DOMENICA VII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA VII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA VII dopo PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

In questa settimana non si poteva scegliere una lettura migliore nel Breviario,  del doppio racconto degli ultimi giorni di David — poiché, dice S. Girolamo, « tutte le energie del corpo si indeboliscono nei vecchi, mentre solo la sapienza aumenta in essi » (2° nott.) — e della storia di suo figlio Salomone, che fu celebre fra tutti i re per la sapienza. – David, sentendo avvicinarsi il momento della morte, designò come suo successore, fra i suoi figli, Salomone, il diletto da Dio. E Natan profeta, condusse Salomone a Gihon, ove il sacerdote Sadoc prese dal tabernacolo l’ampolla d’olio e unse Salomone; si suonò la tromba e tutto il popolo disse: « Viva il Re Salomone! ». David disse a suo figlio: «Sarai tu a innalzare il tempio del Signore. Mostrati forte e sii uomo! Osserva fedelmente i comandamenti del Signore, affinché si compia la parola che pronunciò su me: « Il tuo nome si è affermato e i tuoi discendenti regneranno per sempre! Tu agirai secondo la tua sapienza, poiché sei un uomo saggio ». E David s’addormentò coi suoi padri e fu sepolto nella città che porta il suo nome dopo aver regnato sette anni a Ebron e trentatré anni a Gerusalemme, la fortezza inespugnabile che egli aveva preso ai Filistei. E Salomone si assise sul trono di suo padre, ed il suo regno fu ben sicuro. Era un giovane di diciassette anni, amava il Signore e gli offriva olocausti. – Iddio apparve in sogno a Salomone e gli disse. «Chiedi tutto quello che vuoi e io te lo darò ». Salomone gli rispose: « Signore, io non sono che un fanciullo per regnare al posto di David, mio padre; accordami la sapienza affinché io possa discernere il bene dal male e conduca il tuo popolo sulle tue vie ». E Dio aggiunse: « Ecco io ti dono un cuore saggio e intelligente, tale che tu supererai tutti i sapienti che furono e quelli che verranno, e ciò che tu non mi hai chiesto (lunga vita, ricchezza, trionfi) te lo darò in più ». Secondo la promessa del Signore, Salomone non solo fu il più sapiente, ma il più splendido e possente re d’Israele. Tutti i re gli apportavano i loro doni e tutte le nazioni che fino allora avevano disprezzato Israele, ne ricercavano l’alleanza. La regina di Saba venne a consultarlo e rimase piena di ammirazione per tutti quello che vide e intese da lui. Il Faraone, re d’Egitto, gli dette la figlia in isposa; Hiram, re di Tiro, fece con lui alleanza e un trattato, pel quale, in compenso del grano, dell’orzo, del vino, dell’olio, che le campagne della Palestina producevano abbondantemente, gli forniva legni preziosi delle foreste del Libano, e operai per la costruzione del tempio. Salomone insegnò al popolo il timor di Dio e questi lo protesse in tutte le imprese e lo aiutò quando il suo fratello maggiore avrebbe voluto regnare in sua vece. Così si realizzarono le parole che Salomone medesimo pronunciò e che S. Girolamo ci ricorda nell’ufficio di oggi: « Non disprezzare la sapienza e questa ti difenderà. Mettiti in possesso delia sapienza e acquista la prudenza; impadronisciti di essa ed essa ti esalterà, tu sarai glorificato da essa e, quando l’avrai abbracciata, ti metterà sul capo splendori di grazia e ti coprirà di una gloriosa corona ». « Infatti colui che giorno e notte, commenta S. Girolamo, medita la legge del Signore, diventa più docile con gli anni, più gentile, più saggio col progresso del tempo e negli ultimi giorni raccoglie i più dolci frutti dei suoi lavori d’altri tempi » (2° Nott.). – Laddove, « Quale frutto, chiede l’Apostolo, avete tratto dal peccato, se non la vergogna e la morte eterna? », mentre « ricevendo Dio voi producete frutti di santità e guadagnate la vita eterna » (Ep.). E nostro Signore dice nel Vangelo: « Si riconosce l’albero dai suoi frutti. Ogni albero buono porta frutti buoni e ogni albero cattivo porta frutti cattivi ». E aggiunge: « Non sono già quelli che mi dicono: Signore, Signore, che entreranno nel regno dei cieli, ma quelli che fan la volontà del Padre mio che è nei cieli • Cosi, commentando l’Introito di questo giorno, S. Agostino dice « È necessario che le mani e la lingua siano d’accordo: che l’una glorifichi Dio e che le altre agiscano ». La vera sapienza non consiste solamente nell’intendere le parole di Dio, ma nel realizzarle; né pregare Dio, ma anche nel mostrargli con le opere che lo amiamo ». « Il Vangelo – dice S. Ilario – ci avverte che le parole dolci e gli atteggiamenti mansueti debbono essere valutati dai frutti delle opere e che bisogna apprezzare qualcuno non secondo quello egli si mostra a parole, ma secondo quello che si mostra ai fatti, perché spesso la veste dell’agnello serve a nascondere la ferocità dei lupi. Dunque, attraverso la nostra maniera di vivere noi dobbiamo meritare la beatitudine eterna, di modo che noi dobbiamo volere il bene, evitare il male e obbedire di tutto cuore ai precetti divini per essere gli amici di Dio mediante il compimento di questi propositi » (3° Nott.). – Salomone, il re pacifico, non è che una figura del Cristo: il suo segno che tutti acclamano (Intr., Alt.) annuncia quello del Messia che è il vero Re della pace; Salomone, il più saggio dei re, presagisce il Figlio di Dio del quale il Padre disse sul Tabor: « Ascoltatelo » (Grad.). Egli presagisce la Sapienza incarnata che ci insegnerà il timor di Dio (id.) e il modo per distinguere il bene dal male (Vang.). Gli olocausti, fatti al tempo della consacrazione del Tempio di Salomone (Off.) sono, come quello di Abele (Secr.), ombra dell’unico sacrificio cruento, che Cristo offrì sul Calvario; che coronò in cielo, ove entrò dopo aver ottenuta la vittoria su tutti i suoi nemici. Questo dichiara il Salmo XLVI (Intr.), nel quale i Padri hanno visto, sotto il simbolo dell’Arca dell’alleanza che il popolo di Dio fa passare, in mezzo alle acclamazioni, dai campi di battaglia sulla montagna di Sion, una figura dell’Ascensione di Gesù nel regno celeste.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLVI:2.  Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis.

[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Ps XLVI: 3 Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis: Rex magnus super omnem terram.

[Poiché il Signore è l’Altissimo, il Terribile, il sommo Re, potente su tutta la terra.]

Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis.

[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Oratio

Orémus.

Deus, cujus providéntia in sui dispositióne non fállitur: te súpplices exorámus; ut nóxia cuncta submóveas, et ómnia nobis profutúra concédas.

[O Dio, la cui provvidenza non fallisce mai nelle sue disposizioni, Ti supplichiamo di allontanare da noi quanto ci nuoce, e di concederci quanto ci giova.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom VI: 19-23

“Fratres: Humánum dico, propter infirmitátem carnis vestræ: sicut enim exhibuístis membra vestra servíre immundítiæ et iniquitáti ad iniquitátem, ita nunc exhibéte membra vestra servíre justítiæ in sanctificatiónem. Cum enim servi essétis peccáti, líberi fuístis justítiæ. Quem ergo fructum habuístis tunc in illis, in quibus nunc erubéscitis? Nam finis illórum mors est. Nunc vero liberáti a peccáto, servi autem facti Deo, habétis fructum vestrum in sanctificatiónem, finem vero vitam ætérnam. Stipéndia enim peccáti mors. Grátia autem Dei vita ætérna, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

IL PECCATO

“Fratelli: Parlo in modo umano, a motivo della debolezza della vostra carne. Come deste le vostre membra al servizio dell’immondezza e dell’iniquità per commettere l’iniquità; così ora date le vostre membra al servizio della giustizia per la santificazione. Perché quando eravate servi del peccato, eravate liberi rispetto alla giustizia. Ma qual frutto aveste allora da quelle cose, delle quali adesso arrossite? Giacché il loro termine è la morte. Ma adesso, affrancati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per vostro frutto la santificazione e per termine la vita eterna. Perché la paga del peccato è la morte, ma il dono grazioso di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore…” (Rom. VI, 19-23).

L’Epistola è un brano della Lettera ai Romani. Il Cristiano, liberatosi con l’aiuto di Dio dalla servitù del peccato, è passato a servire la giustizia. Sarebbe un controsenso, se tornasse ancora al peccato. Egli deve continuare nella giustizia a servir Dio con altrettanto zelo, con quanto prima ha servito al peccato. Quand’era schiavo del peccato, commetteva azioni di cui ora deve arrossire, le quali avevano per termine la morte spirituale, che è la paga del peccato. Ora, invece, lontano dal peccato, fatto servo di Dio, deve, con la grazia di Lui, compiere buone opere, che conducano alla vita eterna. Questo brano ci porge occasione di parlare del peccato, il quale:

1. È una dura servitù,

2. Che ci riempie di confusione

3. E ci conduce alla eterna rovina.

1.

Quando eravate servi del peccato, eravate liberi rispetto alla giustizia. Eravate da essa lontani, esenti dal suo giogo. Se il vostro padrone era il peccato, non potevate attendere alle opere della giustizia. Chi vive schiavo del peccato, non è libero di far quel che vuole; ma deve fare la volontà del padrone che odia la giustizia, e impedisce che i suoi servi, attendendo alle opere della giustizia, procurino la propria santificazione. L’Apostolo parla a coloro che avevano cessato di esser servi del peccato, e che, aiutati dalla grazia di Dio. attendevano alla propria santificazione. Anche noi nel Battesimo siamo stati affrancati dal peccato; ma non saremmo per avventura ritornati sotto il suo giogo, invece di attendere alla nostra santificazione! Pensiamo un po’ quanto sia deplorevole la condizione di chi è schiavo. Il cuore ci si commuove quando leggiamo di tanti nostri fratelli, che nei paesi barbari vengono catturati, venduti, comperati come schiavi. Approviamo l’opera di coloro che si adoperano per togliere o ridurre questa piaga; lodiamo i governi energici che, con il loro intervento, troncano questo turpe mercato. Ma una schiavitù da compiangersi anche maggiormente, è la schiavitù del peccato. «Chi commette il peccato è schiavo del peccato». (Giov. VIII, 34). – Si comprende che uno schiavo preferisca a un padrone crudele un padrone che abbia sentimenti di umanità. Quando si commette il peccato, invece avviene precisamente il contrario. Si abbandona Dio, bontà infinita, che non lascia senza ricompensa il più piccolo sacrificio fatto per lui, e si va a servire un tiranno inesorabile. – Il suo primo atto è quello di spogliarci di tutti i beni spirituali. Di tante lotte sostenute, di tante privazioni, di tanti sacrifici, che cosa rimane, per la vita eterna? – Il peccatore si è incontrato in un ladrone che lo ha spogliato di tutti i meriti che s’era acquistati servendo Dio, quend’era nella sua grazia. Avutici in suo potere, non ci lascia un momento di tregua. Comanda sempre. Se, caduto una volta in peccato, l’uomo non cerca, con l’aiuto di Dio, di sottrarsene subito al grave giogo, presto cadrà di nuovo. Commetterà un altro peccato, quasi per far dimenticare il primo; se ne aggiungeranno altri; si formerà l’abitudine; e, fatta l’abitudine, la servitù è completa. Non farà neppur più il tentativo di rompere i legami che l’avvolgono: «Purtroppo resterà schiavo delle sue passioni e stretto nelle catene dei suoi peccati» (Prov. V, 22.). – Come non gli bastasse, poi, un tiranno solo, il peccatore si cerca tanti tiranni quante sono le passioni a cui cede. Egli sarà schiavo della superbia, dell’avarizia, della gola, della lussuria, dell’empietà ecc.: tutti padroni che, messe una volta le catene al piede del loro schiavo, son decisi a non levarle più. «Quanti sono i peccati, quanti sono i vizi, altrettanti sono i tiranni» (S. Ambrogio. In Ps. CXVIII Serm. 20, 50. 1). –

2.

S. Paolo si domanda: Ma qual frutto aveste allora da quelle cose, delle quali adesso arrossite?Nella domanda è inclusa la risposta: Il frutto avuto fu la confusione. Si allude specialmente ai peccati impuri, ma vale per qualunque peccato. Qualunque peccatore, dopo la sua conversione, considerando qual era il suo stato durante la vita di peccato, non può sottrarsi a un certo smarrimento d’animo, vedendo a quale punto si era degradato. Dio ha dato all’uomo la ragione, con cui possa governare tutte le sue facoltà. Quando invece di governare, lascia che prendano sopravvento dalle passioni, la ragione è come sbalzata dal suo trono; l’uomo perde la sua dignità, e scende al livello degli esseri irragionevoli, «che non hanno né il giudizio con cui giudicare e governarsi, né lo strumento del giudizio, la ragione» (S. Bernardo – In Cant. Serm. 81. 6). Dio rimproverò amaramente Israele : «Il mio popolo sostituì la sua gloria con un idolo (Ger. II, 11). Chi offende Dio si prostra innanzi all’idolo mostruoso del peccato. La disillusione segue necessariamente, e sempre, il peccato. «Ogni peccato ha questo: prima che si commetta ha un certo qual piacere; commesso che sia, il piacere cessa e inaridisce: vi subentra il dolore e la tristezza » (S. Giov. Crisost. In Epist. ad Thim. Hom. 2, 3). E quanto più uno si sforza di trovar soddisfazione nel peccato, tanto più si sente oppresso dal dolore e dalla tristezza. Nonostante tutta l’apparenza esterna: allegria, divertimenti, piaceri, ricchezze, onori, il peccatore è nella più stretta miseria spirituale. Nonostante i frizzi, l’ostentato disprezzo, il compatimento per coloro che servono Dio, egli gli invidia. Essi godono un bene che manca a lui: la serenità dello spirito. Il nostro cuore è fatto per Dio, e i piaceri di quaggiù non possono appagarlo. L’anima si trova a posto quando è con Dio: lontana da Lui, non c’è che lo smarrimento, l’angoscia, la confusione.

3.

Non solo le azioni peccaminose ci rendono infelici in questa vita; esse ci conducono all’eterna dannazione, giacché il loro termine è la morte. Questo è il soldo che il peccato paga ai suoi seguaci per il servizio prestato. «La via dei peccatori — dice S. Agostino — ti piace perché è larga, e molti vi camminano: tu ne vedi la larghezza, ma non ne vedi il termine. Dove essa finisce, sta il precipizio; essa conduce in fondo a un baratro: quivi finiscono quelli che spaziano allegramente in questa via» (En. in Ps. CXLV, 19). Chi comincia male, finisce peggio. Ai nostri giorni hanno preso grande sviluppo le escursioni in montagna. Sono comitive, più o meno numerose, che togliendosi dalla vita agitata e dall’afa della città, vanno a respirare l’aria libera e a godere lo spettacolo della natura. Come sono allegre, chiassose alla partenza! Come fanno pompa del loro sacco e della loro piccozza! Ma non è sempre così al ritorno. Non di rado la salita è troncata a metà. Alcuni s’affrettano a casa, con l’angoscia nel cuore, a portare alla madre, alla sorella, alla sposa d’uno dei gitanti una triste notizia: « È  precipitato in un burrone!» Altri rimangono sul posto come impietriti, o vanno in cerca, di coraggiosi alpigiani che, affidati alle corde, scendano nel precipizio a rintracciare e a riportare il cadavere dello scomparso. Quante volte la morte assale, lungo il cammino incompiuto, il peccatore nella sua spensieratezza, e lo precipita nel baratro dell’inferno! E da quel baratro nessuno lo toglierà più. « Chi vuol passare da qui a voi non lo può » (Luc. XVI, 26), dice Abramo, invocato dal ricco epulone. Laggiù in quel baratro non ci sarà la pace e la tranquillità, che regna nei burroni delle montagne. Laggiù ci sarà il rimorso, lo strazio d’ogni pena, la lontananza da Dio. Se noi quaggiù perdiamo un amico, ne possiamo trovare un altro, forse migliore del primo. Ma Dio, non si può sostituire ; né il dolore della sua perdita può venir lenito dal tempo. La stessa pena che si soffre, parla della potenza e della giustizia di Lui. Nuovi ricordi, nuove distrazioni non ce lo potranno far dimenticare. Quale pena! Essere creati per amar Dio, per goder Dio, e dover starsene lontani per sempre, sotto i colpi della sua giustizia punitrice. Il padre Giovanni Mazzucconi, primo missionario e martire della Melanesia, trovandosi, da fanciullo, in collegio, vide un compagno commettere una grave mancanza contro di un altro. Diede in un pianto dirotto. Uno gli si accostò e gli fece la domanda: «Perché piangi ?» — « Piango — rispose — perché quello ha peccato » (Cenni sul sacerdote Giovanni Mazzucconi. Milano .1857, pagina 11). Se si considerasse sul serio la bruttezza e le conseguenze del peccato, ci sarebbe veramente da piangere. Ma, purtroppo, non si considera la malizia e la bruttezza del peccato prima di commetterlo, e non la si considera, generalmente, dopo che si è commesso; e così, un peccato tira l’altro. Prendiamo un po’ per noi le parole del profeta ai Giudei: «Applicatevi col vostro cuore a riflettere sui vostri andamenti» (Agg. 1. 5), e se scorgiamo che la nostra vita è peccaminosa, mutiamo subito condotta. « È bello non peccare, ma è anche buona cosa convertirsi dopo aver peccato; come è cosa eccellente esser sempre sani, ma è bello anche guarire dalla malattia» (S. Clemente Alessandrino. Pedag. L . 1 , c. 9).

Graduale

Ps XXXIII: 12; XXXIII: 6

Veníte, fílii, audíte me: timórem Dómini docébo vos. – V. Accédite ad eum, et illuminámini: et fácies vestræ non confundéntur.

[Venite, o figli, e ascoltatemi: vi insegnerò il timore di Dio. V. Accostatevi a Lui e sarete illuminati: e le vostre facce non saranno confuse.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps XLVI: 2 Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis. Allelúja.

[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt VII: 15-21

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Atténdite a falsis prophétis, qui véniunt ad vos in vestiméntis óvium, intrínsecus autem sunt lupi rapáces: a frúctibus eórum cognoscétis eos. Numquid cólligunt de spinis uvas, aut de tríbulis ficus? Sic omnis arbor bona fructus bonos facit: mala autem arbor malos fructus facit. Non potest arbor bona malos fructus fácere: neque arbor mala bonos fructus fácere. Omnis arbor, quæ non facit fructum bonum, excidétur et in ignem mittétur. Igitur ex frúctibus eórum cognoscétis eos. Non omnis, qui dicit mihi, Dómine, Dómine, intrábit in regnum coelórum: sed qui facit voluntátem Patris mei, qui in cœlis est, ipse intrábit in regnum cœlórum.”

[“In quel tempo disse Gesù a’ suoi discepoli: Guardatevi dai falsi profeti, che vengono da voi vestiti da pecore, ma al di dentro son lupi rapaci: li riconoscerete dai loro frutti. Si coglie forse uva dalle spine, o fichi dai triboli? Così ogni buon albero porta buoni frutti; e ogni albero cattivo fa frutti cattivi. Non può un buon albero far frutti cattivi; né un albero cattivo far dei frutti buoni. Qualunque pianta che non porti buon frutto, si taglia, e si getta nel fuoco. Voi li riconoscerete adunque dai frutti loro. Non tutti quelli che a me dicono: Signore, Signore, entreranno nel regno de’ cieli; ma colui che fa la volontà del Padre mio che è ne’ cieli, questi entrerà nel regno de’ cieli”]

Omelia II

Sopra le buone opere.

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

“Omnis arbor, quæ non facit fructum bonum excidetur, et inignem mittetur.”

 Matth. VII.

Qual è, fratelli miei, quell’albero sfortunato, che Gesù Cristo nel suo sdegno minaccia di far tagliare e gettar nel fuoco, per non aver portati frutti buoni? Voi mi prevenite senza dubbio nella risposta, che debbo farvi, e, per poco che abbiate penetrato il senso misterioso delle parole di Gesù Cristo, comprendete facilmente che quell’albero infruttuoso è il Cristiano sterile in buone opere. L’uomo cristiano, infatti, è come un albero, che Dio ha piantato nel suo campo, facendolo nascere nel seno della vera religione. Dio ha coltivato quest’albero con gran cura, a fine di renderlo fertile; egli ha dunque motivo di aspettarne del frutto, e se non produce, meritamente lo condanna ad esser gettato nel fuoco: excidetur. Bisogna dunque produrre frutti di buone opere, e a questa regola vuole Gesù Cristo, che noi riconosciamo i buoni Cristiani. Guardatevi dai falsi profeti, dice Egli nel Vangelo: essi vengono a voi sotto la pelle di pecora, ed al di dentro sono lupi rapaci; voi li conoscerete dai loro frutti: a fructibus eorum cognoscetis eos. Un buon albero non può produrre cattivi frutti, né un cattivo albero buoni frutti; ed ogni albero, che non porterà frutto buoni, sarà tagliato e gettato nel fuoco: Omnis arbor quæ etc. Or vi sono tre sorta di alberi sterili, che non portano frutti buoni, dice s. Bernardo; gli uni che non ne portano affatto, sunt, qui fructum non faciunt; gli altri, che ne portano, ma che non convengono loro, qui fructum faciunt, sed non suum; finalmente, che portano frutti buoni, che sono lor propri, ma non li producono in tempo: sunt, qui faciunt fructum suum sed non suo tempore. Così vi sono Cristiani, che non fanno veruna affatto opera buona, altri che ne fanno, ma non sono loro proprie; altri finalmente, che fanno buone opere, che loro convengono, ma non le fanno nel tempo e nel modo, che Dio vuole. Bisogna dunque, fratelli miei, per evitare la sorte degli alberi sterili, che saranno gettati al fuoco, produrre frutti di buone opere, produrne che vi siano propri, e produrli nel tempo e modo, che Dio domanda, come dice il profeta, allorché, parlando dell’uomo, che si attacca alla legge di Dio, lo paragona ad un albero, che piantato lungo le acque, produce frutti nel suo tempo: fructum dabit in tempore suo (Ps.I). Al che vengo ad esortarvi, fratelli miei, facendovi vedere la necessità delle buone opere; sarà il mio primo punto. Quali sono le buone opere, che Dio domanda da voi: secondo punto.

I. Punto. Egli è un errore assai comune ai Cristiani di credere, che, per esser salvo, basti non far del male, e che le buone opere non siano d’obbligo che per le persone impegnate in uno stato di perfezione. Ma non è così fratelli miei, che Dio l’intende. Egli non solamente vuole, che noi evitiamo il male, ma vuole ancora: che pratichiamo il bene; a tutti gli uomini indifferentemente è indirizzato questo precetto: fuggite il male, e fate il bene; Declina a malo, et fac bonum ( Ps. XXXVI). Se vi sono Cristiani dannati per aver fatto il male, che loro era proibito, non ve ne saran meno e forse molti più per non aver fatto il bene, che loro era comandato. Per maggiormente convincerci ancora di questa verità, apriamo i libri santi; noi vi apprenderemo, che senza le buone opere non possiamo esser salvi, che le buone opere al contrario sono il solo titolo, che rende certa la nostra predestinazione. – Senza lasciare l’odierno vangelo, prendiamo di nuovo il sacro testo, che vi ho citato, per dargli una maggiore spiegazione. Ogni albero, dice Gesù Cristo, che non porterà frutti buoni sarà  tagliato e gettato al fuoco.* omnis arbor quæ etc.; cioè, ogni uomo, ogni cristiano, che trascura le buone opere, che non fa il bene che Dio gli comanda, che è sterile in virtù, sarà condannato alle fiamme eterne dell’inferno, se ne richiede di più per provare la necessità delle buone opere? Non basta già, affinché un albero sia buono, che getti molti rami, che produce foglie ed anche fiori; egli ancora deve produrre dei frutti: nello stesso modo un Cristiano non deve contentarsi delle apparenze delle virtù, simili alle foglie, che il minimo vento rapisce, che possono bensì ingannare gli uomini, ma non già Dio; egli non deve neppure limitarsi a semplici desideri, che uccidono i poltroni, come dice la Scrittura, né a belle parole, che sono senza effetto, come i fiori che non sono seguiti da alcun frutto; ma deve esser fertile in buone opere, altrimenti sarà tagliato come un albero infruttuoso, e gettato nel fuoco eterno: excidetur, et in ignem mittetur. Non evvi strada di mezzo, ripiglia su di ciò s. Agostino; bisogna che il tralcio della vite produca uve, o che sia messo nel fuoco: aut vitis, aut ignis. Affinché dunque non cada nel fuoco, egli deve dare del frutto: ut ergo non sit in igne, sit in vite. A che infatti vi servirà, fratelli miei, aver formati bei progetti di conversione, aver concepiti buoni proponimenti, aver risoluta quella restituzione della roba altrui, quella riconciliazione col vostro nemico, avere sovente promesso di adempiere ai doveri di cristiano e a quelli del vostro stato, se le vostre risoluzioni non hanno alcun effetto, se voi non mettete la mano all’opera. Sareste voi ben ricevuti al tribunale di Gesù Cristo, non presentandogli che desideri e parole? No, senza dubbio fratelli miei; sono virtù, che converrà presentargli; voi sarete condannati coi vostri desideri e con le vostre parole. Se l’inferno fosse aperto ai vostri occhi, voi vi vedreste un’infinità di persone, che han formati, come voi, bei progetti, e forse ancora dei più belli, che voi: ma per non averli effettuati, eccole condannate, come alberi sterili, a bruciare nel fuoco, che non le consumerà giammai. Oh alberi disgraziati e vittime delle vendette eterne! Dovevate dunque gettare radici sì profonde nella terra, spingere verso il cielo una sì gran quantità di rami, dare con le vostre foglie e coi vostri fiori sì belle speranze, per avere la trista sorte d’essere gettati nel fuoco ? Il padre di famiglia nulla aveva dimenticato per rendervi fertili; egli vi ha piantati in buon terreno facendovi nascere nel seno della Chiesa; vi aveva coltivati colle sue attenzioni, riscaldati coi raggi del suo sole; vi aveva innaffiati con le piogge celesti della sua grazia; aveva tagliata una parte dei vostri rami con le afflizioni, di cui erasi servito per purificarvi e farvi portare degni frutti di penitenza; ma voi non avete corrisposto alle sue cure, voi avete resi inutili tutti gli aiuti, ch’egli vi ha dati; voi avete languito in una vita molle e sterile in buone opere; eccovi per sempre tolti dalla terra dei viventi, condannati ad ardere eternamente in una regione di morti: excidetur, et in ignem mittetur (Matth. VII). –  Non deplorerò io qui anticipatamente, fratelli miei, la sorte funesta d’un gran numero di coloro che mi ascoltano, i quali si rassicurano, perché non fanno del male, perché non sono soggetti a vizi enormi, perché non fan torto ad alcuno, perché sono anche moderati nelle loro passioni; ma tralasciano il bene, non praticano veruna virtù e trascurano le buone opere. Alberi sterili ed infruttuosi, che occupate inutilmente la terra, non temete voi le minacce, che il santo precursore del Messia faceva altre volte a quelli che vivevano come voi, quando loro annunziava, che la scure era di già alla radice, e che fra poco sarebbero tagliati e gettati nel fuoco? Piacesse a Dio, fratelli miei, che questa minaccia facesse su di voi le medesime impressioni che fece su coloro cui s. Giovanni Battista la indirizzava! Che faremo noi, dicevan essi, per evitare la disgrazia, che è pronta a piombarci addosso? Fate degni frutti di penitenza, rispondeva loro l’uomo di Dio; colui che ha due vesti ne dia a chi non ne ha, e colui, che ha di che mangiare, faccia lo stesso; ecco quello ch’io vi dirò. Praticate queste opere di misericordia e le altre virtù, che il vostro stato vi permette, e alle quali v’impegna, poiché questo è il solo mezzo di riparare i colpi onde siete minacciati. Non vi lusingate d’essere i figliuoli di Abramo, diceva il Battista ai popoli che l’ascoltavano: non vi rassicurate, vi dirò io altresì, sopra l’augusta qualità di cristiani, che avete ricevuta al Battesimo, sopra la fede di cui fate professione; sappiate che questa fede, questo carattere di cristiano a nulla vi serviranno senza le buone opere; che la fede sarà per voi al contrario un motivo di riprovazione, se non è animata dalle altre virtù, che debbono accompagnarla. La fede è un talento che Dio ci ha dato; bisogna dunque far valere questo talento nelle mire di Dio, altrimenti risolvervi a subire la stessa sorte che quel servo del Vangelo, il quale non aveva fatto profittare il talento, che il suo padrone gli aveva confidato. Come fu egli trattato? Voi lo sapete e l’avete sovente udito dire: il suo padrone fece levargli il suo talento; comandò che quel servo codardo fosse rinchiuso in una stretta prigione, che fosse gettato nelle tenebre, ove erano pianti e stridori di denti: Inutilem serrani eiicite in tenebras exteriores, illic erit fletus et stridor dentium [Matth. XXV). Che aveva dunque fatto quel servo peressere trattato con tanto rigore? Aveva forse involato alcun, che al suo padrone?Non l’aveva all’opposto difeso contro gl’ingiusti usurpatori? Erasi egli forse servito del suo talento per con tentare passioni malvage, per farne materia di dissolutezze? No, Cristiani, non ne aveva punto abusato: al contrario egli l’aveva nascosto, sotterrato, per timore che non gli venisse rapito; sudi che egli pretese scusarsi: io sapeva disse al suo padrone, quale è la vostra esattezza a domandar conto delle cose che confidate ai vostri servi: e perciò io ho avuto la precauzione di nascondere il mio talento sotto terra, a fine di ritrovarlo quando voi me lo richiedereste. Ma la sua scusa non fu ricevuta;il motivo su cui pretese egli giustificarsi fu appunto, dice s. Girolamo,ciò che lo fece condannare. Giacché voi sapevate, dice il padrone, che io mieto dove non ho seminato, dovevate dunque far profittare il mio danaro, affinché al mio ritorno io potessi trarne qualche vantaggio: e perciò io vi tolgo il talento, e vi condanno al castigo, che avete meritato. Applicate a voi medesimi, fratelli miei questa parabola: voi non siete soggetti,dite voi, a grandi vizi; voi non fate alcun male, non siete né bestemmiatori né calunniatori né impudici né ubriaconi né ingiusti usurpatori dei beni altrui. Io lo concedo; voi non sarete condannati per questi vizi ma lo sarete per non aver fatto il bene, che Dio domandava da voi nello stato in cui vi ha posti; voi lo sarete per non aver fatto valere il talento della fede, per non averlo renduto fruttifero con le buone opere meritorie della vita eterna; voi lo sarete per aver lasciata languire questa fede in una vita molle ed effeminata. – Quand’anche voi aveste tanta fede da trasportare i monti, da fare i più grandi prodigi, questa fede, questi prodigi a nulla vi serviranno senza le buone opere.. Voi avrete la medesima sorte al giudizio di Dio che quelli di cui parla Gesù Cristo, i quali gli diranno, per aver parte alle sue ricompense, che hanno profetizzato nel suo nome, che hanno scacciati i demoni, che hanno fatti grandi miracoli, e che non saranno tuttavia riconosciuti per suoi veri servi, perché non avranno fatta la volontà di Dio, e non avranno buone opere da presentargli. Il supremo giudice vi dirà, come a quegli sterili operai, che non vi conosce punto: Nunquam novi vos (Matth. VII). Egli pronuncerà contro di voi una sentenza di maledizione, che vi separerà per sempre dalla sua divina presenza: Discedite a me, omnes, qui operamini iniquitatem (Ibid.) Mentre non basta, dice Gesù Cristo, per entrare nel regno dei cieli, non basta dire: Signore; ma bisogna fare ha volontà del Padre celeste con la pratica delle buone opere: Quoti facit voluntatem patris mei, ipse intrabit in regnum coelorum (Ibid). Quindi, fratelli miei, l’omissione delle buone opere sarà il motivo particolare su cui cadrà la condannazione, che Gesù Cristo pronuncerà contro, i reprobi. Ritiratevi da me, loro dirà Egli perché io ha avuto fame e sete nella persona dei poveri, e voi non mi avete dato a bere e a mangiare; io sono stato infermo e prigioniero, e voi non mi avete visitato; il che è come se loro dicesse (nota s. Agostino): no, no, non è già per la cagione che voi credete che io vi condanno, non è solamente per avere commessi delitti; mentre se voi avreste fatte buone opere, che li avessero cancellati, se avreste redenti i vostri peccati con limosine, io non vi condannerei: ma perché avete trascurate le buone opere né avete fatto il bene, che io domandava da voi, vi riprovo e vi condanno alle fiamme eterne. Vergini insensate, voi non entrerete nella sala del convito, non solamente per aver perduta la vostra verginità, ma perché  le vostre lampade non sono ripiene dell’olio delle buone opere, voi sarete escluse dal banchetto eterno degli eletti: Nescio vos, io non vi conosco. Le buone opere sono dunque il solo titolo, che può assicurarvi l’entrata nell’eredità del Signore: il che possiamo noi ancora osservare nella sentenza, che Gesù Cristo pronuncerà in favore degli eletti. Venite, loro dirà egli, o benedetti dal mio Padre, possedete il regno, che vi ho preparato; io ho avuto fame e sete, e voi mi avete dato a mangiare e a bere; io sono stato nudo, e mi avete rivestito; prigioniero ed infermo, e mi avete visitato: ecco ciò, che fa il vostro merito avanti a me. Non è già per aver avuto ricchezze sopra la terra, per avervi posseduti onorevoli impieghi, che io vi do luogo nel mio regno, ma perché avete fatto un uso santo delle ricchezze, soccorrendo i poveri, perché vi siete serviti della vostra autorità per farmi onorare e rispettare; si è per questo, che io vi do le mie ricompense. Non è già a cagione della scienza, della fama, della gloria che vi siete acquistata sulla terra, né a cagione delle grandi conquiste che vi avete fatte; ma si per esservi umiliati negli onori, per esservi mortificati in mezzo dei piaceri, o per aver sopportati con pazienza i sinistri accidenti, le malattie, le afflizioni, in una parola, per avere adempiuti i doveri veri di cristiano, per aver osservati i miei comandamenti; si è per questi, che io vi metto in possesso della mia eredità, che io vi dò l’entrata nell’allegrezza del vostro Signore: qui super pauca fuisti fidelis, intra in gaudium Domini tui (Matth. XXV). Voi vedete dunque, fratelli miei, che solamente le buone opere vi meriteranno un accesso favorevole al tribunale di Gesù Cristo, mentre non è già del vostro Dio, come dei grandi della terra, presso di cui la qualità, il danaro, il credito hanno più accesso che il merito. Dio, presso cui non è accettazion di persone, non avrà riguardo che alla virtù; egli renderà a ciascheduno secondo le sue opere, dice Paolo. Il più abbietto tra gli uomini, arricchito del merito delle buone opere, sarà infinitamente più grande avanti a Dio, che tutti i potentati del mondo, che saranno sprovveduti di questi meriti. – Tali sono, fratelli miei, le vere ricchezze, i soli tesori che voi dovete esser solleciti di accumulare; questi sono i soli beni, che porterete con voi dopo la vostra vita; la morte, l’implacabile morte, che non risparmia alcuno, che fa cadere sotto i suoi colpi i grandi come i piccoli, vi toglierà i beni, che possedete; le case, che occupate per farle passare ad altri: ma ella non può toglierci il merito delle opere buone; questo tesoro è inaccessibile ai vermi, alla ruggine, ed ai colpi della morte; egli seguirà la nostr’anima al tribunale di Gesù Cristo, ed è il solo bene, che ci resterà. O figliuoli degli uomini, che vi date tanta sollecitudine per accumular ricchezze, che non porterete con voi, quanto siete ciechi nel non far provvisione di quelle, che vi seguiranno nell’eternità! Perciocché, come dice l’Apostolo, voi non mieterete, se non ciò, che avrete seminato: Quae seminaverit homo, haec et metet (Gal. VI). Sforzatevi dunque di rendere la vostra vocazione certa pel mezzo delle buone opere: esse vi sono necessarie in qualunque stato siate, giusti o peccatori; quest’obbligo vi riguarda tutti. Se siete peccatori, dovete fare buone opere per trarre su di voi grazie di conversione che cancellino i vostri peccati e vi riconcilino con Dio. Battete alla porta della misericordia del Signore con preghiere continue, ed Egli ve l’aprirà; riscattate i vostri peccati con le vostre limosine, e vi saranno perdonati; mortificatevi con opere di penitenza, e rientrerete nei diritti che il peccato vi ha rapito. Fate servire, come dice l’Apostolo, alla santità quei membri, che hanno servito all’iniquità. Quelle mani cariche d’ingiustizia, apritele per fare le restituzioni cui siete obbligati e per spargere le vostre liberalità nel seno dei poveri. Di quei piedi, che vi conducevano nei luoghi di dissolutezza, servitevi per visitare Gesù Cristo nel suo santo tempio e nei suoi membri pazienti, che sono gl’infermi: Sicut exhibuistis membra vestra servire iniustitiae, et iniquitati, ita nunc exhilete membra vestra servire iustitiae (Rom. VI). Giusti, voi dovete altresì praticare le buone opere per perseverare nella grazia di Dio; mentre tostochè cesserete di far il bene commetterete il male, non essendovi alcun mezzo tra una vita malvagia ed una vita sprovveduta di buone opere. Come, infatti, resisterete voi senza la pratica delle buone opere alle tentazioni dei vostri nemici? Come domerete voi le vostre passioni senza gli atti delle virtù, che loro sono contrarie? Come combatterete voi la superbia senza l’umiltà, l’avarizia senza la liberalità, l’ira senza la mansuetudine, l’amore dei piaceri senza la mortificazione dei sensi? Bisogna dunque far il bene per evitar il male: Declina a malo, et fac bonum. Ma quali sono le buone opere, che ciascuno deve fare? Secondo punto.

II. Punto. Dalla qualità dei frutti si conosce quella dell’albero; un buon albero, dice Gesù Cristo, non può produrre cattivi frutti, ed un cattivo albero non ne può produrre di buoni: non si raccolgono uve dalle spine né fichi dai triboli. Un buon albero deve dunque portare il frutto, che gli è proprio; vale a dire, un Cristiano deve fare le azioni, che gli convengono, e che Dio domanda da lui, e farle nel modo che Egli vuole. Non basta operare, né anche operar molto; la perfezione cristiana non consiste nemmeno in far grandi cose, ma in far le azioni proprie del suo stato, in farle con una retta intenzione di piacere a Dio. Tali sono le condizioni necessarie per rendere le nostre opere degne della gloria eterna. Primieramente convien fare le azioni proprie del nostro stato, cioè quelle, che dipendono da noi, e a cui siamo obbligati. No, fratelli miei, Dio non domanda da noi cose impossibili e superiori alle nostre forze; Egli vuole che siamo santi, e noi possiamo divenirlo. Or, se la santità consistesse in far cose che non dipendono da noi, in far azioni straordinarie, noi non potremmo pervenirvi, poiché non tutti trovano l’occasione, od hanno i talenti e le forze necessarie per quelle grandi azioni. Non è già dato a tutti di avere estasi, rapimenti nella orazione; non conviene a tutti fare la funzione di apostolo, annunziare il Vangelo alle nazioni della terra; non tutti hanno la forza di soffrire ciò, che i martiri hanno sofferto, e Dio non lo domanda da noi; Egli non esige che, come i solitari, noi abbandoniamo tutti i nostri beni per ritirarci in profonde solitudini, ed abbandonarci a tutti i rigori delle penitenze, che essi han praticate. Ciò dunque, che Dio domanda da voi, fratelli miei, si è che adempiate i doveri del vostro stato, che facciate le azioni, che vi convengono, conformemente ai talenti e alle grazie, ch’Egli vi conferisce. Voi non avete, per esempio, lo spirito bastantemente Elevato e penetrante per intertenervi con Dio nella contemplazione; voi non ne avete neppure il tempo; gli affari, che vi occupano, e la cura, che dovete alla vostra famiglia, non ve ne lasciano la libertà; le vostre occupazioni non vi permettono di passare una parte del giorno in chiesa, come tanti altri; ma qualunque occupazione voi abbiate, non potete forse e non dovete anche dare qualche tempo all’orazione, come la mattina ela sera, tempi in cui non dovete mai tralasciarla? Chi v’impedisce ancora, durante il lavoro, di sollevare qualche volta il vostro cuore a Dio? Non fa d’uopo per questo di aver scienza, penetrazione di spirito; basta richiamarvi alcune volte alla sua santa presenza per onorarlo, ringraziarlo, amarlo, offrirgli le vostre azioni, le pene annesse al vostro stato. Chi v’impedisce ancora, nei giorni in cui siete meno occupati, di fare qualche lettura di pietà in un buon libro, di rendere qualche visita a Gesù Cristo nel suo santo tempio, giacché voi trovate benissimo il tempo di renderne alle persone, che amate, o cui volete voi domandar qualche grazia? Voi non siete provveduti dei beni di fortuna per fare abbondanti limosine ai poveri; i ricchi vi sono obbligati; ma se non avete ricchezze, non avete voi altre occasioni di esercitare la carità a riguardo del prossimo, rendendo alcuni servigi a coloro che hanno bisogno di voi, consolando gli afflitti, visitando gl’infermi, i prigioni, o servendovi di qualche altro mezzo, che una carità industriosa sa benissimo ritrovare. Voi non siete d’un temperamento forte abbastanza per mortificarvi con digiuni continui e rigorosi; ma non potete per lo meno, e non dovete voi forse osservare quelli, che la Chiesa vi comanda? Non potete voi per ispirito di penitenza sminuire in altri tempi qualche cosa dei vostri banchetti? Il che voi fate molto spesso per sanità o anche per risparmio di spesa. Voi non potete, come gli apostoli, o come i ministri del Vangelo, annunziare la parola di Dio ai popoli; ma quante occasioni non avete voi di esercitar lo zelo nel ricinto della vostra famiglia, istruendo, correggendo quei di casa, insegnando agli ignoranti le verità della salute, rimettendo con un buon avviso sul diritto sentiero un peccatore, che se ne allontana? In una parola, voi non avete che ad adempiere i doveri del vostro stato, fare il bene che si presenta secondo le diverse occasioni e circostanze, che la provvidenza di Dio vi offre secondo i vostri lumi, i vostri talenti e la vostra condizione; ed ecco i frutti delle buone opere, che voi potrete presentare al padre di famiglia da collocare nel suo granaio.. Un’ampia messe vi è aperta, voi non avete che a raccogliere per arricchirvi. Non vi lamentate dunque che la salute vi sia impossibile o anche difficile: il regno di Dio è dentro di voi, dice Gesù Cristo, fate ciò, che dipende da voi, e che Dio vi domanda: e sarete quel buon albero, che porta buoni frutti. Io dirò, fratelli miei, ciò che Dio domanda da voi; fatevi ben attenzione, per non lasciarvi sedurre da una divozione falsa, che si fatica inutilmente, e fa molte cose senza merito, perché non sa la volontà di Dio. Bisogna dunque attaccarvi alle opere di precetto, a preferenza di quelle, che sono di puro consiglio. Voi siete inclinati a fare limosine ai poveri; ma che vi serviranno quelle limosine, se avete debiti a pagare, e fate soffrire con le dilazioni i vostri creditori? Voi visitate le chiese, e vi passate un certo tempo a spandere il vostro cuore avanti al Signore: io lodo la vostra pietà, se essa non vi allontana dagli altri vostri doveri; ma se la vostra presenza è necessaria nella famiglia per vegliare sopra i vostri figliuoli, sopra i vostri servi che vivono nel disordine per difetto di vigilanza dal canto vostro, la vostra pietà non è più a proposito. I frutti di virtù, che Dio domanda da voi sono la cura, che dovete prendervi della salute di coloro, che da voi dipendono. Voi amate la lettura dei buoni libri e v’impiegate un certo tempo; occupazione molto lodevole, ma essa non deve involarvi il tempo, che dovete all’esercizio d’un impiego, agli affari di cui siete incaricati. Voi avete zelo per riformare i difetti altrui, ma bisogna cominciare dai vostri. Voi seguite scrupolosamente certe pratiche di pietà, che vi siete prescritte, voi recitate preci di confraternite, cui siete aggregati; ma poi trascurate i vostri doveri essenziali a riguardo di Dio e del prossimo; così tutto il bene che fate a nulla vi serve; bisogna prima d’ogni cosa fare ciò, che è d’obbligo. Tali sono i frutti, che dovete portare per essere un buon albero, un buon cristiano: Fructum suum dabit. Non basta ancora fare le buone opere cui siamo obbligati, ma convien farle con retta intenzione. Ed invero, fratelli miei, l’intenzione è per riguardo alle nostre azioni ciò che l’occhio è al corpo, la radice all’albero, il sole all’universo; siccome il corpo è nelle tenebre, se non ha alcun occhio , l’albero è sterile senza la radice, l’universo senza il sole non è che un caos tenebroso; così un’azione, benché buona sia pel suo oggetto, se non è animata da retta intenzione di piacere a Dio, è un’azione tenebrosa, inutile a chi la fa. Il che Gesù Cristo ha voluto farci intendere quando ci disse: se il vostro occhio è semplice, tutto il vostro corpo sarà luminoso; ma se l’occhio è guasto, tutto il corpo sarà nelle tenebre: si oculus tuns fuerit simplex, totum corpus tuum lucidum erìt; si autem oculus tuus fuerit nequam, totum corpus tenebrosum erìt (Matth. VI.) Or quest’occhio semplice o tenebroso, che dà luce o oscurità al corpo delle nostre azioni, è, secondo sant’Agostino, la buona o cattiva intenzione, che le accompagna. Se l’intenzione è buona e pura nel suo motivo, tale sarà ancora l’azione; ma se l’intenzione è viziosa, essa comunicherà all’azione il suo difetto. Questa retta intenzione è, per così dire, il fondamento e l’anima della vita spirituale. Ella distingue i figliuoli di Dio da quelli, che non lo sono. Con essa le azioni più comuni, più abbiette, sono azioni grandi avanti a Dio; senza di essa le azioni più straordinarie non hanno alcun merito, e nulla servono. Date tutti i vostri beni ai poveri, fate le azioni più gloriose avanti agli uomini; se non siete animati da una retta intenzione, voi non avete fatto cosa alcuna, non meritate più ricompensa che i farisei, i quali digiunavano, facevan limosine e lunghe preghiere, ma perché facevano le loro opere per attirarsi la stima degli uomini, che dice Gesù Cristo parlando di essi? Che han ricevuta la loro ricompensa: receperunt mercedem suam (Matth. VI). Lo stesso si dirà di voi, fratelli miei, qualunque buona opera voi pratichiate: se vi proponete altro fine che di piacere a Dio, voi avrete tutta la pena della virtù, e non ne avrete in alcun modo la ricompensa. Quindi uno dei più pericolosi artifizi di cui si serve il demonio per allontanare gli uomini dalla salute non è di impedirli di fare buone azioni, ma di render queste per quanto può difettose, facendovi entrare qualche motivo capace di viziarle, come il rispetto umano, l’interesse, la vanagloria; Satanasso, trasformato in angelo di luce, spesso c’induce alla pratica di certe buone opere, che, essendo più capaci di attirarci la stima del mondo, sono più soggette a perdere il loro merito avanti a Dio. Nel che dovete, fratelli miei, porre tutta la vostr’attenzione quando si presenta una buona opera da fare. Bisogna aver cura di ben rettificare l’intenzion vostra con il motivo di piacere a Dio, che vi faccia rigettare ogni motivo umano, che s’insinua pur troppo nelle migliori azioni. Oimè! Quante azioni inutili per il cielo, quante virtù senza merito, perché Dio non vi vede quella retta intenzione di piacergli! Si fanno da molti preghiere, limosine; ma sono ben contenti che gli uomini le conoscano per averne l’approvazione. Essi non cercano Dio nella maggior parte delle loro migliori azioni: voi vedrete alcuni casti e modesti nel loro esteriore; ma se voi penetrerete il motivo, che li anima, vedrete che è l’onor del mondo, che è il timore d’esser biasimati per azioni, che non convien fare. Voi vedrete nemici riconciliarsi insieme; ma con qual mira lo fanno? per certe considerazioni verso le persone da cui sono stati pregati, o per il timore delle conseguenze funeste che si tiran dietro le inimicizie e le vendette. Quanti Cristiani sono ornati di belli esteriori della virtù, ma al di dentro sono, come dice Gesù Cristo, ripieni dell’infezione del vizio, sotto la pelle di pecora nascondono il furore di lupi rapaci! Oh quanto spesso siamo ingannati dalle apparenze! E quanto vi vuole affinché certi uomini siano tali al di dentro, quali compariscono al di fuori! È la buona intenzione, che loro manca. Or tostochè l’interiore non è regolato secondo Dio, tutto ciò che si fa esteriormente a nulla serve. Le migliori azioni senza la retta intenzione rassomigliano a certi frutti, che hanno una bella scorza, e al di dentro sono guasti. Al contrario, fratelli miei, quando l’interiore è ben regolato, quando non si cerca che di piacere a Dio, tutto ciò che si fa gli riesce grato e ci serve per la salute, quand’anche fosse soltanto un bicchiere d’acqua dato nel nome di Gesù Cristo, avrà la sua ricompensa. La vedova del Vangelo, che mise due soli danari nella cassetta delle limosine fu lodata da Gesù Cristo, come se avesse dato più che i farisei, i quali v’avevano messe più grosse somme, perché la sua intenzione era migliore. Iddio non ha tanto riguardo ai doni, che gli si fanno, quanto all’affermazione, che li accompagna. Anzi, fratelli miei, le azioni medesime più indifferenti, come il bere, il mangiare ed altre simili, divengono azioni meritorie pel cielo, tosto che si fanno per Dio. Oh quale eccellente mezzo avete di arricchirvi, di accumular tesori pel cielo! La retta intenzione di piacere a Dio in tutte le vostre azioni, ecco quella pietra preziosa del Vangelo, che converte in oro tutto quel che tocca, che renderà le vostre azioni degne di eterna corona; poiché, senza cangiar di stato, senza far altra cosa, che quel che fate, senza accrescervi pena e travaglio, non avete che a cangiare d’oggetto, ed a far per Dio ciò, che fate per il mondo; allora voi accumulate ricchezze immense per l’eternità. In tal guisa un gran numero di santi ha guadagnato il cielo nel medesimo stato che voi. Fate, come essi, le vostre azioni ordinarie con la mira di piacere a Dio, cercate in ogni cosa la sua gloria, e voi avrete fatto tutto per acquistare la sanità.

Pratiche. Osservate dunque, fratelli miei, ciocché potete fare di bene nel vostro stato, le buone opere, che dipendono da voi, per praticarle con la mira di glorificar Dio. Riferite tutto alla gloria o a qualche motivo, che gli piaccia; tostochè questo motivo sarà buono, voi opererete per la gloria di Dio: scacciate da tutte le vostre opere, dalle vostre pratiche di pietà il capriccio, l’usanza, il costume, il rispetto umano. Pregate nella solitudine, affinché Dio solo sia testimonio della vostra preghiera; quando date la limosina, fuggite la vieta degli uomini, la vostra sinistra medesima ignori ciò, che fa la vostra destra. Vi sono nulla di meno di certe occasioni, in cui voi dovete fare pubblicamente opere di virtù, per edificare coloro, che vi conoscono, e che resterebbero scandalizzati, se non ve le vedessero fare. Gesù Cristo vuole che la luce delle nostre buone opere risplenda agli occhi degli uomini, affinché il Padre celeste ne sia glorificato, ma è sempre alla gloria di Dio che deve tutto riferirsi: Sic luceat lux vestra coram hominibus, ut videant opera vestri bona, et glorificent Patrem vestrum, qui in coelis est (Matth. V). Ma in che conoscerete voi che siete animati da una retta intenzione? Ciò sarà quando farete buone opere, che non saranno di vostro gusto, come se fossero le più conformi alle vostre inclinazioni; quelle che vi attireranno meno di gloria, come quelle, che vi meriterebbero gli applausi degli uomini. Per ben fare ancora le vostre azioni, fatele ciascheduna come se non aveste, che quella sola a fare, senza occuparvi di ciò, che avete a far in un altro tempo, molto meno ancora di ciò che fareste in un altro stato, ove vi pare che operereste meglio la vostra salute. Dio non vi domanda che le opere dello stato in cui siete, ed è una tentazione particolare per la salute il pensare a far altre cose, che quelle che siamo obbligati di fare, perché questo pensiero distoglie dal far bene ciò che dobbiamo nel nostro stato. Fate altresì ognuna delle vostre azioni come se essa fosse l’ultima della vostra vita, come se doveste essere giudicati dopo averla fatta: quando pregate, accostandovi ai Sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, domandate a voi medesimi: come pregherei, mi confesserei, mi comunicherei, se non avessi più che questa volta a pregare, a confessarmi, a comunicarmi? Ah! che le vostre azioni sarebbero perfette, se voi le fareste sempre con questa disposizione. – Finalmente, per rendere le vostre opere meritorie pel cielo , mettetevi in istato di grazia, perché tutto ciò che si fa in questo stato è degno d’una corona eterna; laddove le azioni fatte in istato di peccato, benché buone, lodevoli e salutari, non saranno punto ricompensate nel cielo. Bisogna nulladimeno sempre farne delle buone in qualunque stato voi siate; perché siccome ho detto, queste buone opere traggono sui peccatori la grazia della conversione, e sui giusti quella della perseveranza. – Non vi contentate dunque, fratelli miei, di fuggir il male che Dio vi proibisce; fate ancora il bene, ch’Egli vi comanda: ammassate, per quanto potete tesori di buone opere sulla terra; questo è il solo bene, che porterete con voi nell’eternità beata. Cosi sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Dan III: 40

“Sicut in holocáustis aríetum et taurórum, et sicut in mílibus agnórum pínguium: sic fiat sacrifícium nostrum in conspéctu tuo hódie, ut pláceat tibi: quia non est confúsio confidéntibus in te, Dómine”.

[Il nostro sacrificio, o Signore, Ti torni oggi gradito come l’olocausto di arieti, di tori e di migliaia di pingui agnelli; perché non vi è confusione per quelli che confidano in Te.]

Secreta

Deus, qui legálium differéntiam hostiárum unius sacrifícii perfectione sanxísti: accipe sacrifícium a devótis tibi fámulis, et pari benedictióne, sicut múnera Abel, sanctífica; ut, quod sínguli obtulérunt ad majestátis tuæ honórem, cunctis profíciat ad salútem.

[O Dio, che hai perfezionato i molti sacrifici dell’antica legge con l’istituzione del solo sacrificio, gradisci l’offerta dei tuoi servi devoti e benedicila non meno che i doni di Abele; affinché, ciò che i singoli offrono in tuo onore, a tutti giovi a salvezza.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps XXX: 3. Inclína aurem tuam, accélera, ut erípias me.

[Porgi a me il tuo orecchio, e affrettati a liberarmi.]

Postcommunio

Orémus. Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et ad ea, quæ sunt recta, perdúcat.

[O Signore, l’opera medicinale (del tuo sacramento), ci liberi misericordiosamente dalle nostre perversità e ci conduca a tutto ciò che è retto.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (120)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXXII.

Si risponde alle opposizioni addotte cantro l’immortalità dell’anima.

I . Non rileverebbe i pregio dell’opera trattenersi a ribattere i colpi degli avversari nella questione intrapresa con esso loro, se nel ribatterne i colpi non ci dovesse riuscir ancor di ferirli più gravemente, come c’insegnano le buone leggi di scherma. Addurremo qui pertanto quel più che essi oppongono alla immortalità dell’anima umana, perché da questo medesimo si chiarisca quanto essi vadano non solo fuor di ragione, ma infino contra, quasi ribelli alla luce.

I .

II. La prima loro istanza si è dire, con un tal fasto di derisione, che se l’anima fosse immortale, non par possibile che non ne ritornasse più d’una a ripatriare sopra la terra, o farsi vedere, per darci almeno contezza dell’altro mondo (Questa obbiezione suppone, che l’anima umana non possa altrimenti esistere e manifestarsi che involta nell’organismo corporeo. Il che non è. Per altra parte se i morti tornassero al mondo, il mondo non sarebbe più mondo, ma apparirebbero nuovi cieli e nuova terra, come appunto avverrà nel risorgimento universale della morta umanità). E pur chi è, che possa tra noi gloriarsi di una tal visita 1 Non est agnitus qui sit reversus ab inferis (Sap. II. 1).

III. Ma quale scipidezza maggiore! Volere i sensi per testimonii di ciò che trascende i sensi! Iddio non ha commessa questa causa alla camera bassa della esperienza; l’ha commessa al parlamento supremo della ragione, o (dove questa non operi) della fede. Vero è, che non mancano ancora di tali prove sperimentali: mentre più volte l’anime de’ defunti sono tornate a dar di sè conto ai vivi. E siccome il prestar credenza a ciascuna di simili narrazioni sarebbe al certo debolezza di spirito: così il negarla a tutte, è perversità, ripugnando a ciò che più d’uno scrittore illustre ha testificato in qualunque secolo. Quanto è stolto quel gioielliere il quale tenga per diamante ogni berillo, tanto si e quello il quale per berillo giudichi ogni diamante.

IV. Senonchè, chi può dubitare, che tali apparizioni non hanno ad essere sì frequenti, come le vorrebbono alcuni, mentre non sono conformi alle leggi della natura, ma contrarissime, onde han bisogno di espressa derogazione? Siccome i cadaveri non debbono ad ogni tratto levarsi dalle lor tombe, e tornare a vivere; così non debbono l’anime, separate da ‘quei cadaveri, uscir da’ luoghi assegnati loro da Dio, e tornare a discorrere co’ viventi. Se stanno in luogo di miseria, vi stiano incessantemente, portando tutte da sé le loro pene senza sollievo; e se sono in luogo di felicità, si riposino, godendo quivi lietamente il lor premio, senza più tornare in iscena dopo gli applausi che riportarono tanto gloriosamente, terminata che v’ebbero la lor parte. Lasciare che un recitante rimonti in palco dappoiché egli, soddisfatto al suo debito, ne calò, è un volere apportare disturbo all’opera. Il nodo non lo comporta. E ciò singolarmente nel caso nostro. Perciocché, essendo la futura beatitudine il premio della virtù, conviene che resti oscura, affinché questa medesima oscurità accresca il pregio dell’istessa virtù, e stabilisca meglio la proporzion convenevole che va sempre tra il merito e la mercede.

II.

V. L’altra obbiezione ha un poco più di apparenza, e cosi parimente di serietà. Ed è l’affermare che l’anima, dipendendo nell’operare dagli organi corporali, non può sussistere separata dal corpo. E di fatti si vede che qualor per qualche accidente gli spiriti animali non possano più salire e scendere come prima dal cerebro per li nervi, rimane impedito all’uomo ogni uso, quantunque minimo, di ragione. Ma ciò come accadrebbe, se ogni operazione sua ragionevole non dipendesse per forza da quegli spiriti? Oltre a che ciascuno prova in sé che non può concepire alcuna verità, senza che egli nella sua fantasia se ne formi un simulacro, e quasi un ritratto figurandosi gli angeli e fin Dio stesso in sembianti umani: Nihil sine phantasmate intelligit anima (Arist. 3. de anim. tex. 30). Dal che si rende manifesto altresì che quanto le operazioni della fantasia dipendono dalla materia, altrettanto ne dipenda ancor l’intelletto, che senza la fantasia rimane quasi un dipintore svaligiato, senza colori, senza tavola, senza tela, senza pennelli.

VI. Per non prendere errore in questo discorso, che ha fatto abbagliar più d’uno, adulatore eccessivo del proprio corpo, convien distinguere due guise di dipendenze, una essenziale, e sempre necessaria all’operazione, e l’altra accidentale, e solo necessaria per alcun tempo. Il vedere dipende essenzialmente dall’occhio: ma dagli occhiali dipende per accidente; ond’è che veder senza occhiali tuttora accade, ma non accade che mai si vegga senza occhio. Ora la dipendenza, che nell’intendere ha l’anima da’ fantasmi, non è del primo genere, è del secondo: ch’è accidentale; cioè fino a tanto che l’anima unita al corpo nello stato presente vivo in mezzo a quella nebbia, che le cose corporee d’ogni intorno sollevano contra il vero. Ma sciolta che ella ne sia, non è più così. Perché allora, separata da ogni materia, ella può operare in un modo molto diverso, cioè contemplando le cose intelligibili direttamente in se stesse, e non di riflesso nelle immagini grossolane, colorite ad essa dai sensi (S. Th. 2. p. q.89. art. 1).

VII. Che poi l’anima di verità non dipenda assolutamente dagli organi materiali nel suo operare, né da’ fantasmi, si è da noi già dimostrato abbastanza con più ragioni. Ma oltre a quelle, confermasi di vantaggio con altro ancora. Prima, perchè nessun’altra cosa brama l’anima d’intendere maggiormente, che le spirituali, le sublimissime, le divine, le quali non sono, per alcun modo, oggetto della fantasia. Segno dunque è che l’anima nel suo intendere non dipende essenzialmente dai sensi, altrimenti non bramerebbe ella tanto di sollevarsi di là dai sensi.

VIII. Oltre a ciò l’operazione più propria dell’intelletto consiste singolarmente, non nell’intendere ciò che se gli rappresenta, ma in giudicarne. E pure ad un tal giudizio non solamente non è giovevole il voto della immaginativa, ma spesso è pregiudiziale, porgendo ella all’intelletto frequente occasion di errare, se questo non sia molto avveduto nel correggere da se stesso le apparenze fallaci di quei fantasmi. Che segno è dunque, senonchè egli non è loro soggetto, ma che li domina? Comparisce il sole sull’orizzonte, e gli occhi recandone tosto all’anima le novelle, gliele dipingono per alto poco più di due palmi, per piano affatto, e per abbandonato da tutte quelle stelle festose, che in tanto numero già popolavano il cielo. Ma tacete pure, tacete, o semplici messaggeri, ripiglia l’anima. Voi siete in ciò tanto lontani dal vero, quanto lontani da quel corpo solare da voi descritto. Quello che a voi sembra sì angusto, supera nella mole sino a trentottomila seicento volte tutta la terra. Quello che voi stimate sì piano è un globo perfetto altrettanto luminoso, quanto egli è immenso [purtroppo anche il Segneri era imbevuto di eliocentrismo cabalistico, contro tutte le rappresentazioni bibliche contenute nelle sacre Scritture che il Concilio di Trento definisce inerrabili, senza errore, perché ispirate direttamente da Dio. Era diventato anch’egli un eretico, pensando che Dio avesse sbagliato nell’ispirare i libri della Genesi, di Giobbe, dei Salmi, etc.?]. E quello stelle che voi credeste sì tosto da lui fuggite por non parere a lui serve, non si sono rimosse neppure un’orma dalla loro ordinanza: tutte gli assistono, benché da noi non vedute. Or come l’anima sarebbe mai si contraria alle deposizioni dei sensi nel giudicare, se ella dipendesse essenzialmente da’ sensi? È vero che ella, come padrona, sa valersi a tempo e luogo de’ loro riporti; ma sa ancora sprezzarli, dove è mestieri, sa screditarli. Come dunque è loro affissa tanto altamente? Non potrebbe ella posseder mai quell’amplissima libertà di giudicare in un modo più che in un altro, a dispetto di tutti loro, se tal libertà non fosse a lei derivata da quella sublime origine che la fa superiore al corpo di modo, che sappia un dì ancora starsene senza il corpo: Conditio domini melior fieri potest per servos, deterior fieri non potest (L. Melior. ff. de reg. iur.).

IX. Quindi è che l’anima quanto va più innanzi negli anni, tanto più si rinvigorisce; al contrario de’ sensi, che più invecchiano, più diventano deboli e disadatti. Questa ragione facea gran forza alla mente di quel sagace re Alfonso, come racconta l’istorico suo fedele (Panor. l. 4. de gestis Alphonsi); e la fa parimente in tutti coloro i quali considerano che ne’ senati si sogliono prima udire i vecchi che i giovani: Ut quisque ætate antecellìt, sententiæ principatum tenet (Cic. de senectute). Ma come ciò, se l’anima non crescesse di abilità? Né perché ne’ vecchi decrepiti torni talora a rimbambire il discorso, perde punto di forza un tale argomento: atteso che non è l’intelletto quel che in essi s’infievolì, sono gl’istrumenti di cui l’intelletto legato al corpo si serve nelle sue operazioni. Ad un cerusico, cui por l’età cadente tremi la mano, non manca l’arte, manca soltanto l’istrumento dell’arte , che è il braccio saldo. Nel rimanente l’arte ogni dì più si raffina con lo studiare. Rinvigorite il braccio, e vedrete se l’arte v’è. Così interviene anche all’anima. Donde appare che le suo operazioni non dipendono essenzialmente dagli organi corporei, ma solo accidentalmente, cioè secondo lo stato di questa vita: mercecchè essendo l’anima in tale stato forma del corpo, convien che al corpo si accomodi in modo tale, che concepisca tutte le cose come corporee, o ciò per mezzo di potenze sensibili, che sono tutte soggette a logoramento. Verrà ben quel tempo, che rotti sì duri lacci potrà ella vagare liberamente per gl’immensi spazi del vero, e fissare il guardo immediatamente nel sole delle beltà intelligibili, senza abbagliarsi la vista: Cum venerit dies ille, qui mixtum hoc divini humanique secernat, corpus hoc ubi inveni relinquam: ipse me Diis reddam, diceva Seneca. (Ep. 102).

III.

X. Ma perché, ripiglierete voi, questo parentado infelice tra il corpo e l’anima? Non era meglio che l’anima si rimanesse fin da principio lungi dal consorzio de’ sensi, mentre dalla lor compagnia non doveva apprendere altro che il tralignare dalla sua nobiltà? E facile il farvi pago.

XI. In una perfetta armonia i semitoni sono richiesti, non sono esclusi. Conveniva pertanto che in questa grande armonia che vien formata dalla simmetria delle cose, siccome si trovava un ordine di viventi puramente spirituali quali sono le intelligenze celesti, e si trovava un ordino puramente materiale, quali sono i bruti, animali non ragionevoli (Suarez de anim. 1. 2 . e. 6. n. 16); così venisse a trovarsi un ordine parimente di mezzo, che unisse il supremo e l’infimo in un confine; fosse l’infimo del supremo, fosse il supremo dell’infimo; fosse come un passaggio contenente il bello de’ puri spiriti, cioè l’anima, e il bello delle pure materie, cioè il corpo: e fosse (come molti il chiamarono) un orizzonte, dove si congiungessero due emisferi tra lor sì opposti, quello dell’eternità e quello del tempo (Ci piace riferire qui un brano di G . Tiberghien, dove saggiamente e bellamente si chiarisce la ragione metafisica dell’esistenza dell’uomo: « Perché lo spirito si congiunge col corpo? Perché l’universo deve realizzare tutte le possibilità dell’esistenza. La pura materia ed il puro spirito sono esseri incompiuti, esclusivi, e meramente costituiti sotto un punto di vista determinato. Perché siavi equilibrio nella creazione, occorre che scompaia l’antagonismo tra il mondo spirituale ed il fisico. Quest’equilibrio si avvera per appunto nell’umanità – Psicolog. pag. 14 ».) (S.Th. contra gentes 1. 1. c. 81).

XII. Inoltre succede all’anima come ad un mercante mandato in paesi poveri, dove, se egli vuole arricchire, fa di mestieri che aiutisi con l’industria. Gli angeli sono nati in paese doviziosissimo, e però a locupletare di operazioni sublimi la loro mente non ha bisogno di accettare fuori di sé le spezie dello cose: hanno l’emporio in sé stessi: mercecchè con quelle furono già prodotti dal loro fattore nel primo istante. Ma l’anima (creata povera affatto di tali specie) per fornirsene, conviene che le cerchi fuori di sé, e così vagliasi del ministero de’ sensi, entrando, quasi dissi, in lor compagnia, affine di stabilire per mezzo loro questo negozio, da cui dipende tutto il suo capitale (S. Th. 1. p. q. 89. art. 1. in c.). Ecco dunque ove stia fondata la necessità che ha l’anima di unirsi da principio col corpo; sta fondata sulla necessità che ella ha di pigliare in prestito dalla immaginativa i fantasmi su i quali traffichi, giusta l’abilità che possiede, a divenir ricca di splendide intelligenze. Ma un tal contratto di società fra l’intelletto e i sensi, non è d’uopo che duri sempre (Questa proposizione dell’autore, che pone tra l’anima ed il corpo nell’uomo una unione meramente contingente e temporanea, anziché necessaria ed eterna, non bene si concorda con quanto venne enunciato nel numero precedente, e nemmeno mi pare conciliabile col dogma cristiano del risorgimento dei corpi e del perenne loro ricongiungimento coll’anima). Ove l’anima sia bastevolmente provvista, può lietamente sciogliere un tal contratto, e negoziar da sé sola, separandosi dal corpo, e operando senza di lui nella contemplazione di tutto il vero da lei bramato, e di tutto il buono, a somiglianza degli spiriti puramente intellettuali, coi quali ella è confinante (S. Th. 1. p. q. 88. art. 6 ) . Anzi da questi potrà ella venire vieppiù arricchita, e massimamente quando per la poca dimora che fece in terra poco tempo ancor ebbe da trafficare. Vero è che l’anima non può capir bene al presento quello stato più alto che sortirà divisa dal corpo; o però tanto s’inorridisce al pensiero di morte prossima (s. Th. c. gent. 1.2.c. 81. et 1. p. q.89.a. 1. ad 2).

IV.

XIII. E questa è l’altra obbiezione che adducono certi contra l’immortalità dell’anima umana: l’orror dell’uomo alla morte, non considerando essi tra sé che quell’orror naturale è più nell’apprensione e nell’appetito, a cui di verità toccherà perire, che non è nella ragione, a cui tocca restare eterna. Questa negl’intendenti sa piuttosto reprimere un tal orrore. Tanto che talor li fa giungere, non già a darsi audacemente la morte da sé medesimi; mentre è noto che senza la permissione del generale non può un soldato voltare al campo le spalle (Cic. Tusc. q. 1. 1), ma a sospirarla, come facea chi già disse: Cunctis diebus, quibus nunc milito, expecto donec veniat immutatici mea (aspetterei tutti i giorni della mia milizia finché arrivi per me l’ora del cambio! Iob. XIV. 14). Senzachè, qual mEraviglia, se all’anima, per l’amore che ha preso al corpo, dispiaccia di abbandonarlo fin in pascolo ai vermi? Basti di risapere che le fu compagno in un traffico, qual si disse, di tanto lucro più a lei, che a lui. Ma soprattutto non è ciò quel che rende la morte così terribile ai più degli uomini. È non saper qual sorte debba lor finalmente toccar di là, se beata, o misera. Ma se è così, tal orrore dunque conforma l’immortalità dell’anima umana, non la sconfìgge, mentre ciò mostra, che niuno sa svellersi, benché voglia, dal cuore quest’alta aspettazion di premio o di pena che duri sempre.

XIV. Finalmente l’ultima opposizione è una fuga vergognosissima, sotto nome di ritirata. Dicono che le ragioni addotte a favor della combattuta immortalità non sono evidenti, ma che vi si può rispondere molte cose. Però che posso io qui dire? se le mentovate ragioni non compariscono di buon aspetto allo menti de’ libertini così stravolte, non è discredito della verità, n’è trionfo. Come poteano risplendere fedelmente sì belli oggetti in tali specchi tutti imbrattati di fango? Ma frattanto se le ragioni addotte non sono evidenti a loro, sono evidenti all’ingegno di maestri eccelsissimi, che per tali, almeno in gran parte le definirono (V. Suar. de anim. 1. 1. c. 20. Et Gregor. de Valent. 1. p. disp. 6. q. 1. p. 3. S. Th. contra gentes 1. 2. c. 79. sub. init.). E singolarmente sono evidenti a due gran luminari nel cielo della sapienza, ad Agostino, e all’Angelico, ciascun de’ quali sarebbe da se solo bastevole a far di chiaro. Che se qualche scolastico, ancor sottile, si studiò di annobiliare tal evidenza, riducendo il tutto alla fede (Che la spiritualità e quindi l’immortalità dell’anima umana non sia un mero oggetto di fede sovrannaturale, ma altresì una verità dimostrabile dalla ragione, è questa una proposizione sancita dalla Santa Sede romana con decreto 11 giugno 1855, dove si legge: « Ratiocinatio Dei existentiam, animæ spiritualitatem, hominis libertatem cum certitudine probare potest. »), già si scorgo che ciò egli fece piùper vaghezza di contenzione, che di vittoria,come osservossi anche da’ suoi più devoti commentatori: onde in ciò godé poco applauso e pochi aderenti.

XV. Finalmente quando anche si dovesse concedere in cortesia che le prove addotte per l’immortalità dell’anima umana non fossero evidentissime, rimane evidentissimo almeno che sono degne di esser preferite alle prove opposte: sicché nessuno intelletto, senza nota di somma temerità, si possa mai sposar più a queste, che a quelle. Pertanto a fingere parimente che tale immortalità fosse una causa tuttor pendente al gran foro della ragione, converrebbe pure, ad operar con senno, che ciascun giuocasse al sicuro: Spem ac metum examina (scrive Seneca (Ep. 5) al suo Lucilio), et quoties incerta erunt omnia, tibi fave. Che perderete voi dunque , se vi atteniate al partito di riputare la vostr’anima eterna; e per contrario che non perderete in riputarla mortale? Eccoci giunti al dì ultimo, voi ed io: voi , cui l’opinion di morir tutto abbia consigliato il vagare liberamente per ogni campo di piacere interdetto; io, cui la fede di non dover mai morir secondo il meglio di me, mi sia stata alquanto di freno. Che vi par ora? Per ciò che si appartiene al passato siam già del pari. E per voi finito ogni spasso, per me ogni stento. Ma da ora innanzi, oh che alta diversità! Se l’indovinate voi, godeste, è vero, per breve corso di anni, ma non godete ora più, come nemmen io. Ma se io sono quegli che l’indovini, io regnerò fortunato per tutti i secoli co’ seguaci della provvidenza divina già trionfante, e voi per tutti i secoli gemerete co’ suoi ribelli, oppresso dal peso d’una sterminata miseria, che sempre vi aggraverà più spietatamente, né mai però finirà di schiacciarvi il capo. Qual senno dunque sarebbe, quando le cose nel pellegrinaggio di questa vita restassero ancora dubbio, non voler pendere dalla banda del monte, piuttosto che dalla banda del precipizio? E nondimeno da questa pendete voi.

XVI. Se l’anima è caduca, dicea quel savio (Cato apud Tull., de senect.) non vi sarà chi dopo la morte nostra ci possa rimproverare l’abbaglio tolto in riputarla immortale. E se immortale, oh come a noi toccherà di rimproverare con piacer sommo chi se la finse caduca! Ma io non vi dico nulla di ciò, perché voglia quasi permettere al vostro cuore un piccolo dubbio in cosa che è tanto certa. Vel dico a soprabbondanza di verità: mentre quest’istesso vedere quanto più operi prudentemente chi tiene l’immortalità dell’anima umana, che chi la nega, dimostra evidentemente qual sia la sentenza vera.

XVII. Lasciamo dunque di voler disputare contra noi stessi e contra tutti i lumi della natura, la quale da tanti versi ci fa apparire la nobiltà del nostro essere sempiterno, affinché ci andiam disponendo, dopo una breve fatica, a goderne i frutti. Muoiano pure queste membra lotose che sono sottoposte alla morte: rovinino le pareti di questo carcere che ci tien ristretto lo spirito nato al soglio: usciamo dallo squallore di queste sì nere tenebre a quella luce che sopra noi dovrà subito folgorare nell’istantaneo tragitto da un mondo all’altro. Che temer tanto? Dies iste, quem tamquam extremum reformidas, æterni natalis est; depone onus, etc. Quid, ista sic dìligis quasi tua? Istix opertus es. Veniet qui te revelet dies, et ex contubernio fœdi atque olidi eentris educat. Aliquando naturæ arcana tibi retegentur: discutietur ista caligo, et lux undique ciana percutiet etc. (Senec. ep. 100). Credete forse che la fede sola sia quella che faccia parlar così? Così ancor fece, che favellasse un filosofo, la natura.

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (2)

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (2)

[E. Hugon: Le mérite dans la vie spirituelle, – LES ÉDITIONS DU CERF JUVISY — SEINE-ET-OISE – 1935]

III.

IL PRINCIPIO DEL MERITO

La grazia è il primo e radicale principio dal quale procede il merito: così come la nostra anima è la fonte delle nostre azioni, così come il tronco dell’albero è la causa dei fiori e dei frutti; così come l’albero porta frutto attraverso i suoi rami, e l’anima opera attraverso le sue facoltà, così la grazia produce l’opera salutare e meritoria attraverso l’intermediazione delle abitudini infuse, cioè: le virtù teologali, che hanno Dio come oggetto e sono radicate nella vita divina; le virtù morali, con le loro innumerevoli ramificazioni; i doni dello Spirito Santo, che ci dispongono a ricevere il tocco del divino Paraclito in modo docile e sono in noi come dei germi di eroismo, come una pianta il cui eroismo è il fiore o una lira il cui eroismo è il suono. Ora è in virtù della carità che la grazia è il principio del merito, cosicché gli atti delle altre virtù diventano meritevoli nella misura in cui sono informati dalla carità. Certamente la carità non è l’unica ad essere incoronata, l’unica virtù che onori Dio (cfr. Concilio di Trento, cap. X e XVI del sess. VI, e le prop. 55 e 56 condannate in Quesnel, – apud Denzinger, 1405, 1406). L’impulso e il motivo delle altre virtù sono lodevoli; possono tutte ascendere a Dio; ma è essa che le dirige, che le informa, che le rende gradevoli al supremo Remuneratore. Allo stesso modo, infatti, che la volontà è la potenza maestra che comanda tutte le altre, la carità è la regina che impone i suoi ordini a tutte le virtù (cf. S. Tommaso, Ia, IIa, q. 114, art. 4); essa è anche l’organo della vita attraverso il quale la grazia fa giungere il merito ai vari atti, così come il cuore irrora sangue in ogni parte del nostro corpo. La Scrittura indica soprattutto il motivo della carità nelle opere che Dio benedice: è perché esse sono fatte per amore, nel nome di Gesù, per la gloria di Dio: « In nomine meo, quia Christi estis… omnia in gloriam Dei facite » (S. Marco IX, 40; I Cor. XI; Colos., III, 17). San Paolo dichiara che gli atti, per quanto squisiti, della fede più convinta, come trasportare montagne, subire le torture del fuoco, hanno valore per la vita della carne solo se ispirati dalla carità (I Cor. XIII, 1-3). Le nostre opere, infatti, per essere degne di merito, devono essere degne di Dio, devono essere dirette verso il nostro fine ultimo; ed è la carità che le dirige verso questo destino. Poiché la carità è la virtù sovrana, essa governa tutte le altre virtù; poiché ha per oggetto il fine universale, deve comandare a dei fini particolari, dirigere tutte le abitudini con i loro atti verso la meta unica e suprema. Poiché nessun mezzo è messo in atto se non per il desiderio del fine ultimo, nessuna opera sale effettivamente a Dio se non attraverso la carità (cf. “Fuori dalla Chiesa nessuna salvezza”, 2a ed., pp. 186-7). Ma in cosa consiste questo impero della carità senza il quale le nostre opere sarebbero sterili? Qui alcuni teologi si allontanano da San Tommaso; secondo alcuni è sufficiente un’influenza abituale che deriva dall’esistenza stessa della carità nell’anima (cf. Vasquez, Disp. CXXVII, CCXVII); secondo altri, l’influenza abituale è sufficiente per gli atti di virtù soprannaturali, ma l’influenza abituale è necessaria per gli atti di virtù acquisite (cf. Vasquez, Disp. CXXVII, CCXVII;. Suarez, de Gratia, XII, c. VIII-X; Mazzella, De virtutibus infusis, n. 134.); secondo San Tommaso e la sua scuola, non è richiesta l’influenza attuale, ma è necessaria per tutti i casi almeno l’influenza virtuale (molti altri teologi concordano qui con il Dottore Angelico, v. g. San Bonaventura, II Sent, diss. 4; Bellarmino, De Justif., cap. XV.2). – Non vogliamo entrare in discussioni scolastiche; basterà qui esporre la dottrina del Dottore Angelico. – L’influenza abituale è insufficiente, perché, come osserva il santo Dottore, nessuno opera finché le sue energie rimangono nello stato abituale (S. Tommaso, Il Sent., dist. 40, q. I, a. 5, ad 6.). Non è necessario, invece, che l’intenzione attuale intervenga in ogni azione per indirizzarla verso l’ultimo fine; ma deve esserci un’intenzione virtuale, una scossa efficace che continui anche dopo la cessazione dell’ordine. Ora tutto ciò presuppone un precedente atto di pensiero e di volontà, che ha ordinato tutti i seguenti atti e continua in essi, come impulso dell’inizio, nel movimento che ha provocato: Sed oportet quod prius fuerit cogitatio de fine, qui est caritas, et quod ratio actionnes sequentes in finem ordinaverit (S. Thom., II Sent., dist. 38, q. I, art. I, ad 4). La nozione stessa di merito richiede che le opere siano soprannaturali e si riferiscano al fine ultimo. Ora gli atti delle virtù acquisite non sono essenzialmente soprannaturali, ma lo sono nella misura in cui l’intenzione della carità le ha diretti e fecondati. Quanto agli atti delle virtù infuse, pur essendo di per sé soprannaturali, essi sono effettivamente legati al fine ultimo ed alla gloria di Dio solo se sono informati dalla virtù che ne ha per oggetto il fine ultimo, cioè quella carità divina alla quale appartiene il muovere le altre virtù e dirigere i loro atti, così come nell’ordine naturale la volontà mette in moto tutte le altre facoltà e le applica ai rispettivi atti. Questa direzione, questo orientamento, questo scossone, implica necessariamente un atto la cui energia si mantiene in tutta la serie di movimenti che ne derivano. E questo è proprio quello che chiamiamo l’influenza virtuale della carità.

IV.

IN PRATICA, TUTTI GLI ATTI DEL GIUSTO CHE NON SONO PECCATI VENIALI SONO MERITORI.

San Tommaso afferma molto categoricamente che, nell’uomo in stato di grazia, non può esserci atto di indifferenza: se l’atto è buono, è meritorio; se non è buono, è demeritorio. Peccatori e miscredenti possono certamente nascondere certi atti che non sono meritori, non ancora vivificati dalla grazia, ma che, d’altra parte, conservano la loro naturale bontà (Spieghiamo a suo lungo questa dottrina in Fuori dalla Chiesa Nessuna salvezza, 2a ed., pp. 59 e segg.), come onorare i genitori, pagare i debiti, rispettare la fede dei giuramenti e dei trattati. Nel giusto, invece, l’atto che è buono nell’ordine naturale assume anche, per l’influsso della carità, il carattere del merito: Habentibus caritatem omnis actus est meritorius vel demeritorius (S. Thomas, Quæst. Disp., de Malo, q. 2, a. 5, ad 7). Abbiamo esposto altrove questo insegnamento del Maestro Angelico (Marie pleine de grâce, pp. 114-116, Parigi, Lethielleux). Lo stato di giustizia, infatti, richiede la carità, e la carità è attiva: non può non provocare, eccitare le nostre energie, inclinarle verso Dio. Essa orienta la nostra intenzione originaria verso il fine ultimo, e con questo primitivo movimento comunica la sua influenza a tutte le virtù, così come la volontà impone il suo comando a tutte le potenze: questo impulso continua anche dopo che l’ordine sia cessato; rimane ancora nelle virtù e nelle opere, e in questo modo tutte le nostre opere sono vivificate dalla carità e diventano meritorie. – Stimolata dalle sue forze native ad agire, la carità rinnova il suo impulso abbastanza spesso affinché la nostra intenzione sia sufficientemente diretta verso Dio, affinché tutti i nostri buoni atti siano coinvolti da questo impulso generale e trasportati nell’eternità. Ecco come tutte le azioni del giusto vengono trascinate nella corrente che santifica, come in virtù dell’impressione ricevuta rimangono sempre orientate verso il fine della carità e si relazionano con Dio, senza che noi, attualmente, ci pensiamo. Nel bere e mangiare secondo la misura della temperanza, avere una onesta ricreazione, in tutto quanto è fuori dal cerchio della volgarità, non c’è più nulla della banalità: tutto è grande, tutto è nobile, perché queste azioni hanno come misura l’eternità che ne è in gioco. Riassumiamo questa bella e consolante dottrina in un unico argomento: ogni buona azione si riduce alla fine ad una virtù, ogni virtù converge verso il fine della carità, perché la carità è la regina che comanda tutte le virtù, così come la volontà comanda tutte le potenze. Tutti gli atti buoni sono quindi legati al fine della carità, sono soggetti alla sua influenza, e diventano meritori. Le azioni che sfuggono a questo impero universale sono necessariamente al di fuori del fine ultimo, squilibrate, macchiate dal demerito. Questo, in una parola, è lo scopo di questo insegnamento tomistico: nel giusto, ogni atto ragionevole e deliberato deve essere o all’interno del cerchio dell’ultimo fine e, così vivificato dalla carità, è meritorio; o al di fuori di questo cerchio, e così è disordinato e peccato veniale: Habentibus caritatem omnis actus est meritorius vel demeritorius.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/07/20/il-merito-nella-vita-spirituale-3/

DA SAN PIETRO A PIO XII (6)

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

CAPO VI.

I PADRI DELLA CHIESA

PREAMBOLO

Gli avvocati del Cristianesimo

Dopo Origene si accesero dispute gravissime. A Cesarea sorse una scuola di suoi seguaci. Ad Antiochia invece ne sorse una contraria. Gli Origenisti, che si potrebbero paragonare a certi idealisti di oggi, e gli Antiorigenisti, che si potrebbero paragonare a certi positivisti dei nostri giorni, si combatterono a lungo. La dottrina cattolica, che venne proclamata via via in definizioni dogmatiche, da Concili e da documenti pontifici, corse i suoi più gravi rischi tra codesti due turbini. Ma con l’assistenza dello Spirito Santo e in virtù della forza e della santità di altri potenti pensatori, il Magistero ecclesiastico uscì sempre trionfatore da tutte le eresie.

Quegli scrittori ecclesiastici che portarono nuova luce di dottrina alle verità cristiane e nuovo fervore di carità nella vita della Chiesa, furono poi chiamati Padri. Padri greci e Padri latini secondo che scrivevano in greco o latino. La loro opera d’immensa mole e d’immensa portata sorpassa il quadro della prima Chiesa, e i limiti d’un periodo. Sono gli avvocati del Cristianesimo, i maestri dell’umanità cristiana e la voce della Chiesa. Essi recinsero le nude verità, predicate da Gesù, della gloria del pensiero e della parola e furono tanto più efficaci dei filosofi d’ogni tempo, perché vissero ciò che scrissero. Furono grandi scrittori di Dio, perché grandi cuori, prima che grandi intelletti; santi, prima che dotti, e perciò due volte dottori, anzi «padri».

D. Chi sono i Padri della Chiesa ?

— Sono scrittori ecclesiastici, che si distinguono sopra tutti per quattro motivi:

1) L’ortodossìa, cioè che sia sempre rimasto fedele alla dottrina cattolica;

2) la santità di vita;

3) l’antichità, cioè che appartenga all’età d’ oro della primitiva letteratura ecclesiastica; (per i Greci va fino a S. Giovanni Damasceno (753) e per i Latini fino a S. Gregorio Magno (604).

4) L’ approvazione della Chiesa.

D. Chi sono i Dottori della Chiesa?

— Alcuni Padri che per la loro scienza eminente si sono distinti in modo particolare.

D. Chi sono i Padri greci?

 — Sono i dottori della Chiesa Orientale, quali: S. Atanasio, martello degli Ariani; S. Basilio, difensore della divinità dello Spirito Santo contro l’eretico Macedonio; S. Gregorio Nazianzeno, profondo teologo e poeta; S. Giovanni Grisostomo, grande oratore, chiamato perciò « Bocca d’oro ».

D. Chi sono i Padri latini?

— I dottori della Chiesa Occidentale, quali: S. Ilario di Poitiers, grande difensore della Trinità contro gli ariani propagatisi in Occidente; S. Ambrogio di Milano, grande oratore, benemerito della liturgia e del canto sacro, propugnatore della virtù e della vita veramente cristiana. Morì dopo 23 anni di attività intensamente apostolica il 4 aprile 397. S. Girolamo, eccezionale studioso di retorica e di ebraico,: tradusse in latino la S. Scrittura (Volgata). Morì nel 420. S. Agostino di cui s’è detto.

CAPO VII.

IL MONACHISMO

PREAMBOLO

L’ascetismo

La parola ascesi in greco significa esercitazione. Come un atleta, come un soldato, l’asceta si esercita per avere una vittoria. Ma la vittoria dell’asceta cristiano non è sua; è della grazia di Cristo…. Ben presto si formarono, nel seno stesso delle comunità cristiane, nuclei di uomini e di donne, che intendevano dedicarsi alla loro perfezione ascetica. Giovani che si consacravano alla carità; vedove che non passavano a seconde nozze e restavano al servizio della comunità; poveri volontari, che donavano tutto ai poveri involontari; eremiti che si isolavano nella preghiera. – Fu necessario che la Chiesa pensasse anche a loro e ben presto si ebbe una legislazione che li governava, perché nella Chiesa non esistono « irregolari ». Anche le forme più alte dell’ascetismo, anche le manifestazioni, che al mondo potevano apparire più assurde, dell’amor di Dio, erano attività della vita cristiana, e dovevano essere regolate dal magistero e governo della Chiesa. I primi tre secoli conobbero molte forme di vita ascetica. Ma quella più estesa e portentosa prese il nome di «Monachismo»; fiorì dal deserto dell’Egitto, nel IV secolo, con S. Antonio.

La pace, dopo la conversione di Costantino, aveva condotto nella chiesa molti uomini, Cristiani più per convenienza che per convinzione. Alcuni sentirono il bisogno di vita ascetica, non per superbia, ma per risanare con il loro maggior sacrificio il corpo rilasciato della Chiesa. Tra questi fu Antonio. La fama della sua santità andò così alta, che si ebbe un moto incontenibile di Cristiani, i quali, per imitare Antonio, fuggivano dalle città e dai paesi per vivere nei deserti. Parve per un momento che non si potesse essere Cristiani senza essere monaci. E la Chiesa ebbe in questo popolo di monaci la necessaria reazione al popolo d’eretici; come le accadrà quando il Protestantesimo scinderà dal suo seno gli Anglosàssoni e la Chiesa si rifarà con nuove innumerevoli, varie e potenti famiglie religiose.

D. Chi sono i Monaci?

— Validi fattori di civiltà. Se i Padri e Dottori della Chiesa giovarono tanto con il chiarire e difendere le dottrine del Vangelo, i Monaci furono benemeriti nel farle penetrare con il loro esempio e con la loro attività nella vita e nei costumi dei popoli ancora idolatri.

D. Chi fu l’ideatore del Monachismo?

— Si può dire che fu N. S . G . CV, che dettò i tre « consigli evangelici », che contengono in germe tutta l’essenza della vita religiosa, cioè povertà volontaria, castità perfetta e ubbidienza ad un superiore liberamente scelto.

D. Chi furono gli attuatori del Monachismo?

— Coloro che, molestati dai persecutori nell’esercizio dei propri doveri religiosi, abbandonarono le città e l’abitato, per rifugiarsi nella solitudine dei deserti africani.

D. Quali furono i suoi inizi e i suoi sviluppi?

—  Cominciò con la « vita eremitica » nel deserto della Tebaide con Cristiani fuggiti alla persecuzione di Decio nel 3° secolo. Tra essi S. Paolo eremita e S. Antonio abate, padre del monachismo orientale, e S. Pacomio, S. Basilio, che con l’invitare i monaci alla vita in comune diedero origine alla vita cenobitica e monastica.

D. Qual era la regola monastica dell’Oriente?

— A capo del cenobio vi era l’ABATE, cui tutti dovevano ubbidire; intorno a lui i religiosi, occupati sempre in preghiera, opere di penitenza, lavori manuali, e nello studio specie della S. Scrittura e della Teologia.

D. Chi dettò la Regola Monastica dell’Occidente?

— San Benedetto di Norcia nell’Umbria, che si ritirò da prima a Subiaco a far vita solitaria, poi passò a « MONTECASSINO », dove fondò la prima grande abbazia dei Benedettini.

D. Che cosa imponeva la sua regola?

— Oltre i precetti evangelici, l’obbligo ai monaci di prendere stabile dimora nell’abbazia, in modo che dove entravano, là morivano. Ogni abbazia formava come una piccola repubblica democratica con capi eletti dal voto dei monaci.

D. Quale ne era il motto?

— « Ora et labora » , cioè preghiera e lavoro.

Il monaco non doveva mai stare in ozio, ma attendere al lavoro dei campi, al lavoro manuale e anche al lavoro intellettuale. I monaci dovevano leggere anche a mensa. In modo particolare poi dovevano attendere a copiare antichi volumi. Dovettero inoltre, in un’epoca in cui gli uomini erano costretti dalle guerre ad abbandonare i campi, farsi maestri d’agricoltura. Così mentre il mondo imbarbariva, i monasteri benedettini erano isole dove si salvava la civiltà.

D. Ebbe sviluppi rilevanti il monachismo? — Con la pace costantiniana (313) prese proporzioni grandiose e divenne la scuola permanente della perfezione e della milizia cristiana. I giovani generosi che abbandonano la patria, la famiglia, la posizione sociale (spesso elevata) si contano a migliaia, sia in Oriente che in Occidente

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (1)

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (1)

[E. Hugon: Le mérite dans la vie spirituelle, – LES ÉDITIONS DU CERF JUVISY — SEINE-ET-OISE – 1935]

Il merito nella vita spirituale

NIHIL OBSTAT

Fr. ÉT. LAJEUNIE Fi. P. BOISSELOT

Lecteur en théologie. Lecteur en théologie.

Fr. J. PADÉ Pr. Prov.

Parisiis, 15 Sept. 1935.

NIHIL OBSTAT

F. MAINIL, cens. libr.

IMPRIMATUR

Tornaci, die 11 Octobri 1935

J. LECOUVET, vic, gen

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE

La vita spirituale non è altro che la vita del merito; perché se la vita dell’anima è grazia. Patto di questa vita è l’atto meritorio. Camminare sulla via della perfezione significa avanzare nel merito; c’è quindi progresso o regresso, a seconda che il merito cresca o si fermi. Questo è ciò che dovrebbe essere l’esame di coscienza nei giusti. Fare l’equilibrio nella vita spirituale significa determinare in che misura la somma dei nostri meriti superi quella dei nostri demeriti. È quindi importante spiegare la dottrina cattolica su questo tema e ricordare i principi teologici che sono alla base della vera spiritualità. Il nostro studio prenderà in esame questi punti essenziali, evidenziando come si proceda lungo le applicazioni dell’ordine pratico: la nozione di merito, le condizioni di merito, il principio del merito, l’entità del merito, la ricompensa del merito.

I.

LA NOZIONE DEL MERITO

Questa deriva dalla nozione stessa della grazia, di cui il merito è il germoglìo, la fioritura, il frutto e la corona. La Grazia è chiamata dalle Sacre Lettere una seconda nascita immacolata, incorruttibile, che ci dà il titolo e la qualità di figli di Dio: Sono nati da Dio, dice San Giovanni (S. Giovanni I, 13: “ex Deo nati sunt“). E San Pietro: Tu sei rigenerato non da un seme corruttibile ma incorruttibile (I Pietro, I, 23: “renati non ex semine corruptibili, sed incorruptibili“.2). Chiamati figli di Dio, noi lo siamo in effetti (I Giovanni, III, 1: “ut filii Dei nominemur et simus“). Dopo il nostro Battesimo, nostro padre e nostra madre, contemplandoci con amore nella nostra culla, hanno detto di noi in un dolce trasporto: « Rallegriamoci, ci è nato un figlio! » La famiglia celeste, l’adorabile Trinità, che si china ancora più teneramente su quella stessa culla, ha detto di noi: Ci è nato un Dio, un uomo è nato da Dio, ex Deo nati sunt. Ma cosa ci dà la nascita? La caratteristica della generazione è quella di comunicare un Essere fisico simile al principio che genera: nascere è ricevere da un vivente qualcosa di lui che passa in noi, e che rimane sempre come suo specchio e sua immagine; in una parola, è una nuova natura che sboccia al sole di una nuova vita. Nascendo dall’uomo, noi riceviamo una natura umana e riproduciamo la figura dei nostri genitori; nel nascere da Dio, noi dobbiamo partecipare alla natura divina per riflettere il volto divino. Questo è ciò che ci insegna la scrittura. Dopo aver detto che la grazia è la nostra seconda creazione, una seconda nascita, nova creatura, renati, la si chiama comunione all’Essere di Dio, una partecipazione della sua natura: Divinæ consortes naturæ (II Pietro 1,4: – Vedi il nostro libro: Fuori dalla Chiesa Nessuna salvezza, 2a edizione, p. 128). – Se abbiamo ricevuto per grazia una natura divina, dobbiamo avere operazioni dello stesso suo ordine. Secondo la bella espressione di un Padre della Chiesa, il Cristiano è un “Dio in fiore”; esso deve portare frutti divini, cioè operazioni degne di Dio.  Da quel momento in poi, c’è un triplice valore soprannaturale nelle opere del giusto:

Il valore meritorio è la proprietà che possiede l’opera del giusto, in tanto che divina, di essere accettata da Dio come degno di ricompensa;

il valore soddisfattorio è la proprietà che possiede l’opera del giusto, in tanto che divina, di essere accettata da Dio come riparazione per l’offesa fatta all’infinita Maestà;

il valore impetratorio è la proprietà che possiede la preghiera del giusto, come divina, di ottenere da Dio i beni necessari o utili alla salvezza.

Il merito è come la radice ed il fondamento degli altri due valori, e si potrebbe anche dire che la soddisfazione e l’impetrazione sono una sorta di merito, perché l’opera santa è degna o meritevole dell’accettazione di Dio come riparazione, e la preghiera fatta in stato di grazia e nel nome di Cristo è degna di essere ascoltata da Dio. Ma, prese nello stretto senso, queste nozioni devono essere accuratamente distinte. Il merito si riferisce soprattutto al diritto alla ricompensa, che è l’aumento della grazia in questo mondo, la gloria e l’aumento di gloria nell’altro; la soddisfazione si riferisce alla riparazione dell’offesa; l’impetrazione implica l’efficacia della preghiera in relazione ai beni della salvezza, e l’anima in stato di peccato mortale, non potendo ancora meritare, può pregare. – Il merito è personale, nel senso che l’uomo giusto non può meritare de condigno per gli altri, a meno che non sia costituito il capo morale dell’umanità; la soddisfazione può essere ceduta agli altri; l’impetrazione si estende al di là del merito, perché la perseveranza finale cade al di fuori della sfera del merito, mentre rientra in qualche modo nell’ambito dell’impetrazione, essendo stata promessa da Cristo alla preghiera perseverante fatta nel suo nome. La soddisfazione ha diversi aspetti: dal momento che l’opera del giusto calma l’ira di Dio, essa è propiziatoria; dal momento che inclina Dio a cancellare la colpa del peccatore, è espiatoria; poiché paga il debito dovuto alla giustizia divina, è propriamente soddisfattoria. La propiziazione agisce prima della remissione del peccato, rendendo propizio il Dio irritato dalla colpa; l’espiazione mira alla remissione stessa del peccato, che si fa mediante la grazia santificante; la soddisfazione viene dopo la giustificazione e mira alla soluzione della pena, una volta cancellata la colpa. (cf. “Il Mistero della redenzione” – 2a ed., pp. 262-3). – È soprattutto questo primo valore che consideriamo qui. C’è il merito propriamente detto, il merito della condegnità de condigno, quando l’opera è veramente degna della sua ricompensa, quando c’è una sorta di uguaglianza o proporzione tra le due, in modo che la ricompensa sia dovuta a titolo di giustizia; il merito di convenienza, “de congruo”, è quello che si basa non sulla stretta giustizia, ma su certe esigenze morali che il Remuneratore misericordioso non manca mai di soddisfare: è il diritto dell’amicizia alla ricompensa, jus amicabile ad præmium. – La Chiesa ha definito, contro i protestanti, l’esistenza del merito propriamente detto nei giusti. « Una volta che gli uomini sono giustificati – dice il Concilio di Trento – bisogna loro proporre le parole dell’Apostolo, promettendo alle opere meritorie la corona della giustizia. Come la testa influenza gli arti e la vite influenza i germogli, così Cristo comunica ai giusti la virtù che precede sempre le loro opere buone, li accompagna e li segue, e senza la quale questi atti non potrebbero essere graditi. (Sess. VI, c. 16, can. 32).

II.

LE CONDIZIONI DEL MERITO

Esse devono essere considerate dal lato dell’opera, dalla parte di chi agisce, dalla parte del Remuneratore supremo. L’opera deve essere libera, buona e soprannaturale. Come perfezione della nostra attività, il merito non può che coronare l’Atto veramente umano, che proceda cioè da entrambe le nostre due facoltà principali, l’intelligenza e la volontà; l’atto che è in nostro potere, di cui abbiamo il pieno controllo, e non quello che ci viene imposto da una costrizione esterna o da un impulso fatale della nostra natura (La Chiesa ha dichiarato, contro Giansenio, che il merito richiede questa doppia esenzione, sia della violenza esterna, e sia dalla necessità naturale – Cfr. Denzinger, n. 1094).  Così, gli atti puramente naturali o irriflessivi o involontari, esulano dalla sfera del merito. La conclusione che si deve trarre per la vita spirituale è che le persone che desiderano la perfezione devono stare continuamente in guardia, per diminuire gli atti indeliberati ed accrescere così il tesoro dei loro meriti. – L’opera deve essere buona e soprannaturale, perché è evidente che il movimento non può avvicinarci efficacemente al termine supremo, la gloria, se non sia dello stesso suo ordine e, per così dire, dello stesso grado. Ciò che è essenzialmente richiesto dal canto della persona è lo stato di viatore, perché il merito, come abbiamo appena notato, è un movimento e il movimento si ferma non appena si arrivi al termine. Nostro Signore afferma chiaramente questa verità quando dice: « Devo compiere le opere di Colui che mi ha mandato, fintantoché è giorno. Ecco, viene la notte, quando non si può più lavorare: venit nox, quando nemo potest operari » (Giov. IX, 4). Il giorno è la vita presente; la notte è la morte. Questa è l’interpretazione comune dei Padri, da Origene a Sant’Agostino. Molti teologi protestanti del XIX secolo hanno pervertito questo punto dell’insegnamento tradizionale sostenendo che non tutto è immutabilmente fissato dopo la morte, che la salvezza continua negli inferi, nell’intervallo tra la prima e la seconda venuta, presso quei settori dell’umanità che non sono stati messi in condizione nell’esistenza terrena di decidersi a favore o contro Cristo (A. Grétillat, “Exposé de théologie systém.”, vol. IV, p. 949, Parigi, 1900). La minima esitazione è impossibile su questo argomento. L’anima, uscendo dal corpo, compare alla barra  di Dio per subire un giudizio irreformabile, e, se è in stato di peccato mortale, scende immediatamente all’inferno, mox post mortem, dove subisce un castigo che non avrà fine (Benedetto XII, Constit. Benedictus Deus del 29 gennaio 1336; – Concilio di Firenze, Decreto, pro Græcis; cf. Denzinger, 531, 693). Uno degli schemi del Concilio Vaticano, pur non avendo valore giuridico, traduce fedelmente la credenza certa ed infallibile della Chiesa: « Dopo la morte, che è la fine della nostra vita, l’anima appare immediatamente davanti al tribunale di Dio per rendere conto di ciò che ha fatto nel corpo, sia nel bene che nel male; e dopo questa vita mortale non c’è più spazio per il pentimento ed il ritorno alla penitenza » (cf. Granderath, Acta et Decreta Conc. Città del Vaticano, Friburgo, Brisgou, 1892, p. 564, col. 2). Si potrebbe pensare, di rigore, che il merito accidentale possa accrescersi nell’aldilà; perché seppur la beatitudine essenziale è immutabile, le anime sono capaci di provare nuove gioie accidentali che completano la loro felicità. Ma la dottrina comune in teologia è che anche il merito accidentale si fermi alla morte, e che le glorie accidentali, aggiunte successivamente, sono dovute ai meriti della vita presente, quelli cioè che l’uomo giusto ha meritato quaggiù, e che gli siano conferite nuove gioie in cielo, secondo il suo stato o la sua condizione. La ragione di questo insegnamento è la ragione stessa dell’unione dell’anima con il corpo: l’uomo deve acquisire la sua perfezione nello stato di unione e finché duri l’unione. Per questo San Paolo attribuisce il merito o il demerito solo alle opere che sono state compiute nel mentre l’uomo aveva il suo corpo: « Noi tutti, dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva nel suo corpo ciò che ha meritato stando nel suo corpo, secondo le sue opere, buone o cattive che siano” (II Cor.., V, 10: “Ut referat unusquisque propria corporis prout gessit, sive bonum, sive malum“. Cfr. come da S. Tommaso e P. Cornely, in h. 1). – Un’altra condizione altrettanto indispensabile è lo stato di grazia e di carità. Nostro Signore dichiara che possiamo portare frutti soprannaturali solo se rimaniamo uniti a Lui; così come il tralcio è fecondo solo se attinge la sua linfa dal tronco nutritizio della vite (Giovanni, XV, 4). Ora è la grazia santificante che ci fa vivere e abitare in Cristo.  San Paolo ha proclamato la necessità e l’eccellenza della carità e della grazia, dalla quale essa è inseparabile, in una famosa pagina che è stata definita una delle più eloquenti e sublimi di tutti i linguaggi umani, e che può essere riassunta come segue: « Senza la carità non sono niente, tutte le cose non mi servono a niente, e con essa posso tutto » (I Cor. XIII). – Basti ricordare alcune dichiarazioni del Magistero infallibile. Il Secondo Concilio di Orange definisce: « La ricompensa è dovuta alle opere buone se esse hanno luogo, ma la grazia, che non è dovuta, precede perché esse abbiano luogo” (Can. t8, cfr. Denzinger, 191). – I Padri di Trento concludono precisando: questa grazia che precede l’opera meritoria è la grazia della giustificazione o la grazia santificante, ed è per questo che il Concilio attribuisce il merito solo alle opere dell’uomo giustificato (Sess. V, cap. 16, can. 32). La ragione teologica è abbastanza evidente. Poiché la ricompensa è l’eredità stessa di Dio, la persona capace di meritare è quella che ha il diritto di ereditare da Dio, cioè colui che è suo figlio; poiché il figlio è l’erede di diritto: Si filii et hæredes (Rom., VIII, 17). Solo la grazia santificante può infonderci questa ineffabile filiazione, renderci degli dei e permetterci di portare questa particella della più sublime nobiltà: di Dio, genus sumus Dei – di Lui stirpe noi siamo. (At XVII, 28). È, quindi, questo il primo ed indispensabile principio di ogni merito: una vita che non sia stata feconda è persa in cielo. – Dal canto del supremo Remuneratore, ci deve essere una promessa di ricompensa, perché le nostre opere non potrebbero essere un titolo di giustizia per l’eredità di Dio, a meno che Egli stesso non le abbia ordinate a questo scopo ed abbia promesso di coronarle. Per questo motivo la Sacra Scrittura indica espressamente la promessa divina: « Beato l’uomo che sopporta la prova!….. Egli riceverà la corona della vita che Dio ha promesso a coloro che lo amano » (Giac., I, 12: “Accipiet coronam vitæ quam repromisit Deus diligentibus se“). Si può dire che questa promessa si comprende nel fatto stesso della nostra elevazione soprannaturale e che la volontà di conferirci la grazia in vista del fine ultimo equivale ad una promessa: come colui che sparge il seme della pianta vuole i fiori e i frutti che ne sono la corona, così Dio, nell’infonderci la grazia, che è il seme della gloria, ci offre la vita eterna. Concludiamo con il Concilio di Trento: « A coloro che lavorano bene fino alla fine e sperano in Dio, bisogna proporre la vita eterna, sia come grazia misericordiosamente promessa ai figli di Dio da Nostro Signore, sia come ricompensa che sarà fedelmente data, in virtù della promessa divina, alle loro buone opere e ai loro meriti” (Sess. VI, cap. 16). Incoronando i nostri meriti, Dio incorona certamente i suoi doni; ma poiché si è impegnato nei nostri riguardi con le sue promesse, i nostri meriti ci danno diritto alla corona, e questa corona ci viene conferita a titolo di giustizia dal giusto Giudice: San Paolo la chiamava: La corona della giustizia che il Giudice giusto mi darà (« Corona Justitiæ, quam reddet mihi Dominus, in illa die, justus Judex » – II Tim. IV, 8). Da queste poche nozioni teologiche scaturiscono importanti applicazioni per la vita spirituale. Le anime che ci tengono alla loro santificazione dovrebbero spesso ricordare che sono diventate, per grazia, partecipi della natura divina che le pone al livello di Dio, e di conseguenza di operazioni divine di valore inestimabile. Supponiamo che, nella bilancia della giustizia eterna, la preghiera di un uomo giusto, il sospiro di un innocente, la lacrima di una povera madre, da un lato, e tutte le meraviglie del genio e dell’energia umana, dall’altro, siano poste sulla bilancia della giustizia eterna: questa preghiera, questo sospiro e questa lacrima pesano più di tutti i beni della natura insieme… Ma, d’altra parte, quanto dobbiamo essere vigili per rimanere a questo livello soprannaturale, per evitare la dissipazione, per diminuire sempre più gli atti indeliberati, per non perdere nulla del tempo che ci è stato dato nella vita presente, periodo unico per meritare, e per orientare tutte le nostre azioni verso l’eternità e verso la gloria di Dio! Ci resta da esporre una bella dottrina di San Tommaso: siccome nei giusti tutte le azioni che non sono peccati veniali rimangono meritorie, ci resta da spiegare, nello stesso tempo, la natura dell’imperfezione nella vita spirituale. Ciò che è stato appena detto basterà già a farci apprezzare una riflessione del Dottore Angelico: il più piccolo merito o « il bene di una sola grazia vale più del bene della natura intera » (S. Thom., Ia IIæ, q. 113, a. 9, ad 2.). « O parole d’oro – esclama il Cajetano, – parole che dovrebbero essere meditate giorno e notte! Una sola grazia vale più dell’intero universo! Considerate, quindi, l’immensa perdita di coloro che non sanno apprezzare un tale tesoro » (Cajet., Comm. in hunc loc.).

https://www.exsurgatdeus.org/2020/07/17/il-merito-nella-vita-spirituale-2/

DA SAN PIETRO A PIO XII (5)

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

CAPO V .

LE ERESIE

PREAMBOLO

Gli eretici

All’opposizione brutale dei persecutori romani, si aggiunse l’opposizione dissimulata, che questa volta si sviluppa in seno alla Chiesa. Gesù Cristo non si accontentò di affermare l’Unità di Dio; introdusse i discepoli nella felice intimità delle Tre Persone divine e presentò Se stesso come vero Dio e vero Uomo. Quale ricchezza dottrinale!

Purtroppo dei Cristiani più o meno sinceri tentano di alterarne la purezza facendo un amalgama delle verità cristiane con alcune concezioni pagane. Intelligentissimi, costituiscono un temibile pericolo per la conservazione della dottrina di Nostro Signore. E ne nascono le eresìe.

Il nome « eresìa » viene da un verbo greco, che vuol dire « separo », «stacco». E anche oggi si indicano con il nome di «eretici» coloro che contraddicono all’insegnamento della Chiesa, per seguire una dottrina particolare e contraria alla stessa, dalla quale perciò si separano, si staccano.

Anche l’eresìa si può dire che nascesse con la Chiesa, perché quando comincia,  l’eresìa ha sempre l’aspetto e la parvenza della verità; è anzi la verità stessa o storpiata o contratta o alterata. Un ramo risecchito è sempre un ramo.

1. – LE ERESIE

D. Cessate le persecuzioni ebbe più a lottare la Chiesa?

— Ebbe una lotta ancor più fatale, quella contro le eresìe.

D. Che cosa sono le eresìe?

— Errori nelle dottrine della Fede. Errori che o svisano la dottrina di Cristo, o la negano, o le contrappongono una dottrina opposta; in questo modo attentano alla stessa esistenza della Chiesa, che vive della dottrina di Gesù Cristo.

D. La Chiesa può tollerare l’eresia o venire a patti con essa?

— No, nel modo più assoluto. La luce non può tollerare le tenebre, né venire a patti con esse; e neppure la verità con l’errore.

D. Quali vie allora restano all’eretico?

— Due vie: o ritrattare i suoi spropositi, o andarsene. Nella Chiesa l’eretico, chiunque egli sia, non ha posto. Perciò viene invitato a correggersi delle sue idee, uniformandole al Vangelo, o alla dottrina della Chiesa; se resiste ostinato, viene eliminato con la scomunica.

D. Di chi furono opera le eresìe ?

— Di certi spiriti colti e inquieti, che, non paghi della Rivelazione cristiana, e, d’altronde, incapaci di sottrarsi al suo fascino, ne deturparono la purezza, tentando di conciliare fra di loro diverse ed anche opposte concezioni.

2. – LE PRINCIPALI ERESIE

D. Quale fu una delle prime eresìe?

— Lo GNOSTICISMO (dal greco « gnosis » = conoscenza), che pretendeva di avere la perfetta conoscenza dei misteri divini; era invece un miscuglio di elementi filosofico-religiosi orientali e cristiani.

D. E’ facile darne un concetto?

— No, perché tale eresìa fu sempre in continua evoluzione, cioè in continuo sviluppo.

D. I diversi sistemi gnostici hanno un punto in comune ?

— Sì, ed è il concetto che fra Dio, bontà infinita, e la materia, esiste una serie di esseri intermedi, che rendono possibile all’uomo di risalire fino a Dio.

D. Come si chiamano gli esseri intermedi?

— «Eoni». La loro perfezione si misura dalla loro vicinanza a Dio.

D. Furono tutti buoni gli « eoni » ?

— No; uno prevaricò; si chiama « Demiurgo ». Dopo aver prodotto una serie di Eoni, malvagi come lui, finalmente creò il mondo materiale e l’uomo.

D. L’uomo dunque è tutto male ?

— No, perché un Eone superiore ha staccato dal mondo spirituale una scintilla divina e l’ha posta nella materia. A misura della presenza di questa scintilla divina, gli uomini si distinguono in:

a) uomini spirituali, nei quali lo spirito supera la materia. Sono gli gnostici.

b) uomini psichici, nei quali lo spirito è uguale alla materia. Sono i Cristiani.

c) uomini materiali, nei quali la materia è superiore allo spirito. Sono i pagani.

D. Qual è lo scopo della Redenzione secondo gli Gnostici?

— Quello di liberare l’elemento divino imprigionato nella materia.

D. Chi è il Redentore?

— Gesù Cristo, il quale, secondo gli gnostici, è uno degli eoni più sublimi, che, assumendo un corpo apparente, redense l’umanità.

D. Quale fine assegnano al mondo?

— Compiuta la liberazione dell’ elemento divino dalla materia, il mondo sarà distrutto e con esso gli uomini che non meritano la salvezza.

D. Quali concezioni morali portò questa dottrina?

— Ne portò due formalmente opposte; una che insegnava la pratica della mortificazione e della penitenza; l’altra che liberava il freno ad una immoralità spaventosa, come risulta dal quadro delle scostumatezze degli gnostici, che ci fa S. Ireneo.

D. Che fece la Chiesa contro questa eresia?

— Per mezzo di molti Padri del tempo la sgominò. Tra tutti si distinse S. Ireneo con il suo celebre volume « Adversus Hæreses».

D. Quale argomento porta S. Ireneo nel suo « Adversus Hæreses »?

— Il seguente: la dottrina di Gesù Cristo fu, per suo ordine, insegnata dagli Apostoli a tutto il mondo; ora presso le singole chiese, che hanno origine apostolica, non esiste nessuna traccia di gnosticismo, anzi esse hanno sempre creduto einsegnato il contrario; perciò il Vangelo non ha nulla a che fare con le aberrazioni gnostiche.

3. – IL MANICHEISMO

D. Tramontato lo gnosticismo, quale altra eresìa si ebbe?

— Il MANICHEISMO, che prese nome dal suo autore, MANI.

D. Che cosa insegna?

— Che vi sono due regni eterni, quello della luce e quello delle tenebre. Satana esce dalle tenebre e muove guerra a Dio, re della luce. L’uomo, creato da Dio, è fatto prigioniero da Satana, che depone in lui elementi tenebrosi. Di qui la lotta continua che deve svolgere l’uomo, per liberarsi dalle tenebre e riacquistare la luce.

D. Come si compie la liberazione dell’uomo?

— Mediante una vita d’austerità, che comprende tre sigilli e mortificazioni:

a) il sigillo della bocca (divieto di parlare osceno);

b) i l sigillo della mano (divieto di distruggere animali e piante);

c) il sigillo del petto (obbligo di osservare la castità e di astenersi dal matrimonio).

D. In quante classi si distinguevano le persone?

— In due: gli eletti (monaci) e gli uditori (semplici fedeli).

D. Ebbe diffusione questa dottrina?

— Sì, e guadagnò anche uomini di grande cultura. Agostino, prima di essere il Santo che è, passò anche tra l’esperienza manichea.

D. Fu combattuta?

— Sì, dai Padri e dagl’imperatori per i danni che recava alla Chiesa e allo Stato.

D. Ebbe delle riprese?

— Sì, nel sec. XI con la dottrina «albigese», che nel Medioevo costituì uno dei più gravi pericoli per la Chiesa e la società civile.

4. – L’ARIANESIMO

D. Quale fu l’eresìa che sconvolse per molti anni la cristianità ì

— L’ARIANESIMO, che ebbe origine da ARIO, sacerdote di Alessandria, vissuto nel secolo IV.

che sconvolse per molti anni la cristianità ì

— L’ARIANESIMO, che ebbe origine da ARIO, sacerdote di

Alessandria, vissuto nel secolo IV.

D. Come nacque tale efesia?

—- Era sorta una disputa sull’unità di Dio. Per sostenere l’unità di Dio, si adoperò eccessiva intemperanza, sicché si cadde nell’errore opposto, il « subordinazionismo », con cui le tre divine Persone sarebbero tanto distinte tra loro da non essere uguali, ma da avere il Figlio inferiore al Padre e lo Spirito Santo inferiore al Padre e al Figlio. Da questo secondo errore germogliò l’arianesimo.

D. Qual è il pensiero di Ario?

— Secondo Ario il Figlio di Dio, il Verbo, non è generato dalla sostanza del Padre, ma è una creatura che ha avuto origine dal nulla, benché prima di ogni altra creatura e superiore agli stessi Angeli e di cui Dio si è servito per creare tutto il rimanente. Il Verbo non sarebbe Dio per natura, ma per grazia e adozione. Lo Spirito Santo sarebbe la seconda creatura di Dio.

D. Che cosa colpiva questa eresìa?

— Colpiva in pieno la dottrina cristiana. Infatti se la Seconda Persona della SS. Trinità non è Dio per natura, la Redenzione perde tutto il suo effettivo valore, in quanto GesùCristo, semplice creatura, benché la più eccellente, non avrebbe avuto la virtù di redimerci. Con la Redenzione era anche colpita la Rivelazione.

D. Quale fu la reazione della Chiesa?

— Pari alla gravità del pericolo. Un’eletta schiera di Vescovi, 300, si adunò a NICEA, sotto la presidenza di papa Silvestro, nel 325 discusse ampiamente nel Concilio le idee di Ario e alla fine le condannò, scomunicando l’eresiarca.

D. Che cosa fu definito a Nicea?

— Fu definito che la natura del Padre è un’entità sola con la natura del Figlio e si usò per questo la formula: « IL FIGLIO È CONSUSTANZIALE (in greco “omoùsios ” ) AL PADRE » .

D. Si convinse Ario del proprio errore?

— La sua superbia non glielo permise; continuò invece segretamente a lavorare per la sua causa, prendendosela con la parola « consustanziale » dicendola pericolosa, perché, se da un lato asseriva la unità di Dio, dall’altro faceva sospettare che si negasse la distinzione reale fra le tre Persone divine. Sicché la questione riarse con maggior veemenza, e molti Vescovi caddero in buona fede nell’inganno, e, benché di idee cattoliche, ebbero paura della parola « consustanziale » .

D. Che s’aggiunse poi a questa sciagura?

— L’inizio del «CESAROPAPISMO», cioè l’ingerenza del potere civile in materia religiosa, soprattutto con l’imperatore COSTANZO, succeduto a Costantino. Anche gl’imperatori si dettero a imporre le loro opinioni teologiche, ad adunare concili, a far firmare formule dogmatiche composte a loro modo, e ad esiliare e perfino ad uccidere

vescovi.

D. Come morì Ario?

— Morì improvvisamente, mentre i suoi amici gli preparavano un grande trionfo, nel 335.

S. ATANASIO

D. Chi suscitò la Provvidenza per debellare la peste ariana?

— S. Atanasio, vescovo di Alessandria, nato nel 295, discepolo del famoso abate S. Antonio. Attirò l’attenzione di tutti per lo zelo nel combattere l’arianesimo già nel Concilio di Nicea, a cui prese parte quale segretario e consigliere del Vescovo di Alessandria. Nel 328, divenuto vescovo di Alessandria, cominciò ad emergere fino a divenire il nemico più formidabile dell’eresia, il « martello dell’arianesimo ». Dei 35 anni di episcopato alessandrino, solo 5 poté passarne in sede; tutti gli altri li passò in esilio e cercato a morte dagli eretici; finché nel 373, alla vigilia del trionfo della Chiesa sul nefasto errore, morì.

D. Sopravvisse l’arianesimo?

— Purtroppo, perché, bandito dall’impero romano, fu propagato fra i barbari, nei quali si trascinò per qualche secolo.

5. – IL NESTORIANESIMO

D. Che cos’è il NESTORIANESIMO?

— È l’eresia propugnata dal patriarca di Costantinopoli, NESTORIO, uomo di poco ingegno e di poca cultura, vissuto nel V secolo secondo il quale in Gesù Cristo esistono due persone distinte: la divina e l’umana, unite solo moralmente, cosicché il Verbo abita in Gesù uomo come in un tempio. Il Verbo quindi non è nato dalla Beata Vergine, e Maria non può dirsi Madre di Dio, ma solo madre dell’uomo Cristo; e nell’Eucarestia non si riceve che Gesù-uomo.

D. Chi controbattè fortemente questo errore?

— S. Cirillo di Alessandria, che nel Concilio di Efeso del 431 affrontò vigorosamente Nestorio e ne provocò la condanna e la deposizione.

D. Qual è il pensiero del Concilio?

— Questo: la Vergine ha dato a Gesù la sola natura umana, ma questa non possiede propria personalità, in quanto in Cristo sussiste un’unica Persona, quella del Verbo. Ma, siccome le attribuzioni si riferiscono alla Persona, così Maria, madre di Gesù, è giustamente chiamata anche Madre del Verbo, ossia di Dio.

D. L’eresìa scomparve completamente?

— No; in alcune parti d’Oriente vive tuttora.

6. – IL MONOFISISMO

D. Che accadde nella lotta contro Nestorio?

— Si cadde nell’errore opposto; fu per opera di EUTICHE, archimandrita di un monastero di Costantinopoli, che ammise in Gesù-Cristo una sola Persona, ma anche una sola natura, che, nell’Incarnazione, la natura umana sarebbe stata assorbita dalla natura divina.

D. Che nome prese la nuova eresia?

— MONOFISISMO, che significa un’unica natura.

D. Come fu stroncata?

— Dal Concilio di Calcedonia, nel 451, al quale papa s. Leone Magno spedì una lettera dove era esposta con chiarezza la vera dottrina. L’eresia vive ancora in alcune regioni in Egitto e in Etiopia.

7. – IL PELAGIANESIMO

D. Che cos’è il Pelagìanesìmo?

— L’errore di Pelagio secondo cui l’uomo non abbisogna della grazia.

D. Quale fu il pensiero di Pelagio?

— Questo: l’uomo può tutto, se vuole, con la semplice forza della sua libera volontà. Quindi niente debolezze e fragilità nella natura umana. Se per operare il bene fosse necessaria la grazia di Dio, si pregiudicherebbe il libero arbitrio. In breve, secondo Pelagio, l’uomo è sempre in grado di compiere da solo il bene. Il peccato originale non esiste. Il male fatto da Adamo con il suo peccato si risolve solo nell’aver dato cattivo esempio. Il battesimo non è necessario per la vita eterna, ma solo come documento per entrare in cielo. La grazia santificante del pari non è necessaria che come ornamento spirituale per l’anima. Così la Redenzione non è che un’elevazione ad una vita più spirituale.

D. Dove venne condannato questo errore?

— Nei concili di Cartagine e di Milevi, confermata poi subito dopo la condanna da Innocenzo I, rinnovata ad Efeso nel 431.

D. Chi fu il più grande lottatore contro il Pelagianesimo ?

— S. Agostino, contro il quale scrisse ben 15 opere.

D. Come difese S. Agostino la grazia divina?

— Insegnando che l’uomo, ferito dal demonio nel giardino delle delizie, era restato nel mezzo della strada che conduce a Dio, come il viandante sulla via di Gerico « semivivo ». Da solo non si poteva alzare e non avrebbe camminato. Era necessario che Gesù lo rialzasse, come fece il Samaritano al viandante, caricandolo sopra la sua cavalcatura. La grazia di Cristo ci risana, si rafforza, ci conforta. La nostra volontà consente e coopera con Dio che compie in noi la nostra salvazione.

D. Dove nacque Agostino?

— A Tagaste in Africa (Numidia), il 13 novembre 354, da Patrizio, pagano, che si convertì al Cristianesimo poco prima di morire, e da Monica, vero modello di sposa e di madre cristiana.

D. Che vita condusse?

— Studiò fino a vent’anni; poi insegnò grammatica a Tagaste e retorica a Cartagine, dove cadde nel Manicheismo e visse dissolutamente. Passato a Roma e a Milano a insegnarvi retorica, quivi frequentò le lezioni del grande Vescovo S. Ambrogio e la luce del Cristianesimo si fece strada nel suo animo. La conversione ebbe luogo nel 387. Ritornato in Africa, nel 391 fu ordinato sacerdote e nel 394 Vescovo di Ippona, dove rimase per 35 anni, morendovi il 28 agosto del 430, a 76 anni. È chiamato il « dottore della grazia ».

LA CATENA D’ORO DEI SALMI: NOTE INTRODUTTIVE (4)

LA CATENA D’ORO DEI SALMI: NOTE INTRODUTTIVE (4)

La catena d’oro dei SALMI

o I SALMI TRADOTTI, ANALIZZATI, INTERPRETATI E MEDITATI CON L’AIUTO DI SPIEGAZIONI E RELATIVE CONSIDERAZIONI, RICAVATE TESTUALMENTE DAI SANTI PADRI, DAGLI ORATORI E SCRITTORI CATTOLICI PIU’ RINOMATI.

Da M. l’Abbate J.-M. PÉRONNE,

CANONICO TITOLARE DELLA CHIESA “DE SOISSONS” ,

Professore emerito di sacra Scrittura e di Eloquenza sacra.

TOMO PRIMO.

Capitolo VI

Distribuzione logica dei Salmi secondo il loro oggetto

Se ci fosse stato dimostrato con segni certi ed evidenti che l’ordine nei quali sono disposti i salmi nella Bibbia sia o ragionato, o fondato su qualche mistero, non avremmo bisogno di cercarne un altro, ed ogni nostro studio sarebbe quello di penetrare le ragioni di quest’ordine. Ma benché l’ordine attuale dei Salmi sia sembrato a Sant’Agostino racchiudere il segreto di qualche grande mistero: “Ordine psalmorum mihi magni sacramenti videtur continere secretum”, il santo Dottore conclude semplicemente che quest’ordine non gli è stato ancora rivelato: “quamvis non dum (ordo iste) mihi fuerit revelatus”. Noi non abbiamo ancora potuto penetrare, continua, tutta la profondità dell’intero ordine di questi santi cantici: “ totius ordinis eorum altitudinem adhuc acie mentis non penetravimus”. Ora siamo noi più avanti di S. Agostino su questo punto? Ci è permesso di dubitarne quando si esaminano da vicino i tentativi fatti in seguito per arrivare a scoprire le ragioni dell’ordine dei Salmi. In effetti certi autori, partendo da questo principio, come da una verità incontestabile, che sia lo Spirito Santo, che è l’Autore dell’ordine e che dispone tutto con ordine, ad aver disposto necessariamente la sequenza dei Salmi, ma si trovano poi impediti nel primo passo e non possono realizzare quest’ordine secondo il primitivo senso dei Salmi, vale a dire il senso letterale ed immediato che ha per oggetto Davide ed il popolo di Israele, per cui sono obbligati a concludere che in questo senso (che pertanto è quello che lo Spirito Santo ha avuto primariamente in vista), non occorre cercare alcun ordine nella compilazione dei santi cantici. Quelli che possono interessare Davide sono mischiati – essi dicono – con quelli che interessano Israele; quelli che possono riguardare la persecuzione che Davide subì da parte di Saul, sono a volte posti dopo quelli che potrebbero riguardare ciò che ha dovuto subire sulla fine del suo regno da parte di Assalonne … In una parola sembra tutto confuso.

1) – È dunque nel senso spirituale che bisogna cercare l’ordine ragionato dei Salmi. Rimarchiamo innanzitutto che sia un pregiudizio favorevole a quest’ordine preteso essere obbligati ad accettarne formalmente il senso primario e principale, il senso letterale dei Salmi. Rimarchiamo poi che in una folla di Salmi, essendo soggetto a discussioni il senso spirituale, sia presunto che vero, voler motivare in questo senso l’ordine attuale della collezione dei Salmi, è come imbastire ipotesi su ipotesi, è come costruire un edificio che non avrà più solidità delle fondamenta. Ammettiamo per un istante questa ipotesi. Quali sono i mezzi adottati dagli autori per scoprire quest’ordine misterioso dei Salmi? Sono soprattutto, essi dicono, dei grandi fasci di luce, che sono come tanti segnali propri utili a dirigere con sicurezza il loro progredire. Alla luce di questi grandi fasci di luce che essi dividono innanzitutto la collezione dei Salmi in ventidue sezioni. Se voi domandate loro perché questo numero di ventidue sezioni, vi danno certe ragioni, se ce ne sono ragioni misteriose, per cui questo numero di ventidue sarebbe in rapporto con le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico. Sembra abbastanza inutile dilungarci su un sistema così arbitrario nei dettagli e nel suo principio. Tuttavia per dimostrare ampiamente che non sia possibile ricondurre l’ordine attuale dei Salmi nel senso spirituale più che letterale, diamo un’idea di questa divisione di Salmi in ventidue sezioni secondo questi stessi autori. Due ragioni spingono a limitare la 1^ sezione ai primi sei Salmi:

-1) alla fine del salmo VI si trovano queste parole: “discedite a me omnes qui operamini iniquitatem”, parole che conducono naturalmente lo spirito all’ultimo giudizio;

-2) il salmo VII, secondi i santi Padri e secondo i migliori interpreti è in rapporto a Gesù-Cristo accusato, calunniato davanti ai suoi giudici; quindi è l’inizio di una seconda sezione, e con essa siamo condotti al salmo XIV, ove ci viene mostrata l’eterna felicità. Ecco i grandi fasci di luce che aiutano a fissare in modo preciso i limiti di ogni sezione. La sequenza dei Salmi in ogni sezione non è meno curiosa: ad esempio, nella prima, che fra tutte è la meno priva di verosimiglianze, il salmo I: Beatus vis racchiude l’elogio di Gesù-Cristo e di tutti i giusti uniti a Lui; il salmo II: Quare fremuerunt lo stabilirsi del suo regno malgrado gli sforzi del paganesimo; il salmo III: Domine quid multiplicati sunt l’estensione dei mali causati dalle grandi eresie; il salmo IV: Cum invocarem, il soccorso che Dio da alla sua Chiesa in questi mali; il salmo V: Verba mea, gli scismi che fanno giungere al colmo questi mali; il salmo VI: i grandi flagelli che succedono a queste prevaricazioni, l’invasione dei barbari e l’anatema degli ultimi giorni. Il susseguirsi dei Salmi nelle altre sezioni è di dubbia soddisfazione. Seguendo sempre i tratti luminosi, gli autori di questo sistema ci conducono alternativamente dal primo avvento di Gesù-Cristo, al suo secondo avvento, poi ci riconducono dal secondo al primo, ci fanno passare dai primi secoli della Chiesa fino agli ultimi, per ricondurci dagli ultimi ai primi, fini all’estinzione delle ventidue sezioni che riposano, come visto, su di un fondamento granitico, e cioè sulle ventidue lettere dell’alfabeto. Si può dunque, senza temerarietà, costringersi all’ordine numerico dei salmi se ci sono buone ragioni per derogarvi. Si possono poi concepire altre disposizioni dei Salmi, che possano facilitarcene la comprensione: .-1) si possono classificare secondo l’ordine degli avvenimenti e delle circostanze alle quali sembrano riferirsi senza aver riguardo per la numerazione stabilita; è, se si vuole, un ordine cronologico che prenda come punto di partenza gli inizi della storia di Davide, la percorre tutta intera e comprende, con i principali avvenimenti della sua vita, altri fatti importanti della storia pubblica degli Ebrei. Quest’ordine sarebbe indubbiamente il migliore di tutti per la comprensione del senso letterale, se solo si potessero determinare in modo certo; ma la maggior parte dei tempi non si hanno che congetture sull’origine storica dei Salmi e ci si riduce, ad esempio, a dire uniformemente e senza alcuna prova che in tutti i Salmi in cui Davide invoca il Signore contro i suoi nemici, sono stati composti durante la persecuzione di Saul ed Assalonne. Occorre aggiungere che quest’ordine restringe un po’ troppo l’oggetto dei Salmi, che spesso sono completamente intellegibili, se non ci si sbarazza di un orizzonte più stretto di quello della vita e del regno di Davide.

2) resta una seconda maniera di classificare i Salmi secondo il loro oggetto generale. Quest’ordine ci sembra preferibile: .-1 perché è meno arbitrario, poiché l’esame attento di un salmo è sufficiente a conoscerne l’oggetto principale, astrazion fatta per le circostanze storiche alle quali si fa allusione; .-2 perché pone in una stessa categoria tutti i Salmi evidentemente profetici, morali, di supplica, etc., e li sottomette più facilmente ad uno stesso sistema di interpretazione; .-3 perché indica più chiaramente l’uso che ciascuno possa fare dei Salmi per la sua utilità particolare. Secondo questo principio si possono suddividere i Salmi in sette classi differenti. Mettiamo al primo posto i Salmi profetici, cioè quelli che in senso morale unico o secondario hanno per oggetto Gesù-Cristo o la sua Chiesa, che più ci interessa di ben conoscere. Una folla di altri Salmi sono profetici nel senso spirituale. Le quattro classi che seguono i Salmi profetici comprendono dei salmi che si rapportano evidentemente ai quattro grandi doveri della religione che David ha personificato nella sua persona, vale a dire i Salmi di adorazione e di lode, i Salmi eucaristici o di azione di grazia, i Salmi di penitenza, i Salmi impetratori. La sesta classe comprende tutti i Salmi didattici o morali, che hanno soprattutto per oggetto l’esortazione alla fuga dal male ed alla pratica del bene. La settima classe composta da Salmi esclusivamente storici, cioè da quelli che non contengono, accanto a poche altre cose, che una semplice narrazione di avvenimenti, perché se diamo il nome di storici a Salmi composti in occasione di qualche avvenimento del regno di David, la maggior parte di quelli posti nelle classi precedenti dovrebbero far parte dei Salmi storici, contro la natura del loro oggetto. Si concepisce del resto che, per il gran numero dei Salmi, è facile determinare se essi appartengano ai Salmi di azione di grazia, di supplica, morali, etc.; per qualche altro il cui carattere è meno netto, e che offrono il miscuglio di due generi diversi, questa classificazione offre più difficoltà. La regola da seguire in questo caso, è di tener conto di questi due generi, e se si vuole, di collocare questi Salmi in due classi differenti.

TAVOLA ANALITICA DEI SALMI SECONDO IL LORO OGGETTO

1″ CLASSE. — Salmi profetici.

SALMI

II. Quare fremuerunt.…………………………………… Trionfo del Messia.

VIII. Domine Dominus noster. ……………………… Dignità di G.- C. riparatore dell’umanità.

XV. Conserva me ………………………… Resurrezione di Gesù-Cristo.

XXI . Deus, Deus meus ………………………. Passione di Gesù-Cristo.

XXXIX . Expectans expectavi…………………………….Passione di G.-C. considerata come sacrificio

XLIV. Eructavit…………………………… Unione di Gesù-Cristo con la sua Chiesa.

LXVIII. Salvum me fac ……………………… Passione di Gesù-Cristo.

LXXI. Deus judicium tuum …………………………… Regno del Messia.

LXXXVIII. Misericordias Domine ………..Promesse a Davide a riguardo del Messia

XCV Cantate Domino ………………….Regno del vero Dio su tutte le nazioni

XCVI Dominus regnavit ……………………… Trionfo e regno glorioso del Signore

XCVII Cantate Domino ………………… Avvento del Messia, vocazione dei Gentili

CVIII Deus laudem meam ………………… Punizione di Giuda e dei Giudei deicidi

CIX Dixit Dominus Domino meo …………… Generazione eterna, potenza del Verbo

CXVI Laudate Dominum omnes….………..………………….Vocazione dei Gentili

CXVII Confitemini Domino ……………… Unione dei Giudei e dei Gentili in G.-C.

CXXXI Mémento Domine ………………………Promesse del Messia fatte a David

2^ CLASSE. — Salmi di adorazione e di lode

XVIII. Cœli enarrant ……………..…Gloria di Dio attestata dai cieli e dalla legge

XXVIII. Afferte …………………Invito a rendere omaggio a Dio per la sua potenza

XXXII. Exultate justi……………….Invito a rendere grazie a Dio per la sua potenza e per la sua provvidenza

XXXIII. Benedicam Dominum ..….… Invito a rendere grazie a Dio per la sua ammirevole Provvidenza su coloro che Lo temono

XLI. Quemadmodum ……………………………… Desiderio del santo Tabernacolo

XLII. Judica me Deus …….……………………………………….. identico soggetto

XLVI. Omnes gentes …………….. Invito a rendere omaggio a Dio per la sua potenza

XLIX. Deus Deorum …………………………………… Il vero culto di Dio

LXII. Deus, Deus meus ……………… Amore di Dio in terra d’esilio

LXXX. Exultate justi ……… Esortazione motivata al culto di Dio

LXXXIII. Quam dilecta ……………… Amore dei santi Tabernacoli

XCII. Dominus regnavit …………….…. Grandezza e Potenza di Dio nelle sue opere

XCIV. Venite exul …………………..…… Inno di lode e di adorazione

XCVIII. Dominus regnavit…………………………………………. Invito al culto del Signore

XCIX. Jubilate Deo …………………………… Esortazione al culto del vero Dio

CIII. Benedicum Dominus ……………. Inno a Dio alla vista delle meraviglie della creazione

CXII. Laudate, pueri ……………… Invito a lodare Dio per la sua grandezza e per la sua bontà

CXXXIII. Ecce nunc ……………………………. Esortazione a benedire il Signore

CXXXIV. Laudate ………… Invito a benedire Dio per la sua bontà e la sua potenza

CXLIV. Exaltabo te …………… Encomio ai divini attributi di Dio

CXLVIII. Laudate Dominum ……….. Invito a tutti gli esseri a lodare il loro autore

CXLIX. Cantate Domino ……………..…… Invito analogo fatto al popolo di Dio

CL. Laudate Dominum in. ……………………….. Lode universale.

3^ CLASSE. – Salmi di azioni di grazia

IX. Confitebor Domini.…………………………………… Cantico di azioni di grazia

XVII. Diligam ……………………………………. Id. Id. Dopo una grande sventura

XX. Domine in virtute.………………. Azioni di grazia del popolo dopo la vittoria del re

XXII. Dominus régit me………….. Azioni di grazia per ringraziare Dio per la tenera affezione ai suoi

XXIX. Exaltabo te…..……… Azioni di grazia davanti ad una sciagura imminente

XLVII. Magnus Dominus …………….. Azioni di grazia a causa dei favori segnalati che Sion ha ricevuto dal Signore

LXV. Jubilate ……………….…………… Azioni di grazia per le meraviglie operate per la liberazione del popolo di Dio

LXXV. Notus in Judœa………… Azioni di grazia per la pace resa al popolo di Dio

XCI. Bonum est . ..…………. Azioni di grazia per la potenza e la provvidenza di Dio

CII. Benedicat anima ………………. Azioni di grazia per la tenerezza paterna di Dio per gli uomini

CVI. Confitemini …………… Azioni di grazia per l’ammirabile protezione di Dio su tutti quelli che Lo invocano

CVII. Paratum ……………………..… Slancio di riconoscenza per grandi vittorie

CX. Confitebor tibi …………………….Azioni di grazia per quanto Dio ha fatto per     il suo popolo

CXIV. Dilexi ……………………………… Azioni di grazia dopo grandi tribolazioni

CXV. Credidi ……………………………………………Id. Id.

CXXIII. Nisi quia Dominus….. Az. di grazia dei prigionieri dopo la loro liberazione

CXXV. In convertendo …………………………………Id. Id.

CXXVIII. Sæpe expugnaverunt. ………………………Id. Id.

CXXXVIII. Confitebor ………………..Id. per la gloria ed i benefici del Signore

CXLIII. Benedictus Dominus………………………..… Id. di un eroe pio

CXLVI. Laudate Dominum ……………Id. per i benefici della Provvidenza

CXLVII. Lauda Jérusalem ……………………………..Id. Id.

4^ CLASSE. — Salmi penitenziali

VI. Domine ne in ……………………………………..Dolore, speranza del peccatore

XXIV. Ad te Domine, levavi. …………………….Il peccatore si riconosce colpevole e chiede grazia

XXXI. Beati quorum …………….Tormenti di una coscienza colpevole;  felici effetti del ritorno a Dio.

XXXVII. Domine ne in furore…….. Il peccatore geme e si umilia sotto la mano di Dio

L. Miserere mei …………………… Motivi di pentimento e di perdono

CI. Domine exaudi ……….. Gemiti del peccatore prigioniero nell’attesa del liberatore

CXXIX. De profundis …………………….……….. Appello alla misericordia divina

CXLII. Domine exaudi…………Il peccatore implorante il soccorso di Dio contro le conseguenze del peccato

5^ CLASSE — Salmi supplicatori (o di impetrazione, compresa la fiducia in Dio.)

III. Domine quid multi………... Fiducia in Dio, richiesta di soccorso che si implora.

V. Verba mea …………………………………… Preghiera del giusto al suo risveglio

VII. Domine Deus meus ……………….. L’innocente si appella alla giustizia sovrana

X (ebr.) Ut quid Domine …………………………... Esposizione dei mali dai quali si chiede a Dio di essere liberato

XI. Salvum me fac ……………. Preghiera contro la perfidia degli uomini del secolo

XII. Usquequo Domine ……………… Id. Quando Dio sembra abbandonarci

XVI. Exaudi Domine just. ……… Id. nelle persecuzioni, contro dei nemici potenti

XIX** Exaudiat te Dominas ……………..……. Invocazioni del popolo per il suo re

*XXV. Judica me Domine …………………… Grido dell’innocente verso il Signore

*XXVI Dominus illuminatio …………….……. Pio desiderio di un’anima che mette tutta la sua fiducia in Dio

XXVII Ad te Domine clam………………………. Preghiera per non essere coinvolti nella punizione dei reprobi

XXX. In te Domine speravi ………………………………… Fiducia motivata in Dio

XXXIV. Judica Domine ….………… Preghiera del giusto contro la violenza e la perfidia.

XXXVIII. Dixi: custodiam …………………L’uomo afflitto dalle cose di questa vita domanda a Dio perdono per i suoi peccati

XLIII. Deus auribus ………………….Preghiera a Dio fondata sul ricordo delle sue antiche misericordie

LIII. Deus in nomine ……………….……. Preghiera nell’afflizione con la promessa di azioni di grazia

LIV. Exaudi Deus orat ……………Preghiera motivata da un pericolo incombente

LV. Miserere mei ………………………………. Id. Id.

LVI. Miserere… quotiam ………………………. Id. Id.

LVIII. Eripe me …………………………………. Id. Id.

LIX. Deus repulisti nos…………………………. Id. pieno di fiducia

LX. Exaudi Deus depr…….…………. Preghiera per domandare a Dio dei nuovi favori

LXIV. Te decet …….…… Preghiera a Dio di affrettare la liberazione del suo popolo

LXVI. Deus misereatur…………….. Preghiera a Dio di spandere la luce di salvezza

LXIX. Deus in audjutorium …………………………. Il giusto invoca Dio a suo aiuto

LXX. In te Domine, speravi ………………………….. Preghiera a Dio di non essere abbandonato in vecchiaia

LXXIII. Ut quid Deus ………………..…… Preghiera del popolo durante una grande persecuzione

LXXVIII. Deus venerunt ………………… Preghiera del popolo durante una grande persecuzione

LXXIX. Qui regis Israel ……………………. Canto nel pianto delle tribù in cattività

LXXXII. Deus quis similis………………………. Contro la lega dei nemici d’Israele

LXXXIV. Benedixisti, Domine ……………Per chiedere una liberazione completa e la venuta del Messia promesso

LXXXV. Inclina Domine ……………………….. Preghiera del debole   nell’afflizione

LXXXVII. Domine Deus salutis ……………….………. Preghiera e pianto toccante

CXIX. Ad Dominum ………………………………………..… Preghiera dell’esiliato

CXX. Levavi oculos …………………………………..…… Preghiera piena di fiducia

CXXI. Lætatus sum ………………… Invocazioni per la prosperità di Gerusalemme

CXXII. Ad te levavi …………………………………………….Momento di preghiera

CXXXVI. Super flumina ………………….Per chiedere a Dio la fine della cattività

CXXXIX. Eripe me, Domine ………………………... Preghiera del debole oppresso

CXL. Domine clamavi ………………….Per domandare a Dio il riserbo nelle parole

CXLI. Voce mea …………………………Preghiera del giusto solo e senza soccorso

6^ CLASSE — Salmi morali

I. Beatus vir ………………………………….. felicità dei giusti, infelicità dei malvagi

IV. Cum invocarem …………………………………… Esortazione al servizio di Dio

X. In Domino confido ………………………………….……….. Sicurezza del giusto

XIII. Dixit insipiens …………………………… Perversità degli empi, loro punizione

XIV. Domine quis ……………………………………….. Carattere degli eletti di Dio

XXIII. Domini est terra……………………………………………. Id. Id.

XXXV. Dixit intustus ……………………..……… Malizia e corruzione dei malvagi opposta alla bontà di Dio

XXXVI. Noli æmulari ……. Quanto poco la prosperità dei malvagi è degna d’invidia

XL. Beatus qui intelligit. ………………… Felicità di quelli che compatiscono i mali degli afflitti

XLV. Deus noster refugium. …………………… Sicurezza inalterabile inspirata alla protezione di Dio

XLVIII. Audite hæc ………………… Impotenza delle ricchezze nell’ora della morte

LII. Dixit insipiens ……………………………………… Stesso soggetto del sal. XIII

LVII. Si vere utique ……………………………………. Giustizia vendicativa di Dio

LXI. Nonne Deo ……….…………. Fiducia in Dio solo in tutti i pericoli, motivi….

LXIII. Exaudi Deus ……………….. Delitto e punizione della calunnia e dell’intrigo

LXXII. Quam bonus ……………………………Ragioni della prosperità dei  Malvagi e delle avversità dei giusti

LXXIV. Confitebimur …………………I malvagi minacciati dalla vendetta divina

LXXVI. Voce mea …………………………..Consolazioni ricevute al servizio di Dio

LXXXI. Deum stetit in …………………… Dovere dei grandi e dei giudici riguardo alla condizione dei poveri

LXXXIX. Domine refugium …………………………..Miseria e brevità della vita umana

XC. Qui habitat in …………………………………… Esortazione alla fiducia in Dio

XCIII. Deus ultionem ………………….…….Vendetta divina annonciata ai malvagi

C. Misericordiam …………………… Il giusto nella vita privata e nella vita pubblica

CXI. Beatus vir qui ……………………………………………….. Felicità del giusto

CXVIII. Beati immacolati …………………… Felici effetti dell’amore della legge di Dio

CXXIV. Qui confidunt …………… Protezione di Dio su quelli che confidano in Lui

CXXVI. Nisi Dominus ædificat ………... Necessità e felici effetti del soccorso dal  cielo

CXXVII. Beati omnes ……………………..….. Benedizioni legate al servizio di Dio

CXXX. Domine non est exal. ………………………………..Umiltà e fiducia in Dio

CXXXII. Ecce quam bonum …………………………Dolcezza dell’unione fraterna

CXXXVIII. Domine probasti me ………..….Scienza infusa da Dio. Effetti di questa sapienza in rapporto agli uomini

CXLV. Lauda anima mea ………………………….Fiducia in Dio e non nell’uomo

7^ CLASSE. — Salmi storici.

LXVII. Exurgat Deus ….……… Canto di trionfo in occasione del trasporto dell’Arca

LXXVII. Attendite ………………………….. Bontà e giustizia di Dio sul suo popolo

LXXXVI. Fundamenta …………………………………….. Elogio di Gerusalemme

CIV. Confitemini… etc……………………. Benefici di cui Dio ha ricolmato il suo popolo

CV. Confitemini.. quotiamo ……….…………………….Id. Id.

CXIII. In exîtu Israël ………………………………………………Uscita dall’Egitto

CXXXV. Confitemini..quoniam …………… Condotta ammirabile della Provvidenza verso gli Israelit

SALMI BIBLICI: “BEATUS VIR QUI NON…” (I)

SALMI BIBLICI: “QUARE FREMUERUNT GENTES …” (II)

SALMI BIBLICI: “QUID MULTIPLICATI SUNT…” (III)

SALMI BIBLICI: “CUM INVOCARENT” (IV)

SALMI BIBLICI: “VERBA MEA AURIBUS”(V)

SALMI BIBLICI: “DOMINE NE IN FURORE TUO” (VI)

SALMI BIBLICI: “DOMINE DEUS MEUS” (VII)

SALMI BIBLICI: “DOMINE, DOMINUS NOSTER” (VIII)

SALMI BIBLICI “CONFITEBOR TIBI DOMINE” (IX)

SALMI BIBLICI: “IN DOMINO CONFIDO” (X)

SALMI BIBLICI: “SALVUM ME FAC, DOMINE” (XI)

SALMI BIBLICI: “USQUEQUO DOMINE” (XII)

SALMI BIBLICI: “DIXIT INSIPIENS IN CORDE SUO” (XIII)

SALMI BIBLICI: “DOMINE QUIS HABITAVIT” (XIV)

SALMI BIBLICI: “CONSERVA ME DOMINE” (XV)

SALMI BIBLICI “EXAUDI, DOMINE JUSTITIAM MEAM” (XVI)

SALMI BIBLICI “DILIGAM TE, DOMINE” (XVII)

SALMI BIBLICI: “CÆLI ENARRANT GLORIA DEI” (XVIII)

SALMI BIBLICI: “EXAUDIAT TE, DOMINUS, IN DIE TRIBULATIONIS” (XIX)

SALMI BIBLICI: “DOMINE IN VIRTUTE TUA LÆTABITUR REX” (XX)

SALMI BIBLICI: “DEUS DEUS MEUS, RESPICE IN ME” (XXI)

SALMI BIBLICI: “DOMINUS REGIT ME, ET NIHIL MIHI DEERIT” (XXII)

SALMI BIBLICI: “DOMINI EST TERRA, ET PLENITUDO EJUS” (XXIII)

SALMI BIBLICI: “AD TE, DOMINI, LEVAVI ANIMAM MEAM” (XXIV)

SALMI BIBLICI: “JUDICA ME, DOMINE, QUONIAM EGO” (XXV)

SALMI BIBLICI: “DOMINUS ILLUMINATIO MEA ET SALUS” (XXVI)

SALMI BIBLICI: “AD TE, DOMINE, CLAMABO; Deus meus…” (XXVII)

SALMI BIBLICI: “AFFERTE DOMINE, FILII DEI” (XXVIII)

SALMI BIBLICI: “EXALTABO TE, DOMINE, QUONIAM SUSCEPISTI ME” (XXIX)

SALMI BIBLICI: “IN TE DOMINE, SPERAVI… INCLINA” (XXX)

SALMI BIBLICI: “BEATI QUORUM REMISSÆ SUNT INIQUITATES”

(XXXI)

SALMI BIBLICI: “EXSULTATE, JUSTI, IN DOMINO” (XXXII)

SALMI BIBLICI: “BENEDICAM DOMINUM IN OMNI TEMPORA” (XXXIII)

SALMI BIBLICI: “JUDICA DOMINE, NOCENTES ME” (XXXIV)

SALMI BIBLICI: “DIXIT INIUSTUS UT DELINQUAT IN SEMETIPSO” (XXXV)

SALMI BIBLICI: “NOLI ÆMULARI IN MALIGNANTIBUS” (XXXVI)

SALMI BIBLICI: “DOMINE, NE IN FURORE TUO ARGUAS ME” (XXXVII)

SALMI BIBLICI “DIXI CUSTODIAM VIAS MEAS” (XXXVIII)

SALMI BIBLICI: EXSPECTANS EXSPECTAVI DOMINUM” (XXXIX)

SALMI BIBLICI: “BEATUS QUI INTELLEGIT SUPER EGENUM” (XL)

SALMI BIBLICI: “QUEMADMODUM DESIDERAT CERVUS” (XLI)

SALMI BIBLICI: “JUDICA ME, DEUS, ET DISCERNE CAUSAM” (XLII)

SALMI BIBLICI: “DEUS, AURIBUS NOSTRIS AUDIVIMUS” (XLIII)

SALMI BIBLICI: “ERUCTAVIT COR MEUM VERBUM BONUM” (XLIV)

SALMI BIBLICI: “DEUS NOSTER REFUGIUM ET VIRTUS” (XLV)

SALMI BIBLICI: “OMNES GENTES, PLAUDITE MANIBUS” (XLVI)

SALMI BIBLICI: “MAGNUS DOMINUS, ET LAUDABILIS NIMIS” (XLVII)

SALMI BIBLICI. “AUDITE HÆC, OMNES GENTES” (XLVIII)

SALMI BIBLICI: “DEUS DEORUM, DOMINUS LOCUTUS EST” (XLIX)

SALMI BIBLICI: “MISERERE MEI, DEUS, SECUNDUM MAGNUM” (L)

SALMI BIBLICI: “QUID GLORIARIS IN MALITIA” (LI)

SALMI BIBLICI: “DIXIT INSIPIENS IN CORDE SUO, DEUS …” (LII)

SALMI BIBLICI: “DEUS, IN NOMINE TUO SALVUM ME FAC” (LIII)

SALMI BIBLICI: “EXAUDI, DEUS, ORATIONEM MEAM, ET NE DESPEXERIS” (LIV)

SALMI BIBLICI: “MISERERE MEI, DEUS, QUONIAM CONCULCAVIT” (LV)

SALMI BIBLICI: “MISERERE MEI, DEUS, MISERERE MEI (LVI)

SALMI BIBLICI: “SI VERE UTIQUE JUSTITIAM LOQUIMINI (LVII)

SALMI BIBLICI: “ERIPE ME DE INIMICIS MEI, DEUS MEUS” (LVIII)

SALMI BIBLICI: “DEUS REPULISTI NOS ET destruxisti nos” (LIX)

SALMI BIBLICI: “EXAUDI DEUS, DEPRECATIONEM MEAM” (LX)

SALMI BIBLICI: “NONNE MEA SUBIECTA ANIMA MEA (LXI)

SALMI BIBLICI: “DEUS, DEUS MEUS, AD TE LUCE VIGILO” (LXII)

SALMI BIBLICI: “EXAUDI, DEUS, ORATIONEM MEAM CUM DEPRECOR” (LXIII)

SALMI BIBLICI: “TE DECET, DEUS, HYMNUS IN SION” (LXIV)

SALMI BIBLICI: “JUBILATE DEO, OMNIS TERRA” (LXV)

SALMI BIBLICI: “DEUS, MISEREATUR NOSTRI, ET BENEDICAT NOS” (LXVI)

SALMI BIBLICI: “EXSURGAT DEUS, ET DISSIPENTUR INIMICI EJUS” (LXVII)

SALMI BIBLICI: “SALVUM ME FAC, DEUS, QUONIAM INTRAVERUNT” (LXVIII)

SALMI BIBLICI: “DEUS IN ADJUTORIUM MEUM INTENDE” (LXIX)

SALMI BIBLICI: “IN TE, DOMINE, SPERAVI … ET ERIPE ME” (LXX)

SALMI BIBLICI: “DEUS, JUDICIUM TUUM REGIS DA” (LXXI)

SALMI BIBLICI: “QUAM BONUS ISRAEL DEUS” (LXXII)

SALMI BIBLICI: “UT QUID, DEUS, REPULISTI IN FINEM” (LXXIII)

SALMI BIBLICI: “CONFITEBIMUR TIBI, DEUS” (LXXIV)

SALMI BIBLICI: ” NOTUS IN JUDEA, DEUS” (LXXV)

SALMI BIBLICI: “VOCE … Voce MEA AD DEUM, ET INTENDI” (LXXVI)

SALMI BIBLICI: “ATTENDITE, POPULE MEUS, LEGEM MEAM”(LXXVII)

SALMI BIBLICI: “DEUS, VENERUNT GENTES” (LXXVIII)

SALMI BIBLICI: “QUI REGIS ISRAEL, INTENDE” (LXXIX)

SALMI BIBLICI: “EXSULTATE DEO, ADJUTORI NOSTRO, JUBILATE DEO JACOB” (LXXX)

SALMI BIBLICI: DEUS STETIT IN SYNAGOGA DEORUM (LXXXI)

SALMI BIBLICI: “DEUS, QUIS SIMILIS ERIT TIBI?” (LXXXII)

SALMI BIBLICI: “QUAM DILECTA TABERNACULA TUA” (LXXXIII)

SALMI BIBLICI: “BENEDIXISTI, DOMINE, TERRAM TUAM” (LXXXIV)

SALMI BIBLICI: “INCLINA, DOMINE, AUREM TUAM” (LXXXV)

SALMI BIBLICI: “FUMDAMENTA EJUS IN MONTIBUS SANCTIS” (LXXXVI)

SALMI BIBLICI: “DOMINE, DEUS SALUTIS MEÆ” (LXXXVII)

SALMI BIBLICI: “MISERICORDIAS DOMINI, IN ÆTERNUM CANTABO” (LXXXVIII)

SALMI BIBLICI: “DOMINE, REFUGIUM FACTUS ES NOBIS” (LXXXIX)

SALMI BIBLICI: “QUI HABITAT IN ADJUTORIO ALTISSIMI” (XC)

SALMI BIBLICI: “BONUM EST CONFITERI DOMINO” (XCI)

SALMI BIBLICI: “DOMINUS REGNAVIT, DECOREM INDUTUS EST”(XCII)

SALMI BIBLICI: “DEUS ULTIONUM DOMINUS” (XCIII)

SALMI BIBLICI: “VENITE, EXSULTEMUS DOMINO” (XCIV)

SALMI BIBLICI: “CANTATE DOMINO CANTICUM NOVUM” (XCV)

SALMI BIBLICI: “DOMINUS REGNAVIT; EXSULTET TERRA” (XCVI)

SALMI BIBLICI: “CANTATE DOMINO, CANTICUM NOVUM, QUIA” (XCVII)

SALMI BIBLICI: “DOMINUS REGNAVIT: IRASCANTUR POPULI” (XCVIII)

SALMI BIBLICI: “JUBILATE DEO, OMNIS TERRA; SERVITE DOMINO”(XCIX)

SALMI BIBLICI: “MISERICORDIAM ET JUDICIUM CANTABO TIBI” – (C)

SALMI BIBLICI: “DOMINE EXAUDI ORATIONEM MEAM, ET CLAMOR MEUS” – (CI)

SALMI BIBLICI: ” BENEDIC, ANIMA MEA, DOMINO, … ET OMNIA” (CII)

SALMI BIBLICI: “BENEDIC, ANIMA MEA, DOMINO: DOMINE” (CIII)

SALMI BIBLICI: “CONFITEMINI DOMINO, ET INVOCATE NOMEN EJUS” (CIV)

SALMI BIBLICI: “CONFITEMINI, DOMINO … QUIS LOQUETUR” (CV)

SALMI BIBLICI: “CONFITEMINI DOMINO, QUONIAM BONUS … DICANT QUI REDEMPTI” (CVI)

SALMI BIBLICI: “PARATUM COR MEUM, DEUS” (CVII)

SALMI BIBLICI: “DEUS, LAUDEM MEAM, NE TACUERIS” (CVIII)

SALMI BIBLICI: “DIXIT DOMINUS, DOMINO MEO” (CIX)

SALMI BIBLICI: “CONFITEBOR TIBI, DOMINE…IN CONSILIO” (CX)

SALMI BIBLICI: “BEATUS VIR QUI TIMET DOMINUM” (CXI)

SALMI BIBLICI: “LAUDATE, PUERI, DOMINUM” (CXII)

SALMI BIBLICI: “IN EXITU ISRAEL DE ÆGYPTO” (CXIII)

SALMI BIBLICI: “DILEXI, QUONIAM EXAUDIET DOMINUS” (CXIV)

SALMI BIBLICI: “CREDIDI, PROPTER QUOD LOCUTUS SUM” (CXV)

SALMI BIBLICI: “LAUDATE DOMINUM, OMNES GENTES” (CXVI)

SALMI BIBLICI: “CONFITEMINI DOMINO … DICAT NUNC ISRAEL” (CXVII)

SALMI BIBLICI: “BEATI IMMACULATI IN VIA” (CXVIII – 1)

SALMI BIBLICI: “AD DOMINUM CUM TRIBULARER” (CXIX)

SALMI BIBLICI: “LEVAVI OCULOS MEOS IN MONTES” (CXX)

SALMI BIBLICI: “LÆTATUS SUM IN HIS QUÆ DICTA SUNT MIHI” (CXXI)

SALMI BIBLICI: “AD TE LEVAVI OCULOS MEOS” (CXXII)

SALMI BIBLICI: “NISI QUIA DOMINUS ERAT IN NOBIS” (CXXIII)

SALMI BIBLICI: “QUI CONFIDUNT IN DOMINO, SICUT MONS SION” (CXXIV)

SALMI BIBLICI: “IN CONVERTENDO DOMINUS CAPTIVITATEM SION” (CXXV)

SALMI BIBLICI: “NISI DOMINUS ÆDIFICAVERIT DOMUM” (CXXVI)

SALMI BIBLICI: “BEATI OMNES QUI TIMENT DOMINUM” (CXXVII)

SALMI BIBLICI: “SÆPE EXPUGNAVERUNT ME” (CXXVIII)

SALMI BIBLICI: “DE PROFUNDIS” (CXXIX)

SALMI BIBLICI: “DOMINE, NON EST EXALTATUM COR MEUM” (CXXX)

SALMI BIBLICI: “MEMENTO, DOMINE, DAVID, et” (CXXXI)

SALMI BIBLICI: “ECCE QUAM BONUM ET QUAM JUCUNDUM” (CXXXII)

SALMI BIBLICI: “ECCE NUNC BENEDICITE DOMINUM” (CXXXIII)

SALMI BIBLICI: “LAUDATE NOMEN DOMINI” (CXXXIV)

SALMI BIBLICI: ” CONFITEMINI, DOMINO … CONFITEMINI ” (CXXXV)

SALMI BIBLICI: “SUPER FLUMINA BABYLONIS” (CXXXVI)

SALMI BIBLICI: “CONFITEBOR TIBI, DOMINE, … QUONIAM AUDISTI (CXXXVII)

SALMI BIBLICI: “DOMINE, PROBASTI ME ET COGNOVISTI ME” (CXXXVIII)

SALMI BIBLICI: “ERIPE ME, DOMINE, AB HOMINE MALO” (CXXXIX)

SALMI BIBLIBI: “DOMINE, CLAMAVI AD TE, EXAUDI ME” (CXL)

SALMI BIBLICI: “VOCE MEA, … VOCE MEA, AD DOMINUM” (CXLI)

SALMI BIBLICI. “DOMINE, EXAUDI ORATIONEM MEAM; AURIBUS” (CXLII)

SALMI BIBLICI: “BENEDICTUS DOMINUS, DEUS MEUS” (CXLIII)

SALMI BIBLICI: “EXALTABO TE, DEUS MEUS, REX” (CXLIV)

SALMI BIBLICI: “LAUDA, ANIMA MEA DOMINUM” (CXLV)

SALMI BIBLICI: “LAUDATE DOMINUM, QUAM BONUS” (CXLVI)

SALMI BIBLICI: “LAUDA JERUSALEM, DOMINUM” (CXLVII)

SALMI BIBLICI: “LAUDATE DOMINUM DE CÆLIS ” (CXLVIII)

SALMI BIBLICI: “CANTATE DOMINO, CANTICUM NOVUM; LAUS … ” (CXLIX)

SALMI BIBLICI: “LAUDATE DOMINUM IN SANCTIS EJUS” (CL)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO. S. S. PIO XI – “NON ABBIAMO BISOGNO”

“Non abbiamo bisogno” è una lunga lettera Enciclica in lingua italiana, che il Sommo Pontefice Pio XI, scrisse, nella tristissima epoca dell’italica dittatura fascista, per difendere le inermi Associazioni Cattoliche contro la ignobile e falsa propaganda messa in atto dal regime che deteneva il potere politico, regime che, pur cambiando nome, immagini, vessilli, gagliardetti e opuscoletti vari, in realtà era un tentacolo della stessa piovra, la bestia satanica, ora travestita da socialismo, ora da comunismo, poi da massonismo frastagliato, liberismo e materialismo filosofico, come accenna di passaggio anche Papa Ratti … « … Non possiamo invece Noi, Chiesa, Religione, fedeli Cattolici (e non soltanto noi) essere grati a chi dopo aver messo fuori socialismo e massoneria, nemici nostri (e non nostri soltanto) dichiarati, li ha così largamente riammessi, come tutti vedono e deplorano (tutti i gerarchi fascisti appartenevano a logge apparentemente condannate – ndr.-), e fatti tanto più forti e pericolosi e nocivi quanto più dissimulati e insieme favoriti dalla nuova divisa ». Cambia la divisa, ma la bestia trasformista è sempre la medesima, oggi pure in salsa “clargyman”, la bestia della terra che abita là, dove satana ha il suo trono … e son parole dell’Apostolo Giovanni che vedeva (Apoc. II,13 lettera alla chiesa di Pergamo) con 2000 anni di anticipo il rappresentante della bestia e del suo anticristo, seduto sul trono usurpato al Vicario di Cristo! All’epoca c’era un Santo Padre che comunque poteva protestare con gran veemenza contro blasfeme, malvagie, sacrileghe “camicie nere”, mentre oggi nessuno può più protestare, perché impedito, contro colletti “scudocrociati” “falcemartellati”, “penta stellati”, “camice verdi”, “piduisti”, assurti alle leve del comando italico, anzi incoraggiati da chierici compagni tutti di loggia o conventicola. Ognuno può ben vedere quindi, che la situazione di quell’epoca fascista, che tanti mali portò alla nobile popolazione italica, sia un’inezia davanti alla dittatura anticristiana ed ultrapagana odierna ben più feroce, mascherata da terrorismo finanziario e da un irreale “debito pubblico” che impone sacrifici ai soliti poveri a vantaggio dei soliti potenti, da difesa dal terrorismo e dalla droga, opportunamente favoriti, ed oggi perfino da un vile e falso terrorismo sanitario. E nessuno umanamente ci difende, fosse pure con una semplice lettera di protesta. Ma la speranza del Cattolico del pusillus grex non cede neppure oggi, anzi è ancor più sostenuto dalla fede irresoluta nelle parole del divin Redentore … portæ inferi non prævalebunt, e nell’azione della Vergine Madre di Dio … et Ipsa conteret caput tuum! lasciamoli fare, poveri illusi barcollanti sull’orlo dello stagno di fuoco … et qui habitat in cœlis irridebit eos … in attesa di un falò eterno che farà giustizia di ogni iniquità.  

LETTERA ENCICLICA
NON ABBIAMO BISOGNO

DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
SULL’AZIONE CATTOLICA ITALIANA

Ai Venerabili Fratelli Patriarchi,
Primati, Arcivescovi,
Vescovi e altri Ordinari
aventi pace e comunione con la Sede Apostolica.

Venerabili Fratelli, salute ed Apostolica Benedizione.

Non abbiamo bisogno di annunciare a voi, Venerabili Fratelli, gli avvenimenti che in questi ultimi tempi hanno avuto luogo in questa Nostra Sede Episcopale Romana e in tutta Italia, che è dire nella Nostra propria dizione Primaziale, avvenimenti che hanno avuto così larga e profonda ripercussione in tutto il mondo, e più sentitamente in tutte e singole le diocesi dell’Italia e del mondo cattolico. Si riassumono in poche e tristi parole: si è tentato di colpire a morte quanto vi era e sarà sempre di più caro al Nostro cuore di Padre e Pastore di anime … e possiamo bene, dobbiamo anzi soggiungere: « e il modo ancor m’offende ».

È in presenza e sotto la pressione di questi avvenimenti che Noi sentiamo il bisogno e il dovere di rivolgerCi e quasi venire in ispirito a ciascuno di voi, Venerabili Fratelli, innanzi tutto per compiere un grave ed ormai urgente dovere di fraterna riconoscenza; in secondo luogo per soddisfare ad un non meno grave ed urgente dovere di difesa verso la verità e la giustizia, in materia che, riguardando vitali interessi e diritti della Santa Chiesa, riguarda pure voi tutti e singoli, dovunque lo Spirito Santo vi ha posto a reggerla insieme con Noi; vogliamo in terzo luogo esporvi quelle conclusioni e riflessioni che gli avvenimenti Ci sembrano imporre; in quarto luogo vogliamo confidarvi le Nostre preoccupazioni per l’avvenire: e finalmente vi inviteremo a dividere le Nostre speranze ed a pregare con Noi e coll’Orbe cattolico per il loro compimento.

I.

L’interna pace, quella che viene dalla piena e chiara consapevolezza di essere dalla parte della verità e della giustizia, e di combattere e soffrire per esse, quella pace che solo il Re divino sa dare e che il mondo, come non sa dare, così non può togliere, questa pace benedetta e benefica, grazie alla divina Bontà e Misericordia, non Ci ha mai abbandonato e mai, ne abbiamo piena fiducia, Ci abbandonerà, qualunque cosa avvenga; ma questa pace, come già nel cuore di Gesù appassionato, così nel cuore dei suoi fedeli servitori lascia libero accesso (voi lo sapete troppo bene, Venerabili Fratelli), a tutte le amarezze più amare, e anche Noi abbiamo sperimentato la verità di quella misteriosa parola: « Ecce in pace amaritudo mea amarissima » [1]. Il vostro pronto, largo, affettuoso intervento, che ancora non cessa, Venerabili Fratelli, i fraterni e filiali sentimenti, e soprattutto quel senso di alta soprannaturale solidarietà e intima unione di pensieri e di sentimenti, di intelligenze e di volontà spiranti dalle vostre amorevoli comunicazioni, Ci hanno riempito l’anima di indicibili consolazioni e Ci hanno spesse volte chiamate dal cuore sulle labbra le parole del Salmo [2]: « Secundum multitudinem dolorum meorum in corde meo, consolationes tuæ laetificaverunt animam meam ». Di tutte queste consolazioni, dopo Dio, voi di tutto cuore ringraziamo, Venerabili Fratelli, voi, ai quali possiamo anche Noi dire come Gesù ai vostri antecessori, agli Apostoli: «Vos qui permansistis mecum in tentationibus meis » [3].  Sentiamo pure e vogliamo pur compiere il dovere dolcissimo al cuore paterno di ringraziare con voi, Venerabili Fratelli, i tanti buoni e degni figli vostri, che individualmente e collettivamente, singoli e delle svariate organizzazioni ed associazioni di bene e più largamente delle Associazioni di Azione Cattolica e di Gioventù Cattolica, Ci hanno inviato tante e così filialmente affettuose espressioni di condoglianza, di devozione e di generosa e fattiva conformità alle Nostre direttive, ai Nostri desideri. È stato per Noi singolarmente bello e consolante vedere le « Azioni Cattoliche » di tutti i Paesi, dai più vicini ai più lontani, trovarsi a convegno presso il Padre comune, animate e come portate da un unico spirito di fede, di pietà filiale, di generosi propositi, esprimendo tutti la penosa sorpresa di vedere perseguitata e colpita l’Azione Cattolica là, al Centro dell’Apostolato Gerarchico, dove essa ha maggior ragione di essere, essa che in Italia, come in tutte le parti del mondo, secondo l’autentica ed essenziale sua definizione e secondo le assidue e vigilanti Nostre direttive, da Voi, Venerabili Fratelli, tanto generosamente secondate, non vuole né può essere se non la partecipazione e collaborazione del laicato all’Apostolato Gerarchico.  – Voi, Venerabili Fratelli, porterete l’espressione della Nostra paterna riconoscenza a tutti i vostri e Nostri figli in Gesù Cristo, che si sono mostrati così bene cresciuti alla vostra scuola e così buoni e pii verso il Padre comune, così da farci dire: « superabundo gaudio in tribulatione nostra » [4].  – A voi, Vescovi di tutte e singole le diocesi di questa cara Italia, a voi non dobbiamo soltanto l’espressione della Nostra riconoscenza per le consolazioni delle quali in nobile e santa gara Ci siete stati larghi colle vostre lettere in tutto il trascorso mese e particolarmente in questo stesso giorno dei SS. Apostoli coi vostri affettuosi ed eloquenti telegrammi; ma vi dobbiamo pure un contraccambio di condoglianze per quello che ciascuno di voi ha sofferto, vedendo improvvisamente abbattersi la bufera devastatrice sulle aiuole più riccamente fiorite e promettenti dei giardini spirituali, che lo Spirito Santo ha affidato alle vostre cure, e che voi con tanta diligenza venivate coltivando e con tanto bene delle anime. Il vostro cuore, Venerabili Fratelli, si è subito rivolto al Nostro per compatire alla Nostra pena, nella quale sentivate convergere come a centro, incontrarsi e moltiplicarsi tutte le vostre: è quello che voi Ci avete mostrato con le più chiare ed affettuose testimonianze, e Noi ve ne ringraziamo di tutto cuore. Particolarmente grati vi siamo della unanime e davvero imponente testimonianza da voi resa alla Azione Cattolica Italiana e segnatamente alle Associazioni Giovanili, d’esser rimaste docili e fedeli alle Nostre e vostre direttive escludenti ogni attività politica o di partito. Ed insieme con Voi ringraziamo pure tutti i vostri Sacerdoti e fedeli, religiosi e religiose, che a voi si unirono con tanto slancio di fede e di pietà filiale. In particolar modo ringraziamo le vostre associazioni di Azione Cattolica, e prime le Giovanili per tutti i gradi fino alle più piccole Beniamine ed ai più piccoli Fanciulli, tanto più cari quanto più piccoli, nelle preghiere dei quali e delle quali particolarmente confidiamo e speriamo.  – Voi avete sentito, Venerabili Fratelli, che il Nostro cuore era ed è con voi, con ciascuno di voi, con voi soffrendo, per voi e con voi pregando, che Iddio nella sua infinita Misericordia Ci venga in aiuto ed anche da questo gran male, che l’antico nemico del Bene ha scatenato, tragga nuova fioritura di bene e di gran bene.

II.

Soddisfatto al debito della riconoscenza per i conforti ricevuti in tanto dolore, dobbiamo soddisfare a quello onde l’apostolico ministero Ci fa debitori verso la verità e la giustizia. – Già a più riprese, Venerabili Fratelli, nel modo più esplicito ed assumendo tutta la responsabilità di quanto dicevamo, Ci siamo Noi espressi ed abbiamo protestato contro la campagna di false ed ingiuste accuse, che precedette lo scioglimento delle Associazioni Giovanili ed Universitarie della Azione Cattolica. Scioglimento eseguito per vie di fatto e con procedimenti che dettero l’impressione che si procedesse contro una vasta e pericolosa associazione a delinquere; trattavasi di gioventù e fanciullezze certamente delle migliori fra le buone, ed alle quali siamo lieti e paternamente fieri di potere ancora una volta rendere tale testimonianza. Si direbbe che gli stessi esecutori (non tutti di gran lunga, ma molti di essi) di tali procedimenti ebbero un tal senso e mostrarono di averlo, mettendo nell’opera loro esecutoria espressioni e cortesie, con le quali sembravano chiedere scusa e volersi far perdonare quello che erano necessitati di fare: Noi ne abbiamo tenuto conto riserbando loro particolari benedizioni.  – Ma, quasi a dolorosa compensazione, quante durezze e violenze fino alle percosse ed al sangue, e irriverenze di stampa, di parola e di fatti, contro le cose e le persone, non esclusa la Nostra, precedettero, accompagnarono e susseguirono l’esecuzione dell’improvvisa poliziesca misura, che bene spesso ignoranza o malevolo zelo estendeva ad associazioni ed enti neanche colpiti dai superiori ordini, fino agli oratorii dei piccoli ed alle pie congregazioni di Figlie di Maria! – E tutto questo triste contorno di irriverenze e di violenze doveva essere con tale intervento di elementi e di divise di partito, con tale unisono da un capo all’altro d’Italia, e con tale acquiescenza delle Autorità e forze di pubblica sicurezza da far necessariamente pensare a disposizioni venute dall’alto: Ci è molto facile ammettere, ed era altrettanto facile prevedere, che queste potessero, anzi dovessero, quasi necessariamente venire oltrepassate. Abbiamo dovuto ricordare queste antipatiche e penose cose, perché non è mancato il tentativo di far credere al gran pubblico ed al mondo che il deplorato scioglimento delle Associazioni, a Noi tanto care, si era compiuto senza incidenti e quasi come una cosa normale.  – Ma si è in ben altra e più vasta misura attentato alla verità ed alla giustizia. Se non tutte, certamente le principali falsità e vere calunnie sparse dalla avversa stampa di partito — la sola libera, e spesso comandata, o quasi, a tutto dire ed osare — vennero raccolte in un messaggio, sia pure non ufficiale (cauta qualifica), e somministrate al gran pubblico coi più potenti mezzi di diffusione che l’ora presente conosce. La storia dei documenti redatti non in servizio, ma in offesa della verità e della giustizia, è una lunga e triste storia; ma dobbiamo dire con la più profonda amarezza che, pur nei molti anni di vita e di operosità bibliotecaria, raramente Ci siamo incontrati in un documento tanto tendenzioso e tanto contrario a verità e giustizia, in ordine a questa Santa Sede, alla Azione Cattolica Italiana e più particolarmente alle Associazioni così duramente colpite. Se tacessimo, se lasciassimo passare, che è dire se lasciassimo credere, Noi saremmo troppo più indegni, che già non siamo, di occupare questa augusta Sede Apostolica, indegni della filiale e generosa devozione onde Ci hanno sempre consolati ed ora più che mai Ci consolano i Nostri cari figli dell’Azione Cattolica, e più particolarmente quei figli e quelle figlie Nostre, grazie a Dio tanto numerose, che, per la religiosa fedeltà alle Nostre chiamate e direttive, hanno tanto sofferto e soffrono, tanto più altamente onorando la scuola alla quale sono cresciuti, e il Divino Maestro e il suo indegno Vicario, quanto più luminosamente hanno mostrato col loro cristiano contegno, anche di fronte alle minacce ed alle violenze, da qual parte si trovino la vera dignità del carattere, la vera fortezza d’animo, il vero coraggio, la stessa civiltà. – Ci studieremo di essere molto brevi, rettificando le facili affermazioni del ricordato messaggio, facili diciamo per non dire audaci, e che sapevano di poter contare sulla quasi impossibilità di ogni controllo da parte del gran pubblico. Saremo brevi, anche perché già più volte, massime in questi ultimi tempi, abbiamo parlato sugli argomenti che ora ritornano, e la Nostra parola, Venerabili Fratelli, è potuta giungere fino a voi, e per voi ai vostri e Nostri cari figli in Gesù Cristo, come auguriamo anche alla presente lettera.  – Diceva fra l’altro il ricordato messaggio che le rivelazioni dell’avversa stampa di partito sarebbero state nella quasi totalità confermate almeno nella sostanza e proprio dall’Osservatore Romano. La verità è che l’Osservatore Romano ha di volta in volta dimostrato che le così dette rivelazioni erano altrettante invenzioni, o in tutto e per tutto, od almeno nell’interpretazione data ai fatti. Basta leggere senza malafede e con la più modesta capacità d’intendere. – Diceva ancora il messaggio essere tentativo ridicolo quello di far passare la Santa Sede come vittima in un paese dove migliaia di viaggiatori possono rendere testimonianza al rispetto dimostrato verso Sacerdoti, Prelati, Chiesa e funzioni religiose. Sì, Venerabili Fratelli, purtroppo il tentativo sarebbe ridicolo, come quello di chi tentasse sfondare una porta aperta; perché purtroppo le migliaia di visitatori stranieri, che non mancano mai all’Italia ed a Roma, hanno potuto constatare di presenza le irriverenze spesso empie e blasfeme, le violenze, gli sfregi, i vandalismi commessi contro luoghi, cose e persone, in tutto il Paese ed in questa medesima Nostra Sede Episcopale e da Noi ripetutamente deplorati dietro sicure e precise informazioni.  – Il messaggio denuncia la « nera ingratitudine » dei Sacerdoti, che si mettono contro il partito, che è stato (dice) per tutta l’Italia la garanzia della libertà religiosa. Il Clero, l’Episcopato, e questa medesima Santa Sede non hanno mai disconosciuto quanto in tutti questi anni è stato fatto con beneficio e vantaggio della Religione; ne hanno anzi spesse volte espresso viva e sincera riconoscenza. Ma e Noi e l’Episcopato e il Clero e tutti i buoni fedeli, anzi tutti i cittadini amanti dell’ordine e della pace si sono messi e si mettono in pena ed in preoccupazione di fronte ai troppo presto incominciati sistematici attentati contro le più sane e preziose libertà della Religione e delle coscienze, quanti furono gli attentati contro l’Azione Cattolica, le sue diverse Associazioni, massime le giovanili, attentati che culminavano nelle poliziesche misure contro di loro consumate e nei modi già accennati: attentati e misure che fanno seriamente dubitare se gli atteggiamenti prima benevoli e benèfici provenissero soltanto da sincero amore e zelo di Religione. Ché se di ingratitudine si vuol parlare, essa fu e rimane quella usata verso la Santa Sede da un partito e da un regime che, a giudizio del mondo intero, trasse dagli amichevoli rapporti con la Santa Sede, in paese e fuori, un aumento di prestigio e di credito, che ad alcuni in Italia ed all’estero parvero eccessivi, come troppo largo il favore e troppo larga la fiducia da parte Nostra. – Consumata la poliziesca misura e consumata con quell’accompagnamento e con quel seguito di violenze, di irriverenze e connivenze delle autorità di pubblica sicurezza, Noi abbiamo sospeso, come l’invio di un Nostro Cardinale Legato alle centenarie celebrazioni di Padova, così le festive processioni in Roma ed in Italia. La disposizione era di Nostra evidente competenza, e ne vedevamo così gravi ed urgenti i motivi da farcene un dovere, per quanto sapessimo di imporre con essa gravi sacrifici ai buoni fedeli, forse più che ad ogni altro a Noi stessi incresciosa. Come infatti avrebbero avuto l’usato corso liete e festive solennità in tanto lutto e cordoglio che era piombato sul cuore del Padre comune di tutti i fedeli, e sul materno cuore della Santa Madre Chiesa in Roma, in Italia, anzi in tutto il mondo cattolico, come la universale e veramente mondiale partecipazione con voi alla testa, Venerabili Fratelli, venne subito a dimostrare? O come potevamo non temere per il rispetto e l’incolumità stessa delle persone e delle cose più sacre, dato il contegno delle pubbliche autorità e forze in presenza di tante irriverenze e violenze? – Dovunque le Nostre disposizioni poterono arrivare, i buoni sacerdoti ed i buoni fedeli ebbero le stesse impressioni e gli stessi sentimenti, e dove non furono intimiditi, minacciati e peggio, ne diedero magnifiche e per Noi consolantissime prove sostituendo le festive celebrazioni con ore di preghiere, di adorazione e di riparazione, in unione di pena e di intenzione col Santo Padre, e con non più veduti concorsi di popolo. – Sappiamo come le cose si svolsero dove le Nostre disposizioni non poterono arrivare in tempo, con intervento di autorità che il messaggio rileva, quelle stesse autorità di governo e di partito che già avevano o tra poco avrebbero assistito mute e inoperose al compimento di gesta prettamente anticattoliche e antireligiose; ciò che il messaggio non dice. Dice invece che vi furono autorità ecclesiastiche locali che si credettero in grado « di non prendere atto » del Nostro divieto. Noi non conosciamo una sola autorità ecclesiastica locale che siasi meritato l’affronto e l’offesa contenuta in tali parole. Sappiamo bensì e vivamente deploriamo le imposizioni, spesso minacciose e violente, fatte e lasciate fare alle locali autorità ecclesiastiche; sappiamo di empie parodie di cantici sacri e di sacri cortei, il tutto lasciato fare con profondo cordoglio di tutti i buoni fedeli e con vero sgomento di tutti i cittadini amanti di pace e di ordine, vedendo l’una e l’altro indifesi e peggio, proprio da quelli che di difenderli hanno e gravissimo dovere e insieme vitale interesse. – Il messaggio richiama il tante volte addotto confronto fra l’Italia ed altri Stati, nei quali la Chiesa è realmente perseguitata e contro i quali non si sono sentite parole come quelle pronunciate contro l’Italia, dove (dice) la Religione è stata restaurata. Abbiamo già detto che serbiamo e serberemo e memoria e riconoscenza perenne per quanto venne fatto in Italia con beneficio della Religione, anche se con contemporaneo non minore, e forse maggiore, beneficio del partito e del regime. Abbiamo pur detto e ripetuto che non è necessario (spesso sarebbe assai nocivo agli scopi intesi) che sia da tutti sentito e saputo quello che Noi e questa Santa Sede, per mezzo dei Nostri rappresentanti, dei Nostri Fratelli di Episcopato, veniamo dicendo e rimostrando dovunque gli interessi della Religione lo richiedono, e nella misura che giudichiamo richiedersi, massime dove la Chiesa è realmente perseguitata. – È con dolore indicibile che vedemmo una vera e reale persecuzione scatenarsi in questa Nostra Italia ed in questa Nostra medesima Roma contro quello che la Chiesa ed il suo Capo hanno di più prezioso e più caro in fatto di libertà e diritti, libertà e diritti che sono pure quelli delle anime, e più particolarmente delle anime giovanili, a loro più particolarmente affidate dal divino Creatore e Redentore. – Come è notorio, Noi abbiamo ripetutamente e solennemente affermato e protestato che l’Azione Cattolica, sia per la sua stessa natura ed essenza (partecipazione e collaborazione del laicato all’apostolato gerarchico) che per le Nostre precise e categoriche direttive e disposizioni, è al di fuori e al di sopra di ogni politica di partito. Abbiamo insieme affermato e protestato che Ci constava le Nostre direttive e disposizioni essere state in Italia fedelmente ubbidite e secondate. Il messaggio sentenzia che l’affermazione che l’Azione Cattolica non ebbe un vero carattere politico è completamente falsa. Non vogliamo rilevare tutto quello che vi è di irriguardoso in tale sentenza, anche perché la motivazione che il messaggio ne dà, ne dimostra tutta la falsità e la leggerezza, che diremmo davvero ridicola, se il caso non fosse tanto lacrimevole. – Aveva in realtà, dice, stendardi, distintivi, tessere e tutte le altre forme esteriori di un partito politico. Come se stendardi, distintivi, tessere e simili forme esteriori non siano oggigiorno comuni, in tutti i paesi del mondo, alle più svariate associazioni e attività che nulla hanno e vogliono avere di comune colla politica: sportive e professionali, civili e militari, commerciali e industriali, scolastiche di prima fanciullezza, religiose della religiosità più pia e devota e quasi infantile, come i Crociatini del Sacramento. – Il messaggio ha sentito tutta la debolezza e la vanità dell’addotto motivo, e quasi correndo ai ripari ne soggiunge altri tre.  Il primo vuol essere, che i capi dell’Azione Cattolica erano quasi completamente membri oppure capi del partito popolare, il quale è stato (dice) uno dei più forti avversari del fascismo. Questa accusa è stata più di una volta lanciata contro l’Azione Cattolica Italiana, ma sempre genericamente e senza far nomi. Ogni volta Noi abbiamo invitato a precisare e nominare, ma invano. Solo poco prima delle misure inflitte all’Azione Cattolica ed in evidente preparazione alle stesse, la stampa avversa, con non meno evidente ricorso a rapporti di polizia, ha pubblicato alcune serie di fatti e di nomi; e ciò son le pretese rivelazioni alle quali accenna il messaggio nel suo inizio, e che l’Osservatore Romano ha debitamente smentite e rettificate, non già confermate, come, traendo in inganno il gran pubblico, il messaggio stesso afferma.  Quanto a Noi, Venerabili Fratelli, alle informazioni già da tempo raccolte ed alle indagini personali già prima fatte, abbiamo stimato dover Nostro di procurarCi nuove informazioni e nuove indagini fare, ed eccone, Venerabili Fratelli, i positivi risultati. Innanzi tutto abbiamo constatato che, stante ancora il partito popolare e non ancora affermatosi il nuovo partito, per disposizioni emanate nel 1919, chi avesse occupato cariche direttive nel partito popolare non poteva occupare contemporaneamente uffici direttivi nella Azione Cattolica. – Abbiamo inoltre constatato, Venerabili Fratelli, che i casi di ex-dirigenti locali laici del partito popolare divenuti poi dirigenti locali della Azione Cattolica, tra quelli segnalati, come sopra abbiam detto, dalla stampa avversa, si riducono a quattro, diciamo quattro, e questo così esiguo numero con 250 Giunte diocesane, 4000 Sezioni di uomini cattolici, e oltre 5000 Circoli di Gioventù Cattolica maschile. E dobbiamo aggiungere che nei quattro detti casi si tratta sempre di individui che non dettero mai luogo a difficoltà; alcuni poi addirittura simpatizzanti e benevisi al regime ed al partito. – E non vogliamo omettere quell’altra garanzia di religiosità apolitica della Azione Cattolica che voi bene conoscete, Venerabili Fratelli, Vescovi in Italia, che stette, sta e starà sempre nella dipendenza della Azione Cattolica dall’Episcopato, da voi, dai quali sempre proveniva l’assegnazione dei sacerdoti « assistenti », e la nomina dei « presidenti delle Giunte diocesane »; onde chiaro è che, rimettendo e raccomandando a Voi, Venerabili Fratelli, le Associazioni colpite, nulla di sostanzialmente nuovo abbiamo ordinato e disposto. Disciolto e cessato il partito popolare, quelli che già appartenevano alla Azione Cattolica continuarono ad appartenervi, sottomettendosi però con perfetta disciplina alla legge fondamentale della Azione Cattolica, cioè astenendosi da ogni attività politica, e così fecero quelli che allora chiesero di appartenervi. – I quali tutti con quale giustizia e carità si sarebbero espulsi o non ammessi, quando, forniti delle qualità richieste, si sottomettevano a quella legge? Il regime ed il partito, che sembrano attribuire una così temibile e temuta forza agli appartenenti al partito popolare sul terreno politico, dovevano mostrarsi grati alla Azione Cattolica, che appunto da quel terreno li ha levati e con formale impegno di non spiegare azione politica, ma soltanto religiosa. – Non possiamo invece Noi, Chiesa, Religione, fedeli Cattolici (e non soltanto noi) essere grati a chi dopo aver messo fuori socialismo e massoneria, nemici nostri (e non nostri soltanto) dichiarati, li ha così largamente riammessi, come tutti vedono e deplorano, e fatti tanto più forti e pericolosi e nocivi quanto più dissimulati e insieme favoriti dalla nuova divisa. – Di infrazioni al preso impegno Ci si è non rare volte parlato; abbiamo sempre chiesto nomi e fatti concreti, sempre pronti a intervenire e provvedere; non si è mai risposto a tale Nostra domanda. – Il messaggio denuncia che una parte considerevole di atti di carattere organizzativo era particolarmente di natura politica e che aveva niente a fare con « l’educazione religiosa e la propagazione della fede ». A parte la maniera imperita e confusa onde sembrano accennarsi i compiti della Azione Cattolica, tutti quelli che conoscono e vivono la vita d’oggi sanno che non vi è iniziativa e attività — dalle più spirituali e scientifiche fino alle più materiali e meccaniche — che non abbia bisogno di organizzazione e di atti organizzativi, e che questi come quella non si identificano con le finalità delle diverse iniziative ed attività, ma non sono che mezzi per meglio raggiungere i fini che ciascuna si propone. – Però (continua il messaggio) l’argomento più forte che può essere adoperato come una giustificazione della distruzione dei circoli cattolici dei giovani è la difesa dello Stato, la quale è più di un semplice dovere di qualunque governo. Nessun dubbio sulla solennità e sulla importanza vitale di un tal dovere e di un tal diritto, aggiungiamo Noi, perché riteniamo e vogliamo ad ogni costo praticare, con tutti gli onesti e sensati, che il primo diritto è quello di fare il proprio dovere. Ma tutti i ricevitori e lettori del messaggio avrebbero sorriso di incredulità o fatte le alte meraviglie, se il messaggio avesse aggiunto che dei Circoli Cattolici giovanili colpiti 10.000 erano, anzi sono, di gioventù femminile, con un totale di quasi 500.000 giovani donne e fanciulle, dove, chi può vedere un serio pericolo e una minaccia reale per la sicurezza dello Stato? E devesi considerare che solo 220.000 sono iscritte « effettive », più di 100.000 piccole « aspiranti », più di 150.000 ancora più piccole « Beniamine ». – Restano i circoli di gioventù cattolica maschile, quella stessa Gioventù Cattolica che nelle pubblicazioni giovanili del partito e nei discorsi e nelle circolari dei così detti gerarchi sono rappresentati ed indicati al vilipendio ed allo scherno (con qual senso di responsabilità pedagogica, per dir solo di questa, ognun lo vede) come una accozzaglia di conigli e di buoni soltanto a portar candele e recitar rosari nelle sacre processioni, e che forse per questo sono stati in questi ultimi tempi tante volte e con così poco nobile coraggio assaliti e maltrattati fino al sangue, lasciati indifesi da chi poteva e doveva proteggerli e difenderli, se non altro perché inermi e pacifici assaliti da violenti e spesso armati. – Se qui sta l’argomento più forte della attentata « distruzione » (la parola non lascia davvero dubbi sulle intenzioni) delle nostre care ed eroiche associazioni giovanili di Azione Cattolica, voi vedete, Venerabili Fratelli, che Noi potremmo e dovremmo rallegrarCi, tanto chiaramente appare l’argomento di per se stesso incredibile ed insussistente. Ma purtroppo dobbiamo ripetere, che « mentita est iniquitas sibi » [5], e che l’« argomento più forte » della voluta « distruzione » va cercato su altro terreno: la battaglia che ora si combatte non è politica, ma morale e religiosa: squisitamente morale e religiosa. – Bisogna chiudere gli occhi a questa verità e vedere, anzi inventare politica dove non è che Religione e Morale per conchiudere, come fa il messaggio, che si era creata la situazione assurda di una forte organizzazione agli ordini di un potere « estero », il « Vaticano », cosa che nessun governo di questo mondo avrebbe permesso. – Si sono sequestrati in massa i documenti in tutte le sedi della Azione Cattolica Italiana, si continua (anche questo si fa) a intercettare e sequestrare ogni corrispondenza che possa sospettarsi in qualche rapporto colle Associazioni colpite, anzi anche con quelle non colpite: gli oratorii. — Si dica dunque a Noi, al Paese, al mondo, quali e quanti sono i documenti della politica, agitata e tramata dalla Azione Cattolica con pericolo dello Stato. Osiamo dire che non se ne troveranno, a meno di leggere e interpretare secondo idee preconcette, ingiuste e in pieno contrasto coi fatti e con l’evidenza di senza numero prove e testimonianze. Quando se ne trovino di genuini e degni di considerazione, saremo Noi i primi a riconoscerli e a tenerne conto. Ma chi vorrà, per esempio, incriminare di politica, e politica pericolosa allo Stato, qualche segnalazione e deplorazione degli odiosi trattamenti già anche prima degli ultimi fatti, tante volte e in tanti luoghi inflitti alla Azione Cattolica? O chi fondarsi sopra dichiarazioni imposte od estorte, come Ci consta essere in qualche luogo avvenuto? – Invece, proprio senza numero si troveranno tra i sequestrati documenti le prove e le testimonianze della profonda e costante religiosità e religiosa attività come di tutta l’Azione Cattolica così particolarmente delle Associazioni giovanili ed universitarie. Basterà saper leggere ed apprezzare, come Noi stessi abbiamo innumerevoli volte fatto, i programmi, i resoconti, i verbali di congressi, di settimane di studi religiosi e di preghiera, di ritiri spirituali, di praticata e promossa frequenza ai Sacramenti, di conferenze apologetiche, di studi ed attività catechistiche, di cooperazione ad iniziative di vera e pura carità cristiana nelle Conferenze di San Vincenzo ed in altri modi, di attività e cooperazione missionaria.  – È in presenza di tali fatti e di tale documentazione, dunque coll’occhio e la mano sulla realtà, che Noi abbiamo sempre detto ed ancora diciamo che accusare l’Azione Cattolica Italiana di fare della politica era ed è vero e proprio calunniare. I fatti hanno dimostrato a che cosa con questo si mirasse, che cosa si preparasse: rare volte si è in così grandi proporzioni avverata la favola del lupo e dell’agnello, e la storia non potrà non ricordarsene. – Noi, certi fino alla evidenza, di essere e di mantenerci sul terreno religioso, non abbiamo mai creduto che potessimo essere considerati come un « potere estero », massime da Cattolici e da Cattolici italiani. – È in grazia della potestà apostolica a Noi indegnissimi da Dio affidata, che i buoni Cattolici di tutto il mondo (voi lo sapete molto bene, Venerabili Fratelli) considerano Roma come la seconda patria di tutti e di ciascuno di loro. Non è ancora troppo lontano il giorno nel quale un uomo di Stato, che rimarrà certamente fra i più celebri, non cattolico né amico del Cattolicesimo, in piena assemblea politica disse che non poteva considerare come un potere estero quello al quale ubbidivano venti milioni di tedeschi.  Per dire poi che nessun governo del mondo avrebbe lasciato sussistere la situazione creata in Italia dalla Azione Cattolica, bisogna assolutamente ignorare o dimenticare che in tutti gli Stati del mondo, fino alla Cina, sussiste e vive ed opera la Azione Cattolica, bene spesso imitante nell’assieme e fino ai particolari l’Azione Cattolica Italiana, spesso ancora con forme e particolari organizzativi anche più spiccatamente tali che in Italia. In nessuno Stato del mondo mai l’Azione Cattolica è stata considerata come un pericolo dello Stato; in nessuno Stato del mondo l’Azione Cattolica è stata così odiosamente perseguitata (non vediamo quale altra parola risponda alla realtà e alla verità dei fatti) come in questa Nostra Italia, e in questa medesima Nostra Sede Episcopale Romana: e questa è veramente una situazione assurda, non da Noi sebbene contro di Noi creata. – Ci siamo imposto, Venerabili Fratelli, un grave ed increscioso lavoro; Ci è sembrato un preciso dovere di carità e giustizia paterna, e in questo spirito lo abbiamo compiuto al fine di rimettere nella giusta luce fatti e verità, che alcuni figli Nostri hanno, forse non del tutto consapevolmente, messo in luce falsa a danno di altri figli Nostri.

III

Ed ora una prima riflessione e conclusione: da quanto siamo venuti esponendo e più ancora dagli avvenimenti stessi come si sono svolti, la attività politica della Azione Cattolica, la palese o larvata ostilità di taluni suoi settori contro il regime ed il partito, come anche l’eventuale rifugio e la protezione di residuata e fin qui risparmiata ostilità al partito sotto le bandiere della Azione Cattolica (cfr. Comunicato del Direttorio, 4 Giugno 1931), tutto questo non è che pretesto o un cumulo di pretesti: è un pretesto, osiamo dire, la stessa Azione Cattolica; ciò che si voleva e che si attentò di fare, fu strappare alla Azione Cattolica, e per essa alla Chiesa, la gioventù, tutta la gioventù. Tanto è ciò vero, che dopo aver tanto parlato di Azione Cattolica, si mirò alle Associazioni Giovanili, né si stette alle Associazioni Giovanili di Azione Cattolica, ma si allungò tumultuariamente la mano anche ad associazioni e ad opere di pura pietà e di prima istruzione religiosa, come le Congregazioni di Figlie di Maria e gli Oratorii; tanto tumultuariamente da dover spesso riconoscere il grossolano errore. – Questo punto essenziale è largamente confermato anche d’altronde. È confermato innanzitutto dalle molte antecedenti affermazioni di elementi più o meno responsabili ed anche dagli elementi più rappresentativi del regime e del partito e che ebbero il loro pieno commentario e la definitiva conferma dagli ultimi avvenimenti.

La conferma è stata anche più esplicita e categorica, stavamo per dire solenne insieme e violenta, da parte di chi non solo tutto rappresenta, ma tutto può, in pubblicazione ufficiale o quasi, dedicata alla gioventù, in colloqui destinati alla pubblicità, alla pubblicità estera prima ancora che a quella del paese, ed anche all’ultima ora in messaggi ed in comunicazioni a rappresentanti della stampa.- Un’altra riflessione e conclusione subito ed inevitabilmente si impone. Non si è dunque tenuto nessun conto delle ripetute assicurazioni e proteste Nostre, non si è tenuto conto alcuno delle proteste ed assicurazioni vostre, Venerabili Fratelli Vescovi d’Italia, sulla natura e sulla attività vera e reale dell’Azione Cattolica e sui diritti sacrosanti ed inviolabili delle anime e della Chiesa in essa rappresentati e impersonati. – Diciamo, Venerabili Fratelli, i sacrosanti ed inviolabili diritti delle anime e della Chiesa, ed è questa la riflessione e conclusione che più di ogni altra si impone, come è di ogni altra la più grave. Già più e più volte, come è notorio, Noi abbiamo espresso il pensiero Nostro, o meglio, della Chiesa Santa su così importanti ed essenziali argomenti, e non è a voi, Venerabili Fratelli, fedeli maestri in Israele, che occorra dire di più; ma non possiamo non aggiungere qualche cosa per questi cari popoli che stanno intorno a voi, che voi pascete e governate per divino mandato e che ormai quasi solo per mezzo vostro possono conoscere il pensiero del Padre comune delle anime loro. – Dicevamo i sacrosanti ed inviolabili diritti delle anime e della Chiesa. Si tratta del diritto delle anime di procurarsi, il maggior bene spirituale sotto il magistero e l’opera formatrice della Chiesa, di tale magistero e di tale opera unica mandataria, divinamente costituita in quest’ordine soprannaturale fondato nel Sangue di Dio Redentore, necessario ed obbligatorio a tutti per partecipare alla divina Redenzione. Si tratta del diritto delle anime così formate di partecipare i tesori della Redenzione ad altre anime collaborando alla attività dell’Apostolato Gerarchico. – È in considerazione di questo duplice diritto delle anime, che Ci dicevamo testé lieti e fieri di combattere la buona battaglia per la libertà delle coscienze, non già (come qualcuno forse inavvertitamente Ci ha fatto dire) per la libertà di coscienza, maniera di dire equivoca e troppo spesso abusata a significare la assoluta indipendenza della coscienza, cosa assurda in anima da Dio creata e redenta. – Si tratta inoltre del diritto non meno inviolabile della Chiesa di adempiere l’imperativo divino Mandato, di cui la investiva il divino Fondatore, di portare alle anime, a tutte le anime, tutti i tesori di verità e di bene, dottrinali e pratici, ch’Egli stesso aveva recato al mondo. « Euntes docete omnes gentes… docentes eos servare omnia quæcumque mandavi vobis » Andate ed istruite tutte le genti, insegnando loro ad osservare tutto quello che vi ho commesso [6]. E qual posto dovessero tenere la prima età e la giovinezza in questa assoluta universalità e totalità di mandato, lo mostra Egli stesso il divino Maestro, Creatore e Redentore delle anime, col suo esempio e con quelle parole particolarmente memorabili ed anche particolarmente formidabili: « Lasciate che i pargoli vengano a me e non vogliate impedirmeli »… «Questi piccoli che (quasi per un divino istinto) credono in Me; ai quali è riserbato il regno dei cieli; dei quali gli Angeli tutelari e difensori vedono sempre la faccia del Padre celeste; guai all’uomo che avrà scandalizzato uno di questi piccoli ». « Sinite parvulos venire ad me et nolite prohibere eos… qui in me credunt… istorum est enim regnum caelorum; quorum Angeli semper vident faciem Patris qui in cælis est; Væ! homini illi per quem unus ex pusillis istis scandalizatus fuerit » [7]. Or eccoci in presenza di tutto un insieme di autentiche affermazioni e di fatti non meno autentici, che mettono fuori di ogni dubbio il proposito — già in tanta parte eseguito — di monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza fino all’età adulta, a tutto ed esclusivo vantaggio di un partito, di un regime, sulla base di una ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana non meno in pieno contrasto coi diritti naturali della famiglia che coi diritti soprannaturali della Chiesa. Proporsi e promuovere un tale monopolio, perseguitare in tale intento, come si veniva facendo da qualche tempo più o meno palesemente o copertamente, l’Azione Cattolica; colpire a tale scopo, come ultimamente si è fatto, le sue Associazioni giovanili equivale ad un vero e proprio impedire che la gioventù vada a Gesù Cristo, dacché è impedire che vada alla Chiesa, perché dov’è la Chiesa ivi è Gesù Cristo. E si arrivò fino a strapparla, con gesto violento dal seno dell’una e dell’Altro. – La Chiesa di Gesù Cristo non ha mai contestato i diritti e i doveri dello Stato circa l’educazione dei cittadini e Noi stessi li abbiamo ricordati e proclamati nella recente Nostra Lettera Enciclica sulla educazione cristiana della gioventù; diritti e doveri incontestabili finché rimangono nei confini delle competenze proprie dello Stato; competenze che sono alla loro volta chiaramente fissate dalle finalità dello Stato; finalità certamente non soltanto corporee e materiali, ma di per se stesse necessariamente contenute nei limiti del naturale, del terreno, del temporaneo. Il divino universale Mandato, del quale la Chiesa di Gesù Cristo è stata da Gesù Cristo stesso incomunicabilmente ed insurrogabilmente investita, si estende invece all’eterno, al celeste, al soprannaturale, quest’ordine di cose il quale da una parte è strettamente obbligatorio per ogni creatura consapevole, ed al quale dall’altra parte deve di natura sua subordinarsi e coordinarsi tutto il rimanente. – La Chiesa di Gesù Cristo è certamente nei termini del suo mandato, non solo quando depone nelle anime i primi indispensabili princìpi ed elementi della vita soprannaturale, ma anche quando questa vita promuove e sviluppa secondo le opportunità e le capacità, e coi modi e mezzi da lei giudicati idonei, anche nell’intento di preparare illuminate e valide cooperazioni all’apostolato gerarchico. È di Gesù Cristo la solenne dichiarazione che Egli è venuto precisamente al fine che le anime abbiano non soltanto qualche inizio od elemento della vita soprannaturale, ma affinché l’abbiano nella maggiore abbondanza: « Ego veni ut vitam habeant et abundantius habeant » [8]. E Gesù stesso ha posto i primi inizi dell’Azione Cattolica, Egli stesso scegliendo ed educando negli Apostoli e nei discepoli i collaboratori del suo divino apostolato, esempio immediatamente imitato dai primi santi Apostoli, come il sacro testo ne fa fede. – È per conseguenza pretesa ingiustificabile ed inconciliabile col nome e colla professione di Cattolici quella di semplici fedeli che vengono ad insegnare alla Chiesa ed al suo Capo ciò che basta e che deve bastare per la educazione e formazione cristiana dello anime e per salvare, promuovere nella società, principalmente nella gioventù, i princìpi della Fede e la loro piena efficienza nella vita. – Alla ingiustificabile pretesa si associa la chiarissima rivelazione della assoluta incompetenza e della completa ignoranza delle materie in questione. Gli ultimi avvenimenti devono aver aperto a tutti gli occhi, mentre hanno dimostrato fino all’evidenza quello che in pochi anni si è venuto, non già salvando, ma disfacendo e distruggendo in fatto di religiosità vera, di educazione cristiana e civile. Voi sapete, Venerabili Fratelli, Vescovi d’Italia, per vostra esperienza pastorale che gravissimo ed esiziale errore sia il credere e far credere che l’opera della Chiesa svolta nell’Azione Cattolica sia surrogata e resa superflua dall’istruzione religiosa nelle scuole e dalla ecclesiastica assistenza alle associazioni giovanili del partito e del regime. L’una e l’altra sono certissimamente necessarie; senza di esse la scuola e le dette associazioni diventerebbero inevitabilmente e ben presto, per fatale necessità logica e psicologica, cose pagane. Necessarie adunque, ma non sufficienti: infatti con quella istruzione religiosa e con quella assistenza ecclesiastica la Chiesa di Gesù Cristo non può esplicare che un minimum della sua efficienza spirituale e soprannaturale, e questo in un terreno e in un ambiente non da essa dipendenti, preoccupati da molte altre materie di insegnamento e da tutt’altri esercizi, soggetti ad immediate autorità spesso poco o punto favorevoli e non rare volte esercitanti contrarie influenze con la parola e con l’esempio della vita. – Dicevamo che gli ultimi avvenimenti hanno finito di mostrare senza lasciare possibilità di dubbio quello che in pochi anni si è potuto non già salvare, ma perdere e distruggere in fatto di religiosità vera e di educazione, non diciamo cristiana, ma anche solo morale e civile.

Abbiamo infatti vista in azione una religiosità che si ribella alle disposizioni della superiore Autorità Religiosa e ne impone o ne incoraggia la inosservanza; una religiosità che diventa persecuzione e tentata distruzione di quello che il Supremo Capo della Religione notoriamente più apprezza ed ha a cuore; una religiosità che trascende e lascia trascendere ad insulti di parola e di fatto contro la Persona del Padre di tutti i fedeli fino a gridarlo abbasso ed a morte; veri imparaticci di parricidio. Simigliante religiosità non può in nessun modo conciliarsi con la dottrina e con la pratica cattolica, ma è piuttosto quanto può pensarsi di più contrario all’una ed all’altra. – La contrarietà è più grave in se stessa e più esiziale nei suoi effetti, quando non è soltanto quella di fatti esteriormente perpetrati e consumati, ma anche quella di princìpi e di massime proclamate come programmatiche e fondamentali. – Una concezione dello Stato che gli fa appartenere le giovani generazioni interamente e senza eccezione dalla prima età fino all’età adulta, non è conciliabile per un cattolico colla dottrina cattolica, e neanche è conciliabile col diritto naturale della famiglia. Non è per un Cattolico conciliabile con la Cattolica Dottrina pretendere che la Chiesa, il Papa, devono limitarsi alle pratiche esterne di religione (Messa e Sacramenti), e che il resto della educazione appartiene totalmente allo Stato.  – Le erronee e false dottrine e massime che siamo venuti fin qua segnalando e deplorando, già più volte Ci si presentarono nel corso di questi ultimi anni, e, come è notorio, non siamo mai, coll’aiuto di Dio, venuti meno al Nostro apostolico dovere di rilevarle e di contrapporvi i giusti richiami alle genuine dottrine cattoliche ed agli inviolabili diritti della Chiesa di Gesù Cristo e delle anime nel Suo divino sangue redente. – Ma, nonostante i giudizi e le aspettative e le suggestioni che da diverse parti anche molto ragguardevoli a Noi pervenivano, Ci siamo sempre trattenuti da formali ed esplicite condanne, anzi siamo andati fino a credere possibili e favorire da parte Nostra compatibilità e cooperazioni che ad altri sembrarono inammissibili. Così abbiamo fatto perché pensavamo e piuttosto desideravamo che rimanesse la possibilità di almeno dubitare che avessimo a fare con affermazioni ed azioni esagerate, sporadiche, di elementi non abbastanza rappresentativi, insomma ad affermazioni ed azioni risalenti, nelle parti censurabili, piuttosto alle persone ed alle circostanze che veramente e propriamente programmatiche. – Gli ultimi avvenimenti e le affermazioni che li prepararono, li accompagnarono e li commentarono Ci tolgono la desiderata possibilità, e dobbiamo dire, diciamo che non si è cattolici se non per il battesimo e per il nome — in contraddizione con le esigenze del nome e con gli stessi impegni battesimali — adottando e svolgendo un programma che fa sue dottrine e massime tanto contrarie ai diritti della Chiesa di Gesù Cristo e delle anime, che misconosce, combatte e perseguita l’Azione Cattolica, che è dire quanto la Chiesa ed il suo Capo hanno notoriamente di più caro e prezioso. A questo punto Voi Ci richiedete, Venerabili Fratelli, che rimane a pensare ed a giudicare, alla luce di quanto precede, circa una formula di giuramento che anche a fanciulli e fanciulle impone di eseguire senza discutere ordini che, l’abbiamo veduto e vissuto, possono comandare contro ogni verità e giustizia la manomissione dei diritti della Chiesa e delle anime, già per se stessi sacri ed inviolabili; e di servire con tutte le forze, fino al sangue, la causa di una rivoluzione che strappa alla Chiesa ed a Gesù Cristo la gioventù, e che educa le sue giovani forze all’odio, alla violenza, alla irriverenza, non esclusa la persona stessa del Papa, come gli ultimi fatti hanno più compiutamente dimostrato. – Quando la domanda deve porsi in tali termini, la risposta dal punto di vista cattolico, ed anche puramente umano, è inevitabilmente una sola, e Noi, Venerabili Fratelli, non facciamo che confermare la risposta che già vi siete data: un tale giuramento, così come sta, non è lecito.

IV.

Ed eccoci alle Nostre preoccupazioni, gravissime preoccupazioni, che, lo sentiamo, sono anche le vostre, Venerabili Fratelli, di voi specialmente, Vescovi d’Italia. Ci preoccupiamo subito innanzi tutto dei tanti e tanti figli Nostri, anche giovanetti e giovanette, iscritti e tesserati con quel giuramento. Commiseriamo profondamente le tante coscienze tormentate da dubbi (tormenti e dubbi di cui arrivano a Noi certissime testimonianze) appunto in grazia di quel giuramento, com’è concepito, specialmente dopo i fatti avvenuti. – Conoscendo le difficoltà molteplici dell’ora presente e sapendo come tessera e giuramento sono per moltissimi condizione per la carriera, per il pane, per la vita, abbiamo cercato mezzo che ridoni tranquillità alle coscienze riducendo al minimo possibile le difficoltà esteriori. E Ci sembra potrebbe essere tal mezzo per i già tesserati fare essi davanti a Dio ed alla propria coscienza la riserva: « salve le leggi di Dio e della Chiesa » oppure « salvi i doveri di buon Cristiano », col fermo proposito di dichiarare anche esternamente una tale riserva, quando ne venisse il bisogno. – Là poi donde partono le disposizioni e gli ordini vorremmo arrivasse la Nostra preghiera, la preghiera di un Padre che vuole provvedere alle coscienze di tanti suoi figli in Gesù Cristo; che cioè la medesima riserva sia introdotta nella forma del giuramento, quando non si voglia far meglio, molto meglio, e cioè omettere il giuramento, che è per sé un atto di religione, e non è certamente al posto che più gli conviene in una tessera di partito. – Abbiamo procurato di parlare come con calma e serenità, così con tutta chiarezza; pur non possiamo non preoccuparCi di essere bene intesi, non diciamo da voi, Venerabili Fratelli, sempre ed ora più che mai a Noi così uniti di pensieri e di sentimenti, ma da tutti quanti. E per questo aggiungiamo che con tutto quello che siamo venuti finora dicendo Noi non abbiamo voluto condannare il partito ed il regime come tale. – Abbiamo inteso segnalare e condannare quanto nel programma e nell’azione di essi abbiamo veduto e constatato contrario alla dottrina ed alla pratica cattolica, e quindi inconciliabile col nome e con la professione di cattolici. E con questo abbiamo adempiuto un preciso dovere dell’Apostolico Ministero verso tutti i figli Nostri che al partito appartengono, perché possano provvedere alla propria coscienza di Cattolici. – Crediamo poi di avere contemporaneamente fatto buona opera al partito stesso ed al regime. Perché quale interesse ed utilità possono essi avere mantenendo in programma, in un paese cattolico come l’Italia, idee, massime e pratiche inconciliabili con la coscienza cattolica? La coscienza dei popoli, come quella degli individui, finisce sempre per ritornare sopra se stessa e ricercare le vie per un momento più o meno lungo perdute di vista o abbandonate. – Né si dica che l’Italia è cattolica, ma anticlericale, intendiamo anche solo in una misura degna di particolari riguardi. Voi, Venerabili Fratelli, che nelle grandi e piccole diocesi d’Italia vivete in continuo contatto con le buone popolazioni di tutto il Paese, voi sapete e vedete ogni giorno come esse, non sobillate né fuorviate, siano aliene da ogni anticlericalismo. È noto a quanti conoscono un poco intimamente la storia del Paese, che l’anticlericalismo ha avuto in Italia l’importanza e la forza che gli conferirono la massoneria e il liberalismo che lo generavano. Ai nostri giorni poi il concorde entusiasmo che unì e trasportò come non mai tutto il Paese ai giorni delle Convenzioni Laterane non gli avrebbe lasciato modo di riaffermarsi, se non lo si fosse evocato ed incoraggiato all’indomani delle Convenzioni stesse. Negli ultimi avvenimenti, poi, disposizioni ed ordini lo hanno fatto entrare in azione e lo hanno fatto cessare, come tutti hanno potuto vedere e constatare. È pertanto fuor di dubbio che sarebbe bastata e basterà sempre a tenerlo al posto dovuto, la centesima e millesima parte delle misure lungamente inflitte all’Azione Cattolica e testé culminate in quello che ormai tutto il mondo sa.- Altre e ben gravi preoccupazioni Ci ispira il prossimo avvenire. Si è protestato, e ciò in sede quant’altra mai ufficiale e solenne, e subito dopo gli ultimi per Noi e per i Cattolici di tutta l’Italia e di tutto il mondo dolorosissimi fatti a danno dell’Azione Cattolica: « rispetto immutato verso la Religione Cattolica, il suo Sommo Capo » ecc. Rispetto « immutato »: dunque quello stesso rispetto, senza mutazione, che abbiamo sperimentato; dunque quel rispetto che si esprimeva in altrettanto vaste che odiose misure poliziesche, preparate in alto silenzio come non amica sorpresa, e fulmineamente applicate proprio alla vigilia del Nostro genetliaco, occasione di tante gentilezze e bontà da parte del mondo cattolico, ed anche non cattolico; dunque quello stesso rispetto che trascendeva a violenze e irriverenze lasciate indisturbatamente perpetrarsi. Che cosa possiamo dunque sperare; o meglio che cosa non dobbiamo aspettarCi? Non è mancato chi si domandava, se a così strana maniera di parlare, di scrivere, in tali circostanze, in tanta vicinanza di tali fatti, sia stata del tutto aliena l’ironia, una ben triste ironia, che da parte Nostra amiamo escludere affatto. – Nel medesimo contesto ed in immediato rapporto con l’« immutato rispetto » (dunque coi medesimi indirizzi) si insinuavano « rifugi e protezioni » concesse a residui oppositori del partito, e si « ordinava ai dirigenti dei novemila fasci d’Italia » di ispirare la loro azione a queste direttive. Più d’uno di voi, Venerabili Fratelli, Vescovi d’Italia, ha già sperimentato, dandocene anche dolenti notizie, l’effetto di tali insinuazioni e di tali ordini, in una ripresa di odiose sorveglianze, di delazioni, di intimidazioni e vessazioni. Che cosa Ci prepara dunque l’avvenire? Che cosa non possiamo e dobbiamo aspettarCi (non diciamo temere, perché il timore di Dio espelle quello degli uomini), se, come abbiamo motivi a credere, il proposito è di non permettere che i Nostri Giovani Cattolici si adunino neppure silenziosamente, minacciate aspre pene ai dirigenti? Che cosa dunque, di nuovo Ci domandiamo, Ci prepara o minaccia l’avvenire?

V.

È proprio a questo estremo di dubbi e di previsioni al quale gli uomini Ci hanno ridotti, che ogni preoccupazione, Venerabili Fratelli, svanisce, scompare, e il Nostro spirito si apre alle più fiduciose consolanti speranze; perché l’avvenire è nelle mani di Dio, e Dio è con noi, e … « si Deus nobiscum, quis contra nos? » [9].  Un segno ed una prova sensibile dell’assistenza e del favore divino Noi già la vediamo e gustiamo nella vostra assistenza e cooperazione, Venerabili Fratelli. Se siamo bene informati, si è detto recentemente che ora l’Azione Cattolica è in mano dei Vescovi e non vi è più nulla a temere. E fin qui sta bene, molto bene, salvo quel « più nulla », come se prima qualche cosa si avesse a temere, e salvo quell’« ora », come se prima e fin dal principio l’Azione Cattolica non sia sempre stata essenzialmente diocesana e dipendente dai Vescovi (come anche sopra abbiamo accennato) ed anche per questo, principalmente per questo, abbiamo sempre nutrito la più certa fiducia che le Nostre direttive erano seguite e secondate. Per questo, dopo che per il promesso, immanchevole aiuto divino, Noi rimaniamo e rimarremo nella più fiduciosa tranquillità, anche se la tribolazione — diciamo la parola esatta, la persecuzione — dovrà continuare e intensificarsi. Noi sappiamo che voi siete, e voi sapete di essere, i Nostri Fratelli nell’Episcopato e nell’Apostolato; Noi sappiamo e sapete voi, Venerabili Fratelli, che siete i Successori di quegli Apostoli che San Paolo chiamava con parole di vertiginosa sublimità « gloria Christi » [10]; voi sapete che, non un uomo mortale, sia pure Capo di Stato o di Governo, ma lo Spirito Santo vi ha posto, nelle parti che Pietro assegna, a reggere la Chiesa di Dio. Queste e tante altre sante e sublimi cose che vi riguardano, Venerabili Fratelli, evidentemente ignora o dimentica chi vi pensa e chiama, voi Vescovi d’Italia, « ufficiali dello Stato »; dai quali così chiaramente vi distingue e separa la stessa formula del giuramento che vi occorra prestare al Monarca, mentre dice e premette espressamente: « come si conviene a Vescovo Cattolico ». – Grande poi e veramente smisurato motivo a bene sperare Ci è pure l’immenso coro di preghiere che la Chiesa di Gesù Cristo da tutte le parti del mondo solleva al divino Fondatore ed alla Sua SS. Madre per il suo Capo visibile, il Successore di Pietro, proprio come quando, or sono venti secoli, la persecuzione colpiva di Pietro stesso la persona: preghiere di sacri pastori e di popoli, di cleri e di fedeli, di religiosi e di religiose, di adulti e di giovani, di bambini e di bambine; preghiere nelle forme più squisite ed efficaci di santi sacrifici e comunioni eucaristiche, di supplicazioni, di adorazioni e di riparazioni, di spontanee immolazioni e di sofferenze cristianamente sofferte; preghiere, delle quali in tutti questi giorni e subito dopo i tristi eventi Ci giungeva da ogni parte la eco consolantissima, mai così forte e così consolante come in questo giorno sacro e solenne alla memoria dei Prìncipi degli Apostoli e nel quale disponeva la divina bontà che potessimo por fine a questa Nostra Lettera Enciclica. – Alla preghiera tutto è divinamente promesso: se non sarà il sereno e la tranquillità dell’ordine ristabilito, sarà in tutti la cristiana pazienza, il santo coraggio, la gioia ineffabile di patire qualche cosa con Gesù e per Gesù, con la gioventù e per la gioventù a Lui tanto prediletta, e ciò fino all’ora nascosta nel mistero del Cuore divino, infallibilmente la più opportuna alla causa della verità e del bene. – E poiché da tante preghiere tutto dobbiamo sperare, e poiché tutto è possibile a quel Dio che alla preghiera tutto ha promesso, abbiamo fiduciosa speranza ch’Egli voglia illuminare le menti al vero e volgere le volontà al bene, così che alla Chiesa di Dio, che nulla contende allo Stato di quello che allo Stato compete, si cessi di contendere ciò che a Lei compete, la educazione e formazione cristiana della gioventù, non per umano placito ma per divino mandato, e che pertanto essa deve sempre richiedere e sempre richiederà, con una insistenza ed una intransigenza che non può cessare né flettersi, perché non proviene da placito o calcolo umano o da umane ideologie mutevoli nei diversi tempi e luoghi, ma da divina ed inviolabile disposizione. – E Ci ispira pure fiducia e speranza il bene che indubitabilmente proverrebbe dal riconoscimento di tale verità e di tal diritto. Padre di tutti i redenti, il Vicario di quel Redentore che, dopo aver insegnato e comandato a tutti l’amore dei nemici, moriva perdonando ai suoi crocifissori, non è e non sarà mai nemico di alcuno e così faranno tutti i buoni e veri figli suoi, i cattolici che vogliano serbarsi degni di tanto nome; ma essi non potranno mai condividere, adottare o favorire massime e norme di pensiero e di azione contrarie ai diritti della Chiesa ed al bene delle anime e perciò stesso contrarie ai diritti di Dio. – Quanto preferibile a questa irriducibile divisione delle menti e delle volontà, la pacifica e tranquilla unione dei pensieri e dei sentimenti, che per felice necessità non potrebbe non tradursi in feconda cooperazione di tutti per il vero bene a tutti comune; e ciò col plauso simpatico dei cattolici di tutto il mondo, invece che col loro universale biasimo e malcontento, come ora avviene! Preghiamo il Dio di tutte le misericordie, per la intercessione della sua SS. Madre che testé ci arrideva di plurisecolari splendori, e dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, che Ci conceda a tutti di vedere quello che conviene fare e a tutti dia la forza di eseguirlo. – La Benedizione Nostra Apostolica, auspice e pegno di tutte le Benedizioni divine, discenda sopra di voi, Venerabili Fratelli, sui vostri Cleri, sui vostri popoli, e vi rimanga sempre.

Roma, dal Vaticano, nella Solennità dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, 29 giugno 1931.

PIUS PP. XI 

[1] Is., XXXVIII, 17.

[2] Psalm. XCIII, 19.

[3] Luc., XXII, 28.

[4] I Cor., VII, 4.

[5] Psalm. XXVI, 12.

[6] Matth., XXVIII, 19-20.

[7] Matth., XIX, 13 seqq. XVIII, 1 seqq.

[8] Io., X, 10.

[9] Rom., VIII, 31.

[10] 2 Cor., VIII, 23.

DOMENICA VI DOPO PENTECOSTE (2020)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Un solo pensiero domina tutta la liturgia di questo giorno: bisogna distruggere in noi il peccato con profondo pentimento e chiedere a Dio di darci la forza per non ricadervi. Il Battesimo ci ha fatto morire al peccato e l’Eucarestia ci dà la forza divina necessaria per perseverare nel cammino della virtù. La Chiesa, ancora tutta compenetrata del ricordo di questi due Sacramenti che ha conferito a Pasqua e a Pentecoste, ama parlarne anche « nel Tempo dopo Pentecoste ».

Le lezioni del 7° Notturno, quali si leggono nel Breviario, raccontano, sotto la forma di apologo, la gravità della colpa commessa da David. Per quanto pio egli fosse, questo grande Re aveva lasciato entrare il peccato nel suo cuore. Volendo sposare una giovane donna di grande bellezza, di nome Bethsabea, aveva ordinato di mandare il marito di lei Uria, nel più forte del combattimento contro gli Ammoniti, affinché restasse ucciso. Così sbarazzatosi in questo modo di lui, sposò Bethsabea che da lui già aveva concepito un figlio. Il Signore mandò il profeta Nathan a dirgli: « Vi erano due uomini nella città, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva pecore e buoi in gran numero, il povero non aveva assolutamente nulla fuori di una piccola pecorella, che aveva acquistata e allevata, e che era cresciuta presso di lui insieme con i suoi figli, mangiando il suo pane, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno: essa era per lui come una figlia. Ma essendo venuto un forestiero dal ricco, questi, non volendo sacrificare nemmeno una pecora del suo gregge per imbandire un banchetto al suo ospite, rapi’ la pecora del povero e la fece servire a tavola ». David sdegnatosi, esclamò: « Come è vero che il Signore è vivo, questo uomo merita la morte ». Allora Nathan disse: « Quest’uomo sei tu, poiché hai preso la moglie di Uria per farla tua sposa, mentre potevi sceglierti una sposa fra le giovani figlie d’Israele. Pertanto, dice il Signore, io susciterò dalla tua stessa famiglia (Assalonne) una disgrazia contro di te ». David, allora, pentitosi, disse: Nathan: « Ho peccato contro il Signore ». Nathan riprese: « Poiché sei pentito il Signore ti perdona; tu non morrai. Ma ecco il castigo: il figlio che ti è nato, morrà ». Qualche tempo dopo infatti il fanciullo morì. E David umiliato e pentito andò a prostrarsi nella casa del Signore e cantò cantici di penitenza (Com.). « David, questo re cosi grande e potente, dice S. Ambrogio, non può mantenere in sé neppure per breve tempo il peccato che pesa sulla sua coscienza: ma con una pronta confessione, e con immenso rimorso, confessa il suo peccato al Signore. Così il Signore, dinanzi a tanto dolore, gli perdonò. Invece gli uomini, quando i Sacerdoti hanno occasione di rimproverarli, aggravano il loro peccato cercando di negarlo o di scusarlo; e commettono una colpa più grave, proprio là dove avrebbero dovuto rialzarsi. Ma i Santi del Signore, che ardono dal desiderio di continuare il santo combattimento e di terminare santamente la vita, se per caso peccano, più per la fragilità della carne che per deliberazione di peccato, si rialzano più ardenti alla corsa e, stimolati dalla vergogna della caduta la riparano coi più rudi combattimenti; cosicché la loro caduta invece d’essere stata causa di ritardo non ha fatto altro che spronarli e farli avanzare più celermente» (2° Nott.). Da ciò si comprende la scelta dell’Epistola nella quale S. Paolo parla della nostra morte al peccato. Nel Battesimo siamo stati seppelliti con Cristo, la nostra vecchia umanità è stata crocifissa con lui perché noi morissimo al peccato. E come Gesù dopo la risurrezione è uscito dalla tomba, così noi dobbiamo camminare per una nuova via, vivere per Dio in Gesù Cristo (Ep.). E qualora avessimo la disgrazia di ricadere nel peccato, bisogna domandare a Dio la grazia di esserci propizio e di liberarcene (V. dell’Intr., Crad., All., Secr.), ridonandoci la grazia dello Spirito Santo, poiché da Lui parte ogni dono perfetto (Oraz.). Poi bisogna accostarci all’altare (Com.) per ricevervi l’Eucaristia la cui virtù divina ci fortificherà contro i nostri nemici (Postcom.) e ci manterrà nel fervore della pietà (Oraz.), poiché il Signore è la forza del suo popolo che lo condurrà per sempre (Intr.). Per questo la Chiesa ha scelto per Vangelo la narrazione della moltiplicazione dei pani, figura dell’Eucaristia, che è il nostro viatico. La Comunione, identificandosi con la vittima del Calvario, non solamente perfeziona in noi gli effetti del Battesimo, facendoci morire con Gesù al peccato, ma ci fa trovare a santo banchetto la forza che ci è necessaria per non ricadere nel peccato e per « consolidare i nostri passi nei sentieri del Signore » (Offert.). E in questo senso S. Ambrogio, commenta questo Vangelo. Cristo disse: « Io non voglio rimandarli digiuni per paura che essi muoiano per via. Il Signore pieno di bontà sostiene le forze; se qualcuno soccomberà non sarà per causa del Signore Gesù, ma per causa di se stesso. Il Signore pone in noi elementi fortificanti; il suo alimento è la forza, il suo alimento è il vigore. Così, se per vostra negligenza, avete voi perduta la forza che avete ricevuta, non dovete incolpare gli alimenti celesti che non .mancano, ma voi stessi. Infatti Elia, quando stava per soccombere, non camminò per quaranta giorni ancora, avendo ricevuto il cibo da un Angelo? Se voi avete conservato il cibo ricevuto, camminerete per quarant’anni e uscirete dalla terra d’Egitto per giungere alla terra immensa che Dio ha promesso ai nostri Padri.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVII: 8-9 Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum.

[Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.]

Ps XXVII: 1 Ad te, Dómine, clamábo, Deus meus, ne síleas a me: ne quando táceas a me, et assimilábor descendéntibus in lacum.

[O Signore, Te invoco, o mio Dio: non startene muto con me, perché col tuo silenzio io non assomigli a coloro che discendono nella tomba.]

Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum.

[Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.]

Oratio

Orémus.

Deus virtútum, cujus est totum quod est óptimum: ínsere pectóribus nostris amórem tui nóminis, et præsta in nobis religiónis augméntum; ut, quæ sunt bona, nútrias, ac pietátis stúdio, quæ sunt nutríta, custódias.

[O Dio onnipotente, cui appartiene tutto quanto è ottimo: infondi nei nostri cuori l’amore del tuo nome, e accresci in noi la virtú della religione; affinché quanto di buono è in noi Tu lo nutra e, con la pratica della pietà, conservi quanto hai nutrito.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom. VI: 3-11

“Fratres: Quicúmque baptizáti sumus in Christo Jesu, in morte ipsíus baptizáti sumus. Consepúlti enim sumus cum illo per baptísmum in mortem: ut, quómodo Christus surréxit a mórtuis per glóriam Patris, ita et nos in novitáte vitæ ambulémus. Si enim complantáti facti sumus similitúdini mortis ejus: simul et resurrectiónis érimus. Hoc sciéntes, quia vetus homo noster simul crucifíxus est: ut destruátur corpus peccáti, et ultra non serviámus peccáto. Qui enim mórtuus est, justificátus est a peccáto. Si autem mórtui sumus cum Christo: crédimus, quia simul étiam vivémus cum Christo: sciéntes, quod Christus resurgens ex mórtuis, jam non móritur, mors illi ultra non dominábitur. Quod enim mórtuus est peccáto, mórtuus est semel: quod autem vivit, vivit Deo. Ita et vos existimáte, vos mórtuos quidem esse peccáto, vivéntes autem Deo, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929]

IL BATTESIMO

“Fratelli,  quanti siamo stati battezzati in Gesù Cristo, siamo stati battezzati nella morte di Lui. Per il battesimo siamo stati, dunque, sepolti con Lui nella morte; affinché a quel modo che Gesù Cristo risuscitò dalla morte, mediante la gloria del Padre, così, anche noi viviamo una nuova vita. Infatti, se siamo stati innestati a Lui per la somiglianza della sua morte, lo saremo anche per quella della resurrezione; ben sapendo che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso in Lui, affinché il corpo del peccato fosse distrutto, sicché non serviamo più al peccato. Ora, se siamo morti con Cristo crediamo che vivremo pure con Cristo; perché sappiamo che Cristo risuscitato da morte non muore più: la morte non ha più dominio su di Lui. La sua morte fu una morte al peccato una volta per sempre; e la sua vita la vive a Dio. Alla stessa guisa, anche voi consideratevi morti al peccato e viventi a Dio in Cristo Gesù Signor nostro”.

Nell’Epistola di quest’oggi, che è tolta dalla lettera ai Romani, sono messe in relazione col Battesimo la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù Cristo. Il Battesimo, mediante il quale l’uomo diventa membro del mistico corpo del Redentore, significa tanto la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù Cristo, quanto la morte dell’uomo al peccato e la sua risurrezione alla vita della grazia. L’uomo, morto al peccato, non deve più farsene schiavo. Gesù Cristo dalla tomba, risorse alla vita nuova per la, gloria del Padre. Il Cristiano, dal fonte battesimale, risorge con Gesù Cristo a una vita nuova, tutta consacrata a Dio. Il cristiano deve pensare frequentemente al Battesimo, che ci ricorda:

1. Che siamo morti al peccato e liberati dalla schiavitù di satana,

2. Che siamo risorti alla vita della grazia,

3. Nella quale dobbiamo perseverare.

1.

Quanti siamo stati battezzati in Gesù Cristo, siamo stati battezzati nella morte di Lui. Queste parole alludonoalla maniera con cui veniva amministrato il Battesimo nei primi tempi della Chiesa. Il battezzando veniva immerso nell’acqua, e subito ne usciva. L’immersione nell’acqua rappresentava la morte e la sepoltura del Redentore;e vi era pure significata la morte mistica del neofito; la sepoltura del vecchio uomo con i suoi peccati. Infatti, nel Battesimo, per virtù dello Spirito Santo, vengono pienamente cancellati tutti i peccati. Cancellati i peccati, anche il dominio di satana cessa. L’anima che era schiava diventa libera; «Poiché il demonio non può dominare che per mezzo dei peccati» (S. Agostino. En. In Ps. LXXII, 5).Coloro che nel Battesimo sono liberati dal peccato «lasciano oppresso nell’acqua il demonio, antico dominatore» (Tertulliano. De Baptismo. 9. 2). – Dell’importanza di questa liberazione dal giogo di satana è tutta piena la liturgia del Battesimo. Subito, in principio della cerimonia, il sacerdote, dopo che ha ammonito il battezzando sull’osservanza dei comandamenti e sull’amor di Dio, si rivolge allo spirito delle tenebre, e gli intima: «Esci da lui, o spirito immondo, e cedi il luogo allo Spirito Santo Consolatore». Segnato con un duplice segno di croce, il battezzando si rivolge ancora allo spirito delle tenebre e gli fa sentire l’ingiunzione da parte di Dio. «Ti esorcizzo, spirito immondo, nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, perché t’allontani da questo servo di Dio. Te lo comanda, dannato maledetto, colui che camminò sul mare, e porse la destra a Pietro che stava per sommergersi». Introdotto il battezzando in chiesa, dopo altre cerimonie, prima che venga battezzato, il sacerdote gli domanda: «Rinunci a satana… e a tutte le sue opere… e a tutte le sue pompe?». Dopo la triplice dichiarazione di rinuncia al demonio, alle sue opere, alle sue pompe si procede ad altri riti, e finalmente al Battesimo. – I primi Cristiani, innanzi di ricevere il Battesimo venivano a lungo istruiti sull’importanza di queste cerimonie. Così si fa ancora di regola generale, anche oggi nei paesi infedeli. Da noi, specialmente per assicurare la salvezza dell’anima contro le sorprese della morte, il Battesimo si amministra, in via ordinaria, ai bambini. Ma questa circostanza non ci sottrae all’obbligo di stare alle rinunce fatte per noi dai padrini. Ogni promessa è debito, sia essa fatta da noi, sia fatta da altri per noi. Neppure ci sottrae all’obbligo di istruirci sugli effetti del Battesimo. II Cristiano non ringrazierà mai abbastanza Dio, che nel Battesimo gli ha tolto la macchia del peccato che deturpava l’anima sua, che ha spezzato i vincoli che lo tenevano legato a satana, liberandolo dal suo dominio. Il Cristiano non farà mai troppo per restar fedele alle promesse e alle rinunce fatte nel Battesimo, se non vuol essere un Cristiano solamente di nome.

2.

Per il Battesimo siamo stati, dunque, sepolti con Lui nella morte; affinché a quel modo che Gesù Cristo risuscitò da morte, mediante la gloria del Padre, così, anche noi viviamo una nuova vita. Il Battesimo che ci unisce a Gesù nella morte e nella sepoltura, ci unisce pure con Lui nella risurrezione. Per la gloriosa potenza del Padre, Gesù Cristo è risuscitato da morte a vita immortale: e noi partecipiamo alla sua risurrezione, risorgendo dalle acque del Battesimo a una vita nuova. Se nel Battesimo non risorgiamo a una vita nuova, tutta diversa dalla vita passata a che ci gioverebbe esser stati sepolti in esso con Gesù Cristo?Il Battesimo trasforma l’uomo. Se ci fosse concesso di vedere un’anima qual era prima del Battesimo e qual è dopo, non la riconosceremmo più. Prima del Battesimo indossava la veste di Adamo, la veste del peccato. Dopo il Battesimo indossa la veste candida della grazia, la veste di Gesù Cristo, al quale il battezzato è stato incorporato. «Tutti voi che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo», ricorda S. Paolo ai Galati (III, 27). Salomone, parlando della sapienza che egli aveva chiesto a Dio, dice: «E insieme con essa vennero a me tutti i beni, e per le mani di lei un’infinita ricchezza» (Sap. VII, 11). Lo stesso può ripetere ciascuno che ha ricevuto la veste della grazia nel Battesimo. L’uomo con il peccato aveva offeso Dio; e l’offesa fattagli non avrebbe mai potuto riparare. Aveva contratto un debito che nessuno, al mondo, avrebbe potuto estinguere. Con il Battesimo l’offesa è riparata, il debito è estinto. L’uomo da nemico di Dio diventa sua amico, anzi figlio adottivo. «Siete stati mondati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signor nostro Gesù Cristo, e mediante lo Spirito del nostro Dio» (I Cor. VI, 11), dichiara l’Apostolo ai Corinti. Esule dal Paradiso l’uomo non poteva aspirare a mettervi il piede, se fosse dipeso dalle sue forze. Era una condanna, che non si sarebbe potuta scontare col tempo, e che nessun uomo poteva togliere. Nel Battesimo la condanna è tolta. «Nessuna condanna, dunque, ora per coloro che sono incorporati in Cristo» (Rom. VIII, 1). Divenuto nel Battesimo membro della Chiesa, l’uomo può usare dei mezzi della grazia, che essa somministra per la santificazione dei suoi figli; e progredire, così, sempre più nella santità cui è chiamato. S. Gerolamo, parlando del Battesimo, dichiara: «Mi mancherebbe il tempo, se volessi esporre quanto si contiene nella Sacra Scrittura su l’efficacia del Battesimo». (Epist. 69 7, ad Ocean.) A noi basti considerare che, prima del Battesimo, l’uomo è tempio del demonio, e, dopo, è tempio di Dio; che nel Battesimo egli è generato a una vita nuova, la vita della grazia.

3.

Gesù Cristo aveva preso sopra di sé i peccati di tutti gli uomini, e morì come rappresentante dei peccatori. Morì, però, una volta per sempre. Ed espiati i peccati una volta per sempre, mediante la sua morte, non ha più che fare con il peccato. La vita che vive dopo la sua risurrezione, la vive a onore e gloria di Dio. Alla stessa guisa — dice S. Paolo — anche voi consideratevi morti al peccato e viventi a Dio in Cristo Gesù Signor nostro ». Cioè, ad esempio di Gesù Cristo, dobbiamo considerarci morti per sempre al peccato, e condurre a onore e gloria di Dio la vita, che Egli ci serba dopo il Battesimo. – Il popolo d’Israele s’era sottratto alla schiavitù dell’Egitto, attraverso il Mar Rosso. Da questo mare Israele esce salvo; ma i suoi nemici vi trovano la morte, sepolti nelle onde. Sentiamo una bella osservazione di S. Agostino. «Muoiono nel Mar Rosso tutti i nemici di quel popolo, muoiono nel Battesimo tutti i nostri peccati. Osservate fratelli: dopo quel Mar Rosso non vien data subito la patria, né il trionfo è completamente sicuro, come se non esistessero più nemici; poiché rimane ancora la solitudine del deserto; rimangono ancora i nemici che insidiano il cammino. Così, anche dopo il Battesimo, la vita cristiana è soggetta alla tentazione», (En. In Ps. LXXII, 5) Dal Battesimo il Cristiano è risorto a nuova vita con Gesù Cristo, ma la concupiscenza, ch’è rimasta anche dopo la morte al peccato, non gliela lascia godere con completa sicurezza. Di qui la necessità, per il Cristiano, di lottare continuamente contro la concupiscenza per non lasciarsi trascinare da essa, alla vita di peccato di prima. Sarebbe un inganno dormir tranquilli, perché nel Battesimo e più tardi nella Confessione, i nostri peccati furono seppelliti. Un giardiniere apparecchia con tutta cura l’aiuola. Con la vanga volta, sminuzza il terreno e lo monda dalle erbe inutili e nocive. Ma quanti germi vi son rimasti, sfuggiti al suo sguardo, o vi sono continuamente portati. Senza ulteriori, continue cure, quell’aiuola si ricoprirà ben presto dell’erbacce di prima. Senza continua vigilanza e premura, i peccati che furono sepolti nel Battesimo, e più tardi nella Penitenza, torneranno ben presto a dominare. Quando il missionario versa sul capo dei neofiti, da lui preparati, l’acqua del Battesimo, si sente l’animo ripieno di giubilo al pensiero che la Chiesa acquista un nuovo figlio, e il Cielo un nuovo erede. Ma questo giubilo è ben spesso turbato da un dubbio: Si manterrà costante nella fede? Continuerà nella buona via? Date le circostanze, i pericoli in cui vengono a trovarsi quei novelli convertiti, l’esperienza dimostra che questo dubbio non è fuor di posto. Questa domanda facciamocela schiettamente noi: Abbiam continuato nella buona via? Non siamo più ritornati al peccato al quale eravamo morti nel Battesimo? Domanda molto opportuna, anzi, necessaria, poiché «per il solo Battesimo non si consegue la vita eterna, se dopo averlo ricevuto si vive malamente » (S. Fulgenzio De Reg. verae Fidei. 44). Dopo il Battesimo abbiamo un altro Sacramento, nel quale vengono seppelliti i nostri peccati; ma anche questo Sacramento, come il Battesimo, va ricevuto con il fermo proposito di risorgere a vita nuova e di non ritornare più al peccato. C’è sempre questa disposizione nel continuo alternarsi di grazia e di peccato, di morte e di vita dell’anima? A confermare il nostro proposito di esser morti per sempre al peccato e di progredire nella vita della grazia, giova grandemente la considerazione della dignità, da noi conseguita nel Battesimo, e degli obblighi che ne derivano. Tanti usano notare su apposito memoriale le date più importanti della vita. I cristiani fervorosi non trascurano di porre, tra queste date, quello del Battesimo, della Cresima, della 1. Comunione. Un santo e zelante missionario, il gesuita P. Vittorio Delpech, per tenersele in mente più facilmente e in modo più vivo, le scrisse sopra un cranio, che volle aver sempre con sé. La data della nascita era scritta sulla fronte, accompagnata da questi due. versetti: «Ricorda il tuo Battesimo ed esulterai in eterno. — Ricorda i novissimi e non peccherai in eterno». Se vogliamo pervenire all’esultanza a cui il Battesimo ci dà diritto, ricordiamolo spesso, e non smentiamolo mai.

Graduale

Ps LXXXIX: 13; LXXXIX: 1 Convértere, Dómine, aliquántulum, et deprecáre super servos tuos.

V. Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie. Allelúja, allelúja.

[Vòlgiti un po’ a noi, o Signore, e plàcati con i tuoi servi.

V. Signore, Tu sei il nostro rifugio, di generazione in generazione. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XXX: 2-3 In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me: inclína ad me aurem tuam, accélera, ut erípias me. Allelúja.

[Te, o Signore, ho sperato, ch’io non sia confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e allontanami dal male: porgi a me il tuo orecchio, affrettati a liberarmi Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Marcum.

Marc. VIII: 1-9 In illo témpore: Cum turba multa esset cum Jesu, nec haberent, quod manducárent, convocatis discípulis, ait illis: Miséreor super turbam: quia ecce jam tríduo sústinent me, nec habent quod mandúcent: et si dimísero eos jejúnos in domum suam, defícient in via: quidam enim ex eis de longe venérunt. Et respondérunt ei discípuli sui: Unde illos quis póterit hic saturáre pánibus in solitúdine? Et interrogávit eos: Quot panes habétis? Qui dixérunt: Septem. Et præcépit turbæ discúmbere super terram. Et accípiens septem panes, grátias agens fregit, et dabat discípulis suis, ut appónerent, et apposuérunt turbæ. Et habébant piscículos paucos: et ipsos benedíxit, et jussit appóni. Et manducavérunt, et saturáti sunt, et sustulérunt quod superáverat de fragméntis, septem sportas. Erant autem qui manducáverant, quasi quatuor mília: et dimísit eos.

(In quel tempo: Radunatasi molta folla attorno a Gesú, e non avendo da mangiare, egli, chiamati i discepoli, disse loro: Ho compassione di costoro, perché già da tre giorni sono con me e non hanno da mangiare; e se li rimanderò alle loro case digiuni, cadranno lungo la via, perché alcuni di essi sono venuti da lontano. E gli risposero i suoi discepoli: Come potremo saziarli di pane in questo deserto? E chiese loro: Quanti pani avete? E risposero: Sette. E comandò alla folla di sedersi a terra. E presi i sette pani, rese grazie e li spezzò e li diede ai suoi discepoli per distribuirli, ed essi li distribuirono alla folla. Ed avevano alcuni pesciolini, e benedisse anche quelli e comandò di distribuirli. E mangiarono, e si saziarono, e con i resti riempirono sette ceste. Ora, quelli che avevano mangiato erano circa quattro mila: e li congedò).

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la provvidenza di Dio.

Misereor super turbam, quia ecce iam triduo sustinent me, nec habent quod manducent.

[Marc. VIII].

Quanto ammirabili sono le attenzioni della divina provvidenza per gli uomini, fratelli miei, e quanto sono fortunati coloro che alla sua condotta rimettonsi! L’odierno Vangelo ce ne somministra una prova sensibile, assai convincente. Già da tre giorni una moltitudine di popolo seguiva Gesù Cristo con tanto affetto che si dimenticava sino dei bisogni della vita; più premurosi questi di nutrire l’anima del pane celeste che il corpo di un pane materiale, nulla avevano serbato onde cibarsi nel viaggio. Ma Gesù Cristo, che mai non dimentica i suoi seguaci, fu mosso a compassione dei bisogni d’un popolo che gli dava una sì grande riprova del suo attaccamento. Chiede Egli ai suoi Apostoli quanti pani abbian seco portato. Sette, rispondono essi; ma come con sì poca provvisione cibare tante persone? Ciò che è impossibile all’uomo, non è impossibile a Dio. Gesù Cristo farà spiccare la sua potenza egualmente che la sua bontà nel sovvenire ai bisogni di tutti. Prende Egli dunque i sette pani, li benedice e li moltiplica in copia tale, che avvenne onde nutrire quattromila persone, senza contare le donne e i fanciulli, e degli avanzi ancora riempiere sette sporte. Non fu già, fratelli miei, in questa sola occasione che Gesù Cristo diede contrassegni della paterna sua provvidenza verso coloro che lo seguivano; il Vangelo riferisce ancora un altro miracolo di questa sorte per mezzo del quale Egli nutrì e satollò cinquemila persone con cinque pani d’orzo e due pesci. In questa guisa la provvidenza di Dio previene e i necessari aiuti ci porge. Ah! quanto saremmo noi felici, se interamente abbandonandoci nelle mani di questa divina provvidenza, e fedeli mantenendoci nel suo servizio, sapessimo meritare i suoi favori! Non si vedrebbero certamente tante persone languire nella miseria, o per lo meno esse non ne risentirebbero cotanto le amarezze, la sopporterebbero con pazienza maggiore. – Per indurvi adunque a questo perfetto abbandono alla provvidenza di Dio, voglio rappresentarvi la cura ch’ella ha di voi ed istruirvi nello stesso tempo di ciò che dovete fare per corrispondervi. Quel che la provvidenza di Dio fa per gli uomini: primo punto. Quel che gli uomini far debbono per corrispondere alle cure della divina provvidenza: secondo punto.

I. Punto. Che siavi una provvidenza in Dio che presieda a tutto, che il tutto governi e che provveda ai bisogni di tutti, ella è una verità, fratelli miei, che la sola ragione, indipendentemente anche dalla fede, ci dimostra in una maniera sì sensibile che converrebbe chiuder gli occhi alla luce per rivocarla in dubbio. Che c’insegna infatti la ragione? Che evvi un Dio, infinitamente saggio, buono e potente, che ha creato tutte le cose nel bell’ordine che noi vediamo e le conserva nel medesimo stato; altrimenti rientrerebbero ben presto nel nulla. Mentre la creatura tanto dipende da Dio per la conservazione, quanto per la sua riproduzione, o piuttosto la sua conservazione, è una produzione continua, per cui Dio rinnova ad ogni istante l’esistenza della creatura, non essendovi che Egli solo, il quale esista indipendentemente da ogni altro. Si è dunque Dio che con la sua sapienza ed onnipotenza, conserva e governa questo vasto universo; Egli è che dà il moto agli astri, la fertilità alla terra, la salubrità all’aria. Da Lui dipende la regolarità delle stagioni, che succedonsi le une alle altre; la vicissitudine dei giorni e delle notti, che c’invitano alternativamente al lavoro e al riposo; in una parola tutta l’armonia che vediamo regnare nella natura, ella è un effetto della divina Provvidenza. Basta di dare uno sguardo alle opere di Dio per riconoscervi i tratti d’una sapienza infinita ed esclamare col profeta: quanto ammirabili sono le vostre opere, o Signore! La vostra sapienza risplende in tutto ciò che avete fatto; la terra ripiena dei vostri beni spiega ai nostri occhi la vostra magnificenza; tutta la natura ci annunzia una provvidenza che la regola: che la sostiene nel bell’ordine che vi ammiriamo. – Or se la provvidenza di Dio si manifesta in una maniera sensibile nel governo dell’universo, ai bisogni dell’uomo, che è la più bella delle sue opere, essa estende principalmente le paterne sue cure; poiché dire che Dio ha creato l’uomo per abbandonarlo a se stesso, sarebbe voler dire che un padre ha messo al mondo dei figliuoli per non prenderne alcuna cura: che un re savio e giusto non si mette punto in pena di ciò che accade nel suo regno; ciò che non si può supporre in una creatura ragionevole, a più forte ragione in un Dio Creatore, il migliore dei padri, il più savio ed il più giusto dei re. Ma quanto grandi sono le cure che la provvidenza di Dio prende delle creature ragionevoli, quale è la sua attenzione, quale la vigilanza in provvedere ai loro bisogni! Ah! Cristiani, riconoscete qui le vostre obbligazioni a suo riguardo ed istruitevi dei motivi che debbono indurvi a renderle i vostri omaggi e ad abbandonarvi alla sua condotta. – Questa divina provvidenza conosce i vostri bisogni, ella vi provvede con mezzi tanto più efficaci, quanto che dispone d’ogni cosa con altrettanto di forza che di sapienza e dolcezza: Attingìt a fine usque ad finem fortiter, et disponit omnia suaviter (Sap. VIII). Con quanto di ragione dobbiamo mettere in essa ogni nostra confidenza! Sì, fratelli miei. Dio sa tutti i vostri bisogni e li ha conosciuti sin dall’eternità, come li vede ogni giorno; a Lui è stato ognora presente tutto ciò che accade nel mondo e tutto ciò che deve accadere sino al fine dei secoli; di modo che tutti gli avvenimenti che gli uomini riguardano come un effetto del caso, sono stati preveduti, determinati o permessi nei decreti eterni della divina Provvidenza. Qual motivo di consolazione per voi, che gemete sotto il peso della croce, che siete ridotti in uno stato di miseria, oppressi da malattie, da sinistri accidenti, di sapere che Dio conosce tutti i vostri mali, non già con una cognizione sterile, come i felici del secolo conoscono le miserie dei poveri senza esserne commossi e senza dar loro soccorso; ma che la cognizione che Dio ha delle nostre miserie, eccita in Lui i sentimenti della più tenera compassione! – Noi ne abbiamo la prova nel Vangelo: Gesù Cristo vedendo al suo seguito una folla di popolo che non ha onde sussistere: io ho pietà di questo popolo, dice ai suoi Apostoli: Misereor super turbam. Temo che se io li rimando digiuni in casa loro, non isvengano per strada: Ne defìciant in via. Ecco come la Provvidenza di Dio s’intenerisce sopra i bisogni di quelli che in essa confidano; ella riunisce tutte le circostanze che possono renderla sensibile ai loro mali per dar loro i necessari aiuti. Ma questa divina Provvidenza non si ferma in sentimenti sterili di compassione; essa previene i nostri desideri, e provvede abbondantemente a tutti i nostri bisogni. Fa d’uopo per questo che impieghi la sua possanza? Nulla evvi ch’essa non faccia, verun prodigio che non operi per sovvenire alle necessità del suo popolo. Oltre il miracolo dell’odierno Vangelo, quanti altri esempi potrei io citarvi che provano la vigilanza della provvidenza sopra gli uomini? Qui io vedo un popolo numeroso miracolosamente nutrito per lo spazio di quarant’anni in un deserto orribile, ove Dio fa piovere una manna squisita che ogni desiderevole sapore in sé contiene. Là veggo quel medesimo popolo vincitore dei suoi nemici, per il solo sostegno che trova nella Provvidenza del suo Dio. Più lungi scorgo un profeta affaticato da un penoso viaggio, cui il Signore dà forza di continuarlo con un pane miracoloso che un corvo gli reca sera e mattina: egli è il profeta Elia. In un altro luogo Daniele è miracolosamente preservato dalla voracità dei leoni, tra i quali è stato rinchiuso perché ne fosse divorato. Tre giovani camminano in una fornace ardente, dove sono stati gettati, senza ricevere alcuna lesione dal fuoco. Tobia è condotto in un lungo e penoso viaggio da un Angelo tutelare, mandatogli dalla Provvidenza. Non sono forse questi dei tratti che evidentemente dimostrano le attenzioni della provvidenza di Dio verso gli uomini? – Ritorniamo ancora al Vangelo, per ascoltar Gesù Cristo spiegarsi su questo soggetto in maniera a non lasciarne alcun dubbio. Considerate, ci dice questo divin Salvatore, gli uccelli dell’aria che vivono senza mietere e senza racchiudere nulla ne’ granai, i gigli del campo che crescono senza filare e senza lavorare. Se dunque conchiude il Salvatore, il vostro Padre che è nel cielo, nutrisce sì bene gli uccelli, benché non sia che Signor loro, con quanto più forte ragione nutrirà Egli voi altri che siete suoi figliuoli e che siete da più di tutti gli animali della terra? Non vi mettete dunque in pena donde prenderete il vostro cibo, il vostro vestimento; il vostro Padre celeste sa che voi avete bisogno di tutte queste cose; ciò basta per calmare tutte le vostre inquietudini: Scit Pater vester quia his omnibus indigetis (Matth. VI). Giudicate del suo amore da quello che voi avete per li vostri figliuoli. Quando essi vi chiedono del pane, lo ricusate voi forse loro o date loro forse una pietra o uno scorpione? Se dunque voi, benché malvagi, sapete così ben provvedere ai bisogni dei vostri figliuoli, quanto maggiormente il Padre celeste, che vi ha formati a sua immagine e somiglianza, avrà egli cura di voi? Non provate forse voi medesimi con l’esperienza la verità di questi oracoli? Mentre potete voi forse non far attenzione a ciò che accade tutti i giorni sotto i vostri occhi e che non merita meno la vostra ammirazione, perché accade ordinariamente? Al vedere tutto ciò che accade nella natura; non vi persuadete che tutte le cure della provvidenza sono, per così dire, riunite per l’uomo, che per lui solo Dio ha fatto tutto ciò che ha creato, che tutte le creature sono destinate al suo uso, che tutti gli elementi, tutte le stagioni non lavorano che per lui? Lo riscalda il fuoco, l’aria lo rinfresca, l’acqua il purifica, la terra lo nutrisce. Dio, per rendere la terra fertile, fa nascere ogni giorno il sole per comunicarle il calor necessario a produrre frutti; e siccome il troppo grande calore annienterebbe la virtù delle sementi, non vedete altresì come la Provvidenza ha cura di temperarlo con le piogge, che fa cadere sopra la terra per dar loro l’accrescimento? Ma quale accrescimento, fratelli miei! Il miracolo della moltiplicazione dei pani, di cui fa menzione il Vangelo, si rinnova ogni anno sotto i vostri occhi: per alcuni grani di semente che gettate in terra quale abbondanza non ne raccogliete? Non è questa forse una meraviglia della Provvidenza degna di tutta la vostra attenzione? Mentre invano lavorereste, seminereste invano, se Dio medesimo non desse l’accrescimento, se non aprisse la sua mano liberale per darvi la sua benedizione, i vostri lavori sarebbero senza frutto: Aperis manum tuam, et imples omne animal benedictione (Psal. CXLIV). Osservate ancora un effetto della bontà e della saviezza di questa divina provvidenza, che ha fissati ad ogni stagione dell’anno i frutti diversi che dovete raccogliere, per risparmiarvi le fatiche che avreste a sopportare se una sola li producesse tutti in uno stesso tempo. La primavera vi presenta la bellezza dei suoi fiori, l’estate l’abbondanza delle sue messi, l’autunno la squisitezza dei suoi frutti: Tu das illis escam in tempore opportuno. Aggiungete a tutto questo i soccorsi che la Provvidenza vi somministra in tutti gli animali ch’ella ha sottomessi al vostro impero, gli uni per alimentarvi, gli altri per vestirvi o servirvi od alleggerirvi dei vostri lavori; pensate anche ai rimedi che la natura vi fornisce per ristabilire e conservare la vostra sanità. – Richiamatevi alla mente tutti i pericoli da cui la provvidenza vi ha preservati, tutti i benefizi di cui essa vi ha ricolmi e che non cessa di spargere su di voi quotidianamente; di modo che non evvi un momento solo di vostra vita che non sia contrassegnato da qualcheduno dei suoi favori. Voi potete dunque dire con ragione, come il re profeta, che nulla vi manca sotto l’amabile condotta della provvidenza: Dominus regit me, et nihil mihi deerit (Psal. XXII). Essa vi conduce come un buon pastore nei buoni, nei fertili pascoli: in loco pascuæ ibi me collocavit. Quando camminavate in mezzo alle ombre della morte , ella vi ha sostenuti, vi ha difesi contro i nemici che cercavano la vostra rovina: si ambulavero in medio umbræ mortis, non timebo mala, quoniam tu mecum es. Sino all’ultimo momento di vostra vita, ella vi farà provare gli effetti della sua paterna bontà: Et misericordia tua subsequetur me omnibus diebus vitæ meæ. – Ma mi sembra qui intendere la voce della natura, che vorrebbe una Provvidenza sempre favorevole ai suoi disegni e che si lamenta dei mali con cui ella affligge gli uomini. Sembra, dice essa, che non si dovrebbero provare che dolcezze sotto la condotta d’una provvidenza così amabile come voi la rappresentate: perché dunque ci fa ella sentir alcuna volta il suo rigore? Come conciliare con le attenzioni della Provvidenza per gli uomini tante disgrazie che li affliggono, tante malattie che li opprimono, tante creature che loro sono nocevoli, tanti avvenimenti contrari ai loro desideri? Perché gli uni sono più ricchi degli altri? Donde viene anche, come domandava altre volte il santo Giobbe, che i giusti, i quali dovrebbero, a quel che pare, avere maggior parte ai favori della provvidenza, sono nelle tribolazioni, mentre gli empi prosperano e sono nell’allegrezza? Donde viene, dite voi, questa mescolanza di beni e di mali di cui la Provvidenza permette che la vita degli uomini sia ripiena? Perché amareggia le sue dolcezze coi rigori delle afflizioni che manda? – A tutto questo, fratelli miei, io non avrei che una risposta a fare: l’uomo ha peccato; ciò basta per giustificare la condotta della Provvidenza nei mali con cui l’affligge; in qualunque stato d’afflizione le piaccia di ridurci, niuno evvi che non debba convenire che lo ha meritato: Merito hæc patimur (Gen. XLII). Ma ho qualche cosa di più consolante a dirvi: la provvidenza di Dio percuote gli uomini, anche quelli che sono i più giusti, col flagello delle tribolazione. Ah! Cristiani, appunto in questo noi dobbiamo riconoscere la sua sapienza e la sua bontà, principalmente a riguardo dei giusti. Se la vita degli uomini non fosse attraversata da qualche avversità, essi non riguarderebbero più il mondo come un luogo d’esilio, vi attaccherebbero il loro cuore e dimenticherebbero totalmente del loro ultimo fine; non penserebbero ad alcun’altra felicità che a quella di quaggiù; e perciò Iddio sparge sopra la prosperità di cui godono salutevoli amarezze che li staccano dalla vita: si serve dell’avversità per trarre a Lui i peccatori e per provare la virtù dei giusti: Disponit omnia suaviter. Se i giusti sono nell’afflizione, mentre i peccatori sono nella prosperità e nell’allegrezza, ecco precisamente ciò che prova esservi un altro premio che quello di quaggiù. Ecco, o giusti, ciò che deve consolarvi delle vostre tribolazioni, ciò che deve farvi riconoscere una provvidenza piena di bontà che vuol condurci per una strada sicura al porto della salute. Qual motivo fortissimo di sottomettervi agli ordini di questa divina provvidenza! Vediamo quali sono i nostri doveri a suo riguardo.

II. Punto. Noi possiamo considerare la provvidenza di Dio per rapporto ai beni che ne riceviamo e  che ne possiamo ricevere, o per rapporto ai mali con cui ella ci affligge. Noi le dobbiamo essere grati per i favori che ci comparte, e fidarci a quella interamente per riguardo a quelli che può compartirci. Noi dobbiamo altresì sottometterci alle sue disposizioni per ricevere con rassegnazione i mali con cui ella ci affligge. Tali sono i nostri doveri verso la divina Provvidenza. La gratitudine è un dovere che la natura ispira alle nazioni più barbare, agli animali ancora, benché sforniti di ragione. L’amore che abbiamo per noi medesimi ci fa amare coloro che ci fanno del bene, e la speranza di ricevere ancora c’impegna a dimostrare loro la nostra riconoscenza. Noi abbiamo ricevuto ogni cosa da Dio, noi siamo debitori alla sua divina provvidenza di tutti i beni che possediamo; noi proviamo ad ogni istante la sua bontà, la sua cura, la sua vigilanza: che cosa più giusta che dimostrargli una riconoscenza universale, una riconoscenza continua! Riconoscenza universale che si estenda a tutti quei beni che riceviamo; riconoscenza continua che non sia giammai interrotta, ma duri sino all’ultimo respiro della nostra vita. – Infatti la riconoscenza deve esser proporzionata ai benefizi. Noi dobbiamo alla Provvidenza di Dio la vita, la nostra conservazione, la sanità, i talenti, o le forze, tutti i beni del corpo e dell’anima. Richiamiamo alla nostra memoria tutti i felici momenti, in cui abbiamo provata la sua tenerezza paterna. Alla vista di tanti benefizi, non dobbiamo noi forse essere penetrati dai medesimi sentimenti, che il reale profeta, allorché diceva: Anima mia, benedici il Signore tuo Dio, tutto ciò che è in me glorifichi il suo santo Nome; non perder giammai di vista i favori immensi, di cui ti ricolmò: Benedic, anima mea, Domino, et omnia quæ intra me sunt nomini sancto eius (Psal. CII). Tale deve essere, fratelli miei, la degna occupazione d’un’anima grata e riconoscente. Siccome i fiumi, dice s. Bernardo, ritornano all’origine donde vengono, così la riconoscenza rimanda i beni a Dio, che n’è l’Autore; e per un ammirabile flusso e riflusso fa scorrere su di noi nuovi torrenti, di favori; laddove l’ingratitudine ne arresta il corso e ne dissecca la sorgente. – Ma quanto è raro, che gli uomini ricolmi dei beni della Provvidenza le paghino il tributo, della giusta gratitudine che le debbono: essi s’indirizzano a Dio nei loro bisogni, nelle calamità che gli affliggono; formano voti per lo stabilimento della loro sanità, per ottenere stagioni favorevoli ai beni della terra. Dio si rende Egli propizio alle loro brame? Ingrati che sono, non pensano a ringraziarlo; essi ricevono i beni da Dio come se fossero loro dovuti; attribuiscono alla propria industria la buona riuscita dei loro affari, alla virtù dei rimedi il ristabilimento della sanità, l’abbondanza dei beni ai loro lavori, e dimenticano colui che n’è l’autore. Ditemi, di grazia, chi è tra di voi che abbia pensato a ringraziare Dio quando è uscito da quel cattivo affare che gli era stato suscitato, quando ha ricuperata la sanità, quando, la terra è stata per lui feconda? Voi non pensate al contrario per la maggior parte che a raccogliere con avidità i doni del Signore; sempre piegati verso la terra, voi non innalzate giammai gli occhi al cielo, donde vi vengono tutte le grazie etutti i beni che possedete. Che dico? Non vi servite voi dei benefizi del Signore per rendervi a Lui maggiormente ingrati, per appagare le vostre passioni malvagie? Ciò è un rivolgere i beni dativi da Dio contro Lui medesimo. Meritate voi dopo questo ch’Egli continui a beneficarvi? O piuttosto non meritate ch’Egli allontani da voi i suoi sguardi favorevoli, e che invece di farvi provare le ineffabili dolcezze della sua provvidenza, ve ne faccia sentire i rigori? Se a questo s’induce, voi ne siete la cagione, non vi lamentate della severità con cui vi tratterà, sono i vostri disordini che cagionano le vostre disgrazie. Voi volete che coloro che da voi sono beneficati abbiano per voi della riconoscenza; non è egli giusto che voi pure ne abbiate a riguardo di Dio? E se in vece di questa riconoscenza che gli dovete, pagate i suoi benefizi con ingratitudine dovete voi forse esser sorpresi che, invece di quella tenerezza paterna di cui vi ha date tante prove, provare vi faccia il suo sdegno? Badate dunque meglio ai vostri interessi, procurandovi con la riconoscenza le attenzioni favorevoli di un Dio pronto a farvi del bene; ma questa si manifesti principalmente col buon uso che voi farete dei doni di Dio, servendovi dei vostri beni per soccorrere i poveri della sanità, dei talenti per glorificare colui che ve li ha dati. La vostra riconoscenza sia non solamente universale, ma continua per ringraziare il Signore, in ogni tempo, in ogni luogo, dicendo col reale profeta: Io vi benedirò, o Signore, in ogni occasione; le vostre lodi saranno sempre nella mia bocca, e giorno e notte in campagna, in casa, nel vostro santo tempio: io non cesserò finché vivo di annunziare la vostra bontà per me: Benedicam Dominum in omni tempore  (Ps. XXXIII). Oh quanto sareste voi felici, fratelli miei, se foste sempre ripieni di questi sentimenti, e se alla riconoscenza che dovete a Dio per i beni che ne avete ricevuti aggiungeste ancora un’intera fiducia per quelli di cui avete bisogno!Potreste voi non mettere tutta la vostra fiducia nell’amorosa provvidenzadel nostro Dio, se consideraste in essaun padre che vi ama teneramente, una madre che vi porta nel suo seno? Questi sono i paragoni di cui Dio medesimo si serve per eccitare la vostra confidenza. Una madre, dice egli, può forse dimenticare il suo figliuolo? E quand’anche essa lo dimenticasse, ionon vi dimenticherò giammai. Evvi cosa più valevole per allontanare quelle inquietudini cui si abbandonano i piùdegli uomini per i bisogni della vita, che sono sempre in ambascia di ciò che diverranno nell’avvenire, che vivono inuna continua apprensione di mancare delle cose necessarie al loro sostentamento e a quello della loro famiglia? Uomini di poca fede, posso io loro qui dire dopo Gesù Cristo, pensate voi all’ingiuria che fate alla divina Provvidenza con una diffidenza così colpevole? Mentre questa diffidenza non può venire se non se dal credere voi o che Dio non conosce i vostri bisogni, o che Egli non vuole o che non può darvi gli aiuti che vi sono necessari. Or credere che Dio non conosca i vostri bisogni, che Egli non voglia o non possa alleggerirli, sarebbe far oltraggio alla sua sapienza che conosce tutto, alla sua bontà che vi ama, alla sua possanza che può tutto. Se voi aveste a fare con gli Dei delle nazioni pagane, che hanno orecchie e non odono, mani e non operano, avreste motivo di nulla aspettarne; ma servendo ad un Dio che conosce tutto, che vi ama e che può tutto quel che vuole, potreste voi mancar di confidenza nella sua bontà e nel suo potere? Abbandonatevi dunque interamente alla sua divina provvidenza,e proverete che non invano si mette in essa la propria fiducia: Jacta super Dominum curam tuam, et ipse te enutriet (Ps. XLIV). Mirate i popoli del nostro Vangelo, con qual confidenza seguono Gesù Cristo; benché molestation dalla fame, non gli chiedono neppure di somministrar loro di che sussistere,perché sanno benissimo che hanno a fare con un Dio, la cui bontà eguaglia la possanza, sperano che nonli rimanderà senza dar loro qualche alimento; perciò sperimentarono il meraviglioso effetto della loro confidenza nella sua bontà. Abbiate, fratelli miei, i medesimi sentimenti, a riguardo della Provvidenza di Dio, e non mancherete di provarne gli effetti. Se sino adesso voi avete sofferti urgenti bisogni, credete che avete mancato di confidenza.Ma, direte voi, io mi sono abbandonato alla Provvidenza di Dio; con ciò languisco sempre nella miseria, mentre ne vedo altri, cui ogni cosa riesce,cui la Provvidenza sembra prodigalizzare i suoi favori. A questo, fratelli miei, ecco quel che ho da rispondere:voi non avete provati, dite voi, gli effetti di questa viva confidenza che avete posta in Dio; conviene dunque, o chela vostra confidenza non sia stata ferma ed intera, o che non sia accompagnata da quella santità di vita che trae sui giusti le attenzioni favorevoli della provvidenza; o finalmente che le cose che avete domandate non vi siano necessarie o siano anche di pregiudizio alla vostra salute. Se la vostra confidenza non è stata ferma ed intera, se voi non avete fatto ricorso a Dio che dopo aver provata la debolezza dei soccorsi umani, bisogna forse meravigliarsi che Dio vi abbia rigettati e vi abbia rimandati agli dei stranieri, su cui vi siete appoggiati? Dii, in quibus habebant fiduciam …. surgant et opitulentur vobis (Deut. XXXII). Bisogna ancora che la vostra confidenza non sia stata sostenuta da una vita santa, che sola meritai favori della Provvidenza; mentre non si è mai veduto, dice il profeta,il giusto abbandonato da Dio né i suoi figliuoli cercare pane: Non vidi iustum derelictum nec semen eius quærens panem (Ps. XXXVI). Per quanto vi crediate giusti, potete voi accertarvi che non abbiate irritata l’ira di Dio con qualche mancamento che debba essere espiato col fuoco della tribolazione? Se finalmente la vostra confidenza non è ricompensata da una prosperità temporale conforme ai vostri desideri, credete, fratelli miei, che essa non vi è necessaria, che sarebbe eziandio funesta alla vostra salute. Iddio sa meglio di voi quel che vi fa di mestieri: lasciate operare la provvidenza, e nulla vi mancherà di ciò che vi sarà necessario: Dominus regit me , et nihil mihi deerit (Psal. XXII). Altrimenti converrebbe dire che Dio mancasse alla sua parola, il che non sarà giammai; ma ricordatevi altresì di agire dal canto vostro per cooperare alle cure della sua provvidenza, mentre non pretende essa favoreggiare una confidenza oziosa che non mettesse la mano all’operare per secondare i suoi disegni. Dio vuole che ci appoggiamo sopra di Lui per quello che non dipende da noi, ma vuole altresì che operiamo secondo il nostro potere;vuole che la nostra confidenza scacchi ogni sollecitudine sopra i bisogni della vita, ma non biasima, anzi esige dal canto nostro una diligenza ragionevole, un lavoro moderato per la riuscita degli affari temporali; ed è forse per troppa ansietà e per vostra negligenza che avete arrestato il corso dei suoi lavori.Ma finalmente, fratelli miei, io voglio che ad una intera fiducia nella Provvidenza di Dio, sostenuta dalla santità della vita, voi aggiungiate dal canto vostro le attenzioni ed il lavoro che la prudenza cristiana richiede da voi, e che tuttavia le vostre fatiche non siano soddisfatte, che gemiate al contrario sotto il peso delle afflizioni. Che dovete voi fare? Il vostro dovere è di sottomettersi ai decreti della divina provvidenza. Io non vi richiamerò già i motivi di questa sottomissione che vi ho proposti nel primo punto, allorché vi ho detto che il Signore dispensa come gli piace i beni e di mali della vita, che solo per nostro bene Egli ci affligge e che sa volgere a nostro vantaggio le afflizioni che ci manda. Il migliore partito è dunque di sottomettervi e di adorare la mano che vi percuote; mentre, che cosa guadagnereste voi con l’abbandonarvi all’impazienza e ai lamenti? Non fareste che rendervi più colpevoli o più infelici. Qualunque cosa far possiate, non impedirete al Signore di fare quello che gli piace. Voi non potete, dice Gesù Cristo, con tutti i vostri sforzi aggiungere un cubito, neppure un pollice,alla vostra statura: invano dunque vi tormentereste per uscire dallo stato in cui siete ed innalzarvi ad uno stato più distinto: la Provvidenza che vi ha collocati in questo stato, vuole che vi dimoriate; ella innalza ed abbassa, mortifica e vivifica coloro che le piace: Dominus mortificat et vivifìcat, pauperem facit et ditat (1 Reg. 2) Egli è il padrone, non tocca a noi di chiedergli conto della sua condotta; se vuole che voi siate nella indigenza e nell’umiliazione, dovete essere contenti della vostra sorte. Dio, che vuole la vostra salute, che sa che vi perdereste in un altro stato, non vuole ad esso innalzarvi.Se fosse necessario per esser salvi avere beni e sanità, Dio non mancherebbe di darveli; giacché non veli dà,voi dovete dunque credere che ve ne priva per vostro bene: allorché Egli vi affligge con malattie, con sinistri accidenti, con le calamità dei tempi, voi non conoscete allora perché Dio vi tratti con severità; ma lo conoscerete in appresso, lo conoscerete al giudizio di Dio, lo conoscerete nella eternità beata, ove riceverete la ricompensa dei vostri travagli; Scies autem postea. Sottomettetevi dunque, torno a dire, alle disposizioni della divina Provvidenza, ricevete dalla sua mano, ad esempio del santo Giobbe, i mali ugualmente che i beni: Si bona suscepimus de manu Domini, mala quare non suscipiamus ( Job II)? Così nell’avversità, come nella prosperità, benedite incessantemente il santo Nome del Signore, sull’esempio del reale profeta: Benedicam Dominum in omni tempore. Voi troverete in questa sottomissione la pace dell’anima ed un pegno sicuro della felicità eterna. Così sia.

Credo …

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Offertorium

Orémus

Ps XVI: 5; XVI: 6-7 Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine.

[Rendi fermi i miei passi sui tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino: porgi l’orecchio ed esaudisci la mia preghiera: fa rispleyndere le tue misericordie, o Signore, Tu che salvi quelli che sperano in Te.]

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, et has pópuli tui oblatiónes benígnus assúme: et, ut nullíus sit írritum votum, nullíus vácua postulátio, præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche, e accogli benigno queste oblazioni del tuo popolo; e, affinché di nessuno siano inutili i voti e vane le preghiere, concedi che quanto fiduciosamente domandiamo realmente lo conseguiamo.]

Comunione spirituale:

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Communio

Ps XXVI: 6 Circuíbo et immolábo in tabernáculo ejus hóstiam jubilatiónis: cantábo et psalmum dicam Dómino. [Circonderò, e immolerò sul suo tabernacolo un sacrificio di giubilo: canterò e inneggerò al Signore].

Postcommunio

Orémus.

Repléti sumus, Dómine, munéribus tuis: tríbue, quæsumus; ut eórum et mundémur efféctu et muniámur auxílio.

[Colmàti, o Signore, dei tuoi doni, concédici, Te ne preghiamo, che siamo mondati per opera loro e siamo difesi per il loro aiuto.]

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LO SCUDO DELLA FEDE (119)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXXI.

Si mostra che se l’anima non fosse immortale, la virtù sarebbe vizio, il vizio virtù.

I. Fu già tempo, che il mondo mal noto fino a se stesso, non sapeva d’essere, se non secondo la metà sola di sé. Quindi è, che gli antipodi furono lungamente tenuti non pur dal volgo, ma ancora da’ gran maestri, per popoli favolosi (Tract. inst. 1. 3. c. 34): quasiché gli abitatori di un paese opposto, nel pianeta mondiale, ai pie nostri, dovessero per necessità stabilire capovolti: gli alberi dovessero quivi tener le radiche, dove anderebbero le cime; e le rugiade e le piogge e le procelle e le grandini strepitose non dovessero colà portarsi all’ingiù (quando volevano beneficare le campagne, o spiantarle), ma portarsi all’insù, come fanno le esalazioni; ho dovessero scendere, ma salire. Tanto dilungasi dal sentiero della verità ne’ discorsi chi prende per sua guida la fantasia, più che la ragione; non riflettendo che il giù e il su sono termini relativi, che non hanno la loro denominazione, se non dal centro che è situato fra gli antipodi e noi. Ma vaglia il vero, quanto andava già errata tal conseguenza di stravolgimento ridicoloso, (come appunto ridicola è la teoria eliocentrica e la forma sferica della terra – ndr-) posti gli antipodi, tanto or sarebbe accertata, posto che l’anima dovesse anch’ella sortire i suoi funerali come i giumenti. Conciossiachè rimarrebbe allora stravolto nell’universo tutto il sistema, non fisico, ma morale, che è un disordine molto più luttuoso: mentre la virtù verrebbe a tenere il grado del vizio, e il vizio a tenere il grado della virtù: anzi non solo si confonderebbero i posti, ma si cambierebbero ancora l’essenze loro, tanto che la virtù diverrebbe vizio, il vizio virtù. Mostriamolo con chiarezza: giacché questo argomento è così robusto, che solo vale ad abbattere ogni intelletto non pervicace.

I.

II. Tutte le genti, benché sì diverse d’istinti e d’istituzioni, si sono continuamente accordate in ciò di fare una stima somma della fortezza. Un guerrier prode da chi non è riverito? Vien posto a conto, per dir così, di un esercito: e sembra che ciascuno in vederlo gli dia quel vanto che ricevette in Roma un leon famoso per le gran prove fatte colà da lui nell’anfiteatro, pugnando coll’altre fiere: Quis non esse gregem crederet? Unus erat (Mart. 1. 8. epig. 32). Ora questa virtù così luminosa, la quale ha per oggetto suo principale il disprezzare i pericoli, e massimamente i pericoli più tremendi, quali sono quei della morte (Ethic. 6. 1. 3): questa virtù, dico, non sarebbe oro, ma scoria, qualunque volta l’anima fosso caduca (S. Th. 2. 2. q. 123. art. 4). Ve lo dimostro. La virtù non è altro che una disposizione a conseguire il suo fine, mediante l’opera che ella imprende. Virtus est dispositio perfecti ad optimum (Arist. 1. 7. phys. toxt. 17. et 18): e si dice ad optimum: perciocché l’ottimo ad ogni natura si è quello ch’ella ha per fine, siccome il pessimo è quello che più si oppone all’ultimo fine dell’istessa natura (S. Th. 1. 2. q. 110. a. 3. in c. et 2. 2. q. 23. a. 7. in c); come scorgerà chiaramente tra se medesimo chiunque ha fior di discernimento. Pertanto, se l’anima fosse mortale, il suo fine ultimo sarebbe al certo il durare più che le fosse possibile unita al corpo, senza di cui perduto avrebbe ogni bene. Onde l’operazione più perfetta della fortezza, che è il morire per difender l’amico, il padrone, la patria, la Religione, si opporrebbe allor per diametro all’ultimo fine dell’uomo: e posto ciò, una tal operazion virtuosa, per verità non sarebbe virtù, ma vizio, e sulle bilance d’una retta ragione non passerebbe por moneta legittima, ma falsata (Gregor. de Valent. in 1. p. dis. 6. q. 1. p. 3 § 2. prob.).

III. Direte subito che dovendo il ben pubblico preponderare al privato, non sarebbe in tal caso all’uomo disconvenevole non curare il suo fine, per sacrificarlo alla pubblica utilità. Ma non vi apponete. Conciossiachè, essendo l’uomo fatto in grazia di se medesimo, e non d’altrui, come sono fatte le bestie, non poteva dalla virtù venire obbligato ad amare il proprio disfacimento, né ad incontrarlo, in grazia di verun altro simile a lui, mentre ciò sarebbe stato obbligarlo ad amare il suo prossimo più di sé, contro di ciò che vuole ogni legge: Amicabilia enim, quæ sunt ad alterum, veniunt ex amicabilibus. quæ sunt ad se ipsum, come il filosofo insegna (Arist. 1. 9. eth. c. 8): infino a tanto, che presuppongasi l’anima non perire insieme col corpo, cammina bene: perché restando ella immortale, una morte onesta del corpo non è per lei funerale odioso, ma nascita a miglior

vita. E cosi, quando al presente noi moriamo per altri, niun altro amiamo in tal atto, se guardasi intimamente, più di noi stessi; mercecché con un tal atto ad altrui vogliamo un bene caduco, qual è la difesa delle loro sostanze, o proli, o persone, ed a noi ne vogliamo un eterno, qual è quel che ci viene dalla virtù, mezzo unico a farci diventare beati per tutti i secoli. Ma non così quando perisse l’anima in un col corpo. Allora ella non avrebbe più che sperare per tutta l’eternità. E però, come può stare, che la virtù la quale è il bene sommo dell’uomo, abbia a divenire per lui la somma miseria, privandolo d’ogni bene? Non sarebbe allor la virtù una perfezione nella natura umana, a tutti amorevole, ne sarebbe un di struggimento; e così non sarebbe virtù, ma vizio.

IV. Ne vale il ripigliare che l’uomo forte potrebbe allora per nobile ricompensa del suo morire sperar la gloria, che è un’altra spezie di vita, per cui sopravanzerebbe alle proprie ceneri, nell’immortalità della fama. Bellissime vanità! Se alla virtù volesse darsi per mercede la gloria, sarebbe un voler pagarla, o piuttosto beffarla col suon dell’oro.

V. Primieramente la gloria che si dà all’uomo non è altro che un segno della virtù la quale lo adorna. Conviene adunque che ella sia un bene inferiore al significato. Ma se è bene inferiore della virtù, come dunque può essere tutto il premio?

VI. Di più la gloria viene talora attribuita largamente anche al vizio; onde se ella è segno di virtù, non è segno certo; non discernendo il popolo così bene la via di mezzo, ma confondendo il temerario col prode, come confonde il prodigo col liberale, il timido col sensato, il tetro col serio, il giusto col rigoroso. Adunque non può la gloria dirsi mai la corona della virtù, mentre bene spesso si vede in fronte anche al vizio, che n’è sì indegno.

VII. Senza Dio l’operare per gloria umana non perfeziona giammai l’atto virtuoso, ma lo distrugge, e con lasciargli l’apparenza di bello gli toglie la realtà. Onde è che un atto di fortezza anche sommo, il qual procedesse, non da motivo di onestà, ma di vanto, sarebbe quasi un cadavere di virtù, tanto sarebbe insensato. Si aggiunge, che la virtù più consiste negli atti interni, i quali perfezionano l’uomo quasi un tesoro nascosto, che negli esterni (Arist. eth. 1. 4. c. 8 ) . Onde come può ella mai dalla gloria riportar premio compito di sé? Al più lo può riportare di quella poca parte di sé che apparisce agli occhi de’ riguardanti, or lividi, or loschi.

VIII. E se è così, qual bene è mai questa gloria, che l’uomo forte abbiala da comperar volentieri a sì grave costo, quale è quello del proprio annichilamento? Sicuramente, annichilato che fosse, non potrebbe egli ascoltar già quelle lodi che a lui si dessero dai posteri ammiratori del suo coraggio. E però qual frutto il meschino ne ritrarrebbe, morto al piacer dell’immortal suo nome? Non si potrebbe neppure dir che riposasse all’ombra dell’umana felicità (quando anche di tal nome vogliamo onorar la gloria), non che dir, che gustassene un puro saggio: Quœ post fata venit gloria, sera venit (Mart.). Dal che, per concludere, finalmente avverrebbe, che il supremo atto della fortezza, virtù di eroi, non solamente fosse incapace di premio, ma recasse in dote al virtuoso il sommo de’ mali, che è farlo ricader nell’antico nulla. E una virtù cosi barbara, potrebbesi allora dir che fosse virtù? Virtù allora sarebbe piuttosto i1 vizio: che è l’altra proposizion che io dovea provare, ed or ve la proverò.

II.

IX. Un intemperante a gran ragione vien riputato tra gli uomini quasi un porco. Ma se all’intemperanza si congiunga in lui la ingiustizia, sarà un cignale, non solo deforme in sé, ma dannoso ad altri, disertatore d’ogni giardino più bello che trovi aperto. Tuttavia se l’anima avesse i limiti del viver suo non più ampli, che gli abbia il corpo, l’intemperanza e l’ingiustizia sarebbero non più colpa nell’uomo, ma abbellimento, siccome quelle che non dovrebbero partorirgli più biasimo, ma splendore.

X. E quanto alla intemperanza, è manifesto, che se l’anima dovesse restare oppressa dalle rovine delle sue membra, il sommo bene che a lei fosse possibile, sarebbe tenerle in piedi, e il sommo male dar loro occasione alcuna di cedere, di crollare, di indebolirsi. E però siccome la più laudevol cosa che sia nell’uomo è cercare il suo bene sommo: così allora la più laudevole cosa che fosse in lui sarebbe nutrir bene il suo corpo vile, ingrassarlo, invigorirlo e saziarlo di tutti quei godimenti che fosser atti a tenerlo più consolato. Sicché quell’epitaffio brutale, che già Sardanapalo fé incidere alla sua tomba: Hæc habui, quæ edi, quæque exsaturata voluptas hausit; laddoveè una iscrizione degna di porsi alla sepolturad’un asino, sarebbe allora quasi un compendio di arcana filosofia. E diffatto per qual ragioneè degna di lode la temperanza, se non perché fa ubbidire il corpo allo spirito, noncurante di ciò che passa, per meritarsi quel ben che non passa mai?Ma se, mancando il corpo, mancasse ancora lo spirito, dovrebbe lo spirito, tutto da lui dipendente, ubbidire al corpo, senza cui nulla avrebbe mai che sperare di utilità. Adunque la temperanza non sarebbe allora laudevole, ma viziosa. È lode forse a un cavallo proposto in vendita, dir che egli è un cavallo astinente? Anzi è il suo biasimo sommo. La maggior lode che sulla fiera a lui porgasi, è dire che ha buona bocca;mercecchè non essendo quella bestia capacedi fin più alto, che di vivere un pezzo gaia e gagliarda, sarebbe vizio per lei quella continenzala qual si oppone a un tal fine, ed havirtù quella voracità che più che altro la aiutaad esso, volendo che ella non resti d’empire il ventre fintantoché il calor naturale, mal soddisfatto, le dice, mangia.

XI. All’istessa maniera sarebbe virtù nell’uomo anche l’ingiustizia. Figuratevi un uomo, che non conosca altra regola che il suo senno, né altra ragione che la sua spada. Un uomo, che non si stimi venuto al mondo, senonchè solo, qual luccio in acqua, per nuocere a quanti può. Un uomo, il quale per pompa di maggioranza vanti le soverchierie da lui fatte ad ogni suo prossimo, e ne derida con egual fasto le accuse e le approvazioni; questi dico (se il corpo avesse un dì a divenir sepolcro dell’anima, come ora n’è abitazione), questi è colui che si dovrebbe riputare il più degno di dominare su tutti gli uomini, come il più virtuoso che tra lor fosse: questi più d’ogni altro sarebbesi incamminato per via diritta all’ultimo fine, che sarebbe allora di farsi apprezzar da tutti; e questi parimente darebbe allor più nel segno di conservarsi, di contentarsi, di vivere a modo suo. In un tal caso sarebbe lecito il rompere ogni amicizia, il mentire, il malignare, il negare la fede data, quando tutto ciò fosse mezzo il più compendioso ad evitare la morte, o a migliorare la condizione di quella vita mortale che sarebbe allora il sostegno di ogni altro bene. Che stare allora a vantar più quell’onorato Demetrio, che tentato da Cesare a tradir la giustizia, colla promessa di magnificentissimo donativo, rispose acceso di sdegno, che l’imperio tutto di Roma non era prezzo bastevole a subornarlo: Si tentare me Cæsar constituerat, toto illi fui experiendus imperio. Invano Seneca si aiuterebbe allora tanto a esaltare fino alle stelle una tal risposta; mentre, quanto più savio è quell’elefante il quale, a salvar la vita, getta a’ cacciatori l’avorio che tiene in bocca, tanto più stolto sarebbe allor quel Demetrio che non accettasse ogni acquisto, ogni avanzamento, ma stimasse più la parola, che la disgrazia di Cesare, provocato da quel contegno. Che parola? che lealtà? che giustizia? che gratitudine? che costanza, se muore l’anima? Niun bene dee più stimarsi del sommo bene. Niun male dee più scansarsi del sommo male. Ora, se l’anima fosse mortale anch’essa, il suo sommo bene sarebbe vivere lungamente, il suo sommo male il morire. E però ogni ragione vorrebbe allora, che l’uomo, per allungare la vita, o per migliorarla, desse da sé bando espresso ad ogni altro affetto: né sarebbe in tal atto più biasimevole di ciò che sia quel mercante, il quale, a salvar la nave, getta in mare ogni cassa, che già non gli è nella tempesta più d’utile, ma di danno.

III.

XII. Ed eccovi come nello sconvolgimento morale di cui trattiamo la virtù sarebbe vizio, il vizio virtù. E vi par questo disordine da passarsi per tollerabile? Se fosse ciò, dunque ne seguirebbe, che in questo mondo Iddio trattasse da famigliari e domestici i suoi nemici, e da nemici i suoi famigliari e domestici. Uno degli effetti propri dell’amicizia è la manifestazione dei segreti. Ora questo sì grande arcano, che colla morte finisca il tutto, finiscano tutte le pene, finiscano tutti i premi, sarebbe nascostissimo a tutti i buoni, che con tanto lor costo vanno dietro le insegne della onestà; e per l’opposito sarebbe noto a quegli empi, che più dissolutamente si danno al male. Onde gli empi sarebbero quei domestici ammessi nel gabinetto a sapore il vero; e i buoni sarebbero gli stranieri tenuti all’uscio.

XIII. Anzi di vantaggio, il mezzo per arrivare a questa familiarità sì stretta con Dio sarebbe lo strapazzarlo solennemente; mentre vediamo, che quanto uno diventa nel suo vivere più sacrilego, o più sfrenato, tanto più facilmente egli inclina sempre a persuadersi, che l’anima sia mortale. Onde, come avviene colla pianta del balsamo, così avverrebbe parimente con Dio. Chi più attendesse a ferirlo, più ne spremerebbe di sugo di verità.

XIV. Che so lo sparviere, quando è pasciuto troppo, non sa volare bene in alto a raggiungere la sua preda, nel caso nostro succederebbe il contrario. La mente umana non si solleverebbe mai più speditamente ad arrivare queste verità sublimissime, e ad arrestarle, che quand’ella fosse gravata più d’ogni laida scelleratezza. E la coscienza di un empio così perduto sarebbe quella che dovesse posar più pacatamente: mentre a lei sarebbe toccato in sorte d’apporsi nei suoi giudizi, allora che si propose voler di qua tutta la felicità immaginabile, lasciando a chi la volesse quella che si potrebbe sognar di là.

XV. Sapete voi pertanto mai figurarvi stravolgimento di cose più sregolate? Questo sì che sarebbe un vero tenere i piedi dove va il capo, e un vero tenere il capo ove vanno i piedi: mentre questo sarebbe un camminare al rovescio di quanto detta, non la fantasia solamente, ma la ragione. E a voi piace seguir opinion si bella? Oh che stolidezza! Fate ciò che volete. Il vostro intelletto conviene che provi spasimi intollerabili, quando abbia da inchinarsi a tali spropositi, e dirvi: Sì. i buoni in questo mondo hanno ad essere ingannati? Gli scellerati hanno ad essere gli intendenti? – Nol dirà mai.