primogenito, perché è uscito dalla bocca dell’Altissimo prima di qualsiasi creatura. Primogenito, perché è l’espressione adeguata del Dio invisibile; che per mezzo di Lui e per Lui sono state create tutte le cose, e che Egli stesso è prima di tutte le cose, e che tutte le cose sussistono per mezzo di Lui (Col. I, 15-18). Primogenito, perché ha dei fratelli sotto di Lui, che sono per imitazione accidentale ciò che Lui è per natura e sostanzialmente. Primogenito, perché questi fratelli che il Padre ha dato nel tempo a questo Figlio la cui nascita è eterna, è in Lui e per mezzo di Lui che hanno ricevuto l’adozione di figli (Gv. I, 11-12). Primogenito, perché se noi speriamo nell’eredità del Padre, coeredi come siamo del suo Figlio, è ancora per mezzo di Lui che abbiamo questa speranza e questo diritto (Ebr. X, 19-26). – « Diciamo dunque a Dio: Padre nostro! Osiamo dirlo, perché Lui stesso ce lo ordina; ma viviamo in modo tale che Egli non possa rimproverarci: Se io sono vostro Padre, dov’è l’onore che mi dovete (Mal. I, 16)? A chi diciamo Padre nostro? Al Padre di Cristo. Chi dice al Padre di Cristo, nostro Padre, cosa dice a Cristo, se non che è nostro fratello? Eppure, non è il Padre di Cristo così com’è nostro Padre. Cristo stesso, presentandoci con Lui davanti a questo Padre comune, ha sempre mantenuto la distinzione tra Lui e noi. Egli è il Figlio uguale al Padre; noi siamo stati fatti tali dal Figlio, adottati da questo “Unico”. Ecco perché nessuno ha mai sentito Gesù Cristo Nostro Signore parlare ai suoi discepoli di Dio, suo Padre, e dire di Lui: Padre nostro. Ha detto: o il Padre mio o il Padre vostro. Il Padre nostro è quanto non ha da nessuna parte detto; è una verità così indiscutibile che in una data circostanza in cui doveva esprimere sia la sua relazione con il Padre che la loro, ha detto: Salgo al mio Dio e al vostro Dio; Padre mio e Padre vostro. Vedete: unisce ma distingue; distingue ma non separa. Vuole che siamo uno in Lui; ma vuole essere uno con suo Padre » (S. Aug. Tr. XXI in Joan, n. 3). – O gloria incomparabile del Primogenito! Oh, la stupefacente elevazione della famiglia umana, rigenerata in Cristo! È veramente essa che può dire in tutta verità: « Ipsius enim et genus sumus » (Atti XVII, 28-29). Sì, io sono della razza di Dio e porto sul volto della mia anima il carattere di una così alta fratellanza. Vedendomi, il Padre può contemplare in me le sembianze del suo Unico, e di conseguenza versare su questa povera creatura un fiume dell’oceano d’amore in cui avvolge il Figlio della sua dilezione.

2. – Finora non abbiamo affatto considerato Gesù Cristo se non nella eterna filiazione senza dare alcuna speciale attenzione alla sua santa umanità. Quanto più intimo e dolce diventa questo carattere di fratellanza quando contempliamo in Gesù Cristo il Figlio di Dio diventato Figlio dell’uomo attraverso l’incarnazione. È a questa considerazione che il grande Apostolo ci invita all’inizio della sua epistola agli Ebrei. Ascoltiamolo per la nostra più grande consolazione: « Dunque – egli dice – poiché i figli sono stati partecipi della carne e del sangue, Egli stesso ne è stato allo stesso modo partecipe, affinché con la sua morte distruggesse colui che aveva il dominio della morte, cioè il diavolo, e liberasse coloro che la paura della morte aveva sottomesso per tutta la vita alla schiavitù. Poiché Egli non discende dagli Angeli, ma dal seme di Abramo; perciò doveva essere in tutto e per tutto come i suoi fratelli… » (Hebr. II, 14-17). Aveva già detto qualche riga prima: « Era opportuno che Colui attraverso il quale e per il quale tutte le cose sono, che voleva condurre molti figli alla gloria, consumasse con la sofferenza l’Autore della loro salvezza. Perché Colui che santifica e coloro che sono santificati discendono tutti da uno solo; perciò non si vergogna di chiamarli fratelli » (Ibid., II, 10. 11). Eccolo, questo primogenito, questo primogenito della famiglia dei Santi, che si offre a noi sotto un nuovo aspetto. Io ero suo fratello, perché sono il figlio adottivo di Dio; Egli diventa mio fratello in modo nuovo, poiché è disposto ad assumere la mia carne e a discendere come me dallo stesso padre mortale. Il maggiore della famiglia di Dio diventa il maggiore della famiglia umana; di conseguenza, è il fratello degli uomini, come non lo è degli Angeli, non solo perché gli Angeli non sono stati rigenerati nel suo sangue, ma anche perché, dando loro una parte della sua natura divina, non si è rivestito della loro natura angelica. Così siamo fratelli a Lui in modo intimo; e gli siamo anche fratelli in un modo più dolce ed amorevole. Che gioia è per noi vederlo come un piccolo bambino, avvolto in fasce e portato nel grembo di sua Madre; sentirlo, incoraggiato da Lei, balbettare le sue prime parole; contemplarlo infine come uno di noi, provato come siamo in tutto tranne che nel peccato (Hebr., II, 17-18; IV, 15)! Egli ha un cuore per amare e per compatire le mie pene; vedo le sue braccia aperte per stringermi al suo petto. Quando guardo questa natura divina in Lui, alla quale partecipo per il dono della grazia, non dimentico che sono entrato con Lui per adozione nella società del Padre (I Giovanni I, 3). Ma proprio questa grandezza, che è la mia gloria, mi ispira non so qual timore. O Gesù, come avete indovinato bene ciò di cui la mia debolezza aveva bisogno per darmi fiducia e attirarmi tra le vostre braccia fraterne, quando, senza deporre la forma di Dio, vi siete annientato fino a prendere la mia forma, quella di schiavo (Fil. II, 6-7). Tanto più che non vi è bastato scegliere una Madre della nostra razza e del nostro sangue. Per un prodigio di bontà ineguagliabile, ci avete dato questa Madre, benedetta tra tutte le donne, per essere nostra Madre. Voi eravate il primogenito del Padre in mezzo ai figli d’adozione: Voi siete diventato il primogenito della Vergine, e noi siamo dopo di Voi e attraverso di Voi i figli di Maria. Lo confesso, e darei tutto il mio sangue per sostenerlo, Ella è la Madre di Dio; ma ripeto con un cuore solo, Ella è anche mia Madre. Perciò, o Gesù, siamo doppiamente fratelli, e Voi siete doppiamente il mio primogenito! Come potrei non amarvi, così vicino a Voi, così pieno delle vostre misericordie, cullato, per così dire, con Voi, nelle braccia e nel seno di una Madre comune, e che Madre! – Sento intorno a me parlare di fratellanza universale. Dio sa cosa ci sia nel cuore di tanti Apostoli che lo predicano, e come pratichino la dottrina che talvolta insegnano così tumultuosamente. Quello che so, quello che non può essere messo in dubbio da un Cristiano, è che la vera fratellanza, quella che ci onora, quella che non conosce invidia né cambiamento, quella, in una parola, che può rendere tutti i cuori un solo cuore, tutte le anime un’anima sola, è la fratellanza in Cristo. Un solo Padre, una sola Madre, un solo Fratello, il primogenito di entrambi, che ci avvolge nello stesso amore e ci riunirà un giorno, eredi della stessa gloria, allo stesso banchetto eterno: cosa serve di più per avere un popolo di fratelli?

CAPITOLO IV

Dei rapporti tra i figli adottivi e la Seconda Persona. Nostra incorporazione nel Cristo. Conseguenze dogmatiche e pratiche.

1. – Essendo fratelli di Gesù Cristo, poiché figli dello stesso Padre in cielo, possiamo aspettarci un’unione più stretta con Lui? La ragione, nella sua ignoranza di misteri così profondi, risponderebbe di no. Ma appartiene alla fede rivelarci un legame ancora più intimo tra il Figlio per natura ed i figli per adozione, e mostrarci così la mirabile eccellenza della nostra filiazione divina. Dio, dunque, nella sua infinita condiscendenza per gli uomini, si degnò di incorporarli nel suo Unico, oggetto eterno della sua compiacenza, per includerci con Lui in uno stesso amore paterno. « Io in loro e Tu in me, affinché si consumino in uno solo; e il mondo sappia che Tu mi hai mandato e che li ami come hai amato me » (Gv., XVII, 23). Di Lui e di noi ha fatto un solo corpo, di cui suo Figlio è il capo e noi le membra. È l’Apostolo che lo afferma per noi: « Per quanto numerosi – egli dice – siamo in Cristo Gesù un solo corpo, e tutti membra gli uni degli altri » (Rom. XII, 5, Of. S. Leon. M. Serm. in Nativ., D. 3 C. 5). Gesù Cristo, capo e testa dei Cristiani, ma chi vi ci pensa seriamente? Chi comprende l’importanza e la realtà di questa incorporazione in Cristo? Non pensiamo che meditare su questo nuovo mistero ci allontani dal nostro soggetto principale, cioè il beneficio dell’adozione divina. S. Paolo, parlando del Sacramento del Battesimo, usa un’espressione ben rimarchevole: « In Lui (Gesù Cristo) noi siamo stati battezzati » (Gal. III, 27). Tra i significati che si possono trovare in questo testo, voglio conservarne qui solo uno, perché si presta meravigliosamente alla presente questione. Siamo stati battezzati in Cristo, dice; e quindi, poiché il Battesimo è la rigenerazione spirituale che ci rende figli di Dio, noi siamo nati alla vita divina nel Cristo. Perciò, se volete trovare il battezzato, il nuovo figlio di Dio, uscito vivo e puro dalle acque del Battesimo, non cercatelo fuori di Cristo: perché è in Lui, vivificato dal suo Spirito, carne della sua carne, osso del suo osso, parte integrante del suo Corpo mistico. Questa è una magnifica e toccante dottrina che San Paolo ha spiegato divinamente sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Chiedetegli il perché di Apostoli, profeti, evangelisti, pastori e insegnanti? « Perché lavorino per la perfezione dei Santi, per l’opera del ministero, per l’edificazione del Corpo di Gesù Cristo » (Ef., IV, 11, 12). E quando finirà questa grande opera? « Quando saremo giunti all’unità della stessa fede e conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, alla misura dell’età della pienezza di Cristo  » (Ibid., 13). In altre parole, quando il Corpo di Cristo, attraverso l’adesione e lo sviluppo di tutti i suoi membri, avrà la pienezza dell’uomo perfetto che deve raggiungere, in virtù delle preordinazioni paterne. Fino ad allora il corpo di Cristo è incompiuto; è un corpo in formazione. « Io vi genero di nuovo, figlioli miei, finché il Cristo sia formato in voi » (Gal., IV, 19), scrive ancora San Paolo ai Galati. È la stessa idea che esprimeva ai fedeli di Efeso. Il corpo naturale di Cristo è da tempo pienamente sviluppato. Per lui, non c’è nessun altro cambiamento, nessuna crescita, nessun perfezionamento possibile, da quando è uscito dalla tomba vivo e glorioso. Ma quest’altro Corpo, che il Figlio unigenito sta modellando nel seno della Chiesa, Sposa immacolata del suo Spirito, è più nobile nella sua sostanza, più vasto nella sua estensione; questo Corpo, per il quale si è degnato di rivestirsi del primo, deve essere l’opera dei secoli. Cristo è formato e cresce in noi; noi cresciamo nel Cristo (I. Pet., I, 2), e si può dire in un senso molto vero della crescita soprannaturale che avviene nell’unione delle membra con il Capo, che è come un accrescimento di Dio, del Dio incarnato, incrementum Dei (Col., II, 19). Per coloro che conoscono le sacre Scritture, queste considerazioni, così gloriose per noi, non avranno nulla di straordinario o di forzato. Se noi camminiamo nelle vie divine, se siamo saldi nella fede, vivi nell’amore, è nel Cristo (Ibid., 6, 7); e viceversa; è Lui che soffre è Lui che si perseguita in noi (Atti, V).

2. – Nessuno, dopo l’Apostolo San Paolo, ha sviluppato così frequentemente e così eloquentemente questa dottrina come Sant’Agostino in quasi tutte le sue opere. Tra centinaia di testi, permettetemi di scegliere il suo commento a queste parole di Nostro Signore in S. Giovanni, per la ragione che è originale e meno conosciuto di altri: « Il Padre ama il Figlio, e gli mostra tutto ciò che fa, e gli mostrerà opere ancora più grandi, perché siate in ammirazione » (Gv. V., 20). « Ascoltiamolo come Fratello dopo averlo ascoltato come Creatore: Fratello, perché è nato dalla Vergine Maria; Creatore prima di Abramo, prima di Adamo, prima della terra, prima del cielo, prima di tutte le cose corporee e spirituali… Se, dunque, sappiamo che Colui che ci parla è sia Dio che uomo, distinguiamo tra le parole del Dio e quelle dell’uomo: perché a volte ci dice ciò che è appropriato alla maestà divina, e a volte ciò che è appropriato alla bassezza umana. È grande Colui che si è fatto così piccolo perché noi potessimo elevarci dalla nostra piccolezza alla sua grandezza. – « Che cosa dice Egli allora? Il Padre mio mi mostrerà cose più grandi, in modo che voi siate in ammirazione. Deve dunque mostrarli a noi, non a se stesso, poiché aggiunge: sarete in ammirazione. Ma perché allora dice: Il Padre mostrerà al Figlio, invece di dire: … vi mostrerà? Perché noi siamo le membra del Figlio, e ciò che le membra apprendono, lo impara Egli stesso in un certo senso (È dalla stessa idea che certi Padri pensavano di poter rispondere agli eretici che si basavano su due passi del Vangelo per negare a Nostro Signore una conoscenza perfetta, la scienza divina. Se cresceva in se stesso, dicevano; se ignorava il giorno del giudizio finale, è perché questa crescita ed ignoranza non si addicono a Lui, ma ai membri del suo corpo mistico – Marco, XIII, 42; Luca, I, 52 – non ho bisogno di dire che questa soluzione non sia comune, e che i Padri ce ne abbiano date di più soddisfacenti). Egli soffre in noi; perché non dovrebbe apprendere in noi? Ma chi ci dimostra che soffre in noi? La voce dal cielo: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Ricordiamoci che nell’ultimo giorno, dopo che come Giudice avrà posto i giusti alla sua destra e i peccatori alla sua sinistra, dirà: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno; perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare… E quando risponderanno: Ma, Signore, quando ti abbiamo visto affamato, egli dirà loro: Quello che avete dato a uno di questi più piccoli, lo avete dato a me. « Allora interroghiamolo anche noi per domandargli: Signore, quando avete imparato Voi, il Maestro universale? E sentiremo la risposta nella nostra fede: Quando uno dei miei piccoli impara, Io stesso imparo in lui. Allora congratuliamoci con noi stessi, offriamo azioni di grazie: noi siamo diventati non solo Cristiani, ma il Cristo. Capite, fratelli miei, la grazia di Dio su di noi? Ammiriamo e gioiamo: siamo diventati il Cristo! Lui è il capo; noi siamo le membra; l’uomo intero: Lui e noi. Christus facti sumus. Si enim caput ille, nos membra; totus homo, ille et nos. Questo è ciò che dice l’Apostolo Paolo: Finché non raggiungiamo lo stato dell’uomo perfetto, la misura dell’età della pienezza di Cristo… La pienezza di Cristo è dunque il Capo e le membra. Cos’è la testa e quali sono le membra? Cristo e la Chiesa. Una pretesa scioccamente orgogliosa, se Egli stesso non si fosse degnato di prometterci questa gloria, quando per bocca dello stesso Apostolo disse: Voi siete il corpo di Cristo e le sue membra (I Cor., XII, 27). – « Quindi ciò che il Padre mostra alle membra di Cristo, lo mostra al Cristo stesso. Grande meraviglia, ma tuttavia reale: si mostra al Cristo ciò che Cristo sapeva, e gli viene mostrato dal Cristo, perché è la Testa che mostra alle membra » (S. Aug. Tract. XXI in Joan, n. 8-9. 1). Non sto esaminando se il commento sull’interpretazione delle parole del Salvatore non sia un po’ sottile. Ciò che certamente non è sottile sono i principii proposti dal grande Vescovo, e così felicemente espressi. Non è raro sentire dalle labbra dei nostri oratori la nota formula: Christianus alter Christus; il Cristiano è un altro Cristo. – Senza guardare se la lettera di questa affermazione si trovi in un monumento autorizzato della Tradizione, mi sembra che sia meno forte e meno vera dell’altra affermazione fatta in precedenza da Sant’Agostino: « Noi siamo diventati non solo Cristiani, ma il Cristo. Perché questa preferenza? Perché c’è un solo Cristo, e quindi portare il nome di Cristo non significa essere nient’altro che Lui, entrare cioè nel suo Corpo ed essere parte delle sue membra. – Non trovo espressioni meno forti in un altro Dottore della Chiesa: Sant’Anselmo di Canterbury. « Quanto è grande, dunque, l’eccellenza del Cristiano, dal momento che può fare tali progressi in Cristo da portare il suo Nome! E questo fu il pensiero di quel fedele dispensatore della famiglia di Dio che disse: Noi Cristiani siamo tutti un solo Cristo in Cristo. E quale meraviglia, visto che Egli è il capo e noi il corpo; insieme marito e moglie; marito in se stesso, moglie nelle anime sante che Egli unisce con l’eterno vincolo dell’amore » (S. Anselmo, L. Medit, et Orat. Med., 1, n° 6). Inoltre, la comunicazione degli idiomi che la fede ci obbliga ad ammettere in Gesù Cristo Nostro Signore, come conseguenza necessaria dell’unione ipostatica tra il Verbo e la sua carne, la ritrovo in una certa misura nell’unione del Dio fatto uomo con il suo Corpo mistico. E prima di tutto, secondo la testimonianza delle Sacre Lettere, tutti i suoi misteri ci appartengono: misteri dolorosi, misteri gioiosi, misteri gloriosi. Se muore e viene sepolto, siamo stati battezzati con Lui (Rom., VI 2; Col., II, 12); se risorge, sale in cielo, siede alla destra del Padre suo, siamo chiamati alla vita, usciamo dal sepolcro, siamo elevati al cielo con Lui (Ef., I, 5-6). E d’altra parte, Egli completa con le nostre sofferenze ciò che manca alla sua passione (Col., I, 24); in noi persegue la totalità della sua eredità; i nostri dolori sono i suoi dolori; le nostre gioie, le sue gioie. Quando siamo perseguitati, è Lui stesso il perseguitato; il bene che ci viene fatto per causa sua, è Lui stesso che lo riceve (Atti IX, 4-5; ecc.). Egli è – dicono i Padri – qui in basso e su in alto: in alto col capo coronato dai raggi della gloria; qui in basso, con le sue membra che ancora si trascinano lungo i rudi sentieri della vita mortale. E noi stessi siamo sia della terra che del cielo, anche più ancora di questi e di quelli; perché sebbene noi membra siamo attaccati per un certo tempo alla terra, il nostro cuore e soprattutto la nostra testa, cioè la parte migliore e più nobile del Corpo a cui apparteniamo, è in cielo. È l’unione della Testa e delle membra che fa questo nell’unità dello stesso Corpo, il Cristo totale.

3. – Abbiamo spiegato a sufficienza il fatto della nostra incorporazione. Cerchiamo di spiegarne la natura; e, per farlo con maggior sicurezza di dottrina, prendiamo ancora una volta come guida San Tommaso d’Aquino (cfr. S. Thom., 3 p., q. 8, a. I, seq.; III D. 13, q. 2, ecc.). Dire di Nostro Signore che Egli sia il capo e che noi siamo le membra, non è solo affermare la sua sovrana regalità. Ne ho la prova nei testi stessi della Sacra Scrittura che ce lo presentano in questa veste. « Dio – dice l’Apostolo – ha messo tutte le cose sotto i suoi piedi, tutto ciò che ha un nome in cielo e sulla terra. Questo è il privilegio della sua regalità. Ascoltate ciò che segue: « E gli ha dato di essere il Capo di tutta la Chiesa, che è il suo corpo » (Ef., I, 21, 22). Così tutto è soggetto al suo potere, senza nemmeno escludere i demoni con i loro complici e le loro vittime; ma solo per la Chiesa Egli è un capo oltre che un re. Questo perché la testa, nel senso stretto della metafora, esprime un’intima influenza da parte del capo, e da parte dei membri una salutare dipendenza che non si trova nella nozione di padrone, e nemmeno in quella di re. Inoltre, in quale lingua si è mai detto che i sudditi siano i membri del loro sovrano, e che ognuno di loro abbia il principe per capo? Sarebbe, è vero, manifestamente infantile immaginare, tra Nostro Signore e il Suo corpo, un’unione in tutto e per tutto simile a quella che lega le varie parti del corpo umano al capo. Nessuno ignora, a meno che non sia cieco in materia di fede, che non ci sia identità di persona né unità di natura tra Gesù Cristo e noi; e di conseguenza, che noi non siamo e non possiamo essere un corpo fisico e materiale di cui Gesù Cristo è il capo. Ma, d’altra parte, sarebbe troppo poco vedere in questo, solo un’unione morale, come lo sono tra gli uomini le unioni basate sui diritti ed i doveri reciproci, e il perseguimento dello stesso fine sotto un’autorità comune. Ed è per questo che la Chiesa non è solo il corpo morale di Gesù Cristo; è chiamata il suo Corpo mistico, affinché la singolarità stessa del nome ci avverta che questo corpo e la relazione in cui si trova con il capo non hanno equivalenti né tra gli esseri materiali né tra i composti dell’ordine morale a noi noti. A questa prima osservazione ne aggiungo una seconda, ugualmente necessaria per la comprensione della dottrina da sviluppare. È che non si tratta di una semplice appropriazione. Ciò che affermiamo del Dio fatto uomo chiamandolo nostro capo è esclusivamente proprio, nel senso in cui parliamo, della seconda Persona, poiché, essendosi rivestito della nostra carne, solo Lui ha in proprio ciò che gli è proprio nella carne. – Fatte queste osservazioni preliminari, studiamo le relazioni della testa con il corpo e le membra in un essere vivente, poiché la verità che stiamo meditando ci viene offerta sotto questa analogia. La testa si distingue dalle altre membra per tre proprietà principali. Primato della posizione; perché è la testa che nell’organismo umano si eleva sopra tutto il corpo e lo domina con tutta la sua altezza. Primato dell’attività vitale: solo essa possiede la sensibilità in tutta la sua pienezza. Sotto di essa non trovo altro senso che quello del tatto, mentre essa li concentra tutti senza che ne manchi uno. È il primato dell’influenza: è, infatti, attraverso i fasci nervosi di cui è il centro e il punto di partenza, che riversa, come attraverso tanti canali, movimento e sensibilità in ognuna delle altre parti del nostro organismo. E queste sono anche le tre qualità principali che fanno di Gesù Cristo il nostro capo, o meglio, la nostra testa. A Lui spetta il primato dell’elevazione e della grandezza; perché, se ha come noi la natura umana, questa stessa natura non è il primato nell’ordine della vita soprannaturale, poiché tutti i tesori di sapienza e di santità, tutti i doni dello Spirito Santo, tutti i tipi e le forme di grazia che possono fluire dal seno di Dio su una natura creata, sono uniti in Lui in una pienezza ineffabile e quasi infinita. A Lui appartiene il primato dell’influenza: nell’ordine soprannaturale, tutto emana da Lui. Qualunque beneficio la bontà divina conceda alle anime e ai corpi, e con qualunque nome lo si voglia chiamare, riconciliazione, remissione dei peccati, potere di fare opere degne del cielo, glorificazione finale, non ce n’è uno che non sia il prezzo dei suoi meriti, nessuno che non dipenda molto dalla sua influenza necessaria (Gv. XV, 4-6): tanto che, se il vincolo che ci lega a Lui si spezzasse del tutto, cadremmo avvizziti e morti, come un ramo separato dal tronco che lo nutre e lo vivifica » (S. Thom. in ep. ad Col, c. 1, lect. 3. Cfr. 1 p., q. 8, tot. Cum II. paral.). – Aggiungiamo, per completezza, che questa relazione delle membra con il capo comporta gradi di perfezione molto diversi, secondo la misura delle grazie e la condizione attuale delle persone che le ricevono. Senza menzionare quegli sfortunati che sono eternamente tagliati fuori dal Corpo di Cristo, così da morire nell’impenitenza finale, ci sono alcuni che sono uniti a Gesù Cristo, il loro capo, solo in potenza e per destinazione: sto parlando di coloro che nessun legame, nemmeno quello della fede, unisce al Capo divino. In altri, come i peccatori che credono e sperano, ma non hanno ancora ricevuto la grazia santificante e la carità attraverso la giustificazione, l’unione è ancora solo in abbozzo. Per essere perfetti, sii ha bisogno del nodo sacro dell’amore divino. La coesione del capo con le membra, dei Cristiani con il Cristo, avrà la sua suprema perfezione solo nella gloria, perché è solo lì che il capo influenza in ogni membro tutta la perfezione della vita soprannaturale, e che le membra sono unite al loro Capo da legami eternamente indissolubili.

4. – I teologi si chiedono se si possa dire che gli Angeli abbiano come capo Gesù Cristo, così come gli uomini. La risposta non può essere messa in dubbio. «  In Gesù Cristo – dice l’Apostolo – abita tutta la Divinità corporalmente, e voi siete riempiti in Lui, che è il capo (la testa) di ogni potenza e principato », cioè, manifestamente, delle Gerarchie angeliche  (Col. II, 9-10). All’inizio della sua epistola agli Efesini, San Paolo ci ricorda ancora più magnificamente la stessa idea, quando dice che Dio « si è proposto di ricapitolare nel suo Cristo ciò che è in cielo e ciò che è sulla terra », cioè gli Angeli e gli uomini (Ef., 1, 10). La Vulgata, è vero, usa la parola ripristinare; ma per rendere la piena forza del termine greco ἀυακεφαλαιῲσασθαι (=auakefalaiosastai), è con ricapitolare che deve essere tradotto. Ora cos’è ricapitolare, se non riportare allo stesso capo (caput), e riunire sotto lo stesso principio ciò che prima era sparso e diviso. – Così Gesù Cristo Nostro Signore è il Capo adorato, sotto il quale la terra e il cielo, l’Angelo e l’uomo, uniti nella comunione dello stesso Corpo mistico, compongono in vari modi la Chiesa universale di Cristo. « Voi lo sapete – dice S. Agostino su questo argomento – voi lo confessate che il nostro Capo è Cristo, e noi siamo il corpo di questo Capo. Ma la saremmo noi soli, ad esclusione di coloro che ci hanno preceduto? Tutti i giusti, fin dall’inizio del mondo, hanno avuto Gesù Cristo come Capo. Noi crediamo che sia venuto; loro credevano che un giorno sarebbe venuto. La fede che ci giustifica li ha guariti. Egli è dunque il Capo di tutta la città santa, di quella Gerusalemme che nel suo vasto seno deve includere tutti i fedeli, dal principio del mondo fino alla fine dei secoli, e non solo gli uomini, ma tutte le legioni e gli eserciti degli Angeli. E così ci sarà una sola città sotto un solo Re, un solo impero con un solo Imperatore, in pace nella salvezza eterna, lodando Dio senza fine, e senza fine beato » (S. Aug., serm, 3 in ps. XXXVI, n° 4; cfr. de Catech. Rud., c. 19, n° 33). Anche se gli spiriti angelici appartengono come noi al Corpo mistico di Gesù Cristo, bisogna ammettere che non hanno lo stesso diritto che abbiamo noi di proclamarlo loro Capo. Una delle ragioni è che solo noi siamo uniti a Lui in una comunità di natura, poiché Egli è uomo come noi. Quindi l’analogia non può avere per gli spiriti puri tutta la verità che ha per noi, grazie a questa somiglianza che ci è propria. Una seconda ragione, non meno forte secondo me, anche se molti teologi la contraddicono, è fondata sulla disuguaglianza di influenza esercitata dal Verbo fatto carne, sugli Angeli e sugli uomini. Per quanto ci riguarda, tutto quello che possiamo avere di buono nell’ordine della grazia e in quello della gloria, lo abbiamo da Gesù Cristo. Tale non sarebbe la condizione degli spiriti angelici, secondo la testimonianza di San Tommaso (S. Thom, III. D. 13, q. 2, a. 2) e dei teologi che sono più strettamente legati alla sua dottrina. Gli Angeli non ricevettero né la sostanza della loro grazia né quella della loro gloria dal Dio fatto uomo, perché la loro santificazione non entrò, allo stesso modo della nostra, nel consiglio eterno che ci diede l’incarnazione del Verbo. « Porgete l’orecchio al Vangelo. Il Figlio dell’Uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perito. Se l’uomo non fosse morto, il Figlio dell’uomo non sarebbe venuto nel mondo » (S. Aug., serm. 174). Questo è ciò che dice costantemente Sant’Agostino, e non conosco nessun Padre greco o latino che, sullo stesso argomento, non fosse in pieno accordo con lui. Gli stessi la cui testimonianza è talvolta citata a sostegno dell’opinione contraria, sono anche in accordo con lui. S. Atanasio e S. Cirillo di Alessandria, per esempio, vi si rivoltano contro, quando, invece di tagliare questo o quel frammento dai loro testi, li riportano nella loro interezza. Il sentimento opposto si presta senza dubbio a magnifici sviluppi oratori, e questa è forse una delle cause principali della sua fortuna. Ma se si crede con il Dottore Angelico che nelle questioni in cui tutto dipende dalla libera volontà di Dio, è alla sola rivelazione di Dio che bisogna chiedere le soluzioni, difficilmente si esiterà a non schierarsi con la sua opinione, cioè con quella dei Padri e dei Dottori più antichi. – Ora, per tornare al nostro argomento, insegnare che la salvezza degli uomini o, il che equivale alla stessa cosa, la gloria di Dio realizzata nella nostra salvezza, è l’unico motivo determinante dell’incarnazione, è affermare in modo equivalente che la beatitudine e la santità degli Angeli non sono di Gesù Cristo, (Ciò che diciamo della grazia degli Angeli deve essere inteso allo stesso modo della giustizia originale con cui piacque a Dio di arricchire il nostro primo padre al momento della sua creazione: giustizia che avrebbe dovuto essere nostra fin dal primo momento della nostra vita, se la colpa originale non avesse invertito questo primo ordine della provvidenza. Da qui la distinzione così spesso fatta tra la grazia di Dio e la grazia di Cristo: vale a dire, tra la grazia concessa fin dall’inizio al genere umano nel suo insieme, e la grazia di riparazione meritata dalla passione del Salvatore). Questo, tuttavia, non porta alla conclusione che Gesù Cristo non sia il capo (caput) degli Angeli: poiché Egli conserva su di loro il primato di dignità, potenza e pienezza (Hebr. I, 4-7). Il primato stesso dell’influenza non è sterile nei loro confronti. Riuniti, annessi a noi sotto il suo impero onnipotente, principi della corte del re Gesù, partecipano al fulgore che scaturisce dal suo trono; decimati un tempo dalla rivolta di lucifero, vedono per mezzo di Lui la ricostituzione delle loro falangi; gloriosi ministri dei suoi disegni di salvezza degli uomini, ricevono da Lui comunicazioni, direi confidenze speciali, che sono una nuova luce per la loro intelligenza (Hebr. I, 7, 14); e, per dire tutto in una parola, Gesù Cristo nella sua umanità diventa la loro beatitudine accidentale. « Gli Angeli – diceva Bossuet parlando della Chiesa – sono i ministri della sua salvezza; e attraverso la Chiesa si fa il reclutamento delle loro legioni desolate dalla diserzione di satana e dei suoi complici. In questa assunzione, non siamo tanto noi che siamo incorporati agli Angeli, quanto gli Angeli che confluiscono nella nostra unità, a causa di Gesù Cristo nostro Capo comune, più nostro che loro » (Bossuet. Lettera a una giovane donna di Metz). – Può sorprendere che parlando, come ho fatto, degli elementi che costituiscono il Corpo di Cristo, e della vita che circola dal capo alle membra, non abbia detto nulla dello Spirito Santo, lo Spirito del Figlio, anima e cuore di questo Corpo mistico. La mia scusa è che sarebbe stato necessario sviluppare qui troppo a lungo considerazioni che troveranno il loro posto naturale nei capitoli seguenti. Ciò che diremo allora basterà pienamente a farci capire quale sia il ruolo dello Spirito santificatore e vivificatore nel corpo e nelle membra (cfr. inf. L. VI, c. 6).

5. – Conclusioni dogmatiche. Questa incorporazione del Cristiano in Gesù Cristo è così considerevole che San Paolo e i Padri non hanno temuto nel definirla come uno dei fondamenti più solidi della nostra fede. Infatti – così argomenta l’Apostolo – se non c’è risurrezione, se dunque abbiamo speranza in Gesù Cristo solo per questa vita, siamo i più miserabili di tutti gli uomini. Perché? Perché se i morti non risorgono, nemmeno Gesù Cristo è risorto. E se Gesù Cristo non è risorto, la predicazione apostolica è vana, e così la nostra fede: siamo ancora nei nostri peccati. Ma qual è il fondamento di una connessione così necessaria tra la risurrezione dei morti e quella di Gesù Cristo, che la negazione della seconda comporti il rifiuto della prima? È, in una parola – risponde S. Paolo – che i « nostri corpi sono le membra di Cristo » (I Cor. VI, 14, 15). Non vedremo questa mostruosità di una testa vivente coronata di gloria con membri, incorporati in questa testa, che sono l’eterna preda della decadenza e dei vermi. Non proseguirò oltre questa prima conclusione, perché dovremo riprenderla quando ci occuperemo della resurrezione finale. – Una seconda conclusione, non meno dogmatica né meno certa, è la necessità di appartenere alla Chiesa per ottenere la salvezza eterna. « Voi mi chiedete –  scrive Bossuet – che cosa sia la Chiesa? La Chiesa è Gesù Cristo diffuso e comunicato; è Gesù Cristo nella sua interezza, è Gesù Cristo uomo perfetto, Gesù Cristo nella sua pienezza » (Bossuet, Lettera a una giovane donna di Metz.). Egli aveva imparato questa risposta da San Paolo, che la dà, direi quasi a sazietà, nelle sue lettere. « Dio – dice questo Apostolo – ha messo tutte le cose sotto i piedi di Cristo e lo ha posto come capo (caput, capo) di tutta la Chiesa, che è il suo corpo e la sua pienezza » (Ef., II, 22-23). La Chiesa è il corpo e noi le membra: « Perché come il corpo è uno solo e ha molte membra, e le membra del corpo, pur essendo molte, sono un solo corpo, così è Cristo » (I Cor., XII, 12). Su questo San Giovanni Crisostomo fa la seguente osservazione: « Sembrerebbe che si sarebbe dovuto dire: Così è la Chiesa »; e l’Apostolo, invece della parola Chiesa, usa la parola “Cristo”. È come se dicesse: « Così è il corpo di Cristo, che è la Chiesa » (S. Giovanna Crisostomo in I Cor., hom. 30, n. 1). S. Agostino nelle sue Regole per l’interpretazione delle Scritture, nell’articolo: “del Signore e del suo corpo“, dà conto del modo di parlare che S. Paolo usa in questo luogo. Ricordando – dice – che per capo e corpo, Cristo e la Chiesa, la Scrittura intende una sola e medesima persona, non turbiamoci quando passa dal capo al corpo o dal corpo al capo: discerniamo ciò che sia appropriato al Capo, cioè a Cristo, e ciò che sia appropriato al corpo, cioè alla Chiesa » (S. Aug. de Doct. Christ, L. I, c. 31). Da questa relazione tra Cristo e la Chiesa, il Capo e il corpo, segue chiaramente che nessuno è incorporato a Cristo se non è incorporato alla Chiesa. Può un membro di Cristo essere separato dal corpo di Cristo? Ecco perché il Battesimo, rendendoci membri di Gesù Cristo, ci rende anche membri della Chiesa. Se è vero che la Chiesa ci genera come suoi figli quando ci battezza, questa nascita è unica in quanto la madre conserva nel suo seno i figli che vi forma. Lasciare il suo grembo non sarebbe andare nella luce per respirare liberamente, ma nelle tenebre per morirci. Così l’unigenito Figlio di Dio, concepito da tutta l’eternità nel Padre, rimane eternamente nel seno dello stesso Padre – Unigenitus qui est in sinu Patris (Joan. I, 18), – e la sua venuta nel mondo, facendolo uno di noi nella nostra natura umana, non lo strappa per un momento da queste profondità divine. – Coloro che, per la sfortuna della loro nascita o per qualsiasi altra ragione, ricevono il Battesimo esternamente al di fuori della Chiesa, nascono in essa e per mezzo di essa, e rimangono uniti ad essa come membri del corpo, nella misura in cui sono uniti a Gesù Cristo stesso: tanto è vero che una incorporazione non va senza l’altra, o, per parlare più precisamente, che c’è una sola e medesima incorporazione. Sostenere dopo questo che si possa essere salvati senza appartenere alla Chiesa è sostenere che si può essere un membro di Cristo senza appartenere al suo Corpo, o che si possa vivere la vita di Cristo e partecipare un giorno alla sua felicità e gloria senza averlo avuto per Capo: due proposizioni ugualmente insostenibili. – E non ditemi che ci sono Santi in cielo che non hanno mai conosciuto né la Chiesa né il suo Battesimo. La stessa Chiesa da cui traggo questo assioma: “fuori della Chiesa non c’è salvezza”, mi insegna anche che, per essere interiormente nella Chiesa, non sia sempre indispensabile essere esteriormente parte della Chiesa. Questa madre ha dei figli secondo lo spirito, che il suo Sposo divino le dà senza che essa li riceva nelle sue braccia di carne, e dei quali potrà dire in cuor suo, il giorno delle grandi manifestazioni: “Quis genuit mihi istos? ego sterilis et non pariens… et istos quis enutrivit? (Isa. XLIX, 21). Qui ci sono figli che sono miei. Pensavo di essere sterile per loro. Chi me li ha dati, chi me li ha nutriti? Lo Spirito Santo che, operando nelle loro anime al di fuori dei mezzi ordinari che avrebbero usato, se li avessero conosciuti, li mette invisibilmente nel seno della Chiesa, e similmente li inserisce nel Corpo di Cristo. – Una terza conseguenza della nostra incorporazione è la molteplicità delle grazie, dei doni e dei ministeri che Dio distribuisce tra i membri della Chiesa militante. Un corpo in cui tutte le parti fossero uguali, in cui tutte avessero le stesse funzioni e lo stesso fine, non potrebbe che essere una massa informe e senza vita. La bellezza armoniosa del mondo fisico non è forse dovuta alla diversità degli esseri che lo compongono? E si può concepire un corpo vivente in cui tutti i membri si distinguano solo per la loro posizione nello spazio? Non ci sarebbe nessun ordine, nessuna armonia; nessun organismo e nemmeno bellezza, perché non ci sarebbe unità nella varietà. Era dunque Dio, l’artista infinitamente perfetto, di cui la Chiesa, il Corpo di Cristo suo Figlio, è l’opera più meravigliosa dopo Cristo stesso, a seminare in essa a profusione i diversi tipi di doni e usi soprannaturali? Ha fatto Egli questo? Leggete la risposta in S. Paolo (1 Cor. XII, tot.), e ditemi se fosse stato possibile fare una distribuzione più abbondante, o descriverla in termini migliori. Ecco le grazie gratuite, cioè le prerogative che vanno meno direttamente alla santificazione personale del soggetto che all’utilità di tutto il corpo: il dono della profezia, il dono delle lingue, il dono delle guarigioni miracolose, il discernimento degli spiriti, e il resto che si vede nel testo indicato dall’Apostolo. Qui, invece, ci sono le funzioni gerarchiche: diaconi, semplici pastori, Vescovi, in una parola, tutto il Ministero sacro. Infine, ci sono le disuguaglianze nella grazia, cioè nella santità. Sebbene sia volontà di Dio che tutti diventiamo Santi (1 Tess., IV, 3), non è meno vero che Egli non dispensi uniformemente i tesori della Sua grazia. « La causa di questa diversità – dice San Tommaso (San Tommaso, 1. 2, q. 112, a. 4) – si trova in parte nell’uomo: infatti, secondo che egli si prepari più o meno perfettamente alla grazia (santificante), la riceve anche in misura maggiore o minore. Tuttavia, non è nella creatura che dobbiamo cercare la prima ragione della disuguaglianza: perché la preparazione alla grazia viene dall’uomo solo nella misura in cui il suo libero arbitrio sia esso stesso preparato da Dio. Bisogna dunque risalire a Dio per arrivare alla causa suprema di questa diversità; a Dio che dispensa i tesori della sua grazia in modo disuguale, affinché proprio da questa gradazione derivi la bellezza e la perfezione della sua Chiesa. Ed è per questo che l’Apostolo, dopo aver detto che la grazia sia stata data a ciascuno di noi secondo la misura del dono di Cristo (Ef. IV, 7), conclude la sua enumerazione delle varie grazie in questo modo: « per la consumazione dei santi, per l’edificazione del corpo di Cristo » (Ib., 12). A chiunque mi chiedesse perché, in questa disuguaglianza provvidenziale, uno riceva meno, l’altro più, quando entrambi sono ugualmente capaci di ricevere i doni di Dio, ed ugualmente privi del diritto di esigerli, leggerei la risposta data da San Paolo a una domanda simile: « Quanto sono profondi i tesori della sapienza e della conoscenza di Dio, quanto sono incomprensibili i suoi giudizi e imperscrutabili le sue vie! Perché chi ha conosciuto il proposito del Signore e chi è stato il suo consigliere? » (Rom., XI, 33-34,2). Ci basti sapere che per tutti questi gradi di grazia, di ministeri, di santità, di virtù, concessi alle sue membra, Gesù Cristo si completa nel suo Corpo mistico che è la Chiesa (Ef., I, 23). Lasciamo il resto all’Autore di tutti i doni, e non siamo così sciocchi da discutere le opere di Dio (Rom. IX, 20).

6. – È tempo di passare dall’insegnamento dottrinale alle conseguenze pratiche. Il primo di questi è una lezione di carità reciproca. Membri di uno stesso corpo, uniti sotto lo stesso Capo, chiamati per vocazione alla stessa speranza, con quale sollecitudine non dobbiamo sforzarci in ogni cosa e in ogni luogo di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace? (Ef. IV, 2-5). Fomentare la discordia, non soffrire con chi soffra né gioire con chi gioisca, disprezzare le membra meno onorevoli agli occhi del mondo, negare l’onore o la legittima subordinazione ai più eccelsi, sarebbe introdurre il disordine nel Corpo organico di Cristo, disturbare la sua divina armonia, e renderci indegni di occupare il posto che ci è dato (1 Cor., XII, 21, e seguenti; Rom., XII, 4-20; Col, III, 14-46). S. Agostino, nelle sue lotte contro lo scisma dei donatisti, che al suo tempo desolò l’Africa, non conosce motivo più potente per combattere le divisioni e riportare i dissidenti all’unità che questa dottrina: La Chiesa è il corpo e Gesù Cristo il Capo. Chi separa i fedeli dalla Chiesa, non strappa la veste inconsuntile del Salvatore, ma il suo Corpo mistico. Questo è un crimine più enorme dello stesso omicidio, perché l’autore dello scisma versa il sangue delle anime, strappando le membra di Cristo e gettandole al nemico di Cristo (Sant’Agostino, passim). – Un’altra conclusione, più generale e non meno importante, ci è suggerita, o meglio, energicamente e frequentemente inculcata, da San Paolo. Questo pensiero: io sono un membro di Gesù Cristo, vi ritorna sempre nuovo, sia che voglia distoglierci da ogni azione malvagia, sia che voglia esortarci alle più alte virtù. « Non sapete – ci dice nella persona dei Corinzi – che le vostre membra sono le membra di Cristo? Ecché, io prenderei le membra di Cristo per farne strumenti dei più vergognosi piaceri? » (Cor., VI, 45.). E ancora: « Non sapete che le vostre membra (essendo del corpo di Gesù Cristo) sono il tempio dello Spirito Santo che è in voi? Perciò glorificate e portate Dio nel vostro corpo » (bid., 19-20), come Gesù Cristo lo ha glorificato nel suo. Un tempo, quando eravate della razza del diavolo, davate queste membra al peccato come strumenti di iniquità; ora che siete vivi nel Cristo vivente, offrite queste stesse membra a Lui come strumenti di giustizia (Rom. VI, 13). I vostri corpi sono le membra di Cristo, quindi mortificatele (Col. III, 5), e nella vostra carne compite ciò che manca alle sofferenze di Cristo (Col. I, 24). Non che la passione del Salvatore sia di troppo poco valore per la redenzione del mondo, né che abbia bisogno di essere completata, ma perché, se non manca nulla in Lui che è il Capo, finché non abbiamo sofferto, manca qualcosa in noi che siamo le membra. « Impletæ erant omnes passiones, sed in capite: restabant adhuc Christi passiones in corpore. Vos autem estis corpus Christi et membra », dice S. Agostino su questo passo (S. Aug. Enarr. in psalm. LXXXVI, n. 5). « Vi scongiuro dunque – fratelli miei – di offrire i vostri corpi come un’ostia vivente, santa e gradita a Dio » (S. Anselmo. L. Medit. et orat. med., 1, n. 5,). Questi sono i pensieri forti e salutari che l’Apostolo delle genti ha nutrito e che vuole che seguiamo sul suo esempio. Essi hanno trovato la loro eco nel cuore dei grandi Cristiani e nei racconti dei Padri e dei maestri di vita spirituale. Se solo Dio può sapere tutto ciò che il sentimento della nostra incorporazione in Gesù Cristo ha fatto nascere in virtù meravigliose, le opere ascetiche ci mostrano chiaramente quanto i loro autori l’abbiano sempre considerato molto efficace per elevare le anime e rafforzare i cuori.  « Voi, voi siete il corpo stesso di Cristo, è l’Apostolo S. Paolo che ce lo dichiara – scrive Sant’Anselmo nelle sue Meditazioni – quindi conservate sia questo corpo che queste membra con tutto l’onore loro dovuto. I vostri occhi sono gli occhi di Cristo: volgerete gli occhi di Cristo, che è la verità, alla vanità, alle sciocchezze e alle menzogne? Le vostre labbra sono le labbra di Gesù Cristo: le aprirete, non dico solo per parole cattive o calunniose, ma anche a discorsi inutili, a conversazioni frivole, queste labbra dedicate al servizio del vostro Dio e all’edificazione dei vostri fratelli? Con quanta vigilanza e riverenza dobbiamo governare tutti i nostri sensi e tutte le membra del nostro corpo, poiché il Signore stesso presiede come capo alla loro azione! ».

LA GRAZIA E LA GLORIA (26)

MADONNA DI LA SALETTE (19 SETTEMBRE 2022)

ALLA MADONNA DI LA SALETTE (19 SETTEMBRE)

… la Chiesa sarà eclissata, il mondo sarà nella costernazione… Roma perderà la fede e diventerà la sede dell’anticristo. I demoni dell’aria con l’anticristo faranno dei grandi prodigi sulla terra e nell’aria e gli uomini si pervertiranno sempre più….

il testo completo del messaggio in:

170° anniversario delle APPARIZIONI della Beata Vergine a La Salette

L’APPARIZIONE A LA SALETTE 1846 (I)

170

Preghiera alla Madonna di La Salette

1. Vergine Santissima, riconciliatrice dei peccatori, per la vostra bontà, veramente celeste, otteneteci la grazia di attendere così assiduamente a tutti i doveri del nostro stato, da meritarci di essere dal divin lume istruiti e corretti, quando per nostra colpa, trascurassimo quello che è più importante, la scienza o la pratica della pietà, vero fondamento di tutti i beni. presenti e futuri. Ave

II. Vergine Santissima, riconciliatrice dei peccatori, per la vostra tenerissima misericordia, otteneteci la grazia di guardarci mai sempre gelosamente da quanto potrebbe irritare la collera divina contro di noi, e specialmente da qualunque profanazione dei giorni sacri al riposo, all’astinenza, al digiuno; e da qualsivoglia abuso del Nome santo di Dio, onde arrestar quei flagelli che abbiamo già meritati, o procurarcì in lor vece le più elette benedizioni. Ave

III. Vergine Santissima, riconciliatrice dei peccatori, per l’ammirabile vostra fermezza, impetrateci la grazia di essere sempre qual rupi immobili ad ogni sorta di tentazioni tendenti a trarci fuori del cammino a noi assegnato dal cielo, e di rispettare mai sempre in tutti gli Ecclesiastici Superiori i veri interpreti dei divini voleri, seguendo i quali, noi siamo sempre certi di cammina re nella via della salute. Ave…

IV. Vergine Santissima, riconciliatrice de’ peccatori, perla vostra sapienza divina, impetrateci la grazia di fare nostra delizia la meditazione dei patimenti del nostro divin Redentore e la detestazione continua dei falli nostri ed altrui, dacché questo è l’unico mezzo per abituarci a quella santa tristezza che è propria del vero Cristiano, e che sarà infallibilmente compensata da Dio con l’interna quiete in questa vita; e col gaudio perpetuo nell’altra. Ave

V. Vergine Santissima, riconciliatrice dei peccatori, per quei prodigi singolarissimi onde vi degnaste mostrare il vostro aggradimento di esser venerata sulla montagna della Salette, spandendo infinite benedizioni e grazie le più portentose sui pellegrini che a migliaia vi concorrono continuamente, e sui devoti che da lontano vi indirizzano ferventi i propri voti, impetrate a noi tutti la grazia di non vacillare mai nella fede, onde meritare con certezza quella speciale beatitudine che promessa solennemente a chiunque senza vedere, riposa da vero credente sulla divina parola. Ave

ORAZIONE

Famulorum tuorum, quæsumus Domine, delictis ignosce; ut qui tibi placere de actibus nostris non valemus, Genitricis Filii tui Domini nostri intercessione salvemur. Per eundem Dom… etc.

[Perdona, o Signore, te ne preghiamo, i delitti dei tuoi servi; affinché per le nostre azioni a te non gradite, siamo salvati per intercessione della Genitrice del Figlio tuo nostro Signore. Per lo stesso….].

(G. Riva, Manuale di Filotea, XXX ed. Milano, 1888]

AD B. M. V. DE ≪ LA SALETTE ≫

435

Invocatio

Notre Dame de la Salette , Reconciliatrice des pecheurs, priez sans cesse pour nous qui avons recours a vous.

[O Nostra Signora di «La Salette», Riconciliatrice dei peccatori, pregate incessantemente per noi che ricorriamo a Voi

Indulgentia trecentorum dierum (S. Pæn. Ap., 7 nov. 1927 et 12 dec. 1933).

436

Oratio

Souvenez-vous, o Notre-Dame de ≪ la Salette ≫, veritable Mere de douleurs, des larmes que Vous avez versées pour moi sur le Calvaire; souvenez-vous aussi de la peine que Vous prenez toujours pour moi, afin de me soustraire a la justice de Dieu, et voyez si, apres avoir tant fait pour votre enfant, Vous pouvez maintenant l’abandonner. Ranimé par cette consolante pensée, je viens me jeter a vos pieds, malgre mes infidelites et mes ingratitudes. Ne repoussez pas ma priere, o Vierge Reconciliatrice, mais convertissez-moi, faites-moi la grace d’aimer Jesus par-dessus tout, et de vous consoler vous-meme par une vie sainte, pour que je puisse un jour vous voir au ciel. Ainsi soit-il.

[Ricordatevi, o Nostra Signora di « La Salette », vera Madre dei dolori, delle lacrime che avete versate per me sul Calvario; ricordatevi anche della pena che per me sempre vi siete data al fine di sottrarmi alla giustizia di Dio, e vedete se dopo aver tanto fatto per il figlio vostro, potete ora abbandonarlo! Rianimato da questo pensiero consolante, io vengo a gettarmi ai vostri piedi, malgrado le mie infedeltà e le mie ingratitudini. Non respingete la mia preghiera, o Vergine Riconciliatrice, ma convertitemi, fatemi la grazia di amare Gesù sopra ogni cosa e consolare Voi stessa con una vita santa, perché io possa un giorno vedervi in cielo. Così sia.]

Indulgentia quingentorum dierum (S. Pæn. Ap., 7 nov. 1927 et 12 dec. 1933).

Consacrazione alla SS. Vergine di La Salette

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. LEONE XIII – CATTOLICÆ ECCLESIÆ.

Questa breve lettera Enciclica è l’ennesimo documento del Magistero ecclesiastico che condanna l’abominio della schiavitù umana, della sottomissione forzata alla volontà altrui, del disprezzo della morale evangelica che condanna senza eccezioni qualsiasi forma di assoggettamento umano alla legge del più forte e del più potente a discapito dei fratelli deboli, liberati dal Cristo da ogni forma di schiavitù, spirituale essenzialmente, ma anche fisica e morale. All’epoca la questione riguardava principalmente l’Africa, da dove venivano schiavizzati tanti esseri umani onde essere rivenduti come animali ad individui senza scrupoli né timori, che li utilizzavano per massacranti lavori manuali o per soddisfare voglie innominabili. Quella schiavitù, un tempo legata essenzialmente a regioni geografiche localizzate, è oggi pratica “pandemica” comune anche in Paesi cosiddetti civili, o addirittura in Nazioni un tempo cristiane, sotto forma di lavori disumani e disumanizzanti, di prostituzione, di impiego criminale, di vendita di infanti e fanciulli utilizzati per essere impiegati in vergognosi ed innominabili eventi, dalle pratiche sado-masochiste, alla pedofilia, ai rituali infernali e magici, ai trapianti di organi, allo sfruttamento di ogni tipo … vergogne della “moderna civiltà”, o meglio della nuova barbarie pagana sostenuta dalle organizzazioni dei marrani-kazari, cioè da quegli uomini infami che odiano Dio, il suo Cristo, la sua unica vera Chiesa ed in definitiva tutti gli uomini, compresi se stessi. Il tutto naturalmente senza una denuncia o protesta efficace di stati, organismi e soprattutto di istituzioni pseudo religiose – le cosiddette controchiese -, per arginare il triste fenomeno, anzi favorendolo sotto coperture apparentemente filantropiche. Ecco perché il progetto del cosiddetto Reset del nuovo ordine, sta andando avanti rapidamente e procederà con sempre maggiore potenza, permesso da Dio per rinnovare una umanità corrotta, lontana dalla dimensione dello spirito, dedita ai piaceri sensuali e all’avidità insaziabile di beni materiali, alla schiavitù di satanasso, la cui testa sarà infine schiacciata dal calcagno della SS. Vergine Maria.

Leone XIII
CatholicæEcclesiæ

La Chiesa cattolica, che abbraccia tutti gli uomini con carità di madre, quasi nulla ebbe più a cuore, fin dalle sue origini, come tu sai, Venerabile Fratello, che di vedere abolita e totalmente eliminata la schiavitù, che sotto un giogo crudele teneva moltissimi fra i mortali. Infatti, diligente custode della dottrina del suo Fondatore, che personalmente e con la parola degli Apostoli aveva insegnato agli uomini la fratellanza che li stringe tutti insieme, come coloro che hanno una medesima origine, sono redenti con lo stesso prezzo, e sono chiamati alla medesima eterna beatitudine, la Chiesa prese nelle proprie mani la causa negletta degli schiavi, e fu la garante imperterrita della libertà, sebbene, come richiedevano le circostanze e i tempi, si impegnasse nel suo scopo gradualmente e con moderazione. Cioè, procedeva con prudenza e discrezione, domandando costantemente ciò che desiderava nel nome della religione, della giustizia e della umanità; con ciò fu grandemente benemerita della prosperità e della civiltà delle nazioni. – Nel corso dei secoli non rallentò mai la sollecitudine della Chiesa nel ridonare la libertà agli schiavi; anzi, quanto più fruttuosa era di giorno in giorno la sua azione, tanto più aumentava nel suo zelo. Lo attestano documenti inconfutabili della storia, la quale per tale motivo designò all’ammirazione dei posteri parecchi Nostri antecessori, fra i quali primeggiano San Gregorio Magno, Adriano I, Alessandro III, Innocenzo III, Gregorio IX, Pio II, Leone X, Paolo III, Urbano VIII, Benedetto XIV, Pio VII, Gregorio XVI, i quali posero in opera ogni cura perché l’istituzione della schiavitù, dove esisteva, venisse estirpata, e là dove era stata sterminata non rivivessero più i suoi germi. – Una così gloriosa eredità, lasciataci dai Nostri predecessori, non poteva essere ripudiata da Noi, per cui non abbiamo tralasciato alcuna occasione che Ci si offrisse di biasimare apertamente e di condannare questo flagello della schiavitù; espressamente ne abbiamo trattato nella epistola scritta il 5 maggio 1888 ai Vescovi del Brasile, con la quale Ci siamo congratulati per quanto essi avevano con lodevole esempio operato pubblicamente in quel paese per la libertà degli schiavi, e insieme abbiamo dimostrato quanto la schiavitù si opponga alla religione ed alla dignità dell’uomo. – Invero, quando scrivevamo tali cose, Ci sentivamo fortemente commossi per la condizione di coloro che sono soggetti all’altrui dominio; e molto più raccapriccio provammo al racconto delle tribolazioni da cui sono oppressi tutti gli abitanti di alcune regioni del centro dell’Africa. È cosa dolorosa ed orrenda constatare, come abbiamo saputo da sicure informazioni, che quasi quattrocentomila Africani, senza distinzione di età e di sesso, ogni anno sono violentemente rapiti dai loro miseri villaggi, dai quali, legati con catene e percossi con bastoni durante il lungo viaggio, sono portati ai mercati dove, come bestie, sono messi in mostra e venduti. – Di fronte alle testimonianze di coloro che videro queste cose e alle recenti conferme di esploratori dell’Africa equatoriale, Ci siamo accesi dal vivo desiderio di venire, secondo le Nostre forze, in aiuto di quegli infelici e di recare sollievo alla loro sventura. Perciò, senza indugio, abbiamo incaricato il diletto Nostro figlio Cardinale Carlo Marziale Lavigerie, di cui Ci sono noti l’energia e lo zelo Apostolico, di andare per le principali città dell’Europa a far conoscere l’ignominia di questo turpissimo mercato e ad indurre i Principi e i cittadini a portare soccorso a quelle infelicissime popolazioni. – Noi dobbiamo rendere grazie a Cristo Signore, Redentore amantissimo di tutte le genti, il quale nella sua benignità non permise che le Nostre sollecitudini andassero perdute, ma volle che riuscissero quasi come seme affidato a suolo fecondo, che promette una copiosa raccolta. Infatti i Reggitori dei popoli e i Cattolici di tutto il mondo, e tutti coloro che rispettano i diritti delle genti e della natura, gareggiarono nell’indagare quali mezzi soprattutto siano necessari per sradicare del tutto quel commercio inumano. Un solenne Congresso tenuto testé a Bruxelles, al quale convennero i Legati dei Principi d’Europa, e una recente assemblea di privati, che col medesimo intento e con generosi propositi si radunarono a Parigi, dimostrano chiaramente che la causa dei Negri sarà difesa con quella energia e quella costanza che richiede la mole delle sciagure da cui quei miseri sono oppressi. È per questo che non vogliamo trascurare la nuova occasione che si presenta di rendere le meritate lodi e i ringraziamenti ai Principi d’Europa e agli altri personaggi di buona volontà: al sommo Dio domandiamo fervidamente che voglia dare felice riuscita ai loro disegni ed all’impianto di una così grande impresa. – Ma, oltre alla cura di difendere la libertà, un’altra cura più grave, più da vicino riguarda il Nostro ministero Apostolico, quella cioè che impone di adoperarci perché nelle regioni dell’Africa si propaghi la dottrina del Vangelo, che con la luce della verità divina illumini quelle popolazioni giacenti nelle tenebre e oppresse da cieca superstizione, affinché diventino con noi partecipi dell’eredità del regno di Dio. Questo impegno poi lo curiamo con tanto maggior zelo, in quanto quei popoli, ricevuta la luce evangelica, scuoteranno da sé il giogo della schiavitù umana. Infatti, dove sono in vigore i costumi e le leggi cristiane; dove la religione insegna agli uomini a rispettare la giustizia e a onorare la dignità umana; dove ampiamente si diffuse quello spirito di carità fraterna, che Cristo c’insegnò, quivi non può esistere né schiavitù, né ferocia, né barbarie; ma fioriscono la soavità dei costumi e la libertà cristiana accompagnata dalla civiltà. – Già parecchi uomini Apostolici, quasi avanguardia di Cristo, sono andati in quelle regioni dove, per la salute dei fratelli, diedero non solo il sudore, ma anche la vita. Tuttavia, la messe è molta, ma gli operai sono pochi; per cui è necessario che moltissimi altri, animati dallo stesso spirito di Dio, senza timore alcuno né di pericoli, né di disagi, né di fatiche, vadano in quelle regioni dove si esercita quel vergognoso commercio, per recare ai loro abitanti la dottrina di Cristo congiunta alla vera libertà. – Però un’impresa di tanta gravità domanda mezzi pari alla sua ampiezza. Infatti, non si può provvedere senza grandi disponibilità all’Istituto dei missionari, ai lunghi viaggi, alla costruzione delle residenze, alla erezione e alla dotazione delle chiese e ad altre simili cose necessarie: dovremo sostenere tali spese per alcuni anni, finché, in quei luoghi dove si saranno fissati, i predicatori del Vangelo possano provvedere autonomamente. Dio volesse che Noi avessimo i mezzi con cui poter sostenere questo peso! Ma ostando ai Nostri voti le gravi angustie nelle quali Ci troviamo, con paterna voce Ci appelliamo a te, Venerabile Fratello, a tutti gli altri Vescovi e a tutti i Cattolici, e raccomandiamo alla vostra e alla loro carità una così santa e salutare opera. Infatti, desideriamo che tutti partecipino, anche con una piccola offerta, affinché il peso, diviso fra molti, diventi più leggero e tollerabile da tutti, e perché in tutti si diffonda la grazia di Cristo, trattandosi della propagazione del suo regno, e a tutti arrechi la pace, il perdono dei peccati e qualunque dono più prezioso. – Decidiamo pertanto che ogni anno, nel giorno e dove si celebrano i misteri dell’Epifania, venga raccolto denaro come offerte a favore dell’Opera ora ricordata. Scegliamo questo giorno solenne a preferenza degli altri, perché, come bene intendi, Venerabile Fratello, in quel giorno il Figlio di Dio per la prima volta si palesò alle genti, mentre si fece conoscere ai Magi, i quali perciò da San Leone Magno, Nostro antecessore, sono appunto chiamati le primizie della nostra vocazione e della fede. Speriamo pertanto che Cristo Signore, commosso dalla carità e dalle preci dei figli, i quali ricevettero la luce della verità con la rivelazione della sua divinità, illumini pure quella infelicissima parte del genere umano e la tolga dal fango della superstizione e dalla dolorosa condizione, in cui da tanto tempo giace avvilita e trascurata. – Vogliamo poi che il denaro raccolto in detto giorno nelle chiese e nelle cappelle soggette alla tua giurisdizione, sia trasmesso a Roma alla Sacra Congregazione di Propaganda. Sarà poi compito di essa ripartire questo denaro tra le Missioni che esistono o verranno istituite nelle regioni Africane, soprattutto per estirpare la schiavitù; il riparto sarà fatto in modo che le somme di denaro provenienti dalle nazioni che hanno proprie Missioni cattoliche per redimere gli schiavi, come ricordammo, vengano assegnate a mantenere e a promuovere le stesse. La rimanente elemosina sia poi ripartita con prudente criterio fra le più bisognose dalla stessa Sacra Congregazione, la quale conosce i bisogni delle Missioni. – Non dubitiamo che Dio, ricco in misericordia, accolga benignamente i voti che formuliamo per gli infelici Africani, e che tu, Venerabile Fratello, ti adopererai spontaneamente con la volontà e con il tuo lavoro perché siano abbondantemente soddisfatti questi propositi. Confidiamo inoltre che con questo temporaneo e speciale soccorso, che i fedeli daranno per abolire la piaga del traffico disumano e per sostentare i banditori del Vangelo nei luoghi dove essa esiste, non diminuirà la liberalità con la quale si sogliono promuovere le Missioni cattoliche con l’elemosina raccolta dall’Istituto che, fondato a Lione, fu detto della Propagazione della Fede. Quest’opera salutare, che già raccomandammo ai fedeli, presentandosene l’opportunità elogiamo nuovamente, desiderando che largamente estenda i suoi benefici e fiorisca in lieta prosperità. – Intanto, Venerabile Fratello, a te, al clero e ai fedeli affidati alla tua pastorale vigilanza, affettuosissimamente impartiamo la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 20 novembre 1890, anno decimoterzo del Nostro Pontificato.

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2022)

XV DOMENICA DOPO PENTECOSTE. (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

La Lezione dell’Ufficio in questo giorno coincide spesso con quella del libro di Giobbe. Questo pio e ricco signore del paese di Hus, dapprima ripieno d’ogni bene, fu colpito dai mali più spaventosi che si possono quaggiù immaginare. « satana, dicono le Sacre Scritture, si presentò un giorno avanti a Dio e gli disse: Circuivi terram, ho percorsa tutta la terra e ho visto come hai protetto Giobbe, la sua casa, le sue ricchezze. Ma stendi la tua mano su di lui e tocca quello che possiede e vedrai come ti maledirà. Il Signore gli rispose: Va: tutto quello che lui possiede è in tuo potere, ma non togliergli la vita. E satana uscì dal cospetto del Signore. E ben presto Giobbe perdette il bestiame, i beni, la famiglia e fu colpito da satana con un’ulcera maligna dalla pianta dei piedi fino alla testa ». E Giobbe, disteso su un letamaio, fu costretto a togliere il putridume delle sue ulceri con un coccio » La Chiesa, pensando alla malizia di satana, ci fa domandare di essere sempre difesi contro gli assalti del demonio, contra diabolicos incursus (Segr.). satana ha l’impero della morte e, se Dio lo lasciasse fare, dicono i Padri, egli toglierebbe a tutti gli esseri la vita che posseggono. S. Paolo definisce una sua malattia: «L’angelo di satana che lo colpisce «. Ed il demonio, dice la S. Scrittura, riduce Giobbe a un punto tale, che il santo uomo può gridare: « Il soggiorno dei morti è diventato la mia dimora, io ho preparato il mio giaciglio nelle tenebre, e ho detto al marciume: tu sei mio padre; alla putredine: madre mia, sorella mia. (XVII, 14). Le mie carni si sono consumate come un vestito roso dai tarli, e le mie ossa si sono appiccicate alla mia pelle ». Così la Chiesa applica ai Defunti il disperato appello che Giobbe fece allora ai suoi amici: « Abbiate pietà di me almeno voi, o amici, poiché la mano del Signore m’ha colpito «. Ma il suo appello rimase senza risposta; Giobbe allora si rivolse verso Dio e gridò con una salda speranza: « Io so che il mio Redentore vive e ch’io risusciterò dalla terra l’ultimo giorno; che sarò di nuovo rivestito della mia pelle e nella mia carne rivedrò il mio Dio. Lo vedrò io stesso e i miei occhi lo contempleranno: questa speranza riposa nel mio cuore ». E Giobbe descrive la gioia con la quale ascolterà un giorno la voce di Dio che lo chiamerà a una vita nuova: « Tu mi chiamerai e io ti risponderò, tu stenderai la tua destra verso l’opera delle tue mani ». – « Il Signore, mettendo fine ai mali che lo travagliavano, gli rese il doppio di quello che possedeva prima e lo colmò di benedizioni più negli ultimi anni di vita che non nei primi ». — La Chiesa, raffigurata in Giobbe, domanda a Dio « di essere purificata, protetta, salvata e governata da Lui » (Oraz.). Col Salmo dell’Introito essa dice: « Rivolgi, o Signore il tuo occhio verso di me ed esaudiscimi, che io sono povera e mancante di tutto (Versetto 1°). Signore, abbi pietà di me, che ho gridato verso di te tutto il giorno. Vieni alla mia anima che io ho elevata fino a te (Versetto 4°). Io ti loderò, o Signore, poiché mi hai liberato dall’inferno più profondo (Versetto 13°)». Col Salmo dell’Offertorio essa aggiunge: « Io ho atteso il Signore con perseveranza, ed Egli infine si è volto verso di me, ha esaudita la mia preghiera e ha messo sulle mie labbra un cantico nuovo ». Questo cantico è quello delle anime cristiane risuscitate alla vita di grazia. « È bello, esse dicono, lodare il Signore e annunciare la sua grande misericordia » (Grad.). « Sì, davvero il Signore è il Dio onnipotente, il Gran Re che regna su tutta la terra » (All.).L’Epistola di S. Paolo è intieramente consacrata alla vita soprannaturale che lo Spirito Santo dà o rende alle anime. « Se noi viviamo per lo Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito », cioè siamo umili, dolci, caritatevoli, verso quelli che cadono, ricordandoci che noi siamo deboli e che di fronte al supremo Giudice porteremo il fardello delle nostre colpe personali. Contraccambiamo generosamente con beni temporali (denaro, cibi, vesti) le persone che ci predicano la parola di Dio (divina parola che dà la vita) e non indugiamo, perché Dio non tollera che ci burliamo di Lui. Il raccolto sarà conforme alla natura della semenza gettata. Seminiamo opere piene di spirito soprannaturale e mieteremo la vita eterna. Non tralasciamo un istante di fare il bene. Evitiamo le opere della carne che sono la mancanza di carità, l’orgoglio, l’avarizia e la lussuria, poiché quelli che commettono peccati sono morti alla vita di grazia e non mieteranno che corruzione. Usciamo, dunque, dalla morte e viviamo come veri risuscitati. — Il Vangelo ci dà questo stesso insegnamento raccontandoci la risurrezione del figlio della vedova di Naim. Gesù, vedendo il dolore di questa madre, fu mosso a compassione: si accostò al feretro e toccando il morto disse: « Giovinetto, te lo comando, alzati! ». E subito il morto si levò e cominciò a parlare. E tutti glorificavano Iddio dicendo; « un grande profeta è apparso in mezzo a noi e Dio ha visitato il suo popolo ». Il Verbo facendosi carne si è accostato alle anime che giacevano nella morte del peccato, e, commosso dalle lacrime della Chiesa, nostra madre, le ha resuscitate alla vita della grazia. Poi, mediante l’Eucaristia ha posto nei corpi un germe di vita, affinché essi risuscitino nell’ultimo giorno (Com.). — Fa, o Signore, che il nostro corpo e la nostra anima siano interamente sottomessi alla influenza dell’Ostia divina, affinché l’effetto di questo sacramento domini sempre in noi (Postcom.). – Vivificati dallo Spirito Santo, solleviamo con sollecitudine quelli che sono morti alla vita della grazia, aiutiamo con le nostre sostanze quelli che con la parola della verità diffondono la vita dello Spirito, e promuovono sempre più in noi la vita soprannaturale che abbiamo ricevuta nel Battesimo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.


Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.

S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXXV: 1; 2-3
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die.

[Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]


Ps LXXXV: 4

Lætífica ánimam servi tui: quia ad te, Dómine, ánimam meam levávi.

[Allieta l’ànima del tuo servo: poiché a Te, o Signore, levo l’anima mia.]

Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die.

[Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Ecclésiam tuam, Dómine, miserátio continuáta mundet et múniat: et quia sine te non potest salva consístere; tuo semper múnere gubernétur.

[O Signore, la tua continua misericordia purífichi e fortífichi la tua Chiesa: e poiché non può essere salva senza di Te, sia sempre governata dalla tua grazia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti s. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V: 25-26; VI: 1-10

Fratres: Si spíritu vívimus, spíritu et ambulémus. Non efficiámur inanis glóriæ cúpidi, ínvicem provocántes, ínvicem invidéntes. Fratres, et si præoccupátus fúerit homo in áliquo delícto, vos, qui spirituáles estis, hujúsmodi instrúite in spíritu lenitátis, consíderans teípsum, ne et tu tentéris. Alter alteríus ónera portáte, et sic adimplébitis legem Christi. Nam si quis exístimat se áliquid esse, cum nihil sit, ipse se sedúcit. Opus autem suum probet unusquísque, et sic in semetípso tantum glóriam habébit, et non in áltero. Unusquísque enim onus suum portábit. Commúnicet autem is, qui catechizátur verbo, ei, qui se catechízat, in ómnibus bonis. Nolíte erráre: Deus non irridétur. Quæ enim semináverit homo, hæc et metet. Quóniam qui séminat in carne sua, de carne et metet corruptiónem: qui autem séminat in spíritu, de spíritu metet vitam ætérnam. Bonum autem faciéntes, non deficiámus: témpore enim suo metémus, non deficiéntes. Ergo, dum tempus habémus, operémur bonum ad omnes, maxime autem ad domésticos fídei.

[Fratelli: Se viviamo di spirito, camminiamo secondo lo spirito. Non siamo avidi di vanagloria, provocandoci a vicenda, a vicenda invidiandoci. Fratelli, quand’anche uno venisse sorpreso in qualche fallo, voi che siete spirituali ammaestratelo con lo spirito di dolcezza, e bada a te stesso che tu pure non cada nella tentazione. Gli uni portate i pesi degli altri, e così adempirete la legge di Cristo. Poiché, se alcuno crede di essere qualche cosa, e invece non è nulla, costui inganna sé stesso. Piuttosto ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi soltanto in se stesso, e non nel confronti con gli altri. Perché ciascuno porterà il proprio fardello. Chi poi viene istruito nella parola faccia parte di tutti i beni a chi lo istruisce. Non vogliate ingannarvi: Dio non si lascia schernire. Ciascuno mieterà quello che avrà seminato. Così, chi semina nella sua carne, dalla carne mieterà corruzione: chi, semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna. Non stanchiamoci dunque dal fare il bene; poiché se non ci stanchiamo, a suo tempo mieteremo. Perciò mentre abbiamo tempo facciamo del bene a tutti, e in modo speciale a quelli che, per la fede, sono della nostra famiglia.]  

CONOSCI TE STESSO

L’Epistola di quest’oggi è la continuazione di quella della domenica scorsa, nella quale si inculcava di vivere secondo lo spirito. Per vivere secondo lo spirito, prosegue l’Apostolo, bisogna fuggire la vanagloria e l’invidia. Si deve correggere chi sbaglia con spirito di dolcezza; tutti hanno a sopportarsi vicendevolmente. Persuasi del proprio nulla, devono esaminar spassionatamente le proprie azioni. Siamo, inoltre, generosi con chi ci istruisce nella fede. E conclude esortando di non stancarci di fare il bene, essendo la nostra vita il tempo della semina. Se in questa vita non ci stancheremo a seminare nello spirito, a suo tempo, mieteremo la vita eterna. – Accogliamo l’invito di S. Paolo, a esaminare le nostre opere.

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

Graduale

Ps XCI: 2-3.
Bonum est confitéri Dómino: et psallere nómini tuo, Altíssime.

[È cosa buona lodare il Signore: inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]


V. Ad annuntiándum mane misericórdiam tuam, et veritátem tuam per noctemm.

[È bello proclamare al mattino la tua misericordia, e la tua fedeltà nella notte.].

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XCIV: 3 Quóniam Deus magnus Dóminus, et Rex magnus super omnem terram. Allelúja.

[Poiché il Signore è Dio potente e Re grande su tutta la terra. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntiasancti Evangélii secúndum S. Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc VII: 11-16
“In illo témpore: Ibat Jesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli ejus et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. – Hi autem, qui portábant, stetérunt. – Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et coepit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam.

[“In quel tempo avvenne che Gesù andava a una città chiamata Naim: e andavan seco i suoi discepoli, e una gran turba di popolo. E quand’ei fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato fuori alla sepoltura un figliuolo unico di sua madre, e questa era vedova: e gran numero di persone della città l’accompagnavano. E vedutala il Signore, mosso di lei a compassione, le disse: Non piangere. E avvicinossi alla bara, e la toccò (e quelli che la portavano si fermarono). Ed egli disse: Giovinetto, dico a te, levati su; e il morto si alzò a sedere, e principiò a parlare. Ed egli lo rendette a sua madre. Ed entrò in tutti un gran timore; e glorificavano Dio, dicendo: Un profeta grande è apparso tra noi; e ha Dio visitato il suo popolo” (Luc. VII, 11-16).]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano, 1957)

RESURREZIONE E VITA

È probabile che Gesù abbia risuscitato più morti; ma quelli ricordati dal Vangelo sono tre. Una figlioletta appena spirata, un giovane che già portavano alla sepoltura, un uomo morto da quattro giorni e sepolto: e cioè la figlia di Giairo capo della sinagoga, il figlio della vedova, Lazzaro di Betania. Parliamo oggi della seconda risurrezione, ossia del figlio della vedova di Naim. Accompagnato dai suoi discepoli, Gesù era giunto alle porte della città di Naim, quando s’imbatté in un funerale che ne usciva per avviarsi al cimitero. Sopra una barella, come era l’uso d’allora in quei luoghi, si portava  un giovane a seppellire. Era l’unico figlio d’una vedova. Povera madre! Già triste per la vedovanza, ora perdeva anche l’unico conforto dei suoi giorni presenti e l’unica speranza di quelli a venire, e lo perdeva troppo prematuramente. Ella seguiva il feretro con un aspetto così distrutto dal dolore che Gesù non seppe resistere. Non richiesto, mosso soltanto dalla sua pietà, raggiunse quella madre e le disse: « Non piangere ». Tali parole in quelle circostanze, dette da qualsiasi altro sarebbero suonate come un incoraggiamento vano o come un invito fuor di proposito; ma non sulle labbra di Gesù. S’avviò alla bara e la fermò toccandola. Poi, in mezzo allo stupore muto della gente, comandò con la sicurezza di chi sa d’essere infallibilmente ubbidito: « Giovane, levati su! ». Il morto immediatamente si levò a sedere, e mentre la turba presa dall’entusiasmo magnificava il Signore, Gesù lo rese vivo a quella madre a cui aveva detto di non piangere. Questo fatto dimostra anzitutto che Gesù è Dio, potente come il Padre. Non soltanto comanda alla natura modificandola, alle malattie guarendole d’improvviso, ai demoni scacciandoli, alle volontà ribelli piegandole amorosamente alla sua grazia, ma comanda alla più ineluttabile e fatale delle cose umane: la morte. « Come il Padre risuscita i morti e rende ad essi la vita, così il Figliuolo rende la vita a quelli che vuole ». Questo fatto dimostra inoltre che Gesù è Dio Redentore. La morte è la più amara delle conseguenze del peccato; se Gesù ci libera dalla morte, è perché prima ci ha liberato dalla causa, cioè dal peccato. Dunque, Egli è il Redentore che ci redime dalla colpa e dalla pena. Allora veramente Egli può dire di sé quello che ha detto: « Io sono la resurrezione e la vita » (Giov., XI, 25). La resurrezione della carne. La vita dell’anima. -1. LA RISURREZIONE DELLA CARNE. Non dovevamo morire. Fu il demonio a travolgerci nella morte coll’indurci al peccato. « Stipendium peccati mors ». (Rom., VI, 23). Siccome il peccato non ebbe eterna vittoria su di noi, ma temporanea perché fummo redenti da Gesù, così la morte non avrà su di noi eterna vittoria ma temporanea, Risorgeremo! a) La risurrezione della carne è una verità di fede; è l’undicesimo articolo del Credo. Ci è rivelata da Gesù stesso: « Verrà l’ora in cui tutti i morti risorgeranno: quelli che han fatto bene per la risurrezione eterna; quelli che han fatto male per la maledizione eterna » (Giov., V, 28-29). Ci è garantita da tre miracoli di risurrezioni, e soprattutto dalla risurrezione stessa del Redentore. Quel Gesù che risuscitò da morte la bambina di Giairo, il figlio della vedova, Lazzaro di Betania, quel Gesù che risuscitò se stesso dopo tre giorni per non più morire, vivificherà anche i nostri corpi mortali e darà a loro l’immortalità. Non siamo forse nutriti dall’Eucaristia anche perché già fin d’ora nella nostra carne mortale sia deposto il germe divino di una carne immortale? « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, io lo risusciterò all’ultimo giorno » (Giov., VI, 55). b) La risurrezione conformerà i nostri corpi a quello di Gesù risorto. saranno chiari e splendidi come il sole (Mt., XIII, 43); saranno sottili che potrebbero penetrare nel Cenacolo a porte chiuse; saranno agili talmente da trasportarsi con la velocità del pensiero; saranno impassibili, immunizzati dalle malattie e dalla morte. Allora, finalmente, la parola di Gesù « noli flere » Si sarà verificata nella sua pienezza. Più nessuno piangerà. « Dio asciugherà per sempre dagli occhi nostri tutte le lagrime: non ci sarà più né lutto, né lamenti, né dolori » (Apoc., XXI, 4). c) La risurrezione ci fa comprendere la grande stima in cui dobbiamo tenere il nostro corpo, e il grande rispetto con cui lo dobbiamo trattare. Lavato dall’acqua battesimale, unto col sacro crisma, nobilitato dal contatto con l’Eucaristia, un giorno dovrà essere degno di onorare il Regno di Dio. Non è cosa che si possa usare secondo i capricci del piacere, ma deve essere conservato secondo le leggi di Dio. Conserviamolo puro perché possa albergare un’anima santa; liberiamolo con la mortificazione dai malvagi istinti di corruzione che il peccato vi ha immesso. – 2. LA VITA DELL’ANIMA. La risurrezione del figlio della vedova non ci parla appena della risurrezione della carne, ma anche di quella dello spirito. La morte, conseguenza del peccato, prima che nel corpo aveva fatto strage nell’anima. Con tre mali il peccato aveva rovinata l’anima. La rese colpevole di fronte alla Giustizia Divina, e nel medesimo tempo incapace di soddisfare da sola, poiché l’offesa era stata infinita. La spogliò della vita soprannaturale della grazia riducendola nelle proporzioni di nuda e debole creatura. Le chiuse il cielo per sempre, essendo quella la beata dimora riservata ai figli di Dio. Orbene Gesù Cristo, morendo in croce, con tre beni redense l’anima. Pagò per lei la Divina Giustizia, espiò per i suoi peccati. « Ecco che il mio sangue sarà sparso per molti in remissione dei peccati » (Mt., XXVI, 28). Le ridonò la vita della grazia che è la sua stessa vita di Figlio di Dio. « Io sono venuto — diceva — perché abbiate la vita e ne abbiate tanta ». (Giov., X, 10). Riaprì a loro le porte del cielo, i regni del suo Divin Padre, la casa della gioia immensa ed eterna. « Bisogna — diceva — che il Figlio dell’uomo sia sospeso sulla croce perché ogni uomo che crede in Lui abbia la vita eterna » (Giov., III, 14-15). S. Bernardo incomincia una sua predica con una parabola che ci rende evidenti questi benefici della redenzione. Eccola: « Mi trovavo coi miei amici sopra una piazza a divertirmi allegramente: e non sospettavo che intanto nel palazzo reale venisse emanata una condanna di morte contro di me. Il figlio del re appena l’apprese, subito depose la sua corona, i suoi abiti principeschi, e rivestito con un rozzo saio di penitenza, il capo sparso di cenere, uscì dalla reggia a piedi nudi, gemendo e piangendo perché il suo servo doveva essere condannato a morte. Come lo vidi in quella guisa compassionevole, gli chiesi che cosa ciò significasse, ed egli mi rispose ch’era deciso di morire al mio posto ». Fin qui S. Bernardo. Ma non era lui di certo il giovane dissipato intento a godere sulla piazza della vita: quel giovane era simbolo dell’umanità. L’umanità con cieca leggerezza s’è abbandonata ai peccati, privandosi della felicità eterna. Venne il Redentore, si rivestì della nostra miseria, espiò la nostra colpa, ci ridonò la vita, ci riaperse la reggia celeste. – Forse, nonostante la Redenzione, qualcuno di noi si ostina nel sonno della morte. Non ode Gesù che scuote la sua anima incadaverita; non ode la santa madre Chiesa che lo segue piangendo. Apri gli occhi e guarda: guarda in quale stato ti ha ridotto il peccato. Apri gli occhi e guarda, guarda sulla croce in quale stato s’è ridotto per te il tuo Dio Redentore, Sorgi ora dalle iniquità per risorgere un giorno gloriosamente. Sorgi adunque, dico a te, peccatore. « Tibi dico, surge ». — RICORDATI, UOMO… Questo racconto evangelico ci presenta due scene: una ordinaria e l’altra straordinaria. Straordinaria è la risurrezione di un morto; ed in questa vita, forse, il Signore a noi non farà grazia di vederla. Ordinaria invece è la cerimonia della sepoltura. Fermiamo la nostra considerazione su questa. Un funerale non è cosa rara; e chissà quante volte ci siamo imbattuti in un corteo funebre! Levato il berretto, fermati al margine della strada con tanti altri curiosi, abbiamo osservato sfilare le confraternite, abbiamo contato il numero dei preti, delle corone di fiori, delle bandiere e degli stendardi, abbiamo ammirato il lusso e tante altre cose. Così per noi, e per molti, il funerale è diventato uno spettacolo di curiosità, e lasciamo inascoltato il monito solenne che dal feretro ci viene: « Memento, homo… Ricordati, uomo! ». « Ch’io mi ricordi della morte?! me ne scampi il cielo. Ho gli interessi a cui pensare, ho una lite da vincere, ho la moglie, ho la famiglia, ho i divertimenti… e se mai questo melanconico pensiero saltasse in mente, son sempre all’erta per annegarlo in un bicchier di vino ». Eppure, la morte viene a lungo passo: è già vicina. « Ch’io mi ricordi della morte? ma ho vent’anni, ne ho trenta, ne ho appena quaranta… ». Non devi dire: io ho, ma: io non ho… non ho più questi vent’anni da vivere; questi trenta, questi quaranta non li ho più. La morte è vicina: e nessuno ci pensa. – Una nave faceva rotta per Tarsis. Sotto coperta portava un uomo che dormiva profondamente. Era il profeta Giona che dormiva, benché sull’anima gli stesse il peccato di una grossa disubbidienza al Signore. Sul mare, improvvisa come una vendetta, scoppiò la burrasca. Ulula il vento, rugge l’acqua, scricchia il fianco della nave: e Giona dorme. I marinai remano disperatamente, e ciascuno invoca il suo Dio e getta in mare ogni roba che pesa: e Giona dorme. Un mostro dal dorso enorme affiora, tra onda e onda, in giro alla nave spalancando le fauci ingorde, bramose delle prossime vittime; e Giona dorme. « Svegliati! Svegliati! — urlava il pilota dandogli riscossoni — Alzati e invoca il tuo Dio che voglia ricordarsi di noi, e non ci lasci sprofondare » (Giona, I, 1-6). Cristiani, ciascuno di noi non è un altro Giona? siamo sulla fragile nave della vita; da ogni parte ci stringono le malattie, le disgrazie, i pericoli: e noi dormiamo con forse sull’anima qualche peccato grave. Da un momento fondare nell’abisso dell’eternità: e noi dormiamo in mezzo alle nostre quotidiane faccende. Già intorno ci sta il mostro infernale, il demonio, con la sua fauce per ingoiare la nostra anima sventurata: e noi dormiamo in quella abitudine peccaminosa, in quella relazione illegittima, in quella trascuratezza d’ogni dovere cristiano. Svegliamoci,  griderò io, ripetendo le parole del pilota. — Alziamoci e invochiamo il nostro Dio che ci scampi dalla morte improvvisa, che ci lasci il tempo di pensare frequentemente alla nostra fine, prima di scendere nella regione tenebrosa, avvolta dalla caligine di morte. Memento, homo… Ricordati, uomo che sei pellegrino, che sei cenere, che sei putredine. Sei pellegrino: non attaccarti alla terra. Sei cenere: non insuperbirti. Sei putredine: non cedere agli istinti della tua carne. – 1. … CHE SEI PELLEGRINO. Chi è pellegrino è di passaggio: La nostra vita è davvero un passaggio sulla terra: « ma breve come un sogno che all’alba del giorno eterno svanisce; ma inconsistente come un’ombra che non si lascia stringere dalle mani; ma veloce come un uccello che attraversa il cielo e scompare senza lasciarvi traccia; ma leggero come la polvere che il vento solleva un istante vorticosamente, e poi depone; ma delicato come la rugiada che ai primi raggi del sole svapora; ma caduco come il fior della rosa che dura poche ore e poi si sfoglia » (S. Greg. Naz., Or. X). Se così breve è il nostro passaggio sulla terra, non mette conto d’attaccare corpo e cuore alle cose di quaggiù. Se un viaggiatore, montato in treno, si mettesse affannosamente a pitturare il suo scompartimento, e vi spendesse le sue sostanze per adornarlo d’oggetti preziosi, e con tutta la passione del suo cuore lo vagheggiasse, voi vi persuadereste di essere davanti ad un pazzo. Ebbene il mondo è pieno di questi pazzi che tutta la vita e tutti gli affetti e tutti i sudori sprecano soltanto per le cose materiali, delle quali non potranno godere più di quello che un viaggiatore gode del suo scompartimento. Ancora pochi anni, pochi mesi, pochi giorni e poi la morte fischierà, e bisognerà lasciare il nostro treno, e scendere. Scendere, ma dove? All’eternità. « Io mi sono logorato per comprare quel terreno … » Va bene: ti sei logorato per tuo fratello che lo erediterà. « Io mi sono consumato giorno per giorno, e anche di notte, per quella casa » Va bene: ti sei consumato per i tuoi figli a cui l’abbandonerai. « Io mi sono strappato il boccone di bocca per mettere insieme quel danaro, per arrotondare la cifra sul libro di risparmio… ». Va bene: ti sei mortificato per ì tuoi eredi i quali si godranno le tue fatiche senza scrupoli e senza ringraziamenti. « E allora, di molt’anni di stenti che cosa mi resta? ». Il sepolcro. Et solum mihi superest sepulcrum. Di tanti possessi non è solo questo che rimane anche ad Alessandro Magno? Udite come di lui parla la Santa Scrittura: Possedeva la Grecia; e conquistò terra dei Persi, la terra dei Medi; e dopo si prese le fortezze di tutti i regni, le chiavi di tutte le città. E dopo si spinse fino all’estremo limite del mondo, s’impossessò delle ricchezze delle nazioni; l’universo ammutolì davanti a lui. E dopo… dopo il padrone dei re e dei popoli si pose in un letto e morì. Post hæc decidit in lectum… et mortuus est (I Macc. I, 1-8). Poveri noi! dopo aver comprato case e campi e robe, dove aver trascurati i precetti di Dio e della Chiesa per arricchire e guadagnare, dopo aver lavorato con ingiustizia e con frode, di festa e non di festa, cosa ci resterà da fare? metterci in un letto e morire. – 2. … CHE SEI CENERE. S. Efrem, spesse volte al tramonto andava tra le sepolture, a meditare, Triste e pensieroso s’aggirava di tumulo in tumulo, leggendo le iscrizioni e i titoli dei defunti: principi della città, magistrati della provincia, ricchi signori, sapienti ammirati dal mondo… Il santo, a volte, li chiamava ad alta voce per nome: nessuno più rispondeva. Dove sono quelle superbe figure di uomini, di donne, a cui tutti si assoggettavano? Quella lingua che non parlava se non dei propri meriti, se non dei difetti altrui, dov’è? dove sono quelle orecchie che non volevano sentire se non la propria lode? Tutto è diventato cenere. Ricordati, uomo superbo, che sei cenere! Allora S. Efrem ritornava nella sua casa più umile e più paziente. Perché mai Luigi Gonzaga ha gettato via gli abiti di raso e di velluto per indossare la saia del gesuita? Perché ha rifiutato la gloria del marchesato, l’onore di palazzi superbi, l’ubbidienza di molte popolazioni, per nascondersi in squallidi conventi ed applicarsi ai mestieri dei servi? Di questo fatto non vi saprete mai dare una soddisfacente spiegazione, se non osserverete quel cranio di morto che i pittori sogliono raffigurare accanto a lui. Luigi Gonzaga si è ricordato, e come! di essere cenere. Così non vi saprete mai spiegare perché S. Carlo Borromeo, ricco di famiglia, cardinale in giovane età, amato dal Papa suo zio, era diventato tanto umile, se non vi ricorderete che nel suo arcivescovado aveva fatto dipingere l’immagine della morte. Ogni volta che le passava davanti, S. Carlo le sorrideva come per dire: « Lo so, lo so che tra poco verrai a ridurmi in cenere ». Adesso potrete anche comprendere perché noi siamo superbi: in casa non vogliamo osservazioni, non comandi; per strada desideriamo che gli altri ci guardino; in compagnia ci annoiamo se altri non discorrono di noi; dappertutto vogliamo apparire più di quello che siamo; a tutti vogliamo imporre i nostri pareri. Senza riguardi offendiamo il prossimo e maltrattiamo i familiari; se alcuno poi offende noi non gli perdoniamo mai senza umiliarlo. Perché questa superbia in noi? Perché non ci ricordiamo di essere cenere. Ricordati, uomo… – 3. … CHE SEI PUTREDINE. ,C’è nella Storia Sacra un esempio terribile. Iezabel era donna corrotta e amante dei piaceri. Adorava il suo corpo, si cerchiava di nero gli occhi, si adornava senza modestia. Ebbene alla mattina era alla finestra, perfidamente lusingatrice… Non era ancor calato il sole ed alcuni uomini trovarono sotto a quella finestra il cadavere della disgraziata, orribilmente sconciato dai cani, con il cranio, i piedi, le mani staccate del tronco. Inorriditi quegli uomini fuggirono esclamando: « I cani han mangiato la carne di Iezabel, e il suo corpo è una putredine sulla faccia della terra » (IV Re, IX, 37). L’applicazione è chiara. Quella donna che oggi dissacra la bellezza del suo volto con artifizi, quella giovane che adora il suo corpo e si veste non come a una cristiana conviene, quel giovane e quell’uomo che schiavi della loro carne si abbandonano agli istinti più disonesti e brutali, dite, tra poco che saranno? Alla mattina profumati e azzimati come idoli, e alla sera, forse, marcia e vermi. Putredini dixi: pater meus mater mea et soror mea, vermibus (Giob., XVII, 14). Se ogni volta che gli occhi vogliono guardare, se ogni volta che il corpo vuol godere, noi pensassimo alla morte, oh quanti peccati di meno! Perdere l’anima, per accontentare questa carne che diverrà tra poco putredine e vermi, non è stoltezza? Da S. Filippo Neri si presenta, un giorno, un giovane dissoluto e già tanto corrotto. « Padre! — geme, mettendosi in ginocchio davanti all’amabile santo. — Padre, voglio convertirmi, ma non ci riesco. Le tentazioni sono più forti di me, non ci riesco ». S, Filippo, sollevandolo e abbracciandolo paternamente, gli dice: « Coraggio, tutti i giorni dirai la Salve Regina, e penserai alla morte: immaginerai il tuo corpo sotterra, i tuoi occhi putridi, la tua carne marcia, la tua bocca verminosa, e dirai: ecco per che cosa ho perduto il paradiso. » Accetta il giovane e parte: riesce a tenersi puro per una volta, per due, per sempre. Sembrerebbe incredibile, eppure fu così. – Or udite una parabola che raccontava, predicando, s. Antonio da Padova. Un uomo inseguito da una belva, cadde in un burrone. Per sua fortuna poté aggrapparsi a un arboscello che sporgeva dalla parete rocciosa: rimase così sospeso a quell’esile sostegno, senza speranza di risalire, con sotto i piedi l’abisso. Ed ecco due topi, l’uno bianco e l’altro nero, farsi intorno all’arboscello suo salvatore, e rosicchiargli la radice. Tra pochi istanti che sarebbe avvenuto dell’infelice? Eppure, lo credereste? dimentico del pericolo, era intento a succhiare alcune gocce di miele sparse sulle foglie del suo sostegno. Come quel disgraziato siamo tutti noi, Cristiani. Da un momento all’antro la vita nostra si può spezzare: l’abisso eterno è spalancato ai nostri piedi. Il topo bianco il giorno, il topo nero la notte, senza requie rodono l’arboscello della nostra esistenza e noi, dimentichi del supremo pericolo, badiamo soltanto a succhiare dalle cose di quaggiù, dalla gloria, dal piacere qualche stilla di godimento. Memento, homo… Ricordati uomo che sei pellegrino, che sei cenere, che sei putredine. — LA SANTA MADRE CHIESA PIANGE. Questa donna di Naim mi ricorda un’altra mistica donna che oggi piange dietro alle anime morte non di uno solo, ma di mille e mille suoi figli giovanetti: la santa madre Chiesa. Non è essa la sposa di Cristo vedovata per l’Ascensione di Lui al cielo? Tutti i giovani che hanno perso l’innocenza della vita, e l’amore alla preghiera e il desiderio della Comunione, non sono forse i suoi figliuoli morti? La gioventù non respira più nell’atmosfera cristiana, ma agonizza e muore nello spasimo di un’asma morale. V’è un attossicamento di anime, una lebbra di cuori, una tubercolosi spirituale, per ciò la Chiesa oggi piange. O Cristiani aprite una volta gli occhi e vedete la corruzione della nostra gioventù come dilaga; poi ricercatene qualche causa per opporvi rimedio. – 1. LA CORRUZIONE DEI GIOVANI. Un giorno che il Papa San Gregorio attraversava la piazza del mercato di Roma, vide un gruppo di giovani legati sopra un banco: bellissimi di forma, piacevoli di volto e tutti biondi di capelli. Erano schiavi ed aspettavano che qualcuno li comprasse. Il beato Gregorio passando vicino, domandò al mercante donde li avesse condotti. « Di Bretagna, — rispose quello — là, ove gli abitanti risplendono di simigliante bianchezza ». E ancora domandò: « Almeno sono essi Cristiani? » E il mercante rispose: « Non sono Cristiani, anzi sono involti negli orrori del paganesimo ». Allora S. Gregorio incominciò fortemente a sospirare in mezzo al mercato, e a piangere come un fanciullo, così dicendo: « Ohimè, dolente! che bellissimi giovani e che splendidi facce son venduti schiavi agli uomini pessimi e al demonio maligno ». Usciamo anche noi, e guardiamo con occhi cristiani su questa gran piazza di mercato che è il mondo: guardiamo la sorte della nostra gioventù. Sono fanciulli che a otto a dieci anni perdono di già la santa Messa nei giorni festivi; che di già non pregano più né mattina né sera. Sono giovani che non vengono mai alla dottrina cristiana, che non vogliono frequentare più l’oratorio, per divertirsi tutta la domenica e offendere il Signore. – I campi sportivi, i divertimenti; i balli rigurgitano di giovanetti: alla sera tornano a casa, ma il loro occhio non è limpido, ma la loro fronte non è più serena, ma la loro anima è una fiamma. Una fiamma d’impurità che li divora. Essi hanno visto, hanno udito, hanno imparato il male. E quando il demonio del vizio brutto entra in corpo a un nostro figliuolo lo rende muto. Subito ve ne accorgete, perché non prega più, non si confessa più come una volta, non apre più la sua bocca a ricevere il Pane degli Angeli. Allora è finita. E che cosa si può sperare ancora quando finanche le fanciulle hanno perso il senso del pudore istintivo nel cuor della donna? Voi le vedete in giro ad ogni ora, e sole: di giorno, di sera, di notte. Voi le sentite frivolmente ridere e scherzare per le strade; vestono una moda così immorale che forse non s’è vista mai, neppure al tempo dei pagani. E la gioventù ha l’anima bella. Un’anima splendente, che non vien di Bretagna come quei giovani che vide il beato Gregorio, ma viene da Dio e a Dio deve ritornare. Ma chi piange ora che sì belle anime cadono schiave di uomini pessimi e del demonio maligno? Il Papa più volte ha levato il suo grido d’allarme e contro alla moda e contro alla corruzione che dilaga. Il Papa dal Vaticano, come un giorno S. Gregorio sul mercato di Roma, sospira fortemente e piange sulla rovina della gioventù. – 2. QUALCHE CAUSA. « Oh i ragazzi adesso, non sono più come quelli di una volta! Nascono già con un istinto più perverso… » così dicono le mamme ed anche i papà. Può darsi: ma è proprio possibile che il Signore tutti i buoni figliuoli li abbia già fatti nascere, e per i nostri tempi, abbia riserbato soltanto i cattivi? « Adesso si respira un’aria diversa. Ai nostri tempi non c’erano tanti luoghi di divertimento, tanti sports: e siamo cresciuti più sani e più onesti ». Sì, questo è vero ma non basta a spiegar tutto. Io credo, — e scusate genitori se Ve lo dico, è per vostro bene — io credo che la vera colpa di tanto sfacelo morale ricada sui padri e sulle madri. Sapete perché i ragazzi di adesso non sono più come quelli di una volta? Perché anche igenitori d’adesso non sono più come quelli d’allora. Il figlio in mano vostra è come una cera e cresce come voi lo volete. Il grande vescovo di Costantinopoli S. Giovanni Crisostomo, quell’uomo meraviglioso che tanta orma di sé ha impresso sui secoli della storia, nacque nel 344, in una ricca e distinta famiglia. Il padre Secondo morì nel fior dell’età e lasciò vedova a vent’anni Antusa. A questa donna, ben degna dell’augusto nome di madre, si deve in gran parte la gloria del figlio. Per donarsi totalmente all’educazione del suo Giovanni, rifiutò un secondo matrimonio. Fu così fedele per ben due decenni ai suoi doveri di madre da strappare al pagano Libanio queste parole: « Che donne meravigliose ci sono tra i Cristiani! ». Or dove sono queste mamme? Che meraviglia allora che non ci siano più figli come Giovanni Crisostomo? Naturalmente non basta sorvegliare e avvisare i figli, sgridarli, castigarli: bisogna dar loro l’esempio. Perché i giovani non ragionano ancora e vivono di imitazione. Il piccolo Origene era un’anima ardente e pura. In quel tempo infieriva la persecuzione contro i Cristiani: lo sapeva il fanciullo, ma non aveva paura. Anzi agognava il martirio, per testimoniare col suggello della vita e del sangue a Cristo tutto il suo amore. Già in secreto aveva deciso di consegnarsi spontaneamente nelle mani dei carnefici. E sarebbe morto martire se l’astuzia della madre non fosse riuscita ad impedirglielo. La santa donna, che aveva intuito l’eroico disegno del suo figliuolo, ,prima che si svegliasse, nascose tutti i suoi abiti e l’obbligò a rimane a letto (EUSEBIO, Storia Eccl., VI, 2-5). Com’è possibile in un fanciullo tanto coraggio, tanta fede e questo entusiasmo fino alla morte? Com’è possibile? Suo padre gliene aveva dato l’esempio: il beato Leonida era morto martire. O genitori! i vostri figliuoli cresceranno secondo i vostri esempi. Li volete obbedienti? Cominciate voi a ubbidire a tutte le leggi di Dio. Li volete devoti, che frequentino i Sacramenti? Cominciate voi ad essere devoti e a frequentare i Sacramenti. Li volete puri, onesti, lavoratori? Cominciate voi ad essere puri, onesti, lavoratori. Infine vi raccomando: pregate per i vostri figliuoli, offrite qualche sacrificio per loro, fate per loro qualche elemosina. Perché noi ci affanniamo, ma quello che fa tutto è Dio. Una volta ho sentito una mamma che in un momento di stizza, fece questa imprecazione contro un suo bambino: « Che Dio ti faccia morire! ». No: non dite mai, non dite più questa parola. Bisogna pregar Dio per i vostri figliuoli ogni giorno, non perché li faccia morire, ma perché ce li preservi dal male, che è tanto nel mondo, che è orribile. Così pregava Gesù per i suoi Apostoli, che teneramente amava come figliuoli: « O Signore! non perché li tolga da questo mondo, ma perché li preservi dal male, io ti prego ». Non rogo ut tollas eos de mundo, sed ut serves eos a malo (Giov., XVII, 15). – O Gesù! che un giorno hai sentito fremere il tuo cuore davanti alla desolata donna di Naim piangente sul suo giovanetto figlio, oggi ti prenda compassione anche della santa madre Chiesa, che piange la rovina di tanti suoi figli giovanetti. Non permettere che pianga più oltre: consola il tuo Vicario. O Gesù! come un giorno alle porte di Naim, avvicinati oggi alle porte delle nostre città, alle porte dei nostri paesi, alle porte del cuore dei nostri figliuoli. Toccali tu. Liberali dalla morte del peccato. Grida anche loro la tua parola di vita: « Giovanetto, risorgi: son io che te lo comando ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 2; 3; 4
Exspéctans exspectávi Dóminum, et respéxit me: et exaudívit deprecatiónem meam: et immísit in os meum cánticum novum, hymnum Deo nostro.

[Ebbi ferma fiducia nel Signore, il quale si volse verso di me e ascoltò il mio grido: e pose nella mia bocca un càntico nuovo, un inno al nostro Dio.]

Secreta

Tua nos, Dómine, sacramenta custodiant: et contra diabólicos semper tueántur incúrsus.

[I tuoi sacramenti, o Signore, ci custodiscano e ci difendano sempre dagli assalti del demonio.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:


[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann VI: 52
Panis, quem ego dédero, caro mea est pro sæculi vita.

[Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo.]

Postcommunio

Orémus.

Mentes nostras et córpora possídeat, quǽsumus, Dómine, doni cœléstis operátio: ut non noster sensus in nobis, sed júgiter ejus prævéniat efféctus.

[L’azione di questo dono celeste dòmini, Te ne preghiamo, o Signore, le nostre menti e nostri corpi, affinché prevalga sempre in noi il suo effetto e non il nostro sentire.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA