I MAGGIO: FESTA DI S. GIUSEPPE LAVORATORE

Dagli Atti del papa Pio XII

La Chiesa, madre provvidentissima di tutti, consacra massima cura nel difendere e promuovere la classe operaia, istituendo associazioni di lavoratori e sostenendole con il suo favore. Negli anni passati, inoltre, il sommo pontefice Pio XII volle che esse venissero poste sotto il validissimo patrocinio di san Giuseppe. San Giuseppe infatti, essendo padre putativo di Cristo – il quale fu pure lavoratore, anzi si tenne onorato di venir chiamato « figlio del falegname » – per i molteplici vincoli d’affetto mediante i quali era unito a Gesù, poté attingere abbondantemente quello spirito, in forza del quale il lavoro viene nobilitato ed elevato. Tutte le associazioni di lavoratori, ad imitazione di lui, devono sforzarsi perché Cristo sia sempre presente in esse, in ogni loro membro, in ogni loro famiglia, in ogni raggruppamento di operai. Precipuo fine, infatti, di queste associazioni è quello di conservare e alimentare la vita cristiana nei loro membri e di propagare più largamente il regno di Dio, soprattutto fra i componenti dello stesso ambiente di lavoro. – Lo stesso Pontefice ebbe una nuova occasione di mostrare la sollecitudine della Chiesa verso gli operai: gli fu offerta dal raduno degli operai il 1° maggio 1955, organizzato a Roma. Parlando alla folla radunata in piazza san Pietro, incoraggiò quell’associazione operaia che in questo tempo si assume il compito di difendere i lavoratori, attraverso un’adeguata formazione cristiana, dal contagio di alcune dottrine errate, che trattano argomenti sociali ed economici. Essa si impegna pure di far conoscere agli operai l’ordine prescritto da Dio, esposto ed interpretato dalla Chiesa, che riguarda i diritti e i doveri del lavoratore, affinché collaborino attivamente al bene dell’impresa, della quale devono avere la partecipazione. Prima Cristo e poi la Chiesa diffusero nel mondo quei principi operativi che servono per sempre a risolvere la questione operaia. – Pio XII, per rendere più incisivi la dignità del lavoro umano e i princìpi che la sostengono, istituì la festa di san Giuseppe artigiano, affinché fosse di esempio e di protezione a tutto il mondo del lavoro. Dal suo esempio i lavoratori devono apprendere in che modo e con quale spirito devono esercitare il loro mestiere. E così obbediranno al più antico comando di Dio, quello che ordina di sottomettere la terra, riuscendo così a ricavarne il benessere economico e i meriti per la vita eterna. Inoltre, l’oculato capofamiglia di Nazareth non mancherà nemmeno di proteggere i suoi compagni di lavoro e di rendere felici le loro famiglie. Il Papa volutamente istituì questa solennità il 1° maggio, perché questo è un giorno dedicato ai lavoratori. E si spera che un tale giorno, dedicato a san Giuseppe artigiano, da ora in poi non fomenti odio e lotte, ma, ripresentandosi ogni anno, sproni tutti ad attuare quei provvedimenti che ancora mancano alla prosperità dei cittadini; anzi, stimoli anche i governi ad amministrare ciò che è richiesto dalle giuste esigenze della vita civile. (Div. Off.)

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(A. Carmagnola: S. Giuseppe – Ragionamenti; tip. e libr. Sales. Torino, 1896)

RAGIONAMENTO XVI.

S. Giuseppe e la fiducia nella divina Provvidenza.

Se vi ha una verità che sia molto inculcata nelle sacre scritture è certamente quella che ci dice esistere la Divina Provvidenza. Nel libro dell’Ecclesiaste (V. 5) si legge: « Guardati bene dal dire dinnanzi al tuo Angelo: non vi è Provvidenza, affinché non accada che Iddio sdegnato del tuo parlare distrugga tutte le opere delle tue mani ». Nel libro della Sapienza (VI. 8) sta scritto: « Signore, tu hai fatto il piccolo ed il grande ed hai egual cura di tutti » . Salomone nel libro dei Proverbi (XVI. 23) asserisce che tutte le cose, anche quelle che si chiamano fortuite, dipendono da Dio e sono regolate dalla sua Provvidenza: « Si gettano le sorti nell’urna; ma il Signore è quegli che ne dispone » . E in cento altri passi è ripetuta questa grande verità, la quale d’altronde ci è predicata dalla stessa ragione: poiché se Iddio ha creato il mondo e gli uomini che in esso vi sono, è certo altresì che non ha abbandonato il mondo e gli uomini a sè, ma di tutto piglia amorevole cura. Eppure è questa una delle verità viemaggiormente contestata e questo grido blasfemo è quello che si va maggiormente ripetendo dagli uomini: Non vi è Provvidenza: Non est provvidentiaE qui lasciando da parte che molti mettono fuori questo grido considerando il disordine apparente che regna nel mondo per una apparente prosperità dei malvagi ed oppressione dei buoni; che molti altri lo metton fuori nell’apparente disordine che talora vi ha nelle stagioni, nei grandi avvenimenti e simili, io parlo solamente di coloro i quali sol perché non sono da Dio assecondati in tutti i loro desideri, sol perché son lasciati da Dio nello stato di infermità, sol perché Iddio non li toglie da quella condizione povera in cui si trovano e talvolta per i suoi giustissimi fini oltre al non prosperarli li lascia anche qualche poco soffrire, si levano su e più sdegnosamente di tutti gridano: No, la provvidenza non c’è: Non est provvidentia! Non c’è la provvidenza? Ebbene ci faccia vedere questa sera S. Giuseppe, quanto sia ingiusto questo grido: sì, ci faccia egli toccare conmano che la Provvidenza esiste e che la esperimentano tutti coloro che fiduciosamente, come ha fatto egli, si abbandonano in lei.

PRIMA PARTE.

La Divina Provvidenza nel grande avvenimento della fuga e della dimora in Egitto della Sacra Famiglia risplende anzitutto per la cura che si prese della medesima durante il suo viaggio. In quella medesima notte in cui S. Giuseppe ricevette dall’Angelo l’ordine di fuggire, egli colla sua Sposa e col Bambino uscì di Betlemme e die’ principio al lungo e gravosissimo viaggio. La stagione era fredda, e per maggior precauzione nel traversare la Palestina bisognava prendere le strade più abbandonate, epperò anche più incommode. Che affanno! Che pena per Maria! la quale ad ogni tronco che vede, ad ogni sterpo che tocca, ad ogni muoversi dei palmizi agitati dal vento si pensa d’essere sopraggiunta da qualche soldato di Erode. E che martirio al cuor di Giuseppe! Egli era il custode di Gesù e di Maria, il mallevadore della loro vita. Era proprio a lui, che l’Angelo aveva detto : Prendi il Bambino e la sua madre e fuggi nell’Egitto; epperò era proprio su di lui che pesava tutta la responsabilità di un tanto e sì difficile incarico. E questo  suo martirio era accresciuto ognor più dai disagi del cammino e delle sofferenze alle quali doveva andar soggetto colla sua sposa. Quanti giorni avran dovuto camminare tra vortici di sabbia, senza poter trovare una sorgente di acqua per bagnare le loro labbra! Quante volte avranno dovuto aprirsi il cammino in mezzo a cespugli intricati: quante volte trovarsi sull’orlo di scogli dirupati con grave pericolo della vita! Quante notti poi avranno dovuto posare le loro stanchissime membra sul nudo terreno! Con tutto ciò S. Giuseppe memore dell’avvertimento del reale salmìsta: Iacta super Dominum curam tuam: Getta nel seno del Signore la tua ansietà (Salm. LIV, 22), si abbandonava interamente alla Divina Provvidenza, in lei metteva ogni sua fiducia, persuaso e certo che la Divina Provvidenza durante tutto quel lungo e difficile cammino non avrebbe mai lasciato di proteggerli e specialmente Maria SS. e il Bambinello Gesù. E colui il quale riposa del tutto sulla divina Provvidenza, vive certamente all’ombra della sua protezione: Qui habitat in adiutorio Altissimi, in protectione Dei cœli commorabitur(Salm. XC. 1). Il Signore agli Ebrei che camminavano nel deserto alla conquista della terra promessa mandò una nube che di giorno li riparava dagli ardori del sole e di notte fattasi tutta luminosa li rischiarava nel viaggio; al santo Profeta Elia, che fuggiva l’ira di Gezabele, mandò un Angelo; a confortarlo nel deserto e a dargli pane ed acqua che lo resero atto a camminare per quaranta dì e quaranta notti fino al monte santo dì Dìo, Oreb; al giovane Tobia mandò un arcangelo per compagno nel viaggio di Eages, ed ai Santi Magi una stella miracolosa, perché li guidasse a Betlemme; infine il Signore medesimo promise di guidare ne’ suoi passi il giusto, che in Lui si affida, per mezzo degli Angeli e pigliarsi cura del suo viaggio, perché nulla gli accada di sinistro: Angelis suis mandavit de te, ut custodiant te in omnibus viis tuis; in manibus portabunt te, ne forte offendas ad lapidem pedem tuum(Salm. XC). Or è egli possibile che il Signore anche in questoviaggio della Sacra Famiglia non abbia fatto meravigliosamente risplendere la sua divina Provvidenza? Oh sì, senza alcun dubbio. Epperò possiamo ben ritenere quel che pensano molti Santi, che cioè durante quel viaggio gli Angeli si fecero guide visibili della Sacra Famiglia e loro difesa in mezzo ad ogni pericolo. E la vista degli Angeli doveva certamente per S. Giuseppe tornare di grandissimo conforto; benché alla fin fine il massimo conforto gli proveniva dall’avere insieme con sé quel Gesù, il quale sebben Bambino e sofferente nella sua umanità era tuttavia il Dio forte e potente. Molte sono le meraviglie che pii scrittori raccontano essere avvenute durante quel viaggio, ma lasciandole tutte da parte, perché non abbastanza provate, mi contento di accennarne una nella quale, oltre alla maggior certezza che di essa si ha per essere ammessa dagli scrittori più dotti, risplende altresì in modo particolare la divina Provvidenza. Entrando adunque la Sacra Famiglia in una folta selva, d’un tratto una frotta di uomini armati si presentò ad intercettare loro il cammino. Era una banda di ladroni, i quali solevano assalire i viandanti, e la cui fama spaventevole si estendeva molto lontano. Pensate, come a quell’incontro gelasse il sangue a Maria ed a Giuseppe. Ogni resistenza era inutile: non restava altro che sollevare gli occhi al cielo e confidare nella divina Provvidenza. Ma ecco che il capo di quei ladroni, fattosi innanzi per vedere con chi aveva a trattare, alla vista di Giuseppe sì semplice, senz’armi, dimessamente vestito in compagnia di una giovine sposa dalla quale traspariva una bellezza di paradiso, con un Bambinello che non gli pareva del mondo, si sentì commosso nel fondo del cuore; e preso di riverenza per quella famiglia che riconosceva al tutto sovrumana, ben lungi dal far loro alcun male, stese la mano a Giuseppe, ed a lui ed alla sua sposa offerse ospitalità e riposo nella sua medesima tenda. Quindi provvedutili di cibo e bevanda, nel rilasciarli volle egli stesso accompagnarli e guidarli per buon tratto di cammino. Or bene quel capo dei ladroni si chiamava Disma; e la tradizione ci dice, che trent’anni dopo fu preso dai soldati e condannato ad essere crocifisso. Fu messo in croce sul Calvario al fianco di Gesù; ed ivi veggendo le meraviglie che avvenivano durante l’agonia del Redentore, pentito sinceramente de’ suoi enormi peccati, confessò Gesù Cristo per vero Dio, lo pregò di volersi ricordare di lui, e Gesù perdonandolo gli disse: Oggi sarai meco in Paradiso. Oh quanto è ammirabile la divina Provvidenza! E quanto grande ricompensa diede il Signore ad un ladrone per un piccolo atto di carità usato verso di Gesù, di Maria e di Giuseppe. – Ma è tempo che ci rechiamo col pensiero in Egitto, dove dobbiamo immaginare essere arrivati al fine i nostri santi viaggiatori. Io non istò a questionare intorno al luogo dove si fermò ad abitare la Sacra Famiglia: dirò solo che la più probabile opinione si è che siasi fermata in un villaggio per nome Matarie presso di una città assai importante per nome Eliopoli: di fatti a Matarie si mostrano ancora presentemente ai pellegrini cristiani molte memorie della dimora che vi fecero Gesù, Maria e Giuseppe. Ma lasciando, dico, ogni cosa a tale riguardo, vengo senz’altro a parlare del modo cori cui anche qui risplendette la divina Provvidenza per la Sacra Famiglia. Certamente da principio per S. Giuseppe e per Maria la vita là dovette essere dura. Essi si trovavano là senza aver conoscenza alcuna, tra gente per nulla ospitale, che parlava una lingua diversa dalla loro, senza sapere a chi rivolgersi per aiuto. Inoltre il disagio della povertà doveva loro farsi sentire ogni giorno più, poiché se è vero che dai Santi Magi avevano ricevuto dell’oro, a quel tempo e nei bisogni della vita e nel fare altrui carità l’avevano già tutto impiegato. Ma che perciò? – Un giorno il Divin Redentore predicando alle turbe in quel celebre discorso, che fu detto della montagna, diceva loro: « Non prendetevi affanno su di quello onde alimentare la vostra vita, né di quello onde vestire il vostro corpo. Gettate lo sguardo sopra degli uccelli dell’aria, i quali non seminano e non mietono, né empiono granai; e il vostro Padre celeste li pasce. Non siete voi assai più di essi? E perché vi prendete pena pel vestito? Considerate come crescono i gigli nel campo: essi non lavorano e non filano. Eppure Io vi dico, che neppur Salomone con tutta la sua splendidezza fu mai vestito come uno di questi. Se adunque in tal modo Iddio riveste un’erba del campo, che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà molto più voi, o uomini di poca fede? Non vogliate adunque andarvi dicendo: Che cosa mangeremo e che cosa berremo? con che cosa ci vestiremo? Che tutte queste cose, di cui avete bisogno, sa benissimo il vostro Padre. Cercate adunque in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date per giunta ». (Matt. VI). Or bene, quantunque S. Giuseppe non avesse ancora intesi questi grandi insegnamenti dal labbro benedetto di Gesù, per la sua santità li aveva tuttavia già tutti scolpiti nel fondo del cuore e li metteva perfettamente in pratica. Epperò sebbene nei primi giorni della sua dimora in Egitto si trovasse in grandi angustie, non tanto per sé, quanto per la sua sposa e per Gesù, confidato in Dio che non l’avrebbe costretto a limosinare il pane, cominciò a recarsi di porta in porta a cercare lavoro, e sebbene gli toccassero molti rifiuti e fors’anche umilianti disprezzi, riuscito tuttavia a trovarne qualche poco, riprese i suoi fabbrili strumenti ed animosamente si diede alla fatica. E Maria a sua volta, valente siccome era nei lavori dell’ago e del ricamo, ancor ella ne fece ricerca ed avendone trovato, mentre non desisteva dalle cure necessarie al Bambinello Gesù, lavorava assiduamente ancor essa, occupando talvolta persino qualche parte della notte. E così con quei lavori, che certamente per la maestria singolare con cui erano fatti sia da Giuseppe, che da Maria, venivano ogni giorno più accrescendosi, ricavavano degli onesti guadagni, sufficienti a provvedersi quanto loro occorreva e pel vitto e pel vestito, e per tal modo toccavano con mano che la divina Provvidenza non lascia mai in abbandono chi in essa si confida. Che bell’esempio e che grande ammaestramento è questo per noi! Per noi, che tanto facilmente ci lamentiamo della divina Provvidenza da arrivare talvolta sino al punto di pensare che il Signore non si ricordi di noi! Ah miei cari, che insensatezza è mai la nostra in queste parole! Iddio è padre, amorosissimo padre. E come possiamo noi credere che Egli non pensi ad aiutarci nei nostri bisogni, a soccorrerci nelle nostre necessità? Un padre che ami davvero i suoi figli che cosa non è disposto a fare per non lasciar loro mancare il necessario? Si racconta che un padre, non avendo più nulla da dare ai suoi tigli, che pativano lafame, si aperse con una lama ilpetto e poi invitò i suoi figli a cibarsi del sangue che ne spicciava fuori. Ciò è per nulla incredibile quando si rifletta attentamente la forza che ha l’amore per i suoi figli nel cuore di un padre. Ora se un padre terreno farebbe tanto per i figli suoi, Iddio, Padre nostro celeste, il quale è onnipotente, tralascerà Egli di disporre le cose in modo che non abbiamo mai a mancare di ciò che strettamente ci abbisogna? Che se la sacra Scrittura attribuisce occhi a questo Dio di bontà egli è per significare che vigila del continuo sopra di noi; se gli attribuisce orecchi è per significare che ascolta sempre i nostri gemiti e le nostre preghiere, e se gli attribuisce mani è per significare che le distende misericordiosamente verso di noi per sollevarci dalle nostre miserie, dalle nostre infermità, dai bisogni nostri. No, no, Iddio non ci dimentica: « Vi porterò nelle mie braccia, dice Egli per mezzo di Isaia; vi stringerò al mio seno, vi accarezzerò sulle mie ginocchia, come una madre accarezza il suo figlio. può ella dimenticare il suo Bambino? No certamente. Ma pure se una madre arrivasse io non mi dimenticherò mai di voi ». – Oh, se fossimo ben convinti di queste verità, quanto saremmo più tranquilli e più felici. Persuasi che Dio ci ama, si ricorda di noi, pensaal nostro bene, noi riconosceremmo in ogni caso della nostra vita la sua mano benedetta; anche in mezzo alle tribolazioni crederemmo con viva fede che Iddio dispone tutto per il vero nostro bene, e che quando Egli lo creda perciò opportuno ha mille mezzi per trarcene fuori. Epperò che calma! che placidezza di spirito sarebbe mai sempre la nostra! L’anima che, ad esempio di S. Giuseppe si affida interamente nella divina Provvidenza, al pari di Lui riposa e s’addormenta soavemente tra le sue braccia, come un bambino nelle braccia di sua madre; ella prende per divisa le parole di Davide: In pace in idipsum dormiam et requiescam(Salm. IV, 9). Io riposo tranquillamente in pace, perché tutta la mia speranza è riposta nella divina provvidenza. Il Signore mi conduce e perciò niente mi mancherà (Sal. XXII); guidato dalla sua mano ed all’ombra della sua protezione io trionferò di tutti i miei nemici e non avrò timore di alcun male. La misericordia del Signore mi accompagnerà in tutti i giorni della mia vita, affinché io abiti nella casa di Lui per tutta l’eternità. Oh! facciamo di imitare San Giuseppe nella confidenza i n Dio e riconosceremo a tutta prova che anche per noi risplende la divina Provvidenza.

SECONDA PARTE

Sì, esiste la Divina Provvidenza, ma è certo che alle volte lascia di manifestarsi, massime con quelli che ne sono indegni e non si fanno ad implorarne l’aiuto. Se si vuole poter sentire la Divina Provvidenza, bisogna anzi tutto a somiglianza di S. Giuseppe rendersene degni colla santità della vita. – Vi sono taluni i quali vivono malamente, commettono sempre gravi peccati, non vanno quasi mai in chiesa, non aprono mai la bocca per dire un po’ di preghiera, se nominano il santo Nome di Dio e di Gesù Cristo non è che per bestemmiarlo, insomma non si danno mai pensiero di Dio e vivono come se Iddio non fosse, e poi quando Iddio fa loro sentire che c’è, mandando ai medesimi qualche privazione o disgrazia, allora vengono fuori a gridare: E come ci può essere la Provvidenza, se noi siamo così sventurati? Oh deliranti! E costoro che non pensano punto a Dio pretendono poi così superbamente che Iddio si prenda la più amorosa cura di loro e li preservi da ogni male? Ei conoscano anzi tutto la loro mala vita, se ne pentano sinceramente, ne chiamino a Dio perdono, si mettano con impegno a ripararla, ed allora potranno non dico pretendere, ma sperare che il Signore li tratti con maggior bontà. Ma fino a tanto che essi rimangono nella loro mala vita, lamentandosi della Divina Provvidenza, non fanno altro che aggiungere peccato a peccato e rendersi sempre più indegni degli aiuti del Signore. Ma oltreché allo studiare di rendersi degni della Divina Provvidenza, conviene altresì implorarla incessantemente da Dio, e specialmente in quelle circostanze della vita in cui se ne ha maggior bisogno. Egli è certo che S. Giuseppe in tutte le diverse necessità in cui venne a trovarsi non tralasciò mai di levare gli occhi al Cielo per pregarlo a mandargli il suo aiuto. E così dobbiamo far noi, pregare e pregare con fervore. Venire soprattutto come Giuseppe in compagnia di Gesù, di Maria, qui davanti ai loro altari e disfogar loro tutto il nostro cuore, manifestar loro tutti i nostri bisogni, fare lo stesso con San Giuseppe, ed allora quel Dio il quale ha detto: domandate e riceverete: cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto, potrà essere che non esaudisca le nostre preghiere e non ci tolga dall’infermità, dalla miseria, dalla privazione in cui ci troviamo? « Oh! chi chiede, riceve, chi cerca, trova, e a chi picchia, sarà aperto. Quando un figliuolo domanda al padre del pane, il padre gli darà forse un sasso? E se un pesce, gli darà forse invece del pesce una serpe? E se chiederà un uovo, gli darà uno scorpione? Se adunque voi, che siete cattivi, diceva Gesù Cristo stesso, sapete del bene dato a voi far parte ai vostri figliuoli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo spirito buono a coloro che glielo domandano (Luc. XI, 9 – 13) ». – Che se ad ogni modo, non ostante le nostre preghiere, il Signore sembrasse fare il sordo, e non farci sentire la sua Divina provvidenza in quel modo che piacerebbe a noi, ravviviamo la nostra fede e riconosciamo che in ciò appunto, nel lasciarci inesauditi, usa il Signore verso di noi la sua provvidenza, essendoché il non esaudirci nei nostri desideri sarà cosa sommamente utile alla salvezza dell’anima nostra. Ed allora più che mai richiamiamo alla mente la sentenza del Vangelo: Cercate innanzi tutto il regno di Dio e la sua giustizia, ed il resto vi sarà dato per giunta: quærite primum regnum Dei et iustitiam eius, et hæc omnia adiicientur vobis(Matt. IV, 33).

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/01/messa-di-san-giuseppe-lavoratore/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/05/01/i-maggio-s-giuseppe-patrono-dei-lavoratori-2/

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: MAGGIO 2020

CALENDARIO LITURGICO: MAGGIO 2020

MAGGIO. È IL MESE CHE LA CHIESA DEDICA ALLA VERGINE MARIA

Se vi ha un nome che scenda fino al fondo del cuore e vi desti un fremito di gioia e di amore è certamente il nome di madre. Madre! Oh nome che dice quanto vi ha sulla terra di più venerabile, di più generoso, di più dolce. Madre! nome che ricorda quella debole sì, ma sublime creatura adorna dei più ammirabili privilegi, e sì intimamente associata a Dio da portare nel proprio seno e nutrire del proprio latte dei figliuoli destinati a possedere un giorno Dio stesso nella gloria della sua eternità. Madre!… che cosa è dunque una madre? È dessa la donna della bontà e della saviezza, la donna del consiglio e della persuasione, la donna della dolcezza e della grazia. Sì, ella è tutto questo, ma non questo solo; ella è per eccellenza la donna dell’amore. E chi si sentirà capace di penetrare nel cuor di una madre e misurare l’amore che essa porta a’ suoi figli ? Lo dico fidatamente: l’amore di una madre è talmente il supremo amore su questa terra, che al di là di esso comincia l’amore divino, di modo che quando Iddio vuol farci intendere l’infinito amor suo verso di noi non altrimenti si spiega che col dirci che Egli ci ama più che una madre. Una madre può ella dimenticarsi del proprio figlio e non sentirne pietà? No, senza dubbio. Ma pure, dice il Signore, quand’anche la vostra madre si dimenticasse di voi, io non vi dimenticherò giammai. Or bene Maria Santissima, lassù in cielo, non è solamente la nostra augusta Regina, ma è più ancora la nostra amorosissima Madre. Verità questa così consolante, che al solo ricordarla riempie della più viva gioia il cuore.

 (sac. Prof. A. Carmagnola: La porta del cielo – S. E. I. Torino, rist. 1944)

EXERCITIA

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Fidelibus, qui mense maio pio exercitio in honorem beatæ Mariæ Virginis publice peracto devote interfuerint, [Ai fedeli che nel mese di Maggio praticheranno in pubblico un pio esercizio in onore della Beata Vergine Maria, per ogni giorno del mese si concede …] conceditur:

Indulgentia septem annorum quolibet mensis die:

Indulgentia plenaria, si diebus saltem decem huiusmodi exercitio vacaverint et præterea sacramentalem confessionem instituerint, ad sacram Synaxim accesserint et ad mentem Summi Pontifìcis oraverint [… se lo avranno praticato almeno per 10 giorni, s. c.].

Iis vero, qui præfato mense preces vel alia pietatis obsequia beatæ Mariæ Virgini privatim præstiterint, [a coloro che lo praticheranno privatamente …] conceditur:

Indulgentia quinque annorum semel, quolibet mensis die;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem idem obsequium peregerint; at ubi pium exercitium publice habetur, huiusmodi indulgentia ab iis tantum acquiri potest, qui legitimo detineantur impedimento quominus exercitio publico intersint.

(Secret. Mem. 21 mart. 1815; S. C . Indulg., 18 iun. 1822; S. Pænit. Ap., 28 mart. 1933).

QUESTE SONO LE FESTE DEL MESE DI MAGGIO 2020

1 maggio S. Joseph Opificis    I. cla

                    Primo venerdì

2 maggio S. Athanasii Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

                     Primo sabato

3 maggio  Dominica III Post Pascha    Semiduplex Dominica minor *I*

                         Inventione Sanctæ Crucis    Duplex II.

              29° anniversario della Elezione del Sommo Pont. Gregorio XVIII

4 maggio S. Monicæ Viduæ    Duplex

5 maggio S. Pii V Papæ et Confessoris    Duplex

6 maggio S. Joannis Apostoli ante Portam Latinam    Duplex majus *L1*

7 maggio S. Stanislai Episcopi et Martyris    Duplex

8 maggio In Apparitione S. Michaëlis Archangeli    Duplex majus *L1*

9 maggio S. Gregorii Nazianzeni Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

10 maggio Dominica IV Post Pascha    Semiduplex

              S. Antonini Episcopi et Confessoris    Duplex

11 maggio Ss. Philippi et Jacobi Apostolorum    Duplex II. classis *L1*_

12 maggio Ss. Nerei, Achillei et Domitillæ Virg. atque Pancratii Martyrum    Semiduplex

13 maggio S. Roberti Bellarmino Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

14 maggio S. Bonifatii Martyris    Feria

15 maggio S. Joannis Baptistæ de la Salle Confessoris    Duplex

16 maggio S. Ubaldi Episcopi et Confessoris    Semiduplex

17 maggio Dominica V Post Pascha    Semiduplex Dominica minor *I*

                   S. Paschalis Baylon Confessoris    Duplex

18 maggio S. Venantii Martyris    Duplex

19 maggio S. Petri Celestini Papæ et Confessoris    Duplex

20 maggio In Vigilia Ascensionis    Feria

                    S. Bernardini Senensis Confessoris    Feria

21 maggio In Ascensione Domini    Duplex I. classis *I*

24 maggio Dominica post Ascensionem    Semiduplex Dominica minor *I*

25 maggio S. Gregorii VII Papæ et Confessoris    Duplex

26 maggio S. Philippi Neri Confessoris    Duplex

27 maggio S. Bedæ Venerabilis Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

28 maggio S. Augustini Episcopi et Confessoris    Duplex

29 maggio S. Mariæ Magdalenæ de Pazzis Virginis    Semiduplex

30 maggio In Vigilia Pentecostes    Duplex *I*

                 S. Felicis I Papæ et Martyris    Simplex

31 maggio Dominica Pentecostes    Duplex I. classis

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (2)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (2)

[chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa – 1891]

PRIMA PARTE

CONSIDERAZIONI GENERALI

Capitolo I.

DIO CHIEDE DI ESSER GLORIFICATO MEDIANTE LA DIVINIZZAZIONE DELL’UOMO

Dio vuol far felici gli uomini comunicandosi ad essi.

Dio ha fatto tutto per la sua gloria: è questala verità fondamentale che dobbiamo porre come base della dottrina che andremo ad esporre. Nessun’altra ragione avrebbe potuto far sì che Dio, infinitamente ricco e felice, lasciasse il suo riposo per creare il mondo. Chi esiste da solo deve avere in sé tutto ciò che è necessario per la sua perfezione e felicità. La sua infinita bontà, essenzialmente comunicativa, potrà creare dal nulla migliaia di creature, ma ciò che cercherà in esse e ciò che troverà in esse, sarà se stesso e sempre se stesso. La sua facoltà di amare è certamente infinita. Ma, per quanto infinita possa essere, è completamente soddisfatta della sua infinita amabilità. Egli aveva la libertà di creare o di non creare; ma, una volta determinatosi a produrre qualcosa di sé, non era in suo potere dargli un fine diverso da se stesso, poiché solo Lui può essere il fine delle sue azioni. Non poteva, senza distruggersi, che desiderare di condurre tutto a se stesso. È la legge del suo Essere; legge gloriosa imposta dalla sovrana perfezione della sua Essenza alla sua onnipotente volontà, per cui, essendo il primo inizio di tutte le cose, Egli ne è anche l’ultimo fine. Dal momento in cui ha creato il mondo, l’unico fine della sua saggezza poteva essere solo quello di compiacersi ed amarsi nelle sue opere. È impossibile respingere questa prima legge senza negare le prove e senza distruggere la nozione di Dio e la nozione di creatura. – Considerata questa verità, possiamo affermare che Dio vuole essere glorificato dalla divinizzazione dell’uomo. Le creature razionali, come gli Angeli e gli uomini, sono tra tutte, quelle che meglio rappresentano la perfezione divina. Sono i meglio disposti a ricevere la felicità di Dio. Pertanto, Dio si glorificherà specialmente in loro, realizzando i piani amorosi che lo hanno spinto a trarre le cose dal nulla. Dio realizzerà la gloria attraverso la creazione dell’anima, sostanza spirituale ed immortale, come Lui, la cui semplicità, immagine della sua ineffabile semplicità, racchiude in sé stessa una tanto meravigliosa fecondità di atti e di potenze. Ma questa gloria non è se non il principio che Egli intendeva darle ad essere, perché il suo fine è quello di essere glorificato principalmente attraverso la felicità della creatura razionale, attraverso lo sviluppo delle sue facoltà, attraverso l’amicizia che Egli desidera con essa.

La natura di questa felicità.

L’uomo non poteva che aspirare alla perfezione e alla felicità naturale. La pienezza della conoscenza, dell’amore, la gioia di Dio nelle creature, uniti all’assenza di dolore e alla certezza dell’immortalità, avrebbero formato lo sviluppo delle facoltà dell’uomo e la sua naturale beatitudine. Questa felicità gli sarebbe bastata. Dio non doveva più nulla alla sua creatura. Anche se non le avesse concesso nessun’altra perfezione, questo solo sarebbe stato sufficiente a costringerla a legarsi a Lui con i vincoli della riconoscenza. La sua giustizia sarebbe stata del tutto soddisfatta e nient’altro avrebbe preteso la sua saggezza. – Ma quello che sarebbe bastato alla sua saggezza e giustizia, non accontentava la sua bontà. La felicità naturale non poteva sembrare sufficiente al bisogno che Dio prova nel comunicarsi. Con un atto di grande comunicazione, Egli si è dato all’uomo. Lo ha reso partecipe della sua natura, della sua luce e del suo amore. Si è costituito oggetto della nostra felicità, ammettendoci alla visione della sua bellezza ed al godimento della sua infinita bontà. Guardate l’uomo, argilla viva, posto a perfezione della sua natura come capo della creazione, un tempo perso negli abissi del nulla, ora è elevato da Dio ad un’altezza incommensurabile, ad un mondo che è in cima della creazione. Per questo viene giustamente chiamato “ordine soprannaturale” il destino dato alla creatura razionale, quello di godere per tutta l’eternità della stessa felicità di Dio, dopo aver avuto a sua disposizione, sulla terra, i mezzi per raggiungere un fine tanto eccelso.

L’Ordine soprannaturale.

Questo ordine soprannaturale è al di sopra della natura malata e contaminata dell’uomo e della più pura natura angelica. Il minore degli atti che appartengono a quest’ordine è più eccellente dei più ammirevoli prodigi dell’ordine naturale! In verità, questi atti sono atti divini, Intendo atti divini per comunicazione, come gli atti di Dio. sono divini per natura. Preghiamo il Cuore di Gesù che ci dia la grazia di contemplare alcune delle sue magnifiche funzioni racchiuse nelle loro gloriose oscurità. Ma qual è il fine soprannaturale? Il fine naturale è la conoscenza, l’amore e il possesso di Dio, in quanto si manifesta a noi e dona Se stesso alle sue creature. Molto diverso e più alto è il fine il cui oggetto è la conoscenza di Dio contemplato in Se stesso e con la sua stessa luce; la gioia di Dio amato con il suo stesso amore; il possesso della sua stessa felicità. Il fine soprannaturale consiste nella comunicazione della propria felicità da parte di Dio. L’anima che ha raggiunto questo fine beato, non vede Dio nella creazione come in uno specchio, ma lo vede faccia a faccia; dirige i suoi sguardi al centro stesso della Luce eterna; annega nell’oceano che riempie di infinita pienezza l’infinita capacità di Dio stesso; entra nella gioia del suo Signore; si inebria nel torrente delle divine delizie. Come l’intelligenza riprodurrà in se stessa l’immagine degli oggetti a cui è applicata, l’anima, penetrata dai bagliori della chiarezza divina, e dagli ardori della carità divina, diventa interamente come Dio.  E si unisce a Lui con i legami di un amore così delizioso ed irresistibile, tanto che essa stessa diventa spirito. Il fine naturale dell’uomo è la sua divinizzazione. Il fine soprannaturale dell’uomo è la sua deificazione. Tuttavia, tra questa divinizzazione e il panteismo, c’è una distanza come quella che separa la divinità dal nulla. Il panteismo, cercando di assorbire l’anima nell’infinito, raggiunge invero solo il suo annientamento. Al contrario, nel fine soprannaturale, l’anima conserva il suo essere, la sua personalità, le sue facoltà, sa, ama e gode. Ma essa conosce mediante il Verbo  di Dio, ama per mezzo dello Spirito di Dio e gode della felicità di Dio. Tutte le cose rimangono distinte, anche se in Dio tutte le cose sono fatte per questa felicità. Essa [l’anima] è tutta in Lui, ed Egli è tutto in essa. Essa non è Dio, ma è divinizzata. Essa è davvero ammessa a partecipare della natura divina; di modo che unendosi intimamente all’anima, Dio la trasforma in Se stesso. – Tale dignità concessa alla creatura è soprannaturale. È soprannaturale per l’uomo, ma lo è anche per il più perfetto degli spiriti puri, per il più elevato dei serafini. Era per Adamo innocente, come lo è anche per i suoi discendenti decaduti. Era soprannaturale in quanto le nostre forze naturali non potevano ottenerla, né il nostro spirito concepirla se non in maniera molto vaga, né i desideri naturali potevano orientarsi verso di essa: « Perché né l’occhio vide – dice San Paolo – né l’orecchio udì, né il cuore umano poteva immaginare ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano ».  Dio non ci doveva l’elevazione a questo fine, né il farci assaporare questa felicità. Se lo ha fatto, è stato per il libero esercizio della sua bontà. Egli ha agito liberamente sia quando ci ha dato l’essere limitato e sia anche quando ci ha destinato, per mezzo della elevazione, all’ordine soprannaturale, a possedere il suo Essere infinito. Il secondo di questi doni è, se possibile, ancor più gratuiti del primo.

La grazia, principio e mezzo della nostra divinizzazione.

Il nostro destino verso il fine soprannaturale è gratuito, ma non la sua retribuzione. Non avevamo alcun diritto a che Dio ce lo proponesse; ma dal momento che Egli lo ha voluto, noi abbiamo l’obbligo di ottenerlo. La creatura libera deve essere, insieme a Dio, l’Autore della propria felicità: essa non può essere glorificata dal suo Creatore nell’eternità se essa stessa non lo glorifica nel tempo. Ma, qual è il mezzi per meritare la partecipazione della felicità di Dio? Se il merito deve essere proporzionato alla ricompensa, non dovrebbe l’uomo disporre di mezzi divini per meritare un fine divino? Certo che si! Questo spiega perché la divinizzazione dell’uomo, che deve avere il suo coronamento in cielo, inizi quaggiù per mezzo della grazia. La grazia è il seme della gloria. L’unione con Dio implica la visione di Dio nella sua luce propria, l’unione con Dio attraverso il suo proprio amore, e il godimento della felicità propria di Dio. Anche nella grazia troveremo questi tre tipi di unione: la fede ci farà conoscere Dio con la sua luce; la carità ci farà amare Dio con il suo stesso amore, e la speranza ci farà tendere alla felicità di Dio. Ma la luce della gloria è il sentire Dio presente, che si scopre a noi completamente, quella della fede è il sentire Dio assente e solo manifesto nel suo Verbo. La gioia del cielo deriva dalla sete sempre viva di un piacere che sazia sempre. La speranza della terra sospira per questa felicità, senza essere ancora in grado di raggiungerla. La carità del cielo abbraccia la bellezza infinita che ama, e quella della terra l’ama senza poterla ancora abbracciare.

La gloria, coronamento della nostra divinizzazione.

Gli atti delle virtù teologali, che sono le principali forme della grazia, non differiscono dagli atti con cui l’anima beata gode della gloria, se non nella misura in cui i primi hanno assente l’Oggetto che i secondi hanno presente. Per quanto riguarda l’anima, il movimento è lo stesso. Nel cielo essa si immerge nell’oceano della beatitudine divina in virtù dell’impulso che ha ricevuto quaggiù con l’esercizio della virtù. Lo stesso amore che spinge il martire sul patibolo, lo rende capace di gustare le delizie ineffabili, una volta che la morte gli ha aperto le porte della patria. Dio si dona a tutti gli eletti secondo le loro capacità, che sono maggiori o minori a seconda dello sviluppo ottenuto sulla terra dall’esercizio delle virtù. Più sono cresciuti nella loro anima, sulla terra, la fame e la sete di Dio, più essi saranno saziati in cielo. – La grazia non è solo il seme della gloria, ma anche il suo principio e la sua misura. Sia per grazia che per gloria, l’anima è comunicata alla divinità. Infatti, ci sono due relazioni distinte nella vita intima di Dio: l’una è insieme l’intelligenza infinita e la bontà infinita, l’attività assoluta e il completo riposo. Questi due elementi sono ugualmente necessari alla sua felicità. Non sarebbe essa infinita, se non consistesse nella soddisfazione infinita di un tendenza infinita. – La vita divina, depositata in principio nell’anima come un seme, si va sviluppando durante tutto il periodo della crescita, fino a quando, giunta a piena maturazione, non produca il suo frutto, che non è altro che la beatitudine del Paradiso. Se la grazia non fosse una vera partecipazione alla natura divina, ci sarebbe una sproporzione tra il fine ed i mezzi. Il merito soprannaturale non sarebbe in alcun modo merito, e nell’ordine soprannaturale sarebbe solo un disordine. – Le Sacre Scritture attribuiscono questa qualità alla grazia. Il giusto della terra, come il beato del cielo, è un essere divinizzato. La sua divinizzazione è così reale che i santi Dottori si affidano ad essa per dimostrare la divinità dello Spirito Santo, che ne è l’Autore: « Non è forse necessario – chiede San Cirillo agli ariani – avere un potere maggiore di quello di una creatura semplice per divinizzare gli esseri che non hanno nulla di divino nella loro natura? Si può mai concepire una creatura divinizzante? Solo Dio ha questo potere, e lo esercita, attraverso il suo Spirito, comunicandolo alle anime sante, Egli che solo possiede questa proprietà »; in virtù di questa comunicazione, l’uomo, che fino ad allora ha vissuto solo una vita animale e razionale, inizia a vivere una vita superiore, la vita divina. – Si tratta certamente di una seconda nascita! La prima esistenza risale al giorno in cui un’anima spirituale venne ad animare il suo corpo. si nasce la seconda volta, quando lo Spirito di Dio viene a vivificare la sua anima! Da quel momento ci sono in lui due uomini che si combattono, così come Giacobbe ed Esaù già si combattevano nel seno di Rebecca. Quello, il figlio dell’uomo – Esaù – è più vecchio d’età. L’altro – Giacobbe -, figlio di Dio, erede della promessa, si sforza di soppiantare suo fratello. Come tutti i figli di Adamo, il Cristiano trova in sé gli istinti carnali che lo inclinano alla terra. Queste ispirazioni sono combattute dalle ineffabili aspirazioni che lo allontanano nel mondo e gli fanno disprezzare tutto quello che lo circonda. L’uomo raccoglie in se stesso, con meravigliosa armonia, come in un piccolo cosmo, tutte le forze che muovono l’universo: le fisiche, le chimiche, le vitali, le spirituali. Dio completa il suo capolavoro donandogli, con il suo Spirito, le forze divine. Questo Spirito, nell’abitare l’anima del Cristiano, comunica all’intelligenza la mente di Dio! Diffonde nel suo cuore, la carità di Dio, che diventa il principio di tutte le sue tendenze ed il filo conduttore di tutte le sue azioni. L’animale è guidato dall’istinto, l’uomo è guidato dallo Spirito di Dio!

Dottrina della nostra divinizzazione.

Non dubitiamo che la vita soprannaturale sia una vita veramente divina. Vita che non risulta dall’identificazione dell’Essere creato con l’increato; che non suppone che l’uomo sussista per una personalità divina, ma solo che operi divinamente. Egli conserva in tutta la sua integrità il suo essere, la sua personalità, le sue facoltà. Ma a loro si aggiungono le virtù, che sono come delle facoltà soprannaturali. Con queste virtù Dio stesso si unisce sostanzialmente al Cristiano e lo rende parte della sua natura. – Nella grazia c’è qualcosa di creato e qualcosa di non creato. Come in cielo i più Beati, illuminati dalla luce della Parola di Dio, ricevono in se stessi una chiarezza che li rende simili a questo Sole divino e capaci di unirsi a Lui; così sulla terra, l’anima, unita dalla grazia allo Spirito Santo, riceve, sia con movimenti passeggeri, sia per mezzo di qualità permanenti, l’influenza dello Spirito Divino. Così come nel cielo il lumen gloriæ non impedisce che l’unione dell’anima con il Verbo di Dio sia immediato, così, sulla terra, la grazia creata non impedisce che l’anima sia unita allo Spirito Santo immediatamente.

La nostra divinizzazione consiste nel possesso della Persona stessa dello Spirito Santo.

La divinizzazione dell’uomo non è una metafora vana. È la più reale di tutte le realtà. I Santi Dottori che hanno ricevuto da Dio la missione speciale di combattere gli errori sullo Spirito Santo, sembrano non trovare un’espressione abbastanza energica per farci palpare l’intimità dell’unione, per mezzo della quale Esso viene a comunicarsi all’anima del giusto: una volta si esprimono con il paragonare l’unione del profumo con l’abito completamente penetrato del suo profumo (S. Cirillo di A. l. IX, in lo. MG: 74, 447); altra volta con l’unione dell’oro al metallo meno nobile, che assume per suo mezzo il medesimo splendore (S. Cirillo di A. Dial.. VIII, de Trinitate et l. V in lo. MG:75, 1075 e 73, 705) ; o ancora all’azione con cui il fuoco trasforma il ferro, comunicandogli tutte le sue proprietà ignificandolo in un certo modo, senza per questo sottrargli la propria natura o, in fine, alla comunicazione delle proprietà dal vino alla goccia d’acqua in esso introdotta (S. Bas. I. V.  adv. Eunomium Max. M.G.: 29, 700). Se questa unione non fosse sostanziale, non potrebbe produrre gli effetti che le vengono attribuiti: il liberarci dalla morte riempire di vita il nostro spirito; restaurare il nostro spirito; restaurare in noi l’immagine divina; cancellare il peccato, e fare di noi stessi dei figli adottivi di Dio. Questi santi Dottori, affermano che l’unione dello Spirito Santo con la nostra anima, produce in essa atti e abitudini inerenti all’anima, per il bene dell’anima stessa, e perché sia costituita in uno stato soprannaturale. Solo i luterani hanno osato dire che la giustificazione consistesse nella semplice applicazione della santità di Dio, e non in un dono insito nell’anima e creato come essa. I Dottori cattolici non hanno mai dubitato che ci sia nell’anima una luce soprannaturale creata, che è la fede, e un amore soprannaturale creato, che è la carità. Inoltre, ciò che insegnano i Santi Padri è che l’alta dignità e l’esaltazione della natura umana non consista tanto nella ricezione di questi doni creati, ma piuttosto nel possesso de della Persona dello stesso Spirito Santo, che si unisce ai suoi doni, e per mezzo di essi abita in noi, ci vivifica, ci adotta, ci divinizza e ci incita a compiere ogni sorta di buone azioni. (Corn. Alapide, in Oseam, l. 10). Abbiamo visto quindi il fine elevato a cui sono ordinati tutti i piani della Provvidenza: la divinizzazione dell’uomo e delle creature razionali. Per raggiungere l’anima, Dio per suo aiuto alla creazione malata, manda i suoi Angeli, il cui mistero più glorioso è quello di educare le anime per prepararle alla loro celeste eredità. Le creature materiali contribuiscono con tutta le loro forze a questa grande opera. « Gemono – dice San Paolo – e soffrono i dolori di un parto doloroso, e sono chiamate a collaborare alla produzione dei figli di Dio ». Qual giorno sì felice in cui culminerà di questa grande opera dell’Altissimo! Allora la creazione malata tornerà, attraverso l’uomo, all’inizio, donde proviene. L’Infinito, che in qualche modo è uscito da sé stesso per il desiderio della creazione, tornerà a se stesso per riposare, per l’eternità, con le anime che avranno collaborato ai suoi progetti. Il cerchio divino sarà così chiuso. Tutta la creazione spirituale vivrà della vita divina e la comunicherà alla creazione materiale, ad essa unita mediante l’uomo come un prezioso anello. Il Creatore, pienamente glorificato dalla sua creatura, rifletterà in essa la sua gloria: Dio sarà tutto in tutte le cose!

Capitolo II

DIO CHIEDE DI ESSERE GLORIFICATO PER MEZZO DI GESÙ CRISTO

Il Verbo incarnato, Mediatore tra Dio e gli uomini

Il principio fondamentale della Divina Provvidenza è che tutte le creature tendono alla gloria di Dio, riproducendo in misura finita le sue infinite perfezioni. Poiché Dio è una beltà assoluta, non può dare alle opere delle sue mani altro modello che non sia Se stesso. Il suo amore infinito non può creare delle volontà razionali, che non siano felici di possedere la sua infinita bontà. Corrisponde in Sé, come primo Principio di tutte le cose, per esserne l’ultimo fine. Un fine che l’uomo deve raggiungere non come egli vuole, ma che sia conforme al decreto di Dio, attraverso la sua divinizzazione. Dio potrebbe, senza alcun intermediario, comunicare all’uomo la sua grazia, elevarlo all’ordine soprannaturale e riportarne la gloria che ha il diritto di aspettarsi da lui. Ma Dio ha dato al suo lavoro una bellezza ed una perfezione che nessuna intelligenza creata avrebbe potuto immaginare. Per colmare la distanza che lo separava dall’uomo, Egli istituì un Mediatore, il Verbo incarnato, Gesù Cristo nostro Signore, nel quale sono raccolte, senza confusione, tutte le perfezioni della natura umana e della natura divina. Secondo un’opinione teologica, difesa da grandi teologi e i cui fondamenti si trovano in San Paolo, l’Incarnazione del Verbo fu decretata prima della caduta di Adamo (non parliamo della priorità temporis sed signi), come manifestazione suprema della gloria divina. Se è così, ci viene presentato Gesù Cristo come fine ultimo e Signore di tutta la creazione e come oggetto principale ed eterno nella mente del Creatore. Un’altra dottrina insegna che non solo la Redenzione, ma anche l’Incarnazione sia stata decretata come conseguenza in previsione del peccato originale. Questo la mette in evidenza molto meno è vero, perché forse fa pensare che la più grande opera di Dio sia un rimedio a cui, senza la colpa originale, non si sarebbe posto mano (Curci, La Nature et la Grâce). Anche i difensori di quest’ultima opinione sostengono però che il Verbo Incarnato sia davvero il fine di tutte le creature.

Il Verbo incarnato è il fine di tutta la creazione.

I teologi di entrambe le opinioni concordano nell’affermare che il Verbo incarnato è il fine di tutto ciò che esista, e questo è sufficiente per la presente questione: « Dio – dice l’erudito Ruperto, – si è comportato con il suo amatissimo Figlio, come un grande e potente monarca si comporta con l’erede alla sua corona. Costruì per lui un magnifico palazzo, riccamente arredato, e lo circondò di una corte che era in relazione alla sua dignità. Poi per lui creò la terra, per lui accese migliaia di fiaccole scintillanti, al suo servizio creò dal nulla una quantità innumerevole di angeli, e noi non siamo così schietti – dice il pio Dottore – da pensare che Egli non avesse alcuna intenzione di creare l’uomo prima della caduta degli Angeli. La verità è che non sono stati gli uomini ad essere creati per gli Angeli ma, sia gli Angeli che tutte le creature, abbiano ricevuto il loro essere in previsione di un uomo, che è Nostro Signore. Crediamo dunque e confessiamo con la bocca e con il cuore che tutto sia stato creato per formare come una corona di gloria al Verbo incarnato (lib. Lib. XIII in Math. Lib. III de Glorificatione Trinitatis). – Pure in questo senso, diversi Padri della Chiesa interpretano le parole del libro dei Proverbi: Il Signore mi ha posseduto, ha fatto di me l’inizio delle sue vie prima di ogni altra cosa. Le sue vie sono le creature che procedono verso Dio, come un sentiero conduce alla fine del cammino; ma, prima di tutte quelle creature, Dio mi ha visto e mi ha destinato già allora ad essere la fine di tutta la creazione. – Allo stesso modo, sono spiegate nell’Apocalisse, le parole di Nostro Signore: Ego sum alpha et omega, principium et finis. Io sono il principio, perché io do l’essere a tutte le cose della natura, della grazia e della gloria a titolo di causa prima, esemplare e meritoria. Io sono il fine, perché tutto è fatto per la mia gloria, affinché tutto venga da me come dal suo principio primo, e tutto ritorni a Me come all’ultimo fine. « L’intero universo – ci avverte San Bernardino da Siena – è come una sfera intellegibile, il cui centro è il Figlio di Dio ». Infatti, questo amabile Maestro è, per il mondo, ciò che il centro è per la circonferenza. Tutti i raggi, convien sapere, tutte le creature partono da quel punto e vi convergono contemporaneamente ».

Gesù Cristo è la causa dell’unità armonica della natura umana, della sua perfezione e felicità.

Al di fuori di Gesù Cristo, la natura non può trovare un’unità armoniosa che debba essere la sua perfezione e la sua felicità; fuori dal quale si trova solo divisione, lacerazione, lotta, debolezza, fiacchezza, irrequietezza, disperazione. In Gesù Cristo, le lotte si placano, le contraddizioni cessano, le parti opposte si riconciliano. Si ammira il volto del Divin Salvatore e si vedono i Santi che, come specchi viventi, hanno riflesso i suoi tratti benedetti. Nella serenità di quelle fronti, nel brillare di quegli occhi, nella dolcezza di quelle labbra, non si scoprono forse i sentimenti che costituiscono la grandezza dell’animo umano? Le potenze spirituali sono state trasformati in strumenti docili della ragione. Le passioni, dirette ai loro veri fini, collaborano affinché la virtù possa raggiungere una vera ricchezza, la vera grandezza, le vere gioie. L’intelligenza, trovando nella verità assoluta il sommo Bene, la sicurezza di possedere eternamente l’unico obiettivo di tutte le aspirazioni dell’anima e di godere di Esso, secondo i sacrifici fatti per lo stesso nel tempo, unisce indissolubilmente l’interesse e il dovere, e non permette di separare la felicità della vita presente da quella della futura. – Il Cuore di Gesù Cristo è l’unità divina del cuore umano che, al di fuori da Esso, rimane lacerato. In Lui e attraverso di Lui, l’umiltà, allontanandosi dalla ricerca della grandezza nel nulla, ce la fa trovare in Dio. In Lui la forza, appoggiata a Dio, e non avendo bisogno di sforzi violenti per sostenersi, si unisce alla dolcezza più ammaliante. In Lui il cuore affettuoso trova il nutrimento che gli evita di correre dietro a piaceri vergognosi e diventa tanto più capace di amare tutto ciò che è amabile, tanto più acquista padronanza dei suoi appetiti. In Lui, l’amore della verità incoraggia l’intelligenza a raggiungere il suo scopo, tanto più umile e docile è l’abbracciarla, quando più si lancia spontaneamente sulle ali della fede alla sua ricerca.

Cristo è il nostro fine perfezionante

Questo è l’uomo come lo ha fatto Gesù Cristo: uno, perfetto, sereno e immutabilmente pacifico. Prima di Gesù Cristo, l’uomo era un edificio crollato le cui pietre, violentemente separate l’una dall’altra, sembravano non riuscire mai a ricongiungersi. La pianta di quell’edificio era andata perduta e gli architetti che avevano cercato di ricostruirlo, l’avevano ancor più mutilato. Gesù Cristo è venuto e ci ha mostrato in sé l’edificio divino ricostruito con una grandezza che non aveva mai avuto. Sta a noi trovare in Lui l’unità che cercheremmo invano al di fuori di Lui. Gesù Cristo è l’uomo perfetto, l’uomo esemplare, l’uomo per eccellenza. Quando Dio Padre lo ha dato al mondo, ci ha detto: questo è l’ideale che ho concepito fin dall’eternità, e che invito tutti voi a realizzare al meglio delle vostre capacità. Lo scopo dei nostri sforzi deve essere quello di tendere verso Gesù Cristo. A proposito di ciò Sant’Agostino scrive: « Dovete mirare a Gesù Cristo, perché Egli è il vostro fine. Ma non un fine che consuma, ma un fine che conclude; perché consumare è distruggere; concludere è finire e perfezionare una cosa: Gesù Cristo è il nostro fine, perché siamo perfezionati in Lui e da Lui; la nostra perfezione è in Lui che giunge; e quando lo raggiungeremo, avremo trovato la felicità. »

Gesù Cristo è il nostro fine, perché glorifichiamo Dio Padre, glorificando suo Figlio.

Questa è la mirabile dottrina di San Paolo. Per l’Apostolo delle genti, Gesù: « è il primogenito di tutte le creature, perché tutte le cose del cielo e la terra sono state create in Lui: le cose visibili e invisibili, i troni, le dominazioni, i principati, le potenze, tutto è stato creato da Lui. Egli esiste prima di tutte le cose, e tutte le cose sussistono in Lui. Egli è la testa e il capo del corpo della Chiesa; è il principio assoluto ed il primogenito tra i morti; affinché Egli possa avere il dominio su tutto. » Dio ha fatto di Gesù Cristo il fine a cui l’umanità deve tendere, e ci fa capire che vuole che l’umanità lo glorifichi, glorificando il suo amato Figlio in cui ha posto tutto le sue compiacenze, ed in cui abita corporalmente la divinità. Gesù Cristo, venendo sulla terra, non aveva altro scopo se non quello di glorificare Dio Padre, restituendogli l’onore che il peccato gli aveva tolto: « Tutti hanno peccato – dice San Paolo – tutti hanno bisogno della gloria di Dio ». Il Verbo incarnato, dice San Cirillo, è la gloria di Dio che si manifesta agli uomini. Così capiamo perché, nella culla del Bambino di Betlemme, gli Angeli annunciano che la gloria di Dio si manifesta anche in cielo: Gloria in excelsis Deo. – Gesù Cristo, per glorificare Dio Padre, trascorre i primi trent’anni della sua vita in una oscura bottega, impegnato in un umile lavoro. Non c’è nessun altro motivo principale nelle sue azioni durante la sua vita pubblica. Al fine della sua stessa gloria, non dà alcuna importanza: Honorifico Patrem. Non quæro gloriam meam. Non sono da considerare – sembra dire – se non come vittima di espiazione del peccato. La mia gloria non è nulla, come un nulla è la gloria degli uomini: Gloria mea nihil est.

L’umiliazione e la croce furono i prodromi del Regno di Cristo

Così come Dio Padre ha accettato che Cristo soffrisse per entrare nel regno dei cieli, è giusto che sia vestito con la veste della vergogna prima di essere circondato dall’alone della gloria. Le umiliazioni e la croce sono i preamboli obbligatori del regno glorioso che suo Padre invita a condividere con Lui. Mentre la passione si avvicina, Nostro Signore parla più volentieri della propria gloria ai discepoli. Predice poi loro che, quando sarà inchiodato al legno, il suo potere cambierà questo luogo di ignominia in un trono di gloria, al quale attirerà ogni cosa: Cum exaltatus fuero, omnia traham ad me ipsum. Nel suo ultimo discorso, che è come il canto del cigno, il testamento dell’amore, ricorda a suo Padre che è arrivata l’ora di glorificarlo: « Ho compiuto la missione che mi hai affidato; ora, Padre mio, è tempo di glorificarmi, di far risplendere la gloria che avevo in te, prima ancora della creazione del mondo. » Dio Padre ha ascoltato la voce del Figlio suo: al torrente di umiliazioni fa seguito un’esuberante manifestazione di gloria. – Dio fa uscire trionfalmente suo Figlio dal sepolcro. Lo fa sedere alla sua destra in cielo, al di sopra di tutti i principati e di tutte le potenze. Pone tutto sotto i suoi piedi e fa di Lui il Capo della Chiesa. Egli ordina che nel suo Nome ogni ginocchio sia piegato in cielo, in terra e negli inferi. Gli Apostoli fanno risuonare il nome di Gesù in tutte le regioni e la potenza del suo Nome fa meraviglie ovunque. – Così Dio Padre ha glorificato e glorificherà il Figlio suo e, come predice l’Apostolo San Pietro, per la gloria di suo Figlio, sarà Egli stesso glorificato. Così il magnifico piano che l’Apostolo ci indica si realizzerà, quando ci annuncia che tutta la creazione è stata fatta per noi, noi per Cristo e Cristo per Dio! Ammirevole è questa Gerarchia, in cui l’Uomo-Dio, ricapitolando e riassumendo in sé le perfezioni degli spiriti e dei corpi, costituisce il Mediatore tra la creatura ed il Creatore! Non possiamo concludere meglio questo capitolo se non citando la magnifica conclusione dei decreti promulgati dal Consiglio provinciale di Le Puy nel 1873. – « Se cerchiamo l’origine comune degli errori che abbiamo appena condannato, sarà facile vedere che provengono tutti dalla stessa fonte, cioè l’ignoranza ed il disprezzo per l’ordine soprannaturale. Quanti di coloro che hanno indossato Cristo nel Battesimo non lo conoscono! Quanti dimenticano la nobiltà divina che Egli ha conferito loro! I ministri della Santa Chiesa devono quindi fare ogni sforzo affinché i fedeli abbiano una conoscenza esatta dell’ordine soprannaturale, in modo che possano ammirare la sua meravigliosa unità e assaporarne l’ineffabile soavità. Perché le testimonianze di Dio offrono alla nostra intelligenza le luci più vivide, e sono per il nostro cuore più dolci del miele e del nettare. – Infatti, la verità che dobbiamo credere di cuore e confessare con la bocca non è altro che Cristo, il Verbo del Padre, di quel Padre che, dopo aver posto tutti le sue compiacenze nel suo Figlio prediletto da tutta l’eternità, ce lo ha mostrato nella pienezza dei tempi, non solo per farcelo conoscere, ma anche per renderci partecipi della sua divinità. Il grande sacramento dell’amore, il piano della bontà divina, è infatti quello di restaurare in Cristo tutto ciò che è in cielo e sulla terra; di unire a Lui, come al suo comune Signore, il mondo materiale e quello spirituale; di fare degli Angeli e degli uomini un corpo unico che vive della vita di Cristo e gode eternamente della sua gloria. Cristo è tutto in tutte le cose, perché tutto è da Lui, per Lui ed in Lui. Egli è l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine. Solo Lui insegna Dio agli uomini, e li unisce a Dio, perché solo Lui è il mediatore tra Dio e l’uomo. Da Lui, come al suo principio, e in Lui, come suo fine, tutti sono stati creati. Esisteva prima della creazione, e nulla sussiste se non in Lui. Cristo è tutto in ogni uomo, a cui comunica la sua perfezione divina. Innestati in Lui mediante il Battesimo, gli uomini vengono elevati all’ordine soprannaturale, animati dallo Spirito di Cristo, che li rende figli di Dio, non solo in parole, ma anche in verità. Gesù non si vergogna di chiamarli suoi fratelli, perché è veramente unito a loro con un doppio vincolo: si è fatto partecipe della loro carne e del loro sangue, quando nel seno della Vergine Immacolata, che è insieme la Madre di Cristo e degli uomini tutti, è stato formato il corpo che a sua volta ha dato loro attraverso la santa Eucaristia, e volendo che partecipassero del suo Spirito, lo ha mandato alle loro anime, per mezzo del quale essi gridano: Abba Padre! Tale, dunque, è il destino della loro vita mortale: per crescere in Cristo, basta che, raggiunta l’età della maturità e raggiunto l’apice del merito, entrino a parte della gloria del loro divino Capo, così come saranno entrati in quella delle loro sofferenze. Cristo è tutto nella Chiesa, di cui è il corpo ed il suo complemento; vivendo dello Spirito di Gesù Cristo, si fanno opere simili alle sue, in proporzione ancora maggiore. Egli ha insegnato a tutte le nazioni la stessa dottrina che predicava in un altro tempo agli Ebrei; esercita ora la stessa autorità per mezzo del Vicario di Cristo e dei Vescovi, successori degli Apostoli; Egli non cessa di instillare che la stessa virtù; amministra la stessa grazia; cura le stesse malattie, e chiunque segue l’esempio di Gesù Cristo, suo Maestro, passando e facendo del bene, sarà oggetto di odio e di persecuzione. Ma la virtù del suo Capo divino lo rafforza; e nonostante sia continuamente combattuto, è sempre vittorioso, cura le nazioni con il sangue che sgorga dalle sue ferite e non cessa di vivificare il mondo, anche quando è permesso di godersi per un momento la vita. Cristo è tutto nelle famiglie e nella società. Infatti: se le famiglie devono dare a Cristo nuovo membri e proteggere la loro formazione, i popoli sono destinati ad unirsi al corpo di Cristo, che è la Chiesa, per promuovere la sua azione, per difendere la sua libertà, per contribuire al suo sviluppo. Solo realizzando questo fine, che si ha con la subordinazione a Cristo e alla Chiesa, i popoli e le famiglie possono trovare la loro stabilità, riposo e vera felicità. In effetti nessun altro Nome è stato dato agli uomini sotto il cielo nel quale possano trovare la salvezza; e nessuno può dare alla società altro fondamento di quello già stabilito: Gesù Cristo. – Infatti, Gesù Cristo è tutto in terra, alla quale ha fatto l’insigne beneficio di prendere in prestito il corpo che lo doveva trasportare molto presto verso le altezze del cielo. È il mondo il sublime laboratorio in cui lo scalpello del Salvatore scolpisce le pietre vive che saranno poste successivamente sulle mura del tempio divino. Citando quest’opera, in cui la saggezza di Dio opera da tutta l’eternità, cioè citando la produzione dei Santi per la formazione del Corpo di Gesù Cristo, se questi cessano di esistere, cessa la propagazione del genere umano, la cui unica ragione di esistenza è Cristo; e la natura che ora partorisce nel dolore e attende la manifestazione del Figlio di Dio, entrerà nella sua gloria alla completa rivelazione. Allora verrà la fine, perché tutto sarà stato sottomesso a Cristo e il Figlio stesso, con le sue membra, sarà completamente sottomesso a Colui che ha sottomesso tutto alla sua obbedienza; poi, entrambi, sia i suoi nemici, con i giusti supplizi che puniranno la loro ribellione, sia i suoi amici con la loro beatitudine, glorificheranno eternamente il suo potere, perché questo è eterno e non gli sarà portato via, e il suo  regno non cadrà mai in preda alla rovina. – Piacesse al cielo che tutti i maestri della dottrina cristiana, attraverso l’assidua contemplazione della sua magnifica unità, fossero bruciati nel suo amore e riempissero tutti i cuori cristiani di questo stesso amore! Piacesse al Cielo che i fedeli, fissando costantemente lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede, e vedendo in Lui la loro grandezza divina, si abituino a disprezzare il nulla delle cose visibili e temporali, ed a desiderare solo i tesori della gloria, che un giorno saranno la loro eredità in mezzo ai Santi! Piacesse al Cielo che gli occhi della loro anima, illuminati dalla luce, possano cogliere in un solo sguardo la longitudine, la latitudine, la sublimità e la profondità di questa eredità; per comprendere la carità di Gesù Cristo che è al di sopra di ogni scienza, ed essere pienamente ricolmi di Dio! »

https://www.exsurgatdeus.org/2020/05/05/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-3/

SALMI BIBLICI: “NISI DOMINUS ÆDIFICAVERIT DOMUM” (CXXVI)

SALMO 126: “NISI DOMINUS ÆDIFICAVERIT DOMUM”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 126 

Canticum graduum Salomonis.

[1] Nisi Dominus ædificaverit domum,

in vanum laboraverunt qui ædificant eam. Nisi Dominus custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam.

[2] Vanum est vobis ante lucem surgere: surgite postquam sederitis, qui manducatis panem doloris. Cum dederit dilectis suis somnum,

[3] ecce hæreditas Domini, filii; merces, fructus ventris.

[4] Sicut sagittæ in manu potentis, ita filii excussorum.

[5] Beatus vir qui implevit desiderium suum ex ipsis: non confundetur cum loquetur inimicis suis in porta.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXVI.

Esortazione attribuita a Salomone, che edificò il tempio e amplificò la città, e diretta a colui che dovea riedificare, dopo il ritorno dalla cattività, tempio e città. L’esortazione è anche ai fedeli, che han da edificare colle buone opere il tempio a Dio in loro stessi, e la celeste Gerusalemme por sé stessi.

Cantico dei gradi. Di Salomone.

1. Se il Signore non edifica egli la casa, invano si affaticano quelli che la edificano (1).

2. Se il Signore non sarà egli il custode della città, indarno veglia colui che la custodisce.

3. È cosa inutile a voi il levarvi prima del giorno: levatevi dopo che avrete riposato, voi che mangiate pan di dolore.

4. Quando egli ai suoi diletti avrà dato il sonno, ecco dal Signore l’eredità, i figliuoli, il lucro, i parti.

5. Qual saette nella mano d’uomo possente, così sono i figliuoli dei tribolati.

6. Reato l’uomo, il cui desiderio riguardo ad essi è adempiuto: ei non sarà svergognato, quando avrà da parlare coi suoi nemici alla porta. (2)

(1) Voi vi agitate inutilmente alla ricerca inquieta della felicità, voi anticipate il vostro risveglio, ritardate il vostro sonno e mangiate un pane acquistato con penoso lavoro; e mentre vi agitate vanamente, Dio fa dormire in pace i suoi diletti, e dà al loro risveglio più beni ancora di quelli che avrete raccolto con la vostra agitazione. 

(2) Si legge nell’ebraico. « Felice colui che ha riempito la sua faretra di tali frecce ». I figli che sono state comparate alle frecce, il salmista continua il suo paragone designando la casa  sotto il nome di faretra. I Settanta fanno sparire la figura, ma nella traduzione abbiamo conservato il senso, se non la figura del testo ebraico.

Sommario  analitico

In questo salmo, il Salmista avverte gli esiliati del ritorno nella loro patria che si dedicavano con troppo ardore alla ricostruzione della loro città e del tempio e, nella loro persona, tutti i Cristiani:

I. che essi non possono nulla senza Dio:

1° né nella costruzione particolare delle loro dimore (1),

2° né nella custodia della città (2); da qui conclude: a) che essi non devono anticipare l’aurora per darsi al loro lavoro, b) ma aspettare che abbiano preso il necessario riposo (2).

II. Che essi possono tutto con la benedizione di Dio.

1° Egli predice che Dio li benedirà, accordando loro dei figli come eredità e ricompensa delle buone opere (3);

2° predice ciò che faranno questi figli: a) saranno così forti contro i nemici che renderanno inutile ogni resistenza (4); b) si moltiplicheranno e saranno vittoriosi sui loro nemici alle porte della città (5).

Spiegazioni e considerazioni

I. – 1, 2.

ff. 1, 2. – Queste parole sono indirizzate ai Giudei, quando dopo il ritorno da Babilonia, lavorando per ricostruire il tempio e la città di Gerusalemme, incontravano grandi opposizioni e numerosi ostacoli da parte dei popoli vicini, e si videro attaccati da ogni parte da nemici gelosi della loro felicità e che temevano di vederli riuscire (II Esdras). Pertanto queste ricostruzioni avanzavano molto lentamente, e durarono tanto tempo, che ci vollero oltre quaranta anni per ricostruire il tempio. In presenza di queste difficoltà insieme riunite, il Profeta insegna loro a ricorrere a Dio, mostrando loro l’inutilità assoluta dei loro sforzi, se non fossero giunti ad attirare su di essi il soccorso divino. Sotto la protezione divina, la loro liberazione era impossibile; senza questa stessa protezione sarebbe ugualmente impossibile rialzare le loro mura. La ricostruzione della città poi, quando fosse interamente terminata e tutte le costruzioni completate, è impossibile da costudire senza l’assistenza divina … Bisogna fare attenzione ad ogni parola, non per autorizzare la nostra negligenza e la nostra tiepidezza, ma per determinarci a fare tutto ciò che dipende da noi, e mettere poi tutto nelle mani di Dio. Senza l’assistenza divina, noi non possiamo riuscire in niente (Giov. XV); ed anche se non rispondiamo al soccorso di Dio che con la negligenza e l’ozio, il successo ci sarà ugualmente rifiutato (S. Chrys.). – Qual è questa casa di cui parla il Profeta? Dio dice in un altro salmo: «Questo è il luogo del mio riposo  per i secoli dei secoli; Io vi abiterò, perché l’ho scelta, » (Ps CXXXI, 14); ma questa casa di Sion che Egli aveva scelto è distrutta da tempo senza più speranze di vederne ristabilire le rovine. Dove è dunque questa casa che Dio abiterà per sempre, o il luogo di questo riposo eterno? Qual è il tempio ove fisserà la sua dimora? È ciò di cui l’Apostolo ha detto: « Voi siete il tempio di Dio, e lo Spirito Santo abita in voi. (I. Cor. III, 16). Ecco la casa, ecco il tempio di Dio, pieno di dottrina e di virtù, devenuto degno, con la santità del cuore, di offrire una dimora conveniente a questo Ospite divino … Ora, è Dio stesso che deve costruire questa casa: se essa si costruisce con il lavoro dell’uomo, non ha alcuna speranza di durata; se essa si appoggia alle dottrine del secolo, essa non ha alcuna consistenza, e tutti i vani sforzi della nostra sollecitudine saranno impotenti a sostenerla. Bisogna ricorrere ad altri mezzi per costruirla, per custodirla: non è sulla terra, non è sulla sabbia mobile che bisogna posare i suoi fondamenti, ma sui Profeti e sugli Apostoli. Bisogna costruirla con pietre viventi, unite dalla pienezza di Cristo (Ephes. IV, 13) – (S. Hilar.). – Queste stesse parole sono indirizzate ai ministri della Chiesa che si sforzano di convertire gli uomini a Dio con la predicazione della sua parola, e di edificare così un tempio che è la Chiesa, secondo questa parola dell’Apostolo ai Corinti: «Come un saggio architetto, io ho posto le fondamenta, » (I. Cor., III, 10); ma, senza l’assistenza del principale Architetto che ha detto: « Su questa pietra io costruirò la mia Chiesa, » è invano che costruiscano gli uomini, è invano che predichino i dottori della parola di Dio. (Bellarm.). – È il Signore Gesù-Cristo che costruisce la sua casa. Molti lavorano alla costruzione di questa casa, ma se il Signore non costruisce Egli stesso, invano coloro che la costruiscono avranno lavorato, hanno costruito … « Io temo per voi di aver lavorato invano tra di voi, » diceva San Paolo (Gal. V, 11). Sapendo che è Dio che eleva interiormente il suo edificio, Egli stesso piangerebbe su coloro per i quali avrebbe lavorato invano. Noi parliamo dunque esteriormente, Dio costruisce interiormente. Noi possiamo ben notare come voi ascoltate; ma ciò che voi pensate, lo sa solo Colui che vede i vostri pensieri. È Lui che costruisce, è Lui che avverte, è Lui che minaccia, è Lui che apre l’intelligenza, è Lui che applica il vostro spirito alla fede. E tuttavia, anche noi, noi lavoriamo come operai; ma se il Signore non costruisce la casa, è invano che avranno lavorato coloro che la costruiscono … Noi lavoriamo pure nel custodirla come appartiene agli uomini il farlo, e tanto lo possiamo fintanto che Dio ce ne dà i mezzi …, ma il nostro lavoro è inutile, se Colui che vede i nostri pensieri non lo custodisce: Egli vi custodisce mentre voi vegliate; Egli vi custodirà ancora quando voi dormirete. Egli ha dormito una volta sulla croce ed è resuscitato; oramai Egli non dorme più, e Colui che custodisce Israele non dormirà e non si assopirà. » (Ps. CXX, 4). Noi vi guardiamo, è vero, per obbedire ai doveri della nostra carica, ma noi vogliamo essere custoditi nello stesso tempo da Voi; noi siamo per Voi come dei pastori, ma, come Voi, noi siamo delle pecore sotto la guardia del pastore. Da questo luogo elevato, noi siamo per Voi dei dottori; ma, sotto questo maestro unico, noi siamo con Voi i condiscepoli di una stessa scuola (S. Agost.) –  Non è così il grave insegnamento che lo Spirito-Santo dà a tutti i governi che si succedono sì rapidamente in questi tempi in cui le cause della rivoluzione sono in uno stato permanente? È vero dei popoli come degli individui questa parola: « Se Dio non custodisce la città, è invano che vegliano coloro che la custodiscono. » Turenne diceva ai suoi ufficiali che si felicitavano per una vittoria che tutti credevano certa: « Signori, se Dio non è con noi, ci resta il tempo che ci occorre per essere vinti. » Si, il supremo Operatore non è per niente nella ricostruzione del mondo sociale, tutti questi legislatori impotenti, tutti questi fabbricanti di costituzioni effimere, si esauriranno in sforzi inutili; essi non si succederanno gli uni agli altri che per morire appena, come i loro predecessori; ed il giorno in cui essi crederanno di aver composto l’edificio, monarchia, impero, repubblica, poco importa, sarà quello il giorno che vedrà crollare tutte le loro costruzioni. Illuminati dall’esperienza, volete sedervi in società, non più sulle sabbie mobili dei sistemi, ma sulla pietra solida della verità? Ebbene! Questa pietra è Gesù-Cristo (I. Cor. X, 1). Che Gesù-Cristo ed il suo Vangelo sia la base delle vostre costruzione, ed esse non periranno giammai, (Mgr. Plantier). – Noi abbiamo tutti una casa da costruire ed una città da custodire. Gesù-Cristo, dice S. Paolo, è come un figlio nella propria casa, e questa casa, siamo noi stessi. Voi siete una casa spirituale – dice S. Pietro – voi servite alla sua costruzione come pietre vive, ed è per questo che è scritto che la pietra angolare è stata posta in Sion. (I Piet., II,5). Questa pietra angolare, è Gesù-Cristo! Come eleveremmo questa casa senza di Lui? Come, senza il suo potente soccorso, potremo custodirla? Se il Signore non custodisce Egli stesso la città, è invano che vegliano coloro che sono preposti alla sua custodia. » La nostra anima, l’anima del Cristiano, è spesso comparata ad una città, ad una città fortificata: ora questa città ha delle porte, queste sono i nostri sensi; sono queste porte che hanno bisogno di essere custodite: c’è bisogno di una guardia severa, altrimenti il nemico che ronza incessantemente intorno a noi, può fare delle terribili incursioni nella piazza. Le porte di questa città, troppo spesso non hanno l’ausilio di una mano forte, sicura per difenderne l’entrata … Si, la nostra anima è una città le cui porte sono quasi sempre mal custodite, quando non sono custodite che da noi stessi. Fortunati quando non diventiamo complici del nemico che assedia la piazza e diveniamo vittima del nostro tradimento. Non gli consegniamo noi stessi la chiave del nostro core (Mgr. Pie, Disc. et Inst. I, 220, 221).   

ff. 2. – « È cosa vana per voi alzarvi prima della luce. » Se vi alzate prima che si levi la luce, voi restate inevitabilmente nella vanità, perché siete nelle tenebre. Il Cristo, nostra lice, si è levato: per voi è bene alzarvi dopo il Cristo, e non alzarvi prima di Lui. Chi sono coloro che si alzano prima del Cristo? coloro che vogliono mettersi davanti al Cristo, coloro che vogliono elevarsi quaggiù, ove il Cristo si è umiliato. Siano umili, se vogliono essere elevati là dove il Cristo si è elevato (S. Agost.). – « Alzatevi dopo esservi riposati. Voi che gemete nell’umiliazione, rialzatevi; voi che vi ricordate che siete nati o vivete nel peccato, e che desiderate arrivare fino a Dio (S. Gerol.). – Chi sono coloro che il Profeta invita a levarsi? Coloro che hanno mangiato il pane di dolore? Ora, mangia il pane del dolore chi ha sempre davanti agli occhi la verità che è nato e vive in una natura viziata. In effetti, quando la nostra volontà si sforza di elevarsi alle opere perfette della santità per timor di Dio e nella speranza dei beni eterni, mentre d’altro canto noi siamo impediti dall’inclinazione abituale che abbiamo ai vizi dai quali vogliamo uscire, noi proviamo un sentimento di dolore vedendo l’impotenza della nostra debole volontà, secondo le parole della Scrittura: « Colui che moltiplica la scienza moltiplica il dolore. » Da un lato, la conoscenza della verità eccita la nostra volontà a fare dei progressi nella pratica della virtù; dall’altra la forza dell’abitudine naturale incatena la volontà che sa che doveva avanzare. Questo aumento di scienza è un aumento di dolore, e questo dolore della vita è il pane di dolore di cui parla il Profeta, e di cui ha detto in altro Salmo: « Fino a quando saremo nutriti dal pane delle lacrime, abbeverati dal calice del pianto? » (Ps. LXXIX, 6) – « Alzatevi dopo esservi riposati. » L’azione importante per i ministri della Chiesa e per i fedeli stessi, affinché nell’edificazione della dimora comune o particolare, essi abbiano meno confidenza nel loro lavoro che nella preghiera, sull’esempio di Nostro Signore che « trascorreva le notti nel pregare Dio, e di giorno insegnava e confermava i suoi discorsi con i miracoli, » (Luc. VI, 12), e degli Apostoli che dicono: « Quanto a noi, noi ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola. » (Act. VI, 3). – È inutile consumare tutto il proprio tempo a costruire o a custodire; levatevi per l’opera dopo il pasto della contemplazione e della preghiera, voi che il desiderio della patria celeste fa gemere e gridare: « Le mie lacrime sono state il mio pane giorno e notte, mentre mi si ripete ogni giorno: « Dov’è il tuo Dio? » (Bellarm.). – C’è la necessità della grazia per ogni buona azione, grande o piccola, facile o difficile, per cominciarla, continuarla e completarla; c’è necessità particolare di questa grazia per coloro che mangiano il pane di dolore e della penitenza e che gemono incessantemente per un ardente desiderio dei beni eterni (Dug.).  

II. — 3-5.

ff. 3-5. – Quando Dio avrà dato loro il sonno ed il riposo, ed avrà respinto gli attacchi dei loro nemici, non solo allora essi potranno ricostruire la loro città e custodirla con sicurezza, ma riceveranno dei beni molto più preziosi: diventeranno i padri di numerosi figli, ed una brillante posterità crescerà sotto i loro occhi … Perché, benché questa sia l’opera della natura, la protezione di Dio viene ad aumentarne la fecondità. (S. Chrys.). – Il Profeta sembra rispondere qui a questa domanda: Quando si compirà questo? E risponde: « Quando il Signore avrà dato un sonno tranquillo ai suoi diletti. » I diletti di Dio, sono i santi che, dopo il sonno della vita presente, sembrano ancora assopiti prima che meritino di giungere alla resurrezione, alla vita eterna. Ora, quando i santi, usciti da questo secolo, saranno entrati in questo sonno dolce e tranquillo, diverranno porzione del Signore, perché cesseranno di essere sottomessi alle tentazioni (S. Gerol.). – Necessita la perseveranza nel bene, per la quale il dolore della penitenza si cambierà in gioia. Dolce è il sonno della morte, gradevole il riposo di una buona morte per gli eletti che sono i diletti di Dio, per il possesso dell’eredità del Signore, questa eredità che Dio ha promesso a suo Figlio come giusta ricompensa e come premio della sua incarnazione. È Lui che li ha generati come suoi figli, e come frutto delle viscere della sua carità, che lo ha portato a morire per noi. (Duguet). – Potenza di questi figli di Gesù-Cristo, che saranno sua eredità e sua ricompensa: essi saranno così potenti come frecce che, lanciate dalla mano di un uomo vigoroso, non conoscono ostacoli (Bellarm.). – In effetti le frecce non sono terribili di per se stesse, esso non sono da temersi se non quando vengono lanciate da una mano vigorosa: esse allora portano con sé una morte certa. (S. Chrys.). – Le frecce sono lanciate mediante l’arco, e più forte è colui che le lancia, più lontano portano queste frecce. Ora, chi c’è più forte del Signore? Dal suo arco, il Signore lancia gli Apostoli come frecce; esse penetrano fino all’ultimo confine della terra, e se non vanno ancora più lontani, è perché il genere umano non oltrepassa questi limiti (S. Agost.). – La potenza spirituale dei servi di Gesù-Cristo è non meno grande nell’azione, che nello stato di sofferenza; perché quando convertono gli infedeli alla fede, o i peccatori alla penitenza, con l’efficacia della loro predicazione, lo splendore della loro santità e la virtù dei loro miracoli, e quando, combattendo fino alla morte per la fede e la pietà, sopportano i più feroci supplizi con una rassegnazione ed un coraggio incredibili, cosa sono se non frecce nelle mani di un arciere vigoroso? Ma perché sono chiamati figli degli uomini cacciati ed esiliati? Perché essi sono i figli di uomini cacciati e respinti come il rifiuto e la spazzatura del mondo. Tali sono i discepoli degli Apostoli, in tutta la generazione dei fedeli perpetuati da secolo a secolo fino a noi. « Sembra – dice S. Paolo – che Dio ci tratti come gli ultimi degli Apostoli, come degli uomini condannati a morte, dandoci in spettacolo al mondo, agli Angeli ed agli uomini. » Fino a quest’ora, noi abbiamo fame e sete, noi siamo nudi ed in preda agli oltraggi, non abbiamo una stabile dimora, lavoriamo con molta pena con le nostre mani; ci si maledice, e noi benediciamo; ci si perseguita e lo sopportiamo; ci si blasfema e preghiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino ad oggi (I. Cor. IV). E tuttavia questi uomini così respinti, rigettati, hanno trionfato con meravigliosa potenza del mondo e dei demoni (Bellar. – Berth.). – « Felice l’uomo che trova in essi il compimento dei suoi desideri. » E chi dunque trova in essi il compimento dei suoi desideri? Colui che non ama il secolo. Perché colui che è pieno dei desideri del secolo non ha dove ricevere in sé ciò che essi hanno predicato. Rovesciate ciò che portate, e diventati capaci di ricevere ciò che non avete. Se dunque desiderate le ricchezze, non potete trovare in questi predicatori il compimento dei vostri desideri. Se desiderate gli onori della terra, se desiderate ciò che Dio ha dato anche agli animali, come le voluttà temporali, la salute del corpo ed altri beni simili, non potete trovare in essi il compimento dei vostri desideri. Se, al contrario, nei vostri desideri paragonabili a quelli del cervo per le fonti d’acqua (Ps, XLI, 2), voi dite: «La mia anima desidera e si consuma dall’ardore dietro gli atri del Signore, (Ps. LXXXIII, 3), voi trovate in essi il compimento dei vostri desideri; non che essi possano da se stessi soddisfare questi desideri, ma imitandoli arrivate a Colui che ha colmato i loro desideri (S. Agost.). – Felici dunque colui che ha riempito la sua faretra con tali frecce, e che desidera saziarsi delle parole della dottrina e dei frutti dei beni futuri che sono stati loro annunziati … « Egli non sarà confuso quando parlerà ai suoi nemici alla porta. » Noi vediamo che il Profeta si impegna a render lode a Dio alle porte della figlia di Sion; (Ps. IX, 15); ma qui non è questione di una porta sola, la porta reale, la porta del Signore, la porta del cielo, della quale lo stesso Profeta ha detto: « È qui la porta del Signore, i giusti entreranno per essa. » (Ps. CXVII, 20). « Essi non saranno confusi parlando ai propri nemici », cioè avvicinandosi loro l’empietà nei confronti di Dio, la loro disobbedienza agli insegnamenti dei suoi ministri, la loro incredulità a riguardo delle promesse eterne, il loro odio contro gli innocenti, la loro crudeltà contro i membri della Chiesa (S. Hilar.) – Beato colui che, nel giorno del giudizio di Dio, avrà per difensore, per protettore i figli degli uomini perseguitati, ed il primo degli uomini perseguitati, è Gesù-Cristo; dopo di Lui ci sono gli Apostoli, e tutti i Santi sono i loro figli. Ma non bisogna illudersi di questo appoggio, se non abbiamo alcuna somiglianza con questi uomini che il mondo ha calunniato, oltraggiati, decapitati. Noi li avremo invece piuttosto come accusatori e nemici (Berthier).   

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (1)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (1)

[chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

PROLOGO

Molti sono i titoli di Padre Henry Ramière S.J. che meritano di essere oggetto della nostra conoscenza e del nostro riconoscimento: egli potrà essere a voi noto come insegnante, come predicatore, come scrittore, come pubblicista, come uomo d’azione. E in tutte queste sfaccettature merita di essere conosciuto dal popolo cristiano, perché il p. Ramière, le ha arricchite proclamando le bontà di Dio e spingendo ad amarle ed a viverle. – P. Henry Ramière nasce a Castres, in Francia, il 10 luglio 1821. Da piccolo ha già un vivo desiderio di diventare Sacerdote. I suoi genitori ferventi Cristiani, vedendo l’atmosfera laicista prevalente nelle scuole superiori francesi, lo inviarono, all’età di 11 anni, in una scuola che i Gesuiti gestivano a Pasajies, in Spagna. Ma l’anticlericalismo non era esclusivo della Francia. Nel luglio 1934, i Gesuiti furono costretti a chiudere la scuola per ordine del governo. Egli termina così i suoi studi nella cattolica Friburgo in Svizzera, fino al compimento del suo diciassettesimo anno. – Durante tutto questo tempo, si mantiene vivo il suo desiderio del Sacerdozio, tanto da realizzarlo diventando membro della Compagnia di Gesù. Per questo, prima dei 18 anni, entra nel noviziato che i Gesuiti tenevano ad Avignone. Enrico segue il programma di studi degli studenti della Compagnia dell’epoca, in varie città della Francia. – All’età di 26 anni viene ordinato sacerdote a Vals-près-le-Puy nel 1847. Non è da segnalare niente che sia degno di nota in questi anni di formazione, tranne due cose: in primo luogo, la brillantezza con cui ha sempre affrontato i vari studi: scienze umane, filosofia, teologia; in secondo luogo, che una buona parte di coloro che costituivano il corpo studentesco gesuita di Vals-près-le-Puy costituivano la culla dell’Apostolato della preghiera. – Infatti, è lì che è nato il suo culto, da una occasione provvidenziale, dovuta alla fervorosa pratica del p. Gautrelet, direttore spirituale: pratica illustrata agli studenti gesuiti il 2 dicembre 1844, durante il vespro di San Francesco Saverio, patrono delle Missioni. L’idea centrale di quella pratica era che non solo venivano salvate le anime nel predicare essi nelle missioni, ma offrendo la preghiera, con questa intenzione, e tutti gli atti della vita a Dio, in unione con Gesù Cristo Redentore,. L’idea era profondamente radicata in quella gioventù, tanto che da lì si divulgò ad altri seminari, studentati ed anche a diversi conventi religiosi. Questa era l’atmosfera che Ramière viveva e questo lo spirito che ha impregnato il suo cuore. Completati gli studi e ordinato Sacerdote nel 1847, Ramière viene delegato dai suoi superiori a compiti di natura intellettuale. Questo è logico, dato il talento che egli ha dimostrato già durante gli studi, il suo amore per la sapienza e la sua facilità nello scrivere: è così nominato professore di Teologia nel proprio studentato di Vals, poi passa a Tolosa per collaborare alla fondazione dell’Università Cattolica e collabora anche con la Rivista Estudes. – Partecipa al Concilio Vaticano in qualità di consigliere teologico di alcuni Vescovi francesi. Infine, torna alla cattedra di Vals, nella quale rimane fino a poco prima della sua morte, avvenuta nel 1884. – Si potrebbe dire però che il momento cruciale della sua vita sia l’anno 1860 quando viene nominato Direttore Generale dell’Apostolato della Preghiera. – Il p. Ramière congiunse nella sua persona due qualità che di solito non si trovano nello stesso uomo: quella di essere un intellettuale e nel contempo un uomo d’azione. L’apostolato della preghiera è stato il lavoro che gli ha permesso di sviluppare a suo vantaggio questi due elementi, queste due caratteristiche della sua personalità. Quando p. Ramière entra a dirigere l’Apostolato della Preghiera, questa era un’opera nascente. Era un movimento mosso da grande entusiasmo, ma di nicchia e, si potrebbe dire, elitario: dal 1844 si diffonde specialmente nei seminari, negli studentati dei religiosi e nei conventi. Quando p. Ramière muore nel 1884, lascia l’Apostolato della preghiera con sedi nella maggior parte delle nazioni dell’Europa e dell’America ed in molti Paesi delle missioni e, cosa più importante, i loro centri non annoverano solo seminari e conventi, ma una moltitudine di parrocchie, di scuole ed ogni altro tipo di centri secolari. Ramière è il grande organizzatore dell’Apostolato della Preghiera e il suo diffusore in tutto il mondo. Uno strumento decisivo di questa diffusione è stata la Rivista “Il Messaggero del Cuore di Gesù”. Egli fonda questa rivista che viene presto tradotta in altre lingue e si impianta in molti Paesi. L’Apostolato della Preghiera lo si deve non solo a p. Ramière, ma anche a p. Dehon, sia nell’enorme diffusione che nella sua organizzazione. Egli ne è stato anche il suo grande teologo: è il teologo che come nessun altro ha sviluppato le basi dottrinali su cui si fonda questo movimento. Spiegare in dettaglio le argomentazioni teologiche e spirituali con cui Padre Ramière fonda e motiva questo lavoro, supera i limiti di questa prefazione. Ma è proprio la lettura di questo libro, che le mostrerà al lettore. Qui possiamo solo affermare due idee assiali che P. Ramière pone come caratteristica dell’Apostolato della preghiera: la devozione al Cuore di Gesù e il suo Regno sociale. – La devozione al Sacro Cuore era stata ereditata da P. Ramière dalla Compagnia di Gesù. Ricordiamo che nel diciassettesimo secolo Santa Margherita aveva detto che il Cuore di Gesù affidava ai Padri della Compagnia il compito di diffondere questa devozione e la sua pratica. I Gesuiti erano oramai decisi ad assumersi questo “munus suavissimum“, questa missione molto delicata. Inizialmente vi si dedicarono particolarmente alcuni Gesuiti, poi furono i superiori stessi della Compagnia ad assumersene l’impegno. Sia P. Juan Roothaan che P. Pedro Beckx, entrambi Generali della Compagnia di Gesù ai tempi di P. Ramière, scrissero numerose lettere a tutta la Compagnia, esortandola alla pratica ed alla propagazione della Devozione al Cuore di Gesù. Infine, l’autorità suprema e unica della Congregazione Generale (con potere legislativo per l’intero Ordine), riunitasi nel 1883 per scegliere il successore di P. Beckx, emanò questo decreto: « La Compagnia di Gesù accetta e riceve con grande coraggio, traboccante di gioia e di gratitudine, l’incarico soavissimo che le è stato affidato dallo stesso N. S. Gesù Cristo di praticare, incoraggiare e diffondere la Devozione al suo Divinissimo Cuore ». Qui culminava un processo di impegno progressivo della Compagnia verso la devozione al Cuore di Gesù, quando essa assunse appunto questo « soavissimo incarico », con carattere vincolante ed ufficiale. Enrico Ramière si immerge in questo processo e non lo vive passivamente, bensì come uno dei suoi protagonisti più importanti. Egli comprende che lo stesso Apostolato della Preghiera deve praticare questa devozione e diffonderla. E, attraverso il suo duro e fecondo lavoro in tutto il periodo della sua direzione, cerca e riesce a radicare al centro della spiritualità dell’Apostolato della Preghiera, la devozione al Sacro Cuore di Gesù. La seconda idea che P. Ramière propone come cardine dell’Apostolato della Preghiera, è quella del Regno sociale del Cuore di Gesù. P. Ramière è ben consapevole che l’uomo ha un pensiero intrinseco secondo il quale non riesce a concepire questa dimensione sociale se non sia saldamente radicata nel cuore umano. Questo accade pure nelle cose puramente umane. I valori umani non si radicano negli uomini se non mettono radici nella società. Il paese, la famiglia, l’arte, la scienza e tanti altri valori umani, se mettono radici nel cuore degli uomini, avranno “ipso facto” una proiezione sociale. Ora, se è così nell’ordine puramente umano, questo ancor più avviene particolarmente nell’ordine soprannaturale. Perché in questo ordine tutto dipende dal mistero di Cristo, e Cristo forma un’unità, non solo con ognuno di quelli che ricevono la sua grazia, ma con tutto l’insieme di essi: è il mistero del Corpo mistico o del Cristo integrale. P. Ramière ha catturato e vive profondamente questo mistero. Questo è il motivo per cui P. Ramière si impegna nei suoi scritti a diffondere la dottrina del Corpo mistico di Gesù Cristo, un Corpo il cui unico centro motore è il Sacro Cuore di Gesù. È significativo che abbia messo come intestazione delle sue lezioni su « Il regno di Gesù Cristo nella storia » il noto motto: « Ricapitolare tutte le cose in Cristo ». Si può dire che l’enorme lavoro apostolico di P. Ramière nel suo inquadramento teologico, come direttore generale dell’Apostolato della preghiera, sia tutto diretto a compiere questa “ricapitolazione” delle persone e dei popoli in Cristo e nel suo Sacro Cuore. – Anche qui devo ripetere che la prova di quanto detto non compete all’autore del prologo, ma all’autore del libro: il lettore infatti ve la troverà esposta nella lettura. – Questo libro è un florilegio, una selezione di articoli che P. Ramière ha pubblicato nel corso dei suoi anni come Direttore dell’Apostolato della Preghiera. La maggior parte di questi articoli. egli li aveva pubblicati su “Il Messaggero del Cuore di Gesù” che, come sappiamo, era la rivista da lui creata quale organo dell’Apostolato della Preghiera. Potrebbe sembrare che questa concezione del libro, nella sua stesura, debba nuocere alla sua unità, poiché il suo contenuto è stato diluito nel corso degli anni e raccolto in circostanze diverse. Ma non è così! E così non è, perché precisamente, come detto, l’attività apostolica di P. Ramière, attraverso lo spazio e il tempo, ha una sua unità: proclamare che il Cuore di Gesù è venuto per salvare il mondo ricapitolando tutte le cose nel suo amore. Questo è il “leitmotiv” del libro che avete tra le mani: « Il Cuore di Gesù e la Divinizzazione del Cristiano ». Si può dire che il coronamento di questo enorme sforzo di P. Henrie Ramière nella diffusione del Regno particolale e sociale del Cuore di Gesù, sia stata la consacrazione del genere umano a questo Cuore divino, realizzata da Papa Leone XIII nel 1899. P. Ramière, che aveva lavorato così duramente per promuoverlo (anche prima che il Pontefice precedente, Pio IX, vi aveva lavorato a sua volta), lo vide dal cielo. Egli era morto nel 1884. Una settimana prima di morire, aveva scritto nel diario spirituale: « Più che mai devo sforzarmi di santificarle [le malattie] attraverso l’unione, la più costante possibile, al Cuore di Gesù ». Questa è la bella conclusione di una vita preziosa, una vita trascorsa per una grande causa. Di questa causa del Cuore di Gesù, caro lettore, padre H. Ramière parla in questo libro. [Prefazione dell’edizione spagnola di P. Pedro Suñer S. J.]

INTRODUZIONE

La divinizzazione dei figli degli uomini per mezzo del Figlio di Dio fatto uomo.

« Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta » (1 Giov. I, 1-4). Con queste parole San Giovanni, l’evangelista del Cuore di Gesù, inizia la sua prima lettera. Queste parole sono collegate a quelle che l’Apostolo stesso mette all’inizio del suo Vangelo: « In principio era il Verbo, e il Verbo era in Dio, e il Verbo era Dio. In Lui era la vita » (Giov. I, 5). Questi due inizi, uno complementare all’altro, pongono davanti ai nostri occhi i due grandi atti del dramma divino. Il primo ha per teatro il seno di Dio. Nel suo Vangelo, l’Aquila di Patmos ci eleva ad un’altezza sublime per farci contemplare l’origine della gloria e della felicità che siamo destinati a possedere durante la vita futura. Ma, nella sua lettera, ci mostra come trasferita sulla terra la stessa vita e la stessa gloria che in cielo sfugge al nostro sguardo. Sì, la vita eterna che esisteva nel seno del Padre si è manifestata ai nostri sensi. Con i nostri occhi l’abbiamo vista e toccata. Eppure si è data a noi e sta a noi condividere le sue ricchezze con Dio Padre e con il suo Figlio Gesù Cristo. Unendoci a questo Figlio unigenito (1 Gv., V 20), possiamo diventare, non solo di nome, sin da ora, figli di Dio (1 Gio. III, 1). Il messaggio che gli Apostoli dovevano annunciare a tutti i popoli della terra è la divinizzazione dei figli degli uomini attraverso il Figlio di Dio fatto uomo. Ecco il segreto comunicato all’amato Discepolo mentre questi riposava con la testa nel cuore del Salvatore. Non c’è da stupirsi che, ammesso al santuario dove il mistero ha avuto luogo, fosse a lui rivelato più chiaramente che agli altri Evangelisti. Con maggior verità più degli altri egli può dire: « La vita eterna che era nel seno di Dio, noi l’abbiamo vista e toccata e veniamo, come testimoni, a mostrarvi il suo splendore ».

Questo è un argomento di particolare attualità nei nostri tempi bui.

Abbiamo appena sentito San Giovanni promettere ai Cristiani la gioia senza misura. Per meglio comprendere il messaggio che stiamo per ripetere dobbiamo domandarci: In quali circostanze egli parlava? Nei giorni peggiori della tirannia romana, durante le persecuzioni di Nerone e Domiziano, quando il mondo non offriva ai discepoli di Gesù Cristo, altro che  roghi e bestie selvagge. A questi candidati al martirio l’Apostolo prometteva la pura gioia. Da noi altri dipende il godere della stessa gioia, se vogliamo cercarla nella perfetta unione con Dio. Cosa importa che le nazioni ruggiscano di nuovo e complottino vane congiure? Che differenza fa che le società moderne crollino per essere state fondate fuori dalla pietra angolare di Gesù Cristo? Tutto è permesso da Dio; ed Egli lo permette perché ci si incammini verso la realizzazione dei suoi piani e verso l’opera della nostra divinizzazione. Volgiamo i nostri occhi e la nostra speranza al Cuore di Gesù, la vera vita di ogni Cristiano. È Lui che riversa incessantemente in tutte le nostre membra la linfa vitale che impedisce loro di marcire. Candidati fin dalla nostra nascita alla morte, non potremmo resistere ai suoi continui attacchi se il nostro cuore non combattesse senza sosta. Gli altri organi hanno i loro momenti di riposo. Solo il cuore è sempre in movimento. Se mentre dormiamo egli si addormentasse, noi passeremmo dalle braccia del sonno a quelle della morte. La funzione propria del cuore è quella di conservare la vita. Pertanto, non vi è alcun dubbio che il nostro Salvatore, esortandoci ad onorarlo sotto l’emblema del suo Cuore Divino, voleva farci capire che Egli è l’inizio della nostra vita soprannaturale. Questo è il vero senso di devozione al Sacro Cuore. Ecco perché questa devozione deriva dall’essenza stessa della Religione cristiana. Cosa ci insegna essa? Che, in virtù dell’Incarnazione del Figlio di Dio, tutti gli uomini e tutte le donne sono chiamati a vivere una vita che sia veramente divina, il cui principio è l’Uomo-Dio. Questo, dopo averli santificati sulla terra, li farà godere in cielo della felicità di Dio: dogma capitale, compendio di tutti gli articoli della nostra fede su cui si fonda l’intera morale cristiana, la cui realizzazione deve compiersi attraverso le pratiche del culto. Peccato che questa sublime dottrina sia compresa da molti Cristiani solo in parte.

Dogma sublime, capitale, consolante, incoraggiante.

Quanti Cristiani invece di comprendere che cosa sia questa vita divina, che emana il Cuore di Gesù, vedono in essa solo un modo di dire! E’ stato già due secoli or sono che Cornelius a Lapide deplorava questo oblio: « Sono in pochi a sapere quello che ho appena dimostrato di questo beneficio, per non parlare del modo di apprezzarlo nel suo giusto valore; non c’è nulla, tuttavia, che si debba ammirare e venerare in sé ogni Cristiano, né con più cura lo debbano inculcare i dottori e i predicatori, affinché i fedeli sappiano di portare Dio stesso nel proprio cuore e comprendano la necessità di agire sempre divinamente, in compagnia di Dio, dell’ “Ospite Divino” ». Questa vera unione delle nostre anime con Gesù Cristo per mezzo dello Spirito di Dio, questa sostanziale inabitazione dello Spirito Divino in noi, questa vita divina che ci è stata donata nel Battesimo ed accresciuta dagli altri Sacramenti, non è una vana verbosità. Al contrario, è la più reale delle realtà! Tra i dogmi, non ce n’è altri di più sublimi e degni di meditazione. Cosa c’è di più grande che avere veramente Dio in se stesso, essere cioè veri “teofori” (dal greco: « portatori di Dio »), e di più consolante che vivere della vita di Dio, che in cielo costituisce la felicità degli eletti? Cosa c’è di più incoraggiante che avere a propria disposizione lo Spirito di Dio, cosa questa che ha dato ai Santi la forza di praticare tante mirabili virtù, e con la quale Gesù Cristo stesso ha operato i suoi miracoli? Che satana si adoperi per farci dimenticare questa dignità incomparabile, lo si capisce. Ma non si riesce a comprendere come mai noi, che Dio ha chiamato a condividere la sua divinità, stimiamo così poco ciò che dovrebbe essere l’oggetto principale dei nostri pensieri e causa della nostra gioia.

Dogma insegnato dal Signore e dagli Apostoli.

Non possiamo attribuire questa dimenticanza a Dio, perché non c’è alcun dogma della nostra fede che il Signore ed i suoi Apostoli non ci abbiano insegnato e con tanta insistenza. Il mistero della nostra unione con Lui è il tema principale delle parole che il Maestro rivolge ai suoi discepoli durante l’ultima cena. Fino ad allora Egli non poteva parlare con loro se non in parabole; ora però li prepara, con la partecipazione al Sacramento del suo amore, perché ascoltino il grande segreto del suo amore; essi devono imparare che non sono che una cosa sola con Lui e che l’unione deve diventare così intima, da assomigliare a quella del Padre e del Figlio, in una sola natura. San Paolo, in tutte le sue epistole, espone questo mistero dell’amore divino. Lo presenta in tutti i suoi aspetti, stabilisce su di esso i suoi insegnamenti. Da questo principio egli deduce le sue istruzioni morali. Gesù Cristo è il nostro capo e noi siamo i suoi membri. Noi siamo, per la incorporazione nel Figlio unigenito del Padre celeste, i veri figli non fittizi di Dio. Il Salvatore ci ha dato il suo Spirito, che abita veramente in noi, ci insegna a pregare come Gesù Cristo, ci riempie dei sentimenti di Gesù Cristo, ci fa vivere della sua vita ed un giorno ci farà resuscitare, perché possiamo godere della sua eterna gloria. Perciò, dobbiamo essere imitatori di Gesù Cristo, fuggire dal peccato, amarci gli uni gli altri, glorificare in ogni cosa il Dio che portiamo sempre dentro di noi.

Come i primi Cristiani ben comprendevano questa dottrina.

I primi Cristiani avevano compreso molto bene questa dottrina. A questo consolante dogma ricorrevano quando dovevano confessare la loro fede o difenderla dai loro nemici. Non avevano paura di dare a se stessi, come faceva San Ignazio, il nome di Teòforo, o di dichiarare, come Sant’Agnese, che avevano Gesù Cristo veramente presente in se stessi. Questa presenza divina li rendeva più forti dei tormenti. – Gli scritti dei primi Padri sono pieni di questa dottrina. Ma nel quarto secolo essa è stata sviluppata con incomparabile chiarezza, quando si cercò si oscurare, con l’eresia di Macedonio, il dogma della divinità dello Spirito Santo. I dottori che Dio suscitò per combattere questa eresia: San Basilio, San Gregorio Nazianzeno, Didimo di Alessandria e soprattutto San Cirillo di Alessandria, traggono i loro argomenti principali dalla presenza reale nelle anime dello Spirito Santo, e degli effetti divini che Egli opera in esse. Come può, uno che non è Dio divinizzare le anime, farle vivere della vita divina, per quanto separate l’una dall’altra? Per dimostrare la divinizzazione che lo Spirito di Gesù Cristo produce in noi, essi si servirono delle comparazioni più vivide. Né l’unione del vino con l’acqua, né quella del profumo con il telo da esso penetrato, né quella del fuoco con l’ascia di ferro, né quella di due pezzi di cera fusi insieme, sembrava loro abbastanza intima da illustrare l’intimità e l’efficacia dell’unione dello Spirito Santo con l’anima del Cristiano (altri scritti nei quali la dottrina è sviluppata sono del Petau – in De Trinitate, l. VIII, del P. Tomassin, in De Incarnatione, l. VI, dello stesso P. Ramière in “le Speranze della Chiesa“, del P. De Segur e di tutta la scuola spirituale francese di San Sulpizio del XVII secolo, senza dimenticare i riferimenti espliciti di S. Agostino ed ovviamente di San Tommaso, così ben illustrati dal P. Froget in “Inabitazione dello Spirito Santo“, etc. – ndr.). – Questo insegnamento, radicato nella tradizione cristiana, è stato sempre perpetuato nella Chiesa, anche se non occupa nelle opere dei teologi più moderni il posto che gli è stato dato dagli antichi dottori. Il motivo è abbastanza chiaro: nell’antichità la teologia mistica non si distingueva dalla teologia dogmatica e dall’Apologetica, che solo in seguito si separarono. I teologi scolastici, si erano limitati a spiegare i dogmi della fede più esposti agli attacchi dell’errore. E così il dogma della vera unione di Gesù Cristo con i Cristiani venne riservato ai teologi ed ai Santi mistici. – Ma è giunto il momento in cui Gesù Cristo vuole riportare alla luce questo mistero d’amore e dargli nuovamente, nell’insegnamento dei sacerdoti e dei fedeli, l’importanza capitale che sembrava essere andata perduta.

Rinnovo dell’importanza di questo dogma a causa del Giansenismo.

All’inizio del XVII secolo, satana si  preparava ad un doppio attacco che doveva superare per violenza tutte gli attacchi del passato. Da un lato, con il Giansenismo, esso voleva distruggere la pietà, esagerandola, e rendere impossibile l’unione dell’anima con Dio, mutando l’umiltà cristiana in disperazione. Dall’altro lato, con il Razionalismo, cercava di distruggere la fede e di esaltare la ragione dell’uomo a tal punto da minare l’unione a cui Dio lo destinava. Ma Gesù Cristo ha rivelato a Santa Margherita Maria, la devozione al suo Cuore Divino, suscitando una coraggiosa falange di santi Sacerdoti ai quali dà la missione di manifestare il dogma della sua unione con i Cristiani. Sembrava che il mistero dell’amore divino dovesse irradiare i suoi raggi ardenti su tutto il clero francese, e attraverso il clero sui fedeli, poi attraverso la Francia su tutto il mondo cristiano. Ma l’eresia l’ha impedito. I fedeli, il clero e alcuni ordini religiosi si sono lasciati contaminare dai nuovi errori. La dottrina tanto cattolica della reale inabitazione dello Spirito Santo nelle anime è stata discreditata dall’abuso che il Giansenismo ne ha fatto. Il grande movimento di rinnovamento religioso sopravvisse a malapena ai suoi promotori. Alla fine di un secolo, la Francia non aveva quasi più influenza nel mondo se non quella della sua incredulità. – Tuttavia, il Cuore di Gesù non è stato sconfitto. Se la Francia ha fallito nella sua missione due secoli fa, essa riparerà al suo crimine. È giunto ora il momento in cui la rivelazione fatta alla beata figlia di San Francesco di Sales dia i suoi frutti. Nello stesso tempo in cui la devozione al Cuore di Gesù, come un germe da lungo nascosto nel terreno, esce sulla terra, la teologia del Cuore di Gesù appare e viene accolta calorosamente. Il Giansenismo è stato sconfitto, ed anche la falsa filosofia che ha messo le sue profonde radici in molte intelligenze, non può, che essere considerata se non un conglomerato di sistemi cervellotici e di sofismi. Solo noi altri scrittori cattolici, dobbiamo presentare alle anime una dottrina che è al tempo stesso nuova e antica, così piacevole per il cuore, e tanto luminosa nella sua comprensione. Abbracciamola con l’intelletto ed anche con il cuore. Amandola, più che studiandola, si arriverà a comprenderla. Amiamola ogni giorno di più. In questo modo capiremo ogni giorno meglio quanto realmente il Cuore di Gesù sia la nostra vita.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/18/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-2/

SALMI BIBLICI: “IN CONVERTENDO DOMINUS CAPTIVITATEM SION” (CXXV)

SALMO 125: “IN CONVERTENDO Dominus captivitatem Sion”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 125:

Canticum graduum.

[1]  In convertendo Dominus captivitatem Sion,

facti sumus sicut consolati.

[2] Tunc repletum est gaudio os nostrum, et lingua nostra exsultatione. Tunc dicent inter gentes: Magnificavit Dominus facere cum eis.

[3] Magnificavit Dominus facere nobiscum; facti sumus laetantes.

[4] Converte, Domine, captivitatem nostram, sicut torrens in austro.

[5] Qui seminant in lacrimis, in exsultatione metent.

[6] Euntes ibant et flebant, mittentes semina sua. Venientes autem venient cum exsultatione, portantes manipulos suos.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXV.

Il profeta parla chiaramente del ritorno d’Israele dalla cattività in patria.

Cantico dei gradi.

1. Quando il Signore fe’ tornare quelli di Sion dalla cattività, noi fummo come uomini ricolmi di consolazione.

2. Allora fu ripiena di gaudio la nostra bocca, e la nostra lingua di giubilo.

3. Allora dirassi tra le nazioni: Il Signore ha fatte, cose grandi per essi.  Il Signore ha fatto grandi cose per noi, siamo inondati di letizia.

4. Riconduci, o Signore, i nostri dalla cattività, quasi torrente al soffio dell’austro.

5. Quei che seminano tra le lacrime mieteranno con giubilo.

6. Camminavano, e andavan piangendo a spargere la loro semenza.  Ma al ritorno verranno con festa grande, portando i loro manipoli.

Sommario  analitico

Nel salmo precedente gli esiliati di ritorno dalla cattività erano nella gioia alla vista di Sion, della sua magnifica situazione e della sua forte ed inespugnabile posizione. In questo salmo, essi ammirano i benefici di cui Dio li ha colmati per riportarli alla loro fortuna, alla loro primitiva felicità. Essi sono in questo la figura dell’anima che, ricordando i mali dai quali il Signore l’ha liberata, esplode con trasporto di riconoscenza e prega Dio di completare la liberazione del suo popolo. Ora, essi considerano tre tempi:

I. Il tempo passato in cui uscirono da Babilonia:

1° La loro gioia non era ancora perfetta, perché non erano certi di raggiungere la loro patria, per la lunga distanza e per tutti i pericoli (1);

2° Essi esprimono a Dio la loro riconoscenza con canti di gioia (2);

3° I popoli dei quali attraverseranno le regioni testimoniano essi stessi la loro ammirazione (2).

II. – Il tempo presente in cui gioiscono con sicurezza dei doni di Dio.

1° Essi proclamano che il Signore ha agito magnificamente con essi (2);

2° Essi non sono che all’inizio come consolati, ma già in una gioia perfetta (3).

III. – Il tempo a venire in cui i resti della cattività dovevano ritornare:

1° Essi la domandano a Dio (4);

2° Essi danno la ragione di questa preghiera: è giusto che la gioia sopravvenga alle lacrime; ora, gli esiliati hanno seminato nelle lacrime, bisogna dunque che essi mietano nella gioia (5, 6). 

Spiegazioni e considerazioni

I. – 1-2

ff. 1, 2. – Appena i Giudei prigionieri ed esiliati ebbero appreso il decreto che rendeva loro la libertà e il ritorno in patria, stentarono a credere alla loro gioia, non credevano ai propri occhi ed alle proprie orecchie, era per essi un sogno: essi provarono ciò che provano coloro che vedono realizzarsi per loro una grande consolazione dopo una immensa tribolazione, e che passano dalla tristezza e dalle lacrime alla gioia ed all’allegria. Questa consolazione è la porzione di coloro che rivolgono tutti i loro pensieri a Dio, e che disprezzano le vane speranze del secolo, calpestando tutte le soddisfazioni terrestre, dirigendo i loro passi nella via della pace, perché comprendono qual bene ineffabile è l’essere staccato dalle catene del demonio e dalle profondità dell’inferno, per prepararsi alla voce di Dio e, sotto la sua guida, a possedere la patria celeste, la vera libertà e l’eterna pace (Bellarm.). – La cattività del corpo è una cosa penosa e dura, perché ci impedisce la libertà e ci sottomette alla dominazione dei vincitori; ma se solo il corpo è ridotto in schiavitù, la libertà dell’anima fedele resta tutta intera … Ma deplorabile com’è la cattività dell’anima se la domina l’avarizia, essa si serve del corpo per soddisfare le sue ruberie e le sue rapine; se essa si lascia vincere dalla voluttà, trascina il corpo con sé nella schiavitù; se la lussuria, la collera, l’odio, la temerarietà, l’invidia, trionfano in essa, sotto tali padroni il corpo con l’anima sono schiavi dei più duri tiranni, e la cattività dell’anima è sempre seguita dalla schiavitù del corpo … È da questa duplice cattività che il Signore ci libera con la remissione dei peccati (S. Hilar.). – La consolazione non è fatta che per gli infelici; la consolazione non è fatta che per coloro che gemono e che piangono. Perché siamo dunque consolati, se non perché gemiamo ancora? Quando questa realtà sarà passata, il nostro gemere si muterà in una gioia eterna nella quale non avremo più bisogno di consolazione, perché alcuna miseria ci colpirà più. (S. Agost.) – « Noi fummo come consolati; » cioè l’ammirazione della grandezza del bene che ci arrivò era sì eccessiva che ci impediva di sentire la consolazione che ricevemmo, e ci sembrava che noi non fossimo veramente consolati, che non avessimo una consolazione di verità, ma solo in figura ed in sogno (S. Francesco de Sales, Tract. de l’am. De Dieu, L. IX, c. XII) – Dalla consolazione interiore nasce la gioia esteriore, che si riconosce dall’espressione di felicità dipinta sul volto e dagli accenti di gioia ed allegria: le nostre parole sono impotenti a rendere a Dio delle degne azioni di grazie. I crimini hanno fatto posto all’innocenza, i vizi alle virtù, l’ignoranza alla conoscenza delle verità divine, la morte all’immortalità, e questo grazie a Dio, che ci rimette le colpe delle quali ci siamo pentiti e ci rende la speranza dei beni immortali. (S. Hilar.) – È l’ammirazione di cui il mondo stesso non può dispensarsi per coloro che, dopo avere seguito le sue leggi, sembrano giragli il dorso e marciare verso la patria celeste, attraverso la via rude della virtù e dell’imitazione di Gesù Cristo; perché il mondo che non ama più, è vero, coloro che non sono del mondo, non può tuttavia dispensarsi dall’ammirarli e dal riconoscere che Dio è in essi e con essi. (Bellar.)

II. — 3-6

ff. 3-6. –  « Il Signore ha fatto per noi grandi cose. » Essi stessi si sono fatti questo grande bene? Essi si sono fatti un grande male, perché si sono venduti al peccato. Il Redentore è venuto ed il loro bene è venuto con Lui, ed il Signore ha fatto loro del gran bene. » (S.Agost.) – Non succede tutti i giorni che un peccatore sia ristabilito nella giustizia, e gusti in questi primi momenti i frutti della sua riconciliazione con Dio; la sua anima ammira il cambiamento che è avvenuto in se stessa, e le delizie della pace interiore e ricolmata di una gioia tutta divina preferibile a tutte le gioie del mondo. (Berthier) – I primi arrivati dalla cattività pregano il Signore per il ritorno completo di tutti i prigionieri, ed il salmista disegna l’immagine di un torrente che, spinto dal vento del mezzogiorno, avanza d’ordinario le sue acque con abbondanza e rapidità, e chiede a Dio che tutti i prigionieri che restano ancora in terra straniera ritornino prontamente ed in gran numero, trasportati come gli oggetti che scorre e trasporta con sé il torrente ingrossato, sotto il vento impetuoso del mezzogiorno, per le piogge del cielo e le nevi sciolte che scendono dalle montagne. – Quanto più questa preghiera è necessaria ai pellegrini spirituali; perché, benché un certo numero siano già pervenuti alla patria, sono molti che sono ancora in viaggio, che si sono dati ad amare le loro catene, e dediti interamente alle cose della terra, non sognano più la patria. (Bellarm.) – Gli stessi giusti, anche perfetti, per quanto staccati dal mondo, gemono sempre nell’attesa della loro perfetta liberazione. Essi sentono vivamente i legami che li stringono loro malgrado, e chiedono incessantemente a Dio che finisca di rompere le catene che li tengono ancora prigionieri. (Dug.) – Il vento bruciante del mezzogiorno, è lo Spirito di Dio che soffia sui ghiacciai della nostra anima, li fa sciogliere e li trasforma in un torrente rapido che poi scorrono fino alla vita eterna (S. Agost.) – Quando il Giudei furono condotti in cattività, erano simili a coloro che spandono la semenza. I loro giorni erano giorni di pene, di tormenti, di tribolazioni; essi erano esposti ai rigori dell’inverno, alle tempeste, alla guerra, alle piogge, alle frane, ed essi versavano lacrime abbondanti, perché la lacrime sono, per le anime afflitte, ciò che le piogge sono per la semenza (S. Chrys.) – Colui che semina, spesso semina nelle lacrime; egli getta grano nella terra, senza sapere se questo grano fruttificherà, e trema dall’aver dispensato senza profitto le sue pene, le sue fatiche e il suo bene; e tuttavia non lascia di seminare senza curarsi della pioggia che cade, né del vento freddo che soffia, né dei rigori della stagione, perché egli aspetta le messe, ed anche quando, malgrado l’inverno di questa vita mortale, dobbiamo seminare piangendo la semenza che Dio ama, quella della nostra buona volontà e delle nostre buone opere, pensando alle gioie della messe. (S. Agost.). – Non si può raccogliere che a condizione di seminare. Ora ogni semenza ha un costo, la radice delle opere sante è necessariamente irrorata dalle lacrime del sacrificio: felici sono le lacrime che cadendo sul solco, fanno fruttificare la semenza ed accrescere, per l’avvenire, le speranze della raccolta. (S. Ambr.) – Seminiamo dunque in questa vita, che è piena di lacrime. Ma cosa seminiamo? Le buone opere. Le opere di misericordia sono la nostra semenza; l’Apostolo ha detto di queste semenze: « Non tralasciamo di fare il bene; perché se siamo instancabili, raccoglieremo la messe a suo tempo. Ecco perché, quando ci è dato tempo, facciamo del bene a tutti, principalmente a coloro che fanno parte della famiglia della fede. » (Galat. VI, 9, 10) Cosa ha detto egli a proposito delle elemosine? « Io vi dico, chi semina poco, raccoglierà scarsamente. » (II Cor. IX, 6). Di conseguenza, colui che semina molto raccoglierà con abbondanza, e chi semina poco, poco raccoglierà, e colui che non semina del tutto la semenza? Voi non avreste, per seminare, un campo più vasto che il Cristo, che ha voluto che si seminasse attraverso di Lui. La vostra terra è la Chiesa; pensateci più che potete. Ma direte voi, che i vostri mezzi di azione sono ristretti. Ne avete la buona volontà? Voi non avrete nulla se non avrete la buona volontà, così non vi rattristerete di nulla se avete la buona volontà. In effetti, cosa seminate? La misericordia; e cosa raccogliete? La pace. Gli Angeli hanno forse detto: Pace ai ricchi sulla terra? No, essi hanno detto: « Pace sulla terra agli uomini di buona volontà. » (Luc. II, 14), (S. Agost.) –  Gettiamo la nostra semenza in mezzo alla miseria presente; un giorno raccoglieremo nella gioia. Alla fine della nostra vita, nel giorno della resurrezione dei morti, ciascuno raccoglierà i suoi covoni, cioè i frutti delle proprie semenze, la corona di gioia e di felicità. Questa sarà l’ora del trionfo dei santi che, nel loro trasporto di gioia, insorgeranno verso questa morte, in seno alla quale gemono e diranno: O morte! Dov’è la tua forza? O morte! Dov’è il tuo pungiglione! » (I Cor. XV, 55). Ma perché essi gioiranno? Perché porteranno i loro covoni, per aver altra volta camminato tra le lacrime, spargendo in terra le loro semenze (S. Agost.).

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. PIO X – “SINGULARI QUIDAM”

Il Santo Padre S. PIO X affronta anche in questa lettera enciclica, la questione sociale ed operaia. Questa è la giusta occasione per ricordare come in tutti i temi, compresi quelli sociali, la Chiesa abbia soluzioni eque per tutti nei problemi che si prospettano nella vita dei singoli e della società. Ecco l’invito rivolto a tutti i fedeli operai cattolici tedeschi, ed ovviamente di tutti gli altri Paesi, ad attenersi scrupolosamente al Magistero Apostolico assoggettandosi alle decisioni della Chiesa, guidata dal Sommo Pontefice, e localmente dei Vescovi in unione con il Papa. Questo per i tempi era quanto veniva suggerito ai lavoratori ed ai Cristiani tutti, suggerimenti che sono ancora oggi validi e risolutivi ma che in assenza di una Chiesa libera e con un Sommo Pontefice impedito, sono puntualmente elusi da una classe politica e da una sinagoga di satana – che finge di essere Chiesa Cattolica praticando al massimo «  una specie di Cristianesimo vago e non definito, che si suol chiamare interconfessionale, e che si diffonde sotto la falsa etichetta di comunità cristiana, mentre evidentemente nulla vi è di più contrario alla predicazione di Gesù Cristo » – entità tenenrose dirette congiuntamente dalle conventicole mondiali di diversa obbedienza, ma di uguale asservimento ai poteri demoniaci, con le conseguenze devastanti per singoli e Stati, che tutti possiamo osservare, anche se malamente occultate dai mezzi di informazione, tutti asserviti alle logge.

S. S. San PIO X

Singulari quadam

Lettera Enciclica

24 settembre 1912

Uno speciale affetto e benevolenza verso i Cattolici di Germania, i quali, uniti a questa Sede Apostolica da un grande spirito di fede e di obbedienza, sogliono combattere con generosità e con forza in favore della Chiesa, ci ha spinto, venerabili fratelli, a rivolgere tutto il nostro zelo e la nostra cura all’esame della controversia sulle associazioni operaie, che tra di essi si agita; sulla quale controversia, in questi ultimi anni, già più volte ci avevano dato informazioni, oltre alla maggior parte di voi, anche prudenti e autorevoli persone di entrambe le tendenze. E con tanto zelo ci siamo dedicati a questa cosa, in quanto, nella coscienza dell’apostolico ufficio, comprendiamo che è Nostro sacro dovere sforzarci di far sì che questi Nostri carissimi figli conservino la dottrina cattolica nella sua purezza e integrità, e di non permettere in alcun modo che la stessa loro fede sia messa in pericolo. È chiaro infatti che, se non vengono tempestivamente esortati a vigilare, c’è pericolo che essi, a poco a poco e quasi senza accorgersene, si adattino a una specie di Cristianesimo vago e non definito, che si suol chiamare interconfessionale, e che si diffonde sotto la falsa etichetta di comunità cristiana, mentre evidentemente nulla vi è di più contrario alla predicazione di Gesù Cristo. E inoltre, essendo Nostro sommo desiderio di favorire e rafforzare la concordia tra i Cattolici, vogliamo rimuovere qualsiasi causa di dissensi, che, disperdendo le forze dei buoni, non possono giovare se non agli avversari della Religione; ché anzi desideriamo vivamente che i nostri anche con i loro concittadini che non professano la Religione Cattolica coltivino quella pace che è indispensabile al governo dell’umana società e alla prosperità dello stato. – Sebbene poi, come abbiamo detto, ci fosse noto lo stato della questione, abbiamo tuttavia voluto, prima di darne un giudizio, chiedere il parere di ciascuno di voi, venerabili fratelli, e ognuno di voi ha risposto alla Nostra richiesta con quella diligenza e con quella prontezza che la gravità della questione richiedeva. – In primo luogo dunque proclamiamo che è dovere di tutti i Cattolici – dovere che va scrupolosamente e completamente adempiuto tanto nella vita privata quanto nella vita sociale e pubblica – di mantenere fermamente e di professare senza timidezza i principi della verità cristiana, insegnati dal Magistero della Chiesa Cattolica, soprattutto quelli che il Nostro predecessore ha formulato con tanta sapienza nell’enciclica Rerum novarum; i quali principi sappiamo essere stati seguiti sopra ogni altro dai Vescovi di Prussia, riuniti a Fulda nel 1900, ed essere stati esposti sommariamente da voi stessi, quando Ci avete risposto che cosa pensate intorno alla presente controversia. – E precisamente qualunque cosa un Cristiano faccia, anche se nell’ordine delle cose terrene, non gli è lecito trascurare i beni soprannaturali; anzi deve, conformemente alle regole della dottrina cristiana, tutto dirigere al bene supremo come a fine ultimo. E tutte le sue azioni, in quanto moralmente buone o cattive, cioè conformi o no alla legge naturale e divina, sono soggette al giudizio e alla Giurisdizione della Chiesa. – Tutti coloro, singoli o associati, che si gloriano del nome di Cristiani, devono, se non dimenticano il proprio dovere, alimentare non le inimicizie e le rivalità tra le classi sociali, ma la pace e il mutuo amore. – La questione sociale, e le controversie che ne derivano circa il metodo e la durata del lavoro, la fissazione del salario, e lo sciopero, non sono soltanto di natura economica, e perciò non sono tali da potersi risolvere prescindendo dall’autorità della Chiesa, “essendo invece fuori dubbio che (la questione sociale) è principalmente morale e religiosa, e che per ciò va risolta principalmente secondo le leggi morali e religiose”. – Quanto poi alle associazioni operaie, sebbene il loro scopo sia di procurare agli associati dei vantaggi in questa vita, tuttavia meritano la più alta approvazione, e sono da considerare più delle altre adatte ad assicurare una vera e durevole utilità ai soci, quelle che sono state costituite prendendo come principale fondamento la Religione Cattolica, e che seguono apertamente le direttive della Chiesa; e più volte Noi lo abbiamo dichiarato, quando se ne è offerta l’occasione in un Paese o in un altro. Da ciò discende che si devono costituire e con ogni mezzo aiutare tali associazioni confessionali cattoliche, non solo nei Paesi cattolici, ma anche in tutti gli altri, dovunque si ritenga possibile venire incontro per mezzo di esse ai bisogni dei soci. Se poi si tratta di associazioni che direttamente o indirettamente toccano la Religione o la morale, non sarebbe in alcun modo da approvare che nei suddetti Paesi si volessero favorire e diffondere le associazioni miste, ossia composte di Cattolici e non cattolici. Infatti se non altro, a causa di tali associazioni, a non piccoli pericoli si espongono, o almeno si possono trovare esposti, sia l’integrità della fede dei nostri fedeli, sia la dovuta obbedienza alle leggi e ai precetti della Chiesa Cattolica; pericoli del resto, che abbiamo visto espressamente messi in rilievo, venerabili fratelli, nella maggior parte delle vostre risposte su questo punto. – Perciò facciamo molto volentieri ogni elogio a tutte le associazioni operaie puramente cattoliche esistenti in Germania, desideriamo che ogni loro iniziativa in favore delle masse operaie abbia successo, e auguriamo ad esse sviluppi sempre più felici. Con questo tuttavia non intendiamo negare che sia lecito ai Cattolici lavorare, con cautela, insieme con gli acattolici, per procurare all’operaio una sorte migliore e per una più equa retribuzione e condizione di lavoro, o per qualunque altro fine utile e onesto: ma preferiamo che per tale scopo le Associazioni Cattoliche e non cattoliche si uniscano per mezzo di quel genere di patto opportunamente escogitato che si chiama Cartello. – A questo proposito, venerabili fratelli, non pochi di voi Ci domandano che Noi vi permettiamo di tollerare i cosiddetti sindacati cristiani, come sono ora costituiti nelle vostre diocesi, dato che essi abbracciano un numero di operai molto maggiore di quello delle associazioni puramente cattoliche e che molti inconvenienti ne verrebbero se tale tolleranza non fosse permessa. In considerazione della speciale situazione del Cattolicesimo in Germania, Noi riteniamo di dover accogliere tale richiesta, e dichiariamo che si può tollerare e permettere che i Cattolici facciano parte anche di quelle associazioni miste, che esistono nelle vostre diocesi, fino a che per nuove circostanze tale tolleranza non cessi di essere opportuna o lecita; purché, tuttavia, si prendano le precauzioni necessarie per evitare i pericoli che, come abbiamo detto, sono inerenti a tal genere di associazioni. – Prima di tutto si deve curare che gli operai cattolici che fanno parte di questi sindacati, siano anche iscritti alle associazioni di operai cattolici denominate Arbeitervereine. Che se per questo essi devono fare qualche sacrificio, soprattutto pecuniario, siamo certi che, nel loro zelo per la conservazione della loro Fede non lo faranno malvolentieri. Fortunatamente infatti accade che queste Associazioni Cattoliche, sotto l’impulso del clero, che con la sua guida e vigilanza le dirige, molto contribuiscono a tutelare nei loro membri la purezza della fede e l’integrità dei costumi, e ad alimentare il loro spirito religioso con molteplici esercizi di pietà. Senza dubbio perciò i dirigenti di queste associazioni, ben conoscendo i nostri tempi, vorranno insegnare agli operai quei precetti e quelle norme, soprattutto circa i doveri di giustizia e di carità, che ad essi è necessario e utile ben conoscere, per potersi comportare, nei sindacati, in modo retto e conforme ai principi della dottrina cattolica. Inoltre, perché i sindacati siano tali che i Cattolici vi si possano iscrivere, è necessario che si astengano da qualsiasi manifestazione teorica o pratica, contrastante con la dottrina e i precetti della Chiesa e dell’autorità ecclesiastica competente; e parimenti che nulla di men che accettabile sotto questo aspetto vi sia nei loro scritti, discorsi, o attività. Considerino perciò i Vescovi uno dei più sacri doveri osservare diligentemente come si comportino queste associazioni, e vigilare che i Cattolici non soffrano alcun danno dai loro rapporti con esse. E i Cattolici stessi, iscritti ai sindacati, non permettano mai che i sindacati anche come tali, nel curare gl’interessi temporali dei membri, professino o facciano cose che in qualsiasi modo contrastino con i principi insegnati dal supremo Magistero della Chiesa, con quelli specialmente che abbiamo sopra richiamato. A tale scopo, ogni qualvolta si agitino questioni relative a materie che toccano i costumi, e cioè alla giustizia e alla carità, i Vescovi vigileranno con la massima attenzione affinché i fedeli non trascurino la morale cattolica, né da essa menomamente si allontanino. – Siamo d’altronde sicuri, venerabili fratelli, che voi curerete che sia scrupolosamente e completamente osservato quanto nella presente vi abbiamo ordinato e che, data l’importanza della cosa, Ci terrete spesso e accuratamente informati. Poiché però abbiamo avocato a Noi questa cosa, e spetta a Noi, sentito il parere dei Vescovi, darne un giudizio, comandiamo a tutti i buoni Cattolici di astenersi d’ora in poi da qualunque discussione tra di loro su questa materia; e Ci piace sperare che essi, in spirito di fraterna carità e pienamente sottoposti all’Autorità Nostra e dei loro Pastori, faranno in modo completo e leale quello che comandiamo. Che se sorgesse in essi qualche difficoltà, essi hanno a loro disposizione il modo di risolverla; consultino i loro Vescovi, e questi deferiranno la questione al giudizio di questa Sede Apostolica. Resta ora da dire – si deduce facilmente da quanto abbiamo esposto – che come da una parte a nessuno sarebbe lecito accusare di fede sospetta e combattere a questo titolo coloro che, costanti nella difesa della dottrina e dei diritti della Chiesa, vogliono tuttavia, con retta intenzione, appartenere, e realmente appartengono, ai sindacati misti, dove l’autorità ecclesiastica, secondo le circostanze del luogo, ha ritenuto opportuno di permettere l’esistenza di tali sindacati; così d’altra parte, sarebbe altamente da riprovare che si svolgesse attività ostile contro le Associazioni puramente cattoliche – mentre si deve con ogni mezzo aiutare e favorire tal genere di associazioni – e che si volesse seguire e quasi imporre un tipo interconfessionale,anche se sotto il pretesto di ridurre a un modello uniforme tutte le Associazioni di Cattolici esistenti in ciascuna diocesi. Frattanto, mentre facciamo voti perché la Germania cattolica progredisca sia nel campo religioso che in quello politico, imploriamo per questo caro popolo il particolare aiuto di Dio onnipotente e la protezione della vergine Madre di Dio, che è anche la Regina della pace; e, come pegno dei doni divini e testimonianza della Nostra speciale benevolenza, impartiamo di tutto cuore l’apostolica benedizione a voi diletto Nostro figlio e venerabili fratelli, al vostro clero e al vostro popolo.

Roma, presso San Pietro, il 24 settembre 1912, anno decimo del Nostro pontificato.

DOMENICA II DOPO PASQUA (2020)

DOMENICA II DOPO PASQUA (2020)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

Questa Domenica è chiamata la Domenica del Buon Pastore (Questa parabola fu da Gesù pronunziata il terzo anno del suo ministero pubblico allorché, alla festa dei Tabernacoli, aveva guarito a Gerusalemme il cieco nato. Questi è dagli Ebrei cacciato dalla Sinagoga, ma Gesù gli offre la sua Chiesa come asilo e paragona i farisei ai falsi pastori che abbandonano il loro gregge). Infatti, San Pietro, che Gesù risuscitato ha costituito capo e pastore della sua Chiesa, ci dice nell’Epistola che Gesù Cristo è il pastore delle anime, che erano come pecore erranti. Egli è venuto per dare la propria vita per esse ed esse gli si sono strette intorno. Il Vangelo ci narra la parabola del Buon Pastore che difende le pecore contro gli assalti del lupo e le preserva dalla morte (Or.), e annunzia pure che i pagani si uniranno agli Ebrei dell’Antica Legge e formeranno una sola Chiesa e un solo gregge sotto un medesimo Pastore. Gesù le riconosce per sue pecorelle ed esse, come i discepoli di Emmaus « i cui occhi si aprirono alla frazione del pane » (Vang., 1° All., S. Leone, lezione V), riconoscono a loro volta, all’altare ove il Sacerdote consacra l’Ostia, memoriale della passione, che Gesù « il Buon Pastore che ha dato la sua vita per pascer le pecorelle col suo Corpo e col suo Sangue » (S. Gregorio, lezione VII). Levando allora il loro sguardo su Lui (Off.), esse gli esprimono la loro riconoscenza per la sua grande misericordia (Intr.). « In questi giorni, dice S. Leone, lo Spirito si è diffuso su tutti gli Apostoli per l’insufflazione del Signore e in questi giorni il Beato Apostolo Pietro, innalzato sopra tutti gli altri, si è sentito affidare, dopo le chiavi del regno, la cura del gregge del Signore » (2° Notturno). È questo il preludio alla fondazione della Chiesa. Stringiamoci dunque intorno al divino Pastore delle anime nostre, nascosto nell’Eucarestia, e di cui il Papa, Pastore della Chiesa universale, è il rappresentante visibile.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXXII: 5-6. Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Ps XXXII: 1. Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio. [Esultate, o giusti, nel Signore: ai buoni si addice il lodarlo.]

Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja. [Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui in Filii tui humilitate jacéntem mundum erexísti: fidelibus tuis perpétuam concéde lætítiam; ut, quos perpétuæ mortis eripuísti casibus, gaudiis fácias perfrui sempitérnis.

[O Dio, che per mezzo dell’umiltà del tuo Figlio rialzasti il mondo caduto, concedi ai tuoi fedeli perpetua letizia, e coloro che strappasti al pericolo di una morte eterna fa che fruiscano dei gàudii sempiterni].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. [1 Petri II: 21-25]

Caríssimi: Christus passus est pro nobis, vobis relínquens exémplum, ut sequámini vestígia ejus. Qui peccátum non fecit, nec invéntus est dolus in ore ejus: qui cum male dicerétur, non maledicébat: cum paterétur, non comminabátur: tradébat autem judicánti se injúste: qui peccáta nostra ipse pértulit in córpore suo super lignum: ut, peccátis mórtui, justítiæ vivámus: cujus livóre sanáti estis. Erátis enim sicut oves errántes, sed convérsi estis nunc ad pastórem et epíscopum animárum vestrárum. [Caríssimi: Cristo ha sofferto per noi, lasciandovi un esempio, affinché camminiate sulle sue tracce. Infatti Egli mai commise peccato e sulla sua bocca non fu trovata giammai frode: maledetto non malediceva, maltrattato non minacciava, ma si abbandonava nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava; Egli nel suo corpo ha portato sulla croce i nostri peccati, affinché, morti al peccato, viviamo per la giustizia. Mediante le sue piaghe voi siete stati sanati. Poiché eravate come pecore disperse, ma adesso siete ritornati al Pastore, custode delle anime vostre].

Omelia I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

SEGUIAMO GESÙ CRISTO.

“Carissimi: Cristo patì per noi lasciandovi l’esempio, perché abbiate a seguire le sue orme. Egli non commise peccato, e sulle sue labbra non fu trovato inganno. Egli, maledetto, non rispondeva con maledizioni, e, maltrattato non minacciava, ma si rimetteva a chi lo giudicava ingiustamente. Portò egli stesso i nostri peccati nel suo corpo sul legno, affinché, morti al peccato viviamo per la giustizia: per le piaghe di Lui siete stati guariti. Infatti eravate come pecore sbandate, ma ora siete ritornate al pastore e al vescovo delle anime vostre”. (1 Piet. II, 21-25).I cristiani dispersi nell’Asia minore, e precisamente nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia proconsolare e nella Bitinia, erano esposti a varie e dure persecuzioni da parte dei Giudei e dei pagani. S. Pietro, venuto a conoscenza di questo, scrive loro una lettera da Roma, per consolarli nelle loro afflizioni, e renderli costanti nella fede, esposta a tanti pericoli. Da questa lettera è tratta l’Epistola di quest’oggi. Dopo aver parlato, precedentemente, dei doveri verso il potere civile, viene a parlare della soggezione dei servi ai loro padroni. Devono star loro soggetti volentieri, seguendo l’esempio di Gesù Cristo, che non malediva quelli che lo maledivano, non minacciava quelli che lo facevano soffrire, ma si rimetteva al Padre, giudice supremo. Egli si caricò dei nostri peccati per procurarci la giustificazione. E così, da pecore erranti quali eravamo, siamo stati condotti al Pastore delle anime nostre. L’imitazione di Gesù Cristo, inculcata da S. Pietro, è necessaria a ogni Cristiano.

1. Gesù Cristo è il nostro Pastore,

2 Che dobbiamo seguire sempre,

3 Anche sotto la croce.

1.

Cristo patì per noi lasciandovi l’esempio, perché abbiatea seguire le sue orme. Niente s’impara senza una guida, e nessuna istituzione si regge senza chi la governa. È necessario uno che guidi nello stato, nella famiglia, in una nave. È necessario un pastore che diriga e sorvegli il gregge. È facile immaginare che cosa avverrebbe d’un gregge, che abbandonasse le orme del pastore. Si sbanderebbe qua e là, prenderebbe sentieri pericolosi; e, nell’ora del pericolo, le povere pecore, rimaste senza guida, invece di ritrovare la via dell’ovile, andrebbero a finire nelle fauci di qualche fiera o nelle mani di qualche ladro. La famiglia cristiana, è, nella Sacra Scrittura, paragonata a un gregge. Chi ne è il pastore? «Io sono il buon Pastore», dice Gesù Cristo (Giov. X, 11). Un giorno vede due fratelli, Pietro ed Andrea, che gettano una rete, e dice loro: « Venite dietro me e vi farò pescatori d’uomini. Ed essi, tosto lasciate le reti lo seguirono » (Matt. IV, 19-20). Sono, a cosi dire, le primizie del gregge di Cristo. Più tardi rivolgerà il suo invito a un pubblicano. «Seguimi», dirà a Matteo, e questi; rizzatosi dal banco lo segue (Matt. IX, 9). Ripeterà questo invito ad altri, alle turbe, a tutti gli uomini di buona volontà. « Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi consolerò » (Matt. XI, 28). Quando gli Ebrei partono dall’Egitto, il Signore li guida in colonna di fumo di giorno, e in colonna di fuoco durante la notte, per illuminare il loro cammino. Gesù Cristo è la luce che guida il suo gregge nei sentieri di questa vita. Egli è «la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Giov. I, 9). Egli ci è luce con gli insegnamenti che uscirono dal suo labbro, Egli ci è luce con le sue azioni. « Poiché quando Egli fa qualche cosa in silenzio, si fa conoscere quello che noi dobbiam fare » ( S. Gregorio M. Hom. 17, 1). Ed è principalmente alle sue azioni che ci richiama S. Pietro, quando ci dice di seguire le sue orme. Della virtù si è parlato molto dai sapienti di questo mondo, anche prima che venisse sulla terra Gesù Cristo. Ma tutte le loro discussioni portarono ben poco frutto. Quegli insegnamenti, oltre non essere esenti da errori, non erano confortati dall’esempio. Non da loro, ma da Gesù s’impara l’umiltà, la pazienza, l’ubbidienza, il vero amor del prossimo, il perdono delle offese, la purità e tante altre virtù, che formano uno splendido ornamento e una irrefragabile apologia del Cristianesimo. Chi vuol sapere, sappia Cristo. Da lui solo impareremo a camminare nella via di ogni virtù.

2.

Egli non commise mai peccato, e sulle sue labbra non fu trovato inganno, ecc. Queste parole, che S. Pietro riporta da Isaia, c’insegnano quanto fosse perfetta la vita diGesù Cristo, alla quale, per quanto ci è possibile, dobbiamo conformare la nostra. Forse, non è tanto l’eroismo degli esempi datici da Gesù Cristo, che trattiene il Cristiano dall’imitarlo; quanto la forza che esercitano ancora su di lui gli esempi del mondo. Si seguirebbe Gesù Cristo, quando il mondo non seducesse più: si seguirebbe Gesù Cristo, se si potesse seguirlo di nascosto. Fin che si è fanciulli si sente parlar volentieri degli splendidi esempi di virtù che il Salvatore ci ha dato. Ci si accosta frequentemente al sacramento della Penitenza per poter ricevere Gesù nel proprio cuore, e chiedergli la grazia di seguire le sue orme. Ma quando si sono lasciati i banchi della scuola primaria, si trova già un po’ pesante il seguire Gesù. Quando si è avviati alla bottega, allo stabilimento, all’ufficio, invece di seguire Gesù, si seguono coloro che ci circondano, e si prendono le loro abitudini di vita, che, quasi sempre, non sono proprio conformi agli esempi datici da Gesù. Come una lampada brilla sempre meno al nostro sguardo man mano che il giorno si avanza; così, man mano che crescono gli anni, si affievolisce la luce che viene dagli esempi di Gesù, e ci lasciamo abbagliare da altre luci false e nocive. Dobbiamo seguir Gesù non solamente quando siamo soli, ma anche quando siamo in compagnia: non solamente nella vita domestica, ma anche nella vita pubblica. Quando uno è ascritto a una associazione, ma si accontenta di avervi dato solamente il nome, tutt’al più legge al proprio tavolo la relazione di qualche adunanza, a cui non ha partecipato, possiam chiamarlo un cattivo socio. Se tutti fossero come lui, l’associazione dovrebbe sciogliersi. Questo sistema è proprio quello di tanti Cristiani. Seguir Gesù, ma senza disturbarsi, senza dar nell’occhio, senza urtare i sentimenti di coloro che non vogliono sapere di seguirlo. Alla festa dei tabernacoli, i Giudei domandano alle turbe dove si trova Gesù. Tra le turbe è un gran sussurro. «Nessuno, però, parlava di Lui con libertà per paura dei Giudei» (Giov. VII, 13). Tanti Cristiani si trovano indecisi a seguir pubblicamente Gesù con franchezza, per paura di qualche opposizione o di qualche frase. Come sono lontani dalla generosità di S. Ignazio martire, che dichiarava a quei di Efeso: « Nulla vi sia conveniente senza Gesù Cristo, per Lui io porto in giro le mie catene, perle spirituali » (Ep. ad Eph.). Non pensano questi seguaci di Gesù Cristo a metà, che, rifiutandosi di seguirlo apertamente, si rifiutano di seguire un pastore che un giorno potrebbe rinnegarli a sua volta, ed escluderli dal celeste ovile? Se vogliamo seguire Gesù sul serio, non dobbiamo distinguere tra età ed età, tra vita pubblica e vita privata. Dobbiamo seguirlo ovunque, con fermo proponimento, facendo nostre le parole di Rut a Noemi: «Dovunque andrai tu andrò anch’io, e dove starai tu, ivi io pure starò » (Rut. 1, 16).

3.

Per le piaghe di lui siete stati guariti. Qui ci vengono ricordati i dolori di Gesù. I dolori furono il suo retaggio, dalla culla alla croce. E la sorte dei discepoli non dovrà esser diversa da quella del maestro. Le pecore docili seguono il pastore anche pei sentieri stretti e sassosi; e i buoni Cristiani seguono Gesù anche quando c’è da insanguinarsi i piedi. Sarebbe troppo comodo star con Gesù nei momenti della gloria, come durante la trasfigurazione sul Tabor; abbandonarlo nei momenti della tristezza, come durante l’agonia nell’orto. Che giudizio si dovrebbe dare di quei soldati che seguono il loro comandante, che è in testa, quando si tratta di passeggiate piacevoli, e si rifiutano di seguirlo quando si tratta di marce o, peggio ancora, quando si tratta di combattere? Il giudizio è presto dato: sono dei vili che disonorano la loro divisa. I Cristiani sono pure dei soldati. « Sopporta i travagli da buon soldato di Cristo » (2 Tim. II, 3), dice S. Paolo a Timoteo. Quando Gesù Cristo saliva il Calvario, non portava un manto, ma uno straccio di porpora: aveva una corona, ma di spine. Non saliva sopra un carro di trionfo, ma sotto il peso della croce. E la croce è divenuta la divisa del Cristiano. Non è cosa che si possa accettare o respingere a piacimento. Fu assegnata da Gesù Cristo stesso: « Chi vuol venire dietro a me… prenda ogni giorno la sua croce e mi segua » (Luc. IX, 23.). Chi rifiuta di seguir Gesù Cristo sotto la croce, è un soldato vile, che disonora la sua divisa. Il monaco benedettino Maria Gachet, durante la rivoluzione francese, è condotto innanzi alla Commissione rivoluzionaria di Lione. I giudici, che s’intendevano ben poco di carattere sacerdotale, gli chiesero che consegnasse loro gli attestati di sacerdozio. Alla domanda dei giudici repubblicani Gachet risponde francamente: «Che fareste d’un soldato repubblicano, che consegnasse la sua spada la vigilia d’una battaglia? Sarebbe un vile. Non proponetemi una viltà, poiché anch’io sono soldato, soldato di Gesù Cristo, capite?». E il tribunale lo trattò da soldato, condannandolo alla fucilazione, invece che alla ghigliottina (Franc. Rousseau, Moines Bénédictins martyrs et confesseurs de la foi pendant la Révoluction, Paris, 1926, p. 131). Siamo soldati di Gesù Cristo. Ci teniamo a non esser soldati vili? Seguiamolo sempre, seguiamolo ovunque. Seguiamolo se siamo fanciulli, se siamo giovani maturi, se siamo adulti, se siamo vecchi. Seguiamolo soprattutto nelle croci e nelle difficoltà. «Egli camminò per vie aspre — osserva S. Agostino — ma promise grandi cose. Seguilo. Non voler badar unicamente alla via che devi percorrere; ma bada anche al luogo cui devi arrivare; sopporterai gravezze temporali, ma perverrai ai godimenti eterni » (En. 2 in Ps. XXXVI, 16). Tutti abbiam bisogno della misericordia del Signore e « il Signore usa misericordia coi servi suoi, i quali con tutto il cuore seguono le sue vie » (In Paral. VI, 14).

Alleluja

Allelúja, allelúja Luc XXIV: 35.

Cognovérunt discípuli Dóminum Jesum in fractióne panis. Allelúja [I discepoli riconobbero il Signore Gesú alla frazione del pane. Allelúia].

Joannes X: 14. Ego sum pastor bonus: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ. Allelúja. [Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.

Joann X: 11-16.

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis: Ego sum pastor bonus. Bonus pastor ánimam suam dat pro óvibus suis. Mercennárius autem et qui non est pastor, cujus non sunt oves própriæ, videt lupum veniéntem, et dimíttit oves et fugit: et lupus rapit et dispérgit oves: mercennárius autem fugit, quia mercennárius est et non pértinet ad eum de óvibus. Ego sum pastor bonus: et cognósco meas et cognóscunt me meæ. Sicut novit me Pater, et ego agnósco Patrem, et ánimam meam pono pro óvibus meis. Et alias oves hábeo, quæ non sunt ex hoc ovili: et illas opórtet me addúcere, et vocem meam áudient, et fiet unum ovíle et unus pastor”.

(“In quel tempo Gesù disse ai Farisei: Io sono il buon Pastore. Il buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle. Il mercenario poi, o quei che non è pastore, di cui proprie non sono le pecorelle, vede venire il lupo, e lascia lo pecorelle, e fugge; e il lupo rapisce, e disperde le pecorelle: il mercenario fugge, perché è mercenario, e non gli cale delle pecorelle. Io sono il buon Pastore; e conosco le mie, e le mie conoscono me. Come il Padre conosce me, anch’io conosco il Padre: e do la mia vita per le mie pecorelle. E ho dell’altre pecorelle, le quali non sono di questa greggia: anche queste fa d’uopo che io raduni: e ascolteranno la mia voce, e sarà un solo gregge e un solo pastore”.)

OMELIA II

[M. Billot, Discorsi parrocchiali, II ediz. S. Cioffi ed. Napoli, 1840 – impr. ]

Omelìa sul buon pastore.

“Ego sum pastor bonus”. S. Joan.. c. X.

Questo è il titolo amabile che prende Gesù Cristo per farci conoscere la sua bontà verso gli uomini e principalmente verso gli uomini peccatori. Non fa più udir la sua voce sotto i nomi di Dio di maestà, di Dio di grandezza; non più come altre volte ad un popolo che governava colle minacce, a noi si mostra fra tuoni e folgori, ama Egli piuttosto di guadagnare il nostro cuore con tratti d’amore che il nostro rispetto coi segni di sua possanza; Egli si manifesta sotto le tenere immagini consolanti or di padre affettuoso che ci riguarda come suoi figliuoli, ora di pastore sollecito che ha cura delle sue pecorelle, e a tal segno le ama che la sua vita vuol dare per esse: Ego sum pastor bonus; bonus pastor animam suam dat prò ovìbus suis. Sì, fratelli miei, Egli è il nostro buon pastore, e noi siamo le sue pecorelle; Egli ha fatto per noi ciò che mai non fece altro pastore per la sua greggia, poiché ha sacrificato per nostra salute se stesso; Egli veglia continuamente su di noi, ci porta nel cuore, ci alimenta, ci sostiene in questa misera vita, e apertaci con la sua morte la strada alla gloria, al beato soggiorno ci conduce. Quanta gratitudine e quanto amore esigono da noi questi tratti di bontà dalla parte d’un Dio! Quanto debbono impegnarci ad essere docili pecorelle a Lui fedeli! Perché poco ci gioverebbe il sapere ch’Egli è il buon Pastore, e che fece quanto ad un buon pastore appartiene; anzi questa conoscenza servirebbe piuttosto alla nostra condannazione, se fossimo ingrati e non meritassimo con la docilità di pecorelle fedeli l’affetto di sì buon Pastore. Vediamo dunque in che maniera Gesù Cristo ha adempiuti tutti doveri d’un buon pastore, e sarà il primo punto: vediamo ancora quel che dobbiamo far noi per essere pecore fedeli: secondo punto. Quel che Egli ha fatto per noi quel che noi dobbiamo fare per Lui, ecco quanto ho intenzione di dimostrarvi.

I. Punto. Conoscere le sue pecore, guidarle ad abbondanti pascoli, vegliar su d’esse per difenderle dal furore dei lupi, metter cura che alcuna dal gregge non si allontani, ricondurre le traviate e finalmente non perdonare a fatica veruna e dare ancora per esse la vita sono per testimonianza di Gesù Cristo medesimo, le qualità d’un buon pastore, qualità ch’Egli ha messe in pratica per noi in maniera da renderci certissimi del suo pastorale affetto per l’uomo. Infatti chi conosce meglio le sue pecore che Gesù Cristo? Chi ha dato più generosamente la vita per esse? Chi meglio le alimenta? Chi finalmente quelle che traviavano ha ricercato con maggiore ardore di Lui? Ben può dunque giustamente attribuirsi la qualità di buon Pastore: ego sum pastor bonus. – La conoscenza che Gesù Cristo ha delle sue pecore non l’ha acquistata della esperienza, ma è propria della sua natura; imperciocché essendo il Verbo di Dio, generato ab eterno per via di cognizione nel seno di Dio, Dio Egli stesso, non solamente conosce tutto ciò che è, ma tutto ciò che sarà, ogni cosa è a Lui presente anche prima ch’ella sia, Egli vede con egual chiarezza quel che ha da essere come ciò che è presentemente. Può dunque dirsi con ragione ch’Egli conosce le sue pecore, che ne sa il numero e le discerne le une dalle altre e per nome le chiama. Egli vi ha conosciuti, fratelli miei, prima che foste; ha pensato a voi sin dalla eternità e, a voi mirando, aveva disegni di pace e di salute: affidatevi a questo divino Pastore: a Lui son note le vostre necessità, la debolezza della vostra natura, le tenebre della vostra mente, L’incostanza del vostro cuore, la violenza delle passioni e i pericoli che vi circondano, ed è sempre pronto a stendervi il braccio, a soccorrervi; imperciocché la conoscenza che Gesù Cristo ha avuto ed ha delle sue pecore non è una conoscenza sterile e speculativa, che altro non fa fuorché vederne il numero, il che può farsi ancora da un pastore malvagio; ma è una conoscenza di amore e di compiacenza, da lui paragonata alla conoscenza che Egli ha del Padre, e che il Padre ha di Lui: Sicut novit me Pater, et ego agnosco Patrem, et animam meam pono prò ovibus meis (Jo. X). Ora dall’amore che passa tra Dio Padre e il Figliuolo che ne proviene? L’amore più perfetto, più vivo, più efficace che immaginar si possa. Amore così perfetto e fecondo che produce una Persona simile al Padre e al Figliuolo, cioè lo Spirito Santo, ch’è il termine di questo amore. Noi siamo dunque l’oggetto eziandio di questa conoscenza di questo amore che passa tra le tre Persone della Trinità sacrosanta! E di questo amore ci fa sentire il divin pastore la profusione e la tenerezza. E in fatti non è egli questo amore che l’ha spinto a discendere dal cielo in terra per venire al soccorso di quelle sfortunate pecorelle che erano divenute preda del lupo infernale? E per liberarci dalle fauci di quello, non si è Egli rivestito pur anche delle spoglie di pecorella, avendo assunta la nostra natura nel mistero dell’incarnazione per essere immolato a nostra salute? Questa innocente Vittima è stata piuttosto dal suo amore immolata che dalle mani dei suoi crocifissori. Ha sparso questo divin Pastore il suo sangue sulle nostre piaghe per guarirle, è morto per darci la vita, è risuscitato per la nostra giustificazione, ci ha aperta l’entrata alla celeste eredità che avevamo perduta. O carità veramente pastorale! Andò Egli mai tant’oltre amor di verun pastore che per le sue pecorelle, come Gesù Cristo ha fatto per noi, desse la vita? Animam meam pono prò ovibus meis (Jo.X). – Non contento questo buon Pastore di aver sacrificata per le sue pecore la propria vita, procura loro ogni giorno per conservarle vegete, sane, i necessari sussidi, le guida a grassi e fecondi pascoli che le sostengono, le nutriscono, le ingrassano. Quali sono, fratelli miei, questi sì buoni pascoli? Sono la dottrina di Gesù Cristo, le sue grazie, i suoi Sacramenti. Con la dottrina c’istruisce, con i Sacramenti ci santifica. Dottrina santa e salutevole che dall’errore ci preserva e dalla menzogna, grazie abbondanti che ci ritraggono dal male, e a ben operare ci spingono; sacramenti augusti che sono la sorgente di quell’acqua salutare che scaturisce per la vita eterna, Sacramenti che i mezzi ci somministrano di conservare la vita della grazia e ricuperarla qualora la perdiamo. Onde possiamo dire con il profeta che sotto la condotta di sì buon Pastore nulla ci manca. Dominus regit me, et nihil mihi deerit (Psal. XXII). Dopo averci liberati dal naufragio e fatti nascere alla vita della grazia con le acque salutevoli del Battesimo, che la macchia dell’originale peccato in noi cancellarono, super aquam refectionis educavit me (Ibid.). Ci conduce nei sentieri della giustizia, rischiarando la nostra mente con vivi lumi e infiammando la nostra volontà con santi ardori, istruendoci con la voce degli altri pastori che ha stabiliti e lasciati sulla terra per aver cura della sua greggia, deduxit me super semitas iustitiæ (Ibid.). Rompe ogni ostacolo che potrebbe dal nostro ultimo fine allontanarci; ci difende con la possanza della sua croce dagli artigli del drago infernale che ognor s’aggira intorno a noi per divorarci, e sorregge la nostra debolezza e ci consola nell’afflizione. Sempre accanto di noi si sta per impedirci di cadere negli orrori d’una eterna morte: Si ambulavero in medio umbræ mortis, non timebo mala quoniam tu mecum (Ibid). Siamo noi per avventura stimolati dalla fame, abbiam noi bisogno di nutrimento per non svenire nel penoso viaggio che dobbiam fare per giungere al porto della salute? Egli ci ha preparato un alimento il più squisito che mai pastore abbia procacciato al suo gregge: Parasti in conspectu meo mensam adversus eos qui tribulant me (Ibid). E qual è questo alimento fratelli miei? Il suo corpo adorabile, il suo prezioso sangue, che Egli presenta per cibo nell’augusto Sacramento dell’altare. Oh meraviglia da fare stupire il cielo e la terra! Qual è quel pastore, osserva a questo proposito s. Giovanni Crisostomo, che nutrisca le sue pecore della propria sostanza? E non vediamo noi per lo contrario gli altri pastori nutrirsi delle proprie pecore e delle loro lane rivestirsi? E Gesù Cristo, il supremo Pastore, alle sue pecore dà in cibo se stesso; della sua propria sostanza lo ingrassa, e tutto al lor profitto e al volere s’abbandona; e non è questo spingere l’amore all’eccesso? Che poteva far egli di più per guadagnare il rostro cuore? E quanto questo divino Pastore ha operato non sarà capace di  ispirarci un ardente desiderio per questo celeste cibo che nella sacra mensa ci offre e che dee servirci di difesa contro gli assalti dei nostri nemici? Parasti in conspectu meo mensam adversus eos cui tribulant me. Terminiamo di rappresentare col re profeta le cure del buon Pastore per le sue pecore. Dopo di averle guidate nel tempo della vita loro, in morte ancor le accompagna, tempo in cui hanno maggior bisogno della sua assistenza, perché hanno da combattere allora col nemico della salute, che raddoppia i suoi sforzi per perderle; allora Egli le fortifica con le sante unzioni della sua grazia e dei suoi Sacramenti per disporle a pugnare come generosi atleti e metterle in stato di riportar vittoria sulle potenze infernali: Impinguasti, in oleo caput meum (Ibid.). Finalmente, dopo di averle condotte e fortificate in quegli estremi istanti, mette il colmo alle sue misericordie e le fa passare con una santa morte nei suoi tabernacoli per goder la soavità d’un eterno riposo: et ut inhabitem in domo Domini in longitudinem dierum (Ibid.). Fortunate dunque e mille volte fortunate quelle pecore che sono sotto la condotta del buon pastore! Ma infelici quelle che se ne allontanano! Elle divengono ben presto la preda del lupo infernale, se il buon Pastore non viene in loro aiuto per ricondurle all’ovile! E in questo appunto ci prova ancora più specialmente Gesù Cristo la sua pastorale carità per gli uomini; le pecore traviate, al par che le fedeli, sono oggetto della sua vigilanza e delle sue cure; Egli conserva le altre, e le richiama. È veramente il buon Pastore: Ego sum etc. – Io ho, dice Gesù Cristo, altre pecore che non sono in quest’ovile; bisogna ch’Io le adduca e non facciano che un solo ovile, ciò vuol dire che Gesù Cristo è venuto non solamente per il popolo ebreo, ma pei gentili ancora; che oltre le pecore della sua nazione le quali per origine a Lui già appartenevano, altre ve n’aveva che si sarebbero convertite, e un solo popolo avrebbero formato nel seno della medesima Chiesa sotto lo stesso Pastore. Noi siamo, fratelli miei, del numero di queste pecore conquistate e convertite. Noi eravamo in prima pecore erranti, camminavamo nelle tenebre, giacevamo nelle ombre di morte: eratis sicut oves errantes (1 Petr. 2). Ma il supremo Pastore delle anime nostre, toccato dalla nostra miseria, ha gettato sopra di noi uno sguardo di compassione e ci ha chiamati alla luce del suo Vangelo. Grazie dunque gli siano rese eternamente! Eccovi ora un popolo santo, popolo di acquisizione: gens sancta, populus acquisitionis (ibid.). Felici noi, se, fedeli alla grazia della nostra vocazione, profittiamo del dono di Dio. Ma egli accade, ahi quanto soventi volte! Che indocili alla voce del buon Pastore, abbandoniamo l’ovile e le pure sorgenti d’acqua viva per bere nelle avvelenate cisterne di questo secolo sciagurato. Pur troppo noi abbandoniamo spesso, come il figliuol prodigo un ottimo padre per dissipare in lontan paese i beni da lui datici, e vivere a grado delle nostre passioni. Che fa allora il buon Pastore? Ogni altro fuori di Lui si disgusterebbe alla vista della nostra capricciosa infedeltà; se non fosse buono come Egli è, ci abbandonerebbe alla nostra trista sorte. Ma no, questo affettuoso Pastore, che non ha voluto rattenere violentemente questa pecora perché a Lui non piace servitù forzata, non può soffrirla lontana. Geme al vederla esposta alla voracità delle bestie feroci. Ama piuttosto di lasciar le pecore fedeli per andare in cerca di quella che sì è smarrita. Ma quanto gli costa per ricondurla, quante corse, quante fatiche ha dovuto soffrire! Io qui lo vedo alla sponda del pozzo di Giacobbe, stanco dal viaggio, aspettar premuroso che una donna peccatrice venga a ricevere il perdono delle sue colpe e gli chieda l’acqua che sorge per la vita eterna. Là io lo miro ricevere benignamente e prender anche la difesa di un’altra peccatrice, che era dall’orgoglioso fariseo con eccessiva severità disprezzata e condannata spietatamente. Dappertutto io l’ascolto chiamare i peccatori a penitenza, e invitarli a sé per deporre l’enorme peso delle colpe loro: Venite ad me omnes (Matth. XI). Non contento di chiamarli, Egli va loro incontro, come se avesse bisogno del peccatore; lo cerca e lo segue per tutto: qui lo illumina con una viva luce, là con una buona inspirazione lo sollecita; e se inutil vede la sua clemenza, si serve della forza della sua grazia; fa udire a questo peccatore quella voce al cui suono vivi sorgono dal sepolcro i morti, lo percuote con qualche terribile colpo non per sua rovina, ma per ricondurlo all’ovile; e se finalmente questa traviata pecorella, questo peccatore tante volte da Lui sollecitato, alla sua voce si arrende, quanto amorosamente viene accolto dal suo Pastore! Non solamente non lo maltratta, come avrebbe meritato, ma lo accarezza e lo conforta; e non contento di accogliere questa errante pecora, vuole ancora sulle proprie spalle riportarla, affinché per la via non si stanchi; e come se avesse riacquistato un prezioso tesoro, invita gli amici a seco rallegrarsi: Congratulamini mihi, quia inveni ovem quæ perierat ( Luc. XV). – Per nulla conta gli affanni, la fatica, la fame, la sete, i rigori delle stagioni, le sofferenze e la morte; purché riabbia la sua pecorella, ben ricompensato si stima; pare che in qualche maniera dimentichi l’affetto che ha per le pecore fedeli, e solo pensi al piacere che prova nel possedere di nuovo quella che si era smarrita. Vi sarà in cielo, dice Egli, allegrezza maggiore per la conversione d’un peccatore che non per la perseveranza di novantanove giusti. Poteva forse Gesù Cristo mostrarci più chiaramente la sua pastorale sollecitudine per la pecorella perduta? Potrassi egli dire che se alcuna si perde, ciò sia per colpa di Lui? Non ha Egli fatto tutto ciò che ha potuto per conservare quelle che dal Padre celeste aveva ricevute, e recuperare quelle che si erano sviate? A sé stesso dovrà dunque imputare il peccatore la sua riprovazione se non si converte. Per non incorrere in questa disgrazia, vediamo ciò che abbiamo a fare per essere pecorelle fedeli.

II. Punto. Conoscere il buon Pastore, ascoltare la sua voce, camminare sulle sue tracce, sono doveri, come c’insegna Gesù Cristo medesimo, d’una pecora buona e fedele. Io conosco, dice Egli, le mie pecore, ed esse conoscono me; cognoscunt me meæ. Le pecore ascoltano la voce del pastore: vocem eius audiunt: lo seguitano in ogni luogo: illum sequuntur (Jo. X). – La prima cosa necessaria per entrare nell’ovile di Gesù Cristo si è il conoscerlo. In questa conoscenza consiste la vita eterna, come Egli ce ne assicura. Hæc est vita æterna, ut cognoscunt te solum Deum rerum et quem misisti Jesum Christum. Ogni altra scienza, ogni altra cognizione, senza di questa non potrà scorgerci al porto di salute giammai. A che ci servirebbe l’aver penetrato tutti i segreti della natura, il conoscer come i filosofi il moto degli astri, il possedere tutte le umane scienze, se non avessimo la scienza della salute che è la conoscenza di Gesù Cristo? Che han giovata agli antichi sapienti e che giovano oggigiorno ai nostri pretesi saggi le scoperte che han fatto, le scienze che hanno acquistato, se ignorano la dottrina di Gesù Cristo e son ribelli al Vangelo? Tutti i loro lumi non son che tenebre, la loro scienza vanità ed errore. L’uomo più semplice, più rozzo che conosca la religione di Gesù-Cristo e ne adempia i doveri, che abbia il timore di Dio e lo serva fedelmente, è molto più da pregiarsi (dice l’autore dell’imitazione di Gesù Cristo) che quei superbi filosofi, che tutti quei saggi i quali a tutt’altro attendono fuorché alla scienza della salute. Applichiamoci dunque, fratelli miei, a ben conoscere Gesù-Cristo e il suo Vangelo, all’esempio del grande Apostolo, che altro non si gloriava di sapere fuorché Gesù Cristo crocifisso. Ma in che consiste il conoscere Gesù Cristo come Egli vuole essere conosciuto? Sarà egli il sapere ciò che Egli è, ciò che può e ciò ha fatto per la nostra salute? Sarà il sapere ch’Egli è insieme Dio generato fin dalla eternità nel seno del Padre, ed uomo nato nel tempo da una Vergine; che questo Dio fatto uomo è morto per darci la vita, ch’Egli è assoluto padrone della nostra eterna sorte? Tutto questo è necessario a sapersi, ma pur non basta. In questa maniera lo conoscono i reprobi, lo conoscono i demoni, che hanno pure renduta testimonianza alla sua divinità, ma questa conoscenza ad altro loro non serve che a farli tremare sotto i colpi della sua giustizia: Dæmones credunt et contremiscunt (Ja. 2). Noi dobbiamo dunque conoscere Gesù Cristo. Ma non sia sterile e infruttuosa la nostra conoscenza; ella sia pratica, sia conoscenza d’amore; come Gesù Cristo conosce le sue pecore per beneficarle, così la conoscenza di Gesù Cristo deve produrre nei nostri cuori un amore sincero, un inviolabile affetto. Amore sincero che a Lui consacri tutti i moti del nostro cuore, che ne sbandisca ogni oggetto il quale possa contendergliene il possesso, amore che ci porti ad osservare i suoi divini comandamenti esattamente; affetto inviolabile che, come il grande Apostolo faceva ci porti a sfidare le creature tutte, a separarci da Gesù Cristo. Quis ergo nos separabit a charitate Christi (Rom. VIII). Chi avrà forza di separarci dall’amore di Gesù Cristo? Non la morte, non la vita, non la grandezza, non l’umiliazione o la povertà, non le ricchezze, non altra creatura veruna: Neque mors neque vita neque creatura alia poterit nos separare a charitate Dei (Ibid). Questi sono i sentimenti, questa è la condotta che deve avere una pecora fedele che conosce il suo pastore, ella deve esser pronta a tutto sacrificare per Lui, da tutto staccarsi per suo amore, a tutto fare, tutto soffrire per Lui, talmenteché niente vi sia sulla terra il cui desiderio, timore o passione possa farlo incorrere nella disgrazia del suo Dio. Ecco, fratelli miei, che cosa è conoscere Gesù Cristo come Egli vuole esser conosciuto. Ecco quel che Egli Esige da una pecora fedele, in contraccambio di quanto Egli ha fatto per sua salute; se Egli non chiede vita per vita, vuole per certo almeno amore per amore. Se voi siete, fratelli miei, in queste diposizioni, sarete docili alla voce del buon Pastore: vocem eius audiunt (Jo.X). – Seconda qualità d’una pecora fedele. Gesù Cristo, il buon Pastore, fa udire la sua voce agli uomini in varie maniere; ora per mezzo di grazie interne che lor dà per guadagnarli, ora con la voce dei suoi ministri che lor manda per istruirli; qui con la lettura di un buon libro che fa lor cadere nelle mani; là per mezzo di buoni esempi che lor mette innanzi agli occhi; ora ricolmandoli di benefizi, ora affliggendoli con disgrazie per farli ravvedere. Testimonio me ne sia ascoltatori, la vostra propria esperienza. Quante volte avete intesa ed intendete eziandio ogni giorno la voce di Dio che vi chiama, vi esorta caldamente e vi sollecita a ritornare a Lui e a servirlo con maggior fervore! Quante Volte una viva illustrazione nell’animo vi ha fatto conoscere la vanità e il nulla delle cose create! Quante salutevoli compunzioni vi hanno toccato il cuore per staccarvi dal mondo e dai suoi piaceri! E malgrado le tenere cure di questo affettuoso Pastore non vi saran forse qui molti che indurito serbano alla voce di Lui il loro cuore? Ah! pecorelle infedeli, e sino a quando resisterete voi alle finezze della divina misericordia che batte alla porta del vostro cuore, che vi cerca, che vi segue in mezzo ai vostri disordini? Non è egli vostro vantaggio l’arrendervi alle sue istanze? Imperciocché se voi resistete, qual sarà la sorte vostra? Con lo sviarvi cotanto nei sentieri dell’iniquità, diverrete finalmente preda delle fiere voraci e cadrete in un abisso di mali. Se il buon Pastore vi cerca, se la sua misericordia vi stende le braccia ed è sempre pronta a ricevervi, non dovete voi corrispondere alle sue mire e fare ogni sforzo per uscire dal fango onde vuol trarvi? Imperciocché voler credere che Iddio farà tutto dal canto suo per salvarvi, mentre voi nulla volete fare dal vostro; voler credere che il buon pastore porterà la pecora all’ovile a malgrado di lei e senza ch’ella faccia alcun passo per ritornarvi, questo sarebbe, o peccatori, un oltraggiare la misericordia di Dio e farla servire alle vostre iniquità. No, peccatori, non è così che si deve pensare della misericordia di Dio; quando la sua bontà non serve a nulla, quando la sua pazienza nello aspettare il peccatore altro non ha fatto che renderlo più colpevole ancora, allora questa pazienza si cangia in furore e domanda vendetta. Allora il peccatore che ha sprezzate le istanze del suo Dio e ha resistito alle sue grazie sarà disprezzato egli pure, sarà abbandonato; quanto grande è stato l’affetto con cui lo cercava, tanto maggiore sarà il rigore con cui lo punirà. Evitate, fratelli miei, sì gran disgrazia colla vostra docilità ad ascoltar la voce del buon Pastore che vi chiama. Aprite la porta dei vostri cuori ai raggi della grazia che v’illumina per farvi uscire dai vostri disordini. Profittate del tempo della misericordia del Signore, e ditegli col re profeta: Sì, ho risoluto, Signore, in questo giorno, in questo istante, voglio far ritorno a voi, Dixi: Nunc cœpi (Psal. LXXVI). Già troppo lungamente mi chiamaste, non voglio più oltre stancarvi col mio fuggirvi, e col resistere alla vostra grazia. Traviai qual pecora errante e vagabonda: Erravi sicut ovis (Psal. CXVIII), ma se nel tempo ancora che vi fuggiva, tanta bontà aveste per questa pecorella, che non farete Voi allorché a Voi ritornerà? Si, questo è il partito che io prendo; risoluto di non dipartirmi mai più dal servizio di sì buon padrone come Voi siete, sarò docile alla vostra voce, in qualunque maniera me la facciate sentire;parliate Voi medesimo, parlino i vostri ministri, seguirò fedele la via che mi additerete. Tali, sono, fratelli miei, i sentimenti di un’anima che riconosce i suoi falli. Come un altro Saule, ella è pronta a fare in tutto la volontà di Dio; per esser istruito va a trovare Anania, vale a dire, essa ascolta la voce dei pastori che Gesù Cristo ha posti per istruirla. E di fatti per mezzo loro la ora intendere Iddio la voce alle sue pecore; siccome non è più con noi sulla terra per istruirci Egli stesso, ha posti altri in sua vece per aver cura del suo gregge; Pascite qui in vobis est gregem Dei(1 Petr. 5). Ascoltar la voce dei Pastori che governano la Chiesa è lo stesso che ascoltare Gesù Cristo medesimo; il disprezzarli è lo stesso che disprezzar Gesù Cristo: Qui vos audit, me audit; qui vos spernit, me spernit [Luc. X). Siate dunque, fratelli miei, ubbidienti alla voce dei pastori che Dio ha inviati come ambasciatori per farvi conoscere i suoi voleri; siate assidui alle istruzioni ch’essi vi faranno nella chiesa, principalmente alla messa parrocchiale: ivi imparerete molte cose che non udireste altrove; forse la vostra salute dipende da una istruzione che vi riguarda particolarmente e che non udirete più se la perdete. – Ascoltate eziandio la voce dei vostri confessori, che tengono il luogo di Gesù Cristo per intimarvi i suoi comandi. Il vostro spirituale direttore vi fa intendere che quella vita dissipata che menate è pregiudizievole all’anima vostra, e che non basta, per salvarsi, evitare il male, ma che è necessario ancora di praticare il bene; e conseguentemente vi dà un regolamento di vita per procacciare alle vostre azioni il merito dell’ubbidienza! Sottomettetevi ed ubbidite senza ragionare; questo è il carattere della pecorella; essa va per tutto ove il suo pastore vuol condurla, e tale deve essere la disposizione di un’anima verso chi la dirige nella via della salute. Ascoltate, figliuoli, la voce dei vostri genitori; essi sono altrettanti pastori nelle loro case, che debbono vegliare sul gregge che Dio ha loro affidato, che debbono con le istruzioni nutrirlo e col buon esempio. – Finalmente per essere pecore fedeli, fa d’uopo seguir le tracce del buon Pastore, cioè imitarlo: oves ìllum sequuntur (Jo. X). Lontana dal pastore la pecora è esposta a mille pericoli: ella deve essere sempre intorno lui e mai non lasciarlo per essere difesa dal furore delle bestie feroci. Seguitiamo noi pure nella stessa guisa Gesù Cristo, fratelli miei, non ci allontaniamo dalla sua compagnia, camminiamo fedelmente sulle sue pedate, e saremo sicuri di non perire. Egli è la via che dobbiamo seguire, è la vita che dobbiamo ricercare; non possiamo giungere a questa vita che con l’imitazione delle sue virtù e dei suoi esempi. Chiunque segue un’altra via è sicuro di errare. Or quale strada ci ha additata Gesù-Cristo? Quali esempi ci ha dati? Una strada difficile, piena di triboli e di spine; povertà volontaria, annegazione della propria volontà, mortificazione dei sensi e delle passioni, distacco dai piaceri, pazienza nei travagli; ecco la via che ci mostra. Ora ciò che deve muoverci a seguirlo si è che Egli l’ha calcata avanti di noi per darcene esempio: ante eos vadit (ibid.). Egli ne ha spianate le difficoltà e nulla da noi chiede che non abbia praticato egli stesso. Gesù Cristo ha sofferto per noi, dice s. Pietro, ci ha lasciato l’esempio affinché seguitiamo le sue tracce: Christus passus est prò nobis etc. (1 Petr. 2). Sarebbe egli giusto che l’innocente fosse entrato nella gloria per mezzo delle tribolazioni e per una strada difficile, e che i colpevoli vi entrassero per una strada fiorita e tra i piaceri? No, non vi saranno altri predestinati, fuorché coloro che dal celeste Padre saranno trovati conformi all’immagine del suo Figliuolo.

Pratiche. Mirate dunque, fratelli miei, l’esemplare che vi è presentato nella vita di Gesù Cristo per conformarvi la vostra. Considerate che cosa è stato questo uomo divino nel tempo di sua vita mortale sulla terra. Voi vedrete in Lui un uomo mansueto ed umile di cuore, sobrio, casto, paziente, un uomo sì staccato dai beni della terra e sì povero che non aveva luogo ove posare il capo; così misericordioso che pregava per i suoi crudeli nemici, così amante delle croci e dei patimenti che non solamente li soffriva con pazienza, ma li ricercava con ardore. Ecco il modello che dovete imitare: Inspice et fac secundum exemplar – (Guarda ed eseguisci secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte. – Exod. XXV 40). Alla vista di questo esemplare, arrossite della vita molle delicata che menate, della vostra sensualità ne’ banchetti, della vostra sensibilità sul punto d’onore, della vostra avversione ai patimenti, a tutto quello che può contrariare la natura; ma la confusione che proverete a questo confronto, vi faccia risolvere di riformare la vostra condotta, farvi una santa violenza, domar le vostre passioni, tenere in schiavitù i vostri sensi, privarvi dei piaceri vietati e moderar l’uso dei piaceri permessi. La vista degli esempi di Gesù-Cristo, vi renda più mansueti e più umili di prima, vi stacchi dai beni del mondo o dei suoi piaceri, vi renda più assidui alla preghiera, più compassionevoli verso dei poveri, più nemici delle massime del mondo, più regolati nella vostra condotta: Inspice et fac etc. Dopo aver seguito e imitato Gesù Cristo sulla terra come fedeli pecorelle, voi sarete poi uniti all’eletto gregge dei predestinati che godono della felicità di vederlo nel cielo. Cosi sia.

Credo

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Ps LXII:2; LXII:5  Deus, Deus meus, ad te de luce vígilo: et in nómine tuo levábo manus meas, allelúja.

Secreta

Benedictiónem nobis, Dómine, cónferat salutárem sacra semper oblátio: ut, quod agit mystério, virtúte perfíciat. [O Signore, questa sacra offerta ci ottenga sempre una salutare benedizione, affinché quanto essa misticamente compie, effettivamente lo produca].

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Joannes X: 14. Ego sum pastor bonus, allelúja: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ, allelúja, allelúja [Io sono il buon pastore, allelúia: conosco le mie pecore ed esse conoscono me, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Præsta nobis, quaesumus, omnípotens Deus: ut, vivificatiónis tuæ grátiam consequéntes, in tuo semper múnere gloriémur. [Concédici, o Dio onnipotente, che avendo noi conseguito la grazia del tuo alimento vivificante, ci gloriamo sempre del tuo dono.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/13/tutta-la-messa-cattolica-momento-per-momento-1/

LO SCUDO DELLA FEDE (109)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XIX.

Si dimostra che in Dio vi è provvidenzadelle opere umane.

I. L’esservi Dio nel mondo è una verità sì sonora, che penetra nelle orecchie della medesima ostinazione che sono le più ingrossate. Quante creature, tante voci, le quali, ora ciascuna da per sé, ora tutte in un coro pieno, ci fan palese quel maestro eminente che diede da principio le leggi di sì vaga armonia, e che ognora va sostenendole col suo braccio: Undique Ubi omnia resonant conditorem, dice Agostino (In Is. 26). Pertanto radi sono quegli aspidi che possano maliziosamente rendersi sordi da se medesimi a tante voci, sicché senza udire i richiami altissimi e assiduissimi che han d’intorno, pronunzino nella sala del loro cuore, col voto segreto di tutte le passioni ribelli, quella sentenza tante volte già da noi dichiarata per detestabile: Non est Deus. Quei medesimi che al cieco loro intelletto danno per guida la più cieca lor volontà, pare che ora mai non sappiano arrivare più avanti nella scelleratezza, che a negare al loro Dio. non più l’essere, ma sì bene la provvidenza: imitando quei malcontenti, che, per dare migliore aspetto a’ loro tumulti, protestano a piena bocca, che non impugnano l’armi contro del principe, ritirato nel gabinetto, ma contro del mal governo. Quid enim novit Deus? dicono essi: Nubes latibulum eius, et nostra non considerat (Le nubi gli fanno velo e non vede) (Iob. 22-14).

II. Qui dunque si fanno forti più gli ateisti. Consentono a Dio il trattenersi ozioso nella sua reggia, ma gli negano il pensiero delle cose umane: sicché, quando pur egli sia vago di governare, vogliono che a lui basti il governo naturale del mondo (quale appunto ad un principe saria quello de’ suoi giardini, o delle sue gallerie), purché il civile rimangasi tatto in mano della fortuna. Né mancano a questa divisione iniquissima i suoi colori. La virtù non aver più tra gli uomini pregio alcuno, se non quello della sua rarità: il vizio aver tutto il seguito universale: e nondimeno le pene e i premi distribuirsi così alla cieca, che sembra oltraggio, e non ossequio, figurarsene Dio per distributore. Quinci, dal governo avanzandosi al governante: Se presupponiamo, seguono a dire, Dio pago tanto altamente di se medesimo, a che finger poi, che gli piaccia o lordarsi la mente col pensiero delle nostre bassissime operazioni, o intorbidarsi la felicità colla cura degli operanti? Irridendum vero agere curam rerum fiumanarum istud, quicquid est, sumraum. Anne tam tristi atque multiplici ministerio, non pollui credamus, dubitemusve? (Plin. 1. 3. c. 3). Qual monarca degnò mai di applicarsi a ciò che succeda nelle capanne de’ pastori, anzi fin a ciò che si aggiri nelle cave delle talpe, o nelle conventicole de’ tafani? E noi, che in riguardo a Dio siamo tanto meno di quel che sieno quei miseri animaluzzi al confronto di un Alessandro, saremo poi o sì stolidi, o sì superbi che ci figuriamo questo gran nume sollecito a qualunque ora de’ fatti nostri? Scilicet is superis labor est : ea cura quietos sollicitat. Tanto più, che se in lui risiede la sorgente medesima di ogni bene, nulla gliene aggiungono i nostri ossequi, nulla gliene diminuiscono le nostre trasgressioni. Onde a che riputare che Egli sia vago delle nostre virtù, sia schivo de’ nostri vizi? Il sole non si altera né per nebbia di monti, né per nettezza; ma segue di qualunque tempo il suo corso tranquillissimamente su le lor cime.

III. Eccovi qua l’ultima ritirata degli ateisti. Convien pertanto scacciarli a forza ancor da questo recinto, fino a rapir loro di mano quella bandiera, in cui, come già quell’empio capitano, portano scritto un bel motto sotto un’abbominevole spiegazione: Cœlum cœli Domino, terram autem dedit filiis hominum. Il cielo resti al padrone del cielo, purché Egli a noilasci in arbitrio la terra.

IV. Ora, per cominciare da quelle opposizioni che assaltano il governante: Se, come tra gli antichi fenici vi fu chi giunse a tale stupidità, di adorare per Dio fino un sasso quadro (Arnob. contra gentes 1. 5), così ci fosse chi vi giungesse al presente, se gli potrebbe condonare tanta follia, di credere il suo Dio non curante de’ fatti umani. Ma mentre Dio è un essere perfettissimo, di cui non si può figurare il più commendabile, o il più compito, come se gli può mai negare la provvidenza, dote sì necessaria, senza annullarlo? (Hugo de s. Vict. 1. 1. de sacram. p . 5 . c. 13). Veggiamolo apertamente, discorrendo al solito per quei tre divini attributi, sotto cui si riducono tutti gli altri, di sommo potere, di sommo sapere, di somma bontà; giacche tutti e tre questi a Dio toglie subito chi gli toglie la provvidenza (La divina Provvidenza fu fra gli antichi negata dagli Epicurei e dagli Stoici, fra i moderni dai deisti ed in generale da coloro, che in mano alla cieca fortuna pongono le redini dell’universo.).

I.

V. E per ciò che attiensi al potere, quel che più si considera ne1 monarchi si è la giurisdizione, cioè a dire la forza di dar leggi ai popoli, guiderdonando chi le osservi tra loro più attentamente, castigando chi le travalichi. Or come dunque negare una tal possanza al monarca massimo, qual è quegli del cielo, dai cui decreti alla fine prendono ogni loro vigore tutte le leggi che si promulgano in terra? Il fingersi che questo Signor sovrano non provvegga, se non al mantenimento della natura, è farlo al più al più maestro di casa nel gran palagio dell’universo, ma non è giàfarlo principe, a cui propriamente spettasi il comandare ai magnati del suo reame. E diffatto noi proviamo dentro noi stessi che egli è veramente legislatore. Conciossiachè di quale altro sono voci i rimproveri della coscienza, da noi sentiti dopo ogni azione malfatta, se non di un intimo luogotenente di Dio, che comincia il giudizio dal dimostrare al reo che lo ha colto in fallo? onde quando anche tutte le leggi umane perdonino al delinquente, non gli perdona il cuor proprio, con fargli noto, che sono subito scritti in cielo i delitti da lui commessi.

VI. Quanto indegno però della divina natura è quel concetto che ne formano gli empi, quando essi dicono, che ella cadrebbe di grado, se si occupasse nel governare le creature, nell’attendere ai loro bisogni, nell’ascoltare le loro brame, o nell’esaminare i loro andamenti? Attesoché, se egli non cade dal suo grado, quando le cavò già dal nulla, come ne cadrà poi quando le governi? Si iniuria est regere, possiamo dir con Ambrogio, multo magis iniuria est fecisse(L. 1. off. c. 76). Se Dio fatorto alla sua maestà con dar leggi a noi sue creature, e con esigerne l’osservanza: come non le fe’ maggior torto con darci l’essere? Però,seil non aver bisogno di altrui non distolse quel supremo architetto dal produrre tante opere grandi epiccole di ogni guisa e dall’impiegare un’arte somma in ciascuna, per minima, che ella fosse, come potrà distoglierlo dal pensarvi, dappoiché le mira prodotte?

VII. Non avere in sé lui mancanza di bene alcuno, fa solo che Dio non possa operare con intenzione di provvedete a se parimenti, come fan gli agenti imperfetti, che dal giovare ad altri ricavano sempre mai qualche frutto ancor a se stessi di perfezione; ma non fa ch’egli assolutamente non operi in prò di altrui, tanto nell’ordine naturale a cui si riducono tutti gli effetti necessari, quanto nel morale, a cui si riducono tutti i liberi.

VIII. Né l’uomo, benché distante infinitamente dalla divina grandezza, è però indegno di essere oggetto speziale alla provvidenza di lei, mentre pure egli nel suo grado ha capacità di conoscere Dio, di aggradirgli, di amarlo, di tenere con esso lui commerzio di suppliche, di obbedienza, di ossequio, di adorazioni, come pur conobbe Aristotile (Eth. 1. 10. c. 8. n. 12): il quale però non temè dire, che se gli Dei avevano provvidenza, dovevano averla sopra di ogni altro dell’uomo, come di quello che più si avvicinava ad assomigliarli.

IX. Aggiungete, che Dio, creandoci, non ci creò come a caso, ma ci creò per un fine altissimo, quale appunto fu questo, di abilitarci alla somma felicità di cui siam capaci, che è piacere a Lui, glorificarlo, goderlo. Ditemi dunque: Che sarebbe di Dio, crearci tutti ad un fine, e ad un fine tale, e poi lasciarci, per dir così, in abbandono, quasi impotente a proseguir la grand’opera incominciata? Se ci die il fine, debbe anche porgerci i mezzi da conseguirlo, quali sono le leggi da lui prescritte, le ammonizioni, gli aiuti, e tuttociò che appartiene al vivere onesto. E tale è la provvidenza di cui parliamo: è la ragione di ordinare le cose al debito fine con mezzi acconci: Providentia est ars ordinans res ad suos finesper media convenientia (Boet. 1. 4. de consol. pros. 6). L’ordinare questi mezzi s’intitolaprovvedere: il somministrarli s’intitolagovernare: e l’uno e l’altro si dee concederea Dio, se non si vuole fare un altissimo tortoalla sua potenza infinita. Anzi se non si vuolepiù fare alla sua sapienza, di cui più propria si èl’una e l’altra cura (S. Th. p. q. art. 1. ad 2 ) .

II.

X. Volete voi per avventura negarmi, che Dio non conosca bene tutte le cose? Ma come può non conoscerle, se Egli le ha sempre tutte dinanzi agli occhi? Il re di Persia, risedendo nella città di Susa, per risapere quanto succedeva nell’imperio, aveva disposte frequenti sentinelle per ogni via, che colle fiamme di notte, econ le fumate di giorno, dessero segno degli avvenimenti di maggiore importanza dalle lor torri (Auctor. 1. de mundo c 7. apud Arist.). Non crediate però, che Dio sia necessitato fare altrettanto per risapere di subito tutto ciò che succeda nel nostro mondo. No, no; non ha Egli mestieri di messaggi veloci, i quali gliel rapportino sulle poste. Basta che fissi i guardi in se stesso. Quivi Egli, come in in un tersissimo specchio, rimira qualunque evento: onde, come non può Egli distogliersi un sol momento dal conoscere semedesimo, così non può distogliersi un sol momento dal conoscere ancor tutte l’altre cose. E sele conosce, perché volete voi che non le indirizzi tutte, come pur anzi io diceva, al debito fine? Può bene un savio principe, per motivi non penetrati dal volgo, restarsi di porre in mare un’armata; ma non può già, se ve la pose, lasciarla alla discrezione de’ venti, senza timoni, senz’antenne, senz’ancore, senza pilota, senza marinaresca, con intenzione che vada fluttuando qua e là con incerto corso, finché perisca, rimasta nelle secche, o rotta agli scogli. Questo sarebbe un operare da stolto, indegno della mente di un uomo, non che di un Dio.

XI. Né la viltà propria delle cose create trasfonde nulla della sua imperfezione nel divino intelletto, contemplandole Egli secondo l’essere perfettissimo che hanno dentro la sua increata virtù, per cui, quanto sono elleno basse in sé, tanto sono nobili in lui, che con arte sublime le divisò secondo i lor vari gradi. Quod factum est in ipso vita erat. Pertanto degno è di restar sepolto nella bocca di questi iniqui, quasi in un fetido avello, quel dir che Dio non cura le azioni umane, perché le azioni umane sono minuzie dianzi alla sua grandezza: non considerando i meschini, che in noi la cognizion delle cose minori talor si danna, perché non lascia luogo alla cognizion delle maggiori. Ma ciò, che ha a fare in Dio, che con un guardo semplice mira il tutto? Nel rimanente non fu già gloria somma di Salomone, l’essere lui sceso da’ cedri eccelsi del Libano a disputare fin dell’isopo più vile che spunti dalle pareti?

XII. Chi dirà poi, che conoscere il male sia mai lordarsi? Lordarsi è amarlo. Che se il male non è alfin altro, che privazione di bene, come le tenebre sono privazione di luce; basta a Dio che conosca sé, per sapere ciò che sia quel male che gli si oppone; come a noi basta che conosciamo la luce, por sapere ciò che sian tenebre.

XIII. Ne manco degna di restare ivi sepolta è l’altra non meno folle proposizione, che la numerosità degli umani affari possa a Dio turbare la quiete coll’imbarazzo, tristi atque multiplici ministeri. Costoro, dice Agostino (De Civit. Dei 1. 21. c. 27), vogliono ritrarre Dio da se stessi, semetipsos prò illo cogitantes. E come a toccare il fondo della loro mente basta uno scandaglio da fosso, tanto ella è corta; così figuransi, che basti parimente a toccarlo in Dio, che è quell’altissimo mare che non ha fondo. E se non ha fondo, come può soggiacere a sconvolgimento? Di Ciro racconta Plinio ( L . 7. c. 24 ) (quanto buono stimatore delle eccellenze umane, tanto mal saggiatore delle divine), che nel suo numerosissimo campo conosceva ciascun soldato di faccia, ciascun di nome. Eppure una tal vastità di memoria, come era per quel capitano un gran vanto, così nulla diminuiva a lui di sua quiete. Or quale giudizio dovrem noi dunque formare della sapienza divina, che non ha limite? Resterà ella sopraffatta da un numero di cose, che se a noi sembra un esercito smisurato, ad essa è meno che una pura decuria, che un povero drappelletto: Multi nobis videmur, dicea Minuzio (In Octav.), sed Deo pauci sumus. Paragonate, se aggradavi, il nulla al tutto; cioè a dire, paragonate una mente creata e carcerata tra gli organi corporei, inabili ad operare senza fantasmi, qual era quella di Ciro, con una mente increata e incircoscritta, che fa da sé; e poi sappiatemi dire, se a lei si adatti quel triste ministerium, con cui definiscono questi la Provvidenza, travestendo le bestemmie da ossequio, mentre sotto colore di formare un Dio di perfetta felicità, si fingono un Dio di benevole intendimento. Tanto più che Egli, nel tempo in cui contempla i disordini delle cose umane, e gli abborre, nel medesimo contempla la bellezza delle divine, e ne gode, suggendo da quella vena di contentezza, senza divertimento, infinito gaudio. Sicché quello sdegnarsi che fanno i grandi tra noi di pensare alle cose lievi e di favellarne; de minimis non curar Prætor; non è lode loro, se ben si guarda, è tumore, è tedio, è timore di non poter reggere a tutto senza annoiarsi: altrimenti qual dubbio vi è, che se lo recherebbero a gloria, come gloria è del mare l’accogliere tutti i rivi, e maggiori e minori, senza commuoversi?

XIV. E poi mirate sciocchezza! Quando anche nella mente divina potesse fingersi questa incapacità, che non è possibile, di tante cure ad un’ora; perché dunque volere piuttosto levare a lei la cura delle cose maggiori, assegnandole quella delle minori, che levarle la cura delle minori, assegnandole quella delle maggiori? Eppure così fanno questi empi, che dalla Provvidenza divina vogliono, più che altro, sottrarre le azioni umane, che sono le più eminenti. Le leggi tutte ( L’unica qui numero liberorum) scusano dal pigliare la tutela degli altrui figliuoli quel padre, il qual ne abbia cinque dei propri, mercecchè essendo la cura de’ propri parti il fine di un padre saggio, debbe una cura tal prevalere ad ogni altra cura non compossibile. Ora è certissimo, che il governo morale degli uomini è il fine del naturale, da che vediam, che gli effetti della natura tendono tutti a benefizio dell’uomo. E però, quando la provvidenza divina non fosse da tanto, che potesse saggiamente ordinare gli affari dell’umana felicità, se nel tempo medesimo pensi ad altro; dovrebbe porre in non cale gli affari della natura, per attendere a quelli della virtù, lasciando scorrere qualche difetto ne’ mezzi meno importanti, per tener saldo il fine, in grazia di cui furono amati que’ mezzi

XV. E però intollerabile la stolidità di chi confessa, che la natura nelle opere sue minute spende un incomparabile accorgimento: Natura nusquam magis quam in minimis tota est (Plin. 1. 11. c. 2), come un’altra volta fu ponderato; e poi nega un’attenzione, eziandio mediocre, della medesima natura, alle azioni buone, o ree, de’ mortali, quasi che queste non fossero sempre il fine a cui l’altre mirano. E il riputare diversamente è il tacciare Dio di milenso, o di mentecatto, e porre al reggimento del mondo un governatore, che non istarebbe né anche bene per padre di famiglia in una bottega. Quid absurdius, dice Agostino (L. 5. Gen. ad lit. c. 2), quid insulsius audiri potest, quam eam mundi partem totam esse vacuam nutu ac regimine Providentiæ, cuius extrema et exigua videat tanta dispositione formari? E però dalla sapienza che Dio mostra nella disposizion delle cose naturali, spettanti a’ bruti più vili, conviene argomentare quella che adopera nella disposizione delle morali, spettanti agli uomini, e persuadersi, che se egli vuole sì bella sino una chiocciola, molto più bello dovrà volere il cuore di ognun di noi. Chi vuole bello il convito delle sue nozze, bella la sala, belle le stanze, belli gli arazzi, belli i vasi, belle le vesti, molto più vorrà certamente bella la sposa, che è il fine di tutto il resto.

III.

XVI. Ed una tale considerazione medesima a vederci il torto parimente che arrecano alla divina bontà questi temerari che la spacciano priva di provvidenza. Imperocché ciò che è L’ottimo nell’universo, si è il bene dell’ordine, siccome quello che più contiene delle perfezioni divine, e più le notifica; onde conviene, che questo bene più ancor sia caro alla divina bontà, e più sia da lei sempre inteso, che qualunque altro. Pertanto può bene Iddio, senza diminuire la bontà sua, lasciar di comunicare alle creature la propria felicità, rattenendola tutta dentro se stesso; ma posto che egli risolvasi a diramarla punto in altrui, non può lasciar poi di volere in queste benevole comunicazioni ciò che è il loro fine, cioè mostrare l’ordine che evvi tra le creature e la divina bontà, come tra i rivi e la fonte; e però non può lasciar di esercitare verso tutti coloro, a cui si comunica, la sua provvidenza indefessa, non solo perché è potente, non solo perché è sapiente, ma perché è buono, che è quanto dire diffonditor di se stesso.

XVII. E per una pari ragione non può lasciare di provvedere con cura anche più speziale alle sostanze ragionevoli, che, come libere, più si avvicinano al fine inteso da lui, che è la sua glorificazione: onde queste si debbono regolare dalla provvidenza divina con cura tale, che al paragone di essa, la cura amministrata intorno agli effetti naturali abbia faccia di negligenza: Numquid de bobus cura est Deo?(forse Dio si prende cura dei buoi?)disse l’Apostolo (1. Cor. IX. 9). Non Perché Iddio non invigili ancora sui bisogni degli animali; ma perché a fronte dell’attenzione che pone al genere umano può dirsi, che li trascuri, se non da canto dell’atto di provvedere, che di certo è unico in tutti, almen da canto dei beni che somministra con un tal atto.

XVIII. Ma chi ne può dubitare? Non veggiam noi quanto ciascuna cagione mostri di amore al suo effetto (Natura commendat tigridi catulos suos, et immitem feram materno mollit affectu, disse un Ambrogio (Hexamer.16. c. 4). Or come Dio vorrebbe senza amoreesser padre, se non ha voluto che senza amoresia madre neppure la più cruda di tuttele fiere alpestri? Dall’altro lato, l’amore è incontanentecagione di provvidenza. E lo scornotuttora nell’amore stesso profano, il quale, quanto abbaglia gli occhi al conoscere giustamente i diletti della persona amata, tanto gli aguzza a vedere i bisogni in cui si ritrovi, ed a provvedervi, senza mai tenere in conto di lieve ciò che a lei spetti. Pertanto Iddio, che non solamente non ci ha prodotti alla cieca, come genera il padre la propria prole senza conoscerla, ma ci ha prodotti giusta l’idea della sua mente divina, conoscendoci appieno prima di farci; come potrà di poi, formati che ci abbia, dimenticarsi di noi, lasciandoci in mano al caso? Sono tacciate di poco amorevoli quelle madri che dopo avere generati i loro parti, li danno a balia, privandoli del vantaggio del proprio latte, quando loro diedero il sangue, quasi sdegnose di essere madri intere: Quod enìm est hoc contra, naturam imperfectum atque dimidiatum matris genus, peperisse, ac statim a se abiecisse (Favorinus apud Gell. 1. 13. c. 7)? Eppure tali madri cercano almen tra le balie la più opportuna a sostituirsi. Ora Dio, tenero inesplicabilmente di tutti noi, più che non fu madre alcuna dei suoi portati, non solo lascerà di assisterci Egli immediatamente poi che ci fece, ma ci darà in cura ad un caso stolto, capriccioso, insolente, cioè a dire ad una nutrice la più inetta di quante se ne divisino ad allevarci? Massimamente che i genitori potrebbero allegar qualche scusa della loro trascuratezza, fondata o nelle poche forze ch’essi posseggano, o nella minore capacità. Ma come potrebbe al pari scusarsi Dio, mentre la sua potenza infinita non gli permette stancarsi nel farci bene, e la sua infinita sapienza non gli permette ignorare di quale bene più ci sia d’uopo? Tutto il mancamento sarebbe nella bontà.

XIX. Che se pure alcuni stoltamente volessero recare in Dio, non a biasimo, ma a prodezza, questa non curanza spietata de’ propri parti; contuttociò l’amor che egli ebbe a sé, come a tanto buono, lo costringerebbe ad aver provvidenza delle azioni umane, se non in riguardo nostro, in riguardo suo. Di qual lode reputeremmo degno il cuore divino, se Egli non apprezzasse la virtù, e non abborrisse il vizio? Una tale divinità non sarebbe neppur di riputazione a un padron di villa in ordine a’ suoi garzoni. Giudicate poi se ella possa giammai convenire all’ottima di tutte le nature possibili, qual è Dio. Dall’altro lato, se Egli apprezza la virtù, se Egli abborre il vizio, come potremo noi persuaderci che egli non dichiarisi ben servito dalle azioni oneste, ed offeso dalle malvage? Stupidissimus est, qui non offenditur facto, quod non amat fieri (Tertull. in Marc. 1. 1. c. 19); specialmente che tutto ciò succede sugli occhi di lui medesimo, senza ch’Egli possa mai chiudergli un solo momento, o distorli altrove. Non sarebbe però come un Dio di stucco, quel che non si risentisse né di ciò che gli torna ad onore, né di ciò che gli torna ad onta; o che avendo in sua balìa pene e premi, patiboli e principati, procedesse nel ripartimento di ciò senza alcuna cura, non distinguendo né i buoni dai tristi, né i ben costumati dai turbolenti? Un tale Iddio sarebbe certamente più biasimevole di qualunque giudice iniquo, mentre egli verrebbe ad approvare in se medesimo quelle ingiustizie che dappertutto proibisce coll’universale consentimento di tutti i popoli, e biasima coll’universale condannamento.

XX. E dunque manifestissimo non potersi negare a Dio provvidenza, senza ferirlo altamente nel suo braccio, nella sua mente, nel suo cuore, cioè nella potenza, nella sapienza e nella bontà (Dio, come onnisciente, conosce il fine, cui tendono tutte e singole le creature, ed i mezzi necessari per arrivarlo; come onnipotente, ha in sua mano sicura tutti questi mezzi; come infinitamente buono, li fornisce alle creature tutte. Adunque nel concetto stesso di Dio, cioè di questi tre supremi suoi attributi, si rinviene il concetto della Provvidenza, la quale rimane così dimostrata a priori , e ben disse Lattanzio: « Si Deus est, utique providens est, alterum sine altero nec esse, nec intelligi potest. » Esiste Dio; dunque è provvido. O un Dio provvido, o nessun Dio.). Ingratissimi però noi, se, invece di adorare, pieni di fiducia, e di assecondare lo disposizioni di lui, lo calunniamo ogni tratto! In tal caso non è la Provvidenza che manchi a noi, siamo noi che manchiamo alla Provvidenza. Il sole è presente al cieco; eppure il cieco non è vicendevolmente presente al sole. Cæcus in sole præsentem habet solem, sed absens est ipse soli (S. Aug. in Ev. Io. tr. 3).

SALMI BIBLICI: “QUI CONFIDUNT IN DOMINO, SICUT MONS SION” (CXXIV)

SALMO 124: Qui confidunt in Domino, sicut mons Sion

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.  

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS -LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 124:

Canticum graduum.

[1] Qui confidunt in Domino, sicut mons Sion:

non commovebitur in æternum, qui habitat

[2] in Jerusalem. Montes in circuitu ejus; et Dominus in circuitu populi sui, ex hoc nunc et usque in sæculum.

[3] Quia non relinquet Dominus virgam peccatorum super sortem justorum; ut non extendant justi ad iniquitatem manus suas,

[4] benefac, Domine, bonis, et rectis corde.

[5] Declinantes autem in obligationes, adducet Dominus cum operantibus iniquitatem. Pax super Israel! [1]

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXIV.

Anima il profeta i viatori alla patria, a gran fiducia in Dio, che è potentissimo e fedelissimo.

Cantico dei gradi.

1. Coloro che confidano nel Signore sono come il monte di Sion; non sarà vacillante in eterno chi abita in Gerusalemme.

2. Ella è cinta dai monti; e il Signore cinge il suo popolo, e adesso e per sempre.

3 Perocché il Signore non lascerà che io salirò dei peccatori (domini) sopra l’eredità

dei giusti; affinché non istendano i giusti le loro mani all’iniquità.

4. Sii tu benefico, o Signore, coi buoni e con quelli di cuore retto.

5. Quelli poi che a storti sentieri si volgono, li porrà insieme il Signore con quelli che operan l’iniquità: pace sopra Israele. [1]

(1) La parola “obligationes” ha dato luogo a differenti interpretazioni. Noi ci contentiamo di fare osservare, per giustificare il senso che abbiamo adottato nella traduzione del testo e nelle spiegazioni che seguono, senso che è il più generalmente adottato, che questo versetto non fa che uno con il precedente, del quale è come il complemento, e se si vuol conciliare il testo latino, greco ed ebraico, non si può dubitare che questo termini non significhi l’obliquità e la tortuosità che prende la corda contrariata nella sua direzione, nell’avvolgersi in numerosi anelli. Questi nodi, queste tortuosità sono messi là per opposizione alla rettitudine di cui sta per parlare il salmista, e così c’è legame per sequela di idee. Se al contrario, si vuole intendere con questa parola, l’obbligo di fare qualche cosa, come sono i voti, i giuramenti, le promesse, i patti, ed altri impegni simili, non si potrà che indovinare appena ciò che ha voluto dire il Profeta. 

Sommario analitico.

In questo salmo il Profeta, giunto dopo l’esilio al termine del suo viaggio nella città santa, proclama la felicità di coloro che confidano nel Signore.

I. – Egli afferma la stabilità e la sicurezza di coloro che confidano in Dio, e che egli compara alla montagna di Sion:

1° essi saranno indistruttibili (1) ;

2° saranno in una sicurezza perfetta e durevole (2).

II. – Descrive la loro felicità che sarà il seguito:

1° della fine prossima delle persecuzioni dei loro nemici, di cui dà la ragione (3);

2° dei benefici che Dio spande sui giusti e su coloro che hanno il cuore retto (4);

3° del severo castigo che esercita sugli ipocriti e su coloro che seguono le vie tortuose;

4° della pace che farà regnare su Israele (5).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1.- 2.

ff. 1, 2. – « Coloro che confidano veramente in Dio sono come la montagna di Sion. Questa è il simbolo di una ferma speranza, invincibile, indistruttibile: avrete bene da moltiplicare le macchine, ma non riuscirete mai a rovesciare o distruggere una montagna. Così colui che attacca l’uomo, la cui speranza è in Dio, vedrà inutile tutti i suoi sforzi, perché la speranza in Dio, è un appoggio più sicuro di quanto possa essere una montagna (S. Chrys.) – « … come la montagna di Sion, » a causa della sua immobilità, della sua elevazione, della sua stabilità e soprattutto perché è una montagna cara e consacrata a Dio. La santa montagna di Sion, indistruttibile per la Potenza che Dio vi afferma, comunica la sua immobilità e la sua tranquillità ai suoi abitanti. – « Colà, non saranno mai abbattuti coloro che abitano in Gerusalemme. » Se noi qui intendiamo la Gerusalemme terrestre, tutti coloro che l’abitavano sono stati cacciati dalle guerre e dalla distruzione di questa città. Perché dunque coloro che abitano in essa non saranno mai distrutti, se non perché c’è un’altra Gerusalemme che è la madre nostra e verso la quale noi sospiriamo e gemiamo nel viaggio di questa vita, per avere la felicità di entravi? Noi erriamo lontano da essa e non abbiamo alcun cammino che ci conduca ad essa: il suo Re è venuto e si è fatto nostra via, affinché potessimo ritornare ad essa (S. Agost.) – Rappresentatevi la felicità della città dei cieli: coloro che vi sono entrati sono al riparo da ogni prova, e nulla oramai potrà distruggerli, né le passioni, né i piaceri, né le occasioni di peccato, né il dolore, né le sofferenze, né i pericoli, tutto ciò non esiste che nel passato (S. Chrys.). – La necessità di un senso superiore in senso letterale, appare qui in tutta la sua evidenza. Il nome della montagna di Sion, l’abitazione in Gerusalemme, le montagne che la circondano, tutto ciò richiede un senso spirituale, interiore se si vuole, ebbene questo salmo sia senza oggetto, ed il Profeta, attraverso il quale noi crediamo che lo Spirito Santo abbia parlato, potrebbe essere accusato di menzogna. Qual frutto, in effetti, riporterà colui che mette la sua fiducia nel Signore, di essere come la montagna di Sion, cioè che un uomo ragionevole diventi una pietra, una roccia, un albero, o altro, e di discendere dalla natura animata alla natura inanimata? Come sarebbe vero, allora che colui che abita in Gerusalemme non sarà mai abbattuto? E Gerusalemme ha potuto santificare e difendere i suoi abitanti e dare loro eterno rifugio, essa che ha visto compiersi in mezzo ad essa il massacro dei Profeti, il giudizio che condannò il Signore a morte, la fuga degli Apostoli e lo scandalo della croce? Quante volte i suoi abitanti sono stati condotti in cattività? Quante volte messi a morte? Infine questa città è stata distrutta da cima a fondo, e coloro che sono sopravvissuti alla sua distruzione, sono stati dispersi ai quattro venti del cielo … Questa montagna di Sion, è dunque la Chiesa, che ha per fondamento Gesù Cristo, dunque il Signore ha detto con il suo Profeta: « Io stabilirò per fondamento in Sion, una pietra solida, scelta, preziosa, angolare ed immutabile, e colui che crederà in questa pietra non sarà confuso » (Isai. XXVIII, 16). Nessun dubbio che l’Apostolo non abbia inteso questo fondamento se non in Gesù Cristo, sul quale si appoggia la Chiesa figurata con questa montagna. Questa Chiesa è la Gerusalemme, di cui l’Apostolo dice: « La Gerusalemme dell’alto è libera, ed essa è la madre nostra. » (Gal. IV, 25, 26). Noi dunque abbiamo qui, tutte insieme, Sion, la montagna del Signore, e Gerusalemme, la vera città di Dio (S. Hilar.) – Ed aspettando, coloro che abitano con il desiderio e la speranza questa Gerusalemme celeste, che non aspirano che al possesso di Dio, partecipano a questa felice immutabilità e non perdono mai, loro malgrado, l’oggetto della loro speranza e del loro amore. – « Delle montagne la circondano. » Per noi è gran cosa essere in una città circondata da montagne? È nostra suprema felicità possedere una città circondata da montagne da ogni parte? Non abbiamo dunque mai visto montagne? E cosa sono le montagne se non porzioni di terra elevate? Ma ci sono altre montagne, montagne amabili, montagne sublimi: i predicatori della verità, gli Angeli, gli Apostoli, i Profeti. Essi circondano Gerusalemme da ogni lato, e la circondano come una cinta di mura … Queste montagne sono illuminate da Dio; esse sono le prime a ricevere la luce, che da esse discende nelle valli e sulle colline; con queste montagne, noi riceviamo il dono della santa Scrittura, sia nei Profeti, sia nelle lettere apostoliche, sia nel Vangelo … Ma siccome le montagne stesse non sono difese dalle proprie forze, nè esse ci proteggono con la loro possanza, e non dobbiamo porre la nostra speranza in esse, … il Profeta aggiunge immediatamente: « ed il Signore è intorno al suo popolo, » affinché la vostra speranza non riposi sulle montagne, ma in Colui che rischiara le montagne. In effetti, poiché Dio abita nelle montagne, cioè nei Santi, è Egli stesso intorno al suo popolo come una muraglia di fortezza spirituale, perché non sia mai abbattuta. (S. Agost.) – È ciò che cantava il Profeta Isaia: « Sion è una città forte, il Salvatore ne è Egli stesso muraglia e la ripara. Aprite le sue porte, riceva nel suo seno un popolo che ama la verità. » (Isai. XXVI, 1). È ciò che Nostro Signore Gesù Cristo promette alla sua Chiesa, che è la vera Sion: « … ecco che io sono con voi fino alla consumazione dei secoli. » (Matth. XXVIII, 20).

II. — 3-5

ff. 3 – 5. –  « Dio non lascerà riposare la verga dell’empio sull’eredità dei giusti. » La “verga” nella Scrittura è l’insieme della potenza. Mosè ricevette da Dio una verga per operare i suoi prodigi; Aronne ricevette ugualmente una verga, simbolo della sua preminenza sugli altri sacerdoti. Noi vediamo nella Scrittura la verga del Faraone, la verga di Nabucodonosor, appesantirsi sul popolo di Dio. Il Signore è dunque intorno al suo popolo, perché la verga dei peccatori non riposi sull’eredità dei giusti. Le tribolazioni vengono, ma non durano; le persecuzioni ci assalgono, ma sono di breve durata. Vi sono molti che vogliono ridurre in cattività la libertà della nostra fede, ma nessuno giunge a dominare su questa fede che abbiamo in Cristo; perché il Signore resta eternamente intorno al suo popolo, per paura che stanco e soccombente sotto il peso di questa verga, non stendiamo le nostre mani verso l’iniquità. Tutto ciò che soffriamo dai nostri nemici è breve e, benché la battaglia sia di breve durata, il prezzo della vittoria è eterno. (S. Hilar.) Benché Dio permetta che i peccatori dominino sui giusti con l’autorità, che non servano, nella maggior parte del tempo, che ad opprimere coloro che sono loro soggetti, non permette che i loro dominatori si affermino e sussistano per sempre, né che la loro autorità si estenda ai beni spirituali ed interiori, che sono la sorte, la porzione e le vere ricchezze dei veri Cristiani. Dio pure lo vuole perché, benché giusti che siano, sarebbe da temere che, per debolezza o per partecipare alla prosperità temporale degli empi, le loro mani non servano a commettere delle azioni inique (Duguet.) – Ora, in effetti, i giusti sono talvolta nella sofferenza, e gli ingiusti hanno talvolta autorità sui giusti. Come mai? Accade, ad esempio, che i malvagi pervengano alle dignità del mondo; e quando sono giunti a diventare giudici o re, Dio permettendo, per formare il suo popolo al bene, non si possono loro rifiutare gli onori dovuti al loro rango. In effetti, Dio ha organizzato la sua Chiesa in modo tale che ogni potenza stabilita in questo mondo debba essere onorata, anche in uomini che meritano tutt’altro. Ma sarà sempre così, e gli ingiusti avranno sempre autorità sugli ingiusti? No, certo, la verga dei peccatori fa sentire il suo peso per un tempo, sulla sorte dei giusti, ma non per l’eternità, non per sempre. Verrà un tempo in cui il Cristo, apparendo nella sua gloria, radunerà intorno a sé tutte le nazioni, le separerà, come un pastore separa i capri dalle pecore, e metterà le pecore a destra ed i capri alla sinistra (Matth. XXV, 33). Allora voi constaterete un buon numero di servi tra le pecore, ed un buon numero di padroni tra i capri; e di contro un buon numero di padroni tra le pecore, e un certo numero di servi tra i caproni; poiché se noi consoliamo i servi, non tutti i servi sono buoni, o per il fatto che reprimiamo l’orgoglio dei padroni, tutti i padroni sono cattivi: ci sono dei padroni buoni e fedeli e ce ne sono altri di cattivi: vi sono dei buoni e fedeli servitori, e ve ne sono di cattivi. Ma, intanto che buoni servi si sono ridotti a servire cattivi padroni, che essi sopportino, per un tempo questa necessità: « … perché Dio non lascerà sempre la verga dei peccatori pesare sulla sorte dei giusti. » Perché? « per timore che i giusti non tendano le mani verso l’iniquità. » I giusti, dunque sopportino per qualche tempo, la dominazione degli ingiusti, comprendano che essa non durerà per sempre, e si preparino a possedere l’eterna eredità. Quale eredità? Quella in cui essendo abolita ogni dominazione, ogni potenza, Dio sarà in tutti. (II Cor. XV, 28). Conservandosi per questa eredità, e contemplandola con gli occhi del cuore, possedendola già con la fede, preservandola in modo da raggiungerla, essi non stendono la mano verso l’iniquità; perché se essi vedessero che la verga dei peccatori pesasse per sempre sulla sorte dei giusti, essi non direbbero a se stessi nei loro pensieri: « a cosa mi serve essere giusto? Il malvagio dominerà sempre su di me ed io resterò sempre schiavo? Io anche commetterò l’ingiustizia, perché non mi serve a nulla conservare la giustizia. » È per prevenire un tale linguaggio che è data l’assicurazione che la verga dei peccatori non si poserà che per un tempo sulla sorte dei giusti (S. Agost.). – In ogni circostanza dipende da noi, di principio, ottenere i favori di Dio o incorrere nei suoi castighi. Tuttavia, malgrado la parte che Dio ci lascia prendere, la sua bontà non brilla con meno splendore, e la sua liberalità nei nostri riguardi è ben superiore a tutto ciò che possiamo fare … i cuori retti di cui parla il salmista, sono i cuori nemici della dissimulazione e dell’artificio, le anime senza trucco e senza inganno. Tale è anche la virtù, semplice e retta, mentre il vizio ama servirsi di vie deviate, sempre diverse e senza uscita. (S. Chrys.) – I cuori retti sono soprattutto quelli che conformano il loro giudizio e la loro volontà alla regola rettissima del giudizio e della volontà di Dio, benché non sappiano perché Dio permetta questo e non quello. Essi acconsentono a Dio in ogni cosa: Dio piace a loro e loro piacciono a Dio. –  Ci sono due tipi di persone che non sono affatto di Dio: – 1) coloro la cui via è manifestamente sregolata e ammantata di crimini; – 2) coloro che, pur facendo professione di osservare la sua legge, abbandonano la via retta per le vie tortuose, per seguire le devianze e le false massime del secolo, che approvano spesso ciò che è cattivo e degno di biasimo. Dio li tratterà come i primi, e li aggiungerà a coloro che commettono l’iniquità. (Dug.) –  Il salmista termina con una preghiera; tale è la condotta ordinaria dei Santi: all’esortazione, ai consigli, essi aggiungono la preghiera, per far discendere su coloro che essi hanno istruito i potenti soccorsi del cielo. Ora, la pace che si augura loro, non è la pace esteriore, ma una pace di ordine più elevato. Egli ne indica l’origine, e domanda a Dio che l’anima non si divida contro se stessa, favorendo la guerra interiore che gli fanno le passioni. (S. Chrys.) – Questa pace è la prerogativa dei soli figli della Chiesa, che sono l’Israele di Dio. Israele significa “chi vede Dio”, e Gerusalemme significa “visione della pace”. Chi sono coloro che non saranno mai abbattuti? Coloro che abitano in Gerusalemme. coloro, di conseguenza, che abitano la visione della pace non saranno mai abbattuti, e « … che la pace sia su Israele. » Israele è colui che vede Dio, è dunque anche colui che vede la pace; Israele è dunque anche Gerusalemme, perché è il popolo di Dio, come Gerusalemme è la città di Dio (S. Agost.)