COCOSCERE LO SPIRITO SANTO (26)

Mons. J. J. GAUME

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO, Vol. I

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXV.

(continuazione del precedente.)

Culto del serpente presso le nazioni moderne tuttora idolatre — La setta degli Ofiti — La Cina adora il Gran Drago — È il sigillo dell’impero — Solenne processione in onore del Drago — L’imperatrice attuale — La Cocincina — L’India: pubblica adorazione del serpente — Tempio di Soubra-Manniah — “Festa della Penitenza — Culto privato del serpente — L’Africa — Culto del serpente di Etiopia, a tempo di san Frumenzio — Culto attuale, di tutti più celebre — Passo di De Brosses e di Bosman — Culto del serpente nel Regno di Juidah (Widah) da un secolo a questa parte — Culto attuale, simile all’antichità pagane — Curiosi ma tristi dettagli — Relazione dei missionari e di un chirurgo di marina — L’America — Culto del serpente all’epoca della scoperta — Culto attuale — Relazione del Padre Bonduel — Culto del serpente nella Polinesia, l’Australia, l’Oceania — Il Vaudoux — Culto agli S tati Uniti — Parole di un missionario — Altre testimonianze — In Haiti — Sacrifizio umano — Esecuzione dei colpevoli nel 1864.

Se l’assioma da noi ricordato avesse bisogno di una nuova conferma, si troverebbe nella storia delle nazioni pagane ancora esistenti su diversi punti del globo. Molto tempo dopo la pubblicazione del Vangelo, vediamo il culto del serpente vivo perpetuarsi presso gli Ofiti, eretici  ostinati, dei quali parla Origène e sant’Epifanio (Contr. Cels. et hær., 37). Fra gli Gnostici apparve una sètta numerosa, la quale, per ragione del suo culto peculiare del serpente, ricevette il nome d’Ofìti. Gli adepti insegnavano che la sapienza erasi manifestata agli uomini sotto la figura di un serpente. Adoravano pure con devozione un serpente chiuso in una lunga gabbia. Quando era giunto il giorno di celebrare la ricordanza dei servizio reso al genere umano, mediante l’albero della scienza, aprivano la gabbia, e chiamavano il serpente, il quale saliva sulla tavola e si avvoltolava intorno ai pani; quest’era ai loro occhi, un perfetto sacrificio. Dopo avere adorato il serpente, offrivano per mezzo suo un inno di lode al Padre celeste. – Nessuno ignora che il Gran Drago è la suprema divinità della Cina e della Cocincina. Uno dei divertimenti, che spesso si ripete nel palazzo dell’imperatore al Pekino, è il Drago intorno alla gabbia dell’avoltoio, con la gola spalancata, con gli occhi inferociti che escono dall’orbita. Quest’è l’emblema inseparabile del figlio del cielo, che trovasi sopra il suo sigillo, sulle sue tazze, il suo vasellame, i suoi mobili, sugli angoli delle case, sulle porte, dappertutto. (Annali della Propag. della Fede, n. 223, p. 298, 1887). Il Drago scolpito sul sigillo imperiale! Non direbbesi l’infernale parodia della croce, che sormonta la corona dei principi cristiani; o dell’antica iscrizione delle monete d’oro del regno di Francia: Christus vincit, regnat, imperat! Non è un segno vano, il Dio che rappresenta, è l’oggetto di un culto reale. Cosi il giovine imperatore della China, essendo stato colpito da una grave malattia nel 1865, la imperatrice madre si è portata per nove giorni a piedi, mattina e sera, al gran tempio del Drago a pregare pel suo figlio. Poco fa gli abitanti della città cinese di Tlng-haè si lamentavano della siccità. Fu deciso che il Drago comparisse nelle strade, e si pregasse solennemente di mandare la pioggia nelle campagne. Al giorno stabilito noi vedemmo volgersi per le vie principali di Ting-haè in tortuosi giri il mostro, portato da cinquanta o sessanta persone, intorno alle quali si accalcava tutta la popolazione della città. (Annali della Filosof. Crist,, t. XVI, p. 355). Ancor oggi, le congregazioni cinesi di Saigon celebrano ogni anno, con un lusso ed una pompa inusitata, la festa del Drago. L’interminabile processione percorre le vie principali della città, e qualche volta anche attraversa il giardino del palazzo dei governatore. – (Corriere di SaXgon, 1865).La schifosa figura del Drago si incontra dovunque. Ad ogni momento la s’invoca, e in tutte le circostanze più importanti della vita ed anche dopo morte. L’Annamita che ha perduto un membro della sua famiglia non si permetterebbe di sotterrarlo, prima d’avere domandato allo stregone, od al sacerdote del Drago, di fargli conoscere il luogo della sepoltura. Si suppone che vi siano dei draghi sotterranei che passano e ripassano in certi luoghi privilegiati. I morti si pongono sulla loro via, nella credenza che i draghi ricolmino essi ed i parenti loro di ricchezze e di felicità. Se una disgrazia colpisce la famiglia, si va a dissotterrare il morto, e dietro l’indicazione di un nuovo oracolo, lo si sotterra in un luogo più prossimo al passaggio del Drago. – Il serpente ha rappresentato un ufficio considerevole presso gli antichi popoli dell’India (Massimo di Tiro, Dissert., VII, p. 139, ediz. Reiske), ed il suo culto si è mantenuto fino a questo giorno in quella vasta parte dell’Asia. I loro libri sacri sono pieni di racconti in cui è fatta menzione del serpente. Ivi, come in Egitto, tutti i simboli del culto, portano la sua immagine. Un gran serpente figura al principio del mondo, ed è l’oggetto di una profonda venerazione. « Vedesi un tempio rinomatissimo, consacrato al serpente, all’est del Maissour, in un luogo detto Soubra Manniàh. Questo nome è quello del gran serpente, tanto famoso nelle favole indiane. « Tutti gli anni nel mese di dicembre, ha luogo una festa solenne nel tempio. Innumerevoli devoti accorrono di molto lontano per offrire ai serpenti adorazioni e sacrifici in quel luogo privilegiato. Una moltitudine di questi serpenti hanno fissato il loro domicilio nell’interno del tempio, dove sono mantenuti e ben nutriti dai Brama che gli servono. La protezione speciale di cui godono, ha permesso loro di moltiplicarsi sino al punto che ne vediamo uscire da tutti i lati all’intorno. Molti devoti portano loro da mangiare. Guai a chi avesse la disgrazia di uccidere una di quelle divinità striscianti! Si tirerebbe addosso terribili castighi. » (Costumi e istituzioni dei popoli dell7India, del sig. Dubois, superiore delle Missioni straniere, il quale ha dimorato ventotto anni nelle Indie, t. II, c. XII, p. 435). Sopra un altro punto dell’immensa penisola, il serpente riceve pure gli onori divini. « Recentemente, scrive uno dei nostri missionari, sono stato a Galcutta, testimone oculare di una festa religiosa, celebrata in onore della dea Kalli. È una delle più solenni dell’anno: essa si nomina la festa della Penitenza. Il primo giorno della festa, la moltitudine dei curiosi era immensa, essa superava quasi il numero dei penitenti. Ma il secondo e il terzo giorno vidi in molti punti, principalmente sui canti delle strade e nei crocicchi, alcuni uomini che avevano la lingua traforata verticalmente da una lunga sbarra di ferro. Essi la dondolavano al suono degli strumenti, e ballavano essi medesimi in quello stato. Altri si erano fatta una larga apertura nelle reni e nelle spalle, e da ciascun foro passava un enorme serpente, che coi suoi giri tortuosi avvolgeva il loro corpo. » (Annali della Propag. della Fede, n. 18, p. 535, aprile, 1886). Oltre all’adorazione nazionale del serpente, gli Indiani, come gli antichi abitanti dell’Egitto, rendono anch’oggi un culto domestico ad un serpente comunissimo, la cui morsicatura dà quasi istantaneamente la morte; lo si chiama serpente capei. La loro condotta, che ognuno può verificare con i propri occhi, rende credibile tutto quello che abbiamo letto dell’antichità pagana. I devoti vanno in cerca dei buchi, ove stanno riposti questa sorta di serpenti. Allorquando hanno avuto la fortuna di scoprirne qualcuno, essi vanno religiosamente a deporre alla bocca di detti fori, del latte, dei banani (fichi di Adamo), ed altri cibi che sanno esser graditi da questi dèi rettili. – Se per caso uno di essi s’introduce in una casa, gli abitanti si riguardano dal cacciarlo via, ed è al contrario gelosamente custodito e onorato con sacrifici. Vediamo infatti degli Indiani conservare presso di sé per parecchi anni di questi grossi serpenti capels; ed ancorché dovesse costare la vita a tutta la famiglia, nessuno ardirebbe porre la mano su di essi (Costumi e istituzioni dei popoli dell’Indie, del Sig. Dubois. Per altri popoli moderni, vedi gli Ann. della Filos. Cristiana, citati più sopra). – Passiamo adesso in Africa. Antichissimamente il serpente è stato il gran dio della terra di Cam. Nel quarto secolo, allorché san Frumenzio andò a portare la fede agli Etiopi, trovò il culto del serpente in tutto il suo splendore. Per riuscire nella sua missione, dovette come Daniele, incominciare col distruggere il serpente che era stato sino allora la divinità degli Axumiti. (Gonzales, apud Ludolf. Etiopie, p. 479). Cosi accade ancora in tutta l’Africa non cristiana. Fra tutte le nazioni negre a lui note, dice un viaggiatore tedesco, non ve n’è una che non adori il serpente…. « I Fidas, oltre al gran serpente, che è là divinità di tutta la nazione, hanno ciascuno i loro piccoli serpenti, adorati come tanti dèi penati, ma che non sono stimati, potenti del pari quanto l’altro, di cui non sono che i subordinati. Quando un uomo ha riconosciuto che il suo dio lare, il suo serpente domestico, è senza forza per fargli ottenere ciò ch’egli domanda, egli fa ricorso al gran serpente. « I sacrifici che presso i popoli, formano la parte più interessante dei culti, consistono in bovi, vacche, montoni ecc. Alcune nazioni offrono altresì dei sacrifizi umani. Tra il numero delle feste annuali, bisogna contare il pellegrinaggio della nazione dei Fidas al tempio del gran serpente. Il popolo riunito dinanzi l’abitazione del serpente, con la faccia prostrata contro terra, adora quella divinità senza osare di levare gli occhi su di lei. Fuori dei sacerdoti non havvi che il re che abbia diritto a questo favore, e per una volta soltanto. » (Oldendrop, citato dal dott, Boudin nel culto del serpente, p. 57 e segg. in-8, 1864). Un altro viaggiatore si esprime in questi termini: « Il culto più celebre dell’Africa, dice Bosman. è quello del serpente. Tra il gran numero di serpenti che vi sono onorati con cerimonie più o meno bizzarre, ve ne ha uno che è riguardato come il Padre, ed a cui si rendono omaggi particolari. Gli si è fabbricato un tempio, dove sacerdoti sono incaricati di servirlo. I re gli inviano doni magnifici, e intraprendono lunghi pellegrinaggi per andare a presentargli le loro offerte e le loro adorazioni. » (Viaggio di Bosman, nel gran dizionario della Favola, art. Serpenti d’Africa). Trattando lo stesso soggetto nella sua storia degli Dei Fetisci, (Fetiscio viene dal portoghese fetisso che vuol dire incantato)il presidente de Brosses pronunzia parole d’oro allorché dice: « Il miglior mezzo d’illuminare certi punti oscuri dell’antichità, e di sapere ciò che avveniva presso le nazioni pagane antiche, si è di esaminare ciò che accade presso le nazioni pagane d’oggigiorno, e di vedere se non succede in qualche luogo, tuttora sotto gli occhi nostri, qualcosa di simile. La ragione si è, come dice un filosofo greco, che le cose si fanno e si faranno come le si son fatte. L‘Ecclesiastico dice pure; Quid est quod fuit? ipsum quod futurum est. Ora niente rassomiglia più al culto del serpente e degli animali sacri dell’Egitto, quanto quello del fetiscio o serpente vergato dell’Juidah (Dicesi oggi Whydah), piccolo regno sulla costa della Guinea, il quale potrà servire d’esempio per tutto quel che avviene di simile nell’interno dell’Africa. Vediamo già che nulla più rassomiglia al serpente di Babilonia, che il profeta Daniele ricusò di adorare. » (Del culto degli Dei Fetìsci, p, 16 e 26 ef. ediz, in-12, 1760)- La storia ci ha detto che gli Epiroti credevano che tutti i loro serpenti sacri discendessero dal gran serpente Python: medesima credenza in Africa. « Il serpente, continua l’autore, è un animale grosso quanto la coscia d’un uomo, e lungo circa sette piedi, rigato di bianco, di bleu, di giallo e di bruno, con la testa tonda, gli occhi aperti, senza veleno, di una dolcezza e di una familiarità sorprendente con gli uomini. Questi rettili entrano volentieri nelle case e si lasciano prendere e maneggiare. » (Del culto degli dei fetisci, p. 29 e segg.). « Tutta la specie di questi serpenti sacri, se deesi credere ai negri dell’Juidali, discende da un solo che abita il gran tempio presso la citta di Shabi, e che vivendo da parecchi secoli, è diventato di una grandezza e di una grossezza smisurata. Era stato prima la divinità dei popoli di Ardra; ma questi essendosi resi indegni della sua protezione, il serpente venne di suo proprio moto a dare la preferenza ai popoli dell’Juidah. Nel momento stesso di una battaglia, che le due nazioni dovevano darsi, lo videro passare pubblicamente da uno dei due campi all’altro. Ecco l’antica evocazione. II gran sacerdote allora lo prese nelle sue braccia e lo mostrò a tutto l’esercito. A questa vista tutti i negri caddero in ginocchio, e riportarono facilmente una vittoria completa sul nemico. » (Idem). A Babilonia, in Egitto, in Grecia e presso gli altri popoli pagani dell’antichità, il serpente aveva dei templi dove era servito da sacerdoti e da sacerdotesse, onorato, consultato, nutrito a spese del pubblico. I soli suoi ministri avevano il diritto, di penetrare nel suo santuario; fuori di lì, ei si rendeva familiare, e degnava lasciarsi prendere e maneggiare. Ecco parola per parola ciò che avviene in Africa: « Si edificò un tempio al nuovo fetiscio. Fu portato sopra un tappeto di seta per cerimonia con tutte le possibili testimonianze di gioia e di rispetto; e gli furono assegnati fondi per la sua sussistenza. Gli si scelsero dei sacerdoti per servirlo e, vergini per essere a lui consacrate. Subito questa nuova divinità prese autorità sulle antiche. Essa presiede al commercio, all’agricoltura, alle greggi, alla guerra, agli affari pubblici del governo ecc. Gli si fanno considerevoli doni, cioè pezze intere di stoffe dì cotone o di mercanzie d’Europa; tonnellate di liquori, e greggi interi: dei sacerdoti s’incaricano di portare al serpente le adorazioni del popolo, e riferire i responsi della divinità, non essendo permesso ad alcun altro che ai sacerdoti, nemmeno al re, d’entrare nel tempio e di vedere il serpente. La posterità di questo rettile divino è diventata innumerevole. Quantunque essa sia meno onorata del capo, non avvi negro che non si creda felicissimo d’incontrare serpenti di questa specie, e che non li alloggi e li nutrisca con allegrezza. » – Ricolmo d’onori e servito da sacerdoti, il gran serpente volle, come in antico, avere delle sacerdotesse. « Ecco in qual modo si prendono per procurargliele. Durante un certo tempo dell’anno, le vecchie sacerdotesse o beias, armate di clave, corrono il paese, dallo spuntar del sole fino a mezzanotte, furibonde come tante baccanti. Tutte le fanciulle dell’età di dodici anni che possono trovare, gli appartengono di diritto; né è permesso di resister loro. (Nell’antico Messico, trovasi la medesima tratta’di giovinette a profitto del serpente). Esse rinchiudono queste giovinette in delle capanne, le trattano assai dolcemente e le istruiscano nel canto, nel ballo e nei sacri riti. Dopo averle istruite, imprimono loro il segno della consacrazione, disegnando loro sulla pelle, con acute punture, delle figure di serpenti…. « Si dice loro che il serpente le ha contrassegnate, e in generale, il segreto su tutto ciò che avviene alle donne nell’interno dei chiostri, è talmente raccomandato sotto pena d’essere portate via e bruciate vive dal serpente; che nessuna di esse è tentata di violarlo. Allora le vecchie le riconducono, durante un’oscura notte, ognuna alla porta dei loro genitori, che le ricevono con gioia, e pagano carissima alle sacerdotesse la pensione della dimora, tenendo ad onore la grazia che il serpente ha fatta alla loro famiglia. Le giovanette incominciano allora ad essere rispettate ed a godere una infinità di privilegi. « Finalmente, quando sono esse nubili, ritornano al tempio in cerimonia e benissimo abbigliate per essere sposate al serpente. Il giorno dopo si riconduce la maritata nella sua famiglia, e d’allora in poi ha parte alle retribuzioni del sacerdozio. Una parte di quelle fanciulle si marita in seguito a qualche negro, ma il marito deve rispettarle quanto egli rispetta il serpente, di cui portano il marchio, né possono loro parlare fuorché in ginocchio, e restare soggetti in ogni cosa alla loro autorità. » (Del culto degli dei fetisci, p. 49 e seg.). Ecco oggi dunque, come anticamente, in Africa, come dappertutto, l’innocenza profanata dal serpente e consacrata al suo servizio. « Indipendentemente da questa specie di religiose affiliate, avvi una consacrazione passeggera per le giovinette… S’immaginano che queste siano state toccate dal serpente, il quale avendo concepito dell’inclinazione per esse, ispira loro una specie di furore. Talune si mettono tutt’ad un tratto a fare degli urli spaventosi, assicurando che il fetiscio le ha toccate. Esse divengono furibonde come tante pitonesse; e rompono tutto quel che cade loro tra mano, facendo mille danni. » (Ivi, p. 42). Stando alla relazione di Bosman, in altre contrade di questa trista parte di mondo, vedesi come nell’antichità, le più belle figlie del paese consacrate al servizio dei serpenti. Havvi questo di particolare, che i negri credono che il gran serpente ed i suoi confratelli abbiano l’usanza di adocchiare in primavera le giovinette in sulla sera, e che l’accostarsi, o il semplice contatto di questi rettili faccia perdere ad esse la ragione. (Bosman, come sopra). – Viaggi più recenti confermano questi dettagli e ne aggiungono dei nuovi: « In tutti i villaggi, si diceva poco tempo fa quello dei nostri missionari che penetrò assai addentro nell’Africa, voi trovate il fetiscio della località, senza contare quelli di ciascuna casa. Il fetiscio del villaggio è pel solito un grosso serpente che passeggia liberamente per tutte le strade. Il primo che io scòrsi, mi ispirò un vero spavento. Presi il mio bastone per batterlo, ma la mia guida mi trattenne il braccio, e fece bene. Se avessi avuta la disgrazia di offendere quel dio, sarei stato sull’istante fatto a pezzi. » Alla data del 28 aprile 1861 un altro missionario scrive da Dahomey: « Il popolo di questo paese pare consacrato al più abominevole feticismo. Il culto dei serpenti vivi è in voga su molti punti della costa: ma in nessuna parte hanno templi e sacrifici regolari come a Whydah. (Città di circa 20,000 anime, sul mare). In un recinto ben disposto, si nutrisce un centinaio di grossi serpenti, i quali vanno quando gli pare e piace a passeggiare per la città. Allora tutti quelli che gli incontrano, abbassano il capo fino in terra, mentre che l’animale abominevole avanza pesantemente per la via, fino a che qualche fervente adoratore non lo prende con rispetto e lo riporta nel suo covile. » (Annali ecc. Marzo 1861, p. 390. — I Gallas che abitano la costa opposta dell’Africa adorano pur essi il serpente. A questo dio rettile attribuiscono una terribile potenza sulla natura. Se si sente una scossa di terremoto, si vedono gli abitanti correre con le mani piene di doni verso la caverna, riguardata come l’abitazione del dio che scuote la terra). – Questo tempio, o piuttosto questa spaventosa tana, fu visitata nel 1860 da un chirurgo della marina imperiale, che ne fa la seguente descrizione. « La prima mia visita fu al tempio dei serpenti fetisci, situato non lungi dal forte, in un luogo un po’ isolato, sotto un gruppo di alberi magnifici. Questo curioso edificio consiste semplicemente in una specie di rotonda, di dieci o dodici metri di diametro e sette o otto di altezza. Le sue mura, in terra asciutta hanno due aperture, l’una opposta all’altra, per le quali entrano od escono liberamente le divinità di quel luogo. La vòlta dell’edificio, formata di rami d’alberi intrecciati che sostengono una tettoia d’erbe secche, è costantemente tappezzata di una miriade di serpenti che potei esaminare a tutto mio agio…. « La loro statura varia da uno a tre metri. La testa è larga, schiacciata e triangolare ad angoli rotondi, sostenuta da un collo un po’ meno grosso del corpo. Il loro colore varia dal giallo chiaro, al giallo verdastro. Il maggior numero porta sul dorso due linee brune. Gli altri sono regolarmente macchiati. Durante la mia visita, quegli animali potevano ammontare a più di un centinaio. Alcuni scendevano e salivano avvinghiati a dei tronchi d’alberi, disposti a tale effetto lungo le muraglia; altri sospesi per la coda, dondolavano in qua e in là sopra il mio capo, scintillando la loro triplice lingua e, guardandomi col continuo batter degli occhi; altri infine a spira, o addormentati sull’erbe del tetto, digerivano senza dubbio le ultime offerte dei fedeli. Malgrado l’affascinante stranezza di quello spettacolo, io sentiva dentro di me un certo malessere in mezzo a quelle viscose divinità…. « I sacerdoti che ne hanno cura, abitano vicino al tempio…. Queste spaventose divinità hanno pure delle sacerdotesse; sono come le fetiscie o spose del serpente fetiscio. In certe epoche dell’anno le vecchie sacerdotesse corrono per le strade del villaggio, rapiscono le bambine dagli otto ai dieci anni che incontrano, e le conducono nella loro abitazione. Queste bambinette subiscono là un noviziato più o meno lungo, e quando divengono nubili sono fidanzate al serpente fetiscio. Più tardi alcune finiscono per maritarsi a de’ semplici mortali, ma assai difficilmente, perché conservando sempre qualche cosa del loro sacro carattere, esigono dal loro marito una completa sottomissione. » (Rapporto del Sig. Repin nel Giro del mondo, n. 161, p. 71-74 —: 4° anno 1868). – Tutti questi dèi rettili non sono inoffensivi come quelli di Whydah. « Un altro punto della nostra missione, scrive il padre Borghero, offre uno spettacolo assai più ributtante. Al gran Popo, non lungi da Whydàh, i serpenti non hanno tempio, è vero; ma ricevono un culto che fa orrore. Vi è una specie di rettili ferocissimi, della razza dell’aspide, o del boa. Quando uno di questi serpenti incontra per via dei piccoli animali, li divora senza pietà. Quanto più e vorace, tanto più eccita la devozione dei suoi adoratori. Ma i maggiori onori, le maggiori benedizioni gli sono prodigate, quando ei trova qualche fanciullo, e ne fa suo pasto. Allora i genitori di questa povera vittima si prostrano a terra e rendono grazie ad una tale divinità, per avere scelto il frutto delle loro viscere per farne suo cibo; « E noi ministri di Colui che ha vinto l’antico serpente e che l’ha maledetto, siamo obbligati ad avere tutti i giorni questo spettacolo sotto gli occhi nostri, senza che ci sia dato modo di vendicare l’onore del nostro maestro cosi indegnamente oltraggiato. » (Annali ecc., marzo 1861, p. 890 e seg. Come sotto l’ardente sole dell’Africa, così il culto del serpente esiste ancor oggi in mezzo alle nevi della Mantchourie. Id., 1867, n. 175, p. 428). – Il culto del serpente si è rinvenuto nelle vaste contrade del nuovo mondo, e questa non è la minor prova dell’unità della razza umana. Al momento della scoperta dell’America, gli Spagnuoli riscontrarono su diversi punti tracce non dubbie del culto del serpente. Ricordiamoci che nel Messico, Huitzilopochtli, principale divinità dell’impero, era assiso sopra una gran pietra cubica, da ciascun angolo della quale, usciva un serpente mostruoso. La faccia del nume era coperta da una maschera, alla quale era appeso un altro serpente. Il tempio dedicato a Quetzalcohuatl, altra divinità messicana, era di forma rotonda, e l’entratura rappresentava una gola di serpente che pareva volesse divorare, riempiendo di terrore quelli che vi si accostavano la prima volta. – Negli annali più antichi dei Messicani la prima donna chiamata da essi la madre della nostra carne, è sempre rappresentata come vivente in relazione con un gran serpente. Questa donna figurata nei loro monumenti da una sorta di geroglifici, porta il nome di Cikuacohuatl, che significa donna del serpente. Fra gli altri doni gli si offrivano delle spine tinte di sangue dei sacerdoti e dei nobili, poi anche delle vittime umane. (Storia delle nazioni civilizzate del Messico dell’abate le Brasseur di Berigbourg, t. III, p. 504). – È qui il luogo di fare una osservazione che si riproduce parecchie volte nel nostro studio. Ogni credenza religiosa si traduce con atti speciali che le danno carattere. E niente è più vero della parola citata più sopra: Dimmi quel che tu credi, ed io ti dirò ciò che tu fai. Per ciò che concerne il culto dei serpenti l’esperienza dimostra, che presso quasi tutti i popoli il suo infallibile corollario è stato il sacrificio umano. Non è forse questa la prova evidente che il culto del serpente non è altro che il culto del grande omicida? Proseguiamo il nostro cammino. Durante i primi anni della conquista, un certo numero d’indigeni abbracciarono il Cristianesimo, piuttosto per timore che per convinzione. Gli adoratori del serpente non trascuravano nulla per far loro abiurare la fede, e ricondurli alle pratiche dell’antico culto. Sotto il titolo specioso di medici, s’introducevano nei villaggi, e spessissimo riuscivano nella loro colpevole impresa. Prima di ammettere il rinnegato alla iniziazione, esigevano la rinunzia al Cristianesimo. Gli lavavano quelle parti del corpo, sulle quali aveva quello ricevuto le unzioni del Battesimo, per cancellarne qualunque traccia. Di poi, conducevano il loro discepolo in una oscura foresta, o nel fondo di un precipizio, e là invocavano su di esso il gran serpente variegato, il quale si presentava accompagnato da altri piccoli serpenti. Il gran serpente si lanciava d’un tratto in bocca, e usciva per la parte posteriore del corpo. Gli altri uno dopo l’altro facevano altrettanto, poi rientravano tutti nel formicolaio; questi riti si ripetevano per tredici giorni di seguito. In questo tempo gli iniziatori comunicavano ai loro adepti, conferendo loro la maestranza, la misteriosa autorità che essi medesimi esercitavano sugli individui, direttamente o indirettamente ascrittisi all’idolatria. Con una sola parola, con un solo sguardo, potevano essi, entrando in una casa, soggiogare la volontà degli abitanti e specialmente delle donne. Le genti in tal modo affascinate, si sentivano impossessate da un tremito convulso in tutto il corpo sino al punto, che parevano come indiavolate. Si gettavano per terra con la bocca spesso spumante, e rimanevano cosi per tutto quel tempo che piaceva al mostro di ritenergli in quello stato. Il Vescovo di Chiapa dichiara di avere tutti questi particolari e altri ancora da parecchi iniziati, ravveduti dei loro errori. (Vedi Burgoa, descrizione geografica della provincia di san Domingo de Ozaca, cap. 17, Messico 1674. Torquemada, Monarchia indiana, t. II, 1, 6).Diminuito, ma non abolito, il culto del serpente si pratica ancora ai dì nostri, presso le tribù selvaggio dell’America del nord. Uno dei nostri missionari il P. Bonduel che ha dimorato per circa venti anni nel Wisconsin, ci raccontava nel 1858 che, gli stregoni non si dedicavano mai alle loro pratiche magiche che nei luoghi aridi, sulle spiagge di quelle fangose paludi e con la testa contornata della pelle del gran serpente Ketch-Kéfébeck. La formula della loro evocazione cominciava con queste terribili parole: « O tu che sei armato di dieci granfie, scendi nella mia capanna. » La preghiera continua, aggiunge il padre, finché la capanna non si sconvolge in cosiffatto modo che la vetta tocca il suolo.Lasciamo per un momento l’America, per fare una escursione negli Arcipelaghi di recente scoperti. Alle isole Viti, nell’Oceano Polinesiaco, gli abitanti adorano in un enorme serpente la loro principale divinità che porta il nome di Ndengeì. (Pritchard, Besearches into The physical history ou Menkind, Londra, 1846, in-8, t. V, p. 247). « Presso la donna australiana, scrive un missionario, è meno il gusto di un adornamento che l’idea di un sacrificio religioso che la porta a mutilarsi. Allorché è tuttora giovine le si lega la punta del dito mignolo della mano sinistra, con dei fili di ragnatelo. In capo a qualche giorno si strappa la prima falange, offesa dalla cancrena, e viene consacrata al dio serpente. » (Annali della Propag. della fede, n. 98, p. 275). – Nell’Oceania il pascersi di serpenti pare cammini insieme col culto del rettile. Non sarebbe forse in questo caso, per queste infelici vittime del demonio, la parodia sacrilega della Comunione eucaristica? Ecco quel che riferisce un viaggiatore moderno: « Quei dell’Australia mangiano ogni specie di serpenti, anco i più velenosi. Essi procurano però di sbuzzarli, e di tagliarli la testa.- Sebbene i serpenti siano in grandissima quantità nella Nuova Olanda, io non ne ho incontrato che un solo, durante la mia dimora a Sydney, ancorché facessi nei boschi delle lunghe e frequenti girate. « Quando mi apparve questo serpente, io l’uccisi con un colpo di fucile, e mi affrettai a mutilarlo più che potevo: ma l’indigeno che mi accompagnava lo prese, e dopo avergli tagliato il capo per maggior sicurezza, se ne servi come di una cravatta aspettando a mangiarlo poi a cena. » (E. Deiessert, Viaggi nei due Oceani, p. 185 e 186). – Ritorniamo in America e terminiamo il nostro viaggio per gli Stati del Sud e per Haiti. Nel trasportare dalla parte dell’Africa milioni di negri in America, il trattato vi portò seco anche il culto del serpente. La sètta di cui l’odioso rettile è la principale, forse l’unica divinità, si chiama la sètta dei Vaudoux. Molto diffusa tra i negri degli Stati Uniti, delle Antille e di S. Domingo, essa conta tra i suoi adepti molti creoli, gente di colore, ed anco bianchi, dei due sessi. Taluni anche occupano nella società, altissime posizioni. (L’imperatore Soulouque in particolare era un fervente adoratore del serpente). – I Vaudoux la cui immoralità agguaglia, se non sorpassa quella dei Mormoni, ispirano un grande spavento. Si credono possessori di segreti importanti per fabbricare terribili veleni, i cui effetti sono diversissimi. Taluni uccidono come la folgore, altri alterano la ragione o la distruggono completamente. Quantunque sia tanto difficile quanto pericoloso il mescolarsi nelle loro faccende, però alcuni fatti recenti sono venuti a porre in chiaro i vergognosi e crudeli misteri di questa abominevole sètta. I Vaudoux si adunano sempre di notte in abitazioni isolate o nelle montagne, in mezzo a folte foreste. Il serpente che riceve le loro adorazioni, comunica le sue volontà per l’organo di un gran sacerdote tra i settari, e più specialmente ancora per quello della compagna che si unisce al gran sacerdote, elevandola alla dignità di gran sacerdotessa. Questi due ministri, che diconsi ispirati dal serpente; ispirazione alla quale gli adepti hanno la più robusta fede, portano i pomposi nomi di re e di regina. Resistere loro, è resistere allo stesso nume esponendosi ai più terribili castighi: una volta riuniti, gli iniziati si spogliano affatto. Il re e la regina si pongono ad una delle estremità del recinto, vicino all’altare su cui è una gabbia che racchiude il serpente. Allorché si sono assicurati che nessun profano si è introdotto nell’assemblea, la cerimonia incomincia con l’adorazione del serpente. Questa consiste in proteste di fedeltà al suo culto e di sottomissione alle sue volontà. Si rinnova nelle mani del re e della regina il giuramento del segreto, accompagnato da tutto ciò che il delirio ha potuto immaginare di più orribile, per renderlo più imponente. In seguito, il re e la regina con tuono affettuoso come di padre e di madre, indirizzano ai loro diletti figli alcune commoventi osservazioni. Quindi la regina sale sulla gabbia che contiene il serpente (È precisamente ciò che faceva la Pitonessa di Delfo), non tarda, a sentirsi invasa dallo spirito del nume che ha sotto i piedi: ella si agita, prova in tutto il suo corpo un tremito convulso, e l’oracolo parla per bocca sua. Allorché l’oracolo ha risposto a tutte le questioni, il serpente è adorato di nuovo e ciascuno gli offre un tributo. Terminata l’adorazione, anche il re pone il piede sulla gabbia, e tosto riceve una impressione che egli comunica alla regina e questa comunica a tutti quelli che la circondano. Questi non tardano ad essere in preda alla più violenta agitazione; si contorcono ad un tratto e agitano così vivamente la parte superiore del corpo, che la testa e le spalle pare che si sloghino. (Ciò ricorda il Djedàb degli Aissaoua dell’Africa, che abbiamo visto a Parigi nel 1867, e i Coribanti dell’antichità, il cui nome greco significa agitare violentemente il capo. satana non invecchia). – Chi finisce per cadere di stanchezza, e chi di deliquio: altri finalmente provano un furibondo delirio. In tutti poi vi sono tali tremiti nervosi, che non sono più in grado di padroneggiare. Non possiamo descrivere quel che allora succede; è facile però il comprendere che in seguito all’eccessivo sovreccitamento dei sensi, che hanno dovuto produrre quelle scapigliate baccanali, lo sfogo dei grossolani piaceri, e delle brutali passioni, in quell’orrida promiscuità dei due sessi, non può mancar di presentare il più disgustoso spettacolo. – satana, nemico implacabile dell’anima dell’uomo che spinge a tutti i generi di degradamento, non lo è meno del suo corpo. Presso differenti popoli, antichi e moderni, il sacrificio umano è il corollario infallibile del culto del serpente. I Vaudoux continuano fedelmente la crudele tradizione; non si saprà mai il numero delle vittime che hanno scannato. (qui segue, in nota, un racconto di cronaca giudiziaria dell’epoca, di un fatto accaduto in Haiti, dai risvolti crudi, per non dire orripilanti, che preferiamo non riportare – ndr. -) – Tutti questi fatti e mille altri dello stesso genere, provano una volta di più all’Europa incredula, all’Europa che volge le spalle al Redentore, che il re della Città del male è sempre lo stesso; sempre pronto a riprendere il suo impero, sempre geloso di farsi adorare sotto la forma vincitrice del serpente, sempre sitibondo del sangue dell’uomo, divenuto suo schiavo. Essi stabiliscono ancora che il culto del serpente, come il sacrificio umano, ha fatto il giro del mondo. Entrambi esistono anch’oggi: il primo soprattutto sopra una larga scala, presso un gran numero di popoli dell’Africa, dell’Asia e dell’America. Cosi nella Città del male vi sono due perpetuità: perpetuità del sacrificio umano; perpetuità dell’adorazione del serpente, sotto la sua naturale forma. Queste due perpetuità ne amplificano una terza: la perpetuità cioè degli oracoli nel mondo pagano. Senza di ciò, come spiegare che sotto tutti i climi, in tutte le epoche, in tutti i gradi della civiltà, l’uomo non Cristiano abbia preso per suo dio, per suo gran dio, il più aborrito di tutti gli esseri; ed a lui abbia sacrificato quel che ha di più caro? (V. sul serpente un bel passo di Chateaubriand, Genio del Cristianesimo, t. I, lib. in, c. 2). Purnonostante, è cosi. Il fatto è universale e permanente; havvi dunque una causa universale e permanente. Questa causa non esiste, né nei lumi della ragione, né nelle inclinazioni della natura, né nella volontà di Dio. A meno che non si voglia rimanere dinanzi a questo fatto spietato, con gli occhi sgranati e la bocca spalancata, bisogna dunque spiegarlo, mediante l’ufficio sovrano del serpente nella caduta dell’umanità. Con la ragione illuminata dalla fede, bisogna riconoscere che un fatto simile, non venendo né da Dio né dall’uomo, è a fortiori rivelato da una potenza intermedia. Non dimentichiamo, che qui la parola rivelazione, non implica la divinità del rivelante; ma l’universalità e l’identità della rivelazione implicano 1’universalità ela identità del rivelante; di questo parleremo altrove. Trattare tutto ciò di superstizione, di figurismo e di allegoria, è mentire alla sua propria coscienza, e burlarsi del senso comune. Parlare di superstizione, d’ignoranza, di demenza, in una credenza fondamentale, è lo stesso che non dir nulla, o pronunziar la condanna dell’umano genere. Ma se dopo sei mila anni, il genere umano, straniero al Cristianesimo, è stato ed è ancora un fanatico, un pazzo, un ignorante; è confessare, che il Cristianesimo è la verità, la luce, la ragione. Lasciamo all’incredulo, per non confessar ciò, balbettare sofismi; e continuiamo.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO:

Questa lettera Enciclica di S. S. il Beato Pio IX, si apre con un magnifico elogio alla Cattedra di S. Pietro, pietra fondante ed unica garanzia della Chiesa di Cristo, delle dottrina, della morale e della liturgia cattolica, cioè unica garanzia di salvezza eterna: « … gli stessi, invero, non hanno mai cessato di insegnare che vi è “un solo Dio, un solo Cristo, una sola Chiesa, una sola Cattedra fondata su Pietro per volontà del Signore, e che su tale pietra, come su solidissimo macigno, è stata costruita, in tutta la sua grandezza, la mole della comunità cristiana. Invero, questa Cattedra di Pietro (sempre così chiamata e definita) è unica e prima per i suoi pregi; splende in tutto il mondo per il suo primato; è radice e matrice da cui deriva l’unità sacerdotale; è madre e maestra (e non solo vertice) di tutte le Chiese; è metropoli di pietà, in cui è integra e perfetta la saldezza della religione cristiana e in cui sempre primeggiò il Principato della Cattedra Apostolica; è fondata su quella pietra che le superbe porte degli inferi non abbattono e per la quale gli Apostoli profusero tanta dottrina e sangue; da essa si diffondono nei confronti di tutti le leggi che presiedono a una venerabile comunione; ad essa occorre prestare totale obbedienza e onore; chi l’abbandona, vanamente confida di appartenere alla Chiesa; fuori di essa, è profano chi si ciba d’agnello. E inoltre Pietro, che nella propria Sede vive e governa, offre ai postulanti la verità della fede; Pietro che vive fino ad oggi e sempre nei suoi Successori e pratica la giustizia, ha detto per bocca di Leone che il Romano Pontefice detiene il primato su tutta la terra, è il Successore del beato Pietro, Principe degli Apostoli, è il vero Vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, Padre e Dottore di tutti i Cristiani ». Tale è appunto la premessa nel trattare l’argomento di questo documento, che è la conferma dei Riti Orientali, e di altri particolari già approvati dal solenne Magistero pontificio, Riti ovviamente nei quali non ci siano errori a proposito della fede o della purezza dei costumi « … invero non contrasta affatto con l’unità della Chiesa Cattolica la molteplice varietà dei sacri e legittimi riti, ché anzi concorre ad accrescere la dignità, la maestà, il decoro e lo splendore della stessa Chiesa. » (…) « era loro precisa volontà di preservare intatti i riti delle Chiese Orientali purché in essi non si insinuasse qualche errore a proposito della Fede Cattolica o della purezza dei costumi ». In tal modo il Santo Padre, lasciava facoltà agli Orientali convertiti al Cattolicesimo di conservare i propri riti senza essere obbligati all’osservanza di quelli in uso presso la Chiesa romana. – L’importanza del documento, per questi nostri tempi di apostasia spudorata e manifesta dalla fede e dai riti Cattolici, è evidente, nel senso che qualsiasi rito, anche orientale, officiato da un Sacerdote validamente consacrato (secondo le formule pre-68 da Vescovi non massoni, e validi pre-68), di stretta osservanza cattolica, in unione con la Cattedra di Pietro, vale a dire “una cum” il Santo Padre impedito in esilio, S. S. Gregorio XVIII, è assolutamente valido, legittimo e lecito sotto ogni riguardo. Non c’è quindi alcun timore alla partecipazione di tali riti, non si incorre in alcuna censura né scomunica in violazione dei Canoni tridentini o dei Canoni del C. J. C. – 1917, come partecipando ai falsi riti rosacrociani del satanico novus ordo (nei quali le scomuniche sono praticamente in numero incalcolabile), o in quelli dei sedevacantisti o delle “fraternità” falsamente ed invalidamente consacrati da non-chierici di estrazione massonica (si pensi ai cavalieri Kadosh e figliocci!!), e nella inosservanza totale di tutti i Canoni della giurisdizione e del mandato Apostolico, … e qui ci sono solo anti-sacramenti del demonio che aprono ampi spazi alla eterna dannazione. Leggiamo quindi la Lettera e adeguiamoci alle conclusioni che possiamo legittimamente trarne.    

S. S. Pio IX
Amantissimus humani

Amantissimo del genere umano, Cristo Redentore e Signore, Figlio Unigenito di Dio, volendo (come Vi è ben noto, Venerabili Fratelli) liberare tutti gli uomini dalla schiavitù del demonio, dal giogo del peccato e richiamarli dalle tenebre alla Sua meravigliosa luce e farli salvi, cancellò il decreto, a noi avverso, affiggendolo alla croce; formò e istituì la Chiesa Cattolica, conquistata con il suo sangue, come la sola dimora del Dio vivo (1Tm III,15), il solo regno dei cieli (Mt XIII; ecc.)o come la sola città posta sopra il monte (Mt V, 14) o come il solo ovile (Gv X,16) e il solo corpo consistente e vivente di un solo spirito, unito e congiunto da una sola fede, speranza e carità e dagli stessi vincoli sacramentali, religiosi, dottrinali (Ef. IV, 4), e dotò poi la Chiesa di reggitori da Lui nominati e scelti e stabilì che essa, così da Lui creata e istituita, perdurasse finché il mondo stesso non crolli e perisca. Decretò inoltre che la Chiesa avrebbe abbracciato tutti i popoli e le nazioni dell’orbe terracqueo, affinché gli uomini di ogni razza accogliessero la sua divina religione e la sua grazia, conservandole fino all’ultimo respiro onde conseguire la salvezza e la gloria eterna. Affinché questa unità di fede e di dottrina fosse sempre conservata nella Sua Chiesa, scelse tra tutti uno solo, Pietro, che designò come Principe degli Apostoli e Suo Vicario in terra, inespugnabile fondamento e capo della Sua Chiesa, così che, sovrastando su tutti sia per il grado di nobiltà, sia per l’ampiezza e il prestigio dell’autorità, del potere e della giurisdizione, pascesse le pecore e gli agnelli, rincuorasse i Fratelli, reggesse e governasse la Chiesa universale. Cristo volle pertanto che questa sua Chiesa rimanesse una e immacolata fino alla consumazione dei secoli, e ordinò di conservare integra una sola fede, una sola dottrina e la struttura di governo; volle inoltre che la pienezza della dignità, della potestà e della giurisdizione, la purezza e la saldezza della fede concesse a Pietro fossero tramandate anche ai Romani Pontefici successori di Pietro che sono elevati a questa Romana Cattedra dello stesso Pietro ed ai quali – che impersonano il Beatissimo Principe degli Apostoli– dallo stesso Cristo sono stati divinamente affidati la suprema cura di tutto il gregge del Signore e il supremo governo della Chiesa Universale. Voi ben sapete, Venerabili Fratelli, in che modo questo dogma della nostra divina religione sia sempre stato dichiarato, difeso e inculcato con unanime e perenne spirito e parola dei Sinodi e dei Padri. Gli stessi, invero, non hanno mai cessato di insegnare che vi è “un solo Dio, un solo Cristo, una sola Chiesa, una sola Cattedra fondata su Pietro per volontà del Signore, e che su tale pietra, come su solidissimo macigno, è stata costruita, in tutta la sua grandezza, la mole della comunità cristiana. Invero, questa Cattedra di Pietro (sempre così chiamata e definita) è unica e prima per i suoi pregi ; splende in tutto il mondo per il suo primato; è radice e matrice da cui deriva l’unità sacerdotale; è madre e maestra (e non solo vertice) di tutte le Chiese; è metropoli di pietà, in cui è integra e perfetta la saldezza della religione cristiana e in cui sempre primeggiò il Principato della Cattedra Apostolica; è fondata su quella pietra che le superbe porte degli inferi non abbattono e per la quale gli Apostoli profusero tanta dottrina e sangue; da essa si diffondono nei confronti di tutti le leggi che presiedono a una venerabile comunione; ad essa occorre prestare totale obbedienza e onore; chi l’abbandona, vanamente confida di appartenere alla Chiesa; fuori di essa, è profano chi si ciba d’agnello . E inoltre Pietro, che nella propria Sede vive e governa, offre ai postulanti la verità della fede ; Pietro che vive fino ad oggi e sempre nei suoi Successori e pratica la giustizia, ha detto per bocca di Leone che il Romano pontefice detiene il primato su tutta la terra, è il Successore del beato Pietro, Principe degli Apostoli, è il vero Vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, Padre e Dottore di tutti i cristiani” . Altri innumerevoli passi, tratti da splendidi testi, in modo esplicito insegnano e rivelano con quanta fede, religione, rispetto e obbedienza devono seguire questa Sede Apostolica e il Romano Pontefice tutti coloro che vogliono appartenere alla vera, unica e santa Chiesa di Cristo per conseguire l’eterna salute. – Invero non contrasta affatto con l’unità della Chiesa Cattolica la molteplice varietà dei sacri e legittimi riti, ché anzi concorre ad accrescere la dignità, la maestà, il decoro e lo splendore della stessa Chiesa. Ma non sfugge ad alcuno di Voi, Venerabili Fratelli, in che modo alcuni uomini cerchino di ingannare e di indurre in errore gli incauti e gli inesperti calunniando questa Santa Sede, come se essa, accogliendo i dissidenti orientali nella fede Cattolica, volesse indurli ad abbandonare il proprio rito e ad abbracciare quello della Chiesa latina. Quanto ciò sia falso e lontano dalla verità, lo mostrano e attestano, con piena evidenza, le tante Costituzioni dei Nostri Predecessori, e le Lettere Apostoliche (attinenti alle questioni degli Orientali) con le quali gli stessi Nostri Predecessori non solo dichiararono concordemente di non aver mai avuto in animo un simile proposito ma anzi riconobbero che era loro precisa volontà di preservare intatti i riti delle Chiese Orientali purché in essi non si insinuasse qualche errore a proposito della fede cattolica o della purezza dei costumi. A queste reiterate e limpide dichiarazioni dei Nostri Predecessori corrispondono sia le antiche che le recenti azioni, in quanto non si può mai affermare che questa Apostolica Sede abbia ordinato alle sacre Gerarchie o agli ecclesiastici o ai popoli orientali ritornati alla unità cattolica, di mutare il loro legittimo rituale. Infatti tutta la cittadinanza di Costantinopoli vide di recente in che modo il Venerabile Fratello Melezio, Arcivescovo di Drama, ritornato nel grembo della Chiesa Cattolica con la Nostra più viva consolazione e con la gioia di tutti i buoni, abbia celebrato la divina funzione col proprio rito, con solenni e festose cerimonie e alla presenza di numerosa folla. Pertanto, Venerabili Fratelli, in virtù della vostra eminente sollecitudine episcopale, non tralasciate di insistere presso il Clero delle vostre Diocesi perché nei modi opportuni si sforzi di smascherare e respingere la calunnia con cui uomini malevoli tentano di indurre in errore gli ingenui e di suscitare odio e sospetto contro questa Sede Apostolica. – D’altra parte Noi, innalzati a questa Cattedra di Pietro e al supremo governo di tutta la Chiesa di Cristo per arcano disegno della Divina Provvidenza, pieni di fiducia e di speranza in Gesù Cristo, aspiriamo ad assolvere le funzioni del Nostro ministero Apostolico come Ci chiedono l’insistenza e la sollecitudine quotidiana di tutte le Chiese. Pertanto, sorretti dal divino aiuto di Colui del quale su questa terra, sebbene senza merito, facciamo opera vicaria; di Colui che disse: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli” e confermò che le porte dell’inferno non avrebbero mai prevalso contro la sua Chiesa, Noi non temiamo affatto tante malvagie e sacrileghe macchinazioni, tanti tentativi e attacchi con cui (in questi tempi così iniqui) i nemici si sforzano di sovvertire radicalmente (se mai fosse possibile) la Religione Cattolica, ma non desistiamo dal provvedere al bene e alla salute spirituale di tutte le genti. Infatti l’amore di Cristo, di cui nulla è per Noi più forte, Ci sospinge ad affrontare lietamente ogni affanno, fatica, decisione affinché i popoli possano convergere in unità di fede e crescere nella conoscenza di Dio e del nostro Signore Gesù Cristo “che è la via, la verità e la vita; via di santa intimità, verità di divina dottrina, e vita di beatitudine sempiterna” . Né invero Voi ignorate, Venerabili Fratelli, con quale singolare amore, con quale assiduo impegno abbiamo dedicato le nostre cure paterne a codesta eletta parte del gregge del Signore affidata alla vostra vigilanza, fin dall’inizio stesso del Nostro supremo Pontificato; dalla recentissima nostra lettera, sigillata con l’anello del Pescatore e pubblicata il 7 gennaio scorso, avete potuto comprendere ancora di più quanto Ci stiano profondamente a cuore il bene, l’interesse e la prosperità di codeste Chiese Orientali. Infatti con quella Lettera abbiamo costituito una Congregazione apposita (nell’ambito della Congregazione di Propaganda Fide), che alla stessa Congregazione di Propaganda Fide (da tante assidue e gravi occupazioni quasi sommersa) sia del maggiore aiuto e possa svolgere l’opera finora prestata dalla stessa Congregazione di Propaganda Fide con molto zelo e con somma lode, in modo che tutte le questioni delle Chiese Orientali siano trattate e risolte con unico criterio. Invero siamo sostenuti dalla speranza che, con l’aiuto di Dio, ogni giorno di più sovrabbondi il bene spirituale in tutti i Paesi Orientali, anche in virtù del Nostro consiglio e del Nostro zelo. Pertanto abbiamo piena fiducia che questa nuova speciale Congregazione recentemente istituita da Noi non lascerà mai nulla di intentato, in conformità dei Nostri desideri: nulla, in ogni caso, di ciò che riguardi la promozione dell’unità cattolica nel trattare le vostre questioni, o che accresca la prosperità delle vostre Chiese, o che tuteli l’integrità dei vostri legittimi riti, e che procuri un maggiore vantaggio spirituale ai fedeli. – Affinché questa Congregazione possa esercitare con ogni cura ed energia il compito che le abbiamo affidato, e contribuire con laborioso impegno alla maggiore prosperità di codeste Chiese, è del tutto necessario che essa abbia piena conoscenza dei bisogni spirituali delle nazioni Orientali, sulle quali è opportuna e provvida una consultazione. E poiché a Voi, Venerabili Fratelli, è ben nota la condizione presente del gregge affidato alla vostra cura, saprete anche, grazie alla vostra saggezza, quanto sia urgente che Voi Ci informiate, con la maggiore diligenza possibile, su tutte le questioni che riguardano le vostre Chiese e il vostro gregge, e che Ci mandiate un’accurata relazione sullo stato delle vostre Diocesi, nella quale si esponga con cura tutto ciò che si riferisce alle Diocesi stesse, in modo che Noi possiamo considerare con tutta diligenza le necessità dei fedeli. Sarà per Noi motivo di somma consolazione se ognuno di Voi, Venerabili Fratelli, Ci riferirà sollecitamente tutte le questioni della propria Diocesi: quanti fedeli dimorino nella stessa Diocesi; quanti siano gli ecclesiastici che affrontando i doveri del proprio ministero assistono gli stessi fedeli; quale il modo di comportarsi di quei fedeli; di quale fede, di quale integrità di costumi, di quale dottrina sia dotato il Clero; quale la formazione dello stesso Clero; in che modo il popolo sia educato alla santissima nostra religione e alla disciplina dei costumi, e in che modo il popolo stesso possa ogni giorno meglio essere conformato e sospinto alla pietà e alla purezza dei costumi. Ardentemente poi desideriamo conoscere quale sia la situazione delle vostre scuole e con quale assiduità la gioventù le frequenti. Sapete bene, Venerabili Fratelli, che tutte le speranze, sia delle cose sacre, sia civili, sono riposte nella retta, salutare e religiosa educazione dei fanciulli, e perciò è del massimo interesse che gli stessi sin dagli anni più teneri frequentino le scuole cattoliche in cui imparando presto la verità e i precetti della divina nostra religione, siano allontanati dal pericolo che le loro tenere menti siano corrotte da perversi principi. E neppure dimenticate di avvertirci se mancate di libri, e contemporaneamente di farci conoscere quali libri soprattutto (secondo il vostro parere) possono essere più adatti alle esigenze culturali del Clero, a promuovere l’educazione del popolo, a confutare le opinioni degli acattolici, e ad assecondare la pietà dei fedeli. Inoltre abbiamo appreso che in alcuni luoghi sono stati adottati libri liturgici e rituali nei quali s’insinuò qualche errore o fu introdotto qualche arbitrario mutamento; perciò sarà vostro dovere comunicarci quali libri sono stati adottati e dirci inoltre se tali libri sono stati in altro tempo approvati da questa Santa Sede, o se a vostro parere contengono errori da correggere, e se abbiate qualche dubbio da dissipare o vi siano abusi da cancellare. Inoltre Vi chiediamo con insistenza di registrare quali progressi abbia compiuto nelle vostre Diocesi la santa unità cattolica, quali impedimenti la ostacolino, in quali modi più opportuni si possano rimuovere siffatti impedimenti, al fine di promuovere e di consolidare sempre più tale unità. – Certamente vi è dato constatare, Venerabili Fratelli, con quanto amore e con quanto zelo seguiamo codeste Chiese Orientali e con quanta passione desideriamo che tra i popoli orientali la nostra santissima fede, la nostra religione, la nostra devozione raggiungano una diffusione sempre più estesa e si consolidino e fioriscano. Siamo certi che Voi con ogni energia (secondo il dovere del vostro ministero episcopale e del vostro impegno pastorale) consacrerete tutte le vostre premure e i vostri pensieri alla protezione e alla propagazione della nostra divina religione e alla salute del vostro gregge. In questi luttuosi tempi, il nemico non cessa di seminare zizzania nella terra del Signore, sia con libri e giornali pestiferi, sia con mostruose ed aberranti opinioni che apertamente avversano la fede e la dottrina cattolica; perciò ben comprendete con quanta sollecitudine, vigilanza e costanza dovrete affaticarvi e stare all’erta per allontanare da questi pascoli avvelenati i fedeli a Voi affidati e per sospingerli verso quelli salutari, al fine di pascerli generosamente con la dottrina della Chiesa Cattolica. Affinché siate in grado di conseguire più facilmente tale scopo, persistete nel sollecitare lo zelo dei curatori di anime, Venerabili Fratelli, in modo che essi, compiendo con scrupolo il loro dovere, continuino a diffondere il Vangelo di Dio tra sapienti e insipienti, soccorrano con ogni opera santa il popolo cristiano loro affidato, con amore e pazienza insegnino soprattutto ai fanciulli e agli ignoranti i fondamenti della fede cattolica e la disciplina nel comportamento, e con insistenza li esortino a una sana dottrina, affinché non siano avviluppati da ogni fatua teoria. Inoltre esortate sempre tutti i Sacerdoti delle vostre Diocesi perché valutino ed esercitino severamente il ministero che ricevettero nel nome del Signore, perché offrano al popolo cristiano esempi d’ogni virtù, insistano nella preghiera, pratichino assiduamente le sacre discipline e con tutte le loro forze intendano assicurare l’eterna salvezza ai fedeli. E per disporre più facilmente di attivi e industriosi operai, capaci di prestare nel tempo il loro aiuto nel coltivare la vigna del Signore, non risparmiate cura alcuna, consiglio alcuno, Venerabili Fratelli, in modo che i chierici adolescenti fin dalla prima età siano plasmati da eletti maestri alla pietà e al vero spirito ecclesiastico, e con molta diligenza siano educati alle lettere e particolarmente alle sacre discipline, assolutamente lontane da ogni pericolo di qualsivoglia errore. Certamente non ignoriamo, Venerabili Fratelli, quali e quante siano le difficoltà cui siete soggetti nell’esercizio del vostro ministero episcopale. Ma vi sia di conforto nel Signore, (riandando con la memoria alla potenza della Sua virtù) di essere ambasciatori di Cristo, che offrì la sua anima per il suo gregge, lasciando a noi un esempio che ci induce a seguire le sue vestigia. – In verità nessuno ignora quanto servizio e decoro recarono in Oriente alla Chiesa Cattolica le Religiose Famiglie di Monaci. Infatti con l’integrità della loro vita, con la severità dei loro costumi e con la fama di una specchiata disciplina religiosa, offrivano esempi di opere virtuose ai fedeli, educavano la gioventù, coltivavano le lettere e gli studi e prestavano la loro utile opera ausiliaria alle sacre Gerarchie. In seguito a tristissime vicende di luogo e di tempo, quelle Sacre Famiglie, così meritevoli al cospetto della società cristiana e civile, vennero meno, in alcuni luoghi, alla disciplina del proprio Ordine o si estinsero del tutto. Invero, alla nostra santissima religione verrebbe un grande giovamento se queste Sacre Famiglie potessero rinascere specialmente là dove scomparvero, e se irradiassero l’antico splendore tra le nazioni orientali; perciò Vi chiediamo di manifestarci la vostra opinione su tale argomento e in che modo potrebbe compiersi la rifondazione di quelle Sacre Famiglie. – Siamo fermamente persuasi che Voi, Venerabili Fratelli, accoglierete con animo fervido e lieto non solo questi Nostri desideri e queste sollecitazioni, ma che vorrete anche esporre tutte le cose che converrebbe fare a maggior vantaggio della nostra santissima religione, del Clero e del popolo fedele in codeste regioni. Non appena avrete appreso, dalla lettera Enciclica del Cardinale Prefetto della Nostra Congregazione del Concilio, quanto Ci sarà gradita la presenza dei Venerabili Fratelli Sacri Prelati nella solenne canonizzazione di numerosi Santi che con l’aiuto di Dio celebreremo nel prossimo giorno della Pentecoste, allora Ci sorreggerà la speranza che in tale occasione (se lo consentiranno le incombenze delle vostre Diocesi) potremo vedervi, affettuosamente abbracciarvi e ascoltare da Voi stessi le relazioni concernenti le vostre Diocesi. Frattanto poi, forti della vostra eccelsa pietà e del vostro zelo episcopale, perseverate, Venerabili Fratelli, nell’adempiere al vostro ministero con la massima alacrità e costanza, nel provvedere con grande impegno alla salute dei vostri fedeli, ad ammonirli e ad esortarli perché persistano sempre più saldi e immobili nella professione della fede cattolica, perché osservino religiosamente i comandamenti di Dio e della Sua Santa Chiesa e perché procedano degnamente, piacendo in tutto a Dio e fruttificando in ogni opera buona. Inoltre, con la consueta vostra benevolenza e con paterno affetto accogliete coloro che ritornano nel grembo della Chiesa Cattolica con immensa gioia dell’animo Nostro; impegnatevi con ogni cura affinché essi, sempre più amorevolmente alimentati dalle parole della fede e rinvigoriti dai carismi della grazia, rimangano saldi nella santa vocazione, incedano con il più sollecito passo sui sentieri del Signore e seguano la via che conduce alla vita. Nell’interesse della insigne vostra Religione, non rinunciate mai a qualsiasi tentativo di riportare a Cristo i miseri erranti con atti di bontà, con la pazienza, con la dottrina, con la mansuetudine, con la dolcezza; di ricondurli al Suo unico ovile, di restituirli alla speranza del premio eterno. Tra le angustie e le difficoltà che non possono mancare al vostro incarico episcopale, soprattutto in questi tempi calamitosi, confidate nella grazia di nostro Signore Gesù Cristo, tenendo presente che chi insegna la giustizia ai molti, rifulgerà come le stelle per tutta l’eternità. – Infine, Venerabili Fratelli, vogliamo che abbiate per certa la somma benevolenza con la quale Vi accompagniamo nel Signore. E frattanto non tralasciamo, in ogni preghiera, in ogni supplica e in ogni atto di grazia, di chiedere con umile insistenza a Dio Ottimo Massimo che effonda sempre propizio sopra di Voi tutti i più fecondi doni della Sua bontà, e che essi possano scendere copiosamente anche sul diletto gregge affidato alla vostra vigilanza. Come auspicio di quei doni e come pegno della Nostra volontà tutta incline verso di Voi, amorevolmente impartiamo a Voi, Venerabili Fratelli, a tutti i sacerdoti e ai laici fedeli affidati alla cura di ciascuno di Voi, l’Apostolica Benedizione dal profondo del cuore.

Dato a Roma, presso San Pietro, l’8 aprile 1862, nell’anno decimosesto del Nostro Pontificato.

DOMENICA DI SESSAGESIMA (2019)

DOMENICA DI SESSAGESIMA [2019]

Incipit 

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLIII: 23-26

Exsúrge, quare obdórmis, Dómine? exsúrge, et ne repéllas in finem: quare fáciem tuam avértis, oblivísceris tribulatiónem nostram? adhaesit in terra venter noster: exsúrge, Dómine, ádjuva nos, et líbera nos. [Risvégliati, perché dormi, o Signore? Déstati, e non rigettarci per sempre. Perché nascondi il tuo volto diméntico della nostra tribolazione? Giace a terra il nostro corpo: sorgi in nostro aiuto, o Signore, e líberaci.]

Ps XLIII: 2 – Deus, áuribus nostris audívimus: patres nostri annuntiavérunt nobis. [O Dio, lo udimmo coi nostri orecchi: ce lo hanno raccontato i nostri padri.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui cónspicis, quia ex nulla nostra actióne confídimus: concéde propítius; ut, contra advérsa ómnia, Doctóris géntium protectióne muniámur. – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

[O Dio, che vedi come noi non confidiamo in alcuna òpera nostra, concédici propizio d’esser difesi da ogni avversità, per intercessione del Dottore delle genti. – Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. – Amen.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

2 Cor XI: 19-33; XII: 1-9.

“Fratres: Libénter suffértis insipiéntens: cum sitis ipsi sapiéntes. Sustinétis enim, si quis vos in servitútem rédigit, si quis dévorat, si quis áccipit, si quis extóllitur, si quis in fáciem vos cædit. Secúndum ignobilitátem dico, quasi nos infírmi fuérimus in hac parte. In quo quis audet, – in insipiéntia dico – áudeo et ego: Hebraei sunt, et ego: Israelítæ sunt, et ego: Semen Abrahæ sunt, et ego: Minístri Christi sunt, – ut minus sápiens dico – plus ego: in labóribus plúrimis, in carcéribus abundántius, in plagis supra modum, in mórtibus frequénter. A Judaeis quínquies quadragénas, una minus, accépi. Ter virgis cæsus sum, semel lapidátus sum, ter naufrágium feci, nocte et die in profúndo maris fui: in itinéribus sæpe, perículis fluminum, perículis latrónum, perículis ex génere, perículis ex géntibus, perículis in civitáte, perículis in solitúdine, perículis in mari, perículis in falsis frátribus: in labóre et ærúmna, in vigíliis multis, in fame et siti, in jejúniis multis, in frigóre et nuditáte: præter illa, quæ extrínsecus sunt, instántia mea cotidiána, sollicitúdo ómnium Ecclesiárum. Quis infirmátur, et ego non infírmor? quis scandalizátur, et ego non uror? Si gloriári opórtet: quæ infirmitátis meæ sunt, gloriábor. Deus et Pater Dómini nostri Jesu Christi, qui est benedíctus in saecula, scit quod non méntior. Damásci præpósitus gentis Arétæ regis, custodiébat civitátem Damascenórum, ut me comprehénderet: et per fenéstram in sporta dimíssus sum per murum, et sic effúgi manus ejus. Si gloriári opórtet – non éxpedit quidem, – véniam autem ad visiónes et revelatiónes Dómini. Scio hóminem in Christo ante annos quatuórdecim, – sive in córpore néscio, sive extra corpus néscio, Deus scit – raptum hujúsmodi usque ad tértium coelum. Et scio hujúsmodi hóminem, – sive in córpore, sive extra corpus néscio, Deus scit:- quóniam raptus est in paradisum: et audivit arcána verba, quæ non licet homini loqui. Pro hujúsmodi gloriábor: pro me autem nihil gloriábor nisi in infirmitátibus meis. Nam, et si volúero gloriári, non ero insípiens: veritátem enim dicam: parco autem, ne quis me exístimet supra id, quod videt in me, aut áliquid audit ex me. Et ne magnitúdo revelatiónem extóllat me, datus est mihi stímulus carnis meæ ángelus sátanæ, qui me colaphízet. Propter quod ter Dóminum rogávi, ut discéderet a me: et dixit mihi: Súfficit tibi grátia mea: nam virtus in infirmitáte perfícitur. Libénter ígitur gloriábor in infirmitátibus meis, ut inhábitet in me virtus Christi.”

Omelia I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

S. PAOLO

“Fratelli: Saggi come siete, tollerate volentieri gli stolti. Sopportate, infatti, che vi si renda schiavi, che vi si spolpi, che vi si raggiri, che vi si tratti con arroganza, che vi si percuota in viso. Lo dico per mia vergogna: davvero che siamo stati deboli su questo punto. Eppure di qualunque cosa altri imbaldanzisce (parlo da stolto) posso imbaldanzire anch’io. Sono Ebrei? anch’io: sono Israeliti? anch’io; discendenti d’Abramo? anch’io. Sono ministri di Cristo? (parlo da stolto) ancor più io. Di più nelle fatiche; di più nelle prigionie: molto di più nelle battiture; spesso in pericoli di morte. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno. Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta lapidato. Tre volte ho fatto naufragio, ho passato un giorno e una notte nel profondo del mare. In viaggi continui tra pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli da parte dei mei connazionali, pericoli da parte dei gentili, pericoli nelle città, pericoli del deserto, pericoli sul mare, pericoli tra i falsi fratelli; nella fatica e nella pena; nelle veglie assidue; nella fame e nella sete; nei digiuni frequenta nel freddo e nella nudità. E oltre le sofferenze che vengono dal di fuori, la pressione che mi si fa ogni giorno, la sollecitudine di tutte le Chiese. Chi è debole, senza che io ancora non sia debole? Chi è scandalizzato, senza che io non arda? Se bisogna gloriarsi, mi glorierò della mia debolezza. E Dio e Padre del nostro Signor Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco il governatore del re Areta, faceva custodire la città dei Damascesi per impadronirsi di me. E da una finestra fui calato in una cesta lungo il muro, e così gli sfuggii di mano. Se bisogna gloriarsi (certo non è utile) verrò, dunque, alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo, il quale, or son quattordici anni, (se col corpo non so; se senza corpo non so; lo sa Dio) fu rapito in paradiso, e udì parole arcane, che a un uomo non è permesso di profferire. Rispetto a quest’uomo mi glorierò; quanto a me non mi glorierò che delle mie debolezze. Se volessi gloriarmi non sarei stolto, perché direi la verità; ma me ne astengo, affinché nessuno mi stimi più di quello che vede in me o che ode da me. E affinché l’eccellenza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, m’è stata messa una spina nella carne, un angelo di satana, che mi schiaffeggi. A questo proposito pregai tre volte il Signore che lo allontanasse da me. Ma egli mi disse: «Ti basta la mia grazia; poiché la mia potenza si dimostra intera nella debolezza». Mi glorierò, dunque, volentieri delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo” (2 Cor. XI, 19-33 e XII, 1-9).

S. Paolo aveva sentito dal discepolo Tito, come la sua prima lettera a quei di Corinto aveva prodotto buoni effetti, e come quei Cristiani gli erano affezionati e fedeli. Alcuni, però, erano rimasti ostili a Paolo, a cui muovevano parecchie accuse. Dalla Macedonia, ove s’era incontrato con Tito, l’Apostolo s’affretta a scrivere ai Corinti una seconda lettera, in cui risponde ai suoi detrattori, e difende il proprio operato. Da questa lettera è tolta l’Epistola di quest’oggi, nella quale, descrivendo il proprio ministero apostolico, in opposizione al ministero dei suoi detrattori, S. Paolo scrive una insuperabile pagina biografica, che ci porge occasione di dire due parole sul grande Dottore delle genti. In lui possiamo considerare:

1. Il Giudeo,

2. L’Apostolo,

3. Il Martire.

1.

Gli oppositori di S. Paolo lo dipingono come un nemico dei figli d’Israele, ed egli risponde di non essere meno Ebreo dei suoi accusatori. Sono Ebrei? anch’io: sono Israeliti? anch’io, discendenti d’Abramo? anch’io. Paolo nasce a Tarso, nella Cilicia, da padre ebreo, e precisamente della tribù di Beniamino. Dopo la prima istruzione in patria, va a Gerusalemme dal celebre dottor della legge Gamaliele, il quale, sotto l’atrio del tempio, teneva scuola a numerosi giovani, istruendoli nella legge di Mosè. Paolo primeggia nello studio della legge e nello zelo per la sua osservanza. Zelo che arriva al punto di volere la prigionia, la morte per i seguaci del Nazareno. Quando Stefano cade sotto la furia dei sassi, egli è lì sul posto ad assistere, «approvando l’assassinio di lui» (Act. VII, 60). E quando si scatena la prima persecuzione contro i seguaci di Gesù Cristo, non rimane inerte. Leggiamo che egli « devastava la Chiesa entrando per le case, e, trascinando uomini e donne, li faceva mettere in prigione » (VIII, 3). Nel suo zelo ardente per la tradizione dei padri non si contenta della persecuzione di Gerusalemme. Vuol perseguitare i discepoli del Signore dove li trova, e riesce a ottenere dal principe dei sacerdoti lettere alle Sinagoghe di Damasco « per menar legati a Gerusalemme quanti avesse trovato di quella dottrina, uomini e donne » (Act. IX, 2). Ma qui lo attendeva quel Gesù che egli perseguitava nei suoi discepoli. Mentre egli, ancor spirante minacele e strage, s’avvicina a Damasco, sul mezzo giorno, è investito all’improvviso da una luce del cielo, e, cadendo a terra, sentì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo perché mi perseguiti? ». Egli disse: «Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: « Io sono Gesù che tu perseguiti. È dura cosa per te ricalcitrare contro il pungolo». Ed egli tremante e pieno di stupore domandò: « Signore che vuol che io faccia? » E il Signore a lui: «Alzati, ed entra in città, e lì ti sarà detto quel che dovrai fare» (Att. IX, 3-6). Saulo, divenuto cieco, è guidato dai suoi compagnialla casa di Giuda. Quivi è visitato dal discepolo Anania,miracolosamente avvertito, che gli ridona la vista conl’imposizione delle mani e lo battezza. Ora Paolo non èpiù quello di prima. La grazia ha trasformato il lupo inagnello, il persecutore in difensore, il nemico in soldatofedele. La grazia di Dio ha compiuto uno strepitoso miracoloper nostro ammaestramento. Infatti «per indurci allanostra emendazione quale impulso maggiore avrebbe potutodarci, che quello della conversione d’un persecutore perdarcelo dottore?» (S. Ambrogio, De Pœn. L. 2, 5). «Qualsiasi peccatore — esorta S. Agostino — guardi all’Apostolo Paolo a cui da Dio fu perdonata tanta malizia e tanta crudeltà e non disperi, ma si converta a Dio » (En. 1 in Ps. 70, 1).

2.

Se c’erano di quelli che potevano vantarsi di lavorare per il Vangelo, non potevano vantarsi di lavorare come Paolo, che era più di loro nelle fatiche. Paolo era stato chiamato da Dio a portare il suo nome soprattutto fra le genti. Ad Anania, che è preoccupato per l’ordine ricevuto di recarsi da Saulo in casa di Giuda, «Va pure — dice il Signore — perché costui è uno strumento da me eletto a portare il mio nome ai gentili e ai re e ai figliuoli d’Israele» (Att. IX, 15). Era una missione mondiale, che S. Paolo abbracciò con grande ardore e condusse sino alla fine. Nessun confine può arrestare i suoi passi. Lo troviamo nella Siria, nella Gabazia, nella Panfilia, nella Pisidia, nella Licaonia, nella Cilicia, nella Frigia, nella Macedonia, nella Grecia, nell’Illiria. in Italia, a Roma, da dove si propone di andare in Spagna sino ai confini del mondo romano. Viaggiava, ora da solo, ora con compagni. Sempre era un viaggio faticoso. Se viaggiava per terra c’erano varchi pericolosi da superare, o pianure mai sicure da attraversare. Se viaggiava per mare doveva servirsi di navi o barche non sempre ben solide, sballottate spesso qua e là dalla furia delle onde. Eppure non dice mai: basta! Partito o scacciato da un luogo, ne evangelizza un altro. Il cattivo successo non raffredda il suo zelo, anzi lo rafforza. – Noi ammiriamo il coraggioso che. rotta la cerchia dei nemici, va a piantar la bandiera nel loro campo, e vi raduna attorno i forti che la difendano, e la facciano sventolare. Che dovremmo dire di S. Paolo, che sormonta qualunque ostacolo per portar la luce del Vangelo nei luoghi, ove le tenebre sono più fitte; che innalza l’emblema della croce, ove satana maggiormente domina mediante il culto degli dei falsi e bugiardi? «Da Gerusalemme, per le regioni intorno fino all’Illirico — scrive egli ai Romani — ho pienamente compiuto la predicazione del Vangelo di Cristo: studiandomi, così di predicare questo Vangelo là, dove Cristo non è ancor stato conosciuto» (Rom. XV, 19-20). Quando, poi, il tempo e le circostanze lo permettevano egli ritornava in quei luoghi a compiere la sua visita apostolica, a correggere ove si errava, a incoraggiare dove era subentrato il raffreddamento, a infervorare tutti nell’amore a Gesù Cristo. E quando non poteva recarsi in persona mandava i suoi discepoli; mandava le sue lettere che illuminarono e infiammarono i cori dei fedeli d’allora, e che hanno continuato e continueranno a illuminare e a infiammare i cuori dei fedeli di tutti i secoli. Lo zelo di S. Paolo non si limita alla sollecitudine di tutte le Chiese: si occupa anche dei singoli Cristiani. Ogni giorno è un concorso, una ressa di neofiti, che fa pressione attorno all’Apostolo, e non gli lascia un momento di respiro. Chi ha un dubbio da dilucidare, chi ha un caso da esporre, chi ha una pena da manifestare, chi ha un pericolo che gli sovrasta, ricorre all’Apostolo. Ed egli si fa tutto a tutti. Per tutti ha una risposta, a tutti porta un sollievo, con tutti condivide una lagrima. Chi è debole, senza che io ancora non sia debole! — dichiara egli stesso — Chi è scandalizzato, senza ch’io non arda? – Dove attingeva S. Paolo l’energia per una attività così sorprendente nell’adempimento del suo apostolato? Il velivolo che s’innalza, sorpassa le vette dei monti, sorvola gli oceani che dividono i continenti, ha una forza che lo spinge, il motore. L’amor di Dio è la gran forza che, a traverso i monti e a traverso i mari, spinge Paolo a portar la conoscenza di Gesù Cristo là, dove non è conosciuto. «L’amor di Cristo ci spinge» (2 Cor. V, 14), dice egli stesso. – Se la grandezza dell’amore si conosce dalla grandezza dei patimenti, bisogna dire che l’amor di Dio ardeva senza misura nel petto di San Paolo, perché senza misura furono i patimenti, che accompagnarono e coronarono il suo apostolato.

3.

S. Paolo non solo poteva dire d’essere di più dei suoi oppositori nelle fatiche: poteva anche aggiungere: di più nelle prigionie; molto di più nelle battiture mi trovai spesso in pericoli di morte. Il Signore aveva detto ad Anania, parlando di Paolo : «Io poi gli mostrerò quanto dovrà patire per il mio nome» (Att, IX, 16). E i patimenti accompagnarono costantemente l’apostolato di lui. Ed egli, anziché procurare di schivarli, se ne compiaceva. «Io mi compiaccio — scrive — nelle debolezze, negli obbrobri, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angustie per il Cristo» (2 Cor. XII, 10). «Egli — come dice il Crisostomo — immolava se stesso ogni giorno» (De Laud. S. Pauli Ap. Hom. 1). La sua vita fu certamente un martirio continuo, se si considerano le penitenze e le mortificazioni volontarie, che sosteneva per essere più somigliante al suo Signore nella passione; se si considerano tutte le prove che Dio gli ha mandato, sia rispetto all’anima, sia rispetto al corpo; se si considerano tutte le insidie e le persecuzioni con cui lo combattevano ebrei e gentili Nel suo apostolato ha da lottare con le onde, con le fiere, contro gli agguati degli assassini. Egli non aspetterà a versare il suo sangue nel giorno bramato, che lo congiungerà con Cristo in cielo. I suoi piedi hanno certamente lasciato impronte di sangue, dorante i suoi viaggi, per le vie lunghe e sassose. Sul suo corpo più d’una volta si sono insanguinati i flagelli e le verghe. E quando il suo sangue sta per esser sparso «come libazione», e si approssima la dipartita, può scrivere dal carcere romano al fedele Timoteo, con tutta confidenza: «Ho combattuto la buona battaglia, sono giunto al termine della corsa; ho serbato la fede» (2 Tim. IV, 6-7). – Solamente lo scioglimento dell’anima dal corpo potrà troncare la sua vita di martirio, dopo che avrà compiuto con la più grande fedeltà la missione affidatagli. Il 29 Giugno dell’anno 67 dal carcere vien condotto fuor di Roma sulla via ostiense, nel luogo chiamato Acque Salvie, oggi Tre Fontane, e là è decapitato nello stesso giorno che Pietro è crocifisso. Così, ha termine la vita di quest’uomo che «incarcerato sette volte, inseguito, lapidato, fu banditore della fede in oriente e in occidente» (Ep. 1 Clementis ad Cor. 5, 6). S. Gerolamo suggerisce a Eustachio di leggere il brano della seconda lettera ai Corinti, che forma l’epistola di quest’oggi, quando gli sembra grave la tribolazione che deve sopportare (Ep. 22, 40 ad Eust.). Questo brano ricordiamolo spesso anche noi. È un richiamo di tutta la vita di S. Paolo. La vita di quest’uomo, simile al quale né sorse, né sorgerà il secondo nella conquista delle anime, è di grande insegnamento a tutti. Essa insegna ad amar Dio di amore vivissimo: insegna che l’amore non sente peso né fatica. Le tribolazioni, le angustie, le persecuzioni, la fame, i pericoli, la spada, non valgono a spegnerlo e separar l’uomo dal suo Dio. La vita di S. Paolo ci insegna a non respingere l’aiuto del Signore. Quando Dio c’invita, con le sue ispirazioni, ad abbandonare la via nella quale ci siamo messi; a progredire più generosamente nel suo servizio, non induriamo il cuore, ma rispondiamo pronti come S. Paolo: «Signore, che vuoi tu che io faccia? ».

Graduale

Ps LXXXII: 19; LXXXII: 14

Sciant gentes, quóniam nomen tibi Deus: tu solus Altíssimus super omnem terram, [Riconòscano le genti, o Dio, che tu solo sei l’Altissimo, sovrano di tutta la terra.]

Deus meus, pone illos ut rotam, et sicut stípulam ante fáciem venti.

[V. Dio mio, ridúcili come grumolo rotante e paglia travolta dal vento.]

 Ps LIX: 4; LIX: 6

Commovísti, Dómine, terram, et conturbásti eam.Sana contritiónes ejus, quia mota est.Ut fúgiant a fácie arcus: ut liberéntur elécti tui.

[Hai scosso la terra, o Signore, l’hai sconquassata. Risana le sue ferite, perché minaccia rovina. Affinché sfuggano al tiro dell’arco e siano liberati i tuoi eletti.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam

Luc VIII:4-15

“In illo témpore: Cum turba plúrima convenírent, et de civitátibus properárent ad Jesum, dixit per similitúdinem: Exiit, qui séminat, semináre semen suum: et dum séminat, áliud cécidit secus viam, et conculcátum est, et vólucres coeli comedérunt illud. Et áliud cécidit supra petram: et natum áruit, quia non habébat humórem. Et áliud cécidit inter spinas, et simul exórtæ spinæ suffocavérunt illud. Et áliud cécidit in terram bonam: et ortum fecit fructum céntuplum. Hæc dicens, clamábat: Qui habet aures audiéndi, audiat. Interrogábant autem eum discípuli ejus, quæ esset hæc parábola. Quibus ipse dixit: Vobis datum est nosse mystérium regni Dei, céteris autem in parábolis: ut vidéntes non videant, et audientes non intéllegant. Est autem hæc parábola: Semen est verbum Dei. Qui autem secus viam, hi sunt qui áudiunt: déinde venit diábolus, et tollit verbum de corde eórum, ne credéntes salvi fiant. Nam qui supra petram: qui cum audierint, cum gáudio suscipiunt verbum: et hi radíces non habent: qui ad tempus credunt, et in témpore tentatiónis recédunt. Quod autem in spinas cécidit: hi sunt, qui audiérunt, et a sollicitudínibus et divítiis et voluptátibus vitæ eúntes, suffocántur, et non réferunt fructum. Quod autem in bonam terram: hi sunt, qui in corde bono et óptimo audiéntes verbum rétinent, et fructum áfferunt in patiéntia.”

OMELIA II

[A. Carmagnola; Spiegazione dei Vangeli Domenicali – S. E. I. Edit. TORINO, 1921]

SPIEGAZIONE XIIIP

« In quel tempo radunandosi grandissima turba di popolo, e accorrendo a lui da questa e da quella città, disse questa parabola: Andò il seminatore a seminare la sua semenza: e nel seminarla, parte cadde lungo la strada, e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono. Parte cadde sopra le pietre; e nata che fu, seccò, perché non aveva umido. Parte cadde tra le spine; e le spine, che insieme nacquero, la soffocarono. Parte cadde in buona terra; e nacque, e fruttò cento per uno. Detto questo, esclamò: Chi ha orecchie da intendere, intenda. E i suoi discepoli gli domandavano, che parabola fosse questa. Ai quali egli disse: A voi è concesso d’intendere il mistero di Dio; ma a tutti gli altri (parlo) per via di parabole, perché vedendo non veggano, e udendo non intendano. La parabola adunque è questa. La semenza è la parola di Dio. Quelli che (sono) lungo la strada sono coloro che la ascoltano; e poi viene il diavolo, e porta via la parola dal loro cuore, perché non si salvino col credere. Quelli poi che la semenza han ricevuta sopra la pietra, (sono) coloro i quali, udita la parola, la accolgono con allegrezza; ma questi non hanno radice, i quali credono per un tempo, e al tempo della tentazione si tirano indietro. La semenza caduta tra le spine, denota coloro i quali hanno ascoltato; ma dalle sollecitudini, e dalle ricchezze, e dai piaceri della vita a lungo andare restano soffocati, e non conducono il frutto a maturità. Quella che (cade) in buona terra, denota coloro i quali in un cuore buono e perfetto ritengono la parola ascoltata, e portano frutto mediante la pazienza » (Luc. VIII, 4-15).

È certo che una delle armi più poderose che il Cielo abbia dato agli uomini è la parola. Ed invero è la parola che sveglia alla guerra e compone la pace; è la parola che scuote i pigri e disarma i violenti; è la parola che ammansa i furiosi, placa gli adirati, consola gli afflitti, difende e salva gli innocenti. È la parola che sopra tutto fa scomparire dalle menti le tenebre dell’ignoranza e vi diffonde in quella vece la luce della scienza. Ora se tanto può e tanto profitta la parola dell’uomo, che cosa non sarà mai della parola di Dio? Udite come il celebre e grave Tertulliano ne fa risaltare la potenza e l’efficacia. Salomone, egli dice, regnò, ma solamente sulla Giudea da Dan fino a Bersabea: Dario imperò su Babilonia e sul paese dei Parti, ma non altrove; Faraone dominò l’Egitto. Nabucodònosor vide la sua dominazione confinata dalla Giudea e dall’Etiopia: Alessandro Magno non comandò mai all’Asia intera, e ben sovente or l’una or l’altra delle contrade soggiogate scuotevano il suo giogo. Il medesimo è a dire dei Bretoni, de’ Germani, de’ Mauritani. I Romani medesimi s’arrestarono in certi confini. Ma per la potenza della parola di Dio, il nome e il regno di Gesù Cristo si stendono in tutte le regioni del pianeta; tutti i popoli credono in Lui, tutte le nazioni lo servono; Egli regna in ogni luogo, è adorato dappertutto; Egli accoglie ugualmente tutti gli uomini, Egli è re, giudice, maestro e Dio dell’universo. Ed in vero la parola di Dio, dotata di una virtù celeste e soprannaturale, è chiamata nelle sacre Scritture spada a due tagli, che penetra sino alla divisione dei cuori, lucerna ardente che dissipa tutte le tenebre, rugiada che ammollisce, seme che feconda, alito che ravviva, via, verità e vita. Con tutto ciò, o miei cari, questa divina parola, che ha sempre operato ed opera tuttora i più grandi prodigi nella conversione delle anime, alle volte non produce tra taluni de’ suoi uditori alcun salutare effetto. Qual è la ragione di ciò? Nessun’altra che quella delle cattive disposizioni di chi l’ascolta. Ce lo insegna lo stesso divin Maestro con una bella parabola nel Vangelo di questa mattina.

1. Il seminatore, disse Gesù ad una immensa turba che lo ascoltava, il seminatore andò a seminare la sua semenza: e nel seminarla parte cadde lungo la strada, e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono. Et reliquia…

Voi vedete adunque come Gesù Cristo, avendo Egli stesso spiegata la sua parabola, dopo di aver detto che la semenza gettata dal seminatore è la parola di Dio, soggiunge le tre principali cause, che non le lasciano produrre i suoi frutti. E la prima di esse è la durezza del cuore, raffigurata nella terra vicina alla strada, che è terra battuta, pesta, indurita dai viandanti. Un cuore indurato nel male, ancorché ascolti la parola di Dio, non ne ricava profitto, perché riceve una tal parola superficialmente, senza abbracciarla e compenetrarsene, sicché il demonio senza difficoltà di sorta rende vano per costui quanto di buono ha udito. E che sia così, ce lo insinua il santo re Davide, il quale dopo di aver detto che « la legge del Signore, è legge che converte i cuori: lex Domini immaculata convertens animas; » soggiunge subito: « Sapìentiam præstans parvulis » (Psalm. XVIII, 7); che questa medesima legge cioè dà la sapienza a coloro che per la docilità del loro cuore sono come fanciulli. Senza dubbio può benissimo Iddio, qualora lo voglia, ferire un cuore quanto mai caparbio e rivoltoso, ed impossessarsene siffattamente da muoverlo, anzi trascinarlo, ad abbracciare la verità, ad amarla ed a costantemente seguirla, perché Egli è onnipotente ed alla sua onnipotenza neppur il cuore più ostinato può far fronte. Così appunto avvenne di Saulo. Galoppando verso di Damasco, pieno di furore contro i Cristiani, all’improvviso, come colpito da un fulmine, cade a terra ed ode la voce di Dio, che prima lo rimprovera e poscia lo ammaestra. E a quel miracolo dell’onnipotenza divina, Saulo interamente si muta e da quel punto comincia ad essere S. Paolo. Ma questi, o miei cari, sono portenti, che raramente accadono, e se alcuno li pretendesse, sarebbe un miserabile presuntuoso. Epperò la regola ordinaria si è che nel cuore indurato dal male la divina parola non fa breccia alcuna. Ne abbiamo un esempio nello sciagurato Faraone. A quel tiranno, che nell’Egitto caricava il popolo del Signore d’ogni aggravio, Iddio manda Mosè e gli fa significare da parte sua che lasciasse andare alla solitudine il popolo d’Israele, affinché là gli offrisse dei sacrifici. Chi è, risponde il superbo, chi è questo Signore? Io non lo conosco punto, nè farò ciò che tu dici. Rimanda Iddio Mosè a Faraone, ad annunziargli che è volontà sua assoluta che egli licenzi il popolo; ed a convincerlo che da Dio è questo comando, fa gettare ad Aronne la vérga sul suolo, che tosto mutasi portentosamente in una serpe. Ma l’ostinato non cede ancora. Manda allora Iddio la terza volta Mosè a fargli la stessa ambasciata, e alla negativa pronto succede il castigo, e l’acqua del fiume a un tocco della verga si cangia in sangue; ciò non bastando carica Iddio la mano, e fa sorgere in tutto l’Egitto una sì grande maledizione prima di rane, quindi di insetti, poscia di mosche, che era una disperazione in tutto il regno, né la reggia medesima, né il trono, né la real persona di Faraone era punto da quei lordi e molesti animaluzzi rispettata. Questi flagelli tornati inutili, rimanda Iddio il suo messo al superbo, dicendogli che ormai lasciasse libero Israele. A dir breve, ben dieci volte e più fece parlare il Signore al tiranno, dieci volte lo minacciò, se non cedeva, di terribili castighi, e dieci volte lo percosse con flagelli l’un più dell’altro terribile, fino a fargli morire di peste per tutto il regno gli armenti d’ogni genere, fino a devastar con la grandine e con le cavallette ogni campagna, fino ad impiagare pressocché tutti gli Egiziani di ulceri straziantissime, fino a privarli della luce benefica del sole, e far che tutti gli Egiziani brancolassero entro a tenebre quasi palpabili, fino a introdurre in tutte le case la morte, percuotendone ogni primogenito, ed eccitare così il pianto per ogni angolo di quel regno, non escluso il reale palazzo, fino a strappare i lamenti dalla bocca medesima dell’ostinato e superbo Monarca. Con tutto ciò il Faraone non voleva cedere, e perché! Ce lo dice la Sacra Scrittura: « Induratimi est cor Pharaonis; il cuor di Faraone si era indurato ». (Esod. pass.). A Davide invece, macchiato innanzi a Dio di duplice abbominevole delitto, si presenta per comando dell’Altissimo il profeta Natan e gli racconta una breve parabola, per cui il re avvampando di giusto sdegno contro il supposto truffatore, esce in quelle parole: « Viva Dio, che cotesto iniquo è degno di morte. Ma proprio tu sei quel desso, ripiglia il Profeta, tu es ille vir, ed aggiunte ancor poche parole di giusto rimprovero e di minaccia di meritati castighi, Davide tosto si compunge, si umilia, e pieno di sincero pentimento, esclama: Signore, ho peccato; abbi di me pietà. – Or ecco una delle principali cause per cui la parola di Dio non riesce per tutti di salutare effetto. Vanno taluni ad ascoltarla, sia pure col peccato sull’anima, ma perché non sono ostinati nel male, e non ban fatto proposito di restare nel vizio, perciò non è mai che anche costoro non ne ricavino qualche frutto. Ma invece altri ci vanno, unicamente o perché ci sono costretti o per mera curiosità, ma col cuore deliberato a non farne caso, con volontà ostinata e caparbia, e, quasi direi, con fermo proposito di voler perfidiare nell’empietà e nei vizi, epperò come mai per costoro potrà essere profittevole la parola di Dio? Eh! la grazia del Signore non è una violenza, e quando il cuore non cooperi alcun poco, o almeno almeno non resista ai suoi movimenti, si rimane inefficace. Or dite, o miei cari, non vi sarà tra di voi alcuno, che abbia per la parola di Dio questa sì grave indisposizione? Oh! se mai vi fosse, non voglia più oltre indurare il cuore, ma fin da questo istante ascolti docilmente la divina parola: Hodie si vocem eius audieritis, nolite óbdurare corda vestra(Psalm. XCIV, 8).

2. La seconda indisposizione per la parola di Dio si è la leggerezza di spirito, raffigurata dalla poca terra posta in mezzo alle pietre, la quale fece bensì germogliare la semenza, ma poscia, per mancanza di umore non potendo darle nutrimento, la lasciò tosto seccare. Ed in vero vi hanno di coloro, i quali volentieri ascoltano la parola di Dio e l’ascoltano pur anche con tenerezza di cuore. Sopra di costoro la divina parola, nel momento in cui è predicata, produce delle salutari impressioni, e secondo gli argomenti che tratta, ora si pentono delle loro passate colpe, ora si animano a farne aspra penitenza, ora si decidono ad imitare gli esempi dei Santi e far grandi cose, ed a correre eziandio alla salute delle anime. Ma ohimè! Con tanti bei desideri e propositi, il più delle volte, appena usciti di Chiesa, non pensano quasi più a nulla di quanto hanno udito, e se pur lo ricordano, non appena si trovano in mezzo a qualche pericolo e sono in qualche modo tentati, tornano miseramente a cadere nel peccato come prima. Costoro hanno una grande leggerezza di spirito, sono mutabili, incostanti e mancano perciò dell’umore del vero amor di Dio. Ed oh quanto numerosi pur troppo sono costoro! Quanti possono sono dire come il Profeta: « L’anima mia, o Signore, è divenuta come una terra senz’acqua: anima mea, sicut terra sine acqua tibi(Psalm. CXLII, 6). Ed ecco perché il Divin Redentore diceva che « beati sono coloro, i quali non solo ascoltano la parola di Dio, ma la custodiscono nel loro cuore per praticarla: Beati qui audiunt verbum Dei et custodiunt illud(Luc. XI, 28) ». Sì, questo sommamente importa, che si conservi nel cuore la parola del Signore, che si è udita in Chiesa, e si metta in pratica. Poiché, per qual altro fine il Signore ha ordinata la predicazione? Nel mandare gli Apostoli in mezzo al mondo a predicare il suo santo Vangelo disse loro: Euntes docete omnes gentes… docentes eos servare omnia, quæcumque mandavi vobis: Andate ed istruite tutte le genti… insegnando loro di osservare tutto quello che io vi ho comandato (Matth. XXVIII, 20). Ecco il gran fine della predicazione cristiana, l’apprendimento della legge di Gesù Cristo per osservarla. A che vale adunque ascoltare la parola di Dio, anche con attenzione e riverenza, se poi non si mette il massimo impegno di ridurla alla pratica, e specialmente allora che assale la tentazione, che occorre un qualche pericolo? Cacciamo adunque, se mai vi fosse, cacciamo dal nostro spirito la leggerezza, ed invece diamo luogo alla riflessione ed alla fermezza di proposito. Quando il buon terreno conserva la semente, che gli fu affidata nei giorni dell’autunno, accade nell’interno del suolo un lavoro che sfugge agli occhi nostri. Il germe si sviluppa, le radici si allungano, poi compare alla fine il gambo. Ma per questo occorre un certo numero di giorni. Cosi, o miei cari, quando avete ricevuto la buona semenza della parola di Dio, deve in voi operarsi il lavoro della riflessione e d’una seria risoluzione. E poi un giorno si vedranno germogliare e comparire al di fuori i buoni proponimenti del vostro cuore, e questo cuore, simile al buon terreno del Vangelo, produrrà dei frutti abbondantissimi di vita eterna.

3. Da ultimo la terza principale indisposizione per la parola di Dio è la sregolata condotta, raffigurata dalle spine, le quali crescendo insieme con la semenza la soffocarono. E la sregolata condotta, secondo l’insegnamento divino, massimamente consiste nelle sollecitudini del mondo, nell’attacco alle ricchezze e nell’amore dei piaceri. Anzi tutto nelle sollecitudini del mondo. Chi sa dire i pensieri, gli affanni, le ansietà continue, in cui vivono taluni per riguardo ai loro studi, o ai loro interessi, od alla loro ambizione? Il loro animo è preoccupato dal mattino alla sera, e persino la notte durante il sonno non sognano altro se non ciò che li agita. Ora come è possibile, che costoro pur ascoltando, o casualmente, o per forza, la parola di Dio ne abbiano poi a far frutto? Ancorché nell’udirla si formassero nei loro cuori dei buoni desideri e propositi, certamente le temporali sollecitudini, a cui sono in preda, tosto soffocherebbero quel tanto di bene spuntato fuori. In secondo luogo le ricchezze. E qui S. Gregorio Magno esclama: Chi mi avrebbe creduto, se da me stesso avessi voluto per le spine intendere le ricchezze di questo mondo, poiché quelle nuocciono al corpo, e queste allettano i sensi? Eppure quanto è giusto questo paragone preso dal Salvatore. Le ricchezze non sono meno sterili delle spine; per se stesse nulla producono per l’eternità. Vi ha una sola maniera di renderle utili, ed è di perderle volontariamente consacrandole alle opere buone, come non v’ha che un solo modo di utilizzare le spine, cioè gettarle al fuoco per riscaldare le membra irrigidite dal freddo della stagione. Ma quanto pochi sono coloro, che gettino così i loro tesori alle fiamme della carità fraterna! Il più delle volte si attaccano a questi beni passeggieri, che per essi divengono vere spine. Quante fatiche per acquistarli, quante cure per conservarli, quante ferite fatte all’anima, che dimentica i veri beni, i beni eterni, quanti amari affanni preparano per l’ora estrema della separazione! E come mai in un cuore tutto pieno dell’amor dei tesori della terra vi sarebbe ancor posto per la parola di Dio? Vi ricordate di quel giovane che chiedeva di porsi alla sequela di Gesù? Il Salvatore gl’impone per condizione rigorosa di vendere il suo avere e darne il prezzo ai poveri; allora solamente potrà ritornare e contare fra i discepoli del divin Maestro. E il giovane se ne partì mesto, perciocché possedeva grandi beni e il suo cuore vi si era fortemente attaccato. La semenza dei buoni desideri e delle sante ispirazioni, fu soffocata dalle spine della ricchezza e dell’attaccamento alle cose di quaggiù. Ecco perché il Salvatore ha scagliato i divini anatemi contro le ricchezze; ecco perché con voce lamentevole egli gemette sulla difficoltà, che incontrano i ricchi nella strada del cielo. Lo stesso infine diciamo pei piaceri: anch’essi soffocano la buona semenza. E come infatti accordare l’amor del piacere con la parola di Dio? Questa non predica che rinunzia e sacrificio; essa esalta la povertà, le lagrime; proclama beati quelli che hanno a subire persecuzioni ed oltraggi; vuole che si elegga sempre l’ultimo posto; fa un rigoroso dovere del perdono delle ingiurie e dell’amor dei nemici. Ora, può egli capire ed accettare questo linguaggio chi è misero schiavo del piacere? Chi brama di vivere secondo l’impeto delle sue malvagie passioni? Chi vuole accontentare le sue perverse inclinazioni? È impossibile. Oh quanto importa adunque, se desideriamo profittare della parola di Dio, quanto importa di scacciare dall’anima nostra l’affetto alle cose miserabili di questo mondo e renderla così una terra buona che produca il centuplo per uno! Quanto importa di formarci un cuor buono e perfetto che ritenga la parola di Dio e la faccia fruttificare mediante la pazienza sia nel sopportare le avversità della vita, sia nel combattere le difficoltà che si incontrano nel fare il bene! Noi felici se useremo questo impegno: dopo di avere ben ascoltata e praticata quaggiù la parola di Dio, avremo alla fine la gran sorte di andarla ad ascoltare per sempre con la massima gioia lassù nel tempio celeste.

Offertorium

Orémus Ps XVI:5; XVI:6-7

Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine. [Rendi fermi i miei passi nei tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino. Inclina l’orecchio verso di me, e ascolta le mie parole. Fa risplendere la tua misericordia, tu che salvi chi spera in Te, o Signore.]

Secreta

Oblátum tibi, Dómine, sacrifícium, vivíficet nos semper et múniat.

[Il sacrificio a Te offerto, o Signore, sempre ci vivifichi e custodisca.]

Communio

Ps XLII:4

Introíbo ad altáre Dei, ad Deum, qui lætíficat juventútem meam. [Mi accosterò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut, quos tuis réficis sacraméntis, tibi étiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas. [Ti supplichiamo, o Dio onnipotente, affinché quelli che nutri coi tuoi sacramenti, Ti servano degnamente con una condotta a Te gradita.]

LO SCUDO DELLA FEDE (L)

IL NUMERO DEGLI ELETTI.

Sarà grande o piccolo il numero degli eletti? — ragioni che persuadono essere grande. — Se questa opinione ingeneri soverchia e ingiusta fidanza di salvarsi. — Conclusione e ammonimenti.

— E sarà grande o piccolo il numero degli eletti al paradiso?

Questo è il segreto di Dio, e la Chiesa a questo riguardo non ha dichiarato e tanto meno definito nulla. Vi sono tuttavia due opinioni: quella di coloro che dicono assai piccolo il numero degli eletti, inferiore a quello dei riprovati, e quella di coloro che lo affermano grande e superiore assai a quello dei dannati. Trattandosi di opinioni libere, non ti pare, a te, che sia assai meglio attenerci a quella che più ci consola, che meglio risponde alla bontà di Dio e che più esalta la divina redenzione?

— Oh sì! certamente. Ma non vi sono nella Scrittura delle comparazioni e delle parabole che provano il numero degli eletti essere piccolo?

Le comparazioni e le parabole, eccetto che Gesù Cristo, spiegandone il senso, attribuisca loro un valore probativo non sono argomenti, né dimostrazioni; possono perciò servire a far capire una cosa, una verità, ma non già a dimostrarla. D’altronde se esse avessero forza di prove, si avrebbe piuttosto a conchiudere al gran numero degli eletti che al piccolo, giacche la più parte delle comparazioni e parabole mostrerebbero ciò.

— Non vi sono tuttavia nel Vangelo delle sentenze decisive, quali queste: — Molti sono i chiamati, pochi gli eletti. — La porta è larga ed è spaziosa la via che mena alla perdizione, e molti si mettono per essa. Come è stretta la porta ed angusto il cammino che conduce alla vita, e pochi son quelli che vi entrano. — ?

Queste sentenze sarebbero decisive se tutti si accordassero nella loro interpretazione per il piccolo numero degli eletti. Ma non è così. E trattandosi della prima sentenza, la si può intendere in questo senso: che molti, cioè tutti sono chiamati alla grazia e all’osservanza, dei precetti, ma pochi sono eletti alla grazia esimia e all’osservanza dei consigli. La seconda poi si può credere sia stata profferita specialmente e direttamente da Gesù Cristo, per coloro che vivevano ai tempi suoi, e che così poco profittavano della sua divina predicazione (V. Monsabrè, Dogma Cattolico, Conferenza CII). Quindi è che così interpretate, o in modo somigliante, queste sentenze non decidono allatto sul piccolo numero degli eletti al paradiso.

— Ma su quali ragioni si fonda l’opinione del maggior numero degli eletti?

Su ragioni ottime, che io ti accenno appena, cavandole dagli scritti di valenti teologi e di eminenti autori, tra i quali mi basti nominarti un Faber, un Suarez ed un S. Francesco di Sales.

l. La Magnificenza di Dio. — Nell’ordine della natura, come in quello della grazia, ciò che costituisce il carattere di Dio è l’abbondanza, la magnificenza, profondendo egli i suoi doni senza misura. Non sarà dunque anche magnifico nel numero degli eletti?

2. L’onore della Redenzione. — Gesù Cristo è disceso dal cielo per abbattere satana e strappargli le anime dalle mani. Nella lotta a tal fine, ingaggiata con lui, vinse; né poteva essere altrimenti. Ora sarebbe possibile che Gesù Cristo, vincitore di satana, si trovasse in cielo ad avere un trofeo di anime inferiore al numero di quelle che Satana, il vinto, sarebbe riuscito tuttavia a far sua preda? In certa guisa il demonio non potrebbe così eternamente vantarsi di una potenza di rovina superiore alla potenza della redenzione?

3. La Costituzione della Chiesa Cattolica. — Essa è formata di Cattolici, che sono ricolmi di grazie e di privilegi per parte di Dio e per virtù di Gesù Cristo. Alla sua anima inoltre, senza appartenere al suo corpo, ossia alla società visibile da lei formato, appartengono molti eretici e scismatici, che vivono in buona fede ed operano cristianamente. Ora non è pur scritto che « non vi è dannazione per coloro che sono in Gesù Cristo, e che Colui che accorda di cominciare (mediante la vocazione alla fede) accorda eziandio il dono di finire (colla vocazione alla gloria)? »

4. L’azione dei Sacramenti. — Essa è mille volte più estesa ed efficace di quel che possiamo immaginare. E se si pone mente al numero immenso di sacramenti, che ogni giorno si amministrano, e al valore della grazia divina, che comunicano a coloro che degnamente li ricevono, si potrebbe credere seriamente, che ciò non ostante ne debba seguire la perdita della maggioranza degli uomini?

5. L’azione dei mezzi straordinari. — Volendo Iddio di volontà vera che tutti gli uomini si salvino e pervengano al conoscimento della verità, epperò volendo ancora applicare a tutti gli uomini gli effetti salutari della sua redenzione, oltre che coi mezzi ordinari posti a tal fine nella sua Chiesa, non si può dubitare che Egli, nella sua bontà infinita, si valga altresì di mezzi straordinarii, perché coloro stessi che vivono lontani dalla Chiesa possano conseguire la salvezza. Come dunque tra gli stessi gentili Iddio non si formerebbe un gran numero di eletti con delle operazioni misteriose, che Egli solo conosce, ma che con tutta la teologia cattolica puossi affermare che esistono?

6. La somma giustizia di Dio. — Molte volte noi possiamo credere che taluni si trovino in peccato mortale e muoiano in tale stato, mentre invece non è così. Perché il peccato sia mortale ci vuole materia grave, pieno conoscimento e piena volontà. « Ora, dice Mons. Bonomelli, è facilissimo riconoscere se in un peccato vi sia materia grave o no, ma non è troppo facile il giudicare se vi siano il pieno conoscimento e la piena volontà. Bisognerebbe perciò conoscere a fondo l’indole di ciascuno, la parte sì grande che vi hanno l’eredità fisica e morale, l’educazione domestica e pubblica, le letture, il genere di vita, i cibi, il clima stesso, le amicizie, le mille e mille circostanze che possono influire sulla mente e sulla volontà, accrescerne o scemarne, o toglierne affatto la responsabilità. Gli atti dell’uomo sono il risultato di tante e tante forze interne ed esterne, che influiscono sulla mente e sulle volontà, che solamente un temerario od un pazzo potrà dire di conoscerle tutte e quindi giudicare la responsabilità. Questo lo può fare solo Iddio. E lo fa con una giustizia somma, per cui spessissime volte Egli giudicherà solo come peccato veniale, quello che noi negli altri, col nostro scarso giudizio, abbiamo creduto mortale ». E questa consolante verità non sarebbe essa pure in favore del maggior numero degli eletti?

7. L’infinita misericordia di Dio al punto di morte. — Questa misericordia verso i morenti deve superare ogni idea. Cento volte più che non vediamo, mille volte più che non possiamo supporre, nell’ora estrema, anzi nello stesso istante finale della vita, sia a coloro che sino a quel punto si ostinano a star in peccato, sia a quelli stessi, che repentinamente arrivano a quel punto negli infortuni, nei disastri, negli assassinii, nelle risse, negli stessi suicidi e duelli, Iddio si presenta ad offrire la misericordia sua, e solo che costoro il vogliano, e poi con una parola, con un affetto, con un sospiro, con una sola lagrimetta (cfr. Dante in Purg. c. V) che esprima il pentimento sincero del male che hanno commesso, possono acquistare la sua grazia e morire con essa. Certamente Dio vorrà che essi espiino con lunghi e crudi tormenti la loro grande tardanza ad arrendersi alla sua grazia, ed è per questo che il purgatorio fu fatto terribile, ma essi intanto entrano nel novero degli eletti. Ecco le principali ragioni sulle quali, come ti dissi, autori eminenti e insigni dottori appoggiano l’opinione del maggior numero degli eletti.

— A me paiono davvero di gran valore e per esse si dilegua dalla mia mente qualsiasi idea di durezza da parte del Signore nell’opera della nostra salute. Tuttavia questa opinione non può ingenerare in taluni una soverchia e ingiusta fidanza di salvarsi senza fare quello che a tal fine importa?

In un’anima vile ed orgogliosa certamente ciò potrebbe accadere. Ma noi affidandoci all’indulgenza e misericordia di Dio, « ci studieremo colla maggior sollecitudine di corrispondere generosamente alla medesima, col rendere certa la nostra vocazione ed elezione per mezzo delle buone opere, » in conformità all’avvertimento che ci dà il principe degli Apostoli S. Pietro; e ancorché sapessimo che su cento uomini non vi fosse che un dannato, ci manterremo in quella umiltà e saggezza cristiana, che facendoci temere di essere quell’uno, ci sprona « ad operare la nostra salvezza con timore e tremore, » secondo che ci esorta S. Paolo.  – E con questo pensiero io prendo da te commiato, non senza ridarti prima qualche avvertimento e rifarti qualche raccomandazione della massima importanza per la difesa e conservazione costante della fede nel tuo cuore. E primieramente: sebbene io t’abbia data tutta la libertà di farmi lo obbiezioni e difficoltà che sapevi contro la fede cristiana, e vi ti abbia anzi incoraggiato affine di scioglierle ed illuminarti quanto più era possibile senza recarti tedio, tuttavia vi sarebbero ancora varie altre difficoltà ed obbiezioni, che si potrebbero fare, e che forse mi farai un’altra volta, che di proposito rientriamo a discorrere insieme. Con tutto ciò ti avverto che molte difficoltà ed obbiezioni, che intenderai da altri, che potrai leggere, o che ti si presenteranno da per sé alla mente, potranno a prima vista parerti nuove, senza che lo siano, almeno nella loro sostanza, essendo l’errore proteiforme. Ed allora scorgendo tu in esse, anche solo da lontano, una qualche relazione con quelle che già mi hai fatte, richiama alla mente la soluzione che ne hai avuto, considerata se occorre, in tutta la sua ampiezza, ed io credo che anche allora potrai dare a quelle difficoltà apparentemente nuove una soddisfacente risposta. – In secondo luogo ti raccomando di evitare la frequenza di quelle persone, che sono bacate nella fede, e di astenerti sempre dalla lettura di quei libri e di quei giornali che più o meno, con sfacciataggine aperta o con raffinata malizia ammanniscono altrui il veleno dell’immoralità e dell’irreligione. Rammenta in proposito quanto ti ho già detto al riguardo; è qui che sì avvera il proverbio che « la goccia scava la pietra ». Frequentando certe persone, facendo certe letture, senza avvedertene, a poco a poco scadresti dalla fermezza della fede cattolica, non ostante tutto quello che hai appreso intorno ad essa. – Da ultimo ti raccomando quanto so e posso che sii puro nei costumi e religioso nei sentimenti. Un cuore mondo e pio difficilmente è tentato di incredulità. Che se pure qualche dubbio si presenta ad assalirlo all’improvviso, prontamente ed efficacemente ne lo discaccia. Evita adunque ogni contaminazione sia nei pensieri, nei desideri e negli affetti, sia negli sguardi, nelle parole e nelle opere. Prega qualche po’ tutti i giorni; ogni dì festivo pratica i tuoi doveri cristiani, ascoltando bene la Messa ela parola di Dio, ai tempi nostri più necessaria del pane; ogni mese, se puoi (e basta che tu il voglia), accostati con le dovute disposizioni ai SS. Sacramenti; fatti ascrivere, se ancora non sei ascritto, a qualche buona associazione per partecipare anche tu vivamente, ma sempre in obbedienza a chi di ragione, all’Azione Cattolica; infine mettiti sotto il manto di Colei, che giustamente invocata sotto il titolo di Aiuto dei Cristiani, per averli preservati dai nemici della fede, scamperà te pure da tutti i dardi, che contro di essa ti si possano scagliare. Ed allora anche tu, giunto al termine della vita, che ti auguro lunga e felice, potrai dire come S. Paolo: « Ho conservata la fede; non mi rimane che riceverne la corona da Dio ». Ed io pure, allargando vieppiù i l cuore alla fiducia nella bontà del Signore, mi terrò confortato per avere colla divina grazia qualche po’ cooperato a porre in difesa e salvezza dell’anima tua … Lo Scudo della fede.

FESTA DELLA CATTEDRA DI S. PIETRO IN ANTIOCHIA

Sermone di sant’Agostino Vescovo

Sermone 15 sui Santi

L’istituzione dell’odierna solennità ricevé dai nostri antenati il nome di Cattedra, perché è tradizione che Pietro, principe degli Apostoli, prendesse possesso quest’oggi della sua sede episcopale. I fedeli perciò, con ragione, celebrano l’origine di quella Sede onde l’Apostolo fu investito per la salute delle chiese con quelle parole del Signore: «Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa » Matth. XVI, 18. – Il Signore dunque ha chiamato Pietro il fondamento della Chiesa: ed è perciò che la Chiesa venera giustamente questo fondamento sul quale poggia tutto l’edificio ecclesiastico. Quindi ben a ragione si dice nel Salmo ch’è stato letto: « Lo esaltino nell’adunanza del popolo, e lo lodino nel consesso dei seniori » Ps. CVI, 32. Benedetto Dio, che prescrive d’esaltare il beato Pietro Apostolo nell’adunanza del fedeli; è giusto infatti che la Chiesa veneri questo fondamento per cui si sale al cielo. – Celebrando dunque quest’oggi l’origine della Cattedra, noi onoriamo il ministero sacerdotale. Le chiese si rendono questo mutuo onore, comprendendo esse che la Chiesa tanto più cresce in dignità, quanto più viene onorato il ministero sacerdotale. Avendo dunque una pia usanza introdotto giustamente nelle chiese questa solennità, mi meraviglio delle grandi proporzioni che ha preso oggi un pernicioso errore tutto pagano, di portare cioè sulle tombe dei defunti dei cibi e del vino, come se le anime, che hanno abbandonato i loro corpi, reclamassero questi cibi propri della carne.

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Omelia di san Leone Papa

Sermone 3 nell’anniversario della sua elezione, dopo il principio

Il Signore domanda agli Apostoli, chi dicesse la gente ch’egli sia: e la loro risposta è comune finché essi esprimono l’incertezza dello spirito degli uomini. Ma appena interroga i discepoli sul proprio sentire, il primo in dignità fra gli Apostoli è il primo ancora a confessare il Signore. Ed avendo egli detto: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» Matth. XVI, 16; Gesù gli rispose: «Beato te, Simone, figlio di Giona, perché non te l’ha rivelato la natura e l’istinto, ma il Padre mio ch’è nei cieli» Matth. XVI, 17. Vale a dire: Perciò tu sei beato, perché te l’ha insegnato il Padre mio; non sei stato ingannato dall’opinione terrena, ma te l’ha dichiarato l’ispirazione celeste: e non la natura e l’istinto mi ti han fatto conoscere, ma colui del quale sono il Figlio unigenito. – « E io, continua, ti dico » Matth. XVI, 18; cioè: Come il Padre mio ti ha manifestato la mia divinità, così io pure ti faccio conoscere la tua propria eccellenza. Perché tu sei Pietro: cioè: Mentre io sono la pietra inviolabile, la pietra angolare che di due popoli) ne faccio uno, io il fondamento all’infuori del quale nessuno può porne altro; tuttavia anche tu sei pietra, essendo confermato dalla mia virtù, così che quanto m’appartiene di proprio, quanto al potere, ti sia comune per la mia partecipazione. «E su questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei» (Matth. XVI, 18: Su questa fortezza, dice, edificherò un tempio eterno; e la sublimità della mia Chiesa, che deve penetrare il cielo, si eleverà sulla fermezza di questa fede. – Le porte dell’inferno non impediranno mai questa confessione di Pietro), né la legheranno punto le catene della morte; poiché questa parola è parola di vita. E come essa innalza al cielo i suoi confessori, così ne sommerge nell’inferno i negatori. Perciò dice al beatissimo Pietro: « Ti darò le chiavi del regno dei cieli: e qualunque cosa legherai sulla terra, sarà legata anche nei cieli; e qualunque cosa scioglierai sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli » (Matth. XVI, 19. Certo, questo potere fu comunicato anche agli altri Apostoli, e questo decreto costitutivo riguarda egualmente tutti i principi della Chiesa; ma confidando questa prerogativa, non senza motivo il Signore s’indirizza a uno solo, benché parli a tutti. Essa è affidata particolarmente a Pietro, perché Pietro è stabilito capo di tutti i pastori della Chiesa. Il privilegio dunque di Pietro sussiste in ogni giudizio portato in virtù della sua legittima autorità. E non c’è eccesso né di severità né di indulgenza, dove non si lega né si scioglie se non ciò che il beato Pietro avrà sciolto o legato.

[dal Breviario Rom. 1955]

« … le porte dell’inferno non impediranno mai questa confessione di Pietro, né la legheranno punto le catene della morte; poiché questa parola è parola di vita. » Il nostro Santo Padre, benché in esilio ed impedito, testimonia ancora le parole che Nostro Signore ha detto a Pietro, al suo Vicario in terra e ai suoi successori legittimi: portæ inferi non prævalebunt. Tutti coloro che negano questa verità divina, i suoi oppressori, i suoi usurpatori, hanno già segnata la loro sorte eterna: “… così ne sommerge nell’inferno … “

… Or quivi il Sales (S. Francesco di Sales) allegando le parole Evangeliche, che dicon fondata su Pietro la Chiesa, contr’a cui le porte dell’inferno non prevarranno, cosi discorre: Con queste parole il Signor nostro mostra la perpetuità e l’immobilità di questo fondamento. La pietra, da cui dipende l’edificio, è la prima: le altre sopra essa si rassodano. Ben si può smuovere altra qualunque senza ruinar l’edificio; ma chi ne leva la fondamentale, rovescia la casa. Se dunque le porte infernali nulla possono contro la Chiesa, non possono pur nulla contra il fondamento, cui esse non possono levare né rovesciare senza che mettano sossopra tutto l’edificio. Sin qua il Santo; il quale pur inerendo all’altro detto Evangelico, per cui Pietro è costituito Confermator dei Fratelli, ripiglia: La Chiesa abbisogna sempre di un Confermatore infallibile, a cui ella possa rivolgersi, un fondamento, cui le porte dell’inferno, e l’errore principalmente non possano atterrare; e che il suo Pastore non possa condurre all’errore i suoi figliuoli. I Successori dunque di S. Pietro hanno tutti questi medesimi privilegi che non sieguono la persona, ma la dignità o la carica pubblicacosì il Sales con pari energica chiarezza … [G. B. Noghera: Riflessioni sulla infallibilità del Papa nel Magistero dogmatico, appendice alla Infallibilità della Chiesa, Raimondini Stampa di Bassano, 1776].

Lunga vita al nostro attuale Principe degli Apostoli, Gregorio XVIII, e … dannazione eterna agli usurpanti!

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (25)

Mons. J. J. Gaume:  

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO, VOL. I

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXIV.

(seguito del precedente.)

Numa, scimmia di Mosè — Nuovo tratto di parallelismo: lo Spirito Santo, custode permanente delle leggi sociali della Città del bene — satana, sotto la forma del serpente, custode permanente delle leggi sociali della Città del male — serpente-dio, adorato dappertutto: in Oriente, a Babilonia, in Persia, in Egitto, in Grecia; le Baccanti ad Atene, in Epiro, a Deio e a Delfo: descrizione dell’oracolo di Delfo — A Roma, i serpenti di Lavinium — Il serpente d’Epidauro nell’isola del Tevere — Culto del serpente nelle Gallie e presso i popoli del Nord — Universalità di questo culto nell’antichità pagana — Sua cagione — I serpenti del tempo d’Augusto — Le vestali — Serpenti di Tiberio, di Nerone, d’Eliogabalo — Delle signore Romane.

Per ciò che risguarda l’ispirazione delle leggi nella futura capitale della Citta del male, niente manca alla parodia del Sinai. Ella va continuandosi nella loro promulgazione, come pure nella sua presenza sensibile e permanente del legislatore primitivo, in mezzo al suo popolo, tanto per assicurarne l ‘osservanza, quanto per darne l’autentica interpretazione. Ognun sa con quale apparato di cerimonie religiose, di sacrifici, di purificazioni solenni, Mosè proclamasse la legge ricevuta dal cielo nel misterioso colloquio della montagna. Ei non agì per altro modo che mediante l’ispirazione divina. Il suo scopo evidente era di rendere la legge rispettabile, facendola ricevere con una sottomissione religiosa, e praticare con una fedeltà costante. Numa ispirato da satana, ricorre agli stessi mezzi. Per farsi accettare dai Romani, egli e le sue leggi, lo vediamo, secondo Plutarco, servirsi dell’aiuto degli dei, di solenni sacrifici, di feste, di danze e processioni frequenti, che celebrava egli stesso; nelle quali oltre alla devozione vi era del passatempo misto al diletto. Qualche volta metteva dinanzi ai loro occhi degli spauracchi di dei, dando loro ad intendere che aveva visto qualche strana visione, o che aveva udito delle voci, con le quali gli dei gli minacciavano di qualche grande calamità, per sempre abbassare i loro cuori sotto il timore dei medesimi. Cosi pure, Numa dava ad intendere che era amato da non so quale dea o ninfa alpestre; ch’ella teneva con esso lui segreto commercio, come si è detto; e che egli conversava con le Muse, e aveva con esse reciproca corrispondenza, e però egli riferiva alle Muse la maggior parte delle sue rivelazioni.(Vita di Numa, come sopra, p. 236). » Che Numa abbia fatte tutte queste cose, niuno lo pone in dubbio. Ma che tutte queste cose non siano altro che una ciurmeria, come Plutarco sembra insinuare, è un’altra questione. Prima di tutto Varrone, il più dotto dei Romani, e sant’Agostino il più dotto dei Padri della Chiesa, affermano positivamente il contrario. Quindi, Plutarco non offre nessuna prova del suo asserto; e finalmente egli stesso si contradice. Non ha egli in una opera ben nota, proclamato la verità degli oracoli? Forse non è altro che una ciurmeria della quale nessuno si è accorto? Ma come mai questa stessa ciurmeria si rinviene presso tutti i popoli? E come tutti i popoli hanno preso una ciurmeria per una realtà? Risolvere queste questioni in un senso non cattolico, è negare la storia e la Rivelazione. Ma negare la storia e la rivelazione è negare la luce, e condannarsi all’abbrutimento. – Passiamo ad un altro tratto di parallelismo. Il Signore non si contenta di dare la sua legge. Egli medesimo se ne fa il custode e l’interprete. Sotto questo aspetto egli rimane in mezzo al suo popolo in un modo sensibile e permanente. Israele sa che vi è, come custode invisibile ma vigilante, un oracolo sempre pronto a rispondere. Se in qualche materia sorge una seria difficoltà, se ne domanda al Signore la soluzione. Occorre dare l’assalto ad una città, intraprendere una guerra, segnare un trattato? a lui pure s’indirizzano. Egli stesso indica i mezzi per ottenere il successo, per fargli i rendimenti di grazie, ed i castighi da infliggere ai violatori della sua legge. – Il serpente legislatore imita tutto ciò nella Città del male. Egli è il custode e l’interprete della sua legge, come Jehovah della sua. Come il Dio del Tabernacolo e del Tempio ricorda sempre con la sua terribile maestà, il Dio del Sinai, cosi satana con la forma sensibile sotto la quale si mostra, tiene a ricordare il vincitore del paradiso terrestre. Pronto sempre a rendere oracoli, egli ispira a quando a quando, il timore e la confidenza, decide della pace e della guerra, indica i mezzi di successo, e segna i sacrifici per rendimento di grazie, o d’espiazione ch’egli esige. Il suo popolo lo sa: e, nelle circostanze importanti, non manca di ricorrere a lui per ottenere lume e protezione. La filosofia dell’istoria dei popoli pagani è scritta in questi versi. Alla catena aggiungiamo la trama, ed avremo il tessuto completo. Fra tutti i fatti strani, consegnati negli annali del genere umano, non sappiamo se ve ne sia uno più strano di quello che noi stiamo per raccontare. Oltre le mille differenti forme sotto le quali i popoli pagani, tanto antichi che moderni, hanno onorato il demonio, tutti lo hanno adorato sotto la forma privilegiata del serpente, serpente vivo, serpente in carne e ossa, serpente che rende oracoli; e ciò non una volta, ma sempre. Lo vedemmo già; per i popoli dell’alto Oriente, vicini al paradiso terrestre, i Persiani, i Medi, i Babilonesi, i Fenicii, il Gran Dio, il Dio supremo, il padre delle leggi, l’oracolo della sapienza, era il serpente con la testa di sparviero. A lui i più bei templi, il fiore dei sacerdoti, le vittime scelte, la soluzione delle difficili questioni. I secoli non gli avevano fatto perdere nulla della sua gloria e della sua autorità. A tempo di Daniele il suo culto si era conservato in tutto il suo splendore. Il celebre tempio di Belo, fabbricato in mezzo a Babilonia, serviva di santuario ad un enorme serpente, che i Babilonesi circondavano delle loro adorazioni. (Dan., XIV, 22 e seg.). Sulla sommità di questo tempio di colossali proporzioni, appariva la statua di Rhèa. Questa statua d’oro, fatta a martello, pesava cento talenti, 31 mila kilogrammi circa. Seduta sopra un carro d’oro, aveva la dea ai suoi ginocchi, due leoni, e accanto a lei due enormi serpenti d’argento, ciascuno dei quali pesava trenta talenti, cioè 330 kilogrammi. (Diodoro di Sicilia, Ist., lib. XI, c. IX) Queste mostruose figure annunziavano di lontano la presenza del serpente vivo, e la gigantesca idolatria della quale era l’oggetto. – Per gli antichi Persi, il gran dio era il serpente con la testa di sparviero. Ora adorato come genio del bene, e ora come genio del male; sotto quest’ultimo aspetto era la causa di tutti i mali dell’umanità. La tradizione gli dava il nome d’Arimane. Questo mostro dopo aver combattuto il cielo, sorge sulla terra alla testa di una turba di geni malefici, sotto la forma di serpente; ricopre la faccia del mondo di animali velenosi, e s’insinua in tutta la natura. Le tradizioni cinesi fanno risalire l’origine del male alla istigazione di una intelligenza superiore, ribellata contro Dio e rivestita della forma del serpente. Tchi-seou è il nome del drago. Finalmente, allorché il Giappone ci dipinge la scena della creazione, prende immagine di un albero vigoroso, intorno a cui si avvolge un serpente. (G. di Mousseaux, Gli alti fenomeni dellct magìa, Parigi, 1864, in-8, p. 45). – L’Egitto ci offre, tratto tratto, lo stesso Dio. e lo stesso culto. « Il simbolo di Cnoufi, ossia l’anima del mondo, dice il signor Champollion, è dato sotto la forma di un enorme serpente, montato su gambe umane, e questo rettile, emblema del buon genio, il vero Agathodæmon è spesso barbuto. Accanto a questo serpente i monumenti egiziani portano l’iscrizione: dio grande, dio supremo, signore della regione suprema. 2 »2 (Panth. egypt., testo 3 e lib. II, p. 4). Molto prima di Champollion, Eliano, parlando della religione degli Egizi, aveva detto: « Il serpente venerabile e sacro, ha in sé qualche cosa di divino; e non è bene trovarsi in sua presenza. Così a Meteli in Egitto, un serpente abita una torre, dove riceve gli onori divini. Egli ha i suoi sacerdoti ed i suoi ministri, la sua tavola e la sua tazza. Ogni giorno versano nella sua tazza dell’acqua di miele, mescolata con farina, e si ritirano. Il giorno appresso essi ritrovano la tazza vuota. « Un giorno, il sacerdote più anziano, spinto dal desiderio di vedere il Drago, entra solo, mette la tavola del nume, ed esce dal santuario. Arriva tosto il Drago, sale sulla tavola e fa il suo pasto. Tutto ad un tratto il sacerdote apre, facendo rumore, le porte, che secondo l’uso aveva avuto cura di chiudere. Il serpente scorrucciato si ritira; ma il sacerdote avendo visto per sua disgrazia, quegli che desiderava vedere, diventa pazzo. Dopo aver confessato il suo delitto, perde l’uso della parola e cade morto. » (Aelian., De natur animal. lib. XI, c. XVII, ediz. Bidot, 1858). – Il celebre papiro Anastasi, recentemente scoperto in Egitto, conferma le asserzioni di Eliano, di Clemente Alessandrino e di Champollion. Esso dice: « Non bisogna invocare il gran nome del serpente altro che in una assoluta necessità, e quando non si ha nulla a rimproverarsi. Dopo alcune formule magiche, entrerà un dio con la testa di serpente che darà i responsi. » Che il demone possa dare la morte, basta a provarlo il ricordare nella sacra antichità l’esempio dei figli di Giobbe; nell’antichità profana, il passo dove Porfirio confessa che il dio Pane, quantunque fosse buono, appariva sovente ai coltivatori in mezzo ai campi, e che un giorno ne aveva fatti perire da nove, tanto essi erano stati colpiti di terrore per il suono terribile della sua voce, e per la vista di quel formidabile corpo che con impeto si slanciava. » (Apud Euseb Prαp. evang lib. I, c. VI. – La testimonianza che abbiamo citata del vescovo di Mantchouria, conferma che presso i moderni pagani, Satana non ha niente perduto della sua autorità omicida. Quanto a quel sacerdote fulminato per aver visto il suo Dio, ricorda in un modo così vivo, la proibizione di Jehovah, e la morte dei Bethsamiti che basta soltanto fare osservare la parodia l’usurpatore della divinità ha la sua arca dell’alleanza; ei vuole esservi rispettato come Jehovah nella sua: e nome Jehovah, punisce di morte il temerario che osa alzare gli occhi su di lui. Quel terribile santuario non era in Egitto la sola abitazione del serpente. In quel paese di primitiva idolatria, non si vedevano che serpenti adorati o familiari. I loro templi s’innalzavano in tutti i punti del territorio. Ivi, come a Babilonia si nutrivano con cura, si adoravano, e si consultavano. Gli egizi gli custodivano nelle loro case, gli guardavano con piacere, gli trattavano con deferenza e gli chiamavano a prender parte ai loro pasti. « In nessun luogo, dice Filarco, il serpente era stato adorato con tanto fervore. Nessun popolo mai ha uguagliato l’egizio nell’ospitalità data ai serpenti. » (Apud Aelian. lib. XVII, c. V). Per conseguenza il serpente entrava nell’idea o nella rappresentazione di ogni autorità divina ed umana. « Come segno di divinità, dice Diodoro siculo, le statue degli dei erano circondate da un serpente; lo scettro dei re, in segno di regia potestà; le berrette dei sacerdoti, in segno di potestà divina. »  (lib . V) Le statue di Iside, particolarmente, erano coronate di una specie di serpenti di nome thermuthis, che si consideravano come sacri, ed ai quali rendevansi grandi onori. [Panth. egypt., di Champollion, lib. II, p. 4 — Vedi in questa opera, la rappresentazione degli dei egiziani.]. – Secondo gli egizi, questi serpenti erano immortali, servivano a discernere il bene dal male; si mostravano amici della gente dabbene, e non davano la morte che ai cattivi. Non eravi angolo del tempio, ove non vi fosse un piccolo santuario sotterraneo destinato a questi rettili, che venivano nutriti con del grasso di bove. [Aelian.,De natur. Animal. lib. X, c. xxxi ; e Diod. Sicul., ubi supra]. Di qui quelle parole così note di Clemente Alessandrino: « I templi egizii, i loro portici ed i loro vestiboli sono magnificamente costruiti; le corti sono circondate di colonne; marmi preziosi e brillanti di vari colori ne adornano le mura, di modo che tutto è confacente. I piccoli santuarii rifulgono per lucentezza d’oro e d’argento d’electron, pietre preziose dell’India e dell’Etiopia: tutti sono ornati di tende tessute d’oro. Ma se voi penetrate nel fondo del tempio e vi vien voglia di cercare la statua del nume al quale é consacrato, un pastoforo o qualche altro inserviente del tempio, si avanza con un’aria grave cantando un paean in lingua egizia, e solleva alquanto il velo come per mostrarvi il nume. Che cosa vi vedete voi? Un gatto, un coccodrillo, un serpente! Il dio degli Egizi comparisce…. è una bestia spaventevole che si rotola sopra un tappeto di porpora. » [Champollion, ibid.]. – Il dotto filosofo avrebbe potuto aggiungere: un caprone. Difatti satana aveva condotto l’umanità sino all’adorazione di questo immondo animale, sotto i nomi diversi di fauno, di satiro, di becco, di peloso, pilosi, come lo appella la Scrittura. « Il culto del capro, dice il dotto Jablonski, non era speciale alla città egiziana di Mendès; tutto l’Egitto lo osservava, e tutti gli adoratori avevano presso di sé il ritratto più o meno fedele al loro dio. Il suo domicilio principale lo aveva anche a Mendès, prefettura della quale egli era il dio tutelare. Il suo tempio vi era grande e splendido, e ivi soltanto era un becco vivo e sacro. Esso era posto alla pari degli otto grandi numi anteriori ai dodici altri, » Jablonski, Pantheon egiziano, Jib. II, c. VII] e onorato da pratiche che ci asterremo dal descrivere. Come Eliano ce lo insegna, fosse gatto, capro, o coccodrillo, il dio principale era sempre accompagnato da un corteggio di serpenti. L’Egitto era dunque appunto la terra del serpente. Esso regnava tanto sulla vita pubblica che sulla vita privata, con una potenza, della quale il Cristianesimo ci ha messo nella felice impossibilità di misurare l’estensione. Sarebb’egli superfluo l’attribuire i prestigi eccezionali, riferiti nella Scrittura, a quelle relazioni più consuete e più intime che in nessun altro paese, dei medium egiziani col terribile padre della menzogna? Poiché è certo che il paganesimo occidentale è venuto dal paganesimo orientale, non ci dovremo meravigliare se troviamo il culto solenne del serpente nella Grecia, nell’Italia ed anche presso i popoli del Nord. E qual culto, gran Dio! Nei baccanali aveva per iscopo di celebrare l’alleanza primitiva del serpente con la donna. Ascoltiamo Clemente d’Alessandria: « Nelle orge solenni in onore di Bacco, i sacerdoti che si direbbero punti da un estro furibondo, strappano carni palpitanti, e coronati di serpenti, invocano Èva con urla acutissime, Èva che prima aprì la porta all’errore. Ora, l’oggetto particolare dei culti bacchici, è un serpente consacrato da riti segreti. Perciò, se volete sapere proprio il significato della parola Èva, voi troverete che pronunziato con una forte aspirazione, Beva vuol dire serpente femmina. » [Cohortat. Ad Gentes, c. II]. – Questa alleanza di continuo ricordata, celebrata, figurata, compiuta nella iniziazione ai misteri di certi culti, era cantata dalla poesia, e raccontata dalla storia, che non ardiva rivocarla in dubbio, né in sé medesima, né nelle sue conseguenze. Siccome non v’è niente di nuovo sotto il sole, e che la religione di satana ha sempre lo stesso fine, si può affermare che è nel contrattarla, che le giovinette divenivano nell’antichità pagana, come oggi in Africa, sacerdotesse del serpente. [Arnob., lib. V; …Vedi Boettiger, Sabina t. I, p. 454; xx, 2, 15, 16; e num. xxv, 2; e Lamprid. in Adrian]. Qualunque si fossero queste infamie, indicate qui per ricordare al mondo l’indicibile degradazione a cui satana aveva condotto l’uinanità pagana; l’infinita riconoscenza che dobbiamo al Verbo redentore, e la profonda capienza della Chiesa nelle sue prescrizioni antidemoniache; la venerazione, di cui l’odioso rettile godeva tra i Greci, era tale che Alessandro si faceva gloria d’averlo avuto per padre. Infatti le sue medaglie lo rappresentano sotto la forma di un fanciullo che esce dalla gola di un serpente. [Camer., Medit. Mst., p. n, c. ix, p. 81. — Vedi intorno a questo fatto curiosi particolari in Plutarco, Vita Alexand.]. Nessuno animale ha ottenuto in Grecia gli onori divini, fuorché il serpente. In questa terra, pretesa cuna della civiltà, egli aveva un grande numero di templi. Gli Ateniesi conservavano sempre un serpente vivo, e lo riguardavano come il protettore della loro città: parodia di Jehovah, custode del suo popolo nell’arca dell’alleanza. Essi gli attribuivano la virtù di leggere nell’avvenire. Per questo essi ne nutrivano dei domestici, allo scopo di aver sempre a loro disposizione i profeti e le profezie. [Pausania, lib. II, p. 175, e Dizionario della Favola, art. Serpenti.]. Volendo Adriano continuare con magnificenza questo culto, cosi glorioso per la sapiente Atene, fece fabbricare in questa città un tempio splendidissimo d’oro e di marmo, la cui divinità fu un gran serpente portato dall’India. [Dione, in Adriano]. Abbiamo dunque avuto ragione di dirlo, né  cesseremo di ripeterlo, che nei bei giorni della Grecia, ed altresì a tempo d’Adriano, la civiltà d’Atene, la metropoli dei lumi, almeno nei collegi, era inferiore alla civiltà di Haiti, dove si condanna a morte come ben tosto vedremo, gli adoratori del serpente. Secondo Plutarco, il culto del serpente era osservato nella Tracia, sino al delirio, dagli Edonesi. « Olimpia, dice egli, madre di Alessandro, emulando più ancora delle altre quelle invasioni di spirito divino, e portandosi con maniera più barbarica in quegli entusiasmi, traeva nelle sacre solennità grandi serpenti resi ammansiti, i quali spesse volte strisciando fuori dell’ellera ed i mistici canestri, e rivolgendosi intorno ai tirsi delle femmine ed alle ghirlande, sbigottivano gli uomini. » [Vita di Alessandro, traduzione del Pompei, t. III, p. 292]. Le loro grida erano la continua ripetizione di quelle parole : Evoe, sapoe, flues, altis. Presso gli Epiroti, l’orribile rettile godeva degli stessi onori e della stessa fiducia. Il suo santuario era un bosco sacro, circondato da muri. Una vergine era la sua sacerdotessa. Essa sola aveva accesso nel terribile recinto. Essa sola poteva portare da mangiare agli dei e interrogarli sull’avvenire. Secondo la tradizione del paese questi serpenti erano nati dal serpente Pitone, signore di Delfo. [V. Dizionario della Favola e secondo V opera ; Dio e gli dei, v. I, del Cavaliere Desmousseaux]. A Deio, Apollo era adorato sotto la forma di un drago che rendeva durante l’estate oracoli senza ambiguità. A Epidauro, il dio Esculapio era un serpente. Lo si credeva padre di una razza di serpenti sacri, la cui colonie epidauriche avevano cura di involare con esse un individuo che installavano nel nuovo loro tempio. [Aelìan.j lib. XI, c. II]. – Che sino dalla più remota antichità vi fosse stato a Delfo un mostruoso serpente tenuto per un dio, è ciò che affermano i primi abitanti del paese. Ancorché secondo la favola questo serpente fosse stato ucciso da Apollo, rimane pur sempre, che Delfo era divenuto il più celebre luogo fatidico dell’antico mondo. Sotto una forma o sotto un altra, l’antico serpente vi regnava da padrone, e di là su tutta la Grecia e sopra una gran parte dell’Occidente. Era tale la fiducia ch’egli ispirava, che le città greche ed anche i principi stranieri, mandavano a Delfo i loro più preziosi tesori, e gli ponevano in deposito sotto la protezione del dio rettile. Per un nuovo insulto a Colei che doveva un giorno schiacciargli il capo, a Delfo come in Epiro, a Lavinium e dapertutìo, satana voleva una vergine per sacerdotessa; e come la trattava! Essendo da prima giovine, dové più tardi, a causa della lubricità degli adoratori, essere di un età matura. Allorché il Nume voleva parlare, le foglie di un lauro piantato davanti al tempio si agitavano; lo stesso tempio tremava sin nelle fondamenta. Dopo aver la Pitia bevuto alla fonte di Castalia, condotta dai sacerdoti entrava nel tempio e si avanzava verso l’antro, che era rinchiuso nel tremendo santuario. Parecchi autori hanno scritto che quest’antro era sempre abitato da un serpente, e che nel principio, è lo stesso serpente che parlava.  [Gran dizionario della Favola, art. Serpenti.].  L’orifizio sosteneva il famoso tripode, ch’era una macchina di rame composta di tre sbarre, sulla quale Pitia si poneva nel più indecente modo, a fine di ricevere il soffio profetico. [S. J. Chyrs., in Ep. I ad Cor.,homil. xxix, n. 1]. Tosto si spandeva qualcosa di misterioso nelle sue viscere, e il movimento fatidico cominciava. L’infelice figlia d’Èva non era più padrona di se medesima e dava tutti i segni d’essere invasa. I suoi capelli si rizzavano; la sua bocca schiumava, i suoi sguardi diventavano truci; un tremito violento s’impadroniva di tutto il suo corpo e si era obbligati a mantenerla per forza sul tripode. Ella faceva risuonare il tempio delle sue grida e delle sue urla. In mezzo a questa straordinaria agitazione essa proferiva gli oracoli, che alcuni copisti scrivevano sopra tavolette. Da questi furori diabolici, resultava spesso la morte della Pitia, la quale per questa ragione, aveva due compagne. La scena infernale che abbiamo descritta aveva luogo tutti i mesi. Essa ha durato dei secoli, è stata vista da milioni d’uomini, tra’ quali figura tutto ciò che l’antichità conosce di più grave e di più illustre. [Lucan. Pharsal,, lib. V ; Virgil., lib. VI : Gran diz. Della Favola, etc., etc. ; Stràb. lib. VIII]. Dietro questo fatto e mille altri dello stesso genere, compiti in tutte le parti del mondo, su qual fondamento porre in dubbio il successo favoloso ottenuto sotto il regno di Marc’Aurelio, operato dal Mago Alessandro di Paflagonia? Discepolo di Apollonio Tianeo, questo medium, percorse, come il suo maestro, differenti provincie dell’impero, mostrando un serpente addomesticato e che faceva mille giri divertenti. Ei lo dette per un dio, e un dio che rendeva oracoli. A questa nuova, si videro gli abitanti dell’Ionia, della Galazia, della Cilicia, degli stessi Romani; e persino Rutulio che comandava l’esercito, accorrere in folla all’oracolo vivente, al Pitone viaggiatore. I suoi responsi gli guadagnarono fede. In queste provincie, come nel rimanente della terra si prostrarono tutti dinanzi al dio serpente; gli offrirono olocausti e doni preziosi; gli innalzarono perfino statue d’argento. L’imperatore medesimo volle vedere il nume: Alessandro fu mandato alla corte dove fu ricevuto con grandi onori. [Luciano, in Pseudomate.]. Non solo i Greci tanto vantati per la loro filosofia, ma anche i Romani padroni del mondo, non poterono sfuggire alla dominazione dell’odioso rettile. Sin dall’origine essi hanno adorato il dio serpente, ed i loro omaggi non si sono smentiti. [Proper., ffleg. in Oynthia]. II loro padre Enea fondò presso Roma una villa per nome Lavinium, che può appellarsi l’ava di Roma. Poco distante da Lavinium vi era un bosco sacro, vasto ed oscuro, dove in una profonda caverna abitava un gran serpente. [In Lavinia, oppido Latinorum, quae quidem Roma voluti avia nominari posset…. Prope Lavinium igitur est lucus magnus et opacus. In luco autem latibulum est, ubi draco, etc. Aelìan., lib. XI, c. xvi]. Ancor qui erano giovinette, sacerdotesse di questo dio. Quando esse entravano per dargli, da mangiare, le si bendavano gli occhi; uno Spirito divino le conduceva dirittamente alla caverna. Se il serpente non mangiava le focacce, era una prova che la fanciulla che le aveva presentate aveva cessato d’esser vergine, e veniva spietatamente messa a morte. [Ibid.]. – Come se il culto perpetuo del serpente indigeno non avesse bastato, i Romani, in difficili circostanze, ricorrevano ad un serpente straniero reputato più potente. Còsi nel 401 essendo la loro città da tre anni di seguito desolata da una peste, la cui strage non riusciva ad arrestare, essi consultarono i vecchi libri sibillini, inspectis sìbjllinìs libris. Fu trovato che l’unico modo di far .cessare il flagello era di andare a cercare Esculapio, a Epidauro e di condurlo nella città. Per conseguenza venne allestita una galea ed una deputazione, la quale condotta da Quinto Ogulnio si recò ad Epidauro. Quando ebbero i deputati presentato la loro istanza, un gran serpente uscì dal tempio, si mise a passeggiare nei punti più frequentati della città con occhi dolci e con un passo calmo, in mezzo all’ammirazione religiosa di tutto il popolo. Lo storico Romano continua: « Spinto ben tosto dal desiderio di occupare il celebre santuario che era a lui riserbato, il nume affrettò il suo cammino e sali sulla galea romana. Egli scelse per sua dimora la stessa camera di Ogulnio, si avvolse in tanti cerchi e si abbandonò alle dolcezze di un profondo riposo. I Romani che l’avevano ricevuto con un rispetto misto a spavento, lo condussero a Roma. La galea avendo approdato sotto al Monte Palatino, il serpente si lanciò nel fiume che attraversò a nuoto, e venne a riposarsi nel tempio a lui preparato sull’isola del Tevere. Appena che il nume fu nel suo santuario la peste scomparve.  [Valer, Maxim,, De Miracul., lib. I, c. vm , n° 2, ediz. Lemaìre, Parigi, 1832. — Le parole d’Aurelio Vittore non sono meno esplicite, et pestilentia mira celeritate sedata est]. Lattanzio conferma il racconto di Valerio Massimo, e ammette la scomparsa subitanea della peste attribuendo senza alcun dubbio all’influenza di un potente demonio, sotto la forma del serpente di Epidauro. [De Divin. Institi., lib. II, c. 17]. – Il primo popolo del mondo, la grande repubblica romana che manda una solenne ambasciata al serpente: quale eloquenza in questo sol fatto, e qual luce sinistra getta esso sull’antichità pagana! Anche all’epoca della storia romana, decorata nei collegi del nome del Secolo d’oro, il culto dell’odioso rettile non aveva perduto niente del suo splendore né della sua popolarità; tutto il contrario. Il serpente era dappertutto onorato nei templi del nume, nel palagio degli imperatori, nello spogliatoio delle matrone, nelle case dei semplici privati. Attia, madre di Augusto, essendo venuta a metà della notte a dormire nel tempio d’Apollo, secondo l’uso praticato nei templi dove si rendevano oracoli mediante sogni, fu tocca dal Nume sotto la forma di un serpente. Il suo corpo rimase segnato della figura indelebile di questo animale, in modo che ella non osò più mostrarsi nei pubblici bagni: Dietro questo fatto, Augusto si pretese figlio di Apollo, e volle che le sue medaglie perpetuassero la memoria di questa gloriosa discendenza.2 [Sveton., in Aug., c. XCIV. — Nel rovescio delle sue medaglie Augusto fece incidere Apollo con questa iscrizione: Cassar divi fitius., — Noi l’abbiamo visto coi nostri occhi.]. – Le vestali non avevano soltanto la custodia del fuoco sacro; erano esse specialmente incaricate di allevare un serpente sacro, venerato come il genio tutelare della città di Roma. Esse gli portavano il suo nutrimento tutti i giorni, e gli preparavano un gran banchetto ogni cinque anni. Queste vergini pagane, avevano altresì sotto la loro custodia un altro idolo, che il pudore non permette di nominare: idolo infame che si traeva dal tempio di Vesta i giorni di trionfo, per appenderlo al carro dei trionfatori. Di modo che il fine di satana era di condurre la povera umanità all’ultimo grado della crudeltà e della impudicizia. Ei l’aveva raggiunto, e poi ci vengono a parlare della bella antichità! [Paulin, adv. Pagan., v. 143; Doellinger, Paganesimo e giudaismo, Trad. fr. in-8°, t. i, p. 105 – Tertull, ad Uxor., lib. I, e. vi, p. 325, ediz. Pamel. in-fol;

id. de Monogam, sub. fin. – Plin. Hist. xxviii, c. vii, n. 4.— Vedi altresi Culto del fallo e del serpente, del dott. Boudin. in-8, Parigi, 1864]. – Eliogabalo non faceva nulla di nuovo, nulla che fosse di natura da sorprendere i Romani, ancor meno da urtarli, allorché egli fece portare a Roma dei serpenti egizi, a fine di adorarli come buoni genii. [Aegiptios dracunculus Romae habuit quos illi agathodæmenes appellant. Lamprid. in Heloogàb., p. I li, ediz. in-fol.]. – Tiberio aveva il suo serpente familiare che lo seguitava dappertutto, e ch’egli nutriva da sé medesimo con le sue proprie mani, manu sua. Mentre se ne stava ritirato a Capua, gli saltò in capo di rivedere Roma: non era distante che sole sette miglia da quella capitale, allorquando chiede del suo serpente per dargli da mangiare, quum eco consuetudine manu sua cibaturus. Ora il serpente era stato divorato dalle formiche, e l’oracolo consultato, avendo dichiarato questo accidente di cattivo augurio, l’imperatore prese il partito di ritornare immediatamente a Capua. [Sveton, in Tiber., c. 72]. – Nerone portava come talismano una pelle di serpente legata intorno al braccio. [Camerar., ubi supra]. Che più? « Parecchie medaglie di Nerone, dice Montfaucon, attestano che questo principe aveva preso il serpente per patrono, » [Àntic. spiegata, lib. I] e aggiungasi, per protettore. Così a Roma, sotto le mura della casa d’oro di Nerone, il viaggiatore legge ancora l’iscrizione che minaccia della collera del serpente, chiunque si permettesse di fare delle sozzure presso la reggia imperiale. [in Sveton., c. 72. id. in Neron., c. v.7 n. 6]. – Dietro l’esempio degl’imperatori, le signore romane avevano esse pure dei serpenti domestici. Ora se li passavano attorno al collo a guisa di collane, ora esse scherzavano con questi rettili, che durante il desinare gli montavano addosso e si introducevano nel loro seno. In questa familiarità col serpente, gli uomini galanti imitavano le donne.1 [Senec., De ira, xi, c. 31]. – Le provincie imitavano la capitale. A Pompei si vedono tuttora i santuari degli dei tutelari delle vie, chiamati Lares compitales. Gli affreschi rappresentano i sacrifici offerti a quelle divinità. Ora quasi dappertutto queste divinità sono due serpenti che ingoiano vivande confacenti. Babilonia e Pompei si rassomigliano. L’oriente e l’Occidente osservano lo stesso culto. Nella stessa città, sulle muraglie dei Pistrinæ, luoghi dove si manipola la pasta per fare il pane, è dipinto il sacrificio alla dea Fornax. La scena è coronata da due serpenti che rappresentano una cosi gran parte tra le divinità di Pompei. L’immagine della divinità favorita si rinviene persino negli ornamenti muliebri. Noi abbiamo contato un numero grandissimo di braccialetti d’oro in forma di serpenti, dei quali le signore di Pompei si ornavano le braccia ed i polsi. – Nelle Gallie, i Druidi portavano degli amuleti di pietra rappresentanti un serpente. Il culto dell’odioso rettile vi era talmente diffuso, che i primi missionari del Cristianesimo ebbero a combattere, come abbiamo visto, Draghi mostruosi, terribili divinità del paese. Ai fatti già citati aggiungiamo il seguente: Sant’Armentario arrivando nel Varo, fu obbligato a combattere un Drago. Il luogo del combattimento si chiama ancora il Drago, e lo stesso combattimento ha datò il suo nome alla città di Draguignan. Secondo le circostanze ed il genio dei popoli, il Padre della menzogna, sotto la forma preferita del serpente, si è manifestato come una divinità benefica o come un dio malefico. L’amore, o il timore hanno incatenato l’uomo ai suoi altari. Di qui quella giudiziosa osservazione del dotto Sig. De Mirville. « Il serpente! Tutta la terra lo incensa o lo lapida. » [Pneumatalog. 11, mem., t.II p. 431]. – I Lituani, i Samogizi ed altri popoli del Nord, non erano meno fedeli adoratori del serpente; lo chiamavano specialmente a santificare la loro mensa. In un canto delle loro capanne come nei templi dell’Egitto, erano mantenuti dei serpenti sacri. In certi giorni si facevano montare sulla tavola per mezzo di un panno bianco che scendeva sino alla loro tana. Assaggiavano tutte le pietanze, quindi rientravano nel loro buco. Così le vivande erano purificate; e i barbari le mangiavano senza paura. [Stuckins, Antiquit cenvivial, lib. II, c. xxxvi, p. 432, in-fol.]. Presso i Lituani particolarmente, il culto del serpente esisteva ancora nel quattordicesimo secolo. Nel 1387 il re di Polonia essendosi recato a Wilna, convocò un’assemblea pel dì delle ceneri. D’accordo con i vescovi che lo accompagnavano, si sforzò di persuadere i Lituani a riconoscere il vero Dio. Per mostrar loro che non era la verità che essi abbandonavano, fece spengere il fuoco perpetuo che si manteneva a Wilna, ed uccidere i serpenti che si custodivano nelle case e che si adoravano come tanti dei. I barbari vedendo che non avveniva alcun male a quelli che eseguivano gli ordini del principe, aprirono gli occhi alla luce e domandarono il battesimo. [Vedi anche Arnnal, di Filos. Crist., dicembre 1857, p. 242, e seguenti]. – Non spingeremo più oltre il nostro viaggio d’investigazione presso i popoli antichi. Notiamo soltanto, che il culto del serpente era cosi universale e così splendido nella bella antichità, che i templi avevano preso il nome di Draconie; il che significa che per designare un tempio, si diceva una dimora di serpenti. [Corn. a Lap., in Dan. xiv. 22.] Perciò il culto del serpente vivo, del serpente in carne e in ossa, è stato uno dei più difficili a sradicare; ne daremo bentosto la prova. Difatti secondo il concetto di sant’Agostino, il demonio ama di preferenza la forma del serpente, perché essa gli ricorda la sua prima vittoria. [De Gen. ad Litter., lib. XI, n. 35, ediz. Gaume]. Che tutte le nazioni dell’antichità, niuna eccettuata, abbiano pagato al serpente il tributo delle loro adorazioni, è un fatto acquisito alla storia. Per quanto sia strano, non è però meno certo. Ora quando un culto di una cosi evidente identità, si osserva per un cosi gran numero di secoli, in tutte le parti del mondo conosciuto, sotto tutti i climi, presso le nazioni le più differenti di costumi e di civiltà, come non riconoscere che le condizioni di razza sono senza influenza sulla religione dei popoli? Come non riconoscere che è la religione dei popoli che genera la loro civiltà ed i loro costumi, invece d’essere prodotta da quest’ultimi; lo che non si teme di ripeterlo ogni giorno? In una parola, come mai non riconoscere la verità di questo assioma:

Dimmi ciò che tu credi, ed io ti dirò quello che tu fai!

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (24)

Mons. J. J. Gaume:  

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO vol. I.

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXIII.

Storia Sociale delle due Città.

Parallelismo delle due Città nell’ordine sociale — Per costituire la Città del bene in stato sociale, lo Spirito Santo le dà da sé medesimo le sue leggi mediante il ministero dì Mosè — I Fondatori dei popoli pagani ricevono le loro leggi dal re della Città del male — Testimonianza di Porfirio — I popoli dell’Alto Oriente ricevono le loro leggi dal dio serpente con la testa di sparviero — Licurgo riceve quelle di Sparta dal serpente Pitone — Ninna, quelle di Roma, dall’antico serpente, sotto la figura della ninfa Egeria — Roma fondata mediante l’ispirazione diretta del demonio: passo di Plutarco — Le leggi di Roma, degne di satana per la loro immoralità: passo di Varrone e dì sant’Agostino.

Il parallelismo delle due Città, di cui abbiamo presentato un leggero schizzo nell’ordine religioso, si riscontra pure nell’ordine sociale, né può essere altrimenti. Per la natura stessa delle cose, la religione è stata presso tutti i popoli e sarà sempre l’anima della società: essa ispira le sue leggi, dà la forma alle sue istituzioni, e regola i suoi costumi. Esse la domina e le dà l’impulso, come l’anima stessa domina il corpo, mettendone in movimento tutti gli organi. Ora nella Città del bene lo Spirito Santo è, senza dubbio, il maestro della Religione. Questa autorità religiosa gli assicura dunque, almeno indirettamente, l’autorità sociale: anzi l’ha conquistata con mezzi diretti. – Apriamo la storia. Lasciando da parte i tempi primitivi, giungiamo all’epoca in cui il popolo fedele, essendo assai numeroso per uscire dallo stato domestico, Iddio lo fa passare allo stato di nazione. Niente di più solenne del modo con cui egli consacra questa nuova esistenza dell’umanità. Il sovrano legislatore vuole che la Città del bene sappia, che la sua costituzione e le sue leggi sono discese dal cielo, e che essa non lo dimentichi giammai. – Sulla vetta del Sinai, dove Egli stesso è presente, circondato da folte tenebre, chiama Mosè. In un lungo abboccamento gli comunica i suoi pensieri. Abbassandosi fino agli ultimi particolari dei regolamenti e delle ordinanze, che debbono dare alla nazione la sua forma politica, civile e domestica, non lascia niente all’arbitrio dell’uomo.- Affinché nel succedere dei tempi, nessuno sia tentato di sostituire, in un punto qualunque, la sua volontà a quella divina, la carta è scolpita dallo stesso Spirito Santo su tavole di pietra. Queste tavole conservate gelosamente, interrogate con rispetto, saranno l’oracolo della nazione, e la sorgente della sua vita. Così, nell’ordine sociale, come nell’ordine religioso, la Città del bene sarà, secondo tutta 1’estensione della parola, la Città dello Spirito Santo. Ad esclusione di ogni altro, Egli ne sarà Iddio, il re, il regnante e il governatore. In opposizione alla Città del bene, satana edificò la Città del male. Vediamo con qual fedeltà questa, scimmia eterna, adopra per innalzare il suo edificio, i mezzi che Dio ha adoperati per costruire il suo. Mosè riceve dallo stesso Dio la costituzione degli Ebrei sulla vetta del monte Sinai. Come contraffazione di questo grande avvenimento, satana vuole che i primi fondamenti degli imperi, dei quali si compone la Città del male siano in commercio intimo con lui. È lui stesso che si riserva di dettare le loro costituzioni e le loro leggi. Ei vuole che lo si sappia, affinché si rispettino, non come una elucubrazione umana, ma come una ispirazione divina. Infatti vediamo i primi legislatori dei .popoli pagani affermare ad una voce unanime, che le loro leggi sono discese dal cielo, e che sono state ricevute dalla bocca stessa degli dei. Chi ha il diritto di dar loro una smentita? Dietro a quel che noi sappiamo delle ispirazioni religiose di satana, come negare la possibilità di queste ispirazioni sociali? Chi più può, meno può. D’altronde i fatti rivelano la causa. Di dove vengono i delitti legali che deturpano tutti i codici pagani, niuno eccettuato? Quale spirito autorizzò, anzi comandò il divorzio, la poligamia, l’uccisione del fanciullo e dello schiavo, le crudeltà riguardo al debitore e al prigioniero di guerra? Chi eresse la ragione del più forte in diritto delle genti? Chi iscrisse sulle tavole di bronzo del Campidoglio la lunga nomenclatura d’iniquità civili e politiche, il cui solo nome fa ancora arrossire? Se non è lo Spirito Santo, è lo spirito maligno. In politica come in religione, non vi è per l’uomo che due fonti di ispirazioni. Ma ascoltiamo la storia. Le più antiche tradizioni c’insegnano che nell’Oriente, nella Persia, nella Fenicia, in Egitto, in tutti i luoghi vicini al paradiso terrestre, il demonio, sotto la forma di serpente, si faceva adorare non solo come il Dio supremo, ma come il Principe dei legislatori, la fonte del diritto, e della giustizia. « I Fenici e gli Egizi, dice Porfirio, hanno divinizzato il drago ed il serpente…. » I primi l’appellano Agatodemone, il buon genio, ed i secondi lo chiamano Kneph. Essi gli aggiungono una testa di sparviero, a motivo dell’energia di quest’uccello. Epeis, il più dotto dei loro gerofanti, dice precisamente ciò che segue: « La principale e più eminente divinità è il serpente con la testa di sparviero. Pieno di grazia, allorché apre gli occhi, riempie di luce tutta l’estensione della terra ; se questi vengono a chiudersi, succedono le tenebre.1 » (Porphyr. ex Sanchoniat., Apud Euseb., Præp. evang., lib. I, c. X). – Così nell’ordine sociale come nell’ordine religioso, ogni luce viene dal dio serpente, il più grande degli dei. L’antico legislatore dei Persi, Zoroastro, è anche più esplicito. « Zoroastro il mago, continua Sanconiatone, nel sacro rituale dei Persi si esprime in questi termini: il dio con la testa di sparviero, è il principio di tutte le cose: immortale, eterno; senza principio, indivisibile senza uguali, regola di ogni bene, incorruttibile, l’eccellente degli eccellenti; il più sublime pensatore dei pensatori, il padre delle leggi, dell’equità e della giustizia, non ripetendo la sua scienza che da sé solo; universale, perfetto, savio, solo inventore delle forze misteriose della natura. » (Ibid.). – Lasciamo l’alto Oriente, cuna di tutte le grandi tradizioni, e scendiamo nella Grecia. Allorché Licurgo vuol farsi legistatore va a domandare le famose leggi di Lacedemone allo stesso dio, vale a dire al serpente. Ei si reca a Delfo, luogo celebre nell’intero mondo per il suo oracolo. Appena Licurgo ha toccato il suolo del tempio, che il serpente Pitone – (Come il serpente orientale, così il serpente Pitone è un essere senza pari in natura; è rappresentato come un mostro enorme, un prodigio spaventevole. Ovidio lo chiama il gran Pitone. Serpente sconosciuto, il terrore dei popoli. Sebbene ucciso in apparenza da Apollo, era sempre lui che sotto il nome di Apollo rendeva gli oracoli. Ovidio, Metam., lib. I, v. 488),  gli dice, per l’organo della sua sacerdotessa: « Tu vieni, o Licurgo, nel mio tempio ingrassato dalle vittime; tu, l’amico di Giove e di tutti gli abitanti dell’olimpo. Ti chiamerò io dio o uomo? Io sto in dubbio; ma spero piuttosto che tu sii dio. Tu vieni a chiedermi savie leggi pe’ tuoi concittadini: volentieri te le darò. » (Porphyr, apud Euseb., lib. V, c. XXVII).  Ci si perdoni di profanare i nomi: Delfo è il Sinai dell’antico serpente, seduttore del genere umano. (Era il centro religioso del mondo pagano: da ciò viene che Ovidio lo chiama umbiculum orbis.). – Licurgo è il suo Mosè. Sparta e le altre repubbliche della Grecia, Roma stessa che tolsero ad imprestito da Lacedemone una parte delle loro leggi, formano il suo popolo. Licurgo di ritorno da Sparta, fa conservare preziosamente l’oracolo di Delfo nei sacri archivi della città, come lo stesso Mosè le tavole della legge nell’arca dell’alleanza (Vedi Plutarco, Disc. contro Colotes, c. XVII). – La parodia è completa. Tal’è, rapporto agli stessi pagani, l’origine di una legislazione, che dopo il Rinascimento i Cristiani fanno ammirare ai loro figli! –  Nella Vita dì Teseo, fondatore di Atene, Plutarco ha cura di notare che questo legislatore non mancò esso pure, di prendere i consigli dal serpente Pitone. – Ma lasciamo la Grecia, e veniamo a Roma. Ecco la città misteriosa che per l’accrescimento irresistibile della sua potenza, assorbirà la più gran parte del mondo, e di tutti gl’imperi fondati da satana, non formerà che un solo impero, del quale sarà la capitale. Qual fu l’influenza del serpente legislatore circa la fondazione di Roma? È facile prevedere che essa deve essere qui, più notevole che dappertutto altrove: la previsione non è chimerica. Avanti che ella ancora esista, satana comincia col dichiarare che questa città sarà la sua, e ne prende possesso nel modo il più solenne. Per ordin suo, alcuni sacerdoti, iniziati ai suoi più segreti misteri, sono mandati di Toscana per compiere le cerimonie, con le quali deve essere fondata la futura capitale del suo impero: « Romolo, dice Plutarco nell’antico francese di Amyot, dopo che ebbe seppellito suo fratello, si diede a fabbricare e a fondare la sua città, avendo fatti chiamare dall’Etruria uomini che con certi sacri riti e caratteri gli dichiararono ed insegnarono appuntino tutte le cerimonie che aveva ad osservare, secondo i formulari che possedevano, come se si trattasse di qualche mistero, o di qualche sacrificio. « Imperocché fu scavata una fossa circolare intorno a quel luogo che ora si appella Comizio, e riposte vi furono le primizie di tutte le cose; quindi portando ognuno una piccola quantità di terra dal paese d’onde era venuto, ve la gettarono dentro, e mescolarono insieme ogni cosa: questa fossa nelle loro cerimonie si chiama Mondo; indi all’intorno di questo centro, designarono la città a guisa di cerchio. « Il fondatore, avendo inserito nell’aratro un vomero di rame, ed aggiogati un bue ed una vacca, tira egli stesso, facendoli andare in giro, un solco profondo sui disegnati confini; e in questo mentre, coloro che gli vanno dietro, s’adoperano a rivoltare al di dentro le zolle che solleva l’aratro, non trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Dove poi divisano di far porta, estraendo il vomero e alzando l’aratro, vi lasciano un intervallo non tocco; onde reputano sacro tutto il muro, eccetto le porte. Poiché se credessero sacre anche queste, non potrebbero senza scrupolo né ricever dentro, né mandar fuori le cose necessarie e le impure. » (Vita dì Romolo, traduzione di Girolamo Pompei. Tomo I p. 119, Firenze 1822). Tale fu la fondazione piena di superstizioni sataniche della città di Roma. Ed i Romani del Risorgimento non hanno arrossito di celebrarne l’anniversario con feste religiose! – Se Romolo è il fondatore della città materiale, Numa, suo successore, è considerato con ragione come il fondatore della città morale. satana non poteva sceglier meglio. Noi diciamo scegliere, imperocché è per grazia dello stesso satana che Numa fu re di Roma. Prima di riferire a quelli che l’ignorano questo fatto significantissimo, è bene far conoscere gli antecedenti di Numa. « Dopo la morte di sua moglie, scrive Plutarco, Numa, lasciata allora la città, dimora per le più volte in campagna, dove se n’andava tutto solo vagando e conducendo la vita nei boschi dei numi e ne’ prati sacri e nei luoghi deserti. Dalle quali cose principalmente ebbe origine ciò che si dice intorno alla Dea, cioè che Numa non già per una certa tristezza e vagazione di mente abbia lasciato di conversare con gli uomini, ma perché gustata egli aveva una conversazione più nobile, ed era fatto degno d’incontrar matrimonio divino, unito essendosi ad Egeria, dea innamorata di lui, e passando la vita insieme con essa lei, onde egli era divenuto un uomo beato e nelle divine cose peritissimo. » (Vita di Numa, Plut, Traduz. del Pompei, t. I, p. 227,c. III. — Sed ut ad anguem redeamus, ne adeo mirum sit eum voluptatis et libidinis habere significatum: legimus apud Plutarchum, serpentem Etoliae amasium puellae. Pierius, [il serpente etolia era l’amante della fanciulla] Hierogly., lib. XIII , p. 148, ediz. in fol., Lyon, 1610). A ogni modo, di questo matrimonio e di altri simili, dei quali, stando allo stesso Plutarco, l’alta antichità ammetteva la realtà, (Vedi sant’Agostino e in tutti i grandi teologi, la questione de incubisi) resta che il primo legislatore di Roma ebbe, come i due oracoli della filosofia pagana, Socrate e Pitagora, il suo demone familiare. Vedremo che a questo tenebroso commercio Numa dovette la sua sovranità, e Roma le sue leggi. – Ascoltiamo ancora Plutarco: «Avendo Numa accettato il regno e sacrificato agli Dei, s’incamminò alla volta di Roma. Essendo a lui state presentate le insegne reali, egli comandò che fossero trattenute dicendo, di voler prima far preghiere agli Dei che il confermasse nel regno. Tolti però seco indovini e sacerdoti, salì sul Campidoglio, e quivi il maggiore degli indovini voltartelo a mezzo giorno, colla testa coperta, e standogli presso al di dietro e colla destra toccandogli il capo, si diede a far le sue preghiere, ed osservava d’intorno, guardando per ogni dove, ciò che dagli dei si manifestasse con uccelli o con altri segni. Intanto nella piazza se ne stava un sì numeroso popolo con incredibile silenzio tutto sospeso e in aspettazione di ciò che fosse per avvenire, finché apparvero uccelli destri e favorevoli che approvarono la cosa. Allora Numa, presa avendo la veste regale, discese dal Campidoglio verso la moltitudine, ed ebbe allora acclamazioni ed accoglienze, quali si convenivano ad uomo religiosissimo e carissimo ai Numi. (Vita di Numa, p. 233). Numa divenne re per la grazia del demonio, come Licurgo, come Teseo, come gli altri fondatori degli imperi pagani, legislatore sotto l’ispirazione del medesimo Spirito. Di già i rudimenti di legislazione che Romolo aveva dati ai Romani, uscivano dalla stessa sorgente. Abilissimo nel commercio con i demoni, optimus augur, come lo chiama Cicerone, egli ne aveva composto una parte; il resto, l’aveva tolto in imprestito dai Greci, i quali come abbiamo visto, ripetevano tutto dal serpente legislatore. (Dion. Halyc. Antiquit, rom., lib. XI, in Romul.). – Ma per Roma, sua città di predilezione e la futura capitale del suo impero, una ispirazione indiretta a satana non bastava. Egli stesso in persona volle dettare le sue leggi: Numa fu il suo Mosè. Questo personaggio che oggi noi appelleremo Medium, praticava apertamente l’idromanzìa. Questo genere di magia essendo noto a tutta l’antichità, e tante volte condannato dalla Chiesa, consiste nel fare sull’acqua stagnante o corsiva, delle invocazioni e dei cerchi concentrici, in mezzo ai quali apparisce il demonio sotto una forma visibile, e che pronunzia degli oracoli. (Delrio, disquisit. magic,, lib. IV, c. XI, sect. 3.). – Apulejo riporta questo celebre fatto d’idromanzìa : « Io mi ricordo, egli dice, d’aver letto in Varrone, filosofo di molta erudizione e storico di una grande esattezza, che gli abitanti di Tralles, inquieti dell’esito della guerra contro Mitridate, ricorsero alla magia. Apparve un fanciullo nell’acqua, il quale col volto verso una immagine di Mercurio annunziò loro in centosessanta versi quel che doveva accadere. » (Apolog,, p. 301). Tale fu il mezzo adoperato dal legislatore di Roma. « Numa, scrive sant’Agostino, che non aveva per ispiratore nè un profeta di Dio, né un buon angelo, ricorse all’idromanzia. 3 » (Civ. Dei, lib. VII, c. XXXV). Ei si portò presso ad una fontana solitaria che ancor si mostra, e faceva le pratiche d’uso. Allora sotto la figura di una giovine che pigliava il nome di Egeria, il demonio gli dettava i diversi articoli della costituzione religiosa e civile di Roma e gliene spiegava i motivi. Ora i motivi di questo codice, divenuto per le conquiste dei Romani come il vangelo dell’antichità, erano di tal natura che Numa, benché fosse re, non osò mai farli conoscere. A questo timore umano si aggiungeva un timore divino, che gettò il regio medium nella più grande perplessità. Da una parte, pubblicando le infamie che il serpente gli aveva dettate, temeva di rendere esecrabile agli stessi pagani, la teologia civile dei Romani; dall’altra, non ardiva annientarle, temendo la vendetta di quello al quale si era consacrato. Prese dunque il partito di far sotterrare presso la sua tomba questo monumento di oscenità. Ma un oprante, passando col suo aratro, lo fece uscire di sotto terra. Lo portò al pretore che lo sottomise al senato, e il senato ordinò di bruciarlo. Tale fu la rispettabile origine della legislazione religiosa e civile di Roma. Le cose utili e sensate che essa racchiude, sono un inganno di colui che non dice talora la verità, se non per meglio ingannare.(De civ. Dei, lib. VII, c. XXXV)

CONOSCERE SAN PAOLO (47)

LIBRO V

I canali della redenzione.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

CAPO III.

La Chiesa.

III. IL GOVERNO DELLA CHIESA.

1. I DIGNITARI ECCLESIASTICI. — 2. POTERE COERCITIVO DELLA CHIESA. — 3. RIASSUNTO E CONCLUSIONI.

1. Tutte le cristianità fondate da san Paolo dipendevano direttamente da lui; su lui pesava veramente « la sollecitudine di tutte le Chiese ». Si può domandare se questo concentramento, col prolungare il periodo delle incertezze, non ritardasse lo sviluppo dell’episcopato monarchico; ma esso era necessario nelle origini, per stringere i vincoli dell’unità e per evitare i pericoli di scismi. Non si dovrebbe però conchiuderne che le Chiese di Paolo fossero sprovviste di ogni organizzazione gerarchica: non appena una cristianità era uscita dallo stadio embrionale, riceveva sempre capi e direttori. San Luca ci dice che Paolo e Barnaba, al ritorno dalla loro comune missione in Asia minore, elessero degli anziani (πρεσβυτέρους = presbuterous) dovunque passarono. Tale elezione, accompagnata da preghiere e da digiuni, non fu una semplice designazione dei candidati, ma una cerimonia liturgica che li insediava nelle loro nuove funzioni; infatti fino dai primissimi tempi la consacrazione dei sacri ministri si fa sempre in mezzo a digiuni ed a suppliche solenni. Siccome il racconto degli Atti è rappresentativo, e san Luca non suole ripetere quello che già si può sottintendere e quello che già ha detto una volta per sempre, non vi è punto da fare le meraviglie se tale menzione è isolata, e si deve invece supporre che tale fosse dappertutto la pratica dei missionari. Infatti si fa accidentalmente menzione degli anziani di Efeso (Act. XX, 17) la cui nomina non è raccontata in nessun luogo. – A Tessalonica, pochi mesi dopo la fondazione di questa Chiesa, constatiamo la presenza di operai, di presidenti e di ammonitori ai quali i fedeli devono amore, rispetto e gratitudine. Non sappiamo se essi si siano assunta tale carica spontaneamente col consenso dei neofiti, oppure se a loro fu affidata dall’Apostolo: sta sempre il fatto però che fu sempre riconosciuta e sanzionata da lui. Paolo ricorda ad essi i loro doveri: « Riprendete gli indisciplinati, incoraggiate i pusillanimi, sostenete i deboli, usate longanimità con tutti, vigilate affinché nessuno renda male per male (I Tess. V, 12-14) ». Questi personaggi la cui funzione è di lavorare per l’opera di Dio, di presiedere alle assemblee religiose, di avvertire i fratelli e, occorrendo, di ammonirli, e che in cambio hanno diritto alla stima, all’affetto, alla riconoscenza, occupano una posizione ufficiale o quasi ufficiale. Hanno essi il grado di diaconi o di anziani? L’analogia c’invita a crederlo, benché essi non ne portino il titolo. Una tradizione, già antica al tempo di Origene, considerava Caio, l’ospite di san Paolo a Corinto, come il primo vescovo di Tessalonica. – Si cita volentieri Corinto come tipo di assemblea democratica; è vero che l’Apostolo lascia alla libera scelta dei Corinzi la designazione degli arbitri incaricati di risolvere i litigi, e dei delegati che devono portare a Gerusalemme il frutto delle collette (I Cor. VI, 4-5); pur tuttavia egli conserva sotto la sua tutela immediata quella comunità turbolenta; egli vi si fa rappresentare quasi in permanenza da suoi coadiutori (I Cor. VI, 4-5): egli è sempre quello che regola, giudica e decide in ultimo appello (I Cor. V, 1-13). Accanto al ministero transitorio e carismatico, così fiorente a Corinto, vi era anche un ministero gerarchico e permanente? Chi presiedeva l’agape e chi celebrava l’eucaristia! Non possiamo dirlo, perché le informazioni che ne abbiamo sono quanto mai frammentarie e si riferiscono alle prime origini, al periodo dei tre o quattro anni che seguirono la fondazione. Ma in mancanza di informazioni più precise, noi pensiamo che la Chiesa di Corinto fosse organizzata sul modello delle altre cristianità. – La comunità di Filippi aveva appena dieci anni di vita, quando vi mandava un saluto particolare ai sacerdoti (ἐπίσκοποι = episcopoi) e ai diaconi (Fil. I, 1). Forse quei personaggi avevano presa una parte speciale nella colletta in favore di Paolo prigioniero; forse voleva così Paolo riconoscere loro servizi e rafforzare la loro autorità. La menzione collettiva degli ἐπίσκοποι (= episcopoi) non dimostra assolutamente che essi formassero un collegio di eguali: essa potrebbe comprendere lo stesso presidente, se ai suppone che Epafrodito, « il fratello, il collaboratore ed il compagno d’armi di Paolo (Fil. II, 25) », occupasse il primo posto. tuttavia è più probabile che anche là. come altrove, la giurisdizione suprema, fosse devoluta al rappresentante dell’Apostolo. – Ad Efeso ed a Creta la situazione è chiara: i delegati di Paolo, investiti del suo potere, sono incaricati di stabilire sacerdoti e diaconi, di reprimere gli eretici e gli spiriti turbolenti, di punire i delinquenti, non eccettuati i membri del clero, a patto di osservare le forme giudiziarie (I Tim. I, 3). Quando sarà tempo saranno sostituiti da un solo personaggio, di modo che il governo di quelle Chiese presenta la forma quasi monarchica (Tit. III, 12); alla testa vi è il rappresentante di Paolo, che esercita una giurisdizione suprema; sotto di lui, il collegio dei sacerdoti, le cui funzioni non sono ancora bene determinate; nell’ultimo grado del clero vi sono i diaconi. Non si fa nessuna allusione ad un ministero carismatico. L’organizzazione gerarchica è in via di progresso, e si va gradatamente verso una costituzione definitiva. L’Apostolo non aveva concesso l’autonomia completa alle chiese recentemente fondate, perciò i suoi luogotenenti erano continuamente in giro per visitare e riformare le cristianità che dipendevano da lui: egli era l’unico pastore dell’immensa diocesi che aveva conquistato alla fede del Cristo. Né in Grecia, né in Macedonia, né in Galazia, né a Creta, né ad Efeso vi fu, mentre egli era vivo, altro vescovo che lui ed i suoi delegati. L’antica tradizione che considerava Caio di Corinto come primo vescovo di Tessalonica, ha tutte le apparenze di verità, perché nulla si opponeva alla sua designazione a quel posto lontano; ma non è detto — e non è affatto probabile — che Caio fosse vescovo mentre viveva Paolo. E non erano neppure vescovi Tito e Timoteo. Tito, lasciato a Creta per organizzare quella cristianità, doveva raggiungere il suo capo quando fosse giunto chi doveva sostituirlo; non più stabile era la posizione di Timoteo ad Efeso, e l’Apostolo non tardò a richiamarlo. Insomma, le Chiese dipendenti da Paolo erano servite da diaconi e regolate da un consiglio di dignitari, chiamati indifferentemente πρεσβυτέροι (= presbuteroi) o ἐπίσκοποι (= episcopoi), sotto la sorveglianza sempre desta e sotto la tutela sempre attiva del fondatore o dei suoi sostituti. – Nei primissimi tempi, quando una comunità si riduceva ad un piccolo nucleo di fedeli, i carismi potevano supplire provvisoriamente all’assenza o all’imperfezione della gerarchia ordinaria, perché alcune di quelle grazie avevano per oggetto l’istruzione o il governo; e forse quello stato di cose si prolungò alquanto a Corinto che si distingueva per i doni carismatici. Non dobbiamo dimenticare che, eccetto per la Galazia meridionale, nessuna delle fondazioni di Paolo precedette il suo martirio di più di quindici o sedici anni: quasi tutte erano assai più giovani quando l’Apostolo si occupava dei loro affari. Anche al tempo delle Pastorali, la cristianità di Efeso non contava più di dodici anni di vita, e quelle di Creta erano nate appena allora. – La maniera con cui si faceva la designazione dei sacri ministri dovette variare secondo i luoghi e i tempi. I primi sette diaconi ellenisti di Gerusalemme furono presentati dai fedeli e ordinati dagli apostoli, e fu quello forse un atto di condiscendenza dettato ai Dodici dal desiderio di togliere ai malcontenti ogni pretesto d’insubordinazione ed ogni motivo di lagnanza. Ma Paolo e Barnaba, senza andare evidentemente contro il desiderio dei neofiti e senza trascurare le indicazioni fomite dall’attitudine dei candidati, sembra che consultassero soltanto se stessi quando diedero degli anziani ad ogni Chiesa recentemente fondata (Act. XIV, 23). Nel dominio di Paolo non vediamo che i semplici fedeli abbiano mai avuto parte all’elezione dei dignitari ecclesiastici propriamente detti, poiché gli arbitri ed i portatori di limosine di Corinto, eletti col suffragio del popolo, non appartengono alla gerarchia sacra. È certo che né Tito né Timoteo, tra le loro istruzioni, non hanno quella di sottoporre ai fedeli la scelta o l’approvazione dei diaconi o dei sacerdoti, benché debbano tener conto della buona riputazione degli ordinandi, così nella Chiesa come fuori di essa (I Tim. III, 1-14). Se il governo dell’Apostolo non era né dispotico né arbitrario, il regime democratico non era però di suo gusto.

2. Come ogni società perfetta, la Chiesa possiede inalienabilmente il diritto di reggersi, di difendersi e di perpetuarsi, diritto che deriva direttamente dal suo stesso diritto di vivere. Il potere di governarsi le viene da Dio: « Vigilate su voi stessi e su tutto il gregge nel quale lo Spirito Santo vi ha stabiliti custodi,: governare la Chiesa di Dio che egli si è acquistata col suo proprio sangue (Act. XX, 28) », dice san Paolo agli anziani di Efeso accorsi per ricevere le sue ultime raccomandazioni. Queste parole sono da meditarsi. Le persone di cui si tratta, hanno soltanto un’autorità subordinata, eppure sorvegliano, ispezionano, governano i fedeli di Gesù. Cristo. Benché siano stati designati e costituiti dagli uomini, hanno la loro autorità dallo Spirito Santo dal quale essa, in ultima analisi, deriva. – La loro carica è locale, la loro giurisdizione è ristretta, e tuttavia essi governano la Chiesa di Dio, perché la Chiesa è una e indivisibile. In quanto al potere di legiferare, san Paolo, lo riserva a sé: egli conosce una sola autorità superiore alla sua, quella del Cristo; egli sa benissimo distinguere i precetti del suo Maestro dai suoi propri (I Cor. VII, 8, 10, 25), ma ha coscienza di comandare egli stesso in nome di Colui dal quale è mandato: « Se alcuno è profeta o dotato dello Spirito, scrive egli ai Corinzi ai quali ha fatto alcune ingiunzioni, questi deve riconoscere che quello che scrivo è il comandamento del Signore (I Cor. XIV, 37) » Terribili sono le minacce contro i ribelli e gli insubordinati (II Cor. XIII, 16). Nessuno deve prendere per debolezza il suo esteriore umile e la sua meschina apparenza. « Le armi con cui combattiamo non sono di carne, ma esse sono potenti (di tutta la potenza) di Dio per rovesciare fortezze. (Con esse) noi rovesciamo i ragionamenti ed ogni ostacolo che ci oppone alla conoscenza di Dio; e noi sottomettiamo ogni pensiero all’obbedienza di Cristo; noi siamo perciò pronti a punire ogni disobbedienza quando la nostra obbedienza sarà completa (II Cor. X, 4-6) ». Egli dunque si arroga un intero dominio, non soltanto sulla volontà dei fedeli, ma anche sulla loro intelligenza; potere veramente sovrumano e, come dice egli stesso, divino. Ma se l’Apostolo, né a Corinto né altrove, ammette autorità capace di imporsi alla sua,  riconosce in tette le Chiese un’autorità accanto e sotto la sua: egli investe del suo potere Tito e Timoteo (I. Tim. I, 3; Tit. I, 5); comanda ai Tessalonicesi ed ai Corinzi di far valere il loro potere; si rallegra con questi ultimi perché se ne servirono con moderazione (I Tess. V, 14; I Cor. V, 2, 13); ricorda agli anziani di Efeso il loro diritto e il loro dovere di governare la Chiesa di Dio (Act. XX, 28). – Se la Chiesa primitiva ai nemici esterni oppose soltanto la resistenza passiva, il non possumus, di cui gli Apostoli avevano dato la formula e l’esempio (Act. IV, 20), le occorrevano altre armi contro i nemici interni, soggetti alla sua giurisdizione per il Battesimo (I Cor. V, 12-13). Nel minacciare le sue severità ai faziosi di Corinto, Paolo non suppone neppure che il suo diritto di castigare i colpevoli possa essere messo in dubbio: « Ecco che io vengo a voi per la terza volta; tutto sarà regolato sulla deposizione di due o tre testimoni. Già ho detto, e lo ripeto ora che sono assente come l’ho fatto quando ero presente, a quelli che hanno peccato ed a tutti gli altri, che se io vengo non perdonerò più… Scrivo questo nella mia assenza affinché, nella mia presenza, non abbia da usare con troppo rigore il potere che il Signore mi ha dato per edificare e non per distruggere (II Cor. XIII, 1-2, 10) ». Sempre l’Apostolo rivendica con la stessa energia il suo diritto di punire. La sua repressione non sarà arbitraria, egli manterrà le forme giuridiche, ma castigherà i delinquenti secondo le loro colpe e non farà grazia se non al pentimento (II Cor. XII, 21). Egli prescrive a Timoteo la stessa pratica: « Non ricevere l’accusa contro un anziano se non su testimonianza di due o tre persone. Riprendi dinanzi a tutti, quelli che hanno peccato, affinché gli altri ne concepiscano timore (I Tim. V, 19-20) ». Le pene inflitte da san Paolo erano la riprensione, l’esclusione temporanea e l’anatema. Uno dei primi doveri dei capi della Chiesa è di riprendere coloro che fanno male; vi erano due sorta di ammonizioni: una paterna, o fraterna che poteva essere privata; l’altra più ufficiale e meno benigna che doveva essere pubblica. Sembra che san Paolo indichi, come il Vangelo, che queste due riprensioni erano successive e servivano come preludio ad una correzione più grave: « Dopo una o due ammonizioni, evita il fazioso (il fautore di scisma o di partiti) sapendo che un tal uomo è pervertito e che pecca, condannato dal suo proprio giudizio (Tit. III, 10) ». La scomunica poi aveva due forme totalmente diverse: l’una era soltanto la separazione temporanea dei Cristiani turbolenti o scandalosi, la cessazione provvisoria delle relazioni con loro finché non si fossero emendati: tali erano gli scioperati di Tessalonica; tali i peccatori pubblici di Corinto (II Tess. III, 14 e I Cor. V, 2-7); tali i novatori delle Pastorali, eccetto che questi ultimi non appartenessero alla categoria dei criminali ostinati e incorreggibili che Paolo abbandona a satana per insegnare loro a non bestemmiare: di tale anatema aveva colpito Imeneo e Alessandro (I Tim. I, 20). Per un momento aveva anche pensato di scagliarlo contro l’incestuoso di Corinto, ma poi si contentò di una pena meno severa (I Cor. V, 5), e si rallegrò anzi con la Chiesa che avesse perdonato, poiché il diritto di punire i ribelli implica quello di perdonare i pentiti. La cura con cui certe corporazioni greche, come gli erani ed i tiasi cercavano di schivare l’ingerenza dello Stato nei loro affari interni, le penalità che infliggevano ai membri delinquenti — multe in denaro o in natura, esclusione dalle feste e dai banchetti, espulsione dalla società — illustrano ben poco la costituzione primitiva delle comunità cristiane che non erano affatto formate su tale modello. Potrebbe darne un’idea più giusta l’organizzazione delle comunità ebree nella Diaspora; ma tali comunità erano associazioni legali che, al bisogno, avevano l’appoggio o almeno la tolleranza della forza pubblica. In esse il consiglio degli anziani aveva un potere discrezionale civile e religioso; condannava alla pena del bastone con una liberalità che ci fa stupire, dava la scomunica semplice e la scomunica solenne accompagnata da anatema, la quale era certamente un equivalente mitigato della lapidazione, nei casi in cui questa non era più praticabile. Invece tra i primi Cristiani non troviamo nessun esempio di castighi corporali: le pene si riducevano alla riprensione, all’allontanamento temporaneo ed alla scomunica, con l’abbandono del colpevole nelle mani di satana. Nessuna di queste pene, neppure l’ultima, era puramente vendicativa: la Chiesa non dimentica le raccomandazioni del suo fondatore divino; il suo scopo non è il dominio: il suo ideale non è d’inspirare il terrore e di ostentare la sua forza: la misura ed il limite del suo potere è la difesa delle verità di cui essa fu costituita « la colonna ed il fermo appoggio » (I Tim. III, 15).

3. Riassumiamo in poche parole la concezione della Chiesa quale risulta dagli scritti e dalla pratica dell’Apostolo. Nel dominio di Paolo, tutte le cristianità, dalla loro fondazione o pochissimo tempo dopo, sono provviste di un clero stabilito da lui o dai suoi delegati. Questo clero, oltre i diaconi, comprende altri personaggi chiamati indifferentemente presbiteri o episcopi: i nomi potevano essere sinonimi senza che tali fossero le funzioni; ma la sinonimia dei nomi si poteva estendere anche alle funzioni. Perciò si possono fare tre ipotesi diverse: o i dignitari superiori erano tutti vescovi; oppure erano in parte vescovi e in parte sacerdoti, benché i nomi fossero comuni; oppure erano tutti semplici sacerdoti. Di queste tre ipotesi l’ultima è la sola soddisfacente: la prima che piacque per qualche tempo a Petau, è assolutamente destituita di prove e urta contro gravi obbiezioni; la seconda non è meno precaria, perché ciò che distingue essenzialmente il vescovo dal sacerdote è il potere dell’ordine; ora noi non troviamo la minima traccia di tale potere nel clero sedentario delle Chiese di Paolo. Ogni volta che si trattava di fondare una nuova comunità o di stabilirvi sacerdoti e diaconi, Paolo interveniva personalmente o vi mandava qualcuno dei suoi delegati: Timoteo al quale egli stesso aveva imposto le mani; Tito, il suo collaboratore più attivo; probabilmente Luca che sembra abbia organizzato la Chiesa di Filippi; forse Tichico e Artema che dovevano sostituire a Creta Tito chiamato altrove; e altri ancora senza dubbio. Ma sarebbe un paralogismo il supporre che le cose andassero dovunque in questa maniera, e ben diversa poteva essere la situazione delle comunità cristiane di Gerusalemme, di Antiochia, di Roma e di Alessandria: la gerarchia a tre gradi dovette esistere già nei tempi apostolici. Senza appartenere al clero, le vedove lo aiutavano e lo supplivano talora tra l’elemento femminile. Esse non entravano nell’ordine delle vedove col solo fatto della loro vedovanza, ma con la professione espressa della vedovanza, con la ratifica formale della Chiesa che le prendeva a suo carico sotto certe condizioni. In quanto poi alle pretese diaconesse, queste probabilmente, presso san Paolo, sono semplicemente le mogli dei diaconi o persone che avevano ricevuto dallo Spirito Santo il carisma speciale della διακονία ( = diakonia). Se, nonostante tutto, l’organizzazione delle Chiese paoline sembra alquanto rudimentale, ed il compito dell’autorità sedentaria assai ridotto, bisogna tener conto di quattro circostanze che facilmente si dimenticano. Tutte le cristianità nelle quali le Epistole di san Paolo ci permettono di gettare uno sguardo furtivo, sono di fondazione recentissima: le più antiche datano da otto o dieci anni al massimo; le altre sono appena nate. Dobbiamo meravigliarci di trovarle ancora sotto tutela e possiamo pretendere che abbiano già raggiunto il loro pieno sviluppo? Le città che san Paolo aveva scelto come sua porzione speciale per offrirle al Cristo, erano tra le più turbolente e le più indisciplinate del mondo romano. Se avesse abbandonato quelle cristianità a se stesse, invece di tenerle direttamente in sua mano e di governarle per mezzo di suoi delegati, correva il rischio di vederle consumarsi in brighe e querele interne, come avveniva delle assemblee democratiche di quel tempo e di tutti i tempi. Bisognava pure prevenire il pericolo dell’isolamento. L’unione delle comunità ebreo-cristiane, era cementato dal sentimento nazionale altrettanto, se non più, che dal sentimento religioso. Il primo vincolo mancava nelle chiese della gentilità, poiché l’amore di patria non esisteva nel mondo ellenico, oppure si confondeva con l’orgoglio della stessa città. In tali condizioni, un’autonomia troppo completa o troppo affrettata era un pericolo permanente di scisma e di eresia. Forse i doni carismatici, più abbondanti in origine, supplivano in qualche misura al difetto di organizzazione gerarchica. Quello stato di cose era passeggero, ma poteva servire di transizione tra la prima infanzia delle Chiese e l’epoca della loro maturità.

CONOSCERE SAN PAOLO (46)

LIBRO V

I canali della redenzione.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

CAPO III.

La Chiesa.

II. LA VITA DELLA CHIESA.

1. IL CRISTO MISTICO. — 2. IL CORPO MISTICO DEL CRISTO. — 3. LO SPIRITO SANTO NELLA CHIESA. — 4. LO SPIRITO E IL CRISTO. — 5. LA COMUNIONE DEI SANTI. 6. NEL CRISTO GESÙ.

1. Nell’epistola agli Efesini abbiamo studiato l’essere collettivo formato dall’unione del Cristo e della Chiesa, la sua analogia col corpo umano, le sue principali proprietà, i suoi rapporti col mistero della redenzione. Dobbiamo ora spingere più innanzi questa dottrina, dedurne le conseguenze ed esaminarne il valore. La Chiesa è il « complemento del Cristo (Ephes. I, 23) », come il tronco è il complemento della testa, come le membra sono il complemento dell’organismo. La testa non può nulla senza il corpo; l’organismo non funziona regolarmente se manca qualche organo. Così pure il Cristo senza la Chiesa sarebbe un essere incompleto: incompleto come redentore, poiché la grazia che Egli possiede per diffonderla, rimarrebbe inattiva; incompleto come secondo Adamo, poiché Egli è tale soltanto per il suo carattere rappresentativo; incompleto come Cristo, poiché il Cristo è anche, in san Paolo, una personalità collettiva. Così il Cristo « si completa in tutti, in tutte le maniere »: nei membri della gerarchia sacra come Capo della Chiesa, nei semplici fedeli, come Salvatore e santificatore. Origene fa, sopra questo testo, una profonda riflessione: « La Chiesa è il corpo del Cristo; ma si deve forse considerare come il tronco, distinto dalla testa e da questa governato, oppure tutta la Chiesa del Cristo sarebbe il corpo del Cristo, animato dalla sua divinità e ripieno del suo spirito, secondo l’analogia del corpo umano del quale fa parte anche la testa? Nel secondo caso, quello che vi è di umano in lei sarà un elemento del corpo, e quello che vi è di divino e di vivificante formerà come la potenza divina che anima tutta la Chiesa ». Se lasciamo da parte certe espressioni che avrebbero bisogno di spiegazione, la questione è posta molto bene. San Paolo infatti considera il Cristo e la Chiesa in due maniere assai diverse: qualche volta la Chiesa è paragonata al tronco in opposizione alla testa, e allora la Chiesa e il Cristo sono le due parti integranti del corpo mistico. Tale è il caso di tutti i passi in cui la persona del Cristo è assimilata alla testa (Ephes. I, 22; II Cor. IV, 15). Ma non sempre è così: molte volte la Chiesa e il Cristo sono sinonimi o si distinguono soltanto per una sfumatura di significato appena percettibile; il Cristo e la Chiesa sono un tutto completo; la Chiesa è nel Cristo e il Cristo è nella Chiesa, e l’uno e l’altra si possono sostituire col corpo del Cristo senza mutare notevolmente il significato. Questo fenomeno avviene in tre serie di testi: anzitutto quando il Cristo si presenta come una personalità collettiva, come la vera stirpe di Abramo e la sua « discendenza (spirituale), che è il Cristo (Gal. III, 16) »,  come la somma integrale dei membri il cui insieme forma il corpo « del Cristo (I Cor. XII, 12) ». Qui è il caso di applicare le parole di sant’Agostino, quello, tra i Padri, che più frequentemente e meglio di tutti ha parlato del corpo mistico: « Totus Christus caput et corpus est ». — Poi nelle espressioni rivestire il Cristo, essere immersi nel Cristo, essere innestati sul Cristo: « Voi tutti che siete stati battezzati nel Cristo (εἰς Χριστόν= eis Kriston), avete rivestito il Cristo (Gal. III, 17)… Se sei stato innestato contro natura sopra il buon olivo, quanto più (i rami naturali) saranno innestati sopra l’olivo (che li portava) (Rom. XI, 24) ». — Finalmente nella formula tanto caratteristica in Christo, in Christo Jesu.

2. L’assimilare le società politiche all’organismo del corpo umano è cosa vecchia quanto il mondo, come lo prova il famoso apologo riferito da Tito Livio: alla plebe che si lagnava al vedere il senato attribuirsi tutti gli onori e arrogarsi tutti i privilegi, Menenio Àgrippa seppe dimostrare che lo stomaco, questo organo vorace ed ozioso per il quale si stancano tutte le altre membra, non è il meno necessario al benessere comune. San Paolo adoperava la stessa similitudine per far comprendere che la diversità dei doni spirituali, ben lungi dal nuocere all’unione dei fedeli, tende invece a stringerla di più: “Poiché come noi abbiamo più membra in un solo corpo e tutte le membra non hanno la stessa funzione; così, collettivamente, noi formiamo un solo corpo nel Cristo, e individualmente siamo membra gli uni degli altri” (Rom. XII, 4-5). Le altre società possono benissimo prendere per metafora il nome di corpo, perché la tendenza ad un medesimo fine, i vincoli di autorità e di dipendenza, i diritti e i doveri reciproci danno loro un’unità morale che li somiglia ad un organismo vivente. Ma l’unione del corpo mistico del Cristo è di natura più eccellente. Se si chiama mistico, questo si fa non per negargli le proprietà reali, ma per distinguerlo dal corpo fisico preso dal Verbo nel seno di Maria, per indicare i suoi rapporti con quello che san Paolo chiama il Mistero, e soprattutto per esprimere certe proprietà misteriose dell’ordine soprannaturale le quali, sebbene sfuggano alla verificazione dell’esperienza sensibile, sono tuttavia vere realtà. In questo composto meraviglioso vi è azione reale della testa su tutte le membra e su ciascun membro, reazione delle membra le une su le altre, per la comunione dei santi, compenetrazione reale dello Spiriti Santo che vivifica tutto il corpo e vi forma il più perfetto dei vincoli, la carità. Ciò che distingue essenzialmente il corpo mistico dagli enti morali che abusivamente si fregiano del nome di corpo, è che esso è dotato di vita, e che la sua vita gli viene dall’interno. Il testo sopra citato è appena un abbozzo della dottrina. In esso Paolo si propone soltanto di esortare ciascuno dei fedeli a contentarsi della sua porzione di grazie, con questa considerazione, che i beni spirituali della Chiesa, qualunque sia il membro che li possiede, sono per così dire comuni a tutti, poiché noi siamo membra gli uni degli altri. A questa unione di solidarietà egli dà un’espressione più ampia o più completa nella sua prima Epistola ai Corinzi: “Come il corpo è uno, benché abbia più membra, e tutta le membra di questo corpo, nonostante il loro numero, formano un solo corpo; cosà è del Cristo. Tutti infatti siamo stati battezzati in un medesimo Spirito per (formare) un solo corpo, ed Ebrei, e Greci, e schiavi, e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un medesimo Spirito. Poiché il corpo non è un solo membro, ma più membra. Se il piede dicesse: Perché non sono la mano, io non sono del corpo; forse che per questo non sarebbe del corpo? E se l’orecchio dicesse: Perché non sono l’occhio, io non sono del corpo; forse che per questo non sarebbe del corpo! Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? e se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato? Ebbene, Dio ha disposto le membra nel corpo, ciascuno al posto che piacque a lui. Se tutti fossero un medesimo membro, dove sarebbe il corpo? Vi sono dunque più membra e un solo corpo. – L’occhio non può dire alla mano: Io non ho bisogno di te; né la testa può dire ai piedi: Io non ho bisogno di voi. Al contrario, le membra del corpo reputate più deboli sono le più necessarie; e quelle che noi stimiamo meno onorevoli circondiamo di maggior onore; e le meno oneste trattiamo con più decenza, poiché quelle oneste non ne hanno bisogno. Dunque Dio ha disposto il corpo in modo da dare più onore a quello che ne mancava; affinché non vi sia divisione nel corpo, ma tutte le membra siano piene di sollecitudine vicendevole. Se un membro soffre, tutte le membra soffrono; se un membro è onorato, tutte le membra partecipano alla sua gioia. Ora voi siete (insieme) il corpo del Cristo e individualmente le sue membra” (I Cor. XII, 12-27).La diversità degli organi in un corpo umano non è soltanto un elemento di bellezza, ma è una condizione essenziale di vita. Nelle membra del corpo mistico, essa non deriva dalla loro qualità di Cristiani, perché a questo riguardo non vi è tra loro nessuna differenza; non viene neppure dalla loro qualità di uomini, poiché le differenze stabilite dalla natura non contano nulla sotto l’aspetto di Cristiani; Paolo la fa derivare da quei doni gratuiti che lo Spirito Santo concede ai fedeli per il bene comune della Chiesa: apostolato, profezia, discorso di sapienza o di scienza, discernimento degli spiriti, potere di guarire gli ammalati, di operare miracoli, attitudine a governare, a insegnare, a soccorrere i poveri, a consolare gli afflitti, a praticare altre opere di misericordia. Questi esempi sono assai ben scelti, essendo icarismi, per definizione, proprietà sociali ed avendo per autore lo stesso Spirito Santo il quale forma a suo piacimento il corpo mistico del quale è l’anima; ma tutto quello che dice l’Apostolo, si potrebbe applicare alla gerarchia ordinaria e forse anche alla disuguaglianza che nei santi è prodotta dalla differenza di cooperazione alle diverse chiamate della grazia. L’uomo è per essenza un essere sociale. Un filosofo pagano disse: « Noi siamo tutti fatti per un’azione comune… l’opporsi gli uni agli altri è dunque contro natura (Marco Aurelio, Pensieri, II, 1) ». Se ciascuno degli organi avesse l’istinto di attirare tutto a sé, il corpo intero non tarderebbe a perire: la stessa cosa avverrebbe del corpo sociale; ma la natura ci premunisce contro l’egoismo. Essa ci fa capire che noi non bastiamo a noi medesimi, che ciascun membro ha la sua utilità, che le membra più deboli sono sovente le più necessarie, che le meno nobili sono quelle che si sogliono trattare con maggior onore, che la salute generale dipende dal buon funzionamento dell’insieme, e che il benessere di tutti è subordinato al buono stato di ciascuno. Questa verità si dimostra soprattutto con la sua stessa evidenza, né noi v’insisteremmo se Paolo non ci desse la vera formula dell’altruismo cristiano: « Noi siamo membra gli uni degli altri (Rom. XII, 5) ». L e altre membra non ci sono estranee, ma sono qualche cosa di noi stessi; esse lavorano per noi, come noi lavoriamo per loro; noi abbiamo bisogno del loro aiuto e dobbiamo dare loro l’aiuto nostro. La funzione sociale che riassume l’attività del corpo organico è la comunanza di vita. Il membro non vive di vita propria, ma della vita del corpo; per questo fa bisogno che esso sia unito alla testa da cui deriva l’influsso vitale, e così pure che sia unito alle altre membra che glielo trasmettono, ciascuno nella propria sfera. Il membro separato dalla testa non vive più; isolato dalle altre membra vivrebbe di una vita imperfetta e precaria. San Paolo ce lo dice quando descrive quel visionario di Colossi, « che non aderisce alla testa da cui tutto il corpo, tenuto e unito insieme per mezzo di giunture e di legamenti, riceve l’accrescimento voluto da Dio »; poiché per mezzo del Cristo, « per mezzo della testa, tutto il corpo bene organizzato e saldamente unito, in forza del mutuo aiuto di tutte le membra, operando ciascun membro secondo la propria misura, cresce e si edifica nella carità (Col. II, 18) ». Spesso si è paragonato il Corpo mistico di san Paolo alla Vite allegorica di san Giovanni (Giov. XV, 1-6). I rapporti sono chiari: da tutte e due le parti la vita soprannaturale è somigliata al crescere di un essere vivente, crescere che è dovuto ad un principio interno e che ha per condizione essenziale l’unione al centro della vita. Ma anche le differenze sono degne di nota: in san Giovanni, i rami, direttamente uniti al tronco, ricevono direttamente da esso il succo; in san Paolo invece le membra, unite al capo da altre membra, ricevono l’influsso vitale per mezzo di queste. Il primo considera piuttosto la vita individuale dei credenti, mentre san Paolo mira soprattutto alla vita sociale della Chiesa, che regola e misura il crescere di ciascun fedele. Ma tanto per l’uno quanto per l’altro, l’agente della vita soprannaturale è lo Spirito Santo.

3. Lo Spirito Santo è l’anima del corpo mistico; ora come l’anima nobilita il corpo umano con la sua presenza, lo vivifica col suo contatto, lo muove con la sua attività, così lo Spirito Santo anima il Corpo mistico del Cristo: Egli è l’ospite divino della Chiesa e di ciascun fedele; è il motore e agente unico nell’ordine soprannaturale; Egli è pure u n dono, dono comune del Figlio e del Padre, ed Egli stesso si dà come il più prezioso dei suoi doni. Lo Spirito Santo abita in noi come in un suo tempio, « questo tempio ora è la Chiesa intera, ora una cristianità, ora l’anima individuale: « L o Spirito Santo abita in voi (I Cor. III, 16). — Il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi (I Cor. VI, 19).— Se lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù da morte abita in voi, colui che ha risuscitato Gesù da morte vivificherà i vostri corpi mortali per causa del suo Spirito che abita in voi (Rom. VIII, 11) ». Siccome lo Spirito Santo è lo Spirito del Padre e lo Spirito del Piglio, Egli pure abiterà dove abitano il Padre e il Figlio: « Non sapete che voi siete il tempio di Dio? (I Cor. III, 16) — Il  tempio di Dio è santo, e voi siete questo tempio (I Cor. III, 17). — Noi siamo il tempio del Dio vivente (II Cor. VI, 16). — Voi siete stati edificati in un tempio di Dio nello Spirito (Ephes. II, 22). — Il Cristo abita nei vostri cuori per la fede (Ephes. III, 17) ». Ospite dell’anima nostra, lo Spirito di santità non vi rimane inoperoso, ma al suo soffio sboccia tutta la fioritura della nostra vita spirituale. Egli è perciò chiamato da san Paolo « Spirito di vita (Rom. VIII, 2) » e da san Giovanni « Spirito vivificante (Giov. VI, 63) ». Tutti i carismi, di qualsiasi natura, sono conferiti da Lui (I Cor. XII, 4). A Lui l’Apostolo deve la rivelazione del gran mistero che è l’articolo fondamentale del suo Vangelo: poiché lo Spirito che serata le profondità di Dio le rivela a chi vuole (I Cor. II, 10). La sua azione si estende a tutti i Cristiani e a tutte le manifestazioni della vita soprannaturale, dalla rigenerazione battesimale fino alla beatitudine eterna. L’obbedire agl’impulsi della grazia vien detto comunemente « camminare nello Spirito, essere mosso dallo Spirito (Rom. VIII, 4-14) »; il complesso di tutte le virtù è « il frutto dello Spirito (Gal. V, 22) »; tutto ciò che ci eleva sopra la nostra natura carnale e psichica, tutto ciò che ci getta in un’atmosfera divina, tutto ciò che ci trasforma in esseri spirituali, secondo l’espressione cara a san Paolo, riceve il nome generico di spirito per allusione alla fonte da cui emana. Lo Spirito Santo è amore, ed è proprio dell’amore il dare, il dare se stesso con i suoi doni. L’amore con cui Dio ci ama, si manifesta col dono dello Spirito e nel tempo stesso con un’effusione di grazia santificante che è un effetto dello Spirito presente in noi. Questa effusione non è transitoria, ma è inerente e sussiste inseparabilmente unita allo Spirito che ne è la sorgente: « L’amore di Dio è diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci fu dato (Rom. V, 5) ». In noi vi è dunque qualche altra cosa oltre lo Spirito: vi è il prodotto della sua attività. Siccome poi questa effusione è necessariamente finita, poiché viene ricevuta in un essere finito, essa è suscettibile di aumenti indefiniti. Ecco perché san Paolo dice qualche volta che noi abbiamo ricevuto « le primizie (Rom. VIII, 23) » o i « pegni dello Spirito (II Cor. I, 22) ». Noi abbiamo bensì ricevuto lo Spirito tutto intero, perché lo Spirito è indivisibile; ma abbiamo ricevuto soltanto una porzione — e la più piccola, o meglio la meno apparente — dei beni che ci ha destinati. Si è fatta la questione se, per giustificare tutte queste affermazioni dell’Apostolo e le interpretazioni dei Padri, non si dovrebbe concedere allo Spirito Santo un modo speciale di presenza. L’unione dell’anima giusta con Dio avviene direttamente con la natura divina, oppure con la mediazione dello Spirito Santo? Nel primo caso essa riguarderebbe tutte e tre le persone divine a pari titolo e non si potrebbe riferire ad una di esse se non per appropriazione; nel secondo caso invece essa sarebbe propria dello Spirito Santo, e le altre due Persone vi parteciperebbero soltanto per concomitanza, in virtù di quella compenetrazione reciproca che loro non permette di essere separate. È noto che il dotto Petau immaginò, per l’abitazione dello Spirito Santo in noi, qualche cosa di analogo all’unione del Verbo incarnato con la natura umana. Vi mette però una differenza: nell’unione ipostatica del Verbo, un vincolo sostanziale e indissolubile congiunge i due estremi; mentre nell’abitazione dello Spirito Santo il vincolo sarebbe soltanto accidentale — perché essa avrebbe luogo con una facoltà dell’anima e non con la sua sostanza, e si potrebbe sciogliere — ma sarebbe tuttavia personale allo Spirito di santità. Questa teoria seducente è però assai difficile da concepirsi, e lo stesso suo inventore non riuscì a spiegarla. « Essa, egli dice, non è ancora abbastanza dilucidata ». Su che cosa si fonderebbe la relazione speciale di consacrazione o di appartenenza che unirebbe l’anima giusta allo Spirito Santo? Quale funzione ipostatica — o quasi ipostatica — può esercitare lo Spirito Santo nell’anima? E se Egli si unisce a lei con un’operazione, come sarebbe per esempio la produzione della grazia santificante, perché mai la sua unione sarebbe immediata, mentre le altre due persone, che hanno partecipato alla sua attività, sarebbero a lei unite soltanto per un intermediario? D’altra parte la spiegazione volgare la quale, nell’abitazione delle Persone divine, vede soltanto delle differenze di appropriazione, non sembra che combini abbastanza col linguaggio dei Padri e della Scrittura. Per la grazia santificante, si dice, la divinità abita in noi come nel suo tempio; ora la grazia abituale, prodotto di tutte e tre le Persone divine, ci unisce immediatamente a Dio senza distinzione di Persone. Non vi è dunque, nel modo di presenza delle tre Persone divine, altra distinzione possibile, che l’appropriazione, in virtù della quale noi siamo soliti ad attribuire al Padre l’essere e la potenza, al Figlio la scienza e la sapienza, allo Spirito Santo l’amore e la santità, perché noi vediamo in questi diversi attributi un certo rapporto con i loro caratteri personali. Questa teoria è rispettabile, ma non è però altro che una teoria. – Ad ogni modo, non sembra che i Padri e gli scrittori sacri ravvisino in questo modo le cose. Secondo loro, l’unione deifica si fa primieramente con le persone e, per mezzo delle persone, con la natura. La grazia santificante poi è il risultato, non già la condizione, della presenza degli ospiti divini. Quando Dio vuole santificare le anime vi manda il Figlio suo prediletto, mediatore universale della grazia; il Figlio poi, alla sua volta e unitamente al Padre, manda lo Spirito di santità. L’azione santificatrice si svolge dunque secondo l’ordine delle processioni eterne, e lo stesso avviene della presenza delle tre Persone nell’anima santificata. In quest’ultimo caso però l’ordine è invertito: lo Spirito Santo, che è dato all’anima e che dà se stesso, è il primo ad entrare in contatto con lei; priorità di ragione e non di tempo, questo s’intende; ma priorità fondata su qualche cosa di reale, poiché la missione delle Persone non equivale all’appropriazione degli attributi. Sembra che non possano ammettere una diversa esegesi certi testi come il seguente: Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis. Qui si aprirebbe dinanzi a noi un campo immenso nel quale non potremmo tuttavia entrare senza oltrepassare i confini della teologia biblica.

4. Tutto quello che abbiamo detto finora, dimostra quanto intima l’unione del Figlio e dello Spirito Santo nell’opera della santificazione. Questa osservazione non è certamente nuova, e già l’aveva fatta, prima di noi, sant’Epifanio che dice: « Il Cristo è mandato dal Padre, e anche lo Spirito Santo è mandato; il Cristo parla nei santi, e anche lo Spirito Santo parla; il Cristo guarisce, e lo Spirito Santo guarisce; il Cristo santifica, e lo Spirito Santo santifica (Ancoratus, 68 – XLIII, 140) ». Segue poi una serie lunghissima di testi nei quali si afferma questa azione comune. Difatti la grazia, i carismi, la filiazione adottiva, le opere buone, la salvezza, la gloria eterna, insomma tutte le manifestazioni della vita divina, sono riferite ora al Cristo, ora allo Spirito Santo. Così « noi viviamo per mèzzo dello Spirito » e tuttavia « il Cristo è la nostra vita (Gal. V, 25 e Col. III, 4; Fil. I, 12) ». Lo Spirito Santo è il dispensatore di tutti i carismi, senza eccezione, e intanto questi carismi ci sono dati « secondo la misura del dono del Cristo (I Cor. XII, 11 ed Ephes. IV, 9) ». Da Gesù Cristo noi riceviamo la filiazione adottiva; tuttavia lo Spirito Santo è lo spirito di filiazione e « tutti quelli che sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio (Ephes. I, 5 e Rom. VIII, 15) ». I morti risusciteranno « per un uomo », Gesù Cristo; eppure Dio ci risusciterà « per causa dello Spirito » o « per mezzo dello Spirito che abita » in noi (I Cor. XV, 21 e Rom. VIII, 11). Aggiungiamo ancora un fatto accennato molte volte, cioè l’equivalenza delle due formole nel Cristo e nello Spirito. Questa equivalenza, bisogna dirlo, non va tanto lontano quanto ordinariamente si suppone, ma tuttavia è pur sempre suggestiva, come si può vedere da qualche esempio: Giustificato nello Spirito = giustificato nel Signore (I Cor. VI, 11 e Gal. II, 17). Santificato nello Spirito Santo = santificato nel Cristo Gesù (I Cor. VI, 11 e I, 2). Tempio santo nello Spirito = tempio santo nel Signore (Ephes. II, 22 e II, 21). Essere segnati nello Spirito = essere segnati nel Cristo (Ephes. I, 13 e IV, 30). Gioia nello Spirito Santo = gioia nel Signore (Rom. XIV, 17 e Fil. IV, 4). Pace nello Spirito Santo = pace nel Signore (Rom. XIV, 17 e V, 1). Per spiegare questo fenomeno, bisognerà dire che il Cristo e lo Spirito Santo sono identici nel pensiero di Paolo, oppure che lo Spirito è soltanto il modo di operazione del Cristo, oppure che il Cristo, dopo la sua risurrezione, si è totalmente trasformato nello Spirito? Vi è una spiegazione assai più semplice, più naturale e che ha inoltre il vantaggio di evitare l’assurdo. Notiamo anzitutto che l’equivalenza di cui parliamo è limitatissima: il Cristo preesistente non è mai identificato con lo Spirito; il Cristo storico non è mai identificato con lo Spirito; il Cristo Salvatore, nell’opera della redenzione, non è mai identificato con lo Spirito. I punti di contatto tra il Cristo e lo Spirito riguardano unicamente il Cristo glorificato, non però nella sua vita fisica, personale, alla destra del Padre, ma nella sua vita mistica, nel seno della Chiesa. In altri termini, lo Spirito Santo e il Cristo glorificato, che altrove si presentano sempre come due persone distinte, sembrano confondersi nel loro compito di santificatore delle anime (Col. I, 19): qui la loro sfera d’influenza è la medesima e il loro campo di azione è unico; infatti il Cristo è il capo oppure, sotto una figura un po’ diversa, l’organismo del corpo mistico del quale lo Spirito Santo è l’anima; ora nel linguaggio ordinario, specialmente in quello di san Paolo, quasi tutti i fenomeni vitali si possono indifferentemente riferire all’anima o alla testa. Ma l’identità di operazione del Cristo e dello Spirito nella vita dei giusti ha una ragione di essere ben più profonda. Il Cristo, come uomo, possedeva la pienezza dello Spirito (I Cor. XV, 45) e doveva riversarla su noi non appena compiuta la sua opera redentrice. Allora, nel momento della risurrezione, Egli diventa veramente per sé e per noi « spirito vivificante (Gal. IV, 5; Ephes. I, 5) »: per sé, perché la grazia di cui è pieno si riversa sul suo corpo e lo rende spirituale; per noi, perché ci comunica con abbondanza tutti i doni dello Spirito Santo e lo Spirito Santo medesimo. Da quel momento, sotto l’aspetto soprannaturale, noi viviamo per mezzo del Figlio e viviamo per mezzo dello Spirito; o, più esattamente, noi viviamo dello Spirito mandato dal Figlio: identità di operazioni senza confusione di Persone. Prendiamo per esempio la filiazione adottiva. Essa ci viene dal Figlio il quale ci ha adottati e fatti accettare come suoi fratelli; Dio ad essa ci «predestina per mezzo di Gesù Cristo » e ce la conferisce con la fede e col Battesimo, ossia con l’atto e col rito che ci mettono « in comunione col Figlio di Dio (I Cor. I, 9) ». Lo Spirito Santo pure è chiamato « Spirito di filiazione », e tutti quelli che sono animati da Lui, « sono veramente figli di Dio (Rom. VIII, 14-18) ». Dio infatti ci adotta come figli con darci il suo Spirito, e il Cristo ci adotta come fratelli col mandarci il suo Spirito; « poiché se alcuno non ha lo Spirito del Cristo, egli non appartiene al Cristo (Gal. IV, 6-7) ». La prova « che voi siete figli, è che Dio ha mandato lo Spirito di suo Figlio nei vostri cuori dove egli grida: Abba, Padre! Dunque tu non sei più schiavo, ma figlio; e se sei figlio sei dunque anche erede di Dio (Gal. IV, 6-7) ». L o Spirito Santo è il testimonio, il messaggero) l’agente e il pegno della nostra filiazione. Dunque, ben lungi dall’essere una fonte di oscurità, la compenetrazione attiva del Figlio e dello Spirito Santo è per noi un vivo focolare di luce. Per essa noi comprendiamo meglio perché il Cristo doveva risuscitare per mandarci il suo Spirito e per diventare Egli stesso spirito vivificante. Essa rischiara anche la natura del corpo mistico che non è una finzione, una semplice metafora, una pura entità morale, ma un composto di ordine soprannaturale, che riceve l’influsso vitale ad un tempo dalla testa, centro dell’organismo, e dall’anima, principio della vita. E allora la dottrina tanto consolante della comunione dei santi non è più una teoria legata artificialmente alla teologia dell’Apostolo, ma un corollario, chiaro e facile, del suo insegnamento.

5. La comunione dei santi è il vincolo della vita solidale che unisce le membra del Cristo tra loro e col loro capo, sotto l’azione comune di un medesimo Spirito. Questa definizione ha il doppio merito di concordare con la terminologia paolina e di essere abbastanza flessibile da potersi piegare a tutte le ulteriori precisioni, senza pregiudicare il senso dell’articolo inserito tardivamente nel Simbolo. – L’Apostolo chiama « santi » tutti quelli che sono in comunione con Gesù Cristo o, come egli preferisce dire, tutti quelli « che sono nel Cristo ». Sia che ancora stiano lottando nello stadio, sia che già abbiano ricevuto la corona, per lui non vi è differenza, perché la carità « che non viene meno » li unisce ugualmente al Cristo Gesù; o vivi o morti, essi sono sempre « con Lui, in Lui »; essi fanno parte del suo regno, del suo corpo mistico. È cosa degna di nota, che san Paolo adopera costantemente questa parola « santi » come un semplice sinonimo di Cristiani e l’applica senza distinzione a tutti i fedeli, anche dove vi sono gravi abusi da togliere. Sarebbe forse perché egli li suppone tutti individualmente degni di questo titolo, lasciando a colui che scruta le reni e i cuori, la cura di farne la scelta? Oppure prenderebbe forse questo titolo nel senso teocratico e sociale che aveva nell’antica alleanza, e basterebbe forse, per avervi diritto, l’appartenere alla Chiesa la cui santità si riverserebbe allora su ciascuno dei fedeli? Quello che favorisce questa seconda ipotesi è il fatto che Paolo riconosce soltanto due maniere di uscire dal corpo mistico: l’infedeltà e la scomunica. Con l’infedeltà, il battezzato si separa dal capo da cui deriva ogni influsso vitale; con la scomunica, ne viene staccato ufficialmente. Chiunque una volta entrato nell’unità del corpo mistico, non se n’è interamente staccato o non ne è stato solennemente escluso, appartiene dunque alla sfera in cui si svolge la comunione dei santi. Una certa comunanza di beni e di mali è essenziale ad ogni società. Tutti i membri di un corpo morale si prestano un aiuto reciproco; i più umili hanno bisogno dei più nobili, i più nobili hanno bisogno dei più umili, di modo che il benessere o il malessere degli uni è in qualche misura diviso dagli altri, e l’onore o il disonore degli uni ricade moralmente su tutti. Questo è anche più vero nella società cristiana la cui unione più intima ha come emblema il corpo umano. Ogni Cristiano lavora per lo sviluppo del corpo del Cristo. La persona stessa di Gesù Cristo possiede una pienezza alla quale è impossibile aggiungere qualche cosa; ma il Cristo mistico è suscettibile di accrescimenti indefiniti che va ricevendo dal crescere individuale dei suoi membri. Così la Chiesa s’innalza per gradi « in un tempio santo nel Signore », ed il corpo del Cristo acquista a poco a poco la sua statura intera, e diventa « un uomo perfetto », in grazia del continuo progresso del suo organismo. Non vi è parte che guadagni qualche cosa senza che ne abbia vantaggio il tutto; ma anche il tutto non guadagna nulla senza che ne abbiano vantaggio le parti. Così si forma come un circuito vitale che porta al centro tutto il prodotto dell’energia, per diffonderlo poi in tutte le direzioni: così il mare assorbe in sé i fiumi dei quali alimenta le sorgenti. Ma in vantaggio del corpo mistico vi è questa differenza, che esso conserva tutto ciò che ha ricevuto e lo restituisce senza perderne nulla. La comunione dei santi ha lo scopo di arricchire il tesoro della Chiesa e di farne poi la distribuzione a questo o a quel membro. Il primo risultato si ottiene con ogni atto meritorio; il secondo, principalmente con la preghiera. « Ora, dice l’Apostolo, io mi rallegro dei miei patimenti (sostenuti) per voi e compio nella mia carne quello che manca alle tribolazioni del Cristo per il suo corpo, che è la Chiesa (Col. I, 24) ». Secondo i suoi pregiudizi dommatici, il lettore corre pericolo di vedere in questo testo troppe o troppo poche cose; ma vi sono almeno tre fatti certi: anzitutto le tribolazioni del Cristo non sono patimenti paragonabili a quelli di Gesù, ma piuttosto i dolori e i tormenti sopportati dal Cristo durante la sua vita mortale. Queste tribolazioni, nonostante il loro valore infinito, presentano, sotto qualche aspetto, una specie di deficienza; la parola adoperata dall’Apostolo (ὑστέρημα = usterema) non può avere altro significato. — Appartiene agli uomini il colmare questa mancanza e il compiere così l’opera del Cristo; ed è appunto ciò che Paolo è orgoglioso e lieto di fare completando (ἀνταναληρῶ = antanaplero) quello che manca alle tribolazioni del suo Maestro. A questo punto l’esegeta deve procedere molto cauto. Quali sono le tribolazioni del Cristo che si tratta di compiere per il bene della Chiesa? Sono i patimenti del Getsemani e del Calvario, per se stessi più che sufficienti per la salvezza dell’umanità, ma dei quali bisogna ancora assicurare l’applicazione alle anime individuali? Oppure sono le persecuzioni subite per fondare il regno di Dio, persecuzioni di cui tutti gli Apostoli e, dopo di loro, tutti i predicatori del Vangelo devono avere la loro parte? Nella prima ipotesi il dogma della comunione dei santi viene insegnato direttamente; nella seconda, noi apprendiamo almeno che Gesù Cristo ha fondato la salvezza del genere umano sul principio della solidarietà, e che i suoi continuatori devono dividere i suoi travagli per effettuare i suoi disegni di misericordia. – Chi dice solidarietà, dice reversibilità di meriti e di demeriti: era questa un’idea comune nei contemporanei di san Paolo. L’Apostolo, senza fermarsi a giustificarla, la suppone quando afferma che la Chiesa di Corinto espia, con malattie e lutti, l’irriverenza di alcuni nella celebrazione dell’eucaristia; quando dice che il marito cristiano santifica la moglie infedele e che la moglie fedele santifica il marito pagano; che l’elemosina colma in qualche maniera la disuguaglianza tra i discepoli, dando i ricchi il superfluo dei loro beni temporali ai poveri, e restituendoli i poveri  ai ricchi, in beni di ordine superiore (I Cor. XI, 30-32; VII, 14; II Cor. VIII, 13-15). Egli ha tanta fiducia in questo scambio di grazie spirituali, che non cessa di implorare le preghiere dai suoi corrispondenti, di offrire loro in cambio l’aiuto delle sue e di raccomandare loro di pregare gli uni per gli altri: « Fate in ogni tempo, per mezzo dello Spirito, preghiere e suppliche … pregate per tutti i santi ed anche per me, affinché Dio mi conceda di parlare coraggiosamente e di predicare con libertà il mistero del Vangelo (Ephes. VI, 18-19) ». A quelle preghiere egli attribuisce la sua liberazione, la protezione di cui Dio lo circonda ed i buoni risultati della sua predicazione; poiché quando la supplica arriva a tale grado d’intensità da potersi chiamare lotta, combattimento (Rom. XV, 30), è onnipotente presso Dio. – La preghiera dei giusti non è soltanto utile ai vivi, ma giova anche ai morti. Un cristiano di Efeso, Onesiforo, era morto dopo di aver prodigato a Paolo gli attestati più commoventi di affetto e di devozione. Per pagare il suo debito di riconoscenza, l’Apostolo non si contenta di raccomandare a Timoteo la famiglia di Onesiforo, ma egli stesso raccomanda a Dio l’anima del defunto: « Il Signore gli conceda di trovare misericordia presso il Signore in quel giorno (II Tim. I, 18) ». – Parecchi commentatori’ protestanti notano il fatto con manifesto malumore e ne fanno le meraviglie: ma che cosa vi è di più naturale, se la Chiesa è una e se abbraccia tanto i morti quanto i vivi?

6. Qualunque sia l’aspetto sotto il quale si consideri la vita della Chiesa, bisogna fatalmente giungere alla formula In Christo Jesu, la quale è davvero « uno dei pilastri della teologia di san Paolo » (Sanday). Benché non sia esclusivamente sua, poiché san Giovanni ne fa un uso limitato, essa ha in lui una pienezza di significato ed una varietà di applicazioni veramente caratteristiche. Nella sua prima Epistola, san Giovanni afferma a più riprese, che la carità stabilisce tra Dio e noi una relazione di compenetrazione reciproca: « Dio è carità, e chiunque persevera nella carità dimora in Dio, e Dio dimora in lui (I Giov. IV, 16) ». Il nostro atto di carità, per quanto sia finito, non solamente ha Dio come oggetto immediato, ma è veramente una presa di possesso di Dio, l’amore increato. La carità, finché esiste in noi, ci unisce dunque a Lui con un vincolo indissolubile. E ciò, che è vero del Padre, è vero anche del Figlio, poiché essi sono una medesima sostanza: Ego et Pater unum sumus. E vero che nell’Epistola può talora nascere il dubbio se san Giovanni voglia parlare del Padre o del Figlio; ma nel Vangelo il suo linguaggio è ben diverso. Gesù dice ai suoi discepoli: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui (Gio. VI, 56) ». Non già in virtù dell’unione reale della carne del Cristo con la nostra, Gesù Cristo rimane in noi, ma Egli rimane in noi come alimento spirituale dell’anima nostra, anche dopo la corruzione delle specie sacramentali; e noi rimaniamo in Lui perché questo alimento celeste ha la proprietà meravigliosa di trasformarci in Lui, contrariamente a ciò che avviene per ogni altro nutrimento. Alquanto diverso è il caso nell’allegoria della vite: « Rimanete in me ed io in voi… Colui che rimane in me enel quale io rimango porta molto frutto (Giov. XV, 4-5) ». Noi rimaniamo in lui per mezzo di una fede viva, come il ramo sta attaccato al tronco con le fibre e con la scorza; ed egli rimane in noi per mezzo della carità che ci mette in contatto vitale con Lui e per mezzo della quale Egli ci comunica il succo divino. Nel passare da san Giovanni a san Paolo, abbiamo l’impressione che l’orizzonte non è più il medesimo. Anzitutto rileviamo due differenze capitali nell’uso della formola. Diversamente da san Giovanni, san Paolo non dice mai in Gesù o in Gesù Cristo, ma dice sempre nel Cristo o nel Cristo Gesù: prova evidente che egli non considera la persona individuale di Gesù, ma la sua funzione di Messia, la sua qualità di secondo Adamo, insomma il suo carattere rappresentativo. In secondo luogo, mentre san Giovanni stabilisce la reciprocità tra Gesù e noi, san Paolo non lo fa, o almeno non parla di Gesù Cristo in noi se non in rarissimi casi il cui senso preciso è ancora da discutere (Rom. VIII, 10). La formula In Christo Jesu si connette evidentemente alla dottrina del corpo mistico: questo è un punto incontestato. Vediamo dunque in che modo san Paolo descrive l’incorporazione del cristiano al Cristo: “Voi siete tutti figli di Dio per la fede, nel Cristo Gesù; poiché voi tutti che siete stati battezzati nel Cristo avete rivestito il Cristo: non più Ebrei né Gentili, non più schiavi né liberi;… perché voi tutti siete uno nel Cristo Gesù. Non sapete che tutti noi che siamo stati battezzati nel Cristo Gesù siamo stati battezzati nella sua morte! Infatti noi siamo stati sepolti con lui per mezzo del Battesimo (che è) nella sua morte, affinché come il Cristo è resuscitato da morte dalla gloria del Padre, anche noi camminiamo nella novità della vita. Se infatti noi siamo stati innestati su lui dalla somiglianza della sua morte tali pure saremo da quella della risurrezione” (Gal. III, 26-28 ). – Siccome il senso etimologico di battezzare è immergere nell’acqua, non si può quasi dubitare che, nel descrivere gli effetti del Battesimo, san Paolo pensi al rito esteriore dell’immersione e dell’emersione, simbolo efficace di morte e di vita nuova. L’effetto del Battesimo è di immergerci nel Cristo, d’innestarci sul Cristo, d’incorporarci al Cristo, d’identificarci parzialmente col Cristo. Quando si dice che il Cristiano è nel Cristo, come è l’uccello nell’aria o il pesce nell’acqua, questa espressione realistica rimane al disotto della verità; infatti noi non siamo nel Cristo come in un elemento estraneo, ma come in un tutto di cui noi stessi facciamo parte. A dire il vero, il miglior commento della formula In Christo Jesu è questo testo di san Paolo: “La morte è per mezzo di un uomo e la risurrezione da morte sarà per mezzo di un uomo; poiché come tutti muoiono in Adamo, così tutti saranno vivificati nel Cristo(I Cor. XV, 21-22) ». Adamo e il Cristo rappresentano qui tutta quanta l’umanità, e si può dire con sant’Agostino, a patto di non fraintenderlo: In Adam Christus et Christus in Adam(in Ps. CI, sermo I, n. 4). Tutti gli uomini sono in Adamo e tutti sono nel Cristo, benché in modo assai diverso: « Tutti muoiono in Adamo, dice san Cirillo di Alessandria, perché per causa della sua trasgressione la natura fu condannata in lui; così tutti saranno giustificati nel Cristo perché, in grazia del suo atto redentore, la natura è di nuovo benedetta in Lui (Fragm. In I Cor, XV, 22) ». – Si parla poco esattamente quando si dice che « il Cristo della formula In Christo Jesu è sempre il Cristo glorificato come πνεῦμα (= pneuma), e non il Cristo storico » (Sanday). Non è precisamente il Cristo glorificato, ma il Cristo Salvatore, il nuovo Adamo, quello cui allude la formula; ed è questo Cristo Salvatore dal momento in cui inaugura la sua missione redentrice, cioè dalla sua passione. Da quel momento noi soffriamo e moriamo con Lui, noi risuscitiamo e regniamo con Lui; noi partecipiamo della sua forma, della sua vita e della sua gloria. Così pure da quel momento noi siamo chiamati, giustificati, eletti, predestinati in Lui; in Lui otteniamo tutte le benedizioni celesti; la grazia, la filiazione adottiva, la santificazione, la vita eterna. Tale è il valore normale della formola In Christo Jesu, ma essa può subire notevoli aumenti o diminuzioni di significato. Quando l’Apostolo vuole esprimere l’unione ineffabile dei cristiani tra loro e col Cristo nell’identità del corpo mistico, la formola raggiunge il suo massimo valore; quando invece si limita a indicare il principio della solidarietà cristiana, il significato si attenua: allora essere nel Cristo vuol dire muoversi nella sfera del Vangelo o vivere secondo lo spirito del Cristianesimo.

CONOSCERE SAN PAOLO (45)

LIBRO V

I canali della redenzione.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

CAPO III.

La Chiesa.

I. LA CONCEZIONE PAOLINA DELLA CHIESA.

1 . I NOMI DELLA CHIESA. — 2. LA CHIESA DI DIO. — 3. LE NOTE DELLA CHIESA.

1. Era il popolo eletto ora la vigna custodita e coltivata da Dio con una cura gelosa, come nella celebre allegoria di Isaia, alla quale si riferiscono i Sinottici (Is. V, 2-7), ora il ceppo di vite trapiantato in Canaan e suscettibile di una crescenza illimitata: la sua ombra copriva lo montagne, i suoi tralci somigliavano ai cedri di Dio; essa spingeva i suoi rampolli fino al mare e le sue propaggini fino al gran fiume (Sal. LXXIX). San Giovanni dà una forma diversa a questo simbolo tanto caro ai Profeti (Os. X, 1; Ger. II, 21; Is. XVII, 3-6; Cant. I, 6, etc.); san Paolo gli sostituisce quello dell’olivo (Rom. XI, 16-24). Paolo difatti si figura il Battesimo come un innesto che unendoci al Cristo ci fa aspirare la linfa divina; era dunque naturale che egli concepisse la Chiesa sotto l’immagine di un olivo il quale ha le radici nelle profondità dell’economia antica e cresce all’infinito con l’aggiunta di nuovi rami. L’allegoria è trasparente: la « radice santa e il tronco benedetto » sono i patriarchi; l’olivo è la Chiesa che esce dalla Sinagoga con una specie di processo vitale; i rami sono i membri della Chiesa, gli uni (i Cristiani di razza ebrea) venuti naturalmente sul buon olivo, gli altri (i Cristiani del gentilesimo) presi dall’olivo selvatico. L’incredulità è quella che distacca i primi; la fede è quella che innesta i secondi; ma i rami staccati conservano sempre la possibilità di venire nuovamente reintegrati, e i rami innestati devono sempre temere di essere alla loro volta rigettati. Israele era anche la casa, il regno, il popolo di Jehovah; Jehovah era suo padre, suo re, suo Dio. La Chiesa, erede della Sinagoga, sarà pure tutto questo in modo eminente. Il punto di partenza della metafora « casa di Jehovah » pare che sia l’idea di famiglia, più che quella di edificio, benché il senso di edificio appaia chiaramente in alcuni passi (Num. XII, 7; Os. VIII, 1; Ger. XII, 7; cfr. Ebr. III, 6). L’Apostolo non applica molto alla Chiesa militante la nozione della teocrazia ebraica, poiché il « regno di Dio » ha per lo più, nei suoi scritti, un valore escatologico. Egli non le dà neppure il nome di popolo di Dio se non nelle reminiscenze dell’Antico Testamento (II Cor. VI, 16). Il grande onore della nazione santa era quello di essere la figlia e la sposa di Jebovah. Ma col passare nella nuova economia, il titolo di figlio cambia natura, da collettivo diventa individuale: così non è più la Chiesa che è figlia di Dio, ma sono i figli della Chiesa che posseggono personalmente la filiazione adottiva (Rom. VIII, 14). Anche il nome di sposa avrebbe dovuto seguire una simile evoluzione; ma questo simbolo del matrimonio, che ha una parte tanto considerevole nei Profeti (v. Osea), non ha quasi più luogo nel Nuovo Testamento. Lo ricordano san Giovanni e san Paolo: il primo nel descrivere le nozze dell’Agnello (Apoc. XXI, 6-9; XXII, 17), il secondo quando chiama il matrimonio un gran mistero « per rapporto al Cristo e alla sua Chiesa (Ephes. V, 32) », e quando attribuisce a se stesso le funzioni e i sentimenti del paraninfo incaricato di condurre al Cristo la sposa con cui questi è fidanzato (II Cor XI, 2). Ma il Dio geloso dei profeti non è passato agli evangelisti: così l’allegoria del matrimonio non seguì il suo sviluppo normale che avrebbe fatto dell’anima individuale la sposa del Cristo. Vi sono tuttavia, in san Paolo e nel Vangelo, allusioni sufficienti per giustificare il linguaggio degli scrittori mistici (Matth. XXV, 1-10; IX, 15, etc.). Ci voleva il mistero dell’incarnazione — un Dio fatto uomo ed un uomo fatto Dio, due nature infinitamente distinte e congiunte senza confusione nell’unità di una stessa persona — per lasciar sospettare una unione ancora più intima che quella degli sposi. Gli animi vi erano preparati dalla forma che aveva preso, nella bocca del Salvatore, l’allegoria della Vite. Nel promettere l’eucaristia e dopo di averla istituita, Gesù aveva parlato della sua unione con i comunicanti in termini che implicavano un’identità di operazioni, di funzioni e di vita. Le sue parole ponevano la base della dottrina del corpo mistico, che san Paolo riprese, elaborò, considerò sotto ogni aspetto, per farne il punto culminante della sua morale e il centro del suo insegnamento. – Il corpo del Cristo e la Chiesa sono oramai i nomi più caratteristici della sposa di Gesù Cristo: il primo le appartiene come suo proprio, il secondo lo eredita parzialmente dalla Sinagoga.

2. Nell’Antico Testamento, due parole quasi sinonime (qahal e edah) indicavano l’assemblea religiosa del popolo eletto, sotto la presidenza invisibile di Jehovah rappresentato dai suoi mandatari. I Settanta e i traduttori più recenti — Aquila, Simmaco e Teodozione — ordinariamente traducono il primo termine con ἐκκλησία (= ekklesia) il secondo con συναγωγη (= sunagoghe). Ma, nell’epoca evangelica, συναγωγη (= sunagoghe) significava l’edificio in cui gli Ebrei si riunivano nei giorni di sabato, e pare che generalmente indicasse le stesse riunioni. Per la comunità cristiana era una ragione imperiosa d’impadronirsi dell’altro termine: per distinguersi dalla Sinagoga essa si chiamò dunque Chiesa. – Il credere che questa parola sia stata presa dalle turbolente riunioni delle democrazie greche, è un sacrificare inutilmente e per partito preso tutte le verosimiglianze e tutti i dati positivi della storia. In quanto poi alla sua origine storica, questo nome doveva indicare la Chiesa universale prima di applicarsi alle chiese particolari; ed è questo appunto che noi possiamo constatare. Gesù Cristo si propone di fondare su Pietro la sua Chiesa, necessariamente unica; san Luca non conosce che una Chiesa, nonostante la diversità dei luoghi e delle nazioni; san Paolo stesso si ricorda di aver perseguitato la Chiesa di Dio, e quando identifica questa Chiesa col corpo del Cristo o le dà il Cristo come capo, egli evidentemente ne esclude la pluralità. Per indicare le Chiese locali, egli dirà, per esempio, « la Chiesa che è a Corinto », oppure, per derivazione, « la Chiesa dei Tessalonicesi »; eccetto che la Chiesa, al singolare, non sia determinata dal contesto. La Chiesa non è né l’aggregazione dei credenti né la somma delle comunità particolari, ma un ente morale cui è essenziale l’unità. « Non soltanto la parte è nel tutto, ma il tutto è nella parte (Harnak) ». Ecco perché san Paolo si rivolge alla « Chiesa di Dio che è a Corinto »;  infatti che essa ala a Corinto, a Efeso o altrove, è sempre la Chiesa di Dio, poiché la Chiesa è essenzialmente una. Ecco ancora perché l’Apostolo chiama una chiesa particolare il tempio dello Spirito Santo e la sposa del Cristo, perché la Chiesa particolare non è altro che un’estensione della Chiesa universale e si chiamerebbe abusivamente Chiesa se fosse separata dalla Chiesa unica.

3. Le metafore che servono a indicare la Chiesa ne indicano pure i caratteri o le cosiddette note. Come corpo mistico del Cristo, la Chiesa è una; come sua sposa è santa; come tempio di Dio ha per fondamento gli apostoli; come regno dei cieli è cattolica o universale. Ma san Paolo non ha la pretesa di essere costante nelle sue metafore e passa continuamente dall’una all’altra, di modo che questa miscela di immagini disparate produrrebbe una certa confusione per chi volesse interpretarle col rigore di purista. Percorriamo rapidamente questi quattro caratteri di unità, di cattolicità, di apostolicità, di santità, senza uscire dall’Epistola agli Efesini dove questi caratteri sono più evidenti (Méritan). – La nostra incorporazione comune al Cristo è il gran principio dell’unità. Ad una sola testa, un solo corpo, altrimenti si avrebbe un mostro. Come vi è un solo Cristo naturale, così è impossibile avere più di un Cristo mistico. “Vigilate per conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace: un solo corpo, e un solo spirito, come foste chiamati a partecipare per vocazione ad una medesima speranza; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio e Padre di tutti gli uomini, il quale è sopra tatti, agisce per mezzo di tutti, risiede in tutti” (Ephes. IV, 3-6). – Sette elementi — tre intrinseci, tre esteriori, uno trascendentale — entrano nella costituzione della Chiesa e ne stringono l’unità. La Chiesa è una nel suo principio materiale, poiché è un solo corpo; una nel suo principio formale, perché è animata da un medesimo Spirito; una nella sua tendenza e nella sua causa finale che è la gloria di Dio e del suo Cristo, per mezzo della felicità degli eletti. Essa è ancora una per l’autorità che la governa; una per la fede comune che le serve di regola e di norma esteriore; una per la sua causa efficiente, il rito battesimale, che le dà l’essere e l’accrescimento. San Paolo riassume con una frase questi sei principi di unione: « Tutti voi siete uno nel Cristo Gesù (Ga. III, 28) ». Bimane il settimo principio: « il Dio e Padre di tutti gli uomini ». A primo aspetto non si vede quale relazione vi possa essere tra l’unità di Dio e l’unità della Chiesa; ma l’Apostolo determina altrove con precisione il suo pensiero. Egli c’insegna che tutta l’umanità è oramai destinata a formare una medesima famiglia nella casa di un Padre comune, una medesima teocrazia sotto lo scettro di uno stesso re (Ephes. II, 14-22). Sotto questo aspetto, l’unità della Chiesa si confonde con l’unicità e con la cattolicità. La parola cattolico, abbastanza comune nell’uso profano da Aristotele in poi, non si trova nella Bibbia; ma dopo sant’Ignazio di Antiochia, serve ad esprimere un’idea biblica quanto mai, l’universalità della Chiesa. Questa universalità è annunziata dai profeti, e gli Apostoli hanno la missione di effettuarla col predicare il Vangelo fino ai confini del mondo. L’esclusivismo degli Ebrei è finito; la teocrazia antica, ha fatto il suo tempo; il regime del privilegio deve terminare: « Forse che Dio è il Dio dei soli Ebrei? Non è anche Dio dei Gentili? (Rom. III, 29) « Questi Gentili disprezzati, estranei alle alleanze, estranei alle promesse, senza Cristo, senza Dio, senza speranza, sono fusi in un solo corpo di nazione col popolo eletto. Non più stranieri né ospiti; tutti i membri della Chiesa, senza distinzione di origine, sono oramai « concittadini dei santi e della famiglia di Dio (Ephes. II, 19) ». – Il mondo intero non deve più formare che un solo regno, una sola città, una sola casa, di cui Dio, col Cristo suo rappresentante, sarà il solo re, il solo capo, il solo padre. Siccome è stabilito che Dio estende a tutti gli uomini i suoi disegni di redenzione e non li vuole salvare in altro modo che incorporandoli al Cristo, ne segue necessariamente che la Chiesa è una nella sua essenza e universale nella sua destinazione. La Chiesa è una e universale perché è la sposa del Cristo, che abbraccia in potenza tutto il genere umano; perché è il corpo del Cristo nel quale devono rinascere tutti quelli che erano morti nel primo Adamo; perché essa è il Regno di Dio, il vero Israele che succede all’antica teocrazia di cui spezza il particolarismo. Se Paolo si fermasse a questo, il suo insegnamento non avrebbe nulla di notevolmente caratteristico; ma la sua originalità sta in questo, che egli fa derivare questi due attributi dalla stessa sua nozione di Chiesa. La Chiesa, quale è da lui concepita, è essenzialmente una e universale, ossia cattolica, perché essa elimina tutto ciò che si oppone all’unità e all’universalità, sopprimendo, sotto l’aspetto religioso, tutte le differenze nazionali, sociali e individuali, con tutte le disuguaglianze di diritti e di privilegi, e infondendo così a tutti i suoi membri una corrente comune di vita e di azione, di una inesauribile energia: « Tutti voi siete figli di Dio per la fede, nel Cristo Gesù. Poiché voi tutti che foste battezzati nel Cristo avete rivestito il Cristo. Non vi è più né Ebreo né Greco, non più schiavo o libero, non più uomo né donna; perché voi siete tutti uno nel Cristo Gesù (Gal. III, 26-28). — Non vi è più né Greco né Ebreo, non più circonciso e incirconciso, né barbaro né Scita, né schiavo, né libero; ma il Cristo tiene il posto di tutto e (questo) in tutti (Col. III, 11) ». Le differenze di razza, di educazione, di grado sociale, perfino di sesso, sono scomparse. La qualità di figlio di Dio ha scancellato tutte queste distinzioni. Nessuno dunque è più escluso dall’economia nuova, poiché vi sono ammessi gli Sciti, i più barbari tra i barbari. – Non bastava portare il messaggio della salvezza fino ai confini del mondo (Rom. X, 13) e predicare il Vangelo ad ogni creatura che è sotto il cielo (Col. I, 23): bisognava allontanare gli ostacoli che impedivano la fusione perfetta di questi elementi eterogenei. Il più formidabile di tali ostacoli era il particolarismo degli Ebrei. La teocrazia ebraica, nazionale per sua natura ed espressamente chiusa a certe nazioni straniere, non aspirava affatto ad essere la religione del mondo intero; infatti, cessando di essere nazionale, essa perdeva il suo carattere di istituzione privilegiata. Poteva bensì crescere con l’aggiunta di nuovi adepti, ma l’inferiorità umiliante in cui essa li teneva, e le gradazioni diverse che lasciava tra loro, senza parlare delle esclusioni che essa non imponeva, dimostravano chiaramente che essa non mirava punto a fare del genere umano una sola famiglia religiosa. La barriera della Legge, che nel tempo passato aveva protetto la fede monoteistica del popolo eletto, la teneva oramai in un funesto isolamento. Gesù Cristo, per assicurare alla sua Chiesa l’unità e l’universalità, doveva prima di tutto rovesciare il muro di separazione. Egli dunque inchioda sopra la croce la carta antica che si opponeva alla fusione dei popoli (Col. II, 14); spalanca le porte della nuova economia alle nazioni che fino allora ne erano tenute lontano; così tutti gli uomini diventano, per uno stesso titolo, concittadini di un medesimo regno e membri di una stessa famiglia; tutti finalmente, riconciliati tra loro e con Dio, sono uniti nel Cristo, in un solo corpo mistico (Ephes. II, 14-19; Col. I, 20-22). – Una e cattolica per essenza, la Chiesa dev’essere ancora apostolica. Paolo scrive agli Efesini: « Voi siete stati edificati sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, essendo Gesù Cristo stesso la pietra angolare (Ephes. II, 20) ». Il grammatico potrebbe intendere questo fondamento in quattro diverse maniere: il fondamento sul quale sono edificati gli Apostoli; il fondamento sul quale edificano gli Apostoli; il fondamento che fu edificato dagli Apostoli; il fondamento che si identifica con gli Apostoli. Però l’esegeta non rimane dubbioso: sono gli stessi Apostoli ed i Profeti il fondamento della Chiesa. In questo edificio di cui il Cristo è la pietra angolare, ed i fedeli sono le pietre viventi, bisogna che il fondamento sia della stessa natura e che simboleggi delle persone. I Profeti qui nominati sono quelli del Nuovo Testamento o quelli dell’Antico? Forse sono quelli del Nuovo Testamento, perché nel testo greco lo stesso articolo che comprende le due parole sembra che le metta nella stessa categoria, e poi perché Profeti e Apostoli del Nuovo Testamento sono generalmente raggruppati insieme senza possibilità di equivoco. Tuttavia l’altra ipotesi ci piacerebbe di più. Che i profeti del Nuovo Testamento siano i fondamenti della Chiesa, è un’idea poco naturale della quale non si trova nessuna traccia altrove: il carisma profetico del Nuovo Testamento edifica, ma non fonda. Noi sappiamo invece quanto san Paolo sia geloso nello stabilire la nuova economia sopra le basi dell’antica, e nel presentarci gli Apostoli come gli eredi dei Profeti. – La santità della Chiesa è proclamata con tanta frequenza, che resta superfluo il citare testimonianze a questo riguardo. Basta ricordare che i Cristiani, per il Battesimo ricevuto e come membri del corpo mistico, sono i santi per antonomasia, che la Chiesa è la sposa del Cristo la cui santità si riversa su lei, che Gesù ha dato il suo sangue per purificarla e santificarla, affinché sia « senza macchia, santa e immacolata ».