11 FEBBRAIO (2019), APPARIZIONE DELL’IMMACOLATA VERGINE MARIA

APPARIZIONE DELL’IMMACOLATA VERGINE MARIA

[DomP. Guéranger, L’Anno liturgico. Vol. I, Ed Paoline, Alba, imprim. 1957]

Il messaggio di Lourdes.

Nelle nubi comparirà il mio arco, ed io mi ricorderò del mio patto con voi (Gen. IX, 14-15). Nell’Ufficio del 1 febbraio 1858 (giovedì di Sessagesima) le lezioni liturgiche ricordavano queste parole alla terra, quando il mondo apprese che in quello stesso giorno Maria era apparsa più bella del segno della speranza, che al tempo del diluvio fu la sua meravigliosa figura. Era il tempo in cui si moltiplicavano per la Chiesa i sintomi forieri di un avvenire che oggi s’è fatto presente e che ben conosciamo. La vecchia umanità sembrava fosse sul punto di sommergere in un diluvio peggiore dell’antico.- IO SONO L’IMMACOLATA CONCEZIONE, dichiarò la Madre della divina grazia all’umile fanciulla scelta in quel momento a recare il suo messaggio ai custodi dell’arca della salvezza. Alle tenebre che salivano dall’abisso Ella opponeva, come un faro, l’augusto privilegio che, tre anni prima, il supremo Nocchiero aveva proclamato come dogma in sua gloria. Infatti se, come afferma Giovanni il prediletto, è la nostra fede che possiede quaggiù le promesse della vittoria (1 Gv. V, 4); e, se la fede si alimenta di luce: qual dogma meglio di questo che racchiude e proclama tutti gli altri, li rischiara allo stesso tempo disi soave splendore? Sul capo della Trionfatrice temuta dall’inferno, esso è veramente la regale corona su cui, come nell’arca vincitrice delle tempeste, convergono i diversi splendori del cielo. – Tuttavia occorreva aprire gli occhi dei ciechi a queste bellezze, incoraggiare i cuori angosciati dalle audaci negazioni dell’inferno, rialzare dall’impotenza a formulare l’atto di fede tante intelligenze debilitate dall’educazione delle scuole moderne. Convocando le folle sul luogo benedetto della sua apparizione, l’Immacolata veniva incontro, con fortezza e soavità, alle anime deboli guarendo i corpi; sorridendo alla pubblicità e accettando ogni controllo, confermava, con l’autorità del miracolo permanente, la propria parola e la definizione fatta dal Vicario del Suo Figliolo. – Come il Salmista celebrava le opere di Dio che narrano in ogni lingua la gloria del creatore (Sal. XVIII, 2-5); come S. Paolo tacciava d’insania, nonché d’empietà, chiunque non credeva alla loro testimonianza (Rom. I, 18-22): altrettanto si può dire degli uomini del nostro tempo, che sono inescusabili, se non riconoscono dalle opere sue la SS. Vergine. Ella potrebbe moltiplicare i suoi benefici, aver compassione dei più gravi infermi: ma queste anime malate che, nel timore inconfessato di importune conclusioni, ricusano di vedere oltre; o lottando apertamente contro la verità, spingono al paradosso il proprio pensiero, avvolgono nelle tenebre i loro cuori, come dice l’Apostolo (Rom. 1, 21), e fanno temere che il senso depravato, il cui castigo portavano nella carne i pagani (Ibid. 28), abbia leso la loro ragione.

Appello alla penitenza.

« O Maria concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a voi !» È la preghiera che, dall’anno 1830, voi stessa c’insegnaste contro le minacce dell’avvenire. In seguito, nel 1846, i due pastorelli della Salette ci rammentavano le vostre esortazioni e le vostre lacrime. « Pregate per i poveri peccatori e per il mondo cosi sconvolto », ci ripete oggi da parte vostra la veggente della grotta di Massabielle: « Penitenza! penitenza! penitenza! »

Noi vogliamo obbedirvi, o Vergine benedetta, vogliamo combattere in noi e dovunque l’universale e unico nemico, il peccato, male supremo donde derivano tutti i mali. Lode all’Onnipotente, che si degnò preservarvi da ogni contaminazione e specialmente riabilitare in voi la nostra natura umiliata! Lode a voi che, non avendo alcun debito, rimetteste i nostri con le materne lacrime e col sangue del Figliol vostro, riconciliando la terra col cielo e schiacciando la testa al serpente (Gen. III, 15)! Preghiera ed espiazione! Non era questa, sin dai primi tempi, dai tempi degli Apostoli, in questi giorni di avvicinamento più o meno immediato alla Quaresima, l’insistente raccomandazione della Chiesa? O Madre nostra del Cielo, siate benedetta per essere venuta sì opportunamente ad armonizzare la vostra voce con quella della grande Madre della terra. Il mondo ormai rifiutava, non comprendeva più l’infallibile e indispensabile rimedio, offerto dalla misericordia e dalla giustizia di Dio alla sua miseria; sembrava aver dimenticato per sempre il monito: Se non fate penitenza perirete tutti (Lc. XIII, 3-5). La vostra pietà, o Maria, ci desta dal nostro torpore! Conoscendo la nostra debolezza, voi accompagnate con mille dolcezze il calice amaro, e per indurre l’uomo ad implorarvi i beni eterni, gli prodigate quelli del tempo. Noi non vorremo essere come quei fanciulli che ricevono volentieri le carezze materne e trascurano gl’insegnamenti e le correzioni che quelle carezze avevano lo scopo di fare accettare. D’ora innanzi sapremo, con voi e con Gesù, pregare e soffrire; durante la santa Quarantena, col vostro aiuto, ci convertiremo e faremo penitenza.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI E APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO VI – CHARITAS QUÆ

“…. nessuno infatti può far parte della Chiesa di Cristo, se non si mantiene unito al suo Capo visibile, e stretto alla Cattedra di Pietro.” Questa è la conclusione perentoria di questa lettera enciclica scritta in occasione dei tragici eventi francesi postrivoluzionari, con l’obiettivo deciso di sanzionare qualsiasi indebita consacrazione vescovile attuata senza l’autorizzazione della Sede Apostolica, senza mandato, priva quindi di qualsiasi forma di giurisdizione, missione canonica, illegittima, scismatica e sacrilega. Questa stessa condizione, anche se in momenti storici ben diversi, si è ripresentata in tempi più recenti nei quali pastori superbi ed indegni, si sono arrogati il potere di consacrare [ … o meglio non-consacrare] fantocci impennacchiati senza mandato Apostolico e adducendo ridicoli stati di necessità, ampiamente condannati da Pontefici di ogni tempo, ultimo S. S. Pio XII. Questi ridicoli pseudo-prelati, che hanno a loro volta creato illegittimi e scismatici finti-preti, passano addirittura per tradizionalisti Cattolici, onde carpire la buona fede di ignari e male informati fanta-fedeli illusi da una messa tridentina aleatoria, sacrilega ed invalida. In particolare sono i “figliocci” e derivati del “cavaliere kadosh” Lienart 30 :. , agente massonico della “ganascia” destra della tenaglia trita-Cristiani ideata dai nemici di Dio, di Cristo e di tutti gli uomini, per distruggere la Chiesa Cattolica … si fieri potest!, in combutta con la ganascia sinistra del satanico “novus ordo” degli antipapi delle logge del sacro (un tempo) colle. Questi pseudo-vescovi in particolare, non hanno sede diocesana, e sono totalmente abusivi e senza alcuna autorità canonica e spirituale, dispensatori di finti e funesti sacramenti oltremodo invalidi, e maledicenti. Oggi poi la situazione è totalmente confusa, essendo i kadoshiano-derivati, scismatici dagli scismatici novusordisti … un tragico pasticcio che, se non fosse così deleterio e mortale per il destino di milioni di anime, sarebbe tutto da ridere e sbeffeggiare. Che dire? … veramente la Chiesa Cattolica è in eclissi totale, anzi oramai nel sepolcro; però ricordiamoci come il suo Fondatore dal sepolcro sia uscito glorioso e vincente sul suo nemico capitale! Questa sarà la sorte della Chiesa di Cristo: quando sembrerà morta e nel sepolcro, ribalterà la pietra tombale dalla quale è stata rinchiusa da apostati e da servi del demonio, e trionfante occuperà nuovamente con onore e splendore gli edifici e gli uffici con violenza usurpati. Su questo non dubitiamo affatto, perché il Signore Nostro Gesù Cristo ce lo ha solennemente promesso, e … il suo Apostolo lo ricordava ai fedeli di Tessalonica. – Leggiamo quindi l’enciclica che condanna i lupi di ogni tempo che, sotto l’aspetto di agnelli, penetrano nell’ovile di Cristo per fare stragi di anime, lupi che al fine subiranno la sorte del loro padre lucifero “… verumtamen ad infernum detraheris in profundum laci” [Isa. XIV, 15].

 Charitas quae, docente Paulo apostolo, patiens et benigna est

S. S. PIO VI

LITT. Apostol. In forma brevis

“CHARITAS QUÆ”

 “SULLA CONDANNA DEL GIURAMENTO CIVILE DEI CHIERICI DOPO LA RIVOLUZIONE FRANCESE, E LA RIPROVAZIONE DI ALCUNE ELEZIONI E CONSACRAZIONE DI PSEUDO-VESCOVI.

AI VENERABILI FRATELLI, PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI E AGLI ALTRI ORDINARI AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE PACE E COMUNIONE

PIO PP. VI

SERVO DEI SERVI DI DIO

VENERABILI FRATELLI, SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE.

La carità, che – come insegna l’apostolo Paolo – è paziente e benigna, tollera e sopporta tutto, fintanto che rimane la speranza che per mezzo della mansuetudine ci si possa opporre agli errori che ormai hanno cominciato a farsi strada. Tuttavia, se gli errori crescono di giorno in giorno, a tal punto da far precipitare nello scisma, allora le stesse leggi della carità, strettamente congiunte agl’impegni apostolici, che indegnamente svolgiamo, richiedono ed impongono che sia approntata una medicina paterna, ma pronta ed altrettanto efficace contro la malattia incipiente, dopo aver mostrato a coloro che sbagliano l’orrore della colpa e la gravità delle pene canoniche nelle quali sono incorsi. In tal modo, coloro che si sono allontanati dalla via della verità possono riaversi e, abiurati gli errori, potranno rientrare nella Chiesa che, come madre affettuosa, accoglierà a braccia aperte il loro ritorno; e gli altri fedeli eviteranno opportunamente gl’inganni degli pseudo-pastori, i quali (entrati nell’ovile in tutti i modi, ma non per la porta) non chiedono altro se non di rubare, uccidere, distruggere. Avendo davanti agli occhi questi precetti divini, a malapena abbiamo udito il rumore della guerra alla quale aizzavano contro la Religione Cattolica i filosofi innovatori riuniti nell’Assemblea Nazionale di Francia, della quale costituivano la maggior parte; piangemmo amaramente davanti a Dio e dopo aver partecipato ai Venerabili Nostri Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa l’ansietà del Nostro animo, abbiamo indetto preghiere pubbliche e private. In seguito, con lettera del 9 luglio 1790 al Nostro carissimo figlio in Cristo Ludovico, re cristianissimo, lo abbiamo reiteratamente esortato a non sanzionare la “Costituzione Civile del Clero” che avrebbe portato la Nazione verso l’errore e il Regno verso lo scisma. Non poteva in nessun modo avvenire che un’assemblea politica di persone cambiasse l’universale disciplina della Chiesa, conculcasse le sentenze dei Santi Padri e i decreti dei Concili, sovvertisse l’ordine gerarchico, regolasse a suo capriccio l’elezione dei Vescovi, distruggesse le sedi episcopali e, eliminata la migliore organizzazione, ne introducesse nella Chiesa una peggiore. Affinché le Nostre esortazioni penetrassero più a fondo nell’animo del Re cristianissimo, scrivemmo al-tre due lettere in forma di Breve, il giorno 10 dello stesso mese, ai Venerabili fratelli arcivescovi di Bordeaux e di Vienne, che erano al fianco del re, e paternamente li ammonimmo perché unissero il loro intervento ai Nostri; si doveva scongiurare che, se l’autorità regia avesse accettato la predetta “Costituzione”, il Regno stesso diventasse scismatico, e scismatici i vescovi che fossero creati secondo la forma fissata dai Decreti; nel qual caso Noi saremmo obbligati a bollarli come intrusi, totalmente privi di giurisdizione ecclesiastica. Perché non si potesse minimamente dubitare che le Nostre ansiose sollecitudini fossero motivate soltanto da preoccupazioni religiose e per chiudere la bocca ai nemici di questa Sede Apostolica, decretammo che fosse sospesa in Francia l’esazione delle tasse, dovute ai Nostri uffici dalle precedenti Convenzioni e dalla ininterrotta consuetudine. Il Re cristianissimo si sarebbe certamente astenuto dal confermare la Costituzione, ma l’incalzante, impellente comportamento dell’Assemblea nazionale lo indusse a subire e a sottoscrivere la Costituzione, come dimostrano le lettere che Ci ha inviato il 28 luglio, il 6 settembre ed il 16 dicembre; in esse chiedeva che Noi approvassimo, almeno per precauzione, prima cinque e poi sette articoli, i quali, poco dissimili l’uno dall’altro, costituivano quasi un sunto della nuova Costituzione. Ben presto ci rendemmo conto che nessuno di quegli articoli poteva essere da Noi approvato o tollera-to, in quanto contrario alle regole canoniche. Non volendo tuttavia che da ciò i nemici cogliessero l’occasione di ingannare il popolo, come se Noi fossimo contrari a qualunque forma di conciliazione, e volendo continuare sulla stessa strada di mansuetudine, annunciammo al Re, con lettera del 17 agosto a lui stesso indirizzata, che gli articoli sarebbero stati da Noi attentamente soppesati e che i Cardinali di Santa Romana Chiesa sarebbero stati chiamati a consiglio e, riuniti, avrebbero esattamente ponderato. Essi dunque si riunirono due volte, il 24 settembre ed il 16 dicembre, per esaminare i primi ed i secondi articoli; svolto un diligentissimo esame, ritennero all’unanimità che sugli articoli in questione si dovesse sentire il parere dei Vescovi francesi, perché indicassero essi stessi, se era possibile, qualche fondamento canonico che da lontano non si riusciva ad individuare, come già Noi avevamo scritto in precedenza con altra Nostra lettera al Re cristianissimo. Una non lieve consolazione al dolore che fortemente Ci affliggeva derivò dal fatto che la maggior parte dei Vescovi francesi, spontaneamente spinta dai doveri dell’impegno pastorale e mossa dall’amore per la verità, si mostrava costantemente contraria a questa Costituzione e la combatteva in tutti i modi che sono propri del regime della Chiesa. Questa Nostra consolazione fu ulteriormente aumentata allorché il Nostro diletto figlio il Cardinale Rochefoucauld e i Venerabili Fratelli l’Arcivescovo di Aix ed altri Arcivescovi e Vescovi in numero di trenta, per prevenire tanti e tanto grandi mali, si rivolsero a Noi; con lettera del 10 ottobre mandarono una “Esposizione sopra i principi della Costituzione del Clero”, firmata da ognuno col proprio nome, chiedendo il Nostro consiglio ed il Nostro aiuto; implorarono da Noi, come da un comune Maestro e Genitore, la corretta norma di comportamento, alla quale affidarsi con tranquillità. Ciò che soprattutto accrebbe la Nostra consolazione fu che molti altri Vescovi si unirono ai primi, sottoscrivendo la predetta “Esposizione”, di modo che dei 131 Vescovi di codesto Regno soltanto quattro si mantennero di diverso avviso; ed insieme a questo così grande numero di Vescovi anche la moltitudine dei Capitoli e la maggior parte dei Parroci e dei Pastori di second’ordine conveniva che questa “Esposizione”, fatta propria col consenso degli animi, dovesse far parte della Dottrina di tutta la Chiesa Francese. Noi stessi, senza frapporre indugio, mettemmo mano all’opera e sottoponemmo ad esame tutti gli articoli di detta Costituzione. Ma l’Assemblea Nazionale Francese, nonostante udisse la voce concorde di codesta Chiesa, non pensò minimamente di desistere dalla propria impresa, anzi fu maggiormente irritata dalla coerenza dei Vescovi. Rendendosi perfettamente conto che fra i Metropolitani e fra i Vescovi più anziani non se ne sarebbe trovato nessuno disponibile a legittimare i nuovi Vescovi, eletti nei Distretti municipali col voto dei laici, degli eretici, degli infedeli e degli ebrei, secondo quanto disponevano i nuovi Decreti; consapevole inoltre che questa assurda forma di regime non avrebbe potuto sussistere da nessuna parte, dal momento che senza Vescovi scompare qualunque forma di Chiesa, l’Assemblea pensò di pubblicare altri Decreti ancora più assurdi; cosa che fece il 15 e il 27 novembre e poi ancora il 3, 4 e 26 gennaio 1791. Con questi ulteriori Decreti, ai quali aggiunse forza l’autorità regia, venne stabilito che – qualora il Metropolitano oppure il Vescovo più vecchio si fosse rifiutato di consacrare i nuovi eletti – qualunque Vescovo di un altro Distretto avrebbe potuto farlo. Inoltre, per far sì che con un’unica azione ed in un solo momento venissero tolti di mezzo tutti i Vescovi onesti e tutti i Parroci animati dalla Religione Cattolica, fu disposto anche che tutti i Pastori, sia del primo sia del secondo ordine, giurassero tutti, senza alcuna aggiunta, di osservare la Costituzione: sia quella già promulgata, sia le norme che fossero approvate in seguito. Coloro che si fossero rifiutati di prestare giuramento, sarebbero addirittura stati rimossi dal loro grado e le loro sedi e le loro parrocchie considerate vacanti del pastore. Espulsi dunque, anche con la violenza, i legittimi Pastori e Ministri, sarebbe stato lecito procedere all’elezione di nuovi Vescovi e Parroci nei Distretti municipali; messi in disparte i Metropolitani ed i Vescovi più vecchi, che non si fossero piegati al giuramento, questi eletti avrebbero dovuto presentarsi al Direttorio (cui competerebbe la designazione di qualunque Vescovo) per essere confermati ed istituiti. Decreti di questo tenore, successivamente pubblicati, gravarono il Nostro animo di un dolore smisurato ed aumentarono la Nostra pena, perché Ci toccò occuparci anche di questi temi nella risposta ai Vescovi

che stavamo preparando. I decreti Ci sollecitarono di nuovo ad indire pubbliche preghiere e ad implorare il Padre di ogni misericordia. Essi furono anche la causa per cui i Vescovi francesi, che già con egregie, meditate pubblicazioni si erano opposti alla Costituzione del Clero, diedero alle stampe nuove Lettere Pastorali al popolo, e si diedero da fare con il massimo impegno a contrastare le disposizioni relative alla deposizione dei Vescovi, alle vacanze delle sedi episcopali, alle elezioni e ratifiche dei nuovi Pastori. Da ciò è derivato che – per espresso accordo di tutta la Chiesa francese – i giuramenti civici vennero considerati come spergiuri e sacrileghi, totalmente indegni non solo degli ecclesiastici ma di qualunque persona cattolica; tutti gli atti conseguenti, considerati scismatici, furono tenuti in nessuna considerazione e fatti oggetto delle più gravi censure. A queste lodevolissime dichiarazioni del clero francese corrisposero anche i fatti; quasi tutti i Vescovi, infatti, e la maggior parte dei Parroci si rifiutarono, con invitta coerenza, di prestare il giuramento. Allora i nemici della Religione si resero conto che tutti i loro malvagi disegni sarebbero andati a vuoto se non fossero riusciti a guadagnarsi l’animo di qualche Vescovo, debole o mosso dall’ambizione; qualcuno che prestasse il giuramento di proteggere la Costituzione e muovesse le sacrileghe mani alle Consa-crazioni, affinché niente più mancasse per introdurre lo scisma. Fra quelli abbattuti dall’altrui malizia il primo fu Carlo, Vescovo di Autun, difensore acerrimo della Costituzione; il secondo fu Giovanni Giuseppe, Vescovo di Lidda; il terzo Ludovico, Vescovo d’Orléans; il quarto Carlo, Vescovo di Viviers; il quinto il Cardinale di Loménie ed Arcivescovo di Sens e pochissimi, infelicissimi Pastori di se-cond’ordine. Per quanto attiene al Cardinale di Loménie, con lettera indirizzata a Noi il 25 novembre scorso, tentando di giustificare il giuramento che aveva prestato, affermava che non doveva essere considerato come un “consenso dell’animo” e che comunque egli si trovava profondamente dubbioso se rifiutarsi di imporre le mani agli eletti (come fino a quel momento aveva evitato di fare) oppure no. Poiché il problema più importante era che nessuno dei vescovi consacrasse gli eletti (cosa che avrebbe rafforzato la via dello scisma), Ci parve opportuno sospendere la Nostra risposta ai Vescovi, che era quasi conclusa, e senza indugio riscrivere, il 23 febbraio, al Cardinale, dimostrandogli sia il suo errore di valutazione nel prestare giuramento, sia anche quali pene sono previste dai Canoni; pene alle quali, non senza dolore nell’animo Nostro, avremmo dovuto sottoporlo, privandolo anche della dignità cardinalizia, se non avesse riparato la pubblica offesa con una tempestiva ed adeguata ritrattazione. Per quanto poi atteneva al dubbio se consacrare o no gli pseudo-eletti, gli ordinammo formalmente di non procedere oltre nell’istituire nuovi Vescovi, neppure per stato di necessità, per non aggiungere nuovi interlocutori ostili alla Chiesa. Si tratta infatti di un diritto che spetta unicamente alla Sede Apostolica, sulla base di quanto fissato dalle norme del Concilio di Trento, e che nessuno dei Vescovi o dei Metropoliti può arrogarsi; in caso contrario, Noi siamo obbligati dal nostro dovere apostolico a considerare scismatici tanto coloro che consacrano quanto coloro che sono consacrati, e di nessun valore tutti gli atti che sia gli uni sia gli altri andranno producendo. Esaurite queste incombenze, che C’imponeva la natura del Nostro supremo compito pastorale, fu opportuno per Noi rimettere mano alla risposta, che già era costata grande impegno e lunga fatica, per le molteplici novità che si erano accumulate. Con l’aiuto di Dio la completammo, affinché una volta esaminati tutti gli articoli, chiunque avesse ben chiaro che la nuova Costituzione – sulla base del Nostro giudizio e di quello della Sede apostolica, che i Vescovi francesi Ci avevano richiesto e che i Cattolici francesi desideravano grandemente – nasceva da principi contaminati dall’eresia, e perciò in parecchi decreti era eretica a propria volta e contraria al dogma cattolico; in altri invece sacrilega, scismatica, distruttiva dei diritti del Primato e della Chiesa, contraria sia alla vecchia sia alla nuova disciplina; in definitiva, strutturata e diffusa senz’altro scopo che abolire la Religione Cattolica. Ogni libertà di professarla viene infatti negata, i legittimi Pastori vengono rimossi, i beni occupati; invece, gli uomini di altre sette vengono pacificamente lasciati nella loro libertà e nel possesso dei loro beni. Nonostante avessimo dimostrato con chiarezza tutto ciò, e tuttavia non volendo abbandonare la strada della mansuetudine, dichiarammo che fino a quel momento ci eravamo astenuti dal considerare separati dalla Chiesa Cattolica gli autori della malefica Costituzione civile del clero; ma contemporaneamente dovemmo ripetere che (come la Santa Sede ha sempre usato fare in casi di questo genere) saremmo purtroppo costretti a  dichiarare scismatici tutti coloro che non si allontanassero dagli errori che Noi abbiamo illustrati, sia che si tratti degli autori di questa Costituzione, sia di persone che vi abbiano aderito con giuramento; che siano stati nominati nuovi pastori o che abbiano consacrato gli eletti, o che dagli eletti siano stati consacrati. Tutti costoro infatti, chiunque fossero, sarebbero privi della legittima missione e della comunione con la Chiesa. Poiché – fatti salvi il dogma e la disciplina universale della Chiesa – il Nostro animo è disposto a favorire, fin dove è lecito, l’illustre nazione francese, seguendo il consiglio dei Cardinali convocati per questo motivo e ripetendo ciò che già avevamo scritto personalmente al Re cristianissimo, esortammo i Vescovi, sotto i cui occhi le cose si svolgevano, a prospettarci qualche altro tipo d’intervento – se fosse possibile trovarlo – non in contrasto con il dogma cattolico e con la disciplina universale, da sottoporre al Nostro esame ed alla Nostra decisione. Questi sentimenti del Nostro animo vennero da Noi esposti an-che al Nostro carissimo figlio in Cristo, il Re cristianissimo, al quale mandammo copia della Nostra ri-sposta ai Vescovi; inoltre lo esortammo nel Signore a preparare, con l’aiuto dei Vescovi più saggi, una medicina più adatta al male che era derivato anche dall’autorità regia e lo assicurammo che contro coloro che si fossero mantenuti pervicacemente nell’errore Noi avremmo eseguito (come deriva dall’obbligo pastorale) ciò che, posti nella stessa condizione, anche i Nostri Predecessori disposero. Entrambe le Nostre lettere, quella al Re e quella ai Vescovi, furono spedite il 10 marzo con un corriere speciale, che partì il giorno successivo. Di nuovo, il giorno 15 dello stesso mese, con l’arrivo del corriere ordinario proveniente dalla Francia, da ogni parte Ci venne riferito che il 24 febbraio a Parigi si era raggiunto il culmine dello scisma. In quel giorno infatti il Vescovo d’Autun (già colpevole di spergiuro e reo di defezione per aver abbandonato la Chiesa di propria volontà e davanti ai Laici) con un comportamento ben dissimile da quello del suo Capitolo, meritevole invece d’ogni elogio, si unì ai Vescovi di Babilonia e di Lidda. Il primo di questi, che era stato da Noi insignito del pallio e gratificato anche di sussidi, si dimostrò degno successore di un altro Vescovo di Babilonia, quel Domenico Varlet ben noto per lo scisma della Chiesa di Utrecht; il secondo, già colpevole di spergiuro, era già incorso nell’odio e nella disistima dei buoni allorché s’era mostrato dissidente dalla retta dottrina del Vescovo e del Capi-tolo della Chiesa di Basilea, della quale egli è suffraganeo. In quel giorno, dunque, il Vescovo d’Autun, con l’aiuto di questi due vescovi, senza farne parola all’Ordinario, nella chiesa dei Preti dell’Oratorio osò imporre le sacrileghe mani a Luigi Alessandro Expilly e a Claudio Eustachio Francesco Marolles, senza averne ricevuto alcun mandato dalla Sede apostolica, senza richiedere il giuramento dell’obbedienza dovuta al Pontefice; tralasciando inoltre l’esame e la confessione di fede prescritta dal Pontificale Romano (formalità che devono essere osservate in tutte le chiese del mondo) e trascurando, violando, disprezzando anche tutte le altre norme. Tutto ciò, sebbene non potesse ignorare che il primo dei due era stato eletto illegittimamente Vescovo di Cornovaglia, nonostante le gravi e ripetute contestazioni di quel Capitolo, e che l’altro ancor meno legittimamente era stato nominato Vescovo di Soissons, della diocesi che ha invece come proprio pastore vivo e vegeto il reverendo fratello Enrico Giuseppe Claudio de Bourdeilles. Questi ritenne suo preciso dovere opporsi con veemenza a tanto grande profanazione e difendere con impegno la sua diocesi, come testimonia la sua sollecita lettera al popolo datata 25 febbraio. Contemporaneamente Ci venne riferito che il vescovo di Lidda aveva aggiunto al vecchio anche un nuovo crimine. Il giorno 27 dello stesso mese di febbraio, in compagnia dei nuovi pseudo-Vescovi Expilly e Marolles, nella stessa chiesa aveva osato consacrare in maniera sacrilega il parroco Saurine come Vescovo di Aix, quantunque anche questa Chiesa gioisca lieta dell’ottimo suo Pastore, il reverendo fratello Carlo Augusto Lequien. Forse da ciò è derivato che lo stesso vescovo di Lidda, Giovanni Giuseppe Gobel, pur essendone tuttora vivo l’Arcivescovo, fu nominato capo della chiesa di Parigi, sull’esempio di Ischira, che, a compenso del crimine commesso e dell’ossequio tributato nell’accusare e nel cacciare dalla sua sede Sant’Atanasio, nel Conciliabolo di Tiro fu proclamato Vescovo di quella città. Notizie così dolorose e tristi riempirono il Nostro animo di dolore e tristezza incredibili. Confortati tuttavia dalla speranza in Dio, il giorno 17 di marzo ordinammo che fosse di nuovo convocata la Congregazione dei Cardinali, affinché Ci esprimesse il proprio parere su una situazione di tale gravità, come  già aveva fatto altre volte. Mentre Ci preoccupavamo di dar corso alla delibera assunta con il consiglio dei Cardinali, il giorno 21 dello stesso mese un altro corriere giunto da codesto Regno riferisce che il Vescovo di Lidda, divenuto ancora più perfido, insieme agli pseudo-Vescovi Expilly e Saurine, il giorno 6 dello stesso mese, nella stessa chiesa, con le stesse sacrileghe mani aveva consacrato Vescovo di Beauvais il parroco Massieu, deputato dell’Assemblea francese; un altro deputato, il parroco Lindet, Vescovo di Eureux; il parroco Laurent, anch’egli deputato, Vescovo di Moutiers; il parroco Heraudin Vescovo di Châteauroux. Egli osò far questo nonostante le due prime diocesi abbiano tuttora i loro pastori legittimi e le altre due chiese non siano state ancora erette dall’autorità Apostolica in sedi vescovili. Quale giudizio si debba dare di coloro che accettano di essere eletti e consacrati in Chiese regolarmente rette ed amministrate dai loro Vescovi, lo spiegò egregiamente, molti anni prima di Noi, San Leone. Scrivendo infatti a Giuliano, Vescovo di Coo, contro un certo Teodosio che aveva occupato la sede del Vescovo Giovenale, ancora vivente, al cap. IV sostenne: “Che uomo sia colui che s’introduce nella sede di un Vescovo vivente si desume con chiarezza dallo stesso gesto; né c’è da dubitare che sia un malvagio colui che è amato dai nemici della fede”. Con quanta ragione la Chiesa si sia sempre tenuta lontana da coloro che vengono eletti dalla turba e dalla confusione dei laici (mentre eletti ed elettori si dimostrano affetti da una stessa malattia: quella delle false opinioni) Ce lo dimostrò, anche troppo, una lettera pastorale a Noi indirizzata – giunta per il tramite dello stesso corriere – che lo pseudo-Vescovo Expilly aveva fatto pubblicare il 25 febbraio per ingannare gl’inesperti e senz’altro disegno, certamente, che stracciare l’inconsutile veste di Cristo. Costui, dunque, dopo aver ricordato il giuramento – ovverossia lo spergiuro – al quale s’è vincolato, espone tutti i fondamenti della Costituzione francese, che riporta quasi parola per parola, e – condividendo le posizioni dell’Assemblea – ne consiglia l’approvazione; sostiene che una Costituzione come quella non offende assolutamente il dogma, ma soltanto introduce una forma migliore di disciplina, riportandola alla purezza dei primi secoli, soprattutto in quella parte nella quale, allontanato il clero, le elezioni vengono restituite al popolo e le istituzioni e le consacrazioni ai Metropolitani, grazie ai primi Decreti dell’Assemblea francese, i soli che egli cita. Per ingannare meglio gl’inesperti, egli ricorda una lettera che Ci scrisse il 18 novembre 1790, come se fosse stato in accordo con la Sede Apostolica. In seguito, ri-volgendosi direttamente ai singoli Ordini della Diocesi, li esorta tutti ad accoglierlo come legittimo Pastore e ad accettare spontaneamente la Costituzione. Ah, l’infelice! Tralasciando Noi volutamente quei temi che attengono al governo civile, tuttavia, con quale mai coraggio egli intende difendere, sul piano religioso, una Costituzione che quasi tutti i Vescovi della Chiesa francese e molti altri uomini di Chiesa hanno riprovata e rigettata, considerandola contraria al dogma e difforme dalla disciplina consueta, in particolare per le elezioni e le consacrazioni dei Vescovi? Questa verità, che salta agli occhi, neppure lui avrebbe potuto dissimulare o celare se non avesse passato consapevolmente sotto silenzio i decreti più assurdi che ultimamente erano stati approvati dall’Assemblea francese. Decreti che, oltre le altre iniquità, sono arrivati al punto di attribuire il diritto di nomina e di conferma di ogni Vescovo all’arbitrio e alla volontà del Direttorio. Codesto infelice, che già tanto è avanzato sulla via della perdizione, si legga dunque la Nostra risposta ai Vescovi della Gallia, nella quale abbiamo confutato ed abbattuto in anticipo tutti i mostruosi errori della sua lettera, e capirà quanto chiaramente risplenda nei singoli articoli la verità che egli odia. Sappia intanto di essersi già condannato da solo. Se infatti è vero (come prevede l’antica disciplina sulla base del Canone del Concilio di Nicea, cui egli fa riferimento) che ogni eletto, per ottenere il riconoscimento legittimo del titolo, dev’essere confermato dal suo Metropolita e che il diritto dei Metropoliti deriva dal diritto della Sede Apostolica, come potrà accadere che Expilly si ritenga insediato legittimamente sulla base dei Canoni, dal momento che alla sua consacrazione hanno avuto parte altri Vescovi ma non l’Arcivescovo di Tours, di cui la Chiesa di Kimpercotin è suffraganea? Poiché questi Vescovi appartengono ad altre province, se poterono, con ardire sacrilego, conferirgli l’Ordine, non poterono tuttavia attribuirgli la giurisdizione, della quale essi sono completamente privi, come prevede la disciplina di tutte le epoche. Questa potestà di conferire la giurisdizione, sulla base della nuova disciplina, introdotta già da molti secoli e confermata dai Concilii generali e dagli stessi Concordati, non riguarda assolutamente i Metropoliti e – come se fosse ritornata da dove proveniva – risiede unicamente presso la Sede  Apostolica; perciò oggi “il Pontefice Romano per obbligo del suo ufficio dà a ciascuna Chiesa i suoi Pastori”, per dirla con lo stesso Concilio di Trento (Sessione XXIV, cap. 1 De ref.), e di conseguenza in tutta la Chiesa Cattolica nessuna consacrazione può considerarsi legittima se non conferita dalla Sede Apostolica. Non è assolutamente vero che la lettera che egli Ci ha inviato lo favorisca; anzi! Lo rende maggiormente colpevole e non può sfuggire alla taccia di scismatico. Infatti, pur simulando un’apparenza di comunione con Noi, la lettera non fa parola della conferma che da Noi deve ricevere, e semplicemente Ci riferisce della sua elezione, per quanto illegittima, come dispongono i Decreti francesi. Per questo, Noi, seguendo l’esempio dei Nostri Predecessori, giudicammo di non dovergli rispondere, ma ordinammo che fosse seriamente ammonito a non procedere oltre; speravamo che avrebbe obbedito. Egli era già stato ammonito, di propria iniziativa, dal Vescovo di Rennes, che gli negò l’istituzione e la conferma che egli insistentemente richiedeva. Perciò, anziché accoglierlo come Pastore, il popolo deve respingerlo con orrore come un invasore. Invasore, diciamo, perché rifiutò di professare quella verità che pure doveva conoscere; perché cominciò ad abusare dell’ufficio di Pastore, da lui carpito; perché divenne addirittura talmente arrogante che alla fine della lettera pastorale osò persino dispensare dal vincolo del precetto ecclesiastico quaresimale. Perciò “egli si è fatto imitatore del Diavolo e non è stato coerente nella verità, mal utilizzando l’apparenza di una carica e di un nome usurpati”, come disse di un invasore analogo San Leone Magno scrivendo ad alcuni Vescovi dell’Egitto. Vedendo Noi pertanto che con questa molteplice serie di eccessi lo scisma si diffonde e si moltiplica nel Regno francese, così benemerito della Religione e a Noi così caro; vedendo inoltre che per queste stesse ragioni di giorno in giorno in ogni luogo vengono eletti nuovi Pastori, sia del primo sia del secondo ordine, e che i legittimi Ministri sono rimossi e cacciati ed al loro posto vengono insediati lupi rapaci, non possiamo non esser mossi a pietà da una vicenda così lacrimevole. Per porre il più pronto riparo allo scisma che progredisce; per riportare al loro dovere coloro che hanno sbagliato e per rinsaldare nelle loro convinzioni i buoni; per conservare fiorente la Religione in codesto regno; aderendo Noi ai consigli dei Nostri Venerabili Fratelli i Cardinali di Santa Romana Chiesa ed assecondando i desideri di tutto l’Ordine episcopale della Chiesa francese, seguendo l’esempio dei Nostri predecessori, con la potestà Apostolica che esercitiamo, con la presente in primo luogo intimiamo: Chiunque – Cardinali di Santa Romana Chiesa, Arcivescovi, Vescovi, Abati, Vicari, Canonici, Parroci, Presbiteri, tutti coloro che partecipano alla milizia ecclesiastica, secolari o regolari – abbia prestato puramente e semplicemente, come prescritto dall’Assemblea nazionale, il “giuramento civico”, fonte avvelenata di tutti gli errori e causa principale di tristezza per la Chiesa cattolica francese, se entro quaranta giorni a contare da oggi non avrà ritrattato tale giuramento sarà sospeso dall’esercizio di qualunque ordine, e sarà colpevole di irregolarità se lo eserciterà. Inoltre dichiariamo specificamente che le elezioni dei predetti Expilly, Marolles, Saurine, Massieu, Lindet, Laurent, Heraudin e Gobel a Vescovi di Kimpercotin, Soissons, Aix, Beauvais, Eureux, Moutiers, Châteauroux e Paris sono state illegittime e sacrileghe e perciò sono state e sono da ritenersi nulle e come tali le annulliamo, cancelliamo ed abroghiamo, insieme con la nuova istituzione dei cosiddetti Vescovadi di Moutiers e Châteauroux e di altri. Dichiariamo e precisiamo inoltre che le consacrazioni fatte da costoro sono state indegne e completamente illegittime, sacrileghe e contrarie alle norme dei Sacri Canoni; pertanto coloro che sono stati eletti così temerariamente e senza alcun diritto sono privi di ogni giurisdizione ecclesiastica e spirituale sul governo delle anime, ed essendo consacrati illecitamente sono sospesi da ogni esercizio dell’ordine epi-scopale. Parimenti dichiariamo sospesi da ogni esercizio dell’ordine episcopale Carlo, Vescovo di Autun, Giovanni Battista, Vescovo di Babilonia, e Giovanni Giuseppe, Vescovo di Lidda, consacratori sacrileghi o assistenti; ugualmente sospesi dall’esercizio dell’ordine sacerdotale e da qualunque altro ordine siano tutti coloro che prestarono aiuto, opera, consenso e consiglio a tali esecrande consacrazioni.

Perciò disponiamo e strettamente vietiamo al citato Expilly ed agli altri illecitamente eletti ed illecitamente consacrati, sotto la stessa pena della sospensione, di arrogarsi la giurisdizione episcopale o qualunque altra autorità relativa al governo delle anime, dato che non l’ottennero mai; né di dare lettere dimissorie per prendere gli ordini, né di istituire, incaricare o confermare, con qualunque pretesto, pastori, vicari, missionari, servitori, funzionari, ministri o comunque li si voglia chiamare, incaricati della cura delle anime e dell’amministrazione dei sacramenti; né decretare, sia autonomamente sia congiuntamente, attraverso conciliabolo, in materia attinente la giurisdizione ecclesiastica; inoltre dichiariamo e rendiamo noto a tutti che lettere dimissoriali, deputazioni e conferme, sia che siano già state presentate sia che possano esserlo in futuro, insieme a tutti gli altri atti che siano derivati per temerario ardire, saranno considerati illegittimi e di nessuna rilevanza. Allo stesso modo disponiamo e vietiamo, con analoga pena della sospensione, tanto ai consacrati quanto ai consacratori, che osino impartire illecitamente tanto il sacramento della Cresima quanto l’Ordine o comunque esercitare ingiustamente l’Ordine episcopale, dal quale sono stati sospesi. Di conseguenza, coloro che sono stati iniziati agli Ordini ecclesiastici da costoro sappiano di essere soggetti al vincolo della sospensione, e che se eserciteranno gli ordini ricevuti saranno anche colpevoli di irregolarità. Per prevenire mali maggiori, con la stessa autorità e lo stesso tenore disponiamo e rendiamo noto che tutte le altre elezioni alle Chiese, alle Cattedrali ed alle Parrocchie francesi, vacanti o, peggio, occupate; vecchie o, peggio, nuove e di illegittima costituzione, compiute sin qui secondo i criteri della ricordata Costituzione del clero da parte degli elettori dei distretti municipali; quelle che vogliamo si considerino esplicitate, e quante altre seguiranno, devono essere considerate illegali, illegittime, sacrileghe e di nessun valore per il passato, per il presente e per il futuro; e Noi, per il presente, adesso per allora, le annulliamo, cancelliamo e abroghiamo. Dichiarando inoltre che quegli stessi che sono stati eletti senza fondamento giuridico e gli altri che lo saranno in analogo modo, sia nelle Chiese sia nelle Cattedrali, sono privi di ogni giurisdizione ecclesiastica o spirituale relativa al governo delle anime; che i Vescovi sin qui illecitamente consacrati, che parimenti vogliamo si ritengano citati, e gli altri che in seguito lo siano, debbono ritenersi totalmente privi dell’esercizio dell’Ordine episcopale né godranno del Ministero sacerdotale ora o in futuro. Perciò proibiamo strettamente sia a coloro che sono stati eletti Vescovi, sia a coloro che eventualmente lo saranno, di osare ricevere l’Ordine, cioè la consacrazione episcopale, da chiunque, sia egli Metropolita o Vescovo. Quanto agli stessi pseudo-Vescovi ed ai loro sacrileghi consacratori, e a tutti gli altri Arcivescovi e Vescovi, non presumano di consacrare gli illecitamente eletti o quelli che lo dovessero essere in futuro, trincerandosi dietro qualsiasi pretesto o colore. Comandando inoltre agli eletti di questo tipo e agli eventuali futuri Vescovi o Parroci, che non si comportino assolutamente come Arcivescovi, Vescovi, Parroci o Vicari, né s’incoronino del titolo di alcuna Chiesa cattedrale o parrocchiale, né si arroghino alcuna giurisdizione o facoltà relativa al governo delle anime, sotto pena di sospensione e di nullità; pena dalla quale nessuno di quelli fin qui nominati potrà mai essere liberato, se non da Noi personalmente o da coloro che la Sede Apostolica avrà delegato. Con la maggior benignità possibile abbiamo illustrato fin qui le pene canoniche inflitte per emendare i mali fino ad ora compiuti e per evitare che si dilatino ulteriormente in futuro. Noi confidiamo nel Signore che i consacratori e gli invasori delle cattedrali e delle parrocchie, gli autori e tutti i fautori della Costituzione riconoscano il loro errore e, spinti dalla penitenza, ritornino a quell’ovile dal quale furono strappati non senza macchinazione ed insidia. Sollecitandoli con parole paterne, Noi li esortiamo e li scongiuriamo nel Signore affinché si allontanino da siffatto ministero; affinché distolgano il piede dalla via della perdizione nella quale si sono gettati a capofitto; affinché non permettano che uomini imbevuti della filosofia di questo secolo diffondano tra il popolo queste mostruosità dottrinarie, contrarie all’istituzione di Cristo, alla tradizione dei Padri ed alle regole della Chiesa. Se dovesse mai accadere che il Nostro benevolo modo d’agire, le Nostre paterne ammonizioni, Dio non voglia, restassero inascoltati, sappiano costoro che non abbiamo intenzione di liberarli dalle più gravi pene alle quali sono sottoposti dai Canoni. Si persuadano che incorreranno nel Nostro anatema e che li denunceremo a tutta la Chiesa come scomunicati, come scismatici dalla Comunione ecclesiale e da Noi allontanati. Infatti è quanto mai opportuno che “chiunque abbia scelto di giacere nel fango della propria insipienza, sappia che le leggi mantengono la loro forza e che condividerà la sorte di coloro dei quali ha seguito l’errore”, come C’insegna Leone Magno, Nostro predecessore, nella lettera a Giuliano, Vescovo di Coo. A Voi ora Ci rivolgiamo, Venerabili Fratelli, che – salve poche eccezioni – avete correttamente riconosciuto i vostri doveri nei confronti del gregge e senza preoccuparvi dei rispetti umani li avete professati di fronte a tutti; che avete ritenuto che occorressero maggior impegno e maggior fatica proprio dove incombeva più grande il pericolo; a Voi adattiamo l’elogio nel quale il lodato Leone Magno accomunò i Vescovi dell’Egitto cattolico riuniti a Costantinopoli: “Sebbene io soffra assieme con voi, di tutto cuore, per i travagli che avete sopportato per osservare la Fede cattolica, ed io senta tutto ciò che avete subìto da parte degli eretici non diversamente che se fosse stato fatto personalmente a me, tuttavia riconosco che c’è ragione maggiore di gaudio che non di tristezza, dal momento che, con l’aiuto del Signore Gesù Cristo, siete rimasti saldi nella dottrina evangelica ed apostolica. E quando i nemici della Fede cristiana vi cacciarono dalla sede delle chiese, preferiste subire l’offesa dell’esilio piuttosto che essere infettati dal contagio della loro empietà”. Pensando a voi, non possiamo non sentire grande consolazione e non possiamo non esortarvi con forza a perseverare nel comportamento. Richiamiamo alla vostra memoria il nesso di quel matrimonio spirituale con il quale siete legati alle vostre Chiese e che può essere annullato in forma canonica soltanto dalla morte o dalla Nostra autorità apostolica. Ad esse dunque mantenetevi stretti e non abbandonatele mai all’arbitrio dei lupi rapaci, contro le cui insidie, traboccanti di santo ardore, voi avete già levato la voce e non avete tentennato nel compiere i doveri derivanti dalla legittima autorità. Ora parliamo a voi, diletti Figli, Canonici degli spettabili Capitoli, che, come è giusto, siete fedeli ai vo-stri Arcivescovi e Vescovi e – come tante membra collegate con la testa – date vita ad un unico corpo ecclesiastico, che non può essere sciolto o sconvolto dal potere civile. Voi dunque, che così lodevolmente avete seguito i nobili esempi dei vostri Presuli, non allontanatevi mai dalla retta via sulla quale state procedendo, e non permettete che qualcuno, indossate le mentite spoglie di Vescovo o di Vicario, s’impadronisca del governo delle vostre Chiese. Esse infatti, se sono rimaste vedove del loro Pastore, apparterranno soltanto a voi, ad onta di qualunque nuova macchinazione venga compiuta contro di voi. Con la concordia degli animi e delle opinioni, tenete dunque lontano da voi, più che potete, ogni invasione e scisma. Ci rivolgiamo anche a voi, diletti Figli, Parroci e Pastori del second’ordine che, moltissimi per numero e costanti per virtù, avete svolto il vostro dovere, completamente diversi da quei vostri colleghi che – vinti dalla debolezza o catturati dall’ambizione – divennero schiavi dell’errore e che ora, da Noi ammoniti, speriamo ritorneranno sollecitamente al loro dovere. Continuate coraggiosamente nell’opera iniziata e ricordate che il mandato che riceveste dai vostri Vescovi legittimi non può esservi tolto che da loro; ricordate che, per quanto espulsi dal vostro incarico dal potere civile, tuttavia siete sempre Pastori legittimi, obbligati dal vostro dovere a tener lontani, per quanto possibile, i ladri che tentano d’introdursi nella vostra casa con l’unico disegno di perdere le anime affidate alle vostre cure e della cui salvezza sarete chiamati a rendere conto. Parliamo anche a voi, diletti Figli, Sacerdoti ed altri Ministri del clero francese, che – chiamati a partecipare del Signore – dovete attenervi ai vostri legittimi pastori e rimanere costanti nella fede e nella dottrina, nulla avendo di più caro che evitare i sacrileghi invasori, e rigettarli. Infine preghiamo voi tutti nel Signore, diletti Figli attolici del Regno di Francia: ricordandovi della Religione e della fede dei vostri padri, col più grande affetto del cuore vi sollecitiamo a non discostarvene, perché questa è la sola e la vera religione che dona la vita eterna e che sorregge e rende prospere anche le società civili. State ben attenti a non prestare orecchio alle insidiose voci della filosofia di questo seco-lo, che sono foriere di morte. Tenetevi lontani da tutti gli usurpatori, che si facciano chiamare Arcivescovi, Vescovi o Parroci, e non abbiate con loro nulla in comune, men che meno nelle cose divine. Ascoltate assiduamente le voci dei legittimi Pastori, quelli che vivono ancora e quelli che in futuro vi verranno assegnati nelle forme canoniche. In una parola, insomma, tenetevi solidali con Noi; nessuno infatti può far parte della Chiesa di Cristo, se non si mantiene unito al suo Capo visibile, e stretto alla Cattedra di Pietro. Affinché tutti siano spinti a compiere più coraggiosamente i loro doveri, Noi invochiamo per voi dal Padre Celeste lo spirito di saggezza, verità e costanza; in pegno del Nostro amore pater-no dal più profondo del cuore impartiamo a voi, diletti Figli Nostri, Venerabili Fratelli e diletti Figli, l’Apostolica Benedizione. Dato a Roma, presso San Pietro, sotto l’anello del Pescatore, il 13 aprile 1791, anno diciassettesimo del Nostro Pontificato.

PIO PP. VI

DOMENICA V dopo EPIFANIA (2019)

DOMENICA V DOPO EPIFANIA (2019)

Incipit


In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus


Jer XXIX :11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.


Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob. [Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio


Orémus.
Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut, quæ in sola spe grátiæ cœléstis innítitur, tua semper protectióne muniátur.  
[Custodisci, o Signore, Te ne preghiamo, la tua famiglia con una costante bontà, affinché essa, che si appoggia sull’unica speranza della grazia celeste, sia sempre munita della tua protezione.]

Lectio


Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses
Col III: 12-17
Fratres: Indúite vos sicut electi Dei, sancti et dilecti, víscera misericórdiæ, benignitátem, humilitátem, modéstiam, patiéntiam: supportántes ínvicem, et donántes vobismetípsis, si quis advérsus áliquem habet querélam: sicut et Dóminus donávit vobis, ita et vos. Super ómnia autem hæc caritátem habéte, quod est vínculum perfectionis: et pax Christi exsúltet in córdibus vestris, in qua et vocáti estis in uno córpore: et grati estóte. Verbum Christi hábitet in vobis abundánter, in omni sapiéntia, docéntes et commonéntes vosmetípsos psalmis, hymnis et cánticis spirituálibus, in grátia cantántes in córdibus vestris Deo. Omne, quodcúmque fácitis in verbo aut in ópere, ómnia in nómine Dómini Jesu Christi, grátias agéntes Deo et Patri per Jesum Christum, Dóminum nostrum.

OMELIA I

[Mons. G. Bonomelli, Omelie, vol. I, Marietti ed., 1899 , Omelia XIX].

“Come eletti di Dio, santi e bene amati, vestite viscere di misericordia, benignità, umiltà, mitezza, pazienza, sopportandovi gli uni gli altri e perdonando, se alcuno ha querela contro di un altro; come il Signore ha perdonato a voi, voi pure così. Ma più di tutto vestite la carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo, alla quale foste chiamati in un sol corpo, regni nei vostri cuori e siate riconoscenti. La  parola di Cristo abiti riccamente in voi con ogni sapienza, istruendovi ed ammonendovi tra voi con salmi ed inni e cantici spirituali, cantando con la grazia nei cuori vostri a Dio. Quanto fate in parole ed opere, tutto fate nel nome del Signore Gesù Cristo, rendendo grazie a Dio Padre per lui „ .

S. Paolo due volte fu sostenuto in carcere: la prima in Cesarea di Palestina e la seconda in Roma. La prigionia, che sostenne in Cesarea di Palestina avvenne dal 63 al 66 dell’era volgare, e secondo ogni verosimiglianza di là scrisse la lettera ai fedeli di Colossi, città dell’Asia Minore. Dal capo terzo di questa lettera sono presi i sei versetti, che vi ho recitati e che versano interamente sulla materia morale. Nulla di più semplice e più pratico e insieme più degno delle nostre considerazioni. – “Come eletti di Dio, santi e bene amati, vestite viscere di misericordia, benignità, umiltà, mitezza e pazienza. „ S. Paolo, rivolgendosi ai suoi cari figliuoli, li chiama eletti di Dio, cioè da Dio in special maniera eletti e preferiti a tanti altri nel ricevere la grazia della fede. Quanti allora erano ancora sepolti nelle tenebre della superstizione pagana ed essi, i fedeli di Colossi, erano illuminati dalla luce della verità evangelica! Donde questa differenza ? Era la bontà di Dio, che li aveva eletti prima e chiamati, e a cui essi con la grazia avevano corrisposto. Erano eletti e chiamati ad essere santi. Non vi sia grave ponderare per un istante la natura ed il pregio altissimo di questa elezione, di cui parla S. Paolo. Chi fa un atto qualunque deve anzi tutto pensare la cosa che vuol fare: poi delibera con la volontà di farla e poi allora la fa. Dio vuole salvi gli uomini e necessariamente prima pensa a loro, poi vuole fornire loro il mezzo perché si possano salvare e finalmente lo dà ed è la grazia, o meglio quella serie di grazie, che sono necessarie. Nell’opera adunque della nostra salvezza dal lato di Dio il primo atto è di fissare sopra di noi il suo pensiero, e il secondo atto la sua volontà, che decreta la grazia. Ora vi domando qual cosa da parte nostra poteva muovere la mente e la volontà di Dio a chiamarci a sé e largirci la sua grazia? Noi non eravamo ancora e Dio da tutta l’eternità fissava sopra di noi il suo sguardo pietoso e ci amava: noi non avevamo fatto, né potevamo fare un atto solo, che precedesse la sua grazia, perché per farlo si richiedeva che Dio ci desse prima la grazia. Può forse il campo produrre la messe se prima non è seminato, o l’occhio vedere se la luce non lo rischiara? La nostra elezione e vocazione adunque, di cui parla S. Paolo, è dono, puro dono di Dio, senza merito dal canto nostro. – Più volte S. Paolo chiama santi i fedeli, ancorché sia bene da supporre che non tutti fossero veramente santi: li chiama santi, perché rigenerati col Battesimo, perché discepoli di Lui, che è il Santo per eccellenza, perché il fine della loro vocazione, a cui devono essere rivolti tutti i loro sforzi, è la santità. Vedete, o carissimi, altezza e sublimità della nostra professione di Cristiani: dobbiamo essere santi, cioè sciolti da ogni disordinato affetto alle cose di quaggiù e interamente dedicati al servizio di Dio. Voi siete eletti, santi, dice S. Paolo, e aggiunge, bene amati, ossia cari a Dio, come figli. Qual gioia per noi poter dire: Io sono amato da Dio! Io sono caro a Lui, come un figlio ad un padre! Agli eletti di Dio, ai santi, ai bene amati si conviene, prosegue l’Apostolo, “vestire viscere di misericordia, di benignità, di umiltà, di mitezza, di pazienza : „ cioè, come Cristiani, dobbiamo, a somiglianza di Dio e di Gesù Cristo, nostro capo, essere pieni di compassione e carità verso ogni maniera di sofferenti: dobbiamo mostrarci, non duri, austeri, rozzi, ma facili e piacevoli con tutti, e saremo tali se umili di cuore, perchè l’umiltà è la madre della benignità, della mitezza e della pazienza, che qui propriamente significa longanimità, quella pazienza cioè che non si stanca mai ed è sempre benevola e soave. E come mostreremo noi queste virtù, che tra loro si legano si strettamente? “Con il sopportarci, dice l’Apostolo, gli uni gli altri e perdonarci, se alcuno ha querela verso di un altro. „ Non vi è uomo, per quanto sia virtuoso, che non abbia difetti. Noi, per necessità di natura, dobbiamo vivere insieme, in famiglia, in società, in contatto più o meno continuo. Ora come vivere insieme se a vicenda non tolleriamo i nostri difetti e non ci condoniamo le offese, che talvolta, anche senza volerlo, ci facciamo gli uni gli altri? Se non ci sopportiamo scambievolmente e non ci condoniamo i nostri torti, la vita sarebbe insopportabile e saremmo in continua guerra tra di noi stessi. E come sopportarci e perdonarci gli uni gli altri? Ecco il modello sovrano, grida S. Paolo, Gesù Cristo: “Come il Signore vi ha perdonato, voi pure così.  – Gesù Cristo, l’Uomo-Dio, fu e sarà sempre l’eterno esemplare, su cui gli uomini dovranno tener sempre fermi gli occhi della fede, per ritrarne in sé le ineffabili perfezioni. Qualunque virtù si deve misurare dalla sua somiglianza con Gesù Cristo, e tanto essa è più alta quanto maggiormente s’avvicina a questo impareggiabile modello. E perciò l’Apostolo in tutte le sue lettere ha cura di mettercelo innanzi sotto tutte le forme, e qui ci inculca: “Come il Signore ha perdonato a voi, così pur voi. „ Egli perdonò ai suoi nemici, ai suoi stessi crocifissori fino a pregare per loro in croce ed a morire per essi: e noi, suoi figli, noi miserabili creature e poveri peccatori saremo restii a perdonare ai nostri offensori? E impossibile. Sempre fermo in inculcare la virtù, regina di tutte le altre, l’Apostolo continua e dice: “Ma soprattutto vestite la carità, siate ripieni di carità, che è il vincolo della perfezione. „ Come l’anima avviva il nostro corpo tutto, ne lega insieme le varie membra, dà loro moto e forza, così la carità dà vita, moto e forza a tutte le altre virtù e unisce insieme e mirabilmente armonizza le famiglie e la società civile. Frutto prezioso della carità sarà ” la pace di Cristo, alla quale foste chiamati in un sol corpo, e che regnerà ne’ vostri cuori. „ La pace, non la pace ingannevole del mondo, la pace vera, quella pace che Cristo ha portato sulla terra, quella pace, a cui tutti ci chiama, facendoci membri della sua Chiesa, regni tranquilla nei nostri cuori e di là si spanda al di fuori e informi tutte le nostre parole e tutti gli atti nostri. Qual tesoro è questa pace, questa tranquillità dello spirito e del cuore, che si possiede anche in mezzo alle tempeste della vita! Di tanto beneficio siamone grati a Lui, che ce lo dà, Gesù Cristo! ” La parola di Cristo abiti riccamente in voi, con ogni sapienza. „ La parola di Cristo, che è quanto dire, la dottrina, il Vangelo di Gesù Cristo, che avete ricevuto mercé della parola o della predicazione, rimanga nelle anime vostre, vi ricolmi della vera sapienza in tutta la sua pienezza. Comprendete, o cari, l’insegnamento di S. Paolo? Egli vuole che non solo ascoltiamo la parola del Vangelo, ma che abiti, rimanga in noi, e rimanga in gran copia e sia così la luce che scorge i nostri passi sulla via della virtù e regoli i nostri pensieri ed affetti. E gioverà a conservare in voi ed accrescere il conoscimento del Vangelo “se vi istruirete ed ammonirete a vicenda con salmi ed inni e cantici spirituali, „ soggiunge l’Apostolo. Da queste parole di S. Paolo chiaramente rileviamo, che anche nella primitiva Chiesa era comune l’uso di cantar salmi ed inni sacri nelle radunanze de’ fedeli. In tal modo rinfrescavano nella memoria le verità della fede e viemaggiormente le apprendevano e ne penetravano il senso. Il canto, come il riso, è naturale all’uomo. Allorché egli conosce chiaramente la verità e il cuor s’infiamma al pensiero della grandezza, della bontà di Dio e de’ suoi benefici, quasi inconsciamente scioglie la lingua al canto, loda, benedice, ringrazia ed esalta il suo Dio. L’anima allora è come un incensiere, da cui s’innalza verso il cielo un soave profumo; è come un fiore, che dischiude il suo calice, spande le sue foglie, e sotto i raggi del sole diffonde d’ogni intorno la sua fragranza. Il canto sacro nella Chiesa non solo è un bisogno che l’anima sente di aprirsi e sfogare l’affetto interno, ma giova assai ad avvivarlo in sé ed in altri e ad accrescerne la fiamma. – Allorché un popolo insieme raccolto fa risuonare de’ suoi cantici le vòlte del tempio, confondendosi con le armonie dell’ organo, il mio cuore si commuove, il mio spirito si esalta, l’anima mia s’innalza fino a Dio, una santa e dolce ebbrezza mi invade e gusto una gioia, che non è terrena, ma celeste. S. Agostino, udendo a Milano i salmi cantati dal popolo, si struggeva in lagrime soavissime ed esclamava: Come è dolce il Signore con quelli che lo amano! – Siamo all’ultimo versetto della nostra epistola: “Quanto fate, in parole ed in opere, tutto fate nel nome del Signore Gesù Cristo rendendo grazie a Dio Padre per Lui. „ Chi può mai conoscere e ricordare tutte le opere e tutte le parole, tutti i pensieri e tutti gli affetti d’una persona qualunque in un solo giorno! Sono senza numero. Poniamo che nulla vi sia di riprensibile e che tutto sia buono od almeno indifferente. Il pregio di tutte queste opere e parole, di tutti questi pensieri ed affetti dipende per la massima parte dall’intenzione nostra: se questa è volta sempre a Dio, con essa e per essa tutto è fatto ad onore di Dio ed acquista un valore speciale, e l’intera nostra vita è un’offerta, un inno incessante, che innalziamo a Dio. Perché dunque non seguiremo il precetto o consiglio dell’Apostolo e non offriremo a Dio tutte le parole ed opere nostre? Direte: Ci torna quasi impossibile far questo in mezzo alle mille nostre occupazioni e distrazioni. E vi torna forse impossibile, al mattino, allorché recitate le vostre orazioni, con la intenzione abbracciare tutte le parole ed opere del giorno e farne a Dio l’anticipata offerta? No, certo. Ebbene questa offerta del mattino è bastevole e conferisce a tutte le opere e parole vostre anche indifferenti e senzaché poi vi poniate mente, il merito dell’intenzione, come se questa la faceste ad ogni istante. Sia che lavoriate nei campi o nelle botteghe, sia che discorriate o passeggiate, sia che mangiate o beviate, sia che riposiate e vi sollazziate, tutto è fatto a gloria di Dio e tutto è meritevole dinanzi a Lui. Su dunque, o carissimi: all’aprirsi del giorno, allorché fate la vostra preghiera del mattino, dite con la lingua e più con il cuore: Signor mio, ecco ch’io sto per incominciare questo nuovo giorno, che mi accordate. Ebbene: tutto, ciò che farò o dirò: tutto ciò che penserò o soffrirò, fin da questo momento lo offro a voi unitamente alle parole ed alle opere che Gesù Cristo compì nei giorni di sua vita mortale. — Come il sole, nel suo primo spuntare sull’orizzonte inonda di luce e vagamente colora tutti gli oggetti, così la vostra intenzione del mattino abbellisce e santifica tutte le parole ed opere dell’intera giornata. E poi perché anche lungo la giornata, in mezzo ai vostri lavori della officina o del campo, non potete a quando a quando sollevare la mente e il cuore a Dio e rinnovare la vostra offerta? Vi troverete un conforto, un ravvivamento di fede, una novella energia. Il pensiero di Dio è come una scintilla elettrica, che spande la luce e il calore nell’anima, è un tepido soffio che accarezza un fiore e ne dilata il calice e ne diffonde la fragranza. Sì, spesso la mente e il cuore a Dio, dilettissimi, e la via della virtù sarà facile e bella.

Graduale


Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.
Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.

V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula. Allelúja, allelúja
.
[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno. Allelúia, allelúia.]

Ps: CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium


Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt XIII: 24-30
In illo témpore: Dixit Jesus turbis parábolam hanc: Símile factum est regnum cœlórum hómini, qui seminávit bonum semen in agro suo. Cum autem dormírent hómines, venit inimícus ejus, et superseminávit zizánia in médio trítici, et ábiit. Cum autem crevísset herba et fructum fecísset, tunc apparuérunt et zizánia. Accedéntes autem servi patrisfamílias, dixérunt ei: Dómine, nonne bonum semen seminásti in agro tuo? Unde ergo habet zizánia? Et ait illis: Inimícus homo hoc fecit. Servi autem dixérunt ei: Vis, imus, et collígimus ea? Et ait: Non: ne forte colligéntes zizánia eradicétis simul cum eis et tríticum. Sínite utráque créscere usque ad messem, et in témpore messis dicam messóribus: Collígite primum zizáania, et alligáte ea in fascículos ad comburéndum, tríticum autem congregáta in hórreum meum.

OMELIA II

[G. Bonomelli, Omelie, ut supra – Omelia XX.]

“Gesù disse questa parabola: Il regno dei cieli è simile ad un uomo, che seminò seme buono nel suo campo. Ma mentre gli uomini dormivano, venne il suo nemico e soprasseminò zizzania nel mezzo del grano e se ne andò. E quando l’erba fu nata ed ebbe fatto frutto, apparvero anche le zizzanie. E i servi del padre di famiglia vennero a lui e gli dissero: Padrone, non seminasti tu buona semenza nel campo? Donde adunque le zizzanie? Ed egli disse loro: Un qualche nemico ha fatto ciò. Ed essi a lui: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? Ma egli disse: No! perché talora, raccogliendo le zizzanie, insieme con esse non abbiate a svellere anche il grano. Lasciate crescere insieme le une e l’altro fino alla mietitura, e allora dirò ai mietitori: Raccogliete prima le zizzanie e legatele in fasci per bruciarle: il grano poi riponete nel mio granaio „ . E questa una delle più belle e più semplici parabole, che si incontrino nel Vangelo e che Gesù Cristo si degnò di spiegare partitamente. La voce “parabola,, per sé, significa quella curva, che un corpo grave, gettato in alto, descrive nel cadere: e poiché nel gettare un corpo vi è l’idea d’una cosa che si avvicina ad un’altra, ne venne l’uso di significare con la voce parabola la similitudine, che la nostra mente scopre tra un fatto e una dottrina, onde la parabola non è altro che un fatto verosimile, che serve a farci conoscere la verità, con la quale ha una somiglianza o affinità facile a rilevarsi. È una maniera di istruire, massime il popolo, piana ed efficacissima, vestendo la verità di forme sensibili e così imprimendola profondamente nell’anima. L’uso di queste parabole è frequentissimo, particolarmente nel Vangelo di S. Matteo, e danno all’insegnamento di Gesù Cristo un’aria di semplicità e di candore singolare, un’attrattiva amabile e meravigliosa, che non si trova in nessun altro libro né antico, né moderno. — Ma è da venire alla spiegazione della parabola, quale abbiamo dalla bocca stessa del Salvatore. “Il regno de’ cieli è simile ad un uomo che seminò seme buono nel suo campo. „ Quelle parole: Il regno dei cieli possono significare ora il cielo, la vita futura, ora la Chiesa, ora il regno della grazia in ciascuno di noi; qui vogliono semplicemente dire: Avviene nel regno dei cieli come in un campo che si semina. In questa parabola abbiamo colui, che semina, il campo seminato, il seme buono, le zizzanie, l’uomo nemico, che soprassemina, i mietitori, la mietitura, il granaio. Colui che semina è Gesù Cristo, il campo seminato è il mondo: il seme buono sono i buoni, le zizzanie sono i cattivi: l’uomo nemico è il diavolo, i mietitori sono gli Angeli, la mietitura è la fine del mondo e il granaio evidentemente è il cielo, ancorché questo Gesù Cristo non lo dica in termini. E questa l’applicazione fattane dal Salvatore istesso, richiestone dagli Apostoli. La parabola è in compendio la storia dell’umanità dalla sua origine, possiam dire, fino alla fine dei secoli. Ora spieghiamola nelle singole sue parti. – “Un uomo seminò seme buono nel suo campo. „ Iddio creò il mondo, e poiché l’ebbe convenientemente preparato, creò l’uomo e formò la donna e ve li introdusse, come si introducono i sovrani nella loro reggia. È questo il buon seme che il padrone ha seminato nel suo campo e che doveva coprirlo di copiosa messe. La prima coppia umana era adorna della grazia e d’ogni dono più eccellente, grazia e doni che dovevano trasmettersi ai loro figli. Che avvenne? “Mentrechè gli uomini dormivano, venne il nemico di lui e soprasseminò zizzania nel mezzo del grano e se ne andò. „ Come si intende questo dormire degli uomini? Si sa che talvolta certe parti d’una parabola possono anche considerarsi aggiunte come ornamento e non è necessario applicarle nella spiegazione: tale potrebb’essere quella particolarità del ” mentrechè dormivano gli uomini.„ Del resto nulla vieta il dire che la caduta dei primi nostri padri fu cagionata dalla loro trascuratezza colpevole, con cui si lasciarono ingannare dall’uomo nemico, dal demonio, che sparse in loro e nei loro figli il mal seme del peccato. Da quel dì fino alla consumazione dei tempi il buon grano è mescolato alle zizzanie, i buoni sono frammisti ai cattivi. – Ciò che qui la parabola vuol far notare in particolar maniera si è che la comparsa del male sulla terra, l’origine del peccato, non vuolsi attribuire a Dio, ma al demonio, al nemico suo e nostro, primo artefice d’ogni nostro male, che è punto capitale di nostra fede. Dio creò l’uomo buono, il demonio lo fece diventare cattivo: ecco la spiegazione del nemico che soprassemina le zizzanie nel buon grano. Proseguiamo. ” Quando fu nata l’erba ed ebbe fatto il frutto, allora apparvero anche le zizzanie, „ cioè allorché il grano cominciò a mettere la spiga, allora si videro anche le zizzanie (La parola zizzania è ignota ai latini e sembra d’origine araba. I latini dicevano lolium e noi italiani loglio), che vengono dopo, ma spesso soverchiano il grano. Una osservazione semplicissima, o cari. Il buon grano non nasce mai nel campo se non vi è sparso dalla mano dell’uomo, né cresce e vigoreggia se da lui non è coltivato; doveché le male erbe attecchiscono e largamente si abbarbicano senza l’opera dell’uomo, anzi malgrado l’opera sua. Così la grazia, la fede, la virtù non germoglia nel cuore dell’uomo se non ve la semina Iddio; mentreché le passioni ed il peccato vi germinano da se stesse. “I servi del padre di famiglia vennero a lui, dicendo: Non seminasti tu buona semenza nel campo? Donde dunque le zizzanie? „ Manifestamente questi servi, che vanno dal padrone e gli narrano delle zizzanie cresciute in mezzo al grano, sono messi nella parabola per dare maggior colorito ed accrescere la forza drammatica, giacché il padrone del campo, che è Dio stesso, non aveva bisogno che altri gli narrasse la cosa. “Ed egli disse loro: Ciò ha fatto un uomo nemico; ed essi a lui: Vuoi dunque, che andiamo a raccoglierla? Ma egli disse: No, perché potrebbe essere, che, sterpando le zizzanie, aveste a svellere il grano. „ In queste ultime parole si contiene il succo sostanziale, l’insegnamento principale della parabola, e perciò è prezzo dell’opera fermarvicisi sopra alquanto. – Il frumento e le zizzanie crescono nello stesso terreno e le radici loro si intrecciano per guisa, che è quasi impossibile diradicare quelle delle zizzanie senza toccare e rompere quelle del buon grano, e perciò il padrone vuole che ogni cosa si lasci al suo luogo. Ponete mente per altro che non risparmia le zizzanie per se stesse, ma unicamente per riguardo al grano, tantoché quelle sono salve fino alla mietitura in grazia del grano istesso. Le zizzanie, come dicemmo, adombrano i cattivi, il grano raffigura i buoni: qui è manifesto, essere volere di Dio, che nella vita presente i buoni vivano misti ai cattivi (1). È questo un fatto, che abbiamo continuamente sotto gli occhi, di cui i buoni si lagnano spesso e talora quasi si scandalizzano. Una delle maggiori pene dei buoni quaggiù è la compagnia dei tristi; è il vedere e l’udire le opere loro malvagie e subirne troppo spesso la tirannia in famiglia o nella società. Perché dunque Iddio, che è buono e onnipotente, ha disposto e vuole questo stato dì cose sì doloroso per i buoni? Perché vuole che le zizzanie crescano insieme col grano e vieta di sbarbicar quelle? È vero, la compagnia dei tristi può recare gravi danni ai buoni, pervertendoli nella fede e nei costumi, ma, considerata ogni cosa, i beni che ne vengono superano i mali, e perciò sapientemente Iddio volle che le cose fossero come sono. Anzi tutto Iddio vuol salvi tutti gli uomini, anche i più perduti peccatori; e come ne va preparando la conversione e la salvezza? Uno dei mezzi più efficaci è la compagnia dei buoni, i quali con la parola e con l’esempio e con tanti altri modi li ammaestrano, li correggono e li convertono. I cattivi talvolta depravano alcuni buoni, ma sono sempre i buoni che riducono a penitenza i cattivi. È S. Ambrogio che guadagna Agostino, è santa Monica che converte Patrizio, suo marito, è quella povera sposa, che a forza di pazienza riconduce a Dio lo sposo infedele, è quella madre desolata che con le attrattive della tenerezza richiama sulla buona via quel figliuolo scostumato. Ecco perché Dio vuole che accanto al malvagio viva il giusto: per conquistare quello mercé l’opera di questo. Il frumento non ha virtù di mutare la zizzania in grano, ma il virtuoso può, mercé la grazia divina, trasformare il perverso in un santo. – Non è tutto: la virtù trova il suo alimento nel patire; la cote affila il ferro e il patimento nutre e affina la virtù. La compagnia de’ malvagi è per i buoni una occasione continua di patire e per conseguenza un continuo esercizio di pazienza e di carità e, aggiungo, di meriti. Se non vi fossero stati i tiranni, dove sarebbero i martiri? Se non vi fossero le guerre, dove sarebbe il valore dei soldati? Se sulla terra gli Uomini fossero tutti credenti e virtuosi, la terra sarebbe un paradiso: nessuna o poca fatica costerebbe la virtù e ben piccolo sarebbe il merito di praticarla. Infine la vista e la compagnia dei malvagi ci fa conoscere la nostra miseria e ci tiene umili, ci obbliga a stare in guardia ed usare prudenza, ci fa sentire il bisogno di ricorrere a Dio, ci rende inchinevoli al perdono e ci fa esercitare la regina di tutte le virtù, la carità. Ah! se sulla terra non vi fossero i cattivi, i buoni correrebbero altri pericoli, e non senza una profonda ragione Gesù Cristo disse: “No, non vogliate raccogliere le zizzanie: lasciate che crescano insieme le zizzanie e il grano fino alla mietitura. „ Tolleriamo adunque, o cari, la compagnia de’ malvagi, vediamo di ricondurli a Dio, soffriamo con pazienza le molestie che ci recano e preghiamo per essi. Ma dunque i malvagi rimarranno impuniti? Sarà eguale la sorte de’ buoni e de’ cattivi? Udite la sentenza di nostro Signore: “Al tempo della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima le zizzanie elegatele in fasci per bruciarle: il grano poi riponete nel mio granaio. „ Così avrà luogo, alla fine dei tempi, la separazione assoluta ed irrevocabile dei buoni e dei cattivi: questi, a guisa di erbe, di sarmenti, di zizzanie buone a nulla, saranno gettati ad ardere nel fuoco eterno, e quelli, a guisa di buon grano, raccolti nel granaio, collocati per sempre in cielo. Figliuoli carissimi! per necessità delle cose e per volere divino ora siamo obbligati a vivere quaggiù in terra mescolati insieme buoni e cattivi; se siamo buoni, studiamoci di conservarci tali e adoperiamoci, come meglio possiamo, di tirare a noi i cattivi e guadagnarli a Dio; se siamo cattivi, non c’è tempo da perdere, mutiamoci di zizzanie in buon grano, affine di sfuggire il fuoco eterno edi essere un giorno raccolti in cielo.

(1) Certamente nostro Signore con questa parabola non volle insegnare che i cattivi si debbano trattare come i buoni ed abbiano eguali diritti. In tal caso avrebbe insegnato che i ladri, gli assassini, gli omicidi e via dicendo non si debbano levare di mezzo alla società e punire, che è cosa assurda. Gesù Cristo, se male non veggo, volle dire, che nello stato presente vi saranno sempre nel mondo ed anche nella Chiesa uomini cattivi, che non si possono eliminare dal corpo sociale, coi quali bisogna avere e verso de’ quali bisogna usare tolleranza, dirò meglio, carità fraterna.

Offertorium

Ps CXXIX:1-2

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine. [Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta


Hóstias tibi, Dómine, placatiónis offérimus: ut et delícta nostra miserátus absólvas, et nutántia corda tu dírigas. [Ti offriamo, o Signore, ostie di propiziazione, affinché, mosso a pietà, perdoni i nostri peccati e diriga i nostri incerti cuori.]

Communio


Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.[ In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio

Quǽsumus, omnípotens Deus: ut illíus salutáris capiámus efféctum, cujus per hæc mystéria pignus accépimus. [Ti preghiamo, onnipotente Iddio: affinché otteniamo l’effetto di quella salvezza, della quale, per mezzo di questi misteri, abbiamo ricevuto il pegno.]

ISTRUZIONI INTORNO ALL’ARCICONFRATERNITA DEL SS. ED IMMACOLATO CUORE DI MARIA

 ISTRUZIONI INTORNO ALL’ARCICONFRATERNITA DEL SS. ED IMMACOLATO CUORE DI MARIA.

[C.E. Dufriche Desgenettes: Notizie storiche e istruzioni intorno all’Arciconfraternita del SS. ed Immacolato Cuore di Maria per la conversione dei peccatori ridotte in compendio scritte dal sig. Dufriche Desgenettes – Tip. G. M. Campolmi, 1850]

PARTE SECONDA.

CAPO PRIMO.

BREVE APOSTOLICO

GREGORIO PAPA XVI

A perpetua memoria.

Posti nella Cattedra eccelsa del Principe degli Apostoli non certamente per alcun nostro merito, ma per arcano Consiglio della provvidenza divina e perciò stando in grande pensiero su tutta la greggia del Signore, siamo usati di accogliere con singolare benignità le pie suppliche di Coloro i quali hanno principalmente in mira che i fedeli di Cristo ognora più saldi e fondati nella Fede, e accesi d’amore per la pietà e la religione, camminino nelle vie del Signore, e ne osservino diligcntemente e con venerazione i precetti, Grande certamente fu il gaudio del paterno nostro cuore in sentire che il diletto figlio Carlo Eleonoro Dufriche-Desgenettes Sacerdote Parroco della Chìesà della B. Vergine Maria, delta delle Vittorie, volgarmente Les Petits-Pères della città di Parigi io Francia con Autorità del Venerabile fratello l’Arcivescovo’ di Parigi istituì nella Chiesa parrocchiale una Congregazione ad onore del Santissimo ed Immacolato Cuore della B. V. Maria per la conversione dei peccatori, insieme con gli statuti e le leggi approvate, come dicesi dallo stesso venenerabil fratello, e che da siffatta istituzione non leggieri beni ridondarono a spirituale utilità dei fedeli. Il perché lo stesso diletto figliuolo Carlo-Eleonoro Dufriche-Desgenettes, Sacerdote pastore dell’anime della mentovata Chiesa, con calde suppliche ne fece istanza, di volere onorare, questa Congregazione col titolo e con i diritti di Arciconfraternita, e di volerla arricchire d’alcune indulgenze, perché vada ogni di più accrescendosi, la pietà dei Fedeli. Noi pertanto, ai quali .nulla può stare più a cuore, che il procurare con ogni aiuto ed industria l’eterna salvezza dei Fedeli di Cristo e dilatare il culto della Vergine Madre: di Dio, la quale come Regina che siede a destra di Dio in dorato vestimento e circondata di varietà, nulla è che non possa da Lui impetrare, e la quale è sì pronto e saldo sostegno dalla cattolica Chiesa, e fedelissima speranza nostra, abbiamo giudicato di dover più che volentieri secondare siffatte brame. Che però a crescere, splendore a quella Congregazione quanto possiamo nel Signore, a tutti e a ciascuno di coloro che da queste lettere sono favoriti, usar volendo particolare beneficenza, e da qualsivoglia censura o pena di scomunica e d’interdetto, e da altre censure e pene ecclesiastiche; inflitte in qualunque modo e per qualunque cagione, se mai alcune ne avessero incorse, a contemplazione di ciò solo, assolvendoli, e tenendoli per assoluti, con nostra autorità Apostolica decoriamo con queste lettere in perpetuo del titolo di Arciconfraternita (Arciconfraternita vuol dire Confraternita Madre. L’Aggregazione che porti questo titolo ha il diritto d’iscrivere, di aggregare delle particolari Unioni, purché elle s’abbiano lo stesso fine di farle partecipi di tutte le grazie e favori che le sono stati personalmente, direm cosi accordati. Questa pie unioni, aggregate che siano, divengono e si rimangono membra dell’ Arciconfraternita),  la Congregazione in onore del Santissimo ed Immacolato Cuore; della B. Vergine per la conversione dei peccatori cogli statuti e colle leggi del venerabile fratello l’Arcivescovo di Parigi, come ne viene asserito, approvate o da approvarsi’, nella chiesa Parrocchiale della B. Vergine Maria delle Vittorie, volgarmente les Petits-Pères della città di Parigi in Francia, nei debiti modi già istituita. Le concediamo perciò e le accordiamo di buon grado tutti e singoli i diritti, i privilegi, gli onori e gl’indulti da chiamarci con qualunque nome, dei quali per costumanza e consuetudine usano e godono le altre Congregazioni Primarie, e possono e potranno usare e godere. – Inoltre colla medesima nostra Autorità Apostolica concediamo e accordiamo misericordiosamente nel Signore a ciascun confratello e a ciascuna consorella della mentovata Arciconfraternita veramente pentiti; confessati e comunicati la plenaria indulgenza e remissione di tutti i loro peccati, il giorno che saranno stati in essa aggregati. Concediamo parimente ai medesimi in articolo di morte indulgenza plenaria, qualunque volta veramente pentiti o confessati riceveranno il SS. Sacramento dell’Eucaristia, e ciò non potendo fare, invocheranno colla bocca o almeno col cuore il Nome; SS. di Gesù. – Accordiamo ancora indulgenza plenaria agli stessi confratelli e alle stesse consorelle; che la domenica di ciascun anno la quale precede immediatamente la domenica diSettuagesima, del pari che nelle feste della Circoncisione del Signore, e della Purificazione, e dell’Annunciazione, della Natività, dell’Assunzione, della Concezione della B. V. Maria, e dei Dolori di Lei; e della Conversione del B. Paolo Ap. e di S. Maria Maddalena, fatta la confessione sacramentale, si accosteranno alla santa Comunione. Concediamo altresì plenaria indulgenza a ciascuno dei confratelli e a ciascuna delle consorelle di quell’Arciconfraternita, i quali reciteranno devotamente ogni giorno la Salutazione Angelica per la conversione dei peccatori, da guadagnarsi il giorno anniversario del loro battesimo, purché si siano confessati e comunicati. Inoltre tanto ai predetti confratelli e consorelle, come agli altri che assistono devotamente alle Messe che si celebrano ogni sabato in onore del SS. Cuore di Maria nell’oratorio o nella Chiesa della medesima Congregazione Primaria, e quivi pregano per la conversione de peccatori, rimettiamo cinquecento giorni delle penitenze loro imposte o in qualsivoglia altro modo loro dovute, nella forma consueta della Chiesa. Finalmente ai direttori della stessa Arciconfraternita, con la medesima nostra autorità diamo por sempre facoltà, in forza della quale possono liberamente e lecitamente ascrivere e aggregare alla mentovata Arciconfraternita tutte le altre Congregazioni del medesimo nome ed istituto erette dovunque fuori della città osservando per altro la forma della costituzione emanata dalla felice, memoria di Clemente. VIII nostro predecessore, e comunicare con quelle tutte e singole le indulgenze, le remissioni de’ peccati, e le condonazioni delle penitenze di cui si è fatta menzione Queste cose concediamo e accordiamo facendo decreto che queste lettere siano e sempre debbano esser ferme, valide ed efficaci, e sortire e ottenere i loro pieni ed interi effetti, e favorirli pienissimamente in tutto e per tutto, che cosi si debba nelle anzidette cose giudicare, definire da tutti i giudici ordinari o delegati anche dagli uditori del palazzo apostolico, dai nunzi della Sede Apostolica, e dai Cardinali, di S. R. C., anche Legati a latere, tolta loro e a qualunque di loro qualsivoglia facoltà o autorità, di giudicare e d’interpretare altrimenti, e decretando che sia nulla e vana se alcuna, cosa sopra di ciò da qualcheduno con qualunque autorità con saputa o per ignoranza avverrà che si attenti in contrario. Non ostante le costituzioni e le sanzioni apostoliche, e ancora quando fosse bisogno gli statuti e le consuetudini della stessa Congregazione anche afforzate da giuramento da confermazione apostolica o da qualunque altra convalidazione, e quant’altro potesse esservi contrario.

Dato in Roma presso S. Pietro sotto l’anello del pescatore, li 24 Aprile 1833 l’anno ottavo del nostro pontificato.

E . CARD., DE GREGORIO.

Luogo del Sigillo dell’anello del pescatore.

INDULGENZE CONCESSE ALLA CONGREGAZIONE DEL SANTISSIMO ED IMMACOLATO CUOR DI MARIA.

Il regnante Sommo, Pontefice Gregorio XVI, nell’ approvare la Congregazione del SS. ed Immacolato Cuor di Maria, che ha per scopo la conversione de1 peccatori, con suo Breve 24 aprile 1838, ha concesse le seguenti Indulgenze, le quali si possono lucrare dai fedeli, che saranno ascritti alla detta Congregazione canonicamente eretta in qualsivoglia Chiesa, od Oratorio, ed aggregata alla Congregazione Primaria stabilita in Parigi nella Chiesa Parrocchiale di nostra Signora delle Vittorie.

I. Indulgenza Plenaria nel giorno, in cui i fedeli confessati e comunicati si ascrivono alla Congregazione.

2. Indulgenza Plenaria in articolo di morte per quelli che, veramente pentiti riceveranno i santi Sacramenti; o invocheranno almeno col cuore se non possono colla bocca il Nome SS. di Gesù.

3. Indulgenza Plenaria nella Domenica che immediatamente precede la Settuagesima come pure nelle feste della Circoncisione del Signore, della Purificazione, dell’Annunciazione, dell’Assunzione, della Concezione e dei Dolori della Vergine, della Conversione di S. Paolo Apostolo, e di S. Maria Maddalena.

4. Indulgenza Plenaria recitando la Salutazione Angelica ogni giorno per la Conversione dei peccatori da lucrarsi nel giorno anniversario del proprio Battesimo.

5. indulgenza di giorni 500., assistendo alla Messa solita celebrarsi, alle ore 9, ogni Sabato ad onore del Cuore Immacolato di Maria nella Chiesa od Oratorio della Congregazione, pregando ivi per la Conversione dei peccatori.

Per l’acquisto delle suddette Indulgenze Plenarie bisogna confessarsi e comunicarsi, e pregare secondo l’intenzione della S. Chiesa. Non é pero necessario che ciò si faccia nella Chiesa, od Oratorio della Congregazione.

ALTRE INDULGENZE ULTIMAMENTE ACCORDATE DAL S. PADRE NELL’UDIENZA DEL 4 FEBBRAIO 1841.

Sua Santità il Sommo Pontefice Gregorio XVI. accordò benignamente ad istanza. degli aggregati dell’Arciconfraternita un’Indulgenza Plenaria applicabile in suffragio de fedeli defunti da lucrarsi da ciaschedun confratello due volte il mese nel giorno, che gli piacerà scegliere, purché veramente contrito, confessato, è comunicato visiti devotamente una Chiesa, od Oratorio pubblico, e vi preghi secondol’intenzione di Sua Santità; e questa Indulgenza estesa pare agli Aggregati, a cui per malattia o per qualunque altro caso fosse impossibile il recarsi alla chiesa, purché ricevano i SS. Sacramenti, e adempiano invece quegli atti di pietà, che il confessore avrà loro imposti. Questa Indulgenza fu concessa alla Congregazione in perpetuo benché non espressa in forma di Breve.

Dato in Roma dalla Segreteria della S. Congregazione delle Indulgenze il 4febbraio 1841.

Segnato C. Cardinale CASTRACANE Prefetto,

A- PRIMAVALLE, Sostituto del Cancelliere.

Stato per l’esecuzìone: Dionisio Arcivescovo di Parigi 31 maggio 1841.

Per mandato: Goujou Canonico Onorario, Pro-Segretario.

C A P O II.

STATUTI DELL’ ARCICONFRATERNITA

I. Ad onore dell’ immacolato Cuore della Vergine SS., per ottenere con i suoi meriti la conversione dei peccatori, varie preghiere soglionsi recitare nella Chiesa Parrocchiale di Nostra Signora delle Vittorie a Parigi.

II. Tutti i Cattolici, di qualunque età, sesso o condizione essi siano, sono invitati ad associarvisi. Non altro da loro si richiede, che lo zelo della gloria di Dio, della salute dei loro fratelli, e un santo desiderio d’imitare, secondo il proprio stato, le virtù, di cui Maria SS. ci ha lasciati esempi sì ammirabili.

III. Tutti i congregati, per partecipare delle sante indulgenze, dovranno dare, il loro nome e cognome da scriversi nel registro dell’Associazione, e così verranno ammessi mediante la segnatura del Direttore. Nel tempo stesso sarà loro dato la Medaglia dell’Immacolata Concezione, detta, volgarmente la Medaglia Miracolosa., arricchita delle indulgenze. Si ricordino però di recitare a quando a quando la breve preghiera impressavi sopra; O Maria concepita senza peccato pregate per noi che a Voi ricorriamo.

IV. Il Parroco di Nostra Signora delle Vittorie sarà in perpetuo il Direttore dell’Associazione. E però egli ammette e inscrive nel registro le persone che entrano nella medesima, ne sottoscrive la patente di ammissione, ed è il custode del registro. Elegge, se così stima, un Vice-direttore tra i Sacerdoti del clero della Parrocchia per fare quando che sia le sue veci, e supplire in tutto ciò che appartiene all’Associazione. È in suo potere il sostituirne un altro quando gli piaccia.

V. Ogni, associato il dì della sua Associazione è invitato a contribuire con una volontaria offerta per le spese della medesima: cioè a dire, per gli Uffizi, che verranno celebrali in tutte le domeniche e le feste, per le prediche nei giorni delle feste proprie della Congregazione, per le Messe, che si celebreranno in nome degli Associati ad onore del Cuore di Maria per la conversione dei peccatori, e per suffragio dei Confratelli defunti; infine per l’ornamento della Cappella e dell’Altare, dell’Associazione.

VI. II prodotto di questo offerte, e delle limosine, che si raccoglieranno in tempo degli uffizi dell’associazione sarà depositato presso il Direttore che ne terrà esatto conto, come delle spese, che occorreranno! Tutto verrà pure notato in un particolare registro da esaminarsi da Mons. Arcivescovo di Parigi ogni qual volta, giudicherà. Due volte l’anno sarà reso conto del prodotto e dell’uso delle offerte e limosino ad una Commissione composta del Parroco, del Vice-Direttore, del presidente della fabbrica, del tesoriere e d’un altro membro del Consiglio della fabbrica da eleggersi dal Parroco direttore. Questa Adunanza o Commissione, si terrà ogni anno nei primi quindici giorni di febbraio e agosto; esaminerà i libri dell’entrata, e dell’uscita, e dopo un esame verbale vi apporrà la sua firma, rilevando il residuo del quale sarà depositario il Parroco.

VII. Procurino gli associati d’offrire ogni mattina al sacro Cuore di Maria tutte le loro buone azioni, le preghiere, le limosine, gli atti di pietà, le mortificazioni, e le penitenze che faranno nella giornata. La loro intenzione sarà di unirle ai meriti del sacro Cuore di Maria e agli ossequi, che esso fa di continuo all’Altissimo? di adorare con esso lui la SS. Trinità, il divino Cuore di Gesù, e d’Implorare dalla infinita sua misericordia la conversione dei peccatori.

VIII. Inoltre una volta al giorno da ciascun associato si reciterà devotamente la Salutazione Angelica, anzi il più sovente possibile insieme con quella supplica a Maria: Memorare etc. o in volgare Ricordatevi etc., e con quella invocazione: Refugium peccatorum ora pro nobis; Maria rifugio dei peccatori pregate per noi.

IX. Sovvengansi i congregati, che specialmente per mezzo della purità del cuore si meriteranno la protezione del Cuore immacolato di Maria: mettano però ogni lor diligenza per serbarlo, puro e, mondo, accostandosi spesso e con fervore ai santi Sacramenti della Confessione, e Comunione, massimamente nelle feste proprie della Congregazione

X. Per determinazione di Monsignore Arcivescovo di Parigi la festa principale (1)  della Congregazione si celebra la Domenica, che immediatamente procede, la Settuagesima. (1- La festa principale si deve celebrare nello stesso giorno da tutte le Congregazioni aggregate alla Primarie; in quel dì i Confratelli, si fanno un premuroso dovere di accostarsi alla S. Comunione per lucrare l’indulgenza plenaria che vi é annessa. Nel giorno dei Dolori – Venerdì della Settimana di Passione – la Congregazione onora io particolar miniera il Cuore afflitto di Maria SS. V’è pur la Comunione generale alla Messa bassa che si celebra all’altare di Maria, Dopo la Messa si canta lo Stabat Mater). – Il clero della Parrocchia è obbligato recitarne l’Uffizio, proprio; le altre feste sono la Circoncisione, la Purificazione, l’Annunciazione, la Desolata, la Natività, l’Assunzione, e l’Immacolata Concezione della Vergine SS., la Conversione di S. Paolo e la festa di S. Maria Maddalena. Tutti i sabati poi dell’anno, e in modo singolare il primo d’ogni mese sono consociati al Culto di Maria, e al fervore degli associati appartiene l’onorare tutti questi giorni distintamente.

XI.  Ogni Domenica dell’anno, e festa di precetto, come pure tutti gli altri giorni nell’articolo X, mentovati, si celebrerà una sacra funzione in nome di tutti gli Associati. In questa si canteranno prima i Vespri (1) della Vergine SS. poi vi sarà una predica, od istruzione sopra le verità d nostra santa Religione, seguirà quindi la benedizione col divin Sacramento preceduta dal canto delle Litanie della Madonna, dell’inno proprio, del Sub tuum praesidium, e del Parce Domine con le orazioni analoghe. La della funzione sarà celebrata dai Sacerdoti della Parrocchia destinati dal Parroco. Comincerà sempre alle ore 7 della sera nella Cappella di Nostra Signora delle Vittorie, all’Altare dell’ Associazione.

(1) Prima di cominciare l’Uffizio si recita à voce alta ed in comune l’Ave Maria. Là predica che si fa dopo l’Uffizio non è che una semplice istruzione sopra le Verità dogmatiche, storiche , o morali della nostra S. Religione. Al termine dell’istruzione il predicatore esorta gli Aggregati a pregare i generate per tutti i peccatori, e in particolare per quelli che hanno richiesto nella settimana precedente di esser particolarmente raccomandali. Questi per maggior chiarezza si sogliono distribuire in varie classi, v. g. uomini, donne, ammalati, vecchi etc. aggiungendo a ciascuna classe qualche, breve riflessione,. Giova ancora in quest’occasione, ad eccitamento comune, raccontare le conversioni già ottenute, purché lo permetta il penitente, e si usi somma-cautela per non dar giammai verun indizio di chi si parli. Dopo laBenedizione si recita ad alta voce nella Congregazione ‘Primaria, quanto in tutte le altre Aggregazioni, un Pater ed Ave, e la Giaculatoria Sancta Maria refugium peccatorum, ora-pria nobis. Questa pratica non si tralascia giammai per essere uno dei fini principali di questo devoto esercizio. Quando il bisogno della conversione di gualche peccatore fosse molto urgente, si sogliono esortare i Confratelli dì offrire a questo fine al Cuor di Maria: Comunioni, preghiere, ed altre simili opere di cristiana pietà).

XII. Ogni sabato dell’ anno, tranne il Sabato Santo, alle ore 9 della mattina si offrirà all’Altare dell’Associazione il S. Sacrificio in onore del Cuore di Maria per la conversione de’ peccatori (Chiunque o per la troppa lontananza, o per altro impedimento non vi potesse intervenire, entrerà a parte di questo pio esercizio, purché si unisca in spirito ai Congregati, assistendo, se gli sarà possibile, ad altra Messa in qualsivoglia Chiesa più vicina, od almeno congiungendo te sue preghiere, a quelle dei Confratelli). – Il Sacerdote prima della Messa reciterà ai piedi dell’Altare l’Orazione Memorare ec. e dopo il Sub tuum præsidium, e l’Ave Maria, Ogni primo sabato del mese alle ore 10 del mattino si offrirà il S. Sacrificio in suffragio degli Associali defunti; dopo il quale il Sacerdote reciterà il De profundis.

C A P O III.

SCOPO DELL’ ARCICONFRATERNITA.

Molte e varie sono le Congregazioni, che nella Chiesa Cattolica si stabilirono, onde rendere special culto di venerazione alla augustissima Regina del cielo, e Madre nostra Maria. Ed avvegnaché altre s’istituissero per compatirla nei suoi dolori, altre per ossequiarla nei misteri della sua vita, ed altre per imitarla nelle sue virtù; tutte però concordemente mirarono a quest’ultimo fine di onorare, glorificare, e farsi propizia sì possente Avvocata nei nostri bisogni, e soprattutto di rendere onore, e gloria al sommo Iddio dei favori, e privilegi, che in tanta copia degnossi di compartirle. Ecco in poche parole lo scopo principale, e comune di tutte le Congregazioni Mariane, ed ecco pure uno dei fini della Congregazione del SS. ed immacolato Cuore di Maria per la conversione dei peccatori, la quale non differisce punto da tutte le altre, siccome quella che intende principalmente di venerare con tenero, e filiale affetto il Cuore amabilissimo della Madre di Dio e rendere cosi all’augustissima Trinità quegli omaggi di ossequio, e divozione di cui le siam debitori. Senonchè per un secondo scopo, tutto Suo proprio,’ e singolare, da ogni altra pur si distingue, eziandio da quella che fregiata del titolo istesso del S. Cuore di Maria, si è oggimai fra fanti popoli e in tante città stabilita. Conciossiaché questa non mira più in là di ogni altra Associazione Mariana; venera l’amabil Cuore della Vergine, come sorgente di mille benedizioni; lo compassiona addolorato; si rallegra dei suoi gaudii; e si sforza d’imitarne le virtù, onde renderselo favorevole nei pericoli della vita e della morte. Laddove la nostra pia Unione, dopo la gloria di Dio, e l’onore di Maria, intende con grande impegno alla conversione dei peccatori. E  perciò è che i suoi congregati non si debbono giammai dimenticare di questo lor fine peculiare e distintivo, ed animati di quel santo zelo di cui arde il Cuore amoroso della Vergine, la sollecitano, e dolcemente la sforzano con le preghiere, e buone opere ad intercedere presso Dio per i poveri peccatori, e ritornare a Cristo tante pecorelle che vanno sviate e vagabonde dal suo ovile. E per mantenere sempre vivo in petto questo fuoco di carità, e porgere con maggior premura un sì pietoso soccorso ai suoi fratelli che pericolano nel più importante degli affari, oh! quanto possente motivo non trovano nel considerare il numero innumerevole di quelli che vivono in odio a Dio o abusano delle sue grazie, perdendo cosi il fine nobilissimo di lor creazione: ora l’alta impresa che è la salute delle anime per cui il Verbo eterno non dubitò di partirsi dal seno del Padre, e vestir le nostre carni; ora la sollecitudine con che la Congregazione affida loro per cosi dire lutti i peccatori che sono in questa terra, e li costituisce quasi apostoli della loro conversione. Epoiché Gesù Cristo è morto per la salvezza di tutti gli uomini, ragion vuole che essi non escludano nelle loro preghiere verun peccatore sia Cattolico, sia eretico, o di qualunque setta infedele (Alla congregazione sta molto a cuore la conversione dell’Inghilterra: a desidera che in tutte le Aggregazioni s’introduca il pio costume di raccomandarli ogni Domenica al Cuore SS. ed Immacolato di Maria, siccome ai suole dalla Primaria di Parigi). Questo è lo spirito della Congregazione del Santissimo ed Immacolato Cuor di Maria, istituita per la conversione dei peccatori; e questi sono i sentimenti comuni che stabiliscono una stretta unione fra tutti i suoi aggregati, per cui, ancorché sparsi in qualsiasi parte del mondo, vengono a partecipare scambievolmente dei meriti, e delle preghiere di tutta la pia Unione, non meno che delle copiose indulgenze perciò benignamente accordate dal sommo Vicario di Cristo. – La Congregazione non si limita ad alcuna determinata pratica di divozione, tranne un’Ave Maria da recitarsi ogni giorno; ma, proposto il suo fine, lascia al fervore di ciascheduno l’usare quei mezzi che più gliene possono facilitare il conseguimento. Suole bensì, il che è proprio di ogni pia Associazione, per motivo di culto esteriore, e per dimostrare anche.al di fuori, a comune edificazione dei fedeli gl’interni sentimenti dell’animo avere suoi esercizi di pietà, prediche, Messe, orazioni etc. come di leggieri si può rilevare dai suoi Statuti, i quali però servono piuttosto ad accennare, che a determinare quanto sia da praticarsi a tal riguardo. Notisi tuttavia che secondo il detto di S. Francesco di Sales nelle pie Unioni in cui non si contrae veruna obbligazione, come è la nostra, non si può altro che guadagnare senza correre giammai pericolo di perdere. Quindi chi trascurasse, od eziandio omettesse le pratiche della Congregazione, non solo menerebbe per questo alcun peccato neanche, leggiero. Che se taluno, o per infermità, o per qualunque altra legittima cagione non potesse adempierle non resterà privo, dei meriti, ove si unisca almeno con lo spirito, agli esercizi degli aggregati; anzi pe potrà lucrare tutte le Indulgenze, quando all’opere prescritte a Congregati supplisca con altre, da determinarsi sempre dal suo confessore. Ed è da avvertire ancora che l’adempimento di tali pratiche poiché, sono volontarie, e di sopra più non deve in nessuna guisa essere di discapito delle obbligazioni del proprio stato. – Finalmente la Congregazione raccomanda caldamente ai suoi aggregati, la purità di cuore, e una sincera compassione delle altrui miserie spirituali; ed a tal uopo possono essere di qualche giovamento alcune devote preghiere; e giaculatorie, che si trovano in fine di questo libro, notando però che l’Ave Maria deve essere come l’orazione comune di tutti i Confratelli. La Congregazione ammette tra i suoi aggregati, ogni ceto di fedeli di qualsivoglia età, non eccettuato neppure i bambini; conciossiacosaché il loro aggregarli sia più tosto un consacrarli a Colei a cui, tornano oltremodo grate le voci, e gli affetti dell’innocenza. Né esclude dal suo seno i peccatori per quantunque scandalosi, e incorreggibili; che anzi li accoglie a braccia aperte, e con solo riceverli tiene per certo d’averne già espugnata in parte la durezza, e spera che Maria non tarderà a compire l’opera incominciata; e però per questi in generale, e per taluno eziandio in particolare di cui venga richiesta, oltre ciascun giorno alla divina misericordia l’immenso tesoro delle preghiere di tutti gli aggregati insieme con i meriti del SS. ed Immacolato Cuor di Maria ed appena è mai che per mezzo di sì Valida Protettrice non ne ottenga il desiderato intento. Nei giorni di sabato siccome sacri a Maria, la Congregazione rende un particolar culto di venerazione ed ossequio a tanto buona Madre, e in onore del suo amabilissimo Cuore, offre a nome di tutti gli Aggregali sparsi per ogni parte del mondo l’augustissimo sacrificio dell’Altare. Tale è in compendio l’idea chiara, e giusta della Congregazione del SS. ed Immacolato Cuore di Maria, istituita in questi ultimi, tempi a vantaggio principalmente dei peccatori. Le meravigliose conversioni, che, si sono narrate nella prima parte di quest’operetta, e le troppe che resterebbero a raccontarsi, ove la prudenza noi vietasse, provano abbastanza che la premurosa e possente intercessione di Maria non ha limiti, e si estende ad ogni luogo, e ad ogni classe di persone; e che gode grandemente, di trionfare dei cuori più indurati nel male, e restii alle divine ispirazioni.

CAPO IV.

VANTAGGI CHE ARRECA L’ARCICONFRATERNITA.

I vantaggi che arreca l’Arciconfraternita sono numerosi ed immensi. I fedeli .che ne fan parte si assicurano cogli omaggi speciali ch’essi fanno al santo ed Immacolato Cuor di Maria; tutte le grazie della potente sua protezione, lo zelo che li anima per la gloria di Dio, la carità che l’infiamma per la salute dei loro fratelli, esercitano ed aumentano la loro fede e pietà. Noi lo attestiamo perché lo abbiamo costantemente osservato. Essi concorrono con i loro voti, e preghiere al buon effetto delle apostoliche fatiche dei missionari che vanno a recar la luce del Vangelo ai. popoli infedeli. E vi dan mano con le tenere loro suppliche, e partecipano al valore del zelo e dei meriti di tanti pii sacerdoti che in grembo alla stessa Chiesa si adoperano perla conversione dei peccatori. E domandano e ottengono le grazie del ritorno e della salute a tanti peccatori che probabilmente si sarebbero perduti per una eternità senza il loro soccorso. – Egli è questo una specie di apostolato che da loro si esercita col mezzo di voti e di preghiere. Ah sì, perseverino nei preziosi sentimenti, nelle sante disposizioni che la grazia ha loro ispirato, e si animino di una viva e santa confidenza nella divina misericordia. Maria cui han supplicato per i loro fratelli, Maria alla quale han le tante volte ripetuto: pregate per noi, poveri peccatori, ora e nel puntò di nostra morte, Maria non li abbandonerà in quel terribile momento. – Pei peccatori poi, oh quali vantaggi!Perduti il maggior numero, sommersi entro un mare d’iniquità, ingolfati nei disordini, negli eccessi di una vita al tutto brutale; agghiacciati dal gelo della indifferenza del secolo, somiglianti alle bestie, dice lo Spirito Santo; vivendo all’atto spensierati e prossimi a morire colla stupidità dei bruti, quale speranza loro resta’ a salute?Le grazie stesse di Dio, i soccorsi per se sì potenti della Religione, tornano a nulla, perché i miseri li disdegnano e li dispregiano; perciocché il cuor loro divenuto fango non è più capace di sentimenti celesti; ed ecco che la carità, divina trae dai suoi tesori e ci presenta un nuovo pegno di salute por i più disperati: perciocché ella ci offre il Santo ed immacolato Cuor di Maria. O potente o salutare, o dovizioso trovato! Da che-foste a noi ispirato, quante vittorie già contansi sull’inferno riportate? quante vittime a lui strappate? quanti peccatori sono rientrati nelle vie della grazia? quanti morienti che si parevano destinati all’eterno danno, non partironsi di questa vita se non dopo essersi riconciliati con la divina giustizia! Diciamo a gloria vostra, ó Maria rifugio dei peccatori, che il numero è troppo grande da non poterne noi far ragione: o quali vantaggi non procaccia questa santa devozione alle Parrocchie che hanno la fortuna, di possederla! Qui sì che potremmo parlare ancora per esperienza. Ma troppo da dir vi sarebbe se contar volessimo tutte le sante gioie, tutte le consolazioni onde la bontà divina si compiacque ricolmare la indegnità nostra, Ci contenteremo di darne un’idea dicendo come oggi 1 dicembre 1838, il novero delle Comunioni dal 1 gennaio, sorpassa la somma di undici mila in una Parrocchia, ove, fa due anni non potevasene contare, che settecento venti nel corso di un anno intero. – Un vantaggio poi, al quale per avventura non farebbesi attenzione, se nel prendessimo a notare e che frattanto è reale ed immenso, si è quello appunto che proviene dal concorso e dalla partecipazione a tutte preci, a tutti voti che offerti sono nell’Arciconfraternita. Tutti i membri che la compongono non formano che un sol voto, la conversione dei peccatori per la gloria di Dio. Essi uniscono i loro omaggi a Maria con questa intenzione; e questa unione è si stretta che le preci offerte dalla moltitudine dei fratelli al Sacro Cuor, di Maria, appartengono ad ogni fratello in particolare come quelle di ogni fratello in particolare appartengono a tutto il corpo dell’Arciconfraternita; per forma che un membro di essa isolato, abitante in America, o a Pietroburgo, in pregando per la conversione di un parente, di un amico, può applicare a questo pio fine tutte le preghiere, il merito di tutte le buone opere, comunioni etc. che vengono offerte per la conversione dei peccatori nel corpo della Arciconfraternita, Parimente il direttore di essa e così li direttori delle particolari Unioni che compongono il corpo dell’Arciconfraternita possono e debbono per la massima gloria di Dio e per procurare con maggior sicurezza e facilità la salute delle anime che sono loro raccomandate, applicar tutti i meriti riuniti di preci e di buone opere che sono tutte nel corpo dell’Arciconfraternita ai bisogni spirituali dei peccatori po’ quali sono stati impegnati. Dichiarano qui di fatto che tale si è lo spirito col quale l’Arciconfraternita è stata eretta e che non manchino mai di farne l’applicazione. Qual sentimenti di confidenza, di consolazione spargerà nelle anime di quella sposa, di quella desolata madre, di quel padre afflitto, che tremano e pregano per una persona che è loro cara e preziosa: il pensiero la certezza che migliaia di fratelli sparsi sopra tutta la terra, dividono i loro sentimenti ed unisconsi ai loro voti, alle loro preghiere, fermamente appoggiandosi su quella promessa di Gesù Cristo; se due di voi insieme si uniscono sulla terra, qualunque cosa domandino sarà loro accordata dal Padre mio che è nei cieli (S. Math, XVIII). – Se non entra nei disegni della divina Provvidenza di accordar loro di presente la grazia che essi sollecitano, non cadranno di animo per questo, pregheranno ancora, dappoiché dice Gesù Cristo: si convien pregar sempre, e mai stancarsene, tanto più che l’esperienza ci mostra come Iddio ritardi il momento della sua misericordia soltanto per renderla più strepitosa e consolante. D’altra parte e noi avvisiamo di averlo detto, un peccatore raccomandato all’Arciconfraternita rimane oggetto alle sue preci e v’e sempre compreso finché la bontà divina abbia accordato la grazia della sua conversione. – Per ultimo non sono voti soltanto e preci, valevoli per se stesse sul cuor di Dio, che l’Arciconfraternita offre alla divina giustizia a favore dei suoi clienti per disarmarla: v’ha pure l’adorabile Sacrificio della croce nel consumare il quale la divina Vittima profferì queste potenti, parole: Padre mio, perdonate loro, che non sanno quel che si fanno. V’ha pur dunque il divin Sacrifizio col favor del quale i peccati del mondo sono stati tolti e il genere umano con Dio riconciliato. Sono ben 62 volte all’anno che il Sangue adorabile di Gesù Cristo si offre in sull’Altare per soddisfare alla collera di Dio ed ottenere la conversione dei peccatori. E quante volte non vi si offrirà in seguito, quando questa santa e caritatevole istituzione sarà propagata in Francia e, lo speriamo, pel mondo intero? Avete voi inoltre notato quelle preci, quel divin Sacrificio offerto dodici volte l’anno, una volta al mese, per la eterna beatitudine dei fratelli defunti, degna ricompensa del loro zelo della pietà loro? Pensate che sino alla consumazione dei secoli si farà menzione di loro ai sacri Altari, si porgeranno suppliche e Gesù Cristo, sovrano nostro Mediatore, s’immolerà per la salute eterna dei fratelli, dei quali un gran numero sarebbe stato per avventura ben presto, senza questo aiuto, perpetuamente obbliato in terra. Arrogi a tanti vantaggi ì voti, le preghiere, gli omaggi di riconoscenza che le anime santificate dalla propria conversione, ammesse nel seno di Dio, e veggenti nella sua luce i caritatevoli sforzi per i quali uscirono dell’abisso, offriranno alla Maestà divina, con le quali elleno chiameranno incessantemente sui loro benefattori le grazie e le celesti benedizioni; e poi ditemi se questa santa istituzione non riunisce lutti i mezzi capaci di procurar la gloria di Dio, la felicità della Chiesa, la salute delle anime, la pace del mondo e un buon successo agli spirituali interessi di coloro che ne fan parte.

LO SCUDO DELLA FEDE (XLVIII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S. E. I. Ed. Torino, 1927]

XLVIII.

L’INFERNO.

Esistenza dell’inferno. — Come credervi se nessuno mai è venuto dall’altro mondo a dirci che ci sia? — È certo che l’inferno sia eterno? — È possibile che Iddio voglia punire così il peccato, che è l’opera di pochi minuti? — Le pene dell’inferno. — Come mai, se Dio è buono, condanna all’inferno anche per un solo peccato mortale?

— È dunque proprio certo che l’inferno esista?

L’esistenza dell’inferno, oltre ad essere chiaramente insegnata nelle Sacre Scritturedell’antico e del nuovo Testamento, è ancora una credenza di tutta l’umanità. Scorri pure il mondo, consulta pure la storia, fruga pure negli archivi, ma non ti sarà dato mai di trovare un sol popolo o incivilito o barbaro, che non abbia creduto all’esistenza d’un inferno. Su questo punto essenziale tutti vanno pienamente d’accordo: Siri, Caldei, Egizi, Persiani, Indiani Scandinavi, Brettoni, Greci, Romani, e persino i selvaggi dell’America, dell’Africa e dell’Oceania! – Né devi pensarti che questa universale credenza si trovi soltanto nelle menti volgari. Tutt’altro! Essa è nella mente e nei libri dei più grandi filosofi e dei più grandi poeti, quali un Socrate, un Platone, un Aristotele, un Cicerone, un Seneca, un Omero, un Virgilio, ed un Ovidio. E Lucrezio, l’empio Lucrezio, esclama: « È impossibile dormire tranquillo; e perché? Perché si è forzati a temere dopo la vita delle pene eterne » (Della natura degli dèi, I, 108 — III, 37). Dopo di ciò ei si propone di strappare dal cuore degli uomini il timore dell’inferno. Inutili sforzi? Impresa cento volte tentata e cento volte resa vana. Diciotto secoli dopo Lucrezio, Voltaire ad uno de’ suoi discepoli, che si vantava di aver trovate prove infallibili che l’inferno non esiste, rispondeva : « Voi siete ben felice! queste prove io non l’ho ancor trovate ». E non si troveranno mai, a meno di mettersi in disaccordo con tutta l’umanità, giacché tutta l’umanità crede all’esistenza dell’inferno.

— Eppure sono molti che gridano : « L’inferno non esiste; questo dogma ha fatto il suo tempo: dalle persone serie non ci si crede più !»

Ebbene, se vi hanno di coloro che negano l’inferno (e ve ne hanno pur troppo), sono pur essi una prova, che l’inferno esiste, giacché non si combatte il nulla e non si infierisce contro una chimera. In costoro il dire « l’inferno non esiste, » si riduce a nient’altro che questo: « Vorremmo bene che l’inferno non esistesse, affine di non avere impaccio a vivere come ci piace ». Ecco tutto: giacché chi sono alla fin fine coloro, che negano l’inferno? Sono forse gente dabbene, fior di galantuomini? Sono quei superbi e quei libertini, che calpestano ogni dettame della ragione per darsi in preda al loro orgoglio ed ai loro vizi.

— Tuttavia come si fa a credere all’inferno, se nessuno mai è venuto dall’altro mondo a dirci che vi sia?

E sei tu veramente sicuro che non mai sia venuto alcuno di là a dirci che l’inferno esiste? Io posso invece assicurarti che le prove del contrario vi sono nelle Sacre Scritture e nella storia. Perché sebbene di regola generale dall’inferno non si esca più mai, tuttavia Iddio per qualche suo giusto fine può permettere ed ha realmente permesso, che qualche anima dannata, non restando tuttavia libera dalla pena infernale, ne uscisse fuori a fare qualche apparizione. – Ma via: sia pure che nessuno mai sia venuto dall’altro mondo per dirci che l’inferno esiste, che perciò? Si potrà inferire che esso non esista? È forse necessario, indispensabile per l’esistenza dell’inferno che i dannati ne vengano fuori e compaiano a noi per istruirci di quello che passa nell’al di là? Non siamo noi istruiti abbastanza di questa verità dalla Chiesa? Se pertanto non si crede alla Chiesa, non si crederebbe neppure ai morti che risuscitassero. – È lo stesso Gesù Cristo che lo ha detto nella parabola del ricco Epulone. A questo ricco che richiedeva Abramo di mandare azzaro ad avvertire i suoi fratelli dell’esistenza dell’inferno, fece rispondere da Abramo: « Hanno Mosè e i Profeti che ne parlano chiaro; se non credono a Mosè e ai profeti, non crederanno neppure ad un morto risuscitato ». Il dire adunque: « Come si fa a credere all’inferno, se nessuno è venuto dall’altro mondo a dirci che vi sia » è lo stesso che pretendere che Dio per farci credere all’esistenza dell’inferno faccia ad ogni istante e da per tutto risuscitare dei morti, e distrugga Egli stesso per tal guisa l’autorevole testimonianza della Chiesa e della stessa umanità; è un pretendere che Dio si acconci ai capricci dell’uomo, e che l’uomo possa imporsi alle disposizioni di Dio, è insomma perdere il senno e disconoscere che Dio è Dio, e che l’uomo è uomo. Nessuna obbiezione adunque, per quanto speciosa, può scemare la forza di questa verità sì chiaramente rivelata, e sì profondamente e universalmente creduta: l’inferno esiste.

— Ma è pur certo che l’inferno sia eterno?

Certissimo; tanto la Scrittura come le credenze di tutti i popoli dall’idea dell’inferno non disgiungono mai quella dell’eternità della sua durata. E per ciò l’eternità delle pene dell’inferno è una verità non meno chiaramente rivelata da Dio, né meno profondamente e universalmente creduta dagli uomini di quella dell’esistenza dell’inferno istesso. Chi pertanto volesse negare l’eternità delle pene, dovrebbe negare anzitutto la veracità di Dio, e dire che se Iddio ha detto agli uomini che l’inferno è eterno non altrimenti lo ha detto che per trastullarsi e farci paura. E non sarebbe questa un’orribile bestemmia? – In secondo luogo, per negare l’eternità delle pene bisognerebbe negare altresì ogni distinzione tra il bene e il male, tra il vizio e la virtù, tra i buoni e i malvagi. Ed in vero se passato qualche migliaio, e mettiamo pure qualche milione d’anni, l’inferno cessasse di esistere e i dannati ne fossero liberati, a meno che fossero da Dio annichilati, ciò che è assurdo, dovrebbero allora passare a godere in cielo coi santi, Caino con Abele, Giuda con S. Giovanni, Nerone con S. Pietro, Voltaire con S. Vincenzo de’ Paoli! – E allora a che varrebbe il far il bene, il soffrire con rassegnazione in questa vita? Che anzi qual ritegno vi sarebbe ancora nel male? Ognuno che amasse di peccare ragionerebbe così: Per intanto mi prendo il piacere che voglio. Sia pure che nell’altra vita io ne abbia ad essere punito ed anche per molti anni. Ma alla fin fine quella pena cesserà ed allora sarò ancora in tempo di godermi per sempre il paradiso. Così direbbe la più parte degli uomini e così farebbe; e in questo modo l’uomo non verrebbe egli ad averla vinta sopra Iddio? È chiaro adunque che l’inferno deve essere eterno, come eterno è il paradiso, dovendo pure esservi una correlazione tra la ricompensa dei buoni e la punizione dei malvagi. E lo è propriamente, e la ragione decisiva di questa sua eternità si è, che Dio, libero dispensatore de’ suoi doni, ha stabilito di darci la sua grazia per evitare il peccato o rialzarci dal medesimo finche siamo in vita, e di non darcela più dopo la morte. Cosicché il disgraziato che passa all’altro mondo nello stato di peccato, privo della grazia di Dio non potrà più mai liberarsi dal peccato. E, come perciò il suo peccato durerà in lui eternamente, così eternamente dovrà soffrirne la pena.

— Ma come mai Iddio vorrà punire con pene eterne un peccato che si commise in un brevissimo spazio di tempo?

Anche questo sofisma è molto sciocco ed è molto antico, giacché veniva messo fuori fin dai tempi di S. Giovanni Crisostomo. Il quale a coloro, che lo adducevano, rispondeva: « E dove mai avete imparato che il tempo impiegato a commettere il male debba essere la misura e la regola della punizione? L’assassinio, il parricidio, l’appiccar il fuoco non sono essi delitti, che si possono commettere in un momento? Eppure gli stessi tribunali di questo mondo condannano per lo più coloro, che li commettono, ad una pena di lunghi anni e ben anche alla morte, che è l’esclusione perpetua di questi scellerati dalla società. Ora, ciò che fanno gli uomini nei tribunali di questo mondo, senza che alcuno possa in questi casi tacciarli d’ingiustizia, perché non lo potrà fare Iddio al tribunal suo? – Del resto, amico mio, è proprio vero che il peccato del dannato nell’inferno sia un male commesso in un brevissimo spazio di tempo? Nell’atto sì ma nella volontà no. Perciocché coloro, i quali commettono il peccato, dice San Gregorio, in generale vorrebbero commetterlo sempre, se loro fosse possibile; e la prova chiara e certa di ciò si è, che costoro, quando non possono più commetterlo con le opere, lo commettono tuttavia col desiderio. In generale adunque il peccato benché nell’atto sia cosa di brevissimo spazio di tempo, nella volontà invece è cosa che può durare mesi ed anni interi. – Ma nel dannato in particolare poi il peccato dura non solo mesi ed anni, ma eternamente e proprio per sua colpa. Giacché finché fu in vita anche nell’ultimo istante della sua esistenza, se egli l’avesse sinceramente voluto, Iddio gli avrebbe data la grazia per pentirsi del suo peccato e liberarsene, ma egli non ostante che vedesse dinanzi a sé l’eternità, anche all’ultimo istante di vita, ha disprezzato la misericordia e la giustizia di Dio, si è ostinato nella colpa, e da quel momento entrando nell’eternità ha eternato altresì la perversità del suo animo. E non è dunque sommamente giusto che Iddio punisca con una pena eterna lo sciagurato, che da se stesso si è messo nell’eterna volontà di essere nemico di Dio? – Il peccato, come insegna S. Tommaso, per ragione dell’oltraggio che reca alla maestà infinita di Dio racchiude in sé una certa malizia infinita. E poiché il dannato, passato che è all’altra vita rimane eternamente in questo stato di infinita malizia, è senza alcun dubbio giustissimo che Iddio eternamente colpisca della meritata pena questo suo eterno oltraggiatore della sua infinita maestà. Non vi ha nulla adunque di più logico che l’eternità delle pene. E se è vero, come è verissimo che l’inferno esiste, è vero altresì ch’esso è eterno.

— Sono ora ben convinto di questa verità. Desidererei ora di sapere se i dannati nell’inferno soffrano tutti pene eguali?

No, certamente, questo ripugnerebbe alla Giustizia di Dio. Pertanto quantunque nell’inferno i dannati siano tutti infelicissimi, nondimeno hanno gradi di pena diversi, e soffrono più o meno intensamente a seconda dei loro diversi demeriti, vale a dire secondo il numero e la gravezza dei loro peccati.

— E quali sarebbero propriamente le pene dell’inferno?

* Di queste pene basta che tu sappia e creda che sono acerbissime in quanto all’anima e al corpo e che fra di esse vi è quella del fuoco.

— È vero che nell’inferno vi sia propriamente il fuoco?

Non se ne può dubitare: anche questo è insegnamento chiaro e preciso delle Sacre Scritture. Almeno otto volte nel Vangelo, e quasi trenta volte nel Nuovo Testamento, il supplizio dell’inferno è designato con questo termine o di fuoco o di fiamma. E per certo non si capirebbe questo linguaggio, qualora la pena del fuoco, la più terribile delle pene terrene, non avesse un’intima connessione col supplizio dell’inferno, né fosse la più atta a darci un’idea del suo rigore.

— Ma si tratta di fuoco vero, reale, corporeo?

Ti dirò: la Chiesa a questo riguardo non ha fatto alcun decreto dogmatico. Vi furono e vi sono ancora di coloro (pochissimi in vero), che questo fuoco, di cui parlano le Scritture, l’hanno inteso per metaforico: ma l’opinione della Chiesa, si è che si tratti di un fuoco vero, reale, corporeo, benché, senza dubbio, differente dal nostro. Anzi la S. Penitenzieria Apostolica (il 30 aprile 1890) ha risoluto che quando s’incontra alcuno che intenda il fuoco dell’inferno come espressione metaforica, con cui si vuole dare un’idea dell’intensità delle pene che si soffrono in quel luogo di tormenti, si cerchi di istruirlo; e se si ostini, non si giudichi degno di assoluzione.

— Con tutto ciò se l’inferno esiste, se l’inferno è eterno, se in esso vi è il fuoco che abbrucia… io non posso capire come mai Iddio, che è buono e ci ama, condanni all’inferno, ed anche solo per un peccato mortale.

Ascolta: certamente Iddio è buono, infinitamente buono, Dio ci ama, infinitamente ci ama; ma Egli è altresì giusto, infinitamente giusto. La sua bontà, il suo amore per noi lo induce a far di tutto perché noi ci salviamo. E quando vede che v’ha tra di noi chi si fa a negargli la corrispondenza dovuta alla grazia da Lui data a ciascuno per la sua eterna salvezza, come dice il Bougaud, « oh! non si arrende al primo rifiuto. Non si confessa facilmente vinto. Ritenta la prova. Per colui che resiste ha tenerezze, indugi, insistenze che sorprendono. Sarà necessario che egli si getti ginocchioni ai piedi dell’infedele, dell’ingrato! Lo farà, perché nessun sacrificio gli è grave ». Ed invero Dio sarebbe in pieno diritto di mandar subito all’inferno il peccatore al primo grave peccato che commette, e come ha fatto con gli angeli ribelli, così avrà fatto e andrà facendo con taluno degli uomini per i suoi giustissimi motivi; ma si può dire che questa sia la regola ordinaria da Lui seguita? O non si deve piuttosto riconoscere da quanto appare dinanzi agli stessi nostri occhi, che Iddio per lo più non pronunzierà la sentenza di dannazione se non quando vede la misura colma? E dopo che Iddio per parte sua ha fatto di tutto per salvare gli uomini, e taluno di essi non ha voluto fino all’ultimo arrendersi alla sua bontà, al suo amore, non è giusto che Egli lo condanni? … e lo condanni in ragione della malizia delle sue colpe? Alla fin fine non ha Egli fatto intendere prima che questa sarebbe stata la punizione del malvagio? Vi è forse alcuno che ignori ciò? – Come dunque si potrà accusare la bontà, l’amore che Dio ci porta, se Egli punirà con l’inferno chi ha preso a giuoco la bontà e l’amor suo fino all’ultimo? Forseché non accade anche tra gli uomini che si respinga lontano colui, che ha disprezzato, tradito, insultato l’altrui amore? E lo si respinga tanto più sdegnosamente e inesorabilmente, quanto più si è cercato di guadagnarlo ? Ritieni adunque che Dio è buono, che Dio ci ama non ostante l’inferno, il quale non solo è effetto della sua giustizia, ma altresì della sua bontà e del suo amore oltraggiato e da Lui sapientemente punito. Sicché aveva ben ragione il nostro sommo poeta di leggere sulla porta dell’inferno questa iscrizione:

Per me si va nella città dolente

Per me si va nell’eterno dolore,

Per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto Fattore,

Fecemi la divina Potestate,

La somma Sapienza e il primo Amore.

CONOSCERE SAN PAOLO (43)

LIBRO V

I canali della redenzione.

CAPO II.

I Sacramenti.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

Nel NUOVO Testamento non vi è un termine generico il quale indichi i riti simbolici istituiti da Gesù Cristo per conferire la grazia. Siccome μυστήριον (= musterion), tradotto assai sovente per sacramentum nella Bibbia latina, prende qualche volta il significato di simbolo o di segno sacro, esso è sembrato il più adatto per esprimere i veicoli sensibili della grazia, quando si ebbe l’idea di comprenderli tutti sotto un nome unico. Assai presto furono così chiamati il Battesimo, l’imposizione delle mani che lo sigilla, e l’Eucaristia che lo accompagna; ma la natura speciale di questi tre riti, che incorporano il neofìto all’assemblea cristiana e che fanno pensare alle iniziazioni religiose del paganesimo, rendeva difficile l’estensione del nome di misteri agli altri sacramenti. La parola latina corrispondente sacramentum si prestava meglio, per la sua stessa indeterminatezza, a significare istituzioni disparate che di comune avevano bensì il carattere sacro, ma le cui relazioni colpivano meno, a prima vista, che non le loro differenze specifiche: questo nome perciò è già applicato a tutti o a quasi tutti i sacramenti da sant’Agostino il quale in questo altro non fa che generalizzare l’usanza di Tertulliano e di san Cipriano. Tra i sette sacramenti della Chiesa, l’estrema unzione non è menzionata da san Paolo; molto probabilmente neppure la penitenza. Invece le sue allusioni al Battesimo e, per concomitanza, alla confermazione, sono assai frequenti; il suo insegnamento sopra l’Eucaristia è più completo che quello degli evangelisti; le sue asserzioni riguardo all’Ordine e al Matrimonio permettono di conchiudere che egli li considera come segni sacri che conferiscono la grazia, senza che si possa inferirne direttamente che egli li creda istituiti da Gesù. Cristo.

I. IL BATTESIMO.

1 . SIMBOLISMO MULTIPLO DEL BATTESIMO. — 2. MORTE E RISURREZIONE MISTICHE. — 3. LA FEDE E IL BATTESIMO.

1 . Il rito del Battesimo per immersione, che fu la pratica ordinaria della Chiesa primitiva, si può considerare sotto almeno quattro aspetti simbolici: come bagno sacro, simbolo di purificazione interiore; come ritorno alla luce, simbolo d’illuminazione spirituale; come seppellimento mistico, simbolo della morte dell’uomo vecchio e di unione alla morte del Cristo; come risurrezione mistica, simbolo di rigenerazione e di vita nuova. – Più tardi il simbolismo si arricchì di due nuovi elementi: l’unzione, emblema dell’innesto del neofito sul vero olivo, e il cambiamento di abito, emblema della trasformazione morale: ma questo doppio simbolismo, sia o non sia suggerito dal linguaggio di san Paolo, qui non deve occuparci, perché non vi è nulla che dimostri che esso risalga all’età apostolica. Dei quattro aspetti sopra indicati, il primo, quello evocato anzitutto dall’etimologia e che più naturalmente ci viene in mente, fu anche il più comune in origine. – Il secondo fu particolarmente in onore a partire dal secondo secolo; secondo san Giustino, illuminare e illuminazione diventarono sinonimi di « battezzare » e di « battesimo » . Queste maniere di parlare e di concepire sono familiari a Paolo. I Cristiani hanno « gli occhi del cuore illuminati (Ephes. I, 18) » sono « figli di luce e figli del giorno (I Tess. V, 5) ». Anzi la luce che li penetra nel Battesimo li cambia in focolari luminosi; « essi riflettono la luce e la diffondono come risplende e irradia un cristallo colpito dai raggi del sole: essi risplendono come « luminari stessi nel mondo (Fil. II, 15) » e sono essi medesimi « luce nel Signore (Ephes. V, 8) ». Paolo non ignora neppure che il Battesimo sia un « bagno di rigenerazione e di rinnovamento (Tit. III, 5) »: che tutti i fedeli siano in esso « purificati, santificati, giustificati (I Cor. VI) », che Gesù Cristo, volendosi preparare una sposa perfetta e degna di Lui, la santifica « purificandola col bagno dell’acqua nella parola (Ephes. V, 26) ». Certamente qui non si tratta di una purificazione materiale: il lavacro battesimale deve la sua efficacia alla parola onnipotente che lo innalza alla dignità di rito sacramentale. Tuttavia non è né la purificazione dell’anima mediante la remissione dei peccati, né l’illuminazione dell’intelligenza mediante la fede quella che san Paolo vuol mettere in rilievo quando parla del Battesimo: egli fa rilevare la morte e la risurrezione mistica, figurate e prodotte dal Sacramento.

2. La rinascita dell’uomo ha per condizione essenziale una morte precedente. Gesù Cristo è salvatore soltanto per mezzo della croce e non ci salva altrimenti che con l’associarci alla sua morte. Ma per diventare salutare, bisogna che questa morte ideale si realizzi in ciascuno di noi, e questo avviene appunto nel Battesimo:

“Ignorate forse che noi tutti che fummo battezzati nella sua morte! Noi fummo dunque seppelliti con Lui per mezzo del Battesimo (il quale è) nella sua morte, affinché, come il Cristo risuscitò da morte per la gloria del Padre, così pure anche noi camminiamo nella novità della vita. Se infatti noi siamo stati innestati su Lui per la somiglianza della sua morte, lo saremo pure per (quella della) risurrezione, sapendo che il nostro vecchio uomo fu crocifisso con Lui affinché il corpo del peccato fosse distrutto, perché noi non siamo più schiavi del peccato; infatti colui che è morto è liberato dal peccato (Rom. VI, 3-7). – In poche parole questo testo condensa con una meravigliosa pienezza di lignificato gli effetti immediati del Battesimo, i beni che ci assicura nell’avvenire, i doveri che c’impone nel presente. Perché non si distinguono questi diversi aspetti, esegeti e teologi mettono insieme idee disparate e trasformano una delle più belle pagine di san Paolo in un insipido pasticcio. Qui noi non dobbiamo occuparci che dei frutti immediati del Battesimo. Essere battezzati nella morte del Cristo, vuol dire essere battezzati nel Cristo morente, vuol dire essere incorporati al Cristo nell’atto medesimo in cui ci salva, vuol dire morire misticamente con Colui che ha sofferto la morte in nome e a vantaggio di tutti. Questa morte mistica è una realtà, poiché gli effetti ne sono realissimi: morte al peccato, morte all’uomo vecchio, morte alla Legge. – Se si volesse credere a certi commentatori protestanti, la morte al peccato altro non sarebbe che il risultato di una finzione legale; Dio ci considererebbe come morti, al modo stesso con cui ci considera come giusti, senza che vi sia in noi nulla di mutato. Al più essi fanno consistere il cambiamento in una rottura decisiva della volontà col peccato, con i suoi istinti e con le sue aspirazioni, e questo sotto l’impero sempre rinnovato della fede nella morte del Cristo per il peccato. Questa spiegazione non spiega nulla. Che il Cristiano, dal fatto del suo Battesimo, contragga il dovere di perseverare in uno stato di morte, relativamente al peccato, è cosa che nessuno contesta, ma questo dovere, se si analizza, implica un cambiamento interiore di ordine morale. San Paolo non si contenta di dire: « Morire al peccato », ma dice: « Voi siete morti al peccato ». Morire al peccato vuol dunque dire spogliarsi della lordura del peccato; ma nel tempo stesso è anche essere liberati dalla sua tirannia ed essere messi in grado di resistere ai suoi ulteriori assalti. Non v i è restrizione né eccezione: peccato originale, peccati attuali, tutto ciò che si chiama peccato nel vero senso della parola, tutto è svanito col Battesimo; poiché « non vi è più condanna per quelli che sono nel Cristo Gesù (Rom. VIII, 1)) ». Ieri potevano essere idolatri, impudichi, ladri, detrattori, bestemmiatori; ora sono stati « purificati, santificati, giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo (I Cor. VI, 11) ». La morte all’uomo vecchio è una conseguenza della morte al peccato. Quando fummo battezzati nella morte del Cristo, « il nostro vecchio uomo fu crocifisso con Lui (Rom. VI, 6) ». L’uomo vecchio significa tutto ciò che abbiamo di comune col primo Adamo, tutto ciò che direttamente o indirettamente abbiamo da Lui, come capo religioso dell’umanità. Tutto questo perisce per il fatto della nostra unione col secondo Adamo. È poi evidente che la morte all’uomo vecchio è progressiva, perché l’inclinazione al male sussiste anche nell’uomo rigenerato; ma l’uomo vecchio ha ricevuto il colpo mortale; con l’antidoto della grazia, la concupiscenza, chiamata qui « il corpo del peccato » è resa inerte e inoffensiva. – Sembra pure che il Battesimo cristiano sia una morte alla Legge mosaica: « Per la Legge, io sono morto alla Legge per vivere a Dio; sono stato crocifisso col Cristo; non sono dunque più io che vivo, ma è il Cristo che vive in me. — Fratelli miei, voi siete morti alla Legge per il Corpo del Cristo… Ora noi siamo stati liberati dalla Legge, essendo morti a questa (Legge) che ci teneva » prigionieri (Gal. II, 19; Rom. VII, 6). In quest’ultimo passo l’allusione al Battesimo appare evidente; è infatti il Battesimo che mette termine a tutte le nostre schiavitù: « Colui che è morto è libero dal peccato » e da tutte le sue conseguenze. Probabilmente si deve dire altrettanto del testo precedente; poiché in quale momento l’Apostolo fu crocifisso con Gesù Cristo, se non nel rito battesimale che lo univa al Cristo morente? Non senza motivo l’Apostolo stabilisce sempre un vincolo di connessione tra la morte e la risurrezione spirituali. È infatti impossibile morire al peccato senza cominciare a vivere alla grazia: « Se siamo morti col Cristo crediamo che vivremo anche con Lui . . . Se siamo stati innestati sopra di Lui con la somiglianza della sua morte, tali pure saremo con quella della sua risurrezione (Rom. VI, 8) ». La nostra nuova vita può anche non essere apparente ma esiste necessariamente perché è un corollario della nostra morte: « Voi siete morti, e la vostra vita è nascosta col Cristo in Dio (Col. III, 3) ». E come potrebbe essere altrimenti, se il Battesimo che è la tomba dell’uomo vecchio è pure la culla dell’uomo nuovo? (Col. II, 12). – Per ben comprendere questo linguaggio, bisogna avvicinare queste espressioni: « essere battezzati nelCristo » e « rivestire il Cristo ». Non possiamo dare ragione a coloro i quali pretendono che il senso etimologico di « battezzare » e il senso figurato di « rivestire » sono completamente scomparsi da questi modi di dire. Essere battezzati nel Cristo è essere immersi nel Cristo mistico, come nell’elemento naturale della nostra nuova vita; è dunque, in sostanza, la stessa cosa che essere battezzati nel corpo del Cristo, ossia incorporati al suo corpo mistico. Così pure rivestire il Cristo è essere avvolti da questa atmosfera divina, essere fatti membra viventi del Cristo, assoggettati a quella forza soprannaturale che si chiama l’anima della Chiesa e che altro non è che lo Spirito Santo. L’Apostolo è solito dire « rivestire il Cristo o il Signore Gesù Cristo, rivestire l’uomo nuovo, rivestire l’immortalità, rivestire le armi di luce, rivestire l’armatura di Dio, l’elmo della salute, la corazza della fede e della carità »; e in tutti questi esempi il senso figurato è trasparente. – Noi rivestiamo il Cristo non tanto come un mantello che copre la nostra miseria, quanto piuttosto come una forma vitale che ci fa partecipare alla sua vita. Quasi tutti i frutti del Battesimo, considerato come principio di una vita nuova, sono mirabilmente compendiati nel testo seguente: « Dio ci ha salvati col bagno di rigenerazione e di rinnovamento dello Spirito Santo, che ha sparso su noi con abbondanza per mezzo di Gesù Cristo nostro Salvatore, affinché, giustificati dalla sua grazia, noi diventiamo eredi, nella speranza, della vita eterna (Tit. III, 5-7) ». Da queste parole, trascurando i punti accessori, risulta che: — Il Battesimo è un bagno di rigenerazione e di rinnovamento: un bagno che purifica l’anima da tutte le macchie passate; di rigenerazione, perché è una seconda nascita per mezzo dell’acqua e dello Spirito Santo, che ci rende figli di Dio, come la prima ci ha costituiti schiavi del peccato: di rinnovamento, perché sotto l’influsso dello Spirito creatore il neofito si spoglia dell’uomo vecchio e riveste il nuovo, si trasforma in tutto il suo essere e diventa una nuova creatura. — Il Battesimo è inoltre il dono dello Spirito Santo diffuso nei nostri cuori dal Padre, con la mediazione del Figlio. — Finalmente il Battesimo ci rende eredi della vita eterna conferendoci la filiazione adottiva: eredi veri, benché il godimento effettivo del nostro patrimonio venga differito e che per questo titolo noi siamo soltanto eredi nella speranza; ma noi sappiamo che, da parte di Dio, la nostra speranza è certa.

3. Tutti gli effetti che abbiamo ora assegnati al battesimo — la giustizia, la vita, la salvezza, la filiazione adottiva, il possesso dello Spirito Santo — san Paolo li attribuisce pure alla fede. Da che cosa deriva questa stretta unione, questa mutua compenetrazione della fede e del Battesimo? Anzitutto vi è il sincronismo. Quasi tutti i destinatari delle lettere di Paolo avevano ricevuto nel tempo stesso il Battesimo e il dono della fede: questo doppio ricordo si confondeva nella loro memoria. L’istruzione dei catecumeni era allora sommaria: « Chiunque crederà e riceverà il Battesimo sarà salvo », aveva detto il Signore prima di salire al cielo, come se le due azioni fossero simultanee. Infatti i tre mila uomini convertiti d a san Pietro nella prima Pentecoste furono battezzati il giorno stesso (Act. II, 41); l’eunuco della regina Candace scese dal cocchio per ricevere il Battesimo dalle mani del diacono Filippo che lo aveva allora catechizzato (Act. VIII, 28); il carceriere di san Paolo fu battezzato con tutta la sua famiglia nella stessa notte in cui aveva abbracciata la fede (Act. XVI, 33); i dodici discepoli di Efeso, che avevano ricevuto soltanto il battesimo di Giovanni, « credettero in Gesù e furono battezzati (Ct. XIX, 5) ». Una formola simile a questa riassume le fatiche dell’Apostolo a Corinto (Act. XVIII, 8). Non vi è ancora intervallo tra la fede e il Battesimo. A questo primo vincolo esteriore che risulta dalla simultaneità dei due atti e dall’identità dei due ricordi, se ne aggiunge un altro più intimo e che dipende dalla natura delle cose. Per san Paolo, la fede concreta, la fede normale, la fede che giustifica, non è un semplice assenso dell’intelligenza a una verità speculativa; è invece l’amen della ragione, della volontà, di tutto l’uomo al Vangelo, ossia all’economia della salvezza di cui Dio è autore e Gesù Cristo è araldo. Questa fede iniziale della quale soprattutto si occupa san Paolo, perché essa fu per lui medesimo, come per i suoi primi lettori, il punto decisivo della sua vita e il momento critico del suo destino, comprende dunque necessariamente, con l’offerta di se stesso a Dio, il voto implicito del Battesimo. Non soltanto non si può concepire il Battesimo di un adulto senza la fede, poiché non si può concepire senza la penitenza e senza la conversione a Dio, ma neppure la fede sincera e giustificante non si può concepire senza il desiderio del Battesimo. Per questa ragione la nostra rigenerazione spirituale è attribuita ora alla fede, ora al Battesimo, perché l’atto e il rito sono tra loro in una dipendenza reciproca ed esercitano una causalità comune. Il caso di un catecumeno sorpreso dalla morte prima di ricevere il Sacramento, non è chimerico; ma è accidentale ed eccezionale, e la teoria fa astrazione dalle eccezioni e dagli accidenti: « Voi tutti siete figli di Dio, per la fede, nel Cristo Gesù. Poiché voi tutti che foste battezzati nel Cristo v i siete rivestiti del Cristo (Ga. III, 26-27) ». – Così la filiazione adottiva è attribuita nel tempo stesso alla fede e al Battesimo. Voi non siete più, dice l’Apostolo, fanciullini come erano un tempo gli Ebrei ancora sotto tutela e sotto un pedagogo; voi siete figli di Dio (υἱοὶ Θεοῦ = uioi teou), giunti all’età matura, emancipati dalla Legge, in pieno possesso del vostro patrimonio e di tutti i vostri diritti; e voi siete tutto questo per la fede viva che vi unisce al Cristo Gesù e vi fa partecipare alle sue prerogative. Come non sareste voi figli di Dio? Battezzati nel Cristo, voi avete rivestito il Cristo. avete la forma del Cristo e per conseguenza la filiazione adottiva inerente a questa torma. Infatti è l’unione al Cristo quella che ci fa figli di Dio, e questa unione è operata dalla fede e dal Battesimo; ma né l’unione effettiva del Battesimo si può produrre senza l’unione della fede, né l’unione affettiva della fede avviene senza qualche relazione intrinseca con l’unione effettiva del Battesimo: e perché l’unione affettiva della fede tende essenzialmente all’unione effettiva del Battesimo, diventa essa medesima effettiva; così le due concezioni, non solo non sono opposte ma si riuniscono.

II. LA CRESIMA.

Essendo il conferimento dello Spirito Santo mediante l’imposizione delle mani così strettamente unito al Battesimo, i due atti sembravano non essere altro che le parti integranti di un medesimo rito. Senza dubbio la domanda rivolta da san Paolo ai discepoli di Efeso, che egli credeva battezzati col Battesimo cristiano, dimostra abbastanza che questi atti erano non soltanto distinti, ma separabili (Act. XIX, 2); e difatti i Samaritani battezzati dal diacono Filippo ricevettero lo Spirito Santo soltanto più tardi, all’arrivo degli Apostoli (Act. VIII, 17-18); tuttavia, siccome non vi era altro motivo di separare la Cresima dal Battesimo, che l’assenza di un ministro legittimo, questi due Sacramenti venivano ordinariamente conferiti insieme e formavano due articoli connessi della catechesi elementare. San Paolo, pure supponendo che i Cristiani abbiano ricevuto lo Spirito Santo nel Battesimo, ricorda l’imposizione delle mani soltanto a proposito del Sacramento dell’Ordine. Molti teologi vogliono vedere un’allusione alla Confermazione nel passo seguente: « Colui che ci fortifica con voi nel Cristo è Dio il quale ci ha pure segnati con un sigillo e ci ha dati i pegni dello Spirito (II Cor. I, 21-22) ». L’argomentazione fondata sopra questo testo è molto precaria. Essa non può appoggiarsi molto sui verbi fortificare o confermare (qui confirmat), sigillare (qui signavit), ungere (qui unxit), perché soltanto più tardi questi termini furono applicati alla Confermazione ed hanno come soggetto Dio, non già il sacro ministro. E poi qui non si tratta di tutti i fedeli, ma di Paolo e dei suoi compagni, specialmente di Silvano e di Timoteo; ora non si vede come mai potrebbero questi ultimi riferire ad un dono che è a loro comune con tutti i cristiani, il coraggio necessario agli apostoli per il degno esercizio del loro ministero. L’unzione dalla quale deriva quella forza divina, è la loro stessa vocazione all’apostolato, e il sigillo che li segna con la sua impronta, sono le operazioni dello Spirito Santo le quali autorizzano la loro missione. Vi è tuttavia un’allusione abbastanza chiara alla Confermazione, in un testo dove la maggior parte dei teologi non la scorgono: « Come il corpo è uno ed ha molte membra, e tutte le membra del corpo, nonostante il loro numero, sono un solo corpo, così è del Cristo; poiché in un medesimo Spirito noi tutti, o Ebrei o Greci, o schiavi o liberi, fummo battezzati in un solo corpo, e tutti fummo abbeverati del medesimo Spirito (I Cor. XII, 13) ». Quattro ragioni ci fanno pensare che questa infusione dello Spirito indichi il Sacramento della Cresima: il verbo all’aoristo (ἐποφίσθημεν = epofistemen) non indica uno stato permanente, né una azione ripetuta con frequenza, ma un rito transitorio analogo e parallelo a quello del Battesimo. — D’altra parte non si può pensare al Battesimo stesso che è stato appunto nominato poco prima, né alla bevanda eucaristica che non si potrebbe riconoscere sotto questo enigma. — Le parole di Paolo descrivono la formazione del corpo mistico: col Battesimo il neofito è innestato sul Cristo, immerso nel Cristo, incorporato al Cristo; allora interviene lo Spirito Santo, anima della Chiesa, per infondergli una nuova vita; il conferimento dello Spirito Santo completa l’incorporazione del Battesimo. — Nell’Antico Testamento, come nel Nuovo, la missione dello Spirito di Dio si presenta ordinariamente sotto il simbolo di una effusione, di una pioggia, di un effluvio (Is. XII, 3; XXXII, 15; XLIV, 3; Ger. II, 13; Ezech. XLVII, 1; Zac. XII, 10; Gioel. II, 28, etc. Giov. VII, 39-40; Act. II, 17, 18, 33; Tit. III, 6, etc.). Vi è immagine più atta a indicare il rito sacro che rinnova e perpetua in seno alla Chiesa il miracolo della Pentecoste!

[continua]

SALVATION’S PILLS – PILLOLE DI SALVEZZA -1- : I. WHO MAY PREACH # II. Periodic abstinence.

I. WHO MAY PREACH [Chi può predicare?]

II. Periodic abstinence, misnamed “CATHOLIC BIRTH CONTROL ” [Astinenza periodica, erroneamente definita “Controllo cattolico delle nascite” ]

I. WHO MAY PREACH

CAN. 1342

1. Concionandi  facultas solis sacerdotibus vel diaconis fiat, non vero ceteris clericis, nisi rationabili de causa, iudicio Ordinarii et in casibus singularibus.

2. Concionari in ecclesia vetantur laici omnes, etsi religiosi.

[Solo i preti e i diaconi possono predicare; gli altri chierici solo in casi speciali col permesso del Vescovo, mai però i laici, sebbene religiosi.]

Only priests and deacons should be given the faculty of preaching, and no other clerics should be allowed to preach, except in particular cases and for a cause which the Ordinary deems reasonable.

Laymen, even though they may be religious, are forbidden to preach in church.

It is well known that some Oriental lay monks played a rather conspicuous part in the religious controversies of the fifth century. We need not wonder, therefore, that they were forbidden to preach, because this office demands a canonical mission.26 There is a remarkable decretal of Innocent III, which shows the ingenuity of some abbesses who, besides hearing confession, also delivered public homilies.27 This appeared as a novelty to the pope, who stopped the practice. Laymen, too, at times went so far as to hold secret conventicles and to despise the word of God when preached by priests.28 Wiclif and Huss were not the first to demand permission to preach to men and women alike.29

This prohibitive law is based on the requisite of jurisdiction, of which the faculty of preaching is a part.

[È noto esservi stata una parte piuttosto cospicua tra le controversie religiose del quinto secolo nei confronti di monaci laici orientali. Non dobbiamo quindi ora meravigliarci che fosse stato loro proibito predicare, perché questo ufficio richiede una missione canonica. C’è un importante decreto di Innocenzo III, che mostra l’ingenuità di alcune badesse che, oltre a confessare, facevano anche pubbliche omelie. Questo appariva come una novità al Papa, che ne fermò la pratica. Anche i laici, a volte si spingevano fino a ritenere convinzioni occulte e a disprezzare la parola di Dio quando veniva predicata dai Preti. Wiclif e Huss non furono i primi a chiedere il permesso di predicare agli uomini e alle donne. Questo divieto si basa sul requisito della giurisdizione, di cui la facoltà di predicare è una parte.]

26 See c. 19, C. 16, q. 1 (Leo I).
27 C. 10, X, III, 38.
28 C. 12, 14, X, V, 7.
29 Art. 37 (Denz., 581).

A COMMENTARY ON THE NEW CODE OF CANON LAW
By THE REV. P. CHAS. AUGUSTINE, O.S.B., D.D.
Professor of Canon Law
VOLUME VI
Administrative Law (Can. 1154-1551)
B. HERDER BOOK CO.
17 SOUTH BROADWAY, ST. Louis, Mo.
AND 68 GREAT RUSSELL ST. LONDON, W. C
1921
Cum Permissu Superiorum
NIHIL OBSTAT. F. G. Holweck, Censor Librorum
Sti. Ludovici, die 18. Nov. 1920.
IMPRIMATUR. + Joannes J. Glennon, Archiepiscopus Sti. Ludovici
Sti. Ludovici, die 22. Nov. 1920.
Copyright, 1920 by Joseph Gummersbach
All rights reserved. Printed in U.S.A.
VAIL-BALLOU COMPANY
BINGHAMTON AND NEW YORK
pp.362-363

II. Periodic abstinence, misnamed “Catholic Birth Control”

[Astinenza periodica, erroneamente definita “Controllo cattolico delle nascite”]

The sins of Married People

[I peccati degli sposati]

 760. N. B. Treatment of Onanism in the Confessional.

a) Questioning the penitent is of obligation as often as there is a well-founded suspicion in this regard. In such instances the question may be: “Does your conscience reproach you in regard to the sacred character of matrimony?” “Have you done anything contrary to the purpose of marriage?”

b) Instructing the penitent on the gravity of such sins is necessary, even though the penitent has therefore been in good faith. Good faith will scarcely be found in this matter nowadays, except in extremely difficult circumstances, e.g., a reliable physician tells a woman that another pregnancy will endanger her life. In such instances the confessor may omit the instruction if he foresees that sins which are now only material will become formal sins.

c) Whoever is not firmly resolved to avoid the sin is not disposed and cannot be absolved. Being intrinsically evil, conjugal onanism is gravely sinful even when – to avoid it – married people would have to practice lifelong continence. From early times Christians were called upon to make heroic sacrifices. When God demands a sacrifice He gives the grace necessary to make it.

d) Recidivists who assure the priest that they had the best intentions are to be handled as recidivists living in the proximate occasion of sin; those who, furthermore, cannot have more children (e.g., because of the illness of the wife or extreme poverty) should be treated as those who are living in the proximately necessary occasion of sin (Cf. 608); whereas those who do not desire more children because they are unwilling to make sacrifices, should be handled as those living in a proximate free occasion of sin (Cf. 607).

e) Conception, according to the opinion of physicians, follows only when marital relations take place at certain times, i.e., during the period of fertility on the part of the woman. Abstaining from intercourse during this period has come to be known as the Rhythm Method of Birth Control. For a proportionate reason and with the mutual consent of husband and wife it is lawful intentionally to practice periodic continence, i.e., restrict intercourse to those times when conception is impossible. Physicians are not agreed as to the exact extent of the so-called “safe period”.

Since some women have irregular cycles and since illness may in some cases cause a disturbance of the regularity, the confessor should refer women who have a sufficient reason to avoid pregnancy to a conscientious physician who may give them biological details regarding the sterile period.

Periodic abstinence, misnamed “Catholic Birth Control”, is, therefore, lawful only under certain conditions: 1) Both parties must freely agree to the restrictions that it involves. 2) The practice must not constitute an occasion of sin, especially the sin of incontinence. 3) There must be a proportionately grave reason for not having children, at least for the time being.

607. Occasionists.

1. Concept. An occasion of sin is some external circumstance that leads one to sin. Hence he is an occasionist, who sins in consequence of such a circumstance.

The proximate occasion may be free or necessary. The former can be easily avoided. A necessary occasion is one which is physically or morally impossible to avoid without great danger to life, health or reputation.

Absolution of those in the proximate occasion of grievous sin.

Whoever does not want to give up a proximate free occasion of sin cannot be absolved.

608. If one does not abandon the proximately necessary occasion of sin, but is willing to use adequate means to make it remote, he may be absolved.

Such means may either strengthen the penitent spiritually (prayer, Sacraments, consideration of the eternal truths) or lessen the influence of the occasion (guarding the eyes, avoiding intimate familiarity or the opportunity of being alone with another).

If one continually relapses into sin in spite of taking such precautions, he cannot be forced to give up the occasion at all costs; however, he must be vigorously encouraged to be more zealous in the use of such means that will make the occasion remote.

N.B. There are various intermediary stages between the remote and proximate occasion. The greater the danger of sinning, the more serious must be the reasons to justify one in not avoiding the occasion of sin.

96. SIN IN GENERAL

Concept. Sin is the free transgression of a divine law.

Every law is, in a sense, a derivation from the divine law; therefore, the transgression of any law is sinful.

The requisites for every sin are: a) the transgression of law, at least a putative law, b) the knowledge of the transgression; a confused knowledge suffices, c) free consent.

Differing from formal sin just defined is material sin, i.e., the violation of a law without knowledge or consent; God never imputes a material sin as a fault. Before a civil court, however, one is held responsible in some cases.

Moral Theology
by Rev. Heribert Jone, O.F.M. CAP., J.C.D., by Rev. Urban Adelman, O.F.M. CAP., J.C.D.
The Mercier Press Limited, Cork, Ireland
Nihil Obstat: PIUS KAELIN, O.F.M. CAP, Censor Deputatus
Imprimi Potest: VICTOR GREEN, O.F.V. CAP., Provincial, July 2, 1955
Nihil Obstat: RICHARD GINDER, S.T.I., Censor Librorum
Imprimatur: JOHN FRANCIS DEARDEN, D.D., Bishop of Pittsburg, August 15, 1955
SIN IN GENERAL, p. 46.
Special Types of Penitents, pp. 428, 429.

The sins of Married People, p. 542.
Copyright 1929 and 1951
Printed in the United states of America

fr. UK, Catholic Priest.

774. NOTA. – TRATTAMENTO DEGLI ONANISTI IN CONFESSIONE

a) L’obbligo d’interrogare esiste per sé tutte le volte che v’è un sospetto fondato. In simili casi la domanda può suonare per es.: « Non Le rimorde per nulla la coscienza circa la santità del matrimonio? » — « Non è avvenuto nulla contro il fine del matrimonio? »; o altre secondo l’uso di buoni sacerdoti nelle diverse regioni.

b) E necessario istruire il penitente circa la gravezza di questo peccato, anche se finora è stato in buona fede. Veramente ai nostri tempi difficilmente vi sarà la buona fede, salve circostanze molto scabrose: per es. quando un medico di coscienza ha dichiarato che una nuova gravidanza metterebbe a repentaglio la vita della donna. In tal caso si può lecitamente omettere l’istruzione, se si prevede che altrimenti i peccati materiali non farebbero che diventare formali.

c) Chi non ha la volontà risoluta di evitare il peccato, non è disposto, e non può essere assolto. — Non essendo mai lecito far ciò che è intrinsecamente cattivo, ne segue che l’onanismo nel matrimonio è grave peccato anche quando i coniugi (caso rarissimo del resto) dovessero altrimenti vivere sempre in continenza. Come a nessuno, nelle persecuzioni contro i Cristiani, fu lecito rinnegare la propria fede per non essere ucciso fra spaventosi tormenti, così non è lecito l’onanismo per non dover vivere in perpetua continenza. Quali sacrifici eroici non esigono sovente gli Stati moderni! E allora anche Dio può certamente esigere che noi facciamo sacrifici per il Cielo. Del resto, Dio dà anche le grazie corrispondenti al sacrificio da lui richiesto. L’uomo, certo, deve avere tanto spirito di sacrificio da impegnarsi a chiedergliele (cfr. discorso di Pio XII alle ostetriche, 29 ott. 1951).

d) I recidivi, che assicurano di avere il miglior proposito, devono essere trattati come i recidivi che si trovano nell’occasione prossima di peccato; e precisamente, se di fatto non possono più aver figli, per es. a causa di malattia della moglie o di una povertà che è indigenza, devono considerarsi in occasione prossima necessaria di peccato; quelli invece che per ripugnanza al sacrificio, ecc. non vogliono più avere figli, si devono trattare come persone nell’occasione prossima libera del peccato.

e) Secondo l’opinione dei medici il concepimento si verifica soltanto quando l’atto coniugale si compie in tempi determinati.Non peccano i coniugi facendo l’atto coniugale anchenei tempi agenesici. Ma se essi, sempre e deliberatamente,senza un grave motivo, hanno rapporti coniugali soltanto nei periodi infecondi, peccano contro il senso stesso della vita coniugale. Tuttavia, l’osservanza dei tempi infecondi o agenesici, per motivi proporzionati (sanitari, eugenici, economici, sociali), di comune accordo è lecita, fino a tanto che sussistono tali motivi (cfr. discorso di Pio X I I alle ostetriche, 29 ott. 1951 e quello al « Fronte della Famiglia», 29 nov. 1951). — Circa la precisazione di questi periodi agenesici, però, medici stessi non sono ancora pienamente d’accordo. Negli ultimi tempi guadagna sempre più terreno l’opinione che gli ultimi undici giorni precedenti la prossima mestruazione siano fisiologicamente sterili e che la concezione si verifichi soltantoquando l’atto coniugale ha luogo nel tempo che decorre dal 19°al 12° giorno precedente la prossima mestruazione. Ma poiché alcune donne non hanno un ciclo mestruale regolare e in certi casi possono aggiungersi anche dei turbamenti patologici, il confessore si guardi dall’entrare in spiegazioni del genere, ma invii le persone, che per validi motivi non desiderano più figli,a un medico competente e coscienzioso, il quale indicherà loro esattamente i giorni in cui devono vivere in continenza.Certamente è questo uno dei punti più delicati del ministero pastorale; Pio XI nella Enc. « Casti Connubii » (31 dic.1930; AAS, XXII, 1930, p. 539-592) e Pio XII nel discorso alle ostetriche (29 ott. 1951) e in quello al « Fronte della Famiglia» (29 nov. 1951) hanno richiamato con energia e chiarezza la dottrina cattolica della santità del matrimonio cristiano contro tutte le recenti teorie e pratiche materialistiche.

LE OCCASIONI

616 E. — CONFESSIONE DI OCCASIONARI E ABITUDINARI E RECIDIVI.

I . Occasionari — 1° Nozione di occasione. Per occasione s’intende una circostanza esterna al soggetto che alletta qualcuno al peccato, rendendone facile l’esecuzione. Qui non si tratta dell’occasione remota, ma soltanto della prossima, di quell’occasione cioè alla quale è congiunto un pericolo grave che uno pecchi, sia che cadano generalmente tutti gli uomini (occasione assoluta) sia che vi cada sempre o quasi sempre un individuo determinato per le sue particolari disposizioni (occasione relativa). — Non si tiene qui conto dell’occasione remota, essendo lecito esporsi ad essa per un motivo ragionevole. L’occasione prossima può essere volontaria o necessaria. La prima si può facilmente evitare; schivare la seconda è fisicamente o moralmente impossibile per causa del grave danno alla vita, alla sanità, alla riputazione, che ne deriverebbe. Un’occasione prossima necessaria di peccato è per es. una relazione, in cui sia in vista un prossimo matrimonio; la convivenza coniugale, dei figli, ecc.

Assoluzione di chi si trova nell’occasione prossima di peccato.

a) Chi non vuole evitare l’occasione prossima volontaria di peccato, non può essere assolto.Ciò vale anche quando con la preghiera ecc. si vorrebberendere l’occasione remota.

Chi promette sinceramente di evitare subito l’occasione, può essere assolto subito. — Chi mancò più volte a questa promessa, dimostra che ha disposizioni dubbie; d’ordinario quindi non può essere nuovamente assolto, se prima non abbia allontanata l’occasione (cfr. n. 614). — Se il levare l’occasione (supposta volontaria) importa grandi sforzi morali (licenziamento di persona, disdetta d’un servizio) si può fin dalla prima volta differire l’assoluzione fino a quando l’occasione sarà tolta.

b) Chi non lascia l’occasione prossima necessaria, ma usando i mezzi idonei vuol renderla remota,può essere assolto.Tali mezzi possono essere destinati ad accrescere le forzespirituali (preghiere, sacramenti, meditazione delle veritàeterne) od a diminuire le forze dell’occasione (custodia degliocchi, contegno molto riservato con quella persona, schivaredi trovarsi da soli con essa).Chi non ostante l’uso dei mezzi ricade sempre dinuovo, non può essere costretto ad abbandonare l’occasionea qualunque costo; si deve però esigere con insistenza che usi con più energia i mezzi convenienti. — Ma se questa occasione lo ponesse nel pericolo prossimo di eterna dannazione, per sé dovrebbe troncarla anche a costo della propria vita. — Non può essere assolto colui che non vuole usare imezzi convenienti per rendere remota l’occasione prossima necessaria.

Nota.

Fra l’occasione remota e l’occasione prossima vi sono diversi gradi intermedi; quanto maggiore è il pericolo di peccare, tanto più gravi devono essere i motivi che disobbligano dall’abbandonare l’occasione. – Chi senza motivo sufficiente non evita un’occasione che non è propriamente remota, ma neppure è ancora prossima, commette almeno peccato veniale.

II. Peccatore abitudinario si dice colui che, durante un periodo piuttosto lungo di tempo, cade sovente nei medesimi peccati, senza che tra i singoli peccati vi sia un intervallo troppo grande. Nel giudicare di una abitudine si deve tener conto anche dell’indole del peccatore e della natura del peccato. Si distingue dal recidivo principalmente per questo che non è ricaduto ancora di continuo nei medesimi peccati dopo varie confessioni. L’abitudinario per sé deve essere assolto subito, anche se non è preceduta alcuna emendazione, purché sia realmente ben disposto.

III. Recidivo dicesi chi, non ostante ripetute confessioni, ricade sempre negli stessi peccati senza sforzarsi seriamente di correggersi.

Per assolverlo per sé si devono applicare le regole generali. La difficoltà sta appunto nel verificare se di fatto sia ben disposto.

Come norma: è ben disposto chi cade soltanto per fragilità; chi in genere sente orrore del peccato e lotta contro la tentazione e subito dopo la caduta detesta la sua azione (ciò accade spesso in chi pecca di polluzione). Si può rilevare se uno sia ben disposto, e ciò con facilità, chiedendogli non soltanto quante volte sia caduto, ma anche quante volte abbia resistito alla tentazione. — Di solito sono mal disposti quei recidivi che hanno un persistente attacco all’oggetto peccaminoso (relazione illecita, attacco alla cosa rubata, sistema dei due figli e non più). Tuttavia se vi sono segni positivi che un tale individuo sia ora più seriamente pentito che nelle confessioni precedenti, si può ammettere in lui una disposizione sufficiente. – In caso di disposizione dubbia, si devono ordinariamente assolvere quelli che peccano per debolezza, poiché è ad essi necessaria la grazia dei Sacramenti. — Si deve invece di solito rifiutare l’assoluzione a quanti ricadono nel peccato, perché non vogliono compiere il loro dovere (per es. restituire, troncare una relazione illecita).

97 – Il peccato in genere.

I. Nozione. Il peccato è la volontaria trasgressione di una legge divina. Poiché ogni legge è un’emanazione della legge divina, così anche la trasgressione di qualunque legge costituisce peccato.

I requisiti che costituiscono un peccato, sono: a) la trasgressione di una legge, almeno di una legge ritenuta per tale; b) la cognizione della trasgressione (basta però una cognizione confusa); c) il libero consenso.

Tali elementi costituiscono il peccato formale; il quale si distingue dal peccato materiale, che è la trasgressione di una legge senza saperlo né volerlo; tale trasgressione non viene da Dio attribuita come colpa; ma dalla società, in certi casi, si è citati a rispondere di dette azioni.]

ERIBERTO JONE O. F. M. Cap.:

COMPENDIO DI TEOLOGIA MORALE

Trad. dalla 14° edizione tedesca a cura dei Frati Minori Cappuccini della Provincia di Lombardia. –

MARIETTI Ed. 1952

Nihil obstat, ex parte Ordinis, quosimus imprimatur. Romæ, 12 dec. 1951

Fr. CLEMENS A. MILWAKEE

Min. Gen. O. F. M. Cap.

Imprimatur

Casali, 30 dec. 1951.

Ca. Laurentius Oddone, Vic. Gen.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (19)

CAPITOLO XVIII.

(seguito del precedente)

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

La vergogna, secondo salario del disertore della Città del bene — Dio o bestia, non vi è altra via per l’uomo — Il cittadino della Città del bene diventa dio: prove — Il  cittadino della Città del male diventa bestia: prove — Una sola cosa distingue l’uomo dalla bestia, la preghiera — Il cittadino della Città del male non prega più — Egli vive dell’io — Che cos’è quest’io — Egli perde l’intelligenza: prove — Il castigo, terzo salario del disertore della Città del bene — Castighi particolari — Catastrofi universali, il diluvio d’acqua, il diluvio di sangue, il diluvio di fuoco.

La vergogna. — Da libero diventare volontariamente schiavo è un’onta. D’uomo diventar bestia è ancora una maggiore. Quest’onta inevitabile è il secondo baluardo, di cui lo Spirito Santo circonda la Città del bene per impedir all’uomo di uscirne. Indiarsi, o farsi bestia: ecco i due poli opposti del mondo morale. O Dio, o bestia; tal’è la suprema alternativa in cui si trova posto l’uomo quaggiù. La ragione è ch’egli è obbligato a vivere sotto l’impero del Re della Città del bene, o sotto l’impero del re della Città del male. Ora, e l’uno e l’altro di questi Re fa i suoi sudditi ad immagine sua: Iddio, lo Spirito Santo, gli fa dii: satana bestia, li fa bestie. La città del bene è una grande fabbrica di Dei, e la Città del male una grande fabbrica di bestie. « Ciascuno di noi, dice sant’Agostino, è come il suo amore. Se ami la terra, tu sarai terra: se ami Dio, tu sarai dio. »[Talis enim quisque nostrum est, qualis est ejus dilectio; terram diligis, terra eris: Deum diligis, Deus eris. Tract. 2 in Epist. I, Joan]. – « Restate cou me, dice lo Spirito Santo, ed io vi faccio figli di Dio, Dii veri, Dii per l’essere divino che vi comunico: Dii per la verità dei vostri pensieri; Dii per la nobiltà dei vostri sentimenti; Dii per la santità della vostra vita; Dii per l’indomita potenza della vostra volontà contro il male, armato di sofismi, di promesse o di minacce; Dii pel diritto all’eredità eterna di Dio, vostro Creatore e vostro Padre. » [Dedit eis potestatem fìlios Dei fieri. Joan. I, 12. — Quicumque Spiritus Dei aguntur, ii sunt fìlii Dei, etc., etc. Rom. VIII, 24]. – Lo Spirito Santo ha mantenuta la parola. Vedete ciò che sono diventati gli Angeli docili alla sua voce. Risplendenti di gloria, inondati di voluttà, dotati di tutti gli attributi divini, l’intelligenza, la forza, la bontà; essi si avvicinano a Dio, quanto il finito può avvicinarsi all’infinito. Vedete l’umanità cristiana nei suoi veri rappresentanti, gli Apostoli, i Martiri, le Vergini, quelle legioni di Santi e di Sante, divinamente generati da diciotto secoli e più oltre, su tutti i punti del pianeta. A quale altezza essi innalzano l’umanità cristiana al disopra dell’umanità pagana, al disopra dell’umanità che cessa d’essere cristiana! Che cosa sarà se voi contemplate questa deificazione nel suo complemento, cioè dire negli splendori dell’eternità? Qui è che la parola, spirando sulle labbra, non può più fare udire se non che l’espressione della sua impressione: « No, l’occhio dell’uomo non ha punto visto,né il suo orecchio ha punto inteso, e ancor meno il suo cuore il quale, per quanto vasto egli sia, non può comprendere ciò che Dio riserba a coloro, che sono divenuti per l’amore, suoi figli e suoi eredi. » (Cor., II, 9). – Dal canto suo, il principe della Città del male travaglia con accanimento all’opera contraria. Allorché attira a sé un uomo, lo piglia nelle sue granfie, gli acceca lo spirito, gli corrompe il cuore, lo inebria coi suoi veleni e lo trasforma in bestia. Considerate piuttosto, che la bestia fa tutto quel che fa l’uomo, eccetto una cosa. La bestia mangia, beve, dorme, digerisce, cammina, corre, vola, nuota, fabbrica, calcola, parla, scrive, canta, viaggia, prevede, accumula, esercita tutte le arti della pace e della guerra. In tutto questo, essa è uguale all’uomo, talvolta superiore. Ma vi è una cosa che la bestia non fa, che non può fare, né farà giammai, e che la lascia a una distanza infinita al di sotto dell’uomo: la preghiera. L’uomo prega; la bestia non prega. L’uomo adora, la bestia non adora, cioè dire, in altri termini, che l’uomo e la bestia, in una sola cosa diversificano, nella Religione. Ora, il primo effetto dell’azione satanica sull’uomo è di farlo arrossire della Religione; e ne arrossisce! La Religione ha due grandi manifestazioni, la preghiera e l’amore. La preghiera è talmente il segno distintivo dell’uomo, che i pagani l’hanno definito un animale che prega: animal religiosum. Lo stesso Nostro Signore definisce il Cristiano: un uomo che prega sempre : oportet semper orare et numquam deficere. Cosi quando l’uomo cessa di pregare, si avvicina alla bestia. Se egli non prega punto, diventa affatto bestia. Non siamo noi che lo diciamo, è la stessa verità che si esprime per bocca di san Paolo: uomo animale, animalis homo. Ora è cosa nota che il primo atto dell’uomo diventato cittadino della Città del male, si è di rinunziare alla preghiera. Un esempio tra mille. Se havvi nella vita ordinaria una circostanza in cui la preghiera sia sacra, è l’ora solenne del cibo. Noi diciamo solenne, perché il pasto è un’azione profondamente misteriosa. Mangiando, l’uomo comunica, comunica con le creature e nel modo più intimo, poiché ei le trasforma nella sua propria sostanza. Ora tutte le creature sono viziate dallo spirito del male, a cui esse servono di veicoli, per introdursi nell’uomo e comunicargli i suoi veleni. Questa assimilazione separata dalla preghiera che gli purifica cacciando il demonio, è evidentemente piena di pericoli. Così l’ha compreso l’umanità tutta quanta. (Noi non diamo qui che una ragione della preghiera avanti il pasto; le altre sono spiegate nell’opera nostra: Il segno della croce nel XIX secolo). Di qui, quel fatto altrimenti inesplicabile che tutti i popoli, anche pagani, hanno pregato prima di mangiare. Il fatto essendo universale, ha dunque una causa universale. Una causa universale è una legge. Pregare prima di mangiare è dunque ima legge dell’umanità. Il disprezzo orgoglioso, il sorriso imbecille non vi fanno niente. Rimarrà sempre il non conoscere nella natura che due specie di esseri che mangiano senza pregare: le bestie, e quelli che assomigliano ad esse. Diciamo che assomigliano ad esse, imperocché si può sfidare non solamente tutti gli sprezzatori del Benediette, che è poco, ma tutti i naturalisti del mondo a trovare la differenza tra l’uomo che mangia senza pregare, e un cane o un porco. Assimilarsi alle bestie in una circostanza in cui tutti i popoli anche pagani, hanno sentita la necessità di distinguersi da loro; ecco quel che fanno! E perché lo fanno, si tengono per grandi geni. È bisognato venire al tempo nostro di grossolano materialismo, per incontrare uomini che si crederebbero disonorati, se due volte al giorno essi non si assimilassero ostensibilmente all’asino ed al coccodrillo. Homo cum in honore esset, non intellexit: comparatus est jumentis insipientibus et similis factus est illis. – Un secondo segnale della Religione è l’amore. Lo Spirito Santo essendo carità, dell’anima in cui risiede forma la carità vivente. Il segno distintivo della carità è l’oblio di sé medesimo, per Iddio e per gli altri; l’oblio del corpo a profitto dell’anima, l’oblio portato sino al sacrificio. Appena che l’uomo entra nella Città del male, subito sparisce la carità, e gli succede l’egoismo. L’uomo si ricorda di sé, e nient’altro che di sé. Invece di andare da sé verso gli altri, va dagli altri verso di sé. L’egoismo non sa che una parola sola, ma la sa a meraviglia: l’io. L’io in tutto; l’io dappertutto: l’io sempre. Dopo di me, Iddio e i suoi ordini; dopo di me, gli altri e i loro, bisogni e i loro desideri; dopo di me, nulla. Non basta; 1’egoismo è il sacrificio degli altri per sé. Innocenza, onore, fortuna, riposo, sanità, la stessa vita, non sono niente per lui, allorquando si tratta di soddisfare se stesso. Ma che cosa è il me dell’egoista? È forse la sua anima? nient’affatto: imperocché l’amore dell’anima è la carità: che cosa è dunque? Èla parte inferiore del suo essere, è il corpo; e nello stesso corpo, la parte più infima. Al di fuori della fede, tutto il lavoro dell’uomo si riduce in ultima analisi alla vita corporea. Il bere ed il mangiare ne sono gli elementi. Cominciata per essi, sostenuta per essi, finisce per essi. Avere da bere e da mangiare, soddisfare le sue cupidigie, averle in abbondanza, assicurarsi d’averle sempre; ecco la prima e l’ultima parola dell’egoismo. Il rimanente non è che un mezzo o un resultato. – Ora il laboratorio della vita animale è il ventre. In fin dei conti la vita di ogni uomo si riferisce al ventre, poiché è divenuto suddito di colui che si chiama la Bestia, la Bestia per eccellenza, la Bestia in tutti i sensi. Quindi per definire queste immense e queste immonde mandrie di Epicuro, la parola a un tempo cosi energica e cosi giusta dell’Apostolo, che gli chiama: adoratori del Dio ventre: Quorum Deus venter est. Ciò che è vero dell’uomo e di taluni popoli, lo è stato dell’umanità medesima la vigilia del diluvio, e lo sarà ancor più verso la fine dei tempi. Questa vergognosa assimilazione dell’uomo alla bestia si svolge in tutte le sue conseguenze. Noi non ne citiamo che una sola: cioè la stupidità o la perdita dell’intelligenza. [Intelligere, intus legere]. La bestia è stupida, vale a dire che essa non capisce, né ammira. Essa non capisce; perché il capire è vedere l’idea nel fatto. Ponete un triangolo sotto gli occhi di un cane, ei vedrà un oggetto materiale, formato di tre lati eguali: ma l’idea del triangolo gli sfugge. Perché? Perché al di là del dominio dei sensi non vi è nulla per lui. La bestia non ammira. Per ammirare bisogna capire. Certo, all’asino produce la stessa impressione tanto la vista di un capolavoro, che la vista di un carciofo. La bestia dunque non comprende, né ammira. Cosi avviene all’uomo che diventa bestia. Caduto egli dalle altezze della fede non ha più altra intelligenza che quella della materia e della vita materiale. Cercate lo scopo finale delle sue speculazioni, dei suoi studi e delle sue scoperte, della sua politica, di tutto quel moto febbrile che lo trascina e lo consuma: che vi trovate voi? Il corpo ed i suoi appetiti. Luce, progresso, civiltà, qual è il significato di tutte queste parole pompose? tradotte in prosa volgare significano; scienza di petardi, filosofia pirotecnica, amore di fuoco di stoppa, guarentigia e glorificazione di fuochi fatui. In altri termini, è il programma invariabile e l’eterno ritornello di tutti gli uomini e di tutti i popoli, beatificati dalla Bestia infernale. « Beviamo e mangiamo, poiché noi morremo domani. Quest’è la nostra beatitudine ed il nostro destino. Pane e piaceri: ecco tutto l’uomo. » [Comedamus et bibamus: Cras enim moriemur. Is., XXII,13. Hæc est pars nostra, et haec est sors. Sap. II, 9. — « Panem et circenses, » dicevano i pagani nei bei giorni della loro civiltà]. – Non mi date come prove dell’intelligenza dell’uomo animale, il modo abile con cui manipola la materia. La rondine, il baco da seta, l’ape che non hanno intendimento, la manipolano più abilmente di lui. Noi lo ripetiamo, l’intelligenza consiste nel leggere l’idea nel fatto, nel vedere la causa nel fenomeno: notate bene non quella causa immediata che riluce in qualche modo attraverso il fatto; ma la vera causa, la causa prima e lo scopo finale. Ora tutto ciò non è conosciuto che nella Città del bene. A colui che abita la Città del principe delle tenebre, parlate del mondo delle cause, del mondo di Dio e degli Angeli, vero dominio dell’intelligenza: tutte queste realtà sono per lui tante astrazioni o chimere; egli è stupido. Che cosa sarà se voi gli segnalate l’intervento permanente, universale, inevitabile e decisivo del mondo inferiore? Le sue labbra sorrideranno di disprezzo; egli è stupido. Discendete da queste elevatezze: ditegli che egli ha un’anima immortale, creata a immagine di Dio, redenta dal sangue di un Dio, destinata ad una felicità o a una infelicità eterna; aggiungete che l’unica faccenda dell’uomo essendo il salvarla, occuparsi di tutte le altre, eccetto che di questa, è uno scacciare le mosche e tessere delle tele di ragno; egli sbadiglia o dorme; è stupido. Tentate di dispiegare dinanzi ai suoi occhi le meraviglie della grazia, tutti quei capolavori di potenza, di sapienza e di amore che hanno esaurita l’ammirazione dei più grandi geni, voi gli parlate una lingua di cui non

capisce una parola; è stupido. Sermoni, libri di pietà o di filosofia cristiana, conferenze religiose, feste solenni le quali, con i più augusti misteri, descrivono allo spirito ed al cuore i più grandi benefìci del cielo, come i più grandi avvenimenti della terra; insomma tutto ciò che attiene al mondo soprannaturale, lo annoia; egli non comprende nulla, non sa nulla; è stupido. Ma parlategli di danaro, di commercio, di vapore, di elettricità, di macchine, di carbon fossile, di cotone, di barbabietole, di bestiame, di praterie, d’ingrassi, di produzione e di consumo, egli diventa tutt’occhi e tutt’orecchi. Voi toccate la questione vitale della sua filosofia, la questione della marmitta: non ne conosce altra. « L’uomo, dice il Profeta, dimenticando da sua dignità, si è tenuto bestia senza intelligenza, ed è diventato simile a lei. » [Homo, cum in honore esset, non inteltexit: comparatus est jumentis ìnsipientibus et similis factus est illis Ps. XLVIII, 13]

Il castigo. — A fine di proteggere la pace e la vita dei suoi sudditi contro gli assalti del nemico, lo Spirito Santo circonda la sua Città di un terzo baluardo più solido dei primi. Se l’uomo, chiunque si sia, osa dire al Re della Città del bene: Io non voglio più obbedirvi, non serviam; all’istante, di libero diventa schiavo, e cammina verso l’abbrutimento. Trascinato per tutte le degradazioni intellettuali e morali, incomincia per esso sino da questa vita l’inferno, che l’aspetta nell’altra. Tal è, noi lo abbiamo visto, la sorte inevitabilmente riserbata all’individuo. Se la ribellione contro lo Spirito Santo diviene contagiosa sino al punto, che nel suo insieme, un popolo, o lo stesso genere umano, non sia più che un grande insorto, allora il delitto, traboccando da tutte le parti, attira a sé dei castighi eccezionali. Ogni legge reca seco una sanzione. Ogni legge avendo per soggetto l’uomo, composto di un corpo e di un’anima, è una spada a doppio taglio, che colpisce il prevaricatore nelle due parti del suo essere. Pigliate una qualunque legge divina o ecclesiastica che vi piaccia, se voi cercate bene, tenete per certo di trovare senza pregiudizio della sanzione morale, una ricompensa e una punizione temporale, unita all’osservanza o alla violazione di questa legge. Lasciando da parte i flagelli particolari, rilegga l’umanità i suoi annali storici e profetici. Tre grandi catastrofi vi sono registrate. La prima è il diluvio, o la rovina del mondo antidiluviano. Quale fu la cagione di questo cataclisma nel quale perì, eccetto otto persone, tutta intera la stirpe umana? Colui che con la sua mano ruppe le dighe del mare ed aprì le cateratte del cielo, ce la rivela in due parole: « Il mio Spirito, dice il Signore, non resterà più a lungo nell’uomo, imperocché l’uomo è diventato carne. » [Dixitque Deus : non permanebit Spiritus meus in homine in ætemum, quia caro est. Gen., VI, 8].Questa terribile sentenza si traduce in tal modo: « A malgrado di tutti i miei avvertimenti, l’uomo ha scosso il giogo del mio spirito, spirito di luce e di virtù; ei s’è reso schiavo dello Spirito di tenebre e di malizia. Il mondo soprannaturale, la sua anima, Io stesso, non siamo più nulla per lui. Del suo corpo ha fatto il suo Dio, è divenuto carne. Come creatura colpevole e degradata, è indegna del benefizio della vita; ei perirà. » Ed al diluvio di delitti succedette il diluvio d’acqua che portò via tutti.28 [Diluvium carais peperit diluvium aquarum…. corructela diluvii causa est.S. Ambr., de Nòe et Arca, c. V et VII].Una seconda catastrofe, non meno famosa della prima, è la rovina del mondo pagano. Dimenticando l’uomo la terribile lezione che aveva ricevuta, di nuovo si era sottratto all’azione dello Spirito Santo. Datosi corpo e anima allo Spirito malvagio, era venuto a riconoscerlo quasi universalmente per suo re e per suo dio. [Princeps hujus mundi…. Deus hujus sæculi. Joan., XII, 31; XVI, 11; II, Cor.,VI, 4]. Sotto mille nomi diversi, egli lo adorava in tanti milioni di templi da un capo all’altro del mondo: [Omnes dii gentium dæmonia. Ps., XCV, 5], tante adorazioni, tanti sacrilegi, crudeltà e infamie. Siccome l’uomo innanzi al diluvio, era ridivenuto carne, così al soffio dei barbari, disparve il mondo pagano sotto un diluvio di sangue. Una terza catastrofe, più terribile e non meno certa delle precedenti, è la rovina del mondo apostata del Cristianesimo, mediante il diluvio di fuoco che porrà fine all’esistenza della specie umana sul pianeta. Conculcando i meriti del Calvario e i benefizi del Cenacolo, il mondo degli ultimi giorni si costituirà in piena ribellione contro lo Spirito del bene. Schiavo più che mai dello Spirito del male, ei si abbandonerà con un cinismo sconosciuto a tutti i generi d’iniquità. Tale sarà il numero dei disertori, che la Città del bene sarà quasi deserta, mentre la Città del male piglierà proporzioni colossali. – Una terza volta l’uomo sarà divenuto carne. Lo Spirito del Signore si ritirerà per non più ritornare; e un diluvio di fuoco arderà la terra, mille volte più colpevole poiché sarà mille volte più ingrata della terra dei pagani e dei giganti. [Sicut enim erant in diebus ante diluvium,… ita erit et adventus Filii hominis. Matth., XXIV, 38, 39]. – La schiavitù, l’onta, il castigo: tale è dunque il triplice baluardo che l’uomo deve varcare per uscire dalla Città del bene. A questi mezzi esteriori, se si aggiungono gli aiuti ed i benefizi di ogni genere, prodigati agli abitanti di questa felice Città, non siamo noi in diritto di concludere che nessuno vorrà abbandonarla? Se la esperienza confermi il ragionamento, ce lo insegnerà ora la storia.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (18)

Mons. J. J. GAUME

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO, VOL. I

CAPITOLO XVII.

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

I Cittadini delle due Città.

Gli uomini, cittadini delle due Città — Pericoli che circondano la loro fisica esistenza e la vita loro spirituale — Sollecitazioni incessanti dei principi della Città del male — Mezzi di difesa dati dallo Spirito Santo — La schiavitù, il disprezzo, il gastigo, attendono l’uomo che esce dalla Città del bene — La schiavitù primo salario del disertore della Città del bene — Che cosa è la libertà — Bella definizione di san Tommaso — Quadro della schiavitù alla quale si condanna il disertore della Città del bene.

Ogni società si divide in due classi; governanti e governati: conosciamo i re ed i principi della Città del bene e della Città del male. Quali ne sono i cittadini? questa è la questione alla quale dobbiamo noi ora rispondere. I cittadini, ovvero i sudditi della Città del bene e della Città del male, sono tutti gli uomini. La ragione, l’esperienza e la fede ce l’hanno detto: non vi sono tre città ma due sole. Faccia egli quel che si voglia, bisogna che l’uomo, qualunque sia il suo nome e il suo grado, appartenga all’una od all’altra: questa alternativa è crudele. Incominciata essa con la vita, non finisce neppure con la morte. Unita al duplice quadro del mondo angelico e del mondo satanico, che passa sotto i nostri occhi, ci rivela la vera posizione dell’uomo quaggiù. Chi può riguardarlo senza essere commosso sino alla profondità dell’essere suo? – Il nostro corpo, fragile come un vetro, vive tra due forze spaventose, il cui antagonismo potrebbe ad ogni secondo divenire a noi fatale. Secondo i calcoli della scienza, la colonna d’aria che pesa sul capo di ciascuno di noi, rappresenta un peso di 20,000 libbre. Chi ci salva dalla distruzione? Soltanto l’aria che è dentro di noi, intorno a noi, e sotto di noi. Quest’aria fa resistenza alla massa superiore e rende la vita possibile. Appena che l’equilibrio viene a rompersi, subito l’uomo resta schiacciato. – Cosi succede della nostra anima. Essa vive della sua vera vita, la vita della grazia, fra due potenze nemiche e di una forza incalcolabile. All’equilibrio di queste due potenze essa deve evitare l’eterna rovina. La conservazione della nostra vita spirituale è dunque un miracolo non meno continuo, non meno sorprendente, ma molto più degno di riconoscenza che la conservazione della nostra vita fisica. – Nelle stesse condizioni è posta evidentemente l’esistenza delle società. L’influenza più o meno determinante del mondo angelico o del mondo satanico, rende conto delle alternative di lumi e di tenebre, di delitti e di virtù, di libertà e di servitù, di gloria e di vergogne, di prosperità e di catastrofi, che segnalano di quando in quando gli annali dell’umanità. Tale è la vera filosofia della storia. La prova non dubbia di questo fatto rivelatore dell’innalzamento e della caduta degli imperi, è la storia medesima della Città del bene e della Città del male: noi la delineeremo bentosto a grandi tratti. Frattanto notiamo che una sola cosa costituisce, tanto al morale che al fisico, tutto il pericolo della situazione, la rottura cioè dell’equilibrio. Essa ha luogo nell’ordine spirituale, tutte le volte che l’uomo dà la preponderanza su sé medesimo allo Spirito del male, piuttosto che allo Spirito del bene; cosa che dipende da lui, unicamente da lui. A fine di distornarlo da quest’atto di colpevole follia, a cui lo sollecitano di continuo i principi della Città del male, lo Spirito Santo non si contenta di fornirgli tutti i mezzi di resistenza, ma gli mostra le conseguenze della sua fellonia. Esse sono terribili, subitanee, inevitabili: è la schiavitù, l’onta ed il castigo. – Triplice baluardo con cui il Re della città del Bene circonda la sua felice Città, all’oggetto di preservare i suoi sudditi dalla tentazione di uscirne.

La schiavitù. — La libertà è figlia della verità: Veritas liberabit vos. La Città sola del bene, diretta dallospirito di verità, è la patria della libertà. I disertorinell’abbandonarla, per entrare nella Città del male, imparinoad arrossire. No, essi non glorificano la libertà,ma la disonorano: essi non camminano alla conquistadella indipendenza, ma diventano schiavi: e lo sono digià. Da lungo tempo la logica e la fede hanno pronunziatala loro sentenza.La libertà non consiste nel fare il male, ma nell’evitarlo.Quanto più lo evitiamo, tanto più siamo liberi.« Bisogna, dice san Tommaso, ragionare del libero arbitriocome dell’intelletto. Il libero arbitrio sceglie tragli atti che si riferiscono al fine; l’intelletto trae leconclusioni dai principii. Ora ognun sa che entra nelleattribuzioni dell’intelletto quella di trarre delle conclusioni,ma sempre logicamente discendenti da datiprincipii.. Che se, nel trarre una conclusione, dimenticao disprezza i principi, è una imperfezione, una debolezzada parte sua.« Parimente, la perfezione del libero arbitrio consistenell’avere la facoltà di fare differenti scelte, ma semprerelative al fine proposto. Per esempio, gli accade difare una scelta contraria al fine ultimo dell’uomo?questa non è una perfezione, ma una debolezza e undifetto. Quindi resulta che la libertà, o la perfezionedel libero arbitrio è più grande negli Angeli che nonpossono peccare, che in noi che peccare possiamo. »[S. Th., I p. q. LXII, art. 8, ad 3]. Tale è dunque la dottrina dell’Angelo della Scuola: la libertà è il potere di fare il bene, come l’intelletto ha la facoltà di conoscere il vero. La possibilità di fare il male non è più dell’essenza della libertà: quanto la possibilità d’ingannarsi, non è dell’essenza dell’intelletto; come la possibilità d’essere malato non è dell’essenza della salute. L’impeccabilità è la perfezione della libertà, come l’infallibilità è la perfezione dell’intelletto; come l’essere liberi da infermità è la perfezione della salute. Essere peccabile è dunque un difetto nella libertà, come essere fallibile lo è nell’intelletto; come essere malato lo è nella sanità. Ne segue dunque che quanto più l’uomo pecca, tanto più mostra la debolezza del suo libero arbitrio; parimente quanto più egli s’inganna, tanto più mostra la debolezza della sua ragione; così quanto più è malato tanto più egli fa prova di cattiva salute. Altresì, l’uomo quanto più pecca e sragiona più che mai si degrada e si rende spregevole, imperocché si riavvicina sempre più al fanciullo che non ha ancora né la libertà, né l’intendimento, e all’insensato che non l’ha più, o alla bestia che non l’avrà mai. Questa verità fondamentale è la prima armatura della quale lo Spirito Santo ci riveste, il primo motivo dato all’uomo di rinchiudersi eternamente dentro i confini della Città del bene. Molti non lo comprendono. Sedotti dai principi della Città del male, moltissimi vengono a riguardare il giorno in cui si emancipano dalla sovranità dello Spirito Santo, come il giorno natalizio della loro libertà. Poveri ciechi! che una volta almeno guardino in faccia la verità: né gli costerebbe molto. Essa è scolpita nella schiavitù di tutte le facoltà della loro anima: nella degradazione di tutte le membra del loro corpo, in tutte le pagine macchiate della loro pretesa vita indipendente. Giovani o vecchi, ricchi o poveri, letterati o illetterati, per avere disertato dalla Città del bene, traditi i voti del vostro Battesimo, arrossito della fede della vostra infanzia e delle pratiche dei vostri avi, vi credete voi forse liberi? lo siete voi? È vero, voi camminate con la testa alta e con lo sguardo sicuro. Le vostre labbra si contorcono al riso, e la vostra fronte si nasconde sotto un sembiante di gaiezza. Al suono metallico della vostra voce, ed al tuono imperioso delle vostre parole si potrebbe prendervi per i reggitori dell’umanità. Ciò nonostante voi non siete che tanti schiavi, schiavi infelici, e schiavi della peggiore specie. In luogo di un solo Padrone, altissimo e santissimo che voi rifiutate di servire come Egli l’intende, servite altrettanti padroni che sono le vostre ignobili passioni; e fuori di voi, altrettante creature che possono procurarvi o disputarvi l’insigne onore di soddisfarle. Voi le servite, non come l’intendete, ma come esse l’intendono. Padroni spietati, essi vi trascinano con la corda al collo, o vi cacciano con la bacchetta alla mano in tutte le tenebrose vie del male. Trascinati lontano dal paese natio, avete dimenticato la strada dei nostri templi; ma sapete a mente la strada dei teatri e di altri luoghi. Il calice del Dio Redentore, in cui con la vita si beve la virtù, l’onore, la libertà, il pacificamento dell’anima e dei sensi, vi è di disgusto; e voi bevete a lunghi sorsi il calice del demonio, in cui con la morte, si beve il delitto, la vergogna, la schiavitù, la febbre dell’anima ed i furori della disperazione. Immaginandovi d’esser troppo grandi agli occhi vostri per portare su di voi le insegne protettrici della Regina del Cielo, voi portate invece, incastonati nell’oro i capelli di una cortigiana. Uomini e non angeli, bisogna che amiate la carne. Voi non avete voluto amare la carne immacolata dell’Uomo Dio, amerete la carne immonda di una creatura immonda. Vorreste invano respirare talora l’aria della libertà. Come tanti uccelli impaniati nelle perfide reti, non potete prendere il vostro volo. Ad ogni tentativo, una voce spietata, la voce dei vostri padroni mascolini o femminini si fa udire; non fare resistenza, tu sei mio. Dandomi la tua volontà tu mi hai dato tutto. Dammi il tuo danaro, dammi le tue notti, dammi le rose delle tue gote; dammi la pace della tua anima, dammi la salute del tuo corpo; dammi la gioia di tua madre; dammi le speranze di tuo padre; dammi l’onore del tuo nome, e voi lo date! Siete liberi? Silenzio! Schiavi: non profanate nel pronunziarla, una parola che vi accusa. Schiavi nella vostra intelligenza, tiranneggiata dal dubbio e dall’errore; schiavi nel vostro cuore, tiranneggiato da brutali appetiti, cosa è la vostra vita se non che un panno lordo? Che forse la storia della vostra vita è quella di uno schiavo? Sciagurati! che non potete scendere nella vostra coscienza senza ascoltarvi una voce che vi accusa, né contemplare le vostre mani senza vedervi il segno dei ferri o i vostri piedi senza rinvenirvi la palla del galeotto! Figli di re diventati guardiani di porci; ecco quel che voi siete. Avete proprio ragione di andarne superbi! (Misit illum in villam suam ut pascerei porcos. Luc., xv, 15.). La schiavitù dell’anima: ecco ciò che incontrano tutti gli uomini che mettono il piede fuori del recinto della Città del bene: poiché sta scritto: « dove abita lo Spirito del Signore ivi, e ivi soltanto, abita la liberta. » (Ubi autem Spiritus Dei, ibi libertas. II, Cor, III, 17). Ora nel mondo morale, come nel mondo materiale avvi una legge che la parte superiore attrae l’inferiore: Major pars trahit ad se minorem. Alla servitù dell’anima si aggiunge necessariamente la schiavitù del corpo: per conseguenza la schiavitù sociale. Non basta il ripeterlo spesso, e oggi soprattutto: la libertà civile e politica non si trova né nella punta di un pugnale, né nella bocca di un cannone, né sotto il lastrico di una barricata. Essa è figlia non di una carta né di una legge, né di una forma qualunque di governo, ma della libertà morale. Checché ne dica o faccia, ogni popolo corrotto è uno schiavo nato. La libertà morale suppone la fede: la fede è la verità, la verità non risiede che nella Città del bene. Volete voi averne la prova? pigliate una mappa del mondo. Accanto al dispotismo dell’errore che cosa vi mostra esso? Dappertutto il dispotismo dell’oro, il dispotismo della carne, il dispotismo della materia, e sopra tutti questi dispotismi, quello della sciabola. Che cosa è dunque una società che scuote il giogo dello Spirito Santo? Testimoni non sospetti, gli stessi pagani rispondono: « È una quantità di bestiame sopra un mercato, sempre pronto a vendersi al migliore offerente. »(Urbem venalem et mature perituram, si emptorem invenerit. – Parole di Giugurta, in Sallustio.). Più che la storia antica, la storia moderna non dà loro neppur l’ombra di una smentita. Come è egli trattato il bestiame umano? come se lo merita. satana, a cui si dà, abbandonando lo Spirito Santo, gli manda dei padroni fatti di sua mano. Nerone, Eliogabalo, Diocleziano e tanti altri, s’incaricano di far gustare all’uomo emancipato le dolcezze della libertà, della quale gode la Città del male. Per un ricambio di misericordiosa giustizia, Iddio medesimo permette l’esaltazione di queste tigri coronate. A questo proposito la storia riferisce un fatto che dà da riflettere. Siccome i popoli hanno sempre il governo che essi si meritano, una crudele bestia, chiamata Foca, erasi assisa sul trono imperiale di Roma. Per suo ordine il sangue scorreva a torrenti; e la bestia lo beveva come una delizia. Un solitario della Tebaide, stomacato più che afflitto di un tale spettacolo, si rivolge a Dio e gli dice: Perché, o mio Dio, l’avete fatto voi imperatore? E Dio gli risponde: Perché non ne ho trovato uno più malvagio. (Domine, quid fecisti eum imperatorem? Atque vox ad eum venit a Deo, dicens: Quia non inveni pejorem. Anast. Nicen., in Quæst. S. Script., quæst. XV). – Cosi, conservare la libertà con tutte le sue glorie, tale è per l’umanità il primo vantaggio del suo soggiorno nella Città del bene; il perdere questo tesoro e trovare la schiavitù, tale è, se essa osa varcarne il recinto, il suo primo castigo.

CONOSCERE SAN PAOLO (42)

LIBRO V

I canali della redenzione.

CAPO I.

La fede principio di giustificazione.

II. LA GIUSTIFICAZIONE PER MEZZO DELLA FEDE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. LA GIUSTIZIA DI DIO. — 2. IN CHE MODO LA GIUSTIZIA NASCE DALLA FEDE.

1. Il concilio di Trento riconosce due significati all’espressione « giustizia di Dio »: la giustizia di cui Egli stesso è giusto, e la giustizia di cui ci rende giusti (Sess. VI, c. 7). Dopo Bitschl, contro l’opinione comune, parecchi scrittori eterodossi e uno o due cattolici, trovano che tale distinzione è illusoria; essi affermano che la giustizia di Dio è sempre nella Scrittura, — e anche in san Paolo — la sua giustizia intrinseca e immanente. Che cosa ne dobbiamo pensare? Come attributo divino, « la giustizia di Dio è propriamente l’attività della sua santità, nei suoi rapporti con la creazione morale (J. Monod, in Enc. Sciences relig., t. VII, p. 562) ». Mentre la santità è un attributo assoluto, la giustizia di Dio appare nella Bibbia come un attributo relativo. Il Dio giusto sorge per castigare Israele colpevole o per sterminare il peccato; siede sul suo trono per abbattere l’oppressore e per rialzare l’oppresso: (Jahvé) rivestì la Giustizia come una corazza, mise sul capo l’elmo della Salute; Egli prese la Vendetta come armatura, si avvolse dello Zelo come di un manto. – Tali azioni, tale retribuzione: ira per i suoi avversari, vendetta per i suoi nemici — E io prendo il diritto come funicella e la giustizia come archipenzolo (Is. LIX, 17-18; XXVIII, 17). Ma la giustizia di Dio non è soltanto la giustizia vendicativa che punisce il delitto, né la giustizia distributiva che rende a ciascuno secondo i suoi meriti; essa è qualche volta — soprattutto nei Salmi della cattività e nella seconda parte d’Isaia — la giustizia tutelare e salvatrice. Essa allora è messa in parallelismo con la salvezza, con la grazia, con la bontà, con la misericordia. Il profeta prega Dio che lo guidi, lo protegga, lo salvi, lo esaudisca nella sua giustizia (Ps. V, 8; XXX, 1; CXVIII, 40; cxlii, 1; etc.): “Nella tua giustizia togli l’anima mia dall’angustia, nella tua bontà annienta i miei nemici” (Ps. CXLII, 1). Tale associazione d’idee è ancora più apparente nella seconda parte d’Isaia: “La mia giustizia si avvicina, la mia salute viene; il mio braccio farà giustizia ai popoli. – Osservate il diritto, praticate la giustizia; poiché bentosto la mia salute deve venire, e la mia giustizia si deve rivelare. — Sono io la cui parola è « giustizia », (io) che sono grande per salvare” (6 Is. LI, 5; VI, 1; LXIII, 1). Non è difficile spiegare questo fenomeno: la seconda parte di Isaia è un messaggio di consolazione. Il profeta è incaricato di gridare a Gerusalemme:

Che i suoi travagli sono finiti,

che il suo peccato è espiato,

che essa ha ricevuto dalla mano di Jahvé

doppia (pena) per tutti i suoi delitti (Is. XL, 2).

Allora la giustizia di Dio non si eserciterà più che in misericordie per Israele ed in vendette contro i suoi nemici. Siamo così preparati a quella giustizia del Nuovo Testamento la quale, ben lungi dall’escludere la misericordia, la contiene come elemento essenziale, a quella giustizia salutifera e redentrice che si manifesterà solo riguardo ai credenti, quando Gesù Cristo, al quale essi sono uniti per la fede, avrà operata la propiziazione per i loro peccati. Ma questo aspetto particolare non deve far dimenticare gli altri. L’espressione « giustizia di Dio » non è molto frequente nel Nuovo Testamento: essa si trova una volta in san Matteo, una volta nell’Epistola di san Giacomo e otto o nove volte in san Paolo (Rom. I, 17; III, 5; III, 21-22, 25, 26; X, 3; II Cor. V, 21; Fil. III, 9). Nei due primi casi il significato rimane dubbio, benché la giustizia di Dio sembri indicare veramente qualche cosa che è nell’uomo o che l’uomo si può appropriare; ma quello che più ci interessa è il linguaggio di san Paolo. Qui noi ci troviamo dinanzi a due accezioni ben distinte. Quando si dice che « la nostra ingiustizia mette in rilievo la giustizia di Dio (Rom. III, 5) », si tratta chiaramente di un modo di essere di Dio, della sua fedeltà o della sua veracità. Al contrario in questo testo: « Colui che non conosceva il peccato, (Dio) lo ha fatto peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in Lui (Rom. III, 5) », la giustizia di Dio non può essere un attributo divino; da una parte vi si oppone il contrasto col peccato, e dall’altra è impossibile concepire come mai noi diventeremmo una modalità divina; è dunque una giustizia che è in noi,benché derivi da Dio. Cosi pure in un altro testo: « Ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la loro propria, essi non si sottomisero alla giustizia di Dio (Rom. X, 3) », l’antitesi determina con precisioneil significato dei termini. Infatti la giustizia propria dell’uomoè altrove messa in opposizione con la giustizia di Dio, dove non èpossibile nessun equivoco. “Io desidero di essere trovato, dice l’Apostoloai Pilippesi, a non avere la mia giustizia (che viene) dalla Legge, ma quella (che è) dalla fede del Cristo, la giustizia (che viene) da Dio, (che poggia) sopra la fede (Fil. III, 9) ». Qui « la giustizia di Dio »che sostituisce la giustizia propria e che diventa proprietà dell’uomoè dunque inerente all’uomo.Esistono altri due passi intorno ai quali principalmente si svolgeattualmente la controversia: « La giustizia di Dio si rivela in esso (nel Vangelo) dalla fede nella fede, come sta scritto: Ma il giusto vivrà dalla fede (Rom. I, 17) ». A primo aspetto, il senso di giustizia increatasembrerebbe soddisfacente; poiché questa giustizia salvatrice si rivela effettivamente nel Vangelo, dalla, salvezza dei credenti, comel’ira di Dio si rivela, fuori del Vangelo, dalla perdizione degli empi;senza contare che la rivelazione della giustizia di Dio è una locuzionein uso presso i Profeti nei quali essa indica incontestabilmente lamanifestazione di una attività divina. Ma stringendo più da vicinoil testo, i dubbi scompaiono. In che modo la giustizia intrinseca diDio potrebbe essere « dalla fede nella fede », comunque s’intendanoqueste parole? Che cosa viene a fare qui la citazione di Abacuc, equale relazione vi è tra la manifestazione della giustizia eterna equesta asserzione del profeta: « Il giusto vivrà per la fede? ». Inveceè facile vedere come la giustizia prodotta da Dio nell’uomo è « dallafede » ( ἐκ πίστεως = ek pisteos), poiché la fede è una condizione necessaria al suo nascere; come essa progredisca « nella fede » (εἰς πίστιν= eis pistin), poiché la fede rimane il suo principio, la sua misura e il suo ideale; come essa si riveli nel Vangelo che l’annunzia e la realizza; finalmente come essa esista e si riveli in conformità delle antiche profezie poiché il profeta Abacuc parla veramente di una giustizia inerente all’uomo. – L’altro testo non è più oscuro: « Ora senza la Legge, la giustizia di Dio si è manifestata, avendo per sé la testimonianza della Legge e dei profeti, la giustizia di Dio, dico, dalla fede di Gesù Cristo, (giustizia che si estende) a tutti i credenti (14 Rom. III, 21) ».La giustizia di Dio dalla fede di Gesù Cristo è una « giustizia cherisiede nell’uomo, il che san Paolo afferma ancora più precisamenteaggiungendo che essa è destinata a tutti i credenti. E non è difficilevedere come questa giustizia di Dio dalla fede abbia per sé la testimonianzadella Legge e dei profeti, poiché Abramo, secondo la Genesi,dovette la sua giustificazione alla fede, e il giusto, secondo ilprofeta Abacuc, vivrà dalla fede. Si obbietta che poco dopo Diomostra o dimostra la sua giustizia — evidentemente la sua giustiziaintrinseca — col proporre o esporre il Crocifisso come mezzo di propiziazione,e si sostiene che una medesima locuzione deve sempreconservare il medesimo significato nel medesimo contesto. Su questoprincipio vi sarebbe molto da dire: per ciò che riguarda san Paolo,è certamente falso, e se si volesse applicarlo rigorosamente, ne risulterebbesovente un’esegesi sforzata, puerile e assurda. Non èforse noto a tutti, che san Paolo suole girare attorno ai sensimolteplicidi una parola, che molte volte percorre tutta la gamma deisignificati di un termine, che anche qui le nozioni di fede e di leggecambiano certamente nel corso del periodo? Del resto l’attributodivino della giustizia e la giustizia che viene da Dio sono due concettivicini che si chiamano e si attraggono a vicenda, poiché Dio si mostragiusto nel giustificare il peccatore unito con Gesù Cristo.Riassumendo: La « giustizia di Dio » si presenta in san Paolosotto due aspetti distinti ma non disparati: la giustizia che è in Dio,e la giustizia che viene da Dio.La giustizia intrinseca di Dio non è unicamente la giustizia vendicativa o la giustizia distributiva, ma è anche — e qualche voltaè principalmente — la giustizia redentrice; essa include la bontà,la grazia e la misericordia invece di escluderle o di farne astrazione.La giustizia inerente all’uomo non è dunque senza relazioni conla giustizia intrinseca di Dio. Dio è giusto e manifesta la sua giustizianel giustificare l’uomo. La giustizia creata è l’effetto e il riflesso dellagiustizia increata.

2. Nel percorrere le lettere di san Paolo, prima di qualunque analisi dei particolari, si rimane colpiti dai fatto che egli associa sempre all’atto di fede la giustizia e la giustificazione dell’uomo. Così « la giustizia di Dio [è] dalla fede di Gesù Cristo (Rom. III, 22), la giustizia (viene o risulta) dalla fede (Rom. IX, 30), la giustizia (poggia) sopra la fede (17 Fil. III, 9) »; insomma, è « la giustizia dalla fede (Rom. IV, 11-13) ». Così pure « l’uomo è giustificato dalla fede (Rom. III, 28) »; tutti, Ebrei e Gentili, sono « giustificati per motivo della fede (Rom. III, 30) »; Dio « giustifica chiunque dipende dalla fede di Gesù (Rm. III, 26) »; finalmente « a ogni credente la fede è imputata a giustizia (Rom. IV, 5) ». Se esaminiamo da vicino queste formole vedremo che la fede non è una semplice condizione essenziale la cui presenza è richiesta non si sa bene perché, ma vedremo che essa esercita una vera causalità di ordine morale. Per parlare esattamente, non è la fede che giustifica, ma è Dio che giustifica per mezzo della fede; poiché la fede non è né causa efficiente principale, né causa formale, ma soltanto causa strumentale della nostra giustificazione. Dio giustifica per mezzo della fede ( πίστει o διὰ πίστεως = pistei o dia pisteos), come canale della grazia; giustifica in vista della fede, avuto riguardo alla fede (ἐκ πίστεως = ek pisteos), come principio di rinnovamento interiore; giustifica sopra la fede (ἐπί πίστει = epi pistei), come fondamento della salvezza. La strumentalità della fede appare soprattutto nella giustificazione del padre dei credenti: « Abramo credette a Dio, e questo gli fu imputato a giustizia (Gen. XV, 6; Rom. IV, 3, 22, 23; Gal. III, 6) ». San Paolo non dice già che la giustizia fu imputata ad Abramo; dice invece — ed è cosa ben diversa — che la fede gli fu imputata a giustizia. Egli non dice neppure che la fede è l’equivalente della giustizia, perché  allora tale imputazione sarebbe di diritto, mentre è, secondo lui, un atto grazioso (Rom. IV, 16). Egli dice che la fede fu imputata a giustizia perché la fede è inferiore alla giustizia, e la giustizia è tuttavia concessa per ragione della fede. Dio non riconosce affatto l’equivalenza tra la fede e la giustizia, ma l’accetta per grazia; la sua misericordia è quella che supplisce a ciò che manca. Siccome però i suoi doni non sono illusori, la giustizia che è da Lui messa a conto dell’uomo, diventa realmente cosa e proprietà dell’uomo. – Per il protestantesimo ufficiale, la fede giustificante non ha nessun valore morale; è una specie di strumento passivo, una potenza puramente recettiva della giustificazione, la quale non esercita nessuna causalità ed è soltanto una condizione sine qua non; solamente per un abuso di linguaggio si può dire che essa giustifica. La giustificazione dell’empio si compie tutta in Dio; essa non cambia e non opera nulla nell’uomo; è un giudizio sintetico in virtù del quale l’empio, che resta empio, viene dichiarato giusto. Dio nel vedere la sua fede gli imputa la giustizia del Cristo, senza però dargliela. Perciò l’empio giustificato è sempre empio in se stesso, ma è giusto dinanzi a Dio il quale gli ha assegnato l’attributo della giustizia. Questo discorso è duro da comprendersi: in che modo il falso può essere vero, o come mai Dio può dichiarare vero quello che sa essere falso! Perché la fede è richiesta se è inattiva, e perché Dio ne tiene conto, se essa non ha nessun valore? Con quale diritto si afferma che la giustizia di Dio ci viene imputata, mentre san Paolo afferma invece che la nostra fede ci è imputata a giustizia! Non bisognerà dunque più meravigliarsi se molti protestanti liberali ripudiano questo sistema come arbitrario, immorale e incoerente. Per costoro la fede non è senza valore: essa è un germe di virtù, un’aspirazione verso il bene, il punto di partenza di una vita nuova. Da parte di Dio, essi dicono, la giustificazione consiste nel contentarsi di questo germe, nel giudicare l’uomo dal suo ideale, nel prendere la tendenza come un fatto compiuto, nel vedere nell’umile ghianda la quercia sublime che ne uscirà. Dio dichiara che l’empio è giusto, perché questi col credere ha già cominciato ad essere giusto e diventerà un giorno interamente giusto. – Noi ammettiamo senza esitare, che la giustificazione dell’uomo desta ordinariamente, nell’Antico Testamento e anche nel Nuovo, l’idea di un giudizio divino, che si può almeno scoprirvelo senza far violenza ai testi, che in alcuni casi la giustificazione è puramente dichiarativa. Così è, per esempio, tutte le volte che si tratta del giudizio finale il quale non produce la giustizia nell’uomo, ma la presuppone: « Non quelli che ascoltano la Legge sono giusti dinanzi a Dio, ma quelli che mettono in pratica la Legge saranno giustificati (Rom. II, 13) ». Qui là giustificazione non è altro che la sentenza del Giudice supremo; tuttavia in virtù dell’equazione « essere giustificato » ed « essere giusto dinanzi a Dio », il giudizio divino non è arbitrio; esso poggia sopra la verità e non sopra una finzione di diritto. – Ma non è questo il senso ordinario, e lo prova l’impossibilità di sostituire, nella maggior parte dei casi, il verbo « giustificare » con i suoi pretesi equivalenti « dichiarare giusto » o « trattare come giusto ». Anche quando la giustificazione si presenta sotto forma di sentenza dichiarativa, suppone o produce la giustizia: come infatti si può concepire una dichiarazione divina che dica il falso, e un giudizio di Dio fondato sopra l’errore? Quando « Dio giustifica l’empio », dicono i corifei del protestantesimo, la giustificazione non è già un giudizio analitico, “ma un giudizio sintetico il cui attributo non è contenuto nella nozione del soggetto. Un giudizio analitico sarebbe questo: « L’empio è ingiusto ». Ma è ben diverso il giudizio che Dio pronunzia quando ci giustifica: « L’empio è giusto ». Di modo che l’empio giustificato si trova nel tempo stesso (in sensu composito) in possesso di due predicati contradittori, uno dei quali gli appartiene in quanto è empio, e l’altro gli è attribuito dalla dichiarazione divina. Tanto varrebbe dire che un cerchio sarà rotondo e quadrato nello stesso tempo, se Dio pronunzia che è quadrato: sarà rotondo per essenza, e quadrato in forza del giudizio sintetico formulato da Dio. «Nel giustificare. Dio non riconosce nel peccatore nessun attributo (di giustizia); al contrario, gli aggiunge un attributo mentre ancora è peccatore, cioè quello della giustizia (Franks, Justification – Dict. Of Christ and the Gospel, t., p. 919) ». Farà meraviglia che tale dottrina abbia provocato proteste fin dal giorno in cui nacque? Quelli che ancora la difendono, rinunziano però a comprenderla e, pure appellandosi all’autorità di Paolo, volentieri si trincerano dietro il mistero. Perché un uomo sia giusto dinanzi a Dio, e perché Dio pronunzi che egli è giusto, si richiede una di queste due cose: o che Dio lo abbia reso giusto in precedenza, oppure che lo renda giusto con questa stessa dichiarazione. In questa seconda ipotesi, la giustificazione dell’empio sarebbe dichiarativa nella forma, ma effettiva in realtà. La sentenza divina di giustificazione produrrebbe allora il suo effetto alla maniera delle formule sacramentali, come le parole della consacrazione, come le parole del Cristo operante miracoli. Così si conserverebbe alla parola « giustificazione » il senso giudiziario che molti esegeti moderni considerano come essenziale, pure non ammettendo quella giustificazione fittizia dovuta ad un giudizio divino contrario alla verità. La maggior parte dei teologi eterodossi dei nostri giorni si lamentano di trovare in san Paolo una dualità delle più singolari. Ci sarebbe la giustificazione ideale, giuridica, oggettiva, imputata, e la giustificazione reale, morale, soggettiva, inerente. Nella prima, lo Spirito Santo interverrebbe soltanto come testimonio; nella seconda, sarebbe autore, pegno e caparra della giustificazione; qui la fede sarebbe presentata come un vincolo mistico che ci unisce al Cristo, là invece la fede non sarebbe altro che un semplice riconoscimento intellettuale dell’economia della salvezza. La giustificazione forense si collegherebbe al concetto della redenzione per mezzo di riscatto e di sostituzione penale, mentre la giustificazione soggettiva corrisponderebbe alla liberazione dal peccato e dalla carne. Secondo Pfleiderer, questi due concetti « sono come due fiumi che scorrono nel medesimo letto senza mescolare le loro acque ». Parecchi li dichiarano inconciliabili o almeno sostengono che la conciliazione non avvenne nella mente di Paolo; altri si sforzano di conciliarli, ma, traviati dai loro pregiudizi, riescono soltanto a soluzioni inaccettabili. Essi sono persuasi che « è impossibile armonizzare la dottrina dell’Apostolo, eccetto che si consideri la giustizia di Dio come una qualità che non è in nessun modo attuale nel credente, ma che gli è sicuramente promessa per l’avvenire ». Sarebbe una specie di giudizio profetico, in anticipazione, che Dio confermerebbe poi, e nel tempo stesso realizzerebbe nell’ultimo giorno. Tale è la famosa giustificazione forense ed escatologica che doveva rischiarare tutto il mistero, e che invece altro non fa che rendere più fitte le tenebre. – Ben più semplice, più ragionevole, più conforme alla lettera e allo spirito dell’Apostolo è la soluzione Cattolica, della quale ciascun punto si può giustificare con una parola di san Paolo:

Dio prende l’iniziativa; Egli è il solo Autore della chiamata interna come della vocazione esterna; è l’iniziativa della grazia, ed in questo senso la fede è da Dio.

L’uomo alla sua volta risponde alla chiamata, ma non senza l’aiuto divino; egli rende gloria a Dio con l’accettare la sua testimonianza, con l’inchinarsi sotto la sua mano, con l’abbandonarsi totalmente in Lui: questo è certamente un merito, ma un merito di cui non può attribuire a sé l’onore.

Dio interviene di nuovo: Egli imputa la fede a giustizia; dà generosamente la giustizia in cambio della fede, ma non come l’equivalente o il compenso della fede: fino a questo punto la grazia ha avuto sempre una parte preponderante.

La giustizia concessa all’uomo gli impone l’obbligo e gli conferisce il potere, delle opere buone. L’uomo, armato della grazia abituale,può avanzare di virtù in virtù; ma i frutti che acquista, pure appartenendoa lui, non sono esclusivamente suoi, perché egli lavora suifondi di Dio e con i mezzi che Dio gli dà.

Finalmente Dio incorona l’opera; per sempre Egli giustifica l’uomo, questa volta col dichiararlo giusto, perché l’uomo è veramente tale. – Concerto ammirabile nel quale Dio è sempre attivo senza sopprimere né intralciare l’attività dell’uomo, e nel quale l’uomo opera la propria salvezza senza ledere in nulla il dominio supremo di Dio.

III. LA SANTIFICAZIONE.

1. L’IDEA DELLA SANTITÀ. — 2.. GIUSTIZIA E SANTITÀ.

1. L’abisso che separa il Cristianesimo dal paganesimo classico, in nessun luogo appare più largo e più profondo, che nel concetto della santità. L’antica religione dei Greci e dei Romani non sospettava neppure la santità delle divinità; in ogni caso l’epiteto di santo non veniva affatto applicato agli dèi dell’Olimpo. Certe frasi bibliche come queste: « Siate santi perché io sono santo », oppure: « Io sono santo, io che vi santifico », dovevano avere un suono strano per orecchie pagane. Per quanto possano essere oscuri il senso primordiale ed etimologico della parola santo in ebraico, le fasi della sua evoluzione semantica, i gradi di spiritualizzazione che venne superando nel corso dei tempi, seguendo il progresso della rivelazione, è cosa certa che la nozione biblica di santità, è essenzialmente religiosa e morale, che conviene a Dio per eccellenza, ed agli esseri finiti in rapporto a Dio ». Nell’Antico Testamento, il santo era l’uomo legato a Dio con un vincolo di consacrazione o di appartenenza speciale; nel nuovo è colui che partecipa alla stessa santità di Dio. Se si confrontano tra loro, per distinguerle, la giustificazione e la santificazione, questa appare come una perfezione positiva, suscettibile di progressi indefiniti, mentre quella si presenta soprattutto sotto il suo aspetto negativo — la remissione dei peccati — che non pare ammettere il più e il meno. La santificazione inchiude la nozione stessa di giustificazione, ma non è vera la proposizione reciproca; di modo che si può concepire un ordine di provvidenza nel quale l’uomo peccatore sarebbe semplicemente dichiarato giusto, mentre sarebbe impossibile immaginarsi un santo al quale non fossero stati rimessi i peccati. Sotto questo aspetto, la giustificazione precede logicamente la santificazione alla quale serve di base.

2. Affrettiamoci però a dire che nell’ordine attuale, il solo che ci interessi, la giustificazione e la santificazione sono inseparabili. Lo dimostriamo con due serie di testi. San Paolo scrive ai Corinzi:

Voi dunque ignorate che gl’ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né gl’impudichi, né gl’idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né gl’infami, né i ladri, né gli avari, né gli ubbriaconi, né i maledici, né i rapaci erediteranno il regno di Dio. Ed ecco quello che eravate alcuni di voi; ma voi vi siete purificati, ma voi siete stati santificati, ma voi siete stati giustificati dal nome del Signore Gesù Cristo e dallo Spirito del nostro Dio” (I Cor. VI, 9-11).

L’Apostolo enumera come a caso una decina di vizi dei più comuni tra i pagani, e soprattutto a Corinto. Egli ricorda che un certo numero dei suoi lettori — egli non generalizza troppo per non offenderli — una volta se ne resero colpevoli; ma che importa? Il Battesimo ha scancellato tutto! Il Battesimo produce, tutto in una volta, la purificazione, la santificazione, la giustificazione del peccatore. Invano certi esegeti troppo sottili si ingegnano di trovare una gradazione tra questi tre effetti della grazia sacramentale. La gradazione non esiste; ma san Paolo, collocando la santificazione in mezzo agli altri due frutti del Battesimo, fa vedere che essa non è posteriore a loro. – Con gli Efesini egli tiene lo stesso linguaggio; soltanto qui applica alla Chiesa intera quello che là diceva di ciascun Cristiano: “Il Cristo ha amato la Chiesa ed ha dato se stesso per lei, affine di santificarla purificandola nel bagno di acqua, per mezzo della parola, per offrire a se stesso la Chiesa gloriosa, senza macchia né ruga né altro di simile, ma santa e irreprensibile (Ephes. V, 26). – La santità non è privilegio di una classe scelta, ma è cosa di tutti i Cristiani degni di questo nome. Quando l’Apostolo scrive ai santi di Roma, di Corinto, di Filippi o di qualsiasi altra città, non stabilisce affatto più categorie di fedeli; egli si rivolge a tutti indistintamente. Per lui ogni Cristiano è un santo, ed a questa parola egli lascia tutto il suo valore. In qualche raro testo egli potrà bensì parlare soltanto di una santità esteriore e legale che non supera illivello dell’Antico Testamento; quando dice, per esempio, parlando dei matrimoni misti: « Il marito infedele è santificato dalla moglie (fedele), e la moglie infedele è santificata dal (marito) fedele; altrimenti i vostri figliuoli sarebbero impuri, mentre ora sono santi (I Cor. VII, 14) ». – Essendo l’unione coniugale così intima, che i due coniugi formano una sola carne, una sola persona morale, la santità dell’uno si riversa su l’altro; il coniuge infedele e i suoi figli sono come immersi in un’atmosfera di santità che li avvolge e che finirà col penetrarli: così l’acqua mescolata col vino prende il sapore e il colore del vino. Ma questo modo di parlare è eccezionale. Il Cristiano, per il fatto del suo Battesimo, è santificato dallo Spirito Santo del quale è tempio (I Cor. III, 16; II Cor. VI, 16), diventa amico di Dio (Col. III, 12; Rom. I, 7), è « chiamato alla santità (I Cor. I, 2; Rom. I, 7) »; e noi sappiamo che per san Paolo la vocazione è sempre una vocazione efficace che ottiene il suo effetto. La santità del Cristiano non è dunque una santità solamente in potenza, ma una santità almeno iniziale il cui germe non chiede altro che di fruttificare. Dunque, nell’economia attuale, la giustificazione non è la semplice remissione dei peccati; è una riconciliazione con Dio (Rom. V, 10-11; II Cor. V, 18-19), che ci restituisce l’amicizia divina e, con questa, i beni perduti in Adamo. Essa è perciò rappresentata come una trasformazione di tutto il nostro essere, come una metamorfosi che di ogni Cristiano fa « una nuova creatura (II Cor. V, 17) ».