UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI (… CON CAZZUOLA E GREMBIULINO) DI TORNO: S. S. PIO IX- “ETSI MULTA”

Il Santo Padre Pio IX, nel biasimare e condannare le leggi inique emanate in Svizzera, Austria ed in Prussia, non teme di attribuire questa nuova persecuzione a quella che egli definisce, con termine apocalittico, la “sinagoga di satana”, cioè la massoneria e le sette di qualsivoglia denominazione, a questa collegata dai medesimi principi e fini. Comincia con il descrivere le angherie e le ingiustizie perpetrate ai danni della Gerarchia canonicamente costituita, ai religiosi tutti ed agli interessi spirituali e materia dei fedeli cattolici, scomunicando tra l’altro un falso vescovo imposto da empie autorità civili, compreso l’imperatore di Prussia (che la storia ha poi appurato essere un noto massone), senza giurisdizione e senza mandato pontificio. Oggi, di tali soggetti sacrileghi e contravventori di tutte le regole canoniche più elementari, ce ne sono tantissimi in giro, millantando cattedre ed uffici di cui sono semplicemente usurpanti, ci riferiamo naturalmente ai cosiddetti scismatici gallicani fallibilisti delle “fraternità paramassoniche” (termine eufemistico per indicare ben altro), ai tradizionalisti falsi sedevacantisti senza uno straccio di giurisdizione né missione canonica, oltre agli aderenti ai falsi vescovi di Roma del Novus ordo con giurisdizioni usurpate. Ma a questo panorama sconfortante, il Santo Padre reagisce ed esorta il piccolo gregge dei veri Cattolici superstiti ed imperterriti, confidando nell’aiuto divino, a reagire citando le nobilissime parole di Crisostomo: « Molti flutti, molte gravi tempeste incalzano; ma non temiamo d’essere sommersi, perché posiamo sulla pietra. Infierisca pure il mare; la pietra non potrà venirne disciolta. Insorgano pure le onde; la nave di Gesù non potrà venirne affondata. Nulla è più potente della Chiesa. La Chiesa è più forte dello stesso cielo. Passeranno il cielo e la terra; ma le parole di Cristo non passeranno. Quali parole? “Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei”. Se non credi alle parole, credi ai fatti. Quanti tiranni tentarono di opprimere la Chiesa? Quante caldaie, quante fornaci, e denti di fiere, e aguzze spade! Tuttavia non ottennero nulla. Dove sono quei nemici? Sono dispersi nel silenzio e nell’oblio. E dove è la Chiesa? Ella splende più del sole. Le imprese di quei tali si estinsero, le cose della Chiesa vivono immortali. Se quando i cristiani erano pochi, non furono vinti, come potrai vincerli, quando l’intero mondo è pieno della loro sacra Religione? Il Cielo e la terra passeranno; ma le mie parole non passeranno”. Pertanto, non spaventati da alcun pericolo e sgombri da ogni dubbio, perseveriamo nella preghiera e procuriamo di giungere a questo: che tutti ci sforziamo di placare l’ira celeste, provocata dai delitti degli uomini, in modo che alla fine sorga l’Onnipotente nella sua misericordia, comandi ai venti e porti la tranquillità. ». – Temano piuttosto i servi della sinagoga di satana … il seme del serpente ovunque essi siano, soprattutto se infiltrati nel luogo santo: « Inimicitias ponam inter te et mulierem, et semen tuum et semen illius: Ipsa conteret caput tuum, et tu insidiaberis calcaneo ejus. » Il seme della Vergine Immacolata, benché insidiato e combattuto ed odiato, avrà la definitiva vittoria sul seme del serpente, Dio lo ha promesso fin dalla più remota antichità, ed il suo Cristo lo ha solennemente confermato … et portæ inferi non prævalebunt. Riposate, i vostri sforzi non approderanno ad un bel niente, siete sconfitti già in partenza, rassegnatevi, PENTITEVI e scansate l’inferno che vi attende!

Pio IX
Etsi multa

Benché fin dagli stessi inizi del Nostro lungo Pontificato abbiamo dovuto subire sofferenze e lutti, di cui Noi abbiamo trattato nelle encicliche a Voi spesso inviate; tuttavia in questi ultimi anni la mole delle miserie è venuta crescendo in maniera tale che quasi ne saremmo schiacciati, se non Ci sostenesse la benignità divina. Anzi, le cose sono ora giunte a tal punto che la stessa morte sembra preferibile ad una vita sbattuta da tante tempeste, e spesso con gli occhi levati al cielo siamo costretti ad esclamare: “È meglio per Noi il morire, che vedere lo sterminio delle cose sante” (1Mac III,59). Certamente da quando questa Nostra nobile Città, per volere di Dio, fu presa con la forza delle armi, e assoggettata al governo di uomini che calpestano il diritto, e sono nemici della Religione, per i quali non esiste distinzione alcuna fra le cose divine ed umane, non è trascorso quasi giorno alcuno, che al nostro cuore, già piagato per le ripetute offese e violenze, non s’infliggesse una nuova ferita. Risuonano tuttora alle nostre orecchie i lamenti ed i gemiti degli uomini e delle vergini appartenenti a famiglie religiose che, cacciati dalle loro case e ridotti in povertà, vengono perseguitati e dispersi, come suole accadere dovunque domina quella fazione, la quale tende a sovvertire l’ordine sociale. Infatti come per testimonianza di Sant’Atanasio diceva il grande Antonio, il diavolo odia tutti i Cristiani, ma non può in alcun modo tollerare i buoni monaci e le vergini di Cristo. E anche questo abbiamo visto negli ultimi tempi (che non sospettavamo potesse mai accadere), cioè che venisse condannata e soppressa la Nostra Università Gregoriana; la quale (come un antico autore scriveva a proposito della scuola Romana Anglosassone) era istituita allo scopo che i giovani chierici, anche di lontane regioni, venissero ad istruirsi nella dottrina e nella Fede Cattolica, affinché nelle loro chiese non s’insegnasse nulla di distorto o contrario all’Unità Cattolica, e così tornassero alle loro contrade consolidati nelle certezze della Fede. Così, mentre con metodi malvagi Ci vengono sottratti a poco a poco tutti i presidi e gli strumenti, coi quali possiamo reggere e governare la Chiesa tutta, appare chiaro quanto sia lontano dal vero ciò che fu poco fa affermato, e cioè che, strappataci Roma, non sia diminuita la libertà del Romano Pontefice nell’esercizio del ministero spirituale e nella gestione di quelle cose che spettano al mondo cattolico. Contemporaneamente si fa ogni giorno più chiaro quanto fosse vero e giusto ciò che da Noi è stato tante volte dichiarato e ripetuto, e cioè che l’occupazione sacrilega del Nostro Stato mirava in primo luogo a spezzare la forza e l’efficacia del Primato Pontificio, ed a distruggere, se fosse possibile, la stessa Religione Cattolica. – Ma la Nostra principale intenzione non è di scrivere a Voi riguardo ai mali, da cui questa Nostra città e l’intera Italia sono travagliate, ché anzi Noi forse comprimeremmo in mesto silenzio queste Nostre afflizioni, se Ci fosse concesso dalla divina clemenza di poter lenire gli aspri dolori, dai quali in altre regioni tanti Venerabili Fratelli, preposti alle cose sacre, insieme al loro Clero e al loro popolo sono afflitti. – Voi certamente non ignorate, Venerabili Fratelli, come alcuni Cantoni della Confederazione Elvetica, sospinti non tanto dagli eterodossi (alcuni dei quali anzi hanno biasimato il fatto) quanto dagli operosi seguaci delle sette, (padroni oggi qua e là del potere), abbiano sovvertito ogni ordine e divelto gli stessi fondamenti della costituzione della Chiesa di Cristo, non solo contro ogni regola di giustizia e di ragione, ma anche contro i pubblici impegni. Infatti, in virtù di solenni trattati, difesi anche dal suffragio e dall’autorità delle leggi federali, doveva rimanere intera ed illesa la libertà religiosa per i Cattolici. Nella Nostra Allocuzione del 23 dicembre dello scorso anno Noi abbiamo deplorato la violenza fatta alla Religione dai governi di quei cantoni “sia con l’emanare decreti intorno ai dogmi della Fede Cattolica, sia favorendo gli apostati, sia impedendo l’esercizio dell’autorità episcopale“. Ma le Nostre giustissime lamentele, rivolte anche per Nostro comando al Consiglio Federale dal Nostro Incaricato d’affari, furono del tutto trascurate; né in maggior conto furono tenute le rimostranze, ripetutamente espresse dai Cattolici di ogni ordine e dall’Episcopato svizzero; anzi, alle offese inflitte prima se ne aggiunsero delle nuove e più gravi. – Infatti, dopo la violenta espulsione del Venerabile Fratello Gaspare, Vescovo di Hebron e Vicario Apostolico di Ginevra, – la quale quanto fu decorosa e gloriosa per chi l’ha subita, altrettanto fu ignobile e indegna per coloro che la imposero e la eseguirono – il governo di Ginevra, nei giorni 23 marzo e 27 agosto di questo anno, promulgò due leggi, pienamente conformi all’editto (proposto nel mese di ottobre dell’anno precedente) che era stato da Noi biasimato nell’Allocuzione che prima abbiamo ricordato. Il medesimo Ggverno, anzi, si è arrogato il diritto di rifare in quel Cantone la Costituzione della Chiesa Cattolica, e di redigerla in forma democratica, assoggettando il Vescovo all’autorità civile, sia per quanto si riferisce all’esercizio della sua giurisdizione e della sua amministrazione, sia per quanto riguarda la delegazione della sua potestà; vietandogli d’aver domicilio in quel Cantone; determinando il numero e i confini delle parrocchie; proponendo la forma e le condizioni dell’elezione dei Parroci e dei Vicari, i casi e il modo di revoca o di sospensione dei medesimi dal loro incarico; affidando ai laici il diritto di nominarli e l’amministrazione temporale del culto, e preponendo gli stessi laici quali ispettori alle funzioni della Chiesa in generale. È sancito inoltre da quelle leggi che senza il permesso del governo, anch’esso revocabile, i Parroci e i Vicari non possano esercitare alcuna funzione, non possano accettare alcun incarico superiore a quello che hanno assunto per elezione del popolo, e allo stesso modo siano costretti a prestare giuramento all’autorità civile, con parole che, a rigore di termini, contengono apostasia. Non c’è nessuno che non veda che queste leggi non solo sono irrite e non possiedono alcun vigore, per la totale mancanza di autorità dei legislatori laici, e per lo più eterodossi, i quali ancora, nelle cose che comandano, si oppongono talmente ai dogmi della Fede Cattolica e alla disciplina della Chiesa, sancita dal Concilio Ecumenico Tridentino e dalle Costituzioni pontificie, tanto che è assolutamente necessario che siano da Noi riprovate e condannate. – Noi pertanto, secondo i doveri del Nostro Ufficio, con la Nostra Autorità Apostolica, solennemente riproviamo e condanniamo tali leggi, dichiarando contemporaneamente che è illecito e totalmente sacrilego il giuramento da esse imposto. Pertanto, tutti coloro che, eletti nel territorio di Ginevra o altrove, secondo i decreti di queste leggi o in modo simile, per suffragio del popolo e conferma dell’autorità civile, osino esercitare le funzioni del ministero ecclesiastico, incorrono ipso facto nella scomunica maggiore, peculiarmente riservata a questa Santa Sede, e nelle altre pene canoniche; e che di conseguenza tutti costoro devono essere tenuti lontani dai fedeli, secondo l’ammonizione divina, come alieni e ladri che non vengono se non per rubare, uccidere, mandare in rovina (Gv X, 5.10). – Sono certamente tristi e funeste le cose che fin qui abbiamo ricordato, ma più funeste quelle che avvennero in cinque dei sette cantoni, di cui è composta la Diocesi di Basilea, cioè Soletta, Berna, Basilea Campagna, Argevia, Turgovia. Anche qui furono emanate leggi (riguardo alle parrocchie, all’elezione e alla revoca dei Parroci e dei Vicari) che sovvertono l’amministrazione della Chiesa e la sua divina Costituzione e sottomettono il ministero ecclesiastico al potere secolare e sono in tutto scismatiche. Queste leggi dunque, e particolarmente quella che fu promulgata dal governo di Soletta il giorno 23 dicembre dell’anno 1872, Noi biasimiamo e condanniamo, e decretiamo che esse debbano considerarsi per sempre riprovate e condannate. Pertanto il Venerabile Fratello Eugenio, Vescovo di Basilea, in un convegno (ossia conferenza, come dicono, diocesana) a cui erano convenuti i Delegati dei cinque Cantoni sopraddetti, ha respinto con giusta indignazione e costanza apostolica alcuni articoli che gli venivano proposti: la ragione del rifiuto era che essi offendevano l’autorità episcopale, sovvertivano il governo gerarchico, e favorivano apertamente l’eresia. Per questo motivo egli fu deposto dall’Episcopato, strappato dalle sue case, e cacciato violentemente in esilio. Allo stesso modo non fu tralasciato nessun genere di frode o di violenza, nei predetti cinque cantoni, per indurre il clero ed il popolo allo scisma; fu vietato al clero qualunque rapporto col Pastore in esilio e fu comandato al Capitolo della Cattedrale di Basilea di procedere all’elezione del Vicario Capitolare, o Amministratore, come se la Sede episcopale fosse realmente vacante; questo indegno eccesso fu rifiutato dal Capitolo, con apposita protesta. Intanto per decreto e sentenza dei Magistrati civili di Berna fu dapprima imposto a sessantanove Parroci del Giura di non esercitare le funzioni del proprio ministero; poi l’incarico fu tolto per questo solo motivo, che pubblicamente avevano testimoniato di riconoscere come legittimo e unico Vescovo e Pastore il Venerabile Fratello Eugenio, cioè di non voler turpemente rinnegare la verità cattolica. Così è avvenuto che tutto quel territorio, (che aveva sempre conservato la Fede Cattolica, e che da tempo era stato congiunto al cantone Bernese con la legge e con il patto che potesse esercitare liberamente e senza violazione alcuna la sua religione) venisse privato delle sue adunanze parrocchiali, delle solennità del Battesimo, delle nozze, e dei funerali; di questo invano si lamentava e reclamava la moltitudine dei fedeli, la quale con somma offesa era stata ridotta alla scelta estrema di dovere o ricevere i pastori scismatici ed eretici, imposti dal potere politico, o rimanere privata d’ogni aiuto e ministero sacerdotale. – Noi di cuore benediciamo Iddio, il quale con la medesima grazia con cui un tempo confortava e confermava i martiri, ora sostiene e rende forte quella eletta parte del Gregge Cattolico, la quale virilmente segue il suo Vescovo, che combatte come muro in difesa della casa d’Israele, affinché stia salda in battaglia nel giorno del Signore (Ez XVIII, 5), e senza conoscere la paura segue le orme del primo Martire, Gesù Cristo, mentre, opponendo la mansuetudine dell’agnello alla ferocia dei lupi, propugna in modo forte e costante la propria Fede. – Questa nobile fermezza dei fedeli Svizzeri è emulata con non minore gloria dal Clero e dal popolo fedele di Germania, il quale allo stesso modo segue gli illustri esempi dei suoi Vescovi. Questi certamente sono diventati oggetto di ammirazione per il mondo, per gli Angeli e per gli uomini, i quali da ogni parte guardano come costoro, rivestiti della corazza della verità cattolica e dell’elmo della salvezza, strenuamente combattono le battaglie del Signore, e tanto più ammirano la fortezza e la costanza incrollabile del loro animo e con alte lodi le esaltano, quanto più cresce di giorno in giorno l’aspra persecuzione, mossa contro di loro nell’Impero Germanico e soprattutto in Prussia. – Oltre alle molte e gravi offese inflitte alla Chiesa Cattolica nell’anno precedente, il Governo prussiano, con leggi durissime ed ingiuste e del tutto estranee alle consuetudini fin ad allora adottate, ha sottoposto l’intera istituzione ed educazione del Clero alla potestà laica in modo tale che a questa compete la facoltà di esaminare e determinare in quale modo i chierici debbono essere istruiti e preparati per la vita sacerdotale e pastorale; e andando ancora più oltre, attribuisce alla medesima potestà laica il diritto di conoscere e giudicare sul contributo relativo a qualunque ufficio e beneficio ecclesiastico, e di privare anche dell’ufficio e beneficio i suoi Pastori. Inoltre, affinché in modo più rapido e totale venissero sconvolti il governo e l’ordinamento gerarchico della Chiesa stabilito dallo stesso Cristo Signore, da tali leggi sono stati introdotti molti impedimenti ai Vescovi, affinché non possano opportunamente provvedere, mediante censure e pene canoniche, né alla salvezza delle anime, né alla integrità della dottrina nelle scuole cattoliche, né all’ossequio loro dovuto da parte dei chierici. Infatti, in nome di queste leggi non è lecito ai Vescovi fare tali cose, in nessun modo se non con il beneplacito dell’autorità civile e secondo la norma da lei prescritta. Infine, affinché nulla mancasse alla totale oppressione della Chiesa Cattolica, è stato istituito un regio tribunale per gli affari ecclesiastici, presso il quale i Vescovi e i sacri Pastori possono essere citati tanto dai cittadini privati che siano da loro dipendenti, quanto dai pubblici magistrati, in modo che siano sottoposti a giudizio come rei e siano impediti nell’esercizio del ministero spirituale. – Così la santissima Chiesa di Cristo, a cui era stata assicurata la necessaria e piena libertà religiosa, anche con solenni e ripetute promesse dei supremi Principi e con pubbliche convenzioni ufficiali, ora piange in quei luoghi, spogliata di ogni suo diritto, esposta a forze nemiche che la minacciano di morte; queste nuove leggi infatti sono tali che ella non può sopravvivere. Non c’è dunque da meravigliarsi che l’antica tranquillità religiosa in quell’Impero sia gravemente turbata da queste leggi e da altre decisioni ed atti del governo prussiano quanto mai ostili nei confronti della Chiesa. Ma sarebbe ingiusto gettare la colpa di questo sconvolgimento sui Cattolici dell’Impero germanico. Perché se si deve imputare loro come colpa il non adattarsi a quelle leggi, a cui, salva la coscienza, non possono adattarsi, per la stessa causa e allo stesso modo dovrebbero essere accusati gli Apostoli ed i Martiri di Gesù Cristo, i quali preferirono soggiacere ai più atroci supplizi e alla stessa morte, piuttosto che tradire il loro dovere e violare le leggi della loro santissima Religione, obbedendo agli empi comandi di Principi persecutori. Certamente, Venerabili Fratelli, se al di là delle leggi del mondo civile non ce ne fossero altre, e certamente di più alto valore, che è doveroso riconoscere ed illecito violare; se, inoltre, queste leggi civili costituissero la suprema norma della coscienza, così come in modo empio ed egualmente assurdo alcuni pretendono, sarebbero degni di rimprovero piuttosto che di onore e di lode i primi martiri e tutti quelli che poi li imitarono, per avere sparso il proprio sangue per la Fede di Cristo e per la libertà della Chiesa. Anzi, non sarebbe stato neppure lecito insegnare e professare la Religione Cristiana e fondare la Chiesa contro quanto era prescritto dalle leggi e dalla volontà dei Sovrani. Tuttavia la Fede ci insegna, e l’umana ragione ci dimostra, che esiste un doppio ordine di cose, e allo stesso modo si deve distinguere una duplice potestà sulla terra: l’una, di origine naturale, che provvede alla tranquillità dell’umana società e alle cose del mondo; l’altra, di origine soprannaturale, che presiede alla città di Dio, cioè alla Chiesa di Cristo, da Dio istituita per la pace e per l’eterna salvezza delle anime. Ora i compiti di queste due potestà sono stati ordinati con somma sapienza, in modo che si rendano a Dio le cose che sono di Dio, e per riguardo a Dio si rendano a Cesare le cose che sono di Cesare; “il quale perciò è grande qui, perché è minore in cielo; appartenendo egli a Colui, al quale appartengono il cielo ed ogni cosa creata“. E da questo divino comandamento certo la Chiesa non si è mai allontanata: sempre e dappertutto Ella si è adoperata per inculcare nell’animo dei suoi fedeli l’obbedienza che inviolabilmente essi debbono mantenere verso i supremi Principi e le loro leggi per quanto riguarda i doveri secolari, e secondo le parole dell’Apostolo insegnò che i Principi sono stati istituiti non per timore delle opere buone, ma di quelle cattive; essa comanda ai fedeli di essere loro sottoposti, non solo per timore della pena, in quanto il Principe è armato della spada per punire chi compie il male, ma anche per l’obbligo di coscienza, dato che il Principe nell’adempimento del suo ufficio è ministro di Dio (Rm XIII, 3ss.). Senonché la coscienza ridusse questo timore dei Principi nei confronti delle cattive azioni, fino a svincolarlo addirittura dall’osservanza della legge divina. Si ricorda di essa il beato Pietro, che insegnò ai fedeli: “Nessuno di voi si adatti a vivere come omicida, o ladro, o calunniatore, o desideroso dei beni altrui; ma se vive come Cristiano, non arrossisca, e glorifichi anzi Dio in questo nome” (1Pt IV, 14-15). – Stando così le cose, facilmente comprenderete, Venerabili Fratelli, di quanto dolore necessariamente Ci sentiamo trafiggere l’animo nel leggere nella lettera, da poco inviataci dallo stesso Imperatore germanico l’accusa, non meno atroce che impensabile, contro una parte, come egli dice, dei suoi sudditi Cattolici, e in particolare contro il Clero Cattolico ed i Vescovi della Germania. L’unica motivazione di quella accusa è che costoro, senza temere né le sofferenze né le carceri, e non preoccupandosi della loro vita più che di se stessi (At XX, 24), rifiutano di obbedire alle sopraddette leggi, con la medesima costanza con la quale, prima che esse fossero sancite, vi si erano opposti, denunziandone al Potere gli errori e spiegandoli, con gravi pesanti numerose e solidissime rimostranze, che con plauso di tutto il mondo cattolico e anche di non pochi eterodossi, hanno presentato al Principe, ai Ministri, e alla stessa suprema Assemblea del Regno. – Per questo essi sono ora accusati di tradimento, come se fossero in accordo e cospirassero con coloro che tentano di sconvolgere tutti gli ordinamenti della società umana, senza tenere in considerazione le numerose e autorevoli prove che evidentemente dimostrano la loro saldissima fedeltà e la loro obbedienza verso il Principe, e il loro caldo amore verso la patria. Ché, anzi, Noi stessi siamo pregati di esortare quei Cattolici e i sacri Pastori all’osservanza di quelle leggi, come se Noi stessi concorressimo con l’opera Nostra ad opprimere e a disperdere il gregge di Cristo. Ma, fiduciosi in Dio, Noi speriamo che il serenissimo Imperatore, conosciute e ponderate meglio le cose, respingerà un sospetto tanto inconsistente ed incredibile verso sudditi fedelissimi, né permetterà che il loro onore sia straziato più a lungo da una così turpe diffamazione e che una tanto immeritata persecuzione continui contro di loro. Del resto Noi avremmo ben volentieri ignorato in questa sede questa lettera dell’Imperatore se, a Nostra insaputa e con scelta davvero insolita, non fosse stata divulgata dal giornale ufficiale di Berlino, insieme con un’altra scritta di Nostra mano, in cui Ci appellavamo alla giustizia del serenissimo Imperatore in favore della Chiesa Cattolica in Prussia. – Le cose che abbiamo ricordato fin qui sono davanti agli occhi di tutti: perciò mentre i Religiosi e le vergini consacrate a Dio vengono privati della libertà comune a tutti i cittadini, e vengono perseguitati con crudele ferocia; mentre le scuole pubbliche, nelle quali si educa la gioventù cattolica, vengono sottratte ogni giorno di più al salvifico Magistero e alla vigilanza della Chiesa; mentre si sciolgono i sodalizi istituiti per promuovere la Religione, e perfino gli stessi seminari dei chierici; mentre s’impedisce la libertà della predicazione evangelica; mentre in alcune parti del Regno si proibisce che venga impartita nella lingua materna l’istruzione religiosa; mentre vengono allontanati a forza dalle loro parrocchie i Parroci colà preposti dai Vescovi; mentre gli stessi Vescovi vengono privati delle loro rendite, perseguitati con multe, atterriti con la minaccia del carcere; mentre i Cattolici sono tormentati con ogni sorta di vessazione, è possibile che Noi Ci persuadiamo di quello che Ci si vuole dare a credere, cioè che né la Religione di Cristo né la verità sono chiamate in causa? – E non finiscono qui le offese che si fanno alla Chiesa Cattolica. Si aggiunge anche il fatto che il governo prussiano ed altri dell’Impero germanico hanno apertamente assunto la protezione di quei nuovi eretici, che, per un abuso di nome si chiamano Vecchi cattolici, il che sarebbe degno di riso, se i tanti mostruosi errori di quella setta contro i principi fondamentali della Fede, i tanti sacrilegi nella celebrazione dei misteri divini e nell’amministrazione dei sacramenti, i tanti gravissimi scandali, infine la tanto grande rovina delle anime redente dal sangue di Cristo, non inducessero piuttosto a versare calde lacrime. – E che cosa tentino e dove mirino codesti miserabili figli del male, chiaramente si vede da altri loro scritti, e soprattutto da quello empio e spregiudicato che fu pubblicato poco tempo fa da colui che essi, di recente, hanno eletto come pseudo-Vescovo. Essi infatti sovvertono il vero potere di giurisdizione che risiede nel Romano Pontefice e nei Vescovi, successori del Beato Pietro e degli Apostoli, e lo trasferiscono al popolo, ossia, come dicono, alla comunità; rifiutano sfacciatamente e combattono il Magistero infallibile sia del Romano Pontefice, sia di tutta la Chiesa docente. Contro lo Spirito Santo (che Cristo affermò che sarebbe rimasto in eterno nella Chiesa), essi con incredibile ardire sostengono che il Romano Pontefice, e tutti i Vescovi, sacerdoti e popoli, congiunti con lui in unità di fede e di comunione, sono caduti in eresia, quando hanno sancito e professato le definizioni del Concilio Ecumenico Vaticano. Negano quindi anche l’infallibilità della Chiesa, bestemmiando che essa è morta in tutto il mondo, e che il suo Capo visibile e i Vescovi non esistono più; quindi vanno dicendo che è sorta in loro la necessità di restaurare l’episcopato legittimo nel loro pseudo-Vescovo, il quale, salendo alla carica non per la porta, ma in modo diverso, come uno che rapina o ruba, attira egli stesso sul proprio capo la dannazione di Cristo. – Ciò nonostante questi miserabili, che sovvertono i fondamenti della Religione Cattolica, che distruggono tutti i suoi principi e i suoi caratteri, che hanno inventato tanto turpi e numerosi errori o, piuttosto, desumendoli dal vecchio patrimonio degli eretici e raccogliendoli insieme, li hanno riproposti, non si vergognano di dirsi cattolici, Vecchi cattolici, mentre con la loro dottrina, con la loro stranezza, e con il loro numero rimuovono da se stessi in modo totale ambedue i caratteri: l’antichità e la Cattolicità. Contro costoro, con maggior diritto certamente che non un tempo Agostino contro i Donatisti, insorge la Chiesa diffusa fra tutte le genti: quella Chiesa che Cristo, figlio del Dio vivente, edificò sopra una pietra e contro la quale le porte dell’inferno non prevarranno; quella Chiesa con la quale Egli, a cui è data ogni potestà in cielo ed in terra, disse che sarebbe stato tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli. “Grida la Chiesa all’eterno suo Sposo: come può accadere che alcuni, non so chi, allontanatisi da me, mormorino contro di me? Come può essere che coloro che sono perduti pretendano che io sia perita? Annunziami la brevità dei miei giorni: per quanto tempo starò in questo mondo? Annunzialo a me per coloro che dicono: “Fu e non è più”; per coloro che dicono: “Sono adempiute le Scritture, tutte le genti hanno creduto, ma la Chiesa ha apostatato ed è perita per tutte le genti. Ed egli l’annunziò, né la sua voce fu vana”. In che modo l’annunziò? “Ecco, io sono con voi fino alla consumazione dei secoli”. Colpita dalle vostre parole e dalle vostre false opinioni, la Chiesa chiede a Dio che le dichiari la brevità dei suoi giorni, e trova che il Signore ha detto: “Ecco, io sono con voi fino alla consumazione dei secoli”. Qui voi dite: “Di noi ha detto: noi siamo e saremo fino alla consumazione dei secoli. Si interroghi lo stesso Cristo”. Egli disse: “Si predicherà questo Vangelo in tutto il mondo, a testimonianza per tutte le genti, ed allora verrà la fine”. Dunque, sino alla fine dei secoli la Chiesa è in tutte le genti. Periscano gli eretici, periscano per quello che sono; e vengano recuperati affinché siano ciò che non sono” . – Ma codesti uomini che procedono con maggior audacia per la via dell’iniquità e della perdizione (come per giusto giudizio di Dio suole accadere alle sette degli eretici) hanno voluto anche, come accennammo, creare una gerarchia, e hanno eletto e creato pseudo-vescovo certo Giuseppe Uberto Reinkens, noto apostata della fede cattolica; ed affinché non mancasse nulla alla loro impudenza, per la sua consacrazione ricorsero a quei Giansenisti di Utrecht, che essi, prima che si ribellassero alla Chiesa, consideravano (insieme con gli altri cattolici) eretici e scismatici. Tuttavia quel Giuseppe Uberto osa dichiararsi vescovo, e, cosa che supera ogni credibilità, è riconosciuto e nominato con pubblico decreto come vero Vescovo Cattolico dal serenissimo Imperatore di Germania, e proposto a tutti i sudditi perché sia considerato e riverito quale legittimo vescovo. Eppure gli stessi primi elementi della Dottrina Cattolica insegnano che non può essere considerato Vescovo legittimo, nessuno che non sia congiunto per comunione di fede e di carità con la Pietra sopra cui è edificata la Chiesa di Cristo, e non sia legato strettamente al supremo Pastore, a cui sono date da pascolare tutte le pecore di Cristo, e non sia unito a colui che difende e garantisce la fraternità che è nel mondo. E in verità “a Pietro parlò il Signore: ad uno solo, per fondare l’unità dall’uno” . A Pietro “la divina clemenza conferì una grande e mirabile parte del suo potere, e se volle che qualche cosa fosse comune con gli altri Principi, non concesse mai alcunché agli altri se non per mezzo di lui” . Ne consegue che da questa Sede Apostolica, dove il Beato Pietro “vive, presiede e concede a chi la cerca la verità della Fede , si diffondono per tutti i diritti della venerabile unione comune” ; e questa stessa Sede senza dubbio “è per le altre Chiese, sparse in tutta la terra, come il capo rispetto alle membra; chiunque si separa da lei diventa esule dalla religione cristiana, avendo cominciato a non essere più nello stesso corpo comune” . – Di conseguenza il santo martire Cipriano, discorrendo dello pseudo-vescovo scismatico Novaziano, gli negò perfino l’appellativo di cristiano, dato che era staccato e separato dalla Chiesa di Cristo. “Chiunque sia, dice, e di qualunque genere sia, non è cristiano chi non è nella Chiesa di Cristo. Si vanti pure e con parole superbe predichi la sua filosofia e la sua eloquenza; chi non è stato fedele alla carità fraterna e all’unità ecclesiastica, ha perduto anche quello che era prima. Dato che da Cristo deriva per tutto il mondo una sola Chiesa, divisa in molte membra, egualmente un solo episcopato è diffuso nel concorde pluralismo di molti Vescovi; esso, dopo il mandato di Dio, e dopo l’unità della Chiesa dovunque stretta e congiunta, si sforza di fare la Chiesa delle persone umane. Dunque, chi non osserva né l’unità dello spirito, né la comune unità della pace, e si separa dal vincolo della Chiesa e dal Collegio dei Sacerdoti, non può avere né il potere né l’onore di Vescovo, non avendo voluto mantenere né l’unità, né la pace dell’episcopato” . – Noi dunque che, benché immeritevoli, siamo collocati in questa suprema Cattedra di Pietro, a custodia della Fede Cattolica per mantenere e difendere l’unità della Chiesa universale, seguendo la consuetudine e l’esempio dei Nostri Predecessori e delle leggi ecclesiastiche, con la potestà conferitaci dal cielo, non solo dichiariamo l’elezione di Giuseppe Uberto Reinkens (prima ricordato) compiuta contro la sanzione dei Sacri Canoni, illecita, vana, e completamente nulla, e condanniamo e detestiamo la sua consacrazione sacrilega; ma con l’autorità di Dio onnipotente scomunichiamo e anatemizziamo lo stesso Giuseppe Uberto e coloro che osarono eleggerlo, coloro che collaborarono alla consacrazione sacrilega, tutti quelli che li hanno sostenuti e che, aderendo ad essi, diedero loro favore, aiuto o consenso; dichiariamo, comandiamo ed ordiniamo che tutti costoro debbano essere considerati separati dalla comunione della Chiesa e considerati nel numero di coloro, la cui familiarità e la cui frequentazione l’Apostolo vietò a tutti i fedeli di Cristo, tanto che espressamente comandò che non si dovesse neanche dire loro “Ave” (2Gv 10).

Da tutte le cose che abbiamo toccato, più deplorandole che narrandole, vi è abbastanza chiaro, Venerabili Fratelli, quanto triste e piena di pericolo sia la condizione dei Cattolici nei paesi d’Europa, di cui abbiamo trattato. E le cose non vanno meglio, né i tempi sono più pacifici in America, dove alcune regioni sono così ostili ai Cattolici, che i loro Governi sembrano negare coi fatti quella fede cattolica che professano. Infatti là da alcuni anni ha cominciato ad essere mossa una terribile guerra contro la Chiesa, le sue istituzioni e i diritti di questa Sede Apostolica. Se volessimo continuare in questo argomento non Ci verrebbero mai meno le parole. Dato che ciò, per la sua importanza, non può essere toccato per inciso, ne parleremo più a lungo un’altra volta. – Si meraviglierà forse qualcuno di Voi, Venerabili Fratelli, che la guerra che oggi si muove alla Chiesa Cattolica si espanda tanto. Ma chiunque conosce il carattere, gli obiettivi ed il proposito delle sette, sia che si chiamino massoniche, sia che si chiamino con qualsivoglia altro nome, e li paragoni al carattere, al modo, e all’ampiezza di questa guerra, da cui la Chiesa è assalita quasi da ogni parte, non potrà certamente dubitare che questa calamità non si debba attribuire alle frodi ed alle macchinazioni di quelle sette. Da esse infatti è formata la sinagoga di Satana, che ordina il suo esercito contro la Chiesa di Cristo, innalza la sua bandiera e viene a battaglia. I Nostri Predecessori, vigili in Israele, denunziarono ai Re ed ai popoli queste sette già da molto tempo, fin dalle loro origini, e poi ripetute volte le colpirono con le loro condanne. Noi pure non siamo venuti meno a questo dovere. Oh, se si fosse data più fiducia ai supremi Pastori della Chiesa, da parte di coloro che avrebbero potuto respingere una tanto esiziale pestilenza! Invece essa ha progredito attraverso nascondigli, viscidi anfratti e senza mai interrompere il suo lavorio, ingannando molti con astute frodi; ed è giunta infine a tale punto che ha potuto uscire dalle sue latebre, e vantarsi di essere oggi potente e sovrana. Aumentata ormai immensamente la turba dei loro seguaci, queste empie sette credono di aver quasi raggiunto lo scopo, anche se non hanno ancora toccato l’ultima meta. Avendo conseguito ciò che tanto avevano desiderato, cioè di decidere di ogni cosa nella maggior parte dei luoghi, ora indirizzano audacemente la forza e l’autorità acquistate allo scopo di ridurre la Chiesa in durissima schiavitù, abbattere i fondamenti sopra i quali ella si regge, contaminare le impronte divine delle quali luminosamente rifulge, e, ancor più, annientarla del tutto, se mai fosse possibile, nel mondo intero, dopo averla percossa con frequenti colpi, disfatta e distrutta. – Stando così le cose, Venerabili Fratelli, impiegate ogni mezzo per difendere dalle insidie e dal contagio di queste sette i fedeli affidati alle vostre cure, e per salvare dalla perdizione coloro che a queste sette disgraziatamente hanno dato il nome. Ma soprattutto mostrate e combattete l’errore di coloro che, o ingannati o ingannatori, non temono tuttavia di asserire che da queste oscure congreghe non si cerca altro che l’utilità sociale, il progresso e la reciproca beneficenza. Esponete spesso ai fedeli ed imprimete nelle loro anime le Costituzioni pontificie sull’argomento, e insegnate loro che da esse sono colpite non solo le società massoniche d’Europa, ma anche tutte quelle di America e quante altre si trovano nelle diverse regioni del mondo intero. – Del resto, Venerabili Fratelli, poiché Ci toccò di vivere in tempi nei quali incombe l’occasione di patire certamente molto, ma anche di meritare molto, noi, come buoni soldati di Cristo, preoccupiamoci in primo luogo di non abbattere il nostro animo; anzi, nella stessa tempesta da cui siamo sbattuti, armati della sicura speranza di tranquillità futura e di più limpida serenità della Chiesa, troviamo la forza per incoraggiare Noi stessi, il clero affaticato e il popolo, confidando nell’aiuto divino e sostenuti dalle nobilissime parole di Crisostomo: “Molti flutti, molte gravi tempeste incalzano; ma non temiamo d’essere sommersi, perché posiamo sulla pietra. Infierisca pure il mare; la pietra non potrà venirne disciolta. Insorgano pure le onde; la nave di Gesù non potrà venirne affondata. Nulla è più potente della Chiesa. La Chiesa è più forte dello stesso cielo. Passeranno il cielo e la terra; ma le parole di Cristo non passeranno. Quali parole? “Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei”. Se non credi alle parole, credi ai fatti. Quanti tiranni tentarono di opprimere la Chiesa? Quante caldaie, quante fornaci, e denti di fiere, e aguzze spade! Tuttavia non ottennero nulla. Dove sono quei nemici? Sono dispersi nel silenzio e nell’oblio. E dove è la Chiesa? Ella splende più del sole. Le imprese di quei tali si estinsero, le cose della Chiesa vivono immortali. Se quando i cristiani erano pochi, non furono vinti, come potrai vincerli, quando l’intero mondo è pieno della loro sacra religione? Il Cielo e la terra passeranno; ma le mie parole non passeranno”. Pertanto, non spaventati da alcun pericolo e sgombri da ogni dubbio, perseveriamo nella preghiera e procuriamo di giungere a questo: che tutti ci sforziamo di placare l’ira celeste, provocata dai delitti degli uomini, in modo che alla fine sorga l’Onnipotente nella sua misericordia, comandi ai venti e porti la tranquillità.

Frattanto con ogni affetto impartiamo la Benedizione Apostolica, espressione della Nostra speciale benevolenza, a Voi tutti, Venerabili Fratelli, al clero e a tutto il popolo affidato alle vostre cure.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 21 novembre 1873, anno ventottesimo del Nostro Pontificato

DOMENICA III DI AVVENTO (2019)

III DOMENICA DI AVVENTO

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Pietro

Semid. Dom. privil. di II cl. – Paramenti rosacei o violacei.

Il Signore è già vicino, venite, adoriamolo (Invitatorio). 1° Avvento. È Maria che ci dà Gesù: « Tu sei felice, o Maria, perché tutto quello che è stato detto dal Signore, si compirà in te » (Ant. Magn.). « Da Bethlem verrà il Re dominatore, che porterà la pace a tutte le Nazioni » (2° resp.) « e che libererà il suo popolo dal dominio dei suoi nemici » (4° resp.). Le nostre anime parteciperanno in un modo speciale a questa liberazione nelle feste di Natale, che sono l’anniversario della venuta in questo mondo del vincitore di satana.« Fa, chiede la Chiesa, che la nascita secondo la carne del tuo unico Figlio ci liberi dall’antica schiavitù che ci tiene sotto il giogo del peccato ». (Messa del giorno, 25 dic.). S. Giovanni Battista preparai Giudei alla venuta del Messia: egli ci prepara anche all’unione, ogni anno più intima, che Gesù contrae con le nostre anime a Natale.« Appianate la via del Signore » dice il Precursore. Appianiamo dunque le vie del nostro cuore, e Gesù Salvatore vi entrerà per darci le sue grazie liberatrici.

Avvento. S. Gregorio fa allusione alla venuta di Gesù alla fine del mondo allorché, spiegando il Vangelo, dice: «Giovanni, il Precursore del Redentore, precede Gesù nello spirito e nella virtù d’Elia, che sarà il precursore del Giudice » (9a Lezione). Dell’avvento di Gesù come Giudice parlano l’Epistola e l’Introito. Se proviamo gran gioia nell’avvicinarsi alle feste del Natale, che ci ricordano la venuta dell’umile bambino della mangiatoia, quanto più il pensiero della sua venuta in tutto lo splendore della sua potenza e della sua maestà, non deve empirci di santa esultanza, perché  allora soltanto la nostra redenzione sarà compiuta. S. Paolo scrive ai Cristiani: « Godete, rallegratevi nel Signore, ve lo ripeto ancora, perché il Signore è vicino ». E come nella Domenica Lætare (Questa pia pratica in uso per la benedizione della rosa a Roma, nella Domenica Lætare, si è estesa a tutti i sacerdoti che ne hanno desiderio per la celebrazione della Messa ed è passata alla Domenica Gaudete, perché queste due domeniche cantano la nostra liberazione dalla schiavitù del peccato per opera di Cristo), i sacerdoti che lo desiderano celebrano oggi con paramenti rosa, colore che simboleggia la gioia della Gerusalemme celeste, dove Gesù ci introdurrà alla fine dei tempi. « Gerusalemme, sii piena di gioia, perché il tuo Salvatore sta per venire » (2a Ant. vesp.). Desideriamo dunque questo avvento, che l’Apostolo dice vicino, e, invece di temerlo, auguriamoci con santa impazienza che si realizzi presto. « Muovi, o Signore, la tua potenza, e vieni a soccorrerci » [« Ecco — dice l’Apocalisse — il Signore apparirà e con Lui milioni di Santi e sulla sua veste porterà scritto: Re dei Re e Signore dei Signori » (/° resp.). « Il Signore degli eserciti verrà con grande potenza » (4° resp.). « Il Suo Regno sarà eterno e tutte le Nazioni Lo serviranno » (6° resp.). (All). « Vieni, o Signore, non tardare » (Ant. delle Lodi). « Per adventum tuum libera nos, Domine »].

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Phil IV:4-6
Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus enim prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne petitiónes vestræ innotéscant apud Deum. [Godete sempre nel Signore: ve lo ripeto: godete. La vostra modestia sia manifesta a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi per alcuna cosa, ma in ogni circostanza fate conoscere a Dio i vostri bisogni]

Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob. [Hai benedetto, o Signore, la tua terra: hai liberato Giacobbe dalla schiavitù]. Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus enim prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne petitiónes vestræ innotéscant apud Deum. [Godete sempre nel Signore: ve lo ripeto: godete. La vostra modestia sia manifesta a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi per alcuna cosa, ma in ogni circostanza fate conoscere a Dio i vostri bisogni.]

Oratio

Orémus.
Aurem tuam, quǽsumus, Dómine, précibus nostris accómmoda: et mentis nostræ ténebras, grátia tuæ visitatiónis illústra: [O Signore, Te ne preghiamo, porgi benigno ascolto alle nostre preghiere e illumina le tenebre della nostra mente con la grazia della tua venuta.]

Lectio

Lectio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses

Philipp IV: 4-7
Fratres: Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne et obsecratióne, cum gratiárum actióne, petitiónes vestræ innotéscant apud Deum. Et pax Dei, quæ exsúperat omnem sensum, custódiat corda vestra et intellegéntias vestras, in Christo Jesu, Dómino nostro.
R. Deo gratias.

[“Rallegratevi sempre nel Signore: da capo ve lo dico, rallegratevi. La vostra benignità sia nota a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi di nulla: ma in ogni cosa le vostre domande siano manifestate a Dio nell’orazione, nella preghiera e nel rendimento di grazie. E la pace di Dio, che supera ogni mente, custodisca i vostri cuori e le vostre menti in Gesù Cristo „ (Ai Pilipp. IV, 4-7]

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Che significa rallegrarsi nel Signore?

Significa ringraziare Dio del benefizio che ci ha dato di una felice eternità, e della continua protezione che ci presta: e rallegrarsi dei mali e delle persecuzioni che si possono avere a sopportare per il Signore, come se ne rallegrarono gli Apostoli, e specialmente s. Paolo. – Docili all’esortazione di s. Paolo, la nostra vita sia esemplare, e mai la nostra sollecitudine per i beni temporali sia eccessiva; confidiamoci nella Provvidenza: gratissimi a Dio per i suoi benefizi esponiamo a Lui le nostre necessità. E può questo Dio di bontà, che ha cura dei più piccoli animali abbandonare i suoi figli, se ricorrono a Lui come al migliore dei padri?

In che consiste la pace di Dio?

. – Consiste nella buona coscienza che ci unisce a Dio, e tien lontano da noi il peccato , fonte di discordie e dissensioni. S. Paolo non sa abbastanza celebrare i felici effetti della buona coscienza. Questa pace che l’uomo sensuale non comprende, e che soltanto provandola si può conoscere,ha fatto la consolazione dei martiri e di quanti sono stati perseguitati per la giustizia. Purificate il vostro cuore, unitevi a Dio, ed allora gusterete la gioia della buona coscienza e la tranquilla calma che l’accompagna.

Aspirazione: Signore, tenete il nostro spirito e il nostro cuore strettamente uniti a voi: fateci godere della tranquillità da voi recataci, e che il mondo non conosce, Sapienza eterna, che arrivate da un’estremità all’altra con forza, e disponete ogni cosa con dolcezza, fateci camminare nella via della sapienza e della pace.

Il rimedio migliore nei patimenti e nelle afflizioni.

A ricreare un cuore oppresso, a sollevare un animo scoraggiato, a far succedere la luce alle tenebre, nulla è più acconcio della preghiera accompagnata da un intero abbandono nell’amore e nella misericordia di Dio. Nessuno ci può amare più che Dio, poiché Egli ha sacrificato l’unico Figlio per noi; nessuno è più capace di soccorrerci nelle nostre necessità, poiché dal nulla Egli ha fatto tutte le cose. Che sono le consolazioni degli uomini a paragone di quelle di cui Dio, fedele alle sue promesse, può riempire il nostro cuore? Ricorrete dunque a Lui, ed esso vi libererà, vi illuminerà, vi nutrirà. Verso di Lui, dal profondo dei loro mali, fecero salire con fiducia le loro voci lamentevoli Anna, l’afflitta moglie di Elcana; David perseguitato dal suo figlio Assalonne; il pio re Ezechia, vivamente incalzato da Sennacherib; Giosafat, incerto del partito da prendere; la casta Susanna, falsamente accusata d’adulterio e condannata a morte; e tanti altri che la santa Scrittura e la storia ecclesiastica ricordano: Dio gli esaudì e gli colmò di consolazione.

Qualcuno di voi é nell’afflizione? Preghi: Io innalzo i miei occhi verso di Voi, o mio Dio, che abitate nei cieli: come il servo tiene gli occhi sul suo padrone, e la serva sulla padrona, così i nostri sguardi sono rivolti al Signore Dio nostro, finché si muova a pietà di noi. Signore, volgete l’orecchio ed esauditemi, poiché io sono povero e mendico. Custodite l’anima mia, perché io vi sono fedele; o mio Dio! salvate il vostro servo che spera in voi: abbiate pietà di me, Signore, poiché v’invoco tutto il giorno; versate la gioia nel mio cuore, perché io lo rivolgo continuamente verso di Voi. Voi siete dolce, o Signore, facile a piegarvi, ricco in misericordia verso tutti quelli che v’invocano. Signore, porgete l’orecchio alla mia preghiera, ascoltate le mie suppliche. Nei giorni delle mie angosce, io esclamerò verso di Voi, e Voi mi esaudirete. Nessuno tra gli dei è simile a voi; nessun opera è somigliante alla vostra. Tutte le nazioni che avete create verranno, piegheranno il ginocchio davanti a Voi, renderanno gloria al vostro nome. Voi solo siete grande, Voi siete che operate i prodigi; Voi solo siete Dio. Signore, insegnatemi le vostre vie, ed io camminerò nella vostra verità; il timor del vostro nome sparga la pace nel mio cuore, Signore, Dio mio, io vi loderò con tutto il cuore, glorificherò sempre il vostro nome, perché la infinita misericordia è venuta su me, ed avete sottratto l’anima mia dagli abissi dell’inferno. O Dio, i superbi, si son levati contro di me. L’adunanza dei forti ha congiurato contro di me alla mia rovina: essi hanno dimenticata la vostra potenza. E Voi Signore, Voi Dio compassionevole e dolce, paziente, prodigo di misericordia e pieno di verità, volgete gli occhi su me pietosamente, date la vostra forza al vostro servo, e salvate il figlio della vostra serva: manifestate per me il segno di vostra clemenza: sicché quelli che mi odiano siano confusi; e vedano che Voi mi avete soccorso e consolato.

Graduale

Ps LXXIX: 2; 3; 79:2

Qui sedes, Dómine, super Chérubim, éxcita poténtiam tuam, et veni. [O Signore, Tu che hai per trono i Cherubini, súscita la tua potenza e vieni.]

Qui regis Israël, inténde: qui dedúcis, velut ovem, Joseph. [Ascolta, Tu che reggi Israele: che guidi Giuseppe come un gregge. Allelúia, allelúia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja,

Excita, Dómine, potentiam tuam, et veni, ut salvos fácias nos. Allelúja. [Suscita, o Signore, la tua potenza e vieni, affinché ci salvi. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem

Gloria tibi, Domine!

Joann l: XIX-28

“In illo tempore: Misérunt Judæi ab Jerosólymis sacerdótes et levítas ad Joánnem, ut interrogárent eum: Tu quis es? Et conféssus est, et non negávit: et conféssus est: Quia non sum ego Christus. Et interrogavérunt eum: Quid ergo? Elías es tu? Et dixit: Non sum. Prophéta es tu? Et respondit: Non. Dixérunt ergo ei: Quis es, ut respónsum demus his, qui misérunt nos? Quid dicis de te ipso? Ait: Ego vox clamántis in desérto: Dirígite viam Dómini, sicut dixit Isaías Prophéta. Et qui missi fúerant, erant ex pharisæis. Et interrogavérunt eum, et dixérunt ei: Quid ergo baptízas, si tu non es Christus, neque Elías, neque Prophéta? Respóndit eis Joánnes, dicens: Ego baptízo in aqua: médius autem vestrum stetit, quem vos nescítis. Ipse est, qui post me ventúrus est, qui ante me factus est: cujus ego non sum dignus ut solvam ejus corrígiam calceaménti. Hæc in Bethánia facta sunt trans Jordánem, ubi erat Joánnes baptízans.”

Omelia I

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

III  DOMENICA D’AVVENTO.

Spiegazione III.

“In quel tempo i Giudei mandarono da Gerusalemme a Giovanni i sacerdoti ed i leviti, per domandargli: Chi sei tu? Ed ei confessò, e non negò, e confessò: Non son io il Cristo. Ed essi gli domandarono: E che adunque? Se’ tu Elia. Ed ei rispose: Noi sono. Se’ tu il profeta? Ed ei rispose: No. Gli dissero pertanto: Chi se’ tu, affinché possiamo render risposta a chi ci ha mandato? Che dici di te stesso? Io sono, disse, la voce di colui che grida nel deserto: Raddrizzate la via del Signore, come ha detto il profeta Isaia. E questi messi erano della setta de’ Farisei. E lo interrogarono, dicendogli: Come adunque battezzi tu, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta? Giovanni rispose loro, e disse: Io battezzo nell’acqua; ma v’ha in mezzo a voi uno, che voi non conoscete: questi è quegli che verrà dopo di me, il quale è prima di me; a cui io non son degno di sciogliere i legaccioli delle scarpe. Queste cose successero a Betania di là dal Giordano, dove Giovanni stava battezzando”.

(Jo. I, 19-28).

Il Vangelo di questa mattina, o miei cari, ci fa assistere ad una bellissima scena della vita di S. Giovanni Battista, avvenuta a Betania di là dal Giordano, dove Giovanni stava battezzando. E in questa scena ciò che spicca maggiormente è la grande umiltà di questo santo. Egli non aveva per nuca inteso il dirla Redentore a dire quella gran parola: « Imparate da me ad essere umili di cuore »; pur tuttavia illuminato come era dallo Spirito del Signore egli conosceva a fondo l’importanza della santa umiltà, ed oltre all’averla ben radicata in fondo al cuore, prestatasi l’occasione, la manifestò eziandio all’esterno con le parole e con la condotta. Per tal guisa egli si manifestò degnissimo precursore di nostro Signor Gesù Cristo, del quale ha detto giustamente l’Apostolo S. Paolo, che per tutta la sua vita si è umiliato, facendosi in tutto obbediente al suo Divin Padre sino alla morte e morte di croce. Ed oh! voglia il Signore, che, richiamando noi quest’oggi alla mente nostra il bell’esempio di umiltà datoci da S. Giovanni Battista, ci rendiamo anche noi degni seguaci del nostro divino Maestro e Modello.

1. Per ben apprendere l’importanza dell’esempio di umiltà lasciatoci da S. Giovanni Battista, conviene che vediamo prima almeno brevissimamente l’importanza della virtù dell’umiltà. Questa virtù, o miei cari, è una di quelle più indispensabili per vivere da buoni Cristiani e guadagnarsi il cielo, perché Iddio medesimo ci dice, che ha in abbondino l’orgoglio e i suoi vili schiavi; che resiste ai superbi e li umilia; mentre all’opposto innalza gli umili e comparte loro con abbondanza le sue grazie. No, l’umiltà non è soltanto una virtù di consiglio o dalla quale possiamo in certe circostanze e per speciali ragioni esimerci, no; essa è doverosa a conseguire l’eterna vita ed è doverosa sempre. In cielo si possono trovare dei Santi, che non abbiano fatto elemosina, ve ne possono essere degli altri, che non abbiano potuto praticare digiuni e macerazioni, vi possono regnare di coloro, che non mantennero la verginità, ma nessuno può trovarsi e nessuno può entrarvi, senza che sia stato umile. Gesù Cristo ha parlato chiaro, dicendo: Se non diventerete umili sino a parere semplici pargoletti, non entrerete nel regno dei cieli: nisi efficiamini sicut parvuli, non intrabitis in regnum cælorum, (Matt. XVIII, 3). Anzi, senza umiltà le più grandi virtù degenerano in vizio; la più grande austerità della vita diventa un’ipocrisia detestabile, la più alta contemplazione un’illusione vituperevole, l’estrema povertà una sciocca vanità. Senza l’umiltà i deserti degli anacoreti, le penitenze dei confessori, i tormenti dei martiri, lo zelo degli Apostoli non sono che una vanità, che può colpire d’ammirazione gli uomini, ma che rallegra i demoni. Senza umiltà gli stessi doni di Dio riescono di nocumento. Come i venti quando soffiano nelle vele di un bastimento, benché sembrino favorevoli al suo corso, non fanno che precipitarne il naufragio, se il bastimento è spinto verso gli scogli nascosti sotto le onde, così pure l’abbondanza dei doni del Signore in un’anima, che si lasci dominare dalla superbia, possono servire ad accrescergliela spaventosamente e farla miseramente perire. E così è accaduto, che uomini eminenti per santità, già vicini a raggiungere o pel martirio o per le più belle virtù il porto dell’eterna salute, miseramente naufragarono per avere urtato nello scoglio fatale della superbia. Or ecco perché i santi Padri fanno dell’umiltà il più magnifico elogio. Se voi domandate, dice uno tra essi, ciò che tiene il primo posto nella Religione e nella dottrina di Gesù Cristo, io rispondo essere l’umiltà; e il secondo e il terzo posto è l’umiltà, perché la vera dottrina della sapienza cristiana consiste tutta intera in una umiltà profonda. Che cosa si può dire di più eccellente? Che cosa si può riferire di più atto ad ispirarci la stima di questa virtù? Ebbene, chi pensa e parla in tal modo dell’umiltà è S. Agostino, uno dei più grandi dottori di Santa Chiesa. Se pertanto tale è il pregio dell’umiltà, quanto importa di praticarla! Epperò quanto viene a proposito l’esempio ammirabile, che di essa ci ha dato San Giovanni Battista, e ci vien riferito nel santo Vangelo di oggi. – Giovanni Battista menava una vita santa: perciocché la predicazione, che egli faceva agli altri della penitenza, l’adempieva egli stesso in sommo grado; e ben a ragione i Giudei lo riguardavano tutti come un uomo veramente straordinario. Per la qual cosa il Sinedrio o gran consiglio dei Giudei, che era già stato istituito da Mosè per le cause più gravi, e che aveva il diritto di ispezione sovra tutti coloro, che insegnavano pubblicamente, si commosse alla parola di Giovanni Battista, che con tanta fama risuonava sulle rive del Giordano; e sia, come pensa S. Gregorio, che i Giudei dubitassero che egli fosse il Messia ed avessero sì alta opinione di lui da crederlo sulla sua parola, sia invece, come ci dice S. Giovanni Grisostomo, che i maggiorenti del popolo mossi da gelosia gli volessero tendere qualche insidia, il fatto si è, che il Sinedrio nominò una commissione di sacerdoti e di leviti della setta dei Farisei, siccome dei più zelanti, che andasse ad interrogarlo. I Giudei, ci dice appunto il Vangelo di oggi, mandarono da Gerusalemme a Giovanni dei sacerdoti e dei leviti, che gli domandassero: Chi sei tu? Ed ei confessò e non negò; e confessò: Non sono io il Cristo. Or ecco come in questa risposta S. Giovanni comincia a darci l’esempio del primo grado di umiltà, che è quello di non attribuire a sé maggior valore di quello che realmente ai ha. Difatti nella domanda dei sacerdoti e dei leviti vi era per lui una tentazione assai delicata, quella cioè di poter passare pel Cristo e crescere così smisuratamente nell’opinione degli uomini. Ma egli profondamente umile amò meglio restare costantemente quel che era, epperò secondo l’energica espressione del Vangelo subito confessò e non negò; e confessò: Non son io il Cristo, vale a dire dichiarò nel modo più chiaro, più positivo, più formale, che non era il Messia. – Or bene, o carissimi, è questa la condotta più ordinaria degli uomini? Pur troppo, tutt’altra. Quanti vi sono, che ipocritamente si coprono col mantello di virtù, che non hanno, fingendosi umili, pii, caritatevoli, onesti, mentre invece hanno in cuore ogni vizio! Quanti vi sono, che pur sapendo di non meritare gli elogi, che loro si fanno, pure li accettano con gioia, e ne vanno anzi in cerca con indicibile ansietà! Quanti vi sono, che in qualsiasi condizione si trovino, o di studenti, o di artigiani, o di servitori, o di maestri, o di avvocati, o di medici, o di capitani, o di sovrani, si reputano di tutti più abili, più capaci, più esperti, più valenti. Quanti vi sono, che non solo vogliono essere i primi di tutti, ma vogliono essere tali ad esclusione di qualsiasi altro! Di Maometto si dice, che un giorno esclamasse: Di eguali è da lungo tempo, che io non ne debbo avere. E di Napoleone I si racconta, che ricevendo in Egitto una lettera d’un membro dell’Istituto, intestata colle parole: Mio caro collega: « Come? Si facesse a ripetere, lacerando quella lettera, come? Mio caro collega? È questo il modo di scrivermi? » Come per dire: E chi mai osa di stimarsi mio pari? Ora tutti costoro non sono veramente poveri pazzi? Che cosa fanno ordinariamente i pazzi, se non attribuire a sé qualità, che non hanno? L’uno si mette in testa di essere re e con tono imperioso pronuncia i suoi ordini e fa delle severe minacce, perché non è obbedito. Un altro si immagina di essere padrone del cielo e suppone di avere il sole, la luna, le stelle a sua disposizione. Un terzo non fa che sognare denari, ricchezze, campi, vigne ed altre possessioni. Un quarto si vanta professore, un quinto medico, un sesto avvocato, un settimo musico, tutti decantano qualità, che non hanno. Infelici! sono poveri pazzi! Ah è veramente una gran disgrazia perdere la ragione! Ma dite un po’, non è disgrazia anche maggiore avere la ragione e vivere del tutto come non si avesse? Ebbene una tale disgrazia tocca per l’appunto al superbo, che pretende essere dappiù di quello che è, e attribuirsi virtù e meriti, che non ha. Che una tale disgrazia non capiti a noi, opperò in sull’esempio di S. Giovanni Battista non soccombiamo mai a tentazioni siffatte; non vantiamoci di trionfi non ottenuti; non fingiamo d’avere virtù, che non possediamo, non vogliamo insomma essere dappiù di quello, che realmente siamo.

2. Ma Giovanni Battista non fu pago di praticare l’umiltà in siffatto grado: egli andò più innanzi e, dopo d’aver chiaramente confessato quello che non era, volle ancora nascondere quello che era. Ed in vero quei Sacerdoti e Leviti, continuando ad interrogarlo, gli domandarono: E che adunque Sei tu Elia? Ed ei rispose: Nol sono.

Se’ tu il Profeta? Ed ei rispose: No. Già da molti secoli Elia era stato rapito in cielo sopra un carro di fuoco. Ora i Giudei sapevano, che quell’uomo di Dio doveva ritornare sulla terra prima della venuta del Figliuolo di Dio. Ma ignorando essi, che ciò avrebbe dovuto effettuarsi prima della seconda venuta di Gesù Cristo, vale a dire alla fine del mondo, e credendo invece che, dovesse precedere la prima venuta, è perciò che i messi gli domandarono se era Elia. Gli domandarono in secondo luogo, se egli era il profeta; perciocché come riferisce S. Giovanni Grisostomo, per una falsa interpretazione di un passo del profeta Malachia (Cap. IV, 5) si era ingenerata tra gli Ebrei la falsa credenza, che alla venuta del Messia non solamente dovesse tornare al mondo Elia, ma dovesse nascere tra di loro anche un profeta simile a Mosè, al quale applicavano alcune parole di un sacro libro, chiamato il Deuteronomio (Cap. XVIII, 15), le quali si debbono intendere di Gesù Cristo stesso. Ma tanto all’una come all’altra domanda S. Giovanni Battista rispose negativamente. Eppure, tanto all’una, come all’altra avrebbe potuto rispondere di sì. E di fatti l’Angelo del Signore parlando di lui al suo padre Zaccaria, non aveva detto, che precederebbe il Salvatore nello spirito e nella virtù di Elia? (Luc. I , 17). E facendo Gesù Cristo alle turbe il suo elogio non aveva aggiunto, che « Giovanni era profeta e più che profeta, che anzi non era sorto maggiore di lui fra nati di donna? » (Matt. XI, 11). San Giovanni adunque, senza mentire menomamente, poteva rispondere di essere Elia per lo spirito e per la virtù, ed anche di essere un Profeta, facendo in tal guisa concepire di sé una men bassa opinione. Ma egli invece, e perché non era Elia in persona, e perché non era neppure il profeta per eccellenza, vale a dire Gesù Cristo, sia per amore alla verità, ma più ancora per amore all’umiltà, anche qui rispose negando e dicendo di non essere né Elia, né il profeta. – Che bell’esempio è mai questo! Impariamo, o miei cari, a nascondere, anche noi con molta cura le virtù e le buone qualità, che avessimo, a meno che il rivelarle fosse necessario all’edificazione degli altri ed a giustificazione di noi medesimi. Non diamoci così facilmente a pubblicare le nostre buone azioni, perciocché per averne il premio loro dovuto, basta che le sappia Iddio, e specialmente perché anche le opere più meritorie, limosine, preghiere, digiuni, sacramenti, pratiche di pietà pèrdono tutto il loro merito, se di essecerchiamo gli umani applausi. Colui che opera per questo fine, di accattare le lodi degli uomini, al dire di un profeta, fa come colui che mette le sue robe dentro un sacco forato, ed al termine della vita, non ostante il bene che avrà fatto, si sentirà a dire da Dio medesimo: Iam recepisti mercedem tuam: hai già ricevuto la tua mercede (Matt. VI, 2).

3. In seguito a quelle risposte di S. Giovanni, i messi del Sinedrio si fecero a rivolgergli una domanda più incalzante di ogni altra, alla quale egli avrebbe dovuto rispondere direttamente e dir chiaro quello, che pensava di sé medesimo. Gli dissero pertanto: Ohi sei tu, affinché possiamo render risposta a chi ci ha mandato: Che dici di te stesso? Ed è qui che S. Giovanni ci diede l’esempio di un terzo grado di umiltà, che consiste nell’abbassarsi per amor di Dio al di sotto di quello, che si è. Imperciocché messo così alle strette da’ suoi interrogatori: Io sono, disse, la voce di colui, che grida nel deserto: Raddrizzate la via del Signore, come ha detto il profeta Isaia, Come adunque, soggiunsero essi, tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta? E Giovanni rispose loro e disse: Io battezzo nell’acqua; ma v’ha in mezzo a voi uno che non conoscete: Questi è quegli, che verrà dopo di me, il quale è da più di me: a cui io non son degno di sciogliere i legaccioli delle scarpe. Ecco le umilissime parole di S. Giovanni. Incalzato a rispondere direttamente chi egli sia, dice: Io sono la voce di colui, che grida nel deserto. Qual cosa vi ha più debole della voce, la quale non è altro che un soffio leggero, che per un istante percuote l’aria e poi svanisce? Ebbene quantunque S. Giovanni fosse così penitente, così virtuoso, così santo, egli si riguardò nulla di meno innanzi a Dio come un lieve soffio, che il vento dissipa in un minuto. Ed aveva ragione. Perciocché che cosa sono mai dinanzi al Signore anche i più grandi Santi? Quando ci poniamo alla presenza di Dio, non possiamo far a meno di riconoscere di essere nulla, assolutamente nulla. Era questo appunto il pensiero del santo re Davide: Substantia mea tamquam nihilum ante te; la mia sostanza è come un niente dinnanzi a te, o Signore (Ps. XXVIII, 6). Ma è pur questo il sentimento nostro? Se anche a noi fosse rivolta una domanda somigliante a quella di Giovanni Battista: Chi sei tu? che dici di te stesso? Daremmo anche noi una somigliante risposta? O non ci metteremmo piuttosto a tessere subito il nostro panegirico? È bensì vero che vi hanno taluni che alle volte parlando di sé dicono di non essere altro che miserabili peccatori, di non avere abilità alcuna, di essere da meno di tutti gli altri; ma forse che essi lo dicono col cuore? per vero sentimento di umiltà? Tutt’altro. Essi, parlano in tal guisa, perché quelli che li odono, mettendosi a correggerli delle loro asserzioni, facciano a loro più ampie lodi. E ciò è tanto vero, che se, contro la loro aspettazione, qualcuno facesse mostra di credere realmente quello, che costoro di sé asseriscono, tosto schizzerebbero fuori il veleno della superbia, che hanno in cuore, offendendosi di colui, che si mostrò con loro o sì ingenuo o sì audace. Est qui nequiter se humiliat et interiora eis piena sunt dolo (Eccli. XIX, 23). Vi ha, dice lo Spirito Santo, chi si umilia maliziosamente ed ha il suo cuore pieno di frode. Costoro adunque, tutt’altro che esser umili, sono superbi più raffinati, opperò anche più maligni degli altri. Guardiamoci bene di appartenere al numero di questi disgraziati; ad esempio di S. Giovanni umiliamoci davvero, riconoscendo anche noi il niente, che siamo rispetto a Dio, le miserie di cui siamo ripieni, i peccati che abbiamo commessi e coi quali tanto ci siamo avviliti, e per tal guisa induciamo la volontà nostra ad un sincero abbassamento e disprezzo di noi stessi e ad esprimerlo anche al di fuori di noi nelle parole, nei fatti, e nel portamento stesso della persona. – E nell’esercizio dell’umiltà anche noi come Giovanni, non cerchiamo altro che la gloria di Dio. Con quale sollecitudine egli fece intendere che il suo battesimo non era altro che una cerimonia simbolica, un apparecchio a quello, che avrebbe istituito Gesù Cristo! Con quale fretta egli aggiunse, che in mezzo ai Giudei vi era uno incomparabilmente a lui superiore in dignità e potenza, il quale avrebbe fatto quel che egli non poteva fare! Per certo in questo colloquio da lui tenuto coi messi del Sinedrio e che si può riguardare la chiusa ufficiale dell’antico testamento, egli fece spiccare con termini sublimi la grandezza di Gesù Cristo e gli rese una grandissima gloria. E questo appunto è il carattere più spiccato dell’umiltà: cercar sempre in tutto e per tutto la gloria di Dio. Così fecero, oltre a S. Giovanni, tutti gli altri Santi; e render gloria a Lui solo di ogni prospero successo fu sempre la loro massima cura. Soli Deo honor et gloria; Ad maiorem Dei gloriam; Deo gratias; Tutto per Gesù; ecco i loro motti ed il loro costante programma. Facciamo adunque di imitarli. E se il demonio, spirito di superbia, verrà ancora tentandoci ad invanirci di quel poco, che siamo o che facciamo, domandiamoci subito con le parole di S. Paolo: Quid hàbes quod non accepisti? Che cosa hai che tu non abbia ricevuto da Dio? E se tutto quello che hai, da Lui l’hai ricevuto, perché te ne glorii come se non l’avessi ricevuto? Quid gloriaris quasi non acceperis? (1. Cor. IV, 7). E con questa interrogazione, soffocando il nostro amor proprio, di tutto loderemo e benediremo Iddio.

Omelia II

DISCORSO PER LA III DOMENICA DELL’AVVENTO

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra i Cristiani.

“Tu quis es?” Jo. 1

Menava S. Giovanni Battista là nel deserto una vita sì santa che i Giudei, incerti se fosse un profeta ovvero lo stesso Messia, gli mandano un’ambasciata per sciogliere il loro dubbio ed istruirsi di quel che conveniva credere a suo riguardo. Chi siete voi? gli chieggono i deputati della sinagoga: Tu quis es? Ma il servo di Dio, lungi di lasciarsi abbagliare dallo splendor della gloria che gli procaccia la sua virtù, umilmente risponde sé esser la voce di chi grida nel deserto: preparate le vie del Signore: Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini (Matth. V). Permettete, fratelli miei, che io vi faccia in quest’oggi, sebbene in un senso differente, la stessa domanda che i Giudei fecero al Battista: Tu quis es? Chi siete voi? Io so che, rigenerati essendo nell’acque del Battesimo e facendo professione di seguire la legge di Gesù Cristo, potete rispondermi che siete Cristiani. – Ma avete voi ben compreso sin qui la grazia di vostra vocazione al Cristianesimo e siete stati fedeli a corrispondervi? Riconoscete in questo giorno a qual grado di onore v’innalzi il Cristianesimo; ma imparate altresì a qual grado di santità tendere voi dovete. Ecco su di che mi determino d’istruirvi in questo ragionamento.

Qual è la dignità del Cristiano? Prima parte:

Quali ne sono gli obblighi? Seconda parte.  

Eccellenza del Cristianesimo; dovere del Cristianesimo. Ecco tutto il mio disegno.

I.° Punto. L’averci Dio cavati dal nulla a preferenza di tanti altri è un benefizio il quale, benché comune a tutti gl’uomini, merita pur la nostra riconoscenza. Questo benefizio nulladimeno ci era inutile, dice s. Ambrogio, se Dio aggiunto non vi avesse quello della redenzione; Non prodesset nasci, nisì redimi profuisset. Ora Dio, la cui carità per gli uomini è infinita, non si è contentato di dar loro l’essere, ha voluto ancora dare il suo Figliuolo per redimerli. Ma ciò che mette il cumulo ai disegni di misericordia che Dio ebbe sopra di noi si è che per una grazia speciale abbia voluto farci nascere nel seno del Cristianesimo; che senz’alcun’altra ragione, se non un più grande amore per noi, distinti ci abbia da tanti infedeli privi del Battesimo; e che separandoci cosi da questa moltitudine d’uomini, ci faccia partecipare in un modo più abbondante ai meriti di Gesù Cristo, perché tal è il sacro carattere che ci fa Cristiani, produce nelle nostre anime gli effetti più santi e più gloriosi. E per meglio giudicarne, richiamatevi alla memoria, fratelli miei, ciò che eravate prima del vostro Battesimo, e consultate la vostra fede. Essa v’insegnerà che voi uscite non dal nulla della natura, ma dal nulla del peccato. Discendenti infelici di un padre prevaricatore, non prima foste formati nel seno delle vostre madri che siete divenuti schiavi del demonio. Concepiti nel peccato, voi siete venuti al mondo figliuoli d’ira; oggetto dell’odio e dello sdegno di Dio: Eramus natura filii iræ (Eph. II). Decaduti voi eravate dal diritto alla sua eredità. Il cielo, quel bel cielo che ci aveva destinato, eravi chiuso per sempre. La vostr’anima, spogliata di tutti i doni della giustizia originale, era divenuta l’orribile dimora del demonio. Questo principe delle tenebre esercitava su di voi il suo impero, e un impero sì vergognoso che, prima di esser battezzati, vi giudicavano indegni di entrare nella casa del Signore, perché eravate riguardati come figliuoli di maledizione. E perciò la Chiesa, prima di darvi il Battesimo, ha fatto frequenti esorcismi, ed ha impiegato il soffio misterioso dei suoi ministri per dar la fuga al demonio e fargli lasciar una dimora in cui doveva abitar Gesù Cristo. Quanti ringraziamenti non dovete voi rendere a Dio, che vi ha liberati col Battesimo dalla schiavitù vergognosa cui eravate ridotti, che vi ha dalle tenebre chiamati alla sua luce? Sì, fratelli mici, in quel fortunato momento in cui si versò un’acqua salutevole sul vostro capo, la vostr’anima morta per lo peccato ha ricevuto Una nuova vita. Nell’atto che si spandeva quest’acqua sopra il vostro corpo, il sangue di Gesù Cristo versavasi sopra la vostr’anima per lavarla e purificarla dalle sue macchie. In quel momento spogliati vi siete dell’uomo vecchio per essere rivestiti di nuove creature in Gesù Cristo, come dice l’Apostolo. La vostr’anima ha riacquistata la sua primiera bellezza, ed invece della spaventevole immagine del demonio che la sfigurava, Si ha impresso Iddio dei tratti di sua somiglianza che vi rendono per partecipazione ciò ch’Egli è per natura: divinæ consortes naturæ (2 Pet. 1); vale a dire, fratelli miei, che per mezzo della grazia battesimale, voi non solo siete stati purificati dalla macchia del peccato, siete stati santificati, ma in qualche modo divinizzati. E come ciò? Ricevendo voi questa grazia, avete contratta un’alleanza particolare con le tre auguste Persone della Trinità santissima, in virtù della quale siete divenuti figliuoli di Dio, membri e fratelli di Gesù Cristo, tempio dello Spirito Santo. Quanto sono gloriosi questi titoli! quanto stimabili sì fatte prerogative! essere figliuolo di Dio, qual gloria per una creatura! Non era forse già assai che ci permettesse di prendere la qualità di servo? Quale è dunque stata la carità di Dio verso gli uomini, dice l’apostolo s. Giovanni, di volere che noi fossimo chiamati e che in realtà fossimo suoi figliuoli? Videte qualem charitatem dedit nobis Pater, ut flii Dei nominemur et sìmus (I Jo. 5). Questo è, dice S. Cirillo, il colmo della grandezza, della nobiltà. Iddio, è vero, non ha che un solo Figliuolo per natura; ma Egli ha inviato questo Figliuolo nella pienezza dei tempi per redimere quelli che erano sotto la legge e compiere l’adozione dei figliuoli: vale a dire, Iddio ci ha elevati per mezzo di suo Figliuolo alla dignità di figliuoli adottivi; perciocché questo Figliuolo adorabile, vestendo la nostra natura, ci ha rivestiti della sua divinità, ci ha comunicata per mezzo del suo divino Spirito la grazia santificante, il cui proprio effetto si è di renderci figliuoli di Dio e di darci il dritto di chiamarlo nostro Padre: in quo clamamus, Abba, pater (Rom.VIII). Qual gloria, dico, per vili creature, per miserabili vermi di terra, come siamo noi? Giudicatene, fratelli miei, dall’onore che riceverebbe un povero suddito, se il più gran re del mondo lo traesse dal fango per farlo suo figliuolo adottivo e dargli diritto alla sua corona; non si crederebbe egli il più felice dei mortali? Ora il favore che Dio ci ha fatto in averci adottati per suoi figliuoli è infinitamente più glorioso. Vantino pure i grandi della terra quanto tornerà loro a grado, la nobiltà della loro origine; si compiaccian pure e si faccian gloria di quei titoli pomposi che l’innalzano al di sopra degli altri uomini; ma che sono i titoli tutti della grandezza umana, paragonati all’augusta dignità di figlioli di Dio, che noi riceviamo nel Battesimo? il più povero, il più miserabile degl’uomini di Dio, è infinitamente superiore a tutti i monarchi del mondo che nol sono. – La veste d’innocenza, che abbiamo ricevuta nel Battesimo, vale infinitamente più che la porpora e il diadema di cui i re sono adorni. Oimè, fratelli miei, a che ci servirebbero le corone tutte, tutti gl’imperi del mondo, se noi non fossimo Cristiani, figliuoli di Dio? Senza questa qualità nessun diritto avremmo al cielo; laddove essendo figliuoli di Dio, siamo gli eredi del suo regno, dice s. Paolo: Si filii, et hæredes (Rom. VIII). Noi vi abbiamo un diritto incontrastabile, che ci è stato acquistato col sangue di Gesù Cristo, di modo che se moriamo in grazia di Dio, questo regno eterno ci è tanto dovuto, quanto l’eredità di un padre al figliuolo: Si fllii et hæredes. Convien dopo questo meravigliarci se i santi hanno anteposto il titolo di Cristiano a tutte le dignità del mondo? Ah! sapevan essi le grandi prerogative che sono annesse alla qualità di Cristiano; sapevano che questo titolo onorevole, sostenuto dalla santità della vita, dava loro diritto ad un regno che vale più che tutti gl’imperi del mondo. Testimonio il grande s. Luigi re di Francia, il quale se ne riputava più onorato che del titolo di re, poiché segnava il suo nome Luigi di Poissij, perché aveva in quel luogo ricevuto il Battesimo. Concepiamo anche noi la dovuta stima per quest’augusta qualità che ci rende figliuoli di Dio, ci fa eredi del suo regno e membri di Gesù Cristo. Sì, fratelli miei , voi siete divenuti per mezzo del Battesimo membri di Gesù Cristo; è lo stesso apostolo S. Paolo che ve ne assicura. Non sapete, diceva egli a quei di Corinto, che i vostri corpi sono i membri di Gesù Cristo: Nescitis quoniam corpora vestra membra sunt Christi (1 Cor. VI) ? Or come mai, per via del Battesimo, siete voi stati incorporati con Gesù Cristo? Si è che questo Sacramento vi ha dato l’entrata nella Chiesa , che è il corpo mistico di cui Gesù Cristo è il capo. Voi siete per lo Battesimo aggregati a questa nazion santa, a questo popolo eletto che Gesù Cristo ha col suo sangue acquistato. Voi fate parte di questa Chiesa ch’egli ha santificata, come dice l’Apostolo, e purificata nel Battesimo d’acqua per farla comparire avanti di Lui piena di gloria, per associarsela come sua sposa. Ora, da che voi siete membri della Chiesa, di cui Gesù Cristo è capo, voi partecipate delle grazie ch’Egli le comunica, voi siete animati del suo Spirito, voi ricevete da Lui la vita, siccome un membro la riceve dal corpo, e per servirmi del paragone di cui servesi Egli stesso, voi uniti gli siete come il tralcio della vite è unita al suo ceppo da cui riceve il nutrimento, unione sì intima che la paragona anche a quella ch’ Egli ha col suo Padre: Tu in me, et ego in eis (Jo. XVII). E che di più glorioso? Voi siete ancora per via del Battesimo fratelli di Gesù-Cristo, non solo perché Egli ha preso una natura simile alla vostra, ma perché, essendo Egli figliuolo di Dio per sua natura, e voi per adozione, associati vi ha ai suoi diritti, facendovi coeredi del suo regno: cohæredes Christi (Rom. VIII). Eccovi dunque in qualità di Cristiani figliuoli di Dio, fratelli di un Dio, aggiungiamo, tempio dello Spirito Santo, che è Dio. Questo è sempre il linguaggio di s. Paolo: non sapete voi, che i membri sono tempio dello Spirito Santo che abita in voi? Nescitis quia vos eslis templum Spiritus Sancti qui habitat in vobis (1 Cor. III)? Questo divino Spirito, che era portato più particolarmente sopra le acque del Battesimo che sopra quelle che sparse erano al principio del mondo, vi elesse sin d’allora per sua abitazione. Vi purificò, vi santificò e impresse in voi un sacro e indelebile sigillo che noi chiamiamo carattere del Battesimo, carattere che distingue i Cristiani dagl’infedeli e che vien rappresentato dal santo crisma, con che ci viene amministrato questo Sacramento: unxit nos, signavit nos (2 Cor. 1). Non solo lo Spirito Santo santificò le vostre anime ma ancora i vostri corpi per esser tempi vivi a lui consacrati, in cui dovete fargli il sacrificio delle vostre passioni, offrirgli l’incenso delle vostre preghiere, l’omaggio dei vostri cuori. Avete mai fatto riflessione, fratelli miei, ad una cerimonia che fa la Chiesa all’esequie de’ fedeli? Perché mai la stessa mano del sacerdote che offre l’incenso al Dio vivente incensa i corpi dopo la morte? Qual rispetto, qual onore meritano dunque questi corpi che debbono fra poco essere pascolo dei vermi? Non ne meritano alcuno da se stessi; ma questi corpi sono stati consacrati dallo Spirito Santo nel Battesimo, sono divenuti sua abitazione; ecco ciò che li rende sì rispettabili, ciò che li fa onorare dopo la loro morte, ciò che fa seppellirli in luoghi santi, perchè crederebbesi profanarli mettendoli altrove. Riconoscete dunque, o Cristiani, l’eccellenza di vostra vocazione al Cristianesimo: Agnosce, o Christiane, dignitatem tuam. Riconoscetela, dico, per non degenerar dalla nobiltà di vostra origine: Iddio per una grazia particolare vi ha separati dalle altre nazioni che ha lasciate nelle tenebre; per chiamarvi all’ammirabile sua luce: Non fecit taliter omni nationi (Psal. 147). Vi ha innalzati ad una dignità che supera tutto ciò che le corone del mondo hanno di più grande e di più brillante: qual riconoscenza dunque non gli dovete per un dono così prezioso? Gratias Deo super inenarrabili dono eius (2 Cor. IX). Ma questa qualità sì augusta è forse quella di cui facciasi più stima nel mondo? Si vantano alcuni delle ricchezze, della nascita, degl’impieghi: mettono in mostra agli occhi degl’uomini titoli pomposi, che altro non sono che fumo, e poi non fanno alcun caso del nobil carattere di Cristiano di cui son rivestiti. Che dico? ben lungi dal gloriarsene hanno vergogna di comparirlo, arrossiscono a darne un qualche segno, credono un disonore il trovarsi alle assemblee di pietà, alle cerimonie della Chiesa, le quali sono una professione pubblica del Cristianesimo: voglia Dio che non le mettano ancora in derisione! Ben lungi dal sostenere la Religione contro gli empi che l’assalgono, osservano un colpevole silenzio, il che è un disapprovarla, si uniscono eziandio a quelli che la combattono, per farle guerra; ose non l’attaccano con parole, la disonorano con una condotta, irregolare. Si contentano di portar il nome di Cristiano senza curarsi di adempierne i doveri. Quali sono questi doveri? Soggetto del secondo punto.

II.°  Punto. Per darvi subito un’idea dei doveri e della santità del Cristianesimo, bisogna considerare questo stato sotto due rapporti, che ne racchiudono tutte le obbligazioni. Noi dobbiamo riguardare il Cristianesimo come uno stato di separazione e di consacrazione; questa idea segue naturalmente da ciò che abbiamo detto della dignità del Cristianesimo. Ed invero, se il Battesimo vi libera dalla schiavitù del demonio e del peccato, ne segue da questo che voi rinunciar dovete al peccato e a tutto ciò che può essere per voi occasione di peccato. Se voi avete contratta nel Battesimo una sì augusta alleanza con le tre Persone dell’adorabile Trinità, divenendo figliuoli di Dio, membri e tempi di un Dio, quei gloriosi titoli v’impegnano a consacrarvi al servizio di Dio in un modo che corrisponda alla scelta ch’Egli ha fatto di voi, e alla dignità cui vi ha innalzati. Tale è la santità che l’apostolo s. Paolo esigeva dai primi Cristiani, allorché li esortava ad operare come persone morte al peccato e viventi della vita di Dio: Existimate vos mortuos peccato, viventes autem Deo (Rom. VI). Sì, tutti quanti noi siamo, aggiunge egli, siamo stati in Gesù Cristo battezzati nella sua morte; imperciocché noi siamo stati con lui sepolti per morire, affinché, come Gesù Cristo è risuscitato, meniamo pure noi una nuova vita. Dobbiamo tener per certo, continua quest’Apostolo, che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con Gesù Cristo, affinché il corpo del peccato sia in noi distrutto, e noi non ne siamo più gli schiavi. Che cosa c’insegna quest’ammirabile dottrina di s. Paolo? Se non che il Cristianesimo è uno stato di morte, poiché paragona il Battesimoalla morte di Gesù Cristo; e che, essendo Gesù Cristo veramente morto, noi altresì dobbiam morire, morire per via del Battesimo; dico di più, non solamente morire, ma essere sepolti, cioè dobbiamo rinunciare interamente al peccato e non avere alcun affetto per tutto ciò che può essere per noi occasione di peccato. E non è altresì, fratelli miei, quel che v’han fatto promettere al Battesimo allorché vi presentarono alla Chiesa per essere ammessi nel numero dei suoi figliuoli? Vi fu domandato se rinunziavate a satanasso, alle sue pompe, alle sue opere: Abrenuntias satanæ? Voi rispondeste per bocca dei vostri padrini che vi rinunciavate: Abrenuntìo. Voi faceste adunque allora un trattato con Dio, una promessa solenne in faccia della Chiesa, di cui il cielo e la terra furono testimoni. Questa promessa fu non solo inserita nei registri del Battesimo, ma ancora nel libro della vita, dice s. Ambrogio; Iddio ne conserverà sempre la memoria. Ora in che consistevano queste promesse che voi faceste di rinunziare a satanasso, alle sue pompe e alle sue opere? Voi agevolmente lo comprendete, e non è bisogno di dirvelo. Voi prometteste a Dio che, se avevate avuto la disgrazia di essere divenuti, per una volontà straniera, schiavi del demonio, non volevate più esserlo per vostra elezione: gli prometteste che il peccato non regnerebbe più in voi; che eravate perciò risoluti di resistere a tutti gli assalti del nemico della salute e di rinunziare a tutti gli oggetti capaci a dargli l’entrata nel vostro cuore. Ecco ciò che s’intende per le pompe e le opere di satanasso. Ma quali sono quegli oggetti di cui servesi il demonio per pervertirvi e a cui voi avete rinunziato? Sono i beni,gli onori, i piaceri del mondo, le massime perniciose che egli spaccia, i cattivi esempi che vi si vedono: ecco le attrattive che il demonio presenta agli uomini per farli cadere nei suoi lacci; li tenta con l’amore dei beni terreni, affinché, attaccandovi il cuore; più non pensino ai beni eterni che Dio ad essi riserba nel cielo; li abbaglia con lo splendor degli onori, affinché, perdendo di vista il loro niente, s’innalzino e di poi precipitino nel profondo degli abissi; li tiene a bada con l’incanto de’ piaceri per render la loro carne ribelle alla legge di Dio. Che cosa dunque dovete voi fare, fratelli miei, per adempiere le promesse con che vi siete obbligati nel Battesimo? Dovete staccarvi da’ beni del mondo, disprezzare i suoi onori, morire ai suoi piaceri. A ciò vi esorta il discepolo diletto allorché vi dice di non amar il mondo né tutto quello che v’è nel mondo: Nolite diligere mundum (1 Jo. III). Imperciocché tutto ciò che è nel mondo, dice egli, è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi, superbia della vita. Siete voi provveduto di beni di fortuna? Non vi attaccate il vostro cuore, ma fatene un santo uso ed impiegateli a soccorrere i mendici! Siete voi in uno stato di povertà ? Adorate i disegni della provvidenza, che vi ha posti in quello stato, e non invidiate la felicità dei ricchi, la quale si cambierà per molti di essi in una miseria eterna. Fuggite gli onori e la gloria come uno scoglio fatale alla salute dell’ anima: un vero Cristiano fa consistere la sua gloria nei disprezzi e nelle umiliazioni. Morite finalmente a’ piaceri dei sensi con una continua mortificazione delle vostre passioni; poiché, per appartenere a Gesù Cristo in qualità di Cristiano, bisogna, dice s. Paolo, crocifiggere la propria carne con le sue concupiscenze: Qui Christi sunt carnem suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiis (Gal. V). Ecco, fratelli miei, gli obblighi che avete contratti nel Battesimo;ecco lo stato di morte in cuidovete essere per rassomigliare a GesùCristo morto. Non basta ancora morire,bisogna essere con Gesù Cristo sepolti: Consepulti sumus cum Christo (Rom. VI). Un uomo morto non ha più commercio col mondo, ma il mondo ne ha ancora con lui, gli si rendono onori: ma un uomo nel sepolcro è interamente dimenticato dagli uomini. Tale è la situazione in cui dovete essere per rapporto al mondo: voi dovete essere crocifissi al mondo: ed il mondo deve essere a voi crocifisso, come dice l’Apostolo: Mihi mundus crucifixus est, et ego mundo (Gal. VI). Se il vostro stato vi obbliga a viver nel mondo, voi dovete starvi come se non vi foste; vivere in una specie d’indifferenza per tutti gli oggetti creati, di modo che non siate né afflitti dalle disgrazie né invaghiti dai piaceri; siate così indifferenti alla gloria come al disprezzo, alla stima come alla obblivione degli uomini. Ecco in che consiste questa morte e questa sepoltura mistica che deve rappresentare la morte e la sepoltura di Gesù Cristo: Consepulti sumus per baptismum in mortem (Rom. VI). Ma quanto è mai raro, fratelli miei il trovare Cristiani così fedeli alle promesse del Battesimo che muoiano al peccato e alle pompe del secolo, e si seppelliscano con Gesù Cristo, e non abbiano alcun affetto ai piaceri del mondo! Quanti all’opposto se ne vedono che fanno rivivere in sé il peccato; che, dopo essere stati illuminati dalla luce della grazia, dopo avere gustato il dono celeste lo calpestano coi piedi, perdono a sangue freddo la veste d’innocenza col cattivo uso che fanno della loro libertà? Oimè! appena conservano questa grazia battesimale nella più tenera età; subito che la ragione comincia a svilupparsi dalle tenebre dell’infanzia, il primo uso che ne fanno si è di perdere col peccato questa grazia, che è il frutto della morte di un Dio! Almeno, dopo averla perduta si sforzassero di ricuperarla con la penitenza, che è come un secondo Battesimo; men grande sarebbe allora la disgrazia: ma no; ben lungi dallo spezzare le loro catene, ne accrescono il peso con nuovi peccati; persistono ostinatamente in quel funesto stato; mantengono ree pratiche, attaccamenti illeciti, che romper non vogliono; si fan gloria di camminare sotto gli stendardi del demonio, cui hanno rinunciato nel Battesimo. Oh Cristiani indegni, Cristiani infedeli alle vostre promesse questo è ciò che Dio doveva da voi attendere quando tratti vi ha dalle ombre della morte per darvi una nuova vita? Questo è ciò che la Chiesa sperava da voi quando vi ha ricevuti nel numero de’ suoi figliuoli? Voi le avete promesso che rinuncereste a satanasso, alle sue pompe e alle sue opere; ma non diremmo piuttosto che avete promesso di seguire il partito del demonio, di ricercare le sue pompe e le sue opere, tanto vi vediamo attaccati ai beni del mondo, ai piaceri de’ sensi, alle massime e alle costumanze del secolo; tanto vi vediamo solleciti pei giuochi, per gli spettacoli, le adunanze dei piaceri, dove presiede il principe delle tenebre e dove egli ruba tante anime a Gesù Cristo? invece di onorare il vostro carattere con la santità delle azioni, voi lo disonorate con una condotta del tutto irregolare, con una vita affatto pagana. Or sappiate che quel carattere che vi è stato dato e che servir doveva a vostra salute, servirà un giorno a farvi condannare con maggior rigore. Si produrrà contro di voi al giudizio di Dio questa veste d’innocenza che avete profanata con azioni peccaminose e vi si dirà: Ecco, o perfido, la veste di cui fosti rivestito quando ricevesti il Battesimo. Doveva questa veste darti l’entrata nel convito delle nozze eterne; me perché tu l’hai perduta col peccato, interdetta ti sarà per sempre l’entrata. Porterai per tua confusione durante tutta l’eternità il carattere che hai ricevuto nel Battesimo; ma, distinguendoti dagli altri reprobi, non servirà che a procacciarti dal canto loro i rimproveri più amari. Per scansare una tale disgrazia, fratelli miei, morite al peccato e a tutte le lusinghe del peccato: questo è il primo passo che far dovete nella strada cristiana; voi adempirete con ciò la prima promessa del Battesimo, che è uno stato di separazione. Ho aggiunto uno stato di consacrazione. Sì, fratelli miei, per esser fedele alle promesse del Battesimo, non basta vivere separato da tutto ciò che costituisce l’uomo vecchio, bisogna ancora consacrarsi a Dio; vale a dire che dopo esser morto convien risuscitare, convien menare una vita nuova che rassomigli a quella di Gesù Cristo risuscitato: viventes autem Deo (Rom. VI). Or, ecco in che consiste questa vita nuova, questa consacrazione.In qualità di figliuoli di Dio voi dovete ubbidirgli; come membri e fratelli di Gesù Cristo, dovete conservarli in uno stato di purità e di Santità che corrisponda alla scelta che Egli ha fatto di voi per essere la sua abitazione. Qual cosa più giusta che i figliuoli rendano al loro padre l’ubbidienza che gli debbono? Dio ha diritto sopra la nostra in qualità di padrone e di creatore; ma ce la richiede ancora sotto l’amabil titolo di padre. Vuole sottometterci al suo impero  piuttosto perla strada dell’amore e delle ricompense che per quella del timore e dei castighi. Possiamo noi ricusargli questa ubbidienza che gli è per tanti titoli dovuta? E non dobbiamo noi, in qualità di figliuoli, farci un dovere di compiere in tutto la sua volontà? Ah! Signore, dobbiam dire, comandate tutto quel che volete, noi siamo pronti ad ubbidirvi in tutto; bastaci di conoscere che una cosa vi piaccia per farla con diletto, o ch’ella vi dispiaccia per evitarla sollecitamente. Con tutto ciò dove è, fratelli miei, la vostra docilità e la vostra esattezza a fare la volontà di Dio? Nella vostra condotta qual regola seguite? Ciò che vi fa risolvere nelle vostre azioni non è piuttosto la vostra propria volontà che quella di Dio? Voi osservate, è vero, alcuni capi della legge, quando vi trovate il vostro interesse, quando la vostra comodità ve lo permette il vostro umore vi si accomoda ma a quei punti che molestano le vostre passioni, che ripugnano al vostro amor proprio, voi non volete in alcun modo assoggettarvi. Non ha dunque ragione il Signore di dirci quel che diceva altre volte per un profeta ad un popolo che gli era ribelle: Se io sono vostro Padre, dov’è l’onore che mi dovete? Non mi disonorate voi all’opposto con le vostre resistenze ai miei voleri, con gli oltraggi che fate alla mia gloria? –  Voi siete ancora per via del Battesimo membri e fratelli di Gesù Cristo. Come membri, dovete essergli uniti con una viva fede, una ferma speranza, una carità ardente. Se ne siete separati per il peccato, voi non siete che un membro morto, indegno d’appartenere ad un sì nobile capo. Come fratelli di Gesù Cristo voi dovete imitarlo;cioè voi dovete esser animati dal suo spirito, seguir le sue massime, imita i suoi esempi. Or quali esempi di virtù non ci ha dati Gesù Cristo? Qual povertà, quale umiltà, qual pazienza, qual mansuetudine non ha Egli mostrata in tutta la sua vita ? Che cosa è dunque un vero Cristiano? E un uomo che si fa gloria di esser discepolo di Gesù Cristo, che pensa, che parla, che opera come Gesù Cristo, che regola tutte le sue azioni sopra quelle di Gesù Cristo, che in ogni cosa se lo propone per modello. È un uomo umile negli onori, povero nell’abbondanza, paziente ne’ patimenti, che vive in pace co’ suoi fratelli, che perdona ai suoi più crudeli nemici. È un uomo raccolto in Dio, riserbato nelle sue parole, giusto nelle sue azioni, regolato nei suoi costumi, moderato nelle sue passioni, che porta incessantemente sopra il suo corpo la mortificazione di Gesù Cristo, di modo che dir può, come l’Apostolo, che non è egli che vive, ma che Gesù Cristo vive in lui: Vivo ego, iam non ego, vivit vero in me Christus (Gal.II) . A questi tratti riconoscete, fratelli miei, se siete Cristiani. Ah quanto vi vuole,affinché render vi possiate una tale testimonianza! La superbia, l’interesse, l’amore dei piaceri, la vendetta e le altre passioni che vi predominano, formano in voi un ritratto ben diverso da quello che vi ho fatto di un discepolo di Gesù Cristo. Voi ne portate il nome, è vero; voi date alcuni segni di Cristianesimo, recitate alcune preghiere, assistete alla Messa, ai divini uffizi, siete aggregati a qualche Confraternita; ma con tutto questo voi non avete lo spirito di Gesù Cristo, voi non volete portar la sua croce, contentate i vostri sensi e le vostre passioni, amate i beni, gli onori, i piaceri, che Gesù Cristo ha avuti in odio; dunque non gli rassomigliate né siete suoi fratelli. Ora, se voi non siete fratelli di Gesù Cristo, come sperar potete di essere gli eredi del suo regno? Cangiate dunque di condotta, o cangiate di nome. Finalmente, fratelli miei, divenuti voi siete per via del Battesimo i tempi dello Spirito Santo, ed in questa qualità conservar dovete i vostri corpi e le vostre anime in una purezza inviolabile che ne bandisca a ogni peccato a questa virtù contraria. Perciocché sappiate, dice il grande Apostolo, che se qualcheduno profana il tempio del Signore, Iddio lo perderà: Si quis violaverit templum Domini, disperdet illum Dominus (1 Cor. III). Ora si è profanar il tempio del Signore il dare il suo cuore alle creature e lasciarvi bruciare un fuoco straniero in pregiudizio dell’amore che voi dovete a Dio. Egli è profanare il tempio del Signore imbrattare i vostri corpi con piaceri brutali, con libertà illecite, che sono in un Cristiano una specie di sacrilegio. Colpevoli di una tal profanazione, temete il castigo con cui punito verrà questo peccato: disperdet illum Dominus. E certamente, fratelli miei, un sì nero attentato potrebbe forse essere troppo rigorosamente punito? Mentre qual indegnità i membri di Gesù Cristo farli membri di una prostituta? Tollens membra Christi, faciam membra meretricis? Absit (1 Cor. VI). A Dio non piaccia, dovete dire, allorché il nemico della salute v’incita a qualche peccato vergognoso, allorché vuole impegnarvi in qualche pratica peccaminosa: Absit. A Dio non piaccia che io commetta giammai azione alcuna contraria alla purezza del Cristianesimo. Absit. A Dio non piaccia ch’io n’abbia neppur il desiderio o il pensiero. Absit.

Pratiche generali. Per preservacene, ricordatevi, fratelli miei, che voi siete divenuti nel Battesimo membri di Gesù Cristo tempi dello Spirito Santo; sappiate che non siete più padroni di voi, ma siete particolarmente consacrati alle tre auguste Persone della Trinità santissima, che dovete per conseguenza esser uomini affatto celesti. Tali erano i primi Cristiani, cui voi succedete nella professione della medesima Religione. Perché non ho io qui tempo di rappresentarvi la santità della loro vita? Non potrei darvi migliori pratiche per insegnarvi ad adempiere i doveri del Cristianesimo. Erano si ferventi che passavano i giorni e le notti in orazioni; sì staccati dai beni del mondo che nulla possedevano di proprio; si nemici dei piaceri che vivevano in continua mortificazione; sì uniti gl’uni con gl’altri che non facevano tutti che un cuor solo ed un’anima sola: sì caritatevoli verso i loro fratelli che, ben lungi dal disputar sopra l’interesse, gareggiavano all’opposto chi facesse più di bene l’uno all’altro, sì poco amanti della vita che offerivansi volentieri alla morte per guadagnar una beatitudine eterna. Siate voi pur tali, fratelli miei, e sarete perfetti Cristiani. Erano essi uomini come voi, soggetti alle medesime debolezze che voi, ed avevano anche più ostacoli a superare che voi per compiere i loro doveri; e perché non farete voi quel che han fatto essi; giacché sperate la medesima ricompensa?

Pratiche Particolari. Ringraziate ogni giorno Iddio del benefizio inestimabile di vostra vocazione al Cristianesimo; ma principalmente il giorno in cui avete ricevuto il sacramento del Battesimo, celebratene l’anniversario con l’accostarvi ai Sacramenti; rinnovate alla Chiesa presso i fonti battesimali le promesse che avete fatte di morire al peccato, di rinunciare a Satanasso, alle sue pompe e alle sue opere, ai beni, ai piaceri, agli onori del secolo, per vivere della vita di Dio. Non vi vergognate mai, ma fatevi una gloria di comparir Cristiani: soprattutto in certe occasioni in cui si tratta di difendere la vostra Religione contro i discorsi degli empi. Siate assidui ai divini uffizi, alla adunanze di pietà, che mantengono il fervore del Cristianesimo; fuggite le assemblee mondane, in cui se ne perde lo spirito, Allontanatevi principalmente da quelle che si fan nelle veglie, durante l’inverno, in certe case dove la virtù più soda è esposta a perire col veleno dei discorsi osceni, delle canzoni lascive che si ascoltano, degli oggetti pericolosi che vi si vedono, (all’uscire dalle quali si trovano lacci funesti alla purità e all’innocenza. Rammentatevi che i piaceri del secolo non sono per i Cristiani; il nostro regno non è di questo mondo, noi non dobbiamo cercare la nostra consolazione che nel Signore, come dice s. Paolo: Gaudete in Domino (Philip. IV). Diportatevi dappertutto con modestia, ricordandovi che il Signore è vicino a voi, per nulla fare d’indegno del santo carattere Di cui rivestite siete. Per richiamarvi questa presenza di Dio, fate al principio delle vostre principali azioni il segno della croce, che è il segno del Cristiano. In una parola, operate in tutto con una maniera degna della vocazione cui siete stati chiamati, per giungere alla felicità che essa vi assicura. Cosi sia.

CREDO …

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Offertorium

Orémus
Ps LXXXIV:2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob: remisísti iniquitatem plebis tuæ. [Hai benedetto, o Signore, la tua terra: liberasti Giacobbe dalla schiavitù: perdonasti l’iniquità del tuo popolo.]

Secreta

Devotiónis nostræ tibi, quǽsumus, Dómine, hóstia iúgiter immolétur: quæ et sacri péragat institúta mystérii, et salutáre tuum in nobis mirabíliter operétur. [Ti sia sempre immolata, o Signore, quest’ostia offerta dalla nostra devozione, e serva sia al compimento del sacro mistero, sia ad operare in noi mirabilmente la tua salvezza.]

Comunione spirituale:

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Communio

Is XXXV: 4.
Dícite: pusillánimes, confortámini et nolíte timére: ecce, Deus noster véniet et salvábit nos. [Dite: Pusillànimi, confortatevi e non temete: ecco che viene il nostro Dio e ci salverà.]

Postcommunio

Orémus.
Implorámus, Dómine, cleméntiam tuam: ut hæc divína subsídia, a vítiis expiátos, ad festa ventúra nos præparent. [Imploriamo, o Signore, la tua clemenza, affinché questi divini soccorsi, liberandoci dai nostri vizii, ci preparino alla prossima festa.]

Preghiere leonine:

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Ordinario della Messa:

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Ite, Missa est.
R. Deo gratias.

LO SCUDO DELLA FEDE (90)

(Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884) (1)

PARTE PRIMA

CAPO I.

Fine dell’autore in quest’opera, e via che tiene.

I

I. Nulla con maggiore studio coltivano i giardinieri nelle loro piante, che la radice. Questa innaffiano, questa impinguano, questa amano d’internar sempre più nel suolo, perché sia forte. Beati però i fedeli, se tutti con ansia simile coltivassero in sé la radice di ogni loro felicità, che è la fede! Sarebbero tutti quell’albero di vita non deficiente, di cui, non pure le frutta, ma insin le frondi, son sì salubri alle genti, per lo esempio di ogni virtù. Ma la notizia contratta in cinque lustri già di missioni, mi ha fatto scorgere, quanto sia grande il bisogno che tengon molti di attendere a tal cultura; mentre essi, in vece di procurar che la fede alligni profondamente dentro il cuor loro, lasciano che per poco ella giunga ad inaridirvi. Se non arrivano a tenerla per falsa, arrivano a sospettarne, che è quanto basta a darle tosto una morte, meno vergognosa all’aspetto, ma non men cruda: Dubius in fide infìdelis es (Cap. I . hæret.) né può non esser tale, mentre egli tien per incerta, col dubitarne, una fede certa (Come nell’ordine della rivelazione chi dubita della fede è infedele, come nell’ordine della ragione chi pone in forse il Vero, è scettico. Il dubbio è morte dell’anima, perché uccide d’un colpo e scienza e fede).

II. Né questo eccesso è sì rado, come alcun pensasi. Mercecchè l’impegno serve a più d’uno, come quei vetri di prima vista, che quanto più fedelmente espongono all’occhio tutti gli oggetti vicini, tanto più alteratamente lo informano de’ lontani. Quel sapere con qualche spezial perizia ciò che appartiene alle verità naturali, confinanti co’ sensi, altera ad alcuni tanto la mente piena di sé, che fa loro concepire disordinatamente le verità che oltrepassano la natura (Profonda osservazione, che si avvera segnatamente a’ di nostri, in cui il culto smodato delle scienze fisiche, chimiche e naturali, non sorretto dal culto dello discipline ideali e speculative, minaccia di ingoiare in un brutale materialismo la società e la scienza). Tanto più, che spinto da vana curiosità di girare il mondo, viaggia bene spesso più di uno di questi per province infettate dalla eresia, ne osserva i riti, ne ode i ragionamenti; e ritornando alla patria con opinion che finalmente tutto il mondo è paese, vi riporta il veleno che concepì nell’incauto pellegrinaggio: sicché, non diversamente di chi fu morsicato da can rabbioso, si manifesta indi a poco non solo avvelenato dentro di sè, ma avvelenatore: Tantum remanet virus, excepto semel malo, ut venefici fiant, venena passi: (Plin. L. 28, c. 3) Quindi il motteggiare continuo sopra la fede e sopra la vita di là ch’ella rivela, ricercandone prove alquanto più chiare, per darle assenso; e quindi parimente il recarsi a gloria un intelletto non pago agli oracoli usciti dal Vaticano, e il reputarsi un miracolo di saviezza, perché sa dubitare di quei miracoli più famosi che da altri sono riveriti a chius’occhi, ed anche, se bisogni, sa dileggiarli.

III. Tali sono i turbini e le tempeste che si generano, dirò così, in questa mezzana region dell’aria, di una mente, né ignorante a sufficienza, né dotta; è sollevata sopra il saper comunale, ma non più su di ciò che lo dettino i sensi, comuni ai bruti, tempeste e turbini, che scendono con rovina su le campagne soggette: tanto un sol di costoro, né eretico, né cattolico, ma già candidato dell’ateismo, è talvolta bastevole a dare il guasto a gran parte del suo paese, e malmenare mille anime, con poca speranza ormai di loro ristoro, mentre in esse marcisce quel primo germe di ogni ravvedimento qual è la fede.

II.

IV. Adunque per desiderio di riparare a tanta rovina mi sono indotto a dar fuori un piccolo libro, da cui si additi a questi traviati il sentier diritto a trovare la verità: che è capir bene l’evidentissimo merito che ha la Fede Cattolica sopra ogni altra, di essere riputata infallibilmente quella che essa è, cioè data dal cielo. Dissi il sentier diritto a trovare la verità: perché il cercar questa nel lungo esame de’ suoi principali articoli ad uno ad uno, è il cercarla per un laberinto piuttosto di tanti giri, che l’uscir da uno sarebbe l’entrar nell’altro più interminabile ad un cervello contenzioso. – La Religione non ha mestieri di provare gli arcani della sua dottrina celeste, ma solamente di esporli. Ciò che ella debbo provar di necessità è che Dio stesso ne sia stato l’Autore. Dopo tal prova rimane affatto evidente che senza altro esaminamento si hanno a credere tutti gli articoli di essa con più fermezza di quella che si rende alle stesse dimostrazioni scientifiche, mercecchè nel credere quelli fermiamo i pie’sopra una base più immota e più incontrastabile, qual è la divina veracità.

V. E questa è la differenza della fede dovuta alle parole di Dio, e alle parole dell’uomo: che all’uomo, siccome a quello che agevolmente può ingannar per malizia, o essere ingannato per ignoranza, non si deve credere, se non si è prima esaminato il suo detto: Non omni verbo credas. Quis est enim, qui non deliquerit in lingua sua? (S. Thom.) Ma a Dio, nella cui lingua non può cadere né fallo, né falsità, si deve questa giustissima riverenza, che ove Egli ci porga indizi già sufficienti di aver parlato, ricevasi ciecamente la sua dottrina senza obbligarlo a provarcela: Quis est adeo impius, et a Deo alienus, qui Deo non credat, et probationem postulet, sicut ab hominibus? , (Clem. Alex. I. 5. Strom. sub init.) Un bambino innocente, certificato di stare in seno alla madre, non cerca più. Sugge, ad occhi ancor dormigliosi, l’alimento vitale che da lei sgorga.

VI. Pertanto la vera Religione cammina fra due estremi tra loro opposti, l’uno di una supina ignoranza, l’altro di una insaziabil curiosità (Questo, che qui l’autore dice della vera Religione, va, a mio avviso, ripetuto del vero sapere umano, il quale si tiene in un giusto punto di mezzo tra la crassa ignoranza e l’insaziabile brama di sfondare i misteri dell’universo). Onde nel credere ella non è né corriva né calcitrosa. I turchi sono sì lungi dal saper dar ragione della lor fede; che anzi han pena la vita a disaminarla; mostrando in questo medesimo di che panno sia quella pezza, che non si può né vendere da veruno, né comperare, se non a botteghe scure. I filosofi puri vogliono, che la fede serva alla scienza, negando con Abailardo di assentire a punto di ciò che essi non capiscono (Ex s. Bern. epist. 190. ad Innoc.) il che è fare alla fede un torto maggiore di quel che farebbe all’oceano chi si ostinasse a contendere se si trovi, mentre nol può comprendere verun fosso; là dove questa dote medesima della sua vastità tanto sterminata gli dà merito di riportare tributo da tutte le acque.

VII. La vera Religione però tiene la via di mezzo che è la reale. Né si arroga di porre in chiaro a veruno con ragioni naturali la verità de’ suoi misteri (siccome quelli che per la sublimità della loro sfera trascendono la capacità natia di ogni intelletto, non pure umano, ma angelico), né lascia di dimostrare quello che basta ad obbligar che si credano fermamente; e ciò è che sono rivelati dal cielo. Il che fa ella con tale evidenza di credibilità, che gli argomenti, su cui la fonda, né convengono ad altra setta, né si può dare mai caso che le convengano, almeno tutti: donde ne segue che, come sapientissimamente ella è confessata da’ suoi fedeli per vera; così stoltissimamente è negata dagl’infedeli, degni per tal capo di piangere in una notte perpetua la ribellione che usarono a tanto lume.

VIII. Questi argomenti però andremo qui disponendo in tale ordinanza, che facciano alla verità, non sol corteggio, ma guardia; mentre ciascun da sé, e molto più tutti insieme, dovran costringere qualunque sano intelletto a ravvisare la Religione verace tra mille false: sicché chi mai non l’ha trovata la trovi; e chi la trovò, e poi per sua disgrazia venne a smarrirla, di subito la ricuperi, e tranquillato ogni dubbio, doni finalmente al suo credere quella pace, di cui l’Apostolo ci voleva pieni in un atto di tanto prò: Repleti pace in credendo (Rom. XV, 13).

III.

IX. Ma per non tralasciare veruna difficoltà, che qual piazza nimica, rimasta alle spalle, porga ai miscredenti occasion di fortificarvi si a loro danno, noi ci faremo da capo con provar ciò, che sarebbe noto dai termini (come sono i principi), se i termini si apprendessero con chiarezza, ed è che v’è un Dio, unico, universale, prima cagione di tutto l’esser creato. Appresso noi mostreremo che di tal esser creato ne ha Dio provvidenza; ma che speziale Egli l’ha ancora dell’uomo, la cui anima faremo poi vedere di proposito che è immortale. E quindi conchiuderemo la prima parte dell’opera col dedurre che dunque su la terra vi sia qualche Religione, e religion vera, sotto cui conviene arrolarsi. Nella seconda parte ci avanzeremo a manifestare che questa Religion vera altra non può essere al certo, che la Cattolica: il che perché meglio apparisca, non faremo altro che metterla al paragone con quelle religioni che a lei fan guerra (Il processo tenuto qui dall’autore è all’intuito logico e naturale, siccome quello, che va dalla ragione alla fede, e giustifica di tutto punto il titolo posto in fronte all’opera, l’incredulo uopo è pigliarlo sul terreno medesimo, in cui è collocato, quello cioè della ragione, per fargli toccar con mano, che se egli si ribella alla guida della ragione, che lo conduce alla fede, è proprio senza scusa. La ragione pronuncia l’esistenza e la provvidenza di Dio, l’immortalità dell’anima umana, la necessità di una Religione vera; e da questi re solenni pronunciati della ragione debbe pigliare le mosse la polemica e l’apologetica cristiana).

X. Dove è da considerare che la infedeltà può al presente commettersi in tre maniere. o contra la fede di Cristo già ricevuta nel suo perfetto chiarore di verità; e così mancano gli eretici, i quali ammettono, o fanno almanco professione di ammettere ambo i testamenti, il vecchio ed il nuovo, e poi li vogliono interpretare a capriccio, per non seguirli. O contra la fede di Cristo ricevuta solo nel suo chiarore imperfetto, e piuttosto in ombra; e così mancan gli ebrei, i quali ammettono il testamento vecchio, ma non il nuovo, quantunque al nuovo fosse da Dio, qual figura, ordinato il vecchio. O contra la fede di Cristo non ricevuta in modo alcuno; e così mancano finalmente i pagani, che non ammettono né il testamento vecchio, ne il nuovo, ma per legislatori hanno gli uomini, non han Dio.

XI. Al paragone dunque del paganesimo, dell’ebraismo, della eresia, noi metteremo la Religione Cattolica, affinché il confronto faccia spiccar più chiara la verità, sino alle menti più deboli. La porpora adulterata può agli inesperti da lontano piacere a par della vera, ma non d’appresso: Et lana tincta fuco, citra purpuram placet, non si contuleris. Se non che non altro paganismo oggimai pare aver più nome, che quello de’ maomettani annoverati ancor loro, e dalle leggi civili, e dalle canoniche, in detta classe. E però invece del paganismo, pigliato in più largo senso, noi più individualmente verremo sempre a ferire, dove abbisogni, il maomettanismo. E dissi dove abbisogni; perché non andremo con ordine ad investire prima l’uno di questi tre generi di infedeli, e poi l’altro e poi l’altro, quasi in tre duelli distinti; ma ora tutti insieme gli assaliremo, ora a corpo a corpo, secondo la varia forza degli argomenti che si porranno in opera al nostro fine.

XII. Il modo di argomentare sarà indi proporzionato al modo di discorrere che ha ciascuna di tali sette. Nella prima parte, pugnando con gli ateisti, i quali non conoscono religione di alcuna guisa, ma le deridono tutte, non addurremo altre prove, che le conformi al dettame della ragione. E così ancora faremo nella seconda coi maomettani, i quali nella religion loro non fanno caso delle scritture divine, superiori ad ogni ragione. Delle scritture divine, congiunte in lega con la ragion naturale, noi ci varremo contro gli ebrei e contro gli eretici, giusta quella parte di esse che nessuno di loro può ripudiare, se non va a militare sotto altro culto, qual è quello del paganismo.

IV.

XIII. Vero è che in questa mia qualunque fatica non ho io per fine di giovare solamente agl’increduli, anzi molto più l’ho di giovare ai fedeli. Conciossiachè quantunque tutta quella evidenza di credibilità, di cui la nostra Religione va adorna, non basti ad ingenerar quell’assenso immobile in cui consiste la fede; ma si richiegga per esso un dono infuso da Dio soprannaturalmente nel cuor dell’uomo, conforme a quel dell’Apostolo a’ Filippensi (1. 29): Vobis donatum est prò Christo, ut in eum credatis, contuttociò quella evidenza conferisce in estremo a ricevere un dono tale. Mercecchè la volontà dopo aver bene appreso dall’intelletto il merito sommo che ha la Religione di Cristo ad esser creduta, comanda all’intelletto con pieno impero che credala fermamente cattivando, dov’egli non arrivi, ogni ritrosaggine, in ossequio della suprema verità, (che ne sa tanto più di lui), e così pone (quantunque non da sé sola, ma col favore quivi ancor della grazia), pone, dico, quasi l’ultima disposizione per ricevere il dono eletto, ch’è l’atto infuso di fede: Donum fidei electum. (Sap. III. 14).

XIV. Anzi è certissimo che senza un giudizio saldo di tal credibilità, conosciuta per evidente, se può darsi una fedo ancora divina (cioè una fede che superi di fermezza qualunque assenso possibile naturale), non suole darsi (È legge psicologica questa, che il volere e l’amare abbisognano di essere preceduti ed illuminati dal conoscere; epperò nessun Cristiano, per quantunque idiota, può, in via ordinaria, volere ed amare la religione sua, se non conoscesse in qualche modo i motivi, che la dichiarano veracemente divina. Indi il rationabile obsequium vestrum dell’Apostolo). Onde conviene, a concepir detta fede, che ancora gli uomini più idioti conoscano in qualche modo questa grande apparenza di verità, che ella porta seco, intendendo, almeno per fama, che la Religione cristiana viene insegnata da personaggi santissimi e sapientissimi, che la tengono tutti per infallibile, e che la predicano, come scesa dal cielo, a tutte le genti, e come testificata con segni tali, che non si può dubitare se sian dall’alto: fama, alla quale alluse l’Apostolo, dove disse: Et quidem in omnem terram exivit sonus eorum, per denotare che se era fama sì vasta, non poteva essere senza gran fondamenti. E la ragione di questa previa disposizione da Dio richiesta, si è, perché quantunque Egli da sé solo possa nelle anime semplici supplire ad ogni illustrazione esteriore che loro manchi, con la sua pura illuminazione interiore; contuttociò, di legge almeno ordinaria, non lo vuol fare, come quivi accennò il medesimo Apostolo in quelle voci: Quomodo credent ei, quem non audierunt? etc. Mercecchè Dio, tanto soave in ogni sua opera, quanto forte, vuole che la sua r Religione non sia credibile solo per fede divina a tutte le genti, ma ancora per fede umana; che è ciò che toglie finalmente ogni scusa a chi non l’accetti, mentre non l’accettando, egli non pure si dimostra infedele, ma irragionevole (Gran verità questa, che chi è volontariamente infedele, è irragionevole, è l’incredulo senza scusa: verità che fonda sull’interiore armonia della ragione e della fede. Quest’armonia viene posta in bella luce nella seconda parte di quest’opera, al capo 1°, numero 15. Il lume di ragione guida alla scoperta della vera e divina Religione il pagano, che vive ancora fuori della fede di Cristo, e la fede alla sua volta dilata e sublima la ragione del credente, che già la possiede. Indi la fides quærens intellectum di S. Anselmo). Nel resto chi fa che il cedro dia pomi così odoriferi? Sicuramente non è quel giardiniere che lo piantò, che lo potò, che adacquollo. È Dio, che dentro il vivifica con vigore a lui solo noto: Est qui incrementum dat Deus (I. Cor. III, 7). E nondimeno Iddio di legge ordinaria non dà vigor sì vivifico a verun cedro, se il giardiniere non vi operi dal suo canto. Così quantunque al credere fermamente, e non solo probabilmente che la nostra r Religione è la vera, non siano i motivi della credibilità quelli che danno all’atto sì gran coraggio, ma sia lo Spirito Santo che parla dentro le anime al modo suo, quando per Lui v’è chi loro parli al di fuori; contuttociò non suolo lo Spirito Santo parlar di dentro in modo sì vivo, se non vi sia chi parli insieme al di fuori, o che abbia almeno parlato: Fides ex auditu (Rom. X. 17).

V.

XV. E da ciò potrà di leggieri arguirsi l’immenso prò che arrecano al popolo cristiano quei sacri predicatori, i quali dal pergamo discorrono ad ora ad ora su questo evidente merito, che ha la nostra fede ad essere da tutti anteposta a qualunque setta. Formano con essi nei cuori de’ fedeli quasi un embrione, cioè a dire una fede umana, e con ciò porgono l’opportunità, allo Spirito Santo d’infondere in un tal feto, ancora imperfetto, l’anima di una fede divina (Giusta ed importante è questa distinzione tra la fede umana e la divina. La prima è frutto di nostra ragione naturale, la seconda è dono della grazia sovrannaturale. Quella mette capo a questa, e tutte e due insieme armoneggiate compiono il congiungimento dell’uomo con Dio), che è quella finalmente che vince il mondo: Hæc est Victoria, quæ vincit mundum, fides nostra (I. Io. V. 4). Vero è che se i predicatori sacri apportano di gran bene con tali ragionamenti; maggiore credo io che lo apportino tuttavia gli scrittori sacri. Attesoché quelle ragioni dotte, che son proprie di sì giovevole tema, molto meglio si apprendono a vista fissa, che ad udito fuggente: onde nessuno vi sarà, che, in leggendole, non ne divenga più facilmente padrone, che in ascoltandole, poco men che di furto. Eppure tal padronanza sembra che qualunque fedele sia tenuto ad averne più che egli possa, affine di corrispondere al suo dovere, che è di star pronto, come gl’impone san Pietro, a rendere sempre conto della sua speranza, e conseguentemente della sua fede: Parati semper ad satisfactionem omni poscenti vos rationem de ea quæ in vobis est, fide et spe (I. Petr. VIII, 15). Dove è da notarsi bene che egli non dice de iis quæ sunt fidei et spei, in particolare, ma de ea, quæ in vobis est, fide et spe, in generale (V. Lorin. hic. S. Th. 2. 2. q. 2. art. 10), perché il saper esporre la convenienza di questo o di quell’articolo in individuo da noi creduto, è sol da uomini grandi, in trattati scientifici, da non andare per le mani di tutti; ma il saper esporre la convenienza di quella fede in universale, che ci obbliga alla credenza di tali articoli, dev’essere comune, più che si può, a quali sia dei fedeli nel grado suo essendo vergogna somma, come osservava San Giovanni Grisostomo, che il medico, che il coiaio, che il calzaiolo, che il tesserandolo, che qualunque altro artiere sappia dar conto della sua professione, e il Cristiano non lo sappia ancor egli dar della sua (Saviissime parole del Grisostomo queste, che inculcano al Cristiano la necessità di conoscere i fondamenti razionali di sua divina Religione. Il Cristiano non teme la luce, sicuro che quanto più la ragione esamina i motivi di credibilità del Cattolicesimo, tanto più è portata a riconoscerne la divina origine): Absurdum est, quod medicus, coriarius, textor et omnes generatim opifices, quoque prò artis suæ professile pugnet: christianus autem non possit ullam religionis suæ afferre rationem.(S. Chrysost. hom. 16. in Ioan.). E se è così, non sarà qui chi non vegga di quanta lode si rendessero meritevoli tutti quei servi di Dio, i quali, affine di addestrare il popolo cristiano a maneggiar bene questi argomenti di credibilità che gode a proprio favore la nostra fede sopra di ogni altra, li compilarono in libri da loro scritti avvedutamente in lingua materna, perché chi non era atto di apprenderli dalle estranee (quale per molti nel Lazio stesso può correre la latina) gli apprendesse dalla domestica.

XVI. Così fece il venerabile padre fra Luigi di Granata domenicano, cui, se per alcuno dei suoi trattati di spirito, tutti eccelsi, si conveniva quel breve di congratulazione che gli inviò dal suo trono Gregorio XIII, sì benemerito e della Religione e delle buone arti, da cui la religion viene amplificata, sicuramente sarebbe egli convenuto, più che per altro, per la introduzione al simbolo della fede, libro trasportato oramai dalla spagnola in tutte lo lingue, ancora orientali, per l’alto bene che per tutto ha operato in cuori anche barbari. E così altri scrittori avevan fatto prima di lui, e dopo lui finalmente han seguito a fare: ond’io non dovrei temere ora alcun biasimo dall’unirmi con questi alla stessa impresa, quando non potesse apparire che io giunga tardi, nel giugnere dietro a tanti i quali già con molta lode han detto abbondantemente innanzi di me, ciò che io non potrò dir dopo loro, se non con poca. Tuttavia non mi sbigottisco: perché i soccorsi freschi, per piccoli che sieno, son sempre a tempo, sinché fervo la mischia; e questa nel caso nostro, non si può dire che ancor non ferva, e non sia per fervere, sinché l’inferno odierà quella Religione che è l’unica a svergognarlo. Si aggiugne, che vari di tali libri sono, o di metodo arduo, o di mole alta, e però men atti a trascorrere per le mani di chi n’ha maggiore il bisogno. La speditezza dell’armi è sì vantaggiosa, che nelle guerre si temono più i moschetti comunemente, che le bombarde.

VI.

XVII. Né già in un argomento tanto agitato mi si vuol domandare la novità. Primieramente se non avessimo a dire se non ciò che mai non fu detto da verun altro, ci converrebbe ammutire: Nihil sub sole novum. Neppure l’api, simbolo dell’industria, nel dare il loro miele, il danno per nuovo. Esse non professano altro, se non che di andare a raccoglierlo qua e là faticosamente da vari fiori. Eppure nessuno nella natura le ha mai dannate d’inutili, ma lodate, mercé la forma con cui lo danno distillato in un favo. Di poi nella materia che ho per le mani voglio anzi protestare liberamente di avere a bello studio sfuggita la novità, poco amica alla Religione. Conviene qui mirar solo all’onor di lei, non mirare al proprio. Però se io metterò in campo ragioni, use altre volte, a difenderla bravamente, stimerò la vittoria tanto più certa, quanto più io me la posso promettere da un corpo di veterani esperimentati, che da una leva di venturieri novelli. Salvo che il medesimo fine, il qual mi propongo della maggior brevità che mi sia possibile, mi obbliga a non dare la mossa a tutto l’esercito, ma a fare come un distaccamento degli argomenti più validi, e questi spignere alla difesa del vero.

XVIII. Ho desiderato di formare lo stile, ove mi riesca, più colto, che no; perciocché io non ho capito mai che la ruggine giovi all’armi. Che se ne’ fulmini temiamo ancora del lampo, chi riputerà che certa energia di dire sia nelle cause meno opportuna a far colpo, perché lo fa balenando? Infìn l’armonia del numero io loderei, dove ella somigliasse il batter dei fabbri, musica insieme e lavoro.

VII.

XIX. Rimane l’ammonire por ultimo il mio lettore, che legga tutto il libro con attenzione e senza passione. Leggalo tutto, se egli ne vuol dar giudizio accertato, da che incivile est, nisi tota lege perspecta, una aliqua eius particula proposita indicare. (L. incivile est, ff. de legibus). Leggalo con attenzione, perché ad un quadro può bastare un’occhiata, ma non può bastare ad un libro: e la nostra mente, a conseguire il vero, è rete bensì, ma rete da pesca (la qual non fa buona preda, se non affondasi), non è rete da paretaio. Leggalo finalmente senza passione, perché ciò bastami, quando in lui ben mancasse la pia affezione. L’occhio, perché sia ben disposto al vedere, convien che trovisi né troppo abbondante di umore, né troppo scarso. Mi contento che sia così parimente il vostro intelletto: né troppo pieghevole al credere, per non esser tacciato dal Savio di leggerezza: Qui credit cito, levis est corde (Eccl. XIX. 4); né troppo restio, per non udirsi rimproverare da Cristo di ostinazione: O stulti, et tardi corde ad credendum! (Luc. XXIV. 25). È lieve al credere chi crede quando ha più ragion di non credere, che di credere. È ostinato chi non crede quando all’incontro ha più ragione di credere, che di non credere. Non ricevete però i miei detti, come lo schermitore riceve i colpi cioè per ribatterli ad ogni modo, o giusti o non giusti che a lui si mandino; riceveteli come il solco ammollito riceve i semi per affomentarli: dacché non altri semi spero io di gettare in voi, che di vita eterna.

XX. E perché veggiate con quanta discretezza io voglia procedere in chiedere il vostro assenso, l’assunto di tutta la presento opera, grande o piccola che ella sia, ha da essere sempre questo: di mostrarvi, che voi con la volontà avete da fare una forza molto maggiore al vostro intelletto, per trattenerlo dal credere quelle cose che io vi dirò a favor della nostra Religione, di quella che gli avreste a fare per indurlo a credere. E posto ciò, eccovi già (se voi non vi arrenderete), che voi siete l’incredulo senza scusa, che è il titolo che questa opera porta in fronte. Conciossiachè quale scusa avrà al tribunal di Dio chi non volle credere, quantunque tanto più agevole gli sarebbe sempre riuscito il volerlo, che il non volerlo? Non potrà egli dir altro, se non che al certo fu stolto e tardo di cuore: Stultus et tardus corde ad credendum. Tardo, perché non si arrese alla verità, quale incredulo: stolto, perché, nel ricusare di arrendervisi, operò contra ogni lume ancor di ragione, quale imprudente.

SALMI BIBLICI: “QUAM BONUS ISRAEL DEUS” (LXXII)

SALMO 72: “QUAM BONUS ISRAEL DEUS

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

CATENA D’ORO SUI SALMI

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR – 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 72

[1] Psalmus Asaph.

      Quam bonus Israel Deus,

his qui recto sunt corde!

[2] Mei autem pene moti sunt pedes, pene effusi sunt gressus mei;

[3] quia zelavi super iniquos, pacem peccatorum videns.

[4] Quia non est respectus morti eorum, et firmamentum in plaga eorum.

[5] In labore hominum non sunt, et cum hominibus non flagellabuntur.

[6] Ideo tenuit eos superbia; operti sunt iniquitate et impietate sua.

[7] Prodiit quasi ex adipe iniquitas eorum; transierunt in affectum cordis.

[8] Cogitaverunt et locuti sunt nequitiam; iniquitatem in excelso locuti sunt.

[9] Posuerunt in cælum os suum, et lingua eorum transivit in terra.

[10] Ideo convertetur populus meus hic, et dies pleni invenientur in eis.

[11] Et dixerunt: Quomodo scit Deus, et si est scientia in excelso?

[12] Ecce ipsi peccatores, et abundantes in sæculo, obtinuerunt divitias.

[13] Et dixi: Ergo sine causa justificavi cor meum, et lavi inter innocentes manus meas;

[14] et fui flagellatus tota die, et castigatio mea in matutinis.

[15] Si dicebam: Narrabo sic; ecce nationem filiorum tuorum reprobavi.

[16] Existimabam ut cognoscerem hoc; labor est ante me:

[17] donec intrem in sanctuarium Dei, et intelligam in novissimis eorum.

[18] Verumtamen propter dolos posuisti eis; dejecisti eos dum allevarentur.

[19] Quomodo facti sunt in desolationem? subito defecerunt; perierunt propter iniquitatem suam.

[20] Velut somnium surgentium, Domine, in civitate tua imaginem ipsorum ad nihilum rediges.

[21] Quia inflammatum est cor meum, et renes mei commutati sunt;

[22] et ego ad nihilum redactus sum, et nescivi;

[23] ut jumentum factus sum apud te, et ego semper tecum.

[24] Tenuisti manum dexteram meam, et in voluntate tua deduxisti me, et cum gloria suscepisti me.

[25] Quid enim mihi est in cœlo? et a te quid volui super terram?

[26] Defecit caro mea et cor meum; Deus cordis mei, et pars mea, Deus in æternum.

[27] Quia ecce qui elongant se a te peribunt; perdidisti omnes qui fornicantur abs te.

[28] Mihi autem adhærere Deo bonum est, ponere in Domino Deo spem meam; ut annuntiem omnes prædicationes tuas in portis filiæ Sion.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXII

Esortazione ai fedeli perché non piglino scandalo dalla prosperità degli empii: esortazione sempre utile, ma necessaria nelle persecuzioni della Chiesa e de’ suoi giusti, mentre gli empii la dominano e trionfano.

Salmo di Asaph.

1. Quanto è mai buono Iddio con Israele; con quelli che son di cuor retto!

2. Ma poco mancò che i miei piedi non vacillassero, e che non uscisser di strada i miei passi.

3. Perché io fui punto da zelo verso gl’iniqui, in osservando la pace de’ peccatori ;

4. Perché non pensano alla loro morte, e non sono di durata le loro piaghe.

5. Non hanno parte alle afflizioni degli uomini, e con gli uomini non sono flagellati.

6. Per questo la superbia li prese ; son ricoperti della loro iniquità ed empietà.

7. Dalla grassezza in certo modo scaturì la loro iniquità: si sono abbandonati agli affetti del loro cuore.

8. Pensano, e parlano malvagità; da luogo sublime ragionano di far del male.

9. Han messo in cielo la loro bocca; la loro lingua va scorrendo la terra.

10. Per questo il popolo mio a tali cose si rivolge, e giorni trova di piena afflizione.

11. E hanno detto: Come mai Iddio sa questo? e l’Altissimo ne ha egli notizia?

12. Ecco che i peccatori medesimi e i fortunati del secolo han raunate ricchezze.

13. E io dissi: Senza motivo adunque purificai il mio onore, e lavai le mani mie cogl’innocenti:

14. E fui tutto dì flagellato, e fui sotto la sferza di gran mattino.

15. Se io pensassi di ragionare così: Ecco che io condannerei la nazione de’ tuoi figliuoli.

16. Mi studiava d’intender questo; cosa laboriosa è questa, che mi si pone davanti :

17. Per sino a tanto ch’io entri nel santuario di Dio, e intenda qual sia la fine di coloro.

18. Peraltro in ingannevole felicità gli hai posti; tu gli hai gettati a terra nell’atto che si levavano in alto. (1)

19. Come mai son eglino ridotti in desolazione; son venuti meno a un tratto; sono andati in perdizione per la loro iniquità.

20. Come il sogno di un che si sveglia, così tu nella tua città, o Signore, ridurrai nel nulla l’immagine di costoro.

21. Ma perché il mio cuore fu in tormento, ed ebber tortura gli affetti miei, ed io fui annichilito senza sapere il perché; (2)

22. E fui qual giumento dinanzi a te, e mi tenni sempre con te;

23. Mi prendesti per la mia destra, e secondo la volontà tua mi conducesti, e con onore mi accogliesti.

24. Imperocché qual cosa havvi mai per me nel cielo, e che volli io da te sopra la terra?

25. La carne mia e il mio cuore vien meno, o Dio del mio cuore, e mia porzione, o Dio, nell’eternità.

26. Imperocché ecco che coloro, che da te si allontanano, periranno; tu manderai in perdizione tutti coloro, che a te rompon la fede.

27. Ma per me buona cosa ch’è lo stare unito con Dio, il porre in Dio Signore la mia speranza;

28. Affinché tutte le tue laudi io annunzi alle porte della figliuola di Sion.

(1) Presso gli ebrei la prosperità non è per essi che una seduzione, una trappola, ed un luogo sdrucciolevole.

(2) Il mio cuore divagava e mi irritavo nei miei pensieri; parola per parola: io mi pizzicavo i reni – i reni rappresentano la sede del pensiero -.

Sommario analitico

Davide o Asaph, contemporanei di Ezechia e Manasse, personificano in lui lo scandalo che causa alla anime ancora deboli, la vista della prosperità dei malvagi, dopo aver fatto inizialmente la sua professione di fede nella bontà di Dio (1).

I.- Egli espone:

1° La fluttuazione interiore della sua anima;

2° L’indignazione che si è levata in lui alla vista della prosperità degli empi (2).

II. – Descrive:

1° la loro felicità:- a)  la loro imprevidenza o la tranquillità della loro morte; – b) la loro affrancatura da tutte le sofferenze del corpo e dai rovesci di fortuna (4, 5);

2° I crimini che ne sono la sequela: – a) il loro orgoglio, – b) la loro empietà, – c) la loro arroganza, – d) la loro sfrenata licenza, – e) la loro malizia, la loro impudenza che giunge fino a bestemmiare Dio ed a calunniare gli uomini (6, 9).

III. –  Mostra l’effetto di questa prosperità degli empi:

1° sulle anime imperfette. – a) esse sono nello stupore e non possono impedirsi di ammirare questa felicità degli empi, – b) concepiscono anche dei dubbi sulla scienza di Dio, – c) si lamentano dell’abbondanza e delle ricchezze in mezzo alle quali vivono gli empi (10-12);

2° su Davide stesso: – a) egli confessa che condivide i dubbi e i mormorii delle anime deboli, vedendosi frustrato dal prezzo della sua innocenza e della sua pazienza (13, 14); – b) ma egli ha ben presto riconosciuto che condannava così tutta la società dei figli di Dio (15); – c) riconosce nello stesso tempo che la conoscenza delle vie della divina Provvidenza è difficile e non può essere data che da Dio stesso, che ci fa comprendere quale sarà la fine degli empi (16, 17).

IV. – Egli fa dunque vedere che la felicità degli empi:

1° È ingannevole,

2° di breve durata (18);

3° fa posto ad una desolazione improvvisa;

4° Che essi perdono in un istante le ricchezze acquisite in lunghi anni e con crimini molteplici (19);

5° Che ogni loro felicità si dissipa come in un sogno (2).

V. – Davide, come conclusione di queste considerazioni:

1° dichiara che è cambiato in altro uomo, che è infiammato dall’amore di Dio, morto a tutti i piaceri del mondo, e convinto del suo niente davanti a Dio (21, 22);

2° esprime il desiderio di consacrarsi tutto interamente e per tutta la sua vita al servizio di Dio (23); 

3° come effetto e frutto di questo desiderio, fa vedere che Dio lo ha sostenuto con la mano, lo fa camminare nelle sue vie e ricevuto con gloria (24);

4° professa altamente che preferisce Dio a tutti i beni del cielo e della terra (25, 26);

5° mostra la saggezza di questa scelta, e promette di rendere pubbliche eternamente le lodi di Dio (27, 28).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1, 2.

ff.1. – Davide, prima di spiegare la tentazione e lo scandalo dei deboli, che personifica in se stesso in questo salmo, pone innanzitutto i fondamenti della vera fede, per farci comprendere che né lui, né coloro che egli qui rappresenta hanno perso la fede nella Provvidenza divina. Geremia si esprime quasi alla stessa maniera: « Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. Perché le cose degli empi prosperano? Perché tutti i traditori sono tranquilli? » (Geremia XII, 1). Dio è buono non perché possieda la bontà, ma perché Egli è le bontà stessa. (Clém. Alex.., Pæd. 1, 8.). Dio è buono perché Egli è la sorgente di ogni bontà, – 1° nella creazione: « Dio vide tutte le sue opere, ed esse erano molto buone » (Gen. I, 31); – 2° nella redenzione: « Io sono il buon pastore, il buon pastore da la sua vita per le pecore » (Giov. X, 11); – 3° nella giustificazione: « Considerate la bontà e la severità di Dio, la sua severità verso coloro che sono caduti e la sua bontà verso di voi », (Rom. XI, 22); – 4° nella pazienza con la quale attende i peccatori: « O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua longanimità? » (Rom. II, 4); – 5° nella maniera in cui Egli punisce i peccatori durante questa vita e nell’altra, perché il castigo è sempre di molto inferiore ai loro crimini: – 6° nella glorificazione dei Santi: « Egli ci ha resuscitato con Lui e ci fatto sedere nel cielo in Gesù-Cristo, al fine di far conoscere nei secoli avvenire le ricchezze abbondanti della sua grazia, per la bontà che ha avuto per noi in Gesù-Cristo » (Efes. II, 6-7).

ff. 2, 3. – Tutta la Scrittura è piena di sante benedizioni per coloro che hanno il cuore retto, ma qual è questa drittura? Diciamolo in una parola: è la carità, è la santa dilezione, è il puro amore; è il casto ed intimo attaccamento della sposa per lo Sposo sacro; è questa celeste dilezione di un cuore che si compiace della legge di Dio, che vi si sottomette con piena ed intera volontà, « … non per la paura della pena, ma per amore della giustizia »: chi sono coloro che sono retti? Diceva Sant’Agostino, coloro che dirigono il loro cuore secondo la volontà di Dio. Coloro che vogliono ciò che Dio vuole, questi sono retti, questi sono giusti. Non c’è abbisogna di spiegazioni: coloro che hanno orecchie cristiane comprendono questa verità. La volontà di Dio è retta di per se stessa; è essa stessa la rettitudine; essa è la regola primitiva ed originale. Noi non siamo la giustizia, noi non siamo la regola; perché noi saremmo impeccabili: così non essendo giusti per noi stessi, noi lo diventiamo, come Cristiani, unendoci alla regola, alla santa volontà di Dio, alla legge che Egli ci ha dato (Boss.). – « Quanto il Dio di Israele è buono! Ma agli occhi di chi? Per gli uomini dal cuore retto ». E a coloro che hanno occhi perversi? Egli sembra perverso. È così che il Profeta dice in un altro salmo: «Voi sarete santo con il santo, innocente con l’innocente, e perverso con il perverso » (Ps. XVII, 26). Cosa vuol dire: voi sarete perverso con il perverso? Il perverso vi crederà perverso. Non che Dio possa pervertirsi in alcun modo: no, lontano da noi questo pensiero, Egli è ciò che Egli è; ma così come il sole sembra inoffensivo a colui che è sano, vigoroso e forte, similmente sembra che lanci tratti brucianti negli occhi malati. Di questi due uomini che lo guardano, fortifica l’uno e ferisce l’altro; non certo cambia dall’uno all’altro, ma è l’uomo che è cambiato. Così, quando comincerete a pervertirvi, Dio vi sembrerà perverso: voi siete cambiato, Dio no! ; ciò che è una gioia per i buoni sarà un castigo per voi. È al ricordo di questa verità che il Profeta esclama: « Quanto il Dio di Israele è buono per gli uomini dal cuore retto! » (S. Agost.). – Abbiate il cuore retto, perché il Signore ha una bontà meravigliosa per i retti di cuore, Egli ha per essi una condiscendenza, una delicatezza di madre … Abbiate il cuore retto e vedrete Dio nelle Scritture, lo vedrete in ogni parola, ogni parola sarà trasparente e vi presenterà una delle facce auguste della Divinità. Anime semplici hanno più illuminazione sul senso delle Scritture, sui misteri della teologia, di tanti dottori! … abbiate il cuore retto, non cercate le difficoltà, non abbiate partito preso nell’intelligenza; soprattutto non desiderate trovare armi contro Dio. Se lo desiderate, voi ne troverete certamente; come un bambino ribelle trova sempre dei soggetti di accusa nelle più semplici e meravigliose parole di suo padre e di sua madre. Desiderate la luce della vita e ne riceverete un’ampia provvigione, perché le parole della scrittura sono « intelligenza e vita » (Mgr Landriot, Béatitudes,!). – Ma cos’è Dio ai vostri occhi? « I miei piedi, continua il Profeta, sono quasi vacillanti ». Quando i miei piedi sono vacillanti, se non quando il mio cuore non è retto? E perché il suo cuore non è retto? Ascoltate: « I miei passi  per poco hanno vacillato nel sostenermi », egli sta per dire . « quasi », ed ora « essi hanno vacillato », è la stessa cosa; i piedi instabili hanno lo stesso senso de « i miei passi hanno vacillato nel sostenermi ». Ma perché i suoi piedi sono stati instabili, ed i suoi passi hanno vacillato nel sostenerlo? I piedi instabili significano lo smarrimento, i passi che mancano di stabilità indicano una caduta, non avvenuta, ma “quasi”. Che significano queste parole? Io cammino verso l’errore, ma non vi ero ancora, stavo per cadere ma non sono ancora caduto (S. Agost.). – In tutti i tempi la fede dei Cristiani è stata turbata e la loro fiducia in Dio vacillante, nel vedere i malvagi prosperare e nel riposo, mentre i giusti sono nelle avversità e nel travaglio. Questa realtà, in apparenza ingiusta, è sempre stata, per così dire, lo scandalo della Provvidenza; perché i peccatori hanno preso a trionfare con insolenza nella vita, e le persone più degne si sono affievolite nel cammino della virtù. Da parte mia – diceva Davide – io lo confesso, ho sentito la mia fede svanire e, benché fosse solido il fondamento della mia speranza, mi sono visto sul punto di soccombere, e perché? Perché nel mio cuore si è alzato un movimento di zelo e di indignazione alla vista dei peccatori che gustano la pace, che riescono nei loro disegni, che stabiliscono le loro case, ai quali nulla manca nella vita. (Bourd. Afflict. des just. et prosp. des péch.). –  « Io ho portato invidia agli uomini di iniquità, vedendo la pace dei peccatori ». Io ho considerato i peccatori, ho visto che avevano la pace. Ma quale pace? Una pace temporanea, fuggitiva, passeggera e terrestre, ma comunque tale come io la desidero ottenere da Dio. Io ho visto che coloro che non servivano Dio possedevano ciò che io volevo ottenere servendolo, ed i miei piedi hanno quasi vacillato, ed i miei passi hanno oscillato nel sostenermi (S. Agost.).

II. — 4-9.

ff. 4, 5. – La felicità degli empi è tale che essi non hanno il pensiero della morte, e coloro che la considerano trovano la loro felicità sì stabile che non presumono che possa mai aver fine. Gli empi non pensano alla morte; essi sanno che questo momento arriverà, ma per non interrompere il corso dei loro piaceri, allontanano il pensiero di questa ultima ora … Si vedono degli empi ricolmi di beni in questo mondo: essi sembrano non dipendere da nessuno, non temono nulla, non essere soggetti ad alcuna legge, e giungono ad una estrema vecchiaia senza provare alcuna delle disgrazie che affliggono tanto gli uomini giusti. La loro salute si conserva fino all’ultima ora; le loro forze si sostengono malgrado gli anni e gli abusi che fanno. Si direbbe quasi che le attenzioni della Provvidenza siano tutte solo per essi. È quello che il Profeta chiama uno stato esente da costrizioni, infermità e traversie (Berthier).

ff. 6, 7. – « L’orgoglio, l’intemperanza, l’abbondanza di ogni cosa, l’oziosità, la durezza verso il povero, tale è stata l’iniquità di Sodoma » (Ezech. XVI, 49). Chi considera queste cose ora come i gradini attraverso i quali questi popoli abominevoli discesero infine sino al fondo dell’abisso? Così quanto più si ha orrore degli abomini attraverso i quali i suoi abitanti furono consumati dal fuoco del cielo, tanto più ci si dimentica di evitare i crimini che ve li condussero (Dug.). – « Nel loro grasso, dice lo Spirito-Santo, nella loro abbondanza, si fa un fondo di iniquità che non si esaurisce mai ». È di là che nascono questi peccati regnanti che non si contentano che li si soffra, neanche che li si scusi, ma vogliono pure che li si applauda; perché ci sono – dice Sant’Agostino – due specie di peccati, gli uni vengono dalla carenza, gli altri nascono dagli eccessi, quelli che nascono dal bisogno e dalla miseria, sono i peccati servili e timidi: quando un povero ruba, si nasconde, quando è scoperto egli trema; non oserà sostenere il suo crimine, troppo felice se può coprirlo e avvolgerlo nelle tenebre. Ma quelli che peccano di abbondanza, sono superbi ed audaci, vogliono regnare; voi direste che sentono la grandezza della loro estrazione. « essi vogliono gioire, dice Tertulliano (Ad nat. lib. i, n° 16), di tutta la luce del giorno e di tutta la coscienza del cielo ». (BOSSUET, Impén. fin, I. p.). – Essi non si sono dunque puniti, non condividono le pene degli altri uomini, cosa ne risulta per essi? « Ecco perché l’orgoglio si è impossessato di essi ». Considerateli, questi orgogliosi, questi che disprezzano ogni legge; considerate il toro designato per il sacrificio, al quale hanno lasciato la libertà di errare ove vuole e devastare tutto quel che può, fino al giorno della sua immolazione; è l’emblema degli uomini di cui parla il Profeta: « Ecco perché l’orgoglio si è impossessato di essi; essi sono avviluppati come da un vestito dalla loro iniquità e dalla loro empietà ». Il Profeta non si è limitato a dire: essi sono coperti, ma essi si sono avvolti, cioè coperti da ogni lato dalla loro empietà. I malvagi non vedono il loro stato, e gli altri ancor di più, perché essi sono avvolti da ogni parte e non se ne vede il loro interno, perché chiunque potesse vedere l’interno di questi malvagi che sembrano felici secondo il mondo, chiunque fosse testimone della rivolta della loro coscienza, chiunque conoscesse le lacerazioni della loro anima sotto le violente perturbazioni della loro lussuria e dei loro terrori, saprebbe a qual punto siano uomini miserabili, mentre li si chiamano felici. Ma poiché essi sono avvolti come da un vestito « dalla loro iniquità e dalla loro empietà » essi non vedono il loro malore e nessuno lo vede. Lo Spirito-Santo, che dettava queste parole, li conosceva, e noi sapremmo considerarli con lo stesso occhio, se ogni velo di empietà potesse essere tolto dai nostri occhi. Vediamo dunque questi uomini; malgrado il loro benessere, fuggiamoli; malgrado la loro felicità, non li imitiamo, non chiediamo a Dio, come premio, dei beni che hanno potuto ricevere degli uomini che non Lo servono. Egli ci riserva ben altra cosa; noi dobbiamo desiderare altra cosa … Ma innanzitutto come il Profeta dipinge questi uomini: « … la loro iniquità uscirà come dal loro grasso », essa filtra, per parlare così, dal loro sovrappeso. Vedete se non è il caso di riconoscere qui il toro di cui abbiamo parlato. Non passiamo negligentemente su queste parole: « … la loro iniquità uscirà come dal loro grasso ». Ce n’è che sono malvagi, ma malvagi per la loro magrezza, malvagi perché sono magri, vale a dire che le sofferenze della necessità li hanno resi sottili e fragili e come disseccati. Essi sono malvagi e condannabili comunque; perché bisogna saper sopportare ogni specie di necessità piuttosto che commettere alcuna iniquità. Una cosa infatti è peccare per le necessità di cui si soffre, altra cosa è peccare in mezzo all’abbondanza. Un povero commette un furto, la sua iniquità proviene dalla sua magrezza, ma un ricco ricolmo di beni, perché si appropria del bene altrui? L’iniquità del primo proviene dalla sua magrezza, quella del secondo dalla sua opulenza. Se dite al magro: perché avete fatto questo, egli risponde: la necessità mi ha costretto, perché non avete paura di Dio? Il bisogno mi ha spinto. Dite ora al ricco: Perché fate questo e non temete Dio? Se tuttavia siete in una posizione tanto elevata per parlargli in tal sorta. Vedete se si degnerà di ascoltarvi, vedete anche se il suo grasso non farà passare in voi la sua iniquità come una sorta di contagio. In effetti, questi ricchi malvagi fanno sentire la loro inimicizia a coloro che insegnano e li riprendono, e diventano nemici di coloro che dicono loro la verità, abituati come sono ad essere dolcemente incensati dai discorsi degli adulatori, gente dalle orecchie delicate e dal cuore malato (S. Agost.). – Le prosperità temporali producono ordinariamente sul cuore un’impressione di attaccamento alla terra, un amore eccessivo di noi stessi e soprattutto elevazione e rigonfiamento del cuore, cioè un certo sentimento di auto considerazione che abitua l’anima a ritenersi come elevata dai propri doni al di sopra di tutti coloro che il proprio rango e la prosperità lasciano al di sotto di essa; un segreto errore di vanità che fa che noi confondiamo la nostra fortuna con noi stessi, che facciamo entrare la nascita, la grandezza dei titoli, le dignità, i beni nell’idea di ciò che noi siamo, e che di tutti questi vantaggi, che sono al di fuori di noi e di conseguenza non ci appartengono, formano in noi una grandezza immaginaria che scambiamo per noi stessi; infine, un errore che ci persuade che siamo, agli occhi di Dio e nell’ordine della sua Provvidenza, delle creature privilegiate ed anche distinte davanti agli uomini, nell’ordine esteriore della società. La loro prosperità, dice il Re-Profeta, li affranca dai travagli e dalle miserie comuni al resto degli uomini, ed ecco perché un orgoglio segreto si è impossessato dei loro cuori. Così il primo avviso che l’Apostolo raccomanda a Timoteo (1 Tim. VI, 17) da dare ai grandi del mondo, è di non elevarsi (Massil., Dang. des prosp.). –  Ciò che è vero per gli individui, lo è ugualmente per le società e le Nazioni. – la prosperità materiale di un popolo non fornisce da sola tutte le condizioni della sua durata e della sua gloria, se è la giustizia che eleva le Nazioni ed il peccato che le precipita nell’abisso, troppo spesso l’indebolimento delle virtù morali e dei nobili sentimenti si fa sentire in proporzione ai progressi del benessere e della fortuna pubblica.  « Prodiït quasi ex adipe iniquitas eorum. » (Mgr Pie, Discours et Instruct.., T. I, 13). – Sant’Agostino traduce la seconda parte di questo versetto in modo differente, che senza essere il più letterale, forse, è pieno di istruzione. « Essi sono andati oltre, egli dice, fino alla disposizione del loro cuore ». essi sono passati ben oltre, dentro di se stessi. Che vuol dire: « Essi sono passati oltre? » Essi hanno abbandonato i limiti della natura umana; essi hanno creduto di non essere pari agli altri uomini. Essi hanno – egli dice – oltrepassato il limite della natura umana. Quando voi dite ad un uomo di questa specie: questo povero è vostro fratello, voi avete la stessa origine, gli stessi progenitori; non ascoltate l’orgoglio che vi gonfia, non fate attenzione al vano rigonfiarsi sul quale vi elevate; benché circondati da numerosi domestici, benché ricco in oro ed argento, benché abitiate in un palazzo di marmo, benché riposiate all’ombra di baldacchini sontuosi, non siete da meno, voi ed il povero, rifugiati sotto la volta dello stesso cielo; voi non differite dal povero che per gli oggetti esteriori, che non sono voi stessi, ma sono posti intorno a voi; voi siete in mezzo a queste cose, esse non possono essere in voi. Considerate cosa siate rispetto al povero; guardate voi stesso e non ciò che possedete. Voi siete nati, l’uno e l’altro nel seno delle vostre madri, e quando sarete usciti da questa vita, quando le vostre carni, dopo la partenza dell’anima, saranno cadute nel putridume, distinguete, se potete, le ossa del ricco dalle ossa del povero … Ma tutte queste cose, a chi le dite? A colui che celebra festini sontuosi, a colui che si copre ogni giorno di porpora e di fine lino. A chi le dite queste cose? A colui che passa oltre, fino alla disposizione del suo cuore (S. Agost.).

ff. 8, 9. – Senza dubbio, ci sono degli uomini che hanno propositi di malvagità, ma almeno li fanno con timore. E questi? « Essi hanno proferito altezzosamente il linguaggio dell’iniquità ». (Ibid). Non solo essi hanno proferito il linguaggio dell’iniquità, ma lo hanno fatto apertamente, alla presenza di tutti, con fierezza: ecco ciò che io farò, io ve lo farò vedere, voi sentirete con chi avete a che fare, voi morrete per sua mano (S. Agost.). se avete tali pensieri, voi non li manifesterete al di fuori, o ben saprete vincere la vostra passione nel segreto del vostro cuore, o almeno saprete tenervi nascosto. Bisogna domandare perché? … « … La loro iniquità uscirà come il loro grasso. Essi hanno proferito altezzosamente il linguaggio dell’iniquità ». – Essi non si contentano di pensare il male, ma proferiscono altezzosamente l’empietà: contro Dio, con le bestemmie; contro il prossimo, con le calunnie; contro se stesso, per questa impudenza nel commettere pubblicamente il male, ed anche a glorificarsene (Dug.). – « Essi non hanno nascosto i loro crimini; come Sodoma, essi li hanno resi pubblici » (Isai., III). – Si trovano in questi versetti tutti i caratteri degli increduli che dogmatizzano; essi cominciano a pensare male dei misteri della Religione, esternano poi i loro pensieri; da qui si azzardano ad elevare altezzosamente la voce contro le verità rivelate; proclamano l’assenza di Dio e dei divini attributi; inondano la terra delle loro bestemmie. Essi calunniano egualmente il cielo e la virtù, l’Altissimo e gli uomini dabbene (Berthier). – Sant’Agostino dà ancora, della seconda parte del versetto 10, una traduzione un poco differente dall’interpretazione comune. Ma quali magnifici sviluppi, quale importante verità ne trae fuori! « La loro lingua ha lasciato i limiti della terra? » che vuol dire: « … ha lasciato i limiti della terra? » lo stesso che: « essi hanno elevato la loro bocca fino al cielo ». In effetti abbandonare i limiti della terra significa: passare al di sopra di tutte le cose terrestri? L’uomo non pensa, tra i suoi discorsi, che egli possa morire; egli vive come se dovesse vivere sempre. Il suo pensiero passa sopra la fragilità umana; egli dimentica cos’è questo vaso che lo ricopre e lo circonda; egli non sa cosa sia scritto contro gli orgogliosi: «La sua anima uscirà dal suo corpo ed egli tornerà nella terra dalla quale è venuto; in questo giorno tutti i suoi pensieri periranno » (Ps. CXLV). Ma i superbi, non pensando al loro ultimo giorno, hanno il linguaggio dell’orgoglio, elevano la loro bocca fino al cielo e lasciano i limiti della terra. Se il brigante messo in prigione non pensasse al suo ultimo giorno, al giorno cioè in cui dovrà subire il suo giudizio, nessun essere sarebbe bruto quanto lui, e tuttavia egli avrebbe ancora delle possibilità di sfuggire alla sua sentenza. Ma dove si potrebbe fuggire per evitare la morte? Questo giorno è certo. Per lungo tempo sperate di vivere? Ma questo pur lungo tempo dovrà finire, quand’anche ne avesse realmente la durata? Ma in realtà non è pur così: non c’è questo lungo tempo. E che ci sia è cosa tutta incerta. Perché il peccatore non vi pensa? « … perché egli ha elevato la sua bocca fino al cielo e la sua lingua ha lasciato i limiti della terra » (S. Agost.). 

III. —10-17.

ff. 10, 11. – È evidente che il Profeta che parla non metterebbe in dubbio né la Provvidenza, né i mezzi che essa ha per vendicare i suoi diritti. Egli sapeva che la prosperità di cui godono i malvagi è per essi un vero flagello, ma a lui premeva dipingere le turbe che questo spettacolo degli empi, fortunati in questo mondo, causa qualche volta agli uomini virtuosi … I giusti che si trovavano in questa nazione e provano delle disgrazie, mentre i malvagi sembrano felici, possono essere tentati col dubitare delle promesse e della fedeltà di Dio; bisognava insegnar loro che Dio non si era impegnato che con l’intera Nazione e non con i particolari; che la via della salvezza era, per i giusti separatamente presi, una via stretta,  e che bisognava trovare rovi e spine, affinché fosse provata la loro costanza (Berthier). – Il profeta ritorna alla spiegazione dello scandalo che provano i giusti alla vista della ricchezza e della prosperità degli empi. Il mio popolo alla vista di tanti crimini, si metterà a considerarli; esso troverà che i loro giorni sono pieni e che la loro vita giunge alla pienezza dell’età, e dirà: e l’Onnipotente lo sa questo? Se lo sa come può sopportarlo? – I vostri giorni, se volete saranno dei giorni pieni, perché la grazia, se volete, nel santificarli, li riempirà, invece che essere dei giorni vuoti, perché il peccato rovina tutto e vi spoglia di tutto; tanto più che disgraziatamente voi non avvertite il vostro malore; si perde la grazia senza pena e si vive nel peccato senza rimorso; se ne fa una beatitudine, un piacere, una gloria, spesso anche un interesse ed una legge (Bourd. Etat du péché et état de grâce).

ff. 12-14. – Questi sono dei peccatori ed hanno ammassato in questo mondo abbondanti ricchezze. Ed è a causa di questo che Dio non sa e che l’Altissimo è nell’ignoranza? Io servo Dio e non ottengo questi beni; essi non servono Dio ed ottengono beni in abbondanza, « … è dunque inutilmente che ho mantenuto il mio cuore nella giustizia, e che ho lavato le mani tra gli innocenti ». Tutto questo, io l’ho fatto inutilmente? Dov’è la ricompensa della mia vita onesta? Dov’è il prezzo della mia obbedienza verso Dio? Io vivo facendo il bene e manco di tutto, mentre l’ingiusto è nell’abbondanza. « E tutto il giorno sono stato flagellato ». i colpi di Dio non cessano di cadere su di me, io Lo servo bene e sono castigato; un altro non Lo serve affatto, ed è ricolmo di beni. Tale è la grande questione che ci si pone. La sua anima è agitata, la sua anima passa attraverso la prova che deve condurlo a disprezzare le cose terrene, ed a desiderare le cose eterne. L’anima passa in effetti su questo pensiero, ove essa fluttua come sballottata dalla tempesta nel momento stesso di entrare nel porto (S. Agost.). – Ne è come per i malati, che sono più abbattuti quando la guarigione è ancora lontana, e più agitati quando la salute sta per tornare.

ff. 15-17. – Io non so se in tutti i Salmi non vi sia niente di più toccante di questo pensiero. Se mi lamento della Provvidenza quando essa mi affligge, io sono perfido rispetto a tutta la Nazione dei figli di Dio. Ah – dice S. Agostino – spiegando questo passaggio, se io mormoro contro i flagelli con cui Dio mi batte, io non sarò più all’unisono con i Santi; io parlerei diversamente da come hanno fatto Abramo, Isacco, Giacobbe, e tutti i Profeti. Tutti questi Santi hanno proclamato con forza che c’è una Provvidenza, che Dio governa tutte le cose umane, che la volontà del Signore è la regola unica delle nostre azioni. Oserei allora parlare diversamente? Ho forse io più saggezza ed intelligenza di Dio? Nella nuova Legge, questo ragionamento è ancor più forte, perché il Figlio di Dio ha dato pure l’esempio di pazienza in mezzo a prove e tribolazioni, perché ha preferito questa via a quella degli onori, dei piaceri, delle ricchezze. Sarò dunque io in discordia con Lui? Riproverò forse questo grande modello di tutti i Santi? (Berthier). – Cercare di penetrare nella profondità di questo mistero della condotta di Dio sui giusti e sui malvagi, è gettarsi in un grande lavoro. La ragione umana vi trova un gran disordine, ma una fede attenta vi scopre un ordine grandissimo, perché vede tutto alla luce del grande giorno dell’eternità, ove tutte le cose saranno sbrigliate e regolate da una decisione definitiva ed irrevocabile. – Voi dite – è vero – che sia un gran lavoro sapere come possa succedere che i malvagi siano felici, mentre i buoni siano nella sofferenza … Questa questione si erge davanti come un muro; ma con il soccorso di Dio, voi attraverserete questo muro (Ps. XVII, 30); è un lavoro per voi, ma per Dio non è un lavoro. Ponetevi dunque alla presenza di Dio, davanti al Quale nulla è un lavoro, e non vi sarà più lavoro per voi … Questa difficoltà non durerà che fino a quando io non entrerò nel santuario di Dio.  Quale risorsa troverete nel santuario di Dio, per risolvere questa questione? « Che abbia l’intelligenza delle cose ultime, non delle cose presenti ». Ora – egli dice – dal santuario di Dio, io getto gli occhi sulle cose ultime oltre ciò che è il presente. Tutto ciò che si chiama il genere umano, la massa intera di tutti gli uomini verrà davanti a Dio per essere esaminato, arriverà sulle bilance dell’eterna giustizia; là saranno pesate tutte le azioni degli uomini. Oggi, una nube circonda tutte le cose; ma i meriti di ciascuno sono conosciuti da Dio (S. Agost.).- Questo santuario di Dio, o questo mistero può essere chiarito: è Gesù-Cristo nel quale sono nascosti tutti i tesori della saggezza e della scienza di Dio (Coloss. II, 3), ciò che fa che l’Apostolo, in questo stesso ambito, solleciti i Colossesi affinché siano ripieni di tutte le ricchezze di una perfetta intelligenza, per conoscere i misteri di Dio Padre e di Gesù-Cristo. Questo santuario sono ancora le sante Scritture, nelle quali Dio ci parla come da un santuario, e che racchiudono i misteri di Gesù-Cristo e della sua Chiesa, e le ragioni della condotta della divina Provvidenza. È il santuario ove Dio, sotto l’antica legge, rendeva i suoi oracoli e che figurava l’augusto Santuario dei nostri templi, ove Gesù-Cristo non cessa di essere la luce che rischiara ogni anima cristiana che si avvicina a Lui per essere illuminata (Ps. XXXIII, 6). Questo Santuario sono ii misteriosi segreti della Provvidenza di Dio, nei quali entriamo mediante una meditazione profonda. Infine, questo Santuario è il cielo, ove allo splendore della luce divina, noi vedremo chiaramente le ragioni dei disegni segreti di Dio sui figli degli uomini durante la loro vita mortale sulla terra.

IV. —18-25.

ff. 18-19. – Il Profeta non dice: Voi li avete abbattuti, perché essi si erano elevati, ma voi li avete abbattuti nel momento stesso in cui essi sembravano elevarsi, perché elevarsi così, significa cadere; la loro elevazione è una rovina (S. Agost.). – Anche lo stesso Profeta dice allora. « … Essi svaniranno come il fumo ». È salendo nell’aria che una fumata svanisce, è ostentandosi che essa si dissipa: così è del peccatore che la fortuna favorisce, è una stessa causa che fa scoppiare e che annienta la sua grandezza  (S. BERN., Colloq. Sim. cum Jesu.).- La prosperità dei malvagi è una trappola nella quale essi sono tutti presi. Questa prosperità è la più rigorosa delle pene con cui Dio possa colpirli, e ben lontano dal renderli felici, essa è per essi un inizio di supplizio. – Si, questa felicità dei figli del secolo, quando navigano nei piaceri illeciti, quando tutto loro arride, e tutto per loro ha successo, questa pace, questo riposo che noi ammiriamo, « che – secondo l’espressione del Profeta – fa uscire l’iniquità dal loro grasso », che li gonfia, che li inebria fino a far dimenticare loro la morte, è un supplizio, una vendetta che Dio comincia ad esercitare su di loro. Questa impunità, è una pena che li precipita nei sensi riprovati, che li libra ai desideri del loro cuore, ammassando così un tesoro di odio, in questo giorno di indignazione, di vendetta e di furore eterno. Non resta per noi che esclamare con l’incomparabile Agostino: « Non c’è nulla di più miserabile della felicità dei peccatori che conservano una impunità che sostituisce una pena e fortifica questo nemico domestico, « io voglio dire la volontà sregolata », contenente i suoi cattivi desideri (Bossuet, Sur la Providence). – Questa lunga sequela di prosperità, che costituisce ciò che gli uomini chiamano la felicità è, per una persona illuminata nelle cose spirituali, una rivelazione di Dio che deve portare il terrore in un cuore religioso; perché spesso ciò che appare agli occhi di un uomo, come la legittima conseguenza dei suoi sforzi e dei suoi talenti, non è che il prezzo esatto del suo valore morale, la ricompensa scrupolosamente misurata delle sue virtù naturali, delle sue buone qualità secondo il mondo. Dio non si serve, per punire, che delle forme più terribili di questa prosperità. Non sono queste parole una sentenza di riprovazione: « … Tu hai ricevuto la tua ricompensa »? Signore, esclama san Filippo, che io non riceva la mia ricompensa in questa vita! Pertanto, quando noi vediamo questi uomini riuscire in tutte le loro imprese e portarsi indifferenti, in materia di Religione, fino a non avere alcuna nozione di Dio, quante volte la sua voce è giunta alle loro orecchie quando solo loro potevano udirla! (FABER, Le S. Sacrement, Livre III, Section VII). – Questi pretesi felici del secolo sono nella più infima punizione che Dio possa far subire alla creatura umana, e se il cielo è ancora aperto sulle loro teste, poiché essi vivono, sotto i loro piedi non c’è però se non l’abisso eterno. Coloro che Dio tratta così, coloro che Lo hanno conosciuto, che Lo hanno dimenticato, e che non sentono alcun turbamento interiore nell’insolenza del loro oblio; coloro che Egli lascia dormire nel fango dell’orgoglio e del piacere; coloro che Egli lascia ridere, con la bocca piena delle ricompense abominevoli di satana, ed il cuore gioioso per il bottino che essi fanno per l’inferno, servendosi dei doni che hanno ricevuto dal cielo: … guai a loro!  (L. V., Rome et Lor., t. II, 128).

ff. 20. – Come hanno cessato di essere? Come cessa il sogno di un uomo che si sveglia! Supponete un uomo che si veda in un sogno, che trovi dei tesori: egli è ricco, ma fino a quando si sveglia … egli cerca il suo tesoro e questo tesoro non c’è più: nelle sue mani non c’è niente, niente c’è sul suo letto. Egli si era addormentato povero, era diventato ricco nel sogno; se non si fosse svegliato sarebbe ancora ricco; ma si è svegliato, ed ha trovato la miseria che aveva lasciato nell’addormentarsi. Allo stesso modo, questi uomini troveranno la miseria che si sono preparati. Al risveglio che chiude questa vita, non resta niente di ciò che possedevano, come in un sogno. E per paura si obietta: Ma che! È dunque così poca cosa ai vostri occhi lo splendore della loro gloria? È così poca cosa la pompa che li circonda? Sono così poca cosa i loro titoli, le loro immagini, le loro statue, le lodi che ricevono e la falange dei loro clienti? « Signore – dice il Profeta – nella vostra città voi riducete la loro immagine a niente … ». Dunque non aspirate ai beni terreni voi che non li possedete, e voi che li possedete, non abbiate a presumerne. Voi non sarete condannati se possedete questi beni; ma sarete condannati se presumete di tali beni, se vi gonfiate per tali beni, se per tali beni voi pensate di essere grandi, se a causa di tali beni, non riconoscerete i poveri; se, nell’arroganza della vostra vanità, dimenticate la condizione comune degli uomini, perché alla fine dei tempi, Dio renderà inevitabilmente a ciascuno secondo le proprie opere e, nella sua città, renderà un niente l’immagine di questi orgogliosi (S. Agost.).  – O vanità e grandezza umana, trionfo di un giorno, superbo niente, che sembri niente alla mia vista quando ti guardo da questa angolazione! Apriamo gli occhi a questa luce; lasciamo, lasciamo ruggire il mondo, e non gli invidiamo la sua prosperità. Essa passa, il mondo passa, essa fiorisce con qualche benessere nella confusione di questo secolo. Verrà poi il tempo del discernimento. « Voi la dissiperete Signore, come un sogno in coloro che si svegliano; e per confondere i vostri nemici, distruggerete la loro immagine nella vostra città ». Che vuol dire, … Voi distruggete la loro immagine? Vale a dire, distruggerete la loro felicità, che non è vera felicità, ma solo una fragile ombra di felicità; Voi la frantumerete come il vetro, e la frantumerete nella vostra città; vale a dire davanti ai vostri eletti, affinché l’arroganza dei figli degli uomini, resti eternamente confusa (Bossuet). 

ff. 21-24. – « Il mio cuore è tutto infiammato ed i miei reni alterati ». Questo fuoco di cui il cuore del Profeta arde, è il fuoco dello Spirito Santo, che non gli permette di bruciare se non per le cose spirituali e divine. È soprattutto questo fuoco della carità di cui dice in un altro salmo: « … Ardeva il cuore nel mio petto, al ripensarci è divampato il fuoco » (Ps. XXXVIII, 4); questo fuoco è quello di cui divampava il profeta Geremia quando diceva: « Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo » (Gerem. XX, 9); questo fuoco, del quale i discepoli di Emmaus ardevano per i discorsi del Signore: « … non erano i nostri cuori ardenti quando ci parlava durante il cammino e ci spiegava le Scritture ?» (Luc.  XXIV,32). « Le mie reni sono state cambiate », perché il mio cuore è stato infiammato dall’amore di Dio, le mie reni, cioè le mie passioni, sono cambiate, ed io sono diventato interamente puro (S. Agost.).- Un cuore infiammato di Dio, annientato in sé, che riconosce la propria ignoranza e che si umilia come un animale privo ragione, in presenza della luce sovrana, riconosce facilmente che Dio è onnipotente e che è giusto, che riserva per l’altra vita i beni che prepara a coloro che Gli sono fedeli, e che i suoi giudizi sono sempre santi benché siano spesso impenetrabili.- Colui che è sostenuto dalla mano di Dio, è imperturbabile tra gli avvenimenti di questa vita. – La pietà solida è esente dall’essere colpita da qualsiasi illusione e si lascia condurre alla volontà di Dio. Nessuna pace è comparabile a quella, poiché nulla arriva contro la volontà di colui che non ne ha altra se non quella di Dio; nessuno mezzo più sicuro c’è per essere ricevuto tra le braccia di Colui che si è interamente abbandonato, e per essere ricolmo delle vera gloria (Duguet). –  Quale consolazione e qual soggetto di gioia per voi in qualunque stato vi troviate! Quando talvolta anche voi vi trovate in preghiera, con lo spirito pieno di mille fantasmi, senza alcuna tregua, non potendo assoggettare l’immaginazione, questa folle dell’anima, come la chiama Santa Teresa; altre volte, disseccati ed aridi, senza poter produrre un solo pensiero buono, come un tronco, come una bestia davanti a Dio: che importa? Non c’è allora che consentire ed aderire alla verità dell’essere di Dio. Consentire alla verità, questo solo atto è sufficiente. Aderire alla verità, acconsentire alla verità, è aderire a Dio, è mettere Dio in possesso del diritto che Egli ha su di noi (Bossuet, Opuscul., Disc, sur la mort).

ff. 25, 26. – L’amore di preferenza compara Dio con tutte le altre cose, come per provarle, convincersi delle menzogne, e la loro vanità gli ispira un disgusto profondo. Egli le calpesta e si leva sulle loro rovine per avvicinarsi a Dio. Il loro niente lo debilita, è da tutto disilluso; i beni terreni non possono più tenerlo lontano dal cielo; il distacco è la sua grazia caratteristica. Egli attraversa il mondo come la rondine sfiora l’erba della prateria, senza che nulla lo possa fermare. Così fa un giusto apprezzamento di Dio, mettendolo al di sopra di tutto ciò che esiste (Faber, Le Créateur et la créature, 181). –  Cosa ho a che fare con tutti i tesori della terra? Essa è fredda come il marmo delle montagne. Cosa sono gli oceani con la pienezza delle loro acque? Il mio pensiero li oltrepassa. Cosa possono per me gli orizzonti dei cieli e l’armonia degli astri che vi dispiegano i loro movimenti? Le loro voci sono mute, e sono io che presto loro la vita. Cosa sono i pensieri dello spirito e le loro contemplazioni orgogliose? Il pensiero è vuoto, è vano, infeltrisce tutto ciò che tocca. Ciò che il mio cuore chiama, desidera, come l’abisso chiama un abisso, è Dio (Mgr Bauday. Coeur de Jésus, p. 89). – Cosa possono presentarmi, in effetti, e il cielo e la terra, che mi sia più caro del mio Dio, che sia caro come il mio Dio e che mi sia caro in qualche modo più del mio Dio, se non è il mio Dio stesso? (BOURD. Vraie et fausse piété.). – « O Dio del mio cuore, Voi siete mia eredità per l’eternità! », ebbene! Vediamo le nostre ricchezze, ed il genere umano scelga la sua eredità. Vediamo gli uomini lacerarsi per le loro diverse passioni; che scelgano, gli uni la guerra, gli altri la locanda, gli altri le dottrine varie e differenti, questi il commercio, quello l’agricoltura; si dividano i beni terreni, ma il popolo di Dio esclami: « … Il mio Dio è la mia parte! », Egli non è mia parte per un tempo, il mio Dio è mia parte per i secoli dei secoli » (S. Agost.). – « Voi siete il Dio del mio cuore ». Dio è il primo principe ed il motore universale di tutte le creature, è l’amore anche che fa mescolare tutte le inclinazioni e le pulsioni del cuore più segrete; è come il Dio del cuore. Ma alfine di impedire questa usurpazione, occorre che si sottometta lui stesso a Dio affinché il nostro grande Dio essendo Egli stesso il Dio del nostro amore, sia nello stesso tempo il Dio dei nostri cuori così che noi gli possiamo dire con Davide: «Voi siete il Dio del mio cuore e la mia parte per sempre » (Bossuet III, Serm. Pâque).

ff. 27. – Non è con il movimento del corpo che ci si allontani da Dio o che si torni a Dio, ma con le affezioni del cuore. –  Prostituirsi alle creature, è preferire le creature a Dio. – Essendo Dio lo sposo vero delle nostre anime, è una specie di adulterio il suddividere il proprio cuore, che questo divino Sposo domanda per intero. « Anime adultere, dice san Giacomo, non sapete che l’amore per questo mondo è nemico di Dio? E chiunque vorrà essere amico di questo mondo, si rende nemico di Dio? (Giac. IV, 4). – « Il mio bene è attaccarmi a Dio ». Un trono è caduco, la grandezza svanisce, la gloria non è che una fumata, la vita non è un sogno, il mio bene è avere il mio Dio, è tenermi legato … io non vedo che Voi, mio Dio, mia parte, mia parte eternamente; nel cielo e in terra, io non vedo che Voi. Tutto ciò che non sia eterno, fosse pure una corona, non è degno della vostra liberalità né del vostro coraggio … Io non vedo che Voi sulla terra, e non vedo che Voi medesimo nel cielo; e se non siete Voi stesso il dono prezioso che ci fate, tutto ciò che Voi ci date allora in tanta profusione, non mi sarebbe nulla  (Bossuet. IV, Serm. Pâque.).

DIO IN NOI (2)

DIO IN NOI (2)

[R. PLUS: Dio in noi – Versione p. f. Zingale S. J. – L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923 Can. Francesco Duvina]

CAPO III.

La Redenzione.

Abbiamo detto che il soprannaturale è la vita divina in noi, la nostra partecipazione alla natura infinita di Dio. Fissiamo meglio il concetto. Abbiamo già un punto di riscontro per apprezzare, al suo giusto valore, la ricchezza di cui siamo gratificati. Prima ancora d’investigare in che consista la mia vita divina, che luce non promana già da questo solo pensiero: Dio ci ha riscattato, e Gesù Cristo si è incarnato per questo solo motivo: renderci il soprannaturale perduto! – È questo un fatto misterioso: Dio che si fa uomo, e poi il presepio, i trenta anni di vita nascosta; tre anni di vita pubblica; la croce; e lo scopo unico di tutto ciò: rifarci uomini divini. Riflettiamoci più addentro. – L’abbiamo già notato: per il peccato di Adamo noi eravamo tantum homo, uomini e nulla più. Dio non può accettare questa formula. Abbiamo saccheggiato la sua opera: Egli la vuole intatta; l’abbiamo cacciato dall’anima nostra: Egli vuole ritornarvi.

« … E il Verbo si è fatto carne ».

S. Ignazio, negli Esercizi spirituali, nella contemplazione sull’Incarnazione, ci invita a penetrare i consigli di Dio e vedervi la Trinità santa che delibera sulla sorte dell’uomo e sui mezzi da scegliere per salvarlo. – Taine, pensando a Dio e alla sua immensa maestà, paragonava l’uomo a una formica e l’Altissimo a un personaggio impassibile che, col suo mantello, spazza il piccolo essere che cammina ai suoi piedi, senza punto curarsi di lui! Crassa ignoranza di ciò che è Dio! Rivolta verso di noi, la Trinità santa si turba per la nostra miseria, e cerca un mezzo di salvarci… Dio non è troppo grande per abbassarsi a questo modo? — Dio è buono, infinitamente buono, e prova per l’uomo una tenerezza particolare, quella tenerezza che rapiva in estasi il Salmista, e lo faceva esclamare: « Che cosa è dunque l’uomo, o Signore, perché Voi pensiate a lui? » (Quid est homo, quod memor es ejus! Ps. VIII, 5). È vero, profonda è la nostra miseria, ma è pur vero che la misericordia di Dio è meravigliosa. Quello che non fece per gli Angeli, lo farà per noi. Ma come risolvere il problema? Il delitto fu commesso da un uomo; bisogna dunque che la riparazione di questo delitto venga compiuta per mezzo di un uomo. D’altra parte l’ingiuria fatta a Dio ha un valore infinito … Allora la seconda Persona, il Verbo, pronunzia, nelle magioni celesti, la parola di salvezza. Egli si incaricherà di tutto. Figlio di Dio, si farà figlio dell’uomo. Prenderà la nostra natura, diventerà uno di noi. Avrà una madre come noi, una vita come la nostra, abbraccerà le sofferenze come noi. La riparazione sarà di un uomo, perché, pur essendo Verbo, Egli si farà carne. La riparazione sarà di un Dio, perché pur fattosi carne, Egli non cesserà di essere Verbo. E l’Incarnazione è stabilita. Il Salvatore si farà fratello nostro per natura, affinché noi diventiamo fratelli suoi per grazia; parteciperà della nostra vita, affinché noi possiamo partecipare della sua. – Ecco il disegno; ed eccone l’attuazione. L’Arcangelo Gabriele si reca da una Vergine e Le dice: «Dio cerca una madre. Volete divenire la Madre del Figlio di Dio? ». Maria consente. Gesù viene al mondo: « Verbo abbreviato », come dicono i Santi Padri, Verbum abbreviatium, figura ridotta, compendio della Parola eterna, adattato alla nostra capacità. Se Dio si fosse appagato di offrirvi una formula di solvenza, un comandamento da osservare, non avremmo capito. Gli Ebrei, nell’Antico Testamento, avevano le Tavole della legge. Una carta è poco per attrarre gli uomini, e la storia d’Israele è la storia dei continui oblìi e dei rinnegamenti, rinnovati senza interruzione. La formula finirà di essere una mera formula, il comandamento cesserà di essere un semplice comandamento. La parola prenderà corpo, e invece di operare secondo le norme scritte su di un pezzo di carta, agirà seguendo le orme di un uomo. – Il Figlio di Dio, divenuto uno di noi, sarà il nostro capo. Egli sarà il primogenito, il grande fratello di cui tutta la famiglia umana si onorerà; e basterà seguirlo per non deviare nel nostro cammino. Ci mostrerà per dove dobbiamo passare: « Io sono la via ». Lo vedremo sempre il primo della fila, e due sbarre incrociate che formano la sua bandiera, per quanto ne siamo lontani, le scorgeremo facilmente, perché in mezzo ad esse risplende un cuore luminoso. Ego lux! — Venite, figliuoli miei — filioli— il cammino è difficile, ma io vi precedo e chiedo da voi unicamente che mettiate i piedi sulle tracce dei miei passi. Credete alla mia parola. « Io sono la Verità ». Colui che ha ricevuto il Battesimo e crederà, sarà salvo. Colui che rifiuterà di ascoltare la mia voce, si perderà. Che cosa fai tu sull’orlo della strada, che hai gettato la croce per terra e non vuoi più andare innanzi?… Chi vuol venire dietro a me, prenda la sua croce; solo dopo aver fatto questo, potrà seguirmi… Povero Figliuolo! tu manchi di forze. Io te le do. La vita del Padre è discesa nell’anima tua col Battesimo; questa vita bisognerà custodirla in te stesso, svilupparla; i mezzi, a questo scopo, sono i miei Sacramenti… Se per caso vieni meno, se cadi, bisognerà che ti rialzi. Io caddi tre volte, percorrendo lo stesso cammino, per dare a te l’esempio del coraggio e farti rialzare dalle tue cadute mortali, come Io mi rialzai dalle mie cadute fisiche. Io ti ho dato l’esempio: Io ti ho dato anche i mezzi per ristorare le tue forze esauste. Non hai tu la Confessione? La Confessione, il più divino di tutti i miei Sacramenti, da me immaginato affinché la colpa non imputridisca nel tuo cuore. Come il Padre mio, dopo il fallo di Adamo, poteva astenersi dal perdonare, ugualmente Io potrei, dopo il tuo primo peccato, non concederti alcuna remissione. Considera la mia bontà, non per abusarne, ma perché tu abbia maggior confidenza in me. Ogni qualvolta tu cadrai, un Sacerdote sarà pronto, vicino a te, per perdonarti in mio nome. E quando sarai tormentato dal dubbio o dall’angoscia, ascolta la voce dei miei rappresentanti sulla terra, della mia Chiesa. L’esempio, la regola da seguire, i soccorsi da utilizzare; che cosa più ti manca? Dimmelo, che cosa avrei potuto fare di più, per te, che non l’abbia fatto? E tutto questo, notalo bene, tutto questo unicamente, esclusivamente perché tu viva della vita del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, perché tu viva della vita divina. Ho agito così, ho fatto un così grande passo — sicut gigas— per farti partecipe, Io Verbo, della mia vita che è la vita del Padre e dello Spirito Santo. Continuerai a stimare come cosa di poco conto, questa vita divina, questa vita soprannaturale? Tu non vi badi, ovvero non ne fai alcun caso. Mentre io… Considera quello che risolvetti di fare e che poi feci. – E cerca, ormai, di capire.

— Signore! Lo so. Aumentate la mia fede. Concedetemi di modellare tutta la mia vita su queste grandi idee. Voi mi avete reso la mia vita divina. Terrò ormai davanti agli occhi, non dimenticherò mai quanto quest’opera insigne vi sia costata.

— Tu non hai ancora compreso tutto. Hai contemplato, sì, con un’occhiata la mia vita e i miei benefizi. Il presepio, per te; la mia vita nascosta, per te; per te la predicazione evangelica; per la tua salvezza la fondazione della mia Chiesa, l’istituzione dei miei Sacramenti. – Hai pensato che su tutto ciò si distendeva una grande ombra, l’ombra sinistra, ma gloriosa, delle due traverse, mal connesse, che in forma di croce, dominavano il Golgota? Potevo vivere felice sulla terra. Non volli farlo: intendevo scrivere nel Vangelo: «Beati i poveri ». Se fossi stato ricco, mi avresti detto: « Voi parlate senza aver provato ». Scelsi la povertà. A Betlem non ebbi nulla. Sulla Croce, nulla. Fra la Croce e Betlem, nulla. Potevo vivere fra gli onori. Volevo poterti dire: «Beati i perseguitati», senza che tu avessi nulla da rimproverarmi. Ascolta. Alla mia nascita sono cercato a morte da Erode. Durante la mia predicazione, parecchie volte, vogliono arrestarmi e mettermi in prigione; prendono di terra le pietre per lapidarmi; la mia bontà è rimunerata con l’insulto. Quanto alla Passione ecco Anna, Caifa, un altro Erode, Pilato, i Giudei che schiamazzano; l’abbandono, l’odio, il tradimento; non mi mancò nulla. Avrei potuto… ma perché continuare? Scelsi la sofferenza, la Croce, volli versare tutto il mio sangue.

Perché?

Perché tu capisca meglio quanto io stimi la vita soprannaturale alla quale è destinata l’anima tua. Io mi annientai, mi ridussi a zero exinanivit— affinchè Dio viva in te. Mi ridussi al minimum, affinché tu potessi avere la vita al maximum.

Ohimè!

Che disdetta non fu la mia, che perdita! Operai a questo modo per amore degli uomini. Ma quanti di loro vi pensano? Quale stima mostrano della vita divina che portano in sé, — che dovrebbero almeno portare? — Il peccato dappertutto, nella strada e nella famiglia, nelle grandi sale, nelle stanze destinate al riposo, perfino nelle chiese e nei chiostri. I peccati dei buoni, specialmente! Essi soli mi ridussero all’agonia. Non potei resistere a tanto orrore, e dovetti sudare sangue. Peccati numerosissimi, grossolani, enormi! Io ne fui schiacciato dal peso, annientato. – Il mio sangue, tutto il mio sangue, inutile! Inutile, non per i soli infedeli di nascita, i pagani, ma per la folla degli infedeli dal cuore troppo gaio; per i Cristiani che sono in peccato mortale. Il povero Giuda, lo sai bene, è il modello delle anime che rifiutano di lasciarsi guadagnare. Misi in opera ogni mezzo, per salvarlo: la bontà, la compassione, la minaccia. M’inginocchiai ai suoi piedi per lavarglieli. Non capì nulla, non si commosse, e Io dovetti lasciarlo in braccio alla perdizione! Tutto il mio sangue è pertanto un prezzo d’infinito valore!… L’uomo mi ha profondamente rattristato. È dunque questo il cuore dell’uomo? E mia Madre, la mia povera Madre ch’Io volli associare con me alla tua redenzione e al mio martirio! Non è Madre tua, solo perché ha, per te, gli stessi sentimenti che una madre nutre per suo figlio, ma perché in realtà — Io la feci tua Madre, — tu Le devi la vita soprannaturale. – Nell’Annunziazione, quando Gabriele si presentò a Maria, ecco la strana proposta che Le fece, il contratto singolare a cui Le domandò di associarsi: « Dio ha stabilito di rendere all’uomo la vita divina. A questo scopo vuole incarnarsi e voi siete scelta per metterlo al mondo. Se accettate, il mondo possederà un Salvatore. Per mezzo suo avrà la salvezza. Senza di voi nulla è possibile. Dite sì, e tutto sarà conchiuso. Ma perché non vi sia un malinteso, sentite quali sono le condizioni del contratto: Gesù morrà sulla Croce. Voi lo alleverete per il sacrificio. Senza il Calvario non vi sarà Redenzione. Per salvare i vostri figli, gli uomini, — figli vostri perché a voi dovranno la vita soprannaturale che dipende unicamente dal vostro fiat, — bisognerà sacrificare il vostro Primogenito. Accettate la morte dell’uno, per salvare tutti gli altri? ».

Maria accetta.

Ella è Madre. È tua Madre, titolo che Maria stima molto, perché riassume il suo ufficio, il suo sacrifizio, la sua missione: Mater Dolorosa, madre dei dolori. In tutta la sua vita, tua Madre — la Madre mia — ebbe dinanzi agli occhi la visione tremenda della Croce che avrebbe dominato la mia e la sua vita, e a ogni momento si rinnovava il triste spettacolo di me, suo Primogenito, inchiodato e sanguinante sopra il legno infame. E Io ho permesso questo, per amor tuo. Senza questa doppia crocifissione, che per me durò trentatrè anni e per mia madre tutta la vita, tu non saresti stato riscattato. Maria rinnovò il fiat dell’Annunziazione in ogni istante della sua esistenza. Ai piedi della Croce ripeterà con me la sua giaculatoria consueta, l’Amen sublime, con cui si associò pienamente, fin da principio, alla mia volontà redentrice. Così si riassume, con l’ufficio di Gesù, l’ufficio di Maria nella nostra rinascita collettiva alla vita soprannaturale (noi non pretendiamo punto che la Vergine abbia avuto, dal primo momento, la conoscenza di tutta la Passione del suo Divino Figliuolo, in tutte le particolarità. Ma diciamo, secondo il giudizio di vari Santi Padri, che l’Angelo verisimilmente poté rivelare alla Vergine la Passione del Figlio, presa nel suo insieme. Come difatti spiegare l’accento di rassegnazione del fiat? Ad una proposta di grande onore si risponde piuttosto: meglio così, anziché: fiat, sia. La sola umiltà di Maria non basta, secondo alcuni, a dare ragione della risposta fatta all’Angelo. La Vergine aveva d’altronde letto Isaia, il vermis et non homo, il virum dolorum. Sapeva quindi che il Messia sarebbe l’uomo dei dolori. Accettando perciò la maternità del Messia, per il fatto stesso accettava di essere una Madre addolorata; e per chi conosce il cuore di una madre, Maria si rassegnava al dolore durante tutta la sua vita. La Vergine dovette averne l’intuizione alle prime parole dell’Angelo. Quanto alle particolarità, non si potrebbe forse ammettere che durante i trent’anni di contatto continuo con Lei, Nostro Signore abbia rivelato a sua Madre, scelta ad essere corredentrice, quale sorta di pene fossero riservate a Lui?). L’umanità deve tutto a Maria; e l’essere costata a Lei tanti dolori, spiega perché la Vergine sia così potente presso Dio, allorquando trattasi di difenderci contro gli attacchi giornalieri dei nemici dell’anima nostra. – Giacché non basta che siamo stati salvati una volta. Noi siamo esposti, ogni giorno, a cadere nel male in mille maniere. Maria, per ciascuno di noi, non dimentica l’ufficio che assunse una volta. Ella accettò il sacrificio del suo Primogenito, per strappare alla morte noi, suoi « secondi » figli. Questo importa molto, ed è la ragione precipua dell’efficacia del suo intervento. Nel secondo libro dei Re si racconta che una madre, avendo due figli, vede un giorno il minore accusato dell’uccisione del fratello. Il reo è condannato a morte, essendo provato il delitto. La madre, presente alla sentenza, si getta ai piedi del giudice, e gli dice : « Che cosa fate, signore? Ho perduto già un figlio, e voi oserete uccidere l’unico che mi resta? ». Possiamo immaginarci lo stesso riguardo Maria — Omnipotentia supplex, l’onnipotenza supplichevole — al momento in cui la morte è sul punto di colpire un suo figliuolo in peccato mortale, per privarlo in eterno dell’eredità dei figli di Dio. Ella allora si prostra ai piedi del Padre, e dice: « Signore, Io ho sacrificato il mio Primogenito. Fate grazia, vi supplico, a questo mio secondogenito, per i dolori sofferti dal Primo; per tutte le pene da me sopportate, perdonatelo… è un mio figliuolo! Non vogliate punirlo in eterno. Mandategli una grazia che lo converta… Abbiate pietà di me! ». Cominciamo a capire il vero valore della nostra vita soprannaturale. Allorché si ignora il valore di un bene, si ricorre a chi è in grado di stimarlo. – Io stimo per nulla la mia vita divina.

Quanto invece fu stimata da Maria?

Quanto da Gesù? L’uno e l’altra capaci, pertanto, di apprezzarla! Bisogna che qualcuno s’inganni; o s’ingannano essi o m’inganno io. Sì, m’inganno io. Bisogna quindi che io rettifichi al più presto il mio falso giudizio, e che, in conseguenza, non trascurando la stima che altri ne ha fatto, mi studii di trovare in me che cosa sia la vita soprannaturale, la presenza di Dio, nell’anima mediante la grazia.

LIBRO SECONDO

L’abitazione divina nell’anima nostra

Le grandi linee del disegno di Dio sono le seguenti:

In principio l’uomo è colmato, al disopra della sua natura, di doni meravigliosi, dei quali il più importante è una partecipazione di amore alla stessa vita della Trinità Santa. – Per il peccato originale, l’uomo perde questo tesoro soprannaturale. Tutto però non è perduto irremissibilmente. – Dio stabilisce di rendere all’uomo la partecipazione ineffabile alla sua vita divina; soltanto non saranno resi alcuni doni accessori e d’ordine temporale. – Per mandare ad effetto tale restituzione, Dio sceglie di venire Egli stesso sulla terra. Il Verbo, seconda Persona della Santa Trinità, si incarna, dopo aver fatto domandare a Maria se accetta l’onore e il martirio di divenire sua Madre. – Grazie a questa redenzione, a questo riscatto, eccoci divenuti uomini divini. Dio ha determinato di venire in terra, unicamente per rientrare nelle nostre anime. Egli non si lasciò attrarre dal presepio di Betlem, ma dal nostro cuore. Vuole rientrare nel dominio del cuore, affinché ridiveniamo quello che eravamo alla nostra origine: portatori di Dio.

Spieghiamo quest’espressione e dimostriamone l’esattezza letterale. Ci riuscirà facile il compito, se avremo provato che per mezzo della grazia santificante Dio fa dell’anima nostra:

1. Un vero tabernacolo;

2. Un cielo;

CAPO I .

” Templum Dei .

Nulla è più spesso ripetuto e affermato, nelle Epistole, di questa verità, che noi dobbiamo considerarci come tabernacoli, vere Chiese, case di Dio: Quæ domus sumus. — Vos estis templum Dei. – S. Paolo, per sostenere questa dottrina, usava lo stesso insegnamento di Nostro Signore. « Se qualcuno mi ama», aveva detto Gesù, vale a dire se qualcuno è fedele ai miei comandamenti, se non pecca, ma vive in stato di grazia, « mio Padre e Io l’ameremo, e verremo a lui, stabiliremo in lui la nostra dimora, la nostra abitazione, il nostro soggiorno ».

« Verremo a lui ». Chi farà questo? Noi, Padre, Verbo, Spirito Santo, che siamo un solo. Verremo, non della venuta necessaria e comune, in virtù dell’immensità divina; ma di una venuta speciale, gratuita, di amore, che ci costituirà non più nelle relazioni di un oggetto con colui che l’ha fatto, di creatura a Creatore, ma nelle relazioni di amico ad amico.

« Noi verremo a lui ».  È una grazia grande venire anche di passaggio, venire per ripartire al più presto. Ma noi faremo di più: Verremo e resteremo; verremo per dimorare, per stabilirci, per operare continuamente la divinizzazione più completa e più perfetta dell’anima. « Noi verremo e resteremo ». Noi resteremo, e da parte nostra, questa presa di possesso sarà irrevocabile, sarà una dimora che non avrà fine. Tu solo, col peccato, potrai pronunziare una sentenza d’espulsione e allora Noi partiremo. Non potremmo fare altrimenti! Ma finché questo non accade, la nostra vita, la nostra presenza in te, è un fatto, una vera realtà. Io impegno la mia parola. – Si conosce da tutti l’espressione di San Pietro, difficile a tradursi, ma bella, chiara, con cui afferma ai primi Cristiani, che se persistono nello stato di grazia, sono in possesso della « partecipazione alla natura divina, divinæ consortes naturæ ». Cerchiamo di rappresentarci in concreto questa presenza di Dio nell’anima nostra. – Abbiamo spesso meditato sul presepio. Supponiamo adesso il presepio, divenuto tutto a un tratto vivente… La culla del Salvatore conteneva Gesù, Uomo-Dio. Noi, divenuti, per la grazia, culle viventi, portiamo, non la santa Umanità del Signore, ma la sua divinità. Secondo il simbolismo delle tre Messe che si celebrano il giorno di Natale, se la prima ci ricorda la nascita eterna del Verbo nel seno del Padre e la seconda la nascita temporale del Cristo a Betlem, la terza, invece, ci rappresenta la nascita spirituale di Dio in ciascuna delle nostre anime con la grazia santificante. Spesso abbiamo meditato sull’Eucaristia. Immaginiamoci la sacra pisside divenuta a un tratto vivente… La pisside racchiude Gesù, l’Uomo-Dio. Per la grazia, noi divenendo pissidi viventi, portiamo non l’Umanità di Nostro Signore, ma quello che in Lui è più grande: la sua Divinità. – Nel 1914 alcune religiose belghe, costrette a fuggire dinanzi all’invasione tedesca, riparando in Olanda, portarono seco la sacra pisside che la superiora aveva tolta dal tabernacolo. Erano fuori di sé per la gioia di portare, una volta nella loro vita, Nostro Signore. Ma la religiosa che teneva con sé il sacro deposito, aveva forse pensato che ogni giorno, per la grazia santificante, ella portava realmente, benché non nello stesso modo, il buon Dio? – Di tutte le lodi tributate al valore durante la guerra, è certamente assai meritata quella di un basco di Urrugna, chiamato Ururétagoyena: « Soldato valoroso… Il 16 giugno 1916, durante l’incendio di X …, non permise che il parroco andasse a prendere il Santissimo in mezzo alle fiamme, ma vi andò egli stesso, malgrado i pezzi infiammati che cadevano da tutti i punti, e, attraversando una finestra, riuscì a portare la pisside al prete ». Essendo quel soldato un fervente Cristiano, come lo sono generalmente i baschi, si può supporre che sia stato santamente orgoglioso di avere portato, anche durante alcuni minuti, il Dio vivente. E per noi, quale dovrebbe essere il nostro nobile orgoglio, se pensassimo che ad ogni momento — se siamo in grazia — portiamo Dio. Lo portiamo dovunque andiamo, non soltanto sopra di noi, come le buone suore di cui abbiamo parlato, ovvero come il bersagliere basco, o come il Papa Alessandro, che si dice portasse continuamente appeso al collo, in una teca d’oro, il SS. Sacramento; ma dentro di noi dove risiede, non corporalmente, — privilegio riservato alla presenza eucaristica dopo ogni Comunione, durante il tempo in cui durano le sacre specie; — ma spiritualmente, per la grazia santificante, finché noi lo vogliamo, in virtù della nostra fedeltà. – Noi siamo altrettanti tabernacoli. I Santi vivevano di questo pensiero. Ogni anno la Chiesa ci fa leggere nel breviario le lezioni della festa di Santa Lucia. Il prefetto l’interroga: «Lo Spirito Santo è in te? » — « Sì, coloro che vivono casti e pii sono il tempio dello Spirito Santo ». S. Ignazio martire dice a Traiano che l’insulta, trattandolo di miserabile: — Nessuno osi trattare di miserabile Ignazio, Porta-Cristo. — Come potresti chiamarti Porta-Cristo, Cristoforo? — Perché questa è la verità. Io porto Dio in me. – All’occasione, Nostro Signore stesso s’incarica di dire, ad alcune anime privilegiate, le meraviglie della sua presenza in noi. Un giorno chiamò così S. Angela da Foligno: « Figlia mia carissima, mio tempio, mia delizia… ». – E a Santa Gertrude, la santa per eccellenza, dell’Abitazione in noi, la Santa di cui la Chiesa, nell’orazione per la sua festa, dice: « O Signore, che nel cuore di Gertrude vi siete preparata una dimora deliziosa… » parecchie volte Gesù Cristo rivolge queste parole: « Io ti ho scelta per abitare in te, e per trovare in te le mie delizie ». – La conoscenza che il Divin Salvatore dava alle sue Sante era ben diversa dalla nostra, non era cioè una conoscenza di pura fede, ma una conoscenza sperimentale, sentita, appartenente a quell’ordine mistico di cui noi qui non intendiamo affatto occuparci. Fatta questa riserva, possono valere per noi le parole che Gesù rivolgeva loro. Nessuno negherà che non possa chiamare noi suo tempio e non possa dirci: « Io ti ho scelto per abitare in te ». E difatti nel suo dogma Egli ci chiama e ci parla così. – Nulla di più esatto. I Cristiani istruiti che hanno una fede viva, non ignorano questo. Si conosce il gesto di Leonida, padre di Origene. Inchinandosi sul figlio, adagiato nella culla, per baciarne il petto, risponde a chi si meraviglia: « Io adoro Dio, presente nel cuore di questo piccolo battezzato ». Origene stesso scriverà più tardi, parlando della grazia santificante e della vita divina che la grazia apporta in noi: « Scio animam meam inhabitatam. Habitata est quando plena est Deo, quando habet Christum et Spiritum Sanctum. L’anima mia è un’abitazione. Abitazione di chi? Di Dio, di Gesù Cristo, dello Spirito Santo » (In Jerem., hom. VIII).

Abbiate stima di questo piccolo essere;

Egli è assai grande, ha in sè Dio!

(Prenez garde à ce petit être;

Il est bien grand, il contient Dieu.

VICTOR HUGO).

Credette mai, Victor Hugo, di esprimere, in questi due versi, una verità dogmatica fondamentale ed insieme commovente? Ecco ancora un tratto, forse più bello di quello di Leonida. – Una madre, fervente cristiana, dopo molti anni di sterilità dà alla luce una bambina. A coloro che glie la porgono perché l’abbracci: « No, risponde; lo farò tra breve, quando avrà ricevuto il Battesimo ». Poche madri avrebbero forse una fede simile. Non meno cristiana è l’attitudine di Botrel, bardo bretone, il quale, citato a testimoniare in un tribunale e non scorgendovi più il Crocifisso, rifiuta di sollevare la mano, e la pone invece, premendo forte, sul petto, esclamando: « Dio è almeno qui ». Dalla cittadella di Lilla, in cui era stato rinchiuso come in prigione di rigore, per essersi rifiutato di ubbidire contro coscienza, allorché il governo aveva imposto gl’inventari agli edifici sacri, un ufficiale francese, non potendo visitare il Santissimo Sacramento, si consolava al pensiero che almeno nessuno gli poteva impedire di visitare Dio presente nell’anima sua, per la grazia: «Per fare una buona adorazione, egli scriveva, io rientro in me stesso, o meglio, adoro Dio presente in me. Non siamo forse noi altrettanti tabernacoli?».Pensiero, anche quest’altro, pratico e profondo: « Quanto a me, scriveva prima della guerra il Dottor Périé, presidente del circolo della gioventù cattolica dell’Aveyron, la vita cristiana consiste, tutta quanta, nella fedeltà a questa massima: vivere, ogni momento della nostra vita, con Gesù Cristo. Sentire Lui, Dio, amico, confidente, padrone, presente sempre accanto a noi e dentro di noi ».Quanta forza in questo pensiero, quando lo si è compreso! Poter dire a ogni minuto: io non sono solo, siamo due, Dio e io! Consideriamo come dato a noi il consiglio di Monsignor d’Hulst: « L’anima vostra sia un tabernacolo davanti al quale vi prostrerete spesso, a causa dell’Ospite divino che vi abita ».

CAPO II.

“Cœlum sumus,,.

« Noi siamo un cielo ».

S. AGOSTINO.

Una carmelitana di Digione, morta di recente, dopo solo alcuni anni di vita religiosa, suor Elisabetta della Trinità, la cui vita spirituale si basa quasi esclusivamente sul dogma dell’Abitazione divina, è un modello di ciò che deve essere l’intimità « interiore ». Il titolo di Carmelitana non deve costituire una difficoltà. Il P. Foch fa osservare, con ragione, in una lettera, citata al principio delle Memorie di suor Elisabetta: « Il carattere singolarmente importante che me la fa assai apprezzare, si è che la perfezione di quest’anima religiosa, in ultima analisi, consiste nell’effusione della grazia, nello sviluppo progressivo, normale, logico delle virtù teologali, quali il Battesimo le infonde in tutti ». Questo importa, che il substratum divino, su cui suor Elisabetta edificò l’edificio della sua santità, è posseduto anche da noi. Non esistono punto due forme di stato di grazia. È pertanto, fuori di dubbio che il posto che noi riserviamo a Dio nell’anima nostra può differire a seconda della capacità delle nostre virtù; ma ciò sarà solo secondo un numero maggiore o minore di gradi, una misura più o meno ristretta. Dio può concedere, è vero, grazie straordinarie che facilitano la vita interiore, come fece con S. Elisabetta. Col solo spirito di fede noi possiamo, nondimeno, avvantaggiarci molto nella conoscenza concreta di Dio in noi. Questo è possibile a tutti, purché si abbia buona volontà. Ecco perchè le « Memorie » di questa religiosa — con le correzioni che noi indichiamo — possono servire di modello a tutti. S. Paolo fornisce la teoria; Suor Elisabetta ce ne mostra la pratica, con gli accomodamenti necessari alla vita di ciascuno di noi. – La serva di Dio dice di avere trovato un gran segreto, il giorno in cui s’accorse che le parole di Gesù Cristo e quelle di S. Paolo su « Dio in noi », non erano da ritenersi come una metafora, ma alla lettera; in altri termini: « Dio in noi » non è semplicemente una formula, ma una vera, una sublime realtà. La pia carmelitana fece, di questa realtà, il centro della sua vita. – « Dio in noi », cioè a dire il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo: « Tre »; secondo una sua espressione favorita. Non bisogna parlare d’un Dio lontano, assente. Il suo Dio è vicinissimo, i suoi « Tre » sono là. E la sua intera esistenza si riassumerà in queste poche parole: «L’intimità interna cogli ospiti dell’anima mia ». A partire da questo momento, una sua idea molto cara, idea vera anche per noi, si è che possedendo Dio, l’anima nostra è un cielo. Noi dicevamo poco fa: tabernacolo, tempio. Possiamo dire, molto esattamente: cielo, paradiso. « Vivere, è comunicare con Dio da mane a sera e dalla sera al mattino… Lo portiamo in noi, e la nostra vita è un cielo anticipato. « Far sì che la nostra « casa di Dio » sia pienamente occupata dai « Tre… », mi pare il segreto della santità, un segreto molto semplice! – Dire che abbiamo in noi il nostro cielo … Quanto sarà bello, quando il velo cadrà, e noi godremo Dio faccia a faccia! ». Scrivendo a sua sorella, le cita la parola dell’Apostolo: « Non siete più ospiti o estranei, ma della città dei santi e della casa di Dio ». E aggiunge: « Questo cielo è al centro dell’anima nostra… Non vi pare semplice e consolante? Malgrado le tue occupazioni e attraverso le tue sollecitudini materne, tu puoi ritirarti in questa solitudine… Allorquando sarai distratta dai tuoi numerosi doveri… se vuoi raccoglierti, entrerai, a ogni ora, nel centro dell’anima tua, là dove dimora l’Ospite divino; potrai pensare alle consolanti parole: Le nostre membra sono il tempio dello Spirito Santo che abita in voi (1 Cor., III, 16); e a queste altre che sono di Gesù Cristo: Dimorate in me ed Io in voi. Si narra di S. Caterina da Siena che viveva sempre nella sua stanzetta, benché fosse in mezzo al mondo, giacché viveva in quest’abitazione interiore… ». Questo pensiero dominava la serva di Dio nei suoi ritiri spirituali. Ella scrive: «Poiché l’anima mia è un cielo dove io vivo aspettando la Gerusalemme celeste»… E riassume tutto in un’equazione luminosa: « Ho trovato il mio cielo sulla terra, poiché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia ». – Grazie speciali davano a Suor Elisabetta una particolare penetrazione del mistero divino. Questa facilità di « rientrare nel suo interno », di vivere « sola con Dio solo », non può appartenere, nello stesso grado, che alle anime prevenute da soccorsi straordinari, ovvero preservate dalle innumerevoli distrazioni della vita del mondo. – In conseguenza noi non vogliamo occuparci di questo. Non pretendiamo che la facilità sia per tutti uguale, ma diciamo che in tutti — in tutti coloro che sono in grazia, — Dio abita, e che dipende da noi, aiutati dalla grazia e secondo le risorse esteriori della nostra devozione, discendere in noi, quando vogliamo pregare;

in noi, poiché Dio vi si trova e in nessun altro posto ci è più vicino. Nostro Signore stesso spiegò una volta, nel giorno dell’Ascensione, a Santa Margherita Maria questa dottrina: « Ho scelto l’anima tua perché sia un cielo di riposo sulla terra e il tuo cuore sia un trono di delizie per il mio divino amore». Presenza sentita per la Santa; presenza semplicemente conosciuta in virtù della fede, quando trattasi di noi, ma identica nel suo fondo, differente solo in un punto accidentale: il modo di percepirla. – I Padri spiegano spesso questa dottrina: « Cœlum es et in cœlum ibis, dice Origene (In Jer., hom. VIII); tu sei cielo e andrai in cielo ».

— E Sant’Agostino: « Portando con noi il Dio del Cielo, siamo cielo. Portando Deum cœli, cœlum sumus». (In Psalm. LXXXVIII).L’Imitazione di Cristo nella sua semplicità dice:« Ubi tu es, ibi cœlum » (III, 59). E il P. Faber traduceva: « Dio produce il cielo, dovunque si trova ». Da ciò si comprende meglio l’agire di Santa Teresa che cadeva in estasi alla vista di un’anima in istato di grazia. « Il cielo, scriveva la Santa, non è l’unica abitazione di N. Signore; ve n’è un’altra nell’anima che può chiamarsi un secondo cielo ».S. Teresa considera specialmente, e nelle Fondazioni e in altri scritti, la verità della presenza di Dio in noi dal punto di vista mistico, come in generale facevano gli scrittori antichi; ma non omette, all’occasione, di ricordare il nostro punto di vista, basandolo sui principii della teologia dogmatica. Valendosi della frase di Origene: Tu coelum es, la Santa chiama l’anima nostra « un piccolo cielo… in cui abita Colui che ha creato il cielo e la terra ». « Vi è mai cosa alcuna più degna d’ammirazione, dice ancora, che di vedere Colui il quale riempirebbe della sua grandezza mille mondi, racchiudersi in una piccolissima dimora come la nostra? ».S. Bernardo, a sua volta, parlando dell’anima scrive: « Non bisogna dirla celeste unicamente a causa della sua origine; bisogna chiamarla il cielo stesso. Puto non modo cœlestem esse propter originem, sed cœlum ipsum posse non immerito appellari » (Dice ancora: « Non mirum si henter habitet hoc cœlum Dominus juxta illud Lucæ: Regnum Dei infra vos est. Nessuna meraviglia se Dio abita volentieri nel cielo dell’anima nostra; per creare il cielo visibile, si contentò di dire il fiat; per il cielo dell’anima nostra, dovette combattere e versare tutto il suo sangue, pugnavit ut aquireret, occubuit ut redimeret. Quindi, dopo quest’immenso lavoro, godendo della sua vittoria, ait: hæc requies mea, hic habitabo, disse: prenderò là il mio riposo, abiterò là dentro » – Serm. XVII in cantica, n. 9). È però indubitato che a differenza del cielo che ci attendiamo nell’eternità, il cielo dell’anima noi possiamo perderlo. Quaggiù portiamo i nostri tesori in vasi di argilla, vasis fictilibusl’altro invece non si può perdere. Questo « cielo» in noi è invisibile. Dio è presente, ma sfugge a qualsiasi percezione dei nostri sensi, e vi è un abisso tra la fede e la visione. Maria de la Bouillerie, che doveva morire religiosa del Sacro Cuore, nel suo ritiro di prima comunione fu colpita da questa frase: « Il nostro corpo è un velo che c’impedisce di vedere Dio ». Fra la grazia e la gloria vi è solo questa distanza — grandissima e piccolissima — il velo. Alla morte cadrà il velo della nostra carne, come un mantello che si squarcia, e allora vedremo. È invisibile, si può perdere e sfugge ai sensi. Con la grazia possediamo l’eredità, ma per goderne bisogna aspettare la gloria ( « Il cielo è Gesù », scriveva Mgr. Gay all’abate Perdrau; « la felicità non consiste nel vederlo, ma nel fatto che esista e che sia nostro. Or ci appartiene qui. È  verissima quindi la definizione che il Dottore Angelico dà della grazia: inchoatio vitæ eternæ… Noi possiamo e dobbiamo esclamare, lodando Dio e congratulandoci gli uni gli altri: portio mea Dominus » (Corresp. t. II, p. 217Monsignor Gay, per la sua devozione personale e per dirigere le anime, si valeva molto del dogma dell’Abitazione divina.).Quale soggetto, pertanto, degno della nostra stima, se vi facessimo attenzione! Io sono «cielo»! E la conclusione da dedurne: lavorare a mettere il « cielo » nell’anima mia, a metterne sempre di «più». Seminare nel tempo, per raccogliere nell’eternità: abbiamo altre ragioni di vivere quaggiù?

https://www.exsurgatdeus.org/2019/12/17/dio-in-noi-3/

SALMI BIBLICI: “DEUS, JUDICIUM TUUM REGIS DA” (LXXI)

SALMO 71: “Deus, judicium tuum regi da”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

CATENA D’ORO SUI SALMI

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 71

Psalmus, in Salomonem.

[1] Deus, judicium tuum regi da,

et justitiam tuam filio regis;  judicare populum tuum in justitia, et pauperes tuos in judicio.

[2] Suscipiant montes pacem populo, et colles justitiam.

[3] Judicabit pauperes populi, et salvos faciet filios pauperum, et humiliabit calumniatorem.

[4] Et permanebit cum sole, et ante lunam, in generatione et generationem.

[5] Descendet sicut pluvia in vellus, et sicut stillicidia stillantia super terram.

[6] Orietur in diebus ejus justitia, et abundantia pacis, donec auferatur luna.

[7] Et dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum.

[8] Coram illo procident Aethiopes, et inimici ejus terram lingent.

[9] Reges Tharsis et insulæ munera offerent; reges Arabum et Saba dona adducent;

[10] et adorabunt eum omnes reges terræ, omnes gentes servient ei.

[11] Quia liberabit pauperem a potente, et pauperem cui non erat adjutor.

[12] Parcet pauperi et inopi, et animas pauperum salvas faciet.

[13] Ex usuris et iniquitate redimet animas eorum, et honorabile nomen eorum coram illo.

[14] Et vivet, et dabitur ei de auro Arabiæ; et adorabunt de ipso semper, tota die benedicent ei.

[15] Et erit firmamentum in terra in summis montium; superextolletur super Libanum fructus ejus, et florebunt de civitate sicut fænum terræ.

[16] Sit nomen ejus benedictum in sæcula; ante solem permanet nomen ejus. Et benedicentur in ipso omnes tribus terræ; omnes gentes magnificabunt eum.

[17] Benedictus Dominus, Deus Israel, qui facit mirabilia solus.

[18] Et benedictum nomen majestatis ejus in æternum, et replebitur majestate ejus omnis terra. Fiat, fiat.

Defecerunt laudes David, filii Jesse.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXI

Davide nell’ultima sua vecchiezza, consegnando il regno a Salomone, prega Dio per lui. Ma più veramente trasportato dallo spirito di profezia, con elegantissime immagini descrive la venuta di Cristo, la propagazione del suo regno e la rettitudine del suo governo.

Salmo sopra Salomone.

1. Dà, o Dio, la potestà di giudicare al re, e l’amministrazione di tua giustizia al figliuolo del re, affinchè egli giudichi con giustizia il tuo popolo e i tuoi poveri in equità.

2. Ricevano i monti la pace pel popolo, e i colli ricevano la giustizia.

3. Ei renderà giustizia ai poveri del popolo, e salverà i figliuoli de’poveri, e umilierà il calunniatore.

4. Ed ei sussisterà quanto il sole e quanto la luna per tutte quante le generazioni. (1)

5. Egli scenderà come pioggia sul vello di lana e come acqua che cade a stille sopra la terra. (2)

6. Spunterà ne’ giorni di lui giustizia e abbondanza di pace, fino a tanto che non sia più la luna.

7. Ed ei signoreggerà da un mare sino all’altro mare, e dal fiume sino alle estremità del mondo. (3)

8. Si getteranno a’ suoi piedi gli Etiopi, e i nemici di lui baceranno la terra.

9. I re di Tharsis (4) e le isole a lui faranno le loro offerte; i re degli Arabi e di Saba porteranno i loro doni. (5)

10. E lo adoreranno tutti i re della terra, e le genti tutte a lui saran serve;

11. Imperocché egli libererà il povero dal possente; e tal povero, che non aveva chi lo aiutasse.

12. Avrà pietà del povero e del bisognoso, e le anime dei poveri farà salve.

13. Libererà le anime loro dalle usure e dalla ingiustizia; e il nome loro sarà in onore dinanzi a lui.

14. Ed ei vivrà, e gli sarà dato dell’oro dell’Arabia, (6) e sempre lo adoreranno, e tutto il dì lo benediranno. (7)

15. E nella terra il frumento sarà sulla cima delle montagne, e le sue spighe si alzeranno più che i cedri del Libano e moltiplicheranno gli uomini nella città come l’erba ne’ prati.

16. Sia benedetto pei secoli il di lui nome: il nome di lui fu prima che fosse il sole. E in lui riceveran benedizione tutte le tribù della terra; le genti tutte lo glorificheranno. (8)

17. Benedetto il Signore Dio di Israele: egli solo fa cose ammirabili.

18. E benedetto il nome della maestà di lui in eterno; e la terra tutta sarà ripiena della sua maestà; cosi sia, cosi sia. Fine delle laudi di David, figliuolo di Jesse. (9) (10).

(1) Vale a dire, le generazioni vi loderanno notte e giorno, fintanto che dureranno il sole e la luna.

(2) La pioggia abbondante che bagna la terra, opposta a “pluvia”, la pioggia fine.

(3) L’Eufrate, limite estremo del regno di Salomone, è considerato qui come l’estremo del mondo.

(4) Tharsis, Tartessus, colonia fenicia di Spagna, viene considerata tra i paesi marittimi più lontani. – Era verso occidente il paese marittimo più lontano conosciuto dagli Ebrei; di conseguenza, i re delle coste marittime più lontane del lato di ponente.

(5) I re di Arabia e di Saba, l’Arabia felice; ciò non prova che i magi fossero di questi paesi; il salmo non si applica a loro che “in specie”, ma generalmente a tutti i popoli che vengo alla Chiesa ed al Messia. – Saba designa l’Abissinia, popolata dagli arabi. Così, tutti i popoli più lontani vengono al Messia (Le Hir.). 

(6) Sia che vi fossero miniere d’oro (oggi non ce ne sono più), sia perché piuttosto perché con trasporto, l’oro dell’interno delle terre, arrivava in Giudea (Le Hir.).

(7) L’ebraico tradotto con «  de ipso », significa « propter cum », ed anche « per eum ». – i Settanta dicono: essi pregheranno, « orabunt », invece di « adorabunt ». « Orabunt de ipso » sarebbe l’equivalente di: essi pregheranno nel suo nome, o per i suoi meriti.

(8) Immagine della prosperità sotto il regno del Messia. Un pugno di frumento, seminato anche sulla cima di una montagna, darà delle spighe magnifiche che muovendosi al soffio dei venti, somiglieranno ai cedri del Libano. Dall’altro canto, le città saranno così floride e gli abitanti così numerosi che sembreranno pullulare come l’erba dei campi. – Questi due versetti formano la dossologia che si trova alla fine di ciascun libro.

(9) Secondo san Girolamo, è detto che qui finiscono i cantici di Davide, perché è descritto ciò che deve succedere alla fine dell’epoca di Gesù-Cristo. Ma questa ragione non è meno che letterale. Noi amiamo dire meglio con qualche critico, che queste parti indicherebbero una prima raccolta di Salmi, dati volgarmente sotto il nome di Davide – benché non siano tutti suoi – che ne comprende i primi settantadue. La prima raccolta, che sarebbe stata composta dopo la costruzione del tempio, sarebbe stata completata da un altro, ed in essa sono inseriti altri salmi di autori che vissero prima di Davide, ed un buon numero di salmi inediti dello stesso Davide. 

(10) Il nuovo Testamento non cita questo salmo come profetico, dice M. Schmidt (Rédemption du genre humain); ma come disconoscere questo carattere, tanto più che celebri rabbini gli attribuiscono formalmente questo carattere? – In effetti, la maggior parte dei rabbini più famosi hanno applicato i versetti 16 e 17 ed anche tutto il salmo al regno del Messia. Si può vedere come Drach, Michaelis e Rosen-Müller assicurino che questo salmo contenga dei tratti troppo magnifici per non essere applicati che solo a Salomone. – L’esame del Salmo conferma la stessa verità, ed è sufficiente scorrerlo con attenzione per convincersi: – 1° che questo salmo contenga tratti che non sono affatto verificabili in Salomone; di conseguenza non c’è armonia nel salmo, considerando questo principe come l’oggetto totale e primitivo dello stesso salmo, benché si faccia una continua allusione al suo regno come ad una brillante immagine del regno del Messia; – 2° che tutti questi tratti, al contrario, convengano perfettamente e letteralmente a Gesù-Cristo, che di conseguenza ne è l’oggetto primario. – I. Ammettiamo che si possano applicare i primi 4 versetti a Salomone; ma una volta giunti al 5° bisogna lasciare l’uomo mortale per considerare un regno tanto esteso quanto la durata del sole e della luna, cosa che non può convenirgli. – Il 6° versetto contiene una comparazione che sembra così bene caratterizzare il regno dolce e pacifico di Salomone, ma non si torna a lui che per lasciarlo al versetto 7°, ove ancora si tratta di un regno di pace e di giustizia che deve durare quanto la luna. – Questo principe riappare al versetto 8°, che gli si può applicare, restringendo il senso di « a mari usque ad mare » e di « terminos orbis terrarum », ma non si può affatto riconoscerlo nel 9° versetto, perché quali sarebbero i nemici ai quali avrebbe fatto « mangiare la polvere », egli il cui regno non è mai stato turbato dalla guerra? – il Versetto 11 non può essere applicato a Salomone che con restrizione, ed è di questo avviso lo stesso D. Calmet, che non può applicarlo a questo principe, se non con esagerazione ed iperbole. Non si vedono da nessuna parte poi tutti i re della terra prosternarsi ai piedi di Salomone, come nei versetti 11-15. A maggior ragione non gli si possono applicare queste parole. « ante solem permanet nomen eius … benedicentur in ipso omnes tribus terræ ». – pertanto se si consideri Salomone in un versetto, lo si deve abbandonare al seguente, per riprenderlo poi dopo e lasciarlo nuovamente subito dopo nel seguente, cioè distruggendo tutta l’armonia del salmo, che non può dunque applicarsi a Salomone. – II. Tutti questi tratti al contrario, convengono perfettamente e letteralmente al regno del Messia; dunque bisogna concludere che Egli è l’oggetto primario in senso letterale di questo salmo. Così le diverse qualità del regno del Messia, i due grandi caratteri del Messia, quello di liberatore e di santificatore dei poveri, l’abbondanza di ogni tipo di beni spirituali; infine i tratti ancora più caratteristici del Messia con i quali il Profeta termina questo salmo; l’eternità del suo nome di Figlio che data prima di tutti i secoli; tutte le tribù della terra benedette nella sua Persona, etc.

Sommario analitico

Davide, nella persona di suo figlio Salomone, o secondo altri, Salomone stesso, contempla il regno di Gesù-Cristo, di cui descrive le diverse qualità (3).

I. – Egli fa dei voti per la sua venuta:

1° affinché porti sulla terra la giustizia nei giudizi e la pace nel governo del suo reame (1, 2);

2° perché faccia una giusta ripartizione tra ricompense e castighi (3);

3° per l’eterna durata del suo regno (4).

II. – Descrive la sua discesa dall’alto dei cieli e la sua incarnazione:

1° La sua incarnazione nel seno di una Vergine, sotto la figura della dolce rugiada che cade segretamente sul vello di pecora (5);

.2° I benefici della sua Incarnazione e della sua nascita, l’abbondanza durevole della giustizia e della pace (6).-

III. – Descrive la grandezza del regno di Gesù-Cristo, i beni  che elargirà ai suoi soggetti:

1° la sua estensione in tutte le parti del mondo: Egli sarà riconosciuto dai più barbari tra i popoli, dai suoi nemici abbattuti, dagli omaggi, le offerte, le adorazioni di tutti i re della terra (7-10);

2° I due grandi caratteri del Messia, cioè di liberatore e di santificatore dei poveri, che lo rendono l’oggetto della venerazione e delle benedizioni dei popoli (11-13);

3° L’abbondanza di ogni tipo di beni spirituali, designati sotto delle immagini conformi alle idee degli orientali, e conformi alla natura della loro terra (14-15);

4°  L’eternità del suo nome di Figlio che data da prima dei secoli, tutte le tribù della terra benedette nella sua Persona, le meraviglie così grandi, i prodigi così elevati al di sopra dell’uomo che Dio solo può esserne l’autore, Dio solo, di cui Egli esalta il nome e la maestà (16-19). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-4.

ff.1. – Il Signore dice Egli stesso nel Vangelo: « Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio » (Joan. V, 22). È il compimento di questa parola: « Date il vostro giudizio al Figlio ». È nello stesso tempo il Figlio del Re, perché Dio Padre, è il Re per eccellenza (S. Agost.). Uno dei principali caratteri con cui gli scrittori sacri descrivono il regno di Gesù-Cristo, è la giustizia; è in effetti il regno della giustizia che il mondo reclama prima della venuta di Gesù-Cristo. Quel che dominava di più nel mondo antico era l’ingiustizia sotto tutti gli aspetti: ingiustizia dell’uomo in rapporto a Dio, che non era né conosciuto né amato, né servito come doveva essere; ingiustizia dell’uomo rispetto ai suoi simili, la frode, la violenza, l’oppressione, i diritti più sacri calpestati così come le cause più giuste, gli interessi più inviolabili. – Il Figlio di Dio, venendo al mondo, doveva distruggere questa triplice ingiustizia. – Notate che il Profeta, dopo aver detto: « O Dio! Date il vostro giudizio al Re, e la vostra giustizia al Figlio del Re », ponendo in primo luogo il giudizio, ed in secondo la giustizia, ha detto poi, ponendo prima la giustizia e dopo il giudizio, « per giudicare il vostro popolo nella giustizia ed i vostri poveri nel giudizio »; ma questa inversione di parole prova soltanto che il giudizio non ha altro senso che la giustizia. In effetti è costume il chiamare giudizio cattivo ciò che è ingiusto, ma non diciamo giustizia iniqua, una giustizia ingiusta; perché, se la giustizia fosse cattiva, essa sarebbe stata ingiusta, e non si potrebbe più chiamare giustizia. Così ponendo in primo luogo il giudizio ed esprimendolo una seconda volta sotto il termine di giustizia, e ponendo poi in primo luogo la giustizia ed esprimendola una seconda volta sotto il termine di giudizio, il Profeta ci mostra chiaramente che egli chiama giudizio, propriamente parlando, ciò che si ha l’abitudine di chiamare giustizia, cioè ciò che non può esistere in un giudizio cattivo (S. Agost.). Coloro che sono chiamati a governare i popoli devono avere innanzitutto, una grande rettitudine di spirito e di cuore, e giudicare i subordinati, non secondo le prevenzioni o anche secondo i lumi sì limitati dello spirito umano, ma secondo le regole di questa giustizia divina, secondo la quale Dio conduce Egli stesso gli uomini e di cui quella che riluce in noi non è che una scintilla.

ff. 2. – « Per giudicare i vostri poveri nell’equità dei suoi giudizi ». Notiamo questa espressione del salmista: « vostri poveri ». Che significa questa espressione? I ricchi, in qualità di ricchi, essendo alla sequela del mondo, essendo per così dire marcati nel loro spazio, nel regno di Dio vi sono per tolleranza, ma è ai poveri e agli indigenti  che portano il marchio del Figlio di Dio, che appartiene l’esserne propriamente ricevuti. Ecco perché il divin salmista li chiama « i poveri di Dio », perché i poveri di Dio? Li nomina così in spirito, perché, nella nuova alleanza, Egli li ha potuto adottare con una particolare prerogativa (BOSSUET, Eminente dignité des pauvres dans l’Eglise) – Le montagne, le prime ad essere illuminate, fanno scendere in seguito la loro luce sulla distesa delle campagne; le montagne sono, nella Chiesa, gli uomini eminenti per santità e per scienza e che sono capaci di istruire gli altri (2 Tim. II, 2), dando loro, con la loro parola, un insegnamento fedele e, per via loro, un esempio salutare. Le colline, al contrario sono questi uomini che imitano, con la loro obbedienza, l’eccellenza delle montagne. La pace è la riconciliazione che ci avvicina a Dio, e le montagne ricevono questa grazia per trasmetterla al popolo, « tutto viene da Dio, che ci ha riconciliato con Lui per mezzo del Cristo – dice l’Apostolo – e ci ha affidato il ministero della riconciliazione » (1 Cor. V, 17). « Ecco come le montagne ricevono la pace per darla al popolo » (S. Agost.). Le montagne sono più elevate e le colline lo sono di meno. Le montagne vedono, le colline credono. Coloro che vedono ricevono la pace per portarla a coloro che credono, e questi ricevono la giustizia, cioè l’obbedienza che è negli uomini ed in tutte le creature ragionevoli, poiché è la perfezione della giustizia (S. Agost.). – Gli uomini più eminenti per i loro meriti come degni oratori, in uno Stato, così come nella Chiesa, ricevono la pace e la giustizia; essa discende poi sui popoli simbolizzati dalle colline, che sono più basse delle montagne: la pace dei reami e degli Stati dipende molto dalla giustizia di coloro che li governano. – Non si può avere la vera gioia, se non si ha a salvaguardia la pace e la giustizia. La prima cosa, in effetti è come la radice dalla quale tutto esce, ed è la giustizia. La seconda, la pace; la terza la gioia. Dalla giustizia nasce la pace, che uno dei primi frutti della venuta di Gesù-Cristo. La vera giustificazione è stata seguita da una vera pace dell’uomo con Dio, con tutti gli altri uomini e con se stesso. La pace, a sua volta, produce la vera gioia (S. Ces. D’Arles. Hom. XIX.).

ff. 3. – Il Profeta espone le qualità di un Re giusto, soprattutto quelle del Messia, al quale appartiene sovranamente il far giustizia ai poveri, ai piccoli, agli infelici, e distruggere coloro che li opprimono « … ed Egli umilierà i calunniatori ». Ora non si potrebbe meglio applicare che al demonio questo titolo di calunniatore. La calunnia è il suo forte. « … forse Giobbe adora il Signore per nulla? » (Giob. I, 9). Ora Gesù, il Signore, lo umilia, aiutando i suoi con la sua grazia perché essi adorano il Signore gratuitamente e mettendo le loro delizie nel Signore. Egli ancora lo ha umiliato per il fatto che il demonio, vale a dire il principe di questo mondo, non avendo trovato in Lui alcuna colpa (Giov. XIV, 39), l’ha fatto perire con le calunnie dei Giudei, delle quali il calunniatore si è servito come di suoi strumenti. Egli ha umiliato il demonio perché Colui che i giudei avevano messo a morte è resuscitato, ed ha distrutto il reame della morte, che il demonio aveva così ben governato a suo profitto, e per mezzo di un solo uomo, che egli aveva ingannato, aveva coinvolto tutti gli uomini in una simile condanna a morte. Il demonio è stato umiliato perché, se il peccato ha stabilito, per mezzo di un unico uomo, il regno della morte, a maggior ragione, coloro che ottengono l’abbondanza della grazia e della giustificazione, regneranno nella vita eterna per mezzo del solo Gesù-Cristo (Rom. V, 17), che ha umiliato il calunniatore nel momento in cui costui utilizzava, per perderlo, delle false accuse, dei giudici iniqui e dei falsi testimoni (S. Agost.). – « … Ed io ascoltavo una gran voce nel cielo che diceva: Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, poiché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. » (Apoc. XII, 10).

ff. 4. – « E sussisterà come il sole ». Ma che cos’ha di glorioso il durare quanto il sole per Colui per mezzo del Quale tutte le cose sono state fatte, e senza il Quale nulla è stato fatto (Giov. I, 5), a meno che questo profezia non sia stata fatta a causa di coloro che pensano che la Religione cristiana vivrà nel mondo per un certo tempo e poi sparirà? Egli durerà quindi tutto il tempo del sole: finché il sole si leverà e si deporrà; vale a dire finché i secoli compiranno le loro rivoluzioni, la Chiesa di Dio o “Corpo di Cristo” sussisterà sulla terra. Il Profeta dice poi. « Egli sarà prima della luna ». Avrebbe potuto dire : « … e prima del sole »; cioè Egli durerà come il sole ed esisteva prima del sole; ciò che significherebbe: Egli durerà quanto i secoli ed esisteva già prima dei secoli. Ora, ciò che precede i tempi è eterno e lo si deve considerare come veramente eterno ciò che non cambia con il corso dei tempi, come il Verbo, che era fin dall’inizio. Ma il Profeta ha preferito la comparazione della luna, perché questo astro è la figura della crescita e della diminuzione delle cose mortali (S. Agost.). – Il regno del Messia non si limiterà alla durata del sole e della luna; è solo detto: « Egli durerà quanto il sole e la luna, di generazione in generazione, per sottolineare che, durante questa rivoluzione di secoli, eserciterà il suo impero sugli uomini, formando tra essi i suoi eletti, governandoli e conducendoli al termine ove essi regneranno eternamente con Lui ». (Berthier).

II. — 5-6.

ff. 5. – « Scenderà come pioggia su di un vello di lana ». Davide fa qui allusione all’azione di Gedeone, e ci fa sapere che essa si è compiuta in Gesù-Cristo.  Gedeone aveva domandato a Dio, come segno della sua volontà, che un vello di lana in mezzo ad un’ara, si imbibisse solo di rugiada, mentre l’aia restasse asciutta; e fu così come Gedeone aveva chiesto (Giud. VI, 36-40). Questo vuol dire che il popolo di Israele fu inizialmente questo vello posto in mezzo ad un’aia, cioè in mezzo all’universo. Il Cristo è dunque disceso come una pioggia sul vello, mentre l’aia restava asciutta; ed è per questo che Egli ha detto: « … Io non sono stato inviato che alle pecore sperdute di Israele »  (Matth. XV, 24). È là in effetti che ha scelto la Madre in seno alla quale voleva prendere forma di schiavo per mostrarsi agli uomini; è là che ha formato i suoi discepoli ai quali ha dato un comandamento simile alla sua dichiarazione: « Non andate nelle vie dei gentili, … ma andate prima alle pecore perse della casa di Israele » (Ibid. X, 5-6). Dicendo prima verso quelli, Egli mostrava che in seguito, quando avrebbe avuto luogo il coprirsi di acqua l’intera aia, essi potessero andare verso altre pecore che non appartenevano all’antico popolo di Israele. È così che la pioggia è discesa sul vello mentre l’aia restava ancora asciutta. « Ma ben presto, per la grazia di Gesù-Cristo, mentre la nazione giudaica restava all’asciutto, l’universo intero, in tutte le Nazioni che lo compongono, è stato bagnato dai torrenti della grazia cristiana, versati dalle nuvole che ne erano cariche. Così il salmista ha designato questa stessa pioggia sotto il termine di gocce di acqua che cadono, non più sul vello, ma sulla terra » (S. Agost.). – Ma un gran numero di altri Padri, in particolare S. Ambrogio, san Crisostomo, san Bernardo, hanno visto in questo vello di Gedeone il simbolo della beata Vergine Maria; e in questa pioggia che cade sul vello, la figura del divino Salvatore discendente dal cielo nel suo seno verginale. In effetti: – 1° l’agnello esce come dal seno del vello, e dal seno della Vergine Maria è uscito l’Agnello che toglie il peccato dal mondo (Giov. IV,29), – 2° il vello della pecora figura perfettamente, per il suo candore, la purezza dei costumi e l’innocenza della vita di questa Vergine divina; – 3° Essa è il vello, cioè la lana senza la carne, la lana staccata dalla carne con la mortificazione e la verginità. Il vello, dice S. Pietro Crisologo (Serm. 143), appartiene al corpo, ma essa è estranea alle sofferenze, alle impressioni del corpo; così come la verginità esiste nella carne restando estranea ai vizi della carne. – 4° la Vergine Maria, dice Riccardo di San Vittore (in Ps. LXXI), è il vello che riveste le sue virtù, che protegge e riscalda le anime pure ed innocenti. – 5° Maria è veramente il vello di Gedeone, perché essa ha ricevuto tutta intera la rugiada discesa dal cielo, vale a dire il Cristo. Cosa c’è di più silenzioso e meno rumoroso della rugiada che cade dolcemente su un vello? Essa non colpisce l’orecchio con alcun suono, non rimbalza su alcun corpo circostante, ma senza turbare le pecore, la pioggia penetra il vello interamente, senza violenza, senza alcune separazione del tessuto. Ed è con ragione che Maria è comparata ad un vello: Ella che ha concepito nostro Signore ricevendolo nel suo casto seno, senza che l’integrità del suo corpo verginale ne abbia sofferto il minimo danno (S. AMBR. Serm. 3 de Nativ.). « E come l’acqua che cade goccia a goccia sulla terra … », questa pioggia abbondante che Dio ha riservato come sua eredità, è dapprima discesa dolcemente e senza brusii, senza il concorso dell’azione dell’uomo, nel seno verginale di Maria, ma in seguito essa si è sparsa su tutta la terra con la bocca dei predicatori, non più come rugiada sul vello, ma come pioggia sulla terra, con il rumore che accompagna la predicazione e l’operazione dei miracoli; perché queste nuvole che portano la pioggia nel loro seno, si sono ricordate del comandamento che fu loro dato quando furono inviate: « Ciò che o vi dico nelle tenebre ditelo alla luce » (Matth. X, 27) (S. Bern. Hom. 2 super Missus est.). – Il regno di Gesù-Cristo si stabilisce in un’anima con tutti i caratteri che comprendono le due comparazioni enunciate in questo versetto. È dal cielo che questo Re benefico versa i doni della sua grazia, il mondo non ha parte in quest’operazione tutta divina. Gesù-Cristo si comunica nel profondo del cuore: Egli lo penetra come la rugiada imbibiva il vello misterioso, la cui vista incoraggiò Gedeone. È nelle segrete comunicazioni, ed anche durante il silenzio della notte che l’anima, svincolata da ogni occupazione terrena, riceve le sue salutari influenze. Non si fa tutto con una sola visita dell’Altissimo, ma i doni della sua misericordia si succedono come le gocce di acqua che umettano a poco a poco un terreno arido. Allora tutta quest’opera interiore diviene feconda in buone opere, tutte le sue facoltà concorrono alla gloria di questo Re pieno di bontà, che non disdegna di regnare in un cuore puro, umile, sottomesso a tutte le sue volontà (Berthier). – « La giustizia si leverà nei suoi giorni con l’abbondanza della pace ». Il primo frutto dell’incarnazione e della nascita del Figlio di Dio, è la giustizia considerata o come virtù speciale che rende a ciascuno ciò che gli è dovuto, o come virtù generale, significante la riunione di tutte le virtù. È questo regno di giustizia che reclamava, prima della venuta del Salvatore, il mondo, schiacciato sotto il regno della forza brutale, che opprimeva tutti i diritti più sacri. Il secondo frutto, è l’abbondanza della pace, cioè una pace profonda nella sua natura, universale nella sua estensione ed eterna nella sua durata. Una pace universale regnava in tutto l’universo quando Gesù-Cristo, il Principe della pace, apparve sulla terra; ma non era che una falsa pace. L’uomo, in preda alle sue passioni ingiuste e violente, provava dentro di sé la guerra ed il dissenso più crudele; lontano da Dio, lasciato alle agitazioni ed ai furori del suo cuore, combattuto dalla molteplicità e dalla contrarietà eterna delle sue inclinazioni sregolate, egli non poteva trovare la pace, perché non la cercava che nella sorgente stessa delle sue turbolenze e delle sue inquietudini … Gesù-Cristo scende sulla terra per portare agli uomini questa pace vera, che il mondo fino ad allora non aveva potuto dare loro  (MASSILL. Serm. p. la f. de Noël), la pace dell’uomo come Dio, la pace con gli altri uomini, la pace con se stesso. – Noi non immaginiamo che sia un vantaggio per il Re degli Angeli essersi fatto anche il Principe degli uomini. Il regno che gli piace stabilire su di noi, è la pace, la libertà, la vita e la salvezza dei suoi popoli; Egli non è Re né per esigere dei tributi, né per formare delle grandi armate, ma è Re perché governa le anime, perché ci procura i beni eterni, perché fa regnare con Lui coloro che la carità sottomette ai suoi disordini … Il regno del nostro Principe, è la nostra felicità per cui si degna di regnare su di noi, è la clemenza, è la misericordia e questo non è un accrescimento di potenza, ma una testimonianza della sua bontà (S. Agost. Trait, XL, sur S. Jean, N° 4.). I precetti del Vangelo ben osservati uniranno insieme tutti i popoli, e manterranno tra di essi gli stessi principi di moderazione, di buona fede, di equità e tranquillità. Ciò che il Vangelo non fa, a causa delle passioni che dividono i principi e le Nazioni, Egli lo esegue nelle anime dei giusti. È la che regnano e regneranno sempre la vera giustizia e l’abbondanza della pace; beneficio che non hanno le umane Nazioni: esse non possono regolare che la condotta esteriore, ma non hanno alcun impero sui sentimenti del cuore (Berthier).

III. — 7-19.

ff. 7-10. – Tale è l’estensione del regno di Gesù-Cristo: da un mare all’altro e fino alle estremità della terra, dove non finisce, perché si estende fino al cielo. –La durata del regno di Gesù-Cristo, non è limitato dalla durata del mondo, ma si estende a tutta l’eternità. – Trionfo di piacere quando vedo in Tertulliano che già ai suoi tempi, così vicini alla morte del nostro Salvatore e dall’inizio della Chiesa, il nome di Gesù era già adorato per tutta la terra, e che in tutte le province del mondo che erano conosciute, il Salvatore vi aveva un numero infinito di soggetti. « Noi siamo, dice con risonanza questo gran personaggio, quasi la maggior parte di tutte le città»(AD SCAP., N° 2). I Parti, invincibili dai Romani, i Traci antinomi, come li chiamavano gli antichi, gente insofferente ad ogni sorta di leggi, hanno subito volontariamente il giogo di Gesù. I Medi, gli Armeni, i Persiani e gli Indiani più lontani; i Mauri e gli Arabi, e queste vaste province dell’Oriente; l’Egitto e l’Etiopia, e l’Africa più selvaggia; gli Sciti, sempre erranti; i Sarmati, i Getutei e le barbarie più inumane sono state domate dalla modesta dottrina del Salvatore Gesù. L’Inghilterra, i cui bastioni rendevano inaccessibili i luoghi ai Romani, era stata affrontata. Cosa dirò dei popoli della Spagna e delle bellicose nazioni dei galli, paura e terrore dei Romani, e dei fieri Germani, che si vantavano di non temere null’altro che il cielo che cadesse sulle loro teste? Essi sono venuti a Gesù, dolci e semplici come degli agnelli, a chiedere umilmente perdono, pressati da un timore rispettoso. Roma stessa, questa città superba che si era per tanto tempo inebriata del sangue dei martiri di Gesù, Roma, la padrona, ha abbassato la testa ed ha portato tanto onore alla tomba di un povero pescatore più che ai templi del suo Romolo.  Non c’è impero così vasto che non sia racchiuso in qualche limite. Gesù regna dappertutto, dice il grave Tertulliano (AD JUD., N° 7), nel libro contro i Giudei dai quali ho disegnato quasi tutto ciò che sto dicendo dell’estensione del regno di Dio. Gesù regna dappertutto, egli dice, ed è adorato dappertutto. Davanti a Lui la condizione dei re non è migliore di quella degli infimi schiavi. Sciti o romani, greci o barbari, tutto è uguale davanti a Lui, Egli è uguale per tutti, è il Re di tutti, è il Signore ed il Dio di tutti (BOSSUET. Circonc. Royauté de Jésus-Christ.) – (FÉNÉLON,  Serm. pour la féte de l’Êpiph., I part.). « … I re di Tarsi e delle isole gli offrono dei doni ». Predizione dei doni che i Re Magi offrono a Gesù-Cristo appena nato. – I Magi – dice S. Gregorio Magno – riconoscono in Gesù la triplice qualità di Dio, di uomo e di re: essi offrono al Re l’oro, a Dio l’incenso, all’Uomo la mirra. Ora – egli prosegue – ci sono degli antichi eretici che credono che Gesù sia Dio, che credono ugualmente che Gesù sia un uomo, ma si rifiutano assolutamente di credere che il suo regno si estenda dappertutto … Essi non erano irreprensibili nella loro fede, ed il Papa san Gregorio inflisse la nota di eresia a coloro che, facendosi un dovere di offrire a Gesù l’incenso, non volevano aggiungere l’oro. Costa caro alla terra, costa caro alle Nazioni il non flettere il ginocchio davanti al Nome ed alla regalità di Gesù. Sono allora altre genuflessioni che occorre fare. La lingua che rifiuta di aprirsi per proclamare e confessare la potenza del Re Gesù, a quale silenzio umiliante non è condannato? « … Ed ora Signore, noi non abbiamo neanche il diritto ed il potere di aprire la bocca, e noi, la vecchia Francia cattolica, la regina della Nazioni, noi siamo diventati un soggetto di confusione e di obbrobrio per tutti coloro che vi servono e vi onorano ». (Dan. III, 33) – (MGR PIE, sur l’étendue univ. de la royauté de Jésus-Christ. TOM. VIII, p. 621).

ff. 11-13. – « Perché Egli libererà il povero dalle mani del potente ». Davide predice qui uno dei caratteri principali del grande Re atteso da Israele, che libererà il povero dalla servitù sotto la quale era stato ridotto dai potenti. La generazione presente si è talmente identificata con la menzogna, e le contro-verità più manifeste sono talmente accreditate tra di noi, che si è esposti ad essere accusati di paradosso richiamando semplicemente i principi del Cristianesimo su questa materia. Ciò nonostante, non è vero che la grande legge dell’eguaglianza degli uomini e della loro divina fraternità era stata come abrogata sotto l’impero dell’idolatria, che non era affatto che il regno della forza ed il trionfo della materia?  E in effetti, dappertutto e sempre, fuori dal Cristianesimo, la schiavitù sarà un fatto inevitabile, e nello stesso tempo una conseguenza dell’ordine sociale. Il Figlio di Dio scende sulla terra e prende forma di schiavo; Egli trasmette a tutti gli uomini di tutti i paesi e di tutti i secoli questa parola, fino ad allora sconosciuta: « … Padre nostro, che siete nei cieli »; e con questa parola Egli ristabilisce sulla terra una fraternità spirituale che produrrà prima o poi, tra le sue conseguenze, il ritorno della fraternità primitiva nella grande famiglia degli uomini. Si, secondo la parola di Gesù-Cristo, un giorno verrà in cui « il Figlio libererà gli schiavi, ed allora essi saranno veramente liberi, perché saranno affrancati dalla verità ». Questa opera di affrancamento, di emancipazione non sarà l’opera di un giorno: essa si opererà insensibilmente con la forza delle idee ed il progresso dei princìpi evangelici (Mgr PIE. Disc. T. I.er, p. 75).- Due grandi caratteri del Messia, quello del liberatore e del santificatore, vengono a liberare i poveri. Nostro Signore Gesù-Cristo ha cominciato il corso delle sue predicazioni evangeliche col proclamare beati i poveri; Egli si era applicato questa profezia di Isaia: « lo Spirito del Signore è su di me, Egli mi ha consacrato con la sua unzione per evangelizzare i poveri »; (Luc. IV, 17); ed in effetti i poveri sono per Lui, come per i suoi Apostoli e per tutti gli operai evangelici animati dal suo spirito, il principale oggetto del loro zelo apostolico. – Egli salva le anime dei poveri richiamandoli alla conoscenza della verità, rendendoli ricchi nella fede ed eredi del regno che Egli ha promesso a coloro che ama (Giac. II, 5); Egli li salva perché, per sua grazia, essi useranno santamente del loro stato, e troveranno preziose risorse nella povertà più grande, facendo un tesoro della stessa povertà. – Come il peccatore è stato liberato dalle usure con la redenzione che gli ha meritato Gesù-Cristo? È – dice S. Agostino, la cui osservazione sembra inizialmente sottile, ma che si trova vera ed anche necessaria quando la si medita – è, dice questo santo dottore, che il peccato consumato in un momento, ed il cui frutto è sì poca cosa per colui che lo commette, è punito con una pena eterna. È una usura che la giustizia divina trae dalla temerità e dall’ingratitudine del peccatore. Gesù-Cristo ce ne ha liberato, e nello stesso tempo dalla iniquità che era la causa di questa usura. Non si può abbastanza considerare qual sia il prezzo del sangue e del nome dei Cristiani; il loro sangue è costata la vita di un Dio, il loro nome è stato consacrato nella Persona di un Uomo-Dio. Questo sangue e questo nome sono rispettabili agli occhi di Dio stesso, che rispetta il nome dei Cristiani, perché vi vede il carattere di Gesù-Cristo, il suo unico Figlio. « Il Profeta dice che questi sono i poveri di cui soprattutto il sangue ed il nome sono preziosi agli occhi di Dio ». Quanta forza e sentimento in questa espressione! Egli ha detto, più in alto, che i re e le Nazioni Lo adoreranno e Lo serviranno; ma, quando viene a parlare ai poveri, agli umili, ai piccoli, Egli cambia in qualche modo il tono, e dice che il Messia stesso li rispetterà e li onorerà (Berthier). Questo perché il povero è ben diverso agli occhi della carne ed agli occhi della fede! Cosa c’è di più disprezzabile agli occhi della carne, di un povero spoglio di tutto, abbandonato da tutti, mentre agli occhi della fede, il nome di questo povero appare onorevole davanti a Dio stesso.

ff. 14, 15. – Gesù-Cristo, doveva riscattare con la sua morte, le anime dei poveri, cioè di coloro che erano interamente spogli di ricchezze naturali, e soprattutto della grazia, ma questa morte stessa doveva essere in Lui la sorgente di una nuova vita immortale che Gli ha attirato i rispetti, le adorazioni, le benedizioni, le ricche offerte dei popoli convertiti. Il Profeta descrive in seguito la fecondità della Chiesa ed i frutti della predicazione evangelica, dopo la Resurrezione di Gesù-Cristo. La terra sarà ricoperta dai frutti della parola di Dio; li si vedrà anche là ove regna ordinariamente la sterilità, sulle sommità delle montagne, il frumento su queste sommità aride, oltrepasserà l’abbondanza e l’altezza dei cedri del Libano, ed in questa città di cui è già stato detto: « … è da Sion che uscirà la legge, e la parola del Signore da Gerusalemme, i credenti saranno numerosi come l’erba dei campi ». È ciò che S. Luca ci insegna essersi compiuto: « … E la parola di Dio cresceva ed il numero dei discepoli aumentava sempre di più » (Act. VI), (Bellarm.). – Ci è pure permesso, con un gran numero di pii interpreti, fare una predizione dell’Eucarestia, che è il sostegno, l’appoggio per eccellenza (firmamentum); vale a dire il pane solido, sostanziale dell’anima. È così che la scrittura chiama il pane, « firmamentum panis » (Ps. CIV, 16); « baculus panis, » (Lev. XXVI, 26), e del pane dice che « consolida il cuore dell’uomo » (Ps. CIII, 15). Il pane dell’Eucaristia consolida le montagne. Cioè gli uomini eminenti in santità. La divina semenza del Vangelo, così come la santa Eucaristia, producono il loro frutto, ma un frutto che si eleva al di sopra dei cedri del Libano, perché essendo un frutto tutto celeste, si eleva fino al cielo ed oltrepassa tutto ciò che sembra essere più elevato nel secolo.

ff. 16-19. – « Che il suo Nome sia benedetto in tutti i secoli; il suo Nome dimora da prima del sole ». il sole significa il tempo, il suo Nome dimora dunque eternamente; perché l’eternità precede il tempo e non si saprebbe limitare. « E tutte le tribù della terra saranno benedette in Lui ». In effetti è in Lui che si compie la promessa fatta ad Abramo; perché secondo l’osservazione dell’Apostolo, Dio non dice: « e ai tuoi discendenti », come se si trattasse di molti, ma « … alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo » (Galat. III, 16). Ora ecco la promessa fatta ad Abramo: « Tutte le tribù della terra saranno benedette in Colui che nascerà da te ». (Gen. XXII, 18). « Questi non sono i figli secondo la carne, dice San Paolo, ma i figli della promessa, che sono contati nella posterità ». (Rom. IX, 6). « Tutte le nazioni Lo esalteranno ». esse Lo esalteranno perché esse saranno benedette in Lui; esse Lo esalteranno, non dandogli maggiore grandezza, perché Egli è per se stesso ogni grandezza, ma lodandoLo e proclamandone la grandezza. È così che tutti noi esaltiamo la grandezza di Dio, è così che egualmente diciamo: « sia santificato il vostro Nome », benché il suo Nome sia sempre infinitamente santo. – « Benedetto sia il Signore, Dio di Israele ». Dopo aver completato tutte le meraviglie che Egli viene a portare, il Profeta, nel suo entusiasmo, canta un inno e benedice il Signore Dio di Israele. È il compimento della profezia data a questa donna sterile, figura della Chiesa: « e Colui che l’ha liberata, il Dio di Israele, sarà nominato il Signore di tutta le terra » (Isaia, LIV, 5). « Solo Egli compie dei prodigi », perché solo Lui è l’Autore dei prodigi compiuti dagli altri. – « Che il suo Nome glorioso e maestoso sia benedetto nell’eternità », e tutta la terra sarà piena della sua gloria: « Così sia ». Voi l’avete ordinato, Signore, ed è così. È così fino a che il reame, che è cominciato dal fiume, si estenda fino alle estremità dell’universo (S. Agost.). 

DIO IN NOI (1)

DIO IN NOI (1)

[R. PLUS: “Dio in noi” – Versione p. f. Zingale S. J. – L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923 Can. Francesco Duvina]

PREFAZIONE

Reverendo e carissimo Padre,

Durante i quattro anni appena trascorsi, abbiamo pregato molto per il felice esito della guerra. Bisognava farlo. La vittoria fu spessissimo compromessa, rimase lungo tempo incerta, indecisa! – Siano rese grazie al Signore: la vittoria delle armi è adesso un fatto compiuto. Ma la vittoria di Dio? A quale fase è pervenuta? « La vittoria di Dio! ». L’espressione, la formula non è mia. Giuda Maccabeo fu il primo a trovarla, e la dava come parola d’ordine, come segno di raccolta alle sue truppe, quando le lanciava all’assalto contro gli eserciti di Siria (Mac. XIII, 15).

La Francia, l’Italia, l’Inghilterra, l’America, il Belgio hanno avuto « il loro scopo di guerra ». Dio anche ha avuto il suo. Non ha permesso che si scatenasse sul mondo un simile cataclisma, senza qualche grande fine. Quale fine si propose?

Primieramente, — la Chiesa ce lo suggerisce nella Messa prò tempore belli — primieramente l’emenda dei nostri difetti, l’espiazione delle nostre colpe nazionali e individuali. Meglio ancora. Alcuni anni prima della guerra, Pio X, salendo sul trono pontificale, pubblica un’enciclica, in cui riassume, con tre parole di San Paolo, il suo programma di governo: Instaurare omnia in Cristo (Ephes. I, 10). Pio X, possiamo crederlo, fu l’araldo precursore, il profeta, l’interprete della saggezza e della volontà di Dio; alcuni anni prima della guerra venne ad annunciarci ciò che Dio aveva in mira, permettendo questa tremenda calamità: la rigenerazione cristiana della Francia e del mondo — con tutto ciò che essa importa. – E gli avvenimenti, le vicende della guerra, non fanno forse sentire, meglio di tutte le apologie, quanto i popoli abbiano bisogno di Gesù Cristo, quello che guadagnano vivendo del suo spirito e ciò che perdono facendone a meno? La vittoria di Dio, ohimè, è molto lenta a venire. La vedessimo almeno delinearsi da lontano, all’orizzonte!

Una prima volta la rigenerazione del mondo fu fatta dallo Spirito Santo, nel mistero di Pentecoste…

Tutto sarebbe concluso se arrivassimo a guadagnare il cuore di Dio: giacché Egli può tutto: « quæcumque voluit, fecit ». Noi guadagneremo il cuore di Dio nella misura in cui riusciremo a stabilirci nel soprannaturale. Una legge del mondo morale richiede che ogni essere ami il suo simile. Dio non può non sentire affetto e simpatia irresistibile per l’anima che vive della sua vita divina, che vive del soprannaturale. Non può non esaudirne la preghiera.

Ora, difficilmente immagineremo — ecco il punto che volevo mettere in rilievo — una forma di soprannaturale più concreta, più intellegibile del mistero di « Dio in noi ». Il lavoro che Ella pubblica importa la spiegazione larga, luminosa, concludente di questa dottrina. Quanto più le anime, che l’avranno imparato alla sua scuola, ne avranno coscienza e sapranno sfruttarne la virtù, altrettanto saranno in grado di gustare e di provare, nella loro vita, ciò che S. Paolo diceva di se stesso e dei suoi discepoli fedeli: « Dio ci fa sempre trionfare in Gesù Cristo » (II COR., II, 14. Gratias Deo qui semper triumphàt nos in Christo Jesu). Ed Ella avrà così preparato la « Vittoria di Dio » per mezzo del culto dell’Emmanuele, il culto del « Dio in noi ».La benedizione del Sacro Cuore di Gesù possa concedere a queste pagine la diffusione che meritano, perché vadano a spargere dovunque « la vita eterna », quella vita superiore e realmente divina che il Sacro Cuore stesso c’infonde a ogni istante: Jugiter influit. – Col ricordo persistente e affettuoso delle nostre antiche relazioni in Olanda (1), formo, Reverendo e carissimo Padre, il voto sincero per la maggiore diffusione del suo ottimo libro.

GERMANO FOCH, S. J .

Montpellier, 10 gennaio 1919.

***

(1) L’autore delle pagine che seguono, ebbe il benefizio della direzione spirituale del Rev. P. Foch, durante i tre anni del corso filosofico. Una dura necessità costringeva allora a vivere fuori di Francia. Ecco quindi il motivo dell’allusione all’Olanda.

Il P. Germano Foch è fratello dell’illustre Maresciallo Foch. (N. D. T).

LIBRO PRIMO

I nostri privilegi soprannaturali

CAPO I

L’intimità con Dio.

La mèta della devozione, la sua ragione di essere e il suo coronamento è l’intimità con Dio. Ma poche anime, relativamente, la possiedono e molte la considerano come impossibile. Quale ne è la causa? La ragione principale si è che noi abbiamo l’uso di trattare Dio come un assente. Come divenire intimo di qualcuno che non è con noi? L’intimità suppone la presenza… Benissimo. Ma è possibile, senza che ci abbandoniamo a un mero sogno, all’immaginazione, trattare con Dio come con qualcuno che ci è presente? Fra le differenti maniere, in cui Dio è presente nel mondo, ve n’è una, in modo particolare, che fornisce la sorgente per eccellenza dell’intimità. Noi vorremmo, in queste pagine, spiegarla e metterla in piena luce, se fosse possibile:

« La Presenza di Dio in noi per mezzo dello stato di grazia. »

Dio, ci dice il Catechismo, è presente dappertutto. Questa presenza universale, questa onnipresenza, impressiona molto certe anime, ma in piccolo numero. Per la maggior parte, essere dappertutto, equivale a non essere in nessun punto, ed eccettuati alcuni Santi, la massa non arriva a comprendere come mai possa generare l’intimità una presenza impersonale, difficile a concepirsi, la stessa per il peccatore e per il giusto, che risulta unicamente dal fatto della creazione. – Dio, inoltre, è presente d’una presenza speciale, in cielo. Ma è così lontano, il cielo! Occorre una grande potenza d’astrazione per crearsi una intimità che non distrugga questa distanza enorme e perpetuamente esistente. Ciò valga per S. Tommaso, di cui dicono i contemporanei che camminava cogli occhi sempre levati al cielo, assorto nella contemplazione divina. Valga per S. Ignazio di Loyola, che il Lainez paragona a Mosè, perché pareva che parlasse faccia a faccia con Dio (La sua giaculatoria favorita era: « O Beata Trinitas! » e la sua preghiera che noi citeremo più innanzi: « O amabilissimo Verbo di Dio ») e amava pregare, come dice il P. Nouet, sui punti più elevati della casa in cui abitava, immaginando di trovarsi così più vicino al cielo. Dio è presente nell’Eucaristia, e questa presenza, benché anch’essa molto misteriosa, è assai più palpabile. Vediamo e sentiamo qualcosa che la garantisce alla nostra povera natura sensibile. Ciò che vediamo e gustiamo, è semplice apparenza; la realtà sfugge alla nostra percezione, ma questo poco basta a sostenere la nostra fede che sotto queste apparenze adora la realtà divina. E poi, la presenza eucaristica, nella Comunione, dura poco; ed io non posso fare della mia vita una visita perpetua al Santissimo Sacramento. – Oltre queste tre maniere di presenza di Dio, ne esiste un’altra, molto più feconda, dal punto di vista che trattiamo.

— Dov’è Dio? — fu chiesto a un fanciullo. — Nel mio cuore.

— Chi ve l’ha messo? — La grazia.

— Chi potrebbe cacciarnelo? — Il peccato.

Queste risposte di un fanciullo, mentre mostrano una grande conoscenza della vera vita cristiana, riassumono la dottrina che ci sembra produrre l’intimità al suo ultimo grado. Di tutte le nostre attitudini, la più singolare è quella di saper passare accanto al meraviglioso, senza punto curarcene. La bellezza morale della vita di sacrificio di una suora, lo splendore della Chiesa, la grandezza del sacerdote chi la vede? Ma anche noi, noi Cristiani, siamo maestri nell’arte di non curarci affatto delle splendide realtà che portiamo con noi. – Domandate ad un battezzato che definisca lo stato di grazia. Vi risponderà: «Lo stato di grazia consiste nel non avere peccati mortali sulla coscienza». Insistete: «Unicamente in questo, secondo voi? » — « Sì; non è forse sufficiente?…» — «Nella vostra spiegazione vedo bene che possedere lo stato di grazia significa non avere qualche cosa. Ma non vorrebbe anche dire: Avere… » — « Avere che cosa?…» —

« Ecco; state bene attenti: Dio presente e vivente in noi ».

E’ il dogma della Chiesa, la definizione del Catechismo, né più né meno. Come vedremo più innanzi, questa presenza, questa abitazione di Dio in noi, in virtù della grazia:

Nostro Signore l’afferma;

S. Pietro la spiega;

S. Paolo ne fa l’argomento abituale delle sue epistole;

I Dottori la richiamano continuamente alla nostra considerazione;

La liturgia la commenta in mille modi;

I Santi vivevano di essa.

Donde mai viene che questo dogma fondamentale, per la maggior parte dei Cristiani, ed anche per molte anime religiose, sia praticamente lettera morta? Che una dottrina davvero così consolante sia quasi sconosciuta o senza vigore? – Varie ragioni potrebbero addursi di un modo di agire così strano. Una che fin d’ora vogliamo far notare sta in ciò che se ne parla pochissimo. In un corso di esercizi spirituali, predicati ai sacerdoti della sua diocesi, alcuni mesi prima della guerra, l’arcivescovo di Malines, S. Em. il Card. Mercier, diceva: « È una verità che Dio vive in noi… Molti battezzati ignorano questo mistero profondo e per tutta la loro vita vi restano estranei… I Sacerdoti, cioè a dire quei medesimi che ricevettero la missione divina di predicarlo al mondo, se ne lasciano distrarre, non vi pensano punto, e quando lo si richiama alla loro memoria, se ne meravigliano… Convenite dunque nel credere che Dio non vi abbandona finché, per il peccato mortale, voi non lo costringiate a fuggire. Fate atti di fede volontari, espliciti, frequenti in questa presenza reale, stabile, di Dio dentro voi stessi. Non ricercate Dio al di fuori, ma là, dentro voi stessi, dove Egli abita per voi, dove vi chiama, vi aspetta e soffre delle vostre dissipazioni e dimenticanze ». Già un sapiente commentatore, Cornelio Alapide, rimpiangeva simile omissione: «Poche persone, scrive, apprezzano il dono della grazia nel suo giusto valore. Ciascuno dovrebbe ammirarla rispettosamente in se stesso, i predicatori e i dotti dovrebbero spiegarla, per inculcarne al popolo una conoscenza profonda. I fedeli apprenderebbero così che sono tempio vivente dello Spirito Santo e che portano Dio medesimo nel loro cuore; che perciò debbono camminare divinamente alla sua presenza, vivere una vita degna dell’ospite che li accompagna dovunque e dovunque li vede ». Monsignor de Ségur esprime la stessa lagnanza:

«Tutti i Cristiani sanno, in via generale e teorica, che Dio è nel loro cuore, che sono tempio di Gesù Cristo, che lo Spirito Santo abita in loro. Intanto, come mai accade che quasi nessuno sembra annettervi importanza, che quasi nessuno vi pensa, ne vive, o lo crede praticamente? Anche fra i Sacerdoti, fra i buoni Sacerdoti, non ho timore di dirlo, sono pochi coloro che danno direttamente alle anime questo nutrimento delizioso e inestimabile, il solo di cui abbiano vero bisogno, il solo capace di appagare la fame e di estinguere la sete che hanno di Dio, vita dell’anima loro, tesoro del loro cuore, compagno della loro esistenza, intima sorgente della loro forza, della loro mortificazione e pietà ». – Se si deve prestar fede al messaggio del Cuore di Gesù al Cuore del Sacerdote, Nostro Signore manifesterebbe il desiderio di veder propagata la « devozione allo stato di grazia ». Ecco ciò che importa questo « messaggio », trovato fra i manoscritti di un religioso Marista, morto a Roma, e che un’anima santa gli aveva certamente comunicato: « È certo che la devozione al mio Sacro Cuore è molto diffusa: essa mi consola poiché procura numerose anime a me, che sono il Salvatore delle anime! Ma ciò nondimeno, quanto si è lontani dal comprendere i tesori infiniti del mio Cuore! Ahi se sapessero il desiderio intenso che Io ho di unirmi intimamente a ciascuno di loro!… Molto rari sono coloro i quali giungono a questa unione, nella misura in cui il mio Cuore l’ha loro preparata sulla terra!… « E che cosa bisogna fare per conseguirla?

« Raccogliere, riunire, in qualche modo, tutti i propri affetti, e dirigerli verso di me che sono là, nel più intimo dell’anima loro! Ah! grida e di’ a tutti quanto Io li ami; supplicali di ascoltare l’appello premuroso del mio cuore, il mio tenero invito di scendere nel fondo della loro anima, per unirsi, là, a Colui che non li abbandona mai; di identificarsi in qualche modo con me… oh, allora, che abbondanza di benedizioni prometto loro!

« Quest’unione misteriosa e divina sarà il principio di una vita molto più santa e feconda di quella condotta fin qui.

« Molti Sacerdoti conoscono benissimo la teoria dell’unione dell’anima con Dio; parecchi vi aspirano; ma quanto pochi la conoscono in pratica; quanto pochi, fra i leviti pii, zelanti, anche miei amici devoti, sanno che Io sono là, in fondo all’anima loro, ardendo dal desiderio di farla una con me!

«Perché? Perché vivono come alla superficie della loro anima. Ah! se si involassero alle cose sensibili, alle impressioni umane, per discendere così soli nell’intimo della loro anima, proprio al fondo, dove Io sto; mi troverebbero subito, e che vita di unione, di luce e d’amore non sarebbe la loro!… ».

Monsignor de Ségur non esitava ad incolpare se stesso del fatto che i fedeli vivono così poco di questa dottrina ammirabile, mentre, come spiega S. Paolo ai Colossesi, essa è il grande mistero, nascosto alle generazioni passate, manifestato dal Vangelo ai Santi che Dio degna iniziare alle ricchezze divine. – Il santo prelato diceva, nella sua bonomia ordinaria: « Noi, ministri di Dio, non abbiamo abbastanza spirito di fede, abbiamo la fede in partibus, come quei buoni vescovi che non hanno diocesi. Ahimè! io sono un Arcivescovo di questa specie ». – Intanto non si può mettere in dubbio, che di tutte le realtà della fede, la più indispensabile a penetrarsi da chi, a un titolo qualsiasi, vuol essere apostolo, non sia questa realtà sublime che portiamo in noi. Se non l’abbiamo a lungo esplorata, con una diuturna e assidua meditazione, con uno studio paziente, come potremo meravigliarci che i fedeli trascorrano la loro vita nell’ignoranza inverosimile del più bel tesoro che esista, dato che questo tesoro, dai predicatori della dottrina non fu creduto degno di una fervida investigazione? Qualcuno forse dirà che i Sacerdoti, avendo studiato il trattato de Gratia, conoscono bene ciò che riguarda il mistero dell’abitazione di Dio in noi, ma che riesce impossibile predicare e porgere alle anime questa dottrina come nutrimento ordinario e abituale. – Dovremo allora rassegnarci a questo ripiego: che la parte fondamentale del dogma, quella su cui si basa ogni vera vita cristiana, praticamente sarà ignorata dalla maggior parte dei fedeli; ciò che noi non crediamo possibile (« Se c’è un argomento che debba interessarci, è assolutamente questo: nulla è a noi più intimo, nulla ha un così grande valore, nulla c’importa di più… Questo studio non solo non è scoraggiante e arido; ma è capace di sprofondarci in un vero abisso di gratitudine, di ammirazione, di confidenza, d’amore ». P . FROGET, O. P .: De l’Habitation du Saint Esprit dans les àmes justes. Lethielleux, 1898; p. 184). – Eppure a chi predicava S. Paolo « il grande mistero » della presenza di Dio in noi mediante la grazia? Ai conciapelli di Efeso, agli scaricatori di Corinto, tutta gente non meno « sprofondata nella materia » di molti Cristiani dei nostri tempi, e le cui abitudini e idee pagane dovevano renderli più difficilmente accessibili all’intelligenza di « Dio in noi », di quello che non accade a noi, Cattolici di razza, figli e nipoti di battezzati. – Ma ammesso pure che non tutti i fedeli, almeno nella stessa misura, possano familiarizzarsi con questo concetto della divina presenza in noi, non potremmo supporre che molte anime religiose, o semplicemente ferventi, le quali aspirano all’intimità con Dio, rivolgendo la loro attenzione su questo fatto capitale, abbiano a trovarvi un vantaggio di molta importanza? L’abbiamo supposto; donde la ragione di queste pagine. – Molte anime generose si spossano in lunghi sforzi senza giungere a poggiare più in alto, perché invece di cercare la ragione della loro intimità, là dove si trova veramente, cioè nel dogma più bello, più fondamentale della Religione, la cercano nel sentimento, o in pratiche accessorie (Altra difficoltà: il pericolo, per le anime, di confondere l’Abitazione divina con certe dottrine eterodosse, venute fuori dal modernismo [l’antico Panteismo gnostico riciclato dal modernismo ed oggi dal post-modernismo del novus ordo, l’antichiesa vaticana – ndr. -], e che tendono a sopprimere Dio, o a deificare l’uomo. Noi abbiamo Impugnato questa obiezione nella Revue Pratique d’Apologétique 1 e 16 giugno 1914: «Notre temps et l’intelligence de l’état de grace»). – S. Bernardo, per fare comprendere a queste anime il loro inganno, commenta quello che accadde al sepolcro a Maria Maddalena. Cerchiamo Dio dove non si trova, o piuttosto, non lo cerchiamo là, dove in modo speciale si trova; ecco l’origine di tanti indugi e lamenti. « Donna, tu piangi? Chi cerchi? Tu possiedi Colui che cerchi e l’ignori! Tu l’hai e piangi? Lo cerchi fuori di te, eppure Egli si trova dentro di te. Ritta accanto al sepolcro, sei tutta in lagrime; perché? Dove sono Io? Ma Io sono in te — mens tua monumentum meum est. — Io riposo là dentro, non morto, ma eternamente vivo. Tu stessa sei il mio giardino. Hai ben giudicato appellandomi giardiniere. Novello Adamo, anch’Io ho in custodia un Paradiso. Il mio officio è lavorare a far nascere in questo giardino, che è l’anima tua, messi abbondanti di desideri. In qual modo? Tu mi hai, mi possiedi in te, e l’ignori? — habes me intra te et nescis? — Ecco perché mi cerchi fuori. Ebbene, eccomi. Io ti apparisco fuori, ma per ricondurti dentro — ut te intus reducam. — Proprio qui tu mi troverai… Ah! io non sono assente e lontano, come t’immagini; ti sono molto vicino. Dimmi, che cosa è più vicino a qualcuno che il proprio cuore? Coloro che mi trovano, mi trovano appunto nel loro cuore, perchè Io risiedo là dentro — lllic intus invenior, a quibuscumque inveniorDeliciæ ejus esse cum filiis hominum. Mulier, quid ploras, quem quæris? Habes quem quæris, ignores? Habes intus, quem foris inquiris. Vere stas ad monumentum foris plorans? Mens tua monumentum meum est. Ibi non mortuus, sed in æternum requiesco vivens. Mens tua, hortus meus est. Bene existimasti, quia hortulanus sum… Habes me intra te et nexcis, ideo foras quæris… Ecce et foras apparebo ut te intus reducam et invenias intus quem foris quæris… Non longe a te sum. Quid propinquius homini quam cor suum? Illic intus invenior a quibuscumque invenior ». – In passionem et resurrectionem Domini, sermo XV). – Evitando tutto ciò che nell’esposizione della dottrina potrebbe essere oggetto di controversia, procureremo di spiegare nella maniera più chiara possibile, a vantaggio di tutte le anime desiderose di condurre una vita veramente cristiana, in che cosa consista la Presenza e l’Abitazione di Dio in noi (1).

 (1) Per lo svolgimento teologico e patristico, e una più profonda intelligenza di alcuni punti della nostra trattazione, rimandiamo ad alcune opere di un interesse speciale in materia. Oltre CORNELIO A LAPIDE (Commentario su S. Paolo), e PETAU (de Trinitate) inaccessibili forse alla maggior parte dei lettori, rammentiamo: BELLAMY: La Vie Surnaturrlle; NOUET: Le chrétien dans ses rapports avec la Très Sainte Trinité; TERRIEN: La Gràce et la Gloire; RAMIERE: La Divinisation du chrétien; DE SMET: Notre vie surnaturelle;. FROGET. O. P.: De l’Habitation du Saint Esprit dans les Ames justes; M.gr DE SÉGUR (con le correzioni che indicheremo) (*): Gesù vivente in noi; il P. FOCH: Catechism de la vie interieure; SAUVÉ: Elèvations Dogmatiques, t. VI.

(*) Tutte le opere summenzionate, tradotte, saranno di prossima nostra pubblicazione – ndr.-

CAPO II.

L’ordine soprannaturale.

Dio non ha crealo l’uomo solamente con un corpo e un’anima.

La definizione dell’uomo: animale ragionevole, corrisponde alla realtà filosofica, ma non alla realtà storica. L’uomo, tale quale Dio lo ha fatto, tale quale Dio lo ha costituito, è più che un uomo, è un uomo piùqualche cosa. – Noi ci studieremo di spiegare questo « qualche cosa ». – Quando Dio vuole creare un essere, si fa un dovere di conferirgli tutto ciò che lo costituisce nella sua natura. Ammettiamo che Dio crei un albero. Dio dovrà dargli tutto quello che sarà necessario affinché l’albero sia realmente un albero. Se Dio, dopo aver crealo l’albero, volesse aggiungergli qualche cosa che non gli appartiene, come sarebbe la facoltà di spostarsi: questo « qualche cosa » non potrà dirsi dovuto per natura, ma eccedente la natura, cioè soprannaturale. – Se Dio crea un animale, deve a quest’animale ciò che lo costituisce nel suo essere proprio. Dovrà forse in seguito conferirgli qualcosa di più? No. Ma se mai gliela conferisce, ciò sarà un mero favore. Se a un cavallo o ad un cane Dio desse la ragione, questa facoltà sopraggiunta, potrà considerarsi come eccedente la natura di quel cavallo o di quel cane, e quindi, in un senso molto vero, soprannaturale(1(1) Notiamo subito la terminologia in uso: preternaturale si dice quello che eccede una data natura; soprannaturaleciò che è specificamente divino, e che eccede qualsiasi natura creata).Fin qui, pure supposizioni. Entriamo ora nell’ordine dei fatti. Dio vuol creare l’uomo: gli deve in conseguenza (o meglio Dio deve a se stesso) tuttociò che lo costituisce nella vera natura d’uomo, e nulla più: dunque, un corpo, un’anima e niente altro. La Rivelazione c’insegna che Dio, creando l’uomo, come se ancora non fosse soddisfatto dell’opera sua, sotto l’impressione, per così dire, di un secondo slancio del suo amore infinito, aveva voluto aggiungere qualcosa di più ai doni meravigliosi che costituivano l’uomo nella sua natura.Un corpo, un’anima; sta bene: l’uomo vi è tutto intero. Ma in questa creazione, Dio non è tutto intero. Egli ha realizzato il suo piano; ma non ha esaurito il suo amore. Secondo Lui non ha dato abbastanza. Vuol dare di più. L’uomo non sarà solo un uomo. Sarà corpo e anima,sì; ma sarà anche qualcosa di più. Dio stabilisce di farlo partecipe della sua vera vita, della sua vita divina. L’uomo, restando uomo, sarà chiamato, fin da questa terra, a vivere della vita di Dio, per potere più tardi, in cielo, viverne pienamente, definitivamente; in modo limitato, è vero, ma senza velo; e il mistero consisterà forse meno nel fatto che l’uomo sia ammesso a porre un atto divino (quello di vedere Dio, come Dio si vede in se stesso) che non nel fatto che ponga quest’atto divino e tuttavia rimanga uomo.D’altronde le difficoltà importano poco. Voglio dire che esse formano l’oggetto dello studio del teologo, ma non di chi solo voglia fondare sul dogma la sua vita spirituale. E queste stesse difficoltà manifestano meglio l’immenso amore che Dio ebbe per noi. Noi eravamo sul punto di ringraziarlo in modo singolare.Questi privilegi splendidi (e anche altri di ordine temporale e sensibile, come la facoltà di non essere soggetti al dolore e alla morte), Dio li aveva connessi con l’osservanza fedele dei suoi ordini. Il conseguimento della vita divina era subordinato a un atto d’obbedienza del primo uomo. Dio, così, non lasciava di essere infinitamente buono. Nella sua bontà ci porgeva anzi l’occasione di meritare ciò che da parte sua era un puro favore. Adamo disobbedisce. Tutto è perduto. Esseri sensibili quali siamo, noi sentiamo di più la scomparsa dei doni sensibili. Noi quindi soffriamo E quanto!Ormai siamo condannati alla morte. Il fatto principale, il solo veramente essenziale è che tutti i nostri tesori divini ci furono rapiti, e siccome Dio ce li aveva dati a questa condizione, che il loro possesso o il loro rifiuto fosse per noi una sorgente di vita o di morte, perderli, importava l’inferno senza pietà, senza perdono. Dio non creò l’uomo e il soprannaturale nell’uomo con due atti distinti della sua potenza. No. Ma con unico atto, d’un solo colpo fece l’uomo soprannaturale. Quindi l’uomo vedrebbe Dio faccia a faccia, custodendo i suoi tesori di vita divina; ovvero cacciando Dio da sé, egli verrebbe cacciato da Dio, per sempre. Ecco la legge. – Or l’uomo pur conoscendo questo, preferì, da stolto, perdere la sua vita divina: ed ecco il peccato originale. Senza dubbio, Dio, in punizione, abbandonerà l’uomo a se stesso. – Il peccato originale — e in genere, sotto questo aspetto, ogni peccato mortale, — secondo un’espressione scultoria di S. Agostino, consiste in ciò, che l’uomo accetta di non essere altro che un semplice uomo: Per peccatum, homo fit tantum homo. L’uomo, animale ragionevole, per soddisfare un suo capriccio, rigetta i doni divini, la sua soprannatura; — amputato della parte più bella del suo essere, del tesoro che lo rende non solo cosa di Dio, ma amico di Dio e suo figliuolo, in un attimo perde, per la vita presente e per la futura, tutti i favori, tutte le ricchezze racchiuse in questo tesoro che egli possedeva. Si suol dire l’uomo decaduto. E difatti, che caduta tremenda! L’uomo sarà dunque abbandonato da Dio alla miseria di non essere altro che unuomo? E poiché Adamo ha rinunziato volontariamente ai suoi doni divini, il Creatore promulgherà il decreto di condanna eterna, senza lasciare né a lui, né ai suoi posteri, alcuna possibilità di riscatto? – Noi non conosciamo Dio! Non sappiamo quale misericordia infinita lo inclini verso l’uomo, prevaricatore nella persona di Adamo, e dopo Adamo, attraverso i secoli, così meschino, così miserabile, così poco degno delle attenzioni divine, anche fra quei popoli che Dio aveva prediletto, nell’Antico e nel Nuovo Testamento! – Abituati come siamo alla Redenzione, Gesù Cristo, (quando non ci sembra un personaggio del tutto insignificante e di cui non bisogna tener conto, ci appare come un uomo perfettamente normale, non del tutto straordinario, venuto, così si pensa presso a poco, per suo piacere, o almeno per sua fantasia; come un uomo quasi, la cui venuta, noi, gente senza macchia, meritavamo. – Il soprannaturale ci pare cosa naturalissima. E non vediamo quale enorme splendore si racchiuda nella Redenzione; quale anormalità prodigiosa presenti un personaggio come Gesù Cristo. Se riflettessimo solo un istante, vedremmo che l’opera del nostro riscatto, compiuta da Dio medesimo, meriterebbe da parte nostra un’ammirazione senza fine e continui ringraziamenti. – Noi avevamo perduto tutto. Dio ci rende tutto ciò che avevamo perduto. Noi restiamo freddi. Che indifferenza incredibile! Senza dubbio vi è una difficoltà. Ciò che abbiamo sempre visto a un modo, ci fa pensare che non poteva essere altrimenti. Chi di noi, essendo fanciullo, pensò mai che le circostanze della sua nascita potevano essere assai diverse: che in luogo delle rive della Senna, per esempio, o della Loira, potevano toccarci in sorte le rive del fiume Giallo o quelle del Congo? I doni soprannaturali, in mezzo ai quali siamo nati, ci sembrano anch’essi un ornamento che ci spetta, le cui parti già preparate, si sono connesse senza difficoltà, in virtù di non so quale armonia prestabilita e tutta meccanica. – Ma noi avremmo potuto benissimo non avere un Salvatore! La Redenzione non è una parte obbligatoria di un ornamento necessario. Commesso il peccato originale, poteva benissimo accadere che nessuno venisse in nostro soccorso e quindi non avessimo un Gesù Cristo; una volta perduti, si sarebbe potuto essere perduti per sempre. Lucifero peccò. Per lui non vi fu Redenzione. Gli angeli cattivi si ribellano, Dio li abbandona per sempre alla loro condanna. Perché dunque Dio ha voluto salvare noi? Come noi, Lucifero e i demoni non avevano commesso che un solo peccato; Dio non li salva. Ma salva noi. Quelli erano puri spiriti, noi nature inferiori, cioè spirito unito al corpo. Dio salva noi e danna i demoni. E chi mai si prende pensiero di questo, per così dire, capriccio di Dio? Noi, gli ultimi della famiglia, troviamo grazia presso Dio. E, invece, per i nostri fratelli maggiori, più nobili, più belli di noi, la cui colpa sembra meno grave, le circostanze, se non altro, meno puerilmente desolanti, nessuna remissione. Bisogna confessare che Dio ha avuto per noi un amore di preferenza! – Appena creati ci arricchisce di doni meravigliosi che non ci spettavano punto. Noi perdiamo tutto… E Dio — che abbandona alla colpa altre creature più privilegiate di noi per natura, — pensa unicamente a renderci tutto quello che abbiamo perduto! – Ma allora che cosa sono mai questi doni meravigliosi? Certamente devono costituire un tesoro magnifico agli occhi di Dio, se Egli — per farci rientrare nel loro possesso — determina e sceglie un piano meraviglioso, quello della Redenzione!

[1 – Continua]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/12/12/dio-in-noi-2/

SALMI BIBLICI: “IN TE, DOMINE, SPERAVI … ET ERIPE ME” (LXX)

SALMO 70: “IN TE DOMINE, SPERAVI, … et eripe me”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 70

Psalmus David, filiorum Jonadab, et priorum captivorum.

   [1] In te, Domine, speravi;

non confundar in aeternum;

[2] in justitia tua libera me, et eripe me: inclina ad me aurem tuam, et salva me.

[3] Esto mihi in Deum protectorem, et in locum munitum, ut salvum me facias: quoniam firmamentum meum et refugium meum es tu.

[4] Deus meus, eripe me de manu peccatoris, et de manu contra legem agentis, et iniqui:

[5] quoniam tu es patientia mea, Domine; Domine, spes mea a juventute mea.

[6] In te confirmatus sum ex utero; de ventre matris meae tu es protector meus; in te cantatio mea semper.

[7] Tamquam prodigium factus sum multis; et tu adjutor fortis.

[8] Repleatur os meum laude, ut cantem gloriam tuam, tota die magnitudinem tuam.

[9] Ne projicias me in tempore senectutis; cum defecerit virtus mea, ne derelinquas me.

[10] Quia dixerunt inimici mei mihi: et qui custodiebant animam meam consilium fecerunt in unum;

[11] dicentes: Deus dereliquit eum: persequimini et comprehendite eum, quia non est qui eripiat.

[12] Deus, ne elongeris a me; Deus meus, in auxilium meum respice.

[13] Confundantur et deficiant detrahentes animae; operiantur confusione et pudore qui quaerunt mala mihi.

[14] Ego autem semper sperabo, et adjiciam super omnem laudem tuam.

[15] Os meum annuntiabit justitiam tuam, tota die salutare tuum. Quoniam non cognovi litteraturam,

[16] introibo in potentias Domini; Domine, memorabor justitiae tuae solius.

[17] Deus, docuisti me a juventute mea; et usque nunc pronuntiabo mirabilia tua.

[18] Et usque in senectam et senium, Deus, ne derelinquas me, donec annuntiem brachium tuum generationi omni quae ventura est, potentiam tuam,

[19] et justitiam tuam, Deus, usque in altissima; quae fecisti magnalia, Deus: quis similis tibi?

[20] Quantas ostendisti mihi tribulationes multas et malas! et conversus vivificasti me, et de abyssis terrae iterum reduxisti me.

[21] Multiplicasti magnificentiam tuam; et conversus consolatus es me.

[22] Nam et ego confitebor tibi in vasis psalmi veritatem tuam, Deus; psallam tibi in cithara, sanctus Israel.

[23] Exsultabunt labia mea cum cantavero tibi; et anima mea quam redemisti.

[24] Sed et lingua mea tota die meditabitur justitiam tuam, cum confusi et reveriti fuerint qui quaerunt mala mihi.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXX.

Questo Salmo fu composto da Davide quando fu cacciato da Assalonne. L’appropriazione poi ai figliuoli di Jonadab, non è certo se sia per allusione profetica di Davide, o per l’uso che ne abbian fatto i Sacerdoti. Allorché questi figliuoli, per obbedienza alla voce di Geremia, non si rifiutarono dalla cattività al tempo del re Joachim.

Salmo di David: de’ figliuoli di Jonadab, e de’ primi prigionieri.

1. In te, o Signore, ho posta la mia speranza; non sia io confuso in eterno; per la tua giustizia dammi liberazione e salute.

2. Piega le tue orecchie verso di me, e salvami.

3. Sii tu a me un Dio protettore, e un asilo sicuro per farmi salvo. Perocché mia fermezza e mio rifugio se’ tu.

4. Dio mio, liberami dalle mani del peccatore e dalle mani del violator della legge e dell’iniquo;

5. Imperocché tu se’, o Signore, la mia aspettazione; Signore, tu mia speranza fin dalla mia gioventù.

6. Sopra di te, io posai nell’uscire dall’utero; dal seno della madre mia, tu sei mio protettore.

7. Te io cantai in ogni tempo; fui tenuto da molti come un portento: ma un forte difensore se’ tu.

8. Sia piena la mia bocca di laude, affinché io canti la tua gloria e la tua grandezza per tutto il giorno.

9. Non rigettarmi nel tempo della vecchiezza; non abbandonarmi quando verrà meno la mia fortezza.

10. Imperocché contro di me han parlato i miei nemici; quelli che tendevano insidie all’anima mia han tenuto insieme consiglio, (1)

11. Dicendo. Iddio lo ha abbandonato, tenetegli dietro, ed afferratelo, dappoiché non v’ha chi lo scampi.

12. Non ti dilungare, o Dio, da me Dio mio, volgiti ad aiutarmi.

13. Sian confusi, e vengan meno coloro che appongono calunnie all’anima mia; sieno coperti di confusione e di vergogna quelli che amano il mio male.

14. Ma io sempre spererò, e laudi aggiungerò a tutte le laudi tue.

15. La mia bocca predicherà la tua giustizia, e tutto il giorno la salute che vien da te. (2)

16. Perché io non ho cognizione di lettere, m’internerò nella possanza del Signore; della sola giustizia tua, o Signore, io mi ricorderò.

17. Tu, o Dio, fosti mio maestro fin dalla mia giovinezza, e io annunzierò le meraviglie fatte da te fino a quest’ora; (3)

18. E tu fino alla vecchiezza, fino all’età avanzata, o Dio, non mi abbandonare, fino a tanto che io a tutta la generazione che verrà annunzi la tua fortezza,

19. E la potenza tua e la tua giustizia, che va fino agli altissimi cieli, e le magnifiche cose fatte da te: Chi, o Dio, è simile a te?

20. Quante facesti provare a me tribolazioni molte ed acerbe! e di nuovo mi ravvisasti, e dagli abissi della terra di bel nuovo mi ritornasti.

21. Tu desti in molti modi a conoscere la tua magnificenza, e di bel nuovo mi consolasti.

22. Imperocché io pure al suono de’ musicali strumenti darò laude a te per la tua verità; te io canterò sulla cetra, o Santo di Israele.

23. Esulteranno le mie labbra e l’anima mia redenta da te, quando io canterò le tue lodi.

24. Ed ancor la mia lingua tutto di parlerà della tua giustizia, allorché confusi e svergognati rimarranno quelli che amano il mio male.

(l) Molti, dice David vedendomi detronizzato, sono colpiti da stupore, e si chiedono se Dio mi abbia abbandonato; ma no, Dio sarà il mio sostegno.

(2) È necessario osservare qui che la parola ebraica tradotta in “litteraturam”, sarà più esattamente tradotta con “numerum”. La parola “letteratura” della Vulgata designa l’ufficio dello scriba come tenere i registri, fare i conti, così come si vede rappresentato nelle scene domestiche, sui monumenti egiziani; tale è il valore della parola “sephorot”. Il senso del salmista è dunque: io loderò il Signore, perché la moltitudine dei suoi benefici è sì grande che non posso ricordare tutto, come gli scribi li hanno consegnato nei nostri annali (Le Hir.).

(3) Si può tradurre altrimenti, cambiando la punteggiatura: Signore, Voi mi avete istruito fin dalla mia giovinezza e fino a questo giorno; io non cesserò di esaltare i vostri benefici.

Sommario analitico

Davide, esiliandosi volontariamente per sfuggire alla persecuzione di Assalonne, nella sua persona, espone tutta la sua vita alla persecuzione dei suoi nemici.

IDomanda a Dio di non essere confuso in eterno.

1° A causa di Dio, – a) la cui bontà gli fa sperare il soccorso che egli implora; – b) la cui giustizia reprimerà gli sforzi dei suoi nemici (1); – c) la cui maestà e l’immensità sono come una fortezza; – d) la cui potenza può salvare tutti coloro che sono ricorsi a Lui;

2° A causa dei suoi nemici, calunniatori, perfidi ed ingiusti (3);

3° A causa di se stesso, – a) egli ha sperato fin dalla sua giovinezza (4); – b) Dio è stato il suo protettore fin dal seno di sua madre (5); – c) Dio è sempre stato l’oggetto dei suoi canti, nelle avversità e nella prosperità (6, 7).

II – Egli domanda specialmente a Dio che non lo abbandoni nella sua vecchiaia (8).

1° A causa dei suoi nemici che hanno cospirato per la sua perdita nella speranza che fosse abbandonato da Dio (9-12);

2° A causa di se stesso: – a) il suo cuore ha sperato costantemente in Dio e ha mostrato  a tutti le sue lodi (13); – b) la sua bocca ha reso pubblica la sua giustizia e celebrato la sua assistenza salutare (14); – c) la sua intelligenza ha negletto tutte le vane sottigliezze per applicarsi alla meditazione della sua potenza (14); – d) la sua memoria ha conservato il ricordo della giustizia di Dio escludendo ogni altra cosa (15).

III- Egli promette a Dio una eterna riconoscenza:

1° per i benefici ricevuti in gioventù: – a) Dio stesso è stato il suo maestro (16); – b) non cessa di rendere pubbliche le sue lodi (17);

2° Per ciò che egli attende da Dio nella sua vecchiaia, – a) prega Dio che non lo abbandoni mai (17); – b) gli promette in cambio di lodare, di celebrare la sua potenza, la sua giustizia, tutte le sue opere meravigliose, la sua essenza e i suoi attributi divini (18).   

3° Tutto ciò di cui Dio deve colmarlo durante la sua vita. – a) egli è stato dapprima provato, a causa dei suoi crimini, con numerose e penose afflizioni (19); – b) Dio lo ha in seguito liberato, rendendogli la vita, quando la sua sorte era disperata, e moltiplicando per lui i doni della sua magnificenza (20); – c) egli promette a Dio di far esplodere la sua riconoscenza con tutti i mezzi di cui dispone, gli strumenti musicali, i canti, la meditazione interiore delle sue bontà (21-23). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-7.

ff. 1. – « Io non sarò confuso in eterno ». Io sono già confuso, ma che non lo sia eternamente. Come in effetti non sarebbe confuso colui al quale si indirizzano queste parole: « Quale frutto avete ottenuto dalle cose di cui oggi arrossite? » (Rom. VI, 21). Che fare dunque affinché non siamo eternamente confusi? « … Avvicinatevi a Lui e sarete illuminati, ed i vostri volti non arrossiranno » (Ps. XXXIII, 6). Voi siete coperti di confusione in Adamo, ritiratevi da Adamo, avvicinatevi al Cristo e così non sarete confusi (S. Agost.). –  Sperare in Dio ed essere confuso, sperare negli uomini e trovarvi un solido appoggio, è ciò che non è mai successo; è ciò che mai accadrà. – Voi mi direte, io ho sperato e sono stato coperto da vergogna. Se siete coperto di vergogna, è perché non avete sperato come si doveva, o avete cessato di sperare, o ancora non avete atteso la fine, perché il vostro spirito ed il vostro cuore si sono ristretti e richiusi, perché la vera speranza è quella che ci tiene protesi verso Dio in mezzo ai mali ed ai pericoli (S. Agost.). – Liberatemi, non nella mia giustizia, ma nella vostra: se infatti io confidassi nella mia giustizia, sarei uno di quelli di cui l’Apostolo ha detto: « Non conoscendo la giustizia di Dio e volendo stabilire la propria giustizia, essi non si sono sottomessi alla giustizia di Dio » (Rom. X, 3). – Che cos’è in effetti la mia giustizia? L’iniquità l’ha preceduta; e se io divento giusto, questo avverrà per la vostra giustizia, perché io sarò giusto della giustizia che Voi mi avete dato, e non sarà in me se non restando in Voi, perché essa sarà un vostro dono (S. Agost.).

ff. 2. – « Siate per me un Dio protettore ». Che i colpi del nemico non giungano fino a me, perché non posso proteggermi da me stesso. Ma non basta essere protettore, per cui il Profeta aggiunge: « … e un luogo fortificato ». Ecco dunque che Dio stesso è diventato il luogo del vostro rifugio. « … Siate per me come un luogo fortificato, al fine di salvarmi. Io non sarò salvo senza di Voi; se non diventate il mio riposo la mia malattia non sarà guarita. Sollevatemi da terra, che riposi su di Voi, affinché mi rialzi in un luogo fortificato ». Può essercene uno che sia più forte? Quando sarete rifugiato in questa fortezza, ditemi quale nemico temerete? Quanto a me, se scelgo un’altra fortezza, io non vi troverò certamente la mia salvezza. Se ne trovate una che sia meglio fortificata, sceglietela. Non si può sfuggire a Dio, che rifugiandosi nel suo seno (S. Agost.).

ff. 3. – È una disavventura cadere tra le mani di un nemico potente, ma è una sventura ancora più grande cadere tra le mani, cioè nella familiarità di un amico peccatore e che agisce contro la legge di Dio; perché malgrado l’affezione che ha per noi, siccome è nemico di Dio, ci indirizza spesso delle insidie senza che vi ci pensi e, con il suo esempio o con le sue parole, ci persuade circa cose in cui non possiamo compiacerlo senza perdere davanti a Dio (Dug.).

ff. 4, 5. – La nostra pazienza non solo viene da Dio, ma Egli stesso è la nostra pazienza, perché noi non possiamo avere nulla che non venga da Lui e non torni a Lui. – Se Voi siete la mia pazienza, ciò che segue è perfettamente giusto: « Signore Voi siete la mia speranza fin dalla mia giovinezza ». Voi siete la mia pazienza, perché Voi siete la mia speranza, o piuttosto non siete Voi la mia speranza perché siete la mia pazienza? Perché la tribolazione, dice l’Apostolo, produce la pazienza, la prova, la speranza; ora la speranza non confonde (Rom. III, 5). Pertanto, perché ho messo la mia speranza in Voi, io non sarò confuso in eterno (S. Agost.). –  « Voi siete la mia speranza fin dalla giovinezza ». Dio è vostra speranza fin dalla giovinezza solamente? Non lo è dalla vostra adolescenza e dalla vostra infanzia? Senza alcun dubbio, perché vedete il seguito: « … dal seno di mia madre, Voi siete stato il mio protettore ». Perché dunque ho detto « dalla mia giovinezza » se non perché è da quel momento che ho cominciato a sperare in Voi? Prima io non speravo ancora in Voi, benché foste il mio protettore e mi abbiate portato Voi stesso in tutta sicurezza fino al giorno in cui io ho appreso a mettere in Voi la mia speranza, vale a dire fino al momento in cui mi avete armato contro il demonio, affinché nelle fila dei vostri soldati, armato della vostra fede, della vostra speranza, della vostra carità e degli altri vostri doni, io abbia potuto combattere i vostri invisibili nemici (Ephes. VI, 12) (Idem).

ff. 6. – « Io sono apparso a molti come un prodigio », quaggiù, in questo tempo di speranza, in questi tempi di gemiti, in questo tempo di umiltà, in questi tempi di dolore, in questo tempo in cui il prigioniero grida sotto il peso dei suoi ferri, perché queste parole: « Io sono apparso come un prodigio »? Perché io credo in ciò che non vedo ancora. Quanto a coloro, al contrario, che cercano la felicità nelle cose che vedono, essi non gioiranno nell’ebrezza, nella lussuria, nel libertinaggio, nell’avarizia, nelle ricchezze, nelle rapine, nelle dignità mondane, in questo strato di bianco che applicano su di una muraglia di fango: ecco ciò che fa le loro delizie. Quanto a me,  io cammino in una via tutta diversa, disprezzo le cose presenti, temo anche le prosperità del secolo, e non ho sicurezza che nelle promesse di Dio (Cor. XV, 33). – Essi dicono: mangiamo e beviamo, perché domani moriremo. Che dite? Ripetetelo: « mangiamo e beviamo ». Molto bene: ma cosa avete detto dopo? « perché domani moriremo ». Ma un tale motivo mi spaventa, lontano dal sedurmi … ascoltate ciò che io dico, al contrario: preghiamo e digiuniamo, perché domani moriremo. È seguendo questa via stretta e penosa che io sono apparso come un prodigio ad un gran numero di uomini, « … ma Voi siete il mio potente protettore ». Venite, o Signore Gesù, venite e ditemi: non perdete coraggio nella via stretta, io vi sono passato per primo; sono Io che sono questa via, sono Io che conduco, è in me che Io conduco, è verso di me che Io conduco (S. Agost.).

ff. 7. – Che vuol dire « tutto il giorno »? … senza tregua. Nella prosperità, perché mi consolate; nelle avversità perché mi correggete; prima di essere, perché mi avete creato; dopo la mia esistenza, perché Voi mi avete salvato; quando io ho peccato, perché mi avete perdonato; nella mia conversione, perché mi avete aiutato; nella mia perseveranza, perché mi avete coronato (S. Agostino). – Tale è l’occupazione dei santi in questa vita: lodare Dio, celebrare la sua gloria, esaltare le sue grandezze. Essi portano dappertutto con esso il loro tempio ed il loro altare, secondo la bella espressione di San Crisostomo. In mezzo agli affari che intraprendono per il prossimo, essi sono uniti a Dio; il cuore prega mentre la bocca è in silenzio, e quando la cura delle anime lascia loro un momento di solitudine, essi ne profittano per sospirare davanti a Dio (Berthier). 

II. — 8-5.

ff. 9, 13. – Quale è questo tempo della vecchiaia? « Quando la forza mi mancherà, non mi abbandonate ». Dio vi risponde qui: desiderate piuttosto che la vostra forza vi manchi, perché la mia sia in voi, e diciate con l’Apostolo: è quando sono debole che sono forte (II Cor. XII, 10). – non temete di essere rigettato nella vostra debolezza, nel tempo della vostra vecchiaia. Nostro Signore non era senza forze sulla croce? … cosa vi ha insegnato rifiutando di scendere dalla croce, se non che dovete essere paziente in mezzo agli oltraggi, se non che dovete essere forti in Dio? (S. Agost.). – Se si ha bisogno della protezione divina in tutti i tempi, è soprattutto in vecchiaia che questo soccorso è necessario; allora si provano maggiormente traversie, infermità, avversità; si è più abbandonati dagli uomini; non si ha il gusto dell’intraprendere, né la forza di eseguire. La debolezza di questa età inasprisce il carattere, e l’oblio ed il disprezzo nel quale si cade, rivolta l’amor proprio. Quando ci si è esercitati presto alla pietà, ci si trova molto consolati al tempo della vecchiaia, ed il divorzio che da tempo si è fatto con il mondo, fa che non ci si inquieti delle sue freddezze e dei suoi disprezzi. Ma se si è atteso questa ultima stagione di vita per rientrare in se stessi, si ha molto da combattere, e le passioni hanno ancora un grande ascendente su tutte le facoltà dell’anima (Berthier). – Occorre temere molto che il fervore dei primi anni non si intiepidisca in vecchiaia, e che il vigore dell’anima non si indebolisca con la forza del corpo. Occorre premunirsi contro questo danno e dire con l’Apostolo: « Benché l’uomo esteriore si distrugga, non di meno l’interiore si rinnova giorno per giorno » (II Cor. IV, 16). – Il demone, il mondo e la carne: sono i tre nemici irreconciliabili dell’uomo. Uno solo è esteriormente formidabile. Che farà dunque quando cospireranno tutti e tre insieme per perderlo? Bisogno far ricorso a Colui che ha vinto il demone ed il mondo, e che non ha mai ricevuto alcun attacco dalla carne di cui si era rivestito. – I malvagi fanno ordinariamente poca attenzione a Dio, quando intraprendono di perseguitare la gente per bene. Essi non pensano affatto nel fondo del loro cuore, che la Provvidenza abbia abbandonato coloro che essi vogliono perdere; ma, per dare un colore di giustizia ai loro processi, e per imporsi ai semplici, si reputano qualche volta di essere solo gli esecutori delle divine volontà; essi dicono che Dio si schiera con essi, e che non protegge la causa di coloro che essi attaccano, e se ottengono qualche successo, lo indicano come prova contro i malcapitati che essi vogliono sopraffare (Berth.). – Consolarsi e fortificarsi con la preghiera: quando si è abbandonati da Dio, tutto è perduto; ugualmente quando Egli non si allontana da noi, non c’è nulla da temere: un solo sguardo di Dio è sufficiente a rovesciare i nemici più formidabili. – Arriva un momento nella vita in cui noi osserviamo che tutto ci sfugge, e che la nostra esistenza non è stata che una successione di amicizie spezzate. La giovinezza passa con le sue illusioni, e coloro che abbiamo amato sono fuggiti lontano da noi; noi non siamo stati che infedeli gli uni agli altri, noi non abbiamo fatto che obbedire ad una legge della vita e sentire per esperienza ciò che non è che l’abbandono del mondo: il movimento della vita ci ha separato. Poi viene l’età matura, la stagione delle crudeli delusioni, come se la ragione, nella sua maturità, non sapesse che distruggere le nostre affezioni a forza di sospetti, inganni, interpretazioni maligne; tutte le nostre amicizie ed i nostri appoggi ci mancano; attraversiamo delle conoscenze che si succedono rapidamente, lasciamo delle amicizie senza numero, usiamo la benevolenza dei nostri alleati, fiacchiamo la confidenza del nostro prossimo; ma c’è un punto al di la del quale non possiamo più abusare della sua indulgenza, ed è così che arriviamo al porto solitario della vecchiaia, per stancare, con le nostre innumerevoli miserie, la fedeltà che si fa un dovere religioso di servirci nella nostra decadenza. Là noi conosciamo che Dio ha sopravvissuto e resistito a tutto: Egli è l’amico di cui la fede non è mai stata in dubbio, l’alleato che il sospetto non ha potuto mai coinvolgere, Colui che ci ha amato di più, a quanto pare, man mano che vediamo il peggio … Tutti gli uomini ci hanno ingannato; coloro che sembravano dei santi sono mancati quando le nostre imperfezioni hanno pesato su di loro; essi ci hanno ferito, e la ferita era avvelenata; ma Lui è stato sempre fedele e vero e non si è mai allontanato da noi (FABER. Le Créateur et la créature, p. 77. 78).

ff. 13-15. – Mai bisogna perdere la speranza in Dio, qualunque cosa possa arrivare, e in qualunque stato ci si trovi. – Colui che ama Dio non è mai contento di ciò che fa: egli vuole fare sempre di più ed aggiungere incessantemente nuove lodi a quelle che ha già fatto (Dug.).– Io aggiungerei questa lode a tutte le vostre lodi: che la mia giustizia, se sono giusto, non è affatto la mia giustizia, ma la vostra giustizia depositata in me. In effetti siete Voi che giustificate l’empio (Rom. IV, 5). « Tutto il giorno, cioè in tutti i tempi, io celebrerò la vostra salvezza ». Che nessuno pretenda, con una ingiusta usurpazione, che debba a se stesso la propria salvezza. La salvezza viene dal Signore (S. Agost.). –  Qual è l’arte di scrivere che non ha conosciuto il Profeta, sulla bocca del quale la lode di Dio si trova tutto il giorno? I Giudei possiedono una certa letteratura; è ad essi, in effetti che noi riporteremo questa parola, ed è là che ne troveremo l’applicazione. L’orgoglio dei Giudei, che mettevano la loro fiducia nella loro forza e nella giustizia delle loro opere, si glorificava della Legge, e in questa Legge, i Giudei si glorificano, non della grazia, ma della lettera. In effetti la legge senza la grazia, non è altra cosa che una lettera; essa resta per condannare l’iniquità, ma non per dare la salvezza …  È dunque con ragione che il Profeta dice in seguito: « … Io entrerò nelle potenze del Signore », non nella mia potenza, ma in quelle del Signore. Altri si sono glorificati della propria potenza, che attribuivano alla lettera della Legge. Ecco perché essi non hanno conosciuto la grazia aggiunta alla lettera (S. Agost.). –  Uscire dalla propria debolezza per entrare nella forza del Signore; cosa, tutta la forza degli uomini riuniti, potrà contro colui che si è rifugiato in questo forte? È là, Signore che stando fuori dall’attendere a tutto ciò che il mondo e l’inferno stesso potrebbero intraprendere contro di me, io dimenticherò tutto il resto per non ricordarmi che della sola vostra giustizia (Dug.). Si, della sola vostra giustizia, perché così io non pensi alla mia. – La vostra giustizia sola mi libera, io non ho nulla di mio se non i miei peccati. Lungi da me quindi glorificarmi delle mie forze, e attenermi alla lettera. Che io respinga questa letteratura, vale a dire che gli uomini si glorifichino della lettera e che, nella loro follia, presumano criminalmente delle loro forze. Che io riprovi tali uomini ed entri nella potenza del Signore alfine di essere forte in ragione della mia debolezza (S. Agost.). –  L’anima che possiede Dio non vuole che Lui. « … Io entrerò nella potenza del Signore: Signore io non mi sovverrò che della vostra giustizia ». Quando si vuole entrare nelle grandezze e nelle potenze del mondo, si cade necessariamente nella molteplicità dei desideri; ma quando si penetra nelle potenze del Signore, ben presto ci si dimentica di tutto il resto, e non ci si occupa che dei mezzi per la crescita nella giustizia, per assicurarsi il possesso di un sì grande bene. È ciò che il Vangelo conferma, esortandoci a cercare innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia. Il regno è « potentias Domini », perché si lavora per acquisire la giustizia onde giungervi  (BOSSUET. Panég. de S. Franc. d’Assisi.). – A che vi servirà conoscere le cose del mondo, quando anche il mondo sarà passato? Nell’ultimo giorno non vi si domanderà ciò che avete saputo, ma ciò che avete fatto, « … e non c’è più scienza nell’inferno, verso il quale precipitate ». Cessate un vano lavoro, chiunque voi siate non abbiate a coltivare l’albero i cui frutti danno la morte. Lasciate la scienza che nutre l’orgoglio, la scienza che gonfia, per occuparvi unicamente di acquisire quella che rende umili e santi « … la carità che edifica ». Imparate ad umiliarvi, a conoscere il vostro niente e la vostra corruzione. Allora entrerete nelle potenze del Signore, Dio verrà verso di voi, vi illuminerà della sua luce, vi insegnerà, nel segreto del cuore, questa scienza meravigliosa di cui Gesù ha detto « … Io vi benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché avete nascosto queste cose ai saggi ed ai prudenti, e le avete rivelate ai piccoli » (Lam. Im.). – O Dio! « Io mi ricorderò della sola vostra giustizia »; ricevete tutti i pensieri che saranno il frutto di questo ricordo; che la vostra giustizia e la vostra verità brilli dappertutto; che io ami la vostra giustizia, e vi serva con un amore casto, cioè non con paura e pena, ma con amore della vostra giustizia (BOSSUET, Elev. XXIII, S. VI, E.).

III. 16-23.

ff. 16-18. – « Voi mi avete istruito fin dalla mia giovinezza »; ma dopo la giovinezza cosa è successo? All’inizio della vostra conversione, avete appreso che prima della vostra conversione non eravate un giusto; allora, rinnovato e cambiato nell’uomo nuovo, non ancora nella realtà, ma nella speranza, avete appreso che nulla di buono aveva preceduto la grazia in voi, e che siete stato convertito a Dio dalla grazia di Dio. Ma forse, direte voi ora come spesso si fa: lasciatemi ora, io avevo bisogno che mi lasciaste vedere la mia strada, ma questo mi è sufficiente; io non mi ingannerò. E Colui che vi ha mostrato la via vi dirà: non volete dunque che vi conduca? Ma se voi rispondete con orgoglio: no, mi è sufficiente, io camminerò da solo; Dio vi lascerà andare e, in seguito alla vostra debolezza, voi sarete nuovamente tratto in inganno. Ditegli dunque: « conducetemi, Signore, nella vostra via ed io camminerò nella vostra verità » (Ps. LXXXV, 11). Ora, la vostra entrata nella via, è la vostra giovinezza, il vostro rinnovamento è l’inizio della vostra fede … La via stessa è venuta a voi, e voi vi ci siete sicuramente stabilito, senza averlo in alcun modo meritato, poiché voi vi eravate ingannati fin là. Ma cosa! … dopo che siete entrati, voi vi dirigete da voi stessi? Colui che vi ha mostrato il cammino vi lascia a voi stessi? No, risponde il Profeta: voi mi avete istruito dalla mia giovinezza, « … ed io renderò pubbliche le vostre meraviglie fino al presente ». In effetti è una cosa meravigliosa che vi degniate ancora di condurmi, dopo avermi messo sulla strada, è una meraviglia (S. Agost.). – Dio, avendo preso cura di istruire il Profeta nella sua giovinezza, lo aveva continuamente illuminato con i suoi lumi. Era un impegno per lui celebrare continuamente le grandezze ed i benefici di questo Maestro interiore che gli aveva sempre parlato: ma coloro che si ingannano dalla giovinezza e che non aprono gli occhi alla luce divina che nell’età matura o in vecchiaia, sono meno obbligati di Davide nel consacrare il resto della loro vita alla gloria di Dio? « Ah! Diceva eloquentemente san Pietro Crisologo, ammiriamo la misericordia di Gesù-Cristo, che non ha destinato che un giorno per giudicarci, e che ci accorda tutto il tempo della nostra vita per fare penitenza. Se l’infanzia e la giovinezza ce ne sottraggono una parte, che la vecchiaia almeno corregga queste deviazioni; che ci si penta dei passati peccati, quando non si è più in grado di commetterne; che abbandoni le sue cattive abitudini quando le forze lo abbandonano; che faccia di necessità virtù, e che l’uomo infine muoia penitente, dopo aver vissuto per tanto tempo colpevole » (Berthier). – Non si deve desiderare di vivere, se non per meglio conoscere Dio, e per farlo conoscere alle generazioni che ci seguono ed annunciar loro la potenza del suo braccio divino. La potenza che non sia accompagnata dalla giustizia è perniciosa; la giustizia che non sia sostenuta dalla potenza, è estremamente debole, entrambe si incontrano miracolosamente in Dio. Bisogna far brillare la prima fin nei luoghi più elevati, vale a dire nei cieli, per le grandi cose fatte, creando gli spiriti celesti con una sì alta perfezione, e la seconda precipitando da questi luoghi più elevati un gran numero tra i suoi angeli, a causa del loro orgoglio! « … O Dio, chi è simile a Voi? » Parole di fuoco che nella bocca di S. Michele precipitarono lucifero e gli angeli suoi complici dal più alto dei cieli negli abissi più profondi.

ff. 19, 20. – È il sentimento di un’anima che si trova alla fine della sua carriera, e che entra nel riposo del Signore. Quali tribolazioni ha vissuto durante questa vita mortale! Quali tempeste hanno turbato il suo riposo! Quali pericoli ha corso su questo mare tempestoso! Infine la riceve nel suo seno, gli rende la vita, la trae fuori da questo abisso di male. È impossibile ad un’anima ancora legata agli organi del corpo, apprezzare i sentimenti che nascono da questo primo momento di libertà. « … Noi morremo per cominciare a vivere », dice S. Agostino  è veramente la vita che succede a questi stati di morte in cui siamo sulla terra. « Voi vi siete voltato verso di me, dice il Profeta, mi avete reso la vita ». Occorre che Gesù-Cristo si volga anche verso di noi, per liberarci dalle tribolazioni che ci agitano in questo mondo (Berthier).

ff. 21-23. –  Espressioni differenti che ci fanno comprendere la santa inquietudine di un’anima giusta per testimoniare a Dio la sua riconoscenza. Dio si diletta particolarmente nel nome di Santo. Egli si chiama spesso « il santo di Israele »; Egli vuole che la sua santità sia il motivo, il principio della nostra! « … Siate santi, perché Io sono santo », dice il Signore (BOSSUET. Elev. I, S. 2, El.). – Le lodi esteriori che si danno a Dio, affinché Gli siano gradite, esse devono avere per principio la fede e la carità che sono nel cuore. La lingua medita la giustizia di Dio, quando ciò che proferisce è il frutto della meditazione del cuore (Dug.).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI (… CON CAZZUOLA E GREMBIULINO) DI TORNO: S.S. LEONE XII – “QUO GRAVIORA”

Ancora una volta il Pontefice regnante, S.S. Leone XII, è costretto a scomunicare gli aderenti alle sette malefiche e maledette, che, sotto il pretesto delle riforme politiche o della filantropia umanitaria, hanno come obiettivo principale la lotta alla Chiesa Cattolica, in particolare nella figura del Santo Padre, il Vicario di Gesù Cristo, Colui che ha sconfitto e distrutto il regno che lucifero, loro padre di adozione [col nome di baphomet, signore dell’universo] aveva stabilito sulla terra a perdizione del genere umano. Il Sommo Pontefice rinnova le scomuniche e riporta addirittura i testi integrali dei precedenti documenti Apostolici dei Papi antecedenti. Tremende sono le espressioni che utilizza il successore di S. Pietro nel confermare le condanne dei suoi predecessori « … Noi sotto le stesse pene comminate nelle lettere dei Nostri Predecessori che abbiamo riportato in questa Nostra Costituzione, e che espressamente confermiamo, in perpetuo proibiamo tutte le società occulte (qualunque sia il loro nome), tanto quelle ora esistenti, quanto quelle che forse si costituiranno in seguito e che si propongono le azioni sopra ricordate contro la Chiesa e le supreme potestà civili … » – « …. I fedeli debbono assolutamente astenersi dalle società stesse, dalle loro riunioni, conferenze, aggregazioni o conventicole sotto pena di scomunica in cui incorrono sull’istante tutti i contravventori sopra descritti senza alcuna dichiarazione; dalla scomunica nessuno potrà venire assolto se non da Noi o dal Romano Pontefice pro tempore, salvo che si trovi in punto di morte. (….) Soprattutto poi condanniamo risolutamente e dichiariamo assolutamente vano l’empio e scellerato giuramento che vincola gli adepti di quelle sette a non rivelare mai ad alcuno tutto ciò che riguarda le sette medesime e a punire con la morte tutti i compagni che si fanno delatori presso i superiori, sia Ecclesiastici, sia Laici… ». Leggendo queste poche righe, praticamente oggi, per tale motivo, è scomunicato pressoché tutto l’orbe terracqueo, dal mondo politico, finanziario, giornalistico, a quello artistico, scientifico, letterario e … dulcis in fundo: finto-ecclesiastico … modernista e pseudo tradizionalista ben saldato alle matrici ideologiche e dottrinali satanico-massoniche. E poi, dove trovano il Papa “vero” o un suo vero delegato che rimetta la scomunica “latae sententiae” comminata loro ipso facto? Meglio leggere attentamente il documento e pregare – il pusillus grex – per questi scellerati, non tanto per quello che di ignobile e vergognoso compiono in occulto nel nostro mondo, ma per quello a cui sono destinati nella vita eterna, e per la figuraccia mortale che faranno al giudizio universale, quando i loro inganni, le loro prevaricazioni, le usurpazioni, le trappole spirituali e materiali, gli attentati, i misfatti, le violenze di ogni tipo, gli innumerevoli omicidi, saranno svelati agli occhi di tutti, dei tanti che credevano in questi uomini ritenendoli “eroi della patria”, benefattori dell’umanità, modelli sociali, culturali e addirittura spirituali … Signore perdona loro, perché non sanno quello che fanno … offriamoci ostie di espiazione per le offese continue a Dio, al suo Cristo, alla sua Chiesa, ai suoi Santi, alla sua dottrina.

Bolla

Quo graviora

Leone XII

Roma, 13 marzo 1825

1. Quanto più gravi sono le sciagure che sovrastano il gregge di Cristo Dio e Salvatore nostro, tanta maggiore sollecitudine devono usare, per rimuoverle, i Romani Pontefici, ai quali sono stati affidati il potere e l’impegno di pascere e di governare quel gregge in nome del Beato Pietro, principe degli Apostoli. Compete infatti ad essi, come a coloro che sono posti nel più alto osservatorio della Chiesa, lo scorgere più da lontano le insidie che i nemici del nome cristiano ordiscono per distruggere la Chiesa di Cristo, senza che mai possano conseguire tale scopo; ad essi compete non solo indicare e rivelare le stesse insidie ai fedeli, perché se ne guardino, ma anche, con la propria autorità, stornarle e rimuoverle. I Romani Pontefici Nostri Predecessori compresero quale gravoso incarico fosse loro affidato; perciò si imposero di vigilare sempre come buoni pastori. Con le esortazioni, gl’insegnamenti, i decreti e dedicando la stessa vita al loro gregge, ebbero cura di proibire e di distruggere totalmente le sette che minacciavano l’estrema rovina della Chiesa. Né la memoria di questo impegno pontificio può essere desunta soltanto dagli antichi annali ecclesiastici: lo si evince chiaramente dalle azioni compiute dai Romani Pontefici dell’età nostra e dei nostri Padri per opporsi alle sette clandestine di uomini nemici di Cristo. Infatti, non appena Clemente XII, Nostro Predecessore, si avvide che di giorno in giorno si rafforzava e acquistava nuova consistenza la setta dei Liberi Muratori, ossia dei Francs Maçons (o chiamata anche in altro modo), che per molti validi motivi egli aveva considerata non solo sospetta ma altresì implacabile nemica della Chiesa Cattolica, la condannò con una limpida Costituzione che comincia con le parole In eminenti, pubblicata il 28 aprile 1738, il cui testo è il seguente:

2. “Clemente Vescovo, servo dei servi di Dio. A tutti i fedeli, salute e Apostolica Benedizione.

Posti per volere della clemenza Divina, benché indegni, nell’eminente Sede dell’Apostolato, onde adempiere al debito della Pastorale provvidenza affidato a Noi, con assidua diligenza e con premura, per quanto Ci è concesso dal Cielo, abbiamo rivolto il pensiero a quelle cose per mezzo delle quali – chiuso l’adito agli errori ed ai vizi – si conservi principalmente l’integrità della Religione Ortodossa, e in questi tempi difficilissimi vengano allontanati da tutto il mondo Cattolico i pericoli dei disordini. – Già per la stessa pubblica fama Ci è noto che si estendono in ogni direzione, e di giorno in giorno si avvalorano, alcune società, unioni, riunioni, adunanze, conventicole o aggregazioni comunemente chiamate dei Liberi Muratori o des Francs Maçons, o con altre denominazioni chiamate a seconda della varietà delle lingue, nelle quali con stretta e segreta alleanza, secondo loro Leggi e Statuti, si uniscono tra di loro uomini di qualunque religione e setta, contenti di una certa affettata apparenza di naturale onestà. Tali Società, con stretto giuramento preso sulle Sacre Scritture, e con esagerazione di gravi pene, sono obbligate a mantenere un inviolabile silenzio intorno alle cose che esse compiono segretamente. Ma essendo natura del delitto il manifestarsi da se stesso e generare il rumore che lo denuncia, ne deriva che le predette società o conventicole hanno prodotto nelle menti dei fedeli tale sospetto, secondo il quale per gli uomini onesti e prudenti l’iscriversi a quelle aggregazioni è lo stesso che macchiarsi dell’infamia di malvagità e di perversione: se non operassero iniquamente, non odierebbero tanto decisamente la luce. Tale fama è cresciuta in modo così considerevole, che dette Società sono già state proscritte dai Principi secolari in molti Paesi come nemiche dei Regni, e sono state provvidamente eliminate. Noi pertanto, meditando sui gravissimi danni che per lo più tali Società o Conventicole recano non solo alla tranquillità della temporale Repubblica, ma anche alla salute spirituale delle anime, in quanto non si accordano in alcun modo né con le Leggi Civili né con quelle Canoniche; ammaestrati dalle Divine parole a vigilare giorno e notte, come servo fedele e prudente preposto alla famiglia del Signore, affinché questa razza di uomini non saccheggi la casa come ladri, né come le volpi rovini la vigna; affinché, cioè, non corrompa i cuori dei semplici né ferisca occultamente gl’innocenti; allo scopo di chiudere la strada che, se aperta, potrebbe impunemente consentire dei delitti; per altri giusti e razionali motivi a Noi noti, con il consiglio di alcuni Venerabili Nostri Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa, e ancora motu proprio, con sicura scienza, matura deliberazione e con la pienezza della Nostra Apostolica potestà, decretiamo doversi condannare e proibire, come con la presente Nostra Costituzione, da valere in perpetuo, condanniamo e proibiamo le predette società, unioni, riunioni, adunanze, aggregazioni o conventicole dei Liberi Muratori o des Francs Maçons, o con qualunque altro nome chiamate. Pertanto, severamente, ed in virtù di santa obbedienza, comandiamo a tutti ed ai singoli fedeli di qualunque stato, grado, condizione, ordine, dignità o preminenza, sia Laici, sia Chierici, tanto Secolari quanto Regolari, ancorché degni di speciale ed individuale menzione e citazione, che nessuno ardisca o presuma sotto qualunque pretesto o apparenza di istituire, propagare o favorire le predette Società dei Liberi Muratori o des Francs Maçons o altrimenti denominate; di ospitarle e nasconderle nelle proprie case o altrove; di iscriversi ed aggregarsi ad esse; di procurare loro mezzi, facoltà o possibilità di convocarsi in qualche luogo; di somministrare loro qualche cosa od anche di prestare in qualunque modo consiglio, aiuto o favore, palesemente o in segreto, direttamente o indirettamente, in proprio o per altri, nonché di esortare, indurre, provocare o persuadere altri ad iscriversi o ad intervenire a simili Società, od in qualunque modo a giovare e a favorire le medesime. Anzi, ognuno debba assolutamente astenersi dalle dette società, unioni, riunioni, adunanze, aggregazioni o conventicole, sotto pena di scomunica per tutti i contravventori, come sopra, da incorrersi ipso facto, e senza alcuna dichiarazione: scomunica dalla quale nessuno possa essere assolto, se non in punto di morte, da altri all’infuori del Romano Pontefice pro tempore. – Vogliamo inoltre e comandiamo che tanto i Vescovi, i Prelati Superiori e gli altri Ordinari dei luoghi, quanto gl’Inquisitori dell’eretica malvagità deputati in qualsiasi luogo, procedano e facciano inquisizione contro i trasgressori di qualunque stato, grado, condizione, ordine, dignità o preminenza, e che reprimano e puniscano i medesimi con le stesse pene con le quali colpiscono i sospetti di eresia. Pertanto concediamo e attribuiamo libera facoltà ad essi, e a ciascuno di essi, di procedere e di inquisire contro i suddetti trasgressori, e di imprigionarli e punirli con le debite pene, invocando anche, se sarà necessario, l’aiuto del braccio secolare. Vogliamo poi che alle copie della presente, ancorché stampate, sottoscritte di mano di qualche pubblico Notaio e munite del sigillo di persona costituita in dignità Ecclesiastica, sia prestata la stessa fede che si presterebbe alla Lettera se fosse esibita o mostrata nell’originale. A nessuno dunque, assolutamente, sia permesso violare, o con temerario ardimento contraddire questa pagina della Nostra dichiarazione, condanna, comandamento, proibizione ed interdizione. Se qualcuno osasse tanto, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio Onnipotente e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, nell’anno dell’Incarnazione del Signore 1738, il 28 aprile, nell’anno ottavo del Nostro Pontificato”.

3. Questi provvedimenti, tuttavia, non apparvero sufficienti a Benedetto XIV, altro Nostro Predecessore di veneranda memoria. Nei discorsi di molti era diffusa la convinzione che la pena della scomunica irrogata nella lettera del defunto Clemente XII fosse inoperante perché Benedetto non aveva confermato quella lettera. In verità, era assurdo affermare che le leggi dei Pontefici precedenti diventano obsolete qualora non siano espressamente approvate dai Successori; inoltre era evidente che da Benedetto, più di una volta, era stata ratificata la Costituzione di Clemente. Tuttavia Benedetto decise di sottrarre anche questo cavillo dalle mani dei settari, pubblicando il 18 marzo 1751 una nuova Costituzione che comincia con la parola Providas. In essa riportò, parola per parola, la Costituzione di Clemente e la confermò, come suol dirsi, in forma specifica, che è considerata la forma più ampia e più efficace fra tutte. Questo è il testo della Costituzione di Benedetto:

4. “Il Vescovo Benedetto, servo dei servi di Dio. A perpetua memoria.

Giudichiamo doveroso, con un nuovo intervento della Nostra autorità, sostenere e confermare – in quanto lo richiedono giusti e gravi motivi – le provvide leggi e le sanzioni dei Romani Pontefici Nostri Predecessori: non soltanto quelle leggi e quelle sanzioni il cui vigore o per il processo del tempo o per la noncuranza degli uomini temiamo si possa rallentare od estinguere, ma anche quelle che recentemente hanno ottenuto forza e piena validità. – Di fatto Clemente XII, Nostro Predecessore di felice memoria, con propria Lettera apostolica del 28 aprile dell’anno dell’Incarnazione del Signore 1738, anno ottavo del suo Pontificato – Lettera diretta a tutti i fedeli e che comincia In eminenti – condannò per sempre e proibì alcune società, unioni, riunioni, adunanze, conventicole o aggregazioni volgarmente chiamate dei Liberi Muratori o des Francs Maçons, o diversamente denominate, già allora largamente diffuse in certi Paesi e che ora sempre più aumentano. Egli vietò a tutti e ai singoli Cristiani (sotto pena di scomunica da incorrersi ipso facto senza alcuna dichiarazione, dalla quale nessuno potesse essere assolto da altri, se non in punto di morte, all’infuori del Romano Pontefice pro tempore) di tentare o ardire di entrare in siffatte Società, propagarle o prestare loro favore o ricetto, occultarle, iscriversi ad esse, aggregarsi o intervenirvi, ed altro, come nella stessa Lettera più largamente e più ampiamente è contenuto. Eccone il testo.

[Il testo della Costituzione In eminenti di Clemente XII è pubblicata integralmente nelle pagine precedenti di questa stessa Bolla].

Ma poiché, per quanto Ci è stato riferito, alcuni non hanno avuto difficoltà di affermare e diffondere pubblicamente che la detta pena di scomunica imposta dal Nostro Predecessore non è più operante perché la relativa Costituzione non è poi stata da Noi confermata, quasi che sia necessaria, perché le Apostoliche Costituzioni mantengano validità, la conferma esplicita del successore; ed essendo stato suggerito a Noi, da parte di alcune persone pie e timorate di Dio, che sarebbe assai utile eliminare tutti i sotterfugi dei calunniatori e dichiarare l’uniformità dell’animo Nostro con l’intenzione e la volontà dello stesso Predecessore, aggiungendo alla sua Costituzione il nuovo voto della Nostra conferma; Noi certamente, fino ad ora, quando abbiamo benignamente concesso l’assoluzione dalla incorsa scomunica, sovente prima e principalmente nel passato anno del Giubileo, a molti fedeli veramente pentiti e dolenti di avere trasgredito le leggi della stessa Costituzione e che assicuravano di cuore di allontanarsi completamente da simili società e conventicole, e che per l’avvenire non vi sarebbero mai tornati; o quando accordammo ai Penitenzieri da Noi delegati la facoltà di impartire l’assoluzione a Nostro nome e con la Nostra autorità a coloro che ricorressero ai Penitenzieri stessi; e quando con sollecita vigilanza non tralasciammo di provvedere a che dai competenti Giudici e Tribunali si procedesse in proporzione del delitto compiuto contro i violatori della Costituzione stessa, il che fu effettivamente più volte eseguito: abbiamo certamente fornito argomenti non solo probabili ma del tutto evidenti ed indubitabili, attraverso i quali si sarebbero dovute comprendere le disposizioni dell’animo Nostro e la ferma e deliberata volontà consenzienti con la censura imposta dal predetto Clemente Predecessore. Se un’opinione contraria si divulgasse intorno a Noi, Noi potremmo sicuramente disprezzarla e rimettere la Nostra causa al giusto giudizio di Dio Onnipotente, pronunciando quelle parole che un tempo si recitavano nel corso delle sacre funzioni: “Concedi, o Signore, te ne preghiamo, che Noi non curiamo le calunnie degli animi perversi, ma conculcata la perversità medesima supplichiamo che Tu non permetta che siamo afflitti dalle ingiuste maldicenze o avviluppati dalle astute adulazioni, ma che amiamo piuttosto ciò che Tu comandi”. Così riporta un antico Messale attribuito a San Gelasio, Nostro Predecessore, e che dal Venerabile Servo di Dio il Cardinale Giuseppe Maria Tommasi fu inserito nella Messa che s’intitola Contro i maldicenti. – Tuttavia, affinché non si potesse dire che Noi avevamo imprudentemente omesso qualche cosa, al fine di eliminare agevolmente i pretesti alle menzognere calunnie e chiudere loro la bocca; udito prima il consiglio di alcuni Venerabili Nostri Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa, abbiamo decretato di confermare la stessa Costituzione del Nostro Predecessore, parola per parola, come sopra riportato in forma specifica, la quale è considerata come la più ampia ed efficace di tutte: la confermiamo, convalidiamo, rinnoviamo e vogliamo e decretiamo che abbia perpetua forza ed efficacia per Nostra sicura scienza, nella pienezza della Nostra Apostolica autorità, secondo il tenore della medesima Costituzione, in tutto e per tutto, come se fosse stata promulgata con Nostro motu proprio e con la Nostra autorità, e fosse stata pubblicata per la prima volta da Noi. – Per la verità, fra i gravissimi motivi delle predette proibizioni e condanna esposti nella sopra riportata Costituzione ve n’è uno, in forza del quale in tali società e conventicole possano unirsi vicendevolmente uomini di qualsiasi religione e setta; è chiaro quale danno si possa recare alla purezza della Religione Cattolica. Il secondo motivo è la stretta e impenetrabile promessa di segreto, in forza del quale si nasconde ciò che si fa in queste adunanze, cui meritamente si può applicare quella sentenza che Cecilio Natale, presso Minucio Felice, addusse in una causa ben diversa: “Le cose oneste amano sempre la pubblica luce; le scelleratezze sono segrete”. Il terzo motivo è il giuramento con il quale gli iscritti s’impegnano ad osservare inviolabilmente detto segreto, quasi che sia lecito a qualcuno, interrogato da legittimo potere, con la scusa di qualche promessa o giuramento di sottrarsi all’obbligo di confessare tutto ciò che si ricerca, per conoscere se in tali conventicole si faccia qualche cosa contraria alla stabilità e alle leggi della Religione e della Repubblica. Il quarto motivo è che queste Società si oppongono alle Sanzioni Civili non meno che alle Canoniche, tenuto conto, appunto, che ai sensi del Diritto Civile si vietano tutti i Collegi e le adunanze formati senza la pubblica autorità, come si legge nelle Pandette , e nella celebre lettera di C. Plinio Cecilio, il quale riferisce che fu proibito per suo Editto, giusta il comandamento dell’Imperatore, che si tenessero le Eterie, cioè che potessero esistere e riunirsi Società e adunanze senza l’autorizzazione del Principe. Il quinto motivo è che in molti Paesi le citate società e aggregazioni sono già state proscritte e bandite con leggi dei Principi secolari. Infine, l’ultimo motivo è che presso gli uomini prudenti ed onesti si biasimavano le predette società e aggregazioni: a loro giudizio chiunque si iscriveva ad esse incorreva nella taccia di pravità e perversione.

Infine lo stesso Predecessore nella sopra riportata Costituzione esorta i Vescovi, i Superiori Prelati e gli altri Ordinari dei luoghi a non trascurare d’invocare l’aiuto del braccio secolare qualora occorra per l’esecuzione di tale disposizione.

Tutte queste cose, anche singolarmente, non solo si approvano e si confermano da Noi, ma anche si raccomandano e si ingiungono ai Superiori Ecclesiastici; ma Noi stessi, per debito della Apostolica sollecitudine, con la presente Nostra Lettera invochiamo e con vivo affetto ricerchiamo il soccorso e l’aiuto dei Principi Cattolici e dei secolari Poteri – essendo gli stessi Principi Supremi e i titolari del potere eletti da Dio quali difensori della fede e protettori della Chiesa – affinché sia loro cura adoperarsi nel modo più efficace perché alle Apostoliche Costituzioni si prestino il dovuto ossequio e la più assoluta obbedienza. Ciò riportarono alla loro memoria i Padri del Concilio Tridentino, Sess. 25, cap. 20, e molto prima l’aveva egregiamente dichiarato l’Imperatore Carlo Magno nel Tit. I. cap. 2, dei suoi Capitolati nei quali, dopo aver comandato a tutti i suoi sudditi l’osservanza delle Sanzioni Ecclesiastiche, aggiunse queste parole: “In nessun modo possiamo conoscere come possano essere fedeli a noi coloro che si mostrano infedeli a Dio e disubbidienti ai suoi sacerdoti”. Conseguentemente impose a tutti i Presidenti e ai Ministri delle sue province che obbligassero tutti e i singoli a prestare la dovuta obbedienza alle leggi della Chiesa. Inoltre comminò gravissime pene contro coloro che trascurassero di fare ciò, aggiungendo fra l’altro: “Coloro poi che in queste cose (il che non avvenga) saranno trovati negligenti e trasgressori, sappiano che non conserveranno gli onori nel nostro Impero, ancorché siano nostri figlioli; né avranno posto nel Palazzo; né con noi né coi nostri fedeli avranno società o comunanza, ma piuttosto pagheranno la pena nelle angustie e nelle ristrettezze”.

Vogliamo poi che alle copie della presente, ancorché stampate, sottoscritte di mano di qualche pubblico Notaio e munite del sigillo di persona costituita in dignità Ecclesiastica, sia prestata la stessa fede che si presterebbe alla Lettera se fosse esibita o mostrata nell’originale.

A nessuno dunque, assolutamente, sia permesso violare, o con temerario ardimento contraddire questo testo della Nostra conferma, innovazione, approvazione, comandamento, invocazione, richiesta, decreto e volontà. Se qualcuno osasse tanto, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio Onnipotente e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 18 marzo dell’anno dell’Incarnazione del Signore 1751, undicesimo anno del Nostro Pontificato”.

5. Oh, se i potenti di allora avessero preso in considerazione questi decreti, come lo richiedeva la salvezza della Chiesa e dello Stato! Oh, se si fossero persuasi di dover vedere nei Romani Pontefici Successori del Beato Pietro non solo i pastori e i maestri della Chiesa universale, ma anche i valenti difensori della loro dignità e gli attenti indicatori degli imminenti pericoli! Oh, se si fossero serviti del loro potere per sradicare le sette i cui pestiferi disegni erano stati rivelati ad essi dalla Sede Apostolica! Già da quel tempo avrebbero posto termine alla vicenda. Ma siccome, sia per l’inganno dei settari che occultavano astutamente le loro tresche, sia per inconsulti suggerimenti di taluni, avevano divisato di trascurare questa questione, o almeno di trattarla con noncuranza, da quelle antiche sette massoniche, sempre attive, molte altre sono germinate, assai peggiori e più audaci di quelle. Sembrò che quelle sette fossero tutte comprese in quella dei Carbonari, che era considerata in Italia e in alcuni altri Paesi la più importante fra tutte e che, variamente ramificata con nomi appena diversi, si diede a combattere aspramente la Religione Cattolica e qualunque suprema, legittima e civile potestà. Per liberare da questa sciagura l’Italia, gli altri Paesi e anzi lo stesso Stato Pontificio (in cui, soppresso per qualche tempo il governo Pontificio, quella setta si era introdotta insieme con gl’invasori stranieri) Pio VII di felice memoria, a cui Noi siamo succeduti, con una Costituzione che comincia con le parole Ecclesiam a Jesu Christopubblicata il 13 settembre 1821 condannò con gravissime pene la setta dei Carbonari, comunque fosse denominata a seconda della diversità dei luoghi, degli uomini e degli idiomi. Abbiamo pensato di includere in questa Nostra lettera anche il testo di essa, che recita come segue.

6. Il Vescovo Pio, servo dei servi di Dio. A perpetua memoria. – La Chiesa fondata da Gesù Cristo Salvatore Nostro sopra solida pietra (e contro di essa Cristo promise che non sarebbero mai prevalse le porte dell’inferno) è stata assalita così spesso e da tanti temibili nemici, che se non si frapponesse quella promessa divina che non può venir meno, vi sarebbe da temere che essa potesse soccombere, circuita dalla forza o dai vizi o dall’astuzia. Invero, ciò che accadde in altri tempi si ripete anche e soprattutto in questa nostra luttuosa età che sembra quell’ultimo tempo preannunciato in passato dall’Apostolo: “Verranno gli ingannatori che, secondo i loro desideri, cammineranno nella via dell’empietà” (Gd 18). Infatti nessuno ignora quanti scellerati, in questi tempi difficilissimi, si siano coalizzati contro il Signore e contro Cristo Figlio Suo; costoro si adoperano soprattutto (sebbene con vani sforzi) a travolgere e a sovvertire la stessa Chiesa, ingannando i fedeli (Col II, 8) con una vana e fallace filosofia e sottraendoli alla dottrina della Chiesa. Per raggiungere più facilmente questo scopo, molti di costoro organizzarono occulti convegni e sette clandestine con cui speravano in futuro di trascinare più facilmente numerosi individui a essere complici della loro congiura e della loro iniquità. – Già da tempo questa Santa Sede, scoperte tali sette, lanciò l’allarme contro di esse con alta e libera voce, e rivelò le loro trame contro la Religione e contro la stessa società civile. Già da tempo sollecitò la vigilanza di tutti perché si guardassero in modo che queste sette non osassero attuare i loro scellerati propositi. È tuttavia motivo di rammarico che all’impegno di questa sede Apostolica non abbia corrisposto l’esito cui essa mirava e che quegli uomini scellerati non abbiano desistito dalla congiura intrapresa, per cui ne sono derivati infine quei mali che Noi stessi avevamo previsto. Anzi, quegli uomini, la cui iattanza sempre si accresce, hanno perfino osato creare nuove società segrete.

A questo punto occorre ricordare una società nata di recente e diffusa in lungo e in largo per l’Italia e in altre regioni: per quanto sia divisa in numerose sette e per quanto assuma talvolta denominazioni diverse e distinte tra loro, in ragione della loro varietà, tuttavia essa è una sola di fatto nella comunanza delle dottrine e dei delitti e nel patto che fu stabilito; essa viene chiamata solitamente dei Carbonari. Costoro simulano un singolare rispetto e un certo straordinario zelo verso la Religione Cattolica e verso la persona e l’insegnamento di Gesù Cristo Nostro Salvatore, che talvolta osano sacrilegamente chiamare Rettore e grande Maestro della loro società. Ma questi discorsi, che sembrano ammorbiditi con l’olio, non sono altro che dardi scoccati con più sicurezza da uomini astuti, per ferire i meno cauti; quegli uomini si presentano in vesti di agnello ma nell’intimo sono lupi rapaci. – Anche se mancassero altri argomenti, i seguenti persuadono a sufficienza che non si deve prestare alcun credito alle loro parole, cioè: il severissimo giuramento con cui, imitando in gran parte gli antichi Priscillanisti, promettono di non rivelare mai e in nessun caso, a coloro che non sono iscritti alla società, cosa alcuna che riguardi la stessa società, né di comunicare a coloro che si trovano nei gradi inferiori cosa alcuna che riguardi i gradi superiori; inoltre, le segrete e illegali riunioni che essi convocano seguendo l’usanza di molti eretici e la cooptazione di uomini d’ogni religione e di ogni setta nella loro società. – Non occorrono dunque congetture e argomenti per giudicare le loro affermazioni, come più sopra si è detto. I libri da loro pubblicati (nei quali si descrive il metodo che si suole seguire nelle riunioni dei gradi superiori), i loro catechismi, gli statuti e gli altri gravissimi, autentici documenti rivolti a ispirare fiducia, e le testimonianze di coloro che, avendo abbandonato la società cui prima appartenevano, ne rivelarono ai legittimi giudici gli errori e le frodi, dimostrano apertamente che i Carbonari mirano soprattutto a dare piena licenza a chiunque di inventare col proprio ingegno e con le proprie opinioni una religione da professare, introducendo quindi verso la Religione quella indifferenza di cui a malapena si può immaginare qualcosa di più pernicioso. Nel profanare e nel contaminare la passione di Gesù Cristo con certe loro nefande cerimonie; nel disprezzare i Sacramenti della Chiesa (ai quali sembrano sostituirne altri nuovi da loro inventati con suprema empietà) e gli stessi Misteri della Religione Cattolica; nel sovvertire questa Sede Apostolica (nella quale risiede da sempre il primato della Cattedra Apostolica) sono animati da un odio particolare e meditano propositi funesti e perniciosi. – Non meno scellerate (come risulta dagli stessi documenti) sono le norme di comportamento che la società dei Carbonari insegna, sebbene impudentemente si vanti di esigere dai suoi seguaci che coltivino e pratichino la carità e ogni altra virtù, e che si astengano scrupolosamente da ogni vizio. Pertanto essa favorisce senza alcun pudore le voluttà più sfrenate; insegna che è lecito uccidere coloro che non rispettarono il giuramento di mantenere il segreto, cui si è fatto cenno più sopra; e sebbene Pietro principe degli Apostoli prescriva che i Cristiani “siano soggetti, in nome di Dio, ad ogni umana creatura o al Re come preminente o ai Capi come da Lui mandati, ecc.” (1Pt II,13); sebbene l’Apostolo Paolo ordini che “ogni anima sia soggetta alle potestà più elevate”, tuttavia quella società insegna che non costituisce reato fomentare ribellioni e spogliare del loro potere i Re e gli altri Capi, che per somma ingiuria osa indifferentemente chiamare tiranni (Rm III,14).

Questi ed altri sono i dogmi e i precetti di questa società, da cui ebbero origine quei delitti recentemente commessi dai Carbonari, che tanto lutto hanno recato a oneste e pie persone. Noi, dunque, che siamo stati designati come veggenti di quella casa d’Israele che è la Santa Chiesa e che per il Nostro ufficio pastorale dobbiamo evitare che il gregge del Signore a Noi divinamente affidato patisca alcun danno, pensiamo che in una contingenza così grave non possiamo esimerci dall’impedire i delittuosi tentativi di questi uomini. Siamo mossi anche dall’esempio di Clemente XII e di Benedetto XIV di felice memoria, Nostri Predecessori: il primo, il 28 aprile 1738, con la Costituzione “In eminenti”, e il secondo, il 18 maggio 1751, con la Costituzione “Providas”, condannarono e proibirono le società dei Liberi Muratori, ossia dei Francs Maçons, o chiamate con qualunque altro nome, secondo la varietà delle regioni e degli idiomi; si deve ritenere che di tali società sia forse una propaggine, o certo un’imitazione, questa società dei Carbonari. – E sebbene con due editti promulgati dalla Nostra Segretaria di Stato abbiamo già severamente proscritta questa società, seguendo tuttavia i ricordati Nostri Predecessori pensiamo di decretare, in modo anche più solenne, gravi pene contro questa società, soprattutto perché i Carbonari pretendono, erroneamente, di non essere compresi nelle due Costituzioni di Clemente XII e di Benedetto XIV né di essere soggetti alle sentenze e alle sanzioni in esse previste. – Consultata dunque una scelta Congregazione di Venerabili Fratelli Nostri Cardinali di Santa Romana Chiesa, con il loro consiglio ed anche per motu proprio, per certa dottrina e per meditata Nostra deliberazione, nella pienezza dell’autorità apostolica abbiamo stabilito e decretato di condannare e di proibire la predetta società dei Carbonari, o con qualunque altro nome chiamata, le sue riunioni, assemblee, conferenze, aggregazioni, conventicole, così come con il presente Nostro atto la condanniamo e proibiamo.

Pertanto a tutti e a ciascuno dei fedeli di Cristo di qualunque stato, grado, condizione, ordine, dignità e preminenza, sia laici sia chierici, tanto secolari che regolari, degni anche di specifica, individuale ed esplicita menzione, ordiniamo rigorosamente e in virtù della santa obbedienza che nessuno, sotto qualsivoglia pretesto o ricercato motivo, osi o pretenda di fondare, diffondere o favorire, e nella sua casa o dimora o altrove accogliere e nascondere la predetta società dei Carbonari, o altrimenti detta, come pure di iscriversi od aggregarsi ad essa o di intervenire a qualunque grado di essa o di offrire la facoltà e l’opportunità che essa si convochi in qualche luogo o di elargire qualcosa ad essa o in altro modo prestare consiglio, aiuto o favore palese od occulto, diretto o indiretto, per essa stessa o per altri; e ancora di esortare, indurre, provocare o persuadere altri ad iscriversi, ad aggregarsi o a intervenire in tale società o in qualunque grado di essa o di giovarle o favorirla comunque. I fedeli debbono assolutamente astenersi dalla società stessa, dalle sue adunanze, riunioni, aggregazioni o conventicole sotto pena di scomunica in cui incorrono sull’istante tutti i contravventori sopra indicati, senza alcun’altra dichiarazione; dalla scomunica nessuno potrà venire assolto se non da Noi o dal Romano Pontefice pro tempore, salvo che si trovi in punto di morte. – Inoltre prescriviamo a tutti, sotto la stessa pena di scomunica, riservata a Noi e ai Romani Pontefici Nostri Successori, l’obbligo di denunciare ai Vescovi, o ad altri competenti, tutti coloro che sappiano aver aderito a questa società o che si sono macchiati di alcuno dei delitti più sopra ricordati. – Infine, per allontanare con più efficacia ogni pericolo di errore, condanniamo e proscriviamo tutti i cosiddetti catechismi e libri dei Carbonari, ove costoro descrivono ciò che si è soliti fare nelle loro riunioni; così pure i loro statuti, i codici e tutti i libri scritti in loro difesa, sia stampati, sia manoscritti. A tutti i fedeli, sotto la stessa pena di scomunica maggiore parimenti riservata, proibiamo i libri suddetti, o la lettura o la conservazione di alcuno di essi; e ordiniamo che quei libri siano consegnati senza eccezione agli Ordinari del luogo o ad altri cui spetti il diritto di riceverli. – Vogliamo inoltre che ai transunti, anche stampati, della presente Nostra lettera, sottoscritti per mano di qualche pubblico Notaio e muniti del sigillo di persona investita di dignità ecclesiastica, si presti quella stessa fede che si concederebbe alla lettera originale se fosse presentata o mostrata. – Perciò a nessuno sia lecito strappare o contraddire con temeraria arroganza questo testo della Nostra dichiarazione, condanna, ordine, proibizione e interdetto. Se qualcuno osasse tentare ciò, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio Onnipotente e dei beati suoi Apostoli Pietro e Paolo.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, nell’anno dell’Incarnazione del Signore 1821, il giorno 13 settembre, nell’anno ventiduesimo del Nostro Pontificato”.

7. Poco tempo dopo la promulgazione di questa Costituzione di Pio VII, Noi, senza alcun Nostro merito, fummo elevati alla suprema cattedra di San Pietro, e subito rivolgemmo tutta la Nostra attività a scoprire quale fosse lo stato delle sette clandestine, quale il loro numero, quale la potenza. A seguito di tale inchiesta, agevolmente abbiamo compreso che la loro baldanza era cresciuta soprattutto per l’aumentato numero di nuove sette. Fra esse in primo luogo occorre fare menzione di quella che si chiama Universitaria perché ha sede e domicilio in parecchie Università degli Studi in cui i giovani, da alcuni maestri (intesi non già ad insegnare ma a pervertire), vengono iniziati ai misteri della setta, che correttamente devono essere definiti misteri d’iniquità; pertanto i giovani vengono educati ad ogni scelleratezza.

8. Da ciò hanno tratto origine le fiamme della ribellione accese da tempo in Europa dalle sette clandestine; nonostante le più segnalate vittorie riportate dai potentissimi Principi d’Europa, che speravano di reprimerle, tuttavia i nefasti tentativi delle sette non hanno ancora avuto termine. Infatti negli stessi paesi nei quali i passati tumulti sembrano cessati, qual è il timore di nuovi disordini e sedizioni che quelle sette macchinano incessantemente? Quale lo spavento per gli empi pugnali che di nascosto immergono nei corpi di coloro che hanno destinato alla morte? Quante severe misure non di rado sono stati costretti ad adottare, loro malgrado, coloro che comandano per difendere la pubblica tranquillità?

9. Da qui hanno origine le atroci calamità che affliggono quasi ovunque la Chiesa e che non possiamo ricordare senza dolore, anzi: senza angoscia. Si contestano senza pudore i suoi santissimi dogmi e insegnamenti; si umilia la sua dignità. Quella pace e quella felicità di cui, per suo proprio diritto, essa dovrebbe godere, non sono soltanto turbate, ma del tutto sconvolte.

10. E non è da credere che sia una abbietta calunnia l’attribuire a queste sette tutti questi mali e gli altri che Noi abbiamo tralasciato. I libri che non si sono peritati di scrivere sulla Religione e lo Stato coloro che sono iscritti a queste sette, disprezzano il potere, bestemmiano la regalità, vanno dicendo che Cristo è scandalo e stoltezza; anzi, non di rado insegnano che Dio non esiste e che l’anima dell’uomo muore col corpo. I Codici e gli Statuti in cui rivelano i loro propositi e le loro regole, dimostrano chiaramente che da essi provengono tutti i mali che abbiamo ricordato e che mirano a far cadere i Principati legittimi e a distruggere dalle fondamenta la Chiesa. Questa affermazione deve essere considerata come certa e meditata: le sette, sebbene diverse nel nome, sono però congiunte tra loro dallo scellerato legame dei più turpi propositi.

11. Stando così le cose, Noi crediamo essere Nostro dovere condannare nuovamente queste sette clandestine in modo che nessuna di esse possa vantarsi di non essere compresa nella Nostra sentenza apostolica, e con questo pretesto possa indurre in errore uomini incauti o sprovveduti. Pertanto, per consiglio dei Venerabili Nostri Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa e anche motu proprio, con sicura dottrina e con matura deliberazione Nostra, Noi sotto le stesse pene comminate nelle lettere dei Nostri Predecessori che abbiamo riportato in questa Nostra Costituzione, e che espressamente confermiamo, in perpetuo proibiamo tutte le società occulte (qualunque sia il loro nome), tanto quelle ora esistenti, quanto quelle che forse si costituiranno in seguito e che si propongono le azioni sopra ricordate contro la Chiesa e le supreme potestà civili.

12. Pertanto a tutti e a ciascuno dei fedeli di Cristo di qualunque stato, grado, condizione, ordine, dignità e preminenza, sia laici sia chierici, tanto secolari che regolari, degni anche di specifica, individuale ed esplicita menzione, ordiniamo rigorosamente, e in virtù della santa obbedienza, che nessuno sotto qualsivoglia pretesto o ricercato motivo osi o pretenda di fondare, diffondere o favorire, e nella sua casa o dimora o altrove accogliere e nascondere le predette società comunque si chiamino, come pure di iscriversi o aggregarsi ad esse o di intervenire a qualunque grado di esse o di offrire la facoltà e l’opportunità di convocarle in qualche luogo o di elargire loro qualcosa, o in altro modo prestare consiglio, aiuto o favore palese od occulto, diretto o indiretto, per sé o per altri; e ancora di esortare, indurre, provocare o persuadere altri ad iscriversi, ad aggregarsi o a intervenire in siffatte congreghe o in qualunque grado di esse, o di giovare loro o favorirle comunque. I fedeli debbono assolutamente astenersi dalle società stesse, dalle loro riunioni, conferenze, aggregazioni o conventicole sotto pena di scomunica in cui incorrono sull’istante tutti i contravventori sopra descritti senza alcuna dichiarazione; dalla scomunica nessuno potrà venire assolto se non da Noi o dal Romano Pontefice pro tempore, salvo che si trovi in punto di morte.

13. Inoltre a tutti prescriviamo, sotto la stessa pena di scomunica, riservata a Noi e ai Romani Pontefici Nostri Successori, l’obbligo di denunciare ai Vescovi o ad altri competenti tutti coloro che notoriamente hanno dato il loro nome a queste società o si sono macchiati di qualcuno dei delitti ricordati più sopra.

14. Soprattutto poi condanniamo risolutamente e dichiariamo assolutamente vano l’empio e scellerato giuramento che vincola gli adepti di quelle sette a non rivelare mai ad alcuno tutto ciò che riguarda le sette medesime e a punire con la morte tutti i compagni che si fanno delatori presso i superiori, sia Ecclesiastici, sia Laici. E che dunque? Poiché il giuramento va pronunciato al servizio della giustizia, non è forse delittuoso considerarlo come un legame con il quale ci si obbliga a un iniquo omicidio e a disprezzare l’autorità di coloro che, in quanto governano la Chiesa o la legittima società civile, hanno il diritto di conoscere tutto ciò da cui dipende la sicurezza di quelle istituzioni? Non è forse somma iniquità e turpitudine il chiamare Iddio stesso a testimone e mallevadore di delitti? Giustamente i Padri del terzo Concilio Lateranense affermano:”Non si possono definire giuramenti ma piuttosto spergiuri quelli che sono diretti contro il bene della Chiesa e gl’insegnamenti dei Santi Padri“. Ed è intollerabile l’impudenza, o la follia, di chi tra questi uomini, non nel proprio cuore soltanto ma anche pubblicamente e in pubblici scritti, afferma che “Dio non esiste“, e tuttavia osa pretendere un giuramento da coloro che sono accolti nelle sette.

15. Tali sono le Nostre disposizioni rivolte a reprimere e condannare tutte queste furiose e scellerate sette. Pertanto ora, Venerabili Fratelli Patriarchi Cattolici, Primati, Arcivescovi e Vescovi, non solo chiediamo ma piuttosto sollecitiamo il vostro impegno. Abbiate cura di voi e di tutto il gregge in cui lo Spirito Santo vi pose come Vescovi per governare la Chiesa di Dio. I lupi rapaci vi assaliranno se non avrete cura del gregge. Ma non vogliate temere, e non considerate la vostra vita più preziosa di voi stessi. – Considerate per certo che da voi in gran parte dipende la perseveranza degli uomini a voi affidati nella Religione e nelle buone azioni. Infatti, pur vivendo in giorni “che sono infausti” e in un tempo in cui molti “non difendono la sana dottrina“, perdura tuttavia il rispetto di molti fedeli verso i loro Pastori che a buon diritto sono considerati ministri di Cristo e dispensatori dei suoi misteri. Fate dunque uso, a vantaggio delle vostre pecore, di quella autorità che per immortale grazia di Dio conservate nell’animo loro. Fate loro conoscere le frodi dei settari e con quanta attenzione debbano evitare di frequentarli. Grazie all’autorità e al magistero vostro, abbiano orrore della malvagia dottrina di coloro che deridono i santissimi misteri della Nostra Religione e i purissimi insegnamenti di Cristo, e contestano ogni legittimo potere. E parlerò con voi ripetendo le parole usate dal Nostro Predecessore Clemente XIII nell’Enciclica [A quo die] del 14 settembre 1758, diretta a tutti i Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi della Chiesa Cattolica: “Vi prego: con lo Spirito del Signore siamo pieni di forza, di giustizia e di coraggio. Non lasciamo, a somiglianza di cani muti incapaci di latrare, che i Nostri greggi diventino una preda e le Nostre pecore il pasto d’ogni bestia selvatica; niente Ci trattenga dall’esporci ad ogni genere di combattimento per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Pensiamo attentamente a Colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori. Se ci arrestiamo davanti all’audacia dei malvagi, sono già crollate la forza morale dell’Episcopato e la divina e sublime potestà di governare la Chiesa; e non possiamo più continuare a considerarci, anzi non possiamo neanche più essere Cristiani, se temiamo le minacce e le insidie degli uomini perversi“.

16. Ancora con insistenza invochiamo il vostro aiuto, carissimi in Cristo Figli Nostri Cattolici Principi che apprezziamo con tanto singolare e paterno amore. Perciò vi richiamiamo alla memoriale parole che Leone il Grande (di cui siamo successori nella dignità e, sebbene indegni, eredi del nome) rivolse per iscritto a Leone Imperatore: “Devi senza esitazione comprendere che il potere regale ti è stato affidato non solo per governare il mondo ma soprattutto per proteggere la Chiesa in modo che, reprimendo gli atti di empia audacia, tu possa difendere le sane istituzioni e restituire la pace a quelle sconvolte“. Quanto al presente, la situazione è tale che per difendere non solo la Religione Cattolica ma altresì l’incolumità vostra e dei popoli soggetti alla vostra autorità, dovete reprimere quelle sette. Infatti la causa della Religione, soprattutto in quest’epoca, è talmente congiunta alla salvezza della società, che in nessun modo può essere separata l’una dall’altra. Infatti coloro che aderiscono a quelle sette sono non meno nemici della Religione che del vostro potere. Aggrediscono l’una e l’altro, meditano di abbattere l’una e l’altro. E certo non consentirebbero, potendo, che la Religione o il potere regale sopravvivessero.

17. Tanta è la scaltrezza di questi uomini astuti che quando danno la rassicurante impressione di essere intenti ad ampliare il vostro potere, proprio allora mirano a sovvertirlo. Infatti essi impartiscono molti insegnamenti per convincere che il potere Nostro e dei Vescovi deve essere ridotto e indebolito, e che ad essi devono essere trasferiti molti diritti, sia tra quelli che sono propri di questa Cattedra Apostolica e Chiesa principale, sia tra quelli che appartengono ai Vescovi che sono stati chiamati a far parte della Nostra sollecitudine. Quei settari insegnano tali dottrine non solo per l’odio truce di cui ardono contro la Religione, ma anche perché hanno la speranza che le genti soggette al vostro magistero, se per caso si avvedono che sono violati i confini posti alle cose sacre da Cristo e dalla Chiesa da Lui fondata, facilmente si inducano, con questo esempio, a sovvertire e distruggere anche la forma del regime politico.

18. Anche a voi tutti, o figli diletti che professate la Religione Cattolica, Ci rivolgiamo con la Nostra esortativa preghiera. Evitate con curagli uomini che chiamano luce le tenebre e le tenebre luce. Infatti, quale vera utilità potrebbe a voi derivare dal consorzio con uomini che ritengono di non tenere in alcun conto Iddio né tutte le più alte potestà? Essi, tramando in segrete adunanze, tentano di fare la guerra, e sebbene in pubblico e dovunque proclamino di essere amantissimi del bene pubblico, della Chiesa e della società, tuttavia in ogni loro impresa hanno dimostrato di voler sconvolgere e sovvertire ogni cosa. Essi sono simili a quegli uomini ai quali San Giovanni (2 Gv 10) comanda di non offrire ospitalità né di rivolgere il saluto; a quegli uomini che i Nostri antenati non esitarono a chiamare primogeniti del diavolo. Guardatevi dunque dalle loro lusinghe e dai discorsi di miele con cui cercheranno di convincervi a dare il vostro nome a quelle sette di cui essi stessi fanno parte. Abbiate per certo che nessuno può aggregarsi a quelle sette, senza essere colpevole di gravissima ignominia; allontanate dalle vostre orecchie i discorsi di coloro i quali, pur di ottenere il vostro assenso ad iscrivervi ai gradi inferiori delle loro sette, affermano risolutamente che in quei gradi nulla si sostiene che sia contrario alla Religione; anzi, che nulla vi si comanda o si compie che non sia santo, che non sia onesto, che non sia puro. Inoltre quel nefando giuramento che è già stato ricordato e che deve essere prestato anche per essere ammessi ai gradi inferiori, basta di per sé solo a farvi comprendere che è un delitto anche iscriversi a quei gradi meno impegnativi e partecipare ad essi. Inoltre, sebbene ad essi non siano affidate, di solito, le imprese più torbide e scellerate, in quanto non sono ancora saliti ai gradi superiori, appare però evidente che la forza e l’ardire di queste perniciose società crescono con il consenso e il numero di coloro che vi si sono aggregati. Pertanto anche coloro che non hanno oltrepassato i gradi inferiori, devono essere considerati complici di quei delitti. E anche su di essi ricade quella sentenza dell’Apostolo: “Coloro che commettono tali delitti sono degni di morte, e non solo coloro che li commettono ma anche coloro che approvano chi li compie” (Rm I, 28-29).

19. Infine, con amore profondo chiamiamo a Noi coloro che, dopo aver ricevuto la luce e aver assaporato il dono celeste ed essere fatti partecipi dello Spirito Santo, sono poi miseramente caduti e seguono quelle sette sia che si trovino nei gradi inferiori di esse, sia nei superiori. Infatti, facendo le veci di Colui che dichiarò di non essere venuto per chiamare i giusti ma i peccatori (e si paragonò al pastore che, lasciato il resto del gregge, cerca ansiosamente la pecora che ha smarrito) li esortiamo e li scongiuriamo di ritornare a Cristo. Sebbene si siano macchiati del più grave delitto, non devono tuttavia disperare della clemenza e della misericordia di Dio e di Gesù Cristo Suo Figlio. Ritrovino dunque se stessi, alfine, e di nuovo si rifugino in Gesù Cristo che ha patito anche per loro e che non solo non disprezzerà il loro ravvedimento ma anzi, come un padre amoroso che già da tempo aspetta i figli prodighi, li accoglierà con sommo gaudio. Invero Noi, per incoraggiarli quanto più possiamo e per aprire ad essi una più agevole via alla penitenza, sospendiamo per lo spazio di un intero anno (dopo la pubblicazione di questa lettera apostolica nella regione in cui dimorano) sia l’obbligo di denunciare i loro compagni di setta, sia la riserva delle censure nelle quali sono incorsi dando il loro nome alle sette; e dichiariamo che essi, anche senza aver denunciato i complici, possono essere assolti da quelle censure ad opera di qualunque confessore, purché sia nel numero di coloro che sono approvati dagli Ordinari del luogo ove dimorano. Decidiamo inoltre di usare la stessa condiscendenza verso coloro che per caso si trovano nell’Urbe. Se poi qualcuno di essi a cui è rivolto il Nostro discorso sarà così ostinato (e non lo permetta Iddio, Padre delle misericordie!) da lasciar passare quello spazio di tempo che abbiamo fissato senza abbandonare le sette per ravvedersi davvero, trascorso quel tempo, tosto avrà effetto contro di lui l’obbligo di denunciare i complici e la riserva delle censure, né potrà ottenere l’assoluzione se non da Noi o dai Nostri Successori o da coloro che avranno ottenuto dalla Sede Apostolica la facoltà di assolvere dalle censure stesse.

20. Vogliamo inoltre che ai transunti, anche stampati, della presente Nostra lettera, sottoscritti di pugno da qualche pubblico Notaio e muniti del sigillo di persona investita di dignità ecclesiastica, si presti quella fede stessa che si concederebbe alla lettera originale se fosse presentata o mostrata.

21. Perciò a nessuno sia lecito violare o contestare con temeraria arroganza questo testo della Nostra dichiarazione, condanna, conferma, innovazione, mandato, proibizione, invocazione, ricerca, decreto e volontà. Se qualcuno osasse compiere un simile attentato, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio Onnipotente e dei Beati Apostoli Pietro e Paolo.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 13 marzo dell’anno dell’Incarnazione del Signore 1825, nell’anno secondo del Nostro Pontificato.

DOMENICA II DI AVVENTO (2019)

DOMENICA II DI AVVENTO (2019)

Stazione a S. Croce in Gerusalemme.

Semid. Dom. privil. Il cl. – Paramenti violacei.

Tutta la liturgia di questo giorno è piena del pensiero di Isaia, (nome che significa: Domini Salus: Salvezza del Signore), che è per eccellenza il profeta che annuncia l’avvento del regno del Cristo Redentore. Egli predice, sette secoli prima, che «una Vergine concepirà e partorirà l’Emanuele »  — che Dio manderà «il suo Angelo, — cioè Giovanni Battista — per preparare la via avanti a sé (Vang.) e che il Messia verrà, rivestito della potenza di Dio stesso,(I e III antif. dei Vespri) per liberare tutti i popoli dalla tirannia di satana. « Il bue — dice ancora il profeta Isaia — riconosce il suo possessore e l’asino la stalla del suo padrone; Israele non m’ha riconosciuto: il mio popolo non m’ha accolto » (I Dom. 1° Lez,) — « Il germoglio di Jesse — continua — s’innalzerà per regnare sulle nazioni » (Ep.) e « i sordi e i ciechi che sono nelle tenebre (cioè i pagani) comprenderanno le parole del libro e verranno » (Vang.). Allora la vera Gerusalemme (cioè la Chiesa) « trasalirà di gioia » (Com.) perché i popoli santificati da Cristo vi accorreranno (Grad. All). Il Messia — spiega Isaia — « porrà in Sion la salvezza e in Gerusalemme la gloria » — « Sion sarà forte perché il Salvatore sarà sua muraglia e suo parapetto » cioè il suo potente protettore. Così la Stazione è a Roma, nella Chiesa detta di S. Croce in Gerusalemme, perché vi si conservava una grossa parte del legno della Santa Croce, mandata da Gerusalemme a Roma quando fu ritrovata.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

 Introitus

Is XXX: 30.
Pópulus Sion, ecce, Dóminus véniet ad salvándas gentes: et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia cordis vestri. [Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori.]
Ps LXXIX:2
Qui regis Israël, inténde: qui dedúcis, velut ovem, Joseph.
[Ascolta, tu che reggi Israele, tu che guidi Giuseppe come un gregge.]

Pópulus Sion, ecce, Dóminus véniet ad salvándas gentes: et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia cordis vestri. [Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori.]

Oratio

Orémus.
Excita, Dómine, corda nostra ad præparándas Unigéniti tui vias: ut, per ejus advéntum, purificátis tibi méntibus servíre mereámur:
[Eccita, o Signore, i nostri cuori a preparare le vie del tuo Unigenito, affinché, mediante la sua venuta, possiamo servirti con anime purificate:]

Lectio

Lectio Epístolæ beáti Pauli Apostoli ad Romános.
Rom XV:4-13.
Fatres: Quæcúmque scripta sunt, ad nostram doctrínam scripta sunt: ut per patiéntiam et consolatiónem Scripturárum spem habeámus. Deus autem patiéntiæ et solácii det vobis idípsum sápere in altérutrum secúndum Jesum Christum: ut unánimes, uno ore honorificétis Deum et Patrem Dómini nostri Jesu Christi. Propter quod suscípite ínvicem, sicut et Christus suscépit vos in honórem Dei. Dico enim Christum Jesum minístrum fuísse circumcisiónis propter veritátem Dei, ad confirmándas promissiónes patrum: gentes autem super misericórdia honoráre Deum, sicut scriptum est: Proptérea confitébor tibi in géntibus, Dómine, et nómini tuo cantábo. Et íterum dicit: Lætámini, gentes, cum plebe ejus. Et iterum: Laudáte, omnes gentes, Dóminum: et magnificáte eum, omnes pópuli. Et rursus Isaías ait: Erit radix Jesse, et qui exsúrget régere gentes, in eum gentes sperábunt. Deus autem spei répleat vos omni gáudio et pace in credéndo: ut abundétis in spe et virtúte Spíritus Sancti.

 “Tutte le cose che furono già scritte, furono scritte per nostro ammaestramento, affinché per la pazienza e per la consolazione delle Scritture noi manteniamo la  speranza. Il Dio poi della pazienza e della consolazione vi conceda di avere un medesimo sentimento fra voi, secondo Gesù Cristo. Affinché di pari consentimento, con un sol labbro, diate gloria a Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo. Il perché accoglietevi gli uni gli altri come Gesù Cristo ha accolto voi a gloria di Dio. E veramente io affermo, Gesù Cristo essere stato ministro della circoncisione per la veracità di Dio, per mantenere le promesse fatte ai patriarchi: i gentili poi glorificare Iddio per la misericordia, siccome sta scritto: Per questo io ti celebrerò fra le nazioni e inneggerò al tuo nome. E altrove: Rallegratevi, o genti, col suo popolo. E ancora: “Quante siete nazioni, lodate il Signore, e voi, o popoli tutti, celebratelo. E Isaia dice ancora: Vi sarà il rampollo di Jesse e colui che sorgerà a reggere le nazioni, e le nazioni spereranno in lui. Intanto il Dio della speranza vi ricolmi di ogni allegrezza e pace nel credere, affinché abbondiate nella speranza per la forza dello Spirito santo. ,, (Ai Rom, XV, 4-13). –

L’intenzione di s. Paolo in questa lettera è di far essere certe controversie domestiche, che lo spirito di gelosia aveva suscitate tra i Giudei ed i Gentili convertiti alla fede. Quelli si gloriavano delle promesse che Dio aveva fatto ai lor padri, di dare il Salvatore, che sarebbe della loro nazione; questi rimproveravano ai Giudei la manifesta ingratitudine della quale si eran fatti colpevoli uccidendo il loro Redentore. S. Paolo dimostra agli uni come agli altri che essi devono tutto alla grazia ed alla misericordia del Salvatore.

Perché Dio è chiamato il Dio della pazienza, delia consolazione e della speranza?

Perché fa sua longanimità verso i peccatori lo determina ad aspettare la loro conversione con pazienza; perché  da Lui viene questa consolazione interiore che sbandisce ogni pusillanimità; e fa insieme trovar gaudio nelle croci; perché Egli è che ci dà la speranza di pervenire, dopo questa vita a godere Lui stesso.

Aspirazione. O Dio di pazienza, di consolazione e speranza, fate che una perfetta rassegnazione al vostro santo volere versi la gioia e la pace nei nostri cuori, e che la Fede, la Speranza e la Carità ci rechino, con la pratica delle buone opere, al possedimento del bene a cui fummo creati, e che ci attende nell’eternità, se adempiremo fedelmente le condizioni alle quali ci è stato promesso.

Graduale

Ps XLIX: 2-3; 5
Ex Sion species decóris ejus: Deus maniféste véniet,
V. Congregáta illi sanctos ejus, qui ordinavérunt testaméntum ejus super sacrifícia.
[Da Sion, ideale bellezza: appare Iddio raggiante.
V. Radunategli i suoi santi, che sanciscono il suo patto col sacrificio. Alleluia, alleluia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja,
Ps CXXI: 1
V. Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. Allelúja.
[V. Mi sono rallegrato in ciò che mi è stato detto: andremo nella casa del Signore. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt. XI:2-10

In illo tempore: Cum audísset Joánnes in vínculis ópera Christi, mittens duos de discípulis suis, ait illi: Tu es, qui ventúrus es, an alium exspectámus ? Et respóndens Jesus, ait illis: Eúntes renuntiáte Joánni, quæ audístis et vidístis. Cæci vident, claudi ámbulant, leprósi mundántur, surdi áudiunt, mórtui resúrgunt, páuperes evangelizántur: et beátus est, qui non fúerit scandalizátus in me. Illis autem abeúntibus, coepit Jesus dícere ad turbas de Joánne: Quid exístis in desértum vidére ? arúndinem vento agitátam ? Sed quid exístis videre ? hóminem móllibus vestitum ? Ecce, qui móllibus vestiúntur, in dómibus regum sunt. Sed quid exístis vidére ? Prophétam ? Etiam dico vobis, et plus quam Prophétam. Hic est enim, de quo scriptum est: Ecce, ego mitto Angelum meum ante fáciem tuam, qui præparábit viam tuam ante te. 

Omelia I

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE II.

 “In quel tempo avendo Giovanni udito nella prigione le opere di Gesù Cristo, mandò due de’ suoi discepoli a dirgli: Sei tu quegli che sei per venire, ovvero si ha da aspettare un altro? E Gesù rispose loro: Andate, e riferite a Giovanni quel che avete udito e veduto. I ciechi veggono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, si annunzia ai poveri il Vangelo; ed è beato chi non prenderà in me motivo di scandalo. Ma quando quelli furono partiti, cominciò Gesù a parlare di Giovanni alle turbe: Cosa siete voi andati a vedere nel deserto? una canna sbattuta dal vento? Ma pure che siete voi andati a vedere? Un uomo vestito delicatamente? Ecco che coloro che vestono delicatamente, stanno ne’ palazzi dei re. Ma pure cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico io, anche più che profeta. Imperocché questi è colui, del quale sta scritto: Ecco che io spedisco innanzi a te il mio Angelo, il quale preparerà l a tua strada davanti a te” (Matt. XI, 2-10).

Il divin Figliuolo incarnatosi e fattosi uomo per nostro amore non lasciò di essere vero Dio; e per conseguenza tutti gli insegnamenti, che uscirono dalla sua bocca nel corso della sua vita mortale, sono tutti insegnamenti divini. È questa una delle verità fondamentali di nostra santa Religione, alla quale importa, che noi prestiamo tutto l’assenso della nostra fede, se vogliamo essere veri credenti, figliuoli di Dio e della Santa Chiesa cattolica. E tanto più importa, che noi in questi tempi manteniamo viva e ferma la nostra credenza in questa capitalissima verità, in quanto che anche in questi tempi sciaguratamente abbondano degli empì, i quali, pur facendosi malignamente a lodare l’ingegno, la bontà, la grandezza di Gesù Cristo, si studiano tuttavia in modo veramente diabolico di strappare dalla sua testa la corona della sua Divinità. Ora, a me pare che il Vangelo di questa mattina ci faccia appunto conoscere:

1° quanto importi di credere fermamente nella Divinità di nostro Signor Gesù Cristo e de’ suoi santissimi insegnamenti;

2° quale sia la ragione precipua, su cui si ha da basare questa nostra fede:

3° con quali mezzi riusciremo facilmente a mantenerla ed accrescerla in cuor nostro. State attenti.

1. Qualche tempo prima che il Salvatore uscisse di Nazaret per cominciare la sua vita pubblica, sulle rive del Giordano comparve un uomo straordinario. Egli menava una vita austera; portava un rozzo e grossolano vestimento; non si cibava che di locuste e miele selvatico; e predicava con grande ardore la penitenza. Era S. Giovanni Battista. Aveva egli ricevuto da Dio la missione di preparare gli uomini a ben ricevere il divin Redentore, che stava per dar principio alla sua predicazione, e rendere così, come osserva S. Giovanni Evangelista, testimonianza della Divinità di Gesù Cristo. E molti accorrendo ad udire le sue prediche, commossi e pentiti dei loro peccati, si convertivano e ricevevano il suo battesimo. Anzi non pochi di costoro, animati dalla santità della vita, che S. Giovanni menava, si facevano suoi discepoli, cercando di imitarlo nella sua penitenza. Tuttavia erano ben lungi dall’avere la perfezione del loro maestro. Ed in vero avendo il divin Redentore cominciata la sua vita pubblica, e con la sua predicazione, e co’ suoi esempii, e coi suoi miracoli essendosi ancor Egli guadagnati molti seguaci, i discepoli di Giovanni Battista furono presi da una secreta invidia contro del divin Salvatore, poiché non riconoscendolo ancora per il Messia, avrebbero desiderato che nessuno fosse maggiore e stimato di più del loro maestro. È bensì vero che Giovanni Battista aveva già detto ripetutamente che il Messia era venuto, che desso viveva in mezzo ai Giudei, benché essi non lo conoscessero, che era l’Agnello di Dio, Colui che toglie i peccati del mondo, e che in quanto a lui osava appena chiamarsi l’amico dello sposo e che non era degno di sciogliere i legacci delle sue scarpe. Tuttavia i suoi discepoli non vi prestavano fede. L’austerità della sua vita, la grandezza delle sue virtù, la gagliardìa della sua parola facevano impallidire dinnanzi ai loro occhi la figura di Gesù, che era tanto più dolce e che avevano appena intraveduto di lontano. Ed ecco il perché non potevano sentirne a parlare senza provarne gelosia e persino senza muovere dei lamenti e fare delle critiche sopra di Gesù Cristo e de’ suoi seguaci. Ma in quel tempo S. Giovanni era stato messo in prigione da Erode Antipa, perché aveva avuto il coraggio di rimproverarlo della sua vita peccaminosa. E la prigione, in cui era stato rinchiuso, si trovava in una fortezza assai considerevole, chiamata Machera, costruita all’estremità della Perea. Ivi venivano per trovarlo i suoi discepoli e facilmente ottenevano licenza di vederlo e di intrattenersi con lui. Ora, in una di queste visite avendo essi parlato a Giovanni, forse con non poco astio, delle opere meravigliose. che andava compiendo Gesù Cristo, fu allora che S. Giovanni si decise ad un grande atto, a convincere cioè i suoi discepoli, che Gesù Cristo era veramente il Figliuol di Dio incarnato, il Messia promesso fin dal principio del mondo. E che fece egli a questo fine? Ce lo dice il Vangelo di oggi: In quel tempo avendo Giovanni udito nella prigione le opere di Gesti Cristo, mandò due dei suoi discepoli a dirgli: Sei tu quegli che sei per venire, ovvero si ha da aspettare un altro?  Dalle quali parole non abbiamo neppure menomamente a supporre, che S. Giovanni dubiti egli della missione e della Divinità del Salvatore. Ed invero, poiché egli, avendolo battezzato, aveva pur visto lo Spirito Santo discendere sopra il suo capo; poiché l’aveva egli stesso designato, a parecchie riprese, quale Agnello di Dio, poteva ancora mostrare la menoma esitazione a questo riguardo? Oh per certo vivissima e fermissima era la sua fede in Gesù Cristo! Mai suoi discepoli invece, di questa fede mancavano ancora affatto. Ed erano giovani, ardenti, pieni di entusiasmo per lui, acciecati dall’amore, che gli portavano, tali insomma, che anche dopo la sua morte difficilmente si sarebbero dati a credere nella Divinità di Gesù Cristo ed a seguirlo. Non ignorando adunque S. Giovanni come quanto prima avrebbe perduta la vita, e d’altra parte riconoscendo l’importanza suprema pe’ suoi discepoli e per tutti gli uomini di credere a Gesù Cristo nostro Dio ed ai suoi divini insegnamenti, con un’accondiscendenza piena di carità piglia sopra di sé il dubbio dei suoi discepoli e li manda così al Figliuol di Dio, perché si mettano in relazione con la sua persona, perché ascoltino la sua predicazione, siano testimoni dei suoi miracoli e si convincano, che Egli compie realmente tutte le opere, che deve compiere il Messia: opera Christi; ecredano ancor essi vivamente e fermamente allasua Divinità. Non gli importa punto, che per tal guisa Gesù Cristo cresca ed egli diminuisca nella estimazione del mondo; anzi è tutto ciò, che ardentemente desidera; questa è la consolazione, acui anela sul limitare della sua tomba, vedere tutti i suoi discepoli, senza eccezione alcuna, farsi credenti in Gesù Cristo e discepoli di Lui. Or non è egli vero, o miei cari, che S. Giovanni per tal modo ci apprende l’importanza di raffermarci sempre più nella fede di questa verità capitale di nostra santa Religione, la Divinità di nostro Signor Gesù Cristo e dei suoi santi insegnamenti?

2. Ma il Vangelo di oggi, dopo di averci dato nell’agire del Battista un tale ammaestramento, ci fa pur conoscere, su quale precipua ragione dobbiamo noi basare e raffermare una tal fede. Difatti prosegue nel dire, che a quei due discepoli, inviati da Giovanni a Gesù, egli rispose: Andate e riferite a Giovanni quel che avete udito e veduto. I ciechi veggono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, si annunzia ai poveri il Vangelo. Ed è beato chi non prenderà in me motivo di scandalo. Notate adunque: alla domanda dei discepoli di Giovanni, il divin Redentore, che ben conosceva le sante intenzioni del suo Precursore, non risponde punto direttamente: Sì, Io sono il Messia, da quaranta secoli promesso ed aspettato. E d’or innanzi cessate di desiderare, cessate di sperare; avete in me quel Figliuolo di Dio, che compie tutta la vostra speranza e realizza tutti i vostri desideri. No, il Salvatore non tiene questo linguaggio, che senza dubbio non avrebbe convinto i discepoli a lui spediti; ma per far loro conoscere la verità si appiglia ad un’altra risposta, che fu ad un tempo la più prudente, la più modesta e la più convincente, che loro si potesse dare. Essendo Egli circondato da poveri, da ammalati, da fanciulletti con le loro madri, ed avendo già cominciato, prima ancora che gli inviati di Giovanni arrivassero, a benedire gli uni, a guarire gli altri, a dare a tutti consolazione, continuò dopo l’arrivo e la domanda di quelli, sotto ai loro stessi occhi, ad operare prodigi, risanando molti dalle loro malattie e dalle loro piaghe, cacciando gli spiriti maligni dagli ossessi, donando la vista ai ciechi e l’udito ai sordi, raddrizzando degli storpi e dicendo a tutti i poverelli, che lo circondavano, parole di vita eterna.Compiute queste opere divine, il divin Redentore condusse invincibilmente quei discepoli di Giovanni a questa conclusione: Non v’ha che un Dio, che possa compiere siffatte meraviglie; non v’ha che un Dio, il quale possa agire così, epperò questo Gesù, che così opera, è veramente Dio. Difatti essendo i miracoli un’eccezione all’ordine della natura reclamano per autore l’Autore stesso della natura. Essendo fatti soprannaturali, devono avere per causa un Essere soprannaturale. Essendo operazioni, che trascendono le forze create, esigono una forza increata, onnipotente, che li possa produrre. I miracoli insomma richiedono altamente Iddio per autore, Colui, cioè, « che solo fa grandi meraviglie » (Salm. XXXV, 4) e che, essendo il Signore e Padrone della natura, ne può momentaneamente sospendere ed alterare il corso ordinario. Gesù Cristo pertanto, che di sua propria virtù aveva operato strepitosi miracoli alla presenza di quei discepoli di S. Giovanni Battista, doveva essere dai medesimi riconosciuto e creduto per Dio. Osservate però, almen di passaggio, che dissi i miracoli di Gesù Cristo per confermare la sua Divinità essere stati da Lui operati di sua propria virtù, perché nessuno tragga la falsa conseguenza, che si dovrebbe riconoscere come Dio chiunque operi dei miracoli. Perciocché anche gli Apostoli e molti altri Santi operarono dei miracoli, ma tra i miracoli dei Santi e quelli di Gesù Cristo corre appunto questo divario, che i miracoli del Redentore furono da Lui operati per sua propria virtù e possanza e per provare quello che diceva di se stesso, affermandosi Dio, mentre invece i miracoli degli Apostoli e dei Santi furono e sono operati nel nome di Dio, cioè per l’intervento della sua virtù e possanza divina e per manifestazione della stessa, o per confermare la verità di quello che Gesù Cristo affermò di se stesso ed insegnò agli uomini. Ciò osservato, non vedete adunque, o miei cari, come Gesù Cristo stesso ci apprende, che una delle ragioni principali, su cui dobbiamo raffermare la nostra fede nella sua Divinità, sono propriamente gli strepitosi miracoli, che a tal fine operò Egli e fece in seguito operare da’ suoi Apostoli? Senonchè, domanderà qualcuno di voi, è proprio certo, che Gesù Cristo e gli Apostoli operarono dei miracoli a conferma della Divinità di Lui e dei suoi santi insegnamenti? Certissimo. Basta leggere i Vangeli, gli Atti Apostolici, le storie ecclesiastiche per trovarne in un numero sì grande da restarne meravigliati. Gesù Cristo ne operò di ogni sorta, sugli infermi risanandoli da ogni languore, sui morti risuscitandoli in vita, sul mare e sui venti burrascosi acquietandoli all’istante, su pochi pesci e pochi pani moltiplicandoli per saziare migliaia di persone. E più cospicuo d’ogni altro fece quello della sua risurrezione, che, al dire di S. Paolo, basta da se solo a costituire il fondamento della fede nostra. Gli Apostoli poi, i discepoli di Gesù Cristo e i loro successori fecero ancor essi tali e tanti miracoli da sembrare, come dice S. Agostino, d’aver compiute opere più meravigliose di quelle operate dallo stesso Redentore. E questi miracoli furono così realmente operati e per tal guisa divulgati, che i nemici stessi della fede cristiana, gli ebrei ed i gentili non ardirono di negarli, ma, ammettendoli pienamente, si accontentarono di attribuirli ad arte magica, come fecero, tra gli altri, Giuliano l’apostata, Gerocle, Svetonio, Celso e Porfirio. Epperò ben con ragione Tertulliano poteva dire: Non mi appello ai Vangeli, ma ricorrete pure, o Romani, ai vostri archivi, e voi, o Ebrei, leggete le vostre memorie; a queste m’appello per comprovarvi i miracoli di Gesù Cristo e degli Apostoli.D’altronde la stessa rapidissima propagazione della fede nella Divinità di Gesù Cristo e della sua dottrina è uno dei più invincibili argomenti per attestare, che dopo Gesù Cristo gli Apostoli ancor essi fecero dei miracoli. Se gli Apostoli non ne avessero fatti, dice Origene, il mondo non avrebbe giammai prestato fede alla loro parola, giammai sarebbesi convertito alla loro predicazione. Ed invero gli Apostoli non erano altro che dodici rozzi pescatori giudei, senza ricchezze, senza forza, senza autorità, senza aderenze, contrariati nel loro disegno da principi, sacerdoti pagani e filosofi. Essi predicavano un Dio crocifisso e la sua morale, che intima la guerra alle malvagie passioni; che proclama beati i poveri, i casti, gli umili, coloro, che sono perseguitati e che piangono. Eppure la fede, che predicavano, si stabilì e diffuse con tale rapidità, che Tertulliano nel secondo secolo poteva già esclamare: « Noi non siamo che di ieri e già riempiamo, o Romani, le vostre città, le vostre isole, i vostri castelli, i vostri villaggi, i vostri campi, le vostre tribù, le vostre decurie, i vostri palazzi, il vostro senato, il vostro foro; non vi lasciamo che i vostri templi; se noi ci separassimo da voi, vi puniremmo, tanta è la solitudine, che si farebbe dintorno a voi ». Quindi è che bene a ragione S. Agostino col suo celebre dilemma così stringeva gli assalitori di nostra, fede: « O la fede fu propagata coi miracoli, e per ciò stesso si rivela divina; o fu propagata senza miracoli, e questo sarebbe il massimo dei miracoli ». E Dante (Parad. XXIV), togliendone da lui il pensiero:

Se il mondo si rivolse al Cristianesmo,

diss’io, senza miracoli, quest’uno

È tal, che gli altri non sono il centesmo.

Al cospetto adunque dei tanti miracoli operati da Gesù Cristo e dagli Apostoli, per comprovare la Divinità di Lui e della sua dottrina, devesi raffermare la nostra fede e, benché in Lui e nella sua dottrina vi siano dei misteri per noi incomprensibili, dobbiamo tuttavia prestarvi umilmente e fermamente il nostro assenso, e così meriteremo anche noi l’elogio, che nello stesso Vangelo di oggi Gesù Cristo fece del vero credente: Et beatus est, qui non fuerit scandalizatus in me; ed è beato chi non prenderà in me motivo di scandalo,vale a dire, colui che non solo mi crede Dio nei miracoli, ma ancora in tutto il resto, anche nelle ignominie della mia passione e morte.

3. Finalmente nel Vangelo di oggi Gesù Cristo ci fa conoscere con quali mezzi, ossia con quali virtù, noi possiamo più facilmente riuscire a mantenere e crescere in noi la fede verso di Lui. Partiti che furono i discepoli di Giovanni, cominciò a dire di lui alle turbe: Che cosa siete voi andati a vedere nel deserto? Un canna sbattuta dal vento? Che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito delicatamente? Ecco che coloro che vestono delicatamente, stanno nei palazzi dei re. Ma pure che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico Io, anche piò che un profeta Imperocché questi è colui del quale sta scritto: Ecco che io spedisco innanzi a te il mio Angelo, il quale preparerà la tua strada davanti a te. – Con questo ultimo tratto del Vangelo Gesù Cristo fa spiccare due virtù caratteristiche di S. Giovanni Battista, che sono l’umiltà e la purità; anzitutto l’umiltà nell’esaltarlo, conforme a quello, che Egli disse: Chi si umilia, sarà esaltato (Luc. XIV, 11), ed in secondo luogo la sua purità col chiamarlo col nome di Angelo, non solo per riguardo alla sua missione, ma propriamente ancora per il suo grande amore alla castità, di cui fra breve sarebbe stato il glorioso martire. Ora poiché abbiamo riconosciuto in Giovanni Battista il Santo così sollecito della fede in Gesù Cristo e nei suoi insegnamenti, possiamo dall’elogio che Gesù Cristo ne fece, imparare altresì come le due virtù, che maggiormente ci possono giovare a raffermare e crescere in noi la fede, sono appunto l’umiltà e la purità. Le anime orgogliose non sono capaci di fede. Iddio resiste alle anime superbe, mentre invece comunica con abbondanza le sue grazie agli umili. E gli umili per mezzo dell’abbondanza delle grazie divine potranno sempre più raffermarsi nella fede, poiché una di queste specialissime grazie, che il Signore fa loro è quella di illuminarli sempre di più intorno alle verità della fede, per cui diventi ognor più forte l’adesione della loro anima alle medesime. È quello, che Gesù fece pure intendere in quella breve, ma bellissima preghiera: Confiteor libi, Pater, Domine cæli et terræ, quia àbscondisti hæc a sapientibtis et prudentibus, et revelasti ea parvulis: Io ti ringrazio,o Padre, Signor del cielo e della terra, perché hai tenute occulte queste cose, cioè le grandezze de’ miei misteri, ai sapienti ed ai prudenti del mondo, ele hai invece rivelate a coloro, che per la loro semplicità ed umiltà rassomigliano ai piccolini (Matt. XI, 25). – Ma insieme coll’umiltà ci vuole la purità. Quando un cuore è puro, candido, innocente facilmente si fida: ed è perciò, che un Cristiano di costumi illibati ripeterà mai sempre con una tranquillità e sicurezza ammirabile, la quale trionfa di qualsiasi scherno degli increduli: Scio, cui credidi (2. Tim. I, 12): So bene a chi presto fede. So che presto fede a un Dio, che di certo non si inganna, né inganna giammai. E per soprappiù riceve dalla grazia di Dio il medesimo rinforzo, che si riceve per l’umiltà, giacché Gesù Cristo ha parlato chiaro: Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt(Matt. V, 8): Beati i mondi di cuore, perché vedranno Dio, non solo negli splendori del cielo, ma ancora qui sulla terra, nelle oscurità della fede, divenute per loro come trasparenti. Ma se invece il cuore è guasto, corrotto, impuro, allora la fede, se non lo è ancora del tutto, ne sarà quanto prima sbandita. Eh sì! Un Dio, che vede tutte le azioni e scruta persino le reni e i cuori, un Dio, che, se premia i buoni, castiga pure i cattivi, un Dio, che, se tiene apparecchiato il Paradiso ai primi, ha creato l’inferno per i secondi, sono verità troppo incomode per il sensuale. E per cacciar via i rimorsi, che lo colpiscono nel suo vivere disonesto, comincia dal dirsi: Ma? Ma?..„. Sarà poi vero questo? Sarà poi vero quello? E finisce per dire: No, non è vero, io ho letto…., io ho studiato…., io ho capito, che la fede cattolica non è che un ammasso di favole. Disgraziato!… L’incredulità è un guanciale assai comodo per la disonestà. Guardiamoci adunque, o carissimi, dalla superbia e dalla disonestà: amiamo e pratichiamo con ardore l’umiltà e la castità, ed allora potremo avere la certezza di conservare nel cuor nostro viva e ferma la fede. Al termine della vita avremo la gioia di poter dire a noi stessi: Fidem servavi in reliquo reposita et mihi corona(2. Tim. IV, 8): ho conservato la fede, non mi resta che andare a ricevere la corona della mia fedeltà, e di sentire nel cuore a risuonare la voce divina, che ci dirà: Fides tua te salvum fecit: La tua fede ti ha salvato (Marc. X, 52).

II OMELIA

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

DISCORSO PER LA II DOMENICA DELL’AVVENTO

Sopra la necessità della penitenza.

“Parate viam Domini, rectas facite semitas ejus”. Matth. III.

Preparare le strade del Signore, far conoscere agli uomini il Messia da tanti secoli aspettato a prender loro le disposizioni con cui il dovevano ricevere; tale fu, fratelli miei, il nobile impiego cui la divina provvidenza aveva destinato s. Giovanni Battista, e ch’egli adempì con tutto lo zelo di cui fu capace; fu quest’angelo inviato da Dio che convertir doveva molti de’ figliuoli d’Israele, che doveva precedere il Messia per guadagnargli i cuori e preparargli un popolo perfetto. Ma qual mezzo questo divin precursore insegnò ai popoli che l’ascoltavano, per disporsi a ricevere la grazia di salute che veniva loro presentata? Niun altro che la penitenza; questa era il soggetto ordinario delle sue prediche! Preparate, diceva loro le strade del Signore: rendete diritti i suoi sentieri, fate frutti degni di penitenza: Parate viam Domini, rectas facile semitas eius…, facite fructus dignos pænitentiæ (Matth. 5, Luc. 5). E perché  non ho io in quest’oggi, fratelli miei, la voce e le virtù del santo precursore per esortarvi sì efficacemente, come faceva egli, a disporvi con la penitenza alla venuta del Messia? Ilfigliuolo di Dio è venuto in questo mondo per apportarvi la salute; deve venire ancora per giudicare gli uomini sopra l’abuso che avranno l’atto delle grazie che ha loro meritate. Ora il mezzo di partecipare alle grazie del Salvatore e di preservarvi dai colpi della sua giustizia si è la penitenza; e perciò la Chiesa in questo santo tempo dell’Avvento ci mette innanzi agli occhi le due venute di un Dio Salvatore e di un Dio vendicatore; ci rappresenta S. Giovanni Battista che predica la penitenza ai popoli, ed incarica i suoi ministri di esortarvi ad essa con le medesime parole di cui egli servivasi per predicare questa virtù. Fate dunque penitenza, fratelli miei, preparate le vie del Signore: parate viam Domini, pœnitentiam agite. La penitenza vi è necessaria per uscir dallo stato del peccato: prima parte. Se giusti, avete tuttavia bisogno della penitenza per preservarvi dalla contagione del peccato: seconda parte.

I.° Punto. Se l’uomo avesse avuta tanta gratitudine verso la bontà di Dio per conservar il tesoro dell’innocenza di cui arricchito l’aveva nella sua prima origine, non avrebbe avuto bisogno di far penitenza. Ma avendo perduto quel tesoro col cattivo uso della sua libertà, la penitenza è divenuta per lui un obbligo indispensabile, perché non v’ha che la penitenza che riparar possa il disordine e le conseguenze del peccato. Ed in vero che consiste la malizia del peccato; e quali ne sono le conseguenze? Ogni uomo che trasgredisce la legge del Signore si rende colpevole verso di Lui dell’ingiuria più atroce; porta nello stesso, tempo a sé medesimo il colpo più fatale, si rivolta contro un sovrano cui è debitore di quanto ha, e da cui in tutte le cose dipende: ecco la malizia del peccato. Si priva della grazia del suo Dio, senza la quale gli è impossibile di salvarsi; ecco la conseguenza e l’effetto funesto del peccato. Ora non v’è che la penitenza la quale calmar possa l’ira di Dio e riparar l’ingiuria che gli ha fatto il peccato. Non v’è che la penitenza che possa rimettere l’uomo in grazia con Dio, e guarire la piaga profonda che il peccato ha fatto all’anima di lui: donde io conchiudo che la penitenza è necessaria al peccatore come giustizia, e come rimedio: giustizia per rapporto a Dio, rimedio per rapporto a lui stesso. Rinnovate la vostra attenzione. Essendo Iddio nostro primo Principio, e nostro ultimo fine, ella è cosa indubitata che noi viver non dobbiamo che per Lui; ciascuna delle nostre azioni deve essere un omaggio alla sovranità del suo Essere, e con la più perfetta sottomissione ai suoi ordini riconoscer conviene l’intera dipendenza, che da noi esige. Or che fa l’uomo che offende Dio? Tributa ad un oggetto creato un culto, un incenso, che non è dovuto che a Dio solo, invola a Dio la gloria che ritornar gli deve da tutte le sue azioni e con ciò anche si rende colpevole verso Dio dell’ingiustizia la più rea. Ma Iddio, che comanda di riparar le ingiurie fatte ad altri e risarcirli dei torti da loro sofferti, non obbligherà il peccatore a riparar la gloria e l’onore, che rapito gli ha il peccato? Non esigerà Egli che sia vendicata la sua colpa, o coi rigori di una penitenza volontaria, o coi castighi dell’ira divina? Or io vi chiedo, v’è forse a deliberare? E non torna più a conto punir noi medesimi le ribellioni del nostro cuore, che di sforzar l’Onnipotente a prenderne una strepitosa vendetta? Ah! fratelli miei, ammiriamo la bontà del Dio che noi serviamo. Vuol pure rimettere la sua causa nelle nostre mani, ci stabilisce giudici tra Lui e noi, contento è dei nostri sforzi, se realmente facciamo quando dipende da noi per soddisfare la sua giustizia. Nulla dimeno qualunque cosa fare noi possiamo, la nostra soddisfazione uguaglierà mai quella, che si farebbe Egli stesso, quando ci opprimerebbe del peso delle sue vendette? Mentre e chi può comprendere, dice il Re-Profeta, sin dove giunger può l’ira di Dio? Quis novit potestatem iræ suæ (Ps. LXXXIX)? E che cosa è una penitenza di corta durata, di pochi momenti, in paragone di una penitenza eterna? Che cosa è un dolore leggero in confronto degli orrendi tormenti di un fuoco che non si estinguerà giammai? Che cosa è una lagrima, un sospiro di un cuor contrito ed umiliato in paragone dei rammarichi pungenti ed eterni, in confronto di un mare di lagrime che verseranno i reprobi nell’inferno? Con tutto ciò questa lagrima, questo sospiro di un cuore sinceramente pentito, questa breve penitenza della vita presente cancellar possono i peccati tutti; benché in gran numero moltiplicati, possono disarmare tutto lo sdegno di un Dio vendicatore: laddove tormenti estremi nel loro rigore, eterni nella loro durata, non mitigheranno mai questo divino sdegno; le lagrime dei dannati non cancelleranno mai la minima delle loro colpe. Ah! fratelli miei, e non sareste voi molto ciechi e molto crudeli contro di voi medesimi, se non vi profittaste di un mezzo sì facile che vi presenta nella penitenza per calmare la sua collera, rientrar in grazia con Lui e guarire nello stesso tempo la piaga mortale dal peccato cagionata all’anima vostra? Bisogna per verità che questa piaga sia assai profonda, poiché nell’istante che l’anima pecca, ella muore, vale a dire, ella perde la vita della grazia, l’amicizia del suo Dio, il diritto che aveva alla celeste eredità: Anima quæ peccaverit, ipsa morietur (Ezech. XVIII). Nello stesso momento diventa schiava del demonio, l’oggetto delle vendette eterne. Che grande disgrazia! e qual rimedio vi si può recare? Niun altro, fratelli miei, che la penitenza: essa sola può darvi l’accesso al trono della misericordia ed attirare sopra di voi il dono prezioso della grazia che risana la piaga dei peccati. Se il peccato dà la morte all’anima, la penitenza le dà la vita; se il peccato la rende nemica di Dio, la penitenza la riconcilia con Lui; se il pecca to chiude il cielo al peccatore, la penitenza sola può aprirglielo: dico la penitenza, perché infatti, secondo l’oracolo di Gesù Cristo medesimo, siamo sicuri di eternamente perire, se non cancelliamo della penitenza i nostri peccati. Si pœnitentiam non egeritis, omnes similiter peribitis (Luc. XV). Notate, fratelli miei, col Crisostomo la forza di quelle parole; il Salvatore paragona la necessità della penitenza con quella del Battesimo; siccome ha detto del Battesimo che chiunque non sarà rigenerato nelle sue acque salutevoli non entrerà mai nel cielo: nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto (Jo. V), allo stesso modo dice della penitenza, che senza di essa non vi è speranza alcuna per il regno eterno: vale a dire che siccome il Battesimo ci è necessario per cancellare il peccato originale, che ci chiude l’entrata del cielo; così la penitenza ci è necessaria per cancellare il peccato attuale, che ci fa perdere il diritto che avevamo alla celeste eredità: cioè che siccome un fanciullo che muore senza Battesimo, quantunque non vi abbia colpa alcuna, non sarà mai salvo; così anche un peccatore, che muoia senza aver fatto penitenza noi sarà giammai, sebbene non abbia potuto far questa penitenza, o per non averne avuto il tempo o per non avervi pensato: il che chiamano i teologi necessità di mezzo, cioè a dire necessità sì grande per la salute che nessun altro mezzo può supplirvi: diversa in ciò dalla necessità di precetto, da cui può uno essere dispensato per qualche legittima ragione. – Se digiunar non potete per debolezza di sanità, se non potete ascoltare la Messa a motivo di qualche legittimo impedimento, voi non sarete riprovati per non avere soddisfatto a tali obbligazioni. Ma se avete peccato, qualunque opera buona possiate voi praticare, se non fate penitenza, non v’ha salute per voi. La sola penitenza è quella che distrugger può il muro di separazione che il peccato ha formato tra Dio e voi; ed essa sola può rimettervi nel numero dei figliuoli di Dio e ristabilirvi nei diritti che avete perduti per lo peccato : Si pœnitentiam non egeritis, omnes etc. – Al contrario, se voi fate penitenza, siete certi di trovar grazia presso il trono della misericordia di Dio; il vostro perdono è affatto sicuro. voi avete per mallevadore la sua divina parola e la sua fedeltà nelle sue promesse. Convertitevi a me, vi dice, ed io mi convertirò a voi: Convertimini ad me, et ego convertar ad vos (Zach. 1) Se l’empio farà penitenza delle sue iniquità, Io lo dimenticherò, fossero pur esse moltiplicate all’infinito. Testimonianze che assai consolano, fratelli miei; mentre facendo sentire al peccatore la necessità della penitenza, gliene fanno conoscere la virtù e l’efficacia; e per rendervi questa verità più sensibile, richiamatevi alla memoria l’esempio dei Niniviti. Sono essi da un profeta minacciati di una prossima rovina: fra giorni quaranta, dice loro, la vostra città sarà distrutta. Ricorrono essi perciò alla penitenza, si coprono di cenere e di cilizio: tutti, giovani e vecchi, si condannano al digiuno più rigoroso e disarmano l’ira del Signore; questa città, che doveva essere distrutta a cagione delle sue iniquità, vien conservata a cagione della sua penitenza. Ah! quanto facilmente tocca il cuore di Dio un peccatore penitente e contrito! Egli ne dispone per così dire a suo grado; e ciò chiaramente ce lo fa vedere la parabola del figliuol prodigo. Un padre, dice Gesù Cristo, aveva due figliuoli: il più giovane, annoiato di vivere nella casa paterna ed in una dipendenza che faceva la sua felicità, domanda al padre la porzione dei suoi beni per andarsene in paese straniero, dove, dopo aver dissipato quanto aveva portato seco, ridotto si vide all’estrema miseria, obbligato di vendere la sua libertà, ed abbandonato in preda alla fame, sino a desiderar il nutrimento dei più vili animali. In questo stato si ricorda degli agi che provava nella casa paterna; la rimembranza delle tenerezze di suo padre gli fece prendere la risoluzione di ritornare a lui e di chiedergli perdono nell’amarezza del cuore. Parte, arriva vicino a suo padre, il quale non aspetta che il figliuolo abbia fatta tutta la strada, ma gli va incontro, l’abbraccia, Io riceve nella sua amicizia e gli fa conoscere con mille segni di tenerezza che non invano ha riposta la sua confidenza in lui; lo fa entrare in casa, gli rende le sue vesti, ordina un banchetto magnifico per rallegrarsi con i suoi amici di avere ritrovato un figliuolo che credeva perduto. – Tale è, fratelli miei, la figura consolante, che ci dà Gesù Cristo della sua bontà nel ricevere il peccatore. Ma qual è il peccatore penitente che, dopo aver imitato il figliuol prodigo nelle sue dissolutezze, lo imiti ancora nella sua conversione? Qual è il peccatore che abbandona le vie dell’iniquità, dove ha traviato, per tornare a Dio e dirgli come il figliuol prodigo coi sentimenti di un cuor contrito ed umiliato: Padre mio, io ho peccato contro il cielo e davanti a voi; Pater, peccavi in cœlum et coram te (Luc. XV). Qual è finalmente il peccatore che ripara con la penitenza e con la fedeltà nell’osservare la legge del suo Dio, i disordini della sua vita passata?

Pratiche. Riconoscete quivi, o peccatori, per frutto di questa prima riflessione, e riconosciamo tutti l’obbligo che abbiamo alla misericordia del nostro Dio, che ci ha preparato nella penitenza un rimedio alle nostre miserie. Imperciocché qual è colui, che non abbia perduta la sua innocenza col cattivo uso che ha fatto della sua libertà? Ne abbiamo la prova nella testimonianza della nostra coscienza. E che saremmo noi divenuti, se Dio, usando dei suoi diritti, come far il poteva, abbandonati ci avesse alla nostra trista sorte? Se, dopo aver irritata la sua giustizia con le nostre offese, ci fosse stato chiuso il seno della sua misericordia? L’inferno dopo questa vita toccato ci sarebbe in porzione di nostra eredità. Ma ritorniamo a Dio prontamente, ritorniamovi sinceramente: ritorniamo prontamente, per tema che, differendo, non abbiamo poi il tempo, né la grazia di far penitenza: ritorniamo sinceramente, rinunciando a quegli oggetti peccaminosi che abbiamo amati in pregiudizio dell’amore che dobbiamo all’Essere Supremo. Ritorniamo a Dio, detestando i nostri peccati con un vero dolore di averli commessi, con una ferma risoluzione di non commetterli più, di lasciarne le occasioni, di svestirne gli abiti. Tali sono gli atti di penitenza, tali gli effetti che essa dee produrre nei peccatori. Vediamo adesso la necessità per i giusti.

II° Punto. L’anima giusta ha ella bisogno di penitenza? Sì, fratelli miei, e perché? Perché in primo luogo, sebbene uno sia realmente giusto, non può tuttavia assicurarsi di aver sempre conservata la sua innocenza o di averla ricuperata con la penitenza, se perduta l’avesse col peccato. Niuno sa se è degno d’odio o di amore; perciò, qualunque precauzione abbia presa l’uomo per rientrar in grazia con Dio, dopo averlo offeso, non deve egli essere senza timore, dice lo Spirito Santo, sopra il peccato perdonato: De propitiato peccato noli esse sine metu. Sarà sempre incerto se egli ha avute tutte le disposizioni necessarie per ottener il perdono. Egli è vero che Dio non ricusa la sua grazia e la sua amicizia a chi fa quanto dipende da sé per averla. Vero è ancora che il peccatore convertito aver può delle congetture consolatrici sopra il suo stato dal testimonio della sua buona coscienza, dal cambiamento de’ suoi costumi e della sua condotta; ma benché favorevoli siano queste congetture, esse non sono segni infallibili del suo perfetto ritorno a Dio. Vi è sempre motivo di temere di non aver forse fatto dal canto suo tutto quello che doveva per ricuperare l’amicizia di Dio. E come può egli esser sicuro che il dolore che concepito ha dei suoi peccati sia stato veramente un dolore soprannaturale nel suo motivo, efficace nel suo proponimento, sufficiente nella sua estensione, tale, in una parola, quale la divina giustizia il richiede per riparare perfettamente la malizia ed il disordine del peccato? Non avrebbe certamente profanato il Sacramento della riconciliazione, avendo creduto di fare tutto quel che necessario era per ben riceverlo. Ma il Sacramento è qualche volta nullo, senza esser profanato con un sacrilegio, allorché il peccatore crede aver tutte le disposizioni necessarie, e realmente non le ha. Or in questa incertezza non dobbiamo noi sempre ricorrere alla penitenza per assicurare la nostra salute? Dio, che è ricco in misericordia e che offre sempre la grazia ai peccatore disposto a riceverla, non permetterà che quest’uomo che geme e fa penitenza del suo peccato resti frustrato di sua speranza; la grazia che non ha avuto in un tempo la otterrà in un altro; se ne ricerca di più per indurre anche i più giusti a far sempre penitenza? Ah! basta l’aver offeso una sola volta Iddio nel corso di nostra vita, dice lo Spirito Santo, per condannarci ad una penitenza sì lunga come questa vita medesima. Ma sia pure stata l’anima giusta assicurata di possedere l’amicizia di Dio, quante colpe leggiere che le sfuggono e che han bisogno d’esser espiate? Quante occasioni di cadute, a cui si trova esposta e contro cui deve stare in guardia? Ora la penitenza è ad un tempo il rimedio, ed il preservativo del peccato. Essa supplisce alla pena temporale dovuta ai peccati perdonati ed allontana la tentazione che potrebbe renderci colpevoli. Ahimè! non evvi alcuno, dice s. Agostino, così regolato nella sua condotta, la cui virtù oscurata non sia da qualche leggieri mancamenti. Una funesta esperienza ci fa pur troppo capire questa verità. Ora benché quelle colpe veniali non ci privino dell’amicizia di Dio, sono nulladimeno offese fatte alla sua divina maestà. Esse assalgono i diritti della sua giustizia, involando a Dio la gloria che rendere gli deve ogni creatura ragionevole con una perfetta obbedienza ai suoi minimi comandamenti: convien dunque riparare con una volontaria soddisfazione questa gloria offesa o aspettarsi di provare nel purgatorio i rigori della divina giustizia: quivi è dove punirà Iddio anche i suoi amici, dove farà loro espiare con un fuoco orribile che diverso non è da quel dell’inferno se non nella durata, farà, dico, loro espiare colpe e mancamenti che le penitenze fatte in questa vita avrebbero cancellati. V’è ancora di più, fratelli miei; benché la misericordia di Dio abbia perdonato il peccato mortale, in quanto alla colpa ed alla pena eterna, la sua giustizia richiede ancora che il peccatore gli porga una soddisfazione e si sottoponga ad una pena temporale, vale a dire che nella riconciliazione del peccatore con Dio la pena eterna si cangia in pena temporale, e per questo motivo s’impongono nel sacro tribunale opere di penitenze ai peccatori. Ma che cosa sono queste soddisfazioni in confronto di quello che essi meritano? Necessario è adunque che vi suppliscano con penitenze volontarie per sottrarsi ai castighi che Dio loro riserba nell’altra vita. Or chi di noi non preferirà le penitenze di corta durata alle pene rigorose che soffriransi nel purgatorio per lo spazio di più anni, prima di essere abbastanza purificati per venir ammessi nel soggiorno della gloria eterna? Fate dunque, o giusti quali voi siate, fate penitenza per liberarvi dai vostri debiti: pregate, digiunate, mortificatevi; meno vi risparmierete, più Dio vi tratterà con dolcezza. Questa penitenza, placando la giustizia di Dio, vi servirà di preservativo contro il peccato. Sono le malattie dell’anima, dice s. Bernardo, come le malattie del corpo. Quantunque una malattia sia risanata, vi resta dopo una certa languidezza che continuamente ci espone a nuove cadute, se pur non si prendono le più esatte precauzioni. Nello stesso modo il peccato, benché rimesso col Sacramento, lascia ciò non ostante dopo di sé una certa debolezza, principalmente quando è peccato d’abito, che deve farci sempre temere di nuovi mancamenti. È una piaga, segue a dire S. Bernardo, da cui è tolta la freccia, ma che conserva ancora una cicatrice pericolosa, capace di comunicare il suo veleno qualora non si applichino rimedi per arrestarlo. Ora il più proprio a preservare l’uomo dal contagio del peccato si è la penitenza: essa è come un regime di vita che sostiene l’anima e la ristabilisce in una santità perfetta. Infatti qual è la sorgente del peccato? Oimè! essa è in noi. É la nostra cupidigia, quella propensione funesta che abbiamo al male che si chiama il fomite del peccato: fomes peccati. È un fuoco che riaccendesi sempre con la presenza degli oggetti che l’irritano e l’infiammano. Bisogna dunque, per estinguerlo, bagnarlo con lagrime di penitenza; bisogna che questa penitenza ci allontani dagli oggetti capaci di trascinare le nostre inclinazioni perverse, che c’interdica non solo i piaceri vietati, ma alcune fiate ancora quelli che leciti sono e permessi. Imperciocché come mai non soccombere sotto il peso della propensione che ci trascina al male, se non vogliamo farci violenza alcuna e vogliam seguire in tutto le nostre inclinazioni, se invece di reprimere, di mortificare le nostre passioni, loro accordiamo tutto quel che domandano? – Perché mai veggonsi sì pochi giusti perseverare nello stato della grazia? Se non perché abbandonano la strada della penitenza. Troppo contenti di sé stessi per alcuni sforzi da loro fatti per uscire dallo stato di peccato, credono nient’altro resti loro a fare che riposarsi, attendendo la ricompensa che il Signore promette ai suoi eletti: invece di continuare a camminare nelle vie della penitenza, di mortificare le loro passioni, nutriscono i loro nemici domestici, che non vogliono più sottomettersi e riprendono ben presto il vantaggio: la carne si rivolta contro lo spirito, e lo spirito contro Dio: incrassatus, impinguatus recalcitravit (Deut. XXXII). Ecco la cagione della loro caduta: la stessa cagione produce i medesimi effetti; i piaceri che avevano cercati, li avevano resi colpevoli. Ritornano essi a quei piaceri, abbandonano la strada della penitenza e per una conseguenza inevitabile la legge del Signore. Ah! non così hanno operato i santi penitenti di cui onoriamo la memoria e che la Chiesa ci propone per modelli di penitenza. Mirate l’esempio del re Davide, il quale, benché assicurato da un profeta della remissione del suo peccato, si rimprovera di continuo le sue infedeltà alla legge del suo Dio; ne è sì penetrato dal dolore che nel tempo medesimo del riposo bagna il suo letto con le sue lagrime: Lavabo per singulas noctes lectum meum, lacrymis meis stratum meum rigabo (Psal. VI). Si offerisce a sopportare tutti i castighi cui vorrà la divina giustizia condannarlo: Ego in flagella paratu sums (Psal. XXXVII). Mirate un S. Pietro Principe degli Apostoli, che ha avuto la debolezza di rinnegare il suo divin Maestro: egli ne è sì fortemente pentito che i suoi occhi divengono fonti di lagrime, i quali non vengono meno che con la sua vita. Mirate una S. Maria Maddalena, quell’illustre penitente, la quale, benché assicurata dalla bocca di Gesù Cristo medesimo del perdono dei suoi peccati, si abbandona incessantemente ai rigori della penitenza, e ne diviene la vittima sino alla morte. Considerate finalmente un S. Paolo, l’Apostolo delle nazioni, il quale malgrado il testimonio della sua buona coscienza, non si crede ancora giustificato … Nihil mihi conscius sum, sed non in hoc iustificatus sum (1 Cor. IV). – Castiga il suo corpo e lo riduce in schiavitù, per la tema che ha di essere nel numero dei reprobi. Il motivo che a ciò lo induce si è il sapere che Dio stesso deve giudicarlo, che è un giudice formidabile cui nulla è nascosto e che punisce sino i desideri contro la sua santa legge formati. E voi, che vi credete giusti o che tali siete in realtà, lo siete voi più di quegli illustri penitenti di cui vi ho fatto menzione? La vostra penitenza uguagliò ella mai quella che essi hanno fatta, o avete voi tanta certezza quanta avevano essi del perdono dei vostri peccati? Perché dunque lascerete voi la via della penitenza, che essi non hanno abbandonata giammai! Siete voi meno interessati di essi ad usar tutti i mezzi possibili per assicurare la vostra predestinazione? Quantunque vi crediate giusti, e realmente lo siate, lo siete voi tanto come Gesù Cristo, il Santo dei santi? Egli ha passato sua vita nei patimenti, si è soggettato ai tormenti più atroci, alla morte più crudele. Era forse obbligato Gesù Cristo a soffrire tutti quei rigori? No, certamente; Egli non aveva alcun peccato da espiare, ma addossato erasi di soddisfare per li nostri peccati, e voleva anche servirci di modello nel far penitenza. Possiamo noi, peccatori come siamo, ricusar di camminare sulle tracce di Gesù Cristo? Non aveva Egli bisogno di far penitenza, eppure lha fatta; come non la faremo noi, cui ella è sì necessaria?

Pratiche. Di più, non troviamo in noi sempre molte cose da riformare; vanità, compiacenze, ricerche della gloria e dei piaceri, certa delicatezza sul punto d’onore, intolleranza dei disprezzi, difetto di attenzione nelle preghiere, tiepidezza, negligenze nel divino servizio, e che si io? Un serio esame ci scoprirà molti motivi di far penitenza. Applicatevi dunque, fratelli miei, a correggere tutto quello che è in voi di difettoso; fate frequenti atti di dolore sui vostri mancamenti; rinnovate di continuo le vostre buone risoluzioni; accostatevi sovente al tribunale della riconciliazione, che serve tanto a santificare i giusti che a riconciliar i peccatori; sopportate con spirito di penitenza tutte le pene annesse al vostro stato, tutte le afflizioni che vi vengono o dalla parte di Dio o dalla parte degli uomini; portate continuamente sopra di voi la mortificazione di Gesù Cristo, con la vittoria delle vostre passioni e col troncare da voi tutto ciò che lusinga i sensi. Siate fedeli a seguir una regola di vita che vi sarete prescritta. La penitenza, è vero, ha qualche cosa di ripugnante alla natura, è una strada ripiena di triboli e spine; ma considerate i vantaggi che l’accompagnano ed il termine cui essa conduce. Ah! che i santi che sono in cielo, ben contenti e soddisfatti si trovano delle penitenze che hanno fatte sulla terra: i loro travagli sono passati, i loro dolori sono finiti; ma la loro gioia non finirà mai. Soffrite dunque come essi, per godere un giorno con essi della felicità eterna. Così sia.

CREDO …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps LXXXIV: 7-8
Deus, tu convérsus vivificábis nos, et plebs tua lætábitur in te: osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam, et salutáre tuum da nobis.
[O Dio, rivongendoti a noi ci darai la vita, e il tuo popolo si rallegrerà in Te: mostraci, o Signore, la tua misericordia, e concedici la tua salvezza.]

Secreta

Placáre, quǽsumus, Dómine, humilitátis nostræ précibus et hóstiis: et, ubi nulla suppétunt suffrágia meritórum, tuis nobis succúrre præsídiis. [O Signore, Te ne preghiamo, sii placato dalle preghiere e dalle offerte della nostra umiltà: e dove non soccorre merito alcuno, soccorra la tua grazia.]

Comunione spirituale: https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Bar V: 5; IV:36
Jerúsalem, surge et sta in excélso, ei vide jucunditátem, quæ véniet tibi a Deo tuo.
[Sorgi, o Gerusalemme, e sta in alto: osserva la felicità che ti viene dal tuo Dio.]

Postcommunio

Orémus.
Repléti cibo spirituális alimóniæ, súpplices te, Dómine, deprecámur: ut, hujus participatióne mystérii, dóceas nos terréna despícere et amáre cœléstia.
[Saziàti dal cibo che ci nutre spiritualmente, súpplici Ti preghiamo, o Signore, affinché, mediante la partecipazione a questo mistero, ci insegni a disprezzare le cose terrene e ad amare le cose celesti.]

Preghiere leonine

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Ordinario della Messa. https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/