TEMPO DI NATALE

IL TEMPO DI NATALE

(24 Dicembre-13 Gennaio)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. D. G. Lefebvre O. S. B.; L.I..C.E. Berruti & C. – Torino, 1950))

Commento Dogmatico.

Se il Tempo dell’Avvento ci fa desiderare la duplice venuta del Figlio di Dio, il Tempo di Natale celebra l’anniversario della sua nascita come Uomo, e ci prepara alla sua venuta futura come Giudice. – A partire da Natale, la liturgia segue passo passo nel suo Ciclo Gesù nella sua opera di redenzione, perché la Chiesa, godendo di tutte le grazie che derivano da ciascuno di questi misteri della vita di Lui, sia, come dice l’Apostolo S. Paolo, la Sposa senza macchia, senza ruga, santa ed immacolata, ch’Egli potrà presentare al Suo Padre,quando tornerà a prenderci alla fine del mondo. Questo momento, designato dall’ultima Domenica dopo la Pentecoste, è il termine di tutte le feste del calendario cristiano. Percorrendo le pagine che il Messale e il Breviario dedicano al Tempo di Natale, si trova ch’esse sono consacrate specialmente ai misteri della fanciullezza di Gesù. La liturgia celebra la « manifestazione » al popolo Giudeo (Natività 25 Dicembre) e pagano (Epifania: 6 gennaio) del grande mistero dell’Incarnazione, che consiste nell’unione in Gesù del Verbo generato dal Padre prima di tutti i secoli, con l’umanità « generata dalla sua madre nel mondo » (Simbolo di S. Atanasio). E questo mistero ci completa con l’unione delle nostre anime al Cristo che ci genera alla vita divina: «A tutti quelli che l’hanno ricevuto ha dato il potere di divenire Figli di Dio » (Giov. I, 10). – Il Verbo, che riceve eternamente la natura divina dal Padre, « innalzò a Sé l’umanità che gli diede nel tempo la Vergine (Simb. S. Atanasio), e si unisce nel corso dei secoli alle nostre anime mediante la grazia. L’affermazione della triplice nascita del Verbo, dell’umanità di Gesù e del suo Corpo Mistico costituisce soprattutto l’oggetto della meditazione della Chiesa in questo periodo dell’anno.

A) Nascita eterna del Verbo.

« Iddio — dice S. Paolo — abita in una luce inaccessibile (1 Tim. VI, 16). Ed è per farci conoscere il Padre Suo, che Gesù è disceso sulla terra. « Nessuno conosce il Padre tranne il Figlio, e colui al quale il Figlio avrà voluto rivelarlo » (Matth. XI, 27). Il Verbo fatto carne è dunque per noi la manifestazione di Dio, è Dio fatto uomo che ci rivela il Padre. – Non meravigli dunque l’importanza che la Chiesa ammette nella liturgia di Natale, a questa manifestazione della divinità di Gesù Cristo. Attraverso le belle sembianze del Fanciullo, che Maria ha deposto nella mangiatoia, la Chiesa ci fa scorgere, come in trasparenza, la Divinità diventata in qualche modo visibile e tangibile. « Chi vede me, vede il Padre » (Giov. XIV, 9) diceva Gesù. « Per mezzo del mistero delI’Incarnazione del Verbo, aggiunge il Prefazio di Natale, noi conosciamo Dio in una forma visibile e, per bene affermare che la contemplazione del Verbo è soprattutto il fondamento della ascesi di questo tempo, si prendono specialmente dagli scritti dei due apostoli: S. Giovanni e S. Paolo, araldi per eccellenza della Divinità di Cristo, i brani nei quali essi ne parlano più profondamente. Così la liturgia di Natale ci fa inginocchiare, con Maria e Giuseppe, davanti a questo Dio rivestito della nostra carne: «Cristo è nato per noi: venite, adoriamolo» (Invit. Di Natale); con l’umile corteo dei pastori che vanno al presepio «ci fa accorrere in fretta per glorificare e lodare Iddio» (Vang. Messa di Mezzanotte); ci unisce alla sontuosa carovana dei Re Magi onde con loro « ci prostriamo avanti al Fanciullo e adoriamo» (Vang. Epifania) « Colui che tutti gli Angeli di Dio adorano » (Ep. della Messa del giorno).Riconosciamo con la Chiesa il grande dogma della Divinità diGesù e dell’Incarnazione del Verbo.

B) Nascita temporale dell’umanità di Gesù.

« Quando il sole si sarà alzato nel Cielo, vedrete il Re dei re procedere dal Padre, come lo sposo che esce dalla camera nuziale » (Antif. del Magnificat dei primi Vespri del Natale). « E il Verbo si fece carne ed abitò tra noi » dice S. Giovanni (Vang. Messa del giorno di Natale). Questo fanciullo che adoriamo è dunque Dio unito alla natura umana in tutto ciò che essa ha di più bello e di più debole, affinché noi non siamo accecati dalla sua luce e ci accostiamo a Lui senza timore. Conoscere i misteri dell’infanzia del Salvatore e penetrarne lo spirito è il principio della vita spirituale. Perciò, durante queste settimane, noi contempliamo con la Chiesa, Cristo a Betlemme, in Egitto, a Nazareth. Maria mette al mondo il suo divin Figliuolo, lo avvolge in fasce e lo adagia in una mangiatoia (Vang. Messa di Mezzanotte). Giuseppe circonda il bambino delle sue paterne sollecitudini. Egli ne è il padre, non solo perché, essendo lo sposo della Vergine, ha dei diritti sul frutto del seno di Lei, ma anche – come dice Bossuet – perché, mentre « gli altri adottano dei fanciulli, Gesù ha adottato un padre ». I tre nomi benedetti di Gesù, Maria e Giuseppe sono dunque incastonati nei testi della liturgia di Natale come perle preziose. « Maria, madre di Gesù, era fidanzata a Giuseppe» (Vang. della Viglia di Natale) . « I Magi trovarono Maria, Giuseppe ed il Fanciullo » (Vang. Vang. Messa dell’Aurora). « Giuseppe e Maria, madre di Gesù » (Vang. Messa dell’Ottava); « Giuseppe prende il Fanciullo e la Madre » (Vang. Vigilia dell’Epifania) « Figlio mio, tuo padre ed io ti cercavamo » (Vang. Dom. dell’Ottava dell’Epifania).

C) Nascita spirituale del corpo mistico di Gesù.

Ma— dice S. Tommaso — « non è per sé che il Figlio di Dio si è fatto uomo, ma per divinizzarci con la sua grazia (S. Th. III. Q. XXXVII, a 3 ad 2). Alla Incarnazione di Dio, cioè all’unione della natura divina e della natura umana nella Persona del Figlio di Dio, deve corrispondere la divinizzazione dell’uomo, cioè l’unione delie anime al Verbo, mediante la grazia santificante e la carità soprannaturale che l’accompagna. « Il Cristo intero – afferma infatti S. Agostino – è Gesù Cristo e i Cristiani. Egli è la testa e noi le membra ». Con Gesù noi nasciamo sempre più alla vita spirituale, perché la nascita del Capo è insieme quella del corpo (ad Ephes. II, 4 – ad Col. III, 9). « Rendiamo grazie a Dio Padre, per mezzo del suo Figlio, nello Spirito Santo, dice S. Leone, perché, avendoci amato nella sua infinita carità, ci ha usato misericordia, e, poiché eravamo morti per i peccati, ci ha tutti risuscitati in Gesù Cristo » (S. Leone, VI Serm. Della Natività) affinché noi fossimo in Lui una creatura nuova ed un’opera nuova. « Liberiamoci dunque del vecchio uomo e da tutte le sue opere » (Col. III, 9), e, ammessi a partecipare alla nascita di Cristo, rinunciamo alle opere della carne. Riconosci, o Cristiano, la tua dignità, e « divenuto partecipe della natura divina » (S. Piet. I, 4), guardati dal ricadere, con una condotta indegna di questa grandezza, nella miseria di una volta. Ricordati di quale Capo e di che corpo tu sei membro. Non dimenticare mai che « strappato alle potenze delle tenebre » « sei stato trasferito alla luce ed al regno di Dio » (Sesta lezione di Natale) . La ragione di festeggiare l’anniversario della natività di Gesù si è quella di fare ogni anno nascere maggiormente Gesù nelle anime nostre, mediante l’incremento della nostra fede e del nostro amore verso il Verbo Immacolato. I presepi e le altre manifestazioni esteriori di questo avvenimento, il più importante della Storia, non sono che mezzi per ravvivare questa fede e questo amore che ci fanno vivere divinamente. Occorre dunque che m questa festa del Natale, noi abbondiamo in buone opere (Oraz. delle Dom. nell’Ottava di Natale), manifestando così che noi siamo nati da Dio e divenuti suoi figli (Vang. Messe di Natale); occorre che tutta la nostra attività sia un irradiare di quella luce del Verbo che riempie le nostre anime (Oraz. Messa dell’Aurora). È questa la grazia propria del Tempo di Natale, che ha per iscopo di estendere la Paternità divina, affinché il Padre possa dire, parlando di ciascheduno di noi ciò che ha detto, a titolo specialissimo del Suo Verbo Incarnato; «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato » (Introito Messa di Mezzanotte. Questo “oggi” è per il Verbo, l’eternità). Prostrati umilmente, pronunciamo adunque con grande rispetto queste parole del Simbolo: lo credo in Gesù Cristo: 1) nato dal Padre prima dei secoli: Dio da Dio, consostanziale al Padre. 2) Disceso dal Cielo, incarnatosi per opera dello Spirito Santo nel seno di Maria Vergine e fattosi uomo. 3) Credo alla S. Chiesa, nata alla vita divina mediante la grazia dello Spirito Santo, che rese feconde le acque del Battesimo.

II. Commento storico.

Tra gli anni 747 e 749 di Roma, il censimento generale, ordinato da Cesare Augusto, costrinse Giuseppe e Maria a recarsi da Nazareth a Betlemme, in Giudea. Ora, mentre essi erano in questo luogo, dice S. Luca, la Vergine mise alla luce il suo primogenito (Vangelo della Messa di Mezzanotte). Alludendo alla tradizione che, nel IV secolo, pone la culla di Gesù tra due animali, la liturgia, cita due testi di Profeti, quello di Isaia « il bue conosce il suo padrone e l’asino la greppia del suo signore (I, 3) » e quello di Abacuc « Signore tu apparirai tra due animali » (III, 2). – C’erano, nei dintorni, dei pastori che vegliavano durante la notte per custodire il gregge. Avvertiti da un Angelo, discesero in fretta sino a Betlemme (Vang. della Messa dell’alba). L’Antifona delle Lodi di Natale, indirizzandosi ad essi, domanda: « Chi avete visto, pastori? ditecelo, annunziatecelo; chi è comparso sulla terra? ». Essi rispondono; «Abbiamo visto un neonato, e abbiamo inteso i canti degli Angeli che lodavano il Signore, alleluia, alleluia ». Otto giorni dopo, il Fanciullo divino fu circonciso da Giuseppe (Circoncisione, genn.) e ricevette il nome di Gesù (Festa del S. Nome di Gesù: 2 Genn.) che l’Angelo aveva indicato a Giuseppe e a Maria. E quaranta giorni dopo che Maria ebbe partorito, andò al Tempio per offrirvi il sacrificio prescritto dalla legge (Presentazione: 2 febbraio). Allora Simeone predisse che Gesù sarebbe stato la rovina e la risurrezione di molti, e che una spada di dolore avrebbe trafitto il cuore della sua madre (Vang. della Dom. nella Ott di Natale). – Al corteo dei pastori ne succede ben presto un altro, quello dei Magi. Arrivano dall’Oriente a Gerusalemme, guidati da una stella, e, seguendo le indicazioni degli stessi principi dei sacerdoti, vanno a Betlemme, perché lì, secondo il profeta Michea, doveva nascere il Messia. Vi trovano il Bambino con Maria sua Madre e, prostrandosi, l’adorano. Poi, avvertiti in sogno, tornano a casa loro senza più passare per Gerusalemme (Vang. dell’Epif.). Erode, che aveva chiesto ai Magi di indicargli dove fosse nato il fanciullo, vedendo che essi l’avevano ingannato, andò in collera e fece uccidere tutti i fanciulli nati da meno di due anni, che trovavansi a Betlemme e nei dintorni, sperando così di liberarsi del re dei Giudei, nel quale temeva un competitore (Vang. dei SS. Innocenti). – Un Angelo apparve allora in sogno a Giuseppe e gli disse di fuggire in Egitto con Maria ed il Fanciullo. Ivi rimasero fino alla morte di Erode. L’Angelo del Signore apparve allora di nuovo in sogno a Giuseppe e gli disse di tornare nella terra d’Israele. Ma, avendo saputo che in Giudea governava Archelao al posto del padre Erode e che ordinava delle persecuzioni, Giuseppe temette per la vita del fanciullo e andò in Galilea, nella città di Nazareth » (Vang. della Vig. dell’Epif.). – Quando Gesù aveva dodici anni, i suoi Genitori, avendolo smarrito a Gerusalemme durante una delle feste di Pasqua, lo ritrovarono dopo tre giorni nel Tempio in mezzo ai Dottori. Tornato a Nazaret, vi crebbe in saggezza, in statura e in grazia avanti a Dio e agli uomini (Vang. della Domen. fra l’Ott. dell’Epif.). – Da Nazareth, trentenne, Gesù andò al Giordano per farsi battezzare da Giovanni Battista. E questi compiendo la sua missione di testimonio: hic venit ut testimonium perhiberet de lumine, dichiarò che quel Gesù sul quale lo Spirito Santo si posò sotto forma di una colomba, era il Messia atteso (Vang. dell’Ott, dell’Epif.).

III. — Commento Liturgico.

Il tempo di Natale comincia alla Vigilia della festa e termina, per il ciclo temporale, l’ottavo giorno dopo l’Epifania (13 gennaio), e per il santorale alla festa della Purificazione della Vergine (2 febbraio). Questo tempo è in parte caratterizzato dalla gioia che prova l’umanità di possedere colui, del quale l’umana natura è totalmente « consacrata » al Verbo, che la possiede come sua. e che consacrerà a Dio tutti gli uomini di cui sarà il Salvatore. Perciò questo Tempo è un’epoca di « grande gioia per tutto il popolo » (Vang. Messa di Mezzanotte). Con gli Angeli, con i Pastori, con i Magi soprattutto, primizie dei Gentili, lasciamoci « trasportare dal grande giubilo » (Vang. Epifania), e con la Chiesa, che riveste i suoi Sacerdoti di paramenti bianchi e rende agli organi la loro voce melodiosa, cantiamo un festante « Gloria in excelsis». « Il Salvatore Nostro, scrive S. Leone, oggi è nato, rallegriamoci ». « Non ci può esser tristezza nel giorno in cui nasce la vita, la quale, dissipando il timore della morte, spande sulle nostre anime la gioia della promessa eternità. Non c’è persona che non abbia parte a questa allegrezza. Tutti hanno uno stesso motivo di rallegrarsi, poiché nostro Signore, distruttore del peccato e della morte, trovandoci tutti schiavi della colpa, è venuto per liberarcene tutti. Esulti il santo, perché si avvicina alla palma; gioisca il peccatore, poiché è invitato al perdono; si animi il gentile, perché è chiamato alla vita » (4a Lez. – 25 Dic.,). E questa allegrezza è tanto più grande in quanto la nascita di Gesù (La Festa dei Santi è chiamata Natalis, perché si celebra il giorno in cui la loro anima entra nel cielo. Alla fine del mondo i nostri corpi risuscitati parteciperanno alla loro volta a questa nascita celeste) sulla terra è il pegno della nostra nascita in cielo, quando Egli ritornerà a prenderci alla fine del mondo. – È in mezzo alle tenebre, simbolo di quelle che oscurano le anime, che Gesù è nato. « Mentre il mondo intero era sepolto nel silenzio e la notte era a metà del suo corso, dice l’Introito della Messa della Ottava di Natale, il Vostro Verbo onnipotente, o Signore, è disceso dal trono regale del cielo ». Cosi, per uno speciale privilegio, si celebra nella Festa di Natale una Messa a Mezzanotte, seguita da un’altra all’aurora, e da una terza al mattino. Come notano i Padri, si è appunto al momento in cui il sole arriva al punto più basso del suo corso e rinasce in qualche modo, che nasce ogni anno pure a Natale il « Sole di giustizia ». – Il sole della natura e quello delle anime, di cui è l’immagine, sorgono insieme. « Il Cristo ci è nato, dice S. Agostino, proprio quando i giorni cominciano a crescere » (Disc. sulla Natività di N. S.). La festa di Natale, il giorno 25 dicembre, coincide con la festa che i pagani celebravano al solstizio d’inverno per onorare la nascita del sole ch’essi divinizzarono. Così la Chiesa cristianizzò questo rito pagano. La Messa di mezzanotte a Roma si celebrava nella basilica di S Maria Maggiore, che rappresenta Betlemme, perché vi si venerano alcune parti del presepio del Salvatore, sostituita da una mangiatoia d’argento nella grotta dove nacque Gesù. Questa grotta era, dalla metà del secondo secolo, visitata da numerosi pellegrini. L’imperatrice Elena fece costruire in questo luogo una basilica che si volle molto semplice, essendo Gesù nato nella povertà. Si lasciò scoperta una parte di roccia, e quando più tardi, verso l’Ottavo secolo, la mangiatoia d’argento sparì, si pose un altare nel luogo presunto della nascita del Salvatore. In questa Basilica della Natività Baldovino, fratello di Goffredo di Buglione, si fece consacrare nel Natale 1101, nella stessa città dove un tempo David era stato unto re dalle mani del Profeta Samuele. – Nel XII secolo, la culla del Principe della pace fu ornata molto riccamente di preziosi mosaici. « Mentre nelle loro insegne spiegate i profeti vi testimoniavano la divinità del Messia e la lunga teoria dei suoi antenati ne affermava la sua umanità, la Chiesa, nelle sue Assisi solenni, v i proclamava insieme l’umanità completa e la perfetta divinità di Colui che nacque a Betlemme, che fu osannato dagli Angeli e adorato dai Magi » (Vincent et Abel: Bethleem, pag. 154).- Il nostro presepe sia l’Altare dove Gesù nasce per noi, specialmente in questo giorno, in cui l’Eucaristia ci viene presentata dai testi del Messale e del Breviario in relazione al mistero della nascita. E ritornati in famiglia manifestiamo il nostro senso liturgico, mantenendo le commoventi tradizioni dei tempi di grande fede, quando si continuavano in letizia le feste della Chiesa nell’intimità della vita familiare. Ogni focolare cristiano dovrebbe avere il suo piccolo presepe, intorno al quale recitare in questi giorni le preghiere del mattino e della sera. I fanciulli imparerebbero così (in questo periodo di gioia, proprio dell’infanzia) che essi debbono unirsi ai piccoli pastori e ai Magi per adorare il piccolo Gesù, il Dio fanciullo adagiato sulla paglia, per domandargli di diventare con Lui e con la sua grazia sempre più figli di Dio.

SALMI BIBLICI: “VOCE … Voce MEA AD DEUM, ET INTENDI” (LXXVI)

SALMO 76 “VOCE … VOCE MEA AD DEUM, et intendi”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 76

In finem, pro Idithun. Psalmus Asaph.

[1] Voce mea ad Dominum clamavi; voce mea ad Deum, et intendit mihi.

[2] In die tribulationis meae Deum exquisivi; manibus meis nocte contra eum, et non sum deceptus. Renuit consolari anima mea;

[3] memor fui Dei, et delectatus sum; et exercitatus sum, et defecit spiritus meus.

[4] Anticipaverunt vigilias oculi mei; turbatus sum, et non sum locutus.

[5] Cogitavi dies antiquos, et annos æternos in mente habui.

[6] Et meditatus sum nocte cum corde meo, et exercitabar, et scopebam spiritum meum.

[7] Numquid in æternum projiciet Deus? aut non apponet ut complacitior sit adhuc?

[8] aut in finem misericordiam suam abscindet, a generatione in generationem?

[9] aut obliviscetur misereri Deus? aut continebit in ira sua misericordias suas?

[10] Et dixi: Nunc cæpi; hæc mutatio dexteræ Excelsi.

[11] Memor fui operum Domini, quia memor ero ab initio mirabilium tuorum;

[12] et meditabor in omnibus operibus tuis, et in adinventionibus tuis exercebor.

[13] Deus, in sancto via tua: quis Deus magnus sicut Deus noster?

[14] Tu es Deus qui facis mirabilia: notam fecisti in populis virtutem tuam.

[15] Redemisti in brachio tuo populum tuum, filios Jacob et Joseph.

[16] Viderunt te aquæ, Deus; viderunt te aquae, et timuerunt; et turbatæ sunt abyssi.

[17] Multitudo sonitus aquarum; vocem dederunt nubes. Etenim sagittæ tuætranseunt;

[18] vox tonitrui tui in rota. Illuxerunt coruscationes tuæ orbi terræ; commota est, et contremuit terra.

[19] In mari via tua, et semitæ tuæ in aquis multis, et vestigia tua non cognoscentur.

[20] Deduxisti sicut oves populum tuum, in manu Moysi et Aaron.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXVI

Quanto al titolo, sembra che sia Salmo pel cantore Asaph sopra l’istrumento Idithun. — L’argomento é la preghiera nella tribolazione della schiavitù babilonica o in quella di Antioco, o in qualche altra.

Può applicarsi al giusto nelle gravezze insopportabili del pellegrinaggio terreno.

Per la fine: per Idithun. – Salmo di Asaph.

1. Alzai la mia voce, e le mie grida al Signore; alzai la mia voce a Dio, ed egli mi ascoltò.

2. Nel giorno di mia tribolazione, stesi la notte verso Dio le mie mani; e non sono stato deluso.

3. Non volle consolazione l’anima mia; mi ricordai di Dio, e n’ebbi conforto, e mi esercitai nella meditazione; e venne meno il mio spirito.

4. Gli occhi miei prevennero le vigilie; io era turbato e non apersi la bocca.

5. Ripensai ai giorni antichi; ed ebbi in niente gli anni eterni.

6. E meditava la notte in cuor mio, e ponderava e si purgava il mio spirito.

7. Ci rigetterà forse Dio in eterno, ovvero non vorrà più essere disposto a placarsi?

8. Ovvero torrà egli per sempre la sua misericordia a tutte le generazioni, che seguiranno?

9. Ovvero si dimenticherà Dio di usar pietà, e tratterrà nell’ira sua le sue misericordie?

10. E io dissi: Adesso io incomincio; questo cangiamento (vien) dalla destra dell’Altissimo.

11. Mi sono ricordato delle opere del Signore; anzi mi ricorderò di tutte le meraviglie fatte da te fin da principio.

12. E mediterò tutte quante le opere tue, e onderò investigando i tuoi consigli.

13. Le tue vie, o Dio, sono sante; qual è il Dio, che grande sia come il Dio nostro? Tu se’ il Dio, che operi meraviglie.

14. Tu facesti manifesto ai popoli il tuo potere; col tuo braccio tu riscattasti il tuo popolo, i figliuoli di Giacobbe e di Giuseppe. (1)

15. Te videro le acque, o Dio, le acque ti videro, e s’impaurirono; e gli abissi furono sconvolti.

16. Rumor grande di pioggia; le nuvole hanno date fuori le loro voci.

17. Le tue saette scoppiano; la voce del tuo tuono ruota per l’aria.

18. I tuoi folgori illuminarono il giro della terra; la terra si scosse, e tremò. (2)

19. Tu camminavi pel mare; tu ti facesti strada per mezzo alle acque, e non si vedranno le tue pedate. (3)

20. Guidasti il tuo popolo, come tante pecorelle, col ministero di Mosè e di Aronne.

(1) Giuseppe è considerato qui come il capo della tribù, perché egli fornisce per un certo tempo gli alimenti agli israeliti in Egitto. Questa espressione sarebbe anche indice di un tempo « che ha seguito la  cattività delle dieci tribù, o di coloro tra essi che erano scappati riunendosi a Giuda. »

(2) in rota, in orbe; lo svolgimento dei tuoni.

(3) E le tracce dei vostri piedi, etc. cioè il mare si è diviso in due, ed in seguito le acque si son riunite senza lasciar traccia del cammino aperto dalla potenza di Dio.

Sommario analitico

In questo salmo, che sembra collocarsi ai tempi di Sennacherib, devastando tutta la Giudea, arrivava su Gerusalemme per prenderla e distruggerla;

il Profeta, personificando tutti i giusti in mezzo alle afflizioni ed alle prove inseparabili dalla vita:

I – Si rivolge a Dio

1° Con tutti i sensi del corpo (1, 2);

2° Con tutte le potenze dell’anima (3);

3° Elevandosi alla meditazione, – a) che inizia dall’aurora, con la contrizione del cuore e nel silenzio (4), – b) dalla quale egli prende  la materia dai giorni antichi e dagli anni eterni, e dai ricordi del peccati (5); – c) che continua durante la notte, durante la quale si leva alla ricerca della verità ed all’esame dell’anima (6).

II. È agitato dal timore

1° di essere riprovato da Dio (7);

2° di essere al di fuori delle attenzioni della sua misericordia (8);

3° di avere Dio sempre irritato contro di sé (9).

III. Egli concepisce ben presto le migliori speranze,

1° con il buon proposito che formula, in nome di Dio, di condurre una vita tutta nuova (10);

2° con il pensiero della potenza, della saggezza, della maestà divina (11, 12);

3° con il ricordo delle meraviglie che ha operato in favore degli Israeliti, che Egli ha liberato dalla schiavitù dell’Egitto (13-20).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-6.

ff. 1, 2. – Tutte le qualità della preghiera si trovano riunite: l’umiltà, il fervore, la perseveranza, l’efficacia. È soprattutto nel giorno della tribolazione che noi dobbiamo cercare Dio. Noi possiamo andare a Dio rettamente, è certo, seguendo piacevolmente la grande strada, ma non lo cerchiamo efficacemente, non ritorniamo a Lui se non attraverso il sentiero del dolore.  Ogni ritorno a Dio implica nel contempo l’errore del crimine, lo smarrimento colpevole e la loro misericordiosa punizione. Beati quindi i cuori feriti! Beata la sofferenza che induce a cercare Dio! Beati i prigionieri incatenati dalla benedizione del dolore! (S. Ambrogio in Psal. LXXVI). – Il profeta esprime qui una cosa ben difficile e molto rara. « Nel giorno della mia tribolazione, io ho cercato Dio ». Quando l’afflizione cade su di noi, noi ci lasciamo abbattere, non pensiamo che alla sofferenza; il Profeta, al contrario, dimentica tutto per non pensare che a Dio, per non cercare che Dio, come se dicesse: se io trovo Dio, io trovo tutto con Lui (S. Gerol.). – Sono in molti a gridare verso il Signore per le ricchezze da acquisire e per le perdite da evitare, per la salute della propria famiglia, per la stabilità della propria casa, per il benessere temporale, per le dignità del mondo, infine, per questa salute del corpo che è il patrimonio dei poveri. Per tutte queste cose e per altre simili, tutti gridano incessantemente verso il Signore: appena c’è qualcuno che grida verso il Signore per il Signore stesso. È facile all’uomo desiderare qualcosa dal Signore, senza desiderare il Signore stesso, come se ciò che Egli dà possa essere più dolce di Colui stesso che lo dona! (S. Agost.). – La voce di colui che prega per interesse e senza un vero ritorno verso Dio, ha come termine i beni che desidera, non il buon piacere di Dio: è per questo che la sua preghiera è inutile o addirittura condannabile. Essi hanno gridato – dice il Profeta in un altro passo – e nessuno li ha salvati; essi hanno invocato il Signore, ed Egli non li ha esauditi. Il marinaio alza la voce durante la tempesta; il contendente alla veglia del suo processo; la madre nella malattia di suo figlio; il mercante in una impresa in cui impegna il suo bene; il ministro anche della parola, nel momento in cui va a distribuirla ad i suoi uditori.  Scrutate il cuore di queste persone, e seguite il corso delle loro azioni, e vedrete che spesso il motivo delle loro preghiere non è il desiderio di onorare Dio, ma l’alacrità di riuscire in ciò che progettano: la loro voce è rivolta all’oggetto che affligge la loro anima, e non verso Dio, o se pure è verso Dio, è per farlo entrare a far parte dei loro desideri terreni. Essi meritano di non essere esauditi, e se lo sono, questo sarà nella collera del Signore, che li distoglierà dalle loro inclinazioni sregolate, dalle loro ambizioni, dalla loro avarizia, dalla loro vanità, dalle loro gelosie.  Preghiamo dunque nella prospettiva di salvezza, preghiamo per crescere nella conoscenza e nell’amore di Dio; preghiamo con un cuore distaccato da tutte le affezioni terrene (Berthier). – « Nel giorno della tribolazione, ho cercato il mio Dio ». Chi siete voi che agite così? Vedete cosa cercate nel giorno della vostra tribolazione: se una prigionia causa la vostra tribolazione, cercate di uscire dalla prigione; se la lebbra causa la vostra tribolazione, cercate la salute; se la fame causa la vostra tribolazione, cecate di essere saziato; se delle perdite causano la vostra tribolazione, cercate il guadagno; se l’esilio causa la vostra tribolazione, cercate la città che vi ha visto nascere; e perché tutto riportare, o piuttosto come riportare tutto? Volete liberarvi di tutti questi ostacoli? Nel giorno della tribolazione, cercate Dio, non cercate niente da Dio; cercate di acquisire il possesso di Dio in cambio della vostra pena; vale a dire domandate a Dio che allontani le vostre afflizioni, affinché Gli restiate legati in tutta sicurezza. « Nel giorno della mia tribolazione, io ho cercato il mio Dio », non qualsiasi altra cosa, bensì solo Dio. – Come Lo avete cercato? « … Con le mie mani ». quando Lo avete cercato?  « … Durante la notte ». Dove lo avete cercato? « … In sua presenza ». e qual è stato il frutto della vostra ricerca? « … Io non sono stato deluso ». Vediamo tutte queste circostanze, esaminiamole tutte, interroghiamole tutte (S. Agost.).

ff. 2, 3. – Cercare veramente Dio, è non soltanto invocare, ma pure tendere le mani verso di Lui con la pratica delle buone opere. Cercarlo con la purezza di una vita innocente e con obbedienza fedele a tutti i suoi comandamenti, è la via più sicura per trovarlo piuttosto che con letture e lunghe meditazioni. – La notte dell’afflizione è una occasione favorevole per cercare Dio, che veniva dimenticato durante il giorno della pace e della prosperità. – Impotenza delle consolazioni umane; ricordo di Dio, sorgente della vera gioia, consolazione solida di coloro che rifiutano le consolazioni umane e la gioia inalterabile di coloro che non ne hanno altre fuori di Lui. – necessita un desiderio ardente di possedere Dio, effetto di una lunga e fervente meditazione, e che giunge a far cadere lo spirito nel mancamento (Duguet). – « La mia anima ha rifiutato la consolazione della terra, così io mi sono ricordato di Dio ed ho ritrovato la gioia ». Oh quanto queste parole sono vere, semplici e profonde nella loro verità! Come in una sola parola la Scrittura santa descrive la subitanea trasformazione del cuore! L’anima grida nel giorno dell’angoscia: io ero nel dolore e le acque della tribolazione mi avevano circondato; una densa nube gravava su di me e mi soffocava, lasciandomi nelle tenebre; io ho chiamato, io ho chiesto soccorso, e nessuno mi ha ascoltato; io stavo per sprofondare negli abissi della disperazione; ma tutto ad un tratto il ricordo di Dio si è presentato al mio cuore, è penetrato nell’anima mia come il raggio di sole che visita il prigioniero in un oscuro anfratto; io ignoro cosa sia successo in me, ma tutto è sparito, ed i torrenti di una gioia sconosciuta hanno inondato la mia anima … è sufficiente – dice S. Agostino – versare Dio nella propria anima, come un prezioso liquore, per ottenere la dilatazione del cuore, e la dilatazione del cuore non è null’altro che il passaggio dall’angoscia alle ampie campagne della gioia (mons. Landriou, “Preghiera”, n. 39).

ff. 4-6. – « Prevenire il levarsi del sole per benedire il Signore ed adorarlo al principio del giorno » (Sap. XVI, 28). Una meditazione attenta dei suoi giudizi ci riempie di un turbamento che ci toglie la parola e non ci lascia se non la libertà di adorarli con profondo rispetto. Occupazione utile è il richiamare nel proprio pensiero le azioni dei Santi per imitarli; pensieri ancor più salutari da aver spesso presenti allo spirito sono questi lunghi e vasti anni dell’eternità (Duguet). – Quali sono gli anni eterni? Che gran soggetto di meditazione! Vedete se questa meditazione non esiga il silenzio più profondo? Colui che si pone al riparo da ogni agitazione esterna e si separa in se stesso da ogni tumulto delle cose umane, vuole meditare sugli anni eterni. Sono forse gli anni durante i quali noi viviamo, o quelli durante i quali sono vissuti i nostri ancestri, o quelli durante i quali vivranno i nostri discendenti, gli anni eterni? A Dio non piace! Cosa resta in effetti di questi anni? Ecco che parlando noi diciamo: questo anno, e di questo anno cosa è in nostro potere se non il solo giorno in cui siamo? Perché i giorni precedenti a quest’anno sono già trascorsi e noi non li possediamo più; quanto ai giorni a venire, essi non esistono ancora. Noi dunque non siamo che in un giorno, e noi diciamo quest’anno; dite dunque oggi, se volete parlare al presente, perché di tutto questo anno cosa possedete come tempo presente? Tutto ciò che di quest’anno è passato, non esiste più. E tutto ciò che deve arrivare, non c’è ancora. Come osate dire allora: questo anno? Correggete il vostro linguaggio, dite: oggi! Voi avete ragione, dirò ormai: oggi! Ma riflettiamo ancora a questo. Le prime ore di questa giornata appartengono già al passato e le ore avvenire non esistono ancora. Correggete il vostro linguaggio e dite: in quest’ora. E di quest’ora cosa avete in vostro potere? Tanti istanti sono già nel passato e quelli che devono arrivare non sono ancora. Dite dunque: “in questo momento”. Ma quale momento? Mentre io pronuncio parole di due sillabe, l’una non risuona ancora, e l’altra è già passata; infine in una stessa sillaba, non fosse composta che da due lettere, non risuona ancora la seconda che la prima non sia già passata. Cosa possediamo dunque di questo tipo di anni? Questi anni sono soggetti a cambiamenti; bisogna pensare ad anni eterni, ad anni stabili che non siano composti da giorni che vanno e vengono, a quegli anni dei quali la Scrittura dice, indirizzandosi a Dio. « … ma Voi, Voi siete lo stesso, ed i vostri anni non avranno fine » (Ps. CL, 28). – (S. Agost.).

ff. 5. – Si domandava ad un venerabile anziano della Trappa ciò che avesse fatto durante i lunghi giorni della sua vita solitaria. Egli rispose semplicemente: « … Ho pensato ai lunghi giorni dell’eternità ». Grande e solenne parola, semplice e profonda come la verità, grido sublime dell’anima che ha compreso il suo valore e la sua destinazione, il suo punto di partenza e gli orizzonti che l’attendono. – Quando Dio apparirà un giorno per giudicare la terra, e chiederà a certi uomini che avranno calunniato la vita di clausura: … e voi, detrattori ingiusti, cosa avete fatto durante la vostra vita? Forse, e per un certo numero, dormire, mangiare, praticare la vita animale in tutta la perfezione del suo sviluppo … tale sarà il risultato più esatto della loro vita, ed ancora devo tacere ciò che farebbe arrossire pure l’animale senza ragione! – Quando poi il Signore si rivolgerà versi il religioso contemplativo, e gli chiederà, con gli accenti di paterna soddisfazione: « E tu, servitore fedele, cosa hai fatto? » – Mio Dio, durante questi lunghi e dolci anni della mia solitudine, io ho pensato agli anni dell’eternità, ho coltivato la mia anima per renderla degna di Voi, facevo ciò che Voi fate dall’eternità … io vi amavo. – Allora sapremo quale delle due vie sarà stata la più piena e meritoria, quando entrambi saranno pesati sulla bilancia della divina giustizia (Mons. Landriot, Preghiera, II, 136, 137). – Notti santamente impiegate, non nei piaceri e nemmeno nel sonno, ma in una meditazione viva ed attenta, non degli anni di questa vita che passano così in fretta, ma di quegli anni eterni che sono il desiderio e la speranza dei veri fedeli. – Io sondavo, lavoravo il mio spirito come un campo, per spandervi il buon seme delle dottrine del Signore (S. Girol.). – Se qualcuno si mettesse a sondare la terra per trovarvi un filone d’oro, nessuno lo accuserebbe di follia; molti uomini, al contrario, lo stimerebbero saggio per voler arrivare a scoprire l’oro! Quanti tesori l’uomo racchiude in se stesso senza mai cercarli! (S. Agost.).

II. — 7 – 9.

ff. 7-9. – Non c’è in voi o da parte vostra, alcun tipo di misericordia verso il prossimo che Dio non vi abbia dato, e Dio stesso forse dimenticherebbe la sua misericordia? Il ruscello cola, la sorgente stessa sarà a secco? « O Dio dimenticherà di aver pietà di noi? O nella sua collera reprimerà la sua misericordia? » Cioè Dio si lascerà irritare tanto da non avere nessuna pietà? Egli reprimerà più facilmente la sua collera che la sua misericordia. È quello che aveva detto per bocca di Isaia (Isai. LVII, 16): « Io non mi vendicherò di voi in eterno, e non sarò sempre irritato contro di voi » (S. Agost.).

ff. 10. – « Ed io ho detto: è ora che io cominci, e questo cambiamento viene dalla destra dell’Altissimo ». Ecco che l’Altissimo ha cominciato a cambiarmi; ecco che io ho preso possesso di un luogo ove sarò in sicurezza; ecco che io sono entrato in un palazzo ove si trova la felicità, e dove nessun nemico è da temere; ecco che io ho cominciato ad abitare questa regione ove la vigilanza dei miei nemici non prevarrà su di me; « ora, io ho cominciato; è la destra di Dio che ha operato questo cambiamento » (S. Agost.). – Una disposizione necessaria agli stessi che sono i più avanzati nella virtù, è di essere ben persuasi che non si fa ogni giorno che entrare al servizio di Dio e dire con gli stessi sentimenti di San Paolo: « Io penso di non avere raggiunto ancora lo scopo a cui tendo o che io sia perfetto; ma io proseguo la mia corsa per cercare di raggiungere il luogo al quale Gesù-Cristo ha voluto condurmi » (Fil. III, 13). – Quando si ha ben riflettuto sulla Religione, ci si determina a crederla; si dice, con una convinzione piena di zelo e di attività, … io comincio a far tacere tutti i miei dubbi, e ad abbracciare delle verità così preziose. Quando si è affaticati dai processi e dalle illusioni del mondo, si dice volentieri: io comincio a non vedere intorno a me che inganni di frivole vanità, di beni che non possono accontentarmi. Quando si è colpiti vivamente dai propri peccati e si prende la risoluzione di condurre una vita totalmente cristiana, si dice nella sincerità del cuore: io comincio a camminare nelle vie della giustizia; io rinuncio per sempre alla schiavitù delle mie passioni. Quando dopo una vita tiepida e languida, si intraprende il servire il Signore con fervore, si dice, senza differire e senza ascoltare le ripugnanze dell’amor proprio: io comincio a camminare sui passi di Gesù-Cristo, qualsiasi cosa mi costi il seguirlo. Quando ci si sente attratti dai santi esercizi dell’orazione, si deve avere un sentimento che è già il frutto di una unione intima con Dio: … io comincio, Signore, a non voler vivere se non del vostro amore. Così la parola del Profeta è come il segnale di tutte le risoluzioni più sagge e più salutari. Non ci viene appunto dato questo segnale, senza una grazia particolare, e senza l’obbligo di riconoscere che questo cambiamento sia l’opera della mano dell’Altissimo (Berthier). – Il rigore non è nella natura di Dio. Quando Dio cede alla collera, quando esercita la sua giustizia, fa un’operazione che gli è estranea (Isai. XXVIII, 21). È la sinistra che tiene la verga, ed Egli lascia prontamente di operare con questa  mano. La mano destra del Signore, al contrario, è lo strumento favorito del suo cuore, essa frutta le opere del suo amore; in particolare essa ha la felice proprietà e la felice potenza di muovere le anime e di convertirle. Di un peccatore cieco ed incorreggibile, essa sa farne in un batter d’occhio, un penitente risoluto e che si mette immediatamente all’opera. « … Ed io ho detto: ora io comincio, questo cambiamento è l’opera dell’Altissimo ». (Mgr. Pie, Discorsi, etc., tomo VII, p. 303).

ff.11, 12. – « Io mi sono ricordato delle opere del Signore ». Vedete ora il Profeta camminare in mezzo alle opere del Signore. In effetti, egli parlava senza misure all’esterno, ed il suo spirito contristato era indebolito; egli ha parlato interiormente con il suo cuore e con il suo spirito, ed avendo sondato questo medesimo spirito, si è ricordato degli anni eterni, si è ricordato della misericordia del Signore, ha cominciato a gioire in tutta sicurezza nelle opere di Dio, ed a darsi senza alcun timore all’allegria. Ascoltiamo dunque quali siano queste opere, e gioiamone pure, ma per le affezioni del nostro cuore, e non rallegriamoci per i ben temporali. Noi abbiamo anche la nostra cella interiore: perché non vi entriamo? Perché non agirvi nel silenzio? Perché non sondiamo il nostro spirito? Perché non meditiamo sugli anni eterni? Perché non rallegrarci delle opere di Dio? Ora, rallegratevi nelle opere di Dio, dimenticate voi stessi, e cercate in Lui solo, se potete, tutte le vostre delizie. Cosa c’è di meglio in effetti di Lui? Non vedete che tornando a voi stessi, tornate non meno che a Lui? « Io mi sono ricordato delle opere del Signore, ecco perché io mi ricorderò delle meraviglie che avete compiuto fin dall’inizio » (S. Agost.). – Pensate che coloro che temono Dio siano privi di affezioni? Lo credete realmente? Osereste credere che un quadro, un teatro, la caccia di animali selvatici o agli uccelli, eccitino le affezioni, e che le opere di Dio non ne eccitino? Credete che la contemplazione di Dio non ecciti affezioni interiori, quando si consideri il mondo, quando si ha davanti agli occhi lo spettacolo della natura, quando se ne cerca il Fautore, quando si trova Colui che mai si spiace e si compiace di tutte le cose? (S. Agost.).

ff. 13. – « Tutte le mie vie sono in Colui che è santo, o nella santità ». In Colui che è il Santo, vale a dire in Colui che ha detto: « Io sono la via, la verità e la vita » (Giov. V. 6). Uscite dunque, uomini dalle vostre cattive affezioni! Dove andate, dove correte? Dove fuggite? Non solamente lontano da Dio, ma pure lontano da voi stessi? Rientrate violatori della legge, rientrate nei vostri cuori (Isai. XLVI, 8); sondate il vostro spirito, ricordate gli anni eterni, ottenete misericordia da parte di Dio e contemplate le opere di questa misericordia. « La sua via è in Colui che è Santo. Figli degli uomini, fino a quando il vostro cuore sarà appesantito? Che cercate nelle vostre affezioni? Perché amate la vanità e vi attaccate alla menzogna? Sappiate che il Signore ha glorificato Colui che è Santo. » (Ps. IV, 3, 4). « La sua via è in Colui che è Santo. Portiamo dunque su di Lui la nostra attenzione. Portiamo la nostra attenzione sul Cristo: è in Lui che è la via di Dio ». (S. Agost.) –  «  La vostra via è nella santità ». Quante cose contenute in queste poche parole! Se le vie del Signore sono tutte sante, anch’io devo camminare nella santità. « Siate santi, perché Io sono Santo ». Io devo conformarmi in tutto alla sua volontà. Ora la sua volontà chiaramente espressa è che io lavori alla mia santificazione (I Tess. IV, 3). Io devo temere tutti i suoi sguardi. « I vostri occhi sono puri e non possono guardare l’iniquità » (Habac. I, 13). Io devo temere il suo giudizio, perché niente di impuro entrerà nel suo reame (Apoc. XXI, 17). Io devo considerare il mondo come il grande nemico di Dio, perché esso è piombato interamente nel male, cioè nella corruzione e nel peccato (I Giov. V, 19). Io devo gemere incessantemente del mio passato, perché le vie che ho seguito sono state tutte contrarie alla mia santità.

ff. 14. – « Voi solo, o Dio, operate dei miracoli » Voi siete veramente il Dio grande, che solo fa miracoli nel corpo e nell’anima: i sordi ascoltano, i ciechi riacquistano la vista, i malati recuperano la salute, i morti sono resuscitati, i paralitici hanno ripreso vigore. Ma questi miracoli non riguardano che il corpo, vediamo invece quelli che concernono l’anima. Ecco degli uomini sobri che poc’anzi erano dediti all’ubriachezza; ecco dei fedeli che poco prima adoravano gli idoli; ecco degli uomini che danno i loro beni ai poveri e che poco prima rubavano i beni degli altri. « Qual dio è grande come il nostro Dio? Solo Voi siete il Dio che opera miracoli ». Mosè  ha fatto miracoli ma non lui solo; Elia ne ha fatti, Eliseo ne ha fatti, anche gli Apostoli ne hanno fatti, ma nessuno di essi li ha operati da solo. Essi ne hanno fatto, ma Voi eravate con essi, o mio Dio, e quando Voi ne avete fatti, essi non erano con Voi. Essi non erano con Voi quando avete creato tutte le cose, poiché Voi avete creato loro stessi. « Voi avete fatto conoscere Colui che è la vostra virtù, la vostra potenza ». Quale virtù, quale potenza ha fatto conoscere tra i popoli? « Noi predichiamo, dice l’Apostolo, il Cristo crocifisso, che è vero, è uno scandalo per i Giudei ed una follia per i Gentili, ma che è, per gli eletti tra i Giudei ed i Gentili, la Virtù di Dio e la Saggezza di Dio (I Cor. I, 23, 24). Se dunque il Cristo è la virtù di Dio, Dio ha fatto conoscere il Cristo tra i popoli. E non ancora lo sappiamo? Siamo così insensati, discesi così in basso, abbiamo fatto così pochi gradini, perché noi ignoriamo questo fatto? (S. Agost.).

ff. 15-20. – La potenza di Dio, che si è manifestata con tanto splendore nella liberazione degli Israeliti dalla servitù d’Egitto, figura della liberazione delle nazioni dalla tirannia del demonio, con la forza del suo braccio, che è Gesù-Cristo. – I predicatori sono simili a delle nubi che fanno sentire le propria voce per annunziare la grazia del Vangelo, e le loro parole sono state come delle frecce. Una freccia, presa in senso proprio, non è una pioggia, non più che la pioggia non è una freccia; ma la parola di Dio è una freccia, perché essa colpisce, ed una pioggia perché bagna. La voce dei suoi tuoni è risuonata in forma di ruota, i suoi fulmini hanno brillato per tutta la terra. Le nubi hanno formato come una ruota intorno al globo terrestre; da questa ruota partivano i tuoni ed i fulmini che hanno scosso l’abisso: i tuoni hanno l’autorità della parola, i fulmini hanno il bagliore dei miracoli (S. Agost.). – Dio si apre un cammino nel mare di questo mondo, quando entra in un’anima che lo fa camminare in mezzo alle acque tempestose del secolo, come tra due montagne di acqua, senza fare naufragio. « le acque vi hanno visto, o mio Dio, le acque vi hanno visto ed hanno temuto, e gli abissi sono stati agitati ». Che si intende per “abisso” ? si intende la profondità delle acque. Chi ne sarà turbato, tra i popoli, quando la sua coscienza sarà colpita? Voi cercate la profondità del mare, cosa c’è di più profondo della coscienza umana? Questo abisso è stato scosso quando Dio ha riscattato il suo popolo in mezzo alle sue braccia. Qual è stato questo scuotersi degli abissi? Ciò che tutti gli uomini, confessando le proprie colpe, hanno fatto diffondendo le loro coscienze davanti a Dio (S. Agost.). – Dio, conducendo il suo popolo come un gregge di pecore, per mano di Mosè ed Aronne, ci insegna quanto sia importante e necessario avere un uomo illuminato per condurci nelle vie di Dio.  

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI (… CON CAZZUOLA E GREMBIULINO) DI TORNO: SS. LEONE XIII – “ETSI NOS”

A leggere questa lettera Enciclica di primo acchito, si resta perplessi sul periodo in cui essa sia stata scritta. Ad un lettore distratto, sembra addirittura un resoconto dettagliato della situazione italiana odierna, descritta da uno degli empi quotidiani del mattino fresco di stampa. Poi, stropicciando gli occhi, si legge con gran meraviglia la data della sua composizione: 1882. Cento quaranta anni fa circa, S.S. Leone XIII, dipingeva, come in un quadro macabro alla Picasso, la situazione dell’Italia sia politica, che sociale, che ecclesiale. Tutte realizzate le premesse citate, viviamo oggi l’incubo prospettato con largo anticipo dal Sommo Pontefice, oltretutto con il castigo di falsi e sacrileghi prelati, di una falsa chiesa, “sinagoga di satana” governata direttamente dai servi del baphomet-lucifero ed asservita agli interessi della “razza di vipere”, cioè di … coloro che odiano Dio e tutti gli uomini, il tutto sotto gli occhi compiacenti di mezzi di comunicazione opportunamente teleguidati, totalmente corrotti ed ingannevoli. Certo che l’Itala se l’è proprio cercato e meritato questo castigo, benché avvertita per tempo dal Vicario di Cristo. Ma sembra che “il bello” debba ancora arrivare, similmente a quelli che gridavano duemila anni or sono, a mo’ di sfida a Dio: « … il suo sangue ricada su di noi, tolle, tolle, crucifigatur! » Gli inizi, richiamano gli sviluppi, gli sviluppi reclamano le conclusioni ovvie e la relativa fine. Anche Leone XIII, già all’epoca, comprende chiaramente come il flagello che Dio usi per punire l’Italia e tutte le Nazioni, allontanatesi dal Cristianesimo della Chiesa militante per tornare ad un paganesimo pratico, filosofico e morale, sia la setta degli empi, degli aderenti cioè alle legge demoniache della c. d. franco-massoneria e affini, lui che era stato pure divinamente avvertito dalla visione della Sede di Pietro occupata dagli angeli decaduti e dai loro adepti, … come effettivamente è accaduto e a cui assistiamo. « … Una dannosissima setta, i cui autori e corifei non celano né dissimulano affatto le loro mire, già da gran tempo ha preso posto in Italia e, intimata la guerra a Gesù Cristo, si propone di spogliare in tutto, i popoli di ogni cristiana istituzione ». Ed un monito all’Italia: « … il popolo italiano, abbandonando la Religione Cattolica, dovrebbe forse aspettarsi una pena anche maggiore (… delle altre Nazioni), perché all’enormità dell’apostasia aggiungerebbe l’enormità dell’ingratitudine. » … e tutto si sta compiendo sotto ai nostri occhi!

Leone XIII

Etsi nos

Lettera Enciclica

Quantunque Noi, in funzione dell’autorità e della grandezza del ministero Apostolico abbracciamo tutto il mondo cristiano e le singole parti dello stesso con tutta la vigilanza e la carità di cui siamo capaci, tuttavia al presente è l’Italia che richiama su di sé in particolar modo le Nostre cure e i Nostri pensieri. In queste riflessioni e in queste cure, la Nostra attenzione è rivolta ad una cosa ben più nobile e sublime di quelle umane; infatti siamo in angoscia e in grande trepidazione per la salvezza eterna delle anime, per la quale è tanto più necessario che continuamente s’impieghi tutto il Nostro zelo, quanto maggiori sono i pericoli a cui la vediamo esposta. – Siffatti pericoli, se in altro tempo furono gravi in Italia, senza dubbio oggi sono gravissimi, poiché lo stato medesimo delle cose pubbliche è grandemente funesto al benessere della Religione. Il che tanto più profondamente Ci turba l’animo, in quanto vincoli di speciali relazioni Ci uniscono a questa Italia, nella quale Iddio collocò la Sede del suo Vicario, la Cattedra della verità, e il centro dell’unità cattolica. Già altre volte ammonimmo il popolo che stesse in guardia, e che ognuno ben comprendesse quali siano i propri doveri in tante occasioni avverse. Tuttavia, crescendo sempre più i mali, vogliamo che Voi, Venerabili Fratelli, rivolgiate ad essi più attentamente il pensiero e, conosciuto il peggioramento continuo delle cose pubbliche, cerchiate di premunire con maggiore diligenza gli animi delle moltitudini, rinforzandoli con ogni mezzo di difesa, affinché non venga loro rapito il più prezioso dei tesori: la Fede Cattolica. – Una dannosissima setta, i cui autori e corifei non celano né dissimulano affatto le loro mire, già da gran tempo ha preso posto in Italia e, intimata la guerra a Gesù Cristo, si propone di spogliare in tutto i popoli di ogni cristiana istituzione. Quanto abbia proceduto nei suoi attentati non occorre qui ricordarlo, tanto più che Vi stanno innanzi agli occhi, Venerabili Fratelli, il guasto e le rovine già recate sia alla Religione, sia ai costumi. – Presso i popoli italiani, che in ogni tempo si tennero fedeli e costanti nella Religione ereditata dagli avi, ristretta ora ovunque la libertà della Chiesa, di giorno in giorno si tenta il più possibile di cancellare da tutte le pubbliche istituzioni quella impronta e quel carattere cristiano in forza dei quali fu sempre grande il popolo italiano. Soppressi gli Ordini religiosi; confiscati i beni della Chiesa; considerati validi come matrimoni le unioni contratte fuori del Rito Cattolico; esclusa l’Autorità ecclesiastica dall’insegnamento della gioventù: non ha fine, né tregua la crudele e luttuosa guerra mossa contro la Sede Apostolica. Pertanto la Chiesa si trova oppressa oltre ogni dire, e il Romano Pontefice è stretto da gravissime difficoltà. Infatti, spogliato della sovranità temporale, cadde necessariamente nel potere di altri. E Roma, la più augusta città del mondo cristiano, è divenuta campo aperto a tutti i nemici della Chiesa, e si vede profanata da riprovevoli novità, con scuole e templi al servizio dell’eresia. Anzi, pare che addirittura in questo stesso anno sia destinata ad accogliere i rappresentanti e i capi della setta più ostile alla Religione Cattolica, i quali vanno appunto pensando di radunarsi qui in congresso. È abbastanza palese il motivo che li ha spinti a scegliere questo luogo: vogliono con un’ingiuria sfrontata sfogare l’odio che portano alla Chiesa, e lanciare da vicino funesti segnali di guerra al Papato, sfidandolo nella sua stessa Sede. Non è certamente da dubitare che la Chiesa esca alla fine vittoriosa dagli empi assalti degli uomini: è tuttavia certo e manifesto che essi con siffatte arti intendono colpire, insieme con il Capo, l’intero corpo della Chiesa, e distruggere, se fosse possibile, la Religione. – In verità, sembra incredibile che costoro, che si professano devotissimi alla famiglia italiana, vogliano questo poiché la famiglia italiana, se si spegnesse la Fede cattolica, resterebbe necessariamente privata di una fonte di vantaggi supremi. Infatti, se la Religione cristiana apportò a tutte le Nazioni ottimi motivi di salvezza, quali la santità dei diritti e la tutela della giustizia; se per ogni dove, compagna e guida a tutto ciò che è onesto, lodevole e grande, con la sua virtù domò le cieche ed avventate passioni degli uomini; se in ogni contrada ridusse a perfetta e stabile concordia i vari ordini dei cittadini e le diverse membra dello Stato, certamente una maggior copia di benefici più largamente che alle altre essa apportò alla Nazione italiana. – Molti, con loro disonore ed infamia, vanno dicendo che la Chiesa è avversa e nuoce alla prosperità o ai progressi dello Stato, e ritengono che il Romano Pontefice sia contrario alla felicità e alla grandezza del nome italiano. Ma le accuse e le assurde calunnie di costoro vengono solennemente smentite dalle memorie dei tempi passati. Difatti l’Italia deve molto alla Chiesa e ai Sommi Pontefici, se diffuse presso tutte le genti la propria gloria, se non soggiacque ai ripetuti assalti dei barbari, se respinse invitta le aggressioni enormi dei Turchi, e in molte cose conservò a lungo una giusta e legittima libertà, ed arricchì le sue città di tanti monumenti immortali di arti e di scienze. Né ultima fra le glorie dei Romani Pontefici è l’aver mantenuto unite, mercé la stessa fede e la stessa Religione, le province italiane diverse per indole e per costumi, e l’averle così liberate dalle più funeste discordie. Anzi, nei peggiori frangenti più volte le cose pubbliche sarebbero precipitate in situazioni rovinose se il Romano Pontificato non fosse intervenuto a salvarle. – Né sarà da meno per l’avvenire, purché la volontà degli uomini non sorga a porre ostacolo alla sua virtù o a diminuirne la libertà. Infatti, quella forza benefica che si trova nelle istituzioni cattoliche, derivando necessariamente dalla medesima loro natura, è immutabile e perenne. Come la Religione Cattolica supera ogni differenza di luoghi e di tempi per la salvezza delle anime, così anche nelle cose civili, dappertutto e sempre, diffonde ampiamente i suoi tesori a beneficio degli uomini. – In verità, eliminati tanti e così grandi beni, subentrano estremi mali, in quanto quegli stessi che portano odio alla sapienza cristiana, per quanto dicano di fare il contrario, traggono in rovina la società, nulla essendovi di peggio che le loro dottrine per accendere violentemente gli animi ed eccitare le più perniciose passioni. Infatti, nell’ordine speculativo essi rigettano il lume celestiale della Fede: estinto il quale la mente umana spessissimo è trascinata negli errori, non discerne il vero, e con tutta facilità cade alla fine nell’abbietto e turpe materialismo. Nell’ordine pratico, disprezzano la norma eterna ed immutabile dei costumi, e non riconoscono Dio quale supremo Legislatore e Vendicatore. Tolti questi fondamenti, ne consegue che, per difetto di efficace sanzione, ogni regola del vivere dipenda dalla volontà e dall’arbitrio degli uomini. Nell’ordine sociale, da quella smodata libertà che essi predicano e vogliono, nasce la licenza; alla licenza tien dietro il disordine, che è il più grande e micidiale nemico del consorzio civile. Certo una Nazione non presentò spettacolo più penoso di sé o condizione più misera di quando in essa poterono signoreggiare, sia pure per breve tempo, tali dottrine e siffatti uomini. E se non si avessero esempi recenti, sembrerebbe incredibile che degli uomini, per malvagità e furibonda violenza, avessero potuto consumare tanti eccidi e, irridendo al nome di libertà, gozzovigliare fra le stragi e gli incendi. Se l’Italia fino ad ora non fu funestata da tanti eccessi, lo si deve prima di tutto attribuire a singolare beneficio di Dio. Inoltre occorre tenere presente anche questa ragione, che cioè essendo gli italiani nella maggioranza rimasti costantemente devoti alla Religione Cattolica, non riuscì a trionfare la licenza delle empie massime che abbiamo ricordato. Peraltro, ove questi ripari che offre la Religione venissero abbattuti, subito irromperebbero in Italia quelle medesime calamità da cui furono percosse un tempo grandissime e fiorentissime Nazioni. Infatti è giocoforza che dagli stessi principi scaturiscano gli stessi effetti; ed essendo i semi ugualmente guasti, non possano produrre che gli stessi frutti. Anzi, il popolo italiano, abbandonando la Religione cattolica, dovrebbe forse aspettarsi una pena anche maggiore, perché all’enormità dell’apostasia aggiungerebbe l’enormità dell’ingratitudine. – Infatti, non dal caso o dalla volubile volontà degli uomini l’Italia ebbe il privilegio di essere fin dal principio fatta partecipe della salvezza portata da Gesù Cristo, di possedere nel suo seno la Sede del beato Pietro, e di aver goduto per lunghi secoli degli immensi e divini benefici che derivano dal Cattolicesimo. Pertanto, dovrebbe temere grandemente per sé quello che l’Apostolo Paolo annunciò minacciosamente ai popoli ingrati: “Una terra imbevuta dalla pioggia che spesso cade su di essa, se produce erbe utili a quanti la coltivano, riceve la benedizione da Dio; ma se produce pruni e spine non ha alcun valore ed è vicina alla maledizione: sarà infine arsa dal fuoco!” (Eb VI, 7-8). – Iddio tenga lontano tanto terrore. Tutti considerino seriamente i pericoli, sia quelli già presenti, sia quelli che incombono per iniziativa di coloro i quali, operando non alla comune utilità bensì al vantaggio delle sette, combattono con odio mortale la Chiesa. Essi, se avessero senno, se fossero accesi da vera carità di patria, non diffiderebbero certo della Chiesa, né per ingiusti sospetti si proverebbero a menomarne la originaria libertà; ché anzi volgerebbero i loro propositi, che ora sono tutti di farle guerra, a sua difesa ed aiuto, e soprattutto si darebbero cura di far rientrare nel possesso dei suoi diritti il Romano Pontefice. – Infatti, l’ostilità intrapresa contro la Sede Apostolica, quanto più torna a danno della Chiesa, tanto meno giova alla prosperità dell’Italia. In materia dichiarammo altrove il Nostro pensiero: “Proclamate che le pubbliche cose d’Italia non potranno giammai prosperare, né godere stabile tranquillità, finché non sia provveduto, come ogni diritto richiede, alla dignità della Sede Romana e alla libertà del Sommo Pontefice”.

Pertanto, poiché niente Ci sta più a cuore dell’incolumità degl’interessi religiosi, ed essendo turbati per il grave rischio che corrono i popoli italiani, col più vivo calore Vi esortiamo, Venerabili Fratelli, a mettere in opera con Noi lo zelo e la carità Vostra, al fine di riparare a tante sciagure. – Innanzi tutto datevi somma premura di far comprendere ai popoli quale gran bene sia possedere la Fede Cattolica, e quanto sia necessario custodirla gelosamente. E poiché i nemici e i contestatori del Cristianesimo, per ingannare tanto più facilmente gli incauti, molto spesso mentre scaltramente fanno una cosa, ne intendono un’altra, è molto importante che i loro occulti propositi siano pienamente messi in chiaro, affinché, scoperto quello che realmente si propongono e quale sia lo scopo dei loro sforzi, si risvegli nei Cattolici una coraggiosa gara di difendere pubblicamente la Chiesa ed il Romano Pontefice, cioè la loro stessa salvezza. – Fino ad oggi la virtù di molti, che avrebbero potuto fare grandi cose, si è mostrata in certo qual modo meno risoluta nell’operare, e meno resistente alla fatica, sia che gli animi fossero inesperti delle cose nuove, sia che non avessero compreso abbastanza la gravità dei pericoli. Ma ora, conosciuti i bisogni per esperienza, nulla sarebbe più dannoso che il tollerare neghittosamente la lunga perfidia dei malvagi, e lasciare ad essi libero il campo di vessare ulteriormente e come meglio loro piace il mondo cattolico. Costoro, più prudenti invero dei figli della luce, hanno già osato molte cose: inferiori di numero, più forti di scaltrezza e di mezzi, in poco tempo hanno riempito le nostre contrade di grandi mali. – Quanti amano il nome cattolico intendano dunque che è tempo di tentare qualche cosa, e di non abbandonarsi in nessun modo alla indifferenza ed all’inerzia, dato che nessuno rimane tanto presto oppresso, quanto colui che si abbandona ad una stolta sicurezza. Vedano come non abbia mai temuto alcunché quella nobile ed operosa virtù dei nostri antichi, dalle fatiche e dal sangue dei quali trasse vigore la Fede Cattolica. Voi intanto, Venerabili Fratelli, ridestate i neghittosi, incitate i lenti, con l’esempio e l’autorità Vostra rincuorate tutti ad adempiere con alacrità e costanza quei doveri nei quali consiste la vita attiva dei Cristiani. – Per mantenere ed accrescere questo ravvivato vigore, è necessario usare ogni cura e provvedimento, perché si moltiplichino ovunque e fioriscano per operosità, per numero e per concordia quelle società, le quali hanno per scopo principale di conservare ed avvalorare gli esercizi della fede cristiana e delle altre virtù. – Tali sono le Associazioni dei giovani e dei lavoratori, e quelle che furono costituite o per tenere congressi cattolici in determinati tempi, o per dare soccorso alle umane miserie, o per curare l’osservanza delle feste religiose, e per istruire i fanciulli della gente più povera, e molte altre dello stesso genere. – Siccome importa sommamente alla società cristiana che il Romano Pontefice sia ed appaia completamente libero da ogni pericolo, molestia e difficoltà nel governo della Chiesa, per quanto secondo le leggi è possibile, tali società facciano, chiedano ed argomentino il più possibile a vantaggio del Pontefice; né mai si diano posa finché a Noi, in realtà e non in apparenza, non sia resa quella libertà con la quale per un certo necessario legame si congiunge non soltanto il bene della Chiesa, ma anche il prospero andamento delle cose italiane e la tranquillità delle genti cristiane. – Oltre a questo conta moltissimo che si vada largamente diffondendo la buona stampa. Coloro che avversano con mortale odio la Chiesa, hanno preso l’abitudine di combattere con pubblici scritti, che adoperano come armi adattissime a danneggiare. Quindi una pestifera colluvie di libri, quindi giornali sediziosi e funesti, i cui furiosi assalti né le leggi raffrenano, né il pudore trattiene. Sostengono come ben fatto tutto ciò che in questi ultimi anni è stato compiuto per mezzo di sedizioni e di tumulti; coprono o falsano la verità; scagliano quotidianamente brutali contumelie e calunnie contro la Chiesa e il Sommo Pontefice, e non vi è alcuna sorta di dottrine assurde e pestilenziali che non si risparmino di diffondere ovunque. È necessario dunque fare argine alla violenza di questo grande male che va ogni giorno più largamente serpeggiando; e per prima cosa conviene con tutta severità e rigore indurre il popolo a guardarsene il più possibile, e ad usare scrupolosamente il più prudente discernimento sulle cose da leggere. Inoltre occorre contrapporre scritto a scritto, affinché lo stesso mezzo che tanto può nel rovinare, sia rivolto alla salute e al beneficio dei mortali, e i rimedi vengano appunto da dove vengono preparati i micidiali veleni. Pertanto è auspicabile che almeno in ogni provincia si istituisca qualche strumento che illustri pubblicamente quali e quanti sono i doveri dei singoli Cristiani verso la Chiesa: ciò con scritti molto frequenti, e se possibile quotidiani. Soprattutto poi siano evidenziati i grandissimi benefici recati ad ogni paese dalla Religione Cattolica; si faccia comprendere come la sua virtù torni sempre a sommo bene e a vantaggio delle cose private e pubbliche; si spieghi quanto sia importante che la Chiesa venga di nuovo e sollecitamente innalzata nella società a quel grado di dignità che la sua grandezza divina e la pubblica utilità delle genti vivamente richiedono. – Per questo è necessario che coloro che si dedicano alla professione dello scrivere, tengano presenti diverse considerazioni: che tutti, nello scrivere, mirino ad un medesimo scopo; vedano di stabilire con giudizio sicuro ciò che torna più vantaggioso e si sforzino di realizzarlo; non lascino da parte alcuna di quelle cose che sembrino utili e desiderabili a sapersi; gravi e temperati nel dire, confutino gli errori e i difetti, ma in modo che la critica sia senza acerbità, e si porti rispetto alle persone; infine, si esprimano con piano e chiaro discorso, in modo che la moltitudine possa comprenderlo agevolmente. – Tutti gli altri poi che desiderano realmente e di cuore che le cose, sia sacre sia civili, vengano efficacemente difese da valenti scrittori con positivi risultati, cerchino di favorire con la propria liberalità i frutti delle lettere e dell’ingegno; quanto più uno è dovizioso, tanto più con le sue facoltà e con i suoi averi li sostenga. Infatti a tali scrittori si deve prestare aiuto in questo modo, senza il quale il loro impegno non avrà alcun successo, od un successo incerto ed assai esiguo. In tutte tali cose, se ai nostri si presenta qualche disagio, se devono correre qualche rischio, osino tuttavia affrontarli, in quanto per il Cristiano nessuna causa è più giusta di questa, cioè di andare incontro a molestie e fatiche piuttosto che dagli empi venga colpita la Religione. Certamente la Chiesa generò ed allevò i figli non a condizione che, quando il tempo o la necessità lo richiedesse, essa non dovesse aspettarsi da loro alcun aiuto, ma perché ognuno anteponesse alla propria tranquillità e ai privati interessi la salute delle anime e la incolumità degl’interessi religiosi. Precipuo oggetto poi delle Vostre assidue cure e dei Vostri pensieri deve essere, Venerabili Fratelli, formare come si conviene idonei ministri di Dio. Infatti, se è proprio dei Vescovi porre ogni opera e zelo nell’educare a dovere tutta la gioventù in genere, è opportuno curare con maggior diligenza i chierici, che crescono a speranza della Chiesa, e che saranno un giorno partecipi e dispensatori dei sacri doni. Gravi ragioni, comuni a tutti i tempi, richiedono senz’altro nei Sacerdoti un corredo di molte e grandi qualità: tuttavia quest’età nostra ne domanda ancora di più e assai maggiori. In primo luogo la difesa della Fede Cattolica, alla quale massimamente debbono con sommo studio dedicarsi i Sacerdoti: essa è assolutamente necessaria ai tempi nostri; vuole una dottrina non volgare né mediocre, ma profonda e varia, la quale abbracci non solamente le sacre discipline, ma anche le filosofiche, e sia ricca di cognizioni di fisica e di storia. Infatti si debbono estirpare numerosi errori che mirano a sovvertire ogni fondamento della Rivelazione cristiana; si deve lottare spesso con avversari preparatissimi e perseveranti nelle discussioni, i quali traggono accortamente partito da ogni genere di studi. – Analogamente, essendo oggi grande e molto diffusa la corruzione dei costumi, è necessario che i Sacerdoti posseggano un singolare corredo di virtù e di costanza. Infatti essi non possono sfuggire al rapporto con gli uomini; anzi per gli stessi doveri del loro ministero sono tenuti a trattare molto più da vicino col popolo; e ciò in mezzo a città nelle quali qualsiasi rea passione è permessa sino alla licenza. Da ciò si comprende che il Clero deve possedere in questo tempo una fortissima virtù, che possa essere essa stessa sicuro strumento di difesa, vincere tutti gli allettamenti del vizio, ed uscire salva da pericolosi esempi. – Oltre a questo, le leggi emanate a danno della Chiesa hanno causato necessariamente la scarsezza dei chierici: onde è necessario che coloro che per grazia di Dio vengono iniziati agli Ordini Sacri raddoppino l’opera loro, e con singolare diligenza, studio e spirito di abnegazione compensino il piccolo numero. Certamente non possono raggiungere l’obiettivo se non hanno animo costante, mortificato, intemerato, ardente di carità, e sempre pronto e volonteroso a sobbarcarsi alle fatiche per la salvezza eterna degli uomini. Ma per tali compiti è necessario disporre una lunga e diligente preparazione, dato che nessuno può assuefarsi alla leggera e rapidamente a tante cose. E senza dubbio adempiranno utilmente e santamente i doveri del Sacerdozio coloro che ad essi si saranno preparati fin dall’adolescenza, ed avranno ricavato dall’educazione tanto frutto da sembrare non formati, ma quasi nati con quelle virtù delle quali si è accennato. – Pertanto, Venerabili Fratelli, i Seminari dei chierici giustamente richiedono la maggiore e miglior parte delle cure, della sagacia e della vigilanza Vostra. Per quel che concerne la virtù e i costumi, troppo bene conoscete nella Vostra sapienza di quali precetti e ammaestramenti convenga dotare abbondantemente i giovani chierici. Riguardo alle più ardue discipline, poi, la Nostra Enciclica Æterni Patris diede le norme per un ottimo andamento degli studi. Ma poiché in così continuo progredire degl’ingegni furono saggiamente e utilmente ritrovate diverse cose che non conviene siano ignorate, tanto più che uomini empi utilizzano come nuovi dardi contro le verità rivelate da Dio tutto ciò che di giorno in giorno il progresso mette a disposizione in materia, operate, Venerabili Fratelli, secondo le Vostre possibilità affinché la gioventù educata alle cose sacre non solo abbia un ricco corredo di scienze naturali, ma sia altresì ottimamente ammaestrata in quelle discipline che hanno attinenza con gli studi critici ed esegetici della sacra Bibbia. – Ben sappiamo che molte cose sono necessarie alla perfezione dei buoni studi: tuttavia per improvvide leggi è reso impossibile o difficilissimo procacciarsi tali mezzi. Ma anche a questo proposito i tempi esigono che gl’italiani si sforzino di ben meritare della Religione Cattolica con la generosità e con la munificenza. Vero è che la pia e benefica volontà dei maggiori aveva appieno provveduto a tali necessità; e la Chiesa con la sua avvedutezza e parsimonia era giunta a tal punto che non le era necessario raccomandare la tutela e la conservazione delle cose sacre alla carità dei suoi figli. Ma il suo patrimonio legittimo e sacrosanto, che il turbine di altre età aveva risparmiato, è stato distrutto dalla procella dei nostri tempi; pertanto da parte di coloro che professano amore al Cattolicesimo è tornato il momento di rinnovare la liberalità degli avi. Certamente, luminosi esempi di munificenza, in condizioni non molto dissimili, si vedono in Francia, nel Belgio e altrove: esempi degnissimi di ammirazione non solo dei contemporanei, ma anche dei posteri. Né dubitiamo che il popolo italiano, visto lo stato delle pubbliche cose, farà il possibile per mostrarsi degno dei suoi maggiori, e si darà ad imitare gli esempi fraterni. – Nelle cose che abbiamo esposto troviamo invero una non piccola speranza di rimedio e di sicurezza. Ma come in tutte le iniziative, così soprattutto in quelle che riguardano la salute pubblica è necessario che agli aiuti umani si aggiunga il soccorso dell’onnipotente Iddio, nelle cui mani sono non meno le volontà dei singoli individui come l’andamento e la fortuna delle Nazioni. Per la qual cosa è da chiamare Dio in aiuto con le più calde istanze, e supplicarlo che riguardi pietoso l’Italia arricchendola e colmandola con tanti suoi benefici in modo che, dileguata ogni ombra di pericoli, protegga per sempre in essa la Fede Cattolica, che è il massimo dei beni. Per questo, ancora, è da chiamare supplichevolmente in soccorso Maria Vergine Immacolata, gran Madre di Dio, fautrice e ausiliatrice dei buoni consigli, e con Lei il suo santissimo Sposo Giuseppe, custode e patrono delle genti cristiane. Con pari ardore conviene pregare i grandi Apostoli Pietro e Paolo, affinché nel popolo italiano custodiscano intatto il frutto delle loro fatiche, e conservino fino ai tardi posteri pura e inviolata la Religione Cattolica, che essi stessi col proprio sangue conquistarono ai nostri antenati. – Confortati dal celeste patrocinio di tutti loro, in auspicio delle divine consolazioni e a testimonianza della speciale Nostra benevolenza, a Voi tutti, Venerabili Fratelli, ed ai popoli affidati alla Vostra tutela, con affetto nel Signore impartiamo l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 febbraio 1882, anno quarto del Nostro Pontificato.

DOMENICA IV DI AVVENTO (2019)

DOMENICA IV DI AVVENTO (2019)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione alla Chiesa dei 12 Apostoli.

Dom. privil. Semid. di II cl. Paramenti violacei.

Come tutta la liturgia di questo periodo, la Messa della Quarta Domenica dell’Avvento, ha lo scopo di prepararci al doppio Avvento di Cristo, avvento di misericordia a Natale, nel quale noi commemoriamo la venuta di Gesù, e avvento di giustizia alla fine del mondo. L’Introito, il Vangelo, l’Offertorio e il Communio fanno allusione al primo, l’Epistola si riferisce al secondo, e la Colletta, il Graduale e l’Alleluia possono applicarsi all’uno e all’altro. Le tre grandi figure delle quali si occupa la Chiesa durante l’Avvento ricompaiono in questa Messa. Isaia, Giovanni Battista e la Vergine Maria. Il Profeta Isaia annuncia di S. Giovanni Battista, che egli è: « la voce di colui che grida nel deserto: preparate la via del Signore, appianate tutti i suoi sentieri, perché ogni uomo vedrà la salvezza di Dio ». E la parola del Signore si fece sentire a Giovanni nel deserto: ed egli andò in tutti i paesi intorno al Giordano e predicò il battesimo di penitenza (Vang.). « Giovanni, spiega S. Gregorio, diceva alle turbe che accorrevano per essere battezzati da lui: Razza di vipere, chi vi ha insegnato a fuggire la collera che sta per venire? La collera infatti che sovrasta è il castigo finale, e non potrà fuggirlo il peccatore, se non ricorre al pianto della penitenza. « Fate dunque frutti degni di penitenza. In queste parole è da notare che l’amico dello sposo avverte di offrire non solo frutti di penitenza, ma frutti degni di penitenza. La coscienza di ognuno si convinca di dover acquistare con questo mezzo un tesoro di buone opere tanto più grande quanto egli più si fece del danno con il peccato » (3° Nott.). « Iddio, dice anche S. Leone, ci ammaestra Egli stesso per bocca del Santo Profeta Isaia: Condurrò i ciechi per una via ch’essi ignorano e davanti a loro muterò le tenebre in luce, e non li abbandonerò. L’Apostolo S. Giovanni ci spiega come s’è compiuto questo mistero quando dice: Noi sappiamo che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza perché possiamo conoscere il vero Iddio ed essere nel suo vero Figlio » (2° Nott.). – Per il grande amore che Dio ci porta ha inviato sulla terra il Suo unico Figlio, che è nato dalla Vergine Maria. Proprio questa Vergine benedetta ci ha dato di fatto Gesù; così, nel Communio, la Chiesa ci ricorda la profezia di Isaia: « Ecco che una Vergine concepirà epartorirà l’Emmanuele », e nell’Offertorio ella unisce in un solo saluto le parole indirizzate a Maria dall’Arcangelo e da Santa Elisabetta, che troviamo nei Vangeli del mercoledì e del venerdì precedenti: « Gabriele, (nome che significa « forza di Dio »), è mandato a Maria — scrive S. Gregorio — perché egli annunziava il Messia che volle venire nell’umiltà e nella povertà per atterrare tutte le potenze del mondo. Bisognava dunque che per mezzo di Gabriele, che èla forza di Dio, fosse annunciato Colui che veniva come il Signore delle Virtù, l’Onnipotente e l’Invincibile nei combattimenti, per atterrare tutte le potenze del mondo » (35° Serm.). La Colletta fa allusione a questa «grande forza» del Signore, che si manifesta nel primo avvento, perché è nella sua umanità debole e mortale che Gesù vinse il demonio, come anche ci parla dell’apparizione della sua«grande potenza» che avverrà al tempo del suo secondo avvento, quando, come Giudice Supremo, verrà nello splendore della sua maestà divina, a rendere a ciascuno secondo le sue opere (Ep.). Pensando che, nell’uno e nell’altro di questi avventi, Gesù, nostro liberatore, è vicino, diciamogli con la Chiesa « Vieni Signore, non tardare ».

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitu

Exod XVI :16; 7
Hódie sciétis, quia véniet Dóminus et salvábit nos: et mane vidébitis glóriam ejus [Oggi saprete che verrà il Signore e ci salverà: e domattina vedrete la sua gloria.]
Ps XXIII: 1
Dómini est terra, et plenitúdo ejus: orbis terrárum, et univérsi, qui hábitant in eo. [Del Signore è la terra  e quanto essa contiene; il mondo e tutti quelli che vi abitano.]
Hódie sciétis, quia véniet Dóminus et salvábit nos: et mane vidébitis glóriam ejus.

[Oggi saprete che verrà il Signore e ci salverà: e domattina vedrete la sua gloria.]

Oratio 

  Excita, quǽsumus, Dómine, poténtiam tuam, et veni: et magna nobis virtúte succúrre; ut per auxílium grátiæ tuæ, quod nostra peccáta præpédiunt, indulgéntiæ tuæ propitiatiónis accéleret: [O Signore, Te ne preghiamo, súscita la tua potenza e vieni: soccòrrici con la tua grande virtú: affinché con l’aiuto della tua grazia, ciò che allontanarono i nostri peccati, la tua misericordia lo affretti.]

Lectio

Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Corinthios
1 Cor IV: 1-5
Fratres: Sic nos exístimet homo ut minístros Christi, et dispensatóres mysteriórum Dei. Hic jam quaeritur inter dispensatóres, ut fidélis quis inveniátur. Mihi autem pro mínimo est, ut a vobis júdicer aut ab humano die: sed neque meípsum judico. Nihil enim mihi cónscius sum: sed non in hoc justificátus sum: qui autem júdicat me, Dóminus est. Itaque nolíte ante tempus  judicáre, quoadúsque véniat Dóminus: qui et illuminábit abscóndita tenebrárum, et manifestábit consília córdium: et tunc laus erit unicuique a Deo.

Lezione tratta dalla prima Lettera dell’Apostolo S. Paolo ai Corinti, Cap. IV, v. 1. 5.

“Fratelli mici, così ci consideri ognuno come ministri di Cisto, e dispensatori dei misteri di Dio. Del resto poi ciò che si richiede ne’ dispensatori è che sian trovati fedeli. A me pochissimo importa di esser giudicato da voi, o in giudizio umano; anzi nemmeno io giudico di me stesso. Poiché non ho coscienza di nessun male; ma non per questo sono giustificato; e chi mi giudica, è il Signore. Onde non vogliate giudicare prima del tempo, finché venga il Signore: il quale rischiarerà i nascondigli delle tenebre, e manifesterà i consigli de’ cuori, ed allora ciascuno avrà lode da Dio”.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

A qual fine la Chiesa fa leggere oggi questa lettera?

Per avvertire quelli che ieri ricevettero i sacri ordini a distinguersi per la fedeltà ai loro doveri e per la Santità della vita, quanto sono distinti per l’alta dignità del loro stato; per ispirare il rispetto dovuto ai sacerdoti. che sono i ministri di Gesù Cristo, e i dispensatori dei divini misteri; ed in ultimo per ricordare ai Fedeli questa seconda venuta del Figliuolo dell’uomo; ed invitarli così a giudicarsi da se stessi, a purificare il loro cuore per la festa del Natale, ed a ricevere degnamente Gesù Cristo come Salvatore, sicché non l’abbiamo a temer come Giudice.

In che qualità Gesù Cristo si serve dei Sacerdoti?

Se ne serve in qualità di economi, di dispensatori dei santi misteri, di mediatori e di ambasciatori. Perciò Iddio ordina tanto espressamente di riverirli. I sacerdoti che governano bene siano doppiamente onorati, in particolar modo quelli che si affaticano nella predicazione e nell’istruire. (Lett. prima a Timoteo cap. V. v. 17.).

I Sacerdoti possono amministrare i sacramenti a loro piacere?

No, come gli economi non possono fare a loro volontà.  Essendo gli economi di Gesù Cristo, debbono conformarsi al suo volere, esercitar fedelmente il loro ufficio, e per conseguenza non dare ai cani ciò che è santo, cioè non dar l’assoluzione, o conferire altri Sacramenti ai non degni. Nelle prediche non debbono cercare né di lusingar l’orecchio né di far mostra del loro ingegno, ma predicare la dottrina di Gesù Cristo con tutta la gravità e dignità conveniente, né guardare al giudizio degli uomini, siccome faceva s. Paolo.

Perché i Sacerdoti non debbono guardare al giudizio degli uomini?

Perché spesso avviene che gli uomini giudicano dall’apparenza, e non secondo la verità, per passione, per amor proprio, per spirito di parte, e non secondo giustizia; danno elogio e biasimo senza attendere al merito; sono incostanti nei loro giudizi, approvando ciò che prima censurarono, e censurando quel che approvarono: trovano cattivo ciò che piace a Dio, e buono ciò che gli dispiace; e tutto quanto gli uomini dicono di noi non può togliere né aggiunger niente al nostro merito innanzi a Dio: il giudizio di Dio, sempre conforme alla verità, è il solo al quale debbono riguardare i Sacerdoti e tutti gli altri Cristiani. Qual follia dunque è quella di coloro che seguono le mode scandalose del mondo e si conformano ai suoi corrotti costumi, per non dispiacergli; si uniscono a compagnie pericolose, per non comparir singolari; lasciano le pratiche di religione per umano rispetto, e dimandan sempre: che dirà il mondo? e mai: che dirà Iddio, se faccio questa cosa, se tralascio quest’altra? Se io volessi piacere agli uomini dice s. Paolo – non sarei servo di Gesù Cristo. – Il giudizio degli uomini non ci distolga mai dall’adempimento degli ordini di Dio, che non ricompensa se non la fedeltà. V’è onore e felicità più grande del servire a Dio? Cerchiamo dunque di piacergli in tutto.

Perché S. Paolo non voleva giudicar se stesso?

Perché non sapeva come Dio lo giudicava, sebbene di niente gli rimordesse la coscienza: senza una rivelazione di Dio, nessuno sa se sia degno d’amore o d’odio. Dio scandaglia i cuori e le reni; nulla può sfuggire al suo sguardo, ed i giudizi di Lui sono ben differenti da quelli degli uomini, che accecati dall’amor proprio e dalla passione, spesso non vedono il male che fanno; nascondono sé a se stessi, e si giustificano quando dovrebbero condannarsi. Tale si crede innocente e si riguarda come santo, che al giorno poi del giudizio sarà ricoperto di confusione, quando Dio svelerà in faccia all’universo tutte le azioni di lui e tutti gli interni segreti. Non giudichiamo gli altri; di loro ci è ignoto l’interno; ma giudichiamo noi stessi: esaminiamoci accuratamente, pesiamo tutte le nostre azioni, scendiamo nel fondo della nostra coscienza, frugando tutte le pieghe e i nascondigli del nostro cuore; ed imiteremo S. Paolo che si giudicava così da se stesso; ma imitiamo parimente s. Paolo che in un altro senso non si giudicava da sè, cioè se dopo un’esatta ricerca, non troviamo nulla di reprensibile in noi, senza troppo fidarci del nostro giudizio, rimettiamo a Dio il giudizio definitivo, ed affatichiamoci per la nostra salvezza con timore e tremito, ponendo la confidenza nella misericordia del Signore.

Aspirazione. Ah! Signore, non entrate in giudizio col vostro servo, poiché nessun uomo vivente sarà giustificato alla vostra presenza. O chiave di David, e scettro della casa d’Israele, che aprite e nessuno chiude, che serrate e nessuno apre, venite a sottrarre il prigioniero dalla carcere, il misero assiso nelle tenebre all’ombra della morte.

Graduale 

Ps. CXLIV: 18; 21
Prope est Dóminus ómnibus invocántibus eum: ómnibus, qui ínvocant eum in veritáte. [Il Signore è vicino a quanti lo invocano: a quanti lo invocano sinceramente.]
V. Laudem Dómini loquétur os meum: et benedícat omnis caro nomen sanctum ejus. [Signore: e ogni mortale benedica il suo santo nome.

Alleluja

Allelúja, allelúja,
V. Veni, Dómine, et noli tardáre: reláxa facínora plebis tuæ Israël. Allelúja [Vieni, o Signore, non tardare: perdona le colpe di Israele tuo popolo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secundum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc III: 1-6

Anno quintodécimo impérii Tibérii Cæsaris, procuránte Póntio Piláto Judæam, tetrárcha autem Galilaeæ Heróde, Philíppo autem fratre ejus tetrárcha Ituraeæ et Trachonítidis regionis, et Lysánia Abilínæ tetrárcha, sub princípibus sacerdotum Anna et Cáipha: factum est verbum Domini super Joannem, Zacharíæ filium, in deserto. Et venit in omnem regiónem Jordánis, praedicans baptísmum pæniténtiæ in remissiónem peccatórum, sicut scriptum est in libro sermónum Isaíæ Prophétæ: Vox clamántis in desérto: Paráte viam Dómini: rectas fácite sémitas ejus: omnis vallis implébitur: et omnis mons et collis humiliábitur: et erunt prava in dirécta, et áspera in vias planas: et vidébit omnis caro salutáre Dei.”

OMELIA I

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE IV.

 “L’anno quintodecimo dell’impero di Tiberio Cesare, essendo procuratore della Giudea Ponzio Pilato, e tetrarca della Galilea Erode, e Filippo suo fratello tetrarca della Galilea Erode, e Filippo suo fratello, tetrarca dell’Idurea della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i Pontefici Anna e Caifa, il Signore parlò a Giovanni figliuolo di Zaccaria, nel deserto. Ed egli andò per tutto il paese intorno al Giordano, predicando il battesimo di  penitenza per la remissione dei peccati: conforme sta scritto nel libro dei sermoni d’Isaia profeta: Voce di uno cbe grida nel deserto: Preparate la via del Signore; raddrizzate i suoi sentieri: tutte le valli si riempiranno, e tutti i monti e le colline si abbasseranno: e i luoghi tortuosi si raddrizzeranno, e i malagevoli si appianeranno: e vedranno tutti gli uomini la salute di Dio”. (Luc. III, 1-6).

Il divin Redentore Gesù dopo di aver passati trent’anni nell’oscurità della bottega di Nazaret, soggetto a Maria ed a S. Giuseppe, stava al fine per uscirne e dar principio alla sua pubblica predicazione. E poiché S. Giovanni Battista aveva da Dio ricevuto la gran missione di preparare gli uomini a ben ricevere Gesù ed a credere ai suoi divini insegnamenti, conveniva che, lasciato il deserto, dove si era recato sin dai più teneri anni a vivere da solitario e tutto occupato nelle cose celesti, si recasse sulle rive del Giordano a predicare la necessità della penitenza e delle opere buone. Così fece per l’appunto, ed è quello che ci racconta il Vangelo di oggi, tanto opportunamente scelto dalla Chiesa per questo tempo, in cui ci troviamo così vicini alla festa del Santo Natale. Di fatti noi potremo facilmente vedere come questo Vangelo ci parli anzitutto della venuta di Gesù Cristo, ci dica in seguito quale sia la preparazione, che dobbiamo tare a tale venuta, e ci dimostri da ultimo quale sarà il frutto della medesima.

1. Quando nostro Signor Gesù Cristo, giunto all’età di trent’anni, dava principio alla sua vita pubblica, a Roma il grande imperatore Augusto era morto, e gli era succeduto Tiberio, arrivato già al quindicesimo anno del suo regno. A Gerusalemme era pur morto lo scellerato e crudele Erode, che alla nascita di Gesù aveva ordinato la strage degli innocenti; ed il suo regno era stato diviso fra i suoi tre figli Erode-Antipa, Filippo ed Archelao. La Giudea era toccata a quest’ultimo; ma debole e violento, ad un tempo non andò guari che venne deposto dall’imperatore Augusto e mandato in esilio nelle Gallie; e così la Giudea venne annessa all’impero romano e già da venti anni vari governatori romani vi comandavano a nome dell’imperatore. Non è certo difficile il comprendere l’afflizione, anzi la rabbia, in cui si trovavano i Giudei per avere in tal guisa perduta la loro libertà, il loro regno, la loro patria. Quella terra Iddio l’aveva loro concessa operando tanti prodigi, dopoché Abramo ne aveva ricevuto da Dio una solenne promessa: ivi Giuseppe, figliuolo di Giacobbe, aveva fatto trasportare le sue ossa, Davide per molti anni aveva combattute le battaglie del Signore, Salomone aveva innalzato al solo vero Dio un magnifico tempio, a paragone del quale era ben poca cosa quello che, sebbene già tanto splendido, esisteva presentemente; ivi i monti, le valli, le pianure, i fiumi erano cose tutte, che parlavano mirabilmente ai Giudei e dicevano loro le grandezze e le meraviglie dei loro padri e dei santi Profeti: ed ora questa terra era uscita dal loro dominio e caduta in potere altrui! Considerando il loro decadimento, si infiammavano di furibondo livore e, di tanto in tanto, nella speranza di scuotere l’abborrito giogo, facevano delle insurrezioni, che però a nulla approdavano. La potenza delle aquile romane si era posata là da vera signora ed anche a costo di radere al suolo Gerusalemme, non ne sarebbe più partita. Presentemente, vale a dire l’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio, chi governava la Giudea, era il procuratore Ponzio Pilato, uomo irresoluto e debole, che commise poi, tre anni dopo, la più spaventevole delle iniquità, cedendo alla voce del popolo ebreo e condannando alla morte di croce il nostro divin Redentore. E mentre Pilato governava la Giudea, i due fratelli Erode-Antipa e Filippo, figli di Erode, continuavano ciascuno a governare la loro parte, cioè il primo la Galilea, il secondo l’Iturea e la Traconitide; ed un certo Lisania comandava un piccolo tratto di paese chiamato Abilene, e tutti costoro avevano più o meno propriamente il titolo di tetrarca, parola greca, che significa governatore della quarta parte di uno stato. Inoltre gran sacerdote o pontefice de’ Giudei era allora Caifa, genero di Anna, il quale era stato pontefice prima di lui, e che, per connivenza di Caifa e del procuratore romano, conservava pur tuttavia il suo titolo con una parte delle sue funzioni, presiedendo il sinedrio e continuando a godere d’una grande influenza. – Tale era lo stato politico della Giudea, quando lo Spirito di Dio parlò a S. Giovanni, figliuolo di Zaccaria, chiamandolo ad esercitare la sua missione sulle rive del Giordano. Il Vangelo di oggi ci reca appunto il tempo preciso della sua comparsa e lo annunzia con una solennità inusitata: L’anno quintodecimo dell’impero di Tiberio Cesare, essendo procuratore della Giudea Ponzio Pilato, e tetrarca della Galilea Erode, e Filippo suo fratello tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i pontefici Anna e Caifa, il Signore parlò a Giovanni, figliuolo di Zaccaria, nel deserto. – Ora, o miei cari, perché mai questa lunga enumerazione dei nomi di coloro, che allora comandavano nel paese di Giudea? Il santo Vangelo volle provare con ciò, che la famosa predizione di Giacobbe al suo letto di morte era avverata. Sul punto di mandare l’ultimo sospiro, circondato dalla numerosa sua famiglia, il Patriarca, illustrato da una luce divina, aveva detto: « Non sarà tolto da Giuda lo scettro, fino a tanto che sia venuto Colui, che dev’essere mandato, ed è egli che sarà l’aspettazione delle nazioni » (Gen. XLIX, 10). Di questa profetica parola la conseguenza naturale è questa: Quando più non regneranno i principi di Giuda, quando la reale famiglia di Davide avrà lasciato cadere lo scettro, allora sarà venuto il Messia, ch’è l’aspettazione delle genti. Ed ecco che i tempi predetti sono compiuti: La Giudea è soggetta all’Impero romano, e quelli che comandano in quel paese sono i commissari di Cesare. Ora essendo le cose in questo stato, il Signore parlò a S. Giovanni chiamandolo ad esercitare il suo ufficio di precursore.

2. Fattoci in tal guisa conoscere la venuta del Messia, il santo Vangelo nel metterci innanzi la predicazione di S. Giovanni, con la quale egli si studiava di preparare alla stessa gli Ebrei, indica pure a noi che cosa dobbiamo fare per prepararci degnamente alle prossime feste del santo Natale. – Dice adunque il Vangelo che Giovanni andò per tutto il paese intorno al Giordano, predicando il battesimo di penitenza per la remissione dei peccati: conforme sta scritto nel libro dei sermoni d’Isaia profeta: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore; raddrizzate i suoi sentieri. Tutte le valli si riempiranno, e tutti i monti e le colline si abbasseranno; e i luoghi tortuosi si raddrizzeranno, e i malagevoli si appianeranno. Ecco qual era la predicazione, che S. Giovanni faceva agli Ebrei. Ei predicava loro, dice S. Giovanni Grisostomo, il battesimo di penitenza per la remissione dei peccati, vale a dire, li esortava a pentirsi dei loro disordini, a confessarli, a fare degni frutti di penitenza, a ricevere il suo battesimo, il quale non rimetteva i peccati, ma era una preparazione a quello di Gesù Cristo, al quale era riserbato il rimetterli. Ed applicando a sé stesso esattamente la predizione, che il profeta Isaia aveva fatto di lui e della sua missione, si valeva ancora delle sue parole per adempierla. Isaia, dopo aver predetto la schiavitù, che subirebbero gli Ebrei in Babilonia, aveva altresì annunziato la loro liberazione, indicando il modo, con cui dovevano dal Signore meritarsela. Ma nel tempo stesso egli aveva annunziato la venuta di Gesù Cristo a liberare dalla schiavitù di satana tutto il mondo, e fin d’allora udiva la voce del banditore, che avrebbe intimato agli uomini di ben ricevere il loro liberatore. E questo banditore, per riuscire nel suo intento si sarebbe servito di quello, che si suol fare quando un gran principe va in qualche città, che si accomodano, e si adornano le strade, e si colmano i luoghi bassi. Così appunto faceva il Santo Precursore. Nel cammino della vita egli precedeva il Salvatore, affine di rendergli più agevole la strada, e preparargli la via nei cuori degli uomini. Quei cuori avevano bisogno di essere dirizzati, perché erano stati viziati dall’amore del mondo e dall’attaccamento alle creature. Per causa degli errori, dei vizi, della superbia, dell’ingiustizia, della disonestà, e di tanti altri peccati, in quei cuori vi erano come delle valli da riempire, dei monti da abbassare, dei sentieri tortuosi e malagevoli da raddrizzare e da appianare. Epperò solo la penitenza poteva operare questo felice risultato di togliere da quei cuori tutti gli ostacoli, che si frapponevano a ricevere il gran benefizio della venuta di Gesù Cristo, e S. Giovanni con uno zelo ammirando si era dato a predicarla, e mercé di Dio con grande frutto. Si accorreva a lui da ogni parte, veniva richiesto che cosa si dovesse fare; i pubblicani ed i soldati gli confessavano i loro peccati, ricevevano il suo battesimo, e così si preparavano a ricevere quello del Salvatore. Or bene la predicazione di Giovanni è la stessa che conviene a noi. Quanto egli raccomandava agli Ebrei è quanto la Chiesa oggi raccomanda a noi. Anche noi, fra pochi giorni aspettiamo il Messia; la Chiesa sta per mostrarcelo bentosto nel suo presepio, sulla paglia della sua stalla. Ella è per dirci tutte le circostanze della benedetta sua nascita: i pastori che vegliano nella pianura, l’Angelo dal ciel disceso per annunziar loro le meraviglie di Betlemme, i festosi cantici intonati dall’esercito celeste, i pastori che lasciano i loro greggi per recarsi alla città di Davide ad adorare il Bambinello involto nelle fasce e deposto in una mangiatoia. Ella è per invitarci a porci in cammino pel santo e giocondo pellegrinaggio; e s’Ella non dice più: Cristiani, a Betlemme! ci dirà almeno: Cristiani all’altare! Troverete sotto gli eucaristici velami lo stesso Gesù, che trovarono i pastori sotto i lineamenti dell’infanzia. Più avventurosi dei primi adoratori del presepio, voi potete toccare, ricevere, portare nel vostro seno questo re degli Angeli, che per voi si è fatto il pane di vita. Ma ancor voi dovete prepararvi a riceverlo con la vera penitenza, e con la risoluta correzione della vostra vita. Pentitevi adunque sinceramente delle vostre passate colpe, lavate accuratamente le vostre macchie con una buona Confessione e contrizione vera. Colmate le valli, cioè rinunziate ai peccati di negligenza, pigrizia, omissione, che fecero un vuoto nelle anime vostre. Abbassate i monti ed i colli, cioè umiliatevi profondamente al vedere le vostre imperfezioni, invece di innalzarvi agli occhi vostri, seguendo le illusioni del vostro amor proprio, che non può far altro che indurvi in errore. I sentieri torti diventino dritti, cioè siate aperti e sinceri, nemici della menzogna e della doppiezza, della finzione e dell’astuzia. Ed appianate gli aspri cammini, cioè frenate la violenza di un carattere incapace di sopportare alcun che, ed a quella durezza ed asprezza d’umore, di cui tutti si lagnano, succeda la dolcezza e pazienza cristiana, poiché colui che andate a ricevere, dal tabernacolo, ove risiede, vi predica la dolcezza, la pazienza, l’amor del prossimo ed il perdono delle ingiurie. Ed allora in seguito a questa santa preparazione godrete anche voi i frutti della venuta di Gesù Cristo.

3. S. Giovanni, conchiude il Vangelo di oggi, dopo aver predicato la penitenza e la rinnovazione della vita, soggiungeva: E tutti gli uomini vedranno la salute di Dio; Et videbit omnis caro salutare Dei. E voleva dire: Il Messia, apportatore della salute comparirà presto in pubblico e presto si darà a vedere agli uomini insegnando agli stessi la via del cielo, e tutti, non solamente gli Ebrei, ma ogni uomo a qualunque nazione appartenga e in qualunque tempo egli viva, potrà vedere e conoscere per la fede la salute di Dio, cioè questo Salvatore, mandato da Dio per la salute eterna di tutti. Or ecco il frutto, che dalla venuta del Salvatore, ancor noi, mercé la penitenza e le buone opere, possiamo guadagnare, la nostra eterna salute, il paradiso per tutta l’eternità. E potremmo noi fare un guadagno più grande, più importante di questo? Potremmo noi desiderare, volere qualche cosa di meglio? Pur troppo è vero, ci sono di coloro, che non stimano punto questo bene supremo. L’eterna salute è il vero tesoro, la vera felicità, per la quale l’uomo è stato creato. Ora si potrebbe dire che la stimi colui, il quale per un piacere da nulla, per il gusto di un momento se ne rende indegno e si mette a rischio di perderla eternamente? No, certamente, costui non stima la sua salvezza e sarà impossibile che la consegua. Per poter dire che si stima il Paradiso bisogna essere pronti a far piuttosto getto di ogni altra cosa. Che cosa farebbe un ricco mercante, che, viaggiando sopra di un bastimento, oltre a tante stoffe porta seco una cassetta di preziosissime perle, qualora fosse assalito dalla tempesta? Costretto dai marinai a gettare la sua roba nel mare per alleggerire la nave, getterebbe senz’altro tutte le stoffe, ma non getterebbe giammai quella cassetta di gioie, che è il suo più gran tesoro. Così chi si trova nel caso o di perdere l’onore, la sanità, la roba, oppure il Paradiso, deve dire: Vada l’onore, vada la sanità, vada la roba, ma si guadagni, si guadagni il Paradiso. E come? esclamava Tommaso Moro alla sua donna, che lo tentava ad acconsentire alle inique pretese di Arrigo VIII, come? per dieci o vent’anni di vita, che tu mi prometti e non mi assicuri, per dieci, vent’anni di vita nella stima e nell’amore di un re della terra, tu vuoi che io rinunzi all’eternità del Paradiso nella stima e nell’amore di un Dio? Ah! stolta mercantessa che tu sei; allontanati da me: recede, recede a me, stulta mercatrix. Benché il più delle volte non è mai tanto, che da noi si deve fare. Ordinariamente il tutto si riduce a fuggire una cattiva compagnia, a rompere una brutta catena, a lasciare la lettura di un cattivo libro o giornale, a vincere una tentazione e rinunziare ad uno schifoso piacere: e noi non saremo disposti a fare questo poco? Verrebbe senza dubbio un giorno, nel quale. come Esaù, che per una scodella di lenticchie si lasciò sfuggir di mano il diritto di primogenitura, ruggiremmo con grandi clamori, ma indarno. Or dunque facciamo dell’eterna salute la giusta stima. Ma in secondo luogo vogliamola e vogliamola efficacemente. Come non tutti coloro, che dicono: Signore, Signore; entreranno nel regno dei cieli: Non omnis qui dicit, Domine, Domine, intràbit in regnimi cælorum (Matt. VII, 21); così non tutti quelli, che dicono: vogliamo salvarci, vogliamo andare in Paradiso, vi andranno; ma solo coloro, che lo vogliono efficacemente. E per volerlo efficacemente bisogna far realmente quel che bisogna per guadagnarlo; bisogna cioè praticare la predicazione di S. Giovanni Battista, che non fu diversa da quella, che per questo riguardo fece poi Gesù Cristo e fa tuttora la Chiesa; bisogna far penitenza e correggere i nostri mali costumi, bisogna in sostanza osservare i Comandamenti di Dio, i Comandamenti della Chiesa, pregare, frequentare i Sacramenti, le chiese, praticare la virtù, fuggire costantemente il peccato, sopportare con pazienza le tribolazioni, fare opere buone. Perché se Gesù Cristo è venuto quaggiù per operare la salute di tutti, è certo tuttavia, che non si salveranno che coloro, i quali corrisponderanno con la bontà della vita alla grazia di Dio. Intanto aspettando di vedere poi la nostra eterna salute al termine della vita, prepariamoci fin d’ora a vedere e ricevere nei nostri cuori il Divin Salvatore in queste feste del Santo Natale.

II OMELIA

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

DISCORSO IV

– Sopra la qualità della penitenza. –

Parate viam Domini, rectas facite semitas eius.”

 [Matth. III]

Mi valgo ancora quest’oggi, fratelli miei, delle parole e delle voce di s. Giovanni Battista per annunziarvi una verità che faceva il soggetto ordinario dei suoi discorsi. Preparate le strade del Signore, diceva al popolo il santo precursore, perché il regno del cielo si avvicina. Affrettatevi di prevenire ira del Signore, la quale è pronta a colpirvi. Già la scure è alla radice dell’albero, e ben presto quest’albero verrà tagliato per esser gettato nel fuoco. – Fate dunque frutti degni di penitenza, se volete schivare la disgrazia che vi minaccia: Pænitentiam agite. Il regno del cielo si avvicina, posso dirvi io pure con s. Giovanni Battista, vicini voi siete al momento in cui deve il Messia di nuovo nascere nei vostri cuori e regnar in voi colla sua grazia. Nessun mezzo più acconcio della penitenza per prepararvi alle grazie ch’Egli vuol farvi; forse anche voi siete molto vicini all’ultimo momento di vostra vita. Affrettatevi dunque a purificare la vostra anima; e giacché la penitenza è l’unico mezzo che vi resta per meritare la salute, abbracciatela con piacere ed assicuratevi l’amicizia del nostro Dio con i gemiti di un cuor contrito e con i santi rigori di una vita mortificata e paziente; ma riflettete che la minima dilazione o una negligente indolenza può perdervi. Sia dunque pronta la vostra penitenza, sia sincera; a questa prontezza, a questa sincerità della vostra penitenza è annessa l’amicizia del vostro Dio.

1.° Punto. Egli è ben raro trovar peccatori talmente ostinati nel male che non vogliano giammai convertirsi. Perciò non ve n’è alcuno che non si proponga di far un giorno penitenza dei suoi peccati; ma il più gran numero rimette questa penitenza ad un tempo avvenire. Non vorrebbero rinunziare alle delizie eterne, ma nemmeno vogliono interdirsi i piaceri della vita. Così dimorano nei loro peccati per godere dei piaceri di quaggiù, e contano sopra una penitenza differita per avere parte ai piaceri del cielo. Ma quanto è ingiuriosa a Dio questa dilazione! quanto è funesta pel peccatore! Poiché differire la propria conversione è ad un tempo abusarsi della bontà divina, da cui prende baldanza per continuare nel disordine e disprezzare l’ira di Dio, la quale accerta l’impenitenza e la dannazione all’anima che differisce la sua conversione. – E per farvi subito comprendere l’ingiuria che voi fate a Dio allorché differite la vostra penitenza, vi prego a considerare qual sia la bontà di Dio a prevenire, a ricercare il peccatore nei suoi traviamenti: lo stimola, l’invita a ritornare a Lui, la sua misericordia gli stende le braccia per riceverlo. Venite a me, dice ai peccatori questa divina misericordia, voi tutti che carichi siete, ed io vi alleggerirò del peso che vi opprime: Venite ad me, omnes qui laboratis et onorati estis, et ego reficiam vos (Mat. XI). Convertitevi a me, ed Io mi convertirò a voi, vi renderò la mia amicizia, che voi avete col peccato perduta: Convertimini ad me, et ego convertar ad vos (Zach. 1). Ma che ne avviene? Lungi di arrendersi a quei teneri inviti e di lasciarsi persuadere, insensibile il peccatore alle finezze della bontà di Dio, se ne allontana, disprezza le ricchezze della sua grazia,  ricusa la sua amicizia; quale ingratitudine! Che direste voi di un suddito divenuto nemico del suo principe e condannato a soffrire una morte vergognosa e crudele, il quale disprezzasse le offerte che il Principe gli facesse di rendergli la sua grazia ed amicizia; e non si degnasse di neppur ascoltarlo, quando quegli si abbassasse egli stesso sino a venir in persona a cercar quel colpevole nella oscura prigione dove sta rinchiuso? Il disprezzo di una sì grande indulgenza non vi sembra degno di tutta l’ira di sì buon principe? Tal è il vostro ritratto, o peccatori ribelli alla voce del vostro Dio che vi offerisce il perdono. Questo Dio di maestà infinitamente più elevato sopra di voi che il più gran re della terra sopra l’ultimo dei suoi sudditi, si degna abbassarsi sino a voi, vuole liberarvi dalle catene che prigioni vi tengono sotto l’impero del demonio; e voi tocchi punto non siete dai suoi modi di procedere, sordi siete alla sua voce, insensibili alle finezze del suo amore! Una tale ingratitudine non merita forse che una sì grande bontà vi abbandoni, che si cangi in una giustizia rigorosa, la quale vi opprima col peso delle sue vendette? E perciò aspettarvi dovete di provarle per vostra disgrazia, mentre, in tal modo abusandovi di questa bontà, di questa pazienza di Dio, vi accumulate, come dice l’Apostolo, un tesoro d’ira, di cui sentirete tutto il rigore nel giorno delle sue vendette: Thesaurizas tibi tram in die iræ (Rom. II). Voi vi lusingate che la grande bontà di Dio vi aspetterà e vi darà tempo e grazia per far penitenza; speranza vana e fallace! No, fratelli miei, voi non avrete né quel tempo né quella grazia: voi disprezzate con queste dilazioni questo Dio di bontà, e vi disprezzerà Egli pure; voi lo rigettate al presente che vi cerca, anch’Egli rigetterà voi quando lo cercherete: Vocavi et renuistis; ego quoque in interitu vestro ridebo et subsannabo (Prov. 1). Sì, peccatori,se voi differite ancora la vostra conversione, voi morrete nel vostro peccato e cadrete in un abisso di miserie, perché non vi sarete approfittati del tempo della misericordia: In peccato vestro moriemini (Jo VIII). Egli è dunque di vostro interesse altrettanto che della gloria di Dio il fare una pronta penitenza. Perciocché differendola, quali perdite non fate e di quali rischi non siete voi minacciati? Oimè! quel poco bene che fate nello stato di peccato è interamente perduto pel cielo: voi pregate, digiunate, fate limosine, adempite molti doveri che la Religione v’impone, assistete alle Messe, ai divini uffizi, rendete al vostro prossimo qualche servizio di carità: poiché non vi è alcuno, dice S. Agostino, la cui vita sia così sregolata che resti interamente spoglia di ogni azione virtuosa. – Ora tutte le buone opere che voi fate essendo nemici di Dio non sono di alcun merito per l’eternità; avrete la fatica della virtù senza averne la ricompensa. É vero che quelle buone opere vi possono procacciar grazie per la conversione per rientrare nell’amicizia di Dio da voi perduta; ma a che vi serviranno quelle grazie, se non vi cooperate e se morite nell’impenitenza finale? Non serviranno esse che a farvi condannare con più rigore. Inoltre siete voi l’arbitro dei vostri giorni?

l.° La morte non può forse sorprendervi, come ha sorpreso tanti altri che avevano fatto come voi il progetto di convertirsi e che non hanno avuto il tempo di eseguirlo? 2.° Quando ben anche aveste il tempo di far penitenza, ve ne darà Iddio forse la grazia, dopo avergli sì lungo tempo resistito? Non dovete temere all’opposto che Dio non punisca colla sottrazione delle sue grazie l’abuso che ne avreste fatto? Ma abbiate pure il tempo e la grazia di far penitenza, voi non la farete a cagione della gran difficoltà che vi troverete e che nascerà dell’abito del peccato che avrete contratto. – Imperciocché l’abito del peccato è l’effetto ordinario della dilazione della penitenza; un peccato commesso di cui uno non si corregge ne tira un altro, questo un terzo; si cade d’abbisso in abisso, Abyssus abyssum invocat (Psal. XLI), ed insensibilmente si forma la catena fatale delia riprovazione del peccatore. Da che una volta impegnati ci troviamo nell’abito del peccato, quest’abito diventa in noi una seconda natura, che è quasi impossibile di cangiare. Si forma bensì qualche progetto di conversione, ma si rimette sempre all’indomani; sono desideri inefficaci e superficiali che non mettonsi mai in esecuzione: si portano questi desideri sino alla morte: si muore con questi desideri e si comparisce al giudizio di Dio senza aver altra cosa a presentargli che vani progetti che consumano la dannazione. Ah! fratelli miei, giacché Dio vi offerisce nel giorno d’oggi il perdono, profittatevi di un benefizio che forse domani non sarà più in vostro potere: la grazia ha i suoi momenti; guai a chi li lascia passare senza profittarsene. Di più, non avvi alcun ostacolo che superar non possiate con l’aiuto del cielo.  Le pratiche, le corrispondenze peccaminose che avete con certe persone, voi le abbandonereste pure, se si trattasse della vostra fortuna; e la vostra eterna salute non sarà un motivo forte abbastanza per staccarvene? Quei legami sono forse maggiori di quelli che legata tenevano altre volte la Maddalena al mondo? Ora, tosto che la luce della grazia risplendette ai suoi occhi, non rinunziò ella generosamente a tutti i piaceri del secolo? Non stette a deliberare, non esitò punto di andare a trovar Gesù Cristo, l’Autore della salute. Perciò la remissione de’ suoi peccati seguì da vicino la sua penitenza: grazia che forse non sarebbe più stata in tempo di ricevere, se ella avesse lasciata fuggire l’occasion favorevole che se le presentava. – Del resto, fratelli miei, per scusare le vostre colpevoli dilazioni, invano alleghereste l’impaccio e l’impedimento degli affari in cui impegnati vi trovate: mentre, ditemi, ve ne prego, avete voi un più grande affare di quello della vostra salute? E a che vi servirebbe l’esser riusciti in tutti gli altri, se mancate in questo? Ma le mie passioni sono sì vive, dite voi; lo saranno forse meno col tempo, quando gli abiti invecchiati le avranno fortificate e dato loro un impero assoluto sopra di voi? Queste passioni sono forse più veementi di quella da cui dominato era Saulo allorché andava a perseguitare i Cristiani? Con tutto ciò, tosto che la voce di Gesù Cristo si fece udire alle sue orecchie, depose l’armi, umiliato, prostrato a terra chiese al suo vincitore: Signore, che cosa volete che io faccia? Domine, quid me vis facere (Act. 1)? Il persecutore della Chiesa ne diventa lo zelante difensore.

Pratiche. Felici disposizioni, in cui dovreste, fratelli miei, entrare in questo momento che la grazia vi fa intendere la sua voce e vi sollecita darvi a Dio. Signor, dovete dirgli, che cosa volete che io faccia? Domine quid me vis facere? Volete che, cessando dal peccare, io cessi dal farvi la guerra, che io rinunzi a quell’oggetto che m’incanta e mi perde: sì, in questo momento io abbandono quel peccato, rinuncio a quell’occasione in cui la mia virtù ha fatto tante volte naufragio, bandisco dal mio cuore quell’idolo indegno di occuparlo. Signore, che cosa volete che io faccia? Domine, etc. Voi volete ch’io mi corregga di quel cattivo abito in cui marcisco da sì lungo tempo: sì, me ne correggerò ed mi applicherò alla pratica della virtù che gli è contraria. Voi volete che io restituisca quella roba che conservo contro i rimorsi della mia coscienza; sì, la restituirò e risarcirò tutti i danni che ho cagionati al mio prossimo. Voi volete ch’io mi riconcili con quel nemico che da tanto tempo perseguito: sì, quest’oggi il farò, andrò a trovarlo per far con lui la pace: Domine, etc.Voi volete che io sia assiduo a frequentare i Sacramenti, che sia il buon esempio della famiglia, che divenga più umile, più modesto, più mansueto, più paziente, più vigilante sopra di me, più esatto, più fervente ad adempier i miei doveri: la risoluzione è presa sin da questo momento, o mio Dio: Dixi hunc cæpi. Io voglio cominciar l’opera, voglio correggere quel cattivo umore che mi rende insopportabile agli altri; non sarò più sensibile sul punto d’onore, non sarò più amante dei miei agi e dei miei comodi, sarò più mortificato, più ritenuto, più fedele ad evitare sino la minima apparenza di male, riformerò in me tutto ciò che vi conoscerò d’irregolare, per non seguire altra regola che la vostra volontà: la mia penitenza sarà non solo pronta, ma sincera ancora e vera.

II. Punto. Richiede la giustizia che siavi l’uguaglianza tra la soddisfazione che si rende e i diritti che si sono violati. Bisogna dunque che la penitenza abbia una proporzione coll’ingiuria che il peccato fa a Dio, ch’essa ripari tutto il disordine del peccato, che faccia dell’uomo peccatore un uomo tutto nuovo, riformando il suo cuore e le sue azioni; e perciò bisogna ch’essa prenda la sua origine nel cuore e che si manifesti con le opere. Due condizioni essenziali per rendere la penitenza sincera, che l’apostolo s. Paolo ha perfettamente spiegate allorché esortava i fedeli a rinnovarsi nello spirito interiore: Renovamini spiritu mentis vestræ (Eph. IV). E diceva loro di far servire alla propria giustizia e santità i membri che servito avevano all’iniquità e alla colpa: Sicut exhibuistis membra vestra servire immunditiæ et iniquitati, ita nunc exhibete membra vestra servire iustitiæ (Rom. 6)..La prima funzione della penitenza si è la riforma del cuore. Questa è la prima soddisfazione che la giustizia di Dio chiede dal peccatore. Convertitevi a me, dice Iddio, in tutto il vostro cuore:  Converiimini ad me in toto corde vestro. (Joel. 2). Spezzate i vostri cuori piuttosto che le vostre vestimenta: Scindite corda vestra et non vestimenta vestra. Se voi m’aveste richiesti sacrifizi, diceva a Dio il santo Re Profeta, io ve ne avrei dati: Sacrifìcium dedissem utique (Psal.50); ma so, o mio Dio, che ogni altro sacrificio, fuorché quello di un cuor contrito ed umiliato, è incapace di calmare la vostra giustizia, e che questo sempre la disarmerà: Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies. E perciò, offrendovi il mio cuore infranto dal dolore, spero offerirvi un sacrificio che non avete mai rigettato: Cor contritum et humiliatum non despicies. Ma perché mai chiede Iddio a preferenza il sacrificio del cuore? Perché, dicono, i santi Padri e i teologi, si è nel cuore che consiste tutta la malizia del peccato, mentre il peccato, dice s. Tommaso, è un movimento del cuore che si stacca da Dio per unirsi alla creatura: Peccatum est aversio a Deo et conversio ad creaturam. Se le azioni dell’uomo sono peccati, è il cuore che loro comunica la sua malizia. Dal cuore, dice Gesù Cristo, vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i latrocini, i falsi testimoni, le bestemmie; non vi sarebbe mai peccato alcuno nelle azioni dell’uomo, se il cuore non vi avesse parte. Or da ciò che si conchiude, se non che, per fare una vera penitenza, convien primieramente cangiar il cuore, farne uno tutto nuovo: Cor mundum crea in me, Deus. E siccome col peccato il cuore ha dato la preferenza alla creatura sopra il suo Dio, così con la penitenza deve dare la preferenza a Dio sopra la creatura. Odiar deve ciò che amava, amare ciò che odiava. Ecco, dice s. Agostino, il vero carattere della penitenza, l’odio del peccato e l’amor di Dio: Pœnitentiam non facit nisi odium peccati et amor DeiMa notate, fratelli miei, che quest’odio del peccato non è soltanto una semplice avversione che si concepisce della sua bruttezza: i più gran peccatori odiano il peccato e nel tempo stesso che corrono dietro ai piaceri, che appagar possono le loro passioni, non hanno in mira, dice s. Agostino, di far alcun male; vorrebbero eziandio che nessun peccato vi fosse nella ricerca del piacere o del bene che si propongono. Ma sono sempre colpevoli, perché sanno che non possono possedere quel bene, godere de’ piaceri che la legge del Signore loro proibisce, senza ribellarsi contro questa divina legge; ed è in questa ribellione che consiste il disordine del peccato, di modo che non basta per essere vero penitente odiare semplicemente il peccato, ma bisogna ancora odiare e detestare ciò che è stato la cagione e la materia del peccato; bisogna staccarne il suo cuore per unirlo a Dio. Perciò, fratelli miei, voi sarete veri penitenti, se, dopo aver abbandonato il vostro cuore a quell’oggetto che era l’idolo della vostra passione, ve ne separerete interamente e per sempre, se rinunzierete ad ogni società con quella persona che vi piace e che con le sue funeste lusinghe ha sedotto il vostro cuore. Voi sarete veri penitenti, se, dopo aver posseduto quella roba che non v’apparteneva, la renderete al suo legittimo padrone; se dopo di aver attaccato il vostro cuore alla roba ancora che è vostra propria ed il cui amore eccessivo vi rendeva insensibile alle miserie dei poveri, piangerete quel troppo grande attacco, e sovverrete all’indigenze dei vostri fratelli. In una parola, fate a Dio un generoso sacrificio di tutto ciò che è stato per voi causa ed occasione di peccato; cangiate sentimenti ed inclinazioni per gli oggetti che avete amati e ricercati in pregiudizio dell’amore che dovevate a Dio: senza questo cambiamento interiore, senza questa riforma di cuore, ogni altra penitenza è vana ed ipocrita, dice S. Agostino; mentre bisogna, dice questo santo Padre, che la penitenza cangi l’uomo prima di cangiare le sue opere: Prius mutandus est homo, ut opera mutentur . Ma contentarsi di una semplice rinnovazione di spirito e di cuore senza cangiar di costumi e di condotta, senza espiare il peccato con opere esteriori di penitenza, non è che far una penitenza dimezzata; si è anche render sospetta la penitenza del cuore, la quale per esser sincera e vera deve produrre dei frutti: Facite fructus pœnitentiæ. Ora questi frutti consistono primieramente in una intera riforma che il peccatore deve fare dei suoi costumi e delle sue azioni, in una esatta fedeltà a compiere tutti i suoi doveri: mentre non basta per far penitenza cessar dal far il male, dice il concilio di Trento; bisogna ancora far il bene. Non basta lasciar le strade dell’iniquità, bisogna ancora camminare nei sentieri della giustizia, bisogna adempiere le sue obbligazioni riguardo a Dio, al prossimo e a se stesso: riguardo a Dio rendendogli l’onore, l’amore ed il rispetto che sono dovuti alla sua suprema maestà, alla sua bontà infinita. Come adunque ci persuaderete, fratelli miei, che vi siete corretti delle vostre negligenze nel servizio di Dio, che avete ripigliati sentimenti di pietà e di religione, quando non sarete maggiormente assidui all’orazione né ai divini uffizi né agli altri esercizi di pietà, quando non vedremo in voi che alienazione per la parola di Dio e per tutto ciò che riguarda il divin culto? La vostra penitenza è vana, dice Tertulliano, poiché non avvi alcun cangiamento nella vostra condotta. Conviene inoltre adempiere le vostre obbligazioni riguardo al prossimo: dovere di carità per soccorrere il povero, dovere di giustizia per rendere a ciascuno quanto gli è dovuto, per vegliare sopra le persone di cui avete la cura, per edificare con le vostre virtù quelli che avete scandalizzati coi vostri disordini. Ora potremo noi dire, e voi medesimi potrete pensarlo, che siete veri penitenti, quando vedremo sempre in voi la medesima durezza per i poveri, la medesima avidità nell’usurpare i beni altrui, la medesima negligenza nel mantenere i vostri figliuoli, i vostri servi in buon ordine, sempre i medesimi scandali che davate per lo addietro? Finalmente voi avete dei doveri che vi sono personali: doveri di sobrietà, di carità e di penitenza. Ma qual apparenza che queste virtù risiedano in un uomo collerico, bestemmiatore, intemperante, libero nelle sue parole, dissoluto nelle sue azioni? Le vostre parole e le vostre opere palesano quel che voi siete; e se è vero il dire con s. Agostino che, cangiato il cuore, si cangiano ancora le azioni : muta cor, et mutabitur opus, non bisogna forse conchiudere per ragion dei contrari che se non evvi alcun cangiamento nelle azioni, niuno avvenne anche nel cuore? Aggiunsi che, per fare degni frutti di penitenza, convien espiare il peccato con opere esteriori, che obbligano ad uno stesso tempo e l’anima ed il corpo del penitente. Infatti, giacché il corpo è stato il complice del peccato, deve anche aver parte nella penitenza; se ha goduto dei piaceri vietati dalla legge di Dio, deve anche soffrirne la pena; se ha servito all’ingiustizia e all’iniquità, deve anche servire alla santità e alla giustizia: Sicut exhibuistis membra vestra servire immunditiæ et iniquitati, ita nunc exhibete membra vestra servire iustitiæ. Tale è stato in tutti i secoli il sentimento e la pratica della Chiesa e dei santi; quindi quelle penitenze severe, quei digiuni lunghi e rigorosi che s’imponevano nella primitiva Chiesa a certi peccatori, che ammessi non erano alla partecipazione de’ santi misteri se non dopo aver lungo tempo pianto e portato il peso della pena ai loro peccati dovuta. È vero che la Chiesa per condiscendenza verso i suoi figliuoli si è molto rilassata di sua antica disciplina; ma non ha essa preteso di distruggere lo spirito di penitenza, il quale, secondo la testimonianza del Vangelo, è spirito di mortificazione, di crocifiggimento della carne, d’annegazione di se stesso; senza questo non possiamo lusingarci di essere Cristiani, molto meno di esser penitenti. Infatti la penitenza, dicono i ss. Padri, è un Battesimo laborioso: dunque nella penitenza è necessaria una santa severità; deve l’austerità farne il carattere; dopo il naufragio convien farsi violenza per giungere al porto: quindi il peccatore pretender non può alla felicità eterna, se non punisce sé stesso a proporzione del piacere che ha gustato nel peccato. Ora, io vi domando, un peccato è egli assai punito, detestando solamente la sua vita passata, cessando di malfare? E potremo noi persuaderci che un ubriacone, per esempio ed un impudico siano assai puniti perché recitano alcune preci o fanno qualche limosina, se non aggiungono opere soddisfattorie e penose, se non mortificano i loro corpi per espiare le commesse dissolutezze? No certamente. Altrimenti la riconciliazione del peccatore con Dio non sarebbe sì difficile, come ci dicono i libri santi. Con tutto ciò, oh cosa strana! Sono i più gran peccatori quelli che vogliono essere trattati con più riguardo; il solo nome di penitenza li spaventa, oppure non vogliono che penitenze comode e conformi alla loro inclinazione, penitenze che non li molestino e che raddolcir sappiano con temperamento che l’amore proprio loro suggerisce. Vogliono essere penitenti, ma non vogliono che lor ne costi pena. Ah! non così hanno fatto penitenza i santi: datisi ai lodevoli rigori di una vita mortificata e penosa, s’interdicevano i piaceri più permessi; sempre in guerra con se stessi si dinegavano sino le cose le più necessarie alla vita, e l’unica consolazione che gustavano era di vivere sulla croce con Gesù Cristo, e dimorarvi sino alla morte.

Pratiche. Sopra tal santi esempi dobbiamo noi d’or innanzi regolare la nostra condotta. Iddio nella sua misericordia ci attende; ci ama ancora benché peccatori, ma rimette i suoi diritti nelle nostre mani. Se abbiamo ancora qualche amore per questo Dio di bontà, vendichiamolo degli oltraggi che ha da noi ricevuti e proporzioniamo la nostra penitenza al numero e all’enormità dei nostri misfatti. Laonde, fratelli miei, voi che avete fatto danno al vostro prossimo, non vi contentate di restituire la roba mal acquistata, date ancora del vostro ai poveri. A voi che vi siete abbandonati all’impurità, all’intemperanza, convien digiunare, mortificarvi, privarvi a mensa di qualche vivanda che più lusinghi il vostro appetito; troncate almeno certe soperfluità le quali non servono che a nutrire la delicatezza e sono sorgente di peccati. Voi che siete stati liberi nelle parole, che avete macchiata con le vostre maldicenze la riputazione del vostro prossimo, condannate la vostra lingua ad un volontario silenzio. Voi, voluttuosi, allontanate i vostri sensi dagli oggetti che possono lusingarvi, riteneteli nel contegno e nella soggezione per punire la libertà che loro avete data ed il cattivo uso che avete fatto del vostro corpo. Voi che avete frequentate case sospette, amicizie pericolose, evitate queste società, condannatevi al ritiro, ovvero se uscite, ciò sia soltanto per andar a visitare Gesù Cristo nel suo santo tempio, oppure nei suoi membri che soffrono. Se la vostra penitenza non uguaglia nella sua severità l’enormità dei vostri mancamenti, le sia almeno proporzionata nella durata; vale a dire, passate tutta la vostra vita nel far penitenza di peccati che hanno meritato di essere puniti per una eternità; voi dovete tanto più perseverare nella pratica della penitenza, perché senza di essa non terrete giammai le vostre passioni in freno; esse si ribelleranno di nuovo, e voi ricadrete nel vostro primo stato. Ricordatevi che questa penitenza, per lunga ch’ella sia, è leggerissima in paragone di quella che fareste nell’inferno, e non dimenticate mai la felicità che vi è riserbata nel cielo. Cosi sia.

Credo …

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Offertorium

Orémus
Luc 1: 28
Ave, María, gratia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

Secreta

Sacrifíciis pæséntibus, quǽsumus, Dómine, placátus inténde: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno alle presenti offerte: affinché giovino alla nostra devozione e alla nostra salvezza.]

Comunione spirituale: https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Is. VII: 14
Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium: et vocábitur nomen ejus Emmánuel. [Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio: e si chiamerà Emanuele.]

Postocommunio

Orémus.
Sumptis munéribus, quǽsumus, Dómine: ut, cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Assunti i tuoi doni, o Signore, Ti preghiamo, affinché frequentando questi misteri cresca l’effetto della nostra salvezza.]

Preghiere leonine https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Ordinario della Messa https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (91)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (2)

CAPO II.

Quanto sieno indegni di credito gli ateisti.

I.

I . Non par possibile, che l’uomo introdotto in questo mondo, quasi in un tempio, affinché in nome di tutte le creature offerisca alla divinità sacrifizio di lode eterna, degeneri poi del suo grado sì enormemente, che di’ sacerdote si rivolga in ribelle, né solo contenda al suo sovrano l’omaggio, ma infino l’essere. Eppur così non prevaricasse più d’uno! Dixit insipiens in corde suo: Non est Deus(Ps. XIII. I ). Vero è, che se all’uomo è difficile l’avanzarsi al più alto della virtù, non gli è forse meno difficile l’difficile l’arrivare al più profondo del vizio. Ond’è che innanzi che uno divenga ateista vi vuole assai: dovendo egli a tal effetto, non solo perdere il senno, ma voler perderlo. Ora, perché il rinvenire l’origine de’ malori è gran parte della lor cura, facciameli a rinvenir quella dell’ateismo, per pura brama di convertire, a chi ne sia per sorte infetto, la vipera in medicina.

II.

II. La sorgente più consueta della vertigine non è nel cerebro, come la gente si crede, ella è nello stomaco, il quale pieno di maligni umoracci, manda alla testa quegli aliti impetuosi che, sconvolgendola, le danno insino a stimare che i monti ballino. Tanto accade nel caso nostro. La origine di questa incredulità sì caliginosa non si ha da cercare immediatamente nell’intelletto alterato, ma nella volontà, la qual carica di ogni fracidume di vizio, solleva dal suo seno lumi nerissimi, per cui viene alla mente quel capogiro che non le lascia tenere per saldo e stabile né anche il primo motore (Talvolta la corruzione discende dal cervello al cuore, tal’altra monta dal cuore al cervello. Le passioni della volontà ed i traviamenti dell’intelligenza sì rispondono mutuamente, e si dividono amichevolmente il dominio dell’anima).

III. Io certamente non so chi vi siate voi che avete pigliato a scorrere queste carte. Mi giova credere, che senza fallo voi siate fedele a Dio. Ma se foste uno di quei che neppur lo ammettono, deh contentatevi, che da solo a solo io vi chiegga in segreto sommo (giacché qui parliamo a quattr’occhi!, come avete mai fatto a scancellare dal fondo della vostra anima quei sentimenti più pii che vi stimolavano a riconoscere un Fabbricatore supremo dell’universo, ed a venerarlo (Queste parole ci ricordano quelle altre ragguardevoli di Tertulliano: « Oh! testimonium animæ naturaliter christianæ! »)? Non potete già dire, che siate nato ateista; vi siete fatto, e fatto, se si consideri, a poco a poco. Confessatemi dunque per quella divinità, cui non date fede: quali sono quei gradi per cui veniste a cadere in sì gran delirio? Non credo io già, che la integrità de’ costumi, la continenza, la carità, la pazienza, e molto meno la mortificazione indefessa di voi medesimo vi abbiano persuaso, che Dio non v’è (Un animo morigerato, e casto, ed adorno di elette virtù non può non sentire Iddio, che è santità e purezza infinita, ed in sentirlo ne riconosce e ne adorala viva presenza. Un cuore ben fatto non fu ateo giammai). Ve l’ha persuaso la vaghezza di vivere, come fan le bestie, a capriccio. E una dottrina sì misera, che si apprende unicamente nel lezzo e ne’ lupanari, sarà la vera? Dove mai si trovò, che a penetrar a più bella di tutte le verità fosse di mestieri mettersi sotto i piedi la temperanza? Anzi fu perpetuo parere di tutti i saggi, che ad indagare qualunque verità, non pure alta, ma comunale, nulla giovi più che l’avere libero il cuore dalle passioni troppo abili ad ingombrarlo (Come le passioni ci presentano le cose ben altre da quel, che sono, ossia alterate, così la mente spassionata non può non vedere gli oggetti quali sono effettivamente in se stessi, ed accogliere la schietta luce della verità). E come dunque chi più si lasci dominare dall’ira, dall’ambizione, dall’astio e dalle dissolutezze più vergognose, più ancora intende di ciò che appartiene a Dio? – Quando a contemplar meglio il cielo sarà più spediente ad un astronomo il chiudersi in una stufa colma di fumo, che non sarebbe l’uscire in campagna aperta: allora si potrà giudicare, che la vita menata fra mille crapule e mille carnalità vi abbia dato a vedere, che sulle stelle non v’è quel Dio che si pensa la gente credula. E se così è, permettetemi dunque, che io vi soggiunga: Qual quiete d’animo volete voi mai promettervi in una setta, nella quale avete sì forte la presunzione di non apporvi, dal mirar solamente chi siate voi?

III.

IV. Ma quando anche foste di vita non sì perversa, su che fondamento stabilite voi quella torre di confusione, dalla cui cima vi affacciate a trasmetterci sì gran nuova, che Dio non v’è? Non est Deus (Come Iddio è il primo essere, cagione dì tutti gli altri esseri, ed il primo Vero, ragione di tutti gli altri veri, cosi il Non est Deus dell’ateo nell’ordine della realtà mena al nullismo, perché senza Dio niente più sussiste, e nell’ordine del sapere riesce al massimo degli errori e degli assurdi, perché si risolve in questo pronunciato: l’essere, che non può non esistere (Deus), non esiste (non est); ossia il necessario è nulla). Aspetto, che mi diciate con quegli sciocchi già confutati da Tullio, (De nat. Deor.) che Dio non v’è, perché non è visibile agli occhi nostri. Ma da quando in qua si ha da curare la testimonianza degli occhi in cercar Dio? Si veggono con gli occhi le cose soggette agli occhi, quali son le corporee: le spirituali s’intendono, non si veggono. Di poi, perché state a dirmi di non vederlo? Noi vedete in sé, ve ‘l concedo; ma lo vedete (se non volete accecarvi da voi medesimo) ne’ suoi effetti. Ditemi un poco. Come vedete voi l’anima di quell’uomo che vi è presente? La vedete forse in se stessa? No certamente. Voi la vedete nelle sue operazioni. Eppure queste vi fanno abbastanza credere, ch’ella v’è: né mai vi cade in pensiero di sospettare, che il corpo di quell’artefice il quale intaglia, scrive, stampa, dipinge per eccellenza, non sia corpo animato, sia corpo morto da mandare alla sepoltura. Che sciocchezza dunque è mai questa? dalle operazioni del corpo conoscere che v’è l’anima da cui sgorgano; e dalle operazioni di tanto cose create non sapere conoscere, che v’è Dio! Stulte(diceva appunto il grande Agostino (In Ps. LXXIII) ad un uomo del taglio vostro) Stulte, ex operibus corporis agnoscis vicentem, ex operibus creaturæ non potes agnoscere Creatorem? Questo è il sapere arguir da’ suoi giri il rivo, e non sapere arguire dal rivo il fonte. I postumi mai non videro il loro padre, eppur di lui sono certi, né solo ne son certi, ma di più l’amano nei ritratti, l’amano nelle rendite, l’amano nella casa di tanto costo da lui fabbricata per essi non anche nati. E a voi non basta mirar quanto Dio vi diede, e quanto vi dà, per credere che ei vi sia, se non per amarlo? Voi dunque non crederete (se così è) né tanto che vi è noto per pura autorità di persone degne di fede, che ve lo affermano, come è, che il sole sia mille e mille volte maggior di tutta la terra (purtroppo anche il Segneri non credeva alle parole della Bibbia, quando riportava l’esempio degli eliocentristi dediti al culto di Mitra, che immaginavano – essi sì – che il sole fosse mille volte più grande della terra, senza avere avuto mai uno straccio di prova, ma solo per  argomentare contro le parole di Dio delle sacre Scritture – Errore grave di tutti i chierici sette-ottocenteschi ed oltre, che evidentemente non credevano al dogma dell’inenarranza biblica!); né crederete tanto altro che la ragione vi sforza a credere con le sue violente illazioni.

IV.

V. A questi due tribunali voglio io pertanto citarvi per vostro bene: a quello dell’autorità, ed a quello della ragione (Autorità e ragione tornano entrambe necessarie allo studio non della Religione soltanto, ma di qualsiasi ramo dello scibile umano. Il discente non può muover un passo senza piegar docile l’intelletto alla parola autorevole del maestro, perché non est discipulus supra magistrum; ed il dotto anch’esso mal può penetrare più addentro nelle profondità della scienza sua, se non piglia ad imprestito dalle altre scienze, senza punto discuterli e dimostrarli, quei principii, di cui come di postulati abbisogna la propria). E se ad ambo voi rimarrete convinto, che Dio vi sia, come più fissarvi a contenderlo? Sarebbe questo un non volere altra regola in giudicar delle cose, che il proprio orgoglio. Onde potremmo conchiudere, che se la corruzion della volontà, è la madre, come si disse, dell’ateismo; l’orgoglio dell’intelletto ne è il vero padre. Tale è l’origine degli animali più vili. Sono eglino schiusi in vero dalla putredine, ma non senza il concorso di quel poco di spirito che ivi intorno se ne va volando per l’aria. Quindi è l’osservare in ogni ateista un cervello, non pure altero, ma indomito, tanto che recansi fino a sapienza l’errare, ed a sapienza massima l’errar soli, singolarmente dappoi che l’amore della novità gli ha impegnati a stimarsi tanto più liberi, quanto più se ne vanno fuori di strada. Allora, crescendo in essi per la libertà l’alterezza, divengono incorreggibili. Imperciocché siccome nel calore della battaglia non si accorge taluno di esser ferito; cosi essi non si accorgono di quei colpi che dà loro la verità per ridurli in via, né se ne risentono, o sia l’autorità quella che più li percuote, o sia la ragione. Non vorrei già, che voi dimostraste esser uno di questi miseri. Però arrendetevi in prima all’autorità.

SALMI BIBLICI: ” NOTUS IN JUDEA, DEUS” (LXXV)

SALMO 75: “NOTUS IN JUDÆA DEUS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 75

[1] In finem, in laudibus. Psalmus Asaph, canticum ad Assyrios.

[2] Notus in Judæa Deus;

in Israel magnum nomen ejus.

[3] Et factus est in pace locus ejus, et habitatio ejus in Sion.

[4] Ibi confregit potentias arcuum, scutum, gladium, et bellum.

[5] Illuminans tu mirabiliter a montibus æternis;

[6] turbati sunt omnes insipientes corde. Dormierunt somnum suum, et nihil invenerunt omnes viri divitiarum in manibus suis.

[7] Ab increpatione tua, Deus Jacob, dormitaverunt qui ascenderunt equos.

[8] Tu terribilis es; et quis resistet tibi? ex tunc ira tua.

[9] De cælo auditum fecisti judicium: terra tremuit et quievit

[10] cum exsurgeret in judicium Deus, ut salvos faceret omnes mansuetos terrae.

[11] Quoniam cogitatio hominis confitebitur tibi, et reliquiæ cogitationis diem festum agent tibi.

[12] Vovete et reddite Domino Deo vestro, omnes qui in circuitu ejus affertis munera terribili,

[13] et ei qui aufert spiritum principum; terribili apud reges terræ.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI,Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXV

Profezia della vittoria che sopra Sennacherib riportò Ezechia; e di quella che gli eletti di Dio riporterannosopra tutti i loro nemici visibili ed invisibili.

Per la fine: per lodare; salmo di Asaph;cantico sopra gli Assiri.

1. Dio è conosciuto nella Giudea; in Israello è grande il suo nome.

2. E sua sede è nella pace, ed ha sua abitazione in Sionne.

3. Ivi egli ha distrutta la forza degli archi, lo scudo, la spada e la guerra.

4. O tu, che spandi mirabilmente tua luce dalle alte montagne, son rimasti conquisi tutti gli stolli di cuore.

5. Dormirono il loro sonno, (1) e nulla trovarono nelle loro mani questi uomini tesoreggiatiti.

6. Al tuono delle tue minacce, o Dio di Giacobbe, si addormentarono i cavalieri.

7. Terribile se’ tu, e chi a te farà resistenza? L’ira tua è antica.

8. Dal cielo facesti sentire il tuo giudizio; tremò la terra, e si tacque;

9. Allorché Dio si levò su per far giudizio, per tutti salvare i mansueti della terra.

10. L’uomo che rifletterà, darà a te laude; e la fine de’ suoi pensieri sarà di onorarli con giorni festivi. (2)

11. Offrite voti al Signore Dio vostro, e scioglieteli, o voi tutti, che stando intorno a lui gli presentate dei doni;

12. A lui terribile, a lui che toglie lo spirito ai grandi, a lui che è terribile a’ re della terra.

(1) « Essi hanno dormito il loro sonno », il sonno della morte: essi furono sterminati durante la notte, e dormirono senza discontinuità passando dal sonno naturale al sonno della morte. – « Coloro che cavalcavano i cavalli » per esprimere l’orgoglio degli Assiri, che confidavano nella loro numerosa cavalleria.

(2) Nell’ebraico si legge: « Quoniam ira hominis confitebitur tibi », etc., vale a dire gli uomini che si erano irritati contro di te, i nemici, si convertiranno e ti loderanno; coloro tra essi che tu non avrai distrutto, i resti dei tuoi nemici celebreranno una festa in tuo onore (Weitenauer e Le Hir.). – Questo versetto molto oscuro può ricevere questo altro senso. Il Profeta viene giustamente a parlare di Dio, e ne considera qui il risultato: il pensiero dell’uomo renderà gloria al Signore nel giorno di questo giudizio, e ciò che resta di questo pensiero del ricordo della liberazione del popolo di Dio, e non cesseranno di celebrare le grandezze di questo Essere supremo.

Sommario analitico

Questo salmo, in cui l’autore ispirato predice la vittoria dei Giudei contro Sennacherib, contro gli Assiri e, in seguito alla vittoria, una pace perfetta in Gerusalemme, può essere considerato, in senso non meno vero, come un canto trionfale della Chiesa cristiana, vittoriosa dei suoi nemici.

I. Il profeta celebra i frutti di questa vittoria che sono:

1° La conoscenza e la gloria di Dio, diffusa dappertutto (1),

2° L’affermazione della pace in seno alla Chiesa (2);

3° L’idolatria e l’eresia vinta (3);

4° La dottrina celeste che chiarisce tutti gli spiriti con la sua luce divina (4).

II.- Enumera gli effetti prodotti da questa vittoria sui nemici.

1° Essi saranno turbati a causa del loro follia (5);

2° spogliati a causa della loro avarizia (5);

3° rovesciati ed abbattuti a causa del loro orgoglio (6);

4° spaventati e ridotti in silenzio davanti al giusto Giudice, tuonante dall’alto dei cieli, che fa tremare la terra, reprimendo gli empi, giudicando tutti gli uomini e salvando i giusti (7-9).

III. Celebra il ricordo di così grandi benefici;

1° Con una pubblica confessione e con delle feste di gioia (10);

2° con voti fatti e compiuti con dei doni (11);

3° per il timore di un Dio così terribile, anche per i potenti della terra (12).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-4.

ff. 1. – Dio è conosciuto nella Giudea, e noi lo diremo con i Giudei, se essi sapessero comprendere che cosa sia questa Giudea. Coloro che ora si glorificano del nome di Giudei, e che ne hanno perso le opere, hanno degenerato rispetto ai loro padri, e per questo restano Giudei secondo la carne e pagani secondo il cuore. Nell’avvicinarsi la venuta del Signore, il regno dei Giudei fu sconvolto e tolto ai Giudei. Ora essi non hanno più un regno perché si rifiutano di riconoscere il vero Re. Vedete se essi debbano essere considerati ancora Giudei. Ora non si può più chiamarli con questo nome, essi stessi vi hanno rinunciato, sebbene non meritino più di essere chiamati Giudei, se non secondo la carne. In quale momento si sono separati da se stessi da questo nome? Nel momento stesso in cui con il loro grido assassino, hanno operato contro il Cristo, essi la razza di Giuda, contro la discendenza di Davide; nel momento in cui hanno risposto a Pilato: « noi non abbiamo altro re che Cesare » (Giov. XIX, 15).  O voi che siete chiamati figli di Giuda e che non lo siete, se non avete altro re che Cesare, Giuda cessa dunque dal darvi un re? Colui che è l’erede delle promesse è dunque venuto? Costoro piuttosto hanno il diritto di essere chiamati Giudei, che da Giudei sono divenuti Cristiani. Gli altri Giudei che non hanno creduto al Cristo hanno meritato di perdere anche questo nome. La vera Giudea è dunque la Chiesa di Cristo, che cede a questo Re, venuto dalla tribù di Giuda dalla Vergine Maria … Noi dobbiamo interpretare il nome di Israele come quello di Giudeo, e dire che i Giudei non sono più il vero Israele ed i veri Giudei. In effetti chi è che merita di portare il nome di Israele? Colui che vede Dio. E come essi hanno visto Dio, questi uomini in mezzo ai quali Dio è vissuto nella carne e che, non avendolo scambiato che per un uomo, lo hanno crocifisso? D’altra parte, dopo la sua Resurrezione, Egli non ha manifestato la sua divinità che a coloro a cui è piaciuto mostrarsi? Costoro sono dunque degni di essere chiamati col nome di Israele, questi che hanno meritato di comprendere che il Cristo, nella sua carne mortale, era Dio; di modo che essi non hanno disprezzato quello che vedevano in Lui, ma al contrario hanno adorato ciò che non vedevano (S. Agost.). –  La conoscenza di Dio è stata per lungo tempo il privilegio del popolo giudeo, essa fu la sua gloria, in mezzo all’accecamento di tutte le altre nazioni. Essa ritornerà sua eredità, quando infine aprirà gli occhi alla luce pura del Vangelo. Fino a questa epoca gloriosa, che sembra avvicinarsi, è alla Chiesa cristiana, alla Chiesa dei gentili che si applica questo semplice e magnifico elogio del santo Profeta: « il Signore è conosciuto nella Giudea ».  La “conoscenza di Dio”: queste due parole racchiudono tutti i tesori della scienza, tutti i segreti della felicità, tutti gli splendori della gloria; ed è la ciò che Dio aveva dato ai Giudei, a preferenza di tutte le altre nazioni; è là che Egli ha dato, con più grande magnificenza ai Cristiani, ciò che Egli donerà agli eletti con una generosità smisurata ed infinita. (Rendu). – Tutto il dovere dell’uomo, tutto il suo soggetto, tutta la sua natura, tutta la sua Gloria è il conoscere Dio. Ecco la parola del Signore: « che il saggio non si glorifichi per la sua saggezza, che l’uomo forte non si glorifichi per la sua forza, che il ricco non si glorifichi delle sue ricchezze; ma colui che vuole glorificarsi, si glorifichi unicamente nel conoscermi, perché Io sono il Signore, ed è a me che appartiene il fare misericordia e giustizia » (Gerem. IX, 23, 24).  – Questa verità, così semplice, così chiara, così essenziale, che è una delle prime che la Chiesa Cattolica insegna ai suoi figli, è quasi sconosciuta ora alla maggior parte dei Cristiani. Conoscere Dio è il minore dei suoi pensieri, e l’ultima delle sue occupazioni. – Dai tempi più remoti, ma soprattutto dai giorni di Abramo, Dio e la verità non erano stati conosciuti sulla terra che in seno ad una sola famiglia, ad una sola discendenza, che ben presto era diventata una nazione. Ora tutte le pagine della Scrittura avevano annunciato come uno dei più importanti avvenimenti dell’avvenire, il ritorno del resto dell’universo alla verità, alla conoscenza del vero Dio. – Dunque, ciò che il Profeta reale diceva della Giudea e di Israele, noi possiamo dirlo a maggior ragione della Chiesa della legge nuova, della Chiesa Cattolica Universale. – Il Dio è conosciuto, là il suo nome è riverito e glorificato, là è acclamata la sua Regalità, la sua legge osservata, in una parola, secondo la bella definizione del Concilio di Trento spiegando l’inizio della Orazione domenicale, « il regno di Dio e del Cristo, è la Chiesa »,  Regnum Christi est Ecclesia  (Mgr PIE, Disc, et Instr. t. VI, 445; III, 445.).

ff. 2. – La Chiesa Cattolica è il luogo della vera pace; fuori dal suo seno, non c’è che turbolenza, tumulto e confusione. – Il cuore dei giusti è esente da turbamenti, dal tumulto e dall’agitazione delle passioni, è un vero luogo di pace che Dio ha scelto per sua dimora. Se noi vogliamo diventare luogo dell’abitazione del Signore, suo tabernacolo e suo tempio, siamo vigilanti all’esempio dei Santi, ed applichiamoci a conservare la pace. (S. Gerol. Ep. XXXVI).

ff. 3. –  « Là Egli ha distrutto la potenza degli archi e lo scudo e la spada e la guerra ». Dove li ha distrutti? In questa pace eterna, in questa perfetta pace. E da ora, coloro che hanno una fede perfetta vedono come non debbano presumere di essi stessi, e distruggano, con l’aiuto di queste fede, tutta la potenza delle minacce che sentono in se stessi e tutto ciò che non ha in sé armi capaci di nuocere, e tutto ciò che essi considerano prezioso per preservarsi dai mali temporali, e la guerra che sostengono contro Dio difendendosi dai loro peccati: Dio ha distrutto tutto in Sion (S. Agost.). –  la pace costituisce il carattere della dimora dell’Altissimo: pace nell’antica Israele, finché essa sappia stimare il vantaggio di appartenere a Dio; pace nell’anima dei Cristiani, fintanto che si tengano uniti a Gesù-Cristo infine, pace eterna ed inalterabile negli abitanti del cielo, perché essi sono stabiliti nel soggiorno in cui non c’è più né timore, né lutto, né dolore. (Berthier). – I nemici della Chiesa, come la maggior parte dei Cristiani sono terribili e formidabili, sono numerosi e forti, si uniscono con la forza per perderci; ma poiché Dio ha scelto la Chiesa e l’anima del giusto, né gli archi, né le spade sono capaci di cacciarlo; e se la guerra non cessa completamente in questa vita, la pace perfetta essendo solo per il cielo, Nostro Signore ci ha dato l’assicurazione che annienterà tutta la forza dei nostri nemici e vincerà in noi il mondo ed il principe del mondo, come lo ha vinto Egli stesso (Duguet).

ff. 4. – Quali sono queste montagne eterne dall’alto delle quali Dio diffonde una luce ammirabile? Quelli che Dio ha reso eterni; coloro che sono le grandi montagne, i predicatori della verità. Voi diffondete la luce, ma per le vostre eterne montagne. Le alte montagne ricevono per prime la vostra luce, e tutta la luce è ben presto inondata dalla luce che le montagne ricevono. Gli Apostoli sono le alte montagne che hanno ricevuto la luce, gli Apostoli hanno ricevuto come i primi fuochi di questa luce al suo levarsi (S. Agost.). –  E ciò che essi hanno ricevuto lo hanno tenuto per sé? No, esso li hanno diffuso nell’intero universo: « Voi spandete una luce ammirabile con le eterne montagne ». Attraverso coloro che avete reso eterni, Voi avete promesso agli altri la vita eterna. È con giustezza e magnificenza che il Profeta ha detto: «  Voi spandete » affinché nessuno si possa dire illuminato dalle sole montagne. La luce che viene da queste montagne è una luce riflessa e bisogna attaccarsi alla Luce primitiva, a Colui che ha illuminato queste montagne (S. Agost.). – La preghiera, il mezzo più semplice ed il più facile per dissipare l’oscurità da cui la nostra anima è spesso avvolta. Che fa il sole per dissipare le nuvole? Si mostra, e si fa luce. Allo stesso modo, nei dubbi che attraversano l’animo, preghiamo invece di dissertare, ed un raggio di grazia cambierà il crepuscolo in una luce serena. Attacchiamoci a Dio con amore, e l’intelligenza troverà sempre tanta luce. I chiarori non mancheranno mai ai cuori puri, in questi sentieri che conducono alle montagne dell’eternità, ed in ogni anfratto oscuro, la verità brilla sempre per coloro che non hanno interesse a sviarsi.  (Mgr. LANDRIOT, Prière I, 25)

II. — 5-9.

ff. 5, 6. – « Tutti coloro il cui cuore è insensato, sono stati turbati ». La verità è  stata predicata, la vita eterna è stata annunciata, si è insegnato che esiste un’altra via che non appartiene a questo mondo; gli uomini illuminati dalle montagne che Dio aveva rischiarato, hanno disprezzato la vita presente ed amato la futura, al contrario coloro il cui cuore è insensato sono stati turbati. Da cosa? Dalla predicazione del Vangelo. Che cos’è dunque la vita eterna? Chi dunque è resuscitato dai morti? Gli ateniesi si sono meravigliati, si sono turbati quando S. Paolo ha parlato loro della resurrezione dai morti, ed essi hanno creduto che egli raccontasse loro non so qual favola (Act. XVII, 18-22), perché diceva che c’era un’altra vita che l’occhio non può vedere, e l’orecchio sentire, e le cui gioie non sono entrate nel cuore dell’uomo (1 Cor. II, 9) – (S. Agost.). – Vi sono due tipi di follie: la follia dello spirito e la follia del cuore: la prima fa che si vedano delle cose diversamente da come sono, la seconda fa che conoscendo il prezzo dei veri beni, non li si lasciano per preferire loro degli altri che non li valgono. « Gli uomini di ricchezza hanno dormito il loro sonno e non hanno trovato nulla nelle loro mani ». Essi hanno amato le cose della vita presente, e vi si sono addormentati e queste cose sono divenute per loro deliziose. Ugualmente, colui che vede in un sogno che ha trovato un tesoro, è ricco finché non si svegli: il sogno lo fa ricco, il risveglio lo fa povero. Forse il sogno si è manifestato in lui quando era steso a terra, coricato sul duro, quando era povero e mendicante; in sogno, quest’uomo si è visto disteso su di un letto d’oro o di avorio, su cumuli di mollezze; nel sonno, egli dorme deliziosamente, ma al risveglio si ritrova sul duro giaciglio, così come quando il sonno lo aveva colpito. È lo stesso di questi ricchi: essi sono venuti in questa vita ed i piaceri e le cupidigie temporali li hanno addormentati. Essi si sono lasciati prendere dalle vane ricchezze e da un fasto passeggero che ben presto è sparito. Essi con hanno compreso qual buon uso potevano fare di queste ricchezze; perché essi non avevano conosciuto l’altra vita e si erano fatti un tesoro dei beni che periranno quaggiù (S. Agost.). – Terribile risveglio è quello della morte: essi tenderanno le mani a tutto ciò che li circonda, non stringeranno che fantasmi, una fumata che si dissipa, e che non lascia nulla di reale nelle mani. – Il supplizio dei grandi e dei ricchi della terra, così fieri dei loro cavalli e dei loro equipaggi, è il dormire nella loro grandezza immaginaria, e di esserne sorpresi nella morte. È con ragione che il salmista dice: « gli uomini di ricchezze – e non le ricchezze degli uomini – per dimostrarci che essi non possiedono le loro ricchezze, ma che le loro ricchezze in realtà li possiedono ». In effetti, il posseduto deve appartenere al possessore e non il possessore a ciò che è posseduto. Colui dunque che non usa del suo patrimonio come di un bene che possiede, che non sa darne ad un povero, è schiavo piuttosto che padrone delle sue ricchezze: egli le considera come un servitore guarda i beni che non gli appartengono, e non come ne userebbe un padrone. E parlando di tali uomini, noi diciamo che questi sono gli uomini delle loro ricchezze, e non che le ricchezze appartengono loro (S. Ambrogio-De Nab.). – I peccatori si sono addormentati, ecco l’assopimento delle coscienze criminali; ed in questo stato, arriva loro ciò che succede ogni giorno ad un uomo che dorme: povero com’è, immagina talvolta delle ricchezze immense di cui diviene possessore, aumenta le sue tenute, accumula tesori su tesori; ma tutto questo non è che un’idea, perché al suo risveglio si ritrova con le mani vuote, e più povero che mai. Lo stesso avviene al peccatore: il peccatore, praticando le buone opere, crede di arricchirsi davanti a Dio, e tuttavia nulla gli è di profitto. Egli è assiduo al servizio divino, è caritatevole verso i poveri, è duro con se stesso; ma, nel sonno del peccato in cui è sepolto, tutto questo non è che un sogno, e quando viene la morte, che è come il risveglio dell’anima, egli non stringe nulla nelle sue mani  (Bouan., Etat du péché et état de grâce).

ff. 7-9.« Voi siete terribile e chi vi resisterà nel momento della vostra collera? »Essi dormono ora e non sentono che Dio è irritato; ma il loro sonno anche è effetto della sua collera. Ciò che essi non sentono, ora che dormono, lo sentiranno alla fine; perché allora il Cristo apparirà come Giudice dei viventi e dei morti: « … E chi vi resisterà al momento della collera? ». Ora, in effetti, essi dicono ciò che vogliono; essi disputano contro Dio e dicono: cosa sono i Cristiani? O ancora, … che cos’è il Cristo? … quanto insensati sono coloro che credono ciò che non vedono, che abbandonano le delizie che vedono, e mettono la loro fede in delle cose che non appaiono ai loro occhi? Voi dormite, vi divagate sognando, voi dite contro Dio tutto ciò che vi viene nello spirito. « Fino a quando Signore, fino a quando i peccatori si glorificheranno? Fino a quando risponderanno e parleranno il linguaggio dell’iniquità » (Ps. XLIII, 3). Quando cesseranno di parlare se non quando saranno costretti a rivoltarsi contro se stessi, come è predetto nel libro della Sapienza (V, 3)? Essi diranno, vedendo la gloria dei Santi: « Ecco coloro che noi prendevamo in giro ». E voi che  avete dormito un sonno profondo vi svegliate ora e vi trovate le mani vuote. Voi vedete quanti di coloro che voi burlate per la loro pretesa povertà, hanno le mani piene della gloria di Dio (S. Agost.). –  San Paolo insegna la stessa verità del Profeta: « … è terribile cadere nelle mani del Dio vivente » (Ebr. X, 32). Nessuna potenza, nessuna forza creata può darci l’idea della giusta collera di Dio e degli effetti che essa opera. La stessa Parola che ha fatto uscire l’universo dal nulla distrugge tutto ciò che è oggetto delle sue vendette. Lo spettacolo della collera di Dio si esercita sul proprio Figlio, sul Calvario: questo è il mezzo più grande che noi abbiamo di giudicare del rigore dei giudizi dell’Essere infinito. Si – potremmo dire ai piedi di questa croce – Voi siete terribile Signore, ed il vostro Figlio stesso, che vi è uguale in dignità ed in potenza, non vi resisterà (Berthier). – « Signore, Voi siete terribile, chi potrà resistervi? » Senza dubbio in nostro potere è il cancellare in noi l’immagine di Dio, e detronizzarlo lontano da noi; noi siamo liberi di avvilirlo oltraggiando la sua bontà, di corromperci violando la sua rettitudine, e di rivolgere contro di Lui questo magnifico dono che è la libertà che Egli ci ha dato a nostra perfezione e per sua gloria. Ma Lui, che è tutta forza e tutta santità, avrà senza dubbio il diritto di vendicare il suo onore, e non soffrire che la sua volontà santa sia vinta dalla volontà ribelle dell’uomo. E che? Tutto nella natura è docile sotto la sua mano, e l’uomo solo avrebbe il diritto di essere ribelle! No, no, non è affatto così: se l’uomo peccatore non vuole sottomettersi a Lui per amore, gli si sottometterà con la forza; egli scuote il giogo della legge benefattrice, cadrà nell’ordine della giustizia rigorosa. (De Boulogne, Sur la justice de Dieu). « Dall’alto del cielo, voi avete fatto intendere il vostro giudizio, la terra ha tremato, e poi è restata a riposo ». La terra si agita e si scuote ora, essa parla molto, fa dei progetti senza numero, ma verrà il momento in cui, colta da paura e da tremore, sarà obbligata o far silenzio alla presenza del sovrano Giudice. Meglio varrebbe per essa che si occupasse di meditare nel silenzio questo giudizio così terribile, e di prevenirne i soggetti con un ritorno sincero a Dio che tutto conosce e che chiederà conto di tutto (S. Agost.).

III. — 10 – 12.

ff. 10. – Il primo pensiero salutare che è come il primo atto della conversione, è quello del peccatore che condanna la sua vita passata e prende la risoluzione di rinunciarvi. Il resto di questi pensieri sono come il ricordo di questi grandi benefici, ricordo pieno di riconoscenza che l’uomo giustificato conserva con cura, e che lo porta ad onorare Dio con dei giorni di festa, vale a dire con delle azioni di grazie continue. Il primo pensiero è dunque quello che ci porta alla confessione delle nostre colpe ed all’abbandono della nostra vecchia vita … questo primo pensiero non deve dissolversi nel nostro spirito; le conseguenze di questo pensiero devono restare profondamente incise nella nostra memoria. In effetti il Cristo ci ha rinnovato, ci ha rimesso tutti i nostri peccati e noi ci siamo convertiti: se noi dimentichiamo ciò che ci sia stato perdonato e Chi lo abbia perdonato, noi dimentichiamo ciò che ha fatto il Salvatore: ed infatti al contrario – se noi ne conserviamo il ricordo – non è il Cristo che si immola per noi tutti i giorni? Il Cristo è stato immolato una sola volta per noi, quando noi abbiamo creduto; allora noi abbiamo avuto il primo pensiero. Ora le conseguenze di questo pensiero primario sono quelle di ricordarci Chi è Colui che è venuto a noi, e quali sono le colpe che ci abbia rimesso; e l’effetto di queste conseguenze del pensiero primario, o l’effetto del nostro stesso ricordo, è che il Cristo è tutti i giorni immolato per noi, come se ci rinnovasse per così dire ogni giorno, dopo averci rinnovato con la sua prima grazia … Se oggi non c’è più il pensiero primario che è in voi, abbiate almeno in voi le conseguenze del vostro primo pensiero, per paura che il ricordo di Colui che vi ha guarito non sfugga alla vostra memoria; perché se obliate le vostre antiche piaghe, il resto, le conseguenze del pensiero primario, non saranno più in voi (S. Agost.).

ff. 11, 12. – Che ognuno faccia i voti che sono in suo potere e se ne appaghi. Non abbiate timore di fare questi voti; perché non è con le vostre forze che li compirete. Voi cadrete se presumete di voi stessi; ma se mettete la vostra fiducia in Colui al quale si indirizzano i vostri voti, fateli, sicuri di potervene acquistare.  « Fate dei voti al Signore nostro Dio, e compiteli ». Quali sono i voti che tutti indistintamente devono fargli? Di credere in Lui, di sperare da Lui la vita eterna, di ben vivere secondo la regola comune. C’è in effetti una regola comune a tutti: il voto, ad esempio, non è una cosa proibita alla vergine consacrata a Dio e permessa alla donna sposata. Ugualmente è impedito a tutti l’ubriachezza, abisso in cui l’anima si perde, peccato con il quale essa sporca in sé il tempio di Dio. È a tutti prescritto di non inorgoglirsi. A tutti è prescritto similmente di non commettere omicidio, di non odiare il proprio simile e non voler nuocere a nessuno. Ecco tutte le cose che noi dobbiamo evitare senza riserva. Ci sono poi dei voti propri di ciascuno. Ognuno faccia quel voto che vorrà, ma una volta fatto il voto stia attento ad acquistarne fedelmente. Qualunque voto si faccia a Dio, è una gran colpa guardarsi indietro (S. Agost.). – Non mancare di parola a Colui che è terribile nei suoi giudizi e del quale è scritto: « Non vi ingannate, non ci si burla impunemente di Dio » (Galat. VI, 7). Egli non è solo terribile allo sguardo dei particolari, ma pure al riguardo dei principi e dei re che sono terribili per gli altri uomini, e a cui Dio toglie la vita  quando a Lui piace, con la stessa facilità che agli ultimi dei suoi soggetti (Duguet). – È soprattutto negli ultimi giorni che Dio apparirà terribile ai re ed ai grandi della terra.

DIO IN NOI (4)

DIO IN NOI (4)

[Versione p. f. Zingale S. J. – L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923 Can. Francesco Duvina]

LIBRO TERZO

Il peccato mortale e l’inimicizia con Dio in noi

Un modo di concretare i nostri privilegi soprannaturali consiste nel domandarci quali doveri c’incombono, allorquando, per il peccato mortale, disprezziamo questi doni e li rigettiamo lungi da noi, come fardello inutile. Abbiamo considerato l’Abitazione di Dio in noi, dal punto di vista positivo; — studiamola adesso in che consista dal punto di vista negativo — di che cosa viene privato chi non la possiede. In virtù della grazia, Dio vive in noi, Dio Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Vediamo ciò che il peccato mortale è capace di produrre nelle nostre relazioni:

Col Padre,

Col Figlio,

Con lo Spirito Santo.

Faremo così un passo innanzi nello studio del mistero adorabile di cui ci occupiamo.

CAPO I.

L’inimicizia con Dio Padre.

Un ricco incontra un giorno un fanciullo povero sulla via. Lo raccoglie, l’adotta, lo educa, lo nutrisce, lo circonda di cure. Il fanciullo ha diritto di partecipare alla stessa mensa di famiglia, alle gioie della famiglia, profitta delle relazioni della casa e di tutti i vantaggi che la sua posizione di « figlio di Re » gli procura. Più tardi, se resterà fedele, sarà ammesso dal padre adottivo all’eredità. La condizione è una sola: non deve abbandonare il focolare domestico, né tradire la persona o gl’interessi del benefattore al quale egli deve l’educazione e la nobiltà. – Il fanciullo divenuto grande, si lascia persuadere di abbandonare il padre adottivo e rifiuta i beni e l’eredità promessagli. Fa anche peggio. Cerca disfarsi di suo padre, per assumerne la dignità, volendo così divenire padrone. Il tentativo dello sciagurato non riesce. Conseguenze: il padre conserva i suoi titoli, la sua potenza e i beni di fortuna, ma il figlio adottivo è cacciato per sempre dalla famiglia: « Va’ via, non ti riconosco più! ». Questo esempio descrive assai bene quello che la teologia chiama l’Adozione divina, e il modo in cui l’uomo corrispose all’adozione, fondata nell’amore infinito di Dio. In principio Dio gratifica l’uomo della vita soprannaturale, dono meraviglioso aggiunto a quelli di natura; gli promette l’eredità celeste, da conseguirsi più tardi, se sarà fedele, e la possibilità di godere, fin da questa vita, l’usufrutto dei favori divini. Ma l’uomo ingannato dal demonio: « eritis sicut dìi », aspira a scoronare Dio col preferire il suo capriccio all’obbedienza. Il suo gesto audace lo caccia dal paradiso terrestre e lo priva di tutti i doni divini. – Monsignor de Ségur, nelle Semplici Storie, racconta questo fatto: Un padre in una fiera smarrisce sua figlia. Lungo tempo la cerca, ma invano. Quattro anni dopo, a Londra, riprendendo le indagini, scorge sopra un palco di lottatori una fanciulla. Non ha dubbio alcuno: è sua figlia! Penetra nel palco… « Figlia mia » le dice; ma la piccina, guasta per il soggiorno prolungato coi saltimbanchi, contaminata dai loro cattivi discorsi, aveva dimenticato i suoi primi anni. Risponde senz’altro: « Voi, mio padre?… Non vi conosco! Il mio vero padre è questo qui ». E accennava a un sinistro ciarlatano, che voleva intervenire per non lasciarsi sfuggire la preda. Quante volte accade anche all’uomo, attirato da una curiosità colpevole e da una gioia di bassi istinti, ingannato dal demonio, grande ladrone di anime, di abbandonare la dolce casa del padre di famiglia. Divenuto preda del demonio, si lascia trascinare lungi, molto lungi, sforzandosi di sfuggire alle ricerche di Dio. Non già che Dio non sappia dove trovarci; ma diciamo che quando Egli batte alle porte del cuore e chiama con la voce del rimorso o le esortazioni del sacerdote, il demonio raddoppia le suggestioni, insinua i suoi orpelli, cattiva l’attenzione, paralizzando la volontà. – Se almeno l’uomo rinunziasse alla amicizia di Dio per un oggetto degno di stima! Ma no, per una bagatella la riflessione cede; ci lasciamo sedurre da un nonnulla: uno sguardo, una lettura, una parola, un desiderio. « Che stranezza, dice S. Agostino al peccatore: tu basti a Dio, e Dio non ti basta. Sufficis Deo et Deus non sufficit tibi? Tu cerchi fuori di te il nulla, cerca piuttosto dentro di te il sommo bene! » (Quid vagaris o homuncio, quærendo diversa corporis et animæ bona, quære summam bonum quod in te est). – In te; ecco ciò che rende più gravi le nostre colpe. Offendere da lontano è un’ipocrisia, ma un’ipocrisia che infine si spiega facilmente. Offendere però in faccia, offendere qualcuno, intimamente unito a noi, che vive ed è tutt’uno con noi è una colpa così strana, che il sentimento di onore più elementare dovrebbe preservarcene. Non solo il sentimento dell’onore, ma anche quello dell’amore. La fanciulla rubata non era responsabile. Aveva potuto conoscere appena il vero padre. Ma noi quale scusa potremo addurre? Diremo che Dio era un incognito? che non era buono abbastanza? Dal momento in cui un’anima si è svincolata dalle sue braccia, Dio ne va alla ricerca. Segue questa disgraziata che non vuole più saperne del suo amore. Moltiplica gli appelli, ripete gli inviti. Sa bene in quali braccia miserabili ci siamo abbandonati, a quale tiranno ci siamo affidati; si aggira attorno a noi, aspettando il momento del ritorno. Eccolo con le mani aperte, con le braccia tese; Egli ci chiama,ci sollecita in tutte le maniere. Dentro e fuori ci grida: « Figliuolo mio, eccomi, sono io,tuo Padre. Ritorna, te ne supplico! Oh, se sapessi quanto io bramo di riaverti come mio figliuolo! ».Che magnifico raffronto presenta, con la parabola del Figliuol prodigo e i passi che questi fa per ritornare al padre, la storia di quell’altro padre e le sue ricerche per ritrovare la figlia! E tuttavia l’esempio addotto non riproduce che in modo lontano la sollecitudine del Padre divino in cerca dell’anima che lo fugge.Nella misericordiosa tenerezza del Padre celeste nulla è più significativo, quanto il suo modo di agire col popolo prediletto nell’antico Testamento. Questo popolo miserabile rifiuta continuamente le premure affettuose dell’Altissimo. Dio cerca di richiamarlo al dovere, ora con gli avvisi, ora con premurose sollecitudini,ora con minacce. Qualche volta Israele si arrende, ma quanto raramente! Accade più spesso che si ostina nel suo peccato, ovvero, pentitosi cade e ricade fino a non più intendere la voce di Dio e dei Profeti. Iawè si attrista profondamente, di una tristezza che giunge fin alla nausea, vedendo la poca gloria che il suo popolo gli procura. Allora esclama, stanco:« Basta, o Israele, fino adesso ti ho chiamato mio popolo; ormai tu non sei più il mio popolo ». Si volta la pagina della Scrittura, credendo di leggervi la collera di Iawè; invece si nota il perdono. Israele mostra di correggerli dei suoi falli e Dio non ha la forza di restar fedele al suo proposito. Vuole perdonare il suo popolo. E questo non una volta, ma dieci, cento tutte le volte…Nostro Signore moltiplica le similitudini per descrivere la sollecitudine angosciosa del Padre di famiglia nel voler ritrovare il figlio che si è da Lui allontanato peccando. Quando una donna perde una moneta, si affretta a cercarla dappertutto! Accende la lampada, cerca sotto i mobili, spazza tutti gli angoli. E il pastore, eh cosa non fa quando una sua pecorella si è smarrita? Parte subito, fruga i cespugli, interroga, ne segue le tracce sulla montagna, attraverso i precipizi, si stanca senza darsi vinto…, finché non l’abbia ritrovata accanto ad un macigno lungi dal pascolo, tremante di paura. Con quanta gioia la chiama col suo nome, la raccoglie, se la pone sulle spalle e la riconduce all’ovile! È una felicità tale che Nostro Signore, per esprimerla, usa parole che si direbbero quasi di una esagerazione singolare. « Si fa più festa in cielo per un solo peccatore che si converte, che per novantanove giusti i quali perseverano nel bene ».- Ecco come Dio agisce per renderci la vita divina. Un bravo operaio, dopo una predica sulla parabola del Buon Pastore, andato a trovare il predicatore per confessarsi, gli dice:« Questa storia del Buon Pastore che va in cerca della sua pecorella mi ha commosso. Io ho detto fra me: la pecora smarrita sono io ».Sì, ciascuno di noi è la pecora smarrita, allorché ha abbandonato il Padrone del gregge.

CAPO II.

L’inimicizia col Figlio di Dio.

Il peccato mortale è un’immensa ingratitudine nei riguardi del Padre. Ma nei riguardi di Nostro Signore è un tradimento e uno spergiuro. Non mantenere un impegno, violare liberamente un trattato, si tratti di una nazione verso un’altra, dello Stato verso la Chiesa, dell’uomo verso Dio, è grande fellonia.Ora noi abbiamo assunto impegni solenni e sacrosanti con Nostro Signore!Il giorno della prima comunione promettemmo che volevamo rinunziare a satana perseguire Gesù Cristo. Ma quanto tempo intendevamo restare fedeli a questa promessa? Forse un giorno, una settimana, un anno, fino a vent’anni, fino al matrimonio? No. Noi promettemmo:« Io mi unisco a Gesù Cristo per sempre». Per sempre; dunque per tutta la vita, per tutta l’eternità. Passano alcuni giorni in cui si resta fedeli. Ma l’ora della prima tentazione suona. E, io suppongo, si soccombe… mortalmente. Avevamo stabilito con Dio un contratto bilaterale. Chi lo straccia? Un giorno avevamo affermato:« Rinunzio a satana. Mi unisco per sempre a Gesù Cristo». E adesso: «Rinunzio a Gesù Cristo, e aderisco a satana. Non voglio più saperne di Gesù. Lo rinnego. Voglio satana,che da questo momento scelgo come mio padrone ».E’ vero che, a meno di una malizia straordinaria,nessuno dice esplicitamente: «Aderisco a satana per sempre », ma praticamente si fa così. Nel momento della colpa grave, fra Gesù e il suo nemico si sceglie, con un gesto netto e reciso, il nemico di Gesù Cristo.Quale grande angoscia non sarà per il peccatore, dover rispondere del delitto di alto tradimento! Quando la mobilizzazione generale delle coscienze sarà suonata, quando, non più in un angolo della trincea e per alcuni solamente,ma su tutta la terra, senza eccettuare un solo vivente o un solo cadavere rintronerà la parola tremenda: « Levatevi, o morti! » che. tremito per tutti coloro la cui vita cristiana fu un tessuto di bassezze! Tutte le debolezze consentite e non riprovate riceveranno la triste ricompensa: « O Cristiano, hai degradato te stesso. Sia fatta la tua volontà. Fiat voluntas tua, homo, in æternum! Mi hai cacciato per sempre. Io ratifico: per sempre. E ormai vattene! Non ti riconosco! L’impronta divina tu l’hai strappata. In te non vi è altri che te solo, mentre dovremmo esservi tu e Io. Rimani quello che sei. Custodisci quello che hai, cioè te solo. Io me ne vado, o piuttosto, resto lontano poiché tu lo hai voluto! ». Nei primi tempi del Cristianesimo, per imprimere nella mente dei nuovi battezzati il ricordo degli obblighi contratti, si adottò questo rito: Il neofita indossava una veste bianca che portava durante i primi otto giorni della sua ammissione nella Chiesa. Quest’uso antichissimo la sacra liturgia lo rammemora, imponendo la stola bianca sul capo del fanciullo che è stato battezzato. Nell’atto di fare il gesto simbolico, il sacerdote pronunzia una prescrizione severa e ad un tempo una raccomandazione affettuosa che è la seguente: « Accipe vestem candidam quam immaculatam perferas ante tribunal D. N. Jesu Christi. Ricevi la veste dell’innocenza. Ma riportala senza macchiaimmaculatam — al tribunale di Dio ». Nel giorno della prima comunione la veste candida o il nastro bianco che si porta al braccio, hanno lo stesso significato. Che cosa abbiamo fatto della nostra purezza promessa in quelle dati solenne? La stoffa allora era senza macchia. L’abbiamo custodita Immacolata? Durante la persecuzione dei Vandali, l’apostata Elpidoro perseguitava un diacono rimasto fedele. Irritato dalla condotta d’Elpidoro, il diacono prese con sé la veste, di cui l’aveva rivestito il giorno della sua ammissione nella Chiesa e gli andò incontro. Davanti a lui spiegala veste, l’agitò come un vessillo ed esclamò: «Prendi, guardala: riconosci quest’abito! oggi tu lo profani. Esso ti accuserà il giorno del giudizio. Pensa bene a quello che fai! ». Se quegli che viene sacrificato con una disinvoltura così maligna, per noi non fosse altro che una persona alla quale si è data la parola, non vi sarebbe gran male. Invece è quel Dio al quale dobbiamo tutto il nostro essere, quel Dio che ha dovuto soffrire per ridurci allo stato in cui ci troviamo. Abbiamo già considerato il prezzo della nostra Redenzione e quale parte di torture essa rappresenta. Tutti i dolori del Cristo, il Sangue sparso sulla croce, le angosce della Passione, diventano inutili per il peccato! Diciamo meglio, e in un senso molto reale: i dolori di Gesù sono rinnovati dal peccato! I veri carnefici di Gesù non sono i soldati romani, dalle maniche rovesciate, che nel corpo di guardia della città della Antonia flagellano le spalle del Cristo, gli sputano in viso, lo vestono di un manto di porpora, ovvero percuotono a colpi di canna la testa trafitta di spine, gl’inchiodano le mani e i piedi sul Calvario. I veri carnefici del Cristo siamo noi.In una parrocchia un grande crocifisso dimissione minacciava staccarsi dal legno; il curato chiama un fabbro per fare ribadire i chiodi che sostengono l’immagine sacra del Salvatore.Il fabbro appoggia la scala alla parete, e sale.Giunto al Crocifisso subito sente risvegliarsi quella fede che da molto tempo non aveva praticata, e prova un senso di rammarico. Il dolore invade il suo cuore, gli si gonfiano gli occhi di lagrime, e la mano, con cui sostiene il martello rimane inerte: « Signor Parroco — esclama, voltandosi verso il sacerdote rimasto a pie’ della scala — non posso; no, veramente non posso ».Se nell’ora della tentazione fosse vivo nella nostra mente il pensiero delle sofferenze di Gesù Cristo, le nostre cadute sarebbero meno numerose.Una vecchia biografia di S. Domenico riferisce il seguente fatto: Una donna di costumi dubbi, contrariamente alle sue abitudini, una sera trovavasi sola in casa. A un tratto sente bussare alla porta. Va ad aprire. Un uomo di bellissimo aspetto, ma in preda a una tristezza profonda, le chiede ospitalità. La donna gli offre parte della sua cena. L’uomo accetta. Ma ecco che sui panni dell’ospite, sulla sedia dove è seduto, appariscono macchie di sangue. La donna cambia il tovagliolo; ma dopo alcuni istanti esso è di nuovo coperto di sangue. Allora la misera capisce. L’uomo seduto non è un essere ordinario; è il Crocifisso del Golgota; e il sangue che gli scorre… è il prezzo del peccato.Fatto vero o leggenda? Importa poco! Reale o simbolico, ha in ogni caso, un senso molto vero. Il peccato mortale, nei riguardi di Nostro Signore, è uno spergiuro e una crudeltà.

CAPO III.

L’inimicizia con lo Spirito Santo.

Il Sacramento che ci rende figli di Dio e ci mette in possesso dell’Abitazione divina, è il Battesimo. Si « attuerebbe » meglio la presenza di Dio in noi per la grazia, se qualche volta meditassimo il rito del Sacramento che ci unisce al Cristo. Abbiamo accennato a una parola molto eloquente della sacra liturgia. Altre ve ne sono non meno ricche di sante riflessioni. Il bambino è condotto alla Chiesa; ma gli è interdetta l’entrata e deve aspettare nell’atrio, perché egli è sempre « fuori della Chiesa ». Ma ecco il sacerdote rivolgergli domande importantissime, le cui risposte, date dal padrino e dalla madrina, manifestano la volontà esplicita del futuro « figlio di Dio ». L’affettuoso interrogatorio si svolge così: «Volete essere battezzato? » — «Lo voglio», ecc. Allora il ministro di Dio dice al demonio: « Va via, spirito immondo, esci da questo fanciullo, per lasciare il posto allo Spirito Santo. Exi ab eo, immunde spiritus, et da locum Spiritui Sancto». Forse nessuna parola, qui, come nella consacrazione e nell’assoluzione, rivela meglio la potenza del sacerdote. Quanta forza nella sua affermazione, per la certezza d’essere ubbidito! Parallelismo commovente. Vi è qualcuno che abita nell’anima del bambino a causa del peccato originale. Il suo nome è satana, il demonio. Ma questo nome non muove ancora tanto al disprezzo che merita; bisogna che pubblicamente venga chiamato col nome che per eccellenza caratterizza il suo modo di agire, la liturgia non indietreggia: «Va via spirito immondo, immunde spiritus». « Vattene e lascia il posto » — a chi? « allo Spirito Santo! E nell’istesso momento, in virtù di questa parola divina, splendida come tutte le parole creatrici, satana fugge, e lo Spirito Santo penetra per abitare in eterno nell’anima, in quanto dipende da Lui: « Veniemus et mansionem apud eum faciemus. Noi verremo… e resteremo » S. Luigi, re di Francia, amava sottoscriversi Luigi di Poissy dal luogo in cui aveva ricevuto il Sacramento che aveva in lui messo la vita di Dio. Chi ha ragione, noi che pensiamo così poco al nostro Battesimo, ovvero i Santi che pensano con tanto amore? Il demonio giudica meglio di noi. Non ha preso la fuga senza guardare indietro. È partito; non poteva fare a meno: l’ordine era formale, imperioso. Ma ritornerà, appena gli sarà possibile. Adesso lo Spirito Santo regna da padrone in questo fanciullo; ma satana non avrà requie finché non sarà riuscito, con la connivenza di colui che oggi abbandona, a riavere il domicilio che stima sua possessione. Non può fare torto a Dio nella sua natura. Può combatterlo nel suo «dominio» umano; e suo unico ideale è di allontanare lo Spirito Santo dal cuore dell’uomo, perché riesca a possedere le nostre anime e ad abitarvi da padrone. Qual è lo scopo della lotta fra satana e Dio? I nostri privilegi soprannaturali, la vita di Dio in noi, né più né meno. E consideriamo bene che il demonio si dichiara pronto a rubarci questa ricchezza divina che portiamo in noi. Sperando d’indurre al peccato lo stesso Figliuolo dell’Uomo, lo trasporta, dice il Vangelo, sopra un’alta montagna, e là, mostrandogli, con un gesto l’universo intero: «Tutto questo io ti darò, gli dice, se cadendo a terra, mi adorerai ». E queste promesse seducenti non le fa alle sole anime straordinarie, come era quella di Gesù Cristo, ma a tutte. Per acquistare un’anima, o meglio, i tesori che l’anima possiede, il demonio è pronto a dare, in cambio, i beni materiali. Non può essere altrimenti, perché, in fondo, la mancanza di proporzione è completa, ed egli sa di guadagnare (Notiamo pertanto che il demonio promette, ma è deciso di mancare alle promesse. In ogni tentazione presenta il miraggio di un paradiso terrestre: « Consenti alla colpa… proverai quanti piaceri ti procurerò ». — E dopo commesso il peccato, l’uomo s’accorge che quest’universo, hæc omnia, il paradiso di piaceri era pochissima cosa — meno del nulla! L’oggetto è lo stesso prima e dopo che s’è consentito alla tentazione; ma la stima che se ne ha è proprio la stessa?). – Supponiamolo vincitore un momento. Si cadens una colpa rappresenta sempre una caduta. L’anima è caduta gravemente. All’esterno nulla apparisce. Di due persone che si vedono passare per la strada, l’una è in grazia, l’altra in peccato mortale; ma chi vede la differenza? Nessuno. In realtà essa è immensa! In questo interno oscuro, ma reale, del fondo dell’anima, è avvenuta una strana rivoluzione. Dopo il ribollimento delle passioni, gl’istinti, trionfando sulle ragioni della fede e incatenando la volontà, sono stati causa d’una sentenza di espulsione. Mentre al Battesimo il prete aveva detto: « Va’ fuori, spirito immondo, lascia il posto allo Spirito Santo », il peccatore rivoltando la frase che l’aveva reso Cristiano, pronunzia: « Va’ via, Spirito Santo! Vattene, io non voglio più nulla aver da fare con te! Va’ via, io ti caccio, esci di qui, allontanati da me!… cedi il posto ». — A chi, Dio benedetto!… — «Cedi il posto allo spirito immondo! ». Appunto, il demonio sarà lo strano usurpatore che dimorerà là, dove Dio regnava. – Le ossessioni manifeste del demonio, all’epoca nostra e nei nostri paesi, sono rare. Solo i missionari, nei paesi infedeli, le constatano qua e là. Le manifestazioni esterne della presenza del diavolo nell’anima del peccatore, Dio le permette unicamente per ragioni eccezionali. Ma questo poco importa. A rigore di termini, chi commette un peccato grave è posseduto dal demonio. Non vogliamo dire ossesso, giacché l’ossessione ha un senso specialissimo; ma diciamo – poiché ciò è assolutamente vero, e non ne saremo mai convinti abbastanza — preda del demonio (satana entra nell’anima del peccatore non sostanzialmente, ciò che appartiene a Dio, ma per mezzo della sua azione, cioè per le cattive suggestioni. Questa è la dottrina di S. Tommaso, quando commenta l’introiuit in eum Satanasdel Vangelo (Giov. XIII, 27). Contra Gentes, lib. iv, cap. XVIII. Il P. FROGET scrive: « È privilegio esclusivo e inalienabile di Dio… poter penetrare, sostanzialmente, fino al più intimo dell’essere. Quanto al demonio può penetrare nel corpo, muoverne le membra, malgrado la resistenza della volontà, come avviene agli energumeni, ma non potrebbe invadere l’intimo del nostro essere, né penetrare, almeno direttamente, nel santuario dell’intelligenza e della volontà; se dunque entra nel cuore di qualcuno, non lo fa sostanzialmente, ma per gli effetti della sua malizia: suggerendo pensieri cattivi e atti colpevoli che riesce spesso a far compiere ». De l’Habitation du St. Esprit dans les ames justes, p. 59). Il penoso periodo di tempo in cui lo Stato aveva prescritto gl’Inventari — fu il periodo « della grande miseria della Chiesa di Francia— tristo gesto di alcuni senza coscienza, che forzarono all’esilio Dio, facendolo uscir fuori di parecchie chiese, col demolirne le porte a colpi di scure, ed espellerne i fedeli, riunitisi per difenderla — meritò il nome di profanazione».Ma non meno tragica è la profanazione di colui che fa un gesto per scacciare Dio non da un tempio inanimato, da una Chiesa fatta di pietre e calce, ma da un tempio vivente, dall’anima propria! – Lo Spirito Santo non è meno degno di adorazione che il Corpo santissimo di Nostro Signore. Delle due presenze reali, quella della Terza Persona della Santa Trinità, non è al certo meno reale dell’altra, di Gesù nel Tabernacolo. La facilità con cui noi lasciamo saccheggiare, e saccheggiamo noi stessi, il tabernacolo santo del nostro cuore, non è forse indizio della dimenticanza disastrosa e incomprensibile della verità che, più d’ogni altra, San Paolo inculcava ai primi Cristiani, per persuaderli a condurre una vita pura, santa, per rendere odioso e direi impossibile, agli occhi loro, il peccato, verità espressa in queste parole: «Dio vive in noi, noi siamo le chiese di Dio »? (Quest’idea dell’anima, considerata come tempio, era familiarissima ai primi cristiani. L’Epistola attribuita a S. Barnaba, consola coloro che rimpiangono la distruzione del Tempio di Gerusalemme, ricordando che se il tempio fu distrutto, non è più; ma vi è un altro tempio di Dio. Prima di abbracciare la fede, il nostro cuore rassomigliava veramente ai templi elevati dalla mano degli uomini, dimora di corruzione e di debolezza. Dedicati al culto degli dei erano il soggiorno del demonio. In essi tutto era ostile a Dio. Ma ecco che il Signore si è costruito un tempio, degno della sua magnificenza. Per la remissione dei peccati noi siamo divenuti uomini nuovi, creazione del tutto nuova. Di modo che Dio abita veramente in noi, nel tempio del nostro cuore… Ecco il tempio spirituale che il Signore si è costruito ». – Cap. XVI). Ci resta adesso da esaminare, non più in qual  modo la conoscenza dell’Abitazione divina, aiutandoci a schivare il peccato, ci permetta l’intimità fondamentale; ma in qual modo il pensiero di « Dio in noi », aiuti, nel grado più elevato, lo sviluppo della stessa intimità. Questo è il soggetto che ci studieremo di svolgere, insistendo sulle particolarità che può assumere la nostra famigliarità con gli Ospiti divini dell’anima nostra, a seconda che si scelga di preferenza l’uno o l’altro aspetto della presenza divina, l’una o l’altra Persona della Trinità santa che abita in noi per la grazia.

LIBRO QUARTO

La grazia e le nostre relazioni possibili con Dio in noi

Dal poco che abbiamo detto fin qui, si prevede già che noi possiamo, che noi dobbiamo avere per il Signore, il quale in virtù della grazia abita in noi, una familiarità avida di parlargli, sempre e dovunque. Il libretto dell’Imitazione di Cristo non ha difficoltà di chiamarla: « familiarità eccessiva», degna di quella che conviene a Dio, familiaritas stupenda nimis. Come abbiamo notato sopra, non intendiamo occuparci di quelle relazioni che appartengono all’unione mistica. Trattiamo soltanto delle relazioni normali — o che dovrebbero essere tali — di ogni anima cristiana con l’Ospite divino che vive in lei. E per evitare confusioni determiniamo il senso della parola: mistico. Limitandoci alla materia che trattiamo, mistico può avere due significati: Che le nostre facoltà, in virtù di un’elevazione miracolosa, vengono rese capaci di percepire, in modo eccezionale, l’Abitazione divina e in tal caso la presenza di Dio in noi sarà normale, se riconosciuta semplicemente dalla fede; sarà mistica se si ottiene per una conoscenza diretta, più o meno viva e duratura, più o meno elevata. Oppure che Dio, presente in noi per la grazia nel modo che abbiamo spiegato, si manifesta come presente in altra maniera, per esempio con la sua Umanità. – Da ciò risulta, che sarà mistico ogni fenomeno il quale ha per oggetto di intensificare in maniera eccezionale la presenza normale o di modificarla, aggiungendo ad essa e sempre in via eccezionale, un’altra presenza. Noi prescindiamo da questi casi (Per rendere chiaro il soggetto e trovare paragoni adatti, qualche volta abbiamo citato esempi in cui la presenza divina era del tutto speciale, extra-normale. Ma in questo caso, abbiamo sempre menzionato quello che appariva come straordinario.): tuttavia facciamo notare che se in teoria la linea di divisione si stabilisce facilmente tra la devozione ordinaria e lo stato straordinario, in pratica la vita mistica, almeno in principio, non sarà che l’efflorescenza della vita di grazia, comune a tutte le anime esenti di peccato mortale; in altri termini, un’anima non sarà, il più delle volte, mistica perché possiede qualche cosa che noi non abbiamo, ma perché possiede meglio, e in grado più eminente, l’Ospite divino. – La vita di Dio in noi è base della pietà normale e base ugualmente della pietà mistica. « Supponiamo, nota i l P. L. de Grandmaison, un Cristiano in grazia che coi suoi mezzi naturali riesca a darsi una specie d’intuizione intellettuale dell’anima sua; godrebbe di una visione, simile, materialmente, a quella che è l’aurora dello stato mistico, ma senza scorgerne la dolcezza e i benefizi soprannaturali » (Recherches de Sciences religieuses, t. I, 1910 p. 204 in nota). Premesse queste considerazioni, esaminiamo quali sono le relazioni normali che ogni Cristiano può e deve mantenere:

Col Padre,

Col Figlio,

Con lo Spirito Santo.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/12/24/dio-in-noi-5/

SALMI BIBLICI: “CONFITEBIMUR TIBI, DEUS” (LXXIV)

SALMO 74: “CONFITEBIMUR TIBI, DEUS, confitebimur”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 74

In finem, ne corrumpas. Psalmus cantici Asaph.

[1] Confitebimur tibi, Deus, confitebimur,

et invocabimus nomen tuum; narrabimus mirabilia tua.

[2] Cum accepero tempus, ego justitias judicabo.

[3] Liquefacta est terra et omnes qui habitant in ea, ego confirmavi columnas ejus.

[4] Dixi iniquis: Nolite inique agere, et delinquentibus: Nolite exaltare cornu.

[5] Nolite extollere in altum cornu vestrum; nolite loqui adversus Deum iniquitatem.

[6] Quia neque ab oriente, neque ab occidente, neque a desertis montibus.

[7] Quoniam Deus judex est; hunc humiliat, et hunc exaltat:

[8] quia calix in manu Domini vini meri, plenus misto. Et inclinavit ex hoc in hoc, verumtamen fæx ejus non est exinanita; bibent omnes peccatores terrae.

[9] Ego autem annuntiabo in sæculum; cantabo Deo Jacob.

[10] Et omnia cornua peccatorum confringam; et exaltabuntur cornua justi.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXIV

Ammonizione a viver bene ed a depor l’alterigia, perché il giusto e severo giudizio è imminente. —

Parlano quindi i giusti, quando il Profeta e quando il Dio medesimo.

Per la fine: non dispergere; salmo e cantico dì Asaph.

1. Noi darem laude a te, o Dio; ti darem laude, e invocheremo il tuo nome.

2. Racconterem le tue meraviglie; quando io avrò preso il tempo, io giudicherò con giustizia.

3. Si è strutta la terra con tutti i suoi abitatori; io fui che alle colonne di lei diedi saldezza.

4. Ho detto agl’iniqui: Non vogliate operare iniquamente; e ai peccatori: Non vogliate alzar le corna.

5. Non vogliate alzar in alto le vostre corna; non vogliate parlar contro Dio iniquamente.

6. Imperocché né ad oriente, né ad occidente, né sulle montagne deserte (avrete scampo); (1) perocché il giudice è Dio.

7. Egli umilia l’uno, e l’altro esalta, perché il Signore ha nella mano un calice di vin pretto, (calice) pieno di amara mistura.

8. E da questo ne mesce in altro (calice); ma la feccia di esso non è consumata: ne berranno tutti i peccatori della terra.

9. Ma io per tutti i secoli annunzierò, e canterò laudi al Dio di Giacobbe. (2)

10. Perocché io spezzerò tutte le corna dei peccatori; ma i giusti alzeranno le loro teste. (3)

(1) Né dalle montagne del deserto, sottinteso, ci verrà il soccorso, la liberazione. Questo deserto è probabilmente l’Arabia, ove si trovano le montagne sinaitiche.

(2) Ex hoc in hoc, ex hoc poculo in hoc poculum, o ex hac parte in aliam partem.

(3) Questo salmo ed il seguente, sono stati composti – dicono un certo numero di esegeti – in occasione della miracolosa sconfitta di Sennacherib ed in azione di grazie per la liberazione del popolo di Dio.

Sommario analitico

In questo salmo, c’è come un dialogo tra il Profeta ed il Cristo sul futuro giudizio (2).

I.- Il Profeta, a nome dei giusti, promette di celebrare le lodi di Dio: 

1° con lo spirito e con il cuore, per la gloria di Dio, invocandolo per la sua utilità; 

2° raccontando agli altri le sue meraviglie (1).

II. – Gesù-Cristo:

1° predice che a tempo debito, eserciterà il suo giudizio sugli uomini, giudizio che farà sciogliere per la paura le anime imperfette, e fortificherà le perfette (2, 3);

2° esorta gli empi a rinunciare al loro orgoglio nelle loro opere, nei loro pensieri, nei loro discorsi (4, 5);

3° li avverte che essi non troveranno alcun soccorso, alcun rifugio contro di Lui (6);

4° annuncia loro il castigo del loro orgoglio: – a) essi saranno rovesciati dalle loro elevate posizioni (7); – b) berranno la coppa della collera di Dio (8); – c) passeranno da un supplizio all’altro, senza speranza di vederli mai conclusi (9);

III. – Il Profeta, nel suo nome, promette di celebrare per sempre le lodi del Dio di Giacobbe (9).

IV. – Gesù-Cristo predice di nuovo l’umiliazione dei superbi e l’esaltazione degli umili (10).

Spiegazioni e Considerazioni

I. – 1.

ff. 1. – Le prime parole di questo salmo sono come un cantico di liberazione e di azioni di grazie che i giusti intonano al pensiero del giudizio che deve affrancarli dal giogo tirannico che i malvagi hanno per così lungo tempo fatto pesare su di loro: Noi vi loderemo, o Dio! Noi vi loderemo ed invocheremo il vostro Nome. Noi racconteremo le vostre meraviglie. – Noi dobbiamo sempre cominciare col rendere a Dio i nostri doveri, che sono la lode e le azioni di grazie; in seguito dobbiamo domandargli le sue grazie ed invocare il suo Nome, cioè il suo soccorso.

II. – 2-9.

ff. 2. – Voi chiamate in voi colui che Voi invocate. Che cos’è in effetti invocare se non chiamare in se stesso? Se Dio è invocato da voi, cioè chiamato in voi a quali condizioni vi si avvicinerà? Egli non si avvicina all’orgoglioso. Dio è elevato, ma colui che si eleva non arriva a Lui. Quando noi vogliamo raggiungere gli oggetti posti in alto, noi ci ingrandiamo, e se non possiamo raggiungerli, cerchiamo degli strumenti e delle scale per elevarci all’altezza di questi oggetti; Dio agisce in senso contrario, Egli è elevato e non è raggiungibile che dagli umili. È scritto: « il Signore è vicino a coloro con il cuore infranto » (Ps. XXXIII, 19). La contrizione del cuore è la pietà, è l’umiltà. Colui che è contrito si irrita contro se stesso, perché Dio gli sia propizio; che sia il proprio Giudice, perché Dio sia il suo difensore. Dio viene dunque quando è invocato. Ma a chi viene? Egli non viene verso l’orgoglioso (S. Agost.). ascoltate un’altra testimonianza di questa verità: « Grande è il Signore, Egli guarda le cose basse, e conosce da lontano le cose elevate » (Ps. CXXXVII, 6). Il Signore è grande, Egli guarda da vicino le cose basse, mentre guarda da lontano le cose elevate. E perché è detto che Dio riguarda gli umili, per paura che i superbi non gioiscano della speranza dell’impunità, come se Dio, abitando i cieli non conoscesse il loro orgoglio; la Scrittura dice pure, per tenerli nel timore: Io vi vedo e vi conosco, ma da lontano. Egli fa la felicità di coloro che avvicina; quanto a voi, uomini orgogliosi, uomini che vi levate arrogantemente, voi non resterete impuniti, perché Egli vi conosce, e voi non sarete felici perché Egli vi conosce da lontano (S. Agost.). – Quando Dio giudicherà secondo giustizia? « Quando sarà giunto il suo tempo ». Non è ancora il suo tempo. Rendiamo grazie alla sua misericordia; Egli predica dapprima la giustizia e giudica in seguito i giudici; perché se volete giudicare prima di predicare chi si troverebbe per liberare? Chi si troverebbe per assolvere? Ora dunque è il tempo della predicazione: « Io racconterò – egli dice – tute le vostre meraviglie ». Ascoltate questo narratore, ascoltate quest’altro predicatore; perché Egli vi dice, che se lo disprezzate: « … quando sarà giunto il mio tempo, Io giudicherò i giudici ». Oggi Io rimetto i peccati a chi li confessa; più tardi Io non risparmierò coloro che mi hanno disprezzato; o Signore, io celebrerò la vostra misericordia ed il vostro giudizio (Ps. C, 1), dice il Profeta in un altro salmo: « … la vostra misericordia ed il vostro giudizio »; la misericordia per il presente ed il giudizio per l’avvenire; la misericordia per la quale i peccati sono rimessi; il giudizio per il quale i peccati saranno puniti. Voi volete non temere Colui che punisce i peccati? Amate Colui che li rimette; guardatevi dal disdegnarlo, di elevarvi con l’orgoglio e di dire: io non ho niente da farmi perdonare (S. Agost.). – San Paolo ci fa conoscere che c’è in effetti non soltanto un tempo, ma un giorno designato per questo giudizio di giustizia che Dio deve esercitare. « Dio annuncia ora agli uomini che tutti faccianno, in tutti i luoghi, penitenza, perché Egli ha stabilito un giorno per giudicare il mondo secondo la giustizia, per colui che Egli ha destinato ad esserne giudice, confermando la fede di tutti resuscitandoli dai morti ». (Act. XVII, 30, 31). In questo giorno di cui Dio dice qui: « … quando avrò preso il mio tempo, Io giudicherò secondo le regole della mia infallibile giustizia ». A Dio solo, in effetti, appartiene il parlare della sorte; a Dio solo appartiene il prendere il suo tempo per giudicare, per punire. Egli non esercita ancora questo rigoroso ed infallibile giudizio; Egli non fa ancora questo discernimento terribile tra i buoni ed i malvagi, … perché? Perché Egli prende il suo tempo e ha scelto il suo giorno, ove farà apparire la sua giustizia nei confronti di tutto l’universo. Ecco ciò che spiega uno dei più insondabili misteri del governo della Provvidenza sulla terra, questa pazienza, questa longanimità, questo silenzio di Dio rispetto ai crimini ed alle prevaricazioni senza numero degli individui come delle nazioni; pazienza, longanimità, silenzio che giungono fino a far dubitare, a far negare agli empi che Dio si occupa delle cose umane. – La spiegazione di questo mistero di pazienza è in queste parole: « … quando Io ho preso il mio tempo ». Dio ha il tempo per Lui, ed il tempo verrà. C’è una cosa che non dovete mai ignorare – dice San Pietro -: che agli occhi di Dio, un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno. Così il Signore non ritarda il compimento della sua promessa, come qualcuno potrebbe immaginare; ma Egli usa la pazienza a causa vostra, non volendo che nessuno perisca, ma che tutti facciano ricorso alla penitenza (II Piet. III, 9-10). – Il senso primo e letterale di questo versetto è che Dio giudicherà secondo le regole della giustizia, e non i giusti! Secondo la spiegazione di un gran numero di interpreti, tuttavia questo ultimo senso può essere ammesso sotto il beneficio delle importanti lezioni che racchiude. « Voi che desiderate l’avvento del vostro Salvatore, temete l’esame severo del Giudice, temete Colui che ha detto: Io scruterò, Io visiterò Gerusalemme con la lampada in mano ». La sua vista è penetrante, niente sfugge al suo sguardo. Egli scruterà i reni ed i cuori, ed il pensiero dell’uomo sarà forzato a rendere omaggio alla sua giustizia. Quale sicurezza c’è per Babilonia, se Gerusalemme deve essere esaminata in tal modo? Gerusalemme qui è il simbolo di coloro che, in questo mondo, imitano, con la professione della vita sacerdotale o religiosa, la santità degli abitanti della celeste Gerusalemme, mentre Babilonia rappresenta coloro che sono nel turbinio di tutti i vizi e la confusione di tutti i crimini. È di questi peccatori manifesti che San Paolo dice: « I peccati di alcuni uomini si manifestano prima del giudizio » (I Tim. V, 24); essi reclamano il castigo piuttosto che l’esame ed il giudizio. Ma per i miei peccati, a me che sono religioso, prete, abitante di Gerusalemme, essi sono nascosti, coperti dal nome e dall’abito religioso; « Essi non possono essere riconosciuti se non dopo l’esame »; essi hanno bisogno di essere ricercati e discussi con la più grande cura, e non possono uscire dalle tenebre per rilucere nel gran giorno con l’ausilio di una torcia. È a questa ricerca scrupolosa, a questo esame accurato, che fa allusione il Salmista, quando dice nel nome del Signore: « Quando Io avrò preso il mio tempo, Io giudicherò i giudici » (S. BERN. Serm. LV in Cant.). – C’è un senso sublime in questa espressione « quando Io avrò preso il tempo per giudicare »; essa fa conoscere che il tempo è in mano a Dio e che Egli ne dispone come Gli piace; essa ci avverte di essere sempre pronti a rendere conto delle nostre azioni, perché in tutti i momenti, noi possiamo essere citati al tribunale del Giudice sovrano. Dio ci accorda il tempo per prepararci a questo giudizio, e ci nasconde i limiti di questo tempo, affinché non cessiamo di prepararci (Berthier). – « Quando il tempo stabilito sarà giunto, allora Io giudicherò », per farci intendere che anche al suo sguardo c’è un tempo per giudicare, ed un tempo per perdonare. E ci dice San Gregorio che, con insostenibile temerarietà, noi vogliamo giudicare in ogni tempo. Prima che Dio abbia preso il suo tempo, noi prendiamo il nostro, e lo prendiamo quando e come ci piace (Bourdiol: Jug. Tém.). 

ff. 3. – Non è qui il cuore dei giusti che prende la parola, come pensa Bellarmino, ma il Signore che continua a parlare. « La terra fonde ed i suoi abitanti sono passati ». nel giorno del giudizio la terra e tutti coloro che la abitano, saranno distrutti. Il Signore ne parla come di una cosa già fatta, per sottolineare la certezza dell’avvenimento. L’apostolo S. Pietro attesta la stessa verità: « Ora, i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della rovina degli empi » (II Piet. III, 7). Allo spettacolo degli avvenimenti terribili che precedono queste grandi assise del Giudizio universale, « … gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra » (Luc. XXI, 26). Tuttavia il Signore dichiara che ha consolidato e raffermato le colonne, le sostiene dalla terra, perché non siano ridotte in cenere, ed ha fortificato i giusti che ne sono le colonne, affinché possano levare la testa, perché la loro redenzione si avvicina. Il profeta Gioele predice sia questo terrore degli abitanti della terra, sia questa forza che il Signore darà ai suoi eletti: « Il Signore ruggisce da Sion e da Gerusalemme fa sentire la sua voce; tremano i cieli e la terra. Ma il Signore è un rifugio al suo popolo, una fortezza per i figli di Israele » (Gioele IV, 16). – Queste parole esprimono anche, se si vuole, questa corruzione generale della terra, tutta fusa nella mollezza e nelle delizie di questa vita, e Dio ne trae qualcuno da questa massa corrotta e li rafferma nella sua grazia come sue colonne. « La terra si è come fusa », e cosa intendete con “questa terra”? Tutti coloro che la abitano, vale a dire coloro i cui pensieri, tutte le affezioni hanno la terra come oggetto unico, perché ciascuno è, in realtà, ciò che ama; se amate Dio, siete nel numero di coloro a cui il Signore ha detto, per bocca del suo profeta. « … voi siete degli dei ». La terra è in fusione, quando i cuori degli uomini si rammolliscono, si fondono e si liquefano nelle impure fornaci del vizio, delle concupiscenze, delle prevaricazioni che li profanano e li fanno appassire. 

ff. 4-7. – È il salmista, o se si vuole, il Signore che parla in questo versetto, e trae dal discorso di Dio la conseguenza che gli empi ed i malvagi hanno timore dell’inevitabile giudizio di Dio. – « Non vi elevate dunque, e le vostre parole non imputino a Dio l’iniquità ». Ascoltate ora il linguaggio di un gran numero di uomini: ciascuno di voi lo ascolti e sia toccato di compunzione. Cosa dicono ordinariamente gli uomini? Veramente Dio giudica le cose umane?Questo è il giudizio di Dio? O ancora. Dio si occupa di ciò che succede sulla terra? Ci sono tanti ingiusti che rigurgitano di beni, e tanti innocenti che sonno carichi di malanni!  Ma ecco che a questo felice del secolo giunge non so quale malanno, castigo ed avvertimento di Dio; egli non ignora lo stato della sua coscienza, non ignora che possa avere da soffrire a motivo dei suoi peccati, da dove trarrà dunque argomenti contro Dio? Egli non può dire: io sono giusto; cosa pensiamo dunque che dirà? Ci sono più ingiusti di me, e tuttavia non soffrono questi mali. Ecco l’iniquità che gli uomini imputano a Dio con il loro linguaggio. Vedete quale ingiustizia, perché questo uomo, volendo apparire giusto, accusa Dio di ingiustizia per il giudizio di cui soffre, e pretende di essere giusto, poiché dice di soffrire ingiustamente. Io vi domando, miei fratelli è equo che Dio sia considerato come ingiusto e voi come giusti? Ora quando usate un tale linguaggio, le vostre parole imputano a Dio l’iniquità (S. Agost.). – In questo giorno, il giusto Giudice distruggerà tutti i pretesti, annienterà tutte le scuse che i peccatori tenteranno di opporre ai colpi della sua giustizia: « Io ho detto ai malvagi: Non commettete l’iniquità, ed ai peccatori la cui empietà provoca la mia collera: non ritenetevi autorizzati dal mio appoggio per rinnovare la fila delle vostre iniquità, e soprattutto non levate la testa contro di me per rinnovare le vostre bestemmie ». Quale scusa resterà loro? Sotto quali circostanze attenuanti potranno rifugiarsi? – Il giudice delle vostre iniquità, è Dio. Se c’è Dio, Egli è presente dappertutto. In quale luogo vi potrete sottrarre agli occhi di Dio, per dire qualcosa che Egli non intenda? Se il giudizio di Dio viene dal lato d’oriente, fuggite in Occidente e dite contro Dio ciò che vorrete; se viene dall’Occidente, passate in Oriente e là parlate senza fermarvi; se esso viene dai deserti e dalle montagne, andate in mezzo ai popoli, e là mormorate sommessamente contro di Lui. Costui non giudica di alcun luogo chi è nascosto ovunque, che nessuno può vedere mai, che nessuno ha il potere di ignorare. Vedete dunque cosa fate. Le vostre parole imputano a Dio l’iniquità. Ora la Scrittura vi dice: « … lo Spirito del Signore ha riempito l’universo e, siccome contiene tutto, Egli conosce tutto ciò che si dice: ecco perché colui che pronuncia parole inique non può restare nascosto » (Sap. I- 7, 8). Non crediate dunque che Dio sia in tale o tal altro luogo; Egli è con voi ciò che voi siete con voi stessi. Che significa ciò che voi siete voi stessi? Buono, se voi siete buono, e malvagio ai vostri occhi se siete malvagio; soccorritore, se siete buono, vendicatore delle vostre colpe, se siete malvagio. Voi avete un giudice dentro di voi. Forse volete fare qualche male, lasciate i luoghi pubblici per rifugiarvi nel segreto della vostra casa, ove nessun nemico possa controllarvi; dagli spazi della vostra casa che sono accessibili a tutti ed esposti agli sguardi, vi ritirate nella vostra camera, ancora nella vostra camera voi temete un testimonio, vi ritirate nel vostro cuore, e voi rifletterete che Dio è proprio la, più intimo per voi che questo fondo del vostro cuore. In qualunque parte dunque che voi fuggiate, Dio ivi si trova. Ove fuggirete voi stesso? In quale luogo fuggirete? Ma poiché Dio è ancora più profondo del vostro cuore di voi stesso, voi non potete fuggire un Dio irritato, se non tra le braccia di un Dio placato. Voi non potete fuggire da nessun’altra parte. Volete dunque sfuggire a Dio? Gettatevi in Dio, in Lui stesso. Che le vostre parole di conseguenza, non imputino a Dio l’iniquità, anche nel luogo segreto in cui parlate (S. Agost.). – « Pensate qui a ciò che potrete rispondere »; pensateci quando è tempo, ed il pensiero ne possa trarre utilità. Non asserite più la vostra debolezza, non mettete il vostro appoggio nella vostra fragilità. La natura era debole, la grazia era forte; voi avete una carne che brama contro lo spirito, voi avete uno spirito che desidera contro la carne; avete delle malattie, ma avete anche dei rimedi nei Sacramenti; voi avete un tentatore, ma avete pure un Salvatore; le tentazioni sono sempre presenti, le ispirazioni non lo sono da meno; gli oggetti sono sempre presenti, e la grazia sempre pronta, e voi potete almeno fuggire ciò che non potreste vincere. Infine, da qualunque lato vi giriate, non vi resta più alcuna scusa, alcun sotterfugio, alcun mezzo di evasione, voi siete presi e condannati. Ecco perché il profeta Geremia dice che « … i peccatori saranno in quel giorno come colui che è preso in flagranza di delitto » (Gerem. II, 26). Egli non può negare il fatto, non può scusarlo, non può difendersi con la ragione, né scappare con la fuga (Bossuet). – « Non vi verrà alcun soccorso da parte degli astri che si levano, né da parte degli astri che si posano, né da parte dei deserti o delle montagne, perché è Dio solo che è il vostro Giudice ». Ecco la grande ragione che chiude tutte le bocche, chiude ogni discussione e rende impossibile ogni difesa. « Il giudice è Dio »; vale a dire Colui che è tutta intelligenza, tutta scienza, tutta saggezza, tutta potenza; Colui che è la giustizia sovrana e di conseguenza, inevitabile; divina, e di conseguenza infinita … « Perché è Dio stesso che è giudice ». Non ci sono appelli contro il giudizio di Dio. Che il peccatore si porti ad Oriente, ad Occidente, nel deserto, nelle cavità delle rocce, nelle gole delle montagne, Dio è giudice dappertutto, niente sfugge alle sue conoscenze né alla forza del suo braccio. Egli umilia i grandi, se sono stati orgogliosi, ed eleva i poveri che sono stati umili di cuore; Egli ha nella sua mano la coppa in cui versa il vino della collera – secondo l’espressione del Profeta – ed è necessario che i peccatori bevano questo calice di amarezza fino alla feccia. Questa è la fine dei destini umani. È a questo tribunale di ogni verità e di ogni giustizia che devono giungere tutti i nostri pensieri, tutti i nostri progetti e tutte le nostre opere. Non si potrà protestare contro questo tribunale, né addurre l’ignoranza, tutte le pagine dei santi Libri ce l’annunciano; … né le passioni, perché il pensiero di questo tribunale ne è il rimedio; … né la debolezza della nostra natura, perché i milioni di Santi deboli come noi si sono resi favorevoli il Giudice sovrano; … né l’imbarazzo delle cure della terra, poiché la nostra cura primaria deve essere occuparci del giudizio di Dio. Questo sarà uno dei più grandi rimorsi dei riprovati: il pensare che essi sono condannati da un tribunale il cui ricordo doveva salvarli (Berthier).

ff. 8, 9. – « Dio abbassa l’uno ed eleva l’altro ». Chi è abbassato da questo Giudice sovrano? Esaminate i due uomini che erano insieme nel tempio, e vedrete qual è colui che sia abbassato e colui che sia elevato (Luc. XVIII, 10, 11). « Chiunque si eleva sarà abbassato e chiunque si abbassa sarà elevato ». Ecco che il versetto del salmo spiega. Che fa Dio quando giudica? Egli abbassa l’uno ed eleva l’altro; Egli abbassa i superbi ed eleva gli umili (S. Agost.). – Questa coppa di Dio si abbassa a volte sul popolo, sugli individui, a volte sugli altri. Secondo che la sua giustizia e la sua misericordia lo richiedano, è quella di cui il Signore diceva a Geremia. « Prendi dalla mia mano questa coppa di vino della mia ira e falla bere a tutte le nazioni alle quali ti invio, perché ne bevano, ne restino inebriate ed escano di senno dinanzi alla spada che manderò in mezzo a loro ». Presi dunque la coppa dalle mani del Signore e la diedi a bere a tutte le nazioni alle quali il Signore mi aveva inviato: …. Tu riferirai loro: Dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Bevete e inebriatevi, vomitate e cadete senza rialzarvi davanti alla spada che io mando in mezzo a voi. Se poi rifiuteranno di prendere dalla tua mano il calice da bere, tu dirai loro: Dice il Signore degli eserciti: « Certamente ne berrete! » (Gerem. XXV, 15, 28). – È questa coppa di cui Dio diceva all’infedele Gerusalemme: « Berrai la coppa di tua sorella, profonda e larga, sarai oggetto di derisione e di scherno; la coppa sarà di grande capacità. Tu sarai colma d’ubriachezza e d’affanno, coppa di desolazione e di sterminio era la coppa di tua sorella Samaria. Anche tu la berrai, la vuoterai, ne succhierai i cocci, ti lacererai il seno » (Ezech. XXIII, 31, 34). – Che il santo e divino salmista abbia elevato divinamente questa bella distinzione dei beni e dei mali! Io ho visto – Egli dice – nella mano di Dio, c’è una coppa piena di tre liquori: c’è in primo luogo il vino puro, « vini meri »; c’è secondariamente il vino misto, infine c’è la feccia. Che significa il vino puro? La gioia dell’eternità, gioia che non è alterata da alcun male, non misto a nessuna amarezza. Che significa questa feccia? Se non il supplizio che non è temperato da alcuna dolcezza. E cosa rappresenta questo vino misto? Se non questi beni e questi mali che l’uso può far cambiare di natura, come noi proviamo nella vita presente. O la bella distinzione dei beni e dei mali che il Profeta ha cantato! Ma saggia è la dispensa che la Provvidenza ne ha fatto! Ecco i tempi della miscela; ecco i tempi del merito, in cui bisogna esercitare i buoni per provarli, e sopportare i peccatori per attenderli: e si versano in questa miscela questi beni e questi mali mescolati, di cui i saggi sanno approfittare, mentre gli insensati ne abusano, ma questi tempi di miscela finiranno. Venite, spiriti puri, spiriti innocenti, venite a bere il vino puro di Dio, la sua felicità senza mistura. E voi, malvagi induriti, malvagi eternamente separati dai giusti, non vi è per voi felicità, niente più danze, banchetti, giochi; venite a bere tutta l’amarezza della vendetta divina  (Bossuet, Serm. sur la Prov.). – La Provvidenza di Dio porta nella sua mano una coppa piena del vino rude ed amaro della cupidigia, essa vi mescola tutto ciò che sia contrario alle passioni e che è proprio nel punirle; essa agita questa coppa e ne rimuove gli sgradevoli liquori, secondo i bisogni che ne hanno coloro ai quali essa la presenta. Se non fossero privi del gusto della verità e della giustizia, essi gli renderebbero grazie di ciò che essa spande sui loro ingiusti desideri delle salutari amarezze, secondo l’espressione di S. Agostino… I più giusti hanno bisogno di bere in questa coppa e di berne anche più di una volta. Senza questo contro-veleno, la loro virtù anche li rigonfierebbe; senza questo mezzo per espiare i loro peccati, essi li conoscerebbero poco e ne farebbero una penitenza imperfetta. Quelli che sono testimoni delle loro prove e che non ne conoscono né le ragioni né la necessità, le lamentano come malaugurate, o le considerano pure come egualmente indegne dell’attenzione di Dio e di quella degli uomini. Ma è da queste prove che essi sono purificati e che diventano degni della qualifica di figli di Dio … Le afflizioni comuni qui ai buoni ed ai malvagi, al popolo di Dio ed alle nazioni infedeli, sono piuttosto delle lezioni che dei castighi; esse non sono che leggeri efflussi della coppa, molto diversi dalla feccia riservata agli empi, ai peccatori impenitenti. Questa feccia che è nel fondo della coppa, è una figura degli ultimi tempi, e di una giustizia senza miscela di misericordia (Rendu). 

III. — 10.

ff. 10. – « Ed Io distruggerò tutti le potenze dei peccatori ». I peccatori non vogliono che si distruggano le loro potenze; ma nessuno dubita che queste potenze non saranno alla fine distrutte. Non volete che Dio le distrugga all’ultimo momento? Distruggetele voi stessi oggi. Voi avete inteso ciò che è detto più in alto; tenete gran conto di queste parole: … io ho detto agli ingiusti: « astenetevi dal commettere l’iniquità, ho detto a coloro che l’avevano commessa, astenetevi dal sollevare potenza ». Se quando vi si dice: « Astenetevi dal sollevar potenza », voi disprezzate questo consiglio e levate orgogliosamente la fronte, la fine verrà e compirà quella minaccia: « Io distruggerò tutte le potenze dei peccatori, e le potenze dei giusti saranno elevate ». Le potenze dei peccatori sono le vane dignità dell’orgoglio; i corni dei giusti sono i doni di Cristo. In effetti si intende per corno, tutto ciò che sia elevato. Odiate in questa vita ogni elevazione terrena, per giungere all’elevazione celeste. Se voi amate le grandezze della terra, Dio non vi ammetterà alle grandezze del cielo, e per vostra confusione vi distruggerà le potenze; ed anche ciò che sarà della vostra gloria, se eleva allora i vostri corni. È ora il momento di scegliere, allora sarà troppo tardi. Voi allora non potrete dire: lasciatemi fare la mia scelta, perché siete prevenuto da questa minaccia: « Io ho detto agli empi ». Se non avessi detto niente, potevate preparate le vostre scuse, preparare la vostra difesa; se al contrario, Io ho detto: fate prima la vostra confessione per non arrivare alla vostra condanna; perché allora ogni confessione sarà inutile ed ogni difesa impossibile (S. Agost.). – L’orgoglioso è come quel mostro terribile che vide Daniele: egli aveva dei lunghi denti di ferro, che divorava e stritolava, calpestando il resto con i piedi; esso era diverso da tutte le altre bestie ed aveva dieci corni (Dan. VII, 7). Questi dieci corni dell’empio e del peccatore orgoglioso sono: 1° la scienza infatuata, gonfia di sé; 2° la prudenza del mondo; 3° la vana gloria; 4° la presunzione; 5° l’arroganza; 6° la superbia, 7° la bellezza fisica; 8° l’amore dei piaceri, 9° la ricchezza della terra; 10° gli onori, le dignità, i favori del mondo. Il piccolo corno che si leva in mezzo ad essi, con gli occhi simili a quelli di un uomo ed una bocca che proferisce grandi cose, è l’ipocrisia aggiunta a tutti i vizi che precedono. 

DIO IN NOI (3)

DIO IN NOI (3)

[Versione p. f. Zingale S. J. – L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923 Can. Francesco Duvina]

CAPO III.

“Alter Christus,,

Essere « tabernacolo », essere « cielo », ecco la splendida realtà di un’anima in stato di grazia. Possiamo adesso far un passo innanzi. Il Cristiano, nella cui anima abita Dio, è, letteralmente, un altro Gesù Cristo, alter Christus. In primo luogo perché ha accettato la dottrina e la professione esterna, visibile del Vangelo. Difatti, bisogna che la nostra fede non sia unicamente per noi soli; deve avere una irradiazione. Bisogna che costituisca il suggello, la divisa, che ci faccia distinguere: « Induimini Christum. Rivestitevi di Gesù Cristo». Ohimè, quanti battezzati non si curano punto di questo: Cristiani di nome e nulla più! Inoltre il Cristiano dev’essere Alter Christus, perché deve vivere o studiarsi di vivere, prendendo ad imprestito — invece dei giudizi e dei sentimenti del mondo — i pensieri ed i sentimenti di Nostro Signore: Hoc sentite in vobis quod et in Christo Jesu. Ma il battezzato, può e deve essere « un altro Cristo » per ben altre ragioni, immedesimandosi cioè con Lui nel modo più intimo possibile. S. Paolo intendeva questa intimità quando diceva: « Vivo ego, jam non ego, vivit vero in me Christus. Io vivo, ma non sono io che vivo, è invece Gesù Cristo che vive in me ». Molti autori spiegano queste parole della presenza di Nostro Signore — Uomo-Dio — in noi, per mezzo della Comunione. E perché, presa alla lettera, questa frase pare esprimere una realtà troppo bella, molti indietreggiano, e come chi non osa farsi avanti, si provano a diminuirla, raddolcirla, rimpiccolirla. – I buoni commentatori non amano tali alterazioni. Bisogna spiegare la frase letteralmente: « Perché parlare d’imitazione, scrive il Padre Prat, quando l’Apostolo ha in mira l’identità mistica? ». Dobbiamo rassomigliare al Cristo non solo perché assunse un’umanità simile alla nostra, ma perché ha dato alla nostra umanità, individualmente presa, una vita simile, identica alla sua, la stessa vita di Dio. In conseguenza, come Cristiano debbo indossare la sua livrea, condividere i suoi sentimenti; e, meglio ancora, prendere e custodire la sua Persona, fare di me un altro « Lui ». Il Cristo vive la vita del Padre. Ego et Pater unum sumus. Noi dobbiamo vivere la vita del Figlio. Ut sint unum. Questa è la formola divina con cui si esprime la nostra vita soprannaturale. Le correzioni necessarie che indicheremo, non la muteranno nella sua parte sostanziale. Egli vive unicamente della stessa vita di Dio e noi dobbiamo solamente vivere della sua. Giacché la sua è la stessa vita di Dio; la nostra, per la grazia, è anch’essa la vita di Dio. – Nostro Signore per spiegare la realtà di cui ci occupiamo, apportava questo paragone: « Guardate la vite. Nei tralci e nel ceppo circola lo stesso succo. I tralci vivono la vita del tronco. Il ceppo, il tronco, sono Io; i tralci siete voi. In me la vita divina, totale; in voi, finché restate a me uniti, la vita divina per partecipazione » (S. GIOVANNI, XV, 1-6. — S. Agostino, colla sua ampiezza ordinaria, sviluppa, in molti passi, il paragone del Salvatore. Alcuni testi fra i molti: Unius naturœ sunt vitis et palmites. Propter quod cum esset Deus, cujus naturæ non sumus, factus est homo, ut in illo esset vitis natura humana, cujus et nos palmites esse possemus. (Tract. 80 in Joan.) —  (Id.. Tract. 81). – S. Paolo sceglie un altro esempio: « Considerate un corpo con le sue membra. Le membra non hanno la vita che dal corpo; separate dal corpo, non sono più nulla; si disseccano e muoiono. Finché restano unite al corpo, questo le fa vivere e permette ad esse il movimento. La stessa cosa avviene di Gesù Cristo e dei Cristiani. Il Cristo è il corpo, voi Cristiani ne siete le membra. La vita di Gesù diventa vostra vita; e siccome la vita del Cristo è divina, la vostra, in virtù della vostra unione al Cristo, ormai è una vita divina. Rimanete dunque sempre membra del Cristo » (EPH., 1 , 2, 3). – Possiamo immaginare il Padre, il Figliuolo elo Spirito Santo: la Trinità, simile a un oceano senza limite. Per un mistero della bontà infinita di Dio, questo oceano viene a racchiudersi in una capacità finita, in un serbatoio, per dire così, immenso, ma anche esso limitato, la Umanità di Nostro Signore Gesù Cristo. Nel Cristo è contenuta tutta la vita del Padre, del Verbo e dello Spirito Santo. Lo scopo del Battesimo è quello di formarci come condotti di questo serbatoio divino che è il Salvatore, nel quale trovasi la pienezza della Divinità (Avviene questo in due maniere: in virtù, primieramente, dell’unione ipostatica, privilegio che Egli solo possiede; in secondo luogo, perché possiede in grado massimo la grazia santificante, privilegio al quale noi partecipiamo per i Suoi meriti). Un tubo che comunica con un serbatoio, contiene il medesimo liquido fino alla stessa altezza; la differenza sia nella misura, giacché questa dipende dalla capacità che è diversa nei due. Messi in comunicazione col Cristo nel giorno del nostro Battesimo, abbiamo ricevuto da Lui la vita divina; essa è passata da Lui a noi: la medesima circola in noi ad ogni minuto, finché restiamo in grazia. Ma commesso un peccato mortale, la comunicazione tra il serbatoio divino e noi viene interrotta. Sarà necessario il Sacramento della Penitenza per stabilire di nuovo il passaggio fino a noi. Questo paragone, benché troppo ordinario, mostra, con qualche inesattezza facile a correggere, l’insieme delle nostre relazioni con Dio per mezzo di Nostro Signore. Spiega, in particolare, come mai ci basti che restiamo uniti al Cristo, perché Dio viva in noi. Le orazioni della liturgia ci affermano questa verità, quando esprimono la formula: Per Dominum nostrum Jesum Christum. Noi siamo deificali permezzo di Gesù, e nel dominio spirituale nulla ci accade senza Gesù Cristo.L’esempio del Salvatore sulla vigna e i tralci rappresenta più fedelmente ciò che l’uomo diventa quando la vita divina non scorre più inlui. Tralcio secco, privo di succo: legno per l’inferno. La morte temporale coincide con la privazione dell’influsso divino? La dannazione eterna! Aut vitis aut ignis, come dicono energicamente i Padri: o ramo vivo, unito al tronco,ovvero legno morto; non c’è via di mezzo.« Il Cristiano, dice S. Agostino, non deve nulla temere quanto l’essere separato dal corpo di Gesù Cristo. Separato a questo modo, non è più membro, non è quindi vivificato dallo Spirito Santo; e chiunque non ha lo spirito di Gesù Cristo, dice l’Apostolo, non è con Lui » (Tract. 27, in Joan).Una sola cosa adunque importa, che noi custodiamo il contatto, che restiamo — secondo l’espressione di S. Paolo — « innestati sul Cristo». In questo modo la vita che circola in Lui,penetra in noi e la vita del Cristo è la medesima vita di Dio (per non generare confusione, è meglio evitare le espressioni: « Nostro Signore in noi, Gesù in noi ». Alcuni autori, Monsignor de Ségur in particolare, nei suoi bellissimi volumetti, le usano. Le parole Gesù, Nostro Signore, secondo la terminologia ordinaria, indicano l’Uomo-Dio. Per la grazia santificante, il Figlio è in noi allo stesso titolo che il Padre e lo Spirito Santo, cioè a dire, come Verbo. Con la sua Santa Umanità, Nostro Signore abita in noi solamente dopo la Santa Comunione, durante il tempo in cui durano le sacre specie. Ma se la vita di Dio, in Gesù Cristo e in noi, è sostanzialmente la stessa, abbiamo notato che differisce nella misura e nelle condizioni della sua esistenza).

Egli la possiede intera — noi per partecipazione.

Egli per natura — noi per adozione.

Egli per il fatto della sua Incarnazione — noi perché abbiamo ricevuto il Battesimo.

Egli non può perderla — e noi possiamo perderla.

Nondimeno conviene insistere meno sulle differenze della vita divina, quale è in Nostro Signore e in noi, che sui punti di somiglianza.

Il pericolo non consiste nel crederci troppo « altri Gesù Cristo », ma piuttosto a non voler consentire di crederci tali, nella misura in cui lo siamo. – A chi volesse trovare in ciò un motivo di orgoglio; si potrebbe facilmente rispondere quello che diceva S. Bernardo ai suoi monaci: « Il giumento, su cui cavalcò il Signore la domenica delle palme, rimase sempre un giumento ». Creature, esseri finiti, la nostra partecipazione alla vita divina non ci trasforma in Dio; ci lascia creature.

– Il dogma cristiano, ben compreso, non ha nulla da fare col panteismo. –

Del resto, le anime avvezze a meditare sulla Abitazione divina, sanno quanto costi il comporre, con la propria vita, « il poema prodigioso di un povero uomo che voglia configurarsi a Gesù Cristo ». Piuttosto che inorgoglirsi, si confondono nell’umiltà. « La contemplazione delle grazie ricevute fa loro conoscere meglio la propria miseria, dice S. Teresa. Sembra loro di essere come una nave che affonda per il troppo peso che porta ». E poi, il timore di poter perdere l’ospite benedetto, diminuisce ancor più la fiducia che potrebbero avere in se stesse: « La impressione che loro fa questo pensiero è così viva, che le eccita a camminare con una vigilanza estrema e a trarre nuove forze dalla loro stessa debolezza, per non perdere, per propria colpa, una sola occasione di rendersi più accette a Dio. Quanto più si vedono colmate di grazie dal divino Maestro, altrettanto temono di offenderlo e quindi dubitano di se stesse ». Il motivo che più fa soffrire la maggior parte dei Cristiani non è certo quello di avere esagerato la presenza di Dio in noi. « Molti Cristiani, osserva con tristezza il P. Ramière, anche credendo alle promesse divine, non possono, nondimeno, risolversi ad accettarle nella loro magnificenza. « Temono di riconoscere troppa bontà in Colui che non hanno difficoltà di chiamare il buon Dio. E si persuadono che Egli abbia esagerato le sue promesse, quando sentono ripetersi che sono invitati ad associarsi alla natura divina, ad essere fratelli adottivi di Gesù Cristo, membra del Suo Corpo, figli del Padre celeste, a vivere, anche quaggiù, della vita di Dio, per goderne in eterno la suprema felicità; in Tutto questo la maggior parte non trova che figure e pie iperboli » (Divinisation du chrétien, p. 4). – Nel paradiso terrestre, il serpentedice alla donna: « Eritis sìcut dii, sarete come dei », e mentisce. Ma per la grazia santificante, con tutta verità, noi diventiamo figli di Dio, « filii Dei, uomini divini, altrettanti Gesù Cristo ». – « Sono figlio dell’uomo e della donna, secondo ciò che mi è stato detto», scriveva un tale. « Questo mi fa meraviglia, perché io credevo essere qualcosa di più ». E intanto, quanto sono numerosi coloro i quali non si meravigliano punto e non sospettano affatto di essere qualcosa di più! – Il dogma della Presenza e dell’Abitazione di Dio — poiché è il dogma fondamentale — mette tutto a suo posto. E allora, che cosa rispondere a coloro che ci potrebbero rivolgere il seguente rimprovero: A voler soprattutto considerare Dio in noi, nell’anima nostra, non si corre il rischio di perdere di mira Gesù Cristo, il personaggio storico, il Galileo di un tempo, nato due mila anni fa in Betlem? Ciò appunto che S. Teresa, i cui consigli in materia d’ascetismo fanno legge, dice di se stessa; che avendo cioè lasciato per qualche tempo la meditazione dei misteri dell’Umanità Santa del Salvatore, se l’ebbe a rimproverare per tutto il resto della sua vita. – La devozione a « Dio presente in noi », non esclude punto la devozione all’Umanità di Nostro Signore. Al contrario la comprende, la suppone, le dà la sua ragione di essere e costituisce il motivo ultimo di ciascun passo di Gesù Cristo. Il Verbo, facendosi carne, non ebbe altro scopo che quello di vivere in noi, rientrando nelle nostre anime insieme col Padre e lo Spirito Santo: facendo sì che noi potessimo vivere con Lui della vita divina. « Societas vestra cum Christo in Deo! » (Osea, II, 14).Gesù Cristo come Verbo è, allo stesso titolo del Padre e dello Spirito Santo, causa efficiente della nostra salvezza. Allo stesso titolo del Padre e del Divino Spirito vive, come Verbo, nell’anima nostra giustificata.Come Uomo Dio, è causa strumentale della nostra redenzione, vale a dire strumento benedetto che ci ha riscattati, e che per la sua dottrina, la sua Chiesa, i Santi Sacramenti, ci dà i mezzi di restare fedeli. Come Uomo Dio, è causa meritoria della nostra salvezza; giacché noi dobbiamo alle sue fatiche e alla sua immolazione compensatrice la vita soprannaturale. Finalmente, come Uomo Dio, è causa esemplare della nostra redenzione, essendo il modello divino che dobbiamo tener presente, per imitarlo e seguirlo, onde conservare la grazia e pervenire alla gloria.Alcuni autori e commentatori isolano troppo Gesù Cristo. Bisogna integrare il Salvatore, personaggio storico, in tutta la nostra storia soprannaturale, senza dimenticare che questo Gesù lontano è venuto per renderci Dio vicino; per ristabilire nelle anime nostre la Trinità Santa che noi dobbiamo sforzarci di trovare, poiché veramente si trova in fondo a noi.Senza dubbio, per molti la contemplazione del Cristo lontano, separato dal tempo e dallo spazio, del Cristo «storico» e «geografico», basta a render loro facile l’intimità. Agiscono come se la vita del Salvatore fosse presente e vicina. Noi abbiamo l’uso di dire che trattasi di paragone, di immaginare il luogo, di ricostruire gli avvenimenti; giacché, se è vero che per Gesù di Galilea noi, di adesso, eravamo presenti allora; per noi, di adesso, il Gesù di allora non è realmente presente.  Invece, è in realtà presente, attualmente, ed è vicino a noi — dentro di noi— Dio Padre, Figliuolo, Spirito Santo, se siamo in grazia. Considerata sotto questo rispetto, quanto, l’intimità, non riesce più facile! Per parlare con Dio e vivere con Lui non ci occorre uno sforzo di immaginazione che ci porti lontano, in un angolo remoto; ma basta un atto di fede. Dio non è lontano. Egli vive in noi, al di dentro, « intus ». Dopo questo, siamo inescusabili se non perveniamo a l’intimità.

CAPO IV.

“Attuare,, i nostri privilegi soprannaturali.

Nelle note intime del grande universitario cattolico Ollé-Laprune, stanno scritte queste riflessioni: « Io sono Cristiano per grazia di Dio. Ma capisco io che cosa voglia dire essere Cristiano?… Non è molto essere Cristiano per abitudine, per sentimento. Io voglio esserlo nella luce, con riflessione, per scelta. Voglio pensare seriamente quello che sono, vederlo bene… Richiamare alla mente i principii, meditarli, approfondirli ». – Pochi, molto pochi sono coloro che hanno un’idea sì seria della vita cristiana, da non contentarsi d’una fede di sentimento o d’abitudine, ma che vogliono rendersi conto dei tesori soprannaturali conferitici col Battesimo. I buoni Cristiani si mostrano così poco Cristiani, perché  non hanno « attuato » i loro privilegi divini. Dio abita in noi per la grazia. Ma praticamente per noi è come se non ci fosse. « Attuare », è vedere che ciò che possediamo si trovi realmente in noi. Non è questione di mettervelo, ma di scoprirvelo, di fare in modo che quello che già esiste sia per noi una realtà. In qual modo il possesso di un tesoro di cui non conosciamo l’esistenza, può diventare uno stimolo di vita cristiana? – Si dirà: non è affatto necessario penetrare la natura dello stato di grazia, purché se ne viva. Io non ho peccati; questo mi basta. Quindi, indipendentemente da qualsiasi atto riflesso per spiegarmi il fatto e misurarne le conseguenze e l’importanza, la mia vita è meritoria, le mie azioni sono buone, l’anima mia è unita a Dio. – No, certo, non occorre per condurre la vita di tutti gli altri. Ma può dirsi cristiana la vita di molti Cristiani? Alcune pratiche, di cui spesso s’ignora il senso profondo; una cornice puramente esteriore e niente altro: quindi nessuna vita, perché non vi è vera conoscenza di questa vita.

Si scires donum Dei! Se conoscessimo un poco di più, un po’ meglio il dono di Dio! Se ne avessimo solo il sospetto! Disgraziatamente, un grave ostacolo si oppone alla conoscenza del dono divino. Tutte le realtà soprannaturali fanno parte del mondo invisibile: e corrono facilmente il rischio di passare inosservate. – Quindi un primo passo è indispensabile: convincersi della vera esistenza delle realtà che sono dentro di noi. Esse esistono in realtà, ma bisogna che noi le facciamo nostre. È inutile far risaltare l’obbiezione: « Io non sento nulla, dunque non esiste nulla ». Molti fenomeni d’ordine materiale accadono in noi e sfuggono alla nostra coscienza: digestione, assimilazione, circolazione. Ci meraviglieremo dunque, se nel dominio dell’anima e quando trattasi di fenomeni di ordine spirituale e soprannaturale, nulla viene percepito, né sentito? Bisogna convincersi che esiste un altro mondo, benché noi non lo vediamo, e che questo mondo appartiene ad un ordine superiore a quello che cade sotto i nostri occhi. Dio, invisibile da tutta l’eternità, non si fece visibile e palpabile che per lo spazio di trentatré anni. Ha Egli esistito solo trentatré anni? Noi non abbiamo l’esperienza sensibile della sua presenza, ma Egli « vive eternamente ». Le anime dei nostri morti, allorché esulano da questa terra, non lasciano di esistere per il solo fatto che si ritirano dietro la scena delle cose sensibili e non agiscono più sui nostri sensi. Quando un uomo perde l’uso della favella, non perde la possibilità di pensare, ma solo la facoltà di comunicarci il suo pensiero. Dunque, oltre il mondo corporale che vediamo, esiste anche un mondo spirituale. Di questi due mondi, quello che ha maggiore realtà non è il secondo, ma il primo. E poiché solo il primo conta, S. Paolo c’invita ad occuparci esclusivamente di esso. Non vivete sulla terra, ma in cielo: Nostra conversatio in cœlis est. La vostra vita sia nascosta in Dio: Vita abscondita in Deo, e poi: Invisibilia tanquam videns. Fissate i vostri sguardi soltanto sulle cose che non si vedono. Mondo invisibile, in realtà, non significa mondo che esiste lungi e dopo di noi; ma vicinissimo e di adesso: bisogna quindi considerarlo ad ogni istante come un’attualità permanente, sotto pena di non vivere che a metà, trascurando la più bella parte del mondo reale e del mondo intero. – Newman (In più di una pagina della Grammatica dell’Assentimento, della quale non è qui nostra intenzione dare un giudizio completo e in una conferenza d’Oxford dal titolo: Il mondo invisibile) insiste spesso su queste idee, e riconduce tutto a queste due proposizioni: Molte cose esistono e sappiamo che esistono, benché non le consideriamo in realtà come esistenti; sentiamo molte parole le quali esprimono una verità che riconosciamo come tale, ma perché puramente schematica, in pratica la stimiamo nulla e come non accaduta. – Spieghiamoci con qualche esempio. Ecco questa semplice parola: un’ora. Per chi non la realizza, non rappresenta che un totale matematico di sessanta minuti. Ma per colui che la realizza, è considerata diversamente, secondo le direzioni abituali del pensiero, secondo i temperamenti, le circostanze, ecc.. E allora, per esempio, l’ora che passa potrebbe essere considerata come il succedersi di sessanta minuti primi… Un minuto, come l’istante in cui, presso a poco, cento persone muoiono e altrettante ne nascono: Un centinaio di vagiti e un centinaio di ultimi aneliti… Un’ora, come uno spazio di tempo che ci dà sei mila cadaveri e sei mila culle. Ognuno vede la differenza. – Ecco un’altra parola: La Croce. Non «concretata» non dice altro che due sbarre di legno perpendicolari, ovvero il segno algebrico più. «Concretata», però, dice le idee seguenti, più o meno: « Una croce servì un giorno; una vera croce di legno, fu adoperata una volta sopra una montagna… Quale giorno memorabile!… Accanto alle altre croci che portano l’immagine di Gesù morto, vi fu una volta una croce, sulla quale fu appeso Gesù vivo, Gesù inchiodato, Gesù sanguinante, Gesù morto per me…». Molte parole, appunto perché le usiamo continuamente non impressionano. Un giorno, bruscamente, a caso, ovvero grazie ad una maggior riflessione, diventano luminose, splendide, ripiene di un senso profondo, dotate di una realtà che fino allora non si era neppure sospettata. – S. Ignazio raccomanda di non sorvolare premurosamente, col pensiero, sopra una verità che si voglia fare propria; ma di riflettere con posa, di ripetere, di fissare più da vicino la verità, fino a gustarla: gustare res interne. Non potrebbe esprimersi meglio la natura della riflessione, tanto necessaria, di cui parliamo. – « Occorre mollo tempo, dice Newman, per percepire e capire le cose come sono in se stesse, e noi impariamo a farlo gradatamente ». Se questa osservazione ha la sua importanza allorquando trattasi del mondo visibile, più ne deve avere allorquando trattasi dell’invisibile. – Un’idea che non esprima una realtà capace di essere percepita dai nostri sensi, perché sia capita a dovere, deve rassomigliare ai resti che si vedono galleggiare sulla superficie dell’Oceano. A lungo resteranno ad agitarsi sulla superficie delle onde; in seguito, poco a poco, alghe, sale, coralli e conchiglie aderiranno ad essi… finché, lentamente, quei resti sprofonderanno in seno all’Oceano. Ecco quale dev’essere il gustare interne. Alla superficie della nostra mente vi sono molte idee, per così dire, galleggianti, fluttuanti, non ancora approfondite. Perché  diventino parte di noi stessi, perché penetrino al fondo dell’anima, bisogna che ne aumentiamo il peso con mezzi tratti dal nostro fondo medesimo, coll’unione di tutti i nostri ricordi, dei nostri pensieri più cari, dei sentimenti più delicati e penetranti, di tutte le particelle di vita o di cose viventi atte a rendercele familiari per sempre. – Non può negarsi che certe anime in questo lavoro di assimilazione siano più capaci di altre, nondimeno tutte possono giungere al minimum necessario e sufficiente, esercitando la fede. Noi qui intendiamo di occuparci soltanto della devozione possibile a tutti. È certo che Dio ricolma alcune anime di favori speciali. Santa Margherita Alacoque godeva abitualmente di una presenza sentita di Nostro Signore. — Una volta l’Angelo Custode disse al Beato Susone: «Fissa gli sguardi sul tuo petto, e vedrai ». Il Beato vide che la sua persona diventava quasi diafana: Dio era in lui. — « Tu sei colei che non esiste, e io sono Colui che è »^ dichiarava Nostro Signore a Santa Caterina da Siena. E aggiungeva: « Contemplami al fondo del tuo cuore, saprai che sono il tuo Creatore, e sarai felice ». Questi casi, in cui trattasi di grazie speciali e di anime privilegiate, non sono l’oggetto del nostro lavoro il quale, invece, si limita alla presenza di Dio in tutte le anime che vivono in grazia, per il solo fatto che sono in grazia. Chi potrà impedire a qualsiasi Cristiano di applicarsi, con la fede, a scoprire Dio vivente in lui (Alcuni autori usano l’espressione: « Acquistare coscienza » di Dio in noi. Non essendo rigorosamente esatta, la frase può produrre confusione. Chi dice prendere coscienza, suppone una conoscenza immediata — e dello stesso soggetto. Ma qui trattasi di una conoscenza indiretta per mezzo del ragionamento e della fede, — della presenta di un essere diverso dal soggetto in cui si trova) ? – Monsignor Ugo Benson descrive così l’attitudine di un suo eroe: «Cominciò e continuò con costanza a fare un atto di rinunzia al mondo sensibile », — diciamo meglio, cominciò con un atto di fede alla realtà del mondo invisibile. —  Si sforzò di scendere fino al fondo di se stesso; e subito il suono dell’organo, il rumore dei passi, la rigidità del banco su cui era inginocchiato disparvero davanti a lui, ed egli ebbe l’impressione di non essere altro che un cuore che batteva, uno spirito in cui le immagini si succedevano l’una all’altra ». — Non è necessario simile sforzo, che del resto riesce difficile. — Poi fece una nuova discesa: il suo spirito ed il suo cuore, dominati dalla presenza sublime che si ergeva, si sottomettevano docilmente alla volontà del loro padrone… rimase così lungo tempo… Si trovava adesso in un luogo secreto, del quale aveva appreso la via per mezzo di uno sforzo ostinato; in quella regione singolare in cui le realtà si fanno visibili e la Chiesa, nei suoi misteri si vedono dalla parte interna di noi stessi… » ( Le Maitre de la terre, p. 54). –  Dio vive in me. Io lo credo. Ecco l’atto di fede. Lo spirito di fede va più lontano di un’adesione pura e semplice ad una formula,la cui realtà può essere invisibile e che a molti pare priva di sostanza e senza valore dinamico,fa un’adesione generale ad una formula, la cui realtà ormai apparisce nel suo intero complesso,piena di quella vita che le è propria.È forse esigere troppo, se a ogni battezzato che voglia vivere la sua fede, si domanda di interrogare, di quando in quando, se stesso come Ollé-Laprune: « Io sono Cristiano, per grazia di Dio; ma capisco che cosa importi essere Cristiano; vi penso? ».Oh, quale sostegno interiore troveremmo in quest’atto di convinzione: « Dio non mi abbandona,Dio è con me e in me, mi ama; io sono unito al suo Cristo cuore a cuore; il suo spirito aleggia in me come la brezza leggera di cui parla il profeta. Non mi resta che ascoltare e seguire, conoscere e gustare, confidare e sperare;la mia vita non è da abbandonarsi perseguire il divino Maestro; Egli stesso l’adatta e la fa sua accettandomi come suo discepolo; io vado insieme con essa e con Lui, ripudiando il solo male, separando quello che è meno bene; e la presenza dell’amico celeste, in luogo di distrarmi dalle occupazioni giornaliere, mi vi applica con gioia e costanza, perché le opere mie sono sue » (SERTILLASNGE: La vie en présence de Dieu, Revue des Jeunes, 10 mai 1918, p. 550. — Vedere altresì id., ibid., 10marzo 1919: La vie de silence). E difatti, la grandezza suprema dell’uomo non è forse Dio, Dio che vive in lui, ovvero che desidera vivervi se non ci vive, o che vuole vivervi di una vita sempre più piena, se ci vive?Qualcuno si meraviglia e rabbrividisce al pensiero che nella società contemporanea tutto sia « laicizzato » : governo, servizi pubblici, amministrazione,ecc. A tal punto, che se ci domandassimo:« Che cosa cambierebbe nel nostro mondo se il soprannaturale non esistesse, se la Redenzione e la Croce fossero un mero sogno,Gesù Cristo un semplice mito, senza realtà né consistenza? », non si saprebbe che cosa rispondere,ovvero bisognerebbe dire: nulla, assolutamente nulla muterebbe, o così poco!La responsabilità di questo stato deplorevole ricade sopra molti; e una parte non piccola su di noi, Cristiani, buoni Cristiani, che possedendo tesori sublimi, abbiamo dimenticato dipensarvi o di esplorarli. Nel 1834, Ozanam si faceva questo rimprovero:« Ho sentito che finora non avevo portato abbastanza nei mio cuore il pensiero del mondo invisibile, del mondo reale, benché non avessi smesso le pratiche religiose ». Egli parlava così per umiltà; ma noi, che diremmo di noi stessi? È tempo ormai di « attuare » i nostri privilegi divini: «La vita intima della grazia con Gesù. Tu non sei sola, anima mia; vive in te Colui che ti deifica! Tu fosti naturalizzata divina ». Questo è il linguaggio di un convertito. I convertiti vedono spesso meglio di noi: quello che a noi non fa meraviglia, li colma d’incanto. Oh, magnificenza dell’anima più semplice, racchiusa nel corpo più miserabile, vestito poveramente,— prosegue a dire Loewengard, —splendore di quest’anima, tocca dalla grazia,divenuta dimora immortale, dove abita il Re dei re, il Signore dei signori, Dio in tre Persone!« È possibile? È credibile? L’anima in grazia possiederebbe dunque sostanzialmente la SS. Trinità, la saprebbe (egli dice «sentirebbe», ma noi correggiamo) presente nel suo spirito e nella sua carne, potrebbe amarla come una sposa ama il suo sposo?Oh! se l’uomo è infinitamente meschino in ragione del suo corpo, tratto dal fango…, è infinitamente grande, infinitamente forte e nobile in quanto partecipa, per la grazia, alla vita di Dio ».Perché ci affatichiamo a diminuire noi stessi,perché, essendo grandi, ci ostiniamo a vivere da piccoli? Che peccato tremendo di omissione, che disprezzo grossolano del « realismo » più elementare: — le società, le quali si organizzano, o cercano di organizzarsi, con la volontà esplicita di non voler tenere in alcun conto il soprannaturale — noi stessi, che viviamo nella dimenticanza pratica e quasi completa di ciò che è l’uomo, tale quale Dio l’ha creato, cioè, non solo con un corpo e un’anima,ma secondo la bella e vera espressione di Tertulliano — che bisogna ben comprendere— con « un corpo, un’anima e lo Spirito Santo »!Che grande orgoglio, e al medesimo tempo,che grande decadenza non è quella di considerare nell’uomo soltanto l’uomo! Naturalizzati divini, noi non possiamo, né dobbiamo vivere« indifferenti », « laicizzati » ; non possiamo,né dobbiamo, assistere impassibili o inattivi,alla laicizzazione di tutto. Bisogna che Dio abbia nella nostra vita un posto, come ha diritto di averlo nella vita della società e delle nazioni. Ogni giorno più si vuole espellere Dio, ometterlo, far credere agli uomini che noi siamo soltanto « umani ». Ma imporre ai popoli e agli individui la dimenticanza o la privazione del soprannaturale, è lo stesso che imporre loro una dannazione anticipata. I dannati non sono altro che esseri i quali hanno perduto la loro naturalizzazione divina, creature per sempre disorientato. L’inferno non è altro che il paese della laicizzazione generale, la regione dove Dio non vuole contare più nulla, perché  l’angelo e l’uomo hanno voluto così. Figli di Dio, noi non dobbiamo vivere da volgari figli dell’uomo. È nostro dovere vivere da esseri divini e lavorare per ottenere che anche attorno a noi si viva la vita divina. È nostro dovere attuare i nostri privilegi soprannaturali e aiutare le anime perché capiscano che esse sono chiamate a « vivere del Dio che abita in loro ».I profani, notava a ragione un autore, sarebbero attirati più facilmente, se invece di lasciare nell’ombra i tratti caratteristici del Cristianesimo,

si mostrassero loro in tutto lo splendore e l’incomprensibile verità che è in essi. – Il P. Gratry, parlando dei nostri doni soprannaturali scriveva: «Se gli uomini fossero davvero compresi della loro realtà, vi penserebbero assai di più. Ma essi, lo so, hanno l’abitudine di passare attraverso le meraviglie senza neppure sospettarne l’esistenza. La presenza di Dio nei nostri cuori non è forse la più grande meraviglia? E chi vi pensa, chi se ne occupa? Non dite loro nulla, osserva Fénelon, essi non vedono e non pensano a nulla » (La philosophie du Credo, p. 220). E intanto! « La vita dell’Ospite divino del cuore è lo stato normale in cui dovrebbero mantenersi tutti i battezzati. Perché non avviene così? Forse appena uno su mille, uno su dieci mila corrisponde al dono di Dio! » (Mons. DE SEGUR: Le Chrétien vivant en Jesus, p. 269).Chi non vede, in ciò, un fatto scoraggiante,un disordine che dovrebbe finire? Che cosa aspettiamo da parte nostra per vivere nello « stato normale » di battezzati, e fare in modo che molti corrispondano al « dono di Dio » ?

https://www.exsurgatdeus.org/2019/12/19/dio-in-noi-4/

SALMI BIBLICI: “UT QUID, DEUS, REPULISTI IN FINEM” (LXXIII)

sALMO 73: “UT QUID, DEUS, REPULISTI IN FINEM”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 73

[1] Intellectus Asaph.

     Ut quid, Deus, repulisti in finem,

iratus est furor tuus super oves pascuæ tuæ?

[2] Memor esto congregationis tuæ, quam possedisti ab initio. Redemisti virgam hæreditatis tuae, mons Sion, in quo habitasti in eo.

[3] Leva manus tuas in superbias eorum in finem. Quanta malignatus est inimicus in sancto!

[4] Et gloriati sunt qui oderunt te in medio solemnitatis tuae; posuerunt signa sua, signa;

[5] et non cognoverunt sicut in exitu super summum. Quasi in silva lignorum securibus

[6] exciderunt januas ejus in idipsum; in securi et ascia dejecerunt eam.

[7] Incenderunt igni sanctuarium tuum, in terra polluerunt tabernaculum nominis tui.

[8] Dixerunt in corde suo cognatio eorum simul: quiescere faciamus omnes dies festos Dei a terra.

[9] Signa nostra non vidimus; jam non est propheta; et nos non cognoscet amplius.

[10] Usquequo, Deus, improperabit inimicus? irritat adversarius nomen tuum in finem?

[11] Ut quid avertis manum tuam, et dexteram tuam de medio sinu tuo in finem?

[12] Deus autem rex noster ante saecula, operatus est salutem in medio terrae.

[13] Tu confirmasti in virtute tua mare; contribulasti capita draconum in aquis.

[14] Tu confregisti capita draconis; dedisti eum escam populis Aethiopum.

[15] Tu dirupisti fontes et torrentes; tu siccasti fluvios Ethan.

[16] Tuus est dies, et tua est nox; tu fabricatus es auroram et solem.

[17] Tu fecisti omnes terminos terrae; aestatem et ver tu plasmasti ea.

[18] Memor esto hujus, inimicus improperavit Domino, et populus insipiens incitavit nomen tuum.

[19] Ne tradas bestiis animas confitentes tibi, et animas pauperum tuorum ne obliviscaris in finem.

[20] Respice in testamentum tuum, quia repleti sunt qui obscurati sunt terrae domibus iniquitatum.

[21] Ne avertatur humilis factus confusus; pauper et inops laudabunt nomen tuum..

[22] Exsurge, Deus, judica causam tuam; memor esto improperiorum tuorum, eorum quae ab insipiente sunt tota die.

[23] Ne obliviscaris voces inimicorum tuorum: superbia eorum qui te oderunt ascendit semper.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXIII

Salmo d’intelligenza, cioè da ben meditare, che espone l’afflizione del popolo ebreo, quando fu seguitato da Antioco l’illustre.

Salmo d’intelligenza per Asaph.

1. E perché, o Dio, ci hai tu rigettati per sempre, si è infiammato il tuo sdegno contro le pecorelle della tua greggia?

2. Ricordati della tua congregazione, che tua fu fin da principio. Tu comperasti il dominio di tua eredità; il monte di Sion fu il luogo di tua abitazione.

3. Alza per sempre il tuo braccio contro la loro superbia; quanti mali ha commesso il nemico nel Santuario! (1).

4. E color che ti odiano se ne vantarono nel luogo stesso delle tue solennità.

5. Hanno poste (e non v’han fatto riflessione) le loro insegne: le insegne sulla sommità del tempio, come ad un capo di strada.

6. Hanno similmente spezzate con accette le sue porte, come si fa degli alberi nella foresta; colla scure e colle accette lo hanno atterrato.

7. Han dato fuoco al tuo santuario; han profanato il tabernacolo, che tu avevi sopra la terra.

8. Ha detto in cuor suo tutta la loro nazione: Leviam di sopra la terra tutti i giorni consacrati al culto di Dio.

9. E noi non veggiam que’ nostri prodigi, (2) né v’ha più alcun profeta, ed egli più non ci riconosce.

10. E fino a quando, o Dio, insulterà il nemico, e l’avversario bestemmierà continuamente il tuo nome? (3).

11. E perché ritiri tu la tua mano? Tira fuor dal tuo seno la tua destra una volta per sempre.

12. Ma Dio, il quale da secoli è nostro Re, ha operato salute nel mezzo della terra.

13. Tu desti, col tuo potere, saldezza al mare; tu le teste dei dragoni conculcasti nelle acquea.

14. Tu spezzasti le teste del dragone: il facesti preda de’ popoli d’Etiopia. (4).

15. Tu apristi le rupi in fontane e torrenti; tu asciugasti i fiumi nella loro forza (5).

16. Tuo è il giorno, e tua è la notte; tu creasti l’aurora e il sole.

17. Tu facesti la terra e i suoi confini; opera tua sono e l’estate e la primavera.

18. Di queste cose ricordali. Il nemico ha detti improperii contro il Signore; e un popolo stolto ha bestemmiato il tuo nome.

19. Non dare in poter delle bestie le anime di quelli che te onorano, e non ti scordar per sempre dell’anime de’ tuoi poveri.

20. Volgi lo sguardo alla tua alleanza; perocché i più oscuri uomini della terra hanno copia di case iniquamente occupate.

21. L’uomo umiliato non si parta (da te) svergognato; il povero e il bisognoso daran lode al tuo nome.

22. Levati su, o Signore, giudica la tua causa; ricordati degli oltraggi fatti a te, di quelli che un popolo stolto ti fa tutto giorno.

23. Non ti scordare delle voci de’ tuoi nemici; la superbia di coloro che ti odiano va sempre in su.

(1) Essi hanno posto i loro stendardi (senza conoscere ciò che facevano), dall’alto del tempio così come alle porte … Essi hanno posto le insegne della loro potenza al posto di quelle di Dio. – Essi hanno abbattuto il legname del tempio con l’ascia, come si abbattono le foreste.

(2) I segni della provvidenza paterna di Dio riguardo al suo popolo.

(3) Perché ritirate la vostra mano, la vostra destra, cioè la vostra onnipotenza.

(4) Il coccodrillo, simbolo del re d’Egitto, del demonio (ad imitazione di Giobbe). I cadaveri degli egiziani, gettati sulla riva, sono stati preda di bestie selvagge. (Le Hir.)

(5) Allusione al miracolo dell’acqua estratta dalla roccia ed al passaggio del Giordano; in opposizione ai torrenti che si prosciugano durante l’estate.

(6) Quia repleti sunt, qui obscurati sunt terræ domibus iniquitatum, cioè

quia repleti sunt obscuri terræ domibus inique partis.

Sommario analitico

Il Salmista, figurando davanti agli occhi la profanazione del tempio e la devastazione della città di Gerusalemme di Antioco, ed in un senso più rilevante la Chiesa in preda alle persecuzioni crudeli che essa ha dovuto subire dai re e dai popoli idolatri [Questo salmo non fu composto sembra che dopo la cattività (II Par. XXXVI), durante la quale il tempio fu bruciato (v.7), ossia alla profanazione del tempio da parte di Antioco-Epifane. Ci sono di coloro che lo considerano precedente alla persecuzione di Manasse.

I. Egli eccita Dio:

1° A placare la sua ira così funesta per il suo popolo (1);

2° A ricordarsi delle bontà antiche (2); la protezione di cui il Signore ha onorato il suo popolo in tutti i tempi; la scelta che ha fatto di esso per essere suo regno e sua eredità; la predilezione che ha testimoniato per la montagna di Sion, fissandovi la sua dimora;

3° A sopprimere l’orgoglio e l’insolenza dei suoi nemici (3).

II. – Egli espone l’audace insolenza dei persecutori, che si produce:

1° per le loro imprese sacrileghe contro i luoghi sacri e le riunioni sante;

2° per l’erezione dei loro empi trofei nel luogo santo (4);

3° per la distruzione e l’incendio degli altari e di tutti gli oggetti consacrati al culto di Dio (5, 7);

4° per l’abolizione delle feste sacre (8).

III.- Si lamenta:

1° della cessazione dei miracoli e del dono della profezia (9);

2° degli aumenti degli obbrobri e degli oltraggi diretti contro Dio (10);

3° della tolleranza in apparenza inerte con la quale Dio sopporta tali eccessi (11).

IV. – Rammenta i gloriosi ricordi della potenza di Dio:

1° che si era manifestata altra volta nel passaggio del mar Rosso, ove gli Egiziani sono stati inghiottiti; nelle fonti miracolose che Egli ha fatto sgorgare nel deserto, e nel disseccamento dei fiumi (12-15);

2° che si manifesta tutti i giorni al levar del sole e dell’aurora (16);

3° che si manifesta tutti con gli anni nel ritorno regolare delle stagioni (17),

V. – Egli sollecita di nuovo Dio:

1° a ricordarsi di questi segni della sua potenza e degli sforzo sacrileghi dei suoi nemici (18);

2° a difendere e conservare il suo popolo (19);

3° a ricordare l’alleanza fatta con il suo popolo, per soddisfare le aspettative dei suoi fedeli servitori (20, 21);

4° a prendere in mano la sua causa, vendicare l’onore del suo Nome e mettere un termine all’orgoglio sempre crescente di coloro che lo odiano (22, 23).   

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-3.

ff. 1-2. – Questa preghiera che i Giudei indirizzavano a Dio nella loro angoscia conviene ancor più giustamente alla Chiesa Cristiana, le cui persecuzioni sono cominciate fin dalla sua culla, e si sono prolungate in tutta la serie dei secoli. Percorrendo la storia della sua instaurazione e della sua propagazione sulla terra, delle sue lotte, dei suoi combattimenti contro tanti nemici diversi ed incessantemente rinascenti, quante volte la vediamo come sul precipizio della rovina, tanto è violenta la rabbia dei suoi persecutori; ed oggi ancora, c’è parte del mondo abitato, ove frequenti e diverse, le persecuzioni della Chiesa Cattolica, nella sua dottrina, nel suo culto, nella sua gerarchia, nella sua potenza spirituale, nella libertà dei suoi atti, siano all’ordine del giorno, e sembrino cospirare la sua rovina? In queste tristi circostanze, dividiamo i sentimenti del Profeta: un vivo dolore, accompagnato da una grande fiducia e da un’umile sottomissione alle volontà divine. – « O Dio perché ci avete rigettato per sempre? » Egli non rimprovera nulla, interroga: « perché », per quale ragione, per quale scopo lo avete fatto? « Voi ci avete respinto fino alla fine », forse fino alla fine dei secoli? « Il vostro Spirito si è irritato contro le pecore del vostro gregge ». perché vi siete irritato contro le pecore del vostro gregge, se non perché siamo legati alle cose della terra e non riconosciamo il nostro Pastore? (S. Agost.). – Tutti gli uomini sono del Signore, ma coloro che Egli ha scelto per rendergli un culto particolare, il popolo giudeo prima e il popolo cristiano dopo, eredi delle promesse, sono pecore scelte. Essi sono pure lo scettro della sua eredità, perché occupano il più alto rango nella sua casa. La Chiesa Cristiana è la vera eredità che Gesù-Cristo ha riscattato con il suo sangue e la sua morte; è la vera montagna di Sion, ove Gli è piaciuto stabilire la sua dimora in mezzo ai suoi, fino alla consumazione dei secoli. – Quale preghiera più conveniente per un’anima cristiana che si sia allontanata dalle vie della giustizia e che torni a Dio nella sincerità del suo cuore? Signore, ricordatevi di un’anima che Voi possedete fin dall’inizio con il santo Battesimo, che Voi avete riscattato al prezzo del vostro sangue, che avete scelto come vostra eredità e per fissare il vostro soggiorno. Voi lo vedete in preda ai nemici suoi e vostri; cacciate questi tiranni imperiosi, e rientrate in possesso di un bene che è vostro (Berthier).

ff. 3. Notiamo 1° che il Profeta non domanda la distruzione dei nemici del popolo di Israele, ma solo l’umiliazione del loro orgoglio. È la preghiera che fa la stessa Chiesa Cristiana per i suoi persecutori: essa chiede a Dio « che si degni di umiliare i nemici della sua Chiesa » (Litan.) 2° È soprattutto l’onore di Dio e lo zelo del suo culto, piuttosto che le malefatte del popolo giudeo, che eccitano il rimpianto ed i pianti del Profeta. Egli non mira che alla gloria ed agli interessi di Dio, indegnamente prostrato ai suoi piedi. Egli geme per la distruzione del tempo e del santuario, e considera i funesti effetti di questa desolazione (Berthier). – « Quante profanazioni il nemico ha commesso contro tutto ciò che vi è consacrato! » contro tutte le cose consacrate a vostra gloria, contro il tempio, contro il sacerdozio, contro il culto stabilito, contro tutti i Sacramenti! « Quante pronazioni ha commesso il nemico! Si, queste profanazioni non sono che troppo reali » (S. Agost.).

II. — 4 – 11.

ff. 4-8. – « Essi hanno issato i loro stendardi in segno di vittoria, in forma di trofeo, e non hanno compreso ». I Romani avevano delle insegne da porre nel santuario, i loro stendardi, le loro aquile, le loro bandiere ed anche le loro statue, che essi hanno posto inizialmente nel tempio. « Ed essi non hanno compreso » … ma cosa non hanno compreso? Queste parole del Salvatore: «voi non avreste su di me alcun potere se non vi venisse dall’alto » (Giov. XIX, 2). Essi non hanno compreso che Dio non accordava loro, come titolo di gloria, di far soffrire, di prendere o distruggere questa città, ma che la loro empietà era in qualche modo divenuta l’ascia di Dio. Essi sono stati gli strumenti di Dio irritato, e non sono divenuti il reame di un Dio placato. Spesso, in effetti, Dio agisce allo stesso modo con l’uomo: un uomo giustamente irritato, presa una verga che trova sotto mano, forse qualche bastone, il primo trovato, e bastona suo figlio; poi getta nel fuoco il bastone, e conserva la sua eredità a suo figlio. È così che talvolta Dio istruisce i buoni, per mezzo dei malvagi, e con il potere passeggero dei colpevoli che Egli poi condannerà, punisce e riconduce chi libererà (S. Agost.).  

ff. 5-8. – Queste scene di desolazione e di profanazioni sacrileghe si sono sfortunatamente riprodotte alla lettera nella nostra patria, tra flutti di sangue e di lacrime, durante la più empia delle rivoluzioni. – Esisteva un patto antico, una lunga alleanza tra la Religione e la società, tra il Cristianesimo e la Francia, questo patto fu distrutto, l’alleanza interrotta. Dio era nelle leggi, nelle istituzioni, negli usi, e ne fu cacciato: fu pronunciato il divorzio tra la costituzione ed il Vangelo, la legge fu secolarizzata, e fu stabilito che lo spirito della nazione moderna non avrebbe avuto nulla da dividere con Dio, dal Quale essa si isolava completamente. Dio aveva sulla terra dei templi maestosi che si elevavano come segno del Redentore degli uomini: i templi sono abbattuti o chiusi; non vi si ascoltano, in luogo dei sacri canti, se non il rumore dell’ascia o lo stridere della sega; la Croce del Signore è divelta o rimpiazzata da segni volgari … Dio aveva sulla terra dei giorni che Gli appartenevano, dei giorni che si era riservato, e che tutti i secoli e tutti i popoli avevano unanimemente rispettato, e tutta la famiglia degli empi ha esclamato: facciamo sparire dalla terra i giorni consacrati a Dio. Dio aveva sulla terra dei rappresentanti e dei ministri che parlavano di Lui e Lo ricordavano ai popoli: le prigioni, l’esilio, la forza, il mare, i fiumi hanno divorato tutto. Infine, essi dicono, non ci sono più profeti, e Dio non troverà più bocche per farsi ascoltare … infatti tutti i diritti di Dio sono annientati, e non restano in piedi che i diritti dell’uomo; o piuttosto, l’uomo è Dio, la sua ragione è il Cristo, e la nazione è la Chiesa (Mgr Pie, Disc. Et Jnstr., T. II, 669) – questo quadro della desolazione di Gerusalemme e del suo tempio, questi eccessi sacrileghi che si sono rinnovati tante volte in seno alla Chiesa Cristiana, sono la figura molto reale di ciò che accade in un’anima che abbandona Dio o che Dio abbandona. Geremia – dice san Crisostomo – non avrebbe potuto avere tante lacrime per deplorare il malore di un’anima schiava della tirannia del demonio. Questo nemico di Dio comincia con l’impadronirsi di quest’anima come un leone ruggente e si glorifica insolentemente della sua vittoria. Egli stabilisce il suo impero nel luogo che il Signore aveva destinato al suo culto, in un cuore consacrato con la Grazia santificante, nel santuario dove aveva abitato lo Spirito Santo. Egli vi erge lo stendardo della rivolta contro Dio e raccoglie intorno a questo segno di orrore tutte le passioni; esse dominano su tutte le potenze più nobili dell’anima, e sui sensi che sono come fuori posto. Questi nemici vittoriosi non conoscono e non rispettano alcuna traccia della santità che Dio aveva impresso nell’uomo, sia col Carattere battesimale, sia con il dono del suo Corpo e Sangue prezioso, sia con i tocchi della sua grazia. Le potenze dell’inferno, secondando le passioni, distruggono, senza distinzione, tutto ciò che serve alla difesa ed all’ornamento dell’interno. L’ascia del boscaiolo non fa tanta devastazione in un luogo piantato d’alberi, quanto l’esca del piacere, la sete di ricchezze, il fuoco dell’ambizione, le tempeste della gelosia e della vendetta, la mollezza e l’intemperanza, fanno in colui che l’amore di Dio non difende più. Tutto è invertito nell’edificio spirituale; tutto è in preda alla devastazione del demonio, della cupidità del mondo, tutto cade, finanche la stessa fede, sotto i colpi di questi tiranni: è una terribile catastrofe di cui i nostri occhi non sono testimoni, ma che non sfugge agli sguardi dell’Eterno! (Berthier). – La profanazione delle cose sante, è un segno terribile della collera di Dio. Noi non siamo colpiti che da profanazione esteriori, ma l’abuso dei Sacramenti, le Comunioni sacrileghe, i sacri ministeri tra le mani di preti indegni, devono piuttosto eccitare i nostri gemiti, e farci temere gli ultimi effetti della collera di Dio. – C’è una cospirazione quasi generale oggi dei governi stessi, degli individui, dell’industria, del commercio, per distruggere la santificazione della Domenica, i giorni di festa consacrati a Dio, alfine di darsi interamente al lavoro, ai divertimenti, alla dissoluzione, a vergognosi spettacoli, a questi piaceri della folla che ci inducono facilmente a tutti i vizi.

ff. 10, 11. – Il Profeta chiede a Dio se è per sempre che il nemico li insulterà ed irrierà il Nome di Dio; se è per sempre che il Signore devierà la sua mano e la ritirerà dal seno delle sue misericordie. – È la preghiera che deve rivolgere a Dio ogni anima provata da forti tentazioni: Signore, fino a quando il nemico il nemico della mia salvezza mi perseguiterà? Fino a quando la vostra mano sembrerà allontanarsi da me e non effondere su di me le sue misericordie abituali? O Dio! Sarò per sempre l’oggetto degli insulti dell’inferno e delle mie passioni? (Berthier)

III. — 12-17.

ff. 12. – « Dio nostro Re, ancor prima dei secoli, ha operato la salvezza in mezzo alla terra ». – 1° Il Profeta dà a Dio il titolo di Re; – 2° Dio è Re, non come i re della terra per qualche anno, ma per tutta l’eternità e per sempre: « Il regno dell’Altissimo è eterno, e tutti i re Gli renderanno omaggio e Lo serviranno » (Dan. VII, 27); gli imperi passeranno, le generazioni si susseguiranno e spariranno e Dio sarà ancora il Re di tutti gli uomini; – 3° Egli particolarmente è il Re del suo popolo privilegiato; – 4° Egli è il suo Salvatore; Egli è venuto a salvare gli uomini con il sacrificio della sua vita. – Noi esclamiamo: « Fino a quando, Signore, il nemico mi insulterà, fino alla fine? Fino a quando mi oltraggerà? Fino a quando allontanerete le vostre mani dal vostro seno? » Mente noi parliamo così « Dio, nostro Re da prima dei secoli, ha operato la salvezza in mezzo alla terra »; e noi, noi dormiamo. Ecco che i gentili già vegliano, e noi siamo ancora intorpiditi dal sonno e deliriamo nei nostri sogni, come se Dio ci avesse abbandonati. « Egli ha operato la salvezza in mezzo alla terra » (S. Agost.). – Questa grande opera di salvezza del mondo, il capolavoro della potenza, della saggezza, della bontà di Dio, si è compiuto in mezzo alla terra con il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione del Salvatore.

ff. 13-15. – Le meraviglie che Dio operò altre volte pubblicamente in favore del suo popolo, per liberarlo dalla oppressione degli Egiziani, li rinnova tutti i giorni in favore dei Cristiani, per trarli dalla servitù del demonio, questo grande dragone a cui Egli schiaccia la testa nelle acque del Battesimo. Il Mar Rosso apre i suoi flutti quando Dio lo comanda, e forma come due muraglie di acqua sospese nell’aria, dando un passaggio libero al popolo di cui Dio si dichiara protettore, e ricongiunge le sue acque appena Egli comanda di abbattere sotto i propri flutti questa armata innumerevole di Egiziani senza che ne resti uno solo che possa sfuggire alla sua vendetta. – Nessun cuore fu più duro di una pietra, da cui Dio non faccia uscire delle fontane di acqua, quando gli piace toccarla. Se occorre fondere del ghiaccio, farà soffiare il suo Spirito, il quale, come il vento del mezzogiorno, diminuirà il rigore del freddo, e dal cuore più indurito usciranno le lacrime di penitenza (Bossuet). –  Non è senza una grande gioia che si possano intendere delle cose che si vedono realizzate nel mondo intero. Quando sono state dette, esse non erano compiute, perché non erano ancora che promesse e non realtà. Ma ora, quale gioia è mai la nostra, nel vedere realizzate nel mondo intero le predizioni che leggiamo nei Libri santi! Vediamo ciò che ha fatto Dio che ha operato la salvezza in mezzo alla terra: « Voi avete fatto sgorgare fontane e torrenti », affinché facciano colare l’acqua della saggezza, affinché facciano sgorgare i tesori della fede, affinché possano mischiarsi ai flutti amari della gentilità e le loro acque espandano nei cuori di tutti gli infedeli la dolcezza della fede … Se occorre qui mettere una distinzione, in certi fedeli, la parola di Dio è stata « … una fontana d’acqua viva zampillante fin nella vita eterna »; (Giov. IV, 14); altri al contrario, hanno ascoltato la parola di Dio, e benché non l’abbiano potuto osservare in modo da condurre una vita virtuosa, tuttavia l’hanno sparsa nei loro discorsi, sono diventati dei torrenti, cioè delle acque che non scorrono sempre … in effetti si chiamano propriamente torrenti, dei corsi di acqua che si prosciugano durante l’estate, e che al contrario si gonfiano di tutte le acque invernali precipitandosi con impetuosità. Voi vedete un uomo veramente fedele che persevererà fino alla fine, che non abbandonerà il Signore in alcuna tentazione, e che sopporterà per la verità, ma non per l’errore e la menzogna, ogni specie di sofferenze: da dove gli viene un tale vigore, se non dal fatto che la parola di Dio è divenuta in lui « … una fontana di acqua viva che zampilla fin nella vita eterna? ». Un altro al contrario, ha ricevuto la parola divina, la predica, non starebbe in silenzio, corre impetuosamente; ma l’estate farà vedere se è una fontana o un torrente. Tuttavia, « colui che opera la salvezza in mezzo alla terra » … sa come irrigare la terra con entrambi. Che le fontane zampillino dunque, e che i torrenti si precipitino (S. Agost.). 

ff. 16-17. – Dio, che è l’autore del tempo e della vita, non poteva aggiudicarsene almeno una parte. « Il giorno e la notte vi appartengono, esclama il Profeta, siete Voi che avete fatto l’aurora ed il sole che misura i giorni ». Nella sua infinita condiscendenza Dio ha potuto partirsi dai rigorosi diritti che avrebbe avuto su ciascuno di noi, della sua provvidenza misericordiosa con cui ha potuto abbandonare una larga ed ampia parte alle cure necessarie alla nostra vita materiale; ma sarebbe stata contro natura che un operaio infinitamente saggio, e che deve necessariamente  rapportare tutto a se stesso, non si fosse riservato, nella sua opera, un certo diritto d’autore che fosse, per la parte nostra, come un’autentica riconoscenza del suo dominio sul tempo. (Mgr Pie, Discours etc. III, p. 631). « Il giorno è vostro e la notte vi appartiene ». Chi lo ignora, poiché è Dio che ha fatto ogni cosa, tutte le cose essendo state fatte dal Verbo. È Lui che ha operato la salvezza in mezzo alla terra per cui il Profeta dice: « … Il giorno è vostro e la notte vi appartiene ». Noi dobbiamo credere da questo anche che in queste parole ci siano cose che si riferiscono alla salvezza che Egli ha operato in mezzo alla terra, « Il giorno è vostro ». Quali sono coloro che il giorno rappresenta? Gli uomini spirituali. Chi sono coloro di cui la notte è il simbolo? Gli uomini carnali. E gli uomini spirituali parlano agli uomini spirituali il linguaggio dello spirito (1 Cor. III, 1), gli uomini carnali non comprendono ancora questa saggezza: « … io non vi ho potuto ancora parlare come ad uomini spirituali, ma come ad uomini carnali » (Ibid. III, 1). Dunque, quando gli uomini spirituali parlano ad altri uomini spirituali, « … il giorno annuncia la parola al giorno », ma quando gli uomini carnali confessano essi stessi la loro fede in Gesù crocifisso, fede che è alla portata dei piccoli, « … la notte annuncia la scienza alla notte » (Ps. XVIII, 3). Il giorno è a Voi, e la notte è a Voi. Gli uomini spirituali vi appartengono, i carnali vi appartengono pure: Voi illuminate i primi col bagliore immutabile della vostra saggezza e della vostra verità; consolate i secondi con la manifestazione della vostra incarnazione, come la luna consola la notte (S. Agost.).- Questo giorno, questa notte che si succedono naturalmente, sono la figura del giorno e della notte spirituale. Dio, che è ugualmente il maestro dell’uno e dell’altra, conduce i suoi attraverso quello che Gli piace. L’inverno, la primavera, l’estate, l’autunno sono un’altra immagine dello stato differente, della vicissitudine in cui si trovano coloro che sono con Dio. A vederli così maltrattati in questo mondo, la loro vita esteriore è un inverno spaventoso agli occhi della carne. Ma chi vedesse la loro vita interiore, fatta tutta di fede e di speranza, vedrebbe il loro cuore come una primavera perpetua, ove essi considerano i mali presenti come passati, ed i beni futuri come presenti (Duguet). « Voi avete creato l’estate come la primavera ». Come descrivere l’ordine mirabile delle stagioni simile ad un coro di ragazze, esse si succedono con regolarità perfetta, e poco a poco, senza rumore, ma pure senza tregua, le stagioni opposte che ci riconducono l’una verso l’altra con l’aiuto delle stagioni intermedie. All’uscita dall’inverno non è l’estate che ci riceve con l’inesauribile tesoro dei suoi frutti, né l’inverno che ci riceve all’uscita dall’estate con i suoi rigori e i suoi geli, tra le due sono state poste la primavera e l’autunno; ed è così con un passaggio dolce ed insensibile, e nello stesso tempo senza sofferenza alcuna, che i nostri corpi sono condotti dal freddo dell’inverno ai calori dell’estate. I bruschi cambiamenti di temperatura, avendo per conseguenza malattie e danni molto gravi, Dio ha disposto le cose in modo tale che passiamo dall’inverno alla primavera, dalla primavera all’estate, e dall’estate all’autunno, dopo il quale comincia un nuovo inverno, e grazie a queste disposizioni, noi non abbiamo a temere le stagioni opposte, poiché il passaggio dall’una all’altra avviene attraverso le stagioni intermedie (S. Chrys. IX hom. au p. d’Ant.).

ff. 18-19. Una delle bestemmie più orribili che i nemici della Religione hanno spesso sulla bocca e sempre nel cuore, è quella dell’empio Antioco: che Dio non è così potente da togliere dalle loro mani colui del quale hanno giurato la perdita … è l’ultimo colmo della stravaganza, poiché questo è irritare il Nome di Dio togliendogli ciò che Gli è ordinario, cioè il Nome di Onnipotente.  – Le passioni degli uomini sono più violente e sregolate di quelle delle bestie. Sarebbe meglio essere esposti al furore di quelle che alla rabbia delle altre (Duguet).

ff. 20-21. – Benché indegni come siamo dei favori di Dio, non tralasciamo di chiederglieli ed attenderli, in virtù della santa Alleanza che Egli ha fatto con noi, e che ha sigillato col sangue del proprio Figlio. « … Considerate il vostro testamento », rendete ciò che avete promesso: noi abbiamo in mano le vostre tavolette, noi aspettiamo la vostra eredità. « Considerate il vostro Testamento »; non l’antico, io non vi prego per ottenere la terra di Chanaan, per vedere i miei nemici temporalmente sottomessi alla mia dominazione, per avere numerosi figli secondo la carne, per ammassare ricchezze terrene, per gioire della salute corporale; « Considerate il vostro Testamento », con il quale Voi avete promesso il Regno dei cieli … « Considerate il vostro Testamento, perché coloro che abitano la casa dell’iniquità  sono accecati dalla terra e pieni di terra.  « … Considerate dunque il vostro Testamento », e che il resto del popolo sia salvato (Rom., IX, 27); perché per il gran numero di coloro che si attaccano alla terra, sono colpiti dalla cecità e pieni delle cose della terra. La polvere è entrata nei loro occhi e li acceca, ed essi sono diventati simili alla polvere che il vento spazza dalla faccia della terra. « … Coloro che abitano delle case di iniquità sono accecati dalla terra e pieni di terra ». In effetti a furia di considerare la terra, essi hanno perso la vista, ed è di essi che in un altro salmo è detto: « … che i loro occhi siano accecati, affinché essi non vedano, ed il loro dorso si curvi sempre più verso la terra » (Ps.LXVIII. 24). « Coloro che abitano delle case d’iniquità sono dunque accecati dalla terra e pieni di terra », e questo perché i cuori sono pieni di iniquità (S. Agost.). «  … Che l’umile non torni coperto di confusione ». In effetti, è l’orgoglio che ha causato la confusione degli altri. « L’indigente ed il povero glorificano il vostro Nome ». Vi vedete quanto la povertà debba essere dolce, vedete che i poveri e gli indigenti appartengono a Dio; ma i poveri di spirito, perché di essi è il regno di Dio. Quali sono i poveri di spirito? Gli umili che ricevono con timore le parole di Dio, che confessano i loro peccati e che non confidano nei loro meriti né nella loro giustizia. Chi sono i poveri di spirito? Coloro che lodano Dio quando fanno qualche bene, e che si accusano quando fanno qualche male.

ff. 22, 23. Vediamo spesso ripetuto nei Salmi e nella santa Scrittura questo appello fatto a Dio: « Giudicate la vostra causa », espressione della quale si servono gli Autori sacri per annunciare agli uomini il formidabile giudizio di Do. Tutto ciò che avviene sulla terra è la “causa di Dio”, perché il buono o cattivo uso della libertà onora oppure offende la maestà divina, che non può essere indifferente alla fedeltà o alle deviazioni degli uomini che ha creato capaci di una buona o di una cattiva scelta. Quando i Profeti dicono a Dio: « Signore giudicate la vostra causa », essi testimoniano lo zelo da cui sono animati per la Gloria di questo sovrano Essere; essi sanno che questo giudizio arriverà ma in ritardo per loro, in qualche modo, per vederne il compimento. – Ci sono due cose che devono riguardarci se abbiamo fede: la prima è che tutte le nostre azioni sono la “causa di Dio”; la seconda, che questa causa sarà giudicata un giorno (Berthier). – Il giorno in cui Dio giudicherà la sua causa, avverrà come sono avvenuti tutti gli avvenimenti ancora incompiuti, che allora non esistevano, ed il cui compimento era predetto; orbene Dio ci avrà dato tutto ciò che ci ha promesso, per ingannarci sul solo giorno dell’ultimo Giudizio? Dopo aver predetto e compiuto tutte queste cose che noi vediamo, ha forse mentito solo sul giorno del Giudizio? Questo giorno verrà dunque. Che nessuno dica allora: esso non verrà; orbene, esso verrà, ma dopo un lungo lasso di secoli, benché per voi, il momento in cui lascerete questa vita, non sia lontano (S. Agost.). – « Ricordatevi degli oltraggi di cui vi è stato prodigo l’insensato, durante tutto il giorno ». Ora ancora si insulta Cristo, e non mancherà il vaso di collera durante tutto il giorno, vale a dire fino alla fine dei secoli. Si dice ancora: i Cristiani predicano cose vane. Si dice ancora: la resurrezione dai morti non è che una vana immaginazione, « giudicate la vostra causa, ricordatevi degli oltraggi che un popolo insensato vi ha prodigato tutto il giorno ». (S. Agost.). – « L’orgoglio di coloro che vi odiano, monta sempre ». È orribile il dirlo, ma l’odio per Dio è lungi dall’essere raro tra le sue creature. Vi sono dei peccatori audaci ed induriti che sono diventati dei demoni anzitempo; il Nome di Dio o delle sue perfezioni ispira loro paura e rabbia; quando si trovano in presenza dei suoi Comandamenti, o di qualche manifestazione della sua Sovranità, o di un’amabile testimonianza della sua tenerezza, essi sono come posseduti dal cattivo spirito, la passione li trasporta, li fa uscire da se stessi e violare, non solo le convenienze del linguaggio, ma le regole del rispetto di se stessi. Sembra che nella sola menzione di Dio, anche senza allusione all’assoluta dominazione che Egli vuole esercitare su di essi come Creatore, vi sia qualcosa che causi una irritazione soprannaturale (Faber, Le Créateur et la Créature, p. 197). – Si, si fa fatica a crederlo, se ogni giorno non ci portasse qualche nuova prova: ci sono degli uomini talmente nemici di Dio che Lo odiano di un odio gratuito, che preferiscono piuttosto morire che essere salvati dalla sua mano. E questo empio orgoglio, lontano dal decrescere e dall’abbassarsi, sembra al contrario salire ed ingrandirsi. « L’orgoglio di coloro che vi odiano aumenta sempre ». È questo il carattere dell’empietà: come l’orgoglio di cui essa è figlia, come l’odio di cui essa è madre, l’empietà aumenta sempre. – L’orgoglio e l’audacia di coloro che si scagliano contro Dio, cresce sempre. L’empietà non ha limiti nei suoi furori e nei suoi attacchi: sembra che l’uomo le cui affezioni si rallentano poco a poco verso gli altri oggetti, sia come infinito nelle sue rivolte contro Dio e la sua Religione. « … L’orgoglio di coloro che vi odiano aumenta sempre ».